CEI/Conv/2006_10_16/06/06.tx Confronto con esponenti della cultura europea Per la prima volta, all'interno di un Convegno Ecclesiale sono stati invitati a parlare esponenti della cultura europea. La scelta registra l'importanza crescente dello scenario europeo per il dibattito culturale e politico, così come per le scelte economiche e sociali, ma vuole indicare anche la necessità di un'ampia sintonia nel comune sforzo di testimonianza del Vangelo. Al confronto hanno partecipato: - la prof.ssa Margaret Archer, ordinario di sociologia nell'Università di Warwick ( Coventry ) e membro della Pontificia Accademia delle Scienze sociali; - il don. Michel Camdessus, Presidente delle Settimane sociali di Francia; - il prof. San Figel', commissario dell'Unione europea per l'istruzione, la formazione, la cultura e il multilinguismo; - il prof. Andrea Riccardi, ordinario di storia contemporanea nell'Università di Roma Tre. Dopo l'intervento introduttivo del prof. Riccardi seguono quelli della prof.ssa Archer, del dott. Camdessus e del commissario Figel', e infine le conclusioni del prof. Riccardi. Intervento introduttivo del prof. Andrea Riccardi 18 ottobre 2006 Ascolteremo tre illustri relatori: la prof.ssa Margaret Archer, inglese, che insegna sociologia all'Università di Warwick, il dott. Michel Camdessus, presidente delle Settimane sociali di Francia e che è stato direttore del Fondo Monetario Internazionale, e il prof. Jàn Figel', slovacco, commissario dell'Unione europea per l'istruzione, la formazione, la cultura e il multilinguismo. Sono tre personalità che provengono da tre aree diverse: l'Europa dell'est, la Francia e il mondo anglosassone. Sono anche tre personalità che hanno vissuto gli ultimi anni in tre prospettive estremamente diverse: Camdessus nella prospettiva del mondo finanziario, la Prof.ssa Archer in quella della ricerca scientifica e dell'indagine accademica, il Prof. Jàn Figel' ora con la sua responsabilità europea. Il significato di questa tavola rotonda è chiaro: il nostro pensare e vivere la speranza non comincia e non finisce solo con il mondo italiano. È una realtà che il vissuto italiano ormai si collochi su più vasti orizzonti e - non lo dimentichiamo - dipenda da più vasti orizzonti. Il significato di questa serata è un inevitabile passaggio europeo, come modo di stare nel mondo: in un mondo globalizzato è difficile pensare solo al proprio territorio. Ciascuno di noi - lo voglia o non lo voglia - è un uomo o una donna del suo quartiere ma vive anche sulla terrazza del vasto mondo. Al contrario spesso, spaesati da orizzonti grandi, ci rannicchiamo nel nostro angolo; è una posizione che, anche se naturale, alla fine risulta perdente. Il significato della tavola rotonda è semplice: additare l'orizzonte europeo attraverso la lettura di questi nostri tre amici, che ringraziarne per averci raggiunto e per la loro partecipazione a questo nostro Convegno. Si è detto: " Pensare il Concilio in italiano ", ma oggi a trent'anni dal 1° Convegno ecclesiale di Roma forse il problema è pensare il Concilio o la fede sulla scena europea globale, in cui ci si confronta con una dimensione al plurale. Così sugli orizzonti di un mondo globale non si sta se non in una dimensione europea: siamo troppo piccoli e nudi senza questa dimensione, seppure la dimensione europea vada ancora chiarita nella sua portata, nel suo significato e nella sua funzione. Privare l'ateismo dei suoi privilegi Intervento della prof.ssa Margaret S. Archer 18 ottobre 2006 Anche in questa occasione gioiosa e celebrativa non possiamo ignorare tutti i " segni oscuri " nei confronti della nostra fede, segni che sono pervasivi in tutta l'Europa. Intendo soffermarmi su quelli che vengono dal mondo accademico, specialmente dalle scienze sociali e dalla filosofia contemporanea. Sono segni importanti a causa della posizione influente degli accademici, sia attraverso i media - dove i nostri concetti complessi si fanno discorsi comuni - sia a causa della nostra influenza, direttamente su una percentuale crescente di giovani e indirettamente sulla formazione dei loro insegnanti. Questi " segni oscuri " provenienti dal mondo accademico sono l'eredità dell'illuminismo. Quell'eredità privilegia l'ateismo, facendo " l'uomo misura di tutte le cose ". In breve la realtà ( naturale e trascendentale ) diviene fatta a sua immagine, in modo antropocentrico o, sempre più spesso, sociocentrico. Di conseguenza, l'ateismo è diventato l'opzione preselezionata nella cultura accademica: è una credenza, che però non è tenuta a giustificarsi come credenza. Quegli accademici che osano proporre o difendere visioni religiose, avanzando così pretese di verità, non godono di pari opportunità: viene detto loro che le loro credenze non possono essere parte dell'impresa scientifica o che tali credenze riguardano qualcosa di diverso da ciò che ritengono coloro che le credono. Tornerò a breve su questo processo di marginalizzazione ed esclusione. Il risultato è stato una ritirata del religioso: in pubblico ci comportiamo come atei laicisti; le nostre credenze e pratiche religiose sono privatizzate. Ci comportiamo pertanto come cristiani " in privato ": per esempio Peter Berger, forse il sociologo della religione più influente e un luterano credente, sin dagli anni '70 del secolo scorso ha raccomandato che nello studiare la religione " tutte le spiegazioni metaumane del fenomeno devono essere messe tra parentesi o da parte ". Al loro posto egli ha difeso l'" ateismo metodologico ". Così ha confinato il suo cristianesimo nel privato, con qualche occasionale intervento di tono diverso di fronte ai teologi. L'" ateismo metodologico " è stato accolto a braccia aperte nel mondo accademico, ma il suo effetto è stato la negazione a priori della possibilità che la realtà di Dio fosse davvero responsabile delle esperienze religiose che la gente aveva e che raccontava come tali. L'esperienza religiosa riguardava qualcos'altro ed era stata descritta nel modo sbagliato. Sin dall'inizio l'" ateismo metodologico " riteneva impossibile che le esperienze religiose si riferissero a qualcosa di effettivamente religioso - il che era perfettamente accettabile per gli eredi dell'illuminismo. Cito questo esempio, perché mostra quanto il presupposto dell'ateismo abbia allontanato la credenza dal mondo accademico, anche per un credente tenace. Per tutto il XX secolo, nella filosofia, nelle scienze sociali e nelle discipline umanistiche l'assalto è stato spietato. 1. Il positivismo ha vietato il discorso su Dio perché non poteva essere empiricamente verificato. Ciò che non poteva essere verificato era metafisica, non scienza, e per i positivisti logici la metafisica era " priva di senso ". 2. Wittgenstein e la svolta linguistica hanno sostenuto che ogni gioco linguistico non è altro che la componente discorsiva di un'intera forma di vita, dalla quale il gioco linguistico deriva il suo senso. Per loro, la religione era un gioco linguistico diverso dalla scienza. Il linguaggio religioso non fa asserzioni sulla realtà indipendentemente dalla comunità dei credenti, piuttosto mobilita quella comunità in certe direzioni spirituali. Ha pertanto una funzione performativa, assai differente da quella del linguaggio scientifico. Quando i credenti pregano Dio insieme, non importa se Dio è reale oppure no. Tutto ciò che importa è che coloro che pregano si riconsolidino come comunità religiosa. Questo tipo di discorso aveva una sua attrattiva: il discorso religioso diventava accettabile per gli atei perché non avanzava pretese di verità, riguardava solo la costruzione di una comunità. Molti accademici credenti accettarono i termini di questo " concordato ": " Rispettiamo tutte le "forme di vita" perché anche la nostra sarà rispettata ". Ma questo è un accordo di suicidio reciproco. Se niente di quello che chiunque dice riguarda la verità, perché merita rispetto? Paradossalmente, consacrare il " sociale " ha come prezzo il relativismo. 