Etica e diritto all'alimentazione Premessa Ringrazio gli organizzatori per il loro gradito invito, e in particolare per avermi sollecitato a riflettere su un rapporto cruciale per le sorti dell'umanità, quello relativo ad etica e diritto all'alimentazione. Si tratta, infatti, di un rapporto da cui dipende il futuro del pianeta, perché non è solo questione di nutrire il mondo ma di proteggere e di sviluppare simultaneamente la terra e le sue potenzialità per le prossime generazioni. Come ci dicono gli esperti, il sistema alimentare deve affrontare tre sfide epocali, collegate fra loro: garantire un'alimentazione adeguata ai sette miliardi di persone che attualmente vivono sul pianeta; raddoppiare la produzione alimentare nell'arco dei prossimi quarant'anni; raggiungere entrambi gli obiettivi in modo sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale. Il diritto al cibo o all'alimentazione va perseguito entro un simile contesto, condizionato - come si può ben immaginare -, da molteplici fattori concomitanti. 1. La fondazione pregiudiziale del diritto al cibo A ben considerare la complessità del quadro entro cui si dovrà concretizzare il diritto di ogni persona e di ogni popolo al cibo, si pone, oltre a quella della produzione sufficiente e sostenibile del cibo, soprattutto la questione del suo concreto accesso e della sua equa distribuzione. Ma non è tutto. Vi è una questione previa, ancor più rilevante. È relativa alla fondazione e alla cogenza del diritto al cibo. Non si tratta, infatti, di un problema ininfluente e secondario. Se non esistesse un diritto naturale al cibo, certo e quindi esigibile, fondato sulla dignità delle persone, un diritto universale, ossia valido per tutti, individui e popoli, sarebbe velleitario pensare che si possa risolvere efficacemente la piaga della fame, nonché quella della povertà. L'omologazione del diritto al cibo negli ordinamenti giuridici è il primo passo per la sua realizzazione nei vari contesti storici. La sconfitta della fame e la sicurezza alimentare dipenderanno sì, con ogni probabilità, come ci dicono alcune ricerche, dal raddoppio della produzione di cibo entro il 2050, quando la popolazione mondiale sia verosimilmente aumentata di due o tre miliardi. Così, saranno agevolate dalla riduzione dei danni ambientali causati da un'agricoltura di tipo consumistico quando si sia provveduto a renderla sostenibile. Ma per quanto già detto ciò che sarà particolarmente decisivo per il raggiungimento di simili obiettivi, ambiziosi e basilari per la crescita di tutti, resta sempre la giustificazione o fondazione razionale del diritto al cibo, che purtroppo, a tutt'oggi, non è universalmente riconosciuto e codificato. Dopo e in concomitanza di ciò, il problema della fame potrà, in particolare, essere più agevolmente risolto, affrontando sia le cause « congiunturali » sia « strutturali » di essa; e, inoltre, decidendo sulla questione delle tecnologie e del loro trasferimento più opportuno, sulla quantità e sulla qualità dell'alimentazione, sulle politiche agricole e commerciali più efficaci sul piano nazionale ed internazionale; sulla migliore configurazione del sistema produttivo nel settore agroalimentare, su investimenti privati e pubblici. 2. La rilevanza dell'etica rispetto al diritto al cibo In connessione alla fondazione del diritto al cibo – si deve tener presente che ogni diritto presuppone un dovere – è oggi pure imprescindibile, per un contesto culturale connotato da « fluidità » -, la questione del ruolo dell'etica nei problemi della fame del mondo. Non tutte le etiche, infatti, sono funzionali al riconoscimento e alla realizzazione del diritto universale al cibo. Non sembra che siffatto diritto possa essere rafforzato da impostazioni culturali per le quali l'etica è di tipo neocontrattualista o neoutilitatista o frutto di un discorso pubblico ove i cittadini vi partecipano senza però una propria coscienza personale ed autonoma, bensì con un senso morale meramente dipendente e mutuato dalla tradizione vigente. Simili etiche, giacché rendono debole ed incerta la fondazione del diritto all'alimentazione, appaiono un ostacolo al raggiungimento dell'obiettivo del cibo per tutti, se non addirittura una causa che incrementa la stessa piaga della fame. Pertanto, prima di procedere nelle nostre riflessioni sulla funzione dell'etica rispetto alla soluzione dei problemi della povertà e della fame, si impone un discernimento circa le varie figure dell'etica oggi disponibili. 