CEI/Conv/2006_10_16/04/04.txt Le relazioni all'Assemblea Per lo sviluppo del Convegno sono state centrali le relazioni proposte all'Assemblea, raccolte in questa sezione, che si apre con la Prolusione di S.Em. il Card. Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Milano e Presidente del Comitato preparatorio del Convegno, pronunciata in Arena il 16 ottobre. Seguono poi le relazioni che hanno articolato i contenuti fondamentali del Convegno: - l'orizzonte teologico - pastorale, tracciato dal prof. don Franco Giulio Brambilla, docente stabile di cristologia e antropologia teologica e Preside della Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale ( ora Vescovo ausiliare della Diocesi di Milano ); - le prospettive spirituali, culturali e sociali, affidate alla dott.ssa Paola Bignardi, direttore di Scuola Italiana Moderna e coordinatore nazionale di RetInOpera, al Prof. Lorenzo Ornaghi, ordinario di scienza politica e Rettore magnifico dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, e al dott. Savino Pezzetta, Presidente della Fondazione " Ezio Tarantelli ". Il Signore doni alla Chiesa italiana umili e coraggiosi testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo Prolusione di S.Em. il Card. Dionigi Tettamanzi 16 ottobre 2006 " Cristo è risorto. Questa è la fede della Chiesa. Questa è la speranza che illumina e sostiene la vita e la testimonianza dei cristiani " ( Traccia, n. 1 ). Carissimi, con questa professione di fede e di speranza il Signore ci da la grazia di iniziare la celebrazione di questo 4° Convegno della Chiesa italiana, di quella Chiesa che voi partecipanti rappresentate nelle sue 226 Diocesi e nelle sue molteplici e diverse vocazioni e realtà: una Chiesa che è presente e viva nel nostro Paese. Sentiamo particolarmente presenti tra noi S.E. Mons. Cataldo Naro, uno dei vicepresidenti del Convegno, che il Signore ha improvvisamente chiamato a godere il frutto maturo e pieno della speranza cristiana, e S.E. Mons. Giuseppe Betori, il segretario generale della CEI: egli ci offre il più prezioso dei contributi, quello della sua sofferta lontananza. Mentre esprimiamo gratitudine per il suo qualificato e generoso apporto dato alla preparazione del Convegno, ci rassicurano le confortanti notizie sul suo rapido e pieno ristabilimento. Introduzione Il nostro Convegno prosegue i precedenti di Roma ( 1976 ), Loreto ( 1985 ) e Palermo ( 1995 ), momenti importanti nei quali la Chiesa in Italia ha ricevuto e vissuto il messaggio di rinnovamento venuto dal Concilio. Era proprio questa l'intenzione originaria del 1° Convegno: " tradurre il Concilio in italiano ". Ritengo che una simile intuizione debba essere ripresa e riproposta con forza come criterio anche per questo nostro Convegno: ovviamente con l'accresciuta ricchezza ecclesiale e nella modificata situazione sociale - culturale - ecclesiale del periodo successivo, e insieme sull'onda di una preparazione al Convegno ampia e capillare, impegnata e appassionata, come testimoniano - tra l'altro - le relazioni regionali e diocesane, i contributi degli organismi nazionali, delle aggregazioni ecclesiali e di ispirazione cristiana, e gli innumerevoli apporti giunti dalle più diverse parti. In apertura del Convegno e nello stesso tempo giungendo alle sue radici, sono sicuro di poter condividere con tutti voi un pensiero, un sentimento, un'istanza estremamente semplici ma di grande significato. Li esprimo con una frase che mi è abituale: parliamo non solo " di " speranza, ma anche e innanzitutto " con " speranza. È la speranza come " stile virtuoso " - come anima, clima interiore, spirito profondo - prima ancora che come contenuto. E proprio questo lo stile del Vaticano II, verso cui il nostro Convegno rilancia il suo ponte di raccordo, accogliendo in modo convinto e rinnovato il testimone che i padri conciliari hanno consegnato al mondo nel loro " congedo ": Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia ( Gaudium et spes 1 ). A ricordarci questa consegna strategica del Concilio alla Chiesa e al mondo è Paolo VI, che nell'omelia di chiusura lo difendeva dall'accusa di " un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui " ( EV 1/454* ), ne esaltava l'atteggiamento " volutamente ottimista " e lo indicava in modo programmatico come stile tipico della Chiesa: Una corrente di affetto e di ammirazione - diceva il Papa - si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto e amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette ( EV 1/457* ). La speranza come stile virtuoso è parte essenziale e integrante del realismo cristiano. Certo, nessuno di noi può minimamente negare o attenuare l'esistenza dei tantissimi mali, drammi, pericoli crescenti e talvolta inediti dell'attuale momento storico - l'elenco non terminerebbe mai -, ma tutti, grazie alla presenza indefettibile di Cristo Signore e del suo Spirito nella storia d'ogni tempo, possiamo e dobbiamo riconoscere che la speranza non è solo un desiderio o un sogno o una promessa, non riguarda unicamente il domani, ma è una realtà molto concreta e attuale, che non abbandona mai la nostra terra: le persone, le famiglie, le comunità, l'umanità intera, soprattutto la Chiesa del Signore. È dunque nella coscienza umile dei nostri ritardi, fatiche, lentezze e inadempienze e nel segno di un'immensa gratitudine al Signore e di una fiducia incrollabile nel suo amore che siamo chiamati a vivere questo Convegno nell'orizzonte della speranza. Chi ha occhi e cuore evangelici vede e gode del numero incalcolabile di semi e germi e frutti e opere concrete di speranza che sono in atto nei più diversi ambiti delle nostre Chiese e nella nostra società. Ci sono tantissime persone e gruppi che continuano a scrivere " il Vangelo della speranza " nelle realtà e nelle vicende più disagiate e sofferte della vita quotidiana. Possiamo allora applicare qui quanto leggiamo nell'esortazione Christifidèles laici: Agli occhi illuminati dalla fede si spalanca uno scenario meraviglioso: quello di tantissimi laici, uomini e donne, che proprio nella vita e nelle attività d'ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, sconosciuti ai grandi della terra ma guardati con amore dal Padre, sono gli operai instancabili che lavorano nella vigna del Signore, sono gli artefici umili e grandi - certo per la potenza della grazia di Dio - della crescita del regno di Dio nella storia ( n. 17 ). Ora questa mia prolusione vuole solo " introdurre " al Convegno. Ma come? Lo penso, questo Convegno, come un momento di grande grazia e di forte responsabilità, nel quale siamo posti di fronte a una rinnovata effusione dello Spirito Santo che tutti ci coinvolge e ci sollecita all'ascolto: sì, all'ascolto reciproco - piccola e grande cosa, questa! -, ma ancor più all'ascolto della voce di Dio e del suo Spirito, dei " sogni " che Gesù Cristo oggi ha nei riguardi delle nostre Chiese e della nostra società: " Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese " ( Ap 2,7 ). In concreto, l'appello è a rivisitare alcuni cammini ecclesiali che stiamo facendo, a lasciarci incrociare dalle sfide di cui oggi sono segnati e a scioglierle con la forza della nostra testimonianza, con il nostro essere " testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo ". Con voi desidero ora soffermarmi, nella prospettiva indicata, su di un triplice cammino della nostra Chiesa in Italia. Gesù Cristo crocifisso e risorto: speranza che non delude Il primo cammino avvenuto è quello di una maturazione sempre più chiara e forte della coscienza della Chiesa circa la sua missione evangelizzatrice. E questa, e non altra, la missione della Chiesa: le viene riconsegnata ogni giorno da Cristo e dal suo Spirito come missione tipica, irrinunciabile, sempre aperta, necessaria e insostituibile perché voluta in ordine alla fede e alla salvezza di tutti gli uomini. E aggiungiamo: si tratta di una missione che sta vivendo una stagione di singolare urgenza e indilazionabilità. Infatti, in intimo rapporto con la coscienza evangelizzatrice registriamo una più diffusa ed esplicita consapevolezza della " distanza " ( nel senso di estraneità o/e di antitesi ) che nel nostro contesto socioculturale e insieme ecclesiale esiste tra la fede cristiana e la mentalità moderna e contemporanea. È, da un lato, il contesto del secolarismo, dell'indifferentismo religioso, della cultura estranea o contraria al Vangelo quando non addirittura alla stessa razionalità umana; e, dall'altro lato, è il contesto di un'interruzione o di un rallentamento dei canali ecclesiali classici di trasmissione della fede, come la famiglia, la scuola, la stessa comunità cristiana. Se è così, non è allora esagerato dire che l'evangelizzazione e la fede si ripropongono oggi con singolare acutezza come il " caso serio " della Chiesa. Di qui l'urgenza di tenere viva la preoccupazione per la " distanza " che esiste tra la fede cristiana e la mentalità moderna e contemporanea. Senza dimenticare, peraltro, che una simile distanza - sia pure in forme e gradi diversi - ha sempre segnato la vita della comunità cristiana, e ancor più ha segnato e continua a segnare il cuore di ogni credente, che nella prospettiva di s. Giovanni è pur sempre un incrocio di fede e di incredulità, di sequela del Vangelo e di arroccamento su se stessi e sul proprio egoismo. Ma la grande sfida pastorale rimane in tutta la sua gravita: come eliminare o attenuare questa " distanza "? Risponderei dicendo che prioritario e decisivo oggi è tenere massimamente desta non tanto la preoccupazione per la " distanza ", quanto la preoccupazione per la " differenza ", per la " specificità " della fede cristiana. Meglio e inserendoci nell'orizzonte del Convegno, diciamo: siamo chiamati a " custodire ", ossia conservare, vivere e rilanciare l'originalità, di più la novità - unica e universale - della speranza cristiana, il DNA cristiano della speranza presente e operante nella storia. L'appello del Convegno è di tornare e ritornare senza sosta, con lucidità e coraggio, a interrogarci - per agire di conseguenza - su: chi è la speranza cristiana? quali sono i suoi tratti qualificanti? come essa incrocia l'uomo concreto d'oggi nei suoi problemi e nelle sue attese? 1. La speranza è Gesù Cristo! Non pronuncio una formula, ma proclamo una convinzione di fede: la mia, la nostra, quella della Chiesa. È la stessa fede dell'apostolo Paolo, che così scrive nella Lettera ai Romani: " La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato " ( Rm 5,5 ). Fondamento incrollabile e sorgente viva - e insieme dinamismo inarrestabile e formidabile risorsa - della speranza cristiana è l'amore di Dio effuso in noi dallo Spirito, quell'amore senza misura o calcolo, sovrabbondante, eccedente, folle, "sprecato" ( Mc 14,3-9 ), vissuto " sino alla fine " ( Gv 13,1 ) che è stato donato totalmente da Gesù Cristo sulla croce e che viene riofferto con le sue ferite sempre aperte e il suo costato squarciato nel memoriale del suo sacrificio, cioè nell'eucaristia. Ave crux spes unica! È la morte gloriosa di Cristo il luogo sorgivo e l'alimento costante della speranza della Chiesa e dell'umanità. Qui, nell'incontro vivo con Gesù crocifisso e risorto, viene dato alla Chiesa quel grande appuntamento che la costituisce nella storia - in ogni sua epoca - quale sacramentum spei, segno e luogo di speranza per tutti gli uomini, le persone e i popoli. Ed è qui rincontro di tutti noi che, come membri della Chiesa, riceviamo la grazia e la responsabilità di essere, nel cuore e nella vita, annunciatori e testimoni dell'unica speranza - quella assolutamente nuova e rinnovatrice che viene dalla morte e risurrezione di Gesù - che sa dare risposta vera e piena alle attese delle persone e della società. 2. " La speranza che non delude " presenta, tra gli altri, alcuni tratti qualificanti, che pongono oggi al cammino spirituale - pastorale - culturale della nostra Chiesa nuove sfide. Sono sfide gravide sì di difficoltà, ma insieme di opportunità feconde, di appelli di grazia proprio a partire dalla forza incontenibile, pervasiva e trasformatrice della speranza cristiana. Ricordo, in particolare, che la novità della speranza cristiana si ritrova e si sprigiona in particolare nell'evento della risurrezione di Cristo, nella vita eterna che ci attende, nella comunione beatificante con Dio come destino offerto all'umanità. Non è questo il momento per l'analisi di questi contenuti caratteristici della speranza cristiana. È piuttosto il momento di sottolineare l'urgenza e la drammaticità di un loro ricupero e rilancio, prendendo coscienza tutti che la scommessa più forte, in un certo senso cruciale, all'inizio del terzo millennio - nel contesto di una società cosiddetta liquida e ripiegata e quasi esaurita sull'immediato - consiste nel mettere in luce - con la parola e con la vita - la fondamentale e ineliminabile dimensione escatologica della fede cristiana. E dunque la sua valenza o proiezione di futuro, ma di un futuro che si sta costruendo nel presente, proprio dentro le tante e più diverse " attese umane ". In realtà, in questione non è semplicemente la fine, la conclusione della vita, ma il fine, il senso, il logos della vita dell'uomo. E questo, proprio perché tale, rimandandoci al traguardo ci coinvolge nel cammino in atto: la speranza cristiana entra, abita, plasma e trasforma l'esistenza quotidiana. Per il cristianesimo - che è memoria, celebrazione ed esperienza viva dell'evento del Figlio eterno di Dio fatto uomo per noi nella " pienezza del tempo " - è una vera e propria eresia pensare che l'aldilà sia ininfluente o alienante l'uomo che vive sulla terra e nel tempo. Desidero citare un testo del Concilio, che scrivendo dell'atteggiamento di fronte all'ateismo afferma: la Chiesa insegna che la speranza escatologica non diminuisce l'importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno dell'attuazione di essi. Al contrario, invece, se manca il fondamento divino e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come si costata spesso al giorno d'oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore rimangono senza soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella disperazione ( Gaudium et spes 21 ). Di qui il grave e inquietante pericolo, religioso e umano a un tempo, di un'eclissi o smemoratezza del tratto escatologico della fede cristiana, che viene proclamato nelle ultime parole del Credo: " Credo la risurrezione della carne e la vita eterna ". Sì, sono le ultime parole, ma in qualche modo sono quelle riassuntive e decisive dell'intero Credo, proprio perché offrono la chiave di lettura e di soluzione dei problemi antropologici più complessi e decisivi per l'esistenza, a cominciare dal senso del morire e quindi dell'intera esistenza umana come tale. E così siamo introdotti a cogliere lo spessore umano, la consistenza antropologica della speranza cristiana. 3. La speranza in Cristo genera un rinnovato pensiero antropologico. Sbocciata nel cuore di Cristo - Dio fatto uomo, morto risorto e veniente - e riversata dal suo Spirito nel cuore del credente e di ogni uomo, la speranza raggiunge e coinvolge l'uomo nella sua totalità e radicalità, quale meraviglioso microcosmo: di struttura, dinamismi, finalità; di anima, psiche e corpo; di individuo e comunità; di unicità irripetibile e tessuto vivo di relazioni; di tempo e di eternità, di spazio e di infinito. Si fa qui inevitabile, e insieme quanto mai interessante, l'intreccio tra la speranza cristiana e la questione antropologica, che si è riproposta in modo particolarmente acuto nella nostra cultura. Non sto parlando soltanto della cultura cosiddetta " alta " - appannaggio dei filosofi e teologi, degli scienziati e tecnocrati, degli uomini dell'economia - finanza - politica - comunicazione sociale ecc. -, ma, e non meno, della cultura che contagia e modula ogni persona e ogni gruppo sociale nella loro esistenza quotidiana. Ora la speranza cristiana, grazie alla novità dei suoi contenuti e in concreto all'esperienza di Dio e dell'uomo che essa genera e alimenta, possiede un formidabile potere di trasformazione sulla visione, di più sull'esperienza odierna dell'uomo: vale a dire sull'immagine e la concezione della persona, l'inizio e il termine della vita, la cura delle relazioni quotidiane, la qualità del rapporto sociale, l'educazione e la trasmissione dei valori, la sollecitudine verso il bisogno, i modi della cittadinanza e della legalità, le figure della convivenza tra le religioni e le culture e i popoli tutti. Si apre oggi con più forza a tutta la nostra Chiesa in Italia il compito di elaborare - con un'interpretazione che sappia intrecciare fede e ragione, teoria e prassi, spiritualità e pastoralità, identità e dialogo - una rinnovata figura antropologica sotto il segno della speranza. Esiste infatti, in sintonia con l'intellectus fidei, un intellectus spei, un'intelligenza della speranza - una vera speranza è realtà che è nella storia e la costruisce, e dunque non può non vedere, non leggere, non interpretare, non decidere, non toccare il vissuto concreto dell'uomo - da cui deriva un sapere della speranza che si ripercuote sulla questione antropologica. Non potrebbe incominciare da qui una specie di " seconda fase " del progetto culturale in atto nella nostra Chiesa? Una fase che rimetta al centro la persona umana e il suo bisogno vitale e insopprimibile, appunto la speranza, come rilevava in modo incisivo s. Ambrogio dicendo che " non può essere vero uomo se non colui che spera in Dio " ( De Isaac vel anima 1,1 )? Forse è possibile un'analogia: come la dottrina sociale della Chiesa e la conseguente prassi hanno la persona umana come principio fondativo e architettonico dei loro più svariati contenuti, così l'azione spirituale - pastorale - culturale della Chiesa potrebbe strutturarsi in riferimento alla centralità della persona umana, nella sua dignità di immagine viva di Dio in Cristo e nella concretezza delle sue situazioni e relazioni quotidiane. La Chiesa: una comunione nella varietà per l'unità e l'universalità Un secondo cammino avvenuto e in atto nelle nostre Chiese è quello di una maturazione della coscienza e della prassi della comunione ecclesiale. È il frutto e il segno dell'ecclesiologia di comunione donataci dal Concilio e vissuta nel periodo successivo, eco viva e sviluppo concreto dell'antica parola di s. Cipriano: la Chiesa è come " un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo " ( De oratione dominica 23 ). Questa maturazione si trova oggi a dover affrontare nuove sfide, perché la testimonianza dei cristiani si situa all'interno di un mondo e di una società gravati da molteplici tensioni, contrapposizioni, divisioni, conflitti, solitudini immense e angosce profonde ecc.; ma anche all'interno delle stesse comunità e realtà ecclesiali che non poche volte faticano o rinunciano a " camminare insieme ", non conoscono la " sinodalità ": non certo come parola, ma come esperienza di vita e di partecipazione ecclesiale. Senza dire, in positivo, che oggi si danno opportunità inedite e urgenze più forti per vivere una comunione ecclesiale più ampia, più intensa, più responsabile e, proprio per questo, più missionaria. E la risposta alle sfide passa, ancora una volta, attraverso il recupero e il rilancio della fede professata - celebrata - vissuta, di una fede che genera e corrobora la speranza cristiana. E questa ha un suo proprio contributo da offrire per il realizzarsi della comunione ecclesiale. Mentre illumina alcuni aspetti propri del nostro " camminare insieme " come Chiesa, la speranza cristiana ci garantisce le risorse specifiche necessarie. E ora con la preoccupazione pastorale concreta, propria di un Vescovo, desidero offrire alcuni spunti sulla comunione ecclesiale in quanto comunione nella varietà per l'unità e l'universalità. 