L'azione

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Come e perché si fallisce quando si pretende di rimuovere il problema morale

Capitolo II

L'esteta se la ride delle confutazioni, le quali pur mirando al cuore sfiorano un'agile ombra: e probabilmente ha ragione.

Ma chi compie questa poderosa analisi osservi, con l'attenzione accordata a tanti altri spettacoli, il gioco di oscillazioni infinitesimali attraverso le quali costui si rende inafferrabile.

Nella sua stessa nolontà egli discernerà una duplicità volontaria.

Non volere nulla tout court sarebbe bello, se fosse uno stato semplice; senza essere disturbato da nessuna riflessione, lo slancio spontaneo della vita e della curiosità procederebbe perfettamente in linea retta, non si sa dove, senza ritorno né ripiegamento della coscienza.

Ma questa semplicità e questo candore, questa nescienza e questa abnegazione di sé non sono affatto virtù consuete degli spiriti raffinati; e non potrebbero esserlo dal momento che essi si compiacciono della loro sottigliezza: perché ogni conoscenza distinta di una disposizione interiore suppone la coscienza di uno stato contrastante, grazie a questa legge scientifica che essi ricavano dagli associazionisti e che chiamano della discriminazione.

Sapere che non si vuole niente significa volere il nulla.

E « io non voglio volere », nolo velle, nel linguaggio della riflessione si traduce immediatamente in queste due parole: volo nolle, « voglio non volere ».4

A meno di non fare violenza alle leggi della coscienza, non della coscienza morale ma di quella psicologica, a meno di dissimulare sotto una sottigliezza tutta verbale la verità delle cose, il solo sentimento di un'assenza di volontà implica l'idea di una volontà che non vuole e che abdica.

Le dotte precauzioni, il gioco di un equilibrio instabile, tutti questi raffinati strumenti dialettici fra cui sgusciano i nostri acrobati spirituali, manifestano una dualità intellettuale: in nome della legge della relatività di tutte le cose che essi si danno, occorre mettere a nudo l'ambiguità di cui si fanno scudo.

Essi sanno che c'è un problema, ma non lo vogliono sapere.

Una nescienza deliberata non è più una nescienza; essi limitano artatamente la Ioro curiosità naturale e truccano la loro sincerità.

Laddove dunque la loro esperienza è incompleta e ingannevole, di fatto proprio in ragione di questo dissenso intrinseco essi conservano la coscienza e il godimento della loro disposizione ambigua.

Ma non basta. Bisogna mostrare che questa dualità necessaria dello spirito procede da una dualità della volontà; perché è sempre nel fondo delle coscienze, alla stessa scaturigine della sincerità operante, che bisogna scoprire in ciascuno il segreto del giudizio da portare su ciascuno.

Qual è dunque questo duplice movimento volontario di cui è composto l'equivoco atteggiamento dell'esteta, e come risolverne le contraddizioni intrinseche?

I.

Dare fondo a tutto il pensiero, a tutta la sensazione e a tutta l'esperienza è un bel metodo per approdare a una disillusione universale; e sarebbe comodo, dall'alto di questa scienza totale della vanità, farsi beffe della corta veduta dei barbari che danno ancora un nome a ogni cosa e credono alla vita.

C'è solo una piccola difficoltà: questa scienza non è mai piena, l'esperienza non è mai completa né conclusiva, e per cominciare la prova, per proseguirla e completarla con un'anticipazione è sempre necessaria un'ipotesi senza controllo definitivo.

Inutilmente l'esteta-asceta, dopo aver riconosciuto gli intralci decisivi che si frappongono al suo metodo, cerca di provare insieme, con la moltiplicazione degli esperimenti, parecchie vite tra loro contrarie; sente che a ogni momento, mentre s'incanta davanti alle sue emozioni, in lui un artista mirabile ma incompleto muore per rinascere sempre mortale e sempre immortale.

