L'azione

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Non si dà soluzione negativa del problema dell'azione

Capitolo II

Che cosa cela la coscienza o la volontà del nulla

A chiunque è persuaso di concepire e di volere il nulla come termine della propria azione personale occorre rispondere: non lo si concepisce, non lo si vuole.

E l'impossibilità di averne un'idea semplice e distinta non è che la traduzione, a livello intellettuale, di una decisione sincera e perentoria della volontà.

Quindi la concezione e il desiderio artificiali del nulla derivano da una inconseguenza e da una deficienza nell'azione voluta.

È quanto bisogna cercare di vedere bene, disaggregando le contraddizioni interne di quello che potrebbe essere chiamato il nihilismo, se questo termine non avesse assunto un'altra valenza, e mettendo allo scoperto i moti segreti della sincerità presso coloro che, in nome dell'esperienza della scienza o della critica metafisica, credono e aspirano alla distruzione della persona umana.

L'idea del nulla non è uno stato semplice, non più che qualsiasi altro stato della coscienza riflessa.

L'analisi logica, come pure le leggi sperimentali e il ritmo organico della vita mentale rivelano in essa una necessaria complessità.

In forme assai differenti, e da visuali estremamente distanti, da Platone e da Cartesio a Hamilton,4 Schopenhauer, Spencer e Bùchner5 si può affermare con uguale giustezza e in un senso equivalente queste diverse proposizioni: « Io penso al nulla, dunque c'è un soggetto pensante e un oggetto pensato, il nulla inerisce all'essere ».

« Pensare significa condizionare; il concetto del nulla è subordinato all'idea positiva di essere ».

« Non si dà coscienza che per discriminazione e sintesi; il nulla è una rappresentazione simbolica ».

« Nell'idea del nulla di reale non c'è che il lavoro cerebrale cui essa è legata; e con questo termine bisogna intendere la dissoluzione dell'organismo ridotto ai suoi elementi ».

Quindi, comunque, per concepire il nulla bisogna cominciare con l'affermare e negare qualche altra cosa, di modo che lo stesso pensiero che ne abbiamo si mantenga al di fuori di esso, e non lo ponga che sfuggendovi invincibilmente e inglobandolo in una sorta di presenza eterna.

Siccome non lo si può concepire puramente e semplicemente, probabilmente è legittimo concludere che non lo si può volere in assoluto.

Ma proprio di questa impossibilità occorre rendere conto, cercando qui, come ovunque, il segreto delle necessità intellettuali nei moti più profondi della volontà.

Se non concepiamo il nulla, è perché non lo vogliamo; e se sembra che lo vogliamo, che cosa c'è sotto queste parole, e che cos'è questo volere?

I.

Che si presti orecchio alla sincerità sofferente e lamentosa della grande moltitudine degli amanti ingenui della vita e della gioia, o che si interpelli il più esperto tra coloro che hanno vissuto quella che si chiama vita, e si chieda loro se pensano di aver acquisito una certezza sperimentale del nulla, e se sono convinti di aspirare totalmente all'abolizione del loro essere.

In ogni caso, ecco quello che fanno ed ecco quello che dovrebbero fare.

Che significa di solito volere e sperimentare il nulla?

Significa la passione senza scrupoli dei piaceri, l'attaccamento alla vita dei sensi, l'ardente ricerca del benessere, la leggerezza nelle cose serie e la gravita in quelle frivole, il disprezzo dell'uomo e l'esaltazione dell'io.

Si vuole il nulla e si gode di tutto il possibile: volontà finta, esperienza fittizia, menzogna.

Sapete che cosa nasconde questo desiderio, vergognoso perché interessato?

Un amore smodato dell'essere e del benessere.

Che significa veramente volere e sperimentare il nulla?

Significherebbe staccarsi con la rinuncia dai beni apparenti; significherebbe adottare un metodo rigoroso di sacrifici, mutilando i desideri naturali e abolendo a poco a poco le energie spontanee della vita; significherebbe morire a poco a poco con l'estinzione graduale dell'io, e con questa mortificazione fare la prova decisiva del nonessere.

