Spirit/Isecolari/NS05/NS05.txt Radicalità dei Consigli Evangelici nel quotidiano Il fondamento evangelico della consacrazione secolare di Bruno Maggioni Le " forme " di vita consacrata nascono sempre in un periodo storico determinato e ne conservano le tracce e ovviamente in qualche misura la relatività. Tuttavia una forma di vita consacrata non è mai soltanto il prodotto di un periodo storico e delle sue urgenze. D'altro canto non è neppure semplicemente una deduzione dal Vangelo: dal Vangelo, infatti, possono nascere nella medesima epoca molte forme di vita consacrata: perché proprio questa? Ogni forma di vita consacrata è frutto della libertà dello Spirito, questo è il punto. Non una deduzione - né dalla storia né dal Vangelo - ma un evento. Già questo dice che ogni forma di vita consacrata non ha soltanto la nota dell'utilità, ma anche della libertà e della gratuità. È qui - e non soltanto nella sua utilità storica - che va anzitutto cercato il senso di ogni forma di vita consacrata. Su questo concetto - che in un certo senso sostiene tutto il discorso che segue - mi permetto di insistere. Gratuità e libertà sono le note di ogni gesto di Dio: della creazione come della incarnazione. Nessuna meraviglia se lo è anche della vita consacrata, che è sempre - se autentica - un libero e gratuito dono di Dio alla sua Chiesa e al mondo: libera e gratuita anche nelle forme particolari che essa via via assume. A proposito della consacrazione secolare - che ha preso forma concreta nella prima metà del nostro secolo - si è soliti ricordare che il momento era propizio. " Il novecento - si legge - è caratterizzato innanzitutto da una nuova sensibilità nei confronti delle realtà secolari e da un nuovo modo di presenza cristiana di esse. Si avverte l'attrattiva per una vita cristiana che non sia avulsa dall'impegno nel sociale e nel politico, ma che anzi penetri in questi campi, nella città dell'uomo … " ( F. Ciarli ). E così " nasce il desiderio di una consacrazione che, a differenza dei precedenti schemi di vita religiosa, non si apparti dal mondo, ma che piuttosto faccia delle realtà secolari il proprio ambito di vita e di azione ( F. Ciarli ). Verissimo. Tuttavia se ci fermassimo qui rimarremmo alla superficie. Anche perché proprio quelli che vengono considerati i capisaldi della consacrazione secolare ( la figura del laico, il rapporto Chiesa - mondo ) sono questioni complesse e tuttora oggetto di dibattiti teologici. Ma le forme di vita consacrata - nella libertà dello Spirito - non aspettano per sorgere che la teologia chiarisca tutto. A volte precedono la teologia, divenendo esse stesse fattore di chiarificazione. Ne ci si lasci turbare dal fatto che la vita del consacrato nel mondo assomigli quasi del tutto alla vita del cristiano semplicemente. Dove sta la differenza? Secondo il Vangelo il " proprium " della vita consacrata sta in una " trasparenza, più trasparente " dell'unico Vangelo e dell'unica sequela. Certo appartiene al cristiano semplicemente vivere pienamente il Vangelo nel mondo e qui testimoniarlo. Ma questo non impedisce che ci sia lo spazio per una forma di sequela che scelga proprio l'ambito del mondo per essere una trasparenza più trasparente della " lieta notizia " di Gesù. Il " di più " di trasparenza non dipende dall'ambito in cui si decide di vivere e di testimoniare il Vangelo, né - almeno prioritariamente - dalla precisa missione cui si sceglie di dedicarsi, ma dalla qualità dell'appartenenza al Signore: un'appartenenza, appunto, più trasparente. Per appartenenza intendo la proclamazione - nella vita - del primato di Dio nel modo più assoluto possibile e nelle sue diverse forme: come desiderio di Dio, un desiderio che sta al di sopra di ogni altro; come dipendenza, affidamento e fiducia; come dedizione. Ma su questo non voglio soffermarmi. Intendo invece soffermarmi sullo specifico della consacrazione secolare - e cioè sulla secolarità - per verificarne il fondamento evangelico. Ma con una precisazione: non si tratta di fare un confronto su questo o quest'altro aspetto del Vangelo, ma con l'evento cristiano nella sua radice, nella sua globalità. Anche se ogni forma di vita consacrata sottolinea un particolare aspetto del Vangelo, in realtà la sua autenticità sta nella sua capacità di raggiungere il Vangelo intero. È a questo livello che intendiamo verificare il fondamento evangelico della consacrazione secolare. In altre parole: cercare il fondamento della consacrazione secolare significa non soltanto osservare se il vivere nel mondo è un aspetto conforme al Vangelo, ma se è un aspetto tale da permettere di vivere e lasciar trasparire l'essenza del Vangelo. Sto infatti parlando di " consacrazione ", non soltanto di missione. Consacrazione e missione sono inseparabili, ma non si equivalgono. Vivere la consacrazione nella secolarità significa non soltanto vivere la propria missine nel mondo, ma vivere la radicalità dell'appartenenza al Signore proprio stando nel mondo. Dunque, stare nel mondo deve essere una condizione che permette di vivere il Vangelo interamente, nei suoi aspetti più tipici, nuovi, paradossali. Qui sta la sfida della consacrazione secolare: la secolarità - scelta come forma specifica della propria esistenza consacrata - è davvero un aspetto tale da portare ( e rendere visibile ) al cuore del Vangelo? La radicalità Ogni forma di vita consacrata è connotata da una forte radicalità. Ma deve trattarsi di un radicalismo evangelico, e questo non è scontato. Quale è il " proprium " del radicalismo evangelico? E quale figura assume questo proprium nella consacrazione secolare? Il discorso è certamente complesso, e anche delicato. Ma per lo scopo che mi sono prefisso possono bastare poche precisazioni che ritengo, però, essenziali. Chi sceglie la vita consacrata nel mondo, lo fa perché convinto di poter vivere una consacrazione piena, non a metà. E se resta nel mondo non è per vivere un radicalismo sminuito, ma un radicalismo dentro, accanto, gomito a gomito con gli altri uomini, nelle situazioni comuni e quotidiane. Certo questa forma di radicalismo si muove dentro una tensione di non facile equilibrio. Ma la tensione è l'anima dell'esistenza evangelica, non la sua smentita. In ogni caso, l'inserimento nel quotidiano - dove per quotidiano si intende la situazione normale in cui l'uomo è costretto a vivere - esprime una profonda direzione del Vangelo, che vuole essere una proposta vera, reale, possibile per l'uomo nel mondo, nel mondo così com'è. Non è questa una delle grandi sfide del Vangelo oggi? Non una caduta di radicalità, dunque, ma una forma originale, pienamente evangelica di configurarla: oserei dire una figura di radicalità, particolarmente trasparente, proprio perché attira l'attenzione non sulla eccezionalità delle condizioni di vita, che restano quelle di tutti, ma sulla radicalità in se stessa, sulla " novità " che il Vangelo sa introdurre nelle condizioni comuni. Questa scelta di incarnazione non è una forma - magari particolarmente attuale - che si allontana dalla memoria storica di Gesù, ma una forma che vi si avvicina in modo sorprendente. A questo punto è però necessaria una seconda precisazione, e cioè che la radice, la qualità e la misura della radicalità evangelica non sono originate dal distacco dal mondo ma dalla appartenenza al Signore. Si comprende, allora, che il distacco evangelico non significa necessariamente separazione. Si può vivere la libertà per il Vangelo anche secondo la splendida forma di 1 Corinti: " Nessuno ponga la sua gloria negli uomini, perché tutto è vostro: Apollo, Paolo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio " ( 1 Cor 3,21-23 ). Questa espressione di Paolo non rivendica soltanto la libertà di fronte a Paolo, Apollo e Cefa, ma di fronte a tutto. E dice con chiarezza quale sia l'unica appartenenza di cui il cristiano deve gloriarsi: " Voi siete di Cristo ". L'affermazione è attraversata dalla tensione fra libertà e appartenenza. Come in ogni tensione, le due polarità si sostengono reciprocamente. Tuttavia non è la libertà la ragione dell'appartenenza, ma viceversa. È dalla totalità dell'appartenenza al Signore che discende l'esigenza e la misura della libertà di fronte a tutte le cose. Paolo non ha esitazioni: lo spazio della vera libertà è l'appartenenza al Signore. Non si trascuri però - ed è quanto qui ci interessa - un particolare: Paolo qui non dice " siete liberi da tutto ", bensì " tutto è vostro ". Espressione quest'ultima ripetuta due volte. Questo mostra che Paolo non intende qui la libertà come distacco dalle cose, quanto piuttosto come un modo diverso, corretto, di guardarle e usarle: da padroni, non da servi. È una splendida forma di radicalismo evangelico. Si può, dunque, affermare il primato di Dio indicando la vanità delle cose e proclamando che la pienezza è nel mondo futuro, ma c'è anche lo spazio per affermare lo stesso primato mostrando il seme di novità già ora presente nel mondo e nelle cose. Così, mi sembra, la parabola del granello di senape ( Mc 4,30-32 ): si guarda al grande albero non per consolarsi della pochezza del presente, né soltanto per liberare l'uomo dall'idolatria del presente, ma per comprendere la vocazione e l'importanza del presente. Il nostro discorso regge perché la consacrazione è sì appartenenza totale all'Assoluto ( questo dicono tutte le religioni! ), ma perché l'Assoluto cristiano non svuota le cose, bensì le riempie. E si esprime non nella distanza, ma nel farsi vicino. È un Assoluto che prende figura nell'amore e nella partecipazione. Il Dio evangelico trova il suo punto di massima chiarezza nell'incarnazione e nella Croce, cioè nel condividere in tutto la condizione dell'uomo. L'Incarnazione dice la pienezza dell'umanità. E la Croce dice l'esperienza più umana, più scandalosa, ma anche più vera dell'uomo. Con la sua Croce il Figlio di Dio si è posto nel centro della storia, là dove Dio e l'uomo sembrano contraddirsi: l'amore inefficace, la menzogna trionfante, Dio silenzioso. Il Figlio di Dio non è passato a lato di questo centro scandaloso, ma lo ha condiviso, e in tal modo lo ha illuminato. Lo splendore dell'Assoluto cristiano si manifesta nella condivisione. Siamo di fronte a un capovolgimento di orizzonte. Radice e misura del radicalismo evangelico è la Croce di Gesù: non però vista, anzitutto, come un'icona di un martire che muore per il suo Dio, ma come l'icona di un Dio che dona se stesso all'uomo. Qui sta la novità e l'originalità del Vangelo, il proprium che qualifica ogni forma di radicalismo cristiano. Radicale è per il Vangelo un'esistenza che si fa segno dell'amore di Dio per l'uomo, ogni uomo: non un'esistenza che anzitutto si fa segno del nostro amore per Dio. La misura del radicalismo di un'esistenza cristiana - se proprio la si volesse misurare - è la sua capacità di significazione. Radicali sono le " opere " che lasciano trasparire il volto del Padre: " Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli " ( Mt 5,16 ). Così è stato il radicalismo dell'esistenza di Gesù: in ogni gesto e in ogni parola egli ha lasciato trasparire il Padre. Il radicalismo evangelico è nell'ordine della rivelazione prima che del servizio. Mi si permetta di insistere. Se l'evento di Gesù è la rivelazione di come Dio si pone davanti all'uomo ( e non anzitutto, e soltanto, di come l'uomo deve porsi davanti a Dio ), allora anche il radicalismo della vita cristiana - se vuole essere la memoria oggi dell'esistenza di Gesù - deve essere il segno non soltanto della risposta coraggiosa e totale dell'uomo a Dio, ma il segno di come Dio guarda e ama il mondo. Questo deve apparire in tutte le forme di radicalità evangelica, comprese le forme del distacco. Celibato e povertà Sulla base di quanto affermato, non sarebbe difficile rileggere nella forma della consacrazione secolare le figure classiche del radicalismo evangelico. Per esempio il celibato. La scelta celibataria del consacrato nel mondo mantiene interamente tutte le valenze di ogni altra forma di vita celibataria. Di specifico c'è, però, il tentativo di mostrare - vivendo gomito a gomito con gli altri uomini e nelle loro stesse situazioni - che si può trovare una pienezza di senso nell'amore di Dio in qualsiasi condizione di vita ci si trovi: proclamando agli sposati che il loro amore deve essere vissuto come una figura, ma non l'unica, dell'amore di Dio; e alle persone sole - che sono molte! - che si può amare, essere amati e riempire la vita anche vivendo " da soli " nella condizione normale degli altri uomini. E molto si potrebbe dire anche sul radicalismo della povertà, della, itineranza e della insicurezza. " Il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo ", si legge in Matteo 8,20 e Luca 9,58. Questa solenne affermazione di Gesù sottolinea non tanto la povertà, quanto la insicurezza. E la sua ragione non sta semplicemente nella universalità della missione di Gesù ( che gli impedisce di fermarsi in un posto solo e di costruire legami che lo renderebbero sedentario ), bensì nella dedizione senza riserve alla verità di Dio. Così dicono, infatti, i due contesti in cui il detto di Gesù è stato inserito dagli evangelisti. Gesù non sa dove posare il capo perché condivide il destino della verità. È itinerante perché scomodo. La sua itineranza nasce da un'appartenenza, non anzitutto da un desiderio di separazione. È itinerante e senza casa perché dice la verità di Dio dovunque e di fronte a chiunque: una verità che inquieta e che, perciò, viene rifiutata. Non è questa una forma di " distacco " particolarmente congeniale a chi è chiamato a restare nel mondo ( nel lavoro, nella politica, nella società ), ma proclamando le meraviglie di Dio che disturbano il mondo ( Mc 5,20 ). La missione Ci resta da precisare un altro aspetto importante della consacrazione nel mondo, e cioè lo specifico della sua missione. Diverse cose le abbiamo già dette, ma da un'altra angolatura. Ritengo utile rivisitarle, anche a prezzo di alcune inevitabili ripetizioni. L'essenziale è presto detto: il consacrato nel mondo è chiamato a farsi - con chiarezza tutta particolare, con tratti accentuati - la figura e la memoria di come Gesù ha guardato il mondo. Questa è la specificità della missione del consacrato laico. A partire da qui si può valutare la verità - ma anche il limite! - di affermazioni spesso ripetute. Per esempio, che il consacrato laico è mandato nel mondo per animare evangelicamente la città terrestre. Splendide in proposito le parole di Paolo vi: " Voi non siete testimoni di un Dio lontano, bensì di un Dio che vive e sta percorrendo la strada degli uomini … Inseriti nel mondo per trasformarlo, santificarlo, affidarlo a Dio costruendo così la nuova civiltà dell'amore ". Parole splendide, queste, che tuttavia devono essere inserite in un contesto più ampio. L'evento cristiano lascia, o addirittura esige, uno spazio per una scelta di consacrazione che voglia in modo " più trasparente " mostrare che Vangelo e condizione degli uomini. Vangelo e mondo, si possono mantenere uniti. Soltanto il peccato introduce la spaccatura. Questa nota di profondo umanesimo non è un tratto di contorno dell'evento cristiano, ma un tratto che fa parte della novità del Vangelo, oserei dire uno dei tratti più qualificanti della sua originalità. Farsi trasparenza di questa originalità è la particolare missione del laico consacrato: non una trasparenza di distacco dal mondo ( che certo occorre ), ma di " signoria " sul mondo, una signoria che sia il riflesso di quella di Dio, come ci ha suggerito Paolo nella 1 Corinti. Si sta nel mondo, accanto agli uomini e nelle loro condizioni, non per meglio convincerli a lasciare il mondo e a guardare altrove, ma per meglio aiutarli a guardare il mondo, questo mondo, con gli occhi di Dio. Questa non è una missione di emergenza, attuale in certi tempi e non in altri: è una missione permanente, perché la sua radice è nella natura del Vangelo stesso - che sempre deve essere detta - non in una particolare emergenza storica o pastorale. Se il laico consacrato sceglie il mondo come spazio della propria consacrazione, non è anzitutto per meglio convertire gli uomini che vivono nel mondo, né anzitutto per meglio trasformare il mondo, ma per rivelare agli uomini e al mondo la novità del Vangelo, cioè la sorprendente notizia di come Dio già ora ama il mondo, questo mondo. La missione è anzitutto nell'ordine del segno: segno di come Dio si pone davanti al mondo, non soltanto - e in primo luogo - di come il mondo deve porsi davanti a Dio. La missione si colloca sul versante della rivelazione, non soltanto della risposta alla rivelazione: deve cioè essere la memoria di ciò che Dio ha fatto, non soltanto l'esempio di come il mondo deve diventare. Quanto vado ribadendo - e mi scuso per l'insistenza - non è privo di conseguenze. Ordinare le realtà temporali al Regno, riempirle dello spirito delle beatitudini, difendere l'autonomia delle cose, scoprire le tracce di Dio dovunque sparse nella creazione, tutto questo è certamente una giusta, e irrinunciabile, direzione della missione del laico consacrato. Ma non è l'unica direzione e neppure - se si osserva l'evento di Gesù nella sua sorprendente novità - la principale. Se la consacrazione e la missione sono un di più nell'ordine del segno, allora occorre dare grande spazio alla " condivisione ", che in Gesù è apparsa la via privilegiata di Dio. In Gesù Dio si è manifestato attraverso le realtà dell'uomo, non ponendosi a lato di esse, o sopra. E ha manifestato la profondità del suo amore non anzitutto nell'efficacia o nella forza di cambiamento di questo amore, ma nella sua ostinazione e nella sua fedeltà. Così Cristo in Croce: un amore più ostinato del rifiuto. Certo la condivisione non deve sminuire l'impegno per la trasformazione del mondo: anzi! Tuttavia il segno più trasparente del Dio di Gesù resta sempre l'ostinazione e la fedeltà del suo amore apparso in Cristo. È questa la novità del " compimento " di Gesù. Tutti si aspettavano un Messia che si presentasse come un compimento, che facesse finire il tempo dell'attesa: un compimento che portasse un capovolgimento della situazione esistente: se ora c'è la morte, la morte cesserà; se ora i giusti sono sconfitti, i giusti trionferanno. Invece Gesù Cristo ha scelto un altro tipo di compimento, mutando così l'idea stessa di compimento. Anziché ribaltare la situazione, Gesù ha condiviso la situazione. Non ha fatto cessare la morte: l'ha vissuta. Non ha fatto cessare la sorte dei giusti condannati perché giusti: si è messo nel loro numero; al capovolgimento della situazione ha preferito la condivisione. Vivere la radicalità evangelica da secolari di Isabella Conca Il discepolo vive la sequela di Cristo casto, povero, obbediente La parola di Gesù, consegnataci da Luca nel suo Vangelo, è molto chiara, non permette equivoci. Se essere discepolo di un maestro è mettere i nostri piedi nelle sue orme, quando il maestro è Cristo conoscere le sue orme significa " rivestirci " di Lui, " avere gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù " che " da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà " ( 2 Cor 8,9 ). A commento di questo passo di Paolo così scrive Giovanni Moioli in " Beati i poveri ": " Dalla sua capacità di impoverirsi, fondata sul non essere auto - affermazione, deriva la nostra ricchezza, la quale, a misura che è quella che noi riceviamo da Lui, ci conduce nella medesima direzione. Quando abbiamo gli stessi sentimenti di Gesù e siamo dunque così interamente aperti a Dio e a Lui, quando siamo poveri davanti a Dio, allora siamo arricchiti dalla povertà di Dio in Cristo Gesù. Ma quando siamo ricchi della povertà di Dio in Cristo Gesù, vuoi dire che non soltanto non ci affermiamo più davanti a Dio, ma ci lasciamo prendere dalla medesima logica, dal medesimo movimento: è il movimento della carità, è il movimento dell'impoverirci a nostra volta per arricchire gli altri mediante la nostra povertà ". Questo significa mettere i nostri piedi nelle sue orme. Così per il discepolo, per il cristiano, vivere la sequela di Cristo significa affermare con la vita che la verità dell'uomo non sta nelle realtà create, non sta neppure nell'uomo stesso, sta solo in Gesù Cristo così solo Lui da senso, da significato alla vita; significa che la ricchezza di Dio, ossia la sua misericordia, è dono gratuito, è la salvezza che ci viene da Lui. È, allora, proprio nella misura in cui ci apriamo a ricevere la salvezza offertaci, donataci dal Signore che ci facciamo suoi discepoli: solo Lui, infatti, può farci cogliere la motivazione profonda del nostro metterci a disposizione, del nostro non considerare " privato " ciò di cui Lui ci ha fatto dono. Si entra così nella logica del mettere a disposizione ciò che si è, ciò che si ha, ciò che si è ricevuto. Questa è la logica del Regno, lasciarsi prendere totalmente da tale logica significa lasciarsi rinnovare da essa, entrare in un cammino di conversione, di metanoia. Allora tutto ciò che non è il Regno, che non è Gesù Cristo viene relativizzato. Tutto, la vita e la morte, la povertà e la ricchezza, i beni, gli affetti, i desideri … tutto viene interpretato a partire da Cristo e solo da Lui. La radicalità evangelica esprime meravigliosamente la condizione cristiana della salvezza: è, infatti, l'incontro dell'uomo con la ricchezza di Dio che lo salva. Ciò si manifesta in particolare in due momenti che consistono nel mettersi in verità davanti a Dio e nel " vedere " nell'appello alla sequela un dono, una grazia. Il primo momento consiste nel riconoscere la povertà di essere creature. La ricchezza offerta da Dio fa l'uomo ricco nella misura che lo trova povero, disarmato, cosciente della sua pochezza e, perciò, aperto, disponibile, attento al suo Signore. Infatti, essere discepolo è accettare di essere salvato. Diceva santa Teresa del Bambin Gesù alla sorella Celina: " più sarai povera, più Gesù ti amerà ". È una prospettiva che va continuamente riconquistata, è facile perderla, considerarla secondaria. Non dovremmo, invece, mai dimenticarla anche se forse non ci porta immediatamente a riflettere sulla povertà intesa come " non avere ", come " essere liberi per il Regno "; sulla verginità come il vivere nella fiducia che Lui può sorreggere, può " essere " il senso del tutto dell'uomo perché se Lui non manca, nulla mi manca; sulla obbedienza come capacità di dire il nostro " amen " alla storia tracciata per noi … Ci conduce però certamente al nucleo centrale del discorso perché ci rimanda immediatamente a Cristo: è Lui il Maestro, è Lui la chiave di lettura per tutti e per tutto nel cristianesimo. Solo assumendo Gesù Cristo come unica chiave di lettura della storia della nostra vita, di ogni problema potremo averne l'interpretazione autenticamente cristiana, l'interpretazione vera, piena, che trascende ogni nostra possibilità di lettura della situazione. Mettersi in verità davanti a Dio, lasciare che sia Lui la nostra Verità. È un atteggiamento globale della vita che ci fa prendere coscienza di ciò che siamo: non autosufficienti anche quando gestiamo in modo creativo la vostra vita, la nostra intelligenza, le nostre doti … e sentiamo tutto questo - e altro ancora - come cosa nostra, come proprietà privata. Ci riconosciamo cioè come peccatori, bisognosi continuamente della sua misericordia, certi che, come dice Madelaine Deibrel " Tutto è grazia, tutto porta alla speranza, tutto è salvato per chi si sa peccatore e sa che Gesù è Salvatore … " ( Madelaine Deibrel, Indivisibile amore ). Ma capire questo, capirlo nella concretezza della vita, nella quotidianità della vita è certo una grazia, un dono. Quanto più si ha coscienza del proprio peccato tanto più ci si apre, si fa esperienza della misericordia del Signore, e, quindi, si fa esperienza della povertà più profonda, dell'abbandono più fiducioso, del mistero più penetrante della comunione con il Santo. Allora si capisce che il non possedere - su qualunque fronte lo si viva - è solo un aspetto della sequela, aspetto importante certo, ma non esaustivo. Allora si capisce che la radicalità evangelica va considerata come prospettiva di valore, si tratta di quella radicalità appunto che non è descrivibile solo in termini di atteggiamenti esteriori, non è configurabile solo in un programma, in cose da fare o da non fare, da avere o da non avere … Piuttosto è una disponibilità, una consapevolezza che, certo, informa tutta la vita e genera un atteggiamento di abbandono vero, di affidamento autentico, di fiducia in ogni prova, in ogni esperienza, da quella della oscurità della fede, a quella del peccato, a quella dei nostri limiti. Affrontare così il tema della radicalità evangelica aiuta a porsi nell'atteggiamento più vero e profondo per l'uomo, quello che fa dire " sono solo un uomo, un uomo che deve essere salvato ". È l'abbandono della fede, dell'adorazione, della preghiera. È l'atteggiamento che ci fa guardare ai consigli evangelici non come un valore in sé, un assoluto che permette di interpretare tutto il messaggio cristiano, ma piuttosto come grazia e dono che rimandano continuamente al Cristo dal quale vorremmo imparare qualcosa sui poveri, sui vergini, sugli obbedienti. " Tutto è vostro e voi siete di Cristo ". La radicalità evangelica è cammino di libertà Tutti sappiamo che la libertà consiste nella possibilità di scelta, ossia nella capacità, che l'uomo ha, di decidersi in un senso piuttosto che in un altro. Ma libertà è anche qualcosa di più profondo, di più radicale, di più significativo per l'uomo: l'uomo libero è l'uomo autentico, l'uomo che ritrova realmente se stesso. Perciò l'uomo libero è l'uomo che ritrova la comunione con il Dio dell'alleanza e la ritrova in Cristo Gesù. È questa comunione, questo vivere e dimorare nell'alleanza che fonda la libertà dell'uomo. È, quindi, assolutamente fondamentale riferirsi continuamente alla nostra dimensione più autentica che sta nella nostra vicinanza a Dio, in Cristo. Si è così liberi di preferire Dio. L'uomo libero dice di essere libero con il modo con cui vive il rapporto con la natura, con le cose, con le persone, con se stesso: va senza portare nulla nelle mani, va con cuore aperto, va leggero, senza possesso, va ponendo la sua speranza in Lui … Chi è evangelicamente libero apprezza i beni creati, li usa nel loro valore, ma sempre con distacco. Vive cioè una tensione: apprezzare ma insieme rinunciare, usare ma insieme non possedere, " avere come non avendo ". Viviamo in una società ricca, una società del benessere, una società nella quale le sollecitazioni a possedere, a ritenere positivo solo ciò che è appariscente, ciò che dà potere sono molte, quasi senza accorgercene ci si trova coinvolti in questa mentalità e, quindi, quasi confusi nelle valutazioni, nelle scelte. Ed allora non è facile avere sempre quel rapporto di stima, di apprezzamento, di ammirazione verso ogni bene, che tuttavia va colto nella sua relatività: sempre e comunque in funzione del Regno; non è facile avere la capacità di guardare le cose come opera di Dio, ordinate ad essere " incessante lode di gloria " ( Ef 1,12-14 ). Contraddice la logica di chi fa del possesso dei beni l'assoluto della propria vita, di chi si fa servo delle cose piuttosto che servirsene. Ma questo scontro è un richiamo a tendere, in libertà, verso l'unico Bene, è vivere la vera libertà. I beni, ma anche i talenti che ciascuno si trova ad avere: sono doni ricevuti per essere donati non per essere sepolti. Allora sarebbe non vivere la libertà evangelica, non esercitare la propria intelligenza, non mettere a frutto la propria creatività … Essere evangelicamente liberi davanti agli altri. Il discepolo, al contrario di chi si sente maestro, non usa gli altri, non li possiede, è aperto a tutti pur se sempre dalla parte dei più poveri: indigenti, sofferenti, emarginati, oppressi, soli, poveri di cultura, di fede, di amore, di sicurezza, di identità, di patria …, sempre nel rispetto, come stando sulla soglia della loro vita, con amore, cosciente che non si riesce a capire se non molto poco degli altri per proibirsi ogni atteggiamento di giudizio, ogni arroganza. Il povero va amato, senza preclusioni, perché il Signore l'ha amato: il Signore ha amato e continua ad amare tutti e ciascuno, senza esclusioni. Questa povertà, quasi paradossalmente, ci rende liberi della libertà della franchezza del Vangelo: chi non è legato alla carriera, al successo, al potere … è più libero di dire la novità del Vangelo. Libertà dalle cose, libertà dal desiderio di dominio, di potere sui fratelli, libertà da sé che esige un cammino di espropriazione e di spogliamente interiore alla sequela di Cristo povero, casto, obbediente. Ciò comporta di imparare ad amare e donare da poveri, cioè con l'atteggiamento di chi sa che è più quello che riceve di quello che dà, che sa che dona cose non sue, che sa di aver bisogno lui stesso di ricevere. Ciò rende liberi di dentro, rende capaci di dare con discrezione, magari nell'anonimato, nella ricerca non di gratificazioni per sé ma della gioia dell'altro, nel rispetto del suo cammino, nella logica del Regno. È la consapevolezza di essere soltanto " servo inutile " che " pianta e irriga " sapendo che l'unico a " dare incremento " è il Signore. È un cammino sempre meglio compreso " in un cammino di fede che va ripreso ogni giorno e sempre di nuovo stimolato. Il problema della povertà, infatti, trova una giusta impostazione e una soluzione di volta in volta appropriata, solo