Compendio di Teologia Ascetica e Mistica Introduzione L'oggetto proprio della Teologia ascetica e mistica è la perfezione della vita cristiana. 1. Oltre la vita naturale dell'anima, piacque alla divina bontà di comunicarci una vita soprannaturale, la vita della grazia, che è una partecipazione della vita stessa di Dio, come abbiamo dimostrato nel nostro Tr. De gratia. Essendoci questa vita data per i meriti infiniti di N. S. G. Cristo ed essendone egli la causa esemplare più perfetta, a ragione viene chiamata vita cristiana. Ogni vita ha bisogno di perfezionarsi e si perfeziona avvicinandosi sempre meglio al suo fine. Nascondi La perfezione assoluta consiste nel conseguimento di questo fine, e non si avrà che in cielo: là noi possederemo Dio per mezzo della visione beatifica e dell'amor puro e la nostra vita avrà il suo pieno sviluppo; allora saremo veramente simili a Dio, perchè lo vedremo quale egli è, similes ei erimus quoniam videbimus cum sicuti est. ( 1 Gv 3,2 ). Sulla terra non possiamo acquistare se non una perfezione relativa, avvicinandoci continuamente a quell'unione intima con Dio che ci prepara alla visione beatifica. Di questa perfezione relativa noi intendiamo trattare. Dopo avere esposto i principii generali sulla natura della vita cristiana, sulla sua perfezione, sull'obbligo di tendervi e sui mezzi generali per raggiungerla, descriveremo successivamente le tre vie, purgativa, illuminativa e unitiva, per cui passano le anime generose, avide di progresso spirituale. Ma dobbiamo prima, in una breve Introduzione risolvere alcune questioni preliminari. 2. In questa Introduzione tratteremo cinque questioni: I. La natura della Teologia ascetica; II. Le fonti; III. Il metodo; IV. L'eccellenza e la necessità; V. La divisione. § I. Natura della Teologia ascetica. A meglio spiegare la natura della Teologia ascetica, esporremo per ordine: 1° i nomi principali che le vennero dati; 2° il suo posto tra le scienze teologiche; 3° le sue relazioni con la Dommatica e la Morale; 4° la distinzione tra l'Ascetica e la Mistica. I. I vari nomi 3. La teologia ascetica prende vari nomi. a) Si chiama la scienza dei santi, e con ragione; perchè ci viene dai santi, che l'hanno vissuta più ancora di quello che l'abbiano insegnata, e perchè è destinata a fare dei santi, spiegandoci che cos'è la santità e quali sono i mezzi per acquistarla. b) Altri la chiamano scienza spirituale, perchè forma degli spirituali, cioè uomini interiori, animati dallo spirito di Dio. c) Essendo però una scienza pratica, si chiama anche l'arte della perfezione, giacchè il suo fine è di condurre le anime alla perfezione cristiana; o anche l'arte delle arti, perchè non v'è arte più eccellente di quella di perfezionare un'anima nella più nobile delle vite, la vita soprannaturale. d) Nondimeno il nome che più comunemente oggi le si dà è quello di teologia ascetica e mistica. 1) Il vocabolo ascetica viene dal greco ??????? ( esercizio, sforzo ) e indica ogni esercizio faticoso che si riferisca all'educazione fisica o morale dell'uomo. Ora la perfezione cristiana suppone sforzi che S. Paolo paragona volentieri a quegli esercizi d'allenamento a cui si assoggettavano gli atleti per riportar la vittoria. Era dunque naturale di indicare col nome d'ascesi gli sforzi dell'anima cristiana che lotta per acquistare la perfezione. E questo fecero Clemente Alessandrino e Origene, e dietro loro un gran numero di Padri. Non è dunque meraviglia che si sia dato il nome d'ascetica alla scienza che tratta degli sforzi necessari per acquistare la perfezione cristiana. 2) Tuttavia, per lunghi secoli, a designare questa scienza prevalse il nome di Teologia mistica ( ??????, misterioso, segreto e particolarmente segreto religioso ) perchè esponeva i segreti della perfezione. In seguito queste due parole furono usate nello stesso senso; ma presto prevalse l'uso di riservare il nome d'ascetica a quella parte della scienza spirituale che tratta dei primi gradi della perfezione fino alla soglia della contemplazione, e il nome di mistica a quella che s'occupa della contemplazione e della via unitiva. e) Checchè ne sia, da tutte queste nozioni risulta che la scienza di cui ci occupiamo è veramente la scienza della perfezione cristiana; onde potremo assegnarle il posto conveniente nel disegno generale della Teologia. II. Suo posto nella teologia 4. Nessuno meglio di S. Tommaso dimostrò l'unità organica che regna nella scienza teologica. Egli divide la sua Somma in tre parti: nella prima, tratta di Dio primo principio e lo studia in sè stesso, nell'unità della natura e nella trinità delle persone; e nelle opere della creazione, che conserva e governa con la sua provvidenza. Nella seconda, s'occupa di Dio fine ultimo, a cui devono tendere tutti gli uomini, orientando verso di lui le loro azioni, sotto la guida della legge e l'impulso della grazia, praticando le virtù teologali e morali e osservando i doveri del proprio stato. La terza ci mostra il Verbo Incarnato, che si fa nostra via per andare a Dio e che istituisce i sacramenti per comunicarci la grazia e così condurci alla vita eterna. In questo disegno, la teologia ascetica e mistica si connette alla seconda parte della Somma, appoggiandosi anche alle altre due. 5. A partire da S. Tommaso, la Teologia, pur rispettandone l'unità organica, fu divisa in tre parti: la Dogmatica, la Morale e l'Ascetica. a) La Dogmatica c'insegna ciò che bisogna credere su Dio, sulla vita divina, sulla comunicazione che volle farne alle creature ragionevoli e particolarmente all'uomo, sulla perdita di questa vita col peccato originale, sulla sua restaurazione per mezzo del Verbo Incarnato, sulla sua azione nell'anima rigenerata, sulla sua diffusione per mezzo dei sacramenti, sulla sua ultima perfezione nella gloria. b) La Morale ci mostra come dobbiamo corrispondere a questo amor di Dio coltivando in noi la vita divina che si degnò di parteciparci, come dobbiamo evitare il peccato e praticare le virtù e i doveri del proprio stato che sono di precetto. c) Ma quando si vuole perfezionare questa vita, andare oltre ciò che è stretto precetto e progredire in modo metodico nella pratica delle virtù, allora interviene l'Ascetica la quale ci traccia le regole della perfezione. III. Le sue relazioni colla dogmatica e colla morale 6. L'Ascetica è dunque una parte della morale cristiana, ma la parte più nobile, quella che mira a fare di noi dei cristiani perfetti. Pur essendo divenuta un ramo speciale della Teologia, essa serba colla Dogmatica e colla morale intime relazioni. 1° L'Ascetica si fonda sulla Dogmatica. Quando l'Ascetica vuole esporre la nature della vita cristiana, chiede lumi alla Dogmatica. Questa vita è infatti una partecipazione della vita stessa di Dio, e conviene quindi risalire fino alla SS. Trinità per trovarvi il principio e l'origine di questa vita, seguirne le vicende, vedere come, conferita ai nostri progenitori, fu perduta per loro colpa e poi restaurata per mezzo del Cristo redentore; per conoscere qual è il suo organismo e il suo modo di operare nell'anima nostra, per quali canali misteriosi ci è data ed aumentata, e come si trasforma in visione beatifica nel cielo. Ora tutti questi argomenti sono trattati nella Teologia dogmatica; nè si dica che si possono presupporre; se non si richiamano in una breve e viva sintesi, l'Ascetica sembrerà senza fondamenti, e si chiederanno alle anime sacrifici durissimi senza poterli giusitificare con l'esposizione di ciò che Dio fece per noi. È dunque vero che la Dogmatica è, secondo la bella espressione del Cardinale Manning, la sorgente della devozione. 7. 2° L'Ascetica s'appoggia pure sulla Morale e la compie. La Morale spiega i precetti che dobbiamo praticare per acquistare e conservare la vita divina. Ora l'Ascetica, che ci fornisce i mezzi per perfezionarla, suppone evidentemente la conoscenza e la pratica dei comandamenti; sarebbe una pericolosa illusione il trascurare i precetti sotto pretesto di seguire i consigli e pretendere di praticare le più alte virtù prima di sapere resistere alle tentazioni ed evitare il peccato. 8. 3° Nondimeno l'Ascetica è un ramo distinto della Teologia dogmatica e morale. Ha infatti un oggetto proprio: sceglie nella dottrina di N. Signore tutto ciò che si riferisce alla perfezione della vita cristiana, alla sua natura, al suo obbligo, ai suoi mezzi, e tutti questi elementi coordina in guisa da formarne una vera scienza. 1) Si distingue dalla Dogmatica, la quale direttamente non ci propone che le verità da credere, perchè, pur appoggiandosi su queste verità, essa le volge alla pratica e se ne serve per farci comprendere, gustare e attuare la perfezione cristiana. 2) Si distingue dalla morale, perchè, pur richiamando i precetti di Dio e della Chiesa, fondamento di ogni vita spirituale, essa ci propone i consigli evangelici, e, per ogni virtù, un grado più elevato di quello che è strettamente obbligatorio. L'Ascetica è dunque la scienza della perfezione cristiana. 9. Di qui deriva il suo doppio carattere di scienza speculativa insieme e pratica. Contiene certamente una dottrina speculativa, poichè risale alla Dogmatica per spiegare la natura della vita cristiana; ma è soprattutto pratica, perchè ricerca i mezzi da prendere per coltivare questa vita. L'Ascetica, in mano d'un savio direttore, è anche una vera arte, che consiste nell'applicare con delicatezza e premura i principii generali a ciascuna anima in particolare; arte tra tutte la più eccellente e difficile, ars artium regimen animarum. I principii e le regole che daremo mireranno a formare buoni direttori. IV. Differenza fra l'ascetica e la mistica Quello che abbiamo detto s'applica tanto all'una quanto all'altra. 10. A) Per distingerle, si può definire la teologia ascetica quella parte della scienza spirituale che ha per oggetto proprio la teoria e la pratica della perfezione cristiana, a partire dai suoi principii sino alla soglia della contemplazione infusa. Noi facciamo cominciare la perfezione col desiderio sincero di progredire nella vita spirituale, e l'ascetica conduce l'anima, per le vie purgativa e illuminativa, sino alla contemplazione acquisita. 11. B) La mistica è quella parte della scienza spirituale che ha per oggetto proprio la teoria e la pratica della vita contemplativa, a partire dalla prima notte dei sensi e dalla quiete fino al matrimonio spirituale. a) Evitiamo quindi, nella nostra definizione, di fare dell'Ascetica lo studio delle vie ordinarie della perfezione, e della Mistica lo studio delle vie straordinarie; oggi infatti si riserva questa parola di straordinario piuttosto a una categoria speciale di fenomeni mistici, a quelli che sono grazie date gratuitamente e che vengono ad aggiungersi alla contemplazione, come le estasi e le rivelazioni. b) La contemplazione è uno sguardo semplice ed affettuoso di Dio e delle cose divine: si dice acquisita quando è frutto della nostra attività aiutata dalla grazia; infusa quando, oltrepassando questa attività, è operata da Dio col nostro consenso ( n. 1299 ). c) Di proposito riuniamo in un unico volume la teologia ascetica e la mistica. 1) Tra l'una e l'altra vi sono certamente differenze profonde, che a suo tempo additeremo accuratamente; ma vi è pure tra i due stati, l'ascetico e il mistico, una certa continuità, la quale fa sì che l'uno sia una specie di preparazione all'altro, e che Dio si giovi, quando lo giudica conveniente, delle disposizioni generose dell'asceta per elevarlo agli stati mistici. 2) In ogni caso, lo studio della mistica getta molta luce sull'ascetica e viceversa; perchè le vie di Dio sono piene di armonia e l'azione così potente ch'egli esercita sulle anime mistiche, fa meglio cogliere, col rilievo con cui si mostra, la sua azione meno forte sui principianti; così le prove passive descritte da S. Giovanni della Croce fanno meglio intendere le aridità ordinarie che si provano negli stati inferiori, e parimenti si intendono meglio le vie mistiche quando si vede a quale docilità, a quale pieghevolezza arriva un'anima che per lunghi anni si è esercitata nelle rudi fatiche dell'ascesi. Queste due parti d'una medesima scienza s'illuminano dunque vicendevolmente e ci guadagnano a non essere separate. § II. Le fonti della Teologia ascetica e mistica. 12. Essendo la scienza spirituale un ramo della Teologia, è evidente che le loro fonti sono le stesse: anzitutto le fonti che contengono o spiegano il dato rivelato, la Scrittura e la Tradizione; poi le fonti secondarie, ossia tutte le conoscenze che ci vengono della ragione illuminata dalla fede e dall'esperienza. Non ci rimane dunque qui se non indicare l'uso che se ne può fare nella Teologia ascetica. I. Della Sacra Scrittura Non vi troviamo certamente una sintesi della dottrina spirituale, ma ricchi documenti sparsi qua e là nel Vecchio come nel Nuovo Testamento, sotto forma di dottrine, di precetti, di consigli, di preghiere e d'esempi. 13. 1° Dottrine speculative su Dio, sulla sua natura, sui suoi attributi, sulla sua immensità che penetra tutto, sulla infinita sua sapienza, sulla sua bontà, sulla sua giustizia, sulla sua misericordia, sulla provvidenziale sua azione che si esercita su tutte le creature, ma specialmente sugli uomini per salvarli; sulla sua vita intima, sulla generazione misteriosa dell'Eterna Sapienza o del Verbo, sulla processione dello Spirito Santo, vincolo naturale tra il Padre e il Figlio; sulle sue opere; in particolare su ciò che fece per l'uomo, per comunicargli una partecipazione della sua vita divina, per restaurarla dopo la caduta per mezzo dell'Incarnazione del Verbo e della Redenzione, per santificarla con i sacramenti e per preparargli in cielo le eterne delizie della visione beatifica e dell'amor puro. È evidente che questo insegnamento così nobile e così elevato è un potente stimolo per aumentare in noi l'amor di Dio e il desiderio della perfezione. 14. 2° Un insegnamento morale composto di precetti e di consigli: il Decalogo, che si compendia tutto nell'amor di Dio e nell'amor del prossimo e quindi nel culto divino e nel rispetto dei diritti altrui; il così nobile insegnamento dei Profeti, che, ricordando continuamente la bontà, la giustizia e l'amor di Dio pel suo popolo, lo allontana dal peccato e specialmente dalle pratiche idolatriche, gli inculca il rispetto e l'amor di Dio, la giustizia, l'equità, la bontà verso tutti, ma specialmente verso i deboli e gli oppressi; i saggi consigli del libri sapienziali, che già contengono un'intiera esposizione delle virtù cristiane; sopra tutto poi l'ammirabile dottrina di Gesù, la sintesi ascetica condensata nel discorso del Monte; e la dottrina più alta ancora che troviamo nei discorsi riferiti da S. Giovanni e che egli commenta nelle sue Epistole; la teologia spirituale di S. Paolo, così ricca di idee dogmatiche e d'applicazioni pratiche. Il pallido compendio che tosto ne daremo ci mostrerà che il Nuovo Testamento è già un codice di perfezione. 15. 3° Preghiere per nutrire la nostra pietà e la nostra vita interiore. Ve ne sono forse delle più belle di quelle che troviamo nei Salmi e che la Chiesa giudicò così atte a glorificar Dio e a santificarci, che le trasportò nella sua liturgia, nel Messale e nel Breviario? Altre pur ve ne sono che si trovano sparse qua e là nei libri storici o sapienziali; e c'è soprattutto il Pater, la preghiera più bella, più semplice, più compita nella sua brevità, che si possa trovare; e poi la preghiera sacerdotale di N. Signore, senza parlare delle dossologie che si trovano già nelle Epistole di S. Paolo e nell'Apocalisse. 16. 4° Esempi che ci conducono alla pratica della virtù. a) Il Vecchio Testamento ci fa sfilare dinanzi una serie di patriarchi, di profeti e d'altri personaggi illustri, che non sono stati certo senza debolezze, ma le cui virtù furono celebrate da S. Paolo e ampiamente descritte dai Padri, che li propongono alla nostra imitazione. Chi infatti non ammira la pietà di Abele e di Enoch, la soda virtù di Noè che pratica il bene in mezzo ad una generazione corrotta, la fede e la confidenza d'Abramo, la castità e la prudenza di Giuseppe, il coraggio, la saviezza, la costanza di Mosè, l'intrepidezza, la pietà, la saggezza di Davide, la vita austera dei Profeti, il valore dei Maccabei, e tanti altri esempi che sarebbe troppo lungo il ricordare? b) Nel Nuovo Testamento, ecco innanzi tutto Gesù che ci appare come il tipo ideale della santità, e poi Maria e Giuseppe, suoi fedeli imitatori, poi gli apostoli che, prima imperfetti, si consacrano poi corpo e anima alla predicazione del Vangelo e alla pratica delle virtù cristiane ed apostoliche, cosicchè assai più eloquentemente con l'esempio che con le parole ci dicono "Imitatores mei estote sicut et ego Christi". Se molti di questi santi personaggi ebbero delle debolezze, il come le hanno poi riparate dà anche maggior valore ai loro esempi, mostrandoci il modo di riparare le proprie colpe con la penitenza. Per dare un'idea dei tesori ascetici che si trovano nella Sacra Scrittura, faremo nell'Appendice un compendio sintetico della spiritualità dei Sinottici, di S. Paolo e di S. Giovanni. II. La tradizione 17. La Tradizione compie la Sacra Scrittura, trasmettendoci delle verità che in questa non sono contenute, e inoltre la interpreta in modo autentico. Si manifesta col magistero solenne e col magistero ordinario. 1° Il magistero solenne, che consiste propriamente nelle definizioni dei Concilii e dei Sommi Pontefici, non s'è occupato che raramente di questioni ascetiche e mistiche strettamente dette; ma dovette spesso intervenire per chiarire e determinare le verità che costituiscono il fondamento della spiritualità: come la vita divina considerata nella sua sorgente, l'elevazione dell'uomo allo stato soprannaturale, il peccato originale e le sue conseguenze, la redenzione, la grazia comunicata all'uomo rigenerato, il merito che accresce in noi la vita divina, i sacramenti che conferiscono la grazia, il santo sacrifizio della Messa in cui sono applicati i frutti della redenzione. Nel corso dell'opera dovremo giovarci di tutte queste definizioni. 18. 2° Il magistero ordinario s'esercita in due modi, in modo teorico e in modo pratico. A) L'insegnamento teorico ci è dato per via negativa con la condanna delle proposizioni dei falsi mistici, e per via positiva con la dottrina comune dei Padri e dei Teologi o con le conclusioni che scaturiscono dalle vite dei santi. a) Sorsero in diversi tempi dei falsi mistici che alterarono la vera nozione della perfezione cristiana, come gli Encratiti e i Montanisti dei primi secoli, i Fraticelli e certi mistici tedeschi del Medio Evo, Molinos e i Quietisti nei tempi moderni; la Chiesa, condannandoli, ci additò gli scogli da evitare e insieme la via da seguire. 19. b) E d'altra parte si formò gradatamente una dottrina comune su tutte le grandi questioni di spiritualità, che è come il commentario vivente degli insegnamenti biblici, e che si trova presso i Padri, i teologi e gli autori spirituali; quando si leggono, si è colpiti dell'unanimità che manifestano su tutti i punti vitali che si riferiscono alla natura della perfezione, ai mezzi necessari per acquistarla, alle principali tappe da percorrere. Rimane certamente qualche punto controverso, ma su questioni accessorie, e queste discussioni fanno anche meglio risaltare l'unanimità morale che esiste sul resto. La tacita approvazione che la Chiesa dà a questo insegnamento comune è per noi una sicura garanzia di verità. 20. B) L'insegnamento pratico si trova principalmente nella canonizzazione dei Santi che hanno insegnato e praticato tutto questo complesso di dottrine spirituali. Si sa con quale minuziosa cura si procede alla revisione dei loro scritti e all'esame delle loro virtù; dallo studio di questo documenti è facile dedurre dei principii di spiritualità sulla natura e sui mezzi di perfezione, che saranno l'espressione del pensiero della Chiesa. Per convincersene, basta leggere l'opera così bene documentata di Benedetto XIV: De Servorum Dei Beatificatione et Canonizatione, o qualcuno dei processi di Canonizzazione, oppure biografie di Santi scritte secondo le regole d'una saggia critica. III. La ragione illuminata dalla fede e dall'esperienza 21. La ragione naturale, essendo un dono di Dio assolutamente necessario all'uomo per conoscere la verità sia naturale che soprannaturale, ha una parte larghissima nello studio della spiritualità, come di tutti gli altri rami della scienza ecclesiastica. Trattandosi però di verità rivelate, ha bisogno d'essere guidata e perfezionata dai lumi della fede; e, per applicare i principi generali alle anime, deve appoggiarsi sull'esperienza psicologica. 22. 1° Il primo suo ufficio è di raccogliere e coordinare i dati della Scrittura e della Tradizione; perchè, essendo essi sparsi in vari libri, hanno bisogno d'essere riuniti per formare un tutto. Inoltre quei sacri detti furono pronunziati in quella data circostanza, in occasione di quella data questione, in quel dato ambiente; e così pure i testi della Tradizione furono spesso motivati da circostanze varie di tempi e di persone. a) Per coglierne quindi il valore, bisogna collocarli nel loro ambiente, confrontarli con insegnamenti analoghi, poi aggrupparli e interpretarli alla luce del complesso delle verità cristiane. b) Fatto questo primo lavoro, si può da questi principi trarre delle conclusioni, mostrarne la saldezza e le molteplici applicazioni alle mille particolarità della vita umana nelle più svariate circostanze. c) Principi e conclusioni saranno in fine coordinati in una vasta sintesi e formeranno una vera scienza. d) A lei pure spetta il difendere la dottrina ascetica dai suoi detrattori. Vi sono molti che l'assaltano in nome della ragione e della scienza e non vedono che illusione là dove sono invece sublimi realtà. Rispondere a questi critici, appoggiandosi alla filosofia e alla scienza, ecco il preciso ufficio della ragione. 23. 2° Essendo la spiritualità una scienza vissuta, bisogna mostrare storicamente come è stata praticata; è quindi necessario leggere biografie di Santi antichi e moderni, di varie condizioni e di diversi paesi, per rilevare in qual modo le regole ascetiche sono state interpretate e adattate ai diversi tempi, alle varie nazioni, e ai doveri particolari del proprio stato. E poichè nella Chiesa non ci sono solo dei santi, bisogna rendersi ben conto degli ostacoli che si oppongono alla pratica della perfezione e dei mezzi usati per trionfarne. Occorrono quindi studi psicologici e alla lettura bisogna aggiungere l'osservazione. 24. 3° Spetta pure alla ragione, illuminata dalla fede, applicare i principi e le regole generali a ogni persona in particolare tenendo conto del temperamento, del carattere, dell'età e del sesso, della posizione sociale, dei doveri del suo stato, come anche delle attrattive soprannaturali della grazia, badando pure alle regole sul discernimento degli spiriti. Per adempiere questo triplice ufficio, occorre non solo un'acuta intelligenza, ma anche un giudizio retto, molta prudenza e discernimento. Vi si deve aggiungere lo studio della psicologia pratica, dei temperamenti, delle malattie nervose e degli stati morbosi che hanno tanta influenza sulla mente e sulla volontà, ecc. Trattandosi poi d'una scienza soprannaturale, non si deve dimenticare che al lume della fede spetta una parte preponderante, e che i doni dello Spirito Santo mirabilmente la compiono; specialmente il dono della scienza, che dalle cose umane ci eleva fino a Dio, il dono dell'intelletto che ci fa meglio approfondire le verità rivelate, il dono della sapienza che ce le fa discernere e gustare, il dono del consiglio che ci aiuta ad applicarle a ciascuno in particolare. Nascondi Ecco perchè i Santi, che si lasciano condurre dallo Spirito di Dio, sono pure i più atti a meglio intendere e meglio applicare i principi della vita soprannaturale; hanno una certa connaturalità con le cose divine, che le fa loro meglio intendere e gustare: "Abscondisti haec a sapientibus et prudentibus et revelasti en parvulis" ( Mt 11,25 ) § III. Il metodo da seguire. Per trarre maggior profitto dalle fonti che abbiamo descritte, quale metodo si dovrà seguire? Il metodo sperimentale e descrittivo, o il metodo deduttivo, oppure l'unione dei due? Quale spirito deve presiedere all'uso di questi metodi? 25. 1° Il metodo sperimentale, descrittivo o psicologico, consiste nell'osservare in sè o negli altri i fatti ascetici o mistici, nel classificarli e coordinarli, per dedurne i segni o le note caratteristiche di ciascuno stato, le virtù o le disposizioni che convengono a ognun di loro, e ciò senza darsi pensiero della natura o della causa di questi fenomeni, senza chiedere se procedono dalle virtù, dai doni dello Spirito Santo o da grazie miracolose. Questo metodo nella parte positiva ha molti vantaggi, perchè bisogna pure ben conoscere i fatti prima di spiegarne la natura e la causa. 26. Se però venga adoperato in modo esclusivo: a) Questo metodo non può costituire una vera scienza; ne somministra certamente i fondamenti, cioè i fatti e le induzioni immediate che se ne possono trarre, può anche accertare quali sono i mezzi pratici che generalmente riescono meglio. Tuttavia, finchè non si risalga alla natura intima e alla causa di questi fatti, si fa piuttosto della psicologia che della teologia; o se si descrivono minutamente i mezzi per praticare questa o quell'altra virtù, non si mostra abbastanza il movente e lo stimolo che aiuta a praticarla. b) Si è quindi esposti a cadere in opinioni mal fondate. Se nella contemplazione non si distingue ciò che è miracoloso, come l'estasi e la levitazione, da ciò che ne costituisce l'elemento essenziale, cioè lo sguardo prolungato e affettuoso su Dio sotto l'influsso d'una grazia speciale, se ne potrà troppo facilmente concludere che ogni contemplazione è miracolosa, il che è contrario alla dottrina comune. c) Molte controversie sugli stati mistici s'attenuerebbero se alle descrizioni di questi stati s'aggiungessero le distinzioni e le esattezze fornite dallo studio teologico. Così la distinzione tra contemplazione acquisita e infusa fa meglio intendere certi stati d'animo molto reali e conciliare certe opinioni che, a prima vista, sembrano contradittorie. Parimenti, nella contemplazione passiva vi sono molti gradi: ve ne sono di quelli in cui basta l'uso perfezionato dei doni, ve ne sono altri in cui Dio deve intervenire per disporre le nostre idee e aiutarci a trarne delle conclusioni che colpiscono, ve ne sono infine di quelli che non si possono bene spiegare che con conoscenze infuse. Tutte queste distinzioni sono il risultato di lunghe e pazienti ricerche speculative insieme e pratiche; facendole, si ridurrebbe il numero dei disparari che separano le varie scuole. 27. 2° Il metodo dottrinale o deduttivo consiste nello studiare accuratamente ciò che insegnano sulla vita spirituale la Scrittura, la Tradizione, la Teologia, in particolare la Somma di S. Tommaso, e dedurne conclusioni sulla natura della vita cristiana, sulla sua perfezione, sul suo obbligo e sui mezzi di raggiungerla, senza darsi abbastanza pensiero dei fatti psicologici, del temperamento e del carattere delle persone dirette, delle loro inclinazioni, dei risultati prodotti su questa o su quell'altra anima dai diversi mezzi; senza studiare in particolare i fenomeni mistici descritti dai Santi che li provarono, come S. Teresa, S. Giovanni della Croce, S. Francesco di Sales, ecc. ecc.; o almeno senza tenerne abbastanza conto. Essendo noi facilmente soggetti ad ingannarci nelle nostre deduzioni, particolarmente quando le moltiplichiamo, è cosa prudente il verificarle confrontando i fatti. Se, per esempio, si viene a conoscere che la contemplazione infusa è abbastanza rara, si metterà qualche restrizione alla tesi sostenuta da alcune scuole, che tutti sono chiamati ai più alti gradi di contemplazione. 28. 3° Unione dei due metodi. A) Bisogna dunque saper combinare insieme i due metodi. È quello veramente che fanno in generale gli autori, con questa differenza però che gli uni s'appoggiano di più sui fatti e gli altri sui principi. Noi cercheremo di tenere la via di mezzo, senza la pretensione di riuscirvi. a) I principi di teologia mistica che i grandi maestri dedussero dalle vertà rivelate ci aiuteranno a meglio osservare i fatti, ad analizzarli in modo più compìto, a ordinarli in modo più metodico, a interpretarli più saviamente; non dimenticheremo infatti che i mistici descrivono le loro impressioni, senza volerne, almeno il più delle volte, interpretare la natura. I principi ci aiuteranno pure a ricercare la causa dei fatti, tenendo conto delle verità già conosciute, e a coordinarli in modo da farne una vera scienza. b) D'altra parte lo studio dei fatti ascetici e mistici correggerà ciò che vi sarebbe di troppo rigido e di troppo assoluto nelle conclusioni puramente dialettiche; non vi può infatti essere opposizione assoluta tra i principii e i fatti; se dunque l'esperienza mostra che il numero dei mistici è ristretto, non bisogna affrettarsi a conchiudere che ciò dipende unicamente dalla resistenza alla grazia. Ed è pure utile il chiedersi perchè nelle cause di canonizzazione si giudica della santità molto più dalla pratica delle virtù eroiche che dal genere d'orazione o di contemplazione; questi fatti potranno di fatto dimostrare che il grado di santità non è sempre e necessariamente in relazione col genere e col grado d'orazione. 29. B) Come fondere insieme i due metodi? a) Bisogna anzitutto studiare il dato rivelato quale ci è somministrato dalla Scrittura e dalla Tradizione, compresovi il magistero ordinario della Chiesa; e, con l'aiuto di questo dato, determinare, col metodo deduttivo, che cos'è la vita e la perfezione cristiana, quali i suoi vari gradi, quale il cammino progressivo generalmente tenuto per arrivare alla contemplazione, passando per la mortificazione e la pratica delle virtù morali e teologali; in che consiste questa contemplazione, sia nei suoi elementi essenziali, sia nei fenomeni straodinari che qualche volta l'accompagnano. 30. b) A questo studio dottrinale bisogna aggiungere il metodo d'osservazione: 1) esaminare con cura le anime, le loro qualità e i loro difetti, la loro fisionomia speciale, le loro inclinazioni e le loro ripugnanze, i movimenti della natura e della grazia che in loro si producono; queste conoscenze psicologiche daranno modo di determinar meglio i mezzi di perfezione che meglio loro convengono, le virtù di cui hanno maggior bisogno e verso le quali la grazia le inclina, la loro corrispondenza a questa grazia, gli ostacoli che incontrano e i mezzi che riescono meglio per trionfarne. 2) Per allargare il campo della propria esperienza, si leggeranno attentamente le vite dei Santi, quelle specialmente che, senza dissimularne i difetti, mostrano il modo progressivo con cui li combatterono, come e con quali mezzi praticarono le virtù, se e come passarono dalla vita ascetica alla vita mistica e sotto quali influenze. 3) Nella vita dei contemplativi si dovranno pure studiare i vari fenomeni della contemplazione, dai primi incerti bagliori fino alle più alte vette, gli effetti di santità prodotti da queste grazie, le prove a cui furono sottoposti, le virtù che praticarono. Tutto ciò servirà a compiere e talora a rettificare le conoscenza teoriche che si erano acquistate. 31. c) Con l'aiuto dei principii teologici e dei fenomeni mistici ben studiati e ben classificati, si potrà più facilmente risalire alla natura della contemplazione, alle sue cause, alle sue specie, e distinguere ciò che v'è in essa di normale e di straordinario. 1) Si cercherà in quale misura i doni dello Spirito Santo sono i principii formali della contemplazione e come bisogna coltivarli per mettersi nelle disposizioni interiori favorevoli alla contemplazione. 2) Si esaminerà se i fenomeni debitamente accertati si spiegano tutti coi doni dello Spirito Santo, se qualcuno non suppone specie infuse, e come esse operino nell'anima; oppure se è l'amore che produce questi stati spirituali senza nuove cognizioni. 3) Si potrà allora veder meglio in che consiste lo stato passivo, in quale misura l'anima vi resta attiva, la parte di Dio e quella dell'anima nella contemplazione infusa; ciò che in questo stato è ordinario e ciò che diviene straordinario e preternaturale. Così si potrà studiar meglio il problema della vocazione allo stato mistico e del numero più o meno grande dei veri contemplativi. Procedendo così, avremo maggior probabilità d'arrivare alla verità e a conclusioni pratiche per la direzione delle anime; e uno studio di questo genere diventerà non meno attraente che santificante. 32. 4° Con quale spirito si deve seguir questo metodo? Qualunque sia il metodo usato, è necessario studiare questi difficili problemi con molta calma e ponderazione, allo scopo di conoscere la verità, e non di far trionfare ad ogni costo il sistema da noi preferito. a) Bisogna quindi rilevare e mettere in luce ciò che è certo o comunemente ammesso, e riporre in un secondo piano ciò che è controverso. La direzione da dare alle anime non dipende dalle questioni controverse, ma dalle dottrine comunemente ricevute. Vi è unanimità in tutte le scuole nel riconoscere che la rinunzia e la carità, il sacrifizio e l'amore sono necessari a tutte le anime e in tutte le vie, e che l'armonica combinazione di questo doppio elemento dipende molto dal carattere delle persone dirette. Tutti ammettono che bisogna sempre praticare lo spirito di penitenza, benchè prenda forme diverse, secondo i diversi gradi di perfezione; che bisogna praticare le virtù morali e teologali in modo sempre più perfetto per giungere alla via unitiva; e che i doni dello Spirito Santo, coltivati con cura, danno all'anima nostra una pieghevolezza che la rende più docile alle ispirazioni della grazia e la preparono, se Dio ve la chiama, alla contemplazione. Si è anche d'accordo su questo punto importante che la contemplazione infusa è essenzialmente gratuita e che Dio la dà a chi vuole e quando vuole; e che quindi nessuno può mettersi da sè stesso nello stato passivo e che i segni d'una vocazione prossima a questo stato sono quello così ben descritti da S. Giovanni della Croce. E quando le anime giungono alla contemplazione, devono, per comun consenso, progredire nella perfetta conformità alla volontà di Dio, nel santo abbandono e soprattutto nell'umiltà, virtù costantemente raccomandata da S. Teresa. Si possono dunque dirigere prudentemente le anime, anche quelle chiamate alla contemplazione, senza aver sciolto tutte le questioni controverse che gli autori contemporanei stanno ancora discutendo. 33. b) Ci sembra così che, se si affrontano questi problemi con spirito conciliativo, cercando ciò che ci avvicina anzichè ciò che ci divide, si arriverà, se non a sopprimerle, certo ad addolcire queste controversie, ad attenuarle, a vedere l'anima di verità che ogni sistema contiene. Ecco ciò che si può fare quaggiù: bisogna sapere attendere i lumi della visione beatifica per risolvere un certo numero di problemi difficili. § IV. Eccellenza e necessità della Teologia ascetica. Il poco che abbiamo detto sulla natura, sulle fonti e sul metodo della Teologia ascetica, ce ne lascia già intravedere l'eccellenza e la necessità. I. Eccellenza della teologia ascetica 34. L'eccellenza deriva dal suo oggetto che è uno dei più nobili che si possano studiare. Egli è infatti una partecipazione della vita divina comunicata all'anima e da lei coltivata con infaticabile ardore. Se analizziamo questo concetto, vedremo quanto questo ramo della teologia sia degno della nostra attenzione. 1° Vi studiamo prima di tutto Dio nelle sue più intime relazioni con l'anima: la SS. Trinità che abita e vive in noi e ci comunica una partecipazione della sua vita, che collabora alle nostre opere buone, aiutandoci così ad aumentare continuamente in noi questa vita soprannaturale, a purificare l'anima nostra, ad abbellirla con la pratica delle virtù, a trasformarla finchè sia matura per la visione beatifica. Si può forse immaginare cosa più grande e più eccellente di questa azione di Dio che trasforma le anime per unirle a sè e assimilarsele in modo così perfetto? 2° Vi studiamo poi l'anima stessa che, nella sua collaborazione con Dio, si viene a poco a poco liberando dai difetti e dalle imperfezioni, che coltiva le virtù cristiane, che si sforza d'imitare le virtù del suo divino Modello nonostante gli ostacoli interni ed esterni, che coltiva i doni dello Spirito Santo e acquista una mirabile pieghevolezza per obbedire ai minimi tocchi della grazia e che s'avvicina così ogni giorno più al Padre celeste. Se oggi le questioni che hanno relazione con la vita si considerano come le più degne d'attirare la nostra attenzione, che dobbiamo dire di una scienza che tratta della vita soprannaturale, della partecipazione alla vita stessa di Dio, che ne descrive le origini, i progressi e la piena espansione nel cielo? Vi è forse oggetto più nobile per i nostri studi? Ve n'è forse di più necessario? II. Necessità della teologia ascetica Per essere più precisi in materia così delicata, ne esporremo: 1° la necessità per il sacerdote; 2° la grandissima utilità per i laici; 3° la maniera pratica di studiarla. 1° Necessità pel Sacerdote. 35. Il sacerdote deve santificare se stesso e santificare i suoi fratelli, e per questo doppio rispetto è obbligato a studiare la scienza dei santi. A) Il sacerdote, come dimostreremo più innanzi con S. Tommaso, è obbligato non solamente a tendere alla perfezione ma a possederla in un grado più elevato del semplice religioso. Ora la conoscenza della vita cristiana e dei mezzi che contribuiscono a perfezionarla, è normalmente necessaria per giungere alla perfezione: nil volitum quin præcognitum. a) La conoscenza accende e stimola il desiderio. Sapere che cos'è la santità, la sua eccellenza, l'obbligo di tendervi, i suoi mirabili effetti nell'anima, la sua fecondità, è già un desiderarla. La conoscenza d'un bene tende a farcelo desiderare; non si può lungamente e attentamente contemplare un frutto delizioso senza che nasca il desiderio di gustarlo. Ora il desiderio, principalmente quando è ardente e prolungato, è già un principio d'azione: mette in moto la volontà e la spinge verso il conseguimento del bene percepito dall'intelligenza, le dà slancio ed energia per raggiungerlo, e ne sostiene gli sforzi per conquistarlo; il che è tanto più necessario in quanto che molti ostacoli s'oppongono al nostro progresso spirituale. b) La considerazione particolare delle numerose tappe da percorrere per giungere alla perfezione, gli sforzi perseveranti fatti dai santi per trionfare delle difficoltà e avanzare continuamente verso il fine desiderato, infiamma i cuori, sostiene l'ardore in mezzo alla lotta, impedisce il rilassamento e la tiepidezza, tanto più se si considerano nello stesso tempo gli aiuti e le consolazioni che Dio tiene preparate alle anime di buona volontà. c) Questo studio è tanto più necessario ai nostri giorni: "Viviamo infatti in un'atmosfera di dissipazione, di razionalismo, di naturalismo, di sensualismo che si insinua, anche a loro insaputa, in una moltitudine di anime cristiane, e che invade financo il santuario ".35-1 I due o tre anni passati in caserma inducono i giovani chierici, specialmente quelli che non ricevettero in famiglia una educazione profondamente cristiana, a partecipare a questo tristo spirito. Ora qual è il mezzo migliore per reagire contro queste funeste tendenze del nostro tempo, se non il vivere in compagnia di Nostro Signore e dei Santi con lo studio metodico e continuato dei principii di spiritualità, che sono in opposizione diretta con la triplice concupiscenza? 36. B) Per la santificazione delle anime che gli sono affidate. a) Anche quando si tratta di peccatori, il sacerdote ha bisogno di conoscere l'Ascetica per insegnar loro il modo di evitare le occasioni di peccato, combattere le passioni, resistere alle tentazioni, praticare le virtù contrarie ai vizi che si debbono fuggire. È vero che la teologia morale suggerisce già brevemente queste cose, ma l'Ascetica le sintetizza e le sviluppa. b) E poi vi sono in quasi tutte le parocchie delle anime elette che Dio chiama alla perfezione, e che, se sono ben dirette, aiuteranno il sacerdote nell'esercizio dell'apostolato con le loro preghiere, con i loro esempi, e con mille piccole industrie. In ogni caso se ne possono formare alcune tra i giovinetti del catechismo e del patronato. Ora per riuscire in quest'opera così importante, è necessario che il sacerdote sia un buon direttore, che possegga le regole tracciate dai santi e contenute nei libri di spiritualità; altrimenti non si ha nè il gusto nè la capacità richiesta per l'arte così difficile di formare le anime. 37. c) A più forte ragione lo studio delle vie spirituali è necessario per la direzione delle anime ferventi chiamate alla santità, e che talora s'incontrano anche nei più piccoli villaggi. Per guidarle sino all'orazione di semplicità e alla contemplazione ordinaria, bisogna conoscere non solamente l'Ascetica ma anche la Mistica sotto pena di smarrirsi e di ostacolare il progresso di queste persone. L'osservava già S. Teresa: "Per questo è necessarissimo un direttore, ma è a desiderare che abbia esperienza … La mia opinione è e sarà sempre che ogni cristiano deve, potendolo, conferire con uomini dotti; e quanto più dotti saranno, tanto meglio. Coloro che camminano per le vie dell'orazione ne hanno più bisogno degli altri; e ciò tanto più quanto più saranno spirituali … Ciò di cui io sono persuasissima è che il demonio non riuscirà mai con i suoi artifizi a sedurre una persona d'orazione che consulta i teologi, tranne che non voglia ingannarsi da sè stessa. Secondo me, il demonio paventa grandemente la scienza umile e virtuosa, perchè sa che ne sarà smascherato e che dovrà ritirarsi sconfitto". Lo stesso linguaggio tiene S. Giovanni della Croce: "Siffatti maestri spirituali ( che ignorano le vie mistiche ) non comprendono le anime avviate in questa contemplazione quieta e solitaria … le costringono a riprendere il cammino della meditazione e del lavoro della memoria, a fare atti interni in cui queste anime non trovano che aridità e distrazione … Che si sappia bene: colui che s'inganna per la sua ignoranza, quando il suo ministero gli impone il dovere d'acquistare le cognizioni necessarie, non sfuggirà al castigo, che sarà proporzionato al male prodotto". Nè si dica: Se io incontrerò di queste anime, le abbandonerò allo Spirito Santo perchè le guidi Lui. Lo Spirito Santo vi risponderebbe che egli le ha affidate a voi e che voi dovete lavorare con Lui alla loro direzione. Egli può certamente dirigerle da sè; ma per evitare ogni pericolo d'illusione, vuole che questa direzione sia sottoposta all'approvazione d'un direttore visibile. 2° Utilità per i laici. 38. Diciamo utilità e non necessità; perchè i laici possono lasciarsi guidare da un direttore istruito e sperimentato, e non sono quindi assolutamente obbligati a studiare la Teologia ascetica. Tuttavia questo studio sarà loro utilissimo per tre ragioni principali: a) Per stimolare e tener vivo il desiderio della perfezione, come anche per dar loro una certa conoscenza della natura della vita cristiana e dei mezzi che ci aiutano a perfezionarla. Non si desidera ciò che non si conosce, ignoti nulla cupido, mentre che la lettura dei libri spirituali eccita o aumenta il desiderio sincero di praticare ciò che si è letto. Nascondi Quante anime, per esempio, si sono slanciate con ardore verso la perfezione, leggendo l' Imitazione, il Combattimento spirituale, l'Introduzione alla vita devota, la Pratica di amar Gesù Cristo? b) E anche quando si abbia una guida spirituale, la lettura d'una buona Teologia ascetica facilità e compie la direzione. Si sa meglio ciò che bisogna dire nella confessione o nella direzione; si capiscono e si ritengono meglio i consigli del direttore, quando si ritrovano in un libro che si può rileggere. Il direttore, dal canto suo, si vede dispensato dall'entrare in numerosi particolari, e si contenta, dopo alcuni avvisi sostanziali, di far leggere qualche trattato ove il diretto troverà gli schiarimenti e i compimenti necessari. Così la direzione potrà diventar più breve senza nulla perdere dei suoi vantaggi, perchè il libro continuerà e compirà l'azione del direttore. c) Finalmente la lettura d'un trattato di vita spirituale potrà supplire, fino a un certo punto, la direzione che non si potesse ricevere per mancanza di guida spirituale o che si ricevesse raramente. La direzione, come diremo appresso, è certamente il mezzo normale per formarsi alla perfezione; quando però, per una ragione o per un'altra, non si può trovare un buon direttore, il Signore vi supplisce, e uno dei mezzi di cui si serve è appunto qualcuno di quei libri che, in modo preciso e metodico, tracciano la via da tenere per diventar perfetti. 3° Modo di studiare questa scienza. 39. Per acquistare la scienza necessaria alla direzione delle anime si richiedono tre condizioni: un Manuale, la lettura dei grandi maestri, la pratica. A) Lo studio d'un Manuale. Le letture spirituali che si fanno in un seminario, la pratica della direzione, e specialmente l'acquisto progressivo delle virtù aiutano certamente molto il seminarista a formarsi alla direzione delle anime. Ma pure ci vuole anche lo studio d'un buon Manuale. 1) Le letture spirituali sono anzitutto un esercizio di pietà, una serie d'istruzioni, di consigli e d'esortazioni sulla vita spirituale, ed è ben raro che vi si trattino in modo metodico e completo tutte le questioni di spiritualità. 2) In ogni caso, se i seminaristi non hanno un Manuale, a cui possano logicamente riferire i vari consigli che lor si danno, e che possano rileggere di quando in quando, presto dimenticheranno ciò che hanno inteso e mancheranno della competente scienza. Ora questa scienza è una di quelle che il giovane clero deve acquistare in Seminario, come ben disse Pio X: "Scientiam pietatis et officiorum quam asceticam vocant". 40. B) Lo studio approfondito dei Maestri spirituali, specialmente degli autori canonizzati, o di quelli, che senza essere tali, sono vissuti da santi. a) Al loro contatto, infatti, il cuore si riscalda, l'intelligenza, illuminata dalla fede, percepisce più chiaramente e gusta meglio che in un libro didattico i grandi principii della vita spirituale, e la volontà, sorretta dalla grazia, è stimolata alla pratica delle virtù così vivamente descritte da coloro che vi si sono valorosamente esercitati. Aggiungendovi la lettura delle vite dei santi, si capirà anche meglio perchè e come si devono imitare, e l'irresistibile efficacia dei loro esempi darà nuova forza ai loro insegnamenti: "Verba movent, exempla trahunt". b) Questo studio, cominciato in Seminario, dovrà continuare e perfezionarsi nel ministero: la direzione delle anime lo renderà più pratico; come un buon medico non cessa di perfezionare i suoi studi con la pratica dell'arte e l'arte con nuovi studi, così un savio direttore darà compimento alle sue cognizioni teoriche con la direzione delle anime, e all'arte della direzione con nuovi studi riguardanti i bisogni speciali delle anime a lui affidate. 41. C) La pratica delle virtù cristiane e sacerdotali sono sotto il savio stimolo d'un direttore. Per ben capire la varie tappe della perfezione, non c'è mezzo più efficace che percorrerle da sè stesso; infatti, la miglior guida attraverso le montagne non è forse colui che le ha percorse egli stesso in tutti i sensi? E quando si è stati ben diretti, si è, a parità di condizioni, più atti a dirigere gli altri, perchè si è visto per esperienza come si applicano le regole nei casi particolari. Combinando queste tre condizioni, si studierà la Teologia ascetica con molto profitto per sè e per gli altri. 42. Soluzione di alcune difficoltà. A) Si rimprovera talvolta all'Ascetica di falsare le coscienze, mostrandosi molto più esigente della Morale e chiedendo alle anime una perfezione inattuabile. Questo rimprovero sarebbe fondato se essa non distinguesse tra precetto e consiglio, tra le anime chiamate ad un'alta perfezione e quelle che non lo sono. Ora non è così: pur spingendo le anime elette verso altezze inaccessibili ai cristiani ordinari, non dimentica la differenza che passa tra precetto e consiglio, tra le condizioni essenziali per salvarsi e quelle che sono richieste per la perfezione; ma sa pure che, per osservar bene i comandamenti, bisogna osservare pure alcuni consigli. 43. B) Viene accusata di favorire l'egoismo, a tutto anteponendo la propria santificazione. Nascondi Ma Nostro Signore stesso c'insegna che la salvezza dell'anima nostra dev'essere il nostro primo pensiero: Quid enim prodest homini si mundum universum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? ( Mt 16,26 ) Nulla v'è d'egoistico in questo; perchè una delle condizioni essenziali per salvarsi è la carità verso il prossimo, la quale si manifesta tanto con le opere corporali quanto con le spirituali; e la perfezione vuole che si ami il prossimo al punto da sacrificarsi per lui, come fece Gesù per noi. Se questo è egoismo, è un egoismo poco temibile. C) Si insiste: l'Ascetica spinge le anime alla contemplazione e quindi le distoglie dalla vita attiva. Bisogna assolutamente ignorare la storia, per affermare che la contemplazione nuoce all'azione: "I veri mistici, dice il signor De Montmorand, sono persone di pratica e di azione, non di ragionamento e di teoria. Hanno il senso dell'organizzazione, il dono del comando, e si palesano pieni di ottime doti per gli affari. Le opere che essi fondano sono vitali e durevoli; nella concezione e nella direzione delle loro imprese, danno prova di prudenza e di arditezza, e di quella giusta stima delle possibilità che costituisce il buon senso. Difatti sembra appunto che il buon senso sia la loro dote principale: un buon senso che non è turbato da alcuna esaltazione morbosa nè da alcuna immaginazione disordinata, al quale s'aggiunge anzi una rara potenza di discernimento. " Non abbiamo forse visto, leggendo la storia della Chiesa, che la maggior parte dei santi che hanno scritto intorno alla vita spirituale erano nello stesso tempo uomini di scienza e d'azione? Ne sono prova: Clemente Alessandrino, S. Basilio, S. Grisostomo, S. Ambrogio, S. Agostino, S . ;Gregorio, S. Anselmo, S. Bernardo, il B. Alberto Magno, San Tommaso, S. Bonaventura, Gersone, S. Teresa, S. Francesco di Sales, S.Vincenzo de Paoli, il Card. di Bérulle, la Signora Acarie, e tanti altri che sarebbe troppo lungo enumerare. La contemplazione non soltanto non è di ostacolo all'azione, ma la illumina anzi e la dirige. Nulla dunque è più nobile, più importante, più utile della Teologia ascetica ben compresa. § V. Divisione della Teologia ascetica e mistica I. Disegni vari seguiti dagli autori Dopo di avere indicati i vari disegni da altri adottati, proporremo quello che ci sembra il più adatto al nostro scopo. Vi sono vari aspetti secondo cui si può tracciare una divisione logica della scienza spirituale. 44. 1° Gli uni, considerandola come scienza pratica, lasciano da parte tutte le verità speculative su cui si fonda, restringendosi a coordinare, quanto più metodicamente è possibile, le regole della perfezione cristiana; tali furono tra i Padri, G. Cassiano nelle sue Conferenze, S. Giovanni Climaco nella sua Scala Mistica; e, nei tempi moderni, il Rodriguez nella "Pratica della Perfezione cristiana". Il vantaggio di questo metodo è d'entrare immediatamente nello studio dei mezzi pratici che conducono alla perfezione. L'inconveniente è di non proporre alle anime gli stimoli che ci dà la considerazione di ciò che hanno fatto e fanno per noi Dio e Gesù Cristo, e di non fondare la pratica delle virtù su quelle convinzioni profonde e generali che si trovano nella meditazione delle verità dogmatiche. 45. 2° Quindi è che i più illustri Padri greci e latini, come S. Atanasio e S. Cirillo, S. Agostino e S. Ilario, i grandi teologi del Medio-Evo, come Riccardo da S.Vittore, il B.Alberto Magno, San Tommaso e S.Bonaventura, badano a fondare la loro dottrina spirituale sui dogmi di fede e di riferirvi le virtù di cui espongono la natura e i gradi. Questo fece specialmente la Scuola francese del secolo XVII, con Bérulle, Condren, Olier, G. Eudes. Il suo merito sta nell'illuminare la mente e fortificare le convinzioni per far meglio praticare le austere virtù che ci propone. Le si rimprovera talora di allargarsi un poco troppo nella speculativa e badare troppo poco alla pratica; la perfezione quindi starebbe nell'unire queste due cose, ciò che molti hanno già tentato con buon esito. 46. 3° Tra quelli che si studiano di conciliare questi due elementi essenziali, alcuni seguono l'ordine ontologico delle virtù, mentre altri seguono l'ordine psicologico dello sviluppo delle stesse virtù per le tre vie, purgativa, illuminativa e unitiva. A) Tra i primi sta S. Tommaso che, nella Somma, tratta per ordine delle virtù teologali e morali e dei doni dello Spirito Santo da lui collegati con ciascuna virtù. Fu seguito dai principali autori della Scuola francese del secolo XVII e da altri scrittori. B) Tra i secondi stanno tutti coloro che, volendo formare dei direttori spirituali, ordinatamente descrissero le ascensioni dell'anima per le tre vie, mettendo solamente, in capo ai loro trattati, una breve introduzione sulla natura della vita spirituale; tali sono Tommaso da Vallgornera, O. P. Mystica Theologia Divi Thomae, Filippo della SS. Trinità, C. D. Summa Theologiæ, Scaramelli, S. I. Direttorio Ascetico, e ai nos tri giorni A. Sandreau, Les degrés de la vie spirituelle. 47. 4° Altri infine, come il P. Alvarez de Paz S. I. e il P. Le Gaudier S. I. conciliano insieme i due metodi; pur esponendo in disteso e dogmaticamente ciò che concerne la natura della vita spirituale e i principali mezzi di perfezione, vengono poi ad applicare questi principii generali alle tre vie. A noi pare che, per raggiungere il fine propostoci, che è di formare dei direttori di anime, questa sia la divisione migliore. È vero che, seguendo un tal disegno, si cade in qualche ripetizione e si è costretti a spezzettar la materia, ma sono inconvenienti inevitabili in qualsiasi divisione e ai quali del resto si può rimediare con rinvii agli argomenti già trattati o da trattare. II. Il nostro disegno 48. Divideremo la nostra teologia ascetica in due parti. Nella prima, che sarà principalmente dottrinale e che intitoleremo I PRINCIPII, esporremo l'origine e la natura della vita cristiana, la perfezione di questa vita, l'obbligo di tendere a questa perfezione e i mezzi generali per arrivarvi. Nella seconda, che sarà l'APPLICAZIONE DEI PRINCIPII alle varie categorie di anime, seguiremo le ascensioni progressive di un'anima che, animata dal desiderio della perfezione, percorre ordinatamente le tre vie, purgativa, illuminativa e unitiva. Questa seconda parte, pur appoggiandosi sulla dottrina, sarà principalmente psicologica. La prima parte illuminerà il nostro cammino mostrandoci il divino disegno della nostra santificazione, stimolerà i nostri sforzi, ricordandoci la generosità di Dio verso di noi, e ci traccerà le grandi linee da seguire per corrispondere a questa generosità col dono totale di noi stessi. La seconda guiderà i nostri passi esponendo in particolare le tappe progressive da percorrere, con l'aiuto di Dio, per arrivare al fine. Così, a nostro avviso, si troveranno riuniti e conciliati i vantaggi delle altre divisioni. Prima parte - I Principi Scopo e divisione della prima parte 49. Questa prima parte ha lo scopo di richiamare brevemente i dommi principali su cui poggia la nostra vita soprannaturale, di esporre la natura e la perfezione di questa vita e i mezzi generali che conducono alla perfezione. In questa seguiamo l'ordine ontologico, riserbando di indicare nella seconda parte l'ordine psicologico tenuto ordinariamente dalle anime nell'uso di questi vari mezzi. Cap. I. Le origini della vita soprannaturale: elevazione dell'uomo allo stato soprannaturale, caduta e redenzione. Cap. II. Natura della vita cristiana: la parte di Dio e la parte dell'anima. Cap. III. Perfezione di questa vita: l'amore di Dio e del prossimo spinto fino al sacrifizio. Cap. IV. Obbligo di tendere a questa perfezione pei laici, pei religiosi, pei sacerdoti. Cap. V. Mezzi generali, interni ed esterni, per conseguire questa perfezione. 50. Abbastanza chiara è la ragione di questa divisione. Il primo capitolo, richiamando le origini della vita soprannaturale, ci aiuta a meglio intenderne la natura e l'eccellenza. Il secondo espone la natura della vita cristiana nell'uomo rigenerato; la parte che vi ha Dio col darsi a noi in se stesso sia per mezzo del suo Figlio; e coll'assisterci per mezzo della SS. Vergine e dei Santi; e la parte che vi ha l'uomo col darsi a Dio per mezzo di una generosa e costante cooperazione alla grazia. Il terzo mostra che la perfezione di questa vita consiste essenzialmente nell'amor di Dio e del prossimo per Dio; ma che questo amore non può sulla terra praticarsi senza generosi sacrifizi. Nel quarto si determina l'obbligo di tendere a questa perfezione, e ciò a cui sono tenuti i laici, i religiosi e i sacerdoti. Non resta quindi altro se non fissare in un quinto capitolo i mezzi generali che ci aiutano ad avvicinarci alla perfezione; mezzi comuni a tutti, ma in gradi diversi che verranno indicati dalla seconda parte trattando delle tre vie. Capitolo I. Le origini della vita soprannaturale. 51. Questo capitolo ha per iscopo di farci meglio conoscere ciò che vi è di gratuito e d'eccellente nella vita soprannaturale, come pure le grandezze e le debolezze dell'uomo a cui questa vita è conferita. Per meglio intenderlo, vediamo: I. Che cosa è la vita naturale dell'uomo; II. La sua elevazione allo stato soprannaturale; III. La sua caduta; IV. La sua restaurazione per opera del divin Redentore. ART. I. Della vita naturale dell'uomo 52. Si tratta qui di descrivere l'uomo quale sarebbe stato nello stato di semplice natura e quale viene dipinto dai filosofi. Poichè la nostra vita soprannaturale s'innesta sulla nostra vita naturale e la conserva perfezionandola, è necessario richiamare brevemente ciò che su questo punto la retta ragione c'insegna. 1° L'uomo è un composto misterioso di corpo e di anima, di materia e di spirito che in lui intimamente s'uniscono per formare un'unica natura e un'unica persona. L'uomo dunque è, per così dire, il punto di congiunzione, il vincolo che unisce gli spiriti e i corpi; un compendio delle meraviglie della creazione, un piccolo mondo che concentra tutti i mondi, ????ó??????, e che manifesta la sapienza divina, la quale ha saputo riunire due esseri così disparati. 53. È un mondo pieno di vita: secondo l'osservazione di S. Gregorio Magno, vi si distinguono tre vite, la vita vegetativa, la vita animale e la vita intellettiva: "Homo habet vivere cum plantis, sentire cum animantibus, intelligere cum angelis." Come la pianta, l'uomo si nutrisce, cresce e si riproduce; come l'animale, conosce gli oggetti sensibili e tende ad essi col suo appetito sensitivo, con le sue emozioni e le sue passioni, e si muove di moto spontaneo; come l'angelo, ma in grado minore e in modo diverso, conosce intellettualmente l'essere soprasensibile, il vero, e la sua volontà tende liberamente al bene razionale. 54.2° Queste tre vite non si sovrappongono, ma si compenetrano, si coordinano e si subordinano, per concorrere ad un medesimo fine: la perfezione di tutto l'essere. È legge razionale insieme e biologica che, in ogni essere composto, la vita non può conservarsi e svilupparsi se non a patto di coordinare e quindi di subordinare i suoi vari elementi all'elemento principale e di asservirli per servirsene. Nell'uomo quindi le facoltà inferiori, vegetative e sensitive, devono essere sottomesse alla ragione e alla volontà. Questa condizione è assoluta: nella misura che manca, la vita s'affievolisce e scompare; infatti quando cessa la subordinazione, la dissociazione degli elementi incomincia, e si ha l'indebolimento del sistema e finalmente la morte. 55. 3° La vita è dunque una lotta; perchè le facoltà inferiori tendono con ardore al piacere, mentre le facoltà superiori tendono al bene onesto. Ora tra queste facoltà vi è spesso conflitto: ciò che ci piace, ciò che ci è o almeno ci sembra utile, non è sempre moralmente buono; è necessario quindi che la ragione, per far regnare l'ordine, combatta le tendenze contrarie e ne trionfi; ed ecco la lotta dello spirito contro la carne, della volontà contro la passione. Questa lotta è talora penosa; come in primavera sale la linfa negli alberi, così vi sono talora nella parte sensitiva dell'anima spinte violente verso il piacere sensibile. 56.Ma non sono irresistibili; la volontà, aiutata dall'intelletto, esercita su questi movimenti passionali un quadruplice potere: 1) potere di previdenza, che consiste nel prevedere e nel prevenire, con una saggia e costante vigilanza, molte immaginazioni, impressioni ed emozioni pericolose; 2) un potere d'inibizione e di moderazione, col quale noi infreniamo o almeno moderiamo i moti violenti che ci si sollevano nell'anima; così io posso impedire ai miei occhi di fissarsi su un oggetto pericoloso, alla mia immaginazione di trattenere immagini cattive; e se sorge in me moto di collera, io posso moderarlo; 3) un potere di stimolo, che eccita o intensifica per mezzo della volontà i movimenti passionali; 4) un potere di direzione, che ci rende capaci di dirigere questi movimenti verso il bene e quindi di distoglierli anche dal male. 57. Oltre a queste lotte intestine, ce ne possono essere altre tra l'anima e il suo Creatore. Vediamo certamente con la retta ragione che siamo obbligati a pienamente assoggettarci a Colui che è nostro supremo Padrone. Ma questa obbedienza ci costa; c'è in noi una certa sete d'indipendenza e d'autonomia che ci inclina a sottrarci all'autorità divina; è l'orgoglio, di cui non si trionfa che con l'umile confessione della propria indegnità e della propria impotenza, riconoscendo i diritti imprescrittibili del Creatore sulla sua creatura. Così dunque, nello stato di natura, noi avremmo dovuto lottare contro la triplice concupiscenza. 58. 4° Quando l'uomo, invece di cedere alle cattive tendenze, fa il suo dovere, può a buon diritto aspettarsi una ricompensa, che sarà per la sua anima immortale una conoscenza più ampia e più profonda della verità e di Dio, sempre però conforme alla sua natura, cioè a dire analitica o discorsiva, e un amore più puro e più durevole. Se invece viola liberamente la legge in materia grave e non si pente prima di morire, non consegue il suo fine e merita un castigo, che sarà la privazione di Dio accompagnata da tormenti, proporzionati alla gravità delle sue colpe. Tale sarebbe stato l'uomo nel cosidetto stato di natura pura, che del resto non è mai esistito; essendo stato l'uomo elevato allo stato soprannaturale, o al momento della sua creazione, come dice S. Tommaso, o immediatamente dopo, come dice S. Bonaventura. Dio, nella infinita sua bontà, non si contentò di conferire all'uomo i doni naturali; ma volle elevarlo ad uno stato superiore, conferendogli doni preternaturali e soprannaturali. ART. II. Elevazione dell'uomo allo stato soprannaturale. I. Nozione del soprannaturale. 59. Richiamiamo che in teologia si distinguono due specie di soprannaturale: il soprannaturale assoluto, per essenza, quoad substantiam, e il soprannaturale relativo, quanto al modo, quoad modum. 1° Il soprannaturale per essenza è un dono divino fatto alla creatura intelligente, e che supera assolutamente tutta la sua natura, in questo senso che non può essere da lei prodotto e neppur da lei postulato, richiesto, meritato, cosicchè non solo supera ogni sua capacità attiva ma anche tutti i suoi diritti e tutte le sue esigenze. È qualche cosa di finito, perchè è un dono fatto alla creatura; ma è nello stesso tempo qualche cosa di divino, perchè solo il divino può superare le esigenze di ogni creatura. È però un divino comunicato e partecipato in modo finito e così evitiamo il panteismo. Non ci sono veramente che due sole forme di soprannaturale per essenza: l'Incarnazione e la grazia santificante. A) Nel primo caso, Dio si unisce all'umanità nella persona del Verbo, in modo che la natura umana di Gesù ha per soggetto personale la seconda persona della SS. Trinità, senza alcuna alterazione come natura umana; cosicchè Gesù, uomo per la sua natura umana, è anche veramente Dio quanto alla sua persona. Abbiamo qui un'unione sostanziale, che non fonde due nature in una sola, ma le unisce, conservandone l'integrità, in una sola persona, la persona del Verbo; è quindi un'unione personale o ipostatica. È questo il più alto grado del soprannaturale quoad substantiam. B) La grazia santificante è un grado minore di questo stesso soprannaturale. Con lei infatti l'uomo serba la personalità ma viene divinamente, benchè accidentalmente, modificato nella natura e nella capacità operativa; non diventa Dio, ma deiforme, cioè simile a Dio, divinæ consors naturæ, capace di afferrar direttamente Dio nella visione beatifica, quando la grazia sarà trasformata in gloria, e di vederlo faccia a faccia, come Dio vede se stesso; privilegio che supera evidentemente le esigenze delle creature anche più perfette, poichè ci fa partecipare alla vita intellettuale di Dio e alla sua natura. 60. 2° Il soprannaturale relativo, quanto al modo, è in sè qualche cosa che non supera la capacità o le esigenze di ogni creatura, ma solamente di qualche natura particolare. Tale è la scienza infusa, che supera la capacità dell'uomo ma non quella dell'angelo. Dio comunicò all'uomo queste due forme di soprannaturale: conferì infatti ai nostri progenitori il dono di integrità, ( soprannaturale quoad modum ) che, perfezionandone la natura, la disponeva a ricevere la grazia, e nello stesso tempo conferì loro la grazia stessa, dono soprannaturale quoad substantiam: il complesso di questi due doni costituisce quella che si chiama giustizia originale. II. Doni preternaturali conferiti ad Adamo. 61. Il dono di integrità perfeziona la natura dell'uomo senza elevarla all'ordine divino; è certamente un dono gratuito e preternaturale che supera le sue esigenze e le sue forze; ma non è ancora il soprannaturale per essenza. Comprende tre grandi privilegi, i quali, senza cangiare il fondo della natura umana, le danno una perfezione a cui non avea alcun diritto: la scienza infusa, il dominio delle passioni o l'esenzione dalla concupiscenza, l'immortalità del corpo. 62. A) La scienza infusa. Per natura noi non vi abbiamo diritto, perchè è privilegio degli angeli; solo progressivamente e con difficoltà noi, secondo le leggi psicologiche, possiamo arrivare alla conquista della scienza. Ora, per facilitare al primo uomo il suo ufficio di capo e di educatore del genere umano, Dio gli diede gratuitamente la scienza infusa di tutte le verità che gli erano necessarie, ed una certa facilità d'acquistare la scienza sperimentale; s'avvicinava così agli angeli. 63. B) Il dominio delle passioni ossia l'esenzione da quella tirannica concupiscenza che rende la virtù così difficile. Abbiamo detto che, per la costituzione stessa dell'uomo, vi è in lui una lotta terribile tra il desiderio sincero del bene e l'appetito disordinato dei piaceri e dei beni sensibili, ed una spiccata tendenza all'orgoglio: tutto quello insomma che noi chiamiamo la triplice concupiscenza. Per rimediare a questo naturale difetto, Dio conferì ai nostri progenitori un certo dominio sulle passioni che, senza renderli impeccabili, agevolava loro la virtù. In Adamo non v'era quella tirannia della concupiscenza che inclina violentemente al male, ma solamente una certa tendenza al piacere, subordinata alla ragione. Essendo la sua volontà sottomessa a Dio, le facoltà inferiori erano sottomesse alla ragione e il corpo all'anima: ordine quindi e rettitudine perfetta. 64. C) L'immortalità corporea. L'uomo è per natura soggetto alla malattia e alla morte; per una provvidenza speciale, fu preservato da questa doppia debolezza, affinchè l'anima potesse così più liberamente attendere all'adempimento dei suoi doveri superiori. Ma questi privilegi erano destinate a rendere l'uomo più atto a ricevere e trafficare un dono molto più prezioso, intieramente e assolutamente soprannaturale, quello della grazia santificante. III. I privilegi soprannaturali. 65. A) Per natura l'uomo è servo di Dio, cosa sua e sua proprietà. Ma per un'insigne bontà, di cui non potremo mai ringraziarlo abbastanza, Dio volle farlo entrare nella sua famiglia, adottarlo per figlio, farne il suo erede presuntivo, riserbandogli un posto nel suo regno; e perchè questa adozione non fosse una semplice formalità, gli conferì una partecipazione della sua vita divina, una qualità creata, è vero, ma reale, che gli fa godere sulla terra i lumi della fede, molto superiori a quelli della ragione, e possedere un giorno Dio nel cielo con la visione beatifica e un amore proporzionato alla chiarezza di questa visione. 66. B) A questa grazia abituale, che perfezionava e divinizzava, a così dire, la sostanza stessa dell'anima, s'aggiungevano delle virtù infuse e dei doni dello Spirito Santo che divinizzavano le sue facoltà, e una grazia attuale che, mettendo in moto tutto quest'organismo soprannaturale, lo rendeva capace di fare atti soprannaturali, deiformi e meritori di vita eterna. Questa grazia è sostanzialmente la stessa di quella che ci viene concessa per mezzo della giustificazione; per ora quindi non la descriviamo in particolare, perchè ci riserbiamo di farlo più tardi parlando dell'uomo rigenerato. Tutti questi privilegi, eccettuata la scienza infusa, erano stati dati ad Adamo, non come un bene personale ma come un patrimonio di famiglia che doveva essere trasmesso a tutta la sua discendenza, a patto che egli rimanesse fedele a Dio. ART. III. La caduta e il castigo. I. La caduta. 67. Non ostante tutti questi privilegi, l'uomo restava libero, e fu perciò sottoposto ad una prova, per potere, con l'aiuto della grazia, meritare il cielo. Questa prova consisteva nell'osservanza delle leggi divine e in particolare d'un precetto positivo aggiunto alla legge naturale, espresso dal Genesi sotto la forma di proibizione di mangiare il frutto dell'albero della scienza del bene e del male. La Scrittura narra come il demonio, sotto forma di serpente, venne a tentare i nostri progenitori, sollevando nell'anima loro un dubbio sulla legittimità di quella proibizione. Nascondi Egli tenta di persuaderli che, mangiando di quel frutto, non solo non morranno, ma diventeranno come dei, e conosceranno da loro stessi il bene e il male senza aver bisogno di ricorrere alla legge divina: "eritis sicut dii, scientes bonum et malum" ( Gen 3,5 ). Era una tentazione d'orgoglio, e di ribellione a Dio. L'uomo soccombe e commette formalmente un peccato di disobbedienza, come nota S. Paolo ( Rm 5 ) ma ispirato dall'orgoglio e presto seguito da altre debolezze. Fu una colpa grave, perchè fu il rifiuto di sottomettersi all'autorità di Dio, una specie di negazione del suo sovrano dominio e della sua sapienza, essendo quel precetto un mezzo per provare la fedeltà del primo uomo; colpa tanto più grave in quanto che i nostri progenitori conoscevano l'infinita liberalità di Dio verso di loro, i suoi imprescrittibili diritti, la gravità del precetto manifestata dalla gravità della sanzione che vi era annessa, e perchè, non essendo trascinati dall'impetuosità delle passioni, avevano il tempo di riflettere sulle formidabili conseguenze del loro atto. 68. Si fece pur questione come mai poterono essi peccare, non essendo soggetti agli allettamenti della concupiscenza. Per intenderlo, bisogna ricordarsi che nessuna creatura libera è impeccabile; ella può infatti deviar lo sguardo dal vero bene per volgerlo al bene apparente, attaccarsi a quest'ultimo e preferirlo al primo; questa preferenza costituisce appunto il peccato. Solo colui, come fa notare S. Tommaso, è impeccabile, la cui volontà si confonde con la legge morale: il che è privilegio di Dio. II. Il castigo. 69. Il castigo non si fece aspettare, castigo loro e castigo della posterità. A) Il castigo dei nostri progenitori viene descritto nel Genesi; ma anche qui si palesa la bontà di Dio: Dio avrebbe potuto applicare immediatamente la pena di morte ai nostri progenitori e per misericordia non lo fece. Si contentò di privarli dei privilegi speciali che avea loro conferiti, cioè del dono d'integrità e della grazia abituale; conservando quindi la loro natura e i loro privilegi naturali. La loro volontà è certamente indebolita se si paragona a quello che era col dono dell'integrità; ma non è provato che sia ora più debole di quel che sarebbe stata nello stato di natura; in ogni caso resta pur sempre libera e può scegliere tra il bene e il male. Dio volle anzi lasciar loro anche la fede e la speranza e fece subito risplendere ai disanimati loro sguardi la promessa di un liberatore, nato dalla stirpe umana, che un giorno avrebbe trionfato del demonio e restaurato l'uomo decaduto. Nello stesso tempo con la grazia attuale sollecitava i loro cuori al pentimento, e venne il momento in cui il loro peccato fu perdonato. 70. B) Ma che cosa diverrà l'umana stirpe che nascerà dalla loro unione? Sarà lei pure, nascendo, privata della giustizia originale, cioè della grazia santificante e del dono dell'integrità. Questi doni intieramente gratuiti, che erano, per così dire, un bene di famiglia, non dovevano trasmettersi alla posterità d'Adamo se egli non rimaneva fedele a Dio; ora questa condizione non essendo stata osservata, l'uomo nasce privo della giustizia originale. Quando Adamo, fatta penitenza, ebbe ricuperato la grazia, la ricuperò come persona privata e per conto suo particolare; e non potè quindi trasmetterla alla posterità. Era riserbato al Messia, al novello Adamo, divenuto ormai capo della schiatta umana, l'espiare le nostre colpe e l'istituire il sacramento della rigenerazione per trasmettere ad ogni battezzato la grazia perduta da Adamo. 71. I figli d'Adamo nascono dunque privi della giustizia originale, cioè della grazia santificante e del dono dell'integrità. La privazione di questa grazia costituisce ciò che si chiama peccato originale, peccato in un senso largo che non include alcun atto colpevole da parte nostra, ma uno stato di decadenza, e, tenendo conto del fine soprannatrale a cio restiamo destinati, una privazione, la mancanza d'una qualità essenziale che dovremmo possedere e quindi una macchia, una sozzura morale che ci esclude dal regno dei cieli. 72. E poichè il dono dell'integrità è anch'esso perduto, la concupiscenza infierisce in noi, e se non vi resistiamo coraggiosamente, ci trascina verso il peccato attuale. Noi siamo dunque, rispetto allo stato primitivo, diminuiti e feriti, soggetti all'ignoranza, inclinati al male, deboli per resistere alle tentazioni. L'esperienza mostra che la concupiscenza non è uguale in tutti gli uomini; infatti non tutti hanno lo stesso temperamento e lo stesso carattere nè quindi le passioni ugualmente ardenti; scomparso il freno della giustizia originale che le signoreggiava, le passioni, riprendendo la loro libertà, sono diventate più violente negli uni, più temperate negli altri, come spiega S. Tommaso. 73. Si deve andare più oltre e ammettere, con la scuola Agostiniana, una certa diminuzione intrinseca delle nostre facoltà e delle nostre naturali energie? Non è necessario e niente lo prova. Si deve ammettere, con certo Tomisti, una diminuzione estrinseca delle nostre energie, nel senso che abbiamo ora più ostacoli da vincere, in particolare la tirannia esercitata dal demonio su noi suoi vinti, e la sottrazione di certi soccorsi naturali che Dio ci avrebbe largiti nello stato di natura pura? È cosa possibile, anzi molto probabile; ma per essere giusti, bisogna aggiungere che questi ostacoli sono abbondantemente compensati dalle grazie attuali che il Signore ci dà per i meriti del suo Figlio, e dalla protezione degli angeli buoni, specialmente dei nostri angeli custodi. 74. Conclusione. Ciò che si può dire è che, per il peccato originale, l'uomo perdette il bell'equilibrio datogli da Dio, e che egli è, rispetto allo stato primitivo, un ferito ed uno squilibrato, come appare dallo stato attuale delle nostre facoltà. A) Appare innanzi tutto nelle nostre facoltà sensitive: a) I nostri sensi esterni, i nostri sguardi, per esempio, si volgono con avidità verso ciò che lusinga la curiosità, le orecchie ascoltano con premura tutto ciò che soddisfa il nostro desiderio di conoscere novità, il nostro tatto tende alle sensazioni piacevoli, senza curarsi delle regole della morale. b) Lo stesso avviene dei nostri sensi interni: l'immaginazione ci rappresenta ogni sorta di scene più o meno sensuali, le nostre passioni ci trasportano con ardore, ed anche con violenza, verso il bene sensibile o sensuale senza darsi pensiero del suo lato morale, e tentano di trar seco il consenso della volontà. Queste tendenze non sono certamente irresistibili, perchè tali facoltà restano, fino a un certo punto, sottomesse al dominio della volontà; ma quale tattica e quanti sforzi per tenere a posto questi sudditi ribelli? 75. B) Le facoltà intellettuali, che costituiscono l'uomo propriamente detto, l'intelletto e la volontà, furono anch'esse colpite dal peccato originale. a) È vero che la nostra intelligenza resta capace di conoscere la verità, e col paziente lavoro acquista, anche senza il soccorso della rivelazione, la cognizione d'un certo numero di verità fondamentali d'ordine naturale. Ma quante debolezze umilianti! 1) Invece di tendere spontaneamente verso Dio e le cose divine; invece di elevarsi dalle creature al Creatore, come avrebbe fatto nello stato primitivo, essa tende ad assorbirsi nello studio delle cose create senza risalire alla loro causa; a concentrare la sua attenzione su ciò che soddisfa la sua curiosità ed a trascurare ciò che si riferisce al suo fine; la premura delle cose temporali le impedisce spesso di pensare all'eternità. 2) E quanta facilità a cadere nell'errore! I numerosi pregiudizi a cui siamo inclinati, le passioni che ci agitano l'anima e gettano un velo tra lei e la verità, ci traviano ahimè! troppo spesso anche nelle questioni più vitali, da cui dipende la direzione della nostra vita morale. b) La nostra stessa volontà, in cambio di assoggettarsi a Dio, ha delle pretese d'indipendenza; sente difficoltà a sottomettersi a Dio e specialmente ai suoi rappresentanti sulla terra. Quando si tratta di vincere le difficoltà che s'oppongono alla pratica del bene, quanta debolezza e quanta incostanza nello sforzo! E quante volte si lascia trascinare dal sentimento e dalla passione! S. Paolo descrisse con efficaci accenti questa deplorevole debolezza: "Io non faccio il bene che voglio e faccio il male che non voglio … Poichè mi diletto nella legge di Dio secondo l'uomo interiore; ma veggo nelle mie membra un'altra legge che si oppone alla legge della mia mente e mi fa schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Nascondi Me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte? Grazie a Dio per Gesù Cristo Signor nostro" ( Rm 7,19-25 ). ART. IV. La redenzione e i suoi effetti. 76. La redenzione è un'opera meravigliosa, è il capolavoro di Dio, che rifà l'uomo sfigurato dal peccato e lo rimette, in un certo senso, in uno stato migliore di quello che precedette la sua caduta, tanto che la Chiesa non teme, nella sua liturgia, di benedire la colpa che ci meritò un Redentore quale l'Uomo-Dio: "O felix culpa quæ talem ac tantum meruit habere Redemptorem!" I. Sua natura. 77. Dio, che da tutta l'eternità aveva previsto la caduta dell'uomo, volle anche da tutta l'eternità preparare agli uomini un Redentore nella persona del suo Figlio; il quale risolvette di farsi uomo, per potere, divenuto capo dell'umanità, espiare in modo perfetto il nostro peccato e restituirci, con la grazia, tutti i nostri diritti al cielo. Dio seppe così cavare il bene dal male e conciliare i diritti della sua giustizia con quelli della sua bontà. Egli non era certamente obbligato ad esercitare pienamente tutti i diritti della sua giustizia e avrebbe potuto perdonare l'uomo, contentandosi della riparazione imperfetta che questi gli avrebbe potuto offrire. Ma giudicò cosa più degna della sua gloria e più utile all'uomo il porre lui in istato di riparare interamente la sua colpa. 78. A) La giustizia perfetta chiedeva una riparazione adeguata, uguale all'offesa, offerta da un rappresentante legittimo dell'umanità. E questo fece Dio perfettamente con l'Incarnazione e con la Redenzione. a) Dio incarna il suo Figlio e ne fa con ciò stesso il capo dell'umanità, la testa d'un corpo mistico di cui noi siamo le membra; questo Figlio ha quindi il diritto d'agire in nome dei suoi membri e di riparare in nome loro. Nascondi b) Questa riparazione non è solamente uguale all'offesa ma la supera di molto; ha infatti un valore morale infinito; perchè, provenendo il valore morale d'un'azione anzitutto dalla dignità della persona, tutte le azioni dell'Uomo-Dio hanno un valore infinito. Un solo quindi dei suoi atti sarebbe bastato a riparare in modo adeguato tutti i peccati degli uomini. Ora Gesù fece atti innumerevoli di riparazione ispirati dal più puro amore; e li coronò coll'atto più sublime e più eroico, l'immolazione totale di se stesso nella dolorosa sua passione e sul Calvario; egli ha dunque soddisfatto abbondantemente e sovrabbondantemente: "Ubi abundavit delictum, superabundavit gratia" ( Rm 5,20 ) c) Questa riparazione è dello stesso genere della colpa: Adamo aveva peccato per disobbedienza e per orgoglio; Gesù espia con l'umile obbedienza ispirata dall'amore, che giunge fino alla morte e morte di croce, "factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis" ( Fil 2,8 ). Nascondi E come una donna era intervenuta nella caduta per trarre al male Adamo, così una donna interviene nella redenzione col suo potere d'intercessione e coi suoi meriti; è Maria, la Vergine Immacolata, la madre del Salvatore, che coopera con lui, sebbene in modo secondario, all'opera riparatrice. Così resta pienamente soddisfatta la giustizia, e anche più lo sarà la bontà. 79. B) Infatti la S. Scrittura attribuisce la redenzione all'infinita misericordia di Dio e all'amore eccessivo che ci porta: "Dio, dice S. Paolo, che è ricco in misericordia, per la eccessiva carità con cui ci amò … ci convivificò in Cristo: Deus qui dives est in misericordia propter nimiam caritatem qua dilexit nos… convivificavit nos in Christo" ( Ef 2,4 ). Le tre persone divine vi concorrono a gara e ognuna con un amore che sembra veramente andare all'eccesso. a) Il Padre ha un sol Figlio, a lui uguale, che ama come un altro se stesso e da cui è infinitamente riamato; or questo figlio unico egli lo dà, lo sacrifica per noi, per renderci la vita perduta col peccato: "Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum daret, ut omnis qui credit in eum non pereat, sed habeat vitam æternam ( Gv 3,16 ). Nascondi Poteva essere più generoso e darci più di suo Figlio? Con Lui, del resto, non ci ha forse dato tutto? "Qui etiam proprio Filio non pepercit, sed pro nobis tradidit illum, quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit"? ( Rm 8,32 ). 80. b) Il Figlio lietamente e generosamente accetta la missione affidatagli; fin dal primo istante dell'Incarnazione, si offre al Padre come vittima per sostituire tutti i sacrifizi dell'antica legge, e l'intiera sua vita non sarà che un lungo sacrifizio coronato dall'Immolazione del Calvario; sacrifizio ispirato dall'amore che ha per noi: "( Christus ) dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis oblationem et hostiam Deo" ( Rm 5,5 ). "Cristo ci amò e diede per noi se stesso a Dio, oblazione e ostia di soave odore". Nascondi 81. c) A perfezionare l'opera sua, egli ci manda lo Spirito Santo, amore sostanziale del Padre e del Figlio, che, non contento di infondere nelle anime nostre la grazia e le virtù infuse, specialmente la divina carità, dà se stesso a noi, perchè possiamo godere non solo della sua presenza e dei suoi doni, ma anche della sua persona: "La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato: Caritas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis" ( Ef 5,2 ). La redenzione è dunque davvero l'opera d'amore per eccellenza, il che ce ne fà già presagire gli effetti. II. Gli effetti della Redenzione. 82. Non pago di riparare, con la sua soddisfazione, l'offesa fatta a Dio e di riconciliarci con lui, Gesù ci merita tutte le grazie che avevamo perduto col peccato ed altre ancora. Ci restituisce anzitutto i beni soprannaturali perduti col peccato: a) la grazia abituale col corteggio delle virtù infuse e dei doni dello Spirito Santo; e, per meglio adattarsi alla natura umana, istituisce i sacramenti, segni sensibili che ci conferiscono la grazia in tutte le circostanze importanti della vita e ci danno così maggior sicurezza e confidenza; Nascondi b) grazie attuali copiosissime, che abbiamo diritto di pensare anche più abbondanti che nello stato d'innocenza, fondandoci sulla parola di S. Paolo: "ubi autem abundavit delictum, superabundavit gratia" ( Rm 5,20 ). 83. c) È però vero che il dono dell'integrità non ci è restituito immediatamente ma progressivamente. La grazia della rigenerazione ci lascia alle prese con la triplice concupiscenza e con tutte le miserie della vita, ma ci dà la forza necessaria per trionfarne, ci rende più umili, più vigilanti e più attivi per prevenire e vincere le tentazioni, ci rassoda quindi nella virtù e ci dà occasione d'acquistare maggiori meriti. Mettendoci sott'occhio gli esempi di Gesù, che portò così valorosamente la croce sua e la nostra, stimola il nostro ardore e sostiene la nostra costanza nello sforzo; e le grazie attuali che egli ci meritò e ci largisce con una santa prodigalità, facilitano mirabilmente i nostri sforzi e le nostre vittorie. A mano a mano che lottiamo, sotto la guida e con l'aiuto del Maestro, la concupiscenza diminuisce, la nostra forza di resistenza aumenta, e viene il momento in cui certe anime privilegiate sono talmente rassodate nella virtù che, pur rimanendo libere di peccare, non commettono più alcun peccato veniale deliberato. La vittoria definitiva non si ha che con la nostra entrata nel cielo; ma sarà tanto più gloriosa quanto maggiori saranno stati gli sforzi al cui prezzo essa venne comprata. Non possiamo dunque dire: O felix culpa? 84. d) A questi aiuti interni Nostro Signore ne aggiunge degli esterni, specialmente quella Chiesa visibile da lui fondata e ordinata a illuminare le nostre menti con la sua autorità dottrinale, reggere le nostre volontà col suo potere legislativo e giudiziario, e santificare le nostre anime coi sacramenti, coi sacramentali e colle indulgenze. Or non è questo un aiuto immenso di cui dobbiamo ringraziare Dio? O felix culpa! 85. e) Finalmente non è certo che il Verbo si sarebbe incarnato senza il peccato originale. Ora l'Incarnazione è un bene così prezioso, che basta da solo a giustificare e spiegare il canto della Chiesa: "O felix culpa!" Nascondi In cambio d'un capo ornato certamente di belle doti, ma debole e peccabile, noi abbiamo per nostro capo il Figlio eterno di Dio, il quale, essendoso rivestito della nostra natura, è tanto vero uomo come è vero Dio. Egli è il mediatore ideale, mediatore così di religione come di redenzione, che adora il Padre non solo a nome suo, ma anche a nome dell'intiera umanità, anzi a nome pure degli Angeli che sono lieti di glorificare Dio per mezzo di Lui "per quem laudant Angeli". Egli è il sacerdote perfetto, che per la sua natura divina ha libero accesso presso Dio e che si china con compassione verso gli uomini, divenuti suoi fratelli, e li tratta con indulgenza, essendo egli stesso circondato di debolezza: "qui condolere possit iis qui ignorant et errant, quoniam et ipse circumdatus est infirmitate" ( Eb 5,2 ). Con lui e per lui noi possiamo rendere a Dio gli omaggi infiniti a cui ha diritto; con lui e per lui noi possiamo ottenere tutte le grazie che sono necessarie a noi e ai nostri fratelli: quando noi adoriamo, è lui che adora in noi e per noi; quando noi domandiamo soccorsi, è lui che appoggia le nostre suppliche; ecco perchè tutti ciò che chiediamo al Padre in nome suo ci viene liberalmente concesso. Dobbiamo dunque rallegrarci d'avere un tal redentore e un tal mediatore, e riporre in lui una illimitata confidenza. Conclusione. Nascondi 86. Questo sguardo storico fa mirabilmente risaltare l'eccellenza della sua vita spirituale come pure la grandezza e la debolezza di colui che la riceve. 1° Eccellente è davvero questa vita perchè: a) Procede da un pensiero affettuoso di Dio, che da tutta l'eternità ci amò e ci volle unire a sè nella più dolce intimità: "In caritate perpetuâ dilexi te; ideo attraxi te miserans" ( Ger 31,3 ): "Io t'ho amato d'amore costante e perciò ti trassi a me". b) È una partecipazione reale, benchè finita, della natura e della vita di Dio, "divinæ consortes naturæ". ( Vedi il n. 106 ). c) È così altamente stimata da Dio che, per restituircela, il Padre sacrificò l'unico suo Figlio e Questi intieramente s'immola e lo Spirito Santo viene nell'anima nostra per comunicarcela. È quindi il bene più prezioso di tutti "maxima et pretiosa nobis promissa donavit" ( 2 Pt 1,4 ) che noi dobbiamo stimare sopra ogni altra cosa, custodire e coltivare con gelosissima cura: tanti valet quanti Deus!" 87. 2° Eppure portiamo questo tesoro in un vaso fragile. Se i nostri progenitori, dotati del dono dell'integrità e circondati da ogni sorta di privilegi, sventuratamente lo perdettero per sè e per i loro discendenti, che cosa non abbiamo da temere noi che, nonostante la nostra rigenerazione spirituale, portiamo dentro la triplice concupiscenza? Vi sono certo in noi nobili e generose tendenze, che provengono da ciò che vi è di buono nella nostra natura e principalmente dalla nostra incorporazione a Cristo; energie soprannaturali che ci sono date per i suoi meriti; ma pure rimaniamo deboli ed incostanti, se cessiamo d'appoggiarci su colui che è il nostro braccio destro e insieme il nostro capo; il segreto della nostra forza non sta in noi ma in Dio e in Gesù Cristo. La storia dei nostri progenitori e della lacrimevole loro caduta ci mostra che il più gran male, il solo male su questa terra, è il peccato; che dobbiamo quindi stare assiduamente vigilanti per respingere immediatamente ed energicamente i primi assalti del nemico, da qualunque parte egli venga, dal di dentro o dal di fuori. Del resto noi siamo ben armati contro di lui, come verrà dimostrato nel secondo capitolo sulla natura della vita cristiana. Natura della vita cristiana 88. Essendo la vita soprannaturale una partecipazione della vita di Dio per i meriti di Gesù Cristo, viene talora definita la vita di Dio in noi o la vita di Gesù in noi. Queste espressioni son giuste, se si bada a spiegarle bene in modo da evitare ogni cenno di panteismo. Noi infatti non abbiamo una vita identica a quella di Dio o di Nostro Signore, ma una somiglianza di questa vita, una partecipazione finita, benchè reale, di questa vita. Possiamo dunque definirla: una partecipazione della vita divina, conferita dallo Spirito Santo che abita in noi, in virtù dei meriti di Gesù Cristo, e che noi dobbiamo coltivare contro le tendenza che le si oppongono. 89.È chiaro quindi che la vita soprannaturale è una vita in cui Dio ha la parte principale e noi la parte secondaria. Sio, la terza persona della SS. Trinità ( che si chiama anche Spirito Santo ), viene personalmente a conferirci questa vita, perchè egli solo può farci partecipare alla sua stessa vita. Nascondi Ce la comunica per i meriti di Gesù Cristo ( n. 78 ), che è causa meritoria, esemplare e vitale della nostra santificazione. È quindi vero che Dio vive in noi, che Gesù vive in noi; ma la nostra vita spirituale non è identica a quella di Dio o a quella di Nostro Signore; ne è distinta ed è solo simile all'una e all'altra. La vita nostra consiste nell'utilizzare i doni divini per vivere in Dio e per Dio, per vivere in unione con Gesù e imitarlo; e poichè resta in noi la triplice concupiscenza, noi non possiamo vivere che a patto di accanitamente combatterla; e avendoci inoltre Dio dotati d'un organismo soprannaturale, noi dobbiamo farlo crescere con gli atti meritorii e con la fervorosa frequenza dei sacramenti. È questo il senso della definizione che abbiamo data; l'intiero capitolo non ne sarà che la spiegazione e lo svolgimento e ci darà modo di trarre delle conclusioni pratiche sulla devozione e sull'unione al Verbo Incarnato, ed anche sulla devozione alla S. Vergine ed ai Santi che discende dalle loro relazioni col Verbo Incarnato. Benchè l'azione di Dio e l'azione dell'anima si svolgano parallelamente nella vita cristiana, noi, per maggior chiarezza, tratteremo in due distinti articoli della parte di Dio e della parte dell'uomo. Dio opera in noi 1° Per sè stesso Abita in noi: donde la devozione alla SS. Trinità. Ci dota d'un organismo soprannaturale. 2° Per mezzo del Verbo Incarnato che è principalmente Causa meritoria della nostra vita. Causa esemplare della nostra vita. Causa vitale della nostra vita. Donde la devozione al Verbo Incarnato. 3° Per mezzo di Maria che è secondariamente Causa meritoria della nostra vita. Causa esemplare della nostra vita. Causa distributrice delle grazie. Donde la devozione a Maria. 4° Per mezzo dei Santi e degli Angeli Immagini viventi di Dio: venerarli. Intercessori: invocarli. Modelli: imitarli. Noi viviamo e operiamo per Dio 1° Lottando contro la concupiscenza. il mondo. il demonio. 2° Santificando le nostre azioni. Loro triplice valore. Condizioni del merito. Mezzi per rendere i nostri atti più meritorii. 3° Ricevendo degnamente i Sacramenti La grazia sacramentale. La grazia speciale della Penitenza. dell'Eucarestia I. I nostri doveri verso la SS. Trinità che vive in noi 98. Possedendo un tesoro così prezioso come la SS. Trinità, bisogna pensarvi spesso "ambulare cum Deo intus". Or questo pensiero fa nascere tre principali sentimenti: l'adorazione, l'amore, l'imitazione. Nascondi 99. A) Il primo sentimento che scaturisce come spontaneamente dal cuore è quello dell'adorazione: "Glorificate et portate Deum in corpore vestro ( 1 Cor 6,20 ). Come, infatti, non benedire, glorificare, ringraziare quest'ospite divino che trasforma l'anima nostra in un vero santuario? Dopochè Maria ebbe ricevuto nel casto suo seno il Verbo Incarnato, la sua vita non fu più che un perpetuo atto d'adorazione e di riconoscenza: "Magnificat anima mea Dominum … fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus"; e tali pure sono i sentimenti, benchè in grado minore, di un'anima che prende coscienza dell'abitazione dello Spirito Santo in lei: capisce che, essendo tempio di Dio, deve incessantemente offrirsi come ostia di lode alla gloria delle tre divine persone. a) Al principio delle proprie azioni, facendo il segno di croce in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, consacra loro ogni sua opera; terminandole, riconosce che tutto il bene da lei fatto si deve ad esse attribuire: Gloria Patri et Filio et Spiritui sancto. Nascondi b) Ama ripetere quelle preghiere liturgiche che ne celebrano le lodi: il Gloria in excelsis Deo, che esprime così bene tutti i sentimenti di religione verso le divine persone e specialmente verso il Verbo Incarnato; il Sanctus, che proclama la santità divina; il Te Deum, che è il suo primo principio e il suo ultimo fine; la sua incapacità a lodarlo come egli si merita, e in questo sentimento si unisce allo Spirito di Gesù che solo può rendere a Dio quella gloria a cui ha diritto: "Lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza, perchè noi non sappiamo ciò che dobbiamo chiedere nelle nostre preghiere, secondo i nostri bisogni; ma lo Spirito prega egli stesso per noi con gemiti inenarrabili; "Spiritus adiuvat infirmitatem nostram; nam quid oremus sicut oportet, nescimus; sed ipse Spiritus postulat pro nobis gemitibus inenarrabilibus ( Rm 8,26 ). 100. B) Dopo avere adorato Dio e proclamato il proprio nulla, l'anima si abbandona ai sentimenti del più confidente amore. Per quanto sia infinito pur Dio si abbassa a noi, come il padre più amoroso verso il proprio figlio, e c'invita ad amarlo e a dargli il cuore: "Præbe, fili, cor tuum mihi ( Pr 23,26 ) questo amore egli potrebbe esigerlo imperiosamente ma preferisce chiederlo dolcemente, affettuosamente, perchè vi sia, a così dire, più spontaneità nella nostra risposta, più abbandono filiale nel nostro ricorso a lui. E come non rispondere con confidente amore a tanti e sì delicati riguardi, a tante così materne sollecitudini? Sarà un amore penitente, per espiare le nostre troppo numerose infedeltà passate e presenti; un amore riconoscente, per ringraziare quest'insigne benefattore, questo collaboratore premuroso che lavora l'anima nostra con tanta assiduità; ma principalmente un amore d'amicizia, che ci farà conversare dolcemente col più fedele e più generoso degli amici, ci farà caldeggiare tutti i suoi interessi, procurarne la gloria e farne benedire il santo nome. Non sarà quindi un semplice sentimento affettuoso, ma un amore generoso, che va fino al sacrifizio, all'oblio di se, alla rinunzia della propria volontà, per sottomettersi ai precetti e ai consigli divini. 101. C) Quest'amore ci condurrà dunque all'imitazione dell'adorabile Trinità in quel grado che è compatibile con l'umana debolezza. Figli adottivi d'un Padre tre volte santo, templi viventi dello spirito Santo, intendiamo meglio la necessità di rispettare il nostro corpo e la nostra anima. Tale era la conclusione che l'Apostolo inculcava ai discepoli: "Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se alcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo sperderà; poichè santo è il tempio di Dio che siete voi; Nescitis quia templum Dei estis, et Spiritus Dei habitat in vobis? Nascondi Si quis autem templum Dei violaverit, disperdet illum Deus. Templum enim Dei sanctum est quod estis vos ( 1 Cor 3,16-17 ). L'esperienza prova che per le anime generose non v'è motivo più potente di questo per allontanarle dal peccato ed eccitarle alla pratica delle virtù; infatti, non si deve forse purificare e ornare continuamente un tempio ove risiede il Dio tre volte santo? Del resto quando Nostro Signore volle proporci un ideale di perfezione, non andò a cercarlo fuori della SS. Trinità: "Siate perfetti, egli dice, come è perfetto il vostro Padre celeste: "Estote ergo perfecti, sicut et Pater vester cælestis perfectus est ".( Mt 5,48 ) A prima vista, quest'ideale sembra troppo elevato; ma quando ci ricordiamo che siamo figli adottivi del Padre, e che egli vive in noi per imprimervi la sua immagine e collaborare alla nostra santificazione, capiamo bene che nobiltà obbliga e che abbiamo il dovere d'avvicinarci sempre più alle perfezioni divine. Nascondi Specialmente per praticare la carità fraterna Gesù ci chiede di avere dinanzi agli occhi quel perfetto modello che è l'indivisibile unità delle tre divine persone: "Che siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, e io in te, che siano anch'essi una cosa sola in noi; Ut omnes unum sint, sicut tu, Pater, in me et ego in te, ut et ipsi in nobis unum sint ". (Gv 17,21) Tenera preghiera, di cui san Paolo si faceva eco quando supplicava i cari discepoli di non dimenticare che, essendo un solo corpo e un solo spirito, non avendo che un solo ed unico Padre che abita in tutti i giusti, dovevano conservare l'unità dello spirito col vincolo della pace. Riepilogando possiamo conchiudere che la vita cristiana consiste prima di tutto in una unione intima, affettuosa e santificante colle tre divine persone, che ci conserva nello spirito di religione, d'amore e di sacrifizio. II. Dell'organismo della vita cristiana. 102. Le tre divine persone che abitano nel santuario dell'anima nostra si dilettano di arricchirla di doni soprannaturali e ci comunicano una vita simile alla loro che si chiama la vita della grazia o vita deiforme. Ora in ogni vita vi è un triplice elemento: un principio vitale che è, per così dire, la sorgente della vita; delle facoltà che fanno produrre operazioni vitali; e in fine degli atti, che ne sono l'espansione e contribuiscono al suo accrescimento. Nell'ordine soprannaturale, Dio, che vive in noi, produce nelle anime nostre questi tre elementi. a) Ci comunica dapprima la grazia abituale, che fa in noi l'ufficio di principio vitale soprannaturale e divinizza, a così dire, la sostanza stessa dell'anima nostra, rendendola atta, benchè remotamente, alla visione beatifica e agli atti che la preparano. 103. b) Da questa grazia sgorgano le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo, che perfezionano le nostre facoltà e ci danno il potere immediato di fare atti deiformi, soprannaturali e meritorii. c) Per mettere in moto queste facoltà, Dio ci concede le grazie attuali, che illuminano la nostra intelligenza, fortificano la nostra volontà, ci aiutano ad operare soprannaturalmente e ad aumentare così il capitale di grazia abituale che ci ha compartito. 104. Questa vita della grazia, benchè distinta dalla vita naturale, non è semplicemente a lei sovrapposta ma la compenetra tutta quanta, la trasforma e la divinizza. Si assimila tutto ciò che vi è di buono nella natura, nell'educazione e nelle abitudini acquisite; perfeziona e soprannaturalizza tutti questi elementi volgendosi verso l'ultimo fine, che è il possesso di Dio per mezzo della visione beatifica e dell'amore che l'accompagna. Nascondi Spetta a questa vita soprannaturale il dirigere la vita naturale, in virtù del principio generale già esposto al n. 54, che gli esseri inferiori sono subordinati agli esseri superiori. Non può durare nè svilupparsi se non a patto di dominare e serbare sotto la sua influenza gli atti dell'intelligenza, della volontà e delle altre facoltà; con ciò non distrugge nè diminuisce la natura, ma anzi la esalta e la perfeziona. Il che dimostreremo, studiandone per ordine i tre elementi. 1° Della grazia abituale. 105. Dio, volendo nell'infinita sua bontà elevarci a lui per quanto è permesso alla debole nostra natura, ci dà un principio vitale, soprannaturale deiforme: la grazia abituale, grazia che si chiama creata per opposizione alla grazia increata che consiste nell'abitazione dello Spirito Santo in noi. Questa grazia ci rende simili a Dio e ci unisce strettissimamente a lui: "Est autem hæc deificatio, Deo quædem, quoad fieri potest, assimilatio unioque". Sono questi i due aspetti della grazia che esporremo, dandone la definizione tradizionale e determinando l'unione prodotta dalla grazia tra l'anima e Dio. A) Definizione. 106. La grazia ordinariamente si definisce una qualità soprannaturale, inerente all'anima nostra, che ci fa partecipare in modo reale, formale, ma accidentale, alla vita divina. a) È dunque una realtà di ordine soprannaturale ma non una sostanza, perchè nessuna sostanza creata può essere soprannaturale; è un modo d'essere, uno stato dell'anima, una qualità inerente alla sostanza dell'anima nostra, che la trasforma, la eleva sopra tutti gli esseri anche più perfetti; qualità permanente di sua natura, che sta in noi finchè non la scacciamo dall'anima nostra commettendo volontariamente un peccato mortale. "La grazia, dice il Card. Mercier appoggiandosi su Bossuet, è quella qualità spirituale che Gesù diffonde nelle anime nostre, che penetra nel più intimo della nostra sostanza, che s'imprime nel più secreto delle anime nostre, e che si spande ( per mezzo delle virtù ) in tutte le potenze e le facoltà dell'anima, che possiede interiormente l'anima e la rende pura e grata agli occhi di questo divin Salvatore, la fa suo Santuario, suo tempio, suo tabernacolo, insomma suo luogo di delizie." Nascondi 107. b) Questa qualità ci rende, secondo l'energica espressione di S. Pietro, partecipi della natura divina, divinæ consortes naturæ; ci fa entrare, come dice S. Paolo, in comunione con lo Spirito Santo "communicatio Sancti Spiritus ( 2 Cor 13,13 ) in società col Padre e col FIglio, come aggiunge S. Giovanni. Non ci fa certamente uguali a Dio, ma esseri deiformi simili a lui; e ci dà, non la vita stessa di Dio che è essenzialmente incomunicabile, ma una vita simile alla sua. Il che ora spiegheremo, per quanto l'umana intelligenza vi può arrivare. 108. 1) La vita propria di Dio è di contemplare direttamente sè stesso e di infinitamente amarsi. Nessuna creatura, per quanto sia perfetta, può contemplare da se stessa l'essenza divina "che abita una luce inaccessibile, lucem inhabitat inaccessibilem" ( 1 Tm 6,16 ). Ma Dio, per un privilegio intieramente gratuito, chiama l'uomo a contemplare questa essenza divina nel cielo; ed essendone l'uomo incapace, ne eleva, ne dilata, ne fortifica l'intelligenza col lume della gloria. Nascondi Allora, dice S. Giovanni, saremo simili a Dio, perchè lo vedremo come egli vede se stesso, o, che è lo stesso, come egli è in se: "Simile ei erimus, quoniam videbimus eum sicuti est ( 1 Gv 3,2 ). Lo vedremo, aggiunge S. Paolo, non più attraverso lo specchio delle creature, ma faccia a faccia, senza intermedio, senza nubi, con una fulgida chiarezza: "Nunc per speculum et in œnigmate, tunc autem facie ad faciem ( 1 Cor 13,12-13 ). Così parteciperemo, benchè in modo finito, alla vita stessa di Dio, poichè lo conosceremo come egli conosce se stesso e lo ameremo come egli ama se stesso. Il che spieghano i teologi dicendo che l'essenza divina verrà ad unirsi alla parte più intima dell'anima nostra e ci servirà di specie impressa, per renderci capaci di vederla senza alcuno intermedio creato, senza immagine alcuna. 109. 2) Ora la grazia abituale è già una preparazione alla visione beatifica e quasi un saggio di questo favore, prælibatio visionis beatificæ; è la gemma che già contiene il fiore, benchè questo non debba sbocciare che più tardi; è quindi dello stesso genere della visione beatifica e partecipa della sua natura. Cerchiamo di spiegarci con un paragone, per quanto possa riuscire imperfetto. Io posso conoscere un artista in tre modi: dallo studio delle sue opere, - dal ritratto che me ne fa un suo intimo amico - o finalmente dalle relazioni dirette che io ho con lui. La prima di queste conoscenze di Dio è quella che abbiamo dalla vista delle sue opere, conoscenza induttiva molto imperfetta, perchè le sue opere, pur manifestandoci la sua sapienza e la sua potenza, nulla ci dicono della sua vita interiore. La seconda risponde assai bene alla conoscenza che se ne fa la fede: sulla testimonianza degli scrittori sacri e principalmente del Figlio di Dio, io credo tutto ciò che Dio si degnò di rivelarmi non solamente sulle sue opere e sui suoi attributi, ma anche sulla sua vita intima; io credo che da tutta l'eternità egli genera un Verbo che è suo Figlio, che ama e dal quale è riamato, e che da questo mutuo amore procede lo Spirito Santo. Certo io non capisco, e sopratutto io non vedo, ma io credo con incrollabile certezza, e questa fede mi fa partecipare in modo velato, oscuro, ma reale, alla conoscenza che Dio ha di sè stesso. Solo più tardi, per mezzo della visione beatifica, si avvererà il terzo modo di conoscenza; ma, com'è chiaro, il secondo è in sostanza della stessa natura di quest'ultimo, e certamente molto superiore alla conoscenza razionale. 110. c) Questa partecipazione della vita divina non è semplicemente virtuale ma formale. La partecipazione virtuale non ci fa possedere una data qualità che in un modo diverso da quello in cui si trova nella causa principale; così la ragione è una partecipazione solo virtuale dell'intelletto divino, perchè ci fa conoscere la verità, ma in un modo assai diverso dalla conoscenza che ne ha Dio. Non è così della visione beatifica, e, salve le proporzioni, della fede; queste ci fanno conoscere Dio come egli conosce se stesso, non certo nello stesso grado ma nello stesso modo. 111. d) Questa partecipazione non è sostanziale ma accidentale. Così essa si distingue dalla generazione del Verbo, che riceve tutta la sostanza del Padre; e dalla unione ipostatica, che è un'unione sostanziale della natura umana con la natura divina nell'unica persona del Verbo; noi conserviamo infatti la nostra personalità e la nostra unione con Dio non è sostanziale. Tale è la dottrina di S. Tommaso: "Essendo la grazia molto superiore alla natura umana, non può esserne che la forma accidentale". E, per spiegare il suo pensiero, aggiunge che tutto ciò che è sostanzialmente in Dio ci vien dato accidentalmente e ci fa partecipare alla divina bontà: "Id enim quod substantialiter esi in Deo, accidentaliter fit in anima participante divinam bonitatem, ut de scientia patet". Nascondi Con queste restrizioni si evita di cadere nel panteismo, e si ha non dimeno un'idea altissima della grazia, che ci apparisce come una divina somiglianza impressa da Dio nell'anima nostra: "faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram ( Gen 1,26 ). 112.Per farci intendere questa divina somiglianza, i Padri usano diversi paragoni. 1) L'anima nostra, essi dicono, è una immagine vivente della Trinità, una specie di ritratto in miniatura, poichè lo Spirito Santo stesso viene ad imprimersi in noi come il sigillo sulla molle cera e vi lascia così la sua divina somiglianza ne concludono che l'anima in stato di grazia è d'una meravigliosa bellezza, poichè l'artista che vi dipinge questa immagine è infinitamente perfetto, non essendo altri che Dio stesso: "Pictus es ergo, o homo, et pictus es a Domino Deo tuo. Bonum habes artificem atque pictorem". E ne conchiudono pure con ragione che noi non solo non dobbiamo distruggere od offuscare questa immagine ma anzi renderla ogni giorno più rassomigliante. Paragonano anche l'anima nostra a quei corpi trasparenti che, ricevendo la luce del sole, ne sono come pentrati e acquistono un incomparabile fulgore che diffondono poi tutto intorno a loro;112-3 così l'anima nostra, simile a un globo di cristallo illuminato dal sole, riceve la luce divina, risplende di vivo fulgore e lo riflette sugli oggetti circostanti. 113. 2) Per dimostrare che questa rassomiglianza non è cosa superficiale ma penetra nel più intimo dell'anima nostra, riorrono al paragone del ferro e del fuoco. Come, dicono essi, una verga di ferro, immersa in un ardente braciere, acquista subito lo splendore, il calore e la phieghevolezza del fuoco, così l'anima nostra, immersa nella fornace del divino amore, si libera dalle scorie e diviene brillante, ardente e docile alle ispirazioni divine. 114. 3) Un autore contemporaneo, volendo esprimere l'idea che la grazia è una vita nuova, la paragona a un innesto divino fatto sul ramo selvatico della nostra natura e che si fonde coll'anima nostra per costituire un nuovo principio vitale e quindi una vita assai superiore. Però, come l'innesto non conferisce al ramo salvatico tutta la vita di quella natura onde è stato tolto ma soltanto questa o quella delle sue proprietà vitali, così la grazia santificante non ci dà tutta la natura di Dio ma qualche cosa della sua vita che costituisce per noi una nuova vita; noi quindi partecipiamo alla vita divina ma non a possediamo nella sua pienezza. È chiaro che questa divina somiglianza prepara l'anima nostra ad una intimissima unione con l'adorabile Trinità che abita in lei. III. Della parte della SS. Vergine, dei Santi e degli Angeli nella vita cristiana. B) Unione tra l'anima nostra e Dio. 115. Da ciò che abbiamo detto sull'abitazione della SS. Trinità nell'anima nostra ( n. 92 ), risulta che tra noi e l'ospite divino corre un'unione morale intimissima e santificantissima. Ma non c'è forse qualche cosa di più, qualche cosa di fisico in quest'unione? 116. a) I paragoni usati dai Padri sembrerebbero indicarlo. 1) Un gran numero di essi ci dicono che l'uonione di Dio coll'anima è simile a quella dell'anima col corpo: "In noi vi sono, dice S. Agostino, due vite, la vita del corpo e la vita dell'anima; la vita del corpo è l'anima, la vita dell'anima è Dio "sicut vita corporis anima, sic vita animar Deus." È chiaro che si tratta solo di analogie; ma studiamoci di cavarne la verità che contengono. L'unione tra il corpo e l'anima è sostanziale, così che non formano più che una sola e medesima natura, una sola e medesima persona. Non è così dell'unione dell'anima con Dio: noi conserviamo sempre la nostra natura e la nostra personalità e restiamo quindi essenzialmente distinti dalla divinità. Ma, come l;anima dà al corpo la vita di cui gode, così Dio, senza essere forma dell'anima, le dà la vita soprannaturale, vita non uguale ma veramente e formalmente simile alla sua; e questa vita costituisce un'unione realissima tra l'anima e Dio. Suppone una realtà concreta che Dio ci comunica e che serve di vincolo unitivo tra lui e noi; questa nuova relazione non aggiunge certamente nulla a Dio, ma perfeziona l'anima nostra e la rende deiforme; lo Spirito Santo quindi diviene non causa formale, ma causa efficiente ed esemplare della nostra santificazione. 117. 2) Questa stessa verità si deduce dal paragone che alcuni autori fanno tra l'unione ipostatica e l'unione dell'anima nostra con Dio. Vi è certamente tra le due una differenza essenziale: l'unione ipostatica è sostanziale e personale, perchè la natura divina e la natura umana, sebbene perfettamente distinte, non formano più in Gesù Cristo che una sola e medesima persona, mentre che l'unione dell'anima con Dio per mezzzo della grazia, ci lascia la nostra personalità, essenzialmente distinta dalla personalità divina, e non ci unisce a Dio se non in modo accidentale: "Si compie infatti per mezzo della grazia santificante, che è un accidente aggiunto alla sostanza dell'anima; ora, in linguaggio scolastico, l'unione d'un accidente e d'una sostanza si chiama unione accidentale". Ma rimane pur sempre vero che l'unione dell'anima con Dio è un'unione di sostanza a sostanza, e che l'uomo e Dio vengono in contatto così intimo come il ferro e il fuoco che l'avvolge e lo penetra, come il cristallo e la luce. Per dir tutto in una parola, l'unione ipostatica fa un uomo-Dio, l'unione della grazia fa degli uomini divinizzati; e come le azioni di Cristo sono divino-umane o teandriche, così le azioni del giusto sono deiformi, fatte in comune da Dio e da noi, e per questo titolo meritorie della vita eterna, la quale non è altro che la unione immediata con la Divinità. Possiamo quindi dire col P. de Smedt, "che l'unione ipostatica è il tipo della nostra unione con Dio per mezzo della grazia, e che questa ne è l'immagine più perfetta che una pura creatura posa riprodurre in sè". Concludiamo collo stesso autore che l'unione della grazia non è puramente morale, ma contiene un elemento fisico che ci permette di chiamarla fisico-morale: "La natura divina è veramente nel suo essere stesso unita alla sostanza dell'anima per mezzo di un vincolo speciale, per modo che l'anima giusta possiede in sè la natura divina come cosa che le appartiene, e quindi possiede un carattere divino, una perfezione d'ordine superiore a tutto ciò che può esservi di perfezione naturale in una creatura qualsiasi reale o possibile. 118. b) Se, lasciando da parte i paragoni, studiamo il lato dottrinale della questione, arriviamo alla stessa conclusione. 1) In cielo gli eletti vedono Dio faccia a faccia, senza alcun intermedio; la stessa essenza divina fa l'uffucio di specie impressa: "in visionie qua Deus per essentiam videbitur, ipsa divina essentia erit quasi forma intellectus qua intelliget". Vi è dunque tra essi e la Divinità un'unione vera, reale, che si può chiamare fisica, perchè Dio non può essere visto e posseduto che a patto d'essere presente al loro intelletto colla sua essenza, e non può essere amato, se non è effettivamente unito alla loro volontà come oggetto d'amore: "amor est magis unitivus quam cognitio". Ora la grazia altro non è che un principio e un germe della gloria: "gratia nihil est quam inchoatio gloriæ in nobis ". L'unione dunque cominciata sulla terra tra l'anima nostra e Dio per mezzo della grazia è in sostanza dello stesso genere di quella della gloria, reale e in un certo senso fisica come questa. Tal è la conclusione del P. Froget nel suo bel libro L'abitazione dello Spirito Santo ( p. 159 ), appoggiandosi su numerosi testi di S. Tommaso: « Dio è dunque realmente, fisicamente, sostanzialmente presente nel cristiano che ha la grazia; e non è già una semplice presenza materiale ma un vero possesso accompagnato da un proncipio di godimento ». 2) La medesima conclusione discende pure dall'analisi della grazia stessa. Stando all'insegnamento dell'Angelico Dottore, che si fonda sugli stessi testi scritturali che abbiamo citati, la grazia abituale ci è data per godere non solo dei doni di Dio, ma delle stesse persone divine; "Per donum gratiæ gratum facientis perficitur creatura rationalis ad hoc quod libere non aolum ipso dono creato utatur, sed ut ipsâ divinâ personâ fruatur ". Ora, aggiunge un discepolo di S. Bonaventura, per godere d'una cosa è necessaria la sua presenza, e quindi per godere dello Spirito Santo la sua presenza è necessaria come necessario è il dono creato che ci unisce a lui. E poichè la presenza del dono creato è reale e fisica, quella dello Spirito Santo non dovrà forse essere dello stesso genere? Ecco dunque che le deduzioni della fede come i paragoni dei Patri ci autorizzano a dire che l'unione dell'anima nostra con Dio per mezzo della grazia non è soltanto morale, che non è neppure sostanziale in senso proprio, ma che è talmente reale da potersi chiamare fisico-morale. Restando però essa velata ed oscura ed essendo progressiva, nel senso che noi ne percepiamo tanto meglio gli effetti quanto più coltiviamo la fede e i doni dello Spirito Santo, le anime ferventi che sospirano l'unione divina, se sentono vivamente sollecitate ad avanzarsi ogni giorno più nella pratica delle virtù e dei doni. 2° Delle virtù e dei doni, o della facoltà dell'ordine soprannaturale. Richiamatane prima l'esistenza e la natura, parleremo per ordine delle virtù e dei doni. A) Esistenza e natura. 