Padri\Agostino\GrazCrist\GrazCrist.txt La grazia di Cristo e il peccato originale Libro I La Grazia di Cristo 1.1 - Dedica di questa opera ad Albina, Piniano e Melania Quanto goda della vostra salute corporale e principalmente della vostra salute spirituale, o fratelli sincerissimi amati da Dio, Albina, Piniano e Melania, essendomi impossibile dirlo, lo lascio pensare e credere a voi, per poter subito parlare piuttosto delle questioni sulle quali mi avete consultato. Poiché era prossima la partenza del messaggero, ho dettato, come ho potuto e come Dio si è degnato concedermi, queste pagine in mezzo alle nostre occupazioni, molto più fitte qui a Cartagine che in tutti gli altri luoghi. 2.2 - Ambiguità di Pelagio Mi avete informato d'esservi adoperati con Pelagio perché condannasse per scritto tutti gli errori di cui è accusato e che ha risposto davanti a voi: "Anatematizzo chi pensa o dice che la grazia di Dio, in virtù della quale il Cristo è venuto in questo mondo per salvare i peccatori, ( 1 Tm 1,15 ) non è necessaria non solo nelle singole ore o nei singoli momenti, ma anche per le nostre singole azioni; e coloro che tentano di eliminare la grazia finiscano nelle pene eterne". Chiunque ascolta queste parole ignorando il senso che Pelagio con sufficiente evidenza ha espresso nei suoi libri, non in quelli che dice essergli stati sottratti prima di poterli correggere o in quelli che nega assolutamente essere suoi, ma in quelli che ricorda nella sua lettera mandata a Roma, crede senz'altro che il suo pensiero collimi con il pensiero della verità. Chi invece sta attento a ciò che Pelagio dice più esplicitamente in quei libri, deve ritenere sospette anche coteste sue parole. Infatti, sebbene faccia consistere nella sola remissione dei peccati la grazia di Dio, in virtù della quale il Cristo è venuto nel mondo a salvare i peccatori, può aggiustare la sua dichiarazione di sopra ai limiti della remissione dei peccati dicendo: la grazia è necessaria nelle singole ore, nei singoli momenti e per le nostre singole azioni, perché, tenendo noi sempre in mente e richiamandoci alla memoria che ci sono stati rimessi i peccati, non dobbiamo peccare ulteriormente, aiutati non dalla somministrazione di un qualche potere, ma dalle sole forze della nostra propria volontà memore nelle singole azioni di quanto le è stato elargito con la remissione dei peccati. Similmente poiché i Pelagiani sono soliti dire che il Cristo ci ha prestato il suo aiuto a non peccare per il fatto che ci ha lasciato un bell'esempio vivendo egli stesso con giustizia ed insegnando con giustizia, possono aggiustare la dichiarazione di sopra anche ai limiti dell'esemplarità di Gesù e dire che nei singoli momenti e per le singole nostre azioni è necessaria a noi una grazia siffatta, quella cioè di saper guardare in ogni nostro comportamento al comportamento esemplare del Signore. Si accorge benissimo la vostra fede quanto sia da distinguere questo riconoscimento della grazia da parte di Pelagio dal riconoscimento della grazia sul quale verte la questione. Eppure può esser coperta la differenza dall'ambiguità di coteste parole. 3.3 - Pelagio dimostra di credere ancora a quello che sembrava aver condannato Ma che c'è da meravigliarsi? Lo stesso Pelagio, dopo aver condannato negli Atti episcopali senza nessuna esitazione quanti dicono che la grazia di Dio e il suo aiuto non si dà per le nostre singole azioni, ma consiste nel libero arbitrio o nella legge o nella dottrina - e qui noi credevamo che fossero finite su questo punto tutte le sue tergiversazioni -; dopo aver condannato altresì quanti insegnano che la grazia di Dio si dà secondo i nostri meriti, nonostante tutto questo, nei libri che ha poi pubblicati In difesa del libero arbitrio e ha ricordati nella lettera indirizzata a Roma, non dimostra di credere in nient'altro che in quello che sembrava aver condannato. Infatti fa consistere la grazia di Dio e il suo aiuto, che ci aiuta a non peccare, o nella natura e nel libero arbitrio o nella legge e nella dottrina: nel senso cioè che l'aiuto di Dio all'uomo perché stia lontano dal male e faccia il bene ( 1 Pt 3,11; Sal 34,15; Sal 37,27 ) si deve credere che consista nel fatto che Dio rivela e indica all'uomo ciò che deve fare, non nel fatto che Dio cooperi altresì con l'uomo e gli metta nell'animo l'amore necessario per fare ciò che ha conosciuto di dover fare. 3.4 - Potere, volere, fare Stabilisce e distingue tre fattori necessari perché si adempiano i comandamenti di Dio: la possibilità, la volontà, l'attività. La possibilità per cui l'uomo può essere giusto, la volontà con cui l'uomo vuol essere giusto, l'attività nella quale l'uomo è giusto. Del primo di questi tre elementi, cioè della possibilità, dice che è stata concessa dal Creatore alla nostra natura: non è in nostro potere, ma la possediamo anche contro la nostra volontà. Degli altri due elementi, cioè della volontà e dell'attività, dice che sono nostri e li riconosce così a noi da farli provenire solamente da noi. Spiega inoltre che dalla grazia di Dio non sono aiutati i due fattori che vuole esclusivamente nostri, cioè la volontà e l'attività, ma è aiutato dalla grazia di Dio il fattore che non è in nostro potere e ci proviene da Dio, cioè la possibilità. Come se i fattori che sono nostri, ossia la volontà e l'attività, fossero tanto forti per tener lontano il male e fare il bene da non aver bisogno dell'aiuto divino, e viceversa il fattore che ci proviene da Dio, ossia la possibilità, fosse debole e dovesse esser sempre aiutato dall'aiuto della grazia. 4.5 - Le parole stesse di Pelagio Ma perché qualcuno non dica forse che o noi non intendiamo bene come parla Pelagio o travolgiamo maliziosamente le sue parole in un altro senso nel quale non sono state dette, state ora a sentire le sue stesse parole. Dice: " Noi distinguiamo così questi tre fattori e li disponiamo come distribuiti in questo determinato ordine. Al primo posto mettiamo il potere, al secondo il volere, al terzo l'essere. Collochiamo il potere nella natura, il volere nell'arbitrio, l'essere nell'attività. Il primo, cioè il potere, appartiene propriamente a Dio che l'ha concesso alla sua creatura, gli altri due invece, il volere e l'essere, sono da riportarsi all'uomo, perché discendono dalla fonte dell'arbitrio. Dunque nel volere il bene e nel fare il bene c'è il merito dell'uomo, anzi e dell'uomo e di Dio il quale ha dato la possibilità del volere stesso e del fare e aiuta sempre con il soccorso della sua grazia tale possibilità. Al contrario la possibilità che l'uomo ha di volere il bene e di fare il bene è dono di Dio soltanto. Può dunque esistere la possibilità da sola senza gli altri due fattori, questi invece non possono sussistere senza la possibilità. Io pertanto sono libero di non avere né la buona volontà né la buona attività, non posso invece in nessun modo non avere la possibilità del bene: essa risiede in me anche contro la mia volontà e in questo la natura non viene mai meno a se stessa. Alcuni esempi ci renderanno più chiara l'idea. Poter vedere con gli occhi non è merito nostro, vedere invece bene o vedere male è affar nostro. La possibilità che abbiamo di parlare è dono di Dio; ma parlare bene o male è affar nostro. E per abbracciare tutto in blocco, la possibilità che abbiamo riguardo ad ogni bene di farlo, di dirlo, di pensarlo è di colui che ci ha donato questa possibilità e aiuta questa possibilità; al contrario fare bene o parlare bene o pensare bene è affar nostro, perché possiamo volgere anche al male tutte queste nostre scelte. Quando perciò noi, e per la vostra calunnia dobbiamo ripeterlo spesso, diciamo che l'uomo può essere senza peccato, noi allora, con il riconoscimento della possibilità che abbiamo ricevuta, lodiamo Dio che ci ha elargito questa possibilità. Né c'è nessuna ragione di lodare l'uomo qui dove si tratta soltanto di Dio: non si parla infatti del volere, né dell'essere, ma unicamente di ciò che può essere ". 5.6 - Pelagio contro S. Paolo Ecco, questo è tutto il dogma di Pelagio diligentemente enunziato con le stesse sue parole nel terzo libro della sua opera In difesa del libero arbitrio. Con tanta sottigliezza ha curato di distinguere questi tre elementi, prima il potere, poi il volere, terzo l'essere, cioè la possibilità, la volontà, l'attività, che ogni volta ci càpiti di leggere o di ascoltare che egli riconosce l'aiuto della grazia divina per allontanarci dal male e fare il bene, ( 1 Pt 3,11; Sal 34,15; Sal 37,27 ) sia quando ripone l'aiuto nella legge e nella dottrina, sia quando lo ripone dove gli piace, noi sappiamo già quello che dice, né ci sbagliamo intendendo diversamente il suo pensiero. Dobbiamo sapere appunto che egli crede che né la nostra volontà, né la nostra attività sono aiutate dall'aiuto divino, ma è aiutata unicamente la nostra possibilità di volere e di agire, la quale dei tre fattori è la sola che secondo lui riceviamo da Dio: come se questo fattore che Dio stesso ha posto nella nostra natura fosse infermo e gli altri invece che Pelagio vuole nostri fossero così sani e forti e autosufficienti da non aver bisogno di alcun aiuto divino. Perciò Dio non ci aiuta a volere, non ci aiuta ad agire, ma ci aiuta solamente ad avere la possibilità di volere e di agire. Al contrario l'Apostolo dice: Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore. ( Fil 2,12 ) E perché i fedeli si sapessero aiutati da Dio non soltanto nel poter operare - l'avevano infatti già ricevuto per mezzo della natura e della dottrina -, ma anche nel fatto stesso di operare, non dice: È Dio che suscita in voi il potere, come se il volere e l'operare li avessero già da se stessi e non abbisognassero in questi due fattori dell'aiuto di Dio, ma dice: È Dio che suscita in voi il volere e il compiere ( Fil 2,13 ), o come si legge in altri codici specialmente greci: il volere e l'operare. Vedete voi se l'Apostolo non ha previsto molto tempo prima per mezzo dello Spirito Santo i futuri avversari della grazia di Dio e non ha detto che è Dio a suscitare in noi questi due fattori, cioè il volere e l'operare, che Pelagio ha voluti così nostri, come se non fossero aiutati in se stessi dall'aiuto della grazia divina. 6.7 - Agostino smaschera Pelagio Né Pelagio inganni gli incauti e i semplici o anche se stesso per il fatto che dopo aver detto: " Nel volere dunque il bene e nel fare il bene c'è il merito dell'uomo " si è quasi corretto ed ha aggiunto: " Anzi e dell'uomo e di Dio ". Egli infatti non lo dice volendo far intendere che secondo la sana dottrina Dio suscita in noi il volere e l'operare, ma in che senso lo dica l'ha indicato ben evidentemente soggiungendo subito: " Il quale ha dato la possibilità del volere stesso e del fare ". Che poi tale possibilità egli la riponga nella natura è chiaro dalle sue parole precedenti. Ma perché non sembrasse che non aveva detto nulla della grazia, ha continuato dichiarando: " E aiuta sempre con la sua grazia tale possibilità ". Non dice: Aiuta la stessa volontà o la stessa attività. Se lo dicesse, non dimostrerebbe avversione alla dottrina dell'Apostolo. Ma dice: " Tale possibilità ", cioè quel fattore che dei tre ha riposto nella natura, " aiuta sempre con il soccorso della sua grazia ". Ne segue che la ragione per cui nel volere e nel fare c'è il merito e di Dio e dell'uomo non è secondo Pelagio il fatto che l'uomo vuole in quanto è Dio che ispira nella sua volontà l'ardore dell'amore, e parimenti il fatto che l'uomo opera non è perché coopera con lui Dio - e senza l'aiuto di Dio che sarebbe mai l'uomo? -; ma la ragione per cui Pelagio ha aggiunto al merito dell'uomo anche il merito di Dio è perché se non esistesse la natura, nella quale Dio ci ha creati perché con essa potessimo volere ed agire, non vorremmo né agiremmo. 6.8 - Pelagio ripone la grazia divina nella legge e nella dottrina Quanto poi al riconoscimento da parte di Pelagio che la possibilità naturale è aiutata dalla grazia di Dio, non è chiaro in questo testo né quale sia la grazia di cui parla, né in quale misura ritenga che da essa sia aiutata la natura, ma, come si può capire in altri passi dove parla con più evidenza, vuole che s'intenda che ad aiutare la possibilità naturale non sia nient'altro che la legge e la dottrina. 7. Infatti dice in un suo testo: " Qui i più ignoranti degli uomini credono che noi rechiamo offesa alla grazia divina perché diciamo che essa senza la nostra volontà non porta in nessun modo alla perfezione in noi la santità, come se Dio avesse comandato qualcosa alla sua grazia e non somministrasse anche l'aiuto della sua grazia a quelli ai quali ha comandato qualcosa, perché gli uomini possano adempiere più facilmente per mezzo della grazia ciò che è comandato ad essi di fare per mezzo del libero arbitrio ". E come sul punto di spiegare di quale grazia parli, ha di seguito aggiunto: " E noi riconosciamo che la grazia non sta solo nella legge, come tu pensi di noi, ma anche nell'aiuto di Dio ". Chi a questo punto non desidererebbe che egli indichi quale grazia vuole che s'intenda? Per questo in modo particolare da lui dobbiamo aspettare che si voglia spiegare quando dice di non riporre la grazia unicamente nella legge. Ma mentre ce ne stiamo sospesi in quest'attesa, guardate che cosa ha soggiunto: " Dio infatti ci aiuta con la sua dottrina e con la sua rivelazione quando apre gli occhi del nostro cuore, quando ci mostra i beni futuri perché non c'ingombrino i beni presenti, quando sventa le insidie del diavolo, quando ci illumina con il dono multiforme ed ineffabile della grazia Celeste ". Poi, concludendo la sua sentenza con una specie d'autogiustificazione, domanda: " Ti sembra che neghi la grazia di Dio chi dice così? O non confessa e il libero arbitrio dell'uomo e la grazia di Dio? ". In tutto questo testo non si è discostato dal fare l'elogio della legge e della dottrina, inculcando diligentemente che la legge e la dottrina sono la grazia adiuvante di Dio e rispettando ciò che si era proposto nel dire: " Ma noi riconosciamo che la grazia sta anche nell'aiuto di Dio ". Poi ha creduto di dover insinuare l'aiuto di Dio sotto molteplici aspetti ricordando la dottrina e la rivelazione, l'aprire gli occhi del cuore, l'indicazione dei beni futuri, il mandare a vuoto le insidie diaboliche, la nostra illuminazione con il dono multiforme ed ineffabile della grazia Celeste: tutto questo serve appunto a che noi impariamo i comandamenti di Dio e le sue promesse. Questo è dunque riporre la grazia di Dio nella legge e nella dottrina. 8.9 - La legge senza la grazia Da qui dunque apparisce che Pelagio riconosce come grazia quella con la quale Dio mostra e rivela che cosa dobbiamo fare, non quella con la quale Dio ci dona di fare e ci aiuta a fare. Ora, la cognizione della legge, se manca la cooperazione della grazia, vale piuttosto a far sì che ci sia la trasgressione del comandamento. Dice infatti l'Apostolo: Dove non c'è legge, non c'è nemmeno trasgressione, ( Rm 4,15 ) e: Non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. ( Rm 7,7; Es 20,17 ) Sono quindi tanto diverse tra loro la legge e la grazia, che la legge, se la grazia non ci aiuta, non solo non giova a nulla, ma anzi ci nuoce moltissimo, e l'utilità della legge si manifesta in questo: tutti quelli che essa fa rei di trasgressione li costringe a ricorrere alla grazia per esser liberati e anche aiutati a vincere le cattive concupiscenze. La legge infatti più che aiutare comanda, diagnostica il male, non lo guarisce, anzi il male che essa non guarisce piuttosto lo acuisce, perché si cerchi più attentamente e più sollecitamente la medicina della grazia. Tanto che è scritto: La lettera uccide, lo Spirito dà vita. ( 2 Cor 3,6 ) Se fosse stata data una legge capace di conferire la vita, la giustificazione scaturirebbe davvero dalla legge. ( Gal 3,21 ) Tuttavia, perché anche la legge presta un suo aiuto, l'Apostolo aggiunge: La Scrittura invece ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo. Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotti a Gesù Cristo. ( Gal 3,22.24 ) Ai superbi dunque lo stesso esser rinchiusi sotto il peccato più strettamente e più manifestamente è utile, perché nel fare la giustizia non presumano delle forze del libero arbitrio come se fossero forze proprie di esso, ma sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti. ( Rm 3,19-21 ) Ma come si è manifestata indipendentemente dalla legge, se è testimoniata dalla legge? Dunque la giustizia non si è manifestata senza la legge, però non dipende dalla legge perché è la giustizia di Dio, cioè la giustizia che non viene a noi dalla legge, ma da Dio, non la giustizia che è oggetto di timore attraverso la conoscenza di un Dio che comanda, ma la giustizia che è oggetto di possesso attraverso l'amore di un Dio che dona, perché chi si vanta, si vanti nel Signore. ( 1 Cor 1,31 ) 9.10 - Pelagio non riesce a coprirsi Che senso ha infatti che costui reputi la legge e la dottrina una grazia dalla quale siamo aiutati a operare la giustizia, quando la legge e la dottrina, per molto che ci aiuti, ci aiuta al massimo perché si cerchi la grazia? Nessuno può adempiere la legge per mezzo della legge. Infatti pieno adempimento della legge è l'amore. ( Rm 13,10 ) L'amore di Dio però non è stato riversato nei nostri cuori per mezzo della legge, ma per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. ( Rm 5,5 ) Perciò per mezzo della legge si addita la grazia, perché per mezzo della grazia si attui la legge. Che giova a Pelagio dire la medesima cosa con parole diverse per impedire di far capire che ripone nella legge e nella dottrina la grazia, dalla quale asserisce che è aiutata la possibilità della natura? Per quanto ne giudico io, egli teme di farsi capire, proprio perché ha condannato coloro che dicono che la grazia di Dio e il suo aiuto non si dà per le nostre singole azioni, ma consiste nel libero arbitrio e nella legge e nella dottrina. E tuttavia egli crede di riuscire a nascondersi, girando e rigirando in tutti i versi il concetto di legge e di dottrina. 10.11 - La grazia è più della dottrina In un altro passo, dopo essersi dilungato nell'asserire che a fare in noi la buona volontà non è l'aiuto di Dio, ma siamo noi stessi, affronta l'obiezione che gli nasce dalla lettera dell'Apostolo e dice: " Come si giustificherà allora l'affermazione: È Dio che suscita in voi il volere e l'operare? ". ( Fil 2,13 ) Poi per fare vista di sciogliere quest'obiezione che sentiva molto forte contro il suo dogma soggiunge: " Dio suscita in noi la volontà di ciò che è buono e la volontà di ciò che è santo in tre modi: primo, perché con la grandezza della gloria futura e con la promessa dei premi infiamma noi che siamo dediti ai desideri terreni e affezionati unicamente ai beni terreni e guisa d'animali muti; secondo, perché mediante la rivelazione della sapienza sommove la nostra volontà indolente al desiderio di Dio; terzo, perché - e tu non temi di negarlo altrove - ci persuade di tutto ciò che è buono ". Che cosa potrebbe essere più manifesto di tutto questo per farci capire che Pelagio nient'altro che la legge e la dottrina dice esser la grazia con la quale Dio suscita in noi la volontà di ciò che è buono? È infatti nella legge e nella dottrina delle sante Scritture che si promette la grandezza della gloria futura e dei premi. Nella dottrina rientra pure che la sapienza si riveli, nella dottrina rientra che si persuada tutto ciò che è buono. Se poi tra insegnare e persuadere o meglio esortare sembra che ci sia qualche differenza, tuttavia anche persuadere è compreso nel termine generale di dottrina, che abbraccia qualsiasi forma di discorsi o di scritti: infatti anche le sante Scritture e insegnano ed esortano, e l'uomo altresì può operare nell'insegnare e nell'esortare. Ma noi vogliamo da Pelagio una buona volta il riconoscimento di quella grazia che non solo promette la grandezza della gloria futura, ma la fa pure credere e sperare; la grazia che non solo rivela la sapienza, ma la fa pure amare; la grazia che non fa solo opera suasiva per quanto è buono, ma fa anche opera persuasiva. Non di tutti infatti è la fede ( 2 Ts 3,2 ) tra coloro che ascoltano il Signore promettere per mezzo delle Scritture il regno dei cieli, o non con tutti riesce ad essere persuasiva l'opera suasiva che li invita ad andare da colui che dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati. ( Mt 11,28 ) Di quali poi sia la fede e quali siano quelli che si lasciano persuadere ad andare da lui, l'ha ben indicato lui stesso là dove dice: Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato. ( Gv 6,44 ) E poco dopo, parlando di coloro che non credevano, dichiara: Vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio. ( Gv 6,65 ) Questa è la grazia che Pelagio deve riconoscere, se vuole non solo chiamarsi cristiano, ma anche essere cristiano. 11.12 - Senza la grazia non giovano nemmeno le più grandi rivelazioni Che dire poi della rivelazione della sapienza? Nessuno potrà facilmente sperare di poter giungere in questa vita alla grandezza delle rivelazioni dell'apostolo Paolo, e in esse appunto che altro c'è da credere che gli fosse solitamente rivelato se non ciò che concerneva la sapienza? Eppure egli dice: Perché non montassi in superbia per la grandezza delle mie rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un messo di satana incaricato di schiaffeggiarmi. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. ( 2 Cor 12,7-9 ) Al riparo da ogni dubbio, se già fin da quel momento la carità fosse stata nell'Apostolo somma e tale che nulla le fosse da aggiungere, se fosse stata una carità che non potesse gonfiarsi in nessun modo, sarebbe forse stato necessario un messo di satana che con i suoi schiaffi reprimesse il levarsi di Paolo in superbia, che gli poteva capitare nella grandezza delle rivelazioni? Che cos'è poi " levarsi in superbia " se non gonfiarsi? E della carità appunto è stato detto con tutta verità: La carità non è invidiosa, non si gonfia. ( 1 Cor 13,4 ) Questa carità pertanto, anche in un Apostolo così grande, andava certamente aumentando di giorno in giorno, mentre si rinnovava in lui di giorno in giorno l'uomo interiore, ( 2 Cor 4,16 ) ed era destinata la sua carità a diventare perfetta senza dubbio là dove non avrebbe più potuto gonfiarsi. Per il momento invece la mente dell'Apostolo era ancora in questa vita dove poteva gonfiarsi per la grandezza delle rivelazioni, fino a quando non si fosse riempita della solida struttura della carità: la sua corsa non era ancora arrivata a conquistare il premio, al quale si andava avvicinando sempre di più. 12.13 - Chi non si confessa debole, non diventa forte Perciò a Paolo che non voleva sopportare quel fastidio incaricato di reprimere il suo levarsi in superbia, prima che ci fosse in lui l'ultima e somma perfezione della carità si dice ottimamente: Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. ( 2 Cor 12,9 ) S'intende nella debolezza non della carne soltanto, come crede Pelagio, ma e della carne e dello spirito, perché anche l'animo di Paolo era debole a confronto di quella perfezione somma e al suo animo s'intendeva data la spina della carne, il messo di satana, perché non si levasse in superbia, ( 2 Cor 12,7 ) sebbene a confronto con le persone carnali o animali che non comprendono ancora le cose dello Spirito di Dio ( 1 Cor 2,14 ) l'animo di Paolo fosse fortissimo. Se dunque la potenza divina si manifesta pienamente nella debolezza umana ( 2 Cor 12,9 ), chi non si riconosce debole, non arriva a manifestarsi pienamente forte della potenza divina. Questa grazia poi, per la quale la potenza divina si manifesta pienamente nella debolezza umana ( 2 Cor 12,9 ), è la grazia che conduce alla sommità della perfezione e alla glorificazione coloro che sono stati predestinati e chiamati secondo il disegno divino. ( Rm 8,28 ) E tale grazia ci procura non solo la conoscenza dei doveri da compiere, ma anche la forza di compiere i doveri conosciuti, né ci procura solo il dono di credere nei beni da amare, ma anche la forza d'amare i beni creduti. 13.14 - Con la grazia Dio insegna meglio che con la dottrina Se questa grazia si deve chiamare dottrina, si chiami pure così, ma in modo da credere che sia Dio a infonderla più profondamente e più interiormente con ineffabile soavità nell'animo umano, non solo attraverso l'opera di coloro che piantano e irrigano all'esterno, ma anche con il suo intervento diretto che dà occultamente il suo incremento, ( 1 Cor 3,7 ) così che questa grazia non additi semplicemente la verità, ma somministri anche la carità. Dio infatti insegna a coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno ( Rm 8,28 ) in modo da fare ad essi nello stesso tempo e il dono di sapere che cosa fare e il dono di fare ciò che sono venuti a sapere. Perciò l'Apostolo parla così ai Tessalonicesi: Riguardo all'amore fraterno, non avete bisogno che io ve ne scriva: voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri. E a prova che avevano imparato da Dio soggiunge: E questo voi fate verso tutti i fratelli nell'intera Macedonia. ( 1 Ts 4,9-10 ) Come se il segno più certo che hai imparato da Dio sia questo: se fai ciò che hai imparato. In questo modo tutti coloro che sono stati chiamati secondo il disegno divino hanno imparato da Dio, ( Is 54,13; Gv 6,45 ) com'è scritto nei profeti. Al contrario, chi conosce, sì, ciò che si deve fare, ma non lo fa, costui non ha ancora imparato da Dio secondo la grazia, ma solo secondo la legge, non ancora secondo lo Spirito, ma solo secondo la lettera. Sebbene sembri che molti facciano ciò che comanda la legge per timore della pena e non per amore della giustizia, e questa è la giustizia che l'Apostolo chiama la sua giustizia derivante dalla legge, come giustizia comandata e non data. Se invece è data, non si chiama giustizia nostra, ma giustizia di Dio, perché diventa nostra, ma venendoci da Dio. Scrive infatti: Per essere trovato nel Cristo non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Gesù, cioè con la giustizia che deriva da Dio. ( Fil 3,9 ) C'è dunque tanta distanza tra la legge e la grazia che, sebbene non si dubiti della provenienza della legge da Dio, tuttavia nel linguaggio di Paolo la giustizia che viene dalla legge non viene da Dio, ma viene da Dio la giustizia che ha il compimento per la grazia. Infatti giustizia derivante dalla legge si dice quella che Dio fa mediante la maledizione della legge, giustizia derivante da Dio si dice quella che è data mediante il beneficio della grazia, allo scopo che il comandamento di Dio non sia terribile, ma soave, come si prega nel salmo: Soave sei tu, o Signore: nella tua soavità insegnami i tuoi decreti: ( Sal 119,68 ) cioè ti prego che io non sia costretto a vivere servilmente sotto la legge per paura della pena, ma goda la gioia di vivere con la legge per libera carità. Osserva appunto la legge liberamente chi l'osserva volentieri. E chi impara in questo modo fa sempre e perfettamente tutto quello che gli è stato insegnato di fare. 14.15 - L'insegnamento del Padre mediante la grazia illustrato da Gesù Relativamente a questo modo d'insegnare da parte di Dio anche il Signore dice: Chiunque ha udito il Padre mio e ha imparato da lui, viene a me. ( Gv 6,45 ) Dunque di chi non viene non si può dire con esattezza: Ha udito, sì, e ha imparato di dover venire, ma non vuol fare ciò che gli è stato insegnato. Non è assolutamente esatto dirlo del modo d'insegnare di Dio per mezzo della grazia. Se infatti, come dichiara la Verità, chiunque ha imparato viene, vuol dire che se non viene non ha certamente nemmeno imparato. Chi non vede poi che ciascuno viene e non viene in forza dell'arbitrio della sua volontà? Ma questo arbitrio rimane da solo nel caso che l'uditore non vada al Signore; non può fare a meno invece d'essere aiutato l'uditore che va al Signore, e aiutato così che non solo conosca che cosa fare, ma anche faccia ciò che è venuto a conoscere. Pertanto quando Dio insegna non per mezzo della lettera della legge, ma per mezzo della grazia dello Spirito, insegna in tal modo che chiunque ha imparato non solo veda con l'intelligenza ciò che gli è stato insegnato, ma anche lo brami! con la volontà e lo compia perfettamente con l'attività. E da questo modo divino d'insegnare ricevono aiuto anche lo stesso volere e lo stesso agire, non solamente la possibilità naturale di volere e di agire. Se infatti questa grazia fosse d'aiuto soltanto al nostro potere, il Signore direbbe così: Chiunque ha udito il Padre e ha imparato, può venire a me. Invece non dice così, ma dice: Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Pelagio ripone nella natura il poter venire o anche, come ha cominciato a dire adesso, lo ripone nella grazia, qualunque sia l'opinione che ha di essa: " Dalla quale, dice, è aiutata la stessa possibilità "; il venire invece dipende già dalla volontà e dall'attività. Ma non ne segue che, chi può venire, venga di fatto, se in realtà non lo vuole e non lo fa. Al contrario chi ha imparato dal Padre, non solo può venire, ma viene, e qui ci sono insieme già tutti e tre i fattori: il vantaggio della possibilità, l'affetto della volontà, l'effetto dell'attività. 15.16 - La critica degli esempi che Pelagio porta per illustrare la sua dottrina A che servono dunque i suoi esempi se non a renderci davvero più chiaro, come ha promesso, il suo pensiero? Non perché noi dobbiamo condividere le sue idee, ma perché veniamo a conoscerle più manifestamente e più esplicitamente. Egli scrive: " Poter vedere con gli occhi non è merito nostro, vedere invece bene o vedere male è affar nostro ". Gli risponda il salmo dove si dice a Dio: Distogli, o Dio, i miei occhi dal vedere le cose vane. ( Sal 119,37 ) Anche se è detto degli occhi della mente, è proprio da lì che proviene agli occhi della carne di vedere bene o male. Non nel senso in cui si dice che vedono bene quelli che hanno gli occhi sani e vedono male quelli che li hanno malati, ma vedere bene per sovvenire e vedere male per desiderare. Sebbene infatti vediamo per mezzo di questi occhi esterni tanto il povero cui si presta assistenza, quanto la donna che si fa oggetto di concupiscenza, tuttavia è dagli occhi interiori che proviene la pietà o la sensualità a vedere bene o male. Perché dunque si direbbe a Dio: Distogli i miei occhi dal vedere le cose vane? Perché, se Dio non viene in aiuto della nostra volontà, si domanda a lui quello che appartiene alla nostra possibilità? 16.17 - Continua la critica Scrive Pelagio: " La possibilità che abbiamo di parlare è dono di Dio, ma parlare bene o male è affar nostro ". Non insegna così Gesù che parla bene: Non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. ( Mt 10,20 ) Scrive Pelagio: " E per abbracciare tutto in blocco, il potere che abbiamo riguardo ad ogni bene di farlo, di dirlo, di pensarlo è di colui che ci ha donato questo potere ed aiuta questo potere". Ecco che anche qui ripete il pensiero di prima: dei tre elementi, cioè possibilità, volontà, attività, unicamente la possibilità viene aiutata. E aggiunge a completamento del suo pensiero: "Al contrario, fare bene o parlare bene o pensare bene è merito nostro ". Si è dimenticato di quella sua specie di correzione apportata più sopra, dove, dopo aver detto: " Nel volere dunque il bene e nel fare il bene c'è il merito dell'uomo ", aveva aggiunto: " Anzi e dell'uomo e di Dio, il quale ha dato la possibilità del volere stesso e del fare ". Perché non se n'è ricordato anche in questi esempi per dire almeno alla fine: il potere che abbiamo riguardo ad ogni bene di farlo, di dirlo, di pensarlo è di colui che ci ha donato questo potere e aiuta questo potere; al contrario, fare bene o parlare bene o pensare bene è merito nostro e di Dio? Non l'ha detto, ma io mi avvedo di vedere, se non sbaglio, che cosa l'ha intimorito. 17.18 - Dio si deve lodare del bene che facciamo, non si deve accusare del male che facciamo Infatti, volendo spiegare come sia merito nostro dice: " Perché possiamo volgere anche al male tutte queste nostre scelte ". Ebbe dunque paura di dire che è merito e nostro e di Dio, perché non gli si rispondesse: Se fare bene, parlare bene, pensare bene è merito e nostro e di Dio, perché egli ha dato a noi questo potere, allora è merito e nostro e di Dio anche se facciamo male, se parliamo male, se pensiamo male, perché Dio ci ha dato quel potere per ambedue le scelte, e in tal modo verrebbe fuori un'assurda conseguenza: come nelle opere buone siamo lodati assieme a Dio, così siamo incolpati assieme a Dio nelle opere cattive. La possibilità infatti che egli ci ha data ci dà di poter fare tanto il bene quanto il male. 18.19 - Il bene e il male non provengono dalla stessa radice Di tale possibilità Pelagio nel primo libro del suo In difesa del libero arbitrio parla così: "Ora, abbiamo da Dio la possibilità innata di ambedue le scelte, quasi, per così dire, una radice fruttifera e feconda, che per volontà della creatura umana generi e produca frutti diversi e che a seconda dell'arbitrio del proprio coltivatore possa o splendere dei fiori delle virtù o coprirsi delle spine dei vizi". Qui, senza intuire quello che dice, stabilisce una sola e medesima radice dei beni e dei mali, in contraddizione con la verità evangelica e con la dottrina apostolica. Infatti da una parte il Signore dice che né un albero buono può fare frutti cattivi, né un albero cattivo frutti buoni, ( Mt 7,18 ) dall'altra l'apostolo Paolo, quando afferma che la radice di tutti i mali è la cupidità, ( 1 Tm 6,10 ) ci ricorda certamente di sottintendere la carità come radice di tutti i beni. Perciò se i due alberi, buono e cattivo, sono due uomini, buono e cattivo, che cos'è l'uomo buono se non l'uomo di buona volontà, cioè un albero dalla radice buona? E che cos'è l'uomo cattivo se non l'uomo di cattiva volontà, cioè un albero dalla radice cattiva? I frutti poi di queste radici e di questi alberi sono le azioni, sono le parole, sono i pensieri: quelli buoni provengono dalla volontà buona, quelli cattivi dalla volontà cattiva. 19.20 - L'uomo con la grazia è un albero buono, l'uomo senza la grazia è un albero cattivo Ma a fare buono l'albero è l'uomo, quando accoglie la grazia di Dio. Non è infatti da se stesso che l'uomo si fa buono da cattivo, ma diventa buono per iniziativa di Dio e per mezzo di Dio e per unione a Dio che è sempre buono. E non solo per essere un albero buono, ma anche per fare buoni frutti è necessario all'uomo d'essere aiutato dalla medesima grazia, senza la quale non può fare alcunché di buono. Alla produzione dei frutti coopera appunto negli alberi buoni Dio stesso che all'esterno irriga e coltiva per mezzo di ogni suo ministro e all'interno dona da sé la crescita. ( 1 Cor 3,7 ) Al contrario, è l'uomo che fa cattivo l'albero, quando fa cattivo se stesso, quando si distacca dal Bene immutabile: è questo distacco da Dio che dà origine appunto alla volontà cattiva. Tale distacco non inizia un'altra natura cattiva, ma vizia quella che è stata creata buona. Risanato però quel vizio, non rimane più nessun male, perché nella natura c'era, sì, il vizio, ma il vizio non era la natura. 20.21 - Radice del bene è nell'uomo la carità, radice del male la cupidità Non è dunque vero che quella possibilità sia, come pensa Pelagio, una sola e medesima radice dei beni e dei mali. ( 1 Tm 6,10 ) Altra cosa è infatti la carità radice dei beni, altra cosa la cupidità radice dei mali e differiscono tanto tra loro quanto la virtù e il vizio. Ma certamente quella possibilità è capace di contenere ambedue le radici, perché l'uomo può avere non solo la carità per essere con essa un albero buono, ma può avere anche la cupidità per essere con essa un albero cattivo. Ora, la cupidità dell'uomo, che è un vizio, ha per suo autore o l'uomo o l'ingannatore dell'uomo, ma non il Creatore dell'uomo. La cupidità stessa è infatti la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, la superbia della vita, che non viene dal Padre, ma dal mondo. ( 1 Gv 2,16 ) Chi ignora poi che la Scrittura è solita chiamare con il nome di mondo coloro che abitano questo mondo? 21.22 - La carità che è anche la buona volontà ci viene da Dio e non da noi Al contrario la carità che è una virtù viene a noi da Dio e non da noi, attestandolo la Scrittura che dice: L'amore è da Dio: chi ama è generato da Dio e conosce Dio, perché Dio è amore. ( 1 Gv 4,7-8 ) Meglio in riferimento a questa carità s'intende detto: Chiunque è nato da Dio non commette peccato ( 1 Gv 3,9 ) e non lo può commettere. ( 1 Gv 3,9 ) Perché la carità, per la quale è generato da Dio, non agisce sconsideratamente e non pensa al male. ( 1 Cor 13,4-5 ) Perciò quando l'uomo pecca, non pecca secondo la carità, ma secondo la cupidità per la quale non è generato da Dio. Infatti quella possibilità, come si è detto, è capace di ambedue le radici. Poiché dunque la Scrittura afferma che l'amore è da Dio ( 1 Gv 4,7 ) o ancora di più che Dio è amore, ( 1 Gv 4,8 ) e poiché l'apostolo Giovanni esclama assai apertamente: Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente, ( 1 Gv 3,1 ) come mai Pelagio, pur sentendo dire che Dio è amore, insiste tanto nel sostenere che di quei tre fattori noi riceviamo da Dio esclusivamente la possibilità e abbiamo da noi invece la buona volontà e la buona attività? Come se la buona volontà fosse una cosa diversa dalla carità che la Scrittura proclama venirci da Dio e data a noi dal Padre perché fossimo suoi figli. 22.23 - Contraddizione di Pelagio Ma forse saranno i nostri meriti precedenti a farci ricevere il dono dell'amore, come Pelagio pensa della grazia di Dio in quel libro che mandò ad una vergine consacrata e di cui fece cenno anche nella lettera inviata a Roma. In esso infatti, dopo aver riferito il testo dell'apostolo Giacomo: Sottomettetevi a Dio, resistete al diavolo ed egli fuggirà da voi, ( Gc 4,7 ) lo commenta così: " Spiega come dobbiamo resistere al diavolo. Stando sottomessi a Dio e facendo la sua volontà meritiamo la grazia divina e con l'aiuto dello Spirito Santo resistiamo più facilmente allo spirito cattivo ". Ecco con quale sincerità egli ha condannato nel giudizio ecclesiastico palestinese quanti dicono che la grazia di Dio si dà secondo i nostri meriti! Possiamo dubitare ancora che questo sia il suo pensiero e il suo esplicitissimo insegnamento? Come dunque fu sincera quella sua confessione nell'interrogatorio episcopale? Aveva già scritto forse questo libro, dove dice nel modo più aperto che la grazia divina si dà secondo i nostri meriti: ciò che nel Sinodo palestinese ha condannato senza opporre nessun rifiuto? Confesserebbe allora d'aver ritenuto così antecedentemente, ma di non ritenerlo più adesso, e godremmo pubblicamente della sua correzione. Al contrario, essendogli stata contestata in quell'occasione anche questo tra gli altri errori, rispose: " Se queste affermazioni siano di Celestio lo vedano coloro stessi che gliele attribuiscono. Quanto a me, io non ho ritenuto mai così, ma anatematizzo coloro che ritengono così ". Come non l'ha ritenuto mai, se aveva già scritto questo libro? O come anatematizza coloro che lo ritengono, se questo libro l'ha scritto dopo? 22.24 - Pelagio sottomette al merito dell'uomo la grazia di Dio Ma non vorrei che rispondesse d'aver detto: " Facendo la volontà di Dio meritiamo la grazia divina " nel modo in cui ai fedeli e a coloro che vivono piamente si aggiunge altra grazia, perché con essa resistano fortemente al tentatore, pur avendo già precedentemente ricevuto la grazia per poter fare la volontà di Dio. Perché non dia dunque eventualmente questa risposta, sentite altre sue parole sul medesimo argomento: " Chi corre al Signore e desidera essere governato da lui, ossia lega la sua volontà alla volontà di Dio, e chi aderendo a Dio continuamente diventa un solo spirito con lui, ( 1 Cor 6,17 ) secondo le parole dell'Apostolo, non fa tutto questo se non in forza della libertà dell'arbitrio ". Vedete quale grande risultato fa dipendere dalla libertà dell'arbitrio. Pelagio quindi pensa che noi senza l'aiuto di Dio aderiamo a Dio. Questo significano le sue parole: " Se non in forza della libertà dell'arbitrio ". E questo importa che dopo aver aderito a Dio senza bisogno del suo aiuto, allora, proprio perché abbiamo aderito a lui, meritiamo finalmente anche il suo aiuto. 23 - Prosegue infatti a dire: " Chi usa bene di essa ", cioè chi usa bene della libertà dell'arbitrio, " si consegna così totalmente a Dio e mortifica così ogni sua volontà da poter dire con l'Apostolo: Non sono più io che vivo, ma il Cristo vive in me, ( Gal 2,20 ) e pone il suo cuore nelle mani di Dio perché lo volga dove vuole ". Grande aiuto certamente della grazia divina quello con il quale Dio volge dove vuole il nostro cuore! Ma questo così grande aiuto noi allora lo meritiamo, come fantastica Pelagio, quando senza nessun aiuto divino e solo in forza della libertà dell'arbitrio corriamo al Signore, desideriamo d'essere governati da lui, leghiamo alla sua la nostra volontà e aderendo costantemente a lui diventiamo un solo spirito con lui. ( 1 Cor 6,17 ) Cioè questi benefici così ingenti non li otteniamo secondo Pelagio se non in forza della libertà dell'arbitrio e per questi nostri meriti antecedenti conseguiamo tanta grazia di Dio che egli volga dove vuole il nostro cuore. In che modo dunque è grazia, se non viene data gratis? In che modo è grazia, se viene pagata per debito? In che modo sarebbe vero allora quello che dice l'Apostolo: Non viene da voi, ma è dono di Dio, né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene; ( Ef 2,8-9 ) e ancora: Se lo è per grazia, non lo è per le opere, altrimenti la grazia non sarebbe più grazia? ( Rm 11,6 ) In che modo, dico, è vero tutto questo, se precedono opere tanto grandi da dare a noi il merito di ricevere la grazia, per il quale merito la grazia non ci è regalata gratuitamente, ma pagata debitamente? È forse vero dunque che per giungere ad avere l'aiuto di Dio si corre a Dio senza bisogno del suo aiuto, e per essere aiutati da Dio quando aderiamo già a lui, siamo in grado di aderire a Dio senza bisogno del suo aiuto? Quale altro bene più grande o uguale potrà prestare all'uomo la grazia stessa, se già senza di essa e solo in forza della libertà dell'arbitrio l'uomo è potuto diventare un solo spirito con il Signore? ( 1 Cor 6,17 ) 24.25 - Agostino confuta Pelagio con l'episodio di Assuero Vorrei però che Pelagio dicesse qualcosa su quel re d'Assiria di cui quella santa donna di Ester aborriva il letto, ( Est 8,15 ) quando, era assiso sul trono del suo regno, vestito del manto della sua gloria, tutto scintillante d'oro e di pietre preziose, terribilissimo in volto. Levò la faccia, fiammeggiante di splendore, a guardare Ester, come un toro nell'impeto del suo furore, tanto che la regina ebbe paura, mutò di colore, svenne e dovette appoggiarsi sulla spalla di un'ancella che la precedeva. ( Est 8,9-10 ) Vorrei dunque che costui ci dicesse se quel re era già corso al Signore, se aveva già desiderato d'essere governato da lui, se aveva già legato la sua volontà alla volontà di Dio, se aderendo costantemente a lui era già diventato un solo spirito con lui, ( 1 Cor 6,17 ) unicamente in forza della libertà dell'arbitrio, se si era già affidato totalmente a Dio e aveva mortificato ogni sua volontà e posto il suo cuore nelle mani di Dio. Chi giudica così di quel re come era allora, non credo che sia uno sciocco, ma un pazzo: e, ciò nonostante, Dio convertì lo sdegno di Assuero in dolcezza. ( Est 8,11 ) Ora, chi non vede che è un'operazione molto più grande cambiare lo sdegno facendolo passare all'opposto, in dolcezza, che inclinare il cuore a qualcosa, quando non è attaccato a nulla per partito preso, ma equidistante dalle parti opposte? Leggano dunque e comprendano, lo capiscano e lo riconoscano: non con la legge e la dottrina che risuona dal di fuori, ma con un intervento interno ed occulto, mirabile ed ineffabile, Dio non fa negli animi degli uomini solamente delle rivelazioni perché conoscano la verità, ma opera altresì per far buone le loro volontà. 