3. Tuttavia, uno scetticismo ancora più profondo doveva arrivare con il postmodernismo. Lascia perdere la domanda sull'esistenza di Dio: esiste una qualunque cosa? Nemmeno i risultati più solidi della scienza sono reali, perché tutta la realtà è una costruzione sociale frammentata dal potere. La formula di Derrida ( il n'y a pas de hors texte, " non c'è un fuori testo " ) - nonostante i suoi equivoci successivi - fu sentita come una dichiarazione che non c'è una realtà obiettiva oltre le nostre interpretazioni culturali. Ci sono soltanto i nostri testi e i discorsi: quando questi cambiano, cambia anche la realtà, perché l'ontologia è stata completamente ridotta all'epistemologia. Questa posizione si confuta da se stessa, dato che la negazione di una qualsiasi cosa fuori dal testo deve essere interpretata proprio come il tipo di pretesa di verità astratta vietata dalla dichiarazione stessa. Nondimeno, essa rimane estremamente attraente, in larga misura perché sottoscrive l'imperialismo delle scienze sociali. È la realizzazione del sogno di Auguste Comte: la sociologia diviene finalmente la regina delle scienze. Il trionfo del costruttivismo sociale spiega il tempismo del realismo critico, emerso in Gran Bretagna. Si tratta di una filosofia delle scienze sociali totalmente contraria, basata su tre pilastri, che possono sostenere in modo non preconcetto le pretese di verità sia di ambito religioso sia di ogni altro ambito. Su quella base, alcuni di noi sono usciti dal " privato " e hanno rivendicato la possibilità di prendere le affermazioni religiose sul serio. Il nostro tentativo di giustificare nuovamente la religione nel mondo accademico si basava molto sulle affermazioni che la gente fa circa la propria esperienza religiosa personale, dato che l'esperienza di qualsiasi parte della realtà era in effetti negata dal costruzionismo. 1. Realismo ontologico, che asserisce l'esistenza obiettiva della realtà. Tutta la realtà è indipendente dalle nostre credenze su di essa, anche se ci sbagliamo o rimaniamo completamente ignoranti al riguardo. L'esistenza o non esistenza di una cosa qualsiasi non dipende in alcun modo dalle nostre convinzioni individuali o culturali. Nella religione, come nella scienza, le nostre credenze sono veramente in dialogo con la realtà: mettere tra parentesi la realtà ed esaminarne un solo elemento - il " sociale " - rende impossibile capire la scienza o la religione come qualcosa che non sia una costruzione sociale, dato che il "sociale" è l'unico giocatore ammesso al tavolo da gioco. Non è solo una qualsiasi realtà indipendente - ad esempio Dio - che viene messa tra parentesi se ci concentriamo solo sulle pratiche, sui discorsi e sui testi. Avviene lo stesso anche per il soggetto umano e la sua esperienza dato che discorsi, testi ecc. non possono fare esperienza di alcunché: solo il soggetto può farlo. Attraverso pratiche, discorsi e testi gli individui fanno esperienza della realtà ed esprimono la realtà di cui fanno esperienza. Mettere tra parentesi colui che fa esperienza e ciò di cui si fa esperienza è come cercare di capire il matrimonio avendo messo tra parentesi mariti e mogli. In ogni esperienza vera, l'oggetto d'esperienza contribuisce qualcosa al contenuto dell'esperienza. Se un presunto oggetto d'esperienza non contribuisce niente al contenuto dell'esperienza, quell'esperienza è solo un'illusione. Pertanto, il realismo difende pari opportunità per tutti e la possibilità di avanzare pretese di verità. Qual è l'illusione, la presenza percepita di Dio o la sua altrettanto percepita assenza? Non ci sono risposte semplici, ma nemmeno risposte pregiudicate. 2. Relatività epistemica: ogni conoscenza è carica di valori e di teorie. Insieme a praticamente chiunque altro, i realisti accettano che ogni conoscenza si dà a partire da qualche punto di vista. Non ci sono " notizie da nessun luogo ", per parafrasare il titolo del libro di Thomas Nagel. Però insistiamo sul fatto che, anche se non c'è una visione epistemologicamente obiettiva del mondo, questo non significa che non ci sia un mondo obiettivo. All'interno dei nostri concetti dobbiamo sempre fare una distinzione tra ciò che, a nostro parere, esiste indipendentemente da noi e ciò che non esiste: questo è oggetto di discussione. Ma se combiniamo i due aspetti non c'è niente da discutere: abbiamo solo visioni del mondo diverse e abitiamo pertanto mondi differenti. Al contrario, se abbiamo esperienze religiose, queste non sono infallibili, ma non assumiamo automaticamente che possano essere " liquidate " con spiegazioni. Inoltre il relativismo epistemico si estende agli atei e agli agnostici. L'assenza di esperienze religiose è anch'essa epistemicamente relativa, soggetta com'è al costume diffuso, agli schemi concettuali, alle psicobiografie personali o ai pregiudizi inculcati. Quella che viene riportata come esperienza dell'assenza non è meno rivedibile dell'esperienza della presenza. In modo simile, se la credenza religiosa deve essere in parte spiegata socialmente, allora lo stesso vale anche per la miscredenza religiosa. 3. Infine, il terzo pilastro è la razionalità giudicante: possiamo discutere pubblicamente le nostre affermazioni sulla realtà, così come pensiamo che sia, e ordinare gli argomenti in favore di queste affermazioni. Attraverso la discussione arriviamo a giudizi ragionati, anche se provvisori, su come è fatta obiettivamente la realtà. Possiamo davvero applicare la razionalità giudicante alla religione? Senza alcun dubbio: sono i cristiani ad aver applicato i criteri più rigorosi di critica testuale alla vita storica di Gesù. Ma tale razionalità può essere applicata alla coscienza religiosa, che sembra essere individuale e soggettiva? Sì, nello stesso senso in cui i musicisti eccellenti con l'" orecchio per la musica " e i sommeliers con il " naso per il vino " ci danno i loro giudizi. Tali giudizi sono basati su una lunga esperienza e sull'accordo interpersonale: nessun altro tribunale può emettere un giudizio. Anche noi, però, abbiamo dei " competenti ", che non esiteranno a valutare alcune esperienze riferite come " sovraeccitate ", " isteriche " o " inautentiche ". Perché dovremmo avere fiducia ne Les meilleures sommeliers du monde [ i vincitori del concorso a miglior sommelier del mondo, ndt ] ma non nei nostri grandi ordini di contemplativi? Alla fine, la religione è un " fare ", una " pratica ", non una dichiarazione di credenze astratte che contengono pretese di verità. Se ci troviamo in disaccordo con un gruppo di sommeliers sul vino o con dei virtuosi sulla musica, ci mettiamo al lavoro per migliorare il nostro " palato " o il nostro " orecchio " con la pratica. Non dovremmo fare lo stesso per avanzare nella nostra competenza religiosa, ossia nella nostra ricettività di Dio e nella nostra prontezza a dare una testimonianza autentica? Conclusione