119. La vita soprannaturale inserita nell'anima nostra per mezzo della grazia abituale richiede, per operare e svilupparsi, delle facoltà di ordine soprannaturale, che la liberalità divina generosamente ci concede sotto nome di virtù infuse e di doni dello Spirito Santo: "L'uomo giusto, dice Leone XIII, che vive della vita della grazia e che opera per mezzo della virtù, che tengono in lui il posto di facoltà, ha pure bisogno dei doni dello Spirito Santo: Homini iusto, vitam scilicet viventi divinæ gratiæ et per congruas virtutes tamquam facultates agenti, opus plane est septenis illis quæ proprie dicuntur Spiritus Sancti donis ". Conviene infatti che le nostre facoltà naturali, le quali da sè stesse non possono produrre che atti del medesimo ordine, siano perfezionate e divinizzate da abiti infusi, che le elevino e le aiutino ad operare soprannaturalmente. E Dio, infinitamente liberale qual è, ce ne da di due specie: le virtù, che, sotto la direzione della prudenza, ci abilitano a operare soprannaturalmente col concorso della grazia attuale; e i doni che ci rendono così docili all'azione dello Spirito Santo che, guidati da una specie di divino istinto, siamo, per così dire, mossi e diretti da questo divino Spirito. Bisogna però notare che questi doni, i quali ci sono conferiti colle virtù e colla grazia abituale, non vengono esercitati con frequenza ed intensità se non dalle anime mortificate che, con una lunga pratica delle virtù morali e teologali, acquistarono quella soprannaturale pieghevolezza, onde rendonsi intieramente docili alle ispirazioni dello Spirito Santo. 120. La differenza essenziale tra le virtù e i doni deriva dunque dal loro diverso modo di operare in noi. Nella pratica delle virtù, la grazia ci lascia attivi, sotto l'influsso della prudenza; nell'uso dei dodi, raggiunto che abbiano il loro pieno sviluppo, richiede da noi più docilità che attività, come esporremo meglio trattando della via unitiva. Intanto un paragone ci aiuterà a capire: quando una madre insegna a camminare al figlio, ora si contenta di guidarne i passi impedendogli di cadere, ora lo prende tra le braccia per fargli superare un ostacolo o per farlo riposare; nel primo caso si ha la grazia cooperante delle virtù, nel secondo si ha la grazia operante dei doni. Ma da ciò risulta che, normalmente, gli atti compiti sotto l'influsso dei doni sono più pefetti di quelli che si compiono solamente sotto l'influsso delle virtù, appunto perchè l'azione dello Spirito Santo nel primo caso è più attiva e più feconda. B) Delle virtù infuse. 121. È certo, secondo la dottrina del Concilio di Trento, che nel momento stesso della giustificazione riceviamo le virtù infuse della fede, della speranza e della carità. Ed è dottrina comune, confermata dal Catechismo del Concilio di Trento, che anche le virtù morali della prudenza, della giustizia, della fortezza e della temperanza ci sono comunicate nello stesso momento. Non dimentichiamo però che queste virtù ci danno, non la facilità, ma il potere soprannaturale prossimo di fare atti soprannaturali; saranno necessari ripetuti atti per aggiungervi quella facilità che viene dall'abitudine acquisita. Vediamo come queste virtù rendono soprannaturali le nostra facoltà. a) Le une sono teologali, perchè hanno Dio per ogggetto materiale e qualche attributo divino per oggetto formale. La fede ci unisce a Colui che è la sorgente della nostra felicità, sempre pronto a versare su noi le sue grazie per compiere la nostra trasformazione ed aiutarci col suo potente soccorso a fare atti di confidenza assoluta e di filiale abbandono. La carità ci eleva a Dio sommamente buono in se stesso; e, sotto il suo influsso, noi ci compiacciamo delle infinte perfezioni di Dio più che se fossero nostre, desideriamo che siamo conosciute e glorificate, stringiamo con Lui una santa amicizia, una dolce familiarità e così diventiamo ognor più a lui somiglianti. Queste tre virtù teologali ci uniscono dunque direttamente a Dio. 122. b) Le virtù morali, cha hanno per oggetto un bene onesto distinto da Dio e per motivo l'onestà stessa di quest'oggetto, favoriscono e perpetuano questa unione con Dio, regolando le nostre azioni in modo che, nonostante gli ostacoli che si trovano dentro e fuori di noi, tendano continuamente verso Dio. Così la prudenza ci fa scegliere i mezzi migliore per tendere al nostro fine soprannaturale. La giustizia, facendoci rendere al prossimo ciò che gli è dovuto, santifica le nostre relazioni coi nostri fratelli in modo da avvicinarci a Dio. La fortezza arma l'anima nostra contro la prova e la lotta, ci fa sopportare con pazienza i patimenti e intrapredere con santa audacia le più rudi fatiche per procurare la gloria di Dio. E, poichè il piacere colpevole ce ne distoglierebbe, la temperanza modera il nostro ardore pel piacere e lo subordina alla legge del dovere. Tutte queste virtù hanno dunque per ufficio di allontanare gli ostacoli e anche di somministrarci mezzi positivi per andare a Dio. C) Dei doni dello Spirito Santo. 123. Senza descriverli in particolare ( cosa che faremo più tardi ) ci basti qui dimostrarne la corrispondenza colle virtù. I doni, senza essere più perfetti delle virtù teologali e specialmente della carità, ne perfezionano l'esercizio. Così il dono dell'intelletto ci fa penetrare più addentro nelle verità della fede per scoprirne i reconditi tesori e le arcane armonie; quello della scienza ci fa considerare le cose create nelle loro relazioni con Dio. Il dono del timore fortifica la speranza, staccandoci dai falsi beni di quaggiù, che potrebbero trascinarci al peccato e ci accresce quind il desiderio dei beni celesti. Il dono della speranza, facendoci gustare le cose divine, aumenta il nostro amore per Dio. La prudenza è grandemente perfezionata dal dono del consiglio, che ci fa conoscere, nei casi particolari e difficili, ciò che è o non è espediente di fare. Il dono della pietà perfeziona la virtù della religione, che si connette con la giustizia, facendoci vedere in Dio un padre che siamo lieti di glorificare per amore. Il dono della fortezza compie la virtù dello stesso nome, eccitandoci a praticare ciò che vi è di più eroico nella paziente costanza e nell'operare il bene. Infine il dono del timore, oltre che facilita la speranza, perfeziona pure in noi la temperanza, facendoci temere i castighi e i mali che risultano dall'amore illecito dei piaceri. Tal è il modo con cui armoniosamente si sviluppano nell'anima le virtù e i doni, sotto l'influsso della grazia attuale, di cui ci resta ora a dire una parola. 3° Della grazia attuale. Come nell'ordine di natura abbiamo bisogno del concorso di Dio per passare dalla potenza all'atto, così nell'ordine soprannaturale non possiamo porre in atto le nostre facoltà senza il soccorso della grazia attuale. 124. Ne esporremmo: 1° la nozione; 2° il modo di operare; 3° la necessità. A) La nozione. La grazia attuale è un aiuto soprannaturale e transitorio che Dio ci dà per illuminare la nostra intelligenza e fortificare la nostra volontà nella produzione degli atti soprannaturali. a) Opera quindi direttamente sulle nostre facoltà spirituali, l'intelligenza e la volontà, non più soltanto per elevarle all'ordine soprannaturale, ma per metterle in moto e far loro produrre atti soprannaturali. Diamone un esempio: prima della giustificazione o dell'infuzione della grazia abituale, ci illumina sulla malizia e sui terribili effetti del peccato per farcelo detestare. Dopo la giustificazione, ci mostra, alla luce della fede, l'infinita bellezza di Dio e la misericordiosa sua bontà per farcela amare con tutto il cuore. b) Accanto però a queste grazie interne, ve ne sono altre che si chiamano esterne, le quali, operando direttamente sui nostri sensi e sulle nostre facoltà sensitive, indirettamente influiscono sulle nostre facoltà spirituali, tanto più che sono spesso accompagnate anche da veri aiuti interni. Così la lettura della Sacra Bibbia o d'un libro cristiano, l'ascoltazione d'una predica, d'un pezzo di musica religiosa, d'una buona conversazione, sono grazie esterne; di per sè non fortificano la volontà, ma producono in noi delle impressioni favorevoli che scuotono l'intelletto e la volontà, ci aiuteranno potentemente a convertirci o a divenir migliori. È quanto possiamo dedurre dalle parole del libro degli Atti, che ci mostrano lo Spirito Santo che apre il cuore d'una donna chiamata Lidia, per renderla attenta alla predicazione di S. Paolo. Dio poi, il quale sa che noi ci eleviamo dal sensibile allo spirituale s'adatta alla nostra debolezza e si serve delle cose visibili per portarci alla virtù. 125. B) Suo modo di operare. a) La grazia attuale influisce su di noi in modo morale e fisico nello stesso tempo: in modo morale, con le persuasioni e le attrattive, come una madre che, per aiutare il bambino a camminare, dolcemente lo chiama e lo invita a sè promettendogli una ricompensa; in modo fisico, aggiungendo nuove forze alle nostre facoltà, troppo deboli per operare da sole, come fa una madre che prende per le braccia il suo bambino a l'aiuta, non solo con la voce ma anche col gesto, a fare qualche passo innanzi. Tutte le Scuole ammettono che la grazia operante opera fisicamente, producendo nell'anima nostra dei movimenti indeliberati; quando però si tratta della grazia cooperante, vi è tra le diverse scuole Teologiche qualche disparere, che del resto per la pratica non ha grande importanza: non entriamo in queste discussioni, perchè non vogliamo fondare la nostra spiritualità su questioni controverse. b) Sotto un altro aspetto, la grazia previene il nostro libero consenso o l'accompagna nel compimento dell'atto. Così mi nasce, per esempio, il pensiero di fare un atto d'amor di Dio senza che io abbia fatto mulla per suscitarlo: è una grazia preveniente, è un buon pensiero che Dio mi dà; se io l'accolgo bene e mi studio di produrre quest'atto d'amore, io lo faccio con l'aiuto della grazia adiuvante o concomitante. Pari a questa distinzione è quella della grazia operante, per mezzo della quale Dio opera in noi senza di noi, e della grazia cooperante, per mezzo della quale Dio opera in noi e con noi, cioè colla nostra libera collaborazione. 126. C) Sua necessità. Il principio generale è che la grazia attuale è necessaria per ogni atto soprannaturale, perchè vi dev'essere proporzione tra l'effetto e il suo principio. a) Così, quando si tratta della conversione, vale a dire del passaggio dal peccato mortale allo stato di grazia, abbiamo bisogno d'una grazia soprannaturale per fare gli atti preparatorii di fede, di speranza, di penitenza e d'amore; e anche per l'inizio della fede, cioè per quel pio desiderio di credere che ne è il primo passo. b) Ed è pure per la grazia attuale che perseveriamo nel bene nel corso della nostra vita sino all'ora della morte. Per questo infatti: 1) si deve resistere alle tentazioni che assalgono anche le anime giuste e che sono talvolta così insistenti e ostinate che non possiamo resistervi senza l'aiuto di Dio. Nascondi Ecco perchè Nostro Signore raccomanda agli apostoli, anche dopo l'ultima Cena, di vigilare e pregare, vale a dire di appoggiarsi non sui propri sforzi soltanto ma sulla grazia per non soccombere alla tentazione ( Mt 26,41 ). 2) Si devono inoltre adempiere tutti i propri doveri, e lo sforzo energico, costante, richiesto da questo adempimento non può farsi senzsa l'aiuto della grazia: solo colui che incominciò in noi l'opera della perfezione, può condurla a buon fine ( Fil 1,6 ). Solo l'autore della nostra vocazione all'eterna salute ha diritto di darvi l'ultima mano ( 1 Pt 5,10 ). 127. E ciò è specialmente vero per la perseveranza finale che è dono speciale e grande dono: morire nello stato di grazia, nonostante tutte le tentazioni che vengono ad assalirci in quell'ultimo momento, o sfuggire a queste lotte con una morte dolce o repentina che ci addormenti nel Signore, è, a detta dei Concilii, la grazia delle grazie che non si potrà mai chiedere abbastanza, che non si può strettamente meritare, ma che si può ottenere con la preghiera e con la fedele cooperazione alla grazia, suppliciter emereri potest. c) E quando si vuole non solo perseverare, ma crescere ogni giorno più in santità, schivare i peccati veniali deliberati e diminuire il numero delle colpe di fragilità, non si dovrà pure far assegnamento sui divini favori? Nascondi Pretendere che si possa stare a lungo senza commettere qualche peccato che ritardi il nostro avanzamento spirituale, è un andare contro l'esperienza delle anime migliori che si rimproverano così amaramente le loro debolezze, è un contradire S. Giovanni, che dichiara illusi quelli che pensano di non commettere peccati: "Si dixerimus quoniam peccatum non habemus, ipsi nos seducimus, et veritas non est in nobis" ( 1 Gv 1,8 ). É un contradire il Concilio di Trento, il quale condanna chi dicesse che l'uomo giustificato può, senza uno speciale privilegio divino, evitare in tutta la vita i peccati veniali. 128. La grazia attuale ci è dunque necessaria anche dopo la giustificazione; ed ecco perchè la S. Scrittura insiste tanto sulla necessità della preghiera, con cui quella si ottiene dalla misericordia divina, come spiegheremo più tardi. Possiamo pure ottenerla con atti meritori o, in altre parole, con la libera cooperazione alla grazia; perchè quanto più siamo fedeli ad approfittarci delle grazie attuali che ci vengono largite, tanto più Dio si sente inclinato a concedercene delle nuove. Conclusioni 129. 1° Dobbiamo dunque avere la più grande stima per la vita delle grazie; è una vita nuova, una vita che ci unisce e ci rende simili a Dio, con tutto l'organismo necessario al suo esercizio. Ed è vita assai più perfetta della vita naturale. Se la vita intellettuale è molto superiore alla vita vegetativa e alla vita sensitiva, la vita cristiana è infinitamente superiore alla vita semplicemente razionale; questa infatti è dovuta all'uomo, posto che Dio si risolva a crearlo, mentre la vita della grazia supera tutte le attività e tutti i meriti delle creature anche più perfette. Qual creatura infatti potrebbe mai pretendere il diritto di divenire figlio adottivo di Dio, tempio dello Spirito Santo, e il privilegio di vedere Dio faccia a faccia come Dio vede se stesso? Dobbiamo quindi stimare questa vita più di tutti i beni creati, e considerarla con il tesoro nascosto pel cui acquisto non si deve esitare a vendere tutto ciò che si possiede. 130. 2° Quando si possiede un tal tesoro, bisogna sacrificare ogni cosa piuttosto che esporci a perderlo. È questa la conclusione che ne trae il Papa S. Leone: "Agnosce, o christiane, dignitatem tuam, et, divinæ consors factus naturæ, noli in veterem vilitatem degeneri conversatione redire ". Nascondi Non vi è alcuno che più del cristiano debba rispettare se stesso, non certo per ragione dei propri meriti ma per ragione di quella vita divina a cui partecipa, e perchè è tempio dello Spirito Santo, tempio santo di cui non si deve mai offuscare la bellezza: "Domum tuam decet sanctitudo in longitudinem dierum ( Sal 92,5 ). 131. 3° Anzi, è evidente che dobbiamo pure utilizzare, coltivare quest'organismo soprannaturale di cui siamo dotati. Se piacque alla divina bontà di elevarci ad uno stato superiore, di darci largamente virtù e doni che perfezionano le nostre facoltà naturali, se ad ogni istante ci offre la sua collaborazione per metterli in opera, sarebbe un mal corrispondere a tanta liberalità il rigettar questi doni col non voler fare che atti naturalmente buoni o col non far produrre alla vigna dell'anima nostra che frutti imperfetti. Quanto più il donatore si mostrò generoso, tanto più s'aspetta da noi una collaborazione attiva e feconda. Il che apparirà anche meglio quando avremo veduto la parte che ha Gesù nella vita cristiana. § II. Della parte che ha Gesù nella vita cristiana. 132. Tutta la SS. Trinità ci conferisce quella partecipazione della vita divina che abbiamo descritta. Ma lo fa per riguardo ai meriti e alle soddisfazioni di Gesù Cristo, il quale sotto questo aspetto ha una parte così essenziale nella nostra vita soprannaturale, che questa a buon diritto viene detta vita cristiana. Secondo la dottrina di S. Paolo, Gesù Cristo è il capo dell'umanità rigenerata, come Adamo lo era stato dell'umana stirpe al suo nascere, in guisa però più perfetta. Egli coi suoi meriti ci riconquistò il diritto alla grazia e alla gloria; coi suoi esempi ci mostra come dobbiamo vivere per santificarci e meritare il cielo; ma egli è sopratutto il capo d'un corpo mistico di cui noi siamo le membra: è quindi causa meritoria, esemplare e vitale della nostra santificazione. I. Gesù causa meritoria della nostra vita spirituale. 133. Quando diciamo che Gesù è causa meritoria della nostra santificazione, prendiamo questa parola nel suo più esteso significato in quanto comprende la soddisfazione e il merito; "Propter nimiam charitatem qua dilexit nos, sua sanctissima passione in ligno crucis nobis iustificationem meruit et pro nobis satisfecit". Nascondi Logicamente la soddisfazione precede il merito, nel senso che, per ottenere il perdono dei nostri peccati e meritare la grazia, è prima necessario riparare l'offesa fatta a Dio; ma in realtà tutti gli atti liberi di N. Signore erano nello stesso tempo soddisfatorii e meritorii, e avevano tutti un valore morale infinito, come abbiamo detto al n. 78. Non ci sta che trarre da queste verità alcune conclusioni. A) Non vi sono peccati irremissibili, purchè, contriti e umiliati, ne chiediamo umilmente perdono. E questo noi facciamo nel sacro tribunale della penitenza, ove la virtù del sangue di Gesù ci viene applicata per mezzo del ministro di Dio. Questo facciamo pure nel santo sacrifizio della messa, ove Gesù continua ad offrirsi per le mani del sacerdote, vittima di propoziazione, eccita nell'anima nostra profondi sentimenti di contrizione, ci rende Dio propizio, ci ottiene perdono sempre più pieno dei nostri peccati e una remissione sempre più abbondante della pena che dovremmo subire per espiarli. Possiamo aggiungere che tutti i nostri atti cristiani, uniti ai patimenti di Gesù, hanno un valore soddisfatorio per noi e per le anime per cui li offriamo. Nascondi 134. B) Gesù ci meritò pure tutte le grazie di cui abbiamo bisogno per conseguire il nostro fine soprannaturale e coltivare in noi la vita cristiana: Benedixit nos in omni benedictione spirituali in cælestibus in Christo Jesu ( Ef 1,3 ). Dio ci benedisse in Cristo con ogni sorta di benedizioni spirituali: grazie di conversione, grazie di perseveranza, grazie per resistere alle tentazioni, grazie per trar profitto dalle tribolazioni, grazie di consolazione, grazie di rinnovamento spirituale, grazie di nuova conversione, grazia di perseveranza finale, tutto egli ci meritò; e ci assicura che tutto ciò che chiederemo al Padre in suo nome, vale a dire appoggiandoci sui suoi meriti, ci sarà concesso. Per ispirarci anche maggior fiducia, istitui i sacramenti, segni visibili che ci conferiscono la grazia in tutte le circostanze più importanti della vita e ci danno diritto a grazie attuali che riceviamo a tempo opportuno. 135. C) Ma fece anche di più; ci diede il potere di soddisfare e di meritare, volendo così associarci a lui come cause secondarie e far di noi gli artefici della nostra santificazione. Ce ne fa perfino un precetto e condizione essenziale della nostra vita spirituale. Nascondi Se lui portò la croce, gli è perchè anche noi lo seguiamo portando la nostra: "Si quis vult post me venire, abnegat semetipsum, tollat crucem suam, et sequatur me ( Mt 16,24 ). Così l'intesero gli Apostoli: "Se vogliamo partecipare alla sua gloria, dice S. Paolo, dobbiamo anche partecipare ai suoi patimenti, si tamen compatimur ut et conglorificemur ( Rm 8,17 ). e S. Pietro aggiunge che se Gesù Cristo partì per noi, lo fece perchè noi battiamo le sue orme ( 1 Pt 2,21 ). Anzi, le anime generose si sentono stimolate, come S. Paolo, a soffrir lietamente, in unione con Cristo, per il suo corpo mistico che è la Chiesa ( Col 1,24 ). A questo modo partecipano all'efficacia redentrice della sua Passione e collaborano come cause seconde alla salute dei fratelli. Oh! quanto questa dottrina è più vera, più nobile, più consolante dell'incredibile affermazione di certi protestanti che hanno il triste coraggio d'affermare che, avendo Gesù Cristo patito sufficientemente per noi, noi non abbiamo che da godere dei frutti della sua redenzione senza berne il calice! Pretendono con ciò di esaltare la pienezza dei meriti di Cristo, mentre in verità è il potere di meritare quello che fa risaltar meglio la pienezza della redenzione. Non è infatti più onorifico per Cristo il manifestare la fecondità delle sue soddisfazioni, associandoci all'opera sua redentrice e rendendoci capaci di collaborarvi, benchè in modo secondario, con imitarne gli esempi? II. Gesù causa esemplare della nostra vita. 136. Gesù non si contentò di meritare per noi, ma volle pur essere la causa esemplare, il modello vivente della nostra vita soprannaturale. Gran bisogno noi avevamo d'un modello di questo genere; perchè, per coltivare una vita che è una partecipazione della vita stessa di Dio, dobbiamo avvicinarci quanto più è possibile alla vita divina. Ora, osserva S. Agostino, gli uomini che avevamo sotto gli occhi erano così imperfetti da non poterci servire da modelli, e Dio, che è la santità stessa, sembrava troppo distante. E allora l'eterno Figlio di Dio, viva sua immagine, si fa uomo e ci mostra coi suoi esempi come si può sulla terra avvicinarsi alla perfezione divina. Nascondi Figlio di Dio e figlio dell'uomo, visse una vita veramente deiforme e potè dire, "qui videt me, videt et Patrem" ( Gv 14,9 ) chi vede me, vede anche il Padre mio. Avendo manifestato nelle sue azioni la santità divina, potè proporci come possibile l'imitazione delle divine perfezioni: "Estote igitur perfecti sicut et Pater vester cælestis perfectus est" ( Mt 5,48 ). Ecco perchè il Padre ce lo propone come modello: nel battesimo e nella trasfigurazione, apparendo ai discepoli dice loro parlando del Figlio: "Hic est filius meus in quo mihi bene complacui" ( Mt 3,17; Mt 17,5 ) ecco il mio Figlio nel quale mi sono compiaciuto. Se trova in lui tutte le sue compiacenze, egli vuole dunque che noi l'imitiamo. Nascondi Anche Nostro Signore ci dice con tutta sicurezza: "Ego sum via … nemo venit ad Patrem nisi per me … Discite a me quia mitis sum et humilis corde … Exemplum enim dedi vobis ut quemadmodum ego feci vobis, ita et vos faciatis" ( Gv 14,6; Mt 11,29; Gv 13,15 ). E che cos'è in sostanza il Vangelo se non il racconto della vita, della passione e morte e risurrezione di Nostro Signore, onde proporlo alla nostra imitazione? cæpit facere et docere" ( At 1,1 ). Nascondi Che cos'è il cristianesimo se non l'imitazione di Gesù Cristo? tanto che S. Paolo compendierà tutti i doveri cristiani in quello d'imitare Nostro Signore: "Imitatores mei estote sicut et ego Christi" ( 1 Cor 4; 1 Cor 11,1; Ef 5,1 ). Vediamo dunque quali sono le qualità di questo modello. 137. a) Gesù è un modello perfetto; anche per confessione di coloro che non credono alla sua divinità, egli è il tipo più compito di virtù che sia mai comparso sulla terra. Praticò le virtù in grado eroico e con le disposizioni interne più perfette: religione verso Dio, amore del prossimo, annientamento di sè stesso, orrore del peccato e di ciò che può condurvi. Eppure è un modello imitabile ed universale, pieno d'attrattiva, i cui esempi sono piene d'efficacia. Nascondi 138. b) È un modello che tutti possono imitare; perchè volle assumere le nostre miserie e le nostre debolezze, subire persino la tentazione, esserci simile in tutto fuori del peccato: "Non enim habemus Pontificem qui non possit compati infirmitatibus nostris; tentatum autem per omnia pro similitudine absque peccato" ( Eb 4,15 ). Per trent'anni egli visse la vita più nascosta, più oscura, più comune, obbedendo a Maria e a Giuseppe, lavorando come garzone ed operaio, "fabri filius" ( Mt 13,55 ) e perciò divenne il modello perfetto della maggior parte degli uomini, che non hanno se non doveri oscuri da compiere e che devono santificarsi in mezzo alle occupazioni più comuni. Ma visse pure la vita pubblica e praticò l'apostolato sia in un gruppo scelto, formando gli Apostoli; sia tra la folla, evangelizzando il popolo; e quindi dovette soffrire la fatica e la fame; godette l'amicizia di alcuni come ebbe a sopportare l'ingratitudine di altri; provò trionfi e sconfitte; passò insomma per le peripezie di ogni uomo che ha relazioni con gli amici e col pubblico. La sua vita sofferente ci diede l'esempio della pazienza più eroica in mezzo alle torture fisiche e morali che egli tollerò, non solo senza lamentarsi, ma pregando per i suoi carnefici. Nascondi Nè si dica che, essendo Dio, patì di meno; era anche uomo: dotato di squisita sensibilità, sentì più vivamente di noi l'ingratitudine degli uomini, l'abbandono degli amici, il tradimento di Giuda; provò tali sentimenti di tedio, di tristezza, di timore, che non potè tenersi dal pregare che l'amaro calice, se fosse possibile, s'allontanasse da lui; e, sulla croce, emise quel grido straziante che mostra la profondità delle sue angoscie: "Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me?" ( Eb 4,15 ). Gesù fu dunque un modello universale. 139. c) Si mostra pieno d'attrattiva. Aveva predetto che, quando fosse elevato da terra ( alludendo al supplizio della croce ), avrebbe attirato tutto a sè: "Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum ( Gv 12,32 ). La profezia si averrò. Vedendo ciò che Gesù fece e patì per loro, i cuori generosi si accesero d'amore pel divin Crocifisso e quindi per la sua croce; nonostante le ripugnanze della natura, portano valorosamente le croci interne od esterne, sia per meglio rassomigliare al divino Maestro, sia per attestargli il loro amore, soffrendo con lui e per lui, sia per avere una parte più abbondante dei frutti della redenzione e collaborare con lui alla santificazione dei fratelli. È ciò che chiaramente si vede nella vita dei santi, i quali corrono dietro la croce con più avidità che non i mondano dietro i piaceri. 140. d) Questa attrattiva è tanto più forte in quanto che egli vi aggiunge l'efficacia della sua grazia: essendo le azioni fatte da Gesù prima della morte tutte meritorie, egli ci meritò la grazia di farne di simili; quando noi consideriamo la sua umiltà, la sua povertà, la sua mortificazione e le altre sue virtù, siamo eccitati ad imitarlo non solo per la forza persuasiva dei suoi esempi, ma anche per l'efficacia delle grazie che ci meritò praticando le virtù e che in quell'occasione ci concede. 141. Vi sono poi certe particolari azioni di Nostro Signore che hanno una maggiore importanza e a cui dobbiamo in modo speciale unirci perchè contengono più copiose grazie: sono i suoi misteri. Così il mistero dell'Incarnazione ci meritò la grazia della rinunzia a noi stessi e della unione con Dio, perchè Nostro Signore ci offrì con Lui per consacrarci tutti al Padre; il mistero della crocifissione ci meritò la grazia di crocifiggere la carne e le sue cupidigie; il mistero della morte ci meritò di morire al peccato e alle sue cause, ecc. La qual cosa, del resto, intenderemo meglio, vedendo in che modo Gesù è il capo del corpo mistico di cui noi siamo le membra. III. Gesù capo del corpo mistico o fonte di vita. Nascondi 142. Questa dottrina si trova già sostanzialmente nelle parole di Nostro Signore: "Ego sum vitis, vos palmites" ( Gv 15,5 ). Io sono la vite e voi i tralci. Egli afferma infatti che noi riceviamo la vita da lui come i tralci della vite la ricevono dal ceppo a cui sono uniti. Questo paragone fa dunque risaltare la comunanza di vita che corre tra Nostro Signore e noi; onde è facile passare all'idea del corpo mistico in cui Gesù, come capo, fa scorrere la vita nelle membra. Chi insiste di più su questa dottrina così feconda di risultati è S. Paolo. In un corpo sono necessari un capo, un'anima e delle membra. Appunto questi tre elementi descriveremo, attenendoci alla dottrina dell'Apostolo. 143. 1° Il capo esercita nel corpo umano un triplice ufficio: ufficio di preminenza, perchè ne è la parte principale; ufficio di centro d'unità, perchè riunisce e dirige tutte le membra; ufficio d'influsso vitale, perchè da lui parte il movimento e la vita. Ora appunto questo triplice ufficio esercita Gesù nella Chiesa e sulle anime. a) Ha certamente la preminenza su tutti gli uomini egli che, come uomo, è il primogenito tra tutte le creature, l'oggetto delle divine compiacenze, il modello perfetto d'ogni virtù, la causa meritoria della nostra santificazione, egli che, pei suoi meriti, venne esaltato su tutte le creature e al cui cospetto deve piegarsi ogni ginocchio in cielo, in terra e nell'inferno. b) Gesù è nella Chiesa il centro d'unità. Due cose sono essenziali in un organismo perfetto: la varietà degli organi e delle funzioni che compiono e la loro unità in un comune principio; senza questo doppio elemento non si avrebbe che una massa inerte o un aggregato d'esseri viventi senza vincolo organico. Ora è pur sempre Gesù che, dopo avere costituito nella Chiesa la varietà degli organi con l'istituzione della gerarchia, ne rimane centro d'unità, poichè è lui, capo invisibile ma reale, che imprime ai capi gerarchici la direzione e il movimento. c) Gesù è pure il principio dell'influsso vitale che anima e vivifica tutte le membra. Nascondi Anche come uomo riceve la pienezza della grazia per comunicarcela: "Vidimus cum plenum gratiæ et veritatis … de cuius plenitudine nos omnes accepimus, et gratiam pro gratia ( Gv 1,16 ). Non è infatti causa meritoria di tutte le grazie che riceviamo e che ci sono distribuite dallo Spirito Santo? Anche il Concilio di Trento afferma senza esitare quest'azione e quest'influsso vitale di Gesù sui giusto: "Cum enim ille ipse Christus Jesus tanquam caput in membra … in ipsos iustificatos iugiter virtutum influat ". 144. Ad ogni corpo è necessario non solo un capo ma anche un'anima. Ora l'anima del corpo mistico di cui Gesù è il capo, è lo Spirito Santo ( cioè la SS. Trinità indicata con questo nome ); è lui infatti che diffonde nelle anime la carità e la grazia meritate da Nostro Signore: "Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis ( Rm 5,5 ). Ecco perchè è chiamato Spirito vivificante: "Credo in Spiritum … vivificantem". Ecco perchè S. Agostino dice che lo Spirito Santo è per noi il corpo della Chiesa ciò che l'anima è pel corpo naturale: "Quod esi in corpore nostra anima, id est Spiritus Sanctus in corpore Christi quod est Ecclesia ". Questa espressione, del resto, fu consacrata da Leone XIII nella Enciclica sullo Spirito Santo. Nascondi È pure questo divino Spirito che distribuisce i vari carismi: agli uni il discorso della sapienza o la grazia della predicazione, agli altri il dono dei miracoli, a questi il dono della profezia, a quelli il dono delle lingue, ecc.: "Hæc autem omnia operatur unus atque idem Spiritus, dividens singulis prout vult " ( 1 Cor 12,6 ). 145. Queste due azioni di Cristo e dello Spirito Santo non solo non s'intralciano ma si compiono a vicenda. Lo Spirito Santo ci proviene da Cristo. Quando Gesù viveva sulla terra, possedeva nella santa sua anima la pienezza dello Spirito; con le sue azioni e principalmente coi suoi patimenti e con la sua morte, meritò che questo Spirito ci fosse comunicato: è dunque in grazia sua che lo Spirito Santo viene a comunicarci la vita e le virtù di Cristo e a renderci simili a lui. Così si spiega tutto: Gesù, essendo uomo, può egli solo essere il capo di un corpo mistico composto di uomini dovendo il capo e le membra essere della stessa natura; ma, come uomo, non può da se stesso conferire la grazia necessaria alla vita delle membra onde vi supplisce lo Spirito Santo compiendo appunto quest'ufficio; ma poichè lo fa in virtù dei meriti del Salvatore, si può ben dire che l'influsso vitale parte in sostanza da Gesù per arrivare alle membra. 146. 3° Quali sono dunque i membri di questo corpo mistico? Tutti coloro che sono battezzati. Nascondi Di fatti col battesimo veniamo incorporati a Cristo, come dice S. Paolo: "Etenim in uno Spiritu omnes nos in unum corpus baptizati sumus ". ( 1 Cor 12,13 ). Ecco perchè aggiunge che fummo battezzati in Cristo ( Rm 6,3; Gal 3,25; Rm 3,17 ) vale a dire che partecipiamo alle disposizioni interne di Cristo: la qual cosa il Decreto per gli Armeni spiega dicendo che col battesimo diventiamo membri di Cristo e parte del corpo della Chiesa: "per ipsum ( baptismum ) enim membra Christi ac de corpore efficimur Ecclesiæ ". Ne viene che tutti i battezzati sono membri di Cristo ma in grado diverso: i giusti gli sono uniti per mezzo della grazia abituale e di tutti i privilegi che l'accompagnano; i peccatori per mezzo della fede e della speranza; i beati per mezzo della visione beatifica. Gli infedeli poi non sono attualmente membri del suo corpo mistico, ma, finchè vivono sulla terra, sono chiamati a divenirlo; i dannati soltanto sono esclusi per sempre da questo privilegio. 147. 4° Conseguenze di questo dogma. Nascondi A) Su questa incorporazione a Cristo è fondata la comunione dei Santi; i giusti che vivono quaggiù, le anime del Purgatorio e i Santi del cielo, fanno tutti parte del corpo mistico di Gesù, tutti ne partecipano la vita, ne ricevono l'influsso e devono scambievolmente amarsi e aiutarsi come le membra d'uno stesso corpo; perchè, dice S. Paolo, "se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui; e se un membro è glorificato, tutte godono con lui: Si quid patitur unum membrum, compatiuntur omnia membra; sive gloriatur unum membrum, congaudent omnia membra" ( 1 Cor 12,26 ). 148. B) Ecco perchè tutti i cristiani sono fratelli: non vi è più ormai nè Giudeo, nè Greco, nè uomo libero nè schiavo; siamo tutti uno solo in Cristo Gesù ( Gal 3,28; 1 Cor 12,13; Rm 10,12 ). Siamo dunque tutti solidarii e ciò che è utile ad uno è utile agli altri, perchè, qualunque sia la diversità dei doni e degli uffici, tutto il corpo s'avvantaggia di ciò che vi è di buono in ciascun membro, come ciascun membro si avantaggia a sua volta dei beni dell'intiero corpo. Con questa dottrina si spiega pure perchè Nostro Signore potè dire: Ciò che fate al più piccolo dei miei, a me lo fate; il capo infatti si identifica con le membra. Nascondi 149. C) Ne viene che, secondo la dottrina di S. Paolo, i cristiani sono il compimento di Cristo: Dio infatti "lo diede per capo supremo alla Chiesa, che è il corpo di lui e la pienezza di lui, il quale compie tutto in tutti: "Ipsum dedit caput supra omnem Ecclesiam, quæ est corpus ipsius et plenitudo eius, qui omnia in omnibus adimpletur ". ( Ef 1,23 ). Gesù, infatti, pur essendo perfetto in sè stesso, ha bisogno d'un compimento per formare il suo corpo mistico: sotto questo aspetto, non basta a sè stesso ma ha bisogno di membra per esercitare tutte le funzioni vitali. Onde l'Olier conchiude: "Cediamo le anime nostre allo Spirito di Gesù Cristo perchè egli cresca in noi. Se trova soggetti ben disposti, si dilata, s'accresce, s'espande nei loro cuori, li profuma dell'unzione spirituale di cui è egli stesso profumato". Nascondi È questo il modo con cui possiamo e dobbiamo compiere la Passione del Salvatore Gesù, soffrendo come ha sofferto lui, affinchè questa passione, così compita in se stessa, si compia anche nei suoi membri nel corso del tempo e dello spazio: "Adimpleo ea quæ desunt passionum Christi in carne mea pro corpore eius quod est Ecclesia ". ( Col 1,24 ). Come si vede, non v'è nulla di più fecondo di questa dottrina sul corpo mistico di Gesù. Conclusione: devozione al Verbo incarnato. 150. Da tutto il fin qui detto sulla parte di Gesù nella vita spirituale risulta che, per coltivare questa vita, dobbiamo vivere in unione intima, affettuosa, abituale con lui, o, in altri termini, praticare la devozione al Verbo Incarnato: "Qui manet in me et ego in eo, hic fert fructum multum; Chi resta in me ed io in lui, produce frutti abbondanti " ( Gv 15,5 ). È quello che c'inculca la Chiesa, ricordandoci verso la fine del Canone della Messa, che per Lui noi riceviamo tutti i beni spirituali, per Lui siamo santificati, vivificati e benedetti, per Lui, con Lui e in Lui dobbiamo rendere ogni onore e ogni gloria a Dio Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito Santo. Ecco un intiero programma di vita spirituale: avendo ricevuto tutto da Dio per mezzo di Cristo, per Lui dobbiamo pure glorificar Dio, per Lui dobbiamo chiedere nuove grazie, con Lui e in Lui dobbiamo fare tutte le nostre azioni. 151. 1° Essendo Gesù il perfetto adoratore del Padre, o, come dice l'Olier, il religioso di Dio, il solo che gli possa offrire omaggi infiniti, è evidente che per rendere i nostri ossequi alla SS. Trinità, non possiamo far di meglio che unirci intimamente a lui ogni volta che vogliamo compiere i nostri doveri di religione. Il che è tanto più facile in quanto che, essendo Gesù il capo d'un corpo mistico di cui noi siamo le membra, adora il Padre non solo in nome suo ma anche in nome di tutti coloro che gli sono incorporati, e mette a nostra disposizione gli omaggi che rende a Dio, permettendoci di appropriarceli per offrirli alla SS. Trinità. Nascondi 152. 2° Con Lui e per Lui noi possiamo pure chiedere con la massima efficacia nuove grazie; perchè Gesù, Sommo Sacerdote, prega incessantemente per noi, "semper vivens ad interpellandum pro nobis" ( Eb 7,25 ). Anche quando abbiamo la disgrazia d'offendere Dio, egli perora la nostra causa, con tanto maggior eloquenza in quanto offre nello stesso tempo il sangue versato per noi: "Si quis peccaverit, advocatum habemus apud Patrem Jesum Christum iustum, et ipse est propitiatio pro peccatis nostris" ( 1 Gv 2,1 ). Nascondi Inoltre dà alle nostre preghiere tal valore che, se noi preghiamo in suo nome, cioè appoggiandoci sugli infiniti suoi meriti, siamo sempre sicuri d'essere esauditi: "Amen, amen, dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis" ( Gv 16,23 ). Infatti il valore dei suoi meriti viene comunicato ai suoi membri, e Dio non può rifiutar nulla a suo Figlio: "exauditus est pro sua reverentia" ( Eb 5,7 ). 153. Bisogna in ultimo fare tutte le nostre azioni in unione con Lui, avendo abitualmente, secondo una bella espressione dell'Olier, Gesù davanti agli occhi, nel cuore e nelle mani: davanti agli occhi, vale a dire considerandolo come modello che dobbiamo imitare e chiedendoci, come S. Vincenzo De Paoli: Che cosa farebbe Gesù se fosse al mio posto? Nel cuore, attirando in noi le sue interne disposizioni, la sua purità d'intenzione, il suo fervore, per fare le nostre azioni secondo il suo spirito; nelle mani, eseguendo con generosità, energia e costanza le buone ispirazioni che ci suggerisce. Nascondi Allora le nostra vita sarà trasformata e noi vivremo della vita di Cristo: "Vivo autem, iam non ego, vivit vero in me Christus: vivo, non più io, ma vive in me Cristo" ( Gal 2,20 ) § III. Della parte della SS. Vergine, dei Santi e degli Angeli nella vita cristiana. 154. Non vi è certamente che un Dio solo e un solo Mediatore necessario, Gesù Cristo: "Unus enim Deus, unus et mediator Dei et hominum homo Christus Jesus". Ma piacque alla Sapienza e alla Bontà divina di darci dei protettori, degli intercessori e dei modelli che siano o che almeno sembrino più vicini a noi; e sono i Santi, i quali, avendo ricopiato in se stessi le perfezioni divine e le virtù di Nostro Signore, fanno parte del suo corpo mistico e si danno pensiero di noi che siamo loro fratelli. Onorandoli, onoriamo in loro Dio stesso e un riflesso delle sue perfezioni; invocandoli, a Dio in ultima analisi vanno le nostre invocazioni, perchè chiediamo ai santi di essere nostri intercessori presso Dio; imitandone le virtù, imitiamo Gesù, perchè essi non furono santi se non in quella misura che imitarono le virtù del divino modello. Questa devozione ai santi non solo non nuoce al culto di Dio e del Verbo Incarnato, ma anzi lo conferma e lo compie. Ora poichè tra i Santi la madre di Gesù occupa un posto a parte, esporremo prima l'ufficio suo e poi quello dei Santi e degli Angeli. I. Dell'ufficio di Maria nella vita cristiana. 155. 1° Fondamento di quest'ufficio. Quest'ufficio dipende dalla stretta unione con Gesù o in altri termini dal dogma della divina maternità, che ha per corollario la sua dignità e l'ufficio suo di madre degli uomini. A) Nel giorno dell'Incarnazione Maria divenne madre di Gesù, madre di un Figlio-Dio, madre di Dio. Ora, se teniamo conto del dialogo tra l'Angelo e la Vergine, Maria è madre di Gesù non solo in quanto è persona privata, ma anche in quanto è Salvatore e Redentore. "L'Angelo non parla soltanto delle grandezze personali di Gesù; ma del Salvatore, dell'atteso Messia, dell'eterno Re dell'umanità rigenerata viene proposto a Maria di diventar Madre … Tutta l'opera redentrice è sospesa al Fiat di Maria e Maria ne ha piena coscienza. Sa ciò che Dio le propone e a ciò che Dio le domanda acconsente senza condizioni nè restrizioni; il suo Fiat, risponde all'ampiezza delle proposte divine e s'estende a tutta l'opera redentrice ". Maria è dunque la madre del Redentore, e, come tale, associata all'opera sua redentrice; nell'ordine della riparazione tiene il posto che tenne Eva nell'ordine della nostra spirituale rovina, come con S. Ireneo i Padri fanno rilevare. Quale madre di Gesù, Maria avrà le più intime relazioni con le tre divine persone: sarà la Figlia prediletta del Padre, la sua associata nell'opera dell'Incarnazione; la Madre del Figlio, con diritto al suo rispetto, al suo amore, e anche, sulla terra, alla sua obbedienza, e che, per la parte che prenderà ai suoi misteri, parte secondaria ma reale, ne diviene la collaboratrice nell'pera della salvezza degli uomini e della loro santificazione; il tempio vivo, il santuario privilegiato dello Spirito Santo e, in senso analogico, la Sposa, in quanto che con lui e dipendentemente da lui lavorerà a partorire anime a Dio. 156. B) Nel giorno dell'Incarnazione Maria divenne pure madre degli uomini. Nascondi Gesù, come abbiamo detto ( n. 142 ), è il capo dell'umanità rigenerata, è la testa d'un corpo mistico di cui noi siamo le membra. Ora Maria, madre del Salvatore, lo genera tutto intiero e quindi come capo dell'umanità e come testa del corpo mistico. Ne genera quindi anche i membri, tutti quelli che sono incorporati con lui, tutti i rigenerati o quelli che son chiamati ad esserlo. Così, diventando madre di Gesù secondo la carne, Maria ne diviene nello stesso tempo madre dei membri secondo lo spirito. La scena del Calvario non farà che confermare questa verità; nel momento stesso in cui la nostra redenzione sta per ricevere l'ultimo suo compimento con la morte del Salvatore, Gesù dice a Maria mostrandole S. Giovanni e in lui tutti i suoi discepoli presenti o futuri: "Ecco tuo Figlio"; e a S. Giovanni: "Ecco tua madre"; era questo un dichiarare, secondo una tradizione che risale ad Origene, che tutti i rigenerati sono figli spirituali di Maria. Da questo doppio titolo di madre di Dio e madre degli uomini deriva l'ufficio di Maria nella nostra vita spirituale. Nascondi 157. 2° Maria causa meritoria della grazia. Abbiamo visto ( n. 133 ) che Gesù è causa meritoria principale e in senso proprio di tutte le grazie che riceviamo. Maria, sua associata nell'opera della nostra santificazione, meritò secondariamente e solo de congruo, con merito di convenienza, tutte queste stesse grazie. Non meritò che secondariamente, vale a dire in dipendenza dal Figlio e perchè Gesù le conferì il potere di meritare per noi. Le meritò prima nel giorno dell'Incarnazione, nel momento in cui pronunziò il Fiat. Perchè l'Incarnazione è la redenzione incominciata; quindi cooperare all'Incarnazione è coooperare alla redenzione e alle grazie che ne saranno il frutto e per conseguenza alla nostra salute e alla nostra santificazione. 158. Del resto Maria, la cui volontà è in tutto conforme a quella di Dio come a quella del Figlio, in tutta la vita s'associa all'opera riparatrice. Nascondi È Lei che alleva Gesù, che nutre e prepara per l'immolazione la vittima del Calvario; associata alle sue gioie come alle sue prove, alle umili sue fatiche nella casa di Nazaret e alle sue virtù, si unirà con generosissima compassione alla passione e alla morte del Figlio, ripetendo il Fiat al piede della Croce e acconsentendo all'immolazione di colui che amava assai più di sè stessa, mentre l'amante suo cuore veniva trafitto da dolorossissima spada: "tuam ipsius animam gladius pertransibit" ( Lc 2,31 ). Quanti meriti acquistò Maria con questa perfetta immolazione! E continuò ad acquistarne nel lungo martirio sostenuto dopo il ritorno del Figlio al cielo: priva della presenza di Colui che formava la sua felicità, sospirando ardentemente il momento di essergli unita per sempre e accettando amorosamente quella prova per fare la volontà di Dio e contribuire a edificare la Chiesa nascente, Maria accumula per noi meriti innumerevoli. I suoi sono tanto più meritori in quanto che sono fatti con la più perfetta purità d'intenzione "Magnificat anima mea Dominum, fiat mihi secundum verbum tuum", e in unione strettissima con Gesù, sorgente di ogni merito. È vero che questi meriti erano anzitutto per lei stessa e ne aumentavano il capitale di grazia e i diritti alla gloria; ma, in virtù della parte che prendeva all'opera redentrice, meritava pure de congruo per tutti; ed essendo per sè piena di grazia, lascia che questa grazia ridondi su noi, secondo la parola di S. Bernardo: "Plena sibi, nobis superplena et supereffluens. 159. 3° Maria causa esemplare. Dopo Gesù, Maria è il più bel modello che si possa da noi imitare; lo Spirito Santo che, in virtù dei meriti del suo Figlio, viveva in lei ne fece una copia vivente delle virtù di questo Figlio: "Hæc est imago Christi perfectissima, quam ad vivum depinxit Spiritus Sanctus". Mai ella commise la minima colpa o la minima resistenza alla grazie, adempiendo alla lettera il fiat mihi secundum verbum tuum. Perciò i Padri, specialmente S. Ambrogio e il Papa S. Liberio, la presentano come modello perfetto di tutte le compagne, sempre pronta a rendere servizio, nulla dicendo o facendo che potesse causar la minima pena, piena d'amore per tutte e da tutte riamata". Ci basti rammentare le virtù additate nello stesso Vangelo: Nascondi 1) la fede profonda che le fa credere senza esitazione alcuna le meraviglie che l'Angelo le annunzia da parte di Dio, fede di cui Elisabetta, ispirata dallo Spirito Santo, si congratula con lei, "Beata te che credesti! beata quæ credidisti, quoniam perficientur ea quæ dicta sunt tibi a Domino" ( Lc 1,45 ). 2) la verginità che appare nella risposta data all'Angelo: "Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco"? onde si vede la ferma volontà di rimanere vergine, quand'anche occorresse per questo di sacrificare la dignità di madre del Messia; 3) l'umiltà che risplende nel turbamento sorto in lei per gli elogi dell'Angelo, nella dichiarazione di essere sempre la serva del Signore nel momento stesso in cui è proclamata madre di Dio, in quel Magnificat anima mea Dominum che venne chiamato l'estasi della umiltà, nell'amore che dimostra alla vita nascosta mentre come madre di Dio aveva diritto a tutti gli onori; 4) nell'interno raccoglimento, che le fa raccogliere e silenziosamente meditare tutto ciò che si riferiva al divino suo Figlio: "Conservabat omnia verba hæc conferens in corde suo"; 5) l'amore per Dio e per gli uomini, che le fa generosamente accettare tutte le prove d'una lunga vita e principalmente l'immolazione del Figlio prediletto che va dall'Ascensione al momento della morte. 160. Questo modello così perfetto è nello stesso tempo pieno d'attrattiva: Maria è una semplice creatura come noi, è una sorella, è una madre che ci sentiamo tratti ad imitare, se non altro per attestarle la nostra riconoscenza, la nostra venerazione, il nostro amore. Ed è del resto modello facile ad essere imitato, nel senso almeno che Maria si santificò nella vita comune, nell'adempimento dei doveri di giovinetta e di madre, nelle umili cure della famiglia, nella vita nascosta, nelle gioie come nelle tristezze nell'esaltazione come nelle più profonde umiliazioni. Siamo quindi certi d'essere in via molto sicura quando imitiamo la SS. Vergine; è questo il mezzo migliore d'imitare Gesù e d'ottenere la potente mediazione. 161. 4° Maria mediatrice universale di grazia. Sono già parecchi secoli che S. Bernardo formulò questa dottrina in quel notissimo testo: « Sic est voluntas eius qui totum nos habere voluit per Mariam ». È bene determinare il senso. È certo che Maria ci diede in modo mediato tutte le grazie col darci Gesù autore e causa meritoria della grazia. Ma inoltre, secondo l'insegnamento sempre più unanime, non vi è una sola grazia concessa agli uomini senza il suo intervento. Si tratta quindi quì d'una mediazione immediata, universale, ma subordinata a quella di Gesù. 162. Per maggiormente determinare questa dottrina, diciamo col P. de la Broise che « l'ordine presente dei decreti divini vuole che ogni beneficio soprannaturale sia concesso al mondo col concorso di tre volontà e che non se ne conceda mai altrimenti. Anzitutto la volontà di Dio che conferisce tutte le grazie; poi la volontà di Nostro Signore, mediatore che le merita e le ottiene in tutta giustizia di per sè stesso; infine la volontà di Maria, mediatrice secondaria, che le merita e le ottiene in tutta convenienza per mezzo di Nostro Signore ». Questa mediazione è immediata, nel senso che per ogni grazia concessa da Dio Maria interviene con i suoi meriti passati o con le sue preghiere presenti; il che però non inchiude necessariamente che la persona che riceve queste grazie debba pregare Maria, potendo maria intervenire anche senza esserne pregata. È universale, estendendosi a tutte le grazie concesse agli uomini dopo la caduta di Gesù, nel senso che Maria non può meritare od ottenere grazie se non per mezzo del suo divin Figlio; e così la mediazione di Maria serve a far sempre meglio spiccare il valore e la fecondità della mediazione di Gesù. Questa dottrina venne testè confermata dall'uffucio e dalla messa propri in onore di Maria mediatrice concessi dal Papa Nebedetto XV alle chiese del Belgio e a tutte quelle che ne faranno domanda. È quindi una dottrina sicura di cui possiamo in pratica giovarci, valendo ad ispirarci grande confidenza in Maria. Conclusione: devozione alla SS. Vergine. 163. Avendo Maria una parte così importante nella nella nostra vita spirituale, dobbiamo avere verso di lei una grande devozione. Questa parola significa dedizione e dedizione è dono di sè. Saremo quindi devoti di Maria se ci diamo intieramente a lei e, per lei, a Dio. In ciò non faremo che imitare Dio stesso che dà sè e suo Figlio a noi per mezzo di Maria. Le daremo la intelligenza con la venerazione più profonda, la volontà con una confidenza assoluta, il cuore col più filiale amore, tutto il nostro essere con l'imitazione più perfetta possibile delle sue virtù. 164. A) Venerazione profonda. Questa venerazione si fonda sulla dignità di Madre di Dio e sulle conseguenze che ne derivano. Non potremo infatti stimare mai troppo colei che il Verbo Incarnato riverisce come madre, che il Padre amorosamente contempla come figlia prediletta e che lo Spirito Santo riguarda come tempio di predilezione. Il Padre la tratta col più grande rispetto, inviandole un Angelo che la saluta piena di grazia e le chiede il consenso all'opera dell'Incarnazione, in cui se la vuole così intimamente associare; il Figlio la venera e l'ama come madre e le ubbidisce; lo Spirito Santo viene in lei e vi prende le sue compiacenze. Venerando Maria, non facciamo quindi altro che associarci alle tre divine persone e stimare ciò che esse stimano. È vero che bisogna badare a evitare gli eccessi, specialmente tutto ciò che tenderebbe ad uguagliarla a Dio e farne la sorgente della grazia. Ma finchè la consideriamo come creatura, che non ha di grandezza, di santità e di potenza se non quel tanto che Dio le conferisce, non vi sono eccessi da temere: in lei veneriamo Dio. Questa venerazione dev'essere maggiore di quella che abbiamo per gli Angeli e per i Santi, appunto perchè per la dignità di madre di Dio, per l'ufficio di mediatrice, per la santità supera tutte le creature. Ecco perchè il suo culto, pur esendo culto di dulia e non di latria, viene a ragione detto culto d'iperdulia, essendo superiore a quello che si rende agli Angeli ed ai Santi. 165. B) Confidenza assoluta, che è fondata sulla potenza e sulla bontà di Maria. a) Questa potenza viene non da lei ma dal suo potere d'intercessione, non volendo Dio rifiutar nulla di legittimo a colei che venera ed ama più di tutte le creature. Ed è cosa pienamente equa; avendo infatti Maria somministrato a Gesù quell'umanità con cui potè meritare, e avendo coi suoi atti e coi suoi patimenti collaborato con lui all'opera redentrice, è pur conveniente che abbia parte nella distribuzione dei frutti della redenzione; nulla quindi di legittimo egli potrà rifiutare alle sue domande, e così potrà dirsi che Maria è onnipotente con le sue suppliche, omnipotentia supplex. b) Quanto alla bontà, è quella d'una madre che riversa su noi, membri di Gesù Cristo, l'affetto che porta al Figlio; d'una madre che, avendoci partoriti nel dolore, tra le angoscie del Calvario, ha tanto maggior amore per noi quanto più le siamo costati. La nostra confidenza in lei sarà quindi incrollabile ed universale. 1) Incrollabile nonostante le nostre miserie e le nostre colpe; infatti madre di misericordia, mater misericordiæ, che non ha da occuparsi di giustizia, ma che fu scelta per esercitare anzitutto la compassione, la bontà, la condiscendenza: sapendo che siamo esposti agli assalti della concupiscenza, del mondo e del demonio, ha pietà di noi che non cessiamo d'essere suoi figli anche quando cadiamo in peccato. Appena quindi manifestiamo la minima buona volontà, il desiderio di tornare a Dio, ella ci accoglie con bontà; anzi spesso è lei che, prevenenso questi movimenti, ci ottiene le grazie che ce li eccitano nell'anima. La Chiesa ha così bene inteso questa verità, che per alcune diocesi istituì una festa sotto un titolo che a prima vista pare un poco strano ma che in fondo è perfettamente giustificato, la festa del Cuore immacolato di Maria rifugio dei peccatori; appunto perchè è immacolata e non commise mai la minima colpa, tanto maggior compassione sente pei poveri suoi figli che non hanno come lei il privilegio dell'esenzione della concupiscenza. 2) Universale, vale a dire che s'estende a tutte le grazie di cui abbiamo bisogno, grazie di conversione, di progresso spirituale, di perseveranza finale, grazie di preservazione in mezzo ai pericoli, alle angosce, alle più gravi difficoltà che possano presentarsi. Una tal confidenza raccomanda instantemente San Bernardo: "Se sorgono le tempeste delle tentazioni, se ti trovi in mezzo agli scogli delle tribolazioni, leva lo sguardo alla stella del mare, invoca Maria in tuo soccorso; se sei sbattuto dai flutti della superbia, dell'ambizione, della maldicenza, della gelosia, guarda la stella, invoca Maria. Se l'ira, l'avarizia, i diletti del senso ti agitano la navicella dell'anima, guarda Maria. Se turbato dell'enormità dei tuoi delitti, confuso dello stato miserando della tua coscienza, compreso d'orrore al pensiero del giudizio, ti senti affondare nell'abisso della tristezza e della disperazione, pensa a Maria. In mezzo ai pericoli, alle angoscie, alle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. La sua invocazione, il suo pensiero non abbandonino mai nè il tuo cuore nè il tuo labbro, e, per ottenere più sicuramente l'aiuto delle sue preghiere, non trascurare d'imitarne gli esempi. Seguendola non ti puoi smarrire, supplicandola non ti puoi disperare, pensando a lei non puoi traviare. Se ella ti tiene per mano, non puoi cadere; sotto la sua protezione non hai nulla da temere; sotto la sua guida, nessuna stanchezza, e col suo favore si arriva sicuramente al termine". Avendo noi costantemente bisogno di grazie per vincere i nostri nemici e progredire, dobbiamo rivolgerci spesso a colei che a così buon diritto viene detta la Madonna del perpetuo soccorso. 166. C) Alla confidenza aggiungeremo l'amore, amore filiale, pieno di candore, di semplicità, di tenerezza e di generosità. Maria è certamente la più amabile delle madri, perchè, avendola Dio destinata a madre del suo figlio, le diede tutte le qualità che rendono amabile una persona, la delicatezza, la finezza, la bontà, l'abnegazione d'una madre. È la più amante, perchè il suo cuore fu creato espressamente per amare un Figlio-Dio e amarlo quanto più perfettamente fosse possibile. Ora l'amore che aveva per il Figlio, Maria lo riversa su noi che siamo i membri viventi di questo Figlio divino, la sua estensione e il suo complemento. Quest'amore risplende pure nel mistero della Visitazione, in cui Maria s'affretta di portare alla cugina Elisabetta quel Gesù che ricevette nel seno e che con la sola sua presenza santifica tutta la casa; nelle nozze di Cana in cui, attenta a tutto ciò che succede, interviene presso il Figlio, per risparmiare ai giovani sposi una penosa umiliazione; sul Calvario, ove consente a sacrificare per la nostra salute ciò che ha di più caro; nel Cenacolo, ove esercita il potere d'intercessione per ottenere agli Apostoli maggior copia dei doni dello Spirito Santo. 167. Se Maria è la più amabile e la più amante delle madri, dev'essere pure la più amata. È questo infatti uno dei suoi privilegi più gloriosi: dovunque Gesù è conosciuto ed amato, lo è anche Maria; non si separa la madre dal Figlio e, pur tenendo conto della differenza che passa tra l'uno e l'altra, sono entrambi circondati dello stesso affetto benchè in grado diverso: al Figlio si rende l'amore che è dovuto a Dio, a Maria quello che è dovuto alla madre d'un Dio, amor tenero, generoso, devoto ma subordinato all'amor di Dio. È amore di compiacenza, che gioisce delle grandezze, delle virtù e dei privilegi di Maria, riandandoli spesso nella mente, ammirandoli, compiacendosene e congratulandosi con lei che sia così perfetta. Ma è pure amore di benevolenza, che brama sinceramente che il nome di Maria sia meglio conosciuto e meglio amato, che prega perchè se ne allarghi l'influsso sulle anime e che alla preghiera aggiunge la parola e l'azione. È amore filiale, pieno d'abbandono e di semplicità, di tenerezza e di premura, che va sino a quella rispettosa intimità che una madre permette al figlio. È finalmente e principalmente amore di conformità, che si sforza di conformare in ogni cosa la propria volontà a quella di Maria e quindi a quella di Dio, essendo l'unione delle volontà il segno più autentico dell'amicizia. Il che conduce all'imitazione della SS. Vergine. 168. D) L'imitazione è infatti l'omaggio più delicato che le si possa rendere; è un proclamare non solo a parole ma a fatti che è un modello perfetto che siamo lieti d'imitare. Abbiamo già detto ( n. 159 ) come Maria, essendo un ritratto vivente di suo Figlio, ci dà l'esempio di tutte le virtù. Accostarci a lei è accostarci a Gesù; non possiamo quindi far di meglio che studiarne le virtù, meditarle spesso, sforzarci di imitarle. Per riuscirvi, non possiamo fare di meglio che compiere tutte ed ognuna delle nostre azioni per Maria, con Maria e in Maria; per ipsam, et cum ipsa et in ipsa. Per Maria, cioè domandando per mezzo suo le grazie che ci occorrono ad imitarla, passando per lei per andare a Gesù, ad Jesum per Mariam. Con Maria cioè considerandola come modello e collaboratrice, chiedendoci spesso: Che cosa farebbe Maria se fosse al mio posto? e umilmente pregandola di aiutarci a conformare le nostre azioni ai suoi desideri. In Maria, in dipendenza da questa buona Madre, assecondandone i pensieri, e le intenzioni, e facendo, come lei, le nostre azioni per glorificar Dio: Magnificat anima mea Dominum. 169.Reciteremo con questo spirito le preghiere in onore di Maria: l'Ave Maria e l'Angelus che le ricordano la scena dell'Annunziazione e il titolo di Madre di Dio; il Sub tuum præsidium, che è l'atto di confidenza in colei che ci protegge in mezzo a tutti i pericoli; l'O Domina mea, l'atto d'intiero abbandono nelle sue mani, con cui le affidiamo la nostra persona, le opere nostre, i nostri meriti; e specialmente la Corona o il Rosario che, unendoci ai suoi misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi, ci fa santificare con lei e con Gesù le nostre gioie, le nostre tristezze e le nostre glorie. Il Piccolo Ufficio della SS. Vergine è, per le persone che lo possono recitare, il riscontro del Breviario, che rammenta loro più volte al giorno le grandezze, la santità e l'ufficio santificatore di questa Buona Madre. Atto di consacrazione totale a Maria. 170. Natura ed estensione di quest'atto. È un atto di divozione che contiene tutti gli altri. Quale è esposto dal B. Grignion di Montfort, consiste nel darsi interamente a Gesù per mezzo di Maria e abbraccia due elementi: un atto di consacrazione che si rinnova ogni tanto, e uno stato abituale che ci fa vivere ed operare sotto la dipendenza di Maria. L'atto di consacrazione, dice il B. Grignion, "consiste nel darsi intieramente, come schiavo, a Maria e per suo mezzo a Gesù". Nessuno si scandalizzi di questa parola schiavo, a cui bisogna togliere ogni senso peggiorativo, vale a dire ogni idea di costrizione: non solo quest'atto non inchiude costrizione alcuna ma è l'espressione del più puro amore; se ne conservi quindi il solo elemento positivo quale è spiegato dal Beato: Un semplice servo riceve salario, resta libero di lasciare il padrone e non dà che il suo lavoro ma non la sua persona, i suoi diritti personali, i suoi beni; uno schiavo invece acconsente liberamente a lavorare senza stipendio, fiducioso nel padrone che gli dà vitto e vestito, e si dà per sempre, con tutte le sue energie, la sua persona, i suoi diritti, per vivere in piena dipendenza da lui. 171. Facendone applicazione alle cose spirituali, il perfetto servo di Maria dà a lei e per suo mezzo a Gesù: a) Il corpo, con tutti i suoi sensi, non conservandone che l'uso, e obbligandosi a non servirsene che secondo il beneplacito della SS. Vergine o del suo Figlio; e accetta anticipatamente tutte le disposizioni della Provvidenza riguardanti la salute, la malattia, la vita e la morte. b) Tutti i beni di fortuna, non usandone che sotto la sua dipendenza per la gloria sua e per quella di Dio. c) L'anima con tutte le sue facoltà, consacrandole al servizio di Dio e delle anime, sotto la guida di Maria, e rinunziando a tutto ciò che può compromettere la nostra salvezza e santificazione. d) Tutti i beni interiori e spirituali, i meriti, le soddisfazioni e il valore impetratorio delle buone opere, in quella misura in cui questi beni sono alienabili. Spieghiamo questo ultimo punto: 1) I meriti propriamente detti (de condigno) per mezzo dei quali meritiamo per noi un aumento di grazia e di gloria, sono inalienabili; se quindi li diamo a Maria, è perchè li conservi e li aumenti, non perchè li applichi altrui. Quanto ai meriti di semplice convenienza (de congruo), potendo questi essere offerti per gli altri, ne lasciamo la libera disposizioni a Maria. 2) Il valore soddisfattorio dei nostri atti, comprese le indulgenze, è alienabile, e ne lasciamo l'applicazione alla SS. Vergine. 3) Il valore impetratorio, vale a dire le nostre preghiere e le nostre opere buone in quanto godono di tal valore, possono esserle abbandonate e in fatto lo sono con quest'atto di consacrazione. 172. Una volta dunque fatto quest'atto non si può più disporre di questi beni senza il permesso della SS. Vergine; possiamo però e talora dobbiamo pregarla che si degni, in quella misura che le piacerà, disporne a favore delle persone verso le quali abbiamo speciali obbligazioni. Il mezzo di conciliare tutto è offrirle nello stesso tempo non solo la nostra persona e i nostri beni, ma anche tutte le persone che ci sono care "Tuus totus sum, omnia mea tua sunt, et omnes mei tui sunt"; così la SS. Vergine attingerà dai nostri beni e specialmente dai tesori suoi e da quelli di suo Figlio per venire in aiuto di queste persone; ed esse non vi perderanno nulla. 173. Eccellenza di quest'atto. È un atto di santo abbandono, ottimo già per questo verso, ma che inoltre contiene gli atti delle più belle virtù. 1) Un atto di religione profonda verso Dio, verso Gesù e verso Maria: con ciò infatti riconosciamo il sovrano dominio di Dio e il nostro nulla, e proclamiamo di gran cuore i diritti che Dio diede a Maria su noi. 2) Un atto di umiltà, con cui riconoscendo il nostro nulla e la nostra impotenza, ci priviamo del possesso di tutto ciò che il Signore ci diede, restituendoglielo per le mani di Maria, da cui, dopo Lui e per Lui, abbiamo ricevuto ogni cosa. 3) Un atto d'amore confidente, perchè l'amore è il dono di sè, e per donarsi occorre una confidenza perfetta, una fede viva. Si può dunque dire che quest'atto di consacrazione, se è ben fatto, spesso rinnovato di cuore e messo in pratica, è più eccellente ancora dell'atto eroico, con cui non si rinunzia che il valore soddisfattorio dei propri atti e le indulgenze che si guadagnano. 174. Frutti di questa devozione. Derivano dalla sua natura. 1) Con essa glorifichiamo Dio e Maria nel modo più perfetto, perchè gli diamo tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo senza riserva e per sempre; e ciò nel modo a Lui più gradito, seguendo l'ordine stabilito dalla sua sapienza, ritornando a Lui per la via da Lui tenuta per venire a noi. 175. 2) Assicuriamo pure in questo modo la nostra santificazione. Maria infatti, vedendo che cediamo a lei la nostra persona e i nostri beni, si sente vivamente mossa ad aiutare a santificarsi coloro che sono, per così dire, sua proprietà. Ci otterrà quindi copiosissime grazie, che aumenteranno i nostri piccoli tesori spirituali che sono suoi, ce li conserveranno e ce li faranno fruttificare sino al punto della morte. Porrà per questo in opera l'autorità del suo credito sul cuore di Dio e la sovrabbondanza dei suoi meriti e delle sue soddisfazioni. 3) Finalmente anche la santificazione del prossimo, e specialmente delle anime a noi affidate, verrà a guadagnarci; lasciando che Maria distribuisca i nostri meriti e le nostre soddisfazioni secondo il suo beneplacito, sappiamo che tutto sarà applicato nel modo più sapiente, perchè è più prudente, più previdente, più premurosa di noi; i nostri parenti ed amici non potranno quindi che guadagnarci. 176. Si potrà, è vero, obiettare che a questo modo noi alieniamo tutto il nostro patrimonio spirituale, specialmente le nostre soddisfazioni, le indulgenze e i suffragi che si potessero offrire per noi, e che così potrebbe accadere che restassimo poi i lunghi anni in purgatorio. Per sè questo è vero, ma si tratta di confidenza: abbiamo, si o no, più confidenza in Maria che in noi stessi e nei nostri amici? Se sì, non temiamo nulla; saprà ella prendersi cura dell'anima nostra e dei nostri interessi meglio che non potremmo far noi; se no, è meglio che non facciamo quest'atto di consacrazione totale di cui più tardi potremmo pentirci. In ogni caso non deve farsi che dopo matura riflessione e d'accordo col proprio direttore. II. Della parte dei Santi nella vita cristiana. 177. I Santi, che possedono Dio nel cielo, si prendono cura della nostra santificazione e ci aiutano a progredire nella pratica delle virtù con la loro potente intercessione e coi nobili esempi che ci lasciarono, dobbiamo quindi venerarli; sono potenti intercessori, dobbiamo quindi invocarli; sono i nostri modelli, dobbiamo quindi imitarli. 178. 1° Dobbiamo venerarli e con ciò veneriamo in loro lo stesso Dio e lo stesso Gesù Cristo. Infatti quanto in loro è di buono è opera di Dio e del suo divin Figlio. Il loro essere naturale non è che un riflesso delle divine perfezioni; le loro doti soprannaturali sono l'opera della grazia divina meritata da Gesù Cristo, compresi gli atti meritori, che, pur essendo un bene loro nel senso che col libero consenso vi hanno collaborato con Dio, sono anche e principalmente dono di Colui che ne resta causa prima ed efficace: "coronando merita nostra coronas et dona tua". Onoriamo quindi nei Santi: a) i santuari viventi della SS. Trinità, che si degnò di abitare in loro, di ornare l'anima colle virtù e coi doni, di operare sulle loro facoltà per farne produrre atti meritori, e concedere loro la grazia insigne della perseveranza b) i figli adottivi del Padre, da lui songolarmente amati, circondati della sua sollecitudine paterna, a cui seppero corrispondere avvicinandosi a poco a poco alla sua santità e alle sue perfezioni; c) i fratello di Gesù Cristo, suoi membri fedeli, che, incorporati al suo corpo mistico, ricevettero da lui la vita spirituale e la coltivarono con amore e costanza; d) i templi e i docili strumenti dello Spirito Santo, che da lui si lasciarono guidare e dalle sue ispirazioni anzichè seguir ciecamente le tendenze della guasta natura. Tali sono i pensieri espressi molto bene dal Sig. Olier: "Potrete adorare con profonda venerazione questa vita di Dio diffusa in tutti i Santi; onorerete Gesù Cristo che li anima tutti e tutti li perfeziona col divino suo Spirito per non farne che una cosa sola in lui … Gesù è in tutti il cantore delle divine lodi; Gesù mette loro in bocca tutti i loro cantici; per Gesù tutti i Santi lo lodano e lo loderanno per tutta l'eternità". 179. 2° Dobbiamo invocarli; per ottenere più facilmente, con la presente loro intercessione, le grazia di cui abbiamo bisogno. È vero che la sola mediazione necessaria è quella di Gesù, che basta pienamente in sè stessa; ma appunto perchè membri di Gesù risuscitato, i Santi uniscono le loro preghiere alle sua; è quindi tutto il corpo mistico del Salvatore che prega e che fa dolce violenza al cuore di Dio. Pregare coi Santi è quindi un unire le nostre preghiere a quelle dell'intiero corpo mistico ed assicurarne così l'efficacia. I Santi del resto sono lieti d'intercedere per noi: "Amano in noi i fratelli nati dallo stesso Padre; hanno compassione di noi; rammentando, al vedere il nostro stato, quello in cui furono essi stessi, riconoscono in noi anime che devono, come loro, contribuire alla gloria di Gesù Cristo. Quale gioia non provano quando possono trovare associati che li aiutino a rendere i loro omaggi a Dio e a soddisfarne il desiderio di magnificarlo con mille bocche, se l'avessero!". La loro potenza e la loro bontà ci devono dunque ispirare piena confidenza. E li invochiamo specialmente nel celebrarne le feste; entreremo così nella corrente liturgica della Chiesa e parteciperemo alle virtù particolari praticate da questo o quel Santo. 180. 3° Dobbiamo infatti imitarne pure e principalmente le virtù. Nascondi Tutti si studiarono di imitare gli esempi del modello divino e tutti ci possono ripetere la parola di S. Paolo: "Siate imitatori miei come io di Cristo: Imitatores mei estote sicut et ego Christi" ( 1 Cor 4,16). Essi però coltivarono per lo più una virtù speciale che ne è, a così dire, la virtù caratteristica: gli uni l'integrità della fede, gli altri la confidenza e l'amore, questi lo spirito di sacrifizio, l'umiltà, la povertà; quelli la prudenza, la fortezza, la temperanza, la castità. Chiederemo a ciascuno più specialmente la virtù che ha praticato, convinti che ha grazia particolare per ottenercela. 181. Ecco perchè la nostra devozione si volgerà specialmente a quei Santi che vissero nelle stesse nostre condizioni, che occuparono uffici simili ai nostri e praticarono la virtù che ci è più necessaria. Consideriamo le cose sotto un altro aspetto, avremo pure devozione particolare ai nostri santi patroni, vedendo nella scelta che se ne fece un'indicazione provvidenziale di cui dobbiamo giovarci. Ma, se per ragioni speciali, le attrattive della grazia ci portano verso questo o quel Santo le cui virtù consuonano meglio coi bisogni dell'anima nostra, nulla vieta che ci diamo alla loro imitazione, consigliandocene prima da un savio direttore. 182. Così intesa la devozione ai Santi riesce molto utile: gli esempi di coloro che ebbero le stesse nostre passioni, che subirono le stesse tentazioni, e ciò non ostante, sorretti dalle stesse grazie, riportarono vittoria, sono stimolo potente per farci arrossire della nostra codardia, prendere energiche risoluzioni e indurci a sforzi costanti per metterle in pratica, sopratutto rammentandoci delle parole d'Agostino: "Tu non poteris quod isti et istæ?" Le loro preghiere poi compiranno l'opera e ci aiuteranno a batterne le orme. III. Della parte degli Angeli nella vita cristiana. Questo ufficio deriva dalle loro relazioni con Dio e con Gesù Cristo. 183. 1° Gli Angeli rappresentano anzitutto la grandezza e gli attributi di Dio: "Ognuno in particolare porge un qualche grado di quest'Essere infinito e gli è specialmente consacrato. Negli uni se ne ammira la forza, negli altri l'amore, in altri la fermezza. Ognuno è imitazione d'una bellezza del divino originale; ognuno l'adora e lo loda nella perfezione di cui è l'immagine". Dio stesso adunque onoriamo nei suoi Angeli: sono "fulgidi specchi, sono pure cristalli, sono brillanti spere, che rappresentano le fattezze e le perfezioni di questo infinito Tutto". Nascondi Elevati all'ordine soprannaturale, partecipano della vita divina, e usciti vittoriosi dalla prova, godono della visione beatifica: "Gli angeli di questi fanciulli, dice Nostro Signore, vedono costantemente la faccia del Padre mio che è nei cieli: "Angeli corum in cœlis semper vident faciem Patris mei qui in cœlis est". ( Mt 17,10 ). 184. 2° Considerando le loro relazioni con Gesù Cristo, non è certo, è vero, che ne abbiano ricevuto la grazia, è però certo che in cielo si uniscono a questo mediatore di religione per lodare, adorare e glorificare la maestà divina, lieti di poter dare così maggior valore alle loro adorazioni: "Per quem maiestatem tuam laudant Angeli, adorant Dominationes, tremunt Potestates". Quando dunque ci uniamo a Gesù per adorar Dio, ci uniamo pure agli Angeli e ai Santi, armonioso concerto che non può che glorificare più perfettamente la divinità. Possiamo quindi ripetere col già citato autore: "Che tutti i custodi dei cieli, tutte queste possenti virtù che li muovono, suppliscano mai sempre, in Gesù Cristo, alle nostre lodi; vi ringrazino essi per i benefici che riceviamo dalla vostra bontà così nell'ordine di natura come in quello della grazia". 185. 3° Si deduce da queste due considerazioni che gli Angeli, essendoci fratelli nell'ordine della grazia, poichè partecipiamo, come loro, alla vita divina e siamo, come loro, in Gesù Cristo i religiosi di Dio, si prendono grande cura della nostra salute, bramosi di averci presto in cielo a glorificar Dio e partecipare alla stessa visione beatifica. Nascondi a) Accettano quindi con gioia le missioni che Dio loro affida in servizio della nostra santificazione: "Dio, dice il Salmista, affidò loro il giusto, perchè lo custodiscano in tutte le sue vie: "Angelis suis mandavit da te ut custodiant te in omnibus viis tuis" ( Sal 90,11.12 ). E San Paolo aggiunge che sono tutti subordinati spiriti, mandati in servigio per quelli che hanno da ereditare la salute: "Nonne omnes sunt administratorii spiritus, in ministerium missi propter eos qui haereditatem capient salutis?" ( Eb 1,14 ). Nulla infatti tanto bramano quanto radunare eletti per riempire i posti resi vacanti dalla caduta degli angeli ribelli, e adoratori per glorificar Dio in loro vece. Avendo trionfato dei demoni, altro non chiedono che di proteggerci contro questi perfidi nemici; è quindi specialmente opportuno invocarli per vincere le tentazioni diaboliche. Nascondi b) Offrono le nostre preghiere a Dio ( Tb 12,12 ) il che significa che le avvalorano aggiungendovi le loro suppliche. È dunque utile per noi l'invocarli, principalmente nei momenti difficili e sopratutto in punto di morte, perchè ci proteggano contro gli ultimi assalti del nemico e portino l'anima nostra in paradiso. 186. Gli angeli custodi. Tra gli angeli ve ne sono di quelli incaricati di ogni anima in particolare; sono gli Angeli custodi. Istituendo una festa in loro onore, la Chiesa consacrò la dottrina tradizionale dei Padri, fondata del resto sui testi della Sacra Scrittura e appoggiata su buone ragioni. Queste ragioni nascono dalle nostre relazioni con Dio: siamo i suoi figli, i membri di Gesù Cristo e i templi dello Spirito Santo. "Essendo suoi figli, dice l'Olier, ci da per precettori i principi della sua corte, che si stimano molto onorati di tal carica, avendo noi l'onore di appartenergli così da vicino. Essendo suoi membri, vuole che quegli stessi spiriti che servono lui siano sempre al nostro fianco per renderci mille buoni servizi. Essendo suoi templi ed abitando in noi, vuole che abbiamo degli angeli che siano pieni di venerazione verso di lui, come lo sono nelle nostre chiese; vuole che vi stiano in continuo ossequio alla sua grandezza, supplendo a ciò che dovremmo far noi e spesso gemendo per le irreverenze che commettiamo verso di lui". Vuole pure in questo modo, egli aggiunge, intimamente collegare la Chiesa del cielo con quella della terra: "A tal fine fa scendere in terra questo misterioso esercito degli Angeli, i quali, unendosi a noi e legandoci a loro, ci collocano nel loro ordine, così da non formare che un sol corpo della Chiesa del cielo e di quella della terra". 187. Per mezzo dell'angelo custode siamo dunque in comunicazione permanente col cielo, e a trarne maggior profitto, non possiamo far di meglio che pensare spesso all'angelo custode, per esprimergli la nostra venerazione, la nostra confidenza e il nostro amore: a) la nostra venerazione, salutandolo come uno di coloro che vedono sempre il volto di Dio, che sono per noi i rappresentanti del Padre celeste; nulla quindi faremo che possa dispiacergli o contristarlo, ci studieremo invece di mostrargli il nostro rispetto, imitandone la fedeltà nel servizio di Dio: modo veramente delicato di mostrargli la nostra stima; b) la nostra confidenza, rammentandoci la potenza che possiede per proteggerci e la bontà che ha per noi affidati alla sua custodia da Dio stesso. Dobbiamo poi invocarlo principalmente nelle tentazioni del demonio, perchè è abituato a sventare le astuzie di questo perfido nemico; come pure nelle occasioni pericolose, in cui la sua previdenza e la sua destrezza possono venirci molto opportunamente in aiuto; e nell'affare della vocazione, in cui può conoscere meglio di tutti, i disegni di Dio sopra di noi. Inoltre quando abbiamo qualche cosa importante da trattare col prossimo, giova rivolgerci agli angeli custodi dei nostri fratelli, perchè li dispongano all'ufficio che vogliamo compiere presso di loro; c) il nostro amore, riflettendo che fu sempre e sempre sarà per noi un ottimo amico, che ci ha reso ed è sempre disposto a renderci ottimi servizi, di cui solo in cielo potremo conoscere il valore ma che fin d'ora possiamo intravvedere con la fede, il che ci deve bastare per esprimergliene riconoscenza ed affetto. Soprattutto quando sentiamo il peso della solitudine, possiamo ricordarci che non siamo mai soli, ma che abbiamo al fianco un amico affezionato e generoso, con cui possiamo familiarmente conversare. Sintesi della dottrina esposta 188. Dio ha dunque una parte grandissima nella nostra santificazione. Viene egli stesso a risiedere nell'anima nostra per darsi a noi e santificarci. Per renderci capaci di elevarci a lui, ci dà un intero organismo spirituale: la grazia abituale che, penetrando la sostanza stessa dell'anima, la trasforma e la rende deiforme; le virtù e i doni che, perfezionando le facoltà, le abilitano, col soccorso della grazia abituale che le mette in moto, a fare atti soprannaturali meritori di vita eterna. 189. Ma questo non basta ancora al suo amore: ci manda l'unico suo Figlio, il quale, facendosi uomo come noi, diventa il modello perfetto che ci guida nella pratica delle virtù che conducono alla perfezione e al cielo; ci merita la grazia necessaria per calcarne le orma nonostante le difficoltà che troviamo dentro e fuori di noi; e che, per meglio trarci alla sua sequela c'incorpora a sè, fa passare in noi, per mezzo del divino suo Spirito, la vita di cui possiede la pienezza, e con questa incorporazione dà alle nostre anche minime azioni un immenso valore; queste azioni infatti, unite a quelle di Gesù nostro capo, partecipano al valore delle sue, poichè in un corpo tutto diventa comune tra il capo e le membra. Con lui e per lui possiamo quindi glorificar Dio come merita, ottenere nuove grazie e avvicinarci così al Padre celeste ricopiandone in noi le divine perfezioni. Maria, essendo madre di Gesù e sua collaboratrice, benchè secondaria, nell'opera della Redenzione, prende pur parte alla distribuzione della grazie da lui meritateci: per lei andiamo a Lui, per lei chiediamo la grazia; la veneriamo e l'amiamo come madre, studiandoci d'imitarne le virtù. E poichè Gesù non è soltanto capo nostro ma anche dei Santi e degli Angeli, mette a nostro servizio questi potenti ausiliari per proteggerci contro gli assalti del demonio e la debolezza della nostra natura: i loro esempi e la loro intercessione ci sono di efficacissimo aiuto. Poteva Dio far di più per noi? E s'egli si diede così generosamente a noi, che cosa non dobbiamo far noi per corrispondere al suo amore e coltivare la partecipazione della vita divina di cui ci ha così generosamente gratificati? ART. II. La parte dell'uomo nella vita cristiana 190. È evidente anche se Dio ha fatto tanto per comunicarci una partecipazione della sua vita, noi dal canto nostro dobbiamo corrispondere a questa preveniente sua bontà, accettar con riconoscenza questa vita, coltivarla e prepararci così a quell'eterna beatitudine che sarà il coronamento degli sforzi fatti sulla terra. La riconoscenza ce ne fa un dovere, perchè il miglior mezzo di esser grati a un beneficio è utilizzarlo pel fine per cui è stato concesso. Nascondi Lo vuole il nostro spirituale interesse; perchè Dio ci ricompenserà secondo i meriti, e la nostra gloria in paradiso corrisponderà ai gradi di grazia che avremo acquistato con le nostre buone opere: "Unusquisque autem propriam mercedem accipiet secundum suum laborem" ( 1 Cor 3,8 ). Sarà invece obbligato a castigar severamente coloro che, resistendo volontariamente alle divine sue premure, avranno abusato della sua grazia. Perchè, dice l'Apostolo, "la terra che beve spesso la pioggia cadente su lei e produce utile erbe a chi la coltiva, riceve benedizioni da Dio; ma se non produce che spine e triboli, è riprovata e prossima alla maledizione: "Terra enim sœpe venientem super se bibens imbrem et generans herbam opportunam illis a quibus colitur, accipit benedictionem a Deo; proferens autem spinas ac tribulos, reproba est et meledicto proxima" ( Eb 6,7-8 ). Nascondi È vero che Dio, che ci creò liberi, rispetta la nostra libertà e non ci santificherà contro il nostro volere; non cessa però di esortarci ad utilizzare le grazie che così liberalmente ci concede: "Adjuvantes autem exhortamur ne in vacuum gratiam Dei recipiatis" ( 2 Cor 6,1 ). Vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. 191. Ora, per corrispondere a questa grazia, dobbiamo anzitutto praticare le grandi devozioni esposte nell'articolo precedente: devozione alla SS. Trinità; devozione al Verbo Incarnato, devozione alla SS. Vergine, agli Angeli e ai Santi. Vi troveremo infatti efficacissimi motivi per darci intieramente a Dio in unione con Gesù, e con la protezione dei nostri potenti intercessori; vi troveremo pure modelli di santità che ci tracceranno la via da seguire, e meglio ancora energie soprannaturali che ci aiuteranno ad avvicinarci ogni giorno più all'ideale di santità proposto alla nostra imitazione. Si noti però che noi abbiamo esposto queste devozioni nel loro ordine ontologico o di dignità; ma che in pratica non è la devozione alla SS. Trinità quella che si esercita per la prima; si comincia ordinariamente con la devozione a Nostro Signore e alla SS. Vergine, e solo più tardi assorgiamo alla SS. Trinità. 192. Ma questo non è tutto. È necessario che utilizziamo tutto quell'organismo soprannaturale di cui siamo dotati, e che lo perfezioniamo nonostante gli ostacoli interni ed esterni che si oppongono al suo sviluppo. 1° Poichè rimane in noi la triplice concupiscenza, che tende incessantemente al male e che è continuamente aizzata dal mondo e dal demonio, il primo passo sarà di energicamente combatterla coi suoi potenti ausiliari. 2° Poichè quest'organismo soprannaturale ci fu dato per produrre atti deiformi, meritorii della vita eterna, dobbiamo moltiplicare i nostri meriti. 3° Ed essendosi la divina bontà degnata d'istituire i sacramenti, che producono in noi la grazia secondo la misura della nostra cooperazione, bisogna che li frequentiamo con quelle disposizioni migliori che ci sono possibili. Così conserveremo in noi la vita della grazia, anzi la faremo crescere indefinitamente. § I. Della lotta contro i nemici spirituali. Questi nemici sono la concupiscenza, il mondo e il demonio; la concupiscenza, nemico interno che portiamo sempre con noi; il mondo e il demonio, nemici esterni, che attizzano il fuoco della concupiscenza. I. Lotta contro la concupiscenza. S. Giovanni descrisse la concupiscenza in quel celebre testo: "Omne quod est in mundo concupiscentia carnis est et concupiscentia oculorum et superbia vitæ". 1° La concupiscenza della carne 193. La concupiscenza della carne è l'amore disordinato dei piaceri dei sensi. A) Il male. Il piacere non è cattivo in sè stesso; Dio lo permette ordinandolo ad un fine superiore, il bene onesto; se annette il piacere a certi atti buoni, lo fa per renderli più facili e attirarci così all'adempimento del dovere. Gustare moderatamente il piacere riferendolo al suo fine che è il bene morale e soprannaturale, non è male; anzi è atto buono, perchè tende a fine buono, che in ultima analisi è Dio. Ma volere il piacere indipendentemente da questo fine che lo giustifica, volerlo quindi come fine in cui uno si ferma, è un disordine, perchè è un andare contro l'ordine sapientissimo stabilito da Dio. E questo disordine ne trae seco un altro: quando si opera per il piacere, si è esposti ad amarlo con eccesso, perchè non si è più guidati dal fine che impone dei limiti a questa smodata sete del piacere che tutti ci punge. 194. Così Dio sapientemente volle che fosse unito un certo piacere all'atto del nutrirsi per stimolarci a sostenere le forze del corpo. Ma, come dice Bossuet, "gli uomini ingrati e carnali tolsero occasione da questo piacere per attaccarsi al loro corpo, anzichè a Dio che ne è l'autore. Il piacere del mangiare li fa schiavi; invece di mangiare per vivere, pare, come già diceva un antico e dopo di lui S. Agostino, che vivano per mangiare. Quelli stessi che sanno regolare i loro desideri e vanno a cibarsi per necessità di natura, ingannati dal piacere e tratti dai suoi allettamenti più in là del bisogno, oltrepassano i giusti limiti; si lasciano insensibilmente vincere dagli appetiti e non credono mai d'avere intieramente soddisfatto al bisogno fin tanto che il bere ed il mangiare ne solleticano il gusto". Di qui eccessi nel bere e nel mangiare opposti alla temperanza. E che dire poi del piacere anche più pericolosa della voluttà, "di quella profonda e vergognosa piaga della natura, di quella concupiscenza che lega l'anima al corpo con vincoli così teneri e così violenti che costano tanta pena a disfarsene, e che cagiona nel genere umano disordini così terribili?" 195. Questo sensuale diletto è tanto più pericoloso, in quanto è diffuso per tutto il corpo. Ne è infetta la vista, perchè con gli occhi s'incomincia ad ingoiare il veleno dell'amore sensuale. Ne sono infette le orecchie, quando, con conversazioni pericolose e molli canti, si accendono o si alimentano le fiamme dell'amore impuro e quella segreta disposizione che abbiamo ai sensuali diletti. E lo stesso avviene degli altri sensi. Ciò che aumenta il pericolo è che tutti questi sensuali diletti si eccitano a vicenda: quelli che parrebbero i più innocenti, se non si sta in guardia, preparano ai più colpevoli. Vi è perfino una mollezza e una delicatezza diffusa in tutto il corpo che, facendoci cercare riposo nel sensibile, lo risveglia e ne alimenta la vivacità. Si ama il corpo con un attaccamento che fa dimenticare l'anima; un'eccessiva premura della salute fa che si accarezzi il corpo in tutto; e così questi vari diversi sentimenti sono come altrettante diramazioni della concupiscenza della carne. Nascondi 196. B) Il rimedio a un sì gran male è la mortificazione dei sensuali diletti; perchè, dice S. Paolo: "Quelli che sono di Cristo, crocifiggono la carne con i suoi vizi e le sue cupidigie: Qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis" ( Gal 5,24 ). Ora crocifiggere la carne, come dice l'Olier, significa legare, infrenare, soffocare internamente tutti gli impuri e sregolati desideri che sentiamo nella nostra carne; significa pure mortificare i sensi esterni che ci mettono in comunicazione con gli oggetti del di fuori ed eccitano in noi pericolosi desideri. Il motivo fondamentale che ci obbliga a praticare questa mortificazione sono le promesse battesimali. 197. Per il battesimo, che ci fa morire al peccato e c'incorpora a Cristo, noi siamo obbligati a praticare questa mortificazione dei sensuali diletti; perchè, "secondo S. Paolo, non siamo più debitori alla carne da vivere secondo la carne, ma siamo obbligati a vivere secondo lo spirito; e se viviamo secondo lo spirito, camminiamo pure secondo lo spirito che c'imprime nel cuore l'amore alla croce e la forza di portarla". Il battesimo d'immersione, col suo simbolismo, ci mostra la verità di questa dottrina: immerso nell'acqua, il catecumeno vi muore al peccato e alle sue cause, e uscito che è, partecipa ad una vita nuova, alla vita di Gesù risorto. Nascondi Tal è l'insegnamento di S. Paolo ( Rm 6,2-4 ). "Morti al peccato, come potremmo ancor vivere in esso? Non sapete forse che quanti fummo battezzati in Cristo Gesù, nella morte di lui fummo battezzati? Fummo sepolti insieme con lui pel battesimo nella morte, affinchè come fu Cristo risuscitato da morte dalla gloria del Padre, così anche noi in novità di vita si cammini". L'immersione battesimale significa dunque la morte al peccato e l'obbligo di lottare contro la concupiscenza che tende al peccato; e l'uscita dall'acqua esprime la nuova vita, onde partecipiamo alla vita risorta del Salvatore. Il battesimo quindi ci obbliga a mortificare la concupiscenza che resta in noi, e ad imitare Nostro Signore che, crocifiggendo la carne sua, ci meritò la grazia di crocifiggere la nostra. I chiodi con cui la crocifiggiamo sono appunto i vari atti di mortificazione che facciamo. Nascondi Così grave è quest'obbligo di mortificare i sensuali diletti che ne dipende la nostra salvezza e la nostra vita spirituale: "Perchè, se vivete secondo la carne, spiritualmente morrete; se poi con lo spirito darete morte alle azioni della carne, vivrete: Si autem secundum carnem vixeritis, moriemini; si autem spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis" ( Rm 8,13 ) 198. Perchè intera sia la vittoria, non basta rinunziare ai piaceri peccaminosi ( il che è di precetto ), ma bisogna pure sacrificare i piaceri pericolosi che conducono quasi infallibilmente al peccato, in virtù del principio: "qui amat periculum in illo peribit"; anzi è necessario privarsi di alcuni piaceri leciti per rinvigorire la nostra volontà contro gli allettamenti dei piaceri proibiti: chiunque infatti vuol gustare senza freno alcuno di tutti i diletti permessi, è molto vicino a scivolare in quelli che non lo sono. 199. A) Il male. La concupiscenza degli occhi abbraccia due cose: la vana curiosità e l'amore disordinato dei beni della terra. a) La curiosità di cui si tratta, è lo smodato desiderio di vedere, d'udire, di conoscere ciò che avviene nel mondo, come i segreti intrighi che vi si annodano, non per trarne spirituale vantaggio ma per dilettarsi di una tal frivola cognizione. Si estende pure ai secoli passati, quando frughiamo la storia, non per trarne esempi utili alla vita umana, ma per pascere la nostra immaginazione di tutte le cose che dilettano. Abbraccia principalmente tutte le false scienze divinatorie, con cui si pretende di conoscere le cose segrete o future delle quali Dio s'è riservata la conoscenza: "è questo un usurpare i diritti di Dio, è un distruggere la confidenza con cui dobbiamo abbandonarci alla sua volontà". Questa curiosità riguarda pure le scienze vere ed utili, quando uno ci si applica con eccesso o intempestivamente e ci fa sacrificare doveri assai maggiori, come avviene a quelli che leggono ogni specie di romanzi, di commedie e di poesie. "Orbene, tutto ciò non è altro che intemperanza, malattia, disordine della mente, inaridimente del cuore, miseranda schiavitù che non ci lascia agio di pensare a noi, e fonte d'errori". 200. b) La seconda forma di questa concupiscenza è l'amore disordinato del denaro; talora si considera il danaro come mezzo per acquistare altri beni, per esempio, piaceri od onori; talora uno si attacca al denaro per se stesso, per contemplarlo, per palparlo, e per trovare nel suo possesso una certa sicurezza per l'avvenire: questa è l'avarizia propriamente detta. Nell'uno e nell'altro caso uno si espone a commettere molti peccati; perchè questo disordinato desisiderio è fonte di molte frodi ed ingiustizie. 201. B) Il rimedio. a) Per combattere la vana curiosità bisogna ricordarsi che tutto ciò che non è eterno è indegno di fissare e ritenere l'attenzione di esseri immortali come noi. La figura di questo mondo passa, una sola cosa rimane: Dio e il cielo che è eterno possesso di Dio. Non diamoci quindi pensiero che delle cose eterne; perchè ciò che non è eterno è un nulla, quod æternum non est, nihil est. Gli avvenimenti presenti, come quelli dei secoli passati, possono e devono certamente premerci, ma solo nella misura in cui contribuiscono alla gloria di Dio o alla salvezza degli uomini. Quando Dio creò il mondo e tutto ciò che esiste, non ebbe che uno scopo solo: comunicare la sua vita divina alle creature intelligenti, agli Angeli, agli uomini, e raccogliere degli eletti. Tutto il resto è accessorio e non dev'essere studiato che come mezzo per andare a Dio o al cielo. Nascondi 202. b) Per ciò che riguarda l'amore disordinato dei beni della terra, bisogna ricordare che le ricchezze non sono un fine ma un mezzo che la Provvidenza ci dà per sovvenire ai nostri bisogni; che Dio ne resta il supremo Padrone, che noi in fondo non ne siamo che amministratori, e che dovremo rendere conto del loro uso: redde rationem villicationis tuæ" ( Lc 16,2 ). È quindi savia cosa dare larga parte del proprio superfluo in elemosine e in buone opere; a questo modo si asseconda i disegni di Dio, il quale vuole che i ricchi siano, a così dire, gli economi dei poveri; e si fa un deposito sulla Banca del cielo, dove la ruggine e la tignuola non corrodono; e dove i ladri non forano muri nè rubano: thesaurizate autem vobis thesauros in cælo, ubi nec ærugo, neque tinea demolitur, et ubi fures non effodiunt nec furantur" ( Mt 6,20 ). Nascondi È il mezzo sicuro per distaccare i nostri cuori dai beni della terra ed elevarli a Dio: "perchè, aggiunge Nostro Signore, dov'è il tuo tesoro, ivi è il tuo cuore: "Ubi enim est thesaurus tuus, ibi est et cor tuum" ( Mt 6,21 ). Cerchiamo dunque innanzitutto il regno di Dio, la santità, ed il resto ci sarà dato per giunta. A diventar perfetti, occorre ancora qualche cosa di più, praticare la povertà evangelica: "Beati, infatti, sono i poveri di spirito: Beati pauperes spiritu" ( Mt 5,3 ). In che può farsi in tre modi secondo l'inclinazione e la possibilità di ciascuno: 1) vendendo i propri beni e dandoli ai poveri: "Vendite quæ possidetis et date eleemosynam" ( Lc 12,33; Lc 18,22; Mt 19,21 ). 2) mettendo ogni cosa in comune, come si pratica in certe congregazioni; 3) serbando il capitale e privandosene dell'uso, col non spendere nulla se non col consiglio d'un savio direttore. 203. In ogni caso il cuore dev'essere distaccato dalle ricchezze per volarsene a Dio. È pur quanto ci raccomanda Bossuet: "Beati coloro, egli dice, che, ritirati umilmente nella casa del Signore, si dilettano della nudità delle loro cellette e di tutto il misero corredo di cui hanno bisogno in questa vita, che non è che un'ombra di morte, per non considerare altro che la loro infermità e il giogo pesante di cui il peccato li ha oppressi. Beate le sacre Vergini, che non vogliono essere più lo spettacolo del mondo e che bramerebbero nascondersi perfino a se stesse sotto il sacro velo che le circonda! Nascondi Beata la dolce violenza che si fa ai propri occhi per non vedere le vanità e dire con David: ( Sal 119,37 )Distogliete i miei occhi perch'io non le veda. Beati coloro che, stando secondo il loro stato in mezzo al mondo, non ne sono toccati e vi passano senza attaccarvisi … che dicono con Ester sotto il diadema: "Voi sapete, o Signore, quanto disprezzo questo segno d'orgoglio e tutto ciò che può servire alla gloria degli empi; e come la vostra serva non si è mai rallegrata che in voi solo, o Dio d'Israele". 3° L'orgoglio della vita 204. A) Il male. "L'orgoglio, dice Bossuet, è una depravazione più profonda; per esso l'uomo, abbandonato a se stesso, nell'eccesso dell'amor proprio considera sè come proprio Dio". Dimenticando che Dio è il suo primo principio e il suo ultimo fine, stima eccessivamente se stesso, e le proprie doti vere o pretese riguarda come fossero sue senza riferirle a Dio. Di qui quello spirito d'indipendenza o d'autonomia che lo spinge a sottrarsi all'autorità di Dio i dei suoi rappresentanti; quell'egoismo che lo inclina ad operare per sè come se fosse fine a se stesso; quella vana compiacenza che si diletta nella propria eccellenza, come se Dio non ne fosse l'autore, che si compiace nelle proprie buone opere, come se esse non fossero prima di tutto e principalmente il risultato dell'azione divina in noi; quella tendenza ad esagerare le proprie doti, ad attribuirsene di quelle che non si posseggono, a preferirsi agli altri, e talvolta anche a disprezzarli, come faceva il Fariseo. 205. A quest'orgoglio s'aggiunge la vanità, che ci fa cercare in modo disordinato la stima altrui, la vana gloria. Perchè, come fa notare Bossuet, "se queste lodi sono false o ingiuste, qual errore di compiacermene tanto! Se poi sono vere, perchè mi diletto io meno della verità che della stima che le rendono gli uomini?" Strana cosa davvero! ci diamo più pensiero della stima degli uomini che della stessa virtù, e si rimane più umiliati d'un granchio preso in pubblico che d'una colpa segreta. Quando uno si abbandona a questo difetto, non tarda a commetterne altri: la millanteria, che inclina a parlar di sè e dei propri trionfi; l'ostentazione, che cerca d'attirare l'attenzione pubblica col lusso e col fasto; l'ipocrisia, che simula le apparenze della virtù senza darsi pensiero d'acquistarla. 206.Gli effetti dell'orgoglio sono deplorevoli: è il gran nemico della perfezione: Nascondi 1) perchè ruba a Dio la sua gloria e ci priva quindi di molte grazie e di molti meriti, non volendo Dio esser complice della nostra superbia: "Deus superbis resistit" ( Gc 4,6 ). 2) è fonte di numerosi peccati, peccati di presunzione puniti con lagrimevoli cadute, come vizi odiosi; di scoraggiamento quando si vede d'essere caduti così in basso; di dissimulazione, perchè rincresce confessare i proprii disordini; di resistenza ai superiori, d'invidia e di gelosia verso il prossimo, ecc. 207. B) Il rimedio è: a) riferire tutto a Dio, riconoscendo che egli è l'autore di ogni bene e che, essendo il primo principio delle nostre azioni, ne deve pur essere l'ultimo fine. È ciò che suggerisce S. Paolo ( 1 Cor 4,7 ). "Quid habes quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? Che hai tu che non abbi ricevuto? e se l'hai ricevuto, perchè te ne glorii come se non l'avessi in dono?". Onde conclude che tutte le nostre azioni devono tendere alla gloria di Dio: "Sive manducatis, sive bibitis, sive aliud quid facitis, omnia in gloriam Dei facite". Nascondi E per dar loro maggior valore, procuriamo di farle in nome, nella virtù di Gesù Cristo: "Omne quodcumque facitis in verbo aut in opere, omnia in nomine Domini Jesu Cristi, gratias agentes Deo et Patri per ipsum ( Col 3,17 ). qualunque cosa da voi si faccia in parola o in opera, fate tutto nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per mezzo suo". 208. b) E poichè la natura costantemente ci porta a cercar noi stessi, per reagire contro questa tendenza, bisogna ricordarci che da noi non siamo che nulla e peccato. È vero che ci sono in noi delle buone qualità naturali e soprannaturali che bisogna altamente stimare e coltivare; ma, venendoci queste qualità da Dio, non ne dobbiamo forse glorificar lui? Quando un artista ha fatto un capolavoro, non è forse lui, e non la tela, che si deve lodare? Or da noi stessi non abbiamo che il nulla: "questo noi eravamo da tutta l'eternità; e l'essere di cui Dio ci ha rivestiti, non da noi viene ma da Dio; e benchè ci sia stato dato, non cessa d'essere pur sempre anche cosa sua, di cui vuol essere onorato". Da noi stessi siamo pure peccato, nel senso che per ragione della concupiscenza tendiamo al peccato, per modo, dice S. Agostino che, se noi non commettiamo certi peccati, lo dobbiamo alla grazia di Dio: "Gratiæ tuæ deputo et quæcumque non feci mala. Quid enim non facere potui, qui etiam gratuitum facinus amavi?" Pensiero che l'Olier spiega così: "Quel che posso dire è che non vi è specie immaginabile di peccati, non vi è imperfezione o disordine, non vi è errore nè confusione di cui la carne non sia piena; talmente che non vi è sorta di leggerezza, non vi è follia o sciocchezza che la carne non sia capace di commettere ad ogni istante". La nostra natura non è certo intieramente corrotta, come pretendeva Lutero; e col concorso naturale o soprannaturale di Dio, può fare qualche bene, e ne fa anche molto, come vediamo nei Santi; ma poichè Dio ne è causa prima e principale, a lui dobbiamo renderne grazie. 209. Concludiamo dunque con Bossuet: "Non presumere di te; perchè nella presunzione sta il principio di ogni peccato … Non desiderar la gloria degli uomini; perchè, ottenutala, avresti ricevuta la tua ricompensa e non dovresti poi aspettarti altro che veri supplizi. Non ti gloriare; perchè tutto ciò che ti attribuisci nelle tue opere buone, lo togli a Dio che ne è l'autore e ti metti al suo posto. Non scuotere il giogo della disciplina del Signore; non dire dentro di te, come un superbo orgoglioso: Non servirò; perchè, se non servi alla giustizia, sarai schiavo del peccato e figlio della morte. Non dire: Io sono senza macchia; e non credere che Dio abbia dimenticato i tuoi peccati perchè li hai dimenticati tu; perchè il Signore ti desterà dicendoti: Vedi le tue vie in quella segreta vallicella; io ti seguii dappertutto e contai tutti i tuoi passi. Non resistere ai savi consigli e non ti adirare quando sei ripreso, perchè è il colmo dell'orgoglio ribellarsi alla verità stessa quando ti avverte, e ricalcitrare contro lo sprone". Regolandoci in questo modo, saremo più forti per lottare contro il mondo, che è il secondo dei nostri nemici spirituali. II. Lotta contro il mondo. 210. Il mondo di cui parliamo non è il complesso delle persone che vivono nel mondo, fra cui si trovano anime elette ed increduli. È il complesso di coloro che si oppongono a Gesù Cristo e sono schiavi della triplice concupiscenza. Sono dunque: 1) gli increduli, ostili alla religione appunto perchè condanna il loro orgoglio, la loro sensualità, la loro sete smodata di ricchezza; 2) gl'indifferenti, che non si curano d'una religione che li obbligherebbe ad uscire dalla loro indolenza; 3) i peccatori impenitenti, che amano il loro peccato, perchè amano il piacere e non vogliono distaccarsene; 4) i mondani che credono ed anche praticano la religione, ma associandola all'amore del piacere, del lusso, delle lautezze, e che talvolta scandalizzano i fratelli, credenti o increduli, facendo lor dire che la religione ha ben poco influsso sulla vita morale. Nascondi È questo il mondo che Gesù maledisse per i suoi scandali: "Vae mundo a scandalis!" ( Mt 18,7 ) e che S. Giovanni dice immerso tutto nel male: "Mundus totus in maligno positus est" ( 1 Gv 5,19 ). 211. 1° I Pericoli del mondo. Il mondo che penetra anche nelle famiglie cristiane e perfino nelle comunità, con le visite fatte o ricevute, con le corrispondenze, con la lettura di libri o di giornali mondani, è un grande ostacolo alla salvezza e alla perfezione; risveglia e attizza in noi il fuoco della concupiscenza; ci seduce e ci atterrisce. 212. A) Ci seduce con le sue massime, con la pompa delle sue vanità, coi perversi suoi esempi. a) Con le sue massime, che sono in opposizione diretta con le massime del Vangelo. Nascondi Il mondo infatti vanta la felicità dei ricchi, dei forti o anche dei violenti, degli arricchiti, degli ambiziosi, di quelli che sanno godersi la vita; predica volentieri l'amor dei piaceri: "Coroniamoci di rose prima che avvizziscano, Coronemus nos rosis antequam marcescant" ( Sap 2,8 ). Non bisogna forse, si dice, godersi la gioventù? Non si deve godere un poco la vita? Quanti vivono così, e il Signore non vorrà poi mandar tutti all'inferno. Bisogna pur campare la vita. A essere scrupolosi negli affari, non si riuscirà mai ad arricchire. b) Con la pompa delle sue vanità e dei suoi piaceri; la maggior parte delle riunioni mondane non hanno altro scopo che di sollecitare la curiosità, la sensualità ed anche la voluttà. Per rendere il vizio attraente, si dissimula sotto forma di divertimenti che si dicono onesti ma che non lasciano di essere pericolosi, come le vesti scollacciate, le danze, alcune specialmente che sembra non abbiano altro scopo che favorire sguardi lascivi e sensuali abbracciamenti. E che dire della maggior parte delle rappresentazioni teatrali, degli spettacoli offerti al pubblico, dei libri licenziosi che vengono esposti dappertutto? c) I cattivi esempi vengono, ahimè! ad aumentare il pericolo; quando si vedono tanti giovani divertirsi, tanti sposi diventare infedeli ai loro doveri, tanto commercianti e uomini d'affari arrichirsi con mezzi poco scrupolosi, si è fortemente tentati di lasciarsi trascinare a simili disordini. Del resto il mondo è così indulgente verso le umane debolezze che pare che le incoraggi: il seduttore è una persona galante; il finanziere, il commerciante che si arricchisce con mezzi disonesti, è un uomo svelto; il libero pensatore è uno spregiudicato che segue i lumi della sua coscienza. Quanti si sentono incoraggiati al vizio da giudizi così benigni! 213. B) Quando non può sedurci, il mondo tenta di atterrirci. a) Talora è una vera persecuzione ordita contro i credenti: in certe amministrazioni, si nega l'avanzamento a quelli che compiono pubblicamente i doveri religiosi o a quelli che mandano i figli alle scuole cattoliche. b) Talora si cerca di distogliere dalle pratiche religiose i timidi col burlarsi piacevolmente dei devoti, dei semplicioni che prestano ancor fede a vieti dogmi, canzonando le madri di famiglia che continuano a vestire modestamente le figlie, con ironiche interrogazioni se è così che sperano di maritarle. E quante infatti, per rispetto umano e nonostante le proteste della coscienza, si fanno schiave di quelle mode tiranniche che non hanno più rispetto alcuno al pudore! c) In altre circostanze si usano minacce: se fate tanta mostra della vostra religione, non c'è più posto per voi nei nostri uffici; se siete così schifiltoso, è inutile che veniate nei nostri saloni; se siete scrupoloso, non posso prendervi al mio servizio; bisogna fare come fanno tutti e ingannare il pubblico per guadagnare di più. È molto facile lasciarsi così sedurre o atterrire, perchè il mondo trova un complice nel nostro cuore e nel naturale desiderio che tutti abbiamo dei buoni posti, degli onori e delle ricchezze. 214. 2° Il rimedio. Per resistere a questa pericolosa corrente, bisogna porsi animosamente in faccia dell'eternità e considerare il mondo alla luce della fede. Allora ci apparirà come il nemico di Gesù Cristo che bisogna combattere energicamente per salvarci l'anima, e come il teatro del nostro zelo ove dobbiamo portare le massime del Vangelo. 215. A) Essendo il mondo il nemico di Gesù Cristo, noi dobbiamo far tutto il rovescio delle massime e degli esempi del mondo, ripetendo il dilemma di S. Bernard: "O Cristo s'inganna o il mondo è in errore; ma è impossibile che la sapienza divina s'inganni: Aut iste ( Christus ) fallitur aut mundus errat: sed divinam falli impossibile est sapientiam". Essendovi opposizione aperta tra il mondo e Gesù Cristo, bisogna assolutamente far la scelta, perchè non si può servire nello stesso tempo due padroni. Ora Gesù è sapienza infallibile; chi dunque ha le parole di vita eterna è Lui, ed è il mondo che s'inganna. Nascondi La nostra scelta sarà quindi presto fatta; perchè, dice San Paolo, noi abbiamo ricevuto non lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che viene da Dio: "Non spiritum huius mundi accepimus, sed Spiritum qui ex Deo est" ( 1 Cor 2,12 ). Voler piacere al mondo, aggiunge, è voler spiacere a Gesù Cristo: "Si hominibus placerem, servus Christi non essem" ( Gal 1,10 ). E S. Giacomo afferma che "chi vuol essere amico del mondo si fa nemico di Dio: Quicumque ergo voluerit amicus esse sæculi huius, inimicus Dei constituitur" ( Gc 4,4 ). Dunque in pratica: a) Leggiamo e rileggiamo il Vangelo, ripensando dentro di noi che qui ci parla l'eterna verità, e pregando colui che l'ha ispirato di farcene ben intendere, gustare e praticare le massime; solo a questa condizione si è veramente cristiani ossia discepoli di Cristo. Quindi, leggendo o ascoltando massime contrarie a quelle del Vangelo, diciamo coraggiosamente; questo è falso perchè opposto alla infallibile verità. b) Evitiamo le occasioni pericolose che così spesso s'incontrano nel mondo. Nascondi Certamente coloro che non vivono in clausura, sono fino a un certo punto obbligati a mescolarsi col mondo, ma devono preservarsi dallo spirito del mondo, vivendo nel mondo come se non fossero del mondo; perchè Gesù chiese al Padre di non togliere i suoi discepoli dal mondo ma di preservarli dal male: "Non rogo ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo" ( Gv 17,15 ). E San Paolo vuole che usiamo del mondo come se non ne usassimo: "Qui utuntur hoc mundo tanquam non utantur" ( 1 Cor 7,31 ). c) Questo debbono fare specialmente gli ecclesiastici; debbono, come S. Paolo, poter dire che sono crocifissi al mondo e il mondo ad essi: "Mihi mundus cruxifixus est et ego mundo" ( Gal 6,14 ). Il mondo, sede della concupiscenza, non può avere attrattive per noi; non può ispirarci che ripugnanza, come noi siamo a nostra carattere e il nostro abito una condanna dei suoi vizi. Dobbiamo quindi evitare le relazioni puramente mondane, dove noi ci troveremmo fuori posto. Nascondi Abbiamo, è vero, visite di cortesia, d'affari e specialmente d'apostolato da fare e da ricevere; ma queste visite dovranno essere brevi, e non dobbiamo dimenticare ciò che è detto di Nostro Signore dopo la sua risurrezione, cioè che non faceva più ai suoi discepoli che rare apparizioni e soltanto per dare l'ultima mano alla loro formazione e parlar loro del regno di Dio: "Apparens eis et loquens de regno Dei" ( At 1,3 ). 216. B) Non andremo quindi nel mondo se non per praticarvi direttamente o indirettamente l'apostolato, vale a dire per portarvi le massime e gli esempi del Vangelo. a) Non dimenticheremo che siamo la luce del mondo: "Vos estis lux mundi" ( Mt 5,14 ) invece di proclamare beati i ricchi e i forti, faremo notare con tutta semplicità che ci sono altre sorgenti di felicità fuori della ricchezza e della fortuna; che la virtù trova già la sua ricompensa fin di questa terra; che le gioie pure gustate in seno alla famiglia sono le più dolci; che la soddisfazione di aver fatto il proprio dovere consola molti sventurati e che una buona coscienza vale anche meglio dell'ebbrezza del piacere. E potremo citare qualche fatto particolare per far meglio intendere queste osservazioni. Ma specialmente con l'esempio un prete edifica nella conversazione; quando tutto, nel suo contegno e nelle sue parole, rispecchia la semplicità, la bonarietà, una schietta allegria, la carità, in una parola la santità, produce su quanti lo vedono e lo sentono una impressione profonda; non si finisce mai di ammirare quelli che vivono secondo le proprie convinzioni, e si stima una religione che sa ispirare così sode virtù. Nascondi Mettiamo dunque in pratica quanto dice Nostro Signore: "Splenda la vostra luce dinanzi agli uomini, affinchè vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che sta nei cieli: Sic luceat lux vestra coram hominibus ut videant opera vestra bona et glorificent Patrem vestrum qui in cælis est" ( Mt 5,16 ). Ma non sono solo i preti che praticano questo genere d'apostolato, i laici convinti vi riescono anche meglio in quanto che si è meno diffidenti contro l'efficacia del loro esempio. 217. b) Spetta a questi uomini scelti e ai sacerdoti di ispirare ai cristiani più timidi il coraggio di lottare contro la tirannia del rispetto umano, della moda o della persecuzione legale. Uno dei mezzi migliori è la formazione di leghe o società composte di cristiani autorevoli e coraggiosi che non temono di parlare e d'operare secondo le proprie convinzioni. A questo modo i Santi riformarono i costumi dei loro tempi.217-1 E a questo modo si fondarono nelle nostre Scuole superiori e persino in Parlamento dei gruppi compatti che sanno far rispettare le loro pratiche religiose e trascinare gli esitanti. Il giorno in cui questi gruppi si saranno moltiplicati non solo nelle città ma anche nelle campagne, il rispetto umano sarà presto ucciso e la vera pietà, se non sarà praticata da tutti, sarà per lo meno rispettata. 218. In pratica dunque nessun compromesso col mondo nel senso che l'abbiamo definito, nessuna concessione per piacergli o attirarsene la stima. A ragione dice S. Francesco di Sales: "Comunque da noi si operi, il mondo ci farà sempre guerra … Lasciamo questo cieco, o Filotea; strida pure come il gufo per molestare gli uccelli diurni. Stiamo saldi nei nostri disegni, invariabili nei nostri propositi; la perseveranza mostrerà se davvero e di buona voglia ci siamo consacrati a Dio e dati alla vita devota". 2° La concupiscenza degli occhi ( curiosità e avarizia ) III. Lotta contro il demonio. 219. 1° Esistenza e perchè della tentazione diabolica. Nascondi Abbiamo visto, n. 67, come il demonio, geloso della felicità dei nostri progenitori, li indusse a peccare e non riuscì che troppo bene nella sua impresa; quindi il libro della Sapienza dichiara che "la morte entrò nel mondo per l'invidia del demonio: Invidia diaboli mors introivit in orbem" ( Sap 2,24 ). D'allora in poi non cessò mai d'infierire contro i discendenti d'Adamo e di tendere loro insidie; e benchè, dopo la venuta di Nostro Signore sulla terra e il suo trionfo sopra Satana, l'impero ne sia di molto diminuito, pure non è men vero che noi dobbiamo lottare non solo contro la carne e il sangue, ma anche contro le potenze delle tenebre e gli spiriti malvagi: Quoniam non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus … mundi rectores tenebrarum harum, contra spiritualia nequitiæ". Nascondi S. Pietro paragona il demonio ad un leone ruggente che fa la ronda attorno a noi e cerca di divorarci ( 1 Pt 5,8 ) "Adversarius vester diabolus tanquam leo rugiens, circuit quærens quem devoret". 220. La Provvidenza permette questi assalti in virtù del principio generale che Dio governa le anima non solo direttamente ma anche per mezzo delle cause seconde, lasciando alle creature una certa libertà d'azione. D'altra parte ci avvisa di stare in guardia, e per proteggerci c'invia in aiuto gli angeli buoni e in particolare l'angelo custode ( n. 186 ss ), senza dire dell'aiuto che ci presta egli stesso o per mezzo del suo Figlio. Approfittandoci di quest'aiuto, noi trionfiamo del demonio, ci rassodiamo nella virtù e acquistiamo meriti per il cielo. Quest'ammirabile condotta della Provvidenza ci mostra anche meglio quale somma importanza dobbiamo dare alla nostra salvezza e alla nostra santificazione, dacchè vi prendono parte il cielo e l'inferno, e attorno all'anima nostra e talora dentro l'anima stessa avvengono tra le potenze celesti e le infernali fieri combattimenti la cui posta è la vita eterna. Per uscirne vittoriosi, vediamo come procede il demonio. 221. 