CEI/Conv/2006_10_16/05/05.txt Gli ambiti e i gruppi di studio La quinta sezione si divide in due parti. La prima raccoglie le relazioni introduttive ai cinque ambiti: 1) vita affettiva: prof.ssa Raffaella Iafrate, associato di psicologia sociale nell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; 2) lavoro e festa: prof. Adriano Fabris, ordinario di filosofia morale e Direttore del Master in Comunicazione pubblica e politica dell'Università di Pisa; 3) fragilità: dott. Augusto Sabatini, giudice e Presidente Vicario del Tribunale per i minori di Reggio Calabria; 4) tradizione: prof. Costantino Esposito, ordinario di storia della filosofia nell'Università di Bari; 5) cittadinanza: prof. Luca Diotallevi, associato di sociologia nell'Università di Roma Tre. La seconda parte presenta le relazioni conclusive dei trenta gruppi di studio, sei per ciascun ambito. ( Le sintesi redatte dai cinque relatori di ambito si trovano più avanti, nella sezione n. 7, mentre in Appendice sono riportate le schede di lavoro usate dai gruppi. ) Ambito 1: vita affettiva Introduzione della prof.ssa Raffaella Iafrate 17 ottobre 2006 1. Essere testimoni di speranza in ambito affettivo Nelle riflessioni preparatorie e nei primi interventi di questo Convegno, abbiamo più volte ricordato che il testimone è colui che vive come " pellegrino e straniero " in questo mondo, che affronta il viaggio della vita consapevole delle difficoltà e dei rischi che incontrerà sul suo cammino, ma fiducioso e determinato a raggiungere la meta, fonte di senso della sua stessa vita. Parole chiave del suo percorso sono: libertà dai condizionamenti del mondo; coraggio di scommettere sul futuro al di là delle possibilità e dei limiti umani; fiducia in una presenza che accompagna e sostiene, anche nella prova e nell'afflizione. In altre parole, testimone è colui che sa sperare di una speranza viva che interroga e interpella l'umano sentire, perché fondata sulla sconvolgente differenza del mistero di morte e risurrezione del vangelo. È questa una speranza che si mostra soprattutto nel dolore e nelle inevitabili prove della vita, ma di cui non siamo padroni: essa ci travolge e ci supera. Abbiamo anche più volte sottolineato la difficoltà odierna di parlare di speranza: la perdita di un orizzonte escatologico ( espressa da un generalizzato appiattimento sul " qui e ora " ); il tramontare dell'idea che la storia abbia una direzione, un senso; la confusione superficiale tra speranza e vago sentimento di ottimismo: tutto tende a banalizzare una dimensione umana che ha un respiro infinito, ossia un'esperienza che solo il Risorto può donare. La vita affettiva, di cui ogni uomo fa esperienza dal suo nascere e che occupa grande spazio lungo tutta la sua esistenza, è oggi particolarmente soggetta a questa banalizzazione e rappresenta pertanto un vero e proprio banco di prova per una testimonianza credibile della speranza cristiana. La libertà, il coraggio, la fiducia e la speranza del testimone sono così messe alla prova anche e soprattutto nelle esperienze affettive, oggi sempre più vissute come realtà dell'io individuale, pieno del suo sentire e delle sue emozioni e quindi senza spazio per l'incontro con l'altro, che diviene così qualcosa di minaccioso da cui difendersi o del quale appropriarsi per non esserne a propria volta fagocitato: in altre parole, un'affettività senza speranza. L'origine di tale di-sperazione è rintracciabile nella dicotomia cui, nel nostro contesto socioculturale, sono stati sottoposti gli affetti. Assistiamo oggi infatti a una tendenza a contrapporre affetto e norma, passione ( pathos ) e ragione ( logos ), e a ridurre a pura emotività l'esperienza affettiva, concepita come tutta interna al soggetto, autogenerantesi, passiva e ingovernabile dalla volontà e dalla ragione. Tale dicotomia ci parla di un vero e proprio stravolgimento a livello antropologico. In evidenza c'è una concezione di uomo che nel campo affettivo tende sempre più a diventare " ciò che si sente ", frutto di una separazione tra corpo e mente; una concezione dalla quale ciò che viene a mancare è l'idea stessa di persona come essere umano con i suoi attributi di dignità e libertà, in cui fisicità e spiritualità, natura e cultura sono ricondotti a unità secondo una prospettiva che supera e trascende ogni deriva spiritualistica e materialistica, ma anche individualistica e collettivistica. Nella " persona ", coscienza, affetti e responsabilità sociale infatti non si contraddicono, ma sono dimensioni indispensabili per la piena realizzazione dell'uomo che, proprio in quanto persona, è fondamentalmente " relazione " con l'altro. La vita affettiva, luogo privilegiato del re-ligo, del legame tra gli uomini, dove libertà individuale e vincolo sociale hanno lo stesso peso e la stessa dignità ( " legare " ed " essere legati " all'altro implicano infatti una duplice valenza di dono libero/debito vincolante ), paga così lo scotto di questa dissipazione antropologica e da esperienza squisitamente personale viene sempre più ridotta a esperienza puramente individualistica. Non stupisce dunque il fatto che oggi ci troviamo di fronte a una sorta di " marasma " terminologico indifferenziato in cui affetto e amore sono spesso confusi con emozione, sentimento, soddisfazione effimera. Occorre dunque ribadire con forza ( come il magistero ecclesiale non si stanca di fare ) che veramente degno dell'uomo è un amore che non si riduce alla dimensione istintiva e sessuale, ma al tempo stesso non la rinnega a favore di un astratto spiritualismo; è un amore che trascende il determinismo dell'ordine biologico per approdare a un orizzonte di libertà; è un amore che è espressione della persona nella sua interezza, ossia dell'essere umano come essere individuale e sociale, dotato di istinto e di ragione, di passione e responsabilità. Prima di parlare di affetti è importante pertanto chiedersi di quale vita affettiva si sta parlando e soprattutto di quale uomo si sta parlando. Quando si costruisce, occorre sempre verificare il fondamento. 2. Peculiarità della vita affettiva della persona Un'autentica vita affettiva, come esperienza profondamente rispettosa dell'umano, non può che essere: 1) un'esperienza di relazione; 2) congiunta a una dimensione etica. 2.1. Che cosa significa che non può essere che un'esperienza di relazione? Occorre innanzitutto osservare che la cultura contemporanea sembra incapace di pensare la " relazione ", ossia di pensare a ciò che lega le persone tra loro. È come se oggi - al contrario - si affermasse che dove c'è relazione con l'altro non ci può essere spazio per il soggetto e i suoi diritti individuali. Separazione, divorzio, denatalità, ricorso a tecniche di fecondazione artificiale nella logica del " diritto alla maternità " e del " figlio a tutti i costi ", sono fenomeni in crescita che mostrano come, in nome della libertà individuale, sia sacrificato ogni significato che riconduca al legame con l'altro, con il diverso da sé. Ciò che questa concezione individualistica non considera è che in realtà tra identità individuale e relazione con l'altro esiste un legame indissolubile, al punto che si può affermare che la capacità di relazione non è un'abilità, ma l'abilità che definisce l'essere umano. Anche la psicologia lo conferma. L'essere umano nasce - per così dire - " psicologicamente " nel rapporto con l'altro ( la madre ) e cresce grazie alla sua capacità di stabilire altre relazioni adeguate con le persone che costituiscono il suo ambiente familiare e sociale. Il bambino è da subito, fin da quando è nel ventre materno ( e chi ha vissuto l'esperienza della maternità può solo confermarlo ), un soggetto capace di comunicazione e relazione. Studi recenti hanno inoltre mostrato come il neonato sia già " socialmente competente ", possieda cioè una grande conoscenza delle regole del dialogo e dello scambio con gli altri. Ma spingiamoci ancora oltre: la persona non può neppure definirsi se non in relazione agli altri; anche quando si tratta di dare una definizione di sé, rispondendo alla domanda: " Chi sono io? ", ci accorgiamo che tale definizione ( figlio/figlia, moglie/marito, madre, padre, fratello, amico, professionista … ) è fondata su relazioni e legami con l'altro. La dimensione relazionale è connaturata con l'umano e anche l'individuo più isolato e solitario porta i segni di un'appartenenza sociale, che è prima di tutto familiare ( già presente nel nostro nome e cognome ). Gli esseri umani sono dunque " esseri relazionali ". Rivendicare la natura relazionale degli affetti significa pertanto riconoscere la profonda verità di una caratteristica peculiare dell'essere umano, che non si spiega dentro a una prospettiva individualistica. L'affettività è prima di tutto un incontro con l'altro. Affectus ( da affido nella sua forma passiva ) significa " sono colpito, sono mosso ". Qualcosa o qualcuno colpisce il mio io e io gli vado incontro. L'affetto ha una direzione ed esprime un legame con l'altro. L'esperienza affettiva mi supera e mi apre all'ignoto dell'in-contro ( ossimoro che unisce i due concetti opposti di in = verso e contro ) e della relazione, sia nei suoi aspetti di vincolo ( re-ligo ), sia di riferimento di senso ( re-fero ). Le numerose interazioni che costellano la vita quotidiana delle persone che si amano si possono comprendere appieno solo se ricondotte a ciò che lega i soggetti a monte alla loro storia comune. Caratteristica della relazione, a differenza dell'interazione contestualizzata nel qui e ora, sono dunque i tempi lunghi, è la storia personale e sociale che lega un uomo e una donna, due amici, un genitore e un figlio, un educatore e un discepolo. Parlare di relazionalità della vita affettiva significa pertanto uscire da una visione egocentrata e proiettare gli affetti in una prospettiva che non può essere esaurita nell'istante dell'interazione di scambi immediati e di bilanci frettolosi, come quello che giudica la bontà di una relazione in base alla gratificazione immediata o a ciò che se ne ricava. 2.2. Un'autentica vita affettiva non può essere disgiunta da una dimensione etica L'affetto, privato di una direzione verso cui tendere, si riduce a pura emotività e sentimentalismo. È dunque una combinazione di qualità etico - affettive a costituire la struttura portante di tutte le relazioni. Il prototipo della qualità affettiva è la fiducia - speranza, il matris - munus, il dono della madre che da la vita, la protegge e la contiene; il prototipo della qualità etica è la lealtà - giustizia, il patrismunus, il dono del padre che guida, da coraggio, regola, apre al mondo. Va certamente riconosciuta al nostro tempo una valorizzazione degli aspetti affettivi ed espressivi del legame, rispetto a una società del passato certamente più restia a riconoscere la bontà di queste dimensioni, e maggiormente orientata a sottolineare gli aspetti vincolanti e normativi delle relazioni interpersonali e sociali, con rigidità che condizionavano fortemente anche le relazioni affettive e familiari. Pensiamo ad esempio ai matrimoni fondati su patti formali e contrattualistici, combinati dalle famiglie d'origine o dalle comunità d'appartenenza; o al rapporto genitori - figli delle generazioni del passato in cui le manifestazioni affettive erano molto contenute ( si diceva: " I bambini vanno baciati solo quando dormono"! ), soprattutto la relazione padre - figlio, spesso lontana e autoritaria. Positiva è dunque la conquista del nostro tempo che ha saputo ridare spazio alla dimensione affettiva dell'uomo, al riconoscimento delle potenzialità del suo cuore. Ma noi sappiamo che il cuore dell'uomo, con tutta la ricchezza e la profondità di cui è ricolmo, se non è educato da un ethos che gli indichi una direzione, che ne finalizzi le potenzialità, si corrompe. Occorre, infatti, sottolineare che fiducia/speranza da una parte e lealtà/giustizia dall'altra, in una certa misura, convivono con il loro opposto: nessuna relazione umana è, infatti, perfetta e una certa quota di mancanza di fiducia e di prevaricazione vive nelle nostre relazioni affettive. Nelle relazioni circola la speranza di bene con la sua forza unitiva, di passione e di compassione, e circola il male con la sua forza disgregante, di sfruttamento dell'altro e di dominio su di lui. Nessuna relazione ne è immune; per questo motivo i legami affettivi possono essere la sede del benessere della persona, ma anche la sede della grave patologia e della sofferenza psichica ( come molti fatti di cronaca di questi ultimi anni stanno dimostrando drammaticamente ). Noi oggi ci troviamo davanti a un grave rischio: assistiamo a una sorta di " ipertrofia " dell'affetto, uno sbilanciamento a favore degli aspetti emozionali a discapito di quelli valoriali con un'affettività sradicata dall'ethos, da una prospettiva di senso, percepita come pura saturazione di un bisogno, senza direzione e scopo, ridotta a puro sentimentalismo, a " ciò che si sente ", si prova. Anche a livello educativo si osserva tale equivoco sbilanciamento: gli affetti paiono non bisognosi di educazione. Già nelle prime relazioni con i bambini piccoli, questi vengono educati sul piano cognitivo e - al limite - comportamentale, ma si ritiene l'affettività come " non educabile ", a favore di uno spontaneismo che si risolve in un puro soddisfacimento dei bisogni immediati. E tale atteggiamento è poi mantenuto anche lungo il percorso di crescita, dalla scuola che si occupa di educare cognitivamente e culturalmente, ma che riserva poco spazio alle dimensioni affettive e relazionali; alla formazione degli adolescenti, sempre più seguiti ed emancipati sul piano intellettuale e sempre più disorientati e in balìa delle proprie dirompenti emozioni sul fronte relazionale e affettivo. Sintomatica - a questo proposito - la percezione di anacronismo che suscita oggi la parola " fidanzamento ". Il tempo dell'affetto messo alla prova, della verifica, orientato a un futuro attraverso una promessa di impegno, fiduciosa nei confronti dell'altro, ha lasciato spazio a esperienze " usa e getta " o tutt'al più a reiterati tentativi per " prove ed errori ", vissuti sostanzialmente come sperimentazioni narcisistiche della propria capacità di seduzione o come conquiste per confermare la propria identità e soddisfare i propri bisogni. Anche nella difficoltà di fidanzarsi e di vivere il fidanzamento come banco di prova dell'affetto, come occasione per incamminarsi e verificare la propria vocazione, si esprime dunque la tendenza attuale a sradicare l'affettività dalle sue più profonde ragioni e la difficoltà ad approdare a una visione dell'affetto come incontro con l'altro, come relazione. Tutto ciò mette a dura prova la tenuta delle relazioni affettive e ancora di più la loro forza generativa e benefica. È quantomeno curioso, se non inquietante, osservare come il mondo moderno, così attento a promuovere la crescita intellettuale delle nuove generazioni, così aperto all'investimento di energie sul piano culturale, si accontenti di formare personalità che pur essendo cognitivamente evolute sono affettivamente incistate in uno stadio evolutivo infantile, in un'affettività primordiale e incontrollata, spesso fonte di sofferenza, se non di vera e propria patologia relazionale. Il mondo degli affetti chiede dunque di essere formato e per così dire " raffinato " da un lavoro educativo, non meno lungo e impegnativo di quello richiesto per la formazione delle menti e delle cognizioni. 3. Legami orizzontali e verticali La verità profonda degli affetti risiede dunque in questo riconoscimento della loro natura relazionale e della loro direzione etica. Il polo etico e il polo affettivo agiscono nelle diverse relazioni, da quelle orizzontali - simmetriche ( coniugale, fraterna, amicale ) a quelle verticali - asimmetriche ( genitoriale, tra generazioni familiari e sociali ), nelle diverse transizioni che il legame attraversa: pertanto, in ciascuno di questi legami ci sono aspetti di cui occorre prendersi cura per garantire che i processi degenerativi non prevalgano su quelli generativi, che la disperazione non prevalga sulla speranza. 3.1. Legami orizzontali - paritetici All'interno dei legami orizzontali, in cui i soggetti si pongono su un piano paritetico in termini non solo di valore, ma di potere e responsabilità, la dimensione affettiva si traduce sostanzialmente nell'abbandono fiducioso all'altro, nel calore e nell'intimità della relazione, mentre il polo etico si traduce nell'impegno per la tenuta del legame, nel rispetto dell'altro per la sua diversità e dignità individuale. Solo a condizione che entrambi questi aspetti siano presenti è possibile realizzare un autentico legame affettivo, in cui il sentimento non diventi puro appagamento di sé, ma acquisisca un valore che supera i bisogni individuali e testimoni l'eccedenza della relazione, come elemento terzo, degno di riconoscimento e di cura. Tutte le relazioni orizzontali - paritarie, pur con la loro specificità, condividono queste caratteristiche: l'amicizia, la fratellanza e, soprattutto, l'amore tra un uomo e una donna. 3.1.1. I legami di fratellanza e di amicizia Pur nella diversità della loro natura ( di sangue i primi, d'elezione i secondi ) si tratta di legami molto simili. Soprattutto ai giorni nostri in cui l'esperienza fraterna è sempre più rara ( per il diffondersi delle famiglie con figlio unico ), le relazioni amicali sono spesso sostitutive di quelle fraterne e, in un certo senso, esprimono il bisogno di legami fraterni tra gli uomini ( non è un caso che per descrivere un'amicizia profonda si dica spesso: " È per me come un fratello " ). Le relazioni tra fratelli e tra amici rappresentano un'occasione preziosa per la crescita della persona, una sorta di " laboratorio sociale " in cui fin da bambini si sperimenta una relazione " orizzontale " nella quale imparare a trattare con i pari, a sperimentare le proprie capacità in un contesto noto e sicuro, a condividere ( o a volte a contendersi ) oggetti e affetti comuni, esattamente come si sarà chiamati a fare nella vita di relazione futura. Ma tali relazioni sono, dal punto di vista dello sviluppo psicologico, anche molto di più: potremmo affermare che esse costituiscono un prezioso terreno di esperienza dell'uguaglianza e della diversità al tempo stesso. I fratelli devono, infatti, da sempre e per sempre fare i conti con una storia comune, con una stessa matrice genetica e culturale; ma al tempo stesso si riconoscono da sempre e per sempre come differenti per caratteristiche individuali, per esperienze personali diverse, per le modalità con cui hanno elaborato differentemente tale comune appartenenza familiare. L'esperienza amicale, pur non riconducibile a una comune appartenenza familiare, condivide questo binomio somiglianzà/differenza tipico della relazione fraterna. Gli amici si scelgono spesso per complementarità o per somiglianza: anch'essi dunque sono chiamati come i fratelli a " distinguersi nella somiglianza " e ad " assomigliarsi nella diversità ", non negando le differenze al punto di appiattirsi in una rassicurante ma pericolosa " riproduzione " dell'altro, ma nemmeno esasperandole al punto di non riconoscere qualche aspetto di sé facilmente individuabile anche nell'altro. Quando si pensa alle relazioni fraterne e amicali, si oscilla tra aspetti positivi quali intimità, solidarietà, lealtà e categorie negative quali rivalità, gelosia, conflitto. Tale ambivalenza non è che uno specchio della realtà: nella relazione fraterna come in quella amicale, infatti, entrambe queste dimensioni sono costantemente compresenti. Come in tutte le relazioni, dunque, accanto ai processi positivi e generativi sono sempre in agguato quelli degenerativi. La condizione per la quale è possibile far prevalere i primi è ancora una volta quella di riconoscere la valenza etico - affettiva dei legami. Ciò significa che, nelle relazioni fraterne e amicali, affinché consolazione, appoggio e rispecchiamento ( aspetti affettivi ) non si traducano in una narcisistica ricerca di sé, è fondamentale che siano sempre presenti l'oblatività, il supporto, la gratitudine ( aspetti etici ), ossia il rispetto non solo per ciò che l'altro fa per noi, ma anche per ciò che l'altro è. Ma veniamo al legame di coppia. 3.1.2. Il legame di coppia e il suo itinerario educativo La reciprocità originaria dell'uomo e della donna e la loro potenzialità generativa rendono il legame di coppia il " paradigma " delle relazioni orizzontali paritetiche. Nel " mistero grande " della comunione tra uomo e donna ( " non più due, ma una sola carne " ) si rivela la persona come segno, immagine di Dio. La sfida all'impoverimento degli affetti e del valore della relazione a favore di un solitario quanto inesistente astratto individuo, ha dunque nella relazione di coppia l'espressione più alta e impegnativa. Per questo l'educazione alla vita di coppia è un lavoro di accompagnamento che deve partire da lontano: noi facciamo fatica a parlare di matrimonio ai ragazzi e ai giovani; anche l'educazione sessuale è spesso trattata come un problema di tipo puramente tecnico o in un'ottica di conoscenza e controllo individuale. La coppia rimane una questione da adulti. Sfugge troppo spesso la portata educativamente rivoluzionaria dell'esperienza dell'amore coniugale che testimonia al mondo la possibilità di realizzare sulla terra un legame che ha qualcosa di divino, che parla di eternità in un mondo dominato dalla precarietà, di fiducia e speranza alle nuove generazioni così spesso scoraggiate e rassegnate; di futuro e di generatività a una società schiava dell'immediato e spaventata dal domani. Educare all'affettività e alla vocazione matrimoniale è educare alla formazione della persona nella sua interezza; è educare al senso del limite e della propria finitezza: l'altro ci aiuta a superare l'illusione di onnipotenza narcisistica di cui oggi il mondo è malato. È educazione al dono gratuito, alla capacità di sacrificio e alla riconoscenza per il dono dell'altro non dovuto, ma liberamente elargito: tutti atteggiamenti oggi tanto rari quanto necessari alla nostra convivenza sociale. È educare a puntare in alto e a non bruciare le tappe sprecando esperienze di vita fondamentali per la crescita: in questo senso, l'educazione alla gestione ordinata e finalizzata della propria sessualità e dei propri desideri, liberati dalla prigione individualistica e riconosciuti nella loro natura relazionale e generativa, è una garanzia di formazione di persone autentiche, capaci di coniugare sentimento e volontà, passione e ragione, e di dare un senso alle proprie scelte. L'educazione all'affettività di coppia consente dunque un percorso di crescita vocazionale che può guidare i giovani a scelte più consapevoli, sia verso l'esperienza generativa della coniugalità e della famiglia, sia nella complementare, e non meno generativa, scelta vocazionale verginale e di speciale consacrazione. La vita affettiva rientra dunque in un percorso di scoperta della propria vocazione, di risposta a una chiamata da parte di un Padre a realizzare un disegno personale pensato per ciascuno di noi. Questa è l'origine della vera speranza: la sicurezza che la risposta a tale chiamata e un destino buono, pre - pensato da una paternità che ci precede e ci ama da sempre. Questa è anche la forza che sorregge i percorsi vocazionali più incerti e accidentati e gli itinerari più difficili. Nella confusione antropologica attuale, dove la libertà individuale pare essere l'unico criterio guida nelle scelte, dove si arriva anche a confondere i modelli di identificazione sessuale, mettendo sullo stesso piano le scelte eterosessuali e quelle omosessuali, sganciando quindi l'affettività dalla sua portata relazionale e generativa, porre l'educazione affettiva al di fuori degli aspetti valoriali e vocazionali può condurre a gravi difficoltà, specie per gli adolescenti e i giovani sempre più disorientati nelle loro scelte affettive e nel loro percorso di costruzione dell'identità. A fronte di tali problemi, la scelta di sposarsi oggi è sottoposta a innumerevoli ostacoli. La diminuzione dei matrimoni, l'aumento delle unioni libere, le separazioni e i divorzi ne sono chiara testimonianza. Alla fragilità del legame coniugale pare contribuire, da una parte, quella che potremmo chiamare la " tirannia dell'intimità ", che teorizza una fusionalità senza incrinature tra i due partner, spesso abbagliati da aspettative reciproche troppo elevate e pertanto facilmente soggette a delusione; dall'altra parte, la perdita dell'aspetto sociale del vincolo coniugale, che va sempre più sullo sfondo, lasciando in primo piano una coppia autoreferenziale che si vive in uno spazio totalmente privato, svincolato da appartenenze familiari e sociali: in altre parole, una coppia sola. Lo sbilanciamento della relazione sul versante affettivo/emozionale, a scapito di quello etico e di impegno del patto, fa sì che il vincolo si rappresenti da subito come non necessariamente duraturo e ciò provoca nella coppia un senso di precarietà sempre incombente. Tuttavia, nonostante questi segnali allarmanti, il matrimonio rimane, soprattutto per i giovani, secondo quanto evidenziato da diverse ricerche, una meta ideale altamente desiderabile. E dunque su questo desiderio di felicità che occorre puntare per lanciare senza remore alle nuove generazioni il messaggio di speranza e di gioia insito nell'amore tra l'uomo e la donna. Occorre pertanto rintracciare gli aspetti fondanti dell'identità di coppia per individuare ciò che in questo panorama socioculturale necessita di maggior cura e sostegno. La relazione coniugale è fondata su un patto fiduciario, su base affettiva ( attrazione, soddisfacimento dei bisogni reciproci ) ed etico - valoriale ( impegno e promessa - in presenza di testimoni - di coltivare e mantenere nel tempo il legame " nella buona e nella cattiva sorte " ). Ciò significa che gli ingredienti di un rapporto di coppia soddisfacente e stabile saranno al tempo stesso l'intimità, la comprensione, una buona capacità di comunicazione e in generale tutte le dimensioni affettivo - sessuali, ma anche le componenti " etiche ", quali l'impegno e la fedeltà verso il legame, la dedizione e il supporto reciproco, la capacità di accettare e perdonare anche i limiti dell'altro, lo spirito di sacrificio, la forza di affrontare insieme le prove della vita. Lo sbilanciamento sul versante emozionale dei legami, a scapito di un riconoscimento della loro ineludibile valenza etico - sociale di cui si è detto, affida completamente alla discrezionalità dei partner la libertà di decidere l'ufficialità, la durata, la possibile interruzione o frattura del patto. È su questo aspetto che pare pertanto urgente supportare ed educare la coppia, spesso legata da patti fragili, senza progetto, contingenti ed emozionali, in cui la scelta reciproca è priva di impegno. In particolare, il salto critico è quello che va dall'innamoramento all'amore, durante il quale si passa da un processo di " presunzione di somiglianza " e di attribuzioni marcatamente positive ( spesso acritiche ) a una condizione di comunanza, fondata sulla reciprocità e sulla capacità di vedere anche gli aspetti " deboli " dell'altro. Le coppie abbisognano comunque di supporto non solo nella fase della loro costituzione, ma anche nel tempo. Aver cura del patto coniugale comporta, infatti, non tanto il costruire una volta per tutte un armonico equilibrio tra aspetti etici e affettivi, ma attuare un rilancio continuo del legame di coppia: la costruzione del patto è un processo costante, continuamente modificato e messo alla prova dagli eventi della vita, intrinsecamente esigente per la sfida implicita che porta dentro di sé nel tendere a fare di due persone " una cosa sola ", ossia nel ricondurre a unità due differenze. Il compito fondamentale cui la coppia è chiamata è proprio quello di sapere gestire la conflittualità derivante dalla differenza tra uomo e donna, dall'incontro - scontro tra due storie familiari e sociali differenti ( da rielaborare in modo originale attraverso il complesso processo di distinzione di coppia dalle famiglie d'origine e la costruzione graduale di una nuova e originale rete relazionale condivisa ), dai mutamenti cui il patto è sottoposto dal trascorrere del tempo. D'altra parte non ci sarebbe bisogno di un patto ( la cui radice etimologica rimanda a pax - pacis ) se non ci fosse nulla da " pacificare ", se nella relazione coniugale l'accordo fosse " automatico " e " spontaneo ". Infrangere il mito del " naturalismo " dell'amore coniugale ( se due non stanno bene insieme " naturalmente " senza sforzi, significa che non si amano ), superare la visione idealizzata della relazione tra partner ( l'altro deve essere a tutti i costi colui che soddisfa ogni mio bisogno in ogni momento della vita ), per approdare a una consapevolezza realistica e serena del diritto di ogni persona ( anche del proprio partner! ) di avere dei limiti, di poter cambiare, di non vivere ogni evento allo stesso modo, si pone allora come una delle sfide più intriganti del percorso di una coppia che decida di investire sul futuro del proprio legame. Prendersi cura reciprocamente implica dunque un riconoscimento e una legittimazione dell'altro, amato per ciò che è, riconosciuto nella sua unicità, rispettato nella sua differenza. Non a caso l'esito più evidente del buon funzionamento di una coppia si esprime nella generatività ( sia essa biologica o sociale ), che si realizza proprio grazie all'incontro di differenze e rappresenta ciò che di più vitale e appagante l'essere umano adulto possa sperimentare. 3.2. Legami verticali - gerarchici I legami cosiddetti " verticali ", dove la gerarchia ancora una volta non riguarda ovviamente il valore delle persone, ma la posizione intergenerazionale che esse occupano e il livello di responsabilità che esercitano, vivono e si nutrono anch'essi di una sostanza etico - affettiva. In questo caso la dimensione affettiva si esprime nella protezione e nella fiducia e speranza nelle possibilità dell'altro, e la dimensione etica si traduce nella responsabilità nei suoi confronti e nell'impegno educativo. Anche in questo caso la compresenza di dimensioni etiche e affettive preserva il legame dal rischio dell'appropriazione ( l'altro è " roba mia " di cui godere ) e dell'usurpazione ( il potere che esercito sull'altro lo rende schiavo del miei bisogni ), e lo proietta in una dimensione di valore dove l'altro è riconosciuto nella sua libertà e dignità e condotto verso la realizzazione della sua piena umanità. Tutti i legami gerarchici condividono queste caratteristiche. Pensiamo alle relazioni genitori - figlio o nonni - nipoti, ma anche a quelle tra educatori e discepoli, e in generale a tutte le relazioni intergenerazionali che incontriamo a livello sociale. 3.2.1. Il legame genitori - figli e la genitorialità sociale Paradigmatica della relazione verticale è senza dubbio la relazione genitori - figli. Anche tale relazione si presenta attualmente connotata da alcune caratteristiche apparentemente contraddittorie dal punto di vista strutturale: calo delle nascite, diffusione del modello a figlio unico, innalzamento dell'età delle primipare, da una parte; puerocentrismo esasperato, ricerca del figlio " a tutti i costi " e investimento totale su di lui, dall'altra. L'origine di questa ambivalenza sta nel mutato significato che il figlio assume oggi per la coppia: esso rappresenta l'asse indissolubile della famiglia e sembra rimpiazzare la debolezza del legame di coppia. In alcuni casi è il figlio stesso a " istituire " la coppia: pensiamo al progressivo aumento di coppie che fanno volutamente precedere la scelta di un figlio alla legalizzazione dell'unione. La " logica del bambino " e i suoi diritti prevalgono così sempre di più sulla logica della coppia e della famiglia. Tale aspetto è certamente amplificato dal fatto di poter scegliere e controllare la procreazione anche grazie al ricorso, sempre più frequente, alle tecniche di riproduzione assistita. La diminuzione delle nascite e il carattere di avvenimento scelto e fortemente voluto della procreazione fanno dunque sì che essa assuma le caratteristiche di " alto concentrato emozionale ". I genitori finiscono per investire troppo nei pochi figli che mettono al mondo e ciò può costituire un problema per i figli, poiché essi sentono di dover rispondere ad alte aspettative e a un'impegnativa immagine di sé che incarna inconsapevolmente il bisogno realizzativo dei genitori, da cui dunque sarà più difficile staccarsi e che avrà conseguenze anche a livello dello stile educativo praticato. Anche su questo fronte, infatti, si assiste a uno sbilanciamento sul piano affettivo a discapito di quello etico. Si tende più a se - ducere ( sedurre ) che a ex - ducere ( educare ) il proprio figlio, al punto che se ne rende sempre più difficile il distacco ( si veda ad esempio il fenomeno sociale della cosiddetta " famiglia lunga ", con i figli giovani - adulti che " non vanno mai via " di casa ). La cura responsabile, autentico compito evolutivo dei genitori, si declina al contrario in una compresenza costante di aspetti affettivi di " cura " ( protezione, calore, coccole ) e aspetti normativi di " responsabilità " ( regole, spinte emancipative, limiti ), assicurando in tal modo un equilibrio tra dono materno ( matris - munus ) e dono paterno ( patris - munus ). Occorre ricordare inoltre che, proprio per la natura unitaria della persona, nel percorso maturativo delle nuove generazioni gli aspetti affettivi non sono mai disgiunti da risvolti di tipo etico. Ciò significa pertanto che i genitori sono chiamati ad aiutare i figli a gestire la propria affettività, ma nello stesso tempo a sostenerli nell'impegno verso una progettualità di vita, nella volontà di orientare il proprio percorso verso gli aspetti valoriali, ossia verso " ciò che vale " al di là di " ciò che piace ". Il vero successo educativo si ha quando ai giovani si riesce a trasmettere il messaggio che " ciò che vale è anche ciò che mi piace ", ossia si riesce a educarli alla passione per l'impegno e al piacere della responsabilità. Nel nostro clima sociale appare inoltre sempre più urgente ribadire la fondamentale asimmetria relazionale del rapporto genitore - figlio, ma in generale anche tra educatore - educando: tale rapporto è per definizione asimmetrico e " gerarchico " e non paritetico e " democratico ", pertanto esso implica una chiara assunzione della responsabilità educativa dell'adulto nei confronti delle giovani generazioni, posizione che rifugge dai rischi dell'indifferenziazione e dell'egualitarisme a tutti i costi. Il concetto di " responsabilità " è inscritto nella relazione intergenerazionale: tocca, infatti, alle generazioni precedenti rispondere delle condizioni mentali e materiali che creano per quelle successive, almeno finché le successive saranno in grado di rispondere di sé. La figura del genitore - amico oggi così diffusa, ma anche la sostanziale " matri - focalità " del nostro contesto sociale, connotato da una mancanza di confini netti tra generazioni in cui il rapporto con l'autorità e la norma sono sempre più problematici, possono essere interpretati come " sintomi " di un accantonamento dell'aspetto etico della cura, in questo modo svilita e banalizzata in atteggiamenti a ogni costo protettivi e accondiscendenti. Ne è prova l'incertezza dei genitori - ma anche degli educatori in genere - quando si tratta di stabilire un confine tra bene e male, quando si tratta di prendere decisioni sul dare limiti e regole. Ciò che è in gioco, al di là della comprensibilissima difficoltà dei genitori di trovare, in un mondo così confuso, soluzioni e comportamenti appropriati per ogni singolo figlio, è l'idea stessa di una direzione della crescita, con la relativa assunzione di responsabilità e di rischi che questo comporta. Va ricordato che il figlio non è un proprio prodotto di cui godere, ma una nuova generazione da accompagnare e da lanciare in avanti, perché possa ( e questa è la sua parte di responsabilità ) raccogliere il testimone del senso profondo delle tradizioni familiari e sociali, riscriverlo con propri accenti e ritrasmetterlo alle generazioni successive. Il figlio è frutto della relazione di coppia, è influenzato dal tipo di rapporto che con essa instaura, ma eccede tale relazione: è presenza nuova che chiede di essere nutrita materialmente e simbolicamente, che chiede di essere inscritta nella storia delle generazioni per poter in futuro dare prova responsabile di sé in famiglia e nella società. Sostenere genitori ed educatori nell'assolvimento di questi compiti, aiutandoli ad assumersi i rischi che tale percorso comporta, risulta pertanto la condizione fondamentale per garantire la promozione della persona e dell'autentica generatività, obiettivo principale del legame intergenerazionale. Il concetto di generatività è ben più ampio di quello di procreazione, perché riassume sia i caratteri della procreatività, sia quelli della produttività e creatività. I legami affettivi non portano con sé una semplice forza procreativa, e certamente non solo riproduttiva ( alla stregua del mondo animale ), ma sono generativi, ossia danno forma umana a ciò che da essi nasce e a ciò che in essi si lega. Identificare nella generatività l'obiettivo principale dei legami affettivi significa pertanto introdurre una dimensione di senso nel percorso affettivo di ciascuno e sottolineare il messaggio di speranza che le relazioni affettive portano con sé. Non dimentichiamo che si è in grado di generare nella misura in cui si è consapevoli e grati di essere stati generati: vivere una relazione affettiva autentica e generativa è una concreta possibilità di testimoniare la propria gratitudine e di mostrare con un amore fecondo la speranza che è in noi. In questo senso, generativi non sono solamente coloro che hanno fisicamente generato i propri figli. La genitorialità ha un respiro ben più ampio della pura esperienza " biologica " del dare la vita. Sappiamo bene quante forme di genitorialità " sociale ", quali l'affido e l'adozione, non siano meno generative di quelle naturali. Paternità e maternità possono inoltre essere esercitate, secondo diverse modalità, da figure educative differenti dai genitori, quali sacerdoti, religiosi, insegnanti e in generale da tutti coloro che si impegnano a far crescere le nuove generazioni. L'esperienza di ciascuno di noi può testimoniare quanto possano essere importanti questi incontri con figure " genitoriali " diverse da quelle familiari ( è da rimarcare, a questo proposito, la fondamentale importanza che riveste la figura della " guida spirituale " che, oltre ad aiutare i giovani nel loro percorso vocazionale, può veramente costituire un riferimento educativo di supporto alla funzione genitoriale, in modo particolare in caso di carenze e difficoltà familiari ). La vera svolta culturale nell'interpretazione delle relazioni affettive verticali sta dunque proprio in questo modo di intendere la funzione genitoriale non solo in termini strettamente familiari, ma più ampiamente comunitari, vale a dire passare da una generatività familiare a una generatività sociale, ossia " aver cura dei figli degli altri come se fossero i propri figli ". In altre parole, la sfida è quella di superare la prospettiva tendenzialmente individualistica che stenta a interpretare dal punto di vista relazionale/intergenerazionale i fenomeni familiari, interpretando la società come una comunità di generazioni e ricordando che le generazioni familiari sono anche generazioni sociali e viceversa. Questa connessione tra famiglia e società è un'importante sfida per noi cristiani, che da sempre ci ispiriamo a un modello di famiglia intesa come " piccola chiesa " e che viviamo ( o dovremmo vivere ) la dimensione comunitaria e il superamento della prospettiva individualistica come aspetti qualificanti la nostra identità e fondanti la nostra quotidianità. Va detto che da tempo la Chiesa ha profeticamente favorito questa dimensione sociale dei legami, incentivando l'incontro tra famiglie e supportando il percorso affettivo soprattutto durante il fidanzamento ( corsi di preparazione al matrimonio ) e la fase della famiglia con figli piccoli ( preparazione ai sacramenti di iniziazione cristiana ). Oggi si tratta di rilanciare questi strumenti con linguaggi nuovi, cogliendo queste occasioni - spesso uniche - di incontro con persone per lo più " distanti " dalla proposta cristiana e aiutandole a riflettere prima di tutto sul senso profondo delle scelte familiari, spesso compiute con superficialità e facilmente soggette a crisi, ripensamenti e fratture. Importante sarà dunque supportare la coppia e i genitori, anche attraverso percorsi formativi di promozione e arricchimento dei legami familiari, non solo all'inizio, ma lungo tutto il loro percorso familiare, aiutandoli a rendersi consapevoli della loro identità, dei loro obiettivi e compiti, sorreggendoli attraverso le transizioni critiche che incontreranno e aiutandoli a vivere le prove. Importante sarà inoltre promuovere la natura intergenerazionale e sociale dei legami, consentendo alle famiglie di uscire dalla propria autoreferenzialità. Da qui l'urgenza di creare luoghi formativi in cui coppie, genitori ed educatori condividano i problemi, aiutandosi reciprocamente a trovare soluzioni e percorsi originali per la crescita propria e delle nuove generazioni. L'esperienza dell'associazionismo familiare, il potenziamento delle reti di famiglie tra loro, e tra famiglie e altre agenzie educative o istituzioni, fino alle realtà più schiettamente comunitarie quali le comunità familiari e le case famiglia, rappresentano un incoraggiante segnale dei nostri tempi in questa direzione. 3.2.2. Il legame nonni - nipoti Prima di chiudere la riflessione sulle relazioni verticali, mi pare che una particolare considerazione meriti la relazione nonni - nipoti, a sua volta caratterizzata dagli aspetti sopradescritti, ma anche ricca di suoi significati peculiari. È questa una relazione relativamente nuova per la nostra società: per molti secoli i bambini non hanno conosciuto i nonni e solo negli ultimi decenni è diventato normale non solo " conoscerli " ( grazie all'allungamento della vita media ), ma anche e soprattutto avere con loro un rapporto di intimità, ben diverso da quello più " distante " e di " timore reverenziale " di qualche generazione fa. Oggi la figura del nonno rappresenta una delle presenze tra le più importanti del " mondo relazionale " dei bambini. I nonni sono coloro che sanno trasformare in " fiaba " la storia della famiglia; sono coloro che sanno raccontare " di quando il papa e la mamma erano bambini ", sono i custodi e i narratori della storia familiare, coloro ai quali è affidata, anche solo attraverso la loro presenza, la trasmissione dell'appartenenza, ossia la possibilità, per le nuove generazioni, di essere riconosciuti e legittimati, di sentirsi parte di una storia accedendo all'albero genealogico materno e paterno. I nonni offrono ai bambini la prospettiva del tempo e della memoria, rappresentano la tradizione senza la quale la speranza sarebbe utopia. I nonni sono inoltre coloro che hanno il tempo per poter " stare " con i nipoti, per " perdere il tempo " con e per loro. Potremmo definire il loro spazio relazionale con l'espressione " dimensione ludica ", caratterizzata da una piena libertà di scelta, ricca di valenze affettive e creative, svincolata da obiettivi immediati e pratici, legata al piacere di esprimere se stessi e di vivere con gratuita disponibilità il rapporto con l'altro. I bambini hanno bisogno di questo tipo di relazione e nessuno più dei nonni può offrire loro la possibilità di sperimentarla. I nonni sono anche figure educative di sostegno ai loro figli/genitori: sanno offrire uno sguardo più disincantato alla complessa realtà che i loro figli si trovano ad affrontare davanti alla crescita dei propri bambini; sanno relativizzare e sdrammatizzare, ma anche " mettere in guardia " da superficialità e semplicismi. Certo, a volte anche questa relazione presenta i suoi rischi: ciò avviene, per esempio, quando il nonno è " utilizzato " solo in modo funzionale e pragmatico, in un ruolo di semplice baby - sitter, oppure quando la relazione tra i nonni e i genitori del bambino è caratterizzata da conflitti irrisolti trascinati dal passato ( quando non si è attuata una corretta distinzione di coppia dalle proprie famiglie d'origine ): in questi casi il rapporto con la nuova generazione è utilizzato per " far pagare " al proprio genitore o al proprio figlio sbagli mai perdonati e si assiste a una sorta di " sfida " tra le due generazioni adulte, che rivendicano la loro esclusività annientando o squalificando la capacità educativa dell'altro. Se però prevale la comprensione tra le generazioni e se nonni e genitori hanno ben chiara la propria insostituibile e non vicariabile funzione, allora lo spazio della relazione nonni - nipoti assume un valore incommensurabile e rappresenta uno degli incontri intergenerazionali più importanti per la crescita delle nuove generazioni. 4. La famiglia come luogo di affetti, responsabilità e generatività A conclusione di questo mio contributo, mi pare importante aggiungere un'ultima parola su una delle frontiere più esposte alla deriva emozionalistica e individualistica degli affetti, e nella quale è più urgente testimoniare da " pellegrini e stranieri " la novità della speranza cristiana: la famiglia, specie quella fondata sul sacramento del matrimonio. L'enfasi sugli aspetti emotivi a scapito di quelli di responsabilità ha infatti effetti chiari anche sulla concezione di famiglia, spesso ridotta a una qualsiasi relazione umana caratterizzata da intimità e affetto. Ciò conduce ad accettare ( e a promuovere ) anche soluzioni " caricaturali " della famiglia, nelle quali la sola presenza di un legame affettivo ( non importa nemmeno se tra uomo e donna o tra persone dello stesso sesso! ) genererebbe di per sé una famiglia. Si teorizzano così forme di " legame leggero " ( come i PACS ) che consentano di usufruire dei diritti tipici del matrimonio, ma evitano o rifiutano di impegnarsi negli aspetti non negoziabili della vita, come l'impegno vincolante della promessa, la funzione generativa e sociale della relazione di coppia, il rispetto per i diritti inalienabili delle nuove generazioni. Ben diversa per il cristiano è la concezione di famiglia. Essa è il luogo per eccellenza degli affetti e della stringente responsabilità, sia nei confronti del coniuge, sia dei figli, ambito nel quale la persona impara a dare e ricevere amore. In essa si sperimenta, prima come figli, poi come coniugi e genitori, il principio dell'amore come realtà esclusiva e indissolubile, che porta in sé una scintilla di divinità. Il paradosso dell'amore smisurato vissuto e sperimentato nella finitezza della limitata vita umana è ciò che da sempre parla, a chi ama, di Dio e, tramite la vita di chi ama, parla di Dio al mondo. Sottrarre alla vita degli affetti questa " scintilla " di divinità è come ridurre l'uomo a un fantoccio, come togliergli quella prospettiva di speranza che da senso alla sua esistenza. È legittimo pertanto domandarsi se la crisi della famiglia e degli affetti profondi a cui stiamo assistendo possa essere letta come una mossa rinunciataria dell'uomo che ha smesso di scommettere sul dono che ha ricevuto di essere immagine di Dio, rinunciando a lottare contro la sfiducia, la paura della morte e preferendo affidare i suoi legami alla precarietà appiattita del qui e ora e al relativismo, piuttosto che investire in progetti grandi, alti, che parlano di eternità e di assoluto. L'attacco cui è sottoposta attualmente la famiglia - istituto basilare per la stessa esistenza della società - si attua di fronte a una sostanziale indifferenza se non, addirittura, a un compiacimento sociale per la sua progressiva disgregazione. Eppure, soprattutto in una realtà come la nostra ripiegata sull'immediato, la testimonianza della vita familiare nell'esperienza coniugale, genitoriale, filiale e fraterna dei credenti, può ancora veramente rappresentare un'anticipazione della speranza incorruttibile, che può correggere e " curare le malattie della speranza " del nostro tempo. Occorre sottolineare come anche ultimamente la Chiesa stia riservando un'attenzione prioritaria alla famiglia come soggetto sociale ed ecclesiale fondato sul matrimonio. Ripetuti sono i richiami del Santo Padre alla sua centralità e alla sua fondamentale funzione sociale. Occorre riaffermare l'identità della famiglia, rifiutando l'edonismo che banalizza le relazioni umane e le svuota del suo genuino valore e della sua bellezza: promuovere i valori del matrimonio non ostacola la gioia piena che l'uomo e la donna trovano nel loro mutuo amore. La fede e l'etica non pretendono di soffocare l'amore, bensì di renderlo più sano forte e realmente libero. Ricordiamo che " Cristo non toglie nulla e dona tutto! ", e questo è quanto di più vero si può sperimentare nel campo degli affetti profondi e delle relazioni familiari. Urgente pertanto, da parte di noi cristiani, riproporre con forza anche su questo fronte il patrimonio della cultura cristiana, che mette al centro la relazione con l'altro come apporto da tutti condivisibile di piena umanizzazione per la persona e per la società; e urgente rilanciare con coraggio un pensiero "forte" sulla famiglia, riprendendo l'accorato invito della Familiaris consortio: " Famiglia diventa ciò che sei ". Essere testimoni di speranza nella vita affettiva e familiare è dunque sforzarsi di rigenerare le nostre relazioni familiari nella loro più autentica e profonda valenza relazionale e simbolica; è accettare - da pellegrini e stranieri - il rischio di dare fiducia all'altro, nello scorrere delle transizioni che mettono alla prova i legami, ma nella sicurezza della meta per il cui raggiungimento vale la pena impegnarsi al di là di ogni interesse personale. E - in conclusione - lanciare una sfida al non senso cui sono ridotte oggi le relazioni umane, nella consapevolezza che l'affettività non è solo una dimensione essenziale dell'umano, ma è un tratto della relazione con il divino, non astratto, ma incarnato. Quante volte, nei vangeli, Gesù svela gli affetti per la folla che lo circonda ( per i bambini, per i sofferenti ) e per gli apostoli. Tra tutte spicca il rapporto tra Gesù e Giovanni, che nella nostra tradizione iconografica è stato rappresentato migliaia di volte appoggiato sul cuore di Cristo. Questo abbraccio, questo appoggiarsi sul cuore ( e il cuore è il simbolo degli affetti, il Sacro Cuore di Gesù a cui è dedicata l'Università Cattolica ) è un'immagine significativa per ciascuno di noi. Ciascuno di noi è come Giovanni, che si appoggia e si abbandona al cuore di Gesù. Ed è nel suo abbraccio il fondamento della nostra speranza. Ambito 2: lavoro e festa Introduzione del prof. Adriano Fabris 17 ottobre 2006 1. Premessa: il giusto modo di vivere il tempo L'occasione di riflettere, quale ci viene concessa qui a Verona, sugli ambiti del lavoro e della festa riguarda uno degli aspetti fondamentali della nostra vita. La nostra vita, il nostro tempo, sono infatti attraversati anche dalle dimensioni del lavoro e della festa. O dovrebbero esserlo. Il lavoro e la festa sono infatti modi in cui l'uomo in generale vive, o può vivere, il tempo che lo caratterizza ( allo stesso modo in cui caratteri antropologici fondamentali sono quelli affrontati negli altri ambiti: il carattere dell'affettività, la dimensione della fragilità, il radicamento nella tradizione, la promozione e il riconoscimento della cittadinanza ). Si tratta però di vedere come vivere il lavoro, come vivere la festa, come vivere il loro rapporto, il loro tempo, nella maniera giusta. Si tratta di vedere come vivere tutto questo in maniera cristiana. Ma, più in generale, si tratta di domandarsi che cosa significa oggi " lavoro ", qual è oggi il suo senso per la nostra vita, e che spazio c'è oggi per la festa e come essa può essere vissuta. Si tratta di chiedersi come viene fatta esperienza del lavoro e della festa, cioè del loro specifico tempo, se si vuole pensare in maniera giusta il loro rapporto: se si vuole cogliere in maniera adeguata, vorrei dire, il loro ritmo. Oggi infatti sembra che questo ritmo sia spezzato, fino a renderlo uniforme, indifferenziato. Perché il modo in cui ci rapportiamo al mondo attraverso il lavoro è soggetto a radicale trasformazione; perché la festa è trasformata in puro momento d'ozio, spesso vuoto e carico di noia. Viene meno così la relazione stessa tra lavoro e festa come modo in cui l'uomo può vivere il tempo, può volgersi al mondo, può rapportarsi agli altri uomini, può aprirsi a Dio. È minata alla base, cioè, la possibilità che l'uomo ha di andare al di là di sé: è messa in questione la sua possibilità di aprirsi al futuro. E viene così meno la capacità di sperare e di testimoniare la speranza. Sono queste, dunque, le questioni sulle quali vorrei offrire il mio contributo, introducendo la discussione e i lavori di gruppo. I temi che svilupperò, in altre parole, vogliono essere solamente uno spunto per gli approfondimenti e per il dibattito successivo. E in esso, sicuramente, verranno in luce anche altri problemi che non ho qui, certamente, la possibilità di affrontare. Una cosa, però, desidero ancora mettere in evidenza. Le questioni che intendo toccare non sono affatto settoriali - non riguardano, cioè, solo il particolare modo dei cristiani di rapportarsi al mondo -, ma concernono tutti. E sul modo in cui tutti noi, oggi, viviamo la possibilità del lavoro, la possibilità della festa, l'apertura al mondo e al futuro, che nel lavoro e nella festa sono insite, i cristiani sono appunto in grado di dire la loro, in maniera incisiva e forte. Lo sono più di altri. A dispetto di quel ruolo d'irrilevanza al quale altri, appunto, li vorrebbero condannare. 2. Il lavoro Bisogna chiarire, anzitutto, che cosa significa lavorare, a quali trasformazioni del lavoro stiamo oggi assistendo, quale tipo di lavoro viene oggi sperimentato e richiesto, quale impegno lavorativo oggi in molti, troppi casi viene soltanto sperato. Lo stesso, poi, bisogna fare nel caso della festa. Sono tre allora, in parallelo, le riflessioni sul lavoro che propongo, ciascuna esemplificata da un'immagine, così come tre saranno quelle relative alla festa. 2.1. Cominciamo con una prima immagine: un'immagine a due facce. Concerne due tipi di lavoro, incarnati da due persone: l'operaio inserito all'interno di un sistema produttivo e chi è impegnato invece in un lavoro di cura ( anzi: chi considera ogni sua attività, in generale, come una professione, finanche come una vocazione ). Il primo caso individua un modello lavorativo - che tecnicamente si dice " fordista " - oggi fortemente in crisi: una crisi che coinvolge anche i tentativi di superarlo elaborati dal marxismo ( appunto perché il marxismo considerava questo sistema come il sistema produttivo privilegiato ). Che cosa caratterizza l'esperienza di lavoro e di vita di questo operaio? Egli è inserito in un sistema produttivo più grande di lui. Il suo lavoro è un ingranaggio in una grande catena di montaggio; il suo lavoro, in altre parole, è un mezzo che serve alla realizzazione di certi prodotti e, in definitiva, alla conservazione di una società capitalistica basata sui consumi. Si comprende, nella misura in cui lo scopo del lavoro dell'operaio è ben oltre l'operaio stesso e la sua specifica attività, il perché della sua insoddisfazione: il perché - si diceva una volta - della sua " alienazione ". Il tempo della produzione in fabbrica era un tempo sempre uguale, uniforme. In esso infatti non sempre era chiaro perché, e per ottenere che cosa, l'operaio lavorava. Diverso, invece, è il modo in cui viene sperimentato il lavoro come professione, come " vocazione " in un senso ampio ( ad esempio nei lavori di cura, ma non solo in questi ). In questo caso il lavoro non è un mezzo per il raggiungimento di uno scopo che va oltre l'attività lavorativa del singolo, ma è, in sé, esso stesso scopo. Nel lavoro, infatti, io non solo realizzo qualcosa, ma insieme mi realizzo, sviluppo me stesso, il mio rapporto con le cose e con gli altri. Non c'è qui un unico sistema produttivo al quale mi devo uniformare con azioni sempre uguali, ma la mia attività risulta creativa, appunto perché si deve adattare a situazioni sempre diverse e, sovente, imprevedibili. Ho accennato ai cosiddetti lavori di cura, ma potrei riferirmi ugualmente, più in generale, a tutti quei casi in cui la professione si rivela corrispondente a una vera e propria vocazione. Qui, infatti, non c'è distinzione tra cura di altro e cura di sé, ma la prima finisce anche per produrre, sempre, la seconda. Dunque: quale lavoro oggi? Il modello fordista risulta ormai difficilmente applicabile, almeno nelle società occidentali ( si parla infatti, in maniera del tutto generica, di modello postfordista ). E poi, come fra poco vedremo, esso è tutt'altro che sicuro, tutt'altro che garantito, anche in questa sua forma. Paradossalmente, però, la crisi del lavoro come puro mezzo può consentire la riscoperta dell'altro tipo di lavoro: la professione nella quale ci si realizza e, nel far ciò, ci si apre a una rete creativa di relazioni. Emergono così, in questo quadro, nuove modalità di organizzazione, che vanno oltre il modello capitalistico: le forme cooperative, le imprese sociali, le imprese civili. E si determina altresì la possibilità di declinare al plurale, in una prospettiva comunitaria, la stessa attività lavorativa, in modo tale che il lavoro non si consumi in una chiusa dimensione individuale, ma favorisca la creazione di nuove forme di economia. Vi è però un problema di fondo che, da una tale prospettiva, deve essere affrontato: è il problema di recuperare il senso del lavoro, il senso, cioè, di quello che risulta un modo privilegiato di vivere il proprio tempo feriale. Recuperando infatti il senso del lavoro, il fatto che il lavoro stesso ci apre a un contesto ampio di relazioni che lo trascendono, siamo infatti in grado di far risaltare ciò che è al di là del lavoro stesso: il tempo della festa, appunto. Ma, per ottenere questo, il lavoro certo ci deve essere. Esso deve risultare, in qualche modo, un lavoro garantito. Oggi, invece, quali garanzie possiede l'attività lavorativa? Come può essere promossa? In altri termini e più in generale: se lavorare è un modo di realizzarsi che è proprio dell'uomo, nel quale egli può trovare senso alla propria vita, allora il lavoro va comunque salvaguardato. Il lavoro è un diritto, si dice. Ma lo è poi davvero? 2.2. Ci troviamo di fronte alla seconda immagine, alla seconda coppia di concetti che riguardano il lavoro: il lavoro come diritto e il lavoro come dovere. Il diritto al lavoro, certo, è affermato fin dall'inizio nella Costituzione italiana, come condizione di cittadinanza. E il Compendio della dottrina sociale della Chiesa ( nn. 287 e 288 ) dichiara con chiarezza che la " piena occupazione " è " un obiettivo doveroso per ogni ordinamento economico orientato alla giustizia e al bene comune ". Ma non si tratta solamente di garantire il lavoro garantendo, in tal modo, una base di giustizia: si tratta, anche, di garantire la scelta del lavoro più rispondente alla propria vocazione. È questo ciò che oggi, anzitutto, chiedono coloro che sono alla ricerca di una prima occupazione: chiedono di lavorare sulla base dei propri interessi e della propria formazione. Si tratta di una domanda che riguarda la qualità del lavoro, piuttosto che la sua quantità. Si tratta di una domanda che oggi non sempre trova risposta, soprattutto perché vi è, almeno in Italia, una ormai compiuta separazione fra momento della formazione e momento del lavoro. Si rischia di considerarli due realtà impermeabili, nonostante tutti gli sforzi che si fanno per metterli in relazione. La scuola, da una parte, non prepara più, adeguatamente, al lavoro; e il lavoro, soggetto a un'incessante trasformazione, richiede dal canto suo una formazione continua. In questo quadro di disarticolazione di formazione e lavoro si finisce, dopo un po', per prendere il primo lavoro che capita, magari sperando una migliore opportunità per il futuro. Il lavoro diventa così puro dovere. È compiuto per dovere, è sentito come un'imposizione, diventa sempre più gravoso e faticoso, è fatto perciò controvoglia. Lo vediamo in molti casi. Ma c'è un altro aspetto, un altro senso del dovere che qui s'incontra, e che viene sovente dimenticato. Il lavoro è impegnativo non solo perché è faticoso, ma perché può essere fatto bene o male. C'è anzi quel dovere di far bene il proprio lavoro che è insito in ogni professione e, talvolta, è pure prescritto da ciascuna di esse. In qualche caso, addirittura, ciò è sancito dai codici di autoregolamentazione che le varie professioni si danno e che, appunto nella misura in cui stabiliscono i doveri di chi opera in quell'ambito professionale, si chiamano " codici deontologici ". Sono appunto questi doveri legati al far bene il proprio mestiere che oggi, molto spesso, vengono dimenticati. Ma, più ancora di questi doveri settoriali, deontologici, ci sono altri doveri: doveri al cui rispetto è chiamato chiunque, con il suo lavoro, si rapporti ad altre persone. Si tratta di obblighi propriamente morali: il rispetto nei confronti dell'altro, la responsabilità che mi posso assumere nei suoi confronti. Ecco i doveri che vanno al di là di un determinato lavoro, ma che il lavoro stesso, in quanto attività, chiama necessariamente in causa: chiamando in causa ciascuno di noi, in quanto uomo, nella sua specifica responsabilità di fronte agli altri. Responsabilità, sul piano del lavoro, significa anche responsabilità riguardo all'attuazione delle pari opportunità lavorative. E qui, di nuovo, il discorso sul lavoro s'incrocia con quello sulla cittadinanza. Vi sono infatti categorie di cittadini per i quali il diritto al lavoro è messo in questione, come abbiamo visto. Vi sono persone per le quali l'esercizio stesso di questo diritto è oltremodo difficile: pensiamo al divario nord-sud sul piano dell'occupazione; pensiamo alla questione del lavoro femminile. Ancora: vi sono uomini e donne, come ad esempio i cittadini extracomunitari, che molto spesso possono ottenere un lavoro solo rinunciando alle tutele normalmente garantite e accettando una condizione di sfruttamento, che trasforma il lavoro, non più regolamentato, in qualcosa d'altro. Di fronte a tutto questo, certo, i cristiani non possono restare indifferenti. 