1. La comunione ecclesiale è un dono di Dio, è un bene della Chiesa e per la Chiesa ( e insieme della e per la società ), è una promessa di Cristo e del suo Spirito, è un ideale alto ed esigente, un comandamento, una responsabilità per tutti ecc. Certo, sto ricordando a me e a voi una prospettiva di fede. Ma questa, con la forza della grazia e la libera risposta del credente, costruisce la storia quotidiana di una Chiesa, delinea il volto visibile e preciso di una comunità cristiana che a tutti può presentarsi nella realtà concreta di una comunione di persone, una comunione singolare, perché segnata insieme dalla varietà e dall'unità, dall'unità e dall'universalità. Eccoci allora a riprendere in modo più convinto e determinato il compito spirituale - pastorale - culturale della nostra Chiesa, chiamata a rielaborare e rivivere il tessuto dei profondi legami che intercorrono tra la varietà e l'unità della e nella Chiesa, tra la sua unità e universalità, tutto come riflesso luminoso del mistero dell'infinita ricchezza di Cristo e del suo Spirito. Varietà e unità, unità e universalità non si contrappongono, ma si incontrano nel segno della complementarità, della circolarità, anzi della compenetrazione profonda. Più radicalmente la varietà è generata dall'unità, dell'unità è espressione e vita, nell'unità sfocia come a suo fine. Così come si ripropone con maggiore forza il compito di rielaborare e realizzare l'indissolubile legame che esiste tra l'unità e l'universalità della Chiesa. Come il bonum è diffusivum sui, così il bene della comunione ecclesiale quanto più si fa profondo e intenso tanto più si apre e si dilata, insieme si concentra e si espande senza limiti: dai singoli cristiani a tutti i cristiani, dalle singole Chiese locali alla Chiesa universale. Ritroviamo qui il meraviglioso fatto della communio sanctorum, e nello stesso tempo ci vengono incontro le nuove possibilità aperte dai fenomeni della globalizzazione. E così il credente è membro della Chiesa cattolica e cittadino del mondo. Certo, sono prospettive note. Ma come lasciarci concretamente contagiare e trasformare quando rischiarne di rimanere chiusi e prigionieri di un camminare insieme troppo angusto, stolto e sterile? La comunione " nuova " e " originale " della Chiesa è di essere " cattolica ", chiamata dunque a coinvolgere tutti, a raggiungere l'umanità intera. Per sua natura è il segno dell'amore universale di Dio, è il frutto del dono di Cristo che muore sulla croce per tutti, è missionaria e lo è da Gerusalemme " fino agli estremi confini della terra " ( At 1,8 ). Da qui nasce la missio ad gentes, da qui deriva la modalità ecclesiale che deve distinguere tutte le forme di presenza nelle Chiese di altri popoli o di altri mondi, da qui emerge il paradigma d'ogni impegno pastorale missionario: dentro e attraverso la comunione tra Chiese sorelle. E da qui vengono anche la grazia e la responsabilità di una nuova visione e realizzazione della mondialità e della grande questione della giustizia e della pace! Come si vede, sto declinando il riferimento alla comunione ecclesiale in termini di universalità, ma tale riferimento si fa subito anche estremamente " domestico ", perché ci tocca nella concreta comunione che di fatto esiste - o non esiste - nelle e tra le nostre Chiese, nelle e tra le nostre diverse realtà ecclesiali. Da parte mia ritengo quanto mai appropriata e stimolante la rilettura ecclesiologica del comandamento biblico dell'" ama il prossimo tuo come te stesso ", che con rigorosa logica si declina così: " Ama la parrocchia altrui come la tua, la Diocesi altrui come la tua, la Chiesa di altri paesi come la tua, l'aggregazione altrui come la tua ecc. ". Sto forse esagerando e rifugiandomi in una specie di sogno, o non piuttosto confessando la bellezza e l'audacia della nostra fede? Non ci sono dubbi: nel mysterium Ecclesiae ciò è possibile, ciò è doveroso: non solo nell'intenzione e nella preghiera, ma anche nella concretezza dell'azione. Per concludere questo primo spunto, rilevo come proprio a questo livello quotidiano possiamo cogliere l'intimo e inscindibile legame tra comunione e missione, tra missione e comunione. Sono assolutamente inseparabili: simul stani vel cadunt. Secondo la categorica parola di Gesù, anzi secondo la sua appassionata preghiera: " Come tu, Padre, sei in me e io in tè, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato " ( Gv 17,21 ). La Christifideles laici così chiosa il testo evangelico: " In tal modo la comunione si apre alla missione, si fa essa stessa missione " ( n. 31 ). 2. Il secondo spunto vuole rileggere la Chiesa quale " comunione nella varietà per l'unità e l'universalità " in più diretto riferimento alle persone che della Chiesa sono " le pietre vive ": alle persone nella concretezza del loro stato e condizione di vita, di vocazioni, di doni e compiti, di ministeri ecc. È l'unico popolo di Dio nella sua eccezionale varietà. Sono tutti i christifideles. Sono i presbiteri e diaconi, le persone consacrate, i laici. Ma nella Chiesa - che come memoria vivente di Gesù, il Verbo incarnato, è composta di uomini e donne concreti - la comunione donata e richiesta dal Signore può e deve essere vissuta e testimoniata non soltanto nella modulazione specificamente ecclesiale ( in rapporto alle categorie ora ricordate ), ma anche in una sua modulazione antropologica e sociale. Proprio nella Chiesa, in una maniera nuova e rinnovatrice, può e deve realizzarsi la comunione più variegata e talvolta più difficile: è, per esemplificare, la comunione tra uomini e donne, giovani e adulti, ricchi e poveri, studenti e maestri, sani e malati, potenti e deboli, vicini e lontani, cittadini del Paese e cittadini del mondo, giudei e greci, schiavi e liberi ( per usare le parole dell'apostolo: Gal 3,28 ), fortunati e disperati ecc. E per ritornare alla modulazione propriamente ecclesiale della comunione, al di là dei tanti passi positivi compiuti nella nostra Chiesa, siamo consapevoli che l'essere oggi " testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo " domanda una comunione missionaria tra le diverse categorie di fedeli più compattata e dinamica, più libera e insieme strutturata, più convinta e convincente, più visibile e credibile. Non si da testimonianza cristiana al di fuori o contro la comunione ecclesiale! Una comunione, questa - lo dobbiamo marcare con forza -, che nel suo spirito interiore e nel suo realizzarsi storico fiorisce e fruttifica sempre e solo come triade indivisa e indivisibile di comunione - collaborazione - corresponsabilità. La comunione ecclesiale conduce alla collaborazione: dall'anima e dal cuore alle mani, ai gesti concreti della vita, alle iniziative intraprese, in una parola al dono reciproco e al servizio vicendevole ( Rm 12,9ss ). E, a loro volta, comunione e collaborazione non possono non portare a forme di vera e propria corresponsabilità, perché l'incontro e il dialogo sono tra soggetti coscienti e liberi, tra le menti che valutano la realtà e le volontà che liberamente affrontano e forgiano la realtà stessa, e dunque nell'ambito del discernimento e della decisione evangelici - pastorali. Certo, una corresponsabilità nella quale sono diverse le competenze e diversi i ruoli dei vari membri della Chiesa, ma sempre un'autentica corresponsabilità. È in questo contesto e secondo questo spirito che è più che legittimo, anzi doveroso il richiamo alla specificità dei vari stati di vita, vocazioni e missioni nella Chiesa. Infatti, solo nel confronto, nell'incontro e nel riferimento all'unità e universalità la specificità può essere custodita, promossa ed esaltata: diviene cioè ricchezza per tutta la Chiesa. Secondo la parola dell'apostolo: " A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune " ( 1 Cor 12,7 ). E secondo la parola di Papa Benedetto XVI: " Al di là dell'affermazione del diritto alla propria esistenza, deve sempre prevalere, con indiscutibile priorità, l'edificazione del corpo di Cristo in mezzo agli uomini " ( al II Congresso dei movimenti ecclesiali, 22 maggio 2006 ). Il nostro Convegno è chiamato qui a dire una parola, molto attesa e doverosa, sui " christifideles laici ", sui laici e sul laicato. Occorrerebbe, forse, un'intera prolusione ad hoc. Ma pur rapidamente esprimo qualche convinzione e qualche urgenza per la Chiesa in Italia e per il nostro Paese. Inizio con una parola che è di quasi vent'anni fa: è venuta l'ora nella quale " la splendida "teoria" sul laicato espressa dal Concilio possa diventare un'autentica "prassi" ecclesiale " ( Christìfideles laici 1 ). E l'ora è aperta, conserva tutta la sua urgenza, ma va accelerala nel senso di coglierne l'intera ricchezza di grazia e di responsabilità per la missione evangelizzatrice della Chiesa e per il servizio al bene comune della società, in una parola per la testimonianza cristiana e umana nell'attuale situazione del mondo. Sento poi di dover esprimere stima e gratitudine per la testimonianza evangelica e civile che tantissimi laici e il laicato nelle sue varie forme, grazie alla loro propria e peculiare coappartenenza alla Chiesa e al mondo, hanno dato e continuano a dare a Gesù risorto e all'avvento del suo regno nella storia, e dunque nelle più diverse problematiche, realtà e strutture terrene e temporali. Il disegno di Cristo circa la sua Chiesa domanda a tutti noi di rinnovare il nostro riconoscimento cordiale e gioioso del posto e del compito comuni e specifici dei fedeli laici: il riconoscimento cioè del diritto - in chiave ecclesiale e quindi nel suo senso più originale e forte e nel suo spirito evangelico di glorioso servizio - e insieme il riconoscimento della responsabilità. L'affermazione è teorica, ma proprio per questo ognuno di noi può coglierne le implicazioni di vita e di azione nella Chiesa e nella società. E anche necessario un rinnovato impegno delle nostre Chiese e realtà ecclesiali per sviluppare una più ampia e profonda opera formativa dei laici - singoli e aggregati - che assicuri loro quell'animazione spirituale, quella passione pastorale e quello slancio culturale che li rende pronti e decisi ( e aggiungerei: competenti, dialoganti, coerenti, operativi e coraggiosi ) nella loro tipica testimonianza evangelica e umana al servizio del bene comune, in specie nel campo familiare, sociale, economico - finanziario, culturale, mediatico e politico, e tutto ciò nell'ambito del Paese, dell'Europa e del mondo. Il Convegno ci offre una meta e un programma di grande respiro e insieme di singolare concretezza quotidiana - e dunque di riferimento alle sacrosante richieste della gente, dei poveri in particolare -, là dove ci apre alla riflessione e all'impegno sulla vita affettiva, sul lavoro e la festa, sulla fragilità umana, sulla trasmissione dei valori, sulla cittadinanza. In questa prospettiva si fa logico e straordinariamente bello, confortante, stimolante ricordare a tutti i laici che nella Chiesa identica è la missione evangelizzatrice e ancor più la vocazione alla santità, alla " misura alta " della vita cristiana ordinaria ( Novo millennio ineunte 31 ). Ciò vale per tutti, anche per i politici cristiani. Mi rimangono indimenticabili le parole di Paolo VI: " La politica è una maniera esigente - ma non la sola - di vivere l'impegno cristiano al servizio degli altri " ( Octogesima adveniens 46 ). 3. Un ultimo spunto riguarda la comunione ecclesiale nel suo rapporto con la speranza cristiana. Questa tocca sì l'individuo e le sue personali attese, ma coinvolge anche le comunità nelle loro aspettative. La Chiesa stessa, sappiamo, si configura come " popolo pellegrinante " verso la comunione piena e definitiva con Dio ( Lumen gentium 9 ). E i contenuti tipici della fede cristiana sopra ricordati - quelli, in particolare, della risurrezione di Gesù il Crocifisso, la vita eterna e la beatitudine -, offrendo un'intelligenza nuova e un vissuto nuovo ai mèmbri della comunità cristiana, non possono non ripercuotersi sulla comunione ecclesiale, nel suo dinamismo operativo e nelle sue caratteristiche: è una comunione ecclesiale segnata dalla speranza, dono dello Spirito di Cristo. In particolare, è lo Spirito Santo - come vinculum amoris tra il Padre e il Figlio, tra la divinità e la carne umana di Cristo, tra il Signore Gesù crocifisso e risorto e la sua Chiesa - il principio sorgivo della comunione ecclesiale - varia, unita e universale - e insieme la legge 'nuova e la risorsa permanente per la sua quotidiana realizzazione Storica. Emergono così la gratuità e la serietà della comunione ecclesiale: proprio perché segnata dalla speranza che viene dallo Spirito, essa è un dono e un compito. È allora la forza dello Spirito che sostiene - al di là di ritardi, lentezze, errori, mancanze ecc. - il cammino della comunità cristiana verso una comunione autentica e costantemente tesa alla sua perfezione. Potremmo dire che, connotata dalla tensione escatologica, la comunione ecclesiale può ritrovare l'umiltà e la conversione di fronte alle sue diverse forme di lacerazione, può farsi più ricca di vigilanza e di desiderio e di slancio operativo, può aprirsi all'audacia profetica di una singolare libertà e di una grande snellezza nei suoi cammini e passi nelle varie vicende storiche. Cito dalla lettera apostolica Orientale lumen: " Se la Tradizione ci pone in continuità con il passato, l'attesa escatologica ci apre al futuro di Dio. Ogni Chiesa deve lottare contro la tentazione di assolutizzare ciò che compie e quindi di autocelebrarsi o di abbandonarsi alla tristezza. Ma il tempo è di Dio, e tutto ciò che si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è sempre dono gratuito " ( n. 8 ). La testimonianza: di tutti i cristiani e di ogni giorno Giungiamo finalmente al cuore del Convegno: alla testimonianza di Gesù risorto, che è dono e compito di tutti i cristiani ed è questione di ogni giorno. La tirannia del tempo mi offre, lasciando a chi lo desidera la lettura del testo scritto, la libertà di limitarmi al semplice indice o poco più. Del resto, è l'intero Convegno, con la ricchezza della sua preparazione e ora della celebrazione che si apre, un corale approfondimento dei contenuti, delle forme e degli spazi della testimonianza cristiana. 1. La testimonianza cristiana è generata e sostenuta dalla fede in Gesù Cristo, il Crocifisso risorto e il veniente. È la fede cristiana nella sua unitotalità, nella sua triplice e inscindibile dimensione di fede professata - celebrata - vissuta. È, dunque, la fede che sta in ascolto della parola di Dio, che celebra ed esperimenta l'incontro vivo e personale con Gesù Cristo nella sua Chiesa con il sacramento e la preghiera, che si fa " carne della propria carne " nel vissuto di ogni giorno. Così la testimonianza cristiana, per essere vera e autentica, ha assoluto bisogno della Parola e del sacramento, dei quali proprio il vissuto del credente deve dirsi frutto, verifica, " compimento ". In questo senso si deve riprendere la prospettiva indicata nella Traccia ( cf. Appendice ) e più volte ricordata nella prolusione: la testimonianza è questione globale e unitaria di spiritualità, di pastorale e di cultura, perché per interiore esigenza e di fatto essa scaturisce dalle radici vive e vivificanti di un'intensa spiritualità, si esprime nell'agire pastorale - missionario della Chiesa e dei credenti e trova nella cultura lo strumento e insieme la forza per " aprirsi " e " dialogare " con i linguaggi e le esperienze della vita dell'uomo d'oggi. Ci troviamo dunque di fronte a tre realtà, più tre dimensioni, che vanno profondamente saldate insieme. In particolare, la cultura viene intesa " come capacità della Chiesa di offrire agli uomini e alle donne di oggi un orizzonte di senso, di essere con la stessa esistenza un punto di riferimento credibile per chi cerca una risposta alle esigenze complesse e multiformi che segnano la vita ". In questo senso il vissuto, come testimonianza, si configura come sintesi finale di un processo di discernimento evangelico che si snoda attraverso le fasi del leggere e interpretare i segni di senso o di speranza, del decidersi con scelte libere e responsabili per offrire senso e seminare speranza, dell'impegnarsi in atteggiamenti e comportamenti concreti e, dunque, in opere di speranza, giungendo sino a una specie di coraggiosa organizzazione della speranza anche sotto il profilo comunitario e strutturale. In questa linea la testimonianza, che passa attraverso il discernimento, presuppone un umile e forte esame di coscienza e diviene il frutto di una vera e propria conversione: a Cristo e all'uomo! 2. La testimonianza punta come a suo specifico sul vissuto, sul vissuto esistenziale, quello " concreto " nel senso di una fitta serie di elementi che " crescono insieme " alla e nella persona, alla e nella comunità, quindi nel senso fondamentale della relazione interpersonale e sociale dentro le vicende e situazioni storiche e i più diversi ambiti di vita. Anche quelli messi a tema dal Convegno. Sono ambiti, questi, trasversali, che intrecciandosi tra loro si situano - in modo unico e irripetibile - nella singola persona e nel suo tessuto relazionale. Ora, vissuti nella testimonianza evangelica dei cristiani, questi ambiti delineano un volto concreto e " popolare " di Chiesa missionaria, un volto di Chiesa fortemente radicato nel territorio e presente nei passaggi fondamentali dell'esistenza: quello cioè di una comunità col volto di famiglia, costruita attorno all'eucaristia e alla domenica, forte delle sue membra più deboli, in cui le diverse generazioni si frequentano, dove tutti hanno cittadinanza e contribuiscono a edificare la civiltà della verità e dell'amore. Come si vede, il vissuto fa riferimento all'uomo reale, che nella sua prima enciclica Giovanni Paolo II qualifica come " ogni uomo, in tutta la sua irripetibile realtà dell'essere e dell'agire, dell'intelletto e della volontà, della coscienza e del cuore. L'uomo, nella sua singolare realtà ( perché è " persona " ), ha una propria storia della sua vita e, soprattutto, una propria storia della sua anima [ … ] L'uomo, nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale e sociale - nell'ambito della propria famiglia, nell'ambito di società e di contesti tanto diversi, nell'ambito della propria nazione, o popolo ( e, forse, ancora solo del clan, o tribù ), nell'ambito di tutta l'umanità - quest'uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell'incarnazione e della redenzione " ( Redemptor hominis 14 ). La testimonianza, dunque, fa tutt'uno con la vita quotidiana dell'uomo: il vissuto umano è lo spazio storico e insieme la forma necessaria della testimonianza. 3. Ma qual è la forma specifica della testimonianza, e più precisamente della testimonianza cristiana? Ora, se a decidere la risposta generale è la coerenza - cioè il vissuto in sintonia con i valori ideali e con le esigenze morali delle persone e della comunità -, la risposta propria della testimonianza cristiana è la coerenza con la grazia e le responsabilità che ci vengono dall'incontro vivo e personale con Gesù Cristo morto e risorto, dall'obbedienza alla sua parola, dalla sequela del suo stile di vita, di missione e di destino. Non ci sono alternative! Solo con il nostro vissuto quotidiano possiamo confessare la nostra fede in Cristo e rendergli testimonianza. La prima, necessaria, irrinunciabile, possibile e doverosa testimonianza al Vangelo è la vita di ogni giorno, una vita nella quale " seguiamo Cristo ", ci " rivestiamo " di lui, siamo mossi dalla sua carità, ascoltiamo la sua parola, obbediamo alla sua legge, entriamo in comunione di vita con lui, diventiamo suoi " amici ", ci lasciamo animare e guidare dal suo Spirito. In una parola, viviamo nella grazia di Dio e camminiamo verso la santità. Potremmo fare sintesi dicendo che testimone è chi vive nella logica delle beatitudini evangeliche. E questo in ogni situazione, anche la più complessa e difficile e inedita; a qualsiasi costo, anche della rinuncia e del massimo coraggio, anche di venir incompreso, irriso, emarginato e rifiutato. Anche a prezzo del martirio, nelle sue più diverse forme. Al riguardo ci sono, infatti, parole inequivocabili di Cristo che non possiamo zittire: sono lì sempre scritte nel suo Vangelo, sempre stampate a fuoco nel nostro cuore dal suo Spirito. Il richiamo ci viene risvegliato in continuità dal fenomeno sempre in atto dei grandi e piccoli martiri della fede. Pure il Concilio, facendo eco alla voce di s. Agostino, ci ammonisce dicendo che " la Chiesa "avanza nel suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio", annunciando la croce e la morte del Signore fino a che egli venga ( 1 Cor 11,26 ) " ( Lumen gentium 8 ). Senza dimenticare che la beatitudine della persecuzione è da Cristo segnata da una sua originalissima gioia: non solo futura, ma già ora operante. " Beati voi - così proclama il Signore Gesù - quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v'insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell'uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli " ( Lc 6,22-23 ). E perché non rilanciare una rinnovata " spiritualità della gioia cristiana ", l'unica capace di scuotere un mondo annoiato e distratto? Non c'è bisogno, a questo punto, di offrire una qualche riflessione sul rapporto tra la testimonianza e la speranza cristiana. Proprio il testimone - in specie il martire - costituisce l'incarnazione più radicale e il vertice supremo della speranza: per amore di Cristo, egli è pronto a donare nel sangue la propria vita ( Ecclesia in Europa 13 ). E ora l'ultima parola. Non è da me, ma viene da lontano, dall'oriente, da un Vescovo martire dei primi tempi della Chiesa, da s. Ignazio d'Antiochia. Desidero che la sua voce risuoni in questa Arena e pronunci ancora una volta una parola d'estrema semplicità, ma capace di definire nella forma più intensa e radicale la grazia e la responsabilità che come Chiesa in Italia chiediamo di ricevere da questo Convegno. E che, per dono di Dio, il cuore di ciascuno di noi ne sia toccato e profondamente rinnovato! Ascoltiamo: " Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino alla fine. È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo ( Ef 2,8-10 )". Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo Relazione del prof. don Franco Giulio Brambilla 17 ottobre 2006 " Io spero in te per noi " … In te - per noi: qual è il legame vivente fra questo tu e questo noi che solo il pensiero più insistente riesce a svelare nell'atto della speranza? Non occorre forse rispondere che Tu sei il garante di questa unità che lega me a me stesso, o meglio l'uno all'altro, o ancora gli uni agli altri? Più che un garante che assicurerebbe e confermerebbe dall'esterno un'unità già costituita. Tu sei il cemento stesso che la sostiene. Se è così, disperare di me o disperare di noi, è essenzialmente disperare di Te. È con intensa emozione che rileggiamo oggi le parole di Gabriel Marcel, scritte l'anno 1942, nel momento terribile e più drammatico della seconda guerra mondiale. Il filosofo della speranza ci dice che sperare è la cosa più personale, ma ciò non è possibile senza tener per mano la speranza degli altri. Nello slancio della comune speranza non solo trapela ciò che attendiamo, ma viene incontro il Risorto stesso. Lui in persona che sostiene il mio e il nostro sperare. La domanda del filosofo sarà come la bussola con cui camminare sulla strada del nostro convenire a Verona. Il Convegno ecclesiale, inaugurato ieri nella cornice splendida dell'Arena scaligera, si colloca nella scia delle precedenti assise della Chiesa italiana, che sono state tre tappe importanti per " tradurre il Concilio in italiano ". In questa luce la relazione introduttiva del Presidente, il Card. Dionigi Tettamanzi, ci ha offerto un esercizio di memoria e ci ha indicato alcuni impulsi creativi per il futuro. La scelta del tema per il Convegno di Verona, " Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo ", ha cercato una sintesi fra il tema della speranza cristiana e la condizione comune dei credenti come testimoni. La speranza nel Risorto prende forma nella testimonianza del credente e della Chiesa. La risurrezione di Gesù è raccontata dai discepoli della prima ora, dalle donne e dagli apostoli, e da tutti coloro che lungo i secoli hanno sperimentato la novità di vita che il Risorto irradia nel mondo. Il tema del Convegno è orchestrato sul canovaccio della Prima lettera di Pietro, una lettera affascinante che ci dona un'immagine dei primi cristiani nella struggente condizione di " stranieri, dispersi " nelle regioni dell'Asia Minore ( 1 Pt 1,1 ), ma che vivono come " pellegrini " per " rendere ragione della loro speranza " ( 1 Pt 2,11; 1 Pt 3,15 ). Dire la speranza non è solo un atto dell'intelligenza, ma è un esercizio storico, un compito e un rischio della libertà. Che ha bisogno del tuo e del mio incontro e confronto. Nel tempo di preparazione al Convegno molti hanno già sperimentato i vantaggi e le insidie del tema. Ora, nel momento in cui si da inizio al Convegno, occorre trovare una capacità di sintesi che metta in campo le migliori risorse dei credenti e delle Chiese d'Italia. Il cattolicesimo italiano ha espresso figure di giganti nella fede e nella cultura, nella santità e nell'operosità sociale, che hanno saputo innervare in modo originale il tessuto civile del Paese. Ieri ne abbiamo onorati alcuni nella celebrazione d'apertura, oggi e domani dobbiamo metterci in ascolto della loro memoria per aprire le vie del futuro. È bello lasciarsi guidare dalle parole della Prima lettera di Pietro. Mi sono lasciato ispirare da tre immagini presenti in questo scritto cristiano delle origini: la metafora della generazione, la metafora della casa, la metafora del dibattito ( confronto ) pubblico nelle diverse situazioni della testimonianza. Possono diventare anche tre piste di ricerca da perseguire nel Convegno e da proseguire nel cammino successivo. 1. " Egli ci ha generati a una speranza viva " ( 1 Pt 1,3 ) Il Crocifisso risorto sorgente della speranza cristiana La prima pista richiede di pensare il primato dell'evangelizzazione nella prospettiva della speranza cristiana. Questo è l'inizio e il centro del Convegno: la speranza del cristiano è una persona, ha il volto del Crocifisso risorto, è la forza propulsiva della Pasqua, ci mette in contatto con il Cristo vivo e presente ( Christus præsens ) nella parola annunciata, nell'eucaristia celebrata, nella comunità che testimonia, nelle attese del mondo. La coscienza missionaria - il leit motiv che la Chiesa italiana ha espresso in modo solenne nel documento programmatico di questo decennio Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia - non è prima di tutto un'azione, ma il gesto in cui la Chiesa si lascia di nuovo " generare " dal Signore risorto. La Chiesa si " alimenta " alla novità dirompente del corpo dato e del sangue versato, al Cristo presente nella Parola e nel sacramento, con cui essa riceve il Vangelo della Pasqua, il dono dello Spirito e la ricchezza variegata dei suoi doni. Questa novità prende corpo nella vita quotidiana delle persone che amano e soffrono, lavorano e creano, pensano e operano, e che formano il terreno vitale delle comunità cristiane e il tessuto connettivo della società civile. La prima metafora della Lettera di Pietro si riferisce al tema della generazione, un'immagine che, più avanti, assume anche i teneri tratti della maternità. a) La " speranza viva " del cristiano e le attese umane Ascoltiamo l'inno di lode con cui si apre la lettera: " Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesu Cristo dai morti, per una speranza viva " ( 1 Pt 1,3 ). È la " benedizione " con cui diamo avvio ai giorni del nostro convenire, riconoscendo il mistero di vita e di misericordia che tutti ci raggiunge. La parola chiave è la " speranza viva " alla quale siamo generati mediante la risurrezione di Gesù. L'autore usa la metafora della " generazione " per affermare che il credente nasce nella pasqua di Gesù. Il tema è declinato nella lettera ( 1 Pt 1,3.23 ) nei suoi aspetti essenziali: la nuova nascita dei credenti è pasquale perché avviene nella risurrezione dai morti; ha il suo luogo sacramentale nel battesimo; trova il suo significato esistenziale nella novità di vita mediante la fede. Al centro sta il Risorto e la sua azione che genera in noi una speranza vivente e attiva. La speranza viva è la stella polare che ci deve guidare nel cammino del Convegno. Il primo motivo del nostro convenire è quello di lasciarci di nuovo generare e alimentare dalla speranza della risurrezione. Così diventiamo capaci di interpretare e di realizzare le attese e le speranze degli uomini d'oggi, di mettere in contatto la ricerca di vita, di relazioni buone, di giustizia, di libertà e di pace con la fonte stessa della speranza viva, Gesù risorto. Questa è la sorgente della testimonianza. Solo perché la Chiesa continua a lasciarsi generare e alimentare nella Parola e nei sacramenti pasquali, può attestare al mondo una speranza rinnovatrice delle forme dell'esistenza umana, dei processi della trasformazione culturale e dei modi della convivenza sociale. Di seguito, la speranza è precisata " come un'eredità che non si corrompe, non si macchia, non marcisce " ( 1 Pt 1,4 ). La differenza cristiana della speranza è un'eredità promessa, che ha già un anticipo nell'esperienza filiale e fraterna dei credenti ed è descritta nei suoi tratti salienti così: è incorruttibile, perché è custodita nei cieli per noi ( v. 4b ); è incontaminata, perché accolta nella fede ( v. 5a ); è indistruttibile, perché è un patrimonio che raggiunge al di là della morte la pienezza della vita stessa di Dio ( v. 5b ). Più avanti l'autore riprende la metafora della rigenerazione con quella ancora più intensa e tenera della " maternità ": " Deposta dunque ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza, come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già gustato come è buono il Signore " ( 1 Pt 2,1-3 ). È una nuova nascita che esige di lasciare l'uomo vecchio per ricevere il nuovo. I credenti e la comunità sono generati dalla parola di Dio, illustrata con la bellissima metafora materna del latte desiderato dai bimbi, un'immagine che allude all'avidità con cui il bimbo desidera succhiare il latte dal seno della madre. È l'esperienza dei primi cristiani che bramano ardentemente il " puro latte spirituale " della parola di Dio ( 1 Pt 1,22-25 ). Questa è la " speranza viva " di cui parla l'apostolo. La parola " speranza " non appartiene solo alla lingua cristiana, ma anche al linguaggio umano di ogni tempo. Essa esprime una sete radicata nel cuore di ogni uomo e nelle aspirazioni di ogni popolo. Le forme pratiche con cui ognuno spera ci introducono a capire e a vivere il Vangelo cristiano della speranza, e ci aiutano a sperimentare anche oggi che cosa sia la " speranza viva ". Soprattutto nel tempo della società fluida e ripiegata sull'immediato, l'attesa di futuro esige di correggere le malattie della speranza e di mettere in luce i germogli positivi presenti nelle esperienze della vita attuale. " Io spero in te per noi ": così in modo lapidario G. Marcel sigilla il legame profondo tra la speranza personale e comunitaria radicandole nella loro dimensione trascendente. Per ritrovare la possibilità di sperare nel Dio della vita, occorre che la speranza di ciascuno porti dentro il cuore l'anelito di speranza di tutti. Gli stessi linguaggi della speranza mettono in evidenza la tensione tra la speranza di ogni uomo e donna ( " io spero … " ) e la ricerca dei beni sperati ( " io spero che … " ). Questa tensione deve però prestar credito alla promessa ( " io spero in … " ) che è presente nei beni sperati, ma che supera sempre i beni ottenuti. Occorre ritrovare lo slancio della speranza dentro le esperienze della vita umana, soprattutto all'interno degli ambiti che sono a tema della nostra ricerca e del nostro confronto in questi giorni. Senza questo esercizio non sarà possibile un annuncio persuasivo, spiritualmente e culturalmente responsabile, della " speranza viva " del Risorto. La speranza ha, dunque, la forma della promessa che è prefigurata nelle esperienze della vita umana e sociale: negli affetti e nelle relazioni, nell'azione operosa dell'uomo e nel desiderio di libertà e di festa, nelle esperienze con cui l'esistenza è minacciata e promossa, nei modi della trasmissione della vita e dell'educazione culturale, nelle forme complesse e attraenti della comunicazione massmediale, nel legame sociale di una cittadinanza comune e condivisa. Oggi la speranza è confinata nello spazio intimo di una speranza individuale o nell'ambito di un progressismo sociale, senza che si riescano a vedere gli stretti legami che uniscono le speranze della persona e le attese della società. Soprattutto viene oscurato il carattere etico e religioso della speranza, ben espresso nella formula " io spero in … ". Il bene promesso diventa un appello per la libertà personale e sociale, perché renda possibile un agire grato, una libertà operosa, capace di rinnovare le relazioni personali e di istituire nuovi legami e progetti sociali. E si trasforma in invocazione verso colui che è il garante o, per dirlo con le parole della Lettera di Pietro, l'origine misericordiosa che sostiene la nostra attesa: io spero in te per noi! Alla fine la speranza diventa preghiera che invoca la presenza attuale del Dio della vita e del Signore della storia. L'esperienza liturgica, in particolare quella dell'avvento, appare l'espressione più alta dell'incontro tra la speranza umana e la venuta del Signore risorto nella storia. Ne derivano due atteggiamenti spirituali e pastorali decisivi per la vita della Chiesa e per la testimonianza nel mondo. b) La centralità della pasqua di Gesù nella vita del cristiano e della Chiesa Il primo atteggiamento spirituale e pastorale riguarda la custodia gelosa della " differenza " della speranza cristiana per il credente e la Chiesa. Il tempo trascorso dopo il giubileo e la preparazione al Convegno di Verona hanno concentrato la nostra attenzione sull'importanza che la testimonianza al Signore risorto riveste per la coscienza missionaria della Chiesa. Una Chiesa che pone al centro il primato dell'evangelizzazione deve intendere questa scelta prima come una presenza da cui è continuamente " rigenerata " che come un compito o un mandato per altri. Incontrare il Crocifisso risorto è l'esperienza originaria che nutre il credente e che alimenta le comunità cristiane nel tempo. L'incontro con il centro vivo della fede e della speranza cristiana va custodito gelosamente nella sua differenza specifica, sia nei confronti di ogni lettura dell'identità di Gesù come un semplice guru religioso, sia riguardo a ogni comprensione della Chiesa solo come luogo di risposta al bisogno religioso o al servizio delle povertà. Cristo e la Chiesa sono molto più di questo. Gesù è il Risorto che mantiene i segni della sua passione, non come un incidente superato, ma come una memoria che fonda la " speranza viva ". E la Chiesa è la testimonianza che il gesto pasquale è la fonte della vita in pienezza per ogni uomo e il motore che trasforma la vita sociale. Pertanto, il nostro convenire a Verona deve partire da una sosta al momento centrale della Pasqua, al roveto ardente della croce di Gesù. Occorre chiedersi se nella vita personale e nell'esperienza quotidiana della nostre Chiese, delle comunità cristiane e delle parrocchie italiane, delle associazioni e dei movimenti ecclesiali e in tutte le forme della testimonianza diffusa e associata, brilla in modo luminoso il nostro essere testimoni di Gesù risorto. La centralità del Crocifisso risorto è ciò su cui sta o cade il futuro della Chiesa e la testimonianza nel mondo. Le forme dell'annuncio del Vangelo, l'esperienza della celebrazione cristiana, il modo di essere e fare la Chiesa devono essere il luogo in cui gli uomini e le donne d'oggi sono rigenerati a vita nuova e sono messi in grado di creare legami di fraternità e di nuova presenza nel mondo. Ciò trova spazio in una diffusa scoperta dell'importanza della vita spirituale delle persone. Nel tempo postconciliare è consolante vedere quante persone semplici, nella vita personale, nella ricerca della vocazione, nella famiglia, nella professione laicale, hanno riscoperto la fame della Parola, il bisogno di una liturgia viva, il gesto ripetuto della carità e la passione dell'impegno sociale. Anche i due percorsi più innovativi con cui le Diocesi italiane hanno cercato " di tradurre in italiano il Concilio ", e cioè la riforma liturgica e il rinnovamento catechistico, richiedono una ripresa creativa perché diventino una costante nella vita delle comunità e siano proposti ai giovani come un bene non scontato, ma d'inestimabile forza per lo splendore della vita cristiana. È questo, infatti, il senso del cammino fatto dalla Chiesa italiana in questi primi anni del decennio, dando attuazione pratica al programma Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia: i temi del " primo annuncio ", dell'iniziazione cristiana, della domenica, della parrocchia, sono state tappe di un cammino unitario. Occorre non disperdere la promessa di una Chiesa tutta pasquale, continuamente convocata dall'eucaristia del Signore, incentrata sulla novità del Vangelo, capace di curare legami freschi e nuovi, di generare storie di vita cristiana, di immaginare forme incisive di presenza sociale. c) La generazione dell'" uomo nuovo " come sfida culturale e civile Da qui proviene il secondo atteggiamento pastorale e culturale: la sfida della generazione dell'uomo nuovo. Se siamo generati nella risurrezione di Gesù, il dono più grande che possiamo testimoniare è di essere uomini e donne della risurrezione. Sul finire dell'800 Nietzsche rimproverava ai cristiani di non essere testimoni della novità sconvolgente della vita risorta. E il secolo appena trascorso ne è stato purtroppo la triste conferma. Sulla soglia del nuovo millennio, Papa Benedetto continua a dirci con insistenza che, prima di dire dei no, dobbiamo comunicare e testimoniare al mondo una visione positiva dell'uomo. I padri della Chiesa la chiamavano " divinizzazione ". Con estrema audacia presentavano la vita cristiana come la partecipazione alla vita stessa di Dio, già presente nell'esistenza battesimale e nella comunità eucaristica. Questa visione è stata la sorgente della testimonianza dei martiri, dei monaci e dei missionari - tra cui moltissimi laici - che hanno attraversato e costruito l'Europa del primo millennio. All'inizio del terzo millennio la sfida cruciale consiste nel mettere in luce il tratto " escatologico " della fede cristiana, superandone però una lettura alienante e distorta. Abbiamo bisogno di speranza, soprattutto per quanto riguarda la questione antropologica. Nel tempo della tecnologia e della scienza, nel contesto culturale di una concezione antropologica - come ha detto l'allora Card. Joseph Ratzinger nel suo intervento sull'Europa il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II - guidata dal " saper fare ", più che da un " fare sapiente ", è necessaria una nuova capacità di generare l'" uomo nuovo ". In questi giorni più volte sarà tema di discussione la questione dell'uomo. Attraverso il confronto sui diversi ambiti saremo chiamati a non perdere di vista che si tratta di una visione e di un'esperienza inedita. Bisogna, però, essere coscienti che per i cristiani non si tratta solo di una " questione ", cioè di una visione dell'uomo originale da difendere e da promuovere nel confronto sincero e leale con altre visioni della vita. L'immagine dell'uomo per noi non è solo " un problema ", ma riguarda la vita concreta delle persone che nascono e crescono, della gente che lavora, delle coppie che devono scegliere e metter casa, delle famiglie che generano figli, della sofferenza delle persone, dell'esperienza e della marginalità degli anziani, della vita sociale che manca di regole certe, del senso di solidarietà con cui sognare il domani, del confronto tra le anime culturali dell'Italia capace di dar voce all'autentico spirito degli italiani. Un pensiero antropologico cristiano, cioè una filosofia/pedagogia dell'uomo e una teologia della storia, troverà la sua forza di irradiazione culturale solo se partirà e ritornerà continuamente alle forme pratiche della vita, all'esperienza quotidiana delle persone, all'esistenza degli uomini e delle donne che ci domanderanno se a Verona abbiamo solo discusso su loro o se ci siamo appassionati alla loro vita reale. Per questo, bisogna mostrare il potere trasformante della " speranza viva " che lo Spirito del Risorto ci dona. Occorre saper presentare in modo persuasivo, ma anche anticipare in frammenti di vita personale e sociale che cosa significa essere uomini e donne di speranza. Ciò esige di attestare la potenza di trasfigurazione del Risorto sull'immagine e la concezione della persona, l'inizio e il termine dell'esistenza, la cura delle relazioni quotidiane, la qualità del rapporto sociale, la sollecitudine verso il bisogno, i modi della cittadinanza e della legalità, le figure della convivenza tra le culture e i popoli. La generazione dell'uomo nuovo non riguarda solo il destino futuro della persona e del mondo, ma fa nascere la " nuova creatura " già nel presente. La Lettera a Diogneto, citata al n. 11 della Traccia per Verona, ne presenta un'icona folgorante. I cristiani vivono come " stranieri " e " pellegrini " che hanno la mente lucida e il cuore libero per dare un originale contributo alla costruzione della città e del mondo attuale. 2. " Stringendovi a lui, pietra viva [ … ] anche voi siete edificati come pietre vive " ( 1 Pt 2,4 ) La Chiesa come testimone di speranza La seconda pista ci avvicina più intensamente all'evento del Convegno. Il tema trova qui la sua rappresentazione plastica: la Chiesa da testimonianza nel mondo della speranza da cui è generata. Nel suo cammino postconciliare la Chiesa italiana ha imparato che il primato dell'evangelizzazione si trasmette in una comunità che testimonia. Si può dare speranza ad altri, anzi si può essere testimoni della speranza che viene dal Risorto, soltanto se si è continuamente generati da questa speranza. Ci viene in aiuto la seconda metafora della Prima lettera di Pietro. Si tratta dell'affascinante immagine della costruzione della casa, del tempio. a) La testimonianza come culto spirituale Dopo l'inno di benedizione, l'autore parla della " chiamata alla santità " fondata sulla nuova nascita ( 1 Pt 1,13-25 ) e della " testimonianza e della missione dei credenti " ( 1 Pt 2,1-10 ). Nello stupendo passaggio da Gesù ai credenti, da Cristo alla Chiesa, nasce la speranza che i cristiani devono sempre alimentare la sorgente e scambiarsi tra loro. La lettera accavalla una sequenza impressionante di immagini: alla metafora materna, già ricordata, segue la bellissima metafora della costruzione della casa/tempio, che recupera la storia del popolo santo di Dio, in un crescendo di grande effetto. Mi fermo sulla metafora della casa. Essa raccomanda l'attualità di questo scritto cristiano: nella sola costituzione Lumen gentium, il Concilio menziona la Prima lettera di Pietro ben quattordici volte. È il filo d'oro con cui è intessuto il capitolo sul popolo di Dio. Il passo dove ricorre la seconda immagine è giustamente famoso. Ascoltiamolo: " Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo " ( 1 Pt 2,4-5 ). Pietro esorta a mantenere il rapporto tra la pietra viva che è Gesù e la casa di pietre vive edificata da Dio. La relazione tra Gesù e i credenti, tra Cristo pietra angolare e la sua comunità di " pietre vive " è immaginata come un grande tempio in cui si esercita un sacerdozio santo che offre sacrifici spirituali graditi a Dio. Su Gesù pietra/roccia viva anche noi dobbiamo " lasciarci edificare " ( pikodomeo ) da Dio come " pietre vive " e come " casa spirituale ". L'edificio spirituale è fatto da un tempio di persone. I credenti devono " lasciarsi lavorare " perché diventino pietre sagomate e capaci di costruire un edificio comune. Questo è immaginato come un grande tempio, il cui cemento è il legame dello Spirito ( pneumatikos ). Questa casa/tempio " spirituale " è il luogo dove si esercita il sacerdozio santo. La rinascita pasquale fa della Chiesa un nuovo tempio spirituale per un " sacerdozio santo ( anche 1 Pt 2,9 ). Tutte le metafore del culto antico in modo sorprendente sono trasferite al nuovo tempio e al nuovo sacerdozio che è l'Ecclesia, la santa convocazione dei credenti. Questo " nuovo luogo " rende possibile offrire sacrifici spirituali graditi a Dio ( 1 Pt 2,5 ). Perciò, più avanti, la lettera ricorderà gli elementi salienti della storia salvifica del popolo di Dio: " Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce " ( 1 Pt 2,9 ). La metafora della casa ben costruita illumina la testimonianza dei credenti. L'immagine delle " pietre vive " è un ossimoro ardito: la pietra è un materiale inerte e simbolo di morte ma, radicata sulla pietra viva che è Cristo, s'innalza come un tempio di " pietre vive ". La grande metafora medievale dei costruttori di cattedrali non è stata solo creativa per l'arte e la cultura cristiana, realizzando manufatti che non finiscono ancor oggi di stupire, ma ha dato prova di sé soprattutto nel creare un'immagine della Chiesa corale e sinfonica. È bello ascoltarlo dalla Lettera di Pietro: sulla pietra angolare che è il Risorto, si edifica una casa che è una vocazione e un'opera comune. Le pietre diventano vive se sono sagomate e cementate dall'energia dello Spirito; l'immagine del tempio passa a quella del " popolo sacerdotale "; il sacerdozio santo introduce alla testimonianza spirituale delle opere prodigiose