25.26 - La grazia non s'identifica con il nostro potere naturale, ma è una forza aggiunta che investe il volere e il fare La smetta dunque ormai Pelagio d'ingannare se stesso e gli altri discorrendo contro la grazia di Dio. La grazia di Dio verso di noi non si deve predicare solamente per uno solo di quei tre fattori, ossia per la possibilità di volere il bene e di fare il bene, ma anche per la volontà buona e per l'attività buona. Pelagio dichiara infatti che tale possibilità vale per ambedue le scelte, e tuttavia non sono da attribuirsi per questo a Dio anche i nostri peccati, come solo per la medesima possibilità gli vuole attribuire le nostre opere buone. Non per questo si deve celebrare l'aiuto così grande della grazia divina, perché aiuta la possibilità naturale. La smetta Pelagio di dire: " Il potere che abbiamo riguardo ad ogni bene di farlo, di dirlo, di pensarlo, è di colui che ci ha donato questo potere e aiuta questo potere. Al contrario fare bene o parlare bene o pensare bene è merito nostro ". La smetta, ripeto, di dire questo. Dio infatti non solo ci ha donato il nostro potere e lo aiuta, ma anche suscita in noi il volere e l'operare. ( Fil 2,13 ) Non nel senso che non siamo noi a volere e non siamo noi a operare, ma perché senza il suo aiuto né vogliamo né facciamo alcunché di buono. Come si può dire: " Il potere che noi abbiamo di fare il bene è di Dio, ma fare il bene è merito nostro ", quando l'Apostolo dice che pregava Dio per quelli a cui scriveva perché non facessero nulla di male e facessero il bene? Non dice infatti: Preghiamo perché non possiate fare alcun male, ma dice: Perché non facciate alcun male. Non dice: Perché possiate fare il bene, ma: Perché facciate il bene. ( 2 Cor 13,7 ) Coloro infatti dei quali è scritto: Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio, ( Rm 8,14 ) certamente perché facciano il bene sono guidati da colui che è il Bene. Come può dire Pelagio: " Il potere che abbiamo di parlare bene è di Dio, che parliamo bene è merito nostro ", mentre il Signore dice: È lo Spirito del Padre vostro che parla in voi? ( Mt 10,20 ) E infatti non dice: Non siete stati voi a darvi il potere di parlare bene, ma dice: Non siete voi a parlare. Né dice: È lo Spirito del Padre vostro che a voi dà o ha dato il potere di parlare bene, ma dice: Che parla in voi, non indicando il vantaggio della possibilità, ma esprimendo l'effetto di una nostra attività concorde con quella di Dio. Come può dire quell'esaltato assertore del libero arbitrio: " Il potere che abbiamo di pensare bene è di Dio, ma pensare bene è merito nostro"? Gli risponde quell'umile predicatore della grazia: Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio. ( 2 Cor 3,5 ) Non dice: " Poter pensare", ma: Pensare. 26.27 - Non vale il bene, dove manca la carità, che è grazia Questo tipo di grazia divina, manifesto nella parola di Dio, lo riconosca manifestamente anche Pelagio e non copra con un pudore spudoratissimo che per tanto tempo ha nutrito idee contrarie a questa dottrina, ma lo scopra con un dolore salutarissimo, perché la Chiesa santa non sia turbata dalla sua ostinazione pervicace, ma sia allietata dalla sua correzione verace. Distingua come si devono distinguere, la cognizione e l'amore: La scienza gonfia, la carità edifica. ( 1 Cor 8,2 ) Ed è quando la carità edifica che la scienza non gonfia più. Ed essendo ambedue doni di Dio, ma uno minore e l'altro maggiore, non esalti così la nostra giustizia al di sopra della lode che è dovuta al nostro Giustificatore, eviti cioè di attribuire il minore di questi due doni all'aiuto divino e di usurpare il dono maggiore per l'arbitrio umano. E se accorderà che è dalla grazia di Dio che noi riceviamo la carità, eviti di pensare che alcuni buoni meriti da parte nostra abbiano preceduto il dono della carità. Quali meriti buoni potevamo avere quando non amavamo Dio? Fu appunto per ricevere l'amore con il quale amare Dio che siamo stati amati da Dio quando non avevamo ancora il suo amore. Lo dice in forma tanto chiara l'apostolo Giovanni: Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi, ( 1 Gv 4,10 ) e anche: Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. ( 1 Gv 4,19 ) Affermazione davvero ottima e verissima! Non avremmo infatti l'amore per amarlo, se non lo ricevessimo da lui che ce lo dona amandoci per primo. Che bene poi faremmo se non amassimo? O come ci è possibile non fare il bene se amiamo? Benché infatti sembri talvolta che i comandamenti di Dio siano osservati non da gente che ama, ma da gente che teme, tuttavia dove manca l'amore nessun'opera si accredita come buona, né è giusto che si chiami opera buona, perché tutto ciò che non viene dalla fede è peccato, ( Rm 14,23 ) e la fede opera per amore. ( Gal 5,6 ) E quindi chi vuole riconoscere veracemente la grazia di Dio, che riversa nei nostri cuori l'amore di Dio per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato, ( Rm 5,5 ) la riconosca così da non dubitare che senza di essa non si può fare assolutamente nulla di buono che riguardi la pietà e la vera giustizia. Non si comporti come Pelagio, il quale, dicendo che " la ragione per cui si dà la grazia è che si adempia più facilmente ciò che Dio comanda ", mostra abbastanza chiaramente quale sia il suo pensiero sulla grazia: anche senza di essa, sebbene meno facilmente, si può fare tuttavia ciò che Dio comanda. 27.28 - Secondo Pelagio la grazia è utile, ma non necessaria Svela appunto con certezza il suo pensiero nel libro già ricordato che egli indirizzò ad una vergine consacrata, quando dice: " Cerchiamo di meritare la grazia divina e più facilmente con l'aiuto dello Spirito Santo resisteremo allo spirito cattivo ". Perché mai ha inserito questa espressione " più facilmente "? Non era completo il senso delle parole: " Con l'aiuto dello Spirito Santo resisteremo allo spirito cattivo "? Ma chi non riuscirebbe a capire quanto danno abbia fatto con quell'aggiunta? Volendo evidentemente dare ad intendere che le forze della natura, che egli danneggia esaltandole, sono così grandi che, sebbene meno facilmente, si può tuttavia resistere in qualche modo allo spirito cattivo anche senza l'aiuto dello Spirito Santo. 28.29 - La stessa dottrina di Pelagio nella sua opera Pro libero arbitrio Similmente scrive nel primo libro del suo In difesa del libero arbitrio: " Ma pur avendo in noi, per non peccare, così forte e così saldo il libero arbitrio, che il Creatore ha inserito universalmente nella natura umana, in più, per la sua inestimabile benevolenza, siamo difesi dal suo quotidiano aiuto ". Che bisogno c'è di quest'aiuto, se il libero arbitrio è tanto forte, se è tanto saldo per non peccare? Ma anche qui vuol dare ad intendere che l'aiuto divino ha questo scopo: che per mezzo della grazia si faccia più facilmente ciò che crede possibile fare, sebbene meno facilmente, anche senza la grazia. 29.30 - Un altro testo dell'opera Pro libero arbitrio Lo stesso dice in un altro passo del medesimo libro: " Perché gli uomini possano per mezzo della grazia fare più facilmente ciò che si comanda ad essi di fare per mezzo del libero arbitrio ". Togli " più facilmente " e il senso non solo sarà pieno, ma anche sano, se si dice in questo modo: Perché gli uomini possano per mezzo della grazia fare ciò che si comanda ad essi di fare per mezzo del libero arbitrio. Aggiungendo invece " più facilmente " si suggerisce in sordina che il compimento dell'opera buona è possibile anche senza la grazia di Dio. È l'idea riprovata da colui che dice: Senza di me non potete far nulla. ( Gv 15,5 ) 30.31 - Nessuno degli scritti di Pelagio e di Celestio si dichiara positivamente per la grazia Si corregga Pelagio su tutti questi punti, perché, se l'umana infermità ha errato nella profondità di grandi verità, non aggiunga al suo errore anche una diabolica falsità o animosità, sia negando d'aver ritenuto l'errore, sia difendendo l'errore che ha ritenuto, benché abbia conosciuto per l'evidenza della verità che non avrebbe dovuto ritenere gli errori ricordati. È proprio di questo tipo di grazia, dalla quale siamo giustificati, dalla quale cioè si riversa nei nostri cuori la carità per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato, ( Rm 5,5 ) che io negli scritti di Pelagio e di Celestio, tra quanti ne ho potuti leggere, non ho mai trovato che essi in nessun passo l'abbiano mai professato nella maniera in cui si deve professare. Io non mi sono mai accorto assolutamente in nessun loro testo che essi riconoscano nel modo in cui si devono riconoscere i figli della promessa, dei quali l'Apostolo dice: Non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa. ( Rm 9,8 ) Ebbene, quello che Dio promette non siamo noi a farlo con l'arbitrio o con la natura, ma è lui stesso che lo fa con la grazia. 30.32 - Agostino limita il suo esame agli ultimi scritti mandati da Pelagio a Roma Non voglio occuparmi per ora degli opuscoli di Celestio o dei suoi libelli che allegò agli Atti del processo ecclesiastico e che noi vi abbiamo fatti mandare al completo insieme ad altre lettere, stimate da noi necessarie. Da tutti questi scritti, dopo un diligente esame, potrete accorgervi che Celestio non ripone la grazia di Dio, dalla quale siamo aiutati o ad allontanarci dal male o a fare il bene, ( 1 Pt 3,11 ) in nient'altro che nella legge e nella dottrina, oltre che nell'arbitrio naturale della volontà, tanto che ammette la necessità delle stesse orazioni solo perché sia indicato all'uomo ciò che deve desiderare e amare. Per tacere dunque sul momento di tutti questi documenti, cade a proposito che poco tempo fa lo stesso Pelagio ha mandato a Roma e una lettera e il libello della sua professione di fede, scrivendo al papa Innocenzo di beata memoria, di cui egli ignorava la morte. In tale lettera dice dunque: " Ci sono due punti sui quali certuni tentano d'infamarmi. Uno di negare il sacramento del battesimo ai bambini e di promettere ad alcuni i regni dei cieli senza bisogno della redenzione del Cristo. L'altro di dire che l'uomo può così bene evitare il peccato da escludere l'aiuto di Dio, e di confidare tanto nel libero arbitrio da ripudiare l'aiuto della grazia ". Ma quanto il suo errore riguardo al battesimo dei bambini, sebbene conceda che lo si deve dare ai bambini, sia contrario alla fede cristiana e alla verità cattolica, non è questo il momento di discutere con tutta la necessaria diligenza. Adesso infatti dobbiamo portare a termine il lavoro che abbiamo intrapreso sull'aiuto della grazia. Vediamo perciò quale sia anche in questa lettera la sua risposta alle accuse da lui riferite. Per non dire nulla delle sue astiose lamentele nei riguardi dei suoi nemici, quando arrivò all'argomento rispose nei termini seguenti. 31.33 - Nella sua lettera a papa Innocenzo Pelagio non esce dall'equivoco Scrive: " Ecco, mi scagioni presso la tua beatitudine questa lettera, nella quale diciamo puramente e semplicemente che per peccare e non peccare noi abbiamo integro il nostro libero arbitrio, il quale in tutte le opere buone è aiutato sempre dall'aiuto divino ". Vedete comunque, con l'intelligenza che il Signore vi ha data, che non bastano a risolvere la questione queste sue parole. Chiediamo ancora una volta da quale aiuto dica aiutato il libero arbitrio, perché non voglia malauguratamente far intendere, com'è solito, la legge e la dottrina. Se infatti domandi per quale ragione dice " sempre ", potrà rispondere: Perché è scritto: La sua legge medita giorno e notte. ( Sal 1,2 ) Più avanti, dopo aver interposto alcune considerazioni sulla condizione dell'uomo e sulla sua naturale possibilità di peccare e di non peccare, aggiunge: " Questo potere del libero arbitrio diciamo che esiste universalmente in tutti: nei cristiani, nei giudei e nei gentili. In tutti c'è ugualmente per natura il libero arbitrio, ma unicamente nei cristiani è aiutato dalla grazia ". Chiediamo di nuovo: da quale grazia? Ed egli potrà rispondere ancora: dalla legge e dalla dottrina cristiana. 31.34 - La grazia di Pelagio non è grazia, perché non è gratuita Poi, comunque intenda la grazia, dice che essa si dà ai cristiani secondo i loro meriti, mentre in Palestina aveva già condannato con quella sua bella autodifesa coloro che lo dicevano, come ho ricordato già più sopra. Le sue parole sono precisamente queste: " In quelli il bene della condizione è nudo e inerme ": si riferisce a coloro che non sono cristiani. Poi proseguendo nell'ordine dice: " Al contrario in questi che appartengono al Cristo è protetto dall'aiuto del Cristo ". Vedete che rimane ancora incerto da quale aiuto, secondo quanto abbiamo già detto. Ma continua a parlare ancora di quelli che non sono cristiani e dice: " La ragione per cui devono subire il giudizio e la condanna è che, sebbene abbiano il libero arbitrio per mezzo del quale potrebbero giungere alla fede e meritare la grazia di Dio, usano male la libertà ricevuta. Sono invece da premiare coloro che usando bene il libero arbitrio meritano la grazia del Signore e osservano i suoi comandamenti ". È manifesto dunque: egli dice che la grazia si dà secondo i meriti, qualunque contenuto e qualità egli attribuisca alla grazia, che tuttavia non spiega apertamente. Quando infatti dice che sono da premiare coloro che usano bene il libero arbitrio e per questo meritano la grazia del Signore, confessa che ad essi è pagato un debito. Dove se ne va allora l'affermazione dell'Apostolo: Giustificati gratuitamente per la sua grazia? ( Rm 3,24 ) Dove se ne va anche l'altra sua affermazione: Per grazia siete salvi? ( Ef 2,8 ) E perché non credessero d'essere salvi " per le opere ", aggiunge: mediante la fede. Perché poi non credessero d'aver diritto, senza la grazia di Dio, a ricevere la fede stessa, scrive: E ciò non viene da voi, ma è dono di Dio. ( Ef 2,8 ) Il senso è dunque questo: quel dono da cui partono tutti gli altri doni che si dicono ricevuti da noi per nostro merito, e cioè il dono della fede, lo riceviamo senza nostro merito. O se si nega che la fede si dà, perché allora si dice: Secondo la misura di fede che Dio ha data a ciascuno? ( Rm 12,3 ) Se poi la fede si dice data così da essere pagata ai nostri meriti e non regalata, perché mai l'Apostolo torna a dire di nuovo: A voi è stata concessa la grazia non solo di credere nel Cristo, ma anche di soffrire per lui? ( Fil 1,29 ) Di ambedue le virtù ha infatti reso testimonianza che sono state donate: e la virtù per cui ciascuno crede nel Cristo e la virtù per cui ciascuno patisce per il Cristo. Costoro viceversa fanno dipendere così intrinsecamente la fede dal libero arbitrio da far ritenere che a noi perché arriviamo alla fede non si regala una grazia gratuita, ma si paga una grazia dovuta, e quindi nemmeno più una grazia, perché, se non è gratuita, non è grazia. 32.35 - Anche secondo Pelagio i bambini ricevono il battesimo in remissione dei peccati Ma da questa lettera Pelagio vuole che il lettore passi al libro della sua professione di fede, del quale vi ha fatto cenno e nel quale egli ha tirato per le lunghe a discutere di argomenti su cui non era interrogato. Noi invece vogliamo vedere i punti precisi di cui ci occupiamo nella controversia con i Pelagiani. Dopo aver terminato un'esposizione lunga quanto ha voluto, dall'unità della Trinità fino alla risurrezione della carne, temi sui quali nessuno sollecitava il suo parere, scrive: " Noi riteniamo un solo battesimo e diciamo che si deve celebrare nei bambini con le medesime parole del rito sacramentale con le quali si celebra pure nei grandi ". Questo voi avete detto d'averlo udito con certezza e proprio da lui presente: ma a che serve che ci dica che il sacramento del battesimo si celebra nei bambini con le medesime parole con le quali si celebra anche nei grandi, quando da noi si va in cerca di cose e non di sole parole? È più importante ciò che rispose a viva voce a voi che lo interrogavate, come voi scrivete: " I bambini ricevono il battesimo in remissione dei peccati ". Non ha detto infatti anche qui: I bambini si battezzano con le parole della remissione dei peccati, ma ha confessato che i bambini si battezzano proprio in remissione dei peccati; e ciò nonostante, se gli domandate che cosa si debba credere che si rimetta a loro del peccato, sosterrà che essi non hanno nulla del peccato. 33.36 - Pelagio ammette il dono della scienza, ma non il dono della carità Chi crederebbe che sotto questa quasi palese confessione si nasconda un senso contrario, se non l'avesse svelato Celestio? Questi nel suo libello, che allegò agli Atti ecclesiastici di Roma, confessò per un verso che i bambini si battezzano in remissione dei peccati e per un altro verso negò che essi abbiano un qualche peccato originale. Ma poniamo ora attenzione a che cosa Pelagio abbia ritenuto non sul battesimo dei bambini, bensì piuttosto sull'aiuto della grazia anche nel libello della sua professione di fede, mandato da lui a Roma. Scrive: " Riconosciamo il libero arbitrio così da affermare insieme che abbiamo bisogno sempre dell'aiuto di Dio ". Ecco una volta ancora noi domandiamo di quale aiuto ci riconosca bisognosi e lo troviamo di nuovo ambiguo, perché può rispondere che intende la legge o la dottrina cristiana, dalla quale sia aiutata quella nostra famosa possibilità naturale. Noi al contrario cerchiamo nella confessione dei Pelagiani la grazia di cui parla l'Apostolo dicendo: Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. ( 2 Tm 1,7 ) Ora, non è detto che chi ha il dono della scienza per conoscere cosa fare abbia pure il dono dell'amore necessario a farlo. 34.37 - Agostino ricorda altri scritti di Pelagio: mai nulla sulla vera grazia Anche quei suoi libri o scritti che Pelagio ricorda nella medesima lettera da lui mandata al papa Innocenzo di santa memoria io me li sono letti tutti, meno che una sola breve lettera che dice d'aver mandata al santo vescovo Costanzo, e in nessuno di tali documenti io sono riuscito a trovare riconosciuta da lui una grazia siffatta: la grazia che non solo aiuta la possibilità naturale di volere e di agire, che Pelagio dice in nostro possesso anche se non vogliamo il bene né lo facciamo, ma aiuta pure, con la somministrazione dello Spirito Santo, la stessa volontà e la stessa nostra attività. 35.38 - Una lettera di Pelagio al vescovo Paolino Dice: " Leggano quella lettera che io scrissi al santo vescovo Paolino quasi dodici anni fa e che in circa trecento righe non confessa nient'altro se non la grazia di Dio e il suo aiuto, e riconosce che noi senza Dio non possiamo fare assolutamente nulla di buono". Io, dunque, me la sono letta quella lettera e ho trovato in essa che Pelagio non si ferma, quasi per tutta la sua lunghezza, se non sulla facoltà e possibilità della natura e ripone la grazia di Dio appena qui soltanto: nella possibilità naturale. Quanto invece alla grazia cristiana, l'accenna ricordandone solo il nome e tanto fugacemente da non dare nessun'altra impressione che quella d'aver avuto paura di tacerla. Comunque non apparisce in nessun modo se voglia che la grazia s'intenda nella remissione dei peccati, o anche nella dottrina del Cristo, dove è compresa pure l'esemplarità della sua vita, e ciò fa in alcuni passi delle sue opere, o creda che un qualche aiuto per agire bene sia aggiunto alla natura e alla dottrina mediante l'ispirazione di un'ardentissima e luminosissima carità. 36.39 - Una lettera di Pelagio al vescovo Costanzio Scrive: "Leggano altresì la mia lettera al santo vescovo Costanzo, dove brevemente, è vero, ma esplicitamente, io ho aggiunto al libero arbitrio dell'uomo la grazia e l'aiuto di Dio ". Io questa lettera non l'ho letta, come ho detto sopra, ma se non differisce dagli altri suoi scritti a me noti che egli ricorda, non ha nemmeno essa quello che noi cerchiamo. 37.40 - Una lettera di Pelagio a Demetriade Dice: " Leggano inoltre la lettera che abbiamo scritta alla sacra vergine del Cristo Demetriade, in Oriente, e troveranno che difendiamo la natura dell'uomo così da associare sempre l'aiuto della grazia di Dio ". Questa l'ho letta tutta e mi aveva quasi convinto ch'egli ammettesse il tipo di grazia di cui stiamo discutendo, benché in molti luoghi di quel suo scritto sembri contraddirsi. Ma, dopo che arrivarono tra le mie mani anche altre opere che Pelagio scrisse più recentemente e più estesamente, ho visto come anche nella lettera a Demetriade aveva potuto nominare la grazia, per nascondere sotto l'ambigua genericità del termine il proprio pensiero, riuscendo tuttavia con il vocabolo di grazia a rompere il malcontento e ad evitare il sospetto. Infatti all'inizio della stessa lettera, dove dice: " Dedichiamoci all'opera che ci è stata richiesta e non diffidiamo della mediocrità del nostro ingegno, che crediamo aiutato dalla fede della madre e dal merito della vergine ", mi era sembrato che riconoscesse la grazia dalla quale siamo aiutati a fare qualcosa, e non avevo badato che egli aveva potuto riporla semplicemente nella rivelazione della dottrina. 