2.3. Abbiamo parlato di lavoro come mezzo e di lavoro come scopo; di lavoro come diritto e di lavoro come dovere. Ma hanno senso questi discorsi oggi? Hanno forse senso in una situazione, come quella italiana, in cui il lavoro, come abbiamo visto, sta subendo una radicale trasformazione, in cui il lavoro sovente manca, in cui viene talora negato come possibilità di realizzazione umana? Hanno senso in un contesto nel quale, sempre di più, il lavoro è sperimentato nella sua fragilità? Incontriamo qui, più precisamente, due altre esperienze, quella del lavoro precario e quella del lavoro stabile. Le possiamo esemplificare, immediatamente, con le figure dell'operatore del call-center e dell'impiegato statale. Il primo vive in un'insicurezza di fondo, con ritmi molto intensi e condizioni lavorative certo non ottimali, in una situazione che non gli consente di fare progetti e di costruirsi un futuro. Il secondo rischia a volte di trasformare le tutele in privilegi e di dover fare affidamento solo sul suo senso di responsabilità per giustificare una reale produttività lavorativa. Certo: oggi il lavoro stabile sembra sempre più un miraggio, e sempre più si diffonde, anche attraverso romanzi e film, il mito del precario ( addirittura canonizzato come San Precario ) che però, così come romanzescamente ci viene proposto, è appunto un mito. Anche qui, infatti, ci vuole il giusto discernimento e l'opportuno equilibrio nei giudizi. Si tratta infatti di prendere atto della necessità di corrispondere con la dovuta flessibilità alle attuali trasformazioni del mercato del lavoro e alle mutate esigenze della produzione. Ma si tratta altresì di non fraintendere ideologicamente, in nessun senso, la flessibilità che oggi viene richiesta. Flessibilità, infatti, non significa soltanto ed esclusivamente precarietà. Flessibilità significa anche possibilità di cogliere nuove opportunità lavorative. In quanto tale non è sinonimo di insicurezza. Il lavoro che manca, oggi, non è semplicemente lavoro negato. E come tale non è solamente segno di una mancanza di futuro, che porta inevitabilmente alla disperazione. Il lavoro che manca, considerato più a fondo, è la messa in discussione del senso stesso della nostra vita; è il rischio che venga meno la nostra capacità di realizzarci in rapporto con gli altri e con il mondo, all'interno di un più ampio contesto temporale caratterizzato dalla scansione di momenti feriali e di momenti di festa. 3. La festa Se la mancanza di lavoro fosse solo il segnale di un'assenza di futuro, se si dovesse solamente prendere atto che, per noi e per i nostri figli, il lavoro è precario, quando non addirittura manca del tutto, e che perciò esso, invece che occasione di soddisfazione e di realizzazione, è invece fonte inevitabile di insicurezza e di disagio, resterebbe allora un'unica possibilità alternativa: quella, appunto, di rinunciare al lavoro come elemento di realizzazione della vita mia e altrui, di raggiungimento di un'autonomia e di un'autosufficienza economica, capace di fornire un ruolo nella società e di consentire la formazione di una famiglia. Meglio sarebbe, invece, restare nella propria famiglia d'origine, coltivare altri rapporti altrettanto precari ( ad esempio su di un piano sentimentale ), evitare di crescere. È il risultato, paradossale, della nostra cultura di stampo illuministico, che è basata sul culto dell'autonomia e che rischia, invece, di renderla impossibile. È la scelta che fanno, volenti o nolenti, molte persone giovani. Ma con ciò, nonostante sembri che tutto sia ozio e festa, subentra l'indifferenza e il vuoto, e la speranza, di fatto, viene messa fra parentesi. Ma com'è vissuta oggi la festa? Anche in questo caso vorrei mettere in evidenza tre aspetti. Si tratta della festa come tempo per me e come tempo per altri e per altro, della festa, di nuovo, come diritto e come dovere; della festa come svago, ossia come divagazione e vacanza, e come momento di raccoglimento, di concentrazione. Anche questi aspetti possiamo collegarli a tre ordini di immagini, a tre tipi di icone. Prima tuttavia di analizzare i modi della festa e le loro icone vorrei segnalare, come premessa, un punto specifico. Se è importante, come ha ricordato recentemente Papa Benedetto XVI, che i cristiani si rapportino alle cose del mondo in maniera anzitutto propositiva e non già proibitiva, cogliendo le opportunità e non soltanto i limiti connessi a certi comportamenti, allora la dimensione della festa, in questo quadro, gioca davvero un ruolo decisivo. I cristiani sono coloro infatti che sanno vivere la festa, che la sanno vivere davvero, e che sono capaci di rapportarsi al creato, di contemplarlo e di goderlo come se esso tutto fosse una festa e un'occasione di festa. I cristiani, in altre parole, sono coloro che vivono festosamente la festa. Questo è ciò che possiamo sperimentare, questo è ciò che possiamo comunicare. 3.1. Ma, appunto, in che modo sperimentiamo oggi la festa? Iniziarne con un primo aspetto della questione: festa intesa come un tempo che mi prendo per me o come un tempo in cui mi dedico ad altro e ad altri. Pensiamo per esempio al ragazzo, all'adolescente, chiuso nella sua stanza, chiuso in se stesso e al mondo, magari con le cuffie alle orecchie. E pensiamo invece a chi, nel tempo di festa, nel tempo di vacanza, si dedica a un hobby ( si apre al mondo ), si rende disponibile per la famiglia e per gli amici ( si rivolge agli altri, ad esempio con un'attività di volontariato ), si prende tempo per quell'altro che è Dio ( ad esempio nelle forme di apertura assoluta che sono la preghiera e il culto, il rito e la liturgia ). Non bisogna considerare in termini soltanto negativi il primo modo d'intendere la festa. Anzi, esso è ben comprensibile, se viene considerato come la pausa rispetto a un tempo troppo pieno, a un lavoro troppo alienante, a una serie d'impegni troppo gravosi. Dobbiamo prenderci tempo per noi stessi, ogni tanto, anche se vogliamo continuare a dedicarci agli altri. Quello animato dall'agape, dall'amore come dono di sé, non può essere un comportamento esclusivo, costante, altrimenti si rischia, alla fine, di non aver più niente da dare. La pausa, lo stacco, però, non possono a loro volta essere assolutizzati, altrimenti diventano vuoti, senza scopo. Di più: altrimenti io stesso perdo la mia identità. La mia identità, infatti, non può prescindere dal rapporto con gli altri, non può non svilupparsi se non in una relazione. L'aspetto centrale di questo vivere il mio tempo come tempo per gli altri può anche essere sintetizzato in una parola: sovvenire. " Sovvenire " significa insieme ricordarci degli altri e venire loro incontro. Significa che qualcosa, da altrove, mi viene incontro e mi muove verso altre relazioni. Ecco perché diciamo che il ragazzo, nel chiuso della sua cameretta e con le cuffie alle orecchie, è un individuo ancora immaturo: perché non si mette in gioco, perché non vive davvero, in quanto non vive con e per gli altri, in tal modo formando la sua identità; perché in ultima analisi - nonostante l'abbondante tempo vuoto che ha a disposizione - non è in grado neppure di vivere l'esperienza della festa. La festa infatti non è qualcosa che si consuma. Nell'attuale società del consumo siamo abituati a rapportarci alle cose, agli uomini, alle esperienze che possiamo fare in termini di consumo e di assimilazione. Il che significa: siamo abituati a comportarci come se tutto ruotasse intorno a noi stessi e fosse esclusivamente destinato a una nostra fruizione. Tutto: anche il tempo della festa. C'è il rischio, insomma, di lavorare per consumare e di consumare per lavorare. Comprendiamo allora perché è mutato anche il modo di vivere le feste religiose, capiamo perché si è trasformato, ad esempio, il tempo del Natale. Tutto qui è diventato occasione di shopping, di regali scambiati; il tempo viene soprattutto impiegato a questo scopo; il tempo è ciò che appunto in questo modo viene consumato. Ed è proprio una tale prospettiva, che ormai si è imposta, che ormai pare condivisa, ciò che fa sì che la festa finisca per configurarsi non solo come un diritto, ma anche come un dovere: il dovere, ad esempio, di divertirsi a tutti i costi. 3.2. Ecco allora emergere altri due aspetti della festa: la festa considerata appunto come un diritto e la festa intesa invece come dovere. Anche questi modi di vivere la festa devono però essere compresi giustamente. Il riposo è ormai un diritto acquisito. Biblicamente, come sappiamo, il modello qui è quello del settimo giorno della creazione. Ma il diritto al riposo della festa non può essere inteso semplicemente come diritto all'interruzione, come pausa dal lavoro e rispetto al lavoro. C'è anche questo, certo. E ben comprendiamo le istanze di quei lavoratori - ad esempio le commesse - che si ribellano alla prospettiva di lavorare sette giorni su sette, ma questo è solo un punto di partenza. Perché lo si può fraintendere; si può ritenere infatti che questa esigenza di rispetto della festa sia dettata soltanto da motivi di comodità. E ciò accade perché, se si considera la festa unicamente come astensione dal lavoro, la si concepisce solo in termini negativi. Invece, positivamente, la festa è tempo per: per fare quelle cose che nel tempo ordinario non si riescono a fare; per realizzare ciò in cui la vita quotidiana può trovare il proprio compimento. In una parola: per rigenerare il proprio spirito e - perché no? - anche il proprio corpo. Ma, appunto, nella maniera giusta. La pratica di uno sport, se viene compiuta in modo equilibrato, se cioè non diviene sostitutiva di ogni altra forma di relazione, serve anche a questo. In quest'ottica positiva può allora essere compreso il senso del precetto di santificare la festa. Dobbiamo intenderci, però: non si tratta di un mero dovere, di un puro obbligo che si contrappone, con la sua insensata normatività, al diritto che noi abbiamo di disporre del nostro tempo, tanto più se questo è un tempo di festa. Si tratta invece dell'occasione che ci viene offerta di dare senso, di dare provvisorio compimento allo scorrere del tempo feriale; si tratta di riconoscere che quest'ultimo, il tempo feriale, è un tempo ordinato, un tempo che manca di qualcosa se vuole pienamente realizzarsi e che ci chiama a trasfigurarlo, assumendolo in un'altra ottica, festosa e festiva. Il precetto insomma - come dice il comandamento: " Ricordati di santificare le feste " - consiste anzitutto nell'invito a ricordare che il tempo non è tutto omogeneo, tutto uguale, e che c'è un tempo santo che ci chiama alla sua santificazione. 3.3. Bisogna dunque intenderci. La festa è tempo di svago, è, letteralmente, vacanza: tempo vuoto, vacante, rispetto alle incombenze quotidiane. Si tratta di un tempo che può essere adeguatamente riempito, ad esempio attraverso le varie attività connesse al turismo. Si apre qui tutta la dimensione di una pastorale del turismo: che risulta attività indispensabile, specialmente in certi luoghi e in certi momenti dell'anno, e che richiede forme di annuncio particolari. Ma la festa non è solo un'occasione di svago. Già gli antichi consideravano l'otium non semplicemente come ozio, come inattività, ma come occasione per altre forme di agire. Più ancora: non tanto come occasione per altre forme di agire, nelle quali sperimentiamo altre possibilità del nostro essere e ci dedichiamo a esse, quanto, anche e soprattutto, come opportunità di ritornare a noi stessi, di evitare la dispersione quotidiana, di recuperare concentrazione e raccoglimento. Ecco perché, accanto alle vacanze al mare e in montagna, sono dette vacanze anche quelle che si passano nei monasteri. La festa è infatti il tempo in cui possiamo recuperare il nostro tempo, senza farci assorbire dalle incombenze quotidiane, ma anzi distaccandoci da esse e guardandole con occhio nuovo. Ce lo ha ricordato proprio di recente in un Angelus di fine agosto ( precisamente del 20 agosto 2006 ) Papa Benedetto. Ma anche qui bisogna fare attenzione. Il ritorno a sé ( di agostiniana memoria ), la concentrazione e il raccoglimento che il dì di festa favorisce non possono essere intesi come qualcosa di individuale, di soggettivo. Anche questo è solo un aspetto parziale della questione. Infatti il raccoglimento fa sì che colui che si raccoglie in se stesso scopra, proprio in sé, il suo carattere relazionale. Ma insieme fa sì che egli scopra che questo raccoglimento, questa concentrazione si realizzano nel modo migliore se vengono vissuti insieme con gli altri. Ecco perché la festa è sempre festa comunitaria e festa della comunità. Anzi: essa rivela, più precisamente, la comunità in festa. Ed ecco perché il vero soggetto della festa non sono io, ma siamo noi. Con tutto il carico di legami, con tutto l'investimento di affettività che questa dimensione comunitaria comporta. 4. La relazione di lavoro e festa Abbiamo dunque descritto alcuni dei modi in cui possiamo vivere, nel mondo di oggi, il lavoro e la festa. Abbiamo visto quanti e quali significati possono assumere queste esperienze decisive e centrali. Il lavoro può configurarsi, ad esempio, come mezzo o come scopo, come diritto o come dovere, come precario o come stabile. La festa può a sua volta essere intesa come tempo per me o come tempo per altro ( e come tempo per altri ), come diritto, di nuovo, o come dovere ( cioè come precetto ), come opportunità di svago o come occasione di raccoglimento. E poi abbiamo visto già, seppur implicitamente, in che modo questi aspetti, queste figure del lavoro e della festa s'intrecciano l'una con l'altra, si rimandano reciprocamente. Ci restano tuttavia alcune cose importanti da fare, come ulteriori tappe della nostra riflessione comune: ci resta da chiarire meglio, esplicitamente, la relazione di lavoro e festa; ci resta da definire cioè il carattere temporale che è proprio di questa relazione; ci resta da avviare, soprattutto, un'ulteriore riflessione, che si svilupperà nel lavoro di gruppo, su quella che può essere, oggi, la specifica proposta cristiana in merito. Cominciamo con la prima questione: come viene vissuta oggi la relazione di lavoro e festa? Lo abbiamo in parte già visto: si tratta di una relazione che viene sovente negata. Si nega cioè che l'uno o l'altro dei due termini, il lavoro o la festa, abbia un'effettiva rilevanza, e che quindi debba davvero rapportarsi all'altro in maniera corretta. Oggi viviamo infatti in un'epoca in cui molti credono che tutto sia lavoro, e molti altri credono che tutto sia festa. Ci sono quelli che non smettono mai di lavorare: o perché non possono farne a meno ( in quanto sono costretti, ad esempio, dalle condizioni di flessibilità del lavoro, e dunque una tale situazione è loro imposta ) o perché non vogliono farne a meno ( in quanto sono dominati dalla ricerca del profitto o in quanto non riescono a smettere di lavorare ). E in parallelo ci sono quelli per cui non solamente la festa è tutto, è un valore sopra ogni cosa, ma per cui in special modo tutto è festa: una festa per lo più senza obblighi, un tempo di disimpegno e di ozio che deve essere lasciato vuoto, e che sovente, proprio in quanto tempo vuoto, pesa. Non è difficile trovare esempi, in una stessa famiglia, di questi atteggiamenti contrastanti. Possiamo pensare al padre che fa del lavoro la sua religione ( quanti esempi di questo atteggiamento, qui nel nord-est! ), e che lo fa, almeno così dice, per " lasciare qualcosa " ai figli. Ma, lavorando senza interruzioni, questo padre i suoi figli non li vede mai, non li vede crescere e così non cresce insieme con loro, e i figli a loro volta sentono la sua assenza. Perciò, lungi dal costituire un esempio di vita, il modello del " padre indefesso lavoratore " provoca reazioni di rigetto. I figli rivendicano il loro essere oziosi: tanto non devono lavorare per sopravvivere. E allora semplicemente godono, e magari sperperano, ciò che il padre ha guadagnato con il suo sacrificio. Ma ne il padre ne i figli, in verità, sono appagati. Non tanto perché i secondi distruggono quello che il primo ha costruito e non costruiscono nulla a loro volta, quanto perché il padre, prima o poi, finisce per domandarsi che scopo ha, davvero, tutto il suo lavorare; e perché i figli, pur godendo del benessere accumulato dal padre, sono frustrati, in quanto un tale benessere non è prodotto da loro, non è frutto del loro lavoro. Parlo di " padri ", naturalmente, perché io stesso sono padre. Ma potrei proporre lo stesso esempio declinato al femminile. Potrei parlare del lavoro incessante di quelle madri per cui oggi il lavoro, sia fuori casa che dentro casa, è visto come un obbligo indifferenziato, a cui corrispondono le pretese di quei figli per i quali tutto appare dovuto e mai sufficiente. In ogni caso questi due esempi - esempi di una situazione banale ma oltremodo diffusa nella nostra società, in cui i figli vivono o sono costretti a vivere alle spalle dei genitori - ci mostra due cose. Ci fa vedere anzitutto quanto sia necessario l'opportuno equilibrio, il giusto discernimento nel rapporto fra lavoro e festa. Ripeto: lavoro e festa sono ambedue importanti. Certo, ci sono momenti in cui può anche essere indispensabile dedicarsi totalmente e in maniera assorbente al lavoro, così come, in altri momenti, nei momenti di grazia, tutto nella nostra vita può apparire una festa. Ma si tratta appunto di momenti, che sono da inserire all'interno di una scansione temporale ben precisa. È questa la scansione del tempo cristiano. Su cui tornerò fra breve. La seconda cosa poi che viene messa in luce dal nostro esempio del padre lavoratore e dei figli oziosi - e da quello della madre che cerca di venire incontro, con la sua attività, alle pretese di tutti - è data dall'indicazione di un particolare modo, alquanto diffuso, in cui oggi viene vissuta la relazione fra lavoro e festa. Si tratta di una relazione, come dicevo, che in fondo viene negata: è una relazione di indifferenza. E ciò non rischia di accadere solamente per questa relazione, ma per ogni tipo di rapporto che ci può interessare, che ci può coinvolgere. Oggi, infatti, sembra che tutto quello che possiamo incontrare nella nostra vita sia uguale, prevedibile, sempre già noto. Ci inducono a crederlo i mezzi di comunicazione di massa, che tutto vogliono esibire e non lasciano spazio per il mistero. Ecco allora che non ci stupiamo più di nulla, e che nulla è in grado davvero di attirarci. Insomma: non c'è niente che meriti davvero attenzione, non c'è nessuna cosa che richieda veramente lo sforzo di rapportarci a essa, dal momento che tutto finisce per raccogliere solo disinteresse. Lo stesso accade, a ben vedere, nel rapporto tra lavoro e festa. Sempre più, come ho detto, si confondono queste due esperienze. Sempre più l'una sembra poter fare a meno dell'altra. Rischiamo di perdere il senso del lavoro e il senso della festa, proprio nella misura in cui perdiamo di vista la loro relazione. Lo abbiamo appena visto: rischiarne di essere analfabeti in questi due ambiti, e di dover di nuovo imparare che cosa significa davvero lavorare, che cosa significa davvero fare festa. Dobbiamo allora recuperare, insieme alla loro relazione, il vero e proprio ritmo che scandisce questi due modi del nostro vivere. In che modo lo possiamo fare? Lo possiamo fare recuperando una specifica concezione del tempo, una concezione che è propriamente cristiana, ma che da tutti può essere condivisa, giacché parlare di ritmo, qui, significa appunto parlare del tempo. E solo recuperando un'adeguata concezione del tempo può essere eliminato il pericolo dell'indifferenza; solo così può essere dato senso al vivere comune, che rischia altrimenti di essere ridotto a un'unica dimensione. 5. Il tempo cristiano Il cristiano, infatti, vive in una duplice dimensione temporale: vive un tempo circolare, ciclico, e un tempo lineare, orientato. Per lui le due immagini temporali offerte dalla tradizione, quella del cerchio e quella della freccia, non sono giustapposte, ma si integrano reciprocamente. La prima immagine, la prima significazione del tempo, è infatti quella che caratterizza l'anno liturgico, come cammino specifico e ricorrente della vita di una comunità di fede. Qui, ancora una volta, il protagonista non è l'io, ma il noi. Ed è in questo ricorso circolare che la festa trova la sua piena collocazione temporale. Essa è non solo l'apice che interrompe lo scorrere del tempo feriale, ma appunto il compimento di questo tempo, nella correlazione di esodo e di avvento di cui essa è testimonianza. Una tale concezione del tempo, tuttavia, è inserita per il cristiano ( a differenza di quanto avviene per il greco e anche per l'ebreo, ma soprattutto di quanto accade per il musulmano ) in una dimensione più ampia, anch'essa temporale. Si tratta del tempo del cammino, del tempo del pellegrinaggio: un cammino che va dalla prima alla seconda venuta del Signore. È dunque un tempo delimitato ( nella misura in cui collega incarnazione e redenzione ) e, soprattutto, è un tempo lineare, caratterizzato da una ben precisa direzione. È, ad esempio, il tempo del lavoro, nella misura in cui questo risulta sempre orientato verso uno scopo. Perciò esso viene sovente simboleggiato da una freccia. Si tratta però di una freccia, volendo usare ancora questa immagine, che non indica qualcosa che rimane nel suo stesso orizzonte, qualcosa che risulta situato su di un piano orizzontale. Il cammino temporale trova infatti la sua realizzazione in un evento che non è affatto temporale e che trascende proprio questo orizzonte, mettendolo sotto giudizio. Ciò che è temporale scopre così il suo nesso profondo con l'eterno. E il cristiano può guardare al suo tempo anche da straniero, come dice la Prima lettera di Pietro, e non farsi assorbire da esso. Nell'esperienza cristiana del tempo, insomma, circolo e linea, ritorno ciclico e percorso direzionato non risultano l'un l'altro contrapposti, come alcuni studiosi hanno sostenuto, ma si trovano invece intimamente uniti. Questo è infatti il carattere specifico del tempo cristiano: il fatto che la ciclicità non è chiusura in sé, non è segno di indifferenza e di disinteresse nei confronti di ciò che in essa non è ricompreso, ma è piuttosto funzione, in quanto tale, di un'effettiva apertura ad altro. E quest'apertura è appunto resa possibile dall'innesto del tempo circolare entro il tempo lineare. Ciò rende possibile quella particolare cadenza che è propria del tempo cristiano. Non si tratta di un tempo sempre uguale, indifferenziato, ma di un tempo di occasioni. Si tratta di un tempo di attesa di ciò che può accadere da un momento all'altro ( come viene detto nella 1 Ts 5 ). Si tratta di un tempo differenziato e differenziante, di un tempo di relazione, all'interno del quale possono sempre realizzarsi " piccole risurrezioni ". Ecco perché proprio questo tempo è il luogo deputato della testimonianza. Il testimone è colui, infatti, che tiene vive, per sé e per la comunità, le differenze all'interno del tempo. Il testimone è colui che, nel presente, trova la radice del passato, suo e della sua comunità, e si apre, a partire da qui, al futuro. Il testimone, in altre parole, è sempre testimone della speranza e nella speranza. Ecco, allora, che cosa possiamo proporre in sintesi. Dobbiamo recuperare, nel caso del lavoro e nel caso della festa, i diversi significati che sono propri di questi accadimenti, i diversi modi in cui essi possono essere vissuti, onde evitare l'appiattimento nell'indifferenza e nell'alienazione. Così facendo, scopriamo il loro legame, il ritmo che li contraddistingue. Si tratta di un ritmo che ha il suo senso in una specifica concezione del tempo: una concezione del tempo che è propria del cristianesimo, ma che può essere condivisa universalmente. Ne abbiamo accennato: è la concezione di un tempo capace di operare differenze e di far sperimentare, nel suo alveo, possibilità di senso; è la concezione, per esprimerci in un linguaggio cristiano, nella quale il tempo liturgico, circolare, con la sua specifica idea di festa, è inserito nel cammino del popolo di Dio verso la redenzione. Ed è appunto all'interno di questa concezione del tempo che possiamo comprendere e mettere in opera le parole chiave che indicano la direzione del nostro convegno: " Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo ". 6. Spunti per il lavoro di gruppo Concludo. Alla fine di questo percorso, di questa descrizione del lavoro e della festa, e di questa considerazione del tempo, del tempo cristiano, come ambito nel quale può essere sperimentato il senso di ogni nostra attività, feriale e festiva, posso tentare di indicare alcuni spunti per il nostro lavoro comune di questi giorni. Si tratta di spunti che tengono conto, anche e soprattutto, degli approfondimenti e del dibattito preparatorio compiuto a livello sia diocesano che nazionale. In particolare vorrei segnalare questi aspetti, sotto forma di domande: - in che modo la concezione cristiana del tempo può essere concretamente recuperata e messa in opera nell'esperienza quotidiana della testimonianza? E come la testimonianza può essere assunta come vero trait d'union temporale, nella misura in cui essa si attua nel presente, si ricollega alla tradizione ( Testamentum ) e fa segno verso il futuro? - In che modo poi, avendolo imparato noi stessi, possiamo a nostra volta insegnare il senso del tempo e il senso della festa, nella misura in cui questa non può essere semplicemente ridotta a " tempo libero "? In che modo, soprattutto, si può recuperare il senso dell'attività lavorativa, nella complessa situazione italiana che abbiamo descritto? Come possiamo fare i conti con le fragilità dei rapporti lavorativi e con le richieste di un pieno esercizio della cittadinanza, che alla dimensione del lavoro si ricollega? - In che modo tutto ciò può essere vissuto non già a livello individuale, ma come esperienza della comunità, e di una comunità consapevole dei legami che la uniscono? - In che modo nell'esperienza del tempo cristiano, come ritmo di lavoro e di festa, può essere recuperata la gioia della festa, ma anche la gioia del lavoro? Si badi bene: dico " gioia " e non " piacere ". Credo infatti che si debba distinguere la nozione di " piacere ", come ciò che interviene a interrompere momentaneamente un tempo omogeneo e disorientato, e che viene incontro a un bisogno individuale, da quelle di " gioia " o, anche, di " felicità ", le quali si danno in quel tempo che cresce e si alimenta nell'incontro con le differenze. - In che modo il tempo può essere davvero vissuto come esperienza della relazione fra differenti? Si tratta di una relazione in cui il legame non viene negato, ma anzi risulta propriamente possibile in virtù delle differenze incarnate da coloro che stanno appunto in questa relazione. E, in una tale prospettiva, il tempo, inteso come luogo in cui avviene la differenziazione, offre lo sfondo nel quale, in maniera creativa, può realizzarsi sempre e di nuovo l'incontro fra persone, cioè la vera esperienza come esperienza di altro. - In che modo, infine, questo discorso sul tempo, come orizzonte della scansione di lavoro e festa, può costituire anche lo sfondo per l'esperienza della speranza e per la sua effettiva messa in opera? Da questo punto di vista, infatti, la speranza è un'apertura al futuro che non si configura in termini generici, ma che si rende disponibile propriamente per un incontro personale: un incontro con altri e con altro. Il che vuol dire: la speranza stessa si definisce come una relazione non indifferente - cioè affettivamente impegnata - con l'alterità, in grado di dar senso alla vita e d'introdurre differenze nella vita stessa. Ebbene, se le cose stanno così, come vivere e incarnare oggi questa speranza, nel lavoro e nella festa? Questi e altri ancora, certamente, sono gli interrogativi che potranno guidare le nostre riflessioni di questi giorni. Si tratta, lo ripeto, di riflessioni comuni, compiute per uno scopo che è e rimane comune. Il nostro fine, infatti, è quello non già di fare un convegno sulla speranza, ma di vivere, com'è stato detto, un vero evento di speranza. Si tratta di un compito che, in quanto lo sperimentiamo come compito comune, si configura tanto come il risultato di un impegnato lavoro quanto come l'occasione di una festa condivisa. Una festa che tutti insieme, con gioia, siamo chiamati qui a celebrare. Ambito 3: fragilità Introduzione del dott. Augusto Sabatini 17 ottobre 2006 1. Premessa Desidero ringraziare i Vescovi italiani per l'invito ricevuto a partecipare ai lavori di questo Convegno, in cui mi è stato affidato il compito di introdurre al tema delle fragilità. Nella riflessione che illustrerò non v'è la pretesa di un contributo scientifico originale, ma piuttosto l'eco di esperienze di studio, di discussione impegnata, di amore autentico, di generoso servizio di tanti cui ho creduto di poter dare voce, in questa sede, da fedele ( laico e coniugato ) desideroso, nell'attenzione alle cose della civitas hominis, di contribuire con tutti voi a una migliore società in cui vivere. Sono persuaso che questa è un'occasione assai propizia di matura e condivisa partecipazione ecclesiale. Non mi spetta, ne d'altra parte saprei, formulare tesi o enunciati su cui dibattere. Vorrei sollecitare il nostro dialogo e il confronto, segnalando prospettive, suggerendo approfondimenti, ponendo interrogativi, ricercando percorsi; senza pretesa di dover o saper essere esaustivo, porgerò stimoli e incoraggiamenti allo sforzo di un'attenta riflessione comunitaria, perché sento una passione autentica per le straordinarie opportunità di questa stagione storica e ne vorrei tutti contagiare. Dunque, soltanto un'introduzione al nostro tema, per orientare il lavoro dei gruppi a orizzonti ampi: ecco l'itinerario che credo di potervi proporre, per la discussione nell'ambito che ci riunisce, a fondamento d'una testimonianza di più ragionevole speranza per le generazioni future in questo paese. 2. Per un comune vocabolario 2.1. " La " fragilità e " le " fragilità " Fragilità ", dunque: come definirla e percepirla? Nella locuzione emerge una radice di contenuto chiaro: frangere, ossia spezzare, ridurre in frammenti. Fragile è dunque ciò che può spezzarsi. In questo generalissimo livello, fragilità è qualcosa che di per sé non si caratterizza né come problema né come risorsa, ma, più semplicemente, come uno stato o un limite della materia e degli organismi viventi; potremmo poi distinguere al riguardo tra fragilità nel creato e nelle creature. Molti termini tuttavia circolano nell'uso corrente come sinonimi od omologhi per connotare nel segno " delle fragilità " ( al plurale, in luogo del singolare ) condizioni e situazioni problematiche tipicamente umane ( individuali ma anche collettive ), percepite sempre più diffusamente e, per così dire, in espansione, tanto da apparire ( per il loro rilievo assai coinvolgente ) quasi la " cifra " definitoria dei tempi che viviamo. Proviamo a rammentarne alcuni. In ambito economico, politologico e giuridico sovente parliamo di marginalità ( o sottoprotezione ), di precarietà ( o provvisorietà ) e anche di " nuove povertà ", ovvero di criticità ( micro e macrosociale ). Si tratta, in genere, di casi di deficit di rilevanza o rischio d'insignificanza, che riguardano: gli appartenenti a taluni gruppi sociali svantaggiati; coloro che versano in una cittadinanza incompiuta o " minore " o non sono in grado di esercitare neppure i diritti fondamentali ( per situazioni personali di limitata capacità o anche soltanto d'interinale " minorità " ); alcune istituzioni rappresentative di comunità in forte crisi di legittimazione sebbene siano luoghi tipici, anzi eminenti, di partecipazione democratica alla vita civile ( purtroppo ormai molto scaduta ). In ambito sanitario, ma non solo, si sono poi diffuse locuzioni quali: soggetti a rischio, disagio ( o difficoltà ) e, con priorità, prevenzione ( in usi semantici densi, indicativi d'incertezza, di carenza o di bisogno insoddisfatto di sicurezza, altrettanti sinonimi di fragilità ). Ancora, in ambito culturale ( e filosofico ), nell'esperienza attuale di stagnazione della secolarizzazione, di concomitante risveglio religioso ( promettente, sebbene assai dispersivo ) e di complessità crescente all'insegna della cd. pluralità totale, si impiegano termini quali crisi ( della speranza e della ragione ) e identità aperta ( o fluida ) e si pone l'accento sulla rilevanza del disagio dell'alterità. La soggettività odierna, in questo senso assai " fragile ", fa esperienza del proprio disagio soprattutto nella relazione io/tu: quando s'atteggia come esperienza di male ( inferto o subito ), sofferenza, lacerazione, privazione dell'esercizio di libertà ( che nell'altro trova un limite " naturale " ); quando lo svelamento di sé rende più vulnerabile la propria interiorità all'altro ( che ne potrebbe approfittare ); quando l'altro è ciò di cui si avrebbe bisogno e non c'è; quando sembra che l'alterità deprivi di valore l'individuo e ridimensioni il primato che la sua dignità pretenderebbe di meritare ( come accade sempre più nelle esperienze di famiglia, verso cui oggi si soffre come se fossero un costrutto ingabbiante ma da cui si pretende al contempo la soddisfazione dei propri bisogni d'affettività, quasi che questi potessero o dovessero, nel legame, saturare ogni altra domanda esistenziale ). 2.2. Le fragilità " problema " Già questo primo approccio consente di concepire la fragilità come un concetto - contenitore, che, concernendo essenzialmente la sfera della vita umana, attinge questioni d'identità, di ruolo e di equilibrio in genere e si propone con una qualificazione sostanzialmente negativa: si parla allora di fragilità come " problema ". Soffermiamoci ora sulle fragilità esistenziali, ponendo però per un momento da parte quelle originate da iniquità e ingiustizie per occuparci di quelle, per così dire, " ontologiche ": esse sono vissute come " emergenze " ( da fronteggiare risolutivamente o rimuovere, pena lo scadimento della qualità della vita collettiva e individuale fin qui raggiunta ) o come " condizioni " limitanti ( da cui, se possibile, affrancarsi o, al più, da " oscurare ", non da assumere e attraversare ). In ogni stagione della vita l'uomo è " umano ", cioè " fragile ", e in tutte le generazioni si è fatta esperienza di fragilità ( anche solo contingenti ed eventuali ). Eppure, soltanto in questi tempi esse appaiono un problema culturale, nel senso cioè che incidono in modo e grado decisivi sulla concezione che ogni individuo ha della vita e dell'uomo. Sia che ci tocchino direttamente sia che ne siamo protagonisti indiretti o soltanto spettatori, c'è, in queste tensioni, tutta intera un'esperienza di disagio, ingravescente fino al rifiuto, verso le caratteristiche di particolare penosità che la realtà dell'esistenza di ogni uomo può presentare ( e da cui nessuno è escluso ), che tuttavia soltanto da poco abbiamo imparato, in un tempo peraltro assai breve, a non gradire e quindi a rimuovere. Come fattori di povertà contingente, da cui liberarsi ( in un'epoca di rilevante benessere e tenore di vita ); o come autentici disvalori ( cioè condizioni culturalmente non più accettabili, nel senso che prima si accennava ). Soffriamo insomma troppo le nostre fragilità ( anche quelle " ordinarie " ) e non sappiamo più accettarne le implicazioni, sia quando è " l'altro " a esserne protagonista, sia quando riguardano noi stessi, quasi che in tali casi o circostanze la vita sia divenuta poco meritevole d'essere vissuta perché disumanizzata, mentre è il nostro mutamento di concezione del valore della dignità umana che ha in realtà disumanizzato, meglio, impoverito ognuno ( e ci ha reso problematico il responsabile e corretto intenderle e viverle ). Per quel volto dell'occidente opulento ed evoluto quale anche noi italiani siamo, il nostro, insomma, è un tempo strano. Un tempo in cui s'affermano grandi capacità ed entusiasmi, come quelli dischiusi dalla fiducia nelle potenzialità della ricerca scientifica e delle applicazioni tecnologiche: percorsi, questi, da esercitare con elevata responsabilità, riguardando strumenti ad altissimo tasso d'incisività sulla vita comune, forme moderne di un decisivo potere sulla natura e sugli uomini; ma in cui risaltano pure incapacità inaudite ( come quella, peraltro universale, del saper soffrire, non più però solo di " cose grosse " ma anche di " cose piccole " ). Un tempo in cui siamo in grado di vedere di più e meglio, ma la nostra sensibilità, fattasi in tutti i sensi " ipersensibile ", si scopre anche troppo vulnerabile ( e perciò non possiamo o non sappiamo o, peggio, fingiamo di non vedere alcune dimensioni particolari della nostra identità, creando oscurità nell'intimo e soprattutto nel foro dell'autocoscienza, in guisa d'inganno, per non affrontare temute cocenti delusioni ). Un tempo in cui la frequente rinuncia a mete ideali d'alto profilo e l'accomodante appagamento nell'effimero, l'esasperata ricerca del benessere ( costruito tra l'altro sulla misura individuale ) e la minimizzazione del costo spirituale che implica un siffatto vivere, comportano il fiorire di idealtipi umani singolari: l'individuo efficiente fisicamente e psicologicamente roccioso, esteticamente incline al perfetto ( o quasi ), rampante in cerca di successo ( cioè, d'affermazione del proprio potere sull'altro ), moralmente ed eticamente norma a se stesso, proteso a vivere oltre i propri limiti, determinato alla difesa del proprio privato ( che non tollera intrusioni di sorta ), in ultima istanza pronto al disprezzo dei bisogni altrui; ma, dietro la facciata di tanta forza e sicurezza, quanti drammi di inferiorità ( fisica e psichica ), dipendenza e solitudine, grettezza ed egoismo, sterilità! Un tempo in cui proviamo come l'illusione di possedere le chiavi della vita e della sua manipolabilità ( quasi demiurghi della sua origine e, nel contempo, protagonisti finalmente " operativi " del rinnovato sogno faustiano dell'immortalità a portata di mano ); eppure non ci sentiamo mai felici autenticamente, anzi come in perenne precarietà, tanto che la vita non solo siamo disposti a non viverla o ad abbreviarla, ma neppure la desideriamo offrire a chi vi potrebbe accedere, ne la permettiamo a chi ne dovrebbe fruire, fino alle incredibili piaghe sociali ( che mai a sufficienza si stigmatizzeranno ) della crisi della natalità, delle pratiche abortive - non solo eugenetiche - e dell'inaccettabile manipolazione o impiego dell'uomo ( sia a scopi di ricerca sia di commercializzazione ), perfino nella forma creaturale più fragile che ne sia conoscibile, cioè l'embrione. Un tempo in cui il nostro orgoglio di esseri pensanti non sta implicando anche un salutare incremento del pensare ossia dello studio attento e serio sul perché di questa crisi ( collettiva, e non solo individuale ) di energia vitale e di speranza ( nell'uomo e nel futuro ). Sta accadendo così qualcosa di singolare. Gli uomini, da che mondo è mondo, soffrono, si ammalano, muoiono; per molti anni della propria vita, l'esistenza di tanti è una scommessa, esposta a rilevanti precarietà, senza sicurezze di benessere e di sopravvivenza. Molti, troppi individui e comunità continuano a lottare, spesso soltanto per sopravvivere; eppure, anche i ricchi hanno perso speranza nel futuro. Si è mantenuta, anzi aggravata, la forbice tra primo mondo opulento e terzo ( e quarto ) mondo con reddito prò capite infimo, che dipendono nella propria sopravvivenza dalle briciole della tavola dei potenti; ma solo l'esperienza di una guerra insensata ( sebbene in qualche senso assai prevedibile ) ha fatto capire, appena un decennio fa, ai giovani di Belgrado, Lubiana e Sarajevo - " occidentali " come i nostri figli, adusi al lusso dei pc, dei telefonini e delle tecnologie elettroniche - il valore dell'acqua potabile ( divenuta bene così fondamentale, da andare ad attingerne alla fontana sotto il tiro dei cecchini, a rischio della vita, pur di procurarsene un po' ) e dell'energia elettrica ( dimenticata per mesi ma tanto agognata, spesso per attenuare la paura, anzi il terrore, del buio notturno ), che troppi loro coetanei asiatici e africani ancora attendono, e dalla nascita, di fruire. Gli eventi naturali, quelli catastrofici s'intende, nel loro ricorrere hanno mantenuto chiara la dimensione " eterna " di assoluta fragilità dell'umanità e del creato. Abbiamo la presunzione, per averli scientificamente analizzati e decifrati nelle loro dinamiche e trasformati in modelli di studio e di simulazione, di poterli preconizzare o conoscere in anticipo? O quanto meno " controllarli " per impedirne, ridurne o limitarne l'impatto distruttivo ( in beni e risorse umane )? Un'eruzione, un'alluvione, un uragano, un terremoto o un più drammatico e sconvolgente tsunami sono ancora sufficienti a metterci desolantemente in ginocchio ( magari per scelte umane dissennate o soltanto poco lungimiranti in tema di protezione civile ) e mentre la macchina dei soccorsi, troppo spesso tra grettezze e indifferenze, s'avvia al salvataggio e alla ricostruzione, piangiamo e ci lamentiamo, disquisendo sull'assenza di Dio! " Assenza o silenzio? ", bisognerebbe prima interrogarsi! Anche in questo inizio di millennio, queste leggi di natura si confermano attuali. Il terrorismo globale e la proliferazione d'un clima planetario d'incertezza, nel quadro fosco ( purtroppo non solo ipotetico ) dell'allargamento a macchia d'olio dei conflitti regionali e del possibile innesco in tempi ravvicinati di drammatiche escalation fino allo scontro nucleare, di certo hanno accentuato insicurezze e paure di molti; Troppe barbarie poi testimoniano una capacità di male inaudita, che si credeva avesse raggiunto l'apice nel genocidio della shoah e invece si è come ulteriormente evoluta, quasi raffinatamente. Nulla di nuovo sotto il sole, però! In materia di rischio nucleare, nel passato secolo già abbiamo conosciuto, noi occidentali in genere, sia culturalmente sia materialmente, le esperienze della crisi di Cuba e degli anni interminabili della guerra fredda, pur senza annientamento e cosificazione umana. La morte " di tutto " sembra però come sullo fondo. La morte, è vero, è qualcosa che sembra negarci integralmente come uomini; ma non è stata risparmiata ad alcuno, neppure a Gesù fatto uomo. Da sempre, come il concepimento e la nascita, è l'unica cosa certa della vita; e se la vita è davvero un grande mistero, pure, di fronte alla paura della morte, in qualche misura può dare conforto ( se non certezze ) il primo titolo che s'addice a Dio ( come un carissimo amico in agonia in un letto d'ospedale mi ha insegnato ): non quello di Creatore onnipotente, ma di Padre, di padre buono, che ci è sempre vicino e prossimo. Dunque, che ci sta accadendo? Perché le nostre vulnerabilità costituiscono tanto problema? Forse, abbiamo trasformato tanti sogni in bisogni? Cosa ci ha reso tanto più fragili di appena poco addietro, quasi a smarrire la fortezza ( ossia la fermezza, la saldezza, la perseveranza )? Lo scenario, per certi aspetti, è veramente sconcertante, sebbene non manchino echi di speranza autentica, ma soprattutto pone interrogativi cui ogni risposta è ancora da meditare. 2.3. Le fragilità " risorsa " Nel primo discernimento, i lavori preparatori di questo Convegno, accogliendo questa particolare dimensione - che abbiamo appena delineato - delle fragilità umane come " problema ", l'hanno identificata come una delle " grandi aree dell'esperienza personale e sociale " verso cui siamo chiamati, da cristiani, " singolarmente e come comunità ", a essere oggi e in Italia particolarmente sensibili. Se rilevanti fragilità sono presenti anche nel creato, ci devono interpellare primariamente quelle che costituiscono tratto emblematico dell'identità umana. Sottolineando come sempre più stia emergendo il bisogno di comprenderne l'ampiezza d'estensione e la scaturigine, ma soprattutto di viverne con coscienza matura e solidamente fondata tutta l'effettiva densità, le Chiese italiane sono state invitate ad affrontarne senza più differimenti o infingimenti l'attuale rilevanza. Per condurci a nuovi approdi sul senso globale dell'esistenza umana e anche per seminare, secondo la dimensione specifica e propria dell'agire della Chiesa, il fermento indispensabile a rinnovare il patto su cui si fondano le nostre comunità civili, con coraggiose e chiare istanze circa gli interventi normativi e d'indirizzo politico prioritari a tutela del valore dell'uomo in quanto tale. Così ci è proposto di guardare alle fragilità umane - soprattutto quelle che più temiamo - come risorsa, ossia come " ragione " e " motore " di un particolare impegno. Non per emarginarle o " anestetizzarle " ( con le tecniche appropriate ), ignorandone la dignità, nascondendone la profondità di significato o rimuovendone più che possibile la penosità. Bensì, al contrario, per approfittare, in un certo senso, della loro presente " invasività " nel nostro immaginario, per vincerne la paura e attuarne pienamente l'accoglienza, nel segno dell'amore a esse, della chiarezza e della concretezza. Per viverle radicalmente, con convinta adesione all'intima disposizione della Chiesa a proporsi " come comunità che ama il Cristo in coloro che lui più ha amato " ( cioè nei sofferenti e deboli, negli insignificanti, in quelli di cui nessuno s'accorge o vuol prendersi cura ) e che, alla sua sequela, attraverso esperienze di autentica comunione d'amore - sociale e personale - vuole, ardentemente, la santità di ognuno, sia il fragile sia il forte. Innescando virtuosamente una nuova esperienza collettiva di ricerca del vero valore della vita umana, che le restituisca ricchezza e pienezza e ne metta in chiara luce l'essenziale suo contenuto, si vorrebbe dunque che la testimonianza dei cristiani di questo primo avvio del millennio agisse in Italia fruttuosamente, con rinnovato alimento e maggior efficacia, con coraggio e fedele perseveranza, ma soprattutto con profonda e sincera umiltà: sia verso le manifestazioni presenti delle odierne nuove povertà e marginalità ( che interpellano le coscienze a conseguire una più vera e seria giustizia umana ); sia verso quelle situazioni estreme che costituiscono i " quadri della passione " di tante vite anonime, di credenti e non, dalle quali ( come icone del Cristo che continua a essere sofferente nei loro corpi e nelle loro anime ) ogni cristiano ha molto più da imparare e meno da insegnare, e che sono da avere a cuore e da non abbandonare nei deserti della loro troppa solitudine. A noi, nei gruppi, spetterà il compito di darne una prima concretizzazione. Ma v'è di più! Negli incontri preparatori, si è ampiamente avvertito che quello delle fragilità è un tema cd. trasversale, che interpella un po' tutte le principali questioni antropologiche: le problematiche dell'identità di genere e di ruolo ( e, con esse, del senso e valore del corpo e della sessualità ); il precario equilibrio della vita ( nel fluire di tutte le sue stagioni ) tra lavoro e tempo familiare e personale, tra salute e malattia, tra benessere e sofferenza; il rapporto educativo e di trasmissione culturale tra le generazioni; il fondamento della speranza di fronte alle forme di più acuto peccato ( individuale e sociale ) oggi diffuse. Un tema di fronte al quale parrebbe quindi assai utile proporre alcuni modelli di fragilità come punti di forza del rimodellamento di nuovi, più accettabili stili di vita, all'insegna di un magistero di umanità autentica, di condivisione ( e non di solitudine ) che, purtroppo, pure nella Chiesa ( scandalosamente ) difetta o risulta solo residuale. Si è percepito, ancora, che esistono alcuni macrosettori della vita sociale in cui le problematiche delle fragilità presenti divengono ormai sempre più questioni non soltanto di carattere assiologico, ma anche organizzativo e si è osservato che i tempi attuali esigono uno sforzo supplementare d'acume e lucidità e interpellano vieppiù le responsabilità civili ( anche delle professioni ): nell'invito a cogliere e denunciare nei sistemi di riferimento le inadeguatezze più evidenti e non ulteriormente tollerabili ( perché lesive dei diritti fondamentali ) e a incidere propositivamente sull'esistente ( per ampliare - come si è detto - l'area della vera giustizia ); in particolare, nel garantire comunque anche in tali casi l'accompagnamento personale ( che non dovrebbe mai mancare a coloro che ne sono protagonisti ): ovunque, si ribadisce, nello stile di una piena condivisione, della delicatezza e del rispetto ma anche ( e soprattutto ) della vera passione. A quest'ultimo proposito, cioè quello della " vera passione per una piena condivisione ", la questione non è quella del " fragile - maneggiare con cura ", ma, piuttosto, quella del " fragile - maneggiare con amore ". In questo diverso, più eminente senso, le fragilità divengono qualcosa di più di una risorsa, anche soltanto per i protagonisti attivi di tanto volontariato ( sia autentico, sia meno profetico ). Per vie in un certo senso misteriose agli uomini ma ben chiare nella pedagogia divina, e che in paradiso verranno certamente a piena luce, a esse si può e si deve guardare nel loro atteggiarsi come una sorta di dono di Dio agli uomini, una provvidenziale opportunità, piuttosto che problema, per riconoscere in che risiede ai suoi occhi la vera nostra grandezza: la capacità cioè di accogliere e dare amore. Concepire però l'accoglienza delle fragilità - a cominciare dalle proprie - come esercizio di autentica umanità ( o, in altri termini, di santità ) e di ringraziamento ( non come equivoca via ascetica o penitenziale ), non è certamente agevole, neppure per un credente. Esistono, infatti, forme di sofferenza che appaiono umanamente irrimediabili ( cioè senza possibilità di riscatto ), o più semplicemente prive di speranza redentrice: di esse, nessuno direbbe di poter essere lieto o d'averne bisogno. Eppure talvolta soltanto esperienze del genere permettono di scoprire che si può mostrare il volto migliore di sé proprio nella massima fragilità ( propria o altrui )! Misteriosamente grande è il discernimento che il Signore, nei sentieri della vita, sa dare al riguardo. Esistono, in particolare, casi di persone latrici di fragilità inaudite, capaci tuttavia ugualmente di cura di deboli; si tratta di persone che hanno sperimentato - in esperienze di crescita o cammino non tanto " assistiti ", quanto " condivisi " - forme di attenzione viva ed efficace che ne hanno acuito la sensibilità, o semplicemente " risvegliato " potenzialità in un primo momento neppure intuibili, fino a gesti tanto concreti quanto semplici e genuini di vero amore, per i quali non si finirebbe di poter dire: " Grazie! ", perché ci ricordano che " l'amore del prossimo non può essere soltanto un comandamento imposto, per così dire, dall'esterno ", ma una ragione di vita, un obiettivo da perseguire con determinazione, una passione che proviene dal riconoscimento di essere stati creati per amore e per amare. E se questo è vero in chiave personale, cosa significa sul piano comunitario? Condivisione, profezia, impegno, fantasia della carità. Infine, è giusto dar conto del fatto che, nei documenti pervenuti dalle diocesi e nei contributi preparatori provenienti da associazioni e movimenti, sono state espresse rilevanti aspettative sul presente nostro Convegno, ma pure rilevanti incertezze su alcune delicate questioni - a valenza non del tutto solo endoecclesiale - circa le limitate potenzialità attuali sul piano formativo e culturale e su quello della presenza sociale ( verrebbe di dire, le presenti " fragilità " ) delle Chiese particolari in Italia, cui è bene quanto meno accennare, che si possono richiamare per grandi linee nei termini seguenti: - il voler porre l'uomo, la persona al centro dell'azione della Chiesa; - la scelta della povertà come via eletta; - il ruolo e contenuto della carità spirituale e culturale del cristiano ( intuita come ministero di amicizia e di fraternità con gli intellettuali non credenti o credenti di altre religioni per il dialogo nei " moderni areopaghi " ) nell'approccio al futuro; - gli orientamenti degli studi e della ricerca teologica ( in particolare sulla questione escatologica ); - la " riqualificazione " della formazione culturale e l'impegno delle istituzioni di ricerca ( o d'altri " luoghi permanenti " di studio ) per il conseguimento di una visione più organica dei problemi attuali e per una più efficace incidenza su di essi; - il sostegno alla formazione delle vocazioni personali ( con il rischio, sempre latente, della riduzione a fatto d'organizzazione della visibilità e dell'efficacia della Chiesa ); - la desiderabile, ma ancora poco udibile, " sinfonia " delle voci cristiane tutte ( non solo cattoliche ) e dei ministeri ( ordinato e laicale ), nell'affrontare la presente stagione come tempo così ricco, insieme, di complessità e di grazia; - le rilevanti difficoltà del " bussare al cuore dei lontani " ( dei quali, assai probabilmente, tanti già ci sopravanzano nel cammino verso il regno dei cieli ), in tempi di sazietà materiale, diffusa indifferenza spirituale e cospicuo pluralismo religioso; - la questione del sostegno alla convivenza interetnica e all'interculturalità; - le serie problematiche ( antiche e recenti ) del rilievo che deve assumere, per l'impegno politico dei laici in Italia, lo " stare al fianco e prendersi cura ". A queste sia permesso d'aggiungere il tema ( del tutto aperto ) dell'incremento delle collaborazioni e delle relazioni stabili tra le Chiese sorelle in Italia e tra queste e quelle del Mediterraneo ( in particolare quelle che vivono in territori in cui i cristiani sono minoranza e non godono delle medesime opportunità di esercizio dei loro diritti fondamentali ) per fini di comune impegno formativo e pastorale e per l'instaurazione di solidi legami d'amicizia, all'insegna di vicendevole solidarietà. 3. Come vivere le fragilità? Fragilità, ancora: come " viverle "? Alla luce di quanto finora detto, è chiaro che ci troviamo di fronte a un'opportunità grande per verificare se e in quale misura siamo capaci di servire Dio nell'uomo e che la via elettiva in proposito è appunto l'ascolto, l'accoglienza dell'uomo fragile, e la condivisione delle fragilità non soltanto come risorsa, ma come dono. Al di là delle pur legittime aspirazioni di buona volontà a offrire soluzioni alle tante povertà ( vecchie e nuove ) che dobbiamo imparare a riconoscere e comunque a condividere, " quando si incontra una sofferenza, il primo atteggiamento che un uomo, una donna dovrebbero avere è quello di fermarsi, per ascoltare, guardare, per vedere e capire, come fece il samaritano. Potrà non toccare a noi la risposta necessaria, ma tocca sempre a noi l'ascolto, la vicinanza, il voler andare a vedere cosa possiamo fare ", cioè offrire speranza a chi la chiede. Sembra, in un certo senso, cosa ovvia, eppure non lo è mai abbastanza! Sarà soltanto un frammento di una vita, quello attingibile, ma non deve far temere inconcludenza; è bene invece averne cura, importa che ci sia il risveglio del cuore, perché " l'immagine di Dio scolpita in ogni uomo è assolutamente più forte di ogni male che l'uomo possa compiere " o di ogni sofferenza o peccato che la possa sfigurare: essa, insomma, nostro malgrado, ci viene incontro e non possiamo, non dobbiamo permetterci il lusso di non incontrarla e lasciarcene trasformare, perché è questa la nostra maggior virtù. Questo è vero, innanzitutto, nella storia individuale di ognuno di noi. Ma ci riguarda anche come Chiesa, come porzione di umanità che ha a cuore Dio e l'uomo e vuole saper vivere " con " e " come " Gesù, rivelando per così dire lo stile di Dio, che è quello di un amore gratuito, totale e fedele, anche quando non ricambiato! Seguendo la proposta iniziale dell'indice, un po' provocatoria, proviamo allora a verificare, nei riferimenti della tripartizione individuata, fondamenti, forme e luoghi di una testimonianza possibile, desiderabile, esigente ed esigibile, di vicendevole cura amorevole di chi è nella necessità, chiunque egli sia, e di chi gli vuole essere prossimo. 3.1. Fragilità nel creato Nell'espressione, chiaramente metaforica, risuonano plurime eco di un'unica inquietudine: quella di chi ( purtroppo fondatamente ) teme le limitate prospettive di futuro pronosticabili per l'umanità. Vi è incluso il problema dell'estrema vulnerabilità degli ecosistemi, sia di fronte agli eventi naturali di tipo catastrofico - distruttivo ( di cui tragici accadimenti recenti hanno reso palese l'intensità ), sia in conseguenza dell'agire umano che ne attua la trasformazione. Di fronte all'elevata probabilità che il pianeta subisca, in senso fisico, un degrado tale da non consentire un po' dovunque la sopravvivenza, il presente sviluppo tecnologico non sembra da solo poter condurre ad approdi tranquillizzanti, e ciò non soltanto per ragioni d'intrinseca efficienza, quanto per la complessità delle questioni legate alle scelte d'indirizzo politico " globale " in tema di mantenimento dell'equilibrio degli ecosistemi stessi. Vi è poi il problema ineludibile ( ma non nuovo ), dell'uso consapevole e responsabile delle risorse naturali sia riproducibili sia non riproducibili ( divenute in pochi decenni sempre più scarse ), quale componente determinante di uno sviluppo sostenibile in condizioni di garanzia effettiva della ulteriore vivibilità della Terra. E infine, last but not least, la questione della redistribuzione su scala globale delle utilità dei bona communio omnium tra cui, in particolare, l'aria da respirare e l'acqua dolce, detta ormai " oro blu ". Anche nel caso dell'Italia, urgono - e non da poco - situazioni ambientali all'apparenza forse meno apocalittiche o ancora poco visibili ma del pari emergenziali ( non regionalmente caratterizzate, anzi diffuse ), in un panorama a luci e ombre, dall'equilibrio spesso precario e facilmente " collassabile ". Un generale spreco del patrimonio territoriale ( urbanizzato e non ), anche in impieghi socialmente poco giovevoli, se non consapevolmente dannosi, con difficoltà di fruizione delle fonti naturali ( soprattutto idriche ). Città degradate sia fisicamente ( nei luoghi della loro memoria, incautamente o ciecamente deprivati del necessario risanamento e restauro ) sia eticamente ( nelle periferie - nate o divenute ghetti - in cui la vita consiste nell'esercizio di una cittadinanza " minore " ), inospitali, non vivibili ai più ( segnatamente, piccoli e anziani ). Sistemi di comunicazione e reti di trasporto ad andamento altalenante o in sviluppo " a singhiozzo " e a elevatissimo impatto ecologico e sulla qualità della vita ( di cui il pendolarismo è forse l'aspetto più appariscente ). Livelli di consumo eccessivi, sicuramente riducibili; capacità di gestione a fini produttivi del territorio, soprattutto in agricoltura, poco valorizzate e meritevoli di maggior impegno; saperi professionali al riguardo di tutto ciò critici, o marginali o peggio cinici ( secondo l'occasione ). Problemi che diverranno più acuti nel corso della vita dei giovani adulti di oggi; ma quanti genitori, che considerano la garanzia di un futuro sicuro per i propri figli come la priorità principale e investono la propria ricchezza quale eredità per loro, possono dirsi ancora certi di un futuro per loro? Ve poi da dire anche della fragilità delle istituzioni, soprattutto quelle pubbliche, ossia dei sistemi di esercizio del potere sociale e giuridico sulla natura e sugli uomini, che in atto versano in delicata crisi, sia nella dimensione statuale sia in quella superstatuale. È giusto che se ne accenni qui perché la mondializzazione, compiutasi in tutto il pianeta negli ultimi venti anni ( di cui la cd. globalizzazione è soltanto uno degli esiti ), ha, per così dire, mutato la fisionomia della dimensione " territorio " e quindi l'identità della collettività che ci vive. Ed è bene anche avvisare che, pur a fronte di un quadro fenomenologicamente troppo complesso e in un contesto di grave incertezza per la pace mondiale, le istituzioni del primo mondo devono fronteggiare tre problemi particolari in questo inizio di millennio: 1) confini spaziali incerti e fluidi; 2) aggregati umani meno compatti e coesi ( non più " popoli ", bensì " popolazioni " ); 3) relativismo valoriale generalizzato e localismi riduzionisti o intolleranti. Si tratta, come è intuibile, di fragilità i cui riflessi ( nella presente stagione di difficile inquadramento delle appartenenze ) emergono anche nello specifico della situazione italiana, soprattutto nelle due dimensioni problematiche: a) del rinnovamento del patto valoriale a fondamento della costituzione interna ( la messa in discussione della quale è tuttora di piena attualità ) e della costruzione di quello su cui poggiare la cittadinanza europea; b) del futuro della democrazia partecipativa ( la crisi della quale, nelle forme della disaffezione o del rifiuto, è evidente ). 3.2. Fragilità nelle creature Si è, in un certo senso, già detto molto delle fragilità delle creature umane in generale. Pare utile, tuttavia, suggerire alcuni spunti ancora in proposito, circa il rapporto tra creaturalità e fragilità e il suo rilievo per la vita morale. 3.2.1. Creaturalità e fragilità La creatura uomo è stata concepita da Dio " a sua immagine e somiglianza " e posta nel mondo creato per esercitarne il dominio e la valorizzazione, custodendolo e coltivandolo, secondo un disegno di bene in virtù del quale è chiamata in qualche modo a essere colui che ne completa ( o continua ) l'opera creatrice. La creaturalità, però, in quanto limitatezza e dipendenza, è, in un certo senso, anche la radice di tutte le fragilità umane che tanto ci angustiano; e questa condizione può dirsi voluta dal nostro Creatore, per tutti gli uomini e per ogni tempo. Perché? Forse perché soltanto chi è ( in quanto creatura ) " fragile " può realmente e autenticamente percepire quei bisogni che lo spingono a mettersi in relazione con un'altra persona e, tra questi, il bisogno ( assolutamente interiore ) di qualcuno che gli venga incontro, lo accolga, lo sostenga e lo incoraggi, lo abbia a cuore e, in una parola, desiderandone il vero bene, lo ami e si spenda per lui, colmandone la pochezza e facendogli avvertire o conseguire quella pienezza che lo rassicura e appaga e diventa come il motore per tutta la sua esistenza. E perché soltanto chi è fragile, quando sperimenta nel suo impellente bisogno ( pur solo soggettivamente tale ) l'altrui amore per sé, scopre la gioia di avere valore, è liberato non dalla sua debolezza ma dalla zavorra della " inutilità " della sua debolezza. In certo senso, si fa " nuovo ", coglie d'avere un rilievo, diventa così capace, a sua volta, di apertura di cuore e d'orizzonte, fino a sprigionare quella tensione interiore ( che anche in lui è ) in virtù della quale il sogno di chiunque ( di essere forte, potente, " vittorioso ", insostituibile ) si concretizza. E Dio, che è Amore, evidentemente ha desiderato così intensamente che l'uomo lo ami volontariamente e autenticamente - uomo che ha creato, per così dire, proprio per questo in tale sua dimensione - da renderlo pienamente libero di esserne o non esserne protagonista attivo e ha accettato il rischio di non essere amato, mantenendo tuttavia fedeltà per sempre ( per parte sua ) alla propria promessa d'amore. È vero che un legame di dipendenza spesso si colorisce di significati negativi, quali la percezione della propria inferiorità e conseguentemente la paura dell'altro ( come colui che ha potere su di te e ne potrebbe esercitare non pro ma contro ), e come tale è fonte di timore e sofferenza o d'inquietudine e insicurezza, non anche, neppure prima facie, di gioia. Gesù, però, ha detto molto chiaramente: " Non vi ho chiamati servi [ … ] ma vi ho chiamati amici "; e ancora: " Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi ". Qui, il senso e il messaggio esperienziale di questa " confessione " sono assolutamente straordinari: Cristo ci ribadisce che Dio ama per primo e che ha come il " bisogno " di ricevere dall'essere amato, a propria volta, un libero e vero contraccambio d'amore, e nel contempo ci chiarisce che ciò che preme a Dio è il vero bene di ogni uomo e che solo in questo abbraccio d'amore tale bene può avere compimento. È così che il riconoscimento da parte della creatura del proprio legame di dipendenza verso il Creatore si può trasformare in una condizione di autentica gioia, anzi, si trasfigura del tutto. La via e la vita di Cristo ci testimoniano, d'altra parte, che così è stato voluto proprio per un disegno d'amore, in cui le esperienze di drammaticità o tragicità che il male ( fisico e interiore ) reca con sé possono anche spezzare del tutto, privando di speranza o rompendo un legame di fiducia, ma non sono mai caratterizzate dalla solitudine, perché Dio, anche se tace, non smette di amare, mai. E poi, guardando al Crocifisso, ma seriamente, cosa può far provare paura di Dio? Viene invece da affermare, con il Salmo 23,4: " Se dovessi camminare per una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me ". 