3. Etiche insufficienti e dannose Se l'etica è da considerare essenziale nella soluzione dei problemi della fame, come anche nella individuazione e nella promozione del diritto all'alimentazione, è importante che se ne abbia a disposizione una figura genuina, non parziale o contraffatta, ossia non ideologica. Occorre, cioè, un'etica che non rappresenti una mistificazione delle istanze morali originarie dell'essere umano e della sua corretta relazione con il creato. Non parrebbe un'etica rispettosa di tali istanze quella che coltiva pretese prometeiche e tecnocratiche, ossia quell'etica che intende affrontare i problemi ambientali bypassando le « leggi » della natura e assolutizzando il potere della tecnica. Una simile etica, in realtà, mira ad un dominio indiscriminato sul creato, presupponendo una correlazione tra scienza e prassi ministeriale alla generazione di un « regno assoluto dell'uomo », avente come suoi « sacerdoti » gli scienziati. Si tratta di un'etica che idolatra la tecnica e allarga a dismisura le frontiere della fattibilità dei processi, senza mai interrogarsi sulla loro pertinenza morale. Pensa di poter ingenuamente riparare il degrado ambientale odierno con il solo mezzo della tecnologia. Il suo principale errore consiste nell'adottare una razionalità parziale, di tipo scientifico-strumentale, che impone un'interpretazione « stilizzata » ed astratta della natura, prescindendo aprioristicamente dai suoi ritmi, dai suoi equilibri, dalla sua imprevedibilità e dalla sua sostenibilità. Una simile etica sollecita a procedere in maniera indiscriminata, ignorando le conseguenze negative delle proprie azioni, come nel caso della trasformazione delle colture agricole in biocarburanti o come nel caso della produzione di farine animali che hanno generato il preoccupante fenomeno della « mucca pazza ». Un'altra etica ideologizzata, che vanifica il diritto al cibo dal punto di vista pratico, è quella per la quale « business is business ». Diritti, derrate, sementi e terreni vengono strumentalizzati da una speculazione senza limiti, all'insegna del « profitto a breve termine ». Tale etica conduce, ad esempio, a sfruttare la fertilità dei suoli o le riserve ittiche di biodiversità aldilà dei parametri di sostenibilità, senza pensare ai bisogni di chi verrà dopo. Conduce anche allo sviluppo di cash crops, ossia a scegliere l'opzione più redditizia per un campo, senza prendere in debita considerazione il rispetto delle culture locali o le esigenze della sicurezza alimentare locale. Alcuni episodi di land grabbing ( termine-ombrello che ricopre una molteplicità di transazioni che variano molto fra di loro, per esempio nella durata del contratto, nel livello di legalità e trasparenza, nella natura degli attori coinvolti ) mostrano come grandi aziende siano in grado di investire in zone povere per una produzione intensiva, destinata ad un'esportazione redditizia, che rifornirà le società maggiormente abbienti, che già navigano nell'abbondanza. È noto che simili pratiche economiche non di rado non si curano delle fondamentali necessità occupazionali o alimentarie delle comunità locali, del loro accesso a terreni considerati tradizionalmente comunitari benché informalmente. Simile etica, oltre ad influire negativamente sui criteri di scelta di investimento adoperati da banche o da fondi pensionistici, ricerca il massimo tornaconto nel modo più sicuro possibile, gravando sui prezzi internazionali di alimenti fondamentali o dell'energia. Si cura solo degli indici di produzione e di vendita, non del benessere dei lavoratori né dello stato dell'ambiente circostante, se non quel minimo indispensabile per evitare multe. In tal maniera, le imprese coinvolte rispondono quasi esclusivamente a chi investe in esse, trascurando la propria valenza sociale. Una terza etica, particolarmente incrementata dai media, tipica delle società materialistiche e consumistiche, sollecita a coltivare desideri illimitati, irresponsabili. Incita a fare solo ciò che si vuole, secondo una libertà indifferente alla verità e al bisogno altrui. Una simile etica – fatta di povertà spirituale, di mancanza di unità nella propria esistenza, di indifferenza globalizzata – « lascia ognuno come misura di