Mi è stato esplicitamente richiesto se la Chiesa cattolica potesse offrire " segni di speranza " all'Europa; se sì, quali; e infine quale ruolo poteva esser giocato dalla Chiesa italiana nello scenario europeo. Per ovvie ragioni, non mi sognerei di dare buoni consigli alla Chiesa italiana, ma, tornando al tema per me centrale dell'esperienza religiosa e della religione come pratica, sono convinta che c'è un ruolo chiaro che noi cattolici possiamo giocare in Europa. Forse qui l'Italia e la Gran Bretagna emergeranno persino come attori chiave. Il 1° gennaio 2007 la Romania ( e la Bulgaria ) entreranno nell'Unione europea. I rumeni ( probabilmente, cento o duecentomila ) vorranno entrare nei nostri paesi, seppure con un permesso limitato di lavoro. Per la maggior parte, porteranno con sé la loro fede ortodossa - una fede basata sulla pratica - perché è grazie alle pratiche che la cristianità ortodossa in Romania è potuta sopravvivere prima al comunismo e poi all'autocrazia di Ceausescu. Per fortuna il dialogo tra le nostre Chiese è ripreso e gli ostacoli a relazioni più strette non sono fondamentalmente di natura sacramentale. Abbiamo così tanto da imparare dal retaggio dell'ortodossia - e questi sono principalmente mezzi per estendere le nostre pratiche religiose e accrescere il nostro repertorio di esperienza - dal punto di vista liturgico, per mezzo dell'iconografia, delle messe lunghe, delle benedizioni generose, della commemorazione regolare dei defunti e delle pratiche domestiche che trasformano la casa in una Chiesa. Anche loro hanno molto da scoprire nella Chiesa cattolica: accogliamoli quindi in Cristo nelle nostre Chiese rendendo la nostra anche la loro. Questi sono correligionari che sono anche stranieri in terre estranee: accogliamoli come compagni di fede e rispondiamo a quanti tra i nostri connazionali li vedono solo come concorrenza per i posti di lavoro e altre risorse socialmente scarse. A mio parere, questo è ciò che Giovanni Paolo II segnalava quando restituì le reliquie di San Giovanni Crisostomo e San Gregorio di Nissa, che erano nella basilica di S. Pietro, al patriarca Bartolomeo della Grecia. Dopo tutto, a quell'epoca la Polonia era appena diventata parte dell'Europa ma la Romania ortodossa sarebbe venuta dopo! Possa la Chiesa in Italia diventare un faro di accoglienza all'interno della nostra Europa ingrandita. Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo Intervento del dott. Michel Camdessus 18 ottobre 2006 Eminenza, eccellenze e tutti voi, cari amici, riuniti qui a Verona per questo 4° Convegno Nazionale della Chiesa cattolica italiana! Innanzitutto, vorrei chiedere perdono di non meritare affatto di aver l'onore di rivolgermi alla vostra assemblea e di non essere in grado di esprimermi nella vostra lingua così bella. Quelli che hanno avuto l'impossibile compito di educarmi avevano una tale ammirazione per la cultura romana che hanno concentrato tutti i loro sforzi nel farmi imparare un po' di latino, senza immaginare che un giorno alcune parole di italiano mi sarebbero state più utili. Si capisce dal loro punto di vista, vero? Permettetemi ora di approfittare della vostra indulgenza per rispondere quanto più concretamente possibile a due o tre domande che ci sono poste dagli organizzatori di questo incontro di questa sera. 1. Siamo chiamati a essere, vogliamo essere testimoni della Speranza, in questo mondo che si unifica e nella nostra " vecchia Europa " per la quale i prossimi dieci anni ( 2006 - 2016 ) rischiano di essere difficili Laddove pensavamo, non molto tempo fa, di camminare verso un paradiso tranquillo retto dallo Stato - provvidenza, assistiamo alle lacerazioni del tessuto sociale. Laddove l'Europa si è caratterizzata per lungo tempo per il dinamismo della modernizzazione, ci scopriamo vittime di un invecchiamento che potrebbe tradursi in difficoltà finanziarie e abbassamenti dei livelli di vita. Infine, lungi dai sogni di un universo pacificato che abbiamo potuto nutrire con la caduta del muro di Berlino, la distruzione delle " Torri gemelle " ci ha fatto entrare in un'era nuova di tensioni geopolitiche crescenti. Tre ragioni - e ne potremmo trovare molte altre - che possono spiegare il clima di tristezza e di paura diffusa che da più punti di vista caratterizza l'Europa. Fortunatamente la realtà è fatta di contrasti. Che cosa posso dire per rispondere alla domanda: " Quali segni culturali discerniamo in questo contesto in Francia? ". I segni che risaltano ai nostri occhi e quelli che percepiamo nel trambusto mediatico che ci circonda ci segnalano delle pesanti difficoltà: occorre riconoscerle. Ma prestiamo orecchio maggiormente, ascoltiamo! Udremo allora dei messaggi di fiducia, come se la " bambina Speranza " di Charles Péguy, che voi citate così opportunamente, canticchiasse sulle nostre strade. Quel che risalta ai nostri occhi era stato mirabilmente formulato nel settembre 2001 dal Card. Bilie, Presidente della nostra conferenza episcopale, poco prima della sua morte: Occorre non nasconderselo: la nostra Chiesa sta appena iniziando il suo esodo. Non sentiamo più quel che ha nutrito tante generazioni. Nel popolo vi sono meno praticanti, meno militanti e sempre di meno tra i suoi bambini sono quelli che ricevono il catechismo. I sacerdoti sono sempre più rari, invecchiati, indeboliti dal sovraccarico o la dispersione dei loro compiti. Finora potevamo vivere di espedienti, di illusioni. Ora scopriamo che la distanza tra il Vangelo e il mondo è molto più grande di quanto immaginasse la nostra memoria collettiva. Chiesa in esodo! Chiesa portatrice di un messaggio di speranza, ma in una società da molti punti di vista colma di beni materiali, ma dove - e forse proprio per questo - il suo messaggio non sembra più necessario, quando non è deriso. È una società che non è più per nulla abitata da quel personalismo comunitario che vi si era fatto un certo spazio all'indomani della seconda guerra mondiale, ma che è abitata da un relativismo che si generalizza, dalla preferenza per ciò che è immediato, dal regno del consumo e del futile e da quell'individualismo in cui ciascuno pretende di governare la società a partire dal suo buon volere; i soli diritti sono i miei, anche se faccio dei salamelecchi davanti ai diritti dell'uomo e se decido, io stesso, del senso della mia vita. Questo individualismo, d'altra parte, è un male che raggiunge tanto il tessuto sociale della Nazione quanto il popolo dei fedeli. H. Tincq pone la domanda: " Le infermità del cattolicesimo, con il quale la Francia ha per così lungo tempo fatto lega [ … ] non sono forse sintomi di una società ugualmente malata? ". La domanda chiama una risposta affermativa; il male della Chiesa è quello della società, ma questo non è fatto per consolarci. Ma c'è di più. Accanto a quel che vediamo, c'è quel che sentiamo. Un doppio e assordante baccano. L'uno viene da una nuova forma di bon ton che consiste nel deridere - in maniera bassa, talora grossolana - il fatto religioso. È la " cultura del disprezzo " di cui parla Réne Rémond. Infine, probabilmente più pericoloso, vi è il baccano che ci perviene da parte dei fondamentalismi o dai sostenitori di un secolarismo che, al minimo pretesto, urlano. Giungono a occupare i media, esercitano un sorta di intimidazione surrettizia. Finiscono per definire un " politicamente corretto ", obbligando ciascuno a domandarsi se la sua parola non