L'apologetico

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Capo 30

I Cristiani soli pregano davvero per la salute dell'imperatore, in quanto lo collocano al di sotto di Dio, e Dio pregano nel modo come va pregato.

1. Noi, infatti, per la salute degli imperatori il Dio eterno invochiamo, il Dio vero, il Dio vivo che anche gli imperatori stessi a sé propizio preferiscono piuttosto che tutti gli altri dei.

Sanno essi chi l'impero ha dato loro; sanno, in quanto uomini, chi loro ha dato anche la vita; sentono che esso è il solo Dio, nella cui potestà, soltanto, essi si trovano, a partire dal quale sono essi secondi, dopo il quale primi: davanti a tutti e sopra tutti gli dei.

E come no? dal momento che sono sopra tutti gli uomini, i quali in verità vivono e sono sopra i morti.

2. Ripensano fino a che punto le forze valgano del loro impero, e così comprendono Dio; per opera di Colui conoscono essi di valere, contro il quale valere essi non possono.

O in somma, si provi l'imperatore a debellare il cielo, a condurre nel suo trionfo prigioniero il cielo, a mandare sue guardie al cielo, a imporre tributi al cielo: non può.

3. Perciò è egli grande, perché al cielo sottostà; a Colui infatti appartiene egli, a cui il cielo e ogni creatura appartiene.

Da Colui è egli imperatore, onde anche uomo, prima che imperatore; di là a lui il potere, onde anche la vita.

4. Colà alzando gli occhi noi Cristiani, con le mani distese, perché innocenti, col capo nudo, perché senza rossore, in fine senza suggeritore, perché preghiamo di cuore, a pregare ci troviamo sempre per tutti gli imperatori vita ad essi lunga, impero tranquillo, casa sicura, eserciti forti, senato fedele, popolo onesto, mondo tranquillo: tutto quanto nei voti rientra di un uomo e di un Cesare.

5. Codesto pregarlo non posso da un altro, se non da chi so di poterlo ottenere: poiché egli è Colui che solo concede, ed io sono colui, cui spetta l'ottenere, il suo servo, che solo lo rispetto, che per la sua disciplina mi faccio uccidere, che un'ostia opima gli offro e di maggior valore, quella che egli ordinò, vale a dire un'orazione uscente da carne pudica, da anima innocente, da spirito santo;

6. non grani d'incenso del valore di un asse, lacrime di una pianta arabica, né due gocce di vino, né sangue di bove avariato, bramoso di morire, e, dopo tutte le sozzure, anche una coscienza sporca: talché, quando tra voi da sacerdoti viziosissimi le vittime si esaminano per l'approvazione, mi meraviglio come mai i precordi delle vittime si esaminino, piuttosto che quelli degli stessi sacrificanti.

7. Così, dunque, con le mani verso Dio distese, ci lacerino le unghie, ci sospendano le croci, ci lambiscano le fiamme, ci tronchino le gole le spade, ci balzino sopra le belve: ad ogni supplizio è pronto l'atteggiamento stesso del Cristiano orante.

Fatelo pure, o buoni governatori, strappate un'anima intesa a supplicare Dio per l'imperatore.

Il crimine sarà là, dov'è la verità e la devozione a Dio!

Capo 31

I Cristiani Pregano, come n'hanno l'obbligo, per la salute degl'imperatori.

1. Ma, si dice, ora noi abbiamo adulato l'imperatore e mentito nei voti che abbiamo espresso, è chiaro, per sfuggire alla violenza.

Ci giova assai questo inganno! Difatti di provare ci consentite ogni nostra asserzione!

Or dunque, tu che hai creduto che noi della salute dei Cesari non ci si curi punto, da' un'occhiata alle parole di Dio, alle nostre Scritture, che né noi nascondiamo e molti casi in mano di estranei fanno giungere.

2. Apprendete da queste che a noi, per sovrabbondanza di bontà, è stato ordinato di pregare Dio anche per i nostri nemici e implorare benefici per i nostri persecutori.

Or quali più nemici e persecutori dei Cristiani di coloro, la cui maestà veniamo accusati di violare?

3. Ma anche si fanno con chiarezza i nomi: « pregate - è detto - per i re e i principi e i potenti affinché tutto sia per voi tranquillo ».