partendo dalla conversione della persona … " ( Card. C. M. Martini, Cammino di povertà, 1982 ). " Chi cerca il Signore non manca di nulla " ( Sal 34,11 ). Sequela in povertà, verginità, obbedienza: segno profetico vissuto nella secolarità consacrata Paolo VI, rivolgendosi ai responsabili degli I.S. nel settembre 1972, diceva: " La vostra povertà dice al mondo che si può vivere tra i beni temporali e si può usare dei mezzi della civiltà e del progresso, senza farsi schiavi di nessuno di essi; la vostra castità dice al mondo che si può amare con il disinteresse e l'inesauribilità che attinge al cuore di Dio, e ci si può dedicare gioiosamente a tutti senza legarsi a nessuno …; la vostra obbedienza dice al mondo che si può essere felici … restando pienamente disponibili alla volontà di Dio, come appare dalla vita quotidiana, dai segni dei tempi e dalle esigenze di salvezza del mondo d'oggi ". È chiara quindi la connotazione apostolica che assume la radicalità evangelica vissuta nella secolarità: - la povertà rende creativi nel far fruttificare i beni di cui si dispone per un'autentica promozione dell'uomo. Questa è la destinazione provvidenziale: i beni sono per l'uomo, per tutti gli uomini. Ciò richiede, tra l'altro, capacità di lettura, di attenzione alle istanze della storia, della chiesa per capire, dialogare con l'uomo di oggi, per assumere la giusta sensibilità verso i suoi problemi, per testimoniare la speranza cristiana, per annunciare la certezza che il Signore è dalla parte dell'uomo per salvarlo, per renderlo autentico, libero; - la verginità conduce a vivere nella prospettiva profonda dell'alleanza, conduce ad annunciare che ogni uomo è chiamato alla comunione con Dio, conduce a testimoniare l'amore misericordioso di Dio. Si tratta di rendersi concretamente disponibili a lasciarsi portare da Lui dove va Lui: verso ogni uomo. Allora la carità diventa il criterio, la misura, il sostegno di ogni decisione, di ogni azione, anche dell'azione del pregare. La sequela di Cristo nella verginità rende capaci di amare gli uomini in modo nuovo dilatando il proprio cuore nella carità, facendo esperienza di un'autentica comunione, rendendo più autentici e più veri i sentimenti di amicizia, di condivisione, di vicinanza con chi cammina accanto a noi; - l'obbedienza fa camminare nella fedeltà quotidiana verso una maturità piena, libera, responsabile: solo chi è maturo è capace di fare dono al Signore della propria capacità di autonomia per aderire alla sua volontà salvifica. Così, in un mondo che sempre più proclama l'autonomia assoluta dell'uomo, diventa testimone che solo Gesù Cristo è l'Assoluto dell'uomo: infatti non abdica alla propria capacità di giudizio, alla propria intelligenza, alla propria capacità di volere …, ma assume la prospettiva della fede quale unico criterio di discernimento. Vivere la radicalità evangelica da secolari sollecita, dunque, a testimoniare quei valori ispirati al Vangelo oggi generalmente disattesi ma, forse inconsapevolmente, anche ricercati: il valore della gratuità ove domina la logica dell'interesse e dell'efficientismo ad ogni costo, i valori della giustizia e della carità ove domina l'egoismo, la difesa ad oltranza del proprio benessere e dei propri diritti, il valore della gioia e della speranza … Questo è distacco, è libertà, è poter seguire il Signore, è essere segno nella chiesa e nel mondo; anche quando il segno non è visibile, o almeno non lo è sempre ed immediatamente, come non sempre né immediatamente è percepito e accolto. Il discepolo può richiamare che ciò che conta davvero è il Signore. Può, quindi, porsi come coscienza critica nel mondo d'oggi. Vivendo tutto questo nella gioia, con letizia, dicendo, a chi vuole capire, che le beatitudini del Vangelo sono ancora possibili, che non portano alla tristezza ma alla gioia, che non limitano l'uomo ma lo aprono a prospettive più ampie … E questo si può dire segno profetico. " Allora quelli che c'incontreranno sul loro cammino tenderanno le mani avide al tesoro che zampilla da noi: un tesoro liberato dai nostri vasi di terra, dai nostri panieri variopinti dalle nostre valigie dai nostri bagagli, un tesoro semplicemente divino che sarà secondo il modo di tutti perché avrà cessato d'essere secondo il nostro modo. Allora noi saremo agili, e diventati a nostra volta delle parabole: parabola della perla unica minuscola tonda preziosa per la quale tutto si è venduto ". ( Madelaine Deibrél, Che gioia credere ) I consigli evangelici nell'esperienza laicale Parlano uno sposato e una consacrata Interviste raccolte da Marisa Sfondrini ( Ha collaborato Anna Frattini ) Castità, povertà, obbedienza: non sono soltanto per monaci e monache, sono uno stile, una " forma " di vita anche per i laici e le laiche. E non soltanto per chi è chiamato al celibato per una speciale consacrazione, ma anche per coloro che hanno per vocazione il matrimonio. Le teorizzazioni sono interessanti, fondamentali; ma ci pare, almeno altrettanto, interessante conoscere come, nella concretezza della quotidianità, davanti agli ostacoli e alle gioie della vita, reagiscono un uomo e una donna che cercano di tradurre nella loro storia i consigli evangelici. Abbiamo pensato che fosse di vantaggio per la vivacità, l'immediatezza e la comprensibilità dell'esposizione adottare lo strumento dell'intervista. Abbiamo sentito Franco Monaco, sposato, due figli, laurea in scienze politiche all'Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, ateneo nel quale lavora come capo ufficio stampa; è stato presidente dell'Azione cattolica ambrosiana e membro del Consiglio nazionale dell'A.C.L; attualmente presiede l'associazione " Città dell'uomo ". Ed Errebì: psicopedagogista, di lei possiamo dire soltanto che è una laica consacrata, quindi tenuta al " segreto " sull'identità ( per questo, per lei, scarnissime indicazioni biografiche, perché qualche dettaglio potrebbe farla " scoprire " ), un " segreto " le cui ragioni lei stessa spiega nel corso dell'intervista. I filoni di domande, posti ad entrambi, sono fondamentalmente quattro, modulati in maniera diversa per ciascuno, per rispettare la specificità delle due differenti vocazioni. In pratica si tratta di quattro " definizioni " che, nel corso dell'intervista, con domande specifiche per i due tipi di vocazione, si tenta di verificare. Di seguito li indichiamo, ma li ritroveremo poi ripetuti - per maggior comodità di chi legge - in cima ad ogni " batteria " di domande. 1. All'interno dell'unica vocazione cristiana ricevuta col Battesimo, si specificano differenti vocazioni per l'azione dello Spirito Santo che dona a ciascuno carismi particolari. 2. I " consigli evangelici " sono la sintesi del nuovo stile annunciato e richiesto da Cristo a tutti i suoi discepoli: castità secondo il proprio stato, povertà evangelica, obbedienza filiale al Padre sono le modalità di vita del cristiano. 3. I " consigli evangelici " nella globalità e l'unità della persona umana. 4. La persona che vive i " consigli evangelici " nella spiritualità laicale, è " segno " escatologico perché " dice al mondo " questi valori universali e trascendenti, nel trattare le realtà temporali. Ci sembra indicativo e, per certi versi, illuminante, mettere a confronto le due esperienze, ponendo, anche graficamente, vicine le risposte alle quattro batterie di domande. Il quadro finale - grazie anche all'intelligenza di chi risponde - risulta ricco e interessante. All'interno dell'unica vocazione cristiana ricevuta col Battesimo, si specificano differenti vocazioni per l'azione dello Spirito Santo che dona a ciascuno carismi particolari Partiamo dalla vocazione che - almeno secondo una valutazione superficiale - può sembrare quella più lontana dallo stile dei " consigli ": infatti è più difficile, per la mentalità corrente, pensare ad una vita casta, povera e obbediente, vissuta nel sacramento del matrimonio. Franco Monaco Come definirebbe oggi il termine " laicità " in maniera sintetica e comprensibile a tutti, anche a chi non è particolarmente attento a queste ricerche? Il fondamento della laicità ha a che fare con il rapporto tra natura e Grazia, con l'antica, classica tesi secondo la quale la Grazia risana ed eleva la natura, non la mortifica; conferisce pienezza all'esperienza umana in tutte le sue espressioni e articolazioni. Quindi la laicità è quel principio/valore genuinamente cristiano grazie al quale si rivela la valenza universalistica del cristianesimo: vale a dire come, muovendo da una autentica esperienza cristiana, si possano testimoniare e sviluppare tutti i valori dell'umano suscettibili di essere universalmente apprezzati. Naturalmente nel rispetto dell'altrui libertà. La sua vita di laico credente si dipana secondo la definizione di laicità che lei stesso ha dato? Se sì, in che modo concreto? Direi in forma precaria e in misura modesta, perché la laicità cristiana, qui intesa non come principio/valore, ma come abito di vita, è il prodotto di un equilibrio straordinariamente difficile. La nostra vita, più o meno consapevolmente, oscilla sempre tra l'estremo del secolarismo e le pretese integriste. È, ripeto, il prodotto di un equilibrio difficile e mai compiuto: è un ingrediente e insieme un indizio della maturità cristiana, mai definitivamente conseguita. Gli ostacoli a questo equilibrio sono sia le pressioni esterne in una civiltà che si usa definire pregna di secolarismo, incline cioè più a divaricare che a coniugare Grazia e natura; sia la pigrizia interiore, l'ostacolo forse più robusto e spesso invincibile. Lei ha accennato ad una oscillazione fra secolarismo e integrismo: ciò avviene anche all'interno di una stessa persona? Sì, ciò avviene non tanto come posizioni di pensiero, ma sotto forma di estremi tra i quali oscilla un po' schizofrenicamente anche il comportamento personale. Secolarismo vuol dire in concreto la omologazione al mondo nella sua accezione giovannea, cioè a quella porzione di umanità che resiste all'azione di Grazia. Circa l'integrismo - che pure è una posizione che per la mia storia personale ed ecclesiale di appartenenza all'Azione cattolica, ho sempre un po' contrastato - anch'io non ne sono al riparo nella misura in cui non esperisco fino in fondo l'esigenza del rispetto della libertà dell'altro e della mediazione della sua coscienza pretendendo che la verità o il valore, quale risulta alla mia coscienza, passi senza la mediazione compiuta dell'altrui coscienza e libertà. A questo, ripeto, è esposto anche chi, come me, è cresciuto dentro una tradizione che ha contrastato l'integrismo come posizione di pensiero: nella dialettica interna alla Chiesa italiana, convenzionalmente, noi di Azione cattolica siamo ascritti al fronte di chi si è adoperato, con la così detta " scelta religiosa ", per porre un argine alle spinte integriste che peraltro venivano da una lunga tradizione. Anche il laico, dunque, realizza nella storia la missione di Cristo, è impegnato nella costruzione del Regno. Ma questa sensazione non è generalmente condivisa: perché, secondo lei, il laico si sente " operaio di serie B " nella costruzione del Regno di Dio? Qui mi pare occorra fare una premessa, cui farei seguire tre osservazioni. La premessa: in linea di principio, dai pronunciamenti magisteriali e dalla teologia, risulta acquisita la consapevolezza che il fedele laico ha pari dignità battesimale e conseguentemente medesima responsabilità sull'intero arco della missione della Chiesa, il cui compimento è, appunto, nel Regno. Dopo di che, è vero che, in linea di fatto, si registrano invece ritardi, insufficienze e anche contraddizioni. In prima istanza perché noi stessi, fedeli laici, non abbiamo una coscienza lucida di quello che Giuseppe Lazzati avrebbe definito " il valore cristiano, salvifico " della secolarità: e cioè che, la secolarità in forza del principio di creazione e di redenzione e in forza del mistero dell'incarnazione, è via obbligata alla santità, è " luogo teologico ", come diceva Paolo VI. Seconda ragione è il condizionamento della cultura/ambiente: la stessa secolarità, storicamente situata dentro questa cultura/ambiente, è spesso una secolarità chiusa su se stessa, che, più che in altre stagioni storiche, è attraversata da correnti di pensiero e da stili di vita che programmaticamente cancellano l'apertura alla trascendenza, quindi la tensione verso il Regno di Dio. Voglio dire: la secolarità dentro la nostra epoca è una secolarità che si manifesta, in concreto, sotto profili più problematici rispetto ad altre epoche; è una secolarità che inclina al secolarismo. Questo è il dato saliente della cultura/ambiente che dà forma storica concreta alla secolarità. La terza ragione è di ordine pastorale e pedagogico: non sempre siamo adeguatamente aiutati dalla comunità cristiana a coltivare precisamente le virtù cristiane, secondo l'inflessione caratteristica di chi vive dentro il secolo; un pochino scontiamo questo dualismo tra l'appello alle virtù cristiane comuni e di sempre e una condizione di vita che domanderebbe una loro caratteristica modulazione. In questo, mi pare, non siamo sempre adeguatamente sostenuti dall'azione pastorale ed educativa. Secolarità e laicità sono due concetti diversi? Sì, forse si possono distinguere, anche se sono parole talmente incrostate dall'uso, che non sorprende il fatto che producano più fraintendimenti di quanto non aiutino a chiarire. Di norma preferisco la parola secolarità a dire l'indole dei laici, per usare un'espressione conciliare; e laicità come un orizzonte di valore, e - conseguentemente - l'esercizio di una virtù, l'affinamento di un'arte che - pur dentro un orizzonte di significato cristiano - però valorizza il dato e l'indole della secolarità. Perché, secondo lei, oggi più facilmente di un tempo si perde di vista il trascendente? Le ragioni mi sembrano schematicamente due: la prima ha a che fare con la modernità e con quella che i filosofi e gli storici della cultura chiamano la " rottura immanentistica " introdotta dall'avvento della modernità. Correnti di pensiero, ma anche forme di vita, all'insegna dell'orizzontalismo, cancellano e sviliscono la dimensione trascendente della persona umana. Questa è la ragione connessa alla cultura/ambiente. Se poi si considerano più da vicino le esperienze di vita, oggi, dentro la nostra civiltà moderna e secolarizzata, il difficile sta nelle situazioni che il card. Carlo Maria Martini indica nella formula delle " convivenze dirompenti "; cioè quando, in buona sostanza, afferma - fotografando bene l'attuale esperienza - che oggi è singolarmente difficile essere cristiani ed esserlo sempre, in tutte le dimensioni e in tutti gli ambiti in cui si sviluppa la nostra vita, perché, anche nell'arco della giornata, attraversiamo universi differenti, taluni posti sotto il segno del secolarismo, altri posti sotto quello della persistenza di una tradizione cristiana. Per cui dobbiamo - anche in un breve spazio di tempo - venire a contatto con mondi e ambiti in cui volta a volta il dato prevalente è o l'ispirazione cristiana ( per esempio, nella famiglia, nella comunità locale, nella parrocchia ) o il secolarismo, eventualità che si verifica per lo più negli ambiti della vita pubblica ( dal lavoro alla cultura, all'economia, alla politica ). Siccome la nostra giornata è fatta di tanti segmenti, in ciascuno dei quali, però, diverso è l'orizzonte di valore, ovvero, detto con formula " colta ", il riferimento assiologico, il bello e il difficile sta appunto in questa esigenza - peraltro obbligata - di percorrere trasversalmente universi di valore tra loro in contrasto. Ecco il senso delle " convivenze dirompenti ". Pensa che le difficoltà a vivere pienamente la propria laicità siano uguali per l'uomo e per la donna? Credo che sia difficile alla stessa stregua per entrambi. In ragione della " cultura della differenza ", sono tuttavia difficoltà diversamente modulate. Forse si può anche abbozzare uno schema circa la forma che in concreto assumono le difficoltà per gli uomini e per le donne. Se circoscriviamo l'attenzione a quelli che usiamo definire come i " laici impegnati ", forse per l'uomo l'enfasi cade abitualmente sull''engagement, cioè su una laicità che si esprime dentro forme di impegno, talvolta anche un po' volontaristico, nella sfera pubblica; per le donne, la laicità convenzionalmente si esprime dentro l'ordinarietà della vita. A me pare che l'una e l'altra tipologia prevalente dell'investimento della secolarità cristiana, testimoniano una mutilazione: c'è da supporre, infatti, che per entrambi si richieda un di più di armonia e di equilibrio tra una secolarità che si attua entro la trama ordinaria dell'esistenza, anche per gli uomini, e una secolarità cristiana che si dipana sulle frontiere dell'impegno civico, culturale e politico anche per le donne. Proprio perché veniamo da una tradizione che invece un po' schizofrenicamente separava queste prospettive, credo che per la donna riesca più difficile ideare ex novo modelli di secolarità cristiana sulle frontiere civico-politiche; mentre per l'uomo riesca più difficile, per converso, sperimentare e anche proporre modelli di secolarità cristiana dentro la trama ordinaria dell'esistenza. Secondo lei, siamo avviati verso questo riequilibrio ( pensando anche al movimento delle donne sviluppatesi specialmente negli anni Settanta - Ottanta ) oppure ne siamo ancora lontani? Immagino che il movimento delle donne - di per sé - dovrebbe, da questo punto di vista, contribuire a ristabilire l'equilibrio, quindi potrebbe essere un prezioso contributo alle integrazioni necessarie su entrambi i fronti, sia nel richiamare le donne all'esigenza di una secolarità cristiana che si esprima nella forma dell'engagement, ovvero di un protagonismo pubblico, civile, culturale, sia per converso nel richiamare gli uomini ad una corresponsabilità nella conduzione della vita quotidiana, specialmente gli uomini visti nella figura di compagni, di mariti e di padri. Quest'ultima sua affermazione apre la strada ad un'altra domanda: nella comunità sono presenti diverse vocazioni; fra queste la più diffusa è certamente quella al matrimonio. Com'è accolta, secondo lei, oggi quest'ultima forma di vita? Il matrimonio come " ministero laicale " è adeguatamente valutato dalla comunità credente? Anche qui occorre distinguere: in via di principio la risposta è positiva. Ormai da decenni è maturata nella coscienza cristiana più avvertita, e dunque anche nelle sue espressioni teologiche e magisteriali, la coscienza della pari dignità sotto il profilo vocazionale del matrimonio rispetto agli altri stati di vita. Anche qui, però, i problemi si manifestano piuttosto nella prassi. Alla pratica recezione del matrimonio come figura di valore, come " ministero laicale ", noto due ostacoli. Uno è di ordine pratico: la difficoltà di conciliare tempi ecclesiali e tempi familiari; questo, anche per i " laici impegnati ", è un problema irrisolto. Rivelativa del fatto che il richiesto equilibrio tra tempi ecclesiali e tempi familiari non è ancora conseguito, è la duplice constatazione che dentro la comunità cristiana di solito si fa l'esperienza o di laici per lo più maschi sposati, ma che si comportano come se fossero scapoli, di cui cioè si è persa cognizione - diciamo così - della compagna di vita e della famiglia che sta alle spalle; oppure di coppie di coniugi ( o addirittura di famiglie ) un po' intriganti, in qualche misura fuori dalla normalità. E ciò proprio perché non disponiamo ancora di un modello collaudato di coniugazione tra tempi e ritmi ecclesiali e tempi e ritmi familiari. La seconda ragione è di tipo più esistenziale, esperienziale: gli stessi coniugi, cioè, raramente elaborano l'esperienza dell'amore umano, sia dal punto di vista simbolico, sia dal punto di vista teologico, come rilevante, eloquente e testimoniale per l'intera comunità cristiana. Nei rari casi in cui lo fanno, ciò avviene secondo modalità talvolta deformanti: ad esempio, con un eccesso di enfasi, facendo un po' la caricatura dell'amore umano che invece è molto sobrio e discreto e mal sopporta una propria rappresentazione ostentata dentro la comunità cristiana. Qui la responsabilità è principalmente dei coniugi e delle famiglie che raramente elaborano - e poi riconducono dentro la comunità, come un carisma, come un dono prezioso - la propria esperienza dell'amore umano e, quando lo fanno, ciò avviene in forme non persuasive o attraenti. È certamente più immediato pensare ad una vita ritmata dai " consigli evangelici " per una laica chiamata ad una speciale consacrazione. Ma questa considerazione non è poi così scontata: anzi. Per chi vive da consacrata, ma al di fuori di quelli che la cultura corrente considera i " normali " ambiti ( la struttura conventuale o comunque la comunità religiosa ) essere casta, povera e obbediente è tutt'altro che privo di rischi e di difficoltà. Anche se talvolta è entusiasmante. È ciò che, in sintesi, emerge dall'intervista con la nostra " ignota ". Errebì Qual è, sinteticamente, la sua definizione di " laicità consacrata "? Non è facile dare questa risposta. Credo di poter affermare che si tratta di operare, all'interno della propria persona, una sintesi fra il sentirsi chiamati a rimanere nell'ambiente, nel luogo dove il Signore ci ha messo - con tutte le relazioni di tipo interpersonale, ma anche di tipo professionale che l'ambiente richiede - e contemporaneamente a vivere la scelta per Gesù Cristo come fondamentale. Allora, l'essere nel mondo avendo innanzi a sé Lui come valore assoluto, mi sembra voglia dire vivere una secolarità consacrata e una laicità piena. La consacrazione battesimale mette già in questa situazione, che può rendersi esplicita con voti e promesse. Il modello universale di consacrazione è, in ogni caso, Gesù, interpretato " storicamente " nella vita di ciascuna persona. Ritiene che questa vocazione " realizzi davvero in pienezza la missione del dono totale di sé ", come si usa definire? Sarò un'entusiasta, perché la mia vocazione mi piace: ma andando avanti nel tempo - e qui entra in campo l'età cronologica, perché anche l'esperienza ha un suo significato - mi sembra che quanto più mi sforzo di avvicinarmi all'ideale, tanto più sento che la mia persona si realizza. È vero che la mia realtà la scopro soltanto scoprendo Gesù Cristo e che non posso pensare di vedere una mia realizzazione - come talvolta si suoi dire - solo da un punto di vista umano: la persona non è scissa! L'unità della persona si ritrova in Cristo: la tensione a vivere il servizio, a vivere la sequela e quindi a conformarsi al Cristo, fa scoprire sempre di più la propria personalità. Ma non soltanto ciò: fa scoprire anche quelle doti che il Signore ha dato e che è spesso facile lasciare che si atrofizzino; proprio perché a volte sono difficilmente riconoscibili. Intendo la capacità di conoscere, di penetrare nella realtà; la capacità di operare con le cose; la capacità di trovare soluzioni nuove nelle varie situazioni di vita e di gustare la bellezza del creato in ogni sua forma. Non si tratta quindi di riconoscere doti eccezionali, ma di constatare che il saper parlare, camminare, gioire e soffrire hanno un senso. Ogni dono scoperto realizza la mia personalità: ed è dono, quindi non lo posso tenere per me sola. Com'è accolta, secondo lei, questa particolare vocazione all'intermo della comunità cristiana? Generalmente questo tipo di vocazione è pochissimo conosciuto. Fa sorgere molti interrogativi del tipo: ma chi tè lo fa fare … ma perché non ti fermi …? Quando ci si mette a confronto, anche nella comunità cristiana, si dicono alcuni motivi e si parla di questa tensione, allora c'è molto ascolto, molta attenzione e molto rispetto. Le persone più disparate cominciano a capire che effettivamente ci può essere una vocazione un po' " diversa dal solito ". Posso fare un esempio. Sto conducendo un'esperienza, molto bella, di catechesi nelle famiglie. Sono già tre anni che seguo due gruppi, uno che si ritrova in casa mia, un altro che invece si riunisce in casa di altre persone. Ci ritroviamo sempre gli stessi, quindi si è stabilita una certa consuetudine e l'abitudine a un confronto. Si riesce a comunicare nella verità, per quello che si è. Ad un certo punto, in uno dei gruppi, si stava prendendo in considerazione una pagina del Vangelo di Marco che riguarda la chiamata dei discepoli: alcune persone hanno visto con sorpresa, che la moglie di Pietro non ha contestato la scelta del marito. Così gli altri parenti prossimi dei " chiamati ". Perché è stata lasciata questa libertà di seguire il Maestro? Emergeva così la posizione di coppie che hanno figli sui 18-20 anni, e che paventano il momento in cui questi diranno loro " andiamo per la nostra strada ". Da questo è nato un discorso sulla vocazione. E ciascuno ha fatto riferimento alla propria. Non ho mai detto a nessuno che faccio parte di un istituto secolare, perché non mi pareva il caso. Ho parlato semplicemente di una scelta che nella vita si può fare perché " c'è il Signore che ride " … guarda ciascuno con uno sguardo d'amore singolare e speciale. A quello " sguardo " si risponde con una totalità di vita, che deve essere vissuta quotidianamente, nelle scelte minute del momento per momento. Ho avvertito intorno a me un grande rispetto, come se le persone avessero scoperto qualcosa di nuovo. Ma ho percepito anche la caduta di quel po' di tensione e di paura che si era instaurato: in fondo, la vocazione è per tutti, è già vocazione alla vita fin dal primo momento. Sentire queste coppie che hanno riconosciuto di aver dato vita ai propri figli, che questi non sono il loro possesso, ma devono essere aperti a ciò che il Signore chiederà loro, è stato un momento molto significativo. Un altro esempio: un mio parente medico ha avuto occasione di seguire, in ospedale, una suora di clausura. Mi ha detto: " Guarda, è una persona splendida. Ad un certo momento le ho chiesto: perché si è ritirata dalla vita? E le ho soggiunto: mi viene in questo momento in mente una mia cugina, che non si è ritirata in un convento e che fa tante cose … E io mi chiedo perché le faccia … ". Allora vuoi dire che le persone intorno, ci guardano, non sempre ci esaltano, ovviamente, ma sono interpellate dalla nostra condotta in generale, si chiedono perché stiamo con il prossimo in un certo modo, senza avere la pretesa di catturare, ma soltanto di servire. Come pensa che la sua vocazione ad una consacrazione secolare interagisca nella comunità con le altre vocazioni: matrimoniale, religiosa, sacerdotale? Sarà da riscoprire a livello teorico, ma a livello pratico questa già esiste. Varrà la pena però di riprendere questo tema e di stabilire come tutte le vocazioni siano complementari. Proprio a partire dalla mia laicità consacrata, stabilisco rapporti tranquillamente con tutti. Si è mai sentita definire " mezza suora " o " suora laica "? Me lo sono sentito dire, oppure, più precisamente l'ho sentito nei confronti di altri. Credo che vi sia una carenza di conoscenza; ma anche che si colga il senso del riserbo. Quando ho sentito dire di altre persone, ma suppongo che lo possono aver detto anche di me, " è una suora laica ", è stato come se chi stava pronunciando questa frase volesse dire: " Ecco, ho scoperto perché si comporta in quel modo … e non potrebbe fare diversamente perché è una consacrata ". Probabilmente, però, c'è soltanto una ignoranza dei termini esatti: dire " suora " è in realtà voler dire " consacrata ". È riconoscere che quanto la persona in oggetto fa corrisponde al suo dovere di stato ( suora ); resta poi il fatto che ciò che fa, lo fa non dietro le mura di un convento, ma nel mondo; e da qui viene il " laica ". Talvolta questo modo di dire sa molto di pettegolezzo, quasi a voler insinuare " Finalmente ho scoperto il segreto … ". Ma nella maggior parte dei casi, secondo me, si tratta di non conoscenza di una determinata realtà ecclesiale. Penso che si potrebbe svolgere un certo lavoro di " istruzione " su due binari: da una parte dare maggiore conoscenza ai vari tipi di vocazione esistenti; da un'altra, aiutare le persone laiche consacrate a capire fino in fondo cosa sia il riserbo. Che non è un non dire perché in tal modo si assumono meno responsabilità o cose di questo genere; in altre parole, non è soltanto un discorso di funzioni. Occorre capire - e, potendo, far capire - che si tratta di una " intimità " ( fra la persona umana e il suo Signore ) che va riscoperta e difesa. Non ho bisogno di mettere in piazza il fatto che io appartengo a questo o a quel gruppo, ma ho urgenza di annunciare Gesù Cristo. La scelta per Lui non cade sotto il riserbo, che resta invece per la modalità concreta. Sempre a proposito del riserbo, si obietta, spesso, che questo è utilizzato da un lato per venir meno - forse - a delle responsabilità, dall'altro per giocare non chiaramente la partita della vita, dell'impegno. Un'altra obiezione, e questa volta positiva è: in una società che, ci piaccia o no, si caratterizza per la spettacolarizzazione d'ogni accadimento, che senso ha mantenere questo velo che non fa capire fino in fondo la bellezza di una vocazione inusuale, che si esprime con tratti delicati e non per immagini scioccanti … Prima di tutto mi sembra di dover ribadire una precisazione: è importante avere chiaro che, proprio in forza della mia laicità consacrata, nell'ambiente in cui opero assumo tutta la responsabilità. Non do alcuna responsabilità all'istituto