Islamismo

IndiceA

Sommario

I. Sottomissione a Dio.
II. Meditazione del Corano.
III. Imitazione del modello profetico.
IV. Solidarietà nella comunità dei credenti.
V. Attestazione della trascendenza di Dio.
VI. Adorazione mediante un culto spoglio.
VII. Obbedienza e fedeltà alle prescrizioni della legge.
VIII. Prospettive ascetico-mistiche.

I - Sottomissione a Dio

La spiritualità del musulmano consiste innanzitutto nel vivere totalmente la sua sottomissione ( islam ) a Dio, e questo in tutte le dimensioni del suo essere personale e sociale, realizzando cosi l'antico e primordiale monoteismo rivelato da Dio ad Abramo, "l'amico di Dio", il primo "sottomesso" ( muslim ) della storia ( 3,67 ), che venne poi imitato nel suo islàm da Giuseppe ( 12,101 ) e da tutti i profeti, come accadde per Gesù stesso e i suoi discepoli ( 5,111 ).

Questo monoteismo abramico era stato mutato o tradito dagli ebrei e dai cristiani, ma poi venne restituito alla purezza delle sue origini e alla semplicità dei suoi principi fondamentali da Maometto, riformatore e ricostruttore della pura religione: si tratta di un monoteismo "di natura pura", quello degli Hanìf, che viene proposto come modello perfetto per tutti gli uomini.

« In verità, la Religione ( Din ), presso Dio, è l'Islàm, e coloro cui fu dato il Libro ( Kitàb ) furono dilaniati da scismi solo dopo che venne a loro la scienza, per invidie sorte fra loro » ( 3,19 ).

Infatti, Dio « ha prescritto a voi quella religione ( din ) che già raccomandò a Noè e che rivelò a tè, e che raccomandò ancora ad Abramo e a Mosè e a Gesù, dicendo: "Osservate la Religione e non dividetevi in sette" » ( 42,13 ).

Così la religione musulmana non è innovatrice, ma rinnovatrice, perché restituisce l'uomo alla fedeltà dovuta a questo « patto primordiale » ( Mìthàq ) della pre-eternità di cui parla il Corano: « Quando il tuo Signore trasse dai lombi dei figli d'Adamo tutti i loro discendenti e li fece testimoniare contro se stessi: "Non sono Io, chiese, il vostro Signore?".

Ed essi risposero: "Sì, l'attestiamo!"» ( 7,172 ).

Tale è la risposta giusta dell'uomo, sintetizzata nella parola Islàm, che significa "sottomissione", cioè abbandono, fiducia e obbedienza incondizionata.

Aslama ( forma verbale ), prima di significare "abbracciare la religione di Maometto", significa "dare tutto se stesso a Dio" con spirito di ringraziamento, come disse Maometto a coloro che discutevano con lui: « Ho dato tutto me stesso [cioè mi sono sottomesso, asiamtu] a Dio, io e chi mi segue » ( 3,20 ).

Lo stato d'animo che corrisponde a quest'impegno spirituale si chiama abbandono ( tawakkul ): il credente ( mu'min ) rimette i propri affari al migliore dei suoi appoggi, cioè a Dio, « che è procuratore sufficiente » ( 4,81 ) perché « ci basta Dio, che è buon procuratore » ( 3,173 ), e col Corano stesso dice: « Il mio successo non dipende che da Dio: in lui ho confidato, a lui mi rivolgo fidente! » ( 11,88 ).

Uno dei novantanove Bei Nomi ( Asma' Husnà ) di Dio si riferisce all'atto stesso di fede: Dio è mu'min ( 59,23 ), colui che « mette in sicurezza Camnl) » il credente (mu'min), che trova in Dio solo la sua sicurezza.

Come dice al-Kalàbàdhì ( + 999 ), « quest'abbandono comporta tre gradi.

Il primo, menzionato dal Corano, consiste nella confidenza che si da al "procuratore divino".

Il secondo è più forte: il comportamento riguardo a Dio Altissimo è simile all'atteggiamento del bimbo riguardo a sua madre.