apparirà passatista, intollerante o clericale. Aggiungendosi a un clima di derisione o di scetticismo rassegnato, tutto ciò rende più difficile proferire una parola di speranza. Diverremo dunque, attraverso scivolamenti impercettibili davanti a questo " terrorismo molle ", una nuova " Chiesa del silenzio "? Non siamo evidentemente a questo punto e gli sforzi sono numerosi per far fronte a questa situazione. Ma la difficoltà è reale. Ecco per quanto riguarda lo spettacolo e i clamori! Ma se voi siete, come dice così bene Mons. Giuseppe Betori, abitati da questa " sete di ascolto ", allora sì, percepirete dei segni di speranza, molte cose che germinano silenziosamente, iniziative che si prendono, impegni che si moltiplicano con dei volti molto diversi, apertamente cristiani o più discreti, all'interno di una società civile in cui prolifera la vita associativa. Lasciate ora che io mi soffermi su questi segni di speranza. Oh, non potrei dirvi niente di definitivamente rassicurante, niente che segnali la fine prossima della " traversata del deserto ". Potrei dirvi, questo sì, l'apparizione evidente di una nuova generazione di laici che si mobilitano affinché la vita della Chiesa continui e risplenda, senza fare chiasso. C'è qualcosa di ancora più evidente, forse: il contributo multiforme - a volte un po' sconcertante - delle nuove comunità portatrici di un vigoroso slancio spirituale, meno spettacolare forse che altrove, ma privo di ogni complesso davanti al " politicamente corretto ". C'è anche, laddove la parola cristiana appare forse troppo discreta, una richiesta sempre più frequente fatta ai cristiani di esprimersi più vigorosamente, una richiesta proveniente da molti agnostici assetati di senso. Questa richiesta mi colpisce molto. È presente ed è forte. Tutto accade come se, sempre più, noi fossimo più apertamente invitati " a rendere ragione della nostra speranza ". Come se i nostri contemporanei, discernendo meglio il nulla degli idoli che sono loro offerti ( edonismo, ricchezza o potere ), discernessero in qualche modo che il Risorto - al quale ci richiamiamo più o meno apertamente - ci avesse affidato alcune chiavi del senso e della speranza. Constato personalmente questa richiesta sempre più forte osservando il numero crescente di coloro che partecipano alle nostre Settimane sociali, attestando così che la dottrina sociale cattolica può fornire la risposta pertinente che essi cercano per i problemi del nostro tempo. A questa richiesta, sempre più risposte sono offerte, nutrite per mezzo del ritorno alla tavola della Parola, alle sorgenti della fede e al suo approfondimento, nella vita rinnovata delle parrocchie, nei movimenti di evangelizzazione, nell'influsso esercitato da numerose comunità religiose. I cristiani, a poco a poco, si esprimono maggiormente come tali - sembra -, con una parola liberata. Infine, essi sono presenti, spesso, in prima fila, in tutte le battaglie in cui l'uomo, la sua dignità e i suoi diritti sono in gioco. È proprio di queste forme di impegno l'essere nutrite, per coloro che le vivono, da una profonda speranza e dalla preoccupazione di contribuire a un progetto di civiltà per il mondo intero. Questo mi conduce alla seconda grande domanda. 2. La Chiesa cattolica può offrire dei segni di speranza all'Europa? La risposta è sì. Quali? A questo riguardo non ho alcun dubbio, per due motivi che posso riassumere rapidamente. Il primo si collega all'esperienza fatta per tredici anni durante i quali, chiamato a dirigere un'istituzione internazionale, ho girato il mondo con molteplici occasioni di scambi con i dirigenti più diversi a tutte le latitudini. Ho ascoltato le confidenze di molti di loro. Sono stato testimone della loro ricerca angosciata, spesso piena di buona volontà, di un sistema di pensiero, di un corpus di principi etici che possano guidare le loro azioni a partire dalle ricchezze della loro cultura. Ebbene, posso dirlo senza ambagi, non ho da nessuna parte incontrato un corpus di dottrina sociale che possa con tanta pertinenza e così universalmente, come lo fa l'insegnamento sociale cristiano, rispondere alla ricerca condotta dagli uomini di oggi di basi di una società da costruire sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni uomo, e aperta alla dimensione di una responsabilità universale. Inutile elaborare di più. Ciò che è universalmente vero si applica in maniera particolare all'Europa che è stata così riccamente fecondata - che lo riconosca o no - dal Vangelo. Volgiamoci verso l'Europa nella sua crisi di oggi: è divisa tra i suoi problemi interni e gli appelli che le vengono dal mondo. Per ognuno di questi problemi, essa può trovare nel messaggio sociale cristiano la via che possa condurla verso dei segni di speranza. Alla luce dei lavori del piccolo gruppo " Iniziative di cristiani per l'Europa " ( IXE ) nel quale ho la fortuna di lavorare accanto a Luca Jahier, vedo, in effetti, una Europa ispirata dal Vangelo come la migliore risposta alle paure che ci abitano, come risposta agli appelli dei nostri fratelli europei che non ci hanno ancora raggiunto nell'Unione europea e soprattutto come risposta al grido del mondo in via di sviluppo. Vedo infine una tale Europa come uno strumento di primo piano per iniziare una strategia di " pace preventiva " - Andrea ne parlerà - e anche per offrire un modello per una governance mondiale che serva meglio l'umanizzazione del mondo. A dire il vero, la Chiesa cattolica offre più che dei segni di speranza all'Europa. Le rivela - come Giovanni Paolo II ha fatto così bene con Ecclesia in Europa - la sua vera identità, l'apertura e il suo primo dovere: la solidarietà, virtù cardinale di un mondo preso nel processo di globalizzazione. Mediante questo, la Chiesa restituisce all'Europa senso e vita. Questo dono fatto all'Europa è così essenziale che la Chiesa ha tutte le ragioni di invitare i cristiani, come faceva Paolo VI, a praticare con entusiasmo e determinazione il " dovere d'Europa " e a resistere alla tentazione del dubbio e del " ciascuno per sé ". A partire da questo, come riprendere il grande tema delle " radici cristiane dell'Europa " e dei segni di speranza che la civiltà euro-pea e la vita cristiana possono offrire agli altri " mondi "? Innanzitutto, accettando di ascoltare il grido del mondo. Forse noi non ci vediamo più come cristiani, ma il mondo ci sa cristiani; giudica il cristianesimo a partire da quel che noi siamo, facciamo o soprattutto non facciamo. È il mondo che ci grida: europei, che avete fatto del vostro battesimo? Queste radici cristiane costituiscono un'evidenza: ovunque ci si rechi in Europa, qualsiasi sia il libro che si legga dei maestri della sua cultura, i paesaggi dell'Europa, come la sua cultura - anche nel diniego di alcuni tra i suoi rappresentanti - sono disegnati e penetrati di cristianesimo. Il mio Paese, dimenticando i suoi paesaggi e la sua cultura, non ha voluto riconoscerlo. Eppure, l'evidenza è qui: venite a visitare la città della mia infanzia; che cosa sarebbe senza la sua cattedrale? Oggi, se si riprende questa battaglia per il riconoscimento delle radici cristiane, si può scommettere sul fatto che essa sarà difficile e dall'esito incerto; ogni sorta di argomenti più o meno fallaci a riguardo della Turchia o il necessario acquietamento delle tensioni con i musulmani saranno posti all'attenzione. Occorrerà dunque procedere con prudenza e discernimento, ma