Varietates legitimae Premessa 1. Nel Rito romano sono state ammesse nel passato legittime diversità e ancora esse sono previste dal concilio Vaticano II, nella costituzione « Sacrosanctum concilium », soprattutto nelle missioni. « La chiesa, in quelle cose che non toccano la fede o il bene di tutta la comunità, non desidera imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità ». Avendo conosciuto e conoscendo ancora una diversità di forme e di famiglie liturgiche, ritiene che questa diversità, lungi dal nuocere alla sua unità, la valorizza. 2. Nella lettera apostolica Vicesimus quintus annus, il papa Giovanni Paolo II ha indicato lo sforzo per radicare la liturgia nelle differenti culture come un compito importante per il rinnovamento liturgico. Già previsto nelle precedenti istruzioni e nei libri liturgici, tale lavoro deve essere perseguito, alla luce dell'esperienza, accogliendo, là dove è necessario, i valori culturali « che possono armonizzarsi con gli aspetti del vero e autentico spirito della liturgia, nel rispetto dell'unità sostanziale del Rito romano, espressa nei libri liturgici ». a) Natura di questa istruzione 3. Su mandato del sommo pontefice, la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha preparato questa istruzione in cui: si definiscono le Norme per adattare la liturgia all'indole e alle tradizioni dei vari popoli, contenute negli artt. 37-40 della costituzione « Sacrosanctum concilium »; si spiegano in modo più preciso certi princìpi, espressi in termini generali in questi articoli; sono rese più chiare le prescrizioni e, infine, si determina meglio l'ordine da seguire per osservarle, di modo che questa materia sia ormai posta in applicazione unicamente secondo queste prescrizioni. Mentre i princìpi teologici concernenti le questioni di fede e inculturazione hanno ancora bisogno di essere approfonditi, è parso bene a questo dicastero aiutare i vescovi e le conferenze episcopali a considerare gli adattamenti già previsti nei libri liturgici o a metterli in atto, secondo il diritto; a sottomettere a un esame critico gli adattamenti forse già accordati e infine, se in certe culture il bisogno pastorale rende urgente quella forma di adattamento della liturgia che la costituzione dice « più profonda » e dichiara nel contempo « più difficile », ad organizzarne l'attuazione e la pratica, secondo il diritto, nel modo più appropriato. b) Osservazioni preliminari 4. La costituzione « Sacrosanctum concilium » ha parlato di adattamento della liturgia indicandone alcune forme. In seguito, il magistero della chiesa ha utilizzato il termine « inculturazione » per designare in modo più preciso « l'incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone e nello stesso tempo l'introduzione di queste culture nella vita della chiesa ». « L'inculturazione "significa un'intima trasformazione degli autentici valori culturali attraverso la loro integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle differenti culture" ». Si comprende quindi il cambiamento di vocabolario, anche nel campo liturgico. Il termine adattamento, ripreso dal linguaggio missionario, poteva far pensare a dei cambiamenti soprattutto di punti singoli ed esteriori. Il termine « inculturazione » può meglio servire a indicare un duplice movimento: « Attraverso l'inculturazione, la chiesa incarna il Vangelo nelle diverse culture e, nel contempo, introduce i popoli con le loro culture nella propria comunità ». Da una parte, la penetrazione del Vangelo in un dato ambiente socioculturale « feconda come dall'interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di ciascun popolo ». Dall'altra parte, la chiesa assimila questi valori, nel caso essi siano compatibili con il Vangelo, « per approfondire l'annuncio di Cristo e per meglio esprimerlo nella celebrazione liturgica e nella vita multiforme della comunità dei fedeli ». Questo duplice movimento operante nell'inculturazione esprime così una delle componenti del mistero dell'incarnazione. 5. Così intesa, l'inculturazione ha il suo posto nel culto come negli altri campi della vita della chiesa, costituendo uno degli aspetti dell'inculturazione del Vangelo che domanda una vera integrazione, nella vita di fede di ciascun popolo, dei valori permanenti di una cultura, più che delle sue espressioni transitorie. Essa deve dunque essere strettamente connessa con una più vasta azione, con una pastorale concertata, che consideri l'insieme della condizione umana. Come tutte le altre forme di azione evangelizzatrice, questa complessa e paziente attività domanda un impegno metodico e progressivo di ricerca e discernimento. L'inculturazione della vita cristiana e delle sue celebrazioni liturgiche, per un popolo nel suo insieme, non potrà del resto che essere frutto di una progressiva maturazione nella fede. 6. La presente istruzione considera situazioni molto differenti. In primo luogo, i paesi di tradizione non cristiana, nei quali il Vangelo è stato annunciato in epoca moderna da missionari che hanno portato nel contempo il Rito romano. È oggi più chiaro che « entrando in contatto con le culture, la chiesa deve accogliere tutto ciò che, nelle tradizioni dei popoli, è conciliabile con il Vangelo, per apportarvi le ricchezze di Cristo e per arricchirsi essa stessa della sapienza multiforme delle nazioni della terra ». 7. Diversa è la situazione nei paesi di antica tradizione cristiana occidentale, nei quali la cultura è stata da lungo tempo permeata dalla fede e dalla liturgia espressa nel Rito romano. Ciò ha facilitato, in questi paesi, l'accoglienza della riforma liturgica e le possibilità di adattamento previste nei libri liturgici dovrebbero essere sufficienti, nell'insieme, per rispondere giustamente alle legittime diversità locali ( Cfr. sotto, nn. 53-61 ). Nei paesi poi in cui coesistono più culture, soprattutto a causa dell'immigrazione, bisogna tener conto dei problemi particolari posti da simile situazione ( Cfr. sotto, n. 49 ). 