Colui che è al secondo grado si abbandona totalmente e non sarà capace di darsi spiegazioni a parole ne di compiere l'analisi mentale, altrimenti perderà di vista il proprio stato d'abbandono.

Il terzo grado è il più elevato: consiste nell'essere fra le mani di Dio Altissimo, nel movimento come nel riposo, come il cadavere fra le mani del lavatore di morti ».

Per accedere al primo grado e poi proseguire fino al terzo grado di quest'Islàm-abbandono, il credente si vede aiutato da Dio stesso, che gli da la sua parola ( il Corano ), il suo profeta ( Maometto ) e la sua comunità ( l'Umma musulmana ): tre "viatici" che vengono proposti alla meditazione, all'imitazione o all'esortazione.

II - Meditazione del Corano

Redatto in lingua araba "chiara", il Corano ( Qur'an, recitazione ) è molto bello nella sua forma, efficace e concisa, e nell'armonia delle sue rime e assonanze.

Salmodiato da esperti e ripetuto da ogni credente, rivela una sonorità perfetta e un valore musicale unico: è per questo che esercita un fascino irresistibile per l'ascoltatore arabo e costituisce l'unica prova di credibilità dell'Islam, non essendo umanamente possibile combinare l'eloquenza del Corano con la sua composizione: « Di': "Se pur si adunassero uomini e ginn per produrre un Corano come questo, non vi riuscirebbero, anche se s'aiutassero l'un l'altro" » ( 17,88 ).

Essendo "rivelato" ( dettato divino ) e non soltanto "ispirato" ( Dio autore unico ), il Corano partecipa al carattere increato della Parola divina stessa, dato che la "Tavola preservata" ( Lauh mahfuz ) presso Dio ne è l'archetipo incorruttibile: Parola eterna che viene proposta nel "tempo" degli uomini, il Corano ha, per i musulmani, lo stesso valore che ha Cristo per i cristiani.

Imparato a memoria da ognuno nell'unica lingua liturgica musulmana ( la lingua araba ), il Corano è oggetto di venerazione e di meditazione: « Questo è il Libro scevro di dubbi dato come guida per i timorati di Dio, i quali credono nell'Invisibile… e in ciò che è stato rivelato a tè e in ciò che è stato rivelato prima di tè e sono certi del mondo dell'Oltre » ( 2,2-4 ).

Come dice al-Ghazalì ( + 1111 ), « il Corano è recitato con la lingua, scritto in volumi, custodito nei cuori.

Ed esso, ciononostante, è eterno, sussistente nell'essenza di Dio eccelso, non soggetto a divisione ne separazione per trasferimento nei cuori e nelle carte ».

Perciò il Libro viene capito, meditato e quasi assaporato dal credente mediante una lettura letterale che sfrutta al massimo tutte le possibilità filologiche del testo prima di passare ai "significati" religiosi, giuridici, filosofici e teologici: la letteratura dei commentari ( i Tafsìr ) è sovrabbondante e permette agli "spirituali" di progredire dal senso "apparente" ( zàhir ) al senso "nascosto" ( bàtin ) - donde i vari livelli d'interpretazione e di meditazione del Corano, libro davvero polivalente.

Ne segue che la comprensione del Corano che si permettono molti contemporanei s'articola in tre tappe: un'accettazione ponderata del senso letterale del testo ( con una strana tendenza, spesso, al "concordismo" fra i versetti descrittivi e le invenzioni della scienza moderna ), poi uno spirito di sottomissione nell'accettare i versetti "misteriosi", dato che Dio "è il più sapiente" ( ma senza escludere talvolta qualche tentativo d'interpretazione simbolica ); infine un'interpretazione del senso "nascosto", quando si tratta delle realtà ultime ( cielo, inferno ), poiché il mistero di Dio dimora irraggiungibile.

Così « la bellezza letteraria del Corano, come dice un Mustafà Mahmùd, fornisce al credente un mezzo unico per accedere all'unicità di Dio », mentre una "ri-lettura" attenta permette interrogativi rinnovati e intuizioni ampliate.