di Dio. " Essere testimoni " ha dunque un orizzonte ecclesiale, un compito sacerdotale, una dinamica spirituale. Questi tratti ci aiutano a immaginare due direttrici pastorali con cui declinare il nostro essere testimoni. b) " Immaginare la Chiesa " come una comunità di popolo La metafora della casa utilizzata dalla lettera apostolica ci fa guardare la Chiesa di domani con il volto della testimonianza. Occorrerà indicare percorsi e strumenti per " immaginare la Chiesa " del terzo millennio. " Immaginare " significa la capacità di sintesi tra sogno futuro e realizzazione presente, tra uno sguardo lungimirante e la pazienza di trasformare i gesti della Chiesa di oggi in prospettiva missionaria. I primi passi della Chiesa italiana in questo inizio del Duemila si sono mossi concordemente in questa direzione. Il " progetto culturale " della Chiesa italiana ha prodotto una forte spinta propulsiva per ripensare i grandi temi con cui la coscienza cristiana sperimenta una distanza dalle forme della vita odierna e cerca di superarla mediante una più marcata attenzione alle forme della comunicazione pubblica. La scelta prioritaria della missionarietà della parrocchia, con l'accento posto sul primo annuncio, l'iniziazione cristiana e la domenica, va collocata dentro l'orizzonte di grande respiro per dare un volto evangelizzatore alla testimonianza ecclesiale. Per fare questo, la Chiesa italiana di questi anni ha deciso di privilegiare e coltivare in modo nuovo e creativo la caratteristica " popolare " del cattolicesimo italiano. Potremmo dire che tutto questo si riassume in un'unica indicazione: la Chiesa si sta prendendo cura della coscienza delle persone, della loro crescita e testimonianza nel mondo. Occorre che questi gesti delle comunità cristiane favoriscano una cura amorevole della qualità della testimonianza cristiana, del valore della radice battesimale, dei modi con cui gli uomini e le donne, le famiglie, i ragazzi, gli adolescenti, i giovani e gli anziani danno futuro alla vita e costruiscono storie di fraternità evangelica. " Popolarità " del cristianesimo non significa la scelta di basso profilo di un " cristianesimo minimo ", ma la sfida che la tradizione tutta italiana di una fede presente sul territorio sia capace di rianimare la vita quotidiana delle persone, di illuminare le diverse stagioni dell'esistenza, di essere significativa negli ambienti del lavoro e del tempo libero, di plasmare le forme culturali della coscienza civile e degli orientamenti ideali del Paese. Popolarità del cristianesimo è allora la scelta della " misura alta della vita cristiana ordinaria " ( Novo millennio ineunte 31 ), che deve servire alla coscienza dei singoli e al ministero pastorale per acquisire una maggiore sapienza evangelica di ciò che è in gioco nelle forme quotidiane dell'esperienza cristiana. Così potrà dare volto a una sapienza cristiana evangelicamente consapevole e culturalmente competente. Perciò la Chiesa italiana ha privilegiato la dimensione di trasmissione ( primo annuncio, iniziazione, volto della comunità credente ) e la dimensione culturale ( progetto culturale, comunicazione massmediale ). In estrema sintesi, bisogna favorire le soglie di accesso alla fede e aprire le finestre sul mondo della vita, perché ci si occupi soprattutto del destino della coscienza cristiana. Credenti maturi e testimoni saranno così il miglior contributo alla causa della civiltà del nostro tempo. Per questo il Convegno ha bisogno di interrogarsi non tanto sul posto dei laici nella Chiesa, ma sui modi con cui tutte le vocazioni, i ministeri e le missioni della Chiesa costruiscono la comunità credente come segno vivo del Vangelo per il mondo. Non si tratta di amministrare una faticosa distribuzione dei compiti o di regolare ruoli che possono diventare conflittuali tra di loro. La relazione tra pastori e laici, tra religiosi e missionari, tra parrocchie e movimenti ecclesiali può aprirsi a una nuova stagione di confronto e di convergenza. Al tempo della puntigliosa ricerca e affermazione della propria identità deve seguire uno sforzo corale dove ciascuno cerca di scorgere sul volto degli altri ciò che manca alla propria vocazione. Non è forse questo il tempo favorevole in cui tutte le anime del cattolicesimo italiano possano parlarsi e confrontarsi, in cui anche le associazioni e i movimenti che li rappresentano possano percepire e vivere la loro esperienza singolare come un'identità aperta ", attraverso la diversità delle componenti del popolo di Dio e delle ricche tradizioni spirituali delle Diocesi italiane? c) La triplice vocazione del laico oggi Nell'ottica della testimonianza si potrà meglio mettere a fuoco la figura del laico. La vocazione laicale raccomanda la cura della formazione, il riconoscimento dei doni di ciascuno, la creazione di nuovi ministeri, la responsabilità che deve essere richiesta e riconosciuta, l'autonomia per l'impegno nel mondo, nella professione, nel terziario, nella polis, nell'agone politico, negli spazi culturali, nella missione ad gentes. Il laico, come testimone, dovrà " immaginare " un triplice spazio di cura di sé, in particolare la sua vocazione formativa, comunionale e secolare. Bisogna ritornare prima di tutto a riscoprire la vocazione formativa delle comunità cristiane. L'accento di novità del Convegno ecclesiale è quello di una formazione che abbia una forte armatura spirituale, che sappia rinnovarsi ai fondamenti della vita battesimale ( la Parola, il sacramento, la comunione ), la radice che alimenta tutte le vocazioni e le missioni nella Chiesa. Dove sono oggi i credenti che abbiano la fierezza di dirsi cristiani, dove il nome cattolico non è un'etichetta per schierarsi, ma l'indicazione di una sorgente a cui si alimenta la " speranza viva "? Bisogna ritornare, nelle Diocesi e nelle parrocchie, a essere gli annunciatori premurosi e tenaci della necessità insopprimibile di formare credenti solidi, storie di vita cristiana che possano dire: " Io ho visto il Signore! ". In secondo luogo, si dovrà coltivare la vocazione comunionale del laico. Mai come oggi, il laico deve partecipare al carattere corale della testimonianza, parlare i molti " linguaggi " della testimonianza. Essere testimoni non è un atto isolato, ma si dà solo nella comunione ecclesiale. Il Nuovo Testamento non conosce dei profeti isolati, semmai pionieri che fanno da battistrada e trascinano dietro di sé la comunità credente. Non si dà testimonianza separata dalla trama di relazioni della comunione ecclesiale. Si profila al nostro orizzonte un tempo dove la Chiesa o sarà la comunità dei molti carismi, servizi e missioni, o non esisterà semplicemente. Dico questo non solo in riferimento al problema urgente e, in alcune regioni d'Italia, drammatico della scarsità del clero e dell'aumento della sua età media. Questa sarebbe ancora una visione funzionale dei carismi e del compito dei laici nella Chiesa e nel mondo. Non bisogna pensare alla testimonianza di tutti come il surrogato a buon prezzo della carenza di ministri del Vangelo. È il Vangelo stesso che esige un annuncio nella corale diversità e complementarità di carismi e missioni. Mi immagino la ricaduta pastorale di questa rinnovata coscienza comunionale della testimonianza. Il laico deve stare attento al pericolo della burocrazia ecclesiastica e, al contrario, deve promuovere la corrente viva della pastorale d'insieme, della lettura dei segni nuovi della vita della Chiesa, dell'animazione di progetti profetici, anche se parziali, della capacità di abitare i linguaggi della cultura, della socialità, della cittadinanza, soprattutto presso le nuove generazioni. Il laico è un uomo della " sinodalità ", capace di " camminare insieme " ( syn-odos ), soprattutto di aprire strade nuove. Penso a una Chiesa abitata da persone che faranno uscire il laicato dall'essere semplice collaboratore dell'apostolato gerarchico per diventare corresponsabile di una comune passione evangelica. E, infine, è urgente riattivare il genio cristiano del laico in Italia. Potremmo dire che il genio cristiano del laico si esprime nell'opera di uomini e donne che sono uno spazio personale e associato di discernimento vivo del Vangelo, dove avviene quel " meraviglioso scambio " tra le esperienze della vita e le esigenze del Vangelo. Questi uomini e donne possono assumere nella comunità credente la figura del " cristiano vigilante ", della sentinella del mattino, quella che prevede il sole luminoso attraverso i bagliori dell'aurora. Si tratta di un credente che unifica in sé le forme del cristianesimo incarnato e, insieme, escatologico, capace di mostrare l'altra faccia del Vangelo che non è ancora realizzata nel frammento presente. È un credente che non abbandona la terra per guardare le cose di lassù, ma vede quelle di lassù abitando la terra. Che cosa significhi questo sotto il profilo di un cammino pastorale è insieme facile e difficile a dirsi. Ci vorrebbe la passione di Paolo VI per far sognare queste donne e questi uomini come costruttori della " civiltà dell'amore ", ci vorrebbe lo slancio di Giovanni Paolo II per parlarci di quell'intellectus spei che è il racconto della speranza. Questa è un'operazione spirituale, pastorale e culturale, perché oggi non è più possibile pensare e praticare un rinnovamento dei modi della vita cristiana nelle Chiese locali senza i laici, poiché di essi c'è un urgente bisogno. Questi tre aspetti - spirituale, pastorale, culturale - sono fortemente connessi e possono trovare negli ambiti disegnati per il Convegno un terreno di nuova elaborazione. 3. " Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi " ( 1 Pt 3,15 ) L'esercizio della speranza nel mondo La terza pista ci sprona infine a essere testimoni di speranza nel mondo. La testimonianza della Chiesa e dei credenti si attua mediante la " conversione missionaria ". Tutto questo indica il cambiamento di rotta della Chiesa italiana, cioè lo strumento teologico e culturale con cui nella Chiesa si elaborano - con uno stile di comunione - nuovi linguaggi, nuovi strumenti e nuove decisioni per dire l'evangelo nel mondo che cambia. Infatti, da un lato, il credente/testimone e la Chiesa/testimonianza potranno avventurarsi a " esercitare " la speranza negli spazi della vita solo rimanendo presso il Crocifisso risorto e abitando una dimora ecclesiale; dall'altro lato, è molto importante intendere l'esercizio della speranza non semplicemente come un " mettere in pratica " alcuni valori presupposti e da realizzare nell'impegno nel mondo. La testimonianza non ha prima di tutto la forma dell'impegno, ma quella di un " esercizio del cristianesimo ", con cui si entra negli spazi della vita umana, messi a tema per il Convegno di Verona ( la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità della vita umana, i modi della trasmissione e della comunicazione, la cittadinanza ). Ci viene in soccorso la terza immagine contenuta nella Prima lettera di Pietro, la metafora del dibattito ( confronto ) pubblico. a) " Rendere ragione " come forma della testimonianza L'immagine si trova in un brano ( 1 Pt 3,13-17 ) in cui l'apostolo prepara i credenti ad affrontare le sofferenze incombenti, con l'esempio incoraggiante di Cristo. La domanda iniziale è di grande attualità: e chi è colui che potrà farvi del male? È il momento critico della vita: l'esperienza del confronto, della prova e del dolore sembra soffocare la speranza. Talvolta il male appare accovacciato alla porta di casa. Pietro proclama ai suoi destinatari, anzitutto, la beatitudine di coloro che soffrono per la giustizia, richiamando una delle più caratteristiche beatitudini di Gesù ( Mt 5,10 ). La beatitudine trova riscontro nella vita delle comunità che soffrono per le persecuzioni o, forse più semplicemente, per la loro situazione di marginalità e di minoranza. A questo punto ricorre la metafora del confronto pubblico, a cui i credenti sono chiamati nelle diverse situazioni della testimonianza. Pietro, infatti, esorta: " Siate sempre pronti alla difesa di fronte a chiunque vi chieda ragione della speranza che è dentro di voi ". L'espressione, giustamente famosa, è il motto della Prima lettera di Pietro. Rendere conto, difesa, apologiA è il termine tecnico del dibattito pubblico, della controversia con i giudei o di un processo dove c'è un interrogatorio e un discorso di difesa. Questa " situazione di confronto " diventa un'occasione per la testimonianza cristiana che risponde a chiunque chieda il logos ( la ragione, il motivo, la giustificazione ) della speranza che è in noi. Ecco il messaggio forte della lettera: al centro della nostra vita c'è una speranza a caro prezzo, che è Gesù sofferente divenuto il Risorto! È la " speranza vivente ", cuore dell'esistenza cristiana ( in voi ) e della comunità credente ( fra voi ). È difficile identificare nella lettera la situazione di sofferenza e di prova: forse non si tratta proprio di una persecuzione, ma di una condizione di marginalità e quasi di disprezzo per cui i cristiani erano considerati nella società del tempo un gruppo poco influente, senza potere, deriso e dileggiato. " Rendere conto " della speranza cristiana in un tempo di prova espone al pericolo del vittimismo. Per questo l'apologià della speranza va fatta con dolcezza ( di fronte a chi chiede ), con rispetto ( timore, davanti a Dio ), con retta coscienza ( riguardo a se stessi ). Il cristiano rende ragione nella prova in modo disarmato e disarmante, anche di fronte alle calunnie per il suo modo di essere e di agire nello stile di Cristo. La situazione del " confronto pubblico " illumina tutte le occasioni in cui il cristiano deve " rendere conto " della speranza che è in lui: l'annuncio pasquale, la controversia con gli avversarI, la missione ai pagani. E oggi si deve aggiungere: il dibattito culturale e il confronto multireligioso. Tutto ciò pone la testimonianza su un terreno di fragilità e la espone al rischio di scadere nella falsa testimonianza. Per questo Pietro raccomanda ai credenti dolcezza e coraggio, mitezza nel porgere agli altri e timore di tradire la verità di Dio. Ciò si prova nella ( retta ) coscienza, con cui il testimone difende la sua causa al prezzo del suo stesso scomparire, fino al sacrificio della vita. Non perché la sua attestazione sia insignificante, ma perché la sua dedizione personale alla verità deve favorire che si affermi anzitutto la bontà e la giustizia della cosa testimoniata: la speranza che è in noi, di cui non siamo padroni, ma che ci avvolge e ci supera. E per questo può e deve essere donata a tutti. Il carattere contrastato della testimonianza mette m luce che il cristiano può dire Cristo, in quanto speranza del mondo, solo nella forma di un " esercizio del cristianesimo ". Con questa espressione entriamo nell'Arena del confronto pubblico. La speranza cristiana può stabilire, così, un fecondo contatto con gli spazi della vita umana. Da qui discendono le ultime due istanze pastorali che forniscono alcune indicazioni concrete per questi giorni. b) iL cristianesimo come " esercizio " negli spazi della vita L'espressione " esercizio del cristianesimo " ha una lunga tradizione spirituale ed ecclesiale. Essa allude al fatto che la sequela del discepolo è un " tirocinio ", il rischio con cui la libertà del credente sottopone la speranza cristiana alla prova del tempo, anzi della propria epoca. Per questo gli " esercizi spirituali " sono un'operazione guidata dallo Spirito, perché egli ci fa essere " contemporanei " di Gesù, senza sottrarci alle dinamiche e alle attese del nostro tempo. Questa preziosa tradizione cristiana getta un cono di luce anche sulla testimonianza dei credenti nel mondo: essi sono memoria creativa di Gesù. La presenza del Risorto nella loro vicenda diventa un discernimento " spirituale ", proprio perché " comunitario " e " storico ". La testimonianza come " esercizio " significa che la vita cristiana è un agire che sa assumere le forme della vita umana come un alfabeto in cui dirsi e in cui realizzarsi. Sarebbe un'interpretazione fuorviante immaginare che il " mondo ", presente nel motto di Verona, sia solo lo scenario passivo di un'azione di salvezza che il credente opera in favore d'altri. Il " mondo ", quando si riferisce ai modi con cui l'uomo d'oggi desidera, soffre, lotta, sogna, ama e spera, è l'alfabeto dell'annuncio del vangelo. Allo stesso modo in cui le parabole hanno offerto una similitudine del regno di Dio a partire dalle forme dell'umana esperienza, Gesù ha abitato lo scenario di Nazaret e della Galilea per trenta lunghissimi anni, immergendosi nei linguaggi umani, perché in soli trE anni quelle esperienze e quei linguaggi potessero quasi lievitare, anzi esplodere per dire l'evangelo di Dio. In fondo si tratta di recuperare in modo corretto il rapporto tra creazione e salvezza, tra mondo e Chiesa, non solo come tema teorico, ma come " incontro vitale " tra l'esistenza umana e la sapienza di Dio. Questo incontro è pertanto un esercizio, un mettersi in gioco tra il testimone e il destinatario, perché diventi a sua volta testimone. Il cristianesimo come " esercizio " significa che l'agire del credente non è tanto un " mettere in pratica " ciò che è già saputo nel limbo di una presunta fede disincarnata, ma avviene nello scambio reale delle forme pratiche della vita con il lievito del Vangelo di Gesù. Perciò la testimonianza si esprime in un racconto, cioè nella narrazione di un evento che viene trasmesso ad altri attraverso la mediazione del testimone che chiama il destinatario a consegnarsi non al testimone, ma alla verità del Dio di Gesù. Non è un caso che il Vangelo di Gesù abbia assunto la forma di un racconto e anche la stessa professione di fede ( kerygma ) deve sempre mediarsi in un racconto se non vuole decadere in dottrina ideologica. In questi giorni saremo chiamati più volte a un " esercizio di discernimento ". Lo faremo, sapendo che è un'operazione complessa e comunitaria, dove sono in gioco molteplici fattori e soggetti. I fattori sono di tipo spirituale, ecclesiale e culturale, e ci sottraggono alla duplice illusione di dare risposte semplificanti o di perderci in interminabili analisi. La pluralità dei soggetti richiede un ascolto prolungato della ricchezza delle persone e delle esperienze, perché si realizzi un vero discernimento comune e non un suo simulacro mascherato. Gli uomini e le donne che hanno saputo leggere e amare il loro tempo sono state persone permeabili all'azione dello Spirito, che non soffia mai da una parte sola, ma risuona dentro la grande sinfonia della communio sanctorum. La testimonianza è allora un modo di leggere e agire nel proprio tempo alla luce della speranza. Essa deve evitare di elaborare teorie o modelli senza che diventino scelte storicamente possibili e praticabili: " discernere " significa capire e scegliere, ma la decisione non segue a un comprendere già chiaro e distinto, bensì esige un sapere pratico, un incremento di sapienza cristiana proprio sugli ambiti della vita personale e sociale su cui saremo chiamati a confrontarci. In questo contesto la libertà dei credenti può diventare il crocevia di incontri, e talvolta anche di discernimenti critici, che portano a comunicare la speranza cristiana dentro la figura incerta e, nondimeno, aperta del mondo attuale. La riflessione di questi anni del progetto culturale e l'attenzione alle forme della comunicazione di massa hanno predisposto molti strumenti preparatori ed efficaci per l'" esercizio " che verrà fatto qui a Verona. Anche il lavoro delle Diocesi italiane sul tema della trasmissione e dell'educazione, gli interventi e le esperienze sui temi del volontariato, della carità, della legalità, della missionarietà, dell'attenzione multiculturale, potranno diventare terreno fecondo per rilanciare l'azione dei cristiani nel mondo. Questo è l'obiettivo concreto del Convegno ecclesiale. c) Interdipendenza verticale e orizzontale degli ambiti Un'ultima indicazione pastorale dev'essere proposta. Penso corrisponda al sentire di coloro che si sono appassionati alla preparazione di questo evento. Uno degli aspetti più apprezzati della Traccia e degli eventi celebrati quest'anno in varie parti del paese è stato certamente l'inusuale formulazione dei cinque ambiti a tema qui a Verona. Con ciò si è voluto rompere la consueta articolazione dei momenti con cui si è soliti immaginare la missione della Chiesa nel mondo. La rappresentazione diffusa delle funzioni della pastorale ( annuncio, celebrazione, comunione, carità, missione, animazione culturale, presenza sociale, lavoro, turismo, migrantes ecc. ) ha sovente preso nella pratica un andamento molto settoriale e autoreferenziale. I settori della vita e dell'azione pastorale della Chiesa sono così diventati motivo per documenti e interventi talvolta senza ascolto reciproco e interdipendenza pratica. Il danno prevedibile è di perdere non solo l'unità della vita cristiana e della missione ecclesiale, ma di non riuscire a servire alla vita quotidiana della gente. Occorrerà, dunque, un atteggiamento coraggioso e lungimirante nell'affrontare i cinque ambiti. Il nostro compito non è quello di specialisti di un convengo teologico o culturale, né quello operativo di un parlamento che fa leggi e prende decisioni pratiche. Il nostro impegno è quello di acquisire e scambiare sapienza pastorale, mettendo in contatto le variegatissime esperienze delle Chiese d'Italia, per far circolare la vita tra le diverse parti del corpo ecclesiale. Pertanto, il confronto che avverrà dentro gli ambiti dovrà preoccuparsi di mantenere una sorta di interdipendenza orizzontale e verticale. Orizzontale, perché la discussione dovrà mostrare l'intreccio del nostro tema con le altre sfere di esperienza della vita umana e cristiana. Verticale, perché dovrà sempre mettere il tema sotto la luce luminosa della speranza cristiana che viene