2° La tattica del demonio. A) Il demonio non può agire direttamente sulle nostre facoltà superiori, l'intelligenza e la volontà, avendo Dio riservato a sè questo santuario; Dio solo può penetrare nel centro dell'anima nostra e muovere i segreti congegni della nostra volontà senza farci violenza: Deus solus animæ illabitur. Ma può operare direttamente sul corpo, sui sensi esterni ed interni, in particolare sulla fantasia e sulla memoria, come pure sulle passioni che risiedono nell'appetito sensitivo; in questo modo viene ad agire indirettamente sulla volontà, che dai vari moti della sensibilità è sollecitata a dare il suo consenso. Tuttavia, come osserva S. Tommaso, "essa resta sempre libera di acconsentire o di resistere a questi moti delle passioni: Voluntas semper remanet libera ad consentiendum vel resistendum passioni". Nascondi B) D'altra parte, benchè il potere del demonio sia molto esteso sulle facoltà sensibili e sul corpo, questo potere è limitato da Dio, che non gli permette di tentarci sopra le nostre forze: "Fidelis autem Deus est qui non patietur vos tentari supra id quod potestis; sed faciet etiam cum tentatione proventum" ( 1 Cor 10,13 ). Chi dunque s'appoggia su Dio con umiltà e confidenza è sicuro di riuscire vittorioso. 222. C) Non bisogna poi credere, dice S. Tommaso, che tutte le tentazioni che abbiamo siano opera del demonio; la nostra concupiscenza, mossa da abitudini passate e da imprudenze presenti, basta a spiegarne un gran numero: "Unusquisque vero tentatur a concupiscentiâ suâ abstractus et illectus" ( Gc 1,14 ) Come pure sarebbe temerario l'affermare che non abbia influenza su nessuna contrariamente al chiaro insegnamento della Scrittura e della Tradizione; la sua gelosia contro gli uomini e il desiderio che ha di farseli schiavi, ne spiegano abbastanza il malefico intervento.222-2 Or come riconoscere la tentazione diabolica? È cosa difficile, bastando la nostra concupiscenza a violentemente tentarci. Tuttavia si può dire che quando la tentazione è subitanea, violenta e di una durata eccessiva, il demonio vi ha certamente una larga parte. Si può argomentarlo specialmente quando la tentazione turba profondamente e a lungo l'anima, quando suggerisce il gusto delle cose chiassose, delle mortificazioni straordinarie ed appariscenti e principalmente quando si è fortemente inclinati a non dir nulla di tutto questo al proprio direttore e a diffidare dei propri superiori 223. 3° Rimedi contro la tentazione diabolica. Questi rimedi ci sono indicati dai Santi e particolarmente da S. Teresa. A) Il primo è una preghiera umile e fiduciosa, per trarre dalla nostra parte Dio e gli angeli suoi. Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi? Chi infatti può essere paragonato con Dio? "Quis ut Deus?" Questa preghiera dev'essere umile; perchè nulla v'è che metta più rapidamente in fuga l'Angelo ribelle, il quale, ribellatosi per orgoglio, non seppe mai praticare questa virtù: l'umiliarsi dinanzi a Dio, il riconoscersi impotenti a trionfare senza il suo aiuto, sconcerta i disegni dell'Angelo superbo. Dev'essere pure fiduciosa; perchè, premendo alla gloria di Dio il nostro trionfo, possiamo avere piena fiducia nell'efficacia della sua grazia. È bene pure invocare S. Michele, che, avendo inflitto al demonio una splendida sconfitta, sarà lieto di coronare la sua vittoria in noi e per mezzo di noi. E volentieri lo asseconderà il nostro Angelo custode se confidiamo in lui. Ma non dimenticheremo di pregare specialmente la Vergine immacolata, che col piede verginale non cessa di schiacciare il capo al serpente ed è pel demonio più terribile di un esercito schierato in battaglia. 224. B) Il secondo mezzo è l'uso confidente dei sacramenti e dei sacramentali. La confessione, essendo un atto d'umiltà, mette in fuga il demonio; l'assoluzione che le tien dietro ci applica i meriti di Gesù Cristo e ci rende invulnerabili ai suoi dardi; la santa comunione, mettendo nel nostro cuore colui che ha vinto Satana, ispira al demonio un vero terrore. Gli stessi sacramenti, il segno della croce o le preghiere liturgiche fatte con spirito di fede in unione con la Chiesa, sono pure di prezioso aiuto. S. Teresa raccomanda in particolare l'acqua benedetta, forse perchè è molto umiliante pel demonio vedersi sbaragliato con un mezzo così semplice. 225. C) Ultimo mezzo è un sommo disprezzo del demonio. Ce lo dice pure S. Teresa: "Frequentissimamente mi tormentano questi maledetti; ma mi fanno proprio poca paura; perchè essi, e io lo vedo benissimo, non possono muovere un passo senza il permesso di Dio … Vorrei che si sapesse bene, tutte le volte che noi li disprezziamo, essi perdono maggior impero … Sono forti solo contro le anime codarde, che cedono loro le armi; contro di costoro fanno mostra del loro potere". Vedersi disprezzati da esseri più deboli è infatti una dura umiliazione per questi spiriti superbi. Ora noi, come abbiamo detto, appoggiati umilmente su Dio, abbiamo il diritto e il dovere di disprezzarli: "Si Deus pro nobis, quis contra nos?" Possono abbaiare ma non possono mordere, se, per imprudenza o per orgoglio, noi non ci mettiamo in loro potere: "latrare potest, mordere non potest nisi volentem". A questo modo pertanto la lotta che dobbiamo sostenere contro il demonio, come pure contro il mondo e la concupiscenza, ci rassoda nella vita soprannaturale, anzi vi ci fa anche progredire. Conclusione 226. 1° La vita cristiana è, come abbiamo visto, una lotta, lotta penosa che, con peripezie diverse, non termina che alla morte; lotta di importanza capitale, perchè la posta ne è la vita eterna. Come insegna S. Paolo, ci sono in noi due uomini: a) l'uomo rigenerato, l'uomo nuovo, con tendenze nobili, soprannaturali, divine, prodotte in noi dallo Spirito Santo per i meriti di Gesù e per l'intercessione della SS. Vergine e dei Santi; tendenze a cui ci studiamo di corrispondere mettendo in opera, sotto l'influsso della grazia attuale, l'organismo soprannaturale di cui Dio ci ha dotati. b) Ma al suo fianco c'è l'uomo naturale, l'uomo carnale, il vecchio uomo, con le tendenze malvage che il battesimo non ha estirpato dall'anima nostra: è la triplice concupiscenza che abbiamo dal primo nostro nascere, e che il mondo e il demonio stuzzicano e rinforzano, tendenza abituale che ci porta all'amore disordinato dei piaceri sensuali, della nostra eccellenza e dei beni della terra. Questi due uomini vengono fatalmente a conflitto: la carne o l'uomo vecchio desidera e cerca il piacere senza curarsi della sua moralità; lo spirito ben gli rammenta che vi sono piaceri proibiti e pericolosi che bisogna sacrificare al dovere, vale a dire alla volontà di Dio; ma, insistendo la carne nei suoi desideri, la volontà, aiutata dalla grazia, è obbligata a mortificarla e occorrendo crocifiggerla. Il cristiano è dunque un soldato, un atleta, che lotta per una corona immortale e lotta fino alla morte. 227. 2° Questa lotta è perpetua; perchè, nonostante i nostri sforzi non possiamo liberarci dall'uomo vecchio; non possiamo che indebolirlo, incatenarlo, e fortificare nello stesso tempo l'uomo nuovo contro i suoi assalti. Da principio la lotta è quindi più viva, più accanita, e i contrattacchi del nemico più numerosi e più violenti. Ma a mano a mano che, con sforzi energici e costanti, riportiamo vittorie, il nostro nemico s'indebolisce, le passioni si calmano, e, salvo certi momenti di prova voluti da Dio per elevarci a più alta perfezione, godiamo d'una calma relativa, presagio della vittoria definitiva. Alla grazia di Dio ne dobbiamo il buon esito. Non dimentichiamo però che le grazie concesseci sono grazie di combattimento non di riposo; che siamo lottatori, atleti, asceti, e che dobbiamo, come S. Paolo, lottare sino alla fine per meritar la corona: "Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ormai mi è serbata la corona di giustizia che il Signore mi darà: Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi. Nascondi In reliquio reposita est mihi corona iustitiæ quam reddet mihi Dominus" ( 2 Tm 4,7-8 ). È questo il mezzo di perfezionare in noi la vita cristiana e d'acquistare copiosi meriti. § II. L'aumento della vita spirituale per mezzo del merito. 228. Noi progrediamo per mezzo della lotta contro i nostri nemici ma più ancora con gli atti meritorii che facciamo ogni giorno. Ogni opera buona, fatta liberamente da un'anima in stato di grazia per un fine soprannaturale, possiede un triplice valore, meritorio, sodisfattorio e impetratorio, che contribuisce al nostro progresso spirituale. a) Un valore meritorio, col quale aumentiamo il nostro capitale di grazia abituale e i nostri diritti alla gloria celeste: ne riparleremo subito. b) Un valore soddisfattorio, che inchiude a sua volta un triplice elemento: 1) la propiziazione, che per ragion del cuore contrito ed umiliato ci rende propizio Dio e l'inclina a perdonarci le colpe; 2) l'espiazione che, con l'infusione della grazia, cancella la colpa; 3) la soddisfazione che, per il carattere penoso annesso alle nostre buone opere, annulla in tutto o in parte la pena dovuta al peccato. Questi felici risultati non sono prodotti soltanto dalle opere propriamente dette ma anche dall'accettazione volontaria dei mali e dei patimenti di questa vita, come insegna il Concilio di Trento; il quale aggiunge che vi è in questo un gran segno del divino amore. Che cosa infatti di più consolante che poterci giovare di tutte le avversità per purificarci l'anima e unirla più perfettamente a Dio? c) Finalmente queste opere hanno pure un valore impetratorio, in quanto contengono una domanda di nuove grazie rivolta all'infinita misericordia di Dio. Come ben fa notare S. Tommaso, si prega non solo quando in modo esplicito si presenta una supplica a Dio, ma anche quando con uno slancio del cuore o con le opere si tende a Lui, così che prega sempre colui che l'intiera sua vita tiene sempre ordinata a Dio: "tamdiu homo orat quamdiu agit corde, ore vel opere ut in Deum tendat, et sic semper orat qui totam suam vitam in Deum ordinat". Infatti, questo slancio verso Dio non è forse una preghiera, un'elevazione dell'anima verso Dio e un mezzo efficacissimo per ottenere da Lui quanto desideriamo per noi e per gli altri? Per lo scopo che ci proponiamo, ci basterà esporre la dottrina sul merito dicendone: 1° la natura; 2° le condizioni che ne aumentano il valore I. La natura del merito. Due punti sono da spiegare: 1° che cos'è il merito; 2° in che modo le nostre azioni sono meritorie. 1° Che cos'è il merito 229. A) Il merito in generale è il diritto a una ricompensa. Il merito soprannaturale, di cui qui trattiamo, sarà dunque il diritto a una ricompensa soprannaturale, vale a dire a una partecipazione alla vita di Dio, alla grazia e alla gloria. Non essendo Dio tenuto a farci partecipare alla sua vita, occorrerà una promessa da parte sua per conferirci un vero diritto a questa ricompensa soprannaturale. Si può quindi definire il merito soprannaturale: un diritto a una ricompensa soprannaturale, che risulta da un'opera soprannaturale buona, fatta liberamente per Dio, e da una promessa divina che garantisce questa ricompensa. 230. B) Il merito è di due specie: a) il merito propriamente detto ( che si chiama de condigno ), al quale la retribuzione è dovuta per giustizia, perchè vi è una specie d'uguaglianza o di proporzione reale tra l'opera e la retribuzione; b) il merito di convenienza ( de congruo ), che non si fonda sulla stretta giustizia ma su un'alta convenienza, essendo l'opera solo in piccola misura proporzionata alla ricompensa. Per dare un'idea approssimativa di questa differenza, si può dire che il soldato che si diporta valorosamente sul campo di battaglia, ha uno stretto diritto al soldo di guerra, ma solo un diritto di convenienza ad essere citato nel bollettino di guerra o ad essere decorato. Nascondi C) Il Concilio di Trento insegna che le opere dell'uomo giustificato meritano veramente un aumento di grazia, la vita eterna, e, se muore in questo stato, il conseguimento della gloria ( Gc 1,12 ). 231. D) Richiamiamo brevemente le condizioni generali del merito. a) L'opera, per essere meritoria, dev'essere libera; infatti se si opera per forza o per necessità, non si è moralmente responsabili dei propri atti. b) Deve essere soprannaturalmente buona, per aver proporzione colla ricompensa; c) e, quando si tratta di merito propriamente detto, dev'essere fatto in stato di grazia, perchè è la grazia che fa abitare e vivere Cristo nell'anima nostra e ci rende partecipi dei suoi meriti; d) fatta nel corso della vita mortale o viatoria, avendo Dio sapientemente determinato che, dopo un periodo di prova in cui possiamo meritare o demeritare, arrivassimo al termine, dove si resta fissati per sempre nello stato in cui si muore. Nascondi A queste condizioni da parte dell'uomo si aggiunge, da parte di Dio, la promessa che ci dà un vero diritto alla vita eterna; secondo S. Giacomo infatti "il giusto riceve la corona di vita che Dio ha promesso a coloro che l'amano: Accipiet coronam vitæ quam repromisit Deus diligentibus se" ( Gc 1,22 ). 2° Come gli atti meritori aumentano la grazia e la gloria 232. Pare difficile a prima vista capire come atti semplicissimi, comunissimi, ed essenzialmente transitori, possano meritare la vita eterna. La difficoltà sarebbe insolubile se questi atti provenissero solo da noi; ma in verità si è in due a farli, sono il risultato della cooperazione di Dio e della volontà umana, il che spiega la loro efficacia: Dio, coronano i nostri meriti, corona pure i suoi doni, avendo in questi meriti una parte preponderante. Spieghiamo dunque la parte di Dio e quella dell'uomo e così intenderemo meglio l'efficacia degli atti meritori. Nascondi A) Dio è la causa principale e primaria dei nostri meriti: "Non sono io che opero, dice S. Paolo ( 1 Cor 15,10 ) ma la grazia di Dio con me: Non ego, sed gratia Dei mecum. È Dio infatti che crea le nostre facoltà, che le eleva allo stato soprannaturale perfezionandole con le virtù e coi doni dello Spirito Santo; è Dio che con la grazia attuale, preveniente e adiuvante, ci sollecita a fare il bene e ci aiuta a farlo: egli è dunque la causa primaria che mette in moto la nostra volontà e le dà forze nuove per abilitarla a operare soprannaturalmente. 233. B) Ma la nostra libera volontà, rispondendo alle sollecitazioni di Dio, agisce sotto l'influsso della grazia e delle virtù, e diviene quindi causa secondaria ma reale ed efficiente dei nostri atti meritorii, perchè siamo i collaboratori di Dio. Senza questo libero consenso non c'è merito; in cielo non meritiamo più, perchè là non possiamo non amare Dio che chiaramente vediamo essere bontà infinita e fonte della nostra beatitudine. D'altra parte anche la nostra cooperazione è soprannaturale: per mezzo della grazia abituale noi siamo divinizzati nella nostra sostanza, per mezzo delle virtù infuse e dei doni lo siamo nelle nostre facoltà, e per mezzo della grazia attuale anche nei nostri atti. Vi è quindi vera proporzione tra le nostre azioni, divenute deiforme, e la grazia che è essa pure una vita deiforme o la gloria che non è se non lo sviluppo di questa stessa vita. È vero che questi atti sono transitorii e la gloria è eterna; ma poichè nella vita naturale atti che passano producono abiti e stati psicologici che restano, è giusto che nell'ordine soprannaturale avvenga lo stesso, che i nostri atti di virtù, producendo nell'anima una disposizione abituale ad amar Dio, siano ricompensati con una durevole ricompensa; ed essendo l'anima nostra immortale, conviene che la ricompensa non abbia fine. 234. C) Si potrebbe certamente obiettare che, nonostante questa proporzione, Dio non è tenuto a darci una ricompensa così nobile e duratura come la grazia e la gloria. Il che concediamo senza difficoltà e riconosciamo che Dio, nella sua infinita bontà, ci dà più di quanto meritiamo; non sarebbe quindi tenuto a farci godere dell'eterna visione beatifica se non ce l'avesse promesso. Nascondi Ma egli l'ha promesso per il fatto stesso d'averci destinato a un fine soprannaturale; la qual promessa ci è più volte ricordata nella S. Scrittura, dove la vita eterna ci è presentata come ricompensa promessa ai giusti e come corona di giustizia: "coronam quam repromisit Deus diligentibus se … corona justitiæ quam reddet mihi justus judex" ( Gc 1,12; 2 Tm 4,8 ). Quindi il Concilio di Trento dichiara che la vita eterna è nello stesso tempo una grazia misericordiosamente promessa da Gesù Cristo e una ricompensa che, in virtù della promessa di Dio, è fedelmente concessa alle buone opere ed ai meriti.234-1 235. Per ragione appunto di questa promessa si può conchiudere che il merito propriamente detto è qualche cosa di personale: per noi e non per gli altri meritiamo la grazia e la vita eterna, perchè la divina promessa non va oltre. La cosa va ben diversamente per Gesù Cristo, il quale, essendo stato costituito capo morale dell'umanità, in virtù di quest'ufficio meritò per ognuno dei suoi membri, e meritò in senso stretto. Possiamo certamente meritare anche per gli altri, ma solo con merito ci convenienza; il che è già cosa molto consolante, perchè cotesto merito viene ad aggiungersi a ciò che meritiamo per noi stessi e ci fa così capaci, lavorando alla nostra santificazione, di cooperare pure a quella dei nostri fratelli. Vediamo ora quali sono le condizioni che aumentano il valore dei nostri atti meritorii. II. Condizioni che aumentano il nostro merito. 236. Queste condizioni si traggono dalle varie cause che concorrono a produrre gli atti meritori e quindi da Dio e da noi. Quando a Dio, possiamo fare assegnamento sulla sua liberalità, perchè è sempre magnifico nei suoi doni. Onde la nostra attenzione deve principalmente rivolgersi alle nostre disposizioni: vediamo ciò che può renderle migliori sia da parte della persona che merita, come da parte dell'atto meritorio. 1. Condizioni tratte dalla persona 237. Quattro sono le condizioni principali che contribuiscono all'aumento dei meriti: il grado di grazia abituale o di carità; l'unione con Nostro Signore; la purità d'intenzione; il fervore. a) Il grado di grazia santificante. Per meritare in senso proprio, bisogna essere in stato di grazia: quindi quanta più grazia abituale possediamo, tanto più, a parità di condizioni, siamo atti a meritare. È vero che alcuni teologi lo negarono sotto pretesto che questa quantità di grazia non influisce sempre sui nostri atti per renderli migliori, e che anche certe anime sante operano talora con negligenza e imperfezione. Ma la dottrina comune è quella che sosteniamo. 1) Infatti il valore d'un atto, anche presso gli uomini, dipende in gran parte dalla dignità della persona che opera e dal credito che gode presso colui che deve ricompensarlo. Ora ciò che fa la dignità d'un cristiano e gli dà credito sul cuore di Dio è il grado di grazia o di vita divina a cui è elevato; è questa la ragione per cui i Santi del cielo o della terra hanno un potere d'intercessione così grande. Se quindi possediamo un grado di grazia più alto, ne viene che agli occhi di Dio valiamo più di quelli che ne hanno meno, che maggiormente gli piacciamo, e che per questo capo le nostre azioni sono più nobili, più accette a Dio e quindi più meritorie. 2) Ma poi ordinariamente e normalmente questo grado di grazia avrà un felice influsso sulla perfezione dei nostri atti. Vivendo di vita soprannaturale più abbondante, amando Dio con amore più perfetto, siamo portati a far meglio le nostre azioni, a mettervi più carità, ad essere più generosi nei nostri sacrifizi; le quali disposizioni, come tutti ammettono, aumentano certamete i nostri meriti. Nè si dica che talora avviene il contrario; si ha in tal caso l'eccezione non la regola generale, e noi ne abbiamo tenuto conto aggiungendo: a parità di condizioni. Quanto consolante è questa dottrina! Moltiplicando gli atti meritori, aumentiamo ogni giorno il nostro capitale di grazia; questo capitale a sua volta ci aiuta a mettere maggior amore nelle nostre opere, onde acquistano maggior valore per accrescere la nostra vita soprannaturale: Qui justus est, justificetur adhuc. 238. b) Il grado d'unione con Nostro Signore. È cosa evidente: la fonte del nostro merito è Gesù Cristo, autore della nostra santificazione, causa meritoria principale di tutti i beni soprannaturali, capo d'un corpo mistico di cui noi siamo le membra. Quanto più vicini siamo alla sorgente, tanto più riceviamo della sua pienezza; quanto più ci accostiamo all'autore di ogni santità, tanto maggior grazia riceviamo; quanto più siamo uniti al capo, tanto più riceviamo da lui moto e vita. E non è ciò che dice Nostro Signore stesso in quel bel paragone della vita? Nascondi "Io sono la vite, voi i tralci … chi rimane in me ed io in lui, questi porta gran frutto: Ego sum vitis vera, vos palmites … qui manet in me, et ego in eo, hic fert fructum multum" ( Gv 15,1-6 ). Uniti a Gesù come i tralci al ceppo, noi riceviamo tanto maggior linfa divina quanto più abitualmente, più attualmente, più strettamente siamo uniti a lceppo divino. Ecco perchè le anime fervorose o che tali vogliono divenire, cercarono sempre un'unione ognor più intima con Nostro Signore; ecco perchè la Chiesa stessa ci chiede di fare le nostre azioni per Lui, con Lui, in Lui: per Lui, Per Ipsum, perchè "nessuno va al Padre senza passar per Lui, nemo venit ad Patrem nisi per me" ( Gv 14,6 ) con Lui, cum Ipso, operando con Lui, perchè si degna di essere il nostro collaboratore; in Lui, in Ipso, vale a dire nella sua virtù, nella sua forza, e soprattutto nelle sue intenzioni, non avendone altre che le sue. Nascondi Gesù allora vive in noi, ispira i nostri pensieri, i nostri desideri, le nostre azioni, tanto da poter dire con S. Paolo: "Io vivo, non più io, ma vive in me Gesù: Vivo autem, jam non ego, vivit vero in me Christus ( Gal 2,20 ) È chiaro che opere fatte sotto l'influsso e l'azione vivificante di Cristo, con l'onnipotente sua collaborazione, hanno un valore incomparabilmente più grande che se fossero fatte da noi soli. Quindi in pratica bisogna unirsi spesso, massime al principio delle nostre azioni, a N. S. Gesù Cristo e alle sue così perfette intenzioni, con la piena coscienza della nostra incapacità a far nulla di bene da noi stessi e con l'incrollabile fiducia ch'Egli può rimediare alla nostra debolezza. 239. c) La purità d'intenzione o la perfezione del motivo che ci fa operare. Molti teologi dicono che perchè le nostre azioni siano meritorie basta che siano ispirate da un motivo soprannaturale di timore, di speranza o d'amore. S. Tommaso vuole certamente che siano fatte sotto l'influsso almeno virtuale della carità, ossia in virtù d'un atto d'amor di Dio posto precedentemente e il cui influsso persevera. Ma aggiunge che questa condizione si avvera in tutti coloro che sono in stato di grazia e compiono un atto lecito: "Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius" Ogni atto buono infatti si riconduce ad una virtù; ora ogni virtù converge alla carità, essendo essa la regina che comanda a tutte le virtù, come la volontà è la regina di tutte le facoltà. La carità, sempre attiva, ordina a Dio tutti i nostri atto buoni e vivifica tutte le virtù dando loro la forma. Tuttavia, se vogliamo che i nostri atti diventino meritori quanto più è possibile, occorre una purità d'intenzione molto più perfetta e attuale. L'intenzione è la cosa principale nei nostri atti, è l'occhio che li illumina e li dirige al debito fine, è l'anima che li ispira e dà loro valore agli occhi di Dio: "Si oculus tuus fuerit simplex, totum corpus lucidum erit". Ora tre elementi danno alle nostre intenzioni un valore speciale. 240. 1) Essendo la carità la regina e la forma delle virtù, ogni atto ispirato dall'amor di Dio e del prossimo avrà assai maggior merito di quelli ispirati dal timore o dalla speranza. Conviene quindi che tutte le nostre azioni siano fatte per amore: così diventano, anche le più comuni ( come il pasto e la ricreazione ), atti di carità, e partecipano al valore di questa virtù, senza perdere il proprio; mangiare per rifarsi le forze è motivo onesto e in un cristiano anche meritorio; ma rifarsi le forze per meglio lavorare per Dio e per le anime, è motivo di carità assai superiore che nobilita quest'atto e gli conferisce un valore meritorio molto più grande. 241. 2) Poichè gli atti di virtù informati dalla carità non perdono il proprio valore, ne viene che un atto fatto con più intenzioni insieme sarà più meritorio. Così un atto d'obbedienza ai superiori fatto per doppio motivo, per rispetto alla loro autorità e nello stesso tempo per amor di Dio considerato nella loro persona, avrà il doppio merito dell'obbedienza e della carità. Uno stesso atto può quindi avere un triplice, un quadruplice valore: detestando i miei peccati perchè hanno offeso Dio, io posso avere l'intenzione di praticare nello stesso tempo la penitenza, l'umiltà e l'amor di Dio; onde quest'atto è triplicemente meritorio. È quindi cosa utile proporsi più intenzioni soprannaturali; ma si eviti di dar negli eccessi col cercare troppo affannosamente intenzioni multiple, il che turba l'anima. Abbracciare quelle che spontaneamente ci si presentano e subordinarle alla divina carità, è questo il mezzo di aumentare i propri meriti senza perdere la pace dell'anima. 242. La volontà dell'uomo essendo volubile, è necessario esprimere e rinnovar spesso le intenzioni soprannaturali; altrimenti potrebbe accadere che un atto cominciato per Dio continuasse sotto l'influsso della curiostà, della sensualità i dell'amor proprio, e perdesse così una parte del suo valore; dico una parte, perchè queste intenzioni sussidiarie non distruggendo intieramente la principale, l'atto non cessa d'essere soprannaturale e meritorio nel suo complesso. Quando una nave, salpando da Genova, fa rotta per New York, non basta dirigere la prora una volta per sempre verso questa città; ma poichè la marea, i venti e le correnti tendono a farla deviare, bisogna continuamente ricondurla, per mezzo del timone, verso la meta. Così è della nostra volontà; non basta ordinarla una volta, e neppure ogni giorno, a Dio; le umane passioni e le influenze esterne la faranno deviar presto dalla diritta via; bisogna spesso con atto esplicito ricondurla verso Dio e verso la carità. Così le nostre intenzioni restano costantemente soprannaturali, anzi perfette e assai meritorie, specialmente se vi aggiungiamo il fervore nell'operare. 243.d) L'intensità o il fervore con cui si opera. Si può infatti operare, anche facendo il bene, con negligenza, con poco sforzo, o invece con slancio, con tutta l'energia di cui si è capaci, utilizzando tutta la grazia attuale messa a nostra disposizione. È chiaro che il risultato in questi due casi sarà ben diverso. Se si opera con negligenza, non si acquistano che pochi meriti e talvolta anche uno si rende colpevole di qualche colpa veniale, la quale del resto non distrugge tutto il merito; se invece uno prega, lavora, si sacrifica con tutta l'anima, ognuna delle fatte azioni merita una quantità considerevole di grazia abituale. Nascondi Senza entrare qui in ipotesi poco sicure, si può dire con certezza che, rendendo Dio i cento per uno di ciò che si fa per lui, un'anima fervorosa acquista ogni giorno un numero considerevolissimo di gradi di grazia, e diviene così in poco tempo molto perfetta, secondo l'osservazione della Sapienza: "Perfezionatosi in breve, compì una lunga carriera; Consummatus in brevi, explevit tempora multa" ( Sap 4,13 ). Qual prezioso incoraggiamento al fervore, e come tornaconto rinnovar spesso gli sforzi con energia e perseveranza! 2. Condizioni tratte dall'oggetto o dall'atto stesso 244. Non le sole disposizioni della persona aumentano il merito, ma tutte le circostanze che contribuiscono a rendere l'azione più perfetta. Le principali sono quattro: a) L'eccellenza dell'oggetto o dell'atto che si compie. Vi è gerarchia nelle virtù: le virtù teologali sono più perfette delle virtù morali, quindi gli atti di fede, di speranza e massime quelli di carità sono più meritori degli atti di prudenza, di giustizia, di temperanza, ecc. Ma, come abbiamo detto, questi ultimi possono, per ragione dell'intenzione, diventare atti d'amore e parteciparne quindi lo speciale valore. Similmente gli atti di religione, che tendono direttamente alla gloria di Dio, sono più perfetti di quelli che hanno per fine diretto la nostra santificazione. b) Per certe azioni, la quantità può influire sul merito; così, a parità di condizioni, un dono generoso di mille lire sarà più meritorio di uno di dieci centesimi. Ma ove si tratti di quantità relativa, l'obolo della vedova che si priva d'una parte del necessario, moralmente vale di più della ricca offerta di colui che si spoglia d'una parte del superfluo. c) Anche la durata rende l'azione più meritoria: pregare, soffrire per un'ora vale più che farlo per cinque minuti, perchè questo prolungamento esiga maggiore sforzo e maggior amore. 245. d) la difficoltà dell'atto, non per sè stessa ma in quanto richiede maggior amor di Dio, sforzo più energico e più sostenuto, quando non provenga da imperfezione attuale della volontà, accresce anch'essa il merito. Così resistere a una tentazione violenta è più meritorio che resistere a una tentazione leggera; praticare la dolcezza quando si ha un temperamento portato alla collera e quando si è frequentemente provocati da chi ci sta attorno, è più difficile e più meritorio che farlo quando si ha un naturale dolce e timido e si è circondati da persone benevoli. Non se ne deve però concludere che la facilità, acquistata con ripetuti atti di virtù, diminuisca necessariamente il merito; questa facilità, quando uno se ne giovi per continuare e anche aumentare lo sforzo soprannaturale, favorisce l'intensità e il fervore dell'atto, e sotto quest'aspetto aumenta il merito, come abbiamo già spiegato. Come un buon operaio, perfezionandosi nel suo mestiere, evita ogni sciupìo di tempo, di materia e di forza e ottiene maggior frutto con minor fatica; così un cristiano che sa meglio servirsi degli strumenti di santificazione, evita le perdite di tempo, molti sforzi inutili, e con minor fatica guadagna maggiori meriti. I Santi, che con la pratica delle virtù riescono a fare più facilmente degli altri atti di umiltà, d'obbedienza, di religione, non ne hanno minor merito per il fatto che praticano più facilmente e più frequentemente l'amor di Dio; e d'altra parte essi continuano a fare sforzi e sacrifizi nelle circostanze in cui sono necessari. In conclusione, la difficoltà accresce il merito, non in quanto è ostacolo da vincere ma in quanto eccita maggiore slancio e maggior amore. Aggiungiamo solamente che queste condizioni oggettive non influiscono realmente sul merito se non in quanto sono liberamente accettate e volute e reagiscono quindi sulla perfezione delle interne nostre disposizioni. Conclusione 246. La conclusione che spontaneamente ne viene è la necessità di santificare tutte e ciascuna delle nostre azioni, anche le più comuni. Come infatti abbiamo detto, possono essere tutte meritorie, se le facciamo con mire soprannaturali, in unione con l'Operaio di Nazareth, il quale, lavorando nella sua bottega, meritava continuamente per noi. E se è così, qual progresso non possiamo fare in un sol giorno! Dal primo svegliarsi del mattino fino al riposo della sera, centinaia di atti meritori un'anima raccolta e generosa può compiere; perchè non solo ogni azione, ma, quando si prolunga, ogni sforzo per farla meglio, per esempio, per cacciar le distrazioni nella preghiera, per applicare la mente al lavoro, per schivare una parola poco caritatevole, per render al prossimo il minimo servizio; ogni parola ispirata dalla carità; ogni buon pensiero da cui si trae profitto; in una parola, tutti i movimenti interni dell'anima liberamente diretti verso Dio, sono altrettanti atti meritori che fanno crescere Dio e la grazia nell'anima nostra. 247. Si può quindi dire con tutta verità che non c'è mezzo più efficace, più pratico, più facile a tutti per santificarsi, che rendere soprannaturali tutte le proprie azioni; questo mezzo basta da solo ad elevare in breve tempo un'anima al più alto grado di santità. Ogni atto è allora un germe di grazia, perchè la fa germogliare e crescere nell'anima, e un germe di gloria, perchè aumenta nello stesso tempo i nostri diritti alla beatitudine celeste. 248. Il mezzo pratico di convertire a questo modo tutti i nostri atti in meriti, è di raccoglierci un momento prima di operare, di rinunziare positivamente a ogni intenzione naturale o cattiva, di unirci a Nostro Signore, nostro modello e nostro mediatore, col sentimento della nostra impotenza, e offrire per mezzo di Lui le nostre azioni a Dio per la gloria sua e per il bene delle anime; così intesa l'offerta spesso rinnovata delle nostra azioni è un atto di rinunzia, di umiltà, di amore a Nostro Signore, di amore di Dio, di amore del prossimo; è un'accorciatoia per giungere alla perfezione. A pervenirvi più efficacemente abbiamo pure a nostra disposizione i Sacramenti. III. Dell'aumento della vita cristiana per mezzo dei Sacramenti. 249. Non solo con atti meritori fatti ad ogni istante possiamo crescere in grazia e in perfezione, ma anche col frequente uso dei Sacramenti. Segni sensibili istituiti da Nostro Signore Gesù Cristo, i Sacramenti significano e producono nell'anima la grazia. Sapendo come l'uomo si lasci prendere dalle cose esteriori, Dio volle, nell'infinita sua bontà, annettere la grazia ad oggetti e ad azioni visibili. È di fede che i nostri Saramenti contengono la grazia che significano e che la conferiscono a tutti coloro che non vi pongono ostacolo; e ciò non unicamente in virtù delle disposizioni del soggetto, ma ex opere operato, come cause strumentali della grazia, restandone Dio evidentemente la causa principale e Gesù Cristo la causa meritoria. 250. Ogni Sacramento produce, oltre alla grazia abituale ordinaria, una grazia che si chiama sacramentale o propria di quel dato Sacramento. La quale non è specificamente distinta dalla prima ma vi aggiunge, secondo S. Tommaso e la sua scuola, un vigore speciale, destinato a produrre effetti correlativi a ciascun Sacramento; o in ogni caso, a parere di tutti, un diritto a grazie attuali speciali che saranno concesse a tempo opportuno per adempiere più facilmente i doveri imposti dal Sacramento ricevuto. Così, per esempio, il Sacramento della Confermazione ci dà il diritto di ricevere grazie attuali speciali di soprannaturale fortezza per lottare contro il rispetto umano e confessare la fede innanzi e contro a tutti. Quattro cose meritano la nostra attenzione: 1° la grazia sacramentale propria di ciascun sacramento; 2° le disposizioni necessarie per trarne maggior profito; 3° le disposizioni speciali per il Sacramento della Penitenza; 4° le disposizioni richieste per l'Eucaristia. I. Della grazia sacramentale. I Sacramenti conferiscono grazie speciali in relazione alle varie tappe che dobbiamo percorrere nella vita. 251. a) Nel Battesimo, è grazia di rigenerazione spirituale, che ci purifica dal peccato originale, ci fa nascere alla vita della grazia, e crea in noi l'uomo nuovo, l'uomo rigenerato che vive della vita di Cristo. Nascondi Secondo la bella dottrina di S. Paolo ( Rm 6,3-6 ) nel battesimo noi siamo sepolti con Gesù Cristo ( il che era figurato per l'addietro dal battesimo d'immersione ) e risuscitiamo con Lui, per vivere d'una vita nuova: "Consepulti enim sumus cum illo per baptismum in mortem, ut quomodo Christus surrexit a mortuis, ita et nos in novitate vitæ ambulemus". La grazia speciale o sacramentale che ci vien data è dunque: 1) una grazia di morte al peccato, di crocifissione spirituale che ci aiuta a combattere e domare le cattive tendenze dell'uomo vecchio; 2) una grazia di rigenerazione che c'incorpora a Gesù Cristo, ce ne fa partecipare la vita, ci aiuta a vivere secondo i sentimenti e gli esempi di Gesù Cristo, ed essere quindi perfetti cristiani. Onde il dovere per noi di combattere il peccato e le sue cause, di aderire a Gesù e imitarne le virtù. 252. b) La Confermazione fa di noi i soldati di Cristo; aggiunge alla grazia del Battesimo una grazia speciale di fortezza per professar generosamente la fede contro tutti i nemici e principalmente contro il rispetto umano, che impedisce a un sì gran numero di uomini di praticare i doveri religiosi. È questa la ragione per cui i doni dello Spirito Santo, che ci erano già stati comunicati nel Battesimo, nel giorno della cresima ci vengono conferiti in modo più speciale per illuminare la nostra fede, renderla più viva e più penetrante e fortificarci nello stesso tempo la volontà contro tutte le debolezze. Onde la necessità di coltivare i doni dello Spirito Santo e soprattutto quello della cristiana virilità. 253. c) L'Eucaristia nutre l'anima nostra che, come il corpo, ha bisogno d'alimentarsi per vivere e fortificarsi. Ora, per alimentare una vita divina è necessario un alimento divino: e sarà il corpo e il sangue di Gesù Cristo, la sua anima e la sua divinità, che ci trasformeranno in altrettanti Cristi, facendo passare in noi il suo spirito, i suoi sentimenti e le sue virtù, e soprattutto il suo amore per Dio e per gli uomini. 254. d) Se abbiamo la sventura di perdere col peccato mortale la vita della grazia, il Sacramento della Penitenza lava le nostre colpe nel sangue di Gesù Cristo, la cui virtù ci viene applicata coll'assoluzione, purchè siamo sinceramente contriti e risoluti a romperla col peccato, come presto spiegheremo ( n. 262 ). 255.e) Quando la morte viene a battere la nostra porta, abbiamo bisogno d'essere confortati in mezzo alle angoscie e ai timori che le nostre colpe passate, le nostre infermità presenti e i giudizi di Dio ci ispirano. L'Estrema Unzione, versando l'olio santo sui principali nostri sensi, versa nello stesso tempo nell'anima una grazia di alleviamento e di spirituale conforto che ci libera dai resti del peccato, ci ravviva la confidenza e ci arma contro i supremi assalti del nemico, facendoci partecipare ai sentimenti di S. Paolo che, dopo aver combattuto il buon combattimento, si rallegrava al pensiero della corona che l'attendeva. È necessario quindi chiedere per tempo questo sacramento, appena si è gravemente infermi, affinchè possa produrre tutti i suoi effetti, e, occorrendo, se Dio lo giudica utile, renderci anche la salute; è una crudeltà per quelli che assistono l'ammalato dissimulargli la gravità del suo stato e rimandare all'ultimo momento il ricevimento d'un sacramento così consolante. Questi sacramenti bastano a santificare l'individuo nella vita privata; due altri lo santificano nelle relazioni con la società: l'Ordine che dà alla Chiesa degni ministri, e il Matrimonio che santifica la famiglia. 256. f) L'Ordine dà ai ministri della Chiesa non solo mirabili poteri per consacrare l'Eucarestia, amministrare i sacramenti e predicare la dottrina evangelica, ma anche la grazia d'esercitali santamente; in particolare un amore ardente per il Dio dell'Eucaristia e per le anime, con la ferma volontà di immolarsi e di spendersi intieramente per queste due nobili cause. A qual grado di santità debbano tendere, lo diremo più innanzi. 257. g) Per santificare la famiglia, cellula primordiale della società, il sacramento del matrimonio dà agli sposi le grazie di cui hanno urgentemente bisogno, la grazia di un'assoluta e costante fedeltà, così difficile al volubile cuore umano; la grazia di rispettare la santità del letto coniugale nonostante le contrarie sollecitazioni della concupiscenza; la grazia di consacrarsi con inalterabile abnegazione alla cristiana educazione dei figli. 258. Vi è dunque per ogni circostanza importante della vita, per ogni dovere individuale o sociale, un mirabile aumento di grazia santificante che ci vien dato; e affinchè questa grazia sia posta in opera, ogni sacramento ci dà diritto a certe grazie attuali, che verranno a sollecitarci all'esercizio delle virtù che dobbiamo praticare, e a somministrarci soprannaturali energie per riuscirvi. Sta a noi il corrispondervi con disposizioni le più perfette possibili. II. Disposizioni necessarie per ben ricevere i Sacramenti. Dipendendo la quantità di grazia prodotta dai sacramenti e da Dio e da noi, vediamo come possiamo aumentarla così da una parte come dall'altra. 259.A) Dio è certamente libero nella distribuzione dei suoi favori; e può quindi, nei Sacramenti, concedere maggiore o minore grazia secondo i disegni della sua sapienza e della sua bontà. Ma vi sono leggi ch'egli stesso stabilì, alle quali vuole sottomettersi. Nascondi Così ripetutamente ci dichiara che nulla sa rifiutare alla preghiera ben fatta: "Domandate e riceverete, cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto: petite et accipietis, quærite et invenietis, pulsate et aperietur vobis" ( Mt 7,7 ). Se quindi preghiamo con umiltà e fervore, in unione con Gesù, per avere, mentre riceviamo un Sacramento, maggior copia di grazia, l'otterremo. 260.B) Da parte nostra, due disposizioni contribuiscono a farci ricevere più copiosa grazia sacramentale: i santi desideri prima di ricevere i sacramenti, e il fervore nel riveverli. a) L'ardente desiderio di ricevere un sacramento con tutti i suoi frutti, ci apre e ci dilata l'anima. Nascondi È un'applicazione del principio generale posto da Nostro Signore: "Beati coloro che hanno fame e sete di santità perchè saranno saziati: Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam, quoniam ipsi saturabuntur" ( Mt 5,6 ). Aver fame e sete della comunione, della confessione e dell'assoluzione, è un aprire più ampiamente l'anima alle comunicazioni divine; e allora Dio ci sazierà le anime alle comunicazioni divine; e allora Dio ci sazierà le anima affamate: "esurientes implebit bonis" ( Lc 1,53 ). Siamo dunque, come Daniele, uomini di desiderio e sospiriamo le fonti d'acqua viva che sono i sacramenti. b) Il fervore aumenterà anche di più quest'apertura dell'anima, consistendo nella disposizione generosa di non rifiutar nulla a Dio, di lasciarlo agire nella pienezza della sua virtù e di collaborare con lui con tutta la nostra energia. Una tale disposizione approfondisce e dilata l'anima, la rende più atta alle effusioni della grazia, più docile all'azione dello Spirito Santo, più attiva nel corrispondervi. Nascondi Da questa mutua collaborazione scaturiscono copiosi frutti di santificazione. 261.Potremo qui aggiungere che tutte la condizioni che rendono le nostre opere più meritorie ( si veda sopra al n. 237 ), perfezionano in pari modo le disposizioni che dobiamo avere nel ricevere i sacramenti e aumentano quindi la misura di grazia che ci è conferita. Ma ciò si capirà anche meglio quando avremo fatto l'applicazione di questo principio alla confessione e alla comunione. III. Disposizioni per trar profitto dal sacramento della Penitenza. Il sacramento della Penitenza, come abbiamo detto, ci purifica l'anima nel sangue di Gesù Cristo, purchè siamo ben disposti, la nostra confessione sia leale e la nostra contrizione vera e sincera. 1° Della confessione 262.A) Una parola sui peccati gravi. Solo di passaggio parliamo dell'accusa delle colpi gravi, di cui abbiamo trattato a lungo nella nostra Teologia morale. Se un'anima che tende alla perfezione ha la disgrazia di commettere, in un momento di debolezza, qualche peccato mortale, bisogna accusarlo con tutta sincerità e in modo chiaro fin dal principio della confessione senza nasconderlo fra la moltitudine dei peccati veniali, farne conoscere bene il numero e la specie con sincerità e umiltà, indicare le cause che ci condussero all'abisso. Perdonato che sia il peccato, si deve alimentare nell'anima un vivo e abituale sentimento di penitenza, un cuore contrito ed umiliato, col sincero desiderio di riparare il male commesso con una vita austera e mortificata, con un amore ardente e generoso. A questo modo una colpa grave isolata, e immediatamente riparata, non è durevole ostacolo al progresso spirituale, perchè non lascia quasi traccia nell'anima. 263.B) Delle colpe veniali deliberate. Di colpe veniali vi sono due specie: quelle che si commettono di proposito deliberato, ben sapendo di dispiacere a Dio ma preferendo nel momento il proprio piacere egoista alla volontà divina; e quelle che si commettono di sorpresa, per leggerezza, per fragilità, per mancanza di vigilanza o di coraggio, di cui uno subito si pente con la ferma volontà di non più commetterle. Le prime sono molto serio ostacolo alla perfezione, principalmente quando sono frequenti e vi si è attaccati, per esempio se si nutrono volontariamente piccoli rancori o l'abitudine del giudizio temerario e della maldicenza, se si fomentano affezioni naturali, sensibili, oppure l'attacco al proprio giudizio e alla propria volontà. Sono vincoli che ci attaccano alla terra e c'impediscono di prendere lo slancio verso l'amor divino. Quando, di proposito deliberato, si rifiuta a Dio il sacrifizio dei propri gusti e delle proprie volontà, è chiaro che non si possono aspettare da Lui quelle grazie speciali che sole ci possono condurre alla perfezione. È quindi necessario correggersi ad ogni costo di questo genere di colpe. A meglio riuscirvi, bisogna prenderne una dopo l'altra le varie specie o categorie; per esempio, prima le colpe contro la carità, poi quelle contro l'umiltà, contro la virtù della religione, ecc.; accusarci a fondo di ciò che si è notato, massima di quelle che maggiormente ci umiliano, delle cause che ci fanno cadere in questi peccati, sottolineando le nostre risoluzioni su queste cause e proponendoci di volerle assolutamente evitare. Allora ogni confessione sarà un passo avanti verso la perfezione, principalmente se uno si studia di ben esercitarsi nella contrizione, come presto diremo. 264. C) Delle colpe di fragilità. Vinti i peccati veniali deliberati, si prendono di mira quelli di fragilità, non già per schivarli intieramente ( il che è impossibile ), ma per diminuirne il numero. E qui pure bisogna ricorrere alla divisione del lavoro. Si può certo accusare il grosso delle colpe di cui uno si ricorda, ma si fa rapidamente per potere insistere su un genere di colpe in particolare. Si procederà gradatamente, per esempio, prima si batterà sulle distrazioni nelle preghiere, poi sulle colpe contrarie alla purità d'intenzione, poi sulle mancanze di carità. Nell'esame di coscienza, e nella confessione non ci contentiamo di dire: ho avuto delle distrazioni nelle preghiere ( il che non apre nulla al confessore ), ma diremo: sono stato specialemente distratto o negligente in tale esercizio di pietà e ciò perchè non mi ero ben raccolto prima di cominciarlo, o perchè non ebbi il coraggio di respingere prontamente ed energicamente le prime divagazioni, o perchè avendolo fatto, mancai poi di costanza e di continuità nello sforzo. Un'altra volta uno si accuserà d'essere stato distratto a lungo a causa di piccoli attacchi allo studio o a un confratello, o per ragione di un piccolo rancore non combattuto, ecc. L'indicazione del motivo spiega la causa del male e suggerisce il rimedio e la risoluzione da prendere. 265.A meglio assicurare il buon esito della confessione, si tratti di colpe deliberate o no, si terminerà l'accusa dicendo: la mia risoluzione, per questa settimana o quindicina, è di energeticamente combattere questa fonte di distrazioni, questo attacco, questo genere di pensieri. E alla prossima confessione non si mancherà di dar conto degli sforzi fatti: avevo preso la tal risoluzione, l'ho mantenuta per tanti giorni o fino a tal segno; non l'ho mantenuta invece su questo o quell'altro punto. È evidente che una tal confessione non sarà fatta per abitudine ma segnerà invece un passo avanti; la grazia dell'assoluzione, venendo a confermare la presa risoluzione, non solo aumenterà la grazia abituale che è in noi, ma ci decuplicherà le energie per farci evitare nell'avvenire un certo numero di colpe veniali, e farci più efficacemente acquistare le virtù. 2° Della contrizione 266.Nelle confessioni frequenti bisogna insistere sulla contrizione e sul proponimento che ne è la conseguenza necessaria. Bisogna istantemente chiederla ed esercitarvisi con la considerazione dei motivi soprannaturali, che, pur essendo sostanzialmente gli stessi, varieranno secondo le anime e le colpe accusate. I motivi generali si desumono da parte di Dio e da parte dell'anima. Non facciamo altro che indicarli. 267.A) Da parte di Dio, il peccato, per quanto sia leggero, è sempre un'offesa a Dio, una resistenza alla sua volontà, un'ingratitudine verso il più amante e il più amabile dei padri e dei benefattori, ingratitudine che tanto più lo ferisce in quanto che noi ne siamo gli amici privilegiati. Nascondi Volgendosi quindi a noi, ci dice: "Non è un nemico che m'oltraggia, chè allora lo sopporterèi … ma tu, tu che eri come un altro me stesso, il mio confidente e il mio amico; vivevamo insieme in una dolce intimità!" ( Sal 55,13-15 ). … Ascoltiamo con frutto questi rimproveri così ben meritati e sprofondiamoci nell'umiliazione e nella confusione. Ascoltiamo pure la voce di Gesù e pensiamo che le nostre colpe resero più amaro il calice che gli fu presentato nel giardino degli Ulivi, e ne intensificarono l'agonia. E allora, dal fondo della nostra miseria, domandiamo umilmente perdono: Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam … Amplius lava me ab iniquitate mea 268.B) Da parte dell'anima, il peccato veniale, senza diminuire in sè la divina amicizia, la rende meno intima e meno attiva; oh! quale perdita l'intimità con Dio! Arresta o per lo meno impaccia considerevolmente la nostra attività spirituale, gettando polvere entro il meccanismo così delicato della vita soprannaturale; ne diminuisce le energie per il bene, aumentando l'amor del piacere; e sopra tutto predispone, se si tratta di colpe deliberate, al peccato mortale; perchè in molte materie, specialmente in ciò che riguarda la purità, la linea di confine tra il mortale e il veniale è così tenue e l'attrattiva al piacere cattivo è così seducente, che il confine è presto passato. Quando si pensa a questi effetti, non è difficile pentirsi sinceramente delle proprie negligenze e concepire il desiderio di schivarle per l'avvenire. Per meglio determinare questo buon proponimento è opportuno volgerlo sui mezzi da usare per diminuire le ricadute, come già abbiamo indicato al n. 265. 269. Intanto per essere più sicuri che non manchi la contrizione, è bene accusare un peccato più grave della vita passata, di cui si è sicuri d'avere la contrizione, specialmente se è della stessa specia dei peccati veniali che furono accusati. Qui però bisogna schivare due difetti: l'abitudine, che trasformerebbe quest'accusa in una vana formula senza un vero sentimento di contrizione; e la negligenza, che indurrebbe a non darsi pensiero del dolore dei peccati veniali accusati nella presente confessione. Praticata con questo spirito, la confessione, a cui vengono ad aggiungersi i consigli d'un savio direttore e principalmente la virtù purificatrice dell'assoluzione, sarà un potente mezzo per liberarci dal peccato e progredire nella virtù. IV. Disposizioni per trar profitto dall'Eucaristia. 270. L'Eucaristia è insieme sacramento e sacrificio; i quali due elementi sono intimamente collegati, perchè è proprio durante il sacrificio che si consacra la vittima con cui ci comunichiamo. La comunione non è, secondo la dottrina comune, parte essenziale del sacrifizio ma ne è parte integrante, perchè per lei veniamo a partecipare ai sentimenti della vittima e ai frutti del sacrificio. La differenza essenziali tra l'uno e l'altro è che il sacrificio si riferisce direttamente alla gloria di Dio, e il sacramento ha per scopo diretto la santificazione dell'anima nostra. Ma questi due fini non ne costituiscono veramente che un solo perchè conoscere e amare Dio è glorificarlo, onde l'uno e l'altro contribuiscono al nostro progresso spirituale. 1° Del sacrificio della Messa come mezzo di santificazione.271-1 271. A) I suoi effetti. a) Questo sacrificio anzitutto glorifica Dio e lo glorifica in modo perfetto, perchè Gesù vi offre di nuovo al Padre, per mezzo del sacerdote, tutti gli atti di adorazione, di riconoscenza e d'amore che già offrì sul Calvario, atti di valore morale infinito. Offrendosi come vittima, afferma nel modo più espressivo il sovrano dominio di Dio in riconoscenza dei suoi benefici, gli rende una lode pari ai benefici: è il ringraziamento o culto eucaristico. Nulla quindi può impedire il conseguimento di quest'effetto, neppure l'indegnità del ministro; perchè il valore del sacrificio non dipende essenzialmente da colui che l'offre come ministro secondario, ma dal pregio della vittima che viene offerta e dalla dignità del sacerdote principale che non è altri che Gesù Cristo stesso. Tal è l'insegnamento del Concilio di Trento quando dichiara che questa offerta purissima non può essere macchiata dall'indegnità o dalla malizia di coloro che l'offrono; che in questo divin sacrificio è contenuto ed immolato, in modo incruento, quello stesso Cristo che sull'altare della Croce si è offerto in modo cruento. È quindi la stessa ostia e lo stesso sacrificatore quello che si offre ora pel ministero dei sacerdoti e quello che s'è offerto una volta sulla Croce: non c'è differenza che nel modo d'offrire la vittima. Perciò, quando assistiamo alla S. Messa e più ancora quando la celebriamo, rendiamo a Dio tutti gli omaggi che gli sono dovuti, nel modo più perfetto possibile, perchè facciamo nostri gli omaggi di Gesù vittima. Nè si dica che tutto questo non ha che far nulla con la nostra santificazione; quando noi glorifichiamo Dio, egli amorosamente si china verso di noi, e quanto più noi ci occupiamo della sua gloria, tanto più egli si occupa dei nostri spirituali interessi; molto dunque si fa per la nostra santificazione rendendogli i nostri ossequi in unione con la vittima divina che rinnova sull'altare la sua immolazione. 272. b) Il divin sacrificio ha inoltre un effetto propiziatorio per la virtù stessa della sua celebrazione ( ex opere operato, come dicono i teologi ). Ed ecco in che senso: il sacrificio, offrendo a Dio l'ossequio che gli è dovuto e un giusto compenso per il peccato, lo inclina a concederci, non direttamente la grazia santificante ( il che è effetto proprio del sacramento ), ma la grazia attuale e il dono della penitenza, e a rimetterci, quando siamo contriti e pentiti, i peccati anche più gravi. È nello stesso tempo soddisfattorio, nel senso che rimette infallibilmente ai peccatori pentiti una parte almeno della pena temporale dovuta al peccato, in proporzione delle disposizioni più o meno perfette con cui vi assistono. Ecco perchè, aggiunge il Concilio di Trento, può essere offerto non solo per i peccati, le soddisfazioni e i bisogni spirituali dei vivi, ma anche per quelli che son morti in Cristo senza avere sufficientemente espiato le loro colpe. È facile vedere quanto questo doppio effetto, propiziatorio e soddisfattorio, contribuisca al nostro progresso nella vita cristiana. Nascondi Il grande ostacolo all'unione con Dio è il peccato; ottenere il perdono e farne sparire anche gli ultimi vestigi è quindi preparare un'unione sempre più intima con Dio: "Beati mundo corde quoniam ipsi Deum videbunt" ( Mt 5,8 ). Quale consolazione per i poveri peccatori di veder così cader il muro di separazione che li impediva di godere della vita divina! 273. c) La Messa è impetratoria nello stesso modo che è propiziatoria: ottiene quindi da Dio, per la virtù stessa del sacrificio ( ex opere operato ), tutte le grazie di cui abbiamo bisogno per santificarci. Il sacrificio è una preghiera in azione, e Colui che al santo altare prega per noi con gemiti inenarrabili è Quegli stesso le cui preghiere sono sempre esaudite "exauditus est pro sua reverentia" ( Eb 5,7 ). Quindi la Chiesa, interprete autentica del pensiero divino, vi prega costantemente, in unione con Gesù sacrificatore e vittima ( per Dominum nostrum Jesum Christum ), per chiedere tutte le grazie di cui hanno bisogno i suoi membri alla salute dell'anima e alla salute del corpo, "pro spe salutis et incolumitatissuæ", per la salvezza e il progresso spirituale, sollecitando per i suoi fedeli, principalmente nella Colletta, la grazia speciale che corrisponde a ciascuna festa. E chiunque entra in questa corrente di preghiera liturgica, con le disposizioni volute, è sicuro d'ottenere per sè e per tutti quelli che gli premono le più copiose grazie. È dunque chiaro che il santo sacrificio della Messa contribuisce, con tutti i suoi effetti, alla nostra santificazione; e ciò tanto più efficacemente in quanto che noi non vi preghiamo da soli ma uniti a tutta la Chiesa e principalmente al Capo invisibile della Chiesa, a Gesù sacrificatore e vittima, che, rinnovando l'offerta del Calvario, chiede, per la virtù del suo sangue e per le sue suppliche, che le sue soddisfazioni e i suoi meriti ci vengano applicati. 274. B) Disposizioni per trar profitto dalla S. Messa. Quali sono dunque le disposizioni che dobbiamo avere per trar profitto da questo potente mezzo di santificazione? La disposizione fondamentale, che comprende tutte le altre, è di aderire con umiltà e confidenza ai sentimenti espressi dalla vittima divina, di comunicarvi, di farli nostri, adempiendo così ciò che il Pontificale vuole dai sacerdoti "Agnoscite quod agitis, imitamini quod tractatis". Al che del resto c'invita la Chiesa nella santa sua liturgia. 275. a) Nella messa dei catecumeni, che va fino all'Offertorio esclusivamente, ci fa entrare in sentimenti di penitenza e di contrizione ( Confiteor, Aufer a nobis, Oramus te, Kyrie eleison ), di adorazione e di riconoscenza ( Gloria in excelsis ), di ferventi petizioni ( Collette) e di fede sincera ( Epistola, Vangelo e Credo ). b) Viene appresso il gran dramma: 1) l'offerta della vittima all'Offertorio per la salute di tutto il genere umano, "pro nostrâ et totius mundi salute"; l'offerta del popolo cristiano in unione alla vittima principale, "in spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine," seguita da una preghiera alla SS. Trinità perchè benedica ed accetti quest'offerta dell'intiero Cristo mistico. 2) Il prefazio annunzia l'azione propriamente detta, il Canone in cui si rinnova la mistica immolazione della vittima, e la Chiesa c'invita a unirci agli Angeli e ai Santi, ma principalmente al Verbo Incarnato, per ringraziare Dio, proclamarne la santità, implorarne gli aiuti per la Chiesa, pel suo capo visibile, per i suoi vescovi, per i fedeli, in particolare per quelli che vi assistono e per tutti quelli che ci sono più cari. Allora il sacerdote, entrando in comunione con la SS. Vergine, coi SS. Apostoli, coi Martiri e con tutti i Santi, si trasporta in spirito all'ultima Cena, s'identifica col Sommo Sacerdote e ripete con Lui le parole che Gesù pronunziò nel Cenacolo. Obbedendo alla sua voce, il Verbo Incarnato discende sull'altare, col suo corpo e col suo sangue, e silenziosamente adora e prega in nome suo e nostro. Il popolo cristiano si curva, adora la vittima divina, s'unisce ai suoi sentimenti, alle sue adorazioni, alle sue domande, e si studia d'immolarsi con lei, offrendo alcuni suoi piccoli sacrifici "per ipsum, et cum ipso, et in ipso". 3) Col Pater incomincia la preparazione alla Comunione. Membri del corpo mistico di Gesù, ripetiamo la preghiera ch'Egli stesso ci insegnò il Pater, offrendo con lui i nostri doveri religiosi e le nostre mani e ci darà, col perdono dei peccati, la pace dell'anima e l'unione permanente con Gesù, "et a te nunquam separari permittas". Allora, protestando, come il centurione, la propria indegnità e chiedendo umilmente perdono, il sacerdote, dopo di lui, il popolo fedele mangia e beve il corpo e il sangue del Salvatore, s'unisce dal profondo dell'anima all'intiero Gesù, ai più intimi suoi sentimenti; e per mezzo suo a Dio stesso e alla SS. Trinità. Nascondi Il mistero dell'unione è compiuto: noi non facciamo più che una cosa sola con Gesù, e non facendo egli che una cosa sola col Padre e col Figlio, la preghiera sacerdotale del Salvatore dell'ultima Cena è avverata: "Io in loro e tu in me, affinchè siano perfetti nell'unità: Ego in eis et tu in me, ut sint consummati in unum" ( Gv 17,23 ). 276. Non resta più che ringraziare Dio di quest'immenso beneficio; il che facciamo nel Postcommunio e nelle preghiere che seguono. La benedizione del sacerdote ci comunica i tesori della SS. Trinità; l'ultimo Vangelo ci ricorda le glorie del Verbo Incarnato, che è nuovamente venuto ad abitare in mezzo a noi e che noi portiamo via pieno di grazia e di verità, per attingere nel corso della giornata a questa fonte di vita e vivere d'una vita simile a quella dello stesso Gesù. È chiaro che l'assistere alla santa messa o celebrarla con queste disposizioni è un santificarsi e coltivare nel modo più perfetto possibile la vita soprannaturale che è in noi. Quel che diremo sulla santa comunione ce lo mostrerà anche meglio. 277. A) Gli effetti. L'Eucaristia, come sacramento, produce direttamente in noi per sua propria virtù, ex opere operato, un aumento di grazia santificante. Nascondi Infatti è stata istituita per essere cibo dell'anima nostra: "Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus" ( Gv 6,55 ) i suoi effetti sono dunque simili a quelli del nutrimento materiale: sostiene, aumenta e ripara le forze spirituali, causandoci una letizia che, se non è sempre sensibile, è per altro reale. Gesù stesso è il nostro alimento, l'intero Gesù, il suo corpo, il suo sangue, la sua anima, la sua divinità. Si unisce a noi per trasformarci in lui; questa unione è insieme fisica e morale, trasformante e di sua natura permanente. Tal è la dottrina di S. Giovanni che il P. Lebreton compendia così: "Nell'Eucaristia si compie l'unione di Cristo e del fedele e la vivificante trasformazione che ne è il frutto; non si tratta solo più dell'adesione a Cristo per mezzo della fede, nè dell'incorporazione a Cristo per mezzo del battesimo; è una nuova unione realissima insieme e spiritualissima: si può per lei dire che chi aderisce al Signore non solo è con lui un solo spirito, ma anche una sola carne. È unione così intima che Gesù non teme di dire: "Come io vivo per il Padre, così colui che si ciba di me vivrà per me"; abbiamo certamente qui solo un'analogia; ma resta sempre vero che, per mantenerla, bisogna intendervi non solo un'unione morale fondata sopra una comunanza di sentimenti ma una vera unione fisica, che importa la fusione di due vite, o meglio la partecipazione del cristiano alla vita stessa di Cristo". Studiamoci di spiegare cotesta unione. 278. a) È un'unione fisica. È di fede, secondo il Concilio di Trento, che l'Eucaristia contiene veramente, realmente e sostanzialmente il corpo e il sangue di Gesù Cristo, con la sua anima e la sua divinità, e quindi tutto quanto Cristo. Siamo quindi non solo tabernacoli ma anche pissidi ove Gesù abita e vive, ove gli angeli vengono ad adorarlo, e dove noi dobbiamo aggiungere le adorazioni nostre alle loro. Anzi c'è tra Gesù e noi una unione simile a quella che esiste tra il cibo e colui che se l'assimila; con questa differenza però che non siamo noi che trasformiamo Gesù nella nostra sostanza ma è Gesù che noi trasforma in lui: è infatti l'essere superiore che si assimila l'inferiore. Nascondi È un'unione che tende a rendere la nostra carne più sottomessa allo spirito e più casta, e depone in lei un germe d'immortalità: "Et ego resuscitabo eum" ( Gv 6,35 ). 279. b) Su questa unione fisica viene ad innestarsi un'unione spirituale intimissima e trasformatrice. 1) È unione intimissima e santificantissima. L'anima di Gesù s'unisce alla nostra per non fare con lei che un cuore solo e un'anima sola: "cor unum et anima una". La sua immaginazione e la sua memoria, così ben regolate e così sante, s'uniscono alla immaginazione nostra e alla nostra memoria per disciplinarle e orientarle verso Dio e le cose divine, volgendone l'attività verso il ricordo dei benefici di Dio, verso l'incantevole sua bellezza e l'inesauribile sua bontà. La sua intelligenza, vero sole delle anime, ci illumina la mente con gli splendori della fede e ci fa veder tutto e tutto giudicare alla luce di Dio; tocchiamo allora con mano la vanità dei beni della terra, la follia delle massime del mondo, assaporiamo le massime evangeliche prima così oscure per noi perchè tanto contrarie ai naturali nostri istinti. Nascondi La sua volontà così forte, così costante, così generosa, viene a correggere le nostre debolezze, la nostra incostanza, il nostro egoismo, comunicandoci le divine sue energie, tanto da poter dire con S. Paolo: "Io posso tutto in colui che mi fortifica: "omnia possum in eo qui me confortat" ( Fil 4,13 ). Ci pare allora che gli sforzi non ci costeranno più, che le tentazioni ci troveranno incrollabili, che la perseveranza nel bene non ci spaventi più, perchè non siamo più soli ma aderiamo a Cristo come l'edera alla quercia e ne partecipiamo quindi la fortezza. Il suo cuore, così ardente d'amore per Dio e per le anime, viene a infiammare il nostro cuore freddo per Dio, così tenero per le creature; come i discepoli d'Emmaus ripetiamo: "Non ci ardeva forse il cuore in petto mentre ei ci parlava? Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur in via?" ( Lc 24,32 ). Sotto l'azione di questo fuoco divino, sentiamo allora slanci quasi irresistibili verso il bene e una volontà guardinga ma ferma di far tutto, di tutto soffrire per Dio e di non rifiutargli nulla. 280. 2) È chiaro che una cosiffatta unione è veramente trasformatrice. 1° A poco a poco i nostri pensieri, le nostre idee, le nostre convinzioni, i nostri giudizi si modificano: invece di giudicare le cose secondo le massime del mondo, facciamo nostri i pensieri e i giudizi di Gesù, amorosamente abbracciamo le massime evangeliche, e costantemente ci domandiamo: Che farebbe Gesù se fosse al mio posto? 2° Lo stesso è dei nostri desideri e dei nostri voleri; persuasi che il mondo e il nostro io hanno torto, che solo Gesù, Sapienza eterna, è nella verità, non desideriamo più che ciò che desidera lui, la gloria di Dio, la salvezza nostra e quella dei nostri fratelli; non vogliamo che ciò che vuol lui "non mea voluntas, sed tua fiat"; e anche quando questa volontà è dura per noi, l'accettiamo di gran cuore, sicuri che non mira se non al bene spirituale nostro e a quello del prossimo. 3° Il nostro cuore si libera egli pure a poco a opco del suo egoismo più o meno cosciente, delle sue affezioni naturali e sensibili per amare ardentemente, generosamente, appassionatamente Dio e le anime guardate in Dio: non amiamo più le consolazioni divine, per quanto dolci elle siano, ma Dio stesso; non si mira più al piacere di trovarsi con quelli che si amano, ma al bene che si può loro fare. Nascondi Viviamo quindi una vita più intensa e sopra tutto più soprannaturale e più divina che pel passato; non è più l'io, l'uomo vecchio che vive, pensa ed opera: è Gesù stesso, è il suo spirito che vive in noi e vivifica il nostro: "Vivo autem jam non ego, vivit vero in me Christus" ( Gal 2,20 ). 281. c) Questa unione spirituale si prolunga quanto vogliamo, affermando Gesù stesso: "Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem, in me manet et ego in eo" ( Gv 6,56 ). Quanto a lui altro non brama che di restare eternamente in noi; da noi quindi dipende con la sua grazia di restargli costantemente uniti. Ma in che modo si perpetua quest'unione? Alcuni autori pensarono, col P. Schram, che l'anima di Gesù si raccolga, a così dire, nel centro dell'anima nostra, per stabilmente rimanervi. Sarebbe questo un miracolo assolutamente straordinario, perchè l'anima di Gesù resta costantemente unita al suo corpo e il suo corpo sparisce con le specie sacramentali. Non possiamo quindi ammettere quest'opinione, perchè Dio non moltiplica i miracoli di tal genere senza necessità. Ma se la sua anima umana si ritira da noi nello stesso tempo che il suo corpo, la sua divinità resta in noi finchè siamo in stato di grazia. Anzi, la sua santa umanità, unita alla sua divinità, conserva con l'anima nostra un'unione speciale. Il che può teologicamente spiegarsi nel modo seguente. Lo Spirito di Gesù o, in altri termini, lo Spirito Santo che vive nell'anima umana di Gesù, resta in noi in virtù dell'affinità speciale contratta nella comunione sacramentale con Gesù vi opera delle disposizioni interne simili a quelle di Nostro Signore; a richiesta di Gesù, che prega continuamente per noi, ci largisce grazie attuali più copiose e più efficaci, ci preserva con cura speciale dalle tentazioni, produce in noi privilegiate impressioni, dirige l'anima nostra e le sue facoltà, ci parla al cuore, fortifica la nostra volontà, rinfiamma il nostro amore, e ci continua così nell'anima gli effetti della comunione sacramentale. Ma per godere di questi privilegi, è chiaro che bisogna vivere nel raccoglimento interiore, ascoltare attentamente la voce di Dio, ed essere pronti ad eseguirne i minimi desideri. A questo modo la comunione sacramentale si perfeziona con la comunione spirituale che ne perpetua i santi effetti. Nascondi 282. d) Questa comunione trae seco un'unione speciale con le tre persone divine della SS. Trinità; perchè, in virtù della circumincessione ( che è l'abitazione delle divine persone l'una nell'altra ), il Verbo non viene solo nell'anima nostra; ci viene col Padre che continuamente lo genera nel suo seno, ci viene con lo Spirito Santo che continuamente procede dal mutuo amplesso del Padre e del Figlio: "Chi ama me, anche il Padre mio amerà lui, e verremo a lui e in lui faremo dimora" ( Gv 14,23 ). È vero che le tre divine persone sono già in noi per la grazia, ma, nel momento della comunione, vi sono per un titolo speciale: essendo noi fisicamente uniti al Verbo Incarnato, in lui e per lui esse sono unite a noi e ci amano come un prolungamento del Verbo Incarnato di cui siamo le membra. Portando Gesù nel nostro cuore, vi portiamo pure il Padre e lo Spirito Santo; la comunione è quindi un anticipato paradiso e, se avessimo viva fede, proveremmo a verità di quella parola dell'Imitazione, che essere con Gesù è il paradiso in terra: "Esse cum Jesu dulcis paradisus". 283. B) Disposizioni per trar profitto dalla comunione. Avendo l'Eucaristia per fine d'unirci a Gesù e a Dio in modo intimo, trasformante e permanente, tutto ciò che fomenterà quest'unione, nella preparazione o nel ringraziamento, ne intensificherà i lieti effetti. a) La preparazione sarà quindi una specie d'unione anticipata a Nostro Signore. Si suppone che l'anima sia già unita a Dio con la grazia santificante, altrimenti la comunione sarebbe un sacrilegio. Ciò posto, la preparazione abbraccerà almeno queste tre cose: 1) Anzitutto l'adempimento più perfetto di tutti i doveri del nostro stato in unione con Gesù e per piacere a Lui. Non è forse questo infatti il mezzo migliore per attirare in noi Colui la cui vita si compendia nell'ubbedienza filiale al padre a fine di piacergli? Nascondi "Quæ placita sunt ei facio semper" ( Gv 8,29 ) Abbiamo già spiegato questa pratica al n. 229. 2) Una sincera umiltà, fondata da un lato sulla grandezza e sulla santità di Nostro Signore e dall'altro sulla nostra bassezza e indegnità: "Domine, non sum dignus …" Questa disposizione fa, per così dire, il vuoto nell'anima nostra, sgombrandola dall'egoismo, dall'orgoglio, dalla presunzione; ora è proprio nel vuoto di sè che si opera l'unione con Dio; quanto più ci vuotiamo di noi stessi, tanto meglio prepariamo l'anima a lasciarsi prendere e possedere da Dio. 3) A questa umiltà terrà dietro un desiderio ardente d'unirsi al Dio dell'Eucaristia: sentendo vivamente la nostra impotenza e la nostra povertà, sospireremo a Colui che solo può fortificare la nostra debolezza, arricchirci dei suoi tesori e riempire il vuoto del nostro cuore. Nascondi Or questo desiderio, dilatandoci l'anima, la spalancherà a Colui che desidera dare tutto se stesso a noi: "Desiderio desideravi hoc pascha manducare vobiscum" ( Lc 22,15 ). 284. b) Il migliore ringraziamento sarà quello che prolungherà la nostra unione con Gesù. 1) Principierà dunque con un atto di silenziosa adorazione, d'annientamento, e di intiera donazione di noi stessi a Colui che, essendo Dio, si dà interamente a noi: "Adoro te devote, latens deitas … Tibi se cor meum totum subjicit". In unione con Maria, la più perfetta adoratrice di Gesù, ci annienteremo davanti alla Maestà divina, per benedirla, lodarla, ringraziarla, prima il Verbo Incarnato e poi, con Lui e per Lui, la SS. Trinità. "Magnificat anima mea Dominum … fecit mihi magna qui optens est, et sanctum nomen ejus" ( Lc 1,46ss ). Nulla fa meglio penetrar Gesù nel più intimo dell'anima nostra quanto quest'atto di annientamento di noi stessi; povere creature, è questo per noi il modo di darci a Colui che è tutto. Gli daremo tutto ciò che v'è di buono in noi, e sarà una restituzione perchè tutto viene da lui e non cessa d'appartenergli; offriremo pure le nostre miserie, perchè le consumi nel fuoco dell'amor suo e vi sostituisca le sue così perfette disposizioni. Quale mirabile cambio! 285. 2) Vengono allora i dolci colloqui tra l'anima e l'ospite divino: "Loquere, Domine, quia audit servus tuus … Da mihi intellectum ut sciam testimonia tua. Inclina cor meum in verba oris tui" Si ascolta attentamente il Maestro, l'Amico; gli si parla rispettosamente, semplicemente, affettuosamente. Nascondi Si apre l'anima alle comunicazioni divine; perchè è questo il momento in cui Gesù fa passare in noi le sue disposizioni interiori e le sue virtù; bisogna non solo riceverle ma attirarle, assaporarle, assimilarsele: "Os meum aperui et attraxi spiritum" ( Sal 119,131 ). Onde poi questi colloqui non degenerino in abitudine, è bene variare, se non ogni giorno almeno ogni tanto, l'argomento della conversazione, prendendo ora una virtù ora un'altra, meditando adagino qualche parole del Vangelo, e supplicando Nostro Signore di volercela far ben capire, gustare e praticare. 286. 3) Non dimentichiamo di ringraziarlo dei lumi che si degna, per grazia sua, di comunicarci, dei pii affetti, come pure delle oscurità e delle aridità in cui ci lascia ogni tanto; cogliamo anzi l'occasione da quest'ultime per umiliarci, per riconoscerci indegni dei divini favori, e per aderire più frequentemente con la volontà a Colui che, anche nelle aridità, non cessa di far passare in noi, in modo segreto e misterioso, la sua vita e le sue virtù. Supplichiamolo di prolungare in noi la sua azione e la sua vita: "O Jesu, vivens in Mariâ, veni et vive in famulis tuis"; di ricevere, per trasformarlo, quel poco di bene che è in noi: "Sume, Domine, et suscipe omnem meam libertam …". 287. 4) Offriamoci pronti a fare i sacrifici necessari per riformare e trasformare la nostra vita, specialmente su quel tal punto particolare; consapevoli della nostra debolezza, chiediamo istantemente la grazia di compiere presto sacrifizi. È questo un punto capitale, dovendo ogni comunione esser fatta allo scopo di progredire in una speciale virtù. 288. 5) È questo pure il momento di pregare per tutte le persone che ci sono care, per tutti i grandi interessi della Chiesa, secondo le intenzioni del Sommo Pontefice, per i Vescovi, i sacerdoti. Non temiamo di rendere la nostra preghiera universale quanto più è possibile: è questo in sostanza il miglior mezzo d'essere esauditi. Infine si termina chiedendo a Nostro Signore, con una formola o con un'altra, la grazia di restare in lui come egli resta in noi e di fare tutte e ciascuna delle nostre azioni in unione con lui, in spirito di ringraziamento. Si affida a Maria quel Gesù da lei così ben custodito, perchè ci aiuti a farlo crescere nel nostro cuore; e così, riconfortati dalla preghiera, si passa al lavoro. Conclusione 289. Abbiamo dunque a nostra disposizione tre grandi mezzi per conservare e aumentare in noi la vita cristiana che Dio ci largisce con tanta liberalità ,e per darci generosamente a lui come egli si dà a noi. 1) Lottando, senza posa e senza scoraggiamento, con l'aiuto di Dio e di tutti i protettori datici da lui, contro i nostri nemici spirituali, siamo sicuri di vincere e di rassodare in noi la vita spirituale. 2) Santificando, con spesso rinnovata offerta, tutte le nostre azioni anche le più comuni, acquistiamo copiosi meriti, aumentiamo considerevolmente ogni giorno il nostro capitale di grazia e i nostri diritti al paradiso, pur riparando ed espiando le nostre colpe. 3) I sacramenti, ricevuti con buone e fervorose disposizioni, aggiungono ai personali nostri meriti una copia eccezionale di grazie che vengono dai meriti stessi di Gesù Cristo; e poichè spesso ci confessiamo e, se vogliamo, quotidianamente ci comunichiamo, non dipende che da noi di essere santi. Nascondi Gesù è venuto e viene ancora in noi per comunicarci abbondantemente la sua vita: "Ego veni ut vitam habeant et abundantius habeant" ( Gv 10,10 ). Sta a noi l'aprire, il dilatar l'anima, per riceverla, coltivarla, aumentarla, partecipando continuamente alle disposizioni, alle virtù, ai sacrifici di Gesù. Verrà così il momento in cui, trasformati in lui, non avendo altri pensieri, altri affetti, altre intenzioni che le sue, potremo ripetere la parole di S. Paolo: "Vivo, jam non ego, vivit vero in me Christus". Sintesi del secondo capitolo 290. Giunti alla fine di questo capitolo, che è il più importante di questa prima parte, possiamo intender meglio la natura della vita cristiana. 1) È veramente una partecipazione della vita di Dio, perchè Dio vive in noi e noi viviamo in lui. Dio vive realmente in noi nell'unità della sua natura e nella trinità delle sue persone; e non vi resta inoperoso: produce nell'anima nostra un organismo soprannaturale che ci fa vivere una vita, non uguale ma simile alla sua, una vita deiforme. Colla grazia attuale, Dio mette questa vita in movimento, ci aiuta a fare atti meritori, e ricompensa questi atti producendo in noi una nuova infusione di grazia abituale. Ma noi viviamo in lui e per lui, perchè ne siamo i collaboratori: aiutati dalla sua grazia, riceviamo liberamente l'impulso divino, vi cooperiamo, e così trionfiamo dei nostri nemici, acquistiamo dei meriti, e ci prepariamo a quella ricca effusione di grazia dataci dai sacramenti. Non dimentichiamo però che lo stesso nostro consenso è opera della sua grazia, onde gli attribuiamo il merito delle nostre opere buone, vivendo per lui, perchè da lui e in lui viviamo. 291. 2) Questa vita è anche una partecipazione della vita di Gesù, perchè Gesù vive in noi e noi viviamo in lui. Vive in noi non solo come Dio, allo stesso titolo del Padre, ma anche come Uomo-Dio. Gesù è infatti il capo d'un corpo mistico di cui noi siamo le membra e da lui riceviamo il movimento e la vita. Vive in noi in un modo anche più misterioso, perchè, con i suoi meriti e con le sue preghiere, fa sì che lo Spirito Santo operi in noi disposizioni simili a quelle che questo divino Spirito operava nell'anima sua. Viva in noi realmente e fisicamente nel momento della santa comunione, e, per mezzo del divino suo Spirito, fa passare in noi i suoi sentimenti e le sue virtù. Ma anche noi viviamo in lui: incorporati a lui, liberamente riceviamo il movimento ch'egli c'imprime; liberamente ci studiamo d'imitarne le virtù senza però dimenticare che non vi riusciamo se non per mezzo della grazia meritataci da lui; liberamente aderiamo a lui come il tralcio al ceppo, e apriamo l'anima alla linfa divina che con tanta liberalità egli ci comunica. E, tutto ricevendo da lui, per lui e a lui viviamo, ben lieti di darci a lui come egli si dà a noi, dolenti solo di farlo in modo così imperfetto. 292. 3) Questa vita è pure, in una certa misura, una partecipazione della vita di Maria, o, come dice l'Olier, della vita di Gesù vivente in Maria. Volendo infatti che la santa sua Madre sia la vivente sua immagine, Gesù le comunica, per mezzo dei suoi meriti e delle sue preghiere, il divino suo Spirito, che la fa partecipare, in un grado sovreminente, alle sue disposizioni e alle sue virtù. Così Gesù vive in Maria, e poichè vuole che la madre sua sia madre nostra, vuole pure che spiritualmente ci generi. Ora, generandoci alla vita spirituale ( come causa secondaria, ben inteso ), Maria ci fa partecipare non solo alla vita di Gesù o, in altre parole, alla vita di Gesù vivente in Maria. È il pensiero così bene espresso nella bella preghiera del P. Condren perfezionata dall'Olier: "O Jesu vivens in Maria, veni et vive in famulis tuis". 293. 4) Questa vita è infine una partecipazione della vita dei Santi del cielo e della terra. Abbiamo infatti visto che il corpo mistico di Cristo comprende tutti coloro che gli sono incorporati col battesimo, e specialmente tutti quelli che godono della grazia e della gloria. Ora tutti i membri di questo corpo mistico partecipano alla stessa vita, alla vita che ricevono dal capo e che è diffusa nell'anima loro dallo stesso divino Spirito. Siamo dunque tutti veramente fratelli, ricevendo dallo stesso Padre, che è Dio, per i meriti dello stesso Rdentore, una partecipazione della stessa vita spirituale, la cui pienezza è in Gesù Cristo, "de cuius plenitudine nos omnes accepimus". Perciò i Santi del cielo e della terra s'interessano del nostro progresso spirituale e ci aiutano nella lotta contro la carne, il mondo e il demonio. 294. Come sono consolanti queste verità! Quaggiù la vita spirituale è certamente una lotta; ma se l'inferno combatte contro di noi e trova alleati nel mondo e sopra tutto nella triplice concupiscenza, combatte per noi il Cielo; e il Cielo non è soltanto l'esercito degli Angeli e dei Santi, è Cristo, vincitore di Satana, è la SS. Trinità che vive e regna nell'anima nostra. Nascondi Dobbiamo quindi esser pieni di speranza e sicuri di riportar vittoria, a patto che, diffidenti di noi, facciamo innanzi tutto assegnamento su Dio: "omnia possum in eo qui me confortat ( Fil 4,13 ). Capitolo III. Perfezione della vita cristiana. 295. Ogni vita deve perfezionarsi, ma principalmente la vita cristiana, la quale è, per sua natura, essenzialmente progressiva e non toccherà il suo termine se non in cielo. Dobbiamo quindi esaminare in che consista la perfezione di questa vita, per poterci così meglio dirigere nelle vie della perfezione. Essendoci però su questo punto fondamentale errori e idee più o meno monche ed inesatte, cominceremo a rimuovere la false nozioni della perfezione cristiana e ne esporremo poi la vera natura. I. Le false nozioni degli increduli; dei mondani; dei devoti. II. La vera nozione consiste nella carità; suppone sulla terra il sacrificio; concilia armoniosamente questi due elementi; abbraccia i precetti e i consigli; ha i suoi gradi e i suoi limiti. ART. I. False nozioni sulla perfezione Queste false nozioni si trovano presso gl'increduli, i mondano e i falsi devoti. 296. 1° Agli occhi degl'increduli la perfezione cristiana è un puro fenomeno soggettivo, che non corrisponde ad alcuna sicura realtà. A) Molti di loro studiano quelli che essi chiamano fenomeni mistici con malevoli pregiudizi e senza discernere tra i veri e i falsi mistici: tali Max Nordau, J. H. Leuba, E. Murisier. A loro giudizio, la pretesa perfezione dei mistici non è che un fenomeno morboso, una specie di psiconevrosi, di esaltazione del sentimento religioso, ed anche una forma speciale di amore sessuale, come appare dai vocaboli di sponsali o sposalizio, di matrimonio spirituale, di baci, di amplessi, di carezze divine, che ricorrono così spesso sotto la penna dei mistici. Nascondi È chiaro che questo autori, i quali non s'intendono quasi d'altro che di amore profano, non hanno capito nulla dell'amor divino e sono di coloro a cui si potrebbe applicare la parola di Nostro Signore: "Neque mittatis margaritas vestras ante porcos ( Mt 7,6 ). Quindi anche gli altri psicologi, come W. James, fanno loro notare che l'istinto sessuale non ha nulla da vedere con la santità; che i veri mistici praticarono la purità eroica, gli uni non avendo mai o quasi mai provato le debolezze della carne, gli altri avendo superate violente tentazioni con mezzi eroici, per esempio voltolandosi tra le spine. Se dunque unirono il linguaggio dell'amor umano, la ragione è che non ve n'è altro che sia più adatto ad esprimere in modo analogico le tenerezza dell'amore divino. Del resto essi mostrarono in tutta la loro condotta, con le grandi opere che impresero e condussero a buon fine, che erano persone savie e prudenti; e in ogni caso non si possono che benedire le nevrosi che ci diedero i Tommasi d'Aquino, i Bonaventura, gli Ignazi di Loiola, i Franceschi Saveri, le Terese e i Giovanni della Croce, i Franceschi di Sales, le Giovanne di Chantal, i Vincenzi de' Paoli, le Damigelle Legras, i Berulle e gli Olier, gli Alfonsi de' Liguori e i Paoli della Croce. 297. B) Altri increduli rendono giustizia ai nostri mistici, pur dubitando della realtà obbiettiva dei fenomeni da loro descritti: tali William James e Massimo di Montmorand. Riconoscono che il sentimento religioso produce nelle anime mirabili effetti, uno slancio invincibile verso il bene, una illimitata dedizione verso il prossimo, che il loro preteso egoismo non è in fondo che una carità eminentemente sociale feconda della più lieta influenza, che la loro sete di patimenti non impedisce loro di godere ineffabili delizie e diffondere un poco di felicità attorno a loro; solo dubitano che siano vittime d'autosuggestione e d'allucinazione. Nascondi Ma noi facciamo osservare che così benefici effetti non possono derivare se non da una causa proporzionata; che, nel complesso, il bene reale e duraturo non può venire che dal vero, e che se solo i mistici cristiani hanno praticato le virtù eroiche e prodotto opere sociali utili, la ragione è che la contemplazione e l'amore di Dio, ispiratori di queste opere, non sono allucinazioni ma realtà viventi ed operose: "ex fructibus eorum cognoscetis eos ( Mt 7,20 ). 298. 2° I mondani, anche quando hanno la fede, hanno spesso, sulla perfezione o su ciò ch'essi chiamano la devozione, idee molto false. A) Gli uni riguardano i devoti come ipocriti, come Tartufi, che, sotto la maschera della pietà, nascondono vizi odiosi o ambiziose mire politiche, come sarebbe il desiderio di dominare le coscienze e così governare il mondo. Or questo è un confondere l'abuso con la cosa stessa, e la continuazione di questo studio dimostrerà che la semplicità, la lealtà e l'umiltà sono i veri caratteri della devozione. 299. B) Altri considerano la pietà come un'esaltazione della sensibiiltà e dell'immaginazione, una specie di emotività, buona tutt'al più per le donne e per i bambini ma indegna di uomini che vogliono guidarsi con la ragione e con la volontà. Eppure quanti uomini iscritti nel catalogo dei Santi, che si distinsero per un proverbiale buon senso, per una intelligenza superiore, per una volontà energica e costante? Anche qui si confonde dunque la caricatura col ritratto. 300. C) Vi sono infine di quelli che pretendono che la perfezione sia un'utopia inattuabile e perciò stesso pericolosa, che basti osservare i comandamenti e sopratutto aiutare il prossimo, senza perdere il tempo in pratiche minuziose, o nella ricerca di virtù straordinarie. Basta la lettura della vita dei Santi a correggere quest'errore, mostrando che la perfezione fu veramente conseguita sulla terra, e che la pratica dei consigli non solo non nuoce all'osservanza dei precetti ma la rende anzi più facile. 301. 3° Tra le stesse persone devote ce ne sono di quelle che s'ingannano sulla vera natura della perfezione, dipingendola ognuno "secondo la propria passione e la propria fantasia. A) Molti, confondendo la devozione con le devozioni, si immaginano che la perfezione consista nel recitare un gran numero di preghiere e nel fare parte di molte confraternite, talora anche a detrimento dei doveri del proprio stato che costoro trascurano per fare questo o quel pio esercizio, o mancando alla carità verso le persone di casa. Questo è un sostituire l'accessorio al principale e un sacrificare al mezzo il fine. 302. B) Altri poi si danno ai digiuni e alle austerità, fino ad esternuarsi e rendersi incapaci di compiere bene i doveri del proprio stato, credendosi con ciò dispensati dalla carità verso il prossimo; e mentre non osano intingere la lingua nel vino, non temono poi "di immergerla nel sangue del prossimo con la maldicenza e con la calunnia". Anche qui si prende abbaglio su ciò che vi è di più essenziale nella perfezione, e si trascura il dovere capitale della carità per esercizi buoni senza dubbio ma meno importanti. In pari errore cadono coloro che fanno ricche elemosine, ma non vogliono poi perdonare i nemici, oppure, perdonando i nemici, non pensano poi a pagare i debiti. 303. C) Alcuni, confondendo le consolazioni spirituali col fervore, si credono perfetti quando sono inondati di gioia e pregano con facilità; e s'immaginano invece s'essere rilassati quando sono assaliti dalle aridità e dalle distrazioni. Dimenticano che ciò che conta agli occhi di Dio è lo sforzo generoso e spesso rinnovato, nonostante le apparenti sconfitte che si possono provare. 304. D) Altri, invaghiti di azioni e di opere esteriori, trascurano la vita interiore per darsi più intieramente all'apostolato. È un dimenticare che l'anima di ogni apostolato è la preghiera abituale, che attira la grazia divina e rende feconda l'azione. 305.E) Finalmente alcuni, avendo letto libri mistici o vite di Santi in cui si descrivono estasi e visioni, si immaginano che la devozione consista in questi fenomeni straordinarii e fanno sforzi di mente e di fantasia per arrivarvi. Non capiscono che, a detta dei mistici stessi, questi sono fenomeni accessori che non costituiscono la santità, ai quali quindi non bisogna aspirare, e che la vita della conformità alla volontà di Dio è molto più sicura e più pratica. Sgombrato così il terreno, potremo ora più facilmente intendere in che essenzialmente consista la vera perfezione. ART. II. La vera nozione della perfezione. 306.Stato della questione. Per ben risolvere questo problema, cominciamo con determinare lo stato della questione: 1° Nell'ordine naturale un essere è perfetto ( perfectum ) quando è finito e compito, e quindi quando consegue il suo fine: "Unumquodque dicitur esse perfectum in quantum attingit proprium finem, qui est ultima rei perfectio". Questa è la perfezione assoluta; ve n'è però un'altra, relativa e progressiva, che consiste nell'avvicinarsi a questo fine, sviluppando tutte le proprie facoltà e praticando tutti i propri doveri secondo le prescrizioni della legge naturale manifestata dalla retta regione. 307.2° Il fine dell'uomo, anche nell'ordine naturale, è Dio. 1) Creati da Lui, siamo necessariamente creati per Lui, poichè è chiaro che non può Dio trovare un fine più perfetto di Sè, essendo la pienezza dell'Essere; e d'altra parte creare per un fine imperfetto sarebbe indegno di Lui. 2) Di più, essendo Dio la perfezione infinita e quindi la fonte di ogni perfezione, l'uomo è tanto più perfetto quanto più s'avvicina a Lui e ne partecipa le divine perfezioni; ecco perchè il cuore umano non trova nelle creature nulla che possa soddisfarne le legittime aspirazioni: "Ultimus hominis finis est bonum increatum, scilicet Deus, qui solus sua infinita bonitate potest voluntatem hominis perfecte implere". A Dio quindi conviene rivolgere tutte le nostre azioni; conoscerlo, amarlo, servirlo, e così glorificarlo, tal è il fine della vita e la fonte d'ogni perfezione. 308.3° Il che è anche più vero nell'ordine soprannaturale. Gratuitamente elevati da Dio ad uno stato che supera le nostre esigenze e le nostre possibilità, chiamati a contemplarlo un giorno con la visione beatifica e possedendolo già con la grazia, dotati di un intiero organismo soprannaturale per unirci a Lui con la pratica delle virtù cristiane, è chiaro che non possiamo perfezionarci se non avvicinandoci continuamente a Lui. E non potendo far questo senza unirci a Gesù, che è la via necessaria per andare al Padre, la nostra perfezione consisterà nel vivere per Dio in unione con Gesù Cristo: "Vivere summe Deo in Christo Jesu". Il che facciamo praticando le virtù cristiane, teologali e morali, che tutte hanno per fine di unirci in modo più o meno diretto a Dio, facendoci imitare N. S. Gesù Cristo. 309.4° Sorge quindi la questione di sapere se, tra queste virtù, non ve ne sia una che compendi e contenga tutte le altre, e costituisca, a così dire, l'essenza della perfezione. S. Tommaso, sintetizzando la dottrina della S. Scrittura e dei Padri, risponde affermativamente e c'insegna che la perfezione consiste essenzialmente nell'amor di Dio e del prossimo amato per Dio: "Per se quidem et essentialiter consistit perfectio christianæ vitæ in caritate, principaliter quidem secundum dilectionem Dei, secundario autem secundum dilectionem proximi". Ma, poichè nella vita presente l'amor di Dio non può praticarsi senza rinunziare all'amore disordinato di se stessi, ossia alla triplice concupiscenza, in pratica all'amore bisogna aggiungere il sacrificio. Questo verremo esponendo col dimostrare: 1) come l'amor di Dio e del prossimo costituisca l'essenza della perfezione; 2) perchè quest'amore debba giungere fino al sacrificio; 3) in che modo si debbano conciliare questi due elementi; 4) come la perfezione abbracci insieme precetti e consigli; 5) quali ne siano i gradi e fin dove possa arrivare sulla terra. I. L'essenza della perfezione consiste nella carità. 310. Spieghiamo anzitutto il senso della tesi. L'amore di Dio e del prossimo, di cui qui trattiamo, è soprannaturale nel suo oggetto come nel suo motivo e nel suo principio. Il Dio che noi amiamo è il Dio manifestatoci dalla rivelazione, il Dio della Trinità; e l'amiamo perché la fede ce lo mostra infinitamente buono e infinitamente amabile; l'amiamo con la volontà perfezionata dalla virtù della, carità e aiutata dalla grazia attuale. Non è dunque un amore di sensibilità; è vero che, essendo l'uomo composto d'anima e di corpo, spesso si mescola ai nostri più nobili affetti un elemento sensibile; ma un tal sentimento manca talora intieramente, e in ogni caso è del tutto accessorio. L’essenza stessa dell’amore è la dedizione, è la volontà ferma di darsi e, occorrendo, d'immolarsi intieramente per Dio e per la sua gloria, di preferire il suo beneplacito al nostro e a quello delle creature. 311. Conviene dire altrettanto, salve le proporzioni, dell'amor del prossimo. In lui amiamo Dio, un'immagine, un riflesso delle sue divine perfezioni; il motivo quindi che ce lo fa amare è la bontà divina in quanto è manifestata, espressa, irradiata nel prossimo; o, in parole più intelligibili, noi vediamo e amiamo nei nostri fratelli un'anima abitata dallo Spirito Santo, ornata della grazia divina, riscattata dal sangue di Gesù Cristo; e amandola, ne vogliamo il bene soprannaturale, lo spirituale perfezionamento, la salute eterna. Non vi sono quindi due virtù di carità, l'una verso Dio e l'altra verso il prossimo; ve n'è una sola che abbraccia insieme Dio amato per se stesso e il prossimo amato per Dio. Con queste nozioni ci sarà facile intendere come la perfezione consiste proprio nella virtù della carità. Le prove della tesi. 312. 1° Interroghiamo la S. Scrittura. A) Nel Vecchio come nel Nuovo Testamento, ciò che domina e compendia tutta la Legge è il gran precetto della carità, carità verso Dio e carità verso il prossimo. Quindi, quando un dottore della legge domanda a Nostro Signore che cosa bisogna fare per acquistare la vita eterna, il divin Maestro gli risponde soltanto: Che cosa dice la legge? Nascondi E il dottore pronto gli cita il testo del Deuteronomio: "Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo et ex tota anima tua et ex omnibus viribus tuis et ex omni mente tua, et proximum tuum sicut teipsum. E Nostro Signore l'approva dicendogli: “Hoc facet vives ( Lc 10,25-29; cfr. Dt 6,5-7 ). Aggiunge altrove che questo doppio precetto dell'amor di Dio e dell'amor del prossimo costituisce la legge e i Profeti ( Mt 22,39-40 ). Ed è ciò che sotto altra forma dichiara S. Paolo, quando, dopo aver rammentati i principali precetti del Decalogo, aggiunge che la pienezza della legge è l'amore: "Plenitudo legis dilectio" ( Rm 13,10 ). Così l’amor di Dio e del prossimo è nello stesso tempo la sintesi e la pienezza della Legge. Ora la perfezione cristiana non può essere che l'adempimento perfetto ed intero della Legge; perché la Legge é ciò che Dio vuole, e che cosa v'è di più perfetto della santa volontà di Dio? 313. B) Vi è un'altra prova tratta dalla dottrina di S. Paolo sulla carità nel cap. XIII° della Lettera ai Corinti; con lirico linguaggio Paolo vi descrive l'eccellenza della carità, la sua superiorità sui carismi o sulle grazie gratisdate, sulle altre virtù teologali, la fede e la speranza; e mostra ch'essa compendia e contiene in modo eminente tutte le virtù, che è anzi il complesso di queste virtù: "caritas patiens est, benigna est; caritas non aemulatur, non agit perperam, non inflatur, non est ambitiosa, non quaerit qua sua sunt, non irritatur, non cogitat malum…"; e in ultimo aggiunge che i carismi passeranno, che la fede e la speranza spariranno, ma che la carità è eterna. Non è questo un insegnare che non solo la carità è la regina e l'anima delle virtù, ma che è pur così eccellente da bastare a rendere un uomo perfetto, comunicandogli tutte le virtù? 314. C) S. Giovanni, l'apostolo del divino amore, ce ne dà la fondamentale ragione. Dio, egli dice, è carità, "Deus caritas est"; è questa, a così dire, la sua nota caratteristica. Nascondi Se dunque vogliamo somigliare a lui ed essere perfetti come il Padre celeste, bisogna che noi amiamo lui come egli ha amato noi "quoniam prior ipse dilexit nos” ( 1 Gv 3,16; 1 Gv 4,10 ) e non potendo amare lui senza amare pure il prossimo, dobbiamo amare questo caro prossimo fino a sacrificarci per lui “et nos debemus pro fratribus animas ponere": "Carissimi, amiamoci l’un l'altro, perché l'amore viene da Dio e chi ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore … Or questo amore sta in ciò che non fummo noi ad amar Dio, ma egli il primo amò noi e mandò il suo Figliuolo vittima di propiziazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati in tal guisa, dobbiamo noi pure amarci l'un l'altro … Dio è amore e chi sta nell'amore sta in Dio e Dio in lui" ( 1 Gv 4,7-16 ). Si può dire in modo più chiaro che tutta la perfezione consiste nell'amor di Dio e del prossimo per Dio? 315. 2° Interroghiamo la ragione illuminata dalla fede: se consideriamo sia la natura della perfezione sia la natura della carità, arriviamo alla stessa conclusione. A) Abbiamo detto che la perfezione d'un essere consiste nel conseguire il proprio fine o nell'avvicinarsegli quanto più è possibile ( n. 306 ). Ora il fine dell'uomo nell'ordine soprannaturale è Dio eternamente posseduto con la visione intuitiva e con l'amore beatifico; sulla terra ci avviciniamo a questo fine vivendo già in unione intima con la SS. Trinità che vive in noi e con Gesù mediatore necessario per andare al Padre. Quanto più dunque siamo uniti a Dio, ultimo nostro fine e fonte della nostra vita, tanto più siamo perfetti. 31. Or qual è tra le virtù cristiane la più unificante, quella che unisce l'anima nostra intieramente a Dio, se non la divina carità? Le altre virtù ci preparano a questa unione, o anche a lei ci iniziano, ma non possono compierla. Le virtù morali, prudenza, fortezza, temperanza, giustizia, etc., non ci uniscono direttamente a Dio, ma servono solo a sopprimere o diminuire gli ostacoli che ce ne allontanano e ad avvicinarci a Dio conformandoci all’ordine; così la temperanza, combattendo lo smoderato uso del piacere, attenua uno dei più violenti ostacoli all'amor di Dio; l'umiltà, allontanando l'orgoglio e l'amor proprio, ci predispone alla pratica della divina carità. Inoltre queste virtù, facendoci praticare l'ordine ossia la giusta misura, sottomettono la nostra volontà a quella di Dio e ci avvicinano a lui. Le virtù teologali poi distinte dalla carità, ci uniscono certamente a Dio, ma in modo incompleto. La fede ci unisce a Dio, infallibile verità, e ci fa vedere le cose alla luce di Dio; ma è compatibile col peccato mortale che ci separa da Dio. La speranza ci eleva a Dio, in quanto è cosa buona per noi, e ci fa desiderare i beni del cielo, ma può sussistere con colpe gravi che ci allontanano dal nostro fine. 317. La sola carità ci unisce intieramente a Dio. Suppone la fede e la speranza ma le oltrepassa: prende tutta quanta l'anima, intelligenza, cuore, volontà, attività, e la dà a Dio senza riserva. Nascondi Esclude il peccato mortale che è il nemico di Dio, e ci fa godere della divina amicizia: “Si quis diligit me, et Pater meus diliget eum " ( Gv 14,23 ). Ora l'amicizia è unione, è fusione di due anime in una sola: cor unum et anima una … unum velle, unum nolle; completa unione di tutte le nostre facoltà: unione della mente, che fa che il nostro pensiero si modelli su quello di Dio; unione della volontà, che ci fa abbracciare la volontà di Dio come fosse nostra; unione del cuore, che ci stimola a darci a Dio come Egli si dà a noi, dilectus meus mihi et ego illi; unione delle forze attive, onde Dio mette a servizio della nostra debolezza la divina sua potenza per aiutarci a eseguire i nostri buoni disegni. La carità ci unisce dunque a Dio, nostro fine, a Dio infinitamente perfetto, e costituisce quindi l'elemento essenziale della nostra perfezione. 318. B) Studiando la natura della carità, arriviamo alla stessa conclusione; come infatti dimostra S. Francesco di Sales, la carità racchiude tutte le virtù e dà loro anzi una speciale perfezione. a) Racchiude tutte le virtù. La perfezione consiste com'è chiaro, nell’acquisto delle virtù: chi le possiede tutte, in un grado non solo iniziale ma elevato, è certamente perfetto. Ora chi possiede la carità possiede tutte le virtù e le possiede nella loro perfezione: possiede la fede, senza cui non si può conoscere ed amare l'infinita amabilità di Dio; e la speranza, che, ispirandoci la fiducia, ci conduce all'amore; e tutte le virtù morali, per esempio, la prudenza, senza cui la carità non potrebbe né conservarsi né crescere; la fortezza, che ci fa trionfare degli ostacoli che si oppongono alla pratica della carità; la temperanza, che doma la sensualità, implacabile nemica dell'amor di Dio. Nascondi Anzi, aggiunge S. Francesco di Sales," il grande Apostolo non dice solo che la carità ci dà la pazienza, la benignità, la costanza, la semplicità, ma dice ch'essa stessa è paziente, benigna, costante" ( 1 Cor 13,4 ) perché contiene la perfezione di tutte le virtù. 319. b) Anzi dà loro una perfezione e un valore speciale, perché è, secondo l'espressione di S. Tommaso, la forma di tutte le virtù. Tutte le virtù separate dalla carità sono molto imperfette, perché non possono senza di lei giungere al loro fine che è di rendere l'uomo felice … Non dico che senza la carità non possano nascere e anche progredire; ma che abbiano tale perfezione da meritare il titolo di virtù fatte, formate e compite, questo dipende dalla carità, che dà loro la forza di volare a Dio, e raccogliere dalla sua misericordia il miele del vero merito e della santificazione dei cuori in cui si trovano. La carità è tra le virtù come il sole tra le stelle: distribuisce a tutte la loro luce e la loro bellezza. La fede, la speranza, il timor di Dio e la penitenza, vengono ordinariamente nell'anima prima di lei a prepararle la dimora; e giunta che è, la ubbidiscono e la servono come tutte le altre virtù, ed ella le anima, le adorna e le avviva con la sua presenza". In altri termini, la carità, orientando direttamente l'anima nostra verso Dio, perfezione somma ed ultimo fine, dà pure a tutte le altre virtù che vengono a porsi sotto il suo impero, lo stesso orientamento e quindi lo stesso valore. Così un atto d'obbedienza e di umiltà, oltre al proprio valore, riceve dalla carità un valore assai più grande quando è fatto per piacere a Dio, perché allora diventa un atto di amore, cioè un atto della più perfetta tra le virtù. Aggiungiamo che quest'atto diventa più facile e più attraente: obbedire e umiliarsi costano molto alla orgogliosa nostra natura, ma il pensiero che, praticando questi atti, si ama Dio e se ne procura la gloria, li rende singolarmente facili. Così dunque la carità è non solo la sintesi ma l'anima di tutte le virtù, e ci unisce a Dio in modo più perfetto e più diretto delle altre; è quindi lei quella che costituisce l'essenza stessa della perfezione. Conclusione 320.Poiché l'essenza della perfezione consiste nell'amor di Dio, ne viene che l'accorciatoia per arrivarvi è d'amare molto, d'amare con generosità ed intensità, e principalmente di amare con amor puro e disinteressato. Ora noi amiamo Dio non solo quando recitiamo un atto di carità ma anche quando facciamo la sua volontà o quando compiamo un dovere sia pur minimo per piacergli. Ognuna quindi delle nostre azioni, per quanto volgare ella sia in se stessa, può essere trasformata in un atto di amore e farci avanzare verso la perfezione. Il progresso sarà tanto più reale e più rapido, quanto più intenso e più generoso sarà quest'amore e quindi quanto più il nostro sforzo sarà energico e costante; perché ciò che conta agli occhi di Dio è la volontà, è lo sforzo, indipendentemente da ogni emozione sensibile. E poiché l'amore soprannaturale del prossimo è anch'esso un atto d'amor di Dio, tutti i servizi che rendiamo ai nostri fratelli, vedendo in loro un riflesso delle divine perfezioni, o, ciò che torna lo stesso, vedendo in loro Gesù Cristo, diventano tutti atti d' amore che ci fanno avanzare verso la santità. Amare dunque Dio e il prossimo per Dio, ecco il segreto della perfezione, purché su questa terra vi si aggiunga il sacrificio. II. La carità sulla terra suppone il sacrificio 321. In paradiso ameremo senza bisogno di immolarci, ma sulla terra la cosa corre altrimenti. Nello stato attuale di natura decaduta ci è impossibile di amare Dio con amore vero ed effettivo senza sacrificarci per Lui. Nascondi A ciò che risulta da quanto abbiamo detto più sopra, ai n. 7475, sulle tendenze della natura corrotta che restano nell'uomo rígenerato. Noi non possiamo amare Dio senza combattere e mortificare queste tendenze; è lotta che comincia col primo svegliarsi della ragione e termina solo con l'ultimo respiro. Vi sono, è vero, momenti di sosta. in cui la lotta è meno viva; ma anche allora non possiamo disarmare senza esporci ai contrattacchi del nemico. É un fatto provato dalla testimonianza della Sacra Scrittura. 1° La Sacra Scrittura ci dichiara apertamente la necessità assoluta del sacrificio o dell'abnegazione per amar Dio e il prossimo. Nascondi 322. A) A tutti i suoi discepoli rivolge Nostro Signore questo invito: “Chi vuol seguir me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua: "Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, tollat crucem suam et sequatur me ». ( Mt 16,24; cfr. Lc 9,23 ). Per seguire Gesù ed amarlo, è condizione essenziale il rinunziare a sé stesso, cioè alle cattive tendenze della natura, all'egoismo, all'orgoglio, all'ambizione, alla sensualità, alla lussuria, all'amore disordinato delle comodità e delle ricchezze; è il portare la propria croce, accettare i patimenti, le privazioni, le umiliazioni, i rovesci di fortuna, le fatiche, le malattie, in una parola tutte quelle croci provvidenziali che Dio ci manda per provarci, per rassodarci nella virtù e facilitarci l'espiazione delle colpe. Allora, e allora soltanto, si può essere suoi discepoli e camminare per le vie dell'amore e della perfezione. Gesù conferma questa lezione col suo esempio. Egli che era venuto dal cielo espressamente per mostrarci il cammino della perfezione, non tenne altra via che quella della croce: Tota vita Christi crux fuit et martyrium. Dal presepio al Calvario, è una lunga serie di privazioni, d'umiliazioni, di pene, di fatiche apostoliche, coronate dalle angosce e dalle torture della dolorosa sua passione. Nascondi Il commento più eloquente del "Si quis vult venire post me "; se ci fosse stata altra via più sicura, egli ce l'avrebbe mostrata, ma sapendo che non c'era, tenne quella per trarci a seguirlo: “Quando sarò elevato da terra, attirerò a me tutti gli uomini: “Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum". ( Gv 12,32 ). Così l'intesero gli Apostoli che ci ripetono, con S. Pietro, che se Cristo patì per noi, lo fece per trarci alla sua sequela: “Christus passus est pro nobis, vobis relinquens exemplum ut sequamini vestigia ejus”. ( 1 Pt 2,21 ). 323. B) Tal è pur l'insegnamento di S. Paolo: per lui la perfezione cristiana consiste nello spogliarsi dell'uomo vecchio e rivestirsi del nuovo, exspoliantes vos velerem hominem cum actibus suis et induentes novum". ( Col 3,9 ). Or l'uomo vecchio è il complesso delle cattive tendenze ereditate da Adamo, è la triplice concupiscenza che bisogna combattere e infrenare con la pratica della mortificazione. Nascondi Dice quindi nettamente che coloro che vogliono essere discepoli di Cristo devono crocifiggere i loro vizi e i loro cattivi desideri: "Qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis". ( Gal 5,24 ). A condizione essenziale, tanto ch'egli stesso si sente obbligato a castigare il suo corpo e a reprimere la concupiscenza per neri rischiare di essere riprovato: “Castigo corpus meum et in servitutem redigo, ne forte, cum aliis praedicaverim, ipse reprobus efficiar”.( 1 Cor 9,27 ). 324. C) S. Giovanni, l'apostolo dell'amore, non è meno chiaro e netto: insegna che, per amar Dio, bisogna osservare i comandamenti e combattere la triplice concupiscenza che regna da padrona nel mondo; e aggiunge che se si ama il mondo e ciò che è nel mondo, cioè la triplice concupiscenza, non si può possedere l'amor di Dio: "Si quis diligit mundum, non est caritas Patris in eo " ( 1 Gv 2,15 ). ra per odiare il mondo e le sue seduzioni, è chiaro che bisogna praticare lo spirito di sacrificio, privandosi dei piaceri cattivi e pericolosi. Nascondi 325. 2° Ed è del resto necessaria conseguenza dello stato di natura decaduta qual l'abbiamo descritto al n. 74, e della triplice concupiscenza che dobbiamo combattere, n. 193 ss. É impossibile infatti amar Dio e il prossimo senza sacrificare generosamente ciò che si oppone a questo amore. Ora, come abbiamo dimostrato, la triplice concupiscenza s'oppone all'amor di Dio e del prossimo; bisogna quindi combatterla senza tregua e pietà, se vogliamo progredire nella carità. 326. Rechiamo qualche esempio. I nostri sensi esterni corrono avidamente verso tutto ciò che li solletica e mettono in pericolo la fragile nostra virtù. Nascondi Che fare per resistervi? Ce lo dice Nostro Signore coll’energico suo linguaggio: “Se il tuo occhio destro è per te occasione di caduta, cavalo e gettalo via da te: è meglio per te che perisca uno dei tuoi membri, anziché tutto il tuo corpo venga gettato nell'inferno" ( Mt 5,29 ). Il che significa che bisogna saper staccare con la mortificazione gli occhi, le orecchie, tutti i sensi da ciò che è occasione di peccato; altrimenti non c'è né salvezza né perfezione. Lo stesso si dica dei nostri sensi interni, specialmente della fantasia e della memoria; chi non sa a quali pericoli ci esponiamo se non ne reprimiamo sul nascere i traviamenti? Le stesse nostre facoltà superiori, l'intelligenza e la volontà, sono soggette a molte deviazioni, alla curiosità, all'indipendenza, all'orgoglio; quanti sforzi non sono necessari, quante lotte sempre rinascenti per tenerle sotto il giogo della fede e dell'umile sottomissione alla volontà di Dio e dei suoi rappresentanti! Dobbiamo dunque confessare che, se vogliamo amar Dio ed il prossimo per Dio, bisogna saper mortificare l'egoismo, la sensualità, l'orgoglio, l'amore disordinato delle ricchezze, onde il sacrificio diventa necessario come condizione essenziale dell'amor di Dio sulla terra. É questo in sostanza il pensiero di S. Agostino quando dice: "Due amori hanno fatto due città; l'amor di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha fatto la città terrestre; l'amor di Dio spinto fino al disprezzo di sé ha fatto la città celeste". Non si può, in altre parole, amar veramente Dio che disprezzando se stesso, cioè disprezzando e combattendo le cattive tendenze. In quanto a ciò che vi è di buono in noi, bisogna esserne grati al primo suo autore e coltivarlo con sforzi incessanti. 327. La conclusione che logicamente ne viene è che, se per essere perfetti bisogna moltiplicare gli atti d'amore, non è meno necessario moltiplicare gli atti di sacrificio, poiché sulla terra non si può amare che immolandosi. Del resto si può dire che tutte le nostre opere buone sono insieme atti d'amore e atti di sacrificio: atti di sacrificio in quanto ci distaccano dalle creature e da noi stessi, atti di amore in quanto ci uniscono a Dio. Resta quindi da vedere in che modo si possano conciliare insieme questi due elementi III. Parte rispettiva dell'amore e del sacrificio nella vita cristiana. 328. Dovendo l'amore e il sacrificio avere la loro parte nella vita cristiana, quale sarà l’ufficio di ognuno di questi due elementi? Su tale argomento, vi sono punti in cui tutti convengono e altri in cui si manifesta qualche disparere, benché poi in pratica i dotti delle diverse scuole riescano a conclusioni pressoché identiche. Nascondi 329. 1° Tutti ammettono che in sé, nell'ordine ontologico o di dignità, l'amore tiene il primo posto è lo scopo e l'elemento essenziale della perfezione, come abbiamo provato nella prima nostra tesi, n. 312. L'amore quindi occorre tenere primieramente in vista, a questo mirare continuamente, è lui che deve dare al sacrificio l'intima sua ragione e il suo valore principale: "in omnibus respice finem". Bisogna dunque parlarne fin dal principio della vita spirituale e far rilevare che l'amor di Dio facilita singolarmente il sacrificio senza però poterne mai dispensare. 330. 2° Quanto all'ordine cronologico, tutti ammettono pure che questi due elementi sono inseparabili e che devono quindi coltivarsi insieme e anche compenetrarsi, poiché non v’è sulla terra amore vero senza sacrificio, e che il sacrificio fatto per Dio è una delle migliori prove di amore. Tutta la questione quindi si riduce in fondo a questa: nell'ordine cronologico, su quale elemento bisogna maggiormente insistere, sull'amore o sul sacrificio? Or qui ci troviamo di fronte a due tendenze e a due scuole diverse. 331. A) S. Francesco di Sales, appoggiandosi su molti rappresentanti della scuola benedettina e domenicana e confidando negli aiuti che ci offre la natura rigenerata, dà la precedenza all'amor di Dio per farci accettare e praticar meglio il sacrificio; ma non esclude quest'ultimo, chiede anzi alla sua Filotea molto spirito di rinunzia e di sacrificio; lo fa però con molto riguardo e con molta dolcezza nella forma per meglio arrivare al suo scopo. Il che appare fin dal primo capitolo dell'Introduzione alla vita devota: "La vera e viva devozione presuppone l'amor di Dio, anzi non è altro in se che un vero amor di Dio … E appunto perché la devozione sta in un certo grado di eccellente carità, non solo ci rende pronti, attivi, diligenti nell'osservanza di tutti i comandamenti di Dio, ma ci stimola pure a fare con prontezza ed affetto quante più buone opere possiamo, benché non siano in alcun modo comandate ma solamente consigliate o ispirate". Ora osservare i comandamenti, seguire i consigli e le ispirazioni della grazia, è certamente un praticare un alto grado di mortificazione. Del resto il Santo chiede a Filotea che cominci dal mondarsi non solo dai peccati mortali ma anche dai peccati veniali, dall'affetto alle cose inutili e pericolose e dalle cattive inclinazioni. E quando tratta delle virtù, non ne dimentica la parte penosa; vuole soltanto che tutto sia condito coll'amor di Dio e del prossimo. 332. B) Per altro verso, la scuola ignaziana e la scuola francese del secolo XVII, pur non dimenticando che l'amor di Dio è lo scopo da conseguire e quello che deve avvivare tutte le nostre azioni, mettono al primo posto, sopratutto per i principianti, la rinunzia, l'amor della croce o la crocifissione dell'uomo vecchio, come il più sicuro mezzo per arrivare al vero ed effettivo amore. Pare che temano che, se non vi s'insiste sul principio, molte anime cadano poi nell'illusione, immaginandosi d'essere già molto avanzate nell'amor di Dio mentre la loro pietà è più sensibile ed apparente che reale; onde poi certe miserande cadute al presentarsi di violente tentazioni o al sopravvenire delle aridità. Del resto il sacrificio, virilmente accettato per amor di Dio, conduce a una più generosa e più costante carità, e la pratica abituale dell'amor di Dio viene a coronare l'edificio spirituale. 333. Conclusione pratica. Senza aver la pretesa di dirimere cotesta controversia, proporremo alcune conclusioni ammesse dai dotti di tutte le scuole. A) Ci sono due eccessi da evitare: a) quello di voler lanciare troppo presto le anime in quella che si chiama la via dell’amore, senza esercitarle nello stesso tempo nella pratica austera della rinunzia quotidiana. Così si fomentano le illusioni e talora anche miserande cadute: quante anime, provando le consolazioni sensibili che Dio concede ai principianti e credendosi salde nella virtù, si espongono alle occasioni di peccato, commettono imprudenze e cadono in colpe gravi! Un poco più di mortificazione, di vera umiltà, di diffidenza di se stesse, una lotta più coraggiosa contro le passioni, le avrebbe preservate da queste miserie. b) Un altro eccesso sta nel parlare soltanto di rinunzia e di mortificazione senza far rilevare che sono soltanto mezzi per arrivare all'amor di Dio o manifestazioni di quest'amore. É questa la ragione per cui certe anime di buona volontà, ma ancor poco coraggiose, si sentono ributtate ed anche disanimate. Si sentirebbero maggiore slancio ed energia, se si mostrasse loro che questi sacrifici diventano molto più facili quando si fanno per amor di Dio: “Ubi amatur, non laboratur". 