se stesso e mette in pericolo la convivenza tra gli uomini ». È riscontrabile, ad esempio, nello scandaloso spreco di alimenti atti al consumo umano, ripetutamente studiato dalla FAO e denunciato dai Pontefici. Induce le società a condurre un'esistenza socialmente atrofizzata, autoreferenziale ed egoista: 1) senza preoccupazioni per l'impatto delle loro scelte di vita e di consumo sul benessere e sullo sviluppo delle popolazioni più povere; 2) senza coltivare l'informazione sull'origine o sulla tracciabilità dei prodotti acquistati; 3) giungendo addirittura a destinare ingenti risorse finanziarie e naturali allo svago, come nel caso della realizzazione di spazi verdi in zone desertiche, mentre dall'altra parte della frontiera c'è chi scarseggia di acqua o di cibo; 4) considerando i numerosi e forti divari nell'accesso al cibo e a fondamentali risorse come normali o accettabili; 5) ritenendo cinicamente che la miseria di tanti sia un « effetto necessario » delle leggi economiche; 6) oppure confidando ingenuamente che una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo sarà resa possibile dalla cosiddetta « ricaduta favorevole », ossia mediante una crescita economica favorita dal libero mercato e che avviene meccanicamente;6 7) avallando teorie neomaltusiane e crogiolandosi in quell'eco-catastrofismo che promuove politiche pro-denatalità e non sollecita a rivedere i propri stili di vita, a cercare di reimpostare le economie in modo maggiormente equo e sostenibile, in nome della dignità della persona umana sin dal suo concepimento. Le etiche sin qui tratteggiate appaiono caratterizzate da una connotazione comune: il misconoscimento dell'altro, dei suoi bisogni, del suo essere intero e fraterno, della sua appartenenza alla famiglia umana. Più in particolare ed intimamente: della sua costitutiva relazionalità, della sua vocazione al dono, della sua trascendenza. Oggi spesso si vive nell'ignoranza dell'impatto delle nostre azioni sull'ecologia, sul benessere delle comunità. Si agisce sottovalutando le ripercussioni di innovazioni tecnologiche rischiose sul settore agricolo, alimentare, o medico. Si trascura l'impatto nefasto dei propri investimenti, delle politiche creditizie e delle scelte aziendali sulla salute dei lavoratori, sull'occupazione, sull'indebitamento e sul tasso dei suicidi. Nel contesto di un disinteresse generalizzato dell'altro, specie da parte di chi è stato eletto per servire, le società civili, deluse e scoraggiate, sperimentano l'abbandono dei dirigenti, dei partiti, delle istituzioni pubbliche. La cittadinanza attiva e partecipativa viene costantemente mortificata da nuove forme di totalitarismo, da un pensiero unico, che dietro forme di apparente coinvolgimento, quali quelle di tipo populista, finisce per strumentalizzare individui e popoli. La carenza sistematica di fraternità e di pensiero critico favorisce l'affermazione di un mondo totalitario e totalizzante in cui « l'uomo non è al centro, c'è un'altra cosa al centro e l'uomo è al servizio di quest'altra cosa ». 4. Quale etica adottare? C'è un'etica vera, o più vera delle altre? E se c'è un'etica « vera », può essere semplicemente quella espressa dalla maggioranza o dettata dagli opinionisti e dai principali media? Può essere il frutto di un mero compromesso ( sempre insoddisfacente e spesso mutevole ) fra le parti sociali, o fra la logica del profitto e il bisogno di rispettare la natura? Può essere il frutto di una deliberazione politica o nascere ex-nihilo da una dichiarazione consensuale? Le vie segnalate non appaiono atte a fornire un'etica fondata razionalmente, valida per tutti. Le etiche elencate non usufruiscono dei caratteri dell'oggettività e della incontrovertibilità morale. La coscienza storica, coinvolta nelle suddette vie, non è sufficiente a garantire universalità ed intangibilità ai diritti della persona e dei popoli, compreso il diritto al cibo, essendo mutevole ed ambivalente. Se è luogo epifanico di diritti obiettivi – oggi, come mai nella storia, essi sono considerati punti di riferimento obbligatorio per la vita pubblica e la valutazione dell'agire umano ed istituzionale -, è anche capace, a causa della cattiveria e della debolezza umane, di tradirli o addirittura di cancellarli dagli ordinamenti giuridici. Serve, allora, una base diversa, ben più solida, su cui costruire, articolare, legiferare