III - Imitazione del modello profetico

A somiglianza degli arabi che dimostravano un rispetto speciale verso le consuetudini degli antenati ( Salaf ), per seguirne i costumi e le virtù ( cioè la loro Sunna ), i musulmani vedono da sempre in Maometto "il suggello dei profeti", e dunque il loro comune antenato nella fede e nell'obbedienza: tutti si sforzano di conoscerne la vita, le virtù, le parole, gli atti ed anche i silenzi.

Così l'insieme del modello profetico prende un valore normativo o direttivo, per diventare la tradizione ( Sunna ) da imitare e trasmettere: gli hadìth ( detti ) di Maometto vengono meditati ed interiorizzati fino a creare nella coscienza del credente un amore particolare per « l'uomo perfetto e il profeta eletto ».

Il Corano lo proclama: « Certo l'indole tua è nobilissima! » ( 68,4 ), ed è per questo che Maometto viene proposto come modello unico per la sua comunità: « Voi avete, nel messaggero di Dio, un esempio buono » ( 33,21 ).

Tutte le generazioni musulmane si sono interrogate sui suoi miracoli e sui segni della sua veridicità.

Ghazali ci dice quali furono le sue buone maniere, qual era il suo modo di parlare e di ridere, di mangiare e di bere: munificenza. liberalità, coraggio, modestia, perdono, ecc. e conclude: « Lode a Dio che ha educato il suo profeta facendone bella l'educazione e purificandone qualità e costumi, poi lo ha preso a suo eletto e suo amato, e ha aiutato ad imitarlo coloro che ha voluto dirozzare, lui.

Maometto, che era il più clemente degli uomini, il più coraggioso, il più giusto e il più amabile…

Che Dio ci aiuti ad ubbidire al comando di Maometto e a prenderlo come modello nel suo operare ».

Maometto stesso avrebbe detto: « Io vi raccomando di temere Dio, di ascoltare il vostro capo e di obbedirgli, anche se fosse uno schiavo che si è proclamato vostro principe.

Perché quelli di voi che vivranno vedranno delle divergenze introdursi nell'Islam.

A voi dunque di tenervi saldi alla mia tradizione ( Sunna ) e a quella dei Califfi ortodossi e ben diretti.

Guardatevi dalle innovazioni nelle cose dell'Islam, perché ogni innovazione è traviamento ».

È per essere fedele alle parole del profeta che i musulmani Sunniti ( la stragrande maggioranza ) tentano di riprodurne gli imperativi e i consigli, mentre gli Sciiti ( seguaci di 'Ali, cugino e genero di Maometto ) aggiungono al modello profetico quello di 'Ali, il musulmano perfetto che seppe realizzare ciò che il suo suocero aveva intraveduto.

IV - Solidarietà nella comunità dei credenti

Consapevole di appartenere alla « migliore comunità ( Umma ) mai suscitata fra gli uomini» ( 3,110 ) - perché Dio dice nel Corano: « Abbiamo fatto di voi una comunità che segue il cammino medio acciocché siate testimoni di fronte a tutti gli uomini e il messaggero di Dio sia testimone di fronte a voi » ( 2,143 ) -, ogni musulmano ricorda sempre la raccomandazione divina: « Afferratevi insieme tutti alla corda di Dio e non disperdetevi » ( 3,103 ).

Non dice forse un hadìth che « tutti i credenti sono fratelli »?

Difatti, Maometto avrebbe anche detto: « Nessuno tra voi sarà veramente credente finché non amerà per il suo fratello ciò che ama per se stesso », aggiungendo in un altro hadìth: « Non siate gelosi, non offrite un maggior prezzo sulla vendita degli uni e degli altri, non odiatevi, non voltatevi reciprocamente le spalle, non fate vendite a scapito della vendita di un altro: siate uniti come fratelli.

Il musulmano è fratello del musulmano: non lo opprime, non lo abbandona, non gli dice il falso, non lo disprezza.

Tutto, nel musulmano, è sacro per un altro musulmano: il suo sangue, il suo bene, il suo onore ».