Dunque non abbiamo ancora compreso che, qualunque cosa abbiamo detto, c'è un esperimento metafisico, uno solo, cioè la morte, che risolve il problema sempre pendente: essere o non essere?

Che questa morte la si anticipa, la si presagisce, le si strappa il segreto, quando sappiamo operare su di noi una privazione per possedere una certezza che essa sola offre, estinguerci per vedere ciò che celano le cose morte, mortificarci per penetrare la verità della vita?

Quest'esperienza, che in pratica corrisponde ai metodi scientifici di assenza e di cancellazione, la facciamo?

E allora in quel caso che cosa volevamo seriamente, se non lo vogliamo già in atto con un'intensità maggiore?

Che si condannino dunque coloro che, senza generosità e senza lealtà, mettono le loro passioni al riparo, all'ombra che sperano funga da rifugio e di cui tuttavia hanno paura, perché vi presagiscono una luce.

Indubbiamente vi è un sufficiente numero di altre persone che si convincono francamente di scoprire nell'esperienza della vita o nelle certezze della scienza la prova del loro annientamento.

Essi sono sinceri; ma c'è la sincerità delle teorie e dei pensieri, e c'è la sincerità dei sentimenti, dei desideri, delle decisioni pratiche; questa spesso può essere dissimulata, senza essere liquidata, da un velo superficiale per l'intervento della riflessione dotta e della logica verbale; occorre sollevare questo velo.

II.

Che cosa permette all'uomo di mondo o allo scienziato da laboratorio di affermare il nulla dell'uomo attraverso il godimento sensibile o il fenomeno fisiologico?

Qual è, alla radice stessa dei suoi ragionamenti o delle sue constatazioni, la tacita premessa da cui procedono tutte le sue conclusioni?

È l'idea, è il bisogno di una soddisfazione migliore e di una realtà diversa da quella che assapora e tocca.

Venendo meno alla prima legge dell'esperienza, alla regola più essenziale del metodo scientifico, ossia senza controprova, da ciò che ha constatato egli conclude contro ciò che non ha potuto constatare.

In base al fenomeno arguisce contro l'essere, mentre in verità egli avverte l'insufficienza del fenomeno solo in quanto è compenetrato dalla grandezza dell'essere.

Lo afferma prima ancora di negarlo e proprio per negarlo.

È in questa inconseguenza che si scopriranno le contraddizioni della sua volontà.

Posso forse affermare il nulla in nome dell'esperienza o della scienza? No.

Per quanto queste moltiplichino le loro analisi e le loro distruzioni, si arrestano sempre, e la loro competenza cessa.

Che cosa sono le qualità sensibili, anzi che cos'è il movimento e tutto questo meccanismo cui la scienza riduce l'universo? è come minimo l'espressione di un'incognita in funzione dello spirito.

E se lo spirito che si spoglia delle sue modalità per rivestirne la natura è esso stesso sconosciuto nel suo fondo, tutto il resto non lo sarà a fortiori?

Sì, ma tutto il resto, qualità sensibili, movimento e natura, non può essere affermato senza che lo sia allo stesso tempo anche lo spirito.

Ma c'è di più; qualora negassi la natura e lo spirito, qualora avessi negato tutto quello che ho potuto, resterebbe sempre qualcosa da negare, un infinito che mi sfugge e nel quale ricadono le mie distruzioni successive.

Di elemento in elemento l'analisi ha dissociato, estenuato, sublimato la realtà apparente.

Non v'è più attività, non vi sono più qualità, c'è un'indeterminazione pura, ciò che può annettersi a qualsiasi essere passivo, che non può essere concepito da solo, quello che gli antichi chiamavano la materia prima, e meno ancora, l'essere senza essere, τόόμενον,6 se così si può dire.

Ma dietro ecco che qualcosa prende corpo, una realtà sconosciuta, un mistero reale che incute sgomento al pensiero di un Pascal, di un Littré,7 di uno Spencer, e di fronte al quale l'intelletto non opera più, stupito della grandezza di quello che vede, ma con una sola certezza: che non lo può comprendere, e altresì che niente può essere compreso, negato, messo in dubbio, ammesso senza questa misteriosa affermazione.