8. Ugualmente, occorre fare attenzione all'instaurazione progressiva, nei paesi di tradizione cristiana e no, di una cultura segnata dall'indifferenza o dal disinteresse per la religione. Davanti a quest'ultima situazione, non bisognerebbe parlare di inculturazione della liturgia, poiché in tal caso non si tratta tanto di assumere, evangelizzandoli, dei valori religiosi preesistenti, quanto piuttosto di insistere sulla formazione liturgica e di trovare i mezzi più adatti per raggiungere gli spiriti e di cuori. I. Il processo d'inculturazione nella storia della salvezza 9. Le questioni che si pongono attualmente per l'inculturazione del Rito romano possono trovare luce nella storia della salvezza: in forme diverse fu operante in essa il processo d'inculturazione. In tutta la sua lunga storia, Israele ha conservato la certezza di essere il popolo scelto da Dio, testimone della sua azione e del suo amore in mezzo alle nazioni. Se dai popoli vicini ha ripreso certe forme di culto, la fede nel Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe vi ha tuttavia impresso dei cambiamenti profondi, primariamente di senso e spesso di forma, al fine di celebrare il memoriale delle grandi opere di Dio nella sua storia, incorporando tali elementi nella propria pratica religiosa. L'incontro del mondo giudaico con la sapienza greca diede luogo a una nuova forma d'inculturazione: la traduzione della Bibbia in greco ha introdotto la parola di Dio in un mondo che le era chiuso e ha suscitato, sotto l'ispirazione divina, un arricchimento delle Scritture. 10. La legge di Mosè, i profeti e i salmi ( Cfr. Lc 24,27.44 ) avevano il senso di preparare la venuta del Figlio di Dio fra gli uomini. L'Antico Testamento, in quanto comprende la vita e la cultura del popolo di Israele, è così storia di salvezza. Venendo sulla terra, il Figlio di Dio « nato da donna, nato sotto la legge » ( Cfr. Gal 4,4 ), si è legato alle condizioni sociali e culturali degli uomini con cui ha vissuto e pregato. Facendosi uomo, ha assunto un popolo, un paese e un'epoca, ma in virtù della comune natura umana, « in certo modo, si è così unito ad ogni uomo ». Infatti, « noi siamo tutti in Cristo e la comune nostra natura umana rivive in lui. Per ciò egli è chiamato il nuovo Adamo ». 11. Cristo, che ha voluto condividere la nostra condizione umana ( Cfr. Eb 2,14 ), è morto per tutti, per raccogliere nell'unità i figli di Dio dispersi ( Cfr. Gv 11,52 ). Per mezzo della sua morte, egli ha voluto far cadere il muro di separazione tra gli uomini, facendo di Israele e delle nazioni un solo popolo. Per la potenza della sua risurrezione, egli attrae a sé tutti gli uomini e crea in se stesso un solo uomo nuovo ( Cfr. Ef 2,14-16; Gv 12,32 ). In lui è già nato un mondo nuovo ( Cfr. 2 Cor 5,16-17 ) e ciascuno può divenire creatura nuova. In lui, l'ombra cede il posto alla luce, la promessa diviene realtà e tutte le aspirazioni religiose dell'uomo trovano il loro compimento. Per mezzo dell'offerta del suo corpo, fatta una volta per tutte ( Cfr. Eb 10,10 ), Cristo Gesù stabilisce la pienezza del culto in Spirito e verità, nella novità che egli desiderava per i suoi discepoli ( Cfr. Gv 4,23-24 ). 12. « In Cristo ( … ) ci fu data la pienezza del culto divino ». In lui abbiamo il sommo sacerdote per eccellenza, scelto tra gli uomini ( Cfr. Eb 5,1-5; Eb 10,19-21 ), « messo a morte nella carne ma reso vivo nello spirito » ( 1 Pt 3,18 ). Cristo e Signore, ha fatto del nuovo popolo « un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre » ( Ap 1,6; Cfr. Ap 5,9-10 ). Ma prima di inaugurare nel suo sangue il mistero pasquale, che costituisce l'essenziale del culto cristiano, ha voluto istituire l'eucaristia, memoriale della sua morte e della sua risurrezione, finché egli venga. Qui si trovano il principio della liturgia cristiana e il nucleo della sua forma rituale. 13. Al momento di salire al Padre, Cristo risorto assicura ai discepoli la sua presenza e li invia per annunciare il Vangelo a ogni creatura e fare di tutte le genti dei suoi discepoli mediante il battesimo ( Cfr. Mt 28,19; Mc 16,15; At 1,8 ). Il giorno di Pentecoste, la venuta dello Spirito Santo crea la nuova comunità tra gli uomini, riunendoli tutti al di là del segno della loro divisione: le lingue ( Cfr. At 2,1-11 ). Ormai le meraviglie di Dio saranno proclamate a tutti gli uomini, di ogni lingua e d'ogni cultura ( Cfr. At 10,44-48 ). Gli uomini redenti dal sangue dell'Agnello e riuniti in comunione fraterna ( Cfr. At 2,42 ) sono chiamati da ogni tribù, lingua, popolo e nazione ( Cfr. Ap 5,9 ). 14. La fede in Cristo offre a tutte le nazioni di beneficiare della promessa e di condividere l'eredità del popolo dell'Alleanza ( Cfr. Ef 3,6 ), senza rinunciare alla loro cultura. Sotto l'impulso dello Spirito Santo, dopo san Pietro ( Cfr. At 10 ), san Paolo ha dilatato la via della chiesa ( Cfr. Gal 2,2-10 ), non costringendo il Vangelo nei limiti della legge mosaica, ma custodendo quanto lui stesso aveva ricevuto dalla tradizione proveniente dal Signore ( Cfr. 1 Cor 11,23 ). Così, fin dai primi tempi, la chiesa non ha esigito dai convertiti non circoncisi « nessun obbligo al di fuori del necessario », secondo la decisione dell'assemblea apostolica di Gerusalemme ( At 15,28 ). 15. Riunendosi per spezzare il pane nel primo giorno della settimana, che diventa il giorno del Signore ( Cfr. At 20,7; Ap 1,10 ), le prime comunità cristiane hanno seguito il comando di Gesù che, nel contesto del memoriale della Pasqua giudaica, istituì il memoriale della sua passione. Nella continuità dell'unica storia della salvezza, esse hanno ripreso spontaneamente forme e testi del culto giudaico, adattandoli in modo da esprimere la novità radicale del culto cristiano. Sotto la guida dello Spirito Santo, si è operato un discernimento tra ciò che poteva o doveva essere custodito o meno dell'eredità cultuale giudaica. 16. La diffusione del Vangelo nel mondo ha portato al sorgere di altre forme rituali nelle chiese provenienti dal paganesimo, sotto l'influsso di diverse tradizioni culturali. Sempre sotto la guida dello Spirito Santo, negli elementi derivanti dalle culture « pagane » si è operato un discernimento tra ciò che era incompatibile con il cristianesimo e ciò che poteva essere assunto, in armonia con la tradizione apostolica, nella fedeltà al Vangelo della salvezza. 17. La creazione e lo sviluppo delle forme di celebrazione cristiana sono avvenuti gradualmente secondo le condizioni locali, nelle grandi aree culturali in cui si è diffuso il Vangelo. Così sono nate le diverse famiglie liturgiche dell'occidente e dell'oriente cristiano. Il loro ricco patrimonio conserva fedelmente la pienezza della tradizione cristiana. La chiesa d'occidente ha talvolta attinto elementi della propria liturgia dal patrimonio delle famiglie liturgiche orientali. La chiesa di Roma ha adottato nella sua liturgia la lingua parlata dal popolo, il greco all'inizio, poi il latino e, come le altre chiese latine, nel culto ha assunto momenti importanti della vita sociale dell'Occidente, attribuendo ad essi un significato cristiano. Nel corso dei secoli, il Rito romano ha mostrato, a più riprese, la propria capacità di integrare testi, canti, gesti e riti di provenienza diversa e adattarsi alle culture locali nei paesi di missione, anche se in certi periodi ha avuto il sopravvento la preoccupazione dell'uniformità liturgica. 