e cooperare. Serve un minimo comun denominatore di senso, adatto per tutti i continenti, per tutte le epoche, per tutte le genti. Esso è individuabile muovendo dalla dignità della persona umana, di ogni uomo e donna, con la sua vocazione alla relazionalità: una dignità umana che va intesa non in senso astratto, bensì come un universale concreto e reale, costituito dalla capacità di ognuno di conoscere il vero, il bene e Dio. In forza della dignità umana, ogni persona, di qualsiasi razza, etnia e religione, partecipa ad una comune ricerca del bene umano integrale. È sulla base di tale capacità che inclina al bene in pienezza che è possibile trovare un fondamento granitico per i diritti e, in specie, per il diritto all'alimentazione. Mentre la suddetta ricerca, unifica la pluralità ideologica e religiosa delle molteplici società in un'impresa comune di collaborazione democratica, simultaneamente fornisce il substrato antropologico ed etico dei diritti e dei corrispettivi doveri. Partendo dalla dignità della persona umana è possibile sviluppare principi ed orientamenti validi e riconoscibili da tutti, prescindendo dalla fede, dal bagaglio culturale di ognuno, allacciandosi a ciò che i pontefici chiamano legge morale naturale. Per la Dottrina o insegnamento sociale della Chiesa, i diritti umani nascono e si giustificano proprio a partire dalla dignità umana, che si coglie e si comprende anzitutto mediante la ragione, e alla quale si accede pienamente mediante la rivelazione del Cristo incarnato, morto e risorto. Essi vanno promossi e tutelati non solo singolarmente, ma nel loro insieme, dovendosi riconoscere che tra di essi esiste una scala gerarchica. Dopo il diritto alla vita, diritto primario ed originario, fra i principali diritti vi è il diritto al cibo o all'alimentazione. Per Pio XII e santo Giovanni XXIII, la dignità della persona umana postula, in se stessa, tra le sue esigenze fondamentali, il diritto all'uso dei beni della terra, e il diritto all'alimentazione. Quest'ultimo, spiega Benedetto XVI, assieme al diritto all'acqua, riveste un ruolo importante per il conseguimento di altri diritti. « È necessario, pertanto, che maturi una coscienza solidale che consideri l'alimentazione e l'accesso all'acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni ». 5. Un'etica rispettosa della dignità umana Per quanto detto, un'etica « vera » è quella che maggiormente rispecchia la legge morale naturale, i cui principi primi – fa il bene ed evita il male; non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te; fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te – sono inscritti nella coscienza di ogni uomo e donna. Proprio una tale etica universale, espressione di una comune ricerca della verità, del bene e di Dio, esige che: ¤ si perfezioni la riflessione sul diritto all'alimentazione. In particolare, attualmente pare utile che gli ordinamenti legislativi nazionali lo integrino meglio, e che apposite istituzioni siano incaricate di vigilare sulla sua applicazione. Questo va fatto seguendo le indicazioni fornite dai vari testi internazionali, preparati e, poi, firmati da rappresentanti di Governi che lo riconoscono ufficialmente, spesso con affermazioni ambiziose. La riflessione onusiana sui prossimi Obiettivi dello sviluppo sostenibile ( SDG ) appare un'ottima occasione per lavorarci, per impegnarsi seriamente, per adottare indicatori efficaci per il raggiungimento di un simile traguardo; ¤ vengano meglio studiati i fattori congiunturali e strutturali che portano alla non-realizzazione e non-tutela del diritto al cibo; ¤ si consideri la qualità dell'alimentazione e non solo la quantità, per esempio evitando la moltiplicazione del cosiddetto junk food e favorendo una buona salute attraverso una sana alimentazione. Molte malattie, infatti, sono aggravate o possono essere in parte prevenute proprio col cibo, e ciò sin dai primi giorni dell'allattamento; ¤ Governi e politici gestiscano con saggezza le risorse naturali da cui dipendono le loro popolazioni più povere; ¤ si identifichi quanto c'è di non-etico in determinate aziende o in determinate politiche economiche, che ostacolano sia la sopravvivenza dei piccoli produttori di cibo sia lo sviluppo armonioso e sostenibile dell'agricoltura nei vari Stati; ¤ si rifletta sulla gerarchia delle priorità secondo cui si pianifica