Maurice Blondel - L'azionw Saggio introduttivo Crisi o invenzione del senso? La filosofia dell'azione come impegno radicale per dare ragione dell'universo del senso 1. Il problema filosofico dell'Azione La riproposizione in lingua italiana a un secolo esatto di distanza dalla prima pubblicazione ( 1893 ) de L'Action di Maurice Blondel obbedisce a intenti filosofici e culturali che mette conto chiarire subito in maniera succinta. Anzitutto in questo testo, che ha imposto Blondel al pubblico intellettuale in maniera che subito si è rivelata estremamente ancipite, viene tentato un esperimento nel quale risultano impegnate le ragioni ultimative della nostra civilizzazione, ossia della nostra storia e cultura moderna. Ora né i fattori problematici di quell'esperimento, né le nozioni e le condizioni del suo espletamento, né le soluzioni esperite hanno esaurito le loro virtualità, pur in un contesto che si autodefinisce per demarcazione come postmoderno. Anzi, per certi versi il nostro orizzonte di cultura e di civilizzazione richiede con urgenza perentoria che quell'esperimento venga riproposto all'ordine del giorno, perché gli indici e le motivazioni che lo imponevano a Blondel nella congiuntura storico-culturale alla fine del secolo scorso sono assai prossimi a quelli che delineano il nostro orizzonte problematico in questa fine di millennio. In secondo luogo la forza con la quale questo scritto blondeliano si inseriva nel panorama europeo del dibattito filosofico, in una congiuntura segnata dal nihilismo e dalla diagnosi che ne forniva Nietzsche, veniva in gran parte affievolita dalla recezione con la quale, da parte degli interlocutori favorevoli come da parte di quelli critici e nettamente contrari, la proposta teoretica, o meglio l'esperimento blondeliano veniva accolto. In sostanza l'Azione veniva letta non come un intervento sui nodi di fondo del dibattito filosofico europeo, che appunto in quella congiuntura di fine secolo investiva le questioni ultimative di una civilizzazione e di una cultura che si presumeva universale e che nel contempo esperiva una crisi di senso radicale. Viceversa la proposta blondeliana veniva nettamente catturata, e conseguentemente confinata, in una visuale " apologetica ", che se pure corrispondeva a un indubbio movente vitale del suo promotore, non era tuttavia adeguata alle dimensioni e alle condizioni reali dell'esperimento cui l'Azione dava luogo. Sotto questo profilo appare essenziale liberare l'esperimento blondeliano dalle strettoie delle visuali interpretative troppo anguste e di parte, che si sono depositate poi in stilemi interpretativi poco attendibili e comunque tali da prosciugare quasi del tutto l'interesse spiccatamente filosofico ovvero " sapienziale " inerente alla proposta dell'Azione. Solo in questo modo è possibile recuperare appieno gli stimoli e l'interpellazione che tuttora promanano da questo testo di un secolo fa, un testo, bisogna aggiungere per motivare questo giudizio, in cui la riflessione filosofica raggiunge di sicuro le altezze del discorso " sapienziale ", che costituisce poi la modalità più propria del discorso filosofico, almeno nei momenti culminanti della tradizione filosofica, laddove la filosofia si configura come autentica " sapienza del mondo " ( Weltweisheit ). Al centro dell'attenzione di questo esperimento realizzato da Blondel con l'Azione c'è la questione del senso, ovvero del senso della vita. In altri termini, l'interrogazione investe la vita quale intero, cioè quale universo di azione, conoscenza e passione dell'uomo, e sollecita la questione circa la sua consistenza di senso, o viceversa la sua inconsistenza. Una tale interrogazione investe una sfera che si dà sempre in prima istanza come sfera di senso. Perché l'azione, la conoscenza e la passione dell'uomo istituiscono sempre una sfera di senso, o una semiosfera ( come dicono i semiologi della cultura ). Ma l'intera sfera del senso soggiace a una crisi epocale che ne mette in questione la consistenza, la relativizza, la fa cadere in sospetto quale illusione e mitologia funzionale all'interesse di una " volontà di potenza " degli uomini deboli, incapaci di far fronte alla caduta del senso. Questa diagnosi non è solo di Nietzsche, ma attraversa tutta la cultura europea; su di essa convergono i filoni culturali più disparati, sul cui terreno proliferano i " maestri del sospetto ". Blondel prende sul serio la sfida che proviene da questa crisi del senso, ma non si crogiola nella crisi, assume anzi il sospetto come movente imperioso per appurare le condizioni che presiedono all'invenzione del senso. Tutta la riflessione svolta nell'Azione si svolge lungo queste tre coordinate. 1. Assunzione del sospetto più radicale sulla consistenza del senso: ogni crisi di civiltà è crisi di valori già istituiti; il sospetto su un universo di senso ( su una semiosfera nel suo insieme ) fa leva su un senso non questionabile, o comunque un senso che comanda il sospetto stesso e che può aprire a un nuovo universo di senso ( può delineare una nuova semiosfera ). 2. Individuazione delle condizioni di possibilità della costituzione del senso; in questa prospettiva Blondel individua l'azione come il luogo proprio della produzione del senso peculiare del mondo umano. Non è facile cogliere in modo adeguato questa nozione blondeliana assai densa e peraltro cruciale. In prima approssimazione possiamo dire, ma sull'argomento ovviamente dovrò ritornare, che essa è l'istanza in cui si raccolgono le condizioni di possibilità dell' invenzione del senso e invero del senso che resiste al " sospetto ", del senso dotato di consistenza ontologica. 3. Nella crisi e nell'invenzione del senso è coinvolto a un titolo intrascendibile anche quel senso che possiede una collocazione-chiave nella semiosfera che condensa il vissuto di Blondel: il senso religioso. È il senso istituito dall'unico necessario o, come egli ama dire nelle lettere e nei Carnets intimes, del soprannaturale, ossia dell' " azione di Dio in noi ". 1.1 - Quest'ultimo asse del discorso dell'Azione va attentamente considerato, perché la sua collocazione nell'economia complessiva dell'argomentazione crea qualche problema e ha dato luogo molto spesso a una lettura che inverte il vettore argomentativo. Non si parte dalla grande crisi del senso, diciamo pure dal nihilismo che investe tutta la cultura occidentale e i suoi valori, per poi seguire questa trafila: cercare anzitutto una leva ( un ubi consistam ) possibile per l'invenzione del senso e la creazione del valore, individuata nel volere, anche in quel volere nihilistico che si converte in nonvolere; ricostruire quindi le condizioni di possibilità interne all'azione, grazie alle quali si istituisce il senso; e infine pensare il rapporto e la connessione tra questo senso inventato dall'azione e il senso istituito dall' " azione di Dio in noi " ( dall'unico necessario ). Viceversa si parte da quest'ultimo tratto argomentativo, che pure ha una valenza culminante nel decorso dell'Azione ( ma ciò è appunto motivato dalla logica interna del ragionamento svolto ), per farne il terminus a quo del ragionamento e quindi rendere funzionale a esso le tappe pregresse, le quali in questo modo perdono la loro valenza teoretica peculiare, scadendo al rango di un dispositivo apologetico del soprannaturale. La conseguenza è che da un lato si cancella la presenza di uno dei fuochi di interesse attorno a cui si struttura l'Azione, ossia la ragione critica, per usare un termine congrue coniato da P. Henrici,1 e si riconduce tutto il respiro di quest'opera a uno solo dei suoi cardini, cioè alla " vita di fede ". Dall'altro lato, poi, e in maniera forse ancora più distorcente, si appiattisce la stessa " esperienza credente ", che pure senza ombra di dubbio costituisce una energia strutturante del discorso blondeliano in quest'opera, al suo tratto saliente " soprannaturale ", lasciando cadere in secondo piano due altre dimensioni altrettanto essenziali di quell'esperienza, ossia la dimensione dogmatica o dossologica e la " pratica letterale ", e assumendo poi in definitiva il soprannaturale nella sua accezione spiccatamente teologica ( appunto come una categoria interna della riflessione teologica ), mentre essa in Blondel ha una prevalente carica religioso-esperienziale e denota in ultima istanza l' " azione di Dio in noi ". È vero che Blondel stesso in seguito al dibattito suscitato dalla sua opera soprattutto da parte dei teologi si è lasciato trascinare sul terreno di un confronto nel quale il " soprannaturale " acquisiva i lineamenti di una categoria teologica, ossia la consistenza nozionale di un termine che denota non un vissuto, ma un modo di razionalizzare il mondo della fede; ma egli ha sempre avuto chiara coscienza che il suo terreno di competenza fosse quello filosofico, e non quello teologico, per il quale si è sempre riconosciuto non attrezzato a sufficienza, e in definitiva ha costantemente avuto come referente l'esperienza credente ingenua e immediata, nella sua poderosa energia in ordine all'invenzione del senso, e invero di un senso specifico e peculiare, che appunto il qualificativo " soprannaturale " intendeva mettere in tema o comunque evidenziare. Invece si è sempre tenuto a rispettosa distanza dal campo disciplinare dell'elaborazione teologica e dall'uso dei suoi simboli noetici, e ciò anche quando, come in Storia e dogma, e nel dibattito che ha preceduto e seguito quel suo intervento sulle questioni sollevate da A. Loisy, egli si è avvicinato di molto a tematiche e a categorie dottrinali proprie del dibattito teologico. Ma anche in questi casi Blondel ha regolarmente come cardine di riferimento non la ragione teologica bensì il vissuto credente e le istanze fondamentali che si agitano nel suo spazio. 1.2 - In verità la problematica e, diciamo pure, l'intenzione di fondo dell'Azione nascono in una congiuntura che per molti versi appare assai prossima a quella da cui sono scaturiti i Discorsi sulla religione di Schleiermacher circa un secolo prima ( 1799 ). Blondel ha la chiara percezione che il mondo della fede istituisce un universo di senso e di simboli che viene minacciato alla radice non solo e non tanto dal sospetto che solleva nei suoi confronti la ragione critica coltivata dalla intellettualità, cui beninteso lo stesso Blondel si sente di appartenere, ma da quella più generale e irrimediabile crisi del senso che coinvolge nel suo nihilismo sia il senso prodotto dalla ragione critica sia quello prodotto dall'esperienza credente. È dunque in nome di una doppia fedeltà o di una doppia appartenenza che Blondel si assume il carico formidabile di affrontare la questione del senso e delle sue condizioni di possibilità. Se la ragione critica, ossia quella ragione cui incombe la responsabilità di rendere conto di se stessa e della propria realtà senza fare assegnamento su condizioni di possibilità aliene ( è questa la radice del principio di immanenza che governa tutta la riflessione blondeliana nella sua impostazione rigorosamente filosofica ), se la ragione critica non è in grado di recuperare, ossia assodare ed esibire, le condizioni che rendono possibile la produzione del senso, allora ne va radicalmente di qualsiasi senso prodotto, anche quello prodotto a partire dall'esperienza credente. Questa congiuntura si riflette nitidamente nella coscienza e nella percezione di Blondel, e lo induce a misurarsi col formidabile quesito di come far valere insieme la ragione critica e il senso religioso, appunto i due interessi ovvero i due valori intorno ai quali si ambisce recuperare le energie di senso per far fronte alla decadenza e allo sfacelo della civilizzazione. Nel suo più che decennale sforzo ( l'Azione nasce, come è noto, da un travaglio che ricopre oltre un decennio: dal 1882 al 1893 ) Blondel si misura con questa congiuntura; e in essa rivive la condizione tragica del sovvertimento di tutti i valori, come nell'antica tragedia greca. E come nella catarsi dell'antica tragedia vengono messe in funzione le forze giovani che fungono da antidoto rispetto all'eclissi di tutti i valori, così la strategia mobilitata da Blondel con l'Azione fa ricorso agli interessi e alle forze giovanili capaci di ovviare alla senescenza della civilizzazione e di contrastare efficacemente il nihilismo che intacca il senso stesso dell'uomo e della sua storia. E queste forze giovani sono precisamente la ragione critica e il senso religioso, che la visuale dell'azione prescelta per questa strategia di superamento del nihilismo permette di mantenere insieme come i due capi di una catena. Il nihilismo è un fenomeno complesso e ormai più volte diagnosticato sull'asse che va da Nietzsche a Heidegger. In questa sede in cui si tratta di elucidare la congiuntura da cui nasce l'Azione, interessano due tratti del nihilismo europeo di fine Ottocento che nell'ambiente della cultura francese ha cespiti propri abbastanza chiaramente individuabili soprattutto nella prima parte dell'opera blondehana. Anzitutto nasce da una critica di tutta la tradizione culturale e di pensiero antecedente; insomma il nihilismo si insedia in un post, una scansione epocale posteriore, che ha fatto tabula rasa di tutti i valori e di tutto il senso istituito prima, cioè nella scansione epocale antecedente. Di contro a tale atteggiamento mentale, Blondel, che vuole mettere in campo un antidoto, recupera i nodi e i problemi centrali della tradizione filosofica; insomma è convinto che il post vada pensato non in senso diacronico, ma in senso logico-causale, come un rimettere in vigore le acquisizioni decisive e culminanti della produzione di senso anteriore, quelle acquisizioni che la senescenza dei valori e lo sfacelo della civilizzazione avevano contribuito a depotenziare, ma che sono la condizione intrascendibile per il riscatto del senso e per l'oltrepassamento della decadenza. Ma, è questo il punto che mi sembra peculiare della strategia messa in opera da Blondel, il recupero di quelle acquisizioni ( diciamo pure, dei punti alti della tradizione filosofica nella sua linea " sapienziale " ) viene fatto in nome della loro valenza pratica, ossia in forza della loro pertinenza reale e concreta in ordine alla costruzione di un mondo umano e di una civilizzazione che coltivi la vita e non la morte, non lo sfacelo; insomma, se è vero che il secondo tratto del nihilismo che qui ci interessa è quello di custodire il senso del nulla, di coltivare nelle varie modalità proprie di una cultura il nulla, la strategia blondeliana mira a coltivare l'essere e la sua problematizzazione piuttosto che il nulla. 1.3 - Se dunque questo è lo sfondo che rende perspicua la problematica agitata nell'Azione e permette altresì di neutralizzare alcuni degli approcci interpretativi più ricorrenti nella sua lettura, fin dal giorno stesso in cui Blondel ha sostenuto la sua tesi di dottorato, restituendo a questo testo blondeliano l'interesse ancora vivo o non ancora esaurito nella nostra attuale congiuntura storico-culturale, c'è da aggiungere un'altra considerazione, per mettere in luce un ulteriore movente teoretico che guida l'argomentazione blondeliana in questo testo, e per accantonare tutto un altro gruppo di approcci interpretativi scarsamente congruenti con l'intenzione in esso depositata. La proposta, o se vogliamo, la strategia avanzata da Blondel è stata sequestrata dagli interessi e dai problemi di assetto interno del cattolicesimo, soprattutto a livello di sintesi di pensiero e di gruppi intellettuali ( in lotta tra loro per l'egemonia ). In questo senso Blondel è stato letto a partire dal problema dell'apologetica ( e invero dell'apologetica teologica ) e del suo assetto congruente con lo statuto di una coscienza moderna, o dal problema del dogma e della sua strutturazione noetica, in genere legata alla sua valenza disciplinare, o infine a partire dalla tematica ( anche qui spiccatamente teologica ) del soprannaturale nella sua demarcazione specifica rispetto alla natura umana. In realtà l'ispirazione profonda e primigenia di Blondel è marcatamente filosofica. E precisamente egli si è mosso nel senso di riscrivere in termini trascendentali ( ossia in termini di condizioni necessarie di possibilità ) il problema dell'azione; a sua volta il punto di vista corrispondente all'azione viene prescelto perché sul terreno dell'azione si rivela, detto in termini kantiani, " ciò che interessa ogni uomo necessariamente ". In proposito c'è da dire che originariamente l'impostazione, l'approccio trascendentale era stato adibito in connessione col problema del soggetto conoscente, e quindi in definitiva per elucidare il conoscere. Schleiermacher aveva ripreso il medesimo impianto e lo aveva adibito per pensare l'esperienza religiosa. Blondel lo assume e lo trasferisce su un altro terreno per affrontare il problema del soggetto pratico, ossia " la volontà di potenza " ( il soggetto che ultimamente presiede all'istituzione del senso ), perché è convinto che su questo terreno, e in maniera privilegiata, in maniera cioè da corrispondere ai bisogni di invenzione del senso, si saldano insieme ( appunto nell'assetto messo in luce dall'approccio trascendentale ) soggetto ed essere, l'agente e il prodotto, il verum e il factum. Il motivo dell'interesse del Sé, ossia di " quello che solo ci interessa, noi stessi ", cui beninteso si riannodano sia il tema dell'invenzione del senso sia l'impostazione che ho qualificato come trascendentale, costituisce un filo conduttore dell'Azione. Esso merita di essere rimarcato in anticipo per offrire una chiave di lettura che ritengo efficace. Ora è significativo che in Nietzsche il tema dell'interesse diventa la chiave del " prospettivismo ", sul quale fa perno il relativismo e la conseguente negazione del vero, dello spessore ontologico, dell'ideale; tutti indici di quel nihilismo alla cui ombra si muove l'autore di Così parlò Zarathustra. Viceversa in Blondel, analogamente a quanto avveniva in Kant e in tanti esponenti della tradizione filosofica post-kantiana, l'interesse del Sé assurge a chiave per l'istituzione del vero, del valore ontologico, della valenza ideale. Dalla prospettiva di questo interesse del Sé, cui propriamente è prospiciente il senso, e che va pensato in termini di atto d'essere ( actus essendi ) cui si soggettiva il senso medesimo, la domanda filosofica culminante non è quella del tremebondo " perché l'essere e non piuttosto il nulla ", così come viene impostata in una tradizione filosofica che ha i suoi esponenti di rilievo in Schopenhauer e in Schelling, ma che Heidegger ha riportato alle radici del pensiero filosofico antico; è invece quella della meraviglia (del ?a?µ??e?? ) " perché l'essere si è affermato sul nulla ". Così tutto il discorso dell'Azione si svolge nel ciclo argomentativo ed espositivo che prende le mosse da una domanda sul senso della vita e sul destino dell'uomo e si chiude con l'affermazione colma di meraviglia filosofica: " c'è ", " esiste ". 2. Le motivazioni della proposta teoretica di Blondel Non è facile mettere a fuoco la sostanza peculiare di questo testo blondeliano, così come è assai controversa la sua collocazione nell'insieme dell'attività intellettuale del filosofo di Aix. Per quanto concerne questo secondo aspetto i problemi sono molteplici, ma possono essere utilmente sintetizzati in due interrogativi. Nell'opera e nella riflessione blondeliana c'è continuità sostanziale oppure si da una rottura, ossia un mutamento della prospettiva filosofica di fondo, per cui da una " filosofia dell'azione " innestata sul principio dell'immanenza si sarebbe passati progressivamente a una " filosofia cristiana " ( o cattolica, come preferiva dire Blondel ) incardinata sulla dicotomia metafisica immanente-trascendente, sull'interesse teologico egemone e sul punto di vista " intellettualistico " ( tale da neutralizzare l'originario antiintellettualismo di cui è supposta depositarla la " filosofia dell'azione " ) ? L'interesse ultimativo che muove e motiva il pensare blondeliano è l'interesse filosofico inteso a riconoscere e tematizzare le strutture universali e naturali che presiedono alla produzione del senso, anche di quel senso offerto nel corpo della significazione religiosa della vita, o viceversa è l'interesse religioso ( ovvero teologico ) inteso a garantire l'intelligibilità del significato peculiare e non naturale, ovvero soprannaturale, del senso religioso-cristiano della vita, e la sua pertinenza non trascendibile in ordine alla produzione del senso? Ora l'operazione culturale che qui viene tentata, rimettendo in circolazione il testo dell'Azione, è animata da una ipotesi di lavoro interpretativa che va verificata. Essa, mentre da un lato intende rimettere in discussione l'approccio al testo dell'Azione e, attraverso esso, a tutto il profilo complessivo dell'attività intellettuale di Blondel, dall'altro mira a iscrivere sia il punto di vista dell'Azione sia la visuale, che condensa quell'attività intellettuale in una tradizione filosofica consistente presente, a partire da Kant, nella consapevolezza critica maturata in epoca moderna e contemporanea. In effetti, pregiudiziale per cogliere la continuità tra le varie fasi dell'attività e della produzione filosofica di Blondel, e conseguentemente per liberare dai canoni di lettura finora vigenti la stessa produzione dell'ultima fase ( quella che ha prodotto la grande trilogia e La philosophie et l'Esprit chrétien ), è ricostruire l'esatto tenore dei risultati teoretici e dell'argomentazione blondeliana nel testo dell'Azione. Che è poi il mio intento precipuo in questa sede, per quanto nella forma succinta consentitami. E aggiungo subito che parlo tout court dell'Azione, e non qualifico questo testo ( secondo un uso ricorrente ) come Imprima Azione, perché l'altro testo sull'azione, quello che conclude la trilogia ( del 1936-37 ), non è una riedizione, sia pure rifusa, del primo, ma è un'opera di tutt'altro genere. Potrei esprimere la loro differenza in questi termini: mentre lo scritto del 1893 è un'opera di carattere critico, nella quale Blondel guadagna un punto di vista vigente per l'intero orizzonte della problematizzazione filosofica, e non soltanto per il settore o la regione corrispondente alla prassi (ovvero al p??tte??, come egli stesso si esprime richiamando una distinzione aristotelica ), lo scritto che conclude la trilogia è un'opera di carattere dottrinale, in quanto contiene la ricognizione riflessiva di una regione specifica dell'insieme dottrinale di competenza della filosofia, appunto quella corrispondente al p??tte??, uno dei distinti che lo scandaglio riflessivo di Blondel individua, insieme a quello del pensiero e dell'essere. In questo senso dunque l'Azione contiene in nuce i principi ovvero le condizioni di possibilità soggiacenti all'intera ricognizione dottrinale che rientra nel campo di competenza di una riflessione filosofica; in essa la categoria di azione ha, come cercherò di far vedere, una valenza spiccatamente trascendentale, denotando non la produzione di senso emanante dall'attività pratica nel contesto del senso complessivo della vita, bensì la condizione di possibilità di qualsiasi produzione di senso nell'ambito della vita, sia essa una produzione, rispettivamente, nella sfera o regione del ?e???e??, ovvero del p???e??, ovvero del p??tte??. E ciò va tenuto accuratamente presente, anche perché Blondel si appropria di una istanza fatta valere da un filone consistente della filosofia post-kantiana, l'istanza cioè di far funzionare in sede di fondazione critica dell'intera ricognizione filosofica un punto di vista capace di fungere adeguatamente in senso trascendentale, e dunque rimuovendo il residuo acritico della separazione tra ragione teoretica e ragione pratica. In altri termini in questa visuale animata da tale istanza si tratta di attivare la fondazione trascendentale dell'essere finito risalendo a monte ( o se si vuole alla radice ) della stessa ragione, mettendo in tema teoreticamente la stessa condizione di possibilità della ragione quale principio che anima la produzione del senso teoretico e del senso pratico della vita. Il problema di fondo che sollecita questo filone della filosofia all'interno del quale va inserito lo stesso Blondel ( e il testo dell'Azione ) va formulato nei termini seguenti. È in questione la congruenza, e dunque la connessione critica, tra universale e individuale, ovvero tra essere e pensare, tra fatto e valore, tra senso e significato. Sono tutti termini questi, circolanti e gestiti nella filosofia post-kantiana, che esprimono un'unica problematizzazione di fondo, per venire a capo di una loro connessione soddisfacente sotto il profilo critico, ossia una connessione capace nel contempo di " salvare i fenomeni " ( secondo l'antica espressione di Platone ) e di far fronte alle esigenze intrascendibili di una ragione umana finita. In tale contesto problematico, precisamente, si inserisce e si inquadra l'Azione. C'è però un modo di affrontare quel formidabile problema che va tenuto ben presente per una esatta collocazione storica e culturale di questo testo. Esso si esprime in un grande paradigma di comprensione, il quale ha un'ascendenza neo-kantiana ed è egemone per molti versi nella cultura europea tra Ottocento e Novecento; e ancora oggi è in azione efficacemente in molti settori della cultura filosofica ( e non solo ). Lo ritroviamo formulato con grande mordente teoretico in W. Herrmann oppure, in un contesto culturale più prossimo all'opera blondeliana, in A. Sabatier. Nella sua visuale il mondo umano del significato e dei valori è spartito tra il territorio della scienza, in cui è attiva l'istanza di conoscenza del mondo, e il territorio dell'etica, in cui opera il senso morale e la sua energia capace di istituire il senso dell'essere nel mondo. Ma la peculiarità e la forza teoretica di quel paradigma di comprensione consiste in questo: che tra i due territori non si dà conciliazione o raccordo possibile; perché né la scienza consegue ultimativamente il suo obiettivo di conoscenza, in quanto la conoscenza del mondo approda ai suoi limiti nell'inconoscibile, a motivo del quale il significato in definitiva non si concretizza nel senso, né la moralità realizza la sua aspirazione fondamentale - di penetrare il mondo con la sua legalità e istituire in esso il dominio della libertà - convertendo senza residui il senso ( ovvero il valore, il dover essere ) in significato, ossia in effettività universale e comunicabile. Scissa e dilacerata tra questi due territori, la civilizzazione ( e la cultura ) può trovare nella religione la sede in cui è offerta la possibilità di istituire un t????, ossia uno scopo ultimo ( un regno dei fini ) alla cui altezza sia lo sforzo di conoscenza del mondo sia, soprattutto, il bisogno e il sentimento che sollecitano la moralità ottengono il loro congrue soddisfacimento e, in definitiva, trovano una consistente ragione di conciliazione. Ovviamente questo paradigma di comprensione è suscettibile di differenti valorizzazioni sul piano teoretico. È significativo tuttavia che esso sia stato coniato in prevalenza a partire da una visuale teologica; si pensi appunto a W. Herrmann, a A. Sabatier, allo stesso E. Troeltsch. In effetti tale schema di comprensione veniva formulato sostanzialmente come una risposta teologica alla sfida suscitata dalla grande crisi del senso che investiva la civilizzazione occidentale. Anche se poi, per esempio, W. Herrmann fonda il religioso stesso in ultima analisi sullo scacco della moralità, mentre viceversa da parte sua A. Sabatier individua il religioso come la radice ( una sorta di radice trascendentale ) dello sforzo per conoscere il mondo ( scienza ) e per istituire in esso il dominio della libertà ( moralità ). Ora in presenza di un modello di comprensione " teologico " così efficace per fare fronte alla crisi del senso e così pieno di mordente nel contesto culturale dell'epoca, risulta assai originale l'approccio operato da Blondel al grande problema che assillava le coscienze pensanti. Precisamente egli non ricorre al paradigma teologico di comprensione, ma conia un inedito paradigma facendo ricorso alle risorse della riflessione filosofica. Certo in questa sua opzione fondamentale, che va tenuta in conto per interpretare non solo l'Azione ma forse l'intera sua produzione filosofica, ha giocato una netta scelta vocazionale, che lo ha portato a qualificare il proprio impegno esistenziale come " professore di filosofia ", e la stessa incidenza dell'ambiente culturale nel quale si è formato ( la Scuola Normale di Parigi ). Ma non è questo che istituisce il profilo interno del suo paradigma filosofico elaborato per fare fronte alla grande crisi del senso. Al contrario esso si qualifica come filosofico perché assume radicalmente l'impegno e il compito della ragione filosofica, diciamo pure la sua logica specifica, che consiste nel " dare ragione " senza fare ricorso a " ragioni date ". Alla ragione filosofica " nulla si può dare ad intendere ", essendo essa conoscenza razionale che si articola discorsivamente attraverso concetti e giudizi. Anche un eventuale " senso offerto " ( o una rivelazione, secondo il linguaggio della teologia ) non può diventare argomento della discorsività filosofica, se non appunto in quanto esperienza che consente l'approccio concettuale, nei limiti propri della ragione umana finita, che non intuisce direttamente l'essere ma lo afferra solo discorsivamente. Qui siamo di fronte a un punto nevralgico dell'interpretazione dell'Azione. Se il paradigma nozionale di comprensione elaborato in quest'opera fosse quello di far leva sul naufragio della conoscenza scientifica e dello sforzo etico per istituire un regno dei fini congruente con l'aspirazione morale della prassi umana, allora esso sarebbe del tutto affine al paradigma " teologico " di cui ho esibito i tratti salienti. Ma l'approccio elaborato da Blondel è differente e si muove decisamente sul terreno filosofico, nel senso spiegato poco innanzi. Certo si può discutere sull'utilità pratica, sul senso ultimo e sulla valenza vitale della ragione filosofica. Tra l'altro l'impresa tentata da Blondel, con l'intento costante di saldare insieme riflessione e vita, costituisce proprio una risposta a questi interrogativi. Nella lettura corrente con l'Azione il filosofo di Aix avrebbe puntato l'obiettivo sull'azione umana per mettere in evidenza la sua inconcludenza in ordine alla soddisfazione del desiderio che la inabita; tale dinamismo di sproporzione tra il desiderio che anima l'azione nel suo ampio spettro fenomenologico e le sue realizzazioni concrete aprirebbe la strada al completamento dell'insufficienza umana da parte dell'offerta di un senso non incluso nelle possibilità naturali dell'azione stessa, il senso appunto istituito nell'area di esperienza del religioso. In questo schema di interpretazione, che pur essendo largamente diffuso nondimeno deve essere messo in discussione, vi sono alcune sfasature o incongruenze rispetto all'intenzione teoretica di Blondel che vanno rimarcate subito. Anzitutto si assume una nozione di azione che ha una valenza regionale ( e non trascendentale, come nel testo blondeliano ), che in effetti è sì presente nell'argomentazione di Blondel, ma soltanto relativamente a un suo settore specifico, quello appunto in cui è messa in tema l'appetizione volontaria, la quale tuttavia non esaurisce il significato nozionale dell'azione. In secondo luogo ci si basa su una intelligenza diacronica del dinamismo dell'azione, quasi che esso si articoli in fasi successive, culminanti con l'opzione prò o contro l' " azione perfetta " ( che è poi la vita dell'azione, ovvero l'irruzione del " senso offerto " nella sfera dell'azione ); mentre viceversa Blondel pensa sincronicamente quel dinamismo, in quanto lo racchiude interamente nello spazio trascendentale dell'azione, la cui temporalità non ha carattere diacronico ( prima e dopo ) bensì sincronico ( adesso o mai più ); ciò significa che l' " azione perfetta " non appartiene ai margini o agli esiti terminali del dinamismo dell'azione, ma appartiene al suo cuore e alla sua attualità non rinviabile. In ogni progettazione del senso, in quanto progettazione del senso della vita, si insedia la necessità dell'azione perfetta o del suo opposto, quella che potremmo chiamare l'azione abortita ( la " morte dell'azione " ); tale necessità conosce solo l'adesso e non consente né rinvio né anticipazione. Questa contemporaneità insuperabile o sincronia dell'azione perfetta nel dinamismo dell'azione viene espressa dalla celebre formula che Blondel usa spesso ( e, invero, sia nell'Azione che nella Lettera del '96 ): " mettere in equazione nella coscienza medesima " ciò che aspiriamo a pensare, volere e fare e ciò che pensiamo, vogliamo e facciamo in realtà. In terzo luogo si equivoca il passaggio nevralgico dell'oltrepassamento dell'azione verso l'unico necessario. Infatti da un lato lo si tiene a distanza dall'oltrepassamento che l'azione opera nel suo dominio di esercizio nelle tappe fenomenologiche nelle quali essa prende consistenza, mentre viceversa nella visuale blondeliana esso è omogeneo a quest'ultimo ( e non si configura come un " salto mortale " verso il trascendente ); dall'altro si mette in cortocircuito il discorso sull'unico necessario, che significativamente viene presentato da Blondel con i caratteri di una necessità possibile, con il discorso ( svolto nella quinta parte dell'Azione ) sui contenuti rivelati e sulla pratica letterale, che palesemente si svolge in una chiave metodologica e " apologetica " e dunque inverte il procedimento argomentativo, partendo dall'assunto di un " senso offerto " che incarni quel possibile racchiuso nella necessità dell'unico necessario. Senza dubbio su quest'ultimo punto la tematizzazione elaborata nell'Azione era obiettivamente piuttosto acerba, e avrebbe richiesto un lavoro di chiarificazione e di maturazione tematica che in parte Blondel ha abbozzato successivamente ( per esempio, già con la Lettera del '96 ), in parte invece è stato sviato in altre direzioni, per colmare quelle lacune che le polemiche suscitate dalla sua " filosofia dell'azione " ponevano all'ordine del giorno, ma che non sempre erano in linea con l'impostazione e con il taglio metodico dell'Azione, un taglio beninteso che impostava l'indagine nei termini di una filosofia come " scienza rigorosa ". 3. Il profilo culturale Prima di indicare succintamente la sostanza peculiare e il plesso teoretico centrale di questo scritto blondeliano, è opportuno offrire alcuni riferimenti circa il suo profilo culturale e la sua struttura sistematica. L'Azione è un testo difficile e assai complesso. Esso, come è noto, è stato scritto tenendo presente un interlocutore specifico, il pubblico degli studiosi della Scuola Normale, che costituiva una élite intellettuale; questo pubblico era culturalmente assai preparato, ed era in grado sia di afferrare il gergo scolastico adoperato, sia di capire i referenti storici ovvero le fonti del discorso blondeliano, sia infine di comprendere le invenzioni linguistiche ricorrenti in questo testo, le quali significativamente fanno ricorso usualmente al linguaggio delle scienze matematiche e positive. Conseguentemente la scrittura del testo blondeliano risulta particolarmente densa, direi meglio pluristratificata, per cui la difficoltà maggiore di lettura è data proprio dalla ricognizione di questo spessore sintetico, che è insieme storico e problematico. D'altra parte questa densità e complessità, che riguarda sia i nodi problematici sia i referenti storici, è in qualche modo ricoperta e quasi semplificata sia dall'andamento discorsivo retorico sia dalla struttura saldamente sistematica, la quale non lascia trasparire facilmente le difficoltà o incongruenze dell'argomentare o le eventuali inversioni argomentative. In realtà l'ordito di questa scrittura coniuga insieme il gioco linguistico della persuasione, che forse dà il tono al linguaggio prevalente in questo testo, e il gioco linguistico dell'argomentazione, che veicola la linea teoretica di fondo; e non sempre è facile distinguere l'uno dall'altro, riconoscendo in maniera adeguata le rispettive strategie di discorso e le congruenti ragioni che sono in gioco di volta in volta nella strategia di persuasione o in quella epistemico-dimostrativa. Così, tanto per fare un esempio, il dubbio metodico universale circa le ragioni del senso ( il senso della vita, secondo la domanda iniziale e di fondo di tutto lo scritto ) mentre da un lato è funzionale a una sorta di captatio benevolentiae dell'interlocutore, che è l'intellettuale scettico, convinto assertore del valore della scienza e altrettanto deciso negatore della rilevanza del senso, dall'altro è azionato in vista di guadagnare una visuale radicale ( appunto la visuale dell'azione ) per porre correttamente il problema del senso. Esempi del genere si potrebbero moltiplicare, se facessimo un saggio sulle varie parti di questo testo blondeliano. In ogni caso una lettura adeguata dell'Azione richiede non solo che si entri nell'intricato tessuto teoretico e nel complesso spessore storico di questo testo, ma che si sia in grado di seguire e di tenere eventualmente a distanza il discorso e il linguaggio della persuasione da quello della rigorosa linea argomentativa. Non meno impegnativa è la penetrazione della struttura sistematica di questo testo. In proposito mi pare importante rilevare tre possibili fattori o assetti sistematici che funzionano in contemporanea, ma che vanno chiaramente individuati per poterne valutare in maniera congruente l'incidenza nell'ordito sistematico del discorso blondeliano. Anzitutto c'è la struttura esteriore che ha un evidente tratto ascensionale scandito dalle cinque parti in cui è articolato il testo. Si parte da una posizione del problema, che significativamente è ricondotto al " problema morale " e non ( come nell'introduzione ) al problema del senso oppure ( come nella conclusione ) al problema del religioso ovvero della salvezza; si scarta in primo luogo la possibilità di risolvere il problema in negativo; poi viene appurato che nello spazio naturale della volontà ( come prima il senso è ridotto o ricondotto all'ambito della moralità, così adesso l'azione è ricondotta allo spazio del volontario ) è iscritto il determinismo di una soluzione in positivo del problema dell'azione, anche se questo " in positivo " è ancora ancipite, coinvolgendo la grande alternativa tra la vita e la morte dell'azione; si passa quindi a una fenomenologia dell'azione che, dalle sue condizioni di possibilità, passando attraverso sfere successive, ricostruisce l'azione in tutta la sua gamma, fino alla sfera culminante dell'azione universale; in questa sfera si mette in luce la grande antinomia ( il conflitto ) cui soggiace l'azione in questa sua apertura universale; l'antinomia dà luogo a un'alternativa nella quale si dà la condizione di possibilità dell'azione perfetta, ossia dell'azione che realizza il suo senso. Questa struttura esteriore è assai perspicua; ma essa sembra obbedire più a una strategia di persuasione che non a una rigorosa argomentazione filosofica in grado di attuare connessioni concettuali e dimostrative consistenti. Ma il discorso blondeliano nell'Azione mette in funzione una logica argomentativa assai rigorosa, la quale funge come connettivo sistematico dell'intero sviluppo discorsivo. Tale logica ha un preciso impianto falsifìcazionista, per dirla con un termine che richiama sì K. Popper, ma corrisponde a mio avviso in maniera calzante alla strategia argomentativa adottata da Blondel, anche in corrispondenza della sua concezione relativa all'?p?st?µ? ) della scienza e della filosofia. Questa logica consiste nell'individuare, nel complesso fluire dei fenomeni inquadrati dallo sforzo della scienza e della vita soggettiva animata dall'azione, una linea di determinismo guadagnato attraverso la falsificazione delle possibili vie di uscita per spiegare i fenomeni o le costellazioni di fenomeni esaminati dalla ricognizione " fenomenologica ". A partire dalla tabula rasa iniziale, quando non si dà niente per scontato, accertato o postulato, tutto l'itinerario argomentativo messo in opera da Blondel consiste nella progressiva falsificazione di ipotesi o pretese esplicative, in modo da far emergere a ogni tappa una linea necessitante di determinazione nozionale e di concatenazione sistematica ( coerenza argomentativa ), grazie alla quale anche il territorio dell'azione, che è poi il territorio della libertà e dell'opzione, è elevato all'esponente della scienza. Si tratta, come è noto, di una scienza che ha l'ambizione di presentarsi e di valere come scienza della vita. E in effetti è decisivo cogliere questa logica reale che è sottesa ed è fungente lungo tutto il discorso dell'Azione. Essa mira a scoprire il senso, e le modalità della sua costituzione, a monte della volontà di potenza, intendendo questa categoria nell'accezione nozionale fatta propria da Nietzsche. In altri termini Blondel è interessato a identificare il Sé in cui il senso si soggettiva; ma per essere afferrato, questo Sé richiede che si attivi una logica congruente, perché esso è interamente gettato nella tensione tra determinismo e altro-da-sé ( questo referente potrebbe essere espresso anche come essere-da, se si vuole rimanere aderenti alla prospettiva filosofica guadagnata dal discorso blondeliano ). Ciò significa che quel Sé è compreso come dislocato interamente nella tensione tra fenomeno, l'indice della trascendenza intenzionale e della necessità concatenante, e libertà radicale, l'indice della trascendenza esistentiva ovvero trascendentale. Le due nozioni sembrano agli antipodi tra loro, tanto che la riflessione filosofica con Kant è arrivata a istituire tra loro un rapporto di antinomia ( sia pure di carattere dinamico e non matematico, e la cosa non è senza significato, perché presta lo spunto al discorso dell'Azione ); ma la riflessione blondeliana mira a evidenziare il legame che si instaura tra di esse. Questo legame esprime la trascrizione teoretica di un rapporto trascendentale tra l'unità del determinismo, vigente nel mondo fenomenico da cui affiora e nel cui seno si svolge l'azione, e l'opzione libera, che rappresenta il culmine ontologico dell'azione e la condizione di possibilità della sua validazione effettiva ( o invalidazione, essendo l'opzione una possibilità a doppio senso ), desistenza reale ovvero la vita, quale oggetto di indagine di questa filosofia, è costituita inscindibilmente da entrambi i poli che danno luogo alle due nozioni indicate e ai corrispettivi campi semantici di scienze differenti, ossia, nel linguaggio di Blondel, le scienze matematico-positive e le scienze morali. Tenendo conto di questo impianto logico che sorregge il discorso, siamo in grado di mettere in evidenza una struttura sistematica, diciamo così, più interna di questo testo blondeliano. Essa non consegue alle scansioni esteriori tra le varie parti, ma è istituita da quella logica cui ho fatto cenno, e trova il suo filo conduttore più attendibile in quelle sintesi che concludono i vari blocchi di argomentazione e anticipano il prosieguo del discorso. Non si tratta di ricapitolazioni o anticipazioni pleonastiche, ma servono appunto a enfatizzare il procedimento argomentativo del discorso. Sotto questo profilo l'articolazione sistematica dell'Azione può essere individuata in questa sequenza. Il primo blocco viene dedicato a costruire il problema, dall'ipotesi iniziale di una sua inconsistenza come pseudo-problema fino all'esibizione dell'aggancio della " mediazione dell'azione " con le scienze positive, ossia con le scienze che racchiudono la vita nell'ambito del fenomenico. È da notare come in questa fase la categoria di azione non entra in gioco nella sua esatta caratura nozionale, mentre vengono messi in questione il problema morale e la volontà. Il secondo blocco svolge la determinazione noetica appropriata del concetto di azione ( chiamerei questo tratto la " deduzione trascendentale " della categoria di azione ); in questa fase si tende a circoscrivere l'area trascendentale della nozione, mettendo a punto il referente di soggettivazione ( il Sé del senso prodotto dall'azione ) dell'intera fenomenologia dell'azione. Il terzo blocco traccia una fenomenologia non dell'azione, ma dell'azione voluta, ossia dell'azione ( il referente trascendentale ) contratta fenomenicamente in determinazioni particolari, in un corpo di segni e di simboli. È in questo contesto che viene messa in tema la dialettica dell'equazione insufficiente tra l'azione voluta e il Sé che configura lo spazio del possibile senso creato dall'azione. Questo blocco argomentativo si estende fino alla teorizzazione dell' " azione superstiziosa ", che rappresenta una modalità defettiva o invalidante dell'apertura universale dell'azione, che è poi la possibilità iscritta in quel Sé di produrre un senso universale. Su questo terreno la dialettica dell'azione dà luogo a un'antinomia. E in effetti il quarto blocco argomentativo è dedicato alla soluzione di tale antinomia. Il discorso si fa estremamente arduo e in qualche modo si complica, perché l'argomento dall'azione voluta in qualche modo si sposta nuovamente sul punto di partenza, ossia sul referente di soggettivazione dell'azione voluta. L'antinomia e la sua difficile gestazione teoretica, che da luogo a due serie distinte e non facilmente correlabili tra loro di ragionamento, si gioca intorno all'azione nel suo nucleo sostanziale. L'ultimo blocco del discorso non ha più una connessione sistematica con il resto ma in parte è dedicato all' " apologetica " religiosa, invertendo quindi il vettore argomentativo, e in parte svolge una riflessione sul metodo, aprendo per così dire il discorso dell'Azione all'ulteriore ampliamento dottrinale. Perché in effetti l'Azione ha un evidente impianto critico. In una congiuntura culturale in cui, per esempio, Dilthey coglieva l'istanza di completare l'operazione critica kantiana e di produrre accanto alla critica ( kantiana ) della ragione teoretica ( ossia della ragione scientifica ) una critica della ragione storica, Blondel coglie una istanza analoga, diretta precisamente a elaborare una critica dell'azione. Perché una critica dell'azione? Perché si trattava di andare più a fondo nella direzione critica e, invece di investire il piano secondario della ragione teoretica che produce valori conoscitivi di secondo grado rispetto alla vita, o lo stesso piano della ragione storica, nel quale è impegnata quella che Blondel chiamerebbe l'azione voluta, bisognava accedere problematicamente al piano primario e fontale dell'azione. Di quest'ultima era necessario ricostruire, sul filo di una riflessione teorica metodica, l'ontologia critica, nel senso che Kant aveva dato a questa espressione. In effetti quando Blondel si accinge al lavoro per l'Azione ha ben presente tutta la gamma dottrinale di cui si sostanzia l'indagine filosofica; ma egli avverte come primaria l'esigenza di offrire un fondamento critico a tutta la riflessione filosofica, e si accinge a questo lavoro appunto con l'indagine critica sull'azione. Naturalmente il punto di vista critico maturato con l'Azione da un lato apriva ai compiti dello sviluppo dottrinale, dall'altro possedeva un respiro culturale enorme, tale da investire l'intero pensiero contemporaneo nella sua ristrutturazione critica e da prospettare un'alternativa interna alla stessa cultura cattolica che appunto era in cerca di un assetto culturale in grado di reggere il confronto con la cultura del tempo segnata dalla modernità. Blondel ha cercato di proseguire il lavoro di ampliamento dottrinale richiesto dall'impostazione critica dell'Azione. E lo ha abbozzato anzitutto sul versante della logica e su quello della filosofia della religione ( per esempio con la Lettera del '96 ). Ma da un lato le resistenze che gli venivano dal mondo della cultura filosofica laica, dall'altro le durissime reazioni al suo pensiero e alla sua impostazione, per non dire al suo progetto culturale in rotta di collisione con l'incipiente neotomismo, che provenivano dal mondo della cultura cattolica ( in prevalenza teologica ) lo hanno prima costretto sulla difensiva, poi lo hanno in qualche modo deviato dall'impegno di integrazione dottrinale. Poi la bufera del modernismo ha fatto il resto: essa, se anche non lo ha coinvolto personalmente, ha comunque colpito il suo progetto culturale, e in ogni caso lo ha costretto alla prudenza e al silenzio. Solo negli anni Venti si sono ricreate, almeno per certi versi, le condizioni favorevoli per la sua creatività filosofica; ma da un lato la spinta originaria di quella creatività si era in qualche modo attutita, se non esaurita, dall'altro le condizioni di salute poco favorevoli e le obiettive possibilità di lavoro assai compromesse hanno sicuramente inciso sulla sua produzione tardiva, con la quale egli ha cercato di portare a termine il programma iniziato con l'Azione. Rimane aperto il problema di una valutazione critica attendibile sia dell'ultima sua produzione, ove peraltro trapelano sprazzi notevoli della forza teoretica dell'autore dell'Azione, sia del rapporto tra quella produzione e il primo Blondel. 