18. Nel nostro tempo, il concilio Vaticano II ha ricordato che la chiesa « favorisce e accoglie tutte le risorse, le ricchezze e le consuetudini dei popoli, nella misura in cui sono buone, e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva. ( … ) Con la sua attività, essa fa in modo che ogni germe di bene che si trova nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato per la gloria di Dio, per la confusione del demonio e la felicità dell'uomo ». Così la liturgia della chiesa non dev'essere estranea a nessun paese, a nessun popolo, a nessuna persona, e nel medesimo tempo essa trascende ogni particolarismo di razza o di nazione. Essa deve essere capace di esprimersi in ogni cultura umana, mantenendo inalterata la propria identità, fedele alla tradizione ricevuta dal Signore. 19. La liturgia, come il Vangelo, deve rispettare le culture, ma al contempo le invita a purificarsi e a santificarsi. Aderendo a Cristo per la fede, i giudei restano fedeli all'antica alleanza che conduce a Gesù, messia di Israele, che ha compiuto l'alleanza mosaica, essendo il Mediatore dell'alleanza nuova ed eterna, sigillata nel suo sangue sparso sulla croce. Essi sanno che, mediante il suo sacrificio unico e perfetto, egli è il vero sommo sacerdote e il tempio definitivo ( Cfr. Eb 6-10 ). Immediatamente si relativizzano prescrizioni come la circoncisione ( Cfr. Gal 5,1-6 ), il sabato e i sacrifici del tempio ( Cfr. Eb 10 ). In modo più radicale, i cristiani venuti dal paganesimo hanno dovuto, aderendo a Cristo, rinunciare agli idoli, alle mitologie, alle superstizioni ( Cfr. At 19,18-19; 1 Cor 10,14-22; Col 2,20-22; 1 Gv 5,21 ). Ma, qualunque sia la loro origine etnica e culturale, i cristiani debbono riconoscere nella storia d'Israele la promessa, la profezia, la storia della loro salvezza. Essi ricevono i libri dell'Antico Testamento al pari di quelli del Nuovo come parola di Dio. Essi accolgono i segni sacramentali, i quali non possono essere pienamente compresi che attraverso la sacra Scrittura e nella vita della chiesa. 20. La sfida per i primi cristiani, avvertita in modo diverso e con ragioni differenti a seconda se provenivano dal popolo eletto o erano originari del paganesimo, fu di conciliare le rinunce imposte dalla fede in Cristo con la fedeltà alla cultura e alle tradizioni del popolo a cui appartenevano. Tale è anche la sfida per i cristiani di ogni tempo, come attestano le parole di san Paolo: « Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani » ( 1 Cor 1,23 ). Il discernimento, che si è effettuato nel corso della storia della chiesa, resta necessario affinché, per mezzo della liturgia, l'opera di salvezza compiuta dal Cristo si perpetui fedelmente nella chiesa, per la potenza dello Spirito, attraverso lo spazio e il tempo e nelle differenti culture umane. II. Esigenze e condizioni preliminari per l'inculturazione liturgica a) Esigenze provenienti dalla natura della liturgia 21. Prima di ogni ricerca di inculturazione, va tenuta presente la natura stessa della liturgia. Essa « è il luogo privilegiato dell'incontro dei cristiani con Dio e con colui che egli ha inviato, Gesù Cristo ( Cfr. Gv 17,3 ) ». È, ad un tempo, azione di Cristo sacerdote e azione della chiesa suo corpo, poiché per compiere la sua opera di glorificazione di Dio e di santificazione degli uomini, esercitata mediante segni sensibili, egli associa sempre a sé la chiesa, la quale, per mezzo di lui e nello Spirito Santo, rende al Padre il culto a lui gradito. 22. La natura della liturgia è intimamente legata alla natura della chiesa, al punto che è soprattutto nella liturgia che si manifesta la natura della chiesa. Ora, la chiesa ha delle caratteristiche specifiche che la distinguono da ogni altra assemblea o comunità. Infatti, non si costituisce per decisione umana, ma è convocata da Dio nello Spirito Santo e risponde nella fede al suo appello gratuito ( ekklesia è in rapporto con klesis, « chiamata » ). Tale carattere singolare della chiesa è manifestato dal suo riunirsi come popolo sacerdotale, in primo luogo nel giorno del Signore, dalla parola che Dio rivolge ai suoi figli e dal ministero del sacerdote, che per il sacramento dell'ordine agisce nella persona di Cristo capo. Poiché cattolica, la chiesa oltrepassa le barriere che separano gli uomini: per il battesimo, tutti diventano figli di Dio e formano, in Cristo, un solo popolo dove « non c'è più giudeo né greco, non c'è più schiavo né libero, non c'è più uomo né donna » ( Gal 3,28 ). Così essa è chiamata a raccogliere tutti gli uomini, a parlare ogni lingua, a permeare ogni cultura. Infine la chiesa cammina sulla terra, lontano dal Signore ( Cfr. 2 Cor 5,6 ): nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni essa porta l'impronta del tempo presente, ma è tesa verso la beata speranza e la manifestazione di Cristo Gesù ( Cfr. Tt 2,13 ). Ciò trova espressione nella sua stessa preghiera di domanda: mentre pone attenzione ai bisogni degli uomini e della società ( Cfr. 1 Tm 2,1-4 ), essa professa che siamo cittadini del cielo ( Cfr. Fil 3,20 ). 23. La chiesa si nutre della parola di Dio, consegnata per iscritto nell'Antico e nel Nuovo Testamento e, proclamandola nella liturgia, l'accoglie quale una presenza di Cristo: « è lui che parla quando nella chiesa si leggono le sacre Scritture ». Nella celebrazione della liturgia, la parola di Dio ha dunque una importanza massima, di modo che la sacra Scrittura non può essere sostituita con nessun altro testo, per quanto venerabile esso sia. Ugualmente, la Bibbia fornisce alla liturgia l'essenziale del suo linguaggio, dei suoi segni e della sua preghiera, specialmente nei salmi. 