22 febbraio 1975 Rito giubilare della Curia Romana Fratelli! e Membri e Collaboratori della Curia Romana! Ciascuno lo vede ciascuno lo sente: questo è un momento singolare, un momento bello. È ben raro che noi ci troviamo così riuniti, anche se sempre siamo uniti per un comune servizio. Oggi in una comune preghiera, in un comune atto penitenziale, in un'unica celebrazione eucaristica. Merita questo momento d'essere fissato nella memoria di ciascuno di noi. Merita che noi tutti gli riconosciamo il suo pieno significato, anche se questo oltrepassa la capacità espressiva della nostra parola. Pensiamo al luogo. Qui ora tutto ci parla, ed oggi con una voce che, anche se a noi ben nota, non può lasciarci indifferenti, o solo attenti alla maestà dell'incomparabile edificio. Qui è la tomba dell'apostolo Pietro, colui che il Signore volle fondamento e centro della sua Chiesa. Qui la successione del ministero universale e pastorale di lui attrae e fissa il nostro pensiero per la sua realtà storica, qualunque sia la fisionomia umana in cui essa si rispecchia; umile e misera, oggi, essa è vivente. Qui l'unità della fede e della comunione ecclesiale hanno un loro privilegiato domicilio sensibile, e sembrano in esso riposare ed esprimersi nello spazio architettonico aperto alla moltitudine dei fedeli, invitandoli ad una corale professione d'unanimità e di fratellanza. Qui finalmente la mole e la bellezza del monumentale trofeo, edificato sul sepolcro del primo Vescovo e Martire di questa Chiesa romana, sembrano innalzarsi perennemente in uno sforzo temerario di sfida ai secoli, mentre, a ben comprendere, altro non vogliono che lanciare nella storia un ponte dall'avvento primo di Cristo sulla terra verso l'altro suo avvento alla fine del mondo. Ma noi, anche in questo quadro sacro e stupendo, in cui si respira il mistero del tempo, restiamo ora raccolti sopra noi stessi, e interroghiamo le nostre coscienze: chi siamo noi? e perché siamo qui? Noi siamo la Curia Romana, l'organo centrale e complesso dei dicasteri, dei tribunali e degli uffici, che coadiuvano il pastorale governo generale della Chiesa cattolica; e tanto basta per generare in noi tutti non già un senso di superiorità e di orgoglio nei confronti del Collegio Episcopale e della grande famiglia del Popolo di Dio, al quale noi pure apparteniamo, quanto piuttosto la coscienza d'una assai grave e delicata funzione, che comporta responsabilità e fatiche tanto maggiori quanto più prossima è la sua derivazione dalle esigenze costituzionali del ministero apostolico, e quanto più fraterno e rivolto al bene totale della Chiesa ne vuole essere il suo provvido esercizio. Questo siamo. Ma la definizione di Curia Romana, in virtù della nostra personale ed associata presenza, assurge ora a quella di Sede Apostolica ( Cfr. can. 7 et can. 242 ), e conferisce a questa cerimonia giubilare un carattere di particolare importanza. Ora questa nostra coscienza, che vogliamo chiarissima non soltanto nella sua definizione canonica, ma anche nel suo contenuto morale e spirituale, impone a ciascuno di noi un atto penitenziale conforme alla disciplina propria del giubileo, atto che possiamo chiamare di autocritica per verificare, nel segreto dei nostri cuori, se il nostro comportamento corrisponde all'ufficio che ci è affidato. Ci stimola a questo interiore confronto innanzi tutto la coerenza della nostra vita ecclesiale, e poi l'analisi, che tanto la Chiesa, quanto la società fanno sul nostro conto, con esigenza spesso non obiettiva e tanto più severa quanto più rappresentativa è questa nostra posizione, dalla quale dovrebbe sempre irradiare un'esemplarità ideale. Da chi porta il nome cristiano oggi più che mai molto si pretende, e tanto più se a tal nome si aggiunge l'appartenenza ad un ambiente di Chiesa, qual è la Sede Apostolica; e quanto ancora maggiore è l'esigenza dell'occhio altrui di riscontrare armonia, specialmente a Roma, fra il carattere sacerdotale o episcopale, di cui noi fossimo insigniti, e lo stile, sotto ogni aspetto, della nostra vita, la fedeltà ai nostri doveri religiosi, lo zelo del nostro ministero. Non è meraviglia: fu dapprima così, - e in quale misura! -, per nostro Signore, che fin dagli albori della sua infanzia fu definito dalla profezia di Simeone « segno di contraddizione » ( Lc 2,34 ); e quanto ciò si spiega per noi, che uomini quali siamo, eredi, sì, d'una lunga e gloriosa storia, ma in molti punti censurabile, e per di più imperfetti e peccatori noi stessi, non possiamo certo crederci invulnerabili alle contestazioni e alle polemiche della cronaca e della storia. Due sentimenti spirituali perciò daranno senso e valore alla nostra celebrazione giubilare: un sentimento di sincera umiltà, che vuol dire verità su noi stessi, dichiarandoci per primi bisognosi della