Egli non saprà mai della vanità di tutto se non ha esaurito tutto, e né lui né alcun altro esaurirà mai tutto fino in fondo.

L'uomo di sacrificio, lui sì, può avere con le sue privazioni un'esperienza totale, può fare una verifica completa e può ricevere una conferma interiore della sua concezione della vita; la concezione dell'esteta che gode di tutto resta una finzione senza prova possibile: tra la persona ingenua e la persona disincantata è l'ingenua quella più addentro all'esperienza, almeno quella il cui atteggiamento è fondato su un'esperienza positiva, e forse la meno tratta in inganno, perché non ha la pretesa ingiustificata di non essere vittima di inganni conoscendo l'illusorietà di tutto.

Dunque, se non c'è bisogno di nessun postulato per accettare innanzitutto e per risolvere virilmente nella prassi il problema del dovere, ce n'è bisogno di uno per contraddire la coscienza e per tentare le esperienze che essa, non si sa perché, disapprova.

Qual è quest'ipotesi segreta, e su quale volontà profonda si istituisce?

Giocare e godere come se si sapesse, come se si provasse la vanità di tutto mentre non lo si è provato e non lo si sa perché è impossibile provarlo e saperlo, significa pregiudicare qualsiasi problema col pretesto di eliminare ogni problema, e ammettere con un'anticipazione arbitraria che non c'è né realtà né verità.

Davanti a ciò che si chiama intolleranza, l'artificio viene alla luce, la maschera cade: punto nevralgico ed esasperato nella coscienza dei contemporanei, segno di contraddizione e pietra di scandalo.

Voialtri, spiriti aperti e liberi, non volete escludere niente; voi dunque escludete il dogma, il quale ( qualunque ne sia il valore, la questione è messa tra parentesi ) in tanto è in quanto è esclusivo.

Tutto sta a sapere se ciò che voi abbracciate nelle vostre sintesi più vaste non sia infinitamente esiguo a confronto di ciò che perdete, e se non vi prendiate tutto tranne la verità che è.

Perché avete voglia di pretendere di accaparrarvi interamente l'anima delle dottrine assolute, di comprenderne l'interesse relativo e gustarne la bellezza simbolica; lasciando cadere, respingendo ciò che ne costituiva l'unità e la vita, voi non avete altro che il corpo inerte e lacerato; lo spirito senza la lettera non è più spirito.

Avete avuto la pretesa di trovare un passaggio inesistente tra queste due sentenze incontrovertibili: « chi non è per me è contro di me; chi non è contro di me è per me ».

È venuto fuori qualcosa che voi non potete ammettere, perché confuta quello che ammettete, che non potete comprendere, perché è precluso alla mera curiosità, che negate e odiate senza commistione di dubbio e di amore, perché lo si ama soltanto senza commistione di odio.

Questa disposizione d'animo, intera e semplice, per voi non esiste, voi non la conoscete: scegliete, dunque, risolutamente un atteggiamento deciso e, come gli uomini comuni che su questo punto si comportano da barbari, avete la vostra maniera risoluta di essere, di pensare, di volere e di escludere.

Che significa « essere intolleranti dell'intolleranza », come dicono alcuni? significa non ammettere che ci sia una verità riconoscibile all'uomo, utile all'armonia sociale e alla vita di ciascuno; significa ammettere che tutte le opinioni hanno uguale diritto al rispetto, che se nessuna di esse è assolutamente falsa, nessuna è assolutamente vera.

Quanti problemi si aggravano non risolvendone e non ponendone alcuno!

E quando il dogma non si limita a mettere la vostra ragione dì fronte a un ultimatum intransigente, o tutto o niente; quando reclama il coinvolgimento della volontà e di tutta la macchina, e pretende di governare l'interno e l'esterno degli atti, che cosa volete fare, voi che non volete niente, cedere o resistere?