37.41 - Altri due passi della lettera a Demetriade Similmente in un altro passo della medesima lettera scrive: " Se anche gli uomini che sono senza Dio mostrano in quali condizioni siano stati fatti da Dio, non ti sfugga che cosa possano fare i cristiani, la cui natura è stata restaurata in meglio per mezzo del Cristo e che sono aiutati inoltre dall'aiuto della grazia divina ". Per restaurazione della natura in meglio vuole che s'intenda la remissione dei peccati, e lo indica sufficientemente in un altro testo della stessa lettera dicendo: " Anche coloro che per una lunga abitudine di peccare si sono in qualche modo induriti possono essere restaurati mediante la penitenza ". Quanto poi all'aiuto della grazia divina, può anche qui riporlo nella rivelazione della dottrina. 38.42 - Altri passi della lettera a Demetriade Ugualmente in un altro passo della medesima lettera scrive: " Se anche prima della legge, come abbiamo detto, e molto prima della venuta del nostro Signore e Salvatore si attesta che alcuni vissero nella giustizia e nella santità, quanto più si deve credere che ciò sia possibile a noi dopo l'illuminazione della sua venuta! Noi infatti siamo stati restaurati, mediante la grazia del Cristo e siamo rinati ad una umanità migliore e perciò, espiati e mondati dal suo sangue ed incitati alla perfezione della giustizia dal suo esempio, dobbiamo essere migliori di coloro che vissero prima della legge ". Notate come anche qui, sebbene con altre parole, faccia tuttavia consistere l'aiuto della grazia nella remissione dei peccati e nell'esempio del Cristo. Poi soggiunge: " Migliori altresì di coloro che vissero sotto la legge, dicendo l'Apostolo: Il peccato non dominerà più su di voi, poiché non siete più sotto la legge, ma sotto la grazia ". ( Rm 6,14 ) Scrive ancora: " E poiché abbiamo parlato sufficientemente, come penso, di questo tema, provvediamo adesso alla formazione di una vergine perfetta che, sempre fervorosa per la bontà della natura e della grazia, testimoni con la santità del suo comportamento morale la bontà dell'una e dell'altra ". In queste sue parole dovete cogliere che la ragione per cui ha voluto concludere in questo modo quello che diceva è di farci intendere per bontà di natura tutto quello che noi abbiamo ricevuto nel momento della nostra creazione e per bontà invece di grazia l'esempio del Cristo al quale possiamo volgere lo sguardo. Come se a coloro che vissero o vivono sotto la legge non sia stato perdonato il peccato, perché o non hanno avuto l'esempio del Cristo o non ci credono. 39.43 - Un testo del Pro libero arbitrio di Pelagio Che questo sia il suo pensiero lo mostrano anche altre sue parole, non di questa lettera, ma del terzo libro del suo In difesa del libero arbitrio. Ivi, rivolgendosi al suo avversario che gli obiettava le parole, dell'Apostolo: Io non faccio quello che voglio, e le altre: Nelle mie membra vedo un'altra legge che muove guerra alla legge della mia mente, ( Rm 7,15.23 ) e il seguito di tale testo, risponde: " Quello che tu vuoi riferire all'Apostolo, tutti gli autori ecclesiastici asseriscono che egli l'afferma nella persona del peccatore che è ancora sotto la legge. Costui per la troppo inveterata abitudine dei vizi è come posseduto da una specie di necessità di peccare e, per quanto desideri con la volontà il bene, tuttavia la consuetudine lo fa precipitare nel male. Ma Paolo nella persona di un solo uomo al singolare designa il popolo che peccava ancora sotto la vecchia legge e che, dice l'Apostolo, doveva esser liberato da questo suo male dell'abitudine cattiva per mezzo del Cristo, il quale in un primo momento rimette con il battesimo tutti i peccati a coloro che credono in lui, in un secondo momento li incita alla santità perfetta attraverso la sua imitazione e vince con l'esempio delle sue virtù la consuetudine dei vizi ". Ecco in che modo Pelagio vuole che s'intenda l'aiuto prestato a coloro che peccano sotto la legge, perché, giustificati per mezzo della grazia del Cristo siano liberi. Siccome ad essi, per la troppo inveterata consuetudine di peccare, non basta la legge da sola, viene aggiunto come supplemento, non l'immissione nel cuore dell'uomo della carità del Cristo per mezzo dello Spirito Santo, ma attraverso la dottrina evangelica l'esempio della sua virtù che si deve contemplare ed imitare. E certo, per dire espressamente di quale grazia parlava, aveva un'occasione d'oro qui dove il testo stesso su cui stava rispondendo si chiude così per bocca dell'Apostolo: Sono uno sventurato! Chi mi libererà dal corpo di questa morte? La grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore. ( Rm 7,24-25 ) Dal momento che Pelagio colloca questa grazia non nell'aiuto della potenza del Cristo, ma nell'esempio della sua imitazione, che più dobbiamo sperare da lui dovunque rammenta con ambigua genericità il nome di grazia? 40.44 - Un altro testo della lettera a Demetriade Similmente nella medesima lettera a quella sacra vergine di cui abbiamo già parlato sopra, scrive: " Dobbiamo stare sottomessi a Dio e facendo la sua volontà dobbiamo meritare la grazia divina per resistere più facilmente con l'aiuto dello Spirito Santo allo spirito cattivo ". Nelle quali sue parole è certamente manifesto questo senso: egli vuole che noi siamo aiutati dalla grazia dello Spirito Santo, non perché senza lo Spirito Santo e con la sola possibilità della natura non possiamo resistere al tentatore, ma perché gli resistiamo " più facilmente " [ con lo Spirito Santo ]. Tale aiuto nondimeno, di qualunque genere e portata esso sia, è da credere che egli lo faccia consistere in questo: per mezzo della dottrina comunicataci per rivelazione dallo Spirito noi riceviamo un supplemento di scienza che o non possiamo avere affatto o possiamo avere difficilmente per mezzo della natura. Questi sono i punti che ho potuti rilevare nella lettera scritta da lui a quella vergine del Cristo e nella quale sembra riconoscere la grazia. Del valore che possano avere questi testi ve ne accorgerete certamente da voi. 41.45 - Il giudizio di Agostino sull'opera Pro libero arbitrio di Pelagio Scrive Pelagio: " Leggano altresì la mia recente opera In difesa del libero arbitrio, che da poco tempo siamo stati spinti a pubblicare, e riconosceranno quanto ingiustamente si siano adoperati ad infamarci di negare la grazia, mentre in quasi tutto il testo di quest'opera confessiamo perfettamente e integralmente tanto il libero arbitrio, quanto la grazia". Quattro sono i libri di quest'opera. Io li ho letti. Ho preso da essi i punti che mi sono proposto di esaminare e discutere, e che ho esaminati come ho potuto, prima di passare alla sua lettera spedita a Roma. Ma anche tutto quello che in questi quattro libri sembra dire a favore della grazia che ci aiuta ad allontanarci dal male e a fare il bene, lo dice in tal modo da non scostarsi per nulla da una ambiguità verbale. Egli poi risolve questa ambiguità con i suoi discepoli così che non credano in nessun altro aiuto di grazia che aiuti la possibilità della natura all'infuori della legge e della dottrina. Di conseguenza Pelagio, come afferma tanto apertamente nei suoi scritti, ritiene che anche alle stesse orazioni non si debba ricorrere per nessun altro fine che questo: che la dottrina apra a noi tutte le sue porte anche con le chiavi della rivelazione divina, e non che l'animo umano riceva un aiuto perché con l'amore e con l'azione arrivi anche a fare ciò che la dottrina gli ha insegnato di dover fare. Non recede Pelagio dunque minimamente da quel suo notissimo dogma dove stabilisce i tre elementi della possibilità, della volontà e dell'attività, e dove dice che soltanto la possibilità è sempre aiutata dall'aiuto divino, mentre ritiene che non abbiano bisogno di nessun aiuto di Dio la volontà e l'attività. Quanto poi allo stesso aiuto dal quale attesta che è aiutata la possibilità naturale, lo colloca nella legge e nella dottrina, e riguardo alla dottrina riconosce che essa ci è pure rivelata per mezzo dello Spirito Santo, per cui ammette anche la necessità di ricorrere alla preghiera. Ma è sua opinione che l'aiuto della legge e della dottrina esistesse già anche ai tempi dei profeti e invece l'aiuto della grazia, che si chiama grazia in senso proprio, consista nell'esempio del Cristo: il quale esempio tuttavia, ben lo capite, rientra nella dottrina evangelica a noi predicata, di modo che noi, ricevuta, per così dire, l'indicazione della strada su cui camminare, già con le forze del libero arbitrio, senza aver bisogno dell'aiuto di nessun altro, bastiamo a noi stessi per non svenire lungo la via. ( Mt 15,32 ) Sostiene però che la medesima strada si può trovare anche con la sola natura, ma si trova più facilmente, se ci aiuta la grazia. 42.46 - Dalla Scrittura come l'hanno intesa i cattolici si deve ricevere la dottrina sulla grazia Questo ho potuto capire, secondo i limiti della mia intelligenza, negli scritti di Pelagio, quando nomina la grazia. Ora, voi vedete che i sostenitori di queste idee, ignorando la giustizia di Dio, ne vogliono stabilire una propria ( Rm 10,3 ) e se ne stanno lontani da quella che a noi deriva da Dio, ( Fil 3,9 ) non da noi, e che avrebbero dovuta conoscere e riconoscere massimamente nelle sante Scritture canoniche. Ma poiché costoro le leggono seguendo i loro preconcetti, non possono vedere in esse nemmeno le verità evidenti. Magari dunque considerassero attentamente negli scritti degli autori cattolici, dai quali non dubitano che le Scritture siano state intese nel modo giusto, che cosa si debba pensare dell'aiuto della grazia divina e non lo volessero passare sotto silenzio per eccessivo attaccamento alla propria opinione! Sentite infatti come lo stesso Pelagio in quella sua recente opera a cui rimanda per difendersi, cioè nel terzo libro del suo In difesa del libero arbitrio, loda S. Ambrogio. 43.47 - L'ammirazione di Pelagio per S. Ambrogio Scrive: " Il beato vescovo Ambrogio, nei cui libri la fede romana splende in modo particolare, che tra gli scrittori latini spiccò come un fiore pieno di bellezza, la cui fede e la cui purissima interpretazione delle Scritture non ha osato intaccare nemmeno un nemico ". Ecco con quali e con quante lodi celebra un personaggio santo e dotto quanto vuoi, ma non tuttavia paragonabile affatto all'autorità della Scrittura canonica. La ragione per cui lo incensa così è che gli sembra di poter adoperare un passo dei suoi libri come testimonianza per dimostrare che l'uomo può essere senza peccato. Questo non è l'argomento di cui si tratta adesso, ma si tratta dell'aiuto della grazia, dal quale siamo aiutati a non peccare e a vivere nella giustizia. 44.48 - La dottrina di S. Ambrogio sulla grazia Pelagio ascolti dunque quel venerabile vescovo quando spiega ed insegna, nel secondo libro dell'Esposizione del Vangelo secondo Luca, che il Signore collabora altresì con le nostre volontà. Dice Ambrogio: " Tu vedi che la potenza del Signore coopera sempre con gli sforzi dell'uomo, così che nessuno può edificare senza il Signore, nessuno può custodire senza il Signore, nessuno può cominciare alcunché senza il Signore. Perciò secondo l'Apostolo: Sia che mangiate, sia che beviate, fate tutto per la gloria di Dio ". ( 1 Cor 10,31 ) Voi vedete che Ambrogio con queste parole spazza via anche la solita affermazione comune tra la gente: " Noi cominciamo e Dio finisce ", dicendo che " nessuno può nemmeno cominciare alcunché senza Dio ". Ugualmente nel sesto libro della stessa opera, parlando di quei due debitori di un medesimo creditore, dice: " Secondo gli uomini ha offeso forse di più colui che doveva di più, ma per la misericordia del Signore la situazione si ribalta, cosicché ama di più colui che doveva di più, a patto però che ne riceva la grazia ". Ecco, insegna con tanta trasparenza questo dottore cattolico, che anche lo stesso amore con il quale uno ama di più appartiene al beneficio della grazia. 45.49 - Un altro testo di S. Ambrogio Il beato Ambrogio, nel nono libro della stessa opera, dice perfino che la stessa penitenza, che è opera senza dubbio della volontà umana, viene attuata mediante la misericordia e l'aiuto del Signore. Egli così si esprime: " Buone le lacrime che lavano la colpa! Finiscono col piangere quelli che Gesù guarda. Pietro negò una prima volta e non pianse perché il Signore non lo guardò. Negò una seconda volta e non pianse perché il Signore non lo guardò ancora. Negò una terza volta, Gesù lo guardò e Pietro pianse amarissimamente ". Leggano il Vangelo i Pelagiani e si accorgano che in quel momento il Signore era dentro, essendo sotto l'interrogatorio dei principi dei sacerdoti, mentre l'apostolo Pietro stava fuori in basso nell'atrio con i servi, ora a sedere presso il fuoco e ora in piedi, come mostra il racconto veracissimo e concorde al massimo degli evangelisti. Non si può dire pertanto che il Signore si sia voltato a guardare Pietro con i suoi occhi corporali, rimproverandolo in modo visibile. Il fatto quindi attestato dalle parole: Il Signore, voltatosi, lo guardò, ( Lc 22,61 ) si compì in modo interiore, si compì nell'anima, si compì nella volontà. La misericordia del Signore intervenne segretamente, gli toccò il cuore, gli svegliò la memoria, visitò l'intimo di Pietro con la sua grazia, smosse i sentimenti nell'intimo dell'uomo e li rese palesi con le lacrime esterne. Ecco in che modo si affianca Dio con il suo aiuto alle nostre volontà e alle nostre attività, ecco in che modo suscita Dio in noi e il volere e l'operare. ( Fil 2,13 ) 45.50 - Ancora un testo di S. Ambrogio Nel medesimo libro lo stesso Ambrogio scrive: " Dal momento che cadde Pietro, il quale aveva detto: Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai, ( Mt 26,33 ) chi altri potrebbe giustamente fidarsi di sé? Anche Davide, che aveva affermato: Nella mia prosperità ho detto: Nulla mi farà vacillare, confessa che gli fu fatale la sua spavalderia: Quando hai nascosto il tuo volto, io sono stato turbato ( Sal 30,7-8 ) " . Un personaggio tanto grande, di cui ha elogiato la dottrina e la fede, l'ascolti Pelagio nella dottrina che insegna, lo imiti nella fede che professa. Lo ascolti umilmente, lo imiti fedelmente. Non presuma ostinatamente di se stesso per non perdere se stesso. Perché mai Pelagio vuole affogare in quel Pelago dal quale per intervento della Pietra fu liberato Pietro" 46.51 - Un altro testo di S. Ambrogio Ascolti Pelagio il medesimo vescovo di Dio, che scrive ugualmente nel sesto libro della stessa opera: " Perché non l'abbiano accolto lo ricorda lo stesso evangelista dicendo: Era diretto verso Gerusalemme. ( Lc 9,53 ) I suoi discepoli si davano però da fare per avere l'accesso in Samaria. Ma Dio chiama chi si degna di chiamare e rende religioso chi vuole ". O sensibilità di quell'uomo di Dio, bevuta dalla stessa fonte della grazia di Dio! " Dio chiama chi si degna di chiamare " dice " e rende religioso chi vuole ". Guardate se non è quello che afferma il profeta: Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia, ( Es 33,19; Rm 9,15 ) e quello che attesta l'Apostolo: Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia. ( Rm 9,16 ) Proprio quello che dice anche quest'uomo di Dio dei nostri tempi: " Dio chiama chi si degna di chiamare e rende religioso chi vuole ". Oserà forse dire qualcuno che non è ancora religioso " chi corre al Signore e desidera d'esser governato da lui e lega la propria volontà alla volontà di lui e aderendo continuamente a lui diventa, secondo l'Apostolo, un solo spirito con lui "? ( 1 Cor 6,17 ) Ma tutto questo gran lavoro di un uomo religioso, secondo Pelagio, " si compie esclusivamente con la libertà dell'arbitrio ". Al contrario, il beato Ambrogio, tanto eccellentemente lodato dalla bocca dello stesso Pelagio, dice: " Il Signore Dio chiama chi si degna di chiamare e rende religioso chi vuole ". Perché dunque corra al Signore e desideri d'esser governato da lui e leghi la propria volontà alla volontà di lui e aderendo a lui continuamente diventi con lui, secondo l'Apostolo, un solo spirito, Dio " rende religioso chi vuole ". E tutte le suddette operazioni non le fa se non l'uomo religioso. Pertanto se Dio non fa sì che l'uomo le faccia, chi mai le fa? 47.52 - Il vero crinale tra il cattolicesimo e il Pelagianesimo Ma poiché la matassa dei rapporti tra l'arbitrio della volontà e la grazia di Dio è talmente difficile a dipanarsi che, quando si difende il libero arbitrio sembra negata la grazia, e quando viceversa si asserisce la grazia si crede portato via il libero arbitrio, Pelagio può avvolgersi così bene dentro gli oscuri risvolti di tale questione. Egli può dire che acconsente anche ai passi che io ho riferiti dagli scritti di S. Ambrogio, e proclamare di condividere anche lui le medesime convinzioni e d'averle sempre condivise, e tentare di spiegare uno ad uno i propri testi così da farli combaciare con il modo di sentire d'Ambrogio. Perciò quanto alla presente questione sulla grazia e sull'aiuto di Dio badate bene ai tre fattori che Pelagio ha distinti con tanta evidenza: il potere, il volere, l'essere, cioè la possibilità, la volontà e l'attività. Se dunque egli converrà con noi che non solo la possibilità dell'uomo, anche quando non vuole e non fa il bene, ma altresì la volontà stessa e l'attività stessa, cioè il fatto che noi vogliamo il bene ed operiamo il bene - azioni che nell'uomo non ci sono se non quando vuole effettivamente in maniera buona e agisce in maniera buona -; se, come dicevo, converrà con noi che anche la volontà stessa e l'attività stessa sono aiutate da Dio ed aiutate in tal modo che senza l'aiuto di Dio noi non vogliamo e non facciamo nulla di buono; se converrà con noi che è questa la grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore, ( Rm 7,25 ) nella quale egli ci rende giusti della giustizia sua e non della nostra, cosicché la nostra vera giustizia sia quella che viene a noi da Dio, ( Fil 3,9 ) allora, per quanto posso giudicare io, non rimarrà tra noi più nulla di tutto il contenzioso sull'aiuto della grazia di Dio. 48.53 - Come si deve giudicare la santità di Zaccaria e di Elisabetta Il motivo perché Pelagio ha elogiato in tal modo S. Ambrogio è d'aver trovato nei suoi scritti che si può dedurre, dalle lodi tributate da lui a Zaccaria ed Elisabetta, la possibilità dell'uomo d'essere senza peccato in questa vita. Sebbene tale possibilità non si debba negare, se il risultato è voluto da Dio al quale è possibile tutto, ( Mt 19,26 ) consideri nondimeno Pelagio con maggiore diligenza il contesto in cui ciò è stato detto. Infatti è stato detto, per quanto sembra a me, relativamente ad un certo modo di comportarsi in mezzo agli uomini che è degno d'approvazione e di lode e di cui nessuno potrebbe giustamente lamentarsi con accuse e incriminazioni. Un simile comportamento si dice osservato da Zaccaria e dalla sua moglie davanti a Dio, ( Lc 1,6 ) perché essi nella loro condotta non ingannavano il prossimo con nessuna simulazione, ma come apparivano alla gente così erano noti agli occhi di Dio. Non è stato detto invece relativamente a quella perfezione di giustizia nella quale vivremo veramente ed assolutamente immacolati e perfetti. A riprova, anche l'apostolo Paolo ha detto d'essere stato irreprensibile secondo la giustizia derivante dalla legge. ( Fil 3,6 ) In questa legge lo stesso Zaccaria si comportava irreprensibilmente. Ma l'Apostolo reputò tale giustizia spazzatura e perdita ( Fil 3,8 ) a confronto con la giustizia che speriamo nell'eternità e della quale dobbiamo avere adesso fame e sete, ( Mt 5,6 ) per essere saziati un giorno nella visione della medesima giustizia che ora, finché il giusto vive di fede, ( Rm 1,17 ) sta nella nostra fede. Qualunque sia il giudizio di S. Ambrogio su Zaccaria ed Elisabetta, esso va inteso in accordo con la sua dichiarazione che nessuno può in questo mondo essere senza peccato. 49.54 - Pelagio ascolti inoltre lo stesso venerabile vescovo Ambrogio che nel suo Commento al profeta Isaia dice: " Nessuno può essere senza peccato in questo mondo ". Dove non si può affermare che abbia detto " in questo mondo " quasi intendesse nell'amore di questo mondo. Parlava infatti dell'Apostolo che ha scritto: La nostra patria è nei cieli. ( Fil 3,20 ) Spiegando il senso di queste parole il suddetto vescovo Ambrogio dice: " L'Apostolo ammette che in questo mondo, ancora viventi con lui, ci sono molti cristiani perfetti. Se però guardi alla vera perfezione, questi non potevano essere perfetti. Egli dice infatti: Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto. ( 1 Cor 13,12 ) Pertanto uomini immacolati ci sono in questo mondo e uomini immacolati ci saranno nel regno di Dio, sebbene sia certo che, se esamini più sottilmente, nessuno può essere immacolato adesso, perché nessuno è senza peccato ". Perciò la testimonianza di S. Ambrogio di cui Pelagio si vale per la propria sentenza o è stata pronunziata secondo un certo senso, buono, sì, ma non esaminato troppo minuziosamente, o, se quell'uomo santo ed umile credette che Zaccaria ed Elisabetta erano di una giustizia somma e assolutamente perfetta, alla quale non si potesse aggiungere più nulla, è certo che, esaminando più accuratamente la propria sentenza, l'ha poi corretta. 