Che significa quindi credere e aspirare al nulla di ogni oggetto di pensiero o di desiderio?

Significa ammettere questo Grande Tutto con una testimonianza e un atto di fede spontanei che trascendono la scienza, con una decisione originale che manifesta l'iniziativa della volontà; di esso amano parlare soprattutto coloro che auspicano l'annientamento.

Tutto e Nulla per essi sono due termini equivalenti.

E che significa ciò, se non che al fondo di queste coscienze sussiste il sentimento oscuro e profondo che quello che non sarà o non è più non è mai stato veramente?

Che l'essere nella sua pienezza si sottrae alla durata e alla distruzione?

Che il fenomeno apparso per dileguarsi non corrisponde affatto alla loro attesa infinita?

E che la vita che muore è assurda?

Ovunque esplode in essi un'idea sublime e come un desiderio eterno dell'essere; ciò che negano rivela la grandezza di ciò che vogliono.

Il materialismo dogmatico o militante è dunque un misticismo che, nella materia, adora la realtà invisibile di ciò che vede, e rende un culto all'essere sotto le specie del fenomeno.

Qui non c'è più niente di scientifico; non è più neppure questione di accontentarsi dell'argomento ontologico dei metafisici.

Perché lo spirito trova fin nelle pieghe di questo nulla in cui sembrava riparare ciò che non pareva cercare: un po' di essere e forse l'Essere.

E non bisogna stupirsi dello sviluppo spontaneo e universale del pensiero religioso, tanto presso gli australiani che negli Stati Uniti, nell'ignoranza o nella civiltà più progredita, perché persino sotto questa affermazione riflessa del nulla è coinvolta una credenza e c'è un omaggio indiretto all'Essere ignoto.

Pertanto la volontà che inclina all'annientamento della persona umana si fonda, che lo sappia o no essa stessa, su un apprezzamento singolare e un amore assoluto dell'essere.

Essa sembra dire: che cos'è mai chi non è eterno!

Il dileguarsi delle apparenze individuali, delle passioni effimere, di ogni potere di sofferenza o di godimento nell'immensa realtà che ignora la morte, ecco la meta agognata.

Ma nello stesso tempo vedete poi affiorare una volontà contraria.

Nel momento in cui si dichiara l'insufficienza del fenomeno, ci si abbarbica a esso come al solo essere solido e reale; si persiste ad accontentarsi di quello che il pensiero e il desiderio riconoscevano inane, fallace e nullo; si colloca il proprio tutto laddove si riconosce per altro verso che non c'è nulla; non solo si fa come se questa vita fosse tutto ciò che è, ma per di più come se avesse un valore assoluto e un'importanza divina.

E quando ci si vuole saziare di questa scienza, di questo godimento, di questa esistenza materiale, ci si condanna a scatenare in sé un conflitto senza rimedio tra la pristina volontà del nulla, la quale si ispira a un vero amore dell'essere, e questo appetito del fenomeno, il quale con i sofismi della sensualità o con l'orgogliosa perversione dello spirito getta la debole volontà proprio là da dove si era esclusa.

In effetti volere il nulla in questo modo, stando alle parole con le quali ci si illude, significa rendere testimonianza sia alla vanità di ciò che si dà come esca all'azione, sia alla grandezza di ciò che si voleva con tutta la forza e tutta la sincerità del pristino ed intimo desiderio: menzogna, perché si abusa di un equivoco; non si vuole, non si può negare a un tempo il fenomeno e l'essere; e tuttavia, a seconda dei bisogni, li si nega di volta in volta come se venissero annientati entrambi allo stesso momento, senza accorgersi che con questa stessa alternativa vengono posti ugualmente.

III.

Si può volere sinceramente questa distruzione totale?

E quando il pessimismo distacca la volontà sia dalle illusioni del piacere intaccato dal dolore sia dalla grande illusione del voler-vivere, non uccide con un solo colpo il fenomeno e l'essere stesso?