334. B) Evitati questi eccessi, il direttore saprà scegliere per il suo penitente la via più conveniente al carattere suo e alle attrattive della grazia. a) Vi sono anime sensibili e affettuose che non prendono gusto alla mortificazione se non dopo aver già praticato per qualche tempo l'amor di Dio. É vero che questo amore è spesso imperfetto, più ardente e sensibile che generoso e durevole. Ma, se si bada a giovarsi di questi primi slanci per mostrare che il vero amore non può perseverare senza sacrificio, se si riesce a far praticare, per amor di Dio, alcuni atti di penitenza, di riparazione, di mortificazione, quegli atti che sono più necessari a evitare il peccato, la loro virtù a poco a poco si rinsalda, si fortifica la loro volontà, e viene il momento in cui capiscono che il sacrificio deve andare di pari passo con l'amor di Dio. b) Se si tratta invece di caratteri energici, abituati ad agire per dovere, si può, pur mettendo loro avanti agli occhi l'unione con Dio come scopo, insistere dapprincipio sulla rinunzia come pietra di paragone della carità, e far praticare la penitenza, l'umiltà e la mortificazione, pur condendo queste austere virtù con un motivo d'amor di Dio o di zelo per le anime. Così non si separerà mai l'amore dal sacrificio, e si mostrerà che questi due elementi si conciliano e si perfezionano a vicenda. IV. La perfezione consiste nei precetti o nei consigli? 335. 1° Stato della questione. Abbiamo visto che la perfezione essenzialmente consiste nell'amor di Dio e del prossimo spinto fino al sacrificio. Ora intorno all'amor di Dio e al sacrificio vi sono nello stesso tempo precetti e consigli: precetti che ci comandano, sotto pena di peccato, di fare questa o quella cosa o di astenercene; consigli che c'invitano a fare per Dio più di quello che ci è comandato, sotto pena d'imperfezione volontaria e di resistenza alla grazia. Nascondi Vi allude Nostro Signore quando dichiara al giovane ricco: "Se vuoi entrar nella vita, osserva i comandamenti … Se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo: "Si autem vis ad vitam ingredi, serva mandata … Si vis perfectus esse, vende quæ habes et da pauperibus, et habebis thesaurum in cælo, et veni, sequere me" ( Mt 19,17.21 ). Osservare dunque le leggi della giustizia e della carità in materia di proprietà basta per entrare in cielo; ma, se si vuole essere perfetti, bisogna vendere i propri beni, darne il prezzo ai poveri e praticare così la volontaria povertà. S. Paolo ci fa pure notare che la verginità è un consiglio e non un precetto, che lo sposarsi è cosa buona ma che restar vergine è anche migliore ( 1 Cor 7,25-40 ). 336. 2° La soluzione. Alcuni autori ne hanno concluso che la vita cristiana consiste nell'osservanza dei precetti e la perfezione nei consigli. È un modo di vedere un po' semplicista e che, frainteso, potrebbe condurre a funeste conseguenze. La verità è che la perfezione esige prima di tutto l'adempimento dei precetti e secondariamente l'osservanza d'un certo numero di consigli. È questo appunto l'insegnamento di S. Tommaso. Dopo aver provato che la perfezione non è altro che l'amor di Dio e del prossimo, conclude che in pratica consiste essenzialmente nei precetti, di cui il principale è quello della carità, e secondariamente nei consigli, i quali pure si riferiscono tutti alla carità, perchè allontanano gli ostacoli che si oppongono al suo esercizio. Spieghiamo questa dottrina. 337. A) La perfezione esige prima di tutto e imperiosamente l'adempimento dei precetti; è necessario inculcare fortemente questo concetto a certe persone che, per esempio, col pretesto della devozione, dimenticano i doveri del proprio stato, oppure, per praticar la elemosina con maggior pompa, ritardano indefinitamente il pagamento dei debiti, insomma a tutti quelli che trascurano questo o quel precetto del decalogo con la pretesa di più alta perfezione. Ora è evidente che la violazione d'un precetto grave, come è quello di pagare i debiti, distrugge in noi la carità, e che il pretesto di far l'elemosina non può giustificare questa infrazione della legge naturale. Parimente la violazione volontaria d'un precetto in materia lieve è un peccato veniale, che, senza distruggere la carità, ne impaccia più o meno l'esercizio e sopratutto offende Dio e diminuisce la nostra intimità con lui; il che è vero principalmente del peccato veniale deliberato e frequente, che crea in noi degli attacchi e c'impedisce di slanciarci liberamente verso la perfezione. Bisogna dunque, per essere perfetti, osservare prima di tutto i precetti. 338. B) Ma è necessario aggiungervi l'osservanza dei consigli, almeno di alcuni, specialmente di quelli impostici dall'adempimento dei doveri del nostro stato. a) Così i Religiosi, essendosi obbligati per voto a praticare i tre grandi consigli evangelici della povertà, della castità e dell'obbedienza, non possono santificarsi senza essere fedeli ai loro voti. Del resto questa pratica facilita singolarmente l'amor di Dio distaccando l'anima dai principali ostacoli che s'oppongono alla divina carità: la povertà, strappandoli all'amore disordinato delle ricchezze, fomenta lo slancio del cuore verso Dio e i beni celesti; la castità, sottraendoli ai piaceri della carne, anche a quelli leciti nel santo stato del matrimonio, li aiuta ad amar Dio senza divisione; l'obbedienza, combattendo l'orgoglio e lo spirito d'indipendenza, assoggetta la loro volontà a quella di Dio ed è in sostanza un atto d'amore. 339.b) Quelli poi che non hanno fatto voti, devono, per essere perfetti, praticarne lo spirito, ognuno secondo la propria condizione, le ispirazioni della grazia e i consigli d'un savio direttore. Così praticheranno lo spirito di povertà, privandosi di molte cose inutili per poter fare qualche risparmio da erogare in elemosine e in opere di beneficenza; lo spirito di castità, anche se sono coniugati, usando moderatamente e con qualche restrizione dei legittimi piaceri del matrimonio e diligentemente evitando tutto ciò che è proibito o pericoloso; lo spirito di obbedienza, assoggettandosi docilmente ai propri superiori, in cui vedranno l'immagine di Dio, e alle ispirazioni della grazia accertate da un savio direttore. Amare dunque Dio e il prossimo per Dio e saper sacrificarsi al fine di meglio osservare questo doppio precetto e i consigli che vi si riferiscono, ognuno secondo il proprio stato, qui sta la vera perfezione. § V. Dei diversi gradi di perfezione. La perfezione ha su questa terra i suoi gradi e i suoi limiti; onde due questioni: 1° quali sono i principali gradi di perfezione; 2° quali ne sono i limiti sulla terra? I. Dei diversi gradi di perfezione. 340. I gradi per cui uno si eleva alla perfezione sono numerosi; e non è qui il caso di enumerarli tutti ma solo di notare le principali tappe. Ora, secondo la dottrina comune, esposta da S. Tommaso, si distinguono tre tappe principali, o, come generalmente si dice, tre vie, quella degli incipienti, quella dei proficienti, quella dei perfetti, secondo lo scopo principale a cui si mira. 341. a) Nel primo stadio, la principale cura degli incipienti è di non perdere la carità che possiedono: lottano quindi per evitare il peccato, sopratutto il peccato mortale, e per trionfare delle male cupidigie, delle passioni e di tutto ciò che potrebbe far loro perdere l'amor di Dio. Questa è la via purgativa, il cui scopo è di mondare l'anima dalle sue colpe. 342. b) Nel secondo stadio si vuol progredire nella pratica positiva delle virtù, e fortificare la carità. Essendo già purificato, il cuore è più aperto alla luce divina e all'amor di Dio: si ama di seguire Gesù e imitarne le virtù, e poichè, seguendolo, si cammina nella luce, questa via si chiama illuminativa. L'anima si studia di schivare non solo il peccato mortale, ma anche il veniale. 343. c) Nel terzo stadio, i perfetti non hanno più che un solo pensiero, star uniti a Dio e deliziarsi in Lui. Costantemente studiandosi di unirsi a Dio, sono nella via unitiva. Il peccato fa loro orrore, perchè temono di dispiacere a Dio e di offenderlo; le virtù li attirano, specialmente le virtù teologali, perchè sono mezzi d'unirsi a Dio. La terra quindi sembra loro un esilio, e, come S. Paolo, desiderano di morire per andarsene con Cristo. Sono queste brevi indicazioni soltanto che più tardi ripiglieremo e svolgeremo nella seconda parte di questo Compendio, dove seguiremo un'anima dalla prima tappa, la purificazione dell'anima, all'unione trasformante che la prepara alla visione beatifica. II. Dei limiti della perfezione sulla terra. 344. Quando si leggono le vite dei santi e principalmente dei grandi contemplativi, si resta meravigliati al vedere a quali sublimi altezze può elevarsi un'anima generosa che nulla rifiuta a Dio. Nondimeno vi sono dei limiti alla nostra perfezione su questa terra, limiti che non si deve voler oltrepassare, sotto pena di ricadere in un grado inferiore o anche nel peccato. 345. 1° È certo che non si può amare Dio tanto quanto è amabile: Dio infatti è infinitamente amabile e il nostro cuore, essendo finito, non potrà mai amarlo, anche in cielo, che con amore limitato. Possiamo quindi sforzarci d'amarlo sempre più, anzi, secondo S. Bernardo, la misura d'amar Dio è d'amarlo senza misura. Ma non dimentichiamo che il vero amore, più che di pii sentimenti, consiste in atti di volontà, e che il miglior mezzo d'amar Dio è di conformare la nostra volontà alla sua, come spiegheremo più avanti, trattando della conformità alla divina volontà. 346. 2° Sulla terra non si può amar Dio ininterrottamente e senza debolezze. Si può certamente con grazie particolari che non sono rifiutate alle anime di buona volontà, schivare ogni peccato veniale deliberato ma non ogni colpa di fragilità; nè si diventa mai impeccabili, come la Chiesa ha in parecchie circostanze dichiarato. A) Nel Medio Evo, i Beguardi avevano preteso che "l'uomo, nella vita presente, è capace d'acquistare tal grado di perfezione da divenire affatto impeccabile e da non potere crescere di più in grazia". Ne concludevano che colui il quale ha conseguito questo grado di perfezione, non deve più nè digiunare nè pregare, perchè in questo stato la sensualità è talmente assoggettata allo spirito e alla ragione ch'egli può concedere al suo corpo ogni diletto; non è più obbligato ad osservare i precetti della Chiesa, nè ad obbedire agli uomini, nè anche a praticare gli atti delle virtù, tutte cose proprie dell'uomo imperfetto. Sono dottrine pericolose che finiscono poi nell'immoralità; quando uno si crede impeccabile e non si esercita più nella virtù, diventa presto preda delle più vili passioni. Nascondi Ed è ciò che avvenne ai Beguardi, che il Concilio ecumenico di Vienna dovette poi giustamente condannare nel 1311. 347. B) Nel secolo XVII, Molinos rinnovò quest'errore, insegnando che "con la contemplazione acquisita si arriva a un tal grado di perfezione che non si commettono più peccati nè mortali nè veniali". Ma mostrò troppo bene col suo esempio che, con massime apparentemente così alte, si è pur troppo esposti a cadere in scandalosi disordini. Fu giustamente condannato da Innocenzo XI il 19 novembre 1687, e quando si leggono le proposizioni che aveva osato sostenere, si resta inorriditi delle orribili conseguenze a cui conduce questa pretensione d'impeccabilità. Siamo dunque più modesti e pensiamo soltanto correggerci delle colpe deliberate e diminuire il numero di quelle di fragilità. 348. 3° Sulla terra non si può amare Dio costantemente o anche abitualmente con amore così perfettamente puro e disinteressato che escluda ogni atto di speranza. A qualunque grado di perfezione si sia giunti, si è obbligati a fare di tanto in tanto degli atti di speranza, e non si può quindi in modo assoluto restare indifferente alla propia salvezza. Vi furono, è vero, dei santi che, nelle prove passive, s'acconciarono momentaneamente alla loro riprovazione in modo ipotetico, cioè se tale fosse la volontà di Dio, pur protestando che in tal caso non volevano cessare d'amar Dio, ma sono ipotesi che si devono ordinariamente scartare, perchè di fatto Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini. Si possono però fare, di quando in quando, atti di amor puro senza alcuna mira a sè stesso e quindi senza attualmente sperare o desiderare il cielo. Tale è, per esempio, questo atto d'amore di S. Teresa: "Se vi amo, O Signore, non è per il cielo che m'avete promesso; se temo d'offendervi, non è per l'inferno di cui sarei minacciata; ciò che m'attira verso di voi, o Signore, siete voi, voi solo, che vedo inchiodato alla croce, col corpo straziato, tra agonie di morte. E il vostro amore si è talmente impadronito del mio cuore che, quand'anche non ci fosse il paradiso, io vi amerei lo stesso; quand'anche non ci fosse l'inferno, pure io vi temerei. Nulla voi avete da darmi per provocare il mio amore; perchè, quand'anche non sperassi ciò che spero, pure io vi amerei come vi amo". 349. Abitualmente vi è nel nostro amor di Dio un misto d'amor puro e d'amore di speranza, il che significa che noi amiano Dio e per sè stesso, perchè è infinitamente buono, e anche perchè è la fonte della nostra felicità. Questi due motivi non si escludono, perchè Dio volle che nell'amarlo e nel glorificarlo troviamo la nostra felicità. Non ci affanniamo quindi di questo misto e, pensando al paradiso, diciamo soltanto che la nostra felicità consisterà nel possedere Dio, nel vederlo, nell'amarlo e nel glorificarlo; così il desiderio e la speranza del cielo non impediranno che il motivo dominante delle nostre azioni sia veramente l'amor di Dio. Conclusione 350. Amore e sacrificio, ecco dunque tutta la perfezione cristiana. Ora chi non può, con la grazia di Dio, adempiere questa doppia condizione? È dunque così difficile amar Colui che è infinitamente amabile e infinitamente amante? L'amore che ci si chiede non è qualche cosa di straordinario, è l'amore di abnegazione, è il dono di sè stesso, è specialmente la conformità alla divina volontà. Voler amare è dunque amare; osservare i comandamenti per Dio è amare; pregare è amare; compiere i doveri del proprio stato per piacere a Dio è amare; anzi ricrearsi, nutrirsi con le stesse intenzioni è amare; rendere servizio al prossimo per Dio è amare. Non v'è quindi nulla di più facile, con la grazia di Dio, del praticare costantemente la divina carità e così incessantemente progredire verso la perfezione. 351. Il sacrificio certamente appare più penoso; ma non ci si chiede di amarlo per sè stesso: basta amarlo per Dio, o, in altre parole, persuadersi che sulla terra non si può amare Dio senza rinunziare a ciò che è di ostacolo al suo amore. Allora il sacrificio diventa prima tollerabile e poi presto anche amabile. Una madre che passa le lunghe notti al capezzale del foglio ammalato, non accetta forse lietamente le sue fatiche, quando ha la speranza, specialmente poi se ha la certezza di salvargli la vita? Ora noi abbiamo non solo la speranza ma la certezza di piacere a Dio, di procurarne la gloria, e nello stesso tempo di salvarci l'anima, quando, per amor di Dio, c'imponiamo i sacrifici che ci domanda. E non abbiamo per rinfrancarci gli esempi e gli aiuti dell'Uomo-Dio? Non patì Gesù quanto e più di noi per glorificare il Padre suo e salvare le anime nostre? E noi, suoi discepoli, incorporati a lui col battesimo, nutriti del suo corpo e del suo sangue, esiteremo a patire in unione con lui, per amore di lui, secondo le stesse sue intenzioni? E non è forse vero che la croce ha i suoi vantaggi, specialmente per i cuori che amano? "Nella croce sta la salute, dice l'Imitazione; nella croce la vita; nella croce la protezione contro i nemici; nella croce una soavità tutta celeste: "In cruce salus, in cruce vita, in cruce protectio ab hostibus, in cruce infusio supernæ suavitatis". Concludiamo dunque con S. Agostino: "Per i cuori che amano non vi sono sacrifici troppo penosi; vi si trova anzi diletto, come si vede in quelli che amano la caccia, la pesca, la vendemmia, gli affari … Perchè, quando si ama, o non si patisce o anche qual patimento si ama, aut non laboratur aut et labor amatur". E affrettiamoci a progredire, per la via del sacrificio e dell'amore, verso la perfezione, perchè per noi è un obbligo. Capitolo IV Dell'obbligo di tendere alla perfezione. 352. Esposta la natura della vita cristiana e la sua perfezione, ci resta ad esaminare se ci sia per noi un vero obbligo di progredire in cotesta vita oppure se basti di serbarla gelosamente come si custodisce un tesoro. Per rispondere con maggior esattezza, esamineremo tale questione rispetto a tre categorie di persone: 1° i semplici fedeli o i cristiani; 2° i religiosi; 3° i sacerdoti; insistendo su quest'ultimo punto per lo scopo speciale che ci siamo proposti. ART. I. Dell'obbligo per i cristiani di tendere alla perfezione Esporremo: 1° l'obbligo in sé; 2° i motivi che rendono più facile questo dovere. I. Dell’obbligo propriamente detto. 353. In materia così delicata è necessario usare la maggior precisione possibile. É certo che bisogna e che basta morire in stato di grazia per salvarsi; pare quindi che non ci sia per i fedeli altro obbligo stretto che quello di conservare lo stato di grazia. Ma la questione sta appunto qui: sapere se si può conservare per un tempo notevole lo stato di grazia senza sforzarsi di progredire. Ora l'autorità e la ragione illuminata dalla fede ci mostrano che, nello stato di natura decaduta, non si può restare a lungo nello stato di grazia senza sforzarsi di progredire nella vita spirituale e di praticare di tanto in tanto alcuni dei consigli evangelici. I. L'argomento d'autorità. 354. 1° La Sacra Scrittura non tratta direttamente una tal questione; posto che ha il principio generale della distinzione tra precetti e consigli, non dice ordinariamente ciò che nelle esortazioni di Nostro Signore è obbligatorio o no. Ma insiste tanto sulla santità che si addice ai cristiani, ci mette davanti agli occhi tale ideale di perfezione, predica così apertamente a tutti la necessità della rinunzia e della carità, elementi essenziali della perfezione, che ad ogni animo imparziale nasce subito la convinzione che, per salvarsi, è necessario, in certe occasioni, far di più di quello che è strettamente comandato e quindi sforzarsi di progredire. 355. A) Così Nostro Signore ci presenta come ideale di santità la perfezione stessa del nostro Padre celeste: "Siate perfetti come è Perfetto il Padre vostro celeste. Estote ergo vos perfecti, sicut et Pater vester caelestis perfectus est”; tutti quelli quindi che hanno Dio per padre, devono accostarsi a questa divina perfezione; il che non può evidentemente farsi senza un qualche progresso. Tutto il discorso della montagna non è in sostanza che il commento e lo sviluppo di quest'ideale. La via da tenere per questo è la via della rinunzia, dell'imitazione di Nostro Signore e dell'amor di Dio: " Chi viene a me e non odia ( cioè non sacrifica ) il padre, la madre, la moglie, i figliuoli, i fratelli, le sorelle e persino la vita, non può essere mio discepolo: “Si quis venit ad me, et non odit patrem suum, et matrem et uxorem et filios et fratres et sorores, adhuc autem et animam suam, non potest meus esse discipulus". Bisogna dunque, in certi casi, preferire Dio e la sua volontà all'amore dei genitori, della moglie, dei figli, della propria vita e sacrificar tutto per seguire Gesù; il che suppone un coraggio eroico che non si avrà al momento opportuno se. non vi si è preparati con sacrifici di supererogazione. E questa certamente via stretta e difficile e ben pochi la seguono; ma Gesù vuole che si facciano sforzi serii per entrarvi: "Contendite intrare per angustam portam": non è questo un chiederci di tendere alla perfezione? 356. B) Né altrimenti parlano i suoi apostoli. S. Paolo rammenta spesso ai fedeli che sono stati eletti per diventar santi: "ut essemus sancti et immaculati in conspectu ejus in caritate"; il che non possono fare senza spogliarsi dell'uomo vecchio e rivestirsi del nuovo, cioè senza mortificare le tendenze della corrotta natura e senza sforzarsi di imitare le virtù di Gesù. Né a ciò potranno riuscire, aggiunge S. Paolo, senza studiarsi di pervenire “alla misura dell'età piena di Cristo, donec occurramus omnes … in virum perfectum, in mensuram aetatis plenitudinis Christi"; il che significa che, essendo incorporati a Cristo, noi ne siamo il compimento, e spetta a noi, col progredire nell'imitazione delle sue virtù, di farlo crescere e di integrarlo. Anche S. Pietro vuole che tutti i suoi discepoli siano santi come colui che li ha chiamati alla salute: " secundum eum qui vocavit vos Sanctum, et ipsi in omni conversatione sancti sitis ". E come lo possono essere ,senza progredire nella pratica delle cristiane virtù? San Giovanni nell'ultimo capo dell'Apocalisse invita i giusti a non smettere di praticar la giustizia e i santi a santificarsi sempre più: " Qui justus est, justificetur adhuc, et sanctus, sanctificetur adhuc ". 357. C) Questa conclusione sgorga pure dalla natura della vita cristiana, che, al dire di Nostro Signore e dei suoi discepoli, è una lotta ove la vigilanza e la preghiera, la mortificazione e la pratica positiva delle virtù sono necessarie per riportar vittoria: " Vigilate e pregate per non entrare in tentazione, vigilate et orate ut non intretis in tentationem " … Dovendo lottare non solo contro la carne e il sangue, cioè contro la triplice concupiscenza, ma anche contro i demonii che in noi la aizzano, abbiamo bisogno di armarci spiritualmente e di valorosamente lottare. Ora in una lotta che duri a lungo, si è quasi fatalmente vinti se uno si tiene soltanto sulla difensiva; bisogna quindi ricorrere purè ai contrattacchi, cioè alla pratica positiva delle virtù, alla vigilanza, alla mortificazione, allo spirito di fede e di confidenza. Tal è veramente la conclusione che ne trae S. Paolo, quando, descritta la lotta che dobbiamo sostenere, dichiara che dobbiamo stare armati da capo a piedi come il soldato romano, " cinti i lombi con la verità, vestiti dell'usbergo della giustizia, calzati i piedi pronti ad annunziare il Vangelo della pace, con lo scudo della fede, l'elmo della salute e la spada dello Spirito: State ergo succincti lumbos vestros in veritate, et induti loricam justitiae, et calceati pedes in praeparatione evangelii pacis; in omnibus sumentes scutum fidei … et galeam salutis assumite et gladium Spiritus " … Col che ci mostra che, per trionfare dei nostri avversarii, bisogna fare di più di quanto è strettamente prescritto. 358. 2° La Tradizione con ferma quest'insegnamento. Quando i Padri vogliono insistere sulla necessità della perfezione per tutti, dicono che nella via che conduce a Dio e alla salute, non si può rimaner stazionarii, ma o che si avanza o che si retrocede: " in via Dei non progredi regredi est ". Così S. Agostino, facendo notare che la carità è attiva, ci avverte che non bisogna fermarsi per via, appunto perché l'arrestarsi è un retrocedere: "retroredit qui ad ea revolvitur unde jam recesserat"; e Pelagio medesimo, suo avversario, ammetteva lo stesso principio, tanto è evidente. Quindi S. Bernardo, che da taluno è detto l'ultimo dei Padri, espone questa dottrina in forma drammatica: " Non vuoi progredire? Non vuoi dunque retrocedere?  Niente affatto. Che vuoi dunque?  Voglio vivere in modo da star fermo nel punto in cui sono … Ciò che tu vuoi è cosa impossibile, perché nulla a questo mondo rimane nel medesimo stato" … E altrove aggiunge: “Bisogna necessariamente salire o discendere; chi vuol fermarsi, cade infallantemente ". Nascondi Anche il S. P. Pio XI, nell'Enciclica del 26 gennaio 1923 sopra S. Francesco di Sales, dichiara nettamente che tutti i cristiani, senza eccezione, devono tendere alla santità. II. L’argomento di ragione La ragione fondamentale per cui dobbiamo tendere alla perfezione è quella appunto dataci dai Padri. 359. 1° Ogni vita, essendo movimento. è essenzialmente progressiva, nel senso che, quando cessa di crescere, comincia pure a decadere. La ragione che vi sono in ogni vivente delle forze disgregative, le quali, ove non siano infrenate, finiscono col produrre la malattia e la morte. Lo stesso avviene della nostra vita spirituale: a fianco delle tendenze che ci portano al bene, ve ne sono altre, attivissime, che ci trascinano al male; a combatterle, il solo mezzo efficace è di accrescere in noi le forze vive, l'amor di Dio e le virtù cristiane; allora queste tendenze cattive s'indeboliscono. Ma se desistiamo dal fare sforzi per progredire, i nostri vizi si ridestano e, riprendendo vigore, ci danno più vivi e più frequenti assalti; e se non ci scotiamo dal nostro torpore, viene il momento in cui, di debolezza in debolezza cadiamo in peccato mortale. Tale è, ahimè! la storia di molte anime, come ben sanno i direttori che hanno esperienza. Ecco un paragone che farà capire la cosa. Per salvarci dobbiamo risalire una corrente più o meno violenta, quella delle nostre passioni disordinate che ci trascinano al male. Finché ci sforziamo di spingere avanti la nostra navicella riusciamo a risalire la corrente o almeno a contrappesarla ma, appena cessiamo di remare, veniamo dalla corrente travolti e indietreggiamo verso l'Oceano, ove ci attendono le tempeste, vale a dire le tentazioni gravi e forse anche le miserande cadute. 360. 2° Vi sono precetti gravi che in certe occasioni non possono essere osservati se non con atti eroici. Ora, tenendo conto delle leggi psicologiche, non si è ordinariamente capaci di compiere atti eroici, se prima non vi si è preparati con sacrifici, cioè con atti di mortificazione. A rendere questa verità più palpabile, diamo qualche esempio. Prendiamo il precetto della castità e vediamo quali sforzi generosi, talora eroici, richiede a poter essere conservata tutta la vita. Fino al matrimonio ( e molti giovani non si sposano che a 28 o 30 anni ) bisogna praticare la continenza assoluta sotto pena di peccato mortale. Ora le tentazioni gravi cominciano, quasi per tutti, all'età della pubertà e talora anche prima; a vittoriosamente resistervi, bisogna pregare, tenersi lontani dalle letture, dalle rappresentazioni dalle relazioni pericolose, deplorare anche le più piccole debolezze e approfittarne per subito e generosamente rialzarsi; e ciò per un lungo periodo della vita. Or questo non suppone forse sforzi più che ordinarii e qualche opera di supererogazione? Il matrimonio, contratto che sia, non mette al riparo da gravi tentazioni; vi sono periodi in cui bisogna praticare la continenza coniugale; al che è necessario un coraggio quasi eroico, che non si acquista se non con una lunga abitudine di mortificazione dei sensuali diletti e con la pratica assidua della preghiera. 361. Prendiamo ora la legge della giustizia negli affari finanziari, commerciali, industriali, e si pensi al gran numero di occasioni che si presentano di violarla; alla difficoltà di praticare una perfetta onestà in tempi in cui la concorrenza e la bramosia del guadagno fanno salire i prezzi oltre i limiti permessi; e si vedrà che, per restare semplicemente onesti, è necessaria una somma di sforzi e un'abnegazione più che ordinaria. Sarà capace di questi sforzi chi si abituò a non rispettare che le prescrizioni gravi, chi venne con la coscienza a compromessi prima leggieri, poi più seri, e da ultimo veramente gravi? A schivar questo pericolo, non e forse necessario fare un poco di più di ciò che è strettamente comandato, affinché la volontà, rafforzata da questi atti generosi, abbia maggior vigore a non lasciarsi trascinare ad atti d'ingiustizia? S'avvera quindi dovunque quella legge morale che, per non cadere in peccato, bisogna fuggirne il pericolo con atti generosi che non cadono direttamente sotto precetto. In altre parole, per colpire nel segno si deve mirare un poco più in alto; e per non perdere la grazia bisogna rinvigorir la volontà contro le tentazioni pericolose con opere di supererogazione; bisogna insomma tendere alla perfezione. II. Dei motivi che rendono questo dovere più facile. I molteplici motivi che possono stimolare i semplici fedeli a tendere alla perfezione, si riducono a tre principali: 1° il bene dell'anima; 2° la gloria di Dio; 3° l'edificazione del prossimo. 362. 1° Il bene dell'anima è prima di tutto la sicurezza dell'eterna salute, la moltiplicazione dei meriti, e finalmente la gioia della coscienza. A). L'opera grande che dobbiamo compiere sulla terra, l'opera necessaria anzi a dir vero, l'unica necessaria, è di salvarci l'anima. Se la salviamo, quand'anche perdessimo tutti i beni della terra, parenti, amici, riputazione e ricchezze, tutto è salvo; perché riavremo centuplicato in cielo tutto ciò che abbiamo perduto, e lo riavremo per tutta l'eternità. Ora il mezzo più efficace per assicurarci l'eterna salute è di tendere alla perfezione, ognuno secondo il proprio stato; quanto più ciò facciamo con senno e costanza, tanto più ci allontaniamo dal peccato mortale che solo può dannarci: è chiaro infatti che, quando uno sinceramente si sforza di divenire più perfetto, schiva per ciò stesso le occasioni di peccato, fortifica la volontà contro gli agguati che ci attendono al varco, e, venuto il momento della tentazione, la volontà, già agguerrita dallo sforzo verso la perfezione e abituata a pregare per assicurarsi la grazia di Dio, respinge con orrore il pensiero del peccato grave: potius mori quam faedari. Chi invece si permette tutto ciò che non è peccato grave, s'espone a cadervi quando si presenterà una lunga e violenta tentazione; abituato a cedere al piacere nelle cose meno gravi, c’è da temere che, trascinato dalla tentazione, finisca col soccombervi, come chi costeggia continuamente l’abisso finisce col precipitarvi. Per essere sicuri di non offendere gravemente Dio, il mezzo migliore è d'allontanarsi dall'orlo del precipizio, facendo più di quel che è comandato e sforzandosi di progredire verso la perfezione; quanto maggiore è la prudenza e l'umiltà con cui vi si tende, tanto maggiore è la sicurezza dell'eterna salute. 363. B) Così si accrescono pure ogni giorno i gradi di grazia abituale che si possiedono e i gradi di gloria a cui si ha diritto. Abbiamo visto infatti che ogni sforzo soprannaturale, fatto per Dio, da un' anima che è in stato di grazia, le procura un aumento di meriti. Nascondi Chi non si dà pensiero della perfezione e compie il proprio dovere con maggiore o minore noncuranza, acquista ben pochi meriti, come abbiamo detto al n. 243. Ma chi tende alla perfezione e si sforza di progredire, ne acquista un gran numero; accresce quindi ogni giorno il suo capitale di grazia e di gloria, e i suoi giorni sono pieni di meriti: ogni sforzo è ricompensato da un aumento di grazia sulla terra e più tardi da un peso immenso di gloria nel cielo; " aeternum gloriae pondus operatur in nobis! ". 364. C) Chi voglia godere un poco di felicità sulla terra, non vi è di meglio che la pietà: "la pietà, dice S. Paolo giova a tutto avendo promessa della vita presente e della futura: pietas autem ad omnia utilis est, promissionem habens vitae quae nunc est et futuro". La pace dell'anima, il gaudio della buona coscienza, la fortuna di essere uniti a Dio, di progredire nel suo amore, di giungere a una sempre maggiore intimità con Nostro Signore: ecco alcune delle ricompense che Dio largisce fin di quaggiù ai fedeli suoi servi, in mezzo alle prove, con la gioconda speranza della beatitudine eterna. 365. 2° La gloria di Dio. Nulla di più nobile che il procurarla, nulla di più giusto, se richiamiamo ciò che Dio ha fatto e fa continuamente per noi. Ora un'anima perfetta dà a Dio maggior gloria di mille anime ordinarie: moltiplica infatti ogni giorno gli atti d'amore, di riconoscenza, di riparazione, e dirige in questo senso tutta la vita con l'offerta spesso rinnovata delle azioni ordinarie, glorificando così Dio da mane a sera. 366. 3° L'edificazione del prossimo. Per far del bene attorno a noi, per convertire qualche peccatore o incredulo e confermare nel bene le anime vacillanti, non vi è nulla di più efficace dello sforzo che si fa per meglio praticare il cristianesimo: se la mediocrità della vita attira sulla religione le critiche degli increduli, la vera santità ne eccita l'ammirazione per una religione che sa produrre tali effetti: "dal frutto si giudica l'albero: ex fructibus eorum cognoscetis eos". L'apologetica migliore è quella dell'esempio, quando vi si sa unire la pratica di tutti i doveri sociali. Ed è pure ottimo stimolo per i mediocri, che s'addormenterebbero nella tiepidezza se il progresso delle anime fervorose non li scotesse dal loro torpore. È una ragione che molte anime oggi capiscono in questo secolo di proselitismo, i laici intendono meglio di prima la necessità di difendere e di propagare la fede con la parola e con l'esempio. Spetta ai sacerdoti di assecondare questo movimento, formandosi attorno una schiera di valorosi cristiani che, non appagandosi d'una vita mediocre e volgare, si studino di progredire ogni giorno più nell'adempimento dei loro doveri; doveri religiosi prima di tutto ma anche doveri civili e sociali. Saranno ottimi collaboratori che, penetrando in posti poco accessibili ai religiosi e ai sacerdoti, li asseconderanno efficacemente nella pratica dell'apostolato. ART. II. Dell'obbligo per i religiosi di tendere alla perfezione 367. Vi sono tra i cristiani di quelli che, volendo darsi più perfettamente a Dio e assicurarsi più efficacemente la salute dell'anima, entrano nello stato religioso. Questo stato è, secondo il Codice di Diritto canonico, " un modo stabile di vivere in comune, nel quale i fedeli, oltre ai precetti comuni, prendono ad osservare anche i consigli evangelici facendo i voti di obbedienza, di castità e di povertà ". Che i Religiosi siano tenuti, in virtù dei loro stato, a tendere alla perfezione, è unanime dottrina dei teologi; è ciò che il Codice pure rammenta dichiarando che "tutti e ciascuno dei religiosi, tanto i superiori quanto gli inferiori, devono tendere alla perfezione del loro stato. Quest'obbligo è talmente grave che S. Alfonso de Liguori non esita a dire che un religioso pecca mortalmente se prende la ferma risoluzione di non tendere alla perfezione o di non darsene alcun pensiero. Con ciò infatti manca gravemente al dovere del proprio stato, che è precisamente di tendere alla perfezione. È anzi per questa ragione che lo stato religioso vien detto stato di perfezione, vale a dire stato ufficialmente riconosciuto dal Diritto Canonico come uno stabile genere di vita in cui uno si obbliga ad acquistare la perfezione. Non è quindi necessario aver acquistato la perfezione prima d'entrarvi, ma vi si entra appunto per acquistarla, come bene osserva S. Tommaso. L'obbligo per i religiosi di tendere alla perfezione si fonda su due ragioni principali: 1° i Voti; 2° le costituzioni e regole. I. Obbligo fondato sui voti. 368. Chi si fa religioso intende di darsi e di consacrarsi più perfettamente a Dio: per questo fa i tre voti. Ora questi voti obbligano ad atti di virtù che non sono comandati, e che sono tanto più perfetti in quanto che il voto all'intrinseco loro valore aggiunge quello della virtù della religione; e hanno pure il vantaggio di sopprimere o per lo meno di attenuare alcuni degli ostacoli maggiori alla perfezione. Il che intenderemo meglio toccando in particolare di questi voti. 369. 1° Col voto di povertà si rinunzia ai beni esterni che si possiedono o che si potessero acquistare; se il voto è solenne, si rinunzia al diritto stesso di proprietà, per modo che tutti gli atti di proprietà che si volessero poi fare, sarebbero canonicamente nulli, porne il Codice dichiara al can. 579; se il voto è semplice, non si rinunzia al diritto di proprietà ma al libero uso di questo diritto, di cui non si può usare che col permesso dei Superiori e nei limiti da essi fissati. Questo voto ci aiuta a vincere uno dei grandi ostacoli alla perfezione: lo smoderato amore delle ricchezze e i fastidi causati dall’amministrazione dei beni temporali; onde è un gran mezzo di progresso spirituale. D'altra parte impone penosi sacrifici, perché non si ha quella sicurezza e quell’indipendenza che viene dal libero uso dei propri beni; si devono talora soffrire certe privazioni imposte dalla vita comune; è penoso e umiliante il ricorrere a un Superiore ogni volta che si ha bisogno di cose necessarie. Vi sono dunque in ciò atti di virtù a cui si è obbligato per voto e che non solo ci fanno tendere alla perfezione ma vi ci avvicinano. 370. 2° Il voto di castità ci fa trionfare di un secondo ostacolo alla perfezione: della concupiscenza della carne; e ci libera dalle occupazioni e dagli affanni della vita di famiglia. È ciò che fa rilevare S. Paolo quando dice: "Chi è senza moglie, si da pensiero delle cose del Signore, del come piacere a Dio: chi è ammogliato, si da invece pensiero delle cose del mondo, del come piacere alla moglie, e resta diviso". Ma il voto di castità non toglie la concupiscenza, e la grazia che ci viene data per osservarlo non è grazia di riposo ma grazia di lotta. Per serbarsi continenti tutta la vita, bisogna vigilare e pregare, cioè mortificare i sensi esterni e la curiosità, reprimere i traviamenti dell'immaginazione e della sensibilità, condannarsi a una vita laboriosa, e sopratutto dare interamente il cuore a Dio con la pratica della carità, cercare di vivere in intima e affettuosa unione con Nostro Signore, come diremo parlando della castità. Ora è chiaro che l'operare così è un tendere alla perfezione, è un rinnovare incessantemente gli sforzi per vincere se stessi e padroneggiare una delle più violente tendenze della corrotta nostra natura. 371. 3° L'obbedienza va ancora più in là, sottomettendo non solo a Dio ma anche alle Regole e ai Superiori ciò che più ci preme, la nostra volontà. Infatti col voto d'obbedienza il Religioso si obbliga a obbedire agli ordini del suo legittimo Superiore in tutto ciò che riguarda l'osservanza dei voti e delle costituzioni. Ma per costituire un obbligo grave, occorre un ordine formale e non un semplice consiglio; ciò che si conosce dalle formule usate dal Superiore, per esempio se comanda in nome o in virtù di santa ubbidienza, in nome di Nostro Signore, o intimando un precetto formale, o usando altra espressione equivalente. Vi sono certamente dei limiti a questo potere dei Superiori: bisogna che comandino secondo la regola, "restringendosi a quanto vi si trova formalmente o implicitamente inchiuso, come sarebbero le costituzioni, gli statuti legittimamente stabiliti per procurarne l'osservanza, le penitenze inflitte per punire le trasgressioni e prevenire le ricadute, tutto ciò che riguarda il modo di ben adempiere gli uffici e una buona e retta amministrazione ". Ma, non ostante queste restrizioni, resta pur sempre vero che il voto d'obbedienza è uno di quelli che costano di più alla natura umana,appunto perché molto ci preme l'indipendenza della nostra volontà. Per osservarlo, ci vuole dell’umiltà, della pazienza, della dolcezza; bisogna mortificare la vivissima propensione che abbiamo a criticare i Superiori, a preferire il giudizio nostro al loro, a seguire i nostri gusti e talora i nostri capricci. Vincere queste tendenze, piegare rispettosamente la volontà a quella dei Superiori vedendo Dio in loro, è certamente tendere alla perfezione, perché è coltivare alcune delle virtù più difficili; ed essendo la vera ubbidienza la miglior prova d'amore, equivale in sostanza a crescere nella virtù della carità. 372. Come si vede, la fedeltà ai voti inchiude non solo l'osservanza delle tre grandi virtù della povertà, della castità e dell’ubbidienza, ma anche di molte altre che servono alla loro tutela; e l'obbligarsi ad osservarli è certamente un obbligarsi a un grado di perfezione poco comune. Il che risulta pure dal dovere di osservare le Costituzioni. II. Obbligo fondato sulle Costituzioni e sulle Regole. 373. Chi entra nello stato religioso, si obbliga con ciò stesso a osservarne le Costituzioni e le Regole, che sono spiegate nel corso del noviziato prima della professione. Ora qualunque sia la Congregazione che uno abbraccia, non ce n'è alcuna che non si proponga per fine la santificazione dei suoi membri, e che non determini, talvolta in modo molto particolareggiato, le virtù che si devono praticare e i mezzi che ne agevolano l'esercizio. Chi è sincero si obbliga quindi ad osservare, almeno sostanzialmente, questi diversi regolamenti, e con ciò ad elevarsi a un certo grado di perfezione; perché, quand'anche non si pratichino le regole che all’ingrosso, ci sono pur sempre molte occasioni di mortificarsi in cose che non sono di precetto; e lo sforzo che per questo si è obbligati a fare è uno sforzo verso la perfezione. 374. Qui si presenta la questione se le mancanze alle regole religiose siano peccato o semplice imperfezione. Per rispondervi bisogna fare varie distinzioni. a) Vi sono regole che prescrivono la fedeltà alle virtù di precetto o ai voti, o i mezzi necessari per osservarli, come sarebbe la clausura per le comunità claustrali. Coteste regole obbligano in coscienza, appunto perché non fanno che promulgare un obbligo risultante dagli stessi voti; infatti facendoli uno si obbliga ad adempierli e ad usare i mezzi necessari per la loro osservanza. Obbligano sotto pena di peccato grave o leggero, secondo che grave o leggera ne è la materia. Sono quindi regole precettive, e in certe Congregazioni sono nettamente indicate sia direttamente, sia indirettamente, con una sanzione grave che implica una colpa dello stesso genere. 375. b) Vi sono invece regole che o esplicitamente o implicitamente sono date come puramente direttive. 1) Il mancarvi senza ragione è certamente un'imperfezione morale; ma non è in sé peccato neppur veniale, non essendovi violazione d'una legge o d'un precetto. 2) Tuttavia S. Tommaso fa giustamente notare che si può peccar gravemente contro la regola se si viola per disprezzo ( disprezzo della regola o dei Superiori ); leggermente, se si viola per negligenza volontaria, per passione, per collera, per sensualità, o per qualsiasi altro motivo peccaminoso; in tali casi la colpa sta nel motivo. Sì può aggiungere con S. Alfonso che la colpa può essere grave quando le mancanze sono frequenti e deliberate, sia per lo scandalo che ne risulta e che induce gradatamente un notevole indebolimento della disciplina, sia perché il colpevole s'espone così a farsi cacciare dalla Comunità con gran detrimento dell'anima. 376. Ne consegue che i Superiori sono obbligati per dovere dei proprio stato a fare diligentemente osservare le regole, e che chi trascura di reprimere le trasgressioni anche leggere della regola, quando tendono a diventare frequenti, può commettere colpa grave, perché promuove in tal modo il rilassamento progressivo, che in una comunità è grave disordine. Tale è la dottrina del De Lugo, di S. Alfonso, dello Schram e di molti altri teologi. Del resto il vero religioso non fa tutte queste distinzioni ma osserva la regola più esattamente che può, sapendo che è questo il mezzo migliore di piacere a Dio: "Qui regulae vivit Deo vivit, vivere in conformità della regola è vivere per Dio". Parimenti non si contenta di osservare puramente i voti ma ne pratica anche lo spirito, sforzandosi di progredire ogni giorno più verso la perfezione, secondo le parole di S. Giovanni: " Chi è santo si santifichi di più"; e allora s'avverano per lui le parole di S. Paolo:" Chi seguirà questa regola godrà la pace e potrà fare assegnamento sulla divina misericordia, pax super illos et misericordia". ART. III. Dell'obbligo per i sacerdoti di tendere alla perfezione 377. I sacerdoti, in virtù del loro ministero e della missione che loro incombe di santificare le anime, sono obbligati a una santità interiore più perfetta di quella dei semplici religiosi non elevati al sacerdozio. Tale è l'espressa dottrina di S. Tommaso, confermata dai più autentici documenti ecclesiastici: "perché i mezzi del sacro ordine dell'uomo viene assegnato al ministero più augusto di servire Cristo stesso nel sacramento dell'altare; Per questo richiede una maggiore santità interiore che è necessaria per lo stato religioso". I Concilii, massimo quello di Trento, i Sommi Pontefici, specialmente Leone XIII e Pio X, insistono tanto sulla necessità della santità pel sacerdote, che il negare la nostra tesi sarebbe un mettersi in flagrante contraddizione con queste irrefragabili autorità. Ci basti ricordare che Pio X, in occasione del cinquantesimo anniversario del suo sacerdozio, pubblicò una lettera indirizzata al clero cattolico, ove dimostra la necessità della santità pel sacerdote e indica esattamente i mezzi necessari per acquistarla, mezzi che, a dirlo di passata, sono quelli stessi che inculchiamo noi nei nostri Seminarii. Dopo aver descritto la santità interiore ( santità di vita e costumi ), dichiara che sola questa santità ci rende quali la divina nostra vocazione richiede: uomini crocifissi al mondo, rivestiti dell'uomo nuovo, che non aspirino se non ai beni celesti e che si studino con ogni mezzo possibile d'inculcare agli altri gli stessi principi: “La santità della propria vocazione ci impone di garantire la qualità: crocifisso dagli uomini del mondo … Uomini in una nuova vita, camminando … essi tendono a fare tutto il possibile per portarli alle cose celesti, e l'altra che competono unicamente per lo stesso ". 378. Il Codice sancì queste idee di Pio X, insistendo, più che l'antica legislazione non facesse, sulla necessità della santità pel sacerdote e sui mezzi di praticarla. Dichiara nettamente che "gli ecclesiastici devono condurre una vita interiore ed esteriore più santa dei laici e dar loro buon esempio con le virtù e le buone opere". Aggiunge che i Vescovi devono fare in modo "che gli ecclesiastici s'accostino frequentemente al Sacramento della Penitenza per purificarsi delle loro colpe; che ogni giorno attendano per un po' di tempo all'orazione mentale, visitino il SS. Sacramento, recitino il rosario in onore della Vergine Madre di Dio, e facciano l'esame di coscienza. Almeno ogni tre anni, i preti secolari devono fare, in una casa pia o religiosa, gli esercizi spirituali per quel tempo che verrà stabilito dal Vescovo; né potranno esserne dispensati se non in casi particolari, per ragioni gravi e coll'espressa licenza dell'Ordinario. Tutti gli ecclesiastici, massime i sacerdoti, sono obbligati in modo particolare a porgere al proprio Ordinario rispetto e obbedienza. Del resto la necessità pel sacerdote di tendere alla perfezione si prova: 1° con l'autorità di Nostro Signore e di San Paolo; 2° col Pontificale; 3° dalla natura stessa degli uffici sacerdotali. I. L'insegnamento di Gesù e di S. Paolo. 379. 1° Nostro Signore insegna eloquentemente, così con gli esempi che con le parole, la necessità della santità pel sacerdote. Ne dà l'esempio. A) Egli, che fin da principio era pieno di grazia e di verità, “lo abbiamo visto… pieno di grazia e di verità", volle sottomettersi in quanto poteva, alla legge del progresso: "progrediva, dice S. Luca, in sapienza, in età, in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini ". E per trent'anni si venne preparando al suo ministero pubblico con la pratica della vita nascosta e con tutto ciò che le è connesso: preghiera, mortificazione, umiltà, obbedienza. Tre parole compendiano trent'anni della vita del Verbo Incarnato: "Egli è stato oggetto di loro". Per predicare più efficacemente le virtù cristiane, cominciò col praticarle: "ha cominciato a fare e insegnare"; tanto che avrebbe potuto dire di tutte le virtù ciò che disse della dolcezza e dell'umiltà: " affinché possiate imparare da me, che sono mite e umile di cuore ". Quindi, verso il fine della vita, dichiara con tutta semplicità che si santifica e si sacrifica ( la parola sanctifico ha questo doppio senso ) perché i suoi apostoli, e i suoi sacerdoti loro successori, si santifichino anch'essi in tutta verità: " E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità ". Ora il sacerdote è il rappresentante di Gesù Cristo sulla terra, è un altro Cristo: " Quindi siamo ambasciatori per Cristo ". Anche noi dobbiamo quindi tendere incessantemente alla santità. 380. B) La qual cosa del resto risulta pure dagl'insegnamenti del Maestro. Durante i tre anni della vita pubblica, il grande suo lavoro è la formazione dei Dodici: questa l'occupazione principale, non essendo la predicazione al popolo che un accessorio e, come a dire, un modello del come i suoi discepoli avrebbero poi dovuto predicare. Dal che derivano le seguenti conclusioni: a) Gli altissimi insegnamenti sulla beatitudine, sulla santità interiore, sull’abnegazione, sull’amor di Dio e del prossimo, sulla pratica dell'obbedienza, dell'umiltà, della dolcezza e di tutte le altre virtù così spesso inculcate nel Vangelo, sono certamente rivolti a tutti i cristiani che aspirano alla perfezione, ma prima di tutto agli Apostoli e ai loro successori: sono essi infatti gli incaricati d'insegnare ai semplici fedeli questi grandi doveri, più con l'esempio che con le parole, come il Pontificale rammenta ai diaconi: "Cura di cui voi annunziate il Vangelo o le opere viventi affidamento". Ora, come tutti convengono, quest'insegnamenti formano un codice di perfezione e di altissima perfezione. I sacerdoti sono dunque obbligati, per dovere del proprio stato, ad accostarsi alla santità. 381. b) Agli Apostoli in modo tutto particolare e ai sacerdoti sono dirette quelle esortazioni a maggior perfezione contenute in molte pagine del Vangelo: "Voi siete il sale della terra … voi siete la luce del mondo ". La luce di cui qui si parla non è soltanto la scienza, ma è pure e principalmente l'esempio che illumina e stimola più della scienza: " Risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini, affinché, vedendo le vostre opere buone, glorifichino il Padre vostro che è nei Cieli ". A loro pure in modo speciale si rivolgono i consigli sulla povertà e sulla continenza, perché, in virtù della loro vocazione, sono obbligati a seguir Gesù Cristo più da vicino e sino alla fine. 382. c) Vi è poi una serie d'insegnamenti che sono direttamente ed esplicitamente riservati agli apostoli e ai loro Successori: quelli che Gesù dà ai Dodici e ai Settantadue inviandoli a predicare nella Giudea e quelli che disse nell'ultima Cena. Ora questi discorsi contengono un codice di perfezione sacerdotale così alta da risultarne per i sacerdoti uno stretto dovere di tendere incessantemente alla perfezione. Dovranno infatti praticare il disinteresse assoluto, lo spirito di povertà e la povertà effettiva, contentandosi del necessario, lo zelo, la carità, la piena dedizione, la pazienza e l'umiltà in mezzo alle persecuzioni che li aspettano, la fortezza per confessare Cristo e predicare il Vangelo a tutti e contro tutti, il distacco dal mondo e dalla famiglia, il portamento della croce e la perfetta abnegazione. 383. Nell'ultima Cena, Gesù dà loro quel comandamento nuovo che consiste nell'amare i fratelli come li ha amati lui, cioè sino alla intiera immolazione; raccomanda la fede viva, una piena confidenza nella preghiera fatta in suo nome; l'amor di Dio che si manifesti nell'osservanza dei precetti; la pace dell'anima per accogliere e gustare gl'insegnamenti dello Spirito Santo; l'intima e abituale unione con lui, condizione essenziale di santificazione e d'apostolato; la pazienza in mezzo alle persecuzioni del mondo che odierà loro come odiò il Maestro; la docilità allo Spirito Santo che verrà a consolarli nelle tribolazioni; la fermezza nella fede e il ricorso alla preghiera in mezzo alle prove: in una parola le essenziali condizioni di quella che oggi chiamiamo vita interiore o vita perfetta. E termina con quella preghiera sacerdotale, piena di tanta tenerezza, con cui domanda al Padre di custodire i suoi discepoli come li custodì lui nella sua vita mortale; di preservarli dal male in mezzo a quel mondo che devono evangelizzare e di santificarli in tutta verità. Questa preghiera egli la fa non solo per gli Apostoli, ma anche per tutti coloro che crederanno in lui, affinché siano sempre uniti coi vincoli della fraterna carità come unite sono le tre divine persone, che siano tutti uniti a Dio e tutti uniti a Cristo " affinché l'amore con cui tu amasti me sia in loro e io in essi ". Non è questo un intiero programma di perfezione, anticipatamente tracciatoci dal Sommo Sacerdote, di cui siamo i rappresentanti sulla terra? E non è cosa consolante il sapere che pregò perché potessimo attuarlo? 384. 2° S. Paolo quindi s'ispira a quest'insegnamento di Gesù quando a sua volta descrive le virtù apostoliche. Dopo aver notato che i sacerdoti sono i dispensatori dei misteri di Dio, i suoi ministri, gli ambasciatori di Cristo, i mediatori tra Dio e gli uomini, enumera nelle Epistole Pastorali le Virtù di cui devono essere ornati i diaconi, i presbiteri e ì vescovi. Non basta che abbiano ricevuto la grazia dell’ordinazione, ma devono risuscitarla, farla rivivere, per tema che diminuisca; " Io ti ammonire che tu fomentare la grazia che è in te per l'imposizione delle mie mani" Nascondi 392. Secondo l'affermazione dell'Apostolo S. Paolo, il sacerdote è mediatore tra l'uomo e Dio, tra la terra e il cielo: scelto di tra gli uomini per esserne il rappresentante, dev'essere gradito a Dio, chiamato da Lui, per avere il diritto di comparirgli innanzi, di offrirgli gli ossequi degli uomini e ottenerne benefici: "Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, è ordinato per gli uomini nelle cose che riguardano Dio, affinché offra doni e sacrifici per i peccati … E nessuno me la toglie questo onore a se stesso, ma colui che è chiamato da Dio, come Aronne " ( Eb 5,1-4 ). I suoi uffici si possono ridurre a due principali: è il Religioso di Dio, incaricato di glorificarlo a nome dell'intiero popolo cristiano; è un salvatore, un santificatore d'anime, che ha la missione di collaborare con Gesù Cristo alla loro santificazione e salute. Per questa doppia ragione dev'essere un santo, e quindi tendere incessantemente alla perfezione, perchè non potrà mai conseguir perfettamente quella pienezza di santità che è richiesta dai suoi uffici. 1° Il sacerdote religioso di Dio, deve essere santo 393. In virtù della sua missione, il sacerdote deve glorificare Dio in nome di tutte le creature e più specialmente del popolo cristiano. È dunque veramente, in virtù del sacerdozio quale fu istituito da Nostro Signore, il religioso di Dio " è ordinato per gli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici ". Questo dovere egli adempie principalmente col santo sacrifizio della messa e con la recita del Divino Officio; ma tutte le sue azioni, anche le più comuni, possono contribuirvi, come già abbiamo detto, se sono fatte per piacere a Dio. Or questa missione non può essere adempita che da un prete santo o almeno disposto a diventarlo. 394. A) Quale santità si richiede pel Santo Sacrificio? Nascondi I sacerdoti dell'Antica Legge che volevano accostarsi a Dio, dovevano essere santi ( si tratta principalmente di santità legale ) sotto pena di venir puniti: " I sacerdoti, che si avvicinano al Signore, si santificano, io li punirò " ( Es 19,22 ). Santi dovevano essere per poter offrire l'incenso e i pani destinati all'altare: " Per le offerte del Signore e il pane del loro Dio che offrono, devono essere santi " ( Lv 21,6 ). Or quanto più santi, di interna santità, non devono essere coloro che offrono non più ombre e figure ma il sacrificio per eccellenza, la vittima infinitamente santa? Tutto è santo in questo divino sacrificio: Nascondi santi la vittima e il sacerdote principale, che altri non è che Gesù, il quale, come dice S. Paolo, "è santo, innocente, immacolato, segregato dai peccatori, elevato al di sopra dei cieli: Tale sommo sacerdote noi è diventato, santo, innocente, immacolato, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli " ( Eb 7,26 ) santa la Chiesa, in cui nome il sacerdote offre la santa mess, santificata da Cristo, a prezzo del suo sangue "se stesso per lei, per renderla santa … dovrebbe essere santa e immacolata " ( Ef 5,25-27 ) santo il fine, che è di glorificare Dio e di produrre nelle anime frutti di santità; sante le preghiere e le cerimonie, che richiamano il sacrifizio del Calvario e gli effetti di santità da lui meritati; santa specialmente la comunione, che ci unisce alla fonte di ogni santità. Non è dunque necessario che il sacerdote, il quale, come rappresentante di Gesù Cristo e della Chiesa, offre questo augusto sacrifizio, sia egli pure rivestito di santità? Come potrebbe rappresentare degnamente Gesù Cristo, così da essere alter Christus, se mediocre ne fosse la vita e senza aspirazioni alla perfezione? Come potrebbe essere ministro della Chiesa immacolata, se l'anima sua, attaccata al peccato veniale, non si desse pensiero di spirituale progresso? Come potrebbe glorificar Dio, se il suo cuore fosse vuoto d'amore e di sacrificio? Come potrebbe santificare le anime, se non avesse egli stesso sincero desiderio di santificarsi? 395. Come oserebbe salire il santo altare e recitare le preghiere della messa, che spirano i più puri sentimenti di penitenza, di fede, di religione, di amore, d'abnegazione, se l'anima sua ne fosse aliena? Come potrebbe offrirsi con la vittima divina "In uno spirito umile e cuore contrito possiamo essere accettato da te, o Signore", se questi sentimenti fossero in contraddizione con la sua vita? Con che coraggio chiedere di partecipare alla divinità di Gesù "ejus divinitatis esse consortes", se la nostra vita è tutta umana? Come ripetere quella protesta d'innocenza: "Ma in quanto a me, ho camminato nella mia innocenza", se non si fa sforzo alcuno per scuotere la polvere di mille peccati veniali deliberati? Con che animo recitare il Sanctus, in cui si proclama la santità di Dio, e consacrare identificandosi con Gesù, autore d'ogni santità, se non c'è studio di santificarsi con lui e per lui? Come recitare il Pater senza rammentare che dobbiamo essere perfetti come il Padre celeste? E l'Agnus Dei, senza avere un cuore contrito ed umiliato? E le belle preghiere preparatorie alla comunione: "Fammi sempre fedeli alla vostra e mai separato da te", se il cuore è lontano da Dio, lontano da Gesù? E come prendere ogni giorno il Dio di ogni santità, senza il desiderio sincero di partecipare a questa santità, di avvicinarvisi almeno ogni giorni con progressivo sforzo? Non sarebbe questa un'aperta contraddizione, una mancanza di lealtà, una provocazione, un abuso della grazia, un'infedeltà alla propria vocazione? Si mediti dunque e si applichi a se stesso tutto il Capitolo V del 4° Libro dell'Imitazione: De dignitate sacramenti et statu sacerdotali: "Se si dispone di purezza angelica e S. J. Baptistæ santità , non saresti degno di ricevere o amministrare questo sacramento … Non è il peso più leggero, ma ora siete vincolati dalla disciplina rigorosa e tenuti per più perfetta santità ". 396. B) Quanto abbiamo detto della santa messa può applicarsi, in un certo senso, alla recita del divino Ufficio. In nome della Chiesa, in unione con Gesù il grande religioso di Dio, e per l'intiero popolo cristiano, compariamo sette volte al giorno davanti a Dio, per adorarlo, ringraziarlo, e ottenerne le numerose grazie di cui le anime hanno bisogno. Nascondi Se preghiamo con la punta delle labbra e non col cuore, non meriteremo forse il rimprovero che Dio fa ai Giudei: "Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me " ( Mt 15,8; Is 29,13 ). E le grazie che, allo stesso modo, sollecitiamo dalla divina misericordia, ci saranno forse copiosamente largite? 397. Così pure, per trasformare le nostre azioni ordinarie in vittime accette a Dio, non occorre forse compirle con le già indicate disposizioni d'amore e di sacrificio? ( n. 309 ). Da qualunque lato si consideri la cosa, sorge sempre la stessa conclusione: come Religioso di Dio, il sacerdote deve mirare alla santità. Ciò che è pure necessario se vuole salvar le anime. 2° Il sacerdote non può salvare anime senza mirare alla santità. 398. A) Santificare e salvare le anime, tale è il dovere del proprio stato per un sacerdote. Nascondi Quando Gesù sceglie gli apostoli, li sceglie per farne pescatori d'uomini " vi farò pescatori di uomini " ( Mt 4,19 ) perchè producano in sè e negli altri copiosi frutti di salute: " Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto sia permanente " ( Gv 15,16 ). A questo fine devono predicare il Vangelo, amministrare i sacramenti, dar buon esempio e pregar con fervore. Ora è di fede che ciò che converte e santifica le anime è la grazia di Dio; noi non siamo che strumenti di cui Dio si degna servirsi ma che non producono frutto se non in proporzione della loro unione colla causa principale, instrumentum Deo conjunctum. Tale è la dottrina di S. Paolo: "Io piantai, Apollo irrigò, ma Dio fece crescere. Nascondi Quindi nè chi pianta è qualche cosa, nè chi irriga, ma chi fa crescere, Dio: Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma Dio ha fatto crescere; talché né colui che pianta è qualche cosa, né colui che annaffia; ma che Dio crescente " ( 1 Cor 3,6-7 ). D'altra parte è certo che questa grazia s'ottiene principalmente con due mezzi, con la preghiera e col merito. Nell'uno e nell'altro caso noi otteniamo tanto maggiori grazie quanto più siamo santi, più ferventi, più uniti a Nostro Signore ( n. 237 ). Se dunque il dovere del nostro stato è di santificar le anime, vuol dire che dobbiamo prima santificare noi stessi: "Per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati nella verità" ( Gv 17,19 ). 399. B) Arriviamo del resto alla stessa conclusione, facendo passare i principali mezzi di zelo, cioè la parola, l'azione, l'esempio e la preghiera. Nascondi a) La parola non produce salutari effetti se non quando parliamo in nome e nella virtù di Dio, "se Dio esortasse per mezzo nostro" ( 2 Cor 5,20 ). Così fa il sacerdote fervoroso: prima di parlare, prega affinchè la grazia avvivi la sua parola; parlando, non mira a piacere ma a istruire, a far del bene, a convincere, a persuadere; e perchè il suo cuore è intimamente unito a quello di Gesù, fa vibrare nella voce un'emozione, una forza di persuasione, che scuote gli uditori; e perchè, dimenticando sè stesso, attira lo Spirito Santo, le anime restano toccate dalla grazia e convertite o santificate. Un sacerdote mediocre invece non prega che a fior di labbra, e perchè cerca sè stesso, per quanto si venga sbracciando, non è spesso che un bronzo sonoro o un cembalo fragoroso, "rame risonante o un tintinnio" ( 1 Cor 13,1 ). 400. b) Il buon esempio non può essere dato che da un sacerdote sollecito del suo progresso spirituale. Nascondi Allora può con tutta fiducia invitare, come S. Paolo, i fedeli a imitare lui come egli si studia d'imitare Cristo: "Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo" ( 1 Cor 4,16 ). Vedendone la pietà, la bontà, la povertà, la mortificazione, i fedeli dicono: è un sacerdote convinto, un Santo; lo rispettano e si sentono tratti ad imitarlo: la mossa, esempi disegnare. Un sacerdote mediocre potrà essere stimato come un brav'uomo; ma si dirà: fa il suo mestiere come noi facciamo il nostro; e il ministero ne sarà poco o punto fruttuoso. 401. c) Quanto alla preghiera, che è e sarà sempre il più efficace mezzo dello zelo, qual differenza tra il sacerdote santo e il sacerdote ordinario? Il primo prega abitualmente, costantemente, perchè le sue azioni, fatte per Dio, sono in sostanza una preghiera; non fa nulla, nè dà consiglio, senza riconoscere la propria incapacità e pregar Dio di supplirvi con la sua grazia. Nascondi Dio copiosamente gliela concede "ma dà grazia" ( Gc 4,6 ) e il suo ministero è fruttuoso. Il sacerdote ordinario prega poco e prega male; quindi anche il ministero ne è sterile. Chi dunque vuol efficacemente lavorare alla salute delle anime, deve sforzarsi di quotidianamente progredire: la santità è l'anima dell'apostolato. Conclusione 402. Da tutti questi documenti risulta che il sacerdote deve, prima d'entrare nel sacerdozio, avere acquistato un certo grado di santità, e che, divenuto sacerdote, deve continuare a progredire verso perfezione sempre maggiore. 1° Per entrare nel sacerdozio, bisogna aver già acquistato un certo grado di perfezione. È quanto si ricava da tutti i testi del Pontificale da noi citati. Infatti si richiede già dal tonsurato il distacco dal mondo e da sè stesso per attaccarsi a Dio e a Gesù Cristo; e se la Chiesa prescrive degli interstizi tra i vari ordini, è perchè il giovane chierico abbia il tempo d'acquistare a mano a mano le varie virtù che corrispondono a ognun di essi. Lo dice chiaramente il Pontificale: "Questo vale per il livello del livello, cioè, come si è detto in esse, come con l'età, maturare alla maggior merito della loro vita e la dottrina". Ecco perchè si vuole da lui una virtù provata "Il potere dimostrato di vecchiaia". Or questa virtù provata non si acquista che con la assidua pratica dei doveri del proprio stato, delle virtù che il Pontefice viene premurosamente indicando all'Ordinando in ogni ordine che gli conferisce. Dev'essere virtù talmente solida da rassomigliare a quella dei vecchi ( lLa vecchiaia è ), i quali con lunghi e penosi sforzi hanno acquistato la maturità e la costanza propria della loro età. 403. Non è dunque una virtù quale che sia, dice S. Tommaso, quella che è richiesta per l'esercizio del ministero ecclesiastico, ma virtù eccellente: "L'esecuzione degli ordini non è abbastanza in forma per ogni tipo di bontà, ma la bontà richiede eccellente". Abbiamo visto infatti che il Pontificale esige dagli Ordinandi la pratica d'una fede robusta ed operosa, d'una grande confidenza in Dio, d'un'amor di Dio e del prossimo che giunga fino al sacrifizio, senza parlare delle virtù morali della prudenza, della giustizia, della religione, dell'umiltà, delle temperanza, della fortezza, della costanza; le quali virtù devono pur essere praticate in alto grado, poichè il Pontefice invoca sopra gli ordinandi i doni dello Spirito Santo, che, compiendo le virtù, ce lo fanno praticare in tutta la loro perfezione. Non basta quindi essere uno di quegli incipienti che sono ancora esposti a ricadere in colpe gravi; ma è necessario, purificata l'anima dalle colpe e dagli attacchi, essersi rassodati nelle virtù che costituiscono la via illuminativa e tendere a sempre più intima unione con Dio. 404. 2° Fatti sacerdoti, non è il momento di fermersi ma anzi di progredire ogni giorno di virtù in virtù, come nota l'Imitazione: "il vostro carico non si è alleggerito ma siete invece legati da più strette obbligazioni e tenuti a maggiore santità." Il sacerdote dev'essere ornato di tutte le virtù e deve dare agli altri l'esempio d'una vita pura". Nascondi Oltre che il non progredire è retrocedere ( n. 358-359 ), vi è, come abbiamo dimostrato parlando del ministero sacerdotale ( n. 392 ss ), tale obbligo di conformarsi a Gesù Cristo e di edificare il prossimo, che, nonostante tutti i nostri sforzi, restiamo sempre al di sotto dell'ideale tracciato dal Vangelo e dal Pontificale. Dobbiamo quindi quotidianamente pensare che ci rimane ancora molto da fare per conseguirlo: "Modo troppo per voi". 405. D'altra parte noi viviamo in mezzo al mondo e ai suoi pericoli, mentre i religiosi sono protetti dalle regole e da tutti i vantaggi della vita di comunità. Se dunque essi sono obbligati a tendere incessantemente alla perfezione, non lo saremo anche noi e più di loro? E se noi non abbiamo, per proteggere la nostra virtù, gli esterni baluardi che difendono la loro, non dobbiamo forse supplirvi con una maggior forza interiore, che non può evidentemente acquistarsi che con sforzi spesso rinnovati verso una vita migliore? Il mondo con cui siamo obbligati a trattare tende continuamente ad abbassare il nostro ideale; è quindi necessario costantemente rialzarlo con un ritorno frequente allo spirito sacerdotale. Questo progresso è dovere tanto più urgente in quanto che dal nostro grado di santità dipende la salute e la santificazione delle anime che ci sono affidate: secondo le leggi ordinarie della provvidenza soprannaturale, un sacerdote fa tanto maggior bene quanto più è santo, come abbiamo dimostrato, ( n. 398 ss ). Nascondi Potrebbe dunque essere conforme alla nostra missione di santificatori di anime, il fermarci a mezzo o anche al principio della via della perfezione, mentre tante anime in pericolo di perdersi ci gridano da tutte le parti di correre in loro aiuto "vieni … e aiutarci?" ( At 16,9 ). È chiaro che a questo grido di soccorso non vi è che una sola risposta degna d'un sacerdote, quella di Nostro Signore stesso: "Io mi santifico e mi sacrifico perch'essi siano santificati in tutta verità" ( Gv 17,19 ). 406. Non esamineremo qui la questione se il sacerdote, obbligato a maggior perfezione interiore del semplice religioso, sia nello stato di perfezione. È questa, a dir vero, una questione di Diritto canonico, che viene comunemente risolta negativamente, perchè il sacerdote, anche se pastore di anime, non ha quella stabilità che è canonicamente richiesta dallo stato di perfezione. Il sacerdote poi che è nello stesso tempo religioso, ha, com'è chiaro, tutti gli obblighi del sacerdozio, e per di più quelli dei voti, e trova nella regola più copiosi aiuti per essere santo. Ma non deve dimenticare che il suo sacerdozio l'obbliga a perfezione maggiore di quella dello stato religioso. Nascondi Così il clero secolare e il clero regolare, senza ombra di gelosia, si stimeranno e si aiuteranno a vicenda, non avendo che un solo e medesimo scopo, di glorificar Dio guadagnandogli quante più anime è possibile, e giovandosi delle virtù e dei buoni successi che noteranno nei confratelli per eccitarsi a nobile emulazione: "Consideriamo un l'altro per incitarci all'amore e alle buone opere "( Eb 10,24 ). Capitolo V Dei mezzi generali di perfezione. 407. Acquistata la profonda convinzione che dobbiamo tendere alla perfezione, non ci resta che cercare e mettere in pratica i mezzi capaci di farci conseguire un tale scopo. Si tratta qui dei mezzi generali, comuni a tutte le anime che vogliono progredire, riserbando alla seconda parte l'esposizione dei mezzi speciali che convengono ai vari gradi della vita spirituale. Questi mezzi sono interni od esterni: i primi sono disposizioni o atti dell'anima stessa che a grado a grado la innalzano a Dio; i secondi, oltre questi atti, abbracciano pure esterni soccorsi che aiutano l'anima in questa ascensione. Sarà bene farne un'esposizione sommaria. 408. 1° Tra i mezzi interni quattro meritano speciale attenzione: 1° il desiderio della perfezione, che è il primo passo in avanti e ci dà lo slancio necessario per trionfare degli ostacoli. 2° La conoscenza di Dio e di sé stesso: trattandosi di unire l'anima a Dio, quanto meglio si conosceranno questi due termini tanto più facile riuscirà l'accostarli insieme: [ noverim te, Domine, ut amen te, noverim me ut despiciam me! ] e conoscere Te, o Signore, la fine di amare te, fammi sapere, che io disprezzo me stesso! 3° La conformità alla divina volontà, che, assoggettando la nostra volontà a quella di Dio, è il più autentico segno di amore e il mezzo più efficace di unirci alla fonte di ogni perfezione: [ unum velle, unum nolle ] una volontà, non si vuole. 4° La preghiera, considerata nel suo piú largo senso, come adorazione e domanda, mentale o vocale, privata o pubblica, [ascensio mentis in Deum ] Ascensione del Signore: per suo mezzo uniamo a Dio tutte le interne nostre facoltà, memoria, fantasia, intelligenza, volontà, e perfino i nostri atti esterni in quanto sono l'espressione del nostro spirito di preghiera. II. Anche i mezzi esterni possono ridursi a quattro principali: 1° La direzione: Dio infatti come istituì un'autorità visibile per governare esternamente la Chiesa, così volle che le anime siano nel foro interno dirette da una guida spirituale sperimentata, che possa far loro evitare gli scogli, stimolarne e dirigerne gli sforzi. 2° Un regolamento di vita, che, approvato dal direttore, ne continua l'azione nelle anime. 3° Le conferenze, esortazioni o letture spirituali, che, bene scelte, ci fanno conoscere la dottrina e gli esempi dei santi e ci traggono ad imitarli. 4° La santificazione delle relazioni sociali di parentela, di amicizia, o di affari, che ci da modo di dirigere a Dio non solo i nostri esercizii di pietà, ma anche tutte le nostre azioni e principalmente i doveri del nostro stato. Desiderio della perfezione. Mezzi interni Conoscenza di Dio e di sé stesso. Conformità alla divina volontà. Preghiera. Direzione. Mezzi esterni Regolamento di vita. Letture e conferenze spirituali. Santificazione delle relazioni sociali. ART. I. Dei mezzi interni di perfezione I. Il desiderio della perfezione 409. Il primo passo verso la perfezione è quello di sinceramente, ardentemente e costantemente desiderarla. A ben persuadercene, studiamone: 1° la natura; 2° la necessità ed efficacia; 3° le qualità; 4° i mezzi di alimentarlo. I. Natura di questo desiderio. 410. 1° Il desiderio in generale è un movimento dell’anima verso un bene assente; differisce quindi dalla gioia, che è la soddisfazione di possedere un bene presente. Ve n'è di due specie: il desiderio sensibile, che è uno slancio appassionato verso un bene sensibile assente: il desiderio razionale, che è un atto della volontà che si volge con ardore verso un bene spirituale. Questo desiderio reagisce talora sulla sensibilità e s'informa quindi di sentimento. Nell'ordine soprannaturale i nostri buoni desideri subiscono l'influsso della divina grazia, come più sopra abbiamo detto. 411. 2° Il desiderio della perfezione si può quindi definire: un atto della volontà che, sotto l'influsso della grazia, aspira continuamente al progresso spirituale. Ouest'atto è talora accompagnato da emozioni, da pii sentimenti che intensificano il desiderio; ma tale elemento non è necessario. 412. 3° Il desiderio nasce dalla concorde azione della grazia e della volontà. Dio ci ama da tutta l'eternità e brama quindi di unirsi a noi: [ “Et in caritate perpetua dilexi te; ideo attraxi te, miserans" ] E io ti ho amato di un amore eterno; Perciò ti ho disegnato con benignità. Con instancabile amore ci cerca, ci insegue, come se non potesse essere felice senza di noi. D'altra parte, quando l'anima nostra, illuminata dalla fede, si ripiega su sé stessa, sente un vuoto immenso che nulla può colmare: nulla tranne l'infinito, tranne Dio: [ "Fecisti nos ad te, Deus, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te" ] Tu ci hai fatto a te, o Dio, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te. Sospira quindi a Dio, all’amor divino, alla perfezione, come il cervo sitibondo sospira la fonte d'acqua viva: [ "Quemadmodum desiderat cervus ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea post le… Sitivit in te anima mea "] Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela dopo di te: l'anima mia ha sete dopo il le … E poiché sulla terra questo desiderio non è mai intieramente appagato, restandoci sempre da progredire verso l'unione divina, ne segue che, se non vi mettiamo ostacoli, andrà continuamente crescendo. Nascondi 413. 4° Sventuratamente molti ostacoli tendono a soffocarlo o almeno a diminuirlo: è la triplice concupiscenza, già da noi descritta ( al n. 193 ), è l'orrore delle difficoltà da vincere e degli sforzi da rinnovare per corrispondere alla grazia e progredire. É quindi necessario convincersi bene della sua necessità e prendere i mezzi per ravvivarlo. II. Sua necessità ed efficacia. 414. 1° Necessità. Il desiderio è il primo passo verso la perfezione, la condizione sine qua non per arrivarvi. Arduo è il cammino della perfezione, e suppone sforzi energici e costanti poiché, come dicemmo, non si può progredire nell’amor di Dio senza sacrifici, senza lottare contro la triplice concupiscenza e contro la legge del minimo sforzo. Ora uno non si avvia per cammino difficile e ripido se non ha ardente desiderio di giungere alla meta; e, avviatosi, presto l’abbandonerebbe se non fosse sorretto nello sforzo dallo slancio dell'anima verso la perfezione. A) Tutto quindi nella Sacra Scrittura tende a eccitare in noi questo desiderio. Nel Vangelo come nelle Epistole è una continua esortazione alla perfezione. Come già dimostrammo parlando dell'obbligo di tendere alla perfezione, i testi che provano questa necessità hanno per iscopo di stimolare in noi il desiderio del progresso. Se ci si dà come ideale l'imitazione delle divine perfezioni e come modello lo stesso Gesù, se ce se ne narrano le virtù e siamo sollecitati ad imitarlo, non è forse per eccitare in noi il desiderio della perfezione? 415. B) La Sacra Liturgia non procede altrimenti. Richiamando nel corso dell'anno le varie fasi della vita di Nostro Signore, ci fa esprimere i più ardenti desiderii: per la venuta del regno di Gesù nelle anime nel tempo d'Avvento; pel suo accrescimento nei nostri cuori da Natale all’Epifania; per gli esercizi di penitenza, come preparazione alle grazie della Risurrezione, dalla Settuagesima a Pasqua; per l'intima unione con Dio nel tempo pasquale; per i doni dello Spirito Santo a partire dalla Pentecoste. Cosicché, durante tutto l'anno liturgico, non fa che stimolare in noi il desiderio di progresso spirituale ora sotto una forma ora sotto un'altra. 416. C) L'esperienza che sì acquista leggendo le vite dei Santi o dirigendo le anime, ci mostra che, senza il desiderio della perfezione frequentemente rinnovato, le anime non progrediscono nelle vie spirituali. È ciò che ci dice S. Teresa: È cosa di grande importanza che non rimpicciniamo i nostri desideri. Crediamo fermamente che, con l’aiuto divino e per via di sforzi,. potremo col tempo acquistare anche noi ciò che tanti santi, aiutati da Dio, riuscirono ad ottenere. Se non avessero mai concepito simili desideri e non li avessero messi adagio adagio in pratica, non sarebbero mai saliti così in alto … Oh! quanto importa nella vita spirituale di animarsi a grandi cose! La Santa stessa ne è notevole esempio: finché non si risolvette a spezzare tutti i legami che ne ritardavano lo slancio verso la vetta, della perfezione, si trascinò penosamente nella mediocrità; ma dal dì che risolvette di darsi intieramente a Dio, fece mirabili progressi. 417. La pratica della direzione conferma l'insegnamento dei santi. Quando si incontrano anime generose che hanno umile e perseverante desiderio di progredire nelle vie spirituali, gustano e praticano i mezzi di perfezione che loro si suggeriscono. Se invece nullo o debole è questo desiderio, presto si vede che anche le più premurose esortazioni fanno poco effetto; l'alimento dell’anima, come quello del corpo, non reca profitto se non a coloro che ne hanno fame e sete: Dio ricolma dei suoi beni quelli che se ne mostrano affamati, ma non li distribuisce che parcamente a coloro che non se ne curano [ Esurientes implevit bonis et divites dimisit inanes" ] Ha ricolmato di beni gli affamati buone: e il ricco egli ha rimandato a mani vuote. Il che risulta pure dall'efficacia di questo desiderio. 418. 2° Efficacia del desiderio della perfezione. Questo desiderio è una vera forza che ci fa avanzare verso una vita migliore. a) La psicologia infatti dimostra che l'idea, quando è profonda, tende a provocare l’atto che le corrisponde. Ciò che è anche più vero quando il pensiero è accompagnato dal desiderio: perché il desiderio è già un atto della volontà che mette in moto le nostre facoltà esecutive. Desiderare quindi la perfezione è già un tendervi; e il tendervi è un principio di attuazione. Il desiderare d'amare Dio è già un amarlo, perché Dio vede il fondo del cuore e ci tiene conto di tutte le buone intenzioni. Di qui quel profondo detto di Pascal: " Tu non mi cercheresti, se non m'avessi già trovato ". Ora il desiderare è un cercare e chi cerca trova [ Omnis enim qui quaerit, invenit " ] Chiunque cerca trova. 419. b) Inoltre, nell'ordine soprannaturale il desiderio è una preghiera, un'ascensione dell'anima verso Dio, una specie di comunione spirituale con Lui, che innalza l'anima a Dio e l'attira a noi. Ora Dio si compiace d'esaudire le nostre preghiere, massimamente quando hanno per fine la nostra santificazione che è il desiderio più ardente del suo cuore [ " haec est enim voluntas Dei, sanctificatio vestra "] Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione. É questa la ragione per cui Dio nel Vecchio Testamento ci sollecita a cercare, a inseguire la sapienza, cioè la virtù, fa le più belle promesse a quelli che ne ascoltano la voce e generosamente la concede a quelli che la desiderano: [ "propter hoc optavi, et datus est mihi sensus; et invocavi, et venit in me spiritus sapientiae" ] a causa di questo, ho voluto, e la comprensione mi è stata data; e invocò Dio, e lo spirito di sapienza è venuto su di me. E nel Vangelo, Nostro Signore c'invita a saziare in Lui la nostra sete spirituale: [ " Si quis sitit, veniat ad me et bibat " ] Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Quanto dunque sono più ardenti i nostri desideri, tanto maggiori grazie riceviamo, perché inesauribile è la sorgente dell'acqua viva. 420. c) Finalmente il desiderio, dilatando l'anima, la rende più atta alle divine comunicazioni. Da parte di Dio c'è tale pienezza di bontà e di grazie, che la misura che ci viene concessa è largamente proporzionata alla nostra capacità di ricevere. Quanto più dunque con sinceri e ardenti desideri dilatiamo l'anima, tanto più ella è atta a ricevere della divina pienezza: [ “Os meum aperui et attraxi spiritum… Dilata os tuum et implebo illud.." ] Aprii la bocca, e ansimai: apri la bocca larga e voglio riempire … III. Qualità che deve avere il desiderio della perfezione. Per produrre questi lieti effetti, il desiderio della perfezione dev'essere soprannaturale predominante, progressivo e pratico. 421. 1° Dev'essere soprannaturale tanto nel suo motivo quanto nel suo principio: a) Nel suo motivo, vale a dire che deve fondarsi sulle ragioni forniteci dalla fede da noi già sopra esposte: la natura e l'eccellenza della vita cristiana e della perfezione, la gloria di Dio, l'edificazione del prossimo, il bene dell'anima ecc. b) Nel suo principio, nel senso che deve compirsi sotto l'azione della grazia, la quale sola può darci la luce a intendere e gustare questi motivi, e la forza necessaria per operare secondo le nostre convinzioni. E poiché la grazia s'ottiene con la preghiera, è necessario chiedere con insistenza a Dio che accresca in noi questo desiderio di perfezione. 422. 2° Dev'essere predominante, o, in altri termini, più intenso di ogni altro desiderio. Essendo infatti la perfezione cristiana il tesoro nascosto e la perla preziosa che bisogna comperare ad ogni costo, e a ogni grado di perfezione cristiana corrispondendo un grado di gloria, di visione beatifica e d'amore, bisogna desiderarla e ricercarla più d'ogni altra cosa: [ " Quaerite ergo primum regnum Dei et justitiam ejus " ] Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, dunque 423. 3° Costante e progressivo: essendo la perfezione lavoro di lunga lena che richiede perseveranza e progresso, bisogna costantemente rinnovare il desiderio di far meglio. É questa la ragione per cui Nostro Signore ci dice di non guardare indietro a vedere il cammino già fatto e fermarci con compiacenza sugli sforzi già compiuti: [ " Nemo mittens manum suam ad aratrum et respiciens retro, aptus est regno Dei " ] Nessuno che abbia messo la mano all'aratro, e guardando indietro, è adatto per il regno di Dio. Bisogna invece, come dice S. Paolo, guardare innanzi per vedere il cammino che ci resta da percorrere e tendere le forze come il corridore che tende le braccia in avanti per meglio toccare la meta: [ "quae quidem retro sunt obliviscens, ad ea quae sunt priora extendens meipsum, ad destinatum prosequor bravium supernae vocationis" ] dimenticando le cose che stanno dietro e che si estende in avanti per quelle cose che sono prima di premere verso il premio della suprema vocazione. Più tardi S. Agostino insisterà molto su questa stessa verità: perché, dice, l'arrestarsi è un indietreggiare; l'indugiarsi a contemplare il cammino percorso è un perdere l'ardore. Mirar sempre a far meglio, andar sempre avanti, tal è il motto della perfezione: [ " Noli in via remanere, noli deviare … Semper adde, semper ambula, semper profice " ] Non rimanere nel modo, non si discostano … sempre aggiungere ad esso, sempre a piedi, sempre fare progressi. È dunque necessario contemplare non il bene che si è fatto ma quello che resta da fare; considerare non quelli che fanno meno bene di noi ma quelli che fanno meglio, i fervorosi, i santi, e sopratutto il Santo per eccellenza, Gesù stesso, che è il vero nostro modello. Allora quanto più uno va innanzi, tanto più si sente lontano dalla meta, appunto perché vede meglio quanto alta sia cotesta meta. Non ci dev'essere però nulla nei nostri desideri di troppo affaccendato e di febbrile e sopratutto nulla di presuntuoso; gli sforzi violenti non durano, e i presuntuosi presto s'avviliscono alle prime disfatte. Ciò che ci fa progredire è un desiderio calmo, riflessivo, fondato su forti convinzioni, appoggiato sull'onnipotenza della grazia e rinnovato di frequente. 424. 4° Allora riesce pratico ed efficace, perché non prende di mira un ideale impossibile ad attuarsi ma i mezzi che sono a nostra portata. Vi sono anime che hanno un ideale magnifico ma puramente speculativo, che aspirano ad alta santità ma che trascurano i mezzi per arrivarvi. Vi è in ciò un doppio pericolo: uno si può credere già perfetto perché va sognando di perfezione e così inorgoglire; oppure può arrestarsi e cedere. Bisogna invece ricordare l'adagio: "chi vuole il fine vuole anche i mezzi" e pensare che, la fedeltà nelle piccole cose assicura la fedeltà nelle grandi; onde si deve immediatamente applicare il desiderio della perfezione all'azione presente per minima che sia, perché ["Qui fidelis est in minimo et in majori fidelis est "] Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto. Desiderare la perfezione e rimetterne lo sforzo al domani, volersi santificare nelle grandi occasioni e trascurare le piccole, è una doppia illusione che indica mancanza di sincerità o almeno ignoranza della psicologia. L'alto ideale è certamente necessario ma è pur necessaria l'attuazione immediata e progressiva. IV. Mezzi per eccitare questo desiderio della perfezione. 425. 1° Essendo il desiderio della perfezione fondato sopra convinzioni soprannaturali, si può acquistare ed accrescere specialmente con la meditazione e la preghiera. Bisogna quindi innanzi tutto riflettere sulle grandi verità che abbiamo esposto nei capitoli precedenti, sulla natura e sull'eccellenza di questa vita comunicataci da Dio stesso, sulla bellezza e sulle ricchezze di un'anima che coltiva questa vita, sulle delizie che Dio le riserva in cielo; meditare le vite, dei santi che tanto più progredirono quanto più ardente e costante ebbero il desiderio d'avvicinarsi ogni giorno alla perfezione. E per rendere più proficua questa meditazione, bisogna aggiungervi la preghiera, che, attirando la grazia, fa penetrare queste convinzioni nel più intimo dell'anima. 426. 2° Vi sono però circostanze più favorevoli, in cui l'azione della grazia si fa più vivamente sentire. Un accorto direttore spirituale saprà approfittarne per eccitare nei penitenti desideri di perfezione. a) Così, fin dal primo destarsi della ragione, Dio sollecita il fanciullo a darsi a lui; quanto è importante che genitori e confessori se ne giovino per stimolare e dirigere lo slancio di questi giovani cuori! Lo stesso è a dirsi del momento della prima comunione privata o solenne; del momento in cui si inizia la vocazione o si fa la scelta dello stato di vita; quando si entra in collegio o in Seminario o nel noviziato; oppure quando si riceve il sacramento del matrimonio. In tutte queste circostanze Dio concede grazie speciali e molto importa il corrispondervi generosamente. 427. b) Vi è pure il tempo degli Esercizi spirituali. Il raccoglimento prolungato che li accompagna, le istruzioni che vi si ascoltano, le letture che vi si fanno accompagnate da esami di coscienza e da preghiere, e principalmente le grazie più abbondanti che vi si ricevono, contribuiscono a rinsaldare le nostre convinzioni, ci fanno conoscere meglio lo stato della nostra coscienza e più cordialmente detestare i nostri peccati e le loro cause, suggeriscono più pratiche e più generose risoluzioni, e ci danno nuovo slancio verso la perfezione. A questo modo, l'uso, da alcuni anni, degli esercizi spirituali chiusi è riuscito a formare, così nel clero come fra i secolari, una schiera di uomini scelti, che altra ambizione non hanno se non quella di progredire nella vita spirituale. Anche i direttori dei Seminarii sanno quali mirabili effetti producono nei giovani chierici i ritiri spirituali che si fanno al principio di ogni anno e al tempo delle sacre ordinazioni; è quello il momento in cui si formano o si rinnovano o s'intensificano i generosi desideri di vita migliore. É quindi cosa importante l'approfittare di queste occasioni per rispondere alla chiamata di Dio e cominciare o, perfezionare la riforma di se stesso. 428. c) Le prove provvidenziali, fisiche o morali, come le malattie, i lutti di famiglia, le angustie dell'animo, i rovesci di fortuna, sono spesso accompagnate da grazie interne che ci stimolano a vita più perfetta. Ci distaccano da tutto ciò che non è Dio, purificano l'anima col dolore, ci fanno desiderare il cielo e la perfezione che ne è la via, a patto però che l'anima si giovi di queste prove per volgersi a Dio. 429. d) Vi sono poi dei momenti in cui lo Spirito Santo produce nelle anime movimenti interiori che le inclinano verso una vita più perfetta: le illumina sulla vanità delle cose umane, sulla felicità di darsi più intieramente a Dio e le stimola a fare sforzi più energici. É chiaro che si deve approfittare di queste grazie interiori per accelerare il passo nella via della perfezione. 430. 3° Vi sono finalmente delle pratiche di pietà che tendono di loro natura a stimolare il nostro desiderio di perfezione; e sono: a) L'esame particolare, che ci obbliga ogni giorno a interiormente concentrarci su un punto speciale, non solo per rilevare le nostre mancanze o i nostri progressi ma anche e principalmente per rinnovare la volontà di progredire nella pratica di questa o di quella virtù ( n. 468 ). Nascondi b) La confessione ben fatta, con lo scopo di correggerci di questo o quel difetto ( n. 262 ). c) Il ritiro mensile o i ritiri annuali, che vengono periodicamente a ritemprarci nel desiderio di far meglio. Conclusione 431. Coll'uso di questi vari mezzi, serbiamo la volontà costantemente o almeno abitualmente rivolta al progresso spirituale. Così, sorretti dalla grazia di Dio, trionfiamo più facilmente degli ostacoli; avremo certamente talora qualche debolezza, ma, stimolati dal desiderio di progredire, riprenderemo animosamente la marcia in avanti, e le parziali sconfitte, esercitandoci nell’umiltà, non serviranno che a meglio avvicinarci a Dio. II. Della conoscenza di Dio e di sé stesso. 432. Poiché la perfezione consiste nell'unione dell'anima con Dio, è chiaro che, per arrivarvi, bisogna anzitutto conoscere i due termini dell'unione, Dio e l'anima: la conoscenza di Dio ci condurrà direttamente all'amore: [ noverim te ut amem te! ] Si deve sapere che ti amo La conoscenza di noi stessi, facendoci stimare quel tanto di bene che Dio ha posto in noi, ci ecciterà alla riconoscenza; e la vista delle nostre miserie e dei nostri difetti, facendoci concepire un giusto disprezzo di noi stessi, produrrà direttamente l'umiltà, [ noverim me, ut despiciam me ] mi conosco, mentre guardo, e quindi pure l'amor di Dio, perché l'unione con Dio non si opera se non nel vuoto di noi medesimi. I. Della conoscenza di Dio. 433. Per amar Dio, bisogna prima di tutto conoscerlo: [ nil volitum quin praecognitum ] nessun oggetto senza pre. Quanto più dunque ci applichiamo a studiarne le perfezioni, tanto più il nostro cuore s'infiamma d'amore per lui, perché tutto in lui è amabile: egli è la pienezza dell'essere, pienezza di bellezza, di bontà e d'amore: [ Deus caritas est ] Dio è amore. É cosa evidente. Resta quindi a determinare: 1° ciò che di Dio dobbiamo conoscere per amarlo; 2° come giungere a questa affettuosa conoscenza. 1° Ciò che dobbiamo conoscere di Dio Di Dio dobbiamo conoscere tutto ciò che può farcelo ammirare ed amare, e quindi la sua esistenza, la sua natura, i suoi attributi, le sue opere, specialmente la sua vita intima e le sue relazioni con noi. Nulla di ciò che riguarda la divinità è estraneo alla devozione: anche le stesse verità più astratte hanno un lato affettivo che aiuta singolarmente la pietà. Dimostriamolo con alcuni esempi tratti dalla filosofia e dalla teologia. 434. A) Verità filosofiche. a) Le prove metafisiche dell’esistenza di Dio sono certo molto astratte, pure sono una miniera di preziose riflessioni che conducono all'amor di Dio. Dio, primo motore immobile, atto puro, è la fonte d'ogni movimento; dunque io non posso muovermi che in Lui e per Lui; dunque deve essere il primo principio di tutte le nostre azioni; e se ne è il primo principio, ne deve pur essere l'ultimo fine: [ Ego sum principium et finis ] Io sono l'inizio e la fine. Dio è la causa prima di tutti gli esseri, di tutto ciò che v'è di buono in me, delle nostre facoltà, dei nostri atti: a Lui solo dunque ogni onore e ogni gloria! Dio è l'Essere necessario, il solo necessario [ "unum necessarium" ] una necessaria; e quindi il solo bene da cercare; tutto il resto è cosa contingente, accessoria, passeggiera, e non può essere utile che in quanto ci conduce a quest'unico necessario. Dio è l'infinita perfezione e le creature non sono che un pallido riflesso della sua bellezza, è quindi Lui l'ideale a cui mirare: [ "Estote perfecti sicut et Pater vester caelestis perfectus est " ] Siate voi dunque perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto; onde noi non dobbiamo mettere alcun limite alla nostra perfezione: "Io che sono infinito, diceva Dio a S. Caterina da Siena, vado cercando opere infinite, vale a dire un infinito sentimento d'amore ". 435. b) Se passiamo poi alla natura divina, il poco che ne conosciamo ci distacca dalle creature e da noi stessi per innalzarci a Dio. Dio è la pienezza dell'essere: [ "Ego sum qui sum"] Io sono colui che sono; il mio essere non è dunque che un essere mutuato, incapace di sussistere da sé, e che deve riconoscere la sua assoluta dipendenza dall’Essere divino. Questo egli voleva inculcare a S. Caterina da Siena, quando le diceva: " Sai, o figlia mia, ciò che sei tu e ciò che sono io? … Tu sei quella che non è e Io sono Colui che è". Qual lezione d'umiltà e d'amore! 436. c) Lo stesso è degli attributi divini; non ve n'è alcuno che, ben meditato, non serva a stimolare il nostro amore sotto una forma o sotto un'altra: la divina semplicità ci eccita a praticare quella semplicità o purità d'intenzione che ci fa tendere direttamente a Dio, senza alcun egoistico riguardo a noi stessi; la sua immensità che ci avvolge e compenetra, è il fondamento di quell'esercizio della presenza di Dio che è così caro e così proficuo alle anime pie; la sua eternità ci distacca da tutto ciò che passa, rammentandoci che ciò che non è eterno è nulla: [ "quod aeternum non est nihil est" ] Non è che niente è mai; la sua immutabilità ci aiuta a praticare, in mezzo alle umane vicissitudini, quella calma tanto necessaria all'intima e durevole unione con Dio la sua infinita attività stimola la nostra e c'impedisce di cadere nella noncuranza o in una specie di pericoloso quietismo; la sua onnipotenza, posta a servizio della infinita sua sapienza e della misericordiosa sua bontà, ci ispira una filiale confidenza che agevola in modo singolare la preghiera e il santo abbandono; la sua santità ci fa odiare il peccato e amare quella purità di cuore che conduce all'unione intima con Dio: [“Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt”] Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio; la infallibile sua verità è il più saldo fondamento della nostra fede; la sua bellezza, la sua bontà, il suo amore ci rapiscono il cuore e vi destano palpiti d' amore e di riconoscenza. E quindi le anime sante si dilettano di inabissarsi nella contemplazione dei divini attributi: ammirando e adorando le perfezioni di Dio, ne attraggono qualche cosa nell'anima loro. 437. B) Si dilettano principalmente di contemplare le verità rivelate, che riguardano tutte la storia della vita divina: la sua fonte nella SS. Trinità; le sue prime comunicazioni con la creazione e la santificazione dell'uomo; la sua restaurazione con l’Incarnazione; la attuale sua diffusione con la Chiesa e coi Sacramenti; il suo compimento finale nella gloria. Ognuno di questi misteri le rapisce e le infiamma d'amore per Dio, per Gesù, per le anime, per tutte le cose divine. 438. a) La vita divina nella sua fonte è la SS. Trinità: Dio, che è la pienezza dell’essere e della carità, contempla se stesso da tutta l'eternità; contemplandosi produce il Verbo, e questo Verbo è suo Figlio, distinto da Lui ma a Lui perfettamente uguale, vivente e sostanziale sua immagine. Dio Padre ama questo Figlio e ne è riamato; e da questo mutuo amore scaturisce lo Spirito Santo, distinto dal Padre e dal Figlio dai quali procede, e perfettamente uguale all’uno e all’altro. A questa vita noi partecipiamo! 439. b) Essendo infinitamente buono, Dio vuole comunicarsi ad altri esseri: il che fa con la creazione e principalmente con la santificazione. Per la creazione noi siamo servi di Dio, ciò che è per noi già un grande onore; che Dio infatti abbia pensato a me da tutta l’eternità e m'abbia scelto tra miliardi di esseri possibili per darmi l'esistenza, la vita, l'intelligenza, qual motivo d'ammirazione, di riconoscenza e d'amore! Ma che m'abbia poi chiamato a partecipare alla sua vita divina, che m'abbia adottato in figlio, che mi destini alla chiara visione della sua essenza e a un amore infinito, o non è questo il colmo della carità? E non sarà un potente motivo d'amarlo senza riserva? 440. c) Per colpa del primo padre avevamo perduto i diritti alla vita divina ed eravamo incapaci di ricuperarli da noi stessi. Ma ecco che il Figlio di Dio, vedendo la nostra miseria, si fa uomo come noi, e diventando il capo di un corpo mistico di cui noi siamo le membra, espia i nostri peccati con la dolorosa sua passione e morte di Croce, ci riconcilia con Dio, e fa di nuovo scorrere nelle anime nostre una partecipazione di quella vita da lui attinta nel seno del Padre. Vi è qualche cosa di più atto a farci amare il Verbo Incarnato, a unirci strettamente a Lui, e per Lui al Padre? 441. d) Ad agevolare questa unione, Gesù continua a restare con noi; vi resta per mezzo della Chiesa che ce ne trasmette e ce ne spiega gli insegnamenti. Vi resta per mezzo dei Sacramenti, misteriosi canali della grazia che ci comunicano la vita divina. Vi resta principalmente per mezzo dell'Eucaristia, in cui Gesù perpetua nello stesso tempo la sua presenza, la benefica sua azione e il suo sacrificio: il suo sacrificio nella Santa Messa, ove rinnova in modo misterioso la sua immolazione; la benefica sua azione nella Comunione, in cui viene con tutti i suoi tesori di grazia a perfezionare l'anima nostra e a comunicarle le sue virtù; la permanente sua presenza, imprigionandosi volontariamente, giorno e notte, nel tabernacolo, ove possiamo visitarlo, conversare con lui, glorificare con lui l’adorabile Trinità, trovare in lui la guarigione delle nostre spirituali ferite e il conforto nelle nostre tristezze e nei nostri abbattimenti: [“Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos ”] Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. 442. e) E questo non è che il preludio della vita consumata in Dio che godremo per tutta l'eternità; lo vedremo un di a faccia a faccia, come egli vede se stesso, e l'ameremo con perfetto amore; e vedremo e ameremo in lui tutto ciò che vi è di grande e di nobile. Usciti da Dio con la creazione, a lui ritorniamo con la glorificazione, e glorificandolo troviamo la perfetta felicità. Il dogma è dunque la fonte della vera devozione e l'alimento; ci rìmane ora a dire che modo dobbiamo giovarcene sotto questo rispetto. 2° Mezzi per acquistare questa conoscenza di Dio. 443. Tre mezzi principali ci sì presentano per acquistare questa affettuosa conoscenza di Dio: 1° il pio studio della filosofia e della teologia; 2° la meditazione o l'orazione: 3° l'abitudine di veder Dio in tutte le cose. A) Il pio studio della teologia. Si può studiare la filosofia e la teologia in due modi: con la mente soltanto, come si studia ogni altra scienza, oppure con la mente e insieme col cuore. Quest' ultimo modo è quello che genera la pietà. Quando S. Tommaso s'immergeva nello studio profondo delle grandi questioni filosofiche e teologiche, non lo faceva come uno dei savi della Grecia, ma come discepolo e amante di Cristo; a questo modo, secondo la sua espressione, la teologia tratta delle cose divine e degli atti umani in quanto ci conducono alla perfetta conoscenza di Dio e quindi all'amore: [" de quibus agit secundum quod per eos ordinatur homo ad perfectam Dei cognitionem, in quá aeterna beatitudo consistit"] un uomo di cui si comporta secondo che è ordinato da loro per la perfetta conoscenza di Dio, in cui consiste la beatitudine eterna. Ecco perché la sua pietà superava anche la sua scienza. Lo stesso avveniva di S.Bonaventura e dei grandi teologi. É vero che la maggior parte di essi non lasciarono pie riflessioni sui grandi misteri della fede, tenendosi paghi di esporli e di provarli; ma la pietà scaturisce dal fondo stesso di queste verità: e chiunque studi con spirito di fede, non può fare che non ammiri ed ami Colui la cui grandezza e bontà ci viene rivelata dalla teologia. La qual cosa è specialmente vera per coloro che sanno giovarsi dei doni della scienza e dell'intelletto; dei quali il primo ci fa risalire dalle creature a Dio, svelandocene le relazioni con la divinità; e il secondo ci fa penetrare nelle verità rivelate, per coglierne le mirabili armonie. Con l'aiuto di questi lumi, il pio teologo saprà elevarsi dalle verità più speculative ad atti di adorazione, di ammirazione, di riconoscenza e di amore che sgorgano spontaneamente dallo studio dei dogmi cristiani. Questi atti non solo non ne intorpidiranno l'attività intellettuale, ma anzi la affineranno e la stimoleranno: si studia meglio, con maggior attività e costanza, ciò che si ama; vi si scoprono profondità che l'intelligenza sola non riuscirebbe a penetrare; e se ne deducono conseguenze che allargano il campo della teologia, alimentando la pietà. 444. B) Allo studio però bisogna aggiungere la meditazione. Non si meditano abbastanza i dogmi cristiani, o almeno non se ne meditano spesso se non gli aspetti accessori. Non bisogna paventare di affrontarli direttamente e nel loro fondo come soggetto principale delle nostre meditazioni. Avviene allora che l'anima, alla luce della fede, sotto l'azione dello Spirito Santo, tocca altezze e scopre profondità che l'intelligenza sola non coglierebbe. Ne abbiamo la prova negli scritti di anime semplici, elevate alla contemplazione, che ci lasciarono su Dio, su Gesù Cristo, sulla sua dottrina, sui suoi sacramenti, osservazioni tali da gareggiare con quelle dei migliori teologi. Del resto non disse S. Tommaso di aver imparato più alla scuola del Crocifisso che nei libri dei dottori? La ragione è che, nel silenzio e nella calma dell'orazione, Dio parla più facilmente al cuore, e che la sua parola, meglio intesa, illumina l'intelligenza, riscalda il cuore e scuote la volontà. In tali momenti lo Spirito Santo si degna di comunicare, oltre i doni della scienza e dell'intelletto, anche quello della sapienza, che fa assaporare le verità della fede, le fa amare e praticare, formando così una strettissima unione tra l'anima e Dio. É quello che venne sì bene descritto dall'autore dell'Imitazione: "Beata l'anima che ascolta il Signore parlargli interiormente e riceve dalla sua bocca parole di consolazione" Il frequente e affettuoso pensiero di Dio durante il giorno continua e compie i felici effetti dell’orazione: pensando a Dio lo amiamo di più e l'amore affina la nostra conoscenza. 445. C) Allora si contrae più facilmente l'abitudine di innalzarsi dalle creature al Creatore, e di vedere Dio in tutte le sue opere: le cose, le persone, gli avvenimenti. Il fondamento di questa pratica è l'esemplarismo divino, insegnato da Platone, perfezionato da S. Agostino e da S. Tommaso, posto in luce dalla Scuola di S. Vittore e ripreso poi dalla Scuola francese di spiritualità del secolo XVII. Tutte le cose esistono nel pensiero di Dio prima di essere create: Dio le concepì nella sua intelligenza prima di produrle al di fuori e volle che fossero, in gradi diversi, un riflesso delle divine sue perfezioni. Se contempliamo quindi le cose create non solo con gli occhi del corpo ma anche con gli occhi dell'anima, al lume della fede vedremo: a) che tutte le creature, secondo il grado di perfezione, sono o un vestigio o un'immagine o una somiglianza di Dio; che tutte ci dicono di aver Dio per autore e c'invitano a lodarlo, non essendo tutto l'essere che è in loro, tutta la loro bellezza e tutta la loro bontà, che una creata e finita partecipazione dell'essere divino; b) che specialmente le creature intelligenti, elevate all'ordine soprannaturale, sono immagini, sono viventi somiglianze di Dio, che ne partecipano, benché in modo finito, la vita intellettuale; che essendo tutti i battezzati membri di Cristo, Lui dobbiamo vedere in loro: [in omnibus Christus] Cristo in tutta la; c) che tutti gli avvenimenti, lieti o tristi, sono nel pensiero divino destinati a perfezionare la vita soprannaturale da lui comunicataci e a facilitare la raccolta degli eletti, così che di tutto possiamo giovarci per santificarci. Aggiungiamo tuttavia che, nell'ordine cronologico, le anime vanno prima a Gesù Cristo, e solamente per lui vanno al Padre, e che, arrivate a Dio, non lasciano di tenersi strettamente unite a Gesù. Conclusione: l'esercizo della presenza di Dio 446. L'affettuosa conoscenza di Dio ci conduce al santo esercizio della presenza di Dio, di cui indicheremo brevemente il fondamento, la pratica e i vantaggi. A) Il fondamento è la dottrina dell'onnipresenza di Dio. Dio è da per tutto non solo con lo sguardo e con l’operazione ma anche con la sostanza. Come diceva S. Paolo agli Ateniesi, " in lui noi abbiamo la vita, il movimento e l'essere: [in ipso enim vivimus, movemur et sumus] in lui viviamo, ci muoviamo e abbiamo il nostro;" il che è vero così sotto l'aspetto naturale come sotto il soprannaturale. Come Creatore, dopo averci dato l'essere e la vita, ce li conserva, e col suo concorso mette in moto le nostre facoltà; come Padre, ci genera alla vita soprannaturale, che è una partecipazione della stessa sua vita, e lavora con noi, come causa principale, alla sua conservazione e al suo incremento, onde sì trova intimamente presente in noi, fin nel centro dell'anima, senza però lasciare di essere distinto da noi. É come già dicemmo al n. 92, il Dio della Trinità che vive in noi, il Padre che ci ama come figli, il Figlio che ci tratta come fratelli, e lo Spirito Santo che ci dà e i suoi doni e la sua persona. B) La pratica. Per trovar dunque Dio non occorre che andiamo a cercarlo in cielo, perché lo troviamo: a) vicinissimo a noi nelle creature che ci circondano; in queste andiamo da principio a cercarlo: tutte infatti ci richiamano qualcuna delle divine perfezioni, massime le creature che, dotate d'intelligenza, possiedono in sé il Dio vivente ( n. 92 ); tutte ci servono come di scalini per giungere a lui; b) rammentiamo poi ch'egli è vicinissimo a coloro che lo pregano con fiducia: [“Prope est Dominus omnibus invocantibus eum"] Il Signore è vicino a quanti lo invocano e l'anima nostra si diletta di invocarlo ora con semplici giaculatorie ora con preghiere più lunghe. c) Ma soprattutto rammentiamo che le tre divine persone abitano in noi e che il nostro cuore è un tabernacolo vivente, un cielo ove esse già si danno a noi. Ci basta quindi rientrare in noi stessi, nella cella interiore, come dice S. Caterina da Siena, e fissare con l'occhio della fede l’ospite divino che si degna abitarvi. Allora vivremo sotto il suo sguardo, sotto la sua azione, l'adoreremo e lavoreremo con lui alla santificazione dell'anima nostra. 447. C) É facile scorgere quali siano i vantaggi di questa pratica rispetto alla nostra santificazione. a) Ci fa diligentemente schivare il peccato. Chi mai oserebbe offendere la divina maestà nel momento stesso che sa che Dio abita in lui con la infinita sua santità che non può soffrire la minima macchia, con la sua giustizia che l'obbliga a punire anche le più piccole colpe, con la sua potenza che arma il braccio contro il colpevole, e principalmente con la sua bontà che sollecita il nostro amore e la nostra fedeltà? b) Stimola il nostro ardore per la perfezione. Se un soldato che combatte sotto gli occhi del generale si sente spinto a moltiplicar le prodezze, come non sentirci pronti alle più dure fatiche, agli sforzi più generosi, quando sappiamo di combattere non solo sotto lo sguardo di Dio ma  con la sua sempre vittoriosa collaborazione? come non sentirci animati dalla corona immortale che ci promette e principalmente dall’aumento d'amore che ci dà come ricompensa? c) Quale confidenza non ci dà questo pensiero! Quali che siano le prove, le tentazioni, le fatiche, le debolezze, non siamo forse sicuri della vittoria finale, quando rammentiamo che Colui che è la stessa onnipotenza e a cui nulla resiste, vive in noi e mette a nostro servizio la divina stia virtù? Possiamo certamente toccare parziali sconfitte, passare per dolorose angosce, ma siamo sicuri che, appoggiati su di lui, trionferemo e che le stesse nostre croci non servono che a farci maggiormente amar Dio e a moltiplicarci i meriti. d) Finalmente qual gioia per noi il pensare che Colui che forma la felicità degli eletti e che un dì contempleremo nel cielo, è già in nostro possesso, e che possiamo goderne la presenza e conversar con lui nel corso di tutto il giorno? La conoscenza e il frequente pensiero di Dio sono dunque grandemente santificanti; e lo stesso è della conoscenza di noi stessi. II. Della conoscenza di noi stessi. La conoscenza di Dio ci porta direttamente ad amarlo, perché è infinitamente amabile; la conoscenza di noi stessi vi ci porta indirettamente, mostrandoci il bisogno assoluto che abbiamo di lui a perfezionare le doti da lui largiteci e a rimediare alle profonde nostre miserie. Esporremo dunque di questa conoscenza 1° la necessità; 2° l'oggetto; 3° i mezzi d'arrivarvi. 1°. Necessità della conoscenza di noi stessi Poche parole basteranno a convincercene. 448. A) Chi non conosce sé stesso è nella morale impossibilità di perfezionarsi. Perché allora uno s'illude sul proprio stato, cadendo, secondo il proprio carattere o l’ispirazione del momento, ora in un presuntuoso ottimismo che ci fa credere di essere già perfetti, ora nello scoraggiamento che ci fa esagerare i nostri difetti e le nostre colpe; nell'uno e nell'altro caso quasi identico è il risultato, cioè l'inazione o almeno la mancanza di sforzi energici e perseveranti, vale a dire il rilassamento. D'altra parte come correggere difetti che punto non si conoscono o si conoscono male, e come coltivare virtù e doti di cui non si ha che una nozione vaga e confusa? 449. B) Invece la chiara e sincera conoscenza dell'anima nostra ci sprona alla perfezione: le nostre doti c'inducono a ringraziarne Dio, corrispondendo più generosamente alla grazia; i nostri difetti e la coscienza della nostra impotenza ci mostrano che abbiamo ancora molto da lavorare e che non convien perdere occasione alcuna di progredire. Allora uno si giova di tutte le occasioni per estirpare o almeno svigorire, mortificare, dominare i propri vizi, per coltivare e svolgere le proprie doti. E avendo coscienza della propria incapacità, si chiede umilmente a Dio la grazia di progredire ogni giorno, e, sorretti dalla fiducia in Dio, si ha la speranza e il desiderio della buona riuscita; il che dà slancio e costanza nello sforzo. 2° Oggetto della conoscenza di noi stessi 450. Osservazioni generali. Perché questa conoscenza sia più efficace, è necessario che abbracci lutto ciò che si trova in noi, doti e difetti, doni naturali e doni soprannaturali, inclinazioni e ripugnanze, l'intiera storia della nostra vita, le nostre colpe, i nostri sforzi, i nostri progressi; il tutto studiato senza pessimismo, ma con imparzialità, con retta coscienza illuminata dalla fede. a) Bisogna quindi rilevare sinceramente, senza falsa umiltà, tutte le doti che il Signore ha posto in noi, non certo per gloriarcene ma per esprimerne riconoscenza al loro autore e per diligentemente coltivarle: sono talenti che Dio ci ha affidati e di cui ci domanderà conto. Il terreno da esplorare è quindi vastissimo, perché comprende e i doni naturali e i doni soprannaturali: quello che avemmo più direttamente da Dio, quello che ricevemmo dai genitori e dall'educazione, quello che dobbiamo ai nostri sforzi sorretti dalla grazia. 451. b) Ma bisogna pure porci coraggiosamente di fronte alle nostre miserie e ai nostri falli. Tratti dal nulla, al nulla continuamente tendiamo; non sussistiamo e non possiamo agire che coll’incessante concorso di Dio. Nascondi Attirati al male dalla triplice concupiscenza ( n. 193 ss ), questa tendenza noi abbiamo accresciuto coi peccati attuali e con le abitudini che ne risultano; bisogna umilmente riconoscerlo, e, senza disanimarci, metterci all'opera, con la grazia di Dio, per guarire queste ferite con la pratica delle virtù cristiane, onde accostarci alla perfezione del Padre celeste. 452. Applicazioni. A ben procedere in questo esame, possiamo ordinatamente percorrere i doni naturali e i soprannaturali, seguendo una specie di questionario che ci agevolerà il lavoro. Art. II. I mezzi esterni di perfezione 530. Questi mezzi possono ridursi a quattro principali: la direzione, che ci dà una guida sicura; il regolamento di vita, che ne continua e ne compie l'azione; le letture e le esortazioni spirituali, che ci propongono l'ideale da attuare; e la santificazione delle relazioni sociali, che rende soprannaturali tutte le nostre relazioni col prossimo. § I. Della direzione spirituale. Cercheremo di porre bene in luce due cose: 1° la necessità morale della direzione; 2° i mezzi per assicurarne la buona riuscita. I. Necessità morale della direzione. La direzione, benché non sia assolutamente necessaria alla santificazione delle anime, è per loro il mezzo normale di progresso spirituale, come viene dimostrato dall'autorità e dalla ragione fondata sull'esperienza. 1° Prova d'autorità 531. A ) Dio, avendo costituita la Chiesa come società gerarchica, volle che le anime fossero santificate per mezzo della sottomissione al Papa e ai Vescovi nel foro esterno, ai confessori nel foro interno. Quindi quando Saulo si convertì, Gesù, in cambio di rivelargli egli stesso i suoi disegni, lo manda ad Anania perché conoscesse dalla sua bocca ciò che doveva fare. Partendo da questo fatto, Cassiano, S. Francesco di Sales e Leone XIII mostrano la necessità della direzione: "Troviamo, dice quest'ultimo, alle origini stesse della Chiesa una celebre manifestazione di questa legge: benché Saulo, spirante minacce e carneficine, avesse inteso la voce di Cristo stesso e gli avesse chiesto: Signore, che volete ch'io faccia? pure fu inviato ad Anania, in Damasco: Entra in città e là li sarà dello quel che devi fare. " E aggiunge: "Così fu sempre praticato nella Chiesa; questa è la dottrina unanimemente professata da tutti coloro che, nel corso dei secoli, rifulsero per scienza e santità". 532. B ) Non potendo citare tutte le tradizionali autorità, daremo uno sguardo ad alcuni testimoni che si possono considerare come i rappresentanti autentici della teologia ascetica. Cassiano, che aveva passato lunghi anni fra i monaci della Palestina, della Siria e dell'Egitto, consegnò la loro e sua dottrina in due opere. Nella prima, il libro delle Istituzioni, raccomanda vivamente ai giovani cenobiti di aprire il cuore al vegliardo incaricato della loro direzione, di manifestargli senza falsa vergogna i più segreti pensieri, e di rimettersi intieramente al suo parere nel discernimento del buono e del cattivo. Ritorna su questo punto nelle sue Conferenze, e, mostrati i pericoli a cui s'espongono coloro che non consultano gli anziani, conchiude che il miglior mezzo di trionfare delle più pericolose tentazioni è di manifestarle a un saggio consigliere, adducendo in ciò l’autorità di S. Antonio e dell'abate Serapione. Ciò che Cassiano insegna ai monaci d'Occidente, S. Giovanni Climaco l'inculca ai monaci d'Oriente nella Scala del Paradiso. Agli incipienti fa notare che coloro che vogliono uscire dall'Egitto e domare le sregolate passioni, hanno bisogno d'un Mosè che faccia loro da guida. Ai proficienti dichiara che, per seguir Gesù Cristo e godere della santa libertà dei figli di Dio, bisogna umilmente affidare la cura dell'anima propria a un uomo che sia il rappresentante del divino Maestro; e badare a sceglierlo bene, perché gli si dovrà ubbidire con semplicità, nonostante i piccoli difetti che si potessero notare in lui, l'unica cosa da temersi essendo quella di seguire il proprio giudizio. 