50.55 - Ancora un testo di S. Ambrogio Presti inoltre buona attenzione Pelagio che, in quel medesimo passo da cui ha preso la testimonianza che gli è piaciuta, Ambrogio dice pure questo: " È cosa impossibile alla natura umana essere senza macchia fin dalle origini ". E qui, riguardo a quella famosa possibilità naturale, che Pelagio non vuol riconoscere, in conformità con la fede, viziata dal peccato, e per questo la porta con superbia alle stelle, il venerando Ambrogio la dichiara assolutamente impotente ed inferma: senza dubbio contro la volontà di Pelagio, ma non contro la verità dell'Apostolo, dove si legge: Anche tutti noi un tempo eravamo per natura meritevoli d'ira, come gli altri. ( Ef 2,3 ) Fu infatti la stessa natura ad essere viziata e condannata per il peccato del primo uomo, che provenne dal suo libero arbitrio; e l'unica a venire in soccorso della natura umana è stata la grazia divina per mezzo di colui che è il Mediatore tra Dio e gli uomini ( 1 Tm 2,5 ) e il Medico onnipotente. È già un bel pezzo che discorriamo dell'aiuto della grazia per la nostra giustificazione, aiuto con il quale Dio fa concorrere tutti gli eventi al bene di coloro che lo amano ( Rm 8,28 ) e che egli ha amati per primo, ( 1 Gv 4,19 ) donando ad essi l'amore per amarlo. Quindi cominciamo subito, secondo l'aiuto che ci concederà il Signore, ad esporre quanto ci sembrerà sufficiente anche sul peccato, che insieme con la morte a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e così ha raggiunto tutti gli uomini, ( Rm 5,12 ) contro i Pelagiani, i quali hanno rotto ancora più apertamente verso l'errore che si oppone a questa verità. Libro II Il peccato originale 1.1 - I Pelagiani negano l'esistenza del peccato originale nei bambini State ora ben attenti a quanta cautela dovete mettere nell'ascoltare, a proposito del battesimo dei bambini. Questi tali da una parte essi non osano negare apertamente alle creature di quell'età il lavacro della rigenerazione e della remissione dei peccati, perché ciò non sia insopportabile alle orecchie cristiane, e dall'altra parte persistono nel sostenere e difendere la propria opinione che il peccato del primo uomo non coinvolge nella colpa la generazione carnale, sebbene concedano il battesimo ai bambini apparentemente in remissione dei peccati. Tant'è vero che voi stessi avete scritto d'aver udito da Pelagio, che era presente e leggeva per voi dal libello della sua professione di fede, mandato da lui, come asseriva, anche a Roma, questa dichiarazione: " I bambini si devono battezzare con le medesime parole del rito sacramentale con le quali si battezzano anche i grandi ". Chi dopo tale dichiarazione penserebbe di dover muovere ad essi una qualche questione su questo argomento? Oppure, se lo facesse, a chi non sembrerebbe calunniosissimo, qualora non si leggessero i loro testi espliciti, dove negano che i bambini contraggono il peccato originale e sostengono che sono nati tutti senza nessun vizio? 2.2 - Più esplicito nell'errore è stato Celestio E certamente in questo errore Celestio fu più libero di Pelagio, fino al punto che nemmeno nel giudizio episcopale di Cartagine volle condannare coloro che dicono: " Il peccato di Adamo danneggiò lui soltanto e non il genere umano, e i bambini al momento di nascere sono nel medesimo stato in cui era Adamo prima della prevaricazione ". E nella città di Roma l'asserì ancora più esplicitamente nel suo libello che diede al beatissimo papa Zosimo: " Il peccato originale non ghermisce nessun bambino ". È dagli Atti ecclesiastici di Cartagine che abbiamo trascritto le seguenti sue parole. 3.3 - Un estratto del processo di Cartagine contro Celestio " Il vescovo Aurelio ordinò: - Si legga il seguito -. E fu letto che il peccato di Adamo danneggiò lui soltanto e non il genere umano. E dopo che fu letto, Celestio dichiarò: - Ho detto che mi sento in dubbio sulla trasmissione del peccato. Sono però disposto a credere a chi abbia ricevuto da Dio il dono della scienza. Mi sento in dubbio, perché ho udito pareri diversi da coloro che pur sono stati costituiti presbiteri della Chiesa cattolica -. Il diacono Paolino chiese: - Dicci i nomi di costoro -. Celestio rispose: - Il santo presbitero Rufino, che a Roma viveva con santo Pammachio. Io lo udii dire che non esiste la trasmissione del peccato -. Il diacono Paolino domandò: - C'è qualche altro? - Celestio rispose: - Ne ho sentiti molti -. Il diacono Paolino insistè: - Dicci i loro nomi - Celestio rispose: - Non ti basta un sacerdote? - ". In un altro passo poco più oltre: " Il vescovo Aurelio ordinò: - Si legga il resto del libro -. E si lesse che i bambini al momento di nascere sono in quello stato in cui era Adamo prima della trasgressione … " fino alla fine del libello più piccolo inserito più sopra. 4 - " Il vescovo Aurelio domandò: - Celestio, hai insegnato mai, come ha detto il diacono Paolino, che i bambini al momento di nascere sono in quello stato in cui era Adamo prima della trasgressione? -. Celestio rispose: - Spieghi che cosa ha inteso dicendo: Prima della trasgressione -. Il diacono Paolino replicò: - Tu, nega d'averlo insegnato. Una delle due: o costui neghi d'averlo insegnato o lo condanni -. Celestio disse: - Ho già chiesto che spieghi in che senso ha detto: Prima della trasgressione -. Il diacono Paolino insisteva: - Nega d'averlo insegnato -. Disse il vescovo Aurelio: - Vi prego, dico io quello che ho raccolto dall'obiezione di Paolino: di Adamo, collocato nel paradiso, prima si dice che era stato fatto immortale e dopo per la trasgressione del precetto si dice che divenne corruttibile. È questo che dici, fratello Paolino? -. Il diacono Paolino annuì: - Questo, signore -. Il vescovo Aurelio spiegò: Ecco, questo vuol sentire il diacono Paolino: se lo stato dei bambini ancora da battezzare sia certamente oggi tale e quale fu lo stato di Adamo prima della trasgressione, oppure se lo stato del bambino dalla medesima origine peccaminosa dalla quale nasce tragga la colpa della trasgressione -. Il diacono Paolino chiese: - Costui l'ha insegnato o nega d'averlo insegnato? - Celestio rispose: - Quanto alla trasmissione del peccato ho già detto che fra i membri della Cattolica ho udito molti negarla e altri ammetterla: sebbene questo sia un problema aperto alla discussione e non un'eresia. Riguardo ai bambini ho sempre detto che hanno bisogno del battesimo e devono essere battezzati: che altro vuole Paolino? - ". 4.4 - La posizione di Celestio Ben vi accorgete che Celestio concesse il battesimo per i bambini, ma in modo da non voler ammettere il passaggio in essi del peccato del primo uomo, che si lava con il lavacro della rigenerazione, sebbene non abbia avuto l'ardire nemmeno di negarlo, e per questa sua perplessità non condannò coloro che dicono: " Il peccato di Adamo danneggiò lui soltanto e non il genere umano, e i bambini al momento di nascere sono in quello stato in cui era Adamo prima della prevaricazione ". 5.5 - Un'altra dichiarazione di Celestio Nel libello però che Celestio rese pubblico a Roma e fu allegato agli Atti ecclesiastici del processo ivi celebrato parla dello stesso argomento in tal modo da mostrare di credere in ciò di cui a Cartagine aveva detto di dubitare. Le sue parole infatti sono le seguenti: " Confessiamo che i bambini si devono battezzare in remissione dei peccati secondo la regola della Chiesa universale e la dottrina del Vangelo, perché il Signore ha stabilito che il regno dei cieli possa esser conferito esclusivamente ai battezzati. ( Gv 3,5 ) E poiché le forze della natura non lo possono conferire, è necessario che sia conferito mediante la libertà della grazia ". Se in seguito non dicesse nient'altro su questo argomento, chi non crederebbe che egli, dicendo che i bambini si devono battezzare in remissione dei peccati, confessi che anche ai bambini sono rimessi nel battesimo i peccati originali? Cosi si comprende anche ciò che, secondo quanto avete scritto, vi ha risposto Pelagio: " I bambini si battezzano con le stesse parole del rito sacramentale con le quali si battezzano anche i grandi " e per cui vi siete rallegrati d'aver ascoltato ciò che desideravate, anche se avete preferito consultarci ancora sulle parole di Pelagio. 6.6 - Celestio sostiene senza paura e senza vergogna gli stessi errori che Pelagio nasconde per paura o per vergogna State dunque attenti a ciò che Celestio ha detto con tanta chiarezza e ci vedrete dentro che cosa Pelagio vi abbia tenuto chiuso. Celestio infatti continua e dice: " Che i bambini si devono battezzare in remissione dei peccati non l'abbiamo detto per dare l'impressione che noi si voglia confermare il peccato per trasmissione: è questa un'idea molto lontana dal sentire cattolico. Perché, il peccato non nasce con l'uomo, ma è l'uomo che poi lo fa, essendo certo che non è una mancanza della natura, ma una mancanza della volontà. È perciò conveniente affermare la prima verità, perché non sembri che noi introduciamo diverse forme di battesimo, ed è necessario difendere l'altra verità, perché, prendendo a pretesto il sacramento del battesimo, non si dica ad ingiuria del Creatore che il male del peccato, prima che sia fatto dall'uomo, s'infligge all'uomo per natura ". Questo è il senso che Pelagio ebbe o timore o rossore di aprire a voi, senso che il suo discepolo Celestio non ebbe né timore né rossore di professare pubblicamente senza risvolti di nessuna oscurità davanti alla Sede Apostolica. 6.7 - La tattica benevola del Papa nei riguardi di Celestio Ma il vescovo della suddetta Sede, molto misericordioso, quando vide Celestio trasportato, quasi fosse impazzito, da tanta presunzione verso il precipizio, preferì legarlo un poco alla volta con interrogazioni e risposte, perché tornasse indietro, se era possibile, piuttosto che con l'emanazione di una rigorosa sentenza spingerlo in quell'abisso verso il quale lo vedeva propendere ormai. La ragione per cui non ho detto: C'era già caduto, ma che vi si vedeva ormai propendere, è che precedentemente nel suo medesimo libello sul punto di parlare di tali questioni aveva dichiarato: " Se per caso, da uomini che siamo, ci fosse sfuggito qualche errore, sia corretto dalla vostra sentenza". 7.8 - La sentenza del Papa nei riguardi di Celestio Tenendo conto di questo suo preambolo, il venerabile papa Zosimo si adoperò perché quell'uomo, gonfiato dal vento d'una falsa scienza, condannasse le affermazioni che gli aveva contestate il diacono Paolino e prestasse il suo assenso alla lettera della Sede Apostolica scritta dal suo predecessore di santa memoria. Ma Celestio da una parte non volle condannare le affermazioni di cui lo accusava il diacono Paolino, e dall'altra parte non osò opporsi alla lettera del beato papa Innocenzo, anzi promise che avrebbe condannato tutti gli errori che condannasse quella Sede. Così, benché a quella specie di furia, perché si calmasse, fosse riservato un trattamento d'indulgenza, non si credette di doverlo ancora assolvere dal vincolo della scomunica. Ma con sentenza di una certa moderazione medicinale gli fu concesso lo spazio di ricredersi nel periodo di due mesi, finché giungesse una risposta dall'Africa. Perché, sarebbe veramente guarito, se, deposta la vanità dell'ostinazione, avesse voluto tener conto di quanto aveva promesso e avesse letto diligentemente la medesima lettera alla quale aveva risposto che si sarebbe attenuto. Ma sui motivi che hanno spinto, dopo che arrivò la risposta del Concilio dei vescovi africani, a pronunziare contro Celestio una giustissima sentenza di condanna, leggete tutti i relativi documenti, perché ve li abbiamo trasmessi tutti. 8.9 - La condanna di Celestio vale anche per Pelagio Pertanto anche Pelagio, se riflette senza inganno su se stesso e sui propri scritti, non dice il giusto quando dice che non doveva sentirsi personalmente colpito dalla medesima sentenza di condanna. Egli infatti ingannò il tribunale palestinese e per questo sembra che da esso sia stato scagionato. Ma non ha potuto ingannare in nessun modo la Chiesa di Roma, dove sapete che godeva di grande notorietà, sebbene abbia tentato anche questo in tutti i modi; ma, come ho detto, non ci è riuscito minimamente. Il beatissimo papa Zosimo infatti si è rammentato del giudizio che il suo predecessore, degno d'essere imitato, aveva dato di quegli Atti. Ha tenuto conto anche di come giudicasse Pelagio la fede, encomiabile nel Signore, dei romani, che vedeva concordemente fervorosi a lavorare per la difesa della verità cattolica ( Rm 1,8 ) contro l'errore di Pelagio: erano persone in mezzo alle quali Pelagio aveva vissuto a lungo e alle quali non potevano sfuggire i suoi dogmi, persone che sapevano così bene che Celestio era suo discepolo da poterne rendere testimonianza fedelissima e fermissima. Quale dunque sia stato il giudizio del santo papa Innocenzo sugli Atti del Sinodo palestinese, dal quale Pelagio si vanta d'essere stato assolto, voi lo potreste leggere anche nella lettera con la quale Innocenzo rispose a noi e lo trovereste altresì ricordato nella risposta del Sinodo africano al venerabile papa Zosimo, che abbiamo mandata alla carità vostra insieme a tutti gli altri documenti. Ci sembra tuttavia opportuno che non si debba passare sotto silenzio nemmeno in questo libro. 9.10 - La lettera d'Innocenzo sul caso di Pelagio Nella lettera che noi vescovi scrivemmo in cinque ad Innocenzo facemmo riferimento agli stessi Atti palestinesi, dei quali ci era giunta già la fama, e dicevamo che il processo ecclesiastico, dal quale si crede che Pelagio sia stato assolto, si era svolto in Oriente dove egli si trovava. Innocenzo nel rispondere alla nostra lettera dice questo tra l'altro: " Essendo state mosse contro di lui alcune accuse, poste a verbale negli stessi Atti, in parte egli le eluse, in parte le sommerse in una oscurità assoluta ritorcendo molte parole a proprio favore. Altre accuse poi egli emendò in maniera più equivoca che vera, come si sarebbe potuto vedere con il tempo, o negandole o cambiandole con una interpretazione falsa. Ma magari, ed è ciò che si deve desiderare più di tutto, tornasse ormai da quel suo errore sulla via vera della fede cattolica! Magari volesse sul serio liberarsi da ogni accusa, considerando la quotidiana grazia di Dio, riconoscendo il suo aiuto, così che si noti veramente e con il plauso di tutti che si è corretto con una decisione chiara non per il giudizio dei verbali del processo, ma per la conversione del suo cuore alla fede cattolica. Noi pertanto non possiamo né approvare né disapprovare il giudizio di quei giudici, perché non sappiamo se gli Atti siano veri o, qualora siano veri, se costui abbia ingannato con qualche sotterfugio invece d'essersi corretto con tutta sincerità ". Voi vedete certamente in queste parole come apparisca che il beatissimo papa Innocenzo non parla di Pelagio come di uno sconosciuto. Voi vedete quale giudizio ha dato della sua giustificazione. Voi vedete che cosa il suo successore, il santo papa Zosimo, ebbe da ricordare, come l'ha ricordato, per confermare su di lui, rimovendo gli indugi, il giudizio del suo predecessore. 10.11 - Agostino si prepara a dimostrare l'inganno di Pelagio Ora considerate attentamente da che cosa si provi l'inganno di Pelagio a carico dei giudici palestinesi in questa stessa questione del battesimo dei bambini, per tacere d'altri punti. Per aver noi detto che Pelagio ha nascosto a voi il pensiero in cui si mostrò più libero di lui Celestio, sebbene Pelagio non fosse di parere diverso, non vorrei che eventualmente a qualcuno sembrasse che noi ricorriamo alla calunnia o al sospetto, invece d'avere acquisito la certezza di quanto affermiamo. Già sopra è emerso sufficientemente chiaro che Celestio non volle condannare la proposizione: " Il peccato di Adamo danneggiò lui soltanto e non il genere umano, e i bambini al momento di nascere sono in quello stato in cui era Adamo prima della prevaricazione ", proprio perché vedeva che condannandola sarebbe venuto a confermare il passaggio nei bambini del peccato di Adamo. Pelagio invece, poiché gli era stato contestato di condividere anche lui con Celestio queste tesi, le condannò senza nessuna riserva. Io so che voi avete letto tutto ciò, nondimeno, poiché questo libro non si scrive solo per voi, ad evitare che il lettore sia gravato dal dover ricorrere agli Atti stessi e, se non li ha, dal doverseli laboriosamente cercare, trascrivo dagli Atti le parole testuali e le riporto qui sotto. 11.12 - Il testo del Concilio celebrato in Palestina contro Pelagio " Il Sinodo ordinò: Poiché Pelagio ha anatematizzato l'inconsistente stoltezza, rispondendo rettamente che l'uomo con l'aiuto di Dio e con la sua grazia può essere ??aµ??t?t??, cioè senza peccato, risponda adesso anche alle altre imputazioni. Un insieme di proposizioni della dottrina di Celestio, discepolo di Pelagio, tra quelle che a Cartagine furono ascoltate e ricordate dal santo vescovo di Cartagine Aurelio e con lui da altri vescovi, dice: Adamo fu creato mortale ed era destinato a morire, sia che peccasse, sia che non peccasse. Il peccato di Adamo danneggiò lui solo e non il genere umano. La Legge manda al regno nello stesso modo del Vangelo. Prima della venuta del Cristo ci furono uomini senza peccato. I neonati sono nello stato in cui era Adamo prima della prevaricazione. Né per la morte o per la prevaricazione di Adamo muore tutto il genere umano, né per la risurrezione del Cristo risorge tutto il genere umano. Il santo vescovo Agostino rispose ad Ilario sulle proposizioni suddette contro i discepoli di Pelagio in Sicilia, scrivendo un libro dove sono contenute queste altre proposizioni: L'uomo se vuole può essere senza peccato. I bambini hanno la vita eterna anche se non si battezzano. Ai ricchi dopo il battesimo, se non rinunziano a tutto, non è accreditato il bene che sembra abbiano fatto, né possono avere il regno di Dio. Pelagio rispose: - Della possibilità dell'uomo d'essere senza peccato si è detto sopra. Quanto all'esistenza di uomini senza peccato prima della venuta del Signore, anche noi diciamo che prima dell'avvento del Cristo alcuni vissero in santità e giustizia, secondo la tradizione delle sante Scritture. Quanto alle altre proposizioni, poiché anche secondo la testimonianza di costoro esse non sono proposizioni dette da me, io non sono tenuto a scolparmene: tuttavia a soddisfazione del santo Sinodo anatematizzo coloro che ritengono così o l'hanno ritenuto nel passato -". 12.13 - Nessuna differenza dottrinale tra Pelagio e Celestio Ecco, voi vedete, per tralasciare altre osservazioni, che Pelagio ha anatematizzato quanti dicono che " il peccato di Adamo danneggiò lui solo e non il genere umano; i bambini al momento di nascere sono nello stato in cui era Adamo prima della prevaricazione ". Che altro dunque poterono intendere allora quei vescovi giudici se non che Pelagio confessava il passaggio del peccato da Adamo nei bambini? Per non fare una tale ammissione Celestio non volle condannare quello che condannò Pelagio. Ora, se dimostrerò che anche Pelagio quanto ai bambini pensa ugualmente che essi nascono senza nessun contagio di nessun vizio, quale distanza rimarrà tra costui e Celestio nella presente questione? Nessuna all'infuori di questa: Celestio fu più aperto, Pelagio più velato, l'uno più pertinace, l'altro più mendace, o certamente l'uno più libero, l'altro più astuto. Celestio infatti non volle condannare, nemmeno nella Chiesa di Cartagine, quello che poi confessò di ritenere nella Chiesa di Roma, e dichiarò di essere pronto a correggersi, se per debolezza umana gli fosse scappato qualche errore. Pelagio invece per un verso condannò quel dogma come contrario alla verità per non essere condannato egli stesso da quei giudici cattolici, e per un altro verso si riservò di difenderlo successivamente: o bugiardo dunque nel condannarlo o astuto nell'interpretarlo. 13.14 - L'opera di Pelagio Pro libero arbitrio attesta che egli la pensa come Celestio Ma vedo che ormai mi si chiede giustissimamente di non rimandare oltre la dimostrazione promessa: se anche Pelagio la pensi proprio come Celestio. Nel primo libro della sua recente opera In difesa del libero arbitrio, da lui citata nella lettera che mandò a Roma, dice: " Nessun bene e nessun male, che ci renda lodevoli o riprovevoli, nasce con noi, ma è fatto da noi: nasciamo capaci, ma non pieni, di bene e di male, e come siamo creati senza virtù, così pure senza vizio, e prima dell'azione della propria volontà nell'uomo c'è solamente ciò che ha creato Dio ". Vedete bene che in queste parole di Pelagio si trova il dogma comune all'uno e all'altro: il dogma che i bambini nascono senza contagio di nessun vizio da parte di Adamo. Non c'è dunque da meravigliarsi che Celestio non abbia voluto condannare quanti dicono che " il peccato di Adamo danneggiò lui solo e non il genere umano, e i bambini al momento di nascere sono nello stato in cui era Adamo prima della prevaricazione ", ma c'è molto da meravigliarsi della sfacciataggine con la quale Pelagio condannò queste proposizioni. Se infatti, come egli asserisce, " il male non nasce con noi, e siamo creati senza alcun vizio, e nell'uomo prima dell'azione della sua volontà c'è solamente ciò che ha creato Dio ", questo vuol dire certamente che il peccato di Adamo danneggiò lui solo, perché non fece nessun passaggio nella prole. Non è vero infatti che il peccato non sia un male, o che il peccato non sia un vizio, o che Dio abbia creato il peccato. Ma Pelagio dice: " Il male non nasce con noi, siamo creati senza alcun vizio; nei nascenti c'è solo ciò che ha creato Dio ". Perciò, ritenendo egli secondo questa sua sentenza come verità certissima che " il peccato di Adamo danneggiò lui solo e non il genere umano ", per quale ragione Pelagio condannò questa proposizione se non per ingannare quei giudici cattolici? Si può dire ugualmente così: Se " il male non nasce con noi ", se " siamo creati senza alcun vizio ", se " nell'uomo al momento di nascere c'è esclusivamente ciò che ha creato Dio ", senza dubbio " i bambini al momento di nascere sono nello stato in cui era Adamo prima della prevaricazione ", quando non c'era in lui nessun male e vizio, ma solo ciò che in lui aveva creato Dio. E tuttavia Pelagio anatematizzò " quanti ritengono o hanno ritenuto in passato che i bambini appena nati siano nello stato in cui era Adamo prima della prevaricazione ", cioè senza nessun male e vizio, in possesso solamente di ciò che ha creato Dio. Per quale ragione dunque Pelagio condannò anche questo se non per ingannare il Sinodo cattolico al fine di non essere condannato come un nuovo eretico? 