cui appartengo, cosa che invece può avvenire per una religiosa che è immediatamente riconoscibile. Questo è importante, perché devo coltivare in me questa responsabilità che mi porta, allora, nell'ambiente, a riconoscere le autorità di quell'ambiente, con le quali mi debbo rapportare, con tutto ciò che questo implica. Dare a Cesare quello che è di Cesare … E per dare a Dio quello che è di Dio? … Lì non ho un'immagine all'esterno di me, perché sono io l'immagine di Dio, quindi sono le mie scelte che devono essere coerenti con la risposta a Dio, pur mentre rispondo a Cesare, per restare nella metafora. All'istituto, allora, chiedo che mi aiuti ad avere dei criteri saldi per fare queste scelte, ma non lo chiamo in gioco quando mi capita di sbagliare nel mio ambiente. Con questo tipo di chiarezza, poi, mi sembra di dover riscoprire tutto il senso della virtù cristiana dell'umiltà. Pur non andando in giro a dire " io sono di Gesù Cristo ", ugualmente compio ogni sforzo per conformarmi a Lui, per essere Sua icona; così l'umiltà mi sembra debba coincidere col mio riserbo. Io non porto sul palcoscenico l'altra realtà, perché non ce n'è bisogno, non perché la voglia nascondere. Pensa che il fatto di essere donna la metta in difficoltà maggiore? Le difficoltà, ammesso che ci siano, vengono maggiormente dal clero? dai religiosi? dagli altri laici? Qualche difficoltà c'è. Il proprio posto nella comunità sia ecclesiale in senso stretto, sia laica, va sempre conquistato. Anche perché, oggi come oggi, non tanto in ambito ecclesiale, ma in quello " civile ", in fondo la gente pensa che una donna abbia sempre la sua vita privata, abbia sempre i suoi compensi … Si pensa: " Va bene, ti spendi …; ti vediamo fare … Ma anche se non lo confessi, il tuo uomo ce l'hai … ". È dato per scontato. Allora diventa meraviglia quando, alzato un pochino il velo, si scopre che non c'è nessun uomo. Questo è il momento più difficile, perché le persone sono un po' spiazzate e si chiedono come mai. A volte la risposta si risolve in un sospetto di " diversità " ( e ciò è più facile che avvenga per gli uomini, che per noi donne ). Nella comunità ecclesiale, c'è ancora molta diffidenza verso la donna. Quindi, si opera il tentativo di strumentalizzare anche la vocazione alla consacrazione secolare. Il discorso che si fa è di questo tipo: " So che sei così … allora devi partecipare, ma in subordine … ". Ciò non vuoi dire che aspiri al primo posto o ad una particolare considerazione; però nel momento in cui mi si affida una responsabilità credo che sia giusto che mi si lasci lo spazio. Ciò però non significa, immediatamente, rifiutare un confronto, una verifica. La diffidenza che riscontro, a volte, nei sacerdoti, mi sembra controproducente, oltre che meschina. Noi, laiche consacrate, proprio perché viviamo pienamente nell'ambito in cui siamo, credo che abbiamo il dovere di far presente alla chiesa quali sono i problemi che si agitano nel nostro ambiente. Perché se la Chiesa deve evangelizzare, deve sapere cosa avviene fuori dalle sue porte. Ora, è certamente più difficile per i presbiteri, per i religiosi conoscere le realtà del mondo! Ma se non sono ascoltata perché sono laica e sono donna, il dialogo, nella Chiesa, diventa difficile. Vi sono problemi anche con i religiosi: è difficile ancora intenderci pienamente. Quando mi capita di parlare con i religiosi, mi sento a volte di serie B; sento che mi considerano più " religiosa " che " laica ", ma una religiosa " spuria ", quella che non ha saputo fare il passo definitivo. È come se mi si dicesse: " Siccome non sei stata capace di una scelta totale, ti sei fermata a metà strada ". Questa è la sensazione che avverto. L'unica volta che ho avuto uno spiraglio di superamento di questo atteggiamento, è stato in una circostanza curiosa: sono stata invitata dall'USMI di … a parlare della Mulieris dignitatem. Però mi sono accorta che vi era stata confusione sui nomi: cioè avevano chiamato me pensando di chiamare un'altra quasi omonima. Mi sono ritrovata in un'aula con trecento suore. Ho utilizzato, nell'interpretare e nell'esporre il testo del Papa, tutta la mia competenza professionale; ho fatto alcune sottolineature anche di tipo psicologico. Dopo di che parecchie suore sono venute a ringraziarmi e a dirmi: " Finalmente una laica che ci parla, una donna che ci paria …! ". Evidentemente, avevano capito che anch'io avevo fatto una scelta " radicale ", ma è stata forse l'unica volta in cui il dialogo è venuto fuori spontaneo. * * * I " consigli evangelici " sono la sintesi del nuovo stile annunciato e richiesto da Cristo a tutti i suoi discepoli: castità secondo il proprio stato, povertà evangelica, obbedienza filiale al Padre sono le modalità di vita del cristiano Vogliamo entrare, a questo punto, più nel dettaglio ed esaminare quali modulazioni assumano i " consigli evangelici " per i due diversi stati di vita che abbiamo voluto in un certo senso sondare. Iniziamo con il laico sposato. Franco Monaco Lei è un uomo relativamente giovane, sposato, con figli. Come definirebbe la castità nel matrimonio? Certamente anche nel matrimonio - al di là dell'esigenza di un ossequio estrinseco alla norma morale - a un'osservazione un po' approfondita si manifesta l'esigenza di una castità anche ai fini di conservare la qualità complessiva del rapporto d'amore e la qualità specifica dell'esperienza unitiva - sessuale. Anche dal punto di vista di un'esperienza umana universale, si rivela, cioè, provvidenziale una qualche disciplina sia - in prima istanza - allo scopo di resistere alla progressiva banalizzazione e materializzazione dei rapporti, sia al fine di custodire e sviluppare il senso di una intimità non possessiva e predatoria, sia per conservare la consapevolezza di una misura di distanza irriducibile nei rapporti tra le persone. La persona dell'altro non ti appartiene: è avvolta in un velo di mistero e, in qualche misura, è sempre inaccessibile. Questa è la condizione anche per preservare la qualità di un rapporto sempre genuinamente umano e personale, perché, com'è noto, un rapporto davvero personalistico fra uomo e donna conosce entrambe le dimensioni, sia quella della prossimità sia quella dell'alterità; là dove l'una richiama l'altra, l'una non può prescindere dall'altra, ma reciprocamente si illuminano e si corroborano. E questo vale per tutte le relazioni genuinamente umane. Il prossimo - personalisticamente parlando - è chi ti è vicino, ma chi è anche sempre in qualche misura irriducibilmente altro da tè e domanda una zona di rispetto. Pensa sia una " condizione " proponibile oggi, in una società in cui spesso anche i credenti considerano i problemi relativi all'esercizio della sessualità o con eccessivo rigore o addirittura con " liberalità "? Come, secondo lei, è proponibile oggi ai giovani? Non posso avvalermi ancora, per questa risposta, dell'esperienza personale, poiché i miei figli sono ancora troppo piccoli per porsi questi problemi. Immagino che oggi - per le ragioni che prima indicavamo ( alludo alle " convivenze dirompenti " ) - sia singolarmente difficile a causa sia della proliferazione anarchica degli stimoli e delle seduzioni esterne che vengono dalla cultura/ambiente, sia della promiscuità talvolta banalizzante i rapporti, che contrassegna le forme della convivenza tra gli adolescenti e i giovani. Immagino anche - ma lo dico sommessamente - che sia possibile far lievitare la consapevolezza del valore di una disciplina, anche nella vita sessuale, nella misura in cui è percepita come servente un amore più intenso e non " usa e getta ", di un amore che si intensifica nella qualità e resiste nel tempo. Che è, in fondo, un'aspirazione segretamente coltivata anche dai giovani d'oggi, che pure gli amori li consumano rapidamente. Ma che, immagino, nel profondo del cuore, coltivano l'esigenza di un amore alto, senza limite né di quantità né di tempo. Bisogna mostrare che la disciplina è una condizione e una via al perseguimento di un rapporto alla fine più bello, più attraente, più gratificante e più ricco. Mostrando, in altre parole, che anche ai fini dell'autorealizzazione la disciplina ha un suo posto. Non le pare legittima, a questo punto, la domanda sulle cause degli amori " usa e getta " dei giovani? Credo che ciò abbia a che fare con la precarietà che considero uno degli ingredienti principali della civiltà contemporanea. Oggi è la vita complessiva che è precaria, quindi tutto si fa precario: ogni impegno, ogni scelta, ogni decisione è vissuto come revocabile. Questo esponenzialmente si manifesta nelle relazioni affettive, specialmente nel tempo dell'adolescenza o della prima giovinezza. È un tratto complessivo della civiltà che si ripercuote sulla sfera degli affetti. Il matrimonio si " vive in due ": ha incontrato difficoltà a trovare un accordo, su questo delicato tema, con sua moglie? Non ho riscontrato particolari difficoltà. Certo l'intesa è sempre precaria e mai compiuta. Ho però l'impressione che, anche qui, si tratta di assegnare a questa sfera il suo giusto posto dentro l'economia complessiva del rapporto. Che è un posto di rilievo perché è la sfera ( quella sessuale ) più intima, quella in cui alla fine si manifesta la qualità del rapporto. Ma comunque il problema non va sovrastimato, come talvolta si fa da parte di chi vi riflette ( anche ecclesialmente ) dall'esterno. Non bisogna isolare il problema né considerarlo separatamente, quasi ossessivamente: né da parte dei coniugi, né da parte di chi ha responsabilità educative e pastorali. Ho l'impressione che dentro la concreta esperienza di un ménage coniugale questo è un problema, ma è uno fra i tanti, che va ridimensionato specialmente quando si stabiliscono intesa e armonia, sia pure sempre relative, sempre precarie, sempre incompiute. In fondo che contano sono altri valori: e l'intesa sessuale è conseguita nella misura in cui l'armonia complessiva si è realizzata. Passiamo alla povertà: secondo lei, è giusto che un semplice laico si ponga il problema del vivere " da povero "? Come definirebbe, quindi, la povertà per un laico che, come lei, ha responsabilità anche verso la moglie, i figli? Non è che i laici siano esonerati dall'esercizio delle virtù cristiane e dei consigli evangelici! Quindi è giusto che un laico comune si ponga il problema di vivere da povero. Proverei, da laico con famiglia, a dare alla povertà i seguenti nomi: il nome di sobrietà sia come stile complessivo di vita, sia per quanto attiene ai rapporti con le cose; poi darei il nome di libertà interiore rispetto ai beni; darei il nome di solidarietà intesa come sacrificio richiesto doverosamente nei confronti di chi ha bisogno. E darei il nome di responsabilità, perché chi ha famiglia deve considerare responsabilmente il futuro dei propri figli, dando loro un minimo di sicurezza, perché non risponde solo di se stesso, ma anche degli altri cui è legato da vincolo affettivo e anche economico. C'è, però, un profilo della povertà che è spesso trascurato, ed è quello della povertà di affetti che si suppone invece sia appannaggio di altri stati di vita. La povertà più difficile da conquistare e da vivere è invece proprio questa, anche per chi ha famiglia. Povertà di affetti significa avere la consapevolezza che anche le persone a noi più intime e care non ci appartengono; è una distanza da preservare, rispetto alle persone che ami, che costa. E che a volte si sperimenta anche involontariamente: perché, nei ritmi ordinari della vita familiare, chi si trova in condizioni stringenti di lavoro, di volontariato, di impegni di varia natura, è spesso privato della gioia di sperimentare quotidianamente le gratificanti relazioni affettive intrafamiliari. Le concrete privazioni di questa gratificazione sono utili in quanto servono a recuperare la consapevolezza che i tuoi cari non ti appartengono. Ma anche per preservare la propria autonomia personale dentro il nucleo familiare. È questo un equilibrio difficile, tanto più oggi dentro le moderne famiglie nucleari e dentro i ristretti spazi abitativi, dove il problema è oggettivo. Sento, per me, ma anche per gli altri membri della mia famiglia, l'esigenza di assicurare spazi, luoghi e occasioni per la propria autorigenerazione personale pur dentro gli angusti spazi, luoghi e ritmi della vita familiare. Anche se, rispetto alla vita familiare, provo già cento e uno sensi di colpa, poiché ritengo di privare i miei congiunti del tempo necessario alle relazioni affettive. Insieme a queste sensazioni di colpevolezza, sento però, spesso, anche di trascurare l'esigenza, per me stesso e per altri, di ritagliare quella misura di autonomia personale che è condizione di equilibrio anche dentro il ménage familiare. Nel matrimonio, nella famiglia la povertà si vive non singolarmente, ma è uno stile che coinvolge tutte le componenti familiari: ne parla mai anche con i suoi figli? E come reagiscono? I miei figli, come ho detto, sono ancora piccoli, ma non troppo per non parlare di questo problema. Anche se è difficile oggi, entro la civiltà dell'abbondanza, in un tempo in cui i nostri figli - soprattutto a motivo di quella che definisco l'affettuosa " congiura " dei nonni, degli zii ecc. - sono inondati di superfluo. E difficile è tanto più quando gli adulti " inondanti " vengono da un'esperienza di vita in miseria. Per chi non ha fatto la miseria, in anni non lontani, in fondo costa poco rinunciare al superfluo e reagire alla propensione manifestamente diseducativa a dare ai figli il superfluo; riesce invece più difficile a chi, magari nella sua infanzia, ha sperimentato la povertà. Questo può essere cagione di un contrasto nella coppia, dal punto di vista delle responsabilità educative, originato sia da una oggettiva istanza di valore ( contrastare la propensione al superfluo ), sia anche dalle umanissime e plausibili tentazioni indotte dalla storia di vita di ciascuno. Il vero travaglio nasce dall'aver l'impressione - da parte del partner " austero " - di privare della gioia di esprimere in questa forma, che pure è quella più discutibile dal punto di vista degli effetti educativi, il proprio affetto ed il proprio legame. Con i figli, il problema è riuscire a farli ragionare e progressivamente educarli alle piccole rinunce quotidiane possibilmente finalizzate ( e qui mi sostiene l'antica esperienza di educatore oratoriano ) a chi ha bisogno, per introdurli progressivamente alla consapevolezza che alla fine la povertà si risolve in una libertà, in un rapporto sciolto con i beni. Ritiene che la povertà sia proponibile generalmente ai giovani, oggi? Anche in presenza di questa nostra " civiltà dei consumi " che si regge, fra l'altro, sullo spreco? Anche su questo punto, mi pare valga il ragionamento fatto a proposito della castità. È difficile, ma immagino che sia possibile e comunque doveroso proporre la povertà, quanto meno nella forma di sobrietà degli stili di vita, quale antidoto alla dispersione della vita dentro una pluralità di esperienze tutte precarie e revocabili. Allora anche la povertà diventa un contributo a contrastare la dissipazione e contemporaneamente a scavare, a concentrare e a dare autenticità per venire a capo, alla fine, di quella ridondanza di beni, di opportunità e di situazioni che rischia di sovrastare tutti e ciascuno, e sotto la quale la propria libertà finirebbe per soccombere. Penso che la povertà ( intesa come sobrietà e come contributo alla concentrazione e all'approfondimento dentro una civiltà incline alla dissipazione ) sia un ottimo strumento per ritrovare se stessi e la verità della propria vita, per venire a capo del grande interrogativo che angustia i giovani: cioè se vale la pena vivere e per che cosa. A questo proposito credo che la povertà sia, anzi, una via obbligata, nel senso che costringe a diradare le nebbie di questa civiltà dell'abbondanza che impone esuberanza di beni, di opportunità e di possibilità tra loro pressoché equivalenti. In sua mancanza, alla fine il soggetto non riuscirebbe più a venire a capo della " domanda di senso ", dell'interrogativo fondamentale: che cosa davvero conta e se conta al punto da autorizzare la dedizione della vita. Sono infatti inesorabilmente destinati a morire i valori per i quali non si è disposti a sacrificare perfino la vita. La vita deve essere sempre un po' sacrificata e consegnata, anche simbolicamente, ad una causa che sovrasta ogni altra e che sola può mettere ordine fra tutte le altre cause e opportunità. È quindi un principio di gerarchizzazione dei beni, dei valori e delle opportunità oggi straordinariamente abbondanti. Come considera il potere, ogni tipo di potere, da quello politico a quello " degli affetti "? Secondo lei, si può fare un uso " povero " del potere? Per me quella del potere è la vera e più insidiosa tentazione, un potere inteso nella sua accezione larga, di chi sa, di chi ama ed è amato. Del resto, a ben riflettere, la tentazione di un potere che si fa prepotere e anche prepotenza, è la radice di tutti i peccati dell'essere umano. Non fu così, come suggerisce la Scrittura, nell'archetipo ( e quindi nelle radici ) di tutti i peccati che fu il peccato originale, in cui vi era il miraggio di disporre di un potere illimitato, " essere come Dio "? Proprio perché questa è la tentazione che sta alla radice di tutte le altre, ne sento molto l'importanza e le insidie. Quali sono, invece, le versioni " buone " del potere? Un potere che si fa responsabilità, che genera giustizia e che si esprime nel servizio. Responsabilità: poiché tutti disponiamo di potere sia pure in forme e in misure molto diverse, quando un potere ci è assegnato, occorre esercitarlo responsabilmente: è una sorta di apertura di credito di cui rispondiamo a noi stessi, al prossimo e a Dio; la peggior ricetta sarebbe di sottrarci alla responsabilità di esercitarlo. Certo è che va esercitato al fine di produrre giustizia, perché il potere è per la giustizia, non è per l'affermazione di sé. E è per contribuire alla qualità etica della civiltà: in questo senso il potere dovrebbe esprimersi nel servizio. Il potere è comunque una dimensione costitutiva dell'esperienza umana e anche dell'esperienza civile; il problema non è, quindi, di rinunciare pregiudizialmente al suo esercizio - cosa pressoché impossibile - ma di sublimarlo nelle tre direzioni sopra indicate. Infine, l'obbedienza: come la definisce per sé e per i laici in genere? Credo che un profilo dell'obbedienza, comune a tutti gli stati di vita, è quello della docilità alla volontà del Padre, percepita e apprezzata come inequivocabilmente buona, quand'anche non si riesca, a prima vista, ad intenderla come tale; perché, dentro certe esperienze dolorose della vita, sfido chiunque a percepire immediatamente questa bontà! Un'obbedienza lieta, grata, proprio perché sostenuta dalla convinzione che la volontà di Dio è sempre e inequivocabilmente per il nostro bene, anche quando passa attraverso l'esperienza drammatica e lacerante della croce. Questa mi pare la radice dell'obbedienza cristiana. Naturalmente detta definizione pone immediatamente il problema della decifrazione della volontà di Dio su ciascuno dentro le coordinate concrete della vita: in altre parole, il problema di riuscire a discernere che cosa lo Spirito di Dio mi suggerisce e - reciprocamente - mi domanda e in qualche modo mi prescrive. Qui interviene l'intelligenza credente: perché - ed è esperienza fin troppo comune - la volontà di Dio non si manifesta ordinariamente in forme eclatanti; si rivela per lo più attraverso segni, appelli la cui decifrazione è affidata alla nostra intelligenza illuminata dalla fede; segni e appelli dello Spirito che talvolta si appalesano attraverso le persone che ci stanno a fianco e le situazioni in cui ci troviamo a vivere. C'è poi il profilo dell'obbedienza dentro la vita della Chiesa: credo che qui si tratti di coltivare uno spirito filiale; la Chiesa è eminentemente madre. A questo proposito rammento una delle pagine più alte del testamento spirituale di Giuseppe Lazzari, quella in cui allude allo spirito filiale nei confronti di una Chiesa che ci è madre anche quando per essa e a motivo di essa dovessimo soffrire: " … e per essa sappiate piangere e tacere ". Uno spirito filiale entro una Chiesa percepita come madre - dicevo - quand'anche, talvolta, avessimo l'impressione che ci è matrigna. Un'obbedienza filiale, ma - naturalmente - come si conviene ad un figlio: nel segno di una responsabilità, di una reciprocità; con la propria spina dorsale, con quella propensione a obbedire " in piedi " che era cara a don Primo Mazzolar! ( " Obbedire in piedi per più prontamente servire " ). C'è poi - ed è quella fondamentale - l'obbedienza alla propria coscienza, alle obbligazioni che si ricavano da essa. Certo, una coscienza istruita e illuminata alla quale, secondo la più collaudata tradizione cristiana, è affidato l'ultimo giudizio sui propri comportamenti, ai cui obblighi non ci è lecito sottrarci. Come considera l'obbedienza nei rapporti familiari? Con sua moglie? con i figli? Bisogna considerare almeno tre elementi - più un quarto, più comprensivo - per declinare l'obbedienza dentro i rapporti familiari. Il primo è quello della reciprocità: è un'obbedienza che non può andare in una direzione soltanto; che ha senso se si innesta dentro rapporti di andata e ritorno. Secondo, è un'obbedienza che considera tuttavia i ruoli rispettivi: per quanto attiene alla relazione coniugale, ruoli all'insegna della reciproca integrazione, della pari dignità e responsabilità. Per quanto attiene invece alla relazione tra genitori e figli - ed ecco il terzo elemento - l'obbedienza si sostanzia in un rapporto asimmetrico; purtroppo una certa pedagogia sedicente liberale e sostanzialmente irresponsabile ha vanificato un po' la consapevolezza del carattere strutturalmente asimmetrico dei rapporti tra genitori e figli: non è lecito ai genitori recitare, nella vita, la parte dei coetanei dei figli. Essi, genitori, hanno una responsabilità indeclinabile che è quella di dare conto ai figli delle ragioni per cui li hanno messi al mondo e per cui alla fine, tutto considerato, valga la pena di viverci. In mancanza di questo si ha una condizione filiale ipotecata dal sospetto di essere figli del caso; non tanto perché materialmente generati senza una lucida intenzione e un preciso programma, ma figli del caso perché in fondo non accolti dentro un mondo ospitale; a cominciare da quello familiare che fondamentalmente li avrebbe subiti come prodotti del caso. Un genitore, anche solo ex post, deve esibire queste ragioni: nel momento stesso in cui si stringe matrimonio, infatti, virtualmente ci si dispone a mettere al mondo dei figli e già si è considerato che ne valga la pena! Ciò si traduce in un rapporto di responsabilità educativa nei confronti dei figli: dare loro conto di averli generati nell'amore. Da ultimo, il tutto dentro l'orizzonte dell'amore familiare: le regole e i ruoli acquistano senso solo in seno ad un patto di amore irriducibile, quale che sia l'evento che dovesse venire a turbare o anche a minacciare la vita di ciascuno dei suoi membri. Anche in presenza dell'evento più tragico, del tradimento più doloroso, non deve mai rompersi questo fondamento d'amore. In altri termini: un figlio deve poter sapere che, quale che sia l'errore che dovesse commettere, quel patto non si recide mai. Questa è, secondo me, la condizione delle condizioni. La legge ( civile, morale ) impone obbedienze: come coniuga questa obbedienza con la coscienza " ultimo giudice "? La legge morale è scritta nel cuore della persona umana, cioè nella sua sfera più intima e profonda; quindi, qualora fossimo educati a decifrare i dettami o le prestazioni della coscienza, dovremmo essere rassicurati circa la nostra coerenza con la legge morale. La legge civile, a sua volta, è subordinata alla legge morale dal punto di vista assiologico, anche se la stessa legge civile giusta custodisce un valore, quella del " patto di convivenza ". Questo conduce ad una tesi che, secondo me, restringe il campo della pratica e della fecondità dell'obiezione di coscienza: quand'anche, sulle prime, uno non avesse la coscienza certa che una legge civile è manifestamente giusta, avrebbe il dovere dell'ossequio a quella legge non fosss'altro perché nella legge è in qualche modo virtualmente iscritto lo stesso patto di convivenza. Un valore che trascende il consenso o il dissenso puntualmente espresso dalla coscienza sul contenuto di quella legge. Mi pare un rilievo importante, perché non si introduca un indice di soggettività al limite dell'arbitrarietà nell'ossequio alla legge civile. Non basta che uno abbia l'impressione o il sospetto che una legge sia ingiusta, deve avere la certezza o la quasi certezza che essa sia manifestamente ingiusta. In caso contrario, deve avere cura di custodire il valore iscritto nella ratio della legge, vale a dire che il bene superiore dello stare insieme in una comunità regolata dalla legge è tale per cui si può anche accantonare, almeno provvisoriamente, il sospetto che quella specifica legge sia ingiusta. In altre parole: se si introducesse il principio o almeno l'abitudine a sottrarsi all'ossequio alla legge solo a ragione di un sospetto di ingiustizia, cioè se si avesse una dilatazione a dismisura della pratica dell'obiezione di coscienza, si potrebbe arrivare a una posizione virtualmente anarchica. Vivere da laico i consigli evangelici non è facile: sente di avere aiuti sufficienti dalla comunità credente in termini di proposte spirituali? Vorrebbe altri aiuti? Farei un'osservazione, prima di passare alla comunità. Per quel che mi riguarda, patisco la condizione e il travaglio del " laico impegnato ", del quale si dice abitualmente che deve forgiarsi anche alla pratica dei consigli evangelici dentro il servizio e deve semmai esplorare le risorse formative del servizio stesso. In verità, al di là della formula molto suggestiva, ed anche sotto un certo profilo sacrosanta, certo non si da la formazione da un canto e la testimonianza e il servizio dall'altro. Ci si forma servendo: questo vale per il presbitero, per il religioso e per il laico. Al di là della formula, di per sé, ripeto, ineccepibile e suggestiva, personalmente ho patito e patisco un difetto di tempo e di energie da dedicare alla mia autorigenerazione; dedico poco tempo e poche energie a me stesso: subissato dagli impegni, finisco un po' per inaridirmi, per non riservare alla mia vita interiore, spirituale, quei tempi e quella dedizione che invece sarebbero augurabili. Sento il rischio di una propensione ad esaurirmi psichicamente e spiritualmente dentro un servizio assorbente. In questo senso la responsabilità è soltanto mia. Per quanto riguarda gli eventuali aiuti da parte della comunità cristiana, a mio modo di vedere, riscontro questi limiti: da un lato, sbagliando, la comunità pregiudizialmente pratica sconti sulla radicalità evangelica, che, nelle forme debite, andrebbe prescritta a tutti. Sconti che non sono frutto della cristiana comprensione per le debolezze delle creature umane, ma unicamente - come dicevo - della pregiudiziale rinuncia ad esigere la radicalità evangelica; cioè a dare una risposta nel segno della totalità al " caso serio della vita ", consegnandola - oppure negandola - a Dio. E dall'altro il limite di by passare - come si usa dire oggi con vocabolo brutto ma efficace - la secolarità. Questo è, secondo me, il paradosso della proposta e della prassi cristiana. Che da un lato è avanzata banalmente come una proposta tra le tante, non avendo il coraggio e l'entusiasmo di mostrarne la singolarità irriducibile alla pluralità delle proposte di cui è prodiga la civiltà contemporanea. D'altro canto, si tende a by passare la secolarità, ispirandosi ad un'idea di radicalità evangelica che attraversa la secolarità senza praticare sconti, ma conferendo una coloritura, un'inflessione particolare quale si chiede a coloro che vivono, come dice il Concilio Vaticano il, " implicati in tutti e singoli i doveri e affari del mondo ". Si registra, in altri termini, una sorta di schizofrenia. Tutto ciò è dovuto, a mio parere, sia al fatto che in certo senso la spiritualità cristiana è ancora connotata dallo stile monastico, sia alla circostanza che noi laici stessi non abbiamo collaudato modelli così esemplari e così attraenti da fare tradizione, nella comunità cristiana, ai quali si possa attingere. Perché è anche plausibile che i pastori, oltre una certa soglia, non possano elaborare una secolarità cristiana: dobbiamo farlo noi! Riprendiamo i medesimi temi - come si vivono in pratica castità, povertà e obbedienza - ponendo domande alla laica consacrata. Errebì Come definisce, nella sua realtà vocazionale di laica consacrata, i " consigli evangelici "? Secondo me sono la strada maestra per vivere la carità. Il Signore dice: " Siate perfetti come è perfetto il Padre ". Come si arriva alla perfezione? Avendo un " interesse forte " per il Signore, e quindi facendo una scelta totale ed irrevocabile per Lui: gli dò tutto di me, il mio tempo, le mie energie. Da qui nasce il riconoscermi povera, perché creatura del Signore. Ma prima ancora, proprio perché mi rapporto a Lui, riesco a capire che ho bisogno di Lui, che mi aspetto da Lui qualcosa. Quindi, la povertà si situa prima di tutto nel mio essere e poi nella capacità di dare. Anche l'obbedienza è frutto di questa scelta: perché non posso fare a meno di cercare di cogliere