misericordia di Dio e di quell'indulgenza, che la Chiesa, facendoci credito sui meriti di Cristo Salvatore e Mediatore, e colmando i nostri debiti col tesoro della comunione dei Santi, concede in questo provvidenziale Giubileo. Umiltà, che tanto più deve riempire la nostra umana coscienza, e quella che le si ,associa della Curia Romana, quanto più grandi, gelose e divine sono le potestà, che il Datore delle chiavi pone nelle nostre mani, umili e tremanti, di pastori, di ministri, di servi del suo Regno. Umiltà, che, mentre ci fa obbligo d'implorare perdono per noi stessi, ci fa solleciti a concederlo a quanti degnamente ne accolgano il dono felice; e umiltà, che, mentre ispira il dialogo con i nostri Fratelli tuttora da noi separati, sorregge la nostra speranza d'una piena comunione nell'unico ovile di Cristo. E l'altro sentimento? oh! Fratelli, il sentimento adeguato ad una circostanza come questa non può essere che la sommità della nostra vita spirituale, non può essere che l'esultanza interiore per una celebrazione straordinaria, come questa lo è, dell'amore-carità di Dio verso di noi! Nessuno dica che questa è pietà consueta, è verità antica, sempre ripetuta e quindi punto originale, fino ad acquistare semplice sapore devozionale che ne diluisce la capacità di suscitare meraviglia ed entusiasmi, come oggi noi vorremmo sperimentare vigorosamente. No: l'amore-carità, la dilezione di Dio verso di noi è il punto focale della rivelazione, cioè del sistema ontologico e teologico della nostra religione; esso è il cuore della nostra fede: credidimus caritati, noi abbiamo conosciuto e creduto all'amore-carità che Dio ha per noi ( 1 Gv 4,16 ); e questa è sempre una scoperta originale per il nostro pensiero in cerca del vertice della verità: Dio ci ha amato! è qui la sorgente inesauribile della nostra emotività spirituale, ed è qui l'esigenza più impegnativa della nostra risposta alla vocazione cristiana; è di qui che nasce l'impulso più forte e più diretto al compimento del sommo mandato evangelico dell'amore: amore al Dio che ci ha amati fino a darci come vittima e salvatore, come maestro e come fratello il Figlio suo ( Gv 3,16 ), e amore nostro, scintilla al confronto del sole e dal sole accesa e riverberata, amore nostro, diciamo a Dio e di riflesso al prossimo, dichiarato degno d'esserne amato come Cristo lo amò ( Gv 13,34; Gv 15,12 ). La nostra religione, il nostro rapporto con Dio è questo, l'amore; un amore in cui Dio ha preso per primo l'iniziativa; prior dilexit nos ( 1 Gv 4; Gv 19; Rm 5,10 ). Noi dobbiamo ritrovare noi stessi nell'espressione di questi sentimenti fondamentali, oggi, mentre quanti hanno avuto la fortuna di partecipare al ritiro quaresimale di questi giorni ne concludono qui, con i componenti della Curia Romana, l'intensità spirituale compiendo tutti insieme la cerimonia prescritta per la celebrazione del Giubileo. Sì, noi diciamo a Gesù Cristo, nostro Signore, noi abbiamo voluto accedere a questa tomba apostolica varcando le soglie aperte della Porta Santa, simbolo di una misericordia di cui intimamente sentiamo bisogno. Successori ed eredi del Pescatore di Galilea, vorremmo ripetere le sue spontanee e impetuose parole davanti al prodigio della pesca miracolosa, segno profetico della fecondità della missione apostolica ed ecclesiale: « Allontanati da me, Signore, perché sono uomo peccatore! » ( Lc 5,8 ) Noi sentiamo fino alla confusione la sproporzione fra la nostra vocazione e la missione nostra, entrambe immeritate, sublimi, tremende, ineffabili, divine, e l'esiguità della nostra persona, sia singola, che collettiva. Anzi, dobbiamo forse dire, con il Centurione del Vangelo, l'indegnità: Signore, io non sono degno! ... ( Mt 8,8 ), sentendo l'imputazione oggi tanto diffusa e talvolta perfino aggressiva, dei motivi dell'avversione antipapale ed antiromana. Signore, noi qui non vogliamo né giustificarci né difenderci; solo ne faremo argomento di riflessione; e conforteremo i fratelli fedeli e noi stessi con le parole ancora dell'Apostolo Pietro: « Signore, a chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna! » ( Gv 6,69 ); e invocheremo sopra di noi la ricchezza della tua inesauribile misericordia con l'affermazione che Tu stesso, o Cristo, ci infondi nel fragile cuore, ma ora reso pietra indefettibile: « Signore, Tu sai ogni cosa; Tu sai che io Ti amo! » ( Gv 21,17 ). E una sola ambizione noi avremo, quella di meritare alle nostre persone, al nostro ufficio apostolico, a questa Chiesa Romana, il titolo, l'elogio stupendo del celebre martire Ignazio Teoforo d'Antiochia, d'essere cioè digna Deo digna decentia, digna beatiudine, digna laude, digne ordinata, digne casta et praesidens in caritate, prokatheméne tès, ágápes, presidente della carità ( Pref. Litt .ad Rom. ). Questo, o Signore.