4. La struttura argomentativa Non è facile cogliere la sostanza peculiare e il plesso teoretico centrale dell'Azione. Pregiudiziali per una comprensione efficace di questo testo sono l'individuazione del problema fondamentale che qui viene agitato, della modalità argomentativa con la quale esso viene svolto e viene avviato a soluzione, e infine l'esatta determinazione nozionale del concetto di azione, che offre il punto di vista prescelto per affrontare il problema e per organizzare in maniera congruente la sua soluzione. È quanto cercherò di fare in questa sede, riservandomi poi di dedicare una succinta elucidazione del tema del religioso, che indubbiamente ha una funzione-chiave nel testo blondeliano, ma che tuttavia va inquadrato necessariamente ( pena l'incomprensione della sua peculiare impostazione blondeliana ) nella triplice coordinata, problematica, tematica e critica cui ho fatto cenno. In un contesto particolarmente cruciale dell'itinerario argomentativo dell'Azione, laddove si tratta di elucidare l'universalità dell'azione, ossia in concreto della produzione del senso della vita, Blondel ci offre uno spaccato a due profili del problema che impegna ultimativamente la sua riflessione. Il contesto è decisivo, perché fa da cardine nel passaggio dall'azione che incarna l'universale concreto alla dialettica dell'azione cui dà luogo questo universale concreto, e dunque apre alla discussione dell' " azione superstiziosa " e alla successiva antinomia dell'azione. Il duplice profilo, poi, sotto cui ci è esibito il problema centrale di questo approccio critico è dato dal " bisogno metafisico " e dal suo dinamismo reale, e dalla " coscienza morale ", intorno alla quale si istituisce la morale intesa come meintis et vitae adaequazio. Qual è dunque il problema di fondo che istituisce la tematizzazione di questo testo blondeliano? È anzitutto un problema che interessa ogni uomo necessariamente; è una sorta di ultimate concern ( secondo l'espressione coniata da P. Tillich ) che inerisce alla condizione umana dell'esistere. Non è dunque un problema generato dalla riflessione filosofica di secondo grado, dalla metafisica, secondo l'accezione blondeliana elucidata a varie riprese nel nostro testo. È invece un problema della vita e la sua assunzione a tema della riflessione filosofica contribuisce precisamente a piegare quest'ultima alla sua costitutiva curvatura sapienziale. D'altra parte la gestione di tale problema, anche se rientra di diritto nei compiti della ragione teoretica, appartiene originariamente e necessariamente al territorio della sperimentazione della prassi, ossia quel territorio instaurato dalla ragione pratica. C'è dunque una distinzione e una solidarietà tra l'ordine creato dalla ragione teoretica e quello creato dalla ragione pratica, nonché tra questo e l'ordine positivo, ossia l'ordine fenomenico istituito dalla ragione scientifica, e tecnica aggiungerei, per raccogliere l'ampiezza del termine " positivo " adoperato da Blondel. Questo schema nozionale della distinzione-solidarietà, che rappresenta forse una delle dimensioni più qualificate del punto di vista critico guadagnato da Blondel con l'Azione, e che ha inciso profondamente nella cultura filosofica francese successiva, rappresenta una costante del pensare blondeliano, la quale opera nei suoi approcci di filosofia della religione, nella critica a Loisy e, ai limiti del suo storicismo, nella diatriba sul " monoforismo " ( e più in generale sulla comprensione del rapporto tra natura e soprannaturale ), e infine nella stessa tetralogia che conclude la produzione filosofica del professore di Aix. Il problema centrale dell'Azione investe dunque la produzione del senso, ossia la creazione di ciò che non è, di ciò che non appartiene all'ordine dei fatti; in altri termini concerne ciò che la prassi umana e il suo principio animatore, la ragione pratica, è impegnata a realizzare: incorporare l'ordine ideale al reale ovvero piegare il reale a un'indicizzazione ideale, creare la sintesi del senso. A ben considerare, lo stesso problema emerge da una angolatura diversa, quella fornita dalla ricognizione " metafisica " della ragione teoretica. Anche su questo versante il problema è di capire come il fatto può essere elevato all'esponente del diritto, ossia come può lasciare trasparire la ragione del fatto, essendo questo il condensato del senso proprio attribuibile ai significati prodotti dalla ragione teoretica; o, in altri termini, e tenendo conto del referente prassistico della ragione teoretica, è in questione la possibilità di quel trascendimento dell'esperienza che istituisce in maniera significativa l'esperienza della prassi umana, la quale in tanto produce senso in quanto è in grado di arricchire la propria esperienza incorporando in essa ciò che la trascende, secondo la teleologia immanente alla volontà umana ( la ragione pratica ), la quale gestisce una finalità ideale con l'intento e l'aspirazione a " naturalizzare il possibile ". Ora, da un lato questo problema non è di ordine speculativo, ma appartiene all'ordine della vita; e dunque non è un problema sollevato dalla riflessione filosofica, la quale semmai lo enuncia riprendendolo dalla vita reale ed enunciandolo in termini formali, ma è immanente alla prassi di ogni uomo, è la domanda nella quale è in gioco non il senso dell'essere in generale, ma l'essere di quel senso che la prassi dell'uomo istituisce. Dall'altro il problema, e la domanda intorno a cui si svolge come intorno al suo filo conduttore il discorso dell'Azione, va formulato nei termini seguenti. Nella prassi effettiva che da luogo alla sintesi del senso, di cui appunto l'Azione ricostruisce le condizioni di possibilità e i principi istitutivi, la volontà ovvero la ragione pratica si espande necessariamente e ritorna a se stessa; in questo exitus e reditus va ravvisata la struttura precipua della prassi volontaria, la cui produzione non è transeunte, ma ha come suo referente intenzionale ( precisamente il referente intenzionale istituito dall'azione ) il Sé dell'azione, e dunque è immanente. È questa in definitiva la radice istitutiva del senso e dell' interesse ( dell'ultimate concerai della " volontà di potenza " ) posto in essere dall'azione. Il problema quindi è come sia possibile creare un'equazione tra questo exitus dell'azione che investe il fatto, il fenomeno, il reale, e questo reditus, in forza del quale l'azione qualifica se stessa in ordine al senso, ovvero in ordine all'ideale, al diritto ( al dover essere ). In effetti il senso si instaura propriamente in quel reditus, che esprime la ricaduta immanente e riqualificante dell'azione. È questo dunque il problema sul quale si progetta la riflessione di Blondel. Esso ricorda in qualche modo il problema del neoplatonismo, e in particolare di Piotino. Ma qui quel problema non viene posto nel contesto di un impianto metafisico, in forza del quale esso viene formulato in termini onto-teologici, ovvero in rapporto a Dio ( l'Essere supremo, l'Uno ). In verità più che questo riferimento all'antica filosofia e alla sua problematica centrale, mi pare che il problema e il tema blondeliano dell'Azione si sia misurato a fondo con un referente più ravvicinato, e cioè con la filosofia kantiana. Blondel sembra aver preso sul serio il problema cruciale della Critica del Giudizio, ossia il problema della finalità della natura e nella natura. Solo che egli, cercando di rigorizzare quel problema e sciogliendolo dall'originario quadro del rapporto tra le facoltà ( il Giudizio, l'intelletto, la ragione ), arriva a capovolgere la sequenza argomentativa delle tre Critiche kantiane. Egli in effetti impianta il problema del senso ultimativo dell'umano, ossia la celebre domanda " chi è l'uomo? " che suggella e motiva ultimamente la filosofia kantiana, proprio a partire dal referente che possa rendere conto sia della teleologia del mondo umano, sia della struttura istitutiva del senso stesso, cioè quell' exitus-reditus che si incardina nell'azione. In tal modo il motivo culminante della Critica del Giudizio, ossia il motivo di una ragione ordinatrice e progettante universale afferrabile attraverso la struttura non conoscitiva ma " riflettente " della facoltà del Giudizio, riceve un'inedita impostazione. Nel suo contesto non la ragione, ma la sua radice trascendentale, cioè l'azione, diventa il perno di una teleologia universale, pur raccogliendo l'istanza centrale che animava la Critica del Giudizio, ossia l'istanza di decentrare lungo l'asse etico-teleologico il soggetto e la ragione umana finita. Anche nel quadro dell'Azione la teleologia universale di cui è titolare ultimativamente l'azione in sostanza decentra il soggetto umano finito e lo apre alle dimensioni di senso del finito capax infiniti. Beninteso per cogliere adeguatamente questa problematica è necessario mettere a fuoco la nozione blondeliana di azione. Il che peraltro non è agevole, perché nello scritto del 1893 il termine ricorre con accezioni plurime e niente affatto univoche, e d'altra parte è estremamente facile operare una duplice identificazione che allontana da una congruente intelligenza della nozione blondeliana di azione e che tuttavia ricorre di frequente nell'interpretazione di questo testo. La prima identificazione tende ad equiparare l'azione ( che viceversa andrebbe concepita in definitiva come actus essendi ) alla volontà, che è la facoltà titolare della volizione ed è secondaria rispetto a quell' " atto d'essere ". La seconda invece tende ad appiattire l'azione sull'atto e sul risultato di essa; sul terreno dell'azione come atto ovvero attuazione dell'azione si istituisce quella dialettica dell'insoddisfazione e della penuria ontologica nella quale si è visto l'apporto più originale della filosofia blondeliana; essa ricorda da vicino la dialettica platonica dell'????. Viceversa il discorso blondeliano fa leva in realtà su un'altra dialettica, quella della sovrabbondanza e della ricchezza ontologica del senso possibile, la quale precisamente viene impiantata sul perno dell'azione quale costituente dell'atto che incarna l'azione realizzata. È decisivo per la comprensione della nozione blondeliana di azione afferrare il contesto nel quale essa viene messa a fuoco; esso è dato dall'esperienza della scienza, che nell'impostazione di Blondel non risulta avulsa dalla questione centrale del senso, come tutto sommato lasciavano credere le teorie, egemoni allora sotto il profilo culturale e tuttora caratterizzanti la nostra stessa congiuntura epocale, che tenevano a distanza le scienze della natura, ossia i saperi responsabili del dominio tecnico, dalle scienze dello spirito, ossia i saperi congruenti con il mondo dei significati e del senso umano. C'è da aggiungere che la nozione blondeliana di azione sotto il profilo terminologico non ha precedenti nella storia della filosofia, mentre sotto il profilo nozionale si possono ravvisare molti modelli ricorrenti in ambito storico-filosofico, come, tra gli altri, la monade leibniziana ( concepita in termini di forza-energia ), la ragione kantiana, l'Io di Fichte e la stessa autocoscienza immediata tematizzata da Schleiermacher. Ora Blondel valorizza in maniera decisiva e peculiare l'esperienza della scienza, tentando di ricostruire a partire da essa, così come aveva fatto analogamente Kant, l'intero universo del senso; ma per fare ciò c'era bisogno di un fulcro teoretico adeguato, che appunto viene identificato e afferrato con la nozione di azione. In concreto nella fase iniziale del decorso teoretico dell'Azione, laddove dopo aver chiarito i preliminari del problema si trattava di tematizzare in maniera congruente i suoi termini stessi, focalizzando nella costellazione del " senso morale " la sua radice trascendentale ( appunto l'azione ), cioè la ragione ultimativa del senso stesso, Blondel prende le mosse dall'esperienza della scienza, la quale avanza la pretesa di totalizzare il senso. Tale pretesa viene presa sul serio; Blondel accetta la sfida che proviene dalla scienza e si impegna a saggiarne la consistenza sviluppando una duplice linea argomentativa. Da un lato sviluppa una sorta di ricognizione dell'esperienza della coscienza scientifica, mettendo in risalto i suoi significati, nel cui orizzonte la ragione scientifica pretende racchiudere il senso umano e quindi risolvere il grande problema che sollecita la riflessione blondeliana. Dall'altro egli svolge un'indagine sul valore della scienza, ossia sulla sua " ragione " istitutiva, sulla sua pretesa e sulla sua coerenza; da questa indagine emerge un rapporto tra la scienza e l'azione che permette l'esatta focalizzazione di questa categoria blondeliana. Il fulcro dell'argomentazione consiste in questo. Dall'esperienza della scienza si ricava un indice che denota l'azione, non in quanto la scienza è intimamente promossa dall'intenzione di dominio tecnico della natura, ma in quanto quell'esperienza ha una sua ragione fondante che la eccede e la trascende. L'azione è precisamente l'istanza che istituisce il terreno di cultura del conoscere scientifico e costituisce l'esperienza della scienza. La ragione scientifica, e i suoi significati cui Blondel riconosce la forza di strutturare il mondo umano ( appunto quello che chiamiamo il mondo tecnico-scientifico ), va ultimamente riferita a una ragione fondante che la veicola e la eccede. È su tale ragione fondante che si appunta l'indagine circa l'azione. Qual è esattamente il significato di questa argomentazione blondeliana? Operando questa regressione, che ha tutti i caratteri di una " deduzione trascendentale " della categoria dell'azione, Blondel non intende abolire la specificità del conoscere e delle sue motivazioni proprie. Non si tratta infatti in alcun modo, come ha inteso una certa interpretazione spesso ricorrente nella letteratura su Blondel, di ricondurre ultimamente il conoscere alla volontà, e in definitiva alla libertà. Viceversa l'argomento blondeliano col quale si mette in evidenza l'indice dell'azione mira semplicemente a tematizzare in maniera congruente l'assenza di fondamento che si evidenzia alla base ( appunto a fondamento ) dell'esperienza scientifica; tale esperienza non è in alcun modo autofondata, e su questa assenza di fondamento, che evidenzia una sporgenza, si vuole indagare per mettere in tema la sporgenza postulata nell'azione, ossia nella prassi, dell'esperienza scientifica. La sequenza argomentativa può dunque essere espressa nel modo seguente: dall'esperienza della scienza si procede al riconoscimento della sua qualità prassistica; da quest'ultima si procede al riconoscimento della volontà ( una vera e propria " volontà di potenza " ) soggiacente alla prassi scientifica, una volontà che anima l'interesse della prassi scientifica e del conoscere cui quella da luogo; da questa " volontà di potenza ", poi, si passa a definire il terreno proprio di una scienza dell'azione, che è poi l'intento teoretico e critico congruente con la tematizzazione di questo testo blondeliano. Per afferrare in maniera efficace la nozione di azione congruente con questo livello che costituisce il fulcro tematico e problematico insieme dell'Azione, Blondel ricorre all'elucidazione dell'area soggettiva. Il soggettivo cosi inteso va tenuto a distanza sia dalla soggettività conoscente, che ha svolto un ruolo importante in tutta una fase della storia della filosofia, sia dal soggetto autocentrato, che pure ha incarnato una propensione, non so se prevalente ma certo importante, del pensiero della modernità. In effetti il soggettivo che qualifica l'ambito nozionale dell'azione in senso blondeliano è anteriore ovvero preliminare alla divaricazione tra soggetto e oggetto ( del conoscere ), ed è essenzialmente ancorato alla finitezza, in quanto è qualificato strutturalmente dalla sproporzione e dal decentramento esistentivo. Piuttosto questo soggettivo blondeliano ricorda in qualche modo la tematica schleiermacheriana della " autocoscienza soggettiva ", la quale precisamente viene svolta portando in luce l'autocoscienza immediata come definizione più appropriata dell'area del Sé in quanto distinta dall'Io. Blondel definisce leibnizianamente il soggettivo, in quanto profilo ontologico essenziale e universale, in termini di percezione, questa viene distinta dalla modalità dell'appercezione, ossia dell'azione già contratta nei termini e nelle modalità della coscienza e insieme, essendo le due modalità reciprocamente condizionate, della volizione ovvero della libertà che si progetta. In definitiva così intesa la nozione di soggettivo, che già in prima approssimazione perimetra l'area nozionale dell'azione, è equivalente alla categoria di " sentimento " o di autocoscienza immediata, così come ricorre in un altro contesto teoretico cui ho fatto cenno. Anche se bisogna aggiungere che Blondel non si preoccupa molto di sviluppare adeguatamente questi passaggi cruciali della sua argomentazione, e soprattutto di calibrare la portata nozionale dei concetti e delle categorie impiegate. In ogni caso il passaggio argomentativo decisivo consiste nella definizione del soggettivo in termini di azione. L'azione è il referente di soggettivazione di ogni attuazione del senso, sia essa riconducibile alla coscienza e ai significati ( conoscitivi ) che essa plasma e realizza sia essa riferibile all'appetizione volontaria e al senso etico che essa progetta e intende teleologicamente. Sotto questo profilo l'azione va definita come actus essendi, ed esibisce i caratteri ontologici che erano propri della dynamis-forza di Leibniz. L'azione non è il fatto, ma è la condizione del fatto, dell'attuazione, così come la coscienza soggiacente al lavoro della scienza non si qualifica in funzione dei fenomeni oggettivi, ma esibisce una sporgenza nei confronti di questi. Questa visuale, che appartiene al nucleo argomentativo più profondo e più qualificante dell'Azione, è decisiva per l'afferramento del Sé cui si soggettiva il valore e il senso, e per la soluzione di quel problema di fondo che sollecita, come abbiamo visto, Blondel in una direzione obiettivamente alternativa rispetto a quella percorsa da Nietzsche. L'azione dunque è la struttura trascendentale del Sé cui si soggettiva il fatto e il valore, il significato e il senso; essa è la condizione di possibilità dell'uno e dell'altro, in quanto sia il fatto sia il senso sono costituiti, e dunque contraggono e specificano precisamente l'azione e qualificano la sua area di soggettivazione ( il suo Sé ). Da una visuale complementare possiamo dire altresì che il costituente del fatto e del senso è appunto l'azione, la quale nel fatto ( nell'attuazione, nell'azione determinata ) si determina e si qualifica quale Sé, quale referente di un reditus gravido di valorizzazione. Il passaggio argomentativo che qui tento di mettere a fuoco è talmente delicato, e tuttavia così decisivo nell'economia del discorso blondeliano, che mette conto di elucidarlo da un'altra angolatura. Il problema che promuove lo sforzo blondeliano di riflessione e motiva la sua opzione metodica peculiare, la quale fa perno notoriamente sull'azione, è quello del soggettivo, come ho già chiarito. Il soggettivo in quanto coscienza, ossia in quanto dinamismo mentale, ha il suo culmine nel livello supremo dell'attualità soggettiva, che precisamente Blondel chiama l'azione. L'azione è appunto l'apogeo del soggettivo. Esso sporge dalla marea ovvero dalla totalità del fenomeno soggettivo, di cui è la verità. Si potrebbe forse in proposito, stabilite le debite differenze, addurre un'analogia con lo spirito assoluto quale categoria hegeliana: esso è la verità di tutte le forme pregresse dello spirito, della sua storia. Così all'altezza di quella sporgenza del soggettivo, l'azione, si gioca la verità o, meglio, il senso di tutte le forme attuative e specificanti dell'azione medesima. Ciò significa che l'azione, così intesa, definisce quell'istanza che costituisce il senso in quanto arricchisce il Sé e lo qualifica in maniera immanente, istituendolo come ciò che ha in sé il proprio fine, come vera e propria entelechia, e mantenendolo a distanza da ciò che ha il proprio fine in altro. L'azione dunque è il dinamismo del soggettivo, il suo actus essendi. Essa è colta non tanto dalla visuale dell'intelletto, o se si preferisce della ragione teoretica ( della coscienza ), bensì dalla visuale della volontà, o meglio della ragione pratica ( della libertà ). Ma ciò non vuol dire affatto che il nodo problematico che interessa Blondel sia il rapporto tra volontà ( appetizione, libertà ) e intelletto ( conoscenza ), e quindi in definitiva lo snodo teoretico di libertà e conoscenza. Significa invece che il suo problema cruciale è la chiarificazione del soggettivo, ossia, come ho cercato di mettere in evidenza, la questione che investe la polarità costitutiva del senso, dunque il suo titolare ( o beneficiario ) ultimativo, qualunque sia la specificazione secondo cui il senso ricorre. Ovviamente questo senso può essere articolato in sfere regionali, quali la sfera dei significati conoscitivi, quella del senso etico, quella del senso religioso e della sua opzione relativa all'unico necessario, nella quale ne va dello stesso Sé che istituisce il senso e della sua libertà o, come preferisce dire Blondel, della sua vita e della sua morte. Il problema del rapporto tra volontà e intelletto, o tra intenzione etica e coscienza ( dinamismo mentale ), è un problema a valle, in sostanza un problema subordinato a quell'altro. Esso nell'argomentazione blondeliana è sì presente, ma solo come questione della visuale più adatta per affrontare la comprensione dell'azione e del soggettivo. Beninteso Blondel è convinto che la visuale più propizia per avviare a quella tematizzazione è offerta dal dinamismo del volere e dell'appetizione, non dalla ricognizione della statica ( le strutture ) della coscienza. Tuttavia il problema ultimo è quello della costituzione ( trascendentale ) del senso, ossia quello della sua indicizzazione " soggettiva ". L'azione è dunque quell'energia " soggettiva " ( nel senso appena elucidato ) che promuove la creazione del mondo simbolico dei significati e del senso. Questa creazione, poi, è mediata dal lavoro dell'immaginazione, anche se Blondel su quest'ultimo punto non insiste, anzi probabilmente non avverte le implicazioni contenute nella sinergia di azione e immaginazione, di simboli e di immaginario. Egli viceversa insiste sull'elemento organico che struttura lo spiegamento dell'azione, e conseguentemente sulla " sinergia interiore " ( precisamente tra il polo soggettivale dell'azione e il polo organico ) che presiede alla costituzione della vita individuale e collettiva. Obiettivamente la produzione del mondo simbolico, inteso come mondo della cultura, e dunque, diremmo oggi, come semiosfera provvista di un proprio dinamismo, poneva a Blondel una duplice serie di problemi, esattamente in ordine al suo senso. La prima serie di questioni, che poi stabiliscono il filo conduttore dello sviluppo della riflessione intorno a quella che ho chiamato l'antinomia dell'azione, investe la problematizzazione del simbolico, e del connesso immaginario, aggiungerei, con la precisazione appena fatta circa la scarsa rilevanza di quest'ultimo nel contesto dell'Azione. Ebbene la creazione del mondo simbolico è radicalmente ancipite, potendo dar luogo da un lato all'illusione, dall'altro al senso reale. In effetti c'è tutta una linea discorsiva che Blondel segue per neutralizzare le illusioni connesse alla dinamica dell'azione, a cominciare dall'illusione nihilistica che recide alla radice la stessa problematica dell'azione. Tuttavia la linea prevalente, che costituisce poi la pars construens, svolge il motivo della creazione del senso reale. Ed è su questa linea di discorso che incontriamo la tematizzazione, così tipica da raccogliere quasi in esclusiva l'attenzione di molti interpreti, del simbolico ( del senso prodotto ) quale rinvio analogico a un referente non antropologico, altro ( l'unico necessario ) oppure, data la persistente intrascendibile ambiguità della produzione di senso dell'azione, quale proiezione-alienazione di ciò che è antropologico, e dunque autoreferenza antropologica ( è il tema della superstizione ). Blondel vede in questa dinamica autoreferenziale dell'azione la fonte dell'illusione e dell'alienazione umana, e in definitiva l'origine del non-senso, che poi implica una chiusura autocentrata del soggettivo, nella quale viene depotenziata e quasi deviata l'energia istitutiva dell'area soggettiva dell'azione, tanto che si può parlare di " morte dell'azione ". La seconda serie di questioni riguarda il discrimine tra il senso e il non-senso. In proposito si può sintetizzare la posizione blondeliana in questi termini: il non-senso è il precipitato dell'inerzia dell'azione, ossia della caduta di tensione del dinamismo di cui fruisce il soggettivo; per effetto di tale inerzia il soggettivo decade nell'oggettivo, e in ultima analisi l'azione non adegua le potenzialità iscritte nella propria tensione; insomma non realizza il t????; della sua ??te???e?a. Peraltro la scienza dell'azione, che è poi l'ambito specifico che Blondel intende aprire alla riflessione filosofica, ha come obiettivo e argomento proprio la ricerca dell'equazione dell'azione. Essa, in altre parole, mira a determinare il termine, cioè l'incognita da ricercare, di questa attualità ( atto ) che è l'azione. In effetti questa forza ha fin dall'inizio, ossia intrinsecamente ( e non soltanto ai limiti della sua espansione, laddove la tensione del suo " conatus " non trova soddisfazione in tutto il finito ), un vettore che si manifesta a ogni momento del suo tendere e del suo sviluppo. Questo momento può essere detto conatus, volendo adibire una categoria di ascendenza spinoziana e leibniziana. Nella determinazione di questa equazione emerge in maniera efficace l'impostazione caratterizzante del discorso blondeliano, quella impostazione che ho qualificato come trascendentale. Per Blondel infatti quella determinazione mette in funzione non ciò che è fuori della volontà, ossia dell'azione ( qui la volontà sta metonimicamente per azione ), ma ciò che è già sempre presente in essa come sua condizione di possibilità. E dunque quella determinazione non può afferrare ciò che è costituito dall'azione, il reale voluto, bensì deve cogliere il fatto di volere, il costituente della realizzazione voluta. In tale contesto si collega kantianamente la necessità e la possibilità ( il contingente ), mettendo in tema la condizione di possibilità e non già la necessità incondizionata. Sulla base di tale impostazione va letta anche l'affermazione secondo cui la sostanza dell'umano è l'azione, ossia quello che l'uomo fa, il factum. Questa concezione dell'umano va resa perspicua sulla base del raccordo che Blondel stabilisce tra l'azione in senso trascendentale, ossia l'actus essendi che istituisce l'area del soggettivo, e l'azione come factum, come effettuazione, ciò che è fatto; quest'ultimo rappresenta la sedimentazione prassistica dell'azione. 5. I problemi aperti Se è esatta l'ipotesi avanzata, che cioè l'Azione costituisce un'opera di lavoro critico e non dottrinale, anche la questione del religioso ( e quella connessa del soprannaturale ) va affrontata in questa medesima chiave. Siamo di fronte a una questione assai delicata che ha polarizzato l'attenzione dei lettori di questo testo, ma forse con una sfasatura di prospettiva. Perché anche questo tema del religioso va inquadrato nel punto di vista elaborato da Blondel in quest'opera, e non bisogna correre il rischio di svisarne l'impostazione leggendo il discorso blondeliano dal suo tratto conclusivo, dimenticando tutto il decorso precedente, che pure offre le coordinate attendibili per una comprensione del religioso che Blondel immagina assolutamente nuova, almeno per l'approccio filosofico. Ora precisamente mi pare opportuno indicare in sintesi gli indici di questa novità, senza dilungarmi a discutere i particolari di questa comprensione del religioso, e tanto meno le interpretazioni che ne sono state date. Anzitutto il riferimento del discorso sull'azione al religioso, che Blondel afferra, a torto o a ragione, nel soprannaturale come suo tratto saliente, avviene in termini di postulazione e all'interno di una sequenza argomentativa che mette in funzione la logica propria della dialettica trascendentale. In verità il meccanismo innescato dall'azione, che ha la proprietà di creare l'ingranaggio tra parti e tutto, è abitato da una postulazione che rinvia all'assoluto e all'infinito custodito nell'esperienza religiosa. Giustamente Blondel non definisce questo referente in termini formali, ma usa un'espressione di evidente ascendenza evangelica, l'unico necessario, che mentre denota il referente della postulazione iscritta nel meccanismo dell'azione, connota l'esperienza religiosa. In concreto la sequenza argomentativa che fa emergere quella postulazione è la seguente. Anzitutto si mette in chiaro la pluralità della catena dei condizionati, entro i cui ferrei nessi si svolge lo stesso dinamismo dell'azione. Poi si evidenzia la formazione sistemica cui dà luogo la concatenazione dei condizionati; per effetto di essa l'azione istituisce diversi " sistemi " con confini sempre più ampi nel senso dell'universale. Infine si fa emergere l'antinomia presente nel " sistema " globale dell'azione, puntando l'obiettivo sulle sue opposizioni, contraddizioni e polarità. In forza di tale antinomia affiora la postulazione di un incondizionato, il quale tuttavia, secondo la celebre distinzione kantiana della dialettica trascendentale, è pensato ma non è conosciuto. Ed è sostanzialmente per tale motivo che il discorso blondeliano dell'Azione mette capo all'unico necessario e al religioso in termini di possibile necessario e non di realtà di fatto, e intende elaborare uno schema nazionale per pensare filosoficamente l'esperienza religiosa, ma non vuole e non può in alcun modo sollevare l'esperienza religiosa al rango di struttura filosofica da impiantare nel cuore della riflessione. In secondo luogo, e coerentemente con quanto appena indicato, Blondel imposta il problema del religioso in termini di possibilità; e ciò perché in sede filosofica l'unico accesso al religioso, che beninteso appartiene all'ordine del fatti, e invero dei fatti creati dalla dinamica dell'azione, con tutta la loro carica di ambiguità in ordine al senso o all'illusione, è offerto dal riconoscimento della sua possibilità. È vero che Blondel preferisce la via apagogica e indiretta per la fondazione della possibilità del religioso; e ciò perché la sua preoccupazione prevalente è di carattere " apologetico ", avendo egli come interlocutori gli intellettuali che in nome della maturità promossa dal sapere e dalla scienza finiscono per circorscrivere l'umano ( per Blondel in definitiva l'azione ) nell'orizzonte dei fatti, e convertono l'impotenza dell'azione umana ad adeguare le due volontà ( quella volente e quella voluta ) in impossibilità che quella adeguazione possa avvenire per altra via, appunto la via praticata dall'esperienza religiosa. Tuttavia proprio questa elaborazione del possibile iscritto nelle profondità dell'azione, di un possibile addirittura necessario, secondo la determinazione definitiva messa a punto dal discorso blondeliano, costituisce senza dubbio un apporto consistente per una riflessione sull'esperienza religiosa e sulle sue condizioni di possibilità. Esso presenta un articolato contributo critico per una filosofia della religione, che solo parzialmente è stato sfruttato dallo stesso Blondel ( per esempio con la Lettera del '96 ), e che comunque deve essere necessariamente inquadrato nelle categorie fondamentali elaborate dall'Azione. In terzo luogo la questione del soprannaturale, che ha poi assorbito tanta parte della riflessione blondeliana, e che in particolare nella discussione intorno all'Azione ha portato fuori strada molti interlocutori e lettori, va circoscritta in maniera puntuale, anche in base a quanto ho già detto in proposito. Ora il soprannaturale denota un movimento con vettore inverso al movimento del volontario; esso è afferente a un'iniziativa altra rispetto all'iniziativa della volontà. Si tratta di una iniziativa talmente altra che, pur potendosi raccordare a una condizione di possibilità presente nel dinamismo dell'azione, e anzi a una possibilità necessaria di quest'ultimo ( tanto da configurare per l'azione una questione di vita o di morte ), ha bisogno di una mediazione per attivare e tradurre in realtà di fatto quella possibilità. Abbiamo qui un altro nucleo importante, anche se appena abbozzato nel discorso di Blondel, di una filosofia della religione. Peraltro egli ha chiaramente presente che il religioso si da unicamente e intrascendibilmente in una esperienza: " Se non possiamo darne una dimostrazione integrale di fronte alla ragione, non possiamo neppure avere la competenza di negarlo senza averne fatta l'esperienza. E quando ne abbiamo fatta l'esperienza, in quest'ultima non troviamo che ragioni positive per affermare il soprannaturale ". E di fatto la riflessione filosofica attivata in questo testo blondeliano si propone ultimamente proprio il compito di pensare quell'esperienza, di erogarne una intelligenza compatibile con lo statuto e il rigore della critica filosofica e della scienza della prassi, di inquadrarla in ultima istanza nella produzione umana del senso e nelle sue condizioni di possibilità. L'Azione Introduzione Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi A Leon Ollé-Laprune maìtre de conférences alla Scuola Normale Superiore in segno di riconoscenza, di devozione e di rispetto Introduzione La vita umana ha o non ha un senso? E l'uomo ha un destino? Io agisco, ma senza neanche sapere che cos'è l'azione, senza aver desiderato di vivere, senza conoscere esattamente né chi sono né addirittura se sono. Questa apparenza di essere che si agita in me, queste azioni irrisorie e fugaci di un'ombra, ebbene oso dire che esse portano in loro una pesante responsabilità per l'eternità, e che, anche a prezzo del sangue, non posso comprare il nulla, perché per me non esiste più: sarei dunque condannato alla vita, condannato alla morte, condannato all'eternità! Ma come, e con quale diritto, se non l'ho né saputo né voluto? Farò chiarezza su tutto. Se c'è qualcosa da vedere, ho bisogno di vederlo. Verrò a sapere, forse, se questo fantasma che sono per me stesso, con questo universo che porto nel mio sguardo, con la scienza e la sua magia, con lo strano sogno della coscienza, ha qualche solidità o meno. Scoprirò senza dubbio ciò che si nasconde nei miei atti, in questo fondo ultimo in cui, senza di me, malgrado me, io subisco l'essere e mi ci abbarbico. Saprò se del presente e del futuro, quali che siano, ho una conoscenza e una volontà sufficienti per non sentirvi mai la tirannia. Il problema è inevitabile; l'uomo lo risolve inderogabilmente; e questa soluzione, giusta o sbagliata, ma volontaria e al tempo stesso necessaria, ognuno la porta nelle proprie azioni. Ecco perché bisogna studiare l'azione: lo stesso significato del termine e la ricchezza del suo contenuto si dipaneranno a poco a poco. È bene prospettare all'uomo tutte le esigenze della vita, tutta la pienezza nascosta delle sue opere, per rafforzare in lui, con la forza di affermare e di credere, il coraggio di agire. I. Stando all'evidenza immediata, l'azione nella mia vita è un fatto, il più generale e il più costante di tutti, l'espressione in me del determinismo universale; essa si produce anche senza di me. Più che un fatto, è una necessita, che nessuna dottrina nega, perché questa negazione esigerebbe uno sforzo supremo, che nessun uomo evita, perché il suicidio è ancora un atto; essa si produce anche malgrado me. Più che come una necessità, spesso l'azione mi appare come un obbligo; è indispensabile che venga prodotta da me, anche quando esige da me una scelta dolorosa, un sacrificio, una morte: non solo vi consumo la mia vita corporea, ma vi sacrifico sempre degli affetti e dei desideri che reclamerebbero tutto, ognuno per sé. Non si va avanti, non si impara, non ci si arricchisce, se non precludendosi tutte le vie tranne una, se non impoverendosi di tutto quello che si sarebbe potuto sapere e guadagnare in altro modo. C'è un rimpianto più sottile di quello dell'adolescente obbligato, per entrare nella vita, ad arginare la sua curiosità con una specie di paraocchi? Ogni decisione taglia fuori una infinità di atti possibili. A questa mortificazione naturale nessuno sfugge. Avrò almeno la facoltà di fermarmi? No, bisogna andare avanti. Potrò sospendere la decisione, per non rinunciare a niente? No bisogna impegnarsi, altrimenti si perde tutto; bisogna compromettersi. Non ho il diritto di stare in sospeso, altrimenti non ho più il potere di scegliere. Se non agisco di mia iniziativa, c'è qualcosa, in me o fuori di me, che agisce senza di me; e ciò che agisce senza di me, di solito agisce contro di me. La pace è una sconfitta; l'azione non sopporta altra dilazione che la morte. È dunque necessario " di buon grado " che io metta a disposizione testa, cuore e braccia, altrimenti mi vengono presi. Se rifiuto la mia libera dedizione, cado in schiavitù; nessuno fa a meno di idoli: i devoti come i libertini. Un pregiudizio di scuola o di partito, una parola d'ordine, una convenienza mondana, una passione, ce n'è abbastanza perché vada persa ogni inazione, perché ogni libertà venga sacrificata; ecco per che cosa spesso si vive e si muore! Ma almeno mi rimarrà la speranza di comportarmi, se lo voglio, in piena luce e di lasciarmi guidare solo dalle mie idee? No. La prassi, che non sopporta alcun indugio, non comporta mai una chiarezza totale; la sua analisi completa non è possibile per un pensiero finito. Ogni regola di vita che sia fondata unicamente su una teoria filosofica e su principi astratti sarebbe temeraria: non posso procrastinare l'agire finché non sia apparsa l'evidenza, e ogni evidenza che brilla allo spirito è parziale. Un mera conoscenza non e mai sufficiente a metterci in azione, perché non ci afferra interamente: in ogni atto c'è un atto di fede. Potrò almeno realizzare quello che ho deciso, qualunque cosa sia, come l'ho deciso? No. Tra quello che so, quello che voglio e quello che faccio c'è sempre una sproporzione inspiegabile e sconcertante. Le mie decisioni spesso vanno al di là dei miei pensieri, e i mie atti al di là delle mie intenzioni. Talvolta non faccio tutto quello che voglio; talaltra, quasi a mia insaputa, faccio quello che non voglio. E queste azioni che non ho previsto completamente, che non ho comandato interamente, dopo che sono compiute pesano su tutta la mia vita, e sembra che agiscano su di me più di quanto io non abbia agito su di esse. Mi sento come se fossi loro prigioniero; talvolta si rivoltano contro di me, come un figlio ribelle al padre. Hanno fissato il passato, incidono sul futuro. Un primo sguardo sulla mia condizione mi rivela l'impossibilità di astenermi e di risparmiarmi, l'incapacità di soddisfarmi, di essere autosufficiente, di affrancarmi. Che nella mia vita vi sia costrizione e, per così dire, oppressione, non è una chimera o un gioco dialettico, è la brutale esperienza quotidiana. Alla scaturigine dei miei atti, nell'uso e dopo l'esercizio di ciò che chiamo la mia libertà, mi sembra di sentire tutto il peso della necessità. In me niente vi sfugge: se tento di sottrarmi alle iniziative decisive, sono reso schiavo per non avere agito; se vado avanti, sono soggetto a ciò che ho fatto. Nella prassi nessuno elude il problema della prassi; e ognuno non solo lo pone, ma inevitabilmente lo risolve modo proprio. È proprio questa necessità che bisogna giustificare. E che significa giustificarla, se non mostrare che essa è conforme all'aspirazione più intima dell'uomo? Perché io non ho coscienza della mia schiavitù se non immaginando, desiderando una totale liberazione da essa. I termini del problema dunque sono nettamente opposti. Da una parte tutto quello che domina e opprime la volontà; dall'altra la volontà di dominare tutto, o di poter ratificare tutto: perché non c'è essere dove non c'è che costrizione. Come risolvere allora il conflitto? Da quale dei due termini del problema bisogna partire come dall'incognita? È alla volontà buona che si darà la precedenza, come se essa scommettesse su una cosa certa e infinita,1 senza poter conoscere, prima della fine, che mentre sembra sacrificarvi tutto, in realtà non ha speso nulla per guadagnarla? O viceversa per prima bisogna considerare soltanto ciò che è inevitabile e necessitato, rifiutando ogni concessione, respingendo tutto quello che può essere respinto, per vedere, con la necessità della scienza, dove in definitiva ci conduce questa necessità dell'azione, salvo poi mostrare senz'altro, in nome dello stesso