Non finisce per distruggere quello che solo ci interessa, noi stessi, e in noi tutta la facoltà di soffrire con la liquidazione della volontà personale? No.

Se il suicidio del corpo manifesta un attaccamento sregolato alla vita sensibile, perché secondo quanto osserva Pascal la volontà non fa mai il minimo passo che verso la felicità, e questa è il movente di tutte le azioni di tutti gli uomini fino a coloro che stanno per impiccarsi, anche questo tentativo di suicidio metafisico non rivela forse un amore folle e accanito dell'essere?

Ma un amore che nella sua nativa sincerità è buono, un amore più forte della sofferenza, della morte, e della stessa eternità sulla quale pretende trionfare.

Così dunque basterebbe voler essere perché dal nulla sorgesserò il male dell'esistenza e tutto il suo seguito di fantasmi micidiali!

Così dunque basterebbe non voler essere perché l'essere venisse distrutto!

E la volontà che crea e annienta tutto il resto a suo piacimento possederebbe questa forza suprema di annientare se stessa!

A ben riflettere il pessimismo fa esplodere un'enorme e invincibile fiducia nell'onnipotenza della volontà, perché questa sembra sufficiente e necessaria per produrre il dolore dell'esistenza e anche per creare il felice annientamento che senza di essa non esisterebbe.

E al di là di questo fine voluto e proclamato c'è una fede totale, c'è un inno all'azione sovrana e creatrice del volere.

Rompiamo allora questa rete inestricabile di illusioni e di disillusioni quale è intessuta dal pessimismo; ecco senza alcun dubbio che cosa ne verrà fuori.

1) L'universo è il fenomeno illusorio e cattivo di una volontà fonte di essere.

2) Il male dell'esistenza, l'illusione della vita è distrutta da una volontà di non essere, la quale annienta il fenomeno del primitivo volere e istituisce il beato nonessere.

3) Per non essere, per resistere all'invasione delle illusioni sottili, non basta spegnere in sé la vita apparente e mortale, occorre che questa volontà di non-essere abbracci l'eternità; essa ha bisogno di essere infinitamente al fine di non essere più e di negarsi perennemente senza venir meno; e, proprio perché è onnipotente a creare il male e l'errore dell'essere, occorre che sia onnipotente ad annientare la propria opera e a disfarsi di se stessa.

Abbiamo voglia di stimolare il pensiero e il desiderio: nel voler-essere, nel voler non essere, nel volere non volere sussiste sempre questo termine comune, volere, il quale domina con la sua inevitabile presenza tutte le forme dell'esistenza o dell'annientamento, e dispone sovranamente dei contrari.

C'è dunque una duplice ambiguità sul senso dei termini essere e nulla.

Talvolta per essere bisogna intendere questa vita ingannevole trascinata dal torrente delle mobili chimere e da questa magia dolorosa del fenomeno universale; e allora nel voler-essere il volere è il nulla e l'essere è il male e l'illusione reale: Si fallor, non sum.

Talaltra per essere bisogna intendere questa volontà profonda che si possiede e si libera solo distaccandosi da ogni forma individuale, da ogni pensiero distinto, da ogni vita propria; e allora nel voler-essere l'essere non è, mentre solo il volere ha la realtà infinita: Si non fallor, sum.8

Perché una volta che le passioni sono spente e i desideri mortificati, la volontà svincolata dall'oggetto che la teneva prigioniera ritorna alla sua pura essenza; e morendo al mondo dei sensi essa nasce all'impersonalità.

Ma da questo equivoco vediamo scaturire l'incoerenza e le contraddizioni ineluttabili della volontà.

Se vuole essere, si perde; per essere, occorre che non voglia se stessa, e tuttavia può negarsi in questo modo solo se ha cominciato dapprima a porsi.

In altri termini prima di non volere è necessario che essa abbia voluto; il male e l'illusione sono le condizioni della liberazione finale; il fenomeno è indispensabile alla concezione, alla conquista e alla volontà del nulla.