14.15 - La malafede di Pelagio è palese Voi sapete, e l'ho messo anche in quel libro che scrissi sul processo palestinese al nostro venerabile decano Aurelio, che io godevo che per quella risposta di Pelagio tutta la questione fosse stata risolta. E mi sembrava che egli avesse confessato assai apertamente la presenza nei bambini del peccato originale, dicendo anatema a quanti credessero che dal peccato di Adamo fosse rimasto leso lui solo, non anche il genere umano, e dicendo anatema a quanti ritenessero che i bambini sono in quello stato in cui era il primo uomo precedentemente alla prevaricazione. Ma in seguito, avendo letto i suoi quattro libri, dal primo dei quali ho trascritto le parole riportate poco sopra, e avendo trovato in lui un uomo che sui bambini la pensava ancora in modo contrario alla fede cattolica, cominciai a meravigliarmi anzitutto d'una ipocrisia così sfacciata in un processo ecclesiastico e in un problema tanto importante. Se infatti aveva già scritto quei libri precedentemente, come poté dichiarare di anatematizzare quanti avevano ritenuto in passato il contrario? Se poi quell'opera la promise dopo, come poté anatematizzare quanti ritengono il contrario adesso? A meno che non voglia essere così ridicolo da dire d'aver condannato coloro che avevano ritenuto il contrario in passato e coloro che lo ritenessero al presente; quanto al futuro invece, cioè a quelli che l'avrebbero ritenuto in avvenire, egli non poteva anticipare il giudizio né su di sé, né sugli altri, e quindi egli non aveva mentito, perché fu ritrovato a ritenere così posteriormente. Ma non lo dice, non solo perché sarebbe ridicolo, ma perché non può essere vero. Negli stessi libri infatti da una parte parla contro il passaggio del peccato da Adamo nei bambini, dall'altra si vanta del processo del Sinodo palestinese, dove si è creduto che egli avesse condannato sinceramente coloro che negano quel passaggio e dove carpì la propria assoluzione con l'inganno. 15.16 - Inaccettabili sono le spiegazioni con le quali Pelagio vorrebbe difendere la propria buona fede Che c'entra infatti con la presente questione la risposta data da lui ai suoi discepoli : " Ho condannato quelle proposizioni contestatemi perché io pure dico che il primo peccato non danneggiò solo il primo uomo, ma anche il genere umano, non per la propagazione, bensì per l'esempio ", cioè non perché abbiano tratto a Adamo un qualche vizio coloro che sono stati propagati da lui, ma perché hanno imitato in lui il primo peccatore quelli che hanno peccato in seguito? O che c'entra, se dice: " I bambini non sono nello stato in cui era Adamo prima della sua prevaricazione, perché essi non sono capaci ancora di precetti e Adamo invece lo era: essi non hanno ancora l'uso dell'arbitrio della volontà razionale, senza del? quale non sarebbe stato imposto ad Adamo nessun precetto ". Che c'entra con la nostra questione che egli, spiegando così le obiezioni mossegli, creda d'aver condannato in modo giusto le proposizioni: " Il peccato di Adamo danneggiò lui solo e non il genere umano, e i bambini al momento di nascere sono nello stato in cui Adamo era prima del peccato "; e dopo averle condannate creda nondimeno di poter ritenere senza mentire ciò che si trova nei suoi libri, scritti dopo di allora: " I bambini nascono senza nessun male, senza nessun vizio, e in essi c'è solamente ciò che ha creato Dio ", non la ferita che ha inflitta il nemico? 16.17 - Pelagio cambia le carte in tavola Dicendo tutto questo, cioè spiegando in un senso le accuse che gli venivano mosse in un altro senso, riesce forse a dimostrare che non ha ingannato i giudici? Non ci riesce davvero: tanto più subdolamente li ha ingannati quanto più furbescamente appronta le sue spiegazioni. I vescovi cattolici nell'udire uno che anatematizzava coloro che dicono che " il peccato di Adamo danneggiò lui solo e non il genere umano " nient'altro stimavano che egli ritenesse all'infuori di quello che è solita predicare la Chiesa cattolica. Coerentemente battezza i bambini proprio perché ottengano la remissione dei peccati, non dei peccati fatti da loro imitando l'esempio del primo peccatore, ma dei peccati tratti da loro nel nascere per il vizio d'origine. E quando i vescovi udivano da uno anatematizzare coloro che dicono che " i bambini sono al momento di nascere nello stato in cui era Adamo prima della prevaricazione ", credevano che non intendesse se non quelli che ritengono che i bambini non abbiano tratto da Adamo nessun peccato e in questo senso siano in quello stato in cui egli era prima del peccato. Questo, su cui verteva la questione e non altro, gli si contestava precisamente. Perciò, quando egli ricorre alla spiegazione che i bambini non sono nello stato di Adamo prima del peccato perché non sono nella medesima saldezza di mente e di corpo, non perché è passata in loro una qualche colpa della loro radice, gli si risponda: Quando ti venivano contestate quelle proposizioni perché tu le condannassi, i vescovi cattolici non le intendevano così e quindi credevano che tu fossi cattolico dal momento che le condannavi. Perciò dunque la verità che ti attribuivano di ritenere dovette essere assolta e l'errore che invece tu ritenevi dovette essere condannato. Non tu dunque che ritenevi errori da condannare sei stato assolto, ma è stata assolta la verità che tu avresti dovuto ritenere. Perché poi ti si credesse assolto, ti si fece credito che tu sentissi verità lodevoli, mentre i giudici non capivano che occultavi errori riprovevoli. Giustamente sei stato giudicato compagno di Celestio, perché ti mostri suo complice. E se nel processo tenesti nascosti i tuoi libri, tuttavia dopo il processo li hai dati alla luce. 17.18 - La condanna di Pelagio è stata provvidenziale per i suoi seguaci ingannati Certamente ritenete giustissimo che in una situazione siffatta, contro gli autori di un errore tanto nefando, si siano mossi e i Concili episcopali e la Sede Apostolica e tutta la Chiesa Romana e l'Impero Romano, che per grazia di Dio è cristiano, perché costoro sfuggano ai lacci del diavolo. Chi sa che Dio non conceda ad essi il pentimento per conoscere, per confessare, per predicare, anche, la verità e per condannare una falsità veramente condannabile? Comunque però costoro vogliano comportarsi, noi non possiamo tuttavia dubitare che è stato per la misericordia del Signore che in questo modo si è provveduto a molti, i quali li seguivano, perché vedevano che erano ammessi alla comunione cattolica. 17.19 - Anche nella sua lettera a Innocenzo Pelagio usò l'inganno State poi ben attenti a come Pelagio abbia tentato di strisciare per trarre in inganno anche il tribunale episcopale della Sede Apostolica in questa stessa questione del battesimo dei bambini. Nella lettera che mandò a Roma al papa Innocenzo di beata memoria e che fu consegnata al papa Zosimo, perché i latori non trovarono vivo Innocenzo, e che di là fu poi diretta a noi, dice che " alcuni lo incolpano di negare ai bambini il sacramento del battesimo e di promettere ad alcuni i regni dei cieli senza la redenzione del Cristo ". Ma non sono così come le pone Pelagio le obiezioni che si muovono a costoro. Infatti essi non negano ai bambini il sacramento del battesimo e non promettono a nessuno i regni dei cieli senza la redenzione del Cristo. Pelagio dunque enunzia le lamentate calunnie in un modo che gli consenta di poter rispondere con facilità alle imputazioni, salvando il proprio dogma. 18 - A costoro si obietta piuttosto di non voler confessare che i bambini non battezzati sono coinvolti nella condanna del primo uomo e che in essi è passato il peccato originale da dover togliere mediante la rigenerazione. La loro opinione è che i bambini si devono battezzare unicamente allo scopo che ricevano il regno dei cieli, quasi che al di fuori del regno dei cieli a coloro, che senza la partecipazione del corpo e del sangue del Signore non possono avere la vita eterna, sia possibile avere altro che la morte eterna. Ecco quello che si obietta a costoro sul battesimo dei bambini, non quello che Pelagio ha enunziato per proprio conto in tal modo da poter rispondere secondo i propri dogmi alla propria enunziazione, come se fosse l'obiezione di chi lo avversava. 18.20 - Quello di Pelagio è il metodo della menzogna Fate attenzione inoltre in che modo risponda e vedete come le ombre dell'ambiguità vadano preparando un riparo alla falsità, spargendo caligine sulla verità; tanto che anche noi alla prima lettura godevamo che le sue affermazioni fossero rette o in qualche modo corrette. Ma le esposizioni più ampie trovate nei suoi libri, dove, per quanto tenti di coprirsi, è costretto il più delle volte a scoprirsi, ci hanno reso sospette anche coteste affermazioni, così da trovarle ambigue ad un esame più attento. Infatti dopo aver detto che quanto ha enunziato il suo avversario sul battesimo dei bambini egli " non l'ha udito mai nemmeno da un empio eretico ", soggiunge e dice: " Chi è così ignorante nella lettura del Vangelo, non dico, da tentare di dichiarare, ma anche solo di sussurrare o anche di pensare una simile enormità? Chi inoltre è tanto empio da volere che i bambini siano esclusi dal regno dei cieli, vietando ad essi d'esser battezzati e di rinascere nel Cristo?". 19.21 - La vera questione è quella della esistenza nei bambini del peccato originale È inutile che pronunzi queste parole: con esse non si giustifica. Che i bambini non possano senza il battesimo entrare nel regno dei cieli non l'hanno negato mai nemmeno costoro. Ma la questione non verte su questo: la questione è sulla purgazione dei bambini dal peccato originale. È su questo punto che deve purgarsi chi non vuol confessare che il lavacro della rigenerazione ha qualcosa da purgare nei bambini. E vediamo perciò le altre affermazioni che sta per fare. Dopo il riferimento della testimonianza evangelica che nessuno può entrare nel regno dei cieli senza essere rinato dall'acqua e dallo Spirito, ( Gv 5,3 ) testimonianza dalla quale non si muove ad essi nessuna questione, come abbiamo detto, seguitando domanda: " Chi è mai tanto empio da impedire ad un bambino di qualsiasi età la redenzione comune a tutto il genere umano? ". Anche qui c'è dell'ambiguità: quale redenzione dica, se dal male al bene o se dal bene al meglio. Tant'è vero che anche Celestio a Cartagine confessò nel suo libello la redenzione dei bambini, e tuttavia non volle confessare che da Adamo sia passato in essi il peccato. 20.22 - Ambiguità di Pelagio sulla sorte dei bambini che muoiono senza battesimo Ma badate che cosa poi soggiunga costui: " E da impedire di rinascere alla vita eterna e certa ad un bambino che è nato alla vita incerta? ". Cioè: " Chi è tanto empio da impedire di rinascere alla vita eterna e certa a chi è nato alla vita incerta? ". Quando leggemmo per la prima volta queste parole, credemmo che egli avesse voluto dire vita incerta questa vita temporale, sebbene sembri a noi che avrebbe fatto meglio a dirla mortale, invece che incerta, perché è certa la morte con cui finisce. Tuttavia, poiché non si dubita che sia incerta in ogni momento della sua durata, nient'altro credemmo che avesse voluto chiamare vita incerta se non questa vita mortale. Perciò, sebbene non avesse voluto confessare apertamente la morte eterna dei bambini migranti da questa vita senza il sacramento del battesimo, nondimeno la nostra preoccupazione in proposito veniva confortata da un ragionamento di cui ci sentivamo quasi sicuri. Dicevamo cioè: Se la vita eterna non può essere se non dei battezzati, come costui sembra riconoscere, certamente a quelli che muoiono senza il battesimo rimane la morte eterna. E questo destino non può per nessuna giustizia di Dio toccare a coloro dai quali non sono stati commessi in questa vita peccati di nessun genere, se non si ammette in essi il peccato originale. 21.23 - "So dove non vanno, non so dove vanno" Ma non mancarono poi dei fratelli che ci misero sull'avviso. Pelagio l'avrebbe potuto dire per la ragione che è notoriamente solito rispondere a quanti lo interrogano su tale questione nei termini seguenti: " Dei bambini che muoiono senza battesimo io so dove non vanno, ma non so dove vanno ", cioè so che non vanno nel regno dei cieli, dove invece vadano diceva o dice d'ignorarlo, perché non ardiva dire che andassero alla morte eterna i bambini dei quali sentiva che non avevano fatto qui nessun peccato e non consentiva che avessero tratto il peccato originale. Pertanto anche queste sue parole, trasmesse a Roma a sua grande discolpa, sono tanto ambigue da poter offrire al dogma di costoro dei nascondigli dai quali può sortire a tradimento il senso ereticale, quando, non essendoci nessuno capace di rispondere, ci si viene a trovare nelle condizioni di un uomo stremato in mezzo al deserto. 21.24 - Altri testi sospetti di Pelagio Ma è nel libro della sua professione di fede, inviato a Roma con la medesima lettera al medesimo papa Innocenzo, quale aveva già scritto un'altra lettera, il testo dove Pelagio si è denudato molto più evidentemente nel tentativo di coprirsi. Dice: " Riteniamo un solo battesimo e affermiamo che si deve celebrare nei bambini con le medesime parole del sacramento con le quali si celebra anche nei grandi". Non dice nemmeno: Con il medesimo sacramento, e certo, se lo dicesse, rimarrebbe ancora ambiguo; ma dice: " Con le medesime parole del sacramento ", come se per i bambini la remissione dei peccati si asserisca con il suono delle parole, ma non si compia nella realtà dei fatti. Tuttavia lì per lì sembrò che affermasse una verità che andava d'accordo con la fede cattolica, ma non riuscì ad ingannare quella Sede Apostolica fino in fondo. Dopo le risposte del Concilio d'Africa, una provincia nella quale quella pestifera dottrina era, sì, giunta serpeggiando, ma senza occuparla tanto vastamente, né inquinarla profondamente, per la premura di fratelli fedeli si fecero patenti anche altre sue affermazioni fatte da lui a Roma, dove era vissuto assai a lungo e dove prima che altrove si era buttato a tali discorsi e discussioni. Sono le medesime affermazioni che il papa Zosimo, come potete leggere, ha inserite come esecrande nella lettera che ha scritta con il desiderio che sia diffusa per l'intero orbe cattolico. In essa Pelagio, come se commentasse la Lettera dell'apostolo Paolo ai Romani, ragiona e dice così: " Se il peccato di Adamo nuoce anche a coloro che non peccano, allora anche la giustizia del Cristo giova pure a coloro che non credono". E le altre idee simili che abbiamo confutate e dissolte nei libri scritti da noi sul battesimo dei bambini. Tali opinioni non osò per la verità proporle in quella sorta di commento come sue convinzioni personali. Ma in un ambiente dov'era notissimo e dove il suo modo di pensare e di parlare non poteva ignorarsi, diceva precisamente quello che, in quei libri dal primo dei quali ho già stralciato qualcosa, tratta non velatamente, bensì molto apertamente con tutta la sua forza dialettica, per far credere che la natura umana non è nei bambini viziata in nessun modo per propaggine. Attribuendo ad essa la salute le toglie il Salvatore. 22.25 - Il trattamento da riservare a Pelagio e a Celestio Questa è la situazione. Si costata ormai la nascita di un dogma pestifero e d'un errore ereticale. La Chiesa con l'aiuto di Dio se ne guarda ancora più apertamente di prima. Questi due signori, cioè Pelagio e Celestio, o siano ridotti tra i penitenti o siano condannati in modo assoluto, se rifiutano la penitenza, perché l'opinione pubblica li mostra o anche li dimostra come gli autori di questa eresia. Oppure, se non ne sono gli autori, ma l'hanno imparata da altri, tuttavia vengono con certezza vantati come gli assertori e i dottori che l'hanno fatta serpeggiare e crescere più vastamente a causa sia dei loro discorsi e dei loro libri, sia a causa di altri indizi ben fondati e della fama suscitata ed alimentata dall'insieme di tutti questi elementi. A tal punto che altro resta se non che ogni cattolico, secondo le forze che gli dà il Signore, rintuzzi questa peste e resista ad essa vigilantemente, perché, combattendo a favore della verità, per necessità di rispondere e senza mania di contendere, si istruiscano gli ignoranti? E così si converte in una utilità per la Chiesa il disegno tramato dal nemico a danno di essa, in conformità con le parole dell'Apostolo: È necessario che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi. ( 1 Cor 11,19 ) 23.26 - Secondo i Pelagiani la loro dottrina non comprometteva la fede cattolica Perciò, dopo il molto che abbiamo potuto scrivere battendoci contro questo errore, nemico della grazia di Dio, elargita a piccoli e grandi per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, dobbiamo esaminare adesso quello che costoro asseriscono per il desiderio d'evitare astutamente l'accusa di eresia. Dicono: " Questa è una questione che non costituisce un pericolo per la fede ". Ossia, qualora si dimostrasse che costoro sono usciti fuori dalla giusta orbita della fede, il loro errore non dovrebbe apparire una colpa criminale, ma una colpa civile. In questo senso parlò Celestio nel processo ecclesiastico di Cartagine: " Quanto alla trasmissione del peccato, ho già detto che nella Cattolica ho udito molti che la negano e altri che l'ammettono. Questo però è un argomento aperto alla discussione e non è un'eresia. Ho detto sempre che i bambini hanno bisogno del battesimo e si devono battezzare: che altro vuole Paolino? ". Disse così per far intendere che sarebbe stata da giudicarsi eresia, se avesse negato la necessità di battezzare i bambini. Poiché invece confessa che si devono battezzare, sebbene come ragione del loro battesimo non dica la ragione invocata dalla verità, ma un'altra che non rientra nella fede, non crede di errare e quindi di dover essere giudicato come eretico. Similmente nel libello presentato a Roma, dopo aver spiegato, quanto a lungo gli piacque, la propria fede dalla Trinità dell'unica divinità fino al modo della futura risurrezione dei morti, verità sulle quali nessuno l'aveva interrogato e nessuno gli moveva questione, quando arrivò a parlare del problema allora dibattuto, disse: " Se al di fuori di quanto è definito per fede sono nate certe questioni che per molti sono oggetto di controversia, non sono io che, quasi da inventore di un qualche dogma, ho fondato questo insegnamento arrogandomi un'autorità indiscussa, ma noi non facciamo altro che offrire al giudizio della vostra apostolicità le verità che ho apprese dalla fonte dei Profeti e degli Apostoli, perché, se qualche errore d'ignoranza ci fosse eventualmente sfuggito, da uomini che siamo, venga corretto dalla vostra sentenza ". Capite bene, com'è chiaro, che premettendo un tale preambolo mirava a questo: se fosse apparso in lui qualcosa d'errato, gli altri avessero la bontà di credere che non aveva errato nella fede, ma in questioni che sono fuori dalla fede e dove, sebbene l'errore sia da correggere, non si corregge tuttavia come eresia e di chi non sia stato corretto si dice che erra, ma senza che tuttavia sia giudicato per questo un eretico. 23.27 - Esempi di problemi che non compromettono la fede Ma lo inganna parecchio questa sua opinione. Le questioni presenti, che stima fuori dalla fede, sono ben diverse da quelle nelle quali, rimanendo salva la fede che ci fa cristiani, o s'ignora quale sia la verità e resta sospeso il giudizio definitivo o s'interpreta diversamente da come sta la verità, in forza d'una congettura umana e debole. Per esempio quando si vuole sapere come e dove sia il paradiso in cui Dio collocò l'uomo che formò dalla polvere, ( Gen 2,7 ) sebbene la fede cristiana non dubiti che esista quel paradiso. O quando si vuol sapere dove siano adesso Elia o Enoch, se qui o altrove, sebbene non dubitiamo che essi vivano negli stessi corpi con i quali sono nati. O quando si vuol sapere se l'Apostolo sia stato rapito al terzo cielo con il corpo o senza il corpo ( 2 Cor 12,2 ), per quanto sia una ricerca presuntuosa quella di voler conoscere ciò che attesta d'ignorare, salva s'intende la fede, colui che ebbe tale privilegio. O quanti siano i cieli, nel terzo dei quali Paolo dice d'essere stato rapito. O se gli elementi di questo mondo visibile siano quattro o siano di più. Che cosa origini le eclissi di sole o di luna, che gli astrologi sanno predire con il computo esatto dei tempi. Perché gli antichi uomini abbiano vissuto tanto a lungo quanto è attestato dalla santa Scrittura e se in proporzione alla loro longevità abbiano cominciato a generare con un ritardo di pubertà. Dove abbia potuto vivere Matusalemme ( Gen 5,25-27 ) che non era nell'arca e che, stando alla maggioranza dei codici greci e latini sul computo degli anni, sarebbe dovuto sopravvivere al diluvio, oppure se si debba credere piuttosto ad una minoranza di codici, rarissimi a trovarsi, nei quali il computo dei suoi anni è fatto così da indicarlo già morto prima del diluvio. In queste e in simili questioni, varie e innumerevoli, attinenti sia all'oscurità profondissima delle opere di Dio, sia alla segretezza occultissima delle Scritture e che sarebbe difficile abbracciare e definire con un qualche criterio di certezza, chi non capisce che da una parte molte verità s'ignorano senza nessun danno della fede cristiana e che d'altra parte in qualcosa si erra senza incorrere in nessun crimine di dogma ereticale? 