determinismo, che la volontà buona ha ragione? La prima strada si impone, e può essere praticata da tutti. È la via pratica. È necessario anzitutto definirla, se non altro per salvaguardare la parte di coloro, i più numerosi e spesso i migliori, che non possono fare altro che agire, senza discutere l'azione. Peraltro, come si dimostrerà, nessuno è esonerato dall'imboccare questa via diretta. Ma sarà opportuno dimostrare come diventi legittimo un altro metodo per confermare il primo e per anticipare le rivelazioni finali della vita, come esso sia necessario per la soluzione scientifica del problema: l'oggetto del presente lavoro deve essere precisamente questa scienza della prassi. II Prima di discutere le esigenze della vita, anzi proprio per discuterle, è necessario essersi sottomessi a esse. Ma questo primo controllo è sufficiente per giustificarle? E si riuscirà, senza alcuna fatica del pensiero, con la sola esperienza, uguale per tutti, a scoprire la soluzione certa, che liberi la vita da ogni tirannia e soddisfi le coscienze? Io sono e agisco, anche mio malgrado; e mi vedo obbligato, sembra, a rispondere di tutto ciò che sono e che faccio. Accetterò dunque senza ribellarmi questa costrizione che non posso abolire, perché questa docilità effettuale è l'unico metodo diretto di verifica: in effetti per quanto in apparenza vi opponga resistenza, nulla potrebbe esonerarmi dall'obbedirvi. Non ho quindi altra risorsa che fare credito; ogni tentativo di insubordinazione, non sottraendomi affatto alla necessità dell'azione, costituirebbe una incoerenza sia rispetto alla scienza sia rispetto alla coscienza. Non lo si dirà mai abbastanza: nessuna difficoltà di fatto, nessun dubbio speculativo può sottrarre legittimamente chiunque a questo metodo pratico che sono obbligato e deciso ad adottare innanzitutto. Si richiede testa, cuore e braccia: eccomi pronto; facciamo l'esperimento. L'azione è una necessità; agirò. Spesso l'azione mi appare come un obbligo: obbedirò. Tanto peggio se è un'illusione, un pregiudizio ereditario, un residuo dell'educazione cristiana: ho bisogno di una verifica personale, e la farò a ogni costo. Nessun altro può fare al mio posto questo controllo; ne va di me e del mio tutto; è la mia persona e tutto me stesso che metto in gioco nell'esperimento. Oltre noi stessi non abbiamo altro; e le prove autentiche, le vere certezze sono quelle che non si comunicano. Viviamo soli come moriamo soli; gli altri non c'entrano. " Ma se è impossibile tentare l'esperimento per procura, non sarebbe sufficiente farlo a livello di progetto, con una visione dello spirito? " Sono comici tutti quei teorici della prassi che osservano, deducono, discutono, legiferano su quello che non fanno. Il chimico non ha la pretesa di produrre l'acqua senza idrogeno e senza ossigeno. Io non pretenderò di conoscermi e di mettermi alla prova, di acquisire la certezza o di valutare il destino dell'uomo, senza gettare nel crogiolo l'uomo intero che porto in me. Questo organismo di carne, di appetiti, di desideri, di pensieri di cui sento perennemente l'oscuro lavorio è un laboratorio vivente: ecco dove deve formarsi la mia scienza della vita. Tutte le deduzioni dei moralisti sui fatti più notevoli, sui costumi e sulla vita sociale, di solito sono artificiose, anguste, povere. Agiamo, e lasciamo da parte la loro alchimia. " Ma vi sono dubbi, oscurità, difficoltà. " Peggio ancora; bisogna andare avanti nonostante tutto, per sapere come regolarsi. Il vero rimprovero che si muove alla coscienza non è di non parlare abbastanza, ma di esigere troppo. Del resto a ogni passo basta il suo punto d'appoggio; ed è sufficiente un barlume, un appello confuso perché mi diriga dove presagisco qualcosa di quello che cerco, un sentimento di pienezza, una luce sul ruolo che devo svolgere, una conferma della mia coscienza. In piena notte non ci si ferma in aperta campagna: se accampassi come pretesto le tenebre di cui mi sembrano circondate le necessità e i doveri pratici, per non dare loro alcun credito e non sacrificarvi nulla, verrei meno al mio metodo; e invece di scusarmi mi condannerei, se osassi biasimare quello che questa oscurità nasconde, o me ne facessi scudo spudoratamente per disertare l'esperienza. Anche lo scienziato è costretto spesso a pagare il prezzo dell'audacia e a mettere a rischio la materia forse preziosa che ha in mano; egli non sa in anticipo quello che cerca, e tuttavia lo cerca; proprio precorrendo i fatti, egli li raggiunge e li scopre; non sempre aveva previsto quello che trova; e non se lo spiega mai del tutto, perché non visita mai, nella loro profondità più recondita, le officine della natura. Questa materia preziosa che debbo esporre sono io stesso, perché non posso fare la scienza dell'uomo senza l'uomo. Nella vita vi sono continuamente esperimenti belli e pronti, ipotesi, tradizioni, precetti, doveri che dobbiamo semplicemente verificare: l'azione è questo metodo di precisione, questa prova di laboratorio in cui, senza mai comprendere nei particolari le operazioni, ricevo la risposta certa che nessun artificio dialettico può surrogare. Qui si dà la competenza: non importa se costa caro. " Ma poi non c'è equivoco e incoerenza in questo ordinamento di vita? se bisogna sempre scegliere tra diversi partiti, perché sacrificare questo a quello; non si ha il diritto, per non dire il dovere, di sperimentare tutto? " No; non c'è ne ambiguità né incoerenza quando uno, fedele alla generosità che l'impresa richiede e preferendo la bontà del vivere all'orgoglio del pensare, si consacra senza mercanteggiare alla coscienza e alla sua semplice testimonianza. La sperimentazione morale, come ogni altra sperimentazione, deve èssere un metodo di analisi e di sintesi: il sacrificio consiste in questa analisi reale la quale, mortificando gli appetiti troppo imperiosi e troppo noti a tutti, mette in evidenza una volontà superiore, che sussiste solo nell'opporre loro resistenza. Questo sacrificio non depaupera, ma sviluppa e completa la persona umana. Si lamentano forse quelli che hanno dato prova di eroismo? Si pretenderebbe forse che la vita fosse sempre buona per i malvagi? Essa appunto sarebbe cattiva, se per costoro risultasse piacevole, senza intoppi, gustosa, e se ci fosse tanta luce nella deviazione quanta sulla dritta via. Non si tratta di una soddisfazione speculativa, ma di un controllo empirico. Se ho già la soluzione, sarebbe imperdonabile perderla in attesa di comprenderla; significherebbe fuggirla per raggiungerla. La curiosità dello spirito non abolisce le necessità pratiche col pretesto di studiarle; e per pensare non sono esonerato dal vivere; ho bisogno per lo meno del riparo di una morale, provvisoria, perché il bisogno di agire è di ordine completamente differente dal bisogno di conoscere. Ogni deroga ai dettami della coscienza è fondata su un pregiudizio speculativo, e ogni critica della vita, che poggi su un'esperienza incompleta, è radicalmente incompetente. Un esiguo raggio di luce non è certo sufficiente a illuminare l'immensità della prassi; quello che si vede non distrugge quello che non si vede; e siccome non si è ancora riusciti a collegare perfettamente l'azione al pensiero e la coscienza alla scienza, tutti, ignoranti o filosofi, sono obbligati a rimanere, come bambini, docili, ingenuamente docili, all'empirismo del dovere. Così, in assenza di qualsiasi discussione teorica, come pure nel corso di qualsiasi indagine speculativa sull'azione, mi si prospetta un metodo di verifica diretto e totalmente pratico? questo strumento unico di giudizio sui vincoli della vita e di valutazione circa le esigenze della coscienza consiste nell'affidarmi semplicemente a tutto quello che la coscienza e la vita esigono da me. Solo in questo modo io preserverei l'accordo tra la necessità che mi costringe ad agire e il movimento della mia propria volontà; solo in questo modo saprei se in fin dei conti posso ratificare, con un assenso definitivo della mia libera ragione, questa necessità preliminare, e se trovo chiaro e buono tutto quello che mi era sembrato oscuro, dispotico, cattivo. Dunque, a condizione di non abbandonare questa dritta via della prassi, la quale verrebbe abbandonata solo per un'incoerenza, la prassi medesima contiene un metodo completo, e allestisce senza dubbio una valida soluzione del problema che essa accolla a ogni uomo. Se non si comprende qual è questo metodo di esperienza diretta e non si ha il coraggio di adoperarlo; se non si paga la competenza morale al prezzo di tutto ciò che si ha e di tutto ciò che si è, non c'è giudizio che tenga. Per emettere un giudizio di condanna sulla vita occorrerebbe che, dopo aver fatto l'esperienza di tutto ciò che offre di più doloroso, essa ci consentisse di rimpiangere tutti i sacrifici e tutti gli sforzi fatti per renderla buona. Ma è possibile? E se non si è tentato di fare la prova, è consentito di rammaricarsi? III. Certo, bisogna raccogliere queste recriminazioni. È possibile che la dritta via finisca là dove nessun'altra via conduce; è possibile che si sia colpevoli di abbandonarla. Ma se la si è abbandonata, non la si è imboccata, se lungo il cammino si è incorsi in una caduta, non si ha più alcun valore? La scienza deve essere magnanima come la carità, e non deve ignorare persino quello che la morale condanna. Nonostante la sufficienza della prassi, diventa legittimo, e persino necessario, un ulteriore metodo, che forse è destinato a illuminare e a giustificare l'altro, ma che è del tutto differente da quello. Per quali motivi? Eccone alcuni dei principali. Senza dubbio nessuno è tenuto a discutere con la propria coscienza, a mercanteggiare la propria sottomissione, a speculare sulla prassi. Ma chi si sottrae alla curiosità dello spirito, chi non ha dubitato della bontà del proprio compito e non si è mai chiesto perché fa quello che fa? Quando le tradizioni sono infrante, come accade; quando la regola dei costumi è intaccata quasi su tutti i fronti; quando, per uno strano vizio della natura, l'attrattiva di ciò che la coscienza popolare chiama male esercita su tutti una sorta di fascino, è possibile agire sempre con la gioiosa e coraggiosa semplicità che nessuna incertezza trattiene e nessun sacrificio scoraggia? No; se il metodo dei semplici e dei generosi è buono, è necessario come minimo che si possa mostrare perché. Questa apologià non sarebbe altro che lo sforzo supremo della speculazione, consistente nel dimostrare la supremazia dell'azione. Del resto, anche quando non si hanno esitazioni su quello che c'è da fare, si fa sempre quello che si sa e quello che si vuole? E se l'esperienza della vita è viziata da continue mancanze, se la pristina semplicità va perduta, se sulla strada si erge l'ombra del passato irrimediabile di un atto, non c'è forse bisogno di ricorrere a una via indiretta? e la riflessione provocata dall'ostacolo medesimo non è forse necessaria come una luce per ritrovare la via smarrita? Nella coscienza più ingenua la presenza del male, spesso nata da una curiosità orgogliosa o sensuale, produce a sua volta un bisogno di discussione e di scienza. Bisogna dunque cercare al livello delle idee, per quanto possibile scientifiche, questo complemento ovvero questo supplemento della spontaneità morale. Ma si badi bene; niente è più pericoloso e meno scientifico che orientarsi nella prassi sulla base di idee incomplete. L'azione non potrebbe essere parziale o provvisoria come può esserlo la conoscenza. Quindi quando si è iniziata la discussione dei principi della condotta umana, non si deve tener conto della disamina finché non è completata, perché ci vuole qualcosa di capitale, di centrale, di totale per illuminare e regolare gli atti. Ora, se è vero che nessuno è obbligato a speculare sulla prassi, tuttavia non c'è nessuno che non abbia le sue idee sulla vita, e non si ritenga autorizzato ad applicarle. Pertanto è essenziale svolgere questo esame fino alla fine perché solo alla fine diventerà legittima l'autorità che spesso la speculazione usurpa nei confronti dell'azione. Bisogna dunque sostituire una scienza dell'azione; una scienza che non sarà tale sé non in quanto è totale, perché qualsiasi maniera di pensare e di vivere deliberatamente implica una soluzione completa del problema dell'esistenza; una scienza che non sarà tale se non in quanto determina per tutti una soluzione unica che escluda ogni altra soluzione. Perché non può darsi che le mie ragioni, se sono scientifiche, abbiano più valore per me che per gli altri, né che esse diano luogo ad altre conclusioni diverse dalle mie. Anche su questo punto il metodo diretto di verifica della prassi ha bisogno di essere completato; è quanto ci resta da dimostrare. In effetti, essendo personali e incomunicabili, gli insegnamenti emersi dalla sperimentazione morale hanno valore solo per colui che li suscita in sé. Senza dubbio egli è riuscito ad apprendere dove ( si acquisisce la vera lucidità dello spirito e a fondare in se stesso una certezza intima che trascende, nella sua prospettiva, qualsiasi altra sicurezza. Ma colui che sa perché lo fa non può rivelarlo agli altri che non lo fanno: agli occhi degli altri la sua non è che opinione, credenza, ovvero fede; per lui stesso la sua scienza non ha affatto il carattere universale, impersonale, perentorio che ha la scienza. Ora è bene che ciascuno per proprio conto possa giustificare pienamente, per quanto possibile, contro i sofismi della passione, le ragioni della propria condotta; è bene che ciascuno possa trasmettere e dimostrare a tutti la soluzione, che lui sa certa, del problema che si impone a tutti; è bene che, se la nostra vita ci deve giudicare con un rigore sovrano, noi possiamo giudicarla, se lo vogliamo, con una lucidità sufficiente. Risulta dunque evidente perché è legittimo, e diviene addirittura necessario, porre il problema speculativo della prassi. Si tratta adesso di esaminare come si pone. IV. Nello studio della realtà in che modo procedono i metodi veramente scientifici? Essi escludono qualsiasi falsa spiegazione di un fatto, qualsiasi coincidenza fortuita, qualsiasi circostanza accidentale, mettendo lo spirito di fronte alle condizioni necessarie e sufficienti, e lo costringono a enunciare la legge. Si tratta di questa via indiretta che è l'unica praticata dalla scienza, perché essa, partendo dal dubbio ed eliminando sistematicamente qualsiasi possibilità di errore e qualsiasi causa di illusione, chiude tutte le uscite tranne una: allora la verità si impone, è dimostrata. Ora a rigore non vi sarà una scienza dell'azione finché non si riuscirà a trasferire nella critica della vita l'essenziale di questo metodo indiretto. Perché non bisogna immaginare gli uomini diversi da quello che sono per lo più, soprattutto gli uomini di pensiero: essi fanno solo di testa loro, cioè vogliono scegliere e vogliono sapere dove vanno; e per saperlo con sicurezza praticano persino strade sbagliate. Senza indagine completa non c'è dimostrazione risolutiva e stringente. Se nelle scienze della natura lo spirito si arrende solo davanti a un'impossibilità di dubitare, a fortiori nel mondo delle sue passioni, delle sue sofferenze e delle sue lotte interiori l'uomo tiene duro, e rimane dove sta, finché non è sfrattato dalla postazione, qualunque essa sia, in cui lo trattiene l'amor proprio in mancanza di altro interesse: a nessuno si chieda di fare il primo passo. La scienza non ha alcuna concessione da fare. Accettare, sia pure a titolo di prova o di semplice postulato, l'obbligo morale o anche la necessità naturale di agire sarebbe fare il primo passo, e il passo decisivo. È questa costrizione, sono queste esigenze pratiche a essere in questione, a dover essere giustificate agli occhi meno indulgenti e con lo sforzo anche di coloro che vi si sottraggono con tutto il loro potere. Dal momento in cui pongo il problema teorico dell'azione e ho la pretesa di scoprirne la soluzione scientifica, non ammetto più il valore di alcuna soluzione pratica, almeno in via provvisoria e da questa visuale differente. A partire da questo istante i termini correnti di bene, male, dovere, colpevolezza che avevo usato sono svuotati di senso, fintanto che possa restituire loro, se è il caso, la loro pienezza. Di fronte alla stessa necessità che, per dirla nel linguaggio delle apparenze, mi costringe a essere e ad agire, mi rifiuto di ratificare, nell'ordine del pensiero, quello che nell'ordine dell'azione sono deciso a praticare. E siccome occorre anzitutto eliminare tutte le false maniere di essere e di agire, invece di appuntare lo sguardo esclusivamente sulla dritta via, esplorerò tutte quelle che più si allontanano da essa. La mia situazione è dunque ben precisa. Da una parte una sottomissione totale e assoluta ai dettami della coscienza, una docilità immediata, sul piano dell'azione; la mia morale provvisoria è tutta la mia morale, senza che nessuna obiezione di ordine intellettuale o sensibile mi autorizzi a rompere questo patto col dovere. Dall'altra, indipendenza completa e assoluta sul piano della sfera scientifica; non, come si intende di solito, un'emancipazione immediata dell'intera vita nei confronti di qualsiasi verità regolatrice, di qualsiasi giogo morale, di qualsiasi fede positiva: ciò significherebbe tirare la conclusione prima di aver giustificato le premesse, e consentire al pensiero di usurpare un'autorità prematura nel momento stesso in cui se ne riconosce l'incompetenza. Qualunque sia il risultato scientifico dell'indagine iniziata, è necessario che soltanto al termine essa raggiunga e illumini la disciplina pratica della vita. Ecco quindi come va intesa l'indipendenza necessaria alla scienza dell'azione: questa stessa ricerca manifesterà meglio l'importanza fondamentale e l'originalità unica del problema. In effetti di che si tratta? si tratta di sapere se nonostante le evidenti costrizioni che ci opprimono, se attraverso le oscurità in cui dobbiamo procedere, se fino alle profondità della vita inconscia da cui emerge il mistero dell'azione come un enigma la cui soluzione sarà forse terribile, se in tutti i traviamenti della mente e del, cuore sussiste, malgrado tutto, il germe di una scienza e il principio di una rivelazione intima, tale che niente apparirà arbitrario o inspiegato nel destino di ciascuno, tale che vi sarà un assenso definitivo da parte dell'uomo alla sua sorte, qualunque essa sia, tale infine che questa chiarezza rivelatrice delle coscienze non cambierà nel profondo quegli stessi che schiaccerà come sotto il peso di una sorpresa. Bisogna dunque indagare se alla radice delle più insolenti negazioni o delle più folli stravaganze della volontà non vi sia un movimento iniziale che persiste sempre, che noi amiamo e cogliamo anche quando lo rinneghiamo o ne abusiamo. É necessario trovare in ciascuno il principio del giudizio da pronunciare su ciascuno. E in questa indagine diventa indispensabile l'indipendenza dello spirito, non soltanto perché è importante che si ammetta anzitutto, senza alcun partito preso, tutta l'infinita diversità delle coscienze umane, ma soprattutto perché bisogna ritrovare in ciascuna di esse, sotto i sofismi ignorati e le mancanze inconfessate, l'aspirazione primigenia, al fine di condurle tutte, con totale sincerità, fino all'apice del loro slancio volontario. Così invece di partire da un punto unico da cui si irraggerebbe la dottrina peculiare di un solo individuo, è necessario collocarsi agli estremi dei raggi più divergenti, al fine di recuperare al centro la verità essenziale a ogni coscienza e il movimento comune a ogni volontà. Affrontando la scienza dell'azione non c'è dunque nulla che possa ritenere concesso, né a livello dei fatti, né a livello dei principi, né a livello dei doveri; mi accingo a lavorare rifiutando qualsiasi appoggio precario. Né posso pretendere come Cartesio, con un artificio che sa di scolastica per quanto serio possa essere, di estrarre dal dubbio e dall'illusione la stessa realtà dell'essere; siccome non percepisco alcuna consistenza in questa realtà del sogno, essa è vuota e rimane fuori di me. Neppure mi si può proporre, con Pascal, di giocare a testa o croce sul nulla e sull'eternità; perché fare la scommessa significherebbe già ratificare l'alternativa. Non si può, seguendo Kant, far sorgere da non so quale oscurità un non so quale imperativo categorico; lo considererei un intruso sospetto. Al contrario bisogna accogliere tutte le negazioni che si annullano a vicenda, come se fosse possibile ammetterle insieme; bisogna entrare in tutti i pregiudizi, come se fossero legittimi, in tutti gli errori, come se fossero verità, in tutte le passioni, come se avessero la generosità di cui menano vanto, in tutti i sistemi filosofici, come se ciascuno tenesse in pugno l'infinita verità che ritiene di possedere. Prendendo in sé tutte le coscienze, bisogna rendersi complice segreto di tutti, per vedere se portano in sé la loro giustificazione o la loro condanna: lasciamo che siano arbitri di se stessi, che vedano dove li condurrebbe la loro volontà più libera e più recondita, che vengano a conoscere quello che fanno senza saperlo e quello che sanno già senza volerlo e senza farlo. Quindi, perché il problema dell'azione sia posto in termini scientifici, occorre che non si debbano accettare né un postulato morale né un dato intellettuale. Dunque ci si prospetta non una questione particolare, una questione come un'altra. È la questione, quella senza la quale non vi sono altre questioni. Essa è talmente originaria che ogni concessione previa costituirebbe una petizione di principio. Come qualsiasi fatto contiene l'intera sua legge, allo stesso modo ogni coscienza cela il segreto e la legge della vita; non c'è da fare ipotesi; non si può supporre né che il problema venga risolto, né persino che sia imposto o semplicemente posto. Deve essere sufficiente lasciare che la volontà e l'azione si sviluppino in ciascuno, perché si riveli l'orientamento più intimo dei cuori, fino all'accordo o alla contraddizione finale del movimento primitivo con il termine in cui sfocia. La difficoltà consiste nel non introdurre nulla di esteriore e di artificiale in questo dramma profondo della vita, di raddrizzare, se è il caso, la ragione e la volontà mediante la ragione e la volontà medesime, di far produrre, con un progresso metodico, agli errori, alle negazioni, alle deficienze di qualunque natura la verità latente di cui vivono gli spiriti, e di cui forse possono morire per l'eternità. V. Così tutto è messo in questione, anche il sapere se c'è una questione. Dunque la molla di tutta l'indagine deve essere fornita dall'indagine stessa; e il movimento del pensiero si deve sostenere da sé, senza alcun artificio esteriore. Qual è questo meccanismo interno? Eccolo. Perché è bene, non per il valore ma per la chiarezza dell'esposizione, indicare in anticipo il pensiero motore e, chiamando in causa, col prezzo della vita, la stessa realtà dell'essere, mettere a fuoco il nodo comune tra la scienza, la morale e la metafisica. Tra esse non c'è contraddizione, perché là dove si sono viste delle realtà incompatibili non vi sono altro che fenomeni eterogenei e solidali. E se si è invischiati in inestricabili difficoltà laddove non ce ne sono, è per non aver saputo riconoscere dove sta l'unica questione. Si tratta di tutto l'uomo; quindi non lo si deve cercare solo nel pensiero. Bisogna trasferire nell'azione il centro della filosofia, perché, là si trova anche il centro della vita. Se non sono quello che voglio essere, quello che voglio con tutto il mio cuore, con tutte le mie forze, con tutti i miei atti, non a parole, non col desiderio o con l'intenzione, non sono affatto. In fondo al mio essere o c'è un volere e un amore dell'essere, o non c'è nulla. In questa necessità che mi era apparsa come una costrizione tirannica, in questa obbligazione che dapprima mi sembrava dispotica occorre vedere istanze che manifestano e mettono in funzione l'azione profonda della mia volontà; altrimenti esse mi distruggerebbero. Tutta la natura delle cose e la catena delle necessità che pesano sulla mia vita costituisce unicamente la serie dei mezzi che devo volere, che di fatto voglio, per realizzare il mio destino. L'essere involontario e coartato non sarebbe più l'essere: come è vero che l'ultima parola di tutto è la bontà, e che essere significa volere e amare. Il pessimismo si è fermato troppo presto nella filosofia della volontà, perché malgrado il dolore e la disperazione noi avremo ancora ragione di riconoscere la verità e l'eccellenza dell'essere, se lo vogliamo da parte nostra con totale sincerità e spontaneità. Per soffrire di essere, per odiare il mio essere, occorre che riconosca e che ami l'essere; il male e l'odio non esistono che divenendo un omaggio all'amore. Pertanto, qualsiasi sproporzione apparente vi sia tra ciò che so, ciò che voglio e ciò che faccio; per quanto possano essere tremende le conseguenze dei miei atti; persino se, essendo capace di perdermi ma non di sfuggire a me stesso, esisto fino al punto che sarebbe meglio per me non esistere, comunque per essere occorre che io voglia essere, anche se devo portare in me la dolorosa contraddizione tra ciò che voglio e ciò che sono. Nel mio destino non c'è niente di arbitrario o di tirannico, perché la minima pressione esteriore basterebbe a deprivare l'essere di ogni valore, di ogni bontà, di ogni consistenza. Io non ho niente che non abbia ricevuto, e tuttavia occorre al tempo stesso che tutto nasca da me, anche l'essere che ho ricevuto e che mi sembra imposto; occorre che, qualunque cosa faccia o subisca, sanzioni questo essere e lo generi, per così dire, di nuovo con un'adesione personale, senza che giammai la mia libertà più autentica lo sconfessi. La cosa importante è ritrovare in tutti i miei atti questa volontà, la più intima e la più libera, e portarla in ultima istanza fino al suo perfetto compimento: il problema è far combaciare il movimento riflesso col movimento spontaneo del mio volere. Ora è nell'azione che si determina questo rapporto o di uguaglianza o di discordanza. Quindi è estremamente importante studiare l'azione perché essa manifesta in uno la duplice volontà dell'uomo; essa costruisce in lui una sorta di mondo che è sua opera originale, e che deve contenere lo svolgimento completo della sua storia, il suo intero destino. Lo sforzo supremo dell'arte è quello di far fare agli uomini quello che vogliono, e di far conoscere loro quello che sanno. È questa l'ambizione del presente lavoro. Non che si possano violare le ombre protettive che assicurano il disinteresse dell'amore e il merito del bene. Ma se c'è una salvezza, non potrebbe essere legata alla dotta soluzione di un problema oscuro, né potrebbe essere rifiutata alla costanza di una ricerca rigorosa; essa non può che essere offerta chiaramente a tutti. Occorre apportare questa chiarezza a coloro che le hanno voltato le spalle, forse senza saperlo, nella notte che proiettano su se stessi; una notte in cui la piena rivelazione della propria oscura condizione non li cambierà più, se prima non contribuiscono a cambiare se stessi volontariamente. L'unica supposizione che non si avanzerà fin dall'inizio è di credere che essi si travino sapendolo e volendolo, che rifiutino la luce pur sapendo che li avvolge, e che maledicano l'essere pur professandone la bontà. E tuttavia occorrerà forse mettere in conto questi stessi eccessi, perché non c'è nulla, nei possibili atteggiamenti della volontà come nelle illusioni della coscienza, che non debba rientrare nella scienza dell'azione; persino finzioni e assurdità, ma assurdità reali. Nell'illusorio, nell'immaginario e nello stesso falso c'è una realtà, qualcosa di vivo e di consistente che prende corpo nelle azioni umane, una creazione di cui nessuna filosofia ha tenuto conto a sufficienza. È molto importante raccogliere, unire e portare a compimento, quasi fossero membra che dividendosi sono destinate a perire, tante aspirazioni sparse, al fine di edificare, attraverso l'infinità degli errori e grazie a essi, la verità universale, quella che vive nel segreto di ogni coscienza e dalla quale nessun uomo si separa mai. Ma adesso dimentichiamo questa visione anticipata della strada da seguire. Abbandoniamoci alla ricerca senza riserve mentali e senza diffidenze, proprio perché non abbiamo preso alcun partito né richiesto alcun atto di fede. Persino questo punto di partenza, " non c'è nulla ", non potrebbe essere concesso, perché costituirebbe ancora un dato esteriore e una sorta di concessione arbitraria e vincolante. Il terreno è completamente sgombro. Parte I - Esiste un problema dell'azione? Capitolo I - In che modo si pretende che il problema morale non esista Non vi sono problemi più insolubili di quelli che non esistono. Se questo fosse il caso del problema dell'azione, il mezzo più sicuro per dirimerlo, l'unico, non sarebbe quello di abolirlo? Per alleviare le coscienze e restituire alla vita grazia, leggerezza e gioia, non sarebbe bene liberare gli atti umani dal peso della loro serietà incomprensibile e della loro realtà misteriosa? Il problema del nostro destino è enorme, persino doloroso, quando si ha l'ingenuità di credervi, e di cercarvi una risposta qualsiasi, epicurea, buddista o cristiana: è necessario non porlo affatto. È vero che la cosa non è così semplice come si immagina a prima vista; perché anche l'astensione o la negazione costituisce una soluzione; e gli ingegni sottili hanno da lungo tempo scoperto la mistificazione del pensiero neutro o libero. Pronunciarsi pro o contro significa ugualmente lasciarsi prendere dall'ingranaggio ed esservi assorbiti fino in fondo. Poco importa quello che uno è, pensa e fa, se è, pensa e agisce; non siamo riusciti a dissipare la pesante illusione: c'è sempre un soggetto davanti a un oggetto; forse l'idolo è cambiato, ma il culto e l'adoratore rimangono. Altra illusione di chi ha la vista corta è quella di evitare di pronunciarsi, credendo di riuscirvi: in effetti bisogna fare i conti con questa coazione che, stando all'esperienza, ci obbliga perennemente all'azione. Non c'è speranza di liberarsene, anche lottando contro di essa, anche con l'inerzia; perché nell'ascetismo, più che nelle esplosioni della passione, si prodiga un'energia prodigiosa; e l'attività beneficia di qualsiasi dimenticanza e di qualsiasi rinunzia, come di tutti gli sforzi intrapresi per ridurla. L'inazione è un mestiere difficile: otium! quanta delicatezza e abilità ci vuole; e forse non vi si riesce mai totalmente! Ci sarà davvero una saggezza sufficientemente raffinata per discernere le sottigliezze della natura e per piegarsi a essa in apparenza, perché bisogna piegarsi, pur liberandosi delle sue menzogne artificiali? Essere sciocco senza sapere di esserlo costituisce la grottesca sventura delle persone convinte, passionali, dei barbari. Ma essere sciocco sapendo di esserlo, prestandosi all'illusione, divertendosi di tutto come in una farsa frivola e piacevole; agire, come è necessario, ma mortificando l'azione con l'aridità della scienza, e la scienza con la fecondità del sogno, senza mai accontentarsi, persino dell'ombra di un'ombra; annullarsi tra delizie e tesori di scienza: tutto ciò non costituisce forse la salvezza conosciuta e posseduta dagli spiriti migliori e più avveduti, i soli che avrebbero il diritto di dire che hanno risolto il grande problema, perché avrebbero visto che non sussiste? Che affascinante tour deforce! Che tattica vantaggiosa! Mette conto di considerare la cosa più da vicino, e valutarne il fine. Perché, a quanto pare, per eliminare tutto è importante ed è sufficiente essere tutta scienza, tutta sensazione e tutta azione: uniformando il proprio pensiero e la propria vita alla vanità universale, si dà l'impressione di volersi riempire solo per essere più vuoti. Se infatti non esiste un problema o un destino, la cosa più semplice e più sicura per accorgersene non è quella di abbandonarsi al libero corso della natura, abbandonando le finzioni e i pregiudizi meschini, al fine di partecipare al movimento della vita universale e di ritrovare, con tutte le energie della riflessione, la feconda pace dell'incoscienza? I. Anzitutto raccogliamo dal fior fiore del pensiero ( tutta la sottile e mortifera quintessenza che esso distilla. A quanto si dice, non c'è errore che non abbia un nucleo di verità; d'altra parte, a quanto sembra, non c'è verità che non abbia una zavorra di errore. Fermarsi a un giudizio qualsiasi e aderirvi sarebbe pedanteria e ingenuità. Mantenere un atteggiamento preciso e fermo, credere che " è così ", mettere le mani in pasta, ficcare il naso nelle cose degli uomini, conquistarsi un posto, fare quella cosa incivile espressa dalla volgare parola affermarsi, introdurre consapevolmente un'unità rigida nell'organismo di un pensiero e nella condotta di una vita, oh! che ridicola grettezza, che enorme ottusità. Tutti i sistemi filosofici, anche quelli agli antipodi, sono caduti nella stessa trappola: hanno sempre cercato il rapporto tra l'essere e il conoscere, tra il reale e l'ideale, e hanno creduto di definirlo. L'argomento ontologico si ritrova in fondo a tutti i dogmatismi, anche quello scettico: dell'Inconoscibile si conosce che non può essere conosciuto; del Pessimismo si può dire che è ancora un ottimismo, perché ha una dottrina e mostra uno scopo. Che amena facezia, affermare che il nulla è! E come si deve essere allegri, quando si sa che l'essere non è, e che non essere costituisce il bene sommo! Fortunati i disperati che hanno trovato il loro ideale, senza vedere che se è, non è più, e che coinvolgendosi in esso fanno il gioco di quella natura beffarda che si vantano di confondere. Non solo qualsiasi monismo, ossia ogni dottrina che ha la pretesa di ricondurre a unità il principio dell'intelligibilità e il principio dell'esistenza, ma qualsiasi sistema, per il semplice fatto di essere un sistema, è un errore, come ogni azione ispirata da una ferma convinzione è un'illusione. Dunque non c'è verità che nella contraddizione, e le opinioni sono sicure solo se uno le cambia; purché non si faccia della stessa contraddizione e dell'indifferenza un nuovo idolo. Liberi da preconcetti si giungerà a passare attraverso l'intolleranza, per gustare le attrattive della grettezza di spirito. Ora si ammireranno le acrobazie di una dialettica trascendentale, ora si disprezzerà il peso di un'armatura, persino se leggera, e si riderà degli sciocchi che, lancia in resta, si battono secondo le regole, in un corpo a corpo con i mulini a vento. Con la storia, essere di tutti i tempi e di tutte le razze; con la scienza, appartenere a tutto lo spazio e adeguare l'universo; con la filosofia, diventare teatro dell'interminabile battaglia tra i sistemi, portare in sé l'idealismo e il positivismo, il criticismo e l'evoluzionismo, e pascersi della carneficina delle idee; con l'arte, iniziarsi alla divina grazia delle frivolezze serie, al feticismo delle civiltà avanzate: straordinaria abilità di darsi a tutto senza dare niente, per conservare questo inesauribile potere dello spirito di volta in volta simpatico e distruttore, per tessere e disfare senza posa, come una tela di Penelope, il vivente paramento del Dio che non esisterà mai! Ci si inginocchia davanti a tutti gli altari, e ci si alzerà sorridendo per correre a nuovi amori; ci si chiude un momento nella lettera per penetrare nel santuario dello spirito. Se davanti alla grandezza del mistero ovunque disseminato si avverte come un brivido di religioso terrore, ci si rifugia dietro le compatte certezze dei sensi: ci si serve delle brute certezze per dissipare i sogni, dei sogni per sublimare la scienza, e tutto si riduce a figure dipinte nell'aria. Si sa che contro l'abuso del positivo vi sono delle reazioni inevitabili, e ci si piega a esse rispettosamente, disposti come si è, né più né meno, a venerare l'alambicco del chimico o a inginocchiarsi davanti all'ineffabile splendore del nulla svelato allo spirito. Qualcuno si diverte a unire gli estremi e a mescolare in un unico stato di coscienza l'erotismo e l'ascetismo mistico; qualche altro, con l'aiuto di compartimenti stagni, svolge parallelamente il doppio ruolo di alcolizzato e di idealista. Di volta in volta, o tutti insieme, si gustano, si amano, si praticano religioni differenti, e si assaporano tutte le concezioni del cielo col dilettantismo della vita futura. Talvolta anche questa saggezza fluttuante e discrepante finge di ignorarsi per meglio perdere l'odiosa apparenza di un sistema, per ( conservare con la sua inguaribile leggerezza il piacere di un'inquietudine o di un rischio. Ci si vanta, senza arrivare alla lite e nell'ottimismo della speranza, di evitare continuamente i problemi inquietanti, le soluzioni tormentate, le sanzioni minacciose; non si afferma il nulla per essere più sicuri di non incontrare l'essere; e si vive calati nel fenomeno, che è e non è. Non vi capiti di dire a questi uomini abili che il loro libero gioco e la flessibilità dei loro atteggiamenti sfuggenti celano un partito preso, un metodo originale, una risposta al problema del destino e certe preoccupazioni involontarie: è falso, non si sfugge ciò che non esiste. Non ripetete loro la banale obiezione secondo cui l'assenza di soluzione è già una soluzione: è falso. Non interrogateli, non incalzateli: nessun interrogativo ha senso, perché qualsiasi risposta è falsa, se non vi si percepisce l'inevitabile menzogna; quale sfumatura presenta la gola del piccione? Il pensiero espresso è già una mistificazione. Se uno è aperto a tutte le curiosità, è per essere più libero di scansare ogni investigazione indiscreta; è un pezzo che si è scoperta l'inanità delle discussioni e che si è capaci di essere sempre dell'opinione del contraddittore. Rifiutare chiunque o qualsiasi cosa è proprio dell'ultimo dei beoti. Per colui che gioca " a chi perde vince "" questa, non essendo né offensiva né difensiva, è l'arte di essere invincibili. Ed è la vera panacea. Essa corregge con l'effusione mistica il rigore delle scienze positive; e mescendo nello stesso crogiolo l'idolo avvizzito delle idee chiare con la bellezza più fresca del noumeno, dell'inconscio e dell'inconoscibile, unge lo spirito classico con un olio emolliente. Agli spiriti aridi, dà l'abbondanza della varietà; a quelli di anguste vedute, dà la larghezza di orizzonti; agli spiriti dottrinali, il dubbio; ai fanatici, l'ironia; alla fredda empietà, dà un profumo d'incenso; al materialismo, l'ideale. Ammirate come grazie a essa il nostro tempo, dopo aver baciato i secoli suoi antenati, li schiaffeggia sull'altra guancia; siatele grati di fare giustizia di certe obiezioni scioccamente spiritose che estasiavano Voltaire, di accogliere e superare tutti i cambiamenti di opinione, di consumare così presto i propri culti al punto che adesso si torna a quelli dell'India e che prima della fine del secolo si avrà la pretesa di fare del cattolicesimo medesimo un nuovo vestito alla moda; di essere in attesa di una sorta di perenne rinascimento, di far scaturire dal gusto dell'anarchia il bisogno di una regola flessibile e stabile. Rallegratevi nel vedere sorgere, come una volta ad Alessandria, nella confusione delle idee, tra i traffici, sotto il peso dei godimenti o delle sofferenze materiali, un forte vento di misticismo e una passione per il miracoloso; siate fieri della vostra visuale ampliata per comprendere più di un tipo di bellezza, per abbracciare tutta l'infinita varietà dei pensieri, la logica dei contrari, la geometria rinnovata, la natura conquistata. Ma dietro questo splendore, questa prodigalità, questo sfoggio vi diletterete a considerare la vacua scienza che si diverte nella sua vanità, vi trastullerete al ridicolo spettacolo delle ambizioni, dei traffici, dei sistemi; e in mezzo a tutte le stravaganti follie del mondo trionferete avvertendo in cuore, misurando con lo sguardo l'infinita inanità di ciò che si chiama vivere e agire. In questo modo il pensiero, tramite la doppia arma della simpatia universale e dell'analisi impietosa, riesce a farsi gioco della natura, come essa si fa gioco di noi. Beati qui ludunt: un gioco, ecco la sapienza della vita; un gioco, ma nobile e pungente, un gioco che talvolta si prende sul serio per meglio essere un gioco, e per essere maggiormente un'illusione vittoriosa di qualsiasi illusione. Povera Natura dai mille volti, che sembri ingegnarti con la perenne generazione dei contrari a variare le tue esche per ogni credulità, basta abboccare a tutti i tuoi adescamenti e abbandonarsi ai tuoi capricci di Proteo perché ti avveleni con i tuoi stessi artifici, e sia vinta nel tuo trionfo; meglio ti abbracciamo, e più ti sfuggiamo; diventando tutto quello che sei, mettiamo nel cuore di ogni cosa il tarlo che rode; estenuiamo noi stessi con tutto il resto, passando dal cielo all'inferno nell'agile passo incrociato delle contraddizioni. Col medesimo rispetto e il medesimo disprezzo per il sì e il no, mette conto di farli coabitare, e lasciarli divorarsi a vicenda; ironia e benevolenza sono un tutt'uno, il passe-partout universale, quello che dissolve ogni cosa. Non si può conoscere e affermare tutto senza negare tutto; e la scienza perfetta dell'esteta svanisce da sola nell'assoluta inanità di tutto. Il problema speculativo dell'azione sembra senz'altro eliminato: lo sarà allo stesso modo il problema pratico? II. Il dilettantismo dell'arte e della scienza alla lunga non si regge: ben presto si completa col dilettantismo della sensazione e dell'azione. Perché alla maggioranza non è più sufficiente che un lavoro di testa riveli all'immaginazione l'universo dell'esperienza sentimentale; senza dubbio nessuno meglio del fanatico dell'ideale apre la strada al praticante dei sensi, e finisce per invidiarlo o per seguirlo. Ma nella depravazione calcolata non c'è il principio di un'arte e persino di una scienza che non è equiparata da nessuna finzione speculativa? E se un desiderio di emozioni ignote sembra la legge comune dell'intossicazione letteraria, in compenso nella dissoluzione pratica si cela altresì una fonte di invenzioni e di pensieri dissolventi. Infatti il mezzo migliore per rendere lo spirito flessibile e liberarlo dagli angusti pregiudizi che limitano la sua visuale sulla vita, non è forse quello di superarli, e di provare tutto, per comprendere tutto? Si ritiene che meno uno è depravato, meno è intelligente. Non che si debba distruggere la superstizione del pudore o della stessa pietà: il danno sarebbe enorme, perché il piacere e l'amore del male non sono perfetti che grazie al morso della contraddizione interiore e al sapore del frutto proibito, come per quelle sgualdrine mondane che hanno la droga di un inginocchiatoio. Il godimento viene rinfocolato quando diventa una sintesi di sentimenti opposti, e con la varietà dei contatti e dei contrasti vi si sente come la carezza complessa di una chioma morbida e folta. " L'anima rapita al settimo cielo, il corpo più volgare sotto i tavoli ". Il libertino mistico, " poeta cristiano con le gambe di fauno", scoprirà ciò che l'adulterio ha di purificante, o pregusterà tutta la voluttà insita nel corrompere un animo vergine. Ma questi contrasti sapienti della sensazione non servono soltanto per affinarla; essi la decompongono e non l'accendono che per consumarla. Insinuando al tempo stesso nel medesimo cuore le delicatezze più squisite e gli ardori più impuri, affrettano la dispersione e per così dire l'agonia della persona morale. Non vi sono più sentimenti semplici e sinceri, non vi è niente di reale, e quindi niente di bene o di male. Se conoscere tutto nullifica nello stesso istante l'oggetto e il soggetto della conoscenza, provare tutto adempie nella pratica questa straordinaria opera della scienza. Come dunque variare e moltiplicare a sufficienza le nostre sensazioni per sfuggire alla verità fallace delle impressioni semplici e all'ingannevole lucidità della vita? Una saggezza meno avvertita consiglierebbe senza dubbio l'atarassia del sognatore universale, il quale non si impegna nell'azione per giocare più liberamente sul proprio rinnovamento, e gode del mondo come se fosse un granello di oppio da cui aspirare il fumo dei suoi sogni, della vita come se fosse l'ombra tremolante di una nebbia al chiar di luna. Se dovesse optare tra l'ironia e il fanatismo in base al maggior piacere che può sperare dall'uno o dall'altra, egli probabilmente ascolterebbe l'invito di questa pigrizia voluttuosa che teme le contaminazioni e gli impeti dell'azione. Quale falsa saggezza, e per di più timida, sorpassata! Guardate come oggi, che possediamo risorse di analisi infinitamente potenti, gli spiriti più delicati aspirano all'azione, e si sforzano " di conciliare le pratiche della vita interiore con le necessità della vita attiva "; guardate anzi come, senza rinunciare all'impagabile ironia della critica, si applaude a chiunque sembra avere l'ardire di un'opinione perentoria, e ha l'aria di penetrare nelle anime come un cuneo aguzzo con la lucidità rigorosa e il vigore delle convinzioni! Nella prassi