la Sua volontà. È una specificazione, in sintesi, del comandamento dell'amore. Quali difficoltà incontra nel vivere i " consigli evangelici "? Quale peso ha la nostra attuale cultura sulle difficoltà da lei denunciate, ammesso che ve ne siano? Soprattutto nel mondo di oggi, nel quale i valori sembrano sovvertiti, nel quale sono valori la ricchezza, la potenza, l'immagine ecc., dire nei fatti " Signore, ho bisogno di Te … " e per questo non mi metto in mostra, corrisponde all'andare ogni momento contro corrente, a ricordare che in fondo la realizzazione della mia vita non è il possedere molto … È un andare controcorrente dentro di sé, prima ancora che nei riguardi della mentalità dominante. Ciò esige un lavorio interiore che un tempo si chiamava ascesi, un richiamo continuo ai principi di fondo. Un'altra difficoltà che avverto fortemente, è l'essere continuamente immersa nel frastuono: il silenzio non esiste più. Invece per far emergere e conquistare i valori c'è bisogno di silenzio, di interiorità e soprattutto di spazi che ogni giorno ciascuno è costretto a ritagliarsi a fatica. Da questo punto di vista, la mia vita di laica consacrata è molto diversa dalla vita in un monastero. Perché là c'è una campana che suona, che richiama … c'è una organizzazione di vita - magari faticosa da accettare - che aiuta, anche attraverso costrizioni. Nella situazione di laica consacrata, invece, ogni giorno occorre darsi una regola di vita, tenendo conto appunto delle cose troppo frastornanti. Siamo immersi in una cultura che esalta una sessualità tutta " gridata ", giocata soltanto fisicamente; siamo di fronte ad una mentalità in cui non si parla di povertà, che è vista come miseria quindi come una vergogna da cui riscattarsi; viviamo in un mondo nel quale l'obbedienza corrisponde a essere " pecore " che seguono acriticamente un leader. Come tutto questo influisce sul suo vivere casta, povera, obbediente? Ha un impatto profondo. Sono convinta che siamo figli del nostro tempo e che in certo modo tutti contribuiamo ad esprimere una cultura. E, di contro, la cultura in cui ci muoviamo permea in qualche modo il nostro essere; o per lo meno tenta di influenzarlo profondamente. Occorre, allora, sempre interrogarsi sulle scelte di fondo, che non sono fatte una volta per sempre! Le sbavature, l'" uomo vecchio ", lo portiamo dentro, quindi è molto facile sul piano pratico trovare quelle compensazioni o quei piccoli attaccamenti che possono essere anche alle cose materiali, non soltanto alle persone. Decisioni apparentemente poco importanti, che fanno però deviare dai " consigli ". Questi sono fatti all'ordine del giorno: sono le continue tentazioni che abbiamo e che effettivamente sono da tenere a bada. Secondo me, vi sono verifiche e scelte da compiere, in modo diverso, per ogni stagione della vita: ci sono difficoltà che si incontrano a vent'anni che sono superate dall'età matura; ma ci sono difficoltà che si vivono anche a cinquanta, sessant'anni. Avere segnata la vita dai " consigli evangelici " induce ogni consacrato o consacrata a chiedersi quale significato abbia viveri! nell'oggi storico. Non è una conquista che si attua fin dall'inizio, quando si è compiuta la scelta e dopo aver cercato di approfondirne, anche da un punto di vista teologico, il significato per ciascuno di noi. Oggi, guardando alla mia vicenda, sento che, sempre più, mi devo interrogare sul significato attuale di una vita così impostata, in una situazione, in una realtà del tutto laica, in cui mi capita di essere invitata ad uno spettacolo, ad una manifestazione, ad assumere impegni … Mi chiedo: cosa vuol dire in tale contesto vivere i " consigli evangelici "? Perché questi vanno vissuti nel cuore delle situazioni, senza autocensure, esercitando però un discernimento, secondo il quale si deve trovare il coraggio di fermarsi e di dirsi anche " non è il caso ". Il discorso di povertà, allora, diviene la capacità di saper usare i beni di qualunque natura siano, non soltanto privarsene. Un uso che deve sapersi mettere dei limiti. Nella società in cui viviamo, questo sembra essere quasi impossibile: lo spreco di beni e di persone sembra essere illimitato. Così, per entrare nel campo pedagogico, l'immagine che forniamo ai giovani è quella di poter fare tutto, desiderare tutto, essere padroni di tutto, anticipare sempre i tempi. Invece, la sequela di Cristo fa intendere che ciò non è vero, che non si deve aspirare al tutto delle cose, ma al tutto che è Lui. Nella nostra cultura si è anche insinuato sottilmente un senso di onnipotenza, di indipendenza da Dio. È una difficoltà che vivo soprattutto quando mi ritrovo in situazioni così grandi per cui il mio desiderio di essere d'aiuto ( che, secondo la mentalità corrente corrisponde all'essere in grado di risolvere tutto ) è frustrato dal riconoscere che non ce la faccio. Non scoraggiarmi, rimanere nella situazione e riuscire a capire che soltanto avendo fede nel Signore della storia è possibile andare avanti, è per me una difficoltà, un esercizio ascetico. Ho bisogno di razionalizzarlo e di ripensare, perché altrimenti potrei cadere nella tentazione di abbandonare tutto o di accodarmi ai malumori, ai mugugni generali. Vivere i consigli evangelici anche nelle situazioni difficili credo che corrisponda a fare il salto di fede e dire " non sono io che salvo il mondo: e solo testimoniando il vero Salvatore, comunque, contribuirò a che il mondo si salvi ". Un religioso o una religiosa hanno - nei confronti del mondo - la protezione del convento, della divisa. Un laico o una laica consacrati non usufruiscono degli stessi schermi: non è che questo, anziché essere uno svantaggio, mette in condizione di essere più vigilanti? In fondo, la protezione ( del convento, della divisa ) può far credere di essere automaticamente al di fuori delle logiche del potere e quindi far abbassare automaticamente la guardia? Penso che psicologicamente ciò sia vero. Senza generalizzazioni sciocche, si può dire che qualche volta l'istituzione può diventare una sorta di alibi, con il quale scaricare la coscienza personale. Credo poi che effettivamente ai religiosi o alle religiose in qualche modo manchi dell'esperienza all'interno delle situazioni. Ciò senza colpevolizzare nessuno. Ritengo poi che, nel considerare i " consigli evangelici ", oggi partiamo sempre da un punto di vista sbagliato, cioè dalle cose, dalle situazioni. Mentre, secondo me, si tratta invece di partire dal Vangelo. Perché non è vero che il problema grosso della castità siano - per fare un esempio - i così detti " atti impuri " … Perché se sono convinta che il mio cuore è dato al Signore, ogni mio interesse fa perno su di Lui. Ciò significa, da un altro punto di vista, che anche quella persona che mi è cordialmente antipatica e che potrei evitare con facilità, perché ho l'alibi ( ma sottolineo l'alibi ) di mille impegni, deve invece essere da me considerata, visitata … Questo è, secondo me, il vero significato della castità: non soltanto evitare rapporti che possiamo chiamare " disdicevoli ", ma pensare ( e quindi agire conseguentemente ) che ogni rapporto fra le persone è la mediazione storica dell'unico rapporto con il Signore. E che per essere casti non bisogna soltanto dire " no " a certi coinvolgimenti, ma dire " sì " a ogni richiesta di aiuto, di servizio … È un concetto difficile da riconoscere come vero e far passare. Quando ha intrapreso il suo cammino vocazionale, quando cioè ha aderito ad un programma di vita che faceva perno sui " consigli evangelici ", quali indicazioni le sono state di maggior aiuto nel comprenderli, prima, e nel viverli poi? Sono stata particolarmente fortunata perché, agli inizi del mio cammino, ho trovato un consigliere spirituale che è forse poco definire di prim'ordine, che nello stesso momento stava approfondendo una ricerca specifica di teologia spirituale. Quindi sono stata aiutata a vedere i " consigli " in tutte le loro implicazioni. Dall'inizio, sono stata quindi indotta a cercare i valori più profondi e poi a tirare le conseguenze di una tale ricerca. Anche il radicamento nella secolarità consacrata, l'ho tratto dall'insegnamento avuto e di cui sono molto riconoscente. A me pare che l'istituto mi abbia fornito aiuti molto validi su due piani: prima di tutto, in ordine alla specifica vocazione; poi con la sollecitazione a utilizzare tutti gli aiuti che posso ritrovare anche altrove ( il che è altrettanto prezioso ). Ad esempio, da qualche anno frequento come uditrice una facoltà teologica, perché sento l'esigenza di un approfondimento permanente. Ciò che, secondo me, oggi si presenta come un problema importante, nell'istituto secolare al quale appartengo, è la possibilità o il coraggio - se lo vogliamo chiamare così - di fare un salto di qualità e di stimolarci a dire: nei nostri incontri, non possiamo continuare soltanto con le definizioni teoriche - che peraltro non perdono la loro utilità - ma occorre anche che essi diventino una specie di palestra in cui ciascuna possa liberamente esprimere la propria opinione, il proprio sentire intorno ad un problema, sapendo di essere in una sorta di zona franca. In altre parole, dovremmo sentirci libere di dire anche una sciocchezza, con la tranquillità di non essere giudicate, ma semmai di essere aiutate a capire di più e meglio tramite i caritatevoli meccanismi della correzione fraterna. Vorrei che fossero abolite le definizioni senza appello ( ovviamente sull'opinabile ): vero, falso, giusto, sbagliato. Amerei che si dicesse, con pazienza: ragioniamo insieme alla luce dei nostri principi. Se questo non avviene - lo affermo a costo anche di sconcertare un poco - la domanda successiva potrebbe essere: a che cosa serve l'istituto? Perché, se io non responsabilizzo l'istituto - che comunque raggiunge il suo scopo anche per il solo fatto di fornirmi indicazioni, una strada - mi pare che si perda il senso di un accompagnamento nella vocazione, che credo stia proprio nel " costringermi a dire ". Nel nostro tipo di comunità - veramente un po' particolare, una comunità di fede, in diaspora, dove non si vivono insieme che pochi momenti particolari - finiamo sempre per confrontarci sul dire e poco sull'essere, perché ci manca lo scambio quotidiano ( da questo punto di vista, i religiosi hanno vantaggi diversi ). Credo che molte volte, certi nostri comportamenti possono contrastare con il nostro dire, e non ce ne accorgiamo neppure! Più ciascuna di noi si rende capace di riprendersi in mano, di rivedere e dare parola al proprio comportamento ( ma con la fiducia che chi mi ascolta, mi corregge anche, ma non mi giudica ), più ci allontaniamo dal rischio di fare soltanto degli esercizi accademici, delle belle conferenze che oggi però non tengono più. Capisco che ciò sia difficile, anche perché, oggi come oggi, il nostro istituto ( uno dei primi ad essere fondati ) ha in sé anche tante persone anziane, che farebbero - ed è logico che sia così - troppa fatica ad accettare un cambiamento tanto importante nello stile di vita. Una " sorella " anziana ha anche paura di perdere alcune occasioni di vita insieme, sia perché sono fra i pochi momenti di vita di relazione che ha, sia perché - e di questo dobbiamo dare atto ad una formazione fornita in passato - è forse più disponibile a ricevere che a dare e a rimettersi in discussione. Le più giovani d'età, hanno invece un grande bisogno di confronto e poca pazienza nel recepire quelli che sono i principi fondamentali. Mettere insieme le due tensioni è senza dubbio molto difficile: credo che però sia necessario tentarvi sempre, perché si dovrebbero trovare aiuti nella comunità ecclesiale: è un fatto, però, che quanto ci viene offerto oggi non è sufficiente. Pensa che oggi i giovani vivano le sue stesse difficoltà? Oppure quali altre? I giovani hanno intuizioni molto valide; uso di proposito il sostantivo " intuizioni " dato che mi sembra manchino di un substrato solido, perché hanno ricevuto più informazioni che formazione. Ciò sia pure in presenza di una maggiore cultura, che perciò richiede discorsi più raffinati. Mancano di una formazione di base, solida; e soprattutto mancano di costanza. Ciò è probabilmente dovuto anche ad un itinerario scolastico in cui si esalta il cambiamento per il cambiamento. Stai un momento e poi, se non ti piace più, cambi indirizzo. Nella vita, anche in quella familiare, si deve arrivare ad una scelta che ha una sua definitività perché si deve crescere. In altre parole, non è la stabilità fine a se stessa, ma la stabilità come base per una crescita personale. Oggi, forse, si perviene alla stabilità per inerzia, per desiderio di potere, per tanti motivi diversi dall'unico valido: farne una pietra angolare sulla quale costruire o una piccola capanna o un grattacielo, non ha importanza, dipende dai doni di ciascuno. In questo credo che i giovani d'oggi siano veramente svantaggiati rispetto alle generazioni precedenti. Uno svantaggio culturale che si riflette in ogni situazione, anche quella matrimoniale. Se oggi assistiamo a fallimenti addirittura dopo pochi mesi di vita in comune, un motivo deve pure esserci. Credo che se non riusciamo a far capire, fin da bambini, che il sacrificio è un valore, che si può fare qualcosa che al momento non piace, ma che serve per costruire il futuro, andremo incontro sempre a questa sorta di " fallimenti ". Occorre riprendere in considerazione l'ascesi, come valore anche " laico ", non soltanto religioso. A mio giudizio, però, la situazione non è affatto disperata. Mi pare che la riprova possa essere trovata in questa considerazione: mentre qualche anno fa, anche nelle riunioni degli " addetti ai lavori della formazione " non si poteva parlare di " educazione ", pena trovare un rifiuto, un raggelamento dell'uditorio, da qualche anno a questa parte i giovani cominciano a chiedere indicazioni. C'è una richiesta di confrontarsi con persone che hanno sperimentato e che offrono testimonianza sulla base della propria sperimentazione. Oggi non si può partire dalle definizioni assolute, ma occorre un lavoro " induttivo ", che a partire dall'esperienza arrivi a far emergere i principi, i valori di fondo dai quali l'esperienza è governata, sostenuta. Occorre, cioè, costruire insieme. Questa è la speranza, che - d'altra parte - dice quale responsabilità abbiamo come adulti, possessori di un'esperienza che deve essere messa a disposizione. Credo che una delle caratteristiche - e che diventa poi un dono per l'istituto - sia di avere eterogeneità di presenze e di carismi. Il senso dell'istituto dovrebbe essere di utilizzare tutti i doni esistenti. Questa, del resto, è un'altra caratteristica della laicità consacrata. A volte viene fatto notare che un consacrato/a colmano le frustrazioni che deriverebbero da una vita casta, povera e obbediente, esercitando forme subdole e sottili di " potere ": circuendo affettivamente e rendendo dipendenti da sé altri ( contro la castità ), conquistando ruoli prestigiosi ( contro la povertà ), rifiutando magari responsabilità ( contro l'obbedienza alla vita ). Secondo lei queste accuse tengono anche in linea generale? O si tratta di casi isolati, indebitamente portati ad essere considerati la generalità? Diciamo che queste sono autentiche tentazioni dalle quali occorre sempre guardarsi con molta attenzione. E soprattutto per combattere le quali occorre un costante confronto, una verifica che non possiamo condurre ciascuna per proprio conto. Credo che, per quanto riguarda l'obbedienza in particolare, mettere il nostro progetto al posto di quello di Dio sia facilissimo. * * * I " consigli evangelici " nella globalità e l'unità della persona umana Questa terza batteria di domande tende a mettere a confronto, in certo senso, l'unità della persona con la pratica dei consigli evangelici. Ancora un passo nell'azione di scandaglio che dovrebbe aiutarci a costruire un profilo per entrambi gli stati di vita. Le domande sono quasi simili per le due diverse esperienze: iniziamo, come sempre, dal laico sposato. Franco Monaco Ritiene i consigli evangelici mezzi per " crescere in umanità "? La pratica dei consigli evangelici rappresenta una via alla concentrazione dentro una vita e una civiltà dissipate, cioè inclini non al raccoglimento intorno ad un centro unificante, ma alla alienazione. Sono uno strumento utile alla dilatazione degli orizzonti della vita, nel senso che dischiudono prospettive, valori e anche la considerazione di problemi altrimenti esclusi da un orizzonte più angusto. E infine è una via all'intensificazione e alla qualificazione delle relazioni interpersonali. In sintesi: una via alla concentrazione sull'essenziale, una dilatazione degli orizzonti sia in termini di considerazione dei problemi, sia in termini di valore; una via all'intensificazione e alla qualificazione delle relazioni interpersonali. Da questi tre punti di vista si può dire che i consigli evangelici rappresentano un indubbio e importante motivo di arricchimento della nostra umanità. Ritiene proponibili anche ad altri questi motivi? Senza la luce della fede e senza il supporto della Grazia mi pare piuttosto improbabile l'accesso alla pratica dei consigli evangelici, almeno nella loro pienezza. Forse si può immaginare l'accesso a qualcosa che loro assomiglia: poniamo la sobrietà di vita, il rispetto nei confronti dell'altro, la misura, l'equilibrio, la dedizione eccetera. Attingere a quella misura senza misura dell'amore la cui figura più caratteristica è il perdono gratuito e incondizionato, è piuttosto problematico per chi non ha il supporto della fede e della Grazia. Se l'accento va sul " proponibili ", ritengo che vi sia una via sola per dischiudere questi orizzonti a chi non crede, che è la via testimoniale: solo l'attrattiva che potrebbe esser esercitata da genuini testimoni può almeno lasciare intravedere la suggestione di questi orizzonti. Come influiscono sui suoi rapporti con i familiari? Con il prossimo in genere? Mi riesce difficile dare nome specifico alle forme attraverso le quali dovrebbero manifestarsi. Ciò dovrebbe accadere dentro il tono evangelico e la qualità e l'intensità delle relazioni affettive intrafamiliari. Devo dire però, che il mio problema è di dedicare troppo poco tempo alla famiglia e, soprattutto, di non ascoltarne sufficientemente gli altri componenti. Il problema dell'ascolto dentro la vita familiare, ma non soltanto, anche nella vita di relazione tout court, è uno dei massimi nella vita d'oggi. È adesso la volta della laica consacrata: è interessante confrontare le risposte ( qui è sufficientemente facile, dato che le domande sono assai simili quando non uguali ) e mettere in luce le singolari affinità. Errebì Ritiene i " consigli evangelici " mezzi per " crescere in umanità "? Per quali motivi, essenzialmente? Concepire la vita come un dono fa veramente realizzare la piena umanità. Se davvero, il consacrato, la consacrata sono un dono per l'" altro ", non sono invadenti, ma fanno in modo di essere desiderati ed accettati, allora davvero diventano una " forma di umanità " comprensibile anche dal prossimo. Anche la discrezione diviene una qualità: talvolta è più difficile fermarsi, che continuare a dare. Credo che parimenti - ed entra in gioco il discorso della povertà - sia anche del tutto corretto educarci a saper ricevere; e non soltanto dal Signore! Riuscire a capire che cosa significa saper ricevere senza pretendere è un esercizio che davvero permette a ciascuno di crescere. Ci si può trovare in solitudine, una situazione umana generale, non soltanto del consacrato. La reazione può essere di diverso tipo. Posso soffrire doppiamente per questo stato a causa di due motivi: perché rimprovero all'altro di non accorgersi di me, poi perché ne " pretendo " la vicinanza; cerco, in sostanza, di avere la calamità per attirare l'altro. Al punto che se arriva accanto a me una persona diversa, non sono soddisfatta, perché ciò non corrisponde ai miei desideri. L'altro tipo di reazione può essere: riconosco la mia solitudine, ne soffro; viene una persona a interromperla, chiunque essa sia, che mi piaccia o non mi piaccia, la accolgo con gioia, ringraziandone il Signore ( ho ricevuto, ma non ho " pretese " ). Se, al contrario, in quel momento nessuno viene a rompere la mia solitudine, riesco ugualmente a vivere, accettando anche la situazione di sofferenza " dalle mani del Signore ". Cercando il parallelo in campo educativo, si può dire: l'educatore offre uno stimolo, sollecita il bambino, ma non pretende nulla e non è lì ad attendere soltanto i risultati. È una sorta di " gratuità " anche nell'insegnamento: ti offro, ma non ti ricatto … L'esempio fatto sul bambino può essere valido, però, anche per misurare tutti i rapporti interpersonali, a prescindere dall'età. Si cresce in umanità, perché si riesce a cogliere le potenzialità di ascolto dell'altro e di noi stessi. Mentre agisco, però, devo avere anche la capacità, lo spazio e il tempo per riuscire a vedere quello che è fatto, prendendo la distanza dalle mie azioni e verificando quanto sono in linea con i miei principi. Se mi passa il paragone, è come il lavoro dello scultore, che trae dal marmo la sua opera: con la coscienza che - come progetto - la statua è opera di Dio. Ritiene proponibili anche ad altri questi motivi? Credo che ciò sia possibile se c'è un terreno preparato. Il consacrato, la consacrata vivono per vocazione un'esperienza di solitudine: che non è proponibile ex abrupto perché si scatenano immediatamente delle difese, si alzano delle barriere. Nel caso in cui si tratti di adolescenti - e la cosa è ancor più delicata - può accadere che questi strumentalizzino la solitudine. Sono dimensioni e modalità da tenere presente nell'accompagnamento del cammino vocazionale, con riferimento a tutte le vocazioni. Secondo me, la solitudine è avvicinabile al silenzio inteso come capacità di stare con se stessi. La solitudine è il momento in cui sto con me stesso o il momento in cui io mi sento mia? Perché se la risposta è " saper stare con se stessi ", è positivo, non si va in crisi, non ci si trova nel vuoto, nel nulla: al contrario, si ritrova se stessi. Se invece il discorso di solitudine è vissuto a livello superficiale, addirittura di " possesso " di sé, diviene pericoloso perché la risposta è il vuoto. Questo è gravissimo perché di fatto la persona umana è sempre in relazione ( con le cose, con le situazioni, con le altre persone ), vive di comunicazione. Di per sé, la persona umana non dovrebbe essere sola. Si sente sola quando si isola. Un punto, da tener presente nell'itinerario formativo, è che la solitudine è un prodotto del tutto nostro: siamo noi ad isolarci, non è vero che gli altri ci isolano. Scavando ancora si può arrivare ad applicare questa considerazione anche ad un traguardo, ad un momento della vita che la cultura oggi scaccia dal proprio orizzonte, cerca di esorcizzare: la morte. Che può essere considerato il più alto momento di solitudine ( che la fede riempie però della misteriosa presenza di Dio ). La morte è oggi rifiutata anche perché manca un sano e solido rapporto con la solitudine. Anche a partire dalla vocazione alla secolarità consacrata, quando diciamo che per ogni età dobbiamo trovare " il pane da dare ", è da mettere sotto la lente di ingrandimento il capitolo di come aiutarci a morire: facciamo fatica a fare questo discorso, che è invece estremamente importante. Un tempo eravamo sostenuti anche da un costume corrente e diffuso che includeva, nei suoi orizzonti, l'ars moriendi. Nel momento in cui la mentalità corrente rifiuta dolore, decadenza fisica e morte, affrontare invece il problema può diventare il segno distintivo, lo specifico di una comunità che sia tale: perché la comunità è tale se ti accompagna per tutta la vita. Una comunità sensibile, anche se ciascuno vive per suo conto. La persona che vive i " consigli evangelici " nella spiritualità laicale è " segno " escatologico perché " dice al mondo " questi valori universali e trascendenti, nel trattare le realtà temporali Siamo al completamento del profilo: siamo cioè davanti alla globalità di persone che, con la loro vita, comunicano - e tentano di comunicare - valori che li trascendono. Anche questa volta possiamo constatare - data la perfetta sovrapponibilità delle domande specifiche - le singolari coincidenze. Cominciamo dal laico sposato. Franco Monaco Può dire, con semplici parole, come questa affermazione ( La persona che vive ecc. ) si concretizza nella sua quotidiana esperienza? Sintetizzerei la mia risposta con quattro sostantivi: passione, distacco interiore, totalità, umorismo. Passione: la " persona ecc. " deve essere uno che vive e vive intensamente, che interpreta e apprezza la vita come un'esperienza grata e promettente. Contestualmente e dialetticamente, è uno che vive il distacco, la libertà interiore, la propensione a distinguere tra valori ultimi e valori penultimi; e quindi anche la misura di distacco nel trattare le realtà temporali. Ancora, la totalità ( non ostentata ), cioè la propensione a giocarsi integralmente dentro la vita, consapevole che essa è bella ed appassionante, ma è anche un affare serio. E infine l'umorismo: consapevole alla fine, che la vita è una cosa seria, o meglio, si concentra intorno ad un caso serio, essendo tutto il resto relativo, ci si introduce all'umorismo, che - secondo me - è caratteristico di chi, dopo essersi giocato integralmente, sa che però sostanzialmente tutte le situazioni sono relative e quindi fa bene alla salute del corpo e dell'anima stabilire una qualche distanza e non prendere soprattutto se stessi, troppo sul serio. Questi sono, secondo me, i registri che dovrebbero trasparire dalla persona che vive la dimensione escatologica e che, insieme, stabilisce la distanza e anche l'intensità nella partecipazione alla vita. Quali difficoltà incontra nel vivere quotidiano? I rapporti interpersonali le sono d'aiuto o di impedimento? I rapporti che stabiliamo con il nostro prossimo sono, per lo più, relazioni di tipo funzionale, ahimè, anche nella Chiesa; cioè strettamente inerenti a " parti in commedia " che ciascuno di noi recita nella vita in genere, in quella civile, ma anche in quella ecclesiale. Poi si danno rare esperienze di genuina amicizia - in tutte le sue accezioni - che sono quelle obiettivamente più edificative, là dove ci si rapporta all'altro in ragione dell'apprezzamento per la singolarità irripetibile della sua persona e quindi là dove lo scambio è più intenso ( ma sono, purtroppo, esperienze rare ). Si da, poi, qualche più raro caso di autentica fraternità, là dove, entro una trama di rapporti amicali, si innesta anche la comunicazione nella fede, cioè uno scambio ancor più intenso e intenzionalmente finalizzato alla reciproca edificazione nella fede, allo sviluppo della maturità cristiana di ciascuno. Purtroppo queste ultime sono esperienze un po' circoscritte, mentre invece dovrebbero interagire con quella rete di rapporti eminentemente funzionali. Come molti, anch'io vedo con chiarezza la meta, ma poi francamente non riesco a raggiungerla. Gli aiuti spirituali che riceve dalla comunità le bastano? Vorrebbe qualcosa di più o di diverso? Che cosa? Se devo essere sincero, ho ricevuto tanto dalla comunità, che per me poi ha nomi e volti precisi, quelli di alcuni sacerdoti e di alcuni laici; il nome della parrocchia e dell'oratorio in cui sono cresciuto e il nome anche dell'Azione cattolica che tanto mi ha dato. Sarei ingeneroso se dovessi affermare che non ho ricevuto aiuti. Anzi, credo di dover dare conto di averne avuti anche troppi e di non averne fatto tesoro. Tuttavia, devo dire che oggi sento l'esigenza di un rapporto più intimo e personale con la comunità cristiana, perché la mia esperienza di vita di lavoro e di volontariato in vari campi, ha molto compresso i tempi e le occasioni per la mia autorigenerazione. La mancanza di rapporti rigeneranti dipende certamente da un mio attivismo febbrile, dal tempo scarso e dall'alienazione di cui anch'io mi sento vittima. Devo rivisitare criticamente l'equilibrio della mia vita, la distribuzione dei tempi di cui si compone stretto come sono tra famiglia, lavoro e impegni extra professionali e extra familiari, ripristinando un più sano e più umano equilibrio. Mi sento, infatti, un testimone abbastanza eloquente di quelle anomalie e distorsioni che si producono presso i " laici impegnati " e alle quali ho già accennato. È ancora il turno della laica consacrata: anche la nostra Errebì si cimenta nell'arduo compito di osservare - quasi fosse testimone esterna - la sua vita per ritrovare in essa i segni della testimonianza evangelica esplicita. Errebì Può dire, anche lei, con semplici parole, come l'affermazione " La persona che vive i 'consigli evangelici' nella spiritualità laicale è 'segno' escatologico perché 'dice al mondo' questi valori universali e trascendenti, nel trattare le realtà temporali " si concretizza nella sua quotidiana esperienza? Credo che - a partire dalla mia esperienza personale - quella data sia una definizione compiuta, che sento vera anche per me come ideale a cui arrivare. Mi impongo però di non misurarla, perché nel momento in cui mi dovessi chiedere " ma gli altri mi hanno visto come 'segno' … " avrei paura di mettermi una maschera. Invece credo che il discorso vero riguardi la tensione che ho dentro, che continuamente cerco di far arrivare nelle mie azioni … E poi gli altri vedano quello che possono vedere! Non