3.2.2. Fragilità e vita morale Ciò detto, in un altro senso ancora, che si riferisce elettivamente alla vita morale, fragilità si può identificare come " deficit di fortezza ". Su questo piano occorre però una certa attenzione. La forza d'animo che chiamiamo fortezza, per quanto addestrata dalla scuola della vita e resa robusta in un allenamento severo, se cristianamente orientata, non procede con l'altezzosità superba del self made man, bensì con umiltà e riconoscenza; è una virtù, che ( nei suoi connotati tipici della fermezza e costanza nella ricerca del bene ) assicura l'energia necessaria per superare gli ostacoli che nella vita materiale traggono origine dalla paura dell'affrontamento delle prove esistenziali e costituisce, per così dire, la forma eminente della consapevole risposta di cooperazione alla grazia ricevuta da Dio. Essa è addirittura detta virtù " cardinale ", cioè " fondamentale ". Della fragilità umana possono allora, in senso morale, offrirsi due distinte chiavi di lettura. Essa può atteggiarsi, in primo luogo, come dimensione d'inattitudine alla prova. In questo tipo si esprime spesso una forma di autosvalutazione, talora solo soggettivamente avvertita ( ma non anche oggettivamente tale ), che funge quasi da limite preclusivo alla possibilità della padronanza piena di sé. Ora, conoscere, guardare in faccia ciò che si è, indubbiamente è essenziale, per la crescita della propria personalità, ma non è sufficiente nella vita morale; per una vita autentica, " vera ", occorre infatti anche " amare " ciò che si è, e questo è possibile, perché Cristo, che ama per primo, non ha messo condizioni a tale suo amore. Amarsi come si è non è però anche stare fermi! Nessuna fragilità, per quanto cospicua, di per sé è un fato avverso o una vis maior cui resisti non potest, tale da impedire il progresso nella vita morale. Non volere questo progresso, non lottare per incamminarsi in esso, nella convinzione che non ne valga la pena, è una forma di povertà assai diffusa, che va contrastata, in un certo senso " facendo la guerra " ai propri difetti. E allo stesso modo va contrastata quella tentazione ( forse ancora più grave ) del crogiolarsi in tale persuasione, o assestarsi in un equilibrio accomodante ( di basso profilo ) o in stagnazione. In secondo luogo, ogni fragilità, che non è da sé sola fonte di peccato, può però costituire una condizione di serio rischio per la vita morale, quando in essa s'innestano le esperienze, tutte assai problematiche, della difficoltà del bene; del male agito per omissione; o, ancor peggio, della volontà di male. Se dunque l'esperienza della fragilità è tale da mettere in luce soprattutto limiti e precarietà, questa presa di coscienza può essere salutare a patto che non si smarrisca mai ( anzi, sia sostenuta ) la grandezza della vocazione umana, che non si coglie soltanto nel successo, ma anche nella caduta e nella sconfitta. Troppo è il valore di ogni uomo agli occhi di Dio per rinunciare a riscattarne la condizione ed è allora che può veramente comprendersi il compito precipuo della Chiesa verso i moralmente fragili: vivere la debolezza umana come luogo in cui la grazia di Dio dives in misericordia desidera penetrare, per compatire, riconciliare, correggere, e far percepire il valore della sfida educativa per il bene; facendo aprire gli occhi su ciò che è bene o male, sostenendo, incoraggiando, soffrendo e amando, pregando. Nella loro acuta nevralgicità, sarebbero da esplorare poi qui alcune ulteriori e delicate questioni, connesse ai profili sia della vita morale sia ( soprattutto ) dell'etica sociale: ci si riferisce alle dimensioni dell'anomia diffusa e dell'illegalità, come manifestazioni eclatanti della presente fragilità valoriale collettiva, a fronte delle quali in questa aula è possibile un accenno soltanto, ma con determinazione, per richiamarci al valore che nel nostro tempo hanno e devono rivestire, soprattutto per le comunità dei cristiani, i temi della legalità e della giustizia. Ai gruppi di lavoro dunque il più caldo invito a dibatterne le implicazioni e a riconoscerne la centralità per il riorientamento della vita civile dell'Italia di questo inizio di millennio. Per ora, mi sembra che debba essere affermato, con chiarezza, che questi nostri tempi, in relazione in particolare alle colpe penali, esprimono il bisogno di una normazione chiara e condivisa nei principi e di una giurisdizione assai rigorosa ed efficace, ma anche esigono il dovere di un " perdono responsabilizzante " quale dimensione non solo di auspiciò profetico, bensì di autentica giustizia sociale ( e non di dismissione della stessa ). 3.3. Fragilità nel Cristo Nelle fragilità umane, per quanto abbiamo proposto, è dunque possibile riconoscere una via di apertura al mistero dell'amore di Dio. Ora, il tema teologico della debolezza ( o dell'umiltà ) di Dio è stato sempre molto studiato. Ha appassionato, in ogni generazione, soprattutto l'insegnamento paolino sulla paradossalità della pedagogia divina nell'eloquenza della croce, non come apologià della debolezza in sé, bensì come affermazione della verità dell'onnipotenza di Dio che si fa debolezza, anzi estrema fragilità, per il bene dell'uomo. Al grido d'abbandono emesso da Gesù prima di morire, è stato detto, sta il culmine della rivelazione sulla vita intima di Dio, che per amore soffre fino all'offerta suprema del sacrificio della vita del Figlio. Di questa dimensione, vorrei qui sottolineare soltanto un profilo, quello della compassione del Padre verso la particolare fragilità di Gesù nelle tragiche sequenze della sua passione. In essa, il Cristo in un certo modo non è solo: oltre a un angelo ( che piace intendere appunto come il riflesso del volto paterno di Dio prossimo al Figlio, durante la preghiera notturna nel monte degli Ulivi ), nelle ore dell'agonia sul legno della croce gli starà vicina Maria. E veramente la " Madre del Signore " durante l'intera passione ci appare, nella sua identità di " donna forte ", come il volto materno di Dio misericordioso vicino a Gesù, " giusto sofferente ", addirittura denudato. Nella contemplazione della croce e del figlio crocifisso, il suo dolore è massimo, ma non riesce a spegnere in lei la forza interiore dell'amore di Dio, e con esso della speranza, come se già Cristo le si mostrasse nella gloria del Risorto. In tutta la sua esistenza terrena, d'altra parte. Maria - che nella sua vita ha partecipato di tanti dolori - è stata presente dove si è manifestata la necessità umana e dove la sofferenza in particolari ed emblematiche sue forme ha in qualche modo attinto il senso della vita per l'uomo; sicché, per più aspetti, veramente può essere proposta, nel titolo di " madre dell'accoglienza ", come " nuovo paradigma antropologico per l'uomo del terzo millennio ", soprattutto per l'ascolto e la condivisione - nella speranza autentica - delle sue fragilità. Fin dalla discesa agli inferi, prima ancora che si renda manifesta la sua risurrezione ( che è come in germe ), un Dio fragile salva dunque l'uomo. È davvero così? I santi, soprattutto martiri, in particolare quelli ( numerosissimi ) del XX secolo, ci dicono, in proposi to, che è possibile e fecondo essere accanto a Gesù in agonia per il suo " conforto ", e soprattutto che il senso della vita umana può essere colto fino in fondo soltanto e proprio nel legno della croce. Ma il volto di Cristo, il suo vero volto ( quello del Cristo di Getsemani e poi del Litostroto e del Calvario, ma anche del Risorto, che mantiene intatte le cruente stimmate della sua flagellazione e crocifissione perché l'umanità di ogni tempo abbia sicura conferma della loro verità ), oggi, ci seduce veramente? 4. Gesù, i fragili e le fragilità Come ha vissuto Gesù rincontro con i fragili e le fragilità? Non sono un biblista, e pertanto non me ne vogliano gli specialisti per questa apparente " incursione " su terreno per me fuori dal seminabile. Ponendomi questo interrogativo, ho cercato soltanto di andare " alla scuola della pedagogia di Dio " in alcuni quadri neotestamentari per conoscerne la dinamica e lo stile dell'incontro tra Gesù e i fragili, e cercare di rispondere a due interrogativi in particolare: come ha amato i fragili Gesù? E noi, a nostra volta, come possiamo amarli? Ne sono venute fuori alcune percezioni che mi sento in dovere di riproporvi. Innanzitutto, le " fragilità " con cui Gesù si è incontrato appaiono in una gamma amplissima, pressoché esaustiva di quelle presenti nell'umanità sofferente ( fisicamente e spiritualmente ), e molto spesso gravanti su persone socialmente irrilevanti, subordinate ed emarginate o reiette. Gesù inoltre non ha soltanto curato e guarito malattie del corpo ( più o meno gravi, croniche e non; addirittura, in tre casi, ha restituito alla vita dalla condizione di morte ), ma ha anche incontrato situazioni d'inquietudine esistenziale e vocazionale, di malattia spirituale, di peccato; ha fatto luce in esperienze di reprensibile ipocrisia o autentica tenebra; ha visitato fin nelle loro case molti paria della società di quel tempo, restituendoli alla dignità della vita; ancora, ha sostituito la sua amicizia a una solitudine desolante. Nessuno è stato escluso, mai! E ciò è avvenuto poi, secondo quanto i vangeli illustrano, ogni volta. In secondo luogo, questo incontro, per quanto ci narrano gli evangelisti, non è avvenuto soltanto sulla richiesta dei tanti uomini e donne che sono accorsi a conoscerlo, ma altrettanto spesso sull'iniziativa diretta di Gesù stesso, mossosi lui per primo verso un'umanità bisognosa d'insegnamento, di conforto e di cura, tanto che si potrebbe parlare, a questo riguardo, di un vero e proprio " ministero di misericordia ". E se tanti gli hanno condotto malati e infermi o sofferenti; o ne hanno invocato sia per sé sia per altri l'azione taumaturgica ( con energia inaudita, ostinata determinazione, gesti di invocazione o addirittura furtiva attrazione, sul presupposto del riconoscimento in lui di una " autorità " fuori dal comune ); pure, i tanti che gli si sono avvicinati, che certamente erano per gran parte " sani ", in principio magari per curiosità, solo a seguito dell'incontro con Gesù devono aver avuto toccato il cuore, se è in virtù di questa esperienza che si apprende che hanno cominciato a seguirlo. In terzo luogo, nella sua dinamica tipica, Gesù ha agito " trasformando " le situazioni umane d'inferiorità e fragilità con la forza di un'autentica e peculiare "amicizia" in un singolare tipo di relazione. Si è messo innanzitutto di fronte, chiedendo al sofferente e al debole ( sia rassegnato sia speranzoso ) cosa cercasse o s'attendesse, o veramente desiderasse, per la sua vita, per muoverlo alla ricerca dell'essenziale. Lo ha quindi come guidato, amorevolmente, per questa via di discernimento, fino a condurlo all'approdo di una consapevolezza mai prima esercitata circa la propria situazione di vita e il suo autentico significato ( nel bene come nel male ). E, quando questa percezione nel fragile si è fatta realtà, Gesù ha offerto anche il dono della guarigione, sia nella sua forma più eloquente ( quella del soprannaturale miracoloso, quale segno della sovrabbondanza della sua grazia ) sia in quelle - forse meno eclatantI, ma del pari incisive - della scoperta da parte dell'uomo e della donna da lui amati della sua vicinanza e così della possibilità, a portata di mano, di una vita diversa, autentica, gioiosa, e ancora della riconciliazione a sé dell'umanità peccatrice. Ed è stata forse più la remissione dei peccati che l'azione taumaturgica straordinaria a creare scandalo ( negli scribi e farisei, provocandone la ripulsa e l'ostilità ). Infine, Gesù ha rivolto al fragile che ha toccato con la sua grazia rigeneratrice un unico invito in genere: " Va'! "; ossia, come sembra di potere intendere in senso spirituale: " Vivi in pienezza la tua vita, quale essa è ". In quarto ( e ultimo ) luogo, Gesù ha poi ulteriormente sovrabbondato, dando anche ai suoi discepoli una sorta di " mandato " alle guarigioni ( nelle forme dello " scacciare i demoni ", " imporre le mani ai malati " e, soprattutto, " predicare " - a tutti - " la conversione e il perdono dei peccati " ) e promettendo loro " di rivestirli di potenza " con lo Spirito Santo. 5. Una fragilità trasformata Come hanno reagito all'incontro con Gesù i fragili che lui ha amato? A tutti è stata data l'opportunità di una " guarigione ", o forse meglio, di un " rinnovamento ". Molti sono stati " rigenerati ". Non tutti però in quei frangenti appaiono effettivamente " guariti " ( per non aver saputo o voluto accogliere l'amore di Cristo e operare quel discernimento inferiore indispensabile perché la loro vita fosse trasformata ). Certo, per coloro che - nel senso ampio cui prima si accennava - sono stati " sanati ", l'esistenza è cambiata, del tutto: non solo per la guarigione fisica ( o addirittura per la risurrezione dalla morte ), o per quella psichica o spirituale, ma anche e soprattutto perché la percezione diretta e inequivocabile dell'amicizia di Gesù ha prodotto in loro una speranza che prima non vi era, un desiderio e insieme un bisogno di ripartire da capo, o ha favorito il rifluire di un'energia vitale positiva, riaccendendone la speranza! Ciò ben si comprende sia là dove i vangeli narrano direttamente della reazione del fragile risanato, sia là dove ne richiamano indirettamente la condotta di vita successiva ( riferendo che la fama di questi eventi si spargeva assai e ovunque: il che equivale a dire che da costoro è sorto come un vento di missionarietà ). E si chiarisce soprattutto là dove si legge che molti lo cercavano, lo raggiungevano, volevano toccarlo e trattenerlo perché non andasse via, venivano ad ascoltarlo e a farsi guarire; che molti ne parlavano, rimanevano sbalorditi e pieni di stupore ( cioè, s'interrogavano ), comprendendo che si trattava di qualcosa di mai visto in Israele ed erano presi da timore; che molti lodavano e glorificavano Dio o divulgavano con aperta proclamazione di lui e della sua grazia risanatrice; che molti, infine, " presero a seguirlo ". Tanti esempi eloquenti, mi pare, per tutti noi! Nella via che abbiamo cercato d'individuare fin qui per la trasformazione delle nostre fragilità credo risieda il segreto dell'autentica felicità, o dell'attingimento della vita eterna e, quindi, della gioia cristiana e della speranza, nel presente e nel futuro, per ogni generazione umana. Vita eterna, infatti, " non è semplicemente tempo senza fine, ma un altro piano dell'esistenza "; " non è una lunga durata, ma l'espressione di una qualità dell'esistenza " sperimentabile già nella nostra esperienza terrena; è cosa ben diversa da quella della durata cronologica con cui usiamo misurarla. Essa è, in ogni momento e ovunque, " là, dove ci riesce di stare faccia a faccia con Dio ", ossia un'esistenza " in cui tutto confluisce nel qui e ora dell'amore " grazie all'incontro autentico e nel profondo con Dio e che, " come un grande amore [ … ] non ci può più essere tolta da alcuna circostanza o situazione, ma è un centro indistruttibile, da cui provengono il coraggio e la gioia ", poiché questo incontro ( con il Bene e la Bellezza ) " ci trasforma dal di dentro " e ci rende protagonisti di un'esperienza di vera e autentica comunione con tutta l'umanità. Devo ora concludere questo mio sforzo, nella speranza di non averne tradito le motivazioni ( o troppo deluso le aspettative ), e desidero farlo con una citazione da un amico sacerdote a me carissimo ( che il Signore, pochi anni fa, ha chiamato a sé ), don Domenico Farias. " Non abbiamo qui una città permanente, ma cerchiamo una futura ". Leggendo queste parole [ … ] il pensiero va ovviamente al paradiso, alla Gerusalemme celeste. Verso di essa siamo esortati a proiettarci [ … ]. Riusciremo in questa contingenza a non dimenticare le pagine più semplici del vangelo che tante volte proprio di questo parlano e ci istruiscono? O saremo così sciocchi da pensare che ci sia qualche potere umano così forte da poterci togliere il futuro? Ricordiamolo: il futuro è di Dio e lui è la nostra speranza, cioè un futuro sempre aperto. Nelle note sono reperibili ( oltre alle citazioni dei testi suggeriti per migliore approfondimento ) le integrazioni necessario a corredo delle riflessioni enunciate in aula. Ambito 4: tradizione Introduzione del prof. Costantino Esposito 17 ottobre 2006 1. Una premessa di metodo Il tema della tradizione - almeno come tenterò di affrontarlo oggi, all'interno della prospettiva aperta da questo Convegno - può essere affrontato a partire da una domanda semplice ma essenziale: come può un uomo del nostro tempo, più di duemila anni dopo la venuta di Gesù Cristo nella carne, raggiungere una certezza ragionevole su questo avvenimento? E com'è possibile verificare con ragioni adeguate il fatto che, attraverso la vita della Chiesa, questa presenza mi raggiunga lungo il corso del tempo, e riaccada ora, nel presente? Si tratta - a me pare - di domande decisive, non solo per chi fosse consapevolmente impegnato nell'esperienza della Chiesa, ma per tutti coloro che fossero impegnati seriamente con il proprio problema umano. In quegli interrogativi, infatti, trova espressione l'attesa più profonda del cuore dell'uomo: quella di incontrare qualcuno che possa corrispondere al desiderio di felicità che caratterizza in maniera insopprimibile la vita di ciascuno di noi. A questa vita - con tutto il carico delle sue esigenze e dei suoi tentativi, dei suoi limiti e delle sue speranze - non può rispondere un discorso o una strategia, ma solo una vita. Ma è appunto questa la grande difficoltà odierna: si fa molta fatica a comprender la tradizione come una vita; al massimo essa è un glorioso passato da conservare devotamente o archeologicamente, oppure - come nella maggioranza dei casi - qualcosa che si deve " aggiornare " o superare in virtù dell'idea di un continuo progresso in avanti con cui andrebbe sempre reinterpretato il " messaggio evangelico ". Tale difficoltà di comprensione è stata certamente condizionata da quella prospettiva culturale dominante a partire dall'età moderna, secondo la quale la costruzione di un'umanità realizzata doveva passare dalla programmatica recisione del rapporto con il suo passato cristiano; ma al tempo stesso è risultata fortemente condizionata anche dalla tendenza opposta, quell'interpretazione razionalista della tradizione, secondo cui a quest'ultima va riconosciuto un ruolo essenziale nella costruzione della nostra civiltà occidentale e della nostra identità culturale, ma come se essa fosse una storia senza un soggetto presente, insomma come un cristianesimo senza Cristo. In entrambi i casi, tuttavia, la difficoltà a comprendere i termini reali di questa tradizione nasconde a mio modo di vedere un problema - e insieme una sfida - che riguarda il nostro modo di intendere lo stesso metodo dell'esperienza cristiana. Così anche lo scopo di questa mia introduzione non sarà tanto quello di ridefinire teoricamente quale sia il depositum fidei, ma di delineare alcune questioni che ciascuno di noi possa poi verificare nella propria esperienza umana e cristiana, alla luce della comune appartenenza ecclesiale. 2. Da una certezza la speranza " Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo ": ma com'è possibile testimoniare realmente una speranza nella vita, se non perché ne stiamo già facendo esperienza ora? È solo per un'esperienza presente, infatti, che può sorgere una certezza nel futuro. E come sarà possibile raggiungere questa certezza se non per la scoperta vissuta - e solo per questo " saputa " - che vi è un significato positivo della realtà, più grande di me e che illumina la mia esistenza? " Per sperare, bambina mia, bisogna essere felice, bisogna aver ottenuto, aver ricevuto una grande grazia ", come ha scritto Charles Péguy ( in Il portico del mistero della seconda virtù ), e come ciascuno di noi può attestare per esperienza propria: è solo perché si è ricevuto qualcosa di grande e di bello che si può sperare in un futuro di realizzazione e di compimento di sé. Di fronte a tale evidenza, però, il rischio che noi sempre corriamo è quello di darla per scontata, di considerarla come una premessa ovvia e definitivamente acquisita, per poi passare subito a chiederci cosa dobbiamo fare o quali conseguenze occorre tirare. Con la latente illusione di poterci impadronire noi, e addirittura di poter riprodurre noi, con le nostre strategie e i nostri buoni progetti, la presenza irriducibile dell'essere e la novità sorprendente della salvezza. Questo non significa affatto che il rapporto con la sorgente della realtà e della vita non abbia bisogno di noi, della nostra risposta libera e della nostra opera, ma che questa nostra responsabilità può fiorire in creatività e in operatività solo se continuiamo a scoprire e ad approfondire la coscienza di essere in rapporto con una presenza che non è accaduta solo duemila anni fa o anche solo un minuto fa, ma che sta accadendo ora. Al di fuori di questo accadimento, è come se non " accadesse " veramente nessuna delle nostre opere. Nell'esperienza cristiana si mostra così in tutta la sua pienezza la grande legge della dinamica umana, come noi possiamo verificare sia a livello conoscitivo che a livello morale e anche psicologico. Il significato della realtà - del mondo e dell'io, in tutti i suoi rapporti - non è una dimostrazione filosofica ne una prescrizione etica, ma è un " fatto ", " l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva " ( Benedetto XVI, Deus caritas est 1 ). Tale avvenimento mi precede e mi raggiunge. Esso è il contenuto sorprendente di ciò che chiamiamo la " tradizione ". La tradizione dunque non riguarda semplicemente il nostro passato, ma costituisce una vera e propria dimensione del presente, dal cui riconoscimento o dalla cui trascuratezza dipende la coscienza che abbiamo di noi stessi e la capacità di rischiare la nostra libertà, il giudizio sulle cose e la capacità di costruire il futuro. La tradizione è il nostro " dato " di partenza e consiste nel riconoscere noi stessi e la realtà intera come " dato ", cioè fatta da Qualcuno per noi. Per questo la tradizione è come da imparare sempre, perché non solo proviene dal passato - la vita non nasce con me, è più grande di me, mi precede - ma mi raggiunge ora, riaccade in qualche modo adesso, come un avvenimento che si prolunga. Noi siamo una storia, siamo fatti di questo passato che continua - come una presenza e un contesto oggettivo - a orientarmi, a segnare la direzione da cui provengo e quella verso cui vado. Ma io devo rendermene conto, riconoscerlo, e solo di qui può nascere la novità, il cambiamento. È in fondo il grande paradosso della vita cristiana: nella dipendenza da chi mi ha fatto, anzi mi sta facendo ora, nasce la coscienza vera di me e fiorisce la mia libertà come risposta a …, come responsabilità di chi mi chiama all'essere. È proprio un diverso senso dell'umano, ciò che costituisce la permanente novità del cristianesimo rispetto alla mentalità in cui tutti - e spesso anche noi, in questo figli del nostro tempo - siamo in qualche modo immersi. Concepire se stessi come staccati da ciò che ci precede ( e cioè senza appartenere a niente di più grande di sé ), e vivere la propria libertà come un meccanismo reattivo che non dipenda da nient'altro se non dal proprio istinto, dal proprio gusto soggettivo e dalle proprie opinioni, significherebbe inaridire il proprio io in una pretesa autosufficienza: anche se ben sappiamo che così si finisce per essere del tutto dipendenti dalla mentalità dominante ( il potere culturale ) o dalle proprie astratte immagini mentali. Come una volta ha scritto Sant'Ambrogio: " Guardate quanti padroni hanno quelli che non vogliono avere l'unico Signore! " ( Epistulae extra collectionem 14,96 ). Non è difficile ritrovare nella più diffusa pratica culturale odierna ( letteratura, manuali scolastici, opinion leaders ) l'idea che un uomo realizzato sia un individuo solo come mentalità e come giudizio, come affezione e come libertà: un uomo staccato da un'appartenenza riconosciuta, e per il quale la tradizione rappresenterebbe un retaggio da cui liberarsi, come si farebbe con un macigno che impedisse la nostra libertà di movimento. Verrebbe quasi da dirlo con le parole di uno spirito laico come Pier Paolo Pasolini, ben consapevole della tragica mutazione antropologica che la perdita di senso della tradizione aveva indotto nelle giovani generazioni degli anni '60, e che, pur essendo compiuta in nome di un'emancipazione rivoluzionaria, era in realtà pilotata da quella stessa cultura radical - borghese cui ci si voleva contrapporre. Oh generazione sfortunata, / arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia / senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere / e che non si gode senza ansia e umiltà / e così capirai di aver servito il mondo / contro cui con zelo " portasti avanti la lotta": / era esso che voleva gettar discredito sopra la storia - la sua; / era esso che voleva far piazza pulita del passato - il suo; / oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo! " ( da " La poesia della tradizione", in Trasumanar e organizzar). In tal modo, però, anche la speranza del futuro si riduce o addirittura si inaridisce, poiché non parte più da quello che c'è ( dal " dato "di se stessi e del mondo), ma è tutta sbilanciata a immaginare o a progettare quello che ancora non c'è, quello che ancora non siamo. Ma una speranza che non parta più da una presenza ricevuta e accolta, bensì da un'assenza che ci si sforza di colmare, non può che portare all'idea - oggi sempre più condivisa - che in fondo non vi sia nulla per cui valga veramente la pena vivere, nulla che possa superare la misura corta delle nostre immagini e dei nostri progetti ( il che, occorre ripeterlo, quasi sempre significa le immagini e i progetti che ci vengono indotti da altri ): è come se di fronte all'attesa e al desiderio più profondo del cuore dell'uomo - quello della verità e della felicità, della bellezza e della giustizia - non si presentasse credibilmente più nessuno che, con la sua vita stessa, testimoniasse che c'è, che esiste e ci raggiunge ciò che desideriamo, quello che nessuno di noi potrebbe costruirsi da sé, ma solo ricevere, cioè incontrare. Esiste, cioè, il significato infinito che si rende presente nella contingenza e nella quotidianità della vita. Questa proclamata impossibilità di una risposta, che sia adeguata all'ampiezza delle nostre attese, è il segno tragico di quello che chiamiamo " nichilismo ". Affermare che non vi è alcun ideale che renda la vita degna di essere vissuta ( e quando parlo di " ideale " non mi riferisco a un'idea astratta da realizzare nel futuro, bensì a un significato che sia presente già ora alla mia vita, che appartenga alla mia esistenza ) non vuoi dire che siano annullati valori e progetti; anzi, non vi è epoca come la nostra in cui più insistito è il richiamo a regole di comportamento socioculturali: ma è, appunto, un proclama spesso formale e nel migliore dei casi moralistico ( quello che una volta Gesù ha bollato come la logica dei farisei ), perché al fondo di esso è proprio la persona, è il singolo io a non avere alcuna consistenza e a essere destinato semplicemente a " finire ". Si tratta come di un sentimento diffuso, secondo cui il destino di me e di te, in fondo in fondo, è consegnato al niente. E allora per poter sperare bisogna costruirsi delle utopie o coltivare dei sogni: mete in qualche modo sempre irraggiungibili, che magari dentro di sé portano anche la nascosta nostalgia di qualcosa di buono e di giusto, ma la cui immagine è tutta costruita da noi e risiede solo nella nostra testa - con la conseguenza di condurre quasi sempre a esiti violenti ( come le vicende del secolo scorso e ancora in questi anni stanno a dimostrare tragicamente ). Quella violenza che sempre segue alla pretesa di voler piegare il reale alle proprie immagini e ai propri schemi, per buoni e perfetti che essi possano essere. Come una volta ha scritto Thomas S. Eliot, in una società nella quale la fede sia stata abbandonata o scetticamente snobbata, e la Chiesa sia stata emarginata o dimenticata come straniera, gli uomini " cercano sempre d'evadere dal buio esterno e interiore sognando sistemi talmente perfetti, che più nessuno avrebbe bisogno d'essere buono " ( dai Cori da " La Rocca " ). Senza la coscienza di una storia che arriva fino a me, recidendo il nesso vitale con la tradizione, la speranza diviene sogno o utopia proprio perché nasce solo da una mancanza o da una pretesa. Ma la speranza non è una cosa che nasca dal nulla: essa si alimenta di una storia reale di generazione e di rapporti - la famiglia, la scuola, la Chiesa - che è arrivata sino a noi, capillarmente, nei gesti essenziali del nostro popolo, dandoci la certezza del futuro in virtù di un significato che veniva dal passato, una " ipotesi di lavoro " offerta come spiegazione di tutta la realtà. Senza questo noi non saremmo ciò che siamo; ma quello che siamo può vivere solo grazie all'incontro con qualcosa di presente. E questo è un " dato " troppe volte dimenticato o reso del tutto scontato. 3. L'autorevolezza di una proposta Neanche il nichilismo, tuttavia, può distruggere l'attesa di senso che abita il cuore dell'uomo. Esso può seppellirla sotto molti strati di pregiudizio e di cinismo, può rendere assai difficile averne coscienza, ma non può distruggerla totalmente. Per il fatto stesso che uno vive - pur dentro una condizione umana così ridotta e in un contesto così poco favorevole a riconoscere la verità dell'io - egli afferma una domanda irriducibile di significato e di pienezza. Come sarà possibile che questa domanda torni alla luce? Cosa potrà far sì che essa continui a far sentire la sua esigenza come il criterio stesso del vivere? Come non accontentarsi dei sogni e delle immagini che di volta in volta ci vengono calate addosso? Solo un'esperienza umana diversa, che si possa incontrare nel tessuto quotidiano dell'esistenza, nei luoghi, negli ambienti e nella condizione in cui gli uomini vivono, può far percepire di nuovo, nel deserto dell'insignificanza o nel formalismo dei rapporti, la possibilità di una speranza reale. E difatti la tradizione non è mai una trasmissione di valori o di nozioni astratte, bensì una testimonianza, quasi per pressione osmotica da persona a persona, tra un uomo che stia già sperimentando la pertinenza alla vita di quell'ipotesi di senso e un altro uomo che lo segue. E chi può aiutare a " crescere " ( augere ) in questa trasmissione è una reale auctoritas. Il nesso della persona autorevole - dell'" autorità " - con colui al quale essa si propone è un rapporto educativo. L'autorità del testimone non è dunque un fattore estrinseco rispetto a chi lo segue, ma costituisce il fattore che c'entra più intimamente con la mia stessa coscienza, in quanto è richiamo continuo all'io ( soprattutto alla personalità del giovane ), ad affrontare tutto alla luce di quel significato offerto. Forse uno dei motivi e insieme uno dei segni più determinanti del fatto che la tradizione abbia progressivamente perso la sua evidenza e la sua funzionalità nella coscienza degli uomini del nostro tempo sta nella difficoltà a riconoscere il rapporto con l'autorità - cioè con chi mi testimonia un significato oggettivo e verificato di sé e della realtà - come decisivo per la mia stessa persona. La cosa esistenzialmente più interessante è scoprire infatti che l'autorità è tale per il suo essere un testimone persuasivo; ma la sua testimonianza non è qualcosa che si esaurisce nella sua persona, bensì è qualcosa di oggettivo, un ideale che anche il testimone è chiamato a riconoscere come autorevole per sé. Non è questa forse la dinamica di ogni rapporto umano? Non sappiamo forse che si può essere " padri " di qualcuno solo se ci si riconosce a propria volta " figli " di qualcuno? Da questo punto di vista, il ruolo della famiglia non solo segna il primo, decisivo avvio dell'avventura educativa, ma permane come paradigma ed esempio insostituibile del nesso inscindibile tra la generazione alla vita e la trasmissione della fede. E questo peraltro è vero in tutti i rapporti più significativi tra gli uomini - anche al di là della generazione biologica - che abbiano coscienza del compito di cui tutti sono investiti, e cioè condividere con gli altri cui ci si trova messi insieme, una compagnia al destino. La dinamica educativa, che parte come trasmissione da una generazione all'altra, si rivela così, a uno sguardo attento, come un bisogno strutturale della vita intera. Il compito dell'educazione è dunque una sfida e un impegno alla ragione e alla libertà non solo di chi viene educato, ma anche e in primo luogo di chi educa. Nessuna analisi o tecnica " psicopedagogica " potrà mai sostituirsi a quest'affascinante avventura della conoscenza e dell'affezione: non si tratta infatti di trasmettere valori o modelli di comportamento, ma di comunicare se stessi, e più precisamente un modo diverso di giudicare la realtà e un nuovo modo di coinvolgersi con essa. E importante riconoscere che la vera posta in gioco nel nostro rapporto con la tradizione, attraverso il rapporto con un testimone autorevole che ce la trasmette, è proprio un'educazione a giudicare tutto - giudizio è infatti il modo con cui noi riconosciamo ciò che c'è affermandone il senso - e ad amare la realtà, con quell'affezione che, prima di essere un sentimento emotivo, è l'adesione al reale che mi interpella. Anche questa passione educativa sembra essersi come affievolita o burocratizzata nella società contemporanea della " formazione " e dell'" informazione ", e sembra tramontare quella responsabilità per cui gli adulti comunichino una ragione certa del vivere ai giovani, segno di una perdita diffusa di convinzione esistenziale. Il segno più drammatico di tale difficoltà sta nella separazione sempre più netta tra la ragione e l'affettività: conoscere razionalmente il mondo si è ridotto a misurare tutto quello che c'è secondo i nostri schemi o meccanismi mentali ( questa sarebbe la presunta " oggettività " ), mentre la sfera affettiva è ridotta a un soggettivismo di tipo emotivistico, appunto senza " ragioni " oggettive. Se noi gettiamo ancora uno sguardo alle vicende della cultura moderna e contemporanea, possiamo facilmente individuare, alla radice di questa duplice riduzione, il fatto che a un certo punto l'autorità della tradizione è stata dichiarata nemica della ragione. La prima sarebbe come uno sguardo fisso al passato, la seconda sarebbe il motore progressivo del futuro. E come si è visto in maniera eloquente nel progetto illuminista - un progetto che sta mostrando i suoi frutti anche nella nostra epoca detta postmoderna - il cristianesimo è stato sempre più fissato, direi quasi " bloccato ", da un lato nella novità dei suoi primissimi inizi evangelici, dall'altro nella sua profezia spirituale ed escatologica: ma in tal modo lo si è di fatto sciolto dalla sua stessa storia, cioè dalla sua presenza vivente nel mondo. Così l'autorevolezza della tradizione è stata riassorbita in un mero ideale di comportamento, e la testimonianza cristiana ridotta a un " dover essere " morale di cui Cristo sarebbe l'esempio supremo, ma che l'uomo stesso - reso infine adulto o maggiorenne rispetto alla fede - può benissimo, e anzi deve, realizzare con le sue sole forze. Che cosa si può scoprire, invece, in un rapporto vissuto e vivente con la tradizione cristiana? La razionalità dell'uomo viene esaltata nel suo uso quando riconosce un significato più grande delle proprie misure, vale a dire una ragione infinita presente nella realtà, che ci permette di aderire e di entrare sempre di più in un rapporto amoroso con essa. È lo sguardo e l'affezione che Cristo ha portato nel mondo, quella verità dell'uomo - di ciascuna persona - che ha continuato nel corso dei secoli ad attirare gli uomini a sé. Qui è il fascino della nostra traditio, una grande storia in cui la storia di ciascun uomo non risulta più insignificante o superflua rispetto al mondo intero, ma essenziale e insostituibile. Questa è l'esperienza della santità cristiana: non una eccezionaiità quasi impossibile ed eroica, ma la dimensione e la statura dell'uomo vero, di una personalità realizzata perché in rapporto con il suo destino, Cristo. 4. Una verifica critica Il rapporto con la tradizione è comunque solo l'inizio della scoperta della ragionevolezza della fede. Non è sufficiente infatti trasmettere un'ipotesi di significato del reale, quale ci proviene dal passato ed è testimoniato da una presenza autorevole: bisogna che chi riceve o eredita la tradizione possa verificarla, mettendola alla prova nella sua capacità di corrispondere o meno alle esigenze della ragione e del cuore. Questo è il metodo del " rendere ragione ", a se stessi e al mondo intero, della propria fede. Anzi, a fronte di coloro che ritengono superflua o inincidente la nostra fede per lo sviluppo della personalità umana e per l'affermazione sociale di un bene comune, scopriamo invece che proprio questa verifica della ragionevolezza dell'incontro con Cristo può contribuire in maniera sorprendente a ridare spazio e dignità alla ragione umana nella sua apertura infinita, oltre la " funesta mutilazione " cui essa è stata sottoposta ( cf. Benedetto XVI all'Assemblea Generale della CEI, 30.5.2005 ). Questo paragone della tradizione con le esigenze presenti dell'io, infatti, è la radice di un atteggiamento realmente " critico " nei confronti del mondo e della vita. Contrariamente a quanto per lo più si ritiene, la critica non è affatto sinonimo di dubbiosità scettica e spesso prevenuta, ma esame di ogni posizione e di ogni proposta al " vaglio " delle esigenze costitutive della propria ragione e della propria affettività - il krìnein greco, la cui declinazione più intensa ci è stata data dall'invito di San Paolo: " Vagliate ogni cosa e trattenete ciò che vale ", o meglio " ciò che è bello " ( kalon, 1 Ts 5,21 ). Appunto perché il significato della realtà non è un senso astratto da applicare alle cose, ma coincide con il rapporto tra l'attrattiva del reale e il mio io che si lascia toccare da questo fascino di ciò che c'è. E così si illumina in maniera esistenzialmente verifIcata il valore di " verità " che sempre nella storia della Chiesa è stato legato alla tradizione e da quest'ultima veicolato. Non si tratta infatti semplicemente di riaffermare che il depositum fidei resta vero lungo i secoli e custodisce questa verità sull'uomo e sul mondo attraversando tutte le tempeste della storia, ma anche e ancor di più che questa verità si manifesta - o meglio: chiede di manifestarsi - sempre di nuovo nel paragone realizzato tra la nostra ragione e la realtà. E se aveva visto giusto Tommaso d'Aquino nel definire la verità " adeguazione tra la realtà e l'intelletto " ( De ventate I,1-2 ), è proprio questa " corrispondenza " il contenuto peculiare della tradizione. Agli occhi di chi intende la ragione come misura della realtà questo potrebbe sembrare una posizione di passività ( perché, appunto, si parte da ciò che è dato, non da quello che riesco a fare o immaginare io ), ma a ben vedere è solo da questa accoglienza che può nascere tutta la mia attività. " Siamo " noi stessi, perché siamo stati fatti: solo chi si impegna con una certezza ricevuta e verifIcata diviene abilitato ad affrontare tutto in maniera spassionata e libera, arrivando anche a ripensare o a contestare ciò che del passato non è più corrispondente alle proprie attese. Come una volta ha scritto stupendamente Sant'Agostino: " È perché si desse un inizio che è stato creato l'uomo, prima del quale non c'è stato nessuno " ( De civitate Dei XII,20,4 ): ogni uomo è creato perché possa iniziare qualcosa; ma egli può iniziare qualcosa di nuovo proprio perché è in rapporto costitutivo con Chi lo fa. È questa relazione oggettiva che giudica ogni pretesa di dissolvere relativisticamente il soggetto umano, la persona in carne e ossa, in un mero prodotto del meccanismo naturale e/o dell'interpretazione culturale. È in virtù di questa posizione dell'intelligenza e del cuore che oggi - sfidando la tacita riduzione e a volte l'esplicita ostilità - possiamo comprendere di nuovo la nostra identità cristiana, come il dono di una storia e insieme la sfida di un compito. Non la riaffermazione di un'ideologia, ma la gratitudine per un'appartenenza. E se si sente affermare sempre più diffusamente che il prezzo del dialogo con chi proviene da una tradizione diversa dalla nostra sarebbe quello di elidere o censurare il nostro volto, è invece proprio andando al fondo della coscienza di sé che si può incontrare veramente l'altro. Alla luce di una certezza verificata esistenzialmente si può valorizzare positivamente tutto e tutti, e dialogare con chi ha posizioni diverse, non più in modo ideologico o dialettico, ma a partire da quella comunanza originaria che ci fa condividere le esigenze, i bisogni e i desideri fondamentali del cuore. Puntare a ciò che unisce rispetto a ciò che divide non vuol dire affatto ridurre il cristianesimo a un'indistinta e confusa religiosità o a un fideismo sentimentale per poterlo unificare con altre forme e tradizioni religiose; piuttosto, significa verificare tutto alla luce di quei criteri di ragionevolezza e di realismo che condividiamo con tutti gli uomini e che ciascuno può scoprire nella sua esperienza, a patto di liberarsi da quei pregiudizi e da quelle interpretazioni che non corrispondono alle esigenze della vita, e che spesso rischiano addirittura di negarle. A volte si ha la chiara percezione che la vera difficoltà, la vera posta in gioco nel confronto spesso drammatico che si ha in una società multiculturale non sia tanto la disponibilità a comprendere chi non appartiene alla nostra comunità di cultura e di storia; o meglio: questo è importantissimo, ma può accadere effettivamente solo se riaccade la disponibilità ad accogliere nuovamente quello che ci ha reso - e soprattutto ci rende ora - quello che siamo. Senza questo lavoro educativo che ci tocca tutti, il dialogo scade a mera tolleranza, e la tolleranza porta sempre in sé il germe della violenza, perché concede pure che l'altro sia, ma non porta mai a un amore vero al destino di ogni altro uomo. Non un'indifferenza tollerante, ma un rispetto attivo verso l'altro - per il fatto stesso che c'è, e quindi per una ragione che si chiama carità, perché anche l'altro è in rapporto con Dio - permette di vivere la democrazia e il pluralismo. Criticamente verificata, la tradizione diviene comunicazione dell'ideale cristiano, attraverso il fluire della vita e delle opere di chi la riconosce, come proposta per tutti. Per questo si può accogliere e amare la propria tradizione solo se essa diviene impeto missionario, annuncio che vi è una risposta certa all'attesa che noi condividiamo con tutti gli altri fratelli uomini. Si ha quasi pudore a parlare di questa proposta che siamo chiamati a fare al mondo intero, proprio perché è chiaro che essa non nasce da una nostra strategia ecclesiale o pastorale, ma ci sopravanza per grazia, ed è il frutto di una gratitudine che diviene abbraccio a tutto. Per questo il pudore non solo non contrasta ma va insieme alla certezza. Comunicare la fede al mondo è una delle più decisive possibilità per poterla verifIcare noi. 5. Prospettive: la tradizione alla prova Si è già detto in precedenza che il nesso della tradizione cristiana con il presente della nostra umanità e della nostra fede non può essere correttamente inteso come l'" aggiornamento " o l'" ammodernamento " di qualcosa di passato, né questo passato può essere semplicemente filtrato nelle interpretazioni della cultura dominante. La tradizione segna il campo di un rapporto vivente, per cui se essa non emerge e non incide nel presente non si tratta più, in senso specifico, di tradizione cristiana ma di una semplice storia delle idee, delle istituzioni e delle forme culturali. Il cristiano sa per esperienza - perché è stato educato a questo nella vita della Chiesa - che la tradizione vive nella memoria e della memoria: non un semplice ricordo, ma il continuo rinnovarsi di quello che è già accaduto. Paradigmatica a questo proposito è la scansione dell'anno liturgico e la stessa azione che riaccade in ogni celebrazione della liturgia, lì dove noi continuiamo ogni giorno a imparare cosa significhi compiere un gesto veramente umano: " gesto ", infatti, è un'azione che porta in sé ( gerit ) il suo significato, cioè un pezzo di realtà legato esplicitamente con il tutto; un frammento fatto di condizioni materiali determinate, che diviene segno e ancor più luogo in cui abita e si manifesta il divino. In questo la pedagogia della Chiesa si mostra realmente " magistrale ", perché ci richiama ogni volta, anzi ci invita operativamente alla possibilità di vivere il particolare ( e la vita concreta è fatta sempre e solo di una serie di " particolari " ) non scisso dalla sua origine e dal suo scopo totale. Ciò che costituisce l'obiettivo irrealizzato di tanti programmi di cambiamento antropologico e di tanti progetti di rivoluzione sociale - quello cioè di realizzare finalmente l'unità tra la vita e il suo senso, tra la realtà e il suo ideale, cioè tra due cose che sembrano destinate a restare sempre divise - nella memoria cristiana è invece sorprendentemente, sebbene solo inizialmente, già in atto. C'è un punto preciso e visibile, nel mondo, in cui il desiderio di ogni uomo ha ricevuto, ma sarebbe meglio dire: sta ricevendo, continua a ricevere accoglienza e risposta; un punto in cui ad avere preminenza non sono le nostre analisi e i nostri sforzi in vista del ricongiungimento di ciò che sembrerebbe irrimediabilmente diviso o fratturato, ma una unità che riaccade ora e in quanto tale ci è donata. E quando parliamo di unità abbiamo presente - in senso analogico - l'unità cattolica della Chiesa ( attorno alla successione apostolica, nerbo teologico primario della traditio ecclesiae ), ma anche l'unità di coscienza del cristiano, che riporta tutto a un unico principio esplicativo e affettivo della realtà, cioè la compagnia di Cristo a ogni uomo; e così parliamo dell'unità tra la persona singola e la comunità, e dell'unità come tensione di abbraccio ecumenico della comunità cristiana con il mondo intero. In altri termini: è nell'unità tra la realtà e il suo Signore che diviene possibile l'unità della vita intera, e la compagnia della comunità cristiana ne diviene il segno e l'ambito più evidente. Questo non significa assolutamente ignorare e tanto meno censurare la frattura tra la fede e la vita che oggi attraversa drammaticamente tutti gli ambiti e i livelli dell'esperienza umana, da quello culturale e sociale a quello antropologico e morale, da quello tecnico - scientifico a quello giuridico e politico. E se è vero che Dio non può salvarci senza di noi; se è vero che la sua grazia è sempre in qualche modo sospesa alla libertà di chi l'accoglie e la segue, bisogna riconoscere però che oggi questa libertà sembra aver perso le sue ragioni. E senza queste ragioni, senza una certezza ( come sa ogni genitore nel rapporto con i figli ) la libertà non si muove, non rischia: quando tutto finisce per risolversi in opinione o in sensazione ( feeling ) non vale più la pena muoversi. Nel colloquio avuto qualche tempo fa con una mia studentessa riguardo a tale questione, dopo aver discusso a lungo e in maniera incalzante su come gioca la nostra libertà nell'affronto della vita, lei mi ha detto di colpo, quasi a voler censurare il suo problema umano: " Ma io, di questa libertà che mi trovo addosso, cosa me ne faccio? A che mi serve? Forse è soltanto un peso fastidioso, un impiccio … ". La battuta, per paradossale che possa apparire, coglie in realtà molto bene la questione: senza una proposta, senza un'ipotesi certa e ragionevole, la libertà resta bloccata - apparendo, appunto, inutile. Ma al tempo stesso, solo attraverso la mia libertà, il mio rischio nel reale, quella certezza potrà essere confermata: io non sarei quel che sono né potrei agire senza la tradizione; ma la tradizione ha bisogno di me per continuare a essere tale, anzi, per esserlo in forme sempre nuove. Di fronte alla ferita dell'umanità contemporanea, divisa in se stessa perché divisa da Dio, sta dunque la grandezza della tradizione vivente della Chiesa. E tuttavia dobbiamo sinceramente riconoscere che i due piani, molte volte anche nella diffusa mentalità dei fedeli, corrono come due rette parallele che non potranno incontrarsi mai, se non in un futuro escatologico che non ci riguarda direttamente. Che cosa manca? La frattura della coscienza moderna è semplicemente irrisolvibile? Ma allora la vita della Chiesa sarà un esercizio inutile. Oppure questa vita è davvero l'inizio, l'anticipo della salvezza ( la caparra dello spirito ), e io attendo di vederla ora, in azione, dentro la ferita e lo smarrimento dell'uomo contemporaneo. Che cosa ci ha reso sempre più difficile vedere all'opera il nesso tra la mia umanità presente e la presenza di Cristo? Perché riduciamo così facilmente la vita della Chiesa a un " dover essere " fatto di regole morali, di impegni pastorali, di coerenza civile? Regole, impegni e coerenza sono essenziali - beninteso -, ma se esprimono qualcosa di nuovo che sta accadendo ora, non un programma di cambiamento per il futuro. Sono segnali di quella inarrestabile tensione di moralità che nasce dall'appartenenza a ciò che si ama, non le condizioni di quell'amore. E dunque, se abbiamo incontrato la salvezza, se questa storia che è nata duemila anni fa ha raggiunto anche noi, i moderni, che cosa ci manca ancora? A me sembra di poter dire che il punto di debolezza sta proprio nel fatto che questo incontro - pur affermato, ribadito, proclamato - non detta più il metodo della vita cristiana. Non mi riferisco a una metodologia applicativa, ma a quella " via ", a quella " strada " al destino, cioè al compimento di sé, che Cristo ha indicato, o meglio ha identificato con la sua stessa persona e con la sua permanenza nel tempo, vale a dire con la Chiesa. Questo non è solo un problema della vita cristiana, ma anche della più attenta e cosciente condizione umana. Lo ha espresso in un modo sublime e acutissimo Franz Kafka: " Anch'io, come chiunque altro, ho in me, fin dalla nascita, un centro di gravita, che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l'ho ancora questo centro di gravita, ma, in un certo qual modo, non c'è più il corpo relativo ". Qual è questo centro di gravita? Esso è il nostro stesso cuore, quell'attesa di pienezza e di felicità che ci fa uomini; ma è come se esso - pur insopprimibile e incancellabile - fosse inoperoso, non fosse più funzionale alla vita concreta di carne e sangue, come un motore che girasse a vuoto senza muovere l'io. Senza una proposta ideale, senza la testimonianza di una risposta presente, la domanda ultima, l'esigenza costitutiva dell'uomo in qualche modo si atrofizza. C'è, ma è come un peso, un fardello: esattamente come diceva quella mia alunna della sua libertà. Ma è lo stesso Kafka a illuminare ulteriormente il dramma dell'uomo contemporaneo, delineando in queste poche parole il punto in questione: " C'è una meta, ma non c'è una via " ( da Il silenzio delle sirene ). Ognuno attende una salvezza, magari ne ha anche il sentore, ma non conosce la strada per giungervi. Ora, questo dramma appartiene ogni giorno anche a noi. Anche noi che abbiamo conosciuto la " via " della salvezza siamo sempre chiamati al compito di percorrerla - seguendo il metodo che essa continua a proporci: vivere tutte le nostre attese, le nostre esigenze, le nostre domande per scoprire che solo Cristo può rispondervi. E verificarlo non come un discorso a cui ispirarsi o un programma da realizzare sulla vita o accanto alla vita, ma dentro l'impatto con la realtà di ogni giorno: il lavoro e la famiglia, la politica e il tempo libero, l'economia e la scienza. E questa la testimonianza incessante che ci proviene dalla nostra tradizione - basta leggere la Divina commedia o guardare le cattedrali delle nostre città, considerare come sono nati gli ospedali o le casse di mutuo soccorso, un certo gusto per la bellezza artistica e la passione per il progresso della conoscenza, un'attenzione amorosa alla realtà intera, dovuta al riconoscimento potente che la realtà è abitata da un significato presente, per cui vale la pena esserci, lavorare, offrire la propria vita. Per questo la tradizione cristiana attende di essere messa sempre di nuovo alla prova, di essere verificata - il che non vuoi dire affatto " ripetuta ", ma vissuta, e quindi, come accade in ogni rapporto integralmente umano, anche modificata nelle sue forme, corretta in alcune direzioni, arricchita di sempre possibili novità. Mi permetto in conclusione di individuare alcuni punti cruciali che a me sembrano imporsi oggi come decisivi in questo lavoro di verifica cui ogni cristiano e tutte le nostre comunità sono chiamati, in questo seguendo con intelligenza e passione il richiamo e la testimonianza degli ultimi due Pontefici, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, a verifìcare la ragionevolezza della nostra fede. È proprio la fede, infatti, il dono più prezioso portateci dalla tradizione, grazie alla quale la mia adesione alla salvezza, il mio atto di assenso personale trova appoggio e orizzonte universale nella lunga sequela dei credenti in Cristo ( quella che la liturgia ci fa pregare come la " comunione dei santi " ). Certo, io non posso credere solo perché qualcun altro o anche miliardi di altri uomini hanno creduto prima di me, giacché nessuno può sostituirsi al mio " sì "; ma questo mio atto non deriva dal nulla, né si pone come un gesto solitario o individualistico, bensì fiorisce da una storia ed è facilitato da una compagnia educativa in cui rinasce o può rinascere per ognuno di noi la familiarità con Cristo. a) La catechesi Il primo punto essenziale in ordine al nostro problema è proprio il lavoro quotidiano di ripresa delle ragioni della fede che è rappresentato dalla catechesi: quale che sia l'ambito o la condizione o l'età di coloro che vi partecipano, è un'educazione a cui nessuno può sottrarsi, ma forse è più giusto dire a cui nessuno rinuncerebbe volentieri, come non si rinuncerebbe a seguire ciò che fa vivere. E più in particolare, a me sembra che a livello di metodo la catechesi debba sempre nuovamente aiutare a un giudizio sulla realtà ( ciò che accade nella vita personale, nella società, nella Chiesa e nel mondo intero ), da non identificare però con una mera analisi della situazione, ma con una disponibilità della ragione e del cuore ad accogliere la sfida degli avvenimenti alla luce della grande ipotesi di lavoro che è certezza della presenza reale di Cristo, nella storia di coloro che lo seguono. La catechesi, d'altronde, va intesa come una vera e propria scuola dell'umano e della comunità, proprio perché non riguarda delle linee teoriche che poi si debbano applicare, né può ricalcare il modello peraltro già in crisi della " formazione" di operatori, di ruoli e di settori: essa stessa chiede di essere vissuta come l'incontro profondamente personale con un avvenimento che continua, e diventa tanto più significativa quanto più fa scoprire la Chiesa come " una compagnia di amici davvero affidabile, vicina in tutti i momenti e le circostanze della vita [ … ] che non ci abbandonerà mai nemmeno nella morte, perché porta in sé la promessa dell'eternità " ( Benedetto XVI, Discorso al Convegno della diocesi di Roma sull'educazione dei giovani alla fede, 5.6.2006). Al lavoro della catechesi appartiene anche un'educazione a riconoscere questa presenza attraverso tutti i segni: le forme espressive dell'arte, della musica, della scienza, della letteratura, della creazione di forme nuove di civiltà, della stessa creatività sociale e politica, della testimonianza della carità, in tutto valorizzando l'attesa ultima del cuore dell'uomo, il suo bisogno più radicale di senso e di felicità, e insieme la risposta - incomparabilmente più soddisfacente rispetto a ogni altra - che Cristo costituisce per l'umano. b) Scuola e università Un secondo punto in cui la tradizione chiede di essere messa sempre nuovamente alla prova è quello della scuola e dell'università, lì dove cioè si lega, o si dovrebbe legare, una responsabilità educativa nei confronti dei giovani con il senso della storia e con il progredire delle conoscenze. Molte cose si potrebbero dire sulla tendenziale perdita del significato della tradizione avvenuta in questi luoghi: una perdita rimpiazzata magari dal gusto meramente erudito o con il gioco salottiero del ritorno a epoche distanti da noi, entrambi diretti dagli intellettuali alla moda, ma assai distanti dall'essenziale coscienza di appartenenza a una storia, a una cultura e a un popolo in cui assume consistenza piena la fisionomia di ciascuno. Anzi, ciò che il più delle volte viene teorizzato è proprio un approccio alla tradizione - e in special modo alla tradizione cristiana - che prescinda da qualsiasi appartenenza vissuta. Ma la sfida che nella scuola e soprattutto nell'università si fa sempre più chiara non è solo o tanto la riproposizione dei grandi valori e delle imponenti creazioni della storia e della civiltà cristiana, quanto la possibilità di salvaguardare e mantenere l'ampiezza della stessa ragione umana, troppo spesso esaurita in un meccanismo di misurazione, e privata di quella possibilità di conoscenza dell'essere - del vero, del buono e del bello - che viene invece relegata nell'ambito dei gusti o dei sentimenti soggettivi. Questa apertura al " tutto " pur attraverso le singole e diverse specializzazioni - come ha di recente ricordato Benedetto XVI nell'ormai celebre discorso tenuto a Regensburg lo scorso 12 settembre -, questa " comune responsabilità per il retto uso della ragione " è il motivo per cui sono nate le università, e mi sembra che essa costituisca anche l'unica prospettiva per cui possa davvero rinascere una passione educativa nel loro ambito. In questo quadro, contrariamente a quello che si afferma ( non di rado attraverso la negazione di dati storici ), il compito che l'educa zione cristiana si è sin dall'inizio assunta - a prescindere da quanto di volta in volta nei singoli contesti e nelle singole epoche gli sia stata fedele -, ma che oggi sembra straordinariamente rilevante, è quello di salvaguardare il posto assolutamente centrale del logos, del significato ultimo per cui sono state fatte tutte le cose, impedendo, in questa vera e propria " lotta per la ragione ", che il mondo e finanche il mio stesso io vengano ritenuti irrazionali e ultimamente inutili, destinati cioè solo al nulla. In questa prospettiva, come diceva sempre il Papa a Regensburg, " l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quelle della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza ". Se poi pensiamo - alla luce di questa tensione educativa alla razionalità - alla grande responsabilità della scuola cattolica in Italia, emerge credo ancora più nettamente l'utilità che essa riveste, e potrebbe sempre più rivestire, per tutto il tessuto umano, culturale e sociale del nostro paese, nella misura in cui ( anche qui in netta anti - tesi alle preoccupazioni circa un presunto indottrinamento confessionale ) essa offra una possibilità paradigmatica per comprendere che l'educazione alla vera criticità, così essenziale nello sviluppo della personalità dei giovani, non solo non esclude un'esperienza di appartenenza alla nostra tradizione, ma addirittura la richiede. Solo verificando un'ipotesi positiva di spiegazione della realtà, e cioè solo scoprendo se e come essa risponda più di altre ipotesi alle attese strutturali della ragione e del cuore - e in questo caso la proposta della scuola svilupperebbe e incrementerebbe quella della famiglia -, si diviene veramente capaci di discernere tutto e trattenere ciò che vale. c) La comunicazione e i suoi mezzi È per questo che ci interessano tutte le possibilità della comunicazione umana, tutte le modalità e i linguaggi dei mass media, tutte le forme, fino alle più avanzate e " immateriali " dell'espressività e della connessione tra le persone e i popoli. E questo non solo perché siamo nella società della comunicazione pervasiva, ma perché il comunicarsi alla mia umanità e all'umanità di coloro che mi circondano è il metodo che il Logos ha scelto per abitare in mezzo a noi. Naturalmente ogni forma massmediale, ogni linguaggio reale o virtuale, ogni canale di informazione e di formazione dev'essere percorso per continuare a rendere presente ciò che attraverso i canali della comunicazione ha raggiunto anche noi. A me sembra tuttavia che la " comunicazione " o meglio le " comunicazioni sociali " assumano un ruolo davvero cruciale nella missione della Chiesa, se e nella misura in cui divenga sempre più chiaro chi è il " soggetto ", e insieme il grande " oggetto", ella comunicazione. Me lo ha fatto ricordare una frase del grande teologo francese Henri De Lubac: " Come presentare il cristianesimo? Come adattarlo a quelli che sono da evangelizzare? " Preoccupazione legittima e necessaria. Ma se si fa strada troppo velocemente, se prende troppo presto il sopravvento nell'apostolo sulla preoccupazione per la propria formazione personale e la propria evangelizzazione, può nascondere molto orgoglio ingenuo, persino se la seconda di queste domande cede il posto a questa, più ortodossa: " Come adattarmi? ". La domanda essenziale deve essere sempre: Cos'è il cristianesimo? Che cosa ne ho compreso? Come esprimerlo a me stesso? Come aprirgli tutte le regioni del mio spirito? ecc. E a simili questioni non si è mai finito di rispondere. Il cristianesimo non è un oggetto che noi teniamo in mano: è un mistero di fronte al quale noi siamo sempre ignoranti e profani ( da Paradossi e nuovi paradossi ). Naturalmente la preoccupazione di raggiungere gli altri non va assolutamente intesa come alternativa alla preoccupazione di scoprire per sé la grandezza del cristianesimo: separare le due cose significherebbe snaturare lo stesso concetto di missione ecclesiale, in cui il protagonista è sempre la persona ( la persona di Cristo attraverso la persona di ciascuno di noi ) che vive la sua esperienza nella comunità cristiana, avendo come orizzonte suo proprio niente di meno che il mondo intero. Avvertire la tradizione come un'eredità - come un figlio riconosce una paternità carnale nella propria vita: questa è la dimensione esistenzialmente più affascinante e l'incidenza più efficace di questa lunga, grande storia sul nostro presente. Non aver paura di riconoscerlo, sfidando i dogmi e le mode della cultura dominante, comporta in fondo un gesto di libertà. Ed è proprio vero che solo la verità può rendere liberi - liberi dalla paura di appartenere, liberi di seguire quello che corrisponde di più alla vita, liberi di riconoscere un significato presente per cui vale la pena vivere. Per questo la tradizione ci interessa, perché ci interessa ciò che può corrispondere all'ampiezza del nostro desiderio e alla nostra attesa di vita, ciò che può strapparci continuamente al nichilismo. Meno di questo non varrebbe la pena. Come una volta ha scritto G.K. Chesterton: " L'ortodossia non è soltanto ( come molti ritengono ) la sola, sicura salvaguardia della moralità e dell'ordine, ma anche la sola logica salvaguardia della libertà, del rinnovamento e del progresso " ( da Ortodossia ). Ambito 5: cittadinanza Introduzione del prof. Luca Diotallevi 17 ottobre 2006 Là fa abitare gli affamati, ed essi innalzano una città abitabile. ( Sal 107,36 ) Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura. ( Eb 13,14a ) Funzione e limiti di questa introduzione Ai rappresentanti delle nostre Chiese locali toccherà fra poco di impegnarsi attivamente in un'opera di discernimento. Il compito ha confini che precedono e superano le giornate di Verona, ma sicuramente deve affrontare in questo momento un passaggio decisivo. In particolare, il quinto degli ambiti in cui il Convegno Ecclesiale Nazionale si articola è chiamato a un'operazione di discernimento ecclesiale focalizzata sulla questione della cittadinanza e orientata dalla coscienza della speranza cristiana. " Che cosa apporta la speranza cristiana all'impegno di cittadinanza? Come l'impegno civile può essere modo [ … ] della testimonianza cristiana? ", queste alcune delle domande che ci venivano proposte dalla Traccia di riflessione preparatoria ( n. 13 ) e che ci sono ora riproposte. Al contributo che sto per esporre si chiede di fornire una introduzione ai lavori dei gruppi in cui si suddivide il quinto ambito, e dunque deve prendere forma a partire dalla relazione con il processo cui è riferito. Nella dinamica del discernimento cristiano … Credo che San Paolo non pregasse solo per i cristiani di Filippi, ma anche per noi, perché la nostra " carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento " e perché possiamo " distinguere sempre meglio, ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo " ( Fil 1,9 ), con ciò mostrando immediatamente ( e in convergenza con 1 Pt ) anche come la tensione escatologica colleghi discernimento cristiano e speranza ( cuore di questo 4° Convegno Ecclesiale Nazionale ). Forse meglio degli altri, i meno giovani tra di noi sanno cogliere in qual senso la prassi del discernimento, verso cui ormai da anni i vescovi italiani stanno orientando le nostre Chiese, raccoglie ma anche riforma l'eredità veicolata dal celebre " vedere, giudicare, agire ". Rispetto a questo metodo, l'antichissima tradizione cristiana del discernimento rivela una maggiore capacità di cogliere la coscienza di una non neutralità della conoscenza teorica rispetto alla prassi, e di un carattere non meramente applicativo di quest'ultima, coscienza che, per strade in parte anche distinte, tanto la teologia cristiana quanto la filosofia e le scienze hanno ormai riconquistato. … di " cose nuove " Come ogni credente e come ogni generazione cristiana noi siamo oggi di fronte a " cose nuove ", e per di più con la piena coscienza - fatta propria dal magistero ( Centesimus annus 3 ) - della radicalità dirompente di queste novità: esse sono cioè ben diverse dalle " cose nuove " che altre generazioni cristiane furono chiamate a vivere. Come appunto scriveva Giovanni Paolo II, dobbiamo guardarci indietro, ma anche intorno e davanti. È in mezzo a queste " cose nuove " che siamo chiamati ad ascoltare dal primo salmo della giornata le parole solenni che comandano: " Ascoltate oggi la sua voce: "Non indurite il vostro cuore" " ( Sal 95,7b-8a ). Uno sguardo ad alcuni termini del problema Il dibattito in corso sulla cittadinanza non manca praticamente mai di sottolineare due processi sociali, ricchi di implicazioni in primo luogo politiche e culturali. Per un verso, a partire dal secondo quarto del '900, il concetto e le politiche della cittadinanza hanno conosciuto un doppio movimento, una sorta di chiasmo: progressiva estensione della portata del concetto e progressiva concentrazione dell'attribuzione della competenza circa l'offerta e la regolazione del " bene " cittadinanza. Infatti, dopo aver sommato ai diritti civili i diritti politici, la cultura e la prassi prevalenti hanno preso a considerare come parte integrante della cittadinanza anche i cosiddetti ( da quel momento in poi! ) " diritti sociali " ( lavoro, istruzione, salute, abitazione, informazione ecc. ). Contemporaneamente, si attribuiva sempre più e solo allo Stato ( organizzazione politica tendenzialmente sovraordinata a qualsiasi altra organizzazione o istituzione sociale ) il diritto e il potere di dare effettività a questa nuova e ben più estesa idea di cittadinanza. Per altro verso, complessi processi sociali di differenziazione mettono in crisi - in modo probabilmente irreversibile - i capisaldi dell'epoca di culture e di politiche della cittadinanza cui ci siamo appena riferiti: la realtà e l'idea stessa dello Stato come espressione organizzata della egemonia sociale del sistema politico ( il che - di per sé - non implica scomparsa ma ridimensionamento e specializzazione della funzione di quest'ultimo ). Con ciò si conclude l'epoca se non l'epopea del progetto socialdemocratico - almeno nel suo preciso significato storico originale. Il medesimo salto qualitativo nel processo di differenziazione sociale accompagna e sostiene la crescita dei livelli di consapevolezza e di autonomia individuale. L'universalità indifferenziata delle proposte di cittadinanza offerte dallo Stato non soddisfa più una domanda di inclusione sociale espressa da persone che sempre meno tollerano di essere ridotte a individui standardizzati, mentre, giorno dopo giorno, vengono pagati costi sociali ed esistenziali sempre più elevati alle illusioni ( costitutive del progetto novecentesco di cittadinanza ) di poter isolare e anteporre i diritti ai doveri e di poter trascurare la questione delle identità e delle tradizioni. Falliscono a ripetizione i progetti di cittadinanza fondati sulla logica rousseauiana dell'azzeramento ( violento o meno ) dei legami sociali. Come falliscono quei progetti che si propongono di ignorare il contributo che alla cittadinanza viene da un sentimento diffuso di identità e di appartenenza civile, oppure degenerano in tirannide quelli che tentano di ricondurre al monopolio dello Stato la produzione e la regolazione dei processi di formazione dell'identità e dell'appartenenza. Disponiamo ormai di una quantità impressionante di evidenze empiriche, che ci mostrano come nessuna aprioristica certezza di successo sostenga l'intenzione di aumentare il godimento di un'opportunità dando a questa la forma di un diritto positivo, come nessuna aprioristica certezza di successo supporti l'intenzione di ridurre l'iniquità sociale aumentando la " spesa pubblica " ( tanto a sostegno della domanda quanto a sostegno dell'offerta ), come nessuna aprioristica certezza di successo possa essere invocata per l'idea di aumentare il volume di opportunità a disposizione degli individui o di un gruppo di questi ponendo in essere o potenziando a questo scopo un apparato direttamente o indirettamente controllato dallo Stato. A volte l'inclusione sociale aumenta se deregoliamo, se riduciamo un capitolo di spesa pubblica, se smantelliamo o privatizziamo. E a volte no, ovviamente. Tuttavia, essere alle prese con un compito anche teorico non attenua le responsabilità di fronte ai termini reali del problema dell'inclusione ed esclusione sociale. Non saper più e non saper ancora interpretare in modo adeguato l'istanza di cittadinanza non ci esime dal ricordare quanto per tante persone sia essa ben lungi dall'essere soddisfatta. Speranza cristiana e cittadinanza: per identificare la prospettiva Ciò che in questa introduzione può esser fatto è fornire appena qualche elemento per identificare meglio lo spazio in cui l'istanza della cittadinanza è oggi interpellanza seria e pressante anche per la fede cristiana. Entro questi limiti, mi pare che trE riferimenti possano un poco aiutarci a individuare la prospettiva del discernimento cui siamo chiamati: uno teologico, uno spirituale e infine uno concernente il rapporto tra religione e politica. Un riferimento teologico Nel quadro del grande rilievo che la vita sociale ha nell'economia della salvezza ( Gaudium et spes 23-32 ), trova senz'altro adeguata collocazione lo specifico spessore teologico della città, espresso innanzitutto - come si diceva - dal ricco e multiforme riferimento delle Scritture sante a questa realtà, dal libro della Genesi a quello dell'Apocalisse, sino a rappresentare il regno compiuto in forma di città - la Gerusalemme celeste - piuttosto che di tempio ( Ap 21,10ss ). L'attribuzione di valore teologico alla città, come insieme di condizioni favorevoli allo sviluppo umano in generale ma persino allo sviluppo dell'indole comunitaria dell'umana vocazione nel piano di Dio " ( GS 24 ), non è smentita dall'assenza nelle Scritture di un modello - seppur vago - di città terrena. Per far solo un esempio, gli autori della versione greca dell'Antico Testamento, alle prese con il Salmo 107, giungono a creare un termine nuovo pur di dire la qualità di abitabilità della città costruita da uomini con la stessa parola con cui in quello stesso versetto è detta una delle tante forme dell'azione liberatrice del Dio di Israele ( v. 36 ). E, allo stesso tempo, secondo l'autore della Lettera agli Ebrei, la città degli uomini non può vantare una stabilità, agli occhi del credente in cammino verso quella Gerusalemme celeste che sarà donata e non costruita da mani d'uomo. Ogni città per quanto fortificata resta un accampamento provvisorio. Sullo sfondo appena accennato forse risulta un poco più comprensibile come la tradizione cristiana ci testimoni tanto di credenti obbedienti alle autorità civili senza riserve, neppure a causa della loro non appartenenza ecclesiale ( At 19,23ss, e anzi invitati a sottomettersi e pregare per queste autorità, ad es. 1 Pt 2,13 o Rm 13,1-3 ), quanto di " ribelli per amore " come coloro che durante la lotta al nazifascismo giunsero a scegliere senza alcuna gioia ma con coraggio l'impegno militare per liberare dalla tirannia le proprie città. Del resto, dopo aver analizzato il rapporto di Gesù e dei primi cristiani con le istituzioni civili, un biblista e teologo tedesco ne sintetizzò la regola in " né anarchici, né zeloti " ( Cullmann ). La città degli uomini non è l'orizzonte del bene comune ( Evangelii nuntiandi 32 ), e tanto meno può esserlo la sola politica: ancor meno nel senso moderno - qui adottato - di quel particolare agire sociale connesso all'uso della forza fisica legittima. È semmai l'inaudita prospettiva di bene comune rivelata nella fede che fornisce un quadro di valutazione delle approssimazioni al bene comune che nella città sempre provvisoriamente si tentano, e cui le istituzioni e le organizzazioni della politica concorrono per parte loro come e non al posto di tutte le altre istituzioni e organizzazioni sociali. È davvero difficile immaginare spazi di compatibilita tra questa visione teologica della città e ogni forma di tendenza settaria, integrista, oppure opportunista, ma anche per ogni forma di attenzione monotematica: " L'impegno politico per un aspetto isolato della dottrina sociale della Chiesa non è sufficiente a esaurire la responsabilità per il bene comune " ( Congregazione per la dottrina della fede, I cattolici e la vita politica, n. 4 ). È ancora proprio in questa prospettiva teologica che meglio si comprende come la responsabilità di ciascun cristiano per la città non sia contraddetta dall'istanza del pluralismo che può manifestarsi tra le forme in cui ciascuno e ciascuna cercano di esercitare questa responsabilità ( ivi ). Sarebbe riduttivo affermare che questa visione teologica assegna nella città e per la città un ruolo solo ai credenti ( singoli o associati ) e non anche uno - ovviamente differente - alla Chiesa nel suo insieme. Per intuire lo spazio e il valore dello speciale rapporto tra Chiesa e città ci basta infatti ricordare che "la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo sacramento, ossia il segno e lo strumento - non solo - dell'intima unione con Dio - ma anche - dell'unità di tutto il genere umano " ( Lumen gentium 1 ). La Chiesa non è una città, né un'altra città. La Chiesa e i credenti condividono la stessa città degli uomini e delle donne, come contesto favorevole a dialoghi, relazioni, associazioni e interessi comuni e non di meno alle regolazioni di conflitti e competizioni tra interessi. Non dovrebbe assolutamente sfuggire l'influenza che sulla dottrina sociale della Chiesa ha la coscienza non solo della universale vocazione alla salvezza ( LG 39-42 ), ma anche " l'indole comunitaria " di questa vocazione del genere umano ( GS 24 ) della quale anche la Chiesa è chiamata a essere sacramento. Ponendo una delle basi prossime cui attinsero i padri conciliari, il 6 dicembre del 1953, commentando Mt 13,30 ( " Lasciate che crescano entrambi insieme fino al tempo della mietitura, e al tempo della mietitura io dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano, invece, riponetelo nel mio granaio " ), Pio XII richiamava ai giuristi cattolici italiani il cosiddetto " principio della pace " o dell'" unione ". Quando si lotta - come si deve fare - per estirpare un male dalla vita umana e sociale occorre provvedere a non oltrepassare quel limite oltre il quale il male che l'intervento coercitivo produce si manifesta più grande del male che dovrebbe eliminare. L'umana società - affermava il Pontefice - è un bene di cui l'agire cristiano ed ecclesiale deve tenere gran conto. Questo principio, insieme a quello del male minore, si inserisce tra i fondamenti più solidi, non cinici, non relativisti, del realismo cristiano. Insomma, dover fare i conti con la crisi della cittadinanza " statalista " novecentesca e con una grave emergenza locale e globale dei livelli di cittadinanza non ci condanna ad alcuna nostalgia. In una città non priva di politica, ma non dominata dalla politica-in-forma-di-Stato, ci sono infatti ai nostri occhi - e per molte ragioni - maggiori possibilità di cittadinanza e non minori. Questo, ovviamente, non ci assicura che saremo in grado di individuare queste possibilità e di coglierle, ma ci consente di affrontare l'opera. Un riferimento spirituale Mi auguro che sarà sempre più difficile sottrarre i nostri desideri e i nostri pensieri al forte richiamo postgiubilare di Giovanni Paolo II alla santità come nostra prospettiva esclusiva ( Novo millennio ineunte 30 ). " Occorre - scriveva - riscoprire, in tutto il suo valore programmatico, il capitolo V della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, dedicato alla "vocazione universale alla santità"". Ma accogliere un tale invito significa però anche lasciar emergere un interrogativo radicale, quello che si manifesta a partire dalla coscienza della tensione polemica che corre tra santità e mondanità. Cosa può mai avere a che fare con la città e la cittadinanza un santo, lasciato nel mondo ma per mezzo del battesimo separato dal mondo, contrapposto al principe di questo ( innanzitutto Gv 17 ), e chiamato a mantenere e perfezionare una tale condizione ( Fil 1,1; 1 Pt 1,15-16; LG 40 )? Un santo può anche attraversare la città come Giona, ma perché mai un santo, chiamato a fuggire, combattere e anche a partecipare della vittoria sul mondo, dovrebbe impegnare le proprie energie in una qualsiasi impresa civile, di norma non fatta di gesti di carità come quelli del samaritano ( Lc 10,30 ) pur a tutti comandati, e impegnarsi come San Bernardino da Siena - per esempio - a orientare e sostenere la riforma del mercato finanziario? Uno spunto per la comprensione di questo apparente dilemma può venire dall'attenzione a un'importante differenza tra quanto le Scritture, e in particolare il Nuovo Testamento, chiamano città e quello che spesso chiamano mondo. In questa introduzione non è necessario esporre la pur cruciale varietà di significati biblici del termine " mondo " ( Ratzinger ). Qui basta richiamare semplicemente con quale forza e con quale precisione in molti passi evangelici ( non solo giovannei ) si mette in guardia contro la tendenza immanente ai poteri di ogni tipo ad autofondarsi e ad assoggettare l'individuo, attraverso dinamiche che per altro ormai la filosofia e le scienze umane ben conoscono. Purtroppo, il fascino perverso e maligno del potere assoluto e di un ordine sociale autofondato non ha mancato e ancora non manca di mietere vittime e di reclutare adulatori anche tra le fila dei cristiani, evidentemente ancora inclini all'adozione del più comodo e più semplice " animo da schiavi ". In questo senso parziale ma non trascurabile il mondo ha uno spirito anche " oggettivo " contro cui lotta lo spirito di Dio ( 1 Cor 2,12 ), sino al punto che, a volte, in qualche micromondo religioso può prevalere un " prender gloria gli uni dagli altri " ( Gv 5,44 ) che non lascia più spazio alla fede. Questa prospettiva biblica ci aiuta a comprendere che la condizione umana, anche nella sua dimensione sociale, sino alla fine dei tempi resterà segnata tanto da una tendenza alla disgregazione - che ad peccatum inclinai ma non costituisce di per sé colpa - quanto da una maligna tentazione ad autoprodurre un'integrazione in ogni caso falsa e oppressiva. Nel suo sperare, il cristiano è chiamato a riconoscere e sostenere la condizione umana presente come insuperabilmente " caratterizzata dalla lotta e minacciata dalla colpa " ( K. Rahner ) di cedere a una tentazione di mondanità e di falsa integrazione, che resta tale, cioè colpa, anche quando si nasconde sotto vessilli cristiani o insegne ecclesiastiche. Ma, da cristiani, possiamo e dobbiamo riconoscere che contro la pretesa autofondativa e oppressiva di ogni mondo, anche religioso ( Benedetto XVI ), si muove pure la fatica sempre nuova e mai compiuta delle imprese civili, e in particolare di quelle che arricchiscono e allargano la cittadinanza. In misura maggiore o minore, anche se mai sufficiente, ogni città è sempre una messa in crisi del mondo. In quanto la cittadinanza riconosce, sostiene, da modo di espressione in diritti e doveri alla libertà e alla differenza delle persone, in tanto libera queste ultime da gradi di dipendenza biologica, culturale, economica, affettiva, di clan, religiosa, e via di seguito. Il santo ( il battezzato ) è chiamato a fare quanto nelle sue possibilità per la città perché è amico delle donne e degli uomini e della loro libertà, consapevole che essi "possono volgersi al bene soltanto nella libertà " ( GS 17 ), libertà per cui il mondo - in quel senso preciso - è una minaccia e la città una tutela. Un riferimento a proposito del rapporto tra religione e politica Non possiamo chiudere gli occhi di fronte a un interrogativo con il quale invece il nostro discernimento è chiamato a fare i conti. Affermare che la speranza della Chiesa e dei credenti reca un contributo all'opera eminentemente pubblica di edificazione e mantenimento della città non equivale a mettere in discussione e forse a violare il principio di laicità? Anzi: affermare l'intenzione di una testimonianza pubblica della speranza cristiana e del suo aperto coinvolgimento in imprese civili non ci pone già tra coloro che in questo momento attivamente operano contro i valori della laicità? A questa domanda non è possibile dare una risposta immediata, indipendente da altre premesse. All'interno della modernità vi sono infatti almeno due grandi famiglie di soluzioni all'istanza, dalle profonde radici cristiane, di separazione tra i poteri religiosi e tutti gli altri poteri civili ( aspetto della più generale istanza della separazione dei poteri e della differenziazione delle istituzioni ). Nella soluzione offerta dal paradigma della laicité trova un culmine ( esemplarmente realizzato dalla Francia giacobina e poi dalla legislazione novecentesca di questo stesso paese ), con riguardo alla religione, una variante del processo di egemonia della politica su ogni istituzione sociale avviatesi con l'esito della guerra dei Trent'anni ( 1618-1648 ). La ragione dello Stato sacralizza i propri principi e i propri testi, elabora e impone la propria etica, da forma all'unico e uniforme spazio pubblico dallo Stato stesso completamente controllato. Diversamente, la soluzione offerta dal paradigma della religious freedom, il cui originario riferimento storico è il primo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d'America ( 1791 ), esprime, con riguardo alla religione, un orientamento alternativo a quello anzidetto, guidato dall'idea di una società aperta e plurale, articolata in numerose istituzioni - incluse quelle religiose - reciprocamente capaci di controllo e di riequilibrio, di una società non senza politica ma senza Stato ( stateless society ). Come è noto, questo emendamento fissa una coppia di principi: nessuna integrazione di un'organizzazione religiosa nel sistema politico - disestablishment of church - e affermazione del valore essenziale del contributo ( dunque tendenzialmente incoercibile ) della religione alla vita pubblica - free excercise, a modernità è istanza anche cristiana di separazione tra politica e religione, i due paradigmi di modernità appena ricordati ci si offrono attraverso due variegate famiglie di concrete istituzionalizzazioni di questa separazione. In un caso - quello della laicité - di separazione con subordinazione ( della religione alla politica ) e nell'altro - quello della religious freedom - di separazione senza subordinazione. Evidentemente, ciascuno di questi due orientamenti generali fornisce una risposta molto diversa al quesito sulla legittimità del concorso pubblico che la speranza cristiana può dare all'impresa civile. Tale concorso è nella prospettiva della laicité, nel migliore dei casi, accessorio e sempre sub judice, nella prospettiva della religious freedom è essenziale e rimesso al regime del pubblico confronto. Non possiamo dimenticare che non è mancato chi nella sottolineatura di un ruolo pubblico per la Chiesa e il cristianesimo ha trovato motivi per temere una riduzione di questo a religione civile. Di nuovo conviene tornare all'alternativa tra laicité e religious freedom. Mentre nella prospettiva della laicité religione di Chiesa e religione civile sono fenomeni dello stesso genere, e quest'ultima si propone di soppiantare quella ( almeno in pubblico ), nella prospettiva della religious freedom religione di Chiesa e religione civile sono fenomeni distinti che svolgono funzioni diverse, ed è la religione civile a essere vincolata ( tra l'altro ) alla religione di Chiesa, e senza alcuna reciprocità. In generale, non mancano ragioni di fatto e di principio perché i cattolici, e più in generale tutte le confessioni provenienti dalla tradizione ebraico - cristiana, si impegnino ancora per la difesa e il rinnovamento di assetti istituzionali e culturali nei quali le istituzioni, le organizzazioni e le culture religiose concorrono in varie forme a sostenere e orientare un regime di separazione tra politica e religione. Speranza cristiana e cittadinanza: per avviare una ricognizione dei nodi problematici cruciali Come ricordato in principio, non possiamo dimenticare che la celebrazione del Convegno ecclesiale è già cominciata, e con essa quel lavoro di discernimento cui noi ora siamo chiamati a contribuire. È dunque utile all'avvio e allo sviluppo dei nostri lavori ricordare almeno alcuni dei risultati ottenuti. Di seguito mi limiterò a richiamare alla vostra attenzione cinque aree problematiche. Minacce ai diritti civili e politici In molte occasioni e in molti modi, rappresentanti delle Chiese del Mezzogiorno d'Italia ci hanno ricordato che molte aree del nostro paese, e non solo al sud, non godono di un accettabile livello di certezza dei diritti appartenenti al nucleo più antico della cittadinanza: i diritti civili. I poteri della mafia, della camorra, della 'ndrangheta costituiscono i primi responsabili di questa intollerabile situazione di deficit civile, ma non gli unici. Sarebbe davvero incredibile che in un Convegno ecclesiale come il nostro, e proprio laddove si riflette sulla cittadinanza, venissero dimenticate - tra le altre - parole come quelle fortissime e inequivoche pronunciate da Giovanni Paolo II nella valle dei templi di Agrigento, o testimonianze come quelle offerte da don Puglisi. Credo si debba semplicemente farle del tutto nostre, ancora oggi, con il coraggio, la determinazione e l'intelligenza che esigono. Ancor più in generale è diffusa nel nostro paese una tendenza alla corruzione e alla concussione che minaccia e a volte persino perverte l'istanza e le istituzioni della cittadinanza, sino a generare appartenenze sociali alternative a quella civile. Sino a sfumare, al sud ma anche al centro e al nord, e in diversi settori della vita sociale, in egimi di tale pervasività da parte di organizzazioni politiche e di gruppi di potere loro collegati da rendere difficile comprendere, anche per i più scrupolosi analisti, se il largo consenso elettorale di cui godono alcune inamovibili maggioranze amministrative locali sia causa oppure effetto dello strapotere di un ceto politico. In questi contesti qual'è la qualità civile della testimonianza cristiana? Quanto seria e intensa è la denuncia? Sono attive forme di collusione? E ancora: quale attenzione presta la comunità ecclesiale alle forme di amministrazione della giustizia? Siamo davvero certi che vadano ancora conservate alcune specificità sempre più quasi esclusivamente italiane, come l'obbligatorietà dell'azione penale, un grado piuttosto modesto di separazione di carriera e di funzioni tra giudici e inquirenti, la quasi assenza di imputabilità dell'agire ( fisiologicamente ) discrezionale di questi ultimi, e altro ancora? Ciò basti a significare come non sarebbe opportuno che il nostro discernimento si concentrasse esclusivamente sulla crisi e la trasformazione della cittadinanza con riguardo all'area dei cosiddetti " diritti sociali ". Credo invece che adeguata attenzione meriti sia lo stato dei diritti civili nel nostro paese, che quello dei diritti politici. Siamo infatti in un paese nel quale, pressoché a tutti i livelli, il peso attribuito al voto popolare e lo spazio concesso all'esercizio dell'elettorato passivo scendono a gradi minimi rispetto a quelli garantiti dalle democrazie occidentali, e per la verità ormai non solo da queste. Infine, il carattere forse non sempre impeccabile che al nord e al sud hanno assunto istanze di rafforzamento dei poteri e dei doveri delle comunità locali e delle loro istituzioni politiche, costituiscono, comunque si autoetichettino o vengano etichettate, tentativi oggettivi di interpretazione meno vaga di un aspetto dell'istanza di sussidiarietà difficilmente ignorabile da parte nostra. Credo che queste esperienze meritino finalmente un discernimento più sereno e coraggioso. L'influenza del " modello sociale europeo " Nella nostra operazione di discernimento non dovremmo mai mancare di aver presente in modo critico che noi siamo qui, in questo luogo e in questo tempo, nella " provincia " dell'Europa continentale occidentale. Ciò ci mette a disposizione preziose risorse culturali e storiche, ma inevitabilmente ci grava anche di limiti e di difficoltà. La coscienza critica di tutto ciò deve restare o divenire particolarmente sveglia quando all'ordine del giorno è proprio la crisi del modello di cittadinanza, che in questa storia e in questa cultura ha trovato la sua origine. Non dovremmo dimenticare che l'Europa non è solo la Francia ( e magari la Germania ) e che può essere fuorviante dimenticare che il presunto " modello sociale europeo " è qualcosa da cui sono e si mantengono ben distanti mondo britannico ( Gran Bretagna e Irlanda ), paesi scandinavi, molto est Europa postsovietico e per alcuni versi anche Paesi Bassi e Spagna. Un " antiamericanismo " superficiale nasce anche dal misconoscimento delle molteplicità interne alla stessa modernità europea. È proprio recuperando uno sguardo più ampio e più critico che si manifesta come alcune gravissime preoccupazioni circa la pretesa di una illimitata disponibilità della vita e di un pieno controllo su tutte le fasi e le forme del suo corso, circa il valore specifico dell'istituzione familiare, circa il ruolo insostituibile dell'offerta formativa non statale e del suo diritto a competere in condizioni di parità, circa il declino demografico, manifestano una razionalità e una legittimità tutt'altro che circoscritte al perimetro di una prospettiva religiosa. Non dovremmo neppure dimenticare di mettere a frutto con libertà i vantaggi che ci derivano, anche in termini semplicemente culturali, dall'essere parte di una Chiesa realmente " cattolica ". La nostra cultura civile di europeo - continentali e di cattolici europeo - continentali tende spesso semplicemente a rispecchiare, quando non a difendere con accanimento, riferimenti ideali e soluzioni politiche senza neppure darsi la briga di reperire adeguati sostegni empirici. Senza che neppure i cattolici ne risultino esenti, diviene senso comune che il " diritto alla salute " del cittadino giustifichi la non licenziabilità di un dipendente della sanità " pubblica ", o che il " diritto alla formazione " giustifichi la non licenziabilità di un insegnante statale e persino il divieto di raccogliere informazioni sull'efficienza delle singole scuole. L'influenza di questa cultura sociopolitica è evidente a molti propositi, e in particolare quando si riflette sul modo di intendere i rapporti tra politica ed economia. Un solo esempio: nel nostro paese, il 70% dei cattolici " praticanti regolari " ( Valori 2004, Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica della CEI, a cura di A. Trettel e dello scrivente ), il 55% dei seminaristi per il clero diocesano, il 49% dei sacerdoti diocesani ( L'idea di ministero presso il clero diocesano e i seminaristi per il clero diocesano in Italia. 2005, Servizio nazionale per il progetto culturale, a cura di L. Bressan e dello scrivente ), ritengono che sia lo Stato a dover garantire a tutti e a ciascuno un posto di lavoro. Si può ragionevolmente ritenere che per questi sia piuttosto difficile condividere che " non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irreggimentare l'intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli "; … e che gli interventi dello Stato in economia con " funzioni di supplenza " debbano limitarsi a " situazioni eccezionali " e debbano essere " limitati nel tempo ". Il problema è che affermazioni come queste, per mezzo della Centesimus annus ( n. 48 ) di Giovanni Paolo II, fanno ormai parte delle fonti più elevate del magistero sociale della Chiesa cattolica, al pari della valorizzazione delle istituzioni dell'" economia libera ": " l'impresa " e " il mercato " ( n. 42 ). Secondo questi orientamenti è più probabile - anche se mai sicuro a priori - che sia più funzionale al bene comune un'istituzione antitrust che non la creazione di un'azienda statale. In una Europa divisa tra pochi innovatori - spesso timidi - e molti conservatori - spesso insaziabili -, non appagati neppure dalla bozza di Trattato costituzionale europeo, già una volta cattolici italiani come Aloide De Gasperi, uniti a credenti come Schuman e Adenauer, proposero di superare e chiudere l'era degli Stati nazionali costruendo istituzioni non statali che gestissero poteri a quelli sottratti. Sui loro successi ( come nel caso della Comunità europea del carbone e dell'acciaio ) è stato possibile costruire tantissimo. Delle loro sconfitte ( come nel caso della Comunità europea di difesa ) paghiamo un prezzo ogni giorno più alto. Loro hanno per tempo indicato la strada di una Europa come " superpower - tra altri superpowers - but not superstate " ( Blair ). Oggi, con i vescovi della ComECE, possiamo ben dire che intuizioni quale quella della CECA vanno riconosciute come un vero e proprio " gesto spirituale ", testimonianza attiva ed efficace nella città e per la cittadinanza. La questione economica Mi pare necessario riprendere da pochi ma particolarmente qualificati contributi un avvertimento relativo all'insufficiente frequenza con la quale nel confronto civile e anche ecclesiale nel nostro paese si trascura la questione economica nel suo significato primario. Infatti, che senso ha parlare di difesa ed estensione della cittadinanza e non prestare adeguata attenzione al fatto di trovarsi in una comunità azionale sempre meno capace di produrre beni e servizi, nella quale la quasi totalità delle aree locali conosce una sostanziale stasi o addirittura una contrazione del prodotto interno lordo? Che senso ha parlare di cittadinanza quando si riduce la produzione di beni e servizi dal contenuto tecnologico richiesto e sempre più diffuso nel resto del mondo, e ormai anche oltre la sua porzione più ricca? Questo " nodo " ha nessi evidenti con il precedente. Ad essere in crisi maggiore sono le economie più fedeli al " modello sociale europeo " e alle sue versioni più accentuatamente assistenzialistiche e dirigiste. Non si cresce se non si produce quanto serve alla cittadinanza con imprese e istituzioni di mercato poco dinamiche, deboli e costantemente minacciate dalla politica e da gruppi di potere protetti. Non si cresce se si lavora così poco e in così pochi, come avviene in Italia. Non si cresce se si studia e si fa ricerca così poco e male come avviene in Italia e nel nostro pezzo di Europa. È onesto, pur di evitare questo nodo, darsi a illusioni pauperiste, per poi tornare a essere acquisitivi o magari meticolosamente casual quando consumiamo: liberisti per stili di vita e statalisti per ideologia politica? La qualità della vita ecclesiale Ci siamo reciprocamente ricordati che la stessa comunità ecclesiale gioca un ruolo attivo per la città, propositivo e critico, anche sulla base di quel concreto tessuto di valori e di comportamenti che la Chiesa genera ed è. Ma, se questo è vero, non possiamo fare discernimento cristiano del contributo reale che le nostre Chiese danno sotto questo profilo. Mi limito qui a richiamarne due nodi tipici. - Noi dobbiamo interrogarci su quanto le nostre comunità ecclesiali reali siano luogo di accoglienza non paternalistica di bambini e anziani, stranieri e diversamente credenti ecc., dobbiamo chiederci quanto queste Chiese reali e i loro cristiani siano partner attivi e non occasionali di queste persone in cerca di una nuova e adeguata cittadinanza ( fatta di diritti e di doveri ). Ma se vogliamo fare un serio esame di coscienza, guardando in faccia le mancanze più ricorrenti e profonde e non solo quelle occasionali, se vogliamo chiederci quale dignità si vedono riconosciute effettivamente le persone con le loro differenze nelle nostre Chiese oggi, credo che il punto da cui partire, la vera cartina di tornasole, sia costituito ancora dalla condizione delle donne nelle Chiese che sono in Italia, a un livello molto più essenziale di quello che riguarda compiti e mansioni. Nelle nostre Chiese, quale dignità è riconosciuta a e quale responsabilità è esercitata da cristiane battezzate magari con poche risorse economiche, culturali o caratteriali? O forse sono proprio le meno sprovvedute, le più istruite, le più volitive e magari le più belle a incontrare maggiori difficoltà nelle nostre Chiese, perché in maggiori difficoltà mettono noi battezzati maschi? E pensare che siamo una Chiesa composta in maggioranza da donne … - Come gli analisti sociali ci insegnano, uno dei possibili indicatori di cittadinanza è quello che rileva la disponibilità degli individui a investire risorse ( tempo e denaro, per esempio ) per partecipare alla produzione di beni e di servizi dei cui vantaggi poi non si avvarranno in esclusiva questi stessi individui. Essere cittadini, insomma, significa anche partecipare attivamente alla produzione di beni pubblici. Le nostre Chiese reali educano alla produzione di beni pubblici? Ora, su 1000 italiani adulti ogni anno almeno 5/600 fanno un'offerta in denaro a qualche istituzione od organizzazione ecclesiastica. ( In proporzione più del doppio rispetto ai " praticanti regolari ". ) Quella cospicua disponibilità a donare cala invece drasticamente non quando lo scopo si fa religiosamente meno rilevante, ma quando si allarga significativamente il raggio dei fruitori del bene o del servizio in questione. Un esempio emblematico è fornito dalle offerte deducibili per il sostentamento del clero: che sono un'offerta non solo per il " proprio prete ", ma per tutti i sacerdoti delle Chiese che sono in Italia. In questo caso si scende a valori pari a poche unità, mostrando come la radicata disponibilità a donare a istituzioni dal volto familiare non sia accompagnata da una stessa disponibilità a contribuire a processi sì - apparentemente almeno - più impersonali, ma dal valore morale e pastorale non certo inferiore. Sarà forse che le nostre Chiese, già attraverso le loro quotidiane dinamiche interne, educano a un esercizio un po' particolaristico della responsabilità piuttosto che alla coscienza di una responsabilità più ampia, che sappia portare anche - non solo, ovviamente - il peso della produzione di beni e servizi ecclesiali pubblici? L'opportunità della globalizzazione Infine, è stata chiesta una grande attenzione a una serie di problemi che la cittadinanza incontra, la cui comune radice sta nel processo di globalizzazione. In questa, che resta solo una introduzione ai lavori di gruppo, non credo sia necessario spendere del tempo per ricordare come la globalizzazione sia una grande opportunità e come, analogamente a tutte le grandi opportunità, non sia priva di rischi. Piuttosto mi sembra ora il caso di sottolineare un'attenzione generale e previa. Le trasformazioni prodotte dalla globalizzazione, un aspetto delle quali può essere visto proprio nella crisi dello Stato, della sua cittadinanza e del suo " mondo ", sono tali, profonde e insieme di portata generale, da richiedere una particolare cura già in sede analitica. Vorrei portare un solo esempio. La globalizzazione mette in crisi lo Stato e dunque il suo modo, per lungo tempo piuttosto efficace, di rendere riconoscibile la forza fisica legittima, quanto all'essenza identica alla forza protagonista di ogni atto di violenza, e dunque di renderla distinguibile dal mero sopruso. Ora, la globalizzazione non mette in crisi in alcun modo la politica, e dunque innanzitutto l'utilità di disporre di una forza fisica legittima da utilizzare per minacciare chi intende violare le norme condivise e per coercire l'eventuale effettiva violazione di queste. Però, nell'era degli Stati ( per definizione territoriali ) il confine spaziale evidenziava anche un importante limite tra un uso legittimo della forza fisica legittima (ad es. quella di un'azione di polizia ) e un uso illegittimo della forza fisica legittima ( come nel caso di una guerra di aggressione da parte di uno Stato a un altro Stato ). Ora, la fine degli Stati, e di gran parte se non di tutto il significato dei loro confini, ci crea enormi problemi già in sede analitica. Evidentemente, a parte il caso della difesa da un'aggressione, non è più qualificabile come " guerra " ogni uso della forza fisica al di fuori degli ( ex ) confini di un ( ex ) Stato. Certo non abbiamo ancora idee e istituzioni per dar forma certa, modalità proporzionata ed esecuzione imputabile a questo e ad altri aspetti della politica globale, ma non per questo dobbiamo restar preda di nostalgie o nasconderei cinicamente dietro fantasmi. Ciò anzi vuoi dire che è in questa direzione che dobbiamo concentrare i nostri sforzi per promuovere sempre e quanto più possibile la pace e la regolazione non bellica dei conflitti. La situazione è così nuova che non possiamo neppure affidarci a sperimentate e comode analogie. Se è vero che la città, anche globale, ha bisogno di poteri limitati e bilanciati, anche in accordo con l'insegnamento sociale della Chiesa, ogni progetto di " Stato globale " diventa qualcosa da temere e da contrastare con fermezza. Come contrastare altrimenti gli eventuali abusi di un monopolio globale della forza fisica legittima? Chiaramente la soluzione, che per ora nessuno ha, dobbiamo cercarla nella direzione di qualcosa che somigli piuttosto a un ordine policentrico, in cui i poli caratterizzati da democrazia, economia di mercato, libertà religiosa, libertà scientifica ecc. sappiano controllare i poli meno liberali tenendoli dentro - finché possibile -, mantenendoli in minoranza e stimolandone la positiva evoluzione, piuttosto che escludendoli. Nessuna delle istituzioni internazionali di cui disponiamo deve essere considerata perfetta o idolatrata, ma, per la prospettiva appena accennata, esse appaiono come risorse non uniche ma dalle quali è difficile prescindere. Una credibile minaccia a sostegno di leggi e trattati ma anche di alcuni diritti individuali, una certa efficace coercizione di chi li viola, il rifiuto di considerare ancora imperseguibili su scala internazionale tiranni che si trovassero anche a essere formalmente " governanti legittimi di Stati sovrani ", e altro ancora, è oggi divenuto meno infrequente perché non consideriamo " guerra " e abbiamo praticato un certo uso della forza fisica legittima in parte almeno a prescindere dal vecchio modo di intendere i confini statuali. Senza aver presente questo insieme di novità fattuali, sarebbe difficile capire, ad esempio, come mai Giovanni Paolo II, proprio mentre spendeva tutta la sua autorità e tutte le sue residue umane energie per scongiurare sviluppi militari a una recente gravissima crisi politica globale, con forza continuasse a sottolineare che la Chiesa è " pacifìcatrice, non pacifista ". Davvero, in tempi di trasformazioni come quelle di cui ci dobbiamo occupare, l'operazione del discernimento va affrontata come qualcosa che potrebbe imporci una grande ascesi e un grande esodo, anche intellettuale. Non siamo qui a ripetere parole e slogan, non siamo qui per mettere gli accenti dove li mettiamo di solito. Siamo qui a cercare la volontà di Dio dentro " cose nuove " ( CA 3 ), una volontà che molto probabilmente ci chiederà ancora una volta di fare altre cose nuove, mai chieste ad altri prima di noi. Lo sperare della Chiesa e dei cristiani nei processi di riforma del patto civile È dal manifestarsi del declino dell'era dello Stato, per lo meno a partire dalla metà degli anni '70, che sono aperti a tutti i livelli, nelle comunità locali, nazionali, continentali, globali, processi di riforma e di reistituzionalizzazione dei patti civili. Quei processi sono i luoghi in cui noi abbiamo la responsabilità e il diritto di esercitare la speranza cristiana, di portarli in evidenza, di promuoverli, di farli progredire, certo più attenti all'istanza della libertà e dell'amore che non a quella del politically correct ( o a quella ancor più infantile del politically incorrect a ogni costo ). Non di rado, il declino può manifestarsi contesto ancora aperto a possibilità di transizione ad assetti nuovi e nuovamente dinamici. Per il fatto di essere cristiani non siamo certo protetti dall'influenza negativa dei retaggi della storia. Dobbiamo sapere che su ciascuno di noi e su noi tutti " gravano " rendite di posizione ormai ingiustificabili alle quali però siamo abituati, modi di vedere le cose ormai inadeguati ( se non magari a giustificare quelle rendite), ambizioni individuali frustrate o aspettative vanificatesi troppo in fretta. Di fronte a queste come a tutte le altre cattive inclinazioni la risposta giusta non è quella dello scandalo o dell'indulgenza, ma quella dell'umiltà e dell'ascesi. Non saranno infatti ambizioni e privilegi, ne alcuna forma di religious pride, a mostrarci la strada e le forme migliori per l'esercizio del cristianesimo nella città e per la cittadinanza: esse somigliano troppo alla nostalgia per le cipolle d'Egitto ( Nm 11,5 ). Può capitare che un cambiamento di legge elettorale o di sistema di governo metta in difficoltà o ponga fine a certe esperienze di cattolicesimo politico. Ma la questione di fondo che ci deve interrogare è se per caso una riduzione dei poteri di un esecutivo e una loro maggiore imputabilità da parte dei cittadini non sia un passo nella direzione indicata dalla dottrina sociale della Chiesa attraverso i principi di sussidiarietà e di responsabilità, o se per caso una maggiore imputabilità personale dell'agire politico di un deputato o di un senatore non sia un passo nella direziono indicata dalla dottrina sociale della Chiesa attraverso il principio di responsabilità, o se ancora non sia conforme al principio di sussidiarietà percorrere a qualsiasi livello e in modo sistematico la via del contrasto a ogni " conflitto d'interessi " ( più o meno famoso che sia: inclusi quelli che volta per volta coinvolgono in esiziali " cortocircuiti " amministrazioni " pubbliche ", partiti politici, sindacati, industria, finanza, cooperazione od operatori dell'informazione ). E si tratta di domande cui la risposta non può venir data in astratto o in generale. Se guardiamo alla nostra comunità nazionale non possiamo non concordare con quanti la vedono pressoché prigioniera di gruppi di interesse, disinteressati al cambiamento e appagati dalla gestione degli ultimi vantaggi ancora consentiti da una decadenza sempre meno improbabile. Se guardiamo alla comunità nazionale vediamo un circolo vizioso forse non irreversibile, ma di certo già avviato. La qualità della vita non declina altrettanto velocemente solo perché il costo di questo risparmio sul futuro è ancora per la maggior parte sopportato dal crollo demografico, dalla marginalizzazione di tanti, dalla non piena inclusione dei nuovi venuti, dall'esilio imposto a tanti dei migliori ( soprattutto giovani ). Non illudiamoci, molti di noi non sono liberi da legami con quei ceti che si oppongono alla riforma e traggono profitto dal declino. Ma noi abbiamo una risorsa, non solo nostra ma certo sempre più scarsa. Ciascuno e ciascuna - legittimamente - ha interessi. Poi può avere anche valori. A volte i valori assecondano gli interessi, altre volte valori e interessi entrano in conflitto. In questo caso gli interessi possono autoprodurre valori, oppure i valori possono rendere visibili altri interessi e riorientare le scelte. In un panorama di crescente laicismo, non si può certo dire che altre solidarietà valoriali se la passino meglio di come oggi, in Italia, se la passa il tessuto etico e la trama di morale generati dall'esperienza ecclesiale. Si pensi alla fine ormai avvenuta di tante culture politiche laiche o allo stato di salute di quelle basate sull'esperienza della solidarietà tra lavoratori. In queste condizioni non è presunzione affermare che i cattolici italiani hanno oggi a disposizione una quantità non trascurabile di un tipo di risorse sempre più scarso, un tipo di risorsa che potrebbe generare seppur senza alcun determinismo una importante svolta civile, che potrebbe contrastare il circolo vizioso del declino. La coscienza di questa dotazione è una delle forme iniziali che può assumere una rinnovata responsabilità per la città da parte dei cattolici italiani, una responsabilità che non autorizza ad alcun disegno egemonico ( per altro improbabile ), che non cancella la possibilità del pluralismo, e soprattutto una responsabilità che ci giudica - come un talento ( Mt 25,14ss ). Questa responsabilità non potrà essere vissuta a fondo rimanendo confinata all'ambito puramente pastorale, per di più se ridotto a mera " preparazione " ( di cosa? ). Richiede di tentare anche nuove vie, caso per caso, di cooperazione tra associazionismo e personalità di matrice religiosa ( si pensi tra l'altro all'esperimento del Forum delle Associazioni familiari o a quello di RetInOpera ) o tra queste realtà ed esponenti di diversa matrice ( si pensi all'esperimento di Scienza e vita ). Questa responsabilità non potrà essere vissuta solo nel " sociale ", ridotto a residuo subalterno del " politico ". Questa responsabilità è per tutta la città. Va vissuta dove le " cose nuove " lo richiedono e dunque anche nelle vicende propriamente politiche. Se durante gli anni '90 qualche esperienza di impegno civile dei cattolici si è per qualche ragione fermata allo stadio della cooptazione, è ora evidente che questa non può essere la meta finale e spesso neppure la meta intermedia. Le trasformazioni sociali e la responsabilità credente richiedono di più e d'altro, svelano l'equivoco. Chi è preda dell'ideologia sa sempre dove andrà a parare e si mantiene in allenamento ripetendo sempre le stesse parole. Chi si mette nell'obbedienza di un discernimento non sa mai come andrà esattamente a finire e dovrebbe essere disposto a finire con i piedi, con il cuore e con la testa laddove non avrebbe mai pensato di finire. Questo spirito di discernimento non si assume per volontà, ma per umiltà e spesso attraverso umiliazioni. E allora è forse bene che, avviandoci al cuore dei lavori di questi giorni, non dimentichiamo il richiamo penitenziale di Giovanni Paolo II ( Tertio millennio adveniente 36 ) in preparazione al grande giubileo del 2000. Quel richiamo penitenziale ci suggeriva e ci suggerisce un esame di coscienza sulla ricezione del concilio " grande dono dello Spirito alla Chiesa sul finire del secondo millennio " - e proprio questo era già il senso primario che portò all'avviarsi della storia dei convegni ecclesiali nazionali nel 1976 - e in particolare delle sue costituzioni, tra cui la Gaudium et spes dedicata alle relazioni tra Chiesa e mondo contemporaneo. Facendo discernimento non possiamo dimenticare che neppure nel loro doveroso e strenuo impegno civile i cristiani sono autorizzati a sottrarsi alla prospettiva della croce. Scriveva von Balthasar: Entrambi, il regno del mondo e il regno di Dio, natura e grazia, conservano la loro dignità soltanto se conservano le loro leggi e la libertà d'azione che sono loro proprie: l'uomo non può realizzare la convergenza dei due campi ( in un punto omega ) finché Dio conserva la sua libertà di venire come un ladro nella notte e di conservare nella propria amministrazione la forza della croce. Perciò al cristiano è vietata anche quella forma di sintesi che abbiamo chiamato " integralismo " [ … ]. L'intenzione può essere genuina, ma è spuria l'identità ingenuamente presupposta tra regno di Dio e influsso politico-culturale della Chiesa, che poi in pratica viene identifica con l'influsso di potere di un gruppo di mammalucchi cristiani, che aspirano a conquistare il mondo ( H.U. von Balthasar ). Più ci lasciamo sostenere ogni volta di nuovo dall'Amore capace di croce più siamo messi in guardia e resi forti di fronte alla tentazione di Babele ( Gen 11,1ss ), fosse anche di una Babele confessionale. Anche nelle imprese civili è questo l'Amore che resta fonte e culmine della speranza. Questo Amore ci fa sperare e ci impegna ad attendere. Ad attendere " irreprensibili e integri [ … ] il giorno di Cristo " ( Fil 2,15 ). Ad attendere alle opere della carità, e tra esse a quelle della carità civile attraverso cui possiamo testimoniare la fede in un Dio che ha voluto la libertà umana, l'ha voluta come differenza in relazione, e che nell'incarnazione del Figlio ha mostrato che anche dopo il peccato per questa libertà lui porta non solo rispetto ma anche vera amicizia ( Gv 15,13-15; Fil 2,7 ), e in questa economia ci ha insegnato a vedere nell'opera della città un aiuto fragile e provvisorio, ma reale, per la sempre fragile ma incalpestabile libertà umana. E che di vera carità si tratti tanti credenti l'hanno mostrato sino al grado sommo, anche di recente, giungendo a dover donare la vita per il loro impegno a servizio di una città più civile: da Vittorio Bachelet a Roberto Ruffilli a Ezio Tarantelli, da Paolo Borsellino a Rosario Livatino, a tanti e tante altre. Libertà e città Cos'è la libertà rispetto alla Grazia? Allo stesso tempo, nulla e tanto. Nulla perché la libertà non produce la Grazia, tanto perché " la coscienza non può volgersi al bene se non nella libertà " ( GS 17 ). E del resto cos'è la città terrena rispetto alla Gerusalemme celeste? Nulla e tanto. Nulla perché quella Gerusalemme è e resta un dono, tanto perché l'indole della vocazione umana alla salvezza è comunitaria, fatta cioè di relazioni per le quali la libertà personale è una soglia ineludibile che una città civile può concorrere a presidiare e sostenere. Così anche speriamo: mentre attendiamo e invochiamo la seconda Venuta possiamo attendere alla città e alla sua abitabilità, alla città come forma civile - per quanto mai perfetta e definitiva - di quella " tavola della vita " ( Conferenza episcopale USA, Faithfiil Citizenship 2004 ) cui siamo stati ammessi e dalla quale il Signore ci chiede che sin d'ora nessuno sia escluso. Gruppo di studio 1 Ambito: vita affettiva Sintesi dei lavori Moderatore: Giuseppe Barbaro, professore incaricato di diritto di famiglia alla LUMSA, Taranto Segretario: Marco Carmine, libero professionista, Novara 17-18 ottobre 2006 Considerazioni generali I tempi in cui viviamo sono quelli che Dio ci ha donato e, in quanto dono di Dio, vanno vissuti nella dimensione della speranza. La famiglia è spesso rappresentata nei suoi aspetti patologici; difficoltà e sofferenze non sono estranee al vissuto familiare ma diventano passaggio per raggiungere il Risorto nella misura in cui i coniugi, riconoscendosi ogni giorno nuovi, vivono l'amore scambievole riproducendo la relazione trinitaria. L'immagine di una siffatta famiglia, che testimonia la gioia del Risorto, è ancora oggi per l'intera società un annuncio di speranza. La famiglia dunque continua a essere, per le altre famiglie e soprattutto per i giovani, il più importante strumento di trasmissione della cultura e della fede. Essa costituisce strumento di contrasto a una comunicazione che vede i suoi destinatari unicamente come soggetti di una relazione funzionale di tipo consumistico. Le relazioni familiari non esauriscono tuttavia l'intero panorama delle relazioni affettive. Queste ultime devono caratterizzare l'intero corso della vita di uomini e donne, dal grembo materno fino al suo naturale compimento passando attraverso eventi dolorosi come abbandoni, malattie e morti. La stessa vita dei presbiteri esige relazioni affettive, tra i confratelli e con i membri della comunità, caratterizzate da uno stile di comunione fraterna. Una spiritualità fortemente comunitaria è quella richiesta ai membri della Chiesa che oggi è in Italia, una spiritualità che postula una capacità di amare l'altrui parrocchia, l'altrui associazione o movimento come il proprio. Una riflessione sull'esperienza Un progetto culturale cristianamente orientato e una pastorale integrata richiedono di mettere al centro la persona. La persona tuttavia si realizza solo se entra in relazione con l'altro diverso da sé. La prima relazione che l'uomo sperimenta è quella con Dio. È relazione d'amore che chiede di riprodursi in infinite relazioni d'amore con le altre creature. Occorre ripartire dal racconto della Genesi per comprendere la realtà della relazione uomo donna, messa in crisi dal peccato e ricomposta dal sacrificio di Gesù. Cristo sposo della Chiesa sposa è icona non delle sole relazioni coniugali ma di tutte le relazioni umane. Il paradigma di tali relazioni deve essere l'amore di Cristo per l'umanità che si colora delle più varie sfumature di amore: coniugale, filiale, fraterno, amicale. L'amore, solo se alimentato dall'esperienza della Parola vissuta, diviene testimonianza e nel contempo annuncio. L'affettività e la corporeità diventano via e strumento per la trasmissione dei contenuti della fede secondo la pedagogia di un Dio che accoglie e ama per primo e per primo perdona. È necessario educare alla vita affettiva i membri delle nostre comunità, rendendoli capaci di comprendere il vissuto di tutti quelli che incontrano. In tal modo si recupera anche la verità del matrimonio dove il " per sempre ", elemento costitutivo dell'amore, si contrappone alla precarietà e all'individualismo e va proposto come valore anche per i non credenti. Per superare l'apparente assurdità della speranza cristiana, che nasce dal grido di un Dio che muore sulla croce, occorre tradurre il messaggio evangelico in un annuncio credibile e vivibile per tutti. Un approccio pastorale integrato Viene formulata una proposta condivisa e prioritaria di programmare una formazione integrata e permanente di tipo antropologico, che presti particolare attenzione alla sessualità, alla corporeità e all'etica, affidata a persone dotate di conoscenze, competenze e coerenza e destinata anche a presbiteri e seminaristi. Accanto a questa, percorsi di spiritualità, finalizzati all'ascolto e alla meditazione della Parola di Dio. Vi è poi una esigenza di individuare modelli formativi adeguati per annunciare la speranza cristiana nelle occasioni di incontro istituzionale delle coppie con la parrocchia ( matrimonio, battesimo figli ecc. ). Si desidera che una particolare attenzione venga dedicata alla formazione degli animatori perché siano preparati e motivati a incontrare i membri della comunità locale nelle strade e nelle case, senza attendere che siano loro a venire in parrocchia. Emergono poi l'esigenza e la proposta di una pastorale non settoriale pensata e fruibile da giovani e adulti, da coniugati e vergini nell'ambito liturgico e catechistico piuttosto che in quello lavorativo. La realizzazione di una rete informativa che consenta una comunicazione circolare di esperienze e testimonianze agevolerebbe poi la condivisione tra le varie comunità ecclesiali. Le famiglie infine sono ormai consapevoli che, da sole, non ce la possono fare a esigere dalle istituzioni un'adeguata attenzione che si traduca in provvedimenti legislativi o regolamentari che promuovano la loro formazione. Di qui la necessità e l'urgenza che le famiglie, sempre in maggior numero, si associno tra loro proponendosi come testimonianza di solidarietà interna e nel contempo come erogatrici di servizi per le altre famiglie, reale attuazione del principio di sussidiarietà. Gruppo di studio 2 Ambito: vita affettiva Sintesi dei lavori Moderatore: Francesco Belletti, direttore del Centro internazionale studi famiglia, Milano Segretario: Anna Maria Tibaldi, insegnante, Pocapaglia ( CN ) 17-18 ottobre 2006 1. Considerazioni generali 1.1. Testimoniare che Dio è amore … La speranza da testimoniare è il Vangelo dell'amore: Deus caritas est ci dice che l'amore umano si fonda sull'amore che per primo ci è stato donato ( si impara ad amare essendo amati ). 1.2. … consente di radicare nella verità l'esperienza affettiva … Non possiamo non partire da questa origine, per comprendere lo spazio della vita affettiva nell'esperienza umana ( il vero amore umano è fondato sull'amore di Dio ). 1.3. … che è struttura portante dell'esistenza di ogni uomo e donna … Tale esperienza ( vita affettiva ) è in effetti struttura portante dell'esistenza umana ( dal documento Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 2004 ), è modalità privilegiata attraverso cui gli uomini e le donne cercano risposta alla propria domanda di felicità, di senso. In questo senso la vita affettiva è cosa che riguarda non solo gli sposati o gli innamorati o l'esperienza familiare propriamente detta, ma anche chi è chiamato a percorsi vocazionali di vita consacrata ( sia nei percorsi formativi - vedi seminari - sia nella modalità di vita dentro le comunità: esperienze affettive - relazionali con famiglie e comunità parrocchiali - vedi esempio di F. Brambilla ). 1.4. … nel suo essere relazione eticamente fondata e generativa Dal punto di vista antropologico e culturale, la vita affettiva è e non può che essere, nella sua verità, " una relazione eticamente orientata ". Le direttrici di " relazione " ( religo ) e " di senso, responsabilità " ( refero ) non sono disgiunte, ma simultaneamente definiscono la vita affettiva. Peraltro la vita affettiva è inevitabilmente generativa ( vedi gli interventi di Iafrate e Brambilla ), in quanto riconosce l'altro; possiamo dire che la sua generatività ( non necessariamente biologica, ma anche sociale ) ne è cartina di tornasole, fattore di verifica. Del resto l'espressione " Dio è padre " ricorda questa dimensione come fondativa dell'antropologia cristiana ( si impara a generare essendo generati ). 2. Una riflessione sull'esperienza 2.1. L'affettività oggi è fragile perché " solitaria " ed " emozionale e istintiva " … Un primo nodo antropologico riguarda una cultura dell'individualismo che rende l'affettività fragile, che non sa leggere la relazione affettiva come donazione. Questa fragilità è causata da una " sfida culturale epocale ", dove spontaneismo, individualismo ed emozionalismo sono generati dal sociale ( esempio: rivoluzione sessuale del '68 ). Un altro volto di questa fragilità può essere definito come " immaturità personale ", difficoltà cioè per le persone ( giovani adulti, trentenni ) di stare sull'impegno e sulla responsabilità. 2.2. … addirittura solo " virtuale " … Uno dei volti della fragilità della vita affettiva è il rifugiarsi nel virtuale, che interessa soprattutto le nuove generazioni, e che quindi rischia di configurarsi come una distanza generazionale che potrebbe segnare i prossimi anni ( difficoltà di capirsi tra adulti analfabeti informatici e giovani " superwebbizzati " ). Del resto la vita affettiva nei mondi virtuali sembra presentare tanti rischi ( ambiguità, falsità, incomprensioni, giochi di ruolo, distanziamento dall'altro, che così non fa paura; vedi paure degli adolescenti ) e poche possibilità. Occorre anche attenzione specifica alla paura delle aspettative / ansia da prestazione ( anche alla dimensione corporea ), soprattutto per ragazzi e giovani. 