24. Poiché la chiesa è frutto del sacrificio di Cristo, la liturgia è sempre celebrazione del mistero pasquale di Cristo, glorificazione di Dio Padre e santificazione dell'uomo per la potenza dello Spirito Santo. Il culto cristiano trova in particolare la sua più fondamentale espressione quando ogni domenica, nel mondo intero, radunati intorno all'altare sotto la presidenza del sacerdote, i cristiani celebrano l'eucaristia: insieme ascoltano la parola di Dio e fanno memoriale della morte e risurrezione di Cristo, nell'attesa del suo avvento glorioso. Attorno a questo polo centrale, il mistero pasquale si attualizza, con delle specifiche modalità, nella celebrazione di ciascuno dei sacramenti della fede. 25. L'intera vita liturgica s'impernia sul sacrificio eucaristico innanzitutto e sugli altri sacramenti, affidati da Cristo alla sua chiesa, che ha il dovere di trasmetterli fedelmente ad ogni generazione con sollecitudine. In virtù della sua autorità pastorale, essa può disporre ciò che può essere utile al bene dei fedeli, secondo le circostanze, i tempi e i luoghi. Ma non ha nessun potere su ciò che dipende dalla stessa volontà di Cristo e che costituisce la parte immutabile della liturgia. Intaccare il legame che i sacramenti hanno con Cristo che li ha istituiti, e con gli atti fondanti della chiesa, non sarebbe più inculturarli, ma svuotarli della loro sostanza. 26. La chiesa di Cristo è resa presente e significata, in un dato luogo e momento, dalle chiese locali o particolari, che nella liturgia ne manifestano la vera natura. Per questo ogni chiesa particolare deve essere in accordo con la chiesa universale non soltanto sulla dottrina della fede e sui segni sacramentali, ma anche sugli usi ricevuti universalmente dall'ininterrotta tradizione apostolica. È il caso della preghiera quotidiana, della santificazione della domenica, del ritmo settimanale, della Pasqua e della presentazione dell'intero mistero di Cristo lungo l'anno liturgico, della pratica della penitenza e del digiuno, dei sacramenti dell'iniziazione cristiana, della celebrazione del memoriale del Signore e del rapporto tra liturgia della parola e liturgia eucaristica, della remissione dei peccati, del ministero ordinato, del matrimonio, dell'unzione dei malati. 27. Nella liturgia, la chiesa esprime la propria fede in forma simbolica e comunitaria: ciò spiega l'esigenza di una legislazione che inquadri l'organizzazione del culto, la redazione dei testi, lo svolgimento dei riti. Ciò giustifica anche il carattere imperativo di questa legislazione, nel corso dei secoli fino ad oggi, per assicurare l'ortodossia del culto, ossia non soltanto per evitare errori, ma per trasmettere l'integrità della fede, poiché la « legge della preghiera » ( lex orandi ) della chiesa corrisponde alla sua « legge della fede » ( lex credendi ). Qualunque sia il grado di inculturazione, la liturgia non potrà sottrarsi a una forma costante di legislazione e di vigilanza da parte di coloro che hanno ricevuto questa responsabilità nella chiesa: la Sede apostolica e, secondo il diritto, le conferenze episcopali per un dato territorio, il vescovo per la sua diocesi. b) Condizioni preliminari per l'inculturazione della liturgia 28. La tradizione missionaria della chiesa si è sempre preoccupata di evangelizzare gli uomini nella loro lingua. Spesso è successo che furono proprio i primi evangelizzatori di un paese a fissare per iscritto le lingue trasmesse fino ad allora soltanto oralmente. E a buon diritto, poiché è attraverso la lingua materna, veicolo della mentalità e della cultura, che è possibile raggiungere l'anima di un popolo, suscitare in esso lo spirito cristiano, permettergli una partecipazione più profonda alla preghiera della chiesa. Dopo la prima evangelizzazione, è di grande utilità per il popolo nelle celebrazioni liturgiche la proclamazione della parola di Dio nella lingua del paese. La traduzione della Bibbia, o almeno dei testi biblici usati nella liturgia, è così necessariamente il primo momento di un processo d'inculturazione liturgica. Affinché la recezione della parola di Dio sia retta e fruttuosa, « è necessario che venga promossa quella soave e viva conoscenza della sacra Scrittura, che è attestata dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali che occidentali ». Così l'inculturazione della liturgia suppone da principio una appropriazione della sacra Scrittura da parte di una data cultura. 29. La diversità delle situazioni ecclesiali non è senza importanza per giudicare il grado di inculturazione liturgica necessario. Altra è la situazione dei paesi evangelizzati da secoli e nei quali la fede cristiana continua ad essere presente nella cultura, altra quella dei paesi in cui l'evangelizzazione è più recente o non ha penetrato profondamente le realtà culturali. Differente ancora è la situazione di una chiesa dove i cristiani sono in minoranza rispetto al resto della popolazione. Una situazione più complessa può infine esserci quando la popolazione conosce un pluralismo culturale e linguistico. Soltanto una valutazione precisa della situazione potrà chiarire il cammino verso soluzioni soddisfacenti. 30. Per preparare un'inculturazione dei riti, le conferenze episcopali dovranno fare appello a delle persone competenti, sia nella tradizione liturgica del Rito romano che nella conoscenza dei valori culturali locali. Sono necessari degli studi preliminari d'ordine storico, antropologico, esegetico e teologico. Tuttavia, essi hanno bisogno di essere confrontati con l'esperienza pastorale del clero locale, in particolare indigeno. Sarà anche prezioso il parere dei saggi del paese, la cui saggezza si è aperta alla luce del Vangelo. La stessa inculturazione liturgica cercherà di soddisfare le esigenze della cultura tradizionale, tenendo conto anche delle popolazioni segnate dalla cultura urbana e industriale. c) Responsabilità della conferenza episcopale 31. Trattandosi di culture locali, si capisce perché la costituzione « Sacrosanctum concilium » domanda in questo ambito l'intervento delle « competenti assemblee episcopali territoriali di vario genere legittimamente costituite ». A tale riguardo, le conferenze episcopali devono considerare « con attenzione e prudenza ciò che, in questo ambito, può opportunamente essere ammesso nel culto divino dalle tradizioni e dall'indole dei singoli popoli ». Esse potranno talora ammettere « ciò che nei costumi dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o ad errori ( … ), purché possa armonizzarsi con gli aspetti del vero e autentico spirito liturgico ». 