c'è una sorgente inesauribile di nuove sensazioni, contraddizioni e disinganni; l'azione più generosa può essere una depravazione, un'ulteriore distruzione. Quindi l'essenziale è " rendere meccanica la propria anima ", perché produca a volontà tutte le emozioni conosciute, essere agitati senza tregua dagli entusiasmi più interessanti e più effimeri, praticare più forme di vita, e illuminare ogni sera nuovi universi come circhi allegri dove si dà spettacolo a se stessi con numeri di alta scuola: istrionismo superiore in cui ci si inorgoglisce di sentire tutta una vita esaurirsi in occupazioni disprezzabili, scienza della decadenza che ci si pregia di possedere, trovandola degna di ammirazione e di ignominia. A dire il vero chi agisce così più che agire non fa altro che costituire esperienze di scetticismo pratico, e inebriarsi con questo " sperimentalismo in azione " del potente veleno che uccide non la vita individuale, che non è reale, ma l'illusione della vita. L'egoismo individuale conserva tutto per sé, è l'ultima parola di un passato che muore; il fanatismo a sua volta rappresenta la prima parola di un avvenire; e l'asceta dedito alla voluttà riassume nel suo presente questo duplice stato: per lui l'azione è tutt'uno, la fine di un mondo e l'inizio di un mondo nuovo. Attraverso le sue palinodie egli muore incessantemente solo per risuscitare, e non risuscita che per morire ancora, per meglio distruggere la varietà delle sue emozioni di artista e costruire diversi mondi differenti, per meglio sentire che tutto è irrealizzabile, che tutto è irreale, e per adorare in queste chimere medesime l'eternità di ciò che muore incessantemente in lui e per mezzo di lui. Sempre pronto a disdirsi, sempre impegnato a muoversi e a dividersi, tutte le strade per lui sono ugualmente buone e sicure, anche i sentieri malfamati che portano a Damasco; tutti gli incontri sono per lui ugualmente attraenti e istruttivi. Egli si sprofonda nel suo sogno, senza temere che a poco a poco un concatenamento regolare delle immagini o un improvviso impulso scaturito dal sogno medesimo comporti il risveglio: che ha da temere? Più si imbatte nel reale e ne ricava luce, più ne sente la nullità. Per questo, proprio dopo che, con una specie di irritazione sensuale, l'esteta sembrava stringere tra le braccia i suoi cari idoli, salvarli dalla distruzione e " gioire di ciò che è in procinto di morire, con una sensazione più forte dei secoli ", egli cerca una nuova formula mediante nuove esperienze; e quando sembra " innalzato a questo culmine delle emozioni che è il suo io, che è il suo Dio ", quando riesce a " vivere tutto il proprio essere, tutto l'Essere passato presente e futuro, cogliendolo come Eterno ", allora, non potendo e non volendo aspirare all'assoluto soltanto, ridiscende a quei movimenti violenti che costituiscono ciò che ama, perché c'è una sola cosa che gli importa: essere munito contro il disgusto e la mancanza di tono, avere ancora bisogno, " essere trascinato, attraverso il divino Inconscio, dalla leggera scossa dei desideri, la quale, propagata da un passato illimitato a un futuro illimitato, anima indifferentemente tutte queste forme in movimento, qualificate come errori o verità dai nostri giudizi dalla vista corta ". Arrivare al pessimismo, al suicidio? suvvia, significherebbe credere che c'è qualcosa di serio nel mondo! Entusiasta e scettico, baloccandosi con i mezzi senza preoccuparsi del fine, convinto che vi sono solo modi di vedere, che ognuno di essi contraddice l'altro, e che con un po' di abilità possiamo averli tutti polarizzati su un medesimo oggetto, l'uomo che sperimenta cerca la pace, il riposo e la felicità convinto che non li troverà mai; e " per sfuggire al malessere dei ragazzi encomiabili, che nasce da una sproporzione tra l'oggetto sognato e l'oggetto raggiunto ", pone la sua felicità nelle inutili esperienze che compie, non nei risultati che sembrano promettere. Ora, conoscere la perfetta serenità del distacco assoluto e allo stesso tempo l'ardore turbato di uno spirito militante, unire tutte le attrattive della vita scientifica, artistica, godereccia e religiosa con la serena sicurezza della morte, conservare l'inerzia di un cadavere, " perinde ac cadaver ", con l'agilità di un clown, essere penetrati dallo spirito degli esercizi di sant'Ignazio pur gettandosi nella mischia degli intrighi politici, non rappresenta la perfezione, diciamo così la santità, della perversione? Adesso cercate il problema: la sfida è trovarlo. Lo strumento della salvezza, l'oggetto del nuovo culto, è il talento, l'inestimabile abilità dello schermidore, il quale è dappertutto e da nessuna parte, ma mai là dove si porta la stoccata. Come infuriarsi contro Arlecchino? Come il giullare convertito, il quale, non sapendo salmodiare nel coro, durante l'ufficio se ne andava a sollazzare con le sue trovate le statue del monastero, per essere in pace con la coscienza non c'è che da scherzare con la vita. Dopo essere sempre stato l'avvocato di Dio e del diavolo che paura dell'Eterno rimarrà al buffone? egli ha rispettato e disprezzato, riempito e svuotato, incensato e bestemmiato, divinizzato e distrutto tutto, e sé più di tutto il resto: è la sua ricompensa. Poe immagina che si magnetizzi un moribondo nel momento del suo trapasso. È in questo preciso momento di equilibrio perennemente instabile che bisogna vivere; e persino la fotografia istantanea della morte non potrà coglierci: non esisteremo più, non saremo mai esistiti. Parlate dunque ancora delle buone parole antiche come dovere e virtù; parlate di un esame di coscienza senza coscienza, di un giudizio senza codice né processo né giudice, di un destino e di una volontà che raggiunge i suoi fini, quando non si ha né la volontà di essere né la volontà di non essere, una nolontà pura; quando sotto i movimenti della superficie e nel corpo della vita non vi sono né intenzioni né cuore; quando le azioni senza anima sono sempre nate morte! Come siamo lontani da questa semplicità della coscienza e da questo candore pratico che raccoglie in un fascio tutte le energie dell'uomo: non è più un semplice sdoppiamento accidentale della personalità, è il suo totale sgretolamento, è la decomposizione e la morte nella vita stessa. Non è quello che si voleva? L'annientamento del pensiero e dell'essere tramite la moltiplicazione e la dissociazione; la disorganizzazione di tutti i meccanismi elementari, come se ogni cellula dell'organismo suonasse a parte la sua piccola parte; la decadenza compiuta, un immenso scoppio di risa, una lugubre facezia, una mistificazione e, ecco la parola giusta, una fumisteria, nulla, ecco a cosa si è ridotto l'uomo e il suo destino. È vero, questo è un estremo; ma senza entrare in questa inafferrabile concezione della vita, senza fare altro che applicare il trito adagio " bisogna conoscere tutto ", senza avere coscienza dell'atteggiamento che essi prendono di fronte alle necessità o agli obblighi pratici, quanti dei nostri contemporanei non si orientano verso questa soluzione? " Non sussiste neanche il problema, e il solo torto è quello di cercare un senso a ciò che non ne ha! " Se il pensiero e la vita non sono nulla, è sufficiente pensare e agire perché sorga l'illusione; essa sorge, a quanto sembra, con l'uso integrale del pensiero e della vita. Agli ingenui che hanno preso sul serio la loro coscienza, e che credono di trovare nella loro esperienza personale del dovere la conferma certa del valore infinito che annettono al loro essere, ai loro atti e ai loro sacrifici, si obietta, in nome di un'esperienza più piena e di una scienza più aperta, che ogni certezza assoluta nasce da una carenza di intelligenza e da un'ignoranza parziale, che ogni rigidità pratica è il segno di un animo angusto e di una sensibilità ottusa. Per affermare con sicurezza una realtà qualsiasi, per porre con decisione il problema morale, ci vuole una dose di inesperienza e di semplicità di cui tra buontemponi ci si prende gioco, come della grossolanità di un contadino; la finezza delle persone intelligenti vive di amabili finzioni, menzogna e verità al contempo. Tutto è lieve e attraente, perché tutto è vuoto; l'affrancamento dell'esteta sembra totale. Probabilmente non era inutile délineare questo stato in cui versano parecchi spiriti contemporanei. Come talvolta è sufficiente scrivere una parola di cui l'ortografia è incerta o raccontare un incubo per vedere l'errore o l'assurdità, esporre semplicemente certi sogni sottili significa farli svanire, farne sfumare il prestigio, soprattutto agli occhi di quei giovani che di solito se ne invaghiscono solo in quanto sembrano loro inauditi, incompiuti e misteriosi, e che si formano " un'anima letteraria " plasmando inconsciamente il loro cuore sul modello delle depravazioni romanzesche o delle passioni poetiche. Alcuni aspetti potranno sembrare esagerati; ma è bene guardare in faccia quello su cui preferiamo fin troppo stendere un velo, la concezione della vita quale risulta da un atteggiamento di cui si gusta solo la squisita comodità e la grazia, e null'altro; però è necessario, come si sarebbe detto in altri tempi, " togliere i cuscini da sotto il gomito dei peccatori ". Il capitolo secondo tenta di mostrare che l'esteta fallisce quando, con un gioco di prestigio, fa sparire il problema dell'azione; che anzi con questa stessa pretesa egli lo pone volutamente, e lo decide in un certo modo. Indico altresì come l'atteggiamento sfuggente e inafferrabile del dilettante o dello sperimentalista deriva da un duplice movimento. La tendenza profonda e segreta di cui è composta in primo luogo la loro nolontà, quello che loro stessi chiamano il divino Egoismo. E la volontà contraria evidenziata dai loro giochi infiniti, ossia il desiderio e una sorta di speranza del nulla. E concludo analizzando la menzogna intima, la contraddizione inevitabile di tutto questo stato d'animo; e assumendo la volontà manifestata involontariamente dagli atti come espressione imperfetta, ma veridica, di una tendenza autentica, tento di avviarla verso il suo termine. Capitolo II - Come e perché si fallisce quando si pretende di rimuovere il problema morale L'esteta se la ride delle confutazioni, le quali pur mirando al cuore sfiorano un'agile ombra: e probabilmente ha ragione. Ma chi compie questa poderosa analisi osservi, con l'attenzione accordata a tanti altri spettacoli, il gioco di oscillazioni infinitesimali attraverso le quali costui si rende inafferrabile. Nella sua stessa nolontà egli discernerà una duplicità volontaria. Non volere nulla tout court sarebbe bello, se fosse uno stato semplice; senza essere disturbato da nessuna riflessione, lo slancio spontaneo della vita e della curiosità procederebbe perfettamente in linea retta, non si sa dove, senza ritorno né ripiegamento della coscienza. Ma questa semplicità e questo candore, questa nescienza e questa abnegazione di sé non sono affatto virtù consuete degli spiriti raffinati; e non potrebbero esserlo dal momento che essi si compiacciono della loro sottigliezza: perché ogni conoscenza distinta di una disposizione interiore suppone la coscienza di uno stato contrastante, grazie a questa legge scientifica che essi ricavano dagli associazionisti e che chiamano della discriminazione. Sapere che non si vuole niente significa volere il nulla. E " io non voglio volere ", nolo velle, nel linguaggio della riflessione si traduce immediatamente in queste due parole: volo nolle, " voglio non volere ". A meno di non fare violenza alle leggi della coscienza, non della coscienza morale ma di quella psicologica, a meno di dissimulare sotto una sottigliezza tutta verbale la verità delle cose, il solo sentimento di un'assenza di volontà implica l'idea di una volontà che non vuole e che abdica. Le dotte precauzioni, il gioco di un equilibrio instabile, tutti questi raffinati strumenti dialettici fra cui sgusciano i nostri acrobati spirituali, manifestano una dualità intellettuale: in nome della legge della relatività di tutte le cose che essi si danno, occorre mettere a nudo l'ambiguità di cui si fanno scudo. Essi sanno che c'è un problema, ma non lo vogliono sapere. Una nescienza deliberata non è più una nescienza; essi limitano artatamente la loro curiosità naturale e truccano la loro sincerità. Laddove dunque la loro esperienza è incompleta e ingannevole, di fatto proprio in ragione di questo dissenso intrinseco essi conservano la coscienza e il godimento della loro disposizione ambigua. Ma non basta. Bisogna mostrare che questa dualità necessaria dello spirito procede da una dualità della volontà; perché è sempre nel fondo delle coscienze, alla stessa scaturigine della sincerità operante, che bisogna scoprire in ciascuno il segreto del giudizio da portare su ciascuno. Qual è dunque questo duplice movimento volontario di cui è composto l'equivoco atteggiamento dell'esteta, e come risolverne le contraddizioni intrinseche? I. Dare fondo a tutto il pensiero, a tutta la sensazione e a tutta l'esperienza è un bel metodo per approdare a una disillusione universale; e sarebbe comodo, dall'alto di questa scienza totale della vanità, farsi beffe della corta veduta dei barbari che danno ancora un nome a ogni cosa e credono alla vita. C'è solo una piccola difficoltà: questa scienza non è mai piena, l'esperienza non è mai completa né conclusiva, e per cominciare la prova, per proseguirla e completarla con un'anticipazione è sempre necessaria un'ipotesi senza controllo definitivo. Inutilmente l'esteta-asceta, dopo aver riconosciuto gli intralci decisivi che si frappongono al suo metodo, cerca di provare insieme, con la moltiplicazione degli esperimenti, parecchie vite tra loro contrarie; sente che a ogni momento, mentre s'incanta davanti alle sue emozioni, in lui un artista mirabile ma incompleto muore per rinascere sempre mortale e sempre immortale. Egli non saprà mai della vanità di tutto se non ha esaurito tutto, e né lui né alcun altro esaurirà mai tutto fino in fondo. L'uomo di sacrificio, lui sì, può avere con le sue privazioni un'esperienza totale, può fare una verifica completa e può ricevere una conferma interiore della sua concezione della vita; la concezione dell'esteta che gode di tutto resta una finzione senza prova possibile: tra la persona ingenua e la persona disincantata è l'ingenua quella più addentro all'esperienza, almeno quella il cui atteggiamento è fondato su un'esperienza positiva, e forse la meno tratta in inganno, perché non ha la pretesa ingiustificata di non essere vittima di inganni conoscendo l'illusorietà di tutto. Dunque, se non c'è bisogno di nessun postulato per accettare innanzitutto e per risolvere virilmente nella prassi il problema del dovere, ce n'è bisogno di uno per contraddire la coscienza e per tentare le esperienze che essa, non si sa perché, disapprova. Qual è quest'ipotesi segreta, e su quale volontà profonda si istituisce? Giocare e godere come se si sapesse, come se si provasse la vanità di tutto mentre non lo si è provato e non lo si sa perché è impossibile provarlo e saperlo, significa pregiudicare qualsiasi problema col pretesto di eliminare ogni problema, e ammettere con un'anticipazione arbitraria che non c'è né realtà né verità. Davanti a ciò che si chiama intolleranza, l'artificio viene alla luce, la maschera cade: punto nevralgico ed esasperato nella coscienza dei contemporanei, segno di contraddizione e pietra di scandalo. Voialtri, spiriti aperti e liberi, non volete escludere niente; voi dunque escludete il dogma, il quale ( qualunque ne sia il valore, la questione è messa tra parentesi ) in tanto è in quanto è esclusivo. Tutto sta a sapere se ciò che voi abbracciate nelle vostre sintesi più vaste non sia infinitamente esiguo a confronto di ciò che perdete, e se non vi prendiate tutto tranne la verità che è. Perché avete voglia di pretendere di accaparrarvi interamente l'anima delle dottrine assolute, di comprenderne l'interesse relativo e gustarne la bellezza simbolica; lasciando cadere, respingendo ciò che ne costituiva l'unità e la vita, voi non avete altro che il corpo inerte e lacerato; lo spirito senza la lettera non è più spirito. Avete avuto la pretesa di trovare un passaggio inesistente tra queste due sentenze incontrovertibili: " chi non è per me è contro di me; chi non è contro di me è per me ". È venuto fuori qualcosa che voi non potete ammettere, perché confuta quello che ammettete, che non potete comprendere, perché è precluso alla mera curiosità, che negate e odiate senza commistione di dubbio e di amore, perché lo si ama soltanto senza commistione di odio. Questa disposizione d'animo, intera e semplice, per voi non esiste, voi non la conoscete: scegliete, dunque, risolutamente un atteggiamento deciso e, come gli uomini comuni che su questo punto si comportano da barbari, avete la vostra maniera risoluta di essere, di pensare, di volere e di escludere. Che significa " essere intolleranti dell'intolleranza ", come dicono alcuni? significa non ammettere che ci sia una verità riconoscibile all'uomo, utile all'armonia sociale e alla vita di ciascuno; significa ammettere che tutte le opinioni hanno uguale diritto al rispetto, che se nessuna di esse è assolutamente falsa, nessuna è assolutamente vera. Quanti problemi si aggravano non risolvendone e non ponendone alcuno! E quando il dogma non si limita a mettere la vostra ragione dì fronte a un ultimatum intransigente, o tutto o niente; quando reclama il coinvolgimento della volontà e di tutta la macchina, e pretende di governare l'interno e l'esterno degli atti, che cosa volete fare, voi che non volete niente, cedere o resistere? Se in voi c'è un movimento di protesta e di rivolta, se vi indignate della violenza che vi sembra perpetrata verso di voi, perché non potete fare a meno o di camminare sotto un giogo o di sostenere una guerra che non volevate dichiarare, ecco un atto di difesa che raduna le vostre forze artificiosamente disperse; esso, coalizzandole in uno slancio comune, manifesta il fondo più intimo, più personale, il centro solido e resistente cui sono legati i capricci più peregrini e le fantasie più libertine dell'estetismo. Io non condanno, non do una spiegazione, constato. Davanti a ciò che vi obbligherebbe ad agire voi agite. La festa è finita, il piano messo a soqquadro; costruendovi con la neutralità una scienza e una regola diventate militanti, e col pretesto della pace incrociate la baionetta. Avete preso partito; e vi meravigliereste di certo che i fatti non corrispondano più alla vostra teoria diretta contro i fatti: la vostra ipotesi è che non vi sia niente di reale o di falso, come se tutto fosse indifferente, tutto fosse equivalente. E tuttavia se la verità esiste, essa è: questo presupposto sembra semplice e legittimo, e tuttavia è l'unico che vi precludete. Che cosa dunque vi impedisce di ammetterlo? E perché, dopo aver reso la vita insignificante e inutile, compiacendovi di essere gabbati, la fate così intransigente, così piena di se stessa, così amante dei suoi agi, così sufficiente da non consentire più che ne venga alienato qualcosa? II. Se di fronte a una verità che ha la pretesa di essere esclusiva e di fronte all'imposizione dispotica dell'azione si recalcitra o si svicola, ciò avviene perché uno si fa di se stesso, dei propri diritti, della propria indipendenza un ideale che si ama e che si vuole; uno vuole essere, perché pone già le sue condizioni. Quando Magali si sottrae a una insistenza indiscreta, diventando a volta a volta uccello, brezza, fiore, onda, ha in cuore un amore; quando il dilettante scivola tra le dita di pietra di tutti gli idoli, è perché ha un altro culto, l'autolatria; guardando tutto dall'alto della stella Sirio, tutto gli diventa piccolo e meschino, tutto e tutti; di grande resta solo l'amor proprio di uno solo, io: " Ut sim! " ecco l'aspirazione di fondo che, come un fiat del tutto spontaneo e cordiale, sanziona in lui l'essere ricevuto, e lo produce liberamente, amorosamente. E non è questo il tacito motto di molti: " Nulla prima di me, nulla dopo di me, nulla al di fuori di me "? Quindi la stessa nolontà cela un fine soggettivo. Non volere nulla significa rifiutarsi a qualsiasi oggetto, al fine di riservarsi interamente e di precludersi ogni dono, ogni fedeltà, ogni abnegazione. Si vuole che l'essere non sia, e si gusta il piacere di essere per negarlo: egoismo radicale che distruggerebbe tutto per rimanere solo come un dio; è un panteismo soggettivo, di cui è interessante definire i caratteri precisi meglio di quanto non si sia potuto fare finora, perché è soltanto da poco tempo che si è affinato in una dottrina sofisticata. È tempo di catalogarlo; ciò equivarrà a togliergli uno dei suoi pregi. Sotto l'apparente indeterminazione delle sue forme fluttuanti, e malgrado la sua solerzia nell'evitare il colore appariscente di un sistema per conservare la grazia degli atteggiamenti flessibili e delle sfumature cangianti, l'estetismo nasconde una filosofia assai chiusa: è un sistema come tutti gli altri proprio per la pretesa di essere al di fuori e al di sopra di tutti gli altri. Per coglierne l'ispirazione originale è necessario rapportarlo alle sue origini, al panteismo tedesco, del quale ha reso flessibili le forme in modo da adattarlo al genio francese. Per il panteista lo spirito è una potenza indefinita e illimitata; esso non sussiste che manifestandosi, ma nessuna delle sue manifestazioni lo contiene interamente. Esso non può fare a meno di simboli, ma non se ne accontenta mai: tutti sono veri e falsi, necessari e insufficienti. Spirito e materia ovvero, da un altro punto di vista, soggetto e oggetto non sono nulla se uno è senza l'altro e non sono nulla se l'uno è per l'altro. Per prodursi il soggetto diventa oggetto, senza esserlo prima, ma non è oggetto che per sé; esso è nulla per tutto ciò che è fuori di lui. Il tutto soggettivo è dunque nulla oggettivo, e viceversa, senza che mai la solidarietà tra i due termini incompatibili venga a cessare. Essi non possono mai annullarsi completamente né realizzarsi puramente, per quanto vi tendano per approssimazioni progressive, oscillando tra il nulla e il tutto nelle ondulazioni infinitesimali della coscienza. Una volta aperta la strada alle deduzioni, la ragione astratta può proseguire senza limite assegnabile la serie delle sue evoluzioni e delle sue contraddizioni. Essa non dovrebbe fermarsi: di fatto si ferma sempre; finisce per ammettere che l'inesauribile è esaurito, e finisce per prendere la lettera per lo spirito. È proprio del panteismo di non sussistere che grazie a un'inconseguenza rispetto al suo metodo: esso professa di contraddirsi e di superarsi senza fine. Dopo aver negato la personalità, dovrebbe restaurarla; dopo aver distrutto la distinzione degli esseri e la realtà sostanziale dell'azione propria di ciascuno, dovrebbe affermarla; dopo aver messo Dio dappertutto eccetto che in Dio, e cioè da nessuna parte, dovrebbe restituirlo a Lui stesso e non porlo che in Lui soltanto, cioè dappertutto, perché l'immanenza non è concepibile che tramite la trascendenza. Dovrebbe farlo, se invece di rimanere legato alla lettera delle dottrine, che viene dichiarata morta quando vi si resta abbarbicati, obbedisse alla legge interna di rinnovamento e di progresso che l'animava in partenza. Ma non lo fa. Esso si ostina nel suo principio, senza vedere che questa ostinazione lo condanna; è inconseguente alla sua inconseguenza, perché c'è una maniera di contraffare la stessa sofistica. L' " estetismo " ( e questa è la sua originalità filosofica ) tenta di rimediare, senza forse averne chiara coscienza, a questa debolezza primigenia del panteismo. Grazie alla varietà delle sue forme, al carattere concreto e libero delle sue manifestazioni, alla facilità e al numero delle entrate e delle uscite aperte alla circolazione delle intelligenze, esso segna indubbiamente una tappa ulteriore nello sviluppo dell'anomia intellettuale e morale: rompendo le cornici sempre anguste della dialettica tecnica, espandendosi in tutti gli ambiti della filosofia, della scienza e della religione, esso comprende mirabilmente che è passato il tempo delle questioni di scuola o delle eresie parziali, che non si tratta più di sviscerare all'infinito astratte teorie, ma si tratta di assumere un atteggiamento infinitamente complesso. Così la sua dottrina è quella di non averne alcuna; ed è già una dottrina. Nonostante tutto, l'estetismo porta il marchio di un sistema, e malgrado le sue ripugnanze, è etichettato. Il suo scopo, perché ne ha uno, è quello di sostituire al dogmatismo intellettuale un'anarchia estetica, all'imperativo morale una fantasia infinita, alla compatta unità dell'azione un ricamo in cui il pieno della scienza mette in evidenza il vuoto del sogno universale; è quello ( tanto per usare termini tecnici che pure bisogna affibbiargli ) di assottigliare il soggetto e l'oggetto con una duplice corrente alternata e ininterrotta, la quale passando dall'uno all'altro li annienta di volta in volta, senza riuscirvi mai, e tuttavia senza cessare di ammettere che riesce sempre in questa impossibile distruzione. Per quanto sia difficile scoprirla, non per questo l'imperfezione logica del sistema non sussiste: resta da vedere come questo vizio non è che il segno di una contraddizione intrinseca della volontà e di una carenza morale. III. Dal momento in cui l'esteta, di fronte alle costrizioni intellettuali o pratiche che, se da un lato l'obbligano a credere e ad agire, dall'altro rivelano semplicemente in lui disposizioni antecedenti, si riprende in qualche modo con un moto estremamente sincero e profondo di egoismo, qual è la risultanza di questo strappo improvviso per il sistema del suo pensiero e per l'orientamento della sua vita? E con quale ritmo di compensazione, se egli vi persiste, recupera la sua nolontà sconcertata? Qual è la risultanza? Delle due l'una. O, cedendo a questo slancio della sincerità e a questo amore di sé che nessun artificio distrugge, persevera nella sua volontà di affrancamento e di sovranità assoluta. ( E più avanti si vedrà a che prezzo col sacrificio dell'egoismo giunge a questo amore di sé sincero e generoso ). Oppure, ostinandosi in un atteggiamento che non corrisponde affatto alla sua volontà più sincera, vi si mantiene unicamente con una volontà contraria: e questa volontà che vuole avere perverte quella che ha. In verità, anche senza che la riflessione chiarisca questo meccanismo sottile, senza che vi sia bisogno di conoscerne la teoria, la nolontà non potrebbe sussistere se non fosse composta di un duplice volere; e facendone emergere la duplicità non si fa altro che rivelare ciò che è, a sua insaputa forse, ma senza che questa nescienza rimuova il carattere volontario del duplice movimento che la forma. Mette conto di considerare per un momento questa contraddizione segreta di ciò che si potrebbe nominare il volontario e il voluto, allo scopo di determinare il significato degli atti che l'esprimono. Perché sono sempre gli atti che manifestano o l'accordo o il disaccordo della duplice volontà, il volontario e il voluto, implicata in ogni movimento riflesso, in ogni atteggiamento deliberato dell'uomo: essi risultano dall'una e dall'altra allo stesso tempo. E quando queste due volontà sono ostili, gli atti dichiarano quella che è voluta, quella che manca della sincerità profonda; o meglio essi sono la sintesi di questi due orientamenti incompatibili, sintesi ibrida, atti malriusciti, perché, come in un calcolo in cui il minimo errore parziale inficia tutto il risultato, come in un sillogismo in cui la conclusione segue sempre la parte più debole,9 l'azione deriva il suo carattere dalla volontà voluta che realizza, senza per questo cessare di fondarsi sul volere primitivo che perverte. Quali sono dunque, nel caso dell'esteta, questi movimenti antagonistici, il cui accordo è impossibile proprio perché il primo slancio è volontario in senso assoluto e sincero, perché esso domina tutti gli altri, perché persiste senza transigere, restando sempre integro in ciascuno di essi? 1° Questo movimento primigenio della volontà immanente si scopre nello sforzo medesimo che il dilettante fa per rinnovarsi e per sfuggire a sé senza posa, per essere, e per essere più di tutti, lui solo. Sotto l'indifferenza più affettata e nel dubbio più sottile c'è una dottrina conclusa, c'è una risoluzione positiva, c'è il volere di sé. 2° È una legge necessaria del pensiero riflesso: dal punto di vista soggettivo non si può abolire la volontà, nolle, senza che le si assegni immediatamente il nulla come oggetto e come fine. Questa necessità intellettuale non fa che tradurre in termini psicologici l'equivoco dell'atteggiamento artificiale in cui l'esteta si crogiola. Per svelare questo gioco di prestigio è bene richiamare alla mente che, a seconda che appartengano al linguaggio del soggetto o a quello dell'oggetto, tutte le parole hanno un duplice senso opposto, che apre al pensiero innumerevoli scappatoie: così nessuna delle negazioni del dilettante potrebbe avere un significato semplice, ?p???, perché ognuna di esse contiene sempre il contrario; ciò che allo sguardo dei sensi non è nulla, allo sguardo dello spirito sembrerà tutto, e viceversa. Ma in definitiva sotto questo gioco sofistico bisogna vedere la serietà delle volontà impegnate. Come è possibile che l'esteta riesca ancora a non volere nulla, mentre vuole essere, al punto da annientare tutto di fronte al suo capriccio imperioso? Annientandosi, per così dire, a sua volta di fronte a ciò che aveva appena disprezzato, e trattandosi come un nulla mentre considera come suo tutto l'oggetto degradato del suo pensiero o del suo godimento, egli non ha sputato sulla vita che per saziarsi di essa e di sé. Si ama abbastanza per sacrificare tutto al suo egoismo; ma non abbastanza per dilapidarsi, sacrificarsi e perdersi in tutto il resto. E quando su queste rovine fittizie egli gode del fenomeno per provare il nulla delle cose con un epicureismo straordinariamente raffinato oppure, per esaltarsi nel nulla di sé, agisce con la voluttà di una specie di ateismo mistico, tutto nel suo atteggiamento è mera menzogna; e che cos'è in effetti la menzogna, se non l'opposizione intrinseca di due volontà, una sincera e retta, la cui presenza permanente e inviolabile funge da testimonianza incorruttibile, l'altra manchevole e fallace, che prende corpo nella realtà perversa degli atti? Non si tratta dunque di contraddizioni legittime o necessarie, né di errori involontari, ma c'è falsità; il vizio intellettuale difficile da smascherare del sistema è il segno e la pena dell'inconseguenza o della doppiezza morale in cui per la volontà è facile cadere. La condanna e il castigo di questo stato voluto deve essere questo stato medesimo conosciuto con chiarezza; perché alla luce della conoscenza piena le contraddizioni volontarie dell'azione diventano le contraddizioni necessarie della sofferenza; e per una rivalsa inevitabile del volontario sul voluto le rappresaglie della sanzione devono scaturire dal fondo medesimo della sincerità e dell'amore primigenio dell'essere per l'essere. Qualcuno diceva che il problema morale dell'azione e del destino umano non esiste; la sua soluzione sembrava consistere nella sua rimozione. Ma ecco che mentre si pensa di evitarlo lo si pone nella sua interezza. Non si può perché non si vuole fare a meno di essere e di agire; la rinuncia morale non è né più né meno possibile e verace dell'astensione metafisica. Invano si decompone l'organismo spirituale, a forza di arte, di scienza e di esperienze raffinate, allo scopo di disarticolare tutti i meccanismi della vita e di convincersi che di essa non sussiste nulla: al nulla del volere sopravvive il volere più profondo dell'essere. Invano ci si ostina in una nolontà sistematica, come se il soggetto e l'oggetto armandosi l'uno contro l'altro riuscissero a distruggersi a vicenda. Oltre il nulla del volere rimane il volere artificiale ma positivo del nulla. Invano il soggetto, per trionfare sulla sua potenza di distruzione e sulla propria indistruttibilità, si rovescia nell'oggetto: egli non cerca il godimento dei sensi o dell'azione, non si esteriorizza nel fenomeno, non vi si annienta che portandovi sempre l'essere che è e ritrovandovisi, ma perduto come ha voluto e condannato dalle contraddizioni intrinseche di una volontà pervertita. Quindi non volere nulla significa nello stesso tempo: professare l'essere, cercandovi questa infinita virtuosità che si trastulla sempre e sfugge sempre; - affermare il nulla ponendovi la speranza vaga di un rifugio; - attenersi ai fenomeni e rimanere incantati davanti alla magia universale, per godere dell'essere nella sicurezza del nulla. È abusare di tutto. Si aveva la pretesa di rimuovere ogni problema originario o ultimativo, di deprivare la vita di qualsiasi senso, di chiudere davanti all'uomo qualsiasi via di uscita. Adesso tutte le vie di uscita gli sono aperte. E siccome bisogna che l'uomo voglia e persegua un fine, per quale fine agirà? E quali saranno i suoi atti? in che senso andranno: nel senso del nulla? Questa via sembra aperta, e la prima cosa da fare è esplorarla. * * * Non potendo quindi accontentarsi di una non-soluzione, conviene esaminare, in quanto meno onerosa, la soluzione negativa del problema dell'azione; si tratta, se così si può dire, di studiare il tentativo di annullamento oggettivo dell'uomo, dopo aver considerato lo sforzo infruttuoso di un annullamento soggettivo. In un primo momento, facendomi complice come sempre di coloro che affermano, che credono di provare e di dimostrare, che sembrano volere il nulla definitivo dell'uomo e dei suoi atti, tento di discernere ciò che è contenuto in questa decisione dichiarata; e anche qui mostro che sotto questa volontà apparente sussistono un'altra volontà e un altro pensiero. Così delle tre vie che sembravano aperte quella del nulla risulterà sbarrata; essa non esiste, nessuno vuole che sussista. Il primo capitolo espone succintamente ciò che, in pratica o in teoria, inclina le credenze o i desideri umani verso la soluzione del nulla, come all'unica e necessaria conclusione dell'esperienza della scienza e della metafisica. Vi si parla a nome di quegli stessi di cui si dovrà discutere l'atteggiamento, allo scopo di compenetrarsi nei loro sentimenti e, come fanno essi stessi, si rafforzano il più possibile le loro ragioni di pensare e di agire, giustificandoli, come essi sembrano giustificarsi davanti al loro stesso tribunale, prima di mostrare loro, se è il caso, come di fatto essi vi si condannino. Parte II - Come si pretende di fare dal nulla la conclusione dell'esperienza La soluzione del problema dell'azione è forse negativa? Capitolo I Il termine della scienza e il fine dell'ambizione umana Quale idea si fa dell'azione un gran numero di persone, senza neppure sognarsi di darne una definizione concreta? E per quale scopo esse agiscono nella maggioranza dei casi? L'azione è un sistema di movimenti spontanei o voluti, una scossa dell'organismo, un impiego determinato delle proprie forze vive, in vista di un piacere o di un interesse, sotto l'influsso di un bisogno di un'idea o di un sogno. Nulla più; non vi sono retroscena inquietanti: i nostri atti sono privi di risvolti minacciosi; essi cadono tutti nel nulla, come vi cade l'unità organica e il sistema vivente di cui essi sono la funzione. A che servono tante cerimonie per accantonare un problema chimerico? Una negazione franca e brutale è meglio di tutte le scappatoie ipocrite e di tutte le sofisticazioni del pensiero. Assaporare la morte in tutto ciò che è corruttibile prima di esservi sepolti a nostra volta per sempre, sapere che si sarà annientati e volerlo essere, ecco l'ultima parola dell'affrancamento del coraggio e della certezza sperimentale per gli spiriti risoluti liberi e forti: per la morte tutto è morto. Ma se la pratica della vita non è sufficiente a dissipare le inveterate illusioni di una speranza o di una paura superstiziose, né a sottrarre l'uomo al folle desiderio di essere sempre, la scienza positiva e la critica metafisica esorcizzeranno per sempre il fantasma dell'essere nascosto, rimuovendolo dal suo pensiero e dalla sua volontà. C'è una cosa che agli occhi del pessimismo sembra confermare ulteriormente questa conclusione: il male e la sofferenza nascono proprio dalla rivolta contro questo felice annientamento; sicché il nulla ha in proprio favore la testimonianza stessa di coloro che ne hanno orrore, ed è percepito, conosciuto, professato da coloro che non sanno ancora volerlo. È così certo, che lo si professa ugualmente, sia che lo si desideri sia che lo si tema. Allora sentiamo un po' queste persone che temono il nulla e quelle che ne fanno l'apologia: le une e le altre gli rendono omaggio ugualmente. I. Il nulla della vita: quante idee false e quante immagini desolanti evocano queste due parole salutari! Esse sembrano sciorinare davanti ai nostri occhi questa bancarotta che rende più doloroso il progresso dei desideri e persino dei godimenti. Occorre ampliare ulteriormente un lato del quadro: " La grande maggioranza degli uomini che si orienta con i sensi è sofferente e si lamenta; e tuttavia tutto ciò che si è potuto dire sull'immensità delle sofferenze umane forse non è niente a paragone delle delusioni, dei tradimenti, delle abiezioni del piacere. Vi sono delle vite in cui tutto sembra pieno, e in questo pieno non vi è nulla. Spesso le persone felici sono le più tristi; nell'abbondanza si cela una strana miseria, e coloro che sono passati per molti stati d'animo sanno che forse nel benessere hanno sentito la più sottile amarezza, ciò che non ha consolazione! Fate conto che tutto vada per il meglio: il lamento è più vivo. Ci si abitua a tutto tranne che a stare bene, e ci si stanca della vita per quel tanto di felicità che offre. Beati quelli che possono piangere, non sono affatto i pessimisti; la sventura non è affatto così cattiva come si crede, e da lontano è più nera che da vicino, perché le rimane la speranza e le illusioni. Siete voi i ricchi, i poveri, gli avidi e gli invidiosi, perché non avendo potuto sentire la vanità dei beni i vostri desideri vi si abbarbicano con accanita avidità. Ma come sanno coloro che hanno fatto fino in fondo l'esperienza della vita, dalla sazietà e dalla pienezza scaturisce solo disgusto e nulla: che cosa sono fortuna, ambizioni, successo? Due cani che lottano per un mucchio di spazzatura in cui il vincitore non troverà nulla. E queste persone disincantate non sono solo quelli che invecchiano e muoiono nell'incantesimo delle cose futili, senza mai essere scesi sotto la superficie dei loro sensi, ma sono i migliori, i più navigati, i più competenti, gli uomini di grande azione o di vivace pensiero, artisti e anime delicate che hanno sofferto la vita in un mondo in cui non c'è una linea diritta e in cui persino il raggio di luce è spezzato ". Che cosa dunque deve scaturire da questa esperienza universale della vanità di tutto? Queste due conclusioni. Se la vita è così cattiva come appare, è perché le si chiede ciò che non può offrire, perché la si prende per ciò che non è, e perché incalzandola si sente da essa una disperante risposta di morte, mentre essa non pronuncia che una serena e consolante parola di nihilismo. La vita sarà buona come può esserlo quando, liberi da ogni pretesa chimerica a suo riguardo e persuasi che essa non fa mai bancarotta perché non ci prende e non ci dà niente, la si guarderà in faccia così com'è, tranquillamente. È la realtà brutale, ma è anche la vera liberazione; non c'è niente nei nostri atti, non c'è niente al di là di essi: nulla. II. Il nulla della vita e degli atti umani era la conclusione dei sensi chiaroveggenti e dell'esperienza; ed è anche la conclusione della scienza. Ma udite ancora quali sentimenti artificiali di solito si mescolano a questa certezza, e come si interpreta attraverso un prisma di illusioni ereditarie la dottrina che li dissipa. " Il nulla dell'uomo: bisogna acquisirne la convinzione, non solo perché di fronte agli orizzonti aperti allo spirito e alle profondità sempre sfuggenti del pensiero, davanti alla storia generale dell'umanità e dell'universo noi ci distanziamo dalla nostra angusta prospettiva per sentirci invasi da una grande e triste ammirazione; ma perché il progresso della conoscenza analizza e riduce ad astrazione il suo oggetto, perché la riflessione distrugge gli istinti e le inclinazioni naturali, perché essa crea nuovi bisogni più velocemente di quanto non li soddisfi. Se la vita dei sensi lascia una stanchezza infinita, la ricerca scientifica sfocia in un vuoto più profondo, in un fallimento senza rimedio: è vano, è doloroso conoscere, perché la conoscenza mette in evidenza un desiderio inappagato e inspiegabile, l'inconoscibile e la vanità dell'essere umano. Col suo stesso sviluppo la scienza moltiplica i nostri contatti col mistero, come una sfera che si ingrandisce tocca in più punti il vuoto in cui è immersa. Che cos'è anche un semplice fatto? Ci si può mettere in presenza di un fatto positivo palpabile completo? No, qualsiasi fatto è già una finzione complicata, un'integrazione organica, una costruzione mentale, quasi la conclusione di un ragionamento, un'azione dello spirito. E che cos'è lo spirito, che cos'è l'azione? Per saperlo aspettate che la fisiologia abbia finito di smontare il meccanismo cerebrale, che la chimica abbia scoperto le divisioni ultime della materia, che le matematiche abbiano trovato la formula unica che si estenderà dalla cristallografia atomica fino al funzionamento della società! La scienza lascia nel mondo un ammasso enorme di realtà sconosciute; invano le si domandano motivazioni per l'agire, una regola per concertare gli atti, una spiegazione completa del dinamismo umano, una legge del piacere dell'interesse e della felicità: essa non potrebbe fornire un solo motivo d'azione né rendere conto di uno solo di essi; non potrebbe neppure giustificare se stessa, né porsi come reale e necessaria. A che serve che il mondo sia esposto alle dispute e alle scoperte degli uomini? La scienza non prescrive la scienza, e se si agisce per acquisirla, ciò avviene per un movente indipendente da essa; nel campo in cui è competente, essa non vede che nulla, non vede in se stessa che nulla ". Sono constatazioni incontrovertibili, soggiunge qualcuno, ma che bisogna difendere contro la forza acquisita delle abitudini mentali e l'inconseguenza dei sentimenti artificiali. La scienza sa quello che sa e ignora quello che ignora, senza che dobbiamo lagnarcene o restarne atterriti. Indubbiamente, lo si può concedere, essa avrà sempre davanti un inconoscibile, e l'inconoscibile è dello stesso ordine del conosciuto. Quello che resta da sapere non infirma ciò che si sa già. E se l'analisi scientifica degli atti umani, senza essere terminata, ne ha scomposto l'unità organica, se si è cominciato a dissolvere nei suoi elementi il meccanismo intellettuale e la macchina fisiologica, ne abbiamo abbastanza perché la certezza tranquillizzante di una verità che non è né così triste né così allegra, ma è quella che è, consoli e rassereni le coscienze. Per farsi illusioni sul nulla dell'uomo si considerava il nulla della scienza; viceversa bisogna esaltare la scienza perché essa dimostri all'uomo che il nulla è il termine di ciò che egli chiama la sua persona, la sua vita, i suoi atti e il suo destino. E invece di considerare il nulla dell'oggetto, invece di affliggerci per il nostro nulla personale, occorre che ci rallegriamo, indifferenti all'illusione effimera di ciò che passa e fugge in noi, nell'eternità di ciò che rimane al di fuori di noi, acconsentendo all'estinzione della volontà individuale. III. Il nulla dell'azione: è altresì la conclusione della critica metafisica, il fine cui essa indirizza il pensiero e la volontà dell'uomo. Ma anche qui, e qui soprattutto, quanti pregiudizi da infrangere per avere accesso alla beatitudine del nulla, così come il pessimismo la offre ai nostri desideri! È utile ricordare brevemente il progresso di questa filosofia dell'azione, a partire dal punto in cui essa comincia a rendere l'uomo disperato per purificarlo dal suo falso attaccamento alla vita, fino al punto terminale in cui la volontà, convertita nelle sue profondità ultime, aspira al non-essere e vi si inabissa. Le oppressioni del dolore o i disinganni più amari della voluttà da soli non giustificherebbero mai il pessimismo, e non sarebbero sufficienti a liberare l'uomo dall'illusione insita nel suo fanatico amore dell'essere. Guardate come l'esperienza della vita o la chiarezza delle scienze tolgono poche illusioni, perché si soffre anche a perderle, e perché, mentre più o meno ci liberano dell'illusione circa quello che siamo, lasciano sussistere in noi come un rammarico e un astio per quello che non siamo. Quanto più radicale è l'origine dell'illusione, tanto più radicale deve essere la cura della volontà. Consideriamone la storia e il progresso. Il grande merito della Filosofìa Critica è stato quello di mettere in luce i conflitti