la questione più importante non è quella sull'opportunità di questo dibattito. Quando si tratta di domandarsi quale segno di speranza un vissuto cristiano può offrire agli " altri mondi ", noi dobbiamo piuttosto metterci sulle orme di quei due discepoli che camminavano sulla strada di Emmaus. Ricordate: " Noi avevamo sperato … ", dicono allo Sconosciuto che cammina con loro ( Lc 24,21 ). Come possiamo rispondere al mondo che ci domanda: " Che cosa possiamo sperare? ". Ebbene, con lo stesso gesto mediante il quale quei due uomini hanno riconosciuto Gesù Cristo, la Speranza: la condivisione del pane. Vorremmo tutti che l'Europa fosse riconosciuta come cristiana. Ebbene, facciamo in modo che attraverso la sua pratica della condivisione del pane, in un mondo che ha fame, appaia come il continente della condivisione! E che, in un mondo sull'orlo o già al di là della disperazione, essa sia ciò che dice di se stessa nel suo progetto di costituzione: " Uno spazio privilegiato di speranza umana ". Allora, in questa condivisione del pane e nella speranza donata, essa sarà un po' più riflesso del solo Maestro della speranza. 3. Quale particolare ruolo potrebbe avere la Chiesa italiana sulla scena europea? Occorre essere molto presuntuosi per accettare di rispondere a questa domanda. Ma voi ponete questa domanda a degli amici ed è come amico che posso osare rispondervi. Innanzitutto, lasciate che io vi dica quanto sia indovinato il porre da parte vostra questa domanda. Sì, in una Europa paralizzata, questa Europa che dubita, c'è un segno di speranza. È la vitalità italiana. La signora Merkel ha detto recentemente - ed è un'ottima notizia: " La Germania sta tornando ". Penso che l'Italia potrebbe dire anche - e non solo per motivi politici: " L'Italia sta tornando ". Questo è evidentemente più percettibile per i vostri amici dell'estero che per voi. L'Italia è più presente che mai nella gestione degli affari mondiali e prende le sue responsabilità, come vediamo nel Libano di oggi, come vediamo in questa settimana di attenzione alla fame nel mondo, nel sostegno che il vostro Paese fornisce alla FAO e alla bella iniziativa che è il nuovo partenariato dei paesi del G8 con l'Africa ( il NEPAD ). L'Italia sta tornando! Già questa è in sé una buona notizia per il mondo. Ma c'è di più. Questa Italia è un'Italia cristiana e forte di un vero cattolicesimo popolare, cosa che non vale più nel caso del mio Paese. Allora, lo so, alcuni spiriti elevati arricciano il naso di fronte all'idea di un cattolicesimo popolare, vi vedrebbero volentieri qualcosa di retrogrado. Quale errore! È la vostra forza, della quale questo raduno di Verona da testimonianza: mantenetela, fatela vivere nella sua semplicità e precisamente nella sua gioia di vivere! Voi siete attraverso di essa una sorgente di ispirazione per noi. È a partire da queste radici popolari che il cristianesimo italiano può aprirsi a degli orizzonti nuovi di speranza e aprirsi - sì - alla dimensione mondiale, ogni giorno più pressante con le sue responsabilità. I cristiani italiani possono fare molto perché questa presenza più vigorosa dell'Italia sulla scena europea e mondiale serva meglio il bene comune universale. Possono " afferrare alla vita " le grandi questioni mondiali e in particolare questa causa della pace preventiva di cui parla il prof. Andrea Riccardi, la causa degli obiettivi del millennio, la causa dell'organizzazione dell'indispensabile " autorità pubblica di competenza universale " di cui Giovanni XXIII si era fatto profeta e che spetta a noi creare. I cristiani italiani possono e devono agire affinché la parola data - tutte queste promesse fatte in tante conferenze internazionali, gli obiettivi del millennio, per esempio - sia mantenuta. Ogni comunità umana si basa sul rispetto della parola data. Senza di essa, nulla può essere costruito, che si tratti delle nostre famiglie, dei nostri paesi o della comunità mondiale. Questi dieci anni che sono davanti a noi - dal 2006 al 2016 - abbracciano questo anno 2015, termine delle nostre promesse di realizzare gli obiettivi del millennio, particolarmente in Africa, alla quale siamo legati in tanti modi. Perché tutti noi, cattolici d'Europa, non formeremmo una sorta di coalizione del rispetto della parola data affinché questi obiettivi possano essere raggiunti, affinché insieme possiamo aiutare l'Africa ad accedere infine allo sviluppo umano, per quanto dipende da noi? Infine ( e vedete che mi limito solo a ciò di cui sono più sicuro ), l'Italia, al cuore del Mediterraneo, ha un ruolo di primo piano da giocare per il ristabilimento della fiducia in un mondo minacciato dalla paura e dall'odio. La Chiesa italiana ha sicuramente un ruolo di ispiratrice da giocare qui. L'Italia è al cuore di ciò che può essere il focolare, sia delle incomprensioni crescenti, sia, al contrario, di una concordia fraterna ricostruita. Dico ricostruita perché l'Italia ha saputo essere spesso nella storia un luogo di incontro cordiale dei popoli delle rive del Mediterraneo. Il mondo è in un'attesa dolorosa della civiltà dell'Amore: è sui bordi del Mediterraneo che ne è stato piantato il germe decisivo e ne è stato posto il segno della tomba vuota. L'Italia ha una vocazione privilegiata a far sì che questa civiltà vi si sviluppi, a far emergere questa civiltà in cui ciascuno, più cosciente delle radici profonde della sua identità, accetterà l'altro nella sua cultura, la sua religione e la sua differenza e lavorerà, mano nella mano con lui, a costruire un mondo più abitabile. Ecco alcuni compiti che mi vengono in mente, ma sono sicuro che lo Spirito ve ne suggerirà altri e vi darà lo slancio necessario per impegnarvi in essi fuori di ogni paura e nella speranza. Identità e dialogo interculturale in Europa Intervento del prof. Jàn Figel'1 18 ottobre 2006 Eminenze, eccellenze, monsignori, illustri ospiti, signore e signori, è un grande piacere per me essere oggi a Verona e vi ringrazio per l'occasione che mi è stata offerta di parlare con voi del processo di integrazione europea. Innanzitutto, vorrei complimentarmi con il Convegno Ecclesiale Nazionale per aver dato tanto rilievo all'Europa nel suo programma. In questa fase del processo di integrazione è importante moltiplicare le occasioni di riflessione e dibattito su ciò che significa essere europei, e riflettere sul bisogno di un dialogo più fitto e costruttivo fra le molte culture che compongono il nostro continente così diverso e per questo così bello. Infine è importante operare per avere una migliore comprensione reciproca con i paesi nostri vicini e con i popoli di tutto il mondo. Ora vi chiedo venia, ma vorrei proseguire il discorso in inglese. Mai nella storia dell'integrazione europea, nel dibattito, nella discussione sull'identità e sulla cittadinanza, c'è stata una forza così grande come adesso. Dobbiamo ricordarci che abbiamo cominciato col carbone e l'acciaio, dei prodotti facilmente gestibili; adesso l'Europa sta crescendo, stiamo migliorando non soltanto in quantità, spero anche in qualità. Vorrei dire che l'Europa sta diventando più matura: certo, è importante rammentare a tutti il ruolo svolto dall'Italia nei primi tempi, come Paese fondatore, ma sono sicuro che l'Italia ha molto da offrire all'Europa anche adesso e domani. Il futuro inizia oggi, anzi, è iniziato già ieri. Viviamo in una continuità e la comunità significa una partnership particolare tra