E invero, quando l'Impero delle scosse subisce, anche le altre membra dell'Impero tutte vengono scosse, e indubbiamente noi pure, sebbene fuori dei turbamenti, ci troviamo ad aver qualche parte nella disgrazia.

Capo 32

Anche per un'altra ragione noi preghiamo per la salute degl'imperatori: perché Iddio prolunghi la durata del loro impero, differendo la fine del mondo.

Non giuriamo per il loro Genio, perché i Geni sono dei demoni.

1. Ma c'è per noi anche un'altra necessità maggiore di pregare per gl'imperatori, anzi per la stabilità di tutto l'Impero e per la potenza romana, noi che sappiamo che col prolungamento dell'Impero romano viene ritardata la più grande catastrofe che stia sopra tutto il mondo, anzi la fine stessa del mondo minacciante orrende sofferenze.

Pertanto noi non vogliamo farne l'esperienza: e mentre che questa fine sia differita preghiamo, alla durata del romano Impero gioviamo.

2. Ma giuriamo anche, se non per il Genio dei Cesari, per la loro salute, che è più augusta di tutti i Geni.

Non sapete che i Geni si chiamano demoni e, con diminutivo di qui derivato, demoni?

Noi negli imperatori il giudizio di Dio rispettiamo, che li ha messi a capo delle genti.

3. Noi sappiamo che in essi c'è quello che Dio ha voluto: per cui noi salvo vogliamo quello che Dio ha voluto e in conto lo teniamo di un grande giuramento.

Del resto i demoni, vale a dire i Geni, noi sogliamo scongiurarli, per cacciarli dagli uomini, non giurare sul loro nome, per conferire loro l'onore dovuto alla divinità.

Capo 33

La maniera più efficace per ottenere la protezione di Dio su l'imperatore, è di collocarlo al suo giusto posto: il primo ma dopo Dio.

1. Ma perché a parlare mi dilungo io più a lungo della religione e della pietà dei Cristiani verso l'imperatore, che necessariamente rispettiamo come colui che il Signor nostro ha eletto, talché dire giustamente potrei: « Cesare è maggiormente nostro, perché dal Dio nostro costituito? »

2. Perciò, come mio, maggiormente per la sua salute io mi adopero, non solo perché a colui la domando che la può accordare, o perché io, che gliela domando, tale sono da poterla impetrare: ma anche perché la maestà di Cesare al di sotto di quella di Dio riducendo, più efficacemente lo raccomando a Dio, a cui solo lo sottometto.

Lo sottometto, infatti, a uno, a cui non lo uguaglio.

3. Ché io non chiamerò Dio l'imperatore, sia perché mentire non so, sia perché ridere di lui non oso, sia perché nemmeno lui essere chiamato dio vorrà.

Se è un uomo, è nell'interesse dell'uomo cedere a Dio, di essere chiamato imperatore si tenga contento: grande è anche questo nome, che da Dio viene concesso.

Nega che egli sia imperatore chi lo dice dio: se non è uomo, non è imperatore.

4. Che egli è un uomo, ricordato gli viene anche quando trionfa su quel cocchio altissimo.

Gli si ripete, infatti, da tergo: « Guarda dietro a te. Ricordati che sei un uomo ».

E in verità a codesto modo egli gode maggiormente di risplendere di tanta gloria, da rendere necessario che gli si ricordi la sua condizione.

Sarebbe egli minore, se in quell'occasione fosse chiamato dio, perché tale secondo verità non sarebbe chiamato.

Più grande è chi a non reputarsi un dio viene richiamato.

Capo 34

Più conforme a verità, più onorevole, più gradito torna all'imperatore non chiamarlo dio.

1. Augusto, il fondatore dell'impero, nemmeno essere chiamato signore voleva.

Anche questo, infatti, è un appellativo di Dio.

Certo signore chiamerò l'imperatore, ma secondo l'uso comune, ma quando a chiamarlo signore non sono costretto al posto di Dio.

Del resto io sono per lui un libero: ché signore mio è uno solo, Dio onnipotente ed eterno, il medesimo che di lui.

2. Chi è padre della patria, come n'è signore?

Ma anche più gradito torna l'appellativo dedotto dall'affetto, che dal potere.

Anche i capi di famiglia padri si chiamano, piuttosto che signori: tanto è lontano l'imperatore dal doversi chiamare Dio, cosa che non potrebbe essere creduta, trattandosi di un'adulazione, non solo turpissima, ma anche dannosa.