Se in voi c'è un movimento di protesta e di rivolta, se vi indignate della violenza che vi sembra perpetrata verso di voi, perché non potete fare a meno o di camminare sotto un giogo o di sostenere una guerra che non volevate dichiarare, ecco un atto di difesa che raduna le vostre forze artificiosamente disperse; esso, coalizzandole in uno slancio comune, manifesta il fondo più intimo, più personale, il centro solido e resistente cui sono legati i capricci più peregrini e le fantasie più libertine dell'estetismo.

Io non condanno, non do una spiegazione, constato.

Davanti a ciò che vi obbligherebbe ad agire voi agite.

La festa è finita, il piano messo a soqquadro; costruendovi con la neutralità una scienza e una regola diventate militanti, e col pretesto della pace incrociate la baionetta.

Avete preso partito; e vi meravigliereste di certo che i fatti non corrispondano più alla vostra teoria diretta contro i fatti: la vostra ipotesi è che non vi sia niente di reale o di falso, come se tutto fosse indifferente, tutto fosse equivalente.

E tuttavia se la verità esiste, essa è: questo presupposto sembra semplice e legittimo, e tuttavia è l'unico che vi precludete.

Che cosa dunque vi impedisce di ammetterlo?

E perché, dopo aver reso la vita insignificante e inutile, compiacendovi di essere gabbati, la fate così intransigente, così piena di se stessa, così amante dei suoi agi, così sufficiente da non consentire più che ne venga alienato qualcosa?

II.

Se di fronte a una verità che ha la pretesa di essere esclusiva e di fronte all'imposizione dispotica dell'azione si recalcitra o si svicola, ciò avviene perché uno si fa di se stesso, dei propri diritti, della propria indipendenza un ideale che si ama e che si vuole; uno vuole essere, perché pone già le sue condizioni.

Quando Magali si sottrae a una insistenza indiscreta,5 diventando a volta a volta uccello, brezza, fiore, onda, ha in cuore un amore; quando il dilettante scivola tra le dita di pietra di tutti gli idoli, è perché ha un altro culto, l'autolatria; guardando tutto dall'alto della stella Sirio, tutto gli diventa piccolo e meschino, tutto e tutti; di grande resta solo l'amor proprio di uno solo, io: « Ut sim! » ecco l'aspirazione di fondo che, come un fiat del tutto spontaneo e cordiale, sanziona in lui l'essere ricevuto, e lo produce liberamente, amorosamente.

E non è questo il tacito motto di molti: « Nulla prima di me, nulla dopo di me, nulla al di fuori di me »?

Quindi la stessa nolontà cela un fine soggettivo.

Non volere nulla significa rifiutarsi a qualsiasi oggetto, al fine di riservarsi interamente e di precludersi ogni dono, ogni fedeltà, ogni abnegazione.6

Si vuole che l'essere non sia, e si gusta il piacere di essere per negarlo: egoismo radicale che distruggerebbe tutto per rimanere solo come un dio; è un panteismo soggettivo, di cui è interessante definire i caratteri precisi meglio di quanto non si sia potuto fare finora, perché è soltanto da poco tempo che si è affinato in una dottrina sofisticata.

È tempo di catalogarlo; ciò equivarrà a togliergli uno dei suoi pregi.

Sotto l'apparente indeterminazione delle sue forme fluttuanti, e malgrado la sua solerzia nell'evitare il colore appariscente di un sistema per conservare la grazia degli atteggiamenti flessibili e delle sfumature cangianti, l'estetismo nasconde una filosofia assai chiusa: è un sistema come tutti gli altri proprio per la pretesa di essere al di fuori e al di sopra di tutti gli altri.

Per coglierne l'ispirazione originale è necessario rapportarlo alle sue origini, al panteismo tedesco,7 del quale ha reso flessibili le forme in modo da adattarlo al genio francese.

Per il panteista lo spirito è una potenza indefinita e illimitata; esso non sussiste che manifestandosi, ma nessuna delle sue manifestazioni lo contiene interamente.