32. Spetta alle conferenze episcopali valutare se l'introduzione nella liturgia, secondo la procedura indicata più avanti ( Cfr. n. 62 e nn. 65-69 ), di elementi improntati ai riti sociali e religiosi dei popoli, che sono attualmente parte viva della loro cultura, possa arricchire la comprensione delle azioni liturgiche senza provocare ripercussioni sfavorevoli per la fede e la pietà dei fedeli. Esse veglieranno, in ogni caso, affinché si eviti il pericolo che una tale introduzione non appaia ai fedeli come il ritorno a uno stato anteriore all'evangelizzazione ( Cfr. sotto, n. 47 ). Ad ogni modo, se nei riti e nei testi sono giudicati necessari dei cambiamenti, occorre armonizzarli con l'insieme della vita liturgica e, prima d'essere praticati, ancora meno ordinati, che siano presentati con cura innanzitutto al clero e quindi ai fedeli, così da evitare il rischio di turbarli senza ragioni proporzionate ( Cfr. sotto, n. 46 e n. 69 ). III. Princìpi e norme pratiche per l'inculturazione del rito romano 33. Le chiese particolari, soprattutto le giovani chiese, approfondendo il patrimonio liturgico ricevuto dalla chiesa romana che le ha generate, diverranno capaci di trovare a loro volta nel loro patrimonio culturale, quando ciò sia utile o necessario, delle forme appropriate, per integrarle nel Rito romano. Una formazione liturgica tanto dei fedeli che del clero, come richiesta dalla costituzione « Sacrosanctum concilium », dovrebbe permettere di cogliere il senso dei testi e dei riti presentati nei libri liturgici attuali e così, spesso, di evitare cambiamenti o soppressioni in ciò che proviene dalla tradizione del Rito romano. a) Principi generali 34. Per la ricerca e l'attuazione dell'inculturazione del Rito romano, si deve tener presente: 1. la finalità inerente all'opera di inculturazione; 2. l'unità sostanziale del Rito romano; 3. l'autorità competente. 35. La finalità che deve guidare un'inculturazione del Rito romano è quella stessa che il concilio Vaticano II ha posto alla base della revisione generale della liturgia: « ordinare i testi e i riti in modo che esprimano più chiaramente le sante realtà che significano, e il popolo cristiano, per quanto è possibile, possa capirle facilmente e parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria ». Occorre anche che i riti « siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni », tenendo conto della natura stessa della liturgia, del carattere biblico e tradizionale della sua struttura e del suo modo di esprimersi, così come sono stati esposti sopra ( nn. 21-27 ). 36. Il processo di inculturazione avrà luogo salvaguardando l'unità sostanziale del Rito romano. Questa unità si trova espressa attualmente nei libri liturgici tipici pubblicati per autorità del sommo pontefice e nei libri liturgici corrispondenti, approvati dalle conferenze episcopali per i loro rispettivi paesi e confermati dalla Sede apostolica. La ricerca d'inculturazione non ha per oggetto la creazione di nuove famiglie rituali; rispondendo ai bisogni di una determinata cultura essa giunge a degli adattamenti, che fanno sempre parte del Rito romano. 37. Gli adattamenti del Rito romano, anche nel campo dell'inculturazione, dipendono unicamente dall'autorità della chiesa. Tale autorità compete alla Sede apostolica, che la esercita tramite la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti; compete anche, nei limiti previsti dal diritto, alle conferenze episcopali e al vescovo diocesano. « Nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica ». L'inculturazione non è dunque lasciata all'iniziativa personale dei celebranti, né all'iniziativa collettiva dell'assemblea. Similmente, le concessioni accordate a una data regione non possono essere estese ad altre regioni senza le debite autorizzazioni, quand'anche una Conferenza episcopale ritenesse di avere sufficienti motivi per adottarle nel proprio paese. b) Ciò che può essere adattato 38. Nell'analisi di un'azione liturgica in vista della sua inculturazione, è necessario considerare anche il valore tradizionale degli elementi di questa azione, in particolare la loro origine biblica o patristica ( Cfr. sopra, nn. 21-26 ), poiché non è sufficiente distinguere tra ciò che può cambiare e ciò che è immutabile. 39. Nelle celebrazioni liturgiche, il linguaggio, principale mezzo per gli uomini di comunicare tra loro, ha come scopo di annunciare ai fedeli la buona notizia della salvezza e di esprimere la preghiera che la chiesa rivolge al Signore. Esso deve, quindi, rivelare sempre, insieme alla verità di fede, la grandezza e la santità dei misteri celebrati. Si dovrà dunque esaminare con attenzione quali elementi del linguaggio di un popolo possono convenientemente essere introdotti nelle celebrazioni liturgiche e, in particolare, se è opportuno o invece controindicato l'impiego di espressioni provenienti da religioni non cristiane. Sarà ugualmente importante tener conto dei diversi generi letterari usati nella liturgia: testi biblici proclamati, preghiere presidenziali, salmodia, acclamazioni, ritornelli, responsori, versetti, inni, preghiera litanica. 40. La musica e il canto, espressioni dell'animo di un popolo, hanno un posto di rilievo nella liturgia. Si deve dunque favorire il canto, in primo luogo dei testi liturgici, affinché le voci dei fedeli possano farsi sentire nelle stesse azioni liturgiche. « In alcune regioni, specialmente nelle missioni, si trovano popoli con una propria tradizione musicale, la quale ha grande importanza nella loro vita religiosa e sociale. A questa musica si dia la dovuta stima e il posto conveniente, tanto nella educazione del senso religioso di quei popoli, quanto nell'adattare il culto alla loro indole ». Si dovrà essere attenti al fatto che un testo cantato si imprime più profondamente nella memoria di un testo letto, e ciò domanda di essere esigenti sull'ispirazione biblica e liturgica e sulla qualità letteraria dei testi del canto. Si potranno ammettere nel culto divino le forme musicali, i motivi, gli strumenti musicali « purché siano adatti all'uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l'edificazione dei fedeli ». 41. Poiché la liturgia è un'azione, i gesti e gli atteggiamenti hanno particolare importanza. Tra essi, quelli che appartengono al rito essenziale dei sacramenti e che sono richiesti per la loro validità, debbono essere conservati così come sono approvati o determinati dalla sola suprema autorità della chiesa. I gesti e gli atteggiamenti del sacerdote celebrante devono esprimere la funzione che gli è propria: egli presiede l'assemblea nella persona di Cristo. I gesti e gli atteggiamenti dell'assemblea, in quanto segni di comunità e di unità, favoriscono la partecipazione attiva esprimendo e sviluppando l'intenzione e la sensibilità dei partecipanti. Nella cultura di un paese, si sceglieranno gesti e atteggiamenti del corpo che esprimano la situazione dell'uomo davanti a Dio, dando ad essi un significato cristiano, in corrispondenza, se possibile, con i gesti e gli atteggiamenti provenienti dalla Bibbia. 