3. Gli è come se, avendo un imperatore, con questo nome tu chiamassi un altro: non incorrerai in una gravissima e imperdonabile offesa verso colui, che come tale avesti, motivo di timore anche per colui, che con tal nome chiamasti?

Sii religioso verso Dio, tu che propizio lo vuoi verso l'imperatore.

Cessa di credere dio un altro; e perciò anche di chiamar dio costui, che di Dio ha bisogno.

4. Se un adulatore di tal genere non arrossisce per la sua menzogna, chiamando dio un uomo, tema almeno del cattivo augurio.

Espressione di cattivo augurio è chiamare dio Cesare prima dell'apoteosi.

Capo 35

Alle solennità in onore dei Cesari non prendono parte i Cristiani, perché si svolgono in forma scostumata e immorale.

Del resto assai discutibile è la sincerità e la fedeltà di coloro che vi prendono parte.

1. Dunque per questo sono i Cristiani nemici pubblici, perché néonori vani, né menzogneri, né sconsiderati agl'imperatori dedicano; perché uomini di una religione vera, anche le solennità di quelli con omaggio interiore celebrano piuttosto che con la sfrenatezza.

2. Grande omaggio, si capisce, trarre in pubblico fornelli e divani, banchettare per quartieri, trasfigurare la città dandole l'aspetto di un'osteria, far rapprendere il fango col vino, scorrazzare in bande per abbandonarsi alle ingiurie, alla sfrontatezza, ai divertimenti libidinosi.

Così la pubblica gioia col disonore pubblico si esprime?

Ai giorni solenni dei principi si conviene quello che agli altri giorni non si conviene?

3. Quelli che la disciplina per riguardo a Cesare osservano, per causa di Cesare la violeranno?

E la licenza del mal costume sarà pietà?

E l'occasione di abbandonarsi alla lussuria si reputerà religione?

4. O noi meritamente degni di condanna!

Perché infatti i voti e le dimostrazioni di allegrezza riguardanti i Cesari, casti e sobrii e probi compiamo?

Perché in un giorno di allegrezza gli usci con allori non adombriamo, né il giorno con lampade superiamo? è cosa onorevole, quando una solennità pubblica lo esige, la tua casa rivestire del sembiante di un nuovo lupanare?

5. Tuttavia anche nel campo di questa religione riguardante la seconda maestà, a proposito della quale di un secondo sacrilegio accusati veniamo noi Cristiani, perché insieme con voi le solennità dei Cesari non celebriamo in un modo che né la modestia né la verecondia né la pudicizia permettono di celebrare, alla cui celebrazione vi induce l'occasione di abbandonarvi alle voluttà, più che un giusto motivo: anche, dico, in questo campo provare vorrei la vostra sincerità e verità, se alle volte anche costi non si facciano cogliere come peggiori dei Cristiani coloro, che non vogliono che noi siamo ritenuti Romani, ma nemici dei principi romani.

6. Chiamo in causa proprio i Quiriti, proprio la plebe indigena dei sette colli, e domando se vi è un Cesare, cui quella loro lingua romana risparmi.

N'è testimonio il Tevere e la scuola dei bestiari.

7. Certo se la natura i petti di una qualche materia diafana ricoperto avesse, in modo da lasciar trasparire l'interno, si troverebbe egli un uomo, i cui precordi non presentassero scolpita la scena di un sempre nuovo Cesare, nell'atto di procedere alla distribuzione del congiario, anche proprio in quell'ora in cui acclamano: « A te gli anni accresca, dai nostri togliendoli, Giove »?

Queste parole il Cristiano pronunciare non sa, al modo stesso che non sa il desiderio esprimere di un nuovo Cesare.

8. « Ma si tratta del volgo » - dici.

Si, del volgo, tuttavia di Romani: né più accaniti accusatori dei Cristiani vi sono del volgo.

Certo gli altri ordini, data la loro posizione elevata, sono religiosi sinceramente: nessun soffio di ostilità dalla parte proprio del senato, dei cavalieri, del campo, del palazzo stesso!

9. Onde i Cassii e i Negri e gli Albini? Onde coloro che fra i due laureti assediano Cesare?

Onde coloro che nell'arte della palestra si esercitano, comprimendogli la gola?