Esso non può fare a meno di simboli, ma non se ne accontenta mai: tutti sono veri e falsi, necessari e insufficienti.

Spirito e materia ovvero, da un altro punto di vista, soggetto e oggetto non sono nulla se uno è senza l'altro e non sono nulla se l'uno è per l'altro.

Per prodursi il soggetto diventa oggetto, senza esserlo prima, ma non è oggetto che per sé; esso è nulla per tutto ciò che è fuori di lui.

Il tutto soggettivo è dunque nulla oggettivo, e viceversa, senza che mai la solidarietà tra i due termini incompatibili venga a cessare.

Essi non possono mai annullarsi completamente né realizzarsi puramente, per quanto vi tendano per approssimazioni progressive, oscillando tra il nulla e il tutto nelle ondulazioni infinitesimali della coscienza.

Una volta aperta la strada alle deduzioni, la ragione astratta può proseguire senza limite assegnabile la serie delle sue evoluzioni e delle sue contraddizioni.

Essa non dovrebbe fermarsi: di fatto si ferma sempre; finisce per ammettere che l'inesauribile è esaurito, e finisce per prendere la lettera per lo spirito.

È proprio del panteismo di non sussistere che grazie a un'inconseguenza rispetto al suo metodo: esso professa di contraddirsi e di superarsi senza fine.8

Dopo aver negato la personalità, dovrebbe restaurarla; dopo aver distrutto la distinzione degli esseri e la realtà sostanziale dell'azione propria di ciascuno, dovrebbe affermarla; dopo aver messo Dio dappertutto eccetto che in Dio, e cioè da nessuna parte, dovrebbe restituirlo a Lui stesso e non porlo che in Lui soltanto, cioè dappertutto, perché l'immanenza non è concepibile che tramite la trascendenza.

Dovrebbe farlo, se invece di rimanere legato alla lettera delle dottrine, che viene dichiarata morta quando vi si resta abbarbicati, obbedisse alla legge interna di rinnovamento e di progresso che l'animava in partenza.

Ma non lo fa. Esso si ostina nel suo principio, senza vedere che questa ostinazione lo condanna; è inconseguente alla sua inconseguenza, perché c'è una maniera di contraffare la stessa sofistica.

L' « estetismo » ( e questa è la sua originalità filosofica ) tenta di rimediare, senza forse averne chiara coscienza, a questa debolezza primigenia del panteismo.

Grazie alla varietà delle sue forme, al carattere concreto e libero delle sue manifestazioni, alla facilità e al numero delle entrate e delle uscite aperte alla circolazione delle intelligenze, esso segna indubbiamente una tappa ulteriore nello sviluppo dell'anomia intellettuale e morale: rompendo le cornici sempre anguste della dialettica tecnica, espandendosi in tutti gli ambiti della filosofia, della scienza e della religione, esso comprende mirabilmente che è passato il tempo delle questioni di scuola o delle eresie parziali, che non si tratta più di sviscerare all'infinito astratte teorie, ma si tratta di assumere un atteggiamento infinitamente complesso.

Così la sua dottrina è quella di non averne alcuna; ed è già una dottrina.

Nonostante tutto, l'estetismo porta il marchio di un sistema, e malgrado le sue ripugnanze, è etichettato.

Il suo scopo, perché ne ha uno, è quello di sostituire al dogmatismo intellettuale un'anarchia estetica, all'imperativo morale una fantasia infinita, alla compatta unità dell'azione un ricamo in cui il pieno della scienza mette in evidenza il vuoto del sogno universale; è quello ( tanto per usare termini tecnici che pure bisogna affibbiargli ) di assottigliare il soggetto e l'oggetto con una duplice corrente alternata e ininterrotta, la quale passando dall'uno all'altro li annienta di volta in volta, senza riuscirvi mai, e tuttavia senza cessare di ammettere che riesce sempre in questa impossibile distruzione.