mi pongo tante domande sugli altri perché - ripeto, anche se capisco che forse è un mio limite - avrei la preoccupazione di agire in un certo modo " perché devono vedere ". Il mio intento è invece agire " per il Signore ", non perché gli altri debbano " vedere ". Se poi il prossimo percepisce " qualcosa " - e debbo dire che nella vita a volte mi è capitato di accorgermi che gli altri leggevano " qualcosa " nella mia vita - ringrazio il Signore, ma non mi fermo, ovviamente. Ricordo una volta, una collega con la quale lavoravo in una amministrazione, e con la quale non c'erano affinità. Ad un certo punto questa persona si è trovata davanti ad un problema molto grosso: ho cercato di esserle vicina, da cristiana. Un giorno ho trovato sulla mia scrivania un quadretto di soggetto religioso con un bigliettino: " Io non sono capace di pregare, prega tu per me! ". La circostanza mi ha commossa moltissimo, perché ciò significava che, al di là di tutto quanto poteva separarci sul piano professionale, di ideali ecc., aveva colto che le volevo bene. Questo, se vogliamo, è uno dei famosi " segni ". Ne ho ringraziato il Signore. Ed il mio impegno è stato di continuare a volere bene a quella creatura. Quali difficoltà incontra nel vivere quotidiano? I rapporti interpersonali sono d'aiuto o di impedimento? È chiaro, anche per quanto detto sopra, che i rapporti col prossimo sono di grande aiuto. La domanda si pone, semmai, quando i rapporti sono con persone o fatti sgradevoli. Il vecchio Adamo lo portiamo sempre con noi; capita che, in situazioni particolari, riusciamo a tornare sui nostri passi, riusciamo - solo dopo aver " sbottato " - a ricordarci l'episodio evangelico dell'incontro di Gesù con il giovane ricco, in cui il Signore prima ancora di intessere un dialogo, ama quel giovane che gli si para davanti. Abbiamo limiti, nessuno è così padrone di se stesso da riuscire a cercare di capire prima di giudicare. Non sempre riusciamo ad essere " evangelici ", anche se mi dico che nel rapporto interpersonale impariamo anche dagli errori. Qualche volta il vederci limitati come tutti, diventa per chi ci è accanto un motivo di unione. Questo non per trovarci giustificazioni, ma per dire che non siamo dei " surgelati ", dei superuomini, delle superdonne. È importante saper dire grazie anche agli altri, quando impariamo da loro. Ho un'esperienza consistente con i ragazzi handicappati: davvero quello che si impara da loro è tantissimo. Non è sempre facile ringraziarli, perché bisogna trovare le forme per riuscirvi. Però lo sento molto vero. Più affiniamo la nostra capacità di ascolto e di attenzione, più ci accorgiamo che dagli altri impariamo molto. Ecco allora che la terribile espressione " segno escatologico " non è soltanto in quello che io dò, ma anche in quello che so ricevere. Sostanzialmente, il " segno " è quello di un amore, la carità di Dio, che è sempre presente. Ringrazio dal profondo Dio, allora, quando so esserne il veicolo; e Lo ringrazio quando ritrovo la medesima qualità negli altri. Gli aiuti spirituali che riceve dalla comunità cristiana ( se ne riceve ) le bastano? Vorrebbe qualcosa di più o di diverso? Chiederei una maggiore attenzione allo " spirituale ", inteso come forte richiamo al Signore, mentre sento questa comunità cristiana ancora troppo distratta dall'organizzazione, dalle cose da fare. In essa trovo anche il pericolo di un certo subdolo formalismo: per cui se siamo in gruppo compiamo alcune azioni, diciamo alcune parole; poi non ci chiediamo nella vita quotidiana, se siamo davvero coerenti, se viviamo davvero secondo lo stile evangelico. Credo - è un'ipotesi che faccio - che se insieme ci aiutassimo a riprendere in mano il Vangelo ( ed è in questo senso che intendo lo " spirituale " ), ponendoci fortemente l'interrogativo di come dobbiamo viverlo oggi, nella nostra concreta situazione; in questo modo - allora - ci daremmo un aiuto reciproco; voglio dire, con gli altri tipi di vocazione chiamati a percorrere, sia pure con modalità diverse, il medesimo itinerario di santità. Al vaglio delle esperienze di Maria Canepa Consigli evangelici professati e vissuti nel mondo: un'utopia? una scelta impossibile? una forma di alienazione? L'esperienza vissuta dai membri degli Istituti secolari sembra smentire queste valutazioni e affermare, al contrario, la possibilità di realizzare una radicale sequela di Cristo, in questa forma, nelle normali condizioni di vita. Quello che per secoli era stato privilegio di coloro che seguivano la chiamata a separarsi dal mondo, oggi appartiene a pieno titolo - come sappiamo - anche a coloro che per vocazione hanno scelto di restare nel mondo, seguendo le orme di Cristo che ha voluto incarnarsi nella storia dell'uomo. Si tratta di una scelta certo non facile, che rischia - se non è autentica - di essere scambiata, da coloro che la osservano dal di fuori, per una soluzione di comodo. Essa, invece, proprio perché dettata dallo Spirito, si propone di offrire, per la trasparenza delle motivazioni e per la totalità del dono di sé, una testimonianza profetica dell'assoluto attraverso le quotidiane manifestazioni di una vita comune a tutti. Ma è un cammino tutto in salita. Paolo VI, con finissima intuizione, così lo descrisse in un passaggio - divenuto celebre - di uno dei suoi messaggi ai membri degli Istituti secolari: " Voi camminate sul fianco di un piano inclinato, che tenta il passo alla facilità della discesa e che lo stimola alla fatica dell'ascesa. È un cammino difficile, da alpinisti dello spirito ". Dalle testimonianze raccolte nelle pagine che seguono emerge un vissuto ricco di luci e di ombre, in una trama di gioiose certezze e di umana trepidazione, di slanci generosi e di umile consapevolezza del limite, ma pur sempre nella ricerca quotidiana di una amorosa fedeltà al disegno di Dio sulla propria vita. Le riflessioni ed esperienze che ci vengono offerte sono presentate in relazione ai tre consigli evangelici visti separatamente, secondo lo schema classico, anche se essi non sono che tre aspetti di un unico mistero di carità, come ci indica l'insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II. La selezione dei contributi ha certamente dei limiti, tuttavia può essere ugualmente ricca di stimoli e di provocazioni. Castità Per vivere con autenticità la scelta della castità consacrata è necessario prendere coscienza del dono ricevuto e cercare di coglierne il significato profondo. I contributi che seguono ci presentano due piste interessanti: l'una di verifica sul filo di domande esigenti da porre a se stessi e l'altra di riflessione per una non superficiale ricerca attorno al proprio essere e al proprio vivere. Una mia amica, consacrata, ha deciso di lasciare la consacrazione e di sposarsi. Questo mi ha fatto molto pensare su di me. Posso dire che la mia fedeltà alla chiamata sia stata " anche " costruita da me? che il mio cammino a fianco del mio Signore sia stato costruito da una continua ricerca di unità, di intimità, di comprensione di Lui, di donazione a Lui, soprattutto? Posso dire di essermi preparata a resistere alle tante occasioni che mi possono spingere, mio malgrado, a non vedere più il Signore come il " mio Signore "? Posso dire di aver davvero visto la mia situazione di celibato, di castità, come il dono di Lui che mi dava la sua Vita, il suo Spirito, il suo Corpo, in cambio della mia vita, del mio spirito, del mio corpo, che non sono messi da parte, ma portati a pienezza? Posso dire di aver cercato di crescere sempre più come persona, facendo unità tra il mio corpo ed il mio spirito, senza negare, inibire o accontentare il mio corpo, ma piuttosto facendolo collaborare con la vita dello spirito, per realizzare il mio " essere " di persona globale? Queste e tante altre domande mi si affacciano alla mente. Mi domando se la mia è una " vera " fedeltà, cioè una ricerca del Signore per conoscerlo, amarlo e servirlo, cioè per realizzare la pienezza della mia vita, nascosta in lui, finché la mia vita sarà per sempre in Lui Trinità. Mi domando se la mia vita non sia forse un'abitudine a questo tipo di scelta che ormai mi trovo a vivere, " abbastanza contenta " di essere stata chiamata a vivere così, ma non " entusiasta " di questo dono di me a Lui e di Lui a me. Devo cercare di rispondere a queste domande, non tanto teoricamente ( perché conosco bene tutte le risposte " teoriche " ), quanto nel " guardarmi vivere " per mettere davvero tutte le mie potenzialità a servizio di questa fedeltà. Devo cercare di rispondere a queste domande dialogando con Lui, perché Lui faccia luce, perché Lui mi dia forza e gioia per amarlo al di sopra di tutto, perché Lui prenda possesso di me, rispondendo alla profondità del mio essere, al di là della povertà del mio io, al di là della mia povertà di ogni giorno, perché il mio " essere ", spirito e corpo, è consacrato a Lui. A di M. È importante trovare in sé la realtà che si muove. Ciò presuppone un guardarsi attento, una introspezione educativa. Domandarsi il perché di una cosa è imparare ad andare a fondo, a giustificare le scelte. Per me, conoscere ha costituito sempre una grossa attrattiva, accompagnata però anche da una non ben chiara paura. Oggi le mie paure non sono le stesse di ieri, ma anche nel vivere presente io sento emergere ancora tante difese, allergie, reticenze. Certo non presumo di potermi conoscere fino in fondo. Eppure so che c'è chi conosce la mia identità e me la può rivelare. Il Signore che mi ha donato la vita, mi da anche la possibilità di conoscermi per entrare in relazione con Lui con tutta me stessa. E il suo amore continua a sollecitarmi, ad aprirmi … Qui si innesta il mistero della mia vocazione, la coscienza di ciò che in me si sviluppa nel tempo, il mio andare verso gli altri ricevendo da loro, accogliendo insieme il seme e il frutto della Parola di verità. Pensare, serbare in cuore, ascoltarmi, vivere, credo sia stato e sia tuttora per me il cammino più naturale, laborioso ma illuminante, dove la mia coscienza affiora, si cimenta nell'esperienza del vivere, nella relazione col Signore e con gli altri. Quando queste tensioni non si compenetrano, qualcosa diventa opaco, viene meno il senso cristiano della mia vita, della mia consacrazione. Direi che è cresciuta in me una più cosciente libertà di vedermi, sentirmi, continuare a conoscermi nella manifestazione dei miei sentimenti, come delle inibizioni, insicurezze, fragilità, o anche possibilità, ma senza farmi violenza, accogliendomi. E questo mi dà un senso di gioia e mi apre alla comprensione degli altri. Forse oggi non sono più preparata di ieri, la mia formazione la sento sempre all'inizio, però mi pare di poter guardare dentro di me, e parlare di me, disponibile ad accogliere una confidenza con animo aperto, mentre continuo a cercare la Verità. G.O. - Verona Tuttavia questa presa di coscienza non è scevra da ostacoli, a partire da quelli culturali. Uno dei più comuni riguarda una falsa concezione del valore del corpo, dell'affettività, della sessualità, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano dell'equilibrio psicologico e della vita spirituale. È dunque un'esigenza primaria cercare di superare eventuali " tabù ", per poter parlare con libertà dei problemi che toccano la sfera più intima della persona. Mi sono fermata a riflettere sulla castità consacrata. Secondo me è uno degli argomenti più difficoltosi da trattare: lo è per me, e penso lo sia per molte di noi. Difficile da trattare perché legato all'argomento sessualità di cui non parliamo con facilità o disinvoltura. Siamo abituate per vari motivi a considerarlo un argomento tabù. Difficile perché si ha l'impressione che la sessualità, e per conseguenza la castità, sia un fatto assolutamente personale, tutt'al più un fatto tra noi e Dio, su cui bisogna essere molto ma molto discreti: insomma che non va messo in comune. Per giunta la sessualità è considerata un mistero della persona umana, e i misteri, si sa, siamo portati a liquidarli piuttosto in fretta perché non è facile parlarne, non si capiscono. Gli anni mi hanno fatto almeno intuire che è tutto abbastanza sbagliato. Sappiamo che la sessualità è parte così integrante della persona umana che si può dire che essa ha la stessa importanza della vita dello spirito e della coscienza, della vita fisica e psichica: tutte componenti della persona messe in noi da Dio. Non so spiegare bene come, ma capisco che la sessualità, cioè l'essere fisicamente, psichicamente, affettivamente uomo o donna, col profondo e innato istinto verso la persona di sesso opposto, influenza profondamente il nostro pensare e agire, il nostro porci di fronte agli altri: imposta cioè fin dalla nascita tutta la nostra vita di relazione. E non mi pare davvero cosa da poco. Fa parte di noi, della nostra vita. Certo, non tutto va liscio nel viverla, come non va liscio nella capacità di essere sempre onesti, sempre giusti, sempre disponibili, sempre in buone relazioni con Dio … Con una differenza, forse: rispetto agli altri peccati, mancanze, difetti, quelli legati alla castità ci sembrano enormi, ci scombussolano. Non sono forse tutti egualmente peccati davanti a Dio? Possiamo forse dire che non aver amato il prossimo è meno grave che non aver amato nel modo giusto noi stessi? Eppure parliamo ( anche con la nostra responsabile ) più facilmente delle difficoltà a pregare, ad essere giuste, oneste, povere, disponibili, che delle difficoltà relative alla sessualità, all'impegno di castità … Forse bisogna fare un esame un po' più approfondito di questa problematica e trarre alcune convinzioni di fondo che pian piano portino a rimuovere i tabù che eventualmente ci portiamo dentro; a modificare qualche opinione, magari ereditata, a impostare in modo più corretto e completo i rapporti con noi stesse, con Dio e con la responsabile. Con la scelta che abbiamo fatto, e quindi con la consacrazione, noi abbiamo rinunciato all'apertura verso un altro, ma solo perché abbiamo scelto la possibilità di un'apertura più ampia verso gli altri, verso tutti. Noi abbiamo rinunciato ad amare ed essere amate da uno per poter avere - con l'indispensabile aiuto della grazia, legata alla vocazione - un animo particolarmente affinato e capace di amare molti, e - coltivando nella preghiera il rapporto con Dio - anche la certezza di essere amate da Uno. E fin qui tutto è chiaro e ben accettabile. Quello che accetto meno facilmente, e mi disturba, è il fatto che tutto questo non avviene come per incanto, magari nel momento del " sì " al Signore, e che dopo la consacrazione mi ritrovo come ero, con la mia sessualità e tutte le sue tendenze naturali … quelle tendenze che possono crearci quei 'fastidi' ( come forse li definiamo ) di cui non parliamo volentieri … E, per giunta, non spariscono con gli anni; anzi, ad una certa età diventano più vivaci, legati come sono anche a fenomeni fisiologici. Penso che molte difficoltà potrebbero essere evitate se avessimo sempre una visione chiara e serena del problema, se vedessimo le cose nella loro giusta dimensione. L'importante dunque è vederle e farsi aiutare a vederle così. M. E. - Catanzaro Uno degli accorgimenti più importanti per un aiuto concreto a superare i tabù e a vivere serenamente, malgrado gli inevitabili rischi e conflitti interiori, l'impegno della castità consacrata è la comunicazione fraterna, condotta in un clima di naturalezza e di fiducia reciproca. Ma come superare le difficoltà che normalmente si incontrano nella comunicazione su questo argomento? Le seguenti riflessioni sembrano fermarsi alla constatazione di tali difficoltà, senza offrire indicazioni utili a risolverle. Tuttavia il fatto che esse sollevino il problema ponendo l'accento sul " dover essere " in un campo così importante e delicato a livello di scambio fraterno è già un segno positivo e una prospettiva liberante. Per la mia esperienza personale mi pare che la formazione alla castità sia andata sempre più sul piano spirituale, perciò alla base c'è sempre stata la parola di Dio e le costituzioni. Questo non ha messo a tacere anche tutta la dimensione umana di relazione, di crescita, di valorizzazione dell'affettività, di tutti gli aspetti che fanno della persona una donna. Però ho sentito, anche nella relazione con le altre, che questa dimensione spirituale non sempre le ha aiutate a calare poi nella realtà, nella comprensione del proprio essere donna in tutte le dimensioni. E quindi è rimasto un aspetto, questo, in cui ciascuna si è trovata un po' da sola a camminare. Mi sono chiesta che cosa può aiutarci a essere più libere, più spontanee a parlare anche fra noi. Qui le costituzioni dicono: " può esserci d'aiuto anche la trasparenza con la responsabilità e la fraternità nell'Istituto ", fraternità non solo come già ora la viviamo, ma anche parlare con semplicità delle difficoltà e dei mezzi di cui abbiamo bisogno per crescere nella castità consacrata. A questa domanda " che cosa fare per … " non sono riuscita a dare una risposta né a livello personale e neanche a livello comunitario perché sento ancora molte riserve, molte remore a parlarci con molta semplicità. Vedo che negli incontri si approfondiscono tanti aspetti e viene tanto aiuto, non solo nelle adunanze ma anche negli incontri personali, ma mi sono accorta però ( le volte in cui è stato possibile avere un dialogo più aperto ), di quante difficoltà invece ciascuna porta dentro e si trova da sola spesso a superare. Per esempio come incanalare bene la propria affettività, il problema che emerge spesso dalla solitudine, come valorizzare e vivere armonicamente la propria affettività, il problema dell'amicizia con tutti, amicizia libera e profonda, autentica e sincera. Questo essere capaci di comunione con tutti, di amicizia vera, libera, profonda come ci chiedono le costituzioni, è frutto di allenamento continuo, di crescita continua. Invece sento il rischio di buttarsi a capofitto nelle relazioni con gli altri, nella realtà che ci circonda e di rimanervi schiavi, anche a rischio della crescita della vita consacrata. A.C. - Corata Non so se parlare di " castità consacrata " o di " sessualità consacrata " dal momento che nella nostra vita, per una determinata scelta, si crea l'esigenza di parlare di un certo modo di vivere la sessualità che è la castità consacrata. Personalmente avverto che tra noi siamo disposte a parlare dei frutti che dovrebbero emergere da una persona che vive questa vocazione, e questo è importante perché ci è di aiuto a tener vivi i motivi per cui tendiamo a vivere così. Fin qui mi pare che siamo disponibili ad aiutarci offrendoci dei mezzi, sostenendoci, stimolandoci a guardare la meta. Mi pare che la nostra difficoltà in questo campo sia quella di darci l'attenzione, la disponibilità a cogliere ciò che in realtà vive la persona che si avvia o che percorre la strada del celibato consacrato. Su questo noi facciamo silenzio. Non osiamo parlarne, non osiamo guardarci dentro. Nell'Istituto mi sono sempre sentita dire che la vergine è più feconda della donna sposata ( io dico " dovrebbe essere come la donna sposata " ) e questo lo dice anche la Bibbia. Io però ho fatto l'esperienza di sentirmi inferiore alla donna che fa crescere un figlio dentro il suo utero. Perciò un conto è capire a livello di logica, di testa, un altro è sentirsi in armonia con i sentimenti che abbiamo dentro. Per me è importante educarci all'accoglienza del nostro corpo ( conoscerlo anche ) e del nostro " sentire " che ci interpella dentro, di ciò che accade man mano che viviamo. È diventare consapevoli delle nostre esperienze. A volte ho colto che arrivando all'Istituto si sente il dovere di chiudere in un sacco le proprie esigenze ( di piacere agli altri, di valutazione positiva del proprio corpo, di attrattiva verso l'uomo ) e si impiegano delle energie ( talvolta molte energie ) per tenere ben chiuso questo sacco … e questo può portare a una regressione, piuttosto che aprire al dono di noi stesse. Forse sentiamo che vivere ( non tenere sotto vetro ) la nostra sessualità, permettendoci così di espandere tutte le nostre potenzialità, può essere rischioso; lo sentiamo come una minaccia per cui le nostre energie sono impiegate più a equilibrare, misurare, proteggerci, che a espanderci, e così ci sottraiamo parte del gusto del vivere. È vero che l'affettività, il lasciare spazio ai sentimenti può portare a … travolgere, ma se noi guardiamo in faccia anche questa realtà e favoriamo il cammino di maturazione anche attraverso questi momenti di " fuoco ", non ne usciremo bruciate ( come temiamo ) ma diventeremo coscienti di quale importanza hanno per noi l'affettività, la sessualità, il rapporto con l'altro. Capiremo meglio le spinte che giocano in certi rapporti a volte esaltandoli, o inibendoli, strumentalizzando le persone, e riusciremo gradatamente a comprendere cosa vuol dire avere un rapporto soddisfacente che diventi aiuto scambievole. Ma perché riusciamo a vivere questa parte fondamentale di noi stessi con vivezza abbiamo bisogno di essere aiutate, di darci aiuto. Cioè abbiamo bisogno di portare maggiormente alla luce quello che la nostra persona reclama per cercare insieme alla responsabile come viverlo nella nostra situazione concreta, nella nostra scelta. A.F. - Roma L'impegno della castità consacrata è un valore da far crescere progressivamente come risposta sempre nuova alla chiamata, anche in vista di una piena realizzazione della propria maturità umana nel rapporto con Dio e con i fratelli. " La castità è la relazione personale e diretta con il Signore ". Secondo la mia esperienza personale la relazione con il Signore deve essere, o meglio dovrebbe essere, profondamente umana e divina. Ciò avviene quando si verifica l'incontro tra la persona umana, con tutto quello che è, e il Tu del Signore come Lui è. Ossia un incontro tra due persone: Gesù uomo-Dio e me, donna, con tutta la realtà che sono. Però perché possa avvenire il " tu per tu " con il Signore deve avvenire nello stesso tempo un " tu per tu " con me stessa; l'incontro tra me e il Signore, nel senso di vivere il dialogo con Lui è possibile solo se accetto d'incontrarmi con me stessa, con l'" io " che sono. Aprirmi al Signore nell'incontro con la sua umanità, porta con sé la necessità che io mi apra alla mia umanità, a ciò che sono realmente, a guardarmi senza " veli " ( che sono la paura di avere delusioni su me stessa, un certo impegno a mantenere dei punti fermi, la difficoltà ad accettare di conoscermi, di guardarmi nella verità ). Così mi pare che incontrandomi in questo modo con il Signore imparo a incontrarmi con gli uomini e dall'incontro con questi ultimi posso verificare di che tipo è la mia comunicazione con Lui. L'apertura verso un cammino di verità con gli uomini, che è di comunicazione sincera di ciò che uno vive e tenta di vivere, è anche via per l'incontro col Signore. Un'altra cosa che sento è che oggi incominciamo a capire che la castità non è uno stato raggiunto per sempre dalla persona, ma è un bene cui tendere, offerto a ogni uomo nella propria realtà di vita. Così come è necessario fare la strada per conoscere i sentimenti, le difficoltà, i bisogni che emergono dentro di noi in modo da raggiungere gradatamente una certa consapevolezza circa la nostra sessualità affinché sia sempre meno un enigma da cui difendersi e più un bene da vivere e di cui gioire. Forse possiamo dire che castità vuol dire la possibilità di amare in un certo modo che va gradatamente espandendosi a partire dalle persone che più ci sono care: è un modo di essere in relazione con Dio e con gli uomini. Il difficile è fare la strada della relazione d'amore. Tutti noi dobbiamo riconoscere che viviamo magari degli aspetti della relazione ( spesso con una persona viviamo un aspetto, con un'altra ne viviamo un altro ), difficilmente siamo capaci d'incontro profondo, un incontro dove da ambo le parti si accetti di comunicare nella verità e autenticità. A.F. - Roma La scelta della castità per il Regno è certamente fondata sulla fede e non su motivazioni umane. Essa esprime in modo radicale quel mistero di carità che orienta tutta la vita della persona consacrata verso Dio e verso i fratelli. Quest'ultimo aspetto comporta esigenze forti, legate al nostro impegno di persone che vivono nel cuore del mondo, a contatto con tutte le miserie umane, anche le più aberranti. Forse anche sul celibato dobbiamo rivedere un po' le idee tramandateci con un linguaggio che, grazie a Dio, va scomparendo e che ci dava della castità soprattutto un'idea in negativo: stare attenti a … non fare, non pensare, non dire, ecc. Oggi, come ai tempi del Signore, questo stato di vita non è compreso. Spesso è oggetto di dubbi, derisioni, ironie. In sostanza, troppa gente pare non credere neppure alla possibilità che una persona possa vivere in continenza volontaria. Ma forse mancano le idee chiare sul significato di fede che è implicito in essa. Ci sono infatti persone che scelgono il celibato come stile di vita: per motivi professionali, per vivere liberi e indipendenti, ecc. Una scelta, è chiaro, che non ha un significato cristiano. E non capisco perché si accetta il celibato per motivi così umani e discutibili e si resta dubbiosi o scettici quando esso è scelto in vista del Regno, per un migliore servizio ai fratelli, per una maggiore disponibilità nell'apostolato. Mi pare di dover sottolineare qui, ancora una volta, che il celibato consacrato è principalmente per un motivo di fede: " in vista del Regno ", e che il miglior servizio ai fratelli è, secondo me, un motivo secondario, un motivo sociale. Ad ogni modo, il celibato consacrato è lo stato di vita di chi continuamente cerca il modo di realizzare gradualmente l'incontro con l'Altro per arrivare a un migliore incontro con gli altri. Come realizzare gradualmente l'incontro con l'Altro? Sicuramente nella preghiera, nella meditazione: nella Scrittura, impariamo il significato dell'amore e dell'amore gratuito: dare, dare, dare senza mai attendersi di essere ricambiati o che il nostro amore venga riconosciuto. Impariamo il significato della fedeltà, dalla fedeltà di Dio, così che a poco a poco il nostro amore umano diventi verginale, cioè un amore ancora umano, perché siamo umani, ma liberi dalle attrazioni sessuali . Come arrivare a questo? Solamente Dio può insegnarci come; solo Lui può " sedurre, condurre nel deserto e parlare al cuore " ( Os 2,16 ). Ma è soprattutto nella preghiera, nella fedeltà ad essa che affondano le radici della nostra castità consacrata. È nel contatto con Dio che l'amore umano si affina, si concretizza nella carità e impara anche a scoprire tutte le contraffazioni dell'amore nelle molteplici situazioni in cui viene a trovarsi nel contatto con i fratelli ( divorzio, amore libero, aborto, pornografia, pubblicità a base di sesso, 'affettuose amicizie' ecc. ecc. ). Se il celibato non è per noi una fuga da tutte queste negazioni, allora queste realtà bisogna conoscerle per poterci rendere capaci di farvi fronte in modo responsabile. Non possiamo chiudere gli occhi sui problemi dei fratelli perché sono negativi. Ovviamente non possiamo neppure aprirli per curiosità, ma per cercare nella preghiera e nel dialogo con le sorelle d'Istituto le soluzioni cristiane e il coraggio di agire di conseguenza. Dobbiamo stare attenti che il nostro " amore ai fratelli " non sia, non diventi una frase fatta, un amore generico e ideale, ma sia realmente, concretamente un amore alla realtà d'ogni giorno, nella " loro " realtà. Un'ultima cosa mi pare di poter dire con certezza; se vivessi la castità in questi termini, sicuramente non sentirei mai la solitudine, la mancanza di amicizia, il vuoto d'una famiglia mia; non temerei la vecchiaia; non avrei tempo di sentirmi una nullità; non coltiverei, con insistenza degna di migliore causa, l'idea d'una vita all'insegna del fallimento, ma vivrei nella gioia. M. E. - Catanzaro L'esperienza del dono di sé nella castità consacrata è una realtà dinamica che si sviluppa e si arricchisce nelle successive stagioni della vita. I due contributi che seguono ci offrono una lettura, in retrospettiva, di una lunga esperienza vissuta, evitando talune acquisizioni maturate via via, come l'accettazione del corpo, il valore di complementarità della castità consacrata rispetto al matrimonio, l'aspetto di povertà insito nella castità stessa. In quest'ultimo anno ho riflettuto su questa tema. Per capire meglio cos'è stata e che cos'è attualmente per me la castità, ho cercato luce, ho cercato di approfondire le mie conoscenze in materia. Ora vado confrontando quello che apprendo con la mia vita per scoprire da dove sono partita, come l'ho vissuta negli anni, come la vivo attualmente e che cosa devo cambiare. Sono risalita ai miei 17-18 anni, epoca della mia scelta di vita. È stato in quel periodo che mi sono innamorata di Cristo, che ho capito che volevo vivere un rapporto intimo, esclusivo con Lui. Questo mi sembra fosse chiaro anche allora. Sentivo però la mia debolezza, avevo paura che le sollecitazioni del mondo mi portassero lontana da Lui, di essere sola nel cammino. L'incontro con l'Istituto mi ha aiutata a chiarificare con me stessa la mia vocazione, ciò che volevo fare della mia vita. Ora il cammino percorso mi sembra più chiaro ma è stato nebuloso e tentennante mentre lo vivevo. Così non ricordo se all'inizio sono stata consapevole che la mia è stata la risposta ad una chiamata e che nel cammino di fedeltà intrapreso eravamo impegnati