della ragione speculativa con la ragione pratica. Ora l'azione umana dipende a un tempo da tutte le facoltà estranee e ostili l'una con l'altra presenti nell'uomo. Per il pensiero che ne illumina l'origine e il compimento, essa è di ordine intellettuale; per l'intenzione e la volontà buona, appartiene al mondo morale; per l'esecuzione, al mondo della scienza. È a un tempo un assoluto, un noumeno, un fenomeno. Se dunque c'è antinomia tra il determinismo dei movimenti e la libertà delle intenzioni; se il formalismo morale è senza relazione con le leggi della sensibilità e dell'intelletto; se è interrotta qualsiasi unione tra pensiero, sensi e attività volontaria; se il corpo degli atti è separato dallo spirito che li ispira, e se in questo mondo che qualcuno presenta come il teatro della moralità l'uomo, deprivato di qualsiasi potenza metafisica, escluso dall'essere e come lacerato, si sente circondato da realtà impenetrabili in cui può regnare l'illogicità più assurda, allora la forza di vivere viene infranta insieme all'audacia di pensare. Col pretesto di restaurare e forse di fortificare la ragione pratica, la si è rovinata con lo stesso attacco che colpisce a morte la ragione pura. Il problema della vita è per tutti, che lo sappiano o no, a un tempo un problema di metafisica, di morale e di scienza. L'azione è questa sintesi del volere, del conoscere e dell'essere, questo legame del composto umano che non si può spezzare senza distruggere tutto ciò che si è separato. Essa è il punto preciso in cui convergono il mondo del pensiero, quello morale e il mondo della scienza; e se questi non si uniscono tutto è perduto. Se pensare, volere non è essere, se l'essere non è né pensare né volere, che razza di incubo è? Dunque qualsiasi dottrina per la quale la metafisica, la scienza e la morale rimangono estranee o diventano ostili, rende, l'essere cattivo, lo rende inintelligibile, incerto. Se esse non sono solidali, non c'è nulla. Dal giorno in cui la critica ha frantumato l'unità feconda dell'azione, il pessimismo, che fino ad allora era stato una semplice disposizione d'animo in alcuni, ha rivestito la forma di un sistema e ha potuto cantare l'inno metafisico del nulla. Che importano le miserie sensibili, che importa il suicidio del corpo? Esso dimostra sempre un attaccamento all'essere in quelle persone che si uccidono perché trovano la vita troppo breve: semplice petizione di principio. Il distacco e la liberazione non deve, non può venire dagli ostacoli esteriori né dalle sofferenze subite involontariamente; spesso esse non fanno altro che attizzare ed esasperare l'appetito di vivere. Senza dubbio la stanchezza incurabile del piacere, le disillusioni del sapere e la clamorosa immoralità del mondo contribuiscono a compiere in noi un'opera interiore di spossessamento; ma la sconfessione e la liberazione dall'essere scaturiranno solo dall'intimo della volontà e da essa soltanto. Siccome viviamo ed esistiamo soltanto per un'illusione, vogliamo essere proprio mentre non possiamo essere. È questo il male, il dolore inspiegabile, l'assurdità pura e semplice dalla quale occorre guarire. Il male non è l'essere, ma la coscienza di essere, la volontà di essere, l'illusione di essere. E quindi siccome " la nozione del nulla è sempre relativa, in quanto si riferisce a un soggetto determinato che si tratta di negare ( secondo quanto dichiara lo stesso Schopenhauer ); siccome il mondo attuale non esclude la possibilità di un'altra esistenza, e siccome rimane ampio margine per quello che noi designiamo soltanto negativamente con la stessa negazione del voler-vivere ", il pessimismo totalmente conseguente è un ottimismo radicale. Di fronte al male universale, sembra dire egli, non c'è sottigliezza che tenga; preferisco credere al nulla piuttosto che accusare l'Essere qualunque esso sia: il nulla è il bene, esso è; l'essere è il male, esso non è. Così la volontà liberata dalle illusioni e dai legami che la tenevano prigioniera ritorna alla sua essenza; morendo al mondo delle passioni e dell'egoismo, nasce a un nuovo essere, si genera tramite la distruzione volontaria e il rinnegamento di sé. La tendenza di ogni essere a perseverare nell'essere, la lotta per l'esistenza, tutto questo istinto di conservazione e di conquista non solo è mistificante, ma è anche mistificato, è l'illusione di un'illusione. Se fosse reale sarebbe buono, perché, malgrado la sofferenza e la disperazione, la volontà di essere che riuscisse a essere sarebbe un bene infinito a paragone del quale nessuna avversità conterebbe più. Tutta l'immane oppressione dei cuori nasce non dal fatto che coloro che soffrono sono, ma dal fatto che, non essendo, essi credono e vogliono essere. In effetti non la paura del nulla è il male e l'essere, ma il desiderio, la volontà di non essere è la verità e il bene. Quindi siccome la volontà di essere non riesce a essere, e in questo consiste il dolore supremo; siccome la volontà di non essere, rientrando nella verità, costituisce l'infinita consolazione delle anime, quel che occorre è uccidere in sé non tanto l'essere, che non è, ma la volontà chimerica di essere, acconsentire al non-essere della persona umana, estirpare fin le radici ultime del desiderio e qualsiasi amore della vita. Svelare la frode di ogni istinto di conservazione e di sopravvivenza significa procurare all'umanità e al mondo la salvezza nel nulla, questo nulla che bisogna definire come l'assenza del volere. Nulla della vita sensibile, nulla della ricerca scientifica, nulla della speculazione filosofica, nulla dell'attività morale: ecco la conclusione universale e il termine unico dove il pessimismo ci porta a seppellire tutte le ingannevoli apparenze della realtà e tutte le disgraziate velleità d'esistenza. La sua originalità e la sua forza consistono nel considerare che il suicidio della sensibilità e del pensiero è del tutto insufficiente, o addirittura contrario al suo disegno, se non si libera la volontà dall'illusione del suo attaccamento all'errore dell'essere, e se non si ottiene da essa la rinuncia suprema, che sola elimina nella loro causa il male e la sofferenza, in quanto le dischiude, le fa desiderare e amare il nulla. Ecco dunque la prospettiva che mi è offerta: non si è forse riusciti a farmi percepire, a dimostrarmi, a rendermi amabile il nulla, a farmelo volere come una beatitudine insondabile? Mi era risultato palese, mi risulta più che mai, che io non posso essere per me, mio malgrado. Se dunque la mia volontà più sincera e più profonda aspira all'annientamento come a un rifugio garantito, come a un fatto di esperienza, come a una verità scientifica, come alla conquista ultimativa della saggezza filosofica, chi potrebbe sbarrarmi la strada e dirmi senza assurdità: " Non c'è scampo, bisogna essere! "? Il capitolo seguente accerta che non si danno né concetto vero e proprio né volontà deliberata e verace del nulla. L'azione che sembra aspirarvi è composita e, per cosi dire, ibrida. Di questa duplice volontà che vi concorre si fa vedere anzitutto l'inconseguenza nell'atteggiamento dell'uomo di mondo disingannato o del materialista da laboratorio, i quali errano circa il senso sia delle loro affermazioni sia delle loro negazioni; e poi, inoltrandosi fino alla radice metafisica del pessimismo, si scopre nell'annientamento del volere che esso esige dall'uomo il conflitto di due movimenti divergenti, di cui il primo porta la volontà verso una grande idea e un profondo amore dell'essere, l'altro la consegna al desiderio, alla curiosità, all'ossessione del fenomeno. Capitolo II - Non si dà soluzione negativa del problema dell'azione Che cosa cela la coscienza o la volontà del nulla A chiunque è persuaso di concepire e di volere il nulla come termine della propria azione personale occorre rispondere: non lo si concepisce, non lo si vuole. E l'impossibilità di averne un'idea semplice e distinta non è che la traduzione, a livello intellettuale, di una decisione sincera e perentoria della volontà. Quindi la concezione e il desiderio artificiali del nulla derivano da una inconseguenza e da una deficienza nell'azione voluta. È quanto bisogna cercare di vedere bene, disaggregando le contraddizioni interne di quello che potrebbe essere chiamato il nihilismo, se questo termine non avesse assunto un'altra valenza, e mettendo allo scoperto i moti segreti della sincerità presso coloro che, in nome dell'esperienza della scienza o della critica metafisica, credono e aspirano alla distruzione della persona umana. L'idea del nulla non è uno stato semplice, non più che qualsiasi altro stato della coscienza riflessa. L'analisi logica, come pure le leggi sperimentali e il ritmo organico della vita mentale rivelano in essa una necessaria complessità. In forme assai differenti, e da visuali estremamente distanti, da Platone e da Cartesio a Hamilton, Schopenhauer, Spencer e Bùchner si può affermare con uguale giustezza e in un senso equivalente queste diverse proposizioni: " Io penso al nulla, dunque c'è un soggetto pensante e un oggetto pensato, il nulla inerisce all'essere ". " Pensare significa condizionare; il concetto del nulla è subordinato all'idea positiva di essere ". " Non si dà coscienza che per discriminazione e sintesi; il nulla è una rappresentazione simbolica ". " Nell'idea del nulla di reale non c'è che il lavoro cerebrale cui essa è legata; e con questo termine bisogna intendere la dissoluzione dell'organismo ridotto ai suoi elementi ". Quindi, comunque, per concepire il nulla bisogna cominciare con l'affermare e negare qualche altra cosa, di modo che lo stesso pensiero che ne abbiamo si mantenga al di fuori di esso, e non lo ponga che sfuggendovi invincibilmente e inglobandolo in una sorta di presenza eterna. Siccome non lo si può concepire puramente e semplicemente, probabilmente è legittimo concludere che non lo si può volere in assoluto. Ma proprio di questa impossibilità occorre rendere conto, cercando qui, come ovunque, il segreto delle necessità intellettuali nei moti più profondi della volontà. Se non concepiamo il nulla, è perché non lo vogliamo; e se sembra che lo vogliamo, che cosa c'è sotto queste parole, e che cos'è questo volere? I. Che si presti orecchio alla sincerità sofferente e lamentosa della grande moltitudine degli amanti ingenui della vita e della gioia, o che si interpelli il più esperto tra coloro che hanno vissuto quella che si chiama vita, e si chieda loro se pensano di aver acquisito una certezza sperimentale del nulla, e se sono convinti di aspirare totalmente all'abolizione del loro essere. In ogni caso, ecco quello che fanno ed ecco quello che dovrebbero fare. Che significa di solito volere e sperimentare il nulla? Significa la passione senza scrupoli dei piaceri, l'attaccamento alla vita dei sensi, l'ardente ricerca del benessere, la leggerezza nelle cose serie e la gravita in quelle frivole, il disprezzo dell'uomo e l'esaltazione dell'io. Si vuole il nulla e si gode di tutto il possibile: volontà finta, esperienza fittizia, menzogna. Sapete che cosa nasconde questo desiderio, vergognoso perché interessato? Un amore smodato dell'essere e del benessere. Che significa veramente volere e sperimentare il nulla? Significherebbe staccarsi con la rinuncia dai beni apparenti; significherebbe adottare un metodo rigoroso di sacrifici, mutilando i desideri naturali e abolendo a poco a poco le energie spontanee della vita; significherebbe morire a poco a poco con l'estinzione graduale dell'io, e con questa mortificazione fare la prova decisiva del nonessere. Dunque non abbiamo ancora compreso che, qualunque cosa abbiamo detto, c'è un esperimento metafisico, uno solo, cioè la morte, che risolve il problema sempre pendente: essere o non essere? Che questa morte la si anticipa, la si presagisce, le si strappa il segreto, quando sappiamo operare su di noi una privazione per possedere una certezza che essa sola offre, estinguerci per vedere ciò che celano le cose morte, mortificarci per penetrare la verità della vita? Quest'esperienza, che in pratica corrisponde ai metodi scientifici di assenza e di cancellazione, la facciamo? E allora in quel caso che cosa volevamo seriamente, se non lo vogliamo già in atto con un'intensità maggiore? Che si condannino dunque coloro che, senza generosità e senza lealtà, mettono le loro passioni al riparo, all'ombra che sperano funga da rifugio e di cui tuttavia hanno paura, perché vi presagiscono una luce. Indubbiamente vi è un sufficiente numero di altre persone che si convincono francamente di scoprire nell'esperienza della vita o nelle certezze della scienza la prova del loro annientamento. Essi sono sinceri; ma c'è la sincerità delle teorie e dei pensieri, e c'è la sincerità dei sentimenti, dei desideri, delle decisioni pratiche; questa spesso può essere dissimulata, senza essere liquidata, da un velo superficiale per l'intervento della riflessione dotta e della logica verbale; occorre sollevare questo velo. II. Che cosa permette all'uomo di mondo o allo scienziato da laboratorio di affermare il nulla dell'uomo attraverso il godimento sensibile o il fenomeno fisiologico? Qual è, alla radice stessa dei suoi ragionamenti o delle sue constatazioni, la tacita premessa da cui procedono tutte le sue conclusioni? È l'idea, è il bisogno di una soddisfazione migliore e di una realtà diversa da quella che assapora e tocca. Venendo meno alla prima legge dell'esperienza, alla regola più essenziale del metodo scientifico, ossia senza controprova, da ciò che ha constatato egli conclude contro ciò che non ha potuto constatare. In base al fenomeno arguisce contro l'essere, mentre in verità egli avverte l'insufficienza del fenomeno solo in quanto è compenetrato dalla grandezza dell'essere. Lo afferma prima ancora di negarlo e proprio per negarlo. È in questa inconseguenza che si scopriranno le contraddizioni della sua volontà. Posso forse affermare il nulla in nome dell'esperienza o della scienza? No. Per quanto queste moltiplichino le loro analisi e le loro distruzioni, si arrestano sempre, e la loro competenza cessa. Che cosa sono le qualità sensibili, anzi che cos'è il movimento e tutto questo meccanismo cui la scienza riduce l'universo? è come minimo l'espressione di un'incognita in funzione dello spirito. E se lo spirito che si spoglia delle sue modalità per rivestirne la natura è esso stesso sconosciuto nel suo fondo, tutto il resto non lo sarà a fortiori? Sì, ma tutto il resto, qualità sensibili, movimento e natura, non può essere affermato senza che lo sia allo stesso tempo anche lo spirito. Ma c'è di più; qualora negassi la natura e lo spirito, qualora avessi negato tutto quello che ho potuto, resterebbe sempre qualcosa da negare, un infinito che mi sfugge e nel quale ricadono le mie distruzioni successive. Di elemento in elemento l'analisi ha dissociato, estenuato, sublimato la realtà apparente. Non v'è più attività, non vi sono più qualità, c'è un'indeterminazione pura, ciò che può annettersi a qualsiasi essere passivo, che non può essere concepito da solo, quello che gli antichi chiamavano la materia prima, e meno ancora, l'essere senza essere, t? ?µe???, se così si può dire. Ma dietro ecco che qualcosa prende corpo, una realtà sconosciuta, un mistero reale che incute sgomento al pensiero di un Pascal, di un Littré, di uno Spencer, e di fronte al quale l'intelletto non opera più, stupito della grandezza di quello che vede, ma con una sola certezza: che non lo può comprendere, e altresì che niente può essere compreso, negato, messo in dubbio, ammesso senza questa misteriosa affermazione. Che significa quindi credere e aspirare al nulla di ogni oggetto di pensiero o di desiderio? Significa ammettere questo Grande Tutto con una testimonianza e un atto di fede spontanei che trascendono la scienza, con una decisione originale che manifesta l'iniziativa della volontà; di esso amano parlare soprattutto coloro che auspicano l'annientamento. Tutto e Nulla per essi sono due termini equivalenti. E che significa ciò, se non che al fondo di queste coscienze sussiste il sentimento oscuro e profondo che quello che non sarà o non è più non è mai stato veramente? Che l'essere nella sua pienezza si sottrae alla durata e alla distruzione? Che il fenomeno apparso per dileguarsi non corrisponde affatto alla loro attesa infinita? E che la vita che muore è assurda? Ovunque esplode in essi un'idea sublime e come un desiderio eterno dell'essere; ciò che negano rivela la grandezza di ciò che vogliono. Il materialismo dogmatico o militante è dunque un misticismo che, nella materia, adora la realtà invisibile di ciò che vede, e rende un culto all'essere sotto le specie del fenomeno. Qui non c'è più niente di scientifico; non è più neppure questione di accontentarsi dell'argomento ontologico dei metafisici. Perché lo spirito trova fin nelle pieghe di questo nulla in cui sembrava riparare ciò che non pareva cercare: un po' di essere e forse l'Essere. E non bisogna stupirsi dello sviluppo spontaneo e universale del pensiero religioso, tanto presso gli australiani che negli Stati Uniti, nell'ignoranza o nella civiltà più progredita, perché persino sotto questa affermazione riflessa del nulla è coinvolta una credenza e c'è un omaggio indiretto all'Essere ignoto. Pertanto la volontà che inclina all'annientamento della persona umana si fonda, che lo sappia o no essa stessa, su un apprezzamento singolare e un amore assoluto dell'essere. Essa sembra dire: che cos'è mai chi non è eterno! Il dileguarsi delle apparenze individuali, delle passioni effimere, di ogni potere di sofferenza o di godimento nell'immensa realtà che ignora la morte, ecco la meta agognata. Ma nello stesso tempo vedete poi affiorare una volontà contraria. Nel momento in cui si dichiara l'insufficienza del fenomeno, ci si abbarbica a esso come al solo essere solido e reale; si persiste ad accontentarsi di quello che il pensiero e il desiderio riconoscevano inane, fallace e nullo; si colloca il proprio tutto laddove si riconosce per altro verso che non c'è nulla; non solo si fa come se questa vita fosse tutto ciò che è, ma per di più come se avesse un valore assoluto e un'importanza divina. E quando ci si vuole saziare di questa scienza, di questo godimento, di questa esistenza materiale, ci si condanna a scatenare in sé un conflitto senza rimedio tra la pristina volontà del nulla, la quale si ispira a un vero amore dell'essere, e questo appetito del fenomeno, il quale con i sofismi della sensualità o con l'orgogliosa perversione dello spirito getta la debole volontà proprio là da dove si era esclusa. In effetti volere il nulla in questo modo, stando alle parole con le quali ci si illude, significa rendere testimonianza sia alla vanità di ciò che si dà come esca all'azione, sia alla grandezza di ciò che si voleva con tutta la forza e tutta la sincerità del pristino ed intimo desiderio: menzogna, perché si abusa di un equivoco; non si vuole, non si può negare a un tempo il fenomeno e l'essere; e tuttavia, a seconda dei bisogni, li si nega di volta in volta come se venissero annientati entrambi allo stesso momento, senza accorgersi che con questa stessa alternativa vengono posti ugualmente. III. Si può volere sinceramente questa distruzione totale? E quando il pessimismo distacca la volontà sia dalle illusioni del piacere intaccato dal dolore sia dalla grande illusione del voler-vivere, non uccide con un solo colpo il fenomeno e l'essere stesso? Non finisce per distruggere quello che solo ci interessa, noi stessi, e in noi tutta la facoltà di soffrire con la liquidazione della volontà personale? No. Se il suicidio del corpo manifesta un attaccamento sregolato alla vita sensibile, perché secondo quanto osserva Pascal la volontà non fa mai il minimo passo che verso la felicità, e questa è il movente di tutte le azioni di tutti gli uomini fino a coloro che stanno per impiccarsi, anche questo tentativo di suicidio metafisico non rivela forse un amore folle e accanito dell'essere? Ma un amore che nella sua nativa sincerità è buono, un amore più forte della sofferenza, della morte, e della stessa eternità sulla quale pretende trionfare. Così dunque basterebbe voler essere perché dal nulla sorgesserò il male dell'esistenza e tutto il suo seguito di fantasmi micidiali! Così dunque basterebbe non voler essere perché l'essere venisse distrutto! E la volontà che crea e annienta tutto il resto a suo piacimento possederebbe questa forza suprema di annientare se stessa! A ben riflettere il pessimismo fa esplodere un'enorme e invincibile fiducia nell'onnipotenza della volontà, perché questa sembra sufficiente e necessaria per produrre il dolore dell'esistenza e anche per creare il felice annientamento che senza di essa non esisterebbe. E al di là di questo fine voluto e proclamato c'è una fede totale, c'è un inno all'azione sovrana e creatrice del volere. Rompiamo allora questa rete inestricabile di illusioni e di disillusioni quale è intessuta dal pessimismo; ecco senza alcun dubbio che cosa ne verrà fuori. 1) L'universo è il fenomeno illusorio e cattivo di una volontà fonte di essere. 2) Il male dell'esistenza, l'illusione della vita è distrutta da una volontà di non essere, la quale annienta il fenomeno del primitivo volere e istituisce il beato nonessere. 3) Per non essere, per resistere all'invasione delle illusioni sottili, non basta spegnere in sé la vita apparente e mortale, occorre che questa volontà di non-essere abbracci l'eternità; essa ha bisogno di essere infinitamente al fine di non essere più e di negarsi perennemente senza venir meno; e, proprio perché è onnipotente a creare il male e l'errore dell'essere, occorre che sia onnipotente ad annientare la propria opera e a disfarsi di se stessa. Abbiamo voglia di stimolare il pensiero e il desiderio: nel voler-essere, nel voler non essere, nel volere non volere sussiste sempre questo termine comune, volere, il quale domina con la sua inevitabile presenza tutte le forme dell'esistenza o dell'annientamento, e dispone sovranamente dei contrari. C'è dunque una duplice ambiguità sul senso dei termini essere e nulla. Talvolta per essere bisogna intendere questa vita ingannevole trascinata dal torrente delle mobili chimere e da questa magia dolorosa del fenomeno universale; e allora nel voler-essere il volere è il nulla e l'essere è il male e l'illusione reale: Si fallor, non sum. Talaltra per essere bisogna intendere questa volontà profonda che si possiede e si libera solo distaccandosi da ogni forma individuale, da ogni pensiero distinto, da ogni vita propria; e allora nel voler-essere l'essere non è, mentre solo il volere ha la realtà infinita: Si non fallor, sum. Perché una volta che le passioni sono spente e i desideri mortificati, la volontà svincolata dall'oggetto che la teneva prigioniera ritorna alla sua pura essenza; e morendo al mondo dei sensi essa nasce all'impersonalità. Ma da questo equivoco vediamo scaturire l'incoerenza e le contraddizioni ineluttabili della volontà. Se vuole essere, si perde; per essere, occorre che non voglia se stessa, e tuttavia può negarsi in questo modo solo se ha cominciato dapprima a porsi. In altri termini prima di non volere è necessario che essa abbia voluto; il male e l'illusione sono le condizioni della liberazione finale; il fenomeno è indispensabile alla concezione, alla conquista e alla volontà del nulla. E per auspicare l'annientamento completo si richiede insieme il fenomeno e l'essere, per opporli l'uno all'altro e per abolirli a vicenda. Da una parte il voler-essere non e efficace mentre al contrario il voler non essere lo è; e tuttavia per essere efficace c'è bisogno che il primo abbia prodotto qualche effetto reale su cui quest'ultimo debba trionfare. Dall'altra non l'essere è male ( perché l'essere non è ), ma la volontà di vivere. E tuttavia non è dal volere che bisogna guarire, bensì dall'essere e dal vivere: come se la volontà fosse ora il fenomeno dell'essere e ora l'essere del fenomeno; e qui si mettesse al di sopra e al di fuori di tutto, mentre la si subordinasse passivamente alle illusioni e ai colpi provenienti dall'esterno! Pareva che essa dovesse ritirarsi nella sua pura essenza, ed ecco che per giudicare la vita tiene conto della prima sofferenza che le si para davanti, senza rilevare il dilemma: o questa sofferenza è illusoria, perché deriva dal voler-vivere che è un'illusione, o è seria, degna di essere messa in conto nel bilancio della vita, è allora è la conseguenza reale di una volontà reale che è riuscita a essere. La sofferenza quindi o non è, o deriva da un fondo, di amore dell'essere. Il pessimismo così si perde in contraddizioni insolubili, perché procede da un duplice volere, il volere del fenomeno e il volere dell'essere. Talvolta attribuendo realtà solo alla magia delle mobili apparenze, talaltra riservandola unicamente per questo abisso misterioso in cui l'illusione è morta, esso tiene conto della volontà fenomenica come se fosse noumenica e viceversa. Con le sue stesse negazioni essa pone una duplice realtà, quella individuale e quella impersonale, ponendo così in presenza i due termini la cui drammatica opposizione costituisce tutta la serietà del conflitto morale. Ecco dunque un primo risultato di un'importanza estrema, per quanto in apparenza del tutto negativo: non vi è né concezione semplice e distinta né volontà autentica e omogenea del nulla. Nell'azione che sembra ridursi a esso o tendervi sussiste sempre una contraddizione intrinseca e implacabile. Senza dubbio alcuni possono negare il fenomeno con la pura idea che si fanno dell'essere, altri possono negare l'essere con l'immagine ossessiva che hanno del fenomeno; ma la rappresentazione simbolica del nulla nasce sempre da una doppia sintesi: il soggetto affermato senza l'oggetto, insieme l'oggetto affermato senza il soggetto. In questo concetto quindi c'è l'unione e l'opposizione alternativa del fenomeno e dell'essere, della realtà sensibile e della realtà invisibile. Porre il nulla significa affermare nel medesimo istante tutto questo sistema di coordinate. Negare uno dei termini significa mettere in evidenza l'altro per un'inevitabile compensazione, senza che per questo ci si liberi del termine contrastante, il quale resta indispensabile per quello stesso termine che si afferma. Di modo che la volontà del nulla è necessariamente incoerente, e cela in sé un conflitto nel quale non può soccombere, malgrado la menzogna e l'errore. Perché l'errore non è nulla è il nulla che è l'errore poiché non si può negare tutto se non affermando l'infinito, e il nulla non è il nulla senza l'assoluto, un assoluto forse velato ma presente. E come si rivela il segreto dei cuori attraverso queste ambiguità! Credendo di aspirare al nulla, si persegue al tempo stesso il fenomeno nell'essere e l'essere nel fenomeno. Guardate come al delirio dei sensi la passione mescola uno strano misticismo, e sembra assorbire in un istante di piacere, morto nello stesso istante in cui è nato, l'eternità dell'essere, facendovela morire con esso. Ma guardate anche come all'abnegazione mortificante il quietismo aggiunge un desiderio di indifferenza, un bisogno di sentire l'immolazione, una gioia di rinuncia e tutta la raffinata sensualità di un falso ascetismo, il quale manifesta un senso proprio, un egoismo sottile e ambizioso. Menzogna da entrambe le parti, perché la volontà finisce sempre per volere ciò che essa ha voluto escludere, e perché si infligge già, sembra prepararsi così il supplizio della discordia intestina, laddove armata contro se stessa si lacererà con tutta la propria forza. * * * Sembrava un paradosso forzato la tesi secondo cui noi non potremmo avere né un concetto né una volontà reale del nulla, non potremmo acquistare questo nulla neppure a costo del sangue perché non esiste più per noi, e dal momento in cui poniamo il problema dell'azione ne possediamo già una soluzione positiva. E tuttavia è proprio così. Dove volgerci adesso che la via sulla quale avevamo creduto impegnarci è come un vicolo cieco con duplice accesso? Qual è il minimo di ciò che si può affermare e volere? Sembra che sia il fenomeno quale lo studiano le Scienze Positive. E quando si riteneva che l'uomo va verso il nulla di fatto non si intendeva affermare, in modo improprio, che la sua persona e le sue opere si risolvono in fenomeni? Crederlo non significa forse attuare quella che si può chiamare, nel doppio senso della parola, la soluzione positiva del problema? Bisogna dunque vedere se il fenomeno è autosufficiente, oppure se, ammettendolo da solo, non si pone implicitamente un'altra cosa rispetto a esso. L'orientamento naturale della volontà Il problema dell'azione comporta una soluzione positiva? La via del nulla è sbarrata: non possiamo, non vogliamo addentrarci in essa; questa strada non esiste. Mentre pareva che ci si inabissasse, si lasciavano aperte dietro di sé due altre strade: la via del fenomeno e la vita dei sensi; la via dell'essere e la vita di sacrificio. E la volontà si è persa nei suoi movimenti contrari. La sua incoèrenza l'ha condannata. I. Come è possibile ottenere in essa l'accordo profondo che darebbe all'azione la sua sufficienza e la sua coesione perfetta? Si potrebbe vivere insieme di questa duplice vita cui condurrebbe la volontà ambigua del nulla? Ma, a parte che probabilmente non si troverebbe il modo per conciliare queste due direzioni divergenti, non è scientifico ricorrere per prima all'ipotesi meno onerosa? E seguendo una via unica non saremo più sicuri di trovare alla fine nell'azione l'omogeneità perfetta della volontà? E dunque, dato che si vuole optare, che cosa sceglieremo: l'essere nel nulla del resto, nel disprezzo di ogni oggetto dei sensi o della scienza? Oppure il resto posseduto nel nulla dell'essere, nel disprezzo dell'invisibile e del " soprannaturale "? Ma che cos'è questo essere misterioso e inquietante che sembra sottrarsi alla nostra presa senza che noi gli sfuggiamo: non è proprio lui, lui soprattutto, lui solo che si vuole accantonare? " Non c'è nulla ", si diceva; ed ecco che questa negazione radicale è diventata gravida di un ignoto minaccioso e accusatore: " Tu non mi sfuggiresti, se non mi incontrassi ". Quello che si vuole dunque è che vi sia qualcosa, e che questo qualcosa sia autosufficiente. Si vuole che il fenomeno sia, che la vita sensibile, la scienza, tutta questa immensità dell'universo conosciuto e da conoscere di cui riempiamo il nostro sguardo e il nostro cuore sia, e tutto sia per noi. E dietro questo schermo del fenomeno si spera che la vita sia chiara, completa e soddisfacente, si vuole che l'azione vi si dispieghi e vi si compia. C'è qualcosa: questa proposizione semplice e vaga, che non pareva molto difficile da acquisire, ma nella quale non è agevole scoprire un riconoscimento sincero della volontà,9 finisce così per diventare tanto evidente e rassicurante quanto lo è questa frase ambigua e terribile: " Non c'è nulla ". C'è qualcosa nelle nostre sensazioni e nei nostri piaceri, nella nostra conoscenza e nei nostri atti: la maggioranza delle persone vive con questa convinzione. È la strada larga e lunga su cui avanza il grosso dell'umanità. Senza dubbio queste parole non hanno alcuna precisione filosofica: esse sono antecedenti a qualsiasi professione di fenomenismo, di criticismo o di idealismo; traducono il movimento ingenuo della vita che si invaghisce di se stessa e di tutto ciò che la sorregge senza sapere che cosa essa sia. Nei miei atti, nel mondo, in me, fuori di me, io non so dove ne che cosa, c'è qualcosa. II. Una volta concesso, da questo dato scaturirà, per una segreta iniziativa che apparirà sempre più chiaramente, tutto l'ordine sensibile, scientifico, morale e sociale. In tal modo si vedrà rientrare nel piano volontario della nostra vita anche quelle cose che sembravano anteriori, estranee o conseguenti alla volontà. E seguendo fino all'estremo lo slancio del volere, si saprà se l'azione dell'uomo può essere definita e perimetrata in questo ambito naturale. Siccome la volontà, non tendendo mai al nulla, di solito si orienta verso l'oggetto della sensazione o della conoscenza, adesso bisogna indagare se l'azione può essere sufficientemente definita in funzione di questo oggetto che essa si propone come fine, e se si restringe realmente ai fenomeni; in una parola, se essa stessa non è che un fatto come gli altri, e se nel senso stretto del termine il problema della vita comporta una soluzione positiva. Se c'è una novità nel metodo di questa indagine, a me pare che consista in questo: a partire dal primo risveglio della vita sensibile fino alle forme più alte dell'attività sociale si sviluppa in noi un movimento continuo di cui è possibile evidenziare insieme il concatenamento rigoroso e il carattere fondamentalmente volontario. Così cammin facendo, attraverso la lunga investigazione che ci tocca compiere, si dovrà osservare che la palese necessità di ogni tappa è la risultanza di un volere implicito. Da una parte i termini successivi dell'azione saranno collegati tra loro in modo tale che il rigore scientifico poco alla volta si comunicherà a studi che finora non l'hanno avuto. Dall'altra, scoprendo come i nostri atti sbocciano ineluttabilmente e per quale impulso intimo si trascendono incessantemente, come i risucchi di una pietra caduta nell'acqua profonda, saremo preparati gradualmente al problema ultimativo: per chi si limita all'ordine naturale c'è o non c'è concordanza tra la volontà volente e la volontà voluta? E l'azione che è la sintesi di questo doppio volere trova alla fine in se stessa la ragione della propria definizione e autosufficienza? La vita dell'uomo si restringerà o no a ciò che appartiene all'uomo e alla natura, senza ricorso a nulla di trascendente? Eccoci in procinto di studiare il fenomeno dell'azione dalle sue origini più elementari fino al suo sviluppo più ampio possibile. Siccome questa indagine è complessa, e questo movimento di espansione si articola attraverso l'immenso organismo della vita, considereremo successivamente diverse tappe. Vedremo germinare l'azione dalle condizioni in cui attinge il suo alimento, poi ne seguiremo la vegetazione naturale e lo sviluppo nell'ambiente in cui è nata e fruttifica. Proprio analizzando in primo luogo i dati più immediati della sensazione e della scienza libereremo allo stesso tempo gli elementi dell'azione, così come discutendo le condizioni della conoscenza ritroveremo gli stessi principi della realtà conosciuta. Perché nell'ordine dei fenomeni e nelle scienze che a essi si restringono la distinzione ontologica tra essere e conoscere non ha senso: il fenomeno rileva a un tempo dal conosciuto e dal conoscente. Si può e si deve mostrare come dall'oggetto risulta il soggetto, e come il soggetto a sua volta agisca e viva nell'oggetto, senza per questo pregiudicare alcuna questione ontologica. Con ciò stesso sarà ricondotto ai suoi termini autentici e sarà sicuramente risolto il problema dell'originalità del pensiero. Perché, ammesso che si sia stabilito positivamente che l'oggetto della sensazione e delle scienze non è posto che in funzione di qualche altra cosa, diventa palese che non si può riservare al principio soltanto ciò che non può essere concepito da solo: per dimostrarlo non c'è bisogno di alcuna speculazione; è un fatto. Dunque uno dei risultati essenziali di questa ricerca deve essere quello di accreditare un carattere propriamente scientifico ( il carattere di una scienza distinta e originale ) a studi di cui si sono contese il privilegio le scienze positive e la metafisica, con pretese ugualmente illegittime. Pertanto a fondamento della scienza dell'azione si porrà il campo più vasto possibile, tutto il campo del sapere umano; perché l'azione costituisce il nodo dell'esperienza sensibile, così come della conoscenza scientifica e della speculazione filosofica. Quindi lungo il cammino incontreremo i pensatori più diversi, e se essi si sono fermati intempestivamente sulla strada, tenteremo di farli proseguire fino alla meta della loro aspirazione segreta. Parte III - Il fenomeno dell'azione Si cerca di definire l'azione con la sola scienza e di circoscriverla nell'ordine naturale C'è qualcosa. Questo dato che ammettono persino coloro che concedono il meno possibile, questo riconoscimento dell'esperienza ingenua non mi è imposto mio malgrado: ho voluto che ci fosse qualcosa. Mentre infatti si aveva la pretesa di sfuggire all'inquietudine del problema morale, si poneva questo stesso problema con un segreto movimento della volontà. Mentre si aveva la pretesa di scoprire nel nulla una soluzione certa e una risorsa sicura, ci si approntava una duplice via di uscita. Si è optato per qualche cosa che è sentito, conosciuto, desiderato immediatamente da tutti, che presenta all'attività umana un campo immenso che lo stesso progresso delle scienze positive, pare, non consente più di negare o di temere. Lo si è fatto per spirito di diffidenza per l'altra alternativa che si era ventilata, e la cui ombra di ignoto è sembrata gravida di conturbanti superstizioni. Io resterò fedele a questo disegno; e con l'aiuto di tutti i mezzi che i sensi, la scienza e la coscienza mi forniscono, costruirò su questo semplice fondamento tutto ciò che esso potrà sostenere. Può essere che l'edificio risulti soddisfacente; può essere che senza uscire dal fenomeno, e considerandolo come tutto ciò che è, io abbia un'idea completa della mia azione e una soluzione soddisfacente del problema della vita. Se l'uomo sorge interamente dalla natura, se i suoi atti non sono altro che sistemi di fatti come gli altri, se il movimento della sua volontà è circoscritto negli stessi limiti della scienza positiva, non avremo il diritto di esorcizzare per sempre il fantasma dell'essere nascosto? Fare entrare nel campo della conoscenza e del potere umano tutto ciò che ci sembra in prima istanza almeno accessibile ( energie della natura, forze occulte, persino miracoli apparenti ), fondare la vita individuale o sociale sulla Scienza soltanto, bastare a sé: è di sicuro questa l'ambizione dello spirito moderno. Nel suo desiderio di conquista universale egli vuole che il fenomeno sia, e sia tale quale lo conosce e ne dispone. Egli ammette che constatare i fatti e la loro concatenazione significa spiegarli completamente; considera quasi provata ogni ipotesi che gli consenta di evitare l'intervento di ciò che si chiama la Causa Prima. Il timore della metafisica non è forse l'inizio della sapiaenza? Egli si adopera a determinare la " genesi " dell'uomo, l'origine della coscienza e tutta l'evoluzione dell'attività morale con il medesimo rigore dei movimenti astronomici, perché ai suoi occhi il mondo intero costituisce un solo e unico problema, e perché a quanto pare nel metodo scientifico c'è unità e continuità. La pretesa è affascinante. Ma è giustificata? E la volontà dichiarata di circoscrivere e di contenere l'uomo nell'ordine naturale dei fatti, quali che siano, concorda con la volontà più profonda da cui procedono, come si vedrà, l'intero movimento della sua conoscenza e l'intera sua attività intellettuale? Sono questioni decisive, che bisogna risolvere a ogni costo prima di essere legittimati a pronunciarsi con una competenza scientifica sulla portata dell'azione e sul senso del destino umano. Ma se la difficoltà è grande, il metodo per risolverla è estremamente semplice. Consideriamo dunque, partendo dal primo dato sensibile, come ci sforziamo di conferire al fenomeno tutta la consistenza e la sufficienza possibile, e come viceversa, fallendo sempre in questo sforzo, saremo forse trascinati senza fine più lontano di quanto, non dico si volesse, ma si immaginasse di volere. Prima tappa - L'inconsistenza della sensazione e l'attività scientifica Dall'intuizione sensibile alla scienza soggettiva Le condizioni scientifiche e le sorgenti inconsce dell'azione Capitolo I L'intuizione sensibile sembra perfettamente chiara e coerente, di una semplicità assoluta. Perché allora non ci siamo attenuti a questo primo dato della vita, a questo rudimento di una conoscenza che sembra perfetta fin dall'inizio? E che cosa c'è di naturale, di necessario nel bisogno scientifico? A quale segreta ambizione corrisponde questo desiderio rinascente di ricerche? E con quali soddisfazioni provvisorie ci sembra di metterlo a tacere? I. A prima vista l'impressione sensibile costituisce per ciascuno tutto quello che può essere, l'unico punto sul quale non si possa mai discutere, perché non si comunica mai la realtà stessa di ciò che si sente. La qualità della sensazione che provo è unica nel suo genere, di specie incomparabile, senza analogia. E quello che è proprio di questa intuizione non potrebbe essere né analizzato, né misurato, né descritto: dei gusti e dei colori non si discute. In questo ordine della qualità pura non c'è nulla che non sia eterogeneo. Io sono ciò che sento nel momento in cui lo sento. Ma perché lo senta non c'è bisogno che nella stessa sensazione vi sia dell'altro? La qualità sensibile non è il solo dato immediato dell'intuizione. Se lo fosse, svanirebbe, perché essendo discontinua, sufficiente, incomparabile, sempre perfetta e sempre sparita, non sarebbe mai altro che un sogno senza ricordo, senza passato, né presente, né futuro. Perché non è così? Perché dal momento in cui appare, la sensazione cela un'incoerenza e come un'antinomia interna: non sussiste se non in quanto è sentita; e non è sentita se non in quanto è rappresentata allo stesso tempo che presente, immaginata al tempo stesso che percepita. Di modo che in essa sono incluse necessariamente queste due affermazioni all'apparenza inconciliabili: " io sono ciò che sento, io sento ciò che è ". È una dicotomia anteriore alle stesse leggi che governano la successione e i contrasti degli stati di coscienza, e nella quale tuttavia qualcuno ha preteso di scoprire la forma primitiva di ogni intuizione. Perché, anche supponendo che le sensazioni non siano percepite se non per " discriminazione ", occorre che in ognuno degli stati contrastanti vi sia qualcosa che lo renda possibile. Qui dunque si tratta di ciò che nel fenomeno sensibile fa sì che sia un fenomeno, facendo sì allo stesso tempo che sia sensibile. Ora tra questi due termini c'è un'opposizione di fondo che non è stata rilevata a sufficienza, sebbene essa costituisca il punto di partenza di qualsiasi indagine scientifica o filosofica. In effetti riflettiamo su questa cosa curiosa, che è strana e universale: in ciò che si vede si percepisce, nel momento stesso in cui ci si convince che l'impressione percepita è Ia realtà assoluta e integrale, si cercar qualcos'altro rispetto a ciò che si percepisce e si vede. Pascal da ragazzo vuole afferrare il suono che ha percepito, come se il suono fosse al tempo stesso altro e quale lo percepisce. A nostra insaputa tutti siamo portati ineluttabilmente a fare la stessa cosa. Io non ho sensazione che a queste due condizioni: che da una parte ciò che percepisco sia totalmente mio, e che dall'altra ciò che percepisco mi appaia del tutto esterno a me ed estraneo alla mia azione. Non è questa la credenza e l'aspirazione della gente? Essa immagina che il visibile non sia nulla più di quello che viene visto, come se la sensazione fosse di fatto la misura di tutte le cose, e rimane convinta che quello che si vede è la cosa stessa, come se la sensazione non fosse nulla e l'oggetto tutto. È una incoerenza perenne che si rileva nei minimi dettagli della vita. Allo stesso modo non siamo forse portati, e quasi allo stesso momento, a volere che tutti sentano come noi, compenetrati come siamo della verità universale dei nostri gusti, e a volere essere soli a percepire, gioire e soffrire come facciamo noi, con la convinzione che gli altri ne sarebbero incapaci o indegni? E quando la riflessione critica si impegna a dimostrare che i dati immediati e le forme necessarie della sensibilità non possono avere una sussistenza propria al di fuori di noi, senza dubbio con ciò constata giustamente che la percezione umana non potrebbe essere indipendente dall'uomo, ma non sfugge totalmente alla credenza che intende combattere. Perché non combatte ciò che essa chiama l'illusione metafisica se non a condizione di ritenere che dietro il dato sensibile vi sia un dato differente da esso, quale che sia. E qui non si tratta di una semplice dicotomia logica; no, si tratta di un'incoerenza reale e di una instabilità di fatto. Alla scaturigine stessa dell'intuizione più elementare c'è come una rottura dell'equilibrio che non ci permette di fermarci a essa, perché in verità abbiamo questa intuizione solo superandola già, e affermando implicitamente che essa in qualche modo è più di quello che è. Perché, affinché essa sia, occorre che le assegniamo una consistenza che non ha senza di noi, e non comincia a essere se stessa che al momento il cui si cerca e si pone in essa qualcosa d'altro rispetto a noi, e in noi qualcosa d'altro rispetto a essa. Riusciremo mai a risolvere queste difficoltà? e malgrado la sua incoerenza fonderemo la realtà del fenomeno sensibile? Sarà possibile deciderlo solo alla fine di questa