Comunità strettamente unita ed integrata nelle sue istituzioni religiose, sociali e politiche, l'Umma dei musulmani rappresenta la "dimora della sottomissione" ( Dar al-Islam ) e quella "della pace" ( Dar al-Salam ), perché i diritti di Dio vi sono promossi da tutti.

Dio la chiede appositamente: « E si formi da voi una comunità di uomini che invitano al bene, ordinano le azioni commendevoli e vietano le biasimevoli » ( 3,104 ).

Responsabili gli uni degli altri, i musulmani sono così chiamati ad intervenire incessantemente affinché tutto per i credenti sia facilitato nel loro sottomettersi a Dio.

Comandare il bene e vietare il male costituisce dunque un dovere di correzione fraterna che spetta a tutti ed è descritto dal profeta in termini chiarissimi: « Chi tra voi vede una cosa riprovevole, la corregga con la sua mano; se non può, con la lingua; se non può, col suo cuore: è il minimo che possa esigere la fede ».

Così cresce e si manifesta il "consenso della comunità" ( igma' ), che diventa esso pure normativo per il pensiero e il comportamento di tutti, dato che Maometto disse: « la mia comunità non sarà mai d'accordo sopra un errore ».

E Ghazali sottolinea che « è dovere d'ogni musulmano cominciare col migliorare se stesso adempiendo puntualmente i precetti religiosi e astenendosi dalle cose proibite.

Poi egli insegnerà questo alla gente della sua casa e passerà ai suoi vicini, poi alla gente della sua città, poi a quella della campagna circostante… fino ai confini del mondo ».

V - Attestazione della trascendenza di Dio

Il musulmano, in nome proprio e come rappresentante della sua comunità, deve dunque essere un testimone davanti a Dio e agli uomini, attestando « che non c'è dio al di fuori di Iddio e che Maometto è l'inviato di Dio ».

Tale è la formula della sciahàda ( attestazione ) che costituisce musulmano ogni persona che la pronuncia con le labbra e l'assume col cuore e con la mente.

Il suo credo riassume allora le verità essenziali del monoteismo fondamentale ( quello "abramico", secondo il Corano ).

Come dice un hadìth, « la fede consiste nel credere in Dio [ dotato di tutti gli attributi della perfezione ], nei suoi angeli [ e anche nei demoni e nei Ginn ], nei suoi libri [ Torah, Salmi, Vangelo e Corano: l'ultimo abrogando gli altri ], nei suoi profeti [ Adamo, Enoch o Idris, Noè, Abramo, Lot, Ismaele, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Giobbe, Mosè, Aronne, Dhù l-Qifl o Ezechiele (?), Davide, Salomone, Elia, Eliseo, Giona, Zaccaria, Giovanni Battista, Sciu'aib, Hùd, Sàlih, Gesù e Maometto ], nel giudizio finale [ risurrezione, giudizio, retribuzione: paradiso o inferno ] e nella predestinazione per il bene o per il male ».

Convinto dell'assoluta trascendenza del suo Signore ( Rabb ) ( che sta al di sopra di ogni realtà creata essendo irraggiungibile da essa: è il senso della parola deprecativa ta'àlà ), il credente riceve la rivelazione dell'unicità di Dio ( Tauhìd ) e ne diventa il difensore, il servitore e l'imitatore, sapendo che, se Dio sta al di là di qualsiasi sua conoscenza o apprensione - perché « Egli ha le chiavi dell'invisibile, che nessuno conosce all'infuori di lui » ( 6,59 ) -, gli è anche presente perché "Provveditore" ( 51,58 ) e « a lui più vicino che la [ sua ] vena grande del collo » ( 50,16 ).

I musulmani ripetono con Ghazàii: « Sia lode a colui che possiede il trono glorioso ( 85,15 ), "Colui che fa quel che vuole" ( 85,16 ), guida i migliori degli uomini al retto sentiero, elargisce loro, dopo che hanno attestato la sua unicità, il suo favore e fa conoscere loro che nella sua essenza è uno senza socio, singolo senza simile, Signore senza oppositore, solo senza rivale, che egli è uno, eterno senza primo, perpetuo senza un principio, perenne senza un ultimo, sempiterno senza fine, sussistente senza cessazione, continuo senza interruzione », perché egli è « il primo e l'ultimo, il manifesto e l'occulto, e sopra tutte le cose sapiente » ( 57,3 ).