533. Per il Medioevo basteranno due autorità. S. Bernardo vuole che i novizi nella vita religiosa abbiano una guida, un pedagogo che li istruisca, li diriga, li consoli e li animi. Alle persone più avanzate in età, per esempio al canonico Ogier, dichiara che chi prende sé stesso a maestro o direttore, si fa discepolo d'uno stolto: ["qui se sibi magistrum constituit, stulto se discipulum facit "] che si costituisce il suo maestro, il discepolo fa uno sciocco; e aggiunge: " Non so che cosa pensino gli altri di sé stessi su questo argomento; io parlo per esperienza, e quanto a me dico che mi è più facile e più sicuro comandare a molti che guidar me solo". Nel secolo XIV, S. Vincenzo Ferreri, eloquente predicatore domenicano, dopo avere affermato che la direzione fu sempre praticata dalle anime che vogliono progredire, ne dà questa ragione: "Chi ha un direttore al quale obbedisce senza riserva e in tutte le cose, arriverà molto più facilmente e più presto che non farebbe da solo, anche se fornito di vivissima intelligenza e di dotti libri in materia spirituale". 534. Non nelle sole comunità ma anche nel mondo si sentiva il bisogno d'una guida spirituale: ne sono prova le lettere di S. Girolamo, di S. Agostino e di molti altri Padri a vedove, a vergini, a secolari. Ha dunque ragione S. Alfonso di dire, spiegando i doveri del confessore, che uno dei principali è quello di dirigere le anime pie. Del resto la ragione stessa, illuminata dalla fede e dall’esperienza, ci mostra la necessità d' un direttore per progredire nella perfezione. 2° Prova di ragione fondata sulla natura del pregresso spirituale 535. A ) Il progresso Spirituale è lunga e penosa ascensione per ripido sentiero, fiancheggiato da precipizi: grave imprudenza sarebbe l'avventurarvisi senza un'esperta guida. É così facile illudersi sul conto proprio, non è possibile che vediamo intieramente chiaro quando si tratta di noi stessi, dice S. Francesco di Sales, non possiamo essere giudici imparziali in causa propria, per una certa compiacenza "così segreta ed impercettibile che, se non si ha buona vista, non si può scoprire, e quelli stessi che ne son presi, non la conoscono se non la si fa loro vedere". Onde conchiude che abbiamo bisogno d'un medico spirituale per fare una diagnosi imparziale sullo stato dell'anima nostra e prescrivere i rimedii più efficaci: "Oh! perché vorremmo essere maestri di noi stessi per ciò che riguarda lo spirito, quando non lo siamo per ciò che riguarda il corpo? Non sappiamo forse che i medici, quando sono infermi, chiamano altri medici per farsi indicare i rimedi buoni per loro?" 536. B ) A capire meglio questa necessità, basta esporre brevemente i principali scogli che s'incontrano in ognuna delle tre tappe nel cammino della perfezione. a ) Gli incipienti hanno da temere le ricadute e, per evitarle, devono fare lunga e laboriosa penitenza, proporzionata al numero e alla gravità delle colpe. Ora gli uni, dimenticando presto il passato, vogliono entrar subito nella via dell’amore, e questa presunzione è presto seguita dal ritiro delle consolazioni sensibili, dallo scoraggiamento e da nuove cadute; gli altri si danno con eccesso alle mortificazioni esteriori compiacendosene vanamente, onde si guastano la salute, e, volendo poi curarsi, cadono nel rilassamento. È quindi necessario che un esperto direttore tenga gli uni nello spirito e nella pratica della penitenza, e calmi l'intempestivo ardore degli altri. Altro scoglio è l’aridità spirituale che succede alle consolazioni sensibili: si teme allora essere abbandonati da Dio, si omettono gli esercizi di pietà perché paiono sterili, e si cade nella tiepidezza. Chi dunque farà schivare questo pericolo se non un saggio direttore, il quale, nel tempo delle consolazioni, avvertirà che non durano sempre, e al venire dell'aridità, consolerà, rassicurerà, fortificherà queste anime, mostrando che non c'è nulla di meglio per rassodarci nella virtù e purificare il nostro amore? 537. b ) Entrando nella via illuminativa, non occorre forse ancora una guida per discernere le principali virtù che convengono a questa, o a quella persona, i mezzi per esercitarvisi, il metodo da seguire per fruttuosamente esaminarsi sui progressi fatti e sulle debolezze commesse? E quando sorga quel sentimento di stanchezza, che presto o tardi si prova accorgendosi che la via della perfezione è più lunga e più penosa di quanto uno s'immaginava, chi farà che questa impressione non degeneri in tiepidezza se non l'affetto paterno d'un direttore che saprà indovinare l'ostacolo, prevenire lo scoraggiamento, consolare il penitente, stimolarlo a sforzi novelli e fargli intravedere i frutti di questa prova sopportata valorosamente? 538. c ) Più necessaria ancora è la direzione nella via unitiva. Per entrarvi, è necessario coltivare i doni dello Spirito Santo con generosa e costante docilità alle ispirazioni della grazia. Ora, per discernere le ispirazioni divine da quelle che vengono dalla natura o dal demonio si ha spesso bisogno degli avvisi di un savio e disinteressato consigliere. Più indispensabile ancora è quando si entra nelle prime prove passive,, quando le aridità, le noie, i timori della divina giustizia, le insistenti tentazioni, l'impossibilità di meditare in modo discorsivo e le contraddizioni del di fuori vengono a rovesciarsi addosso a una povera anima e a gettarla in profondo turbamento; è chiaro che ci vuole allora una guida che prenda a rimorchio questa sperduta navicella. Avviene lo stesso quando si godono le dolcezze della contemplazione: questo stato suppone tanta discrezione, umiltà, docilità, e principalmente tanta prudenza per saper ben conciliare la passività con l'attività, che è moralmente impossibile non smarrirsi senza i consigli d'una guida molto accorta. Ecco perché Santa Teresa apriva l’anima con tanta semplicità ai suoi direttori; ecco perché S. Giovanni della Croce ritorna spesso sulla necessità di aprirsi tutto al direttore: "Dio, dice, brama talmente che l'uomo si assoggetti alla direzione d'un altro uomo, che non vuole assolutamente vederci prestar piena credenza alle verità soprannaturali da lui stesso comunicate prima che siano passate per il canale d'una bocca umana”. 539 . A compendiate quanto abbiamo detto, non c'è di meglio che citare le parole del P. Godinez: "Su mille persone che Dio chiama alla perfezione dieci appena corrispondono, e su cento che Dio chiama alla contemplazione, novantanove mancano all'appello … Bisogna riconoscere che una delle cause principali è la mancanza di maestri spirituali … Costoro sono, dopo la grazia di Dio, i nocchieri che guidano le anime attraverso lo sconosciuto mare della vita spirituale. E se nessuna scienza, nessuna arte, per semplice che sia, può essere imparata senza un maestro che l'insegni, tanto meno si potrà imparare quell'alta sapienza della perfezione evangelica ove s'incontrano così profondi misteri … Stimo quindi cosa moralmente impossibile che, senza miracolo o senza maestro, un’anima possa per lunghi anni passare per ciò che vi è di più alto e di più arduo nella vita spirituale senza correre rischio di perdersi”. 540. Sì può dunque dire che la via normale per far progressi nella vita spirituale sta nel seguire i consigli d'un saggio direttore. Infatti la maggior parte delle anime fervorose ne sono persuase e praticano la direzione al santo tribunale della penitenza. Quando, in questi ultimi anni, si volle formare una schiera di anime elette, nessun altro mezzo fu giudicato migliore della direzione premurosamente praticata nei patronati, nelle colonie estive e principalmente nei ritiri chiusi. Nulla dunque di più efficace per santificare le anime, a patto che vi si osservino le regole che ora richiameremo. II. Regole per assicurare la buona riuscita della direzione. Perché la direzione sia proficua, è necessario: 1° determinarne bene l'oggetto; 2° procurare la collaborazione del direttore e del diretto. 1° Oggetto della direzione 541. A) Principio generale. L'oggetto della direzione è tutto ciò che riguarda la formazione spirituale delle anime. La confessione tocca soltanto l'accusa delle colpe; la direzione va molto più in là. Risale alle cause dei peccati, alle inclinazioni profonde, al temperamento, al carattere, alle abitudini contratte, alle tentazioni, alle imprudenze; e ciò per poter trovare i veri rimedii, quelli che mirano alla radice stessa del male. Per meglio combattere i difetti, sì occupa delle opposte virtù, virtù comuni a tutti i cristiani e virtù speciali a ogni categoria di persone; dei mezzi per meglio praticarle; degli esercizi spirituali che, come la meditazione, l'esame particolare, la devozione al SS. Sacramento, al Sacro Cuore, alla SS. Vergine, ci forniscono armi spirituali per avanzarci nella pratica delle virtù. Tratta della vocazione, e, regolata che sia questa partita, dei doveri particolari di ogni stato. L'oggetto dunque, come si vede è molto esteso. 542. B ) Applicazioni. a) Per ben dirigere un'anima, il direttore deve conoscere ciò che vi è di principale nella sua vita passata, le colpe abituali, gli sforzi già tentati per correggersene e i risultati ottenuti, a fine di veder bene ciò che resta da fare; poi le disposizioni presenti, le inclinazioni, le ripugnanze, il genere di vita che si mena, le tentazioni che si provano e la tattica tenuta per vincerle, le virtù di cui si sente maggior bisogno e i mezzi usati per acquistarle; tutto ciò per poter dare più opportuni consigli. b ) Solo allora si può più facilmente stendere un programma di direzione; programma pieghevole che s'adatti allo stato attuale del penitente per renderlo migliore. Non si può infatti guidare tutte le anime allo stesso modo; bisogna prenderle al punto in cui si trovano, per aiutarle a salire gradatamente, senza far troppi salti, il ripido sentiero della perfezione. E poi le une sono più ardenti e generose, le altre più calme e più lente; non tutte sono chiamate allo stesso grado di perfezione. 543. Vi è però un ordine progressivo da seguire, onde si può avere una certa unità di direzione. Diamone alcuni esempi. Nascondi 1) Da principio si deve insegnare alle anime a santificare bene tutte le azioni ordinarie, offrendole a Dio in unione con Nostro Signore ( n. 238 ). È questa una pratica da osservare per tutta la vita e su cui bisogna ritornare assai spesso, collegandola collo spirito di fede che è così necessario in tempi di tanto naturalismo. 2) La purificazione dell'anima con la pratica della penitenza e della mortificazione non deve mai smettersi intieramente e bisogna richiamarvi spesso le anime dirette, tenendo conto delle loro spirituali disposizioni per variare opportunamente gli esercizi di questa virtù. 3) L'umiltà, come virtù fondamentale, dev'essere inculcata quasi fin da principio e richiamata spesso ai penitenti in tutti gli stadii della vita spirituale. 4) La carità verso il prossimo viene frequentemente violata anche dalle persone devote, onde vi si insisterà molta negli esami di coscienza e nelle confessioni. 5) Essendo l'unione abituale con Nostro Signore, modello e collaboratore, uno dei mezzi più efficaci di santificazione, non si deve temere di ritornarvi sopra di frequente. 6) La forza di carattere, fondata su convinzioni profonde è virtù particolarmente necessaria ai di nostri, onde bisogna diligentemente coltivarla e aggiungervi l'onestà e la lealtà che ne sono inseparabili. 7) L'apostolato è specialmente richiesto in un secolo di proselitismo come il nostro, e il direttore deve mirare a formare schiere di anime elette, che possano aiutare il sacerdote nelle mille occorrenze dell'evangelizzazione delle anime. Quanto al resto, non c'è che da tener conto di quanto diremo spiegando le tre vie. 2° Doveri del direttore e del diretto La direzione non otterrà serii risultati se direttore e diretto non lavorano insieme a quest'opera comune, animati tutti e due di buona volontà. 1) I doveri del direttore. 544 . S. Francesco di Sales dichiara che il direttore deve possedere tre doti principali" bisogna che sia pieno di carità, di scienza e di prudenza: se manca una di queste tre doti, c'è pericolo”. A ) La carità che gli è necessaria è un affetto soprannaturale e paterno che gli fa vedere nei diretti figli spirituali affidatigli da Dio stesso, perché vi faccia crescere Gesù Cristo e le sue virtù ["Filioli mei, quos iterum parturio donec formetur Christus in vobis"] Figlioli miei, che io di travaglio nel parto di nuovo, finché Cristo sia formato in voi. a ) Li circonda quindi tutti della stessa sollecitudine e delle stesse premure facendosi tutto a tutti per tutti santificarli, spendendo tempo, cure e anche se stesso, per formare in loro le cristiane virtù. Avverrà certamente che, nonostante gli sforzi si sentirà talora attratto più verso gli uni che verso gli altri, ma dovrà con la volontà reagire contro le simpatie od antipatie naturali; e schiverà con la massima cura quelle affezioni sensibili che mirerebbero a creare degli attacchi, innocenti da principio, poi disturbanti e pericolosi così per la sua riputazione come per la sua virtù. Voler affezionare a sé cuori fatti per amar Dio, è una specie di tradimento, come ben dice l’Olier: "Avendoli Nostro Signore scelti ( si tratta dei direttori di anime ) per andare a conquistargli dei regni, vale a dire i cuori degli uomini, che gli appartengono, che acquistò coll'efflusione del sangue e in cui vuole stabilire il suo impero, in cambio di dargli questi cuori come a loro legittimo sovrano, li prendono per sé e se ne rendono padroni e proprietari Oh! quale ingratitudine, quale infedeltà, quale oltraggio, quale perfidia!”. E sarebbe pure porre quasi insormontabile ostacolo al progresso spirituale dei diretti, come all'avanzamento proprio, non volendo Dio saperne di cuori divisi. 545. b ) Questa bontà non deve però essere debolezza ma associarsi alla fermezza e alla franchezza; il direttore avrà il coraggio di fare paterne ammonizioni, di additare e di combattere i difetti dei penitenti, e di non lasciarsi dirigere scienza cioè da loro. Vi sono persone molto destre, molto cerimoniose, che vogliono sì un direttore ma a patto che s'acconci ai loro gusti e alle loro fantasie; più che direzione costoro cercano approvazione della loro condotta: per star in guardia contro abusi di questo genere, ove potrebbe andarne anche della sua coscienza, il direttore non si lascerà cogliere dai raggiri di questi o di queste penitenti, ma, ricordandosi che rappresenta Gesù Cristo, darà ferme decisioni secondo le regole della perfezione e non secondo i desideri dei diretti. 546. c ) Specialmente nella direzione delle donne occorre riserbo e fermezza. Il P. Desurmont, uomo di grande esperienza, scrive a questo proposito: "Nessuna parola affettuosa, nessuna espressione di tenerezza, nessun secreto colloquio che non sia indispensabile; nulla di troppo espressivo né nello sguardo né nel gesto, neppur l'ombra di familiarità; in fatto di conversazioni il puro necessario; in fatto di relazioni diverse da relazioni di coscienza, solo quelle che hanno seria utilità; nessuna direzione fuori del confessionale e nessun commercio epistolare per quanto è possibile". Quindi, pur mostrando la premura che si porta alla loro anima, bisogna nascondere quella che si porta alla loro persona: “ non devono neppur sospettare che si pensa a loro o che si ha premura di loro, perché sono cosiffatte che, se si accorgono che ci sia stima particolare o affezione, cadono quasi irresistibilmente nel naturale o per vanità o per affetto”. E aggiunge: " Generalmente è bene che ignorino quasi di esser dirette. La donna ha il difetto della sua buona qualità: è istintivamente pia ma è anche istintivamente gelosa della sua pietà. L’addobbo dell' anima la impressiona come quello del corpo. L'accorgersi che si vuole ornarla di virtù, è ordinariamente un pericolo per lei". Si dirigono quindi senza dirlo; e si danno loro consigli di perfezione come se si trattasse di cose comuni alle anime. Nascondi 547. B ) Alla santa premura aggiungerà la scienza, la conoscenza della teologia ascetica tanto necessaria al confessore, come abbiamo provato al n. 36. Non lascerà dunque di leggere e rileggere autori spirituali, correggendo i giudizi suoi su quelli di cotesti autori e confrontando la condotta sua con quella dei Santi. 548. C ) Ma gli occorre sopratutto prudenza e sagacia per dirigere le anime non secondo le proprie idee ma secondo i movimenti della grazia, il temperamento e il carattere dei penitenti, e le soprannaturali loro inclinazioni. a ) Il P. Libermann faceva giustamente osservare che il direttore non è che uno strumento a servizio dello Spirito Santo; deve quindi prima di tutto studiarsi di conoscere, con prudenti interrogazioni, l’azione di questo divino Spirito in un' anima: " Considero, scriveva, come punto capitale in fatto di direzione, il discernere in ogni anima le disposizioni che vi si trovano: ciò che lo stato interiore di quest'anima può portare; il lasciar operare la grazia con grande libertà; il distinguere le false ispirazioni dalle vere e impedire alle anime di deviare o di eccedere nelle loro inclinazioni”. In un'altra lettera aggiunge: "Il direttore, visto che abbia e accertato che Dio opera in un'anima, non deve far altro che guidare quest’anima in guisa che essa segua la grazia e le sia fedele. Mai deve ispirarle i propri gusti e le proprie inclinazioni, né guidarla secondo il suo modo di fare o il suo modo di vedere. Il direttore che si regolasse così, stornerebbe spesso le anime dalla condotta di Dio e contrarierebbe spesso la grazia di Dio in loro". Aggiungeva però che questo si applica alle anime che corrono difilate alla perfezione. Per le tiepide e rilassate sta al direttore a studiarsi con esortazioni, consigli, riprensioni, con tutte le industrie dello zelo, di strapparle al loro letargo spirituale. 549. b ) La prudenza di cui qui si tratta, è dunque prudenza soprannaturale, fortificata dal dono del consiglio, che il direttore deve continuamente chiedere allo Spirito Santo. L'invocherà particolarmente nei casi difficili, recitando in cuore un Veni Sancte Spiritus prima di dare importanti risoluzioni; e, dopo averlo consultato, baderà ad ascoltarne con filiale docilità la interiore risposta, per trasmetterla al suo diretto: ["Sicut audio, judico, et judicium meum justum est”]Come ho sentito, io giudico, il mio giudizio è giusto. Sarà allora veramente lo strumento dello Spirito Santo, [instrumentum Deo conjunctum] strumento di Dio congiunti, e fruttuoso ne sarà il ministero. Tuttavia questa attenzione di prender consiglio da Dio non gl'impedirà di adoprare tutti i mezzi suggeriti dalla prudenza per ben conoscere il diretto. Non si contenterà delle sue affermazioni ma ne osserverà la condotta, ascolterà quelli che lo conoscono, e senza accettarne tutti i giudizi, ne terrà conto secondo le regole della prudenza. 550. c) La prudenza lo guiderà non solo nei consigli che darà ma anche in tutte le circostanze che riguardano la direzione. 1) Così non consacrerà che il tempo necessario a questa parte del suo ministero per quanto importante sia; non lunghe conversazioni, non chiacchiere inutili, non domande indiscrete; tenersi solo a ciò che è essenziale e veramente utile al bene delle anime: un consiglio preciso, una pratica chiaramente esposta bastano ad occupare un'anima per una quindicina di giorni o per un mese. Sopratutto poi avrà direzione virile, e si studierà di guidare i diretti in modo che possano, dopo qualche tempo, non già, fare intieramente da sé ma almeno contentarsi di più breve direzione e risolvere le difficoltà ordinarie per mezzo dei principii generali loro inculcati. 2) Se per giovani e uomini si può far la direzione dovunque, anche passeggiando o in un cortile di ricreazione, bisogna essere assai riservati con donne; d'ordinario non si devono ricevere che in confessionale e dirigere che in confessione, brevemente, senza lasciarle entrare in particolari inutili. Noi siamo di tutti e avendo il tempo assai limitato, non conviene sprecarlo. Si deve certamente esser pazienti e dare a ogni anima tutto il tempo necessario, ma ricordarsi pure che vi sono altre anime bisognose del nostro ministero. 2) I doveri del diretto. 551. Il diretto vedrà Nostro Signore nella persona del direttore; infatti se è vero che ogni autorità viene da Dio, la cosa è anche più vera quando si tratta dell’autorità che il sacerdote esercita sulle coscienze: il potere di legare e di sciogliere, di aprire e di chiudere le porte del cielo, di guidare le anime nelle vie della perfezione, è il più divino di tutti i poteri, e non può quindi trovarsi se in chi è il rappresentante ufficiale e l'ambasciatore di Cristo: ["Pro Christo ergo legatione, fungimur, tamquam Deo exhortante per nos"] Quindi siamo ambasciatori per Cristo, portiamo avanti, come se Dio ha fatto vi supplico da noi, anche. É questo il principio da cui derivano i tre doveri verso il direttore: rispetto, confidenza, docilità. 552. A ) Bisogna rispettarlo come il rappresentante di Dio, rivestito della sua autorità in ciò che ha di più intimo e di più onorevole. Perciò se avesse qualche difetto, non ci si fissa il pensiero e non se ne guarda che l'autorità e la missione. Si schiveranno quindi attentamente quelle critiche acerbe che fanno perdere o attenuano il rispetto filiale che gli si deve avere. Si eviterà pure quella eccessiva ,familiarità che è difficilmente compatibile col vero rispetto. Questo rispetto sarà temperato dall'affetto, affetto semplice e cordiale ma rispettoso come di figlio a padre; affetto che escluda il desiderio d’esserne amato in particolare, e le piccole gelosie che talora ne seguono. " Deve insomma essere amicizia forte e dolce, tutta santa, tutta sacra, tutta divina e tutta spirituale ". 553. B ) Rispetto accompagnato pure da filiale confidenza e da grande apertura di cuore. "Trattate con lui ( col direttore ) a cuore aperto, dice S. Francesco di Sales, con tutta sincerità e fedeltà, manifestandogli chiaramente il bene e il male vostro senza finzioni né dissimulazioni: a questo modo il vostro bene sarà esaminato e diverrà più sicuro e il male sarà corretto e rimediato … Abbiate in lui somma confidenza associata a sacra riverenza, in modo che la riverenza non diminuisca la confidenza e la confidenza non impedisca la riverenza”. Bisogna quindi aprirgli il cuore con intiera confidenza, palesargli le tentazioni e le debolezze perché ci aiuti a vincerle o a guarirle, i desideri e le risoluzioni per averne l'approvazione, il bene che intendiamo fare perché lo rinsaldi, i futuri disegni perché li esamini e ci suggerisca i mezzi di porli in esecuzione, tutto ciò insomma che si riferisce al bene dell’anima nostra. Quanto più ci conoscerà tanto più potrà saviamente consigliarci, incoraggiarci, consolarci, fortificarci, cosicché, uscendo dalla direzione, ripeteremo le parole dei discepoli d’Emmaus: " Non è vero che il cuore ci ardeva dentro mentre ci parlava?" 554. Vi sono persone che bramerebbero di aver questa perfetta apertura, ma che, per una certa timidità o riserbo, non sanno come esporre lo stato dell'anima loro. Ne facciano parola col direttore ed egli le aiuterà con opportune interrogazioni, e, occorrendo, col prestare loro qualche libro che insegni il modo di conoscersi e di scrutarsi; rotto che sia il ghiaccio, le comunicazioni diverranno poi facili. Altri invece sono inclinati a discorrere troppo e cangiare la direzione in pia chiacchierata; si ricordino costoro che il tempo del sacerdote è limitato, che altri aspettano il loro turno e potrebbero impazientirsi di queste lungaggini. Bisogna quindi sbrigarsi, lasciando pur qualche cosa per la prossima seduta. 555. C ) La franchezza dev'essere accompagnata da grande docilità nell’ascoltare e nel seguire i consigli del direttore. Non c'è nulla di meno soprannaturale che volerlo indurre nei nostri sentimenti e nelle nostre idee; nulla pure di più nocivo al bene dell'anima; perché non sì cerca allora la volontà di Dio ma la propria, con questa circostanza aggravante che si abusa d’un mezzo divino a fine egoistico. L’unico nostro desiderio dev’essere di conoscere la divina volontà per mezzo del direttore, e non di estorcerne l'approvazione con più o meno abili raggiri; si potrà riuscire a ingannare il direttore ma non a ingannare chi è da lui rappresentato. Abbiamo certo il dovere di fargli conoscere i nostri gusti e le nostre ripugnanze, e se scorgiamo difficoltà o una specie d'impossibilità a mettere in pratica quel tal suo consiglio, dobbiamo diglielo con tutta semplicità; ma, fatto questo, non ci resta che sottometterci. Assolutamente parlando, il direttore può ingannarsi ma non c’inganniamo noi nell’ubbidirgli, salvo naturalmente il caso che ci consigliasse qualche cosa di contrario alla fede o ai costumi, che allora bisognerebbe cambiar direttore. 556. D ) Ma solo per gravi ragioni e dopo matura riflessione bisogna scegliere un altro direttore. È infatti necessario aver certa continuità nella direzione, che non può aversi quando si cambia di frequente guida spirituale. a ) vi sono persone tentate di cambiar confessore: per curiosità, per sapere quale sarà la condotta d'un altro; è facile che uno si stanchi di sentir spesso gli stessi consigli, tanto più se riguardano cose sgradite alla natura; per incostanza perché riesce sempre un poco difficile attenersi a lungo alle stesse pratiche; per superbia, volendo andare al direttore che gode maggior riputazione o che è più in voga, oppure desiderando trovarne uno che ci lisci di più; per una specie d'inquietudine, la quale fa che non si è mai contenti di ciò che si ha e che si vada sempre sognando perfezione immaginaria; per mal regolato desiderio di far conoscere il proprio interno a vari confessori, perché se ne prendano pensiero o ci rassicurino; per falsa vergogna, per nascondere al direttore ordinario certe umilianti debolezze. É chiaro che questi sono motivi insufficienti e quindi da scartarsi se si vuole alacremente progredire nella vita spirituale. 557. b ) Per altro verso bisogna rammentare che la Chiesa insiste sempre più sulla libertà che si deve avere nella scelta del confessore; chi dunque ha buone ragioni per rivolgersi ad altri, non deve esitare a farlo. Quali sono queste ragioni? 1) Se, nonostante tutti gli sforzi fatti, uno non riesce ad aver pel proprio direttore il rispetto, la confidenza e l'apertura di cui abbiamo parlato, bisogna cambiarlo, quand'anche si trattasse di sentimenti privi di buono o sodo fondamento; perché non si potrebbe allora trar profitto dai suoi consigli. 2) Tanto più poi se ci fosse fondatamente da temere che ci distogliesse dalla perfezione o per motivi troppo naturali o per affetto troppo vivo e troppo sensibile che ci dimostrasse. 3) Così pure se uno chiaramente si accorgesse che il direttore non ha né la scienza, né la prudenza, né la discrezione necessaria. Sono certamente casi rari; ma quando si presentassero, bisogna ricordarsi che la direzione non fa del bene se non quando direttore e diretto lavorano insieme con mutua confidenza. § II. Il regolamento di vita. 558. Questo regolamento è destinato a continuare l'opera del direttore, dando al penitente principii e regole che lo aiutino a santificare tutte le azioni con l'obbedienza, e a porgergli una savia e sicura norma di condotta. Ne esporremo: 1° l'utilità; 2° le qualità; 3° il modo d'osservarlo. I. Utilità d'una regola di vita. Utile anche ai semplici fedeli che vogliano santificarsi nel mondo, questa regola è più specialmente necessaria ai membri di comunità e ai sacerdoti che vivono nel ministero. Giova non solo alla santificazione nostra ma anche alla santificazione del prossimo. 559. 1° Utilità per la santificazione nostra. Per santificarsi è necessario utilizzare bene il tempo, rendere soprannaturali le proprie azioni e seguire un certo programma di perfezione. Ora una regola di vita, ben concertata col direttore, ci procura questo triplice vantaggio. A ) Ci fa utilizzar meglio il tempo. Confrontiamo infatti la vita d'una persona che segue una regola di vita e quella d'un’altra che non ne ha. a ) Senza si spreca fatalmente molto tempo: 1) nascono infatti allora esitazioni su ciò che sia meglio fare; s'impiega tempo a deliberare, a pesare il pro ed il contro, e poiché per molte cose non si trova ragion decisiva, si può rimanere incerti; onde, prendendo la natura il sopravvento, si è esposti a lasciarsi trascinare dalla curiosità, dal piacere o dalla vanità. 2) Si trasanda pure facilmente un certo numero di doveri: non essendosi previsto né determinato il momento e il luogo favorevole di adempiere cotesti doveri, se ne omettono alcuni perché non si trova più il tempo di farli. 3) Tali negligenze rendono incostanti: uno fa ora un vigoroso sforzo per ripigliarsi e ora si abbandona alla naturale indolenza, appunto perché non si ha una regola fissa per correggere l'incostanza della natura. 560. b ) Invece con un ben determinato regolamento si risparmia molto tempo: 1) Non più esitazioni: si sa esattamente ciò che si deve fare e quando; se non si riesce a fissar l'orario in modo matematico, almeno si sono posti dei punti fermi e fissati, dei principii sugli esercizi di pietà, sul lavoro, sulle ricreazioni, ecc 2) Non più l'imprevisto o almeno poca cosa: perché, anche per le circostanze straordinarie che possono capitare, si è già determinato quali esercizi si possono abbreviare, e come vi si può supplire con altre pratiche; in ogni caso, cessando l'imprevisto, si ritorna immediatamente alla regola. 3) Non più incostanza, perché il regolamento ci sollecita a far sempre ciò che è prescritto ogni giorno e nelle principali ore del giorno. Si formano così buone abitudini che danno stabile ordine alla nostra vita e ne assicurano la perseveranza; i nostri giorni diventano giorni pieni, pieni di opere buone e di meriti. 561. B ) La regola ci aiuta a rendere soprannaturali tutte le nostre azioni. a) Infatti vengono tutte fatte per obbedienza; onde questa virtù aggiunge lo speciale suo merito al merito proprio di ogni atto virtuoso. In questo senso vale il detto che vivere secondo la regola è vivere per Dio, perché è fare costantemente la santa sua volontà. Vi è pure in questa fedeltà alla regola un innegabile valore educativo: in cambio del capriccio e del disordine, che tendono a prevalere in una vita mal regolata, prendono il sopravvento la volontà e il dovere e quindi l'ordine e l'assestamento: la volontà è assoggettata a Dio e le facoltà inferiori si piegano ad obbedire alla volontà: è un progressivo ritorno allo stato di giustizia originale. b ) è facile allora avere, in tutte le azioni, intenzioni soprannaturali: il solo fatto di vincere i propri gusti e i propri capricci mette già ordine nella vita e dirige le azioni a Dio; inoltre un buon regolamento di vita prescrive un momento di raccoglimento prima di ogni principale azione e ci suggerisce le migliori intenzioni soprannaturali per ben compierla; ognuna quindi viene esplicitamente santificata e diventa atto d’amor di Dio. Chi potrà dire il numero di meriti così accumulati ogni giorno! 562. C ) La regola traccia un programma di perfezione. a ) Ed è veramente un programma quello che abbiamo descritto e il seguirlo è un progredire verso la perfezione: è la via della conformità alla volontà di Dio tanto lodata dai Santi. b ) E poi non vi è compita regola di vita che non indichi le principali virtù da praticare secondo la condizione del penitente e il suo stato spirituale. Occorrerà certo di dover talora modificare questo piccolo programma per i nuovi bisogni che potranno nascere; ma è cosa che si farà d'accordo col direttore, inserendola poi nel regolamento di vita perché serva di guida. 563. 2° La santificazione del prossimo, com'è chiaro, non potrà che guadagnarci. Per santificare gli altri, bisogna unire la preghiera all’azione, utilizzare bene il tempo consacrato all'apostolato e dar buon esempio. Or questo fa per l’appunto chi è fedele al regolamento. A ) Trova in una vita ben regolata il modo pratico di conciliare la preghiera con l’azione. Persuaso che anima dell'apostolato è la vita interiore, si fissa nel regolamento un certo numero di ore per la meditazione, per la santa messa, per il ringraziamento e per tutti gli esercizi necessari allo spirituale alimento dell'anima ( n. 523 ). Il che non toglie che consacri un notevole tempo all'apostolato; sa infatti disporre bene di tutti gli istanti ( n. 560 ), e ne trova quindi per far tutto con ordine e metodo; ha le ore stabilite per le diverse opere parrocchiali, per le confessioni, per l'amministrazione dei sacramenti; i fedeli ne sono avvertiti, e, purché si dia loro il tempo veramente necessario, sono anche essi contenti di sapere a qual preciso momento possono trovare il sacerdote. 564. B ) Rimangono pure edificati degli esempi di puntualità e di regolarità che dà il sacerdote: non possono fare a meno di pensare e di dire che è l'uomo del dovere, costantemente fedele ai regolamenti fissati dall’autorità ecclesiastica. Quindi quando poi lo sentono proclamare dal pulpito o dal confessionale l'obbligo d'obbedire alle leggi di Dio e della Chiesa, ci si sentono stimolati dal suo esempio più ancora che dalle sue parole, e osservano più fedelmente i divini comandamenti. Ecco come un sacerdote, il quale osservi il regolamento di vita, santifica sé e gli altri; il che è vero anche per i laici che si consacrano all'apostolato. II. Qualità di una regola di vita. A produrre questi santi effetti, la regola dev'essere concertata col direttore, pieghevole e salda nello stesso tempo e distribuire i doveri secondo la relativa loro importanza. 565. 1° Dev'essere concertata col direttore, come richiedono la prudenza e l'obbedienza: a) la prudenza, perché, per stendere una regola di vita pratica, occorre molta discrezione ed esperienza, vedere non solo ciò che è bene in sé ma anche ciò che è bene per quella determinata persona; ciò che le è possibile e ciò che ne supera le forze; ciò che è opportuno nell’ambiente in cui vive e ciò che non lo è. Ora ci sono ben poche persone che possano saviamente regolare tutte queste cose. b) D'altra parte uno dei vantaggi del regolamento è quello di porgere occasione a praticare l’obbedienza: il che non avverrebbe se uno se lo fissasse da sé senza sottoporlo a una legittima autorità. 566. 2° Dev'essere abbastanza salda per reggere la volontà e insieme abbastanza pieghevole per adattarsi alle varie circostanze che occorrono nella vita reale e che sconcertano talora le nostre previsioni. a ) Sarà salda, se contiene tutto ciò che è necessario per fissare, almeno come principio, il tempo e il modo di fare i vari esercizi spirituali, di compiere i doveri del nostro stato, di praticare le virtù che convengono al nostro genere di vita. 567. b ) Sarà pieghevole, se, pur determinando questi punti, lasci una certa latitudine per modificare l'orario, per sostituire ad una pratica, che non sia essenziale, un’altra equivalente e che meglio convenga alle circostanze, e anche per abbreviare qualche esercizio quando la carità o uno stringente dovere lo esiga, salvo poi a compierlo in un altro momento. Questa pieghevolezza deve principalmente applicarsi alle formule di preghiera o d'offerta delle azioni, secondo la savia osservazione di S. G. Eudes: " Onde io vi prego di ben notare che la pratica delle pratiche, il segreto dei segreti, la devozione delle devozioni, sta nel non essere attaccati ad alcuna pratica od esercizio particolare di devozione, ma di avere grande cura in tutti i vostri esercizi ed azioni di darvi allo Spirito Santo di Gesù, e di darvigli con umiltà, confidenza e distacco da tutte le cose, affinché, trovandovi senza attaccamento al vostro pensiero e alle vostre devozioni e disposizioni, abbia pieno potere e libertà di operare in voi secondo i suoi desideri, di mettere in voi quelle disposizioni e quei sentimenti di devozione che vorrà, e di condurvi per le vie che gli piacerà". 568. 3° Darà finalmente a ogni dovere la rispettiva importanza. Vi è infatti una gerarchia nei doveri: a) è chiaro che Dio vi deve occupare il primo posto, poi la salute dell'anima nostra e da ultimo la santificazione del prossimo. Non vi è certamente alcun vero conflitto tra questi doveri; devono invece, se vogliamo, conciliarsi fra loro molto bene: chi glorifica Dio in sostanza lo conosce e lo ama, cioè si santifica e lo fa pure conoscere ed amare dal prossimo. Ma chi volesse occupare tutto il tempo nell’apostolato trascurando il gran dovere della preghiera, è evidente che trascurerebbe per ciò stesso il mezzo più efficace dello zelo; ed è parimenti chiaro che se uno mette da parte la cura della propria santificazione, si sentirà presto mancare il vero zelo per santificare gli altri. Procurando dunque di dare a Dio la parte sua, che è la prima, e di serbarsi il tempo di lavorare, coi più essenziali esercizi, alla propria santificazione, si è sicuri d'esercitare l’apostolato in modo più fecondo. Quindi i primi e gli ultimi momenti del giorno saranno per Dio e per noi; potremo poi darci all'azione, pur interrompendola ogni tanto con qualche buon pensiero a Dio. Così la nostra vita sarà divisa tra la preghiera e l'apostolato. b ) Ma in certe urgenti circostanze bisogna applicare un altro principio ed è questo: si deve fare ciò che preme di più, [id prius quod est magis necessarium] prima di questo, è tanto più necessario. Sarebbe il caso d’un sacerdote chiamato al letto d’un moribondo: si lascia tutto per corrervi; cercando però di occuparsi per via in santi pensieri, che tengano il posto dell’esercizio spirituale che si doveva fare in quel momento III. Del modo d’osservare la propria regola. 569 Perché la regola sia santificante, bisogna osservarla integralmente e cristianamente. 1° Integralmente, vale a dire in tutte le sue parti, compresa la puntualità. Se infatti, senza motivo ragionevole, sceglieremo tra i vari punti, ne verrà che osserveremo quelli che sono meno incomodi e trascureremo quelli che sono più penosi. Perderemo così i principali vantaggi annessi all'esatta sua osservanza; perché anche nei punti osservati saremo esposti a lasciarci guidare dal capriccio o almeno dalla propria volontà. Bisogna quindi praticare tutta intiera la regola e, se è possibile, alla lettera; che se per grave ragione non si può, è necessario seguire lo spirito della regola facendo tutto ciò che, moralmente parlando, è possibile. 570. Vi sono due difetti da evitare, lo scrupolo e la rilassatezza. 1) Via gli scrupoli: se c'è qualche grave ragione di dispensarsi da un punto, di differirlo o di sostituirlo con qualche equivalente, si faccia senza inquietudine. Così un urgente dovere del nostro stato, per esempio la visita d'un infermo ci dispensa dalla visita al SS. Sacramento nel caso che tornassimo troppo tardi; e vi suppliremo allora pensando a Nostro Signore lungo la via; così pure la cura dei bambini dispensa una madre di famiglia da una comunione di regola se non è possibile conciliare questi due doveri: la comunione spirituale sostituisce allora la comunione sacramentale. 2) Ma via pure la rilassatezza: l'immortificazione, il desiderio di discorrere a lungo senza necessità, la curiosità ecc., non sono ragioni sufficienti per differire un esercizio, col rischio d'ometterlo poi intieramente. Così, chi non può compiere un dato dovere nella forma abituale deve studiarsi di compierlo sotto altra forma: per esempio, un sacerdote obbligato a portare il viatico in tempo di meditazione, si studierà di convertire in una specie di meditazione affettiva l'adempimento di questo dovere, porgendo ossequi al Dio dell'Eucaristia che porta sul cuore. 571.La puntualità fa parte dell’osservanza integrale della regola: chi, senza buona ragione, non comincia un esercizio al tempo stabilito, resiste già alla grazia che non conosce ritardi, si espone a non aver poi più il tempo di farlo intieramente. Parte seconda Le tre Vie Osservazioni preliminari 618. I principii generali, esposti nella prima parte, s'applicano a tutte le anime e formano già un complesso di motivi e di mezzi atti a condurci alla più alta perfezione. Nascondi Ma, come abbiamo detto più sopra ( n. 340343 ), vi sono nella vita spirituale vari gradi e tappe diverse da percorrere: è quindi necessario specificarli e adattare i principii generali ai bisogni particolari delle anime, tenendo conto non solo del carattere, delle inclinazioni, della vocazione, ma anche del grado di perfezione in cui si trovano, affinché il direttore possa guidare ogni anima secondo ciò che le conviene. Lo scopo quindi di questa seconda parte è di seguire l'anima nelle progressive sue ascensioni, dal primo momento in cui concepisce il sincero desiderio di avanzarsi nella pietà fino alle più alte vette della perfezione: lungo e spesso penoso cammino, ove però si gustano pure le più dolci consolazioni. Prima di cominciare la descrizione delle Tre vie, esporremo: 1° il fondamento di questa distinzione; 2° il savio modo di applicare questa distinzione; 3° la speciale utilità di questa seconda parte. I. Fondamento della distinzione delle tre vie 619. Adoperiamo questa espressione delle "tre vie" per conformarci al linguaggio tradizionale. È però da notare che qui non si tratta di tre vie parallele o divergenti, ma piuttosto di tre tappe diverse lungo la stessa via, o, in altre parole, di tre principali gradi della vita spirituale percorsi dalle anime che corrispondono generosamente alla grazia di Dio. In ognuna poi di queste vie sono parecchie tappe di cui indicheremo le più importanti, dovendone i direttori tener conto; vi sono pure forme e varietà che dipendono dal carattere, dalla vocazione, dalla provvidenziale missione di ogni anima. Nascondi Ma, come con S. Tommaso notammo, si possono ridurre a tre i gradi di perfezione, secondo che si comincia, si progredisce o si arriva al termine della vita spirituale sulla terra ( n. 340-343 ). Intesa in questo largo senso, la divisione delle tre vie è fondata nello stesso tempo sull'autorità e sulla ragione. 620. 1° Sull’autorità della S. Scrittura e della Tradizione. A) Si potrebbero certamente trovare nel Vecchio Testamento molti testi riguardanti la distinzione delle tre vie. Così Alvarez de Paz l'appoggia su questo passo, che gli porge poi la divisione del suo libro: [Declina a malo, et fac bonum, inquire pacem et persequere eam] Schiva il peccato, e fa il bene: cerca la pace e perseguirla. Schiva il peccato: ecco la purificazione dell'anima o la via purgativa; fa il bene, ossia pratica la virtù: ecco la via illuminativa; cerca la pace, quella pace che non si può trovare se non nell'intima unione con Dio: ecco la via unitiva. È un’ingegnosa interpretazione del testo ma non vi si può vedere un valido argomento. 621. B) Nel Nuovo Testamento: a) si possono citare, tra le altre, quelle parole di Nostro Signore che compendiano la spiritualità descritta dai Sinottici: ["Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, et tollat crucem suam quotidie et sequatur me"] Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. L'abnegazione o la rinunzia, [abneget semetipsum] rinneghi se stesso, ecco il primo grado; il portare la croce suppone la pratica positiva delle virtù, ossia il secondo grado; [il sequatur me] Il mi segua è in sostanza l'intima unione con Gesù, l'unione con Dio, e quindi la via unitiva. Vi è qui certo il fondamento d’una vera distinzione tra i vari mezzi di perfezione ma non una prova perentoria. 622. b) Neppure S. Paolo insegna in modo esplicito la distinzione delle tre vie; descrive però tre stati dell’anima onde sorse più tardi questa distinzione. 1) Richiamando ciò che facevano gli atleti per conquistare una caduca corona, Paolo si paragona a loro dicendo che egli pure si sforza di correre e di lottare, ma, in cambio di battere l'aria, castiga il suo corpo e lo tratta da schiavo per schivare il peccato e la riprovazione che ne è il castigo: [" Ego igitur sic curro non quasi in incertum, sic pugno non quasi aerem verberans, sed castigo corpus meum et in servitutem redigo, ne forte, cum aliis praedicaverim, ipse reprobus efficiar"] Ho quindi corro così, non come ad una incertezza: io così combatto, non come chi batte l'aria, ma io castigo il mio corpo e lo riduco in, che talora, dopo aver predicato agli altri, io stesso dovrei diventare un naufrago. Or questi sono appunto gli esercizi della penitenza e della mortificazione, fatti sotto l’influsso d'un salutare timore, per domare la carne e purificare l'anima. E quante volte rammenta ai cristiani che bisogna spogliarsi del uomo vecchio e crocifiggere la carne con i suoi vizi e le sue cupidigie? Abbiamo qui proprio ciò che chiamiamo via purgativa. 2) Scrivendo ai Filippesi, dichiara che egli non è per anco giunto alla perfezione ma che segue il Maestro e si sforza di raggiungerlo, non guardando indietro ma alacremente spingendosi verso la meta: ["Quae quidem retro sunt obliviscens, ad ea quae sunt priora extendens meipsum ad destinatum prosequor, ad bravium supernae vocationis Dei in Christo Jesu"] Dimenticando le cose che stanno dietro e che si estende in avanti per le cose che stanno davanti, a premere verso il marchio per il premio della superna vocazione di Dio in Cristo Gesù. E aggiunge che tutti coloro che tendono alla perfezione devono far lo stesso: ["Quicumque ergo perfecti sumus, hoc sentiamus… imitatores mei estote, fratres”] Pertanto, come molti come essere perfetto, essere così mentalità … siate seguaci di me, fratelli … E altrove: ["Imitatores mei estote sicut et ego Christi"] siate miei imitatori come io sono di Gesù Cristo. Sono appunto le caratteristiche della via illuminativa, in cui il principale dovere è d'imitare Nostro Signore. 3) Quanto alla via unitiva, la descrive sotto le due sue forme: la via unitiva semplice, in cui uno si studia di far costantemente vivere in sé Gesù: "[Vivo autem jam non ego, vivit vero in me Christus] Ma io vivo, adesso non ho, ma Cristo vive in me"; e la via unitiva straordinaria, accompagnata da estasi, da visioni e da rivelazioni: "[Scio hominem in Christo ante annos quatuordecim, sive in corpore nescio sive extra corpus nescio, Deus scit, raptum hujusmodi usque ad tertium caelum] Conosco un uomo in Cristo, che quattordici anni fa, se con il corpo non so, o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio, fu rapito fino al terzo cielo". Vi è dunque nell'Epistole di S. Paolo un sodo fondamento per la distinzione delle tre vie che la Tradizione verrà meglio determinando. 623. La Tradizione fissa a poco a poco esattamente questa distinzione, appoggiandola ora sulla differenza fra le tre virtù teologali e ora sui diversi gradi di carità. a) Clemente Alessandrino è uno dei primi autori che espone il primo metodo. Per diventare gnostico ossia uomo perfetto, bisogna percorrere parecchie tappe: astenersi dal male per timore e mortificar le passioni; poi fare il bene o praticare le virtù sotto l'influsso della speranza; e infine fare il bene per amor di Dio. Lo stesso modo di vedere induce Cassiano a distinguere tre gradi nell'ascensione dell'anima a Dio: il timore che è proprio degli schiavi, la speranza che è propria dei mercenari che lavorano per essere ricompensati, la carità che è propria dei figli di Dio. b) S. Agostino parte da un altro concetto: consistendo la perfezione nella carità, appunto nella pratica di questa virtù egli distingue quattro gradi: la carità che principia, la carità che progredisce, la carità che è già adulta, la carità dei perfetti; questi due ultimi gradi si riferiscono alla via unitiva, onde la sua dottrina in sostanza non differisce da quella dei suoi predecessori. Anche San Bernardo distingue tre gradi nell'amor di Dio: dopo aver mostrato che l'uomo comincia con l'amare sé stesso, aggiunge che, sentendo la propria insufficienza, si fa a cercare Dio con la fede e ad amarlo per ragione dei suoi benefici; poi, a forza di frequentarlo, viene ad amarlo e per i suoi benefici e per se stesso: e finalmente finisce con amarlo d'amore intieramente disinteressato. Nascondi Da ultimo S. Tommaso, perfezionando la dottrina di S. Agostino, chiaramente dimostra che vi sono nella virtù della carità tre gradi corrispondenti alle tre vie o tre tappe ( n. 340343 ). 624. 2° La ragione fa vedere la giustezza di questa distinzione. Poiché la perfezione consiste essenzialmente nell'amor di Dio, vi saranno tanti gradi di perfezione quanti gradi d’amore. Ora: A) Prima di giungere alla perfezione dell'amore, è necessario purificare l'anima dalle colpe passate e premunirla contro le future. La purità di cuore è la prima condizione per veder Dio, vederlo chiaramente nell'altra vita, intravederlo e unirsi a lui in questa “[ Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt ] Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio". Or questa purità di cuore suppone l'espiazione delle colpe passate con una sincera e austera penitenza, la lotta vigorosa e costante contro le tendenze cattive che ci portano al peccato, la preghiera, la meditazione e gli esercizi spirituali necessari per fortificare la volontà contro le tentazioni, insomma un complesso di mezzi che tendono a purificare l'anima e rassodarla nella virtù: questo complesso di mezzi si chiama via purgativa. 625. B) Purificata e riformata che sia, l'anima deve ornarsi delle virtù cristiane positive, che la renderanno più simile a Gesù Cristo; s'applica quindi a seguirlo a passo a passo, a copiarne progressivamente le disposizioni interiori, praticando insieme le virtù morali e le teologali: le prime la indociliscono e la fortificano, le seconde principiano ad unirla positivamente a Dio; le une e le altre vengono praticate parallelamente, secondo i bisogni del momento e le ispirazioni della grazia. A meglio riuscirvi, l'anima perfeziona la meditazione, che diviene sempre più affettiva, e si sforza di amare e imitare Gesù, avanzandosi così nella via illuminativa; perché seguire Gesù è seguire la luce: "[qui sequitur me non ambulat in tenebris] chi mi segue non camminerà nelle tenebre". 626. C) Viene poi il momento in cui l'anima, purificata dalla colpe, indocilita e fortificata, pronta alle ispirazioni dello Spirito Santo, non aspira più che all'intima unione con Dio; lo cerca da per tutto, anche in mezzo alle più gravi occupazioni; si attacca a lui e gode della sua presenza. La meditazione si semplifica sempre più e diventa affettuoso e prolungato sguardo su Dio e sulle cose divine, sotto l'influsso ora latente e ora cosciente dei doni dello Spirito Santo; è, in altri termini, la via unitiva. Vi sono certamente in queste tre grandi tappe gradazioni e varietà "[multiformis gratia Dei] la multiforme grazia di Dio"; ne descriveremo alcune, lasciando che lo studio delle vite dei Santi faccia conoscere le altre. II. Savio modo di applicare questa distinzione 627. Per applicare questa distinzione, si richiede molta delicatezza e molta accortezza; bisogna certo studiare i principii che verremo esponendo, ma più ancora ogni singola anima con tutte le sue particolarità, tenendo conto dell’azione speciale dello Spirito Santo sopra di lei. Per aiutare il direttore in tale studio, non saranno inutili le seguenti osservazioni. 628. A) Nella distinzione delle tre vie non vi è nulla di assoluto o di matematico: a) si passa dall’una all’altra senz’accorgersene, senza che sia possibile porre tra loro un palo di confine. In che modo conoscere se un’anima è ancora nella via purgativa o agli inizi della via illuminativa? Vi è tra le due un terreno comune di cui è impossibile fissare gli esatti confini. b) Del resto il progresso non è sempre costante: si tratta di movimento vitale, con varie alternative, con flussi e riflussi; ora si progredisce e ora si indietreggia; talora anche pare che si rimanga nello stesso posto senza sensibile avanzamento. 629. B) Ci sono poi vari gradi in ognuna di queste vie. a)Tra le anime incipienti ve ne sono di quelle che hanno un gravoso passato da espiare e altre invece che hanno serbata la battesimale innocenza; è chiaro che, a parità di condizioni, le prime dovranno esercitarsi più lungamente dalle seconde nella penitenza. b) Vi sono pure varietà di temperamento, di attività, di energia e di costanza: altri praticano fervidamente gli esercizi della penitenza e altri solo a malincuore; alcuni sono generosi e non vogliono rifiutare a Dio cosa alcuna, altri non corrispondono ai suoi inviti che scarsamente. È quindi evidente che tra queste anime, le quali per altro sono tutte nella via purgativa, vi saranno presto differenze molto grandi. c) Così pure, tra quelli che si esercitano nella purificazione dell'anima solo da alcuni mesi e quelli che vi hanno già consacrato parecchi anni e sono ormai prossimi alla via illuminativa, vi è notevole distanza. Nascondi d) Bisogna anche e sopra tutto tenere conto dell'azione della grazia: alcune anime sembrano riceverla in tanta copia da poterne prevedere un rapido progresso verso le cime della perfezione; altre ne ricevono molto meno e fanno progressi più lenti: si ricordi il direttore che la sua azione dev’essere subordinata a quella dello Spirito Santo, ( n. 548 ). Non bisogna quindi immaginarsi che vi siano quadri rigidi, ove si possano far entrare tutte le anime; bisogna invece pensare che ogni anima ha le sue particolarità, di cui si deve tener conto, e che i quadri tracciati dagli autori spirituali devono essere tanto cedevoli da adattarsi a tutte le anime. 630. C) Nella direzione delle anime poi vi è un doppio scoglio da schivare: alcuni vorrebbero saltare delle tappe, ossia percorrere rapidamente i gradi inferiori per giungere più presto all'amor di Dio; altri invece sono sempre allo stesso punto e si fermano troppo, per colpa loro, nei gradi inferiori, per difetto di generosità o di metodo. Ai primi il direttore ripeterà spesso che ottima cosa è l'amare Dio ma che all’amore puro ed effettivo non si giunge che con la rinunzia e la penitenza, ( n. 321 ). Ai secondi porgerà incoraggiamenti e consigli, sia per stimolarne l'ardore, sia per aiutarli a perfezionare i metodi di meditazione o d'esame. 631. D) Quando gli autori spirituali insegnano che questa o quella virtù conviene a questa o a quella via devono intendersi con gran riserbo. In sostanza tutte le virtù fondamentali convengono a ognuna delle tre vie, sebbene in grado diverso. Così gl'incipienti devono certamente esercitarsi in modo speciale nella virtù della penitenza ma non possono farlo se non praticando le virtù teologali e le cardinali, in modo però diverso dalle anime proficienti, servendosene principalmente per purificare l'anima con la rinunzia e con le virtù mortificative. Nella via illuminativa si coltiveranno queste stesse virtù ma in diverso grado, in forma più positiva, e con la mira di rassomigliare meglio al divino modello. Si farà lo stesso nella via unitiva ma in grado superiore, come manifestazione dell'amor verso Dio e sotto l'influsso dei doni dello Spirito Santo. Così anche i perfetti, pur applicandosi principalmente all'amore di Dio, non cessano di purificarsi l'anima con la penitenza e con la mortificazione; pratiche di penitenza che sono però condite con amore più puro e più inteso, onde riescono anche efficaci. 632. E) Pari osservazione conviene pur fare per i vari generi d'orazione: generalmente parlando, la meditazione discorsiva conviene agl’incipienti, l'orazione affettiva alle anime proficienti, l'orazione di semplicità e la contemplazione alla via unitiva. Ma l'esperienza mostra che il grado d'orazione non sempre corrisponde al grado di virtù: che vi sono persone le quali, o per educazione o per temperamento o per abitudine, restano a lungo nella pratica della meditazione discorsiva o affettiva, pur essendo intimamente e abitualmente unite a Dio; e che altre, di mente più intuitiva e di più affettuoso cuore, fanno volentieri orazione di semplicità, senza per altro esser giunte al grado di virtù richiesto dalla via unitiva. Importa assai fin da principio avere sott’occhio queste osservazioni, per non mettere tra le virtù separazioni assolute che non ci sono. Quindi noi, esponendo le singole virtù, procureremo d'indicare quali gradi convengono agl'incipienti, quali ai proficienti e quali ai perfetti. III. Utilità dello studio delle tre vie Il fin qui detto mostra quanto sia utile e necessario il savio studio delle tre vie. 633. 1° É necessario prima di tutto ai direttori spirituali. Infatti è chiaro " che gl’incipienti e i perfetti devono essere guidati con regole diverse"; perché, aggiunge il P. Grou, " la grazia degli incipienti non è la stessa di quella delle anime proficienti, né la grazia delle anime proficienti è la stessa di quella delle persone consumate nella perfezione". Quindi la meditazione discorsiva, necessaria agl'incipienti, intorpidirebbe le anime più progredite. Parimenti, riguardo alle virtù, vi è un modo di praticarle che corrisponde alla via purgativa, un altro alla via illuminativa, un terzo alla via unitiva. Ora un direttore che non ha approfondito queste questioni, sarà tentato di dirigere quasi tutte le anime allo stesso modo e consigliare ad ognuna ciò che riesce bene a lui. Se l'orazione affettiva semplificata è utilissima a lui, sarà tentato di consigliare lo stesso metodo a tutti i suoi penitenti, dimenticando che a tale orazione non sì giunge se non a grado a grado. Chi nella pratica abituale dell’amore di Dio trova tutto ciò che è necessario alla sua santificazione, sarà indotto a consigliare a tutti la via dell'amore come la più breve e la più efficace, dimenticando che l'uccellino senz'ali è incapace di volare a tali altezze. Un altro che non abbia mai praticato l'orazione di semplice sguardo biasimerà le persone che vi si provano, parendogli che cosiffatto metodo non sia che pigrizia spirituale. Il direttore invece che ha diligentemente studiato le progressive ascensioni delle anime fervorose, saprà adattare i consigli e la direzione al vero stato dei suoi penitenti, a maggior bene dell'anima loro. 634. 2° Anche i semplici fedeli studieranno con vantaggio queste diverse tappe; essi devono certamente lasciarsi dirigere dalla loro guida spirituale; ma quando, con letture bene scelte, abbiano afferrato, almeno nelle grandi linee, le differenze che corrono fra le tre vie, capiranno meglio i consigli del direttore e sapranno trarne maggior profitto. Verremo dunque ordinatamente studiando le tre vie spirituali, ma senza dimenticare che non vi sono quadri rigidi, e che ogni via comporta molte varietà e molte forme diverse. Libro I: La purificazione dell'anima o la via purgativa Introduzione 635. Ciò che costituisce la via purgativa, o lo stato degli incipienti, è la Purificazione dell'anima nell'intento di giungere all'intima unione con Dio. Spieghiamo dunque: 1° che cosa intendiamo per incipienti e 2° lo scopo cui debbono mirare. I. Che cosa si ha da intendere per incipienti? 636. 1° Caratteri essenziali. Gl'incipienti nella vita spirituale sono quelli che, vivendo abitualmente nello stato di grazia, hanno un certo desiderio di perfezione ma conservano affetto al peccato veniale e sono esposti a ricadere di tanto in tanto in alcune colpe gravi. Spieghiamo queste tre condizioni. a) Vivono abitualmente nello stato di grazia, e quindi ordinariamente lottano con buon esito contro le tentazioni gravi. Escludiamo quindi coloro che cadono spesso in peccato mortale e non ne fuggono le occasioni, che hanno delle velleità di convertirsi ma non volontà ferma ed efficace di farlo. Costoro non sono in via verso la perfezione; sono peccatori, sono mondani che bisogna prima di tutto staccare dal peccato mortale e dalle occasioni di commetterlo. b) Hanno un certo desiderio di perfezione o di progresso spirituale, quantunque questo desiderio possa essere ancora debole ed imperfetto. Con ciò escludiamo quei mondani, purtroppo numerosi, la cui sola ambizione è di schivare il peccato mortale, ma che non hanno alcun sincero desiderio di progredire. Nascondi Infatti questo desiderio, come abbiamo dimostrato al n. 414, è il primo passo verso la perfezione. c) Conservano però alcuni affetti al peccato veniale deliberato e ne commettono quindi con frequenza; si distinguono così dalle anime proficienti, le quali si sforzano di troncare ogni affetto ai peccati veniali, benché di tanto in tanto volontariamente ne commettano. La ragione di questi affetti sta nel fatto che le loro passioni non sono ancora ben padroneggiate; onde nascono frequenti e acconsentiti moti di sensualità, di superbia, di vanità, di collera, d'invidia, di gelosia, parole e atti contrari alla carità, ecc. Quante persone, che si dicono devote, conservano di tali affetti, che fanno loro commettere colpe veniali deliberate, e le espongono quindi a cadere di tanto in tanto in colpe gravi! 637. 2° Varie categorie. Vi sono dunque varie categorie di incipienti: a) Le anime innocenti che desiderano progredire nella via spirituale: fanciulli, giovinetti, giovanette, persone del mondo che, non contenti di schivare il peccato grave, vogliono far qualche cosa di più per Dio e bramano perfezionarsi. Ce ne sarebbero anche di più, se i sacerdoti si dessero premura di svegliare in loro questo desiderio di perfezione, al catechismo, nel patronato, nei vari circoli parrocchiali. Nascondi Si rilegga quindi quanto abbiamo detto su questo argomento al n. 409-430. b) I convertiti, che, dopo commessi gravi peccati, ritornano sinceramente a Dio, e per allontanarsi più efficacemente dall’abisso, vogliono andare avanti nelle vie della perfezione. Anche qui possiamo dire che ve ne sarebbero assai più se i confessori badassero a rammentare ai penitenti che, per non indietreggiare, è necessario avanzare, e che il solo mezzo efficace di schivare il peccato mortale è di tendere alla perfezione ( cf. n. 354361 ). c) Gli intiepiditi, che, dopo essersi dati una prima volta a Dio e aver fatto qualche progresso, caddero poi nel rilassamento e nella tiepidezza: costoro hanno bisogno, quand’anche fossero già pervenuti alla via illuminativa, di rifarsi alle pratiche austere della via purgativa e riprendere da capo il lavoro della perfezione. Per aiutarli nei loro sforzi, si dovrà studiosamente premunirli contro i pericoli del rilassamento e della tiepidezza, combattendone le cause che ordinariamente sono la storditaggine o la leggerezza, l'apatia e una certa infingardaggine. 638. 3° Due classi di incipienti. Tra gl'incipienti gli uni mostrano generosità maggiore e gli altri molto minore: onde le due classi che S. Teresa distingue tra loro. a) Nella prima mansione del Castello interiore descrive queste anime che, pur trovandosi ancora molto legate al mondo, hanno nondimeno dei buoni desideri, recitano alcune preghiere, ma ordinariamente con la mente piena di mille affari che ne sopraffanno i pensieri. Hanno ancora molti attacchi ma si sforzano di quando in quando di liberarsene. In virtù di questi sforzi, entrano nelle prime più basse stanze del Castello, ma entra con loro una folla di rettili e d'animali velenosi ( le loro passioni ), che impediscono di ammirare la bellezza del castello e dimorarvi tranquille. Questa mansione, benché la meno alta, è già di grande ricchezza; ma terribili sono le astuzie e gli artifici del demonio per impedire a queste anime di avanzarsi; il mondo, in cui sono ancora ingolfate, le sollecita coi suoi piaceri e coi suoi onori; ed esse ne sono facilmente vinte, ma pure desiderano di schivare il peccato e fanno opere degne di lode. Insomma queste anime tentano di associare la pietà con la vita mondana; la loro fede non è così illuminata e la volontà così forte e generosa da farle rinunziare non solo al peccato ma anche a certe occasioni pericolose; non capiscono abbastanza la necessità della frequente preghiera, né d'una rigorosa penitenza o mortificazione. Ma pure vogliono non solo salvarsi l'anima, sì anche progredire nell'amor di Dio, facendo qualche sacrificio. 639. b) La seconda classe di incipienti è descritta da S. Teresa nella seconda mansione. Sono le persone che fanno già orazione e intendono meglio che bisogna far sacrifici per progredire, ma che intanto, per mancanza di coraggio, ritornano talora alle prime mansioni esponendosi di nuovo alle occasioni di peccato: amano ancora i piaceri e le seduzioni del mondo, e cadono talora in qualche colpa grave, rialzandosene però subito, perché ascoltano la voce di Dio che le chiama al pentimento. Nonostante le sollecitazioni del mondo e del demonio, meditano sulla fragilità dei falsi beni della terra e sulla morte che presto verrà a separarnele. Amano allora sempre più Colui da cui ricevono così numerose testimonianze d'amore; capiscono che fuori di lui non possono trovar né pace né sicurezza, e bramano schivare i traviamenti del figliuol prodigo. È dunque uno stato di lotta, in cui soffrono molte tentazioni che le assalgono, ma dove pure Dio si degna di consolarle e di fortificarle. Conformandosi alla volontà di Dio, che è il gran mezzo di perfezione finiranno con l'uscire da quelle mansioni ove circolano ancora le bestie velenose, per giungere a quella regione ove saranno al riparo dai loro morsi. 640. Non tratteremo successivamente di queste due classi, perché i mezzi da suggerire sono poi gli stessi. Ma il direttore ne terrà conto nei consigli particolari che dovrà dare. Così volgerà specialmente l’attenzione delle anime della prima classe sulla malizia e sugli effetti del peccato; sulla necessità di schivarne le occasioni, ed ecciterà in esse vivo desiderio di pregare, di far penitenza e di mortificarsi; alle anime più generose consiglierà inoltre più lunga meditazione e la lotta contro i vizi capitali, vale a dire contro quelle profonde inclinazioni che sono la,sorgente di tutti i nostri peccati. II. Lo scopo a cui mirare Nascondi 641. Abbiamo detto, n. 309, che la perfezione essenzialmente consiste nell’unione con Dia per della carità. Ma, essendo Dio la stessa santità, non possiamo essergli uniti se non possedendo la purità di cuore. che abbraccia un doppio elemento: l'espiazione del passato e il distacco dal Peccato e dalle sue occasioni per l'avvenire. La purificazione dell’anima è dunque il primo lavoro degli incipienti. Si può anche aggiungere che l'anima tanto più intimamente si unirà a Dio quanto più sarà pura e distaccata. Ora la purificazione è più o meno perfetta secondo i motivi che la ispirano e gli effetti che produce. A) La purificazione rimane imperfetta se è ispirata principalmente da motivi di timore e di speranza, timore dell'inferno e speranza del cielo e dei beni celesti. Gli effetti ne sono incompleti: si rinunzia certo al peccato mortale che ci priverebbe del cielo, ma non si rinunzia ai peccati veniali, anche deliberati, perché questi non impediscono l'eterna salvezza. B) Vi è dunque una purificazione più perfetta, la quale, senza escludere il timore e la speranza, ha per motivo principale l'amor di Dio, il desiderio di piacergli e quindi di schivare tutto ciò che anche leggermente l'offende. Si avvera allora la parola del Salvatore alla donna peccatrice: "Le sono rimessi i molti suoi peccati perché molto ella ha amato ". A questa seconda purificazione devono mirare le anime buone; il direttore però sì ricordi che molti incipienti non sono subito capaci di levarsi tanto alto, e, pur parlando dell’amore di Dio, proponga anche quei motivi di timore e di speranza che operano più fortemente sull'anima loro. Divisione del primo libro 642. Conosciuto il fine, bisogna determinare i mezzi necessari a conseguirlo, che si riducono poi a due: la preghiera, che ci ottiene la grazia, e la mortificazione con cui alla grazia corrispondiamo. Ma la mortificazione prende vari nomi secondo gli aspetti sotto cui si considera: si chiama penitenza, quando ci fa espiare le colpe passate; mortificazione propriamente detta, quando prende di mira l'amore del piacere per diminuire il numero delle colpe nel presente e nel futuro; lotta contro i vizi capitali, quando combatte le profonde inclinazioni che ci portano al peccato; lotta contro le tentazioni, quando resiste agli assalti dei nostri nemici spirituali. Onde cinque capitoli: Cap. I. - La preghiera degl’incipienti. Cap. II. - La penitenza per riparare il passato. Cap. III. - La mortificazione per assicurar l'avvenire. Cap. IV. - La lotta contro i vizi capitali. Cap. V. - La lotta contro le tentazioni. Tutti questi mezzi suppongono chiaramente la pratica delle virtù teologali e delle virtù morali nel primo loro grado: non si può infatti pregare, far penitenza e mortificarsi, senza credere fermamente alle verità rivelate, senza sperare i beni del cielo e senza amar Dio, senza esercitarsi nella prudenza, nella giustizia, nella fortezza e nella temperanza. Ma noi tratteremo di queste virtù nella via illuminativa, ove conseguono il pieno loro sviluppo Capitolo I. La preghiera degl’incipienti. 643. Abbiamo già esposto ( n. 499-521) la natura e l'efficacia della preghiera. Richiamate coteste nozioni agli incipienti, converrà: 1° inculcare loro la necessità e le condizioni della preghiera; 2° formarli a poco a poco agli esercizi spirituali che fanno per loro; 3° insegnar loro a meditare. Art. I. – Della preghiera in generale Necessità. Condizioni. Art. II. – Dei principali esercizi spirituali. Nozioni generali. Vantaggi e necessità. Art. III. – Della meditazione. Dalla meditazione degl’incipienti. Metodi principali. ART. I. Necessità e condizioni della preghiera Necessità della preghiera. 644. Quanto dicemmo del doppio fine della preghiera, adorazione e domanda ( n. 503509 ), ce ne mostra molto bene la necessità. É infatti evidente che come creature e come cristiani siamo obbligati a glorificar Dio con l'adorazione, la riconoscenza e l’amore; e che, come peccatori, dobbiamo offrirgli i nostri doveri di riparazione ( n. 506 ). Qui però si tratta principalmente della preghiera come domanda, e della sua necessità assoluta come mezzo di salute e di perfezione. 645. La necessità della preghiera è fondata sulla necessità della grazia attuale. Nascondi È di fede che, senza questa grazia, siamo nell’impotenza assoluta di salvarci, tanto più poi di giungere alla perfezione, n. 126. Da per noi, per quanto buon uso facciamo della libertà, non possiamo né positivamente disporci alla conversione, né perseverare nel bene per un tempo notevole, specialmente poi perseverare sino alla morte: "Senza di me, dice Gesù ai suoi discepoli, voi non potete far nulla; non potete avere neppure un buon pensiero. Aggiunge S. Paolo, perché è Dio che opera in noi il volere e il fare: "[Sine me nihil potestis facere… non quod sufficientes simus cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis… operatur in vobis et velle et perficere] Senza di me non potete far nulla … non che noi siamo sufficienti di noi stessi a pensare a nulla di noi stessi come di noi stessi … è al lavoro in voi il volere e di fare". Ora, lasciando la prima grazia che ci è largita gratuitamente senza preghiera come quella che è il principio stesso della preghiera, è inconcussa verità che la preghiera è il mezzo normale, efficace e universale per cui Dio vuole che otteniamo tutte le grazie attuali. Ecco perché Nostro Signore inculca sì spesso la necessità della preghiera per ottenere la grazia: "Chiedete, egli dice, e otterrete, cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto; perché chi chiede riceve, chi cerca trova, e si apre a chi bussa”. È come se dicesse, aggiungono quasi tutti i commentatori: se non chiedete non riceverete nulla, se non cercate non troverete nulla. Questa necessità della preghiera Gesù la richiama sopratutto quando si tratta di resistere alla tentazione. Vigilate e pregate, affinché non entriate nella tentazione; lo spirito è pronto ma la carne è debole: "[vigilate et orate ut non intretis in tentationem: spiritus quidem promptus est, caro autem infirma] Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione: lo spirito è pronto, ma la carne è debole". S. Tommaso ne conchiude che ogni fiducia non fondata sulla preghiera è presuntuosa, perché Dio, il quale non è per giustizia obbligato a darci la sua grazia, non ha promesso di darcela se non dipendentemente dalla preghiera. Egli conosce certamente i nostri bisogni spirituali senza che noi glieli esponiamo; ma pure vuole che le nostre preghiere siano la molla che muove la sua misericordia, affinché lo riconosciamo come autore dei beni che ci concede. 646. Così l’intese la Tradizione. Il concilio di Trento, facendo sua la dottrina di S. Agostino, dice che Dio nulla comanda d'impossibile, perché comanda di fare ciò che possiamo e di chiedere ciò che non possiamo e con la grazia sua ci aiuta a chiederlo; suppone quindi chiaramente che vi sono cose impossibili senza la preghiera; ed è appunto la conclusione che ne trae il Catechismo romano: "la preghiera ci fu data come strumento necessario per ottenere ciò che desideriamo; vi sono infatti cose che possiamo ottenere solo col suo aiuto". 647. Avviso al direttore. È cosa assai importante insistere su questa verità per gl'incipienti; perché molti, imbevuti senza pur saperlo di pelagianismo o di semipelagianismo, s’immaginano di potere con la volontà e con l’energia arrivare a tutto. È vero che l’esperienza viene presto a convincerli che le migliori risoluzioni restano spesso inadempiute nonostante i loro sforzi; ma il direttore se ne gioverà per ripetere, senza mai stancarsi, che solo con la grazia e con la preghiera possono riuscire ad osservarle; e questa dimostrazione sperimentale tornerà di singolar conferma alle loro convinzioni sulla necessità della preghiera; esporrà pure le condizioni della sua efficacia. II. Condizioni essenziali della preghiera. Nascondi 648. Avendo già provata la necessità della grazia attuale per tutti gli atti necessari alla salute, n. 126, ne possiamo conchiudere che questa grazia è pur necessaria a pregar bene. S. Paolo lo dichiara nettamente: "Lo Spirito porge la mano alla fiacchezza nostra; perché quello che s’ha da chiedere, come conviene, non sappiamo; ma lo Spirito stesso l'implora per noi con gemiti inenarrabili: [quid oremus sicut oportet, nescimus, sed ipse Spiritus postulat pro nobis gemitibus inenarrabilibus] quello che dobbiamo pregare come si conviene, ma lo Spirito stesso intercede per noi con sospiri ineffabili". Aggiungiamo che questa grazia è offerta a tutti, anche ai peccatori, e che quindi tutti possono pregare. Benché lo stato di grazia non sia necessario per pregare, pure aumenta singolarmente il valore delle nostre preghiere, perché fa di noi gli amici di Dio e le membra viventi di Gesù Cristo. Esamineremo le condizioni richieste dalla preghiera: 1° da parte dell'oggetto: 2° da parte di chi prega. I. Da parte dell'oggetto. 649. La condizione più importante, da parte dell’oggetto è di chiedere soltanto i beni che ci conducono alla vita eterna, prima di tutto le grazie Soprannaturali, e secondariamente, in quanto saranno utili alla eterna nostra salute, i beni d'ordine temporale. Tale è la regola fissata da Nostro Signore stesso: “Cercate in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date di giunta. Quaerite primum regnum Dei et justitiam, ejus, et haec omnia adjicientur vobis] Cercate prima il regno di Dio, e la rettitudine della propria, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte". Nascondi Come infatti abbiamo detto, n. 307308, la felicità, come la perfezione dell'uomo, consiste nel possesso di Dio e quindi nelle grazie necessarie a questo fine. Onde non dobbiamo chiedere nulla che non sia in relazione con questo fine. 1° I beni temporali, in se stessi sono troppo al disotto di noi, troppo incapaci di soddisfare le aspirazioni del nostro cuore e di renderci felici, onde non possono essere l'oggetto principale delle nostre preghiere. Ma, avendo noi fino a un certo punto bisogno di questi beni per vivere e assicurare la nostra salute, ci è lecito chiedere il pane quotidiano, tanto quello del corpo come quello dell’anima, subordinando però il primo al secondo. Può darsi infatti che un bene particolare che ci pare desiderabile, poniamo la ricchezza, ci diventi poi pericoloso per l'eterna salute; onde non si può chiederlo che subordinatamente ai beni eterni. 650. 2° Anche quando si tratta di questa o quella grazia particolare, non conviene chiederla che conforme alla divina volontà. Nella infinita sua sapienza Dio sa meglio di noi ciò che a ogni anima, secondo la sua condizione e il suo grado di perfezione, si conviene. Come belle osserva S. Francesco di Sales, noi dobbiamo voler la nostra salute come la vuol Dio, quindi risolutamente volere e abbracciare le grazie che ci distribuisce, perché è necessario che la nostra volontà sia conforme alla sua; ma quando si tratta di grazie particolari, come sarebbe questa o quella forma di orazione, di consolazione, di aridità ecc., non bisogna chiedere nulla in modo assoluto ma subordinare tutto alla volontà di Dio. Dio distribuisce le grazie di consolazione o di aridità, di riposo o di lotta, secondo i disegni della infinita sua sapienza e i bisogni dell’anima nostra. Non ci resta quindi che rimetterci a lui per la scelta delle grazie che ci sono più utili. Possiamo certo esprimere un desiderio, ma con umile sommessione alla volontà del Padre Celeste:egli ci esaudirà sempre se preghiamo come si conviene; ci concederà talora anche più e meglio di quel che domandiamo, onde noi, non solo non ce ne dobbiamo lamentare, ma dobbiamo anzi benedirnelo. II. Condizioni da parte del soggetto. Le condizioni più essenziali per rendere efficaci le nostre preghiere, sono: l'umiltà, la confidenza e l'attenzione, o almeno lo sforzo serio per stare attenti. 651. 1° L'umiltà nasce dalla natura stessa della preghiera. Essendo la grazia essenzialmente gratuita e non avendovi noi alcun diritto, siamo, dice S. Agostino, rispetto a Dio, dei mendicanti, e dobbiamo implorare dalla sua misericordia ciò che per giustizia non possiamo ottenere. Così pregava Abramo il quale, al cospetto della maestà divina, si riguardava come polvere e cenere: "[Loquar ad ominum Deum, cum sim pulvis et cinis] Parlerò di come presagi Dio, che sono polvere e cenere". Così pregava Daniele, quando chiedeva la liberazione del popolo ebreo, appoggiandosi non sui meriti suoi e sulle sue virtù ma sulla ricchezza delle divine misericordie: "[Neque enim in justificationibus nostris prosternimus preces ante faciem tuam; sed in miserationibus tuis multus] Non presentiamo le nostre suppliche davanti a te per la nostra giustizia; ma per la tua grande". Così pregava il publicano che fu esaudito [Deus, propitius esto mihi peccatori] Dio, abbi pietà di me peccatore!", mentre il superbo fariseo vide respinta la sua preghiera. Gesù stesso ce ne dà la ragione: " Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato: quia omnis qui se exaltat humiliabitur, et qui se humiliat exaltabitur". Ben lo intesero i suoi discepoli, e S. Giacomo ripete con insistenza: " Dio resiste ai superbi e dà le sue grazie agli umili: Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam". Ed è giustizia questa: perché il superbo attribuisce a sé l'efficacia della sua preghiera mentre l’umile l’attribuisce a Dio. Or vorremmo noi che Dio ci esaudisse a spese della sua gloria, per nutrire e fomentare la nostra vanità? L’umile invece confessa che tutto gli proviene da Dio; quindi Dio, esaudendolo, lavora per la gloria sua e insieme per il bene del supplicante. 652. 2° Quindi la vera umiltà genera la confidenza, quella confidenza che non si fonda sui meriti nostri ma sull'infinita bontà di Dio e sui meriti di Gesù Cristo. a) La fede c'insegna che Dio è misericordia, e che quindi si piega con tanto maggior amore verso di noi quanto più noi riconosciamo le nostre miserie; perché la miseria chiama la misericordia. Invocarlo con fiducia, è in sostanza un onorarlo, è proclamare che egli è la fonte di tutti i beni e nulla tanto desidera quanto di largirceli. Ci dichiara quindi le tante volte nella S. Scrittura che esaudisce coloro che sperano in liti: "[Quoniam in me speravit, liberabo eum: clamabit ad me et ego exaudiam eum] Perché sperava in me, io lo libererò: Egli mi invocherà e io gli risponderò". Nostro Signore c’invita a pregare con confidenza e per insinuarci questa disposizione ricorse non solo alle esortazioni più premurose ma anche alle più tenere parabole. Dopo avere affermato che chi chiede riceve, aggiunge: " Chi è mai tra voi che, chiedendogli il figlio del pane, gli porgerà un sasso? … Se dunque voi, cattivi come siete, sapete dare cose buone ai vostri figliuoli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli concederà ciò che è buono a coloro che lo pregano. Ritorna su questo punto nell'ultima Cena: In verità, in verità vi dico … tutto ciò che chiederete al Padre nel nome mio, io lo farò, affinché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa in mio nome, la farò … In quel giorno chiederete nel nome mio, e non vi dico che pregherò io pure il Padre per voi. Perché anche il Padre vi ama avendo voi amato me. Sarebbe quindi un diffidare di Dio e delle sue promesse, sarebbe un far poca stima dei meriti infiniti di Gesù e dell'onnipotente sua mediazione, il non avere assoluta fiducia nella preghiera. 653. b) Pare talvolta, è vero, che Dio faccia il sordo alle nostre preghiere, perché vuole che la nostra confidenza sia perseverante a fine di farci meglio sentire la profondità della nostra miseria e il pregio della grazia; ma ci mostra pure, coll'esempio della Cananea, che anche quando pare che ci respinga, gode poi di lasciarsi fare dolce violenza. Una donna Cananea viene a supplicar Gesù di guarirle la figlia tormentata dal demonio. Il Maestro non le risponde; essa allora si rivolge ai discepoli, importunandoli con le grida, tanto che essi pregano Gesù d'intervenire. Gesù risponde di essere venuto pei soli figli d'Israele. Senza punto disanimarsi, la povera donna gli si prostra ai piedi, dicendo: "Signore, aiutatemi". Gesù replica con apparente durezza che non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cani. E lei: è vero, Signore; ma anche i cagnolini mangiano almeno le briciole che cadono dalla tavola del padrone. Vinto da così constante e umile confidenza, Gesù le concede finalmente il favore domandato e le guarisce sull’istante la figlia. Poteva farci intendere meglio che se, nonostante il poco buon esito delle nostre preghiere, perseveriamo nell'umile fiducia, siamo sicuri d'essere esauditi? 654. 3° Ma a questa perseverante fiducia è necessario aggiungere l'attenzione o almeno il serio sforzo per pensare a ciò che diciamo a Dio. Le distrazioni involontarie, quando cerchiamo di respingerle e diminuirne il numero, non sono ostacolo alla preghiera, perché l'anima, appunto per questi sforzi che facciamo, resta orientata verso Dio. Ma le distrazioni volontarie, che deliberatamente accettiamo o che solo fiaccamente respingiamo o di cui non vogliamo sopprimere le cause, nelle preghiere di precetto sono peccati veniali, e nelle altre sono negligenze e mancanze di rispetto verso Dio, che non lo dispongono molto ad esaudirci. La preghiera è un'udienza che il nostro Creatore si degna di concederci, una conversazione col Padre celeste in cui lo supplichiamo che si degni d'ascoltar le nostre parole e badare alle nostre suppliche: "[Verba mea auribus percipe Domine… intende voci orationis meae] O Signore, ascolta la voce della mia preghiera, porgi l'orecchio alle mie parole … "; e nel momento stesso che gli chiediamo di ascoltarci e di parlarci, non faremmo serio sforzo per capir ciò che diciamo e per stare attenti alle divine ispirazioni ? Non sarebbe un'incoerenza e una mancanza di religione? Non meriteremmo il rimprovero che Nostro Signore faceva ai Farisei? "Questo popolo mi onora con la punta delle labbra ma il suo cuore è lontano da me: Populus hic labiis me honorat, cor autem eorum longe est a me ". 655. Bisogna quindi seriamente sforzarsi di cacciar prontamente ed energicamente le distrazioni che si presentano, sapercene umiliare e giovarcene per rinnovar l’unione con Gesù e pregare coi, lui. Il pur necessario diminuire il numero delle distrazioni, combattendone vigorosamente le cause, l'abituale dissipazione della mente, la libertà della fantasia, i pensieri e gli affetti che sopraffanno la mente e il cuore, e abituarsi a poco a poco al pensiero, spesso rinnovato, della presenza di Dio con l’offerta delle proprie azioni e colle giaculatorie. Adoprando questi mezzi, non c'è ragione d'inquietarci delle distrazioni involontarie che ci passano per la mente o ci turbano la fantasia: sono prove e non colpe, e sapendo fare, ci accrescono i meriti e il valore delle preghiere. 656. Triplice è l’attenzione che possiamo porre nelle preghiere: 1) quando badiamo a pronunziar bene le parole, si ha l'attenzione verbale, che suppone già un certo sforzo per pensare. a ciò che si dice; 2) se badiamo di preferenza a ben comprendere il senso delle parole, si ha l'attenzione letterale o intellettuale; 3) se, lasciando da parte il senso letterale, l'anima si innalza a Dio Per adorarlo, benedirlo, unirsi a lui, o per addentrarsi nel mistero che si onora, o per chiedere a Dio tutto Ciò che gli chiede la Chiesa e tutto ciò che gli chiede Gesù, si ha l'attenzione spirituale o mistica. Più che agl’incipienti, quest' ultima conviene alle anime proficienti. A coloro che cominciano a gustar la preghiera, bisognerà raccomandare l'una o l'altra delle due prime specie d'attenzione, secondo il carattere e le inclinazioni di. ciascuno p le circostanze in cui si trova. ART. II. Degli esercizi di pietà degli incipienti 657. Essendo la preghiera uno dei grandi mezzi per salvarsi, il direttore inizierà a poco a poco gl’incipienti alla pratica di quegli esercizi spirituali che costituiscono la trama d'una vita seriamente cristiana, tenendo conto dell'età, della vocazione, del doveri del loro stato, del carattere, delle inclinazioni soprannaturali e dei progressi loro. 658. 1° Lo scopo a cui si ha da mirare è di giungere adagio adagio ad abituare le anime alla preghiera, in modo che la loro vita sia fino a un certo punto una vita di preghiera ( n. 522 ). Ma è chiaro che occorre tempo notevole e sforzi diuturni per accostarsi a questo ideale, che non è alla portata degl’incipienti ma che il direttore deve conoscere per meglio guidarvi i penitenti. 659. 2° I principali esercizi che servono a convertire la vita in abituale preghiera, oltre le preghiere del mattino e della sera che i buoni cristiani non mancano mai di fare, sono: A) La meditazione del mattino, su cui torneremo presto, e la santa messa con la santa comunione che ci mostrano l'ideale a cui dobbiamo tendere e ci aiutano a conseguirlo ( n. 524 ). Vi sono però persone che, per i doveri del loro stato, non possono assistere tutti i giorni alla messa; vi potranno supplire con la comunione spirituale da farsi alla fine della meditazione o anche mentre attendono alle occupazioni manuali. Nascondi In ogni caso bisognerà ammaestrarle del come trarre profitto dalla messa e dalla comunione, quando vi potranno assistere, adattando alla loro capacità quanto abbiamo detto al n. 271-289; e soprattutto poi del come seguire con intelligenza gli uffici liturgici delle domeniche e delle feste, perché la sacra liturgia ben compresa è una delle migliori scuole di perfezione. 660. B) Nel corso della giornata, bisognerà consigliare, oltre l'offerta spesso rinnovata delle azioni principali, alcune giaculatorie, alcune buone letture adattate allo stato dell'anima sulle verità fondamentali, sul fine dell’uomo, sul peccato, sulla mortificazione, sulla confessione e sugli esami di coscienza, aggiungendovi alcune vite di Santi celebri per la pratica della penitenza; il che sarà luce per l’intelletto, stimolo per la volontà e ottimo mezzo per facilitar la meditazione. La recita di alcune diecine del Rosario meditandone i misteri, accrescerà la devozione alla SS. Vergine e l'abitudine di unirsi a Nostro Signore. La visita al SS. Sacramento, la cui durata varierà con le occupazioni, verrà a rianimare lo spirito di pietà; e ognuno potrà vantaggiosamente servirsi dell'Imitazione, specialmente del libro quarto, e delle Visite al SS. Sacramento di Sant'Alfonso de Liguori. 661. C) La sera, un buon esame ai coscienza integrato dall'esame particolare aiuterà gl'incipienti a rilevar le mancanze, a prevedere i rimedi, a rimettere la volontà nella ferma risoluzione di far meglio, non permettendo così che cadano nel rilassamento e nella tiepidezza. Nascondi Sarà necessario richiamare anche qui quanto abbiamo detto sugli esami, n. 460476, e sulla confessione, n. 262269, ricordando che gl'incipienti devono esaminarsi principalmente sui peccati veniali deliberati, essendo questa vigilanza il mezzo migliore per evitare o per immediatamente riparare i peccati mortali in cui si avesse la disgrazia di cadere in un momento di sorpresa. 662. 3° Consigli al direttore. A) Il direttore vigilerà perché i penitenti non si carichino di esercizi di pietà troppo numerosi, che verrebbero poi a nuocere all’adempimento dei doveri del loro stato, o che sarebbero di ostacolo alla vera devozione. Vale certamente meglio recitare qualche preghiera di meno ma mettervi maggior attenzione e pietà. Ce lo dice il Signore stesso: “Nelle preghiere non moltiplicate le parole come fanno i pagani, che pensano d'essere esauditi a furia di parlare. Non li imitate dunque, perché il Padre vostro sa di che avete bisogno prima ancora che glielo domandate”. E appunto allora insegnò quella breve e sostanziale preghiera del Pater, che contiene tutto ciò che possiamo chiedere, n. 515516. Ora ci sono incipienti che facilmente pensano di essere tanto più pii quante più preghiere vocali fanno; si rammenti loro la parola del Maestro e si mostri che una preghiera attenta di dieci minuti vale più di un' altra di venti seminata di distrazioni più o meno volontarie, e sarà un grande servizio. Per aiutarli a fissare l'attenzione, si rammenti che pochi secondi impiegati a mettersi alla presenza di Dio e ad unirsi a Nostro Signore, assicureranno in modo singolare l'efficacia della preghiera. 663. B) Per le preghiere che si debbono ripetere di frequente, è utile, a schivare l'abitudine, insegnare un metodo semplice e facile onde fissar l'attenzione. Cosi, per esempio, quanto al Rosario, se si bada a meditarne i misteri con la doppia intenzione di onorare la SS. Vergine e di attirare in noi la virtù speciale che corrisponde al mistero, se ne trae maggior vantaggio e la recita diventa una piccola meditazione. Ma sarà anche bene far notare che non si può, ordinariamente almeno, attendere nello stesso tempo al senso letterale dell'Ave Maria e allo spirito del mistero, e che basta fissarsi o sull'uno o sull’altro. ART. III. Della meditazione Esporremo: 1° Le nazioni generali sulla meditazione; 2° i vantaggi e la necessità; 3° i caratteri distintivi della meditazione degl'incipienti; 4° i metodi principali. § I. Nozioni generali. 664. 1° Nozione ed elementi costitutivi. Abbiamo detto, n. 510, che vi sono due specie di preghiera: la preghiera vocale, che si esprime con parole o con gesti, e la preghiera mentale, che si fa nell’interno dell’anima. Questa si definisce: un'elevazione e una applicazione dell'anima a Dio, porgergli i nostri doveri e diventar migliori alla sua gloria. Abbraccia cinque elementi principali: 1) i doveri di religione che si rendono a Dio o a Nostro Signor Gesù Cristo o ai Santi; 2) considerazioni su Dio e sulle nostre relazioni con lui per alimentare e rinvigorire le nostre convinzioni sulle virtù cristiane; 3) riflessioni sopra noi stessi per vedere a che punto siamo nella pratica delle virtù; 4) Preghiere propriamente dette per chiedere la grazia necessaria a praticar meglio questa o quella virtù; 5) risoluzioni per far meglio nell'avvenire. Non è necessario che questi atti seguano nell'ordine indicato né che si facciano tutti nella stessa meditazione; ma perché la preghiera meriti il nome di meditazione è necessario che duri un certo tempo, distinguendosi così dalle giaculatorie. Quando le anime crescono in perfezione e hanno gia convinzioni che basta rapidamente rinnovare, la meditazione si semplifica e consiste talvolta in un semplice sguardo affettuoso, come spiegheremo più tardi. 665. 2° Origine. Bisogna distinguere bene tra meditazione in sé stessa e metodi di meditazione. A) La meditazione, sotto una forma o sotto un’altra, ci fu in ogni tempo: i libri dei profeti, i Salmi, i libri Sapienziali, sono pieni di meditazioni che alimentavano la pietà degli Israeliti; e Nostro Signore, coll’insistere sul culto in spirito e verità, col passar le notti in preghiera, col far nell’orto degli Olivi e sul Calvario lunga orazione, preparava la via a quelle anime interiori che dovevano nel corso dei secoli ritirarsi nella cella del cuore a pregarvi Dio in segreto. I libri di Cassiano e di S. Giovanni Climaco, senza parlare delle opere dei Padri, trattano esplicitamente della meditazione o dell'orazione, anche nelle sue forme più alte come la contemplazione. Si può dire che il trattato di S. Bernardo De Consideratione è in sostanza un trattato sulla necessità della riflessione e della meditazione. La Scuola di S. Vittore insiste molto sulla pratica della meditazione per giungere alla contemplazione. E si sa quanto S. Tommaso raccomandi la meditazione come mezzo di crescere nell'amor di Dio e di darsi a lui. 666. B) La meditazione poi od orazione melodica data dal quindicesimo secolo; si trova esposta nel Rosetum di Giovanni Mauburnus e negli autori benedettini della stessa epoca. S. Ignazio, negli Esercizi Spirituali, dà parecchi metodi di meditazione molto precisi e molto vari; S. Teresa descrive meglio d'ogni altro i vari generi di orazione; e i suoi discepoli espongono le regole della meditazione metodica. S. Francesco di Sales traccia egli pure un metodo di orazione alla sua Filotea, e la Scuola Francese del secolo XVII avrà presto il suo, che l’Olier e il Tronson perfezioneranno e che oggi vien detto il metodo di S. Sulpizio. 667. Differenza tra la meditazione e l'orazione. I due vocaboli meditazione ed orazione si prendono spesso l'un per l'altro; volendoli distinguere, il primo è riservato a quella forma di preghiera mentale in cui domina la considerazione o il ragionamento e che è perciò detta meditazione discorsiva; il secondo si applica principalmente quelle forme di preghiera mentale in cui dominano gli affetti pii e gli atti della volontà. Ma la meditazione discorsiva contiene già anch'essa degli affetti, e l'orazione affettiva e generalmente preceduta o accompagnata da alcune considerazioni, tranne quando l'anima viene colta dalla luce della contemplazione. 668. Il genere di orazione che conviene generalmente agl’incipienti è quello della meditazione discorsiva, che è necessaria per acquistare o fortificarne le convinzioni. Vi sono però anime affettive che, quasi fin da principio, fanno larga parte agli affetti; tutti poi devono essere avvertiti che la parte migliore dell’orazione consiste negli atti della volontà. § II. Vantaggi e necessità dell'orazione. I. Vantaggi. 669. La meditazione, quale fu da noi descritta, è utilissima all'eterna salute e alla perfezione. 1° Ci distacca dal peccato e dalle sue cause. Se pecchiamo, avviene infatti per irriflessione e fiacchezza di volontà. Ora la meditazione corregge questo doppio difetto. a) Ci illumina sulla malizia del peccato e sui terribili suoi effetti, mostrandoceli alla luce di Dio, della eternità e di ciò che fece Gesù per espiare il peccato. “È lei, dice il P. Crasset, che ci conduce ( col pensiero ) in quei sacri deserti ove si trova Dio solo nella pace, nella quiete, nel silenzio e nel raccoglimento; lei che ci conduce spiritualmente nell'inferno a vedervi il nostro posto; al cimitero a vedervi la nostra dimora; in cielo a vedervi il nostro trono; nella valle di Giosafat a vedervi il nostro giudice; a Betlemme a vedervi il nostro Salvatore; sul Tabor a vedervi il nostro amore; sul Calvario a vedervi il nostro esempio”. Ci distacca pure dal mondo e dai falsi suoi diletti; ci ricorda la fragilità dei beni temporali, gli affanni che ci procurano, il vuoto e il disgusto che lasciano nell'anima; ci rinfranca contro la perfidia e la corruzione del mondo e ci fa comprendere che Dio solo può formar la nostra felicità. Ci distacca specialmente da noi stessi, dalla nostra superbia, dalla nostra sensualità, mettendoci in faccia a Dio che è la pienezza dell'essere, e in faccia al nostro nulla, e mostrandoci che i sensuali diletti ci abbassano al di sotto dei bruti, mentre le gioie divine ci nobilitano e ci innalzano a Dio. b) Ci invigorisce la volontà non solo dandoci convinzioni, come fu detto, ma guarendo a poco a poco la nostra inerzia, la nostra codardia e la nostra incostanza; infatti solo la grazia di Dio, aiutata dalla cooperazione nostra, può guarire queste debolezze. Ora la meditazione ci fa sollecitare questa grazia con tanto maggior ardore, quanto più abbiamo con la riflessione sentito la nostra impotenza; e gli atti di dolore, di contrizione e di fermo proponimento che facciamo durante la meditazione, con le risoluzioni che vi prendiamo, sono già una attiva cooperazione alla grazia. 670. 2° Ci fa pure praticar tutte le grandi virtù cristiane: 1) illumina la nostra fede, mettendoci sotto gli occhi le verità eterne; regge la nostra speranza, aprendoci l’adito a Dio per ottenerne l'aiuto; stimola la nostra carità, manifestandoci la bellezza e la bontà di Dio: 2) ci rende prudenti con le considerazioni che ci suggerisce prima di operare; giusti conformandoci la volontà a quella di Dio; forti, facendoci partecipare alla divina potenza; temperanti calmandoci l'ardore dei desideri e delle passioni. Nascondi Non vi sono dunque virtù cristiane che con la meditazione non si possano da noi acquistare: aderiamo per mezzo di lei alla verità e la verità, liberandoci dai vizi, ci fa praticare la virtù: "[cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos] deve conoscere la verità, e la verità vi farà liberi”. ( Gv 8,32 ). 671. 3° Prepara così la nostra unione e anche la nostra trasformazione in Dio. È infatti una conversazione con Dio, che diventa ogni giorno più intima, più affettuosa e più lunga, perché continua poi nel corso della giornata anche in mezzo al lavoro, n. 522. Ora, a forza di frequentare l'autore di ogni perfezione, l'anima se ne imbeve, se ne compenetra, come la spugna che si riempie del liquido in cui viene immersa, come il ferro che, posto nella fornace, s'arroventa, si ammollisce e prende le qualità del fuoco. II. Della necessità della meditazione. 672. 1° Per i semplici cristiani. A) La meditazione metodica è efficacissimo mezzo di santificazione, ma non è peraltro necessaria all’eterna salute pei cristiani in generale. Necessario è il pregare per porgere a Dio i nostri doveri e riceverne grazie: il che, com'è chiaro, non può farsi senza una certa attenzione della mente e un qualche desiderio del cuore. Alla preghiera bisogna pure aggiungere riflessioni sulle grandi verità e sui principali doveri cristiani con applicazione a se stessi; ma tutto questo può farsi senza meditazione metodica, ascoltando le istruzioni parrocchiali, facendo buone letture, esaminando la propria coscienza. Nascondi 673. B) É però molto utile e salutare a tutti coloro che vogliono progredire e salvarsi l'anima, tanto agl'incipienti come alle anime più avanzate; si può anzi dire che è il mezzo più efficace per assicurarsi l'eterna salute, n. 669. Tale è l'insegnamento di S. Alfonso che ne dà questa ragione: con gli altri esercizi di pietà, come il Rosario, l'ufficiolo della Madonna, il digiuno, si può purtroppo continuare a vivere in peccato mortale; ma con la meditazione non si può rimanere a lungo nel peccato grave: o si lascerà la meditazione o si rinunzierà al peccato; come può infatti uno presentarsi ogni giorno davanti a Dio, autore d'ogni santità, con la chiara coscienza di essere in istato di peccato mortale, senza prendere, con l'aiuto della grazia, la ferma risoluzione di detestare il peccato e andare a gettarsi ai piedi d'un confessore per ottenere il perdono di cui vede l'assoluta necessità? Se invece non si ha un momento fisso e un sicuro metodo per riflettere sulle grandi verità, uno si lascia trascinare dalla dissipazione e dagli, esempi del mondo e sdrucciola insensibilmente nel peccato. 674. 2° Morale necessità della meditazione per i sacerdoti addetti al ministero. Non parliamo qui di quei sacerdoti che, essendo religiosi e recitando il divino ufficio lentamente e piamente, possono trovare in questa recita e nelle letture e preghiere che fanno, un equivalente della meditazione. Si noti però che, anche negli Ordini in cui si recita l'ufficio in coro, la regola prescrive almeno mezz'ora di meditazione, appunto perché si è persuasi che la preghiera mentale è l'anima delle preghiere vocali e ne assicura la fervorosa recitazione. E, aggiungiamo che le Congregazioni fondate dopo il secolo XVI, insistono anche di più sulla meditazione, e che il Codice di Diritto Canonico prescrive ai superiori di vigilare perché tutti i religiosi, non legittimamente impediti, consacrino ogni giorno un certo tempo all'orazione mentale. Ma parliamo qui dei sacerdoti di ministero, immersi nelle fatiche apostoliche, e diciamo che la pratica abituale della meditazione, ad ora determinata, è moralmente necessaria alla loro perseveranza e alla loro santificazione. Hanno infatti numerosi e importanti doveri da adempiere sotto pena di colpa grave, e d'altra parte sono talvolta soggetti a insistenti tentazioni nell'esercizio stesso del loro ministero. 675. A) Ora, per resistere a queste tentazioni adempiere fedelmente e soprannaturalmente tutti i loro doveri, è necessario che abbiano profonde convinzioni e grazie particolari che ne reggano la vacillante volontà; e nella meditazione quotidiana soltanto, come tutti convengono, le une e le altre si acquistano. Né si dica che possono anch'essi trovare nella santa messa e nel divino ufficio equivalenti alla meditazione. La messa e il breviario, detti con attenzione e devozione, sono certamente mezzi efficaci di perseveranza e di progresso; ma l'esperienza insegna che un sacerdote, tutto occupato nelle fatiche del ministero, non compie bene questi due così importanti doveri se non attinga nell'abituale meditazione lo spirito di raccoglimento e di preghiera. Se trascura questo santo esercizio, come troverà, fra le occupazioni e l'affario onde è assediato, il tempo di seriamente raccogliersi e ritemprarsi nello spirito soprannaturale? E se questo non fa, viene presto assalito da numerose distrazioni anche in mezzo alle occupazioni più sante, le convinzioni gli si affievoliscono, scema l’energia, le negligenze e le debolezze aumentano, sopravviene la tiepidezza; e quando sorga tentazione grave, persistente, rabbiosa, non avendo più presenti alla mente le forti convinzioni necessarie a respingere il nemico, è esposto a soccombere. " Se fo meditazione, dice Don Chautard, sono come rivestito d'un'armatura d'acciaio e invulnerabile ai dardi del nemico. Ma senza la meditazione essi mi coglieranno certamente … O meditazione o grandissimo rischio di dannazione per il sacerdote che è a contatto col mondo, dichiarava senza esitare il pio, dotto e prudente P. Desurmont, uno dei più esperimentati predicatori di esercizi spirituali agli ecclesiastici. Per l'apostolo non c'è via di mezzo tra la santità, se non acquistata almeno desiderata e cercata ( soprattutto con la meditazione quotidiana ), e la progressiva perversione, diceva a sua volta il Card. Lavigerie”. 676. B) Ma poi non gli basta schivare il peccato: per compiere bene i suoi doveri di religioso di Dio e di salvatore di anime, è necessario che sia abitualmente unito a Gesù, Sommo Sacerdote, che solo glorifica Dio e salva le anime. Ora come potrà stare abitualmente unito a lui fra le occupazioni e i pensieri del ministero se non ha un tempo fisso e abbastanza lungo per ritemprarsi in quest'unione, per lungamente e affettuosamente pensare a questo divino Modello e con la preghiera attirarsene lo spirito, le disposizioni, la grazia? Con quest'unione le sue energie sono centuplicate, la sua fiducia è considerevolmente accresciuta, e assicurata la fecondità del suo ministero non è lui che parla ma Gesù che parla per sua bocca, "[ tamquam Deo exhortante per nos] se Dio esortasse per mezzo nostro"; non è lui che opera, egli non è che strumento nelle mani di Dio; e perché si studia d'imitare le virtù di Nostro Signore, muove le, anime ancor più con l'esempio che con le parole. Ma se cessa di far la meditazione, perderà l'abitudine del raccoglimento e della preghiera e non sarà più che un bronzo sonoro e un cembalo squillante. 677. Quindi il Papa Pio X, di santa memoria, proclamò nettamente la necessità della meditazione pel sacerdote; e il Codice di Diritto Canonico prescrive ai Vescovi di vigilare affinché i sacerdoti consacrino ogni giorno un pò di tempo all'orazione mentale "[ ut iidem quotidie orationi mentali per aliquod tempus incumbant] che dovrebbero cominciare a dedicarsi per qualche tempo in preghiera mentale ogni giorno" ( can. 125, 2° ); e che lo stesso facciano gli alunni del Seminario: "[ut alumni Seminarii singulis diebus… per aliquod tempus mentali orationi vacent] che gli studenti di un seminario per qualche tempo ogni giorno alla preghiera mentale, di impegnarsi …” ( can. 1367, 1° ). Non è questo un dichiarare in termini equivalenti la necessità morale della meditazione per gli ecclesiastici? È dunque un non intendersi di psicologia il consigliare agli ecclesiastici, occupati nella vita parrocchiale, di mettere da parte la meditazione per dire più devotamente la messa e il breviario. L'esperienza dimostra che, quando non si fa più meditazione, la recita devota dell'ufficio riesce quasi impossibile; si dice quando si può, con molte interruzioni, con la mente piena di ciò che si è sentito e di ciò che si dovrà sentire. In verità è la meditazione del mattino quella che assicura la devota celebrazione della messa e fa che uno si raccolga un tantino prima di cominciare il breviario. 678. Ciò che diciamo dei sacerdoti, non si può forse dire, fino a un certo punto, anche di quei generosi laici che consacrano parte del loro tempo all'apostolato? Se vogliono che quest'apostolato riesca fecondo, è necessario che sia ravvivato dallo spirito interiore e dalla meditazione. Né si dica che il tempo dato a questo esercizio è rubato alle opere di zelo. Sarebbe rasentare l'errore pelagiano il pensare che l'azione sia più necessaria della grazia e della preghiera, mentre poi l'apostolato è tanto più fecondo quanto più è animato da profonda vita interiore, alimentata a sua volta dalla meditazione. § III. Caratteri generali della meditazione degl'incipienti. Abbiamo gia detto che la meditazione degl'incipienti è principalmente discorsiva e che vi domina il ragionamento, pur lasciando un certo posto agli affetti della volontà. Ci resta da esporre: 1° su quali argomenti debbono ordinariamente meditare 2° quali difficoltà v'incontrano. I. Su quali argomenti debbono meditare gl'incipienti. 679. In generale debbono meditare su tutto ciò che può ispirare loro un crescente orrore del peccato, sulle cause delle loro colpe, sulla mortificazione che ne è il rimedio, sui principali doveri del loro stato, sul buon uso e sull'abuso della grazia, su Gesù modello dei penitenti. 680. 1° A concepire un orrore sempre crescente del peccato, mediteranno: Nascondi a) sul fine dell'uomo e del cristiano, quindi sulla creazione e sull’elevazione dell'uomo allo stato soprannaturale, sulla caduta e sulla redenzione ( n. 59-87 ); sui diritti di Dio, creatore, santificatore e redentore; su certi attributi divini che possono allontanarli dal peccato, come la sua immensità che lo rende presente a ogni creatura e soprattutto all'anima che è in istato di grazia; la sua santità che l'obbliga a odiare il peccato; la sua giustizia che lo castiga; la sua misericordia che l'inclina a perdonare. Tutte queste verità infatti tendono a farci fuggire il peccato, che è il solo ostacolo al nostro fine, il nemico di Dio, il distruttore della vita soprannaturale largitaci da Dio come il grande segno dei suo amore e dal Redentore restituitaci a prezzo del suo sangue. b) Sul peccato: la sua origine, il suo castigo, la sua malizia, i suoi terribili effetti, ( n. 711-735 ); sulle cause che conducono al peccato, la concupiscenza, il mondo e il demonio, n. 193-227. c) Sui mezzi di espiare e di prevenire il peccato, la penitenza, n. 705, e la mortificazione delle varie nostre facoltà, delle nostre tendenze viziose e soprattutto dei sette peccati capitali, traendone questa conclusione pratica che non si può stare sicuri fino a che queste viziose inclinazioni non siano, state estirpate o almeno padroneggiate: tratteremo presto di tutte queste questioni. 681. 2° Bisogna pure meditare a mano a mano su tutti i doveri positivi del cristiano: 1) doveri generali di religione verso Dio, di carità verso il prossimo, di giusta diffidenza di noi stessi per ragione della nostra impotenza e delle nostre miserie: un incipiente rimarrà specialmente impressionato da ciò che è esterno in queste virtù; il che peraltro servirà di preparazione alle virtù più sode che praticherà poi nella via illuminativa; 2) doveri particolari riguardanti l'età, la condizione, il sesso, lo stato di vita: fare pratica di questi doveri è infatti la migliore delle penitenze. 682. 3° Essendo capitale nella vita cristiana la parte della grazia, sarà necessario iniziare a poco a poco gl'incipienti a ciò che nella vita cristiana è fondamentale, adattando ad essi ciò che dicemmo dell'abitazione dello Spirito Santo nell'anima, della nostra incorporazione a Cristo, della grazia abituale, delle virtù e dei doni. Da principio non capiranno certamente che i primi elementi di queste grandi verità, ma il poco che ne intenderanno avrà grandissima efficacia sulla loro formazione e sul loro progresso spirituale; solo quando si medita su ciò che Dio ha fatto e non cessa di fare per noi, uno si sente portato ad essere più generoso nel divino servizio. Non dimentichiamo che S. Paolo e S. Giovanni predicavano queste verità al pagani convertiti, i quali erano anch'essi incipienti nella vita spirituale. 683. 4° Si potrà allora più facilmente proporre loro Gesù come modello dei veri penitenti; Gesù che spontaneamente abbraccia la povertà, l'obbedienza, il lavoro per darci l'esempio di queste virtù; Gesù che fa penitenza per noi nel deserto, nel giardino degli Ulivi, nella dolorosa sua passione; Gesù che muore per noi sulla croce. Questa serie di meditazioni, che la Chiesa ci offre ogni anno nella sua liturgia, avrà il vantaggio di far praticare la penitenza in unione con Gesù Cristo con più generosità ed amore e quindi con maggior efficacia. II. Delle difficoltà che incontrano gl'incipienti. Le difficoltà speciali che gl'incipienti trovano nella meditazione vengono dalla loro inesperienza, dal difetto di generosità e principalmente dalle numerose distrazioni a cui vanno soggetti. 684. A) L'inesperienza li espone a convertire la meditazione in una specie di tesi filosofica o teologica, o in una specie di predica che fanno a se stessi. Anche così non è tempo perduto, perchè, in fin dei conti, questo modo di meditare li fa riflettere sulle grandi verità e ne rinsalda le convinzioni. Tuttavia ne caverebbero maggior profitto procedendo in modo più pratico e più soprannaturale. È quanto dovrà insegnare un buon direttore. Farà notare: a) che queste considerazioni, a riuscire pratiche, devono essere più personali, applicarsi a loro stessi, ed essere seguite da un esame per vedere a che punto sono nella pratica di queste verità, e ciò che possono fare per attuarle nella giornata; b) che la cosa più importante nella meditazione sono gli atti della volontà, atti di adorazione, di riconoscenza e d'amore verso Dio; atti di umiliazione, di contrizione e di santi proponimenti riguardo ai loro peccati; atti di domanda per ottenere la grazia di emendarsi, risoluzioni sode e frequentemente rinnovate di far meglio nella giornata. 685. B) Il difetto di generosità li espone a disanimarsi quando non sono sorretti dalle consolazioni sensibili che Dio aveva graziosamente concesso da principio per attirarli a sè; le difficoltà e le prime aridità li abbattono, e credendosi abbandonati da Dio, piegano al rilassamento. Bisogna persuaderli che Dio chiede non la buona riuscita ma lo sforzo, che il merito della preghiera è tanto maggiore quanto più vi si persevera a dispetto delle difficoltà che vi si provano, e che, attesa la tanta generosità di Dio verso di noi, è viltà indietreggiare davanti allo sforzo. Questo linguaggio sarà temperato da grande dolcezza nel modo di rammentare queste verità e accompagnato da molti paterni incoraggiamenti. 686. C) Ma l'ostacolo più grande viene dalle distrazioni: non essendo ancora l'immaginazione, la sensibilità e gli affetti sul principio ben padroneggiati, le immagini profane e talora pericolose, i pensieri inutili e i diversi movimenti del cuore invadono l'anima nel momento della meditazione. Anche qui è di somma importanza l'ufficio del direttore. a) Richiamerà fin da principio la distinzione tra distrazioni volontarie 686-1 e involontarie e inviterà il suo diretto a non occuparsi che delle prime per diminuirne il numero. Per riuscirvi: 1) bisogna cacciare prontamente, energicamente e costantemente le distrazioni, appena se ne ha coscienza; per numerose o pericolose che siano, sono colpevoli solo quando uno ci si trattiene volontariamente; chi si sforza di cacciarle fa atto grandemente meritorio: se tornano venti volte all'assalto e venti volte le respingiamo, avremo fatto ottima meditazione, assai più meritoria di quella in cui, sorretti dalla grazia di Dio, ne abbiamo avuto molto poche. 687. 2) Per cacciarle meglio, è bene confessare umilmente la propria impotenza, unirsi positivamente a Nostro Signore offrendone a Dio le adorazioni e le preghiere. Occorrendo, si potrà far uso di qualche libro per fissare meglio l'attenzione. b) Ma non basta cacciare le distrazioni per diminuirne il numero, bisogna prendere di mira le cause. Ora molte distrazioni provengono da mancanza di preparazione o da abituale dissipazione. 1) Si inviteranno quindi a preparare meglio la meditazione fin dalla sera precedente, non contentandosi d'una semplice lettura ma addentrandovisi e vedendo in che modo l'argomento può diventar pratico per loro in cambio di abbandonarsi a fantasticherie inutili o pericolose. 2) Ma soprattutto si indicheranno loro quei mezzi di disciplinare la fantasia e la memoria di cui presto diremo. Infatti quanto più l'anima progredisce nella pratica del raccoglimento e dell'abituale distacco, tanto più diminuiscono le distrazioni. Il che del resto vedremo anche meglio studiando i metodi di meditazione. § IV. Dei principali metodi di meditazione. 688. Essendo la meditazione un'arte difficile, i Santi diedero sempre volentieri molteplici consigli sui mezzi di riuscirvi: di ottimi se ne trovano in Cassiano, in S. Giovanni Climaco e nei principali scrittori spirituali. Ma solo verso il secolo XV vennero elaborati i metodi propriamente detti che guidarono da allora in poi le anime nelle vie dell'orazione. Questi metodi paiono a primo aspetto alquanto complessi, onde è bene prepararvi gl'incipienti con ciò che si può chiamare lettura meditata. Si consigliano a leggere qualche libro di pietà, come sarebbe il primo libro dell'Imitazione, il Combattimento spirituale o un libro di meditazioni brevi e sostanziose; e si suggerisce loro di farsi dopo la lettura le tre seguenti domande: 1) Sono proprio convinto che ciò che ora ho letto è utile o necessario al bene dell'anima mia? e in che modo posso rafforzare questa convinzione? 2) Ho finora ben praticato questo punto tanto importante? 3) Che farò per praticarlo meglio quest'oggi? Aggiungendovi un'ardente preghiera per ben praticare la presa risoluzione, si avranno tutti gli elementi essenziali d'una vera meditazione. I. Punti comuni a tutti i metodi. Ci sono nei vari metodi certi punti comuni che devono essere ben rilevati, perchè si tratta, com'è chiaro, delle cose più importanti: 689. 1° C'è sempre una preparazione remota, una preparazione prossima, e una preparazione immediata. a) La preparazione remota non è altro che uno sforzo per mettere la vita che uno abitualmente conduce in armonia con la meditazione. Abbraccia tre cose: 1) la mortificazione dei sensi e delle passioni; 2) il raccoglimento abituale; 3) l'umiltà. Sono queste infatti ottime disposizioni a pregare bene: da principio non si hanno che imperfettamente, ma basta perchè si possa meditare con qualche frutto; più tardi si perfezioneranno a mano a mano che si progredirà nella meditazione. b) La preparazione prossima abbraccia tre atti principali: 1) leggere o ascoltare, la sera precedente, il soggetto della meditazione; 2) pensarvi allo svegliarsi eccitando il cuore a sentimenti corrispondenti; 3) accingersi a meditare con ardore, fiducia ed umiltà, nel desiderio di glorificar Dio e divenir migliori. L'anima si trova così ben disposta a conversar con Dio. c) La preparazione immediata, che è in sostanza il principio della meditazione, consiste nel mettersi alla presenza di Dio, presente da per tutto e principalmente nel nostro cuore; nel riconoscersi indegni e incapaci di meditare; e nell'implorare l'aiuto dello Spirito Santo che supplisca alla nostra insufficienza. 