24.28 - Il fondamento della fede Ma quando sono in causa i due uomini per l'uno dei quali siamo stati venduti come schiavi del peccato e per l'altro siamo redenti da tutti i peccati, per l'uno siamo stati precipitati nella morte e per l'altro siamo liberati per la vita; infatti il primo ci ha portati in se stesso alla rovina facendo la propria volontà e non la volontà di colui che l'aveva fatto, il secondo ci ha fatti salvi in se stesso non facendo la propria volontà, ma la volontà di colui che l'aveva mandato: ( Gv 4,34; Gv 5,30 ) quando dunque sono in causa questi due uomini è propriamente in causa la sostanza della fede cristiana. Uno solo infatti è Dio e uno solo il Mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù. ( 1 Tm 2,5 ) Perché, non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati, ( At 4,12 ) e Dio in lui ne ha stabilito la fede per tutti risuscitandolo dai morti. ( At 17,31 ) Pertanto senza questa fede, cioè senza la fede nell'unico Mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, senza la fede dico nella sua risurrezione - risurrezione che Dio ha stabilito per tutti -, che certo non si può credere in tutta la sua verità senza la sua incarnazione e morte: in conclusione, senza la fede nell'incarnazione, nella morte e nella risurrezione del Cristo la verità cristiana non dubita che nemmeno gli antichi giusti abbiano potuto, per essere giusti, venir mondati dai loro peccati e giustificati dalla grazia di Dio. E ciò si è verificato sia per quei giusti dei quali parla la santa Scrittura, sia per quelli di cui essa non parla, ma nell'esistenza dei quali si deve credere, o prima del diluvio o dopo fino a quando fu data la legge o nel periodo stesso della legge, non solo tra i figli d'Israele come furono i profeti, ma anche fuori da quel popolo come Giobbe. I cuori di tutti costoro erano mondati dalla medesima fede nel Mediatore e in quei cuori si riversava la carità per mezzo dello Spirito Santo, ( Rm 5,5 ) che spira dove vuole, ( Gv 3,8 ) non inseguendo i meriti, ma suscitando anche gli stessi meriti. La grazia di Dio infatti non sarà grazia in nessun modo, se non sarà gratuita in ogni modo. 24.29 - La grazia operava anche nell'Antico Testamento La morte regnò da Adamo fino a Mosè, ( Rm 5,14 ) perché non poté vincere la morte nemmeno la legge data per mezzo di Mosè. La legge infatti non fu data come capace di conferire la vita, ( Gal 3,21 ) bensì perché degli uomini, morti spiritualmente e bisognosi della grazia per essere riportati alla vita, mostrasse non solo la prostrazione a causa della propagazione del peccato e della sua dominazione, ma altresì la condanna per colpevolezza a causa del sopraggiungere della trasgressione della legge stessa. E questo perché chiunque anche allora arrivava a comprendere, per la misericordia divina, questa situazione non si perdesse, e benché fosse destinato al castigo attraverso il regno della morte e se ne fosse reso cosciente a motivo della trasgressione della legge, cercasse l'aiuto di Dio, e così dove era abbondato il peccato sovrabbondasse la grazia, ( Rm 5,20 ) la quale è la sola forza che libera dal corpo di questa morte. ( Rm 7,24-25 ) 25 - Sebbene dunque non abbia potuto rimuovere da nessuno il regno della morte nemmeno la legge data per mezzo di Mosè, tuttavia anche al tempo della legge c'erano uomini di Dio che non vivevano sotto la legge terrificante, accusante, castigante, ma che vivevano sotto la grazia allettante, risanante, liberante. Erano coloro che dicevano: Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre, ( Sal 51,7 ) e: Nulla è intatto nelle mie ossa per i miei peccati, ( Sal 38,4 ) e: Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo, ( Sal 51,12 ) e: Sostieni in me un animo generoso, ( Sal 51,14 ) e: Non privarmi del tuo Santo Spirito. ( Sal 51,13 ) Erano coloro che dicevano: Ho creduto, perciò ho parlato. ( Sal 116,1 ) Anch'essi infatti venivano mondati dalla stessa fede che monda noi pure. Tanto che anche l'Apostolo dice: Animati da quello stesso spirito di fede, di cui sta scritto: - Ho creduto, perciò ho parlato -, anche noi crediamo e perciò parliamo. ( 2 Cor 4,13 ) Per la stessa fede si diceva: Ecco una vergine riceverà nel suo grembo un figlio e lo partorirà e lo chiameranno Emmanuele, che significa Dio con noi. ( Is 7,14; Mt 1,23 ) Per la stessa fede si diceva di lui: Ed egli, come uno sposo che esce dalla stanza nuziale, esulta come prode che percorre la via: egli sorge da un estremo del cielo e la sua corsa raggiunge l'altro estremo; nulla si sottrae al suo calore. ( Sal 19,6-7 ) Per la stessa fede si diceva a lui: Il tuo trono, o Dio, dura per sempre; è scettro giusto lo scettro del tuo regno. Ami la giustizia e l'empietà detesti: perciò Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di letizia a preferenza dei tuoi eguali. ( Sal 45,7-8 ) Con il medesimo spirito di fede con il quale noi crediamo in avvenimenti passati essi li vedevano futuri. Perché, non è vero che non siano stati partecipi di questi avvenimenti proprio coloro che li poterono con amore pieno di fede vaticinare a noi. Per quale ragione l'apostolo Pietro dice: Perché continuate a tentare Dio imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare? Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati noi e nello stesso modo essi pure, ( At 15,10-11 ) se non per la ragione che anch'essi sono stati salvati per la grazia del Signore Gesù Cristo e non per la legge di Mosè, che non portava alla guarigione del peccato, ma solo alla cognizione del peccato? Lo insegna l'Apostolo scrivendo: Per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. ( Rm 3,20 ) Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti. ( Rm 3,21 ) Se adesso la giustizia di Dio è stata manifestata, c'era dunque anche prima, ma occulta. La sua occultazione era significata dal velo del tempio che si squarciò alla morte del Cristo per indicare la sua rivelazione. ( Mt 27,51 ) Anche allora dunque c'era nel popolo di Dio questa grazia dell'unico Mediatore di Dio e degli uomini, l'uomo Cristo Gesù, ma c'era in modo latente come sul vello la pioggia, che Dio riserva, non dovuta, ma liberamente regalata, alla sua eredità. ( Sal 68,10 ) Adesso invece che quel vello si è, per così dire, asciugato, ossia ora che il popolo giudaico è stato riprovato, la grazia di Dio apparisce in modo patente, come sull'aia, in mezzo a tutte le genti. ( Gdc 6,36-40 ) 26.30 - Lo schema della storia della salvezza secondo i Pelagiani Guardiamoci dunque dal dividere i tempi alla maniera di Pelagio36 e dei suoi discepoli, i quali dicono: " Uomini giusti sono vissuti all'inizio in forza della natura, poi sotto la legge e terzo sotto la grazia ". Cioè, per natura da Adamo in tutto il lungo periodo prima che fosse data la legge. " Allora infatti " dicono " si conosceva il Creatore dietro la guida della ragione, e la regola di come si doveva vivere si portava scritta nei cuori, non per la legge della lettera scritta ma per la legge della natura. Essendosi però viziati i costumi, quando la natura cominciò a non bastare più, perché stinta, fu aggiunta ad essa la legge, perché, come una lima, ne raschiasse la ruggine che l'appannava e la riportasse al suo primo fulgore. Ma dopo che prevalse " così ragionano " un'eccessiva abitudine di peccare, a risanar la quale poco valeva la legge, arrivò il Cristo e a quel morbo, che si potrebbe dire disperatissimo, portò rimedio il Medico in persona, da se stesso, non per mezzo dei suoi discepoli ". 26.31 - Per la fede anche gli antichi giusti furono membra del Cristo Nel ragionare così tentano d'escludere dalla grazia del Mediatore gli antichi giusti, come se l'uomo Cristo Gesù non sia stato il Mediatore tra Dio e gli uomini ( 1 Tm 2,5 ) di quei tempi, per la ragione che non aveva preso ancora la carne dal seno della Vergine e non era ancora uomo quando vivevano quei giusti. Se fosse così, l'Apostolo non direbbe: A causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti, e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita nel Cristo. ( 1 Cor 15,21-22 ) Secondo i vaniloqui di costoro quegli antichi giusti né ebbero bisogno della mediazione dell'uomo Cristo per essere riconciliati con Dio, bastando ad essi la natura, né riceveranno la vita in lui, essendo evidente che non appartengono al suo corpo e alle sue membra, in rapporto al quale Gesù è divenuto uomo per gli uomini. Se invece è vero quello che dice la Verità per mezzo dei suoi Apostoli: Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita nel Cristo, perché dal primo uomo viene la morte e dal secondo la risurrezione dei morti, quale cristiano oserebbe dubitare che anche quei giusti, i quali piacquero a Dio nei tempi verdi del genere umano, arriveranno alla risurrezione della vita eterna, non della morte eterna, perché risorgeranno nel Cristo; e risorgeranno nel Cristo perché appartengono al corpo del Cristo, e appartengono al corpo del Cristo perché anche di essi è capo il Cristo; ( 1 Cor 11,3 ) e anche di essi è capo il Cristo perché uno solo è il Mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù? ( 1 Tm 2,5 ) E non sarebbe stato capo di essi, se mediante la sua grazia non avessero creduto nella sua risurrezione. E questo come avverrebbe, se avessero ignorato la sua futura venuta nella carne, né in forza di questa fede fossero vissuti nella giustizia e nella pietà? Infatti se l'incarnazione del Cristo non avesse giovato ad essi per la ragione che non era avvenuta ancora, non gioverebbe nemmeno a noi il giudizio del Cristo sui vivi e sui morti, perché non è ancora avvenuto. Se al contrario in forza della fede in questo giudizio non ancora avvenuto, ma venturo, noi staremo alla destra del Cristo, certamente quei giusti sono membra del Cristo in forza della fede nella sua incarnazione, non ancora avvenuta per quei tempi, ma ventura. 27.32 - Ai giusti dell'Antico Testamento fu rivelata l'umanità del Redentore Non dobbiamo credere infatti che ai giusti dell'antichità abbia giovato solamente la divinità del Cristo che esisteva da sempre e non anche la rivelazione della sua umanità che non esisteva ancora. L'affermazione di Gesù Signore: Abramo bramò di vedere il mio giorno e lo vide e se ne rallegrò, ( Gv 8,56 ) se Gesù ha voluto che come suo giorno s'intendesse il suo tempo, rende certamente testimonianza ad Abramo che egli era pieno di fede nella sua incarnazione. È infatti secondo la sua incarnazione che Gesù ha il suo tempo, e invece la sua divinità trascende ogni tempo, perché è per mezzo di essa che sono stati creati tutti i tempi. Se poi qualcuno crederà di dover intendere l'affermazione di Gesù del giorno eterno che non va a finire nel domani e non è preceduto dal giorno ieri, ossia dell'eternità stessa nella quale Gesù è coeterno al Padre, come avrebbe potuto Abramo avere veramente una tale brama, se non avesse conosciuto la futura mortalità di colui del quale cercava di vedere l'eternità? Poniamo infine l'ipotesi che qualcuno limiti il senso delle parole di Gesù dicendo che la sua affermazione: Abramo cercò il mio giorno, non si deve intendere se non così: Cercò me, che sono il giorno che non passa, ossia la luce indefettibile, presso a poco come quando diciamo: La vita del Figlio, della quale parla il Vangelo affermando: Ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso, ( Gv 5,26 ) non intendiamo separare il Figlio e la sua vita come due realtà diverse, ma intendiamo come vita lo stesso e medesimo Figlio che ha detto: Io sono la via, la verità, la vita, ( Gv 14,6 ) e del quale si è detto: Egli è il vero Dio e la vita eterna. ( 1 Gv 5,20 ) Si dice cioè che Abramo desiderò di vedere la divinità del Cristo pari a quella del Padre senza nulla presapere della sua incarnazione, come l'hanno cercato anche alcuni filosofi che non seppero nulla della sua carne. Ma contro questa ipotesi io faccio osservare che c'è anche la pagina dove Abramo comandò al suo servo di mettergli la mano sotto il femore e di giurare per il Dio del cielo, ( Gen 24,2-3 ) e domando: sarà mai possibile a qualcuno dare di questo episodio un'interpretazione giusta che possa fare a meno di supporre in Abramo la consapevolezza che la carne nella quale si sarebbe incarnato il Dio del cielo discendeva da lui stesso? 28.33 - L'importanza della umanità nel Redentore Alla carne e al sangue del Dio del cielo rese una testimonianza notissima ai fedeli cristiani anche Melchisedech, quando benedì lo stesso Abramo, ( Gen 14,18.20 ) tanto che molto tempo dopo si diceva nei Salmi al Cristo ciò che, pur essendo un evento non ancora venuto, ma ancora venturo, cantava tuttavia la sola e medesima fede anche dei padri, che è la nostra fede: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedech. ( Sal 110,4 ) Per coloro che trovano la morte in Adamo giova appunto il Cristo perché è il Mediatore per la vita. Ma non è il Mediatore in virtù della divinità nella quale è uguale al Padre: per essa infatti anch'egli dista da noi quanto il Padre, e come ci sarà mediazione dove la distanza rimane la stessa? Perciò l'Apostolo non dice: Un solo Mediatore tra Dio e gli uomini, il Cristo Gesù, ma dice: l'uomo Cristo Gesù. ( 1 Tm 2,5 ) Mediatore dunque in forza di ciò che lo fa uomo : inferiore al Padre in forza di ciò che lo fa più vicino a noi, superiore a noi in forza di ciò che lo fa più vicino al Padre. Si dice lo stesso con maggiore esplicitezza così: inferiore al Padre perché in condizione di servo, ( Fil 2,7 ) superiore a noi perché senza macchia di peccato. 29.34 - Tutti gli uomini hanno bisogno di Gesù Chiunque pertanto sostiene che la natura umana in qualsiasi epoca non ha bisogno del secondo Adamo come medico, perché non è stata viziata nel primo Adamo, risulta con evidenza di prove nemico della grazia di Dio, non in una qualche questione nella quale si può dubitare o errare, pur rimanendo salva la fede, ma nella stessa regola della fede che ci fa cristiani. Ora, perché mai la natura umana dei tempi antichi si loda da costoro come meno viziata in quell'epoca dai cattivi costumi? Non tengono conto che gli uomini erano allora sommersi da così grandi e quasi intollerabili peccati che, ad eccezione di un solo uomo di Dio, della sua moglie, di tre suoi figli e di altrettante nuore, per giusto giudizio di Dio fu distrutto dal diluvio tutto il mondo, come dopo dal fuoco la piccola regione di Sodoma? ( Gen 7; Gen 19 ) Da quando dunque a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, e così ha raggiunto tutti gli uomini, che tutti hanno peccato in lui, ( Rm 5,12 ) con certezza l'intera massa di perdizione divenne possesso del perditore. Nessuno pertanto, nessuno assolutamente, è stato liberato o è liberato o sarà liberato dalle mani del perditore se non in forza della grazia del Redentore. 30.35 - Il precetto della circoncisione E veramente la Scrittura non dice con esplicitezza se prima di Abramo i giusti o i loro bambini ricevessero il segno d'un qualche sacramento corporale e visibile. Lo stesso Abramo tuttavia ricevé il segno della circoncisione quale sigillo della giustizia derivante dalla fede. ( Rm 4,11 ) E lo ricevé così da essergli comandato di circoncidere nel futuro anche tutti bambini della propria casa ancora freschissimi dal parto materno nell'ottavo giorno della loro nascita. Così anche questi bambini, che non potevano credere ancora con il loro cuore per ottenere la giustizia, dovevano tuttavia prendere il sigillo della giustizia derivante dalla fede. Ciò fu ordinato con tanto rigore che Dio voleva cancellata dal suo popolo l'anima del bambino che non fosse stato circonciso nell'ottavo giorno. ( Gen 17,11-14 ) Se si cerca la giustizia di questa pena tanto orribile, non salterà, frantumata dal contraccolpo, ogni argomentazione di costoro, per quanto si voglia argomentosa, sul libero arbitrio e sulla lodevole sanità e purità della natura? Infatti che male, vi prego di dirmi, ha commesso di propria volontà un bambino, perché a causa d'un altro che si comporta negligentemente e non lo circoncide, debba essere condannato lui personalmente con una condanna tanto severa che sia radiata la sua anima dal suo popolo? E il rigore minacciato non si limita alla morte temporale, poiché allora si diceva a proposito dei giusti quando morivano: Si è riunito al suo popolo, ( Gen 25,17 ) o: Si è ricongiunto ai suoi padri, ( 1 Mac 2,69 ) con la certezza che nessuna prova ormai fa più temere a nessuno d'esser separato dal suo popolo, se il suo popolo è lo stesso popolo di Dio. 31.36 - La pena per l'omissione della circoncisione Come si spiega dunque una condanna così grave senza nessuna colpa di volontà propria? Non è vero infatti ciò che opinano alcuni seguendo i platonici: all'anima di ciascun bambino si retribuisce quello che ha fatto di sua volontà anteriormente alla vita terrena, perché prima di questo corpo aveva il libero arbitrio per vivere o bene o male. Al contrario l'apostolo Paolo dice con molta chiarezza che quelli che non sono ancora nati non hanno compiuto nulla di bene o di male. ( Rm 9,11 ) Da dove viene dunque la giustizia di quella pena di perdizione per un bambino se non dal fatto che egli appartiene alla massa di perdizione e dal fatto che ogni uomo nato da Adamo s'intende giustamente condannato a causa dell'obbligazione dell'antico debito, se non è stato liberato da quell'obbligazione, non in forza di un debito da parte di Dio, ma in forza di una sua grazia? E in forza di quale grazia se non della grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore? ( Rm 7,25 ) E certamente Gesù è stato profetato, tra gli altri antichi sacramenti, anche dalla stessa circoncisione carnale. Infatti il giorno ottavo nel succedersi delle settimane è il giorno del Signore, quello in cui il Signore è risorto; e la pietra era il Cristo: ( 1 Cor 10,4 ) di qui il coltello della circoncisione è di pietra ( Gs 5,2-3 ) e la carne del prepuzio è il corpo del peccato. 