ricerca. La cosa che adesso merita la nostra attenzione è proprio questa ambiguità, è la necessità in cui siamo di rappresentarci il visibile a un tempo come è visto e tuttavia diversamente da come lo vediamo. Senza dubbio la pratica insegnandoci con un'esperienza molteplice a decifrare le nostre sensazioni e a servircene, non registra l'equivoco che sconcerta la riflessione. E in effetti è straordinario che l'azione più insignificante risolva, senza farsene una preoccupazione, un problema di cui nessuna filosofia è venuta a capo totalmente, perché nessuna filosofia ha fatto uno studio completo dell'azione. Nonostante tutto siamo indotti da un processo naturale a cercare dietro la sensazione bruta, quale è impressa in noi, ciò che essa è. Anche quando la si crede quale appare, e si ammette ingenuamente l'identità di ciò che si percepisce con ciò che è percepito, c'è fin nell'intuizione più elementare una dualità e un'opposizione che non può non esplodere: è l'origine di ogni bisogno di sapere. II. Finché si scambia la sensazione per l'oggetto stesso, non si risveglia alcuna curiosità speculativa. Questa curiosità nasce dal momento in cui per le smentite che l'esperienza sembra dare a se stessa, per il conflitto tra i gusti individuali, per il movimento della riflessione nasce l'idea che ciò che percepiamo non è la sola, vera e totale realtà di ciò che percepiamo. Per parecchi secoli questa semplice scoperta ha alimentato le discussioni della filosofia e della scienza insieme. In effetti partendo dal sensibile si è inteso discernere il reale, indipendente dalla sensazione stessa anche se simile a essa, a meno che non sia il suo contrario. Si è cercato il principio universale delle cose, l'elemento di cui sono composte, il numero o l'idea di cui partecipano, il genere di cui sono la specie, la forma sostanziale che esse custodiscono sotto i loro accidenti sensibili, le qualità primarie che le costituiscono, la loro caratteristica matematica, gli equivalenti della forza la cui unità si manifesta nella diversità dei fenomeni fisici. Dal momento in cui si pone sotto la sensazione un'altra conoscenza, sembra che questo mondo nuovo di fatti inaccessibili ai sensi restituisca al pensiero l'equilibrio perduto, e soddisfi in definitiva il bisogno naturale dell'essere nascosto da scoprire. Quanti dei nostri contemporanei ne rimangono convinti! A certi uomini di cultura dietro le percezioni immediate, che le menti semplici continueranno per lungo tempo a prendere per moneta sonante, la realtà sembra tale, assolutamente tale quale la presentano le scienze positive. E per essi l'universo, tutto sommato, è un sistema di movimenti variati e ritmati nel quale rientrano le nostre azioni. Essi immaginano per analogia con il sensibile ciò che non possono percepire direttamente; e siccome hanno fornito ai loro occhi una sorta di duplice vista, pensano che questo visibile, che non vedono più, in definitiva sia la vera realtà, la quale, è pacifico, non può essere ciò che vediamo. Come si è sviluppato questo realismo fenomenista? È interessante farlo vedere, per prepararsi a osservare se davvero le scienze positive ci bastano in tutto e se sono sufficienti a se stesse. Le scienze e la critica hanno intaccato il valore delle vecchie distinzioni metafisiche. Le qualità primarie non significano nulla più e nulla meno delle qualità secondarie della materia. È un'illusione, ormai smascherata, intendere le une come il rovescio reale dell'apparenza sensibile, o di far svolgere loro vicendevolmente il ruolo di fenomeno e di sostanza. Ma questa relazione tra due termini così sproporzionati, come quella tra le qualità sensibili e una presunta realtà sostanziale, una relazione della quale abbiamo riconosciuto l'inutilità nell'ordine ontologico, viene ricostituita nel campo scientifico come relazione tra calcolo e natura. Ecco in che modo e con quali pretese. Per lungo tempo le scienze matematiche, le più antiche, le più rigorose, le meglio concatenate di tutte, parvero avere nell'ordine ideale e astratto in cui sembrano essere circoscritte, un'indipendenza e una sufficienza totali. Se se ne ricavavano alcune applicazioni, ciò avveniva senza pensare di riconnettere questo impiego concreto di verità astratte ai principi stessi, e senza vedervi una conseguenza veramente scientifica del calcolo. Ce ne servivamo nella pratica, ma senza considerarle come costitutive dell'esperienza e immanenti alla natura. Lo scarto tra il matematico e il sensibile era troppo grande perché ci venisse in mente di vedere nel sensibile medesimo un oggetto di scienza, e nella natura un calcolo realizzato. Ma quando, grazie alla precisione di un metodo differente dalle vecchie forme di dimostrazione, le conoscenze attraverso l'osservazione hanno preteso il rango di scienza, è sorto un nuovo problema. È possibile collegare la deduzione matematica con i fatti di esperienza; e non bisogna considerare la formula dell'analisi matematica e la legge fisica come un duplice aspetto della medesima soluzione? Questa appare un'ipotesi feconda consacrata dal successo. Le scienze esatte e le scienze sperimentali, che procedono parallele e solidali nei loro progressi, sembrano in qualche modo afferrare la natura dai due capi insieme; e congiungendosi nel bene comune di loro applicazioni mutue, sembrano chiudere il cerchio in cui la vita dell'uomo si sviluppa naturalmente. Esse governano insieme i numeri e i fenomeni, governano gli uni per mezzo degli altri: sicché anche l'azione diventa esatta e scientifica, e senza oltrepassare quest'ordine della conoscenza positiva sembra trovare una stabilità, una certezza e una sufficienza assolute. E se è vero che l'analisi del reale non è mai terminata, e mai deve esserlo, lungi dal preoccuparcene ne facciamo un punto di forza. Perché, anche di fronte all'ignoto la scienza non deve temere di incontrare il nulla, l'essere, l'inconoscibile. Quello che ignora ancora, lo potrà sapere un giorno. Quello che ignora non vanifica quello che già da adesso sa, e non le impedisce di sfruttare ciascuna delle sue conquiste successive. In tal modo sulle cose risultano aperte due visuali ugualmente scientifiche, due visuali del tutto differenti, due visuali che, non si sa come, di fatto concordano, e si compenetrano al punto da formare, a quanto pare, una sola prospettiva, e da concorrere con la loro stessa duplicità all'unità e alla sufficienza universale della Scienza. E l'associazione diventa talmente inseparabile che non se ne rileva la stranezza, ma si valorizza questa duplicità implicita per ammettere che esse rendono ragione a vicenda l'una dell'altra, che soddisfano il bisogno sempre insorgente di un enigma da spiegare o di un sostrato da attingere, e che dappertutto c'è un problema e dappertutto c'è una soluzione scientifica, dato che l'una funge da incognita e da limite dell'altra e viceversa. Così non c'è bisogno, si ritiene, di ricercare qualcosa al di là di questa doppia e unica spiegazione, perché essa ha un'efficacia pratica. Di fatto ha successo, è sufficiente all'azione, è sufficiente alla vita. Ecco dunque come le scienze positive ( e con questi termini si indicano soprattutto le certezze sperimentali, precisamente perché si sottintendono le matematiche, le quali da quando Comte ha classificato tutte le scienze in una serie continua sembrano implicate nelle altre ) paiono soddisfare tutti i nostri bisogni speculativi e pratici. È dunque necessario vedere in maniera più ravvicinata possibile se questa pretesa è giustificata. Ci sono o no nella scienza questa coerenza e questa sufficienza che in definitiva insediano la mente e la volontà nella piena pace della certezza e nel pieno successo pratico? O non si scambia invece come soluzione un dato nuovo della stessa questione? È la scienza che spiega tutto dell'azione, o è invece l'azione che fornisce alla scienza la materia per sussistere? * * * Mi propongo ora di mostrare che tra le scienze matematiche e le scienze Sperimentali, all'origine, nel corso e al termine del loro sviluppo, c'è contemporaneamente rottura e solidarietà. Questa collaborazione silenziosa e costante, questa unità, questa stessa esistenza delle scienze non è possibile che per una mediazione dalla quale, lungi dal renderne conto, esse dipendono. Resterà quindi da definire questo fatto mediatore, punto di partenza e materia di una ricerca ulteriore. Sicché, dopo aver messo in evidenza l'insufficienza della sensazione e anche l'inconsistenza delle spiegazioni fornite dalle scienze positive, passeremo, con un procedimento inevitabile, dal fenomeno esteriore al fenomeno interiore della coscienza, è dalla scienza dei fatti alla scienza dell'azione, constatando la necessità e l'originalità dello studio del soggetto. Capitolo II - L'incoerenza delle scienze positive e la mediazione dell'azione È un fatto che tra le scienze deduttive e le scienze sperimentali c'è un fecondo commercio. La scienza stessa sembra avere ragion d'essere e potere di progresso solo in forza di questo scambio continuo; è l'unità che costituisce la sua forza e che assicura il suo impero. Ma la stessa scienza rende conto di questa unità reale e incontestata? Poniamo mente al suo duplice punto di partenza. Da un lato le matematiche, grazie a una finzione che ha successo, suppongono che l'analisi del reale è terminata; ora siccome di fatto non lo è, e non può esserlo mai, in questo senso esse hanno un carattere ideale e trascendente in rapporto alla conoscenza empirica. Quindi senza perdersi in una regressione infinita, esse si fondano sull'uno, come se l'esperienza attingesse l'atomo o il punto, sull'omogeneo e il continuo dello spazio, della grandezza e del numero, come se fossero il limite accertabile o verificato della discontinuità e dell'eterogeneità sensibile. In esse si pensa risolta l'antinomia del semplice e del molteplice, dell'indivisibilità e della divisibilità indefinita. È questo il principio stesso di ogni calcolo. E con questo audace artificio del pensiero, che il successo giustifica, ci si atteggia come se si fosse in possesso di ciò che sfuggirà sempre alla nostra presa, l'unità e il continuo omogeneo. Dall'altro lato, mentre le scienze deduttive, supponendo preliminarmente l'analisi ultimata, procedono per sintesi a priori per determinare il nesso necessario che costituisce una continuità perfetta, le scienze della natura, descrivendo gli esseri o definendo i fatti quali li osservano o li producono, suppongono sempre la realtà originale, la perfezione relativa, la sufficienza di ogni sintesi in quanto sintesi. In esse l'unità concreta è considerata come un totum che per quanto divisibile non è risolvibile nelle sue parti. Solo a questa condizione le scienze sono possibili e valide; perché, siccome noi non conosciamo il tutto di niente, non conosceremmo niente del tutto se non potessimo aggrapparci saldamente a ogni grado che ci fa raggiungere l'ordine delle composizioni o delle decomposizioni. Così il vero dominio di pertinenza di ogni scienza fondata sull'esperienza è esattamente ciò che non si dedurrà mai, la natura complessa, la discontinuità e l'eterogeneità degli oggetti che essa assume come materia delle proprie ricerche. E le determinazioni quantitative che riesce a utilizzare ( come, per esempio, nello studio dei composti chimici ), servono solo a mettere in evidenza la distinzione precisa, le discontinuità, le differenze specifiche e irriducibili che separano gli affini più prossimi delle medesime famiglie e le combinazioni dei medesimi elementi. No, la perfetta teoria della natura non la potrebbe risolvere in termini puramente intellettuali, così come l'intera conoscenza che ne avrebbero i nostri sensi non la potrebbe rivelare nella sua piena verità. C'è dunque nella scienza, alla sua stessa origine, un evidente dualismo. Talvolta essa cerca, al di fuori dei fenomeni percepiti immediatamente, ciò che è generalità astratta e concatenamento necessario. Avendo messo tra parentesi la natura dei composti e le qualità proprie degli elementi, il calcolo appare come la forma continua dell'universo. Talaltra, messa tra parentesi l'unità di composizione, si impegna a dotare l'intuizione sintetica di una precisione quantitativa e di una individualità definita. Ricondurre tutto all'omogeneo, riconoscere ovunque e definire l'eterogeneità: queste due tendenze sono ugualmente scientifiche, questi due metodi sono ugualmente completi e sufficienti, ciascuno nel suo senso. L'uno e l'altro usano in parte l'analisi e in parte la sintesi; per il primo l'analisi è ipotetica, per il secondo lo è la sintesi. Per il primo la sintesi è, se così si può dire, analitica a priori; per il secondo l'analisi è sintetica a posteriori. In altri termini l'uno si costruisce con gli elementi di un'analisi ideale e l'altro nelle sue scomposizioni attinge unicamente sintesi reali. Per il primo l'azione è un'integrazione di cui un calcolo perfetto potrebbe fornire la formula rigorosa; per il secondo l'azione è un fatto sui generis, di cui nessuna approssimazione matematica rivela l'originalità, e che come ogni altra sintesi può essere conosciuta solo per osservazione diretta. Dunque la concezione positivistica, oggi dominante, per la quale le scienze sarebbero concatenate in una serie unilineare secondo un ordine crescente di complicazione, è radicalmente sbagliata. Allo stesso tempo ciascuna delle forme della scienza ha senso e ragion d'essere solo in quanto l'una in qualche modo reduplica l'altra e la eguaglia. Sebbene nello stile dei matematici il tutto e la parte siano omogenei, le matematiche costituiscono sintesi specifiche e usano simboli ricavati dall'eterogeneità delle conoscenze sensibili. Sebbene le scienze della natura si fondino sul quid proprium dell'intuizione, esse hanno la pretesa di introdurvi la continuità causale e la legge del numero. Così ciascuna sembra essere una materia, un metodo e uno scopo per l'altra. È sufficiente delineare in tal modo questa soluzione di continuità, questo parallelismo e questa cooperazione tra le due forme generali della scienza. Quello però che meno è messo a fuoco, ed è forse più meritevole di esserlo, è che all'interno di ogni disciplina scientifica, nel dettaglio dei procedimenti di calcolo o di esperienza, nella costituzione delle verità positive si cela un dissidio analogo, e si stabilisce un accordo analogo che la scienza non giustifica. Dunque non soltanto nel suo insieme la scienza è, per così dire, spezzata in due tronconi, i quali tuttavia non vivono che mantenendosi accostati; la medesima incoerenza e la medesima solidarietà si rivela nel dettaglio della costruzione di ciascuna scienza. All'inizio, nel corso e al termine ideale di qualsiasi scienza c'è un'antinomia, e un'antinomia risolta di fatto. È dunque importante ricercare a quali mutui indiretti e impliciti ciascuna di esse deve la propria esistenza e il proprio progresso, e come in definitiva sia necessaria una mediazione per questa perenne trasposizione di elementi estranei gli uni agli altri e per questa costante collaborazione tra metodi irriducibili. Perché, se si mostra che ciò che nelle scienze positive è loro trascendente ed estraneo è esattamente ciò che le rende possibili e impiegabili, questo significherà mettere in luce ciò che nella stessa scienza esige che la scienza sia oltrepassata. Se ognuna di esse avesse una specie di indipendenza o di sufficienza, avremmo il diritto di fermarci a essa e di accontentarci dei suoi successi anche se provvisori. Ma non è così; e questa imperfezione non riguarda la carenza dei suoi risultati, peraltro sempre parziali, ma la stessa natura delle verità che essa raggiunge e del metodo che adopera. Non solo la scienza è carente mentre è in fieri, ma anche se la si suppone fatta e perfetta, è ancora carente. La verità è che c'è un difetto iniziale e finale di ciascuna separatamente e di tutte insieme nel loro mutuo commercio. Le scienze positive non ci soddisfano perché non sono sufficienti in se stesse. I. Le scienze esatte ricavano le loro sintesi a priori dal semplice e dall'omogeneo, che esse suppongono di primo acchito al termine dell'analisi, e pongono al principio delle loro costruzioni. Ora da dove nasce l'idea stessa di questo procedimento sintetico che è loro essenziale? In base a che cosa si può considerare la costruzione come un tutto in seno al quale i materiali hanno relazioni determinate, un ordine, un valore che non avevano prima di farne parte? Senza dubbio parlando propriamente nulla è empirico né negli elementi, né sul piano stesso dell'edificio matematico. Ma niente in esso è concepibile senza un prestito primordiale, senza un plagio mimetizzato, senza una continua imitazione del concreto. Perché il carattere proprio del calcolo infinitesimale, di questo calcolo che è la forma eminente di ogni altro calcolo, che inserisce la matematica fin nel cuore della fisica e della stessa vita pratica, è quello di essere al tempo stesso una finzione e una finzione utile, di restare nell'ideale e di adattarsi al concreto, insomma di convenire alla natura delle cose senza pretendere di rendere conto della natura delle cose. In effetti non rileviamo che più la scienza astratta si immerge in calcoli nei quali sembra fuggire la realtà, più essa tende a ritornarvi, e meglio si applica alla realtà? In verità fin dall'inizio in essa si verifica, per renderla possibile, una sorta di inserimento inavvertito di altro da essa. Secondo quanto osserva Helmholtz, se prendiamo come base sperimentale questo semplice fatto, questo semplice " sentimento " che nella nostra vita interna un fatto conservato dal ricordo ha preceduto il fatto attuale, possiamo costruire razionalmente tutto il vasto edificio dell'Analisi moderna. Che altro significa ciò se non che tutte le sintesi successive sono a priori, ma l'idea stessa di sintesi e l'esistenza di tutte le relazioni matematiche è fondata su un'esperienza reale, sul " sentimento " di un'unità complessa quale quella di uno stato di coscienza o di un'azione mentale? L'ambizione delle scienze esatte è di produrre col continuo e l'omogeneo di cui dispongono in partenza tutta la diversità delle formule e dei teoremi che adeguano sempre meglio la molteplicità delle forme della vita. Con gli elementi che esse combinano costituiscono una sorta di specie ideali, delle quali considerano le proprietà e, per così dire, l'individualità generica. Ma se nel cuore di ciascuno di questi raggruppamenti analitici si forma un'unità, se c'è un'integrazione distinta degli elementi integrati, ciò avviene per un'audacia da cui le matematiche traggono profitto, senza giustificarla ad alcun livello: una sintesi costituita a priori, un sistema di elementi omogenei considerato come eterogeneo da essi, un tutto formato analiticamente e considerato indecomponibile nelle sue componenti. È la stranezza per antonomasia, ma nessuno se ne meraviglia. Grazie a uno schematismo, mutuato dall'intuizione sensibile per trasposizione e analogia, che è come una percezione dell'irreale o un'immaginazione dell'immaginario, il pensiero si esercita su un materiale fittizio, astratto dall'esperienza positiva. Ed eliminata la qualità sensibile, vinculum perceptionis, in questa sorta di sintesi analitica esso si appoggia su un'esperienza pura e su un mondo di fenomeni intellettualizzati. Se per un istante esaminiamo da questa visuale lo sviluppo delle scienze esatte, vedremo in esse l'immagine dell'evoluzione che le scienze della natura pretendono descrivere nel mondo organico. E attraverso questo parallelismo meritevole d'attenzione scopriremo nelle matematiche l'influenza costante e indispensabile di una concezione estranea alle matematiche. Queste scienze sono nate solo nel momento in cui nell'omogeneo e nel continuo hanno supposto una differenziazione e delle relazioni possibili di grandezza e di numero; è la materia ideale alla quale imporranno la forma delle loro deduzioni. Siccome all'inizio non posseggono che questo puro elemento astratto, esse dapprima considerano l'elemento come isolato e inerte, anche in seno alla composizione e alla spontaneità. Per mezzo di questa semplicità astratta, esse accedono al rigore, alla chiarezza e all'esattezza. Nel tutto l'elemento solo è di fronte all'elemento solo. E secondo questa prima concezione meccanicistica il sistema universale e ciascuna sintesi particolare non è nulla più che la relazione elementare e l'ordine delle parti costituenti. Per mezzo dell'analisi ogni problema può essere ricondotto al semplice, senza aver bisogno di considerare in sé e per sé l'organizzazione intrinseca del composto. Così si costituisce il primo luogo, interamente astratto e omogeneo, in cui si dispiegheranno come in una gerarchia di forme sempre più organizzate le complicazioni crescenti della scienza; così con un'elaborazione originale dall'esperienza vengono fuori i principi fondamentali della meccanica razionale. È questo un punto d'appoggio necessario, ma non è che un punto di partenza. " I composti hanno per simboli i semplici ", come osserva Leibniz; vale a dire che a loro volta essi possono essere considerati come unità, ma come unità complesse; e che tra l'elemento e il tutto si inserisce una gerarchia di costruzioni definite. Quindi ricompare sempre il medesimo postulato: la costruzione matematica, senza ricorrere e senza sfociare mai nel quid proprium dell'intuizione empirica, è costituita dalla sola forza dell'analisi come una novità originale e come una sintesi a priori. E in questo mondo razionale si formano dei sistemi chiusi e tutto un insieme di funzioni subordinate, come nel mondo degli esseri animati si stabiliscono delle relazioni molteplici, un'organizzazione di parti e un'accumulazione di forza viva. Il composto si comporta dunque come un centro unico, come un tutto. E sotto l'unità del suo sviluppo c'è un mondo di movimenti interni, echi e ripercussioni intime di energia. Così al meccanismo si aggiunge o addirittura si sostituisce, senza eliminarlo, il dinamismo. Il progresso del calcolo ( da Cartesio a Leibniz ) sta nel comprendere questa unità complessa, con l'infinito che nasconde, lo sforzo che include, l'azione che produce. In questo modo le stesse qualità sensibili, tramite questa nozione mediatrice dell'infinito, sono riducibili, o meglio sono convertibili in espressioni matematiche. Anche qui che altro significa ciò, se non che le scienze deduttive non vanno oltre, e non avanzano, che accettando una nozione che le contraddice, e inserendo sul loro terreno come il riconoscimento della loro incoerenza? Leibniz nel momento stesso in cui si rende conto quanto sia contraddittorio il concetto di un numero infinito attuale, ammette che ogni realtà finita include un infinito attuale. Vale a dire che il calcolo può raggiungere i dati empirici solo collegandovi il reale e il nulla a livello dell'infinito, in questo infinito matematico il cui carattere è del tutto negativo, perché è proprio del limite non essere mai raggiunto. Qui dunque è la stessa finzione che permette di attingere la realtà. Senza dubbio Cartesio ebbe la viva percezione di questa difficoltà; era stata questa la molla di tutta la sua impresa metafisica. Ma egli aveva collegato la conoscenza sperimentale alla deduzione soltanto con un legame artificiale. Sacrificando interamente uno degli aspetti del problema, e subordinando l'intuizione sensibile alla matematica universale che sognava di fondare, egli non ebbe l'idea di una vera e originale scienza della natura. Viceversa Leibniz mediante una relazione intima e intrinseca innesta il calcolo nel cuore stesso della realtà fisica, e gli subordina persino la spontaneità della forza. A sua volta ogni sistema diventa elemento di sintesi superiori. Dopo averlo considerato, per comodità della progressione deduttiva, come un sistema chiuso e indipendente, lo si fa entrare in composizione con altri sistemi, per portare tutta la gerarchia di queste costruzioni sintetiche a partecipare al sistema universale. Ma a sua volta questo sistema dell'universo è considerato nella sua unità come un tutto determinato? Resta possibile far esprimere all'omogeneità dello spazio indefinito l'eterogeneità illimitata delle relazioni che contiene, e formulare nel linguaggio delle relazioni della quantità tutte le variazioni della qualità. In tal modo, considerando uno spazio a n dimensioni, la geometria superiore introduce nello studio del movimento la caratteristica dell'orientamento e della qualità; quest'ultima è ?pe????, non determinata, non determinabile, ma comporta una infinità di determinazioni o di direzioni particolari. La stessa contingenza dunque è ricondotta al determinismo e alla necessità matematica, senza perdere nulla del suo carattere. Ma non è ancora tutto. Dal momento in cui si concepisce l'unità del sistema universale, grazie a una nuova iniziativa di questa immaginazione razionale che persegue le sue esperienze nell'a priori, si è indotti a concepire la possibilità di altri sistemi, a non considerare il primo che come un caso particolare di una geometria più generale di quella volgare, come un elemento di combinazioni nuove o di sintesi ulteriori. È questo il senso di quei tentativi recenti compiuti dal pensiero per liberarsi dei postulati, o persino delle leggi, che gli erano sempre parsi estremamente necessari. Come ci induce a pensare il progresso della matematica, il mondo non è un sistema chiuso: è illimitato, ????st??; ciò che si chiama vita e libertà vi possono intervenire senza sconvolgere il calcolo. Il fatto che vi si produca incessantemente il nuovo e, per così dire, il miracolo, costituisce forse disordine o violazione della legge della conservazione dell'energia? No, è un ordine più completo. Anche leformule più ampie di un'algebra generale consentono allo spirito di esprimere rigorosamente questa improvvisazione del movimento e questo lato arbitrario della spontaneità. L'indeterminazione rientra così nello stesso determinismo. E si capisce che la maternatica perfetta possa offrire per ogni punto una soluzione assolutamente singola; sicché essa sarebbe l'immagine della sensibilità che riproduce sotto un'infinità di forme individuali una medesima realtà e una sola vita, o il simbolo di una Provvidenza speciale che farebbe di ogni atomo un mondo intero e un centro di prospettiva, o ancora l'espressione di questa carità che è tutta per tutti e che realizza la perfezione del calcolo. Che cosa c'è di più bello e di più solido, sembra di poter dire, di questa superba costruzione di una scienza capace di costruire un universo e di incasellare il mondo, tutti i mondi possibili, nelle sue formule! Ma è solo un incanto da rompere. Le matematiche si adattano all'esperienza, ma non partono da essa. Esse mutuano dall'esperienza il materiale della loro sussistenza, ma non vi approdano. Esse paiono trovare nei fatti la conferma della loro realtà, ma sono senza alcuna relazione di natura con i fatti. E mentre da un lato sembrano necessarie come l'unica forma dei fenomeni che esse servono a determinare e a governare, dall'altro i loro simboli sono arbitrari; questi sono posti da un atto dello spirito. Vogliamo cogliere nel vivo questo atto? Il limite matematico non è mai raggiunto, e tuttavia bisogna cominciare ammettendo che esso è dato di fatto. In altre parole, al termine occorre ancora supporre il punto di partenza, la certezza finale rimane fondata sulla finzione iniziale, e la garanzia suprema del calcolo è al di fuori del calcolo. Non arriviamo al limite, ma ne partiamo per potervi ritornare inserendo all'ombra del fatto tutto il mondo delle determinazioni matematiche. O meglio vi ritorniamo come se ne partissimo; partiamo da esso come se vi ritornassimo. Pur essendo esterno alla scienza, il limite è necessario a essa. E questa finzione, che rende possibile il calcolo infinitesimale, è identica alla semplice operazione che pone l'unità. Ovunque troviamo la stessa cesura e la stessa sutura. Ovunque si dà lo stesso carattere arbitrario e necessario dei simboli. Le scienze esatte restano dunque segnate da questo triplice marchio, e ciò fin nel loro tessuto più capillare: 1. Non rendono conto in alcun modo né del modo in cui emanano dalla realtà, né del modo in cui vi ritornano e vi si adattano. Esse non spiegano la loro efficacia, non conoscono quello che operano. 2. Per quanto sembrino essere fondate sulla realtà e regnare su di essa, le sono estranee. Non sono in grado di render conto della più semplice sensazione, del minimo atto. Nella qualità, che in quanto qualità sfugge loro, nella gerarchia di ciascuna sintesi che forma come un mondo nuovo, c'è un elemento che è assolutamente refrattario a esse: per esempio quello che rimarrà peculiare dei composti chimici quando saremo riusciti a tradurre le loro combinazioni nello spirito e nel linguaggio della fisica matematica, quello che è dato nella prima intuizione, p??te??? p??? ?µ??. Quello che ci fanno conoscere, non ce lo fanno conoscere quale noi lo conosciamo. 3. Nel loro lavoro di integrazione continua esse si appellano costantemente a un procedimento sintetico, l'unico capace di fornire loro una materia che sia, per così dire, completamente formale. Ma questa stessa iniziativa del pensiero sfugge loro; esse sono estranee in casa loro. In queste scienze in cui tutto sembra pervaso dalla luce, e in cui la distinzione delle idee raggiunge la sua perfezione, la molla della scienza non rientra nella scienza; ciò che esse conoscono non lo conoscono così come lo conoscono. In tal modo dunque all'origine, nel corso e al termine delle scienze esatte, nella loro costituzione interna come nelle loro relazioni naturali con le altre scienze, dappertutto sussiste in esse un postulato tacito e come una frattura permanente. Indubbiamente per questo motivo le scienze sperimentali hanno rapporti con esse, e grazie a questi rapporti la scienza può ambire all'unità e alla sufficienza di una spiegazione universale. Ma almeno dal lato delle matematiche la sutura non è operata, e non lo sarà mai: tale sutura non può essere operata da queste, così come non può esserlo in esse. Per quanto le supponiamo sviluppate, esse non esauriscono e non attingono la realtà percepita; ma portano sempre, fin nelle loro deduzioni più remote, la tara del loro principio, il carattere fittizio del loro postulato iniziale. E se pure hanno successo nella pratica, ciò avviene senza giustificare questo successo e persino questo impiego. In tal modo, al contrario dei Pitagorici o dello stesso Cartesio, i quali vedevano nelle matematiche il fondo più reale delle cose in opposizione all'apparenza sensibile, sembra che ormai si sia indotti a trovare questa realtà più solida nelle verità sperimentali. Perché da quando queste comportano un rigore scientifico, sembrano svolgere nei confronti del loro surrogato matematico il ruolo che le matematiche parevano svolgere nei confronti dei fenomeni sensibili. È dunque in queste scienze positive che alla fine troveremo il riposo del nostro spirito, il limite della nostra curiosità volontaria e la definizione della nostra azione? II. Non è facile individuare con precisione il punto di partenza delle scienze sperimentali. Perciò queste scienze sono nate veramente e sono cresciute tardi. Ma fin da questa origine ricompare un'incoerenza analoga a quella che rimane conficcata nel cuore delle matematiche, un postulato segreto che si insinuerà in tutti i loro sviluppi; e anche quando saranno alla meta verso cui tendono, non saranno libere da esso. Il fondamento di qualsiasi conoscenza sperimentale sembra essere la semplicità complessa della percezione immediata e l'irriducibile intuizione dei sensi. Infatti ogni tentativo di analisi ulteriore deforma questo dato concreto senza renderne conto. Ma questo dato primordiale è assolutamente confuso; e in seno a tale confusione la differenziazione è infinita: per i sensi l'universo sensibile è un caos. È in questo disordine che l'osservazione analitica si sforza di scoprire un ordine e delle leggi. Ora in base a che cosa si riesce a considerare il mondo un tutto in cui vi sono delle parti distinte? In base a che cosa nasce l'idea di questo procedimento analitico che sotto la pristina indeterminazione della qualità introduce la chiarezza e la distinzione numerica? Nessuna conoscenza sperimentale è concepibile senza un'analisi fittizia e senza un'astrazione iniziale che delimita artificialmente la stessa materia dell'osservazione. In tal modo ogni fatto percepito, per quanto indeterminato, suppone un lavoro di elaborazione di cui l'esperienza non rende affatto conto nel momento stesso in cui lo constata. Quindi il carattere sintetico dei dati sensibili è il risultato di un'analisi estranea a questi stessi dati: la possibilità dell'osservazione è già un postulato. E adesso seguiamo il progresso delle scienze induttive: vedremo che da una parte esse cercano di collegare con un determinismo rigoroso tutte le forme discontinue che l'analisi della realtà presenta loro, dall'altra tentano di definire in termini precisi queste forme distinte e originali presenti nel seno stesso della continuità universale. In ogni caso esse hanno sempre bisogno, per le loro analisi e le loro sintesi, di addentrarsi su un terreno che non è più il loro. I - In effetti vi sono stati ritardi e difficoltà per giungere a considerare il fatto sensibile ( il primo atto della scienza era stato quello di smentire in qualche modo questo fenomeno ) come oggetto specifico e diretto della scienza. Tutta l'antichità aveva ritenuto che si da scienza unicamente del generale. Ma ormai la prospettiva pare quasi rovesciata, e sembra che non vi sia scienza che del concreto, del positivo, del particolare. Come una volta si disdegnava il fatto e l'individuo, adesso si ama scoprire nella singolarità e nell'anomalia una lezione preziosa; e si riesce a far produrre all'eccezione mostruosa un'abbondanza di nuove verità. Come dunque si è potuto introdurre nello studio del fenomeno qualitativo e discontinuo un ordine, una precisione, una determinazione che hanno reso o renderanno possibile una vera scienza dell'esperienza? Ciò è avvenuto col concorso di queste due concezioni che si sono sviluppate separatamente, e che a tutt'oggi non sono ancora riuscite a ricongiungersi su tutti gli aspetti: da una parte l'idea di una successione necessaria dei fenomeni; dall'altra una caratteristica numerica delle diverse specie sensibili; - scienza del concatenamento dei fatti; - scienza delle forme reali e delle loro relazioni. 1. Ciò che dapprima è sembrato rivestire il carattere dell'universalità e della necessità scientifica in mezzo all'infinita confusione dei fatti singoli è stata la costanza dei loro rapporti e la stabilità del loro concatenamento. Ora per istituire queste grandi serie di fatti integrati in una legge, analoghe alle lunghe catene delle verità deduttive, non soltanto bisogna ricorrere sempre a questa analisi artificiale di cui si è rilevato il ruolo indispensabile in qualsiasi osservazione dei fatti, ma bisogna altresì, con un nuovo lavoro che l'intuizione sensibile non giustifica, astrarre provvisoriamente dal contenuto originale di ciascun fenomeno contingente, per considerarne solo la forma necessaria. In tal modo, affermando il determinismo universale, il fisico, con un ricorso indiretto alle concezioni matematiche, non fa altro che designare sotto un'espressione simbolica questa formula unica che governa e determina l'immenso concatenamento dei fenomeni con la loro crescente complicazione. Ecco come l'ipotesi dell'unità delle forze fisiche esprime ciò che nell'osservazione è estraneo o addirittura contrario all'osservazione, la quale non coglie mai l'omogeneo e il continuo. In altri termini, pur non essendo una matematica della natura, perché non risalgono all'unità pura e fittizia attinta solo dall'analisi ideale, nondimeno queste scienze sono una sorta di " matematizzazione " dell'esperienza. Perché, partendo dall'unità concreta che esse mutuano dall'osservazione, riprendono la forma " matematoide ", se così si può dire, delle scienze esatte. Pur essendo fondamentalmente indipendenti da esse, tuttavia non vivono e non si sviluppano che incorporando a sé, a titolo subalterno e sussidiario, tutte le risorse del calcolo. Scire est mensurare, secondo il detto di Keplero. Quindi l'introduzione delle matematiche nelle scienze della natura non costituisce una matematica autonoma; esse sono solo uno strumento subordinato a un metodo opposto. Qui i calcoli non sono il calcolo; tanto che per studiare da vicino le più elementari misure della fisica, occorre in qualche modo essere guerci. E tuttavia la convergenza di questi raggi divergenti sembra naturale e perfetta. In effetti al fisico è sufficiente stabilire una relazione continuativa tra le intuizioni dell'esperienza, che non comportano nessuna misura diretta, e certi simboli, che sono soggiacenti unicamente alla duplice condizione di essere misurabili e di rappresentare convenzionalmente i dati empirici. Quello di cui va in cerca è una sintesi maneggevole e una coordinazione sistematica, non una spiegazione delle leggi sperimentali. E quello che c'è di arbitrario nella sua convenzione iniziale permane lungo tutti gli sviluppi e fin nei risultati meglio verificati della scienza. 2. Ma la fisica matematica non è tutta la scienza della natura. In parallelo a essa, e persino anteriormente, si è sviluppata un'altra forma dell'esperienza scientifica. In effetti mentre si scoprivano le leggi che esprimono la successione costante dei fenomeni, ci si impegnava d'altra parte a determinare le specie sensibili e le forme viventi, senza supporre in un primo momento che tra quelle scienze dei fatti e queste scienze dell'essere vi potessero essere una solidarietà e una continuità reali. E già occorreva un difficile sforzo di analisi per discernere i caratteri distintivi e gerarchici di ciascuna delle sintesi realizzate nella natura. Tutte le antiche classificazioni si sono esaurite in tale lavoro. In effetti come sostituire ai dati sfuggenti dell'intuizione concezioni fisse e definizioni precise? Del resto si avrebbe torto a immaginare che le definizioni per genus proximum et differentiam speci ficam, come quelle di Aristotele e degli scolastici, o le stesse classificazioni metodiche dei naturalisti moderni abbiano un rigore soddisfacente. Il loro valore non è ne propriamente filosofico, perché esse concernono solo i rapporti tra fenomeni subordinati senza cogliere il fondo degli esseri, ne propriamente scientifico, perché quelle descrizioni, per quanto esatte siano, queste classificazioni, per quanto naturali appaiano, non fanno altro che rilevare, in dettaglio certo ma con una precisione " letteraria " che mantiene in esercizio solo l'esprit de finesse, caratteri sensibili e qualità complesse di cui non abbiamo penetrato né la composizione interna né la legge di produzione né gli equivalenti numerici. Così lo zoologo, per istituire la sue distinzioni, ha sempre bisogno di fare ricorso a nozioni di psicologia soggettiva. Come dunque introdurre, nello studio delle sintesi reali di cui l'esperienza ci rivela le qualità diverse, questa precisione necessaria sulla quale avrà presa il calcolo? La chimica, e sappiamo come, ha cominciato a scoprire quella che si potrebbe chiamare l'istologia quantitativa dei corpi. Essa non solamente definisce le relazioni numeriche degli elementi nei composti, ma fissa anche delle leggi generali, le leggi degli equivalenti definiti e delle proporzioni multiple, che permettono di estendere il calcolo a tutta la varietà delle combinazioni. Ora se la prima osservazione che isola un fatto dal contesto universale suppone già un'analisi artificiale, la sperimentazione chimica, che decompone una sintesi qualitativa in elementi quantitativi, traspone allo stesso tempo un ordine di fenomeni in un ordine completamente eterogeneo, senza che questo passaggio risulti spiegato. Per introdurre il bilancino nel laboratorio, e per esprimere in funzione di un'unità di peso il corpo sottomesso all'esperimento, occorreva avere in mente ben altro che una banale pesatura ( la quale del resto implica un'operazione mentale analoga all'associazione della durata continua con le divisioni di uno spazio misurato da un movimento regolare ); occorreva cercare di tradurre la qualità di una sintesi in quantità definite dei suoi elementi. Questa iniziativa da cui è nata la chimica costituisce la vita della chimica; ma questa non la giustifica: in essa la coesione della scienza non è scientifica. 