dall'incontro con il Risorto. Ciò che ci interessa sopra ogni cosa è servire l'esistenza di fede e aprire nuovi orizzonti nell'azione della Chiesa e nel servizio al mondo. Per questo anche le necessario analisi e le opportune proposte devono mantenere gli " occhi semplici " dell'unità della vita personale e del patto sociale. A ben vedere, già questo è un esercizio di speranza di fronte all'esperienza frammentata e fluida del vivere attuale. La speranza cristiana non perde la fiducia che anche le forme più complesse, talvolta inutilmente complicate, di analisi antropologica e sociale devono riferirsi all'unità della coscienza pratica. È forse proprio l'assenza del riferimento alla coscienza di sé sempre implicata in ogni agire e sperare umano che provoca la debolezza di identità personale e di rilevanza sociale nell'attuale società complessa. Questa è però la certezza che proviene dalla risurrezione di Gesù. Essa ha seminato nel grembo della vita e nel solco della storia una promessa che alimenta e rigenera sempre da capo una speranza capace di edificare il sogno di una dedizione personale e di un'operosità sociale. Soltanto così si può " rendere ragione " della speranza che è in noi anche nel confronto e talvolta nel contrasto con il mondo moderno. Le trE metafore che ci hanno guidato nel nostro itinerario di introduzione al Convegno, le immagini della generazione, della casa e del confronto pubblico, si danno la mano e disegnano davanti ai nostri occhi il testimone di Gesù risorto, speranza del mondo. Essere testimoni così è oggi possibile all'interno di una misericordia che ci sorprende e di una grazia che ci alimenta con il soffio del suo Spirito. La speranza è certamente oggi un bene fragile e arduo. I testimoni della fede, i santi cristiani, sono stati uomini e donne di speranza, perché si sono lasciati lievitare dal soffio dello Spirito. Lo stesso Marcel, menzionato all'inizio, ce lo ricorda con parole profetiche: Bisogna dire che sperare, così come possiamo presentirlo, è vivere in speranza, al posto di concentrare la nostra attenzione ansiosa sui pochi spiccioli messi in fila davanti a noi, su cui febbrilmente, senza posa, facciamo e rifacciamo il conto, morsi dalla paura di trovarcene frustrati e sguarniti. Più noi ci renderemo tributari dell'avere, più diverremo preda della corrosiva ansietà che ne consegue, tanto più tenderemo a perdere, non dico solamente l'attitudine alla speranza, ma alla stessa fiducia, per quanto indistinta, della sua realtà possibile. Senza dubbio in questo senso è vero che solo degli esseri interamente liberi dalle pastoie del possesso sotto tutte le forme sono in grado di conoscere la divina leggerezza della vita in speranza. La " divina leggerezza " della speranza sia la compagna di viaggio di questi giorni. E che la sua vela sia sospinta dal soffio dello Spirito, il dolce Consolatore che ci dona la vita del Risorto. L'amore genera la speranza. La dimensione spirituale della testimonianza Relazione della dott.ssa Paola Bignardi 17 ottobre 2006 Introduzione Ci sono molti modi di parlare di spiritualità. Vorrei evitare quello che tende allo spiritualismo, quasi rifugio in un mondo dello spirito in cui tutto risulta perfetto e rarefatto. In questa riflessione, il termine spiritualità vuole conservare il suo originale carattere di vita secondo lo Spirito e il radicamento nell'esistenza quotidiana, con le sue fatiche e le sue tensioni, con i suoi slanci e le sue asprezze, riflettendo così lo spessore di cammini spirituali - personali ed ecclesiali - densi di vita e di mistero. Mi pare che in questo modo sia possibile evitare quell'estenuarsi dei linguaggi della vita cristiana che oggi risultano quasi consunti da un uso troppo generico, o troppo retorico. L'esuberanza del lessico dice quanto sia difficile oggi pronunciare parole spirituali vere, che non abbiano paura né delle incertezze della vita né del riferimento al mistero. Pudore e sobrietà della parola potranno restituire ai nostri linguaggi la possibilità di comunicare l'intensa bellezza di una vita vissuta nella prospettiva del Vangelo. Un'identità purificata Ciò che colpisce nella Prima lettera di Pietro, e che forse non sempre viene posto nell'adeguato risalto, è l'intensa sofferenza che l'autore avverte dentro la comunità cristiana; intrecciata con una più alta speranza e l'esortazione a un amore più forte, la sofferenza della comunità è un dato di fatto che l'apostolo assume. Una riflessione vera e onesta sulla speranza anche per noi non può non prendere le mosse dalla realtà del nostro essere cristiani. I rapidi e accelerati cambiamenti che caratterizzano il mondo in cui viviamo e le ripercussioni che essi hanno sul modo di pensare la vita, di concepire la persona e la dimensione religiosa di essa, sono vissuti con crescente consapevolezza dalle comunità cristiane. Nel senso di disagio che molti cristiani sperimentano è chiara la coscienza delle sfide da affrontare per essere Chiesa oggi: l'incontro con i fedeli di altre religioni; il confronto con un mondo laico che tende a relegare la fede nello spazio delle questioni private; la tentazione di chiudere il cristianesimo dentro una cultura; la fatica di comunicare con persone apparentemente indifferenti a ogni dimensione di profondità, che nei momenti duri della vita mostrano la disperata sofferenza di un'esistenza chiusa negli orizzonti terreni. Merita un cenno in più la percezione, in molte persone, della " fatica di vivere ", la difficoltà di stare in relazione con un contesto frammentato e disperso, la sofferenza per la perdita di una possibile unità interiore: esperienze che rischiano di renderci stranieri a noi stessi. Questioni nuove e difficili, che chiedono una conversione fatta anche di apertura alla novità, capace del coraggio di una nuova elaborazione del profilo di un cristianesimo per questo tempo. Non basta una fede più generosa; occorre oggi una fede disposta ad abbandonarsi all'azione dello Spirito e a spendere il talento di un'intelligenza spirituale creativa. Si intuisce l'esigenza di tutto questo, ed essa mette a nudo le debolezze del nostro essere cristiani: la gracilità della fede dei credenti; la difficoltà delle comunità di mostrarsi come case accoglienti di tutti; la stanchezza di un modello pastorale articolato e complesso, ma non sempre in grado di interpretare la vita e di accompagnarla in percorsi di unità; di restare fedele a un cattolicesimo popolare che ha nella parrocchia la sua struttura più forte. La difficoltà a capire un mondo che cambia e la durezza del confronto con esso ha generato in molte comunità e in molti cristiani, soprattutto coloro che sono più impegnati nell'attività pastorale, frustrazione per il senso di inefficacia della propria azione, stanchezza, per un'attività che sfocia sempre più spesso nell'attivismo, esito di una generosità un po' affannata e un po' impaurita, chiusura delle comunità su se stesse, troppo concentrate sulle proprie attività, progetti, iniziative. Nell'odierno contesto socioculturale, i cristiani si sentono estraniati, resi estranei a un mondo con cui forse si sono troppo identificati e che non c'è più, ma anche provocati da questa situazione a riscoprire la loro natura di stranieri da questo mondo, perché stranieri a ogni mondo. C'è un percorso di grazia nella realtà attuale: quello che ci porta a riscoprire il paradosso del nostro essere, come cristiani, stranieri pur dentro un mondo in cui siamo cittadini, pur accanto a donne e uomini di cui ci sentiamo fratelli. Il dono di questo tempo è per noi quello di assumere la percezione dell'essere stranieri non come esito di un'espropriazione di identità, ma come frutto di un'identità riscoperta in forma più pura e più profondamente nostra: quella pasquale dell'amore che si dona, assunta e vissuta come fonte di pienezza per tutti. Una vita che profuma di Vangelo Alla testimonianza dei singoli credenti e delle comunità si chiede oggi di far emergere il profilo di un cristianesimo per questo tempo, di elaborare modelli di vita credente per l'esistenza ordinaria e quotidiana. I tempi difficili sono quelli in cui occorre radicarsi nell'essenziale, mettendo più in profondità le radici. La Prima lettera di Pietro ci invita a ritrovare l'essenziale nel Signore Gesù, la pietra viva che può rendere stabile e forte la nostra stessa esistenza. L'essenziale è lui: il suo mistero in cui immergerci; la sua parola di cui alimentare un pensiero che abbia la forza della Verità; la sua pasqua, in cui radicare un modo di amare libero e capace di totale dedizione. Così, con il cuore in lui, rigeneriamo la nostra volontà di amare questo mondo; con lo sguardo fisso in lui, alleniamo lo sguardo a guardare la vita come la vede lui. Vivendo come lui, ricominciamo ogni giorno il cammino, rimessi in piedi dalla misericordia che ama senza merito, e diffondiamo nel mondo la speranza che nasce dall'essere amati e che da speranza amando; la speranza che in noi nasce dalla certezza della risurrezione; dalla promessa che noi e ogni cosa siamo incamminati verso l'Eterno. Stretti a lui, anche noi diventiamo pietre vive, uomini e donne che testimoniano la Verità in cui credono con convinzione e con mitezza, la cui discrezione è sinonimo di ascolto e rispetto e non di timore. Persone capaci di dialogo con tutti e che esprimono la loro fede nell'amore. Dio è Amore. Questo ci ha ricordato Papa Benedetto con la sua prima enciclica. Dunque Dio ci ama. Dio ama ogni uomo e il mondo per il quale ha dato il Figlio. Vivere da cristiani è vivere come il Figlio dato per noi: lo stesso amore totale, che non fa preferenza di persone; quell'amore che nel giorno per giorno diventa parola di fiducia, gesto di misericordia, atteggiamento di attenzione e di gratuità, impegno di condivisione dell'inquietudine e della ricerca di senso e di libertà di tanti fratelli di oggi; quell'amore che ci apre l'accesso alla vita definitiva oltre la morte. Il nostro essere stranieri ci fa persone dallo sguardo lungo, sempre gettato lontano; siamo persone che non si lasciano rinchiudere negli orizzonti del tempo e dunque sanno vedere anche là dove altri non vedono. Vedono il disegno di armonia con cui il mondo e le cose sono usciti dalle mani di Dio e sono rigenerati nella pasqua di Cristo. È la testimonianza di Giorgio La Pira, che ha saputo " vedere " la pace oltre il conflitto e operare per essa; o quella di madre Teresa, che ha saputo vedere la dignità di figli di Dio dentro un'umanità devastata dal dolore e dalla miseria. Lo sguardo penetrante dei profeti ha saputo vedere ciò che altri non vedevano; la loro libertà ha dato loro il coraggio di spendersi perché quel disegno si realizzasse. La loro profezia, come quella di tutti i testimoni che ricordiamo anche in questo Convegno, è quella della santità, unica misura secondo cui vale la pena essere cristiani, cammino di coloro che vivono abbandonati al mistero di Dio e con lo sguardo rivolto a lui. Stretta al Signore Gesù, la vita di ciascuno di noi acquista il profumo del Vangelo e parla. Racconta la bellezza di un'umanità piena e affascinante, che sa reinterpretare le dimensioni fondamentali dell'esistenza alla luce della fede. E così il profumo del Vangelo, che è sovrabbondanza di amore, come nel gesto della donna di Betania, raggiunge i luoghi dell'esistenza quotidiana, al di fuori dei mondi ecclesiastici, nella casa, nella piazza, nella professione, nella scuola, nel posto di lavoro, il fascino, talvolta carico di dramma ma sempre grande, della vita vissuta con il Signore. Eppure questo percorso non è un idillio, non solo perché la strada della libertà da noi stessi è aspra, ma anche perché questo stile di vita ci rende stranieri a un mondo prigioniero di logiche di morte. È fin dall'inizio l'esperienza dei cristiani che hanno fatto sul serio e che hanno conosciuto l'ultima delle beatitudini: quella che scaturisce, come inevitabile conseguenza, nella vita di coloro che respingono le logiche mondane e si fanno estranei alla lusinga del danaro, all'attrattiva del successo, alla sirena del potere e dell'immagine e si collocano nella folla degli umili, dei miti, dei puri di cuore. Ci sono oggi Chiese che vivono in maniera particolare la loro testimonianza in un contesto di persecuzione e di lotta: in Sudan, in Palestina, in Indonesia, in Cina un numero crescente di cristiani testimonia anche a prezzo della vita che l'amore pasquale è più forte della morte e non si lascia fermare da essa. E, quando la violenza si scatena contro di loro, le loro parole di perdono, come quelle di suor Leonella in Somalia, sono l'esempio di come il vivere con lo sguardo sull'eterno renda capaci di affrontare anche la morte pronunciando parole di vita. Chiesa della speranza Se il nostro tempo chiede un nuovo profilo di cristianesimo, chiede anche un profilo nuovo di comunità cristiana. Anche le comunità in cui viviamo e che qui rappresentiamo hanno bisogno di raccogliersi sull'essenziale, riesprimendone il cuore, cioè l'amore pasquale di Cristo. Pur riconoscendo le buone e molte ( forse troppe ) cose che oggi le nostre comunità stanno facendo, credo sia necessario rendere più chiaro l'essenziale di cui vive la Chiesa e proporre percorsi concreti perché questo cuore divenga l'esperienza cardine di ogni comunità: - la parola di Dio, rivelazione dell'amore, dono per conoscere il cuore di Dio, per guardare l'esistenza umana dal suo punto di vista; esperienza che pone la coscienza in ascolto, che dispone a un'obbedienza che dà forma all'esistenza e fa del volto di ciascuno di noi un riflesso in cui a poco a poco prende forma il volto del Signore Gesù; luce per i passi della vita, o mistero da custodire nei giorni dell'oscurità e del silenzio. Le nostre comunità sono chiamate a essere con più decisione scuole in cui imparare a mettersi in ascolto, in cui conservare la carica " scandalosa " e paradossale della Parola, in cui assaporare il gusto e la libertà del vivere in ascolto di Dio; - la liturgia, celebrazione dell'amore, da vivere nella festa e nello splendore, come si addice alla lode dell'uomo a Dio, e nella sobrietà che richiede il dialogo della creatura con lui, da cui riceve in dono l'amore che celebra. Ritualismo e devozioni, che sono tornate ad affermarsi nelle nostre comunità, tendono a rinchiudere Dio nei confini della nostra umanità e del nostro bisogno; la liturgia invece è preghiera che testimonia la fede in un Dio che, mentre si fa vicino, non si mostra che di spalle e così ci attrae a sé, nel suo inafferrabile mistero; - la comunione, visibilità dell'amore ricevuto da Dio come talento. Trafficato nelle forme della fraternità, del servizio, della solidarietà, della carità operosa, spinge la comunità a vivere nella totalità di un amore che ha il timbro di quello pasquale; a realizzare e mostrare che la Chiesa è chiamata a essere segno " dell'unità per tutto il genere umano " ( Lumen gentium 1 ), capofila di un'umanità tutta incamminata verso Dio. Vivere Parola, liturgia e comunione in questo modo proietta la comunità cristiana oltre se stessa. Così essa vive la sua speranza. Ma sappiamo che la speranza è la virtù più difficile. Il mondo accetta la nostra fede e chiede la nostra carità. Ma la speranza di un oltre è troppo. Come Paolo ad Atene, siamo derisi non per la nostra fede o carità, ma per la nostra speranza. E noi rischiamo di vergognarci di essa facendo perdere alla nostra testimonianza il carattere profetico che dovrebbe appartenerle. Una Chiesa che spera è libera, aperta, coraggiosa, capace di affrontare ogni difficoltà: non senza sofferenza, ma con l'audacia che le viene dal suo sguardo oltre il tempo. La Chiesa della speranza ha la chiave per entrare in comunicazione con le persone di questo tempo: è quella dell'amore, con le sue infinite declinazioni esistenziali, come accoglienza, compassione, misericordia, consolazione. Chi si sente amato è chiamato fuori dal suo isolamento, torna ad avere fiducia, a porsi domande, a guardare oltre. E può credere che c'è una risurrezione dalla morte, se già oggi può incontrarne i segni incerti in questa vita. La Chiesa della speranza sa essere luce sul monte, offrendo un giudizio credente su questo tempo e scoprendone le ambiguità e i limiti, insieme alle risorse e ai semi di bene. Nessun arroccamento sulla difensiva, ma una ricerca libera e senza pregiudizi dei segni dei tempi, del modo in cui Dio parla oggi al suo popolo ed è vivo nella nostra storia. La Chiesa della speranza vuole far giungere a tutti la gioia del Vangelo; per questo cerca di conservare il suo carattere popolare e universale, senza lasciarsi irretire dalla tentazione di identificarsi con una cultura, accogliendo la sfida epocale del dialogo tra le religioni e facendosene umile protagonista. Laici cristiani, per una vita risorta A metà del cammino decennale della Chiesa italiana che ci vede impegnati a " comunicare il Vangelo in un mondo che cambia ", ci risulta sempre più chiaro che l'evangelizzazione è portare il Vangelo nei luoghi della vita, soprattutto in quelli che oggi più difficilmente sono raggiunti dall'azione della comunità ecclesiale; per far questo, la Chiesa ha bisogno dei laici ( la relazione di don Franco Brambilla ). Per far sentire il profumo del Vangelo, occorre essere vicini alle persone. Solo così si può mostrare la bellezza di una vita vissuta da cristiani e si può collocare la parola evangelizzatrice nella conversazione quotidiana, nei dialoghi brevi, quando il Vangelo può diventare luce sulle gioie e le speranze, le fatiche e le sofferenze di ogni giorno. Il Concilio e il magistero successivo a esso ci hanno insegnato il valore della vocazione dei laici per la missione della Chiesa e ci hanno consentito di sperimentare la bellezza di una vita da laici che sa resistere sia alla tentazione di esaurirsi nel servizio pastorale sia a quella di immergersi totalmente nelle realtà secolari, senza riferimenti alla comunità. La vocazione laicale, come ogni vocazione, nella comunità cristiana è segno evidente e chiaro di una dimensione che appartiene a tutti e che tuttavia qualcuno interpreta in modo più esplicito di altri: la dimensione della condivisione della vita quotidiana comune, per mostrare a tutti che Dio ama la vita. Tuttavia mi pare che oggi la vocazione laicale, nel modo in cui è interpretata dai laici e accolta nelle comunità, mostri molti segni di debolezza. L'attuale frammentazione del laicato in una molteplicità di esperienze aggregative rende inoltre difficile far emergere la comune vocazione e debole la voce dei laici nel mondo e nella comunità, facendo più povera la Chiesa stessa dell'esperienza di chi la immerga nella polvere della storia, le apra con fiducia le porte del dialogo con il mondo, la vita, la realtà circostante, il territorio … Mi pare oggi necessario che le diverse espressioni del laicato ritrovino il senso comune della loro vocazione, attraverso percorsi di incontro, di comunione, di reciprocità. La vita dei fedeli laici si svolge nel mondo; il loro cammino spirituale è tutt'uno con la loro responsabilità di trasformare la vita, stando dentro le sue ricchezze e le sue contraddizioni. Abbandonarsi a Dio dentro e attraverso la vita quotidiana è una straordinaria avventura dello spirito: quella che permette di " toccare con mano " il mistero, non solo quello di Dio, ma anche quello della vita. È mistero la vita che si accende in una donna, non meno che l'amore umano; è mistero il dolore che ci piega sotto il peso delle domande, o il lavoro con cui umilmente contribuiamo a mandare avanti il mondo; è mistero la morte come sigillo della nostra povertà ma anche come porta che ci apre all'abbraccio definitivo con il Padre. Vivendo la vita di tutti, intravediamo di essa ciò che molti non intuiscono: non è chiusa su se stessa. L'esistenza di ogni giorno conosce la contemplazione come l'ordinaria capacità di stare di fronte al mistero nelle molteplici forme in cui esso si manifesta e negli infiniti luoghi che esso abita. Alla comunità cristiana i laici oggi chiedono che questa loro esperienza spirituale sia non solo riconosciuta, ma valorizzata come dono che è di tutta la comunità. Alla comunità chiediamo che dia valore alla nostra vocazione non solo quando ci impegniamo come catechisti, o animatori, o operatori della pastorale, ma che riconosca innanzitutto il valore della nostra fede spesa nelle situazioni di ogni giorno, quando solo Dio è testimone della nostra azione per costruire il Regno e quando il nostro impegnarci non contribuisce direttamente a sostenere le iniziative pastorali della comunità. Vorremmo che questa nostra esperienza potesse trovare voce e che nelle nostre parrocchie ci fosse spazio per i racconti della missione nella vita quotidiana, sull'esempio di ciò che facevano i discepoli che, tornando dalla missione cui erano stati inviati, raccontavano ciò che avevano vissuto. Se la vocazione dei laici prenderà valore nel futuro delle nostre comunità, ciò accadrà quando esse avranno affrontato la questione della rilevanza ecclesiale dell'azione secolare dei laici cristiani. Mi pare che sia un tema ancora da esplorare in larga parte; tuttavia due percorsi sono chiari già oggi: - quello della corresponsabilità e del dialogo intraecclesiale. I laici sentono il bisogno di prendere la parola nella comunità, e vorrebbero poterlo fare non in luoghi appartati, riservati ai laici, ma in luoghi ecclesiali, di tutti, contribuendo con la loro esperienza di Dio nel mondo a delineare il volto di comunità aperte alla vita. Il cammino compiuto dagli anni del Concilio a oggi, se ha potuto far crescere questa esigenza e questo desiderio, significa che ha fatto crescere una maturità, un senso di appartenenza e di partecipazione che chiede di potersi esprimere nei luoghi della corresponsabilità ecclesiale in forme vive, non rituali e non formali. Così sarà possibile contribuire