Seguendo così la "via remotionis", il credente può pensare di avere una prima conoscenza dell'essenza di Dio, della sua unicità, dei suoi attributi e delle sue opere.

Però, ben presto, si accorge che « il contingente non può condurre che a qualcosa di contingente come lui » e capisce, con al-Hallàg, che « non lo conosce che colui al quale egli si è fatto conoscere, e non proclama la sua unicità se non colui al quale egli l'ha scoperta, e non crede in lui se non colui al quale egli ha dato di credere, e non lo descrive che colui nell'intimità del quale egli si è rivelato ».

Ma queste prospettive troppo mistiche vengono ridimensionate dall'affermazione della teologia classica di cui Ghazàii è il portavoce autentico: « Se chiedi: "Quale è il punto estremo cui può giungere la conoscenza di Dio da parte degli iniziati?", ti rispondo: "È la loro incapacità di conoscerlo.

La loro reale conoscenza è che essi non lo conoscono e non possono affatto conoscerlo.

Giacché conoscere Dio di una conoscenza reale è assolutamente impossibile se non a Dio" ».

Teologia apofatica del silenzio davanti al mistero di Dio verso il quale il musulmano si rifiuterà di porre domande o di immaginare qualche accesso: « Io non posso enumerare le lodi che ti aspettano, diceva Maometto: tu sei come ti sei lodato ».

Basta per il credente approfondire il suo monoteismo, sforzandosi di interiorizzarlo come glielo consiglia Ghazali: « Il primo grado del monoteismo si ha quando l'uomo dice con le labbra: "Non vi è dio se non Iddio"; il secondo grado si ha quando il cuore di colui che pronuncia quella frase crede ad essa; il terzo grado si ha quando l'uomo vede l'unicità di Dio per via di rivelazione mediante la luce del Vero; il quarto grado si ha quando l'uomo non vede in quel che esiste se non un Unico ».

Monoteismo degli ipocriti, dei musulmani comuni, dei ravvicinati a Dio, dei giusti o Sufi, tali sono i gradi dell'attestazione della sola lingua, o del solo cuore, o della visione nell'unicità, o dell'annientamento nell'unicità!

Una sola strada, ma tanto ricca, si apre allora davanti al credente: è quella della meditazione dei Bei Nomi di Dio.

Non è per caso che Iddio li abbia scelti tra i tanti altri per svelare più o meno qualche aspetto del suo mistero!

L'invito è del Corano: « A Dio appartengono i nomi più belli: invocatelo dunque con quei nomi » ( 7,180 ).

Egli è « il re, il santo, il datore di pace, il rassicurante, il custode » ( 59,23 ).

Questi novantanove Bei Nomi, espressioni coraniche degli attributi divini, aprono orizzonti senza fine e hanno significati sempre più ricchi.

Di conseguenza il musulmano può concludere ogni sua preghiera sui Bei Nomi dicendo: « Ricorro, Signore, ad ogni nome che è tuo, col quale hai dato nome a tè stesso, oppure che hai fatto "scendere" nel tuo libro, oppure che hai insegnato ad una delle tue creature, oppure di cui ti sei riservato l'uso nella conoscenza che hai del tuo proprio mistero ».

VI - Adorazione mediante un culto spoglio

Consapevole della sua totale dipendenza, simile a quella dello schiavo ( 'abd ) verso il suo padrone, il credente si vuole "servo [ o schiavo ] di Dio" ( 'abd Allàh ) per compiere il disegno divino a lui rivelato nel Corano: « Io non ho creato gli uomini se non perché mi adorassero » ( 51,56 ).

Questo "culto sincero" si esprime tramite riti precisi con intenzioni predeterminanti; dice un hadìth: « L'Islam è stato costruito su cinque pilastri: attestare che non v'è dio se non Iddio e che Maometto è l'inviato di Dio, eseguire la preghiera, fare l'elemosina, digiunare il mese di Ramadàn, compiere il pellegrinaggio alla sacra casa ove se ne abbia la possibilità ».