coloro che erano qui prima di noi e tra noi qui oggi e coloro che ci seguiranno, i nostri figli, gli immigrati. Ad esempio, noi slovacchi ci consideriamo parte dell'Europa centrale e non dell'Europa dell'est. Il ritorno all'Europa è stato per noi un obiettivo fondamentale comportante non soltanto l'allargamento di strutture politiche ma il ritorno alla normalità, il ritorno alla dignità dopo l'oppressione comunista. Nei tempi bui la Chiesa è stata una delle organizzazioni che è stata maggiormente perseguitata. Quindi ritengo che con la Slovacchia e i nuovi Stati membri l'Unione sia più europea perché la comunità è più completa, la famiglia è più completa. E ritengo che il miglior filo conduttore per l'Europa e per l'Unione nel XXI secolo non sia più il carbone o l'acciaio o il mercato, o anche la zona euro, ma la diversità nell'unità e come gestire questa diversità per costruire l'unità. Sono la questione e il nostro compito principali. Perché la diversità sta crescendo, con il numero di Stati e il numero di lingue, e continuerà a crescere, ma il rovescio della medaglia è l'unità, e se noi siamo capaci di accettare e di promuovere questo credo della comunità nel rispetto delle differenze, ma anche in un desiderio di unità, ritengo che saremo in grado di condividere vera speranza umana. Penso che la cultura sia sottovalutata nei dibattiti odierni in Europa, ma la cultura definisce l'Europa molto di più che non il mondo degli affari o la geografia. La cultura definisce i valori che informano la nostra vita di tutti i giorni, i rapporti nelle famiglie, nelle comunità locali, regionali e nazionali. Se abbiamo problemi in alcune funzioni della cultura, come per esempio nella politica, dovremmo guardare ai valori, guardare a cosa credono le persone, a cosa cercano di realizzare nella loro vita di tutti i giorni. Ritengo inoltre che il fulcro dei valori che noi cerchiamo di definire per la nostra cooperazione debba essere la dignità umana per tutti e ovunque, non soltanto in Europa. Possiamo condividere solo ciò che abbiamo - nemo dat quod non habet -, pertanto se lavoriamo veramente per la dignità umana all'interno dei nostri cuori, delle nostre menti, delle nostre coscienze possiamo condividerla con tutti e con il mondo che è attorno all'Europa. Poco fa ci domandavamo quali fossero i segni forti, quelli deboli, le ricchezze, i problemi. Io direi che siamo una superpotenza di diversità culturale e l'Italia è il centro di questa superpotenza, non soltanto perché storicamente governava tutti con Roma ma perché la densità culturale del vostro Paese è la più elevata al mondo. Dovremmo prendere tutti coscienza di questa cosa, dovremmo accedere tutti a questa eredità comune. Nel mio Paese parliamo spesso di fondi europei perché tutti si aspettano grande solidarietà dai paesi più abbienti, ma anche noi possiamo e dovremmo contribuire alla Comunità europea ad esempio con il nostro potenziale culturale e umano, tramite i ricordi della battaglia per la libertà e per la dignità, attraverso uno spirito che non è apatico o scettico ma vivendo e agendo in modo da promuovere riforme. Forse sarà rischioso passare dal comunismo al consumismo, dal collettivismo oppressivo all'individualismo senza limiti, o dalla lotta per la dignità al relativismo etico. Questi inviti, queste sfide a essere coscienti di questi rischi sono presenti ovunque nei nuovi Stati membri, così come nei vecchi Stati membri. Vorrei ancora dire qualcosa riguardo alla cooperazione culturale. Alcuni anni fa molti partner dicevano che questa non è una questione europea ma nazionale. Adesso molti ci invitano a fare di più per la cultura attraverso la cultura. Ritengo che l'Europa abbia un debito verso la cultura e forse la cultura potrebbe rivitalizzare la visione europea. La religione è una parte molto centrale di qualsiasi cultura, pertanto ritengo che il vostro ruolo sia molto importante per il futuro dell'Europa. Il futuro a volte appare avvolto nella nebbia, alcuni pensano che l'Europa sia in crisi, ma l'Europa è nelle mani degli europei. Credo che siamo noi che dobbiamo dare speranza all'Europa. Io ho ancora molte idee da condividere con voi, ma cercherò di essere disciplinato e di terminare. Vorrei fare ancora un paragone. Quando crollò il comunismo con il muro di Berlino abbiamo avuto il nostro annus mirabilis. Alcuni scrittori scrissero dei libri molto interessanti: uno, scritto da Francis Fukuyama, verteva sulla " fine della storia ", cioè sulla vittoria tangibile delle democrazie liberali in Europa; altri parlavano del ruolo forte e visibile della religione nella società; il Prof. Huntington parlò dello scontro di civiltà. Io non ritengo che siamo alla fine della storia e che lo scontro di civiltà sia una necessità. Ciò che aiuta a evitare queste derive verso la guerra globale a sfondo religioso è il dialogo interculturale e interreligioso. Abbiamo bisogno di una cultura del dialogo, un dialogo che cominci con la conoscenza e con il rispetto, un dialogo che non sia un segno di debolezza: il dialogo è invece un segno di maturità e nel dialogo uno più uno fa più di due, di modo che possiamo creare sinergie. Quindi, invece di lottare contro le civiltà, bisogna lottare per le civiltà: credo che questo sia un invito molto chiaro per tutte le Chiese e in particolare per la più grande, che è quella cattolica. Per finire, l'ultima idea che vorrei condividere con voi è la seguente: ritengo che l'Europa debba essere un sinonimo di apertura e in questo senso possiamo essere d'accordo con Giovanni Paolo II, che scrisse nella sua esortazione apostolica Ecclesia in Europa che l'apertura comincia con l'apertura della mente e continua con l'apertura del cuore. Entrambi gli elementi sono molto importanti, l'approccio razionale e la competenza, ma anche l'empatia, la solidarietà e l'amore cristiano, per cui essere un vero europeo significa essere veramente aperti verso gli altri ma anche uniti con gli altri attorno a dei valori che s'incentrano sulla dignità umana. La Prof.ssa Archer ha parlato dell'adesione della Romania e della Bulgaria a venire. La Grecia non sarà più isolata nell'Unione europea, ma la nostra comunità sarà più completa. Ciò comporta anche una dimensione culturale e spirituale, che significa vivere in una sola casa europea. Tutti coloro che per migliaia di anni hanno parlato di una divisione dell'est e dell'ovest hanno la responsabilità di intraprendere veri passi verso l'unità. Questo è un tempo nuovo, un tempo molto concreto per l'ecumenismo cristiano; se siamo responsabili vedremo dei frutti e se siamo capaci di portare avanti questo ecumenismo cristiano e questa unità allora potremo veramente contribuire all'ecumenismo abramitico. Se il primo ecumenismo non è maturo o visibile, non abbiamo alcuna possibilità di influenzare, di ingenerare la coesistenza fraterna delle civiltà e la reciproca comprensione e la fratellanza. L'allargamento europeo è un forte invito a tutti i cristiani nel nuovo millennio e il messaggio " non abbiate timore, non abbiate paura " deve essere certamente ripetuto. Quando i cittadini hanno votato in Francia sulla costituzione, " l'idraulico polacco " è stata un'espressione chiave, una domanda centrale. Se c'è un problema con l'idraulico polacco oggi, tra dieci anni ci saranno problemi ancor più grandi con quelli cinesi e quelli indiani. La Polonia ha contribuito all'unità europea tramite Solidarnosc