690. 2° Anche nel corpo della meditazione i vari metodi contengono, più o meno esplicitamente, gli stessi atti fondamentali: a) atti per porgere alla Divina Maestà i doveri di religione che le sono dovuti; b) considerazioni per convincersi della necessità o della grandissima utilità della virtù che si vuole acquistare, a fine di chiedere con più fervida preghiera la grazia di praticarla e di risolvere la volontà a fare gli sforzi necessari per cooperare alla grazia; c) esami o riflessioni sopra sè stessi per rilevare le proprie mancanze su quel punto e vedere la via che resta a percorrere; d) preghiere o domande per ottenere la grazia di progredire in tale virtù e di prendere i mezzi necessari a questo scopo; e) risoluzioni con cui si fissa di praticare, già nella giornata, la virtù su cui si è meditato. 691. 3° La conclusione, che chiude la meditazione, abbraccia insieme: 1) un ringraziamento per i benefici ricevuti; 2) uno sguardo sul come si è fatta la meditazione a fine di farla meglio il giorno seguente; 3) un'ultima preghiera per chiedere la benedizione del Padre celeste; 4) la scelta d'un pensiero o di una massima efficace che richiami nel corso del giorno l'idea principale della meditazione e che viene comunemente detto mazzolino spirituale. I vari metodi si possono ridurre a due principali: il metodo di S. Ignazio e il metodo di S.-Sulpizio. II. Il metodo di S. Ignazio. 692. Negli Esercizi Spirituali, S. Ignazio propone parecchi metodi di meditazione, secondo gli argomenti su cui si medita e i risultati che si vogliono ottenere. Il metodo che è generalmente più conveniente agl'incipienti è il metodo delle tre potenze, che si chiama così perchè vi si esercitano le tre principali facoltà: la memoria, l'intelletto e la volontà. Nascondi Si trova esposto nella prima settimana a proposito della meditazione sul peccato. 693. 1° Principio della meditazione. Comincia con una preghiera preparatoria, con cui si chiede a Dio che tutte le nostre intenzioni ed opere siano unicamente rivolte al servizio e alla lode della Divina Maestà: ottima direzione d'intenzione. Vengono subito appresso due preludi: a) il primo, che è la composizione del luogo, ha per fine di fissare l'immaginazione e la mente sul soggetto della meditazione, onde tener più facilmente lontane le distrazioni: 1) se è oggetto sensibile, per es. un mistero di Nostro Signore, uno se lo rappresenta il più vivamente possibile, non come fatto avvenuto da molto tempo ma come ne fosse egli stesso spettatore e vi prendesse parte; ciò che serve certamente a far più impressione; 2) se è oggetto invisibile, per esempio il peccato, "la composizione del luogo sarà di vedere con gli occhi dell'immaginazione e considerare l'anima mia imprigionata in questo corpo mortale; e tutto l'uomo, cioè il corpo e l'anima, esiliato in questa valle di lacrime, tra gli animali privi di ragione"; ossia si considera il peccato in alcuno dei suoi effetti, per subito concepirne orrore. b) Il secondo preludio "sarà di chiedere a Dio ciò che voglio e desidero, per esempio la vergogna e la confusione di me stesso" alla vista dei miei peccati. Il fine pratico, la risoluzione, appare chiaramente fin da principio: "[in omnibus respice finem] In tutto, fine". 694. 2° Il corpo della meditazione consiste nell'applicazione delle tre potenze dell'anima ( la memoria, l'intelletto e la volontà ) a ogni punto della meditazione. Si applica per ordine ognuna delle potenze a ognuno dei punti, tranne che un punto solo porga materia sufficiente per tutta la meditazione. Non è però necessario fare in ogni meditazione tutti gli atti indicati: è bene fermarsi agli affetti e ai sentimenti suggeriti dal soggetto. a) L'esercizio della memoria si fa richiamando, non in particolare ma nel complesso, il primo punto da meditare; così, dice S. Ignazio, "l'esercizio della memoria intorno al peccato degli Angeli consiste nel pensare come furono creati nello stato di innocenza; come non vollero servirsi della libertà per porgere al loro Creatore e Signore l'ossequio e l'obbedienza a lui dovuti; come, essendosi l'orgoglio impadronito della loro mente, passarono dallo stato di grazia allo stato di malizia, e furono dal cielo precipitati nell'inferno". b) L'esercizio dell'intelletto consiste nel riflettere più in particolare sullo stesso argomento. S. Ignazio non dà altre spiegazioni, ma vi supplisce il P. Roothaan, osservando che il dovere dell'intelletto è di riflettere sulle verità proposte dalla memoria, di applicarle all'anima e ai suoi bisogni, di trarne conseguenze pratiche, di pesare i motivi delle nostre risoluzioni, di considerare in qual modo abbiamo finora conformato la condotta alle verità che meditiamo e come dobbiamo farlo in appresso. c) La volontà ha due doveri da adempiere: esercitarsi in pii affetti e far buone risoluzioni. 1) Gli affetti devono certamente diffondersi per tutta la meditazione o essere almeno molto frequenti, perchè sono essi che fanno della meditazione una vera preghiera; ma bisogna moltiplicarli soprattutto verso la fine della meditazione. Non occorre affannarsi di come esprimerli: i modi più semplici sono sempre i migliori. Quando ci sentiamo compresi da un buon sentimento, è bene nutrirlo quanto più è possibile, fino a che la nostra devozione sia soddisfatta. 2) Le risoluzioni saranno pratiche, atte a migliorare la vita, e quindi particolari, appropriate allo stato presente, possibili a eseguirsi lo stesso giorno, fondate su ragioni sode, umili e quindi accompagnate da preghiere per ottenere la grazia di metterle in pratica. 695. 3° Viene infine la conclusione, che comprende tre cose: la ricapitolazione delle diverse risoluzioni già prese; pii colloqui con Dio Padre, con Nostro Signore, colla SS. Vergine o con qualche Santo; finalmente la rivista della meditazione, ossia l'esame sul come si è meditato, per rilevarne le imperfezioni e rimediarvi. A fare meglio capire questo metodo, diamo il quadro sinottico dei preludi, del corpo dell'orazione e della conclusione. I. Preludi. 1° Rapido richiamo della verità da meditare. 2° Composizione del luogo per mezzo dell'immaginazione. 3° Domanda di grazia speciale conforme al soggetto. II. Corpo della meditazione; si esercita: 1° la memoria § Richiamando sommariamente alla mente il soggetto con le principali circostanze. 2° l'intelletto. Esamino: § 1° Quello che devo considerare in questo soggetto. § 2° Quali conclusioni pratiche ne devo trarre. § 3° Quali ne sono i motivi. § 4° Come ho osservato questo punto. § 5° Che devo fare per osservarlo meglio. § 6° Quali ostacoli devo allontanare. § 7° Quali mezzi usare. 3° la volontà § 1° Con affetti fatti in tutto il corso della meditazione, principalmente alla fine. § 2° Con risoluzioni prese alla fine d'ogni punto: pratiche, personali, sode, umili, fiduciose. III. Conclusione. 1° Colloqui: con Dio, con Gesù Cristo, colla SS. Vergine, coi Santi. 2° Rivista § 1° Come ho fatto la meditazione? § 2° In che e perchè l'ho fatta bene o male? § 3° Quali conclusioni pratiche ne ho ricavate, quali domande fatte, quali risoluzioni prese, quali lumi ricevuti? § 4° Fissare un pensiero come mazzolino spirituale. 696. Utilità di questo metodo. Come si vede, questo metodo è pienamente psicologico e praticissimo. a) Prende tutte le facoltà, compresa l'immaginazione, e le applica per ordine all'argomento della meditazione, portandovi così una certa varietà, onde una stessa verità viene considerata sotto i suoi diversi aspetti, è voltata e rivoltata nella mente per ben compenetrarsene, per acquistare convinzioni e soprattutto per trarne conclusioni pratiche per quello stesso giorno. b) Pur insistendo sulla importante parte della volontà, che si risolve con cognizione di causa dopo che furono ben ponderati i vari motivi, non trascura la parte della grazia, perchè viene istantemente chiesta fin da principio e vi si ritorna nei colloqui. c) È particolarmente adatto agli incipienti; perchè fissa, fin nei minimi particolari, ciò che bisogna fare dalla preparazione alla conclusione, e serve di filo conduttore perchè le facoltà non si sviino. Non suppone del resto profonda conoscenza del dogma ma quella soltanto che ce ne dà il catechismo, onde s'adatta ai semplici fedeli. d) Conviene però anche, semplificato che sia, alle anime più progredite; chi infatti si contenti delle grandi linee tracciate da S. Ignazio senza entrare in tutti i particolari aggiunti dal Padre Roothaan, può facilmente convertirlo in orazione affettiva, che lascerà larga parte alle ispirazioni della grazia. Tutto sta a sapersene sapientemente servire sotto la savia guida d'un esperto direttore. e) Gli si fece talora appunto di non dare abbastanza posto a N. S. Gesù Cristo. Infatti nel metodo delle tre potenze non se ne parla che di passaggio; ma vi sono altri metodi insegnati da S. Ignazio, specialmente la contemplazione dei misteri e l'applicazione dei sensi, ove Nostro Signore diviene oggetto principale della meditazione. Or nulla vieta agl'incipienti di servirsi dell'uno o dell'altro metodo. L'appunto è quindi infondato, chi voglia intieramente seguire i metodi ignaziani. III. Il metodo di S. Sulpizio. 697. A) Origine. Sorto dopo parecchi altri, questo metodo se ne giovò per i particolari, ma l'idea madre e la grandi linee vengono dal Card. di Berulle, dal P. di Condren, e dall'Olier; gli accessori sono del Tronson. a) L'idea madre è l'unione e l'adesione al Verbo Incarnato, per porgere a Dio gli atti di religione che gli sono dovuti e ritrarre nell'anima le virtù di Gesù Cristo. b) I tre atti essenziali sono: 1) l'adorazione, con cui consideriamo un attributo o una perfezione di Dio o una virtù di N. S. Gesù Cristo come il modello della virtù che dobbiamo praticare, e poi porgiamo i nostri doveri di religione, ( adorazione, ammirazione, lode, ringraziamento, amore, gioia o compassione ) all'uno o all'altro, o a Dio per mezzo di Gesù Cristo; porgendo così i nostri ossequi all'autore della grazia, lo disponiamo ad ascoltarci favorevolmente; 2) la comunione, con cui attiriamo in noi, per mezzo della preghiera, la perfezione o la virtù adorata e ammirata in Dio o in Nostro Signore; 3) la cooperazione, con cui, sotto l'influsso della grazia, fissiamo di praticare questa virtù prendendo almeno una risoluzione che ci studieremo di eseguire nella giornata. Tali sono le grandi linee che si trovano in Berulle, Condren e Olier. 698. Le aggiunte completive del Tronson. Ma è chiaro che queste grandi linee, se bastano per le anime progredite, sarebbero state insufficienti per gl'incipienti. Fu cosa presto rilevata nel Seminario di S. Sulpizio, onde, pur conservando lo spirito e gli elementi essenziali del metodo primitivo, il Tronson aggiunse al secondo punto ( comunione ) le considerazioni e le riflessioni sopra sè stesso così indispensabili agl'incipienti; quando si è convinti dell'importanza e della necessità d'una virtù, e quando si vede chiaramente che ci manca, si chiede con molto maggior fervore, umiltà e costanza. Resta quindi che, in questo metodo, si insiste, anche per gl'incipienti, sulla preghiera come elemento principale. È questo il motivo per cui il terzo punto si chiama cooperazione, per rammentarci che le nostre risoluzioni sono più effetto della grazia che della nostra volontà, ma che d'altra parte la grazia non fa nulla in noi senza la nostra cooperazione, e che nel corso del giorno dobbiamo collaborare con Gesù Cristo sforzandoci di ricopiare la virtù su cui abbiamo meditato. 699. B) Compendio del metodo. Il seguente quadro sinottico darà una sufficiente idea del metodo. Nascondi Lasciamo da parte la preparazione remota, che è la stessa di quella esposta al n. 689. I. Preparazione. Prossima § 1° La sera precedente far la scelta del soggetto della meditazione e fissare con precisione ciò che si dovrà considerare in N. S. le considerazioni e le dimande che bisognerà fare le risoluzioni che si dovranno prendere. § 2° Starsene poi in grande raccoglimento e addormentarsi pensando al soggetto della meditazione. § 3° Levatisi, cogliere il primo momento libero per applicarsi a questo santo esercizio. Immediata § 1° Mettersi alla presenza a Dio che è dapertutto, e specialmente nel nostro cuore. § 2° Umiliarsi davanti a Dio al pensiero dei propri peccati. Contrizione. Recita del Confiteor. § 3° Riconoscersi incapace di pregar come si deve. Invocazione dello Spirito Santo: recita del Veni, Sancte Spiritus. II. Corpo della meditazione. 1° Punto: Adorazione: Gesù davanti agli occhi. § 1° Considerare in Dio, in N. S. o in qualche Santo il soggetto che si sta per meditare: i sentimenti del suo cuore, le sue parole, le sue azioni. § 2° Porgergli i nostri doveri: adorazione, ammirazione, lodi, ringraziamenti, amore, gioia o compassione. 2° Punto: Comunione: Gesù attirato nel cuore. § 1° Convincersi, con motivi di fede, col ragionamento o con semplice analisi, della necessità od utilità della virtù considerata. § 2° Riflettere su sè stesso con sentimenti di contrizione per il passato, di confusione per il presente, di desiderio per l'avvenire. § 3° Domandare a Dio le virtù su cui si medita. ( Specialmente per questa domanda veniamo a partecipare alle virtù di Nostro Signore ). Chiedere pure per tutti gli altri nostri bisogni, per quelli della Chiesa, e delle persone per le quali siamo obbligati a pregare. 3° Punto: Cooperazione: Gesù nelle mani. § 1° Prendere una risoluzione particolare, attuale, efficace, umile. § 2° Rinnovare la risoluzione dell'esame particolare. III. Conclusione. 1° Ringraziare Dio di averci concesso tante grazie nella meditazione. 2° Chiedergli perdono delle colpe e delle negligenze commesse in questo santo esercizio. 3° Pregarlo di benedire le nostre risoluzioni, la presente giornata, la nostra vita, la nostra morte. 4° Formare il mazzolino spirituale, scegliendo uno dei pensieri che ci hanno fatto maggior impressione, per ricordarcene nel giorno e richiamare le risoluzioni. 5° Affidare tutto alla SS. Vergine. Sub tuum præsidium. 700. C) Caratteristiche di questo metodo. Nascondi a) Si fonda sulla dottrina della nostra incorporazione a Cristo ( n. 142-149 ) e sull'obbligo che ne risulta di ricopiarne in noi le interne disposizioni e le virtù. Per riuscirvi, dobbiamo, secondo l'espressione dell'Olier, aver Gesù davanti agli occhi, per ammirarlo come modello e porgergli i nostri doveri ( adorazione ); averlo nel cuore, attirandone in noi con la preghiera le disposizioni e le virtù ( comunione ); averlo nelle mani, collaborando con lui a imitarne le virtù ( cooperazione ). Anima dunque di questo metodo è l'unione intima con Gesù. b) Antepone il dovere della religione ( riverenza e amore di Dio ) a quello della domanda; il primo servito dev'esser Dio! E il Dio che ci mette innanzi non è il Dio astratto dei filosofi, ma il Dio concreto e vivente del Vangelo; è la SS. Trinità che vive in noi. c) Proclamando la necessità della grazia e dell'umana volontà nella nostra santificazione, dà risalto alla grazia e quindi alla preghiera, ma richiede pure l'energico e costante sforzo della volontà e risoluzioni particolari, attuali, frequentemente rinnovate, su cui si ha poi da far l'esame la sera. 701. d) È metodo affettivo appoggiato su considerazioni: comincia con affetti di religione nel primo punto; nel secondo si fanno considerazioni per indurre il cuore ad atti di fede nelle verità soprannaturali che si meditano, atti di speranza nella divina misericordia, atti di amore all'infinita sua bontà; la riflessione sopra sè stesso dev' essere accompagnata da dispiacere del passato, da confusione del presente, da fermo proposito per l'avvenire; e questi atti mirano a preparare una domanda umile, fiduciosa e perseverante. A prolungare questa domanda il metodo offre vari motivi esposti in disteso, e suggerisce di pregare pure per tutta la Chiesa e per certe anime in particolare. Le risoluzioni stesse devono essere accompagnate da diffidenza di sè, da confidenza in Gesù Cristo, da preghiere per osservarle. La conclusione poi non è che una serie di atti di riconoscenza, d'umiltà e di nuove preghiere. Così si schiva di dare una piega troppo filosofica ai ragionamenti o alle considerazioni, e si prepara la via all'orazione affettiva ordinaria, e più tardi all'orazione semplificata; si avverte infatti che non è necessario esprimere sempre tutti e in quest'ordine i nostri doveri, ma che è bene "abbandonarsi agli affetti che Dio dà e ripetere spesso quelli a cui uno si sente attirato dallo Spirito Santo". È vero che gl'incipienti generalmente impiegano maggior tempo nei ragionamenti che negli altri atti, ma il metodo ricorda loro continuamente che sono preferibili gli affetti, e a poco a poco riescono a farne di più. e) È specialmente adatto ai Seminaristi e ai sacerdoti; perchè rammenta continuamente che, essendo il sacerdote un altro Gesù Cristo per il carattere e per i poteri, dev'esserlo pure per le disposizioni e per le virtù, e che tutta la loro perfezione consiste nel far vivere e crescere dentro di sè Gesù Cristo "[ita ut interiora ejus intima cordis nostri penetrent] il più interno dei nostri cuori in modo che i loro interni possano penetrare ". 702. Ottimi sono dunque questi due metodi, ognuno nel suo genere, atteso il fine speciale a cui mirano; e si può dir lo stesso di tutti gli altri che si avvicinano più o meno a questo doppio tipo. È bene che ve ne siano parecchi, affinchè ogni anima possa scegliere, col consiglio del direttore e secondo le sue inclinazioni soprannaturali, quello che meglio le si conviene. Aggiungiamo col P. Poulain che avviene di questi metodi quello che delle tante regole della retorica e della logica; è bene addestrarvi gl'incipienti; ma, praticati che siansi in modo da possederne bene lo spirito e gli elementi principali, non si segue più il metodo che nelle sue grandi linee, e l'anima, senza cessare d'essere attiva, diventa più attenta ai movimenti dello Spirito Santo. Conclusione: efficacia della preghiera per la purificazione dell'anima 703. Dal fin qui detto è facile conchiudere quanto utile e necessaria sia la preghiera alla purificazione dell'anima. a) Nella preghiera-adorazione, si porgono a Dio i debiti ossequi, si ammirano, si lodano, si benedicono le infinite sue perfezioni, la santità, la giustizia, la bontà, la misericordia; allora Dio amorosamente si piega verso di noi per perdonarci, per farci concepire un profondo orrore del peccato che l'offende e premunirci così contro nuove colpe. b) Nella preghiera-meditazione acquistiamo, sotto l'influsso dei lumi divini e delle nostre riflessioni, profonde convinzioni sulla malizia del peccato, sui terribili suoi effetti in questa vita e nell'altra, sui mezzi di ripararlo e di schivarlo: allora l'anima si riempie di sentimenti di confusione, d'umiliazione, di odio del peccato, di fermo proponimento di evitarlo, d'amor di Dio: a questo modo i peccati passati vengono sempre più espiati nelle lacrime della penitenza e nel sangue di Gesù; la volontà si rinsalda contro i minimi traviamenti e abbraccia con generosità la pratica della penitenza e della rinunzia. c) La preghiera-domanda, appoggiata sui meriti di Nostro Signore, ci ottiene copiose grazie d'umiltà, di penitenza, di fiducia e d'amore, che danno l'ultima mano alla purificazione dell'anima, la rafforzano contro le tentazioni dell'avvenire e la rassodano nella virtù, massimamente nelle virtù della penitenza e della mortificazione, che compiono i buoni effetti della preghiera. 704. Avviso ai direttori. Non si raccomanderà dunque mai abbastanza la meditazione a tutti coloro che vogliono progredire, e il direttore ne deve insegnare la pratica il più presto possibile, farsi rendere conto delle difficoltà che vi incontrano, aiutarli a vincerle, mostrare come possono perfezionarne il metodo, e soprattutto come possono servirsene per correggersi dei difetti, praticare le opposte virtù, e acquistare a poco a poco lo spirito di preghiera, che, con la penitenza, ne trasformerà l'anima. Capitolo II. Della penitenza. Indicata brevemente la necessità e la nozione della penitenza, esporremo: 1° i motivi che devono farci odiare e schivare il peccato; 2° i motivi e i mezzi di ripararlo. Necessità e nozione Art. I. Odio del peccato mortale. 1 veniale, 2 mortale. Art. II.  Riparazione del peccato 1 motivi, 2 mezzi Necessità e nozione della penitenza 705. Dopo la preghiera, la penitenza è il mezzo più efficace per purificare l’anima dalle colpe passate e anche per premunirla contro le future. 1° Quindi Nostro Signore, volendo dar principio al pubblico suo ministero, fa predicare dal precursore la necessità della penitenza: " Fate penitenza perché il regno dei cieli è vicino:Paenitentiam agite, appropinquavit enim regnum caelorum. Dichiara di essere egli pure venuto a chiamare i peccatori a penitenza: "[Non veni vocare justos, sed peccatores ad paenitentiam] Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a ravvedimento?". Tanto necessaria è questa virtù che, se non facciamo penitenza, periremo: "[si paenitentiam non egeritis. omnes similiter peribitis] Se vi convertite. tutti muoiono". Gli Apostoli compresero così bene questa dottrina che fin dalle prime prediche insistono sulla necessità della penitenza come condizione preparatoria al battesimo: "[ Paenitentiam agite, et baptizetur unusquisque vestrum] Pentitevi, e siate battezzati ciascuno di voi". La penitenza è infatti per il peccatore un atto di giustizia; avendo offeso Dio e violatine i diritti, è obbligato a riparare questo oltraggio: il che fa con la penitenza. 706. 2° La penitenza si definisce: una virtù soprannaturale, connessa con la giustizia, che inclina il peccatore a detestare il peccato perché offesa di Dio, e a prendere la ferma risoluzione di schivarlo per l'avvenire e di ripararlo. Comprende quindi quattro atti principali, di cui è facile vedere la genesi e la connessione. 1) Alla luce della ragione e della fede, vediamo che il peccato è un male, il più grande di tutti i mali, a dir vero, l'unico vero male, perché offende Dio e ci priva dei più preziosi beni; questo male lo odiamo con “tutta, l'anima” [iniquitatem odio habui] Odio la violenza". 2) Considerando questo male è in noi, perché abbiamo peccato, e che, anche quando viene perdonato, ne resta nell'anima qualche traccia, ne concepiamo un vivo dolore, dolore che ci tortura e stritola l'anima, una sincera contrizione, una profonda umiliazione. 3) Per evitare nell'avvenire questo odioso male, prendiamo la ferma risoluzione o il saldo proponimento di schivarlo, sollecitamente fuggendo le occasioni che vi ci potrebbero condurre e rafforzando la volontà contro le lusinghe dei pericolosi diletti. 4) Finalmente, persuasi che il peccato è un'ingiustizia, risolviamo di ripararlo e di espiarlo con sentimenti ed opere di penitenza. ART. I. Motivi di odiare e fuggire il peccato Prima d'esporre questi motivi, diciamo che cosa è il peccato mortale e il veniale. 707. Nozione e specie. Il peccato è una trasgressione volontaria della legge di Dio. È dunque una disobbedienza a Dio e quindi un'offesa di Dio, perché preferiamo la volontà nostra alla sua e violiamo così gl'imprescrittibili suoi diritti alla nostra sottomissione. 708. a) Il peccato mortale. Nascondi Quando con piena avvertenza e pieno consenso trasgrediamo una legge importante, necessaria al conseguimento del nostro fine, in materia grave, il peccato è mortale, perché priva l'anima della grazia abituale che ne costituisce la vita soprannaturale ( n. 105 ). Ecco perché questo peccato è definito da S. Tommaso: un atto con cui ci distacchiamo da Dio, ultimo nostro fine, attaccandoci liberamente e disordinatamente a qualche bene creato. Perdendo infatti la grazia abituale che ci univa a Dio, ci distacchiamo da lui. 709. b) Il peccato veniale. Quando la legge da noi violata non è necessaria al conseguimento del nostro fine, o quando la violiamo in materia leggera, oppure, essendo la legge grave in sé, non la trasgrediamo con piena avvertenza o pieno consenso, il peccato è soltanto veniale, e non ci priva dello; stato di grazia. Rimaniamo uniti a Dio nel fondo dell'anima, perché vogliamo farne la volontà in tutto ciò che è necessario a conservarne l’amicizia e conseguire il nostro fine. È però sempre una trasgressione della legge di Dio e una offesa inflitta alla sua Maestà, come proveremo più avanti. § I. Del peccato mortale 710. Per pronunziare un retto giudizio sul peccato grave, bisogna Considerare: 1° che cosa ne pensa Dio; 2° che cosa è in sé stesso; 3° i funesti suoi effetti. Chi con la meditazione approfondisca queste considerazioni, avrà per il peccato un odio invincibile. I. Che cosa pensa Dio del peccato mortale. Per averne una qualche idea, vediamo come lo castighi e come lo condanni nella S. Scrittura. 711. 1° Come lo castiga. A) Negli angeli ribelli: non commettono che un solo peccato, un peccato interno, un peccato di superbia, e Dio, loro Creatore e loro Padre, Dio che li amava non solo come opera delle sue mani ma anche come figli adottivi, si vede obbligato, per punirne la ribellione, a precipitarli nell’inferno,. dove, per tutta l'eternità, saranno separati da lui e privi quindi di ogni felicità. Eppure Dio è giusto e non punisce mai i colpevoli più di quanto meritino; è misericordioso perfino nei castighi temperandone il rigore colla bontà. Dev'essere dunque qualche cosa d'abominevole il peccato per meritare d'essere punito tanto rigorosamente. Nascondi 712. B) Nei nostri progenitori: erano stati ricolmi d'ogni sorta di beni, naturali, preternaturali e soprannaturali, n. 5266. Ma commettono essi pure un peccato di disubbidienza e di superbia, ed ecco che perdono subito, con la vita della grazia, i doni gratuiti che erano stati così liberalmente loro largiti, vengono cacciati dal paradiso terrestre, e trasmettono ai posteri quel peccato originale, di cui subiamo ancora le tristi conseguenze ( n. 6975 ). Ora Dio amava i nostri progenitori come figli, permetteva loro di vivere nella sua intimità, e se il Dio della giustizia e della misericordia dovette castigarli tanto severamente, perfino nella posterità, vuol dunque dire che il peccato è un male orribile che non potremo mai detestare abbastanza. 713. C) Nella persona del Figlio. Per non lasciare eternamente perire l’uomo e conciliare nello stesso tempo i diritti della giustizia e della misericordia, il Padre manda il Figlio sulla terra, lo costituisce capo del genere umano, commettendogli d'espiare e riparare il peccato in vece nostra. Or che gli chiede per questa redenzione? Trentatré anni di patimenti e di umiliazioni, coronati dalla fisica e morale agonia dell'orto degli Ulivi, del Sinedrio, del Pretorio del Calvario. Chi vuol sapere che cosa sia il peccato, segua passo passo il divin Salvatore, dal presepio alla Croce: nella vita nascosta, ove pratica l’umiltà, l’obbedienza, la povertà, il lavoro nella vita apostolica, tra le fatiche, le delusioni: gli affanni, le persecuzioni di cui è vittima; nella vita paziente, ove soffri tali torture fisiche e morali, da parte degli amici e dei nemici, da venire a ragione chiamato l'uomo dei dolori; e poi dica a sé stesso in tutta sincerità: ecco l'opera dei miei peccati, "[vulneratus est propter iniquitates nostras, attritus est propter scelera nostra] è stato ferito per le nostre trasgressioni, è stato schiacciato per i nostri peccati". Così stenterà meno a comprendere che il peccato e il più grande dei mali. 714. 2° Come Dio condanna il peccato. La S. Scrittura ci presenta il peccato come la cosa più abominevole e criminosa. a ) É una disubbidienza a Dio, una trasgressione dei suoi ordini, che viene severamente e giustamente punita, come si vede nei nostri progenitori. Nel popolo d'Israele, che appartiene in modo speciale a Dio, questa disobbedienza è considerata come: rivolta e ribellione. b) è un'ingratitudine verso il più insigne dei benefattori, un'empietà verso il più amabile dei padri: "[Filios enutrivi et exaltavi, ipsi autem spreverunt me] Hanno allevato figli, e li esaltato, ma essi si sono ribellati contro di me". c) É una mancanza di fedeltà, una specie d'adulterio, perché Dio è lo sposo delle anime e giustamente esige inviolabile fedeltà: "[Tu autem fornicata es cum amatoribus multis] Ma tu stesso hai prostituito per molti amanti”. d) è un'ingiustizia, perché violiamo apertamente i diritti di Dio sopra di noi: "[Omnis qui facit peccatum et iniquitatem facit, et bercaíúwt est iniquitas] Chiunque commette il peccato trasgredisce la legge, e bercaíúwt è la trasgressione di”. II. Che cosa è il peccato mortale in sé stesso. Il peccato mortale è il male, l’unico vero male, perché tutti gli altri mali non ne sono che la conseguenza o il castigo. 715. 1° Riguardo a Dio, è un delitto di lesa maestà divina: infatti offende Dio in tutti i suoi attributi, ma soprattutto come primo nostro principio, ultimo nostro fine, Padre nostro e nostro benefattore. A) Essendo Dio il Primo nostro principio, il nostro Creatore, da cui ci viene tutto ciò che siamo e tutto ciò che possediamo, è per ciò stesso il nostro supremo Padrone, a cui dobbiamo ubbidienza assoluta. Ora col peccato mortale, noi lo disubbidiamo, facendogli l'ingiuria di preferire la volontà nostra alla sua, una creatura al Creatore! Facciamo anzi di peggio: ci rivoltiamo contro di lui noi che per creazione siamo sudditi suoi assai più che non siano sudditi gli uomini soggetti ad un principe. a) Rivolta tanto più grave in quanto che è Padrone infinitamente sapiente e infinitamente buono che nulla ci ordina che non sia nello stesso tempo utile alla nostra felicità come alla sua gloria, mentre la nostra volontà, ben lo sappiamo, è fiacca, fragile, soggetta all'errore eppure la preferiamo a quella di Dio!) Questa rivolta poi è tanto meno scusabile, perché, istruiti fin dall'infanzia da genitori cristiani, abbiamo conoscenza più chiara, più esatta dei diritti di Dio su di noi, e della malizia del peccato, cosicché operiamo sapendo bene quello che facciamo. c) E perché tradiamo così il nostro Padrone? Per un vile piacere che ci avvilisce e ci abbassa al livello dei bruti; per uno stolto orgoglio con cui ci appropriamo la gloria che appartiene solo a Dio; per un interesse, per un guadagno passeggero a cui sacrifichiamo un bene eterno! 716. B) Dio è Pure l'ultimo nostro fine: ci creò e non ci poté creare che per sé, non essendovi fuori di lui bene alcuno più grande in cui possiamo trovar la nostra perfezione e la nostra felicità; ma poi è giusto e necessario che, usciti da Dio, a lui ritorniamo; essendo cosa sua e sua proprietà, dobbiamo riverirlo, lodarlo, servirlo e glorificarlo; teneramente amati da lui, dobbiamo anche noi riamarlo con tutta l’anima: nell'amarlo e nell'adorarlo troviamo la felicità e la perfezione. Ha quindi stretto diritto che l'intiera nostra vita con tutti i pensieri, tutti i desideri, tutte le azioni, sia rivolta a lui e lo glorifichi. Ora, col peccato mortale, ci stacchiamo volontariamente da lui per dilettarci in un bene creato; gli facciamo l'ingiuria di preferirgli una sua creatura o meglio l'egoistica nostra soddisfazione; perché in fondo più che alla creatura ci attacchiamo al diletto che in lei troviamo. A una flagrante ingiustizia, perché si tende a privare Dio degli imprescrittibili suoi diritti su di noi e di quella gloria esterna che gli dobbiamo; è una specie d'idolatria, che erige, nel tempio del nostro cuore, un idolo a fianco del vero Dio; è un disprezzare la fonte d'acqua viva, che sola può dissetare le anime, e preferirgli quell’acqua fangosa che si trova in fondo alle cisterne scrostate, secondo l’energico linguaggio di Geremia: [Duo enim mala fecit populus meus: me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas, cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas] Il mio popolo ha commesso due mali: ha abbandonato me, la sorgente di acqua viva, e si sono scavati a se stessi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l'acqua". 717. C) Dio è pure per noi un Padre, che ci adottò per figli e ci tratta con sollecitudine tutta paterna, colmandoci dei più preziosi suoi benefici, dotandoci di soprannaturale organismo onde farci vivere di vita simile alla sua, e largheggiando con noi di copiose grazie attuali onde porre in atto i suoi doni e accrescerci la vita soprannaturale. Ora, col peccato mortale, disprezziamo questi doni, ne abusiamo anzi per volgerli contro il nostro benefattore e il nostro Padre, profaniamo le sue grazie e l'offendiamo nel momento stesso in cui ci colma dei suoi beni. Non è ingratitudine tanto più colpevole quanto maggiori sono i doni ricevuti, che grida vendetta contro di noi? 718. 2° Rispetto a Gesù Cristo, nostro redentore, il peccato è una specie di deicidio. a) E infatti il peccato che cagionò i patimenti e la morte del divin Salvatore: "[Christus passus est pro nobis] Cristo ha sofferto per noi … [Lavit nos a peccatis nostris in sanguine suo] Egli ci ha lavati dai nostri peccati nel suo sangue". Perché questo pensiero ci faccia impressione dobbiamo richiamare la parte che abbiamo personalmente avuta nella dolorosa Passione del Salvatore. Sono io che con un bacio ho tradito il mio maestro, e qualche volta anche per qualche cosa di meno di trenta denari; io che fui causa del suo arresto e della sua condanna a morte; io ero là col popolaccio a gridare: [Non hunc, sed Barabbam … Crucifige eum] Non costui, ma Barabba … Crocifiggilo; io ero là coi soldati a flagellarlo con le mie immortificazioni, a coronarlo di spine con gl'interni miei peccati di sensualità e d'orgoglio, a porgli sulle spalle la pesante croce e a crocifiggerlo. Come bene spiega l'Olier, la nostra avarizia inchioda la sua carità, la nostra collera la sua dolcezza, la nostra impazienza la sua pazienza, il nostro orgoglio la sua umiltà; e così con i nostri vizi attanagliamo, stringiamo in catene e facciamo a brani Gesù Cristo abitante in noi". Quanto dobbiamo odiare il peccato che ha così crudelmente inchiodato alla croce il nostro Salvatore! b ) Ora non possiamo certamente infliggergli più nuove torture perché non può più patire; ma le presenti nostre colpe continuano ad offenderlo perché, commettendole volontariamente, disprezziamo il suo amore e i suoi benefici, rendiamo inutile per noi il sangue da lui così generosamente versato, lo priviamo di quell'amore, di quella riconoscenza, di quell’ubbidienza, a cui ha diritto. Non è un corrispondere al suo amore con la più nera ingratitudine e chiamare quindi sul nostro capo i più gravi castighi? III. Gli effetti del peccato mortale. Dio volle che la legge avesse una sanzione, che la felicità fosse, in fin dei conti, la ricompensa della virtù e il dolore castigo del peccato. Onde, considerando gli effetti del peccato, potremo in qualche modo arguirne la realtà. Li possiamo studiare in questa vita o nell'altra. 719. 1° Per renderci conto dei terribili effetti dei peccato mortale in questa vita, richiamiamo che cosa è un' anima in istato di grazia: abita in lei la SS. Trinità che vi trova le sue compiacenze e la orna delle sue grazie, delle sue virtù e dei suoi doni; sotto l'influsso della grazia attuale i suoi atti buoni diventano meritorii della vita eterna; possiede la santa libertà dei figli di Dio, partecipa della forza e della virtù di Dio e gode, in certi momenti specialmente, tale felicità che è come un saggio della felicità celeste. Or che fa il peccato mortale? a ) Caccia Dio dall'anima, e poiché il possesso di Dio e già un'anticipazione della beatitudine celeste, la sua perdita è come il preludio della riprovazione eterna: chi perde Dio non perde forse tutti i beni di cui Dio è la fonte? b ) Con lui perdiamo la grazia santificante, che ci faceva vivere d'una vita simile a quella di Dio, ond'è come una specie di suicidio spirituale; e perdiamo pure con lei il glorioso corteggio delle virtù e dei doni che l'accompagnavano. Se nell'infinita sua misericordia Dio ci lascia la fede e la speranza, queste virtù non sono più informate e avvivate dalla carità e non rimangono in noi che per ispirarci un timore salutare e un ardente desiderio di riparazione e di penitenza; intanto ci mostrano il triste stato dell'anima nostra eccitando in noi cocenti rimorsi. 720. c) Perdiamo pure i meriti passati, accumulati con tanti sforzi, né li potremo più ricuperare che per mezzo di una laboriosa penitenza; e finché rimaniamo in peccato mortale, non possiamo meritare nulla pel cielo. Qual dissipazione di beni soprannaturali! d ) Bisogna aggiungervi la tirannica schiavitù che il peccatore deve ormai subire: in cambio della santa libertà di cui godeva, eccolo diventato schiavo del peccato, delle passioni cattive che si trovano come scatenate per la perdita della grazia e delle male abitudini che non tardano a formarsi con le ricadute così difficili a schivare, perché “colui che pecca diventa schiavo del peccato, [omnis qui facit peccatum, servus est peccati] Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato". Infiacchiscono gradatamente le forze morali, le grazie attuali diminuiscono e sopraggiunge lo scoraggiamento e talvolta la disperazione; la è finita per questa povera anima se Dio, per un eccesso di misericordia, non viene a trarla con la sua grazia dal fondo dell'abisso. 721. 2° Che se sventuratamente il peccatore si ostina sino alla fine nella resistenza alla grazia, ecco l'inferno con tutti i suoi orrori. A) Prima la pena del danno, pena giustamente meritata. La grazia non aveva cessato di inseguire il colpevole; ma chi volle volontariamente morire nel suo peccato, volle rimanere volontariamente separato da Dio. Finché era sulla terra, tutto assorto negli affari e nei piaceri, non aveva tempo di fermarsi sull'orrore del suo stato morale. Ma ora, che non vi sono più per lui né affari né piaceri, si trova costantemente in faccia alla terribile realtà. Dal fondo stesso della natura, dalle aspirazioni dell'anima e del cuore, dall’intero suo essere si sente irresistibilmente tratto verso Colui che è il primo suo principio e il suo ultimo fine, l'unica fonte della sua perfezione e della sua felicità, verso quel Padre così amabile e così amante che l'aveva adottato per figlio, verso quel Redentore che l'aveva amato fino a morire sulla croce per lui; ma intanto si sente inesorabilmente respinto da una forza invincibile, forza che non è altro che il suo peccato. La morte l’ha ormai fissato, l’ha reso immobile nelle sue disposizioni, e avendo rigettato Dio nel momento stesso della morte, rimarrà da Dio eternamente separato. Non beatitudine, non perfezione: rimane affisso al suo peccato e in lui a tutto ciò che vi e di più ignobile e di più avvilitivo: "[ discedite a me maledicti] Via, lontano da me, maledetti,". 722. B) Alla pena del danno, che è di molto la più terribile, viene ad aggiungersi la pena del senso. Complice dell'anima, il corpo ne parteciperà pure il supplizio; la disperazione eterna che tortura l’anima del dannato produce già nel corpo una febbre intensa, una sete inestinguibile che nulla può calmare. Ma vi sarà pure un fuoco reale, benché diverso dal fuoco materiale che vediamo sulla terra, che diverrà strumento della divina giustizia per castigare il nostro corpo e i nostri sensi; è giusto infatti che si sia puniti con ciò con cui si è peccato "[per quae peccat quis per haec et torquetur] mediante la quale un uomo pecca, dallo stesso anche è tormentato"; onde, avendo il dannato voluto disordinatamente godere delle creature, in esse troverà strumenti di supplizio. Questo fuoco, acceso e diretto da mano intelligente, tormenterà tanto più le sue vittime quanto più intensamente avranno voluto godere i peccaminosi diletti. 723. C) L'una e l'altra pena non finiranno mai ed è ciò che mette il colmo al castigo dei dannati. Perché, se i minimi patimenti, quando siano continui, diventano quasi intollerabili, che dire di queste pene, già così intense in se stesse, che dopo milioni di secoli non faranno che ricominciare? Eppure Dio è giusto, Dio, è buono perfino nei castighi che e obbligato ad infliggere ai dannati! Bisogna dunque che il peccato sia male abominevole se viene punito in tal maniera, sia il solo vero ed unico male. Dunque piuttosto morire che macchiarsi di un solo peccato mortale "[potius mori quam faedari] piuttosto morire che faedari"; e, per meglio schivarlo, abbiamo orrore anche del peccato veniale. § II. Del peccato veniale deliberato. Rispetto alla perfezione vi è grandissima differenza tra i peccati veniali di sorpresa e quelli che si commettono di proposito deliberato, con piena avvertenza e con pieno consenso. 724. Delle colpe di sorpresa. I Santi stessi commettono qualche volta colpe di sorpresa, lasciandosi andare un istante, per irriflessione e per debolezza di volontà, a negligenze negli esercizi spirituali, ad imprudenze, a giudizi o a parole contrarie alla carità, a piccole bugie per scusarsi. Sono colpe certamente biasimevoli e le anime fervorose amaramente le deplorano, ma non sono ostacolo alla perfezione; il Signore che conosce la nostra debolezza le scusa facilmente: "[ipse cognovit figmentum nostrum] E perché?"; del resto le ripariamo quasi subito con atti di contrizione, di umiltà, di amore, che sono più durevoli e più volontari che non i peccati di fragilità. Quello che dobbiamo fare rispetto a queste colpe è di diminuirne il numero e schivare lo scoraggiamento. a) Si possono diminuire con la vigilanza: si cerca di rifarsi alla causa e di sopprimerla, ma senza fretta od affanno, confidando più sulla grazia divina che sui nostri sforzi; bisogna soprattutto sforzarsi di sopprimere ogni affetto al peccato veniale; perché, come osserva S. Francesco di Sales, "se il cuore vi si attacca, si perde tosto la soavità della devozione e tutta la devozione stessa". 725. b) Ma bisogna pure attentamente evitare lo scoraggiamento e il dispetto di coloro « che si irritano di essersi irritati, si rattristano di essersi rattristati"; questi movimenti provengono in sostanza dall'amor proprio che si turba e s'inquieta al vederci tanto imperfetti. Per schivare questo difetto bisogna guardare le colpe nostre con quella benignità con cui guardiamo quelle degli altri, odiare, si, i nostri difetti e le nostre debolezze ma con odio tranquillo, con viva coscienza della nostra debolezza e della nostra miseria, e con ferma e calma volontà di far servire queste colpe alla gloria di Dio, adempiendo con maggior fedeltà ed amore il dovere presente. Ma i peccati veniali deliberati sono grandissimo ostacolo al progresso spirituale e devono essere vigorosamente combattuti. A convincercene, vediamone la malizia e gli effetti. I. Malizia del peccato veniale deliberato. 726. Questo peccato è un male morale, il più gran male in sostanza dopo il peccato mortale; è vero che non ci fa deviar dal nostro fine ma ci ritarda il cammino, ci fa perdere un tempo prezioso e soprattutto è offesa di Dio; in ciò consiste principalmente la sua malizia. 727. É infatti una disubbidienza a Dio, in materia leggera, è vero, ma voluta dopo averci riflettuto, e che, agli occhi della fede, è veramente qualche cosa di odioso perché assale l'infinita maestà di Dio. A ) A un'ingiuria, un insulto a Dio: mettiamo sulla bilancia da un lato la volontà di Dio e la sua gloria, e dall'altro il nostro capriccio, il nostro diletto, la nostra gloriuzza, e osiamo preferirci a Dio! Quale oltraggio! Una volontà, infinitamente sapiente e retta, sacrificata alla nostra che è così soggetta all'errore e al capriccio! " è, dice S. Teresa, come se si dicesse: Signore, benché quest'azione vi dispiaccia, pure io la farò. So bene che voi la vedete, so molto bene che non la volete; ma preferisco seguire la mia fantasia e la mia inclinazione anziché la vostra volontà. E vi par poca cosa trattare così? Per me, per quanto leggera sia la colpa in se stessa, la giudico invece grave e gravissima". 728. B) Ne consegue, per colpa nostra, una diminuzione della gloria esterna di Dio: fummo creati per procurarne la gloria obbedendo perfettamente e amorosamente ai suoi ordini; ora, ricusando di ubbidirgli, sia pure in materia leggera, gli sottraiamo parte di questa gloria; in cambio di proclamare, come Maria, che vogliamo. glorificarlo in tutte le nostre azioni "Magnificat anima mea Dominum", ricusiamo positivamente di glorificarlo in questa o in quella cosa. C ) Ed è quindi un'ingratitudine; colmati di più numerosi benefici perché suoi amici, e sapendo che chiede in ricambio la nostra riconoscenza e il nostro amore, noi ricusiamo di fargli quel piccolo sacrificio; invece di studiarci di piacergli, non ci curiamo di dispiacergli. Onde un raffreddamento dell'amicizia di Dio verso di noi: egli ci ama senza riserva e chiede in ricambio che l'amiamo anche noi con tutta l’anima: “[Diliges Dominum Deum tuum ex loto corde tuo et in tota anima tua et in tota mente tua] Lotto Ama il Signore Dio tuo con il tuo il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". Ma noi non gli diamo che una parte di noi stessi, facciamo delle riserve, e, pur volendo conservarne l'amicizia, gli mercanteggiamo la nostra e non gli diamo che un cuore diviso. C'è qui, com'è chiaro, indelicatezza, mancanza di slancio e di generosità, che non può che diminuire l'intimità con Dio. II. Effetti del peccato veniale deliberato. 729. 1° In questa vita, il peccato veniale commesso frequentemente e di proposito deliberato, priva l'anima di molte grazie, diminuisce gradatamente il fervore e predispone al peccato mortale. A ) Il peccato veniale priva l'anima non della grazia santificante né dell'amor di Dio, ma la priva d'una nuova grazia che avrebbe ricevuto se avesse resistito alla tentazione e quindi pure d'un grado di gloria che con la sua fedeltà avrebbe potuto acquistare; la priva d'un grado d'amore che Dio voleva darle. Non è questa una perdita immensa, la perdita d'un tesoro più prezioso del mondo intiero? 730. B) É una diminuzione di fervore, vale a dire di quella generosità con cui l'anima si dà interamente a Dio. Questa disposizione infatti suppone un alto ideale e lo sforzo costante per accostarvisi. Ora l'abitudine dei peccato veniale è incompatibile con queste due cose. a ) Nulla tanto diminuisce il nostro ideale quanto l'affetto al peccato: in cambio d'essere pronti a far tutto per Dio e mirare alla vetta, ci fermiamo deliberatamente lungo il cammino, a mezza costa, per godere di qualche piccolo piacere proibito; perdiamo così un tempo prezioso; cessiamo di guardare in alto per trastullarci a cogliere alcuni fiori che presto appassiranno; cominciamo allora a sentir la fatica, e la vetta della perfezione, anche quella a cui eravamo personalmente chiamati, ci sembra troppo lontana e troppo ripida: diciamo a noi stessi che non è poi necessario mirare si alto, e che uno può salvarsi a più buon mercato; e l'ideale che avevamo intravisto non ha più attrattive per noi. Uno dice a sé stesso: questi moti di compiacenza, queste piccole sensualità, queste amicizie sensibili, queste maldicenze sono poi cose inevitabili; bisogna rassegnarsi. b) Allora lo slancio verso le altezze è troncato; si camminava prima di passo allegro, sorretti dalla speranza di toccare la meta; ora invece si comincia a sentire il peso del giorno e della fatica, e, quando vogliamo riprendere le ascese, l’affetto al peccato veniale c'impedisce d'avanzare. L'uccello attaccato al suolo tenta invano di prendere lo slancio in alto: al suolo ricade spossato; così le anime nostre, rattenute da affetti a cui non vogliamo rinunziare, ricadono presto più o meno spossate dal vano sforzo che hanno tentato. Qualche volta, è vero, ci pare di poter riprendere l'antico slancio; ahimè altri legami ci rattengono, e non abbiamo più la costanza necessaria per troncarli tutti uno dopo l'altro. Vi è dunque un raffreddamento di carità che dà da pensare. 731. C) Il gran pericolo che allora ci minaccia è di scivolare a poco a poco giù fin nel peccato mortale. Crescono infatti le nostre inclinazioni al piacere proibito e d'altra parte le grazie di Dio diminuiscono, tanto che viene il momento in cui possiamo temere tutti i peggiori tracolli. a) Crescono le nostre inclinazioni al piacere cattivo: quanto più si concede a questo perfido nemico tanto più chiede, perché è insaziabile. Oggi la pigrizia ci fa abbreviare la meditazione di cinque minuti, domani ne chiede dieci; oggi la sensualità si contenta di qualche piccola imprudenza, domani si fa più ardita ed esige qualche cosa di più. Dove fermarsi su questo pericoloso pendio? Uno tenta di tranquillarsi pensando che son colpe solo veniali; ma ahimè! a poco a poco s'accostano alle colpe gravi, le imprudenze si rinnovano e turbano più profondamente l'immaginazione e i sensi. È il fuoco che cova sotto la cenere e che può diventare focolare d'incendio; è il serpente che uno si riscalda in seno e che si prepara a mordere e avvelenare la vittima. Il pericolo è tanto più prossimo per questo che, a furia di esporvisi, è meno temuto: vi si prende dimestichezza, si lasciano cadere, l’un dopo l’altro, i baluardi che difendevano la cittadella del cuore, e viene il momento in cui, con un assalto più furioso, il nemico penetra nella piazzaforte. 732. b) Il che è tanto più da temere in quanto che le grazie di Dio generalmente diminuiscono a proporzione delle nostre infedeltà. 1) è infatti legge di Provvidenza che le grazie ci sono date secondo la nostra cooperazione "[secundum cujusque dispositionem et cooperationem] secondo di ognuno disposizione". È questo in sostanza il senso della parola evangelica: A chi ha, si dà di più e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha, qui enim habet dabitur ei et abundabit; qui autem non habet et quod habet auferetur ab eo". Ora, con l'affetto al peccato veniale, noi resistiamo alla grazia e ne ostacoliamo l'azione nell'anima, onde ne riceviamo assai meno. Ora, se con più copiose grazie non abbiamo saputo resistere alle cattive inclinazioni della natura, vi resisteremo con grazie e con forze diminuite? 2) D'altra parte, quando un'anima manca di raccoglimento e di generosità, non riesce a cogliere quegli interni movimenti della grazia che la sollecitano al bene, perché vengono presto soffocati dallo strepito delle rideste passioni. 3) Del resto la grazia non può santificarci se non chiedendoci sacrifici, ma le abitudini del piacere acquistate con l'affetto alle colpe veniali rendono questi sacrifici assai più difficili. 733. Si può dunque conchiudere col P. L. Lallemand: la rovina delle anime viene dal moltiplicarsi dei peccati veniali che cagionano la diminuzione dei lumi e delle ispirazioni divine, delle grazie e delle consolazioni interiori, del fervore e del coraggio per resistere agli assalti del nemico. Ne segue l'acciecamento, la debolezza, le cadute frequenti, l'abitudine, l'insensibilità, perché, guadagnato che sia l'affetto, si pecca quasi senza aver sentimento del peccato". 734. 2° Gli effetti del peccato veniale nell’altra vita, ci mostrano quanto dobbiamo temerlo: infatti molte anime passano i lunghi anni nel Purgatorio per espiarlo. E che cosa soffrono in quel luogo d'espiazione? A ) Vi soffrono il più intollerabile dei mali, la privazione di Dio. Non è certamente una pena eterna ed e appunto questo che la distingue dalle pene dell'inferno. Ma, per un tempo più o meno lungo, proporzionato al numero e alla gravità delle colpe, queste anime che amano Dio, che, separate da tutte le gioie e distrazioni della terra, pensano costantemente a lui e bramano ardentemente di vederne la faccia, vengono private della sua vista e del suo possesso e patiscono ineffabili strazi. Capiscono ora che fuori di Lui non possono essere felici; ma ecco rizzarsi innanzi a loro, come insormontabile ostacolo, quella moltitudine di peccati veniali che non hanno sufficientemente espiati. Del resto sono tanto comprese della necessità della mondezza richiesta a contemplare la faccia di Dio che si vergognerebbero di comparire davanti a lui senza questa mondezza e non consentirebbero mai ad entrare in cielo finché resta in loro qualche traccia del peccato veniale. Sono quindi in uno stato violento, che ben riconoscono d'aver meritato ma che non lascia per questo di torturarle. 735. B) Inoltre, secondo la dottrina di S. Tommaso, un sottile fuoco le penetra, ne molesta l'attività, e fa loro provare fisici patimenti per espiare i colpevoli diletti a cui acconsentirono. Accettano certo di grato cuore questa prova, perché intendono bene che è necessaria per unirsi a Dio. "Vedendo, dice S. Caterina da Genova, il purgatorio ordinato a levare via le sue macchie, l’anima vi si getta dentro e le pare trovare una grande misericordia per potersi levare quell'impedimento". Ma tale accettazione non toglie che queste anime soffrano molto: "L'amore di Dio, il quale ridonda nell'anima, le dà una contentezza sì grande che non si può esprimere, ma questa contentezza alle anime che sono in purgatorio non toglie scintilla di pena, anzi quell'amore, il quale si trova ritardato, è quello che fa la loro pena, e tanto fa pena maggiore quant'è la perfezione dell'amore del quale Dio le ha fatte capaci”. Eppure Dio non è soltanto giusto ma anche misericordioso! Ama queste anime con amore sincero, tenero, paterno; desidera ardentemente di darsi ad esse per tutta l'eternità; è se non lo fa, e perché vi è incompatibilità assoluta tra la infinita sua santità e la minima macchia, il minimo peccato veniale. Non potremo dunque mai troppo abbominarlo, mai troppo schivarlo e mai troppo ripararlo con la penitenza. ART. II. Motivi e mezzi per riparare il peccato I. Motivi di penitenza. Tre motivi principali ci obbligano a far penitenza dei nostri peccati: un dovere di giustizia rispetto a Dio; un dovere risultante dalla nostra incorporazione a Gesù Cristo; un dovere di proprio interesse e, di carità. 1° Un dovere di giustizia rispetto a Dio 736. Il peccato infatti è una vera ingiustizia, perché toglie a Dio una parte di quella gloria esterna a cui ha diritto; richiede quindi per giustizia una riparazione, che consisterà nel restituire a Dio, per quanto possiamo, l'onore e la gloria di cui l'abbiamo colpevolmente privato. Ora quest'offesa, essendo, almeno oggettivamente, infinita, non sarà mai intieramente riparata. Dobbiamo quindi espiare per tutta la vita; obbligo tanto più esteso quanto maggiori furono i benefici di cui siamo stati colmati, e più gravi e più numerose le colpe. È quanto osserva Bossuet: "Non dobbiamo giustamente temere che la bontà di Dio, così indegnamente disprezzata, si cambi in implacabile furore? Che se la giusta sua vendetta è così grande contro i gentili … non sarà la sua collera tanto più terribile per noi quanto più doloroso è per un padre l'aver perfidi figli e servi cattivi? " Dobbiamo quindi, egli dice, prendere le parti di Dio contro di noi: "Prendendo così contro di noi le parti della divina giustizia, obblighiamo la sua misericordia a prendere le parti nostre contro la sua giustizia. Quanto più deploreremo la miseria in cui siamo caduti, tanto più ci avvicineremo al bene che abbiamo perduto: Dio riceverà pietosamente il sacrificio del cuore contrito che noi gli offriremo in soddisfazione dei nostri delitti; e senza considerare che le pene che c'imponiamo non sono proporzionata vendetta, questo buon padre terrà conto soltanto che è volontaria”. Renderemo del resto più efficace la nostra penitenza unendola a quella di Gesù Cristo. 2° Un dovere risultante dalla nostra incorporazione a Cristo Nascondi 737. Fummo col battesimo incorporati a Cristo ( n. 143 ), onde dobbiamo, partecipandone la vita, parteciparne pure le disposizioni. Ora Gesù, benché impeccabile, prese sopra di sé, come capo d'un corpo mistico, il peso e, per così dire, la responsabilità dei nostri peccati, "[posuit Dominus in eo iniquitatem omnium nostrum] il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti" ( Is 53,6 ). Ecco perché condusse vita penitente dal primo istante della sua concezione sino al Calvario. "Ben sapendo che il Padre non poteva essere placato dagli olocausti dell'Antica Legge, offre sé stesso come ostia per sostituire tutte le vittime; tutte le sue azioni saranno immolate con la spada dell'ubbidienza, e dopo una lunga vita, che altro non è se non continuo martirio, muore sulla croce, vittima dell'ubbidienza e dell’amore "[factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis] e divenne obbediente fino alla morte e alla morte di croce". Ma vuole che i suoi membri, per essere mondati dai loro peccati, s'uniscano al suo sacrificio e siano vittime espiatrici insieme con lui: "Per essere il Salvatore del genere umano, ne volle essere la vittima. Ma l'unità del suo corpo mistico richiede che, essendosi immolato il capo, tutte le membra debbano pur essere ostie viventi". È infatti evidente che se Gesù, benché innocente, espiò i nostri peccati con così rigorosa penitenza, noi, che siamo colpevoli, dobbiamo associarci al suo sacrificio con tanto maggior generosità quanto maggiori furono i nostri peccati. 738. Ad agevolarci questo dovere, Gesù penitente viene a vivere in noi per mezzo del divino suo Spirito con le sue disposizioni di vittima. “Così dice l’Olier, leggendo i Salmi bisogna onorare in David lo spirito di penitenza e ammirare con grande religione e posatezza le disposizioni dello Spirito interiore di Gesù Cristo, fonte di penitenza, diffuso in questo Santo. Bisogna chiedere di parteciparvi con umiltà di cuore, con insistenza, fervore e perseveranza, ma soprattutto con umile fiducia che questo Spirito ci sarà comunicato. Certo non sentiremo sempre l’azione di questo Spirito divino, perché opera spesso insensibilmente; ma se umilmente lo chiediamo, lo riceviamo, e opera in noi per renderci conformi a Gesù penitente, farci detestare ed espiare con lui i nostri peccati. La nostra penitenza è allora assai più efficace, perché partecipa della virtù stessa del Salvatore: non siamo più noi soli a riparare, è Gesù che espia in noi e con noi. "Ogni penitenza esterna che non esce dallo Spirito di Gesù Cristo, dice l'Olier, non è vera e reale penitenza. Si possono esercitare su di sé rigori anche molto violenti; ma se non emanano da Nostro Signore penitente in noi, non possono essere penitenze cristiane. Solo per mezzo di lui si fa penitenza; egli la cominciò quaggiù sulla terra nella sua persona è la continua in noi … animando l’anima nostra delle interne disposizioni d'annientamento, di confusione, di dolore, di contrizione, di zelo contro noi stessi e di fortezza per compiere su di noi la pena e la misura della soddisfazione che Dio Padre vuole ricevere da Gesù Cristo nella nostra carne”. Questa unione con Gesù penitente non ci dispensa dunque dai sentimenti e dalle opere di penitenza ma vi dà un maggior valore. 3° Un dovere di carità La penitenza è un dovere di carità verso di noi e verso il prossimo. 739. A) Verso di noi: il peccato infatti lascia nell'anima funeste conseguenze, contro cui e necessario reagire. a) Anche quando la colpa o il fallo è perdonato, ci resta generalmente da subire una pena più o meno lunga secondo la gravità e il numero dei peccati e secondo il fervore della contrizione nel momento del nostro ritorno a Dio. Questa pena dev'essere subita in questo mondo o nell'altro. Nascondi Ora è assai più utile espiarla in questa vita, perché, quanto più prontamente e perfettamente paghiamo questo debito, tanto più l'anima diviene atta all'unione divina; d'altra parte più facile è questa espiazione sulla terra, perché la vita presente e tempo di misericordia; è anche più feconda, perché gli atti sodisfattorii sono nello stesso tempo meritorii ( n. 209 ). Ama quindi l'anima propria chi fa pronta e generosa penitenza. b ) Ma il peccato lascia pure in noi una deplorevole facilità a commettere nuove colpe, appunto perché accresce in noi l'amore disordinato del piacere. Ora nulla corregge meglio questo disordine quanto la virtù della penitenza; facendoci valorosamente tollerare le pene che la Provvidenza ci manda, stimolando il nostro ardore per le privazioni e le austerità compatibili con la salute, essa smorza gradatamente l'amore del piacere e ci fa paventare il peccato che esige tali riparazioni; facendoci praticare atti di virtù contrari alle cattive nostre abitudini, ci aiuta a correggercene e ci dà maggior sicurezza per l'avvenire. É dunque atto di carità verso sé stesso il far penitenza. 740. B) è pure atto di carità verso il prossimo. Nascondi a) In virtù della nostra incorporazione a Cristo, siamo tutti fratelli, tutti solidari gli uni degli altri ( n. 148 ). Potendo dunque le nostre opere soddisfattorie essere utili agli altri, perché la carità non ci indurrà a far penitenza non solo per noi ma anche per i fratelli? Non è questo il mezzo migliore d'ottenerne la conversione, o, se sono già convertiti, la perseveranza? Non è questo il miglior servizio che possiamo loro prestare, servizio mille volte più utile di tutti i beni temporali che potremmo loro dare? Non è un corrispondere alla divina volontà che, avendoci adottati tutti per figli, ci chiede di amare il prossimo come noi stessi e di espiarne le colpe come espiamo le nostre? Nascondi 741. b) Questo dovere di riparazione spetta più specialmente ai sacerdoti: è dovere del loro stato l’offrire vittime non solo per se stessi ma anche per le anime di cui sono incaricati: "[prius pro suis delictis, deinde pro populi] prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo". ( Eb 7,27 ). Ma ci sono, fuori del sacerdozio, anime generose che, così nel chiostro come nel mondo, si sentono attirate a offrirsi vittime per espiare i peccati altrui. Vocazione nobilissima che le associa all'opera redentrice di Cristo, e a cui è bene animosamente corrispondere procurando di consultare un savio direttore per fissare con lui le opere di riparazione a cui dedicarsi. 742. Diremo terminando che lo spirito di penitenza non è dovere imposto soltanto agl'incipienti e per brevissimo tempo. Quando si è ben capito che cos'è il peccato e quale offesa infinita infligge alla maestà divina, uno si crede obbligato a far penitenza per tutta la vita, perchè la vita stessa è troppo breve per riparare un'offesa infinita. Non bisogna quindi stancarsi mai di fare penitenza. Questo punto è così importante che il P. Faber, dopo aver lungamente riflettuto sulla causa per cui tante anime fanno così poco progresso, venne alla conclusione che questa causa sta "nella mancanza di costante dolore eccitato dal ricordo del peccato".742-1 Se ne ha del resto la conferma negli esempi dei Santi, che non cessarono mai di espiare le colpe, talora assai leggere, commesse in passato. Anche la condotta di Dio verso le anime che vuole innalzare alla contemplazione lo dimostra assai bene. Faticato che hanno per lungo tempo a purificarsi con gli esercizi attivi della penitenza, Dio, a dar l'ultima mano alla loro purificazione, invia quelle prove passive che descriviamo nella via unitiva. Infatti solo i cuori intieramente puri o purificati possono giungere alle dolcezze dell'unione divina: "[Beati mundo corde quoniam ipsi Deum videbunt] Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio"! II. La pratica della penitenza. A praticare la penitenza in modo più perfetto, conviene unirsi a Gesù penitente chiedendogli di vivere in noi col suo spirito di vittima ( n. 738 ); e poi associarsi ai suoi sentimenti e alle sue opere di penitenza. 743. Questi sentimenti sono assai bene espressi nei salmi specialmente nel Miserere. Nascondi a) Prima di tutto la memoria abituale e dolorosa dei propri peccati: "[peccatum meum contra me est semper] il mio peccato è sempre davanti a me" ( Sal 51,5 ). Non conviene certo riandarli distintamente nella mente potendosi con ciò turbare l'immaginazione e cagionare nuove tentazioni. Bisogna ricordarsene in generale e soprattutto nutrirne sentimenti di contrizione e d'umiliazione. Abbiamo offeso Dio alla sua presenza "[et malum coram te feci] e fatto ciò che è male" ( Sal 51,6 ) quel Dio che è la santità stessa e che odia l'iniquità, quel Dio che è tutto amore e che noi abbiamo oltraggiato profanandone i doni. Nascondi Non ci resta che ricorrere alla sua misericordia e implorarne il perdono, e bisogna farlo spesso: "[Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam] Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua grande misericordia" ( Sal 51,3 ). Abbiamo, è vero, speranza d'essere stati perdonati; ma, bramosi di sempre più perfetta mondezza, chiediamo umilmente a Dio di purificarci ognor più nel sangue di suo Figlio: "[amplius lava me ab iniquitate mea et a peccato meo munda me] Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato" ( Sal 51,4 ). Nascondi Per unirci più intimamente a lui, vogliamo che i nostri peccati siano distrutti, che non ne resti più traccia: "[omnes iniquitates meas dele] cancella tutte le mie"; desideriamo che la mente e il cuore siamo rinnovati: "[cor mundum crea in me, Deus, et spiritum rectum innova in visceribus meis] Crea in me un cuore puro, o Dio, e rinnova uno spirito giusto nelle mie viscere", che ci sia resa la gioia della buona coscienza: "[Redde mihi lætitiam salutaris tui] Rendimi la gioia della tua salvezza" ( Sal 51,10-14 ). 744. b) Questa dolorosa memoria è accompagnata da un senso di perpetua confusione: "[operuit confusio faciem meam] coperto la mia faccia" ( Sal 69,8 ). Confusione che portiamo davanti a Dio, come Gesù Cristo portò davanti al Padre l'ontà delle nostre offese, massimamente nell'orto dell'agonia e sul Calvario. La portiamo davanti agli uomini, vergognosi di vederci carichi di delitti nell'assemblea dei Santi. Nascondi La portiamo davanti a noi stessi, non potendoci soffrire nè sopportare nella nostra vergogna, ripetendo sinceramente col prodigo: "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di voi" ( Lc 15,18 ) e col pubblicano: "O Dio, abbi pietà di me, peccatore" ( Lc 18,13 ). 745. c) Ne nasce un salutare timore del peccato, un orrore profondo per tutte le occasioni che vi ci possono condurre. Perchè, nonostante la buona volontà, restiamo esposti alla tentazione e alle ricadute. Rimaniamo quindi sommamente diffidenti di noi stessi e dal fondo del cuore ripetiamo la preghiera di S. Filippo Neri: O Signore, non vi fidate di Filippo, chè altrimenti vi tradirà; aggiundendovi: "non ci lasciate cadere nella tentazione: et ne nos inducas in tentationem". Questa diffidenza ci fa prevedere le occasioni pericolose in cui potremmo soccombere, i mezzi positivi per assicurare la nostra perseveranza e ci rende vigilanti a schivare le minime imprudenze. Evita però con ogni premura lo scoraggiamento: quanto maggior coscienza abbiamo della nostra impotenza, tanto maggiore fiducia dobbiamo riporre in Dio, sicuri che per l'efficacia della sua grazia riusciremo vittoriosi, soprattutto se a questi sentimenti uniamo le opere di penitenza. III. Le opere di penitenza. 746. Queste opere, per quanto penose possano essere, ci parranno facili, se abbiamo continuamente davanti agli occhi questo pensiero: io sono uno scampato dall'inferno, uno scampato dal purgatorio, e, senza la divina misericordia, sarei già là a subirvi il castigo che ho pur troppo meritato; nulla quindi di troppo umiliante, nulla di troppo penoso per me. Le principali opere di penitenza che dobbiano fare, sono: 747. 1° L'accettazione, prima rassegnata poi cordiale e gioconda, di tutte le croci che la Provvidenza vorrà mandarci. Il Concilio di Trento ci insegna che è gran segno di amore per noi il degnarsi Dio di gradire come soddisfazione dei nostri peccati la pazienza con cui accettiamo tutti i mali temporali, che egli ci infligge. Se abbiamo dunque da soffrire prove fisiche o morali, per esempio le intemperie delle stagioni, le strette della malattia, i rovesci di fortuna, la mala riuscita, le umiliazioni; in cambio di amaramente lamentarcene, come la natura vorrebbe, accettiamo tutti questi patimenti con dolce rassegnazione, persuasi che pei nostri peccati li meritiamo e che la pazienza in mezzo alle prove è uno dei migliori mezzi d'espiazione. Non sarà da principio che semplice rassegnazione, ma poi, accorgendoci che i nostri dolori ne restano addolciti e fecondi, riusciremo a poco a poco a sopportarli valorosamente e anche giocondamente, lieti di poterci così abbreviare il purgatorio, di rassomigliare meglio al divin crocifisso, di glorificar Dio che abbiamo oltraggiato. Nascondi La pazienza produrrà allora tutti i suoi frutti e ci purificherà intieramente l'anima appunto perchè opera di amore: "[remittuntur ei peccata multa, quoniam dilexit multum] Molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato" ( Mt 9,2 ). 748. 2° A questa pazienza aggiungeremo il fedele adempimento dei doveri del nostro stato in spirito di penitenza e di riparazione. Il sacrificio più gradito a Dio è quello dell'ubbidienza "[melior est obedientia quam victimæ] L'obbedienza è meglio del sacrificio". Ora i doveri del nostro stato sono per noi la chiara espressione della volontà di Dio. L'adempierli il più perfettamente possibile è dunque un offrire a Dio il sacrificio più perfetto, l'olocausto perpetuo, perchè questi doveri ci stringono dalla mattina alla sera. Il che è certamente vero per le persone che vivono in comunità: obbedendo fedelmente alla regola, generale o particolare, adempiendo generosamente quanto viene prescritto o consigliato dai superiori, moltiplicando gli atti di obbedienza, di sacrificio e d'amore, e possono ripetere con San Giovanni Berchmans che la vita comune è per essi la migliore di tutte le penitenze: [mea maxima pænitentia vita communis] Il mio più grande rammarico è la vita di tutti i giorni. Ma è anche vero per le persone del mondo che vivono cristianamente; quante occasioni si presentano ai padri e alle madri di famiglia che osservano tutti i doveri di sposi e di educatori, di offrire a Dio numerosi ed austeri sacrifici che servono grandemente a purificare le loro anime! Tutto sta nell'adempiere questi doveri cristianamente, valorosamente, per Dio, in ispirito di riparazione e di penitenza. 749. 3° Vi sono pure altre opere specialmente raccomandate dalla Sacra Scrittura, come il digiuno e l'elemosina. Nascondi A) Il digiuno era nell'antica Legge uno dei grandi mezzi di espiazione; veniva indicato con l'espressione "affliggere la propria anima"; ( Lv 16,29; Lv 23,27 ) ma per ottenerne l'effetto doveva essere accompagnato da sentimenti di compunzione e di misericordia ( Is 58,3-7 ). Nella nuova Legge il digiuno è pratica di duolo e di penitenza; quindi gli Apostoli non digiunano finchè è con loro lo Sposo, digiuneranno, quando non vi sarà più ( Mt 9,14-15 ). Nostro Signore, per espiare i nostri peccati, digiuna quaranta giorni e quaranta notti, ed insegna agli apostoli che certi demoni non possono essere cacciati che col digiuno e colla preghiera ( Mt 17,20 ). Fedele a questi insegnamenti, la Chiesa istituì il digiuno della Quaresima, delle Vigilie e delle Quattro Tempora per dare ai fedeli occasione di espiare i peccati. Molti peccati infatti provengono, direttamente o indirettamente, dalla sensualità, dagli eccessi del bere e del mangiare, onde nulla è più efficace a ripararli della privazione del nutrimento che va alla radice del male mortificando l'amore dei sensuali diletti. Ecco perchè i Santi lo praticarono con tanta frequenza anche fuori dei tempi stabiliti dalla Chiesa; i cristiani generosi li imitano o almeno s'accostano al digiuno propriamente detto, privandosi di qualche cosa in ogni pasto, per domare così la sensualità. Nascondi 750. B) L'elemosina poi è opera di carità e privazione: a questo doppio titolo ha grande efficacia per espiare i peccati: "[peccata eleemosynis redime] espiare i peccati" ( Dn 4,24 ). Quando uno si priva d'un bene per darlo a Gesù nella persona del povero, Dio non si lascia vincere in generosità, e ci rimette volentieri parte della pena dovuta ai nostri peccati. Quanto più dunque si è generosi, ognuno secondo le proprie facoltà, e quanto pure è più perfetta l'intenzione con cui si fa l'elemosina, tanto più intera è la remissione che ci si concede dei nostri debiti spirituali. Ciò che diciamo dell'elemosina corporale s'applica a più forte ragione all'elemosina spirituale, che mira a fare del bene alle anime e quindi a glorificare Dio. Nascondi È quindi una delle opere di penitenza che il Salmista promette di fare quando dice al Signore che, per riparare il suo peccato, insegnerà ai peccatori le vie del pentimento: "[Docebo iniquos vias tuas et impii ad te convertentur] Io insegnerò le tue vie ingiuste: ei peccatori si convertiranno a te" ( Sal 51,15 ). 4° Restano finalmente le privazioni e le mortificazioni volontarie che imponiamo a noi stessi in espiazione dei nostri peccati, quelle specialmente che vanno alla sorgente del male, castigando e disciplinando le facoltà che contribuirono a farceli commettere. Le esporremo trattando della mortificazione. Capitolo III. La Mortificazione. 751. La mortificazione contribuisce, come la penitenza, a purificarci delle colpe passate; ma il principale suo scopo e di premunirci contro quelle del presente e dell'avvenire, diminuendo l'amor del piacere, fonte dei nostri peccati. Ne spiegheremo dunque la natura, la necessità e la pratica. Natura - I diversi nomi. - La definizione. Necessità - Per la salute. - Per la perfezione. Pratica - Principi generali. - Mortificazione dei sensi esterni. - Mortificazione dei sensi interni. - Mortificazione delle passioni. - Mortificazione delle facoltà superiori. ART. I. Natura della mortificazione Spiegati che avremo i termini biblici e i moderni con cui si denomina la mortificazione, ne daremo la definizione. 752. 1. Espressioni bibliche per indicare la mortificazione. Sette principali espressioni troviamo nei Libri Sacri per indicare la mortificazione sotto vari suoi aspetti. 1° Il vocabolo rinunzia, "[qui non renuntiat omnibus quae possidet non potest meus esse discipulus] chi non abbandona tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo", ci presenta la mortificazione come atto di distacco dai beni esterni per seguir Cristo, come fecero gli Apostoli: "[relictis omnibus, secuti sunt eum] lasciarono tutto e lo seguirono". 2° E pure abnegazione o rinunzia a sé stesso "[si quis vult post me venire, abneget semetipsum] Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso" …; infatti il più terribile dei nostri nemici è il disordinato amore di noi stessi; ecco perché è necessario distaccarsi da sé stessi. 3° Ma la mortificazione ha pure un lato positivo: è un atto che ferisce e distrugge le male tendenze della natura: “[Mortificate ergo membra vestra] Quindi mettere il" … "[Si autem spiritu facta carnis mortifica veritis, vivetis] Se, nello spirito di opere della carne, mortificanti per temere che, voi vivrete" … 4° Anzi è una crocifissione della carne e delle sue cupidigie, onde inchiodiamo, a così dire, le nostre facoltà alla legge evangelica, applicandole alla preghiera e al lavoro: "[Qui… sunt Christi, carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis] E loro … appartenere a Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con gli affetti e le passioni". 5° Questa crocifissione, quando è costante, produce una specie di morte e di seppellimento, che ci fa come intieramente morire a noi stessi e seppellirci con Gesù Cristo a fine di vivere con lui di vita novella: "[Mortui enim estis vos et vita vestra est abscondita cum Christo in Deo] Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio" … [Consepulti enim sumus cum illo per baptismum in mortem] Siamo dunque stati sepolti con lui mediante il battesimo nella morte … 6° A indicare questa morte spirituale S. Paolo adopera pure un'altra espressione; poiché, dopo il battesimo, vi sono in noi due uomini, l'uomo vecchio che rimane, o la triplice concupiscenza, e l'uomo nuovo o l'uomo rigenerato, egli dichiara che dobbiamo spogliarci dell'uomo vecchio per rivestirci del nuovo: "[expoliantes vos veterem hominem… et induentes novum] Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio e mettere su il nuovo …". 7° Non potendo questo farsi senza combattere, Paolo afferma che la vita e una lotta "[bonum certamen certavi] la buona battaglia"; e che i cristiani sono lottatori o atleti, che castigano il corpo e lo riducono in schiavitù. Da tutte queste espressioni e da altre simili risulta che la mortificazione inchiude un doppio elemento: uno negativo il distacco, la rinunzia, lo spogliamento; e l'altro positivo, la lotta contro le cattive tendenze, lo sforzo per mortificarle o svigorirle, la crocifissione e la morte: crocifissione della carne, dell'uomo vecchio e delle sue cupidigie, per vivere della vita di Cristo. 753. II. Espressioni moderne. Oggi si preferiscono espressioni addolcite, che indicano lo scopo da conseguire anziché lo sforzo da sostenere. Si dice che bisogna riformare sé stesso, governare sé stesso, educare la volontà, orientare l'anima verso Dio. Sono espressioni giuste, purché si sappia far rilevare che non si può riformare e governare sé stessi se non combattendo e mortificando le male tendenze che sono in noi; che non si educa la volontà se non domando e disciplinando le facoltà inferiori, e che non si può orientarsi verso Dio se non distaccandosi dalle creature e spogliandosi dei vizi. Bisogna insomma saper riunire, come fa la S. Scrittura, i due aspetti della mortificazione, mostrare lo scopo per consolare ma non dissimulare lo sforzo necessario per conseguirlo. 754. III. Definizione. Si può dunque definire la mortificazione: la lotta contro le inclinazioni cattive per sottometterle alla volontà e questa a Dio. Più che un'unica virtù è un complesso di virtù, è il primo grado di tutte le virtù che consiste nel superare gli ostacoli a fine di ristabilire l'equilibrio delle facoltà e il loro ordine gerarchico. Onde si vede meglio che la mortificazione non è uno scopo ma un mezzo: uno non si mortifica che per vivere una vita superiore; non si spoglia dei beni esterni che per meglio possedere i beni spirituali; non rinunzia a sé stesso che per posseder Dio; non lotta che per conquistare la pace; non muore a sé stesso che per vivere della vita di Cristo e della vita di Dio: l'unione con Dio è dunque lo scopo della mortificazione. Onde meglio se ne capisce la necessità. ART. II. Necessità della mortificazione Questa necessità può essere studiata sotto doppio rispetto, rispetto all'eterna salute e rispetto alla perfezione. I. Necessità della mortificazione per l’eterna salute. Vi sono mortificazioni necessarie all'eterna salute, nel senso che, se non si fanno, si è esposti a cadere in peccato mortale. 755. 1° Nostro Signore ne parla in modo assai chiaro a proposito dei peccati contro la castità: "Chiunque guarda una donna con concupiscenza, [ad concupiscendam eam] per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore". Vi sono dunque sguardi gravemente colpevoli, quelli che procedono da cattivi desideri; e la mortificazione di questi sguardi è necessaria sotto pena di peccato mortale. Ma lo dice poi chiaro Nostro Signore con quelle energiche parole: "Se il tuo occhio destro ti è occasione di caduta, cavatelo e gettalo via, perché è meglio per te che un solo dei tuoi membri perisca, anziché l'intero tuo corpo venga gettato nell’inferno". Non si tratta qui di strapparsi materialmente gli occhi ma di allontanare lo sguardo dalla vista di quegli oggetti che ci sono motivo di scandalo. S. Paolo dà la ragione di queste gravi prescrizioni: "Se vivrete secondo la carne, morrete; se poi, per mezzo dello spirito, darete morte alle azioni della carne, vivrete: [si enim secundum carnem vixeritis, moriemini; si autem spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis] Perché se vivete secondo la carne, voi morrete; se per lo Spirito si morire le opere della carne, vivrete". Nascondi Come infatti già dicemmo al numero 193-227, la triplice concupiscenza che alberga in noi, aizzata dal mondo e dal demonio, ci porta sovente al male e mette in pericolo la nostra eterna salute se non badiamo a mortificarla. Onde nasce l'assoluta necessità di incessantemente combattere le cattive tendenze che sono in noi; di fuggire le occasioni prossime di peccato, cioè quegli oggetti o quelle persone che, attesa la passata nostra esperienza, costituiscono per noi serio e probabile pericolo di peccato; e quindi pure di rinunziare a molti piaceri a cui ci trae la nostra natura. Vi sono dunque mortificazioni necessarie, senza le quali si cadrebbe in peccato mortale. 756. 2° Ve ne sono altre che la Chiesa prescrive per determinare l'obbligo generale di mortificarsi così spesso ricordato dal Vangelo: tale è l'astinenza dal grasso nel venerdì, il digiuno della Quaresima, delle Quattro Tempora e delle vigilie. Sono leggi che obbligano sotto pena di colpa grave coloro che non ne sono legittimamente dispensati. Qui però vogliamo fare un'osservazione che ha la sua importanza: vi sono persone che, per buone ragioni, sono dispensate da queste leggi; ma non sono per questo dispensate dalla legge generale della mortificazione e devono quindi praticarla sotto altra forma; altrimenti non tarderanno a risentire le ribellioni della carne. 757. 3° Oltre queste mortificazioni prescritte dalla legge divina e dalla legge ecclesiastica, ce ne sono altre che ognuno deve imporsi, col consiglio del direttore, in certe circostanze particolari, quando premono maggiormente le tentazioni; si possono scegliere tra quelle che verremo indicando. ( n. 769 ss.). II. Necessità della mortificazione per la perfezione Nascondi 758. Questa necessità deriva da ciò che abbiamo detto sulla natura della perfezione, la quale consiste nell'amore di Dio spinto fino al sacrificio e all'immolazione di sé, n. 321-327, tanto che, secondo l'imitazione, la misura del progresso spirituale dipende dalla misura della violenza che uno si fa: [tantum proficies, quantum tibi ipsi vim intuleris] servirà solo a realizzare, quanto si forza contro se stessi. Basterà quindi richiamare brevemente alcuni motivi che possano muovere la volontà ed aiutarla a praticare questo dovere; si desumono da parte di Dio, di Gesù Cristo, della nostra santificazione. 1° Da parte di Dio 759. A) Il fine della mortificazione, come fu detto, è di unirci a Dio; cosa che non possiamo fare senza distaccarci dall'amore disordinato delle creature. Come giustamente dice S. Giovarmi della Croce, "l'anima attaccata alla creatura le diviene simile; quanto più cresce l'affetto tanto più l'identità si manifesta, perché l'amore rende pari l'amante e l'amato. Chi dunque ama una creatura, s'abbassa al suo livello, anzi al di sotto, perché l'amore non si contenta della parità ma rende anche schiavi. È questa la ragione per cui un'anima, schiava d'un oggetto fuori di Dio, diviene incapace di unione pura e di trasformazione in Dio, perché la bassezza della creatura è più distante dalla grandezza del Creatore che non le tenebre dalla luce". Ora l'anima che non si mortifica, s'attacca presto in modo disordinato alle creature, perché, dopo il peccato originale, si sente attirata verso di loro, cattivata dal loro fascino, e, in cambio di servirsene come di scalini per salire al Creatore, vi si diletta e le considera come fine. A rompere quest'incanto, a schivare questa stretta, è assolutamente necessario distaccarsi da tutto ciò che non è Dio, o almeno da tutto ciò che non è considerato come mezzo per andare a Lui. Ecco perché l'Olier, paragonando la condizione dei cristiani a quella di Adamo innocente, dice che vi è grande differenza tra le due: Adamo cercava Dio, lo serviva e l’adorava nelle creature; i cristiani invece sono obbligati a cercare Dio con la fede, a servirlo e adorarlo ritirato in sé stesso e nella sua santità, separato da ogni creatura. In questo consiste la grazia del battesimo. 760. B) Nel giorno del battesimo si stipulò tra Dio e noi un vero contratto. a) Dio, da parte sua, ci mondò dalla macchia originale e ci adottò per figli, ci comunicò una partecipazione della sua vita, obbligandosi a darci tutte le grazie necessarie per conservarla e accrescerla; sappiamo con quanta liberalità mantenne le sue promesse. b) Da parte nostra, ci obbligammo a vivere da veri figli di Dio, ad avvicinarci alla perfezione del Padre celeste coltivando questa vita soprannaturale. Ora questo non possiamo fare se non in quanto pratichiamo la mortificazione. Perché, da un lato lo Spirito Santo, datoci nel Battesimo, "ci porta all'umiltà, alla povertà, ai patimenti; e dall'altro la carne brama gli onori, i piaceri, le ricchezze". Vi è quindi in noi conflitto e lotta incessante; e non possiamo essere fedeli a Dio che rinunziando all'amore disordinato degli onori, dei piaceri e delle ricchezze. Ecco perché il sacerdote, battezzandoci, ci segna addosso due croci, una sul cuore, per imprimerci l'amor della Croce, e l'altra sulle spalle, per darci la forza di portarla. Mancheremmo quindi alle promesse del battesimo se non portassimo la croce, combattendo il desiderio dell’onore con l'umiltà, l'amore del piacere con la mortificazione, e la sete delle ricchezze con la povertà. 2° Da parte di Gesù Cristo 761. A) Col battesimo veniamo incorporati a Gesù, onde dobbiamo da lui ricevere il movimento e le ispirazioni e quindi conformarci a lui. Ora l'intera sua vita, come dice l'Imitazione, non fu che un lungo martirio: [Tota vita Christi crux fuit et martyrium] Tutta la vita di Cristo fu croce e martirio". Non può dunque la nostra essere vita di piaceri e d'onori, ma dev'essere vita mortificata. Ce lo dice del resto chiaramente il divino nostro Capo: "[Si quis vultpost me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam quotidie et sequatur me] Se uno mi vultpost a venire, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua". Se vi è chi debba seguir Gesù è certo colui che tende alla perfezione. Ora come seguire Gesù, che fin dal suo ingresso nel mondo abbracciò la croce, che tutta la vita sospirò patimenti, umiliazioni, che sposò la povertà nel Presepio l'ebbe compagna fin sul Calvario, se si amano i piaceri, gli Onori, le ricchezze, se non si porta quotidianamente la croce, quella che Dio stesso ci scelse e c'inviò? È una vergogna, dice S. Bernardo, che sotto un capo coronato di spine siamo membri delicati, atterriti ai più piccoli patimenti: "[pudeat sub spinato capite membrum fieri delicatum]vergogna di essere un membro di un delizioso aiutare testa Spirito". Per conformarci a Gesù Cristo e avvicinarne la perfezione, è dunque necessario che portiamo la croce come lui. 762. B) Se aspiriamo all’apostolato, troviamo in ciò un nuovo motivo per crocifiggere la carne. Colla croce Gesù salvò il mondo; colla croce quindi lavoreremo con lui alla salute dei fratelli, e il nostro zelo sarà tanto più fecondo quanto più parteciperemo ai patimenti del Salvatore. Ecco il motivo che animava S. Paolo, quando dava nella sua carne compimento alla passione del Maestro, a fine di ottener grazie per la Chiesa; ecco ciò che resse nel passato e regge ancora al presente tante anime che consentono ad essere vittime perché Dio sia glorificato e le anime salvate. Il patire è duro, ma quando si contempla Gesù che ci va innanzi portando la croce per la salute nostra e per quella dei nostri fratelli, quando se ne contempla l'agonia, l’ingiusta condanna, la flagellazione, l'incoronazione di spine, la crocifissione, quando s'odono gli schemi, gli insulti, le calunnie che accetta tacendo, come osar lamentarsi? Non siamo ancora giunti allo spargimento del sangue: "[nondum usque ad sanguinem restitistis] Non ancora resistito fino al sangue". E se stimiamo secondo il giusto loro valore l'anima nostra e quella dei nostri fratelli, non mette forse conto di tollerare qualche passeggero patimento per una gloria che non finirà mai e per cooperare con Nostro Signore alla salute di quelle anime per cui versò il sangue fino all'ultima goccia? Questi motivi, per alti che siano, sono ben compresi da certe anime generose, anche fin dal principio della loro conversione; e il proporli serve a farle progredire nell’opera di purificazione e di santificazione. 3° Da parte della nostra santificazione 763. A) Abbiamo bisogno d'assicurarci la perseveranza; e la mortificazione è uno dei mezzi migliori per preservarsi dal peccato. Ciò che ci fa soccombere alla tentazione è l'amore del piacere o, l'orrore del patire e della lotta, [horror difficultatis, labor certaminis] orrore di difficoltà, la fatica della battaglia. Ora la mortificazione combatte questa doppia tendenza, che in fondo è una sola; col privarci di alcuni leciti piaceri ci arma la volontà contro i piaceri illeciti e ci rende più facile la vittoria sulla sensualità e sull'amor proprio, "[agendo contra sensualitatem et amorem proprium] agendo in contrasto con la corretta amore e la sensualità", come giustamente dice S. Ignazio. Se invece cediamo sempre davanti al piacere, prendendoci tutti i leciti diletti, come sapremo poi resistere nel momento in cui la sensualità, avida di nuovi godimenti, pericolosi o anche illeciti, si sente come trascinata dall’abitudine di cedere sempre alle sue esigenze? Il pendio è così sdrucciolevole che, soprattutto in materia di sensualità, è facile traboccare nell’abisso, trattivi da una specie di vertigine. E anche quando si tratta della superbia, il pendio è più ripido di quel che si creda: si mentisce in materia leggera per scusarsi, per schivare un'umiliazione; e poi, al sacro tribunale della penitenza, si corre rischio di mancare di sincerità per la vergogna di un'accusa umiliante. La nostra sicurezza richiede dunque la lotta contro l'amore proprio come contro la sensualità e la cupidigia. 764. B) Ma non, basta schivare il peccato; bisogna, anche progredire nella perfezione. Ora, qual’è anche qui il grande ostacolo se non l'amore del piacere e l'orrore della croce? Quanti desidererebbero essere migliori e tendere alla santità se non paventassero lo sforzo necessario a progredire e le prove che Dio manda ai migliori suoi amici! Bisogna dunque richiamare loro ciò che S. Paolo ripeteva spesso ai primi cristiani, cioè che la vita è una lotta, che dobbiamo arrossire d'esser meno coraggiosi di coloro che lottano per una ricompensa terrena, i quali, per prepararsi alla vittoria, si privano di molti piaceri permessi e assumono rudi e laboriosi esercizi, tutto per una corona peritura, mentre la corona promessa a noi è corona immortale, "[et illi quidem ut corruptibilem coronam accipiant nos autem incorruptam] essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile uno". Nascondi Abbiamo paura del patire; ma non pensiamo alle pene terribili del purgatorio ( n. 734 ) che dovremo subire per lunghi anni se vogliamo vivere nell’immortificazione e prenderci tutti i piaceri che ci allettano? Quanto più prudenti sono i mondani! Molti si sobbarcano a rudi fatiche e talora a forti umiliazioni per guadagnare un poco di danaro e assicurarsi poi un onorevole riposo; e noi ricuseremmo di sottoporci a qualche mortificazione per assicurarci l'eterno riposo nella città del cielo? È ragionevole questo? Bisogna dunque persuaderci che non si dà perfezione, non si dà virtù senza la mortificazione. Come essere casti senza mortificare quella sensualità che ci inclina così fortemente ai pericolosi e cattivi diletti? Come essere temperanti se non reprimendo la golosità? Come praticare la povertà e anche la giustizia se non, si combatte la cupidigia? Come essere umili, dolci e caritatevoli, senza padroneggiare quelle passioni di superbia, di ira, di invidia, di gelosia che sonnecchiano in fondo al cuore umano? Nello stato di natura decaduta non c'è virtù che possa praticarsi a lungo senza sforzo, senza, lotta, e quindi senza mortificazione. Si può dunque dire col Tronson che, "come l'immortificazione è l'origine dei vizi e la causa di tutti i nostri mali, così la mortificazione è il fondamento delle virtù e la fonte di tutti i nostri beni. 765. C) Si può anche aggiungere che la mortificazione, non ostante le privazioni e i patimenti che impone, è, anche sulla terra, fonte dei più grandi beni, e che i cristiani mortificati sono poi in complesso più felici dei mondani, che si abbandonano a tutti i piaceri. Lo insegna Nostro Signore stesso quando dice che chi lascia tutto per seguirlo avrà in ricambio il centuplo anche in questa vita: "[Qui reliquerit domum vel fratres… centuplum accipiet, et vitam aeternam possidebit] Chiunque avrà lasciato case, o fratelli … riceverà il centuplo ed erediterà la vita eterna". Nè altro linguaggio, tiene S. Paolo quando, dopo aver parlato della modestia, vale a dire della moderazione in tutte le cose, aggiunge che chi la pratica gode di quella pace vera che supera ogni consolazione: “[pax Dei quae exsuperat omnem sensum custodiat corda vestra et intelligentias vestras] la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori ei vostri pensieri". E non ne è egli stesso un vivo esempio? Paolo ebbe certamente da patire molto; e a lungo descrive le prove terribili che dovette soffrire nella predicazione del Vangelo e nella lotta contro sé stesso; ma soggiunge che in mezzo alle tribolazioni abbonda e sovrabbonda di gaudio superabundo gaudio in omni tribulatione nostra". È così di tutti i Santi: dovettero anch'essi subire lunghe e dolorose tribolazioni; ma i martiri, fra le torture, dicevano di non essersi mai trovati a un simile festino, "[nunquam tam jucunde epulati sumus] mai banchetto così abbiamo"; leggendo le vite dei Santi, due cose ci colpiscono: le prove terribili che subirono e le mortificazioni che liberamente s'imposero; e d' altra parte la loro serenità in mezzo a questi patimenti. Giungono al punto di amare la croce, di non più paventarla, di sospirarla anzi, di considerare perduti i giorni in cui non ebbero nulla da soffrire. Fenomeno psicologico che fa stupire i mondani ma che consola le anime di buona, volontà. Non si può certamente pretendere dagl’incipienti quest'amore della Croce; ma si può far loro capire, citando l'esempio dei Santi, che l'amor di Dio e delle anime allevia notevolmente il dolore e la mortificazione, e che, se consentono ad entrare generosamente nella pratica dei piccoli sacrifici che sono alla loro portata, anch'essi giungeranno un giorno ad amare e desiderare la croce e a trovarvi vere consolazioni spirituali. 766. É ciò che nota l’autore dell'Imitazione, in un testo che compendia molto bene i vantaggi della mortificazione: "[In cruce salus, in cruce vita, in cruce protectio ab hostibus, in cruce infusio supernae suavitatis, in cruce robur mentis, in cruce gaudium spiritus, in cruce virtutis summa, in cruce perfectio sanctitatis] Nella croce è la salvezza, nella croce è la vita, nella croce è la protezione dai nemici, nella croce è l'infusione di dolcezza celeste, nella croce è forza d'animo, nella croce è gioia dello spirito, nella somma della potenza della croce, nella croce è perfetta santità". Infatti l'amore della croce è l'amore di Dio spinto fino all'immolazione; ora, come, abbiamo detto, quest'amore è il compendio di tutte le virtù, l’essenza stessa della perfezione, e quindi il più potente usbergo ( coraza di ferro che copriva il busto ) contro i nemici spirituali, una fonte di forza e di consolazione, il miglior mezzo l’accrescere in noi la vita spirituale e di assicurarci l'eterna salute. ART. III. Pratica della mortificazione 767. Principi. 1° La mortificazione deve abbracciare l'uomo intero, corpo ed anima; perché appunto l'uomo intero, ove non sia ben disciplinato, è occasione di peccato. Chi pecca, propriamente parlando, è la sola volontà; questo è vero, ma la volontà ha per complici e strumenti il corpo coi sensi esterni e l’anima con tutte le sue facoltà; onde tutto l'uomo dev'essere disciplinato e mortificato. 768. 2° La mortificazione prende di mira il piacere. Il piacere in sè non è propriamente un male; è anzi un bene quando è subordinato al fine per cui Dio l'ha istituito. Dio volle annettere un certo diletto all’adempimento del dovere a fine di agevolarne la pratica; ond'è che proviamo un certo diletto nel mangiare e nel bere, nel lavoro e in altri simili doveri. Quindi, nell’intenzione divina, il piacere non è un fine ma un mezzo. Gustare dunque il piacere per meglio adempiere il dovere non è cosa proibita: è l’ordine stabilito da Dio. Ma volere il piacere per se stesso, come fine, senza alcuna relazione al dovere, è per lo meno cosa pericolosa, perché uno si espone a scivolare dai diletti permessi ai diletti peccaminosi; guastare il piacere escludendo il dovere è peccato più o meno grave, perché è violazione dell'ordine voluto da Dio. Onde la mortificazione consisterà nel privarsi dei piaceri cattivi, contrari all'ordine della Provvidenza o alla legge di Dio o della Chiesa; nel rinunziare pure ai piaceri pericolosi per non esporsi al peccato; e perfino nell’astenersi da alcuni piaceri leciti per rendere più sicuro l'impero della volontà sulla sensibilità. Allo stesso fine uno non solo ,si priverà di alcuni piaceri ma si infliggerà pure alcune mortificazioni positive; perché l'esperienza insegna che nulla è più efficace ad attutire l'inclinazione al piacere quanto l'imporsi qualche lavoro o qualche patimento di supererogazione. 769. 3° Ma la mortificazione deve praticarsi con prudenza o discrezione: onde vuole essere proporzionata alle forze fisiche e morali di ciascuno e all'adempimento dei doveri del proprio stato: 1) Bisogna aversi riguardo alle forze fisiche; perché, secondo San Francesco di Sales, "siamo esposti a grandi tentazioni in due casi, quando il corpo è troppo nutrito e quando è troppo estenuato". Nell'ultimo caso infatti si cade facilmente nella nevrastenia, che obbliga poi a pericolosi riguardi. 2) Bisogna aversi pur riguardo alle forze morali, non imponendosi a principio privazioni eccessive che non si potranno continuare a lungo e che nel lasciarle possono poi condurre al rilassamento. 3) Ciò che soprattutto importa è che queste mortificazioni s'accordino coi doveri del proprio stato, perché, essendo essi obbligatori, debbono andare avanti alle pratiche di supererogazione. Così sarebbe male per una madre di famiglia praticare austerità che le impedissero di adempiere i doveri verso il marito e verso i figli. 770. Vi è poi tra le mortificazioni un ordine gerarchico: le interne valgono certamente più delle esterne, perché prendono più direttamente di mira la radice del male. Ma non bisogna dimenticare che queste agevolano molto la pratica di quelle; chi, per esempio, volesse disciplinare la fantasia senza mortificare gli occhi, non ci riuscirebbe gran fatto, appunto perché gli occhi forniscono alla fantasia le immagini sensibili di cui si pasce. Fu errore dei modernisti il beffarsi delle austerità dei secoli cristiani. Infatti i Santi di tutti i tempi, quelli beatificati ultimamente come i precedenti, castigarono duramente il corpo e i sensi esterni, convinti che, nello stato di natura decaduta, per appartenere intieramente a Dio, l'intero uomo dev'essere mortificato. Verremo dunque percorrendo una dopo l'altra le varie specie di mortificazione, cominciando dalle esterne per arrivare alle più interne; tal è l'ordine logico; in pratica però bisogna saper usare nello stesso tempo, in prudente misura, le une e le altre. I. Della mortificazione del corpo e del sensi esterni. 771. 1° La sua ragione. a) Nostro Signore aveva raccomandato ai discepoli la pratica moderata del digiuno e dell'astinenza, la mortificazione della vista e del tatto. S. Paolo era, tanto convinto della necessità di domare il corpo, che severamente lo castigava per schivare il peccato e la dannazione: "[Castigo corpus meum et in servitutem redigo, ne forte cum aliis praedicaverim, ipse reprobus efficiar] Castigarli il mio corpo, e lo riduco in, che talora, dopo aver predicato agli altri, io stesso dovrei diventare un naufrago". La Chiesa pensò anch'essa a prescrivere ai fedeli alcuni giorni di digiuno e d'astinenza. b) Qual ne è la ragione? Certo il corpo, ben disciplinato, è servo utile e anche necessario, alle cui forze bisogna aver riguardo per poterle mettere a servizio dell'anima. Ma, nello stato di natura decaduta, il corpo cerca i sensuali diletti senza darsi pensiero del lecito o dell'illecito; ha anzi un'inclinazione speciale per i piaceri illeciti e si rivolta talora contro le superiori facoltà che glieli vogliono interdire. È nemico tanto più pericoloso in quanto che ci accompagna dovunque, a tavola, a letto, a passeggio, e incontra spesso complici pronti ad aizzarne la sensualità e la voluttà. I sensi, infatti, sono come tante porte aperte per cui furtivamente s'insinua il sottile veleno dei proibiti diletti. È dunque assolutamente necessario vigilarlo, padroneggiarlo, ridurlo in schiavitù: altrimenti ci tradirà. 772. 2° Modestia del corpo. A domare il corpo, cominciamo con l'osservar bene le regole della modestia e della buona creanza, ove trovasi largo campo di mortificazione. Il principio che ci deve servire di regola è quello di S. Paolo: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi? Nescitis quoniam corpora vestra membra sunt Christi?… Membra vestra templum sunt Spiritus Sancti". A) Bisogna dunque rispettare il proprio corpo come un tempio santo, come un membro di Gesù Cristo; via dunque quelle mode più o meno invereconde, buone solo a provocare la curiosità e la voluttà. Porti ognuno le vesti richieste dalla propria condizione, semplici e modeste, ma sempre pulite e decenti. Nulla di più saggio dell’avvertimento di S. Francesco di Sales su questo punto: "Siate pulita, o Filotea, e nulla si vegga in voi di sciatto e di male aggiustato … ma guardatevi bene dalle vanità, dalle affettazioni, dalle curiosità e dalle stranezze. Attenetevi, per quanto sarà possibile, alla semplicità e alla modestia, che sono il più grande ornamento della bellezza e il migliore palliativo della bruttezza … le donne vanitose fanno dubitare della loro castità: o almeno, se sono tali, la loro, castità non è visibile sotto tutto quell'ingombro e quelle frascherie ». S. Luigi dice in poche parole: "che uno deve vestirsi secondo il proprio stato, in modo che le persone savie e la gente per bene non possano dire: vi acconciate troppo; né i giovani: vi acconciate troppo poco". Quanto ai religiosi e alle religiose, come pure gli ecclesiastici, hanno sulla forma e sulla materia dei vestiti regole a cui devono conformarsi; è inutile dire che la mondanità e la civetteria sarebbero in loro totalmente fuori di posto e non potrebbero che scandalizzare gli stessi mondani. 773. B) La buona creanza è anch'essa ottima mortificazione alla portata di tutti: schivare diligentemente un contegno molle ed effeminato, tenere il corpo dritto senza sforzo e senza affettazione, non curvo né pencolante da un lato o dall'altro; non cangiar posizione troppo di frequente; non incrocicchiare né i piedi né le gambe; non abbandonarsi mollemente sulla sedia o sull’inginocchiatoio: evitare i movimenti bruschi e i gesti disordinati: ecco, fra cento altri, i mezzi di mortificarsi senza pericolo per la salute, senza attirare l'attenzione, e che ci danno intanto grande padronanza sul corpo. 774. C) Vi sono altre mortificazioni positive che i penitenti generosi s'impongono volentieri per domare il corpo, calmarne gli ardori intempestivi, e stimolare il desiderio della pietà: i più comuni sono quei braccialetti di ferro che si infilano alle braccia, quelle catenelle che si cingono alle reni, cinture o scapolari di crine, o alcuni buoni colpi di disciplina quando uno se li può dare senza attirar l'attenzione. Ma bisogna in tutto questo consultare premurosamente il direttore, schivare tutto ciò che sapesse di singolarità o lusingasse. La vanità, senza parlare poi di ciò che fosse contrario all’igiene o alla pulizia; il direttore non permetterà queste cose che con discrezione, a modo di prova solo per un poco di tempo, e, se vi notasse inconvenienti di qualsiasi genere, le sopprimerà. 775. 3° Modestia degli occhi. A) Vi sono sguardi gravemente colpevoli, che offendono non solo il pudore ma la stessa castità e da cui bisogna assolutamente astenersi. Ve ne sono altri pericolosi, quando uno fissa, senza ragione, persone o cose capaci di suscitare tentazioni: quindi la S. Scrittura ci avverte di non fissare lo sguardo sopra una giovane, perché la sua bellezza non diventi per noi occasione di scandalo: “[Virginem ne conspicias, ne forte scandalizeris in decore illius] Virgin non ha visto, perché non vengano scandalizzati in suo onore". Oggi poi che la licenza degli abbigliamenti e l'immodestia delle mode o i perniciosi ritrovi dei teatri e di certi salotti offrono tanti pericoli, di quanto riserbo non è necessario armarsi per non esporsi al peccato! 776. B) Quindi il sincero cristiano che vuole ad ogni costo salvarsi l'anima, va anche più oltre, e per essere sicuro di non cedere alla sensualità, mortifica la curiosità degli occhi, schivando, per esempio, di guardare dalla finestra per vedere chi passa, tenendo gli occhi modestamente bassi, senza affettazione, nelle gite di affari o nel passeggio. Li posa volentieri piuttosto su qualche pia immagine, campanile, croce, statua, per eccitarsi all'amor di Dio e dei Santi. 777. 4° Mortificazione dell’udito e della lingua. A) Richiede che non si dica ne che si ascolti cosa alcuna che sia contraria alla carità, alla purità, all'umiltà e alle altre virtù cristiane; perché, come dice S. Paolo, le conversazioni cattive corrompono i buoni costumi "[corrumpunt mores bonos colloquia prava] comunicazioni male corrompono i buoni costumi". Quante anime infatti si pervertirono per aver ascoltato conversazioni disoneste o contrarie alla carità! Le parole lubriche eccitano una morbosa curiosità, destano le passioni, accendono desideri e provocano al peccato. Le parole poco caritatevoli causano divisioni perfino nelle famiglie, diffidenze, inimicizie, rancori. Bisogna quindi vigilare anche sulle minime parole per evitare tali scandali, e saper chiudere l’orecchio a tutto ciò che può turbare la purità, la carità e la pace. 778. B) A meglio riuscirvi, si mortificherà qualche volta la curiosità col non interrogare su ciò che può stuzzicarla, o col reprimere quella smania di discorrere che va poi a finire in chiacchiere non solo inutili ma anche pericolose: "[in multiloquio non deerit peccatum] Quando le parole non mancano". C) E poiché i mezzi negativi non bastano, si baderà a condurre la conversazione sopra argomenti non solo innocui, ma buoni, onesti, edificanti, senza però rendersi gravosi con osservazioni troppo serie che non vengano spontanee. 779. 5° Mortificazione degli altri sensi. Quanto abbiamo detto della vista, dell'udito e della lingua, s'applica pure agli altri sensi; ritorneremo sul gusto parlando della golosità e sul tatto a proposito della castità. Quanto all'odorato, basti dire che l'uso immoderato dei profumi è spesso pretesto per appagare la sensualità ed eccitare talora la voluttà; e che un cristiano serio non ne usa se non con moderazione e per ragione di grande utilità; e che i religiosi e gli ecclesiastici hanno per norma di non usarne mai. II. Della mortificazione dei sensi interni. I due sensi interni che bisogna mortificare sono la fantasia e la memoria, le quali generalmente operano insieme, essendo il lavoro della memoria accompagnato da immagini sensibili. 780. 1° Principio. La fantasia e la memoria sono due preziose facoltà che non solo forniscono all'intelletto i materiali di cui ha bisogno per lavorare, ma lo aiutano ad esporre la verità con immagini e con fatti che la rendono più afferrabile, più viva, e quindi pure più interessante: un'esposizione pallida e fredda non avrebbe che poca attrattiva per lo comune dei mortali. Non si tratta quindi di annullare queste facoltà, ma di disciplinarle e di subordinarne l'attività all'impero della ragione e della volontà; altrimenti, abbandonate a se stesse, popolano l'anima di un mondo di ricordi e d'immagini che la dissipano, ne sciupano le energie, le fanno perdere, mentre prega o lavora, un tempo prezioso, e causano mille tentazioni contro la purità, la carità, l’umiltà e le altre virtù. É dunque necessario regolarle e metterle a servizio delle facoltà superiori. 781. 2° Regole da seguire. A) A reprimere i traviamenti della memoria e della fantasia, uno deve innanzitutto studiarsi di scacciare inesorabilmente, subito fin da principio, appena se ne accorge, le immagini o i ricordi pericolosi, che, richiamandoci un tristo passato o trasportandoci fra le seduzioni del presente o dell’avvenire, sarebbero per noi fonte di tentazioni. Ma, essendovi spesso una specie di determinismo psicologico che ci fa passare dalle fantasie vane a quelle pericolose, ci premuniremo contro quest'ingranaggio, mortificando i pensieri inutili, che ci fanno già perdere un tempo prezioso e preparano la via ad altri più pericolosi: la mortificazione dei pensieri inutili, dicono i Santi, è la morte dei pensieri cattivi. 782. B) A ben riuscirvi, il mezzo positivo migliore è di applicarci con tutta l'anima al dovere presente, ai nostri lavori, ai nostri studi, alle nostre abituali occupazioni. É questo del resto anche il mezzo migliore per riuscire a far bene ciò che si fa, concentrando tutta l’attività sull’azione presente: "[age quod agis] Vieni come sei". Rammentino i giovani che, per progredire negli studi come negli altri doveri del loro stato, devono far lavorare più l'intelligenza e la riflessione che le facoltà sensitive; cosi, mentre si assicureranno l'avvenire, schiveranno pure le pericolose fantasie. 783. C) Finalmente e cosa utilissima servirsi della fantasia e della memoria per alimentare la pietà, cercando nella S. Scrittura, nelle preghiere liturgiche e negli autori spirituali i più bei testi, i più bei paragoni e le immagini più belle; adoprando pure la fantasia per mettersi alla presenza di Dio e rappresentarsi le varie particolarità dei misteri di Nostro Signore e della SS. Vergine. Così la fantasia, in cambio di intorpidirsi, si verrà popolando di rappresentazioni pie che ne bandiranno le pericolose e ci porranno in grado di capire meglio e meglio spiegare ai nostri uditori le scene evangeliche. III. Della mortificazione delle passioni. 784. Le passioni, intese in senso filosofico, non sono necessariamente e assolutamente cattive: sono forze vive, spesso impetuose, di cui uno può giovarsi così per il bene come per il male, purché le sappia regolare e volgere a un nobile fine. Ma nel linguaggio popolare e presso certi autori spirituali, questa parola si usa in senso peggiorativo, per designare le passioni cattive. Noi dunque: 1° richiameremo le principali nozioni psicologiche sulle passioni; 2° ne indicheremo i buoni e i cattivi effetti; 3° esporremo alcune regole pel buon uso delle passioni. I. La psicologia delle passioni. Qui richiamiamo soltanto ciò che viene più ampiamente esposto nella Psicologia. 785. 1° Nozione. Le passioni sono moti impetuosi dell'appetito sensitivo verso il bene sensibile con più o meno forte ripercussione sull'organismo. a) Vi è dunque alla radice della passione una certa conoscenza almeno sensibile d'un bene sperato o acquistato o d'un male contrario a questo bene; da questa conoscenza scaturiscono i moti dell'appetito, sensitivo. b) Sono moti impetuosi che si distinguono quindi dagli stati affettivi grati o ingrati, i quali sono calmi, tranquilli, senza quell'ardore e quella veemenza che è nelle passioni. c) Appunto perché impetuosi e fortemente attivi sull'appetito sensitivo, hanno una ripercussione sull’organismo fisico per ragione della stretta unione tra il corpo e l'anima. Così la collera fa affluire il sangue al cervello e tende i nervi, la paura fa impallidire, l'amore dilata il cuore e il timore lo stringe. Questi effetti fisiologici però non si hanno in tutti nello stesso grado, dipendendo dal temperamento di ciascuno, dalla intensità della passione e dal dominio che uno ha su se stesso. 786. Le passioni quindi differiscono dai sentimenti, che sono moti della volontà, onde suppongono la conoscenza dell'intelletto, e che, pur essendo forti, non hanno la violenza delle passioni. Così vi è un amore-passione e un amore-sentimento, un timore passionale e un timore intellettuale. Aggiungiamo che nell’uomo, animale ragionevole, le passioni e i sentimenti spesso, anzi quasi sempre, si mescolano in proporzioni molto varie, e che con la volontà aiutata dalla grazia si riesce a trasformare in nobili sentimenti le passioni anche più ardenti, subordinando queste a quelli. Capitolo IV. Lotta contro i peccati capitali. 818. Questa lotta è in sostanza una specie di mortificazione. Per dar compimento alla purificazione dell'anima e impedirle di ricadere nel peccato, bisogna prendere di mira la fonte del male in noi, cioè la triplice concupiscenza. Nascondi L'abbiamo già descritta nei suoi caratteri generali, n. 193-209; ma, essendo ella radice dei sette peccati capitali, conviene pur conoscere e combattere queste cattive tendenze. Più che peccati sono infatti tendenze; si dicono però peccati perché ci portano al peccato; e peccati capitali, perché sono fonte o capo d'una moltitudine di altri peccati. Ecco come queste tendenze si connettono con la triplice concupiscenza: dalla superbia nasce l'orgoglio, l'invidia e la collera; la concupiscenza della carne genera la gola, la lussuria e l'accidia; la concupiscenza poi degli occhi s'identifica con l'avarizia o amore disordinato delle ricchezze. 819. La lotta contro i sette peccati capitali tenne sempre gran posto nella spiritualità cristiana. Cassiano ne tratta a lungo nelle Conferenze e nelle Istituzioni; ma ne enumera otto invece di sette, separando l'orgoglio e la vanagloria. S. Gregorio Magno distingue nettamente i sette peccati capitali che fa derivare tutti dall'orgoglio. Anche S. Tommaso li connette all'orgoglio, e mostra come se ne può fare una classificazione filosofica, tenendo conto dei fini speciali a cui l’uomo tende. La volontà può portarsi verso un oggetto per un doppio motivo che è o la ricerca di un bene apparente, o l'allontanamento da un male apparente. Ora il bene apparente a cui tende la volontà può essere: 1) la lode o l'onore, beni spirituali perseguiti disordinatamente: è questo il fine speciale dei vanitosi; 2) i beni corporali, che hanno per fine la conservazione dell’individuo o della specie, cercati in modo eccessivo, sono il fine particolare dei golosi e dei lussuriosi; 3) i beni esterni, amati in modo sregolato, sono il fine dell'avaro. Il male apparente da cui uno rifugge può essere: 1) lo sforzo necessario all'acquisto d'un bene, sforzo sfuggito dall'accidioso; 2) la diminuzione della propria eccellenza che è temuta e sfuggita, sebbene in modo diverso, dal geloso e dal collerico. Così la distinzione dei, sette peccati capitali si trae dai sette fini speciali a cui tende il peccatore. In pratica noi seguiremo la divisione che connette i vizi capitali con la triplice concupiscenza, perché è la più semplice. ART. I. L'orgoglio e i vizi che vi si connettono § I. L’orgoglio in sé. 820. L'orgoglio è una deviazione di quel legittimo sentimento che ci porta a stimare il bene che è in noi, e a ricercare la stima altrui fin dove è utile alle buone relazioni che dobbiamo avere con loro. Si può e si deve certamente stimare quanto di buono Dio ha messo in noi, riconoscendonelo come primo principio e ultimo fine: è sentimento che onora Dio e ci fa rispettare noi stessi. Si può anche desiderare che gli altri vedano questo bene, lo stimino e ne rendano gloria a Dio, come noi dobbiamo riconoscere e stimare le buone qualità del prossimo: questa mutua stima fomenta le buone relazioni che corrono tra gli uomini. Ma vi può essere deviazione o eccesso in queste due tendenze. Si dimentica talora che autore di questi doni è Dio e uno li attribuisce a se stesso: il che è disordine, perché è negare, almeno implicitamente, che Dio è il nostro primo principio. Parimente si è tentati di operare per sé, per guadagnarsi la stima altrui, in cambio di operare per Dio e riferire a lui tutto l'onore di ciò che facciamo: il che pure è disordine, perché é negare, almeno implicitamente, che Dio è il nostro ultimo fine. Tale è il doppio disordine che si trova in questo vizio; onde si può definirlo: un amore disordinato di sé, per cui uno, esplicitamente o implicitamente, si stima come primo suo principio o ultimo suo fine. Nascondi È una specie d'idolatria, perché uno fa di sé il proprio Dio, come ben fa notare Bossuet, n. 204. A meglio combattere l'orgoglio, ne esporremo: 1° le principali forme; 2° i difetti che produce; 3° la malizia; 4° i rimedi. I. Le principali forme dell'orgoglio. 821. 