2.3. … attraversa molte sofferenze e condizioni difficili … Questa fragilità affettiva genera numerose fatiche e sofferenze ( vedi rotture di coppia, famiglie spezzate, inadempienze / incompetenze genitoriali, fratture intergenerazionali ), con cui occorre misurarsi. La vita affettiva stessa inoltre vive sfide difficili ( la sofferenza, il lutto, la solitudine delle persone che vivono da sole, gli anziani, le vecchie e le nuove dipendenze … ). Infine, si scontra con vincoli e problemi strutturali, che spesso paralizzano la " progettualità affettiva " ( il tema lavoro, precarietà, migrazioni, povertà ), e che segnano in modo molto differenziato il nostro paese ( in particolare il sud chiede - manifesta specificità ed emergenze in questo ambito ). 2.4. … ma rimane un dono-opportunità di testimonianza … Esiste certamente una ricca rete di testimonianze positive, di esperienze di vita affettiva generativa, feconda, accogliente, missionaria. La vita affettiva è comunque kairos, è opportunità di conversione. Questo avviene anche se è fragile … se cambia nel tempo … e proprio attraverso la sua stessa fragilità; la vita affettiva passa attraverso conflitto, perdono, riconciliazione, crisi, ma rimane " valore ". Occorre saper amare / accogliere la vita affettiva anche nelle sue fragilità. La famiglia stessa, nelle sue " normali vicende di vita quotidiana ", è quindi testimone della bellezza della vita affettiva proprio in questo suo starci, nel bene e nel male … In questo senso occorre un linguaggio nuovo: " parlare la speranza " è stata una parola d'ordine in plenaria, ma assolutamente fondamentale in questo ambito. Occorre riscoprire inoltre che quello che portiamo ( sulla vita affettiva ) non è un divieto ( un no ) ma è " scoprire il grido inesauribile del cuore ". La vita affettiva è infine risorsa di annuncio evangelico perché ogni esperienza di vita cristiana non può non sostanziarsi di vita / esperienza affettiva. 2.5. … è essenziale per ogni percorso educativo … Affettività ed educazione non possono essere disgiunte, il che richiede una forte attenzione alla dimensione affettiva in ambito formativo e nelle età della scolarità; implica inoltre una forte responsabilità per gli educatori ( non passa niente nella formazione / educazione senza una implicazione affettiva ). La testimonianza ( vedi titolo generale ) diventa in questo senso strumento pedagogico insostituibile. 2.6. … ed esige un accompagnamento adulto, " competente ", maturo … Serve quindi: - formazione degli educatori ( genitori, insegnanti, educatori, operatori a contatto con i ragazzi … ); - formazione degli operatori pastorali; - formazione dei consacrati ( religiosi - presbiteri ). Quale formazione: - formare alla relazionalità " calda "; - formare all'accompagnamento - ascolto - accoglienza. 2.7. … e un rinnovato discorso di speranza sul corpo Corpo e sessualità - e identità e differenza sessuale - come grazia: questi sono aspetti essenziali, da riprendere nella pastorale, ma anche da riproporre come valori antropologici universali, nonostante la banalizzazione oggi in atto nel sociale. Cf. la pastorale dei mercoledì di Giovanni Paolo II ( teologia del corpo ) e il discorso pastorale quotidiano. 3. Un approccio pastorale integrato 3.1. Nell'azione pastorale occorre una logica di testimonianza … Per sostenere l'esperienza affettiva servono prima di tutto testimoni di verità, di bellezza e di gioia. Questa testimonianza è necessariamente " prossima ", chiede relazioni reali, calde, intime, di reciprocità. 3.2. … e di prossimità che si fa accoglienza ma anche servizio alla verità … E serve una prossimità capace di accoglienza, comunicazione, accompagnamento, ascolto, empatia; soprattutto di fronte alla fragilità occorre ascoltare, accompagnare, accogliere, " voler bene " a questa fragilità, per offrirle occasioni di apertura e riscoperta. Alla Chiesa è chiesto però anche il servizio della verità ( unire passione e ragione, che non possono essere contrapposte nell'esperienza affettiva ), di fronte a un attacco all'identità dell'uomo ( che nella vita affettiva trova un punto di fragilità forte ) che è culturale. Ci si aspetta quindi dalla Chiesa una riflessione " alta ", che non " abbassi il livello ", e che sappia rendere ragione a livello teologico, antropologico e culturale della bellezza dell'esperienza cristiana della vita affettiva. Ci si aspetta inoltre una parola chiara sulla cura pastorale delle situazioni difficili, che interpella oggi con frequenza e drammaticità la comunità cristiana. 3.3. … esigendo un approccio non settoriale … Per accompagnare le persone nella vita affettiva occorre uscire da un'azione pastorale di settore e di ambito, per sinergie e progetti unitari che sappiano cogliere tutta la persona e la complessità relazionale ( bambini e genitori, nipoti - nonni, la vita di ciascuno in tutte le sue manifestazioni ). Non si tratta di cambiare l'organizzazione, ma di attraversarla con una logica nuova, che fa parlare insieme i diversi settori / operatori. 3.4. … e attenzione all'integralità della persona umana ( oltre l'affettività ) … Occorre poi un'attenzione specifica alla vita affettiva in tutte le fasi di vita e di azione pastorale: non bastano i passaggi liturgici " consolidati " ( dopo l'iniziazione cristiana, cosa? ), ma occorre accompagnare la vita tutta. A questo proposito le occasioni sacramentali ( riconciliazione ) e la possibilità della direzione spirituale sono elementi che possono aiutare nel sostegno / accompagnamento delle persone. Occorre a questo riguardo attenzione alla " formazione indiretta ", quella cioè che si realizza nell'esperienza di vita quotidiana ( se e come è esperienza affettiva ). Vedi anche la " preparazione remota ", rispetto ai corsi per fidanzati o ai passaggi catechistici tradizionali ( iniziazione cristiana … ), così come la fatica di progettare i " percorsi formativi dell'affettività ( dell'amore ) " soprattutto per ragazzi e adolescenti. Specifica attenzione va poi dedicata all'esperienza affettiva dei presbiteri e dei religiosi sia nei percorsi formativi di preparazione sia nella concretezza della loro vita quotidiana. Inoltre la centralità della vita affettiva non deve far dimenticare che ogni persona vive anche su altre dimensioni ( affetti, ragione, progetti, lavoro … ), che vanno armonizzate. 3.5. … un linguaggio " caldo ", relazionale … La dimensione affettiva deve poi diventare la qualità tipica delle relazioni nella comunità cristiana nei diversi ambiti, caratterizzando anche il linguaggio dell'annuncio. In questo senso c'è una domanda forte di " affettività " nella vita ecclesiale. 3.6. … la riscoperta della famiglia come soggetto di pastorale … Evidentemente alla famiglia, luogo primario di esperienza della vita affettiva, spetta anche la responsabilità di " essere soggetto " di vita ecclesiale e di evangelizzazione; ciò chiede ovviamente un'attenzione a tempi, esigenze, orari delle famiglie. Le famiglie insieme ( i gruppi di famiglie, di giovani sposi, di adolescenti ecc. ) possono e devono essere quindi risorsa forte, soprattutto se luoghi di relazioni vive, " calde ". 3.7. … e della parrocchia come luogo privilegiato Anche la comunità ecclesiale e in particolare la parrocchia stanno al centro di questo confronto con la dimensione affettiva e sono interpellate, sia per interagire con l'esperienza affettiva delle famiglie, sia per essere esse stesse luoghi di vita affettiva. Questo significa parlare di una parrocchia che è poco struttura, ma soprattutto luogo di vita, ambito aperto, comunità cristiana viva, capace di fare rete, di ospitare e valorizzare le diversità di ruoli, di vocazioni e di carismi, di accogliere i percorsi di fatica e di difficoltà delle persone e delle famiglie, magari trasformando la sofferenza e il dolore in oblatività e donazione. Una parrocchia di relazioni calde, luogo di vita e di esperienza. 3.8. Quasi una conclusione … L'esperienza comunionale vissuta in queste giornate di convegno ecclesiale, esperienza essa stessa di speranza della bellezza dell'essere Chiesa, suggerisce la richiesta di poter disporre a livello nazionale di un ambito che consenta di dialogare stabilmente, così come in questi giorni di Verona, tra laici, religiosi, presbiteri, pastori, per progettare e accompagnare la vita di una Chiesa che sia sempre più trasparente testimone del Cristo risorto. Gruppo di studio 3 Ambito: vita affettiva Sintesi dei lavori Moderatore: Pina De Simone, professore stabile di filosofia della religione alla Pontifìcia Facoltà Teologica dell'Italia meridionale, sez. " San Luigi ", Napoli Segretario: Paolo Gomarasca, ricercatore di filosofia morale all'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 17-18 ottobre 2006 Considerazioni generali Il disorientamento che si sperimenta nella vita affettiva richiede un'attenta lettura dei segni dei tempi. Il primo fenomeno che appare in modo evidente è quello di una immaturità affettiva che emerge drammaticamente in alcuni luoghi esistenziali: la vita di coppia, la relazione intergenerazionale, ma anche - talvolta - le stesse comunità cristiane che faticano a pensarsi come luoghi di relazioni affettive. Tale immaturità si presenta secondo due declinazioni prevalenti: 1) un analfabetismo affettivo e 2) un esibizionismo emozionale. C'è a ben guardare una sostanziale ignoranza del linguaggio degli affetti. L'affettività ha un suo linguaggio che affascina e travolge, ma di cui non si riesce spesso ad acquisire un'adeguata consapevolezza. Di qui quella che potremmo definire una sorta di " pornografia dell'interiorità ": gli affetti vengono ridotti a un emozionalismo da consumare in maniera immediata. Le emozioni diventano l'unico orizzonte dell'affettività e valgono solo se messe in mostra; ciò che è di per sé da custodire e da vivere con pudore viene al contrario svenduto in una esibizione continua ( si gode a mettere in piazza le proprie emozioni e a spiare in diretta le emozioni altrui ). A fronte di questa torsione narcisistica dell'affettività si registra però un profondo bisogno di relazioni autentiche: c'è l'esigenza ineludibile di ritrovare il senso delle esperienze affettive che si vivono. Una riflessione sull'esperienza L'ascolto dei segni dei tempi reca dunque in sé una intensa provocazione che chiede di essere accolta, una provocazione a pensare, a dire, a fare. Si tratta prima di tutto di dire bene dell'affettività, dirne il bene: dentro l'affettività c'è un bene irrinunciabile per il soggetto umano, un bene da liberare, da far emergere, da educare. C'è in tal senso un cammino da compiere, un lavoro da fare che prende il tempo di una vita e che esige la gradualità e insieme il saper puntare in alto alla qualità propriamente umana, e dunque divina, dell'affettività. La sensibilità non deve essere annullata, ma valorizzata, canalizzandola nella direzione della relazione con l'altro e per l'altro. Questa dimensione relazionale, che dice la vocazione etica degli affetti, non si aggiunge dall'esterno all'esperienza affettiva, ma ne costituisce la qualità intrinseca e l'orientamento profondo. L'affettività non è una tra le forme dell'esistere ma la sua forma portante. Essa è la dimensione che attraversa ogni aspetto della vita: è il sentire che precede, che determina il modo della nostra apertura al mondo. Sant'Agostino, ad esempio, afferma che le emozioni sono i " piedi " dell'anima: esse, cioè, entrano in maniera decisiva nella relazione con se stessi e nella relazione con Dio da cui ogni altra relazione dipende. Educare all'affettività, ritrovandone quel senso profondo che è disperatamente cercato, esige la capacità di ripartire dalle cose più semplici, da ciò che più semplicemente identifica la realtà di ogni uomo e che più originariamente appartiene all'esperienza che ciascuno vive. Questo luogo esistenziale originario è l'esperienza del sentirsi generati, un'esperienza da ritrovare e da riproporre come decisiva categoria antropologica. Siamo dati a noi stessi, donati continuamente a noi stessi, e solo chi è generato sa generare, solo chi si sente amato impara ad amare. L'esperienza della dipendenza filiale è la forma originaria dell'affettività degna dell'umano, una dipendenza che rende capaci di libertà e che accompagna permanentemente la vita di ogni persona, costituendo la radice di ogni cammino vocazionale. Occorre allora riscoprire e riproporre come esperienza insostituibile la direzione spirituale, che è il luogo in cui ciascuno può scoprirsi accolto come figlio nel mistero del Padre. Un approccio pastorale integrato Dalla riflessione sull'esperienza scaturiscono alcune direttrici operative, che potremmo riassumere secondo la seguente scansione: 1) ideazione, 2) divulgazione; 3) plantatio. Ideazione La prima esigenza cui rispondere è la necessità di identificare l'affettività e dunque di promuovere una riflessione rigorosa sulla vita affettiva che recuperi la ricchezza della tradizione cristiana e del magistero, riproponendola in un linguaggio capace di incrociare la concreta esistenza degli uomini e di interpellare la cultura del nostro tempo. Si tratta di pensare la vita a partire dalla vita, per gustarne la bellezza e ritrovare la gioia di vivere. Si avverte, ad esempio, la necessità di elaborare una teologia dell'affettività, una teologia della tenerezza di Dio che illumini la nostalgia di tenerezza dell'uomo ( in questa direzione si muove anche la proposta concreta della costituzione di un gruppo di lavoro sui fondamenti antropologico - teologici dell'affettività e dell'educazione affettiva ). Divulgazione Riproporre l'antropologia cristiana in tutta la sua ricchezza può e deve produrre una vera e propria rivoluzione culturale che rinnovi dall'interno il modo di concepire e di vivere l'affettività. Si tratta di proporre percorsi educativi capaci di trasmettere categorie interpretative e stili di vita, di progettare una strategia educativa che guardi all'interezza del percorso della vita e alla persona nella sua globalità, percorsi educativi che non siano finalizzati alla comunicazione di ricette da applicare meccanicamente, ma che sappiano offrire criteri esigenti in base ai quali attraversare le piccole e grandi sfide dell'esistenza. È in gioco la possibilità di sperimentare la dimensione affettiva come un percorso di ascesi positiva, in cui diventa chiaro che non esiste dicotomia tra gratificazione e dedizione, bensì un'armonica composizione. L'educazione permanente dell'affettività deve configurarsi come un accompagnamento della persona nelle concrete situazioni della vita, una " pastorale della vicinanza " che coinvolge la comunità ecclesiale in tutte le sue componenti. Scopo di questo accompagnamento è condurre a liberare i desideri del cuore, a " ritrovare la via che conduce al pozzo ", al principio creaturale che fonda e alimenta la vita affettiva. Solo in un percorso che riconduca al fondamento è possibile altresì ritrovare l'intreccio costitutivo tra gli affetti e la ragione, la possibilità cioè di una " ragione amante " e di un' " affettività pensante ". Un simile percorso educativo deve valere per tutte le età e per tutte le condizioni di vita ( di qui il suggerimento che l'affettività divenga una preoccupazione costante della pastorale ordinaria e che l'educazione all'affettività trovi spazio in ogni cammino vocazionale, non solo dunque nel cammino della coppia in preparazione al matrimonio, ma anche nel percorso formativo dei seminari e degli ordini religiosi ). Plantatio È questo il livello più concreto della testimonianza, che passa attraverso la costruzione interpersonale di ciò che si vuole far rinascere. Si tratta di promuovere uno stile di comunione nella vita delle comunità ecclesiali, una comunione in cui sia esperienza vissuta l'integrazione dei carismi, nella linea della corresponsabilità e del sostegno reciproco tra percorsi vocazionali diversi. Occorre inoltre riconoscere e valorizzare la famiglia come soggetto della pastorale, soggetto capace di narrarsi ( aprendo la propria casa e la propria vita alla comunicazione e alla condivisione fraterna ). Ma si tratta anche di prendersi amorevole cura delle numerose e variegate situazioni di sofferenza o di fragilità affettiva ( coniugi separati, persone omosessuali … ), rendendo possibili forme e luoghi di ascolto. Così intesa e vissuta, l'esperienza affettiva dimostra anche tutto il suo potenziale in ordine alla costruzione della città degli uomini, che è tale solo se è luogo di relazioni di reciproco riconoscimento. Occorre riscoprire la rilevanza pubblica della famiglia. In tal senso, è necessario impegnarsi a garantire - anche attraverso una propositività legislativa - le condizioni che permettono una vita affettiva degna dell'uomo. Gruppo di studio 4 Ambito: vita affettiva Sintesi dei lavori Moderatore: sr. Marcella Farina, professore stabile di teologia dogmatica alla Pontificia Facoltà di Scienze dell'educazione " Auxilium ", Roma Segretario: Almo Puntoni, insegnante. Massa 17-18 ottobre 2006 1. Considerazioni generali Molti interventi hanno insistito sulle " relazioni " come luogo per testimoniare la speranza in Cristo risorto. Queste non sono automaticamente tali, vanno educate ed evangelizzate. La sorgente di queste relazioni buone è Gesù risorto. A livello antropologico si esprime nella consapevolezza di essere amati da Dio ed essere chiamati all'amore. Sono stati menzionati quali contesti di espressione delle relazioni: la comunità cristiana, la famiglia, la scuola, i gruppi amicali degli adolescenti. La comunità cristiana, la locanda " Accogliere tutti " ( cf. la parabola del samaritano ), deve sempre più diventare un luogo abitato da persone guarite, curate, salvate, che sono state accolte dal Signore Gesù, che si accettano nei loro limiti e che si relazionano tra loro con amore sincero e autentico, così da essere momento di incontro con chi ha bisogno di cura. Una cura lunga, che mette al centro l'altro, senza volerlo sedurre bensì educare. Locanda che è luogo di educazione umana dei sentimenti che possono essere poi evangelizzati, superando l'analfabetismo: portare la buona notizia anche dove ci sono dei sentimenti feriti. La locanda è abitata dai sacerdoti, che oggi devono riscoprire pienamente il loro bisogno di relazioni su quattro livelli: con Dio attraverso la conformazione a Cristo sacerdote e pastore, con il popolo di Dio in quanto pastori, con il Vescovo e con gli altri confratelli nel presbiterato. Questo dice come il presbitero, mentre educa alla relazionalità, domanda di essere aiutato a maturare in questo quadruplice bisogno da tutta la comunità cristiana. In questo senso deve crescere la vicinanza affettiva tra i laici e i loro pastori, sempre e comunque perché affidati loro dal Signore. La vita religiosa ancora ben presente nel nostro paese è un grande dono alla locanda perché ricorda la dimensione trascendente dell'amore attraverso la verginità, la sponsalità, la maternità / paternità, e accompagna il cammino di fede del popolo di Dio nell'ambito degli affetti. Occorre però superare un certo pregiudizio e una certa difficoltà di comunicazione della vita religiosa nella Chiesa. Un'insistenza particolarissima è stata data al ruolo delle coppie e delle famiglie: la vita affettiva trova il luogo generativo nella famiglia, ogni suo componente impara lì gradualmente a vivere le relazioni, negli errori così come nelle esperienze riuscite. Le coppie cristiane devono continuamente confrontarsi, a partire dal quotidiano, a vivere l'esperienza del rischio e delle minacce nella vita matrimoniale, viste alla luce del Vangelo, nella dimensione pasquale: la precarietà del mondo degli affetti domanda una definitività. Sono state sottolineate le molteplici e forti difficoltà contemporanee per le coppie e le famiglie: le relazioni spezzate, le divisioni, le conflittualità quando un coniuge si converte a una setta, la precarietà economica, le gestione dell'educazione dei figli ( soprattutto in riferimento ai nuovi " maestri " ), la conflittualità intergenerazionale derivante da una crescente competizione. Molte sono le esperienze che fanno ben sperare per un futuro della Chiesa in relazione alla famiglia: molte sono le iniziative di preparazione al matrimonio che non si limitano all'aspetto strettamente sacramentale, ma hanno un respiro più ampio che sostiene la crescita umana e relazionale della coppia, permettendo la nascita di gruppi, nuove amicizie, disponibilità al servizio nella comunità cristiana e di una forte vicinanza al sacerdote. Il mondo giovanile è un ambito particolarmente delicato nella maturazione degli affetti, si sono prese in considerazione alcune difficoltà: la solitudine e lo smarrimento, forme di consumismo e individualismo. È stato fatto un riferimento al mondo della scuola che non può esimersi dalle proprie responsabilità nell'educazione della vita affettiva e che richiama l'indispensabilità di un lavoro di rete. Gli adulti devono giocarsi in una nuova progettualità del dono, della gratuità per offrire ai giovani dei percorsi di crescita nell'amore; con le istanze della prossimità, dell'esperienza dell'amore vero e l'accompagnamento. La Chiesa deve impegnarsi nuovamente e con maggiore determinazione nell'educazione, disponibile a modificare alcune prassi ispirate a moralismi, e sviluppare al contrario un'etica del progetto: superare il " non devi " per arrivare al " tu puoi ". Risorse educative della comunità cristiana: la Parola di Dio, l'Eucaristia e la qualità delle relazioni con particolare riferimento all'accompagnamento e alla guida spirituale. È emersa sovente l'istanza della concretezza per poter essere testimoni di speranza e poterla annunciare. Da questo alcune domande su cosa si aspettano a casa dal Convegno di Verona, in particolare gli sposi cristiani, sposi e figli che vedono fallire il matrimonio e vogliono rimanervi fedeli, i divorziati risposati che si sentono fuori dalla Chiesa, e tanti giovani in difficoltà che avvertono la Chiesa lontana. Quale speranza annunciamo a queste persone? Quale prossimità testimoniamo? 2. Una riflessione sull'esperienza Approccio biblico Il Cantico dei cantici non parla esplicitamente di Dio, pure è un libro ispirato, così l'esperienza dell'amore umano è luogo di rivelazione di Dio. L'antropologia biblica che parte con Genesi 1-2 è portata a compimento nella persona di Gesù vera immagine di Dio. Egli ci rivela Dio Trinità che è fondamento della nostra esperienza relazionale: ha vissuto una vita affettiva e ha dato origine a una nuova parentela nel discepolato. La sua scelta di vita celibataria sottolinea come ogni vocazione all'amore nella Chiesa si comprende dentro il suo mistero. L'esperienza degli affetti, la relazionalità, nasce dall'esigenza ontologica dell'uomo creato a immagine di Dio in Cristo. Rendere visibile la speranza nella vita affettiva - Rendere visibile la dimensione teologale della vita affettiva ( amore - carità ) con una professione di fede in Gesù risorto speranza del mondo, la preghiera, la vita sacramentale, in particolare l'Eucaristia. - Valorizzare il sacramento del matrimonio, non solo nella sua dimensione etica ( nei trattati è nella parte di morale sessuale ), ma nella sua dimensione teologica. - La gioia come irradiazione della dimensione teologale dell'amore e della bellezza dell'amore. Credere che l'amore è bello, l'amore è possibile, l'amore fedele esiste: è testimoniato nella nostra Italia e vogliamo chiedere che questa antropologia abbia spazio nella cultura contemporanea, non ci vergogniamo di questo. - La Chiesa comunione con relazioni di amore evangelizzato con la tensione educativa verso la pienezza dell'amore per cui manifesta la relazione nella sua sorgente nel cammino e nella meta: questa testimonianza assume un valore pubblico sociale perché corrisponde anche a un valore della società contemporanea. - Nella presenza di prossimità della Chiesa che cammina accanto alla gente, per cui è un'immagine di Chiesa non solo locanda, ma anche via, famiglia, casa. - Un altro elemento è l'accoglienza e l'ascolto uscendo dalle parrocchie nella quotidianità della vita, in particolare per il mondo giovanile. - Rendere visibile la bellezza dell'amore in tutte le età della vita e delle condizioni umane, anche in coloro che sono feriti in quanto disabili. - Dare spazio alla costruzione di persone equilibrate, serene, capaci di ascoltare e di discernimento, fraterne e amorevoli. - Grande attenzione nella formazione delle persone e degli operatori ( soprattutto nei seminari ) alla teologia della coppia e della famiglia per manifestare l'importanza della vita affettiva nella scoperta di ciò che più importante, come Dio. - Vogliamo comunicare questo non come un giudizio ma come una proposta e chiedere alla Chiesa di ampliare gli strumenti e i luoghi di comunicazione ( anche virtuale ) dell'esperienza cristiana. - Impegno ad aumentare il dialogo nella comunità cristiana come momento per vivere esperienze effettive di accoglienza e fraternità. - Impegno ad aumentare il dialogo nelle famiglie cristiane anche utilizzando lo strumento potente della preghiera. Giudizio culturale - L'enciclica Deus caritas est è già una grande proposta culturale. - L'antropologia cristiana come proclamazione della verità sull'uomo è un giudizio sull'antropologia corrente. - La stessa vita relazionale della Chiesa espressa in una serie di iniziative e progetti esprime la centralità della persona nella sua dimensione affettiva, evidenziata anche nell'attenzione rivolta a coloro che mostrano maggiore difficoltà e fragilità negli affetti. - Rendere più visibile a livello culturale il raccordo tra dimensione razionale e affettiva: darà più spazio all'educazione delle emozioni. - Dare consistenza a uno stile di vita che punti non solo a star bene con se stessi ma anche con gli altri. - L'esperienza religiosa ha una valenza sociale e culturale. - La testimonianza del Vangelo della vita è un servizio perché la società ricordi sempre chi è più debole e deve essere tutelato. Dialogo tra i sessi - Nella Chiesa la presenza della donna con la sua risorsa di femminilità e la sua attenzione alla vita va valorizzata ulteriormente. - D'altronde nella società e nella Chiesa la parità tra i sessi non è ancora raggiunta, particolarmente nei legami stretti si manifestano relazioni di " sultanismo ", anche da parte dei preti. - È importante che siano maggiormente presenti delle donne negli itinerari di formazione dei sacerdoti e si valorizzi la loro presenza vicino ai parroci. 3. Un approccio personale integrato Fragilità - Problemi di nullità del sacramento del matrimonio perché manca la " sostanza " religiosa ma spesso quella umana. - Esiste una fragilità del mondo affettivo che è segno del limite umano e che va accolta anche nella Chiesa: apparire come Chiesa fragile è un segno profetico straordinario, perché l'umanità è così. - La fragilità nella vita affettiva interpella a un reciproco sostegno e solidarietà, e anche alla correzione fraterna. - Annunciare Gesù dentro l'antropologia del limite, come testimoni della speranza del cielo nei limiti della terra, ponendo in questi limiti i semi dell'eternità. - I giovani preti spesso vivono di seri problemi relazionali: questo interpella la comunità cristiana per essere loro vicini e per rivedere tutto il processo formativo. - Le crisi possono diventare un momento di crescita. - I laici chiedono assistenti spirituali ma i preti sono figli del tempo. - Nella Chiesa, accorgersi come la radice di alcuni mali è il non riconoscere la crisi della fede. Tradizione - L'educazione dei sentimenti: cammini di educazione affettiva da inserire in tutti i cammini catechistici di tutte le età della vita, compresi gli 0-6 anni ( i genitori non educano più, tantomeno alla fede ), e tutte le vocazioni in particolare nei seminari. - Preparare gruppi di persone adulte con una solida formazione ( che faccia riferimento a uno studio sistematico della Scrittura ) all'altezza di annunciare il Vangelo e rendere ragione della fede anche a chi ha scelto altre religioni. - Valorizzare la pedagogia dell'esperienza e il protagonismo come luoghi di formazione efficace e di conversione. - Coinvolgere nell'educazione tutte le diverse vocazioni nella loro testimonianza e nel loro punto di vista, non aver paura dei tempi lunghi e dei piccoli numeri. Lavoro e festa - Fare meno cose e dare più tempo all'ascolto per migliorare la qualità delle relazioni. - L'Eucaristia come luogo di maturazione negli affetti e come centro della festa cristiana. - Nell'operare avere la consapevolezza dell'oltre, anche nella ricompensa; sottolineare il primato della grazia al di là di ogni nostro progetto e di ogni nostro merito; è Dio che ci fa maturare. - Valorizzare la domenica anche dal punto di vista umano come momento di incontro in comunità. Cittadinanza - Non siamo chiamati dal Signore solo per andare in paradiso, ma per fare un servizio all'uomo del nostro tempo. - Una vita cristiana alta provoca gli altri a innalzare le loro aspirazioni. - La Chiesa è interpellata a farsi carico dell'educazione all'amore e del sostegno alla famiglia anche in una società con delle leggi che vanno nel segno opposto. Si è sottolineata l'esigenza di una pastorale unitaria che non divida i contesti di vita. Gruppo di studio 5 Ambito: vita affettiva Sintesi dei lavori Moderatore: Ina Siviglia Sammartino, professore incaricato di antropologia teologica alla Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia, Palermo Segretario: Giovanni Marogna, medico, Verona 17-18 ottobre 2006 1. Considerazioni generali La vita affettiva si rivela un ambito di grande interesse, offerto dalla sensibilità postmoderna, come sfida e opportunità di dialogo sul senso integrale della vita umana. È una dimensione antropologica che riguarda l'uomo nella duplice relazionalità orizzontale e verticale. Il comandamento dell'amore si incarna nella concretezza di un'affettività equilibrata e ricca. È corredo vitale della persona umana, dono di Dio, con una sua intelligenza intrinseca che ha il compito di condurre l'uomo fuori da sé verso l'altro. Il nostro Dio è un Dio - Amore, che si è rivelato innamorato e appassionato dell'umanità e che ha dato la vita per la salvezza di essa. L'esperienza del peccato e la ferita che esso ha prodotto in particolare nella vita affettiva mostra la grandezza dell'opera della redenzione, e la ricchezza della vita sacramentale per i cristiani. Il sacramento della riconciliazione ha l'effetto della guarigione e fonda la capacità di perdono tra le persone in situazione di conflitto. L'incarnazione costituisce la chiave di lettura dell'universale umano e in particolare del senso e della qualità della vita affettiva. Gesù ha mostrato nella sua vita terrena con gesti e parole la sua capacità di farsi prossimo all'uomo in qualunque situazione, specialmente di fragilità affettiva ( adultera, samaritana, Maddalena, il giovane ricco … ). L'affettività è luogo privilegiato per vivere e testimoniare il mistero pasquale con la sua carica di speranza. La Parola di Dio costituisce la luce che illumina ogni vita, che aiuta a discernere la bontà delle scelte, che corrobora la fedeltà nella prova e che orienta tutta la vita terrena verso l'orizzonte escatologico, dando senso e valore a ogni esperienza autenticamente umana. Fondare la vita affettiva su Cristo morto e risorto significa porre le premesse per una piena umanizzazione e per una testimonianza risplendente di speranza. È questo fascino del divino che traspare dall'amore umano ciò di cui ha fame e sete l'uomo contemporaneo. L'ambito dell'affettività si interseca con tutte le dimensioni del vivere umano, ma in particolare con la fragilità e la trasmissione della fede. È da attribuire in parte al mancato afflato affettivo nella comunicazione dell'esperienza di fede la difficoltà di trasmissione da una generazione all'altra del credo religioso e dei valori coerenti con esso. 2. Riflessione sull'esperienza: elaborare L'uomo contemporaneo, se da una parte avverte l'urgenza di relazioni significative, dall'altra corre il rischio di derive di sentimentalismo, intimismo ed edonismo collocando la vita affettiva fuori dall'orizzonte etico e religioso a essa inerenti; eros e agape vanno posti in un dinamismo circolare. Mentre in passato la sfera dell'affettività era relegata nel privato, oggi si vive a diversi livelli: personale, familiare, ecclesiale e sociale. Ambiguità e aspetti problematici: 1) a livello personale: frammentazione dell'essere umano, difficoltà per gli adolescenti a identificarsi e accettarsi sessualmente, fatica a sperimentare l'intimità a livello di amicizia e di coppia … 2) a livello familiare, precarietà delle relazioni, separazioni, divorzi, convivenze, difficoltà nel cogliere l'impronta del divino in un amore che può essere connotato di eternità, incapacità di vivere i conflitti come tappe della crescita; 3) a livello ecclesiale: relazioni formali, incapacità di vivere la complementarità tra le varie vocazioni, dinamiche comunitarie nella vita religiosa lacunose, difficoltà a testimoniare la vitalità della fede come relazione interpersonale, clima poco accogliente delle comunità, moralismo sterile; 4) a livello sociale, difficoltà ad accogliere le alterità integrandole, scarsa solidarietà, conflittualità esasperata, difficile dialogo tra le generazioni, tendenza a emarginare gli ultimi, inadeguatezza legislativa. Segni di speranza: 1) desiderio di autenticità, volontà di vivere amicizie significative, capacità di compassione; 2) santità feriale, laboratorio di relazioni, dialogo intergenerazionale, stili di vita sobri e solidali, fecondità e accoglienza della vita; 3) esperienze di fraternità tra sacerdoti e famiglie, attenzione rinnovata alla formazione affettiva, accompagnamento spirituale fecondo, valorizzazione della corporeità e sessualità; 4) volontariato, affido e adozione, sostegno alle fragilità. L'analfabetismo affettivo, molto diffuso nel nostro tempo, non riguarda solo giovani, coppie in formazione, sposi, ma anche quanti aspirano alla vita religiosa e al presbiterato. Appare preoccupante constatare che spesso anche i formatori ( preti, suore, laici impegnati ) non sono sufficientemente attrezzati per accompagnare nei percorsi formativi. È auspicabile proporre la sessualità come dono ricevuto, come diversità da valorizzare, come strumento di comunione da realizzare, come linguaggio da utilizzare per entrare in empatia con l'altro e come fecondità non solo biologica, ma come eccedenza dell'amore che si dona. La relazione delle origini tra uomo e donna costituisce un paradigma irrinunciabile per la realizzazione della persona: ciò vale per le coppie, per i singoli e per tutte le altre vocazioni nella Chiesa. Appare urgente porre le problematiche affettive sul piano etico per dare a esse lo spessore di scelte libere e motivate, sfuggendo in tal modo a derive spontaneistiche di breve durata. Nell'attuale dibattito sui temi indisponibili relativi alla vita, alla bioetica, alla sperimentazione scientifica, all'eutanasia, i cristiani hanno il compito di acquisire linguaggi, categorie, argomentazioni ragionevoli per intavolare un dialogo coraggioso, sereno, paritetico e fruttuoso con la larga schiera di non credenti e non praticanti. 3. Un approccio pastorale integrato: proporre La priorità pastorale individuata è la formazione. Occorre investire energie, tempo, risorse umane ed economiche per elaborare un progetto armonico permanente, inclusivo della sfera affettiva. Emerge la necessità di coniugare insieme contenuti teologici, spiritualità e scienze umane per uscire da una diffusa dicotomia tra aspetti dottrinali e competenze relazionali pratiche, e per promuovere una visione antropologica olistica. Si è tutti in cammino maestri e discepoli: la credibilità di chi insegna è commisurata alla testimonianza di vita coerente. Lo sforzo va orientato in particolare ai preadolescenti e giovani, ma anche ai formatori ( genitori, catechisti, animatori, insegnanti di religione ). Vanno rivisitati e rinnovati i percorsi di preparazione al matrimonio e di accompagnamento degli sposi. È stato proposto un ministero ecclesiale per l'accoglienza, l'ascolto e l'accompagnamento ( le tre A ) che va esercitato in forma individuale ( prete, diacono, laici, religiosi ) o in forma comunitaria ( équipe di persone con differenti competenze e sensibilità ). Tale servizio in particolare dovrebbe essere attivato nei confronti dell'affettività ferita ( separazioni, divorzi, vedovanza, lutti ). Si è auspicata una formazione comune di presbiteri, sposi, religiosi in una circolarità vocazionale, in reciproco ascolto e in sapiente discernimento ecclesiale. Un approccio pastorale integrato esige un lavoro di rete e in rete incarnato nel territorio, capace di interpretare le domande e le aspettative, e capace di rispondere in maniera adeguata e dinamica. Una programmazione comune e un rimando costante tra le agenzie educative cattoliche ( scuole cattoliche, consultori di ispirazione cristiana, parrocchie, oratori ) e gli uffici ecclesiali competenti a livello diocesano possono far maturare itinerari condivisi e fecondi. Il dinamismo pastorale non può essere rivolto solo ad intra ma deve sempre più proiettarsi in un'estroversione missionaria che tenda a incontrare gli uomini dove vivono, soffrono, lavorano. In particolare l'evangelizzazione della vita affettiva va compiuta cogliendo ogni occasione di dubbio, di crisi, di disordine morale, di dibattito pubblico, evitando di scandalizzarsi e di ergersi a giudici, ispirandosi all'esempio di Cristo misericordioso. Il volto di Chiesa da proporre all'uomo e alla donna del terzo millennio è quello di una Chiesa madre prima che maestra, capace di farsi voce di chi non ha voce, di curare le ferite dei figli più deboli ( in particolare i disabili ), di camminare a fianco di ogni persona, prendendosi cura con tenerezza di ogni fragilità, e capace al tempo stesso di orientare su vie sicure i passi dell'uomo. Gruppo di studio 6 Ambito: vita affettiva Sintesi dei lavori Moderatore: Enrica e Michelangelo Tortalla, insegnante e medico. Fossano ( CN ) Segretario: Domenico Simeone, professore associato di pedagogia generale all'Università degli studi di Macerata 17-18 ottobre 2006 1. Considerazioni generali L'uomo di oggi ha sete di affettività e di relazioni calde, perché l'affettività è una dimensione costitutiva della persona e come tale è essenziale per la sua piena realizzazione. La famiglia è il luogo affettivo dove la vita nasce, cresce e si sviluppa. L'affettività è il ponte che permette di aprirsi alla relazione con l'altro. Nell'amore tra un uomo e una donna è presente in modo evidente la vocazione al dono di sé. L'affettività è quindi la via privilegiata per una piena umanità e strada per la santità; è la chiamata di ogni uomo all'amore. Si tratta di riscoprire il valore dell'eros che se anche " inizialmente è soprattutto bramoso [ … ] nell'avvicinarsi poi all'altro [ … ] si donerà e desidererà "esserci per" l'altro. Così il momento dell'agape si inserisce in esso ", stabilendo una connessione inscindibile " tra l'eros che cerca Dio e l'agape che trasmette il dono ricevuto " ( Deus caritas est 7 ). L'affettività è una scintilla che accende la creatività e apre all'incontro con Cristo. È urgente combattere la cultura della rassegnazione e della disperazione e portare la speranza laddove c'è più bisogno. Si tratta non solo di parlare di speranza, quanto piuttosto di parlare con speranza, una speranza che nasce dall'incontro con il Risorto. Le comunità cristiane dovrebbero diventare sempre di più luoghi di relazioni autentiche, dove poter fare l'esperienza dell'accogliere e dell'essere accolti, luogo di corresponsabilità pastorale che deriva dalla complementarità delle diverse vocazioni e dei diversi ministeri. L'affettività si esprime anche attraverso momenti di prossimità, creando occasioni di incontro, ascolto e accompagnamento. Quando parliamo di vita affettiva non pensiamo soltanto alla famiglia, ma a tutti i contesti in cui si costruisce la relazione con l'altro: la parrocchia, il lavoro, la scuola, la società, la politica. 2. Una riflessione sull'esperienza Il contesto sociale in cui viviamo è caratterizzato da relazioni fragili. Sempre più spesso l'uomo si trova di fronte a un'affettività ferita, dove il conflitto, la separazione, il vuoto esistenziale, l'esperienza della perdita e del lutto possono segnare in modo indelebile la persona, ma al tempo stesso questa esperienza del limite può rappresentare un'occasione di rinascita, purché si aprano spazi di ascolto e comprensione, dove persone adulte e mature siano capaci di soffrire con chi ha sofferto, coniugando discernimento e amore. Si tratta di trovare un nuovo alfabeto, un linguaggio capace di parlare al cuore dell'uomo come antidoto alla solitudine. La società ha bisogno di adulti con un'affettività matura che sappiano essere testimoni dell'amore. " Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. [ … ] Solo attraverso uomini toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini " ( Card. Joseph Ratzinger, in una conferenza a Subiaco su L'Europa nella crisi delle culture ). In questa prospettiva la vita di coppia e di famiglia è un dono che parla dell'amore di Dio a tutta l'umanità. Vi è una profonda reciprocità tra il sacramento dell'ordine e quello del matrimonio, che deve esprimersi nella comunione fraterna dove i diversi carismi diventano risorsa e ricchezza per tutta la comunità. È necessario che i laici sappiano mettere a disposizione i loro specifici doni, passando dalla collaborazione alla corresponsabilità. Solo così potremo cogliere le provocazioni che il mondo ci pone e offrire concreti segni di speranza. 3. Un approccio pastorale integrato È necessario proporre un approccio pastorale integrato e integrante, che sia rispettoso dell'unità e della totalità della persona, partendo da uno sguardo globale sulla persona vista nel processo dinamico di cambiamento. Per realizzare una pastorale integrata è fondamentale che si costruiscano buone relazioni, come premessa per elaborare progetti unitari. Annunciare il Vangelo nella sua pienezza significa far comprendere come l'antropologia cristiana sia autenticamente umana; la questione antropologica precede quella etica. Il messaggio di speranza del Risorto è la strada maestra per la realizzazione autentica dell'uomo nella sua globalità. La speranza scaturisce dall'incontro con Gesù Cristo, che svela all'uomo la pienezza dell'amore a cui è chiamato. L'affettività, che pure rappresenta un elemento fondamentale per la persona in ogni stadio della vita, acquista un significato del tutto particolare nell'età dell'adolescenza e della giovinezza. L'affettività rappresenta il motore dello sviluppo, l'occasione per ridefinire la propria identità alla luce della relazione con l'altro/a. In un mondo disorientato e disorientante è necessario far scoprire ai giovani la bellezza dell'annuncio cristiano sull'amore, proponendo nuove occasioni di formazione che tengano conto delle varie dimensioni costitutive della persona: corporeità, affettività, relazionalità, spiritualità. Un aspetto importante da riscoprire è l'educazione della coscienza attraverso momenti di ascolto e di direzione spirituale, ma anche come compito peculiare della famiglia. Negli itinerari di iniziazione cristiana è importante considerare l'affettività e, in particolare dopo la confermazione, attuare percorsi di formazione centrati sulla dimensione affettiva, recuperando il tema della differenza sessuale che apre al dono. Senza rinunciare alla coeducazione, dobbiamo lavorare per favorire la ricerca della propria identità di genere, anche attraverso momenti di formazione specifici. I giovani hanno bisogno di incontrare adulti che sappiano mettersi in gioco in modo autentico e proporre esperienze " forti " di servizio, di vicinanza ai poveri, di vita comunitaria e di incontro con la Parola. Non bisogna avere paura di proporre ai giovani mete " alte ", ma piuttosto mettersi al loro fianco, costruendo relazioni vere. Inoltre è importante individuare indicazioni e suggerimenti per accompagnare la vita affettiva del diversamente abile. Per quanto concerne la vita di coppia e di famiglia è importante promuovere la consapevolezza che fedeltà e indissolubilità non sono qualità estrinseche all'amore ma suoi elementi costitutivi; recuperare la capacità progettuale e relazionale della coppia; valorizzare la spiritualità familiare anche attraverso una spiritualità degli affetti; sviluppare la capacità di accettare l'altro e il suo processo di cambiamento; educare gli affetti al tirocinio della durata. Quando la coppia e la famiglia raggiungono un'adeguata maturità affettiva, nasce il desiderio generativo di aprirsi agli altri. È sempre più urgente pensare a itinerari formativi che accompagnino la coppia dal suo costituirsi sino alla sua piena realizzazione: preparazione remota e prossima al matrimonio; preparazione al sacramento; percorsi di formazione e accompagnamento per giovani coppie, itinerari di formazione per genitori. Più in generale è importante creare occasioni di incontro e di ascolto, adeguare i tempi della pastorale parrocchiale ai tempi della famiglia, promuovere politiche attente alle esigenze delle relazioni familiari. Non meno importante è la dimensione affettiva nella vita delle persone consacrate. Un'adeguata formazione iniziale e un conseguente itinerario di formazione permanente non possono trascurare questa dimensione fondamentale della vita di ogni persona. Una piena maturità affettiva dei sacerdoti e dei/delle religiosi/e è la premessa necessaria affinché possano essere attenti compagni di viaggio per le persone, le coppie e le famiglie. Nello stesso tempo, le famiglie affettivamente mature possono essere di aiuto al sacerdote costituendo nella parrocchia un clima familiare e di accoglienza. In ultima analisi non si tratta di dare soluzioni precostituite, quanto piuttosto di aiutare le persone a porsi domande di senso, mettendosi in cammino nella certezza che intorno a noi ci possono essere alleati in attesa di essere individuati e valorizzati, nella consapevolezza che anche oggi Dio è presente e sparge semi di santità nei solchi della storia. Gruppo di studio 7 Ambito: lavoro e festa Sintesi dei lavori Moderatore: Simona Beretta, professore straordinario di politiche economiche internazionali all'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Segretario: Mons. Aldo Amati, Vicario Generale della Diocesi di Rimini 17-18 ottobre 2006 1. Condividere Nelle contraddizioni della vita quotidiana ogni persona cerca la felicità e coltiva la speranza di vivere la vita in pienezza. Questa speranza è lo spazio della nostra missione. L'identità personale è messa particolarmente in gioco nel rapporto fra lavoro e festa: c'è il rischio di assolutizzare il lavoro, facendo dipendere da esso la propria identità, oppure di surrogare con altro la mancanza di senso del lavoro Ne deriva una frammentazione dell'esperienza personale e una grande difficoltà a guardare con speranza, con costruttività, alle sfide concrete dell'esperienza. Alcuni punti nevralgici sul versante del lavoro: - quando il lavoro non c'è o non è consono alla dignità della persona; - famiglia e lavoro, con attenzione ai ritmi del lavoro e della famiglia e al lavoro femminile; - giovani e lavoro: dilatazione dei tempi dell'adolescenza e difficoltà a trovare il lavoro sognato; - lavoro e divari territoriali: esperienza drammatica nel Mezzogiorno (disoccupazione, lavoro nero, sfruttamento, pizzo, malavita organizzata ecc. ); - immigrazione: occasione di promozione della dignità e del livello di vita, ma anche rischio di sfruttamento, disgregazione familiare ecc.; confronto non sempre facile fra culture del lavoro diverse. Alcuni punti nevralgici sul versante della festa: - deriva individualistica; - banalizzazione consumistica della festa; - tempo libero da riempire di cose da fare; - i non-luoghi di aggregazione: centri commerciali ecc. Anche il rapporto fra lavoro e festa risulta spesso squilibrato sia nell'esperienza soggettiva sia nei suoi risvolti sociali. Di fronte a queste sfide la comunità cristiana appare connotata da una certa fragilità sul piano della consapevolezza dei valori in gioco, della coerenza e della testimonianza. Tuttavia appaiono, anche se non in rete tra loro, numerose esperienze significative, che già sono un segno di speranza. 2. Elaborare 2.1. Tempo e significato Parlare di lavoro e festa significa parlare del tempo e del suo significato nella vita concreta delle persone e delle comunità. Occorre tenere uniti i due poli antropologico e teologico. Il lavoro e la festa sono per l'uomo. Nell'ottica della salvezza si ritrova l'unità fra lavoro e festa. Criterio valutativo nelle situazioni concrete: il senso del lavoro e della festa è pieno nella misura in cui contribuiscono a un'umanità più autentica. 2.2. Eucaristia e vita cristiana L'unità fra festa e lavoro si alimenta nell'incontro con Cristo risorto e si inscrive nell'orizzonte della santità. Nel giorno del Signore la comunità cristiana si ritrova in Cristo nella celebrazione eucaristica, alimenta la sua unità, si rigenera nella speranza e si protende alla missione. L'Eucaristia è fonte e culmine di tutta la vita cristiana, anche del lavoro e della festa, come dono: nella messa si portano all'altare " la fatica e la gioia "; il pane e il vino, " frutto della terra e del lavoro dell'uomo ", si trasformano nel corpo e sangue di Cristo. Siamo testimoni di speranza perché uomini nuovi, cambiati da Cristo risorto. L'Eucaristia ci rende capaci di testimonianza, di proporre una vita nuova. 2.3. Senso cristiano del lavoro Il lavoro si inscrive nel progetto di Dio creatore. Lavorare è operare per realizzare il disegno di Dio sul mondo. La redenzione operata da Cristo - che ha lavorato con mani di uomo - da pienezza di significato al lavoro. Il lavoro è vocazione, risposta alla chiamata di Dio che si manifesta nelle circostanze concrete: è chiamata a partecipare all'opera della creazione, al servizio degli altri, alla realizzazione di sé, al soddisfacimento delle necessità essenziali della vita personale e familiare. " Ora et labora " ( San Benedetto ): non si lavora bene se non si è ricchi di spiritualità. " Fare tutto con devozione " ( San Francesco ) è fare anche con responsabilità. Se l'uomo diventa mezzo, se il lavoro è solo strumento economico, se manca o non rispetta la dignità dell'uomo, la finalità profonda del lavoro stesso è tradita. Tuttavia, tutto è toccato dalla grazia di Cristo, che non manca nemmeno nelle situazioni più difficili. Il lavoro è collegato col denaro; tuttavia molto lavoro è dono, gratuità, come il lavoro domestico … ma nella mentalità corrente non lo si considera lavoro! 2.4. Senso cristiano della festa: il giorno del Signore La festa cristiana è la domenica; non è solo " riposo " perché la domenica non conclude la settimana, ma la apre, essendo memoriale della risurrezione. La pasqua di Cristo è la nuova creazione, in cui anche il tempo è cambiato; qui è la radice della speranza. La festa è della comunità, mentre il tempo libero è tendenzialmente individualistico, con il rischio della deriva consumistica. La domenica è uno dei pochissimi baluardi contro individualismo e consumismo. Il riposo è una dimensione della festa. Riposare è ritrovare se stessi e rimettere a posto le cose. 2.5. La testimonianza del cristiano e della comunità nell'ambito " lavoro e festa " Lavoro e festa sono dimensioni costitutive dell'esperienza umana. La testimonianza cristiana non può prescindere dall'esprimersi in questi luoghi di costruzione dell'identità personale e comunitaria. Essere testimoni di speranza dando risposta alle domande di senso che si esprimono nell'ambito del lavoro e della festa. 3. Proposte - Riscoprire, riproporre e giocare nel concreto la dottrina sociale della Chiesa, che parla a tutti gli uomini e paradossalmente sorprende anche chi non condivide una visione di fede. Rilancio delle scuole diocesane di formazione sociale e politica. - I temi sociali devono entrare nella pastorale ordinaria anche delle parrocchie; la comunità cristiana è chiamata ad avere un atteggiamento di ascolto anche là dove non ha soluzioni operative. - Creazione in ogni Diocesi di un osservatorio sociale permanente; anche per favorire l'interazione delle diverse realtà del mondo cattolico. La comunità cristiana è chiamata a promuovere forme di accompagnamento di quanti vivono il disagio del lavoro e della povertà. - Comunicare ai giovani speranza e senso del futuro. Incoraggiare e sostenere progetti di imprenditorialità giovanile, soprattutto nelle aree di maggiore disoccupazione ( es. Progetto Policoro ). - Insieme alla cura pastorale dei lavoratori dipendenti, promuovere e valorizzare la dimensione vocazionale del lavoro autonomo e imprenditoriale, espressione dei talenti evangelici; fare impresa per creare lavoro evitando la tentazione di fuga nella finanza. - Incoraggiare le " nuove imprenditorialità " ( profit e non-profìt, responsabilità sociale dell'impresa ecc. ). - Rafforzare reti di sostegno: ospitalità equa di studenti e lavoratori fuori sede, microcredito per progetti, consulenza per l'avvio di imprese, credito antiusura ecc. - Approfondire il nesso fra professionalità e testimonianza: la professionalità da sola non costituisce testimonianza cristiana adeguata; ma se manca non vi è testimonianza credibile. - Le iniziative economiche collegate con realtà ecclesiali sono chiamate a praticare giustizia e legalità nei rapporti di lavoro. - La comunità cristiana non abbandoni i cristiani impegnati in politica e sappia prendere le distanze da quanti favoriscono pratiche clientelari. - Coniugando lavoro e festa, la comunità cristiana è chiamata a cercare l'uomo, anche superando un'impostazione troppo settoriale della pastorale. - La catechesi sottolinei in maniera più forte il senso cristiano del lavoro e il senso escatologico della festa. - Salvare la domenica come tempo e come luogo, vivificando la comunità parrocchiale. - La vita della parrocchia esprima creatività comunitaria nel giorno del Signore. Valorizzare in pieno l'Eucaristia domenicale, anche con occasioni di accoglienza e momenti comunitari espressivi della gioia di essere con Cristo. - Fare discernimento comunitario sull'apertura domenicale degli esercizi commerciali, sulla banalizzazione della festa, sulla mercificazione delle tradizionali feste cristiane. Si può giungere al rifiuto dello shopping nel giorno del Signore. - Valorizzare i nuovi areopaghi - sport, turismo ecc. - come luoghi di senso e di testimonianza. - Dare un'anima al turismo: la vacanza diventi occasione per ritrovare se stessi e per entrare in dialogo fecondo con gli altri e con Dio, rifiutando alienazione e trasgressione. Valorizzare i pellegrinaggi. Gruppo di studio 8 Ambito: lavoro e festa Sintesi dei lavori Moderatore: Cristiano Nervegna, segretario del Movimento Lavoratori di Azione Cattolica, Roma Segretario: Maurizio Ambrosini, professore straordinario di sociologia dei processi economici e del lavoro all'Università degli studi di Milano 17-18 ottobre 2006 1. Considerazioni generali Una prima linea di articolazione degli interventi può essere vista come confronto tra la dimensione strutturale e quella soggettiva o del vissuto del lavoro. Sotto il profilo strutturale sono emerse le profonde differenze territoriali che caratterizzano il nostro paese: molti interventi delle Diocesi del Mezzogiorno hanno posto in rilievo i problemi occupazionali, di precarietà economica, di emigrazione, di perdita di fiducia e di speranza tra i giovani. Anche dal nord sono arrivate denunce della flessibilità del lavoro che diventa precarietà, della chiusura o dello spostamento di aziende verso paesi a basso costo del lavoro, che stanno provocando inediti problemi occupazionali. Indubbiamente però nelle regioni più prospere è molto avvertito il fenomeno del sovraccarico del lavoro, della sua incombenza sulla vita quotidiana, specialmente quando si tratta di famiglie a doppia carriera, di pendolari, di giovani che non hanno ancora trovato un posto stabile. Ci spostiamo così verso la dimensione soggettiva. Emergono allora domande di senso che caratterizzano sia chi il lavoro ce l'ha, sia chi vive una precarietà lavorativa che diventa facilmente anche esistenziale. La dimensione individuale sta diventando preponderante rispetto alle forme del lavoro industriale del secolo appena terminato, ma genera grande solitudine e ricerca di soluzioni meramente individuali a contraddizioni che, invece, hanno natura strutturale e rispetto alle quali ci si sente impotenti. Una seconda linea di riflessione ha preso in considerazione la dicotomia tra pronunciamenti pastorali, da un lato, ed esperienza concreta delle persone, dall'altro. Diversi interventi hanno posto l'accento sul fatto che il lavoro, e con esso la vita quotidiana dei fedeli, entrano poco nella predicazione, nella catechesi, nella pratica pastorale delle comunità parrocchiali. Temi come la bioetica, l'etica matrimoniale e sessuale, la difesa della vita, occupano uno spazio preponderante nei pronunciamenti degli ultimi anni, rischiando, di fatto, di far passare in secondo piano l'importanza che la dimensione del lavoro ( o della sua mancanza ) ha nell'esperienza di ogni giorno delle famiglie credenti. È come se la dimensione del lavoro venisse destituita di un significato propriamente cristiano e consegnata alle logiche inarrivabili del mercato. Si avverte, in questo senso, la mancanza di luoghi di confronto, di accompagnamento e di elaborazione condivisa del senso cristiano del lavoro, per uscire dalla solitudine di molti lavori e lavoratori di oggi e per far emergere dall'invisibilità esperienze, come quelle dei giovani lavoratori e dei lavoratori immigrati, di cui è stata ricordata la crescente importanza. 2. Una riflessione sull'esperienza Il credente vive, così, la fatica di cercare a livello personale le forme possibili per tradurre il Vangelo in prassi di testimonianza, cosciente della durezza delle logiche economiche in cui il suo lavoro si inserisce, ma anche della possibilità di costruire fermenti di significato, di fraternità, di passione per il bene comune, all'interno del sistema di vincoli in cui il suo lavoro si situa. A livello organizzativo, è stato rilevato che, in base a un'apposita indagine dell'Ufficio nazionale di pastorale del lavoro, su 182 Diocesi che hanno risposto, solo 15 hanno un direttore della pastorale del lavoro a tempo pieno; 101 direttori dedicano alla pastorale del lavoro un giorno la settimana; solo un terzo ha un budget. Un elemento positivo è rappresentato, però, dal Progetto Policoro, fiore all'occhiello della Chiesa italiana, in questo ambito, scaturito dal precedente convegno ecclesiale di Palermo. Il progetto, pur incontrando velocità diverse di realizzazione, ha promosso la formazione di una nuova cultura del lavoro, contro la rassegnazione: 71 Diocesi sono state progressivamente coinvolte nelle otto regioni del sud. È stata poi rilanciata l'importanza della pastorale d'ambiente: le persone, infatti, non si possono sradicare, bisogna andare lì dove vivono, occorre intercettarle nei loro ambienti quotidiani, incontrarle con le modalità, negli spazi e negli orari in cui sono più disponibili. Si avverte dunque l'esigenza di una parrocchia più missionaria, che esca dalle mura rassicuranti delle proprie consuetudini, annunciando il Vangelo con un forte ancoraggio alla prassi e alle scelte quotidiane. Il tema della festa è risultato dagli interventi intimamente legato al senso del lavoro. Incrinato il primo, appare difficile definire il secondo. Nasce così il problema di vivere la dimensione della festa quando il lavoro manca, ma anche quando il lavoro è troppo e genera il desiderio di un'evasione fine a se stessa. La festa non si riduce, dunque, alla frequenza alla messa domenicale, che pure dovrebbe esserne il centro, ma richiede anche incontro, relazione, gioia. In questo, è stato rilevato, gli immigrati che provengono da contesti culturali in cui la festa ha ancora una forte valenza comunitaria ci spingono a riscoprirne il senso. Così pure gli ambienti locali, in cui la festa si innesta su tradizioni popolari ancora sentite, riescono tuttora a vivere in maniera condivisa questa fondamentale dimensione della vita umana e rappresentano un segno di speranza per tutta la Chiesa. 3. Un approccio pastorale integrato In questa logica, le indicazioni propositive scaturite dai lavori del gruppo possono essere organizzate intorno ad alcune parole chiave: 1) Prossimità I cristiani sono chiamati a essere vicini alle persone che vivono le difficoltà del mondo del lavoro: disoccupati, lavoratori precari, donne e famiglie che vivono il problema di conciliare famiglia e lavoro, immigrati, lavoratori che vedono in pericolo il loro posto … Qui la dimensione dell'ascolto è fondamentale: sarebbe bello che la Chiesa apparisse come amica e compagna di strada di chi fa fatica, dei " nuovi ultimi ", anziché essere percepita come lontana e, a volte, moralista. 2) Testimonianza I cristiani e la Chiesa non sembrano in grado di risolvere le contraddizioni del sistema economico, di creare lavoro dove non c'è e festa dove se ne sente la mancanza. Possono, però, svolgere un duplice compito: alzare la voce laddove i diritti delle persone vengono violati, e seminare segni dell'amore di Dio anche nel mondo del lavoro. In questo campo, esperienze come quella della formazione professionale, della cooperazione che oggi si traduce in economia sociale, sono da valorizzare ed estendere. 3) Missione Parlare agli uomini e alle donne del lavoro significa rilanciare una pastorale che parli finalmente a tutta la persona, a partire dalle esperienze realizzate, per raggiungere i " lontani ". Anziché attesa e ripetizione di una pastorale statica e disincarnata, si avverte il bisogno di andare alla ricerca dell'altro, testimoniando con credibilità l'attualità del Vangelo per la vita. Una proposta concreta, al riguardo, è quella di un concorso per progetti di animazione sociale e del mondo del lavoro, che selezioni e cofinanzi le idee giudicate più meritevoli ( così come già avviene in ambito Caritas ). 4) Formazione L'evangelizzazione del mondo del lavoro è anzitutto compito dei laici cristiani. Per questo compito occorrono, quindi, persone competenti, preparate, capaci di realizzare una catechesi delle relazioni. Servono allora investimenti adeguati per formare e accompagnare questi testimoni del Vangelo nei luoghi del lavoro. 5) Comunione La fonte della prossimità, della testimonianza e della missione è l'incontro con Cristo che si realizza nella comunità credente, in modo particolare quando si riunisce nel giorno del Signore attorno all'Eucaristia. La festa è dunque origine della capacità dei cristiani di stare nel mondo del lavoro come fermento evangelico. Lavoro e festa si richiamano in questo senso, e si illuminano vicendevolmente. Gruppo di studio 9 Ambito: lavoro e festa Sintesi dei lavori Moderatore: p. Silvano Maggiani, professore stabile di teologia liturgico - sacramentaria alla Pontificia Facoltà Teologica " Marianum ", Roma Segretario: Franco Pasquali, segretario generale della Confederazione nazionale Coldiretti, Roma 17-18 ottobre 2006 1. Condividere 1.1. Gli interventi del 9° gruppo di studio dell'ambito " Il lavoro e la festa " sono stati motivati quasi sempre: direttamente, dai vissuti e dalle esperienze personali o dalle responsabilità ecclesiali, queste ultime in grande maggioranza legate a organismi o servizi pastorali del lavoro o per il lavoro; indirettamente, dalle riflessioni maturate dalla Traccia di preparazione al Convegno e dal cammino effettuato dalle singole Chiese o organizzazioni di appartenenza e dalle relazioni introduttive al Convegno e a quella propria dell'ambito. 