13 aprile 1985 Commiato del Cardinale Presidente 1. - Voi cominciate col battere le mani ed io comincio con una piccola protesta! E la protesta è questa: chi ha organizzato il tutto mi ha assegnato una funzione che non mi piace, quella di dare il commiato al nostro Convegno. I commiati sono sempre un po' maliconici e - manco a farlo apposta - il compito di prendere la parola in questo momento di commiato del Convegno l'hanno affidato proprio a me! Sono convinto che tutti partiamo dal Convegno con qualche « rosicchio interiore, sia pure diversamente motivato perché diversa è la sensibilità di ciascuno. Però il constatare che partiamo accorgendoci che al Convegno ci siamo affezionati mi pare possa essere già un segno di speranza. 2. - Ci siamo radunati, abbiamo ragionato e … sragionato, ma abbiamo soprattutto vissuto insieme una realtà che ci accomuna e ci fa " uno " in Gesù Cristo ( cfr. Gal 3,28 ): è la realtà della santa Chiesa. Penso al fatto che i cristiani della Chiesa primitiva, evidentemente per le intuizioni dello Spirito, hanno imparato subito che il convenire, il raccogliersi insieme, il trovarsi uniti ( cfr. At 2,1 ) faceva parte della loro vita. Non era soltanto un metodo aggregativo o un fatto sociale, ma era un'esperienza che li identificava come cristiani e li aiutava a sostanziarsi di quella comunione che la Chiesa fondamentalmente è. Era un'esperienza che, annullando le differenze di « tribù, lingua, popolo e nazione », faceva di loro un popolo solo, il popolo di Dio. Ecco, il Convegno io l'ho sentito così; e spero che questo modo di « sentire » costituisca una chiave interpretativa del Convegno stesso e un avvio verso le prospettive alle quali mi pare si possa ormai scopertamente arrivare. 3. - Il Convegno ha rivelato uno stile di vita ecclesiale. Perché non dirci allora che convenire tutti insieme è stile di vita ecclesiale e che questi Convegni vogliamo viverli non soltanto come circostanze propizie per dir qualcosa e fare qualcosa, ma come dimensioni essenziali della vita della Chiesa? Una comunità che non si incontra non è comunità. Perciò io dico che la Chiesa italiana sta imparando a convenire, a riunirsi a Convegno. Sono molti i modi di convenire. Ce ne sono alcuni solenni, vorrei dire storici: sono i grandi Concili della Chiesa. Poi ci sono i Sinodi, come ci sono pure incontri richiesti dalle varie istanze delle Chiese locali. Ma anche il convenire in questo modo, in cui la dimensione di popolo, la dimensione plenaria ed organica della comunità emerge e si esplicita, è una acquisizione che arricchisce l'esperienza di Chiesa. 4. - Non sono autorizzato a fare il profeta, ma mi pare che sulla strada dei Convegni faremo ancora del cammino. Abbiamo bisogno di sentirci Chiesa, abbiamo bisogno di sentirci popolo di Dio e abbiamo bisogno che questo sentirci Chiesa lo si viva e lo si esprima nella varietà cosi ricca, bella e significativa della pluralità delle vocazioni, della molteplicità dei carismi e della complementarità dei ministeri. Qui, in queste autentiche espressioni, ogni vocazione è provocata, è promossa e ogni identità ecclesiale trova il suo posto dentro il popolo santo di Dio: perché i Vescovi sono dentro il popolo di Dio, i presbiteri e i diaconi sono dentro il popolo di Dio, le anime consacrate sono dentro il popolo di Dio e i laici, consacrati con il Battesimo, che è la consacrazione delle consacrazioni, sono dentro il popolo di Dio. Così, gomito a gomito, in questi giorni abbiamo sentito che ciò che univa era immensamente più importante e più grande che non la molteplicità , e la diversità delle missioni, dei ministeri e delle vocazioni. Credo che questa acquisizione dell'ecclesiologia del Vaticano II, anche attraverso i Convegni, possa essere un arricchimento prezioso. 5. - Non posso dimenticare che questo nostro Convegno ha avuto anche un sigillo particolarissimo di unità, di comunione, di grazia con la presenza del Sommo Pontefice. Abbiamo avvertito con quanta cordialità, con quanta partecipazione il Santo Padre è stato tra noi, non ospite ma padre, non ospite ma uno di noi. Egli ha portato il suo contributo e lo ha portato con la qualificazione che nel popolo di Dio gli appartiene, come successore di Pietro, come Vicario di Cristo, e la sua presenza magisteriale, comunionale, paterna e fraterna ha dato a questo nostro convenire un grande valore. Questo Convegno, questo nostro convenire ha dunque un grande significato, un grande valore. Negli Atti degli Apostoli sono registrati