3. Ma dopo che il calcolo è entrato nelle scienze fisiche, dopo che si è stabilito nelle scienze naturali, si presenta un nuovo problema. Si possono collegare tra loro la conoscenza dei fatti concatenati e la conoscenza delle forme coordinate? E si capisce bene la portata di questo problema? In effetti ricondurre la diversità " degli esseri percepiti " al concatenamento " dei fenomeni integrati " significherebbe esprimere la natura sensibile in funzione di quei simboli astratti di cui dispongono le matematiche; significherebbe ottenere che nello stesso a posteriori tutto sia calcolabile a priori in un certo modo; significherebbe rappresentare con una formula precisa l'ordine di produzione dei fenomeni e le trasformazioni possibili o reali delle specie naturali. Ma in questo modo come raccordare, nel quadro di un'alleanza comune con le scienze esatte, lo studio delle classificazioni allo studio delle leggi genetiche o meccaniche? I recenti progressi della nomenclatura chimica e della cristallografia paiono costituire un duplice avvio verso la soluzione di questo problema. - Infatti da una parte, fondandosi sulla duplice idea dell'analogia e della sostituzione che serve a determinare il tipo chimico, si riesce, per eliminazione progressiva dell'elemento arbitrario introdotto dall'apprezzamento di quei caratteri meramente qualitativi, a mettere in evidenza tutti i tipi ai quali è possibile riconnettere uno stesso composto, e a stabilire quella che si chiama la formula di costituzione. Grazie a essa è possibile classificare e anche prevedere le reazioni alle quali darà luogo un corpo; è possibile riprodurre questo corpo per mezzo di altri corpi tramite sostituzione; è possibile operare una sintesi. Il segreto numerico della combinazione sembra diventare così il segreto pratico della produzione. - D'altra parte la cristallografia arriva a stabilire una relazione determinata tra la disposizione dei sistemi che essa studia e la stessa struttura delle molecole. E se per definire le analogie chimiche l'isomorfismo è un carattere essenziale, ciò non significa ammettere che tra la natura qualitativa delle combinazioni e la costituzione geometrica degli elementi c'è un rapporto costante da scoprire? Allora la formula di costituzione e quest'altra formula, non più chimica ma matematica, che esprime la struttura architettonica degli atomi nella molecola, possono essere collegate da un sistema di simboli continuativi. E su questo punto le scienze fisiche si saldano alle scienze naturali, essendo ambedue innestate reciprocamente sul calcolo. Ma stiamo attenti. Dai termini astratti alle sintesi più complesse è ben possibile che si aprano sempre di più larghe strade al passaggio della Scienza vittoriosa; ma non dobbiamo farci ingannare dal suo stesso successo. Senza dubbio i simboli costruiti dallo scienziato finiscono per essere così coerenti tra loro, per avere una tale efficacia, per realizzarsi con tale evidenza tra le sue mani, che per lui diventa grande la tentazione di considerare tutto questo simbolismo come l'immagine fedele della realtà, come la realtà stessa. Lo si proietta al di fuori di sé con la convinzione che le leggi della meccanica razionale, le costruzioni del cristallografo o gli schemi del chimico siano l'espressione di un meccanismo reale al quale conviene attribuire, col pretesto della certezza scientifica, una portata oggettiva e veramente metafisica. È questo l'errore fondamentale da combattere. Perché il punto di partenza di ciascuna scienza nasconde un germe la cui natura arbitraria può essere mimetizzata dalla crescita felice, ma non rimossa. Dappertutto all'origine dei procedimenti scientifici occorre che un artificio mimetizzi il passaggio inspiegato dall'ordine della qualità all'ordine della misura; dappertutto interviene un decreto per stabilire una relazione fittizia che sola permette all'uno di esprimersi in simboli con l'altro. Ma per il solo fatto che nuove convenzioni raccorderanno scienza a scienza in maniera ogni giorno più completa e più efficace, svanirà forse il carattere arbitrario dell'istituzione originaria? Niente affatto. Dunque non è di sicuro la convergenza, anch'essa artificiale, di tutte queste finzioni che consentirà alla scienza di esprimere la realtà medesima, e che farà di essa l'ultima parola delle cose. In tal modo, che si tratti di costruzioni matematiche, di teorie fisiche, di forme cristalline e di ordinamenti molecolari, di combinazioni atomiche o di leggi biologiche, in tutti i casi non potrebbe essere questione che di simboli coerenti, senza che mai si debbano proiettare i simboli stessi in una realtà distinta da essi. Supporre un'entità intermedia e un meccanismo sussistente tra i dati empirici e il simbolismo scientifico significa addossarsi una difficoltà del tutto gratuita; significa far nascere complicazioni che limitano la fecondità della scienza, inibendole la diversità di teorie utili che possono essere sviluppate insieme dal momento in cui, invece di vedervi una spiegazione delle cose, vi si cerca solo un mezzo per coordinare le leggi sperimentali; significa esporre a illusioni capaci di falsare al tempo stesso lo spirito della scienza e lo spirito della filosofia con una confusione delle competenze. Senza dubbio le teorie e i calcoli devono sempre rapportarsi a una verifica sperimentale: essendo partiti dal fatto, ritornano al fatto, che rimane l'arbitro. Ma né le teorie sono omogenee con i dati iniziali, né le conseguenze pratiche dedotte dall'analisi hanno la minima relazione di natura con le teorie che esse servono a controllare. Il termine intermedio sfugge alla scienza, anche se essa lo deve attraversare. Per essa dunque tutto si riduce a coordinare i fatti e le leggi che l'esperienza ci fa conoscere, ma che solo l'ausilio delle matematiche ci consente di enunciare con precisione. Essa non si preoccupa di sapere se le sue finzioni simboliche sono vere in assoluto, e neppure se sono verosimili, purché stabiliscano una relazione per quanto possibile continuativa tra il calcolo e i fatti. Se c'è bisogno di istituire allo stesso tempo molte convenzioni differenti, essa vi ricorre, alla sola condizione che tra queste ipotesi diversamente utili non si riscontri alcuna incompatibilità formale. Pertanto non bisogna, sotto il pretesto della scienza, restaurare il falso misticismo della sensibilità, restituendo ai dati dell'intuizione la consistenza che non hanno. Le scienze sperimentali non esauriscono la conoscenza più semplice, così come neppure le matematiche. Esse possono benissimo allearsi tra loro; la loro stessa alleanza rimane un problema. Ciascuna per conto suo da una spiegazione che sembra completa, sembra persino assorbire l'altra spiegazione correlativa, la quale resta distinta da essa. E ciascuna sussiste veramente solo nella misura in cui diventa una funzione dell'altra. Ma le due serie sono reali, insieme o in alternativa, non perché si corrispondono. Pertanto a differenza dei pregiudizi correnti le leggi fisiche o chimiche sono simboli che non hanno sussistenza ne più ne meno delle formule geometriche. La continuità e la discontinuità non sono dunque le tesi incompatibili di un'antinomia metafisica, ma i termini solidali del simbolismo scientifico. Il ruolo della scienza sperimentale è di mettere in evidenza la discontinuità nella stessa continuità. Perché in essa la deduzione matematica resta e resterà sempre subordinata alla conoscenza di ciò che ciascuna sintesi ha di irriducibile agli elementi dell'analisi. Per esempio supporre, come fa Kékulé, che la combinazione degli atomi si operi in forza di loro proprietà specifiche secondo i numeri più semplici, non significa forse riconoscere che l'intuizione di un dato qualitativo deve precedere l'applicazione della meccanica, e che l'intervento delle matematiche, lungi dal sopprimere l'originalità delle specie sensibili, serve a metterla in rilievo? Perciò l'ambizione delle scienze della natura deve essere, senza attribuire ai loro risultati il valore di una storia reale della natura, quella di trovare proprio in seno alla continuità e al determinismo un metodo nuovo per individualizzare i corpi, considerandoli come specie polizoiche. Formati dagli stessi elementi, combinati secondo leggi uniformi, i composti costituiscono una nuova forma, del tutto differente dalla somma delle loro parti, e di cui nessuna formula può esprimere la fisionomia. L'acqua è acqua e nient'altro, non ossigeno né idrogeno. Siccome la scienza sperimentale parte necessariamente da un datop empirico, essa ritorna quindi necessariamente all'intuizione empirica. Man mano che si sviluppa, essa riconosce, con una più profonda unità di composizione e con leggi più generali, una distinzione più radicale e più precisa dei composti. Così ai limiti estremi che l'analisi riesce a raggiungere troviamo sempre la medesima diversità definita tra i dati dell'esperienza. Nell'analisi spettrale le bande caratteristiche di ciascun elemento hanno la loro disposizione o, per così dire, la loro organizzazione specifica. E mai un sistema di queste bande spettroscopiche si trasforma, attraverso passaggi insensibili, in un sistema sia pure di poco differente. Uno stato di equilibrio cambia solo per passare a un altro stato di equilibrio ugualmente preciso. Il progresso della chimica non consiste certo nel ricondurre tutto a un determinismo omogeneo; al contrario, esso consiste nel poggiare sul determinismo, precisando e definendo l'eterogeneità delle sintesi discontinue. Questo punto è di tale importanza che vale la pena insistervi un po' di più esaminando i passi compiuti di recente dalle scienze della natura. Mettendo da parte la temerarietà delle loro nuove pretese, vedremo a quali condizioni sono soggetti i loro progressi e la loro stessa esistenza; e ci prepareremo a scoprirne le irrimediabili lacune. II - È nel campo della biologia che probabilmente oggi si fa il massimo sforzo per riunire e subordinare lo studio descrittivo degli esseri alla determinazione rigorosa dei fatti concatenati. L'evoluzionismo ambisce sostituire alla distinzione palese delle forme viventi la continuità di un'evoluzione progressiva. Essa pretende di scoprire la formula del concerto totale ed elevare l'insieme delle relazioni definite nel tempo e nello spazio in spiegazione reale della natura. Che c'è di scientifico in questo tentativo? E che eredità lascerà nello sviluppo generale della scienza sperimentale? L'evoluzionismo è un'alchimia della natura. Ecco indicato con una sola parola ciò che esso ha di utile e fecondo, e ciò che ha di transitorio e incompleto. Vediamo in primo luogo l'utilità che ha. È quella di supporre un legame continuo sotto la bruta diversità e l'apparente indipendenza degli esseri che coesistono e che si succedono; quella di preparare così il terreno a una nuova estensione del determinismo matematico, e di percepire che anche negli organismi più flessibili si dovrà trovare la legge del numero, mensura et pondero. L'evoluzionismo congettura che i rapporti viventi formanti l'unità del mondo hanno i loro equivalenti in altri rapporti astratti, che spetta alla deduzione fissare nel suo linguaggio tecnico. Le azioni cosmiche, fisiche, biologiche, sociali, passando dall'omogeneo all'eterogeneo, risultano da un adattamento all'ambiente universale. In tal modo ogni fatto, così come ogni essere, è un'espressione della continuità, della solidarietà, dell'unità totale, un prodotto della storia comune, una soluzione particolare e transitoria del problema generale del mondo. E questo problema si complica man mano che le soluzioni successive lo arricchiscono di nuovi dati attraverso la costante ricerca di un equilibrio rotto incessantemente. È una grande e feconda idea quella di questa solidarietà simpatetica tra tutti gli esseri che si costruiscono in qualche modo gli uni gli altri, così come i membri di un organismo in perenne crescita si corrispondono; ipotesi divinatoria, la quale simbolizza, ma senza rigore scientifico, la formula esatta del concerto composto dall'universo; intuizione di verità, che una scienza più avanzata dovrà precisare e limitare completandole. Ecco adesso quello che di fatto manca all'evoluzionismo, quello che ne fa un romanzo, più che una scienza della natura. Come l'alchimista, fondandosi sulle trasmutazioni che vedeva operarsi misteriosamente sotto i suoi occhi, aveva la pretesa di estrarre alla fine l'oro da tutti i corpi che riteneva di indirizzare alla loro perfezione, così l'evoluzionista è persuaso di scoprire l'avviamento degli embrioni elementari della vita verso le forme superiori e verso l'umanità. Non si deve forse applicare al secondo per analogia ciò che si rimprovera al primo? Per quale ragione allora l'alchimia merita la qualifica negativa di falsa scienza annessa al suo nome? Accontentandosi di solito di somiglianze o di verosimiglianze superficiali, essa mischiava alle sue esperienze positive le ipotesi più ardite, senza distinguere la parte dell'immaginazione nella percezione del reale. Mancando di un metodo atto a eliminare le possibilità di errore e di determinare l'oggetto preciso delle sue ricerche, essa con la sua curiosità perseguiva un fine esterno alla scienza medesima. E astraendo da tutte le qualità irriducibili dei corpi che l'esperienza diretta gli esibiva, cercava in ogni caso di ridurli tutti a una stessa qualità, con un'inconseguenza inavvertita. Così l'evoluzionista: egli sembra attestarsi, con tutte le debite differenze, al punto in cui, ignorando le leggi positive della combinazione chimica, si credeva ancora alla trasmutazione degli elementi. Quando invoca la lotta per l'esistenza o la selezione naturale, quando coglie attraverso le anomalie dell'eredità certe trasformazioni visibili per suffragare una tesi che si affretta a dichiarare scientifica, non significa che ancora una volta gioca la convinzione secondo cui nella scienza sono sufficienti verosimiglianze e approssimazioni descrittive? Non significa procedere con pressappochismo, senza avere prima la cura di definire e delimitare le affermazioni tramite questo metodo negativo della controprova che, essendo il solo in grado di eliminare le cause di illusione e di imporre conclusioni rigorose, conferisce loro un valore dimostrativo? Se, in base alla semplice osservazione di apparenze favorevoli, egli ritiene che le specie viventi sono derivate le une dalle altre attraverso trasformazioni insensibili, si comporta se non come l'alchimista che chiama argento vivo il mercurio, almeno come quel chimico che immaginasse tra l'ossido di carbonio e l'acido carbonico una gradualità di stati con tasso di ossigeno più o meno elevato attraverso cui si passerebbe dall'uno all'altro. Ma dare un giudizio sommario delle modificazioni o delle somiglianze organiche, ipotizzare transizioni impercettibili, sperare che avvicinando all'infinito le tappe della metamorfosi universale si faccia svanire ogni difficoltà e ogni discontinuità, come una domestica che sparpaglia un mucchio di polvere per renderlo invisibile a uno sguardo poco attento, significa abusare delle analogie matematiche e del prestigio dell'immaginazione contro il metodo e l'originalità delle scienze naturali. Tanto è legittimo e scientifico stabilire la stretta dipendenza di parti che si sostengono a vicenda, e far circolare da un capo all'altro del mondo gli stessi elementi e le stesse leggi di composizione, altrettanto temerario e inconseguente risulta non riconoscere in seno all'omogeneità certa l'eterogeneità altrettanto certa. Perché anche supponendo che nel laboratorio della natura si vedesse nascere da una specie determinata una nuova specie sotto l'influsso di cause complesse, come in un alambicco in cui sono presenti parecchi corpi si formano combinazioni impreviste, non per questo risulterebbe risolto il problema della trasmissione e della trasformazione dell'organismo. Se l'alchimista era incoerente eliminando tutte le qualità specifiche dei corpi per ricercare una qualità finale, l'evoluzionista lo è ugualmente quando fa astrazione dalla specie derivata come se questa non avesse la sua irriducibile originalità, polarizzandosi sulla specie originale, sulla cellula primitiva considerata come un dato fisso. Quello non credeva alla specificità dei metalli, e tuttavia voleva ottenere una specie fissa, l'oro; questo non crede alla specificità degli organismi, e vuole ricondurre tutti gli esseri a uno stesso tipo. In altri termini, astraendo dalla qualità eterogenea, forza la continuità omogenea per restaurare in definitiva una qualità iniziale o finale, come se ci potesse essere un tipo unico da cui gli altri derivano per composizione, allo stesso modo in cui le quantità nascono dalle unità numeriche. Dunque bisogna ammettere sempre, fin dal punto di partenza, dal primo germe di vita, un coordinamento infinitesimale delle parti, un sistema specifico, una combinazione del tutto sui generis degli elementi organizzati. Altrimenti non vi sarebbe né chimica biologica né scienza della vita possibile, perché tutto sarebbe amorfo. Se una sintesi definita cambia, non può formare che un'altra sintesi definita, come un individuo distinto nasce da un individuo distinto. Quindi qualunque sia l'origine delle specie viventi, rimane intatta la questione della loro differenza fondamentale: distinzione essenziale da cui dipende il carattere positivo delle scienze della natura. Il problema dell'origine reale e della costituzione degli esseri è totalmente differente dal problema della discendenza storica e della composizione organica delle forme viventi. E per non fare della metafisica senza saperlo occorre separare i due problemi, perché la scienza è assolutamente incompetente sul primo. A quali condizioni le teorie della filogenesi e dell'ontogenesi rivestiranno un carattere propriamente scientifico? E che resterà dell'evoluzionismo quando, cessando di essere una dottrina e di aspirare a possedere l'ultima parola e il grande segreto delle cose, avrà preso posto nel sistema delle scienze sperimentali, le quali conserveranno e supereranno la verità di questa ipotesi, come di tante altre, dopo averne evitato e condannato l'eccesso? Se è consentito fare una previsione, resterà senz'altro questo: si saprà scientificamente che dall'ultimo elemento sempre provvisorio cui l'analisi perverrà fino alle sintesi più complesse della vita circolano, per così dire, una stessa linfa e una stessa formula di composizione. Già la cristallografia studia la struttura architettonica degli atomi nella molecola. Aspettiamo che essa determini come gli elementi si combinano e si compongono, come si giustappongono cristallizzando secondo leggi meccaniche sulle quali il calcolo avrà presa, e allora anche i composti organici potranno essere definiti rigorosamente in funzione della loro struttura istologica; allora si conoscerà senza dubbio come la connessione degli organi e la correlazione delle forme, la cui armonia negli esseri superiori sembra obbedire più a una legge di finalità estetica che a un ordine geometrico, dipende dalla natura specifica delle combinazioni elementari che si esprime nell'insieme dell'essere vivente; allora si saprà come la sintesi organica è soggetta alle leggi precise di una sorta di cristallizzazione, e come persino la varietà delle razze secondo l'ambiente è un caso di polimorfismo. In tal modo l'unità di composizione nella natura e il concatenamento universale dei fatti, delle forme e degli esseri non sarebbe più un'ipotesi indeterminata o una vaga approssimazione basata su verosimiglianze o generalità. Sarebbe una formula che la deduzione potrebbe sfruttare, e che confermerebbe fin nel minimo particolare l'antico adagio: Homo de limo terrae. Ecco in che modo non solo l'astronomia, ma anche la fisica, la chimica, ormai persino la biologia, e forse ben presto anche la sociologia sembrano appese a un problema di meccanica razionale. Questo risultato ovviamente è chimerico; ma è utile ipotizzare perfetta la scienza, per vedere che neppure in quel caso esisterebbe la coesione scientifica. Ma come può essere determinata in termini matematici questa continuità reale? Forse a condizione che tra tutte le forme dell'organizzazione vi siano gradazioni impercettibili e indeterminazione informe, come in una pasta pronta a essere modellata a poco a poco da ogni sorta di influenze indefinibili? Niente affatto. Perché al contrario il determinismo della continuità matematica nella natura esige che in ciascuna delle tappe, per quanto le supponiamo ravvicinate, in ciascuna delle sintesi particolari, per quanto analoghe siano, vi sia determinazione esatta e organizzazione intrinseca del composto originale. Quindi nelle scienze sperimentali l'impiego della deduzione continua è subordinata alla discontinuità delle sintesi reali, e la quantità vi è immessa solo per far emergere quello che la qualità ha sempre di proprio e di irriducibile. Una volta introdotto il numero, il dato sensibile è sostenuto contro le stesse matematiche dalla precisione e dalla rigida fissità delle matematiche. Così quando nella genesi delle molecole si studia la struttura architettonica degli atomi, a quali condizioni il problema può essere concepito, posto e risolto? A condizione di avere presente che la diversità delle parti concorrenti forma un ordinamento sistematico. Ora qualsiasi disposizione, t????, qualsiasi unità complessa, qualsiasi forma intelligibile, qualsiasi sistema in quanto sistema organico esiste solo come percezione e qualità. Lungi dall'essere riducibile integralmente ai suoi elementi, sono al contrario gli elementi che hanno il loro nome e svolgono il loro ruolo solo in funzione del tutto da cui dipendono. Ciò a più forte ragione quando si tratta non tanto di combinazioni della chimica organica, ma degli organi stessi e della loro coesione. Se nel corpo vivo le parti elementari sono determinate rigorosamente come nel cristallo, l'insieme non è qualificato da una malleabilità indefinita. Al contrario è dalla sua qualità totale, dalla sua originalità specifica che procede qualsiasi dettaglio della chimica biologica proprio di ciascun organismo. La scienza sperimentale è una scienza solo a patto che, determinando con una continuità matematica le leggi precise delle combinazioni e della solidarietà universale, fissi con ciò stesso la distinzione e la qualità propria delle sintesi di cui la primitiva esperienza offre la percezione indeterminata. Così nello studio della gerarchia delle forme, ormai connesso a quello del concatenamento dei fatti, bisogna evitare un duplice scoglio. Da una parte a torto si vedono solo rapporti di giustapposizione tra le specie che la natura presenta all'osservazione, come se, realizzando con la loro diversità un piano del tutto ideale, le loro analogie non rivelassero alcuna parentela e alcuna mutua dipendenza. Dall'altra a torto si crede a una trasformazione indeterminata degli esseri, prestando fede a osservazioni sempre raffazzonate e incompetenti quando concernono i caratteri meramente apparenti delle forme viventi. Come nelle combinazioni inorganiche vi sono generi e famiglie naturali, nel mondo della vita vi sono sistemi organici che, quale ne sia l'origine e la filiazione, costituiscono casi di equilibrio definito e di sintesi originali. Senza dubbio gli stessi elementi si possono ritrovare in tutta la serie. Ma la diversità della loro unione è in un certo senso qualcosa di più reale e di più essenziale della stessa unità della loro composizione: è il fatto refrattario a qualsiasi riduzione, anche dopo che la deduzione ne avrà determinato la generazione infinitesimale, o anche dopo che l'osservazione ne avesse riconosciuto la discendenza storica. Nessun composto è riducibile ai suoi componenti. Se pure non può farne a meno, li trascende sempre. Perciò il rapporto tra la causa e gli effetti non potrebbe essere analitico. E chi riconosce questa verità non ha più il diritto di ridurre tutto nella natura al determinismo dei fatti. In sintesi, mai il legame tra gli stati più vicini è percepito per esperienza diretta, anche quando se ne conoscono le condizioni, le relazioni e i nessi. L'analisi omette necessariamente la x la cui azione presiedeva all'organizzazione interna. La stessa ricomposizione non rivela all'osservatore l'operazione profonda che si realizza sotto i suoi sensi e all'insaputa dei suoi calcoli. Dopo che sono resi presenti gli elementi e sono messe insieme le condizioni, tocca alla natura compiere segretamente il resto. Ogni generazione avviene nell'oscurità. Potremo senz'altro scoprire tipi intermedi e specie di passaggio: la continuità empirica sarà sempre un'approssimazione, e rappresenterà solo in modo simbolico la continuità matematica, la sola che ha un rigore assoluto. L'errore dell'evoluzionismo è di credere che tutte le forme della scienza si raccordino da sole tra loro, senza accorgersi che in esse e tra esse c'è un'incoerenza perenne. Attribuendo il valore di spiegazione universale proprio a ciò che ha bisogno di essere spiegato, esso falsa il suo apporto di verità scientifiche dandogli un'estensione illegittima. Non è dunque che una costruzione ibrida. Ma la vera scienza della natura è quella che, sapendo determinare rigorosamente il concatenamento continuo degli esseri discontinui, s'interessa a ciò che ogni sintesi ha di proprio, t?de t?, senza scambiare relazioni per esseri, e addirittura una successione storica per una spiegazione reale. Così appare, non più soltanto al primo esame dei sensi ignoranti ma allo sguardo più illuminato dello scienziato, una gerarchia di forme tutte distinte, tutte solidali. La spiegazione del mondo da parte delle scienze sperimentali, pur fondandosi su una continuità astratta, deve essere e resterà discontinua. E sull'insieme come sul dettaglio degli oggetti di esperienza si aprono diversi punti di vista, sono ugualmente legittime diverse forme e, per così dire, diversi gradi di spiegazione. La meccanica, la fisica o la chimica, pur collegandosi tra loro sempre di più, conservano la loro competenza peculiare. Esse fanno presa su fenomeni che peraltro sfuggono alla loro presa. Lo studio della sintesi non esonera dal determinare le condizioni elementari, e neppure la conoscenza degli elementi surroga lo studio diretto della stessa sintesi. È così che l'inerzia del corpo bruto manifesta già un dinamismo interno senza il quale l'urto che ha estratto il mobile dal suo stato di riposo non produrrebbe il suo effetto. Allo stesso modo il germe vivo opera una vera creazione con i materiali che accumula, e finché c'è vita si ha un fenomeno di sovrapproduzione. Tra l'impulso delle circostanze esteriori e lo stimolo del proprio organismo, è il proprio organismo che l'animale subisce maggiormente. Nel sistema nervoso ogni cellula è per così dire un cuore che, ricevendo una corrente, la scarica con un aumento di energia. La psicofisica rivela la progressione vittoriosa dello sforzo sulla resistenza da vincere, e l'intensità di quelli che chiama i riflessi psichici. La coscienza emerge dalle funzioni organiche, senza averne coscienza e senza lasciarvisi ridurre. Nella riflessione appare un potere di inibizione o di impulso che l'esperienza popolare chiama libertà, e che essa crede capace di dominare le energie della natura o di regolare gli istinti della vita animale. A sua volta l'operazione volontaria procede dal pensiero, dall'organismo, dal mondo senza rapportarsi alla pluralità confusa dei germi sconosciuti di cui essa è il compimento. Dunque ogni grado ha una caratteristica propria, senza comune misura con nessun altro. Sintesi del tutto e al tempo stesso novità eminente, esso può essere conosciuto scientificamente solo se è collegato al determinismo universale tramite la continuità della deduzione, e insieme è percepito dall'osservazione diretta nella sua unità sintetica. Ora è di questo concorso che la scienza sperimentale non rende affatto conto. Essa non sussiste che ammettendo la congiunzione di due ordini che dal suo punto di vista sono incoerenti. A essa sfugge, all'inizio, durante e al termine ideale del suo sviluppo, la relazione tra il calcolo e l'intuizione, tra il determinismo intelligibile dei fatti e la discontinuità sensibile dei dati dell'osservazione. E tuttavia vive di questa stessa relazione. Ecco dunque, in tutta la loro crudezza, le constatazioni che si ricavano da una visione chiara dei procedimenti scientifici: - c'è vera scienza dei fenomeni solo se le loro leggi sono determinate dal calcolo; - c'è vera scienza delle specie solo se la loro costituzione intima può essere definita con una precisione numerica; - c'è unità reale di queste scienze solo se la continuità matematica entra nel loro impianto e le collega, perché nella loro visuale gli esseri non sono che un sistema di fenomeni integrati. Ora se è apparso che l'applicazione delle scienze esatte alla realtà non era giustificato da esse, è ugualmente palese che neppure il ricorso necessario delle scienze sperimentali al calcolo è giustificato. Tra le scienze e al loro interno c'è una frattura che non sparirà mai, qualunque sia il grado di progresso cui sono giunte in ipotesi. Le matematiche possono benissimo inserirsi nella natura, la fisica può benissimo munirsi del calcolo, come se svolgessero a vicenda il ruolo di contenente e di contenuto: malgrado questa doppia coincidenza e questo mutuo inserimento c'è una incrinatura invisibile nell'unità apparente della spiegazione scientifica. La scienza non può limitarsi alla scienza. III. Come dunque operare di fatto l'avvicinamento di questi tronconi separati? E dato che esiste, da dove la scienza ricava, con la coesione che non possiede e senza la quale tuttavia non sussiste, la vita e l'efficacia che ha? Raccogliamo con uno sguardo i risultati delle analisi precedenti: si intravede il postulato finale, il punto preciso nel quale si opera il raccordo da cui dipende qualsiasi certezza positiva, nell'insieme come nel minimo particolare della conoscenza. In effetti da una parte l'analisi matematica non raggiunge mai la realtà sensibile al termine delle sue astrazioni. Dall'altra l'osservazione diretta può benissimo sforzarsi di rendere scientifico il concreto, il particolare, la qualità, inserendo sotto l'intuizione dei sensi un mondo di determinazioni quantitative; ma lungi dal far svanire il fenomeno qualitativo nello spazio di una formula astratta, ne fa emergere l'irriducibile originalità. Né l'esperienza può offrirci il mero astratto, né il calcolo il vero concreto. Perché il calcolo è fondato esattamente sul fatto che l'analisi reale procede all'infinito, e la sperimentazione sul fatto che le costruzioni matematiche non producono la sintesi reale. Senza dubbio per una sottile illusione ci si persuade che, siccome le scienze esatte partendo dall'astratto mettono capo ad applicazioni pratiche, siccome le scienze sperimentali fondandosi sull'intuizione sensibile riescono a scoprirvi determinazioni numeriche, vi sia coincidenza e saldatura tra questi due metodi, inversamente simmetrici, del calcolo e dell'esperienza. Ma non è così; perché il senso dell'unità, dell'analisi o della sintesi non è affatto identico nell'uno e nell'altro. Nei suoi calcoli la scienza sperimentale non perviene mai al calcolo, perché essa ha come unità non il principio astratto dell'analisi ideale, ma un elemento concreto. Ma c'è di più. Non esiste una verità scientifica di un ordine qualsiasi in cui non si riscontri questa dualità. Perché qualsiasi costruzione matematica suppone, per così dire, un'esperienza immaginaria della sintesi in quanto sintesi, e qualsiasi osservazione distinta richiede un lavoro di astrazione che determini, nella massa confusa dell'intuizione, una unità e delle relazioni numeriche cui la qualità sensibile rimane irriducibile. Ora definire la difficoltà in questo modo significa dire che è risolta di fatto; e tuttavia, lungi dal vedere in questo successo effettivo una soluzione, bisogna scorgervi un problema. I - La difficoltà è risolta di fatto. Tutte le antinomie che si è voluto scoprire nel campo della speculazione risiedono nella stessa scienza. Considerando le cose a fondo, esse non riguardano l'essere, e in gioco non è l'ontologia. Col pretesto di combattere l'illusione metafisica, Kant ha subito a sua volta, per la forza dell'abitudine, l'illusione metafisica, quando ha trasposto il problema. Continuità e discontinuità, determinismo e contingenza, analisi e sintesi, deduzione e produzione di effetti distinti dalle loro condizioni: sono senz'altro questi i termini del conflitto, e il conflitto insorge nel cuore delle conoscenze positive. È dunque la scienza ad essere compromessa. Ma nessuno se ne allarma, nessuno se ne accorge. Perché? Perché il problema è deciso prima ancora che si senta il bisogno di formularlo. Esso è risolto a livello pratico, ossia l'azione da cui procedono le scienze non si esaurisce in esse, ma mentre le sorregge, le eccede e le trascende, mentre consente la loro crescita e il loro successo, dimostra che in essa c'è più di quanto le scienze conoscano e attingano. Ecco perché tutte le sottigliezze di Zenone non impediscono ad Achille di raggiungere la tartaruga. Tutte le incoerenze della scienza non impediscono allo scienziato di dominare i fenomeni e di realizzare le concezioni e i calcoli astratti della mente, grazie all'industriosa attività di quest'uomo che recenti classificazioni gratificano del nome di Homo industriosus. Egli è mago a suo modo, tanto da far entrare la sua opera specifica nell'opera universale. Il nostro potere va sempre più in là della nostra scienza. Quest'ultima, scaturita dal nostro potere, ha ancora bisogno di esso per trovarvi il suo appoggio e la sua meta. Al punto d'arrivo c'è di più, perché fin dall'origine c'era di più. È quindi impossibile che la scienza si limiti a quello che sa, perché essa è già di più di quello che sa. In forza della volontà che la pone e l'alimenta c'è in essa quello che si vorrebbe escludere al di qua o al di là di essa. Pertanto in quel qualcosa che avevamo ammesso al principio, con la speranza che la conoscenza positiva lo esaurisse, sussiste un elemento irriducibile, il quale dalla visuale di queste scienze positive rimane trascendente, senza però cessare di essere immanente a esse. Vogliamo vedere la presenza e una sorta di sigillo di questa azione mediatrice in qualsiasi conoscenza? Ricordiamo come all'inizio dell'analisi matematica è stato necessario un fatto, un'esperienza semplice finché si vuole, la sola successione di due stati di coscienza, il dato puro e semplice di una sintesi effettiva: azione generatrice, la quale mentre all'ingresso della scienza è necessaria, al suo esito consente il successo finale. Cerchiamo di vedere anche come dalla combinazione dei numeri si possono far sorgere le leggi dell'aritmetica musicale o delle proporzioni chimiche, senza mutuare nulla dall'esperienza, o come dall'algebra superiore l'ingegnere può ricavare del tutto a priori la conoscenza dei materiali resistenti, senza l'iniziativa combinata del pensiero e dell'osservazione. Ovunque intravediamo la necessità di un'azione che fornisca a ognuna delle scienze quello che le manca dell'altra; intervento indispensabile affinché ciascuna guadagni il proprio punto di partenza, e affinché ciascuna, legittimandosi col successo pratico, si attesti sul proprio punto d'arrivo. Ciò significa che qualsiasi disciplina scientifica per sussistere esige il postulato dell'azione, e che l'azione stessa deve diventare oggetto di una scienza vera e propria, se la volontà rimane coerente al movimento iniziale del sapere. L'azione risolve l'antinomia delle scienze positive soltanto ponendo un nuovo problema di un altro ordine. II - La scienza è un risultato: dunque bisogna rendere conto di questo risultato. Invano tenteremmo di accontentarci di quel risultato, di chiuderci in esso munendoci contro qualsiasi desiderio, qualsiasi curiosità e qualsiasi fede superiore. Poiché nella scienza è già incluso quello che ne vorremmo escludere, poiché non possiamo farne a meno, ne limitarci a essa, bisogna andare oltre, indagando su ciò che nella scienza è ulteriore alla scienza stessa. Questo fatto non è spiegato, e non lo sarà mai agli occhi dello scienziato. Ma è un fatto certo e positivo che lo scienziato non può fare a meno di ammettere e di volere implicitamente dal momento in cui ammette la scienza. Senza dubbio egli talvolta è convinto che nonostante questa insufficienza di fondo le conoscenze positive provvedono quanto basta ai bisogni della vita individuale o sociale. Ma se lo afferma, lo fa in nome di una credenza arbitraria, per un decreto che non ha affatto la sua motivazione e la sua giustificazione nella scienza. Egli non ha fatto niente per risolvere il vero problema, ma lo suppone risolto nel momento stesso in cui ricade sotto la legge comune della coscienza ingenua. Forse che conoscendo le funzioni abeliane o le branchie dei gasteropodi abbiamo guadagnato una maggiore chiarezza sulla vita? Se dunque si cerca sinceramente una luce nella scienza, non ci si può fermare alle scienze positive, perché in esse il punto vitale rimane oscuro. Al contrario bisogna interessarsi a questa x che compendia nella sua indeterminazione tutto quello che rimane da sapere, facendone oggetto di una nuova scienza ugualmente positiva, anche se in maniera diversa. L'indeterminato, come osserva Aristotele, è la categoria dell'azione. Non si tratta di penetrare nel campo contestato della speculazione metafisica con un balzo temerario. Al contrario, tutto il nostro sforzo deve essere di attenerci al fatto, di determinare con precisione l'ignoto, e di scoprirne la caratteristica scientifica. Sarà questo l'oggetto del capitolo seguente. Dalle analisi pregresse risultano conseguenze rilevanti. 1. Le scienze positive derivano, in tutta la loro estensione, dall'associazione costante di due ordini irriducibili. 2. Proprio a motivo di questa incoerenza e di questa solidarietà esse costituiscono semplicemente un simbolismo, arbitrario nel suo principio, ininterrotto e collegato nel suo sviluppo continuo, verificato in base alle sue applicazioni. 3. Ma né le teorie hanno un rapporto essenziale con le conseguenze sperimentali nelle quali sembrano sfociare, ne i dati dell'esperienza hanno un rapporto essenziale con i calcoli che sembrano realizzarsi in essi. Anzi, sia le une sia gli altri, senza avere una relazione di natura tra loro, non hanno alcuna relazione di natura con un terzo termine qualsiasi. Nella scienza nessuna realtà intermedia deve inserirsi tra le due serie funzionali dei suoi simboli. Ciascuna serie trova nell'altra la sua materia e la sua apparente realtà. Ciascuna serie, per quanto irriducibile all'altra, deve usare l'altra per i suoi simboli. Insomma c'è dunque un doppio simbolismo reciproco, che conferisce alle conoscenze positive la loro solidità relativa. Esse sono tanto più vere, quanto con maggiore facilità, con maggiore precisione e con maggiore coerenza si adeguano l'una all'altra. Ma in sé le une non sono più vere delle altre. 4. Da ciò deriva che le scienze non devono preoccuparsi di spiegare il fondo delle cose. Esse devono unicamente costituire un sistema di relazioni coerenti, partendo da differenti convenzioni e nella misura in cui ciascuna delle loro differenti ipotesi è controllata di fatto. Come vi sono parecchi modi di dimostrare e di esprimere una verità conosciuta, vi sono parecchi modi di raggiungere una verità sconosciuta, e diversi modi di conoscerla. Pertanto la varietà, la fecondità e, per così dire, la libertà della scienza è illimitata. 5. Cadono così gli intralci che assoggettavano le scienze alla necessità illusoria di rappresentare fedelmente e di costruire pezzo per pezzo un mondo oggettivo; un mondo da poter offrire come la realtà stessa allo spirito affascinato dalla certezza e dalla precisione dei loro risultati; un mondo quale meccanismo stupendo, di cui non si sapeva dire se era opera dei sensi o della ragione, della fisica o della metafisica. Così, invece di cercare di realizzare gli schemi della cristallografia o le costruzioni della metageometria, bisogna evitare di attribuire una verità sostanziale persino allo spazio della geometria euclidea o alle ipotesi atomistiche del chimico. 6. Cadono ugualmente le antiche catene che sembravano legare strettamente la scienza e la filosofia. Ogni costruzione speculativa che assume come materiali i simboli scientifici e le verità positive è deleteria. Alla scienza appartiene la nozione delle sequenze invariabili e della causalità incondizionata. Ma dalla necessità delle verità da essa stabilite non si deve indurre alcuna necessità di natura, perché in essa non vi è natura, vi sono solo rapporti; e il carattere arbitrario delle definizioni e delle convenzioni iniziali limita la necessità delle relazioni scientifiche a queste stesse relazioni. 7. Ma ciò significa forse che le scienze vedono la rottura di tutti i loro rapporti con la filosofia, e che esse non fanno parte integrante del problema umano? Niente affatto. Questi legami, che bisogna spezzare dal punto di vista della conoscenza, vengono riannodati dal punto di vista dell'azione. Le ipotesi, i simboli, le spiegazioni potranno cambiare, e di sicuro cambieranno. Quello che resterà è il procedimento dello spirito nella costruzione e nel mutuo adattamento di queste teorie, è il senso stesso delle indagini scientifiche. La conoscenza positiva non si esaurisce nella propria opera; e ciò che la fa essere non si restringe a ciò che essa fa e sa. Non si può credere che le scienze non abbiano una portata reale. E in effetti esse ne hanno una, ma diversamente da come si pensa e al contrario di quanto si immagina comunemente. Perché la parte arbitraria e il marchio soggettivo dell'intervento umano risiede in ciò che è determinato scientificamente e, per così dire, oggettivamente. E quel tanto di realtà che esse hanno va ricercato in ciò che le determina, non in ciò che esse determinano. 8. Così diventa palese il vizio della concezione positivistica o evoluzionistica: " Il soggetto, si dice, non è oggetto di scienza per se stesso; esso è conosciuto mediante gli altri metodi scientifici, in funzione dei fatti positivi; è un epifenomeno interamente riducibile alla facciata esterna, un rovescio ". Errore indubbio: la conoscenza soggettiva ha un oggetto proprio, perché la sua ragion d'essere è precisamente quella di essere ciò che non sono le altre scienze e senza cui le altre scienze non esisterebbero. 9. Inoltre, in questo modo, viene risolto, da un punto di vista positivo, uno dei problemi essenziali che la Filosofia Critica aveva lasciato aperto su un altro terreno. Perché in effetti, invece di prendere come punto di partenza le intuizioni immediate della sensibilità, non approfittare del fortunato sforzo fatto dalla scienza per chiarire questo primo dato della vita? L'utilità delle analisi pregresse è di dare un contributo per lo studio critico delle nostre conoscenze, facendovi entrare tutta l'opera della scienza; è di mostrare, con la sola considerazione dei procedimenti e dei risultati della scienza, che tutta questa porzione della nostra ricchezza intellettuale e della nostra efficacia pratica non concerne che le relazioni dei fenomeni. 10. Con ciò stesso l'antico problema circa l'originalità o l'innatismo del nostro pensiero viene ridotto ai suoi termini positivi. Ciò che i sensi o le scienze attingono relativamente al loro oggetto, anziché spiegare il resto, non può sussistere che in funzione del resto. Se è stato utile insistere sull'incoerenza dei metodi e delle verità più incontrovertibili, ciò è avvenuto per far emergere al tempo stesso la certezza di ciò che ne rinsalda la solidarietà. In tal modo risultano stabilite in una sola volta due conclusioni che in apparenza sono contrarie, ma in realtà sono correlative: le scienze non gettano alcuna luce sul fondo delle cose; le scienze esigono la mediazione di un atto che è irriducibile a esse. Esse non si risolvono nel loro oggetto, e non riconducono mai la conoscenza al conosciuto. 11. Non è necessario aver penetrato tutto questo complicato meccanismo per essere immune dal fascino delle scienze positive. Al contrario, subire questo fascino significa dimostrare in base all'effetto che la volontà è incoerente verso le sue proprie esigenze, perché si arresta a una meta prematura, e che si affida a chi non è alla sua altezza. 12. Il risultato finale di questa ricerca è dunque quello di mettere in luce ciò che giustifica l'ignorante e lo autorizza a risolvere il problema del proprio destino senza tutto questo lusso di conoscenze. La scienza della vita rimane accessibile a chi non ne ha altra. Si voleva ridurre l'uomo e i suoi atti ai soli fenomeni definiti dalla conoscenza positiva, ovvero, ma è la stessa cosa sotto una forma differente, si riteneva che il fenomeno positivo potesse sussistere senza l'uomo e la sua azione. Ed ecco che questa pretesa è insostenibile. Essa è contraddittoria, perché escludere quello che rende le scienze possibili e valide significa rinnegarle nel momento stesso in cui le ammettiamo e le sfruttiamo. Per il fatto stesso di porle, si esige qualche altra cosa al di fuori di esse. Si riconosce che la soluzione completa dell'enigma non sta in esse, ma esse stesse sono enigmatiche. Così cade, con la superstizione della Scienza, l'indegna presunzione di colui che, abusando presso i semplici del prestigio di una parola magica, si erge a loro guida, come se sul segreto della vita lo scienziato la sapesse più lunga dell'ultima delle persone umili. Per quanto facciamo, non vivremo mai con le sole idee scientifiche; e nonostante i tanti progressi recenti, per questa via non abbiamo fatto, e non faremo, un solo passo verso il fondo ultimo degli esseri e delle loro operazioni. Bisogna ribadirlo a tutta forza. E affermarlo non è opinione personale o finzione speculativa, ma è verità acquisita, ?t?