32.37 - Gesù, l'unico uomo senza colpa, immolato per la salvezza degli altri uomini, tutti peccatori Mutati dunque i sacramenti dopo la venuta di colui che essi indicavano venturo, ma non mutato tuttavia l'aiuto dei Mediatore - il quale anche prima di venire nella carne liberava nell'antichità le sue membra con la fede nella sua incarnazione ( Rm 6,6 ) -, anche noi, morti per i nostri peccati e per l'incirconcisione della nostra carne, siamo risorti con il Cristo, nel quale abbiamo ricevuto non una circoncisione fatta da mano d'uomo, ( Col 2,13 ) ma la circoncisione prefigurata da quella fatta da mano d'uomo. Essa ha distrutto il corpo del peccato ( Rm 6,6 ) con il quale siamo nati da Adamo. È il discendere da una fonte condannata ciò che ci condanna, se non veniamo mondati dalla carne somigliante alla carne del peccato, nella quale fu mandato senza il peccato colui che a partire dal peccato ( Rm 8,3 ) doveva tuttavia condannare il peccato, essendo stato trattato da peccato in nostro favore. A questo proposito l'Apostolo dice: Vi supplichiamo in nome del Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio. ( 2 Cor 5,20-21 ) Dio dunque, con cui per lui veniamo riconciliati, ha trattato Gesù come peccato per il nostro bene, cioè come sacrificio che meritasse a noi la remissione dei nostri peccati: si chiamano peccati i sacrifici per i peccati. E in realtà è stato immolato per i nostri peccati lui che personalmente non aveva nessun vizio, il solo tra gli uomini ad essere nelle condizioni che si ricercavano allora anche negli animali, con l'intuizione simbolica dell'arrivo futuro di lui, unico senza vizio, a sanare i vizi. Quindi in qualunque giorno dalla sua nascita un bambino venga battezzato nel Cristo, è come se fosse circonciso nell'ottavo giorno, perché è circonciso in colui che risorse, sì, nel terzo giorno dalla crocifissione, ma nell'ottavo giorno della settimana. Si circoncide poi il bambino per spogliarlo del corpo di carne, ( Col 2,11 ) cioè per sdebitarlo con la grazia della rigenerazione spirituale del debito contratto con il contagio della generazione carnale. Nessuno infatti è mondo da macchia - da quale macchia, prego, se non del peccato? -, nemmeno un bambino la cui vita sia di un giorno solo sopra la terra. ( Gb 14,4 sec. LXX ) 33.38 - Il peccato originale non compromette la bontà naturale né dell'uomo, né del matrimonio Ma ecco come argomentano e che cosa domandano costoro: " Sono dunque un male le nozze e non è opera di Dio l'uomo generato dalle nozze? ". Come se il bene delle nozze sia il morbo della concupiscenza, immersi nel quale coloro che non conoscono Dio amano le loro mogli, e l'Apostolo lo proibisce, ( 1 Ts 4,5 ) e non piuttosto la pudicizia coniugale, per cui la libidine della carne viene incanalata agli usi buoni di procreare ordinatamente dei figli; oppure come se l'uomo possa essere altra cosa che opera di Dio, tanto quando è procreato dal matrimonio, come quando è procreato dalla fornicazione o dall'adulterio. Ma nella questione nostra attuale, dove si chiede non a che cosa sia necessario il Creatore, bensì a chi sia necessario il Salvatore, occorre guardare non a ciò che di buono c'è nella procreazione naturale, ma a ciò che di male c'è nel peccato dal quale è certo che è stata viziata la natura. Ora, si propagano ambedue insieme: e la natura e il vizio della natura; ma buona è la natura e cattivo il vizio. La natura si riceve dalla generosità del Creatore, il vizio si trae dalla origine della condanna: la natura ha per causa la buona volontà del sommo Dio, il vizio la cattiva volontà del primo uomo: il bene della natura addita Dio come autore della creatura, il vizio della natura addita Dio come punitore della disobbedienza, e infine lo stesso e medesimo Cristo per creare il bene della natura ha fatto l'uomo e per sanare il vizio della natura si è fatto uomo. 34.39 - La bontà del matrimonio Un bene sono dunque le nozze in tutti gli elementi che sono propri delle nozze. Questi elementi sono tre: l'intenzione di generare, la casta fedeltà, il carattere sacramentale del connubio. Per l'intenzione di generare è scritto: Desidero che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa. ( 1 Tm 4,14 ) Per la casta fedeltà: La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie. ( 1 Cor 7,4 ) Per il carattere sacramentale del connubio: Quello che Dio ha congiunto l'uomo non lo separi. ( Mt 19,6 ) Sulle nozze ricordiamo d'aver detto abbastanza con l'aiuto di Dio in altri nostri libri che voi conoscete. Per tutti questi beni il matrimonio sia rispettato da tutti e il talamo sia senza macchia. ( Eb 13,4 ) Nella misura in cui le nozze sono buone, nella stessa misura esse convertono in un bene grandissimo anche il male della libidine, perché della libidine non si serve bene la libidine, ma la ragione. La libidine poi, come si rammarica l'Apostolo, sta in quella legge delle membra disobbedienti che muove guerra alla legge della mente. La ragione invece che usa bene della libidine sta nel cuore stesso della legge delle nozze. Perché, se non si potesse ricavare nessun bene dal male, nemmeno Dio creerebbe un uomo da una unione adulterina. Ad esempio il male condannabile dell'adulterio, pur quando da esso nasce un uomo, non s'imputa a Dio, perché è certamente un'opera buona quella che fa Dio stesso nell'opera cattiva degli uomini. Orbene ciò che di vergognoso c'è nella disobbedienza di quelle membra, della quale arrossirono i primi uomini che si coprirono dopo il peccato le medesime membra con foglie di fico, ( Gen 3,7 ) non è alle nozze che si addebita, in ordine alle quali l'unione coniugale non è soltanto lecita, ma anche utile e onesta. Si addebita invece al peccato della disobbedienza che fu seguito da questa pena: l'uomo disobbediente a Dio sentisse a sua volta la disobbedienza delle sue membra contro lui stesso. E l'uomo, vergognandosi di esse perché non si movevano più ad arbitrio della sua volontà, ma a capriccio della libidine, come se questo fosse diventato il loro proprio arbitrio, procurò di coprirsi quelle membra che giudicò vergognose. Certamente non fu dell'opera di Dio che l'uomo ebbe da rimanere confuso e in nessun modo avrebbero procurato vergogna all'umana creatura gli organi che al Creatore parve bene di dovere mettere nella sua struttura. Pertanto né a Dio, né all'uomo dispiaceva quella nudità semplice, quando non c'era nulla di cui arrossire perché non c'era stato ancora nulla da punire. 35.40 - Le nozze nello stato d'innocenza Sarebbero esistite senza dubbio in seguito le nozze, anche se non ci fosse stato in precedenza il peccato, perché non fu per altro scopo che in aiuto di Adamo fu fatta una donna, invece d'un altro uomo. E quelle parole di Dio: Crescete e moltiplicatevi ( Gen 1,28 ) non furono una predizione di peccati da condannare, ma una benedizione di fecondità concessa alle nozze. Dio infatti con queste sue ineffabili parole, cioè con le divine " ragioni ", viventi nella verità della sua Sapienza, mediante la quale sono state fatte tutte le cose, immise nei primi uomini la forza " seminale ". Se però il peccato non avesse fatto decadere la natura dal suo stato, lungi da noi il pensare che le nozze nel paradiso sarebbero state tali da comportare che in esse gli organi genitali per seminare la prole fossero mossi, non da un cenno della volontà, come i piedi per camminare, le mani per lavorare, la lingua per parlare, ma dal bollore della libidine. Né l'integrità verginale era guastata, come avviene adesso, per la concezione del feto, dalla violenza di un torbido ardore, ma obbediva al comando di una carità tranquillissima. E come non c'era il gemito della madre nel partorire, allo stesso modo non c'era né dolore, né sangue della vergine nell'unione. La ragione per cui non si crede in queste verità è che nella condizione dell'attuale mortalità ne manca l'esperienza. La natura appunto, cambiata in peggio dal vizio, non trova più un esempio di quella prima purezza. Ma noi stiamo parlando a fedeli che sanno credere alla parola di Dio anche senza ricorrere ad esempi che diano l'esperienza della verità. Come potrei mostrare adesso un uomo fatto dalla polvere senza concorso di genitori e una moglie fatta per lui dal suo fianco? ( Gen 2,7.22 ) E tuttavia la fede crede in quello che ormai l'occhio non vede. 36.41 - Lo stato attuale delle nozze è una conseguenza del peccato Così dunque non sono adesso dimostrabili e la tranquillità di quelle prime nozze senza passione di libidine e il muoversi dei genitali, alla pari delle altre membra, non sotto l'eccitazione di uno sfrenato calore, ma ad arbitrio della volontà - tali sarebbero perseverate le nozze, se non fosse intervenuto l'obbrobrio del peccato -. Però si hanno tutte le ragioni per crederle, date le testimonianze scritte con l'avallo dell'autorità divina. Adesso infatti non trovo nessuno che pratichi l'atto coniugale senza il prurito della libidine, come non trovo nessuna donna che partorisca senza dolori e gemiti, nessuno che nasca senza la morte nel suo avvenire. E nondimeno non ci sarebbero stati, secondo la verità delle Scritture sante, i gemiti della donna nel parto, né la morte d'ogni uomo che nasce, se prima non ci fosse stato il peccato. Ugualmente sarebbe mancato anche ciò di cui arrossirono coloro che si coprirono quelle membra, perché nelle medesime Lettere sante anche questo è una conseguenza del peccato. Se appunto un muoversi non dignitoso di quelle membra non le avesse fatte avvertire ai loro occhi - certo non chiusi, ma nemmeno aperti, ossia non intenti a guardare quelle parti - Adamo ed Eva non avrebbero sentito nel loro corpo, fatto senza dubbio tutto lodevole da Dio, nulla di vergognoso da dover coprire; perché, se non ci fosse stato prima l'orrore che la disobbedienza ebbe l'ardire di commettere, non sarebbe seguito il disonore che la convenienza voleva nascondere. 37.42 - Il bene delle nozze e il male della concupiscenza carnale È chiaro dunque: non è da imputarsi alle nozze quel male senza la cui esistenza rimarrebbe ugualmente l'esistenza delle nozze. Cotesto male non toglie il bene delle nozze, ma dalle nozze è volto ad un buon uso anche cotesto male. Siccome però per l'attuale condizione dei mortali adesso l'unione coniugale e la libidine sono ormai unite tra loro nelle medesime funzioni, per questo avviene che, quando si biasima la libidine, credano che si biasimi anche la lecita e onesta congiunzione coniugale coloro che non vogliono o non sanno tenerle distinte. Né avvertono che da una parte c'è il bene delle nozze, del quale si inorgogliscono le nozze, ossia la prole, la pudicizia e il sacramento, mentre dall'altra parte non c'è il male delle nozze, ma il male della concupiscenza carnale, del quale arrossiscono anche le nozze. Ma poiché senza questo male non si può ottenere il bene delle nozze, cioè la propagazione dei figli, quando si viene a quest'operazione si cercano luoghi segreti, si escludono testimoni, si evita perfino la presenza degli stessi figli, se ce ne sono già stati, quando per la loro età cominciano già a sentire queste cose: e così si lascia compiere alle nozze ciò che è lecito in modo però che non trascurino di celare ciò che è sconveniente. Da qui dipende che anche i bambini, benché incapaci di peccare, non nascano tuttavia senza il contagio del peccato: non dipende da ciò che è lecito, ma da ciò che è sconveniente. Infatti da ciò che è lecito nasce la natura, da ciò che è sconveniente nasce il vizio. Della natura che nasce è autore Dio, il quale ha creato l'uomo e ha congiunto con diritto nuziale il maschio e la femmina; del vizio è invece autore l'astuzia del diavolo seduttore e la volontà dell'uomo consenziente. 38.43 - L'uso del matrimonio lecito, se è ragionevole E qui Dio, con l'uomo che peccò volontariamente, non fece altro che condannarlo giustamente insieme alla sua stirpe, e perciò anche quanto non era ancora nato nell'umanità fu a ragione condannato nella sua radice prevaricatrice. E ciò che tiene l'uomo in questa stirpe condannata è la generazione carnale, e da essa lo libera soltanto la rigenerazione spirituale. Quindi ai genitori che sono stati rigenerati, a patto tuttavia che abbiano perseverato nella medesima grazia della rigenerazione, certamente, a motivo della remissione dei peccati che è stata fatta in loro, non nuocerà la concupiscenza carnale. Nuocerà invece se l'usano male, non solo in tutte le depravazioni illecite, ma anche nelle stesse nozze, quando non attendono a procreare figli per la volontà di propagare il genere umano, ma si asserviscono a saziare la concupiscenza per la voluttà di sfogare la lascivia. La possibilità di saziare la concupiscenza la consente l'Apostolo ai mariti e alle mogli, perché evitino le fornicazioni e non si astengano tra loro se non di comune accordo e temporaneamente per dedicarsi alla preghiera: la consente per venia e non per comando. ( 1 Cor 7,5-6 ) È senz'altro evidente che mentre concede la venia denunzia la colpa. Ma l'atto coniugale, che anche le tavole matrimoniali indicano destinato alla procreazione dei figli, è buono per se stesso in senso assoluto e non solo in confronto alla fornicazione. E sebbene, per questo corpo di morte che non è stato rinnovato ancora dalla risurrezione, l'atto coniugale non si possa fare senza un certo sommovimento bestiale che fa arrossire la natura umana, tuttavia il congiungimento non è peccato in se stesso, quando la ragione usa la libidine per il bene e non si lascia superare da essa a fare il male. 39.44 - Gli effetti del battesimo in tutto il loro arco temporale ed eterno Nuocerebbe questa concupiscenza della carne anche con il solo fatto della sua presenza in noi, se la remissione dei peccati non giovasse tanto da far sì che la concupiscenza, la quale si trova in ogni uomo, e nato e rinato, possa nel nato esistere e nuocere, nel rinato invece possa esistere, sì, ma nuocere no. Nuoce infatti tanto ai nati la concupiscenza che ad essi se non rinascono non può giovare a nulla l'essere nati da genitori rinati. Il vizio dell'origine resta così nella prole da renderla colpevole, anche quando il reato del medesimo vizio è già stato lavato nel genitore dalla remissione dei peccati, e resterà fino a quando tutto quel vizio, a cui si consente peccaminosamente, non sarà fatto scomparire completamente dalla rigenerazione finale, cioè dal rinnovamento della carne stessa, che è promessa nella sua futura risurrezione, dove non solo non faremo più peccati, ma non avremo più nemmeno desideri viziosi che possano diventare oggetto di consensi peccaminosi. E a tale beata perfezione si giunge per la grazia di questo santo lavacro che si dà in questa vita. È infatti per merito della stessa rigenerazione dello spirito, la quale ci fa rimettere ora tutti i peccati passati, che avverrà anche la rigenerazione della carne per la vita eterna: rigenerazione che guarirà i fomiti di tutti i peccati nella carne stessa, la quale risorgerà incorruttibile. Ma tale sanità per ora è stata fatta nella speranza e non si gode nella realtà, né si possiede ora la sua presenza, ma si attende con pazienza. 40 - E perciò il medesimo lavacro del battesimo espurga da noi ogni genere di peccati: non solo tutti quelli che si rimettono adesso nel battesimo e dei quali ci rendiamo rei quando acconsentiamo a desideri viziosi e passiamo a peccare, ma anche gli stessi desideri viziosi che con la loro presenza non comportano in noi nessun reato di colpa se non consentiamo ad essi e che cesseranno assolutamente di esistere, non in questa vita, ma nell'altra. 40.45 - Anche i figli dei battezzati hanno bisogno del battesimo Pertanto il reato di quel vizio di cui stiamo parlando rimarrà nella prole dei genitori rigenerati, fino a quando non sia lavato anche nella prole dal lavacro della rigenerazione. Un rigenerato infatti non rigenera i figli della carne, ma li genera, e conseguentemente non trasmette in loro quello che egli è da rigenerato, bensì quello che egli è da generato. Così dunque, sia un infedele ancora reo, sia un fedele già libero, ambedue ugualmente, non generano figli liberi, ma figli ancora rei, alla stessa maniera che non solo i semi di oleastro, ma anche i semi d'olivo non generano olivi, bensì oleastri. È pertanto la prima nascita a tenere l'uomo nella condanna e non lo libera dalla condanna se non la seconda nascita. Lo tiene dunque il diavolo, lo libera il Cristo. Lo tiene l'ingannatore di Eva, lo libera il Figlio di Maria. Lo tiene colui che agganciò il marito attraverso la moglie, lo libera colui che nacque da una moglie che non fu violata dal marito. Lo tiene colui che provocò nella donna l'insorgenza della libidine, lo libera colui che fu concepito da una donna senza il concorso della libidine. Tutti gli uomini in blocco poté tenere il diavolo a causa di uno solo, né ci libera dalla sua tirannia se non quel solo che non poté tenere. Infine gli stessi sacramenti della Chiesa, che essa celebra con l'autorità d'una tradizione tanto antica che costoro, sebbene stimino che siano amministrati ai bambini più simulatamente che sinceramente, tuttavia non ardiscono respingerli con aperta disapprovazione, gli stessi sacramenti della santa Chiesa, dicevo, indicano sufficientemente che i bambini, anche di recentissimo parto, sono liberati dalla schiavitù del diavolo per mezzo della grazia del Cristo. A parte infatti che si battezzano in remissione dei peccati non con un sacramento falso, ma sincero, anche all'inizio del rito vengono esorcizzati e si soffia via il potere dell'avversario, al quale essi pure con le parole di coloro che li portano rispondono di rinunziare. Con tutti questi riti, che sono segni sacri ed evidenti di realtà occulte, si mostra che i bambini passano dalla pessima schiavitù del diavolo all'ottima libertà del Redentore il quale, assunta per noi la nostra debolezza, ha legato il forte per portargli via i vasi preziosi, ( Mt 12,29 ) perché la debolezza di Dio ha più forza non solo degli uomini, ( 1 Cor 1,25 ) ma anche degli angeli. Dio pertanto, liberando i piccoli e i grandi, offre visibilmente negli uni e negli altri il compimento di quello che la Verità ha detto per mezzo dell'Apostolo. Dio infatti non ha liberato dal potere delle tenebre e trasferito nel regno del suo Figlio diletto ( Col 1,13 ) soltanto coloro che sono maggiori di età, ma anche i piccoli. 40.46 - La natura umana viene assoggettata al diavolo per società di peccato Nessuno si meravigli e chieda: Perché mai la bontà di Dio crea gli uomini dei quali s'impossessa la malvagità del diavolo? La risposta è che quanto Dio elargisce ai semi delle sue creature proviene da quella stessa bontà con la quale fa pure sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa scendere la pioggia sui giusti e sugli ingiusti. ( Mt 5,45 ) Con questa bontà benedisse appunto anche gli stessi semi o benedicendoli li creò, e tale benedizione non l'ha fatta perdere alla natura lodevole la colpa biasimevole. La quale, sebbene per l'intervento della giustizia punitiva di Dio sia valsa a far nascere gli uomini con il vizio del peccato originale, non è valsa tuttavia ad impedire agli uomini di nascere. Così come negli stessi uomini maggiori di età i vizi dei peccati di qualsiasi genere non strappano l'uomo all'uomo, ma in tutte le opere cattive degli empi, per quanto siano gravi, rimane sempre l'opera buona di Dio. Infatti, benché l'uomo che si comporta da stolto e non rispetta la propria dignità venga paragonato alle bestie e divenga simile ad esse, ( Sal 49,13 ) non diviene tuttavia simile alle bestie a tal punto da essere una bestia. È paragonato alla bestia per il vizio e non per la natura, ed è paragonato non al vizio della bestia ma alla natura della bestia. È infatti di tanta eccellenza l'uomo a confronto con la bestia che ciò che è vizio nell'uomo è natura nella bestia, senza tuttavia che per questo la natura dell'uomo si converta nella natura della bestia. Perciò Dio condanna l'uomo per il vizio che offende la dignità della sua natura, non per la natura che non si estingue mai nel vizio. Ma quanto alle bestie, lungi da noi il pensare che esse siano soggette alla pena della condanna: è giusto che sia risparmiata ad esse l'infelicità, non essendo capaci nemmeno di partecipare alla felicità. Che c'è dunque d'assurdo o d'ingiusto nel fatto che l'uomo sia assoggettato allo spirito immondo, non a causa della sua natura, ma a causa della sua immondezza, la quale, venendo non dall'opera di Dio, ma dalla volontà umana, è stata contratta dall'uomo nella macchia d'origine, dal momento che lo stesso spirito immondo è buono perché spirito e cattivo perché immondo? È appunto spirito per l'opera di Dio, è immondo per la propria volontà. Pertanto la natura più forte, cioè la natura angelica, tiene soggetta, per complicità nel vizio, la natura più debole, cioè la natura umana. Ed è per questo che il Mediatore, più forte degli angeli, si è fatto debole per salvare gli uomini: così la superbia dell'oppressore è distrutta dall'umiltà del Redentore, perché colui che vanta la sua fortezza angelica sui figli dell'uomo sia vinto dal Figlio di Dio con la debolezza umana che ha fatta sua. 41.47 - Testi di S. Ambrogio sul peccato originale Ma, arrivati ormai a concludere anche questo libro, crediamo opportuno far parlare il vescovo di Dio Ambrogio, del quale soprattutto, tra gli scrittori ecclesiastici di lingua latina, Pelagio esalta l'integerrima fede. Come l'abbiamo fatto nei riguardi della grazia, così facciamolo rispondere alla calunniosa loquacità di costoro anche sul peccato originale, la cui distruzione è per la grazia stessa il vanto più glorioso. Nel suo libro La Risurrezione sant'Ambrogio dice: " In Adamo sono caduto, in Adamo sono stato cacciato via dal paradiso, in Adamo sono morto. Dio non mi richiama, se non mi ritrova in Adamo: come nel primo uomo ho dovuto soggiacere alla colpa e subire la morte, così è nel Cristo che sono stato giustificato". Similmente scrivendo contro i novaziani dice: " Noi uomini nasciamo tutti sotto il peccato, perché la stessa nostra origine è nel vizio, come dice Davide: Ecco, nella colpa sono stato generato e nel peccato mi ha concepito mia madre. ( Sal 51,7 ) Perciò la carne di Paolo era corpo di morte, come lo chiama egli stesso: Chi mi libererà dal corpo di questa morte? ( Rm 7,24 ) Ma la carne del Cristo condannò il peccato, che non conobbe nel nascere e crocifisse nel morire, perché nella nostra carne dove prima c'era l'immondizia a causa della colpa, ci fosse la giustizia a causa della grazia ". Lo stesso dice nel suo Commento al profeta Isaia parlando del Cristo: " Egli, come uomo, fu tentato in tutto e a somiglianza degli uomini ebbe da sopportare ogni specie di sofferenze, ma, in quanto nato dallo Spirito, si tenne lontano dal peccato. ( Eb 4,15 ) Ogni uomo infatti è mendace ( Sal 116,2; Mc 10,18; Lc 18,19 ) e nessuno è senza peccato all'infuori dell'unico Dio. È legge dunque che nessuno apparisca immune dal peccato, se nasce dall'uomo e dalla donna, ossia dall'unione dei loro corpi. Colui che poi è immune dal peccato, è pure esente da tale concezione ". Ugualmente nel suo Commento al Vangelo di Luca dice: " Non una fecondazione da parte dell'uomo violò l'intimità della vulva della Vergine, ma un seme immacolato immise lo Spirito Santo in quel seno inviolabile. L'unico infatti tra i nati di donna ad essere totalmente santo fu il Signore Gesù. Per la novità d'un parto immacolato egli non sentì il contagio della corruzione terrena e lo escluse con la sua maestà Celeste ". 41.48 - La dottrina di Pelagio è contraria a quella di S. Ambrogio Tuttavia Pelagio contraddice a questi testi dell'uomo di Dio, che pur ha lodato con tanto entusiasmo, e scrive: " Noi nasciamo senza vizio, come nasciamo senza virtù ". Che resta allora? O condanni Pelagio cotesto suo errore o si penta d'aver lodato Ambrogio in questa maniera. Ma poiché il beato Ambrogio fa queste affermazioni secondo la fede cattolica, da vescovo cattolico, segue che Pelagio, sviato dalla via di questa fede, rimane giustamente condannato con il suo discepolo Celestio dall'autorità della Chiesa cattolica, a meno che non si penta, non d'aver lodato Ambrogio, ma d'aver sentito contro la fede di Ambrogio. So che voi leggete con avidità insaziabile tutti i libri che si scrivono per edificare o per confermare la fede, ma questo libro, per quanto sia utile a tale scopo, deve pur avere fine ormai una buona volta.