1° La prima forma consiste nel considerarsi, esplicitamente o implicitamente, come il proprio primo principio. A) Pochi sono quelli che esplicitamente si amino in modo così disordinato da considerare se stessi come il loro primo principio. a) è il peccato degli atei che volontariamente rigettano Dio perché non vogliono padrone: né Dio né padrone; di costoro parla il Salmista quando dice: “]Dixit insipiens in corde suo non est Deus]Lo stolto ha detto nel suo cuore, Dio non esiste". b) Fu equivalentemente questo il peccato di Lucifero, che, volendo essere autonomo, ricusò di assoggettarsi a Dio; dei nostri progenitori, che, desiderando essere come Dei, vollero conoscere da sé il bene ed il male; degli eretici, che, come Lutero, ricusarono di riconoscere l'autorità della Chiesa stabilita da Dio; è il peccato dei razionalisti, che, superbi della loro ragione, non vogliono assoggettarla alla fede. Ed è pure il peccato di certi dotti che, troppo orgogliosi da accettare la tradizionale interpretazione dei dogmi, li attenuano e deformano per conciliarli con le proprie idee. 822. B) Altri in maggiore numero cadono implicitamente in questo difetto, operando come se i doni naturali e soprannaturali da Dio largitici fossero intieramente nostri. In teoria si riconosce, è vero, che Dio è il nostro primo principio; ma in pratica poi uno ha tale smodata stima di sé come fosse egli stesso l'autore delle buone qualità che sono in lui. a ) Ce ne sono di quelli che si compiacciono delle proprie doti e dei propri meriti come ne fossero essi i soli autori: "L'anima, vedendosi bella, dice Bossuet, se ne compiacque in se stessa e s'addormentò nella contemplazione della propria eccellenza; cessò un momento di riferire se stessa a Dio, dimenticò la sua dipendenza, prima sì fermò e poi s'abbandonò alla propria libertà. Ma, cercando di essere libero fino al punto di emanciparsi da Dio e dalle leggi della giustizia, l'uomo divenne schiavo del suo peccato". 823. b) Più grave è l'orgoglio di coloro che attribuiscono a se stessi la pratica della virtù, come gli Stoici; o che pensano che i doni gratuiti di Dio siano frutto dei nostri meriti; che le nostre opere buone appartengano a noi più che a Dio, mentre in verità ne è lui la causa principale; e che vi si compiacciono come fossero unicamente nostre. 824. C) è questo stesso principio che fa esagerare le proprie doti. a ) Si chiudono gli occhi sui propri difetti o si guardano le proprie doti con lenti d'ingrandimento; si giunge ad attribuirsi pregi che non si hanno o che hanno la sola apparenza di virtù: così si fa l'elemosina per ostentazione e si crede di essere caritatevoli mentre invece si è superbi; uno crede di essere santo perché ha consolazioni sensibili, o perché scrisse bei pensieri o buone risoluzioni, ed è invece ancora ai primi scalini della perfezione. Altri credono di avere mente larga perché fanno poco conto delle piccole regole, volendo santificarsi con le grandi virtù. b) Di qui a preferirsi ingiustamente agli altri non vi è che un passo; si esaminano gli altrui difetti coi microscopio e dei propri è gran cosa se uno ne ha coscienza; si vede la pagliuzza che è nell'occhio del vicino e non la trave che è nel nostro. Si giunge talora, come il Fariseo, a disprezzare i fratelli; altre volte, senza arrivare a tanto, uno ingiustamente li abbassa nella propria stima e se ne crede migliore mentre in realtà ne è inferiore. È sempre in virtù dello stesso principio che si cerca di dominarli e di far riconoscere la propria superiorità su di loro. c ) Riguardo ai Superiori, quest'orgoglio si palesa nello spirito di critica e di malcontento che induce a spiarne i minimi gesti o i passi per biasimarli: si vuole verificare tutto e giudicare tutto. Così l'obbedienza si fa molto più difficile: si stenta a sottomettersi alla loro autorità, alle loro risoluzioni, a chiederne i permessi, si aspira all'indipendenza, ossia in sostanza a essere il proprio primo principio. 825. 2° La seconda forma dell'orgoglio consiste nel considerarsi, esplicitamente o implicitamente, come il proprio ultimo fine, facendo le azioni senza riferirle a Dio, e desiderando di esserne lodati come se fossero intieramente nostre. É difetto che deriva dal primo; perché chi si considera come il proprio primo principio vuole anche esserne l'ultimo fine. Bisognerebbe ripetere qui le distinzioni che abbiamo già fatto. A ) Sono pochi che si considerino esplicitamente come loro ultimo fine, se ne togli gli atei e gli increduli. B ) Ma in pratica molti operano come se partecipassero di questo errore. a) Vogliono essere lodati e complimentati per le opere buone, come ne fossero essi i principali autori, e come se avessero il diritto di operare per proprio conto, per soddisfare la propria vanità. In cambio di riferire tutto a Dio, vogliono essere applauditi per i pretesi buoni successi, come se avessero diritto a tutto l'onore che ne deriva. b) Operano per egoismo, per i propri interessi, poco curandosi della gloria di Dio e meno ancora dei bene del prossimo. Arrivano perfino all'eccesso di pensare in pratica che gli altri debbano ordinare la vita a far loro piacere e a rendere loro servizi: si fanno quindi centro degli altri e, a così dire, loro fine. Non è questa un'inconscia usurpazione dei diritti di Dio? c ) Senza giungere a questo punto, ci sono persone pie che nella pietà cercano se stesse, si lagnano di Dio quando non le inonda di consolazioni, si desolano quando sono nell'aridità, falsamente pensando che il fine della pietà sia di godere consolazioni, mentre in realtà la gloria di Dio dev'essere il nostro fine supremo in tutte le azioni e soprattutto nella preghiera e negli esercizi spirituali. 826. Bisogna dunque confessare che l'orgoglio, sotto una forma o sotto un'altra, è comunissimo difetto anche tra quelli che si danno alla perfezione, difetto che ci segue in tutte le tappe della vita spirituale e che muore solo con noi. Gli incipienti non ne hanno gran fatto coscienza, perché non si studiano abbastanza profondamente. Conviene assai chiamarne l'attenzione su questo punto, indicando le forme più ordinarie di tale difetto, perché ne facciano materia dell'esame particolare. II. I difetti che nascono dall'orgoglio. I principali sono la presunzione, l'ambizione e la vanagloria. 827. 1° La presunzione è il desiderio e la speranza disordinata di voler fare cose superiori alle proprie forze. Nasce dal fatto che uno ha troppo buona opinione di sé, delle proprie facoltà naturali, della propria scienza, delle proprie forze, delle proprie virtù. a ) Sotto l'aspetto intellettuale, uno si crede capace d'affrontare e di risolvere i problemi più difficili e le più ardue questioni, o almeno di imprendere studi sproporzionati al proprio ingegno. Un altro si persuade facilmente di aver molto giudizio e molto senno, e, in cambio di saper dubitare, risolve con gran disinvoltura le più controverse questioni. b) Sotto l'aspetto morale, uno crede di avere lumi sufficienti per regolarsi da sé e che non sia poi gran che utile consultare un direttore. Altri crede che, nonostante i peccati passati, non vi sia da temere ricadute, e imprudentemente si getta in occasioni di peccato in cui soccombe; onde poi scoraggiamenti e dispetti che diventano spesso causa di nuove ricadute. c ) Sotto l'aspetto spirituale, si ha poco gusto per le virtù nascoste e penose, preferendole virtù appariscenti; e invece di costruire sul fondamento sodo dell'umiltà, si va fantasticando di grandezza d'animo, di forza di carattere, di magnanimità, di zelo apostolico, di trionfi immaginari che si assaporano già nell'avvenire. Ma alle prime gravi tentazioni uno s'accorge subito quanto ancora debole e vacillante è la volontà. Qualche volta pure si disprezzano le preghiere comuni e quelle che si chiamano le piccole pratiche di pietà; e si aspira a grazie straordinarie quando invece si è appena ai principi della vita spirituale. 828. 2° Questa presunzione, congiunta all'orgoglio, genera l'ambizione, vale a dire l'amore disordinato degli onori, delle dignità, dell'autorità sugli altri. Presumendo troppo delle proprie forze e stimandosi superiore agli altri, uno vuole dominarli, governarli, imporre loro le proprie idee. Il disordine dell'ambizione, dice S. Tommaso, può manifestarsi in tre modi: 1) cercando onori che non si meritano e che sono superiori alle nostre facoltà; 2) cercandoli per sé, per la propria gloria, e non per la gloria di Dio; 3) compiacendosi degli onori in se stessi, senza farli servire al bene altrui, contrariamente all'ordine stabilito da Dio, il quale vuole che i superiori lavorino pel bene degli inferiori. Quest'ambizione invade tutti i campi: 1) il campo politico, dove si aspira a governare gli altri, a costo qualche volta di molte bassezze, di molti compromessi, di mille viltà che si commettono per avere i voti degli elettori; 2) il campo intellettuale, ostinatamente cercando d'imporre agli altri le proprie idee, anche in questioni liberamente discusse; 3) la vita civile, ove avidamente si cercano i primi posti, gli uffici più pomposi, gli ossequi della folla; 4) e anche la vita ecclesiastica perché, come dice Bossuet, "quante precauzioni non si dovettero prendere per impedire nelle elezioni, anche ecclesiastiche e religiose, l'ambizione, gli intrighi, le brighe, le segrete sollecitazioni, le promesse e le pratiche più criminali, i patti simoniaci e gli altri disordini troppo comuni in questa materia; eppure non si è riusciti a intieramente estirpare questi vizi, ma forse solo a coprirli o a palliarli”. Anche nel clero, osserva S. Gregorio Magno, vi sono di quelli che vogliono essere chiamati dottori, e cercano avidamente i primi posti e i complimenti. É dunque difetto più comune di quello che a prima vista si crederebbe e che si connette con la vanità. 829. 3° La vanità è l'amore disordinato della stima altrui; si distingue dall'orgoglio che si compiace nella propria eccellenza, ma ne è ordinariamente una derivazione, perché, quando uno si stima in modo eccessivo, è naturale che desideri d'essere stimato anche dagli altri. 830. A) Malizia della vanità. Vi e un desiderio d'essere stimato che non è disordine: chi desidera che le sue doti, naturali o soprannaturali, siano riconosciute perché Dio ne sia glorificato e se avvantaggi la sua influenza nel fare il bene, per sé non fa peccato, essendo conforme all'ordine che ciò che è buono venga stimato, a patto però che se ne riconosca Dio come autore e a lui solo se ne dia lode. Tutto al più si potrà dire che è pericoloso fissare il pensiero sopra desideri di questo genere, correndo rischio di desiderare la stima altrui per fini egoistici. Il disordine quindi consiste nel voler essere stimati con la mira a sé, senza riferire questo onore a Dio che pose in noi quanto c'è di buono; o nel voler essere stimati per cose vane che non meritano lode; o infine nel cercare la stima di quelli il cui giudizio non ha valore, dei mondani, per esempio, che pregiano solo le vanità. Nessuno descrisse questo difetto meglio di S. Francesco di Sales: "Vana chiamasi la gloria che uno si dà o per cosa che non sia in noi, o per cosa che sia in noi ma non nostra, o per cosa che sia in noi e nostra ma non meritevole che uno se ne glori. La nobiltà della famiglia, il favore dei grandi, l'aura popolare sono cose che non sono in noi ma o nei nostri antenati o nell'opinione altrui. Vi sono di quelli che vanno superbi e pettoruti perché cavalcano un bel destriero; perché hanno un bel pennacchio al cappello; perché sono riccamente vestiti; ma chi non vede che questo è follia? Poiché se in ciò vi è gloria, la gloria spetta al cavallo, all'uccello, al sarto … Altri si stimano e si pavoneggiano per due baffi ben rilevati, per la barba ben ravviata, per i capelli crespi, per le mani delicate, per saper danzare, suonare, cantare bene; ma non sono vili costoro a volersi rialzare in valore e in riputazione per ragioni così frivole e così goffe? Altri poi, per un poco di scienza, vogliono essere da tutti onorati e rispettati, come se ognuno dovesse andare a scuola da loro e tenerli per maestri; onde sono chiamati pedanti. Altri si pavoneggiano pensando alla propria bellezza e credono che tutti li vagheggino. Tutto ciò è grandemente vano, goffo e insulso, e la gloria che si trae da cose così meschine si chiama vana, goffa e frivola". 831. B) Difetti che derivano dalla vanità. La vanità produce parecchi difetti, che ne sono come la manifestazione esteriore, in particolare: la millanteria, l’ostentazione e l’ipocrisia. 1) La millanteria o iattanza è l'abitudine di parlare di sé o di ciò che può tornare a proprio vantaggio con la mira di farsi stimare. Ce ne sono di quelli che parlano di sé, della propria famiglia, dei propri trionfi con un'ingenuità che fa sorridere gli ascoltatori; altri fanno destramente, piegare la conversazione su un argomento in cui possono brillare; altri poi parlano timidamente dei propri difetti con la segreta speranza di trovare chi li scusi ponendone in rilievo le buone qualità. 2) L'ostentazione consiste nell'attirarsi l'attenzione con certi modi di fare, col fasto di cui si fa pompa, con certe singolarità. 3) L'ipocrisia prende la veste o le apparenze della virtù, nascondendo sotto veri vizi segreti. III. La malizia dell'orgoglio. A ben giudicare questa malizia, si può considerare l'orgoglio in se o negli effetti. 832. 1° In sé: A) l'orgoglio propriamente detto, quello che coscientemente e volontariamente usurpa, anche solo implicitamente, i diritti di Dio, è peccato grave, anzi il più grave dei peccati, dice S. Tommaso, perché non vuole sottomettersi al sovrano dominio di Dio. 4) Voler quindi essere indipendente e rifiutare d'obbedire a Dio o ai suoi legittimi rappresentanti, in materia grave, è peccato mortale, perché in tal modo uno si rivolta contro Dio, legittimo nostro sovrano. b ) è pur peccato grave l'attribuire a sé ciò che viene chiaramente da Dio, massime i doni della grazia; perché è implicitamente negare che Dio è il primo principio di tutto il bene che è in noi. Eppure molti lo fanno, dicendo, per esempio io mi sono fatto da me. c ) Si pecca anche gravemente quando si vuole operare per sé, escludendone Dio; è infatti negargli il diritto d'essere l'ultimo nostro fine. 833. B ) L'orgoglio attenuato, che, pur riconoscendo Dio come primo principio e come ultimo fine, non gli rende tutto ciò che gli è dovuto e implicitamente gli toglie parte della sua gloria, è peccato veniale qualificato. Tale è il caso di quelli che si gloriano delle loro buone qualità e delle loro virtù, quasi che tutto ciò fosse cosa di loro esclusiva proprietà; oppure di quelli che sono presuntuosi, vanitosi, ambiziosi, senza però far nulla che sia contrario a una legge divina od umana in materia grave. Questi peccati possono anche farsi mortali, se spingono ad atti gravemente riprensibili. Così la vanità, che in sé è solo peccato veniale, diventa peccato grave quando fa contrarre debiti che non si potranno poi pagare, o quando si cerca di eccitare in altri amore disordinato. Bisogna quindi esaminare l'orgoglio anche negli effetti. 834. 2° Negli effetti: A) l'orgoglio, non represso, riesce talora a perniciosissimi effetti. Quante guerre non furono suscitate dall'orgoglio dei governanti e qualche volta degli stessi popoli! E senza andare, tanto lontano, quante divisioni nelle famiglie, quanti odii tra gli individui devono attribuirsi a questo vizio! I Padri giustamente insegnano che è radice di tutti gli altri vizi, e che corrompe pure molti atti virtuosi, facendoli fare con egoistica intenzione. 835. B) Se guardiamo la cosa sotto il rispetto della perfezione, che è quello di cui stiamo trattando, si può dire che l'orgoglio è il gran nemico della perfezione perché produce nell'anima una desolante sterilità ed è fonte di numerosi peccati. a ) Ci priva infatti di molte grazie e di molti meriti: 1) Di molte grazie, perché Dio, il quale dà liberalmente la grazia agli umili, la nega ai superbi: [Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam] Dio resiste ai superbi, e dà grazia agli umili. Pesiamo bene queste parole: Dio resiste ai superbi, "perché, dice l’Olier, il superbo assale direttamente Dio e se la prende con la stessa sua persona, onde Dio resiste alle insolenti e orribili sue pretese; e poiché vuole conservarsi in ciò che è, abbatte e distrugge quanto si leva contro di lui". 2) Di molti meriti: una delle condizioni essenziali del merito è la purità d'intenzione; ora l'orgoglioso opera per sé, o per piacere agli uomini, invece di operare per Dio, e merita quindi il rimprovero rivolto ai Farisei che facevano le opere buone con ostentazione, per essere visti dagli uomini, onde non potevano aspettarsi di essere ricompensati da Dio: "[alioquin mercedem non habebitis apud Patrem vestrum qui in caelis est…. amen, amen dico vobis, receperunt mercedem suam] altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli …. In verità, in verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa". 836. b) è pure fonte di numerose colpe; 1) colpe personali: per presunzione uno si espone al pericolo e vi soccombe; per orgoglio non si chiedono istantemente le grazie di cui si ha bisogno e si cade; viene poi lo scoraggiamento e si corre pericolo di dissimulare i peccati in confessione; 2) colpe contro il prossimo: per orgoglio non si vuole cedere anche quando si ha torto; si è mordaci nelle conversazioni, si intavolano discussioni aspre e violenti che generano dissensioni e discordie; quindi parole amare e anche ingiuste contro i rivali per umiliarli, critiche acerbe contro i Superiori e rifiuti d'obbedienza ai loro ordini. 837. c) Finalmente è causa di disgrazie per chi si abbandona abitualmente all'orgoglio: l'orgoglioso, volendo grandeggiare in tutto e dominare il prossimo, non trova più ne pace né riposo. Non è infatti tranquillo finche non abbia potuto trionfare degli emuli; or ciò non riuscendogli mai intieramente, ne resta turbato, agitato, infelice. Conviene dunque cercare rimedio a vizio così pericoloso. IV. I rimedii dell'orgoglio. Nascondi 838. Abbiamo già detto ( n. 207 ) che il grande rimedio dell'orgoglio sta nel riconoscere che Dio è l'autore di ogni bene, onde a lui solo spetta ogni onore e ogni gloria. Da noi non siamo che nulla e peccato e non meritiamo quindi che oblio e disprezzo ( n. 208 ) 839. 1° Noi siamo un nulla. Di questo devono gl'incipienti ben convincersi nella meditazione, lentamente ruminando al lume divino i seguenti pensieri: io sono un nulla, io non posso nulla, io non valgo nulla. A) Io sono un nulla: piacque, è vero, alla divina bontà di scegliermi tra miliardi di esseri possibili per darmi l'esistenza, la vita, un'anima spirituale ed immortale, e io me lo devo quotidianamente benedire. Ma: a) io esco dal nulla e per mio peso tendo al nulla, ove infallantemente ricadrei se il Creatore con la incessante sua azione non mi conservasse: il mio essere dunque non appartiene a me ma è intieramente di Dio, e a lui ne devo fare omaggio. b) Quest'essere che Dio mi diede è una vivente realtà, un immenso beneficio di cui non potrei ringraziarlo mai troppo; ma, per quanto ammirabile, quest'essere, paragonato con l'Essere divino, è come un nulla, "[Tanquam nihilum ante te] Come niente prima di", tanto è imperfetto: 1) è un essere contingente, che potrebbe sparire senza che nulla venisse a mancare alla perfezione del mondo; 2) è un essere mutuato, che non mi fu dato che sotto l'espressa riserva del supremo dominio di Dio; 3) è un essere fragile, che non può sussistere da sé, bisognoso ad ogni istante d'essere sorretto da colui che lo creò. É dunque un essere essenzialmente dipendente da Dio, la cui unica ragione di esistere è di rendere gloria al suo autore. Chi dimentichi questa dipendenza, chi operi come se le sue buone qualità fossero intieramente sue e se ne vanti, commette un inconcepibile errore, una follia e un'ingiustizia. Nascondi 840. Quanto diciamo dell'uomo nell'ordine della natura è anche più vero nell'ordine della grazia: questa partecipazione della vita divina, che costituisce la mia nobiltà e la mia grandezza, è dono essenzialmente gratuito che ricevetti da Dio e da Gesù Cristo, che non posso conservare a lungo senza la divina grazia e che non può crescere in me senza il soprannaturale suo concorso ( n. 126-128 ), onde è il caso di ripetere: "[gratias Deo super inenarrabili dona ejus] Grazie a Dio per il suo dono ineffabile". Quale ingratitudine e quale ingiustizia l'attribuire a sé una minima particella di questo dono essenzialmente divino? "[Quid autem habes quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis?] Che cosa hai tu che tu non hai ricevuto? Se hai ricevuto, perché ti glori come se tu non l'avessi ricevuto?". 841. B) Io da me non posso nulla: è vero che ricevetti da Dio preziose facoltà che mi fanno conoscere e amare la verità e la bontà; che queste facoltà furono poi perfezionate dalle virtù soprannaturali e dai doni dello Spirito Santo; che non potrò mai ammirare abbastanza questi doni di natura e di grazia che si integrano e si armonizzano tra loro così bene. Ma da me, di mia volontà, io non posso nulla né per metterle in moto né per perfezionarle: nulla nell'ordine naturale senza il concorso di Dio; nulla nell'ordine soprannaturale senza la grazia attuale, neppure formare un buon pensiero salutare, ne un buon desiderio soprannaturale. Ciò sapendo, potrei inorgoglirmi di queste naturali e soprannaturali facoltà, come se fossero intieramente mie? Anche questa sarebbe ingratitudine, follia, ingiustizia. 842. C) Io non valgo nulla: se considero ciò che Dio ha posto in me e ciò che vi opera con la sua grazia, io sono certamente un essere di gran pregio e di grande valore: "[empti enim estis pretio magno] Infatti siete stati comprati a caro prezzo … [tanti vales quanti Deus] Dio vale il prezzo": valgo quello che sono costato e sono costato il sangue di un Dio! Ma l'onore della mia redenzione e della mia santificazione spetta a me o a Dio? La risposta non potrebbe essere dubbia. Ma insomma, dice l'amor proprio vinto, io ho pur qualche cosa che è mia e mi dà valore, è il libero mio consenso al concorso e alla grazia di Dio. Certo qualche parte ve l'abbiamo ma non la principale: questo libero consenso non è che l'esercizio delle facoltà dateci gratuitamente da Dio, e nel momento stesso in cui lo diamo, Dio l'opera in noi come causa principale: "[operatur in vobis et velle et perficere] opera in voi il volere e di fare ". E poi per una volta che consentiamo a seguire l'impulso della grazia, quante altre volte le abbiamo resistito! quante volte vi cooperiamo solo imperfettamente! Non c'è veramente di che vantarci ma piuttosto di che umiliarci. Quando un gran maestro dipinge un capolavoro, a lui viene attribuito e non agli artisti di terzo o di quart'ordine che ne furono i collaboratori. A più forte ragione dobbiamo noi attribuire i nostri meriti a Dio che ne è causa prima e principale, tanto che, come canta la Chiesa con S. Agostino, Dio corona i doni suoi coronando i meriti nostri "[coronando merita coronas dona tua] coronamento dei meriti dei pneumatici dei vostri doni". Da qualunque parte dunque ci consideriamo, e per quanto immenso sia il pregio dei doni che sono in noi e dei nostri meriti, abbiamo diritto di vantarcene ma dovere di farne omaggio a Dio e di ringraziarlo dal fondo del cuore. E dobbiamo pure chiedergli perdono del cattivo uso che abbiamo fatto di questi doni. 843. 2° Io sono un peccatore, e come, tale, merito disprezzo, tutti i disprezzi che piacerà a Dio di addossarmi. A convincercene, basti richiamare quanto dicemmo del peccato mortale e del veniale. A ) Se ebbi la disgrazia di commettere un solo peccato mortale, merito eterne umiliazioni, perché ho meritato l'inferno. Nascondi Ho, è vero, la dolce fiducia che Dio m'abbia perdonato; ma non resta con ciò meno vero che ho commesso un delitto di lesa Maestà divina, una specie di deicidio, una sorta di suicidio spirituale, n. 719, e che, per espiare l'offesa alla divina Maestà, debbo essere pronto ad accettare, a desiderare anzi tutte le umiliazioni possibili, le maldicenze, le calunnie, le ingiurie, gli insulti; perché tutto ciò è assai al di sotto di quanto merita colui che offese anche una volta sola l'infinita Maestà di Dio. Che se ho offeso Dio moltissime volte, quale non dev'essere la mia rassegnazione, anzi la gioia, quando mi si presenti l'occasione d'espiare i peccati con obbrobri di così breve durata! 844. B) Abbiamo tutti commesso dei peccati veniali e veniali deliberati, volontariamente preferendo la volontà e il piacere nostro alla volontà e alla gloria di Dio. Or questo, come abbiamo detto, al n. 715, è offesa alla divina maestà, offesa che merita umiliazioni così profonde da non poter mai da noi stessi, fosse pure con una vita passata tutta nella pratica dell'umiltà, restituire a Dio tutta la gloria di cui l'abbiamo ingiustamente spogliato. Se pare esagerato questo linguaggio, si pensi alle lacrime e alle austere penitenze dei Santi che non avevano commesso se non peccati veniali e che non credevano d'aver fatto mai abbastanza per purificarsi l'anima e riparare gli oltraggi inflitti alla divina maestà. I santi vedevano le cose meglio di noi, e se noi non la pensiamo come loro è perché siamo accecati dall'orgoglio. Dobbiamo dunque, come peccatori, non solo non cercare la stima altrui, ma disprezzarci e accettare tutte le umiliazioni che Dio vorrà mandarci. § II. L’Invidia. 845. L'invidia è nello stesso tempo passione e vizio capitale. Come passione, è una specie di tristezza profonda che si prova nella sensibilità osservando il bene altrui; impressione accompagnata da uno stringimento di cuore che ne diminuisce l'attività e produce un sentimento d'angoscia. Qui ci occupiamo dell'invidia soprattutto come vizio capitale, e ne esporremo: 1° la natura; 2° la malizia; 3° i rimedi. 846. 1° Natura. A) L'invidia è una tendenza a rattristarsi del bene altrui come di attentato contro la nostra superiorità. È spesso accompagnata dal desiderio di vedere il prossimo privo del bene che ci offusca. È dunque vizio che nasce dall'orgoglio, il quale non può tollerare né superiori né rivali. Quando si è convinti della propria superiorità, si prova tristezza a vedere che gli altri hanno doti pari o superiori alle nostre, o che almeno riescono meglio di noi. Materia di invidia sono principalmente le doti brillanti; ma nelle persone serie l'invidia mira anche a doti più sode e perfino alla virtù. Questo difetto si manifesta colla pena che si prova sentendo lodare gli altri; e allora si cerca di attenuare questi elogi criticando le persone lodate. 847. B) Spesso si confonde l'invidia con la gelosia; volendole distinguere, la gelosia viene definita un amore eccessivo del proprio bene accompagnato dal timore che da altri ci venga tolto. Uno, per esempio, era il primo della scuola, vede i progressi di un condiscepolo e ne prende gelosia, perché teme che lo privi del primo posto. Uno possiede l’affezione d'un amico: viene a temere che gli sia tolta da un rivale e ne prende gelosia. Si ha una numerosa clientela e si teme che sia diminuita da un concorrente: nasce allora quella gelosia che infierisce talora tra professionisti, artisti, letterati, e talvolta anche tra sacerdoti. In una parola si è invidiosi del bene altrui e gelosi del proprio. C ) Vi è differenza tra invidia ed emulazione: l'emulazione è un sentimento lodevole che ci porta ad imitare, ad uguagliare, e, se è possibile, a superare le buone qualità altrui, sempre però con mezzi leali. 848. 2° Malizia. Si può studiare questa malizia in sé e negli effetti. A ) In sé, l'invidia è di natura sia peccato mortale, perché è direttamente opposta alla virtù della carità che vuole che uno si rallegri del bene altrui. Quanto più il bene invidiato è importante, tanto più grave è il peccato; quindi, dice S. Tommaso, invidiare i beni spirituali del prossimo, rattristarsi dei suoi progressi o dei suoi trionfi apostolici, è peccato gravissimo. Il che è vero quando i moti d'invidia sono pienamente acconsentiti; ma spesso non si tratta che di impressioni, o di sentimenti involontari o almeno poco volontari e accompagnati da poca o nessuna riflessione, onde la colpa allora può essere tutt'al più veniale. 849. B) Negli effetti l'invidia è talvolta assai colpevole. a) Eccita sentimenti di odio: si corre pericolo di odiare coloro di cui si ha invidia o gelosia, e quindi di sparlarne, denigrarli, calunniarli, desiderare loro del male. b ) Tende a seminare divisioni non solo tra gli estranei ma anche tra i membri di una stessa famiglia ( si ricordi la storia di Giuseppe ), o tra famiglie imparentate; divisioni che possono andare molto avanti e generare inimicizie e scandali. Scinde talvolta i cattolici d'una stessa regione con gran detrimento del bene della Chiesa. c ) Spinge alla smodata ricerca delle ricchezze e degli onori: per superare quelli a cui si porta invidia, uno si abbandona ad eccessi di lavoro, a intrighi più o meno leali, in cui l'onestà corre molto rischio. d) Turba l'anima dell'invidioso: non si ha né pace né riposo finché non si è riusciti ad eclissare, a dominare i propri rivali; ed essendo ben raro che vi si riesca, si vive in perpetue angosce. 850. 3° Rimedi. Sono negativi o positivi. A ) I mezzi negativi consistono: a) nel disprezzare i primi sentimenti d'invidia e di gelosia che sorgono in cuore, schiacciarli come qualche cosa di ignobile, come si schiaccia un rettile velenoso; b) nel distrarsi, occupandosi d'altro; tornata poi la calma, si riflette che le doti del prossimo non diminuiscono le nostre, ci sono anzi stimolo ad imitarle. 851. B) Tra i mezzi positivi, i più importanti sono due: a) Il primo viene dalla nostra incorporazione a Cristo: in virtù di questo dogma, siamo tutti fratelli, tutti membri del corpo mistico di cui Gesù è il capo, e le buone qualità e le fortune d'uno di questi membri ridondano sugli altri; onde, invece di rattristarci della superiorità dei fratelli, dobbiamo rallegrarcene, secondo la dottrina di S. Paolo, perché contribuisce al bene comune e anche al nostro bene particolare. Se poi le altrui virtù diventano per noi oggetto di invidia, "in cambio di portar loro invidia e gelosia per ragione di queste virtù, come spesso avviene per suggestione del demonio e dell'amor proprio, bisogna unirci allo Spirito Santo di Gesti Cristo nel Santo Sacramento, onorando in lui la fonte di queste virtù e chiedendogli la grazia di parteciparvi e di comunicarvi; e vedrete quanto questa pratica vi tornerà utile e vantaggiosa". 852. b) Il secondo mezzo consiste nel coltivare l'emulazione, lodevole e cristiano sentimento che c'invita a imitare e anche a sorpassare, sorretti dalla grazia di Dio, le virtù del prossimo. Perché sia buona e si distingua dall'invidia, l'emulazione cristiana dev'essere: 1) onesta nell'oggetto, vale a dire che non deve mirare ai trionfi ma alle virtù altrui per imitarle; 2) nobile nell'intenzione, non cercando di trionfare sugli altri, di umiliarli, di dominarli, ma di divenire migliori, se è possibile, perché Dio sia più onorato e la Chiesa più rispettata; 3) leale nei mezzi, usando, per conseguire il fine, non l'intrigo, l'astuzia o e qualsiasi altro illecito procedere, ma lo sforzo, il lavoro, il buon uso dei doni divini. Così intesa, l'emulazione è efficace rimedio contro l'invidia, perché senza punto ledere la carità è ottimo stimolo. Infatti il considerare come modelli i migliori tra i fratelli per imitarli, o anche per superarli, è in sostanza un riconoscere la nostra imperfezione e un volervi rimediare giovandoci dei buoni esempi di coloro che ci stanno attorno. E non è questo in fondo un accostarsi a ciò che faceva S. Paolo quando invitava i discepoli ad essere suoi imitatori come gli era di Cristo: "[Imitatores mei estote sicut et ego Christi] Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo"? e seguire i consigli che dava ai cristiani di osservarsi l'un l'altro per eccitarsi a carità e a buone opere: "[Consideremus invicem in provocationem caritatis et bonorum operum] Consideriamo un l'altro per incitarci all'amore e alle buone opere"?. E non è un entrare nello spirito della Chiesa, che, proponendo i Santi alla nostra imitazione, ci provoca a nobile e santa emulazione? così l'invidia non sarà per noi che occasione di coltivare la virtù. § III. L'ira. L'ira ( o collera ) è una deviazione di quell'istintivo sentimento che ci porta a difenderci quando siamo assaliti, respingendo la forza con la forza. Ne diremo: 1° la natura; 2° la malizia; 3° i rimedi. I. Natura dell'ira. 853. C'è un'ira-passione e un'ira-sentimento. 1° L'ira, considerata come passione, è un violento bisogno di reazione, determinato da un patimento o da una contrarietà fisica o morale. Questa contrarietà fa scattare una violenta emozione che tende le forze allo scopo di vincere la difficoltà: si è allora portati a scaricare l'ira sulle persone, sugli animali o sulle cose. Se ne distinguono due forme principali: l'ira rossa o espansiva nei forti e l'ira bianca o pallida o spasmodica nei deboli. Nella prima, il cuore batte con violenza e spinge il sangue alla periferia, la respirazione si accelera, il viso s'imporpora il collo si gonfia, le vene si rilevano sotto la pelle; i capelli sì rizzano, lo sguardo lampeggia, gli occhi paiono uscire dalle orbite, le narici si dilatano, la voce diventa rauca, interrotta, esuberante. La forza muscolare aumenta: tutto il corpo è teso per la lotta e il gesto irresistibile colpisce, spezza o allontana violentemente l'ostacolo. Nell'ira bianca, il cuore si serra, la respirazione diventa difficile il viso si fa estremamente pallido, un sudore freddo bagna la fronte, le mascelle si chiudono, sì sta in cupo silenzio, ma l'agitazione internamente contenuta finisce con scoppiare brutalmente e si sfoga in colpi violenti. 854. 2° L'ira, considerata come sentimento è un desiderio ardente di respingere e di punire l'aggressore. A ) Vi è un' ira legittima, un santo sdegno che altro non è se non desiderio ardente, ma ragionevole, d'infliggere ai colpevoli il giusto castigo. Così Nostro Signore si accese di giusto sdegno contro i venditori che profanavano col traffico la casa di suo Padre; il sommo sacerdote Eli fu invece severamente rimproverato per non aver represso la cattiva condotta dei figli. Perché dunque l'ira sia legittima, è necessario che sia a) giusta nell'oggetto, non mirando a punire se non chi lo merita e nella misura che merita; b) moderata nell'esercizio non oltrepassando ciò che l'offesa commessa richiede e seguendo l'ordine voluto dalla giustizia; c) caritatevole nell'intenzione, non lasciandosi andare a sentimenti di odio, ma solo cercando la restaurazione dell'ordine e l’emenda del reo. Se alcuna di queste condizioni manchi, si avrà un biasimevole eccesso. L'ira è legittima particolarmente nei superiori e nei genitori; ma anche i semplici cittadini hanno talvolta il diritto e il dovere di assecondarla per difendere gli interessi della città e impedire il trionfo dei malvagi; vi sono infatti uomini per i quali poco vale la dolcezza e che temono solo il castigo. 855. B) Ma l'ira vizio capitale è violento e smodato desiderio di punire il prossimo, senza tener conto delle tre indicate condizioni. L'ira è spesso accompagnata da odio, che cerca non solo di respingere l’aggressione ma di trarne vendetta, onde è sentimento più meditato e più durevole e che ha quindi più gravi conseguenze. 856. L'ira ha vari gradi: a) al principio è solo moto d'impazienza: uno si mostra di malumore alla prima contrarietà, al primo cattivo successo; b) poi è impeto di collera, onde uno si irrita oltre misura, manifestando il malcontento con gesti disordinati; c) talvolta giunge alla violenza, sfogandosi non solo in parole ma anche con colpi; d) e può anche arrivare fino al furore, che è passeggiera pazzia; il collerico non è più padrone di sè, ma trascorre a parole incoerenti, a gesti talmente disordinati, che si direbbe vera pazzia; e) finalmente degenera talvolta in odio implacabile, che non respira che vendetta e giunge fino a desiderare la morte dell'avversario. Conviene saper distinguere questi vari gradi per valutarne la malizia. II. Malizia dell'ira. L'ira si può considerare in sè e negli effetti. 857. 1° Considerata in sè, si può ancora distinguere: A) Quando è semplicemente passeggiero moto di passione, è di natura sua peccato veniale: perchè vi è allora eccesso nel modo con cui si esercita, oltrepassando la debita misura; ma non vi è, come si suppone, violazione delle grandi virtù della giustizia o della carità. Vi sono peraltro casi in cui l'ira è talmente eccessiva che si perde la padronanza di sè e si trascorre a gravi insulti contro il prossimo; se questi moti, benchè prodotti dalla passione, sono deliberati e volontari, costituiscono colpa grave; ma spesso non sono che semivolontari. 858. B) L'ira che giunge all'odio e al rancore se deliberata e volontaria, è di natura sia peccato mortale, perchè viola gravemente la carità e spesso pure la giustizia. Di questa collera disse Nostro Signore: "Chi s'adira contro il fratello, merita di essere punito dai giudici; e chi avrà detto al fratello: Raca, merita di essere punito dal Consiglio ( Sinedrio ); e chi avrà detto: Stolto, merita di essere gettato nella geenna del fuoco". Se però il moto di odio non è deliberato o se vi si dà solo consenso imperfetto, la colpa sarà soltanto leggera. 859. 2° Gli effetti dell'ira, quando non vengono repressi, sono talvolta terribili. A) Seneca li descrisse in termini vivaci: all'ira attribuisce tradimenti, omicidi, avvelenamenti, intestine divisioni nelle famiglie, dissensioni e lotte civili, guerre con tutte le funeste loro conseguenze. Anche quando non giunge a tali eccessi, è pur sempre fonte di gran numero di colpe, perchè ci fa perdere la signorìa di noi stessi, e turba specialmente la pace delle famiglie e produce terribili inimicizie. 860. B) Rispetto alla perfezione, l'ira è, detta di S. Gregorio, grande ostacolo al progresso spirituale. Perchè, se non viene repressa, ci fa perdere: 1) il senno ossia la ponderazione; 2) la gentilezza, che abbellisce le relazioni sociali; 3) la premura della giustizia, perchè la passione ci fa misconoscere i diritti del prossimo; 4) il raccoglimento interno, così necessario all'intima unione con Dio, alla pace dell'anima, alla docilità alle ispirazioni della grazie. Conviene quindi cercarne i rimedi. III. Rimedi contro l'ira. Questi rimedi devono combattere la passione dell'ira e il sentimento di odio che ne è talora la conseguenza. 861. 1° A trionfare della passione non bisogna trascurare mezzo alcuno. A) Vi sono mezzi igienici che giovano a prevenire o a moderare la collera, come, per esempio, un regime alimentare emolliente, i bagni tiepidi, le docce, l'astinenza dalle bevande eccitanti e in particolare dalle spiritose: atteso l'intimo vincolo che corre tra l'anima e il corpo bisogna saper moderare anche il corpo. Dovendosi però, in questa materia, tener conto del temperamento e dello stato di salute, prudenza vuole che si consulti il medico. 862. B) Ma anche migliori sono i rimedi morali. a) A prevenire l'ira, è bene abituarsi a riflettere prima di operare, per non lasciarsi dominare dai primi assalti della passione: lavoro di lunga lena ma efficacissimo. b) Quando poi, nonostante ogni vigilanza, questa passione, ci sorprende il cuore, "è meglio respingerla subito anzichè mettersi a discutere con lei; perchè, per poco tempo che le si dia, diventa padrona di tutto il campo, a modo del serpente che insinua tutto il corpo dove può ficcare la testa … Appena dunque ve ne accorgete, bisogna che raccogliate subito le forze, non bruscamente o impetuosamente ma con calma e serietà". Altrimenti, volendo reprimere l'ira con impetuosità, ci turbiamo anche di più. c) A reprimere meglio l'ira, è utile distrarsi, pensando ad altro che a ciò che può eccitarla; bisogna quindi bandire il ricordo delle ingiurie ricevute, allontanare i sospetti, ecc. d) "Bisogna invocare l'aiuto di Dio quando ci sentiamo agitati dalla collera, ad imitazione degli Apostoli vessati dal vento e dalla tempesta in mezzo al lago, e Dio comanderà alle nostre passioni di calmarsi, onde seguirà grande bonaccia". 863. 2° Quando l'ira eccita in noi sentimenti di odio, di rancore o di vendetta, non si può radicalmente guarirli che con la carità fondata sull'amore di Dio. È bene rammentare che siamo tutti figli dello stesso Padre celeste, incorporati allo stesso Cristo, chiamati alla stessa felicità eterna, e che queste grandi verità sono incompatibili con ogni sentimento di odio. Quindi: a) Si richiameranno le parole del Pater: rimetti a noi i nostri debiti come noi rimettiamo ai nostri debitori; vivamente desiderando di ricevere il perdono di Dio, si perdonerà più volentieri ai propri nemici. b) Non si dimenticheranno gli esempi di Nostro Signore che dà a Giuda il nome di amico anche nel momento del tradimento e che dall'alto della croce prega per i suoi carnefici; e gli si chiederà il coraggio di dimenticare e di perdonare. c) Si schiverà di pensare alle ingiurie ricevute e a tutto ciò che vi si riferisce. I perfetti pregheranno per quelli che li hanno offesi e troveranno in questa preghiera grande addolcimento alle ferite dell'anima. Tali sono i mezzi principali per trionfare dei tre primi peccati capitali, l'orgolio, l'invidia, e l'ira; passiamo ora a trattare dei difetti che derivano dalla sensualità o dalla concupiscenza della carne: gola, lussuria e accidia. ART. II. Dei peccati che si connettono con la sensualità § I. Della gola. La golosità non è che l'abuso del legittimo diletto che Dio volle associare al mangiare e al bere tanto necessari alla conservazione dell'individio. Ne diremo: 1° la natura; 2° la malizia; 3° i rimedi. 864. 1° Natura. La golosità è l'amore disordinato dei piaceri della tavola, del bere o del mangiare. Il disordine consiste nel cercare il diletto del nutrimento per se stesso, considerandolo esplicitamente o implicitamente come fine, ad esempio di coloro che si fanno un Dio del loro ventre, "[quorum Deus venter est] il cui Dio è il ventre"; o nel cercarlo con eccesso, senza darsi pensiero delle regole della sobrietà e qualche volta anche con danno della salute. 865.I teologi notano quattro modi diversi di mancare a queste regole. [Præpropere] frettolosamente: mangiar prima che se ne senta il bisogno, fuori delle ore stabilite per i pasti, facendolo senza ragione, per pura golosità. [Laute et studiose] Sontuosamente: cercar vivande squisite o squisitamente cucinate per averne maggior diletto: è il peccato dei buongustai e dei ghiottoni. [Nimis] troppo: oltrepassare i limiti dell'appetito o del bisogno, rimpinzarsi di cibo o di bevanda, a rischio di guastarsi la salute; è chiaro che il solo piacere disordinato può spiegare quest'eccesso, che nel mondo viene detto voracità. [Ardenter] ardentemente: mangiare avidamente, ingordamente, come certi animali; l'ingordigia è tenuta nel mondo per grossolanità. 866. 2° La malizia della golosità deriva dal fatto che rende l'anima schiava del corpo, abbrutisce l'uomo, ne infiacchisce la vita intellettuale e morale, e lo prepara per insensibile pendìo ai diletti della voluttà, che in fondo è vizio dello stesso genere. Per valutarne la colpevolezza, occorre fare una distinzione. A) La golosità è colpa grave: a) quando arriva ad eccessi tali da renderci incapaci, per un tempo notevole, di adempiere i doveri del nostro stato o di obbedire alle leggi divine o ecclesistiche; per esempio, quando nuoce alla salute, quando è fonte di pazze spese che danneggiano la famiglia, quando fa che si violino le leggi dell'astinenza o del digiuno. b) Lo stesso è a dire quando diventa causa di colpe gravi. Diamone alcuni esempi. "Gli eccessi della tavola, dice il P. Janvier, dispongono all'incontinenza che è figlia della golosità. Incontinenza degli occhi e delle orecchie che chiedono pernicioso pascolo agli spettacoli e ai canti licenziosi; incontinenza della fantasia che si sconcerta; incontinenza della memoria che cerca nel passato ricordi capaci d'eccitare la concupiscenza; incontinenza del pensiero che, traviando, si disperde in oggetti illeciti; incontinenza del cuore che aspira ad affetti carnali; incontinenza della volontà che rinunzia alla sua signoria per farsi schiava dei sensi … L'intemperanza della tavola conduce all'intemperanza della lingua. Quante colpe non commette la lingua nei sontuosi e prolungati pranzi! Colpe contro la gravità … Colpe contro la discretezza. Si tradiscono segreti che si era promesso di custodire, sacri segreti professionali, e si dà in pascolo alla malignità il buon nome d'un marito, d'una sposa, d'una madre, l'onore d'una famiglia, e perfino l'avvenire d'una nazione. Colpe contro la giustizia e la carità! La maldicenza, la calunnia, la detrazione nelle forme più inescusabili corrono liberamente e senza riguardo … Colpe contro la prudenza! Si prendono impegni che non si potranno poi mantenere senza offendere tutte le leggi della morale …. 867. B) La golosità è colpa soltanto veniale quando si cede ai diletti della mensa immoderatamente, senza però cadere in eccessi gravi e senza esporsi a violare importanti precetti. Così sarebbe peccato veniale mangiare o bere più del consueto, per diletto, per far onore a un buon pasto o per compiacere un amico, senza commettere notevole eccesso. 868. C) Rispetto alla perfezione, la golosità è ostacolo serio: 1) alimenta l'immortificazione, che infiacchisce la volontà, e fomenta l'amore del sensuale diletto che prepara poi l'anima a pericolosi tracolli; 2) è fonte di molte colpe, producendo allegria eccessiva, che porta alla dissipazione, al cicalìo, alle facezie di cattivo gusto, alla mancanza di riserbo e di modestia, e apre l'anima agli assalti del demonio. Conviene quindi combatterla. 869. 3° Rimedi. Nascondi Il principio che deve guidarci nella lotta contro la gola è che il piacere non è fine ma mezzo, onde dev'essere subordinato alla retta ragione illuminata dalla fede, n. 193. Ora la fede ci dice che dobbiamo santificare i piaceri della mensa con la purità d'intenzione, la sobrietà e la mortificazione. 1) Prima di tutto bisogna cibarsi con intenzione retta e soprannaturale, non da animale che cerca solo il piacere, non da filosofo che si contenta di intenzione onesta, ma da cristiano, per meglio lavorare alla gloria di Dio: in ispirito di riconoscenza alla bontà di Dio che si degna darci il pane quotidiano; in ispirito d'umiltà, pensando con S. Vincenzo de' Paoli che non meritiamo il pane che mangiamo; in ispirito d'amore, adoprando le ricuperate forze al servizio di Dio e delle anime. Adempiamo così la raccomandazione di S. Paolo ai primi cristiani, che in molte comunità viene richiamata al principio dei pasti: "Sia che mangiate, sia che beviate, fate tutto alla gloria di Dio: [sive ergo manducatis, sive bibitis… omnia in gloriam Dei facite] Sia dunque che mangiate, o bere … fate tutto per la gloria di Dio". 870. 2) Questa purità d'intenzione ci farà serbare la sobrietà ossia la giusta misura: volendo infatti mangiare per acquistare le forze necessarie all'adempimento dei doveri del nostro stato, schiveremo tutti gli eccessi che ci potrebbero danneggiar la salute. Ora, dicono gli igienisti, "la sobrietà o frugalità è essenziale condizione del vigore fisico e morale. Mangiando per vivere, dobbiamo mangiare sanamente per vivere sanamente. Non bisogna quindi nè mangiare troppo nè troppo bere … Bisogna levarsi da mensa con sensazione di leggerezza e di vigore, restare con un po' d'appetito, e schivare la pesantezza per eccesso di buona tavola". È però bene notare che la misura non è uguale per tutti. Vi sono temperamenti che, a preservarsi dalla tubercolosi, esigono più copiosa alimentazione; altri invece, a combattere l'artritismo, devono moderar l'appetito. Ognuno quindi s'attenga in questo ai consigli d'un savio medico. 871. 3) Alla sobrietà il cristiano aggiunge la pratica di qualche mortificazione. A) Essendo facile sdrucciolare sul pendìo e concedere troppo alla sensualità, è bene privarsi talora di qualche alimento che piace, che sarebbe anzi utile, ma non necessario. Si acquista così una certa padronanza sulla sensualità, sottraendole alcune legittime soddisfazioni; si svincola l'anima dalla servitù dei sensi, le si dà maggior libertà per la preghiera e per lo studio, e si scansano molte tentazioni pericolose. B) Ottima pratica è l'abituarsi a non prender pasto senza fare qualche mortificazione. Queste piccole privazioni hanno il vantaggio di rinvigorire la volontà senza nuocere alla salute, e sono quindi generalmente preferibili alle mortificazioni più importanti che non occorrono che di rado. Le anime pie vi aggiungono un motivo di carità; si lascia qualche cosa per i poveri, e quindi per Gesù che vive nella loro persona; però, come bene osserva S. Vincenzo Ferreri, ciò che si lascia non dev'essere cosa di rifiuto, ma boccone scelto, sia pur piccolo. Ed è pure buona pratica abituarsi a mangiare un po' di ciò che non piace. 872. C) Tra le mortificazioni più utili poniamo quelle dei liquori alcoolici. Richiamiamo su questo punto alcuni principii: a) In sè l'uso moderato dell'alcool o delle bevande spiritose non è male: non si possono quindi biasimare i laici o gli ecclesiastici che ne usano moderatamente. b) Ma l'astenersi per spirito di mortificazione o per dar buon esempio, è certo lodevolissima cosa. Quindi certi sacerdoti e certi laici addetti all'azione cattolica si astengono da ogni liquore per dissuaderne più facilmente gli altri. c) Vi sono casi in cui tale astinenza è moralmente necessaria per scansare eccessi: 1) quando, per atavismo, si è ereditata una certa propensione alle bevande spiritose: anche il semplice uso può allora generare una quasi irresistibile inclinazione, come basta una scintilla per suscitar un incendio in materie infiammabili; 2) chi avesse avuto la disgrazia di contrarre inveterate abitudini d'alcoolismo: il solo rimedio efficace ne sarà allora spesso l'astinenza totale. § II. La Lussuria. 873.1° Natura. Dio, come volle che un sensibile diletto fosse annesso al nutrimento per aiutare l'uomo a conservare la vita, così associò pure speciale diletto agli atti con cui l'umana specie si propaga. Lecito quindi è questo diletto alle persone coniugate, a patto che ne usino per il nobilissimo fine per cui il matrimonio fu istituito, la trasmissione della vita; fuori del matrimonio è rigorosamente proibito. Nonostante questa proibizione, vi è sciaguratamente in noi, soprattutto a cominciare dall'età della pubertà o della adolescenza, una tendenza più o meno violenta a gustare questo diletto anche fuori del legittimo matrimonio. È quella disordinata tendenza che si chiama lussuria e che viene condannata nel sesto e nel nono precetto del Decalogo: "Non commettere atti impuri; non desiderare la donna d'altri". Non dunque i soli atti esterni vengono proibiti ma anche gli atti interni acconsentiti, immaginazioni, pensieri, desideri. E a ragione: perchè se uno si ferma deliberatamente su fantasie o pensieri disonesti e su desideri cattivi, i sensi si turbano, e sorgono moti organici che non sono bene spesso se non preludio d'atti contrari alla purità. Chi dunque vuole schivare questi atti, deve pur combattere i pericolosi pensieri e le pericolose immaginazioni. 874. 2° Gravità di queste colpe. A) Quando si cerca e si vuole direttamente il piacere cattivo, il voluttuoso diletto, si commette peccato mortale. È infatti gravissimo disordine compromettere la conservazione e la propagazione dell'umana stirpe. Ora, posto come principio che si possano cercare i diletti della voluttà in pensieri, in parole o in atti, fuori del legittimo uso del matrimonio, sarebbe impossibile porre un freno al furore di questa passione, le cui esigenze aumentano con le soddisfazioni che le si concedono, e presto il fine del Creatore verrebbe frustrato. Il che si fa pur manifesto dall'esperienza: quanti giovani si rendono incapaci di trasmettere la vita per aver abusato del loro corpo! Quindi nel piacere cattivo direttamente voluto non si dà parvità di materia. B) Ma vi sono casi in cui questo piacere, senza che sia direttamente cercato, sorge per effetto di certe azioni peraltro buone o almeno indifferenti. Se non vi si consente e se d'altra parte si ha ragione sufficiente per far l'azione che vi da occasione, non c'è peccato e non bisogna quindi impensierirsene. Ma se gli atti che causano queste sensazioni non sono nè necessari nè utili, come le letture pericolose, le rappresentazioni teatrali, le conversazioni leggere, i balli lascivi, è chiaro che l'abbandonarvisi è peccato d'imprudenza più o meno grave secondo la gravità del disordine così prodotto e del pericolo di acconsentirvi. 875. C) Rispetto alla perfezione, non v'è, dopo la superbia, ostacolo più grande al progresso spirituale, del vizio impuro. a) O si tratta di peccati solitari o di peccati commessi con altri, non tardano a produrre tiranniche abitudini che spengono ogni slancio alla perfezione e inclinano la volontà ai grossolani diletti. Non più gusto per la preghiera; non più gusto per le austere virtù; non più nobili e generose aspirazioni. b) L'anima è invasa dall'egoismo: l'amore che si aveva per i genitori o per gli amici intristisce e scompare quasi intieramente; non resta più che l'avidità di godere a ogni costo dei cattivi diletti: è una vera ossessione. c) Rotto è allora l'equilibrio delle facoltà: il corpo e la voluttà hanno l'impero; la volontà diviene schiava di questa vergognosa passione e presto si rivolta contro Dio che interdice e castiga questi cattivi piaceri. d) I tristi effetti di questa abdicazione della volontà si fanno presto sentire: l'intelligenza infiacchisce e s'ottunde perchè la vita è discesa dalla testa nei sensi: non si ha più gusto per gli studi seri; l'immaginazione non si volge più che a cose basse; il cuore a poco a poco sfiorisce, si fa arido e duro, non sentendo più allettative che per i grossolani diletti. e) Spesso anche il corpo ne rimane profondamente colpito: il sistema nervoso, sovraeccitato da questi abusi, s'irrita, si svigorisce e "diviene inetto all'ufficio di regolazione e di difesa"; i vari organi non funzionano più che imperfettamente; la nutrizione si fa male, cadono le forze e si è minacciati di consunzione. È chiaro che un'anima così sconvolta, avvivante un corpo debole, non pensa più alla perfezione; se ne allontana anzi ogni giorno più; fortunata se potrà ravvedersi a tempo e assicurarsi almeno l'eterna salvezza! Conviene quindi indicare alcuni rimedi contro questo grossolano vizio. 876. 3° Rimedi. Per resistere a passione così pericolosa, occorrono: convinzioni profonde, fuga delle occasioni pericolose, mortificazione e preghiera. A) Convinzioni profonde e sulla necessità di combattere questo vizio e sulla possibilità di riuscirvi. a) Quanto dicemmo sulla gravità del peccato della lussuria mostra quanto sia necessaria fuggirlo per non esporsi alle pene eterne. Vi si possono aggiungere due altri motivi tratti da S. Paolo: Nascondi 1) Siamo templi vivi della SS. Trinità, templi santificati dalla presenza del Dio d'ogni santità e da una partecipazione della vita divina ( 97, 106 ). Ora nulla insozza maggiormente questo tempio quanto il vizio impuro che profana nello stesso tempo il corpo e l'anima del battezzato. 2) Siamo membra di Gesù Cristo, a cui fummo incorporati col battesimo; dobbiamo quindi rispettare il nostro corpo come il corpo stesso di Cristo. E vorremo profanarlo con atti contrari alla purità? Non sarebbe questo una specie di obbrobrioso sacrilegio? e tutto per procurarci un grossolano diletto che ci abbassa al livello dei bruti? 877. b Ci sono molti che dicono che è impossibile praticare la continenza. Così la pensava pure Agostino prima di convertirsi. Ma ritornato a Dio e sorretto dagli esempi dei Santi e dalla grazia dei Sacramenti, capì che non c'è nulla d'impossibile quando si sa pregare e lottare. E questa è la pura verità: da noi siamo così deboli e il piacere cattivo è talora così lusinghiero che finiremmo per soccombere: ma quando ci appoggiamo sulla grazia divina e facciamo sforzi energici, usciamo vittoriosi dalle più rudi tentazioni. Nè si dica che la continenza nei giovani è contraria alla sanità; i medici onesti rispondono col Congresso internazionale di Bruxelles: "Bisogna soprattutto insegnare alla gioventù maschile che la castità e la continenza non solo non sono nocive, ma che anzi queste virtù sono raccomandabili anche sotto l'aspetto puramente medico ed igienico". Non si conosce infatti nessuna malattia prodotta dalla continenza, mentre ve ne sono molte che hanno origine nella lussuria. 878. B) La fuga delle occasioni. È assioma spirituale che la castità si conserva principalmente con la fuga delle occasioni pericolose; quando uno è convinto della propria debolezza non si espone inutilmente al pericolo. Quando si tratta di occasioni non necessarie, bisogna diligentemente fuggirle sotto pena di soccombervi: chi si espone al pericolo vi perisce: "[qui amat periculum in illo peribit] Chi ama il pericolo perirà in". Quando dunque si tratti di letture, di visite, d'incontri, di rappresentazioni pericolose, a cui uno può senza notevole inconveniente sottrarsi, non si deve esitare; in cambio di cercarle si fuggono come si fugge un pericoloso serpente. Se poi queste occasioni non possono essere evitate, bisogna rafforzare la volontà con disposizioni interne che rendano i pericolo meno prossimo. Così S. Francesco di Sales dichiara che se le danze non si possono evitare, devono almeno essere accompagnate da modestia, dignità e retta intenzione; onde poi queste pericolose ricreazioni non abbiano a destare cattivi affetti, è bene riflettere che, durante quel ballo, molte anime ardono nell'inferno per i peccati commessi nel ballo o per causa del ballo. Quanto più vero è questo oggi che balli esotici e lascivi hanno invaso tanti saloni! 879. C) Vi sono però occasioni che non si possono evitare, e sono quelle che uno incontra ogni giorno dentro di sè e fuori di sè, e che non si possono vincere che con la mortificazione. Nascondi Abbiamo già detto che cosa sia questa virtù e quali ne siano le pratiche, n. 754-815. Non possiamo che richiamare alcune delle sue prescrizioni che riguardano più direttamente la castità. a) Gli occhi specialmente devono essere custoditi, perchè gli sguardi imprudenti accendono i desideri e questi trascinano la volontà. Ecco perchè Nostro Signore afferma che chi guarda una donna con concupiscenza, ha già commesso adulterio nel suo cuore: "[qui viderit mulieren ad ad concupiscendam eam, jam mæchatus est in corde suo] mulieren per andare a chi guarda il desiderio di lei, hath già commesso adulterio nel suo cuore"; e aggiunge che se l'occhio destro ci è occasione di scandalo, bisogna strapparlo, vale a dire allontanare energicamente lo sguardo dall'oggetto che ci scandalizza. Questa modestia degli occhi è tanto più necessaria oggi che si è esposti ad incontrare quasi dappertutto persone e cose capaci di suscitare tentazioni. b) Il senso del tatto è anche più pericoloso, perchè eccita impressioni sensuali che tendono facilmente a cattivi diletti; bisogna quindi astenersi da quei toccamenti o carezze che non possono che eccitare le passioni. Nascondi c) Quanto alla fantasia e alla memoria, si richiamino le regole esposte al n. 781. Riguardo alla volontà, bisogna rinvigorirla con virile educazione, secondo i principi esposti ai n. 811-816. 880. d) Anche il cuore dev'essere mortificato con la lotta contro le sensibili e pericolose amicizie ( n. 600-604 ). È vero che viene un momento in cui le persone che si preparano al matrimonio si legano di legittimo amore, ma sia amore casto e soprannaturale; schiveranno quindi quei segni d'affetto che fossero contrari alle leggi della decenza, rammentandosi che la loro unione, per poter essere benedetta da Dio, deve restare pura. Quanto alle persone ancora troppo giovani da pensare al matrimonio, staranno in guardia contro quelle affezioni sensibili che, ammollendo il cuore, lo preparano a pericolose transazioni. Non si può impunemente scherzare col fuoco. E poi se uno esige dalla persona che vuole sposare un cuore puro, non dovrà essere puro anche quello che le offre? 881. e) Finalmente una delle più utili mortificazioni è l'energica e costante applicazione ai doveri del proprio stato. L'ozio è cattivo consigliere; il lavoro invece, occupando tutta la nostra attività, ci allontana la fantasia, la mente e il cuore dagli oggetti pericolosi; sul che ritorneremo presto, al n. 887. 882. D) La preghiera. a) Il Concilio di Trento ci avverte che Dio nulla comanda d'impossibile ma ci chiede di fare quello che possiamo e di pregare per ottener quello che da noi non possiamo. Prescrizione che si applica soprattutto alla castità, la quale presenta per la maggior parte dei cristiani, anche per quelli che sono nel santo stato del matrimonio, speciali difficoltà. A trionfarne, bisogna pregare, pregare spesso, e meditare sulle grandi verità: queste frequenti ascensioni dell'anima a Dio ci distaccano a poco a poco dai sensuali diletti per elevarci a pure e sante delizie. b) Alla preghiera bisogna aggiungere la pratica frequente dei sacramenti. 1) Quando uno si confessa spesso, e sinceramente si accusa delle colpe o delle imprudenze commesse contro la purità, la grazia dell'assoluzione, unita ai consigli del confessore, invigorisce in singolare modo la volontà contro le tentazioni. 2) Grazia che maggiormente si rinsalda con la comunione frequente: l'intima unione col Dio d'ogni santità smorza la concupiscenza, rende l'anima più sensibile ai beni spirituali e la distacca quindi dai grossolani diletti. Con la confessione e con la comunione frequente S. Filippo Neri guariva i giovani abituati nel vizio impuro; e anche oggi non c'è rimedio più efficace sia a preservare come a fortificare la bella virtù. Se tanta gioventù maschile e femminile sfugge al contagio del vizio, lo deve alle pratiche religiose, ove trova l'arma efficace contro le tentazioni che l'assediano. È vero che quest'arma richiede coraggio, energia, frequenti rinnovati sforzi; ma con la preghiera, coi sacramenti e con la salda volontà si trionfa di tutti gli ostacoli. § III. L'accidia o pigrizia. 883. L'accidia o pigrizia si connette con la sensualità, perchè sorge in sostanza dall'amore del piacere in quanto ci porta a fuggire lo sforzo o l'incomodo. Vi è infatti in noi tutti una tendenza al minimo sforzo che intorpidisce o diminuisce la nostra operosità. Esponiamone: 1° la natura; 2° la malizia; 3° i rimedi. 884. 1° Natura. A) L'accidia è una tendenza all'ozio o almeno alla negligenza e al torpore nell'operare. È talora disposizione morbosa proveniente da cattivo stato di salute; ma ordinariamente è malattia della volontà che paventa e rifiuta lo sforzo. L'accidioso vuole schivare ogni pena, tutto ciò che può turbarne il riposo e indurre qualche fatica. Vero parassita, vive, per quanto gli è possibile, a spese altrui. Dolce e rassegnato finchè non viene disturbato, s'arrabbia e incattivisce quando si vuole trarlo dalla sua inerzia. b) Vi sono vari gradi nell'accidia. a) L'indolente non pone mano al lavoro che con lentezza, fiacchezza e indifferenza; se fa qualche cosa, la fa male. b) Il fannullone non rifiuta assolutemente il lavoro, ma indugia, va a zonzo e ritarda indefinitamente l'affare che aveva accettato. c) Il vero accidioso o pigro o infingardo non vuole far nulla di faticoso e mostra spiccata avversione per ogni lavoro serio di corpo e di mente. C) Quando la pigrizia riguarda gli esercizi di pietà ritiene in particolar modo il nome di accidia e consiste in un certo disgusto alle pratiche spirituali, che induce a farle con negligenza, ad abbreviarle, e talora anche ad ometterle sotto vani pretesti. È la madre della tiepidezza, di cui parleremo a proposito della via illuminativa. 885. 2° Malizia. A) A capire la malizia dell'accidia, bisogna ricordarsi che l'uomo è fatto per il lavoro. Quando Dio ebbe creato il nostro primo padre, lo pose in un giardino di delizie perchè lo coltivasse: "[ut operaretur et custodiret illum] vestire e per mantenerlo". L'uomo infatti non è, come Dio, un essere perfetto; possiede molteplici facoltà che hanno bisogno di operare per perfezionarsi: è quindi per lui necessità di natura il lavorare per coltivare queste facoltà, per provvedere ai bisogni del corpo e dell'anima e tendere così al proprio fine. La legge del lavoro precede dunque il peccato originale. Caduto l'uomo nel peccato, il lavoro diventò per lui non solo legge di natura ma castigo, nel senso che il lavoro gli riesce ora penoso ed è come mezzo per riparare il peccato; col sudore della fronte dobbiamo mangiare il nostro pane, il pane dell'intelligenza e il pane che nutrisce il corpo: "[in sudore vultus tui vesceris pane] Con il sudore della tua fronte". Ora a questa doppia legge, naturale e positiva, contravviene l'accidioso; onde commette un peccato la cui gravità dipende dalla gravità dei doveri da lui trascurati. a) Quando giunge fino a trascurare i doveri religiosi necessari alla sua eterna salute o alla sua santificazione, fa peccato grave. Così pure quando trascura volontariamente, in materia rilevante, qualcuno dei doveri del suo stato. b) Se poi questo torpore non gli fa trascurare che doveri, religiosi o civili, di non molta importanza, il peccato è soltanto veniale. Ma il pendìo è sdrucciolevole e, se questa indolenza non viene combattuta, presto si aggrava e diventa più funesta e più colpevole. 886. B) Rispetto alla perfezione, l'accidia o pigrizia spirituale è uno degli ostacoli più seri pei funesti suoi effetti. a) Rende la vita più o meno sterile. Si può infatti applicare all'anima quanto la Sacra Scrittura dice del campo dell'uomo pigro: "Passai accanto al podere di un neghittoso e presso il vigneto d'un uomo privo di senno: ed eccoli pieni di erbacce; le ortiche ne coprivano la superficie, e il muricciolo di pietre giaceva demolito. A quella vista io riflettei: quello spettacolo fu per me una lezione. Un po' sonnecchiare, un po' dormire, un po' con le mani in mano per riposare; e ti sopraggiunge, come un vagabondo, la miseria e l'indigenza come un accattone". È proprio ciò che si trova nell'anima dell'accidioso: invece delle virtù vi crescono i vizi, e i muri che la mortificazione aveva eretto a proteggerne la virtù, a poco a poco si sgretolano e preparono la via all'invasione del nemico, vale a dire del peccato. 887. b) Presto infatti le tentazioni diventano più vigorose e più insistenti: "perchè l'ozio insegna molta malizia, multam malitiam docuit otiositas". Per questo vizio e per l'orgoglio rovinò Sodoma: "Ecco quale fu il delitto di Sodoma: l'orgoglio, l'abbondanza e l'accidioso riposo in cui vivevano le sue donne". La mente e il cuore dell'uomo non possono infatti restare inoperosi: se non si occupano nello studio o in qualche altro lavoro, vengono subito invasi da una folla di fantasmi, di pensieri, di desideri e d'affetti; ora, nello stato di natura decaduta, ciò che domina in noi, quando non le contrastiamo, è la triplice concupiscenza; saranno quindi pensieri sensuali, ambiziosi, orgogliosi, egoistici, interessati, quelli che prenderanno il sopravvento nell'anima e la esporranno al peccato. 888. C) Si tratta quindi non solo della perfezione dell'anima ma anche della eterna salvezza. Perchè, oltre le colpe positive in cui l'ozio ci fa cadere, il solo fatto di non adempiere gli importanti nostri doveri è sufficiente causa di riprovazione. Fummo creati per servire Dio e adempiere i doveri del nostro stato, siamo operai mandati da Dio a lavorare nella sua vigna; ora il padrone non chiede soltanto agli operai di astenersi dal mal fare, ma vuole che lavorino; se quindi, anche senza commettere atti positivi contro le leggi divine, noi incrociamo le braccia invece di lavorare, il Padrone non avrà ragione di rimproverarci, come agli operai evangelici, il nostro ozio? "[quid statis tota die otiosi?] Che tutto il giorno oziosi?" L'albero sterile, per il solo fatto di non produrre frutti, merita di essere tagliato e gettato al fuoco: "[omnis ergo arbor, quæ non facit fructum bonum, excidetur et in ignem mittetur] perciò ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco". 889. 3° Rimedi. A) A guarire il pigro bisogna prima di tutto inculcargli convinzioni profonde sulla necessità del lavoro, fargli capire che ricchi e poveri sono soggetti a questa legge, e che il mancarvi basta ad incorrere l'eterna dannazione. È questa la lezione che ci dà Nostro Signore nella parabola del fico sterile; per tre anni viene il padrone a cercarvi frutti: non trovandovene, ordina al vignaiuolo di atterrarlo: "[succide illam, ut quid terram occupat?] Tagliare giù, perché occupare la terra?". Nè si dica: io sono ricco e non ho bisogno di lavorare. Se non avete bisogno di lavorare per voi, dovete farlo per gli altri. Ve lo comanda Dio, vostro padrone: vi diede le braccia, un'intelligenza, un cervello, dei mezzi, perchè li utilizziate a gloria sua e a bene dei fratelli. Non mancano certo le opere buone da fare: quanti poveri da soccorrere, quanti ignoranti da istruire, quanti cuori affranti da consolare, quante grandi imprese da fondare per dare a chi ne abbisogna pane e lavoro! E volendo farsi una numerosa famiglia, non bisogna forse penare e faticare per assicurare l'avvenire dei figli? Non si dimentichi dunque la grande legge della solidarietà cristiana, in virtù della quale il lavoro dei singoli serve a tutti, mentre la pigrizia nuoce tanto al bene generale come al particolare. 890. B) Alle convinzioni conviene aggiungere il continuato e metodico sforzo, applicando le regole esposte sulla educazione della volontà, n. 812. E poichè il pigro indietreggia come per istinto davanti allo sforzo, è opportuno mostrargli che in fin dei conti non vi è uomo più infelice dell'ozioso: perchè, non sapendo come impiegare o, com'egli dice, ammazzare il tempo, s'annoia, si disgusta di tutto, e finisce col prendere in orrore la stessa vita. Non è dunque meglio fare un poco di sforzo, rendersi utile, e procurarsi un poco di felicità studiandosi di rendere felici quelli che gli stanno intorno? Fra gli accidiosi vi sono di quelli che adoprano una certa attività, ma unicamente in giuochi, in divertimenti ginnastici, in riunioni mondane. Si rammenti a costoro che cosa seria è la vita e che si è obbligati a rendersi utili, cosicchè rivolgano l'attività a campo più nobile e sentano orrore di essere parassiti. Il matrimonio cristiano, con gli obblighi domestici che porta seco, è spesso ottimo rimedio: un padre di famiglia sente bisogno di lavorare per i figli, e di non affidare a stranieri l'amministrazione dei loro beni. Quello però che non bisogna cessare mai di richiamare, è lo scopo della vita: siamo qui sulla terra, non per vivere da parassiti, ma per conquistarci, col lavoro e con la virtù, un posto nel cielo. E Dio continuamente ci ripete: Che fate dunque qui, o pigri? Andate anche voi a lavorare nella mia vigna. "[Quid hic statia tota die otiosi?… Ite et vos in vineam meam] Perché ve ne state qui tutto il giorno inoperosi … Andate anche voi nella vigna". ART. III. L'avarizia Nascondi L'avarizia si collega con la concupiscenza degli occhi, di cui abbiamo già parlato, n. 199. Ne esporremo: 1° la natura; 2° la malizia; 3° i rimedi. 891. 1° Natura. L'avarizia è l'amore disordinato dei beni della terra. Per mostrare ove sta il disordine dell'avarizia, bisogna primieramente richiamare lo scopo per cui Dio diede all'uomo i beni temporali. A) Lo scopo che Dio si propose è doppio: l'utilità nostra e quella dei nostri fratelli. a) I beni della terra ci sono dati per provvedere ai bisogni temporali dell'uomo, dell'anima e del corpo, per conservare la vita a noi e ai nostri dipendenti, e per procurarci i mezzi di coltivare l'intelligenza e le altre nostre facoltà. Di questi beni: 1) gli uni sono necessari per il presente o per l'avvenire: è doveroso acquistarli con l'onesto lavoro; 2) gli altri sono utili per accrescere gradatamente le nostre sostanze, assicurare il benessere nostro o quello degli altri, contribuire al bene pubblico favorendo le scienze o le arti. Non è proibito desiderarli per un fine onesto, a patto che si tenga conto dei poveri e delle opere di beneficenza. b) Questi beni ci sono dati anche per venire in aiuto dei fratelli che si trovano nell'indigenza. Siamo quindi, fino a un certo punto, i tesorieri della Provvidenza, e dobbiamo disporre del superfluo per soccorrere i poveri. 892. B) Ci è ora più facile dire ove sta il disordine nell'amore dei beni della terra. a) Sta qualche volta nell'intenzione: si desiderano le ricchezze per se stesse, come fine, o per fini intermedi che uno si fissa come fine ultimo, per esempio, per procurarsi piaceri e onori. Chi si ferma qui e non considera la ricchezza come mezzo per conseguire beni superiori, commette una specie d'idolatria, è il culto del vitello d'oro: non si vive più che pel denaro. b) Sta pure nel modo di acquistarli: si cercano avidamente, con ogni sorta di mezzi, a scapito dei diritti altrui, con danno della salute propria o di quella degli impiegati, con speculazioni rischiose, con pericolo di perdere il frutto dei propri risparmi. c) Sta anche nel modo di usarne: 1) non si spendono che a malincuore, con spilorceria, perchè si vuole accumularli, a fine di avere maggior sicurezza, o godere dell'influenza che viene dalla ricchezza; 2) non si dà nulla ai poveri o alle opere buone: capitalizzare, ecco lo scopo supremo a cui incessantemente si mira. 3) Ci sono di quelli che giungono ad amare il denaro come un idolo, a riporlo nei forzieri, a palparlo amorosamente: è il tipo classico dell'avaro. 893. C) Non è generalmente questo il difetto dei giovani, che, leggeri ancora e imprevidenti, non pensano a capitalizzare; vi sono però eccezioni tra i caratteri cupi, inquieti, calcolatori. Si manifesta nell'età matura o nella vecchiaia: sorge infatti allora la cosiddetta paura di restare senza, fondata talvolta sul timore di malattie o di accidenti che possono produrre impotenza o incapacità al lavoro. I celibi, o vecchi scapoli e le zitellone vi sono particolarmente soggetti, non avendo figli che li possano soccorrere nella vecchiaia. 894. D) La civiltà moderna sviluppò un'altra forma dell'insaziabile amore delle ricchezze, la plutocrazia, la sete di diventare milionari o miliardari, non già per assicurare l'avvenire a sè o ai figli, ma per acquistare quell'autorità dominatrice che viene dalle ricchezze. Quando uno può disporre di somme enormi, gode grandissima autorità, esercita un potere spesso più efficace di quello dei governanti, è re del ferro, dell'acciaio, del petrolio, della finanza, e comanda a Sovrani e a popoli. Questa signoria dell'oro degenera spesso in intollerabile tirannia. 895. 2° Sua malizia. A) L'avarizia è segno di diffidenza verso Dio, che promise di vigilare su noi con paterna sollecitudine, e di non lasciarci mancare mai del necessario, purchè abbiamo fiducia in lui. C'invita a considerare gli uccelli del cielo che non seminano nè mietono, i gigli del campo che non lavorano nè filano, non certo per animarci alla pigrizia, ma per calmare le nostre ansie e invitarci alla confidenza nel Padre celeste. Ora l'avaro, in cambio di porre la confidenza in Dio, la ripone nella copia delle ricchezze e fa ingiuria a Dio diffidando di lui: "[Ecce homo qui non posuit Deum adjutorem suum, sed speravit in multitudine divitiarum suarum et prævaluit in vanitate sua] Ecco l'uomo che ha fatto non a Dio il suo aiuto, ma confidava nell'abbondanza delle sue ricchezze, e si rafforza nella sua vanità". Diffidenza che è accompagnata da eccessiva confidenza in sè e nella propria attività: uno vuole essere la provvidenza propria e così si cade in una specie d'idolatria, facendo dell'oro il proprio Dio. Ora nessuno può servire nello stesso tempo due padroni, Dio e la ricchezza: "[non potestis Deo servire et mammonæ] Non potete servire a Dio e a mammona". Questo peccato è dunque di natura sua grave per le ragioni ora indicate; lo è pure quando fa ledere doveri gravi: di giustizia, per i mezzi fraudolenti di cui uno si serve ad acquistare e ritenere la ricchezza; di carità, quando non si fanno le elemosine necessarie; di religione, quando uno si lascia talmente sopraffarre dagli affari da lasciare da parte i doveri religiosi. Ma è peccato soltanto veniale quando non ci fa contravvenire ad alcuna delle grandi virtù cristiane, compresi i doveri verso Dio. 896. B) Rispetto alla perfezione, l'amore disordinato delle ricchezze è ostacolo gravissimo. a) È passione che tende a soppiantare Dio nel nostro cuore: questo cuore, tempio di Dio, è invaso da ogni sorta di desideri affannosi per le cose della terra, di inquietudini, di opprimenti pensieri. Ora, per unirsi a Dio, bisogna vuotare il cuore di ogni creatura e di ogni affannosa cura delle cose terrene; perchè Dio vuole "tutta la mente, tutto il cuore, tutto il tempo e tutte le forze delle meschine sue creature". Bisogna vuotarlo soprattutto di superbia: ora l'affetto alle ricchezze fomenta la superbia perchè ci fa riporre maggiore fiducia nelle ricchezze che in Dio. Attaccare il cuore al denaro è quindi mettere ostacolo all'amor di Dio; perchè là ov'è il nostro tesoro, ivi pure è il nostro cuore: "[ubi thesaurus vester, ibi et cor vestrum erit] dov'è il tuo tesoro, lì sarà il tuo cuore". Distaccarnelo è aprire a Dio la porta del cuore: l'anima spoglia di ricchezze è ricca di Dio: [toto Deo dives est] Dio è ricco di. b) L'avarizia conduce pure all'immortificazione e alla sensualità: quando uno ha denaro e l'ama, vuole goderne e procurarsi molti piaceri; o, se si priva dei piaceri, attacca il cuore al denaro. Nell'uno e nell'altro caso è idolo che ci allontana da Dio. Conviene quindi combattere questa trista inclinazione. 897. 3° Rimedi. A) Il grande rimedio è la convinzione profonda, fondata sulla ragione e sulla fede, che le ricchezze non sono fine, ma mezzi che la Provvidenza ci dà per provvedere ai bisogni nostri e a quelli dei nostri fratelli; che Dio ne resta sempre Supremo Padrone; che noi non ne siamo, a dir vero, che amministratori e che un giorno ne dovremo rendere conto al Giudice Supremo. Ma poi sono beni passeggeri che non ci potremo portare dietro nell'altra vita, ove del resto non hanno corso; e, se abbiamo senno, capitalizzeremo per il cielo e non per la terra: "Non accumulatevi tesori sulla terra, dove la ruggine e la tignuola corrodono e dove i ladri forano i muri e rubano: procurate di accumularvi tesori nel cielo, dove la ruggine e la tignuola non corrodono e dove i ladri non forano i muri nè rubano". B) A meglio distaccarsene, il mezzo più efficace è di depositare i propri beni sulla banca del paradiso facendone larga parte ai poveri e alle opere di beneficenza. Chi dà ai poveri presta a Dio, e riceve il centuplo anche sulla terra con la consolazione di fare dei felici attorno a sè, ma principalmente in cielo dove Gesù, considerando come dato a sè ciò che fu dato al minimo dei suoi, si farà premura di restituire in beni imperituri i beni temporali che avremo sacrificati per lui. I savi quindi sono coloro che cambiano i tesori di quaggiù con quelli del cielo. Cercare Dio e la santità, ecco in che consiste la prudenza cristiana. "Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto ciò vi sarà dato per giunta. Quærite primum regnum Dei et justitiam ejus; et hæc omnia adjicientur vobis". 898. C) I perfetti vanno anche più oltre: vendono tutto per darlo ai poveri o metterlo in comune, entrando in qualche comunità. Si può anche, conservando i capitali, spogliarsi delle rendite, non ne usando che secondo i consigli d'un savio direttore. A questo modo, pur restando nello stato in cui la Provvidenza ci ha posti, si pratica il distacco di mente e di cuore. Conclusione 899. La lotta dunque contro i sette peccati capitali finisce così di svellere in noi quelle cattive tendenze che nascono dalla triplice concupiscenza. È vero che ce ne resterà sempre qualcuna di queste tendenze, per esercitarci nella pazienza e richiamarci alla diffidenza di noi stessi; ma saranno meno pericolose e noi, appoggiati sulla grazia di Dio, ne trionferemo più facilmente. È vero che, nonostante i nostri sforzi, le tentazioni ci sorgeranno ancora nell'anima, ma per darci occasione di nuove vittorie. Capitolo V. Lotta contro le tentazioni. 900. Nonostante gli sforzi per sradicare i vizi, possiamo e dobbiamo aspettarci la tentazione. Nascondi Abbiamo infatti nemici spirituali, la concupiscenza, il mondo e il demonio, n. 193-227, che non cessano di tenderci insidie. Dobbiamo quindi trattare della tentazione, sia della tentazione in generale, sia delle principali tentazioni degl'incipienti. Art. I. Della tentazione in generale. 901. La tentazione è una sollecitazione al male proveniente dai nostri nemici spirituali. Esporremo: 1° i fini provvidenziali della tentazione, 2° la psicologia della tentazione; 3° il modo di comportarci nella tentazione. I. I fini provvidenziali della tentazione. 902. Dio direttamente non ci tenta: "Nessuno dica, quando è tentato: è Dio che mi tenta, poiché Dio non è tentato al male né tenta". Permette che siamo tentati dai nostri nemici spirituali, dandoci però le grazie necessarie per resistere: "[Fidelis est Deus qui non patietur vos tentari supra id quod potestis, sed faciet etiam cum tentatione proventum] C'è un Dio è fedele, che non soffrirà che siate tentati sopra quello che si è in grado: ma farà anche con l'edizione tentazione". E ne ha ottime ragioni. 1° Ci vuole far meritare il paradiso. Avrebbe certo potuto concederci il cielo come dono; ma sapientemente volle che lo meritassimo come ricompensa. Vuole anzi che la ricompensa sia proporzionata al merito e quindi alla vinta difficoltà. Ora è certo che una delle difficoltà più penose è la tentazione, che mette in pericolo la fragile nostra virtù. Combatterla energicamente è uno degli atti più meritori; e quando, con la grazia di Dio, ne usciamo trionfanti, possiamo dire con S. Paolo che abbiamo combattuto il buon combattimento e che altro non ci resta se non ricevere la corona di giustizia preparataci da Dio. L'onore e la gioia nel possederla sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà stata la fatica per meritarla. 903. 2° La tentazione è pure un mezzo di purificazione. 1) Ci ricorda infatti che altre volte, per difetto di vigilanza e d'energia, siamo caduti, onde ci è occasione di rinnovare atti di contrizione, di confusione e di umiliazione, che contribuiscono a purificarci l'anima; 2) ci obbliga nello stesso tempo a vigorosi e perseveranti sforzi per non soccombere, onde ci fa espiare con atti contrari le debolezze e le male condiscendenze, il che ci rende l'anima più pura. Ecco perché Dio, quando vuole purificare un'anima per elevarla alla contemplazione, permette che subisca orribili tentazioni, come diremo trattando della via unitiva. 904. 3° è poi un mezzo di spirituale progresso. a) La tentazione è come una frustata che ci desta nel momento in cui stavamo per addormentarci e rattiepidirci; ci fa capire la necessità di non fermarci a mezzo il cammino, ma mirare più in alto, a fine di allontanare, più sicuramente ogni pericolo. b ) è pure una scuola d'umiltà, di diffidenza di sé: si capisce meglio la propria fragilità, la propria impotenza, si sente maggiormente il bisogno della grazia e si prega con più fervore. Si vede meglio la necessità di mortificare l'amore del piacere che è fonte di tentazioni, onde si abbracciano con maggior generosità le piccole croci quotidiane per smorzare l’ardore della concupiscenza. c ) è una scuola d'amore di Dio: perché uno, a più sicuramente resistere, si getta nella braccia di Dio per trovarvi forza e protezione; è riconoscente delle grazie che Dio gli concede; si comporta con lui come un figlio che, in ogni difficoltà, ricorre al più amante dei padri. La tentazione ha dunque molti vantaggi ed è per questo che Dio permette che i suoi amici siano tentati: "perché eri gradito a Dio, disse l'angelo a Tobia, fu necessario che la tentazione ti provasse; quia acceptus eras Deo, necesse fuit ut tentatio probaret te". II. La psicologia della tentazione. Descriveremo: 1° la frequenza della tentazione; 2° le varie fasi; 3° i segni e i gradi del consenso. 905. 1° Frequenza delle tentazioni. La frequenza e la violenza delle tentazioni variano grandemente: vi sono anime spesso e violentemente tentate; altre lo sono raramente e senza profonde scosse. Molte cause spiegano questa diversità. a ) Prima di tutto il temperamento e il carattere: vi sono persone, facilissime ad appassionarsi e nello stesso tempo deboli di volontà, tentate spesso e dalla tentazione sconvolte; altre poi bene assestate ed energiche sono tentate di raro e in mezzo alla tentazione si serbano calme. b ) L'educazione porta altre differenze: vi sono anime educate nel timore e nell'amor di Dio, nella pratica abituale ed austera del dovere, che non ricevettero se non buoni esempi; altre invece furono allevate nell'amore dei piaceri e nel ribrezzo d'ogni patimento e videro troppi esempi di vita mondana e sensuale. É chiaro che le seconde saranno tentate più violentemente delle prime. c ) Bisogna anche tener conto dei disegni provvidenziali di Dio: vi sono anime da lui chiamate a santa vocazione, la cui purità egli gelosamente preserva; ve ne sono altre da lui destinate pure alla santità, ma che vuol far passare per dure prove, onde rinsaldarne la virtù; altre infine che non chiama a vocazione così alta e che saranno tentate più spesso, benché mai al di sopra delle loro forze. 906. 2° Le tre fasi della tentazione. Secondo la dottrina tradizionale, esposta già da S. Agostino, nella tentazione vi sono tre fasi: la suggestione la dilettazione, il consenso. a ) La suggestione consiste nella proposta di qualche male: la fantasia o la mente si rappresenta, in modo più o meno vivo, le attrattive dei frutto proibito; talvolta questa rappresentazione è molto seducente, assale con tenacia e diventa una specie d'ossessione. Per quanto pericolosa sia, la suggestione non è peccato, purché non sia stata volontariamente provocata e non vi si acconsenta; non vi è colpa se non quando la volontà vi da consenso. b ) Alla suggestione s'aggiunge la dilettazione: la parte inferiore dell’anima piega istintivamente verso il male suggerito e ne prova un certo diletto. "Avviene molte volte, dite S. Francesco di Sales che la parte inferiore si compiace nella tentazione senza il consenso, anzi a dispetto della parte superiore. É la lotta descritta da S. Paolo quando dice che la carne ha desideri contrari allo spirito". Questa dilettazione della parte inferiore, finché la volontà non vi aderisce, non è peccato; ma è un pericolo, perché la volontà si trova così sollecitata a dar l'adesione; onde si pone l'alternativa: la volontà acconsentirà si o no? c ) Se la volontà rifiuta il consenso, combatte la tentazione e la respinge, esce vittoriosa e fa atto molto meritorio. Se invece si compiace nella dilettazione, vi prende volontario piacere e vi consente, il peccato interno è commesso. Quindi tutto dipende dal libero consenso della volontà, onde noi, per maggior chiarezza, indicheremo i segni da cui si può conoscere se e in quale misura si è acconsentito. 907. 3° Segni di consenso. A spiegar meglio questo punto importante, vediamo i segni di non consenso, di consenso imperfetto, di pieno consenso. a ) Si può tenere che non si è acconsentito, quando, non ostante la suggestione e l'istintivo diletto che l'accompagna, si prova disgusto e noia in vedersi così tentati; quando si lotta per non soccombere; quando nella parte superiore dell'anima si ha vivo orrore del male proposto. b ) Si può essere colpevoli in causa della tentazione, quando si prevede che questa o quell'azione, che possiamo evitare, ci sarà fonte di tentazioni: "Se so, dice S. Francesco di Sales, che una conversazione mi è causa di tentazione e di caduta, eppure ci vado di mia volontà; io sono indubbiamente colpevole di tutte le tentazioni che vi proverò". Ma non si è allora, colpevoli che secondo la previsione, e se la previsione é stata vaga e confusa, la colpevolezza diminuisce in proporzione. 908. c) Il consenso si può giudicare imperfetto: 1) Quando non si respinge la tentazione prontamente, appena se ne vede il pericolo; vi è colpa di imprudenza che, senza essere grave, espone al pericolo di acconsentire alla tentazione. 2) Quando si esita un istante: si vorrebbe gustare un pochino il proibito diletto ma senza offendere Dio; ossia, dopo un momento di esitazione, si respinge la tentazione; anche qui è colpa veniale d'imprudenza. 3) Quando non si respinge la tentazione che a metà: si resiste ma fiaccamente e imperfettamente; ora una mezza resistenza è un mezzo consenso: quindi colpa veniale. 909 d) Il consenso è pieno ed intero, quando la volontà, indebolita dalle prime concessioni, si lascia trascinare a gustare volontariamente il cattivo diletto nonostante le proteste della coscienza che riconosce che è male; allora, se la materia è grave, il peccato è mortale: è peccato di pensiero o di dilettazione morosa, come dicono i teologi. Se al pensiero si aggiunge il desiderio acconsentito, è colpa più grave. Se poi dà desiderio si passa all'esecuzione, o almeno alla ricerca alla provvisione dei mezzi atti all'esecuzione del proprio disegno, si ha peccato di opera. 910. Nei vari casi che abbiamo esposti, sorgono qualche volta dubbi sul consenso o sul semiconsenso dato. Bisogna allora distinguere tra coscienze delicate e coscienze lasse; nel primo caso si giudica che non ci sia stato consenso, perché la persona di cui si tratta è solita a non acconsentire; mentre nel secondo caso si dovrà fare giudizio tutto contrario. III. Il modo di comportarci nella tentazione. Per trionfare delle tentazioni e farle servire al nostro bene spirituale, occorrono tre cose principali: 1° prevenire la tentazione: 2° vigorosamente combatterla; 3° ringraziare Dio dopo la vittoria o rialzarsi dopo la caduta. 911. 1° Prevenire la tentazione. È noto il proverbio: è meglio prevenire che guarire, che è pure consiglio di cristiana sapienza. Conducendo i tre apostoli nell'interno del giardino degli Ulivi, Nostro Signore dice loro . "Vigilate e pregate onde non entriate in tentazione: vigilate et orate ut non intretis in tentationem"; vigilanza e preghiera: ecco dunque i due grandi mezzi a prevenire la tentazione. 912. A) Vigilare è fare la guardia attorno all'anima propria per non lasciarsi cogliere, essendo così facile soccombere in un momento di sorpresa! Questa vigilanza inchiude due principali disposizioni: la diffidenza di sé e la confidenza in Dio. a ) Bisogna quindi evitare quella orgogliosa presunzione che ci fa gettare in mezzo ai pericoli col pretesto che siamo abbastanza forti da trionfarne. Fu questo il peccato di S. Pietro, che, mentre Nostro Signore prediceva la fuga degli apostoli, esclamò: "Se anche tutti si scandalizzassero, io mai". Bisogna invece rammentarsi che colui che crede di stare in piedi deve badare a non cadere: “Itaque qui se existimat stare, videat ne cadat"; perché se lo spirito è pronto, la carne è debole, e la sicurezza non si trova che nell'umile diffidenza della propria debolezza. b) Ma bisogna pure schivare quei vani terrori che non fanno che accrescere il pericolo; da noi, è vero, siamo deboli, ma diventiamo invincibili in Colui che ci dà forza: "Fedele è Dio, che non permetterà che siate tentati oltre le forze, ma darà con la tentazione anche il modo di poterla sostenere". c) Questa giusta diffidenza di noi ci fa schivare le occasioni pericolose, per esempio quella compagnia, quel divertimento ecc., in cui l'esperienza ci mostrò che corriamo rischio di soccombere. Nascondi Combatte l'oziosità, che è una delle occasioni più pericolose, n. 885, come pure quell'abituale mollezza che rilassa tutte le forze della volontà e la prepara a ogni specie di transazioni. Ha in orrore quel vano fantasticare che popola l'anima di fantasmi, i quali presto diventano pericolosi. Pratica insomma la mortificazione sotto le varie forme da noi indicate, n. 767817, e l'applicazione ai doveri del proprio stato, alla vita interiore e all'apostolato. In cosiffatta vita intensa resta poco posto per le tentazioni. d) La vigilanza poi deve specialmente esercitarsi sul punto debole dell'anima, perché di là viene ordinariamente l'assalto. A fortificare questo lato vulnerabile, bisogna servirsi dell'esame particolare, che concentra l'attenzione, per un notevole tempo, su cotesto difetto, o meglio ancora sulla virtù contraria ( n. 468 ). 913. B) Alla vigilanza si aggiunga la preghiera, che, mettendo Dio dalla nostra parte, ci rende invincibili. In sostanza Dio è interessato alla nostra vittoria: lui infatti il demonio assale nella nostra persona, l'opera sua egli vuole distruggere in noi; noi possiamo quindi invocarlo con santa confidenza, sicuri che altro non desidera che di soccorrerci. Ogni preghiera è buona contro la tentazione, vocale o mentale, privata o pubblica, sotto forma di adorazione o sotto forma di domanda. E si può, specialmente nei momenti di calma, pregare pel tempo della tentazione. Così quando questa si presenti, non si ha più da fare che una breve elevazione del cuore per resistere con migliore fortuna. 914. 2° Resistere alla tentazione. Questa resistenza dovrà variare secondo la natura delle tentazioni. Ce ne sono di quelle frequenti ma poco gravi: bisogna trattarle col disprezzo, come spiega sì bene S. Francesco di Sales. "Quanto a quelle tentazioncelle di vanità di sospetti, di stizza, di gelosia, di invidia, di amorucci, e simili bricconerie, che, come le mosche e le zanzare, ci vengono a passare davanti agli occhi e ora ci pungono le guance, ora il naso … la migliore resistenza che sì possa fare è di non affliggersene, perché sono tutte cose che non possono far danno, benché possano dar fastidio, a patto che si sia ben risoluti di voler servire Dio. Disprezzate quindi questi piccoli assalti e non vi degnate neppure di pensare che cosa vogliano dire, ma lasciatele ronzare intorno agli orecchi quanto vorranno, come si fa con le mosche". Qui ci occupiamo soprattutto delle tentazioni gravi: è necessario combatterle prontamente, energicamente, con costanza ed umiltà. A) Prontamente, senza discutere col nemico, senza esitazione alcuna: sul principio, non avendo la tentazione preso ancora saldo piede nell’anima, è molto facile il respingerla; ma se aspettiamo che vi abbia messo radice, sarà assai più difficile. Quindi non fermiamoci a discutere; associamo l'idea del cattivo diletto a tutto ciò che vi è di più ripugnante, a un serpente, a un traditore che ci vuole sorprendere, e richiamiamo la parola della Sacra Scrittura: “Fuggi il peccato come dalla vista di un serpente; perché se ti lasci accostare, ti morderà: [quasi a facie colubri fuge peccata] Fuggite dal peccato come da un serpente". Si fugge pregando, e applicando intensamente ad altro la mente. 915. B) Energicamente, non fiaccamente e come a malincuore, che sarebbe quasi un invito alla tentazione a ritornare; ma con forza e vigore, esprimendo l'orrore che si ha per cosiffatta proposta: "Via, brutto demonio, vade retro, Satana". Si ha però da variare la tattica secondo il genere delle tentazioni: se si tratta di diletti seducenti, bisogna dare subito di volta e fuggire, applicando fortemente l'attenzione ad altra cosa che possa occuparci bene la mente  la resistenza diretta d'ordinario non farebbe che aumentare il pericolo. Se si tratta invece di ripugnanza a fare il proprio dovere, di antipatia, di odio, di rispetto umano, spesso è meglio affrontare la tentazione, guardare francamente in faccia la difficoltà e ricorrere ai principi di fede per trionfarne. 916. C) Con costanza: talora infatti la tentazione, vinta per un momento, ritorna con nuovo accanimento, e il demonio conduce dal deserto sette altri spiriti peggiori di lui. A questa ostinazione del nemico bisogna opporre una non meno tenace resistenza, perché solo colui che combatte sino alla fine riporta vittoria. Ma per essere più sicuri del trionfo, conviene palesare la tentazione al direttore. È il consiglio che danno i Santi, specialmente S. Ignazio e S. Francesco di Sales: “Notate bene, dice quest'ultimo che la prima condizione posta dal maligno all'anima che vuol sedurre, è il silenzio, come fanno quelli che vogliono sedurre le donne e le giovanette che, subito fin da principio, proibiscono di comunicare le proposte ai genitori o ai mariti; mentre Dio, nelle sue ispirazioni, richiede soprattutto che le facciamo riconoscere dai superiori e direttori”. Pare infatti che grazia speciale sia annessa a questa apertura di cuore tentazione svelata è mezzo vinta. 917. D) Con umiltà: è lei infatti che attira la grazia, e la grazia ci dà la vittoria. Il demonio che peccò per superbia, fugge davanti a un sincero atto d'umiltà; e la triplice concupiscenza, che trae la forza dalla superbia, è facilmente vinta quando con l'umiltà siamo riusciti, per così dire, a decapitarla. 918. 3° Dopo la tentazione, bisogna guardarsi bene dall'esaminare troppo minuziosamente se si è consentito o no: è imprudenza che potrebbe ricondurre la tentazione e costituire un nuovo pericolo. È facile del resto conoscere dal testimonio della coscienza, anche senza profondo esame, se si è rimasti vittoriosi. A) Se si ebbe la ventura di trionfarne, si ringrazi di gran cuore Colui che ci diede la vittoria: è dovere di riconoscenza e il mezzo migliore per ottenere a suo tempo nuove grazie. Sventura agli ingrati che, attribuendo a sé la vittoria, non pensassero a ringraziarne Dio! Non tarderebbero molto a sperimentar la propria debolezza! 919. B) Chi invece avesse avuto la disgrazia di soccombere, non si disanimi: ricordi l'accoglienza fatta al figliuol prodigo e corra, come lui, a gettarsi ai piedi del rappresentante di Dio, gridando dal fondo del cuore: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di voi: non merito più d' essere chiamato vostro figlio. E Dio, che è anche più misericordioso del padre del prodigo, gli darà il bacio di pace e gli restituirà l'amicizia. Ma, a schivare le ricadute, il peccatore pentito si giovi del suo peccato per profondamente umiliarsi davanti a Dio, riconoscere la propria impotenza a fare il bene, mettere tutta la confidenza in Dio, diventare più circospetto schivando diligentemente le occasioni di peccato, e rifarsi alla pratica della penitenza. Un peccato così riparato non sarà ostacolo alla perfezione. Come giustamente nota Agostino, chi così si rialza diventa più umile, più fervoroso: "[ex casu humiliores, cautiores, ferventiores] per caso, aveva più umile, più prudente, più fervente". ART. II. Le principali tentazioni degli incipienti Gl'incipienti vanno soggetti ad ogni sorta di tentazioni provenienti dalle fonti che abbiamo indicate. Ma ve ne sono alcune che li riguardano in modo più particolare: 1° le illusioni provenienti dalle consolazioni e dalle aridità; 2° l'incostanza; 3° la premura eccessiva; 4° qualche volta gli scrupoli. § I. Illusioni degl'incipienti sulle consolazioni. 920. Il Signore ordinariamente concede consolazioni sensibili agl'incipienti per attirarli al suo servizio; poi per un tempo ne li priva a fine di provarne e rinsaldarne la virtù. Or vi sono taluni che si credono già arrivati a un certo grado di santità quando hanno molte consolazioni; se poi esse vengono a cessare e cedono il posto alle aridità, si credono perduti. A prevenire quindi nello stesso tempo la presunzione e lo scoraggiamento, conviene spiegare loro la vera dottrina sulle consolazioni e sulle aridità. I. Le consolazioni. 921. 1° Natura ed origine. a) Le consolazioni sensibili sono dolci emozioni che toccano, la sensibilità e fanno gustare una viva gioia spirituale. Il cuore si dilata e batte allora più animatamente, il sangue circola con maggiore rapidità, radioso è il volto, la voce commossa, e la gioia si manifesta talora con le lacrime. Si distinguono dalle consolazioni spirituali, concesse generalmente alle anime proficienti, consolazioni d'ordine superiore che operano sull'intelligenza illuminandola e sulla volontà attirandola alla preghiera e alla virtù. Spesso però vi è un certo misto di queste due consolazioni, e quel che diremo può applicarsi così alle une come alle altre. b ) Queste consolazioni possono provenire da triplice fonte: 1) da Dio, che opera con noi come la madre col suo bambino, traendoci a sé con le dolcezze che ci fa provare nel suo servizio, a fine di staccarci più facilmente dai falsi diletti e piaceri del mondo; 2) dal demonio, che, operando sul sistema nervoso, sull'immaginazione e sulla sensibilità, può produrre certe emozioni sensibili di cui poi si servirà per spingere ad austerità indiscrete, alla vanità, alla presunzione presto seguita dallo scoraggiamento; 3) dalla natura stessa: vi sono temperamenti immaginosi, sensitivi, ottimisti, che, dandosi alla pietà, vi trovano naturalmente alimento alla loro sensibilità. 922. 2° Vantaggi. Le consolazioni hanno certamente la loro utilità: a ) Agevolano la conoscenza di Dio la fantasia, aiutata dalla grazia, si rappresenta volentieri le divine amabilità e il cuore le gusta; si prega allora e si medita a lungo volentieri e l'anima intende meglio la bontà di Dio. b ) Contribuiscono a fortificare la volontà, la quale, non trovando più ostacoli nelle facoltà inferiori ma preziosi ausiliarii, si distacca più facilmente dalle creature, ama Dio con più ardore e prende energiche risoluzioni che più facilmente osserva in virtù degli aiuti ottenuti con la preghiera: amando Dio in modo sensibile, sopporta valorosamente i piccoli sacrifizi quotidiani e s'impone anzi volentieri qualche mortificazione. c ) Ci aiutano a formarci abitudini di raccoglimento, di preghiera, d'obbedienza, d'amor di Dio, che persevereranno in parte anche quando le consolazioni saranno cessate. 923. 3° Pericoli. Ma hanno anche i loro pericoli queste consolazioni, a ) Eccitano una specie di spirituale ghiottoneria, la quale fa che uno si affezioni più alle consolazioni di Dio che al Dio delle consolazioni; cosicché, cessate che siano, si trascurano poi gli esercizi spirituali e i doveri del proprio stato; anzi, in quello stesso momento che ne godiamo, la nostra devozione è tutt'altro che soda, perché, pur piangendo sulla Passione del Salvatore, gli rifiutiamo il sacrificio di questa o quell'amicizia sensibile o di quella privazione! Nascondi Ora virtù soda non v'è che quando l'amor di Dio giunge sino ad abbracciare il sacrificio, n. 321. "Vi sono molte anime che hanno di queste tenerezze e consolazioni e che pure non lasciano d'essere molto viziose, che non hanno quindi alcun vero amor di Dio e tanto meno alcuna vera divozione". b) Fomentano spesso la superbia sotto una forma o sotto un'altra: 1) la vana compiacenza: quando si ha consolazioni e la preghiera riesce facile, uno si crede facilmente un santo, mentre invece e ancora novizio nella perfezione! 2) la vanità: si desidera parlare ad altri di queste consolazioni per darsi importanza; e allora se ne viene spesso privati per un notevole tempo; 3) la presunzione: uno si crede forte e invincibile, e si espone talora al pericolo, o almeno comincia a riposarsi, quando invece bisognerebbe raddoppiare gli sforzi e progredire. 924. 4° Contegno rispetto alle consolazioni. Per trarre profitto dalle divine consolazioni e schivare i pericoli che abbiamo indicati, ecco le regole da seguire. a ) Si può certamente desiderare queste consolazioni ma in modo condizionato, con l'intenzione di servirsene ad amare Dio e adempierne la santa volontà. In questo senso la Chiesa ci fa chiedere, il giorno di Pentecoste, nella Colletta, la grazia della consolazione spirituale: "[et de ejus semper consolatione gaudere] Mi piace sempre il conforto della sua". È infatti un dono di Dio, che mira ad aiutarci nell'opera della nostra santificazione: bisogna quindi stimarlo molto, e si può anche domandarlo, purché si stia rassegnati alla santa volontà di Dio. b) Quando queste consolazioni ci vengono date, riceviamole con gratitudine ed umiltà, riconoscendocene indegni e attribuendone tutto il merito a Dio; se vuole trattarci da beniamini, ne sia benedetto, ma confessiamo che siamo ancora molto imperfetti, avendo bisogno del latte dei bambini “[quibus lacte opus est et non solido cibo] venire a bisogno di latte e non di cibo solido è”. Soprattutto poi non vantiamocene, che sarebbe questo il miglior mezzo di perderle. c ) Ricevutele umilmente, vediamo di premurosamente volgerle al fine voluto da Colui che ce le dà. Ora Dio ce le concede, dice S. Francesco di Sales, “per renderci dolci con tutti e amorosi verso di lui. La madre dà i confetti al figliolino perché la baci; baciamo dunque questo Salvatore che ci dà tante dolcezze. Ora baciare il Salvatore vuol dire obbedirlo, osservarne i comandamenti, farne la volontà, secondarne i desideri, insomma teneramente abbracciarlo con obbedienza e umiltà". d ) Finalmente bisogna persuadersi che queste consolazioni non dureranno sempre, e chiedere quindi umilmente a Dio la grazia di servirlo nelle aridità quando si degnerà di inviarcele. Intanto, in cambio di voler prolungare con sforzata applicazione queste consolazioni, bisogna moderarle e attaccarsi fortemente al Dio delle consolazioni. II. Delle aridità. A rassodarci nella virtù, Dio è obbligato a mandarci di tanto in tanto delle aridità; esponiamone: 1° la natura; 2° lo scopo provvidenziale; 3° la condotta da tenere. 925. 1° Natura. Le aridità sono una privazione delle consolazioni sensibili e spirituali che agevolavano la preghiera e la pratica delle virtù. Nonostante sforzi spesso rinnovati, non si ha più gusto per la preghiera, vi si prova anzi noia e stanchezza, e il tempo pare molto lungo; la fede e la confidenza sembrano assopite e l'anima, in cambio di sentirsi svelta e lieta, vive in una specie di torpore: non si va più avanti se non per forza di volontà. É questo certamente uno stato molto penoso, ma ha pure i suoi vantaggi. 926. 2° Scopo provvidenziale. a) Quando Dio ci manda le aridità, lo fa per distaccarci da tutto ciò che è creato, anche dalle gioie della pietà, affinché impariamo ad amare Dio solo e, per sé stesso. b ) Vuole pure umiliarci, mostrandoci che le consolazioni non ci sono dovute, ma sono favori essenzialmente gratuiti. c ) Ci purifica sempre più così dalle colpe passate come dagli attacchi presenti e da ogni mira egoistica; quando si è costretti a servire Dio senza gusto, per sola convinzione e forza di volontà, si soffre molto e questo patimento espia e ripara. d ) Infine ci rassoda nella virtù; perché, per continuare a pregare e a fare il bene, bisogna esercitare con energia e costanza la volontà e con siffatto esercizio si rassoda la virtù. 927. 3° Condotta da tenere. a) Le aridità provengono talvolta dalle colpe nostre, onde bisogna prima di tutto esaminare seriamente, ma senza affanno, se non ne siamo responsabili noi. 1) con sentimenti più o meno volontari di vana compiacenza e di orgoglio; 2) con una specie di pigrizia spirituale, o per l'opposto con una inopportuna tensione; 3) con la ricerca di consolazioni umane, di amicizie troppo sensibili, di mondani diletti, non volendo Dio saperne di cuori divisi; 4) con la mancanza di sincerità col direttore: "poiché voi mentite allo Spirito Santo, dice S. Francesco di Sales, non è meraviglia s'egli vi rifiuta la sua consolazione". Trovata la causa di queste aridità, bisogna umiliarsene e cercare di sopprimerla. 928. b) Se poi non ne siamo causa noi, conviene trarre buon partito da questa prova. 1) Il gran mezzo per riuscirvi è di persuaderci che servire Dio senza gusto e senza sentimento è cosa più meritoria che servirlo con molta consolazione. Che basta volere amare Dio per amarlo, e che il più perfetto atto d'amore è poi quello di conformare la propria volontà a quella di Dio. 2) Per rendere quest'atto ancora più meritorio, non c'è di meglio che unirsi a Gesù, il quale, nel giardino degli Ulivi, volle per amore nostro provare noia e tristezza, e ripetere con lui: "[verumtamen non mea voluntas sed tua fiat] Però non la mia volontà, ma la tua sia fatta". 3) Soprattutto poi non bisogna disanimarsi mai, né diminuire gli esercizi di pietà, gli sforzi, le risoluzioni, ma imitare Nostro Signore che, immerso nell'agonia, pregava anche più a lungo: "[factus in agonia prolixius orabat] essendo in agonia, egli pregava vie più". 929. Consiglio al direttore. Affinché questa ,dottrina sulle consolazioni e sulle aridità sia ben capita dai diretti, bisogna tornarci sopra di frequente; perché essi credono pur sempre di far meglio quando tutto va a seconda dei loro desideri che quando si è costretti a remare contro corrente; ma a poco a poco si fa la luce e quando sanno non inorgoglirsi nelle consolazioni e non disanimarsi nelle aridità, molto più rapidi e costanti ne sono i progressi. § II. L'incostanza degl'incipienti. 930. 1° Il male. Quando un anima si dà a Dio e comincia a progredire nelle vie spirituali, viene sorretta dalla grazia di Dio, dall'attrattiva della novità e da un certo slancio verso la virtù che appiana molte difficoltà. Ma viene il momento che la grazia di Dio ci è data sotto forma meno sensibile, che ci sentiamo stanchi di dover sempre rifare gli stessi sforzi, che lo slancio pare infranto dalla continuità degli stessi ostacoli. Si è allora esposti all'incostanza e al rilassamento. Questa disposizione si manifesta: 1) negli esercizi spirituali, che si fanno con minore diligenza, accorciandoli e trascurandoli; 2) nella pratica delle virtù: si era entrati digran cuore nella via della penitenza e della mortificazione, ma la cosa, riesce ora penosa e lunga e gli sforzi s'allentano; 3) nella abituale santificazione delle proprie azioni: si era presa l'abitudine di rinnovare spesso l'offerta delle proprie azioni per essere sicuri di farle con purità di intenzione; ma uno poi si stanca di questa pratica, la trascura, e il risultato è che presto l'abitudine, la curiosità, la vanità, la sensualità ispirano molte delle nostre azioni. Impossibile progredire con tali disposizioni: senza sforzo perseverante non si riesce a nulla. 931. 2° Il rimedio. A) Bisogna convincersi che l'opera della perfezione è opera di lunga lenta, che richiede molta costanza, e che quei soli che riescono si rimettono continuamente al lavoro con novello ardore, nonostante le parziali sconfitte che subiscono. Così fanno gli uomini d'affari che vogliono riuscire, così pure deve fare ogni anima che vuol progredire. Ogni mattino ella deve chiedersi se non potrebbe fare un po' più e soprattutto un po' meglio per Dio; e ogni sera deve attentamente esaminare se ha effettuato almeno in parte il programma del mattino. B ) Nulla giova meglio ad assicurare la costanza quanto la pratica fedele dell’esame particolare, n. 468; concentrando l'attenzione su un dato punto, su una data virtù, e rendendo conto al confessore dei progressi fatti, si è sicuri di progredire, anche quando non se ne avesse coscienza. Quanto dicemmo sull’educazione della volontà, n. 812, e pure ottimo mezzo per trionfar dell'incostanza. § III. La eccessiva premura degli incipienti. Molti incipienti, pieni di buona volontà, mettono un ardore e una premura eccessiva a lavorare alla propria perfezione, onde finiscono con lo stancarsi e spossarsi in sforzi inutili. 932. 1° Le cause. a) La causa principale di questo difetto è che si sostituisce la propria attività a quella di Dio: in cambio di riflettere prima di operare, di chiedere allo Spirito Santo i suoi lumi e seguirli, uno corre all’opera con ardore febbrile; in cambio di consultare il direttore, uno prima fa e poi gli presenta il fatto compiuto; onde molte imprudenze e molti sforzi perduti, “[magni passus extra viam] Grande passo fuori strada". b ) Spesso c'entra pure la presunzione: si vorrebbe fare dei salti, uscire presto dagli esercizi della penitenza, e giungere subito all'unione con Dio; ma ahimè! sorgono molti ostacoli imprevisti e uno si disanima, indietreggia e cade talora in colpe gravi. c ) Altre volte domina la curiosità: si cercano continuamente nuovi mezzi di perfezione, si provano per qualche tempo e presto sì mettono da parte prima ancora che abbiano potuto produrre i loro effetti. Si fanno sempre nuovi disegni di riforma per sé e per gli altri, dimenticando poi di metterli in pratica. Il risultato più chiaro di questa attività eccessiva è la perdita del raccoglimento interiore, l'agitazione e il turbamento, senza alcun serio vantaggio. 933. 2° I rimedi. a) Il rimedio principale è di assoggettarsi con intera dipendenza all'azione di Dio, di riflettere maturamente prima di operare, di pregare per ottenere i lumi divini, di consultare il direttore e stare alla sua risoluzione. Come nell'ordine della natura non sono le forze violente quelle che ottengono i migliori effetti ma le forze ben regolate, così, nella vita soprannaturale, non sono gli sforzi febbrili ma gli sforzi calmi e ben regolati che ci fanno progredire: chi va piano va sano. b ) Ma per assoggettarsi così all'azione di Dio è necessario combattere le cause di questa eccessiva premura: 1) la vivacità di carattere, che spinge a troppo pronte risoluzioni; 2) la presunzione, che nasce da troppa stima di sé; 3) la curiosità, che va sempre in cerca di qualche cosa di nuovo. Conviene dunque assalire uno dopo l'altro questi difetti con l'esame particolare, e allora Dio riprenderà il suo posto nell'anima e la guiderà con calma e dolcezza nei sentieri della perfezione. IV. Gli scrupoli. 934. Lo scrupolo è una malattia fisica e morale, che produce una specie di follia nella coscienza, facendole temere, per futili motivi, d'aver offeso Dio. Questa malattia non è particolare degl'incipienti ma si trova anche in anime progredite. Bisogna quindi dirne una parola esponendone: 1° la natura; 2° l'oggetto; 3° gli inconvenienti e i vantaggi; 4° I rimedi. I. Natura dello scrupolo. 935. La parola scrupolo ( dal latino scrupulus, sassolino, pietruzza ) indicò per lungo tempo un minutissimo peso che non fa inclinare se non bilance molto sensibili. Nel campo morale indica una ragione minuta a cui badano soltanto le coscienze più delicate. Venne quindi ad esprimere l'inquietudine eccessiva che provano certe coscienze, per i più futili motivi, d'aver offeso Iddio. A conoscerne meglio la natura, spieghiamone l'origine, i gradi, la distinzione dalla coscienza delicata. 936. 1° Origine. Lo scrupolo può nascere ora da causa puramente naturale, ora da intervento soprannaturale. a) Sotto l'aspetto naturale, lo scrupolo è spesso una malattia fisica e morale. 1) La malattia fisica che contribuisce a cagionare questo disordine è una specie di depressione nervosa, che rende più difficile il savio giudizio delle cose morali e tende a produrre l'idea fissa che si e commesso peccato, e ciò senza seria ragione. 2) Ma vi sono pure cause morali che producono lo stesso effetto: una mente meticolosa, che si perde nelle minuzie e che vorrebbe avere la certezza assoluta in ogni cosa; una mente poco illuminata, che si figura Dio come giudice non solo severo ma anche spietato; che negli atti umani confonde l'impressione col consenso e crede di aver peccato perché la fantasia rimase fortemente e lungamente impressionata; una mente caparbia, che preferisce il giudizio proprio a quello del confessore, appunto perché si lascia guidare più dalle sue impressioni che dalla ragione. Quando queste due cause, la fisica e la morale, s'uniscono, il male è più profondo e di più difficile guarigione. 937. b) Lo scrupolo può anche provenire da intervento preternaturale di Dio o del demonio. 1) Dio permette che siamo così vessati, ora per castigarci specialmente della superbia e dei sentimenti di vana compiacenza; ora per provarci, farci espiare le colpe passate, distaccarci dalle consolazioni spirituali, e condurci a più alto grado di santità: il che avviene specialmente alle anime che Dio vuol preparare alla contemplazione, come diremo trattando della via unitiva. 2) Anche il demonio viene talvolta a innestare la sua azione su qualche morbosa predisposizione del nostro sistema nervoso per turbarci l'anima: tenta di persuaderci che siamo in stato di peccato mortale per impedirci di fare la comunione o molestarci nell'adempimento dei doveri del nostro stato; soprattutto poi tenta d'ingannarci sulla gravità di questa o quell’azione onde farci peccare formalmente, anche quando non vi è materia di peccato e soprattutto di peccato grave. 938. 2° Gradi. Ci sono, come è chiaro, molti gradi nello scrupolo: a) a principio non è che coscienza meticolosa, timorosa all'eccesso, che vede peccato dove non è; b) poi vengono scrupoli passeggeri che si confidano al direttore, accettando subito la soluzione che ne dà; c) finalmente lo scrupolo propriamente detto, tenace, accompagnato da ostinazione. 939. 3° Differenza dalla coscienza delicata. Cosa importante distinguere bene la coscienza ,scrupolosa dalla coscienza delicata o timorata. a ) Non ne è lo stesso il punto di partenza: la coscienza delicata ama fervidamente Dio e per piacergli vuole schivare anche le minime colpe e le minime imperfezioni volontarie; lo scrupoloso è invece guidato da un certo egoismo che gli fa troppo ardentemente desiderare di esser sicuro di trovarsi in stato di grazia. b ) La coscienza delicata, avendo orrore del peccato e conoscendo la propria debolezza, ha timore fondato, ma non inquieto, di dispiacere a Dio; lo scrupoloso alimenta futili timori di peccare in ogni circostanza. c ) La coscienza timorata sa serbare la distinzione tra peccato mortale e veniale, e in caso di dubbio subito si sottomette al giudizio del direttore; lo scrupoloso discute tenacemente col direttore e stenta assai a sottomettersi alle sue risoluzioni. Se si deve schivare lo scrupolo, nulla invece di più prezioso d'una coscienza delicata. II. Oggetto dello scrupolo. 940. 1° Talvolta lo scrupolo è universale e si riferisce, a qualsiasi materia: prima dell'azione, ingrossa smisuratamente i pericoli che si possono incontrare in questa o quell’occasione che è del resto molto innocente; dopo l'azione, popola l'anima di mal fondate inquietudini e persuade agevolmente alla coscienza che si è resa gravemente colpevole. 941. 