e Giovanni Paolo II, Frédéric Chopin e Marie Curie-SkIodowska, che non sono stati dei problemi per l'Europa, sono state persone di cultura e di responsabilità. Tutte queste persone sono benvenute, dovremmo vedere la nostra comunità in questa ricchezza. Abbiamo poi bisogno di rivitalizzare il continente. Condivido la visione di Michel Camdessus che dice che la Germania è di ritorno, anche l'Italia è di ritorno, sta tornando: vorrà dire che anche la Francia farà lo stesso, perché il cristianesimo deve significare maturità per la responsabilità. Spero che incontri come questo, dialoghi come questo possano contribuire alla nostra maturità comune e condivisa a vantaggio dell'unità. Signore e signori, il genere umano non può vivere senza speranza. Coloro che mantengono la speranza viva nei loro cuori fanno parte, nella loro epoca, dell'alba e non del tramonto della loro generazione. L'Europa unita è diventata un'area di speranza, l'espressione della speranza attraverso le forze di generazioni portatrici di speranza. L'anno prossimo festeggeremo il cinquantesimo anniversario dei Trattati di Roma voluti da personalità quali De Gasperi, Adenauer e Schuman. Perché le nazioni continuano a venerare i padri fondatori ancora cinquant'anni dopo la loro azione? Perché il frutto del loro lavoro è duraturo e valido per le generazioni a venire. Abbiamo bisogno di tali esempi in politica, abbiamo bisogno di persone che pensano e agiscono per la loro generazione ma non in modo populista o ultrapragmatico, non in maniera miope, non senza una visione chiara a lungo termine, non senza pensare al bene comune. Un bambino mostrerà rispetto e amore per i genitori innanzitutto seguendo il loro esempio e la loro ispirazione. Rispetto per la tradizione non significa proteggere le ceneri del passato, significa nutrire il fuoco della speranza, fonte della luce e del calore della vita. Tutti noi, quale che sia la nostra vocazione, possiamo e dobbiamo ricorrere alla speranza viva per offrire ispirazione, mostrare solidarietà e rafforzare la vitalità dell'Europa unita. Abbiamo bisogno di un'opinione pubblica cosciente, attori responsabili e una leadership impegnata nella costruzione di una Europa comune. La risposta giusta alle nostre preoccupazioni e interrogativi non sono scetticismo, riluttanza e autismo vuoto di contenuto. La risposta giusta è la determinazione a continuare con tutte le nostre forze. Grazie per la vostra determinazione a lavorare per la causa della società e dell'Europa della speranza. Intervento conclusivo del Prof. Andrea Riccardi 18 ottobre 2006 Vorrei dire anch'io qualcosa sul cristianesimo italiano, le sue debolezze, le sue fragilità e i suoi segni di speranza. Questo nostro convegno si è aperto il 16 ottobre, anniversario dell'elezione di Giovanni Paolo II. Molti relatori hanno parlato del cattolicesimo italiano come cristianesimo di popolo: proprio a questo Papa dobbiamo l'intuizione, la dimensione e la comprensione del cristianesimo italiano come cristianesimo di popolo. È un'illusione consolatoria di fronte alla secolarizzazione e alle crisi attraversate in questi decenni? Ricordo bene il convegno " Evangelizzazione e promozione umana " del '76, in cui Paolo VI parlava del cristianesimo italiano come di una tradizione ottima ma un po' stanca. Quel convegno si poneva il problema di come superare la crisi che da dieci anni sembrava attanagliare la Chiesa, polarizzarla e ridurla ai margini. C'era un diffuso pessimismo, ma emergeva anche l'idea che bisognasse superare quella crisi per arrivare a una condizione stabile. La crisi veniva da prima del Concilio: lo storico lo sa, e alcuni uomini e donne spirituali lo hanno intuito e hanno avuto l'audacia di iniziare a costruire nuovi percorsi di vita. Miguel de Unamuno parla di una condizione agonica che non è una condizione di morte, ma di lotta paziente. Chiunque ha una responsabilità ecclesiale sa come questa sia una condizione da vivere e chi vive il mistero e la realtà della Chiesa percepisce che con tale realtà di crisi bisogna fare i conti. È pessimismo questo? No, perché credo che la lezione che ci viene dall'ultimo quarto di secolo è che il terreno della crisi è quello su cui germina la speranza. La storia della Chiesa nei secoli non è stata mai il raggiungimento della condizione paradisiaca o perfetta: non c'è stata un'epoca migliore delle altre per essere cristiani. Giovanni Paolo II ci ha insegnato che la speranza non viene da geometrie di Chiesa, dai nostri piani o da messianismi che si autopropongono come soluzioni. Il messaggio in due convegni nazionali è stato chiaro: Giovanni Paolo II, proprio cominciando dalla crisi degli anni '70, si è sintonizzato con questo cristianesimo italiano che è complesso, è stato uomo della pietà di popolo, amico degli intellettuali, convinto del rilievo sociale del cristianesimo, amico delle parrocchie, dei movimenti, scrutatore di una vita di santità, Papa dell'identità radicata ma anche uomo del dialogo, e tanto altro. Per non parlare del diverso vissuto regionale: chiunque sa la differenza tra il cattolicesimo piemontese e quello siciliano, su cui amava indagare e ha scritto belle cose il nostro amico Cataldo Naro. Giovanni Paolo II ha colto in profondità questo cristianesimo di popolo come cristianesimo della complessità, un cristianesimo fatto di tanti segmenti di vissuto cristiano, non uguali, non divaricati e da non lasciar divaricare. Mi sembra importante connettere l'idea di cristianesimo di popolo, che non nega la realtà delle difficoltà e della crisi, all'intuizione di Giovanni Paolo II che ha sconvolto geometrie e messianismi, le tentazioni ricorrenti di chi non ha la pazienza della speranza. Questa connessione ha anche aiutato a pensarsi nella complessità del vissuto come Chiesa al servizio del Vangelo, come Chiesa sull'orizzonte italiano e per l'Italia. Era anche convinto, e lo diceva, che il cristianesimo italiano fosse una risorsa per il Paese, quando, ad esempio, si pose il problema della sua unità; una risorsa nonostante la crisi e nella crisi. Quando si parla di condizione di crisi, non si vuole soffocare la speranza, ma situarla. Parlare di cristianesimo di popolo vuol dire sapere però che non è una rendita eterna ma una responsabilità; una via che richiede oggi una " fondazione " profonda della fede, una vita aperta alla Parola di Dio, vissuta nella liturgia che libera dalla dittatura del pessimismo o dall'ottimismo di maniera. In quindici anni gli scenari sono cambiati. Tutti, in maniera esistenziale, avvertono nel loro modo di pensare il futuro che gli scenari sono cambiati e sono cambiate le prospettive umane del singolo. A Palermo - molti lo ricorderanno - avemmo la percezione di questo cambiamento, forse più per quello che riguardava l'Italia o l'Europa che il mondo intero. In quindici anni, mondi, religioni, paesi hanno riscoperto la loro identità e l'hanno proiettata magari in maniera antagonistica contro e verso gli altri. Tante identità sono state rifondate, in modo antagonistico, almeno per ripararsi in un mondo divenuto più conflittuale. Soprattutto oggi per tutti noi è meno facile capire dove si sta. Questo ha accresciuto un senso di inquietudine, che nasce anche dalla mole di informazioni con cui ci si confronta: sappiamo molto e facciamo fatica a capire. In questo senso di inquietudine, in questa fatica a capire sta la radice della prudenza dello spendersi dell'uomo