Onde coloro che armati nel palazzo irrompono più audaci di tanti Sigerii e Partenii?

Provengono dai Romani, se non m'inganno, vale a dire, dai non cristiani.

10. Che anzi costoro tutti, mentre la loro empietà era presso a prorompere, il rito sacro celebravano per la salute dell'imperatore, e per il suo Genio giuravano, altri palesemente, ben altri dentro di sé; e naturalmente ai Cristiani il nome davano di nemici pubblici.

11. Ma anche coloro che ora, tutti i giorni, complici o fautori si scoprono di partiti scellerati - raccolta di grappoli superstiti di una vendemmia di parricidi - di che freschissimi e ramosissimi allori gli usci adornavano, di che altissime e lucentissime lampade i vestiboli annuvolavano, con che elegantissimi e sontuosissimi divani lo spazio del foro si dividevano, non per celebrare il pubblico gaudio, ma per apprendere, in occasione di una festività altrui, voti pubblici diretti a sé, e inaugurare l'esempio e l'immagine che era nelle loro speranze, mutando in loro cuore il nome del principe.

12. Omaggi dello stesso genere pagano coloro che astrologhi e aruspici e àuguri e maghi consultano su la vita dei Cesari: le quali arti, perché dagli angeli disertori insegnate e da Dio proibite, i Cristiani non adoperano nemmeno quando si tratta di interessi loro.

13. Chi poi di scrutare ha bisogno intorno alla conservazione di Cesare, se non colui che qualche cosa contro di essa ha in mente o desidera, o spera e si attende quando essa sia venuta meno?

Ché non con la stessa intenzione si fanno consultazioni circa i propri cari e circa i propri signori.

Altrimenti sollecita è la preoccupazione del sangue, altrimenti quella della servitù.

Capo 36

La lealtà e l'amore per gl'imperatori non consiste nelle vostre, spesso false, dimostrazioni.

Noi amiamo veramente e rispettiamo gl'imperatori: verso di loro abbiamo gli stessi doveri che verso il nostro prossimo.

1. Se le cose stanno così, cioè, che si scoprono dei nemici che si chiamano Romani, perché si nega che noi, che nemici siamo ritenuti, si sia Romani?

Non possiamo essere noi Romani e, al tempo stesso, nemici, dal momento che si scoprono dei nemici, che sono ritenuti Romani?

2. In verità la pietà e la religione e la fedeltà dovuta agl'imperatori non in codesti ossequi consiste, dei quali anche i nemici possono servirsi per nascondere piuttosto se stessi; ma in quei costumi, con i quali la divinità a noi ordina di manifestarla tanto sinceramente, quanto, com'è necessario, verso tutti.

3. Ché codesti tratti di animo affezionato noi non li dobbiamo ai soli imperatori.

Nessuna differenza fra le persone facciamo noi nel compiere un buon ufficio, perché lo prestiamo a noi stessi, che non la retribuzione di lode o di ricompensa da un uomo cerchiamo, ma da Dio, che pondera e rimunera la bontà, imparziale.

4. Noi siamo per l'imperatore gli stessi che per i nostri prossimi.

Ché voler male, far male, dir male, pensar male di chi che sia a noi è ugualmente vietato.

Tutto ciò che nei riguardi dell'imperatore non lice, nei riguardi non lice di nessuno; e quello che non lice nei riguardi di nessuno, tanto meno, forse, nei riguardi di colui lice, che grazie a Dio è tanto grande.

Capo 37

Ingiuste sono la persecuzioni contro di noi, su cui nulla avete da riprendere; e di cui avreste ben da temere, se volessimo vendicarci.

1. Se, come sopra si è detto, l'ordine abbiamo di amare i nemici, chi possiamo odiare?

Del pari se, offesi, di rendere il contraccambio ci è vietato, per non essere di fatto pari ai nostri offensori, chi possiamo offendere?

2. Riconoscetelo infatti voi da codesto.

Quante volte infatti contro i Cristiani non infierite, parte per animosità vostra, parte in obbedienza alle leggi!

Quante volte, anche, indipendentemente da voi, come fosse un suo diritto, il volgo ostile a colpi di pietra ci assale e con incendi!