parecchi discorsi di Pietro al popolo di Dio. Era lui che parlava e le cose che diceva plasmavano e sostanziavano la comunità cristiana aiutandola a crescere, a prendere coscienza, consapevolezza del progetto di Dio sulla sua Chiesa e della missione della Chiesa stessa. Ringraziare il Papa mi sembra una cosa non dirò necessaria, ma uno di quei sentimenti che prorompe dall'intimo del nostro cuore. Lo abbiamo già fatto manifestandogli il nostro entusiasmo e lo faremo ancora, perché è giusto che questo ministero dell'apostolo Pietro e del suo Successore trovi sempre in noi quella vibrazione profonda che ci aiuta a crescere nella comunione della fede, della carità, nella speranza del regno di Dio. 6. - In mezzo a noi, in questi giorni, erano presenti i nostri Vescovi; ma voi avete visto una sola mitra: quella del Papa. Le altre non si sono viste. Qualche Vescovo l'aveva in valigia ma è rimasta là … perché l'essere popolo di Dio ha prevalso su tutto; e il senso del popolo di Dio è l'autentico senso dell'essere Chiesa. Parecchi di quelli che hanno partecipato al primo Convegno ecclesiale mi hanno detto: « È impressionante il cambio di sensibilità, l'approfondimento del senso di Chiesa come senso di appartenenza all'unico popolo santo del Signore ». È un frutto, ma anche un auspicio; è una di quelle ragioni della speranza di cui portiamo dentro di noi la consolazione, ma anche l'impegno. Vorrei poi sottolineare un'altra cosa. Ci siamo trovati insieme e abbiamo anche potuto constatare che la forza coesiva del nostro stare insieme è stata soprattutto la preghiera, tutta nutrita di parola di Dio, e sostanziata di una grande visione di fede. La fede ha collocato nella giusta dimensione e nella giusta interpretazione anche le molte differenze che noi uomini abbiamo portato con noi. Differenze, che continueremo a portare con noi, un po' più esorcizzate laddove hanno bisogno di essere esorcizzate, e un po' più valorizzate laddove devono essere valorizzate. E serviremo il Signore con una serenità e una letizia che forse è un'esperienza nuova della vita, della vita come Chiesa, come comunità cristiana. Abbiamo tanto riflettuto e abbiamo, soprattutto, riflettuto sul nostro essere Chiesa, e di qui, proprio di qui, si è messo in movimento qualche cosa di profondo. 7. - Più abbiamo riflettuto sul nostro essere Chiesa e più ci siamo scoperti Chiesa missionaria: Chiesa che in questo mondo non esiste per sé, ma vive per gli altri, per la gloria di Dio e per la salvezza del mondo. A me ha fatto impressione questa scoperta della missione della Chiesa sulla quale non abbiamo fatto grossi discorsi, ma che però ha fermentato un po' tutte le nostre preoccupazioni. Soprattutto ci siamo convinti che non ha senso essere Chiesa senza essere missionari. Non ha senso essere Chiesa se non aprendosi al progetto di Dio e diventando collaboratori e ministri di questo progetto. Nelle nostre molte considerazioni di questa mattina, sentendo i responsabili degli ambiti, ci siamo resi conto quale fermentazione di idee, di propositi e di progetti sia maturata in questi giorni qui, in mezzo a noi. Ora ci rendiamo conto che siamo stati profeti, nel senso che molte cose di cui abbiamo parlato sono preannunzio e speranza di realtà che già sono, ma che hanno bisogno di essere di più. È la tensione tra profezia e storia, che proprio attraverso questo nostro sentirci Chiesa missionaria ha trovato la sua calibratura giusta. E questo sentirci missionari proprio in quanto Chiesa ce lo dovremo portare dentro, come un altro frutto di questo nostro Convegno che, proprio dall'esaltazione della concezione della Chiesa come missionaria, diventa dentro di noi forza nuova per le nostre riconciliazioni. Non siamo Chiesa per tormentarci intorno ai piccoli fastidi della vita di tutti i giorni o alle beghe che alle volte siamo anche tentati di enfatizzare: non ne vale la pena! Siamo nati per altro, e questo abbiamo bisogno di scrivercelo dentro proprio con la grazia di questo Convegno, che è il dono della riconciliazione. È stupendamente bello che i figli di Dio si scoprano tali e traggano da questa scoperta la loro inesauribile fraternità. 