E per auspicare l'annientamento completo si richiede insieme il fenomeno e l'essere, per opporli l'uno all'altro e per abolirli a vicenda.

Da una parte il voler-essere non e efficace mentre al contrario il voler non essere lo è; e tuttavia per essere efficace c'è bisogno che il primo abbia prodotto qualche effetto reale su cui quest'ultimo debba trionfare.

Dall'altra non l'essere è male ( perché l'essere non è ), ma la volontà di vivere.

E tuttavia non è dal volere che bisogna guarire, bensì dall'essere e dal vivere: come se la volontà fosse ora il fenomeno dell'essere e ora l'essere del fenomeno; e qui si mettesse al di sopra e al di fuori di tutto, mentre la si subordinasse passivamente alle illusioni e ai colpi provenienti dall'esterno!

Pareva che essa dovesse ritirarsi nella sua pura essenza, ed ecco che per giudicare la vita tiene conto della prima sofferenza che le si para davanti, senza rilevare il dilemma: o questa sofferenza è illusoria, perché deriva dal voler-vivere che è un'illusione, o è seria, degna di essere messa in conto nel bilancio della vita, è allora è la conseguenza reale di una volontà reale che è riuscita a essere.

La sofferenza quindi o non è, o deriva da un fondo, di amore dell'essere.

Il pessimismo così si perde in contraddizioni insolubili, perché procede da un duplice volere, il volere del fenomeno e il volere dell'essere.

Talvolta attribuendo realtà solo alla magia delle mobili apparenze, talaltra riservandola unicamente per questo abisso misterioso in cui l'illusione è morta, esso tiene conto della volontà fenomenica come se fosse noumenica e viceversa.

Con le sue stesse negazioni essa pone una duplice realtà, quella individuale e quella impersonale, ponendo così in presenza i due termini la cui drammatica opposizione costituisce tutta la serietà del conflitto morale.

Ecco dunque un primo risultato di un'importanza estrema, per quanto in apparenza del tutto negativo: non vi è né concezione semplice e distinta né volontà autentica e omogenea del nulla.

Nell'azione che sembra ridursi a esso o tendervi sussiste sempre una contraddizione intrinseca e implacabile.

Senza dubbio alcuni possono negare il fenomeno con la pura idea che si fanno dell'essere, altri possono negare l'essere con l'immagine ossessiva che hanno del fenomeno; ma la rappresentazione simbolica del nulla nasce sempre da una doppia sintesi: il soggetto affermato senza l'oggetto, insieme l'oggetto affermato senza il soggetto.

In questo concetto quindi c'è l'unione e l'opposizione alternativa del fenomeno e dell'essere, della realtà sensibile e della realtà invisibile.

Porre il nulla significa affermare nel medesimo istante tutto questo sistema di coordinate.

Negare uno dei termini significa mettere in evidenza l'altro per un'inevitabile compensazione, senza che per questo ci si liberi del termine contrastante, il quale resta indispensabile per quello stesso termine che si afferma.

Di modo che la volontà del nulla è necessariamente incoerente, e cela in sé un conflitto nel quale non può soccombere, malgrado la menzogna e l'errore.

Perché l'errore non è nulla è il nulla che è l'errore poiché non si può negare tutto se non affermando l'infinito, e il nulla non è il nulla senza l'assoluto, un assoluto forse velato ma presente.

E come si rivela il segreto dei cuori attraverso queste ambiguità!

Credendo di aspirare al nulla, si persegue al tempo stesso il fenomeno nell'essere e l'essere nel fenomeno.

Guardate come al delirio dei sensi la passione mescola uno strano misticismo, e sembra assorbire in un istante di piacere, morto nello stesso istante in cui è nato, l'eternità dell'essere, facendovela morire con esso.

Ma guardate anche come all'abnegazione mortificante il quietismo aggiunge un desiderio di indifferenza, un bisogno di sentire l'immolazione, una gioia di rinuncia e tutta la raffinata sensualità di un falso ascetismo, il quale manifesta un senso proprio, un egoismo sottile e ambizioso.