a far crescere, più intensa e feconda, la relazione della Chiesa con il mondo di oggi; - quello di cammini formativi non strumentali o finalizzati a cose da fare, ma radicati nella forza della parola di Dio e del magistero della Chiesa; capaci di esplorare nel dialogo e in una comunicazione circolare le strade appassionanti e mai scontate del rapporto tra la vita e la fede; aperti a diventare occasioni di discernimento, in cui insieme si cerca di capire come essere fedeli contemporaneamente al Vangelo e alla concretezza dell'esistenza quotidiana con le sue responsabilità; in cui insieme si affrontano i temi dell'annuncio del Vangelo e della testimonianza nel mondo, veri problemi di cui nessuno ha la soluzione e che necessitano di dialogo, di confronto, di ricerca ( Lumen gentìum 37 ). Così la formazione potrà essere momento di sintesi fra l'impegno pastorale e il discernimento culturale, evitando di proporsi solo come catechesi dottrinale e astratta. L'educazione cui la Chiesa italiana ha scelto di dedicarsi con nuovo impegno ( Traccia ) si radica nel desiderio di aiutare e accompagnare ogni persona nel cammino che la porta a liberare le energie più vive e a riconoscere i doni che porta in sé, per realizzare il capolavoro della propria umanità, che è armonia, unità, libertà, apertura. Così sarà possibile percorrere le strade della ricerca di un senso profondo alla propria vita e alle dimensioni di essa, reinterprentando per questo tempo affetti ed emozioni; famiglia e generazione; lavoro e cittadinanza; limite e solidarietà. Conclusione La sofferenza delle comunità cristiane di oggi assomiglia ai dolori del parto: attraverso le provocazioni dello Spirito, che passano per le vie della storia umana, la Chiesa si lascia costruire dal Signore: sa che in questo modo sarà rigenerata come nuova e potrà essere sempre giovane della freschezza del Vangelo, contemporanea anche a questo tempo. Mi auguro che insieme, come Chiesa, sappiamo renderci reciprocamente testimonianza della fiducia in un futuro giovane: non sappiamo ancora quali ne saranno i contorni, ma siamo certi che Dio ce ne farà dono. Non importa se per questo dobbiamo passare attraverso i giorni dell'incertezza, del dolore, del silenzio: è il travaglio del parto. Sappiamo anche che, come per la donna, il dolore del dare alla luce si dimentica subito, per la gioia che è venuto al mondo un bimbo ( Gv 16,21 ). Anche questo è esercizio di speranza. Una cultura capace di testimoniare la speranza Relazione del prof. Lorenzo Ornaghi 17 ottobre 2006 1. La cultura come esercizio storico Per il credente, dare dimostrazione della speranza di cui egli è liberamente e responsabilmente testimone " non è solo un atto dell'intelligenza, ma è un esercizio storico, un compito e un rischio della libertà ". Questa sottolineatura, tracciata da don Franco Giulio Brambilla già nelle fasi iniziali della sua relazione teologico - pastorale, è anche il punto di avvio del mio approfondimento sulle prospettive culturali. E dunque, proprio considerando la diffusa condizione attuale dei cattolici italiani, in quale modo la cultura - per ognuno di noi, e per il cattolicesimo italiano come realtà unitaria - può essere davvero parte costitutiva dell'esercizio storico, del compito e del rischio della libertà richiesti a chi vuole testimoniare la speranza? Ancora e in particolare: come far sì che - concretamente e quotidianamente - la cultura riesca a esprimere la vita e al tempo stesso ad alimentarla, sappia vivificare i molteplici ambiti della condotta e dell'azione umana, possa effettivamente fondare e guidare le ordinarie così come le grandi scelte individuali e collettive, sociali e politiche? Sono questi i principali interrogativi del mio intervento. E sono interrogativi che a me sembrano tanto più urgenti, quanto più - guardando non alla sola condizione attuale dei cattolici, bensì a quella dell'intero nostro Paese - sperimentiamo ogni giorno che crescenti forme di apatia politica o accidia personale, disorientamenti, frustrazioni e il pervasivo stato d'animo secondo cui nulla o pochissimo è possibile fare per il miglioramento dell'Italia, non trovano antidoto e nemmeno palliativo nel miraggio di nuove e imminenti stagioni, preparate e aperte da un'idea di cultura riduttivamente intesa come l'indispensabile premessa e strumento di un'azione che peraltro viene continuamente rinviata. Veniamo da anni in cui troppo spesso la cultura è sembrata soltanto un programma stilato in modo più o meno perentorio da minoranze elitarie. Viviamo ancora una fase in cui la cultura, più che illuminare la vita di tutti e aprire con speranza al futuro prossimo, s'incunea tra il "comprendere" e il "fare", come se il secondo non avesse capacità di autonomia o nobiltà etica fintantoché il primo non sia stato per intero assorbito dalla dominante analisi culturale. Anche per questi motivi, temo, la condizione attuale dei cattolici viene talvolta descritta o stigmatizzata nei termini impropri e fuorvianti di una montante irrilevanza, della perdita della capacità di esprimersi in modo efficace e persuasivo, di una perdurante minorità dentro i processi di scelta collettivi. E per conseguenza si stenta così a registrare,o si finge di non vedere, quante e quanto vitali risultino l'azione e le opere dei cattolici in pressoché ogni ambito della società e dell'autentico avanzamento scientifico, quale e quanto insurrogabile sia il nostro specifico ruolo rispetto non già soltanto alle necessario e mutevoli configurazioni partitiche della politica, bensì e soprattutto a ciò che della politica sempre più costituirà un nucleo essenziale ( mi si permetta di aggiungere: laicamente essenziale ), vale a dire la sua effettiva capacità di corrispondere alle attese, ai bisogni attuali e alle domande o alle insicurezze sul soddisfacimento dei bisogni futuri, alle richieste di veder realmente garantiti e promossi i valori fondamentali e irrinunciabili della comunità. 2. Una visione culturale per costruire il futuro Il primo quesito che sollevavo può allora trovare una sua iniziale risposta proprio movendo da quell'aggettivo " essenziale ", or ora evocato a proposito della politica. Affinché sia davvero parte costitutiva dell'esercizio storico, del compito e del rischio della libertà richiesti a chi vuole testimoniare la speranza cristiana, la cultura deve essere in grado di afferrare, interpretare e orientare ciò che determina e scandisce essenziale di ogni stagione della storia. Il rapporto di continua interazione, di vicendevole corrispondenza tra la cultura e ciò che è essenziale in un'epoca storica risulta d'importanza decisiva. Tanto più lo è in un'età come la nostra, in cui l'attenzione sembra attratta e assorbita da quel che con rapidità si muove e si trasforma alla superficie dei fenomeni. Allorché il nesso tra la cultura e la ricerca dell'essenziale si allenta sino a sembrare non più esistente o impossibile da allacciare, la società si avverte - e realmente è - precaria, vulnerabile, carente di un durevole ethos di appartenenza. Smarrendosi o sbiadendo il senso autentico - ossia la direzione e il significato - non solo delle aspettative e delle promesse, delle positive opportunità e dei limiti, ma anche delle inquietudini e dei dubbi che inevitabilmente accompagnano la vita individuale e collettiva, così come quella di ogni realtà associativa, sempre più ci sembra di vivere perennemente in bilico. La necessità di dover assecondare il susseguirsi di eventi, che sembrano del tutto indeterminabili dalla nostra volontà, appare più forte del desiderio di poter svolgere un ruolo da protagonisti dentro il sistema sociale, economico, politico. E ci sentiamo sospesi, così, tra l'inarrestabile forza di attrazione delle contingenze e urgenze del presente e l'assillo che il futuro possa non solo tradire le nostre più fiduciose aspettative, ma anche amplificare le inquietudini e ulteriormente minacciare le già scarse sicurezze di oggi. Nelle attuali società, ripiegate sul presente anche perché immobilizzate in uno stato di perdurante e insoddisfatta attesa, vi è dunque un secondo motivo per cui la cultura deve essere parte costitutiva dell'esercizio storico richiesto a chi intende testimoniare la speranza. Ed è, questo secondo motivo, strettamente legato al sempre più esteso bisogno e al sempre più intenso desiderio di quella speranza che suggerisce al cuore dell'uomo di volgere con fiducia il suo sguardo sul domani. La speranza, per le odierne società e per tutte le parti che le compongono, è la trama stessa del futuro verso cui tendere e alla cui costruzione collaborare. Per questo, se alla cultura si deve chiedere di saper afferrare, interpretare e orientare ciò che è essenziale nel presente, al tempo stesso è anche necessario chiederle che essa definisca e alimenti quelle " visioni " che, in tutti i campi dell'agire umano, sono indispensabili per costruire il futuro. Di queste visioni avvertiamo tutti, sempre più forte, la necessità. Senza di esse, l'agire nel presente rischia di essere mortificante: più un gesto di rassegnazione che di speranza. Attraverso di esse, invece, la speranza, assumendosi per intero il compito e il rischio della libertà, da anima e materia all'esercizio storico dei cristiani in ogni ambito della realtà. Per riuscire a cogliere l'essenziale della nostra stagione storica, per superare quella condizione di spaesamento che è così tipica dei nostri giorni, la cultura non può dunque che essere una cultura - se questa formula la si intende bene - intrinsecamente sperante. Spetta a un'autentica visione culturale tradurre la speranza in pratiche di vita - siano esse individuali o sociali - il più possibile piene e appaganti. La " speranza viva ", richiamata da don Brambilla, è fondamento della " cultura viva ", in grado di nutrire quelle visioni di cui sempre più avvertiamo il bisogno. Qual è allora il compito dei cattolici italiani rispetto a una cultura che sia e venga sentita come " viva "? Al tempo stesso, in qual modo una tale cultura può contribuire a formare gli ambienti della vita quotidiana in cui crescono e operano coscienze libere e veramente cristiane? Anche di fronte a un simile compito, non siamo all'anno zero. I cattolici italiani hanno conosciuto e vissuto per intero le intere vicende sociali, economiche e politiche del paese in questi decenni. Talune di queste vicende sono state patite dai cattolici con maggiore intensità e non di rado con sofferenza. Non di meno, nei tentativi di uscire da una transizione che in non pochi passaggi è apparsa troppo simile a una pericolosa stagnazione, il contributo dei cattolici non è certamente stato ne marginale, ne di second'ordine. Non siamo all'anno zero, dicevo. E lo dimostra proprio la successione dei decennali convegni ecclesiali. Il Consiglio permanente della CEI, già presentando gli Atti del I Convegno di Roma, notava come nel nostro Paese si registrassero " diversi progetti culturali di uomo e di società che non è possibile eludere, per un dialogo coerente e un contributo specifico e chiarificante della nostra missione ". In occasione dei due successivi Convegni di Loreto e di Palermo ancora più forte e precisa si avvertì l'esigenza di " sanare la frattura " tra Vangelo e cultura. Poiché il fondamentale punto di intersezione delle molteplici prospettive culturali e ideologiche in campo non può che essere identificato nella specificità stessa dell'umano, i due convegni giustamente sottolinearono a più riprese come risulti sempre indispensabile coniugare in senso culturale, non meno che spirituale, " la verità di Dio che è amore e la verità dell'uomo che è chiamato all'amore ". Il progetto culturale della Chiesa italiana è, in questo senso, un cammino che, non breve ne sempre agevole, ci ha fatto già raggiungere con successo alcune tappe assai significative. Come " progetto " ci ha obbligati a guardare avanti, o quanto meno a cercare di vivere e di competere nel presente senza venire sopraffatti dalle urgenze e dalle reali o apparenti emergenze dell'attualità. I dieci anni del progetto culturale ci hanno aiutato a dimostrare - a noi stessi in primo luogo, e a tutto il cosiddetto mondo laico - che la ragione è base e orizzonte di una cultura viva. La ragione, non appiattita sulle convenienze del momento ne subalterna alle rappresentazioni sociali più diffuse, serve a capire in profondità, a cogliere, appunto, l'essenziale. Cogliendo l'essenziale, la ragione non circoscrive affatto, né svuota di tensione, gli esercizi possibili di libertà; viceversa, li moltiplica e li innalza oltre i limiti di volta in volta frapposti dalle mutevoli condizioni storielle. Proprio per questo, la cultura riguarda la vita di tutti e richiede, al di là della diversità delle opinioni e delle opzioni, la testimonianza di ognuno. Nella cultura e nel progetto culturale che sempre più ci sollecita a guardare all'ormai incombente domani, il senso della coscienza cristiana e lo stile di vita da cristiani, compenetrandosi, necessariamente si alimentano e si rafforzano a vicenda. Le grandi trasformazioni di questi ultimi decenni sembrano aver incrinato anche le più radicate convinzioni e abitudini sociali. Eppure, se non vogliamo fermarci alla corteccia dei fenomeni, è opportuno provare a individuare quelle priorità che oggi dovrebbero guidare la testimonianza " culturale " del credente dentro la società italiana ed europea. Tra le molte possibili, qui ne considero tre: la scienza, la politica e l'educazione. Sono tre campi di azione essenziali. Sono tre spazi di vita tra loro strettamente interconnessi, dai quali dipendono la fisionomia e la qualità del nostro futuro. 3. Cultura e scienza: il bisogno di " unitarietà del soggetto " Soprattutto nel corso degli ultimi tre secoli ( e almeno fintanto che non ha incominciato a incrinarsi quella moderna idea del progresso che sembrava inossidabile ), si è via via ampliata e socialmente radicata la fiducia nelle illimitate possibilità dell'uomo di applicare mediante la scienza, con successo e senza troppi ostacoli, le proprie capacità razionali per trasformare il mondo e migliorare senza sosta le condizioni di vita. I grandi e positivi traguardi raggiunti hanno condotto a una sopravvalutazione della ragione scientifica e tecnologica, talché quest'ultima, oggi, non solo conserva la condizione di una verità autoevidente, ma - significativamente, in un'età in cui ogni certezza è contrastata dalle dominanti mentalità del relativismo - continua a godere di una autolegittimazione quasi assoluta. Nemmeno l'intatta fiducia nella ragione scientifica e tecnologica, però, riesce ad alleviare o a mascherare la crescente difficoltà di trovare il senso unitario della vita e, dentro di esso, il senso autentico di ciò che consente di guardare con speranza al futuro. Tanto più è difficile coltivare durevolmente la speranza, quanto più restiamo soggiogati alla drammatica scomposizione dell'umano. È esperienza comune, quasi quotidiana: le nostre azioni, gli obiettivi che ci prefiggiamo, i nostri sentimenti e legami, persino gli interessi più tangibili sfuggono al riconoscimento di quell'unità di senso che ne dovrebbe costituire il fondamento. Affine è la scomposizione che sperimentiamo nella conoscenza scientifica e nelle sue applicazioni, a seguito delle dissezioni operate dalle molteplici " sfere di competenza " disciplinari in gioco. La biologia e la medicina, per fermarci a un solo esempio, stabiliscono un profilo della persona come organismo altamente razionalizzato e ordinato secondo i termini di causa - effetto, e ridefiniscono pertanto in modo non indolore l'identità e la concezione stessa della persona. È urgente, allora, che una cultura intrinsecamente sperante sappia riguadagnare la sua funzione originaria nei confronti delle conoscenze scientifiche e delle loro applicazioni, non limitandone gli svolgimenti e le conseguenze positive, bensì contribuendo in modo decisivo a far sì che tali svolgimenti e conseguenze siano realmente ( e senza alcuna inutile enfasi retorica ) al servizio dell'uomo e dell'umanità. L'unitarietà del soggetto come persona non è una vuota formula declamatoria. Non lo è proprio per il fatto che il cristianesimo ha rinnovato, e anzi completamente rivoluzionato, le finalità e le modalità con cui l'uomo, attraverso la figura di Cristo, guarda a se stesso. È dunque " cultura viva " quella che afferma e il più possibile traduce in prassi un criterio veritativo unificante. È " cultura viva " quella che sa proporre idee, convinzioni e progetti d'azione ragionevoli per le grandi scelte della collettività. La tensione tra le sempre più ricorrenti tentazioni al " particolarismo " della ragione e la vocazione all'" universalismo " tipica della fede - tensione che in varie forme contrassegna la realtà contemporanea e ne determina le lacerazioni più profonde - richiede di essere oggi affrontata e risolta con un diverso rapporto tra scienza e fede. Come ci ha ammonito il Santo Padre Benedetto XVI nella sua lectio magistralis di Regensburg, noi " diventiamo capaci di un vero dialogo " solo " se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo ", solo " se superiamo la limitazione autodecretata della ragione ". Sono, queste, le coordinate essenziali di quell'umanesimo che, generato dall'incontro fra la tradizione ebraica, la ragione classica e la novità evangelica, resta il solo argine affidabile contro ogni rischio di violenza palese od occulta, contro ogni pericolo di conflitto tra quelle comunità e aggregazioni stabilmente organizzate, che un corso lunghissimo di eventi storici ha plasmato come differenti e non di rado confliggenti civiltà. 4. Cultura e politica: la tentazione dello straniamento Giorgio Rumi, nell'ultima riflessione pubblicata postuma su Avvenire subito dopo la sua scomparsa, metteva in guardia il mondo cattolico dalla tentazione dello " straniamento dalle sorti del proprio Paese ". Questo straniamento ( che può preludere a un irreversibile " spaesamento ", destinato ad avere incalcolabili conseguenze negative ) sarebbe pericolo realmente formidabile, se è vero che - come ha sempre sostenuto lo storico lombardo - la " cattolicità " costituisce, comunque la si voglia giudicare e ben oltre il tramonto della Democrazia cristiana, un tratto costitutivo dell'italianità. La fedeltà o, quantomeno, la prossimità alle radici dell'identità nazionale più profonda e popolare, rappresentano, se non ci si lascia vincere da preconcetti, il tessuto comune di quelle " visioni " sul futuro, di cui il Paese intero ha bisogno in campo economico, sociale e politico. Rappresentano anche, a guardar bene, gli elementi essenziali perché la cultura sia quotidianamente e diffusamente alimentata e praticata. L'" esercizio del cristianesimo " - per riprendere il tema su cui don Franco Giulio Brambilla ha giustamente insistito - implica dunque lo sforzo di farsi carico delle aspettative più autentiche e dei bisogni più profondi del Paese intero, della sua domanda - che cresce e si diffonde - di non cadere definitivamente nell'apatia, né di dover assecondare la tentazione che non sia possibile costruire nulla se non attraverso continue contrapposizioni e l'ostentazione di insanabili inimicizie. È in questo " farsi carico " che cultura e politica si incontrano. È in questo " farsi carico " che il cattolicesimo italiano, anziché lamentarsi - anche se talvolta con qualche motivo - della propria irrilevanza o perifericità, può e deve trovare le ragioni dell'orgoglio della sua storia, del suo presente, della sua capacità di guardare con coraggio e senza ideologismi al futuro. La politica democratica, se necessariamente vive e cresce grazie all'insostituibile e legittima concorrenza partitica ( ossia vive, vale la pena di aggiungere, di pluralismo e di mediazione ), non si esaurisce affatto - e non si consuma per intero, nemmeno quando modalità e toni siano esasperati all'eccesso - nella competizione fra partiti e aggregazioni partitiche. Facile è anzi prevedere che, negli anni che ci attendono, il gioco democratico ci porrà di fronte alle grandi questioni della politica: da quelle che direttamente determinano ciò che ormai chiamiamo il " bene - essere " di ogni persona e di tutta la comunità, a quelle della sicurezza nei momenti straordinari e ordinari di una collettività, sino a quelle della biopolitica e di un'etica pubblica realmente creduta e praticata. La promozione della famiglia fondata sul matrimonio sarà al proposito - e non dimentichiamolo mai - un elemento centrale. Un giovane senatore democratico americano, Barack Obama, ha recentemente osservato: " Se riuscissimo a disfarci dei pregiudizi, potremmo riconoscere l'esistenza di valori convergenti, condivisi da credenti e laici quando si tratta della direzione morale e materiale del nostro Paese [ … ]. La politica dipende dalla nostra capacità di persuaderci vicendevolmente della validità di obiettivi comuni sulla base di una realtà comune ". La politica che ci aspetta nei prossimi anni, le future e cruciali scelte collettive che già oggi si delineano, chiedono allora che un consenso il più diffuso e convinto possibile venga cercato con idee nuove, con strumenti efficaci e adeguati. Anche questo è compito di una cultura viva. E ciò richiede di ripensare e utilizzare in termini nuovi anche idee e strumenti a cui ci siamo abituati nel corso di lunghi anni. La mediazione, quanto più la politica sarà costretta a esprimersi e a decidere su valori e questioni etiche, tanto meno dovrà accontentarsi di costituire l'instabile punto di equilibrio o di compromesso tra partiti o tra posizioni e rappresentazioni sociali antagoniste. Della mediazione, credo, andrà ritrovata la sua funzione genuinamente politica, la quale, rispetto all'identità e al futuro di una comunità, non è mai soltanto quella di allentare a ogni costo il contrasto possibile tra principi e situazioni. In questo sforzo si giocherà anche, tutt'intera, la quotidiana pratica di un laicato, convinto che l'essere laici - autenticamente, e anche nella sua stessa genealogia storica - non può significare soltanto l'essere diversi da, o magari contro, qualcosa o qualcuno. Mi sembra importante allora ricordare ciò che Adriano Bausola ebbe a sottolineare, introducendo i lavori di una tavola rotonda svoltasi a Palermo proprio in occasione dell'ultimo Convegno ecclesiale: " Esistono dei principi che definiscono radicalmente l'impegno dei cristiani nella società, principi che si possono dire irrinunciabili, [ … ] quali la ricerca del bene comune, la solidarietà, l'attenzione attiva per gli ultimi, il rispetto della vita, la responsabilità morale nell'esercizio della libertà [ … ]. Molti di questi principi, ma declinati su altri fondamenti e svolti in altri contesti, sono condivisi anche da persone che non sono credenti ". D'altro canto, anche gli orientamenti pastorali dell'Episcopato italiano per il primo decennio del Duemila spronano a una consapevole riaffermazione di questi stessi principi, e nel contempo invitano a una esplicita apertura al " dialogo culturale " con chi non condivida la fede in Cristo. Tutti gli " uomini di buona volontà ", e in primo luogo coloro i quali professino altri credi religiosi, possono infatti essere interlocutori preziosi affinché si operi per costruire un percorso condiviso di piena maturazione umana: L'insegnamento sociale della Chiesa ha sempre insistito sulla collaborazione con gli " uomini di buona volontà ". Proprio perché il Vangelo divenga cultura e questo seme divino possa dare i suoi frutti più belli nella storia, noi cristiani vivremo nella compagnia degli uomini l'ascolto e il confronto, la condivisione dell'impegno per la promozione della giustizia e della pace, di condizioni di vita più degne per ogni persona e per tutti i popoli, fiduciosi in un arricchimento reciproco per il bene di tutti ( Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n. 60 ). Davvero qui incomincia il nostro "farci carico" del Paese intero, e anche della sua politica rispetto alla società italiana, a quella europea, e dentro il sempre più inquieto sistema globale. 