in due: Gesù e io. Durante gli anni questo si è fatto più chiaro ed ora posso constatare con stupore, gioia e riconoscenza che Lui si è impegnato con me, che ha preso sul serio il suo impegno. Lui è stato fedele anche quando io non lo ero e continuamente con il suo amore e con la sua fedeltà stimolava il mio amore e la mia fedeltà. Credo di aver vissuto per molto tempo la castità come una cosa diversa da questo rapporto personale con Lui, cioè da una parte c'era il rapporto con Lui che doveva crescere, diventare sempre più personale ed intimo, dall'altra la castità che era custodia della purezza della mente, del cuore, del corpo in vista della fedeltà a Lui. Era come se fossero due cose diverse. Ora capisco che più cresce quest'amore per Lui, più diventa intimo il rapporto con Lui, più delicata, più viva, più vissuta è la castità. Questo rapporto con Cristo però non è un rapporto fine a se stesso, chiuso; è in vista del Regno che deve crescere in me e nei fratelli. È castità vera se questo rapporto con Lui mi rende capace di fare comunione, capace di amare ogni fratello così com'è, e tra i fratelli chi è più povero, solo, malato, nella prova. Ora l'impegno più grosso è in questa ricerca di comunione con Lui e con i fratelli. Credo di essermi creata molte difficoltà nel vivere la castità perché non volevo accettare di avere un corpo con determinate esigenze, di avere un cuore con altrettante esigenze, quindi ho speso molte energie cercando di reprimere, invece di capire ed accettare come sono fatta. Ora cerco di non lasciarmi spaventare dalla tentazione, anche se non voglio con questo assecondarla, ma cerco di capire quale esigenza esprime, cerco di capire questa esigenza, accettarla ed offrirla. Convivo meglio con il mio corpo, lo amo di più. C. M. Ognuna di noi ha la sua esperienza di castità, vissuta con le caratteristiche del suo temperamento, della formazione ricevuta, dell'ambiente in cui ha maturato la sua scelta di vita. La castità è una strada che si snoda lungo tutto il percorso della vita, con caratteristiche e percorsi che mutano con le stagioni della vita stessa: agli inizi è ampia, pianeggiante e assolata; più tardi si fa ripida e scoscesa; quasi in ombra nell'età adulta, prima di aprirsi, con gli anni della maturità ( almeno anagrafica ) su sentimenti riposanti, già noti, arricchita di un'esperienza che, se pur non definitiva, conosce i ritmi dell'andare con passo sereno e calibrato. La castità consacrata nel celibato per il Regno è un dono di Dio assolutamente gratuito, che chiede di essere custodito e pure continuamente ri-donato nella vita, con tutta la gratuità e la generosità di cui siamo capaci. È questo dono, accolto dentro, che potenzia la nostra capacità di amare, rendendola genuina e concreta, per un amore fecondo, personale e universale insieme. Quando batte alle porte del cuore, nella prima giovinezza, sembra di avere le ali e non si è pienamente consapevoli del dono che si riceve e della sua forza: lo viviamo con entusiasmo, ma forse anche con superficialità e incoscienza. È certamente un segno molto preciso, importante per noi: una freccia nitida e scintillante che indica la via della " Sequela Christi ", cui il Signore ci chiama; lo slancio e l'immediatezza caratterizzano la risposta e ci trascinano nell'avventura meravigliosa di seguire il Cristo più da vicino. Ma il dono ha bisogno di mettere radici in noi, di crescere, fino a diventare espressione di amore oblativo, amore da persone adulte. Probabilmente solo dopo anni di vita e dalla vita stessa emerge la portata del dono, la responsabilità che l'impegno di castità comporta, anche nei confronti degli altri, nella vita di tutti i giorni. Allora ci accorgiamo che le radici si sono ramificate in ogni fibra del nostro essere, fino a creare convinzioni, abitudini, comportamenti che costituiscono uno stile di vita e di servizio. E necessaria una verifica, un vaglio nelle diverse età della vita, perché il sì sia rinnovato, ogni volta più esigente nell'amore ricevuto-donato. Io ho scoperto a una certa età che la castità, come le altre virtù, è suscettibile di crescita; prima pensavo che fosse un dono fatto a Dio e ai fratelli, una volta per sempre, non una realtà chiamata in causa dalla vita di ogni giorno e da vivere progressivamente con esigenze e aspetti sempre nuovi. Penso che debbano andare in crisi molte sicurezze per cominciare a vivere la castità nella libertà, in modo più equilibrato, più umano, più vicino ai problemi degli altri. La nostra castità consacrata, infatti, se assume il suo significato e valore da Gesù Cristo e in vista di Lui, ha però nella Chiesa e nella società un valore di complementarità, rispetto ad altri doni e carismi, in particolare rispetto al Sacramento del Matrimonio. Non siamo dei " separati ", il nostro celibato consacrato vissuto nella condizione secolare, ci pone gomito a gomito con i nostri fratelli, e non soltanto dal punto di vista, per così dire, sociologico; la condivisione delle realtà e delle difficoltà riguarda anche la nostra castità: siamo segno ( e la castità è il segno più visibile della nostra Consacrazione ), ma non dall'alto, o ritenendoci dei privilegiati, lo siamo piuttosto quando viviamo la fatica del dono, come gli sposati vivono le difficoltà della loro castità matrimoniale. Esiste l'aspetto di povertà della castità, quello che forse tocca maggiormente alle radici la nostra natura femminile, quello per cui avvertiamo che ci manca " qualcuno ": è la solitudine del cuore o, più semplicemente, la solitudine reale. Inizialmente ho fatto fatica ad ammettere e ad accogliere questa situazione, quando si è presentata, ma patire questa povertà fa parte del dono, così come prenderla dentro di noi, viverla serenamente, lasciandoci purificare. L.F. - Roma Infine, per chiudere con una bella sintesi questa carrellata di esperienze-riflessioni sul tema della castità consacrata, ecco ciò che scrive una di noi prendendo spunto dall'immagine evangelica della " perla di gran valore "; C'è una poesia che mi piace molto e che sento molto vicina al mio cammino: " La perla di gran valore ": " La perla di gran valore / è nascosta profondamente. / Come un pescatore di perle, / o anima mia, tuffati / tuffati nel profondo /tuffati ancora più giù e cercai … /Quelli che non sanno il segreto /si burleranno di te /e tu ne sarai rattristato /Ma non perdere coraggio … / La perla di gran valore / è proprio là nascosta … /Tuffati nel profondo / tuffati ancora più giù / come un pescatore di perle, /o anima mia. /E cerca, cerca, senza stancarti ". Sì, la ricerca è stata una caratteristica che ha scandito alcune tappe fondamentali nella mia crescita, è diventata spesso la condizione di partenza per avviare alcuni piccoli cambiamenti. Il primo obiettivo da raggiungere era scoprire la mia identità, conoscere ciò che sono, le mie realtà più profonde e più vere. C'è stata e c'è la ricerca della Verità, quella Verità maiuscola che conduce nel luogo più nascosto di se stessi, dove c'è solitudine ma dove si trova pure l'" essere " senza finzioni, senza maschere. È qui che ho sentito nascere il desiderio di entrare in relazione profonda con me stessa, con gli altri, con Dio, perché sperimentavo che attraverso le relazioni si cresce, ci si rivela a se stessi, si diventa persone. Questo mi ha aiutato ad accettare la mia storia, la mia originalità, mi ha spinto a scegliere di poter prendere il mio posto in questa umanità. Così è arrivato il momento della concretezza, quasi un passaggio obbligato per scoprire una realtà nuova della vita, per capire che essere fedeli a Dio, alla sua chiamata, è soprattutto essere fedeli a se stessi e a ciò che il Padre ha scritto nei nostri cuori. E nel rispondere a questo ho trovato il senso di ogni giorno, la voglia di guardarmi con autenticità, scoprendo sempre aspetti nuovi di me e imparando a cogliere negli altri l'essenziale, il vero, il buono. Ho provato la gioia di vivere dentro un grande mistero d'Amore e di comunione che mi spinge sempre di più a cercare unità e a rendere vera, gioiosa, dinamica la mia vita. In questo contesto, la mia castità diventa una pienezza di vita … non una frustrazione, diventa un segno dell'Amore di Dio per l'umanità. Un amore universale non esclusivo, aperto a tutti, che fa essere un poco come il grembo di Maria che porta in sé tutta l'umanità. Così, un po' alla volta, sto imparando che esiste un modo nuovo di rapportarsi a qualunque realtà, e c'è un atteggiamento di ascolto, di accoglienza, di fraternità che m'invita ad aprire il cuore ad ogni uomo e ad uscire dal mio quieto vivere per camminare con fedeltà nel quotidiano. È bello sentire che si sta costruendo un amore nuovo, ricco e fecondo, che mi porta a maturare come persona e a crescere nel rispetto dell'altro, diventando sorella, amica, madre. La perla di gran valore … forse è proprio qui, nascosta nel cuore di ogni uomo, e, scoprendola, la nostra vita si riempie di fiducia, di speranza, di novità. G.M. Povertà La povertà evangelica è " un dono dello Spirito che coinvolge la persona in quanto di più radicale c'è in lei, in un cammino di libertà e di liberazione " sulle orme di Cristo. A cominciare dall'accettazione di sé nella propria povertà creaturale e dall'accoglienza degli altri come persone da amare " nella fatica del quotidiano ". Piuttosto che fare riferimenti a concetti generali e astratti ritengo opportuno cercar di riflettere sulla povertà secondo il Vangelo nella mia vita, guardando anche un po' indietro. La nostra scelta di povertà non è solo un mezzo, da vivere perché sia retto il nostro rapporto con le cose, con gli altri, con Dio. E tutto questo soprattutto agli inizi della strada, quando c'è bisogno di fare ordine, di chiarire, di discernere, perché tutto sembra ugualmente valido, entusiasmante, da raggiungere, da tenere, da conseguire, perché " tutto è nostro ", ma non ha ancora messo radici in noi la consapevolezza che " noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio " ( 1 Cor 3,22-23 ). Allora c'è bisogno della povertà, intesa anche come una sorta di aiuto nella vita pratica, per l'uso delle cose, nei rapporti con le persone ecc.: ci si esercita nel distacco; l'impegno di povertà è, per così dire, frantumato e si rispecchia nei piccoli gesti delle scelte quotidiane. Ma penso che la povertà muova qui i primi passi e non raggiunga in queste esercitazioni l'ampiezza di respiro che le è propria, gli orizzonti del dono che si riceve. Abbiamo piuttosto l'impressione di dare noi qualcosa. Nella vita dello spirito, come del resto in quella fisica, ogni tappa ha però la sua importanza e il suo interesse: nulla quindi è da sottovalutare o disprezzare. Per questo guardo con riconoscenza a quei primi passi, a quel sentiero un po' angusto, che però mi ha preparato a una visione più ampia della povertà da vivere non solo come imitazione di Cristo e come condivisione con i fratelli di ciò che sono e che ho, ma come dono da accogliere. Devo riconoscere che il mio bilancio è sempre in rosso. " La povertà evangelica ci fa partecipare al mistero di Dio … ": se è mistero mi trascende, è un dono. Eppure è solo a questa esperienza del dono intravisto che posso rifarmi. Man mano che cresce la consapevolezza, man mano che la povertà diventa non tanto una meta da raggiungere con le proprie forze, ma un dono dello Spirito, essa coinvolge la persona in quanto di più radicale c'è in lei, in un cammino di libertà e di liberazione di cui non si scorgono i confini. Essa non è più una virtù a sé stante in questo procedere, ma un atteggiamento di fondo, una mentalità che orienta pensieri e comportamenti in senso sempre più ampio, universale, umano e quindi cristiano e soprannaturale. La povertà secondo il Vangelo non è una scelta fatta una volta per sempre, ma una traccia che ci accompagna giorno per giorno e da senso e autenticità a tutto ciò che viviamo, perché ci rende consapevoli che la provvisorietà e la precarietà sono realtà che ci accompagnano sempre e quindi sono da accogliere nella pace. La povertà accolta dentro genera la pazienza, cioè il saper patire e compatire senza perdere la pace, in modo attivo e generoso, dimenticando se stessi. È questa virtù, evangelica per eccellenza, libertà di amare e di essere amati, senza condizioni o misura, perché allarga il cuore fino ai confini del mondo. Per essa mette radici in noi la speranza, che è Cristo risorto da comunicare con la vita. Non ci toglie il senso doloroso della povertà del nostro essere che non solo riconosciamo e accogliamo, ma manifestiamo anche agli altri: mostrarci per quello che siamo, nella nostra realtà può essere per noi motivo di crescita e certamente incoraggia l'altro, che ci sente compagni di viaggio e lo promuove, perché nel momento in cui ci riconosciamo poveri non cerchiamo la nostra affermazione ( sia pure nel bene ), non accampiamo pretese, non vogliamo sopraffare l'altro, dominarlo forse. Povertà che ci fa maturare umanamente e cristiana mente, ma che non è in nessun caso fine a se stessa: il fine è la crescita della persona fino alla statura del Cristo. L.F. - Roma Mi riesce difficile parlare di povertà, nonostante i molti anni d'Istituto; mi sembra di essere, a questo riguardo, all'inizio del cammino, ancora in ricerca del mio modo di realizzare la povertà. Come seguire Gesù su questa strada? " Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ". Tutte le cose create, tutte le potenze che sono state messe in me, sono dono di Dio. Tutto è mio, ma tutto mi è stato donato. Usare perciò di tutto ciò che mi è stato dato, gioiosamente, con spirito riconoscente, dando lode a Lui. È questo povertà? C'è però il pericolo che io mi appropri delle cose, mi fermi ad esse, mi lasci distrarre, assorbire, legare il cuore. Ed è tanto facile che questo succeda: sono ancora troppo " ricca ", troppo alla ricerca del comodo. Tra le cose più belle che Lui mi ha donato c'è la vita, ci sono io con tutte le mie potenzialità, ci sono gli altri, i fratelli. Accettare me stessa, amarmi, vivermi come un dono. In questo senso sto esercitando la povertà. Accettarmi con tutte le mie potenzialità, ma anche tutti i miei limiti; accettare un corpo acciaccato, debole, che sta invecchiando, non è facile, ma è un esercizio continuo. Accettare i limiti dell'intelligenza, della volontà; accettare di non saper fare, di essere incapace. Amarmi così; offrirmi gioiosamente così. Questo credo sia un modo di essere povera. Un altro aspetto su cui sto lavorando e su cui cerco di esercitarmi è vedere i fratelli come un dono, come il dono più grande, più bello che il Signore mi ha fatto. Perciò accettarli, amarli, accoglierli come sono. Lasciarmi interpellare da loro, dare la precedenza alle persone, sopra qualsiasi altro impegno, desiderio; cercare di non lasciarmi assorbire dalle cose, lasciare che i bisogni dei fratelli mi stimolino continuamente a dare una risposta. Anche questo è un altro modo di essere povera. Ma poi concretamente è così poco quello che so fare! Ma non mi lascio scoraggiare, cerco di accettare di essere povera, piccola, debole, ma sempre in tensione, sempre in cammino. C.B. - Verona Per noi consacrati nel mondo la povertà evangelica non può prescindere dal contesto storico in cui siamo chiamati a vivere. Sono proprio le provocazioni del nostro tempo a farci scoprire significati ulteriori e prospettive nuove per un impegno di povertà non disincarnato. Quando, più di trent'anni fa, per la prima volta sentii parlare di I.S. e sommariamente capii che i membri emettevano i voti, rimasi molto dubbiosa sulla possibilità di vivere la povertà fuori di un convento: io lavoravo fuori casa, spendevo ciò che credevo, acquistavo per me e per i miei senza chiedere, portavo a casa ciò che mi rimaneva. Non so che cosa sia riuscita a capire della povertà evangelica richiesta in un Istituto secolare: tentai, ma che fastidio solo alle espressioni: uso limitato, tener conto delle spese, non poter acquistare anche cose necessarie sopra la somma fissata. Per non dipendere andai avanti parecchi mesi imponendomi di non aver bisogno di cose di un certo valore … Richiedeva una povertà affettiva ed effettiva … Cercai di far consistere la prima nel distacco dal mio modo di vedere, di pensare. Per undici anni avevo insegnato in scuole uniche, arbitro incontrastato; ma a contatto con altri colleghi … quanta fatica ad accettare modi diversi di pensare e agire; mi pareva d'essere una eroina se riuscivo a non sbuffare … E per quella effettiva? Mi bastò riuscire a tener in ordine il libretto-conti, a chiedere per spese straordinarie, a dichiarare qualche rilevante offerta che facevo o qualche dono che offrivo, a dare mensilmente il mio contributo all'Istituto per mettere il cuore in pace e dichiarare che per la povertà non avevo problemi! Non ricordo i rispettivi articoli delle costituzioni dei miei primi anni d'Istituto, certamente non ero riuscita a coglierne l'essenza. Quelli attuali, con il ripetuto insistente richiamo alla solidarietà coi poveri, alla disponibilità al prossimo, all'attenzione agli altri e alla condivisione con loro hanno inciso assai più profondamente, mi tengono desta, mi spingono alla verifica; e interrogano la mia poca povertà, la mia disponibilità tanto ridotta, la mia condivisione ancora limitata. Mi ricordano che solo se mi lascerò sollecitare dalla povertà di Cristo e dei poveri, solo allora riuscirò ad essere più povera e a rendere partecipi i fratelli di quanto ho e sono: denaro, beni e talenti, cultura, energie, tempo! Più povera di un tempo? Certamente più " presa " dalla povertà di Cristo e dei fratelli; ancora in cammino: fino a quando? " Fino a quando si giungerà, nella povertà estrema della morte, a essere per sempre ricchi di Dio ". P.F. - Trento Il " povero ", secondo Gesù, è " l'uomo del Regno ". Decidersi per i poveri non basta. Gesù chiede di più: farsi volontariamente " povero ", vivere il suo programma di vita, il programma delle beatitudini. Tra il racconto di Luca ( Lc 6,20-26 ) e quello di Matteo ( Mt 5,3-13 ) c'è una diversità, perché diverse sono le situazioni umane che devono essere illuminate e interpretate dalla parola di Dio. Luca parla solo di " povertà " in contrapposizione ai " ricchi ": i poveri dal punto di vista economico e sociale. Egli scrive il suo Vangelo per le comunità appartenenti ad una società con gravi squilibri sociali, dove il povero è l'uomo spogliato dal ricco. I " poveri " del Vangelo secondo Matteo sono poveri " in spirito ", quelli che hanno liberato il cuore e la vita da tutti i legami ingombranti: la loro è una povertà d'acquisto. Soltanto se è tenuto presente l'uno e l'altro aspetto della povertà, quello di Luca e quello di Matteo, il messaggio di Gesù viene accolto nella sua pienezza. Essere poveri evangelicamente non è essere privi o semplicemente privarsi di qualcosa, ma è " diventare " poveri perché si crede in altri valori, assunti come ragione di vita: la fedeltà a Dio e la disponibilità a Lui, al suo Regno, la condivisione, l'umiltà, la giustizia, il timor di Dio … È imparare a ragionare secondo Dio. È quindi uno sforzo permanente di conversione. È fatica quotidiana e possibile solo nella comunione con Lui, in cui si fa anche la comunione con i fratelli, soprattutto con i più poveri e deboli. Una consacrazione nel secolo, come la nostra, non può non porsi i problemi del momento storico in cui si vive, non può seguire la corrente senza alcun discernimento. La Chiesa ci sollecita a interrogarci " sulla qualità della solidarietà umana " che viviamo: nel campo dell'occupazione, dell'investimento del denaro, del consumo …; a " demolire gli idoli che ci siamo costruiti: denaro, potere, consumo, spreco, tendenza a vivere al di sopra delle nostre possibilità ". La pratica della povertà evangelica è strettamente legata alla nostra missione di trasformazione del mondo. A.C. - Bari Ma ciò che conta non è tanto il dare qualcosa ai fratelli, specialmente ai più poveri, quanto coltivare, con l'aiuto di Dio, un atteggiamento interiore che riveli un cuore di povero, capace di attenzione, di compassione, di condivisione. È come dire che la solidarietà verso i piccoli e i poveri, nello spirito del Vangelo, esige e provoca al tempo stesso la conversione del cuore in coloro che la vivono. Gli altri, gli altri! Sono tanti, gli altri. Ci sono quelli più vicini, quelli che amiamo di più, quelli che ci interessano di più, per cui saremmo disposte a tanti sacrifici … E ci sono gli altri più lontani, quelli che amiamo … proprio perché ci sono lontani e non ci disturbano troppo: e quelli sulle cui miserie ci inteneriamo e a cui siamo disposte a dare qualcosa. Qui, " gli altri " è in generale. Ma subito le costituzioni specificano: " soprattutto ai più poveri, ai piccoli, ai deboli ". Non dicono: " ai più simpatici ". Non dicono: ai poveri che ti diranno grazie e che sapranno usare bene ciò che tu avrai loro dato. Dicono " poveri ". E " poveri " può significare tante cose: sono tante le forme di povertà e tanti i poveri. Sono tutti coloro a cui forse nessuno fa attenzione: non fanno rumore, non protestano, non alzano la voce, non fanno comizi, non pretendono, non tendono forse neanche la mano. Solo se sei attenta te ne accorgi. Se no dici: Poveri, nel mio Paese, non ne esistono, o sono così pochi … e poi tocca allo Stato provvedere! Attenzione: non è sempre una cosa facile. Anzi, non è mai facile. L'attenzione mette in moto e rimescola nel profondo la coscienza. Va ben al di là dei " bisogni " altrui; scopre prima i loro " diritti ". Perché si tratta di diritti. Io non posso avere in sovrabbondanza e non accorgermi che a te manca ciò a cui hai anche tu diritto: il necessario. Non posso moltiplicare le mie esigenze, e accorgermi che poi le mie mani restano vuote … è troppo poco ciò che io posso dare, e allora tanto vale non dar niente, lasciare che diano coloro che hanno molto più di me, e in confronto ai quali io non sono altro che quella certa vedova del Vangelo … Già, ma la vedova ha dato quella sua briciola, e l'ha data di cuore. Il suo era amore " a fatti e in verità ". Non ha offerto il suo obolo per farsi vedere, neanche per sentirsi contenta di aver anche lei dato qualcosa, meno ancora per sentirsi a posto. Aveva poco: ha condiviso quel poco. Anzi, era pochissimo. Ha condiviso quel pochissimo. Condividere ogni bene anche con nostro sacrificio, non significa tanto fare a metà dei beni materiali, e neanche stabilire una parte per gli altri, dato che ci sono anche loro, e neppure imparare a fare economia, a spendere poco per mettere da parte. Quello che non ho consumato per me, perché non potrebbe essere donato? Anche a costo di sacrificio? sì, anche a costo di sacrificio. E condividere le molteplici ricchezze che la più povera di noi possiede: si chiamino soldi, si chiami tempo, energie, intelligenza, talenti … Tutto ciò ch'è un bene va trasformato in Bene. Anche un sorriso può essere condiviso con gli altri. Anche una parola. Anche un pensiero. G.S. Non so se la povertà che vivo come membro dell'Istituto sia quella giusta o meno; so soltanto di rispondere ad un'esigenza che sento dentro, quella della condivisione, della partecipazione. Ciò non vuoi dire certo che so rispondere ad ogni esigenza altrui, anzi spesso mi sento un po' schiacciata dall'impotenza di fare o dare qualcosa di concreto; mi sento nella gioia e nella libertà quando per rispondere al problema dell'altro ho perso un po' dei miei soldi, del mio tempo, delle mie sicurezze e penso che quand'anche non possedessi più niente io sarei sempre molto più ricca di tanti altri: ricca di Amore, di amicizia, di stima, di simpatia. Non dico che i grandi problemi del mondo si risolvano con dei gesti o atteggiamenti singoli ma questi sono importanti; è importante per me chiedermi che cosa posso fare io in questo frangente, fare e dare tutto il possibile. Molto spesso, senza accorgermene, punto il dito sugli altri, mi lamento per ciò che non è giusto e non vedo che anch'io personalmente vivo le mie piccole ingiustizie, curo i miei piccoli interessi, cerco di non sbilanciarmi troppo, così vivo la mia povertà nella mediocrità e perciò nella scarsa libertà. Non credo d'essere mai andata a cercare i problemi e le necessità da condividere; a me bastano le sollecitazioni che il Signore mi offre nella mia quotidianità, basta essere attenta e aperta e c'è di che restare sempre senza un soldo e senza un po' di tempo da perdere per me stessa. A.T. - Bergamo Il bilancio, o rendiconto annuale, che in una forma o nell'altra tutti gli Istituti richiedono ai loro membri, costituisce una preziosa occasione per una verifica senza veli del proprio vivere da poveri, almeno per quanto concerne l'amministrazione dei beni che ci sono dati in uso. Esso va ben al di là di una mera relazione economico-finanziaria. Infatti una attenta " lettura " delle cifre può rivelare non solo la portata e la qualità delle scelte effettuate, ma anche le motivazioni che le hanno guidate: uno specchio del proprio tenore di vita, che si fa stimolo ad una più piena fedeltà allo Spirito e ad una più delicata attenzione alle esigenze dei fratelli. Il bilancio annuale che sono tenuta a presentare non è un " optional " ma rientra nella promessa di povertà ed obbedienza che ho pronunciato al momento della mia professione e che rinnovo ogni anno. È una cosa seria. È l'atto conclusivo di un cammino, di una esperienza di vita che sono chiamata a vivere nella sobrietà, nel confronto coi poveri, nella gratuità, nella condivisione, nella corretta amministrazione di doni che il Signore mi lascia: in questo caso denaro e cose. È il risultato del mio sforzo nel superare, per amore, la tentazione del possesso, dell'accumulo di beni, di scelte non " essenziali ". Da tempo, al di là dei miei limiti e dei miei egoismi, mi sforzo di vivere in questa dimensione l'impegno del bilancio, tanto da considerarlo la mia carta d'identità che parla concretamente di me, della mia vita, dei miei amori preferenziali, rivelati e tradotti in cifre. Tante volte mi sono chiesta e mi chiedo con semplicità e verità: " che valore attribuisco a questo strumento? ". La ricerca di questo " valore " è stata ed è faticosa, perché a volte ancora sono tentata di considerarlo inutile, superato, perdita di tempo, impegnata come mi sembra d'essere a valutare prima di spendere, di donare, di trattenere, di depositare … Quante volte mi è capitato e mi capita di non " resistere " ad una spesa, di " pesare e misurare " troppo un gesto di solidarietà, di accontentare un mio desiderio, di " giustificare " una scelta, di " depositare " per una esagerata paura del futuro. La fedeltà alle promesse non è poi così facile! Sono sempre la lettura e la verifica periodica che mi aiutano a capire le mie preferenze e mi sollecitano a cambiare. In tutto ciò riconosco l'utilità di questo strumento, di questo atto apparentemente formale. Non si tratta più solo di fare " quadrare " un bilancio … Si tratta di concretizzare la mia risposta d'amore e di libertà che non ha limiti. Il bilancio è uno strumento per misurare questa risposta e come tale va " usato ", non solo " compilato " perché sia davvero chiave di lettura della mia vita, della mia fedeltà. La realtà del mondo di oggi, che molto più del passato chiede giustizia e solidarietà, non solo interpella la mia generosità nel " donare " ma mi " obbliga " a mutare stile di vita. Se infatti dono di più in solidarietà perché possiedo, ma il mio stile di vita ( abbigliamento, viaggi, spese non necessarie, arredamento, mode consumistiche, primizie … ) continua ad essere quello degli anni " boom ", quando la realtà socio-economia era diversa e gli extracomunitati, i profughi, i disoccupati, le realtà del Terzo mondo … non erano davanti ai miei occhi, vuoi dire che qualcosa non va e le cifre del bilancio me lo devono rivelare. In un cammino di consacrazione nella spiritualità francescana, la misura di ogni mia scelta mi viene solo dai bisogni dei fratelli più poveri e se io ancora fatico a discernere per scegliere concretamente, vale la pena di rivalutare il " bilancio annuale ", affinché diventi uno strumento-stimolo che mi conduca a un di più di fedeltà alla mia vocazione nella obbedienza, nella povertà, nella condivisione, nella sobrietà, nella gratuità. B.L. Ma quali possono essere le esigenze dei fratelli? A volte non riguardano solo beni materiali, ma anche valori che concorrono alla dignità e alla libertà della persona, all'appagamento delle aspirazioni più profonde: affettive, culturali, spirituali … Forse una delle cose che meno ci costa, è di dare denaro o tante altre cose materiali; cioè si danno cose materiali senza farsi molte domande del bisogno reale per cui vengono chieste le cose. Il problema peggiora ancora quando oltre a queste " cose " ci vengono chieste altre " cose "; per esempio: tempo. Oggi chi più chi meno è occupato in mille compiti ed il tempo indubbiamente non avanza; " non sognare di condividerlo! quel poco che ho l'utilizzo io! " questa è la tipica frase tra noi. Il male che sta flagellando la società, oggi, è la mancanza di dialogo perché non si ha tempo per ascoltare gli altri ( ecco perché dicevo che una delle maniere per tranquillizzare la coscienza è dare " cose " ). Non posso essere disponibile senza condividere quello che ho, e quello che ho prima di tutto è la mia propria persona così com'è, santa e peccatrice. Perciò con i beni, i talenti e la realtà concreta che vivo. Essere e stare disponibile, così