2° Più spesso però si riferisce solo ad alcune materie particolari: a) Confessioni passate: anche dopo aver fatto parecchie confessioni generali, non si resta soddisfatti, si teme di non aver accusato tutto, o d'aver mancato di contrizione e si vuol sempre ricominciare; b) cattivi pensieri: la fantasia è piena d'immagini pericolose od oscene, e poiché fanno una certa impressione, si teme d'avervi acconsentito, se ne è anzi certi, benché dispiacciano infinitamente; c) pensieri di bestemmia: perché quelle idee passano per la mente, si e persuasi di avervi acconsentito, nonostante tutto l’orrore che se ne prova; d) carità: si sono ascoltate maldicenze senza energicamente protestare, si è mancato al dovere della correzione fraterna per rispetto umano, si è scandalizzato il prossimo con parole imprudenti, si è visto un agglomeramento di persone e non si è corsi a vedere se fosse accaduta qualche disgrazia che richiedesse l'intervento del sacerdote per dare l'assoluzione: in tutte queste cose si vedono grossi peccati mortali; e) specie consacrate, che si teme d'aver toccato senza motivo, onde si vuol purificare mani, vesti; f) parole della consacrazione, esalta recita dell'ufficio divino ecc. III. Inconvenienti e vantaggi dello scrupolo. 942. 1° Chi ha la disgrazia di lasciarsi dominare dagli scrupoli, ne risente sul corpo e sull'anima deplorevoli effetti. a ) Cagionano gradatamente indebolimento e assesto nel sistema nervoso: i timori, le continue angoscie hanno influsso deprimente sulla sanità del corpo; possono diventare una vera ossessione e finire in una specie di idea fissa, che è vicina alla follia. b) Acciecano la mente e falsano il giudizio: si perde a poco a poco la facoltà di discernere ciò che è peccato da ciò che non è, ciò che è grave da ciò che è leggero, e l'anima diventa nave senza timone. c) La perdita d'ogni devozione ne è spesso la conseguenza: quel continuo vivere nell'agitazione e nel turbamento rende lo scrupoloso terribilmente egoista, cosicchè diffida di tutti, perfino di Dio che stima troppo severo; si lagna che Dio lo lasci in quell'infelice stato e lo accusa ingiustamente; e allora è chiaro che la vera devozione non è più possibile. d) Finalmente vengono le mancanze e la cadute. 1) Lo scrupoloso logora le forze nel fare sforzi inutili in cose da poco, cosicchè non glie ne rimangono più abbastanza per lottare in cose di grande importanza, non potendo l'attenzione volgersi con intensità su tutti i punti. Quindi sorprese, mancanze, e talvolta colpe gravi. 2) E poi in tali casi si cerca istintivamente un sollievo alle proprie pene, e, non trovandolo nella pietà, si va a cercarlo altrove, in letture, in amicizie pericolose, onde nascono talora occasioni di colpe deplorevoli, che gettano in profondo scoraggiamento. 943. 2° Ma chi sappia accettare gli scrupoli come prova e a poco a poco con l'aiuto d'un savio direttore correggersene, ne avrà preziosi vantaggi. a) Servono a purificare l'anima: uno infatti si studia di schivare i minimi peccati, le minime imperfezioni volontarie, onde acquista grande purità di cuore. b) Ci aiutano a praticare l'umiltà e l'obbedienza, obbligandoci a sottoporre con tutta semplicità i dubbi al direttore e seguirne i consigli con piena docilità non solo di volontà ma anche di giudizio. c) Contribuiscono a darci maggiore purità d'intenzione, distaccandoci dalle consolazioni spirituali per affezionarci unicamente a Dio, che tanto più amiamo quanto più ci prova. IV. Rimedi dello scrupolo. 944. Bisogna combattere lo scrupolo subito da principio, prima che si sia profondamente radicato nell'anima. Ora il grande, anzi, a dir vero, l'unico rimedio è la piena e assoluta obbedienza a un savio direttore: oscuratasi la luce della coscienza, bisogna ricorrere ad altra luce; lo scrupoloso è come una nave senza timone e senza bussola: bisogna rimorchiarlo. Il direttore quindi deve guadagnarsi la confidenza dello scrupoloso, e sapere esercitare la sua autorità su lui per guarirlo. 945. 1° Bisogna prima di tutto guadagnarsene la confidenza; perchè non si obbedisce facilmente se non a chi si ha confidenza. Il che però non è sempre cosa facile: è vero che gli scrupolosi sentono istintivamente bisogno di guida, ma alcuni non osano abbandonarsele intieramente; la consultano volentieri, ma vogliono anche discuterne le ragioni. Ora con lo scrupoloso, non si deve discutere ma parlare con autorità, dicendogli nettamente quel che deve fare. Per ispirare questa confidenza, il direttore deve meritarla per competenza e premura. a) Lascierà prima parlare il penitente, intercalando solo qualche osservazione per mostrare che ha capito bene; poi gli farà qualche interrogazione, a cui lo scrupoloso dovrà solo rispondere sì o no, dirigendone così l'esame metodico della coscienza. Poi aggiungerà: capisco bene il caso vostro, voi soffrite così e così. E già grande sollievo per il penitente il vedersi ben compreso e talvolta basta questo perchè dia intiera la sua confidenza. b) Alla competenza bisogna aggiungere la premura. Il direttore quindi si mostrerà paziente, ascoltando tranquillo le lunghe spiegazioni dello scrupoloso, almeno a principio; buono, interessandosi di quell'anima e palesando il desiderio e la speranza di guarirla; dolce, non parlando con tono severo ed aspro, ma con bontà, anche quando è obbligato ad usare linguaggio fermo ed imperativo. Nulla guadagna meglio la confidenza quanto questo misto di fermezza e di bontà. 946. 2° Guadagnata la confidenza, bisogna esercitare l'autorità ed esigere obbedienza, dicendo allo scrupoloso: se volete guarire, dovete ubbidire ciecamente: obbedendo, siete pienamente al sicuro, quand'anche il direttore sbagli, perchè Dio in questo momento a voi non chiede altro che di obbedire. La cosa è talmente così, che se voi non vi sentiste di obbedirmi, bisogna che vi cerchiate un altro direttore: la sola ubbidienza cieca vi potrà guarire e vi guarirà certamente. a) Dando gli ordini, il confessore deve parlare franco, con chiarezza e precisione, schivando ogni ambiguità; in modo categorico e non condizionato, come, per esempio, se questo vi disturba non lo fate; ma in modo assoluto: fate questo, lasciate quello, disprezzate quella tentazione. b) Per lo più non bisogna dar ragione degli ordini dati specialmente a principio; più tardi, quando lo scrupoloso potrà comprenderne e sentirne la forza, gli si darà brevemente la ragione, per formargli a poco a poco la coscienza. Ma soprattutto nessuna discussione sulla sostanza della risoluzione; se per il momento vi fosse qualche ostacolo ad eseguirla, se ne tiene conto; ma la risoluzione deve rimanere. c) Non bisogna quindi mai disdirsi: prima di risolvere, si riflette bene, e non si danno ordini che non si possano poi mantenere; ma dato che sia, l'ordine non si deve più revocare, finchè un fatto nuovo non richieda un cambiamento. d) Per assicurarsi che l'ordine sia stato capito bene, gli si fa ripetere; dopo non resta che farlo eseguire. È cosa difficile, perchè lo scrupoloso talora indietreggia davanti all'esecuzione come il condannato davanti al supplizio. Ma gli si dice chiaro che dovrà renderne conto; se non ha seguito il consiglio, non gli si darà ascolto finchè non l'abbia eseguito. Può darsi quindi che si debba ripetere più volte la stessa prescrizione finchè non sia eseguita bene; e si fa senza impazienza ma con crescente fermezza e lo scrupoloso finisce con obbedire. 947. 3° Venuto il tempo, il direttore inculca il principio generale, che darà modo allo scrupoloso di disprezzare tutti i dubbi; occorrendo, lo può anche dettare in questa o altra simile forma: "Per me, in fatto di obbligo di coscienza, non c'è che l'evidenza che conta, ossia certezza tale che escluda ogni dubbio, certezza calma e piena, chiara come due e due fanno quattro; io quindi non posso commettere peccato mortale o veniale se non quando ho certezza assoluta che l'azione che sto per fare è per me proibita sotto pena di peccato mortale o veniale, e che, pur sapendo questo, io voglia farla a qualunque costo. Non presterò dunque attenzione alle tentazioni per forti che siano, e non mi crederò legato che dall'evidenza chiara e certa; fuori di questo caso, per me nessun peccato". Quando lo scrupoloso si presenterà affermando di aver commesso un peccato veniale o mortale, il confessore gli dirà: Potete giurare di aver chiaramente visto, prima di operare, che quell'azione era peccato e che, avendolo chiaramente visto, pure ci avete dato pieno consenso? Questa interrogazione chiarirà la regola e la farà capire meglio. 948. 4° Bisogna infine applicare questo principio generale alle difficoltà particolari che si presentano. a) Riguardo alle confessioni generali, lasciatene fare una, non si permetterà più di ritornarvi sopra se non sono evidenti questi due punti: 1) un peccato mortale certamente commesso; e 2) certezza che tal peccato non fu mai accusato in alcuna confessione valida. Del resto dopo qualche tempo, il confessore dirà che non bisogna più assolutamente ritornare sul passato, e che se qualche peccato fosse stato omesso, resta perdonato con gli altri. Nascondi b) Quanto ai peccati interni di pensieri e di desideri, si darà questa regola: durante la crisi, stornare l'attenzione pensando ad altro; dopo la crisi, non esaminarsi per vedere se si è peccato ( il che richiamerebbe la tentazione ) ma tirare avanti occupandosi dei doveri del proprio stato, e comunicarsi finchè non si abbia evidenza d'aver pieno consenso ( n. 909 ). 949. c) La comunione è spesso una tortura per gli scrupolosi: temono di non trovarsi in istato di grazia o di non esser digiuni. Ora 1) la paura di non trovarsi in stato di grazia mostra che non ne sono certi; devono quindi comunicarsi e la comunione li metterà in istato di grazia caso mai che non vi fossero; 2) il digiuno eucaristico non deve impedire agli scrupolosi di comunicarsi se non quando siano assolutamente certi di averlo rotto. d) La confessione è per loro anche maggior tortura, onde conviene semplificarla. Quindi si dirà loro: 1) voi non siete obbligato che ad accusare i peccati certamente mortali; 2) dei peccati veniali dite solo quelli che vi verranno in mente dopo cinque minuti di esame; 3) quanto alla contrizione, consacrerete sette minuti a domandarla a Dio e ad eccitarvici e l'avrete; ma io non la sento punto: non è necessario, perchè la contrizione è atto della volontà che non cade sotto la sensibilità. Anzi in certi casi, quando lo scrupolo è molto intenso, si prescriverà ai penitenti di contentarsi di questa accusa generica: mi accuso di tutti i peccati commessi dall'ultima confessione e di tutti quelli della vita passata. 950. 5° Risposta alle difficoltà. Può essere che il penitente dica al confessore: lei mi tratta da scrupoloso, ma io non lo sono. Gli si risponderà: non sta a voi il giudicarne, sta a me. Ma siete poi ben sicuro di non essere scrupoloso? Dopo la confessione siete, come tutti gli altri, calmo e tranquillo? Non avete invece dubbi e angustie che gli altri in generale non hanno? Non siete dunque in istato normale: c'è in voi un certo squilibro sotto l'aspetto fisico e morale; avete quindi bisogno di trattamento speciale; obbedite dunque senza discutere e guarirete; altrimenti il vostro stato non farà che aggravarsi. Solo con questi e altri simili mezzi si riesce, con la grazia di Dio, a guarire questa desolante malattia dello scrupolo. Appendice sul discernimento degli spiriti. 951. Dei diversi spiriti che operano in noi. Nel corso delle pagine precedenti, abbiamo più volte parlato dei vari moti che ci spingono al bene o al male. È quindi cosa molto importante il conoscere quale sia la fonte di questi moti. In teoria possono venire da sei diversi principii: a) da noi stessi, dallo spirito che ci spinge verso il bene, o dalla carne che ci spinge verso il male; b) dal mondo, in quanto opera, per mezzo dei sensi, sulle nostre facoltà interne per trarle al male, n. 212; c) dagli angeli buoni, che eccitano in noi buoni pensieri; d) dai demoni, che operano invece sui nostri sensi esterni o interni per spingerci al male; e) da Dio, che solo può penetrare fin nel più intimo dell'anima e che non ci porta mai se non al bene. 952. In pratica però, basta sapere se questi moti vengono dal buono o dal cattivo principio; dal buon principio: da Dio, dagli angeli buoni o dall'anima aiutata dalla grazia; dal cattivo principio: dal demonio, dal mondo o dalla carne. Le regole che ci aiutano a descernerli l'uno dall'altro si dicono regole sul discernimento degli spiriti. Già S. Paolo ne aveva posto il fondamento, distinguendo nell'uomo la carne e lo spirito e, fuori di lui, lo Spirito di Dio che ci porta al bene e gli angeli decaduti che ci sollecitano al male. Nascondi Da allora gli autori spirituali, come Cassiano, S. Bernardo, S. Tommaso, l'autore dell'Imitazione ( l. III, c. 54-55 ), S. Ignazio, stesero regole per discernere gli opposti moti della natura e della grazia. 953. Regole di S. Ignazio che convengono specialmente agl'incipienti. Le due prime regole riguardano la condotta diversa che lo spirito buono e il maligno tengono verso i peccatori e verso le persone fervorose. 1° Prima regola. Ai peccatori, che non mettono freno alcuno alle passioni, il demonio propone piaceri apparenti e voluttà per ritenerli e tuffarli sempre più nel vizio; lo spirito buono invece eccita nella loro coscienza turbamenti e rimorsi per farli uscire dal tristo loro stato. Seconda regola. Quando si tratta di persone sinceramente convertite, il demonio eccita in loro tristezza e tormenti di coscienza e ostacoli di ogni sorta per disanimarle e arrestarne i progressi. Lo spirito buono invece dà loro coraggio, forze, buone ispirazioni, per farle avanzare nella virtù. Si giudicherà quindi l'albero dai frutti: tutto ciò che ostacola il progresso viene dal demonio, tutto ciò che lo asseconda viene da Dio. 954. 2° La terza regola riguarda le consolazioni spirituali. Provengono dallo spirito buono: 1) quando producono interni moti di fervore: prima una scintilla, poi una fiamma, infine un braciere ardente d'amor divino; 2) quando fanno versare lagrime che sono veramente espressione dell'interna compunzione o dell'amore di Nostro Signore; 3) quando aumentano la fede, la speranza, la carità, o quietano e tranquillano l'anima. 955. 3° Le regole seguenti ( 4ª-9ª ) riguardano le desolazioni spirituali: 1) le desolazioni consistono in tenebre nello spirito o inclinazioni della volontà a cose basse e terrestri che rendono l'anima triste, tiepida e accidiosa; 2) non bisogna allora cambiare nulla delle risoluzioni prese prima, come suggerirebbe lo spirito maligno, ma restare saldi nelle precedenti risoluzioni; 3) bisogna anche approfittarne per diventare più fervorosi, per dare maggiore tempo alla preghiera, all'esame di coscienza, alla penitenza: 4) confidare nell'aiuto divino, il quale, benchè non sentito, ci è veramente dato per aiutare le nostre facoltà naturali a fare il bene; 5) aver pazienza e sperare che la consolazione ritornerà; pensare che la desolazione può essere castigo della nostra tiepidezza; prova, volendo Dio farci toccare con mano quello che possiamo quando siamo privi di consolazioni; lezione, volendo Dio mostrarci che siamo incapaci a procurarci consolazioni e guarirci così dall'orgoglio. 956. 4° La regola undecima ritorna sulle consolazioni per avvertirci che bisogna allora far provvista di coraggio, onde comportarsi poi bene nel tempo della desolazione; e per dirci che dobbiamo umiliarci vedendo quanto poco possiamo se veniamo privati della consolazione sensibile, e che possiamo invece molto nel tempo della desolazione se ci appoggiamo a Dio. 957. 5° Le tre ultime regole 12ª-14ª espongono, a fine di svelarle, le astuzie usate dal demonio per sedurci: a) opera come la mala donna, che è debole quando le si resiste, ma ardente e crudele quando le si cede; onde bisogna vigorosamente resistere al demonio; b) si regola come un seduttore che vuole il segreto dalla persona da lui sollecitata al male; quindi il migliore mezzo di vincerlo è di svelare tutto al direttore; c) imita un capitano che, per conquistare una piazza, la assale dal lato più debole; onde è necessario vigilare su questo punto debole nell'esame di coscienza. Sintesi di questo primo libro. Il fine inteso dagl'incipienti è la purificazione dell'anima, onde, liberi dagli avanzi e dalle occasioni del peccato, potersi unire a Dio. 958. Per ottenere questo fine ricorrono alla preghiera; porgendo a Dio i doveri religiosi, lo inclinano a perdonare loro tutte le colpe passate; invocandolo con fiducia, in unione col Verbo Incarnato, ottengono grazie di contrizione e di fermo proponimento che ne purificano vie più l'anima e li preservano da future ricadute. Questo buon risultato si ottiene in modo anche più sicuro con la meditazione: le incrollabili convinzioni che vi si acquistano con lunghe e serie riflessioni, gli esami di coscienza che meglio ci mostrano le nostre miserie e la nostra povertà, le preghiere ardenti che sgorgano allora dal fondo di questo povero cuore, le risoluzioni che vi si prendono e che si cerca di praticare, sono tutte cose che purificano l'anima, le ispirano orrore al peccato e alle sue occasioni e la rendono più forte contro le tentazioni, più generosa nella pratica della penitenza. 959. Perchè, intendendo meglio la gravità dell'offesa fatta a Dio col peccato e lo stretto dovere di ripararla, l'anima entra coraggiosamente nelle vie della penitenza; in unione con Gesù, che volle essere penitente per noi, alimente in cuore sentimenti di confusione, di contrizione e d'umiliazione, e piange continuamente i suoi peccati. Con questi sentimenti, si dà alle austerità della penitenza, accetta generosamente le croci provvidenziali che Dio le manda, s'impone privazioni, pratica elemosine e così ripara il passato. Per schivare il peccato nell'avvenire, pratica la mortificazione, disciplinando i sensi esterni e gli interni, l'intelligenza e la volontà, insomma tutte le sue facoltà per assoggettarle a Dio e non far nulla che non sia conforme alla sua santa volontà. È vero che vi sono in lei profonde tendenze cattive che si chiamano i sette peccati capitali; ma, appoggiandosi sulla divina grazia, pone mano a schiantarli o almeno a svigorirli; lotta valorosamente contro ognuno di loro in particolare, e viene il momento che li ha sufficientemente domati. Nonostante tutto questo lavorìo, dai bassi fondi dell'anima sbucheranno fuori le tentazioni, talora terribili, eccitate dal mondo e dal demonio. Ma, senza disanimarsi, appoggiata su Colui che ha vinto il mondo e la carne, l'anima lotterà subito e finchè sarà necessario contro gli assalti del nemico; e, con la grazia di Dio, il più delle volte questi assalti non saranno che occasione di vittoria; se sciaguratamente avvenisse una caduta, l'anima, umiliata ma confidente, si getterebbe subito nelle braccia della divina misericordia per implorarne il perdono. Una caduta così riparata non sarebbe di ostacolo al suo avanzamento spirituale. 960. Dobbiamo tuttavia aggiungere che le purificazioni attive descritte in questo primo libro non bastano a rendere l'anima perfettamente pura. Il lavoro di purificazione deve quindi continuare nel corso della via illuminativa con la pratica positiva delle virtù morali e teologali. E non sarà compito se non quando verranno, nella via unitiva, quelle purificazioni passive, così bene descritte da S. Giovanni della Croce, che danno all'anima la perfetta purità di cuore, che è ordinariamente necessaria alla contemplazione. Ne parleremo nel terzo libro. Libro II La via illuminativa o lo stato delle anime proficienti. 961. Purificata l'anima dai passati peccati con lunga e laboriosa penitenza proporzionata al loro numero e alla loro gravità; rassodatasi nella virtù con la pratica della meditazione, della mortificazione e della resistenza alle inclinazioni cattive e alle tentazioni, si entra nella via illuminativa. É chiamata così perché consiste principalmente nell’imitare Nostro Signore con la pratica positiva delle virtù cristiane; ora Gesù è la luce del mondo e chi lo segue non cammina nelle tenebre: "Qui sequitur me non ambulat in tenebris, sed habebit lumen vitae". Introduzione Prima di descrivere le virtù che devono praticarsi dalle anime proficienti, dobbiamo chiarire tre questioni preliminari: 1) chi sono coloro ai quali si conviene la via illuminativa; 2) qual è il programma da seguire in questa via; 3) qual è la differenza tra le anime pie e le anime fervorose che camminano per questa via. I. Chi sono coloro ai quali conviene la via illuminativa. 962. S. Teresa descrive così gli abitanti della terza mansione, vale a dire le anime proficienti: “Hanno gran desiderio di non offendere la divina Maestà; schivano anche i peccati veniali; amano la penitenza; hanno le loro ore di raccoglimento; impiegano utilmente il tempo; si esercitano in opere di carità verso il prossimo. Tutto è ben regolato in loro: le parole, le vesti, il governo della casa, quelle che ne hanno". Da questa descrizione si possono dedurre le seguenti conclusioni. 963. 1° Poiché la via illuminativa consiste nell'imitazione di Nostro Signore, per entrarvi bisogna adempiere queste tre condizioni, che ci rendono capaci di seguire il divino Maestro con la pratica della virtù di cui ci ha dato l'esempio. A) Bisogna aver già acquistato una certa purità di cuore per poter aspirare senza troppa temerità a quell’unione abituale con Nostro Signore che è supposta dall'imitazione delle sue virtù: finché l'anima è esposta a cadere ogni tanto nel peccato mortale deve anzitutto lottare energicamente contro le occasioni di peccato, le cattive tendenze della natura e le tentazioni; solo superate queste difficoltà potrà utilmente occuparsi della parte positiva delle virtù. Bisogna pure che abbia in orrore il peccato veniale deliberato e che si studi di schivarlo. B) Bisogna pure che l'anima abbia mortificato le sue passioni. Infatti, per seguire Nostro Signore, occorre rinunziare non solo al peccato mortale ma ancora al peccato veniale deliberato, specialmente a quello che si commette frequentemente e a cui si ha affetto. Ora, solo lottando valorosamente contro le passioni e i vizi capitali si arriva a quella signoria di sé che rende capaci di praticare le virtù nella loro parte positiva e di accostarsi così gradatamente al divino Modello. Allora infatti si può avere una vita ben regolata, momenti di raccoglimento, e impiegare il tempo nell'adempimento dei doveri del proprio stato. 964. C) Infine è necessario avere con la meditazione acquistato convinzioni profonde su tutte le grandi verità, a fine di poter dare nell'orazione maggior tempo ai pii affetti e alla preghiera propriamente detta. Infatti con questi affetti e con la domanda attiriamo in noi le virtù di Nostro Signore e riusciamo a praticarle senza troppa difficoltà. Si riconoscono quindi i proficienti a questi principali due segni: 1) sentono grande difficoltà a fare orazione puramente discorsiva perché l'attrazione dello Spirito Santo li porta ad associare ai ragionamenti molti affetti; 2) hanno desiderio ardente ed abituale di unirsi a Nostro Signore, di conoscerlo, di amarlo, di imitarlo. 965. 2° Da quanto abbia detto derivano le principali differenze fra le due vie, purgativa ed illuminativa. A) Lo scopo così per l'una come per l'altra è pur sempre lo sforzo e la lotta; ma gl'incipienti lottano contro il peccato e le sue cause, mentre le anime proficienti lottano per ornare l'anima con l'acquisto delle virtù di Nostro Signore. Non vi è però opposizione tra queste due direzioni; l'una prepara l'altra: distaccandosi dal peccato e dalle sue cause, si praticano già le virtù nel primo loro grado, che è soprattutto negativo; le virtù positive poi, che si praticano nella via illuminativa, perfezionano il distacco da se stessi e dalle creature; nel primo caso si insiste sul lato negativo, nel secondo sul lato positivo della virtù due cose che si integrano a vicenda. Non si cessa quindi nella via illuminativa dal fare penitenza e dal mortificarsi, ma si fa coll'intento di unirsi meglio e meglio rassomigliare a Nostro Signore. B) I mezzi, pur restando sostanzialmente gli stessi, differiscono nel modo onde sono adoperati: la meditazione, che era discorsiva, diventa affettiva; il pensiero che si fissava abitualmente su Dio, si concentra di più su Nostro Signore, bramoso di conoscerlo, amarlo, imitarlo: Gesù diventa veramente il centro della nostra vita. II Programma da seguire nella via illuminativa. 966. Questo programma deriva da quanto abbiamo detto. 1° Il fine diretto è di conformarci a Nostro Signore in modo da fare di lui il centro della nostra vita. A) Ne facciamo il centro dei nostri pensieri. Ci dilettiamo di studiarne la vita e i misteri; il Vangelo ha per noi nuove grazie: lo leggiamo lentamente, affettuosamente, rilevando i minimi particolari della vita del Salvatore e soprattutto le sue virtù. Vi troviamo argomenti di meditazione inesauribili, dilettandoci in meditarne le parole, minutamente analizzarle e applicarle a noi. Quando vogliamo praticare una virtù, la studiamo innanzitutto in Gesù, richiamandocene gli insegnamenti e gli esempi, in questi trovando il motivo più potente per ricopiarne in noi le disposizioni e le virtù. Gesù è pure il centro dei nostri pensieri nella santa Messa e nella Comunione: le preghiere liturgiche sono per noi ottimo mezzo di studiarlo. Ci studiamo infine con pie letture di conoscere meglio l'insegnamento di Nostro Signore, soprattutto la sua dottrina spirituale, Gesù cercando nei libri: Jesum quaerens in libris. 967. B) Questa conoscenza conduce all'amore, onde Gesù diventa il centro dei nostri affetti. a) Come infatti si potrebbe studiare quotidianamente Colui che è la stessa bellezza e la stessa bontà, senza sentirsi presi d'amore per lui? "Dacché conobbi Gesù Cristo, diceva Lacordaire, nulla mi parve più abbastanza bello da guardarlo con concupiscenza". Se gli Apostoli sul Tabor, vedendo l'umanità di Nostro Signore trasfigurata, furono talmente rapiti d'ammirazione e d'amore da gridare: "É bene per noi il rimanercene qui, bonum est nos hic esse", quanto più siamo rapiti noi di fronte alla divina bellezza che rifulge in Gesù risuscitato? b) E come non amarlo, meditando spesso l'amore di cui ci diede e non cessa di darci prova nell'Incarnazione, nella Redenzione e nell'Eucaristia? S. Tommaso compendiò, in una strofa mirabilmente concisa, i grandi benefici del Salvatore verso di noi "[Se nascens dedit socium, Convescens in edulium, Se moriens in pretium, Se regnans dat in praemium] Ha dato se stesso ai suoi discepoli Mangiare insieme con loro in se stesso come nostro riscatto quando stava per morire nel prezzo, la sentenza si dona come ricompensa". Il giorno che nacque si fece nostro compagno di via, nostro amico, nostro fratello, e non ci lascia mai soli. Istituendo l'Eucaristia, diventa nostro cibo e col suo corpo, col suo sangue, con la sua anima, con la sua divinità, sazia le anime nostre affamate e sitibonde di lui. Morendo sulla croce, sborsa il prezzo del nostro riscatto, ci libera dalla schiavitù del peccato, ci rende la vita spirituale e ci dà la maggior prova d'amore che si possa dare agli amici. Finalmente in paradiso ci dà se stesso in ricompensa, lassù lo possediamo per tutta l’eternità e la nostra felicità si confonde quindi innanzi con la sua gloria. Non potremo dunque essere mai abbastanza riconoscenti alla infinita sua bontà né amarlo mai abbastanza. 968. C) Ora l'amore conduce all'imitazione. Appunto perché si è attratti verso l'amico dalla stima che si ha delle sue virtù, si desidera di ricopiare in sé queste medesime virtù, onde fare con lui un sol cuore e un'anima sola. Si sente infatti che, a rendere quest'unione intima e profonda, bisogna fondarla sulla comunione dei pensieri, dei sentimenti, delle virtù dell’amico; si imita istintivamente ciò che si ama. Onde Gesù diventa il centro delle nostre azioni e dell’intiera nostra vita. Pregando, attiriamo in noi Nostro Signore col suo spirito di religione, per glorificare Dio e chiedere efficacemente le grazie di cui abbiamo bisogno. Lavorando, ci uniamo al divino operaio di Nazareth per attendere come lui alla gloria di Dio e alla salute delle anime. Volendo acquistare una virtù, attiriamo in noi Gesù modello perfetto di tale virtù e ci sforziamo di praticarla con lui. Perfino le ricreazioni si fanno in unione con lui e nel suo spirito, onde lavorare poi meglio a gloria di Dio e a vantaggio della Chiesa. 969. 2° Ma per ottenere questo fine, occorrono dei mezzi, e questi mezzi saranno, oltre la preghiera e l'orazione affettiva, lo sforzo costante di praticare le virtù cristiane che ci fanno meglio conoscere, amare e imitare Nostro Signore, vale a dire le virtù teologali e le virtù morali. Si mira alla virtù soda, fondata non su emozioni ma su convinzioni profonde. A) La pratica di queste virtù corre parallela, nel senso che uno non si può esercitare nelle virtù morali senza esercitarsi pure nelle virtù teologali e viceversa. Non si può coltivare la prudenza cristiana, senza essere nello stesso tempo guidati dai lumi della fede, sorretti dalla speranza e stimolati dall'amor di Dio; parimenti la fede e la speranza suppongono la prudenza, la fortezza e la temperanza; e così si dica delle altre virtù. Vi sono però virtù che convengono meglio a questa o a quella classe di persone che si esercitano nella via illuminativa. Così coloro che entrano in questa via insistono di più su certe virtù morali, di cui sentono maggior bisogno per trionfare della sensualità o della superbia. Più tardi, dominati questi vizi, uno si applicherà più specialmente alle virtù teologali, che più direttamente ci uniscono a Dio. 970. B) A intendere meglio questa dottrina, sarà bene indicare brevemente fin d'ora la differenza che corre tra queste virtù. a) Le virtù teologali hanno per oggetto diretto Dio stesso e per motivo un attributo divino; così con la fede io credo in Dio, appoggiato sulla divina sua autorità; con la carità io l'amo per la sua infinita bontà. In tal modo queste virtù ci uniscono direttamente a Dio: la fede ce ne fa partecipare il pensiero, la carità l'amore. b) Le virtù morali hanno per oggetto diretto un bene creato e per motivo il bene onesto; così la giustizia ha per oggetto di rendere a ciascuno il suo, e per motivo l'onestà. Queste virtù preparano l'unione con Dio, allontanando gli ostacoli, come sarebbe l'ingiustizia; iniziano anzi quest'unione, perché, essendo giusto, io mi unisco a Dio che è la stessa giustizia. Ma spetta alle virtù teologali, che sono più direttamente unificanti, il perfezionare quest'unione. 971. C) Ne viene che chi studi le virtù secondo l'ordine di dignità, deve cominciare dalle virtù teologali; chi invece segua l'ordine psicologico, che va dal meno perfetto al più perfetto, come qui facciamo noi, deve cominciare dalle virtù morali, senza per altro dimenticare la precedente osservazione sullo sviluppo parallelo delle virtù cristiane. III. Due categorie di anime proficienti. Nella via illuminativa si possono distinguere molte categorie di anime, ma soprattutto due principali: le anime pie e le anime fervorose. 972. 1° Le prime hanno buona volontà, slancio verso il bene e fanno sforzi seri per schivare le colpe deliberate. Ma sono ancora vane e presuntuose; poco abituate all'abnegazione, difettano di energia e di costanza, massime quando sopraggiungono le prove. Onde variazioni molte nella loro condotta; disposte a soffrire tutto quando le prove sono ancora lontane, mancano di pazienza e si lagnano quando sono di fronte al dolore o alle aridità; pronte a prendere generose risoluzioni, non le osservano poi che imperfettamente, soprattutto se sorgono difficoltà impreviste. Lenti quindi ne sono i progressi, onde hanno bisogno di coltivare le virtù della fortezza, della costanza e dell'umiltà. 973. 2° Le anime fervorose sono più umili e più generose. Diffidenti di sé e fidenti in Dio, già abituate all'abnegazione cristiana, sono più energiche e più costanti. Tuttavia questa rinunzia di sé non è né assoluta sé universale: hanno gran desiderio di perfezione, ma la loro virtù non fu ancora abbastanza rassodata dalla prova. Presentandosi la consolazione e la gioia, le accettano volentieri e vi si adagiano con compiacenza; non hanno ancora l'amore della croce. Le forti risoluzioni prese al mattino non vengono eseguite che in parte, perché non sono abbastanza costanti negli sforzi. Sono già abbastanza avanti nell'amore divino da rinunziare alle cose pericolose, ma si affezionano talora troppo a ciò che Dio permette di amare, ai parenti, agli amici, alle consolazioni che provano negli esercizi spirituali. Occorre quindi che si distacchino ancora più perfettamente da tutto ciò che ostacola l'unione con Dio. Non tratteremo a parte di queste due categorie di anime; ma tra le virtù che descriviamo, il direttore sceglierà quelle che convengono meglio ad ogni anima. Divisione del secondo libro. 974. Lo scopo delle anime proficienti è di fare di Gesù il Centro della propria vita; onde: 1° si applicheranno diligentemente all’orazione affettiva per attingervi la conoscenza, l'amore e l'imitazione del divino modello. 2° praticheranno pure, in modo speciale ma non esclusivo, quelle virtù morali che, liberandole dagli ostacoli che si oppongono all'unione con Dio, cominceranno ad unirle a Colui che è l'esemplare d'ogni perfezione. 3° Quindi le virtù teologali, che avevano già praticate nella via purgativa di conserva con le virtù morali, si sviluppano in loro e diventano il principale motore della loro vita. 4° Ma, essendo la lotta tutt'altro che finita, vi saranno ancora contrattacchi del nemico che bisognerà prevedere e vittoriosamente combattere. Onde quattro capitoli. Cap. I.  dell'orazione affettiva propria di questa via. Cap. II.  delle virtù morali. Cap. III.  delle virtù teologali Cap. IV. della lotta contro i contrattacchi del nemico. Capitolo I. Dell'orazione affettiva. Nascondi 975. Le anime proficienti continuano a fare gli esercizi spirituali degl'incipienti, n. 657, aumentandone il numero e la durata e accostandosi così alla preghiera abituale già descritta al n. 522, che non si attua interamente se non nella via unitiva. Si applicano soprattutto all'orazione affettiva, che a poco a poco sostituisce per loro la meditazione discorsiva. Ne, esporremo quindi: 1° la natura; 2° i vantaggi; 3° le difficoltà; 4° il metodo che vi si può seguire. ART. I. Natura dell'orazione affettiva. 976. 1° Definizione. L'orazione affettiva, come dice la parola, è quella in cui dominano i pii affetti, ossia i varii atti, della volontà con cui esprimiamo a Dio il nostro amore e il desiderio di glorificarlo. In questa orazione il cuore ha parte maggiore della mete. Nascondi Gl’incipienti, come abbiamo detto al n. 668, hanno bisogno d'acquistare convinzioni, onde insistono sui ragionamenti, dando posto molto limitato agli affetti. Ma a mano a mano che queste convinzioni si radicano profondamente nell'anima, occorre minor tempo per rinnovarle, onde lasciano maggiore campo agli affetti. Invaghita dell'amor di Dio e della bellezza della virtù, l'anima si innalza più facilmente con pii slanci all'autore d'ogni bene per adorarlo, benedirlo, ringraziarlo, amarlo; a Nostro Signore Gesù Cristo, suo Salvatore, suo modello, suo capo, suo amico, suo fratello, per presentargli i più affettuosi sentimenti; alla SS. Vergine, madre di Gesù e madre nostra, dispensiera dei divini favori, per esprimerle il più filiale, il più confidente il più generoso amore, n. 166. Altri sentimenti le scaturiscono, spontaneamente dal cuore: sentimenti di vergogna, di confusione e di umiliazione alla vista delle proprie miserie; desideri ardenti di far meglio e confidenti preghiere per averne la grazia; sentimenti di zelo per la gloria di Dio che la muovono a pregare per tutte le grandi cause della Chiesa e delle anime. 977. 2° Passaggio dalla meditazione all'orazione affettiva. A questa orazione non si giunge così tutto d'un tratto. Vi è un periodo di transizione in cui si mescolano più o meno le considerazioni e gli affetti. Ve n'è un altro in cui le considerazioni si fanno ancora ma sotto forma di colloquio: Aiutatemi, o Signore, a intendere bene la necessità di questa virtù; e si fanno alcuni minuti di riflessione; poi si continua: Grazie, o Signore, dei vostri lumi divini; degnatevi di imprimermi più profondamente nell’anima queste convinzioni, perché possano più efficacemente influire sulla mia condotta … Aiutatemi, vi prego, a vedere quanto io sia lontano da questa virtù … e che cosa debbo fare per meglio praticarla … già fin di quest'oggi. Viene poi il momento che i ragionamenti cessano quasi intieramente o almeno si fanno così brevi che la maggior parte dell'orazione trascorre in pii colloqui. Si sente però talora il bisogno di rifarsi momentaneamente alle considerazioni per dare sufficiente occupazione alla mente. In tutto ciò bisogna seguire i moti della grazia accertati dal direttore. 978. 3° Segni che giustificano questo passaggio. A) Conviene conoscere i segni onde si arguisce che è tempo di lasciare la meditazione per l'orazione affettiva. Sarebbe cosa imprudente farlo troppo presto; perché, non essendo allora l'anima ancora abbastanza progredita per alimentare questi affetti, cadrebbe nelle distrazioni o nell'aridità. Ma sarebbe anche a dolore che si facesse troppo tardi; perché, secondo l'avviso di tutti gli autori spirituali, l'orazione affettiva è più fruttuosa della meditazione, essendo specialmente gli atti della volontà quelli per cui glorifichiamo Dio e attiriamo in noi le virtù. B) Questi segni sono i seguenti: 1) quando, nonostante la buona volontà, torna difficile far ragionamenti o trarne profitto, e d'altra parte uno si sente portato agli affetti; 2) quando le convinzioni sono così profondamente radicate che l'anima si sente già convinta fin dal principio dell'orazione; 3) quando il cuore, distaccato dal peccato, corre facilmente, a Dio o a Nostro Signore. Essendo però noi cattivi giudici in causa propria, sarà bene sottoporre questi segni al giudizio del direttore. 979. 4° Mezzi per coltivare gli affetti. A) i pii affetti si moltiplicano e si prolungano principalmente, con l'esercitarsi nella virtù della carità, scaturendo essi da un cuore in cui domina l'amor di Dio. È l'amore che ci fa ammirare le perfezioni divine; illuminato dalla fede, ci mette dinanzi agli occhi la bellezza, la bontà, la misericordia infinita di Dio; onde nasce spontaneo un sentimento di riverenza e di ammirazione che eccita a sua volta la riconoscenza, la lode, la compiacenza; quanto più si ama Dio e tanto più questi vari atti continuano. Lo stesso avviene dell'amore a Nostro Signor Gesù Cristo: quando si ripensa ai benefici indicati al n. 967, ai patimenti sostenuti per noi, da quest'amabile Salvatore, all'amore di cui ci dà continua prova nell'Eucaristia, uno si abbandona facilmente a sentimenti di ammirazione, di adorazione, di riconoscenza, di compassione, di amore, e sente bisogno di lodare e di benedire Colui che ci ama tanto. 980. B) A fomentare questo divino amore, si consiglierà ai proficienti di meditare spesso sulle grandi verità che ci ricordano ciò che Dio ha fatto e non cessa di fare per noi: Nascondi a) L'abitazione delle tre divine persone nell'anima nostra e la paterna loro azione su noi ( n. 92130 ). b) La nostra incorporazione a Cristo e la parte sua nella vita cristiana ( n. 132153 ); la sua vita, i suoi misteri, soprattutto la dolorosa sua passione e l'amor suo nell'Eucaristia. c) La parte della SS. Vergine, degli Angeli e dei Santi nella vita cristiana ( n. 154189 ): abbiamo così un mezzo prezioso di variare gli affetti, rivolgendoci ora alla Madre celeste, ora ai SS. Angeli, soprattutto all’angelo custode, ora ai Santi, massime a quelli che c'ispirano maggior divozione. d) Le preghiere vocali che, come il Pater, l'Ave Maria, l'Adoro te devote latens deitas, etc … sono piene di sentimenti di amore, di riconoscenza, di conformità alla volontà di Dio. e) Le principali virtù, come la religione verso Dio, l'obbedienza verso i superiori, l'umiltà, la fortezza, la temperanza, e principalmente le tre virtù teologali. Si considereranno queste virtù non così in astratto ma come praticate da Nostro Signore, e appunto per assomigliare a lui e dargli prova del nostro amore si cercherà di praticarle. f) Non si lascerà di meditare sulla penitenza, sulla mortificazione, sul peccato, sui novissimi, ma in modo diverso dagl'incipienti. Si considererà Gesù come perfetto modello di penitenza e di mortificazione, come carico dei nostri peccati che sono da lui espiati con lungo martirio, sforzandoci d'attirarlo in noi con tutte le sue virtù. La meditazione sulla morte, sul paradiso e sull'inferno si farà per distaccarsi dalle cose create e unirsi a Gesù, onde assicurarsi la grazia d' una buona morte e un bel posto in paradiso presso Gesù. ART. II. Vantaggi dell’orazione affettiva. Sono vantaggi che derivano dalla natura stessa di questa orazione. 981. 1° Il principale è una più intima e più abituale unione con Dio. Moltiplicando gli affetti, produce in noi un aumento d'amore di Dio; onde gli affetti vengono ad essere effetto e causa: nascono dall'amore di Dio, ma anche lo perfezionano, perché le virtù crescono con la ripetizione degli stessi atti. Aumentano pure la conoscenza delle divine perfezioni. Perché, come nota S. Bonaventura, "il miglior modo di conoscere Dio è di sperimentare la dolcezza del suo amore: modo di conoscenza più eccellente, più nobile e più dilettevole della ricerca per via di ragionamento". Come infatti si giudica meglio dell'eccellenza di un albero col gustarne i saporosi frutti, così si giudica meglio dell'eccellenza degli attributi divini con lo sperimentare la soavità dell'amor di Dio. Questa conoscenza aumenta a sua volta la carità e il fervore, e ci dà nuovo slancio a praticare più perfettamente tutte le virtù. 982. 2° Aumentando la carità, l'orazione affettiva perfeziona pure tutte le virtù che ne derivano: a) la conformità alla volontà di Dio; perché si è lieti di fare la volontà della persona amata; b) il desiderio della gloria di Dio e della salvezza delle anime; perché, quando uno ama, non può tenersi dal lodare e fare lodare l'oggetto del suo amore; c) l'amor del silenzio e del raccoglimento; perché si vuole stare da solo a solo coll'amato, onde pensare più spesso a lui e ripetergli il proprio amore; d) il desiderio della comunione frequente; perché si desidera di possedere più perfettamente possibile l'oggetto del proprio amore, beati di riceverlo nel cuore e restargli uniti per tutto il giorno; e) lo spirito di sacrificio; perché si sa che non possiamo unirci al divin Crocifisso e per lui a Dio, se non in quanto rinunziamo a noi stessi e ai nostri comodi, onde portare la croce senza stancarci e accettare tutte le prove che la Provvidenza ci manda. 983. 3° Vi si trova pure spesso la consolazione spirituale; non vi è infatti gaudio più puro e più dolce del trovarsi in compagnia d'un amico; e, poiché Gesù è il più tenero e il più generoso degli amici, si gustano, lui presente, gaudii di paradiso: esse cum Jesu dulcis paradisus. È vero che accanto a questi gaudii vi sono pure talora aridità o altre prove, ma si accettano con dolce rassegnazione ripetendo continuamente a Dio che si vuole amarlo e servirlo a qualunque costo; e il pensiero che si soffre per Dio è gia addolcimento di pena e consolazione. Si può aggiungere che l'orazione affettiva è meno faticosa dell'orazione discorsiva; perché in quest'ultima uno si stanca presto nel filo dei ragionamenti, mentre che, abbandonando il cuore a, sentimenti di amore, di riconoscenza, di lode, l'anima gode dolce riposo e serba gli sforzi pel tempo dell'azione. 984. 4° Infine l'orazione affettiva, semplificandosi, ossia diminuendo il numero e la varietà degli affetti per intensificarne solo alcuni, ci conduce a poco a poco all'orazione di semplicità, che è già contemplazione acquisita e prepara quindi alla contemplazione infusa o contemplazione propriamente detta le anime che vi sono chiamate. Ne parleremo nella via unitiva. ART. III. Gl’inconvenienti e i pericoli dell’orazione affettiva. Anche le cose migliori hanno inconvenienti e pericoli; e così è pure dell'orazione affettiva che, se se non è fatta secondo le regole della prudenza, conduce ad abusi. Ne indicheremo i principali con i rispettivi rimedi. 985. 1° Il primo è la tensione, che induce stanchezza ed esaurimento. Vi sono infatti di quelli che, volendo intensificare gli affetti, fanno sforzi di testa e di cuore, si affannano, si eccitano violentemente a produrre atti e slanci di amore, in cui ha più parte la natura che la grazia. Con tali sforzi il sistema nervoso si stanca, il sangue affluisce al cervello, una specie di lenta febbre consuma le forze, e si è presto esausti. Può anche accadere che ne seguano disordini fisiologici e che ai pii affetti si mescolino sensazioni più o meno sensuali. 986. É grave difetto a cui bisogna porre subito rimedio, seguendo i consigli di un savio direttore a cui si paleserà questo stato. Ora il rimedio è di convincersi bene che il vero amor di Dio consiste assai più nella volontà che nella sensibilità, e che la generosità di quest'amore non sta negli slanci violenti ma nella risoluzione calma e ferma di non rifiutare nulla a Dio. Non bisogna dimenticare che l'amore è atto della volontà, il quale spesso, è vero, rifluisce sulla sensibilità producendovi emozioni più o meno forti, ma non sono queste la vera devozione, queste non ne sono che manifestazioni accidentali che devono restare subordinate alla volontà ed essere da lei moderate; altrimenti prendono il sopravvento. Il che è un disordine, e in cambio di fomentare la soda pietà, la fanno, degenerare in amore sensibile e talora sensuale; perché tutte le emozioni violente sono in fondo dello stesso genere e si passa facilmente dall'una all'altra. Bisogna quindi cercare di spiritualizzare gli affetti, calmarli, metterli a servizio della volontà; e allora si godrà una pace che sorpassa ogni intendimento "[pax Dei quae, exsuperat omnem sensum] la pace di Dio, che, sorpassa ogni intelligenza,". 987. 2° Il secondo difetto è l'orgoglio e la presunzione. Avendo buoni e nobili sentimenti, santi desideri, bei disegni di progresso spirituale; sentendo fervore sensibile e, in tali momenti, disprezzando i piaceri, i beni e le vanità del mondo, uno si crede volentieri molto più avanti di quello che è e quasi si immagina di toccare ormai le vette della perfezione e della contemplazione; avviene anche talora che, durante l'orazione, si trattiene il respiro in attesa di comunicazioni divine. Tali sentimenti mostrano invece chiaramente che si è ancora molto lontani da quelle alte vette, perché i santi e le anime fervorose diffidano di sé, si stimano sempre i più cattivi e credono volentieri gli altri migliori di loro. Bisogna quindi rifarsi alla pratica dell'umiltà, della diffidenza di sé, tenendo conto di ciò che diremo più tardi di questa virtù. Del resto, quando sorgono questi sentimenti d'orgoglio, Dio si dà pensiero di ricondurre egli stesso queste anime a giusti sentimenti della loro indegnità ed incapacità, privandole di consolazioni e di grazie particolari; onde capiscono allora quanto siano ancora lontane dalla sospirata meta. 988. 3° Vi sono pure di quelli che pongono tutta la devozione nella ricerca delle consolazioni spirituali, trascurando i doveri del proprio stato e la pratica delle virtù ordinarie; purché facciano belle orazioni, pensano di essere già perfetti. É grande illusione: non ci può essere perfezione senza conformità alla divina volontà; ora questa volontà è che osserviamo fedelmente, oltre i comandamenti, anche i doveri del nostro stato, e che pratichiamo tanto le piccole virtù della modestia, della dolcezza, della condiscendenza, della gentilezza, quanto le grandi. Credersi santo perché si ama la orazione e soprattutto le sue consolazioni, è dimenticare che perfetto è solo colui che fa la volontà di Dio: "Non sono coloro che mi dicono: Signore, Signore, quelli che entreranno nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio". Quando però si sanno rimuovere gli ostacoli e i pericoli coi mezzi da noi indicati, l'orazione affettiva torna utilissima al progresso spirituale e allo zelo apostolico. Vediamo quindi quali sono i metodi di meglio coltivarla. ART. IV. Metodi d’orazione affettiva. Questi metodi si riducono a due tipi: il metodo di S. Ignazio e quello di San Sulpizio. § I. Il metodo di S. Ignazio. Tra i metodi ignaziani ce ne sono tre che si riferiscono all'orazione affettiva: 1° la contemplazione; 2° l'applicazione dei sensi; 3° la seconda maniera di pregare. 1° La contemplazione ignaziana. 989. Si tratta qui non della contemplazione infusa ne della contemplazione acquisita, ma di un metodo particolare di orazione affettiva. Contemplare un oggetto non vuol dire guardarlo così alla sfuggita, ma posatamente e con gusto fino a che se ne sia pienamente soddisfatti; è guardarlo con ammirazione, con amore, come la madre contempla il suo bambino. Questa contemplazione può rivolgersi ai misteri di Nostro Signore o agli attributi divini. Quando si medita un mistero: 1) si contemplano le persone che intervengono in tal mistero, per esempio, la SS. Trinità, Nostro Signore, la SS. Vergine, gli uomini, se ne osserva l'esterno e l'interno; 2) se ne ascoltano le parole, chiedendosi a chi siano rivolte e che cosa significhino; 3) si considerano le azioni, natura e circostanze; il tutto allo scopo di porgere i propri doveri a Dio, a Gesù, alla Madonna, e conoscere ed amar meglio Nostro Signore. 990. Onde tale contemplazione riesca più fruttuosa, si considera il mistero non come fatto passato ma come cosa che si sia presentemente svolgendo sotto i nostri occhi; ed è infatti presente per la grazia che vi è annessa. Poi vi si assiste non come semplice spettatore ma prendendovi parte attiva, per esempio unendosi ai sentimenti della SS. Vergine nel momento della nascita del Dio Bambino. Vi si cerca pure un risultato pratico, per esempio, più intima conoscenza di Gesù e amore più generoso per lui. È facile, come ognun vede, far entrare in questo quadro tutti i sentimenti di ammirazione, di adorazione, di riconoscenza, di amore verso Dio, come pure di compunzione, di confusione, di contrizione alla vista dei nostri peccati, e infine tutte le preghiere che possiamo fare per noi e per gli altri. Onde poi la molteplicità di questi affetti non porti danno alla pace e alla tranquillità dell’anima, non si deve dimenticare questa saviissima osservazione di S. Ignazio : "Se trovo in un punto i sentimenti che volevo eccitare in me, mi ci fermerò e riposerò, senza darmi pensiero di passare oltre, sino a che l'anima mia sia pienamente soddisfatta; perché non è la copia della scienza che sazia l'anima e la soddisfa ma il sentimento e il gusto interiore delle verità da lei meditate”. 991. L'orazione poi sugli attributi divini si fa considerando ognuno di questi attributi con sentimenti di adorazione, di lode e di amore, conchiudendo coll'intiero dono di sé a Dio. 2° L'applicazione dei cinque sensi. 992. Si indica con questo nome un modo di meditare molto semplice e molto affettuoso, che consiste nell'esercitare i cinque sensi immaginativi o spirituali su qualche mistero di Nostro Signore, per imprimerci più profondamente nell'anima tutte le circostanze di questo mistero, ed eccitarci nel cuore pii sentimenti e buone risoluzioni. Prendiamo un esempio tratto dal mistero di Natale. 1) Applicazione detta vista. Vedo il bambino nel presepio, la paglia ove giace, le fasce che lo avvolgono … Vedo le sue manine tremanti di freddo, i suoi occhi molli di lacrime … É il mio Dio: io l'adoro con viva fede … Vedo la SS. Vergine: che modestia! che celeste bellezza! … La vedo prendere in braccio il bambino Gesù, fasciarlo coi pannolini, stringerselo al cuore e adagiarlo sulla paglia: è suo figlio ed è suo Dio! Ammiro e prego … Penso alla santa comunione: è pur quello stesso Gesù che ricevo io … Ho io la stessa fede e lo stesso amore? 2) Applicazione dell'udito. Sento i vagiti del divin Bambino … i gemiti strappatigli dal dolore … Ha freddo, ma soffre specialmente dell’ingratitudine degli uomini … Sento le parole del suo Cuore al Cuore della santa sua Madre, la risposta di lei, risposta piena di fede, di adorazione, di umiltà, di amore; e mi unisco ai suoi sentimenti. 3) Applicazione dell'odorato. Aspiro il profumo delle virtù del presepio, il buon odore di Gesù Cristo, e supplico il Salvatore di darmi quel senso spirituale che mi faccia aspirare il profumo della sua umiltà … 4) Applicazione del gusto. Gusto la felicità di essere con Gesù, Maria, Giuseppe; la felicità di amarli; e per gustarla meglio me ne starò raccolto e silenzioso vicino vicino al mio Salvatore. 5) Applicazione del tatto. Tocco piamente e riverentemente con le mani il presepio e la paglia ove sta coricato il mio Salvatore e amorosamente li bacio … E, se il divin Bambino me lo vuoi permettere, gli bacio i santi piedini. Si termina con un pio colloquio con Gesù, con sua madre, chiedendo la grazia d'amare più generosamente questo Salvatore divino. 3° La seconda maniera di pregare. 993. La seconda maniera di pregare consiste nel ripassare adagio nella mente qualche preghiera vocale, come il Pater, l'Ave, la Salve Regina, ' ecc., per considerare e gustare il significato di ogni parola. Così, per il Pater considererete la prima parola e direte: O mio Dio, voi l'Eterno, l'Onnipotente, il Creatore di tutte le cose, m'avete adottato per figlio, voi siete mio Padre. Lo Siete perché nel battesimo mi avete comunicato una partecipazione della vostra vita divina e ogni giorno me l'aumentate nell'anima … Lo siete perché mi amate come mai nessun padre e nessuna madre amarono il proprio figlio,perché avete per me premura tutta paterna. Uno si ferma su questa prima parola finché ci trova significati e sentimenti che portino qualche luce, forza o consolazione. Se avviene anzi che una o due sole parole forniscano sufficiente materia per tutto il tempo dell’orazione, non bisogna darsi pensiero di passar oltre; si assaporano queste parole, se ne trae qualche conclusione pratica, e si prega per poterla eseguire. Ecco dunque tre modi semplici e facili per praticare l'orazione affettiva. § II. Il metodo di San Sulpizio. Nascondi Abbiamo già notato, n. 701, che questo metodo è molto affettivo; le anime progredite non hanno dunque che da giovarsene tenendo conto delle seguenti osservazioni. 994. 1° Il primo punto, l'adorazione, che per gli incipienti era molto breve, si prolunga sempre più, occupando talora da solo più di metà dell'orazione. L'anima, accesa d'amore di Dio, ammira, adora, loda, benedice, ringrazia ora le tre divine persone insieme, ora ognuna di loro in particolare, ora Nostro Signore, perfetto modello di quella virtù che si vuole attirare in noi. Porge pure, secondo le circostanze, ossequio di venerazione, di riconoscenza, di amore alla SS. Vergine e ai Santi, sentendosi tratta, nel farlo, a imitarne le virtù. 995. 2° Il secondo punto, la comunione, diviene anch'esso quasi intieramente affettivo. Le poche considerazioni che si fanno sono molto brevi, e sotto forma di colloqui con Dio o con Nostro Signore: "Aiutatemi, o mio Dio, a convincermene sempre più"… sono accompagnate e seguite da effusioni di riconoscenza per i lumi ricevuti, da ardenti desideri di praticare la virtù che si medita. L'esame su questa virtù si fa sotto lo sguardo di Gesù e confrontandosi con questo divino Modello; onde avviene che si vedono assai meglio i propri difetti e le proprie miserie per ragione del contrasto tra lui e noi; e allora i sentimenti di umiliazione e di confusione che si provano sono più profondi, maggiore la confidenza che si ha in Dio, perché uno si sente alla presenza del divin medico delle anime, onde esce spontaneamente dal cuore quel grido: "O Signore, il vostro amico è molto ammalato: Ecce quem amas infirmatur". Quindi ardenti preghiere per ottener la grazia di praticare questa o quella virtù; preghiere non solo per sé ma anche per gli altri e per tutta la Chiesa; preghiere confidenti, perché, essendo incorporati a Cristo, si sa che queste preghiere sono da lui spalleggiate. 996. 3° Anche la cooperazione, nel terzo punto, si fa più affettuosa: la risoluzione che si prende, viene offerta a Gesù perché la approvi; si vuole praticarla per incorporarsi più perfettamente a lui e si fa per questo assegnamento sulla sua collaborazione, diffidando di sé; si lega poi questa risoluzione al mazzolino spirituale, ossia a una pia invocazione che si viene spesso ripetendo nel corso della giornata e che ci aiuta non solo a metterla in pratica ma ad affettuosamente ricordarci di Colui che ce l'ha ispirata. 997. Vi sono però dei casi in cui l'anima, trovandosi nell'aridità, non può far di questi affetti se non con grande fatica. E allora, dolcemente abbandonandosi alla volontà di Dio, protesta di volerlo amare, di restargli fedele, di tenersi a ogni costo alla sua presenza e al suo servizio; riconosce umilmente la sua indegnità e la sua incapacità, si unisce con la volontà a Nostro Signore, offrendo a Dio gli ossequi che egli gli rende e aggiungendovi il dolore che prova nel non poter far di più per onorare la divina Maestà. Questi atti di volontà sono anche più meritorii dei pii affetti. Tali sono i principali metodi d'orazione affettiva scelga ognuno quello che meglio gli conviene e tolga da ciascuno ciò che fa ai presenti suoi bisogni ,e alle soprannaturali predilezioni dell'anima sua, seguendo i movimenti della grazia. Progredirà così nella pratica delle virtù. Capitolo II. Delle virtù morali Prima di partitamente descriverle, conviene richiamare brevemente le nozioni teologiche, sulle virtù infuse. Nozioni preliminari sulle virtù infise. Diremo prima delle virtù infuse in generale e poi delle virtù morali in particolare. I. Delle virtù infuse in generale. 998. Vi sono virtù naturali, vale a dire buone abitudini, acquistate con atti frequentemente ripetuti, che agevolano la pratica del bene onesto. Onde anche gli increduli e i pagani possono, col naturale concorso di Dio, acquistare le virtù morali della prudenza, della giustizia, della fortezza, della temperanza e perfezionarvisi. Non parliamo qui di queste virtù; ma intendiamo di trattare delle virtù soprannaturali o infuse quali si hanno nel cristiano. 999. Elevati allo stato soprannaturale e non avendo altro fine che la visione beatifica, dobbiamo tendervi con atti fatti sotto l'influsso di principii e di motivi soprannaturali, essendo necessario che vi sia proporzione tra il fine e gli atti che vi conducono. Quindi per noi le virtù che nel mondo si dicono naturali, devono essere: praticate in modo soprannaturale. Come giustamente nota il P. Garrigou-Lagrange, secondo S. Tommaso le virtù morali cristiane sono infuse ed essenzialmente distinte per l'oggetto formale dalle più alte virtù morali acquisite descritte dai più grandi filosofi … C'è infinita differenza tra la temperanza aristotelica, regolata soltanto dalla retta ragione, e la temperanza cristiana regolata dalla fede divina e dalla prudenza soprannaturale. Nascondi Avendo già mostrato come queste virtù ci sono comunicate dallo Spirito Santo che vive in noi, n. 121  122, non ci resta più che a descriverne: 1° la natura; 2° l'aumento; 3° l'indebolimento; 4° il vincolo che corre tra loro; 5° l'ordine che terremo nell'esporle. 1° Natura delle virtù infuse. 1000. A) Le virtù infuse sono principii di azione che Dio inserisce in noi perché servano all'anima di facoltà soprannaturali e ci rendano quindi capaci di fare atti meritori. Vi è dunque differenza essenziale tra le virtù infuse e le virtù acquisite sotto il triplice aspetto dell'origine, dell'esercizio, del fine. a) Riguardo all'origine, le virtù naturali si acquistano con la ripetizione degli stessi atti; le virtù soprannaturali vengono da Dio che ce le infonde nell'anima insieme con la grazia abituale. b) Quanto all'esercizio, le virtù naturali, acquistandosi con la ripetizione degli stessi atti, ci danno la facilità di fare prontamente e lietamente atti simili; le virtù soprannaturali, infuse da Dio nell'anima nostra, non ci danno che il potere di fare atti meritori, con una certa tendenza a farli; la facilità non verrà che più tardi con la ripetizione degli atti. c) Riguardo al fine, le virtù naturali tendono al bene onesto e ci volgono a Dio creatore; mentre le virtù infuse tendono al bene soprannaturale e ci portano al Dio della Trinità, quale ci è fatto conoscere dalla fede. Quindi i motivi che ispirano queste virtù devono essere soprannaturali, e si riducono all'amicizia di Dio; io pratico la prudenza, la giustizia, la temperanza, la fortezza per essere in armonia con Dio. 1001. Ne viene che gli atti di queste virtù soprannaturali sono molto più perfetti di quelli delle virtù acquisite; la nostra temperanza, per esempio, non ci porta solo alla sobrietà necessaria per serbare la umana dignità, ma anche a vere mortificazioni con cui maggiormente ci conformiamo al Salvatore Gesù; la nostra umiltà non ci fa solo evitare gli eccessi di superbia e di collera opposti ma ci fa abbracciare le umiliazioni che ci rendono più simili al nostro divino Modello. Vi è dunque differenza essenziale tra le virtù acquisite e le infuse; il principio e il motivo formale non ne sono identici. 1002. B) Abbiamo detto che la facilità di esercitare le virtù infuse si acquista con la ripetizione degli stessi atti, onde si opera con più prontezza, con più facilità e con più diletto ( promptius, facilius, delectabilius ). Sono tre le cause principali che concorrono a.questo buon risultato: a) L'abitudine diminuisce gli ostacoli o le resistenze della guasta natura, onde col medesimo sforzo si ottengono migliori effetti; b) indocilisce le facoltà, ne perfeziona l'esercizio, le rende più pronte a cogliere i motivi che ci portano al bene e più atte a praticare il bene conosciuto; proviamo anzi un certo diletto ad esercitare facoltà così docili, come l'artista a far correre le dita su una mobilissima tastiera. c) Infine la grazia attuale, che ci viene concessa con tanto maggior liberalità quanto più fedele è la nostra corrispondenza, contribuisce anch'essa in modo singolare ad agevolarci il nostro dovere e a farcelo amare. Notiamo di passaggio che cotesta facilità, acquistata che sia, non si perde appena uno abbia la disgrazia di perdere col peccato mortale la virtù infusa; frutto di atti frequentemente ripetuti, la facilità persiste per qualche tempo in virtù delle leggi psicologiche sulle abitudini acquisite. 2° Dell'aumento delle virtù infuse. 1003. A) Le virtù infuse possono crescere nell'anima e crescono infatti a misura che cresce la grazia abituale da cui derivano. Questo aumento viene direttamente da Dio, egli solo potendo aumentare in noi la vita divina e i vari elementi che la costituiscono. E Dio produce questo aumento quando riceviamo i sacramenti e quando facciamo opere buone o preghiere. Nascondi a) I sacramenti, in virtù della stessa loro istituzione, causano in noi un aumento di grazia abituale e quindi delle virtù infuse che vi sono connesse, a proporzione delle nostre disposizioni, n. 259261. b) Anche le opere buone meritano non solo la gloria ma un aumento di grazia abituale e quindi delle virtù infuse; aumento che dipende in gran parte dal fervore delle nostre disposizioni, n. 237. c) La preghiera, oltre, il valore meritorio, ha pure un valore impetratorio, che sollecita ed ottiene, un aumento di grazia e di virtù, a proporzione del fervore con cui si prega. Conviene quindi unirsi alle preghiere della Chiesa chiedendo con lei aumento di fede, di speranza e di carità "[Da nobis fidei, spei et caritatis augmentum] Dacci fede, speranza e carità". B) Tale aumento si fa, secondo S. Tommaso, non col crescimento di grado o di quantità ma col possesso più perfetto e più attivo, della virtù; onde avviene che le virtù gettano più profonde radici nell'anima e vi diventano più sode ed operose. 3° Dell'indebolimento delle virtù. Un'attività che non si eserciti o che:si eserciti fiaccamente, presto si affievolisce o si perde anche intieramente. 1004. A) Della diminuzione delle virtù. Le virtù infuse non sono, a dir vero, capaci di diminuzione come non ne è capace la grazia santificante da cui dipendono. Il peccato veniale non può diminuirle, come non può diminuire la grazia abituale; ma, soprattutto quando è commesso spesso e deliberatamente, ostacola notevolmente l'esercizio delle virtù, diminuendo la facilità acquistata con gli atti precedenti. Nascondi Questa facilità viene infatti da un certo ardore e da una certa costanza nello sforzo; ora le colpe veniali deliberate smorzano lo slancio e svigoriscono in parte l’attività, n. 730. Così i peccati veniali d'intemperanza, senza diminuire in sé la virtù infusa della sobrietà, fanno perdere a poco a poco la acquistata facilità di mortificar la sensualità. E poi l'abuso delle grazie cagiona una diminuzione delle grazie attuali che ci agevolavano l'esercizio delle virtù, onde le pratichiamo per questo verso con meno ardore. Infine, come abbiamo detto, n. 731, i peccati veniali deliberati spianano la via ai peccati gravi e quindi alla perdita delle virtù. 1005. B) Della perdita delle virtù. Si può fissare come principio che le virtù si perdono con ogni atto che ne distrugga l'oggetto formale o il motivo; con ciò infatti si scalza la virtù dalle fondamenta. a) Così la carità si perde con ogni peccato mortale di qualsiasi natura, perché questo peccato distrugge in noi l'oggetto formale o il fondamento di tal virtù, essendo direttamente opposto all'infinita bontà di Dio. b) Le virtù morali infuse si perdono col peccato mortale, poiché sono talmente legate alla carità che, scomparendo questa, esse scompaiono con lei. Nondimeno la acquistata facilità di fare atti di prudenza, di giustizia, ecc., continua ancora per qualche tempo dopo la perdita delle virtù infuse, in virtù della persistenza delle abitudini acquisite. c) La fede e la speranza continuano a sussistere nell'anima anche quando si è perduta la grazia col peccato mortale, purché non si tratti di peccato direttamente contrario a queste due virtù. La ragione è che gli altri peccati mortali non distruggono in noi il fondamento della fede e della speranza; e d'altra parte Dio, nella infinita sua misericordia, vuole che queste due virtù rimangano come ultima tavola di salvezza: fin che uno crede e spera, la conversione resta relativamente facile. 4° Del vincolo che corre tra le varie virtù. 1006. Si dice spesso che tutte le virtù sono connesse: cosa che richiede alcune spiegazioni. Nascondi A) Prima di tutto la carità, bene intesa e ben praticata, comprende tutte le virtù, non solo la fede e la speranza ( il che è evidente ), ma anche le virtù morali, come abbiamo spiegato, n. 318, con la dottrina di S. Paolo: [Caritas patiens est, caritas benigna est] L'amore è paziente, è benigna la carità. Il che è vero nel senso che chi ama Dio e il prossimo per Dio, è pronto a praticare ogni virtù, appena la coscienza gliene faccia conoscere l'obbligo. Non si può infatti amare Dio profondamente, sopra ogni cosa, senza volerne osservare i comandamenti e anche alcuni consigli. Spetta inoltre alla carità di ordinare tutti i nostri atti a Dio, ultimo nostro fine, e quindi regolarli secondo le varie virtù cristiane. E si può dire che quanto più aumenta la carità, tanto più crescono pure in radice le altre virtù. Nondimeno l’amore di Dio, pur inclinando la volontà agli atti delle virtù morali e agevolandone la pratica, non dà immediatamente e necessariamente la perfezione di tutte queste virtù, per esempio, della prudenza, dell'umiltà, dell'obbedienza, della castità. Poniamo infatti un peccatore che sinceramente si converta dopo contratte cattive abitudini; sebbene pratichi con ogni sincerità la carità, non diventa così tutto a un tratto perfettamente prudente, perfettamente casto o temperante, ma occorrerà tempo e sforzo per liberarsi dalle antiche abitudini e formarsene delle nuove. 1007. B) Essendo la carità forma e ultimo compimento di tutte le virtù, queste non sono mai perfette senza di lei; quindi la fede e la speranza che restano nell'anima del peccatore, pur essendovene virtù, sono virtù informi, cioè prive di quella perfezione che le volgeva a Dio come ultimo nostro fine; onde gli atti di fede e di speranza fatti in questo stato non possono meritare il paradiso, benché siano soprannaturali e servano di preparazione alla conversione. 1008. C) Le virtù morali, chi le possegga nella loro perfezione, vale a dire informate dalla carità e in grado alquanto elevato, sono veramente connesse nel senso che non se ne può possedere una senza aver pure le altre. Così tutte le virtù, ad essere perfette, suppongono la prudenza; la prudenza poi non può praticarsi perfettamente senza il concorso della fortezza, della giustizia e della temperanza: chi è di carattere fiacco, inclinato all'ingiustizia e all’intemperanza, mancherà di prudenza in parecchie circostanze; la giustizia non può praticarsi perfettamente senza fortezza d'animo e temperanza; la fortezza dev'essere temperata dalla prudenza e dalla giustizia; né sussisterebbe a lungo senza la temperanza; e via dicendo. Ma se le virtù morali non sono nell'anima sé non in grado inferiore, la presenza dell’una non inchiude necessariamente la pratica dell’altra. Così vi sono pudici senza essere umili, umili senza essere misericordiosi, misericordiosi senza praticare la giustizia. II. Le virtù morali. Spieghiamone brevemente la natura, il numero, il comune carattere. 1009. 1° La natura. Si dicono virtù morali per doppia ragione: a) per distinguerle dalle virtù puramente intellettuali, che perfezionano l'intelligenza senza relazione alcuna con la vita morale, come la scienza, l'arte, ecc.; b) per distinguerle dalle virtù teologali, che certamente regolano esse pure i costumi, ma che, come abbiamo già detto, hanno direttamente Dio per oggetto, mentre le virtù morali mirano direttamente a un bene soprannaturale creato, per esempio, il dominio delle passioni. Non è però da dimenticare che anche le virtù morali soprannaturali sono veramente una partecipazione della vita di Dio e ci preparano alla visione beatifica. Del resto, a mano a mano che si perfezionano, e soprattutto quando vengono integrate dai doni dello Spirito Santo, queste virtù finiscono con accostarsi talmente alle virtù teologali che ne restano come imbevute, e non sono più che varie manifestazioni della carità che le informa. 1010. 2° Il numero. Le virtù morali, chi le consideri nelle varie loro ramificazioni, sono numerosissime, ma si riducono poi tutte alle quattro virtù cardinali, dette così ( dalla parola cardines, cardini ) perché sono quasi quattro cardini su cui si reggono tutte le altre. Queste quattro virtù infatti corrispondono a tutti i bisogni dell'anima e ne perfezionano tutte le facoltà morali. 1011. A) Corrispondono a tutti i bisogni dell’anima. a) Abbiamo prima di tutto bisogno di scegliere mezzi necessari od utili al conseguimento del fine soprannaturale: è l'ufficio della prudenza. b) Dobbiamo pure rispettare i diritti altrui; ed è ciò che fa la giustizia. c) A difendere la persona e i beni dai pericoli che ci minacciano, e farlo senza paura e senza violenza, ci occorre la fortezza. d) Per servirsi dei beni di questo mondo e dei diletti senza oltrepassare la debita misura, ci è necessaria la temperanza. La giustizia quindi regola le relazioni con il prossimo, la fortezza e la temperanza le relazioni con noi stessi, e la prudenza dirige le altre tre virtù. 1012. B) Perfezionano tutte le nostre facoltà morali: l'intelligenza è regolata dalla prudenza, la volontà dalla giustizia, l’appetito irascibile dalla fortezza e l'appetito concupiscible dalla temperanza. Notiamo però che, non essendo l'appetito irascibile e concupiscible capaci di moralità se non per la volontà, la fortezza e la temperanza risiedono in questa superiore facoltà e nelle facoltà inferiori che ricevono direzione dalla volontà. 1013. C) Aggiungiamo infine che ognuna di queste virtù può essere considerata come un genere che contiene sotto di se parti integranti, subiettive e potenziali. a) Le parti integranti sono virtù che servono di compimento utile o necessario alla pratica della virtù cardinale, talmente che non sarebbe perfetta senza questi elementi; così la pazienza e la costanza sono parti integranti della fortezza. b) Le parti subiettive sono come le varie specie di virtù subordinate alla virtù principale; così la sobrietà e la castità sono parti subiettive della temperanza. c) Le parti potenziali ( o annesse ) hanno con la virtù cardinale una certa rassomiglianza, perché attuano una parte dell'intiera sua potenza, senza avverarne pienamente tutte le condizioni. Così la virtù della religione è virtù annessa alla giustizia, perché mira a rendere a Dio il culto che gli è dovuto, senza però poterlo fare con la perfezione voluta né con stretta eguaglianza; l'obbedienza rende ai superiori la sottomissione loro dovuta, ma anche qui non vi è propriamente stretto diritto né relazione da pari a pari. Ad agevolare l'opera nostra e quella dei lettori, non entreremo nella enumerazione di tutte queste divisioni e suddivisioni ma sceglieremo quelle virtù principali che debbono essere maggiormente coltivate, non toccandone se non gli elementi più essenziali tanto sotto l'aspetto teorico che pratico. 1014. 3° Il comune carattere. a) Tutte le virtù morali mirano a serbare il giusto mezzo tra gli opposti eccessi: in medio stat virtus. Devono infatti seguire la regola segnata dalla retta ragione illuminata dalla fede. Ora si può mancare a questa regola oltrepassando la misura o rimanendone al di qua: la virtù quindi consisterà nello schivare questi due eccessi. b) Le virtù teologali non stanno in sé nel giusto mezzo, perché, come dice S. Bernardo, la misura d'amare Dio è di amarlo senza misura; ma considerate rispetto a noi queste virtù devono tenere conto anche del giusto mezzo, ossia devono essere rette dalla prudenza, che ci indica in quali circostanze possiamo e dobbiamo praticare le virtù teologali; è lei infatti che ci mostra, per esempio, ciò che bisogna credere e ciò che non bisogna credere, come si deve schivare nello stesso tempo la presunzione e la disperazione, ecc. Divisione del secondo capitolo. 1015. Nel secondo capitolo tratteremo per ordine delle quattro virtù cardinali e delle principali virtù che vi si connettono. I. Della prudenza. II. Della giustizia della religione. dell'obbedienza. III. Della fortezza. IV. Della temperanza della castità. dell'umiltà. della dolcezza. Art. I. Della virtù della prudenza Ne esporremo: 1° la natura; 2° la necessità; 3° i mezzi di perfezionarvisi. I. La natura. Per meglio intenderla diamone la definizione, gli elementi costitutivi, le specie. 1016. 1° Definizione: è una virtù morale e soprannaturale, che inclina l'intelletto a scegliere, in ogni circostanza, i mezzi migliori a ottenere i vari fini subordinandoli al fine ultimo. Non è quindi né la prudenza della carne, né la prudenza puramente umana: è la prudenza cristiana. A) Non è la prudenza della carne, che ci rende ingegnosi nel trovare i mezzi a ottenere un fine cattivo, a soddisfare le passioni, ad arricchire, a conseguire onori; e che è condannata da S. Paolo, perché nemica di Dio e ribelle alla sua legge e nemica dell'uomo che conduce alla morte eterna. Non è neppure la prudenza puramente umana, che studia i mezzi migliori per ottenere un fine naturale senza subordinarlo al fine ultimo; come la prudenza dell'industriale, del commerciante, dell'artista, dell'operaio, che cercano di guadagnare denaro e gloria senza darsi pensiero di Dio e della felicità eterna. A costoro bisogna ricordare che a nulla serve il conquistare anche il mondo intero se poi si perde l'anima. 1017. B) É la prudenza cristiana, che appoggiandosi sui principii della fede, tutto riferisce al fine soprannaturale, vale a dire a Dio conosciuto e amato sulla terra e posseduto nel cielo. È vero che la prudenza non si occupa direttamente di questo fine, che le è proposto dalla fede; ma l'ha continuamente dinanzi, per studiare, alla sua luce, i mezzi migliori a dirigere tutte le azioni verso cotesto fine. Si occupa quindi della vita in tutti i suoi particolari: regola i pensieri per impedirli di andare lontani da Dio; regola le intenzioni per rimuoverne ciò che potrebbe corromperne la purezza; regola gli affetti, i sentimenti, i voleri, per riferirli a Dio; regola perfino gli atti esteriori e l'esecuzione delle nostre risoluzioni per ordinarli all'ultimo fine. 1018. C) Questa virtù risiede propriamente parlando nell'intelletto, perché giudica e discerne ciò che, in ogni particolare circostanza, è più atto a conseguire il nostro fine; è una scienza all'applicazione che alla conoscenza dei principii aggiunge quella delle cose e persone fra cui dobbiamo condurre la vita. Tuttavia la volontà interviene per muovere l'intelletto ad applicarsi alla considerazione dei motivi e delle ragioni onde fare una savia scelta, e poi più tardi per ordinare l'esecuzione dei mezzi scelti. 1019. D) La regola della prudenza cristiana non è la sola ragione, ma la ragione illuminata dalla fede. Se ne trova la più nobile espressione nel Sermone del monte, in cui Nostro Signore compie e perfeziona la legge antica, sgombrandola dalle false interpretazioni dei dottori giudei. La prudenza soprannaturale attinge dunque luce e ispirazioni nelle massime evangeliche che sono diametralmente opposte a quelle del mondo. Per farne l'applicazione alle azioni quotidiane ricorre agli esempi dei Santi, che vissero secondo il Vangelo, e agli insegnamenti della Chiesa infallibile che viene a guidarci nei casi dubbi. Così siamo moralmente certi di non traviare. D'altra parte i mezzi da lei adoperati sono non solo mezzi onesti ma mezzi soprannaturali, la preghiera e i sacramenti, che, moltiplicandoci le forze per il bene, ci fanno giungere a risultati assai migliori. Il che si vedrà anche meglio studiando gli elementi costitutivi di questa virtù. 1020. 2° Elementi costitutivi. Per operare prudentemente sono specialmente necessarie tre condizioni: esaminare con maturità, risolvere con senno, eseguir bene. A) Ci vuole prima di tutto maturo esame per studiare i mezzi più atti al conseguimento del fine che uno si propone, esame che dev'essere proporzionato all'importanza della risoluzione da prendere. A farlo con più maturità, uno rifletterà da sé e consulterà i savi. 1021. a) Rifletterà da sé sul passato, sul presente e sull’avvenire. 1) La memoria del passato gli sarà di grandissima utilità poiché il fondo della natura umana rimane sempre lo stesso nel corso dei secoli, conviene consultare la storia per vedere come i nostri padri risolvettero i problemi che ci stanno dinanzi: le esperienze che essi tentarono per risolverli illumineranno la esperienza nostra e ci risparmieranno molti errori; vedendo ciò che riuscì bene e ciò che andò a vuoto, capiremo meglio quali siano gli scogli da schivare e i mezzi da prendere. Ma bisogna consultare pure la propria esperienza: a cominciare dall'infanzia ci siamo trovati o in un modo o in un altro, alle prese con simili difficoltà; dobbiamo pensare a ciò che ci è riuscito e a ciò che ci fu causa di cattivo esito, e dire risolutamente a noi stessi: non voglio più espormi agli stessi pericoli né soccombere alle stesse tentazioni. 2) Ma si deve pure tenere conto del presente, delle condizioni diverse in cui viviamo; ogni secolo, ogni uomo ha la particolare sua indole, e noi stessi non abbiamo più nell'età matura gli stessi gusti che avevamo in gioventù. Onde qui interverrà l’intelletto per aiutarci a interpretare bene le esperienze passate adattandole alle circostanze presenti. 3) Da ultimo anche l'avvenire può bene essere interrogato: prima di risolvere, è utile prevedere, per quanto è possibile, le conseguenze dei nostri atti su noi e sugli altri. Con la memoria del passato e con la previsione, dell'avvenire si riesce a ben ordinare il presente. Applichiamo tutto questo a una determinata virtù, alla castità: la storia mi ricorderà quanto fecero i Santi per restare puri in mezzo ai pericoli del mondo; la mia esperienza mi dirà quali furono le mie tentazioni, i mezzi usati per resistervi, le vittorie e le sconfitte; e da ciò io potrò conchiudere con grande, probabilità quale risultato avrà nell'avvenire questo o quel passo, questa o quella lettura, questa o quella conversazione. 1022. b) Ma non basta riflettere, bisogna pure saper consultare gli uomini savi ed esperimentati: una parola, un'osservazione di un amico, di un parente, talora perfino di un servo, ci apre gli occhi e ci mostra un lato delle cose da noi dimenticato o negletto: quattro occhi vedono meglio di due, e dalla discussione scaturisce la luce. Quanto più non deve ciò dirsi della parola di un direttore che ci conosce, e che, essendo disinteressato nell'affare, vede meglio di noi ciò che ci è utile al bene dell'anima? Si consulterà dunque con diligenza e docilità un uomo savio ed esperimentato; il che del resto non toglie che esercitiamo la nostra sagacia, onde vedere con rapidità ed esattezza quanto vi è di fondato nei consigli altrui e nelle osservazioni nostre. Ma non si deve dimenticare di ricorrere al migliore dei consiglieri, al Padre dei lumi, e un Veni Sancte Spiritus divotamente recitato ci tornerà spesso più utile di molti esami. 1023. B) Dopo aver bene esaminato, bisogna giudicare bene, vale a dire risolvere quali, tra i mezzi suggeriti, sono veramente i più efficaci. Per riuscirvi: a) si rimoveranno accuratamente i pregiudizi, le passioni e le impressioni, che sono elementi perturbatori del giudizio, e uno si metterà risolutamente di fronte all'eternità per valutar tutto al lume della fede: b) non si dovrà fermarsi alla superficie delle ragioni che fanno inclinare a questa o quella parte, ma esaminarle a fondo, con, perspicacia, pesandone bene il pro ed il contro; c) infine si giudicherà con risolutezza, senza abbandonarsi a soverchie esitazioni; quando si è riflettuto proporzionatamente all'importanza dell'affare e preso il partito che sembra migliore, Dio non ci rimprovererà la nostra condotta, avendo noi fatto quanto dovevamo per conoscerne la volontà; onde possiamo far assegnamento sulla sua grazia per l’esecuzione delle nostre risoluzioni. 1024. Non bisogna infatti tardare ad eseguire il fissato disegno: al che tre cose si richiedono previdenza, circospezione, e precauzioni. a) Previdenza: il prevedere importa calcolare prima gli sforzi necessarii ad eseguire i nostri disegni, gli ostacoli che incontreremo e i mezzi di vincerli, onde poi proporzionare lo sforzo al risultato che si vuol ottenere. b) Circospezione: bisogna aprire gli occhi, considerare bene cose e persone che ci stanno attorno per trarne il migliore partito possibile; osservare tutte le circostanze per adattarvisi; tener d'occhio gli eventi per approfittarne se favorevoli, per prevenirne le cattive conseguenze se contrarii. c) Precauzioni: “[videte quomodo caute ambuletis] Vedere come si vive". Anche quando si è cercato di prevedere tutto, le cose non succedono poi sempre come le avevamo previste, perché limitata e fallibile è la nostra saggezza. Nascondi Conviene quindi, nella vita morale come negli affari, avere delle riserve, circondarsi di precauzioni: il nemico spirituale ha spesso dei contrattacchi, come abbiamo spiegato più sopra, n. 900; è quello il momento di ricorrere alle proprie riserve d'energia, alla preghiera, ai sacramenti, ai consigli d'un direttore. Così non si cade vittime di circostanze impreviste; non si rimane sconcertati; e con la grazia di Dio si riesce a condurre a buon fine i disegni prudentemente fissati. 1025. 3° Le diverse specie di prudenza. La prudenza si distingue secondo le cose su cui si esercita: è individuale quando regola la condotta personale ed è quella di cui abbiamo parlato: è sociale quando riguarda il bene della società; ed essendoci tre specie di comunità, la famiglia, lo Stato e l’esercito, si distinguono pure tre specie di prudenza: la prudenza domestica, che regola le relazioni degli sposi tra loro, dei genitori verso i figli e viceversa; la prudenza civile, che mira al bene pubblico e al buon governo dello Stato; la prudenza militare, che si occupa della condotta degli eserciti. Non entreremo qui nei particolari; i principii generali che abbiamo esposti bastano al fine propostoci. Spetta agli sposi cristiani, ai governanti e ai capi militari studiare a fondo l’applicazione di questi principi alla loro particolare condizione. II. Necessità della prudenza. La prudenza è necessaria tanto per dirigere noi stessi quanto per dirigere gli altri. 1026. 1° Per dirigere noi stessi, ossia per santificarci. È lei infatti che ci fa schivare il peccato, e praticare le virtù. A) Per schivare il peccato, bisogna, come abbiamo già detto, conoscerne le cause e le occasioni, studiare e preparare i rimedi. Ed è quello che fa la prudenza, come possiamo conchiudere dallo studio dei suoi elementi costitutivi: consultando l’esperienza dei passato e lo stato attuale dell'anima, vede ciò che per noi è o nell’avvenire potrebbe essere causa od occasione di peccato; quindi suggerisce i mezzi migliori onde sopprimere o attenuare queste cause e la strategia più atta a vincere le tentazioni e trarne anzi profitto. Senza questa prudenza, quanti peccati si commetterebbero! quanti se ne commettono per difetto di prudenza! 1027. B) La prudenza è pure necessaria per praticare le virtù e agevolare così l’unione con Dio. A ragione si paragonano le virtù a un cocchio che ci conduce a Dio e la prudenza al cocchiere che lo guida, [auriga virtutum] conducente; è come l'occhio dell'anima che vede la via da seguire e gli ostacoli da evitare. 1) É necessaria alla pratica di tutte le virtù: delle virtù morali, che devono tenersi nel giusto mezzo e schivare gli opposti eccessi; e anche delle virtù teologali, che devono praticarsi a tempo opportuno e con mezzi appropriati alle varie circostanze della vita: così spetta alla prudenza esaminare quali sono i pericoli che minacciano la fede e i mezzi per allontanarli; in che modo può essere coltivata la fede e diventare più pratica; in che modo s'ha da conciliare la confidenza in Dio e il timore dei divini giudizi, schivando nello stesso tempo la presunzione e la disperazione; in che modo la carità può informare tutte le nostre azioni senza turbare l'esercizio dei doveri dei nostro stato. E quanta prudenza non occorre nella pratica della carità fraterna! 2) Anche più necessaria è per la pratica d'un certo numero di virtù che paiono contradittorie: la giustizia e la bontà, la dolcezza e la fortezza, le sante austerità e la cura della salute, la sollecitudine per il prossimo e la castità, la vita interiore e gli affari. 1028. 2° Non meno necessaria è la prudenza nella pratica dell'apostolato. a) Sul pulpito, la prudenza suggerisce al sacerdote ciò che si deve dire e ciò che si deve tacere, come si deve parlare per non offendere gli uditori, per adattare la divina parola al loro grado d'intelligenza, per persuadere, commuovere e convertire. Forse anche più necessaria è nel fare il catechismo, dove si tratta di formare i giovanetti e stampare nella loro anima un'impronta che durerà poi tutta la vita. b) Al confessionale, la prudenza è quella che fa del confessore un giudice perspicace ed integro, capace di discernere la varia colpevolezza, interrogare: i penitenti con precisione e chiarezza secondo l'età e la condizione di ciascuno, tenendo ,conto di tutte le circostanze; un dottore capace di istruire senza scandalizzare, di lasciare certe anime nella buona fede o avvertirle secondo i vari risultati che si possono prevedere; un medico capace di esplorare con delicatezza le cause della malattia, scoprirne e savviamente prescriverne i rimedi; un padre così affettuoso da ispirare confidenza e così riserbato da non ispirare troppo umana simpatia. c) In tutto ciò che riguarda battesimi, prime comunioni, matrimonii, Estrema Unzione, funerali, quanta finezza è necessaria per conciliare i desiderii delle famiglie e le leggi divine e liturgiche i nelle visite agli infermi o nelle visite di apostolato quanta avvedutezza ci vuole! d) Lo stesso si dica nell’amministrazione temporale delle parrocchie, in fatto di tariffe per le diverse cerimonie, nell'obolo per il culto; per sapere ottener tutti i mezzi necessari alla Chiesa senza urtare i parrocchiani, senza scandalizzarli, senza compromettere la riputazione di perfetto disinteresse di cui ogni sacerdote deve godere. III. I mezzi di perfezionarsi in questa virtù. 1029. C'è un mezzo generale che s'applica a tutte le virtù, morali e teologali, è la preghiera, con cui attiriamo in noi Gesù e le sue virtù. Lo accenniamo, qui una volta per sempre per non doverci poi tornare sopra; e non parleremo più che dei mezzi proprii a ciascuna virtù. 1030. 1° Il principio generale che presiede a tutti gli altri e si applica a tutte le anime è di riferire tutti i giudizi e tutte le risoluzioni alfine ultimo soprannaturale. È ciò che S. Ignazio consiglia a principio degli Esercizi Spirituali, nella meditazione fondamentale. a) Osserviamo per altro che questo principio non sarà inteso da tutte le anime allo stesso modo: gl'incipienti, considerando il fine dell'uomo, si fisseranno piuttosto sulla salvezza dell'anima, i perfetti sulla gloria di Dio; questo secondo modo è in sé migliore, ma non tutte le anime potrebbero intenderlo e gustarlo. b) A concretare meglio questo principio, si può affiggerlo a qualche massima che ce lo porrà vivamente sotto gli occhi, per esempio: [Quid hoc ad aeternitatem!] Che cosa significa questo per l'eternità!  [Quod aeternum non est, nihil est.] Questo è eterna, non lo è, non c'è nulla.  [ Quid prodest homini?] Che giova un uomo? … In pratica poi il convincersi bene di alcuna di queste massime, il ritornarci sopra fin che ci sia divenuta familiare, l’abituarsi a viverne, è il mezzo efficace per fissarci nell'anima i fondamenti della cristiana prudenza. 1031. 2° Armati di questo principio, gl'incipienti si applicano a liberarsi dai difetti contrari alla prudenza cristiana. a) Combattono quindi vigorosamente la prudenza della carne, che cerca avidamente i mezzi di soddisfare la triplice concupiscenza, mortificando l'amore del piacere e ripensando che le false gioie di questo mondo, molto spesso seguite da amari dispiaceri, sono un nulla in paragone delle gioie eterne. b) Rigettano premurosamente l'astuzia, l'inganno, la frode anche nel perseguimento di un fine onesto, persuasi che la migliore politica è ancora l'onestà, che il fine non giustifica i mezzi e che, secondo il Vangelo, si deve associare la semplicità della colomba alla prudenza del serpente. Cosa tanto più necessaria perchè talora si rimproverano questi difetti, per lo più ingiustamente, ai devoti, ai sacerdoti, ai religiosi. Si coltiverà dunque con ogni premura la lealtà perfetta e la evangelica semplicità. 1032. c) Lavorano a mortificare i pregiudizi e le passioni che sono elementi perturbatori del giudizio: i pregiudizi, che inducono a prendere una risoluzione per motivi preconcetti che possono essere falsi o irragionevoli; le passioni, superbia, sensualità, voluttà, eccessiva sollecitudine dei beni del mondo, che agitano l'anima e le fanno scegliere non ciò che è meglio, ma ciò che è più dilettevole e più utile rispetto ai temporali interessi. Ad affrancarsi da queste perturbatrici influenze, richiamano le massime evangeliche: "[Quarite primum regnum Dei et justitiam ejus] Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia,". Evitano quindi di prendere risoluzioni sotto l'impulso di una viva passione e aspettano che sia tornata la calma nell'anima. Se poi occorresse risolversi presto, si raccolgono almeno un momento per mettersi alla presenza di Dio, implorarne i lumi e fedelmente seguirli. d) A combattere la leggerezza dell'animo, la corrività nei giudizi o la sconsideratezza, badano a non operare mai senza riflettere, senza chiedersi per quali motivi operano, quali saranno le conseguenze buone o cattive dei loro atti, il tutto in relazione con l'eternità. Questa riflessione sarà proporzionata all'importanza della risoluzione da prendere, e in cose gravi consulteranno persona savia e sperimentata. Così a poco prenderanno l'abitudine di non risolvere nulla e di nulla fare senza riferirlo a Dio e all'ultimo fine. e) Infine, ad evitare l'irrisolutezza e l'eccessiva esitazione a risolversi, si baderà a rimuovere le cause di questa malattia spirituale, ( animo troppo complesso o troppo perplesso, timidezza nell'intraprendere, ecc. ) facendosi fissare da un savio direttore, onde si risolverà con franchezza nei casi ordinari e si chiederà consiglio nei casi più difficili. 1033. 3° Le anime proficienti si perfezionano nella prudenza in tre modi: a) Studiando le azioni e le parole di Nostro Signore nel Vangelo, per trovarvi il modo di condursi e attirare in sé, colla preghiera e coll'imitazione, le disposizioni di questo divino Modello. 1) Così se ne ammirerà la prudenza nella vita nascosta: passa trent'anni nella pratica di quelle virtù che ci costano tanto, l'umiltà, l'obbedienza, la povertà, prevedendo che, senza questa lezione di cose, noi non avremmo mai saputo praticare queste così necessarie virtù. E non se ne ammirerà meno la prudenza nella vita pubblica: lotta col demonio così da sconcertarne i disegni e confonderlo con risposte che non ammettono replica; porge il suo insegnamento secondo le circostanze; non palesa se non gradatamente la sua qualità di Messia e di Figlio di Dio; usa paragoni familiari per far meglio capire il suo pensiero, e parabole per coprirlo o svelarlo secondo che volevano le circostanze; smaschera abilmente gli avversari e risponde alle capziose loro interrogazioni con altre domande che li sconcertano; forma progressivamente gli apostoli, sopportandone i difetti e adattando l'insegnamento alla loro capacità “[non potestis portare modo] ora si può sopportare"; sa peraltro dire loro dure verità, come l'annunzio della sua passione, a fine di prepararli allo scandalo della croce; anche nel corso della dolorosa sua passione risponde con calma così ai giudici come ai loro servi, sapendo tacere a tempo opportuno; … sa insomma conciliare in ogni cosa la più perfetta prudenza con la fermezza e la fedeltà al dovere. 2) Il suo insegnamento poi si compendia in queste parole: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia … Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe … Vigilate e pregate: Quaerite ergo primum regnum Dei et justitiam ejus… Estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae … Vigilate et orate". Meditare questi insegnamenti e questi esempi e ardentemente supplicare Nostro Signore di farci parte della sua prudenza: tal è il mezzo principale di perfezionarsi in questa virtù. 1034. b) Coltiveranno poi gli elementi costitutivi della prudenza di cui abbiamo parlato, vale a dire il buon senso, l'abito della riflessione, la docilità a consultare gli altri, lo spirito di risolutezza, lo spirito di previsione e di circospezione. 1035. c) Infine daranno alla loro prudenza le qualità additate da S. Giacomo, il quale, dopo avere distinta la vera dalla falsa sapienza, aggiunge: "[Quae autem desursum est sapientia, primum quidem pudica est, deinde pacifica, modesta, suadibilis, plena misericordia et fructibus bonis, non judicans, sine simulatione] Ora le cose che la saggezza dall'alto invece è anzitutto pura, poi pacifica, modesta, facile da pregò, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, e senza ipocrisia". Pudica, vigile nel serbare quella purità di corpo e di cuore che ci unisce a Dio, e quindi all'eterna sapienza. Pacifica, serbando la pace dell'anima, la calma, la moderazione, la ponderazione che giovano a prendere savie risoluzioni. Modesta, piena di condiscendenza verso gli altri, e quindi anche [suadibilis]compiacente, facile a lasciarsi persuadere e a cedere alle buone ragioni; scansando così gli sdegni provocati dalle contese. [Plena misericordia et fructibus bonis]Piena di misericordia e di buoni frutti, piena di misericordia verso gli sventurati, lieta di beneficarli, perché è segno di cristiana saggezza l'accumulare tesori per il cielo. [Non judicans, sine simulatione]Non giudicare, senza dissimulazione, senza parzialità né doppiezza e senza ipocrisia, difetti che turbano l'anima e il giudizio. 1036. I perfetti praticano la prudenza in modo eminente, sotto l'efficacia del dono del consiglio, come spiegheremo trattando della via unitiva. Art. II. Della virtù della giustizia. Richiamato brevemente l'insegnamento teologico sulla giustizia, tratteremo per ordine delle virtù della religione e dell'obbedienza che vi si connettono. I. La giustizia propriamente detta. Ne esporremo: 1° la natura; 2° le regole principali da seguire per praticarla. I. Natura della giustizia. 1037. 1° Definizione. La parola giustizia, nella S. Scrittura, significa spesso tutto il complesso delle virtù cristiane; in questo senso Nostro Signore proclama beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, cioè di santità: "[Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam]Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia". Ma nel significato ristretto in cui qui l'usiamo, indica quella virtù morale soprannaturale, che inclina la volontà a rendere costantemente agli altri tutto ciò che è loro strettamente dovuto. È virtù che risiede nella volontà e che regola gli stretti doveri verso il prossimo; onde si distingue dalla carità, virtù teologale, che ci fa considerare gli altri come fratelli in Gesù Cristo, inclinandoci a rendere loro servigi non richiesti dalla stretta giustizia. 1038. 2° Eccellenza. La giustizia fa regnare l'ordine e la pace così nella vita individuale come nella sociale. Appunto perché rispetta i diritti di ognuno, fa regnare l'onestà negli affari, reprime la frode, protegge i diritti dei piccoli e degli umili, raffrena le rapine e le ingiustizie dei forti e mette quindi l'ordine nella società. Senza di lei vi sarebbe anarchia, lotta fra i contrari interessi, oppressione dei deboli da parte dei forti, trionfo del male. Se così eccellente è la giustizia naturale, quanto più lo sarà la giustizia cristiana che è partecipazione della stessa giustizia di Dio? Lo Spirito Santo, comunicandocela, ce la fa penetrare sino nelle profondità dell’anima, la rende incrollabile, incorruttibile, aggiungendovi tale premura dei diritti altrui, che si ha orrore non solo dell’ingiustizia propriamente detta ma anche delle minime indelicatezze. 1039. 3° Le principali specie. Se ne distinguono due specie principali: la giustizia generale, che ci prescrive di rendere alle società ciò che loro dobbiamo, e la giustizia particolare, che ci fa rendere agli individui quanto è loro dovuto. a) La prima, che si dice pure giustizia legale perché è fondata sull'esatta osservanza delle leggi, ci obbliga a riconoscere i grandi benefici che riceviamo dalla società col sopportare i pesi legittimi che ella c'impone e col prestarle i servigi che da noi si aspetta. Essendo il bene comune superiore al bene particolare, vi sono casi in cui i cittadini devono sacrificare una parte dei loro beni, della loro libertà, e rischiare anche la vita per la difesa della città. Ma anche la società ha doveri verso i propri sudditi: deve distribuire i beni sociali e le cariche non a capriccio e per favoritismo, ma secondo le capacità di ciascun cittadino, e tenendo conto delle regole dell'equità. A tutti ella deve quel tanto di protezione e di assistenza che è indispensabile perché siano tutelati gli essenziali diritti ed interessi di ogni cittadino; il favoritismo verso gli uni e la persecuzione verso gli altri sono abusi contrari alla giustizia distributiva che le società devono ai loro sudditi. 1040. b) La seconda, la giustizia particolare, regola i diritti e i doveri dei cittadini tra loro. Deve rispettare tutti i diritti: non solo il diritto di proprietà, ma anche i diritti che hanno sui beni del corpo e dell'anima, la vita, la libertà, l'onore, la riputazione. Non possiamo entrare in tutte quelle particolarità che abbiamo esposto nella nostra Teologia morale, e basterà richiamare le principali regole che devono guidarci nella pratica di questa virtù. II. Principali regole per praticare la giustizia. 1041. 1° Principio. É chiaro che le persone pie, i religiosi e i sacerdoti sono obbligati a praticare la giustizia con perfezione e delicatezza maggiore delle persone del mondo, dovendo dar buon esempio in materia di onestà come in tutte le altre virtù. Chi facesse altrimenti scandalizzerebbe il prossimo e darebbe pretesto ai nostri avversari di condannare la religione. Sarebbe pure porre ostacolo al progresso spirituale, perché il Dio di ogni giustizia non può ammettere alla sua intimità coloro che apertamente ne violano i formali precetti sulla giustizia. 1042. 2° Applicazioni. A) Si deve prima di tutto rispettare il diritto di proprietà per quel che riguarda i beni temporali. a) Si eviteranno quindi con ogni diligenza i piccoli furti, che per sdrucciolevole pendio conducono spesso ad ingiustizie più gravi; e s'inculcherà questo principio fin dall’infanzia, per ispirare una specie d'orrore istintivo alle più piccole ingiustizie. A più forte ragione si eviteranno quei furti commessi dai mercanti o dagli industriali che praticano abitualmente la frode sulla qualità o sulla quantità delle merci col pretesto che i concorrenti fanno lo stesso; oppure che vendono a prezzi esagerati o comprano a prezzi irrisori, abusando della semplicità dei clienti; si starà alla larga dalle speculazioni temerarie e da quei loschi affari in cui si rischia la fortuna propria e l’altrui sotto pretesto di lauti guadagni. b) Si avrà orrore dei debiti quando non si è sicuri di poterli pagare; e chi ne avesse contratto qualcuno, si farà un punto d'onore di rimborsarlo al più presto. c) Quando si prende ad imprestito un oggetto, bisogna trattarlo con riguardo anche maggiore che se fosse nostro, e badare a restituirlo il più presto possibile. Quanti furti incoscienti si commettono quando si trascurano queste precauzioni! d) Chi ha volontariamente causato qualche danno è tenuto per giustizia a ripararlo; se involontariamente, non è strettamente obbligato, ma chi mira alla perfezione lo farà per quanto gli averi glie lo permettono. e) Quando si riceve in deposito danaro o valori per opere buone, bisogna prendere tutte le precauzioni legali perché, in caso di morte improvvisa, coteste somme siano bene impiegate secondo le intenzioni dei donatori. Sia detto specialmente per i sacerdoti che ricevono onorari di messe od elemosine; essi devono non solo tenere i conti in ordine, ma avere per legatario o per esecutore testamentario un sacerdote che possa assicurare l'adempimento delle messe o il buon uso delle elemosine. 1043. B) Non è meno necessario rispettare la riputazione e l'onore del prossimo. a) Si schiveranno quindi i giudizi temerari sul prossimo. Condannare i nostri fratelli per semplici apparenze o per ragioni più o meno futili, senza conoscerne a fondo le intenzioni, è un usurpare i diritti di Dio, che solo è giudice supremo dei vivi e dei morti; è commettere un'ingiustizia rispetto al prossimo, perché si condanna senza ascoltarlo, senza conoscere i motivi segreti delle sue azioni, e per lo più sotto l'impero di pregiudizi o di qualche passione. La giustizia e la carità vogliono invece o che ci asteniamo dal giudicare, o che interpretiamo più favorevolmente possibile le azioni del prossimo. b) A più forte ragione bisogna astenersi dalla maldicenza, che palesa ad altri le colpe o i difetti segreti del prossimo. Anche se questi difetti, come noi supponiamo, siano veri, fin che non sono di dominio pubblico, non abbiamo il diritto di propalarli. Facendolo: 1) contristiamo il prossimo che, vedendosi colpito nella riputazione, ne soffre tanto più. quanto più caro gli è l'onore; 2) l'abbassiamo nella stima dei suoi pari; 3) diminuiamo l'autorità e il credito di cui ha bisogno per fare i suoi affari od esercitare una legittima influenza, onde gli possiamo cagionare talora danni quasi irreparabili. Né si dica che colui del quale si raccontano le colpe non ha più diritto alla riputazione: la conserva fino a tanto che le sue colpe non sono pubbliche; ma poi non bisogna perdere di vista la parola del Salvatore: "Chi di voi è senza peccato lanci la prima pietra". Si noti che i Santi sono tutti sommamente misericordiosi e cercano in tutti i modi di difendere la riputazione dei fratelli. É meglio che anche noi li imitiamo. c) Con ciò saremo più sicuri di schivare la calunnia, che, con false imputazioni, accusa il prossimo di colpe non commesse. Ingiustizia tanto più grave in quanto che e spesso ispirata dalla malignità o dalla gelosia. Quanti mali cagiona! Troppo bene accolta, ahimè! dall’umana malizia, corre rapidamente di bocca in bocca, distrugge la riputazione e l'autorità di coloro che ne sono vittime e ne pregiudica talora gravemente anche gli affari temporali. 1044. Vi è quindi stretto dovere di riparare le maldicenze e le calunnie. È cosa certamente difficile; perché il ritrattarsi costa, e poi la ritrattazione, per quanto sincera sia, non fa che palliare l'ingiustizia commessa; la menzogna, anche quando è ritrattata, lascia spesso tracce indelebili. Non è però questa una buona ragione per non riparare la commessa ingiustizia; bisogna anzi applicarcisi con tanto maggiore energia e costanza quanto più grande è il male. La difficoltà della riparazione deve indurci ad astenerci da tutto ciò che potrebbe da vicino o da lontano farci cadere in questo grave difetto. Ecco perché tutti coloro che tendono alla perfezione coltivano non solo la giustizia ma anche la carità, la quale, facendoci vedere Dio nel prossimo, ci fa diligentemente schivare tutto ciò che potrebbe contristarlo. Ci ritorneremo più avanti. II. La virtù della religione. 1045. Questa virtù si connette con la giustizia, perché ci fa rendere a Dio il culto che gli è dovuto; ma non potendo noi offrirgli l'ossequio infinito a cui ha diritto, la nostra religione non avvera tutte le condizioni della giustizia; onde non è in senso proprio un atto di giustizia, ma vi si avvicina quanto più è possibile. Ne esporremo: 1° la natura; 2° la necessità; 3° la pratica. 1° Natura della virtù della religione. 1046. La religione è una virtù morale soprannaturale che inclina la volontà a rendere a Dio il culto che gli è dovuto per la infinita sua eccellenza e pel supremo suo dominio sopra di noi. a) É una virtù speciale, distinta dalle tre virtù teologali che hanno Dio per oggetto diretto; mentre l'oggetto proprio della religione, è il culto di Dio, sia interno che esterno. Ma presuppone la virtù della fede, che ci illumina sui diritti di Dio; e quando sia perfetta, è informata dalla carità e finisce col non essere più che l'espressione e la manifestazione delle tre virtù teologali. b) Il suo oggetto formale o motivo è di riconoscere l'infinita eccellenza di Dio, primo principio ed ultimo fine, Essere perfetto, Creatore da cui tutto dipende e a cui tutto deve tendere. c) Gli atti a cui la religione ci induce sono interni ed esterni. 1047. Con gli atti interni assoggettiamo a Dio l'anima con le sue facoltà, e specialmente l'intelletto e la volontà. 1) Il primo e più importante di questi atti è l'adorazione per cui tutto il nostro essere si prostra davanti a Colui che è la pienezza dell'essere e la fonte di tutto ciò che vi è di bene nella creatura è accompagnata o seguita dalla ammirazione riverente che proviamo alla vista delle infinite sue perfezioni. 2) Ed essendo egli l'autore di tutti i beni che possediamo, gliene professiamo la debita riconoscenza. 3) Ma ricordandoci di essere peccatori, concepiamo sentimenti di penitenza per riparare l'offesa commessa contro l'infinita sua maestà. 4) E perché abbiamo continuamente bisogno del suo aiuto per fare il bene e conseguire il nostro fine, gli rivolgiamo le nostre preghiere o domande, riconoscendo così che è fonte d'ogni bene. 1048. Questi sentimenti interni si manifestano con atti esterni, che hanno tanto maggior valore quanto più perfetti sono gli atti interni di cui sono espressione. 1) Il principale di questi atti è certamente il sacrificio, atto esterno e sociale, con cui il sacerdote offre a Dio, in nome della Chiesa, una vittima immolata, per riconoscerne il supremo dominio, riparare l’offesa fatta alla sua Maestà ed entrare in comunione con lui. Nella nuova Legge non c'è che un solo sacrificio, quello della messa, che, rinnovando il sacrificio dei Calvario, porge a Dio ossequi infiniti e ottiene agli uomini tutte le grazie di cui hanno bisogno. Nascondi Ne abbiamo indicato più sopra gli effetti e le disposizioni necessarie per trarne profitto, n. 271276. 2). A quest'atto principale s'aggiungono: le preghiere pubbliche offerte, in nome della Chiesa, dai suoi rappresentanti, in particolare l'ufficio divino; le benedizioni del SS. Sacramento; le preghiere vocali private; i giuramenti e i voti fatti con prudenza, in onore di Dio, dotati di tutte le condizioni descritte nei trattati di Teologia morale; gli atti soprannaturali esterni fatti per la gloria di Dio e che, secondo l'espressione di san Pietro, sono sacrifici spirituali graditi a Dio, "[offerre spirituales hostias, acceptabiles Deo] per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio". Da ciò si può conchiudere che la virtù della religione e la più eccellente delle virtù morali, perché, facendoci praticare il culto divino, ci avvicina a Dio più che le altre virtù. 2°. Necessità della virtù della religione. Per procedere con ordine, dimostreremo: 1° che tutte le creature devono rendere gloria a Dio; 2° che è dovere speciale per l'uomo; 3° soprattutto poi pel sacerdote. 1049. 1° Tutte le creature devono rendere gloria a Dio. Se ogni opera deve proclamare la gloria dell'artista che l'ha fatta, quanto più deve la creatura proclamare la gloria del suo Creatore? L'artista non fa poi altro che modellare l'opera sua e, terminata che l'abbia, non ci ha più da far nulla. L'artista divino invece non solo modellò le sue creature ma le trasse intieramente dal nulla, imprimendovi non solo l'orma del suo, genio ma anche un raggio delle sue perfezioni; e continua ad occuparsene conservandole, aiutandole col suo concorso e con la sua grazia, cosicché sono in una intiera dipendenza da lui. Devono quindi assai più dell'opere d'un artista proclamare la gloria del loro autore. A quello che fanno, a modo loro, gli esseri inanimati, i quali, svelandoci la loro bellezza e la loro armonia, c'invitano a glorificare Dio: "[Caeli enarrant gloriam Dei] I cieli narrano la gloria di Dio;… [ipse fecit nos et non ipsi nos"] lui che ci ha fatti, e non noi stessi; ma è ossequio che non onora Dio se non molto imperfettamente perché non è libero. 1050. 2° Spetta dunque all'uomo il glorificare Dio in modo cosciente, prestare il cuore e la voce a queste, creature inanimate onde rendergli ossequio intelligente e libero. Spetta a lui, che è il re della creazione, contemplare tutte queste maraviglie per riferirle a Dio ed essere quindi il pontefice della creazione. Deve specialmente lodarlo in nome proprio: più perfetto degli esseri irragionevoli, creato ad immagine e somiglianza di Dio, partecipe della sua vita, deve vivere in assidua ammirazione, lode, adorazione, riconoscenza ed amore al suo Creatore e Santificatore. É quello che dichiara S. Paolo: "Da lui, per lui, e a lui sono tutte le cose: a lui la gloria per tutti i secoli! … Sia che viviamo, viviamo per il Signore; sia che moriamo, moriamo pel Signore …". E, ricordando ai discepoli che il nostro corpo come l'anima nostra è tempio dello Spinto Santo, aggiunge: "glorificate Dio nel vostro corpo: glorificate et portate Deum in corpore vestro". 1051. 3° Questo dovere spetta soprattutto ai sacerdoti. Infatti la maggior parte degli uomini, ingolfati negli affari e nei piaceri, sventuratamente non consacrano che pochissimo tempo all’adorazione. Si dovevano quindi scegliere tra loro delegati speciali, accetti a Dio, che potessero, non solo in nome proprio ma in nome pure di tutta la società, rendere a Dio i doveri di religione a cui ha diritto. É appunto questo l'ufficio del sacerdote cattolico eletto da Dio stesso, tra gli uomini, è come il mediatore di religione tra il cielo e la terra, incaricato di glorificare Dio e porgergli l'ossequio di tutte le creature, facendone poi scendere sulla terra una pioggia di grazie e di benedizioni. Tale è quindi il dovere del suo stato, la sua professione, vero dovere di giustizia, come spiega S. Paolo: "[Omnis namque, Pontifex ex hominibus assumptus pro hominibus constituitur in his quae sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia pro peccatis] Per ogni alto, sommo sacerdote, preso fra gli uomini, è costituito per gli uomini nelle cose che, appartengono a Dio, affinché offra doni e sacrifici per i peccati:". Ecco perché la Chiesa gli affida due grandi mezzi per praticare la virtù della religione: l'ufficio divino e la santa messa. Nascondi Doppio dovere che deve compiere con tanto maggiore fervore in quanto che, glorificando Dio, lo dispone nello stesso tempo favorevolmente ad esaudire le nostre richieste; lavora così e alla santificazione propria e a quella delle anime che gli sono affidate, n. 393401. Le sue preghiere hanno tanto maggiore efficacia, in quanto che è la Chiesa, è Gesù che prega con lui e in lui; ora le preghiere di Cristo sono sempre esaudite: [exauditus est pro sua reverentià] fu esaudito per la sua pietà". 3°. Pratica della virtù della religione. 1052. Per ben praticare questa virtù, bisogna coltivare la vera devozione, cioè quella disposizione abituale della volontà che ci fa prontamente e generosamente abbracciare tutto ciò che è di servizio di Dio. É dunque in sostanza una manifestazione dell'amore di Dio; onde la religione si connette con la carità. 1053. 1° Gl'incipienti praticano questa virtù a) osservando bene le leggi di Dio e della Chiesa sulla preghiera, sulla santificazione delle domeniche e delle feste; b) schivando la abituale dissipazione esterna ed interna, che è fonte di numerose distrazioni nella preghiera, con una certa vigilanza a lottare contro l'onda invadente dei divertimenti mondani e delle inutili fantasticherie; Nascondi c) raccogliendosi interiormente prima di pregare, per farlo con maggior attenzione, e praticando il santo esercizio della presenza di Dio, n. 446. Nota: 1054. 2° I proficienti si sforzano di entrare nello spirito di religione, in unione con Gesù, il grande Religioso del Padre, che nella vita come nella morte glorificò Dio in modo infinito, n. 151. a) Questo spirito di religione comprende due principali disposizioni, riverenza e amore. La riverenza è un profondo sentimento di rispetto misto a timore, con cui riconosciamo Dio come nostro Creatore e Sovrano Padrone, e siamo lieti di proclamare la assoluta nostra dipendenza da lui. L'amore si volge al Padre amabilissimo e amantissimo che si degnò di adottarci per figli e che continuamente ci è largo della paterna sua tenerezza. Doppio sentimento, onde scaturiscono tutti gli altri: ammirazione, riconoscenza, lode. 1055. b) Nel Cuore sacratissimo di Gesù andiamo ad attingere questi sentimenti di religione. Il divino Mediatore non visse che per glorificare il Padre: "[Ego te clarificavi super terram] Io ti ho glorificato sulla terra"; morì per farne la volontà, per intieramente appagarlo, protestando così di non vedere nulla che meriti di vivere e di sussistere al cospetto di Dio. Dopo la morte egli continua l'opera sua non solo nell'Eucaristia, ove continuamente adora la SS. Trinità, ma anche nei nostri cuori, ove, per mezzo del divino suo Spirito, produce religiose disposizioni simili alle sue. Vive in tutti i cristiani, ma soprattutto nei sacerdoti, procurando per loro mezzo la gloria di Colui che solo merita di essere adorato e rispettato. Dobbiamo quindi con ardenti desideri attirarlo in noi e darci a lui perchè in noi, con noi e per noi pratichi la virtù della religione. "Allora, scrive l'Olier, Gesù viene in noi e si lascia sulla terra tra le mani dei sacerdoti come ostia di lode, per farci partecipare al suo spirito di vittima, applicarci alle sue lode e comunicarci interiormente i sentimenti della sua religione. Si diffonde in noi, s'insinua in noi, ci profuma l'anima e la riempie delle disposizioni interiori del suo spirito religioso; di guisa che dell'anima nostra e della sua non ne fa che una sola, animandola dello stesso spirito di rispetto, di amore e di lode, di interno ed esterno sacrificio di ogni cosa a gloria di Dio suo Padre". 1056. c) Ma non bisogna dimenticare che Gesù chiede la nostra collaborazione. Venendo a farci partecipare al suo stato e al suo spirito di vittima, è necessario che viviamo con lui ed in lui in ispirito di sacrificio, crocifiggendo le tendenze della guasta natura e prontamente obbedendo alle ispirazioni della grazia; allora tutte le nostre azioni piaceranno a Dio e saranno tante ostie, tanti atti di religione, a lode e gloria di Dio, nostro Creatore e nostro Padre. Proclamiamo così in modo pratico che Dio è tutto e nulla la creatura immolando partitamente tutto il nostro essere e tutte le nostre azioni a gloria del Sovrano nostro Padrone. Nascondi d) Il che specialmente facciamo in quegli atti che sono propriamente atti di religione, nell'assistenza alla santa messa, nella recita delle preghiere liturgiche e in altri, come abbiamo spiegato nei n. 274, 284, 523. I perfetti praticano questa virtù sotto l'efficacia del dono della pietà, di cui tratteremo più avanti.