8. - È bello, ma non è facile! Non a caso questo Convegno si è parlato spesso di Incarnazione. L'icona del Cristo, Verbo incarnato, ha sovrastato non soltanto le nostre piccole stature di uomini, ma i nostri pensieri, i nostri sentimenti. È la dinamica dell'Incarnazione la dinamica della Chiesa: nell'Incarnazione Dio rivela la sua gloria e l'uomo scopre l'immagine di Dio. Diceva -Ireneo: « Gloria Dei vivens homo »: è l'uomo vivente la gloria di Dio! Questa è la logica dell'Incarnazione. Noi ne abbiamo fatto una piccola esperienza, ci siamo trovati stretti intorno a Cristo Signore che è il capo della Chiesa, ci siamo sentiti pervasi dal suo Spirito che è Spirito di ogni misericordia, ma anche di ogni potenza. Ed è per questo che concludere il Convegno non vuol dire per noi concludere l'impegno per la riconciliazione; vuol dire invece partire con una coscienza di riconciliazione come dono di Dio e come missione della Chiesa, immensamente dilatata e immensamente radicata dentro di noi con una profondità che forse prima non avevamo mai percepito. 9. - Ed è a partite da questa Incarnazione benedetta che noi, in questi giorni, abbiamo fatto anche un'altra esperienza, che cioè non si definisce un uomo se non nella sua molteplice relazione con gli altri uomini. Nessun uomo è creato da solo, nessun uomo basta a se stesso o si definisce all'interno della sua epidermide, ma lo si definisce per una vocazione che trascende tutto e tutti e va a collocarsi nella vocazione del Verbo incarnato. Ed è così che abbiamo fatto, in una maniera forse nuova per parecchi, la scoperta felicissima che essere uomini deve significare essere comunità. La ragione per cui tanti uomini sono frustrati è proprio questa: non hanno saputo, non hanno capito, non hanno avuto ancora l'annuncio che se non si è comunità non si è uomini. Questo vale per la Chiesa, che è la comunità compaginata nell'unità del Cristo, ma vale anche per la società umana nella quale queste dimensioni che superano l'uomo devono esprimersi, esplicitarsi e diventare componenti della storia di ogni uomo e di tutti gli uomini. In questo modo abbiamo potuto superare certe visioni individualistiche e intimistiche dell'uomo, certi atteggiamenti di fuga o impauriti e abbiamo percepito come la città degli uomini debba essere costruita perché l'uomo sia uomo. 10. - In questo orizzonte vorrei sottolineare anche il fatto che l'esperienza del sentirci qui pienamente realizzati come singoli, e perciò pienamente aperti alla presenza degli altri e all'incontro con gli altri, ha finito per essere la dinamica della riconciliazione. Noi abbiamo una cattiva abitudine, quella di lamentarci delle nostre solitudini. Ma, fratelli miei, e se invece di farci vittime ci sentissimo colpevoli delle nostre solitudini, non sarebbe più vero? Vi rendete conto cosa significa essere discepoli di Cristo e andare lamentando la solitudine? Che contro-testimonianza, che contraddizione, che rebus indecifrabile! Ecco il cristiano! 11. - Allora noi ci rendiamo conto perché nella città dell'uomo la Chiesa ha la funzione di fermento e di animazione alla riconciliazione, di provocazione alla speranza. Ed è questo fermento che, lo spero vivamente, ciascuno di noi porterà con sé come frutto del Convegno: sarà materia di esame di coscienza. Qualcuno di voi magari mi vorrebbe dire: « Quell'impenitente è diventato vecchio predicando esercizi e fa la predica anche oggi! ». Abbiate pazienza, oramai … come sono, sono! Ma questo sentirci interpellati dalla città degli uomini, dalla cultura e dalla civiltà è qualcosa che ci deve fare del bene in quanto ci impedisce di diventare acque stagnanti e ci obbliga, volenti o nolenti, a contemplare questo mondo non come giudici o come spettatori, ma come presenze che lo amano e lo fanno nuovo con la potenza, con la grazia e con l'amore del Signore Gesu Cristo. 12. - Ed è in quest'ottica, io penso, che tutte le mancate riconciliazioni di cui ci rendiamo conto guardandoci attorno, di cui siamo anche consapevoli, e qualche volta colpevoli, tutte le mancate riconciliazioni che sono nel mondo, sono spazio anche nostro: esso non ci circonda, ci entra dentro. Non c'è mancata riconciliazione che non sia brandello di me, di voi, di tutti: e di questo bisogna prendere coscienza. Avremo da fare molte cose, dovremo anche chiedere ispirazione per tante iniziative, coraggio per tanti confronti, ma se non c'è dentro questo tormento che sgorga dal mistero del Signore Gesu, faremo tanti castelli in aria o tanti buchi nell'acqua. Dicevo dell'attenzione alle molteplici mancate riconciliazioni o alle riconciliazioni incompiute: non è pessimismo, è realismo questo! E dobbiamo avere anche l'umiltà di renderci conto che a questo mondo riconciliazioni compiute non ce ne sono; e anzi, non per sgravare la coscienza di nessuno dalle proprie responsabilità, non