Con furie proprio da Baccanali nemmeno i Cristiani morti risparmiano, ma dalla requie del sepolcro, dall'asilo, per così dire, della morte, già decomposti, già non più integri li strappano, li fanno a pezzi, li disperdono.

3. E tuttavia che avete mai da riprendere sul conto di persone così unite, da ripagare, per ingiurie patite, individui così disposti fino ad affrontare la morte, quando anche sola una notte con pochi focherelli potrebbe la nostra vendetta largamente attuare, se il male con il male ricambiare fosse tra di noi permesso?

Ma lunge da noi vendicare una setta divina con fiamme umane, o dolerci di patire per ciò con cui essa è provata.

4. Se infatti comportarci volessimo da nemici scoperti, non soltanto da vendicatori occulti, mancherebbe a noi la forza del numero e dei soldati?

Già, più numerosi sono Mauri e Marcomanni e i Parti stessi o quante si vogliano genti, contenute tuttavia in un sol luogo, entro propri confini, che un popolo di tutto il mondo!

Noi siamo di ieri, e tutto il vostro abbiamo riempito, città, isole, castelli, municipi, borgate, gli accampamenti stessi, tribù, decurie, il Palazzo, il Senato, il foro: solo i templi vi abbiamo lasciato.

5. A qual guerra non saremmo stati preparati e pronti, anche se impari per numero di soldati, noi che così volentieri trucidare ci lasciamo, se tra gli appartenenti a questa setta non fosse lecito piuttosto farsi uccidere, che uccidere?

6. Avremmo potuto anche solo inermi, senza ribellarci, ma soltanto con la nostra separazione, con l'odiosità del solo allontanamento contro di voi combattere.

Se, infatti, noi, così grande numero di uomini, l'avessimo rotta con voi, in qualche angolo lontano del mondo ritirandoci, la perdita di tanti cittadini, quali che siano, avrebbe indubbiamente coperto di rossore voi, dominatori: anzi anche col solo fatto di avervi abbandonati, vi avrebbe puniti.

7 Non v'è dubbio: avreste di fronte alla vostra solitudine paventato, di fronte al silenzio delle cose, allo stupore, per così dire, del mondo quasi colto dalla morte; avreste cercato a chi comandare: più nemici che cittadini sarebbero a voi rimasti.

8. Ora infatti avete un numero di nemici minore per causa della moltitudine dei Cristiani, quasi tutti cittadini; ma, pur avendo in quasi tutti i Cristiani dei cittadini, nemici del genere umano avete preferito chiamarli, piuttosto che dell'umano errore.

9. Chi, inoltre, voi a quei nemici occulti e incessanti devastatori delle vostre menti e della vostra salute strapperebbe, voglio dire dagli assalti dei demoni, che noi scacciamo da voi senza premio, senza compenso?

Sarebbe bastato solo questo alla nostra vendetta, che rimaneste quind'innanzi, libero possesso, alla mercè degli spiriti immondi.

10. Eppure, senza pensare a compensarci per così grande difesa, noi, gente non solo non molesta a voi, ma anzi necessaria, avete preferito giudicarci nemici, noi, che effettivamente nemici siamo, non tuttavia del genere umano, ma piuttosto dell'errore umano.

Capo 38

I Cristiani non costituiscono una setta pericolosa all'ordine pubblico.

E se si astengono dai vostri spettacoli, lo fanno perché li ritengono immorali.

1. Pertanto nemmeno - provvedimento un po' meno severo - si dovrebbe considerarla tra le fazioni vietate codesta setta, da cui nulla si commette di quello che da parte delle fazioni vietate temere si suole.

2. Se non m'inganno, infatti, la causa del divieto delle fazioni dalla preoccupazione risulta dell'ordine pubblico, per impedire che la città in partiti si scindesse, cosa che facilmente avrebbe i comizi turbato, le adunanze, le curie, le concioni, gli spettacoli anche, sotto la spinta di passioni contrastanti, quando già gli uomini a trarre un guadagno avevano cominciato dall'uso della loro violenza, vendendosi e facendosi pagare.

3. Ma per noi, cui ogni brama di onori e di gloria lascia freddi, non v'è di conventicole necessità alcuna; e nulla è più alieno che la cosa pubblica.

Una sola repubblica di tutti noi riconosciamo, l'universo.

