Libro delle fondazioni

Capitolo 1

Racconta come si cominciò a trattare di questa ed altre fondazioni.

1. Dopo la fondazione del monastero di San Giuseppe di Avila, rimasi in esso cinque anni che – a quanto ora ritengo – saranno forse stati i più tranquilli della mia vita, quelli di cui la mia anima rimpiange spesso profondamente la pace e la quiete.

In quel tempo entrarono nel monastero alcune pie ragazze molto giovani, che il mondo – a quel che sembrava, stando ai segni del loro sfoggio ed eleganza – teneva già per sue.

Il Signore, strappandole sollecitamente a quelle vanità, le condusse alla sua casa, arricchendole di tanta perfezione da restarne io profondamente confusa.

E così arrivammo al numero di tredici, cioè quello che si era stabilito di non oltrepassare.

2. Ero felice di trovarmi fra anime così sante e pure, la cui unica preoccupazione era servire e lodare nostro Signore.

Sua Maestà ci mandava lì il necessario senza che lo chiedessimo, e quando ci veniva a mancare, il che accadde ben poche volte, la gioia di tali anime era ancora più grande.

Lodavo il Signore alla vista di tante eccelse virtù, soprattutto ammirata nel considerare la noncuranza di queste consorelle per tutto ciò che non fosse il servirlo.

Pur stando lì come priora, non ricordo di essermi mai preoccupata del vitto; ritenevo per certo che il Signore non avrebbe deluso quelle anime, di null'altro preoccupate se non di come piacergli.

E se, talvolta, non c'era il cibo per tutte, quando dicevo che ciò di cui disponevamo doveva darsi alle più bisognose, ognuna riteneva di non essere ella tale, e così il cibo durava fino a quando Dio non lo mandava per tutte.

3. Quanto alla virtù dell'obbedienza ( di cui sono molto rispettosa, sebbene non sapessi praticarla fino a quando queste serve di Dio non m'insegnarono a conoscerla ), se ne avessi la capacità, potrei dire molte cose ad essa pertinenti che lì vidi.

Me ne viene ora in mente una, ed è che, mentre un giorno stavamo in refettorio, ci furono date certe porzioni di cetrioli.

A me toccò un cetriolo molto piccolo e internamente guasto.

Come se nulla fosse, chiamai una consorella tra le più dotate d'ingegno e di buon senso ch'erano lì, per mettere alla prova la sua obbedienza, e le dissi di andare a piantare quel cetriolo in un nostro piccolo orticello.

Mi chiese se doveva piantarlo diritto o disteso; le risposi di metterlo disteso.

Ella andò e lo piantò, senza che le passasse per la mente che si sarebbe certamente seccato: il rispetto dell'obbedienza le accecò la ragione naturale, facendole credere che ciò avrebbe avuto sicuramente esito felice.

4. Mi accadeva qualche volta di affidare a una sola consorella sei o sette incombenze fra loro incompatibili e questa le accettava in silenzio, ritenendo possibile assolverle tutte.

Avevamo un pozzo d'acqua assai cattiva, a giudizio di quelli che ne fecero la prova; sembrava impossibile renderla corrente, a causa della profondità del pozzo.

Gli operai che avevo chiamato a questo scopo si ridevano di me, ritenendo che volessi buttar via il denaro inutilmente.

Richiesi le consorelle del loro parere.

Una disse: « Facciamolo; nostro Signore deve pur provvederci di persone che ci portino acqua e fornirci di che mantenerle; è certo più economico per Sua Maestà darci lui acqua in casa; pertanto, non tralascerà di farlo ».

Io, considerando la grande fede e decisione delle sue parole, mi ritenni sicura del risultato e, contro la volontà del fontaniere – che s'intendeva di acqua –, feci eseguire il lavoro.

Piacque al Signore che tirassimo fuori da lì un getto d'acqua potabile largamente sufficiente per noi, e lo abbiamo tuttora.

5. Non lo racconto come un miracolo perché avrei da raccontarne molti altri, ma per la fede che avevano queste sorelle, essendo tutto avvenuto proprio come ho detto.

Del resto, il mio intento principale non è lodare le monache di questi monasteri, che, per la bontà del Signore, si comportano tutte così.

