La controversia accademica

Libro III

L'indagine critica di Agostino: il fondamento del filosofare

Introduzione: Il filosofo-saggio e la fortuna ( 1,1 - 2,4 )

1.1 - Collegamento con la trattazione precedente

Dopo la discussione riferita nel secondo libro, l'indomani ci adunammo nelle terme.

Il tempo era troppo triste per poter scendere al prato.

Cominciai in questi termini: "Penso che vi siate resi consapevoli del motivo per cui fra noi è sorta la discussione di questo problema.

Ma prima che giunga alla soluzione, per quanto riguarda la parte affidatami, desidero che ascoltiate alcuni concetti sulla speranza, la vita e la norma dell'agire. Non esulano dall'argomento.

Penso che la nostra occupazione vera, non futile o superflua ma necessaria e nobilissima, sia ricercare con tutto l'impegno la verità.

Su questo punto c'è accordo fra me e Alipio. Difatti tutti i filosofi hanno ritenuto che il saggio da loro ideato l'ha raggiunta.

Gli accademici poi hanno insegnato che il loro saggio deve compiere ogni sforzo per raggiungerla e che questa è la sua incessante attività.

Ma poiché essa o non appare perché oscura o si cela perché indistinta, il saggio, agli scopi pratici della vita, deve seguire quanto appare probabile o verosimile.

Tale argomento fu trattato nella nostra prima discussione. In essa uno di voi ha affermato che l'uomo è felice nel possesso della verità e l'altro nella sola ricerca incessante.

Quindi per nessuno di noi esiste dubbio che non si dà occupazione da preporre a questa.

E adesso, se permettete, come vi sembra che abbiamo passato il giorno di ieri? V'è stato concesso di attendere ai vostri studi.

Tu, Trigezio, hai preso diletto dalla poesia di Virgilio. Licenzio ha atteso a compor versi ed è molto preso dall'amore per la poesia.

Ho creduto anzi mio dovere tenere questo discorso soprattutto per lui.

La filosofia deve occupare ed arrogarsi nel suo spirito un'attenzione più viva non solo della poesia ma di qualsiasi altra occupazione. E questo è il momento più opportuno.

2.2 - La fortuna come soggezione al bisogno

E me, scusate, non mi avete un po' commiserato? Ieri siamo andati a letto con l'intenzione che non ci si levasse per altro che per la disputa differita.

Ma vi furono tante faccende, riguardanti la casa, che si sono dovute inderogabilmente sbrigare.

Occupati in esse, abbiamo potuto attendere a noi soltanto le due ultime ore del giorno.

E per questo sono stato sempre dell'avviso che l'uomo saggio non ha più bisogno di nulla, ma che per divenire saggio gli è sommamente necessaria la fortuna a meno che Alipio non la pensi diversamente".

Mi rispose: "Non so bene ancora quanta competenza attribuisci alla fortuna.

Se ritieni che si esige la fortuna per disprezzare la fortuna stessa, allora mi associo al tuo parere.

Se poi alla fortuna concedi soltanto l'elargizione dei beni che non possono esser forniti per le necessità del corpo se non col suo favore, allora non sono dello stesso avviso.

In definitiva o è concesso, nonostante che essa sia decisamente sfavorevole, a chi non è ancora saggio ma è desideroso della saggezza, accaparrarsi i comodi che riteniamo indispensabili alla vita, ovvero bisogna ammettere che essa domina anche in tutta la vita del saggio.

Anche il saggio infatti non può non sentire il bisogno delle cose indispensabili al corpo".

2.3 - Il filosofo saggio vince la fortuna nella vita …

"Tu dunque affermi, lo interruppi, che la fortuna è indispensabile per chi aspira alla saggezza e non per il saggio".

"Non disdice, replicò, all'argomento ripetere le stesse cose.

E per questo anche adesso ti chiedo se ritieni che la fortuna può contribuire a farsi disprezzare.

Se sei di quest'avviso, affermo che chi aspira alla saggezza ha molto bisogno della fortuna".

"Sono di quest'avviso, risposi, poiché proprio per suo mezzo sarà tale da poterla disprezzare. E non è assurdo.

Quando siamo piccoli, ci è indispensabile l'allattamento ma per suo mezzo si ottiene che possiamo vivere e star bene senza di esso".

"Mi accorgo, egli rispose, che i nostri pareri, salvo dissenso interiore, si accordano.

Qualcuno tuttavia potrebbe pensare di dover discutere sul fatto che non l'allattamento e la fortuna ma qualche altra cosa rende superiori all'allattamento e alla fortuna".

"Non è difficile, risposi, usare un altro esempio. Sebbene un tale si proponga soltanto la meta, non passa il mare Egeo senza nave o altro mezzo di locomozione o addirittura, perché non mi si obietti il caso di Dedalo, senza mezzi adatti allo scopo o altra occulta energia.

Quando ha raggiunto la meta, è pronto ad abbandonare e disprezzare i mezzi che ve l'hanno trasportato.

Così c'è chi vuole giungere al porto e, per così dire, allo stabile e tranquillo suolo della saggezza.

Per tacere del resto, se fosse cieco o sordo, e ciò è in potere della fortuna, non lo potrebbe.

Ritengo quindi indispensabile che egli abbia al compimento del suo desiderio la fortuna favorevole.

E appagatolo, sebbene è ineluttabile che abbia bisogno di alcuni beni necessari alla vita fisica, è certo tuttavia che non ne ha bisogno per essere saggio ma per rimanere in vita".

"Anzi, soggiunse Alipio, se fosse cieco e sordo, giustamente, secondo me, sprezzerebbe la saggezza da raggiungere e la stessa vita per cui si cerca la saggezza".

2.4 - … e nella morte

"Tuttavia replicai, anche la nostra vita terrena è in potere della fortuna e non si diviene saggi se non si vive.

Non si deve dunque ammettere che ci è indispensabile il suo favore perché possiamo giungere alla saggezza?".

"Ma la saggezza, mi rispose, è necessaria soltanto a chi vive; terminata la vita non c'è alcun bisogno della saggezza.

Dunque nel prolungare la vita non temo affatto la fortuna.

Desidero la saggezza perché vivo e non perché aspiro alla saggezza voglio vivere.

Quindi se la fortuna mi toglierà la vita, mi toglierà anche la ragione di ricercare la saggezza.

Non ho pertanto alcun motivo, allo scopo di divenir saggio, di dover desiderare il favore della fortuna o temerne gli ostacoli, a meno che non mi addurrai altri motivi".

Ed io: "Non ti pare dunque che chi aspira alla saggezza può essere dalla fortuna impedito di raggiungerla anche se non gli toglie la vita". "No, rispose, non mi pare".

Il fondamento: Nonostante l'aporia innegabilità del filosofare ( 3,5 - 6,13 )

3.5 - La scienza del filosofare e il probabile

"Desidero, replicai, che tu mi esponga la differenza che esiste fra filosofante e iniziato al filosofare".

"Ritengo, rispose, che il filosofante differisce da chi aspira al filosofare soltanto perché nel filosofante si ha un certo abito di quelle cose, di cui nell'iniziato si ha il solo desiderio ardente".

"E quali sarebbero queste cose?, richiesi. Io opino che non si dia altra differenza se non che uno ha scienza del filosofare e l'altro attende ad averla".

"Se, mi rispose, definisci brevemente la scienza, esponi più chiaramente il tuo pensiero".

"Comunque la definisca, replicai, è dottrina comune che scienza non ha per oggetto l'opinabile".

"Proprio per questo, egli disse, mi è sembrato opportuno frapporti come ostacolo simile premessa.

Altrimenti il tuo discorso, dietro un'incauta mia ammissione, avrebbe cominciato a cavalcare indisturbato per i campi di questo problema di fondo".

"Ma per la verità, obiettai, non mi hai lasciato spazio dove cavalcare.

Comunque, salvo errore, ed è quanto da tempo preparo, siamo arrivati alla meta.

Infatti, come hai affermato acutamente e secondo verità, la differenza fra l'iniziato e il filosofante consiste nel fatto che quegli aspira e questi possiede scienza di filosofare.

Allo scopo non hai esitato a usare il termine di una certa disposizione abituale.

Inoltre non si può nella mente avere scienza se non si è appreso e non si è appreso se non si ha intellezione e non si ha intellezione dell'opinabile.

Ne consegue che il filosofante, del quale tu stesso hai ammesso che ha scienza del filosofare, ne ha, cioè, l'abituale disposizione, conosce la verità".

"Non so proprio, ribatté Alipio, quanto apparirei sfacciato se negassi di avere affermato che nel filosofante esiste l'abituale disposizione della ricerca di cose umane e divine.

Non riesco a comprendere perché ritieni che non può esistere la disposizione abituale a risultati opinabili dell'indagine".

"Mi concedi, replicai, che non si dà scienza dell'opinabile?". "Ma ben volentieri".

"E allora afferma, ribattei, se ne hai il coraggio, che il filosofante non ha scienza del filosofare".

"Ma perché, obiettò, vuoi conchiudere l'argomento in termini tali da escludere che il filosofante opini di aver raggiunto scienza del filosofare?".

"Dammi la mano, gli dissi. Se ben ricordi, è proprio questo l'argomento che ieri ho detto di voler trattare.

Ed ora sono felice che non è stato da me conchiuso, ma m'è stato ripresentato da te.

Ho detto infatti che fra me e gli accademici esiste questa differenza: che essi ritengono probabile che la verità non si può raggiungere mentre io opino di non averla ancora raggiunta, ma che può essere raggiunta dal filosofante.

Ed ora tu, incalzato dalle mie domande se il filosofante ha scienza del filosofare, hai risposto che opina di averla". "E allora?", ribatté.

"Se opina, continuai, di aver scienza del filosofare, opina che il filosofante può avere scienza di qualche cosa, a meno che tu non affermi che il filosofare è nulla".

3.6 - Inoppugnabilità dell'atto dei filosofare

"Quasi quasi stavo pensando, mi rispose, che eravamo giunti alla meta definitiva, ma all'improvviso, quando mi hai steso la mano, mi sono accorto che siamo in pieno disaccordo e che la tireremo a lungo.

In effetti ieri mi sembrava che non esistesse altra discussione fra noi se non che, mentre tu affermavi, io negavo che il filosofante può giungere alla rappresentazione del vero.

Adesso invece avverto di non averti concesso altro se non che il filosofante può opinare di avere raggiunto conoscenza filosofica con risultati opinabili e nessuno di noi può mettere in dubbio che io ho considerato tale conoscenza come indagine su cose divine e umane".

"Non imbrogliando te la sbroglierai, lo ammonii. Mi pare che ormai stai discutendo per tuo esercizio personale.

Sai bene che questi giovanetti sono ancora appena capaci di comprendere argomenti trattati con acume e sottigliezza.

Stai dunque abusando, per così dire, dell'ignoranza dei giudici per parlare a tuo piacere senza subire recriminazioni.

Poco fa, quando ti ho chiesto se il filosofante ha scienza del filosofare, hai risposto che opina di averla.

Ne consegue che chi opina che il filosofante ha scienza del filosofare, non può non opinare che il filosofante ha scienza di qualche cosa.