ce ne possono essere. La consumazione del mistero della riconciliazione appartiene ad un'altra patria, appartiene ad un'altra epoca della nostra storia, quella che va oltre il tempo. Sarebbe bene che ce lo ricordassimo. Perché solo con questo convincimento noi mettiamo dentro la società dell'uomo e nella città dell'uomo quei fermenti di cui l'esistenza umana ha bisogno per non essere esilio, per non essere fugace e puramente provvisoria. L'impeto della eternità è dentro: è, non sarà. E questo riconciliare il tempo con l'eternità è il frutto dell'Incarnazione e della fedeltà all'Incarnazione che deve caratterizzare la vita di tutti noi. 13. - Credo proprio che sia giusto che ci diciamo una cosa che di solito non ci diciamo volentieri. Tutte le volte che ci mettiamo a ragionare seriamente da cristiani dobbiamo fare una constatazione: mentre i progetti di Dio sono « mirabilia » le nostre realizzazioni sono una gran povera cosa. Il confronto tra la potenza di Dio e l'impotenza dell'uorno è confronto che ha bisogno di essere mantenuto vivo, se si vuole conservare alla riconciliazione cristiana la sua autenticità, la sua capacità di fare nuove tutte le cose. Ci pensiamo un po' poco alle nostre impotenze. Troppe volte siamo abbagliati dall'onnipotenza delle nostre strumentalizzazioni, ma la realtà è sempre quella. Diceva già il Salmo: « Se il Signore non costruisce la città invano lavorano quelli che cercano di edificarla » (Sal 127,1 ). Questo richiamo io vorrei ribadirlo, perché sono intimamente persuaso che questa tensione fra la potenza e l'impotenza, tra la meraviglia e la miseria, è una di quelle risorse inesauribili di cui, come uomini e come cristiani, abbiamo bisogno per andare avanti e per far si che la storia degli uomini invece di essere l'elenco delle cose che passano senza lasciare rimpianti, sia « luogo » della storia della salvezza e documento della gloria di Dio. 14. - Noi torniamo allora all'origine. Il mistero della riconciliazione, in questo modo, ritrova tutta la sua qualità primigenia: quella riconciliazione di cui, in quest'anno post-sinodale, abbiamo detto tante volte che è dono di Dio, essenzialmente gratuito perché da Dio viene e solo Dio ne è capace. Questa riconciliazione noi andiamo inseguendo, andiamo cercando; da questa riconciliazione siamo continuamente attratti nel nostro pellegrinaggio di discepoli del Signore. E alla gratuità di questo dono divino bisogna fare riferimento continuamente. Abbiamo sentito stamattina un richiamo alla dimensione sacramentale della riconciliazione soprattutto nel Battesimo, nella Penitenza, nell'Eucarestia. Ma è la Chiesa questo sacramento che riconcilia e ha una forza alla quale dobbiamo riferirci sempre, se crediamo che solo Dio è riconciliatore e che solo in Cristo c'è Salvezza! 15. - A questo punto a me pare che l'unica conclusione logica che ci resta è quella di rendere grazie a Dio. Ma nella logica del rendimento di grazie a Dio, credo sia mio dovere ringraziare anche gli uomini. Questo Convegno non è nato dal nulla, è costato fatica, dedizione, lavoro, sacrificio a tante persone: io le presento tutte al Signore perché le rimeriti e le ripaghi a pari suo. Ma come non fare almeno il nome del Comitato Centrale che ha tanto lavorato sotto la Presidenza del Card. Martini! Come non fare i nomi dei responsabili degli ambiti e dei presidenti delle singole commissioni! Come non fare un cenno alla Segreteria Generale della Conferenza Episcopale e alla molteplice collaborazione di tutte le nostre Chiese italiane che hanno saputo sensibilizzare il popolo santo di Dio, perché il Convegno non fosse « deserto ma fosse piuttosto un popolo che attraverso il deserto ha glorificato Dio e ha trovato la Terra Promessa! Allora un grande rendimento di grazie a queste persone, ma soprattutto un grande rendimento di grazie al Signore. In questi giorni la liturgia ci ha sempre ricordato qualche visita del Risorto ai suoi amici. Un po' di qua, un po' di là, il Signore è andato a trovare tutti, ed è venuto a trovare anche noi! La « buona Pasqua » l'abbiamo avuta da Cristo; teniamocela stretta: la nostra Pasqua è Lui! Ci accomiatiano: una dimensione di visibilità si attenua, si dissolve, ma tutti partiamo con Cristo e in Lui l'augurio della Pasqua diventa davvero quella prospettiva colma di speranze, che nelle mie quattro chiacchiere avete potuto intravvedere, ma che è ben più ricca perché il Signore è sempre più glorioso e più mirabile di quanto noi non sappiamo pensare.