Per quanto sia difficile scoprirla, non per questo l'imperfezione logica del sistema non sussiste: resta da vedere come questo vizio non è che il segno di una contraddizione intrinseca della volontà e di una carenza morale.

III.

Dal momento in cui l'esteta, di fronte alle costrizioni intellettuali o pratiche che, se da un lato l'obbligano a credere e ad agire, dall'altro rivelano semplicemente in lui disposizioni antecedenti, si riprende in qualche modo con un moto estremamente sincero e profondo di egoismo, qual è la risultanza di questo strappo improvviso per il sistema del suo pensiero e per l'orientamento della sua vita?

E con quale ritmo di compensazione, se egli vi persiste, recupera la sua nolontà sconcertata?

Qual è la risultanza? Delle due l'una.

O, cedendo a questo slancio della sincerità e a questo amore di sé che nessun artificio distrugge, persevera nella sua volontà di affrancamento e di sovranità assoluta.

( E più avanti si vedrà a che prezzo col sacrificio dell'egoismo giunge a questo amore di sé sincero e generoso ).

Oppure, ostinandosi in un atteggiamento che non corrisponde affatto alla sua volontà più sincera, vi si mantiene unicamente con una volontà contraria: e questa volontà che vuole avere perverte quella che ha.

In verità, anche senza che la riflessione chiarisca questo meccanismo sottile, senza che vi sia bisogno di conoscerne la teoria, la nolontà non potrebbe sussistere se non fosse composta di un duplice volere; e facendone emergere la duplicità non si fa altro che rivelare ciò che è, a sua insaputa forse, ma senza che questa nescienza rimuova il carattere volontario del duplice movimento che la forma.

Mette conto di considerare per un momento questa contraddizione segreta di ciò che si potrebbe nominare il volontario e il voluto, allo scopo di determinare il significato degli atti che l'esprimono.

Perché sono sempre gli atti che manifestano o l'accordo o il disaccordo della duplice volontà, il volontario e il voluto, implicata in ogni movimento riflesso, in ogni atteggiamento deliberato dell'uomo: essi risultano dall'una e dall'altra allo stesso tempo.

E quando queste due volontà sono ostili, gli atti dichiarano quella che è voluta, quella che manca della sincerità profonda; o meglio essi sono la sintesi di questi due orientamenti incompatibili, sintesi ibrida, atti malriusciti, perché, come in un calcolo in cui il minimo errore parziale inficia tutto il risultato, come in un sillogismo in cui la conclusione segue sempre la parte più debole,9 l'azione deriva il suo carattere dalla volontà voluta che realizza, senza per questo cessare di fondarsi sul volere primitivo che perverte.

Quali sono dunque, nel caso dell'esteta, questi movimenti antagonistici, il cui accordo è impossibile proprio perché il primo slancio è volontario in senso assoluto e sincero, perché esso domina tutti gli altri, perché persiste senza transigere, restando sempre integro in ciascuno di essi?

1° Questo movimento primigenio della volontà immanente si scopre nello sforzo medesimo che il dilettante fa per rinnovarsi e per sfuggire a sé senza posa, per essere, e per essere più di tutti, lui solo.

Sotto l'indifferenza più affettata e nel dubbio più sottile c'è una dottrina conclusa, c'è una risoluzione positiva, c'è il volere di sé.

2° È una legge necessaria del pensiero riflesso: dal punto di vista soggettivo non si può abolire la volontà, nolle, senza che le si assegni immediatamente il nulla come oggetto e come fine.

Questa necessità intellettuale non fa che tradurre in termini psicologici l'equivoco dell'atteggiamento artificiale in cui l'esteta si crogiola.