Menzogna da entrambe le parti, perché la volontà finisce sempre per volere ciò che essa ha voluto escludere, e perché si infligge già, sembra prepararsi così il supplizio della discordia intestina, laddove armata contro se stessa si lacererà con tutta la propria forza.

* * *

Sembrava un paradosso forzato la tesi secondo cui noi non potremmo avere né un concetto né una volontà reale del nulla, non potremmo acquistare questo nulla neppure a costo del sangue perché non esiste più per noi, e dal momento in cui poniamo il problema dell'azione ne possediamo già una soluzione positiva.

E tuttavia è proprio così.

Dove volgerci adesso che la via sulla quale avevamo creduto impegnarci è come un vicolo cieco con duplice accesso?

Qual è il minimo di ciò che si può affermare e volere?

Sembra che sia il fenomeno quale lo studiano le Scienze Positive.

E quando si riteneva che l'uomo va verso il nulla di fatto non si intendeva affermare, in modo improprio, che la sua persona e le sue opere si risolvono in fenomeni?

Crederlo non significa forse attuare quella che si può chiamare, nel doppio senso della parola, la soluzione positiva del problema?

Bisogna dunque vedere se il fenomeno è autosufficiente, oppure se, ammettendolo da solo, non si pone implicitamente un'altra cosa rispetto a esso.

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4 Ci si riferisce assai probabilmente a William Rowan Hamilton (1805-1865), matematico e fisico irlandese, il quale si dedicò alla matematizzazione della dinamica e dell'ottica geometrica, tentando di darne una generalizzazione indipendente dal modello fisico.
Giunse così alla generalizzazione del principio della minima azione (chiarito appunto in base alla funzione hamiltoniana, ossia la funzione collegata all'energia totale del sistema).
Formulò anche le " equazioni di Hamilton ", forma particolare delle equazioni del moto per un sistema meccanico.
5 Ci si riferisce a Ludwig Bùchner (1824-1899), medico e filosofo celebre nell'Ottocento per il libro Forza e materia (1855), testo base del materialismo ottocentesco.
Egli identifica forza e materia, ed essendo l'essenza della forza il movimento, riconduce la stessa materia a movimento.
Distingue altresì tra l'osservazione della scienza e la riflessione dei filosofi, privilegiando la prima come modalità conoscitiva maggiormente favorevole all'accesso alla realtà.
6 Probabilmente un termine coniato dallo stesso Blondel per rendere perspicuo il suo ragionamento. όμενον è la forma passiva del participio neutro 6v, ente, e vuole evidenziare un essere che è puramente recettivo di determinazioni, come la materia prima aristotelica lo è nei confronti delle determinazioni formali; solo che qui l'ipotesi avanzata costituisce un caso limite: si tratta di un referente assolutamente recettivo anche nei confronti della determinazione di essere.
7 Ci si riferisce a Maximilien-Paul-Emile Littré (1801-1881), celebre filologo e anche cultore di filosofia, accademico di Francia.
Egli fu seguace di A. Comte, di cui accettò il positivismo, diventandone abile propagatore, tuttavia senza accogliere il suo esito in una religione positiva.
Fondò e diresse la Revue de Philosophie positive (1867-1883). Tra le sue opere più importanti vanno ricordate: Analisi ragionata dei " Corso di filosofia positiva "di A. Comte (1845), La scienza dal punto di vista filosofico (1873), Frammenti di filosofia positiva e di socialismo contemporaneo (1876).
8 Qui palesemente si gioca sulla celebre formula agostiniana " Si fallor, sum ", che nel contesto originario del Contro Academicos era stata impiegata come argomento incontrovertibile che depone per la certezza del vero, e dunque si inquadra nella logica della conoscenza veritativa certa.
Blondel la riprende, perché la ritiene adatta a esprimere una logica altrettanto incontrovertibile quale è quella del volere. Il volere si offre nella sua datità irrefutabile anche laddove si converte in non-volere, così come per Agostino la verità è contenuta nella stessa asserzione della fallibilità in ordine al vero.