e della donna italiani e anche dei più giovani. Per noi italiani, ma anche per tutti gli europei, non è stato facile ridefinirsi sugli orizzonti globalizzati degli ultimi quindici anni. È prevalso quell'uomo spaesato di cui parla lo scrittore Tzvetan Todorov. In questo spaesamento ci sono tutti gli aspetti che sono stati evocati: la questione dell'uomo e della donna italiani, la difficoltà a pensarsi su fedeltà lunghe e su visioni, la difficoltà a essere famiglia, la crisi del maschio - di cui ha scritto Frank Furedi -, soprattutto la poca voglia di futuro e via dicendo. E poi tanti mondi sono caduti in questi quindici anni - si pensi a quello comunista con la fine della guerra fredda - ma è finito anche un modo di concepire la politica e di essere militanti. In questo quadro, appena accennato, il vivere cristiano, realtà del nostro Paese, è una risorsa per la casa comune. Lo diciamo consapevoli delle sue debolezze, non per vanagloria. Per questo anche sul cristianesimo del nostro Paese si concentrano le attenzioni o le ostilità, perché è una realtà. Ma è anche una responsabilità, verso il futuro, verso i tanti disperati che si affollano in una società senza pietà, dove le tradizionali reti di protezione cedono il passo. Li riconosciamo tutti questi disperati, perché quel disperato potrei essere io, se la mia vita avesse avuto un altro corso: tanta disperazione in giro può essere all'origine di conflitti. Il vissuto cristiano è oggi una grande risorsa umana di speranza nel tessuto del Paese, ma è una responsabilità che spinge a una scelta decisiva per la nostra fede, quella che chiede l'Apostolo Pietro nella Prima lettera: adornare quell'uomo nascosto in fondo al cuore di ciascuno con un'anima incorruttibile piena di mitezza e di pace. Credo che occorra sempre più uscire da un gergo " ecclesialese " perché la nostra gente vuole parlare di Dio ma anche di vita, di accadimenti, di gioie e di dolori. Occorrerebbe allora pensare alla qualità delle nostre celebrazioni liturgiche, nella prospettiva del sinodo del 2008 sulla Parola di Dio. Abbiamo parlato di un cristianesimo di popolo; la sua storia è storia di semplici e di colti ed è stata tradizionalmente, da secoli, quella di una pietà che ha conservato e comunicato il mistero dell'Eucaristia, a cui ci ha richiamato anche l'ultimo sinodo, ed è una ricchezza da non perdere. Un cristianesimo di popolo è quello in cui non si separa una conoscenza intellettuale da una affettiva e popolare. Qui mi sembra stia l'appuntamento con la pagina della Bibbia, come sfida ad andare in profondità, come scaturigine di un linguaggio che parli di Dio e della vita: la Bibbia, grammatica della lingua e della preghiera dei cristiani. Il vero problema è far crescere il linguaggio con cui si prega, con cui si parla agli altri di Dio, con cui si parla di cose concrete. Il linguaggio fa la comunione, cresce amando la Bibbia ed è un problema di fede e di speranza. Questo rende la Chiesa comunicativa ed è quel sogno, quel progetto che Paolo VI delineava non solo per la Chiesa italiana ma per la Chiesa universale, quando diceva, nell'ecclesiam suam: " La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa colloquio" ( n. 67 ). Vorrei ora riprendere alcuni punti degli interventi che mi hanno preceduto. Sono molto d'accordo con ciò che ha detto il commissario Figel'. Noi possiamo non sentirci europei e sentire distanti le istituzioni di Bruxelles o di Strasburgo, ma siamo europei e siamo visti come europei. Penso che la dimensione europea abbia una sua forza: confrontandoci con il mondo magari rischiarne di sentirei irrilevanti, ma se si vuole esistere nel confronto con un mondo globalizzato non ci si può presentare da soli. Oggi siamo preoccupati del confronto con l'isiam. Sono convinto però che se questo confronto ci farà soffrire, non ci metterà in crisi. L'appuntamento più squilibrato e preoccupante per noi europei - un appuntamento di fronte a cui siamo fragili e lo avvertiamo appena - è quello con la Cina e con l'India. Lo vediamo già con gli immigrati di questi mondi; lo vediamo nel confronto con un mondo religioso dove non c'è monoteismo, o con un altro mondo religioso, quello indiano, inclusivo, che si ristruttura nel confronto con l'occidente. Lo vediamo nel confronto con il capitalismo cinese, che mette insieme un capitalismo senza rete e l'assenza di senso della libertà, tipica della tradizione cinese e del sistema marxista. All'appuntamento con questi mondi come è possibile andare come singoli paesi? Ci troviamo poi di fronte a un altro fenomeno, di cui parlava anche il commissario Figel'. Assistiamo allo spegnersi di alcuni paesi europei. Ci sono paesi europei che hanno delle crisi di introversione. Pensiamo al Belgio, così diverso rispetto a ciò che rappresentava nel mondo mezzo secolo fa, o all'Olanda: paesi che sembrano avere esaurito il loro ciclo storico. Credo che la dimensione europea, come diceva Camdessus, sia più profonda e più necessaria di quanto crediamo e già la viviamo. L'ultima questione: cosa dice un cristianesimo come quello italiano? Dice, io credo, il segreto antico del Vangelo agli uomini europei: che non si può vivere per se stessi ma bisogna vivere per Lui che è morto e risorto, vivere per gli altri. Ed è un segreto evangelico che deve inquietare l'Europa, che ha misure strette. Questo segreto evangelico non può non essere che la radice di un umanesimo europeo che esprima la nostra visione del mondo, della vita, dell'uomo, nel rapporto con gli altri. In questo senso, l'Europa non può vivere senza una sua missione nel mondo e questa missione non può essere solo quella di difendersi. L'Europa si presenta quindi al confronto con alcuni mondi, con gli Stati Uniti, con l'oriente europeo, con la Russia. E poi il confronto con l'Africa. Sono contento di quello che ha detto Camdessus, perché l'emigrazione dall'Africa pone un problema che non è solo quello degli immigrati che vengono da noi ma è quello di un continente che crolla. Non è un'emigrazione, è un'invasione, nel senso di gente che abbandona mondi e vede nell'Europa la terra della speranza. In questo senso l'Africa rappresenta un appuntamento per l'Europa. Un'Africa che è cambiata, che è più disperata, che è diventata in buona parte sotto controllo asiatico. Di fronte a quest'Africa si pone il problema della missione dell'Europa. Quando nel 2005 è stato eletto il cardinale Joseph Ratzinger non si è parlato di un Papa straniero rispetto ai papi italiani. Quando fu eletto Karol Woityla si disse che era un Papa polacco. Non credo oggi si possa dire che Benedetto XVI sia un Papa tedesco: è un Papa europeo, e si vede nel suo parlare che è un Papa europeo. Credo che questo sia un anello importante attraverso cui riflettere sul cristianesimo italiano in Europa. Quando il grande spagnolo e letterato Ortega y Gasset se ne tornò dall'America in Europa e in Spagna, gli chiesero perché era tornato; disse che l'Europa era un continente unico: " Europa es unico continente qui tiene un contenido ", giocando sul termine continente che vuoi dire contenitore e continente. "Tiene un contenido universal ": questa credo sia una grande lezione. In questo senso penso che i quattro interventi, in prospettive tanto diverse, hanno però tutti insistito sul fatto che questa Europa ha un contenuto universale, e che il cristianesimo e il cristianesimo italiano in questo continente hanno un ruolo da giocare.