4. Del pari dai vostri spettacoli ci asteniamo, in quanto ci asteniamo dalle loro origini, che derivate sappiamo da superstizioni, mentre estranei siamo anche ai fatti stessi che vi si compiono.

Nulla abbiamo che dire, vedere, udire con la follia del circo, con l'oscenità del teatro, con l'atrocità dell'arena, con la futilità del xisto.

5. In che vi offendiamo, se piaceri diversi presumiamo?

Se saperne non vogliamo di divertirci, il danno è, se mai, nostro, non vostro.

« Ma noi riproviamo quello che piace a voi ».

Nemmeno a voi piacciono le cose nostre.

Ma fu ben lecito agli Epicurei di stabilire una voluttà verace, vale a dire la tranquillità dello spirito.

Capo 39

Di che genere sono le riunioni e le attività dei Cristiani: preghiere, lettura della Santa Scrittura, giudizi, contribuzione volontaria per aiutare i bisognosi, atti di amore fraterno, pasti innocenti in comune.

1. Ed ora esporrò io stesso l'attività della fazione cristiana, affinché, dopo averne confutato quella trista, ne dimostri quella buona.

Siamo una corporazione, che ha per base la consapevolezza di una religione comune e l'unità di una disciplina comune e il patto di una speranza comune.

2. Ci raccogliamo in adunanze e riunioni, per circondare, pregando, Dio con le suppliche, come con un manipolo serrato.

Questa violenza è a Dio gradita.

Preghiamo anche per gl'imperatori, per i loro ministri e magistrati, per la stabilità del mondo, per la tranquillità della vita, per la dilazione della fine.

3. Ci raccogliamo per la lettura della Scrittura divina, se qualche caratteristica del tempo presente a preannunziare c'induce un fatto o a riconoscerne il compimento.

Almeno con le parole sante la fede nutriamo, la speranza confortiamo, la fiducia consolidiamo, serriamo la disciplina non foss'altro inculcandone i precetti.

Ivi stesso anche hanno luogo esortazioni, correzioni e punizioni in nome di Dio.

4. E invero vi si giudica con grande ponderatezza, come tra persone che di trovarsi sono certe al cospetto di Dio; ed è una ben grave anticipazione del giudizio futuro, se uno colpevole siasi reso al punto da essere dalla comunione della preghiera allontanato e delle riunioni e di ogni santa relazione.

Presiedono i più anziani, tutti approvati, che codesta carica non pagando hanno conseguito, ma testimonianza rendendo: ché nessuna cosa di Dio costa danaro.

5. Anche se c'è una specie di cassa, il danaro che vi si raccoglie non da contributi onorari deriva, quasi prezzo d'acquisto della carica religiosa.

Ognuno versa una monetuzza in un giorno del mese, o quando vuole e soltanto se vuole e soltanto se può.

Ché nessuno vi è costretto, ma il contributo è spontaneo.

Sono questi, per così dire, i depositi della pietà.

6. E invero non per provvedere a banchetti vi si attinge, né a bicchierate, né a gozzoviglie oltre il desiderio spinte: ma per nutrire i poveri e seppellirli, per nutrire i fanciulli e le fanciulle rimasti privi di mezzi e di genitori, anche i servitori vecchi e, del pari, i naufraghi e quelli che, nelle miniere condannati o nelle isole o nelle prigioni soltanto per appartenere alla setta di Dio, pupilli diventano della religione da loro confessata.

7. Ma è particolarmente la pratica di una dilezione di tal genere che fra certa gente il noto biasimo ci procura.

« Vedi - dicono - come si amano tra loro ( essi, infatti, fra loro si odiano ), e come sono pronti a morire l'uno per l'altro ( essi, infatti, ad ammazzarsi tra loro sono più pronti ) ».

8. Ma anche per il fatto che ci chiamiamo fratelli, non per altro motivo, penso, perdono la testa, se non perché tra di essi ogni termine di consanguineità, quanto all'affetto è una finzione.

Inoltre anche fratelli vostri siamo noi, per legge di natura, unica madre, se pur voi siete troppo poco uomini, perché tristi fratelli.

9. Ma quanto più degnamente fratelli si dicono e si ritengono coloro, che un unico Dio hanno come padre riconosciuto, che a un unico spirito di santità si sono abbeverati, che da un unico grembo della medesima ignoranza, con un pauroso stupore, a un'unica luce emersero di verità.