Per svelare questo gioco di prestigio è bene richiamare alla mente che, a seconda che appartengano al linguaggio del soggetto o a quello dell'oggetto, tutte le parole hanno un duplice senso opposto, che apre al pensiero innumerevoli scappatoie: così nessuna delle negazioni del dilettante potrebbe avere un significato semplice, άπλώς, perché ognuna di esse contiene sempre il contrario; ciò che allo sguardo dei sensi non è nulla, allo sguardo dello spirito sembrerà tutto, e viceversa.

Ma in definitiva sotto questo gioco sofistico bisogna vedere la serietà delle volontà impegnate.

Come è possibile che l'esteta riesca ancora a non volere nulla, mentre vuole essere, al punto da annientare tutto di fronte al suo capriccio imperioso?

Annientandosi, per così dire, a sua volta di fronte a ciò che aveva appena disprezzato, e trattandosi come un nulla mentre considera come suo tutto l'oggetto degradato del suo pensiero o del suo godimento, egli non ha sputato sulla vita che per saziarsi di essa e di sé.

Si ama abbastanza per sacrificare tutto al suo egoismo; ma non abbastanza per dilapidarsi, sacrificarsi e perdersi in tutto il resto.

E quando su queste rovine fittizie egli gode del fenomeno per provare il nulla delle cose con un epicureismo straordinariamente raffinato oppure, per esaltarsi nel nulla di sé, agisce con la voluttà di una specie di ateismo mistico, tutto nel suo atteggiamento è mera menzogna; e che cos'è in effetti la menzogna, se non l'opposizione intrinseca di due volontà, una sincera e retta, la cui presenza permanente e inviolabile funge da testimonianza incorruttibile, l'altra manchevole e fallace, che prende corpo nella realtà perversa degli atti?

Non si tratta dunque di contraddizioni legittime o necessarie, né di errori involontari, ma c'è falsità; il vizio intellettuale difficile da smascherare del sistema è il segno e la pena dell'inconseguenza o della doppiezza morale in cui per la volontà è facile cadere.

La condanna e il castigo di questo stato voluto deve essere questo stato medesimo conosciuto con chiarezza; perché alla luce della conoscenza piena le contraddizioni volontarie dell'azione diventano le contraddizioni necessarie della sofferenza; e per una rivalsa inevitabile del volontario sul voluto le rappresaglie della sanzione devono scaturire dal fondo medesimo della sincerità e dell'amore primigenio dell'essere per l'essere.

Qualcuno diceva che il problema morale dell'azione e del destino umano non esiste; la sua soluzione sembrava consistere nella sua rimozione.

Ma ecco che mentre si pensa di evitarlo lo si pone nella sua interezza.

Non si può perché non si vuole fare a meno di essere e di agire; la rinuncia morale non è né più né meno possibile e verace dell'astensione metafisica.

Invano si decompone l'organismo spirituale, a forza di arte, di scienza e di esperienze raffinate, allo scopo di disarticolare tutti i meccanismi della vita e di convincersi che di essa non sussiste nulla: al nulla del volere sopravvive il volere più profondo dell'essere.

Invano ci si ostina in una nolontà sistematica, come se il soggetto e l'oggetto armandosi l'uno contro l'altro riuscissero a distruggersi a vicenda.

Oltre il nulla del volere rimane il volere artificiale ma positivo del nulla.

Invano il soggetto, per trionfare sulla sua potenza di distruzione e sulla propria indistruttibilità, si rovescia nell'oggetto: egli non cerca il godimento dei sensi o dell'azione, non si esteriorizza nel fenomeno, non vi si annienta che portandovi sempre l'essere che è e ritrovandovisi, ma perduto come ha voluto e condannato dalle contraddizioni intrinseche di una volontà pervertita.

Quindi non volere nulla significa nello stesso tempo: professare l'essere, cercandovi questa infinita virtuosità che si trastulla sempre e sfugge sempre; - affermare il nulla ponendovi la speranza vaga di un rifugio; - attenersi ai fenomeni e rimanere incantati davanti alla magia universale, per godere dell'essere nella sicurezza del nulla.

È abusare di tutto.