1.2. Nella messa in comune soprattutto delle problematiche inerenti al lavoro, frutto di evidente sofferta partecipazione e, quasi sempre in termini consequenziali, a quelle della festa, sono stati richiamati più volte, anche senza esplicitarli, gli altri ambiti e l'interconnessione di questi con le problematiche del lavoro/festa. Più frequentemente problematiche inerenti alla fragilità e alla cittadinanza, quindi alla vita affettiva, infine alla tradizione intesa dal punto di vista antropologico piuttosto che teologico. 1.3. Gli interventi hanno confermato un dato emerso nella Sintesi dei contributi delle Diocesi, degli organismi e delle organizzazioni ecclesiali: " la scarsa attenzione della comunità cristiana al mondo del lavoro " e, nonostante alcune realizzazioni pastorali, le parrocchie sono generalmente disattente come se i problemi e le sfide provenienti dal di fuori non le riguardassero direttamente. D'altra parte ci si rende conto che si opera e si pensa e si attua l'attività lavorativa in un contesto socioculturale e politico assai diverso rispetto anche a un recente passato. Lo scenario postindustriale e globale, di fatto, il bene derivante dal lavoro per la persona/persone fa emergere uno sviluppo connotante il profitto, uno sviluppo economicistico che tiene in minimo conto le ricadute in termini di costi umani, e sembra obliare la dignità degli uomini e delle donne e il bene comune. A questo si deve aggiungere una dilatazione dei tempi di lavoro con la ricaduta sulle famiglie e la loro vita, la precarietà del lavoro, il fenomeno del pendolarismo. 1.4. In questo scenario si aggrava la situazione del lavoro della donna con ritorsioni ad esempio sulla maternità; il problema degli immigrati ( precarietà, clandestinità, inferiorità, sfruttamento, ignoranza dei diritti e delle leggi ); il problema della mancanza di occupazione, di posti di lavoro, in molte aree, la fuga all'estero dei giovani di valore professionale e dotati di capacità creative, problema questo che pone la discontinuità tra la preparazione-studio e lo iato per l'impiego professionale. 1.5. È questo scenario che condiziona pesantemente il senso della festa, il vivere la festa, i luoghi della festa e il tempo che la scandisce. Si segnala che il consumismo generalizzato, indotto, stravolge non solo la percezione e la pratica del giorno del Signore, ma in diverse regioni o comunità ecclesiali anche le feste popolari di radice religiosa. 1.6. Tuttavia si richiama la necessità di dover chiarire in questa nostra epoca di mutazioni il lessico e quindi il senso, la semantica, concernente i termini lavoro e festa. Che cosa si intende quando ci si riferisce all'uno o all'altro, per avere così un linguaggio orientativo che ci permetta di valutare in comune, in comune affrontare le problematiche con consapevolezza condivisa per un'incisività sul tessuto sociale e religioso. 1.7. Una diversità di lettura del senso del lavoro: il lavoro come valore, come scotto da pagare, come ingrato, come ottundimento, richiama la necessità di ritrovare in ambito ecclesiale la dimensione teologica e umana del lavoro. Ugualmente è necessaria una innovata comprensione del senso della festa cristiana e delle modalità di fare festa o rendere festivo il giorno del Signore, un riconsiderare il senso del tempo nello spirito di Cristo, dell'osmosi tra quotidiano e tempo festivo. 1.8. Alcune problematiche sono da essere assunte o perché non sono state mai esplicitate nella fase preparatoria o perché debolmente alluse nelle riflessioni generali del Convegno. Tra queste in particolare "le morti bianche", quindi la prostituzione, il lavoro nero, il caporalato, senza dimenticare i datori di lavoro e l'imprenditore, il ruolo dell'associazionismo, il mondo delle cooperative. 1.9. Anche alla luce di queste problematiche si pone seriamente la riscoperta dell'etica sociale nel lavoro, in particolare, e un essere formati a più livelli per affrontare seriamente queste realtà. 2. Elaborare Riflessione sull'esperienza La riscoperta della visione biblica della creazione deve essere assolutamente messa in relazione al mistero pasquale e al senso centrale e fontale che ha la risurrezione di Gesù: risurrezione come nuova creazione. Rileggere il testo della Genesi nella sua forza originaria ebraica testuale: il creato come opera del Creatore, l'affidamento della creazione all'uomo/donna per trasformare la terra. Da qui una rinnovata coscienza del lavoro come vocazione, come trasfigurazione del creato, dell'ambiente, delle realtà che implicano una risposta bella e buona in opere, come bella e buona è stata l'opera di Dio. La risurrezione fa nuove tutte le cose, liberate dal potere delle tenebre che pur appesantite dalla materialità ormai hanno la fecondazione dell'energia divina che urge e invita a vivere il sudore della fronte mai ripiegato dall'insuccesso o dalla durezza della materialità ( riserva escatologica ). La risurrezione e l'oggetto del far festa dei cristiani ed è il senso da dare a pratiche della festa, nella festa cristiana e nella domenica. Si ricordi, " senza la domenica " ( dominico ) i cristiani non possono vivere. Recupero della fonte della festa: l'Eucaristia; del donarsi agli altri ( ospitalità ), del riposo. Il tempo festivo, tempo qualitativo, feconda il tempo feriale, e non in contrapposizione perché unico è il culto spirituale a cui sono chiamati i cristiani. La ricaduta culturale e antropologica da sottolineare è la fontalità del senso del tempo festivo, da non confondere con il tempo libero che nel tempo festivo può essere incluso. Come il lavoro, tempo dell'impegno, esige competenza, anche il far festa, compresa la festa domenicale, postula una competenza creativa da mettere in atto. 3. Proporre Sul piano propositivo dal 9° gruppo sono scaturiti moltissimi contributi sul piano pastorale e culturale che si evidenziano sinteticamente. 1) Innanzitutto un invito forte al cristiano a sporcarsi le mani coinvolgendosi di fronte a indifferenza e reticenza che sono una costante. La Chiesa deve denunciare le cose che non vanno bene riguardo al lavoro. 2) La formazione sulla dottrina sociale cristiana rappresenta un'esigenza che riguarda sia i sacerdoti, fin dai seminari, sia i laici in quanto c'è una marginalizzazione se non un'omissione su questi temi. 3) Nella formazione occorre dare attenzione al significato del lavoro, che peraltro va introdotto anche come argomento del catechismo. 4) Esigenza di una pastorale giovanile del lavoro perché le nuove generazioni non lo vedano come una sofferenza. 5) Trasparenza/regolarità, partire dall'esempio delle nostre realtà ecclesiali e delle imprese. 6) Tavoli di confronto dove affrontare i temi della salvaguardia del creato. 7) Attivare tavoli locali di ascolto con le rappresentanze sul tema della cittadinanza ( esperienza emersa dalle vicissitudini dell'usura ). 8) Le realtà associative vanno messe in rete secondo l'esempio di RetInOpera. 9) Lettura attenta del territorio e dei problemi alla ricerca di soluzioni che potrebbe essere fatta con le associazioni del laicato cattolico ( ACLI, Coldiretti ecc. ) che sono autonome e possono dire liberamente le cose che non vanno sul territorio. 10) Evangelizzazione in una pastorale integrata nell'ambiente del lavoro per uscire da timidità nel tentativo di aggregazione e rigenerarsi nel dialogo cristiano. 11) Valorizzare il cammino della Chiesa locale con un percorso liturgico, formativo e lavorativo da San Giuseppe al 1° maggio, nel rispetto del tempo pasquale. 12) Rivitalizzare le Settimane sociali, occasione che si presenta con il centenario, affidandole anche a una partecipazione più pregnante delle associazioni laicali e non solo ai cattedratici. 13) Importante innervare di speranza la nostra vita pastorale ed ecclesiale dalla CEI alle parrocchie. Porsi obiettivi pratici al ritorno sulla base delle realtà locali e quindi definire le strategie. 14) La lettura del territorio diventa più forte per l'aspetto del nuovo modello di sviluppo che comporta con forza il consenso delle comunità. I cattolici si devono intrecciare su questi problemi portandoli a sintesi e in rete. 15) Mettere in rete le esperienze dei diversi uffici pastorali e cogliere le trasversalità e le diverse opportunità. Raccontare anche le esperienze delle varie Diocesi in strumenti interattivi sia sul tema del lavoro sia sulla festa. 16) Sottolineare nella festa la componente della spiritualità valorizzando nella liturgia l'omelia, ma anche con una convivialità che coinvolga tutti e sia accoglienza e saluto finale. La festa non si improvvisa ma occorrono percorsi formativi. 17) Valorizzare anche le feste delle altre fedi in chiave interreligiosa. 18) Nella festa inserire i disabili perché appartiene anche a loro. 19) Favorire una proposta di spiritualità della festa per chi non può partecipare alla messa domenicale per ragioni di lavoro. 20) La gestione del tempo da non lasciarsi scappare come opportunità. Alcuni teorizzano la lentezza, ridisegnare la gestione del tempo. Lavoro e festa avendo dignità, competenza e sobrietà. 21) Mettere attorno a un tavolo le realtà cristiane del territorio che non si conoscono e iniziare un dialogo e un incontro di conoscenza su ciò che tutti fanno. 22) Di riflesso, sembra ineludibile e urgente, di fronte alle sfide che l'universo lavoro e festa propongono, una pastorale integrata e una formazione pastorale adeguata per gli operatori pastorali. Gruppo di studio 10 Ambito: lavoro e festa Sintesi dei lavori Moderatore: Lucia Alessandrini, professore ordinario di geometria all'Università degli studi di Parma Segretario: Giovanni Gur, Centro studi del Movimento Cristiano Lavoratori, Roma 17-18 ottobre 2006 Considerazioni generali a) Quello che emerge nel dibattito è la consapevolezza dell'aspetto plurale del tema del lavoro, e la conseguente necessità di dare risposte diverse a esigenze diverse. Questo non significa una frammentazione dell'intervento della Chiesa, ma una visione realistica dei cambiamenti incorsi nella società. Per esemplificare: - lavoro che manca al sud, lavoratori che mancano al nord ( dove peraltro il lavoro mancava alcune generazioni fa ); - lavoro agricolo che potrebbe essere riscoperto, artigianato da valorizzare, lavoro in fabbrica, lavoro senza luogo ( telelavoro ), lavoro domestico; - lavoro nero, lavoro non assicurato; - lavoro delle donne; - lavoro per i giovani, ma anche per gli ex detenuti, per le persone con handicap, per gli adulti che necessitano di riconversione professionale; - lavoro nelle cooperative sociali, in progetti promossi dalla Chiesa ( es. progetto Policoro ). Su queste tematiche, si è riscontrata poca sensibilità nei luoghi della pastorale, e una scarsa conoscenza della dottrina sociale della Chiesa. b) La festa innanzitutto è un bisogno, prima che un dovere, poiché " senza la domenica non possiamo vivere ". Posto che la festa non è ambito del singolo, ma primariamente della comunità, si può riscoprirla a partire dalla famiglia. La festa non può essere vissuta come un momento slegato dal lavoro, o come una semplice pausa tra un'occupazione e l'altra, né si esaurisce nella domenica: è stato detto che " festa non è solo quando finisce il lavoro, ma anche quando nasce un bambino, quando si inaugura un'opera, quando si ritrova la comunità; sono anche essi momenti da evangelizzare ". Una riflessione sull'esperienza a) Tanti contributi hanno toccato il binomio giovani e lavoro. Le difficoltà dei giovani senza lavoro, o con un lavoro precario, e quindi impossibilitati a progettare il futuro ( da non sottovalutare l'aspetto previdenziale ), possono essere affrontate diffondendo la cultura del lavoro, in alternativa a quella del posto di lavoro, promuovendo il valore di ogni categoria di lavoro/lavoratori, incoraggiando a rischiare per costruire lavoro e combattere quindi il lavoro nero. Anche l'educazione al lavoro, la scuola, le scuole professionali, le esperienze lavorative, vanno valorizzate per superare il disorientamento di molti giovani sul tema del lavoro. b) Su alcuni aspetti del mondo del lavoro si sollecita una maggiore attenzione: all'imprenditoria, piccola e grande, dove è bene sollecitare i cristiani a mettersi al servizio della comunità; al variegato mondo degli immigrati; ai rapporti col mondo finanziario e politico; e infine al contesto nel quale viviamo, segnato dalla globalizzazione. c) Anche nell'ambito del lavoro, vediamo riaffiorare la questione di fondo, quella antropologica, poiché il mondo chiede alla Chiesa non tanto ricette da applicare alla società, ma la testimonianza del senso e del valore del lavoro per rendere più umana la vita delle persone e l'attenzione amorevole all'uomo nel mondo del lavoro. Si tratta di affrontare la questione sociale a partire dalla persona, confrontandosi con la vita concreta dei singoli e delle famiglie. d) E infine, vogliamo porre l'accento sul legame tra speranza, lavoro e festa. Sono emerse numerose proposte: - recuperare la dimensione relazionale della festa, anche con l'allestimento di spazi nelle parrocchie che permettano di vivere feste in comunità; - rendere le celebrazioni domenicali più vive, più accoglienti, adatte anche alle famiglie con bambini piccoli; - prendere in considerazione, negli orari delle celebrazioni, le esigenze di chi deve lavorare anche nella giornata festiva, e proporre che comunque almeno metà della giornata festiva sia libera; - tener conto degli spostamenti delle persone ( weekend, vacanze estive, domenica nel centro commerciale ) con una pastorale adeguata; - valorizzare le tradizioni popolari, rievangelizzare le feste patronali; - proporre ai cristiani stili sobri nelle feste relative ai sacramenti Un approccio pastorale integrato È necessario un nuovo slancio della pastorale su questi temi. L'azione pastorale non deve essere settoriale ma integrata, per mettere al centro veramente la persona, considerata nella sua interezza. Si propone di rendere più presenti i temi del lavoro e della festa nelle omelie, nella catechesi a ogni livello ( di parrocchie, movimenti e associazioni ); di valorizzare la Parola di Dio, il magistero e la dottrina sociale della Chiesa, per aiutare i laici a giudicare cristianamente la realtà. Gli itinerari formativi ed educativi ( oggi troppo disincarnati ) devono comprendere anche le questioni sociali, l'educazione alla legalità, alla dignità di ogni lavoro, e così riaffermare la centralità dell'educazione, che non prescinde dalla testimonianza ne dalle opere. È stato detto che compito della Chiesa è " annunciare ( la verità sull'uomo ), denunciare ( gli abusi ), accompagnare ( nell'azione ) ". Si propone ancora di favorire scuole di formazione sociopolitica, di mettere in rete su questi temi movimenti e associazioni, di promuovere incontri con sindacalisti, imprenditori e operatori del settore per far conoscere la dottrina sociale della Chiesa. Si tratta in fondo di testimoniare il " Vangelo del lavoro e del riposo "! L'evangelizzazione del mondo del lavoro è compito precipuo dei laici, come anche l'impegno in esso. Si tratta di ricercare una spiritualità realmente incarnata, che legga i segni dei tempi e i semi di speranza nel mondo del lavoro. È necessario valorizzare le competenze dei credenti laici, perché diano il loro contributo di testimonianza e rendano viva nella società la dottrina sociale; favorire il costituirsi di gruppi di laici che adottino il metodo del discernimento comunitario ( vedere, valutare, agire ) e che siano anche in grado di formarsi autonomamente, per poi contribuire alla catechesi delle comunità. Inoltre è importante non lasciar solo chi è impegnato nei vari livelli della vita sociale. Si suggerisce di promuovere stili di vita coerenti con il Vangelo: sobrietà e condivisione dei beni, investimenti etici, educazione all'uso del denaro, coerenza di vita, astensione dagli acquisti in giorno di festa come disobbedienza civile. Le politiche del lavoro devono tener conto della famiglia: per esempio, la possibilità di vivere insieme la domenica è spesso impedita dal lavoro di uno o entrambi i coniugi. Sono quindi da incoraggiare forme buone di flessibilità come il part-time ( per le donne in particolare ), e parimenti valorizzare l'apporto sociale del lavoro domestico. Anche favorire convenzioni per reinserire chi è espulso precocemente dal mondo del lavoro incide in maniera positiva sulle situazioni di disagio che oggi vivono molte famiglie. Poiché per i giovani il lavoro è momento privilegiato di scoperta della propria identità, essi devono essere aiutati a scegliere un percorso formativo coerente con le proprie aspirazioni, a conoscere il mondo del lavoro per entrarci in maniera consapevole, mentre vanno sostenuti nella difficile fase di ricerca della prima occupazione. Si tratta inoltre di promuovere delle opere: cooperative, ONLUS, collaborazioni fra Diocesi del nord e del sud ( riferimento al progetto Policoro ), reti che favoriscano l'incontro fra domanda e offerta di lavoro; creare uffici diocesani per aiutare gli immigrati a inserirsi nel mondo del lavoro e porre attenzione alle politiche in loro favore; valorizzare le esperienze in atto, che sono moltissime e valide, o eventualmente correggerle; stimolare a creare accordi di riqualificazióne professionale finalizzata alla riassunzione; sollecitare le imprese a pratiche virtuose, come il codice etico e il bilancio sociale; promuovere un tutoraggio nel lavoro per i giovani. Gruppo di studio 11 Ambito: lavoro e festa Sintesi dei lavori Moderatore: Edoardo Patriarca, insegnante, Carpi ( MO ) Segretario: Maria Pia Bertolucci, libera professionista, Capannori ( LU ) 17-18 ottobre 2006 Considerazioni generali Il contesto attuale di lavoro/festa è segnato da ambiguità e ambivalenza. Nella Bibbia il lavoro è fatica, ma anche concorso al progetto di Dio; il lavoro è risorsa, ma anche segnato da un rapporto difficile con il denaro; è gioia e al contempo frustrazione; è relazione fraterna con gli altri, ma anche relazione che abbrutisce e sfrutta. Così anche la festa: può essere contemplazione ma anche banale alienazione. Se crediamo nella risurrezione del Signore ci spetta il compito difficile e mai definitivo di ridurre queste ambiguità. Oggi i tempi della festa e del lavoro sono sempre più divergenti: è difficile conciliare i tempi dell'organizzazione del lavoro con quelli della vita familiare e personale. Anche tra i giovani si assiste a un rapporto problematico: con il lavoro pensato per " guadagnare denari " e con la festa vissuta talvolta all'insegna dello sballo. Come pure va tenuta presente la dimensione globale dei processi in atto. Cosa saranno domani la festa e il lavoro? Stiamo assistendo a trasformazioni profonde del lavoro e della festa e c'è da domandarsi se il lavoro sia ancora una dimensione fondativa per la vita dell'uomo. La troppa precarietà non limita la possibilità di costruire un progetto di vita? Nella traccia di ambito non si accenna alla disoccupazione ( nel sud in particolare ): ma senza lavoro come si può parlare di vita affettiva, di cittadinanza, di diritti sociali? Non proponiamo un'agenda sociale, ma vogliamo recuperare l'essenzialità della speranza cristiana e la dimensione antropologica. Festa e lavoro vanno incarnati nel quotidiano; essi non esistono senza l'uomo, senza la persona che fa il lavoro e vive la festa. In genere parliamo poco della comunità che lavora, della testimonianza e della possibilità che il lavoro diventi preghiera e speranza creativa. Come l'economia, l'impresa diventano luoghi della speranza nel Cristo risorto? Occorre far emergere la concezione del lavoro come continuazione dell'opera di Dio. Occorre agire sui modelli organizzativi del fare impresa coinvolgendo gli imprenditori e i lavoratori. Ricordiamoci che sono le persone che lavorano: devono essere accompagnate, seguite, ascoltate e orientale. Devono avere vicino una realtà cristiana che le capisce e offre loro opportunità. L'accostamento lavoro e festa è una grande novità, ma occorre rovesciare la prospettiva. È la festa della domenica che nei secoli ha cambiato la storia, che ha generato una nuova mentalità. La domenica è giorno della speranza perché è la festa che da valore alle relazioni umane; ma la domenica è anche il primo giorno di lavoro di Dio, il giorno in cui riceviamo, nella liturgia, l'azione salvifica di Dio. Invertendo il ragionamento emerge che è la festa, il giorno della gratuità e del dono, che " risuscita " il lavoro a servizio dell'edificazione della comunità. Va approfondita anche la dimensione del tempo. Il tempo è relazione con Dio e con gli altri: ma viviamo così il lavoro e la festa? L'uomo ritiene di aver soggiogato lo spazio, il tempo però non può essere dominato, sfugge al suo dominio e rischia di dominarlo. C'è disoccupazione nel sud, c'è il lavoro nero, il lavoro mal pagato, il lavoro precario-per-sempre. La Chiesa deve fare la denuncia che si fa per questo annuncio. Una Chiesa troppo cultuale, che non parla mai di dottrina sociale, appare lontana dalla vita delle persone. Insomma non possiamo rinunciare a stare dentro le prospettive della storia e della città dell'uomo. Infine, nelle nostre parrocchie dobbiamo cambiare qualcosa perché spesso non ci arriva la realtà della vita, perché siamo troppo chiusi in noi, talvolta formali e burocratici. La speranza dobbiamo portarla fuori, incontrare la gente, gli immigrati. Riflessioni sull'esperienza Occorre riprendere la prospettiva antropologica e rimettere al centro la persona. Abbiamo bisogno di alfabetizzarci e recuperare il senso profondo e cristiano delle parole festa/lavoro. Festa e lavoro sono dono di Dio: sentiamo in ciò un forte desiderio di speranza, di una visione integrale dell'uomo della festa e del lavoro, una dimensione che non può che essere circolare e unitaria, vissuta nella dimensione del dono. È altresì una questione culturale: sono in atto cambiamenti sociali profondi, la prassi di vita concreta spesso ci allontana dalla festa che diviene tempo libero da consumare. Come pure il lavoro immaginato come mero strumento per il consumo. Come vivere la dimensione della speranza in un tempo di frammentazione? Nel lavoro, come trasmettere il paradigma della parola dei talenti che significa competenza, dedizione, professionalità? E come attraversare il tempo della festa sotto il segno del dono e della gratuità? Come impedire che la precarietà distrugga le relazioni sociali e familiari? Sono stati troppo trascurati gli itinerari formativi: la Chiesa fa i documenti ma rimangono nelle librerie o nelle biblioteche; occorre una maggiore corresponsabilità tra laici e presbiteri. Abbiamo un grave ritardo e non siamo più allenati a correlare principi e stili di vita coerenti. Va rimessa al centro la dottrina sociale della Chiesa; dopo la pubblicazione del Compendio, il riassunto del Compendio, ormai l'argomento sembra esaurito: ma quanti laici lo conoscono, lo vivono testimoniandolo? Desideriamo una Chiesa più presente e più amica, capace di ascolto, capace di sintesi vitale tra dottrina sociale della Chiesa e lavoro/festa. Una presenza di qualità, con una pastorale e un racconto più vicini al mondo del lavoro. Riteniamo vada data particolare attenzione all'analisi sulle strutture di peccato: occorre inventare nuovi modelli organizzativi nel lavoro e nelle imprese più a misura di persona e famiglia. I temi della responsabilità sociale, della vocazione imprenditoriale, di un'economia più giusta e solidale possono divenire temi generatori per una pastorale e un'azione laicale segnata dalla speranza nel Cristo risorto. Un approccio pastorale integrato Riscoprire la vocazione come gusto di vivere, testimonianza e stili di vita, conversione pastorale che accolga il movimento della festa e del lavoro: essi sono i due fuochi dell'ellisse della vita cristiana. Riteniamo urgente una formazione mirata ai " risultati " in cui proporre la pluralità delle figure laicali, una teologia sociale che parte dall'educazione all'attualità e una proposta di stili di vita costruttori di reazioni umane autentiche. Una formazione concreta a partire dalla conoscenza del territorio. Più impegno delle aggregazioni laicali nell'educare allo spirito critico e un'attivazione di luoghi veri di discernimento comunitario. Una parrocchia che sta nel territorio diventa un laboratorio di discernimento sui temi della vita concreta illuminati dalla dottrina sociale della Chiesa. La liturgia domenicale deve significare la dimensione della festa e del lavoro, in essa si può sperimentare la conversione. La parrocchia infine stia sulla piazza e aiuti i giovani e le famiglie a vivere una dimensione possibile della festa. Una pastorale diocesana di ambito: sono auspicabili uffici pastorali più integrati, una pastorale e una catechesi che ascoltino e raccontino le persone nel lavoro. Una particolare attenzione andrà data al mondo degli immigrati: un impegno di solidarietà in compagnia con loro. Come pure andranno combattuti dalla comunità cristiana il caporalato, il lavoro malato, il lavoro mal pagato e sfruttato. Chiediamo una rinnovata attenzione al sud, una ripresa del documento Chiesa e mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà. Maggiore attenzione all'impresa, una realtà che può migliorare la qualità del territorio: etica dell'impresa, responsabilità sociale, sviluppo sostenibile sono temi che andranno affrontati anche nella comunità cristiana. Come per il lavoratore, non si può lasciare l'imprenditore da solo. Il progetto Policoro ( evangelizzazione, formazione, reciprocità nord-sud ) è un esempio di progetti che possono essere riproposti anche in altre zone del paese, come volano e occasione di incentivo. Anche i beni ecclesiastici sono un'opportunità per avviare con i giovani esperienze imprenditoriali e di impresa sociale. Infine dobbiamo farci attenti a una legislazione che aiuti la conciliazione dei tempi nella famiglia e invitare i credenti all'astensione dal consumo nel giorno della domenica. Vorremmo infine ricordare il lavoro prezioso in casa e la risorsa del " tempo pensionato ", che non sono lavoro a reddito economico ma hanno un enorme valore sociale e di valore aggiunto. Gruppo di studio 12 Ambito: lavoro e festa Sintesi dei lavori Moderatore: Michele Marchetti, direttore dell'Ufficio formazione, cultura, promozione e sviluppo del Centro Sportivo Italiano, Roma Segretario: don Grazio Francesco Piazza, professore stabile di teologia dogmatica alla Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia meridionale, sez. " San Luigi ", Napoli 17-18 ottobre 2006 1. Considerazioni generali 1.1. Analisi del contesto Le comunità ecclesiali vivono in maniera diffusa la fatica e il disagio di una relazione al contesto culturale non sempre sorretta da adeguata capacità di discernimento. È stata ribadita la necessità di una Chiesa che non si limiti a conservare l'esistente, alla semplice erogazione di servizi, ma che sappia raggiungere la vita delle persone. In tal senso, c'è bisogno di promuovere una più ampia corresponsabilità e di valorizzare il ruolo dei laici. Essa può svolgere, però, un ruolo pubblico, solo se non si riduce a essere un'eredità culturale del passato, ma è attualmente creduta e vissuta dalle persone concrete, nella sua verità e autenticità. Ciò implica la formazione di un laicato pronto a rilanciare in termini vissuti e concreti la tematica dei rapporti tra fede e ragione, capace di vivere la fede non in modo intimistico o spiritualistico, ma come testimonianza incisiva che si misura con i problemi del mondo alla luce del Vangelo. L'analisi e la narrazione delle esperienze ha delineato alcuni punti significativi: - notevole differenziazione socioeconomica tra nord e sud, pur nella comune e condivisa necessità di ripensare una rinnovata cultura del lavoro, soprattutto per i giovani; - necessità di superare una situazione diffusa dì precarietà e di disumanizzazione del lavoro e della festa; - marginalità " interrogante " di alcune categorie di disagiati ( stranieri, donne, giovani, anziani, disabili, carcerati … ), i quali faticano a trovare accoglienza e possibilità di vivere la loro esperienza di fede anche all'interno delle nostre Chiese; - perdita dell'univocità e della simmetria del rapporto tra cittadinanza e lavoro; - presenza di strutture di peccato ( criminalità, mafia, connivenza, sfruttamento del lavoro di quelle categorie di disagiati ecc. ) le quali impediscono una piena realizzazione dei tempi, dei luoghi e dei linguaggi del lavoro e della festa, cristianamente orientali; si tratta anche di liberare il lavoro per liberare il sud da quelle componenti che radicalizzano le precarietà e, attraverso la politica, diventano strumento di controllo del lavoro e, quindi, dell'uomo; - cultura del lavoro che fatica a essere elaborata e interiorizzata sia per l'emergenza della disoccupazione, sia per modelli lavorativi individualisti, arrivisti, esasperati … anch'essi non rispettosi dell'uomo, del primato della persona. 1.2. Premesse di fondo Alcune dimensioni fondamentali sembrano interpretare, in maniera più profonda e umanizzante, il lavoro e la festa: spazio, tempo e linguaggio. Esistono i ritmi/tempi del lavoro e della festa, così come occorrono i luoghi e spazi di relazione perché lavoro e festa possano realizzarsi nel rispetto dell'uomo e della donna. Sui linguaggi, le nostre Chiese appaiono in ritardo. Il richiamo alla popolarità richiede un adeguamento dei linguaggi al senso comune. In genere, il significato del lavoro e della festa è mutuato da quello che il linguaggio di tutti i giorni consegna; il desiderio, invece, è quello di esplicitare la novità e il valore aggiunto specifico del linguaggio della fede. Si definisce, così, un itinerario che parte dalla piazza, viene rivisitato - nel discernimento personale e comunitario della Parola e della comunione di vita - all'ombra del campanile, per poi tornare a provocare la piazza, con il valore aggiunto della fede. Appare necessario un accompagnamento mistagogico quale via essenziale dell'annuncio di fede e contesto di esperienza della festa come dono e gratitudine, attraverso un modello antropologico cristiano che faccia emergere la provocazione della speranza nelle situazioni di limite: accoglienza del limite e liberazione dalle limitazioni. Si tratta di tradurre nel vissuto dell'uomo l'esperienza del Risorto come consapevolezza di sé, sollecitudine verso l'altro, contribuendo alla costruzione di istituzioni giuste. Il contesto di questa speranza è espresso dalla carità ecclesiale come modello che ripropone la freschezza dell'ecclesiologia del Vaticano II. 1.3. Parole e temi Sono emersi parole e temi che richiedono elaborazioni e ulteriori approfondimenti: - la comunità come luogo di discernimento del rapporto lavoro e festa, perché chiamata a organizzarne, tutelarne e assicurarne: ritmi, tempi, spazi e luoghi, linguaggio e forme di comunicazione; - la formazione nei seminari su questi temi e sulle associazioni di riferimento che si occupano del lavoro, del tempo libero, dello sport, del turismo, in un'ottica di corresponsabilità organica e sostanziale dei laici aggregati; - la giustizia sociale, il giusto salario, l'etica sociale del lavoro, come orizzonti di sollecitazioni nei confronti del pubblico e del privato sociale. Si tratta di rilanciare gli elementi essenziali, l'alfabeto della dottrina sociale della Chiesa, come contenuti di specifica e mirata formazione dei laici e nei seminari. La Chiesa chiami lo Stato alle sue responsabilità e coinvolga i laici in un protagonismo non più rinviabile, proprio per dare braccia e gambe alle affermazioni di principio. 2. Riflessioni sull'esperienza Vi è ancora distanza tra mediazioni teologiche e dottrina sociale della Chiesa, segnata da un linguaggio troppo parenetico, negativo e poco propositivo, positivo e condiviso. La festa è così offerta come esperienza di risurrezione ed evento che riaccende le speranze, che riconcilia le relazioni, sviluppando il senso della carità ecclesiale, della gioia e della missione. La dimensione eucaristica della domenica, dono e compito, spinge a valorizzare il modello cristologico dell'incarnazione per fecondare il vissuto dell'uomo e in esso coltivare e costruire il lavoro come vocazione alla santificazione. Sono tanti, infatti, i segni di santità diffusa tra i laici, nella quotidianità del loro impegno nel mondo. La Chiesa si configura non come agenzia sociale, ma come istanza profetica, capace di difendere il valore e la verità dell'umano per tutti. Le nostre comunità siano percepite come casa accogliente dove ciascuno possa incontrare il Risorto. Da una pastorale di conservazione si approda a una pastorale missionaria e di primo annuncio, attraverso l'essenzializzazione della pastorale e una più ampia condivisione delle responsabilità. Il cammino della Chiesa sia cammino di popolo, che tutti raggiunge e tutti coinvolge. Solo persone formate al senso della Chiesa organica e differenziata, nutrite dall'ascolto della Parola e dalla celebrazione dei sacramenti possono diventare capaci di " traforare " il quotidiano superando la sua opacità. Occorre che la comunità si faccia carico di itinerari di primo annuncio e insieme di una catechesi permanente. Preziosa risulta in molti casi l'azione educativa di associazioni e movimenti che chiede di essere ulteriormente valorizzata e integrata nella vita della comunità ecclesiale, evitando percorsi paralleli. Educare è passione del possibile, è non rassegnarsi al presente, è speranza. E opportuno ritornare ai mezzi poveri e all'essenzialità del Vangelo, ridare centralità ai rapporti interpersonali e alla parrocchia, luogo povero per eccellenza, luogo ecclesiale concreto. Vi è un diffuso desiderio di liberarsi dalla sindrome di Emmaus. L'urgenza dei bisogni della città richiede un ritorno gioioso e convinto a Gerusalemme. Con questi rimandi fondativi, la comunità diviene luogo di condivisione delle problematiche e fonte di discernimento delle competenze e delle risorse del territorio, capace di anticipare e sperimentare, di porre creativamente stili e segni di speranza, contestando le strutture di peccato, dando risposte di senso alla profonda questione sociale che è rappresentata dall'urgenza educativa. 3. Un approccio pastorale integrato Lavoro e festa innestano proposte, percorsi, scelte e stili di vita che chiamano i cristiani a " mettersi in gioco ". Alcune linee prioritarie: - collegare i documenti scritti a un'azione sperimentale concreta, sollecitando filiere di cooperazione tra i movimenti e i livelli ecclesiali: connettere l'approfondimento e il riferimento dottrinale a una specifica e mirata promozione culturale; - rimettere in rete alcuni documenti, tra tutti Chiesa e meridione d'Italia. Educazione alla legalità, ancora attuali per i temi proposti e per i metodi enunciati; - favorire la diffusione tra i laici di una diaconia non solo liturgica, ma anche sociale e civile; - promuovere la conoscenza capillare della dottrina sociale della Chiesa nella catechesi, nell'omiletica, nella formazione di giovani e adulti, così che illumini situazioni personali e collettive nel territorio; - modellizzare progetti di intervento ( ad es. progetto Policoro, Barnaba, SPES ecc. ), da sperimentare nei diversi ambiti, anche rinnovando la sensibilità ecologica; - incrementare la formazione e la crescita di una sensibilità cristiana che porti all'animazione dei tempi e dei luoghi ordinariamente vissuti nella società civile: villaggi turistici, campi sportivi, fabbriche, luoghi dello svago; - evidenziare la responsabilità sociale delle imprese, soprattutto nel contesto cattolico, cercando di promuovere la buona prassi del bilancio sociale preventivo e non solo consuntivo; - pensare alla Chiesa - parrocchia come possibile sistema di generazione di impresa e di lavoro. Si tratta di promuovere, all'interno di reti significative costituite da associazioni, parrocchie e movimenti, quelle evidenze di prodotti e servizi che possano offrire nuove opportunità di lavoro ai giovani e a quelle categorie particolarmente svantaggiate nell'articolazione economica; si suggerisce di favorire la dimensione creativa del lavoro, stimolando l'autoimprenditorialità e il sistema cooperativistico; - rilanciare l'impegno concreto delle parrocchie, valorizzando quelle esperienze positive già vissute - colonie, oratori impegnati nell'animazione dei tempi e degli spazi dei più giovani, circoli ecc.; tra questi assume rilievo la cura del turismo religioso e dei pellegrinaggi; - formare all'identificazione e alla cura di nuovi luoghi e tempi del lavoro e della festa ( incluso internet ), nel tentativo di offrire spazi di socialità e di incontro; - diffondere la cultura dell'amore verso la festa e il lavoro per qualificare le professionalità e il suo valore testimoniale; - ricollocare al centro di queste attenzioni le famiglie come snodo decisivo, perché si riapproprino dei loro tempi di relazione interpersonale. La famiglia è la prima che offre luce particolare al lavoro e alla festa. Gruppo di studio 13 Ambito: fragilità Sintesi dei lavori Moderatore: Carmen Chiaramonte, direttore regionale dei centri di riabilitazione " La nostra famiglia ", Ostuni ( BR ) Segretario: don Giovanni Frausini, parroco, Fano ( PU ) 17-18 ottobre 2006 I sessione: " Condividere " Un primo punto emerso nella sessione " condivisione " è quello che riguarda le nostre fragilità come persone, come società e come Chiesa. Innanzitutto per dire che occorre guardarle come risorsa perché ci rendono simili a tutti, vicini a tutti. Diversamente il rischio evidenziato è quello di una Chiesa introversa, con una pastorale preoccupata della conservazione e non del servizio del mondo. Si è sottolineata l'importanza dell'esperienza personale e di quella che viene dalla condivisione della vita con i più poveri: è questa la condizione essenziale per poter comprenderne il significato profondo. Si tratta di vivere con fedeltà il rapporto con essi. Al contrario c'è una fuga dalla povertà, una sorta di " rimozione " della fragilità dal vissuto quotidiano. I fragili vengono messi da parte, dietro ai muri. Possiamo sollevare la pietra, pesante come quella del sepolcro, che nasconde e schiaccia i poveri. Le fragilità rendono più capaci di apertura per mettere al servizio di ogni uomo il nostro essere Chiesa esperta di umanità. Esse sono anche un'occasione per l'esercizio della speranza. Vanno considerate con attenzione quelle sociali, quelle educative e delle istituzioni. Fragilità che talvolta non fa ascoltare chi con difficoltà esprime il proprio disagio. Sono state poi elencate una serie di situazioni nelle quali è possibile individuare la fragilità: 1. I giovani ai quali manca il passaggio di conoscenza tra le diverse generazioni. Esiste il loro bisogno di essere ascoltati, di chi si prende cura di loro in un percorso esistenziale fatto con adulti maturi e disponibili. 2. I barboni: uomini che hanno perso il senso della vita. Occorre affiancarli e ridare loro il senso della vita e della speranza. 3. Chi tenta il suicidio. 4. Gli immigrati: occorre passare dall'accoglienza all'inserimento nel tessuto sociale del nostro paese aiutandoli a recuperare la loro dignità. 5. I preti che hanno abbandonato il ministero e sono stati ridotti allo stato laicale. 6. Chi vive situazioni matrimoniali " irregolari ". 7. Il rapporto con i mezzi di comunicazione sociale. 8. La solitudine di chi soffre e della sua famiglia, specialmente se la disabilità è psichica. 9. Le nostre strutture di carità, che spesso offrono aiuti senza cogliere le ragioni profonde che sono a monte del disagio. 10. Le famiglie povere dei propri diritti. 11. I bambini appena concepiti, quelli disabili, i maltrattati o i figli di famiglie problematiche. 12. I malati ( non solo fisici ) non sempre compresi e rispettati dal mondo della sanità, e non solo. 13. I morenti. 14. Chi non è stato mai amato e per questo magari è aggressivo e antipatico. 15. I carcerati. 16. Gli anziani negli istituti o soli. 17. I poveri. 18. Giovani satanisti, realtà molto presente anche in alcuni fenomeni musicali. È stato poi segnalato il rischio di allargare troppo la problematica della fragilità: occorre identificare gli ambiti prossimi alle nostre comunità. II sessione: " Elaborare " Il gruppo riconosce che solo se ci consideriamo fragili come Chiesa e persone possiamo comprenderne il significato e valore, perché la persona non è mai soltanto oggetto di un'azione ma sempre, soggetto che agisce ed è comunque protagonista della sua vita. La risposta della Chiesa alla fragilità sta nel riconoscere l'assoluto valore della persona umana nella sua comune fragilità dal concepimento alla sua fine naturale. La Chiesa non affronta soltanto un problema ma riconosce la dignità, il valore della persona in se stessa e nelle sue relazioni con gli altri e con Dio. Riconoscere quindi che esiste un bisogno di reciproco interesse e aiuto tra tutti gli uomini. Occorre quindi partire dal bisogno-diritto di ogni uomo. Riconoscere il diritto del malato alla relazione, del bambino alla famiglia, di tutti alla riservatezza per evitare l'emarginazione ecc. Per questo non è possibile delegare alcuni soltanto al servizio e all'incontro con i fragili, ma occorre recuperare la corresponsabilità di tutta la comunità che ascolta, celebra e ama. Sono emerse tre necessità per approfondire ulteriormente il tema: a) costituire un percorso fatto di ripensamento teologico ( siamo una comunità credente e non un servizio sociale ) nella logica di una teologia che si lega all'esperienza e alla vita dell'uomo; b) ripensare e valorizzare la dimensione educativa per incontrare e curare l'umanità ferita; c) vivere la dimensione pastorale ricercando le priorità e gli strumenti. Fare formazione alla carità non della struttura ma della relazione. Recuperare la gratuità dell'amore: fai strada ai poveri senza farti strada. Recuperare il " silenzio " nelle cose che facciamo ( non sappia la tua destra quello che fa la tua sinistra ) perché le strutture emarginano molte situazioni, per esempio i bambini. Ripensare l'idea delle opere di accoglienza nel rispetto di chi vive in esse, specialmente se ha relazioni abituali con l'esterno della comunità. Fragilità somma è il peccato. IlI sessione: " Proporre " La prima cosa proposta è il recupero di un'autentica spiritualità fondata sulla Parola, sul sacramento e sulla carità alla base di ogni pastorale. Così si fonda in Cristo la Chiesa che è nostra vera risorsa. L'esperienza del Risorto, vivo e presente in mezzo a noi, ci dona quella gioia che ci fa affrontare sereni e carichi di speranza anche le situazioni più difficili presenti nella nostra umanità. Potremmo racchiudere in tre mestieri le nostre proposte. Essere " maestri " Cioè educare all'antropologia cristiana ( visione dell'uomo che ha bisogno di tutti gli altri, nessuno escluso, e della relazione fondamentale con Dio ) a partire dalla Parola e dal sacramento, credendo nella potenza del Vangelo. Essere anche coscienza critica del mondo politico e legislativo che spesso dimentica i " poveri ". Denunciare le strutture di peccato ( imbrogli, ingiustizie ecc. ), anche con le nostre scelte personali. Essere " facchini " Cioè educare alla condivisione della vita, compresi gli affetti: ogni uomo non può restare solo, anche se il peso che porta è molto pesante. Il ruolo educativo della scuola cattolica anche nei confronti degli svantaggiati di ogni tipo. La " riabilitazione comunitaria ", cioè la ricerca nella comunità di tutte le possibilità presenti (competenze, disponibilità ecc. ) e con queste affrontare i problemi. Essere " ostetriche " Cioè domandarsi che cosa ciascuno di noi e le nostre comunità possiamo fare per quelli che incontriamo: diventare una comunità " grembo " che genera vita. Lamentarsi semplicemente di quello che non facciamo come persone o come comunità non basta, se non diventiamo capaci di far nascere intorno a noi realtà più belle per tutti. Si pensi anche, ad esempio, all'inserimento dei disabili nella vita delle nostre comunità cristiane. Far vivere tutti nella misericordia: questa parola dimenticata diventi una realtà evidente e piacevole ( occorre " nutellare " la misericordia ). Non aver paura della logica del lievito, un poco che fermenta tutto. Infine occorre ricordare che tutti i sacramenti cambiano la vita ma tre di questi prevedono, già nel rito stesso, un particolare coinvolgimento dell'esistenza dell'uomo. Essi sono il battesimo ( vedi RICA ), la riconciliazione ( con il momento terapeutico della soddisfazione ) e l'unzione degli infermi ( con il momento liturgico della visita e del conforto ). Sono tre sacramenti che riguardano le fragilità fondamentali dell'uomo: la morte, il peccato e la malattia. Questi sacramenti sono doni di Dio per vincere le nostre fragilità fondamentali, e la Chiesa ne è testimone e sacramento. Recuperare il valore in questo campo del diaconato come " diaconia della fragilità ". Concludiamo con un ricordo dell'incontro di San Francesco con il lebbroso: è cambiata la vita del lebbroso che si è sentito amato, ma è cambiata anche la vita di Francesco che ha abbracciato Cristo. Gruppo di studio 14 Ambito: fragilità Sintesi dei lavori Moderatore: Walter Nanni, ricercatore, Caritas italiana, Roma Segretario: Marina Casini, ricercatore di bioetica all'Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma 17-18 ottobre 2006 Condividere Affrontare il tema della fragilità ci porta a incontrare la realtà concreta di ogni esistenza umana e, come uomini e donne di speranza, a riconoscenze sempre e comunque - dal concepimento alla morte - quella dignità suprema e intrinseca che rende ogni essere umano sempre soggetto e mai oggetto, sempre fine e mai mezzo, sempre meritevole di attenzione e mai di emarginazione. Come è stato ricordato in un intervento, " è importante considerare ognuno come dono di Dio, ognuno ha in sé un progetto che Dio ha pensato per lui, soprattutto un progetto fatto della possibilità di dare e avere amore ". La fragilità è emersa anche come occasione di crescita e di solidarietà in un duplice senso: in alcuni casi è la scoperta del proprio limite che può spingere ad aprirsi su nuovi orizzonti di crescita umana, psicologica e spirituale. In altri casi sono le persone vulnerabili che possono aiutarci a ( ri ) scoprire il senso della vita attraverso la fragilità umana. Gli interventi si sono sostanzialmente articolati in due direzioni principali: da un lato sono stati evidenziati dei volti e delle situazioni trasversali di fragilità; dall'altro sono stati sottolineati dei temi di riflessione che hanno cercato di collegare il tema della fragilità ai contenuti emersi nel corso del Convegno e a vari aspetti della vita ecclesiale. I volti riconosciuti come fragili e dunque bisognosi della nostra presa in carico, anche in vista delle prospettive pastorali e delle proposte di lavoro, sono stati: - adolescenti vittime di una " cultura della scissione " che li espone a rapporti fragili e a pratiche abortive ( ivi compresa la pillola del giorno dopo ); - malati, sofferenti, morenti; disabili ( diversamente abili ); - gli esseri umani concepiti e non ancora nati che in nome della legge possono essere eliminati; - le donne sole di fronte a una gravidanza difficile o inattesa; - donne vittime della prostituzione; - donne che convivono con il dolore nascosto per una gravidanza interrotta; - i carcerati; - gli anziani emarginati e a rischio di esclusione maggiore a causa di una tecnologia sempre più avanzata; - le persone che vivono il dolore del lutto; - gli stranieri; - gli immigrati; - le vittime dell'usura; - i bambini in stato di abbandono, in attesa di essere riconosciuti e accolti come figli; - le coppie in difficoltà per una sterilità vissuta come negazione di una possibile fecondità; - i separati e i divorziati; - i nomadi; - i malati psichici; - i preti anziani. Le situazioni trasversali di fragilità riguardano: mito della perfezione fisica come fattore di fragilità, città come luogo di fragilità, fragilità delle relazioni umane. Elaborare 1. Legame tra fragilità e speranza: " La speranza cristiana trova legittimità se accetta di ascoltare e incontrare storie di ordinaria disperazione che affollano il nostro quotidiano. La speranza cristiana trova suoi autorevoli giudici nei disperati della terra. Quand'anche ci fosse uno Stato capace di affrontare le infinite fragilità dell'uomo, la Chiesa dovrebbe continuare a occuparsi dei disperati che sono il banco di prova, la cartina di tornasole della qualità del nostro essere testimoni di speranza " ( Manicardi ). Una delle più grosse fragilità è la perdita della speranza: " Farsi compagni di viaggio di ogni fragilità umana essendo profeti di speranza ". 2. Necessità di collegamento tra chi si occupa di fragilità; condivisione e ascolto della fragilità: " Ascoltare la testimonianza della vita dal letto della sofferenza ". 3. Necessità di costruire una spiritualità della fragilità. 4. Sviluppare percorsi formativo/educativi/catechistici. 5. Consapevolezza della fragilità nel senso del proprio limite e nel senso della conoscenza delle fragilità sul territorio. 6. Fragilità e nuova questione sociale: non va dimenticata l'attenzione al versante legislativo dove le fragilità possono essere aiutate o distrutte. Ad esempio, da più di trent'anni la legge sull'aborto distrugge fragilità, genera fragilità e toglie sensibilità alle coscienze. È in corso il dibattito sull'eutanasia in cui domina l'idea che in certe condizioni di malattia o di grave disabilità la vita non sia degna di essere vissuta. Occorre dunque promuovere un'autentica cultura della dignità di ogni essere umano: nessun fragile deve essere escluso per legge. 7. Osservazione e studio delle fragilità come momento propedeutico dell'intervento sociale: esempi di questo tipo possono essere gli osservatori sulle povertà e le risorse, attivi in alcune Diocesi italiane e che forniscono alle comunità locali le basi conoscitive per la programmazione sociale e pastorale. 8. Fragilità nelle risposte alla fragilità, nella Chiesa ( fragilità della vita consacrata, strutturali e relazionali e nell'invecchiamento e nel calo delle vocazioni ) e nella società civile, con particolare riguardo alla presenza di fragilità di serie A e di serie B ( alcune fragilità sono più avvertite e di conseguenza maggiormente prese in carico ). 9. Fragilità e questione antropologica, la questione antropologica si pone con forza là dove si discute se l'uomo sia uomo: nel momento in cui l'essere umano all'inizio della vita è così piccolo da essere quasi invisibile e quello in cui l'essere umano è così sfigurato dalla malattia da essere quasi irriconoscibile ( embrioni umani, malati inguaribili o in stato vegetativo ). Altri profili toccati dai lavori di gruppo: " spaccatura " tra laici e non laici, accesso ai sacramenti di alcune categorie fragili, accompagnamento dei familiari dei giovani che abbracciano la vita religiosa, fragilità di chi non ha obiettivi nella vita. Proposte 1) Formazione ed educazione In linea generale: necessità di un cammino formativo e motivazionale per offrire le ragioni della speranza e della solidarietà. Alcuni ambiti specifici di formazione sul tema della fragilità: - educare a vivere una fecondità accogliente pur nella sterilità; - diffondere la conoscenza dell' Evangelium vitae nei corsi in preparazione al matrimonio, nei seminari, negli incontri, nelle conferenze ecc.; - valorizzare la giornata ecclesiale per la vita ( prima domenica di febbraio ); - formazione ed educazione alla legalità e all'uso responsabile del denaro; - attenzione al percorso formativo dei giovani educatori e catechisti; - percorsi culturali di controinformazione culturale rispetto a messaggi scorretti; - promuovere la costituzione di luoghi e percorsi di formazione culturale, anche a favore di catechisti e insegnanti. 2) Spiritualità della fragilità - Sviluppare percorsi di catechesi per persone che per vari problemi di fragilità sono " fuori " dalla comunione ecclesiale ( es.: divorziati, separati, sacerdoti in difficoltà ecc. ); - sviluppare la capacità di elaborare situazioni di lutto in famiglia. 3) Condivisione e ascolto della fragilità - Valorizzazione del sacramento della riconciliazione favorendone l'accessibilità; - recuperare volontariato competente nelle parrocchie, da impiegare in servizi caratterizzati da elevata complessità/professionalità; - promuovere la nascita di centri di ascolto e laboratori di promozione parrocchiale specializzati sui vari temi della fragilità. Gli operatori di tali servizi dovrebbero disporre di una formazione completa: tecnica, umana, spirituale, anche per favorire una maggiore capacità di attenzione all'altro; - favorire la costituzione in ogni parrocchia di un gruppo di volontari in ambito sociosanitario; - sviluppare nei luoghi di assistenza e ascolto una modalità di farsi prossimo ispirata alla sensibilità femminile nell'accudire i fragili. 4) Necessità di collegamento tra chi si occupa di fragilità - Potenziare il coordinamento delle opere socioassistenziali in sede diocesana e regionale. 5) Fragilità nelle risposte, nella Chiesa e nella società civile - Necessità, per i movimenti e le associazioni ecclesiali, soprattutto per quelli che lavorano con determinate fragilità, di sentirsi accolti dalla Chiesa. È auspicabile una maggiore vicinanza delle Diocesi e delle comunità parrocchiali alle realtà sociali prese in carico da tali organizzazioni. 