La preghiera rituale ( salai ) dovrebbe essere fatta cinque volte al giorno, al ritmo stesso della vita diurna ( alba, mezzogiorno, pomeriggio, tramonto e sera ) e dopo abluzioni parziali o totali ( a seconda dello stato d'impurità minore o maggiore ), e viene fatta in comunità ogni venerdì nella moschea di quartiere.

Il digiuno diurno ( siyàm ) fa del mese di Ramadàn quasi un ritiro collettivo della comunità musulmana ( si raddoppiano le preghiere e le meditazioni di notte, si ricorda che solo il Signore è Provveditore e si partecipa alla fame e alla sete dei poveri ).

L'elemosina legale o supererogatoria ( zakàt, sadaqa ) ridistribuisce il reddito dei beni terrestri e ne purifica l'acquisto e l'uso ( o l'abuso! ).

Il pellegrinaggio alla Mecca fa tornare alle sorgenti della fede e della storia, allarga l'esperienza musulmana a livello internazionale e, soprattutto, prepara e conduce i musulmani alla grazia del pentimento e del perdono tramite un'esperienza di "conversione".

Tutti questi riti hanno per primo e ultimo scopo la gloria e la lode dell'unico Signore e costituiscono il migliore servizio della sua grandezza e della sua misericordia.

La comunità musulmana è un popolo che attesta, prega, digiuna, fa elemosina e va alla "casa di Dio".

Così vengono rispettati i diritti di colui che ordinò a Maometto: « Celebra le lodi del tuo Signore e chiedi a lui perdono » ( 110,3 ).

Ma per il vero credente, questi riti hanno i loro misteri che sono da scoprire e poi da realizzare.

Se « la purità è la meta della fede », come dice un hadith, Ghazàlì insegna che « la purità ha quattro gradi:

1) la purificazione del corpo dalle impurità, dalle lordure e dagli escrementi,

2) la purificazione delle membra dalle colpe e dai peccati,

3) la purificazione del cuore dai costumi riprovevoli e dai vizi detestabili,

4) la purificazione dell'intimo da tutto ciò che non è Dio eccelso.

Quest'ultima è la purità dei profeti e dei giusti ».

D'altra parte, la preghiera è "celebrazione di Dio" e "banchetto dei monoteisti", raggiungendo i suoi "valori intimi" grazie "alla presenza del cuore, alla comprensione, al timore reverenziale, alla speranza e alla vergogna".

Ghazàlì spiega ancora che « il digiuno ha tre gradi:

1) astenersi dal soddisfare i piaceri del ventre e del sesso.

2) astenersi dai peccati dell'udito, della vista, della lingua, delle mani, dei piedi e delle altre membra,

3) astenersi dalle cure di questa vita e dai pensieri terreni e da tutto ciò che non è Dio ».

Al-Makkì ( + 996 ), trattando dell'elemosina, ricorda che bisogna darla con bontà d'animo, spontaneamente con sincerità verso il Signore, con il desiderio di vedere la sua faccia, non per un'ipocrisia del "m'hai visto", ne pensando alla propria reputazione o decoro, ne per ostentazione.

Facendola si deve credere alla superiorità dei poveri.

Così la pratica della zakat è destinata a portare l'uomo al distacco da tutto, beni materiali e qualità morali.

A riguardo del pellegrinaggio, il dialogo fra al-Giunaid ( + 910 ) e il suo discepolo ne da tutte le dimensioni spirituali: « Allontanandoti da casa per andare in pellegrinaggio, ti sei allontanato da tutti i peccati?

- No. - Allora non hai fatto nessun viaggio.

E ad ogni tappa, hai progredito di un gradino sulla strada di Dio?

- No. - Allora non hai percorso la via tappa per tappa.

Quando, entrato nel territorio sacro, hai indossato la veste del pellegrino, abbandonasti le qualità della natura umana come lasciavi cadere i tuoi panni?

- No. - Allora non hai rivestito l'abito del pellegrino.

Facendo i sette giri della Caaba hai contemplato l'immateriale bellezza di Dio nella dimora della purificazione?

- No. - Allora non hai fatto i giri.

Quando, l'ultimo giorno, hai sacrificato una vittima, sacrificasti anche i tuoi desideri mondani?

- No. - Allora non hai fatto il sacrificio.

E quando gettavi le pietre, hai gettato via con esse qualcuno dei tuoi pensieri sensuali?

- No. - Allora non hai gettato pietre e non hai compiuto il pellegrinaggio ».

VII - Obbedienza e fedeltà alle prescrizioni della legge

Fede ( ìmàn ) e culto ( islam ) non sono sufficienti per il musulmano che vuole rispondere coerentemente a tutte le esigenze della sua religione.

Egli è chiamato all'obbedienza in spirito di "benevolenza" ( ihsan ), la quale consiste, dice un hadith, « nel servire Dio come se tu lo vedessi, perché, anche se tu non lo vedi, egli ti vede ».

La "retta via" è quella rivelata da Dio nel Corano ( versetti giuridici ) e poi precisata nella legge ( sciarì'a ) attraverso i secoli.

Ghazali ammonisce il suo discepolo dicendogli: « Figlio, la quintessenza della scienza è sapere cosa sono obbedienza e devozione.

Sappi che l'una e l'altra consistono nell'ottemperare agli ordini e ai divieti del legislatore, sia parlando, sia agendo, ossia tutto ciò che dici, fai e tralasci deve essere conforme alla legge.

Figlio, bisogna che le tue parole e le tue azioni siano conformi alla legge, poiché scienza ed opere in difformità della legge sono traviamento ».

Perciò il credente musulmano ammira, medita e realizza la volontà del suo Signore, pur non sapendone le motivazioni: basta accontentare i desideri di Dio, dato che le virtù si riassumono nella virtù primordiale, l'obbedienza ( tà'a ).

Bisogna dunque conoscere la legge ed amarla ( come si esprime il salmista nel Sal 119/118 ) e sapere quali sono gli atti che sono « obbligatori, raccomandati, permessi, biasimevoli o vietati ».

Anzi vengono elogiate da Maometto l'importanza dell'intenzione e la ricerca della temperanza tuziori sta: « Le azioni non sono retribuite che secondo le intenzioni che le hanno ispirate ».

« Ciò che è lecito è manifesto, ciò che è illecito lo è pure: tra i due si situano degli atti equivoci che un gran numero di persone non sanno discernere.

Chiunque se ne preserva, mette fuori pericolo la propria religione e il proprio onore ».

Nel suo realizzare questo tuziorismo ( wara' ) etico-religioso, il credente conosce questa lotta "interiore" tra « l'anima appassionata che spinge al male » ( 12,53 ) e «l'anima biasimatrice » ( 75,2 ); raggiunta la vittoria con l'aiuto di Dio ( tawflq ), l'anima umana può sentire la voce di Dio che dice: « E tu, o anima tranquilla, ritorna al tuo Signore, piacente e piaciuta, ed entra fra i miei servi, entra nel mio paradiso » ( 89,27-30 ).

Soddisfazione divina e compiacimento umano, tale è l'ultima tappa dell'obbedienza del credente.

È quest'ultima che lo farà sussistere eternamente, presso Iddio.

VIII - Prospettive ascetico-mistiche

Nella sua fedeltà intransigente al monoteismo coranico, nella sua interiorizzazione continua del culto sincero e nella sua realizzazione scrupolosa della legge islamica, il musulmano conosce una valorizzazione della sua esperienza religiosa che gli permette di percorrere numerose tappe dell'itinerario ascetico-mistico ( zuhd e tasawwuf ).

Certo, egli sa benissimo che « l'uomo è stato creato avido » ( 70,19 ), « ingiusto e ingrato » ( 14,34 ) ed anche « ignorante » ( 33,72 ), ma il Corano gli ripete incessantemente che Dio « si è prescritta la misericordia » ( 6,12 ) mentre un hadìth afferma che « la misericordia [ di Dio ] precede la [ sua ] collera ».