42. Presso alcuni popoli, il canto si accompagna istintivamente al battito delle mani, al movimento ritmico del corpo o a movimenti di danza dei partecipanti. Tali forme di espressione corporale possono aver il loro posto nell'azione liturgica di questi popoli, a condizione che esse siano sempre espressione di una vera preghiera comune di adorazione, di lode, di offerta o di supplica e non semplicemente spettacolo. 43. La celebrazione liturgica è arricchita dall'apporto dell'arte, che aiuta i fedeli a celebrare, a incontrare Dio, a pregare. Anche l'arte deve avere nella chiesa di ogni popolo e nazione libertà di espressione, atteso che concorra alla bellezza degli edifici e dei riti liturgici, con il rispetto e l'onore che sono ad essi dovuti, e che sia davvero significativa nella vita e nella tradizione del popolo. Lo stesso dicasi per la forma, la disposizione e la decorazione dell'altare, per il luogo della proclamazione della parola di Dio e per quello del battesimo, per l'arredamento, i vasi, le vesti e i colori liturgici. Si darà la preferenza a materie, forme e colori familiari nel paese. 44. La costituzione « Sacrosanctum concilium » ha mantenuto fermamente la pratica costante della chiesa di proporre alla venerazione dei fedeli immagini di Cristo, della Vergine Maria e dei santi, poiché « l'onore reso all'immagine è diretto alla persona rappresentata ». Nelle diverse culture, i credenti devono poter essere aiutati nella loro preghiera e vita spirituale dalla vista di opere d'arte che cercano di raffigurare il mistero secondo il genio del popolo. 45. Accanto alle celebrazioni liturgiche e in connessione con esse, nelle varie chiese particolari si trovano diverse espressioni di pietà popolare. Talora introdotte dai missionari al tempo della prima evangelizzazione, si sviluppano sovente secondo i costumi locali. L'introduzione di pratiche devozionali nelle celebrazioni liturgiche non può essere ammessa come forma d'inculturazione « data la sua natura ( della liturgia ) di gran lunga superiore ». Compete all'ordinario del luogo l'organizzazione di tali manifestazioni di pietà, di incoraggiarle nel loro ruolo di aiuto per la vita e la fede dei cristiani, di purificarle dove è necessario, poiché esse hanno incessantemente bisogno di essere evangelizzate. L'ordinario veglierà inoltre che non si sostituiscano o si mescolino con le celebrazioni liturgiche. c) La prudenza necessaria 46. « Non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della chiesa, e con l'avvertenza che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti ». Questa norma, data dalla costituzione « Sacrosanctum concilium » in vista della riforma liturgica, si applica anche, fatte le debite proporzioni, all'inculturazione del Rito romano. In questo campo, sono necessari pedagogia e tempo, onde evitare fenomeni di rigetto o di attaccamento alle forme anteriori. 47. Poiché la liturgia è espressione della fede e della vita cristiana, occorre vigilare che la sua inculturazione non sia segnata, neppure in apparenza, dal sincretismo religioso. Ciò potrebbe accadere se i luoghi, gli oggetti di culto, le vesti liturgiche, i gesti e gli atteggiamenti lasciassero supporre che, nelle celebrazioni cristiane, certi riti abbiano i medesimi significati di prima dell'evangelizzazione. Il sincretismo sarebbe ancora peggiore se si pretendesse di sostituire letture e canti biblici ( Cfr. sopra, n. 23 ) o preghiere con testi mutuati da altre religioni, quand'anche essi possiedano un innegabile valore religioso e morale. 48. L'ammissione di riti o gesti tradizionali nei rituali dell'iniziazione cristiana, del matrimonio e dei funerali è una tappa d'inculturazione, già indicata nella costituzione « Sacrosanctum concilium ». Ciò potrebbe tuttavia risultare anche un momento in cui la verità del rito cristiano e l'espressione della fede possono essere facilmente sminuite agli occhi dei fedeli. La ripresa degli usi tradizionali deve accompagnarsi a una loro purificazione e, se necessario, a delle rinunce. La stessa cosa vale, ad esempio, per l'eventuale cristianizzazione di feste pagane o di luoghi sacri, per l'attribuzione al sacerdote delle insegne di autorità riservate al capo nella società, per la venerazione degli antenati. S'impone, in ogni caso, di evitare ogni ambiguità. A più forte ragione la liturgia cristiana non può assolutamente accogliere riti di magia, di superstizione, di spiritismo, di vendetta o a connotazione sessuale. 49. In vari paesi, coesistono diverse culture che, talora, si integrano tra loro in modo da formare a poco a poco una nuova cultura, talora invece cercano di differenziarsi, se non di opporsi, per meglio affermare la propria esistenza. Può succedere che certi usi e costumi abbiano ormai soltanto un interesse folkloristico. Le conferenze episcopali esamineranno con attenzione la situazione concreta di ciascun caso: rispetteranno le ricchezze di ogni cultura e quanti se ne fanno difensori, senza ignorare o dimenticare una cultura minoritaria o che non è loro familiare; valuteranno anche i rischi di una ghettizzazione all'interno delle comunità cristiane o di un'utilizzazione dell'inculturazione liturgica per fini politici. Nei paesi in cui la cultura è segnata da usi locali tradizionali, saranno ugualmente presi in considerazione i diversi gradi di modernizzazione delle popolazioni. 50. Talvolta nel medesimo paese sono parlate numerose lingue, e magari ciascuna è in uso presso un gruppo ristretto di persone o in una sola tribù. Dovrà essere trovato allora un equilibrio, che rispetti i diritti dei singoli gruppi o tribù, evitando il pericolo di portare all'estremo la particolarità delle celebrazioni liturgiche. Va ugualmente considerato che, in un paese, è talora possibile un'evoluzione verso una lingua principale. 51. Per promuovere l'inculturazione liturgica in un'area culturale più vasta di un paese, è necessario che le conferenze episcopali interessate si accordino e decidano insieme le misure da prendere affinché « si evitino, per quanto è possibile, notevoli differenze di riti tra regioni confinanti ». IV. L'ambito degli adattamenti nel Rito romano 52. La costituzione « Sacrosanctum concilium » aveva in vista una inculturazione del Rito romano nello stabilire delle Norme per adattare la liturgia all'indole e alle tradizioni dei differenti popoli, nel prevedere nei libri liturgici certi adattamenti ( Cfr. sotto, nn. 53-61 ), e infine nel prevedere, in certi casi, soprattutto nelle missioni, degli adattamenti più profondi ( Cfr. sotto, nn. 63-64 ). a) Gli adattamenti previsti nei libri liturgici 53. La prima e più notevole misura d'inculturazione è la traduzione dei testi liturgici nella lingua del popolo. Le traduzioni e, al bisogno, la loro revisione si faranno secondo le indicazioni date al riguardo dalla sede apostolica. Mantenendo, con l'attenzione dovuta ai diversi generi letterari, il contenuto dei testi dell'edizione tipica latina, la traduzione deve essere accessibile ai partecipanti ( Cfr. anche sopra, n. 39 ), convenire alla proclamazione e al canto, come alle risposte e acclamazioni dell'assemblea. Anche se tutti i popoli, compresi i più semplici, hanno un linguaggio religioso adatto ad esprimere la preghiera, il linguaggio liturgico ha delle caratteristiche proprie: è impregnato profondamente della sacra Scrittura; certe parole del latino corrente ( memoria, sacramentum ) hanno assunto un altro senso per l'espressione della fede cristiana; certi termini del linguaggio cristiano possono trasmettersi da una lingua all'altra, come avvenuto nel passato, ad esempio per: ecclesia, evangelium, baptisma, eucharistia. Del resto, i traduttori devono essere attenti al rapporto tra testo e azione liturgica, alle esigenze della comunicazione orale e alle qualità letterarie della lingua viva del popolo. Queste qualità richieste alle traduzioni liturgiche devono ritrovarsi nelle nuove composizioni, quando sono previste. 54. Per la celebrazione eucaristica, il Messale romano, pur nell'accoglienza di « legittime varietà e adattamenti, secondo le norme del concilio Vaticano II », deve restare un « mezzo per testimoniare e affermare l'unità » del Rito romano nella diversità delle lingue. Principi e norme per l'uso del Messale romano prevede che « le conferenze episcopali, secondo la costituzione sulla sacra liturgia, possono prescrivere, per il loro territorio, delle norme che tengano conto delle tradizioni e della cultura propria dei loro popoli, delle regioni e delle diverse comunità ». Ciò vale in particolare per i gesti e gli atteggiamenti dei fedeli, i gesti di venerazione dell'altare e del libro dei Vangeli, i testi dei canti d'ingresso, all'offertorio e di comunione, il rito della pace, le condizioni per la comunione al calice, la materia dell'altare e della suppellettile liturgica, la materia e la forma dei vasi sacri, le vesti liturgiche. Le conferenze episcopali possono ugualmente determinare il modo di distribuire la santa comunione. 55. Per gli altri sacramenti e sacramentali, l'edizione tipica latina di ogni Rituale indica gli adattamenti che spettano alle conferenze episcopali, o in casi particolari anche al vescovo. Questi adattamenti possono riguardare testi, gesti, e talvolta lo stesso ordinamento del rito. Quando l'edizione tipica prevede delle formule a scelta, le conferenze episcopali possono decidere di proporne altre dello stesso genere. 56. Quanto ai riti dell'iniziazione cristiana, spetta alle conferenze episcopali « valutare con attenzione e prudenza gli elementi che possono essere opportunamente accolti dalle tradizioni e dall'indole dei singoli popoli » e « nelle terre di missione giudicare se gli elementi dell'iniziazione in uso presso alcuni popoli possono essere adattati al rito del battesimo cristiano e decidere se si debbono accogliere in esso ». Va osservato pertanto che il termine « iniziazione » non ha il medesimo significato e non indica la stessa realtà quando è applicato ai riti d'iniziazione sociale presso certi popoli, o invece all'itinerario dell'iniziazione cristiana che, per i riti del catecumenato, conduce all'incorporazione a Cristo nella chiesa per mezzo dei sacramenti del battesimo, della confermazione e dell'eucaristia. 57. Il Rituale del matrimonio è quello che richiede, in numerosi paesi, il più grande adattamento per non essere estraneo ai costumi sociali. Perciò ogni conferenza episcopale ha la facoltà di preparare un rito proprio per il matrimonio, che si addica ai costumi dei luoghi e delle popolazioni; tuttavia deve restare ferma la norma secondo la quale il ministro ordinato o laico che assiste, a seconda del caso, deve richiedere e ricevere il consenso dei contraenti, e che sia impartita agli sposi la benedizione nuziale. Questo rito proprio dovrà, senza dubbio, esprimere chiaramente il senso cristiano del matrimonio così come la grazia del sacramento e sottolineare i doveri degli sposi. 58. In ogni tempo e presso tutti i popoli, i funerali sono stati caratterizzati da riti particolari, spesso altamente espressivi. Per rispondere alle situazioni dei diversi paesi, il Rituale romano propone tre tipi o schemi differenti per i funerali. Spetta alle conferenze episcopali scegliere quello che meglio corrisponde agli usi locali. Conservando volentieri tutto ciò che di buono si trova nelle tradizioni familiari e nei costumi locali, esse veglieranno a che le esequie manifestino la fede pasquale e testimonino veramente lo spirito evangelico. È in questa prospettiva che i Rituali dei funerali possono adottare i costumi delle diverse culture e rispondere meglio alle situazioni e alle tradizioni di ciascuna regione. 59. Le benedizioni di persone, di luoghi o cose, che riguardano da vicino la vita, le attività e le preoccupazioni dei fedeli, offrono diverse possibilità di adattamento, di mantenere abitudini locali, di ammettere usi popolari. Le conferenze episcopali sapranno avvalersi delle disposizioni previste, ponendo attenzione alle necessità del paese. 60. Per quanto concerne l'organizzazione del tempo, ogni chiesa particolare e ogni famiglia religiosa aggiungono alle celebrazioni della chiesa universale, dopo l'approvazione della Santa Sede, quelle che sono loro proprie. Inoltre, previa approvazione della Santa Sede, le conferenze episcopali possono abolire il precetto per certe feste o trasferirle in domenica. Compete loro di determinare il tempo e il modo di celebrare le rogazioni e le « quattro tempora ». 