Di queste, come di altre cose, sarebbe troppo lungo scrivere, anche se non inutile, perché talvolta quelle che vengono dopo sono incitate ad imitare le consorelle.

Se al Signore piacerà che queste cose si sappiano, i prelati potranno ordinare alle priore di scriverle.

6. Una così miserabile creatura, dunque, se ne stava tra queste anime angeliche: mi apparivano proprio tali, perché non mi nascondevano nessun difetto, per quanto intimo fosse; le grazie, gli ardenti desideri e il distacco che il Signore dava loro erano grandissimi; la loro consolazione era la solitudine, tanto che mi assicuravano di non stancarsene mai e di provare tormento per le visite, anche dei propri fratelli.

Quella che aveva più tempo di starsene in un romitorio si riteneva più felice.

Considerando il grande merito di queste anime e il coraggio, non certo femminile, che Dio concedeva loro per patire e servirlo, molte volte mi sembrava che le ricchezze di cui le favoriva il Signore dovessero avere qualche gran finalità.

Non già che mi passasse per la mente ciò che poi si è fatto ( perché allora sembrava cosa impossibile, non essendovi neppure un principio che potesse darmene un'idea ), sebbene, man mano che il tempo passava, fossero molto aumentati i miei desideri di contribuire al bene di qualche anima, e molte volte mi sembrasse di essere come chi ha un grande tesoro da parte e desidera che tutti ne godano, ma si sente le mani legate per distribuirlo.

Proprio così mi pareva che fosse legata la mia anima, poiché le grazie che in quegli anni il Signore mi concedeva erano molto grandi e tutto mi sembrava male impiegato in me.

Servivo il Signore con le mie povere preghiere; mi adoperavo continuamente perché le consorelle facessero lo stesso e amassero il bene delle anime e lo sviluppo della Chiesa.

Chi trattava con esse ne rimaneva sempre edificato e in ciò si appagavano i miei grandi desideri.

7. Dopo quattro anni – mi sembra, anzi, un po' di più – venne a farmi visita un frate francescano, il cui nome era Alonso Maldonado, gran servo di Dio, che aveva i miei stessi desideri circa il bene delle anime e poteva metterli in pratica, cosa che gli invidiavo molto.

Era arrivato recentemente dalle Indie.

Cominciò a raccontarmi dei molti milioni di anime che lì si perdevano per mancanza di istruzione religiosa, ci fece una predica con un'esortazione che ci animava alla penitenza, e poi se ne andò.

Rimasi così afflitta per la perdita di tante anime da sentirmi fuori di me.

Me ne andai, sciogliendomi in lacrime, in un romitorio: invocavo nostro Signore supplicandolo di darmi il mezzo per poter far qualcosa per guadagnare anime al suo servizio, poiché tante gliene portava via il demonio, e concedermi di operare un po' di bene con la preghiera, visto che io non sapevo far altro.

Invidiavo molto coloro che per amore di nostro Signore potevano dedicarsi alle missioni, anche a costo di affrontare mille morti: mi accade infatti, quando leggiamo nelle vite dei santi che operarono conversioni, di sentire ben più devozione, commozione e invidia per questo, che per tutti i martìri da essi patiti, essendo tale la vocazione che il Signore mi ha dato.

Mi sembra infatti che egli ci apprezzi di più se, mediante la sua misericordia, riusciamo a guadagnargli un'anima con i nostri sforzi e con la nostra preghiera, che non per quanti altri servizi possiamo rendergli.

8. Mentre ero in questa grandissima pena, una notte, stando in orazione, mi si presentò il Signore nella maniera solita e, mostrandomi grande amore, quasi a volermi consolare, mi disse: « Aspetta un poco, figlia, e vedrai grandi cose ».

Tali parole restarono così impresse nel mio cuore che non potevo dimenticarle.

Quantunque non riuscissi a coglierne il significato – per molto che ci pensassi – e non scorgessi la via o il cammino per far qualche supposizione, rimasi assai consolata e con assoluta certezza che tali parole si sarebbero avverate, ma in che modo non riuscii mai a immaginarlo.

Così trascorse, mi pare un altro mezzo anno, dopo il quale avvenne ciò che ora dirò.

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