la produzione di cibo e più specialmente quella agricola, poiché le necessità fondamentali umane devono essere soddisfatte ovunque, previamente ad altri eventuali usi ( energetici, tessili, chimici, … di prodotti agricoli ) che, in determinati contesti, possono anche rivelarsi non-etici; ¤ si superino quei meccanismi economici che portano alla marginalizzazione e alla povertà, compromettendo così l'accesso al cibo di tante persone. È, infatti, inaccettabile che: - alti tassi di crescita economica coesistano per anni con una porzione elevata della popolazione che continua a patire la fame; - istituzioni internazionali intergovernative possano adottare o comunque tollerare politiche commerciali contrarie allo sviluppo agricolo e alla sicurezza alimentare dei più poveri, dei più vulnerabili, dei « più attardati sulla strada dello sviluppo »; - la piccola impresa produttrice di cibo stenti così tanto in Paesi ricchi come in Paesi poveri. Dopo quanto detto, si comprende meglio quanto una vera etica, relativa al diritto al cibo, possa concretamente esigere dalle singole persone, dai gruppi e dai popoli. A proposito di un'etica « amica » delle persone, papa Francesco scrive: « All'etica si guarda di solito con un certo disprezzo beffardo. La si considera controproducente, troppo umana, perché relativizza il denaro e il potere. La si avverte come una minaccia, poiché condanna la manipolazione e la degradazione della persona. In definitiva, l'etica rimanda a un Dio che ( … ) chiama l'essere umano alla sua piena realizzazione e all'indipendenza da qualunque tipo di schiavitù ». Ebbene, un'etica non ideologizzata, che non strumentalizza Dio stesso, è l'etica che meglio giustifica l'esistenza di un diritto al cibo e ne configura la giusta collocazione nel pleroma degli altri diritti. 6. I doveri associati al diritto al cibo L'etica, espressione della dignità umana, esige, altresì, che si rifletta sui doveri associati al diritto all'alimentazione. Se ne propone qui un'articolazione rispetto ai produttori di cibo, ai singoli individui, alle famiglie e ai responsabili politici dei governi. A livello di categoria dei produttori di cibo, per esempio, oggi appare cogente il dovere di organizzare la produzione nel modo maggiormente sostenibile possibile per l'ambiente, cercando continuamente il miglior equilibrio fra rispetto degli ecosistemi, efficienza e produttività, considerando le varie risorse impiegate senza mai transigere sul rispetto dei lavoratori né sulla qualità del cibo. Riguardo a ciò, è fondamentale il dovere dei vari produttori di cibo di svolgere il loro mestiere con onestà e responsabilità nell'ottenimento e nella lavorazione della materia prima: la qualità e la salubrità degli alimenti devono essere priorità di altissimo livello. Non è ammissibile la commercializzazione consapevole di cibi dannosi, risultanti da accidenti o carenze nei processi produttivi o nel confezionamento. Né è ammissibile che continui cinicamente la commercializzazione di alcuni cibi o l'uso di determinati ingredienti – forniti ad esempio, dall'industria chimica – allorché i produttori o i ricercatori hanno acquisito la consapevolezza che essi sono nocivi per la salute, anche se l'opinione pubblica non si è ancora mobilitata contro il loro uso oppure non siano ancora stati proibiti per legge. Il principio di precauzione deve guidare i comportamenti dei produttori di cibo, inducendoli ad astenersi dalla produzione e dalla distribuzione – pur redditizie – di cibo probabilmente nocivo. Ma vi sono anche doveri a livello individuale, come quello di partecipare al proprio mantenimento direttamente o indirettamente giacché, come insegna san Paolo nella sua Seconda lettera ai Tessalonicesi, contraria all'assistenzialismo, non bisogna rimanere nell'ozio come coloro che non hanno voglia di lavorare e non fanno nulla per guadagnarsi da vivere. ( 2 Ts 3,8-10 ) A livello individuale e famigliare sussiste il dovere di provvedere a se stessi responsabilmente, evitando lo spreco e, per quanto possibile, rifuggendo dall'acquisto di alimenti quando si abbia la certezza che sono stati prodotti in modo illegale o iniquo. Un dovere fondamentale è, per i Governi, quello di organizzare l'economia in modo che l'alimentazione venga garantita a tutti. Ciò implica un'apposita opera di controllo e di regolamentazione, volta a minimizzare le