61. La Liturgia delle ore, che ha lo scopo di celebrare le lodi di Dio e di santificare con la preghiera la giornata e l'intera attività umana, offre alle conferenze episcopali delle possibilità di adattamento per la seconda lettura dell'Ufficio delle letture, gli inni e le intercessioni, come anche per le antifone mariane finali. Procedura da seguire per gli adattamenti previsti nei libri liturgici 62. Quando la conferenza episcopale prepara la propria edizione dei libri liturgici, si pronuncia sulla traduzione e gli adattamenti previsti, secondo il diritto. Gli atti della conferenza, con il risultato del voto, sono indirizzati, firmati dal presidente e dal segretario della conferenza, alla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, insieme a due esemplari completi del progetto approvato. Inoltre, trasmettendo l'insieme del materiale: si esporranno, in modo sintetico ma preciso, le ragioni per cui è stato introdotto ciascun adattamento; si indicheranno ugualmente quali parti sono state riprese da altri libri già approvati e quali invece sono di nuova composizione. Ottenuta la recognitio da parte della Sede apostolica secondo le norme stabilite, la conferenza episcopale promulga con decreto il testo approvato, indicando la data a partire dalla quale esso entrerà in vigore. b) L'adattamento secondo l'art. 40 della costituzione conciliare sulla sacra liturgia 63. Nonostante le misure di adattamento già previste nei libri liturgici, può avvenire che « in vari luoghi e circostanze è urgente un più profondo adattamento della liturgia, e questo è più difficile ». Qui non si tratta più di adattamenti all'interno del quadro previsto nelle Institutiones generales e nei Praenotanda dei libri liturgici. Ciò suppone che una conferenza episcopale abbia innanzitutto utilizzato tutte le possibilità offerte dai libri liturgici, valutato gli adattamenti già introdotti ed eventualmente proceduto alla loro revisione, prima di intraprendere l'iniziativa di un adattamento più profondo. L'utilità o la necessità di un tale adattamento può riguardare uno dei punti ricordati sopra ( Cfr. nn. 53-61 ), senza che altri siano mutati. Adattamenti di questo genere non tendono a una trasformazione del Rito romano, ma si collocano all'interno dello stesso Rito. 64. In questo caso, uno o più vescovi possono esporre le difficoltà che permangono circa la partecipazione dei fedeli ai confratelli della loro conferenza episcopale, e con loro esaminare l'opportunità di apportare degli adattamenti più profondi, se davvero lo esige il bene delle anime. Spetta poi alla conferenza episcopale proporre alla Santa Sede, secondo la procedura qui sotto indicata, le modificazioni che desidera adottare. La Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti si dichiara disposta ad accogliere le proposte delle conferenze episcopali, ad esaminarle tenendo presente il bene delle chiese locali interessate e il bene comune di tutta la chiesa, e a seguire il processo di inculturazione là dove questo è utile o necessario, secondo i princìpi esposti in questa istruzione ( Cfr. sopra, nn. 33-51 ), in spirito di fiduciosa collaborazione e di responsabilità condivisa. Procedura da seguire nell'applicazione dell'art. 40 della costituzione conciliare sulla sacra liturgia 65. La conferenza episcopale esaminerà quanto deve essere modificato nelle celebrazioni liturgiche in ragione delle tradizioni e della mentalità del popolo. Ne affiderà lo studio alla commissione nazionale o regionale per la liturgia, la quale curerà di chiedere l'intervento di persone competenti, per esaminare i diversi aspetti degli elementi della cultura locale e della loro eventuale assunzione nelle celebrazioni liturgiche. Può essere opportuno talvolta domandare il parere a esponenti di religioni non cristiane sul valore cultuale o civile dell'uno o dell'altro elemento ( Cfr. sopra, nn. 30-32 ). Questo esame preliminare sarà svolto in collaborazione, se il caso lo richiede, con le conferenze episcopali dei paesi limitrofi o di quelli della medesima cultura ( Cfr. sopra, n. 51 ). 66. Prima di ogni iniziativa di sperimentazione, la conferenza episcopale esporrà il progetto alla congregazione. La presentazione del progetto deve comprendere una descrizione delle innovazioni proposte, le ragioni della loro ammissione, i criteri adottati, i luoghi e i tempi desiderati per fare, se del caso, una sperimentazione preliminare e la designazione dei gruppi incaricati di compierla, infine gli atti della delibera e del voto della conferenza al riguardo. Dopo l'esame del progetto, condotto in accordo tra la conferenza episcopale e la congregazione, quest'ultima darà facoltà alla conferenza episcopale di permettere, se del caso, una sperimentazione per un tempo limitato. 67. La conferenza episcopale veglierà sul buon andamento della sperimentazione, facendosi normalmente aiutare dalla commissione nazionale o regionale per la liturgia. Inoltre, la conferenza veglierà a che la sperimentazione non si estenda oltre i limiti previsti di luogo e di tempo, che siano informati pastori e fedeli sulla portata provvisoria e limitata di essa, e che non le si dia una pubblicità che potrebbe influire già sulla vita liturgica del paese. Al termine del periodo di sperimentazione, la conferenza episcopale giudicherà se il progetto corrisponde alla finalità desiderata o se dev'essere rivisto in qualche punto, e comunicherà la propria delibera alla congregazione, insieme al dossier relativo alla sperimentazione avvenuta. 68. Esaminato il dossier, la congregazione potrà dare con decreto il proprio consenso, accompagnato da eventuali osservazioni, perché gli adattamenti domandati siano adottati nel territorio dipendente dalla conferenza episcopale. 69. I fedeli, laici e clero, dovranno essere bene informati dei cambiamenti e preparati alla loro introduzione nelle celebrazioni. L'applicazione delle decisioni dovrà compiersi tenendo conto delle concrete circostanze, contemplando, se è opportuno, un periodo di transizione ( Cfr. sopra, n. 46 ). Conclusione 70. Presentando alle Conferenze episcopali le norme pratiche che devono guidare il lavoro di inculturazione liturgica previsto dal concilio Vaticano II per rispondere alle necessità pastorali dei popoli di culture diverse e inserendolo attentamente in una pastorale d'insieme per inculturare il Vangelo nella varietà delle realtà umane, la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti confida che ciascuna chiesa particolare e soprattutto le giovani chiese potranno sperimentare che la diversità di certi elementi nella celebrazione liturgica può essere fonte di arricchimento, nel rispetto dell'unità sostanziale del Rito romano, dell'unità di tutta la chiesa e dell'integrità della fede « trasmessa ai credenti una volta per tutte » ( Gd 3 ). La presente istruzione è stata preparata dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti per mandato di sua santità il papa Giovanni Paolo II, che l'ha approvata e ha ordinato che sia pubblicata.