Tale conseguenza è inoppugnabile a meno che non si osi dire che il filosofare è nulla.

Ne consegue che le nostre opinioni sono concordi. Difatti io opino che il filosofante ha scienza di qualche cosa e, a mio avviso, anche tu, sebbene preferisci dire che il filosofante opina che il filosofante ha scienza del filosofare".

Ed egli: "Penso che in fatto d'esercizio della mente siamo alla pari e me ne meraviglio perché tu non hai alcun bisogno d'esercitarti sull'argomento.

Io forse sono ancora cieco, ma opino che esista differenza fra opinare di sapere e sapere e fra il filosofare, che consiste nell'indagine, e la verità.

Noi sosteniamo l'una e rispettivamente l'altra parte dell'alternativa. Non riesco proprio a comprendere dunque come esse coincidano".

Eravamo già stati chiamati a pranzo. Gli dissi frattanto: "Non mi dispiace la tua lunga resistenza.

Comunque o entrambi non sappiamo quel che diciamo e dobbiamo provvedere a non disonorarci a tal punto, ovvero uno soltanto di noi due non lo sa ed è egualmente disonorevole rinunciare per noncuranza.

Ma nel pomeriggio c'incontreremo ancora. E proprio quando anche a me sembrava di esser giunti alla meta, hai stretto i pugni".

Al motto tutti risero e ce ne andammo.

4.7 - Licenzio si vuol dissetare alla fonte Ippocrene

Al nostro ritorno trovammo Licenzio affannato a far versi.

L'Elicona non avrebbe mai soddisfatta la sua sete.

A metà pranzo, sebbene del nostro la fine fu un tutt'uno con l'inizio, s'era alzato alla chetichella senza aver bevuto.

Gli dissi: "Desidero che tu alfine possegga l'arte del poetare, come hai bramato, non perché mi dia molto piacere codesta tua abilità, ma perché osservo che ne sei tanto preso da potertene liberare soltanto col disgusto, come di solito avviene una volta conseguita l'abilità.

E poi, giacché hai una bella voce, preferirei che ci faccia udire versi tuoi anziché, col tono delle tragedie greche, secondo il costume degli uccellini che vediamo chiusi in gabbia, cantare parole che non intendi.

Ti prego tuttavia di andare a bere, per favore, e di ritornare alla nostra scuola se qualche benemerenza hanno verso di te L'Ortensio e la filosofia.

Ad essa hai libato primizie assai dolci con la precedente vostra disputa, la quale ti aveva acceso, con maggiore ardore che l'arte del poetare, alla scienza di cose grandi e veramente utili.

Ma mentre io desidero di richiamarvi alla palestra di queste discipline con cui si educa lo spirito, temo che essa possa divenire per voi un labirinto.

Quasi mi pento di averti distolto dalla tua infatuazione". Arrossì e si allontanò per bere.

Aveva molta sete e gli si presentava il destro di allontanarsi da me che avrei potuto dire molte altre parole e più dure.

4.8 - Il sapere e l'opinare di sapere

Quando fu tornato, nell'attenzione generale, così cominciai: "Allora, Alipio, le cose stanno al punto che non andiamo d'accordo su un argomento, a mio avviso, tanto evidente?".

"Tu affermi, rispose, di avere in mano l'argomento. Ma niente di strano che esso sia oscuro per me.

Argomenti evidenti potrebbero essere più evidenti per alcuni ed egualmente argomenti oscuri più oscuri per altri.

E se questo argomento è per te evidente, credimi, v'è qualcuno per cui è più evidente ed egualmente v'è qualche altro per cui l'argomento a me oscuro è ancora più oscuro.

Ma non pensare che io voglia essere troppo polemico. Ti pregherei pertanto di rendere più evidente quanto è già evidente".

"Per favore, gli risposi, ascoltami con attenzione trascurando per un po' la preoccupazione di rispondere.

Se conosco bene te e me, facilmente con l'impegno dovuto sarà chiarito il concetto che sto esprimendo e ci persuaderemo a vicenda.

Hai detto dianzi, o forse ero diventato sordo, che il filosofante opina di avere scienza del filosofare?".

Fece un cenno d'assenso. "Per un po', ripresi, lasciamo andare codesto filosofante.

Tu stesso sei filosofante o no?". "Ma niente affatto", rispose

"Vorrei tuttavia, continuai, che tu mi dichiari l'interpretazione che dai del filosofo accademico.

Ti sembra che abbia scienza del filosofare?". "Ma per te, egli ribatté, è la medesima cosa o no se opina di avere scienza o se l'ha veramente?

Temo che la mancanza di chiarezza possa offrire una scappatoia a uno di noi".

4.9 - Anche l'opinare di sapere è inoppugnabile

"Quanto stai dicendo, gli risposi, è simile a quella che si suole denominare contesa toscana.

Avviene quando a una domanda proposta non sembra ovviare la risposta confacente, ma la presentazione di un'altra domanda.

Anche il nostro poeta, tanto per dedicarmi un po' agli orecchi di Licenzio, nelle Bucoliche, ha giustamente giudicato che tale atteggiamento è da campagnoli e senz'altro da pastori.

Difatti un tizio domanda ad un altro dove il cielo non abbia estensione superiore a tre gomiti, e quegli risponde: E tu dimmi in quali regioni nascono fiori con sopra stampatovi il nome dei re ( Virgilio, Ecl. 3, 105-106 ).

Scusami, Alipio, ma non credere che questo ci sia permesso perché ci troviamo in campagna.

Anche questo piccolo bagno valga a farci rievocare in qualche modo lo splendore dei ginnasi.

Ed ora rispondi, se vuoi, alla mia domanda: Opini che il filosofo degli accademici ha scienza del filosofare?".

"Non meniamo la cosa in lungo, rispose, rapportando parole a parole. Opino che egli opina di averla".

"Tu opini dunque, replicai, che non ne ha scienza? Ma io non ti chiedo che cosa opini che opina il filosofante, ma se opini che il filosofante ha scienza del filosofare.

Puoi, a mio avviso, indifferentemente affermare o negare".

"Magari, rispose, l'argomento fosse facile per me come lo è per te o difficile per te come lo è per me.

Non saresti tanto molesto e non avresti alcuna fiducia nella discussione.

Tu mi hai domandato la mia opinione sul filosofo accademico.

Ho risposto che opino che egli opina di avere scienza del filosofare sia per non affermare pregiudizialmente che io ho scienza, sia per non affermare non meno pregiudizialmente che egli ha scienza".

"Come grande favore, lo ammonii, ti prego di concedermi, prima di tutto, che ti degni rispondere alle domande che ti rivolgo io e non a quelle che tu formuli.

In secondo luogo che lasci da parte la mia fiducia perché so che ti è a cuore non meno della tua.

Ed abbi per certo che se io sarò indotto in errore con questa mia interrogazione, passerò subito dalla tua parte e porremo fine alla discussione.

Infine ti prego che, scacciata non so quale preoccupazione dalla quale ti vedo preso, tu esamini con maggiore attenzione per intendere con esattezza la risposta che io desidero da te.

Hai detto che non intendevi né affermare né negare. Al contrario è indispensabile che tu lo faccia allo scopo per cui ti rivolgo domande.

Non deve avvenire che incautamente tu affermi di avere scienza di ciò di cui non hai scienza come se io ti avessi chiesto ciò di cui hai scienza e non ciò su cui opini di averne.

Quindi adesso ti rivolgo la stessa domanda in termini più espliciti per quanto è possibile: Opini che il filosofante abbia scienza del filosofare o non l'abbia?".

"Se si potesse, mi rispose, trovare un filosofante come lo esige il pensiero filosofico, potrebbe opinare che egli ha scienza del filosofare".

"Il pensiero, filosofico dunque, replicai, ti presenta il filosofante come colui che non ignora di filosofare.

Fin qui bene. E non era conveniente che tu avessi una differente opinione.

4.10 - Anche l'opinare di sapere è qualche cosa

Ormai posso chiederti dunque se può esservi un vero filosofo.

Se può esservi, può anche avere scienza del filosofare ed ha termine il nostro dibattito.

Se poi affermi che non può esservi, non vi sarà più il problema se il filosofante ha scienza di qualche cosa, ma se si può esser filosofo.

Stabilito questo punto, dobbiamo lasciare andare gli accademici ed esaminare il problema con molto senso critico per quanto ci è possibile.

Infatti essi insegnarono o meglio ritennero probabile che si può esser filosofo e che tuttavia la scienza non è di competenza dell'uomo.

E per questo affermarono che l'uomo non ha scienza di qualche cosa.

Tu opini che abbia scienza del filosofare e questo certamente non significa aver scienza di nulla.

Nello stesso tempo abbiamo ritenuto noi due concordemente che non si può avere scienza del falso.

Lo ritennero pure concordemente gli antichi e perfino gli accademici.

Ti rimane quindi o di sostenere che il filosofare è un nulla o che dagli accademici viene configurato il filosofo in termini che il pensiero umano non consente.

Ma, abbandonando tale argomento, permetti d'indagare se all'uomo può spettare tale filosofare quale il pensiero esige.

Non esiste altro filosofare che possiamo così denominare".

5.11 - Insorgenza dell'aporia e postulazione della fede

"Supponiamo, rispose Alipio, che io conceda l'assunto che tu vuoi derivare a tutti i costi.

Nell'ipotesi il filosofante ha scienza del filosofare e dalla nostra disputa è emerso un qualche cosa che il filosofante può ritenere come certo.

Tuttavia non m'è affatto ovvio che la tesi degli accademici sia del tutto crollata.

Osservo che dispongono, al contrario, di uno spazio notevole per la difesa.

Non è stata eliminata la sospensione dell'assenso.

Proprio per il fatto che ritieni di averli convinti, essi non possono venir meno alla loro causa.

Continueranno a sostenere che nulla si può rappresentare come vero, che non si dà apodissi per l'assenso a qualsiasi enunziato.

Arriveranno al punto da dire che lo stesso principio dell'impossibilità di ritenere con certezza, di cui fino a te si sono formati una persuasione probabile, è stato motivato in loro da un ragionamento come il tuo.

Ne consegue che, come allora, la forza di un'argomentazione quale la tua, sia essa invitta a causa della mia tarda intelligenza ovvero per vera apodissi, non riesce a farli rimuovere dalla loro posizione.

Sono tuttora capaci di affermare audacemente ancor oggi che neanche dopo tale argomentazione si deve prestar l'assenso per obiettiva apodissi.

Soggiungono che contro di essa eventualmente, in futuro, o da loro da altri, potrebbero esser formulati pensieri acuti e probabili che sarebbe opportuno ravvisare la loro figura, per così dire riflessa, nell'antico Proteo.

Di lui si dice che di solito era afferrato appunto per non essere afferrato e che coloro i quali lo cercavano non riuscivano a scoprirlo se non per indicazione di qualche potere divino.

Ed esso ci assista e si degni manifestarci la verità che tanto ci interessa.

Allora io pure confesserò che sono stati superati. E non penso che se ne dispiacciano".

5.12 - Possibilità dell'apodissi

"Proprio bene, risposi. Di più non desideravo. Osservate infatti, per favore, quanti e quanto grandi vantaggi me ne sono derivati.

Il primo è l'ammissione che gli accademici sono stati confutati al punto da non avere altra difesa che nell'assurdo.

Non si può infatti pensare in alcun modo o ritener probabile che chi è vinto, per il fatto stesso che è vinto, si vanti di esser vincitore.

Quindi se rimane un punto da discutere con essi, non deriva dalla loro affermazione che non si può avere scienza di qualche cosa, ma dalla loro contestazione che non si dà oggetto di cui si abbia apodissi.

E qui finalmente siamo d'accordo. Infatti io come loro, opino che il filosofo possiede scienza del filosofare.

Soltanto che essi richiamano all'assenza di ogni apodissi. Affermano infatti soltanto l'opinabilità e negano completamente la scienza.

Ma anche io ritengo di non avere scienza. Anche io dico di avere soltanto opinione su questo punto.

Sono infatti non filosofo come loro che non hanno scienza del filosofare.

Ma io ritengo che c'è qualche cosa cui associare l'apodissi. È la verità.

E chiedo se essi sono di parere contrario su tale argomento e cioè se ritengono che alla verità non si deve associare l'apodissi.

Non lo diranno mai. Affermeranno soltanto che non si può raggiungere.

E dunque mi hanno concorde in questo particolare aspetto che io e loro non riteniamo improbabile e quindi necessariamente riteniamo probabile che alla verità si deve associare l'apodissi.

Ma chi ce la farà vedere?, dicono. Su questo punto non intendo contendere con loro.

Mi basta la improbabilità della tesi che il filosofante non ha scienza di qualche cosa.

Non potranno più affermare l'enorme assurdità o che il filosofare è nulla o che il filosofante non ha scienza del filosofare.

6.13 - Probabilità e fede

Tu, o Alipio, hai detto chi può manifestare il vero ed io devo fare un notevole sforzo per non dissentire.

Hai affermato tanto brevemente quanto religiosamente che soltanto un potere divino può manifestare all'uomo che cosa è il vero.

E in questa nostra discussione non ho udito tanto volentieri parole più ponderate, più probabili e, se il potere divino mi assiste come spero, più vere.

Anche perché voi, giovani, notiate che i poeti non sono del tutto disprezzati dalla filosofia, viene presentato come allegoria della verità il mitico Proteo.

È stato da te chiamato in causa con molta profondità di pensiero e con viva applicazione al più genuino significato del filosofare.

Intendo dire che Proteo rappresenta con esattezza, attraverso la favola poetica, la personificazione di un'idea che l'uomo non può cogliere se, ingannato dalle apparenze fenomeniche, rallenterà o aprirà le nocche della rappresentazione del vero.

Sono appunto tali apparenze che, nel contatto con gli oggetti corporei, mediante i sensi che usiamo per le necessità della vita, riescono a trarci pienamente in inganno anche quando si possiede e, per così dire, si tiene in mano la verità.

E questo è il terzo vantaggio che me n'è derivato. Non saprei quanto apprezzarlo.

Infatti un mio intimo amico concorda con me non solo su quanto v'è di probabile nella vita umana, ma anche nella religione.

È indizio assai manifesto del vero amico. L'amicizia molto rettamente e giustamente è stata definita come comunicazione, mediante benevolenza e amore, di cose umane e divine ( Cicerone, Lael. 6. 20 ).

La rappresentazione o esprimibilità del vero ( 7,14 - 9,21 )

7.14 - Nel passaggio all'analisi delle parti del filosofare …

Non deve sembrare tuttavia che gli argomenti degli accademici continuino a spargere nebbie su di noi né d'altra parte si deve pensare che vogliamo per orgoglio resistere all'autorità di uomini assai dotti.

Intanto fra di essi Tullio non può non avere influsso su di noi.

Pertanto dapprima, se lo gradite, esporrò in breve dei pensieri contro coloro i quali ritengono che le nostre dispute sono contrarie alla verità.

Poi manifesterò, secondo una mia interpretazione, il motivo che ebbero gli accademici di occultare la propria dottrina.

Pertanto, o Alipio, sebbene sappia che condividi pienamente la mia opinione, assumi momentaneamente la difesa degli accademici e rispondimi".

"Oggi, mi rispose, hai conquistato terreno sotto favorevoli auspici, come dicono.

Quindi non continuerò a contrastare la tua piena vittoria e tenterò di assumere la difesa con sicurezza maggiore poiché mi viene assegnata da te.

Ma forse preferisci, se ti rimane comodo, presentare in un discorso continuato l'argomento che dici di voler trattare col metodo dialogico.

Io, ormai tuo prigioniero, non sarei bersagliato da tante minute frecce come nemico che non si vuole arrendere. Disdice troppo alla tua magnanimità".

7.15 - … è preferibile la lezione al dialogo

Mi accorsi che era questo che anche gli altri si aspettavano.

Quindi col tono di chi introduce in altro modo il discorso, dissi: "Farò come volete.

M'ero ripromesso, dopo la fatica del l'insegnamento della retorica un po' di riposo in questa leggera armatura del trattare l'argomento col dialogo anziché con la lezione.

Tuttavia siamo così pochi che non si richiede di parlare alto con danno della mia salute.

Ho voluto inoltre, per riguardo alla mede sima salute, che lo stilo dello stenografo sia quasi l'auriga e il rallentatore del mio dire acciocché non m'infervori più di quanto esige la preoccupazione per il mio stato fisico.

Ascoltate dunque in un discorso continuato il mio pensiero.

Ma prima di tutto esaminiamo l'argomento di cui i seguaci degli accademici sono soliti vantarsi eccessivamente.

V'è nei libri di Cicerone scritti in difesa di tale tesi un passo ornato di ammirevole eleganza e, secondo alcuni, non privo di robustezza.

È piuttosto difficile che i concetti ivi espressi non destino interesse in ognuno.

Da tutti i seguaci delle altre sette che si reputano filosofi si dà un posto secondario al filosofo accademico.

È ovvio che ciascuno si attribuisca il primo posto. E da questo si può dedurre probabilmente che è primo in base al proprio criterio chi è secondo in base al criterio degli altri.

7.16 - Un passo di Cicerone sul filosofo accademico

Supponi, ad esempio, che sia presente un filosofo stoico.

Soprattutto contro di loro s'infervorò la dialettica degli accademici.

Or dunque se si domanda a Zenone e Crisippo chi è il vero filosofo, risponderanno che è quello da loro ideato.

Al contrario Epicuro o un altro avversario qualunque lo negherà e sosterrà che il vero filosofo è il suo raffinato uccellatore di piaceri.

Da qui l'alterco. Urla Zenone e tutto il portico grida tumultuosamente: " Per nessun altro fine è nato l'uomo se non per la virtù, essa avvince gli animi col suo decoro, senza alcun utile estrinseco e senza alcuna ricompensa che faccia quasi da paraninfa, il piacere di Epicuro è comune con gli animali che si accoppiano ed è oltraggioso sospingere l'uomo e il filosofo in loro compagnia".

Al contrario Epicuro, novello Bacco, raduna in aiuto dai giardinetti una torma di ubriachi i quali cercano chi sbranare, a modo delle Baccanti, con le unghie sudice e la bocca ferigna, ammassa per trincea, dietro approvazione del volgo, le parole piacere, placamento, serenità e resiste vigorosamente affermando che non si può esser felici se non mediante il piacere.

Supponiamo che l'accademico s'imbatta nel loro alterco. Ascolterà gli uni e gli altri che si adopereranno per indurlo a parteggiare con loro, ma se si aggregherà agli uni ovvero agli altri, sarà, dai non preferiti, titolato, con schiamazzi, di idiota, analfabeta e scimunito.

E perciò, dopo aver aguzzato l'orecchio or qua or là, richiesto di quel che gliene sembra, risponderà che è in dubbio.

Domanda poi allo stoico chi è migliore: Epicuro che gli rinfaccia con grida la pazzia ovvero l'accademico che giudica di dover riflettere ancora su un argomento tanto importante.

Nessuno dubita che l'accademico avrà la preferenza.

Rivolgiti poi all'altro, e chiedigli chi preferisce: Zenone, dal quale viene gratificato di bestia, o Arcesila, dal quale ascolta: "Tu forse dici il vero, ma io devo indagare più attentamente".

Non è evidente che ad Epicuro tutto il portico sembra matto e gli accademici, in paragone, uomini moderati e cauti? ( Cicerone, Varro, framm. 34 t. A ).

Allo stesso modo Cicerone offre con molta erudizione, nei confronti di quasi tutte le sette, come uno spettacolo divertente ai lettori per far notare che non v'è alcuno il quale non si arroghi il primo posto e non attribuisca un posto secondario a chi avverte che non controbatte ma dubita.

Il fatto d'altronde è ineluttabile. E su questo punto io non li avverserò e non toglierò nulla della loro gloria.

8.17 - Al consesso dei filosofi, contro l'arringa di Cicerone, Agostino accusa la vanagloria accademica

E sia pure concesso a qualcuno di ritenere che nel passo citato Cicerone non abbia inteso scherzare, ma conoscere e raccogliere alcune futili e vuote raccomandazioni perché rifuggiva dalla leggerezza dei minori filosofi greci.

Nulla m'impedirebbe, se volessi ribattere la boria accademica, di dimostrare che è minor male non essere filosofo che essere incapaci di divenirlo.

Ne consegue che quell'accademico vanagloriosetto, presentatosi ad ognuno e non avendo alcuno potuto persuaderlo della propria opinione, venga infine schernito con unanime consenso.

Ormai infatti ognuno giudicherà che qualsiasi altro avversario non ha appreso nulla, ma che quegli è perfino incapace di apprendere.

Da quel momento egli sarà buttato fuori da ogni scuola non con le sferze, il che produrrebbe più vergogna che dolore, ma con le clave e i bastoni di quei tali che portano soltanto il mantello.

Non sarà davvero una grande impresa invocare contro una comune peste le forze ausiliatrici dei cinici come se fossero quelle di Ercole.

E se mi andasse a genio di disputare con loro per una gloria tanto meschina, e a me filosofante ma non ancor filosofo si dovrebbe consentire più facilmente simile intento, non avrebbero da ribattere.

Supponiamo dunque che io e un accademico ci imbattiamo nelle suddette liti filosofiche.

Siano tutti presenti ed espongano brevemente, secondo il tempo disponibile, le rispettive opinioni.

Si chieda a Carneade la sua opinione. Affermerà di dubitare.

Perciò ognuno lo preferirà agli altri. Dunque tutti a tutti gli altri. Grande e altissima gloria in verità.

Chi non vorrebbe imitarlo? Anche io perciò interrogato risponderò alla stessa maniera. Eguale sarà la lode.

Dunque un filosofo viene fregiato di una gloria, in cui un non filosofo viene eguagliato a lui?

E se lo superasse anche? La vergogna rimarrebbe senza effetto?

Comunque io fermerò l'accademico che si affretta a sgusciar via dal tribunale poiché la stoltezza è troppo avida di una gloria simile.

Dunque io, trattenutolo, manifesterò ai giudici ciò che ignorano e dirò: Io, o uomini eccellenti, ho in comune con costui che dubito se qualcuno di voi è capace del vero.

Ma abbiamo anche due diverse opinioni sulle quali vi prego di giudicare.

Ho udito le vostre decisioni, ma per me, ad esser sincero è incerto dove sia il vero appunto perché non so se qualcuno di voi è filosofo.

Ma costui afferma che anche il filosofante non ha scienza di qualche cosa, neanche del filosofare da cui si denomina filosofante.

Ognuno vede di chi sarà la palma. Infatti se il mio avversario ammetterà simile conclusione, lo supererò in gloria.

Se poi, arrossendo di vergogna, confesserà che il filosofo ha scienza del filosofare, lo vincerò per la validità della mia tesi.

9.18 - Il dubbio accademico e la definizione di Zenone

Ma passiamo da questo tribunale di contese in un altro luogo dove non ci molesti la turba e magari nella stessa scuola di Platone.

Si dice appunto che abbia ricevuto la denominazione dal fatto che era separata dal popolo.

Quivi non discutiamo più della gloria, il che è futile e fanciullesco, ma per quanto è possibile a noi, della vita e di una certa speranza dell'animo felice.

Gli accademici negano che si possa avere scienza di qualche cosa.

E perché codesta vostra opinione, o uomini pensosissimi e dottissimi?

Ci ha indotto, rispondono, la definizione di Zenone. E, scusate, perché?

Se è vera, conosce qualche cosa di vero chi conosce almeno quella.

Se poi è falsa, non avrebbe dovuto mettere in subbuglio uomini tanto coerenti.

Ma vediamo cosa dice Zenone. Può essere rappresentato e ritenuto come certo l'oggetto che non abbia caratteri comuni col falso.

E questo proprio, o platonico, ti ha spinto a ritrarre con tutte le energie gli allievi dalla speranza di apprendere?

Ne consegue che, anche a causa d'un certo lacrimevole torpore mentale, abbandoneranno completamente l'esercizio del filosofare.

9.19 - Un dilemma: o l'uomo non è filosofante o se lo è, è filosofo

Ma come non dovrebbe metterlo in subbuglio se non si dà il vero e se non si può ritenere con certezza se non ciò che è vero?

E se è così, si doveva dire che il filosofare non spetta all'uomo piuttosto che il filosofo non sa perché vive, non sa come vive, non sa se vive ed infine anche, e nulla si può affermare di più perverso, di più maniaco e pazzesco, che è filosofante e non ha scienza del filosofare.

Fra le due cose qual è la più atroce: che l'uomo non può esser filosofo o che il filosofante non ha scienza del filosofare?

Su questo secondo punto non si può discutere se il problema non è stato impostato in maniera da essere risolto.

Ma se fosse affermata la prima parte, gli uomini sarebbero completamente distolti dal filosofare.

Al contrario devono essere attratti dal soave e augusto nome della filosofia.

Non deve avvenire che, giunti alla tarda età senza avere nulla appreso, ti scaglino le peggiori imprecazioni poiché non avendo provato almeno i piaceri sensibili, ti sono venuti dietro verso i tormenti dello spirito.

9.20 - Gli uomini non devono esser distolti dal filosofare

Ma vediamo chi soprattutto li potrebbe distogliere dal filosofare.

Ci potrebbe esser qualcuno che dica: "Ascolta, amico, il filosofare, non è la filosofia; è soltanto esercizio alla sapienza.

Se tu ti ci applicherai, non diverrai certamente sapiente nella vita terrena poiché la sapienza è presso Dio e non può spettare all'uomo.

Ma quando con tale esercitazione ti sarai abbastanza esercitato e purificato, il tuo spirito facilmente godrà di essa dopo questa vita, cioè quando avrai cessato di essere uomo".

Un altro potrebbe dire: "Applicatevi, o mortali, al filosofare. Se ne ha un grande vantaggio poiché non v'è cosa più preziosa del filosofare per l'uomo.

Applicatevi dunque per essere filosofanti e non avere scienza del filosofare".

"Ma io, obietterebbe, non direi così". "Ma il tuo è ingannare poiché non si troverà altro insegnamento.

Ed avviene che, se dici così, ti fuggono come un pazzo, se li addurrai in altro modo, rendi pazzi loro.

Ma ammettiamo che gli uomini non vogliano filosofare tanto per l'uno come per l'altro modo d'intenderlo.

Se la definizione di Zenone ti costringeva a dire qualche cosa di svantaggioso per il filosofare, o pover'uomo, si dovevano dire al tuo simile parole che lo inducessero al travaglio e non parole che ti esponessero al suo scherno".

9.21 - Altro dilemma contro Arcesila: o si può esprimere il vero o non si dà filosofia

Non siamo ancora filosofi, ma esaminiamo egualmente, nei limiti consentiti, la definizione di Zenone.

Egli ha detto che quell'oggetto può essere rappresentato come vero che appare in maniera da non apparire falso.

Ed è manifesto che è impossibile darne un altro come certo.

"Ma, dice Arcesila, anche io lo ammetto e per questo appunto insegno che nulla può esser dato come certo.

In definitiva è impossibile trovare un tale oggetto".

"Forse da te o da altri non filosofi; ma perché non si potrebbe dal filosofo?

Ed io sono d'avviso che anche all'indotto non si potrebbe rispondere se ti dicesse di ribattere col tuo famoso acume questa stessa definizione di Zenone e di dimostrare che essa può esser falsa.

Se non lo potrai, devi ammettere che la puoi dare per certa.

Se poi riuscirai a ribatterla, devi ammettere che non lo puoi fare senza dar per certo qualche cosa.

Io poi non scorgo che può essere ribattuta e la giudico del tutto vera.

Quindi quando ne ho scienza, sebbene non sia filosofo, ho scienza di qualche cosa.

Ma sottoponiamola ad uno dei tuoi metodi dialettici. Userò un dilemma ben solido: o è vera, o è falsa.

Se è vera, penso rettamente, se è falsa, si può ritenere come certo qualche cosa anche se ha caratteri in comune col falso".

"Ma com'è possibile?", obietta. "Quindi Zenone ha definito secondo verità e non ha errato chi, anche in questo punto, gli ha acconsentito.

Non possiamo reputare di poca importanza e proprietà tale definizione.

Essa, contro coloro che avrebbero addotto molti argomenti contrari alla conoscenza certa, nell'indicare le proprietà di ciò che può esser dato come certo, s'è mostrata essa stessa certa.

È dunque definizione e modello di oggetti esprimibili come veri".

"Se sia vera anche essa, mi obietta, non so. Ma poiché è probabile, su tale premessa dimostro che non v'è cosa alcuna che sia tale quale essa dichiara potersi rappresentare come certa".

"Ma tu forse dimostri indipendentemente da tale premessa e, a mio avviso, ne vedi egualmente la conseguenza.

Ma anche posto che non ne abbiamo conoscenza certa, anche in tal caso la scienza non ci abbandona.

Sappiamo che essa o è vera o è falsa, dunque qualche cosa sappiamo.

E sebbene non sia proprio essa a rendermi noioso, torno a giudicarla del tutto vera.

Infatti o può esser dato per certo anche il falso, ed è proprio questo che gli accademici temono ed in verità è assurdo, o non può esser dato per certo neanche ciò che è molto simile al falso.

Quindi la definizione è vera. Ma esaminiamo quanto rimane.

Il problema della certezza ( 10,22 - 13,29 )

10.22 - Contro Carneade assonnato s'introduce il problema della certezza

Sebbene questi motivi potrebbero esser sufficienti per la vittoria, non lo sono tuttavia per la piena vittoria.

Vi sono due affermazioni degli accademici, alla cui confutazione, per quanto ne siamo capaci, vogliamo accedere: Nulla può esser dato per certo, e: Non si dà apodissi per l'assenso.

Parleremo dell'apodissi fra poco; ora qualche altro concetto sulla certezza.

Dite che proprio nulla si può dar per certo? A questo punto s'è svegliato Carneade.

Nessuno di costoro ha dormito più sodo di lui. Ha volto intorno lo sguardo sull'evidenza delle cose.

E così, credo, parlando con se stesso, come avviene, si è detto: "Dunque, o Carneade, ma dici davvero che non sai se sei uomo o formica?

Ovvero Crisippo avrà vittoria su di te? Noi affermiamo di non avere scienza delle cose che sono oggetto dell'indagine dei filosofi e che le altre non sono di nostra competenza.

Se avrò perplessità sulla mia dottrina alla luce di ogni giorno e comune a tutti, posso appellarmi alle tenebre degli ignoranti nelle quali veggono soltanto certi occhi divini.

Se essi mi vedranno andare a tastoni e cadere, non possono svelarlo ai ciechi, soprattutto se orgogliosi e tali da vergognarsi d'imparare qualche cosa".

Veramente, o greca abilità, te ne vai in giro pulitamente vestita e paludata, ma non ti accorgi che quella definizione non è soltanto l'insegnamento di un filosofo ma che è anche stabilmente fondata nel vestibolo della filosofia.

Se tenterai di scalzarla, ti darai la scure sulle gambe. Infatti se essa verrà demolita e tu ce la farai a rovesciarla, non solo si può dar per certo un qualche cosa, ma anche ciò che è il più simile al falso.

C'è un tuo nascondiglio dal quale ti avventi furiosamente contro gli incauti che vogliono passare.

Ma un qualche Ercole ti soffocherà nel tuo antro come l'uomo bestia Caco e ti coprirà con le tue rovine insegnando che nel filosofare c'è un qualche cosa che tu non puoi rendere incerto come se fosse simile al falso.

In verità stavo passando ad altro. Chiunque, o Carneade, mi spinge a farlo t'insolentisce enormemente perché suppone che io ti possa superare in qualsiasi tema e con qualsiasi dimostrazione come se tu fossi un morto.

Se poi non lo suppone, è spietato perché mi costringe a lasciare la rocca incustodita e a combattere con te in campo aperto.

Ho cominciato a venirti incontro, ma poi atterrito dal solo tuo nome, ho voltato le spalle e dall'alto della rocca ho lanciato una freccia a caso.

Se ti ha colpito e che cosa ti ha fatto, lo vedranno i giudici del nostro duello.

Ma di che cosa ho paura, imbecille che altro non sono? Se ben ricordo, sei morto.

Anche Alipio non combatte più per la tua tomba. Ed è possibile che Dio mi difenda contro i tuoi mani.

10.23 - Le antinomie sul mondo ridotte alla non contraddizione

Sostieni che nel filosofare nulla si può dare per certo.

E per diffondere in lungo e in largo il tuo discorso, tiri fuori le liti e i dissensi dei filosofi e pensi di usarli come armi contro di loro.

Quale giudizio, dici, potremo emettere fra Democrito e i primi naturalisti in merito alla discussione sull'unità o molteplicità dei mondi, quando non fu possibile l'accordo fra lui e il suo erede Epicuro?

Infatti questo filosofo del piacere permette agli atomi, cioè i corpuscoli, di non seguire la retta ma di deviare di continuo, spontaneamente nelle linee degli altri atomi.

Sembrerebbero quasi le sue concubine che a scopo di piacere abbraccia di nascosto.

Ma così ha scialacquato tutto il patrimonio anche nelle liti. A me il problema non interessa.

Se è di competenza della filosofia avere scienza di tale argomento, al filosofo non può essere ignoto.

Ma se è ben qualche cosa d'altro, del filosofare così inteso il filosofo ha scienza e quei problemi non cura.

Io tuttavia, che sono ancora ben lontano anche dall'esser vicino a diventar filosofo, ho qualche nozione in materia naturalistica.

Ritengo che il mondo o è uno o non è uno, se è uno o è di numero finito o infinito.

Carneade insegnerebbe che tale dottrina è simile a una falsa.

Allo stesso modo ho scienza che questo nostro mondo è stato così ordinato o dal meccanismo delle cose ovvero da una qualche provvidenza e che esso o è sempre stato e sempre sarà o ha cominciato ad essere ma non finirà o non ha avuto inizio nel tempo ma avrà fine o ha cominciato ad esistere ma non esisterà per sempre.

E conosco in tal maniera innumerevoli altre nozioni in materia naturalistica.

Simili proposizioni, in quanto implicano contraddizione, sono vere e non si può negarne la validità in un rapporto qualsiasi col falso.

"Ma, mi obietta l'accademico, prendi una delle parti della contraddizione".

"No! perché sarebbe come affermare: non dire ciò di cui hai scienza, dì ciò di cui non hai scienza.

"Ma l'enunziazione rimane sospesa". "Piuttosto che cadere terra, è meglio che rimanga sospesa.

Per l'appunto è piana, quanto dire che potrebbe esser riconosciuta come vera o falsa.

Ed io dico che ne ho scienza. Tu affermi che questi concetti non appartengono alla filosofia e che non se ne può avere alcuna scienza.

Dimostrami piuttosto che io non ne ho scienza.

O anche dimostra che le due parti della contraddizione sono ambedue false o che hanno qualche cosa di comune col falso sicché non si possa distinguere la vera dalla falsa".

11.24 - Certezza del dato immediato di coscienza circa l'esistenza dei mondo

"Come mai, mi obietta, che il mondo esiste se i sensi s'ingannano?".

"Giammai le vostre argomentazioni hanno potuto eliminare la funzionalità dei sensi fino al punto da convincermi che niente si percepisce.

Non avete nemmeno osato talora di tentarlo. Avete soltanto compiuto ogni sforzo per persuadere che il sensibile può esser diverso da come appare.

Io comunque chiamo mondo tutto questo, qualunque struttura abbia, che ci contiene e ci nutrisce, questo, dico, che appare ai miei sensi e che da me viene percepito come formato di terra e cielo o apparenza di terra e cielo.

Se affermi che nulla mi appare, non sarò in errore.

Erra infatti chi pregiudizialmente annette apodissi alle apparenze.

Voi dite che ai soggetti senzienti può apparire il falso, ma non dite che nulla appare.

Si toglierà completamente ogni motivo di discussione, che è il vostro dominio preferito, se non solo non abbiamo scienza di qualche cosa, ma neanche opinione.

Se poi affermi che ciò che mi appare non è il mondo, fai questione di nomi per puntiglio perché io l'ho chiamato mondo

11.25 - Certezza delle verità matematiche

"Anche se dormi, obietterai, il mondo è questo che ti appare?".

"È stato già detto che chiamo mondo tutto ciò che appare in tal modo.

Ma se proprio vuoi chiamare mondo quello che appare a chi è desto e sano di mente, dimostra, se ce la fai, che coloro che dormono o sono pazzi, non nel mondo dormono o sono pazzi.

E per tal motivo affermo che tutto questo meccanismo della massa dei corpi in cui siamo, sia che dormiamo, sia che siamo pazzi, sia che siamo svegli, sia che siamo sani di mente, o è uno o non è uno.

Dimostra che questa enunziazione può esser falsa.

Se dormo infatti, non è assurdo che non dica nulla.

Se poi mentre dormo, mi escono, come avviene talora, parole di bocca, non è assurdo che le dica non in questo posto, non seduto come ora, non con questi ascoltatori.

Ma è assurdo che tutto questo sia falso. E non affermo di averne certezza perché sono sveglio.

Puoi anche contestarmi che mi può apparire mentre dormo e che per tal motivo può avere molta somiglianza col falso.

Se ci sono uno e sei mondi, è evidente che fanno sette mondi in qualsiasi maniera io li abbia percepiti e non pregiudizialmente io posso affermare di averne scienza.

Dimostra che tale enunziato ovvero le anzidette parti della contraddizione possono esser false o a causa del sonno o della pazzia o per la fallacia dei sensi e mi arrendo se svegliatomi ricorderò di averli sognati".

Credo che ormai è abbastanza evidente che ciò che appare falso perché immaginato nel sonno o nella pazzia dipende esclusivamente dai sensi del corpo.

Il prodotto di tre per tre eguale a nove e le potenze dei numeri puri è necessario che siano veri anche se l'umano genere russa.

Comunque osservo che anche a favore dei sensi si possono allegare molte ragioni che non ritroviamo contestate dagli accademici.

Penso che non si dia colpa ai sensi per il fatto che i pazzi soffrono di allucinazioni e che nel sonno vediamo false immagini.

Se essi hanno trasmesso a chi è sveglio dei sensibili veri, non si deve loro attribuire ciò che l'animo del dormiente o del pazzo immagina.

11.26 - Certezza del dato immediato di coscienza circa i sensibili

Rimane da esaminare se, quando essi trasmettono, trasmettono il vero.

Supponiamo dunque che un epicureo dica: "Non ho da lamentarmi dei sensi.

È ingiusto pretendere da essi oltre le loro possibilità; tutto ciò che possono percepire lo percepiscono".

"Dunque è vero ciò che vedono del remo immerso nell'acqua?".

"Certamente vero poiché esiste una causa per cui appare così.

Se il remo, immerso nell'acqua, apparisse dritto, piuttosto allora accuserei gli occhi di una falsa impressione.

Infatti non vedrebbero ciò che, date quelle cause, doveva esser veduto. E perché andare a lungo?

Altrettanto si dica delle oscillazioni delle torri, delle penne degli uccelli e degli innumerevoli altri casi".

"Io tuttavia, dirà qualcuno, m'inganno se presto l'assenso".

"Non prestar l'assenso più di quanto tu ritenga certo che così ti appare e non vi sarà inganno".

Non capisco come l'accademico può ribattere chi dice: "Io ho coscienza che questo oggetto mi appare candido, che da questo suono il mio udito prende diletto, ho coscienza che questa cosa ha buon odore, che questa vivanda ha buon sapore, che questo oggetto è per me freddo".

"Dimmi piuttosto se le foglie dell'ulivo selvatico, che il becco appetisce con tanto gusto, sono per se stesse amare".

"O uomo disonesto! Il becco stesso è più assennato di te.

Io non ho coscienza come siano per il becco, per me sono amare. Che vuoi di più?".

"Ma v'è forse anche qualche uomo per cui sono amare". Ma vuoi proprio diventare insopportabile?

Ho detto forse che sono amare per tutti? L'ho detto per me e non l'affermo per tutte le circostanze.

Che cosa v'è di strano se, in circostanze diverse e per altre cause, una medesima cosa si sente in bocca ora dolce ora amara?

Io affermo questo: che l'uomo, nell'atto di gustare un cibo, può giurare in buona fede che esso è piacevole al suo palato, o il contrario, e che non può essere smosso da questa sua persuasione da qualsiasi sorite di marca greca.

Nessuno può osare di dirmi, mentre sto assaporando gustosamente qualche vivanda: "Bada che non lo stai gustando, è soltanto un sogno".

Ma io non ribatto. Tuttavia mi arrecherebbe diletto anche nel sonno.

Quindi non v'è somiglianza con cose false che possa rendere incerto ciò di cui affermo di esser cosciente.

Epicuro e i cirenaici potrebbero addurre a favore dei sensi molti altri motivi contro dei quali non conosco obiezioni degli accademici.

Ma a me che importa? Se vogliono e riescono ad eliminare tali motivi, possono farlo anche con la mia approvazione.

Le loro obiezioni contro i sensi non riguardano tutti i filosofi.

Ce ne sono molti infatti i quali ammettono che le conoscenze derivate all'intelligenza dal senso possono generare l'opinione, ma non scienza.

E ritengono che essa è propria del pensiero e, separata dai sensi, sussiste nella mente.

E forse nel loro numero c'è anche il filosofo che stiamo cercando. Ma sull'argomento altrove.

Passiamo ad altri concetti. Ormai, grazie a quanto abbiamo già detto, potremo, a mio avviso, spiegarli in poche parole.

12.27 - Principi morali e non contraddizione

In che cosa il senso favorirebbe od ostacolerebbe chi indaga sulla moralità?

Il collo della colomba, la eco, un peso grave per l'uomo e leggero per i cammelli e mille altri casi non impediscono coloro stessi, i quali riposero il bene sommo e ideale dell'uomo nel piacere, di affermare che hanno coscienza di ritrar piacere dalle sensazioni piacevoli e dolore da quelle dolorose.

E non veggo che cosa si potrebbe loro obiettare. Molto meno costituiscono difficoltà per chi ripone la perfezione del bene nello spirito.

"Quale scegli fra le due opinioni?". Se chiedi la mia opinione, ritengo che il bene sommo dell'uomo è nella mente.

Ma ora qui si parla di scienza. Quindi chiedilo al filosofo che non può non avere scienza del filosofare.

Frattanto a me, che sono tardo e indotto, è lecito sapere che il fine della perfezione umana, cui è connessa la felicità, o non esiste o è nello spirito o nel corpo o in entrambi.

Convincimi, se ti riesce, che io non ho scienza di tale motivo poiché le vostre celebri dimostrazioni non convincono affatto.

Non ci riuscirai dal momento che non troverai a quale falso si rassomigli.

Non devo dunque esitare a concludere l'attendibilità della mia opinione che il filosofo ha scienza di tutte le verità contenute nella filosofia quando io già ne ho conosciute tante.

12.28 - Il dato immediato di coscienza e l'agire

Ma forse teme di scegliere il bene sommo mentre dorme. Poco male.

Quando si sveglierà, lo rifiuterà se gli dispiace, lo accetterà se gli piace.

Nessuno lo può giustamente biasimare perché ha commesso un errore nel sonno.

O forse temerai che smarrisca la saggezza se nel sonno accetterà l'errore a posto della verità?

Neanche uno che dorme oserebbe sognarsi di chiamare filosofo un tale se è sveglio e di negarlo se dorme.

Altrettanto si può dire della pazzia. Ma ho fretta di passare ad altri argomenti.

Tuttavia non lascio questo tema senza una fondata conclusione: o la filosofia si smarrisce con la pazzia e quindi non sarà filosofo colui di cui gridate che ignora il vero; o la scienza che possiede rimane nell'intelligenza anche se la rimanente parte dello spirito ricostruisce, come nel sonno, ciò che ha ricevuto dai sensi.

13.29 - Non contraddizione, dialettica e certezza

Rimane la dialettica. Certamente il filosofo ne ha adeguata conoscenza e non si può avere scienza del falso.

Se poi non ne ha scienza, la conoscenza di essa non è di pertinenza del filosofare se senza di essa è potuto esser filosofo.

Ma in tal caso indaghiamo inutilmente se è vera e se può esser ritenuta come certa.

A questo punto mi si potrebbe dire: "Tu, o uomo indotto, sei solito parlare di quel che sai ovvero non hai potuto avere qualche nozione sulla dialettica?".

Ma io ne so più di qualsiasi altra parte della filosofia.

Proprio essa mi ha insegnato che sono vere tutte quelle proposizioni che dianzi ho formulato.

Inoltre per suo mezzo conosco molte altre verità.

E voi contate, se ce la fate, quante sono: se in natura vi sono quattro elementi, essi non sono cinque; se il sole è uno, non sono due; non può la medesima anima perire ed essere immortale; non si può essere insieme felici e infelici; in questo luogo non è contemporaneamente giorno e notte; in questo momento o siamo svegli o dormiamo; o è corpo ciò che mi appare o non è corpo.

Ho appreso per mezzo della dialettica che queste, e molte altre proposizioni, che sarebbe lungo enumerare, sono vere, qualunque sia l'attitudine dei nostri sensi, cioè vere in se stesse.

Mi ha insegnato che se si verifica la parte antecedente di una delle proposizioni condizionali da me formulate, essa trae necessariamente quanto vi è implicito e che le proposizioni da me formulate secondo il principio di contraddizione e del terzo escluso hanno questa caratteristica che, se si escludono le altre parti, una o più, ne rimane una che ha la sua verifica dall'esclusione delle altre.

Mi ha insegnato anche che quando è chiaro il concetto che viene espresso con le parole, non si deve far questione di parole.

Chiunque lo fa, se agisce per impreparazione deve essere istruito, se per slealtà si deve lasciare a se stesso.

Se non può essere istruito, deve essere esortato a dedicarsi a qualche altra occupazione anziché perdere tempo e possibilità inutilmente; se non dà ascolto, si deve non calcolarlo.

Breve è l'ammaestramento nei riguardi dei paralogismi e sofismi.

Se la loro illazione deriva da illegittima conseguenza, si deve riesaminare quanto è stato indebitamente concesso.

Se mescolano in una sola proposizione vero e falso, si deve isolare ciò che è oggetto di pensiero e lasciare ciò che è illogico.

Se poi il significato di alcune nozioni è completamente nascosto all'uomo, non se ne deve ricercare la conoscenza.

Dalla dialettica ricevo questo insegnamento e molti altri che non è necessario ricordare.

Non vorrei proprio diventar noioso. Comunque il filosofo disprezza le false argomentazioni.

Se poi, com'è difatti, la consummante dialettica è scienza per sé di verità, la conosce in maniera che disprezzando e non avendo pietà faccia morir di fame il sorite ricattatore degli accademici: Se è vero, è falso e se è falso, è vero.

Penso che basti sul problema della certezza. Quando comincerò a parlare dell'apodissi, tutto l'argomento sarà riesaminato.

Il problema dell'apodissi ( 14,30 - 17,37 )

14.30 - Apoditticità e aporeticità del filosofare

Veniamo a quel settore del problema, sul quale Alipio ancora mantiene il dubbio.

E prima di tutto esaminiamo proprio il significato di quel concetto che, appunto per la sua validità come pensiero, t'impone l'aporia.

Si tratta appunto del tema della più solida innegabile probabilità che il filosofo ha scienza del filosofare in opposizione alla tesi che il filosofo non ha scienza di qualche cosa.

A più forte ragione non si dà apodissi, hai detto, se questa tua nuova intuizione abbatte la dottrina degli accademici suffragata da tante e tante ragioni.

Con questo si verrebbe ad ammettere che anche con abbondanti e sottilissime argomentazioni non si può ottenere una persuasione, alla quale, da parte degli avversari, se c'è ingegno, non si può resistere non meno e forse anche più vigorosamente.

Ne consegue che l'accademico, nell'atto stesso che è sconfitto, sconfigge. Magari fosse sconfitto!

Non otterrebbe col raggiro proprio dei greci di allontanarsi da me assieme vinto e vincitore.

Certo che se non trovo altro da affermare contro la tesi accademica, anche io dichiarerò la mia resa senza condizioni.

Non disputiamo per acquistarci la gloria, ma per raggiungere la verità.

A me basta passare al di là di questo ingombro che s'incontra da chi si avvia al filosofare.

Esso, ammassando tenebre in non saprei quali angoli, incute il timore che così sia tutto il filosofare e non permette la speranza di trovare un po' di luce.

Per il momento non ho da desiderare di più poiché è già probabile che il filosofante ha scienza di qualche cosa.

Infatti non per altro motivo era verosimile che egli dovesse sospendere l'assenso se non perché era verosimile che nulla può essere espresso come vero.

Ma è superato questo punto. È stato già ammesso che il filosofante ha come certo per lo meno il filosofare.

Non dovrebbe quindi rimanere alcun dubbio che il filosofante accetti l'apodissi per lo meno del filosofare.

Sarebbe certamente più assurdo che il filosofante non ammetta l'apodissi del filosofare anziché il filosofante non abbia scienza del filosofare.

14.31 - Per assurdo il filosofante contro l'apoditticità del filosofare

E per favore poniamoci, per così dire, davanti agli occhi per un momento, se ci riusciamo, una immaginaria lite tra il filosofante e il filosofare.

Il filosofare può affermare soltanto che è filosofare.

E quegli di rimando: "Non credo". Ma chi dice al filosofare: "Non credo che è il filosofare"?

È proprio colui al quale esso ha potuto parlare e nel quale s'è degnato abitare, cioè il filosofante stesso.

Avete un nuovo genere di combattimento, il duello fra filosofante e filosofare.

Io me ne sto tranquillo con voi ad osservare.

Chi non penserebbe che il filosofare deve rimanere invitto? Tuttavia riforniamoci di qualche dilemma.

In questo combattimento o l'accademico sconfiggerà il filosofare e rimarrà sconfitto da me perché non sarà più filosofo, o rimarrà sconfitto e gli insegneremo che il filosofante deve ammettere l'innegabilità del filosofare.

Pertanto o l'accademico non è filosofante o il filosofante deve ammettere come innegabile qualche cosa.

Chi non ha avuto il coraggio di dire che il filosofante non ha scienza del filosofare, non l'avrà neanche per dire che il filosofante non ammette l'innegabilità del filosofare.

Ma è già verosimile che spetta al filosofante per lo meno la conoscenza certa del filosofare e non v'è motivo perché non si ammetta l'apodissi di quanto si può ritenere come certo.

Noto quindi che è verosimile il mio assunto e cioè che il filosofante deve ammettere l'apodissi del proprio filosofare.

Se mi chiederai dove trova il filosofare, rispondo che lo trova nel suo Io.

Se mi obietti che egli non ha scienza di ciò che ha nel suo Io, ritorni nell'assurdo che il filosofante non ha scienza del filosofare.

E se affermi che non si può dare il filosofante, tratteremo il problema in altri termini e non già con gli accademici ma con te, chiunque tu sia che così pensi.

Comunque, quando essi parlano sull'argomento, parlano certamente del filosofante.

Cicerone grida che egli è un grande formulatore d'opinioni, ma che egli indaga su filosofo ( Cicerone, Lucullus, 20, 66 ).

E se questo passo vi è ignoto, o giovani, avete certamente letto ne L'Ortensio: Se dunque nulla v'è di certo e non è del filosofo l'opinare, il filosofo giammai presterà l'assenso a qualche ( Cicerone, Hort. Framm. 100 t. A ).

Da qui appare che essi con le loro discussioni portano l'indagine sul filosofante. Per questo le stiamo ribattendo.

14.32 - Reversibilità fra certezza e apodissi

Dunque io penso che per il filosofante il filosofare è certezza, quanto dire che il filosofante ha conoscenza certa del proprio filosofare.

Pertanto egli non opina quando associa apodissi al filosofare perché ritiene innegabile quel qualche cosa che se non avesse ritenuto come certo, filosofante non sarebbe.

E costoro non negano che si debbano ritenere innegabili le nozioni che possono essere conosciute con certezza.

Ora il filosofare è qualche cosa. Poiché dunque il filosofante ha scienza del filosofare e ritiene innegabile il filosofare, ne consegue che egli ha scienza di qualche cosa e annette apodissi a qualche cosa.

Che volete di più? Ma indaghiamo anche sull'errore.

Essi affermano che si può evitare con assoluta certezza se l'apodissi non induce il pensiero a qualche enunziazione, Erra, dicono, chiunque formula un giudizio non solo falso, ma anche dubbio, sebbene vero, ma io trovo che ogni conoscenza è dubbia.

Ma il filosofante, come dicevamo, trova lo stesso filosofare.

15.33 - Apodissi e vita pratica

Voi desiderate forse che io abbandoni questo argomento

Ma non si dovrebbero lasciare con tanta facilità le posizioni sicure. Stiamo battendoci con uomini astutissimi.

Tuttavia farò come volete. Ma che devo dire a questo punto? Che cosa? Che cosa mai?

Si deve certamente tornare al vecchio argomento, sul quale anche essi hanno una loro tesi.

Ma non so come comportarmi se mi costringete ad uscire dal mio accampamento.

Dovrò forse invocare le forze ausiliarie dei dotti?

Se con essi non potrò vincere, sarà meno vergognoso esser vinto.

Scaglierò dunque, con quante forze m'è possibile, il piuttosto affumicato e graffiato ma, salvo errore, sempre efficientissimo dardo: Chi non raggiunge apodissi, non agisce ( Sensi Emp., Adv. math. 7, 158 ).

"O individuo villereccio! E il probabile dov'è andato a finire? E il verosimile?".

Questo volevate allora. Udite come risuonano gli scudi ellenici. Hanno ricevuto un colpo molto forte.

Ma con qual mano l'abbiamo lanciato? E questi miei amici non sanno suggerirmi qualche cosa di più valido.

Non abbiamo prodotto, come osservo, neanche una ferita.

Mi volgerò agli argomenti che mi forniscono la villa e la campagna.

I sussidi culturali mi appesantiscono, non mi difendono.

15.34 - Il racconto dell'incredulo e del credulone e l'errore come inganno

Libero da occupazioni, ho meditato a lungo, in questa campagna, come possa il probabile ossia verosimile difendere le nostre azioni dall'errore fino a tal punto.

Dapprima la tesi, come allora quando vendevo chiacchiere, mi sembrò ben coperta e difesa.

In seguito, quando l'ho esaminata più attentamente da ogni lato e nel complesso, mi parve di scoprire un passaggio attraverso il quale l'errore si poteva avventare sui troppo fiduciosi.

Penso in definitiva che non solo va fuori strada chi segue il cammino sbagliato, ma anche chi si astiene dal seguire il retto cammino.

Supponiamo che due viandanti tendano alla medesima meta.

Uno ha deciso di non credere a nessuno e l'altro è fin troppo credulone.

Si giunge a un bivio. Il credulone si rivolge a un pastore o a un contadino presente: "Salve, buon uomo, dicci per favore da qual parte si va per tale località".

Gli si risponde: "Se vai di qua, vai bene". E quegli al compagno: "Dice bene. Andiamo di qua".

Se la ride l'uomo troppo diffidente e motteggia scherzosamente l'altro che tanto facilmente ha creduto.

Frattanto, mentre l'altro se ne va, si ferma al bivio.

Ma comincia ad accorgersi che non è dignitoso arrestarsi.

Ed ecco che dall'altro capo della strada si avvicina un uomo a cavallo.

Ha l'aspetto elegante e piacevole. Il nostro uomo si rallegra. L'altro sopraggiunge ed egli lo saluta.

Poi gli indica la meta che deve raggiungere e chiede il cammino.

Espone anche il motivo del proprio indugio per aggraziarselo col preferirlo al pastore.

Quegli per caso era un ciurmadore, proprio di quelli che ormai il popolo chiama samardoci.

Il farabutto, pur senza vantaggio, si comportò da quel che era.

"Passa di qua, disse, ne vengo io stesso". Ingannò e proseguì.

Ma perché poté essere ingannato quest'uomo?

"Io, disse a se stesso, non accetto l'indicazione come vera, ma come verosimile.

E rimaner qui ozioso non è né onesto né utile, me ne devo andare".

L'altro forse errò reputando vere con tanta disinvoltura le parole del pastore.

Ma intanto, prestando fede, si stava già ristorando nel luogo dove erano diretti.

Costui al contrario non erra perché si fa dirigere dal probabile.

Ma intanto vaga per non so quali selve e non trova più nessuno cui sia noto il luogo prefisso come meta.

Vi confesso sinceramente che non ho potuto trattenermi dal ridere quando ho pensato che nella tesi degli accademici si ha, non saprei come, una insignificanza.

Erra chi, sia pure per caso, tiene il giusto cammino e pare almeno che non erri chi è stato indirizzato, in base a indicazione probabile, per monti senza sentieri e non ha raggiunto la meta prefissa.

E tanto per condannare una ingiustificata apodissi, dico che errano tutti e due anziché dire che questi non erra.

Reso quindi più vigile nei confronti della terminologia accademica, ho cominciato ad esaminare le loro azioni e i loro costumi.

Mi vennero allora in mente molti motivi e così importanti che smisi di ridere, ma sentii in parte nausea ed in parte dolore che uomini assai dotti e intelligenti fossero incorsi in tanta ipocrisia e falsità di pensiero.

16.35 - L'errore come peccato

A ben riflettere infatti, forse non chiunque erra pecca.

Tuttavia si deve ammettere che chiunque pecca commette errore o qualche cosa di peggio.

Mettiamo il caso che un giovane li oda mentre affermano: "È indegno commettere errore, perciò non dobbiamo nulla accettare per apodissi.

Se qualcuno esegue un'azione che gli sembra probabile, non pecca e non erra.

Basta ritenere che ogni oggetto che gli si presenta alla mente ovvero ai sensi non si deve per apodissi accettare come vero".

Il giovane, che ha udite tali cose, insidierà la donna altrui.

Chiedo l'assistenza legale a te, proprio a te, Marco Tullio.

Stiamo trattando dei costumi e della vita dei giovani, alla cui educazione e formazione ( Cicerone, De div. 2, 2, 4 ) è stata rivolta tutta la tua produzione letteraria.

Tu dirai che per te non è probabile il comportarsi del giovane in tal modo.

Ma per lui è probabile. Infatti se regoliamo la vita secondo ciò che è probabile agli altri, anche tu non avresti dovuto amministrare lo Stato.

Ad Epicuro è sembrato che non si dovesse fare. Dunque quel giovane farà adulterio con la donna d'altri.

Se sarà scoperto, dove ti troverà per farsi difendere? Ma anche posto che ti trovasse, che potrai dire? Certamente negherai l'addebito.

E se fosse flagrante da non poterlo negare? Cercherai di persuadere, come hai fatto nell'adunanza di Cuma e ancor più in quella di Napoli, che egli non ha commesso colpa, anzi perfino che non ha errato.

Difatti non ha ritenuto come vero che non si deve commettere adulterio, gli si è presentato soltanto come probabile, l'ha seguito, l'ha commesso.

Ma forse non l'ha commesso, ma ha opinato di averlo commesso.

Il marito, uno sciocco, va scompigliando ogni cosa con processi reclamando il riconoscimento della fedeltà della moglie.

E forse, anche in questo momento, senza averne coscienza certa, sta dormendo con lei.

I giudici, se ben comprenderanno la situazione, o non si cureranno degli accademici e puniranno il reato come veramente commesso, ovvero dando ascolto a loro condanneranno l'uomo in base al criterio di verosimiglianza e probabilità.

Il difensore non saprà più che cosa fare. Non avrà più alcuno con cui prendersela.

Tutti affermeranno di non avere errato dal momento che, senza dare per certo qualche cosa, hanno fatto ciò che ritenevano probabile.

Egli abbandonerà quindi il ruolo di difensore e assumerà quello di filosofo consolatore.

Così potrà agevolmente persuadere il giovane, il quale ormai avrà fatto notevoli progressi nell'Accademia, che si convinca di essere stato condannato in sogno.

Ma voi state pensando che io burli. Potrei giurare per tutti gli dèi che non so proprio come quel tale ha potuto commettere colpa se non la commette chiunque potrà fare ciò che ritiene probabile.

Ma forse dimostreranno che sono completamente diversi l'errare e il peccare, che si sono adoperati con quella teoria a non farci errare e che non hanno tenuto in alcuna considerazione il commettere colpa.

16.36 - Il probabile non ci fa evitare la colpa

Non parlo degli omicidi, parricidi, sacrilegi ed insomma di tutte le trasgressioni e delitti che si possono commettere o pensare e che vengono giustificati con poche parole e, quel che è peggio, davanti a giudici molto saggi.

"Nulla ho accettato per apodissi e quindi non ho errato.

E perché non avrei dovuto fare ciò che m'è sembrato probabile?".

Ma ci potrebbero essere alcuni, i quali ritengano che non si può persuadere col criterio della probabilità a commettere delitti.

Leggano allora il discorso di Catilina, col quale costui rese accettabile il parricidio della patria, scelleratezza che tutte le contiene.

Ma ormai chi non schernirà tale tesi? Essi dicono che nell'agire seguono soltanto il probabile e cercano con impegno la verità sebbene sia per loro probabile che non può essere raggiunta.

Incredibile assurdità! Ma abbandoniamo questo soggetto.

Esso non riguarda noi, la norma del nostro vivere, la problematicità del nostro destino.

Ciò che è fondamentale, angoscioso e temibile da ogni uomo onesto è che egli può commettere, senza condannare non solo il delitto ma neanche l'errore, qualsiasi colpa se sarà probabile la tesi del dover compiere l'azione che ad ognuno sembra probabile.

Basta che nulla si accetti come vero. "E allora? Ma costoro non hanno riflettuto su tali cose?".

Anzi vi hanno riflettuto con molta capacità e accortezza.

Diversamente io non avrei osato per nessun motivo seguire in certi limiti Marco Tullio per la sua capacità, diligenza, ingegno ed insegnamento.

Tuttavia, mentre egli afferma che l'uomo non può avere, scienza di qualche cosa, non avrebbe nulla da ribattere se gli si obiettasse soltanto: "Ho scienza di opinare così".

Esame critico storico: l'esoterismo dell'Accademia ( 17,37 - 19,41 )

17.37 - Formazione e dottrina di Platone

Perché dunque uomini tanto eccellenti insegnarono con dispute interminabili ed ostinate l'opinione che all'uomo non spetta scienza del vero?

Ascoltate ancora per un po' non una mia conoscenza precisa ma una mia teoria in proposito.

Ho lasciato l'argomento per ultimo allo scopo di spiegare, se m'è possibile, la mia opinione sul modo di pensare degli accademici.

Platone fu l'uomo più sapiente e colto del suo tempo e parlò in maniera da render grandi le teorie che esponeva e ne espose di tali che, comunque le avesse esposte, non sarebbero divenute piccole.

Si dice che dopo la morte di Socrate suo maestro, che aveva amato in maniera singolare, aveva appreso anche molte idee dai Pitagorici.

Ora Pitagora non era pienamente soddisfatto della filosofia greca che allora era pressoché inesistente o per lo meno era molto segreta.

Quindi era stato convinto dalle dispute di un certo Ferecide siriaco a creder nell'immortalità dell'anima.

Aveva in seguito udito molti filosofi viaggiando in varie parti.

Si dice dunque che Platone associò alla finezza e perspicacia di Socrate sui problemi morali la conoscenza di cose naturali e divine che aveva derivato con assidua applicazione dagli anzidetti filosofi.

Vi aggiunse la dialettica quasi creatrice e ordinatrice di quelle parti in maniera che essa s'identificasse con la filosofia e fosse tale che senza di essa non si desse filosofia.

Diede dunque una perfetta sistemazione alla disciplina filosofica. Ma ora non è opportuno discuterne.

È sufficiente al mio intento che Platone ha ideato l'esistenza di due mondi: uno intelligibile nel quale sussiste la verità stessa, e questo sensibile che noi, com'è manifesto, percepiamo con la vista e il tatto, quello vero e questo simile al vero e prodotto come immagine di quello.

Di conseguenza da quello la verità si partecipa tersa e limpida, per così dire, nell'anima che conosce se stessa e da questo, al contrario, non la scienza ma l'opinione può essere determinata nell'anima degli indotti.

Ne conseguiva che può essere considerato soltanto verosimile tutto ciò che si compie in questa vita con l'esercizio delle virtù che definiva civili, simili alle vere virtù note soltanto a pochi sapienti.

17.38 - Gli scolarchi Polemone, Arcesila, l'esoterismo e Zenone

Ritengo che tali dottrine ed altre simili furono conservate esclusivamente tra i suoi successori, per quanto possibile, e difese con dottrina esoterica.

Infatti o esse non sono intese agevolmente se non da coloro che, purificandosi da tutti i vizi, si ritraggono in una specie di associazione di spiriti eletti ovvero non commette grave colpa chi conoscendole le vorrà insegnare a qualsiasi uomo.

Ed ecco la mia ipotesi. Zenone, capo degli Stoici, entrò nella scuola fondata da Platone e allora diretta da Polemone dopo che era stato uditore e seguace di alcuni filosofi.

Ma fu ritenuto sospetto e non stimato tale che gli si potessero liberamente manifestare e affidare come leggi sacre le dottrine platoniche.

Prima doveva dimenticare le teorie che, derivate da altri, aveva introdotto nell'Accademia.

Muore Polemone e gli succede Arcesila, condiscepolo di Zenone mentre era uditore di Polemone.

Zenone stava formulando una sua tesi sul mondo ed in particolare sull'anima, a favore della quale veglia la vera filosofia.

Affermava che essa è mortale e che non v'è se non questo mondo sensibile e che in esso non si compie attività alcuna se non mediante il corpo.

Pensava perfino che anche Dio fosse fuoco. Il male cominciava a diffondersi.

Mi pare quindi attendibile che Arcesila, con singolare avvedutezza e capacità organizzativa, occultasse del tutto la vera dottrina dell'Accademia e che la sotterrasse come oro da trovarsi più tardi dai posteri.

Ora la moltitudine è più incline a cadere in false opinioni e per il continuo contatto con la materia si finisce col credere, facilmente ma dannosamente, che tutte le cose siano corporee.

Egli dunque, uomo assai intelligente e colto, decise di far disimparare piuttosto a coloro che doveva tollerare come male istruiti anziché fare imparare a coloro che reputava meno capaci d'istruirsi.

Da qui provennero tutte le tesi che si attribuiscono alla Nuova Accademia. I predecessori non ne avevano bisogno.

17.39 - Carneade scolarca e Crisippo

Che se Zenone, svegliatosi una buona volta, si fosse accorto che nulla si può rappresentare come vero se non è un oggetto tale quale egli definiva e che questo oggetto non può essere del mondo sensibile, cui egli tutto riduceva, da tempo sarebbero cessate completamente le discussioni di tal genere.

Erano divampate per vera necessità. Ma Zenone, ingannato dallo specioso pretesto della coerenza di pensiero, come ritenevano gli accademici ed io anche, fu ostinato e la sua dannosa teoria materialistica si trasmise a Crisippo.

Questi era assai capace. Le avrebbe quindi potuto conferire grande energia di più larga diffusione se da quella parte non gli avesse resistito Carneade, più rigido e vigile di tutti i predecessori.

Mi meraviglio anzi come la dottrina stoica possa essere rimasta in vita negli anni successivi.

Carneade prima di tutto, perché non sembrasse che voleva ribattere quasi per ostentazione tutte le affermazioni degli altri, abbandonò il sistema sfrontato della diatriba.

A causa di essa vedeva infamato, e non poco, Arcesila. Si propose comunque di sconvolgere e abbattere gli stoici e Crisippo.

18.40 - La vita pratica e il probabilismo di Carneade

In seguito fu attaccato da ogni parte col motivo che se non v'è nulla di accettabile, il saggio non avrebbe agito.

Ed egli, uomo ammirevole e nel contempo non ammirevole se si pensa che proveniva dalle sorgenti di Platone, esaminò filosoficamente quali azioni coloro ritenevano morali.

Vedendole simili alle vere, non saprei quali, denominò verosimile la norma dell'agire in questa vita.

Ma sapeva per dottrina e occultava per prudenza a quale cosa fosse simile e parlava anche di probabile.

Considera facilmente probabile la copia chiunque ne intuisce il modello.

Il filosofo non può infatti approvare o seguire il simile al vero se ignora che c'è il vero in sé.

Quindi essi conoscevano e ritenevano probabili le false apparenze, nelle quali scorgevano una notevole imitazione delle cose vere.

Ma non era né permesso né facile manifestare il concetto agli altri considerati profani.

Lo lasciarono quindi ai posteri e ai contemporanei cui fu possibile come un distintivo della loro dottrina.

Ed evitavano gli altri, ferrati dialettici, accusandoli con scherno di far questione di parole.

E per questo si dice che Carneade fu capo e fondatore anche della Terza Accademia.

18.41 - I fati della Nuova e Nuovissima Accademia con Cicerone e Antioco

In seguito la lotta, ormai esauritasi del tutto, continuò fino al nostro Tullio, quasi a render tronfia con l'estremo anelito la letteratura latina.

Mi sembra infatti che non si dia discorso più tronfio di quello di uno scrittore, il quale, con tanta profusione ed eleganza, espone molte dottrine e la pensa diversamente.

Tuttavia da tali venti abbastanza, a mio avviso, fu spazzato via e disperso il celebre platonico di paglia Antioco.

I greggi degli epicurei intanto avevano costruito negli animi degli individui dediti al piacere degli stazzi esposti al sole.

Antioco era stato uditore di Filone, uomo, a mio avviso, molto accorto, il quale aveva cominciato ad aprire le porte ai nemici costretti alla resa e a richiamare all'autorità di Platone le leggi dell'Accademia.

Aveva già tentato di fare altrettanto Metrodoro. Questi, si dice, per primo manifestò che gli accademici non per tematica propria avevano insegnato che non si dà rappresentazione del vero, ma per necessità avevano usato simili armi contro gli stoici.

Or dunque Antioco, avevo iniziato a dirlo, uditi l'accademico Filone e lo stoico Mnesarco, aveva fatto irruzione come cittadino e soccorritore, nella Vecchia Accademia priva, per così dire, di difensori e tranquilla per mancanza di nemici.

Vi aveva diffuso dalle ceneri degli stoici non saprei quale contagio che violava il santuario di Platone.

Ma riafferrate le vecchie armi resisté Filone fino alla morte e il nostro Tullio distrusse quanto rimaneva.

Non tollerava che, lui vivo, fosse insozzato e contaminato ciò che aveva amato.

Così da quell'epoca dopo non molto tempo cessarono l'ostinatezza e la caparbietà.

La parola di Platone, la più pura e limpida in filosofia, fugate le nubi dell'errore, tornò a risplendere soprattutto in Plotino.

Egli, filosofo platonico, fu giudicato tanto simile al maestro da sembrare che fossero contemporanei, ma è tanto l'intervallo di tempo da far ritenere che il primo si sia reincarnato nel secondo.

Filosofia e rivelazione ( 19,42 - 20,43 )

19.42 - Lo stato della filosofia al tempo di Agostino

Oggi quasi non notiamo più filosofi se si eccettuano cinici, peripatetici e platonici.

I cinici sono coloro che hanno una concezione materialistica ed edonistica della vita.

Per quanto riguarda la concezione intellettualistica e quella spiritualistica dell'anima, non sono mancati uomini assai perspicaci e studiosi, i quali hanno affermato che Aristotele e Platone, nell'esposizione della loro dottrina, sono stati così concordi che soltanto agli ignoranti e meno perspicaci possono sembrare discordi.

Quindi attraverso molti secoli e molte controversie è stato, a mio avviso, configurato un comune insegnamento della vera filosofia.

Essa infatti non è filosofia del mondo sensibile, che le nostre sacre Scritture giustamente detestano, ma di un mondo sovrasensibile.

Ma ad esso questa profonda speculazione non richiamerebbe le anime, accecate dalle multiformi tenebre dell'errore e rese dimentiche da un cumulo di scorie corporee, se il sommo Dio per benevolenza verso la massa, non avesse abbassato e calato l'autorità dell'intelligenza divina all'umana sensibilità.

Le anime, mosse non solo dal suo insegnamento ma anche dalle sue opere, sono potute tornare in sé e ricordarsi della patria anche senza il concerto delle filosofie.

20.43 - Fede ragione e l'esperienza di Agostino

Io mi sono fatto, frattanto opinativamente, come m'è stato possibile, questa opinione degli accademici.

Se è falsa, non m'importa. Mi basta ormai di non ritenere pregiudizialmente che la verità non può esser raggiunta dall'uomo.

Chiunque poi pensa che tale fu la tesi degli accademici, ascolti lo stesso Cicerone.

Ha detto che fu loro usanza occultare la propria dottrina e che erano abituati a non manifestarla ad alcuno a meno che fino alla vecchiaia non fosse vissuto con loro ( Cicerone, Varro, fr. 35 t. A ).

Quale fosse, Dio lo sa. Penso che fosse quella di Platone.

E poiché in poche parole conosciate ogni mia intenzione, vi manifesto che, qualsivoglia sia il contenuto dell'umana filosofia, sono consapevole di non averla ancora raggiunta.

Ma ho appena trentatré anni, ritengo quindi di non dover disperare di raggiungerla alfine.

Disprezzate comunque tutte le altre cose che i mortali reputano beni, mi sono proposto di attendere alla sua ricerca.

E poiché i ragionamenti degli accademici mi distoglievano da tale occupazione, con questa disputa, a mio avviso, mi sono abbastanza premunito contro di essi.

Tutti sanno che noi siamo stimolati alla conoscenza dal duplice peso dell'autorità e della ragione.

Io ritengo dunque come certo definitivamente di non dovermi allontanare dall'autorità di Cristo perché non ne trovo altra più valida.

Riguardo poi a ciò che si deve raggiungere col pensiero filosofico, ho fiducia di trovare frattanto, nei platonici, temi che non ripugnano alla parola sacra.

Tale è infatti la mia attuale disposizione che desidero di apprendere senza indugio le ragioni del vero non solo con la fede ma anche con l'intelligenza".

Conclusione ( 20,44 - 45 )

20.44 - La resa finale e la lode di Alipio uditore anziano

I miei giovani uditori a questo punto si accorsero che avevo terminato di parlare.

Era già notte e qualche parte del discorso era stata trascritta al lume della lucerna.

Attendevano tuttavia, con lo sguardo fisso, se Alipio intendeva rispondere magari in un altro giorno.

Ma egli disse: "Sono disposto ad affermare che giammai da una discussione ho tratto tanto vantaggio quanto dal fatto che rimango sconfitto nell'attuale disputa.

Ne renderò partecipi anche voi, commilitoni miei e giudici nostri.

Forse anche gli accademici hanno desiderato talora di essere sconfitti dai posteri a queste condizioni.

Infatti non si sarebbe potuto presentare o far udire a noi un discorso più piacevole per l'eleganza del dire, più ponderato per la serietà delle opinioni, più improntato all'umanità, più profondo in dottrina.

Non riesco ad ammirare, come converrebbe, il fatto che i problemi che richiedevano asprezza sono stati trattati con tanta buona grazia, quelli difficili nella soluzione con tanto vigore, quelli polemici con tanta moderazione, quelli oscuri con tanta chiarezza.

Quindi ormai, o miei alleati, mutate l'attesa, con cui m'incitavate alla risposta, in una più fondata speranza d'apprendere assieme a me.

Abbiamo una guida che può introdurci, con l'aiuto di Dio, nell'arcano santuario della verità".

20.45 - Allievi troppo diligenti

Essi mostrarono dal viso, con una specie di fanciullesco disappunto, d'essere quasi stati defraudati.

Era chiaro che Alipio non intendeva rispondere. Dissi allora sorridendo: "Siete invidiosi delle lodi tributatemi?

Ma poiché, sicuro della costanza di Alipio, non lo temo affatto, vi armo contro di lui che ha deluso la vostra viva attesa affinché anche voi mi ringraziate.

Leggete Gli Accademici e vi riscontrerete che Cicerone ribatte vittoriosamente le bagatelle da me esposte.

È un'impresa estremamente facile. Ma Alipio sia costretto a difendere il nostro discorso contro quella dimostrazione insuperabile.

O Alipio, ti offro una spiacevole ricompensa in cambio della falsa lode tributatami".

Scoppiarono a ridere. Così ponemmo fine al lungo dibattito.

Era stato condotto non saprei se su solide basi, ma con maggiore moderazione e prestezza di quanto avessi sperato.

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