Difatti, viene esplicitamente detto da Maometto: « Dio Altissimo ha detto: "O Figlio di Adamo, finché tu mi rivolgerai le tue invocazioni e metterai la tua speranza in me, io ti perdonerò quanto avrai potuto commettere di peccati.

O figlio di Adamo, se tu mi portassi l'equivalente della terra in peccati e venissi poi a trovarmi senza associare nulla al mio nome, io ti rimetterei lo stesso equivalente in perdono!" ».

Quali saranno dunque le tappe, le stazioni e le dimore dell'itinerario del credente?

Ci sarà la conoscenza ( ma'rifa ), non acquistata ma ricevuta, come dice un mistico: « Dio stesso si fa conoscere a noi per se stesso e ci conduce alla conoscenza di se stesso per se stesso ».

Ma ci vuole anche il pentimento ( tawba ), con i suoi gradi descritti da al-Misri ( + 859 ): « Il volgare dirige il pentimento sulla colpa, i privilegiati sulla tiepidezza e i profeti sulla vista della loro impotenza a raggiungere ciò che altri hanno raggiunto ».

Bisogna che ci sia una rinuncia ( zuhd ) crescente a tutto ciò che potrebbe essere "socio" a Dio, come lo dice al-Giunaid: « La rinuncia sono le mani vuote di beni ed i cuori vuoti da ogni attaccamento ».

Allora si può passare ai gradi dell'abbandono ( tawakkul ), già descritti, per accedere all'amor di Dio o alla sua vicinanza, "amore di confessione" o "amore d'estasi", che si esprime nella "conformità" alla volontà di Dio, cioè « obbedienza in ciò che egli ordina, astensione da ciò che proibisce e gradimento di ciò che decide e decreta ».

Rimane l'ultimo interrogativo: qual è l'ultima tappa dell'itinerario del credente?

Un hadìth controverso rivela che « Iddio creò Adamo a sua immagine », il che significherebbe che « l'anima [ umana ] è per la sua rassomiglianza e parallelismo con Dio una scala che porta alla conoscenza del suo creatore », come confessa Ghazàlì, dato che « le cose si conoscono per mezzo delle loro simili e di quelle a loro analoghe ».

Ma si può pensare ad una "visione di Dio" ( ru'yat Allah )?

Il Corano parla di « volti [ che ] in quel giorno saranno splendenti, al loro Signore miranti » ( 75,22-23 ); descrive Dio come « luce dei cieli e della terra… luce su luce », e afferma che « Iddio guida alla sua luce chi egli vuole » ( 24,35 ).

Sembra però che questa "luce" ultima sia irraggiungibile, perché il profeta avrebbe detto: « Dio ha settanta veli di luce e tenebra.

Se egli li rimovesse, il sublime splendore del suo volto brucerebbe chiunque pervenisse ;a lui col suo sguardo ».

Certo, secondo Ghazalì « ci sono due specie di occhi: l'uno esterno e l'altro interno, quello del reame  ( malakùt ) », ma infine « immergersi nel mare profondo dei misteri divini è gravoso; cercare di scoprire le luci divine al di là dei veli umani è difficile, non certo agevole ».

Rimane allora valida la preghiera di Ghazalì: « Possa Dio guidarti alla ricerca della felicità somma, incamminarti sull'ascesa della cima eccelsa, agevolarti con la luce della verità il discernimento, mondarti l'intimo da tutto ciò che non è la verità ».

Sembra che la fede musulmana sia chiamata a non chiedere mai che vengano rimossi questi "veli di luce e tenebra" che nascondono i misteri divini: la grandezza dell'uomo sarebbe tutta nella sua attestazione e nella sua testimonianza.

Sì, basta per lui restituire a Dio le sue labbra create per ripetergli il « non c'è dio al di fuori di Iddio », dato che Dio solo è degno di pronunciare la sciahàda ( attestazione di fede ) e di ripeterla da sempre e per sempre.

Essere, dunque, il "testimone" di questa testimonianza, tale è l' "incarico" ( amàna ) che l'uomo ha accettato in mezzo al creato ( 33,72 ).

… e carità Carità III