5. Cultura e formazione: educare all'autentica felicità La cultura, quando è viva e aperta, non può che entrare in un fecondo rapporto con la società. Vi entra con tutte le sue istituzioni, che siamo soliti qualificare e raggruppare come, appunto, culturali; vi entra estensivamente con i mezzi di comunicazione più tradizionali e, ormai quasi senza alcuna intermittenza temporale, con quelli più nuovi. Tale rapporto fecondo e costruttivo diventa pertanto ancor più necessario, oggi, in quella sfera di produzione e trasmissione della cultura stessa, che è la sfera educativa e formativa. La cultura e la sua comunicazione, proprio perché hanno il dovere di configurarsi come servizio reso a una realtà sociale la cui articolazione è sempre più al plurale e in cui convivono differenti identità, non possono sottrarsi al compito non solo e non tanto di ribadire la centralità della questione educativa, ma anche e in particolare di offrire risposte ragionate e ragionevoli alle domande che, proprio muovendo dalla pluralità dell'articolazione sociale e dalla compresenza di identità diverse, chiedono che l'educazione e la formazione abbiano sempre più a cuore l'auspicabile e possibile configurazione futura della società italiana, oltre che quella dello stesso sistema politico - istituzionale della nostra democrazia. La nostra società, non diversamente da quelle dell'occidente avanzato, esprime una variegata pluralità di offerte culturali che si traducono in progetti di vita e rivendicazioni di senso, sovente tra loro in competizione, talvolta in conflitto. La pluralità di tali offerte non può però degenerare in un " pluralismo parossistico ". Contro il rischio di questo parossismo, contro le sue nocive conseguenze nei confronti soprattutto delle generazioni dei giovani, le istituzioni come la scuola e l'università, insieme con i mezzi di comunicazione, devono sforzarsi di essere sempre più luoghi e strumenti di esperienza educativa essenziale ed efficace, creduta, accolta e sempre più responsabilmente partecipata. Il contributo della cultura cattolica riuscirà a essere tanto più decisivo anche in questo servizio, quanto più essa sarà pienamente consapevole e orgogliosa della grande storia di libertà che la caratterizza. È questa la strada dell'autentica mediazione culturale, perché, come ha osservato S.Em. il Card. Dionigi Tettamanzi, illustrando sull'ultimo numero di Vita e Pensiero il senso e le finalità principali di questo nostro Convegno, la sfida cruciale all'inizio del terzo millennio consiste nel mettere in luce il tratto " escatologico " della fede cristiana, superandone una lettura alienante e straniante. Questo tratto escatologico della fede chiede di elaborare come mediazione culturale una figura antropologica sotto il segno della speranza, cioè nel quadro di una trascendenza non solo orizzontale, ma verticale. Occorre mostrare il potere di trasformazione proprio della " speranza viva " ( 1 Pt 1,3 ) - dono dello Spirito del Risorto - sull'esperienza e sulla visione odierna dell'uomo. L'università e la scuola - luoghi specifici, originari, e che a buon diritto potremmo considerare quasi luoghi " naturali " di elaborazione culturale e trasmissione del sapere e dell'esperienza dell'uomo - se orientati in senso cristiano non potranno non realizzare processi di educazione sempre più attenta al presente perché con lo sguardo sul futuro, sempre più attiva e attrattiva perché libera nei confronti dei tanti conformismi dominanti e troppo spesso, per tutti, frustranti. Non è un compito agevole e non è una lieve responsabilità, lo sappiamo. Ma sappiamo anche che solo dall'educazione viene la bussola per potersi orientare - senza troppe inquietudini, e senza dover patire eccessive insicurezze o fragilità - dentro il pluralismo parossistico della società, dentro una condizione di relativismo sociale e culturale che, moltiplicandone le parziali o ingannevoli risposte, non solo rende sempre insoddisfatta, ma allontana nel tempo e alla fin fine tradisce o uccide la naturale domanda, che è in ogni persona, di felicità. Le nostre società, perennemente in bilico e in attesa, aspettano quasi sopra ogni altra cosa la felicità. In mille modi la chiedono, la inseguono e continuano ad attenderla, mentre va crescendo sempre più la percezione rattristante della mancanza, la consapevolezza del vuoto di un'autentica felicità personale e sociale. Di fronte alle tante, troppe proposte di felicità banale e fuggevole, occorre tornare a educare i propri desideri affinché si rivolgano verso ciò che davvero e durevolmente vale: il bene, il vero, il bello. Se la formula la si intende bene, anche in questo caso è necessario un " ritorno dei trascendentali " al vertice dei nostri desideri più sinceri e profondi. Educazione e formazione, in un tale orizzonte, sono la risorsa più grande di cui disponiamo per bloccare e rovesciare quei processi, all'apparenza inarrestabili, di scomposizione dell'esperienza umana e di contestuale, connessa pluralizzazione parossistica delle convinzioni e convenzioni, delle mentalità e più conformistiche rappresentazioni, dei comportamenti e degli stili di vita più banali e superficiali della società. Al tempo stesso, educazione e formazione preparano e costruiscono quella cultura intrinsecamente sperante che - nei momenti straordinari e in quelli più ordinari, nella manifestazione di una leadership o nell'elaborazione di nuove idee e ipotesi scientifiche, così come nello svolgimento quotidiano del nostro lavoro e della professione, nei gesti di solidarietà sociale, di consapevole partecipazione politica, o di appartata e confidente accensione di una candela votiva - offre piena e pubblica testimonianza del nostro desiderio e della nostra capacità di convertirci e saper convertire. In un'appassionata esortazione del 1841, John Henry Newman polemizzò con il primo ministro inglese Robert Peel, che intendeva istruire le masse promuovendo conferenze pubbliche in cui venissero illustrate le grandi scoperte scientifiche, così da far nascere una fede non confessionale nelle meraviglie dell'universo. Le sue parole conservano tutta la loro ricchezza e suggestione. Osservò infatti Newman come, ben più che dalle argomentazioni e dai ragionamenti intellettuali, il cuore dell'uomo venga colpito " dall'immaginazione, dalla testimonianza di fatti ed eventi, dalla storia, dalle descrizioni. Siamo influenzati da una persona, affascinati da una voce, soggiogati da una cosa vista, infiammati da un'azione. [ … ] E più facile far quadrare un cerchio che convertire con un sillogismo ". Forse ricomincia soprattutto da qui la nostra capacità di essere " costruttori " di cultura viva. E di esserlo sulla base e sull'esperienza di ciò che già oggi, giorno dopo giorno, stiamo facendo e costruendo nei luoghi di lavoro, nelle parrocchie, nei movimenti e nelle associazioni, nel volontariato, nella scuola, in tutti quei campi riconosciuti o invece appartati e magari dimenticati in cui vi è, ed è specifica e insostituibile, la presenza dei cattolici italiani. In ognuno di questi campi si opera in mezzo a mille fatiche e con tanta passione, evitando che il " fare " venga compromesso o paralizzato dalla pretesa di voler comprendere e saper decifrare tutto prima di agire. Tra le numerose fatiche, qualche scoraggiamento e un mai spento entusiasmo, stiamo disegnando il futuro nostro e dell'intero Paese. La testimonianza del credente, anche nella sua essenziale dimensione culturale, non è un'ipotesi teorica, non è una figura astratta a cui dare corpo in un futuro indeterminato o determinabile solo come risultato conclusivo del verificarsi di un diverso contesto politico e sociale. La testimonianza del credente riguarda la realtà di oggi; tocca e trasforma il presente per costruire concretamente il domani. Proprio per questo motivo, la cultura e il progetto cristianamente ispirati richiedono - adesso, come in altre fasi decisive della storia - un'antropologia che sia all'altezza delle continue innovazioni della scienza; richiedono, contemporaneamente, riflessione critica e azione, discernimento e coraggio, orgoglio della propria tradizione e determinazione di fronte al nuovo che continuamente incalza e ci sfida. In una parola richiedono, di fronte a tutti e in ogni occasione, la testimonianza sicura della speranza cristiana. Testimoniare il Vangelo nella società Relazione del dott. Savino Pezzotta 17 ottobre 2006 Premessa Il mio intervento cerca di interpretare la situazione sociale attraverso il filtro dell'esperienza e delle conoscenze maturate nel corso di un impegno sociale quarantennale. Vuole essere soprattutto una testimonianza che, partendo dal vissuto, cerca di leggere e valutare i cambiamenti, le opportunità, le tensioni e le preoccupazioni maturate e presenti nella nostra società. Nei lunghi anni in cui si è svolto il mio impegno di cristiano nel sociale, il nostro Paese è profondamente cambiato sul piano economico, sociale, lavorativo, politico e istituzionale; queste mutazioni hanno avuto rilevanti ripercussioni sulla vita delle persone, sul loro modo di pensare, sulla famiglia, sulla rappresentanza e sulle relazioni sociali e personali. La consapevolezza delle trasformazioni in atto ci aiuta a ridimensionare paure e incertezze. Il nostro Paese, con tanti sacrifici, con il lavoro e le capacità imprenditive e culturali, attraverso un forte impegno sociale e politico, ha consolidato la democrazia, esteso il livello di benessere economico e sociale, garantito diritti e tutele, livelli d'istruzione, di salute e aspettative di vita di cui le generazioni precedenti non avevano potuto godere. In questi processi di modernizzazione e di estensione del benessere hanno giocato un ruolo importante ed efficace i cattolici impegnati nel sociale, nel sindacato, nelle diverse forme dell'attività economica, culturale e scientifica, nell'impegno politico e istituzionale. I percorsi positivi compiuti richiedono di essere accompagnati da una nuova e forte attenzione ai cambiamenti e alle contraddizioni che questa crescita ha generato: la società postindustriale ( dal lavoro ai lavori ), la finanziarizzazione dell'economia, i forti divari territoriali, la presenza di nuove povertà, di nuove emarginazioni, dei senza lavoro e dei disoccupati giovani o in età matura, dei precari sul lavoro e nella vita, le difficoltà delle famiglie nel far quadrare il bilancio economico e sociale ( soprattutto quelle a monoreddito con figli ), il crescente numero di anziani non autosufficienti, il permanere di fasce di giovani e adolescenti in difficoltà o costretti alla solitudine, e il fenomeno, anche culturale, dell'immigrazione. Il compito che ci attende, se vogliamo continuare a svolgere un ruolo di animatori e di innovatori della realtà italiana, è comporre una visione articolata della società, senza abbandonarci al " declinismo " o a visioni negative, assumendo i problemi sociali, politici ed economici nella loro completezza, senza genericismi ottimistici o pessimistici, il cui unico risultato sarebbe l'ulteriore penalizzazione dei poveri, degli esclusi e il rafforzamento degli egoismi individuali e corporativi. La " questione sociale " s'intreccia con la " questione antropologica " Il nostro Paese è, dunque, dentro un processo di profonda metamorfosi che ripropone il tema della questione sociale non più soltanto sul versante economico-sociale, ma anche e soprattutto sul versante antropologico. La rivoluzione industriale ci aveva convinti che il governo della società si basasse sul sociale; oggi, invece, è direttamente sull'uomo che s'interviene, per promuoverne o condizionarne la vita. Il rischio è che diventi scontato che la stessa vita umana possa essere manipolata, condizionata e orientata attraverso la comunicazione, l'informazione, il consumo e l'uso delle nuove tecniche. Per rispondere a queste sfide della postmodernità occorre un convinto sforzo di discernimento che muova dalla consapevolezza che la " questione sociale " s'intreccia in modo indissolubile con la " questione antropologica ". Porre la lettura dei tempi in chiave antropologica ci porta, naturalmente, a percepire l'influenza del progresso scientifico e tecnico sullo statuto stesso della persona; ad affrontare, con un orizzonte definito, le prospettive inaudite che le scienze hanno ormai dischiuso per la storia umana. Contestualmente si svela, con evidenza, l'insostenibilità di un'aggressione all'ambiente che converge verso inquietanti scenari di povertà e distruzione. Le inquietudini sono molte, ma sappiamo anche che i pericoli sono sempre ambivalenti e molto dipende da ciò che gli uomini riescono o vogliono mettere in campo. È arbitrario e pericoloso sostenere che questa fase storica non sia più in grado di esprimere valori e dare voce alle esigenze essenziali delle persone. Non è vero! Affinando il nostro sguardo vediamo, infatti, crescere nuove sensibilità, una nuova coscienza sociale e una domanda di senso che riesce a generare esperienze e nuovi stili di vita; si pensi all'associazionismo, alla cooperazione e, più in generale, alle nuove forme di economia civile, al terzo settore, al consumo responsabile, alle tematiche ambientali e all'attenzione ai poveri che passa attraverso il volontariato. Anche nei processi di frammentazione sociale emerge, quindi, un'attenzione e una nuova pratica sociale improntate al criterio della sussidiarietà, che vede una significativa presenza dei cristiani. Nella società civile è presente il rifiuto di una società " disperata ". Nel profondo delle trasformazioni si avverte, infatti, il crescere di un nuovo " sentire ", di pensieri che attraversano gli individualismi, gli egoismi, i dolori e le lacerazioni e affermano l'esigenza di stare insieme, di accompagnarsi. È la voglia di un " diverso " rispetto al totale affidamento all'economico, al consumismo, all'edonistico e alla celebrazione della ricchezza. Riemerge, dopo tanto immanentismo, materialismo e paneconomicismo, la nostalgia della trascendenza e della dimensione spirituale dell'uomo. La nuova frontiera del nostro impegno È in questi processi di complessità sociale che va posta, con chiarezza, la questione antropologica e, su questa base, dobbiamo impegnarci a costruire un nuovo " discorso pubblico ". Le sfide che abbiamo di fronte sono straordinarie. Ripensare la società e la politica in termini antropologici significa discernere il senso profondo e il vissuto personale rispetto ai grandi processi di globalizzazione; tutto è più vicino: la realtà dei conflitti ci accompagna quotidianamente. Siamo immersi in reti che consentono rapporti permanenti di amicizia e di lavoro. Attraverso le migrazioni che trasformano le nostre città in veri e propri microcosmi, facciamo continuamente esperienza d'incontro con etnie e nazionalità diverse e con nuove forme di cittadinanza. Questo esercizio di presenza deve esercitarsi a tutto campo; occorre un impegno sociopolitico che si eserciti per strada, nella piazza e nei luoghi della vita e non solo in quelli deputati alla politica, che, purtroppo, tendono sempre di più a divenire esclusivi. L'impegno politico e la cura dalla città restano le forme più alte di carità; altrettanto forte però deve essere la convinzione che la politica non si esercita solo nei luoghi della rappresentanza politica o nelle istituzioni. La carità in politica si esercita nella cura della città, ma anche nell'amorevolezza verso le persone, verso la famiglia, verso i poveri e i deboli. È nell'impegno sociale, nella creazione di legami e azioni solidali e di cura, che si esercita quella tenerezza che allena alla pratica del governo e crea le condizioni per la formazione di una classe dirigente attenta e responsabile verso le persone e la comunità. Sono convinto che un forte impegno sociale può aiutare a frenare la disaffezione alla partecipazione sociopolitica e limitare le cooptazioni tra élite. L'impegno sociale deve essere assunto come il luogo dove è possibile produrre nuovi livelli di solidarietà e di partecipazione civile e politica attraverso l'applicazione del principio di sussidiarietà e con il dinamismo della personalizzazione proprio dell'associarsi. Tutto questo esige che si operi per ricomporre i tessuti connettivi e comunitari, attraverso un impegno sociale teso a creare, sostenere e consolidare i luoghi della relazione umana e comunitaria. Un contributo specifico va rivolto, poi, alla costruzione di un nuovo stato sociale basato sulla promozione e sulla partecipazione dei cittadini, su forme di autorganizzazione responsabile e solidale e su un'idea di servizio pubblico che non è sempre e in ogni modo inteso come statale. In questo senso si tratta di rilanciare un nuovo impegno per la sussidiarietà, le forme dell'economia solidale e partecipata, la cura, il mutualismo familiare e sociale. Ricomporre secondo questa prospettiva individuo e società, interessi e coesione sociale, scienza e valore della persona, è il compito che ci attende per ridare forza alla società civile e ridefinire il ruolo delle istituzioni politiche. Dobbiamo, dunque, alzare lo sguardo e andare oltre le stesse esperienze positive che abbiamo costruito in decenni di formidabile crescita economica e sociale. Ci aiuta la convinzione che solo le forze che affondano in questi valori, memoria, radici e percorsi possono, attraverso gli strumenti dell'associazionismo, della cooperazione e anche dell'amicizia, pensare di contribuire alla costruzione di un mondo più umano e più aperto, meno dipendente dalla sfera economica, dall'interesse particolare, dalla tecnica e dal potere fine a se stesso. Il sociale diventa, allora, il luogo privilegiato della testimonianza dei cristiani chiamati a costruire e a partecipare nuovi modi e nuove forme di emancipazione e di liberazione. La nostra azione deve pertanto orientarsi a ricercare, dentro la società, luoghi della speranza introducendo un " relativismo cristiano " che ordini le cose rispetto a una prospettiva di trascendenza, presupponendo un rapporto di dono e non di consumo tra me e l'altro; un " relativismo " di segno straordinariamente contrario a quello fatto proprio oggi da settori significativi della società e della cultura. La speranza In questo contesto siamo chiamati a rendere attuale, con il nostro comportamento, con l'impegno e con i fatti, il messaggio della speranza cristiana attraverso l'ascolto, l'attenzione, l'incontro e il dialogo con le speranze delle donne e degli uomini del nostro tempo. Come ho cercato di evidenziare, siamo immersi in processi di complessificazione e frammentazione sociale che fanno emergere delusioni ma anche segnali di speranza che attendono di divenire realtà. L'azione dei cristiani deve pertanto orientarsi a ricercare, cogliere, valorizzare, custodire, costruire e alimentare i luoghi della speranza. I cinque ambiti in cui si articola il Convegno vanno in questa direzione e affrontano con lungimiranza i temi della vita affettiva, del lavoro e della festa, della fragilità, della tradizione e della cittadinanza. Vorrei richiamare quelli che ritengo siano i terreni sensibili alla costruzione di un percorso di speranza su cui impegnarsi sul piano politico e sociale: il lavoro, la famiglia, il contrasto alle povertà e alle disuguaglianze, il superamento dei divari territoriali. Il lavoro Il lavoro è uno dei luoghi in cui la speranza ha giocato un ruolo fondamentale e ha fortemente agito soprattutto negli ultimi due secoli, e rappresenta ancora una delle frontiere dell'impegno sociale, nonostante i processi di liberazione e di emancipazione che si sono realizzati nel corso degli anni. Continua a essere, di là