come Gesù fu con tutta la gente! Per me è uno dei modi per vivere la povertà; senza tralasciare di considerare fondamentale la comunione di beni, credo che nella proporzione con cui si " capisce " di nuovo che niente ci appartiene e che tutto si deve mettere al servizio degli altri ( così come facevano i primi cristiani ), saremo costruttori di una Chiesa umile e povera. A. - Argentina In ordine alla povertà ho fatto mie queste due indicazioni: - usare il denaro senza l'ansia di possedere, anzi mettendolo a servizio dei valori evangelici e a disposizione dei fratelli nel bisogno; - essere segno di libertà e della capacità dell'uomo di vivere al di là della materia, mettendo al primo posto la fraternità e i valori dello spirito. L'uomo ha bisogno delle cose materiali ( cibo, vesti, casa … ) perché egli vive in un corpo strettamente unito allo spirito; ma anche questi beni, di fondo, non sono " beni materiali ", ma mezzi per la dignità e la crescita umana. Pensiamo al significato di una casa … Ma vive anche di " valori "; amicizia, gratuità, intelligenza, preghiera, espressione artistica, condivisione, gioia … Da qui nasce l'importanza di usare il denaro anche per coltivare questi valori: la comunicazione fra le persone ( giornali, viaggi, posta, telefono … ); l'arricchimento intellettuale e spirituale, la cultura ( libri, cinema, teatro, viaggi, giornate di studio, corsi … ), amicizia e condivisione, crescita armonica della persona ( studio delle lingue, hobbys, armonia anche esteriore … ). Questo si traduce facilmente nella nostra vita personale e comunitaria, nel superare la pigrizia o gli schemi di " non telefono perché costa ", quando so che l'altro può aver bisogno o piacere di un contatto con me o io stesso ne sarei ristorato; di " non vado a quell'incontro perché costa " se so che ne ricaverei frutti spirituali, ecc. Ci sono molte altre cose materiali a cui potrei rinunciare, per mettere al primo posto i valori dello spirito! Ed ancor più importante, tale atteggiamento ci porta a saper essere " umili nel ricevere come nel dare ", pur di mettere al primo posto questi valori; ad esempio: " io ho tempo di andare a trovare un ammalato, ma non ho i soldi per prendere il taxi di cui avrei bisogno ": chiedo e condivido la gratuità del servizio; " io proprio non ho la possibilità di fare viaggi ma ho il mio guadagno ": dono e condivido la gioia di altri che si incontrano; " io possiedo libri ed altri hanno la voglia di leggerli " ( o viceversa ): li presto ( o li chiedo ) e condivido la scoperta di una crescita; " sono stanca e avrei bisogno di … ": faccio ciò di cui ho bisogno e " vivo "; " so che la tale persona è sola, ma non ho tempo ": telefono e lancio un ponte. Gli esempi ognuno li può trovare nella sua vita, sono infiniti. Questi non sono che esempi e forse un po' semplicistici, ma ho cercato di tradurre un concetto che è molto più profondo: non fermarsi mai al " costo ", come se il denaro fosse il centro dell'universo. A. B. Cogliamo infine, dalla testimonianza che segue, i tratti di una esperienza maturata in una condizione di povertà esistenziale che va ben al di là dell'uso delle " cose ": una esperienza sofferta, ma ricca e feconda, in cui la povertà si traduce in una consumazione di amore casto e obbediente e in una instancabile tensione missionaria. La mia esperienza di solitudine è ancora breve e limitata, ma per me è importante e significativa nel mio cammino di consacrazione per la missione. Nel 1970 la mia andata in pensione, dopo 35 anni di insegnamento, è coincisa dolorosamente con la morte della mamma. Mi sono ritrovata improvvisamente sola, con il vuoto dolorosissimo della sua assenza e insieme, compiuto l'impegno professionale, con la totale libertà di disporre del mio tempo. Poteva essere un difficile momento di adattamento a un nuovo stile di vita, forse monotono e insignificante, ma per grazia di Dio e con l'aiuto della vocazione, è stato semplicemente un continuare e intensificare il servizio volontario missionario. Sono stata e sono ancora impegnata in un movimento diocesano di pastorale degli anziani, anche se la malattia degli occhi che mi sta privando progressivamente della vista, mi porta a limitare almeno i miei impegni esterni. Per questa ragione, e per qualche problema di salute, normale nell'età avanzata, mi capita ogni tanto di fare la casalinga, sola e magari un po' malandata, per giornate e anche per settimane intere. Dunque penso di poter dire con gioia sincera, che vivo la solitudine, non come una difficoltà, ma come uno spazio importante e significativo della mia consacrazione. È il tempo della fede, che intuisce e accoglie il mistero della presenza amorosa del Padre nella mia vita; è il tempo del raccoglimento, della preghiera silenziosa, della contemplazione e della lode; è il tempo in cui posso offrire il mio piccolo granello di dolore sull'altare del grande sacrificio di Cristo Gesù per il Regno. La solitudine mi porta a vivere in pienezza i consigli evangelici: la castità, che è amore totale al Signore Gesù e, in Lui, a tutti i fratelli; la povertà, che è privazione ( per me temporanea ) di rapporti intensi e significativi e vivaci con il prossimo; l'ubbidienza alla volontà di Dio, che si manifesta attraverso le situazioni e gli avvenimenti, come ci ricorda il nostro regolamento. Dunque non l'isolamento, ma la solitudine abitata, cioè la solitudine missionaria; nella mia casa entra il mondo intero, la Chiesa e l'umanità tutta, attraverso i mezzi di comunicazione sociale, che mi permettono di conoscere, di capire, di condividere, di gioire e di soffrire. Il telefono è poi una grande risorsa, per portare avanti gli impegni del servizio pastorale, ma anche per approfondire e affinare i rapporti di famiglia e di amicizia, che in altri tempi siamo portati ad accantonare. A. M. - Monza Obbedienza La ricerca di significato sembra farsi più esigente per l'obbedienza che non per gli altri due consigli evangelici, proprio perché la nostra vocazione secolare, accentuando la responsabilità personale, riduce ad un filo molto tenue il vincolo di obbedienza sancito all'interno dell'Istituto. Cogliamo dalle riflessioni - esperienza che seguono alcune interpretazioni assai stimolanti del significato della nostra obbedienza secolare. È con grande gioia ma anche con un po' di pudore che tento di comunicarvi la mia esperienza in ordine all'obbedienza. Sì perché è da poco che l'ho ( passatemi il termine ) " conosciuta " e come tutte le esperienze nuove sono, per la persona che le vive, estremamente intime ma altrettanto prorompenti. Da più tempo andavo cercando un modo per vivere l'obbedienza secolare e in questi ultimi mesi mi era diventato davvero un assillo il chiedermi: " cos'è per me e che significato può avere per una secolare consacrata la virtù dell'obbedienza? ". Credo che la conversione, come d'altronde tutti i doni, sia avvenuta nel momento in cui ho sperimentato davvero la " bontà del Padre " ed ho accettato in me l'essere " sua creatura ". Proprio questa novità di rapporto ha rivoluzionato tutta la mia ricerca e dal tentativo ostinato di " acquisire " sono passata al tentativo di " lasciare ", di " abbandonarsi ". Lasciare anzitutto la parola dover essere per cercare semplicemente il mio essere. Lasciare il desiderio del continuo fare, produrre anche spiritualmente, per sentirmi già dentro una vita spirituale che mi avvolge e ci avvolge e ci adombra fin dal nostro nascere. Lasciare l'ansia del dover rispondere a tutto, di essere dappertutto, di essere la " prima ", di risolvere, anche in campo professionale, tutto come fossi un piccolo dio, per accettarmi limitata, per accettare i fallimenti e per accettare e godere la grandezza dell'essere creatura di Dio. Aprire gli occhi su questa grande verità ha significato per me, non senza difficoltà, cambiare rotta a 180°. Dalle tante sicurezze ( o almeno presunte tali ) passare all'esperienza dell'abbandono. L'accettare, il riconoscermi creatura è stato per me una grossa liberazione: il passaggio dalla schiavitù della legge alla libertà dell'amore. E obbedienza è amore. Per amore sono nata alla vita, per amore sono stata chiamata a sequela, per amore mi è stata donata una comunità, per amore mi si chiede di vivere oggi e qui la mia storia. E quando ci si sente davvero amati, la risposta non può che essere amore: - amore che si ama e si dona con la stessa intensità; - amore che si accetta con tutti i limiti e le imperfezioni e che accetta quindi con altrettanto amore i limiti e le imperfezioni dell'ambiente e dei fratelli perché non si pone più a modello o giudizio; - amore che non cerca imitazioni o modelli da copiare, ma che assume con gioia tutta la sua originalità, riconosce i propri talenti, e li vive in pienezza per essere quel frammento di mondo accanto a tantissimi altri frammenti che compongono il progetto intero. Obbedienza, quindi, per me ora vuoi dire godere sempre più del mio essere creatura, del mio essere donna amata e desiderata da Dio, posta in questo tempo e in questo mondo accanto ad altri fratelli e sorelle, per essere, con la mia originalità di risposta, quel piccolo germe di bene nelle situazioni del mio piccolo o grande quotidiano; in famiglia, nel lavoro, nel sindacato, nel gruppo vocazionale, nella Chiesa. M.D. Che cosa è stata e che cosa è tuttora per me l'obbedienza? Valutando le mie esperienze passate, per me l'obbedienza era vissuta come un passivo piegare il capo di fronte a chi mi comandava; il dire un sì all'autorità costituita; pensavo all'obbedienza come a qualcosa da eseguire, che mi veniva imposto e non come qualcosa che continuamente nasceva dall'interno. Ma con il passare del tempo e in seguito a una presa di coscienza immensamente più costruttiva, ho capito che questo non era che l'aspetto esteriore di una virtù che è tra le più impegnative della vita cristiana. Vivere da cristiani e nell'Istituto infatti non è votarsi alla passività. Quale esperienza liberante è stata per me il vivere l'obbedienza come stile, al punto da desiderare di prendere io stessa l'iniziativa in alcune scelte personali verificate poi con la responsabile. Perché per me obbedire ora significa: " volere " quello che gli altri vogliono e ogni atto di volontà impegna e presuppone una scelta coscienziosa, " essere docili ", ma anche " offrire " una collaborazione impegnata di forze intellettuali e fisiche, morali e spirituali. Non è semplice obbedire, soprattutto quando non si riesce a cogliere fino in fondo il motivo di ciò che si esige da noi, e non è semplice neppure accettare un consiglio quando si ha l'impressione di poter fare molto meglio da sé. Obbedire significa soprattutto realizzare la giusta relazione con Dio, essere cioè disponibili a quella guida interiore che è lo Spirito in noi, così da non essere più noi che viviamo ma Cristo che vive in noi. È vero, occorre gettare il ponte con Dio e con gli uomini per ritrovare la strada di una gerarchia di valori. L'obbedienza ci pone su un piano decisamente sociale e ci proietta in un mondo di incontri con Dio e di relazioni con il prossimo. Ecco perché si deve obbedire, perché lo richiede il bene comune, perché è un atto di adesione alla volontà divina che si manifesta attraverso persone e circostanze terrene, perché obbedire significa sentirsi, vivere a contatto con gli altri in un rapporto di amore che perfeziona l'essere e lo indirizza a Dio. Ma ci vuole umiltà, discrezione, fiducia e bontà immensa. Obbedire è essere liberi. R. C. - Bergamo La parola " obbedienza " sul primo momento fa pensare a un comportamento virtuoso, a una sottomissione, a una osservanza fedele. Capire che l'obbedienza è un dono, cambia l'atteggiamento di fondo del proprio modo di essere: è sapersi " amati per primi " e resi capaci di volere il bene con dedizione. Comprendere l'obbedienza cristiana, consacrata, secolare, come relazione a Cristo impegna nella propria realtà in una ricerca e risposta personale sempre in atto, ma non sempre percepibile con chiarezza, in modo sicuro, totale. Credo che vivere la libertà e realizzare l'obbedienza nell'Istituto significhi poter ricevere-offrire un servizio di discernimento, di condivisione, di verifica rispetto al bene vero di ciascuna ed anche consapevolezza che cercando luce si può dar luce e che si può crescere insieme nella gratuità. Sperimentare quindi la gioia-fatica di rendersi disponibili ai bisogni che sollecitano, comporta di voler liberare le proprie energie migliori per offrire quello che si è ed anche accettare l'impatto con le proprie resistenze lavorando sui condizionamenti che frenano, con quella fiducia che sa di poter ricevere fiducia. Certo, la presa di coscienza dei bisogni che io colgo, in relazione alla disponibilità vera che attuo, mi fa sentire molto impari al compito, all'impegno, ma a volte guardando ad altre missionarie colgo in loro una tale disponibilità, una trasparenza disarmante, che incoraggia, fa bene. G. O. - Venezia Anche l'obbedienza, per noi che siamo chiamati a vivere nel mondo la radicalità evangelica, deve incarnarsi nel contesto di vita che ci è proprio, fra le sollecitazioni più diverse che ci provengono quotidianamente dall'ambiente, e svilupparsi come realtà dinamica giorno dopo giorno. Si confonde spesso l'obbedienza con il dire " sì " ad un ordine, ad un comando, ad una legge, al Vangelo, alle costituzioni, ai responsabili. Vale la pena di dire questi " sì ", credere a questi " sì " e rinnovarli continuamente, solo se l'obiettivo non è il non trasgredire ad una certa richiesta, ma è il cercare dentro queste proposte, questi mezzi, queste piste, queste persone, la traccia, la risposta, la bussola del nostro cammino verso … Il nostro " sì " ( obbedienza ) a Cristo non ci è chiesto una volta sola nella vita; ci è chiesto di riesprimerlo ogni giorno alla luce della sua Parola, della realtà, dei segni dei tempi, per renderlo sempre più concreto e attuale. La legge dell'Amore non è statica, ci sollecita insistentemente a mantenerci giovani, rinnovate, creative, aperte, e per questo pronte a sacrificare anche i nostri punti di vista, le sicurezze, le certezze, i programmi … Ogni giorno dobbiamo scegliere per non diventare acide, incallite, vecchie. Obbedisco ogni volta che condivido la mia vita quotidiana con Cristo; ogni volta che mi faccio carico della storia, della società, della realtà che mi circonda con la forza della speranza; quando accetto i miei limiti e incapacità; quando ascolto, compatisco, perdono; quando resto libera per la novità, disponibile per la sorpresa, l'imprevisto, il nuovo; quando lascio che l'amore si incarni dentro … per rinascere ogni giorno, in ogni circostanza, in ogni rapporto umano. G. B. - Bergamo Un particolare ambito dove il laico consacrato può essere chiamato ad esercitare l'obbedienza è quello di una responsabilità pubblica da vivere come servizio alla comunità. Maturità umana e intensa preghiera sono le condizioni per una coraggiosa fedeltà al progetto di Dio, per " essere nel giusto e operare con giustizia ". Da tempo sto esercitando l'obbedienza per quanto riguarda il mio rapporto personale con Dio come cristiana e come consacrata secolare. Essendo calata nella realtà umana sociale, e dovendo assumere la mia responsabilità anche pubblica, questo rapporto mi è indispensabile e non posso farne a meno. L'essere giorno per giorno a contatto con una realtà, che spesso è in contrapposizione col mio modo di essere e operare, l'interpellare Dio mediante l'ascolto, l'attenzione e la preghiera, diventa per me, non solo motivo di tranquillità interiore, ma anche serena valutazione nell'agire. Questo mi serve come esercizio costante di obbedienza, e per acquisire coscienza e maturità sotto l'aspetto cristiano e umano. Forse, quando si vive nel proprio guscio, l'esercizio dell'obbedienza si riduce al proprio mondo, al proprio essere in rapporto personale con Dio, ed a volte non se ne sente nemmeno l'esigenza; ma il rapporto cambia, quando devi operare certe scelte per i " fratelli " ( non dico " gli altri ", perché Gesù " gli altri " li chiama " prossimo, fratelli " ). Questo comporta, secondo me, un continuo contatto con Lui, equilibrio, attenzione, sofferenza, umiltà, accettazione del proprio limite, e poi una grande dose di serena pazienza e attesa, per non compromettere il piano di Dio, ed anche per non suscitare l'antipatia o l'emarginazione da parte degli " altri fratelli " ( in questo caso mi verrebbe voglia di chiamarli gli altri ), quando molto spesso il loro modo di essere e giudicare le cose è all'opposto del nostro. Ecco allora che le mie antenne devono essere sincronizzate con Lui per captare le esigenze dei fratelli, valutarle, verificarle con Lui, e portarle avanti senza mollare mai, nel rispetto per tutti, passo dopo passo, con difficoltà spesso enormi di cui senti tutto il peso e la sofferenza, ma con la certezza di essere nel giusto e di operare con giustizia. In tutto questo non è che sia escluso il rischio, il compromesso, la sofferenza; anzi tutto ciò rimane, ma in fondo al cuore regna la calma, la certezza e soprattutto la speranza, pur nelle difficoltà. Per questo, senza questo rapporto continuo con l'Eucaristia, mi sentirei disarmata, disorientata, e dico con molta lealtà, con convinzione come Paolo " Tutto posso in colui che mi da forza ", " quando sei debole allora sei forte ". F. C. - Arzignano Una obbedienza matura e responsabile, quale dev'essere la nostra, richiede una grande capacità di discernimento. Nel contributo che segue sono indicati, come frutto di una matura esperienza, i mezzi indispensabili per sviluppare il discernimento necessario per operare responsabilmente le scelte quotidiane dettate dall'obbedienza. Perché la volontà di Dio si possa manifestare, richiede da parte nostra un ascolto costante, una ricerca senza interruzione e un atteggiamento altrettanto costante di preghiera: " pregate incessantemente "; è tutta una ricerca di ascolto umile e serena. Cosa non facile nella nostra vita così piena di imprevisti, in cui dobbiamo essere in grado di governarci sapientemente; naturalmente con una sapienza che viene dal cuore e che va chiesta umilmente al Padre. Il rischio che mi sembra di correre ogni giorno è la superficialità, l'arrendermi ad una vita più o meno comoda, o comunque senza pormi troppe domande. Ma posso dire che sento dentro di me che Cristo mi vuole impegnata fino in fondo, con tutte le mie capacità di discernere, di valutare, di scegliere e di capire, di chiedere a Lui con l'umiltà della creatura che si rivolge al Creatore. Tutto questo richiede una profonda umiltà che mi faccia accogliere tutto ciò che di positivo mi viene dagli altri, dagli aiuti che l'Istituto, la Chiesa, mi offrono per formarmi sempre più una coscienza attenta, illuminata, creativa, capace di discernere nelle varie circostanze del mio vivere quotidiano. Sento come fondamentale: - una unione costante con Dio Padre - una preparazione altrettanto costante delle cose umane e divine - un dialogo chiaro e sereno con la responsabile per verificare il vissuto con obiettività, proprio per trame dei suggerimenti, delle linee valide per una sempre maggiore presa di coscienza. L'obbedienza è un Sì che rispondo a Dio nella libertà, è un atto di fede e di umiltà per una realizzazione vera in Cristo. L'obbedienza nell'ambito della professione, nella vita sociale, civile, l'obbedienza alla Chiesa, all'Istituto sono le varie espressioni del mio vivere quotidiano; obbediente nelle piccole cose come nelle grandi realtà; è un continuo chiedere " cosa vuoi che io faccia in questo momento? ". U. G. - Firenze Fra i mezzi più utili, anzi indispensabili per noi, come aiuto a vivere l'obbedienza, c'è il rapporto con la responsabile e il confronto nel gruppo: canali privilegiati, oltre alle costituzioni, attraverso cui passa la mediazione dell'Istituto. A proposito dell'obbedienza nella vita di consacrazione, c'è forse un aspetto su cui non abbiamo riflettuto abbastanza: la grande sapienza e maternità della Chiesa nello stabilire che il consacrato non sia mai solo, ma sia sempre in comunione con altri fratelli impegnati nella stessa ricerca … La comunità, l'azione dei responsabili nella vita di consacrazione, non è una limitazione della libertà del singolo, non ha per scopo l'annullamento della sua personalità e nemmeno l'accettazione passiva di imposizioni in cui altri hanno cercato e coperto per noi la volontà di Dio … L'obbedienza consacrata non è una dimissione delle nostre responsabilità ad altri, un aderire passivamente al pensiero di chi ci sembra incaricato di trasmetterci la volontà di Dio. Nella consacrazione la Chiesa non lascia solo il consacrato, perché " non è bene per l'uomo essere solo " ( Gen 2,18 ), lo invita perciò, a una ricerca in comune, a una ricerca insieme. Infatti Gesù ci ha assicurato che " se due di voi, in terra, si troveranno d'accordo su ciò che debbono fare e chiederanno aiuto nella preghiera, il Padre mio glielo concederà. Perché se due o tre si riuniscono per invocare il mio nome, io sono in mezzo a loro " ( Mt 18,19-20 ). Il modo migliore, quindi, a mio parere, per vincere le difficoltà all'obbedienza è vivere fino in fondo questa ricerca in comune, che già ci costituisce in un inizio di quella unità nel Cristo che è la vocazione finale di ogni uomo, perché già il Cristo ci assicura di essere in mezzo a noi. Ecco perché nel nostro vincolo dell'obbedienza l'essenziale non è l'accettazione del pensiero della responsabile, ma il cercare insieme con lei ed eventualmente con tutta la comunità … Questo, naturalmente, esige un dialogo sincero e leale, disponibilità a lasciare il proprio punto di vista per accettare quello dell'altro, o qualunque altra soluzione che alla luce dello Spirito, nella sincerità e libertà di cuore, ci sembri valida, assumendone tutta la responsabilità. Ecco perché il nostro modo di vivere le costituzioni, viene determinato da ciascuna personalmente, in dialogo con la responsabile, non in modo fisso, ma in una forma dinamica sempre suscettibile di nuove soluzioni, e richiede che ci abbandoniamo allo Spirito in modo attivo, perché sviluppi in noi i doni del battesimo e della confermazione, ci formi allo spirito delle beatitudini, ci aiuti a vivere nel mondo il Vangelo in un impegno di autenticità, nella ricerca dell'essenziale. R. P. - Milano Nel gruppo ci si aiuta reciprocamente nel modo di vivere l'obbedienza. Per ricevere dall'altro bisogna avere il cuore libero; sono necessari ascolto e umiltà per comprendere la manifestazione della volontà di Dio su di sé e sul gruppo. Per questo è necessario pregare prima e dopo ogni incontro. Il dialogo non deve mai condurre a scontri: nello scontro non si condivide, ma si cerca di dominare, mentre bisogna arrivare alla ricerca della verità. È indispensabile il reciproco rispetto, anche se l'altro è di parere contrario o se non c'è una naturale simpatia. Una forma di rispetto è anche la discrezione: non tutto è da dire e da sapere. Gesù è un modello di rispetto nel dialogo con quelli che incontra: rispetta la timidezza di Nicodemo e lo riceve di notte ( Gv 3,1-15 ); forse proprio per questo Nicodemo ha camminato, ed è cresciuto nella Fede fino al coraggio di difenderlo ( Gv 7,50-51 ) e più tardi di seppellirlo ( Gv 19,39-40 ). Bisogna imparare, nell'umiltà e nella verità, a riflettere su ciò che è detto, ed accoglierlo anche se rovescia i nostri gusti, le nostre abitudini, il nostro modo di pensare e di vivere, ed utilizzare ciò che è buono per noi, confrontandolo con il Vangelo, il pensiero della Chiesa, le costituzioni. T. M. - Francia Una questione di fondo, anche come fatto culturale, è il rapporto esistente fra libertà e obbedienza che da sempre fa problema e non solo per noi. Il contributo che segue ci aiuta a riflettere su questo rapporto dialettico con una serie di stimolanti considerazioni nate dall'esperienza. Esiste un rapporto tra libertà ed obbedienza. Libertà vera è libertà da noi stessi, quella che ci permette di accogliere Cristo in modo totale, di lasciare spazio a Lui ed a tutto ciò che è Suo, quella che ci aiuta a vivere la nostra realtà storica, il nostro quotidiano, secondo il Suo stile, in trasparenza. La ricerca di noi stessi ( prestigio, bella figura, gratificazione, riconoscimento, comodità … ) non ci fa liberi. Libertà è vivere in profondità e verità, nell'integralità del nostro essere, la legge che Dio ci ha proposto e che noi abbiamo accolto. Obbedienza, allora, è vivere la pienezza della legge non come " rinuncia … " ma come " scelta di … " con tanto amore, soprattutto nella semplicità della nostra vita d'ogni giorno. Solo in questo atteggiamento inTeriore possiamo esclamare col Salmista: " La tua legge o Signore è fonte di gioia! ". Come viviamo la nostra obbedienza? Come facciamo trasparire ciò che è dentro di noi? Cercando di realizzare il progetto di Dio nella nostra storia personale, in quella che viviamo ogni giorno ora per ora, nella famiglia, nell'ambiente professionale, nella comunità ecclesiale e sociale in cui siamo inserite, nella comunità dell'Istituto, depositario d'un carisma che abbiamo accolto per farne l'anima della nostra vita, nei rapporti con ciascuna di noi … con i fratelli che hanno bisogno della nostra attenzione, della nostra accoglienza, del nostro aiuto, del nostro silenzio forse più prezioso delle parole, che hanno sete di fiducia, di speranza, di amore … Nella nostra vita di secolari consacrate, in mezzo agli altri, ci è di guida il " progetto di vita " che ci diamo con l'aiuto ed il consiglio della responsabile e che verifichiamo periodicamente, almeno nei suoi contenuti essenziali. Esso costituisce il binario, " la grande strada ". Nel periodo della mia adolescenza frequentavo un gruppo studentesco e ricordo l'immagine, l'idea della vita che il catechista ci presentava nelle sue lezioni formative. Così vedevo la mia, proiettata nell'avvenire, verso il traguardo finale come una grande strada delimitata da paracarri: oltrepassarli significa scivolare lungo la pericolosa scarpata e … cadere … Ecco: ora l'" impegno personale " costituisce ed esprime le linee direttrici del mio cammino nella realizzazione della vocazione, della chiamata personale; ma percorrendo quella strada, quante volte, ogni giorno di fronte agli imprevisti vengo coinvolta nelle piccole scelte che richiedono intuizione, sensibilità, intelligenza, iniziativa, prudenza, coraggio, disponibilità, pazienza … Allora sono sola, libera, autonoma, ma proprio per questo più responsabile, personalmente, di come rendere " vera " la mia vita affinché essa sia significativa, affinché possa esprimere i segni del carisma che è diventare " sale della terra, luce del mondo ". G. N. - Trento Il contributo con cui concludiamo questo spaccato sull'obbedienza ci presenta la testimonianza di tutta una vita e ci offre riflessioni profonde, maturate attraverso un lungo e talora sofferto obbedire. Oggi, attraverso il cammino di oltre venticinque anni, il cui inizio fu segnato dal primo reale incontro con il Cristo e subito dopo dalla chiamata alla consacrazione, lo Spirito Santo mi fa capire con lucidità che nulla è più importante, più essenziale, più concreto e " visibile " dell'obbedienza. Il Signore mi ha concesso molteplici esperienze che ho vissuto, come si dice, " condizionata " da un super-ego esigente, da una sensibilità eccessiva, da un bisogno sempre presente e a volte struggente di protezione e di appoggio, da una famiglia iperprotettiva, da una salute fragile, da lunghi tempi di malattia, da contraddizioni, sbagli, peccati. Ma sempre, nonostante tutto, i miei occhi hanno " visto " la fedeltà del Signore che non ha mai cessato di ammaestrarmi proprio attraverso la vita, dandomi anche la possibilità di verificare che davvero Lui " scrive diritto sulle nostre righe storte ". L'aver perduto spesso la faccia davanti a Lui, ha contribuito a mettermi nella verità, a ridimensionare la velleità di affrettare o di inventare i tempi della mia maturazione, a guardarmi dal ripetere l'errore di obbedire per timore, o per liberarmi dal senso di colpa o per compiacere gli altri nella ricerca magari inconscia di stima e di giudizi positivi. Una vita non si può raccontare in poche righe, soprattutto se la filtri attraverso l'obbedienza. A me sta a cuore testimoniare che sono passata attraverso tutti i conflitti psicologici propri dell'obbedienza e che non mi sono mai mancati la luce e l'aiuto offertomi dal Signore. Mi è stato facile, ad esempio, rispondere a consigli o a proposte che ho ritenuto obbliganti per me in una data circostanza, inconsapevolmente delegando ad altri la responsabilità di decidere al posto mio, e per qualche tempo mi sono sentita a posto, come quando sai di aver fatto ciò che andava fatto, ma poi ho scoperto nel mio profondo resistenze e ribellioni che sono esplose rischiando di travolgermi. Ho sentito che per me era questione di vita o di morte riappropriarmi della mia libertà interiore, affrettando però troppo i tempi e pagando con la sofferenza mia e degli altri. Ho toccato con mano che ogni comando, ogni legge, ogni prescrizione, ogni cosa che non sia scelta libera e motivata del cuore, inaridisce ed uccide, diventa peso insopportabile ed a lungo andare alibi per accusare gli altri. Ho vissuto a volte circostanze, situazioni, rapporti senza gioia e senza libertà, illudendomi di fare la volontà di Dio, in realtà prigioniera di uno sforzo superiore alle mie forze. Sono certamente questi