6) Altro - Individuare proposte per agevolare i giovani del meridione a trovare lavoro nel proprio territorio; - attenzione pastorale per persone che ritengono di aver bisogno di esorcismi; - valorizzare il laicato, anche attraverso un mandato diretto; - considerare i mezzi di comunicazione come possibile spazio di annuncio; - elaborare un documento sulla pastorale carceraria e creare una consulta cristiana ad hoc. Gruppo di studio 15 Ambito: fragilità Sintesi dei lavori Moderatore: don Silvio Barbaglia, docente di sacra Scrittura al Seminario diocesano di Novara Segretario: Nicolo Terminio, psicologo, Roma 17-18 ottobre 2006 Parte prima: condividere L'organizzazione degli interventi del primo confronto si è strutturata entro quattro prospettive. La prima, di matrice biblico - teologica, ha evidenziato che ogni persona rimane una " risorsa ", anche chi è socialmente più " condannabile ", in quanto icona dell'immagine di Dio. Dall'atteggiamento di Gesù con persone fragili e dall'avere egli stesso assunto la fragilità umana emerge chiaramente una prospettiva solidale di Dio con l'esperienza di fragilità umana. La seconda prospettiva attorno alla quale si è articolato il numero maggiore di interventi è quella pedagogico - pastorale, funzionale a mettere in luce anzitutto alcuni atteggiamenti di fondo come il valore dell'attesa, dell'autostima, del sapersi accettare e dell'accettare le sfide della fragilità, della perseveranza, dello " sporcarsi le mani " nella coscienza di essere " fragili in mezzo a fragili "; nasce la domanda: soggetti o destinatari di aiuto in stato di fragilità? Accanto agli atteggiamenti di fondo sono state riportate preoccupazioni tipiche delle varie " pastorali " con le quali viene declinata la sfida della fragilità: le preoccupazioni di chi lavora in una pastorale della sanità, di chi è nella pastorale famigliare, oppure dei sacerdoti in difficoltà, di chi si preoccupa della pastorale giovanile. La terza prospettiva ha voluto rimarcare l'urgenza di una relazione stretta e complementare con i soggetti presenti sul territorio, chiamati al servizio dell'uomo nella società e nell'impegno politico e amministrativo. In altre parole, la necessità di una pastorale d'insieme con realtà collegate agli enti locali, all'associazionismo per una collaborazione diretta con il civile per raggiungere obiettivi comuni e far fronte alle sfide delle nuove fragilità. Infine, la quarta dimensione ha ricoperto un valore trasversale. Si è trattato della sottolineatura di elementi di metodo sia nella prassi delle strutture della pastorale sovente inceppata al proprio interno, sia nella capacità di costruire un progetto che richieda l'ingresso di atteggiamenti spirituali, competenze pedagogiche, capacità di analisi culturali e abilità alla progettazione. Viene individuata così anche una forma di " fragilità delle nostre strutture pastorali " con un dispendio di energie umane e organizzative. Emerge anche la necessità di un lavoro di rete richiesto da più parti ma ancora troppo lontano dalla sensibilità media in ambito ecclesiale. Parte seconda: riflettere Nella seconda parte dell'itinerario funzionale ad approfondire alcune linee portanti sono stati sottolineati alcuni atteggiamenti di fondo della fragilità: anzitutto l'urgenza di accrescere la capacità di ascolto. Troppo spesso si fa esperienza di rifiuto, di indisponibilità all'accoglienza; tutto ciò appare come controtestimonianza e l'ambito della fragilità invita ad andare nella direzione di una possibile valorizzazione dell'esperienza dell'ascolto profondo. In secondo luogo, la dimensione della condivisione è apparsa una risorsa essenziale per rendere credibile un'azione di Chiesa che sappia stare in compagnia con la sofferenza e il dolore. La terza caratteristica è data dalla forza della riconciliazione e del perdono, risorsa fondamentale per celebrare la pasqua del Risorto, offerta di salvezza in questa nostra storia. La fragilità si trasforma in risorsa salvifica quando, toccata dalla forza del perdono, pone la persona faccia a faccia con il proprio limite creaturale, originario. L'umiltà con la sobrietà dei mezzi appare così un ulteriore atteggiamento basilare, per costruire una comunicazione significativa per una prassi di aiuto che parta dalla coscienza della propria fragilità al fine di offrire un aiuto in una prospettiva di gratuità. Quest'ultima è anch'essa cifra assolutamente primaria nell'illuminare il quadro sempre più ricco della fragilità che, così connotata, riveste la forma di una fragilità redenta, capace di annunciarsi nella gioia, quella di un'umanità salvata, redenta, risorta. Da questa costellazione potrà emergere quale sintesi di una riflessione sulla fragilità nella Chiesa una speranza per l'uomo, quella donata da Cristo stesso. Accanto a tali atteggiamenti per una prassi spirituale e pastorale della fragilità, il gruppo ha più volte ribadito due elementi nodali: quello della centralità della comunità cristiana quale soggetto di azione e la corrispettiva centralità dei poveri quali soggetti preferenziali per la prassi pastorale. Ma la scelta di esprimere le " povertà antiche e nuove entro la categoria di " fragilità " fa riflettere, in quanto obbliga ad ampliare il campo di comprensione di una realtà che troppo spesso è stata intesa e ristretta all'ambito socioassistenziale o della " carità ", quale aiuto materiale della Chiesa. C'è chi, provocatoriamente, ha detto che bisognerebbe " chiudere le Caritas ", divenute troppo spesso una forma di delega ufficiale da parte della Chiesa dell'esercizio della dimensione assolutamente universale della carità per ogni cristiano e per tutta la Chiesa. Questo andrebbe a contraddire la vocazione autentica della Caritas come era voluta da Papa Paolo VI. Parte terza: proporre In risposta parziale alle domande guida per i gruppi, l'attenzione è caduta su alcune indicazioni pratiche entro un approccio pastorale integrato. a) Anzitutto la proposta di rimettere autenticamente al centro della vita comunitaria ecclesiale la celebrazione eucaristica nel giorno del Signore, come " mistagogia ", come punto di attesa, di compimento e di slancio profetico del tempo della settimana in un recupero della festa e della pedagogia dell'anno liturgico. La " comunità eucaristica ", soggetto testimoniale richiamato dal documento per il decennio pastorale Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, assume, nella proposta, un ruolo centrale nel dare vita concreta a un'idea di comunità che nell'esperienza vissuta si raccoglie e celebra il mistero centrale della speranza. Senza dover inventare cose nuove, tale struttura, se ripensata, può facilitare l'azione di discernimento delle fragilità che abitano la comunità sul territorio. La preghiera, il confronto sulla Parola di Dio e la celebrazione divengono luoghi essenziali dell'esercizio del discernimento tipico della comunità ecclesiale, rispetto ai problemi della storia nel territorio in cui cresce la Chiesa. Alcune esperienze concrete in questa direzione sono state richiamate per favorire una progettazione in linea con la pedagogia già indicata dalla struttura dell'anno liturgico. b) Da qui l'urgenza della missionarietà nel concreto territorio della comunità cristiana in una testimonianza a contatto con i bisogni concreti di un'umanità sofferente. La proposta quindi di un'azione segnata dalla collaborazione e dalla cooperazione della comunità ecclesiale con i vari soggetti che sul territorio già operano a sostegno di situazioni di difficoltà. Il lavoro di rete tra i vari soggetti della comunità ecclesiale e la cooperazione con altre realtà della società civile, delle istituzioni e degli enti locali vanno pensati entro la prospettiva della sussidiarietà. Esempi raccolti da esperienze in atto documentano la positività di tale azione già intrapresa da più parti. c) La necessità della formazione è stata espressa nei termini del recupero delle istanze messe in atto dal progetto culturale della CEI. Anzitutto educare alla fragilità nei diversi cammini che già si attuano nella catechesi, dall'iniziazione cristiana alla preparazione al matrimonio. Quindi l'educazione alla sobrietà come stile della comunità ecclesiale. L'educazione al perdono a partire da esperienze e da celebrazioni comunitarie della penitenza quale risorsa profonda di speranza e, infine, l'esercizio del discernimento come luogo più alto della formazione della comunità cristiana. In questo contesto va collocato un richiamo all'educazione al volontariato nella sua forma autenticamente evangelica e socialmente utile, e quale luogo di proposta per le nuove generazioni. In concreto, la proposta dell'anno di volontariato sociale con alcuni mesi: offrire occasioni per sperimentare la forza generatrice della fragilità quale luogo fecondo per una via di pastorale giovanile. Gruppo di studio 16 Ambito: fragilità Sintesi dei lavori Moderatore: sr. Margherita Bramato, direttore generale dell'Ospedale-Ente ecclesiastico " Card. G. Panico ", Tricase ( LE ) Segretario: Roberto Nicolis, operatore sociale, Verona 17-18 ottobre 2006 Considerazioni generali Gli interventi hanno evidenziato i vari ambiti della fragilità: dal carcere alla tossicodipendenza, dai rapporti con chi è diverso o straniero alla fragilità delle relazioni affettive e psicologiche, al disagio giovanile, alla difficoltà di orientare la propria scelta di vita, alla disabilità, alla solitudine degli anziani, ai migranti, alla salute mentale, alla paura di un futuro incerto, al rispetto della dignità di fronte alla malattia e alla morte. Viviamo in una società che scarta molte vite, perché non utili al sistema socioeconomico, abbandonandole a un'esistenza di marginalità, disconoscendo di fatto diritti di cittadinanza e di tutela. La fragilità è presente nelle spaccature e divisioni della comunità a livello politico, amministrativo, ecclesiale. Emerge che la fragilità genera sofferenza e paura. Essa tocca trasversalmente tutta la vita di ogni persona, del sistema sociale e anche della Chiesa, la quale è chiamata ad aprirsi al territorio. La fragilità ci interpella, ci scuote e ci richiama: 1) a riconoscere e valorizzare i frammenti di umanità presenti in ogni persona fragile. La Chiesa deve raccogliere e ripartire a ricostruire, da questi frammenti, perché in essi è racchiusa l'immagine di Dio; 2) a una condivisione diretta che ci chiama ad accogliere nelle nostre famiglie, nelle comunità religiose e parrocchiali, le fragilità emergenti, anche quelle relative alla vita sacerdotale, superando la logica dell'istituzionalizzazione. E necessario passare dall'assistenza alla condivisione, perché chi lavora nella carità condivide; 3) a mettere in comune le esperienze e i carismi in un cammino di comunione, superando la frammentarietà della Chiesa. Come dice San Paolo, le membra che sembrano più fragili sono le più necessarie alla Chiesa, perché nell'esercizio della carità essa assume la coscienza di popolo di Dio; 4) a riconoscere la propria fragilità e la propria corresponsabilità nel rendere fragile la relazione. Fragilità che si manifesta nella coppia, nelle scelte di vita, compresa quella religiosa e sacerdotale; 5) a uno stile di vita sobrio, essenziale, umile e povero; 6) a cercare luoghi e tempi di ascolto per riuscire a intercettare le domande di fragilità non espresse; 7) a valorizzare la testimonianza di " pietre scartate " che diventano " pietre angolari " e sono per tutti segno di speranza; 8) a mettere in luce gli aspetti positivi nell'essere fragili: nella società civile la fragilità è un peso, nel Vangelo è una risorsa. Le persone fragili ci muovono alla solidarietà, alla fraternità. È la forza del debole. C'è un immenso tesoro racchiuso nella fragilità, che desidera essere condiviso superando l'autoreferenzialità. Una riflessione sull'esperienza La relazione con la fragilità - " L'arte della compassione ", che prevede il saper parlare e il saper tacere: farsi vicino a chi soffre significa mettersi in ascolto. - Ci mancano orecchie che sappiano ascoltare. Vivendo con i poveri vediamo il mondo capovolto. I poveri sono occasione di conversione. Imparare ad ascoltare il margine significa diventare ospiti. - Avvicinarsi non da padroni ma da " servitori ". Noi spesso deteniamo il potere su come, quando, quanto e se dare. Come ospiti scopriamo invece che ci sono anche delle ricchezze in chi è " povero ". - Valorizzare una fragilità è accoglierla al di là dei pregiudizi. Non è con le parole che si incontra ma facendo percepire " l'essere in comunione ". - Ascoltare significa anche " perdere tempo ". Nella comunità ecclesiale spesso siamo presi dai progetti e trascuriamo la fatica di ascoltare, di accogliere, di stare in presenza e attendere in silenzio. - Stile del servizio come criterio di riferimento. Stare accanto condividendo le reciproche fragilità. Passare dal curare al prendersi cura. - Non usare i poveri come " sgabello della propria vanagloria ". - L'educatore è un guaritore ferito. Per guarire la fragilità bisogna saper stare a fianco per lungo tempo non dispensando pillole occasionali. - Assumere la visuale di quelli che ricevono. - Riconoscere sempre il valore di ogni persona, perché contiene un frammento dell'immagine di Dio. La comunità incontra la fragilità - Se una comunità è sanante, perché quando una persona ha un problema prima esce dalla comunità per curarsi e poi vi rientra? - È la fragilità che ci fa incontrare e ci accomuna. È una risorsa per noi. - La comunità cristiana si nutre degli ultimi. Il cristiano ha bisogno di vedere che la casa di Dio è la casa del povero: la carità è un luogo di culto al quale tutti i cristiani sono chiamati. - La prospettiva escatologica è una ricerca che ci invita all'accoglienza. Gesù dice: tu, così come sei, sei prezioso per me! - Le persone fragili divengono occasioni di conversione, come Verbo che si fa carne e che ci invita a passare dall'individualismo alla comunità. L'ascolto della parola di una persona abbandonata che riconosce Dio come padre diventa per tutti una parabola. - Non possiamo pensare a sportelli del disagio all'interno delle Chiese. Dobbiamo essere presenze vere e continuative nei luoghi di aggregazione dei giovani. Passare dalla Chiesa dell'evento alla Chiesa della presenza costante. Educazione all'incontro con la fragilità - Non si può valorizzare una cosa che tentiamo sempre di nascondere. La formazione riguarda il modo di stare insieme. Educarci ad accogliere la fragilità dell'altro. Educazione come prassi. - Se la fragilità non viene accolta in famiglia, anche il giovane non si educa. - La fragilità va accolta, condivisa e custodita. Per questo c'è bisogno di formazione. I parroci e i seminaristi vanno sostenuti nelle fragilità. - Formarci alla scuola dell'Eucaristia e della Parola. Leggere la Parola di Dio " con gli occhi degli impoveriti ", per aiutarci a vivere uno stile di vita evangelico. - Diamo responsabilità ai giovani, non solo coccole! I nodi - La vita nascente viene attaccata in tutti i modi. Essere obiettori in un ambiente laico è molto difficile. C'è una grande solitudine ed emarginazione da parte degli operatori sanitari. C'è bisogno del sostegno della Chiesa. - I sacerdoti, i religiosi, i cappellani non fanno più direzione spirituale, non accostano più il malato. Le vocazioni mancano perché non c'è chi le coltiva. - Solitudine di chi opera nell'ambito della fragilità. - Valorizzare la dimensione culturale. Qual è la prospettiva antropologica alla quale veniamo educati? Il criterio è quello del " se non diventerete come bambini … ". - La Chiesa deve riconoscersi peccatrice, povera. - Non è solo la Chiesa che si occupa dei poveri. Come dialoghiamo con altre organizzazioni? - Di fronte al male commesso, quale risposta? Solo la punizione? Come la Chiesa vive il perdono? - Il seminario sta diventando troppo tecnico, si insegna a comunicare molto, ma non a guardare in faccia l'altro. Proposte Importante, dopo aver definito gli obiettivi, attuare delle verifiche di percorso nei prossimi dieci anni con appositi strumenti che consentano un'attenta analisi dei risultati. Sul " fare " - Utilizzare le strutture conventuali, religiose, parrocchiali che risultano vuote, cercando l'aiuto della provvidenza. - Come queste fragilità possono arrivare in parrocchia e aiutare il consiglio pastorale? Il consiglio pastorale per costruire lo " stato d'anime " della parrocchia. - L'accoglienza di un bambino che non è figlio educa tutta la famiglia. Le famiglie hanno paura di rischiare l'accoglienza: vanno aiutate e sostenute. - Aiutare le famiglie a farsi carico del malato fino alla fine. - Approfondire nuovi stili di vita legati al consumo critico, banca etica, commercio equo e solidale, economia di comunione. - Entro il 31 dicembre 2006 devono chiudere gli istituti: la Chiesa in Italia è disponibile a proporsi come famiglia di famiglie? - Portare in carcere i seminaristi o i parroci. - Presenza in ogni Diocesi di un luogo dove accogliere un detenuto in permesso. - Inserire nei siti delle Diocesi indicazioni per l'accoglienza di familiari degli ammalati provenienti da altre province. - Ogni parrocchia dovrebbe avere due diaconi a servizio della comunità, coordinando le attività caritative nella parrocchia. - Promuovere dibattiti culturali in sinergia con i servizi del territorio sulle questioni sociali. Sull'" essere " - Bisogna testimoniare e diffondere le esperienze e le buone prassi. - Far entrare nel proprio quotidiano lo stile dell'accoglienza e del servizio. - Richiamo alla sobrietà e povertà nello stile di vita dei presbiteri e dei Vescovi. - Cercare di essere più critici di fronte alla realtà. - Dove ci sono persone che vivono in fedeltà al Vangelo, là i giovani si sentono attirati. Sul metodo - Superare la risposta personale, lavorando in rete, anche con chi non crede. - Modificare il linguaggio per renderlo più accessibile. - Analisi dei problemi delle fragilità in Diocesi. Far sapere le realtà che sono presenti e che operano, cercando di coinvolgere le istituzioni sulle problematiche, dilatando la cittadinanza. - Progettualità rivolte a capire in modo condiviso qual è la vocazione della città. Ciò implica una sinergia di intenti, una nuova maturità a saper fare spazio all'altro, a lavorare in comunione con una progettualità culturale di ampio respiro. - Approfondire il dialogo pubblico - privato, Chiesa - istituzioni, uscendo dalle logiche di uso reciproco. - Presenza di figure professionali giovani in parrocchia che si facciano carico dell'animazione socioculturale coordinando le realtà esistenti, formando e coinvolgendo il mondo giovanile. - Superare un'organizzazione pastorale per settori. L'incontro con la fragilità ci spinge a costruire il dialogo fra i settori. - Cultura del villaggio: formare " dei responsabili di via ", che hanno relazione diretta con le persone che vi abitano e con i loro bisogni. - " Scuole di carità " trasversali dedicate a movimenti, associazioni, realtà ecclesiali rivolte soprattutto ai giovani. - La Caritas non dovrebbe occuparsi tanto della gestione diretta di opere quanto della promozione di una cultura che sappia mettere in rete le risorse delle parrocchie, degli enti religiosi con le istituzioni del territorio in relazione ai bisogni emergenti. Le frontiere della fragilità - Superare la categorizzazione della fragilità in relazione al bisogno e accedere alla categoria del desiderio, come " nostalgia del non espresso ". Fragilità immateriali che generano quelle materiali. - Pastorale dei Rom, quanti la conoscono? - Riammettere all'Eucaristia i separati e i divorziati, dopo un cammino penitenziale. - Costituire in ogni Diocesi una commissione per il mondo penale, promuovendo l'accoglienza alle vittime e alle loro famiglie, attraverso progetti conciliativi. - La peggiore delle famiglie è la migliore delle convivenze. Bisogna investire sulla famiglia. - Fragilità spirituale e di comunicazione. - Unire le famiglie come famiglia allargata, una comunità di famiglie che sa accogliere altre fragilità. - La vita religiosa non come gestione diretta di opere, ma come apertura agli ultimi. Gruppo di studio 17 Ambito: fragilità Sintesi dei lavori Moderatore: Carlo Cirotto, professore ordinario di citologia e istologia all'Università degli studi di Perugia Segretario: Simone D'Agostino, professore incaricato associato di metafìsica e semiotica alla Pontificia Università Gregoriana, Roma 17-18 ottobre 2006 1. Considerazioni generali In generale le fragilità richiedono tre azioni: ascoltare, curare, trasformare. Vediamole nel dettaglio. Le fragilità non sono spontaneamente percepite e riconosciute. Occorre anzitutto mettersi in ascolto di esse, chiamarle per nome, intercettarle nei luoghi dove si rendono presenti o a volte restano nascoste: alcune infatti sono ben note e di immediata presenza, altre invece restano ignote, nonostante i nostri sforzi di identificarle. Si va dalle fragilità materiali, spesso le più semplici da incontrare, alle psicologiche e culturali - che si acquisiscono nel corso della vita - alle fragilità spirituali - quelle delle comunità ecclesiali, della pastorale - e vocazionali - quelle del ministero ordinato, della vita consacrata, del matrimonio - alle fragilità morali e relazionali che nascono nel contesto di " vita frammentata " che circonda ognuno di noi. Intese come limiti e soprattutto come privazioni, le fragilità ci muovono alla loro cura, promozione, educazione, capaci di mettere in moto un primo processo di conversione del negativo in positivo. È qui che avviene l'incontro tra le fragilità, un incontro nel quale chi ospita si sperimenta ospitato, chi aiuta si sente aiutato. Questa esperienza di reciprocità scambievole, di economia d'incontro, mette in discussione il modello sociale e individuale della delega della cura delle fragilità a specialisti ed esperti di settore. Le fragilità costituiscono a tutti gli effetti un terreno condiviso, un denominatore comune che tocca tutti, lungo tutta la vita. Tale substrato permette di instaurare relazioni anche tra coloro che appartengono a tipologie e ambiti diversi. Tale universalità della fragilità non va a scapito della singolarità della persona: proprio le fragilità sono ciò che massimamente identifica il singolo, che gli da un nome, un volto che riconosce ed è riconosciuto, una compagnia e un rapporto amoroso. La fragilità assume finalmente i connotati di un dono, di un'opportunità, spesso anche di una sfida, capaci di " trasformare le ferite in feritoie ": lacerazioni dolorose in varchi di amore e di grazia. 2. Una riflessione sull'esperienza Le fragilità, per quella loro peculiare natura trasversale chiaramente emersa nelle considerazioni generali, esigono da noi un atteggiamento, uno stile, un modo di procedere attento al comunicare, al far comunione, al " mettere in rete ". Le fragilità così intersecano tutti gli ambiti ( vita affettiva, lavoro e festa, tradizione, cittadinanza ) e ci spingono a stabilire contatti e relazioni tra essi. La comunicazione non si accontenta di constatare dati di fatto, ma spinge ad approfondire, a " render ragione " delle cause, dei perché delle fragilità. Comunicare mette in atto l'economia di incontro delle fragilità, in quanto comporta sempre una trasformazione sia in colui che riceve che in colui che dà. Comunicare apre verso gli altri e non esclude persino la denuncia pubblica ( usura, mafia, tratta ). Non può dirsi che una società si prenda carico pienamente delle fragilità fintanto che ne delega a un proprio specifico settore l'intervento necessario. Ecco perché è la comunità in quanto soggetto a dover ascoltare e curare le fragilità: comunità locale, ecclesiale, civile. La comunità si definisce anzitutto per la sua capacità di comunicare al proprio interno; da ciò infatti sono determinate le sue caratteristiche intrinseche. Solo sulla base di tale comunicazione interna, poi, è possibile attuare un'adeguata comunicazione verso l'esterno. Il comunicare le fragilità all'interno della comunità si configura spesso come un collegare in rete nodi già esistenti e operanti: nodi nei quali le diverse fragilità di fatto già convergono ( scuola, oratorio, Caritas ) sebbene isolatamente. Anche nell'orizzonte più vasto della società civile italiana, il nord e il sud, attualmente separati, possono essere utilmente collegati mediante le loro stesse fragilità. Mettere in rete fragilità diverse, infatti, non le somma ma le compensa. In Italia, eclatante esempio di voluto isolamento è la mafia, il cui aumento di violenza è sintomo dell'aumento della sua fragilità. 3. Un approccio pastorale integrato Tra le proposte di azione pastorale capaci di incarnare concretamente l'esigenza di comunicazione, comunità e messa in rete delle fragilità, ne cogliamo in particolar modo tre: cammini di perdono, integrazione e fragilità, segni visibili. La Chiesa, come Maria a Cana, si accorge con sollecitudine dei bisogni dei suoi figli e li accoglie maternamente. Il suo atteggiamento verso le loro fragilità non può essere, quindi, che l'avviare cammini di perdono: nei confronti della malavita organizzata, che dietro la sua dura maschera di onorabilità nasconde abissi di fragilità; nei confronti dei suoi figli, che pagano i propri errori in carcere; nei confronti dei divorziati risposati, che aspirano a essere riammessi nella comunità. Cammini differenziati secondo le esigenze dei singoli casi e che richiedono perciò di essere accompagnati dal discernimento dei pastori. La pastorale integrata trova proprio nelle fragilità una ragione profonda del suo essere. Le fragilità, infatti, fanno emergere dalla natura profonda della persona la necessità di essere integrate con il tutto della vita affettiva e relazionale. In tal modo si coglie come la pastorale integrata non sia tanto una qualche strategia pastorale, quanto piuttosto la risposta a un'esigenza radicale dell'uomo. Una vera pastorale integrata non può perciò non mettere gli ultimi al primo posto e manifestare apertamente la propria opzione preferenziale per i poveri. Si coglie anche il bisogno di allargare la pastorale in modo che ci sia in ogni Diocesi un contatto tra le associazioni: ritessendo le reti già esistenti o creandone delle nuove laddove manchino, soprattutto in ragione della frammentazione del contesto in cui viviamo e operiamo. Di questa preferenza è necessario che siano posti segni visibili, strutturati e unitari che manifestino la sollecitudine verso la fragilità, non solo nella Chiesa, intesa come spazio ecclesiale, ma anche e soprattutto da parte della Chiesa, ovvero con quello stile e modo di procedere che le è proprio. Tra i segni visibili della compassione della Chiesa per i suoi figli andrebbero valorizzati anzitutto quelli sacramentali: della penitenza e riconciliazione, nonché dell'unzione degli infermi, sempre tenendo presente che è l'Eucaristia il luogo sacramentale in cui il credente sperimenta anzitutto il perdono e la comunione. Gruppo di studio 18 Ambito: fragilità Sintesi dei lavori Moderatore: Emanuela e Paolo Marchionni, medici, Pesaro Segretario: sr. Elena Pacini, religiosa, Roma 17-18 ottobre 2006 Considerazioni generali Nel contesto culturale odierno la riflessione sul tema ha portato il gruppo a constatare che la fragilità ontologica ( creaturale ) è la condizione di base della persona umana e di per sé non è negativa. Il gruppo ha sottolineato con particolare attenzione il tema della fragilità come risorsa, che è tale nella misura in cui l'azione della Chiesa non si riduce soltanto a una risposta operativa, ma si impegna a dare senso alla fragilità stessa; soltanto così essa diventa opportunità, " trampolino di lancio " per vivere in pienezza la propria vocazione e identità cristiana. Ci si è soffermati poi sulle fragilità della Chiesa evidenziando in particolare alcune debolezze della testimonianza della comunità cristiana, con particolare riferimento ad alcuni ambiti specifici ( per esempio i carcerati e gli immigrati ): sembra che si attui un'azione di " delega " nei confronti di alcuni gruppi di impegno " specializzato ", senza la condivisione e la partecipazione di tutta la comunità. Una fragilità intrinseca alla Chiesa è legata poi alla difficoltà di lavorare insieme tra movimenti, gruppi, associazioni, parrocchie, per condividere scelte, azioni e modalità di lavoro. Sono state sottolineate con particolare interesse le seguenti aree di fragilità, ovviamente derivate dall'impegno e dalla testimonianza dei partecipanti al lavoro di gruppo: - fragilità della relazione: la fragilità attraversa ogni tipo di relazione ( il rapporto fra gli sposi, il rapporto della madre con il figlio nascituro, quello tra genitori e figli, tra educatori e giovani, tra gerarchia e laicato ecc. ); - fragilità dei giovani, che si esprime: come condizione di frammentarietà, come bisogno di ricerca del senso della vita; nella precarietà del lavoro, che rende difficile scelte di stabilità affettiva e familiare; nella problematica dei figli di genitori separati o divorziati, che spesso rischiano di diventare " ostaggi " per la definizione di questioni legali; nell'influenza del mondo delle "mode" e della televisione; nella questione dell'interruzione di gravidanza da parte di donne giovani e anche adolescenti; nell'esperienza della tossicodipendenza e della devianza giovanile; - fragilità della famiglia, che emerge in particolare nell'esperienza di solitudine nelle scelte educative, economiche, assistenziali ecc.; nel carico di " lavoro " familiare che grava ancora prevalentemente sulla donna; nel problema dei figli disabili, compreso il " dopo di noi "; nell'assistenza dei malati gravi all'interno della famiglia stessa; nella questione dei divorziati e della loro partecipazione alla vita della Chiesa; - fragilità degli anziani; - fragilità della condizione femminile, strettamente collegata con il tema della tutela della vita nascente e degli attacchi contro di essa ( aborto chirurgico e medico, tecnologie riproduttive, solitudine delle donne che " scelgono " l'aborto ); - fragilità della condizione di malattia, con particolare riguardo ai malati inguaribili, per i quali si è rilevato mancare un'adeguata promozione della cultura dell'accompagnamento del malato verso la fine della vita, anche in prospettiva escatologica; - fragilità della condizione dei carcerati e delle loro famiglie; - fragilità e ingiustizia sociale, spesso legata a pregiudizi, che la speranza cristiana deve debellare; - fragilità e immigrazione, con particolare riguardo alla necessità non solo di affrontare la contingenza dell'accoglienza, ma creare le condizioni per una reale convivenza duratura nel tempo; - fragilità culturale, determinata dal contesto culturale debole e dall'assenza di valori etici, religiosi ecc. Una riflessione sull'esperienza È stata sottolineata la necessità di una vicinanza, di una prossimità anche silenziosa, soprattutto negli ambiti legati alle fragilità giovanile e dei malati, che sia capace di ascolto attento e di condivisione, per attribuire a essa il suo senso più autentico. È chiesto inoltre un impegno particolare per i carcerati e le loro famiglie, per consentire il loro reinserimento nel tessuto sociale ed ecclesiale. È emersa poi l'urgenza di sensibilizzare la comunità ecclesiale alla riflessione e all'azione pastorale circa le situazioni di ingiustizia sociale, a partire dagli attacchi contro la vita nascente, e in particolare la piaga dell'aborto, fino alla denuncia dello sfruttamento del lavoro minorile e del lavoro nero. È necessario che la comunità cristiana si interroghi sulla coerenza della testimonianza in questi ambiti, in particolare mediante l'obiezione di coscienza, reale e non di comodo. Infine, con molta forza e grande condivisione, si è manifestata la necessità di una seria formazione di base di tutta la Chiesa ( sacerdoti, religiosi e religiose, laicato ), che porti a una coscienza e a una fede matura. Soltanto in un secondo tempo diventa necessario attuare una formazione " specifica " per evitare improvvisazioni e facilonerie. Si tratta di attuare un sistema di formazione permanente anche sui temi della dottrina sociale e della bioetica, per la preparazione di laici che, attraverso l'impegno politico diretto, possano attuare interventi che rispettino e promuovano la dignità della persona umana. A fondamento di questa formazione sta il recupero dell'antropologia cristiana, e quindi del modello cristologico: in Gesù, Dio si è incarnato, ha assunto la debolezza umana, le ha dato senso e l'ha redenta: le piaghe del Risorto sono piaghe gloriose, da segni di sofferenza sono trasformate in segni di speranza. La formazione deve aiutare la comunità cristiana ad abbracciare la fragilità propria e altrui, a confrontarsi seriamente con la Parola di Dio, a superare la tentazione di assistenzialismo per impegnarsi a ridare dignità alla persona umana, a favorire e condividere il lavoro assieme, a diffondere una reale cultura del perdono, che sappia mantenere il giudizio negativo sul peccato, aprendosi alla misericordia verso il peccatore. Va evitato il pericolo di assumere il ruolo pur lodevole di " operatori sociali ", ma va riaffermata la specificità della proposta cristiana: siamo Chiesa che porta la carità di Cristo, speranza del mondo! Infine è necessario creare occasioni di condivisione e di dialogo anche con chi non crede o appartiene ad altre confessioni, per un lavoro comune nella città degli uomini. Un approccio pastorale integrato Premesso che nella riflessione condivisa il gruppo ha sottolineato la necessità di superare l'azione pastorale secondo la logica " di settore ", ribadendo l'esigenza di un dialogo anche all'interno degli uffici pastorali, le proposte pastorali riguardano prevalentemente l'ambito della famiglia e dei giovani. Sul primo tema, viene sottolineata l'urgenza di realizzare " luoghi " di aiuto alla famiglia, anche con modalità diverse da quelle classiche ( consultori, centri famiglia, centri di aiuto alla vita ), peraltro non ancora presenti in tutte le Diocesi. Occorre promuovere realtà di accompagnamento e di sostegno alle famiglie, e in particolare alle giovani coppie, spesso " abbandonate " dopo i corsi prematrimoniali. È opportuno a tale fine formare le famiglie stesse al reciproco aiuto. Una particolare attenzione, all'interno di questo campo, andrà riservata alle donne, soprattutto alle straniere, a quelle che hanno subito violenza e a coloro che hanno vissuto la tragedia dell'aborto. Rispetto alla tematica dei giovani, alla comunità cristiana è chiesto un rinnovato impegno per educarli alla responsabilità e al senso del sacrificio, mettendoli a contatto e a servizio delle fragilità altrui, per aiutarli a vivere consapevolmente anche le proprie difficoltà, che gli adulti tendono invece a rimuovere. La comunità cristiana può inserirsi inoltre nel mondo della scuola con progetti formativi specifici, oggi consentiti dall'autonomia scolastica, che dovranno essere affidati a laici qualificati. Infine la proposta formativa dei giovani passa anche attraverso l'esperienza del volontariato, di cui vanno riproposti i caratteri di gratuità, continuità e " professionalità ". Gruppo di studio 19 Ambito: tradizione Sintesi dei lavori Moderatore: fr. Enzo Biemmi, religioso, Verona Segretario: Chiara Michelini, dirigente scolastico, San Ippolito ( PU ) 17-18 ottobre 2006 A. Condividere La riflessione si è sviluppata a partire dalle relazioni ascoltate nella giornata. Alcuni componenti hanno espresso rilievi critici nei riguardi della relazione di ambito. Il gruppo ha espresso l'esigenza di interpretare la traditio nei suoi due versanti costitutivi e non disgiungibili: quello della fedeltà al deposito della fede, così come ci è giunto dalla testimonianza ecclesiale, e quello dell'esperienza di vita cristiana, che essa genera continuamente. Sul primo versante il gruppo ha fortemente sottolineato che non c'è traditio senza ascolto della Parola da parte della comunità ecclesiale, chiamata a fondare e rifondare continuamente su di essa la propria identità. Sul secondo versante il gruppo ha evidenziato che la traditio non è da intendere primariamente come comunicazione intellettuale e razionale, ma come porre in essere le condizioni perché si possa fare esperienza della Parola. A partire da questa consapevolezza il gruppo ha fatto emergere la necessità di assumere pienamente l'esigenza della mediazione culturale e, in essa, della coniugazione coerente degli strumenti, dei linguaggi e dei mezzi, rispetto agli scopi, ai valori, alle finalità. Soggetto della traditio così intesa è la comunità ecclesiale nel suo insieme. In particolare viene ribadito: - il ruolo fondamentale della famiglia, oggi così fragile ed esposta, ma pur sempre luogo primario di educazione alla fede e di trasmissione di valori; - la comunità civile con le sue tradizioni e le sue contraddizioni; - i laici e in particolare il ruolo fondamentale delle donne nella custodia e nella trasmissione della fede. Il luogo in cui la comunità è chiamata a esprimere il suo mandato è il mondo, non il tempio, il mondo della quotidianità, della ferialità, ma anche il mondo di cui il gruppo coglie le domande pressanti e le emergenze. In particolare vengono ripetutamente evocati i temi dei giovani, della disgregazione familiare, delle migrazioni. Entro questo orizzonte il gruppo ha indicato la necessità di recuperare l'ispirazione del piano pastorale Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia e dei documenti successivi sulla parrocchia dal volto missionario, sul primo annuncio e le tre note sull'iniziazione cristiana. Tale ispirazione ci chiede una nuova capacità di implantatio evangelii nell'attuale cultura. La traditio, al di là delle sue forme, dei suoi linguaggi e dei suoi metodi, esprime fondamentalmente un'autentica passione per l'uomo e la donna di oggi e si traduce in una incessante cura educativa. B. Elaborare Nella seconda sessione di lavoro il gruppo si è lasciato interrogare da una domanda: " Il grembo materno della Chiesa è sterile o è ancor fecondo? ". Nella ricerca della risposta è maturata la consapevolezza che la vita è già presente nel mondo per l'azione della Grazia. La Chiesa è chiamata a riconoscere i semi del Verbo presenti nella storia, in ogni uomo, in ogni donna e in ogni cultura. La traditio della Chiesa si configura, perciò, come un " e-ducare ", cioè come un servizio all'azione della grazia che agisce in tutte le persone e in tutti i contesti di vita. Questo implica tre dimensioni fondamentali della traditio cristiana. 1. Biblico - teologica Perché il richiamo alla Parola di Dio non diventi un riferimento puramente teorico, è necessario ricordare che essa è anzitutto da intendere come relazione stabilita da Dio Padre con noi, attraverso il Figlio suo, la Parola fatta carne. È a questa relazione che la traditio cristiana introduce ed educa. Ciò richiede un cammino serio di formazione biblico - teologica permanente sia da parte dei laici ( non solo quelli addetti ai lavori ), sia dei presbiteri. 2. Antropologico - culturale La mediazione culturale della traditio cristiana chiede fedeltà all'ispirazione della Gaudium et spes e, in essa, della lettura del rapporto di reciprocità Chiesa - mondo: la Chiesa ha molto da dare e molto da ricevere. Ciò comporta un atteggiamento positivo nei confronti del tempo che viviamo e di cui condividiamo aspirazioni e contraddizioni. La Chiesa è così chiamata a essere popolo di Dio essendo nel mondo, non di fronte al mondo. Allo stesso tempo essa è consapevole di essere depositarla del dono del Vangelo, chiamata a testimoniarlo sia in modo silenzioso, attraverso la santità della sua vita, sia nelle forme esplicite e intellettualmente espresse. Questa duplice testimonianza, esplicita e implicita, dovrà saper parlare i linguaggi comprensibili a tutti e in tutti i contesti, manifestando così il suo carattere popolare autentico. L'atteggiamento positivo nei riguardi della storia che viviamo aiuta la Chiesa a evitare il rischio dall'autoreferenzialità, e a considerare la pluralità delle culture e dei contesti come dono di Dio, che chiede il discernimento, vale a dire la capacità di riconoscere il suo agire dentro ogni uomo, ogni donna e ogni cultura. Va infine ricordato come la testimonianza del Vangelo è opera di tutta la comunità, in quello spirito di comunione e di corresponsabilità richiamato dalla Lumen gentium, tramite la valorizzazione di tutti i carismi e ministeri. 3. Pastorale - educativa Sul piano pastorale ed educativo la traditio cristiana si presenta fondamentalmente come una relazione di prossimità, in cui farsi carico delle persone in tutti gli aspetti della loro umanità, dal corpo all'interiorità, superando le fratture tra intellettuale, affettivo ed esperienziale. Tutto questo comporta di proseguire nel rinnovamento della catechesi italiana, in particolare per quanto riguarda l'iniziazione cristiana e la catechesi degli adulti, recuperando il carattere esperienziale, catecumenale e mistagogico della traditio cristiana. Linguaggio, metodi e contenuti della catechesi sapranno intercettare i problemi, le domande e le aspirazioni degli uomini e delle donne di oggi. C. Proporre Interrogandosi sul compito ecclesiale della traditio il gruppo ha sentito la necessità di individuare i criteri che orientino le scelte per una pastorale che sia: - incarnata ( attenta al contesto e capace di considerare i soggetti, non come meri recettori, ma come luogo teologico in cui la Parola prende carne ); - ordinaria ( in grado di mostrare l'incidenza della fede nelle esperienze quotidiane della vita ); - laicale ( capace di riscoprire l'indole secolare della Chiesa ). Le proposte relative al nostro ambito sono state raccolte attorno a una serie di priorità. 1. La scelta dei poveri. Chiediamo che la nostra Chiesa sia in grado di ascoltarli più che servirli, considerandoli non come oggetto di carità, ma come soggetto ecclesiale, portatore di una Parola di Dio. 2. I disagi emergenti. Accanto ai poveri sono state evocate le numerose e molteplici situazioni di disagio vissute dagli uomini e dalle donne del nostro tempo: la solitudine, l'affettività ferita o carente, la fatica della ricerca di senso per le giovani generazioni nella società ipercomplessa, la famiglia disgregata e sola. 3. La scuola e gli ambienti di cultura. Si chiede di valorizzare e sostenere il grande impegno educativo che molti cristiani spendono nella scuola, sia essa pubblica, sia essa cattolica. La scuola infatti appare come luogo trasversale delle grandi dimensioni della vita umana: degli affetti, delle fragilità, del lavoro e della festa, di tradizione e di cultura, di cittadinanza. In particolare occorre farsi attenti alle forme di disagio che in essa emergono. 4. La parrocchia. Essa rimane casa e scuola di comunione, nella quale sono chiamate a incontrarsi tutte le realtà ecclesiali, per un progetto pastorale integrato. 5. Il rinnovamento della catechesi in prospettiva missionaria. Tenendo conto del cambiamento culturale occorre che la catechesi italiana riprenda il suo progetto iniziale, formulato nei catechismi della CEI, imprimendo una trasformazione in chiave missionaria che passi dalla fede supposta alla fede proposta. In questa prospettiva sono da recuperare la dimensione catecumenale, il primo annuncio e la valorizzazione della religiosità popolare, anche in chiave interreligiosa e interculturale. 6. Il cambiamento del linguaggio e dei modi. Occorre raggiungere gli uomini e le donne del nostro tempo parlando loro con un linguaggio a essi familiare e comprensibile. In quest'ottica va dato maggiore rilievo al linguaggio dei media. 7. L'impegno dei laici negli ambienti di vita. Si ritiene fondamentale per il compito della traditio cristiana che venga incoraggiato e sostenuto l'impegno laicale quotidiano, in particolare quello di quanti sono nella scuola, nell'università e nella vita politica. Per questo motivo è centrale la formazione degli educatori. Gruppo di studio 20 Ambito: tradizione Sintesi dei lavori Moderatore: Ruggero Eugeni, professore straordinario di semiotica dei media all'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Segretario: don Ugo Dovere, professore di storia della Chiesa all'Università degli studi " Suor Orsola Benincasa ", Napoli 17-18 ottobre 2006 1. Considerazioni generali Il termine " tradizione " è dotato di dimensioni differenti, che tuttavia devono essere pensate congiuntamente. La tradizione è insieme oggetto e processo, deposito ed esperienza: i suoi contenuti non sono indipendenti dai processi che li trasmettono. Essa è patrimonio della Chiesa ma anche dinamica propria di ogni cultura: implica un processo di dialogo e di inculturazione della fede. La tradizione appartiene al singolo ma anche alle comunità: innesca una relazione vitale tra i soggetti e le loro comunità di appartenenza, e valorizza l'operato di ogni cristiano. Infine la tradizione indica passaggio ma anche costituzione di identità: il trasmettere presuppone e genera un raccontarsi. 2. Una riflessione sull'esperienza Sullo sfondo di queste considerazioni le riflessioni sulla tradizione si sono orientale in due aree: l'edificazione della comunità cristiana e l'annuncio del Vangelo. È stata comunque sottolineata l'assoluta continuità tra le due aree. Per ciascuna area sono affiorati due nuclei tematici. 2.1. Tradizione ed edificazione delle comunità cristiane Un primo nucleo tematico riguarda ; luoghi, le occasioni, i meccanismi della trasmissione della memoria individuale e collettiva. A partire da una crisi della storia e della memoria tipica del nostro tempo, appare urgente restaurare luoghi di trasmissione della memoria: la memoria culturale in senso ampio, ma anche quella delle comunità e dei singoli. Se la famiglia è il primo luogo di confronto tra generazioni e di racconto di storie ( comprese le storie di esperienza della fede ), la comunità ecclesiale può porsi come luogo ulteriore a tre livelli. Il primo livello è dato da occasioni di racconto e testimonianza delle singole esperienze, nell'incontro tra giovani e anziani. Il secondo livello è dato da un recupero della memoria collettiva delle Chiese locali. Il terzo livello è dato dalla valorizzazione di alcune forme " tradizionali " della religiosità popolare: feste, forme di pietà, pellegrinaggi che ricordano storie collettive. Forme devozionali e appuntamenti liturgici di cui talvolta si è perduto il senso e che vanno rivitalizzate ( ciò che può implicare una riconversione dei fedeli ). In tutte queste occasioni le Chiese devono imparare a raccontarsi. Un secondo nucleo tematico riguarda il ruolo del laicato all'intemo della comunità e la sua formazione. C'è l'esigenza di comunità adulte diffuse, di identità cristiane solide ma non elitarie. Questo essere adulti allude a un essere " vertebrati ", a una capacità di autosostenersi del fedele laico che lo rende al limite disponibile a migrazioni e spostamenti; ma al tempo stesso dice di individui non isolati, ma collegati a una comunità sintonica: è la comunità che sostiene l'opera di traditio del singolo. Emergono due punti chiave. Il primo è quello del confronto fra tradizioni differenti all'interno delle comunità, e dunque del dialogo sereno e aperto tra carismi, movimenti, gruppi differenti. Il secondo punto riguarda la formazione dei giovani e degli adulti. Formazione differenziata e continua che tenga però conto di alcuni punti " critici ": in particolare la preparazione all'iniziazione cristiana e il momento del matrimonio e della maternità/paternità. È stato sottolineato a più riprese che tanto il dialogo all'interno delle comunità quanto i processi formativi continui non possono che radicarsi nella liturgia e nella lettura meditata della Parola. Un'attenzione formativa particolare è stata richiesta per gli stranieri cattolici che chiedono di essere inseriti a pieno titolo nelle attività delle parrocchie. Infine la nuova attenzione formativa dei laici deve sintonizzarsi con un rinnovamento della formazione dei presbiteri nei seminari. 2.2. Tradizione e annuncio del Vangelo Un primo nucleo tematico, riguarda la rilevanza dello strumento del dialogo e di un particolare stile relazionale nell'annuncio. Il dialogo è strumento indispensabile sia all'interno delle comunità ecclesiali, sia tra queste e le altre religioni, sia tra queste e il mondo. Dialogo non solo come strumento di testimonianza, ma come luogo di ricerca e rafforzamento della propria identità, incontro con l'altro e scoperta di sé. Il dialogo implica un particolare stile di relazione che dovrebbe improntare sia il comportamento dei singoli che quello delle comunità. I tratti dominanti di questo stile sono verità, schiettezza, perdono, capacità di mettersi in discussione, pazienza e accoglienza. Lo stile della relazione, i suoi aspetti non verbali che toccano direttamente l'affettività e la sensibilità dell'altro sono un primo indispensabile strumento di annuncio; strumento particolarmente importante in un contesto culturale quale il nostro, che valorizza le qualità sensibili dell'esperienza. Accoglienza, creatività e collaborazione comune sono i tratti attesi anche per le comunità nel loro insieme. Un secondo nucleo tematico riguarda ; linguaggi dell'annuncio, l'elaborazione culturale e la relativa formazione. I linguaggi non sono separabili dagli insiemi culturali complessi di cui fanno parte: l'annuncio deve continuamente essere ridetto non solo con parole nuove, ma all'interno di nuovi insiemi complessi di saperi, valori, rappresentazioni e forme di esperienza. Ritorna il ruolo fondamentale dei laici, che vivono nel mondo e sono immersi nella cultura del mondo. L'indispensabile lavoro di discernimento deve partire da un atteggiamento sereno e ottimistico, che sappia leggere e operare la traditio fidei all'interno del più ampio dinamismo di trasmissione, riproduzione e trasformazione della cultura contemporanea. Su questa base si potrà operare un annuncio progressivo e differenziato ma non edulcorato ( annuncio del Cristo crocifisso prima che risorto ) che conduca a una indispensabile esperienza personale di preghiera e ascolto della Parola. Particolarmente urgente appare in questo senso un rilancio della pastorale giovanile, anche all'interno delle scuole. Un compito delicato è quello della formazione dei formatori ( professori, catechisti ecc. ), cui spesso mancano gli strumenti culturali per attuare un annuncio efficace. 3. Un approccio pastorale integrato Sulla base delle considerazioni del paragrafo 2 sono emerse alcune proposte pastorali che si connettono per vari aspetti agli altri ambiti: a) studiare forme di coinvolgimento degli anziani nella vita delle comunità, sia per affidare loro intenzioni di preghiera elaborate dalla comunità, sia per impegnarli in incontri di trasmissione di memoria con i giovani ( -> cittadinanza ), b) recuperare e rivitalizzare forme di pietà tradizionali, soprattutto se legate a episodi di storia locale ( -> lavoro e festa ); c) valorizzare il patrimonio dei beni culturali locali ( abbazie, pievi, archivi, musei diocesani ecc. ) come tracce della storia della comunità ( -> cittadinanza ); d) costruire occasioni di dialogo e di confronto tra movimenti, gruppi, cristiani comuni; e) costruire solidi percorsi di formazione per i giovani e i giovani adulti che, come una sorta di catecumenato, accompagnino e marchino alcuni momenti chiave dell'esistenza: l'iniziazione cristiana, il matrimonio e la genitorialità, l'inserimento di cristiani non autoctoni ( ---> fragilità ); f) dedicare una particolare attenzione formativa alle tecniche del dialogo e agli aspetti della comunicazione non verbale e dell'affettività che reggono e qualificano le relazioni interpersonali ( -> vita affettiva ); g) costruire occasioni di elaborazione culturale diffuse e vicine ai problemi, alle esperienze e alla sensibilità delle comunità concrete. La nuova fase del progetto culturale deve prevedere la concentrazione su alcuni temi chiave e la diffusione capillare di un metodo che permetta una elaborazione culturale da parte delle comunità ( e non una pura ricezione di temi e riflessioni già elaborate ), una " appropriazione del senso " rispetto al panorama spesso confuso del presente ( -> cittadinanza ). Gruppo di studio 21 Ambito: tradizione Sintesi dei lavori Moderatore: Anna Ferale, educatrice, Opera don Calabria, Ferrara Segretario: Lorenzo Fossati, direttore del collegio " Ludovicianum ". Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 17-18 ottobre 2006 1. Considerazioni generali - Dialogo coi giovani difficile ma possibile: problema dello scollamento tra generazioni. Accettare il rischio della libertà, ma non lasciare soli nella libertà. Nella consapevolezza che la testimonianza è necessaria ma può essere fragile, occorre rendere ragione di ciò che la fonda e la orienta: un'esperienza di felicità e una promessa di compimento. - Tradizione è traduzione in nuovi linguaggi. E necessario conoscere la lingua in cui si traduce, ad esempio con un uso " sapiente " dei media e un aggiornamento dello stile omiletico. Il Vangelo e i valori devono essere tradotti nei linguaggi della nostra epoca, e per poter apprendere tali nuovi linguaggi il momento fondamentale della traduzione è paradossalmente l'ascolto. Il Vangelo deve assumere forme nuove non solo " esteriormente ", esprimendo zone di sé che nel passato possono essere rimaste nascoste. Si tratta quindi di una declinazione di continuità e discontinuità. - Centralità della Parola come punto di partenza sia della formazione del laicato ( apostolato biblico dei laici ) sia del dialogo con gli " altri " ( argomento e strumento più efficace di concettualizzazioni talvolta consunte ). Prioritaria la ricerca dell'essenzialità e della sobrietà: un discernimento nella tradizione di ciò che è accessorio e di ciò che è invece autenticamente evangelico. - Ai laici, che vivono in tutte le condizioni di vita, spetta il compito di " avvicinare i lontani ". Il destinatario dell'annuncio è l'homo novus che, pur lontano, nella frammentazione in cui vive sente la nostalgia e il bisogno dell'unità che la comunità cristiana può offrir- gli, soprattutto rispondendo a domande concrete sulla libertà, sul futuro, sul corpo, sulla relazione … In tal senso, il primo passo da compiere è educare le domande. 2. Riflessioni sull'esperienza - Centralità della liturgia anche in relazione all'espressività artistica ( musica, iconografia … ), trascurata e talvolta sfigurata negli ultimi tempi. Da un lato, il linguaggio dell'arte, compresa quella contemporanea, ha caratteristiche di universalità ed è quindi possibile strumento di evangelizzazione. D'altro lato, la liturgia non è solo un punto di arrivo, ma soprattutto il punto di partenza di un cammino fatto di novità e ripetizione. La scelta della Chiesa italiana di essere " di popolo " implica il collegamento vivo con la tradizione, che a sua volta implica il coraggio di tradurre, interpretare e commettere " piccoli tradimenti ": innovare è immettere novità nel solco vivo della tradizione. Forse manca oggi il coraggio di Girolamo o della Controriforma, e si indulge alla nostalgia di un passato che esprime la nostra fatica a immaginare cose nuove. Necessario superare l'" ecclesialese " per operare una traduzione per " questo " popolo di Dio in una lingua che gli sia comprensibile, sia nella liturgia che nella traduzione vera e propria della Scrittura. - Positività dell'incontro con gli immigrati, le loro tradizioni e la loro esperienza: lo straniero, il nomade, rende visibile ciò che il cristiano e la Chiesa sono in profondità. Il processo non termina con il passaggio dalla società monoculturale e monoreligiosa al pluralismo, ma deve giungere alla società interreligiosa e interculturale. Il dialogo presuppone una radicale presa di coscienza della propria identità e la condivisione come valutazione positiva della diversità. - Attualità della cosiddetta questione antropologica. Dobbiamo distinguere tra l'atto della tradizione e ciò che è il contenuto ( traditum ), valorizzando il primo aspetto, cioè ponendo attenzione sull'uomo, sulla persona cui si comunica. Il Vangelo è fissato nella Parola, ma lo Spirito non ha cessato di parlare attraverso la relazione: la tradizione allora diventa una relazione in cui si trasmette sì un contenuto, ma anche se stessi. Parola, liturgia e carità costituiscono un insieme non riducibile a uno solo dei singoli aspetti. 3. Un approccio pastorale integrato - Educare. La famiglia non va considerata sempre e solo come " problema ", bensì come " risorsa ". Affinché non deleghi il proprio compito educativo e non lasci i ragazzi privi di punti di riferimento, occorrono sostegno e formazione mirata: a fianco delle scuole per gli operatori di pastorale culturale potrebbero essere valorizzate quelle per genitori, legate al concetto di " comunità educante ", e andrebbe impostata una catechesi parallela di genitori e figli in occasione della preparazione ai sacramenti. La fragilità della famiglia che oggi possiamo riscontrare è in gran parte legata alla fragilità della donna, che fatica a svolgere il ruolo tradizionalmente affidatele di trasmettere la fede: tale fragilità chiede sostegno, non giudizio o condanna. Per quanto riguarda l'ambito della scuola, è importante la formazione dei docenti non solo sul piano didattico ma anche spirituale - senza dimenticare la scuola pubblica, dove gli insegnanti cristiani svolgono un vero e proprio ministero di fatto. Occorre inoltre verificare e ripensare la metodologia formativa nei seminari, che non deve essere improntata a un approccio " deduttivo ", bensì partire dall'esperienza. La presenza nelle nostre comunità degli immigrati di fede cattolica, infine, oltre a essere un'occasione preziosa di declinare la " cattolicità ", pone problemi inediti: come va affrontata la " doppia appartenenza " dei loro figli? Come coinvolgerli nella vita della comunità o nei consigli parrocchiali? Non varrebbe la pena formare catechisti immigrati? - Fare cultura. Va ripensato e rilanciato il " progetto culturale orientato in senso cristiano " a dieci anni dal Convegno ecclesiale di Palermo secondo il metodo della " sussidiarietà ", cioè calandolo maggiormente nelle realtà locali e raccogliendo da esse proposte e stimoli. Sono in tal senso necessari spazi preposti alla comunicazione e al confronto tra i cristiani ad intra e con i laici ad extra. Un ruolo importante da giocare dovranno averlo le facoltà teologiche regionali. - Comunicare. I media sono un fattore " antropogenetico " molto forte: potremmo definire quello di oggi un homo mediaticus. Occorre riconoscere che i media svolgono la funzione di una vera e propria " agenzia educativa ", ed esercitare un attento discernimento rispetto alla loro fruizione, valorizzando e sostenendo contemporaneamente i media cattolici. I cristiani dovrebbero giocarsi di più nella comunicazione: in particolare le facoltà teologiche dovrebbero sforzarsi di elaborare un linguaggio più comunicativo. Il lavoro teologico, inoltre, dovrebbe impegnarsi nella ricerca di linguaggi più precisi, raccogliendo e interpretando i linguaggi delle altre culture. - La parrocchia deve aprirsi alla nuova evangelizzazione, non ripiegandosi su se stessa ma aprendosi a una missionarietà oggi indispensabile, cui è necessaria la presenza " corresponsabile " dei laici, in un lavoro comune per trarre dal depositimi fidei ciò che è oggi spendibile. Il dono della fede va custodito senza annacquarlo, ma senza neppure rimanere schiavi di schemi superati, come sottolinea la Dei verbum. L'Italia è caratterizzata da un cristianesimo " popolare " che si basa sulle parrocchie, in cui vive la ricchezza della tradizione apostolica che va tradotta e trasmessa da persona a persona, da generazione a generazione, in tutti gli aspetti della vita quotidiana ( dal nascere al morire, nella malattia, nella famiglia ). Utile sarebbe riproporre l'apostolato biblico, elaborare itinerari di fede per le famiglie e per gli adulti, incoraggiare il laicato a vivere la sua presenza nel mondo senza vergogna né arroganza e rivitalizzare gli organismi pastorali di partecipazione. Gruppo di studio 22 Ambito: tradizione Sintesi dei lavori Moderatore: don Antonino Raspanti, professore stabile di teologia spirituale alla Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia, Palermo Segretario: Giampiero Donnini, consulente, Roma 17-18 ottobre 2006 1. Considerazioni generali La traditio fidei presenta l'aspetto della relazione personale; dove la qualità del testimone risalta anzitutto nella sua coerenza con il credo professato, che rivela verità e attualità dell'incontro con il Risorto, e l'aspetto ampio e pubblico, dove uniti a grappolo emergono la questione della formazione, della famiglia, dei mezzi della comunicazione sociale, non disgiunti dalla parrocchia quale luogo primario del vissuto quotidiano delle comunità cristiane. Nella prospettiva della traditio le questioni indicate vanno assunte come indisgiungibili e da collegare sia alla comunità cristiana parrocchiale sia alle specifiche istituzioni ecclesiali ( associazioni, volontariato ecc. ) che per loro natura sono snodi di grande scambio e di transito dei cristiani. È prevalente la volontà di creare legami e sinergie dal momento che in questi luoghi sono implicati a diverso livello varie componenti, che è impensabile lasciar agire da sole. Alcune costanti investono questo grappolo: la mediazione culturale, lo stile dialogico dell'ascolto e del donare qualcosa che l'altro è in grado di far proprio riscrivendolo nella sua soggettività con un senso a lui proprio. 2. Una riflessione sull'esperienza Tre fattori spingono a pensare una trasversalità nella proposta pastorale oltre i settori tradizionali: a) la frammentazione culturale in atto; b) la complessità dei processi della traditio fidei', c) l'esigenza di accentuare l'aspetto esistenziale nella testimonianza, senza dover cadere nello spontaneismo del quotidiano tralasciando la programmazione nei luoghi istituzionali. Il mondo dei mezzi della comunicazione sociale ha colpito tutti per l'incidenza che hanno nella trasmissione dei saperi, del significato del vivere e dei modelli comportamentali; ragion per cui sembra indifferibile porli ai primi posti dell'agenda ecclesiale. Si è richiesta esplicitamente sia la preparazione di persone che aiutino genitori, catechisti, insegnanti e giovani ad acquisire una capacità critica nel loro uso ( buon aiuto sono le sale di comunità ), sia ad attrezzare meglio l'ufficio diocesano corrispondente, sia a iniziare una vera produzione propria e una preparazione di operatori specifici ( giornalisti e operatori di radio e tv ). In altri termini, far entrare nella pastorale ordinaria la cura del mondo della comunicazione di massa. La questione educativa è connessa con il grande ambito formativo del credente, dall'annuncio semplice e informale alla catechesi, ma anche al mondo della scuola e all'IRC. Qui servono modalità nuove, ad esempio, di annuncio e catechesi, in ogni caso ben ordinate e programmate secondo itinerari che richiamino il catecumenato, l'iniziazione cristiana, l'ascolto della Parola e la liturgia. La necessità di porre in primo piano gli aspetti esperienziali della comunicazione farebbe prediligere la modalità della narrazione di una storia, quella biblica, nella quale è più evidente che essa ha preso il testimone e adesso è offerta in forma di racconto agli altri ( di ogni età ). La narrazione, infatti, è un genere letterario che si differenzia notevolmente da quello dottrinario intellettualistico e lo completa. Considerato che l'adulto è ritenuto l'elemento chiave di tutto il processo della formazione, l'obiettivo di questa non può non essere un cristiano che sappia operare il discernimento nella propria vita e in quello spazio sociale ed ecclesiale in cui è posto. Nel campo strettamente scolastico e universitario non serve più pensare ai soli insegnanti di religione, ma al coinvolgimento di tutte le componenti cattoliche che vi operano ( docenti, studenti, famiglie, insegnanti di religione ), con la loro capacità di abitare la scuola collaborando strettamente su alcuni valori di fondo con i non cattolici. La stessa tematica familiare è tirata in gioco sempre nel contesto della comunità ecclesiale più vasta. Il mondo genitoriale sente il bisogno di condurre una lotta condivisa sul piano educativo, di contro a un'epoca che frantuma i legami. La valorizzazione dei laici è letta come capacità di tutta la Chiesa di comprendersi in modo non autoreferenziale, lasciandosi anche raccontare da persone esterne a lei, e comunque affrontando apertamente i luoghi di laicità, civili. Lì non solo la valorizzazione del laicato avrebbe meno un sapore di rivendicazione, in confronto o concorrenza con il clero, ma farebbe riscoprire, a laici e clero insieme, il grande valore della secolarità e della possibilità di ricevere questa da Dio e restituirla a Dio, trasformata dalla collaborazione con l'umanità intera. Riecheggiano i richiami a una parrocchia non templare ma operante nel territorio, alla scuola non solo cattolica, ma scuola tout court, alla mediazione culturale. Questo sguardo, cristiano ma quasi esterno su noi stessi, motiva ancor di più ad assumere la missione come gioia di condividere l'esperienza di Cristo e la responsabilità nella restituzione di questa gioia agli altri, che vivono la drammaticità del non senso. Per scavare a fondo nell'ambito proposto, si accetta di lavorare all'approfondimento di qualcosa che accomuna gran parte degli interventi: prendendo a modello sia nello stile sia nel contenuto il progetto culturale orientato in senso cristiano, è possibile pensare a un progetto formativo, probabilmente all'interno di quello? Si esclude di pensarlo come allestimento di un libretto programmatico, quanto piuttosto come uno strumento e un itinerario che metta insieme diverse realtà ( famiglia, parrocchie e aggregazioni ecclesiali, scuola in tutte le sue componenti, mezzi della comunicazione sociale con operatori, strumenti, produzioni ) attorno alla ricerca della figura di credente del secolo XXI. 3. Un approccio di pastorale integrato Dando per scontata la conoscenza delle tessere del mosaico della vita pastorale, ci si volge al modo di comporle. Si propone concretamente di raccogliere la sfida degli ambiti non lanciando singole tematiche per riflettervi e farne fiorire iniziative conseguenti, bensì stimolando le comunità ecclesiali a munirsi di metodi e capacità di discernimento degli avvenimenti. Il progetto formativo sarebbe un grande quadro di riferimento nazionale nel quale entrino i singoli soggetti ecclesiali, evitando la dispersione, incontrandosi per conoscersi e scambiare strumenti posseduti o crearne di nuovi. In ogni caso non deve discendere dall'alto, bensì creare le condizioni perché ogni singola realtà di base, diocesana o altro, sia in grado di attivare la propria libertà - corresponsabilità di una comunità che è già plurale al suo interno. Esso assicurerebbe una certa unità di indirizzo, che scaturirebbe da un terreno comune creato dal servizio centrale, come la CEI, che lentamente favorisca la convergenza sulle grandi tematiche antropologiche e offra un servizio di raccolta di " migliori pratiche " ( best practice ) a disposizione di tutti gli altri. Insomma, esso assomiglierebbe a un quadro di riferimento aperto, dove tutti entrino comodamente e siano attivi secondo il proprio carisma. D'altra parte il progetto implica che ci si porti nei luoghi del trasmettere con qualcosa di pensato, seppur in costruzione e rispettoso delle singolarità. Quanto alla direzione di un progetto del genere, sarà decisivo ascoltare le domande dell'uomo di oggi ( per non rispondere a domande che non ci sono ), accompagnare la formazione lungo tutto l'arco dell'esistenza e far interagire i contesti della vita. Sembra convincere l'ipotesi di lavorare a qualcosa da costruire insieme seppur con fatica, dove si soddisfi l'esigenza di esperire Cristo e seguirlo insieme. Lavorare a e per un progetto torna a favore di chi progetta, perché dovrà sforzarsi di capire chi ha davanti e se necessario di modificarlo in corso d'opera. L'ipotesi antropologica a cui inizialmente lavorare potrebbe essere quella dell'uomo nuovo che in Cristo realizza la felicità nello sperimentare la vittoria sulla morte, nel sapersi fratello di ogni uomo e mandato a essergli prossimo, anche se ciò comporta esporsi al tradimento della crocifissione. Gruppo di studio 23 Ambito: tradizione Sintesi dei lavori Moderatore: Adriano Roccucci, professore straordinario di storia contemporanea all'Università degli studi Roma Tre Segretario: don Antonio Serra, parroco. Portici ( NA ) 17-18 ottobre 2006 Alle tre sessioni di lavoro si è registrata la presenza costante di circa 55 persone, che hanno partecipato al dibattito in maniera attiva. Nel complesso sono stati pronunciati novantacinque interventi. Considerazioni generali Il gruppo ha espresso apprezzamento per le relazioni generali e per quella di ambito, che hanno fornito, tra l'altro, una significativa chiave di lettura della realtà culturale, civile ed ecclesiale. Più volte nelle tre sessioni è stato sottolineato come il lavoro di riflessione, condivisione e confronto quale si è realizzato nel gruppo sia stato un'esperienza felice di sinodalità e di comunione. In questo contesto è stato osservato che la divisione tra realtà ecclesiali che ha in passato caratterizzato la vita ecclesiale è in larga parte un fenomeno superato. La riflessione del gruppo si è concentrata su alcuni punti. - La sfida dell'educazione. Su questo punto è stata segnalata la necessità della proposta di un modello educativo, di un nuovo rapporto tra educazione e cultura. In tale contesto la famiglia, ma anche la scuola, sia quella pubblica che quella cattolica, sono i luoghi privilegiati per l'esercizio dell'educazione. - La Chiesa italiana come Chiesa di popolo. Il rapporto tra cultura popolare e cultura accademica, l'evangelizzazione della cultura popolare, il recupero e la valorizzazione della religiosità popolare, il valore della cultura e della religiosità popolare tra gli emigrati italiani all'estero sono stati i tratti maggiormente sottolineati. - Comunicazione della Parola. La dimensione della comunicazione della Parola di Gesù è stata richiamata come elemento costitutivo della tradizione. Dai giovani e dalla presenza di larghe comunità di immigrati provengono sfide rilevanti, mentre la questione del linguaggio e dello stile della comunicazione è stata avvertita come un tema degno di attenzione. - Tradizione e speranza. Oltre alla comunicazione del depositum fidei, la trasmissione di un vissuto cristiano e la testimonianza di un'esperienza di incontro con Gesù sono apparse dimensioni costitutive della tradizione, come è stato rilevato con efficacia dal relatore di ambito. Non è da trascurare nemmeno la dimensione della tradizione come trasmissione delle forme storione della fede. - La liturgia come luogo della tradizione. Si è da più parti rilevato come esista una centralità della liturgia quale fondamento della speranza e della tradizione nei vissuti ecclesiali. - Communio sanctorum. L'eredità dei santi e dei testimoni del '900, che ha segnato l'inizio del Convegno, è apparsa come sostegno efficace della speranza e come luogo privilegiato della tradizione. Una riflessione sull'esperienza La riflessione sull'esperienza ha condotto il gruppo a focalizzare alcuni nodi tematici che riguardano trasversalmente i diversi settori di impegno ecclesiale che sono più direttamente coinvolti nell'ambito della tradizione. - I linguaggi. La questione dei linguaggi presenta diversi aspetti: l'abbandono di un linguaggio autoreferenziale, la carenza di categorie culturali condivise, i linguaggi propri dei nuovi mezzi di comunicazione di massa ( internet, sms … ), i linguaggi simbolici propri delle arti. - La tradizione rivolta ai giovani. Si è richiamata la necessità che gli operatori pastorali vadano incontro ai giovani. Inoltre i giovani hanno bisogno di un dialogo autentico in cui emerga una capacità di ascolto delle loro domande e delle loro attese. Ai giovani va rivolta una proposta di vita cristiana coraggiosa ed esigente. - La forza attrattiva della liturgia. Il tema della liturgia è stato ripreso più volte e si è sottolineata la centralità della liturgia nella vita della Chiesa e del mondo. La liturgia ha una forza di attrazione