dalle teorie che ne hanno decretato la fine o cercato di sostituirlo con una valorizzazione dell'ozio, una delle attività più importanti della persona umana; va garantito, tutelato e giustamente remunerato, riconosciuto come elemento di partecipazione dei singoli alla vita comunitaria. Il lavoro deve tornare a essere elemento centrale per la produzione di ben-essere per le persone, per la società e luogo di speranza per un buon futuro. Non può e non deve diventare fonte di rischio sociale o di sconnessione delle relazioni tra le persone. In primo luogo occorre che si riconosca il contenuto etico dell'attività lavorativa ( dipendente, manuale, intellettuale, professionale, imprenditiva ), la sua funzione sociale, la sua qualità, la sua distribuzione, la sua capacità di far crescere le persone attraverso l'attribuzione dei ruoli, la condivisione dei saperi e l'accesso alle opportunità di apprendimento; sono questi gli elementi cardine per ogni percorso di partecipazione sociale, politica, economica e per l'esercizio concreto di una cittadinanza attiva. Tramite il lavoro va recuperata la dimensione relazionale dell'economia attraverso nuove forme di partecipazione e soprattutto valorizzando le esperienze dell'economia civile, del terzo settore, dell'impresa no-profit, della cooperazione, dell'economia etico-solidale, delle nuove attività di cura e di mutualità; campi questi dove l'associazionismo cristiano sta già realizzando significative esperienze, che devono però essere assunte dalla comunità cristiana come il segno di nuove possibilità d'implementazione della dottrina sociale. Le nuove forme del lavoro, del fare impresa, della partecipazione possono contribuire ad avvicinare al tema della festa come tempo " altro ", che da senso e significato al lavoro. La famiglia La famiglia è sempre stata al centro dell'attenzione del nostro mondo e della Chiesa italiana. Sappiamo che, nel corso degli ultimi decenni, le famiglie italiane sono state attraversate e interessate da rilevanti trasformazioni: nuovi modelli di convivenza si sono diffusi, sono cresciuti i divorzi e le separazioni, sono aumentati e sono cambiati i bisogni materiali e immateriali; è diventato più impegnativo e difficile il suo ruolo nella società. Trasformazioni profonde che hanno prodotto riflessi notevoli all'interno delle famiglie stesse e nella rete delle relazioni interfamiliari. La nostra attenzione non può più limitarsi solo al piano della tutela economica e normativa. Deve essere affrontata dal punto di vista del riconoscimento del suo ruolo sociale e comunitario. L'isolamento delle famiglie non si risolve con le leggi, che pure ci vogliono, ma con un nuovo spirito di comunione, con una nuova qualità del vivere insieme, con il generare strumenti e progetti che aiutino la comunità civile e cristiana a prendersi cura della famiglia. È auspicabile che alla logica individualista, che ha sempre caratterizzato le scelte politiche e contrattuali, subentri una logica familiare che sia in grado di pensare la famiglia come soggetto. Il contrasto alle povertà Si era sperato che con la fine della guerra fredda e l'avvento della globalizzazione si sarebbero create le condizioni di maggior giustizia e benessere per tutti, sia nei paesi industriali avanzati che nei paesi poveri o impoveriti. Non è stato così e ci ritroviamo con un sistema commerciale globale ingiusto, un sistema finanziario che carica sulle spalle dei più poveri debiti ingestibili. Il mondo diventa più ricco, ma anche più diseguale tra e dentro i paesi. Bisogna prendere atto che nuove forme di povertà sono tornate a essere presenti anche in Italia. La povertà non è semplicemente la mancanza di guadagni o di risorse finanziarie. Oggi comprende anche il concetto di vulnerabilità e altri fattori come la mancanza di accesso a un'alimentazione adeguata, all'istruzione e al sistema sanitario, alle risorse naturali e all'acqua potabile, al territorio, all'occupazione e alle agevolazioni creditizie, all'informazione e all'impegno politico, ai servizi e alle infrastrutture. Tutti questi elementi sono necessari per permettere agli svantaggiati di acquisire il controllo del proprio sviluppo, di godere di pari opportunità e vivere in un ambiente più sicuro. Limitare la povertà alla sola sfera economica comporta, come l'esperienza ci suggerisce, una riduzione persino delle politiche di contrasto. Diventa essenziale, quindi, avere un quadro chiaro dell'interrelazione dei bisogni per impostare politiche efficaci. Superamento dei divari territoriali Occorre rilanciare un forte impegno sui problemi del divario territoriale, cercando di coglierne le trasformazioni che attraversano in modo diverso i territori del nord rispetto a quelli del sud. Restano aperte le questioni degli squilibri economici e occupazionali che mantengono il Mezzogiorno in una posizione di oggettiva difficoltà, con il rischio che gli elementi positivi che erano maturati negli ultimi anni possano subire ulteriori freni. Resta aperto il problema della criminalità organizzata e delle debolezze infrastrutturali. Sono convinto, però, che il problema non sia tanto il Mezzogiorno, ma la nostra idea di Mezzogiorno d'Italia che rimane inalterata anche di fronte ai cambiamenti avvenuti e agli sforzi effettuati. Il Mezzogiorno infatti trarrebbe vantaggio da una profonda ridefinizione dei meccanismi di spesa, che oggi determinano sprechi di denaro pubblico senza portare risultati apprezzabili. Ma le differenze tra nord e sud non si riducono alle questioni economiche; c'è oggi il rischio che la divaricazione possa avvenire sul piano sociale e culturale. C'è la necessità di un forte impegno dei cristiani a rideterminare i nuovi tratti dell'unità nazionale che tenga conto delle differenze e delle peculiarità da inserire in un contesto europeo. Nel quadro dei cambiamenti e nella costruzione di percorsi di speranza, particolare attenzione va poi posta alle nuove soggettività: donne, giovani, immigrati, anziani. Le donne La nostra adesione al dono della fede ci consegna una sfida antropologica che spinge a passare dalle dichiarazioni alle azioni. La crescita della presenza femminile nella società, nel lavoro e nelle professioni, nella cultura e nella politica, è uno dei " segni dei tempi " cui guardare con attenzione. Questo cammino ha dovuto affrontare tante incomprensioni anche nel nostro mondo, superare ostacoli, vincere resistenze. Un impegno sociale e civile che non è ancora terminato perché permangono in tanti ambiti della società, del lavoro, delle professioni, della politica e del mondo - non dimentichiamo che ci sono donne che vivono situazioni di subordinazione pesante e tante volte inumana - ostacoli che impediscono alle donne un pieno inserimento, pari opportunità e un'effettiva uguaglianza. Occorre dunque onestamente riconoscere che c'è molta strada da fare per vincere le resistenze che si oppongono a un pieno riconoscimento della parità anche nella stessa Chiesa. Eppure il percorso delle donne oggi è un gran segno di speranza; esse possono dare un contributo importante alla cultura della speranza. Lo possono fare per le esperienze che vivono nell'affettività, nelle relazioni, nella sensibilità, nella dimensione della maternità, del dono e per la chiamata alla conversione che rivolgono all'universo maschile. La società, la politica e la Chiesa sono più povere se non sono in grado o se si oppongono alla piena valorizzazione delle donne, quel " genio femminile " - per dirla con Giovanni Paolo II - che opera nella società e nella Chiesa, nella dimensione di una quotidianità orientata al futuro, capace di inventare nuovi gesti e di far rivivere quelli che già conosciamo. I giovani I giovani sono più di altri soggetti portatori di speranza. Analizzando la società italiana e dentro essa la condizione giovanile, avvertiamo la presenza di segni contraddittori e forti ambivalenze. Essi costituiscono lo specchio fedele dei nostri tempi. Molte volte sono invisibili, difficili da comprendere e accettare, spesso sottoposti a critiche dal mondo adulto proprio perché ci ricordano le nostre manchevolezze educative e la debolezza dei nostri esempi, pensieri e valori. Si è scritto che i giovani sembrano essere un " popolo in attesa ", più orientato ad adattarsi che a trasformare la realtà, quasi impauriti nel diventare adulti, nell'uscire da casa, nell'assumersi responsabilità, piegati a una coabitazione familiare prolungata. Da molte inchieste emerge una generazione di giovani in difficoltà nel progettare il futuro, nell'assumersi responsabilità di lungo termine, molto centrata sul presente. Coglierne le preoccupazioni e le attese significa avere il coraggio di assumerle su di noi e non liberarcene caricandole sulle loro spalle. Questo vuoi dire assumere come criterio orientativo il principio di responsabilità, inteso quale obbligo di lasciare alle nuove generazioni un mondo migliore di quello trovato. Principio che dovrebbe guidare la politica e tutte le forme della rappresentanza, e che esige si abbandonino i corporativismi e gli interessi a breve. Il nostro sguardo deve sempre volgersi al domani e le nostre azioni e decisioni puntare verso un bene comune attento ai giovani. I cristiani devono uscire dalla retorica negativa sul mondo giovanile per vedere la realtà in tutta la sua complessità e contraddittorietà. Il problema dei giovani siamo noi adulti: troppe volte veniamo meno al nostro dovere di testimonianza e di trasmissione di valori, ideali e visione del mondo. Cogliendo i segni di speranza che attraversano il mondo giovanile, dobbiamo diventare promotori di una nuova relazione intergenerazionale fondata su educazione, lavoro e trasmissione della fede. L'immigrazione Affrontare il tema dell'immigrazione dentro una prospettiva di speranza non è facile: questa sarà una delle questioni che più turberà le nostre comunità e il Paese. Le decisioni recentemente assunte dal governo in merito alla concessione della cittadinanza alle persone e ai loro figli dopo una permanenza in Italia di cinque anni, sono un fatto importante sul piano umano e civile. Un passaggio che obbliga a una serie di riflessioni, perché un conto è essere eredi, e pertanto avere, quasi naturalmente, un proprio bagaglio culturale, sociale e di storia; altro è arrivare con la " valigia di cartone " piena del tuo mondo e della tua storia. Combinare questi elementi non è facile! Vedo in giro molta superficialità. Questi mutamenti devono essere a tutti noi ben chiari, perché se da un lato consentono la possibilità d'integrazione tra culture diverse, dall'altro hanno implicazioni che non possono essere sottovalutate e che richiedono uno sforzo notevole per costruire una nuova forma di appartenenza che non sia quella dei " separati in casa ". La stessa solidarietà etnica, che sembra essere uno degli elementi di ridefinizione dei confini urbani e di convergenza identitaria, rappresenta una novità per le nostre città. Questa prospettiva ci obbliga ad avviare un percorso di attenzione, di analisi, di riflessione e di azione che ci porti a pensare in modo nuovo il rapporto tra diritti, doveri e forme di appartenenza, cercando di costruire nuovi equilibri tra la tradizione, la cultura, i particolarismi e la tensione universalista che non possiamo, come cattolici, abbandonare. È superata la questione dello straniero da accogliere; ora dobbiamo porci quella dell'entrare in relazione e in comunione con chi ha deciso di restare tra noi. È una sfida forte anche per le nostre comunità cristiane, che a pensare in termini interculturali. Gli anziani La situazione demografica ( invecchiamento della popolazione e calo della natalità ) e lo stato di estrema fragilità della famiglia, sottoposta a gravi tensioni per soddisfare le proprie esigenze con redditi spesso insufficienti, rappresentano due questioni rilevanti per il nostro Paese. La bassa natalità è la crisi più evidente del venir meno di uno slancio vitale e progettuale nei confronti del futuro. Si coglie in questo i risultati di una sottovalutazione del fatto che i figli sono anche un bene sociale, e un'insufficiente attenzione al ruolo della famiglia nel nostro Paese. Realizzare adeguate politiche per la famiglia serve non solo a far uscire dalla solitudine l'impegno e la responsabilità dei genitori, ma anche a seminare nuove speranze verso un futuro nel quale i sogni e l'iniziativa dei giovani costruiranno un mondo dove gli anziani si sentiranno protagonisti. Questo è un ambito che attiene non solo a una dimensione sociale e culturale, ma ha profondi intrecci con le questioni economiche del nostro Paese, perché le scarse nascite incidono fortemente sull'equilibrio generazionale e sui costi dello stato sociale. Un Paese con lo sguardo rivolto al proprio futuro può meglio affrontare la realtà dell'invecchiamento come un gran fattore positivo che può favorire un intreccio positivo in termini umani e socioculturali tra generazioni. Quello degli anziani è un mondo poco esplorato e dato quasi per scontato. Rappresenta invece uno dei più rilevanti fattori di trasformazione strutturale della nostra società, che sta rivoluzionando i comportamenti sociali. L'allungamento delle aspettative di vita, gli squilibri demografici a livello nazionale e mondiale vanno costantemente monitorati, perché fonte di nuove problematiche e di potenziali conflitti. L'Italia possiede uno dei tassi più elevati d'invecchiamento e ciò implica un punto di vista nuovo da parte di tutti, anche della comunità ecclesiale. Occorre uscire dalla visione compassionevole nei confronti degli anziani da assistere per entrare in una visione partecipativa e promozionale. Gli anziani sono oggi una gran risorsa umana e sociale, oltre che economica e finanziaria, che non può essere condannata alla marginalità o al servizio domestico. L'impegno sociopolitico dei cristiani È nell'ambivalenza dei processi di cambiamento che i cristiani sono chiamati a esprimere con forza e creatività la loro ispirazione evangelica e comunitaria per ritrovare un giusto equilibrio tra libertà e giustizia, ma anche per inventare nuove forme per l'annuncio della " bella notizia " del Vangelo. Va dunque respinta ogni visione funzionaiistica, ma non possiamo non essere attenti anche al rapporto tra " religione civile ", etica e Vangelo, avendo coscienza e consapevolezza che la presenza bimillenaria del cristianesimo ha lasciato tracce profonde nella cultura etica e sociale del nostro Paese. Bisogna essere attenti alla dimensione e al sentire popolare della Chiesa. Non si tratta di rifiutare o restringere le istanze di rinnovamento, ma di inserirle in un percorso che orienti pazientemente quel cattolicesimo popolare ancora molto diffuso nella nostra società verso la maturazione di un'esperienza cristiana più carica e vigorosa. Oggi la Chiesa si trova provvidenzialmente in una situazione che, rispetto al passato, le consente di vivere con maggiore libertà la sua missione di annuncio del Vangelo e il suo messaggio di promozione umana, nel quale si collocano quelli che il Santo Padre ha definito " valori indisponibili ", che non dobbiamo vivere come divieti o proibizioni, ma collocarli nella logica della difesa della dignità e libertà dell'uomo. E un'indisponibilità positiva quella che dobbiamo proporre e vivere, che ci chiama a un impegno forte a difesa della vita, dal concepimento al nascere, al vivere e al morire. Una ripresa di soggettività del laicato è oggi essenziale per rispondere all'esigenza fondamentale di evangelizzazione e reidentificazione dell'essere cristiani oggi in Italia. La prima cosa che si deve fare è costruire e vivere una spiritualità della speranza. Dobbiamo sforzarci di essere segno e manifestazione della gioia che vive in noi nel mondo e tra gli individui che si accalcano in una corsa senza fine. Dobbiamo essere lieti e contenti di essere qui, in questo mondo. La speranza cristiana è l'annuncio del compimento, della realizzazione di una gratuità, di un'eccedenza che s'inserisce nella storia. L'atteggiamento che dobbiamo assumere a fondamento di una spiritualità della speranza è quello della lietezza di essere stati creati e redenti. L'annuncio del Vangelo non può mai essere separato dalle opere, e queste si esercitano nella realtà sociale, nella politica e nelle istituzioni dove occorre essere presenti con le parole, i gesti e un " fare " che evidenzi la potenzialità del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa. È questo il tempo di superare i particolarismi, le chiusure, i piccoli recinti, per costruire percorsi di fraternità vera e di comunione. È pertanto necessario metterci in " rete " e " fare opere " con il desiderio di produrre frutti di rinnovamento ecclesiale, sociale e una nuova missionarietà segnata dalla testimonianza. Occorre che i vari raggruppamenti ecclesiali, movimenti o associazioni, recuperino un forte spirito ecclesiale e una capacità di agire insieme per rendere più efficace l'esercizio delle " opere di misericordia ", per incontrare gli uomini che sperano, soffrono e si battono per un mondo migliore, per rendere testimonianza del Vangelo. Siamo chiamati a operare in un nuovo spirito di comunione fraterna. La fraternità non è mai omogeneizzazione ma riconoscimento di una paternità e di una familiarità condivisa delle differenti vocazioni, che si può esprimere in azioni e iniziative comuni tese a: 1) valorizzare le risorse e le relazioni umane nel territorio e nelle parrocchie; 2) generare progetti capaci di mettere insieme, di attivare risorse e di coinvolgere; 3) riproporre il valore della solidarietà, la pratica della sussidiarietà e della responsabilità; 4) promuovere ed educare a una cittadinanza responsabile. Nuovi rapporti con la politica L'affermazione dell'autonomia e della " politicità " propria del sociale deve accompagnarsi alla valorizzazione dell'impegno politico. Alcuni criteri orientativi sono: - fare buona memoria dell'esperienza e della testimonianza che i cattolici hanno espresso nell'impegno politico - istituzionale cui oggi si vorrebbe guardare con sufficienza. Abbiamo avuto il gran merito storico di costruire la democrazia di tutti; - fare i conti con il bipolarismo uscendo dalle nostalgie per costruire una nuova e plurale presenza dei cattolici nell'impegno politico. Sono compiti che toccano la responsabilità dei laici cristiani. Alla Chiesa, infine, compete l'insegnamento evangelico, l'amministrazione dei sacramenti e rendere evidenti i tratti della dottrina sociale che deve rivolgersi a tutti gli uomini; deve educare alla politica lasciando ai laici la piena responsabilità e autonomia di decidere le forme e i modi dello stare in politica, sia in termini individuali sia organizzati. Queste valutazioni esigono alcune precisazioni: - l'unità dei cristiani non si realizza in politica, ma nell'essere Chiesa e pertanto nel vivere il rapporto con i vescovi, i presbiteri, i religiosi e le religiose e con la comunità cristiana in forte e profonda comunione; - questa logica obbliga i cattolici a fare i conti con il bipolarismo e a scegliere, in libertà, di militare e impegnarsi in uno o nell'altro schieramento, assumendo un ruolo efficace e visibile nell'elaborazione politico - programmatica; avendo chiaro che, sempre più, l'agire e la decisione politica saranno posti di fronte a " valori indisponibili " e a temi " eticamente sensibili ", perché costituiti per la libertà e la dignità delle persone. La situazione d'impegno politico " plurale " dei cristiani interpella la comunità cristiana, che è chiamata a creare i luoghi del discernimento e dell'educazione all'impegno sociale e politico. Impegno per costruire pace e sviluppo Le vicende del vicino oriente, del Libano, di Israele e della Palestina, l'invio della forza internazionale d'interposizione con una presenza significativa dell'esercito italiano, il permanere di molti focolai di conflitto in diverse parti del mondo, l'insorgenza del terrorismo e il diffondersi della violenza, pongono numerose domande alla nostra coscienza di cristiani. Il ripetersi di guerre, genocidi, persecuzioni e violazioni dei diritti umani, il nuovo terrorismo esigono che si elabori una strategia per la pace: è un compito gravoso che impegna noi cristiani a essere costantemente costruttori di pace e di solidarietà internazionale. I problemi della fame, dell'analfabetismo, della miseria, della salute, che oggi colpiscono molte popolazioni nel mondo e in particolare in Africa, chiedono ai cristiani che amano la pace di farsi protagonisti di un disegno di globalizzazione della solidarietà e della giusta ripartizione universale dei beni. Su questi temi serve un profondo lavoro culturale, serio e non ideologico, che costruisca un impegno per la pace, vissuto come dimensione esistenziale e come metodo d'azione, per imparare a guardare al mondo e ai suoi problemi con uno sguardo non violento, sapendo che la lotta tra violenza e non violenza inizia ogni giorno. Conclusioni La speranza cristiana non è un'aspirazione o un buon sentimento, ma, in quanto tensione escatologica, trasmette all'impegno sociale e politico l'esigenza di mantenere aperte le possibilità del nuovo e dell'inedito, ed è una permanente trazione verso il futuro. Questo è il nostro compito. In ogni occasione e in ogni impegno sociale e politico siamo chiamati ad annunciare e testimoniare con la vita il Vangelo. Oggi la Chiesa ha bisogno di molte competenze, di tante professionalità, di persone animate da una grande generosità nell'impegno sociale e politico. Credo però che abbia bisogno soprattutto di persone capaci di vivere fino in fondo e con spiritualità i tempi che ci sono concessi,contemplando con gratitudine la bellezza della vita donata da Dio e con passione l'Uomo della croce, sapendo che con la Sua Risurrezione ha dato un nuovo significato all'esistenza umana e alla morte, alla sofferenza e alla gioia.