conflitti non risolti e non sanati di vera obbedienza la radice e la causa di esaurimenti, di disamore, di fughe e, a volte, di defezioni. Per non parlare dei sensi di colpa reconditi e palesi per non aver fatto quello che ti sembrava di dover fare … E non ci sono forse tradizioni ambientali, cose che non hai voluto, situazioni in cui non hai scelto di trovarti, che magari ti illudi di accettare e di vivere e dalle quali all'improvviso ti senti perseguitato e ricattato? Non è certamente questo il senso dell'obbedienza cristiana e consacrata; non è questa passiva accettazione; non è questo fatalismo; non è questa illusione di aver fatto, di essere nel giusto. L'obbedienza è pace e la vera pace è Gesù Cristo. L'obbedienza è adesione di tutto l'essere ad una Persona, a Gesù Cristo che è il Sì perfetto, che è il Signore. Riconoscere che Gesù è il Signore, perseverare nella sua Parola è conoscere la verità ed essere nella libertà che è il motivo profondo dell'obbedienza. Stando con Gesù, imparo a mangiare un pane diverso da quello che di solito mangio con avidità, a cibarmi cioè non del mio egoismo ma della volontà del Padre, non in astratto o a grandi linee, ma espressa momento per momento dalla sua Parola, attraverso le mille mediazioni umane che Dio mi presenta nel vissuto quotidiano. Restando con Gesù, imparo a stare al mio posto, ad accettare i miei limiti e quelli dei fratelli, ad entrare con letizia e con fiducia nel " tempo " per ogni cosa, nel tempo di vivere e nel tempo di morire, voluti e fissati da Lui ( non scelti e programmati da me ). Entro cioè nella storia che Dio mi fa accettare come buona per me, vista come l'unica capace di contribuire alla mia salvezza. Guardando Gesù, imparo a dare significato a tutti gli avvenimenti, a tutte le cose che capisco e che non capisco, sempre vedendo il segno del suo amore provvidente e misericordioso; imparo soprattutto a non fuggire dalla croce, ma ad entrare in essa " crescendo nelle sue radici e distendendomi nei suoi rami ", accetto senza scandalizzarmi il grande grido di angoscia del mondo ed incontro la risurrezione. L'obbedienza è ascolto attento e continuo di Dio che dialoga con me attraverso le persone, i fatti, le stagioni, le situazioni, i segni della mia vita. " Come gli occhi dei servi sono fissi alle mani del loro padrone, così i nostri occhi a Tè, Signore " per imparare a leggere e a interpretare ciò che Lui vuole per noi e, da noi. I nostri vecchi, così carichi di saggezza e di sofferenza, dicono " Stammi a sentire ", quando vogliono dai giovani non tanto un ascolto auricolare ma un cambiamento profondo di mentalità. L'obbedienza è questo " stammi a sentire " continuo che Dio ci rivolge interpellandoci con tenerezza. Tornando alla mia esperienza diretta, io vivo questi anni, che sento come gli ultimi della mia vita, come donna e come consacrata, in mezzo a difficoltà, incertezze, precarietà, situazioni che non posso cambiare, ma incominciando ad amare e ad accettare la mia storia, guardando soprattutto all'oggi. Il Signore sta permettendo che non possa fare più progetti nemmeno nello spazio di poche ore; vivo quindi la mia " ora " nella consapevolezza del mio nulla, ma benedicendolo perché mi fa capire con chiarezza che sono lontana dall'obbedienza tanto quanto sono in Lui. Sono come tutti in cammino di conversione con una forte tensione al " ricupero " in Cristo di ogni realtà, ma il mio cuore è ancora inquieto perché gli idoli non sono ancora tutti infranti. A. - Calabria L'orizzonte secolare di Maria in una vita consacrata per il Regno di Cettina Militello Mi sono chiesta tante volte se non proiettiamo in Maria sensibilità, scelte totalmente estranee all'orizzonte culturale di una fanciulla israelita del suo tempo. Consacrazione, secolarità, castità, povertà, obbedienza, missione come potevano iscriversi nella sua sensibilità, se a codificarli sarebbe stata la comunità delle origini e ancor di più la comunità del tempo? Ma come pensare la Madre di Gesù al di fuori del modello da Lui stesso predicato e messo in atto come adeguato alle dinamiche del " regno "? D'altra parte, anch'Egli deve avere assunto dalla madre, come ogni altro soggetto umano, quella sensibilità e quei valori che del proprio orizzonte familiare fanno, in modo indelebile, referente " culturale " originario. Confesso un certo disagio nel mettere insieme queste diverse istanze, tutte indubbiamente vere, pur se la loro " verità " necessita di contestualizzazioni e di ermeneutica. C'è un indubbio meccanismo proiettivo. La crescita di fede della comunità iscrive di tempo in tempo la Madre del Signore nei suoi peculiari valori. Gesù stesso non sfugge a questa corrispondenza proiettiva. I valori, poi, proprio perché espressivi di una fede sempre più matura hanno alla radice la parola di Dio, autorevolmente interpretata dalla primitiva comunità. I termini risulteranno magari più ampi o diversi rispetto alla valenza iniziale, ma si faranno sempre carico di una cresciuta intelligenza della fede. Sicché c'è stato un tempo in cui Maria è apparsa " modello " di riserbo, mansuetudine, silenzio. Ancora è apparsa " modello " nella esemplarità escatologica della vita verginale, in quel superamento dei limiti del sesso che ha tanto impegnato la donna nell'età dei Padri. Maria è apparsa " modello " attivo di penetrazione e intelligenza della parola a quelle donne che della scelta contemplativa hanno fatto l'orizzonte vitale. Si pensi alla Madonna della " lectio " così prossima al modulo monastico di acquisizione della parola. Maria è apparsa esemplare nell'orizzonte della " povertà " così come l'ha modulato la riflessione francescana e clariana. E, infine, è apparsa " modello " di vita attiva, sia nell'" insuccesso " della " Visitazione " - la comunità pensata da Francesco di Sales per Giovanna di Chantal è rimasta iscritta nel modulo claustrale -, che nel successo delle successive molteplici fondazioni. Nel nostro tempo la crescente attenzione alla " secolarità " ce la fa " modello " di una contestualità comune, quotidiana, prossima ai valori della presenza, prossima ai valori delle donne, nel loro fuoriuscire dal silenzio per accedere a piena e concreta partecipazione. Ogni " modello ", pur nelle sue enfatizzazioni, veicola valori; corrisponde ad aspettative reali della comunità ecclesiale, e delle stesse donne. Ogni modello non esaurisce la forza propositiva di Maria, che resta sempre al di là di ogni nostra strumentale assunzione. Ma sono queste le regole dell'esistente; le regole del nostro immaginario culturale. Per questa via, forse, riusciamo a dirla e a dirci nel nostro tempo. L'importante è esserne avvertiti allorché la diciamo " consacrata secolare fedele che ha vissuto la castità per il Regno, la povertà, l'obbedienza, come unità della sua missione ". Quello che importa, poi, è ricondurre il modello, la sua contestualità, all'originaria radice della parola. Certo rimane attiva la " tradizione " come memoria oggetti va della comunità. Ma a monte, tutta intatta, sta la suggestione della Maria evangelica. È con l'immagine biblica di Maria di Nazareth che dobbiamo confrontarci, sia pure nella ricchezza dell'oggi della fede. La consacrata secolare fedele Di questi tre termini soltanto l'ultimo - " fedele " - ha una sua ragion d'essere " biblica ". La " fedeltà " come traduzione esistenziale della fede è, di fronte all'impegno di Dio verso il suo popolo, impegno del popolo verso il suo Dio. Il Dio d'Israele è un Dio misericordioso e fedele: mantiene la promessa, non ritrae la sua parola, non rompe il suo patto. La fedeltà, l'aderenza alla sua parola, la confidenza nella sua azione liberatrice e salvifica, al passato come al futuro segnano, dunque, la fede d'Israele. Maria è donna israelita nel senso forte e pieno del termine. Luca la declina in tutta la forza esemplare del suo collocarsi nell'alveo dell'attesa del compiersi della promessa, del realizzarsi della parola di Dio in seno al suo popolo. È difficile legare Maria alla " secolarità ". Si tratta di un elemento estraneo alla sua sensibilità. L'orizzonte culturale cui appartiene ignora la rottura tra " secolare " e " sacro ". Non distingue la sfera propriamente religiosa da quella profana e " secolare ". E dunque per contiguità al nostro orizzonte che la iscriviamo nella secolarità. Certo è una donna, come tale esclusa dalla sacralità della " mediazione ". Proiettare nell'orizzonte d'Israele la separazione " chierici - laici " è, in ogni caso, improprio. Sono valenze successive, proprie dell'articolazione " sociologica " della comunità cristiana e del suo distinguere e separare il potere e la sua sfera " mondana " da quella " ultramondana ". Se, comunque, dicendola " secolare ", intendiamo disegnare la normalità quotidiana in cui si iscrive la sua esperienza di fede, passi pure l'espressione. Certo, la sua vita è quella di una comune donna di casa, di una figlia e di una madre di famiglia. La sacralità e il miracoloso di cui si fanno carico gli " apocrifi " nel narrarcene la vicenda dell'infanzia ( come pure della morte ) sono del tutto improbabili. C'è, tuttavia, un'altra possibile lettura del termine " secolare " ed è quello dell'orizzonte salvifico della storia al cui interno si colloca la vicenda d'Israele. Promessa, futuro, speranza sono categorie tutte che proiettano Israele verso un definitivo farsi prossimo di Dio. Il che importa la lode di Dio nelle creature e nel creato come spazio del suo manifestarsi salvifico. Nessun ritmo ciclico, nessun eterno ritorno, ma la linearità della storia, la tensione utopica, escatologica verso un compimento potente, transignificatore della stessa creazione. In questo senso la secolarità di Maria ha come orizzonte l'annuncio imminente del regno di Dio. La secolarità, dunque, il tempo, la storia come luogo della misericordia, dell'incontro, della salvezza. Anche il termine " onsacrata " fa problema, se lo ascriviamo a sua personale autodeterminazione. Se, viceversa, lo riconduciamo alla signoria dello Spirito e alla sua " unzione ", nessuno più di lei ne sperimenta l'azione trasformante. Chi più di lei conosce il " sigillo " dello Spirito? chi più di lei sperimenta la potenza dell'" unzione "? È quest'orizzonte " singolare " a reggere la flessione dei " consigli evangelici ". Davvero non potremmo proiettarli in Maria se non prendessimo atto della singolarità del rapporto che la lega allo Spirito. Rapporto che la fa già anticipazione del mistero della Chiesa. La castità per il Regno Al di fuori dell'impatto, dell'azione dello Spirito in Maria, non potremmo certamente parlare di " castità per il Regno ". Niente, biblicamente parlando, fonda un suo proposito verginale. Il dialogo con l'angelo, l'obiezione mossagli di " non conoscere uomo " ( Lc 1,34 ) prova la modalità straordinaria del concepimento, non già l'autodeterminarsi a vita continente. Che senso avrebbe mai il fidanzamento con Giuseppe? L'orizzonte " secolare " di Maria è proprio quello di ogni fanciulla ebraica del tempo che affida alle nozze e alla maternità la modalità più ovvia di corrispondere al disegno di Dio. Non si tratta di una scelta confidata all'innamoramento. Decidono i genitori, i parenti. Contano poco i figli nella contestualità della famiglia patriarcale. Certo, nelle modalità di tradurre la vita matrimoniale la castità non è esclusa; non come continenza assoluta, ma come rispetto delle regole in cui va iscritta la santità delle nozze. Dobbiamo supporre in Maria la totale corrispondenza tra la fede creduta e la fede vissuta. La castità, per lei, è dunque innanzitutto modalità espressiva dei valori del matrimonio così come li interpreta e li elabora la fede d'Israele. La castità assoluta, la verginità, come opzione di vita, come scelta coerente al mistero cui è chiamata, appartiene, dunque, allo Spirito; è conseguenza della maternità inaudita cui per grazia Ella è chiamata. Lo spazio della castità si fa dunque immediatamente spazio di altra reciprocità, sorretta da nuovo consenso. Al suo " essere per Giuseppe ", al suo naturale orientarsi all'altro nel segno della reciprocità antropologica delle nozze, subentra altra e inedita reciprocità nuziale, quella teandrica dell'accogliere il Verbo nella mente e nel cuore prima che nella carne. È reciprocità che esige " consenso ". L'obbedienza Ma il consenso che la creatura presta al Creatore ha il nome proprio di " obbedienza ". È riconoscimento del proprio limite, della propria fìnitudine, della propria contestualità creaturale. In quest'orizzonte " secolare ", quotidiano e comune, che iscrive la creatura nel disegno del Creatore, dobbiamo dunque collocare l'" obbedienza " di Maria, espressione anch'essa della fede; traduzione della sua fedeltà al Dio dell'alleanza. È impensabile nella trama relazionale, nella trama d'attesa fiduciosa verso il compiersi delle promesse che Ella maturi altra attitudine che non sia di consenso incondizionato al volere di Dio. L'obbedienza così è tutt'uno con l'atteggiamento fiduciale, con l'abbandonarsi al volere di Dio. Non si tratta di un atto formale, ne di un atto irriflesso. L'obbedienza di Maria non è irragionevole o acritica. Ella è persona che interloquisce, che chiede di capire, che obietta. Ancora una volta è il dialogo con l'angelo nunziante a suggerirci questo entroterra adulto, maturo di fede e di consenso. La povertà Castità e obbedienza si iscrivono entrambe nell'orizzonte della fedeltà, ma soprattutto declinano quella che ci pare di poter suggerire come categoria cardine a cui si riconducono anche le altre: la " povertà ". Maria è povera; fa confessione di " povertà " ( Lc 1,48 ). Non si tratta di una connotazione sociologica. Anche, indubbiamente. La moglie di un carpentiere non appartiene certo a una classe agiata. Ma la povertà di cui parliamo non ha niente a che fare con la condizione sociale o con i beni posseduti. Maria si dice povera, ma così facendo disegna l'orizzonte specifico della propria spiritualità e della propria fede. La povertà di cui parla è attitudine interiore. È stile, spiritualità. È abbastanza consueto mettere a confronto il " cantico di Anna " e il " magnificat ". Al primo certamente si ispira il secondo. Si tratta - ed è raro nella Scrittura - in entrambi i casi di una parola proferita da donne. Secoli e secoli separano il linguaggio, l'aspettativa di Anna, moglie di Elcana, da quella di Maria. L'una, pur teneramente amata, non ha figli. L'altra ancora non sposa porta già in grembo un figlio. Tutte e due queste donne sciolgono un inno di lode, tutte e due cantano il Dio d'Israele che s'è fatto carico della loro " povertà ". Anna, che povera non è, si dichiara " povera " ( 1 Sam 1,15 ) perché priva dell'unica ricchezza, dell'unica risorsa possibile per una donna del suo tempo. La povertà di Anna è quella di non aver figli. Su questa sua indigenza si posa la misericordia di Dio rendendola madre di Samuele. Anche Maria canta la misericordia del Dio dell'alleanza, il suo farsi carico della " povertà della sua serva ". Ma la povertà di Maria è altra cosa: è attitudine interiore; è spiritualità, germinata all'interno dell'Israele devoto e fedele che, messo a prova, pone in Dio e nel valore irrevocabile della sua promessa ogni sua confidenza e ogni sua speranza. È, dunque, un atteggiamento fiduciale, un atteggiamento filiale di abbandono; un rimettere a Dio il proprio presente e il proprio futuro; un vivere di sola fede. Certo la povertà così intesa per sua necessità disprezza il possedere e fa della povertà come connotato sociale un emblema e una riprova della propria scelta spirituale. La povertà così intesa può diventare sentimento solidale di condivisione e prossimità a chi è povero nel senso più immediato e materiale del termine. Che l'orizzonte della povertà di Maria implichi tutte queste cose non può farci dimenticare tuttavia come la povertà autentica implichi innanzitutto un orizzonte di valori: abbandono, fiducia, farsi carico, prendersi cura … Tra fede e missione Ci pare, comunque la si declini, che sia la fede la categoria trainante e interpretativa della condizione esistenziale della Madre del Signore. Ci si rapporti al mistero della sua " vocazione ", ci si rapporti al concreto esercizio della sua " missione ", emerge a monte del suo autodeterminarsi, del suo consentire all'azione di Dio e del suo Spirito, l'orizzonte vitale e originario della fede, da cui germina in tutta la sua complessità la ricchezza e singolarità della sua risposta. È l'assenso di fede ad acquisirla alla verginità per il Regno; è l'assenso di fede ad acquisirla all'obbedienza e al volere di Dio; è l'assenso di fede ad acquisirla all'orizzonte della povertà, della confidenza e dell'abbandono come stile esistenziale. Certo questa sua fede è inseparabile dalla speranza e dall'ardente carità. Ma è la fede il motore della speranza. È la fede il supporto della stessa carità. Fuori dall'orizzonte di fede Maria non può aderire all'interpellanza divina, non può consentire alla sua vocazione salvifica. E operata che abbia questa scelta di fondo, il resto è esuberanza della fede, sua ridondanza feconda. La sua castità non è chiusura a Giuseppe; non è orgoglioso privilegio. È molla incentivante, disponibilità e dono. Si tratti di Giuseppe, si tratti del Figlio, si tratti di Elisabetta, si tratti degli sposi di Cana o del discepolo che Gesù amava … La castità di Maria è generoso farsi carico, fecondo prendersi cura … La sua obbedienza non è remissività, rinuncia ai suoi doveri di madre. Ma è transignificazione della sua stessa condizione creaturale. L'obbedienza la rende capace di rimettersi alla volontà di Dio, alla sua parola, di sostanziare diversamente, oltre le regole della natura, la sua stessa maternità secondo carne. La sua povertà, infine, è la modalità propria, a lei peculiare di vivere la fede. Ancora una volta non si tratta di un vittimistico vilipendersi come creatura. Non si tratta di iscriversi in un orizzonte minimale che offende la dignità della creazione " ad immagine ". Il confidare in Dio e l'abbandonarsi a lui come dinamismo attivo della fede implica il compiere le opere di Dio, l'additarlo al giudice al di là delle regole umane. Implica il proferire a voce forte il suo disegno di liberazione e di salvezza, così lontano dalle nostre regole e dalle nostre stesse aspettative. Castità, obbedienza, povertà, germinano dunque nella fede, dalla singolare statura della fede di Maria che non ignora d'altra parte l'oscurità e il dubbio, ma in tutta normalità di donna e di madre vive l'angoscia del silenzio di Dio, vuoi nel separarsi da lei, nel rinnegarla, quasi, del Figlio ( Mc 3,31-35; Lc 12,27s ); vuoi nell'orrore del saperlo condannato alla morte di croce. La dinamica fiduciale della fede vince il silenzio di Dio. Anche lei come il Figlio si rimette alla sua volontà. Anche lei accetta la modalità scandalosa a cui il Padre ha affidato liberazione e salvezza. Maria accoglie lo scandalo della croce. Lo fa suo in pienezza come creatura che sopra ogni cosa confida e si affida al suo Creatore. La missione di Maria Se l'orizzonte di Maria è l'orizzonte della fede, in essa si iscrive anche la dinamica della sua " vocazione " e della sua " missione ". Come per ogni altra creatura la " vocazione " è tutt'uno con la chiamata alla fede. L'essere figlia d'Israele importa per Maria, sia pure al femminile, l'essere circoscritta nella funzione mediatrice del suo popolo. D'Israele Maria condivide il rapporto nativo, originante, alla parola. Benché come donna sia esclusa dalla mediazione propriamente sacerdotale confidata ai maschi della tribù di Levi, Maria si colloca nell'alveo comune della consacrazione del suo popolo, tutto intero " separato " per il suo Dio. Del suo popolo condivide l'iscriversi in una regalità che è innanzitutto e soprattutto quella di Dio stesso, re d'Israele. La tradizione evangelica colloca lei e Giuseppe nella discendenza davidica, ma ciò che importa è la regalità comune, partecipata dall'intero popolo, riverbero dell'elezione e della chiamata così come la declina Es 19,6. Del suo popolo condivide la dimensione profetica, cui accede in prima persona come altre donne in Israele. Di Maria " profetessa " hanno non a caso parlato i Padri. Alla locuzione profetica, d'altra parte, appartiene il " magnificat ". La vocazione di Maria all'interno del referente regale profetico sacerdotale del suo popolo a maggior ragione consente di interpretarne la missione secondo le dinamiche funzionali del nuovo popolo di Dio, che ella anticipa e di cui è membro sovreminente ( LG 8 ). La missione di Maria insomma è tutt'uno con il partecipare, in modo " singolare ", alla mediazione salvifica che la comunità credente eredita da Cristo re sacerdote profeta. Castità, povertà, obbedienza come stile esistenziale, come traduzione della fede, diventano così modalità proprie del tradurla nella funzionalità di regalità sacerdozio profezia. La missione di Maria si fa carico con valenza " personale " e con valenza " comune " di tutti e tre i termini della terna. E insieme mostra l'impossibilità di esercitarli fuori della contestualità " evangelica " della castità, povertà, obbedienza. Se la valenza comune della regalità mostra Maria nel passaggio dalla regalità del popolo d'Israele alla nuova regalità che scaturisce dalla kenosis dell'abbassamento del Figlio di Dio servire il quale è regnare ( LG 36 ), la valenza " personale " della regalità riconduce Maria alla funzione sua singolare e specifica, l'essere madre del redentore. Maria è regina perché biblicamente è madre del re davidico ( Lc 1,32s ). Ma questa regalità di tipo " personale " non può prescindere dall'orizzonte di servizio che caratterizza la regalità del Figlio ( Lc 22,24-27 ). Lo stile esistenziale vede dunque un convergere di regalità e servizio. Sicché è la " povertà " in ultima analisi la chiave interpretativa della regalità e del regno. Così a livello " personale ", il rapporto di Maria alla " parola " chiama ancora una volta in causa il privilegio della maternità divina, la funzione sua di madre del Verbo, di creatura che al Creatore offre la sua carne di donna; a livello " comune " il generare il Verbo corrisponde alla necessità vitale d'ogni cristiano di annunciarlo, testimoniarlo, accoglierlo. Ma il generare il Verbo importa il riconoscimento di Lui come Signore, importa la scansione di sé come " creatura ", importa ancora una volta l'iscriversi in un orizzonte di kenosis, di abbassamento, condizione stessa della divinizzazione e del regno. Nessun profeta parla a suo nome. La profezia esige il riconoscimento di Colui nel cui nome io parlo. Esige confessione della propria indigenza e del proprio limite. Ancora una volta è la povertà lo stile fondamentale del regno. Sembrerebbe anche per Maria, perché donna, assolutamente necessario circoscriverla nell'orizzonte " comune " del sacerdozio. Ma ancora la singolarità della sua funzione, il suo essere la Madre del Signore mostra l'inadeguatezza delle nostre classificazioni. La funzione di Maria in ordine alla salvezza è propriamente " sacerdotale ". Il suo è " sacerdozio " che implica la transignificazione della sua stessa carne. È quanto opera in lei la potenza dello Spirito. Sicché la vocazione originariamente dossologica di Adamo ed Eva, dell'umanità creata per restituire a Dio il creato in lode della sua gloria, si complica nella modalità nuova e inedita di un rendimento di grazie che è offerta della propria stessa carne così che venga trasformata nella carne dello stesso Figlio di Dio. Nessuna epiclesi è più potente. Nessun offerente è più adeguato. La mediazione è confidata non più ai segni, ma al soggetto stesso che si offre accettando di farsi offerta. Il mistero della maternità divina ha molto da dirci in questa direzione. Ma al di là degli aspetti non ancora approfonditi, comunque si legga la soggettualità offerente di Maria è indubbio l'orizzonte vitale della sua " povertà ". Accettare di essere partner di Dio nell'alleanza esige ancora una volta kenosis, confessione d'indigenza, professione del proprio limite di creatura. In questa prospettiva appare poi evidente il filo rosso che intercorre tra castità, obbedienza e povertà, il loro essere tutt'uno nella forza interpretativa del sapersi poveri e indigenti di fronte a Dio, in tutto necessitati all'ossequio e all'abbandono al suo volere. Che la creaturalità resti l'orizzonte dell'esistenza di Maria e della sua missione, lo prova poi, al di là della sua partnership nell'incarnazione, la vocazione ultima ad iscrivere il privilegio stesso della maternità nella regola kenotica della dismissione della maternità secondo la carne per accedere a maternità secondo lo Spirito. È il discepolato, la famiglia escatologica dei discepoli, l'orizzonte ultimo della vocazione e della missione di Maria. Non a caso la ritroviamo in preghiera con i discepoli in attesa di quello Spirito che ha già transignificato la sua carne iscrivendola nella condizione più alta cui è mai stata chiamata una creatura. Le esigenze e le regole del Regno ignorano ogni privilegio. È nuovamente dallo Spirito che Maria come ogni altro discepolo mutuerà la sua missione. In quest'evento, castità e obbedienza torneranno ancora a significare i valori impreteribili del Regno, ma soprattutto la povertà, la docilità e la condivisione ( At 2,42ss ) indicheranno lo stile di servizio a cui è chiamata la comunità nel tempo. Nel paradosso della sua esistenza, nella polarità di ciò che ce la rende " sorella " e di ciò che ce la rende " modello ", Maria continua ad additare a ciascuno di noi e alla comunità intera l'orizzonte del servizio come orizzonte della missione. La provocazione di un modello Fede - speranza - carità, povertà - obbedienza - castità, regalità - sacerdozio - profezia costituiscono i referenti dell'esistenza cristiana. Ma, lo annotavo all'inizio, ogni tempo li traduce e li adegua alla sua sensibilità. Per noi oggi Maria acquisisce connotati propri; la provocazione del suo esserci modello necessita riferimenti concreti alla nostra congiuntura culturale. Ella, dunque, interpella le donne e come donna ci si disvela nella forza concreta e propositiva dell'uscire dal silenzio ( funzione profetica ), del farsi carico ( funzione regale ), dell'essere nel segno della gratuità e della grazia ( funzione sacerdotale ). Ciascuno di questi aspetti della sua soggettualità ecclesiale, ciascuno di questi aspetti della sua vocazione e missione chiama in causa lo stile del Regno e, ovviamente, interpella uomini e donne. Non è da cristiani la connivenza implicita dell'omertà e del silenzio; non è da cristiani la complicità dell'indifferenza e del disimpegno; non è da cristiani l'idolatria di se stessi, dei propri meriti, dei propri beni. Colei il cui nome è grazia, colei che è stata fatta oggetto del favore di Dio ( Lc 1,28 ) ci disvela, nella docilità dello Spirito, che la gratuità è la nota fondamentale del Regno. Gratuita è la fede, gratuita è la salvezza, gratuita è la vocazione. Nel segno della gratuità non può che essere la missione. La totale gratuità di Maria tesse la trama della sua castità, della sua obbedienza, della sua povertà. Tesse la trama del suo iscriversi come creatura nella transignificazione della creaturalità voluta dal Creatore. Attestare, vivere, esperire la gratuità esige per il nostro tempo l'elaborazione di modelli solidali. La secolarità di Maria, la quotidianità del suo vivere storico accoglie ogni provocazione, ogni domanda. Fa proprio ogni " prendersi cura ". È azione questa che non dismette neanche dalla condizione gloriosa che oggi la accomuna al Figlio. Il prendersi cura di Maria non esclude nessuno. Ella è veramente la serva del Signore. Per lei veramente servire è regnare. Ma il prendersi cura necessita anche il farsi voce di chi non ha voce. Il farsi voce di Colui che ha voce definitiva e potente. La profezia di Maria è nella contestualità " secolare " del parlare e del parlare con franchezza di fronte al mondo. Non si può essere veramente discepoli senza parresia, senza franco parlare. Non si tratti di fare proprio il modulo irresponsabile della denuncia ad ogni costo. Si tratta del doversi schierare per i valori del Regno, senza incertezze o ambiguità, senza riserve mentali, senza strumentalizzazioni o forzature. Si tratta di accogliere il gemito della creazione che anela ad essere trasformata, di accogliere la voce delle creature che chiedono d'essere finalmente rispettate, d'accogliere il grido di dolore di milioni di soggetti umani che chiedono d'essere riconosciuti nella dignità loro propria, nel loro essere ad immagine di Dio. La missione è certamente per noi l'annuncio, la lode, il servizio. Ma come per la Maria biblica nella contestualità della Galilea, anche a noi si chiede una contestualizzazione adeguata ai nodi di questo nostro mondo, ai suoi problemi, alle sue domande, alla sua sete di autenticità e di valori. Lo stile di Maria, il suo bandire e tradurre i valori del Regno è dunque appello a conversione. Se vogliamo è appello a ritornare a orizzonte e a stile propriamente evangelico. Il nostro tempo ne ha bisogno; ha bisogno di modelli; ha bisogno di proposte seducenti e condivisibili. Ha bisogno di una nuova profezia culturale, compito, insieme, degli uomini e delle donne. Profezia di pace, di dialogo, di incontro, di rispetto e di riconoscimento dell'altro. Sono tutti valori del " Regno " che Maria la consacrata secolare e fedele continua a proporci nel manifesto utopico del suo " magnificat ".