10. Ma forse per questo siamo fratelli meno legittimi ritenuti, perché nessuna tragedia su l'argomento della nostra fraternità declama, o perché fratelli siamo quanto alle sostanze familiari, che tra di voi di solito i fratelli dividono.

11. Perciò noi, che siamo nell'animo e nella vita uniti, a mettere in comune le sostanze non esitiamo.

Tutto è tra noi indiviso, tranne le mogli.

12. In codesto punto sciogliamo la comunanza, nel quale soltanto gli altri uomini la comunanza praticano, essi che, non solo le mogli degli amici si appropriano, ma anche le proprie con tutta sopportazione a disposizione di quelli mettono: in conformità, credo, a quella disciplina dei maggiori e dei più grandi filosofi, del greco Socrate e del romano Catone, che le proprie mogli in comune misero con gli amici, le quali avevano essi sposate per mettere al mondo figli anche in casa altrui.

13. E forse non contro il volere di queste.

Che preoccupazione, infatti, potevano esse avere della loro castità, della quale i mariti avevano così facilmente fatto dono ad altri?

O esempio di attica saggezza, di romana gravità!

Un filosofo e un censore diventano mezzani.

14. Qual meraviglia, pertanto, se un tanto amore col mangiare insieme si esprime?

Ché anche i nostri poveri pranzi, oltre che per infami delitti, voi anche per le loro prodigalità condannate.

Si capisce: a noi si riferisce il detto di Diogene: « I Megaresi banchettano come se dovessero morir domani, e invece costruiscono, come se non dovessero morire mai ».

Sennonché ognuno più facilmente la pagliuzza vede nell'occhio altrui, che la trave nel proprio.

15. In seguito ai rutti di tante tribù e curie e decurie l'aria si corrompe; quando i Salii devono un pranzo celebrare, sarà necessario un creditore; le spese per le decime di Ercole e i relativi banchetti calcolarle dovranno dei computisti; per le Apaturie, le feste dionisiache, i misteri attici una leva s'indice di cuochi; al fumo del banchetto in onore di Serapide dovranno essere messi in allarme i pompieri: solo intorno al pasto dei Cristiani si trova a ridire.

16. Il nostro pranzo rende ragione di sé dal suo nome: si chiama con un termine, che in greco vale « amore ».

Per quanto grandi siano le spese che costa, è guadagno fare una spesa in nome della pietà, ché tutti i bisognosi aiutiamo con questo ristoro; non al modo con cui tra voi i parasiti alla gloria aspirano di asservire la loro libertà, a condizione di rimpinzarsi la pancia sotto gl'insulti; ma al modo che davanti a Dio è maggiore il riguardo per gli umili.

17. Se onesto è del banchetto il motivo, dal motivo il rimanente ordine apprezzate che lo disciplina.

Derivando da un dovere religioso, nessuna bassezza ammette, nessuna intemperanza.

Non ci si siede a tavola prima di pregustare una preghiera a Dio; si mangia quanto la fame ne cape; si beve quanto a persona sobria è utile.

18. Così ci si sazia, come persone che di dover adorare Dio si ricordano anche durante la notte; così si conversa, come chi sa che il Signore le ascolta.

Dopo data l'acqua alle mani e accesi i lumi, secondo che uno si sente di farlo, a cantare qualche cosa in onore di Dio è invitato nel mezzo, attingendola dalla Scrittura santa o dal proprio ingegno: di qui in qual misura ha bevuto si ha la prova.

Ugualmente una preghiera i convitati discioglie.

19. Di là ci si diparte non per costituire caterve di assassini, né schiere di vagabondi, né per abbandonarci alla sfrenatezza, ma per continuare la stessa cura della modestia e della pudicizia, come quelli che hanno pranzato non tanto un pranzo, quanto un insegnamento.

Codesta adunata di Cristiani è certo meritamente illecita, se è pari alle cose illecite; meritamente da condannarsi, se ci si lagna di essa allo stesso titolo che delle conventicole.

20. Per la rovina di chi ci aduniamo qualche volta?

Adunati quello stesso siamo che separati; tutti insieme quello stesso che singoli, nessuno offendendo, nessuno contristando.

Quando persone si adunano oneste, buone, quando persone si riuniscono pie, caste, non è il caso di parlare di fazione, ma di assemblea.

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