Si aveva la pretesa di rimuovere ogni problema originario o ultimativo, di deprivare la vita di qualsiasi senso, di chiudere davanti all'uomo qualsiasi via di uscita.

Adesso tutte le vie di uscita gli sono aperte.

E siccome bisogna che l'uomo voglia e persegua un fine, per quale fine agirà?

E quali saranno i suoi atti? in che senso andranno: nel senso del nulla?

Questa via sembra aperta, e la prima cosa da fare è esplorarla.

* * *

Non potendo quindi accontentarsi di una non-soluzione, conviene esaminare, in quanto meno onerosa, la soluzione negativa del problema dell'azione; si tratta, se così si può dire, di studiare il tentativo di annullamento oggettivo dell'uomo, dopo aver considerato lo sforzo infruttuoso di un annullamento soggettivo.

In un primo momento, facendomi complice come sempre di coloro che affermano, che credono di provare e di dimostrare, che sembrano volere il nulla definitivo dell'uomo e dei suoi atti, tento di discernere ciò che è contenuto in questa decisione dichiarata; e anche qui mostro che sotto questa volontà apparente sussistono un'altra volontà e un altro pensiero.

Così delle tre vie che sembravano aperte quella del nulla risulterà sbarrata; essa non esiste, nessuno vuole che sussista.

Il primo capitolo espone succintamente ciò che, in pratica o in teoria, inclina le credenze o i desideri umani verso la soluzione del nulla, come all'unica e necessaria conclusione dell'esperienza della scienza e della metafisica.

Vi si parla a nome di quegli stessi di cui si dovrà discutere l'atteggiamento, allo scopo di compenetrarsi nei loro sentimenti e, come fanno essi stessi, si rafforzano il più possibile le loro ragioni di pensare e di agire, giustificandoli, come essi sembrano giustificarsi davanti al loro stesso tribunale, prima di mostrare loro, se è il caso, come di fatto essi vi si condannino.

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4 Il gioco terminologico adoperato in questa argomentazione è di ascendenza agostiniana, anche se è difficile individuare un testo agostiniano preciso; comunque bisognerebbe fare riferimento al De vera religione o al De Trinitate.
Sembra che Blondel all'epoca non conoscesse direttamente questi testi e non avesse ancora iniziato una lettura intensiva di sant'Agostino.
Bisogna quindi ipotizzare una conoscenza indiretta di Agostino, attraverso testi della letteratura filosofica.
5 Magali è il personaggio di una canzone che ricorre nel poema provenzale di P. Mistral, Mirèio, Paris 1968, pp. 109-119 (canto 111).
6 All'ironia, nel campo speculativo, corrisponde infatti nel campo pratico una singolare virtuosità. L'ironia è il segno di una specie di sovranità dell'io che si libera di ogni regola esteriore per dispiegare liberamente la propria potenza, prendendo le distanze da ogni opera compiuta e senza avere altro obiettivo che la propria soddisfazione e fruizione; l'io si rende padrone, per cosi dire, delle leggi e delle cose.
Questa esaltazione della persona, sempre pronta a impadronirsi e a dominare tutto ciò che c'è di più elevato al di fuori di lei, è la forma teorica di quell'egoismo trascendente che cerca nell'azione il piacere del gioco [nda].
7 Non è facile chiarire che cosa si intenda qui per panteismo tedesco.
È molto probabile che ci si riferisca alla visione di Goethe, ripresa poi in certi settori del primo Romanticismo, per esempio da Schelling nel sistema dell'idealismo trascendentale.
Forse, stando alle connotazioni esposte, si potrebbe pensare anche a Hegel.
8 In questo contesto appare palese l'allusione allo hegeliano aufheben, come movimento della contraddizione che fa leva sulla negazione e sul superamento.
9 Ci si riferisce a una delle regole classiche del sillogismo, secondo la quale la conclusione " peiorem sequitur semper partem ".