che deve essere sempre più rivelata. - L'eredità dei santi. Si è sottolineata la forza attrattiva della testimonianza dei santi. D'altro canto la coscienza della loro testimonianza aiuta a sentirsi parte di una storia. - Comunione e tradizione. Lo sviluppo della comunione e della sinodalità all'interno della vita ecclesiale costituisce un presupposto ineliminabile della comunicazione del patrimonio di fede. Un approccio pastorale integrato Il gruppo ha maturato al termine dell'itinerario di condivisione, di riflessione e di confronto alcune proposte per un approccio pastorale integrato. È stata compiuta una scelta di priorità non senza la consapevolezza che le proposte avanzate non sono esaustive del tema dell'ambito, ma costituiscono il contributo parziale del gruppo ai lavori del Convegno. È il frutto di un itinerario di lavoro e di riflessione del gruppo che sulla base del vissuto dei suoi membri, delle reazioni suscitate dalle relazioni e dall'interazione dei diversi interventi ha tracciato un percorso, lungo il quale si sono profilate alcune idee e proposte su cui i partecipanti hanno maturato una convergenza. La questione della dimensione di popolo della Chiesa italiana ha sollecitato in modo particolare l'attenzione del gruppo. Alcune proposte si collocano nell'alveo della riflessione sul plesso di temi connessi a questo aspetto centrale per il tema della tradizione. - Avviare a livello di Chiesa italiana una riflessione culturale sul cattolicesimo popolare. - Valorizzare nella pastorale ordinaria della Chiesa italiana i santuari, come luoghi della tradizione, della comunicazione del patrimonio della fede. - Valorizzare le feste patronali, che devono essere purificate da alcune sovrapposizioni inopportune. La presa di coscienza della centralità della liturgia nella vita ecclesiale ha sollecitato il gruppo a soffermarsi su tale tema, avvertito come un momento fondante e decisivo dell'intera questione della tradizione. Alcune proposte sono state individuate nel senso di tale prospettiva. - Diffondere nelle comunità un'attitudine alla cura della vita liturgica, affinché sempre più nelle comunità vengano celebrate liturgie belle. - Favorire una recezione più profonda del magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI sulla liturgia. - Ristabilire pienamente nella pastorale ordinaria la centralità della Pasqua e del triduo pasquale per la vita delle comunità. Rivalutare l'importanza della Quaresima come tempo liturgico che deve improntare l'attività pastorale ordinaria. - Recuperare una riflessione culturale sull'anno liturgico nell'ambito dell'azione pastorale ordinaria. La riflessione sui linguaggi con cui trasmettere la tradizione ha condotto a prestare attenzione al linguaggio dell'arte. Una proposta in particolare è stata messa a fuoco a questo riguardo. - Potenziare a livello di Chiesa italiana il lavoro teso a stimolare e favorire una riflessione sull'arte religiosa, soprattutto su quella figurativa e sull'architettura, che permetta di suscitare un movimento di rinnovamento della produzione artistica e della progettazione di Chiese. Il patrimonio di tradizione di cui sono portatori ( santi che hanno segnato le varie tappe dell'itinerario storico del cristianesimo in Italia è una ricchezza a cui la Chiesa italiana non può mancare di attingere. Una proposta viene avanzata in questa direzione. - Favorire a livello di Chiesa italiana e dell'attività pastorale ordinaria delle comunità la consapevolezza dell'eredità dei santi, attraverso i quali avviene un'autentica trasmissione del patrimonio della fede, con particolare attenzione ai testimoni del '900 e ai " nuovi martiri " di cui si ritiene necessario approfondire la conoscenza e suscitare la venerazione. Il rapporto tra cultura e tradizione è apparso alla riflessione del gruppo particolarmente importante. Alcune proposte sono orientale in questo senso. - Continuare e rilanciare il progetto culturale. - Favorire la formazione di reti culturali diocesane che raccolgano gli operatori culturali attivi nel territorio. - Attivare una maggiore sinergia tra i forum e i cantieri del progetto culturale. - Stabilire delle cinghie di trasmissione tra sapere teologico e attività pastorale attraverso un ripensamento delle funzioni degli istituti di scienze religiose. La sfida dell'educazione mantiene una connessione stretta con la questione della tradizione. Una proposta potrebbe contribuire alla sua valorizzazione. - Valorizzare gli uffici di pastorale scolastica ripensandoli come un servizio educativo a livello territoriale. Gruppo di studio 24 Ambito: tradizione Sintesi dei lavori Moderatore: Pierpaolo Triani, ricercatore di didattica generale all'Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza Segretario: Vincenzo Morgante, caporedattore RAI, Palermo 17-18 ottobre 2006 Considerazioni generali - Condividere Si è cercato, a partire dalla sintesi dei contributi diocesani, di condividere i diversi approcci al tema. Si possono sintetizzare i molteplici elementi emersi in cinque punti: a) riferimenti fondamentali; b) nodi; c) forme del nostro tempo; d) domande; e) attenzioni e prospettive. Iniziamo dai riferimenti fondamentali: la tradizione è per la vita delle persone; è una realtà dinamica che ha dei luoghi sorgivi: Parola, liturgia, carità, comunione. La tradizione troppo spesso è concepita semplicemente come dottrina: essa, invece, va ripensata nell'ottica di una verità che si racconta, della proposta e della testimonianza personale, cominciando dalla valorizzazione del modello dell'iniziazione cristiana. I nodi: l'avanzare di una cultura antiumanistica che sottolinea l'urgenza di un ripensamento del modello antropologico accanto a una lettura della situazione e delle trasformazioni in atto; la diffusione di una religiosità generica; la carenza di tempi per curare le relazioni significative tra le persone a partire dalla comunità ecclesiale e dalla famiglia; la difficoltà di incidere sul sistema dei media attraverso una presenza qualificata che possa rinnovarne dall'interno le logiche; la difficoltà a elaborare forme di trasmissione della fede capaci di parlare alle diverse generazioni anche in considerazione della perdita di significatività del mondo adulto. Le forme del nostro tempo: centralità delle emozioni; l'importanza della dimensione relazionale; la pervasività delle forme di comunicazione e il rischio connesso di banalizzazione delle parole cristiane; la rilevanza della narrazione; la permanenza, sia pure tra mille difficoltà, di una religiosità popolare plasmata dal cristianesimo; la ricchezza di una tradizione culturale e civile ispirata dalla vita cristiana. Le domande: come coniugare i tempi " lunghi " della crescita spirituale con i tempi della proposta formativa e i ritmi della quotidianità? Come mai i luoghi e le forme tradizionali della comunicazione della fede sembrano poco attraenti? Perché la comunicazione della fede appare segnata da una carenza di entusiasmo? Come mai le professioni che hanno maggior peso comunicativo ( ad es. insegnanti, giornalisti, architetti … ) non riescono a essere significative occasioni di testimonianza cristiana? Attenzioni e prospettive: non si da tradizione viva senza un'esperienza di fede e l'appropriazione personale dei contenuti; la trasmissione della fede chiede comunità capaci di proporre l'esperienza credente ed essere compagnia affidabile; è necessario che le comunità sappiano interpellare le coscienze attraverso l'attenzione alle forme della vicinanza e della prossimità, agli strumenti e ai linguaggi della comunicazione che siano rivolti alla ragione ma anche al cuore. Il tema della tradizione reclama un'attenzione competente a questo tempo, uno sguardo educativo a vasto raggio nella consapevolezza che la tradizione è questione più ampia dell'educazione delle giovani generazioni. Interpella un'attenzione alle differenze territoriali delle diverse Chiese locali. Chiede inoltre di accrescere la corresponsabilità e la logica di rete tra i diversi attori interessati. È necessario ripensare le forme di presenza e testimonianza negli ambiti educativi, principalmente nella scuola e nell'università. Le prospettive emerse si radicano nella certezza che la forza del Vangelo ci precede e ci sostiene. Una riflessione sull'esperienza - Elaborare Dal dibattito, in rapporto alle domande della scheda, sono emersi una pluralità di elementi riferiti sia a un'analisi della realtà sia a una progettualità. Per questo si è pensato utile sintetizzare il confronto attraverso diverse direzioni di lavoro, già presenti o da avviare, declinate attorno al verbo crescere. Crescere: nella prossimità ( è stata ricordata l'importanza di favorire gruppi di incontro a partire dalle famiglie ); nell'accoglienza ( curare la qualità relazionale dei momenti proposti dalla comunità ecclesiale e puntare a uno stile di identità dialoganti ); nella comunione ( il discernimento comunitario, la costruzione di un patto educativo a cui concorrano i diversi soggetti, la sottolineatura della ministerialità di alcune figure dentro la Chiesa, la circolarità tra le generazioni ); nella capacità di proposta cristiana ( capacità di intercettare e interpretare le domande di senso, puntare acontenuti essenziali, valorizzare l'ascolto della Parola ); nelle forme della proposta ( sia le forme basilari come la logica dell'iniziazione cristiana e la mistago gia, sia altre forme come il pellegrinaggio ); nella vita spirituale ( riproporre la centralità della preghiera e della vita sacramentale ); nella vita liturgica ( riconoscere la liturgia come linguaggio proprio della traditio cristiana ); nella pazienza dei tempi lunghi ( non cadere nella logica di ricercare risultati immediati ); nella competenza dei linguaggi ( valorizzazione dell'arte e dei beni culturali delle singole comunità, diffusione e rafforzamento della comunicazione cristiana nei media ); nella progettualità unitaria ( raccordo delle diverse proposte in uno sguardo pastorale condiviso, necessità di rafforzare la rete dei rapporti ); nella verifica ( considerare la validità e lo sviluppo degli sforzi messi in campo attraverso un confronto condiviso a partire dal progetto culturale lanciato da Palermo ); nell'accompagnamento ( aiutare la vita cristiana attraverso la proposta di regole di vita per le diverse età ); nel fascino della testimonianza ( saper mostrare la bellezza della fede attraverso i diversi linguaggi e la riproposizione dell'esemplarità dei santi ); nella rilevanza culturale ( uscire da un'impostazione apologetica per aiutare un'interpretazione cristiana dei fatti ); nella valorizzazione delle diverse soggettività ( centralità della parrocchia, peculiarità della famiglia, ruolo delle aggregazioni e delle scuole e università cattoliche ). Un approccio pastorale integrato - Proporre Nella fase di definizione delle proposte non è stato possibile concentrarsi sull'integrazione tra gli ambiti senza mettere in risalto proposte specifiche relative alla tradizione. Per questo si ritiene opportuno distinguere tra proposte peculiari ( sempre comunque all'interno di una pastorale unitaria ) e proposte integrate. Proposte peculiari: superare un'impostazione strettamente catechistica per alimentare definitivamente, anche attraverso sperimentazioni, la logica dell'iniziazione alla vita cristiana e la mistagogia; dare centralità anche culturale all'ascolto e alla conoscenza della Parola di Dio; fare una verifica dei risultati del progetto catechistico della Chiesa italiana; rilanciare e ripensare gli organismi partecipativi dentro la comunità ecclesiale; accrescere la conoscenza dei contenuti della tradizione anche con un rinnovato coinvolgimento delle facoltà e degli istituti teologici; sostegno alla formazione specialistica dei giovani attraverso borse di studio; cogliere la presenza dell'immigrazione come una risorsa per costruire una comunità più profondamente cristiana, significativa nella proposta, aperta e fraterna nella relazione. Proposte integrate: porre al centro della vita della comunità l'amore fraterno e la logica del gratuito; curare la liturgia come linguaggio fondativo della tradizione; costituire esperienze di fraternità per i giovani e luoghi di riappropriazione della dimensione emotiva; salvaguardare il valore della domenica come giorno della festa e della comunione tra tutte le esperienze ecclesiali; curare la formazione degli adulti e il loro sostegno soprattutto nelle fatiche esistenziali; rafforzare il sistema dei mass media cattolici come avamposto dell'evangelizzazione attraverso una presenza più capillare dei diversi strumenti ( settimanali, radio, tv, siti internet, agenzie ) nelle singole Diocesi; riscoprire il ruolo dell'accompagnamento spirituale dei singoli in una logica di ricerca e approfondimento del proprio progetto di vita; evitare il rischio del ripiegamento della comunità su se stessa per vivere esperienze missionarie nella vita concreta degli uomini d'oggi; approfondimento della corresponsabilità tra laici e presbiteri. La tradizione chiama in causa la vitalità delle nostre comunità, la capacità di generare continuamente alla fede lasciandosi ispirare dalla creatività dello Spirito che da la forza di vivere in pienezza, da testimoni di speranza, questo nostro tempo. Gruppo di studio 25 Ambito: cittadinanza Sintesi dei lavori Moderatore: Leonardo Becchetti, professore straordinario di economia politica all'Università degli studi di Roma " Tor Vergata " Segretario: fr. Matteo Mennini, insegnante. Roma 17-18 ottobre 2006 Il ritmo delle trasformazioni occorse nella nostra società in questi ultimi anni è talmente rapido da rendere più difficile che in passato la traduzione dei principi primi della nostra fede e della dottrina sociale della Chiesa in una prassi che rappresenti nel nuovo contesto il magistero. Ci accorgiamo di non poter più trovare conforto in modelli di lettura della realtà e modalità di azione che per molto tempo hanno rappresentato il nostro modo di essere nella società. In questa nuova situazione individuiamo alcune pietre miliari che possono orientarci nel percorso. Tra di esse il criterio dell'inclusione a partire dagli ultimi, per ribadire come nella Chiesa " nessuno è straniero " e come i valori della fede abbiano la forza di creare ponti tra le culture abbattendo barriere e steccati. Un altro punto fermo sembra essere quello di evitare il rifugio in una spiritualità disincarnata impegnandoci per l'affermazione del principio di legalità in contesti spesso difficili, e abitando con simpatia il cambiamento in fedeltà al principio dell'incarnazione che rappresenta il fulcro della nostra fede e la sfida affascinante della nostra esistenza. Pur essendo pronti a imparare ciò che di nuovo e di buono viene da esperienze estere, non intendiamo ridurre il problema del nostro rapporto con la società a uno schema di separazione o di subordinazione della Chiesa allo Stato mutuati da altri paesi. Siamo da questo punto di vista orgogliosi nel constatare che la nostra società, pur essendo alla vigilia di una necessaria svolta, ha prodotto sinora molta più coesione sociale di altri modelli grazie alla capacità dei cattolici di non essere né separati né subordinati, ma di costruire un pezzo di società assieme con i non credenti di diverse ispirazioni politiche. Due problemi chiave sui quali ci siamo soffermati più a lungo sono quelli degli stranieri e dell'impegno dei cattolici in politica. Sul primo intendiamo vivere l'incontro con l'altro non come minaccia alla nostra identità, ma come risorsa ed essenza stessa del nostro essere cristiani, in coerenza con il nostro statuto antropologico in cui l'identità profonda dell'individuo, immagine della realtà trinitaria, è nella relazione. Da questo punto di vista non possiamo che tessere rapporti di accoglienza accelerando quel percorso verso una cittadinanza mondiale che la globalizzazione sembra avere avviato. È sul problema dell'impegno diretto dei cattolici in politica che riscontriamo le maggiori necessità di elaborazione di nuovi modelli. Il bipolarismo, imponendo la scelta di schieramenti contrapposti, nei quali è necessario convivere con compagni di viaggio che hanno ispirazioni diverse, rischia di creare divaricazioni al nostro interno, ma ci impone di ricercare comunque un'unità sui principi irrinunciabili e di rendere feconda la diversità di posizioni su tutti gli altri temi sui quali tali principi irrinunciabili non sono messi a rischio. Osserviamo inoltre come i cattolici che decidono di impegnarsi in politica rischiano di perdere il contatto con le comunità ecclesiali di riferimento e di essere inglobati in un mondo complesso, dove la coerenza dei principi deve fare i conti non solo con le necessario mediazioni della politica ma anche con il filtro talvolta deformante degli organi di comunicazione di massa. Non dobbiamo mai cedere alla tentazione di scoraggiarci di fronte all'entità delle sfide che ci aspettano. La realtà e la fertilità delle nostre esperienze ecclesiali sul campo rappresenta spesso la punta avanzata delle risposte che la società civile sta elaborando all'interno del nuovo tessuto socioeconomico. Mai come oggi, dopo la caduta di molte " religioni " laiche, i nostri valori appaiono come una bussola anche per i non credenti e la nostra fonte di ispirazione ha prodotto ( in un cammino fatto assieme ai non credenti ) frutti nelle esperienze di convivenza di culture, nell'accoglienza dei migranti, nelle iniziative di finanza etica, di imprese sociali e di economia solidale che chiedono solo di essere riflettute e sistematizzate. Gli alberi si giudicano dai frutti e non dalle radici. Rischiarne talvolta oggi di soffermarci solo sulle seconde, mentre molte ricchezze già prodotte non raccolte restano sull'albero e non diventano patrimonio comune e fonte di nuovi avanzamenti. Tra i nuovi frutti che rileviamo nelle nostre comunità ci sono l'impegno dei cristiani nella promozione della responsabilità sociale d'impresa, e lo stimolo esercitato verso la stessa ad assumere un impegno sociale pari al grande potere e alle grandi possibilità che essa si trova ad avere nella società globale. Molto ricca è la storia delle scuole di formazione sociopolitica, ma ancora più vasta appare la domanda di approfondimento e di formazione permanente. Per questo motivo appaiono particolarmente lodevoli quelle esperienze nelle quali l'offerta di formazione arriva ai massimi livelli, si mette in rete con le università, crea centri studi e promuove al contempo laboratori con ricadute occupazionali sul territorio. Da esperienze come queste nasce una capacità di presenza e di proposta politica, che assume le due forme egualmente importanti e complementari di impegno diretto nei partiti e azione " prepolitica " attraverso la promozione di iniziative della società civile. Particolarmente delicata appare ancora la situazione di alcune aree del Mezzogiorno dove si verifica la persistenza di circoli viziosi nei quali la mancanza di opportunità di sviluppo genera dipendenza verso l'impiego nella pubblica amministrazione, sviluppo della politica in forma clientelare, problemi di corruzione che si aggiungono a un contesto degradato per via della presenza della criminalità organizzata e della difficoltà di assicurare la legalità. Alla luce di quanto indicato sopra proponiamo: 1) di sviluppare e potenziare i momenti formativi all'interno delle Diocesi che partano dall'approfondimento della dottrina sociale della Chiesa e si estendano poi all'analisi della complessità del nuovo contesto socioeconomico, fornendo opportuni strumenti per l'approfondimento. I corsi devono sapere mettere a fuoco i problemi che oggi si pongono in forme nuove, quali ad esempio quella del significato della laicità in una società multiculturale e multireligiosa; 2) di promuovere e potenziare laddove già esistono le scuole di formazione sociopolitica affiancando a esse laboratori in grado di sperimentare sul territorio nuove forme di partecipazione e di creazione di realtà produttive; 3) di mettere a sistema con una cabina di regia tutte le attività già presenti sul territorio in questo ambito per aumentare le sinergie, evitare doppioni ed elevare e renderne sempre più visibile il contenuto culturale; 4) di promuovere i nuovi temi della responsabilità sociale dei consumi e dei risparmi sostenendo con il " voto del portafoglio " le iniziative di quelle " imprese sociali di mercato ", come il commercio equo e solidale e la banca etica, che con la loro opera di sensibilizzazione e con le loro quote di mercato mettono in moto circoli virtuosi di imitazione da parte del settore produttivo tradizionale in direzione di una maggiore responsabilità sociale; 5) di rivolgere particolare attenzione ai cristiani già impegnati in politica offrendo loro momenti di spiritualità, di formazione, di incontro e confronto delle esperienze al di là delle appartenenze partitiche; 6) di sviluppare un linguaggio adatto a testimoniare la fede nei confronti dei non credenti incontrandoli sui terreni di impegno comune come quelli della pace, della solidarietà, dell'impegno sociale; 7) di arrivare alla formulazione di una pastorale sulle migrazioni che orienti e ispiri la molteplicità delle scelte sul campo e di affiancare a essa una capacità di indagine sul territorio diocesano dotata della stessa puntualità delle indagini che la Caritas svolge sui migranti a livello nazionale. Tale indagine rappresenterebbe uno strumento di orientamento fondamentale per la programmazione dell'attività pastorale verso gli stranieri; 8) di superare la sterile alternativa pubblico / privato esaltando le esperienze di costruzione dal basso di imprese e di servizi sociali che realizzano nel concreto il principio della sussidiarietà. Gruppo di studio 26 Ambito: cittadinanza Sintesi dei lavori Moderatore: Marco Ragaini, redattore editoriale, EMI, Milano Segretario: Giovanni Grandi, vicedirettore del Centro studi e ricerche dell'Istituto internazionale " Jacques Maritain ", Trieste 17-18 ottobre 2006 1. Condividere Il lavoro di gruppo, vivace e fecondo, rimanda l'immagine di una Chiesa che ha sviluppato un rapporto maturo e positivo con il mondo della politica e del sociale. Essa si concepisce come strumento del Regno nell'oggi; desidera il dialogo con le realtà della società; porta uno sguardo di simpatia verso le persone " di buona volontà " che contribuiscono alla costruzione del bene comune. Coltiva, in una parola, quella " convivialità delle differenze " che ben esprime l'immagine di una società multietnica e multireligiosa. I partecipanti danno voce a una genuina passione per la politica, intesa come servizio al bene comune, e auspicano che la Chiesa possa maggiormente aprirsi a questa dimensione anche nelle sue realtà più popolari e comuni - a cominciare dalle parrocchie - suscitando vocazioni, promuovendo formazione e accompagnando con premura fraterna coloro che offrono il loro servizio impegnandosi nelle realtà partitiche e istituzionali. Si avverte una rinnovata consapevolezza della necessità di ridare cittadinanza al politico nella dimensione ecclesiale, soprattutto nel contesto dell'attuale bipolarismo: è fondamentale per i cristiani ritrovare un ethos condiviso, capace di promuovere uno stile di unità, pur valorizzando i diversi punti di vista e le diverse opzioni partitiche. La condivisione del gruppo ha evidenziato inoltre una percezione di un rapporto tra Chiesa e mondo incentrato sulla testimonianza e sulla sequenza gesto-parola: la parola rende ragione di gesti compiuti che la precedono e che sono significativi in sé. Appare quindi consolidato il superamento di una testimonianza concepita secondo la sequenza parola - gesto, in cui l'esortazione precede l'azione e vorrebbe suscitarla astrattamente. La priorità di valore e di efficacia del gesto è particolarmente evidente nel caso di soggetti ritenuti " cittadini deboli " - anziani, giovani, donne, immigrati - che diventano al contrario protagonisti di un annuncio carico di speranza. Si tratta quindi di rivalutare, nell'ottica di una testimonianza cristiana incisiva e capillare, il livello delle situazioni ordinarie della vita, in cui gesti di attenzione, di accompagnamento e di ascolto aprono spazi autentici di comunicazione e di evangelizzazione. 2. Elaborare Il dibattito ha consentito di mettere a fuoco alcuni temi ricorrenti, che convergono sulla necessità di dar vita a una pratica effettiva di discernimento comunitario circa questioni di rilievo sociale e politico. Appare assimilata la necessità di tale pratica, mentre rimangono da chiarirne soprattutto le modalità. La Chiesa vanta una tradizione e una esperienza secolare nella pratica del discernimento nel contesto di comunità omogenee di credenti, più spesso di tipo monastico o religioso: l'urgenza di una prassi di analisi e di orientamento circa le questioni di rilievo politico e civile è invece molto più recente e richiede uno sforzo di rilettura creativa di queste esperienze, traendone ammaestramento ma ricercando modalità adatte ai temi della cittadinanza ed esplorando possibilità di applicazione in comunità ecclesiali composite come quelle parrocchiali e diocesane. Il discernimento richiede la capacità di analizzare con competenza le situazioni di vita, di interpretarle alla luce del Vangelo, di immaginare percorsi autentici ma al tempo stesso praticabili e di trovare le modalità più adatte per proporli nella comunità civile. Per fare questo è importante dare spazio nella Chiesa alle competenze laicali, ritrovare spazi e modalità sinodali in cui far convergere le esperienze di vita e professionali del laicato e il magistero dei pastori. Come cattolici è inoltre importante essere presenti nel mondo non solo con propri strumenti ( media, scuole e istituzioni cattoliche ) ma anche nelle realtà laiche del mondo dell'educazione, dell'informazione e dell'economia, luoghi in cui il confronto tra diverse anime e stili culturali è sempre attivo e impegnativo. È importante evitare di confinare i valori umani - nella prospettiva della centralità e dell'inviolabilità della persona - nell'orizzonte esclusivo dei credenti. In ordine allo sviluppo di una prassi di discern imento comunitario, segno di uno stile comunionale che non può non caratterizzare la Chiesa, si avverte quindi la necessità anzitutto di una formazione integrale dei fedeli, che dia spazio anche ai temi della cultura e della cittadinanza, quasi riscoprendo una grammatica della partecipazione alla dimensione civile e politica, snodo peraltro significativo dell'insegnamento sociale della Chiesa. 3. Proporre Si propone quindi di attivare e sperimentare percorsi di discernimento comunitario, valorizzando i luoghi già esistenti. I consigli pastorali parrocchiali e diocesani siano aiutati a non limitare la propria attenzione alla gestione delle problematiche interne della vita ecclesiale ma ad aprirla significativamente alla lettura dei segni dei tempi presenti nel territorio, al loro discernimento evangelico e all'azione coerente, anche avvalendosi della collaborazione di altre realtà sociali territoriali. Nel contesto del discernimento non si può trascurare l'importanza di una visione della realtà aperta alla dimensione mondiale e sensibile ai problemi della pace, della giustizia e del perdono. Le realtà locali possono portare un contributo positivo alla soluzione di problematiche di livello globale, soprattutto custodendo uno sguardo critico e consapevole sul mondo e promuovendo nuovi stili di vita improntati a un equilibrio umano tra i tempi del lavoro, della festa e della famiglia, con particolare attenzione per le situazioni di fragilità. La diffusione sul territorio di luoghi di formazione qualificata, quali gli istituti superiori di scienze religiose, le facoltà teologiche e le scuole di teologia per laici costituisce una risorsa importante per la Chiesa, anche in ordine a un discernimento qualificato. È opportuno raccordare questi luoghi con le necessità formative delle comunità cristiane, mettendo al servizio della vita diocesana nelle sue molteplici componenti ( consigli pastorali parrocchiali e diocesani, commissioni diocesane, catechesi … ) competenze teologiche, antropologiche, sociologiche ed etiche oggi più largamente diffuse anche nel laicato. L'approfondimento della dimensione sociopolitica deve trovare spazio adeguato anche nei cammini formativi e catechistici ordinari, favorendo la maturazione - specie nei più giovani - di quelle virtù civiche che costituiscono parte integrante dell'esistenza cristiana. Già nella catechesi dell'iniziazione cristiana è importante introdurre la metodologia della lettura della realtà alla ricerca dei segni dei tempi nella luce del Vangelo. Si valuta infine importante che la Chiesa italiana si doti di un luogo permanente di riflessione sulla vita sociale e politica, in cui trovino posto laici scelti secondo criteri di territorialità e di competenza, valorizzandone il carisma specifico. Tale organismo potrebbe rappresentare uno strumento prezioso per dare continuità e respiro agli interventi da parte della comunità ecclesiale su temi socialmente rilevanti, superando modalità di intervento limitate alle esigenze del momento. Gruppo di studio 27 Ambito: cittadinanza Sintesi dei lavori Moderatore: Andrea Perrone, professore straordinario di diritto commerciale all'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Segretario: Marco Aquini, professore invitato di cooperazione internazionale per lo sviluppo alla Pontificia Università San Tommaso d'Aquino, Roma 17-18 ottobre 2006 1. Considerazioni generali Nel contesto di una discussione che ha mosso da un certo disagio per la relazione di ambito ( reputata poco connessa rispetto alla sintesi dei contributi preparatori e di difficile comprensione ), punti di partenza del lavoro di gruppo sono stati: a) la rilevazione della necessità di un'identità chiara ( favorita dall'ascolto della Parola, fonte di una cultura viva ), b) la constatazione di una ridotta consapevolezza nella comunità cristiana del tema della cittadinanza e, nel contempo, c) la consapevolezza di esperienze di opere già in atto e, più in generale, di una ricca tradizione da cui poter muovere. 2. Una riflessione sull'esperienza Privilegiando i temi dei modi del discernimento cristiano e della responsabilità dei cristiani come cittadini ( trascurate, di contro, sono state la coniugazione della prospettiva escatologica con l'impegno " qui e ora ", nonché la tematica della dottrina sociale della Chiesa, pur essendosi fatto riferimento ai concetti di bene comune, sussidiarietà e solidarietà ), la discussione si è principalmente incentrata sulle tre tematiche dell'immigrazione, del rapporto fra religione e politica e della globalizzazione ( pur essendosi preferito al riguardo l'utilizzo dell'espressione " giustizia e pace " ). Più precisamente: a) quanto al tema dell'immigrazione, è stata sottolineata, in via preliminare, l'essenzialità dell'altro - specie del migrante - per la vita della Chiesa, per poi sottolineare la necessità di una cultura dei diritti della persona, a prescindere dal godimento della cittadinanza formale, e, per la comunità cristiana, l'urgenza di diventare esperti di convivenza, capaci di creare relazioni personali autentiche, momenti comunitari ( in particolare: di festa ), religiosi e culturali, senza paura della diversità; con la capacità, invece, di parlare e ascoltare, accompagnando oltre i bisogni materiali, nella prospettiva missionaria della Chiesa. Fermo, nondimeno, il rispetto della laicità dello Stato e delle istanze del diritto naturale; b) con riferimento al rapporto fra religione e politica, riconosciuta la politica come questione propria della comunità cristiana, numerosi interventi hanno messo a tema lo spazio, il rischio di libertà, il ruolo e la responsabilità dei laici, rilevando, nel contempo, esperienze di solitudine per i laici concretamente impegnati in politica e di non attenzione nei loro confronti da parte della comunità cristiana. Di qui la ricorrente richiesta di luoghi di incontro e di una integrazione della pastorale sociale nella pastorale ordinaria. In un contesto di cristianesimo di minoranza, si è ribadita la politica come forma esigente di carità, orientata al servizio dei più deboli, secondo una prassi fortemente orientata in senso costituzionale, dovendosi identificare nella Carta fondamentale il riferimento di base anche per i cristiani. Largamente condivisa è poi stata l'affermazione che luogo dell'unità dei cristiani è la Chiesa e non la politica, come pure ampiamente condiviso è stato il riconoscimento del bipolarismo come dato dell'odierna realtà politica con cui misurarsi. Nondimeno, non sono mancati qualche perplessità sull'ineludibilità di tale sistema, come pure l'auspicio di toni più pacati nell'attuale dibattito politico, la prospettazione di progetti specifici da realizzare insieme, anche con realtà non cattoliche e, infine, il suggerimento di guardare alle esperienze delle altre Chiese europee. Quanto agli aspetti di contenuto, è stata più volte ricordata l'urgenza di conoscere le dinamiche economiche per un migliore intervento in sede politica, di favorire la partecipazione e, in un caso, di ripensare il modello dello stato sociale, anche valorizzando le opportunità offerte dal mercato; c) quanto infine alle questioni della globalizzazione, accanto a sollecitazioni verso una scelta di non violenza evangelica e di disarmo, si è ricordata la responsabilità dei cristiani per il riconoscimento dei diritti di cittadinanza anche oltre i confini nazionali, legandolo al molo della cooperazione, del governo delle relazioni commerciali internazionali e della responsabilità sociale. Non è poi mancato chi ha sottolineato come grande risorsa la presenza dei missionari rientrati in Italia. 3. Un approccio pastorale integrato Dedicato qualche cenno al tema del realismo cristiano ( con la specifica sottolineatura della necessità di figure professionali per un giudizio critico nei confronti dei mass media e di uomini competenti, capaci di sintesi ), illustrato un progetto nazionale per la realizzazione di consultori familiari e riservata una battuta al tema della promozione dell'affidamento dei minori, la gran parte della discussione si è soffermata: a) sul tema dell'educazione, secondo una molteplicità di forme: da un lato, l'ascolto e la conoscenza della Parola, insieme con una catechesi permanente, accompagnata da esempi di testimonianza; dall'altro, scuole di formazione - biblica, alla politica e all'economia, preferibilmente civile -, momenti di confronto con caratteristiche smodali ( sino alla proposta di un senato laicale ), gruppi di impegno socioculturali, con ciclo di incontri a livello diocesano; b) quanto all'esercizio reale dei diritti di cittadinanza per persone e gruppi in difficoltà, è stata proposta l'istituzione di commissioni pastorali regionali " giustizia e pace ", con la sperimentazione di una diaconia della pace, cui si accompagni un sostegno alla scelta del servizio civile; c) con riferimento, infine, al terreno comune di incontri, per il bene comune e contro le lacerazioni, sono state prospettate l'urgenza di una cultura mediterranea, di un ripensamento cattolico del concetto di governance, auspicando per l'Italia di diventare primo Paese della pace. Gruppo di studio 28 Ambito: cittadinanza Sintesi dei lavori Moderatore: Paolo Pezzana, operatore sociale, Caritas italiana, Genova Segretario: Maria Antonella Di Bello, insegnante, Potenza 17-18 ottobre 2006 Condividere Il gruppo ha messo a fuoco diversi snodi, alcuni dei quali evidenziati, altri rimasti in ombra nelle relazioni precedenti. - Le migrazioni. Alcuni nostri fedeli sembrano affrontare il fenomeno migratorio con sospetto e diffidenza. Una vera identità non ha paura dell'alterità, anzi si completa attraverso di essa. Occorre guardare con speranza al domani, perché le migrazioni, conseguenze di una globalizzazione sperequata e consumistica, sono in atto e non si fermeranno, a meno di mutare il modello di sviluppo. La persona migrante, con la sua storia spesso intrisa di disagio e con le sue esigenze di integrazione e di salvaguardia della propria identità, è una priorità per la Chiesa. Dobbiamo fare memoria delle esperienze passate di migrazioni in cui spesso solo la Chiesa ha saputo offrire profetica prossimità. Grazie a questo impegno, si sono spesso raggiunti livelli di civiltà dai quali non si può arretrare. Non è un compito estraneo alla Chiesa ma conseguenza della sua intrinseca missionarietà. - I giovani. Non sembra esserci una sufficiente cittadinanza " alla luce del giorno " per i giovani, sia nella società che nella Chiesa. Probabilmente da questa, come dalle altre fragilità sociali che li investono, viene una sempre più frequente loro evasione " nella notte ", vissuta come illusione di un protagonismo altrimenti negato. Una Chiesa che promuove poco i giovani si prende poca cura del proprio futuro. Educare vuol dire accompagnare e favorire la partecipazione, dando fiducia alle capacità educative e di discernimento dei giovani stessi. - I cammini formativi. In questi anni abbiamo fatto progetti ma non attivato abbastanza percorsi; le catechesi ordinarie mancano dei temi reali della vita, dell'educazione alla cittadinanza ecclesiale e civile. Non abbiamo bisogno di nuove strutture ma di un nuovo modo di vedere la parrocchia e la pastorale come casa della speranza, dalla quale scaturiscono cammini di testimonianza. - I linguaggi. I nostri linguaggi non sempre permettono di trovare convergenze di valori su concetti comuni. Occorre una purificazione del linguaggio per fare unità anche laddove oggi si rischiano divisioni. Non sarà nominalismo ma un frutto della conversione alla speranza. - La politica. Senza animazione cristiana della politica, le città escludono il debole e il diverso, e vanno verso modelli fortificati che non rispecchiano il Vangelo dell'accoglienza. Tuttavia la solitudine accompagna spesso chi si impegna in politica da cristiano, e le nostre comunità appaiono spaventate dalle possibili divisioni conseguenti alla scelta di uno schieramento che oggi il bipolarismo impone. Occorre attivare percorsi di sussidiarietà, con stili di vita umili, coerenti e trasparenti che diano visibilità ai valori e alle tradizioni già presenti nel tessuto sociale ed ecclesiale. In tal modo la comunità cristiana potrà sostenere senza imbarazzi persone e progetti politici di autentico servizio, che portino a superare una diffusa cultura clientelare o della raccomandazione e del privilegio, da cui anche la Chiesa non sembra esente. Il tutto in una prospettiva di accoglienza della pluralità non solo ad extra ma anche ad intra ecclesiae, che riconosca nella città dell'uomo il kairos per la fraternità. Dobbiamo obbedire al Vangelo prima che agli uomini: non tutto ciò che è legale è anche evangelicamente legittimo. Elaborare La Costituzione italiana, che tanto deve al cattolicesimo, disegna uno Stato che non è un pericolo ma un valore, denso di possibilità di speranza qualora i cristiani italiani, coscienti della loro idea di Stato, partecipino ad animarne le istituzioni. A partire dalla dottrina sociale della Chiesa, con realismo cristiano, vanno elaborate visioni e prospettive nuove sulla città che, come Chiesa, vogliamo abitare. Nelle comunità si possono trovare convergenze sui valori e sulle grandi tematiche antropologiche, ma altro è sperimentare e vivere con coraggio scelte di testimonianza coerenti con il Vangelo. Il terreno più fertile per accogliere queste sfide è la Chiesa locale, se si apre al territorio e se sa essere casa per tutti, luogo popolare, in cui ognuno si senta cittadino della Chiesa e del mondo. Alcuni pericolosi segnali di fondamentalismo sembrano attraversare anche le nostre Chiese; per questo occorre promuovere una corretta cultura dell'identità, in cui sviluppare il senso di appartenenza alla Chiesa, al popolo e alla funzione pubblica delle istituzioni. Un ruolo tutto particolare va riconosciuto alle donne. Al centro delle preoccupazioni della Chiesa dovrà restare il debole, con i suoi diritti di cittadinanza e le sue potenzialità, che ne fanno una risorsa. Allo stesso modo va affrontata la " questione meridionale ". La prossimità come stile ecclesiale può testimoniare alla società un modo di essere cittadini attivi e responsabili, a partire dalla memoria delle esperienze di cittadinanza che, nate " sui sagrati delle chiese ", hanno generato istituzioni a servizio dell'uomo. Sulla responsabilità nei confronti del fratello saremo giudicati l'ultimo giorno, per questo non si può improvvisare; occorrono percorsi educativi da proporre per tutto l'arco della vita con catechesi appropriate e aperte. La presenza dialogante dei cristiani potrà così rivelarsi al mondo con una propria identità ed essere visibile senza demagogie. L'appartenenza all'Europa e la costruzione di una costituzione comune sono il territorio in cui più spendersi come cristiani. Proporre Le scuole di formazione all'impegno sociale e politico vanno ripensate e rilanciate sia a livello " alto ", con corsi qualificati, sia a livello popolare, con iniziative diffuse nei territori. I luoghi di formazione vanno messi in rete, e la stessa CEI potrebbe coordinarle, anche via web. Da qui deve scaturire per i laici la competenza a leggere le scelte sociali e politiche, e la capacità di intervenire nei processi partecipativi nei quali si formano, come piani di zona, bilanci comunali, i comitati di quartiere. Il volontariato, il terzo settore, la protezione civile ed esperienze forti di cittadinanza come quella del servizio civile, rappresentano investimenti educativi e prassi di testimonianza fondamentali per la Chiesa. Nella scuola vanno riproposte e attualizzate come opportunità di accesso alla cittadinanza esperienze di centralità educativa della persona quali quelle dei santi educatori. La presenza di mediatori culturali nelle scuole, negli sportelli, nei servizi ecclesiali, potrà rivelarsi un'utile risorsa per integrare tutti. Attenzione, in un'ecclesiologia di comunione, andrà riservata ai progetti e ai percorsi formativi dei futuri presbiteri e diaconi, affinché non trascurino le tematiche sociali. La centralità della Parola e dell'Eucaristia dovrà essere il fondamento e l'alimento dell'impegno concreto del cristiano nella città. In questa ottica il potere potrà essere depurato dalle valenze negative e assunto come strumento di un'autorità al servizio del bene comune. Più attenzione alla pastorale integrata sarà risorsa preziosa per vivere in pienezza tale unità della vita cristiana. L'ascolto autentico dei laici da parte della gerarchia è indispensabile. L'istituzione di un " consiglio dei laici " potrà assolvere tale compito e la Chiesa potrà così formulare indicazioni e strategie più concrete per difendere la propria identità, fronteggiare le sfide culturali, mobilitarsi per lo sviluppo sostenibile e la lotta alle ingiustizie. Occorre non isolare gli anziani, stimolare una nuova legislazione sulla cittadinanza, in una logica di graduale sostenibilità che consideri le esigenze di tutto il Paese. In campo pastorale andrà curata l'integrazione delle comunità di immigrati cristiani nelle nostre Chiese locali. Occorre pensare i nostri cammini in maniera " misurabile ", per sottoporli a verifica periodica, anche spiritualmente. Si auspica la possibilità di una verifica quinquennale delle ricadute pastorali e sociali dei convegni ecclesiali. Gruppo di studio 29 Ambito: cittadinanza Sintesi dei lavori Moderatore: p. Michele Simone, vicedirettore de La civiltà cattolica, Roma Segretario: Matteo Bellati, Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 17-18 ottobre 2006 1. Analisi a) La nostra speranza di cristiani testimoni del Risorto è anche dare speranza a chi non ce l'ha, uscire dalla cultura dell'impossibile. b) La riflessione sull'antropologia cristiana - ma qualcuno attende una " nuova " antropologia cristiana - potrebbe fornire gli strumenti culturali per aiutare a vincere il senso di estraneità vissuto da molti nelle società occidentali. c) In talune zone del Mezzogiorno vivere e difendere la legalità sino in fondo, soprattutto se viene a mancare la presenza attiva della comunità, può comportare persino un pericolo per la propria vita. Il problema del rapporto tra nord e sud del Paese, comunque, è innanzitutto una questione di mentalità: ad esempio, il sud deve essere concepito come una risorsa per il Paese e non un peso. d) Una solitudine provocata, in genere, dall'assenza della comunità cristiana è quella del politico cattolico. Ci si è chiesti: a quale formazione deve attingere il politico cattolico? Quale legame ha con la comunità di provenienza? Fra l'altro, la recente legge elettorale ha favorito l'interruzione del rapporto del deputato con il territorio. Allora la città diventa quasi l'unica dimensione nella quale i cittadini possono interloquire con i propri amministratori. e) Molti cattolici non approvano la discrasia creatasi tra i politici cattolici che si dichiarano tali, ma non lo testimoniano con coerenza, e i cattolici che dialogano apertamente con loro senza tener conto della condizione dell'interlocutore ( talora anche i responsabili della comunità ecclesiale ). f) I politici cattolici incontrano grande difficoltà di fronte alla tendenza attuale della politica "leaderistica" oggi dominante e tanto lontana dalla caratteristica cultura di popolo dei cattolici. g) Alcuni hanno attribuito alla comunità cristiana l'antico compito dell'educazione dei cattolici al " prepolitico". h) Qualcuno si è domandato: sono passati dieci anni da Palermo e che cosa è avvenuto sul versante della cittadinanza? Ad esempio, un tempo era il lavoro che caratterizzava la cittadinanza, oggi esistono lavoratori ( in nero ) senza cittadinanza e cittadini senza lavoro. i) Problemi significativi connessi alla presenza degli immigrati nei grandi agglomerati urbani sorgono a causa della densità migratoria alta: ad esempio, l'insegnamento nella scuola, il rispetto del pluralismo religioso, gli interrogativi soggiacenti ai rapporti tra le generazioni. l) È intensa la tentazione del riflusso nel privato, anche in campo ecclesiale, e quindi esiste una scarsa attenzione al bene comune. 2. Prospettive a) Nonostante la riconosciuta esigenza della necessità del passaggio dall'impegno di volontariato a quello politico, sono state denunciate le difficoltà che ancora si incontrano in questo cammino. b) Come in altri convegni o incontri ecclesiali o civili, è stata avvertita la carenza di conoscenze e di formazione anche in campo scientifico, soprattutto in un tempo nel quale i cittadini sempre più spesso sono chiamati a decidere sui temi di bioetica e di biopolitica, e vivono con ansia le rapide trasformazioni degli strumenti di comunicazione e dell'informatica. c) Esiste un grande bisogno di formazione ai problemi della cittadinanza, perché la tentazione dello " straniamento ", come disse il Prof. Giorgio Rumi, incombe sui cattolici per quel che riguarda l'impegno o almeno l'attenzione ai temi politici. d) Leggere il territorio come " luogo teologico ", oggettivo riferimento delle sfide che ci interpellano. e) Positiva è apparsa la trasformazione di qualche antica scuola di formazione politica in scuola - laboratorio, nella quale si alternano le lezioni, i dibattiti - confronti e gli incontri con gli amministratori e i politici. f) Manca la percezione da parte di molti giovani cattolici dei problemi inerenti alla cittadinanza, che poi scoprono più tardi di fronte al problema della disoccupazione. 3. Proposte 1. Dopo la fine del Convegno sarebbe necessaria la creazione, innanzitutto a livello locale almeno sino a quello della Diocesi, di luoghi di incontro, dialogo ed eventualmente co-decisione da parte di tutte le componenti ecclesiali, compresi i politici cattolici, sui temi della cittadinanza. 2. Riprendendo un'indicazione del Convegno di Palermo che non sembra attuata, sarebbe opportuno inserire la dottrina sociale come elemento degli itinerari di catechesi, a cominciare da quello della prima comunione. 3.1 migranti sono una realtà incontestabile, ma anche un arricchimento per la società, una risorsa per la città. Il cristiano per vocazione è cittadino del mondo e, quindi, per lui non dovrebbe esistere lo straniero. Circa l'accoglienza in Italia, il dialogo autentico con gli immigrati, anche sulla religiosità, può essere attuato soltanto mantenendo la propria identità: si tratta di un'accoglienza capace di non negare la verità. Rimane aperto il problema del rispetto dei diritti degli immigrati e, corrispondentemente, dei loro doveri come eventuali cittadini italiani. Risulta opportuno appoggiare una nuova regolamentazione dei criteri di accesso alla cittadinanza italiana da parte dei migranti, prevedendo diritti e doveri, diminuendo gli anni di attesa ed eventualmente inserendo una clausola revocatoria della cittadinanza nel caso della commissione di reati entro un certo periodo di tempo predeterminato. 4. Circa la formazione, è stata ricordata la necessità di mettere in evidenza l'educazione ai valori sin dalla più tenera età, in modo evidentemente proporzionato a essa. 5. Riscoprire il senso pieno della legalità vissuta anche con ispirazione profetica: denunciare il lavoro nero o gli incidenti sul lavoro, combattere la corruzione a tutti i livelli, promuovere un corretto atteggiamento nel pagamento delle tasse ecc. 6. Non dimenticare il problema della povertà della Chiesa e quello della trasparenza delle operazioni finanziarie e dei bilanci. 7. Avere sempre dinanzi agli occhi l'immagine del samaritano dell'" ora prima ", il quale riesce a prevenire il delitto, salvando colui che stava per diventare preda dei briganti. 8. Il servizio della politica deve essere svolto dai laici, andando oltre il semplice " prepolitico " e valorizzando tutte quelle opportunità che aiutano lo svolgimento di un pieno servizio politico da parte di coloro che vi sono chiamati. 9. Il cristiano testimone del Risorto deve essere capace di andare oltre una lettura " pessimistica " della realtà per scoprire la presenza di Dio al lavoro nel mondo, altrimenti non è un uomo della speranza. 10. C'è stata una significativa convergenza sul fatto che i cristiani impegnati a vivere le esigenze della cittadinanza non possono farlo da soli, ma è necessario l'appoggio e la condivisione della comunità, senza andare alla ricerca del sensazionale, ma vivendo tale impegno nella quotidianità. 11. Non va disdegnato il ritrovarsi come minoranza significativa nella società italiana, l'accettare il senso del limite, il saper essere capaci di partire dalle retrovie per riscoprire le nostre radici più profonde, che sono eminentemente popolari. 12. L'opzione preferenziale dei poveri è diventata un residuo del passato? 13. Compito dei delegati è riportare nelle realtà locali il dibattito vissuto in Convegno. 14. La titolarità dei diritti di cittadinanza deve essere inverata dal loro rispetto nella pratica: ad esempio, coloro che non riescono a essere informati dei loro diritti ne sono esclusi. 15. E piaciuta l'immagine del " cantiere " per cogliere il senso di una comunità viva. Nel cantiere c'è un progetto nella cui realizzazione sono impegnate varie professionalità che collaborano insieme. 16. Lo stile della partecipazione alla comunità ecclesiale deve essere ispirato, quando ciò è possibile, dalla sinodalità. 17. A molti è piaciuto richiamare come icona dell'uomo della speranza don Tonino Bello, un Vescovo capace di pregare, insegnare a pregare e agire efficacemente in nome del Vangelo. Gruppo di studio 30 Ambito: cittadinanza Sintesi dei lavori Moderatore: Franco Vavvari, psicologo, Arezzo Segretario: Elisa Manna, responsabile del settore politiche culturali, Censis, Roma 17-18 ottobre 2006 Il gruppo ha registrato tutte le presenze previste. Il dibattito è stato vivace, sincero. Si sono misurati punti di vista diversi. Una certa fatica è emersa nell'individuazione di proposte concrete. Nella prima sessione ci sono stati 28 interventi. Nella seconda sessione 34. Nella terza oltre 50. In molti hanno potuto intervenire due o tre volte, in modo che il dibattito ha preso una buona scioltezza. La presente sintesi, ripresentata al gruppo e via via riformulata, ha ottenuto apprezzamento unanime. Sintesi preliminare Il gruppo, convinto della necessità di un approccio ai nuovi problemi con nuovi strumenti pastorali - sia per l'analisi sia per l'elaborazione dell'azione -, ha sperimentato una sorta di primo assaggio di quella pastorale integrata che si sta iniziando ad auspicare. Un assaggio felice, che esclude con decisione la creazione di un eventuale nuovo " Ufficio " per la promozione pastorale dell'impegno in questo ambito. Le istanze di questo ambito, invece, debitamente accolte, pongono l'esigenza di una riforma degli uffici esistenti ai vari livelli perché ormai inadeguati per una reale visione d'insieme e una conseguente azione coerente. Considerazioni generali - Per annunciare la speranza ai compagni di viaggio della nostra società italiana, europea e mondiale, speranza che è Cristo risorto, occorre, nella crescente complessità del nostro tempo, ritrovare l'essenziale. Questa speranza che abita nei nostri cuori, e si alimenta alla Parola di Dio, si qualifica nel nostro impegno civile quotidiano per una chiara tensione escatologica. L'orizzonte escatologico non è una fuga o un'alienazione, ma la forza in più per un impegno audace. Qui sta la differenza cristiana, che è sostanza di tutte le nostre speranze. Questa speranza rafforza il nostro compito di " esserci " e questo " esserci " realizza l'escatologia. La società ha bisogno di cristiani autentici che facciano crescere l'ethos collettivo. Accanto al valore quindi della presenza anche solo del singolo cristiano - che non deve essere minimizzata - occorre discernere insieme le nuove forme dell'aggregarsi per un rinnovato impegno sociale e politico. - Qui ( e non in una rosea e banale valutazione del presente ) si origina un atteggiamento di simpatia verso il mondo e, insieme, una dilatazione della visione, dell'analisi, della percezione delle nostre comunità che deve estendersi all'Europa e al mondo. - Insieme alla simpatia per i fratelli e le sorelle della nostra società, occorre comunicare un alto senso di responsabilità e di rinnovata stima per la democrazia, intesa come bene mai acquisito definitivamente. - Accanto a questo ( e proprio in ordine alla continua crescita della democrazia ) si evidenzia un " vuoto " tra la dimensione ecclesiale e quella politica. La crescita del volontariato è un bene, ma l'enfasi posta su questa realtà oscura la dimensione del cristiano come cittadino, generando l'idea che essere volontario esaurisca l'essere cittadino. Potrebbe essere un segno di ripiegamento, incoraggiato, negli ultimi anni, da una forte e ingiusta svalutazione del ruolo della persona impegnata in politica. - Al contrario: c'è bisogno e voglia di incidere e di verificare le possibilità di un impegno politico per alimentare la speranza ( apprezzata, in tal senso, l'assegnazione del Nobel per la pace all'economista inventore del microcredito ). - Se la cittadinanza riguarda la convivenza di tutti gli uomini, allora i cattolici devono sentirla certamente come un diritto, ma anche e soprattutto come un dovere, non ritenendo di poter tenere come proprietà privata il concetto di " bene comune " né continuare ad avere un linguaggio distante da quello degli altri uomini del nostro tempo. - Preoccupazione per la scarsa sensibilità per questa problematica, diffusa nell'ambiente civile in generale e nel popolo di Dio. Ancor più viva la preoccupazione per la scarsa presenza giovanile in questo ambito. Tra le varie ragioni: una lettura privatistica della fede, i ritorni negativi di una conflittualità esasperata dei cattolici impegnati nell'agone politico, una sistematica ricerca strumentale dei cattolici ai fini del consenso, specialmente elettorale. Una riflessione sull'esperienza - Occorre un superamento della dialettica laico nella Chiesa / laico nella società, anche perché c'è da affermare una nuova cittadinanza per tutti sia nella Chiesa che nella società. Si deve infatti essere praticanti come cattolici e praticanti come cittadini. Non aiutano le immagini di " passi avanti " e " passi indietro " che qualcuno dovrebbe compiere ( laicato e gerarchia ). Semmai si devono integrare i linguaggi, dando voce ai mondi tipicamente laicali all'interno della Chiesa per una comune maturazione di coscienza secolare, e quindi testimoniando a una sola voce un maggiore impegno della Chiesa tutta intera nei punti critici della vita sociale: dalla denuncia per le forme di negazione della cittadinanza alla sua positiva promozione ( diffusa e drammatica l'esperienza di laici che si sentono " tagliare le radici dal corpo ecclesiale " proprio quando si impegnano ). - Non si può avere una legittima attesa positiva in questo e in altri ambiti se non si punta sulla formazione. - I temi inerenti alla cittadinanza devono ricevere le opportune verifiche nella vita ecclesiale: le omelie spesso disincarnate e spiritualizzanti, la catechesi ai bambini o ai preadolescenti che non prevede questi argomenti come se non li riguardassero, l'applicazione della dottrina sociale della Chiesa che è un messaggio alto, ma ancora non tradotto nella vita pratica e non diffuso oltre i confini ecclesiali. - A questo proposito si evidenzia un " punto critico ": da una parte i " principi non negoziabili " derivanti dalla fede ( non si abbassi mai la vigilanza sui temi della bioetica ) e dall'altra la necessità della mediazione nel contesto politico. Questo punto dovrebbe essere maggiormente dibattuto e messo a fuoco, anche in ragione di una certa deriva dei cattolici europei, in fuga crescente dalla politica perché ritenuta un " luogo " non più abitabile. - I diritti di cittadinanza non solo riguardano il singolo cittadino, ma le esperienze di relazioni significative in ambito civile - prima fra tutte la famiglia - e delle aggregazioni sociali portatrici di culture rispettose della persona. - La cittadinanza si esprime, si irrobustisce o si vanifica in mondi che sono ancora troppo distanti dal tessuto ecclesiale e che vanno letti con attenzione: economia ( " strutture di peccato ", specialmente nelle terre di mafia, camorra e ndrangheta ), istituzioni nazionali e sopranazionali ( taglio dei fondi per la cooperazione, canale decisivo per la crescita della cittadinanza ), burocrazia. - Per tutto questo occorre riscoprire la parrocchia come primo luogo naturale di pastorale ordinaria. Qui infatti, meglio che altrove, si possono evitare i rischi di azioni concepite come parallele o conflittuali o sostitutive di ciò che si fa nella società. Occorre essere aperti realmente ed evitare logiche che ghettizzano sia autoctoni sia immigrati. La nuova frontiera della cultura è l'intercultura, intesa come formazione alla convivenza e concelebrazione delle differenze. - Non si dà azione efficace in questo ambito, se non si comprende il ruolo decisivo dei mezzi di informazione di massa. È urgente una capillare formazione all'uso. Infatti occorre uscire da quel circuito vizioso che fa dei cattolici i protagonisti di una costante litigiosità politica. D'altra parte si deve riaffermare da parte ecclesiale uno stile che non permetta di delegittimarsi a vicenda sulle traduzioni concrete, in ambito politico, delle proprie idee. Dissentire è normale e in parte salutare, ma sempre sentendosi parte della stessa comunità. Il progetto culturale, come " collante " del tessuto ecclesiale, deve avere il primato sulle appartenenze politiche. - In positivo, la comunità ecclesiale deve sviluppare una cultura e stili di vita che si facciano carico delle future generazioni, innanzitutto promovendo il valore della generazione della vita, quindi della gestione del territorio e delle risorse, della preoccupazione di trasmettere a esse un patrimonio spirituale e culturale. Per dare speranza occorre sbarazzarsi del " tutto e subito " o del " tutto per me ". Deve interessare infatti non cosa dicono oggi di noi, ma cosa diranno fra cinquant'anni. Un approccio pastorale integrato 1. Investire sulla formazione, specialmente dei laici. Non deve dire la Chiesa come essere nelle diverse situazioni, ma incoraggiare la ricerca e le proposte nuove, specialmente le esperienze giovanili. Conoscere e informare sulla realtà. Costruire progetti in rete, contaminandosi con il territorio. Caposaldo della formazione è la diffusione della dottrina sociale della Chiesa, negli spazi della scuola pubblica ( elaborare i " pacchetti formativi " da offrire ), nell'ora di religione, nelle università, negli istituti di scienze religiose. Riaffermare il valore delle scuole di formazione sociale e politica, aperte soprattutto ai giovani. Non devono essere solo teoriche, e non dimenticare mai l'ascolto della Parola, come ricordato nella meditazione di don Franco Mosconi, supplemento d'anima nell'ambito delle problematiche legate alla cittadinanza. Riprendere e studiare testi come La Chiesa italiana e le prospettive del Paese. 2. Famiglia e scuola sono luoghi dove sviluppare la relazionalità, fondamento primo di ogni possibile cittadinanza. Si deve insistere per dare maggior dignità all'educazione civica nella scuola, come fondamento della convivenza civile ( contemporaneo richiamo all'ispirazione religiosa e laica - la Costituzione ). Le famiglie aperte ai problemi sociali sono famiglie che si arricchiscono, così come la parrocchia: escono dall'autoreferenzialità. Per darci futuro occorre affidare ai giovani le responsabilità. Sostenere le famiglie - e le aggregazioni in suo favore - per un accompagnamento quotidiano, in particolare quelle giovani, rendendole consapevoli del loro rilevante compito sociale. Questo va inserito nel vissuto ordinario della vita della Chiesa, superando la logica degli uffici ( grandi parrocchie, Diocesi, livello centrale ). In tal senso l'unica via è quella del metodo di " pastorale integrata ", per diventare una vera comunità che sa sviluppare germi di rigenerazione per una cittadinanza integrata. Tale metodo dovrebbe diventare " obbligante ". 3. Inventare dei laboratori della fede in mezzo alla società, senza separazione. 4. Promuovere campagne di salvaguardia delle coscienze dei cittadini dalla diffusa povertà davanti ai mezzi di comunicazione. Una gestione più comunitaria e partecipata dei nostri mezzi di comunicazione ( Avvenire, Sat2000 ecc. ). Riuscire a ricavare dalla pubblicità forme di finanziamento da destinare all'azione culturale e civile. 5. La parrocchia sentita come ambito privilegiato. Promuovere la nascita di laboratori attenti alle problematiche del territorio, " antenne territoriali " dove si elaborano proposte di soluzione. Una " bacheca della cittadinanza " in ogni parrocchia può sollecitare uno sguardo vigile a quel che succede e aiutare a interpretarlo. È anche il luogo che meglio può rispondere alle esigenze di integrazione nel lavoro degli immigrati. 6. Sviluppare nel tessuto ecclesiale forme di cooperazione tra nord e sud d'Italia per uscire dalla solitudine e dall'autoreferenzialità.