frodi nel settore agroalimentare e le imperfezioni del mercato. I Governi, a livello nazionale e attraverso la Comunità internazionale, hanno anche il dovere di adoperarsi per lo sviluppo economico e il progresso sociale; e, quindi, perché siano sviluppati, in proporzione dell'efficienza dei sistemi produttivi, i servizi essenziali alla popolazione e, in particolare, ai produttori di cibo. Così, i Governi devono permettere a quelle benefiche tecniche tradizionali di produzione e di sfruttamento delle risorse di rafforzarsi, ed evitare che l'interessamento di compagnie agroalimentari multinazionali nei confronti di una determinata derrata come anche l'entrata di questa nel mercato internazionale arrechino particolari danni a quelle popolazioni che sono solite coltivarla e a cibarsene. Tra i principali doveri dei Governi vi è quello di adottare politiche funzionali al bene comune, in particolare favorendo: la valorizzazione delle risorse naturali nel loro spazio di competenza; l'accesso alla terra a coloro che desiderano iniziare nuove produzioni; l'occupazione nel settore agroalimentare. 7. Conclusione Il tema della sicurezza alimentare, intesa come possibilità di accesso al cibo, ha ultimamente acquistato una particolare urgenza, a fronte di uno scenario di nuova scarsità. Lo testimoniano molteplici elementi: l'instabilità dei mercati delle materie prime agricole e i picchi dei prezzi alimentari, la crescita demografica e la modificazione delle diete a livello globale, i vincoli ambientali alla produzione di cibo e le conseguenze dei danni inflitti dall'umanità alla natura. L'obiettivo di ridurre la popolazione mondiale che vive sotto la soglia di povertà sembra sempre più lontano e difficile da raggiungere. La questione alimentare non è più solo una questione di distribuzione delle risorse tra paesi ricchi e paesi poveri, ma oltrepassa questo confine, per apparire un problema di portata globale, alla cui soluzione debbono concorrere politiche internazionali, non solo nazionali. In questo contesto l'agricoltura sarà sempre di più un settore strategico e il controllo dei suoli fertili sarà sempre più cruciale per lo sviluppo delle Nazioni. Analogamente, seppur non sarà sufficiente, e dovrà essere attuato sulla base di un criteriologia rigorosa, non si potrà ignorare il contributo della tecnologia sia di tipo tradizionale sia di tipo innovativo. I critici sostengono che si produce già cibo a sufficienza per fornire un'alimentazione adeguata all'intera umanità, e che è, piuttosto, necessario un accesso più equo per i poveri, grazie ad adeguate istituzioni economiche in grado di garantire sia il cibo e l'acqua regolare sia di fronteggiare le necessità connesse con i bisogni primari e con le emergenze di vere e proprie crisi alimentari, provocate da cause naturali o dall'irresponsabilità politica nazionale ed internazionale. « Il problema dell'insicurezza alimentare – scrive Benedetto XVI – va affrontato in una prospettiva di lungo periodo, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche agricole appropriate, capaci cioè di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali, socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale, in modo da garantire una loro sostenibilità anche nel lungo periodo ». « Tutto ciò – aggiunge il pontefice – va realizzato coinvolgendo le comunità locali nelle scelte e nelle decisioni relative all'uso della terra coltivabile ». In un quadro contrassegnato dalla complessità, non basta un'unica strategia per risolvere i problemi della fame e della povertà del mondo. Sono necessarie più strategie che andranno perseguite insieme. Sicuramente l'approfondimento critico del rapporto tra etica e diritto all'alimentazione consentirà di avere a disposizione coordinate antropologiche e culturali imprescindibili per prendere decisioni ponderate, in vista di rendere disponibile cibo abbondante e sicuro alle future generazioni, muovendo, ovviamente, dalle attuali condizioni. La fondazione razionale del diritto al cibo nella tensione naturale al bene umano integrale permetterà di esplicitare le ragioni etiche che postulano sia la destinazione universale dei beni necessari ad una crescita plenaria, sostenibile ed inclusiva, sia le esigenze ineludibili della giustizia sociale a livello mondiale. + Mario Toso Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace