Padri/Agostino/DonoPers/DonoPers.txt Il dono della perseveranza A Prospero ed Ilario 1.1 - La perseveranza fino alla fine Ora è giunto il momento di trattare con maggior cura della perseveranza, dato che già nel libro precedente, discutendo dell'inizio della fede, abbiamo introdotto il discorso su quest'argomento. Dunque noi sosteniamo che la perseveranza con la quale si persevera in Cristo fino alla fine è un dono di Dio, e intendo parlare della fine che pone termine a questa vita, che è la sola nella quale esista il pericolo di cadere. Ciò premesso, è incerto se un individuo abbia ricevuto tale dono, finché resta in questa vita. Se infatti egli cade prima di morire, si dice che non ha perseverato, e lo si dice con tutta verità. Come si potrà sostenere che ha ricevuto o posseduto la perseveranza chi non ha perseverato? Infatti se uno ha la continenza, ma se ne distacca e diventa incontinente, a buon diritto si dice che ha avuto questo dono e che non l'ha più; e lo stesso discorso vale per la giustizia, per la pazienza, per la fede stessa; costui fu continente, o giusto, o paziente, o fedele, finché lo fu, ma quando cessò di esserlo, non è più quello che era. Invece chi non ha perseverato, come ha potuto essere perseverante, dal momento che solo perseverando uno si dimostra perseverante, cosa che appunto costui non fece? Ma poniamo il caso che qualcuno abbia un'opinione diversa e dica: Se dal momento in cui uno è diventato credente, è vissuto, per esempio, dieci anni e alla metà di questo periodo è venuto meno nella fede, non avrà forse perseverato cinque anni? Se uno pensa che si debba chiamare perseveranza anche quella, dato che per un certo periodo è durata, non voglio stare a discutere sulle parole. Ma in nessuna maniera si potrà dire che colui che non ha perseverato fino alla fine abbia avuto la perseveranza della quale parliamo ora, cioè quella con la quale si persevera in Cristo fino alla fine. Al contrario, questa seconda l'ha posseduta chi è stato credente un anno solo, o per un periodo tanto breve quanto è possibile immaginare, se però è vissuto credente finché non è morto; e non l'ha avuta piuttosto chi è stato credente per molti anni, ma è venuto meno alla saldezza della fede un breve momento prima della morte. 2.2 - È un dono di Dio: testimonianza della Scrittura Stabilito ciò, vediamo se sia un dono di Dio questa perseveranza della quale è detto: Chi avrà perseverato fino alla fine, questo sarà salvo. ( Mt 10,22 ) E se questo non è vero, come potrà essere vero quello che dice l'Apostolo: A voi è stato donato per favore di Cristo non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui? ( Fil 1,29 ) Una di queste due azioni riguarda un inizio, l'altra una fine, ma l'una e l'altra sono un dono di Dio perché sia dell'una che dell'altra si dice che è stata donata, come abbiamo affermato già anche in precedenza. Quale può essere infatti il più autentico inizio per un cristiano se non il credere in Cristo? Quale fine è migliore che patire per Cristo? Per ciò che riguarda il credere in Cristo, è stata escogitata ogni sorta di contraddizione e si è detto che dono di Dio non è l'inizio, ma l'accrescimento della fede; e a questa opinione il Signore ci ha concesso di rispondere più che abbastanza. Ma se a uno è donato di soffrire per Cristo, oppure, arriviamo a questa ipotesi, è donato di morire per Cristo, che motivo troveremo per dire che non gli viene donata in Cristo la perseveranza fino alla fine? Infatti anche l'apostolo Pietro dimostra che questo è un dono di Dio col dire: Se lo richiede la volontà di Dio, è meglio soffrire facendo il bene che facendo il male. ( 1 Pt 3,17 ) Quando afferma: Se lo richiede la volontà di Dio, dimostra che il soffrire per Cristo viene donato per opera divina, e non a tutti i santi. Non è che quelli a cui la volontà di Dio non richiede di arrivare alla prova e alla gloria della passione, non arrivino al regno di Dio, anche se perseverano in Cristo fino alla fine. Chi potrebbe dire che non viene donata la perseveranza a coloro che muoiono in Cristo per malattia o per un qualsiasi accidente? Però è vero che una perseveranza ben più difficile viene donata a coloro che affrontano per Cristo la morte stessa. Sì, è più difficile avere il primo che il secondo genere di perseveranza; ma per Colui a cui nulla è difficile, è facile donare sia l'una che l'altra. È questa che Dio promise quando disse: Donerò il timore di me al loro cuore perché non si allontanino da me. ( Ger 32,40 ) Che altro significa la frase se non questo: Il timore verso di me che io metterò nel loro cuore sarà tale e tanto che rimarranno attaccati a me con perseveranza? 2.3 - Testimonianza della preghiera E poi perché si dovrebbe chiedere a Dio questa perseveranza, se non è concessa da lui? Non sarebbe forse una richiesta beffarda, se si pregasse dal Signore quello che si sa che Egli non concede, e che quindi, se non è lui a concederlo, è in potestà degli uomini? Così pure sarebbe una beffa e non un rendimento di grazie, se si rendesse grazie a Dio di una cosa che Egli non ha donato né compiuto. Ma quello che ho detto precedentemente lo ripeto anche adesso: Non ingannatevi, dice l'Apostolo, non ci si può prendere gioco di Dio. ( Gal 6,7 ) O uomo, Dio è testimone non solo delle tue parole, ma anche dei tuoi pensieri; se chiedi con sincerità e fede qualcosa all'immensa ricchezza di lui, devi credere di ricevere quello che chiedi da Colui a cui lo chiedi. Non onorarlo con le labbra mentre in cuore t'innalzi sopra di lui, nella convinzione che tu possiedi da te stesso quello che fingi di pregare da lui. O forse non sarà vero che questa perseveranza si richiede a lui? Chi sostiene ciò non ha bisogno di essere confutato dalle mie argomentazioni, ma piuttosto d'essere caricato delle preghiere dei santi. Ce n'è forse uno fra di essi che non chieda a Dio di perseverare in lui? Nella stessa preghiera che è detta domenicale, perché fu il Signore ad insegnarcela, quando i santi pregano si capisce che praticamente non chiedono quasi altro che la perseveranza. 2.4 - L'orazione domenicale. Sia santificato il tuo nome Leggete con attenzione ben desta il commento a questa preghiera nel libro che ha composto su questo argomento il beato martire Cipriano e che ha per titolo: L'orazione domenicale e vedete quale antidoto era stato preparato tanto precocemente contro i futuri veleni dei pelagiani. Infatti tre sono i punti, come sapete, che con ogni energia la Chiesa cattolica difende contro di loro. Il primo è che la grazia di Dio non viene data secondo i nostri meriti, perché anche tutti i meriti dei giusti sono doni di Dio e per grazia di Dio sono conferiti; il secondo è che, per quanto grande sia la sua giustizia, nessuno può vivere in questo corpo corruttibile senza qualche forma di peccato; infine il terzo è che ogni individuo nasce colpevole del peccato del primo uomo e stretto nel vincolo della condanna, a meno che la colpa che si contrae con la generazione non sia eliminata dalla rigenerazione. Di questi tre argomenti solo quello che ho posto per ultimo non è trattato nel libro del glorioso martire che ho già citato; ma degli altri due si tratta lì con tanta chiarezza che gli eretici che abbiamo nominato, nuovi nemici della grazia di Cristo, si trovano confutati prima ancora di essersi rivelati. Dunque fra questi meriti dei santi che nulla sono se non doni di Dio, egli sostiene che anche la perseveranza lo è con le parole seguenti: Noi diciamo: "Sia santificato il nome tuo", non perché esprimiamo a Dio il desiderio che Egli sia santificato nelle nostre preghiere, ma perché gli chiediamo che il suo nome sia santificato in noi. D'altronde da chi potrebbe essere santificato Dio, se è lui che santifica? Ma poiché è lui che ha detto: "Siate santi, perché anch'io sono santo", ( Lv 19,2 ) lo imploriamo e lo preghiamo affinché, come siamo stati santificati nel battesimo, perseveriamo in quello che abbiamo cominciato ad essere. E poco dopo il martire, trattando ancora di questo stesso argomento e insegnandoci a chiedere al Signore la perseveranza, cosa che in nessun modo potrebbe fare rettamente e sinceramente se non fosse anche questo un dono di Dio, dice: Preghiamo perché questa santificazione permanga in noi; e poiché il Signore e giudice nostro ammonisce severamente chi è stato risanato e vivificato da lui a non cadere più in colpa perché non gli accada qualcosa di peggio, ( Gv 5,14 ) rivolgiamo questa supplica con continue preghiere, questo preghiamo di giorno e di notte, che la santificazione e la restituzione alla vita che si riceve dalla grazia di Dio sia conservata dalla sua protezione. Allora il nostro dottore intende che noi chiediamo a Dio la perseveranza nella santificazione, in altre parole che noi perseveriamo nella santificazione, quando da santificati diciamo: Sia santificato il tuo nome. ( Mt 6,9 ) Che può significare il chiedere ciò che abbiamo ricevuto, se non che ci sia concesso anche questo, che non cessiamo di possederlo? Allo stesso modo un santo, quando prega Dio di essere santo, certo è questo che chiede, di rimanere santo; così pure sarà anche per chi è casto quando prega di essere casto, per chi è continente quando prega di essere continente, per chi è giusto quando prega di essere giusto, per chi è pio quando prega di essere pio; e così via per le altre virtù che noi contro i pelagiani sosteniamo essere doni di Dio. Questo senza dubbio chiedono tutti, di perseverare in quei beni che sanno di aver ricevuto. E se ricevono questa concessione, certo ricevono anche la perseveranza, grande dono di Dio con il quale si conservano tutti gli altri suoi doni. 2.5 - Venga il tuo regno E poi? Quando diciamo: Venga il tuo regno, ( Mt 6,10 ) nient'altro chiediamo se non che venga anche per noi quel regno che senza possibilità di dubbio verrà per tutti i santi. Dunque quelli che già sono santi che cosa chiedono con questa frase, se non che rimangano in quella santità che è stata loro concessa? Infatti solo così verrà per loro il regno di Dio, che sicuramente verrà non per altri, ma per quelli che perseverano fino alla fine. 3.6 - Sia fatta la tua volontà in cielo e in terra La terza richiesta è: Sia fatta la tua volontà in cielo e in terra, ( Mt 6,10 ) oppure, come si legge in parecchi codici, e più frequentemente si usa da parte di chi prega, come in cielo così in terra. I più intendono la frase così: come i santi angeli, facciamo anche noi la tua volontà. Ma quel dottore e martire vuole che s'intenda per cielo e terra lo spirito e la carne, e pensa che noi chiediamo di fare la volontà di Dio nell'accordo dell'una e dell'altra. Egli scorse in queste parole anche un altro senso in sintonia con la fede più sana, e anche di questo abbiamo già parlato sopra; si dovrebbe intendere così: i credenti, che non immeritatamente sono chiamati con il nome di cielo per aver già rivestito l'uomo celeste, pregano per i non credenti che sono ancora terra, poiché portano con la prima nascita solamente l'uomo terreno. E qui dimostra con evidenza che anche l'inizio della fede è un dono di Dio; in effetti la santa Chiesa prega non solo per i credenti, perché in essi si accresca o perseveri la fede, ma anche per i non credenti, perché comincino ad avere la fede che non avevano affatto o che nel loro cuore addirittura avversavano. Però adesso discutiamo non dell'inizio della fede, di cui abbiamo detto già tanto nel libro precedente, ma di quella perseveranza che dobbiamo conservare fino alla fine e che chiedono indubbiamente anche i santi che fanno la volontà di Dio, quando dicono nella preghiera: Sia fatta la tua volontà. Ma se è già stata fatta in essi, perché chiedono ancora che si faccia, se non per avere perseveranza in quello che hanno cominciato ad essere? Benché a questo punto si potrebbe obiettare: i santi non chiedono che la volontà di Dio sia fatta in cielo, ma che sia fatta in terra come in cielo, vale a dire, che la terra imiti il cielo, cioè l'uomo imiti l'angelo o il non credente il credente; e per questo i santi chiedono che si effettui ciò che ancora non è, non che continui ad essere ciò che già è. Per quanto grande sia la santità di cui gli uomini si possono avvalere, non sono ancora uguali agli angeli di Dio; dunque in essi la volontà di Dio non si compie ancora come in cielo. E se è così, allora quando auspichiamo che gli uomini da non credenti si facciano credenti, si vede che ad essere auspicata non è la perseveranza, ma il suo inizio; quando invece auspichiamo che gli uomini nel fare la volontà divina eguaglino gli angeli di Dio, se a pregare così sono i santi, è evidente che questa loro preghiera ha per oggetto la perseveranza, perché nessuno perviene a quella somma beatitudine che è nel Regno, se non ha perseverato fino alla fine in quella santità che ha acquistato sulla terra. 4.7 - Dacci il nostro pane quotidiano La quarta richiesta è: Dacci oggi il nostro pane quotidiano. ( Mt 6,11 ) Il beato Cipriano dimostra come anche in questa frase si deve scorgere una domanda di perseveranza. Dice appunto tra l'altro: Chiediamo che ci sia dato ogni giorno questo pane affinché, noi che siamo in Cristo e ogni giorno riceviamo l'Eucaristia come cibo della salvezza, non siamo separati dal corpo di Cristo, come avverrebbe se un peccato piuttosto grave sopraggiungendo ci proibisse il pane celeste, costringendoci all'astensione ed escludendoci dal partecipare. Queste parole del santo uomo di Dio indicano pienamente che i santi chiedono al Signore la perseveranza, perché dicono: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, con questa intenzione: che non siano separati dal corpo di Cristo, ma rimangano in quella santità e grazie ad essa non commettano alcuna colpa che meriti loro la separazione. 5.8 - Rimetti a noi i nostri debiti Al quinto passo dell'orazione diciamo: Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. ( Mt 6,12 ) In questa sola richiesta non si trova domandata la perseveranza. Infatti i peccati che preghiamo ci siano rimessi sono ormai trascorsi; la perseveranza, che ci fa salvi in eterno, è necessaria certo per il tempo di questa vita, ma per quello che deve ancora trascorrere fino al termine di essa, non per quello ormai passato. Eppure vale la pena di osservare un poco come anche in questa richiesta gli eretici, che dovevano venire tanto tempo dopo, erano trafitti già fin d'allora dalla lingua di Cipriano come dalla freccia invincibile della verità. I pelagiani infatti osano dire anche questo, che l'uomo giusto in questa vita non ha assolutamente alcun peccato e che in uomini tali si trova fin d'ora la Chiesa che non ha macchia o ruga o alcun'altra menda ( Ef 5,27 ) di tal genere, che è unica e sola sposa di Cristo; come se non fosse sua sposa quella che dice per tutta la terra ciò che ha appreso da lui: Rimetti a noi i nostri debiti. Ma badate come li sbaraglia il gloriosissimo Cipriano. Esponendo questo stesso luogo dell'orazione domenicale, dice tra l'altro: Quanto è indispensabile, quanto è provvido e salutare il ricordarci che noi siamo peccatori, se veniamo costretti a pregare per i nostri peccati; in tal modo mentre chiede l'indulgenza a Dio, l'animo richiama la propria coscienza. Perché nessuno si compiaccia come fosse innocente e con l'inorgoglirsi si procuri maggior rovina, lo si ammaestra e gli s'insegna che egli ogni giorno pecca, dato che ogni giorno gli si ordina di pregare per i suoi peccati. Così anche Giovanni dice nella sua Lettera: "Se diciamo che non abbiamo alcun peccato, inganniamo noi stessi e in noi non è la verità", ( 1 Gv 1,8 ) e tutto quello che segue che qui sarebbe lungo riportare. 5.9 - Non spingerci in tentazione Ma quando i santi dicono: Non c'indurre in tentazione, ma liberaci dal male, ( Mt 6,13 ) che altro pregano se non di perseverare nella santità? Una volta concesso loro questo dono di Dio ( infatti se è a Dio che viene chiesto, ciò dimostra a sufficienza e con chiarezza che è un suo dono), una volta concesso dunque questo dono di non essere indotti in tentazione, non ci sarà nessuno fra i santi che non mantenga fino alla fine la perseveranza nella santità. E nessuno cessa di perseverare nella vita cristiana che si propone se prima non è gettato in tentazione. Se dunque gli viene concesso quello che prega, di non venir abbandonato alla tentazione, persiste per dono di Dio nella santificazione che ha ricevuto per dono di Dio. 6.10 - Obiezione: non bisogna esporre una simile perseveranza Ma questi fratelli - come voi scrivete - non vogliono che la perseveranza sia esposta in maniera da far credere che non si possa o meritarla pregando o perderla ribellandosi. E su questo punto non fanno molta attenzione a quello che dicono. Infatti parliamo di quella perseveranza con la quale si persevera fino alla fine; se questa è stata data, vuol dire che uno ha perseverato fino alla fine; ma se non ha perseverato fino alla fine, vuol dire che essa non era stata data. E di questo ormai abbiamo trattato abbastanza più sopra. Dunque gli uomini non sostengano che a qualcuno sia stata data la perseveranza fino alla fine se non quando sarà giunta proprio la fine e si sarà trovato che quello a cui era stata data ha perseverato fino a quel punto. Noi diciamo casto quello che conosciamo come casto, sia che debba sia che non debba rimanere nella medesima castità; e se uno ha qualche dono divino che si possa conservare o perdere, diciamo che lo possiede per tutto il tempo che lo possiede; se poi lo perde, diciamo che lo ha posseduto. La perseveranza fino alla fine invece, poiché non la possiede se non chi persevera fino alla fine, molti la possono avere, nessuno perdere. E non bisogna temere che, quando un uomo abbia perseverato fino alla fine, possa sorgere in lui una volontà malvagia di non perseverare fino alla fine. Questo dono di Dio si può meritare con la preghiera, ma una volta che è stato dato, non si può perdere con la ribellione. Quando infatti uno abbia perseverato fino alla fine, non può né perdere questo dono né altri che avrebbe potuto perdere prima della fine. Allora come si può perdere quello che impedisce di perdere anche ciò che è possibile perdere? 6.11 - Risposta Ma ammettiamo che uno dica: La perseveranza fino alla fine certo non si perde, una volta che è stata data, cioè quando si è perseverato fino alla fine, ma in un certo qual modo si può perdere allora, quando l'uomo con la ribellione agisce in modo da non poter arrivare a questa perseveranza. Alla stessa maniera diciamo che l'uomo che non ha perseverato fino alla fine ha perduto la vita eterna, o il regno di Dio, non perché lo aveva ricevuto e lo possedeva, ma perché lo avrebbe ricevuto e posseduto se avesse perseverato. Allora non stiamo a fare questione di termini e diciamo che si può perdere anche qualcosa che non si ha, ma che si pensa doversi avere. Ma mi dica, chi ne ha il coraggio, se Dio non ha la possibilità di dare quello che ha ordinato di chiedergli. Certo chi intende così è, non dico insensato, ma dissennato. Ma Dio ha comandato che i suoi santi dicano pregando: Non c'indurre in tentazione. ( Mt 6,13 ) Chiunque è esaudito in questa richiesta, non è indotto nella tentazione di ribellarsi, così che possa perdere o si renda degno di perdere la perseveranza nella santità. 6.12 - Altre testimonianze della Scrittura Ma ciascuno abbandona Dio di propria volontà e così merita di essere abbandonato da Dio. E chi lo potrà negare? Ma è per questo che chiediamo di non essere indotti in tentazione, perché l'abbandono non avvenga. E se siamo esauditi, questo certo non avviene, perché Dio non permette che avvenga. Infatti niente avviene se non quello che è lui stesso a compiere o a permettere che si compia. Egli infatti ha potere di flettere le volontà dal male al bene, di rivolgerle a sé quando propendono alla caduta e di dirigerne il passo dove a lui piace. A lui non si dice invano: O Dio, tu convertendoci, ci vivificherai; ( Sal 85,7 ) non si dice invano: Non permettere che il mio piede traballi; ( Sal 66,9 ) no, non si dice invano: Non abbandonarmi, Signore, in seguito al mio desiderio, al peccatore. ( Sal 140,9 ) Insomma, per non ricordare troppi passi, e forse a voi ne vengono in mente anche di più, non si dice invano: Non indurci in tentazione. ( Mt 6,13 ) Infatti chiunque non è indotto in tentazione, certo non è nemmeno spinto nella tentazione della sua volontà malvagia; e chi non è indotto nella tentazione della sua volontà malvagia, non è spinto proprio in nessuna fra le tentazioni. Ognuno è tentato perché attratto ed allettato dalla propria concupiscenza, come sta scritto, ma Dio non tenta nessuno: ( Gc 1,14 ) s'intende con una tentazione pericolosa. Infatti ce n'è una utile, dalla quale non siamo ingannati o sopraffatti, ma veniamo messi alla prova, secondo quanto è detto: Mettimi alla prova, Signore, e tentami. ( Sal 26,2 ) La tentazione che rovina è quella che indica l'Apostolo quando dice: Che non vi avesse tentati colui che tenta, e inutile sia la nostra fatica. ( 1 Ts 3,5 ) Con questa tentazione Dio, come dissi, non tenta nessuno, cioè Egli nessuno spinge o induce alla tentazione. Infatti essere tentato e non essere abbandonato alla tentazione, non è un male, anzi è un bene: è un venir messi alla prova. Dunque quello che diciamo a Dio: Non spingerci in tentazione, che significa se non questo: non permettere che vi siamo spinti? Per cui alcuni pregano così, così si legge in parecchi codici e così scrive il beatissimo Cipriano: Non permettere che noi siamo indotti in tentazione. Tuttavia nel Vangelo in greco non ho mai trovato se non questa espressione: Non spingerci in tentazione. Dunque viviamo più sicuri se diamo tutto a Dio, invece di affidarci a lui in parte e in parte a noi stessi, come vide questo venerabile martire. Esponendo lo stesso passo della preghiera, dice in seguito: Quando preghiamo di non venire in tentazione, ci viene ricordata la nostra debolezza e insufficienza, mentre preghiamo che nessuno insuperbisca con insolenza, nessuno si attribuisca alcunché con superbia ed arroganza, nessuno consideri sua la gloria della confessione di fede o della passione. Il Signore stesso, insegnando l'umiltà ha detto: "Vegliate e pregate per non venire in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole"; ( Mt 26,41 ) questo vuol dire che se precede un'umile e sottomessa confessione e si dà tutto a Dio, tutto ciò che viene chiesto pregando nel timore del Signore viene fornito dalla sua pietà. 7.13 - Sarebbe sufficiente l'orazione domenicale Se anche non ci fossero altre testimonianze, questa orazione domenicale basterebbe da sola alla causa della grazia che noi sosteniamo, perché nulla essa ci ha lasciato in cui ci possiamo gloriare come fosse nostro. In realtà anche il fatto di non allontanarci dal Signore l'orazione dimostra che non viene concesso se non da Dio, poiché dichiara che a Dio dev'essere chiesto. Chi non è abbandonato alla tentazione non si allontana da Dio e questo assolutamente non è nelle forze del libero arbitrio, quali esse sono ora; questa forza c'era però nell'uomo prima della caduta. Quanto grande fosse il vigore della libera volontà nell'eccellenza della sua prima condizione apparve negli Angeli, i quali, quando il diavolo cadde con i suoi seguaci, stettero saldi nella verità e meritarono di arrivare alla sicurezza perpetua di non cadere, nella quale noi siamo certissimi che essi si trovano ora. Ma dopo la caduta dell'uomo, Dio ha voluto che non dipenda se non dalla sua grazia che l'uomo si rivolga a lui, e che non dipenda se non dalla sua grazia che l'uomo non si ritragga da lui. 7.14 - La grazia di Dio fa sì che ci accostiamo a lui E questa grazia la ripose in Colui nel quale abbiamo ottenuto l'eredità, predestinati secondo il disegno di Colui che opera tutte le cose. ( Ef 1,11 ) E per questo, come fa sì che ci accostiamo a lui, allo stesso modo fa sì che non ce ne distogliamo. Quindi viene detto a lui per bocca del Profeta: Sia la tua mano sopra l'uomo della tua destra e sopra il figlio dell'uomo che hai confermato a te; e non ci allontaneremo più da te. ( Sal 80,18.19 ) Costui non è certo il primo Adamo, nel quale ci allontanammo da lui, ma l'ultimo Adamo, sopra il quale si trova la sua mano perché non ci allontaniamo da lui. Infatti il Cristo totale è nell'unione con le sue membra, grazie alla Chiesa, che è il suo corpo e la sua pienezza. ( Ef 1,23 ) Dunque se la mano di Dio si trova sopra di lui affinché non ci allontaniamo dal Signore, l'opera di Dio giunge fino a noi ( questo infatti significa la mano di Dio ); ed è opera di Dio se avviene che noi siamo in Cristo permanendo con Dio, non separandoci da lui come Adamo. In Cristo infatti abbiamo ottenuto l'eredità, predestinati secondo il decreto di Colui che opera tutte le cose. Dunque è per la mano di Dio, non per la nostra, che non ci allontaniamo da Dio. Questa, dico, è la mano di Colui che ha affermato: Donerò il timore di me al loro cuore, perché non si allontanino da me. ( Ger 32,40 ) 7.15 - Per questo Dio ha voluto anche che chiedessimo a lui di non essere spinti in tentazione Per questo ha anche voluto che si chiedesse a lui di non essere gettati nella tentazione, perché se non vi siamo abbandonati, a nessun costo ci allontaniamo da lui. Poteva farci questa concessione anche senza che noi la implorassimo. Ma facendoci pregare volle renderci consapevoli da chi riceviamo questi benefici. Da chi infatti li riceviamo, se non da Colui che ci ha ordinato di chiederli? Dunque su questo argomento la Chiesa non ha bisogno di indugiare in laboriose disputazioni, ma di attendere alle sue preghiere quotidiane. Essa prega affinché gli infedeli credano: allora è Dio che converte alla fede. Essa prega perché i credenti perseverino: allora è Dio che dona la perseveranza fino alla fine. Dio ebbe prescienza che Egli avrebbe fatto ciò. Questa è appunto la predestinazione dei santi, i quali Egli ha eletto in Cristo prima della creazione del mondo perché fossero santi e immacolati al suo cospetto in carità, predestinandoli per lui ad essere figli d'adozione attraverso Gesù Cristo, secondo quanto piacque alla sua volontà per lodare la gloria della sua grazia, nella quale li ha glorificati nel Figlio suo diletto. In lui hanno la redenzione grazie al suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia, che fece abbondare su di loro con ogni sapienza e prudenza per mostrare loro il mistero della sua volontà secondo la sua compiacenza, che Egli aveva prestabilito in lui nell'intento di comprendere in Cristo, al raggiungimento della pienezza dei tempi, tutte le cose che sono nei cieli e quelle che sono sulla terra. E in lui abbiamo ottenuto l'eredità, predestinati secondo il decreto di Colui che opera tutte le cose. ( Ef 1,4-11 ) Contro questa verità che squilla chiara come una tromba, quale uomo di fede accorta e vigilante potrebbe accettare una qualsiasi parola umana? 8.16 - La grazia è donata gratuitamente "Ma perché - si domanderà - la grazia di Dio non è data secondo i meriti degli uomini?". Rispondo: perché Dio è misericordioso. "E perché allora non è data a tutti?". E qui rispondo: perché Dio è giudice. Per questo la grazia è data da lui gratuitamente, mentre il suo giusto giudizio sugli altri dimostra quale bene la grazia conferisca a coloro ai quali è data. Dunque non dobbiamo essere ingrati, perché secondo quanto piacque alla sua volontà per lodare la gloria della sua grazia ( Ef 1,5-6 ) Dio misericordioso libera molti da una perdizione talmente meritata che se non risparmiasse nessuno non sarebbe ingiusta. Per colpa di uno solo tutti hanno subito un giudizio di condanna; e questo non è ingiusto, ma anzi è perfettamente giusto. Dunque chi ne viene liberato, abbia cara la grazia; chi non ne viene liberato, riconosca il suo debito. Se la nostra intelligenza riconosce nella remissione del debito la bontà, nell'esigerlo la giustizia, mai in Dio si troverà l'ingiustizia. 8.17 - Gratuità della grazia nei bambini Dei bambini, ma addirittura dei gemelli, si riscontra un giudizio tanto diverso?". E non è la stessa questione se un identico giudizio viene dato in una causa diversa? Riandiamo a considerare allora quegli operai della vigna che lavorarono tutto il giorno e quelli che lavorarono un'ora sola; certo la causa rispetto al lavoro impiegato era diversa, e tuttavia nel pagamento del salario il giudizio fu lo stesso. Ebbene anche qui quando mormoravano, cosa si sentirono rispondere dal padre di famiglia? "Voglio così". Egli verso alcuni ebbe generosità, eppure verso gli altri non fece nessuna ingiustizia. Entrambi i gruppi degli operai certo sono fra i giusti; però per quanto riguarda la giustizia e la grazia, al reo che è condannato Dio può dire a proposito del reo che è liberato: Prendi quello che è tuo e vattene; a questo io voglio donare quello che non gli è dovuto. O non mi è lecito fare quello che voglio? O forse tu sei invidioso perché io sono buono? ( Mt 20,14-15 ) A questo punto se quello dicesse: "E perché non anche a me?", giustamente si sentirebbe rispondere: O uomo, chi sei tu per rispondere a Dio? ( Rm 9,20 ) Tu vedrai che Dio a uno di voi largisce con grandissima generosità, da te esige con estrema giustizia, ma con nessuno lo vedrai ingiusto. Anzi, Egli sarebbe giusto anche se vi punisse entrambi; chi è liberato ha motivo di rendere grazie; chi è condannato non ha motivo di recriminare. 8.18 - Imperscrutabili sono i giudizi di Dio È dovuto a tutti, condannando sì, ma non tutti, e in tal modo far rilevare la gratuità ancora maggiore della sua grazia verso i vasi di misericordia, perché, essendo noi nella stessa condizione, punirà me piuttosto che quello, o libererà quello piuttosto che me?". Io non dò una risposta, se tu ne chiedi il motivo, perché confesso che non ho nulla da rispondere. E se chiedi il perché anche di questo, allora rispondo: perché in tale questione come è giusta la sua ira, come grande è la sua misericordia, altrettanto imperscrutabili sono i suoi giudizi. 8.19 - Perché alcuni non ricevono la perseveranza? Ma mettiamo che insista ulteriormente e dica: "Perché ad alcuni che lo hanno onorato con retta fede, non ha concesso di perseverare fino alla fine?". Quale potrà essere il motivo, secondo te? Questo solo: non mente colui che dice: Sono usciti di fra noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero restati senz'altro con noi. ( 1 Gv 2,19 ) E allora forse sono due le nature degli uomini? Non è nemmeno da pensarci. Se ci fossero due nature, non ci sarebbe più la grazia; infatti a nessuno potrebbe donarsi una liberazione gratuita, se a una delle due nature questa venisse concessa come dovuta. Agli uomini sembra che tutti quelli che appaiono buoni fedeli abbiano dovuto ricevere la perseveranza sino alla fine. Ma Dio giudicò preferibile mescolare al numero determinato dei suoi santi alcuni individui che non avrebbero perseverato, affinché quelli ai quali non giova la sicurezza nelle prove di questa vita, non possano essere sicuri. Molti infatti si trattengono da una pericolosa esaltazione per quello che dice l'Apostolo: Perciò chi crede di stare in piedi, veda di non cadere. ( 1 Cor 10,12 ) Chi cade, cade di sua volontà; e chi sta in piedi, ci sta per volontà di Dio. Infatti Dio ha la potenza di sostenerlo; ( Rm 14,4 ) dunque non è lui che sostiene se stesso, ma Dio. Perciò è bene non inorgoglirsi, ma aver timore. ( Rm 11,20 ) Ciascuno cade o sta in piedi per effetto di ciò che pensa. Ma, come dice l'Apostolo nel passo che ho ricordato nel libro precedente: Non siamo capaci di pensare qualcosa da soli, come venisse proprio da noi, ma la nostra sufficienza viene da Dio. ( 2 Cor 3,5 ) E seguendo l'Apostolo anche il beato Ambrogio osa dire: Infatti non sono in nostro potere il nostro cuore e i nostri pensieri. E ognuno che sia umilmente e veracemente pio si accorge che questo è verissimo. 8.20 - Non sono in nostro potere il nostro cuore e i nostri pensieri Ambrogio giunge a pronunciare quella frase nel libro che compose Sulla fuga dal mondo, insegnando che il mondo non dev'essere fuggito fisicamente, ma con il cuore; ora, secondo lui, ciò non si può realizzare se non con l'aiuto di Dio. Dice infatti: Noi di continuo ripetiamo questo discorso di fuggire il secolo e volesse il cielo che alla facilità con cui ne parliamo corrispondesse altrettanta accortezza e sollecitudine nei nostri sentimenti! Ma, e questo è peggio, spesso s'insinua l'allettamento delle cupidigie terrene e le vanità diffondendosi in noi s'impossessano del nostro spirito; cosicché mediti e rivolgi nell'animo proprio quello che cerchi di tenere lontano. Per l'uomo guardarsi da ciò è difficile, ma spogliarsene impossibile. Pertanto questa faccenda si risolve più in un'aspirazione che in una realizzazione, e lo attesta il Profeta dicendo: "Inclina il mio cuore verso i tuoi precetti, non verso l'avarizia". ( Sal 119,36 ) Infatti non sono in nostro potere il nostro cuore e i nostri pensieri : essi diffondendosi in noi all'improvviso confondono lo spirito e l'animo e ci traggono in una direzione diversa da quella che ci eravamo proposta. Ci richiamano a pensieri mondani, ci mettono dentro aspirazioni materiali, riversano in noi desideri di voluttà, intessono seduzioni, e nello stesso tempo in cui cerchiamo di elevare la mente, intricati in vani pensieri, per lo più ci lasciamo cadere verso le cose di questa terra. Dunque non è in potere degli uomini, ma di Dio, che essi abbiano la potestà di divenire figli di Dio. ( Gv 1,12 ) È da lui che ricevono questo potere, da lui che concede al cuore umano meditazioni pie per mezzo delle quali esso ottiene la fede che opera attraverso la carità; ( Gal 5,6 ) ma per assumere e conservare questo bene e progredire in esso perseverando fino alla fine, non siamo capaci di pensare qualcosa da soli, come venisse proprio da noi, ma la nostra sufficienza viene da Dio, ( 2 Cor 3,5 ) in potestà del quale sono il nostro cuore e i nostri pensieri. 9.21 - La perseveranza è donata ai predestinati Dunque fra i bambini ugualmente vincolati dal peccato originale, perché questo viene assunto e quello abbandonato? E fra due individui malvagi ormai in età adulta, perché questo è chiamato con tal forza che segue Colui che lo chiama, e quello invece o non è chiamato o non è chiamato alla stessa maniera? In ciò i giudizi di Dio sono imperscrutabili. Ma perché, fra due persone pie, ad una è donata la perseveranza fino alla fine, all'altra no? Su questo i giudizi di Dio sono ancora più imperscrutabili. Ma una cosa dev'essere certissima per i credenti: che l'uno appartiene ai predestinati, l'altro no. Infatti se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti senz'altro con noi, ( 1 Gv 2,19 ) dice uno dei predestinati che aveva bevuto questo segreto dal petto del Signore. Che vuol dire, lo chiedo a voi: Non erano dei nostri; infatti se fossero stati dei nostri sarebbero restati senz'altro con noi? Non è forse vero che gli uni e gli altri erano stati creati da Dio, gli uni e gli altri nati da Adamo, gli uni e gli altri fatti di terra? E gli uni e gli altri non ricevettero forse un'anima della medesima ed unica natura da Colui che disse: Ogni soffio l'ho creato io? ( Is 57,16 ) Non è forse vero infine che gli uni e gli altri erano stati chiamati ed avevano seguito Colui che li chiamava, gli uni e gli altri erano stati giustificati fra gli empi e attraverso il lavacro della rigenerazione gli uni e gli altri erano stati rinnovati? Ma se udisse queste parole quel predestinato che sapeva senza alcun dubbio quello che diceva, potrebbe rispondere così: Tutto ciò è vero, secondo tutto ciò essi erano dei nostri; però secondo una certa altra differenziazione non erano dei nostri: infatti se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti senz'altro con noi. E qual è infine questa differenziazione? Ci stanno innanzi agli occhi i Libri di Dio, non distogliamo lo sguardo; leva la sua voce la Scrittura divina, prestiamole orecchio. Non erano di quelli perché non erano stati chiamati secondo il decreto; non erano stati eletti in Cristo prima della creazione del mondo, non avevano ottenuto in lui l'eredità, non erano predestinati secondo il decreto di Colui che opera tutte le cose. ( Rm 8,28; Ef 1,4.11 ) Infatti se fossero stati tutto questo, sarebbero stati dei loro e con essi senza dubbio sarebbero rimasti. 9.22 - Anche la morte tempestiva è una grazia di Dio E non voglio stare a dire con quanta ampiezza sia possibile a Dio rivolgere alla sua fede le volontà degli uomini, distolte o addirittura contrarie. E così pure egli può nei loro cuori operare in modo che non cedano ad alcuna avversità e non si allontanino da lui perché vinti da qualche tentazione; infatti è in suo potere anche quello che dice l'Apostolo: impedire che siano tentati al di sopra delle loro forze. ( 1 Cor 10,13 ) Insomma, per non ripetere tutto ciò, Dio, che aveva prescienza della loro caduta, aveva certo la possibilità di toglierli da questa vita prima che ciò accadesse. Allora vogliamo tornare al punto di prima e rimettere in discussione quanto sia assurdo dire che gli uomini dopo morti sono giudicati anche per quei peccati che Dio aveva prescienza che avrebbero commesso, se fossero vissuti. Ma questa ipotesi è talmente contraria ai sentimenti cristiani, o semplicemente umani, che si ha ritegno perfino di confutarla. Perché allora non si dovrebbe dire che perfino lo stesso Vangelo, che è costato ai santi tanta fatica e tribolazioni, è stato predicato invano o che è a tutt'oggi predicato invano? Così sarebbe, se gli uomini avessero potuto subire il giudizio anche senza aver ascoltato il Vangelo, semplicemente in base alla prescienza divina della ribellione o dell'obbedienza con cui avrebbero reagito se avessero ascoltato la buona Novella. E non sarebbero state condannate nemmeno Tiro e Sidone, che già meritavano maggiore indulgenza rispetto a quelle città nelle quali non si credette, benché vi fossero compiuti da nostro Signore Gesù Cristo segni straordinari. Infatti se questi segni fossero avvenuti a Tiro e Sidone, esse avrebbero fatto penitenza nella cenere e nel cilicio. ( Mt 11,21 ) Così parla la Verità e così con le sue stesse parole il Signore Gesù ci addita ancor più profondamente il mistero della predestinazione. 9.23 - Esempio di Tiro e Sidone Ci si potrebbe domandare perché tanti miracoli furono compiuti presso coloro che pur avendoli davanti agli occhi non erano destinati a credere, e non lo furono invece presso quelli che, se vi avessero assistito, avrebbero creduto. A ciò che risponderemo? Daremo, perché no?, la stessa risposta che ho addotta nel libro concernente Sei questioni contro i pagani, senza voler escludere altre ragioni che uomini d'ingegno acuto possono scoprire. Dato che, come sapete, veniva chiesto perché Cristo fosse venuto dopo un tempo tanto lungo, risposi così: Il suo Vangelo non fu predicato in certi tempi e in certi luoghi perché Egli nella sua prescienza sapeva che di fronte alla sua predicazione tutti avrebbero reagito come reagirono molti di fronte alla sua presenza corporale, che non vollero credere in lui nemmeno dopo che ebbe risuscitato i morti. Allo stesso modo un poco più sotto nel medesimo libro e sulla medesima questione scrissi: Che c'è di strano se Cristo, sapendo che nei primi secoli tutto il mondo era pieno di gente assolutamente chiusa alla fede, non volle giustamente essere predicato a queste persone? Egli conosceva nella sua prescienza che non avrebbero creduto né alle sue parole né ai suoi miracoli. Questo non lo possiamo dire con certezza di Tiro o di Sidone; in esse ravvisiamo che i giudizi divini sono connessi a quelle ragioni segrete della predestinazione su cui allora dissi di non voler dare risposte pregiudiziali. È certo molto facile mettere sotto accusa la mancanza di fede dei Giudei: essa veniva da una libera volontà, dato che non vollero credere ai prodigi tanto grandi compiuti presso di loro. E anche di questo il Signore li incolpa e li rimprovera dicendo: Guai a te, Chorozain e Bethsaida, perché se in Tiro e in Sidone fossero stati fatti i miracoli che sono stati fatti tra di voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza nel cilicio e nella cenere. ( Mt 11,21 ) Ma possiamo forse dire che anche gli abitanti di Tiro e di Sidone non vollero credere dopo che avvennero presso di loro simili prodigi o che non avrebbero creduto, se fossero avvenuti? No: il Signore stesso testimonia per essi che avrebbero fatto penitenza con grande umiltà, se presso di loro fossero avvenute quelle manifestazioni del potere divino. Eppure nel giorno del giudizio saranno puniti, per quanto con un castigo minore rispetto a quelle città che non vollero credere neppure dopo la realizzazione dei miracoli. Infatti, proseguendo, il Signore dice: Perciò vi dico; Ci sarà più indulgenza per Tiro e Sidone nel giorno del giudizio che per voi. ( Mt 11,22 ) Dunque questi saranno puniti più severamente, Tiro e Sidone saranno trattate con più indulgenza, ma saranno tuttavia punite. Ora ammettiamo che i morti vengano giudicati secondo le azioni che avrebbero compiuto se fossero vissuti; in base ad una simile premessa gli abitanti di Tiro e di Sidone, poiché sarebbero diventati credenti se il Vangelo fosse stato loro predicato con miracoli tanto grandi, non sarebbero affatto da punire; invece saranno puniti. Dunque è falso che i morti vengono giudicati secondo ciò che avrebbero compiuto se il Vangelo fosse pervenuto fino a loro da vivi. E se ciò è falso, non c'è motivo di sostenere riguardo ai bambini che vanno in perdizione morendo senza battesimo, che questo per essi avviene meritatamente, perché Dio aveva prescienza che se essi fossero vissuti e fosse stato loro predicato il Vangelo, non avrebbero prestato fede. Non c'è altra soluzione: essi restano vincolati al peccato originale, e per questo solo incorrono nella condanna; così pure vediamo che altri che si trovano nella medesima causa ricevono il dono della rigenerazione solo attraverso la grazia gratuita di Dio. Sempre per il suo occulto ma giusto giudizio, poiché presso Dio non c'è ingiustizia, ( Rm 9,14 ) alcuni che anche dopo il battesimo, per la loro vita pessima devono andare in perdizione, sono trattenuti in questo mondo fino a che effettivamente si perdono; eppure non perirebbero, se la morte corporale li soccorresse, prevenendo la loro caduta. Perché nessun morto viene giudicato dalle azioni buone o cattive che avrebbe compiuto se non fosse morto; altrimenti gli abitanti di Tiro e di Sidone non espierebbero la loro pena in base a quello che compirono, ma piuttosto, in virtù di quello che avrebbero compiuto se presso di loro si fossero prodotti quei prodigi evangelici, attraverso una grande penitenza e la fede in Cristo avrebbero ottenuto la salvezza. 10.24 - Altra spiegazione sulla pena di Tiro e Sidone Un trattatista cattolico non oscuro ha spiegato così quel passo del Vangelo: egli dice che il Signore ebbe prescienza che gli abitanti di Tiro e di Sidone si sarebbero ritratti in seguito dalla fede, pur essendosi convertiti dopo la realizzazione dei miracoli; e allora Dio per misericordia preferì non compiere nessun prodigio presso di loro, altrimenti essi sarebbero stati soggetti a un castigo più grave, perché è più grave abbandonare la fede già avuta che non averla avuta mai. È l'opinione di un uomo dotto e oltremodo acuto, certo, ma io non ho motivo di esaminare adesso quello che in tale spiegazione si dovrebbe ancora approfondire, dato che ci appoggia così com'è, in quello che sosteniamo. Se infatti Dio aveva prescienza che sarebbero ridiventati infedeli e per questo nella sua misericordia non fece presso di essi i miracoli per i quali avrebbero potuto diventare credenti, in modo da non doverli punire più gravemente, viene dimostrato con sufficiente chiarezza che nessuno da morto viene giudicato per quei peccati che, come Dio prevede, egli commetterebbe se non intervenisse ad impedirglielo un qualche soccorso. Così diciamo che Cristo prestò aiuto agli abitanti di Tiro e di Sidone, se quell'interpretazione è veridica, e preferì che non si accostassero affatto alla fede, piuttosto che con una colpa ben maggiore se ne staccassero poi, giacché Egli aveva prescienza che lo avrebbero fatto, se si fossero convertiti. Benché a questo punto si potrebbe dire: perché piuttosto non fu fatto sì che credessero e non fu fornito loro l'aiuto di partire da questa vita prima di abbandonare la fede? Ebbene, io ignoro che cosa si potrebbe rispondere. Se infatti si dice: a chi doveva abbandonare la fede fu concesso come beneficio di non cominciare ad averla perché maggiore sarebbe stata l'empietà di abbandonarla, si dimostra abbastanza che l'uomo non viene giudicato dal male che, come si prevede, farà, a meno che non gli si presti un qualunque soccorso perché non lo faccia. Un tale provvedimento fu preso per colui che fu rapito perché la malizia non mutasse la sua mente. ( Sap 4,11 ) Ma perché questo stesso provvedimento non fu preso a favore degli abitanti di Tiro e di Sidone, in modo che credessero e venissero rapiti affinché la malizia non mutasse la loro mente? Forse potrebbe rispondere quel dotto a cui parve bene di risolvere la questione in tal modo; io, per quanto riguarda quello che tratto qui, vedo che è sufficiente ciò: la dimostrazione che gli uomini anche secondo questo parere non sono giudicati in base a quello che non hanno compiuto, anche se si prevedeva che l'avrebbero compiuto. Per quanto, come ho detto, si sente vergogna perfino a respingerla un'opinione come questa, che nei morenti o nei morti siano castigati i peccati di cui si prevedeva il compimento in una vita più lunga; a trattare simile ipotesi anche ristrettamente anziché tacerla del tutto, si può dare l'impressione che anche noi l'abbiamo fatta degna di qualche considerazione. 11.25 - Dio ha pietà di chi vuole senza considerare i meriti Allora, come dice l'Apostolo: Non è né di colui che vuole né di colui che corre, ma di Dio che ha misericordia; ( Rm 9,16 ) egli presta soccorso ai bambini che vuole, anche se questi non vogliono e non corrono, e sono quelli che prima della creazione del mondo elesse in Cristo per dar loro la grazia gratuitamente, cioè senza che nessuno di essi avesse alcun merito precedente né di fede né di opere. Anche nel caso degli adulti che previde avrebbero creduto ai suoi miracoli, se fossero stati fatti presso di loro, Egli non aiuta quelli che non vuole; su questi ultimi nella sua predestinazione giudicò altrimenti, in maniera occulta certo, ma giusta. Infatti non c'è ingiustizia presso Dio, ma imperscrutabili sono i suoi giudizi e impenetrabili le vie; ( Rm 11,33 ) d'altronde tutte le vie del Signore sono misericordia e verità. ( Sal 25,10 ) Impenetrabile dunque è la misericordia per cui ha pietà di chi vuole, senza che questi abbia precedentemente meritato in alcun senso; e impenetrabile la verità per cui indurisce chi vuole; ( Rm 9,18 ) quest'ultimo certo lo aveva precedentemente meritato, ma per lo più anche colui di cui ha misericordia non aveva meritato niente di diverso. Così pure è diversa la fine di due gemelli, dei quali l'uno è assunto, l'altro abbandonato, mentre i meriti erano uguali. Di essi uno per la grande bontà di Dio viene liberato, mentre l'altro senza nessuna ingiustizia da parte del Signore è condannato. O forse ci sarà ingiustizia presso Dio? Nemmeno lontanamente, ma impenetrabili sono le sue vie. Dunque senza nutrire dubbi crediamo alla sua misericordia in quelli che sono liberati e alla sua verità in quelli che sono puniti; e non cerchiamo di scrutare ciò che è imperscrutabile e di penetrare ciò che è impenetrabile. Dalla bocca dei bambini e dei lattanti Egli prepara la sua lode; ( Sal 8,3 ) perciò come in questi vediamo che la liberazione di certuni non è preceduta da alcun merito nel bene e la condanna di altri solo dagli originali demeriti comuni a tutti, anche negli adulti non dobbiamo esitare assolutamente a riconoscere che avviene lo stesso. Non pensiamo quindi né che ad uno venga data la grazia perché se la meritava, né che ad un altro venga dato il castigo se non perché se lo meritava, sia che i liberati e i puniti abbiano colpe uguali, sia che le abbiano diverse. Perciò chi crede di stare in piedi, veda di non cadere; ( 1 Cor 10,12 ) e chi si gloria, si glori non in se stesso, ma nel Signore. ( 1 Cor 1,31 ) 11.26 - Sulla questione passi de Il libero arbitrio Ma essi, come voi scrivete, non ammettono che si adduca la condizione dei bambini come esempio di quella degli adulti. Ma perché dicono ciò, se sono uomini che, diversamente dai pelagiani, non mettono in dubbio l'esistenza del peccato originale, che penetrò nel mondo attraverso un solo uomo e che, attraverso l'unico individuo, provocò la condanna di tutti? ( Rm 5,12-16 ) Anche i manichei non ammettono tutto ciò, quei manichei che non solo non tengono in alcuna autorità le scritture del Libro Antico, ma che accettano con riserva anche quelle che appartengono al Nuovo, prendendo quello che vogliono e respingendo quello che non vogliono come fosse una specie di loro privilegio, anzi di sacrilegio. Contro di essi era la mia trattazione nei libri Sul libero arbitrio, opera che i fratelli credono ora di dovermi contrapporre. Ma io non ho voluto risolvere completamente questioni d'una estrema difficoltà che pure cadevano in argomento, perché non fosse troppo lunga un'opera dove io, contro individui tanto perversi, non potevo giovarmi dell'autorità delle Testimonianze divine. Potevo tuttavia, come in effetti feci, concludere con sicurezza che qualunque fosse la vera nelle conclusioni che io mettevo avanti in forma non definitiva, bisognava lodare Iddio in ogni cosa, senza alcuna necessità di credere, come vogliono essi, a due sostanze coeterne e commiste, quella del bene e quella del male. 11.27 - Di tali passi ne ha parlato nelle Ritrattazioni Dunque, nel primo libro delle Ritrattazioni, opera mia che voi ancora non avete letto, quando sono arrivato a ritrattare proprio questi libri, cioè quelli Sul libero arbitrio, mi sono espresso così: In questi libri, ho detto, sono stati trattati moltissimi argomenti, cosicché alcune questioni che si presentavano non potevo spiegarle completamente e certe altre richiedevano una discussione troppo lunga per quel punto. Allora le ho differite, badando però a questo: se uno stesso problema presentava due o più facce, senza che si potesse distinguere quale soluzione fosse meglio in accordo con la verità, il nostro ragionamento portava sempre a concludere che qualunque fosse tra di esse la vera, risultava in ogni caso la convinzione o addirittura la dimostrazione che Dio dev'essere lodato. In realtà quella disputa era stata intrapresa contro gli eretici convinti che il male non trae origine dal libero arbitrio; se è così, essi sostengono, a Dio, creatore di tutte le nature, dovrebbe essere riferita ogni colpa. In questo modo, secondo l'errore a cui li trascina la loro empietà ( infatti parlo dei manichei ), vogliono introdurre una natura del male immutabile e coeterna a Dio. Allo stesso modo un po' più avanti, in un altro passo [ dicevo ]: Poi abbiamo detto da quale miseria giustissimamente inflitta ai peccatori ci libera la grazia di Dio. Infatti l'uomo, di sua iniziativa, cioè per il libero arbitrio, poteva cadere ma non sollevarsi; a questa condizione di miseria risultante da una giusta condanna appartiene l'ignoranza e la difficoltà di cui ogni uomo soffre fin dal primo momento della sua nascita; da questo male non viene liberato nessuno se non per grazia di Dio. Ma i pelagiani, negando il peccato originale, non vogliono riconoscere che questa miseria discende dalla giusta condanna; per quanto, anche se l'ignoranza e la difficoltà fossero le condizioni originarie proprie della natura umana, nemmeno a questo patto dovremmo incolpare Dio; anzi lo dovremmo lodare, come abbiamo sostenuto sempre nel terzo libro. E questa tesi bisogna dimostrarla contro i manichei, i quali non accettano le sante Scritture dell'Antico Libro che contengono la narrazione del peccato originale, e sostengono con detestabile impudenza che tutto ciò che a questo riguardo si legge poi nelle Lettere apostoliche è stato introdotto da corruttori delle Scritture, mentre la verità è che è stato asserito dagli Apostoli. Ma contro i pelagiani bisogna difendere proprio questo punto, cioè la caduta a causa del peccato originale, perché esso è affermato da tutt'e due le Scritture che essi professano di accettare. Così ho detto nel primo libro delle Ritrattazioni, riesaminando i libri Sul libero arbitrio. Ma non ho espresso certamente queste sole osservazioni su questi libri, anzi ne ho fatte molte altre ancora, che ho ritenuto troppo lungo e superfluo inserire in quest'opera dedicata a voi. Potrete giudicare da soli, penso, quando leggerete tutto. Nel terzo libro Sul libero arbitrio dunque ho discusso il problema dei bambini in questo modo: ammettiamo pure che sia vero quello che dicono i pelagiani, che l'ignoranza e la difficoltà, senza le quali nessun uomo nasce, sia la condizione originaria propria della condizione umana e non il suo castigo; ebbene i manichei resterebbero sconfitti lo stesso, essi che sostengono due nature coeterne, cioè quella del bene e quella del male. Ammessa pure l'ipotesi che ho presentato, sarebbe forse per questo da mettersi in dubbio o da abbandonare la fede che la Chiesa cattolica difende proprio contro i pelagiani e secondo la quale esiste il peccato originale, che contratto con la generazione dev'essere sciolto con la rigenerazione? Anche questi nostri fratelli ammettono con noi tale fatto, cosicché su questo punto ci troviamo insieme a distruggere l'errore dei pelagiani. Ma per quale motivo pensano poi di dover mettere in dubbio che Dio strappi dal potere delle tenebre e trasferisca nel regno del Figlio diletto ( Col 1,13 ) anche i bambini ai quali concede la sua grazia attraverso il sacramento del Battesimo? E se ad alcuni la concede, ad altri no, per quale motivo non vogliono cantare al Signore la sua misericordia e il suo giudizio? ( Sal 101,1 ) In quanto al perché sia data ad alcuni piuttosto che ad altri: Chi ha conosciuto il pensiero del Signore? ( Rm 11,34 ) Chi sarebbe capace di scrutare l'imperscrutabile, chi di penetrare l'impenetrabile? 12.28 - Grazia gratuita e perciò vera grazia Si dimostra dunque che la grazia di Dio non viene data secondo i meriti di chi la riceve, ma secondo quanto piace alla volontà di lui, in lode e gloria della sua stessa grazia, ( Ef 1,5-6 ) affinché chi si gloria in nessun modo si glori in se stesso, ma nel Signore. ( 1 Cor 1,31 ) Egli la dà agli uomini che vuole, perché è misericordioso, ma anche se non la dà, è giusto; e non la dà a chi non la vuole dare, affinché renda note le ricchezze della sua gloria verso i vasi di misericordia. ( Rm 9,23 ) Infatti dando ad alcuni quello che non meritano, vuole che la sua grazia sia davvero gratuita, e perciò autentica; ma non dandola a tutti mostra la condanna che tutti meritano. Egli è buono nel beneficiare alcuni determinati, giusto nel punire gli altri; buono in tutti perché è bontà quando si corrisponde ciò che è dovuto, e giusto in tutti perché è giustizia quando si dona senza danno di nessuno quello che non è dovuto. 12.29 - Obiettano i pelagiani: grazia simile al fato, se non è data secondo i nostri meriti Ma la grazia di Dio che non è assegnata secondo i meriti, cioè la grazia autentica, si può difendere anche se i bambini battezzati, come pensano i pelagiani, non vengono strappati alla potenza delle tenebre, giacché non sono colpevoli secondo loro di nessun peccato, ma vengono semplicemente trasferiti nel regno del Signore. Anche così infatti viene concesso il regno senza che coloro ai quali viene concesso abbiano per niente meritato nel bene, e senza che abbiano mal meritato non viene concesso a quelli a cui non viene concesso. E questo è quello che andiamo ripetendo contro i pelagiani, quando ci obiettano che se diciamo che la grazia di Dio non viene assegnata secondo i nostri meriti, la attribuiamo in realtà al fato. Sono essi, piuttosto, che nel caso dei bambini attribuiscono la grazia di Dio al fato; infatti sono loro a parlare di fato, dove non c'è merito. Anche secondo gli stessi pelagiani non si può proprio ritrovare nei bambini alcun merito in base al quale alcuni di essi vengano mandati nel regno, altri invece ne vengano respinti. Anche ora, per mostrare che la grazia di Dio non viene data secondo i nostri meriti, ho preferito difendere questa certezza secondo entrambe le convinzioni. Secondo la nostra, diciamo che i bambini sono vincolati al peccato originale; secondo quella dei pelagiani viene negata l'esistenza di questo peccato; eppure non vedo la necessità di mettere in dubbio che i bambini abbiano un peccato che viene perdonato da Colui che fa salvo il popolo suo dai suoi peccati. ( Mt 1,21 ) In questo stesso modo nel terzo libro Sul libero arbitrio mi sono opposto ai manichei secondo una duplice tesi: ho considerato infatti sia che l'ignoranza e la difficoltà, senza le quali nessun uomo nasce, siano un castigo, sia che costituiscano la condizione originaria propria della natura umana. Tuttavia tengo ferma la prima delle due ipotesi, che io ho espressa anche in quell'opera abbastanza chiaramente: che questa non è la natura che l'uomo ebbe quando fu creato, ma il castigo che ebbe quando fu condannato. 12.30 - Ancora sulla causa dei bambini Invano dunque si eccepisce su quel mio vecchio libro, per impedirmi di svolgere la questione dei bambini come la devo svolgere e di dimostrare attraverso di essa alla luce della limpida verità che la grazia di Dio non viene data secondo i meriti degli uomini. Infatti quando iniziai da laico i libri Sul libero arbitrio e da sacerdote li portai a termine, ancora ero in dubbio se i bambini che non rinascono nel Battesimo siano condannati e se quelli che rinascono siano liberati; però nessuno, io penso, sarà tanto ingiusto e malevolo da vietarmi di progredire e da pensare che io dovevo rimanere in quell'incertezza. Ma se uno comprende più rettamente, non crederà che io dovessi avere necessariamente dei dubbi a questo proposito solo perché mi sembrò di dover confutare in quella maniera coloro contro i quali mi rivolgevo; io potevo ammettere cioè che ricadesse sui bambini il castigo del peccato originale, come pretende la verità, oppure che non avvenisse nulla del genere, come alcuni pensano erroneamente, tuttavia entrambe le premesse non consentivano di riconoscere la permistione di due nature, quella del bene e quella del male, secondo l'eresia introdotta dai manichei. Dunque guardiamoci dall'abbandonare a quel punto la causa dei bambini, dicendo che per noi è incerto se quei bambini che muoiono rigenerati in Cristo passano alla salvezza eterna e quelli non rigenerati invece alla seconda morte. Infatti le parole della Scrittura: Attraverso un solo uomo entrò nel mondo il peccato e attraverso il peccato la morte; e così è passata in tutti gli uomini, ( Rm 5,12 ) non si possono intendere rettamente che in un modo. E nessuno, bambino o adulto, è liberato dalla morte perpetua che è la giustissima retribuzione del peccato, se non da Colui che morì perché ci fossero rimessi i peccati, originali o commessi da noi personalmente, senza averne lui stesso alcuno, né originale né personale. Ma perché Egli libera alcuni piuttosto che altri? Lo ripetiamo ancora e ancora, senza spazientirci: O uomo, chi sei tu per rispondere a Dio?.( Rm 9,20 ) Imperscrutabili sono i suoi giudizi e impenetrabili le sue vie!. ( Rm 11,33 ) A questo aggiungiamo: Non cercare ciò che è troppo difficile per te e non scrutare ciò che ti è inaccessibile. ( Sir 3,22 ) 12.31 - L'assurdità dei futuribili Vedete infatti, carissimi, quanto sia assurdo e alieno dalla correttezza della fede e dalla schiettezza della verità il dire che i bambini morti sono giudicati secondo quello che Dio ha prescienza che farebbero, se vivessero. Eppure alcuni sono costretti ad arrivare a questa convinzione, anche se certamente ogni sentimento umano fondato su di un minimo di ragione, e soprattutto ogni sentimento cristiano, l'aborrisce. Vi si è costretti quando ci si vuole sottrarre agli errori dei pelagiani, pensando però ancora di dover credere e per di più proclamare che la grazia di Dio attraverso Gesù Cristo nostro Signore, la sola a venirci in aiuto dopo la caduta del primo uomo che ci ha travolti, viene data secondo i nostri meriti. Eppure Pelagio stesso, di fronte ai vescovi orientali che dovevano giudicarlo, condannò questa tesi per paura di essere condannato lui. Allora non parliamo di questo argomento, cioè che i morti avrebbero potuto compiere delle opere sia buone sia cattive se fossero vissuti, dato che esse non esistono e non esisteranno nemmeno nella prescienza di Dio. Se non diciamo questo, e vedete che grande errore si commette nel dirlo, che cosa resterà, quando avremo cacciata la nebbia della controversia, se non ammettere che la grazia di Dio non viene data secondo i nostri meriti, come appunto sostiene la Chiesa cattolica contro l'eresia pelagiana e come si scorge nella più aperta verità soprattutto nei bambini? Infatti non è il destino che costringe Dio a prestare aiuto ad alcuni bambini e ad altri no, quando la causa è comune agli uni e agli altri. Oppure penseremo che nel caso dei bambini le cose umane siano guidate non dalla divina provvidenza, ma dai casi fortuiti, proprio quando si tratta di condannare o di liberare anime razionali, mentre neppure un passero cade in terra senza la volontà del Padre nostro che è nei cieli? ( Mt 10,29 ) O ancora, se i bambini muoiono senza battesimo bisognerà attribuirlo alla negligenza dei genitori, cosicché in tal caso non c'entrerebbero affatto i giudizi divini? Come se i piccoli stessi che muoiono in questo modo nel peccato si fossero scelti di propria volontà al momento della nascita genitori negligenti nei loro confronti! E che dire quando un bambino talvolta spira prima che gli si possa prestare soccorso attraverso il ministero del battezzatore? Parecchie volte infatti, anche se i genitori si affrettano e i ministri sono pronti a impartire il Battesimo al bambino, esso non gli viene dato lo stesso poiché non vuole Dio, che non lo trattiene in questa vita appena quel tanto necessario a fargli somministrare il sacramento. E che vogliamo dire poi del fatto che talvolta si è potuto prestare il soccorso del Battesimo a bambini figli di non credenti perché non andassero in perdizione, e a figli di credenti no? Qui certamente si dimostra che presso Dio non ci sono riguardi personali, ( Rm 2,11; Col 3,25 ) altrimenti libererebbe i figli di chi lo venera piuttosto che quelli dei suoi nemici. 13.32 - Anche per Pelagio la grazia non è data secondo i nostri meriti Ordunque, dato che adesso trattiamo del dono della perseveranza, per qual motivo a uno che sta per morire non battezzato si presta il soccorso di non morire senza battesimo e a un battezzato che deve cadere non si presta il soccorso di morire prima? Vorremmo ancora una volta dar retta all'assurdità per cui si sostiene che non giova affatto ad alcuno di morire prima della caduta, perché sarà giudicato secondo quelle azioni che Dio antevedeva che egli avrebbe fatto se fosse vissuto? Un pensiero così stravolto e tanto violentemente contrario all'integrità della fede, chi lo vorrà ascoltare pazientemente? Chi lo vorrà sopportare? Eppure è costretto a dire ciò chi non ammette che la grazia di Dio non viene data secondo i nostri meriti. Ma se uno non vuole sostenere una tesi irragionevole come questa: chiunque muore viene giudicato dalla prescienza divina secondo quello che egli avrebbe fatto se fosse vissuto, e se uno scorge quanto siano grandi e manifeste la falsità e l'assurdità di una simile convinzione, non c'è più motivo di ripetere quello che la Chiesa ha condannato nei pelagiani e ha fatto condannare da Pelagio stesso, cioè che la grazia viene data secondo i nostri meriti. Infatti vedono che da questa vita alcuni bambini sono tolti non rigenerati, per passare alla morte eterna, altri rigenerati per passare alla vita eterna; e che di quelli stessi rigenerati, alcuni partono da questo mondo dopo aver perseverato fino alla fine, altri vi sono trattenuti finché non cadono. Eppure non sarebbero certamente caduti, se avessero potuto partire di qui prima di cadere; e altri ancora dopo essere caduti non escono da questa vita finché non si ravvedono; e sarebbero periti, se fossero usciti prima di ravvedersi. 13.33 - Conclusione Da tutto ciò si dimostra abbastanza chiaramente che la grazia di Dio che ci fa sia iniziare sia perseverare fino alla fine, non viene data secondo i nostri meriti; anzi viene data secondo la volontà di Dio, segretissima, ma anche giustissima, sapientissima, generosissima, perché quelli che ha predestinato, li ha anche chiamati ( Rm 8,30 ) con quella chiamata di cui è detto: Senza ripensamenti sono i doni e la chiamata di Dio. ( Rm 11,29 ) Gli uomini non devono mai affermare con sicurezza che un individuo appartiene a quella chiamata, se non quando sia uscito da questa vita; ma in questa vita umana che sulla terra è una tentazione, ( Gb 7,1 ) chi crede di stare in piedi veda di non cadere. ( 1 Cor 10,12 ) Per ciò appunto ( come abbiamo detto sopra ), quelli che non sono destinati a perseverare sono mescolati dalla previdentissima volontà di Dio a quelli che sapranno perseverare, affinché apprendiamo a non presumere grandezze, ma a piegarci alle cose umili ( Rm 12,16 ) e con timore e tremore ci adoperiamo per la nostra salvezza: Dio infatti è quello che opera in noi il volere e l'operare secondo le sue intenzioni. ( Fil 2,12.13 ) Noi dunque vogliamo, ma è Dio che opera in noi il volere; noi dunque operiamo, ma è Dio che opera in noi l'operare, secondo il suo beneplacito. Questo è utile a noi di credere e di sostenere, questo è pio, questo è vero, affinché la nostra confessione sia umile e sottomessa e sia rapportato tutto a Dio. Pensando crediamo, pensando parliamo, pensando facciamo, qualunque cosa sia quello che facciamo, ma in quello che riguarda la via della pietà e il vero culto di Dio, non siamo capaci di pensare qualcosa da soli, come venisse proprio da noi, ma la nostra sufficienza proviene da Dio. ( 2 Cor 3,5 ) Infatti non sono in nostro potere i nostri cuori e i nostri pensieri, e lo stesso Ambrogio che si era espresso così, dice anche: Chi è tanto beato che nel suo cuore si elevi sempre verso Dio? Ma come può avvenire ciò senza l'aiuto divino? In nessun modo, certo. Anche precedentemente, egli continua, la medesima Scrittura dice: "Beato l'uomo il cui ausilio vienE da te, o Signore; l'elevazione è nel suo cuore". ( Sal 84,6 ) E se Ambrogio diceva ciò, di sicuro non solo lo leggeva nelle Sacre Scritture, ma lo sentiva anche nel suo cuore, cosa che trattandosi di un uomo simile non si può mettere in dubbio. Dunque quello che si chiede nei sacri misteri ai fedeli, cioè che abbiano il cuore in alto verso Dio, si riconosce come un dono del Signore; e per questo dono il sacerdote dopo tale richiamo esorta, coloro ai quali l'ha rivolto, a rendere grazie al Signore Dio nostro; ed essi rispondono che ciò è degno e giusto. Se infatti il nostro cuore non è in nostro potere, ma è sostenuto dall'aiuto divino, per elevarsi e per provare il gusto delle cose di lassù, dove è Cristo, assiso alla destra di Dio, non di quelle della terra, ( Col 3,1.2 ) a chi bisogna render grazie di una cosa tanto grande se non al Signore nostro Dio che la concede, che attraverso tale beneficio, liberandoci dalla bassezza di questo mondo, ci elesse e ci predestinò prima della creazione del mondo? 14.34 - Bisogna predicare la predestinazione Ma dicono che la dottrina della predestinazione è controproducente per l'efficacia della predicazione. Come se fosse stata controproducente la predicazione dell'Apostolo! Non è forse vero che quel grande, dottore delle genti nella fede e nella verità, ha insistito tante volte anche sulla predestinazione e non per questo cessò di predicare la parola di Dio? Anche se diceva: Dio è infatti quello che opera in voi il volere e l'operare secondo le sue intenzioni, ( Fil 2,13 ) nel medesimo tempo egli stesso ci esortava, sia perché volessimo ciò che piace a Dio, sia perché lo mettessimo in pratica. Diceva: Colui che ha iniziato in voi un'opera buona, la porterà a termine fino al giorno di Cristo Gesù, ( Fil 1,6 ) però consigliava anche gli uomini a iniziare e a perseverare fino alla fine. Veramente il Signore stesso ha ordinato agli esseri umani di credere, dicendo: Credete in Dio e credete in me; ( Gv 14,1 ) eppure non per questo si tratta di una proposizione falsa o di una spiegazione vana quando dice: Nessuno viene a me, cioè nessuno crede in me, se non gli è stato dato dal Padre mio. ( Gv 6,66 ) E nemmeno potremo rovesciare l'ordine e dire che se è vera questa spiegazione, allora è vana quella prescrizione. Per qual motivo dunque dovremmo pensare che per predicare, per insegnare, per prescrivere, per riprendere, tutte cose cui la Scrittura divina ricorre continuamente, sia inutile la dottrina della predestinazione, quando la Scrittura stessa v'insiste? 14.35 - È la prescienza e la preparazione divina dei benefici O forse qualcuno oserà dire che Dio non conosceva per prescienza coloro a cui avrebbe concesso di credere o coloro che avrebbe dato al Figlio suo, perché di essi non perdesse nessuno? ( Gv 18,9 ) Ma se aveva prescienza di queste cose, certo l'aveva anche dei suoi benefici con cui si degna di liberarci. Questa è la predestinazione dei santi, nient'altro: cioè la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio, con i quali indubbiamente sono liberati tutti quelli che sono liberati. E tutti gli altri dove sono lasciati dal giusto giudizio divino se non nella massa della perdizione? Dove sono stati lasciati gli abitanti di Tiro e di Sidone, che pure avrebbero potuto credere, se avessero visto quelle prodigiose manifestazioni di Cristo? Però a loro non era stato concesso di credere e quindi fu loro negato anche il mezzo di credere. Da ciò si vede che certuni hanno per natura fra le loro qualità spirituali un dono divino d'intelligenza per cui si muoverebbero verso la fede, se udissero parole o vedessero miracoli proporzionati alla loro mentalità; eppure, se per il superiore giudizio di Dio la predestinazione della grazia non li ha differenziati dalla massa di perdizione, non sono impiegati per loro quelle parole e quei prodigi divini per mezzo dei quali potrebbero credere, udendoli e vedendoli personalmente. Nella stessa massa di perdizione furono lasciati anche i Giudei, che non poterono credere ai miracoli tanto grandi e splendidi compiuti al loro cospetto. Il Vangelo non tace sul motivo che impedì loro di credere, quando dice: Ma benché avesse fatto tanto grandi miracoli di fronte a loro, non credettero in lui perché si adempissero le parole dette dal profeta Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? E il braccio del Signore a chi è stato rivelato? E non potevano credere perché ancora aveva detto Isaia: Ha accecato i loro occhi e indurito il loro cuore perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore, né si convertano, né io li risani. ( Gv 12,37-40 ) Non erano accecati alla stessa maniera gli occhi né così indurito il cuore degli abitanti di Tiro e di Sidone, perché questi avrebbero creduto, se avessero veduto i miracoli come li videro costoro. Però a loro non giovò il fatto che potevano credere, perché non erano stati predestinati da Colui del quale imperscrutabili sono i giudizi e impenetrabili le vie; né ai Giudei avrebbe creato ostacolo il fatto che non potevano credere, se fossero stati predestinati in modo che Dio illuminasse la loro cecità e volesse togliere ai loro petti induriti il cuore di pietra. Quello che il Signore disse agli abitanti di Tiro e di Sidone forse si può intendere in un qualche altro modo, ma nessuno viene a Cristo se non quello a cui è stato dato, e viene dato a coloro che sono stati eletti in lui prima della creazione del mondo; questo senza dubbio confessa colui che ode la parola divina con l'orecchio della carne senza aver sordo il cuore. E tuttavia questa predestinazione, che viene spiegata abbastanza apertamente dalle stesse parole del Vangelo, non impedisce che il Signore anche per l'inizio dica quello che ho ricordato poco sopra: Credete in Dio e credete in me, ( Gv 14,1 ) e per la perseveranza: Bisogna sempre pregare e non venire mai meno. ( Lc 18,1 ) Ascoltano queste parole e le applicano quelli ai quali è stato dato; ma non le applicano, sia che le odano, sia che non le odano, quelli ai quali non è stato dato, perché a voi, dice, è stato dato di conoscere il mistero del regno dei cieli; a loro invece non è stato dato. ( Mt 13,11 ) E la prima cosa appartiene alla misericordia, l'altra al giudizio di Colui a cui dice l'anima nostra: Canterò a te, Signore, la [ tua ] misericordia e il [ tuo ] giudizio. ( Sal 101,1 ) 14.36 - Bisogna predicare tanto la fede e la perseveranza quanto la predestinazione Dunque predicare la predestinazione non deve impedire di predicare la fede che persevera e progredisce, così che odano quello che devono udire coloro ai quali è stata concessa l'obbedienza; infatti: Come potranno udire senza uno che predichi? ( Rm 10,14 ) Ma viceversa predicare la fede che progredisce e persevera fino alla fine non deve impedire di predicare la predestinazione, affinché chi vive con fede e obbedienza non si inorgoglisca di questa obbedienza come di un bene suo, non ricevuto, ma chi si gloria, si glori nel Signore. ( 1 Cor 1,31 ) In nulla dobbiamo gloriarci, dal momento che nulla ci appartiene. Questo appunto vide con fede piena Cipriano e con piena sicurezza espresse, dichiarando in queste parole la perfetta certezza della predestinazione. Infatti se in niente dobbiamo gloriarci, dal momento che niente ci appartiene, allora non bisogna gloriarsi nemmeno della più perseverante obbedienza, e non bisogna neppure chiamarla nostra, come se non ci fosse donata dall'alto. Anch'essa è dono di Dio e Dio, come professa ogni cristiano, seppe in prescienza che l'avrebbe donata ai chiamati con quella vocazione di cui si è detto: Senza ripensamenti sono i doni e la chiamata di Dio. ( Rm 11,29 ) Questa è dunque la predestinazione che con fede e umiltà predichiamo. E quell'uomo che sapeva insegnare ed agire, come credette in Cristo e visse perseverando pienamente nella santa obbedienza fino al martirio per Cristo, non per questo cessò di predicare il Vangelo, di esortare alla fede, alla condotta pia e alla stessa perseveranza fino alla fine. Tuttavia con l'espressione: In niente dobbiamo gloriarci, dal momento che niente ci appartiene, senza alcuna ambiguità ha indicato qual è la grazia di Dio autentica: essa cioè è quella che non viene data secondo i nostri meriti; ma poiché Dio aveva prescienza che l'avrebbe data, in queste parole di Cipriano senza dubbio è affermata la predestinazione; e se questo non impedì a Cipriano di predicare l'obbedienza, non deve certo impedirlo neppure a noi. 14.37 - Il dono di ascoltare con obbedienza Dunque benché diciamo che l'obbedienza è un dono di Dio, tuttavia esortiamo gli uomini ad essa. Ma a quelli che ascoltano con obbedienza l'esortazione proveniente dalla verità è appunto stato dato un dono di Dio, cioè di ascoltare con obbedienza; a quelli che non ascoltano con questo atteggiamento, il dono non è stato dato. Infatti non è stato uno qualunque, ma Cristo, a dire: Nessuno viene a me se non gli è stato dato dal Padre mio; ( Gv 6,66 ) e: A voi è stato dato di conoscere il mistero del regno dei cieli; a loro invece non è stato dato. ( Mt 13,11 ) Inoltre sulla continenza ha affermato: Non tutti capiscono questa parola, ma quelli ai quali è stato dato. ( Mt 19,11 ) E quando l'Apostolo esorta gli sposi alla pudicizia coniugale dice: Vorrei che tutti gli uomini fossero come me stesso; ma ciascuno ha un proprio dono da Dio, uno in un modo, uno in un altro. ( 1 Cor 7,7 ) Con queste parole dimostra chiaramente che non solo la continenza è un dono di Dio, ma anche la castità dei coniugati. Ora, benché tutto ciò sia vero, noi esortiamo lo stesso a queste virtù, per quanto è concesso alle possibilità di ciascuno di noi, perché anche questo è dono di Colui in mano del quale siamo noi e i nostri discorsi. ( Sap 7,16 ) Per cui l'Apostolo dice: Secondo la grazia che mi è stata data, come un sapiente architetto ho posto le fondamenta. ( 1 Cor 3,10 ) E in un altro passo: A ciascuno come il Signore ha dato; io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma Dio dette la crescita. Pertanto né chi pianta è qualcosa né chi irriga, ma Dio che dà la crescita. ( 1 Cor 3,5-7 ) E perciò esorta e predica rettamente solo colui che ne ha ricevuto il dono e solo colui che ne ha ricevuto il dono ascolta con obbedienza quella retta esortazione e quella retta predicazione. Ecco il motivo per cui il Signore, parlando a coloro che tengono aperte le orecchie della carne, diceva: Chi ha orecchie da intendere, intenda; ( Lc 8,8 ) Egli sapeva senza dubbio che non tutti hanno orecchie da intendere. Ma il Signore stesso mostra da chi le hanno avute tutti quelli che le hanno, quando dice: Darò loro un cuore per conoscermi e orecchie per ascoltarmi. ( Bar 2,31 ) Dunque avere orecchie da intendere è appunto il dono dell'obbedienza, affinché quelli che lo hanno vengano a Colui al quale nessuno viene se non gli è stato dato dal Padre suo. Esortiamo dunque e predichiamo; quelli che hanno orecchie da intendere, ci ascoltano con obbedienza; ma per coloro che non le hanno si verifica quello che è scritto: affinché intendendo non intendano; ( Mt 13,13 ) cioè: pur intendendo con il senso del corpo, non intenderanno con l'assenso del cuore. Ma perché alcuni hanno orecchie da intendere ed altri no, cioè perché ad alcuni è stato concesso dal Padre di venire al Figlio e ad altri no? In quanto a questo chi comprese il pensiero del Signore o chi ne fu il suo consigliere? ( Rm 11,34 ) Oppure si può rispondere: Chi sei tu, o uomo, per rispondere a Dio? ( Rm 9,20 ) Forse bisognerà negare quello che è manifesto perché non si può capire quello che è occulto? Forse, dico io, quando scorgiamo che una cosa è in un determinato modo, sosterremo il contrario per il fatto che non possiamo scoprire perché è in quel modo? 15.38 - La predestinazione non vanifica la correzione più della prescienza Ma dicono, come voi scrivete: "Nessuno si può incitare con il pungolo del rimprovero, se si dirà nelle riunioni della Chiesa di fronte a molti ascoltatori: Così sta la sentenza decretata dalla divina volontà sulla predestinazione; alcuni di voi, ricevuta la volontà di obbedire, dalla mancanza di fede verranno alla fede, oppure ricevuta la perseveranza, nella fede rimarranno; ma voi altri tutti che indugiate nei piaceri del peccato, è per questo che non ve ne siete ancora rialzati, perché l'aiuto della grazia misericordiosa non vi ha fino a questo momento sollevato. Ma se voi siete di quelli non ancora chiamati, che però il Signore nella sua grazia ha predestinato all'elezione, riceverete quella grazia dalla quale vorrete essere eletti e lo sarete; se siete di quelli che obbediscono, ma predestinati ad essere respinti, vi saranno sottratte le forze dell'obbedienza perché cessiate di obbedire". Anche se si dice tutto ciò, pure tutto questo non ci deve distogliere dal confessare la vera grazia di Dio, cioè quella che non viene data secondo i nostri meriti, e dal confessare contemporaneamente secondo questa grazia la predestinazione dei santi. Così pure non siamo distolti dal confessare la prescienza di Dio, anche se di essa qualcuno parla al popolo in questa maniera: "Sia che voi viviate ora rettamente, sia che no, in seguito sarete quelli che Dio sapeva nella sua prescienza che sareste stati, buoni se vi previde buoni, cattivi se vi previde cattivi". Allora, se dopo aver udito ciò alcuni si rivolgono all'indolenza e all'apatia e da un atteggiamento solerte precipitano dietro le loro concupiscenze nella dissolutezza, forse per questo bisognerà pensare che è falso quanto è stato detto sulla prescienza di Dio? Non è forse vero che se Dio ha avuto prescienza che essi sarebbero stati buoni, essi saranno buoni, per quanto grande sia la cattiveria in cui si trovino ora, e che se invece Dio ha previsto che sarebbero stati cattivi, cattivi saranno, per quanto grande sia la bontà in cui li possiamo vedere al presente? Ci fu un tale nel nostro monastero che quando i confratelli lo biasimavano perché faceva cose che non doveva fare, dava questa risposta: "Comunque io sia ora, sarò quello che Dio ha previsto che sarei stato". E senz'altro diceva la verità, ma per questo non progrediva nel bene; anzi arrivò a tal punto nel male che, abbandonata la comunità monastica divenne come un cane che ritorna sul suo vomito; eppure a tutt'oggi è incerto cosa sia destinato a diventare. Dunque forse per anime come questa bisogna negare o tacere le verità che si affermano nella prescienza di Dio, e proprio allora tacerle, quando a tacerle si incorre in altri errori? 16.39 - Quelli che non pregano perché Dio conosce ciò che ci è necessario Ci sono anche quelli che per questo motivo non pregano o pregano con freddezza, perché sanno, per averlo detto il Signore, che Dio conosce ciò che è necessario per noi prima che noi glielo chiediamo. ( Mt 6,8 ) E allora per simili individui penseremo che bisogna tralasciare la verità di questa affermazione o che bisogna cancellarla dal Vangelo? Al contrario: come risulta, Dio ha preparato alcuni doni che farà anche a chi non li implora, come l'inizio della fede, altri che farà solo a chi li implora, come la perseveranza fino alla fine; allora colui che pensa di poter avere da se stesso questa virtù, non pregherà per ottenerla. Dunque bisogna guardarsi dal pericolo di lasciare estinguere la preghiera e divampare l'orgoglio per paura di diminuire il fervore dell'esortazione. 16.40 - Quando è opportuno tacere e quando bisogna parlare Si dica allora la verità, specialmente quando qualche problema spinge a dirla; e lasciamo che quelli che ne sono capaci comprendano; altrimenti, se si tace per quelli che non possono capire, non solo sono defraudati della verità, ma sono addirittura conquistati dal falso quelli che potrebbero conquistare il vero e con esso mettersi al riparo dalla falsità. È facile, anzi anche utile, tacere qualche verità a causa dei poco dotati. Infatti per questo è stato detto dal Signore: Ho ancora molte cose da dirvi, ma per il momento non siete ancora in grado di portarle, ( Gv 16,12 ) e dall'Apostolo: Non potei parlare a voi come a uomini spirituali, ma come a uomini carnali; come a bambini in Cristo vi diedi a bere latte, non cibo solido; infatti non eravate ancora in grado di riceverlo e ancora non lo siete. ( 1 Cor 3,1-2 ) Per quanto, usando un certo modo di esprimersi, può avvenire che ciò che si dice sia latte per i bambini e cibo solido per gli adulti; così se diciamo: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio, ( Gv 1,1 ) quale cristiano può tacere queste verità? Ma quale cristiano può comprenderle? E che cosa di più elevato si può ritrovare nella sana dottrina? Eppure questo non viene taciuto né ai bambini né ai grandi, né i grandi lo tengono nascosto ai bambini. Ma è un conto quando c'è una ragione per tacere una verità, e un altro conto quando c'è una necessità per dirla. Sarebbe lungo ricercare e riferire qui tutte le cause per tacere la verità; ma tuttavia una è anche questa: non rendere peggiori quelli che non comprendono per voler rendere più dotti quelli che comprendono, quando questi ultimi senza diventare più dotti, con il nostro silenzio non diventano nemmeno peggiori. Ma se una verità è di tal fatta che, quando noi gliela riveliamo, chi non può capire diventa peggiore, e quando invece manteniamo il silenzio, diventa peggiore chi può capire, in tal caso che dovremo fare? Non bisognerà forse dire la verità affinché chi può comprendere comprenda, piuttosto che tacere? Tacendo non solo nessuno dei due comprende, ma chi è più intelligente, personalmente peggiora. Al contrario, se quest'ultimo sentisse e capisse, per mezzo di lui anche parecchi altri apprenderebbero. Infatti quanto più uno è capace di apprendere, tanto più è adatto ad insegnare agli altri. Il nemico della grazia c'incalza e ci forza in tutte le maniere per farci credere che essa è data secondo i nostri meriti, in modo da non essere più grazia; ( Rm 11,6 ) e noi non vorremo dire tutto quello che possiamo in base all'autorità della Scrittura? Temiamo che dalle nostre parole sia offeso chi non può capire la verità; e non dovremmo temere che con il nostro silenzio chi è in grado di capirla cada vittima del falso? 16.41 - Predicare la predestinazione per non dimenticare che sono doni di Dio sia la grazia che la perseveranza sino alla fine Allora bisogna predicare la predestinazione nel modo evidente in cui la santa Scrittura ne parla, e dire che nei predestinati i doni e la chiamata del Signore sono senza ripensamenti, oppure confessare che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti, come intendono i pelagiani, per quanto, come abbiamo detto già più volte, negli Atti dei vescovi orientali leggiamo che questa tesi fu condannata per bocca dello stesso Pelagio. Ma questi ai quali è rivolta la nostra attenzione sono molto lontani dall'aberrante eresia pelagiana; benché non vogliano ancora riconoscere come predestinati coloro che attraverso la grazia di Dio divengano e permangano obbedienti, tuttavia già ammettono che questa grazia previene la volontà di coloro ai quali è data. Questa ammissione evidentemente è fatta perché si creda che la grazia viene data gratuitamente, come sostiene la verità, e non per merito della volontà che l'ha preceduta, come pretende contro la verità l'eresia pelagiana. Dunque la grazia previene anche la fede; altrimenti, se è la fede che previene la grazia, senza dubbio la previene anche la volontà, perché la fede senza la volontà non può esistere. Se invece la grazia previene la fede, poiché previene la volontà, certo previene ogni forma di obbedienza; previene anche la carità, che è l'unica virtù con la quale si obbedisce a Dio in maniera autentica e dolce; e tutte queste qualità è la grazia che le previene e le opera in colui al quale è concessa. 17.41 - Fra questi beni resta la perseveranza fino alla fine, che invano si richiederebbe a Dio ogni giorno, se Dio stesso, prestando orecchio a colui che prega, non l'operasse in lui attraverso la sua grazia. Ormai vi accorgerete quanto sia alieno dalla verità negare che sia un dono di Dio la perseveranza fino alla fine della vita terrena, dal momento che Dio stesso mette fine a questa vita quando vuole, e se vi mette fine prima di una caduta imminente, fa perseverare l'uomo fino alla fine. Ma più mirabile e per i fedeli più evidente è la sovrabbondanza della bontà divina, perché questa grazia è data anche ai bambini, in un'età in cui non può essere donata l'obbedienza. Dunque tutti questi doni Dio li può fare a chi vuole, ma in ogni caso ha previsto certamente che li farà e li ha preparati nella sua prescienza. Quelli che ha predestinato, li ha anche chiamati, ( Rm 8,30 ) di quella chiamata della quale, non mi stanco mai di ricordarlo, è detto: Senza ripensamenti sono i doni e la chiamata di Dio. ( Rm 11,29 ) Infatti nella sua prescienza che non può ingannarsi né cambiare, predestinare è per Dio disporre le sue opere future: questo esattamente e nient'altro. Se Dio ha prescienza che uno sarà casto, quest'individuo, benché di ciò egli non abbia certezza, si adopera per essere casto; così quello che ha predestinato ad essere casto, benché anch'egli non ne possa essere certo, non cessa di adoperarsi allo stesso scopo, quando sente che quello che diventerà lo diventerà per dono di Dio. Al contrario il suo sentimento di carità ne gioisce, ed egli non prova orgoglio, ( 1 Cor 13,4; 1 Cor 4,6 ) come se quello che ha non lo avesse ricevuto. Non solo dunque se si predica la predestinazione costui non viene impedito dal praticare la castità, ma anzi riceve aiuto affinché chi si gloria si glori nel Signore. ( 1 Cor 1,31 ) 17.42 - Confronto con le altre virtù Ma quello che ho detto della castità si può ripetere come verissimo anche della fede, della pietà, della carità, della perseveranza e, per non continuare a citarle una per una, di ogni forma di obbedienza con la quale ci si sottomette a Dio. Questi nostri fratelli lasciano in nostro potere solo l'inizio della fede e la perseveranza fino alla fine; essi non credono che queste due virtù siano doni di Dio e quindi escludono che per ottenerle e conservarle sia Dio ad operare i nostri pensieri e le nostre volontà; ogni altra cosa però ammettono che sia lui a concederla e che il credente la ottenga da lui attraverso la fede. Ma allora perché, quando si tratta di raccomandare e predicare tutte queste altre virtù, non temono anche in questo caso che la dottrina della predestinazione possa costituire un ostacolo? Forse sosterranno che nemmeno queste sono predestinate? Di conseguenza, o esse non sono date da Dio, oppure Egli non sapeva che le avrebbe date. Ma se sono date da Dio ed Egli aveva prescienza che le avrebbe concesse, allora è sicuro che le ha predestinate. Essi stessi esortano alla castità, alla carità, alla pietà e a tutte le altre virtù che confessano essere doni di Dio; non possono d'altronde negare che Egli ha avuto prescienza di questi doni e che quindi essi sono stati predestinati. Infine non dicono nemmeno che queste loro esortazioni subiscono un impedimento se si predica la predestinazione divina, cioè se si predica che Dio ebbe prescienza di questi suoi doni futuri. Allora alla stessa maniera si avvedano che non vengono ostacolate le loro esortazioni né alla fede né alla perseveranza, se riconoscono che anche queste, come è vero, sono doni di Dio, che Egli ne ebbe prescienza e che perciò la loro largizione fu predestinata. Piuttosto comprendano che ad essere ostacolato e sovvertito, quando si predica la predestinazione, è solo quell'errore assolutamente rovinoso per cui si dice che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti, con la conseguenza che chi si gloria, non si gloria nel Signore, ma in se stesso. 17.43 - Secondo i pelagiani non si deve predicare che la fede e la perseveranza sono doni di Dio Quelli che possiedono il dono di volare avanti con il loro ingegno, sopportino che io mi soffermi a spiegare tutto ciò più chiaramente a coloro che sono un po' tardi. Dice l'apostolo Giacomo: Se qualcuno di voi manca della sapienza, la chieda a Dio che concede a tutti a profusione e non rimprovera, e gli sarà data. ( Gc 1,5 ) È scritto anche nei Proverbi di Salomone: Il Signore dà la sapienza. ( Pr 2,6 ) L'autorità del libro della Sapienza è stata utilizzata da grandi e dotti uomini che commentarono le Scritture divine prima di noi, e riguardo alla continenza vi si legge: Sapendo che nessuno può essere continente se non lo concede Dio; e questo stesso apparteneva alla sapienza, sapere di chi era questo dono. ( Sap 8,21 ) Ecco dunque due doni di Dio: sapienza e continenza, per non parlare degli altri. Anche per questi nostri fratelli ciò è pacifico; infatti non sono pelagiani che lottino contro questa trasparente verità con la dura aberrazione degli eretici, ha principio da noi ad ottenere che ci siano date da Dio queste virtù"; di questa fede essi pretendono che appartenga a noi cominciare ad averla e permanervi fino alla fine, come se non la ricevessimo da Dio. Ma con questa pretesa senza dubbio si contraddicono le parole dell'Apostolo: Cosa possiedi infatti che tu non abbia ricevuto? ( 1 Cor 4,7 ) E viene contraddetto anche il martire Cipriano, quando raccomanda: Non dobbiamo gloriarci in nulla perché nulla ci appartiene. Ma noi abbiamo un bel ripetere tutte queste cose e molte altre ancora fino alla noia; abbiamo dimostrato che sia l'inizio della fede sia la perseveranza fino alla fine sono doni di Dio, che Dio non poteva non avere prescienza di tutti i suoi futuri doni, quali sarebbero stati e a chi li avrebbe dati, e che perciò quelli che Egli libera e incorona sono oggetto della sua predestinazione. Dopo tutto ciò essi pensano ancora di dover obiettare: "La dottrina della predestinazione è contraria a una predicazione efficace, perché dopo averla ascoltata nessuno può più essere stimolato con il pungolo del rimprovero". Dicendo ciò, non vogliono che si predichi agli uomini che giungere alla fede e permanervi sono doni di Dio, perché non sembri che invece di esortarli li si induca alla disperazione; infatti ascoltando rifletterebbero che per l'ignoranza umana resta incerto a chi Dio largisca questi doni e a chi no. E allora perché anche loro predicano in accordo con noi che sono doni di Dio la sapienza e la continenza? Essi affermano che queste due virtù sono doni di Dio, ma secondo loro in questo caso non viene ostacolata l'esortazione che rivolgiamo agli uomini ad essere sapienti e continenti. Dunque per quale motivo sostengono che noi non possiamo più esortare gli uomini a venire alla fede e a rimanervi fino alla fine, se diciamo che anche questi ultimi sono doni di Dio, come pure è comprovato dalla testimonianza delle sue Scritture? 17.44 - Perché allora dichiarano doni di Dio la sapienza e la continenza? Ecco, tacciamo della continenza e trattiamo ora della sola sapienza; l'apostolo Giacomo, che abbiamo già citato, dice: La sapienza che viene dall'alto in primo luogo è pudica, poi pacifica, moderata, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza simulazione. ( Gc 3,17 ) Vi vorrete accorgere allora, ve ne scongiuro, di quanti e quanto grandi beni sia ricolma la sapienza che discende dal Padre della luce? Ogni concessione ottima, dice ancora l'Apostolo, e ogni dono perfetto viene dall'alto, discendendo dal Padre della luce. ( Gc 1,17 ) Perché dunque, per tralasciare il resto, rimproveriamo gli impudichi e i litigiosi, se predichiamo loro che la sapienza pudica e pacifica è un dono di Dio? E perché non abbiamo timore che essi, non potendo conoscere la volontà divina, trovino in questa predicazione maggior motivo per disperarsi che per lasciarsi esortare? Potrebbero anche essere stimolati dal pungolo del rimprovero non contro se stessi, ma piuttosto contro di noi, perché li biasimiamo di non avere ciò che proprio noi sosteniamo non essere procurato dalla volontà umana, ma donato dalla generosità divina. Perché la predicazione di questa grazia non ha distolto lo stesso apostolo Giacomo dal rimproverare i turbolenti? Infatti egli dice: Se avete invidia amara e ci sono discordie nei vostri cuori, non ve ne gloriate e non siate mendaci contro la verità; questa non è la sapienza che discende dall'alto, anzi è terrena, carnale, diabolica; dove infatti c'è invidia e discordia, lì c'è disordine ed ogni opera cattiva. ( Gc 3,14-16 ) Dunque bisogna rimproverare i turbolenti secondo le testimonianze della Parola divina e secondo le regole di condotta che questi fratelli hanno in comune con noi; e non resta impedito il rimprovero, se predichiamo che la sapienza pacifica, in base alla quale si correggono i litigiosi e si risanano, è un dono di Dio. A questo stesso modo bisogna riprendere quelli che non hanno fede o quelli che non permangono nella fede, e la predicazione della grazia di Dio, che insiste nel presentare la fede e la perseveranza nella fede come doni di Dio, non impedisce questa riprensione. Infatti è vero che dalla fede si ottiene la sapienza, come dice l'apostolo Giacomo: Se qualcuno di voi manca della sapienza, la chieda a Dio che concede a tutti a profusione e non rimprovera, e gli sarà data; e poi aggiunge: La chieda con fede senza affatto esitare. ( Gc 1,5-6 ) Ora, anche se la fede è data prima che la chieda colui che la riceve, non si dovrà dire che non è un dono di Dio, ma che proviene da noi, perché ci è stata data senza che noi l'avessimo chiesta. L'Apostolo infatti dice chiarissimamente: Pace ai fratelli e carità con la fede da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo. ( Ef 6,23 ) Dunque da chi concede la pace e la carità proviene anche la fede, per cui chiediamo a lui non solo che essa sia accresciuta a chi la possiede, ma anche che sia concessa a chi non la possiede. 17.45 - I fratelli marsigliesi dovrebbero esortare a quelle sole virtù che secondo loro provengono da noi: l'inizio della fede e la perseveranza Ma questi ai quali rivolgiamo la nostra trattazione, vanno proclamando, è vero, che predicare la predestinazione e la grazia impedisce di esortare, però poi non esortano solo a quei doni che sostengono non dati da Dio, ma provenienti da noi stessi, come sono l'inizio della fede e la perseveranza in essa fino alla fine; eppure questo esclusivamente dovrebbero fare: solo esortare i non credenti alla fede e i credenti a rimanere nella fede. Ma ci sono anche le virtù che essi riconoscono insieme con noi come doni di Dio per demolire in accordo con le nostre tesi l'errore dei Pelagiani, e queste sono la pudicizia, la continenza, la pazienza e le altre qualità per mezzo delle quali si vive rettamente e che si ottengono dal Signore con la fede; ora riguardo ad esse dovrebbero mostrare che bisogna invocarle, ma limitarsi solo a questo: ad invocarle o per se stessi o per gli altri, senza esortare nessuno ad imprenderle e a mantenerle. Invece esortando con ogni loro energia anche alle virtù di questo genere e sostenendo che gli uomini di queste esortazioni hanno bisogno, dimostrano a sufficienza che non vengono impedite con tale predicazione nemmeno le esortazioni alla fede e alla perseveranza fino alla fine, se predichiamo che queste sono doni di Dio e che non provengono a nessuno da se stesso, ma sono dispensate dal Signore. 17.46 - Le parole Non spingerci in tentazione dimostrano che la perseveranza è un dono di Dio "Ma ciascuno abbandona la fede per colpa sua, quando cede e consente alla tentazione che lo induce ad abbandonarla". E chi lo nega? Ma non per questo bisognerà dire che la perseveranza nella fede non è un dono di Dio. È questo che ogni giorno chiede chi dice: Non spingerci in tentazione, ( Mt 6,13 ) e se è esaudito la riceve; ma se chiede ogni giorno di perseverare, evidentemente non spera di trovare la sua perseveranza in se stesso, ma in Dio. Ora io non voglio sovraccaricare la mia dimostrazione di troppe parole, ma piuttosto lascio loro da riflettere, perché scorgano dove vada a parare l'idea di cui sono persuasi: "predicando la predestinazione si insinua in chi ascolta più la disperazione che l'esortazione". Questo equivale a dire che l'uomo dispera della sua salvezza proprio quando ha appreso a non riporla in se stesso ma in Dio, mentre invece il Profeta grida: Maledetto chiunque ha speranza nell'uomo. ( Ger 17,5 ) 17.47 - Nella Scrittura la predestinazione può essere chiamata anche prescienza Questi sono dunque doni di Dio, che vengono dati agli eletti chiamati secondo il decreto, e fra questi doni c'è sia l'incominciare a credere sia il perseverare nella fede fino al termine di questa vita, come abbiamo provato con testimonianze tanto motivate e autorevoli; questi doni di Dio, dico, se non esiste la predestinazione che noi sosteniamo, non sono oggetto della prescienza divina, e invece lo sono; questa allora è la predestinazione che difendiamo. 18.47 - Per questo talvolta si indica questa predestinazione con il nome di prescienza, come dice l'Apostolo: Dio non ripudiò il suo popolo che conobbe in precedenza. ( Rm 11,2 ) Qui l'espressione: conobbe in precedenza s'intende rettamente solo con "predestinò", come dimostra il contesto del brano. Infatti parlava del residuo di Giudei che furono salvati, mentre tutti gli altri perivano. Più sopra aveva ricordato come il Profeta parlava ad Israele: Tutto il giorno tesi le mie mani ad un popolo disobbediente e ribelle ( Rm 10,21 ); e come se gli venisse replicato: "Dove sono finite le promesse di Dio ad Israele?", l'Apostolo subito prosegue: Dico dunque forse che Dio ha ripudiato il suo popolo? Neppure lontanamente: infatti anch'io sono israelita della stirpe di Abramo, della tribù di Beniamino ( Rm 11,1 ); e vuole dire: Infatti anch'io sono di questo popolo. Poi aggiunge la frase che ora esaminiamo: Dio non ripudiò il suo popolo, che conobbe in precedenza. E per dimostrare che il residuo fu riservato per grazia di Dio, non per i meriti delle loro opere, aggiunge: Non conoscete che cosa dice la Scrittura dove parla di Elia, in qual modo egli si lamenta con Dio contro Israele? ( Rm 11,2 ) con quello che segue. Ma qual è la risposta divina a lui? Ho riservato per me settemila uomini, che non curvarono il ginocchio davanti a Baal. ( Rm 11,4 ) Non dice: sono stati riservati a me, oppure: si sono riservati a me, ma: Ho riservato per me. Così, dice, anche al tempo presente c'è un residuo per elezione della grazia. Ma se è per la grazia, non è per le opere; altrimenti la grazia non è più grazia. ( Rm 11,5-6 ) E ricollegando tutto quello che ho già riferito sopra, esclama: E allora? E a questa interrogazione risponde: Quello che Israele cercava, non l'ha ottenuto; ma la parte eletta l'ha ottenuto; gli altri sono stati accecati. ( Rm 11,7 ) Dunque vuol far capire che questa parte eletta e questo residuo che fu creato per elezione della grazia è il popolo che Dio non ha ripudiato perché lo conobbe in precedenza. Questa è l'elezione con la quale Egli elesse in Cristo prima della creazione del mondo quelli che volle, perché fossero santi e immacolati al suo cospetto in carità, predestinandoli ad essere figli d'adozione. ( Ef 1,4-5 ) A nessuno dunque che comprenda queste espressioni è permesso di negare o dubitare che le parole dell'Apostolo: Dio non ripudiò il suo popolo, che conobbe in precedenza, vogliano significare la predestinazione. Il Signore conobbe in precedenza il residuo che Egli stesso avrebbe creato per elezione della grazia. Questo significa dunque che lo predestinò; infatti se lo predestinò, senza dubbio lo conobbe in precedenza; ma predestinare per Dio è conoscere in precedenza quello che Egli stesso farà. 13.32 - Anche per Pelagio la grazia non è data secondo i nostri meriti Ordunque, dato che adesso trattiamo del dono della perseveranza, per qual motivo a uno che sta per morire non battezzato si presta il soccorso di non morire senza battesimo e a un battezzato che deve cadere non si presta il soccorso di morire prima? Vorremmo ancora una volta dar retta all'assurdità per cui si sostiene che non giova affatto ad alcuno di morire prima della caduta, perché sarà giudicato secondo quelle azioni che Dio antevedeva che egli avrebbe fatto se fosse vissuto? Un pensiero così stravolto e tanto violentemente contrario all'integrità della fede, chi lo vorrà ascoltare pazientemente? Chi lo vorrà sopportare? Eppure è costretto a dire ciò chi non ammette che la grazia di Dio non viene data secondo i nostri meriti. Ma se uno non vuole sostenere una tesi irragionevole come questa: chiunque muore viene giudicato dalla prescienza divina secondo quello che egli avrebbe fatto se fosse vissuto, e se uno scorge quanto siano grandi e manifeste la falsità e l'assurdità di una simile convinzione, non c'è più motivo di ripetere quello che la Chiesa ha condannato nei pelagiani e ha fatto condannare da Pelagio stesso, cioè che la grazia viene data secondo i nostri meriti. Infatti vedono che da questa vita alcuni bambini sono tolti non rigenerati, per passare alla morte eterna, altri rigenerati per passare alla vita eterna; e che di quelli stessi rigenerati, alcuni partono da questo mondo dopo aver perseverato fino alla fine, altri vi sono trattenuti finché non cadono. Eppure non sarebbero certamente caduti, se avessero potuto partire di qui prima di cadere; e altri ancora dopo essere caduti non escono da questa vita finché non si ravvedono; e sarebbero periti, se fossero usciti prima di ravvedersi. 13.33 - Conclusione Da tutto ciò si dimostra abbastanza chiaramente che la grazia di Dio che ci fa sia iniziare sia perseverare fino alla fine, non viene data secondo i nostri meriti; anzi viene data secondo la volontà di Dio, segretissima, ma anche giustissima, sapientissima, generosissima, perché quelli che ha predestinato, li ha anche chiamati ( Rm 8,30 ) con quella chiamata di cui è detto: Senza ripensamenti sono i doni e la chiamata di Dio. ( Rm 11,29 ) Gli uomini non devono mai affermare con sicurezza che un individuo appartiene a quella chiamata, se non quando sia uscito da questa vita; ma in questa vita umana che sulla terra è una tentazione, ( Gb 7,1 ) chi crede di stare in piedi veda di non cadere. ( 1 Cor 10,12 ) Per ciò appunto ( come abbiamo detto sopra21 ), quelli che non sono destinati a perseverare sono mescolati dalla previdentissima volontà di Dio a quelli che sapranno perseverare, affinché apprendiamo a non presumere grandezze, ma a piegarci alle cose umili ( Rm 12,16 ) e con timore e tremore ci adoperiamo per la nostra salvezza: Dio infatti è quello che opera in noi il volere e l'operare secondo le sue intenzioni. ( Fil 2,12.13 ) Noi dunque vogliamo, ma è Dio che opera in noi il volere; noi dunque operiamo, ma è Dio che opera in noi l'operare, secondo il suo beneplacito. Questo è utile a noi di credere e di sostenere, questo è pio, questo è vero, affinché la nostra confessione sia umile e sottomessa e sia rapportato tutto a Dio. Pensando crediamo, pensando parliamo, pensando facciamo, qualunque cosa sia quello che facciamo, ma in quello che riguarda la via della pietà e il vero culto di Dio, non siamo capaci di pensare qualcosa da soli, come venisse proprio da noi, ma la nostra sufficienza proviene da Dio. ( 2 Cor 3,5 ) Infatti non sono in nostro potere i nostri cuori e i nostri pensieri,22 e lo stesso Ambrogio che si era espresso così, dice anche: Chi è tanto beato che nel suo cuore si elevi sempre verso Dio? Ma come può avvenire ciò senza l'aiuto divino? In nessun modo, certo. Anche precedentemente, egli continua, la medesima Scrittura dice: "Beato l'uomo il cui ausilio vienE da te, o Signore; l'elevazione è nel suo cuore". ( Sal 84,6 ) E se Ambrogio diceva ciò, di sicuro non solo lo leggeva nelle Sacre Scritture, ma lo sentiva anche nel suo cuore, cosa che trattandosi di un uomo simile non si può mettere in dubbio. Dunque quello che si chiede nei sacri misteri ai fedeli, cioè che abbiano il cuore in alto verso Dio, si riconosce come un dono del Signore; e per questo dono il sacerdote dopo tale richiamo esorta, coloro ai quali l'ha rivolto, a rendere grazie al Signore Dio nostro; ed essi rispondono che ciò è degno e giusto. Se infatti il nostro cuore non è in nostro potere, ma è sostenuto dall'aiuto divino, per elevarsi e per provare il gusto delle cose di lassù, dove è Cristo, assiso alla destra di Dio, non di quelle della terra, ( Col 3,1.2 ) a chi bisogna render grazie di una cosa tanto grande se non al Signore nostro Dio che la concede, che attraverso tale beneficio, liberandoci dalla bassezza di questo mondo, ci elesse e ci predestinò prima della creazione del mondo? 14.34 - Bisogna predicare la predestinazione Ma dicono che la dottrina della predestinazione è controproducente per l'efficacia della predicazione. Come se fosse stata controproducente la predicazione dell'Apostolo! Non è forse vero che quel grande, dottore delle genti nella fede e nella verità, ha insistito tante volte anche sulla predestinazione e non per questo cessò di predicare la parola di Dio? Anche se diceva: Dio è infatti quello che opera in voi il volere e l'operare secondo le sue intenzioni, ( Fil 2,13 ) nel medesimo tempo egli stesso ci esortava, sia perché volessimo ciò che piace a Dio, sia perché lo mettessimo in pratica. Diceva: Colui che ha iniziato in voi un'opera buona, la porterà a termine fino al giorno di Cristo Gesù, ( Fil 1,6 ) però consigliava anche gli uomini a iniziare e a perseverare fino alla fine. Veramente il Signore stesso ha ordinato agli esseri umani di credere, dicendo: Credete in Dio e credete in me; ( Gv 14,1 ) eppure non per questo si tratta di una proposizione falsa o di una spiegazione vana quando dice: Nessuno viene a me, cioè nessuno crede in me, se non gli è stato dato dal Padre mio. ( Gv 6,66 ) E nemmeno potremo rovesciare l'ordine e dire che se è vera questa spiegazione, allora è vana quella prescrizione. Per qual motivo dunque dovremmo pensare che per predicare, per insegnare, per prescrivere, per riprendere, tutte cose cui la Scrittura divina ricorre continuamente, sia inutile la dottrina della predestinazione, quando la Scrittura stessa v'insiste? 14.35 - È la prescienza e la preparazione divina dei benefici O forse qualcuno oserà dire che Dio non conosceva per prescienza coloro a cui avrebbe concesso di credere o coloro che avrebbe dato al Figlio suo, perché di essi non perdesse nessuno? ( Gv 18,9 ) Ma se aveva prescienza di queste cose, certo l'aveva anche dei suoi benefici con cui si degna di liberarci. Questa è la predestinazione dei santi, nient'altro: cioè la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio, con i quali indubbiamente sono liberati tutti quelli che sono liberati. E tutti gli altri dove sono lasciati dal giusto giudizio divino se non nella massa della perdizione? Dove sono stati lasciati gli abitanti di Tiro e di Sidone, che pure avrebbero potuto credere, se avessero visto quelle prodigiose manifestazioni di Cristo? Però a loro non era stato concesso di credere e quindi fu loro negato anche il mezzo di credere. Da ciò si vede che certuni hanno per natura fra le loro qualità spirituali un dono divino d'intelligenza per cui si muoverebbero verso la fede, se udissero parole o vedessero miracoli proporzionati alla loro mentalità; eppure, se per il superiore giudizio di Dio la predestinazione della grazia non li ha differenziati dalla massa di perdizione, non sono impiegati per loro quelle parole e quei prodigi divini per mezzo dei quali potrebbero credere, udendoli e vedendoli personalmente. Nella stessa massa di perdizione furono lasciati anche i Giudei, che non poterono credere ai miracoli tanto grandi e splendidi compiuti al loro cospetto. Il Vangelo non tace sul motivo che impedì loro di credere, quando dice: Ma benché avesse fatto tanto grandi miracoli di fronte a loro, non credettero in lui perché si adempissero le parole dette dal profeta Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? E il braccio del Signore a chi è stato rivelato? E non potevano credere perché ancora aveva detto Isaia: Ha accecato i loro occhi e indurito il loro cuore perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore, né si convertano, né io li risani. ( Gv 12,37-40 ) Non erano accecati alla stessa maniera gli occhi né così indurito il cuore degli abitanti di Tiro e di Sidone, perché questi avrebbero creduto, se avessero veduto i miracoli come li videro costoro. Però a loro non giovò il fatto che potevano credere, perché non erano stati predestinati da Colui del quale imperscrutabili sono i giudizi e impenetrabili le vie; né ai Giudei avrebbe creato ostacolo il fatto che non potevano credere, se fossero stati predestinati in modo che Dio illuminasse la loro cecità e volesse togliere ai loro petti induriti il cuore di pietra. Quello che il Signore disse agli abitanti di Tiro e di Sidone forse si può intendere in un qualche altro modo,23 ma nessuno viene a Cristo se non quello a cui è stato dato, e viene dato a coloro che sono stati eletti in lui prima della creazione del mondo; questo senza dubbio confessa colui che ode la parola divina con l'orecchio della carne senza aver sordo il cuore. E tuttavia questa predestinazione, che viene spiegata abbastanza apertamente dalle stesse parole del Vangelo, non impedisce che il Signore anche per l'inizio dica quello che ho ricordato poco sopra: Credete in Dio e credete in me, ( Gv 14,1 ) e per la perseveranza: Bisogna sempre pregare e non venire mai meno. ( Lc 18,1 ) Ascoltano queste parole e le applicano quelli ai quali è stato dato; ma non le applicano, sia che le odano, sia che non le odano, quelli ai quali non è stato dato, perché a voi, dice, è stato dato di conoscere il mistero del regno dei cieli; a loro invece non è stato dato. ( Mt 13,11 ) E la prima cosa appartiene alla misericordia, l'altra al giudizio di Colui a cui dice l'anima nostra: Canterò a te, Signore, la [ tua ] misericordia e il [ tuo ] giudizio. ( Sal 101,1 ) 14.36 - Bisogna predicare tanto la fede e la perseveranza quanto la predestinazione Dunque predicare la predestinazione non deve impedire di predicare la fede che persevera e progredisce, così che odano quello che devono udire coloro ai quali è stata concessa l'obbedienza; infatti: Come potranno udire senza uno che predichi? ( Rm 10,14 ) Ma viceversa predicare la fede che progredisce e persevera fino alla fine non deve impedire di predicare la predestinazione, affinché chi vive con fede e obbedienza non si inorgoglisca di questa obbedienza come di un bene suo, non ricevuto, ma chi si gloria, si glori nel Signore. ( 1 Cor 1,31 ) In nulla dobbiamo gloriarci, dal momento che nulla ci appartiene.24 Questo appunto vide con fede piena Cipriano e con piena sicurezza espresse, dichiarando in queste parole la perfetta certezza della predestinazione. Infatti se in niente dobbiamo gloriarci, dal momento che niente ci appartiene, allora non bisogna gloriarsi nemmeno della più perseverante obbedienza, e non bisogna neppure chiamarla nostra, come se non ci fosse donata dall'alto. Anch'essa è dono di Dio e Dio, come professa ogni cristiano, seppe in prescienza che l'avrebbe donata ai chiamati con quella vocazione di cui si è detto: Senza ripensamenti sono i doni e la chiamata di Dio. ( Rm 11,29 ) Questa è dunque la predestinazione che con fede e umiltà predichiamo. E quell'uomo che sapeva insegnare ed agire, come credette in Cristo e visse perseverando pienamente nella santa obbedienza fino al martirio per Cristo, non per questo cessò di predicare il Vangelo, di esortare alla fede, alla condotta pia e alla stessa perseveranza fino alla fine. Tuttavia con l'espressione: In niente dobbiamo gloriarci, dal momento che niente ci appartiene, senza alcuna ambiguità ha indicato qual è la grazia di Dio autentica: essa cioè è quella che non viene data secondo i nostri meriti; ma poiché Dio aveva prescienza che l'avrebbe data, in queste parole di Cipriano senza dubbio è affermata la predestinazione; e se questo non impedì a Cipriano di predicare l'obbedienza, non deve certo impedirlo neppure a noi. 14.37 - Il dono di ascoltare con obbedienza Dunque benché diciamo che l'obbedienza è un dono di Dio, tuttavia esortiamo gli uomini ad essa. Ma a quelli che ascoltano con obbedienza l'esortazione proveniente dalla verità è appunto stato dato un dono di Dio, cioè di ascoltare con obbedienza; a quelli che non ascoltano con questo atteggiamento, il dono non è stato dato. Infatti non è stato uno qualunque, ma Cristo, a dire: Nessuno viene a me se non gli è stato dato dal Padre mio; ( Gv 6,66 ) e: A voi è stato dato di conoscere il mistero del regno dei cieli; a loro invece non è stato dato. ( Mt 13,11 ) Inoltre sulla continenza ha affermato: Non tutti capiscono questa parola, ma quelli ai quali è stato dato. ( Mt 19,11 ) E quando l'Apostolo esorta gli sposi alla pudicizia coniugale dice: Vorrei che tutti gli uomini fossero come me stesso; ma ciascuno ha un proprio dono da Dio, uno in un modo, uno in un altro. ( 1 Cor 7,7 ) Con queste parole dimostra chiaramente che non solo la continenza è un dono di Dio, ma anche la castità dei coniugati. Ora, benché tutto ciò sia vero, noi esortiamo lo stesso a queste virtù, per quanto è concesso alle possibilità di ciascuno di noi, perché anche questo è dono di Colui in mano del quale siamo noi e i nostri discorsi. ( Sap 7,16 ) Per cui l'Apostolo dice: Secondo la grazia che mi è stata data, come un sapiente architetto ho posto le fondamenta. ( 1 Cor 3,10 ) E in un altro passo: A ciascuno come il Signore ha dato; io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma Dio dette la crescita. Pertanto né chi pianta è qualcosa né chi irriga, ma Dio che dà la crescita. ( 1 Cor 3,5-7 ) E perciò esorta e predica rettamente solo colui che ne ha ricevuto il dono e solo colui che ne ha ricevuto il dono ascolta con obbedienza quella retta esortazione e quella retta predicazione. Ecco il motivo per cui il Signore, parlando a coloro che tengono aperte le orecchie della carne, diceva: Chi ha orecchie da intendere, intenda; ( Lc 8,8 ) Egli sapeva senza dubbio che non tutti hanno orecchie da intendere. Ma il Signore stesso mostra da chi le hanno avute tutti quelli che le hanno, quando dice: Darò loro un cuore per conoscermi e orecchie per ascoltarmi. ( Bar 2,31 ) Dunque avere orecchie da intendere è appunto il dono dell'obbedienza, affinché quelli che lo hanno vengano a Colui al quale nessuno viene se non gli è stato dato dal Padre suo. Esortiamo dunque e predichiamo; quelli che hanno orecchie da intendere, ci ascoltano con obbedienza; ma per coloro che non le hanno si verifica quello che è scritto: affinché intendendo non intendano; ( Mt 13,13 ) cioè: pur intendendo con il senso del corpo, non intenderanno con l'assenso del cuore. Ma perché alcuni hanno orecchie da intendere ed altri no, cioè perché ad alcuni è stato concesso dal Padre di venire al Figlio e ad altri no? In quanto a questo chi comprese il pensiero del Signore o chi ne fu il suo consigliere? ( Rm 11,34 ) Oppure si può rispondere: Chi sei tu, o uomo, per rispondere a Dio? ( Rm 9,20 ) Forse bisognerà negare quello che è manifesto perché non si può capire quello che è occulto? Forse, dico io, quando scorgiamo che una cosa è in un determinato modo, sosterremo il contrario per il fatto che non possiamo scoprire perché è in quel modo? 15.38 - La predestinazione non vanifica la correzione più della prescienza Ma dicono, come voi scrivete: "Nessuno si può incitare con il pungolo del rimprovero, se si dirà nelle riunioni della Chiesa di fronte a molti ascoltatori: Così sta la sentenza decretata dalla divina volontà sulla predestinazione; alcuni di voi, ricevuta la volontà di obbedire, dalla mancanza di fede verranno alla fede, oppure ricevuta la perseveranza, nella fede rimarranno; ma voi altri tutti che indugiate nei piaceri del peccato, è per questo che non ve ne siete ancora rialzati, perché l'aiuto della grazia misericordiosa non vi ha fino a questo momento sollevato. Ma se voi siete di quelli non ancora chiamati, che però il Signore nella sua grazia ha predestinato all'elezione, riceverete quella grazia dalla quale vorrete essere eletti e lo sarete; se siete di quelli che obbediscono, ma predestinati ad essere respinti, vi saranno sottratte le forze dell'obbedienza perché cessiate di obbedire".25 Anche se si dice tutto ciò, pure tutto questo non ci deve distogliere dal confessare la vera grazia di Dio, cioè quella che non viene data secondo i nostri meriti, e dal confessare contemporaneamente secondo questa grazia la predestinazione dei santi. Così pure non siamo distolti dal confessare la prescienza di Dio, anche se di essa qualcuno parla al popolo in questa maniera: "Sia che voi viviate ora rettamente, sia che no, in seguito sarete quelli che Dio sapeva nella sua prescienza che sareste stati, buoni se vi previde buoni, cattivi se vi previde cattivi". Allora, se dopo aver udito ciò alcuni si rivolgono all'indolenza e all'apatia e da un atteggiamento solerte precipitano dietro le loro concupiscenze nella dissolutezza, forse per questo bisognerà pensare che è falso quanto è stato detto sulla prescienza di Dio? Non è forse vero che se Dio ha avuto prescienza che essi sarebbero stati buoni, essi saranno buoni, per quanto grande sia la cattiveria in cui si trovino ora, e che se invece Dio ha previsto che sarebbero stati cattivi, cattivi saranno, per quanto grande sia la bontà in cui li possiamo vedere al presente? Ci fu un tale nel nostro monastero che quando i confratelli lo biasimavano perché faceva cose che non doveva fare, dava questa risposta: "Comunque io sia ora, sarò quello che Dio ha previsto che sarei stato". E senz'altro diceva la verità, ma per questo non progrediva nel bene; anzi arrivò a tal punto nel male che, abbandonata la comunità monastica divenne come un cane che ritorna sul suo vomito; eppure a tutt'oggi è incerto cosa sia destinato a diventare. Dunque forse per anime come questa bisogna negare o tacere le verità che si affermano nella prescienza di Dio, e proprio allora tacerle, quando a tacerle si incorre in altri errori? 16.39 - Quelli che non pregano perché Dio conosce ciò che ci è necessario Ci sono anche quelli che per questo motivo non pregano o pregano con freddezza, perché sanno, per averlo detto il Signore, che Dio conosce ciò che è necessario per noi prima che noi glielo chiediamo. ( Mt 6,8 ) E allora per simili individui penseremo che bisogna tralasciare la verità di questa affermazione o che bisogna cancellarla dal Vangelo? Al contrario: come risulta, Dio ha preparato alcuni doni che farà anche a chi non li implora, come l'inizio della fede, altri che farà solo a chi li implora, come la perseveranza fino alla fine; allora colui che pensa di poter avere da se stesso questa virtù, non pregherà per ottenerla. Dunque bisogna guardarsi dal pericolo di lasciare estinguere la preghiera e divampare l'orgoglio per paura di diminuire il fervore dell'esortazione. 16.40 - Quando è opportuno tacere e quando bisogna parlare Si dica allora la verità, specialmente quando qualche problema spinge a dirla; e lasciamo che quelli che ne sono capaci comprendano; altrimenti, se si tace per quelli che non possono capire, non solo sono defraudati della verità, ma sono addirittura conquistati dal falso quelli che potrebbero conquistare il vero e con esso mettersi al riparo dalla falsità. È facile, anzi anche utile, tacere qualche verità a causa dei poco dotati. Infatti per questo è stato detto dal Signore: Ho ancora molte cose da dirvi, ma per il momento non siete ancora in grado di portarle, ( Gv 16,12 ) e dall'Apostolo: Non potei parlare a voi come a uomini spirituali, ma come a uomini carnali; come a bambini in Cristo vi diedi a bere latte, non cibo solido; infatti non eravate ancora in grado di riceverlo e ancora non lo siete. ( 1 Cor 3,1-2 ) Per quanto, usando un certo modo di esprimersi, può avvenire che ciò che si dice sia latte per i bambini e cibo solido per gli adulti; così se diciamo: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio, ( Gv 1,1 ) quale cristiano può tacere queste verità? Ma quale cristiano può comprenderle? E che cosa di più elevato si può ritrovare nella sana dottrina? Eppure questo non viene taciuto né ai bambini né ai grandi, né i grandi lo tengono nascosto ai bambini. Ma è un conto quando c'è una ragione per tacere una verità, e un altro conto quando c'è una necessità per dirla. Sarebbe lungo ricercare e riferire qui tutte le cause per tacere la verità; ma tuttavia una è anche questa: non rendere peggiori quelli che non comprendono per voler rendere più dotti quelli che comprendono, quando questi ultimi senza diventare più dotti, con il nostro silenzio non diventano nemmeno peggiori. Ma se una verità è di tal fatta che, quando noi gliela riveliamo, chi non può capire diventa peggiore, e quando invece manteniamo il silenzio, diventa peggiore chi può capire, in tal caso che dovremo fare? Non bisognerà forse dire la verità affinché chi può comprendere comprenda, piuttosto che tacere? Tacendo non solo nessuno dei due comprende, ma chi è più intelligente, personalmente peggiora. Al contrario, se quest'ultimo sentisse e capisse, per mezzo di lui anche parecchi altri apprenderebbero. Infatti quanto più uno è capace di apprendere, tanto più è adatto ad insegnare agli altri. Il nemico della grazia c'incalza e ci forza in tutte le maniere per farci credere che essa è data secondo i nostri meriti, in modo da non essere più grazia; ( Rm 11,6 ) e noi non vorremo dire tutto quello che possiamo in base all'autorità della Scrittura? Temiamo che dalle nostre parole sia offeso chi non può capire la verità; e non dovremmo temere che con il nostro silenzio chi è in grado di capirla cada vittima del falso? 16.41 - Predicare la predestinazione per non dimenticare che sono doni di Dio sia la grazia che la perseveranza sino alla fine Allora bisogna predicare la predestinazione nel modo evidente in cui la santa Scrittura ne parla, e dire che nei predestinati i doni e la chiamata del Signore sono senza ripensamenti, oppure confessare che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti, come intendono i pelagiani, per quanto, come abbiamo detto già più volte, negli Atti dei vescovi orientali leggiamo che questa tesi fu condannata per bocca dello stesso Pelagio.26 Ma questi ai quali è rivolta la nostra attenzione sono molto lontani dall'aberrante eresia pelagiana; benché non vogliano ancora riconoscere come predestinati coloro che attraverso la grazia di Dio divengano e permangano obbedienti, tuttavia già ammettono che questa grazia previene la volontà di coloro ai quali è data. Questa ammissione evidentemente è fatta perché si creda che la grazia viene data gratuitamente, come sostiene la verità, e non per merito della volontà che l'ha preceduta, come pretende contro la verità l'eresia pelagiana. Dunque la grazia previene anche la fede; altrimenti, se è la fede che previene la grazia, senza dubbio la previene anche la volontà, perché la fede senza la volontà non può esistere. Se invece la grazia previene la fede, poiché previene la volontà, certo previene ogni forma di obbedienza; previene anche la carità, che è l'unica virtù con la quale si obbedisce a Dio in maniera autentica e dolce; e tutte queste qualità è la grazia che le previene e le opera in colui al quale è concessa. 17.41 - Fra questi beni resta la perseveranza fino alla fine, che invano si richiederebbe a Dio ogni giorno, se Dio stesso, prestando orecchio a colui che prega, non l'operasse in lui attraverso la sua grazia. Ormai vi accorgerete quanto sia alieno dalla verità negare che sia un dono di Dio la perseveranza fino alla fine della vita terrena, dal momento che Dio stesso mette fine a questa vita quando vuole, e se vi mette fine prima di una caduta imminente, fa perseverare l'uomo fino alla fine. Ma più mirabile e per i fedeli più evidente è la sovrabbondanza della bontà divina, perché questa grazia è data anche ai bambini, in un'età in cui non può essere donata l'obbedienza. Dunque tutti questi doni Dio li può fare a chi vuole, ma in ogni caso ha previsto certamente che li farà e li ha preparati nella sua prescienza. Quelli che ha predestinato, li ha anche chiamati, ( Rm 8,30 ) di quella chiamata della quale, non mi stanco mai di ricordarlo, è detto: Senza ripensamenti sono i doni e la chiamata di Dio. ( Rm 11,29 ) Infatti nella sua prescienza che non può ingannarsi né cambiare, predestinare è per Dio disporre le sue opere future: questo esattamente e nient'altro. Se Dio ha prescienza che uno sarà casto, quest'individuo, benché di ciò egli non abbia certezza, si adopera per essere casto; così quello che ha predestinato ad essere casto, benché anch'egli non ne possa essere certo, non cessa di adoperarsi allo stesso scopo, quando sente che quello che diventerà lo diventerà per dono di Dio. Al contrario il suo sentimento di carità ne gioisce, ed egli non prova orgoglio, ( 1 Cor 13,4; 1 Cor 4,6 ) come se quello che ha non lo avesse ricevuto. Non solo dunque se si predica la predestinazione costui non viene impedito dal praticare la castità, ma anzi riceve aiuto affinché chi si gloria si glori nel Signore. ( 1 Cor 1,31 ) 17.42 - Confronto con le altre virtù Ma quello che ho detto della castità si può ripetere come verissimo anche della fede, della pietà, della carità, della perseveranza e, per non continuare a citarle una per una, di ogni forma di obbedienza con la quale ci si sottomette a Dio. Questi nostri fratelli lasciano in nostro potere solo l'inizio della fede e la perseveranza fino alla fine; essi non credono che queste due virtù siano doni di Dio e quindi escludono che per ottenerle e conservarle sia Dio ad operare i nostri pensieri e le nostre volontà; ogni altra cosa però ammettono che sia lui a concederla e che il credente la ottenga da lui attraverso la fede. Ma allora perché, quando si tratta di raccomandare e predicare tutte queste altre virtù, non temono anche in questo caso che la dottrina della predestinazione possa costituire un ostacolo? Forse sosterranno che nemmeno queste sono predestinate? Di conseguenza, o esse non sono date da Dio, oppure Egli non sapeva che le avrebbe date. Ma se sono date da Dio ed Egli aveva prescienza che le avrebbe concesse, allora è sicuro che le ha predestinate. Essi stessi esortano alla castità, alla carità, alla pietà e a tutte le altre virtù che confessano essere doni di Dio; non possono d'altronde negare che Egli ha avuto prescienza di questi doni e che quindi essi sono stati predestinati. Infine non dicono nemmeno che queste loro esortazioni subiscono un impedimento se si predica la predestinazione divina, cioè se si predica che Dio ebbe prescienza di questi suoi doni futuri. Allora alla stessa maniera si avvedano che non vengono ostacolate le loro esortazioni né alla fede né alla perseveranza, se riconoscono che anche queste, come è vero, sono doni di Dio, che Egli ne ebbe prescienza e che perciò la loro largizione fu predestinata. Piuttosto comprendano che ad essere ostacolato e sovvertito, quando si predica la predestinazione, è solo quell'errore assolutamente rovinoso per cui si dice che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti, con la conseguenza che chi si gloria, non si gloria nel Signore, ma in se stesso. 17.43 - Secondo i pelagiani non si deve predicare che la fede e la perseveranza sono doni di Dio Quelli che possiedono il dono di volare avanti con il loro ingegno, sopportino che io mi soffermi a spiegare tutto ciò più chiaramente a coloro che sono un po' tardi. Dice l'apostolo Giacomo: Se qualcuno di voi manca della sapienza, la chieda a Dio che concede a tutti a profusione e non rimprovera, e gli sarà data. ( Gc 1,5 ) È scritto anche nei Proverbi di Salomone: Il Signore dà la sapienza. ( Pr 2,6 ) L'autorità del libro della Sapienza è stata utilizzata da grandi e dotti uomini che commentarono le Scritture divine prima di noi, e riguardo alla continenza vi si legge: Sapendo che nessuno può essere continente se non lo concede Dio; e questo stesso apparteneva alla sapienza, sapere di chi era questo dono. ( Sap 8,21 ) Ecco dunque due doni di Dio: sapienza e continenza, per non parlare degli altri. Anche per questi nostri fratelli ciò è pacifico; infatti non sono pelagiani che lottino contro questa trasparente verità con la dura aberrazione degli eretici, ha principio da noi ad ottenere che ci siano date da Dio queste virtù"; di questa fede essi pretendono che appartenga a noi cominciare ad averla e permanervi fino alla fine, come se non la ricevessimo da Dio. Ma con questa pretesa senza dubbio si contraddicono le parole dell'Apostolo: Cosa possiedi infatti che tu non abbia ricevuto? ( 1 Cor 4,7 ) E viene contraddetto anche il martire Cipriano, quando raccomanda: Non dobbiamo gloriarci in nulla perché nulla ci appartiene.27 Ma noi abbiamo un bel ripetere tutte queste cose e molte altre ancora fino alla noia; abbiamo dimostrato che sia l'inizio della fede sia la perseveranza fino alla fine sono doni di Dio, che Dio non poteva non avere prescienza di tutti i suoi futuri doni, quali sarebbero stati e a chi li avrebbe dati, e che perciò quelli che Egli libera e incorona sono oggetto della sua predestinazione. Dopo tutto ciò essi pensano ancora di dover obiettare: "La dottrina della predestinazione è contraria a una predicazione efficace, perché dopo averla ascoltata nessuno può più essere stimolato con il pungolo del rimprovero". Dicendo ciò, non vogliono che si predichi agli uomini che giungere alla fede e permanervi sono doni di Dio, perché non sembri che invece di esortarli li si induca alla disperazione; infatti ascoltando rifletterebbero che per l'ignoranza umana resta incerto a chi Dio largisca questi doni e a chi no. E allora perché anche loro predicano in accordo con noi che sono doni di Dio la sapienza e la continenza? Essi affermano che queste due virtù sono doni di Dio, ma secondo loro in questo caso non viene ostacolata l'esortazione che rivolgiamo agli uomini ad essere sapienti e continenti. Dunque per quale motivo sostengono che noi non possiamo più esortare gli uomini a venire alla fede e a rimanervi fino alla fine, se diciamo che anche questi ultimi sono doni di Dio, come pure è comprovato dalla testimonianza delle sue Scritture? 17.44 - Perché allora dichiarano doni di Dio la sapienza e la continenza? Ecco, tacciamo della continenza e trattiamo ora della sola sapienza; l'apostolo Giacomo, che abbiamo già citato, dice: La sapienza che viene dall'alto in primo luogo è pudica, poi pacifica, moderata, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza simulazione. ( Gc 3,17 ) Vi vorrete accorgere allora, ve ne scongiuro, di quanti e quanto grandi beni sia ricolma la sapienza che discende dal Padre della luce? Ogni concessione ottima, dice ancora l'Apostolo, e ogni dono perfetto viene dall'alto, discendendo dal Padre della luce. ( Gc 1,17 ) Perché dunque, per tralasciare il resto, rimproveriamo gli impudichi e i litigiosi, se predichiamo loro che la sapienza pudica e pacifica è un dono di Dio? E perché non abbiamo timore che essi, non potendo conoscere la volontà divina, trovino in questa predicazione maggior motivo per disperarsi che per lasciarsi esortare? Potrebbero anche essere stimolati dal pungolo del rimprovero non contro se stessi, ma piuttosto contro di noi, perché li biasimiamo di non avere ciò che proprio noi sosteniamo non essere procurato dalla volontà umana, ma donato dalla generosità divina. Perché la predicazione di questa grazia non ha distolto lo stesso apostolo Giacomo dal rimproverare i turbolenti? Infatti egli dice: Se avete invidia amara e ci sono discordie nei vostri cuori, non ve ne gloriate e non siate mendaci contro la verità; questa non è la sapienza che discende dall'alto, anzi è terrena, carnale, diabolica; dove infatti c'è invidia e discordia, lì c'è disordine ed ogni opera cattiva. ( Gc 3,14-16 ) Dunque bisogna rimproverare i turbolenti secondo le testimonianze della Parola divina e secondo le regole di condotta che questi fratelli hanno in comune con noi; e non resta impedito il rimprovero, se predichiamo che la sapienza pacifica, in base alla quale si correggono i litigiosi e si risanano, è un dono di Dio. A questo stesso modo bisogna riprendere quelli che non hanno fede o quelli che non permangono nella fede, e la predicazione della grazia di Dio, che insiste nel presentare la fede e la perseveranza nella fede come doni di Dio, non impedisce questa riprensione. Infatti è vero che dalla fede si ottiene la sapienza, come dice l'apostolo Giacomo: Se qualcuno di voi manca della sapienza, la chieda a Dio che concede a tutti a profusione e non rimprovera, e gli sarà data; e poi aggiunge: La chieda con fede senza affatto esitare. ( Gc 1,5-6 ) Ora, anche se la fede è data prima che la chieda colui che la riceve, non si dovrà dire che non è un dono di Dio, ma che proviene da noi, perché ci è stata data senza che noi l'avessimo chiesta. L'Apostolo infatti dice chiarissimamente: Pace ai fratelli e carità con la fede da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo. ( Ef 6,23 ) Dunque da chi concede la pace e la carità proviene anche la fede, per cui chiediamo a lui non solo che essa sia accresciuta a chi la possiede, ma anche che sia concessa a chi non la possiede. 17.45 - I fratelli marsigliesi dovrebbero esortare a quelle sole virtù che secondo loro provengono da noi: l'inizio della fede e la perseveranza Ma questi ai quali rivolgiamo la nostra trattazione, vanno proclamando, è vero, che predicare la predestinazione e la grazia impedisce di esortare, però poi non esortano solo a quei doni che sostengono non dati da Dio, ma provenienti da noi stessi, come sono l'inizio della fede e la perseveranza in essa fino alla fine; eppure questo esclusivamente dovrebbero fare: solo esortare i non credenti alla fede e i credenti a rimanere nella fede. Ma ci sono anche le virtù che essi riconoscono insieme con noi come doni di Dio per demolire in accordo con le nostre tesi l'errore dei Pelagiani, e queste sono la pudicizia, la continenza, la pazienza e le altre qualità per mezzo delle quali si vive rettamente e che si ottengono dal Signore con la fede; ora riguardo ad esse dovrebbero mostrare che bisogna invocarle, ma limitarsi solo a questo: ad invocarle o per se stessi o per gli altri, senza esortare nessuno ad imprenderle e a mantenerle. Invece esortando con ogni loro energia anche alle virtù di questo genere e sostenendo che gli uomini di queste esortazioni hanno bisogno, dimostrano a sufficienza che non vengono impedite con tale predicazione nemmeno le esortazioni alla fede e alla perseveranza fino alla fine, se predichiamo che queste sono doni di Dio e che non provengono a nessuno da se stesso, ma sono dispensate dal Signore. 17.46 - Le parole Non spingerci in tentazione dimostrano che la perseveranza è un dono di Dio "Ma ciascuno abbandona la fede per colpa sua, quando cede e consente alla tentazione che lo induce ad abbandonarla". E chi lo nega? Ma non per questo bisognerà dire che la perseveranza nella fede non è un dono di Dio. È questo che ogni giorno chiede chi dice: Non spingerci in tentazione, ( Mt 6,13 ) e se è esaudito la riceve; ma se chiede ogni giorno di perseverare, evidentemente non spera di trovare la sua perseveranza in se stesso, ma in Dio. Ora io non voglio sovraccaricare la mia dimostrazione di troppe parole, ma piuttosto lascio loro da riflettere, perché scorgano dove vada a parare l'idea di cui sono persuasi: "predicando la predestinazione si insinua in chi ascolta più la disperazione che l'esortazione". Questo equivale a dire che l'uomo dispera della sua salvezza proprio quando ha appreso a non riporla in se stesso ma in Dio, mentre invece il Profeta grida: Maledetto chiunque ha speranza nell'uomo. ( Ger 17,5 ) 17.47 - Nella Scrittura la predestinazione può essere chiamata anche prescienza Questi sono dunque doni di Dio, che vengono dati agli eletti chiamati secondo il decreto, e fra questi doni c'è sia l'incominciare a credere sia il perseverare nella fede fino al termine di questa vita, come abbiamo provato con testimonianze tanto motivate e autorevoli; questi doni di Dio, dico, se non esiste la predestinazione che noi sosteniamo, non sono oggetto della prescienza divina, e invece lo sono; questa allora è la predestinazione che difendiamo. 18.47 - Per questo talvolta si indica questa predestinazione con il nome di prescienza, come dice l'Apostolo: Dio non ripudiò il suo popolo che conobbe in precedenza. ( Rm 11,2 ) Qui l'espressione: conobbe in precedenza s'intende rettamente solo con "predestinò", come dimostra il contesto del brano. Infatti parlava del residuo di Giudei che furono salvati, mentre tutti gli altri perivano. Più sopra aveva ricordato come il Profeta parlava ad Israele: Tutto il giorno tesi le mie mani ad un popolo disobbediente e ribelle ( Rm 10,21 ); e come se gli venisse replicato: "Dove sono finite le promesse di Dio ad Israele?", l'Apostolo subito prosegue: Dico dunque forse che Dio ha ripudiato il suo popolo? Neppure lontanamente: infatti anch'io sono israelita della stirpe di Abramo, della tribù di Beniamino ( Rm 11,1 ); e vuole dire: Infatti anch'io sono di questo popolo. Poi aggiunge la frase che ora esaminiamo: Dio non ripudiò il suo popolo, che conobbe in precedenza. E per dimostrare che il residuo fu riservato per grazia di Dio, non per i meriti delle loro opere, aggiunge: Non conoscete che cosa dice la Scrittura dove parla di Elia, in qual modo egli si lamenta con Dio contro Israele? ( Rm 11,2 ) con quello che segue. Ma qual è la risposta divina a lui? Ho riservato per me settemila uomini, che non curvarono il ginocchio davanti a Baal. ( Rm 11,4 ) Non dice: sono stati riservati a me, oppure: si sono riservati a me, ma: Ho riservato per me. Così, dice, anche al tempo presente c'è un residuo per elezione della grazia. Ma se è per la grazia, non è per le opere; altrimenti la grazia non è più grazia. ( Rm 11,5-6 ) E ricollegando tutto quello che ho già riferito sopra, esclama: E allora? E a questa interrogazione risponde: Quello che Israele cercava, non l'ha ottenuto; ma la parte eletta l'ha ottenuto; gli altri sono stati accecati. ( Rm 11,7 ) Dunque vuol far capire che questa parte eletta e questo residuo che fu creato per elezione della grazia è il popolo che Dio non ha ripudiato perché lo conobbe in precedenza. Questa è l'elezione con la quale Egli elesse in Cristo prima della creazione del mondo quelli che volle, perché fossero santi e immacolati al suo cospetto in carità, predestinandoli ad essere figli d'adozione. ( Ef 1,4-5 ) A nessuno dunque che comprenda queste espressioni è permesso di negare o dubitare che le parole dell'Apostolo: Dio non ripudiò il suo popolo, che conobbe in precedenza, vogliano significare la predestinazione. Il Signore conobbe in precedenza il residuo che Egli stesso avrebbe creato per elezione della grazia. Questo significa dunque che lo predestinò; infatti se lo predestinò, senza dubbio lo conobbe in precedenza; ma predestinare per Dio è conoscere in precedenza quello che Egli stesso farà.