µa e?? ?e? Le scienze hanno davanti una carriera immensa e ristretta. E proprio in quello che sanno, senza ricorrere ad alcuna critica metafisica, si scopre la certezza di quello che non potranno mai sapere. Esse cresceranno indefinitamente senza intaccare minimamente il mistero che custodiscono nel loro cuore. È passato il tempo in cui poteva sembrare che le matematiche, la fisica o la biologia avessero una portata propriamente filosofica. Indubbiamente una certa confusione delle competenze è stata utile per accostare i frammenti della scienza e per fecondarli reciprocamente. Ma è un fatto: la divisione è compiuta per sempre, si è chiusa un'epoca del pensiero. Ed è esattamente dal giorno in cui l'unione efficace delle scienze rivela la loro solidarietà e la loro forza che è possibile valutare la loro debolezza e le loro lacune. Si apre loro un campo illimitato, ma un ambito infinito sfugge loro. Queste due verità sono legate. Perché col suo stesso successo l'azione da cui esse procedono prova ancora meglio che le trascende, e che non può attendere da esse un solo lume in più. Non si potrebbe rendere al pensiero un servizio più grande che sottolineando in tal modo questa potenza senza confini in questa debolezza senza rimedio. Invano dunque si spera di risolvere il problema della vita da un punto di vista positivistico. Farlo sarebbe questione di incompetenza e di incoerenza. Le scienze positive non sono che l'espressione parziale e subalterna di un'attività che le abbraccia, le sostiene e le trascende. Una sola via d'uscita rimane: seguire il movimento da cui esse procedono, cercandone per così dire l'equazione, per vedere se in ciò che le trascende e le fonda c'è la materia di una scienza autentica, di una scienza che forse alla fine sarà autosufficiente. * * * A che cosa mira il capitolo seguente? A mostrare che lo studio soggettivo dell'azione comporta un rigore scientifico e prolunga necessariamente le scienze positive, raccordandosi a esse e andando oltre. Suo scopo quindi è stabilire il nesso che, a partire dalla conoscenza matematica o sperimentale, preserva la continuità scientifica fino ai fatti di coscienza; ma anche definire il carattere proprio di questi fatti soggettivi, e istituire su questo fondamento una scienza della coscienza. - A tal fine comincio stabilendo la dipendenza e la solidarietà tra i fenomeni soggettivi e quelli di cui si occupano le scienze positive, di modo che il movimento dell'indagine non è interrotto. - Poi indico come i fatti interni, anziché essere un epifenomeno o una traduzione meramente equivalente e addirittura inadeguata dei fatti esterni che li accompagnano, contengono, insieme al compendio di tutte le loro condizioni antecedenti, un'originalità e un'efficacia propria. - Infine faccio leva sulla trascendenza relativa di questi fatti, a un tempo scientificamente determinati e indipendenti, per giustificare lo studio soggettivo dell'azione e per definire le condizioni di una scienza della coscienza, - di una scienza che, raccordata con le altre, inaugurerà tuttavia un ordine di ricerche del tutto inedito, quelle che di solito si designano col nome intempestivo di " scienze morali ". Il prossimo capitolo dunque ci conduce dalla scienza positiva dell'oggetto alla scienza del soggetto, positiva altrimenti ma allo stesso titolo. Capitolo III - Gli elementi della conoscenza e la scienza soggettiva dell'azione Le scienze positive esistono solo grazie a un postulato immanente. Esse hanno un continuo bisogno di ammettere che i sistemi intelligibili o organici da loro considerati sono distinti dagli elementi di cui sono formati, e che la sintesi e l'analisi non sono reciproche. Perché, come abbiamo visto, non conoscendo il tutto di niente, noi non conosceremmo niente del tutto, se nel fenomeno dato non vi fosse che un complesso meccanico, e se la sintesi, costruita a priori o constatata a posteriori, non fosse un tutto distinto e una nuova unità. Ciò significa che in qualsiasi verità scientifica e in qualsiasi realtà conosciuta bisogna supporre, perché sia conosciuta, un principio interno di unità, un centro di coesione impercettibile ai sensi o all'immaginazione matematica, un'operazione immanente alla diversità delle parti, un'idea organica, un'azione originale che sfugge alla conoscenza positiva proprio nel momento in cui la rende possibile, insomma una soggettività, per dirla con una parola che ha bisogno di essere precisata meglio. Come definire questa incognita che è stata refrattaria alle spiegazioni delle scienze, ma la cui presenza è necessaria e feconda per esse? Il problema è doppiamente delicato. Perché si tratta di precisare che cos'è il soggettivo visto dal di fuori, quale appare nell'oggetto della conoscenza, e che cos'è visto dal di dentro da parte del soggetto medesimo. Ma c'è di più. Bisogna studiare il passaggio da questa interiorità oggettiva, se così si può dire, a questa interiorità soggettiva, al fine di indicare al tempo stesso come vi sia continuità dalla scienza dell'oggetto alla scienza del soggetto, e come l'originalità di questa scienza della coscienza rimanga integra. Il difficile quindi è mantenere la relazione e l'indipendenza tra questi due ordini di conoscenze, pur mostrando che uno è subordinato all'altro e che entrambi procedono dallo stesso volere. I. La formula precisa cui è sospesa l'esistenza delle scienze positive suona così: " Il composto di molteplici elementi in quanto composto ha un'unità interna; il vincolo degli elementi ha una realtà distinta dagli elementi stessi ". Infatti a quest'unica condizione è possibile e utile la sintesi matematica; a tale condizione anche la conoscenza sperimentale riesce ad aggrapparsi alle forme della realtà sensibile disposte su diversi piani, e infine a questa condizione si dà un fecondo commercio tra il calcolo e l'osservazione, che ritrovano l'unità nella molteplicità e la molteplicità nell'unità. Ora l'unità di una sintesi non consiste altro che in una relazione interna delle parti; è la proiezione ideale dell'insieme in un centro di percezione. Il vinculum è di natura intelligibile e, a dire il vero, soggettiva. Ma se già questa unione indivisibile di una molteplicità inferiore a se stessa trascende il dominio delle scienze positive, nondimeno agli occhi dello scienziato essa costituisce il primo dei postulati. Attingerlo significa essere risaliti al fatto dalla cui visuale si scopre un altro versante. Quindi la cosa da considerare in questo momento è come i fenomeni si interiorizzano, come dalla stessa conoscenza oggettiva si è indotti a estrarre una nozione sempre più precisa del soggettivo. - Considerando fin dal loro punto di partenza l'omogeneità di un tutto solidale per introdurvi la differenziazione astratta e le relazioni tra le parti, le scienze esatte riconoscono un principio di unità in seno alla solidarietà universale, e suppongono un vincolo invisibile nella molteplicità diffusa, perché senza questa unità non vi sarebbe né il tutto, né le parti, né la relazione, né conoscenza possibile. Il tutto, per il fatto stesso di essere considerato come un tutto, è più della somma dei suoi elementi; perché esso non appare quello che appare se non ricondotto all'unità di un sistema. La parte, per il semplice fatto di essere una parte, è più che una parte soltanto, perché esprime il suo rapporto con tutto il resto. Se riflettiamo sullo sviluppo delle scienze esatte e sulla disposizione lungo diversi piani delle loro costruzioni astratte, scopriremo che esse immettono nelle loro sintesi successive un crescente carattere di idealità soggettiva. Se d'altra parte è vero, come hanno riconosciuto le scienze della natura, che dal loro punto di vista ogni unità reale è sintetica e simbolica, allora persino nell'elemento più sottile che possa essere attinto nell'analisi sperimentale c'è l'affermazione implicita di un dentro, di un centro interno di proiezione al quale si rapporta una molteplicità virtuale. E lungo tutta la gerarchia delle combinazioni e delle forme organiche l'unità sistematica si manifesta sempre di più, come il segno di un principio immanente di percezione e di organizzazione. Così da un capo all'altro, nel campo delle costruzioni matematiche come nell'ambito delle produzioni viventi della natura, il fenomeno è tanto meglio percepito e tanto più intelligibile, sembra tanto più oggettivo, in quanto, esibendo un'organizzazione intrinseca più complessa, rivela una soggettività crescente. Quello che per noi costituisce il principio della conoscenza che ne abbiamo, è proprio ciò che in esso sembra il principio della sua realtà sintetica e delle sue percezioni interne. In un certo senso è conosciuto allo stesso modo in cui è; sembra essere in noi nella misura in cui è in se stesso. Prescindendo dunque da qualsiasi preoccupazione ontologica, il fenomeno è qualcosa di percipiente, né più né meno che qualcosa di percepito. E da questo punto di vista l'antica formula di Parmenide è rigorosamente vera, la conoscenza è identica al suo oggetto. - Ma questa è solo una maniera ancora esteriore di definire la presenza di un elemento soggettivo nel cuore di qualsiasi dato positivo. Per riuscire, nella continuità del fenomeno universale, a determinare la relazione tra i fatti esterni e i fatti interni, il cui duplice processo irriducibile e solidale è sempre apparso un enigma, bisogna andare più avanti. Solo analizzando la costituzione e la stessa formazione del fenomeno, cosi come le scienze lo hanno raccolto e valorizzato, si scopriranno le sorgenti inconsce della vita cosciente. Perché si è visto che le scienze non si costituiscono e non si saldano, i loro principi, i loro metodi e i loro risultati non hanno coerenza ed efficacia, i fenomeni di cui esse fanno la materia dei loro studi non hanno consistenza e realtà, se non nella misura in cui un'azione mediatrice interviene all'inizio, nel corso e alla fine del loro sviluppo. Non è dunque sufficiente, nel dettaglio di ciascuna verità scientifica, sceverare l'elemento soggettivo che vi si cela. È necessario, nell'insieme delle conoscenze positive e nel sistema totale dei fenomeni, cogliere in atto lo stesso divenire della vita soggettiva. In tal modo, dopo essere passati dal fatto esteriore e dall'oggetto delle scienze alla nozione di un interiore ovvero di un dentro, adesso dalla nozione del soggettivo penetriamo nella stessa coscienza del soggetto, a v'inculo perceptionis ad vinculum percipientis. Senza rompere con le scienze positive, vedremo dunque sorgere da esse quello che esse sembrano portate a negare o a escludere, il fatto psicologico. - Per una specie di evoluzione interna la coscienza emerge dall'universo circostante da cui desume il proprio nutrimento. - Ma essa non se ne distingue e non se ne libera; e perché? - Perché, se è vero che essa compendia in sé tutto il resto, ciò avviene non come un prodotto, ma come una sintesi originale, la quale restituisce alle sue condizioni più di quanto ne mutua. Siamo di fronte a una triplice relazione che è importante precisare, tentando di offrire un profilo dell'embriogenesi mentale. II. Considerare il fenomeno come un dato originario, dal quale si tratterebbe di ricavare la nozione di un elemento soggettivo, significherebbe invertire le relazioni più incontrovertibili. In verità il fenomeno è ciò che è solo in funzione di un'attività che contribuisce a generarlo. Esso viene percepito solo secondo l'ordine proprio della sua produzione. Ivi è essenziale l'azione costituente del soggetto. In effetti, se il fenomeno è concepito solo in relazione col determinismo universale, se ogni conoscenza scientifica si riconnette a una sintesi distinta dalle sue condizioni elementari, se la coesione necessaria delle scienze implica una mediazione che esse non spiegano, che cosa significa? Significa che, anche dopo aver considerato il fatto più insignificante come l'espressione e il prodotto di tutti gli altri, rimane sempre un'eccedenza irriducibile, una specie di virtualità e una potenza, infinitesimale certo, ma grazie alla quale la sintesi operata avvolge e trascende tutto ciò da cui è formata. Dunque non c'è fenomeno che, per sussistere come tale, non implichi un infinito, trascendente il fatto dell'intero universo. E non è forse a condizione di supporto che il calcolo ha avuto successo proprio nella pratica? Ogni oggetto conosciuto scientificamente è un'unità sintetica. Ora ciascun oggetto è legato al sistema totale. Se dunque la sintesi è qualcosa di più che la moltitudine sterminata delle sue condizioni, di sicuro occorre che in essa vi sia di che contenere e dominare questa stessa immensità. Si tratta di un residuo che indubbiamente è prossimo al nulla, e di cui le scienze tengono conto solo per eliminarlo. Ma proprio questo nulla, da un punto di vista interiore, è tutto, perché è il principio invisibile della sintesi, l'anima di ogni conoscenza positiva e di ogni operazione efficace. Di fatto il più semplice colpetto pone e risolve un problema di cui nessuna astrazione renderà mai conto. È così che sono risolte le antinomie di cui l'analisi dei procedimenti della scienza ha rivelato la presenza. In ogni fatto positivo c'è una complessità che sfida qualsiasi numerazione. E allo stesso tempo la produzione effettiva di un fenomeno qualsiasi esige che questa molteplicità senza numero sia compresa e dominata realmente. Da una parte l'immaginazione è vinta dall'infinita ricchezza dei fenomeni concatenati su scala universale; dall'altra questo infinito del fenomeno totale è vinto dall'atto più insignificante che vi si inserisce, dal più insignificante dei suoi aspetti particolari. C'è, se così si può dire, un infinito apparente che è la proiezione e l'espressione dell'infinito interno a qualsiasi operazione della natura o del pensiero. Proprio quello che, al di fuori, appare immenso è veramente limitato; e proprio in quello che, al di dentro, sembra finito e particolare, come un essere o come un fatto particolare, risiede un infinito. E questo dentro, da cui procede tutto il positivo, ha quindi come caratteristica quella di sfuggire alla conoscenza positiva, nel momento stesso in cui la rende possibile fornendole una materia. Ecco perché il calcolo infinitesimale ha successo solo a condizione di adoperare in prima istanza la mediazione di questo infinito, senza il quale non perverrebbe alla realtà operativa e non avrebbe affatto efficacia. Ma se esso lo suppone è per eliminarlo subito, perché il soggettivo non ha posto nell'ordine positivo. O meglio il posto preciso di questo termine trascendente è questo luogo ambiguo che sembra essere ancora e non è più quello della scienza, l'intervallo tra la minima grandezza assegnabile e lo zero, che ne è il limite inaccessibile. Vi è dunque un dentro solo là dove si manifesta non più l'assoggettamento di una parte al tutto, ma la vittoria di un punto sull'universo intero. Il soggetto non è nella serie, ma vi è costantemente rappresentato; non appare nel determinismo totale, ma in ogni dettaglio è il principio della varietà e dell'azione. Bisogna vedercelo. Già nella concezione più astratta, in quella più meccanica e in qualche modo più esteriore che si possa avere delle cose, si manifesta qualcosa di un soggetto. È una verità matematica e sperimentale al tempo stesso, che tutto è solidale: continuità deduttiva, concerto e collegamento cosmico. Ora nella semplice idea, nel semplice fatto della solidarietà appare un'azione generale e intrinseca del sistema organico. Infatti, fin dal momento in cui la presenza dell'universo si esprime in un punto, e in cui il punto si imprime in tutto l'universo, c'è una rottura di equilibrio nell'omogeneo, e una sproporzione tra la passione e l'azione propria di ciascuna parte del sistema generale: se si vuole, tanto per usare un paragone, è il termine medio tra il colpo ricevuto e il colpo dato, e come un riflesso meccanico. In questo senso si può interpretare, senza ricorrere a nessuna metafisica, quell'espressione che Leibniz applicava alle monadi della materia semplice: " mentes momentaneae ". Perché in seno al mondo quale ce lo presenta dapprima la conoscenza scientifica dei fenomeni, ossia come un insieme di movimenti determinati, ciò che dalla parte ritorna al tutto non è identico a ciò che dal tutto è venuto alla parte. Questa reazione sempre peculiare è come un abbozzo di soggetto, una specie di mezzo rifrangente, un termine medio più o meno naturato, un dentro. E ciò che in tal modo si nomina " interiore " è la presenza del tutto nella sua parte e della parte nel suo tutto, senza che vi sia simmetria esatta tra la passione e l'azione. Così appare la forza. La forza quindi implica un'azione propria che, derivata senza dubbio dal meccanismo universale, reagisce su di esso, e ha bisogno di essere considerata a parte come un impero in un impero. In effetti nel suo contesto l'influenza diretta delle parti elementari tra loro è complicata dall'influsso della totalità sulla parte. La reazione di una parte sulle altre non è uguale all'azione direttamente subita. Compare una spontaneità dinamica. Il modo nuovo, e per così dire imprevisto, con cui si risponde agli impulsi esteriori è propriamente l'agire ovvero l'essere scientifico del fenomeno soggettivo. Da questa subordinazione naturale delle parti risulta che non vi sono solo elementi staccati, di fronte al tutto e agli altri elementi staccati: si formano dei centri di equilibrio parziale, dei raggruppamenti più o meno stabili, dei sistemi meglio atti a rappresentare con la loro unità molteplice l'unità e la molteplicità dell'insieme. Ciascuno di questi centri di nutrizione o di percezione, se così si può dire, esprime e riflette dal suo punto di vista tutte le parti isolate, poi tutti i gruppi, poi tutte le rappresentazioni di questi sistemi particolari che si rinviano all'infinito le loro azioni e le loro prospettive, come cento specchi sferici incrocerebbero e sovrapporrebbero all'infinito la crescente complicazione delle loro immagini. Ora dal momento in cui il concatenamento universale si manifesta non più solo con tutto l'insieme, non più in ciascun particolare, ma in queste aggregazioni solidali che diventano come un nuovo universo con la sua evoluzione propria e interna nel cuore del sistema totale, la vita compare con l'individualità. La vita dunque è l'organizzazione di un piccolo mondo che riflette il grande mondo, e manifesta fin nella sua disposizione intima la dissimmetria e la varietà dell'universo. Comportandosi come un tutto in rapporto alle sue parti e come una parte nel tutto, essa suppone un duplice scambio da fuori a dentro e da dentro a fuori. Ora nel sistema individuale da essa formato come interiorizza il sistema generale, se non tramite la sensibilità? Ossia essa ritrova nella propria organizzazione il riflesso e il contraccolpo di tutte le forze che agiscono su di essa. In tal modo vi è perenne duplicazione e autentica integrazione della vita, la quale si illumina e si ravviva, per così dire, riflettendosi di fuoco in fuoco. Essa si nutre dell'intero universo; e ciascuna percezione è accompagnata da un aumento di energia. Ogni azione spontanea suppone organizzazione interna dei movimenti, relazioni molteplici, eco e ripercussioni di forze. In tal modo ovunque si manifesti una spontaneità naturale, c'è composizione e organismo; actiones et passiones sunt compositi. Il vivente appare così, nell'infinità diffusa delle sue condizioni determinanti, come un sistema concentrato di forze coordinate; e l'infinito del suo atto gli è più interiore che esteriore. Perché gli influssi che subisce, invece di trascinarlo passivamente, si accumulano e si esprimono tramite funzioni speciali, tramite un adattamento progressivo dell'essere al suo ambiente e delle sue parti tra loro. L'istinto, come l'organizzazione di cui è il principio interno, è una risposta assai condensata ed elaborata alla molteplicità degli stimoli esteriori, un caso particolare e una soluzione parziale del problema cosmico. Il suo carattere ristretto non impedisce che dipenda dalle forme di vita più differenti rispetto a quelle in cui si muove; lo si vede bene dalle difficoltà dell'acclimatazione. Quello che l'animale ha di attività psicologica è una proiezione ridotta e una concentrazione determinata del resto; e i suoi atti sono conclusioni particolari le cui premesse generali rimangono fuori di esso nell'ordinamento totale. Infine la ragione si sviluppa nella misura in cui diventa più adeguata all'universo, e sa concentrare, comprendere, utilizzare una maggiore varietà di fenomeni. È così che la cultura tende a eguagliare, arricchire e oltrepassare la natura da cui emerge. Il campo del divenire è senza limiti assegnabili; e si aprirà sempre nuove prospettive, con nuove teorie che non esauriranno l'oggetto da conoscere, perché esse in parte lo costituiscono. Quello che sembrava una pretesa chimerica diventa verità scientifica. La stessa finalità esterna riacquista il carattere di certezza definita che solo la finalità interna possedeva. L'uomo è un " microcosmo ", summa mundi et compendium, il compendio di tutte le esperienze, di tutte le invenzioni e di tutte le ingegnosità della natura, estratto e prodotto originale di tutto l'insieme. In lui l'universo raduna i suoi raggi. La vita soggettiva è il sostituto e la sintesi di tutti gli altri fenomeni, quali che siano. Ecco quindi come si costruisce a poco a poco il fatto di coscienza. È palese la relazione del soggetto con le condizioni elementari di cui si alimenta, ma esso non può contenere e compendiare tutti i suoi antecedenti che dominandoli. Ci resta da comprenderlo bene. III. Se è vero che i fenomeni esterni non sono di un'altra stoffa dai fenomeni interni, tuttavia c'è una differenza fondamentale: gli uni sono un aspetto particolare e una sorta di spezzone astratto del determinismo totale, gli altri sono una sorta di concentrazione dell'universo in un punto da cui procede ogni operazione concreta del pensiero o della natura. Tra loro c'è di mezzo un infinito, non per dividerli ma per collegarli. L'unità sintetica di ogni fatto reale avvolge e domina il mondo intero; perché esistendo in lui, essa lo veicola altresì in sé. Allo stesso modo la nostra conoscenza, che ha come condizione una pluralità di rappresentazioni, grazie all'unità costituita si colloca al di sopra di questa pluralità. Si libera del suo contenuto, perché lo contiene. Da un capo all'altro il vincolo, vinculum percepii et percipientis, è di natura soggettiva. Tra questi due ordini c'è solidarietà e c'è distinzione: relazione reciproca, ascendente e discendente, cui vale la pena prestare attenzione ancora un momento. Il minimo barlume di organizzazione e di vita soggettiva presuppone una straordinaria integrazione di azioni e di reazioni elementari già sistematizzate e sempre più naturate, un intreccio di tutti i fili intessuti dalla necessità per formare la crescente complicazione delle forme, degli istinti e delle sensibilità. Il fatto di coscienza è quindi il prodotto non soltanto dell'ultimo atto, ma di tutti quelli antecedenti, coscienti o inconsci, che convergono e si compendiano in esso. Pertanto non è isolato dagli altri fenomeni, ma intrattiene con tutti gli altri questo duplice rapporto: - da un lato il fatto soggettivo è la condizione di tutti i fenomeni che sono l'oggetto delle scienze positive; sicché la conoscenza di questi fenomeni dipende da esso, e non è possibile che grazie alla sua presenza inavvertita in qualsiasi intuizione sensibile e in qualsiasi affermazione scientifica; - d'altra parte il fatto soggettivo ha come condizioni tutti questi stessi fenomeni; sicché la realtà medesima di questo fatto dipende da essi, e la coscienza, anche quella più oscura, porta in sé e rappresenta tutto il determinismo dei suoi antecedenti. In tal modo si chiarisce la legge che abbiamo dovuto constatare, senza spiegarla, nel decorso di ogni scienza positiva: ciascuna sintesi è un'originalità irriducibile alle sue componenti; e proprio nella sua realtà soggettiva risiede la novità eminente di ciascun grado di composizione. In questo ordine dei fenomeni il progresso dell'esistenza e la conoscenza sono solidali. Laddove deriva questa duplice formula: - Gli elementi sono siffatti che il composto desume da essi la sua realtà, ed esiste solo grazie a essi. Essi hanno un ruolo necessario, pur conservando nel composto il loro essere proprio, e pur partecipando alla solidarietà totale. Omnia quanquam diversis gradibus animata sunt. Dunque una forma più complessa, in cui l'interiorità si manifesta maggiormente, è un riflesso delle forme subalterne che le sono servite come alimento. E in questo senso il soggettivo è oggettivo concentrato. Nessuna vita nell'universo fa a meno delle condizioni elementari in cui è immerso l'organismo, e l'uomo rimane soggetto alle leggi della materia bruta. - I composti sono tali che ciascuno è tutt'altro che i suoi componenti, e costituisce come un mondo nuovo con leggi proprie, un'energia, dei bisogni, delle risorse e un fine indipendente. In un senso molto vero le componenti esistono solo per i composti, e addirittura non esistono che grazie ad essi. Perché ovunque c'è sintesi, occorre un centro di percezione perché la sintesi si esprima nell'unità della sua composizione. Il sensibile, il positivo, l'oggettivo, o comunque si voglia designare ciò che differisce dal fenomeno di coscienza, si sbriciolerebbe, per così dire, e andrebbe in dissoluzione, se non ci fosse una progressione simultanea della conoscenza soggettiva per sostenere e realizzare il progresso delle sue forme di esistenza. Risulta quindi fondato quello che ci proponevamo di stabilire: il soggetto è collegato scientificamente all'oggetto, e lo contiene, lo trascende. I fatti di coscienza sono tanto reali quanto tutti gli altri, perché tutti gli altri comunicano loro e insieme mutuano da loro quel tanto di realtà che posseggono. Rimangono distinti eppure sono solidali. La cosa che ci resta da precisare è come questi fenomeni interni comportino una caratteristica scientifica. IV. Visto dal di fuori da parte dello scienziato, il soggettivo è esattamente ciò che non può essere conosciuto ne in funzione del calcolo, ne in funzione dell'osservazione scientifica, perché è ciò che costituisce il vincolo e che introduce l'unità in seno alla molteplicità. Man mano che le scienze determinano con maggiore precisione le relazioni matematiche e le leggi sperimentali, definiscono al tempo stesso ciò che lasciano inspiegato. Dal momento in cui i due termini estremi sono fissati con rigore, abbiamo che il termine intermedio comporta parimenti una determinazione, che per essere negativa non è meno precisa. È questo un carattere secondo, ma già del tutto positivo. Come partendo dall'intuizione sensibile siamo stati condotti alla scienza con una progressione inevitabile, allo stesso modo dalla scienza si sprigiona un fatto nuovo al quale sono sospesi tutti gli altri. Se il soggettivo non è nulla dal punto di vista positivo, tuttavia è ciò senza cui lo stesso positivo non sarebbe nulla, il principio invisibile e presente di qualsiasi oggetto di conoscenza. Ora ciò che è dato come unità molteplice, ciò che è tutto allo stesso tempo non potrebbe essere percepito che tramite un'intuizione interna. E designare il fatto soggettivo come la percezione dell'indivisibile unità nella molteplicità irriducibile significa precisamente definirlo. Pertanto anche quando si sa che vi sono delle condizioni indispensabili alla produzione della vita cosciente, rimane impossibile determinare questi elementi dell'atto che la costituisce; come già Aristotele aveva osservato prima di Leibniz, non si possono analizzare gli ingredienti dell'azione, t? st???e?a t?? p??e??. È dunque accertato scientificamente che il fatto soggettivo, per quanto legato a tutte le sue condizioni oggettive tramite un determinismo rigoroso, non può essere definito sufficientemente tramite la conoscenza, sia pure completa, dei suoi antecedenti. Perché in rapporto a questi esso costituisce una sintesi indeterminata, ed è percepito soltanto dal di dentro, o meglio è questo stesso dentro. Anziché pretendere di surrogare con lo studio della facciata esterna dei fenomeni quello della loro facciata interna, è necessario prendere il fenomeno di coscienza in se stesso, astrarlo dalle rappresentazioni oggettive in cui si mescola e di cui è l'anima, e coglierlo in tutta la sua purezza. Ma come riuscirvi? E una volta scartati dalla coscienza i fenomeni che fungono da materia per le scienze positive, che resta di propriamente soggettivo nel soggetto medesimo? Ciò che rimane è quello che distingue il soggetto cosciente dagli elementi della sua coscienza e dagli oggetti che la nutrono, quello che gli permette di transustanziarli e di operarne la sintesi, quello che gli consente di rispondere al determinismo delle sue condizioni con reazioni originali. Abbiamo mostrato che il soggettivo, visto dal di fuori, è esattamente ciò che, pur essendo indeterminato e inaccessibile alla conoscenza matematica o sensibile, tuttavia proprio con la sua azione costituisce la realtà particolare di ciascuna sintesi. Dunque visto dal di dentro è ciò che è determinante, efficace, attivo, singolare, - la molla del dinamismo mentale. Pertanto la vera scienza della coscienza non potrebbe essere che una scienza dell'azione. In effetti bisogna mettere in guardia dal rappresentare il fenomeno di coscienza in funzione dei fenomeni oggettivi, e di ricondurre l'azione al fatto. Questo significherebbe fare come il mugnaio che, per conoscere meglio il suo mulino e la forza che lo attiva, esaminasse a valle il corso del torrente. In questo studio il rischio è sempre quello di oggettivare il soggettivo, per così dire, e di immaginare che la realtà cosciente è composta di elementi astratti e di dati generali simili alle nozioni universali e necessarie di cui si alimentano le scienze positive. Perché i fatti interiori sono sempre singolari, sia allo sguardo della coscienza sia in se stessi. Non sono il risultato di una somma, non sono una possibilità permanente ne un mero estratto delle rappresentazioni che popolano la scena della coscienza. Non sono neppure il risultato o l'espressione di una sintesi; perché sono ciò che costituisce questa sintesi vivente di elementi a loro volta viventi. Quindi nella vita propriamente soggettiva non c'è nulla che non sia come un'iniziativa individuale e come un caso unico, ?pa? ?e??µe???; niente che non sia un atto. Ecco dunque che cominciamo a entrare nella verità intima dell'azione, e a distinguerla radicalmente da ciò che è fenomeno rappresentato, prodotto staccato dalla sua causa, fatto percepito e subito. In questo senso il minimo atto ha una realtà, un'importanza, una dignità, se così si può dire, infinitamente superiore ai fatto dell'universo intero. È ciò che spiega nell'adolescente, nello scienziato o nel filosofo la prima ebbrezza o l'orgoglio ostinato del pensiero: chi comincia ad alimentarsi alla propria riflessione, immagina di scoprire quello che non era noto in precedenza; un nuovo sole gli risplende. È quello che provoca in tutti la formidabile illusione dell'egoismo: la chiarezza interiore più fugace ha più valore e più fascino di tutto l'irraggiamento al di fuori. Il più esile sentimento personale, che ci rivela a noi stessi quasi con una carezza intima, è più dolce e più forte di tutto ciò che ci viene dal mondo. Dunque il soggettivo autentico non è soltanto ciò che è cosciente e conosciuto dal di dentro ( beninteso qualsiasi fenomeno è tale ), ma è ciò che fa esistere il fatto di coscienza, è l'atto interno e sempre singolare del pensiero. Una scienza del soggettivo sarà per forza di cose una dinamica mentale. V. Ma come fare scienza intorno a ciò che è così singolare e indeterminabile, di ciò che sfugge a ogni misura e a ogni rappresentazione, di ciò che è in divenire? Come determinare ciò che non ha né quantità né qualità, non potendone analizzare gli elementi e neppure considerarne l'insieme complesso come una unità definita, perché il carattere di ciascuno si forma e si modifica con ogni stato successivo? Quest'aporia probabilmente nasce da una confusione e da un abuso dell'analogia. Essendo prevenuto e pervaso dall'idea che si fa abitualmente dei metodi della scienza positiva come unico tipo di un metodo veramente scientifico, lo psicologo è spinto ad applicare i loro procedimenti alla scienza soggettiva, senza rendersi conto che si tratta di una scienza distinta solo in quanto ha un metodo diverso. Cimentandosi nel lavoro che designa come analisi psicologiche, discutendo circa la possibilità e l'uso della sintesi ovvero dell'esperimento mentale, egli stravolge il senso delle parole, e riesce ad abbozzare unicamente una pseudo-scienza, perché nell'esercizio stesso del suo " metodo soggettivo " considera il soggettivo come fatto e non come atto, lo deforma, col pretesto di studiarlo. Perché ne penetriamo la realtà vivente unicamente collocandoci non dal punto di vista statico dell'intelletto, ma dal punto di vista dinamico della volontà. Non bisogna tentare di immaginare l'azione, perché essa è esattamente quello che crea i simboli e il mondo dell'immaginazione. L'autentica scienza del soggetto è quella che, considerando fin dal punto di partenza l'atto di coscienza come un atto, in forza di un progresso continuo ne scopre l'inevitabile espansione. Essa va in cerca dell'equazione dell'azione. In altri termini il suo intento è di svilupparne tutto il contenuto, con lo scopo di determinare qual è il suo termine necessario in base alla stessa forza del movimento iniziale da cui procede l'atto, la quale forza si manifesta a ogni conato del suo sviluppo. Dunque la legge e il fine del volere si devono rivelare esattamente nell'opera della volontà. Perché anche là dove l'uomo sembra soggetto a necessità antecedenti o susseguenti, queste condizioni sono ancora soltanto dei mezzi subordinati al suo desiderio segreto. Senza dubbio, a causa del carattere intimo e sempre singolare dell'atto, la scienza soggettiva dapprima non sembra avere la generalità astratta e impersonale delle altre. Perché suppone un'iniziativa e un'esperienza proprie a ognuno di quelli che la creano dal nuovo per se stessi, da cui nessun artificio espositivo potrebbe esonerarli. E tuttavia questa scienza ha un carattere di universalità e di precisione superiore all'esattezza e alla generalità di qualsiasi altra. Infatti non c'è nessuno che non sia soggetto alla necessità della sperimentazione pratica; nessun atto che non contenga nella sua trama un concatenamento segreto, un rigore e una logica superiori a quelli dei ragionamenti più acuti. Sicché è approssimativa e realmente indeterminata proprio la formula o il fatto come tentano di definirlo le scienze positive, necessariamente parziali e astratte; mentre l'azione, gravida delle sue conseguenze e solidale con esse, è completa, sistematica, precisa, viva. In effetti è vera scienza quella in cui nulla è comunicato dal di fuori, tutto cresce dal di dentro, quella in cui conosciamo ciò che facciamo essere, le conseguenze sono dedotte con sicurezza infallibile dalle premesse affidate al lavoro della vita, e la necessità rigorosa delle conclusioni non fa altro che partorire il frutto della pristina iniziativa. Perché si tratta di determinare non ciò che è al di fuori della volontà come un oggetto più o meno fittizio, ma ciò che è in essa, ciò che essa è già per il solo fatto di volere, non per ciò che vuole. Riflettiamo sul cammino percorso in questa prima tappa dal punto in cui abbiamo voluto che ci fosse qualcosa. Dalla prima intuizione sensibile, la quale sembra semplice perché è confusa e rimane necessariamente inconsistente, è nato il bisogno scientifico. Ma la scienza positiva non trova in se stessa l'unità e la coesione di cui si avvale senza spiegarla. Come nella sensazione bruta c'è già il risveglio di una curiosità senza la quale non vi sarebbe neppure una sensazione, così ogni verità positiva esige la mediazione di un atto, la presenza di un soggetto senza il quale non vi sarebbe affatto una verità positiva. Abbiamo mostrato come questo soggetto emerge dai fenomeni che ne sono le condizioni, e come se ne distingue totalmente. Il soggettivo è collegato con un vincolo costante ai suoi antecedenti. Proprio scoprendo questo rapporto scientifico si intravvede al tempo stesso l'originalità irriducibile dell'atto interno. Dall'unità ancora esteriore della realtà percepita siamo passati all'unità intima del soggetto percipiente, e abbiamo restituito al fenomeno soggettivo il suo autentico carattere di atto. Ma definendo le sue relazioni con gli altri fatti, mantenendo ferma la sua indipendenza relativa, abbiamo legittimato questa conclusione: lungi dall'essere un semplice epifenomeno o un duplicato dei fenomeni fisici o fisiologici, l'atto di coscienza cela e concentra in sé tutto l'ambiente cui si è alimentato, - è una recettività universale. Esso ha un grado di realtà e di precisione superiore agli oggetti delle scienze positive, che senza di lui non esisterebbero, - è un'originalità radicale. Perché il fatto esiste soltanto grazie all'atto, e senza il fenomeno soggettivo non vi sarebbero altri fenomeni. Chi dunque pone qualcosa, esige il soggetto. Le scienze positive convergono verso una scienza dell'azione. Pertanto la coscienza drena e concentra tutte le forze della natura. Tramite ciò che rappresenta essa domina tutto ciò che è rappresentato in lei. In tal modo, studiando le condizioni della conoscenza soggettiva, abbiamo determinato al tempo stesso le condizioni antecedenti dell'azione, ma liberandola dal determinismo scientifico, e mostrando che le condizioni medesime rientrano nella serie dei mezzi con cui la volontà si mette in azione. Non è più il caso di stigmatizzare la scienza soggettiva come speculazione vuota e del tutto chimerica, quasi che tutto l'essenziale dei fenomeni interni fosse di competenza della fisiologia cerebrale, o che l'autentico equivalente del pensiero fosse la funzione nervosa. Ormai abbiamo il diritto di considerare l'atto di coscienza come una realtà altrettanto positiva, definita, precisa, e persino più ricca di qualsiasi altro fenomeno. La strada del mondo interiore si è aperta alla scienza. Seconda tappa - Dalla soglia della coscienza all'operazione volontaria Gli elementi coscienti dell'azione È scientificamente assodato che la coscienza esiste, e che non basta studiarla in funzione degli stati esteriori ai quali è legata come a sue condizioni naturali, ma ai quali tuttavia non si riduce. Ciò è necessario perché le scienze positive sussistano; è necessario, perché volendo che vi sia qualcosa, con questo stesso riconoscimento era già implicato il fenomeno soggettivo. Non è più quindi una sottigliezza verbale dire che prendendo l'oggeto sì pone il soggetto, e che affermando il fenomeno vi si introduce il pensiero. L'atto interno è certo, preciso, positivo, scientifico allo stesso modo, e più di qualsiasi fatto fisico, qualsiasi verità matematica. La coscienza attinge i suoi alimenti nello sconfinato ambiente che compendia in sé. Ma essa lo compendia e lo contiene solo trascendendolo, formando una sintesi originale, diventando l'atto di tutte queste condizioni e di queste potenze subalterne. Pertanto fin dal momento in cui appare sotto la forma di appetito o di bisogno istintivo, si da una spontaneità vittoriosa sul determinismo meccanico, automatismo già del tutto psicologico. Senza dubbio questi stimoli interni dipendono da cause più profonde e, per così dire, sotterranee come germi inconsci della coscienza. Ma dal momento in cui si elevano e si espandono nella vita soggettiva, con ciò che manifestano dominano tutto ciò che celano in sé. Pertanto il principio stesso di qualsiasi fenomeno cosciente è un dinamismo e più si intensifica questa luce interiore, meglio concentra le forze e i raggi della natura. Forse che, nel linguaggio delle apparenze scientifiche, in pieno contesto del mondo, sotto l'oppressione delle energie fisiche e tra le ruote dell'ingranaggio universale, i movimenti non seguono gli impulsi del desiderio? È possibile, è anzi vero che l'immagine o la tendenza deriva dal determinismo inconsapevole che precede o prepara il risveglio della coscienza. Ma l'immagine o l'idea trova, in ciò che la suscita e in ciò che essa è, la potenza di produrre un movimento proprio. C'è dunque una spontaneità motrice che dipende dalla spontaneità soggettiva: il determinismo psicologico assorbe il determinismo fisico, e senza abolirlo vi si sostituisce o vi si sovrappone adoperandolo. È dunque nella coscienza che adesso bisogna cercare il principio interno, il principio determinante dell'azione. * * * Ciò che entra nel campo illuminato della coscienza non può che attraversarlo, e finisce necessariamente per operare al di là. Ma l'atto, passando in questo modo nell'intimità del soggetto e riflettendosi in essa, una volta uscito dalla natura si trasforma, e divenendo padrone delle proprie condizioni originali, che esso in qualche modo riprende per proprio conto, crea l'intenzione volontaria che animerà tutta la storia ulteriore della sua espansione. Qui dunque si tocca il punto centrale dello sviluppo naturale dell'azione. Perché da una parte si mostra che a questa determinazione volontaria dell'atto si raccordano tutti i suoi antecedenti " preconsci "; dall'altra si indica come questa decisione libera prende inevitabilmente corpo in una sequenza di atti " postconsci " che vi restano implicati e sospesi. In precedenza avevamo intravisto che la coscienza è superiore al determinismo scientifico; qui vedremo sorgere dal determinismo interno un'iniziativa nuova, la quale peraltro non conserverà la sua libertà relativa che cessando di circoscrivere il movimento volontario all'intenzione puramente formale, e cercando al di là della chiara coscienza uno spazio di espansione. - Pertanto per studiare l'integrazione cosciente dell'azione, descrivo il dinamismo automatico della vita interna. In tale contesto esibisco l'apparizione necessaria della libertà in seno al determinismo psicologico. E assodo che questa libertà si conserva solo uscendo da se stessa per sottomettersi a un'eteronomia, per guadagnare alla libertà quello che le sfugge e per buttarsi nell'azione operante. Insomma il soggettivo si manterrà intatto, completo e genuino solo " oggettivandosi ". L'intento del capitolo seguente è di mostrare come la coscienza del determinismo psicologico porta naturalmente ad abolire l'automatismo e a sospendere la fatalità dell'azione. - Studiando dapprima il meccanismo della spontaneità soggettiva in ciò che ha di necessario, cerco poi di indagare in che modo questo sviluppo fatale dell'attività interiore può produrre l'idea stessa del determinismo, e infine indico come l'esistenza e la conoscenza del determinismo interno presuppongono che la vita soggettiva ne sia radicalmente immunizzata. In tal modo questo stesso determinismo è subordinato a una libertà più intima. Capitolo I - Il concepimento dell'azione É comparso il desiderio ovvero l'immagine. Non affiora nessun bisogno, non si dà nessun mezzo per sapere da dove, o come, si è manifestato il pungolo dell'istinto o il chiarore dell'idea. La nascita di ciò che vi è di più mirabile e di meno ammirato, la luce interiore, rimane impenetrabile. Come quelle piante che per dieci anni assorbono i profumi e i succhi preziosi di cui nutrono l'unico fiore che le esaurisce in un giorno, un oscuro lavoro drena tutte le forze della vita per alimentare la sorgente della coscienza. Non c'è acqua che contribuisca a ingrossarla senza aver seguito quelle vie sotterranee dove non penetra la conoscenza. E quando sgorga lo fa assolutamente con un impeto fresco e una purezza incontaminata, come se non dovesse nulla se non a se stessa. Qual è la sua virtù? E dove si distribuisce? I. Niente agisce su di noi o tramite noi che non sia veramente soggettivo, che non sia stato digerito, vivificato, organizzato in noi stessi.30 Non è certo una rappresentazione astratta che basti a mettere in moto l'automatismo psicologico. La coscienza è un mondo chiuso. Essa si apre solo grazie alla mediazione degli influssi inconsci della vita. Per questo le suggestioni hanno bisogno di essere comprese per essere seguite, e gli stessi insegnamenti non danno gli stessi frutti ovunque vengono a cadere. Perché qualsiasi pensiero è autoctono; e solo le verità indigene sono vere per noi. I nostri desideri sono e valgono per quello che noi siamo e per come noi li plasmiamo. Se non passa attraverso il sentimento l'ìdea rimane lettera morta. Pertanto la luce intellettuale porta in se e sfrutta la forza vitale. Infatti il motivo è solamente l'eco e la sintesi di mille attività sorde; ecco la ragione della sua efficacia naturale. Esso non spunta, diciamo così, all'improvviso e come per generazione spontanea. È il deputato di una folla di tendenze elementari che lo sostengono e lo sospingono. È il risultato di cause più remote e più generali. È la conclusione di tutto un sistema anteriore, e funge da intermediario tra le disposizioni abituali e le circostanze particolari che ne sono l'occasione. Al momento della nascita ha un profumo di novità, una freschezza e una grazia magica, perché è interamente un atto, ispirato segretamente com'è e quasi imbevuto delle feconde energie di cui è un primo risultato e un commento vivente. Il fascino efficace gli proviene quindi dal fatto di esprimere e di rappresentare proprio ciò che esso mette in moto. E la potenza tramite cui sorge alla coscienza è esattamente quella tramite cui è anche capace di agire sulle forze inconsce da cui emerge. Questa magia naturale che nell'animale conferisce all'istinto, e nel sonnambulo all'immagine onirica, il suo fascino straordinario, è parimenti quella che vivifica l'idea più astratta con un sentimento senza il quale resterebbe inerte. - Un motivo non è motivo senza un movente. - Ma a sua volta un movente senza un motivo non è un movente. Che cosa vuoi dire? Che per diventare un principio efficace di azione, le energie diffuse hanno bisogno di essere raccolte in una sintesi mentale, e rappresentate sotto la forma unica di un fine da realizzare. Esse si corroborano e si ravvivano con lo stesso sforzo che le esprime, come l'attenzione si rafforza con la tensione degli organi. Senza dubbio per se stessi gli stimoli dei sensi esaltano la potenza di chi li subisce, e accrescono l'intensità della sua forza nervosa. Ma quest'influsso dinamogenetico si esercita solo prendendo corpo in una rappresentazione precisa e persino in un movi mento determinato, sicché la causa finale diventa causa motrice, e le idee o i segni sono le condizioni indispensabili delle disposizioni che essi manifestano. Così lo studio delle combinazioni e delle compensazioni mentali nell'automatismo dell'ipnosi mostra che qualsiasi sensazione ( per esempio, un'impressione tattile ), mentre in apparenza viene distrutta dall'anestesia provocata, cerca di esprimersi in un sistema di immagini e di idee analoghe ( per esempio, delle rappresentazioni visive ), e tende per trasposizione a mettere in moto un altro apparato sensoriale, sotto il dominio di un'allucinazione che è a un tempo corrispettiva ed estranea all'impulso primitivo. Quindi la diffusione dei riflessi non sfocia nell'azione che a condizione di essere tradotta in una sintesi ideale. Questa trasformazione necessaria, di cui certi casi eccezionali consentono di analizzare il meccanismo, si realizza sempre anche nel gioco normale delle funzioni psicologiche. Le forze oscure della vita sensibile ottengono tutta la loro efficacia solo dal momento in cui sorge, come per illuminarle e fissare loro un fine, una rappresentazione che sembra scorporarsi e distaccarsi da esse. Così la finalità dapprima non è altro che l'espressione soggettiva di necessità antecedenti. Ma dal momento che gli impulsi confusi e incoerenti del desiderio hanno preso forma nell'immagine istintiva, o nel concepimento di un atto, devono all'unità sistematica della rappresentazione interna una fermezza, una precisione, un'efficacia del tutto nuove. Sempre, a ogni istante, nella coscienza si producono stati legati tra loro e uniti in sistemi organici. E ciò che ne opera la sintesi è ciò che conferisce al sistema una potenza originale. L'analisi introspettiva dunque conferma ciò che, dal punto di vista delle scienze positive, si è dimostrato vero di ciascuna sintesi irrIducibile ai suoi elementi e padrona delle proprie condizioni. - I moventi servono unicamente per il motivo che essi preparano e che si propongono. - Ma il motivo dal canto suo non è più un motivo, se non diventa a sua volta un movente. E questo che cosa vuol dire? Che fin dal momento in cui le cause profonde dell'emozione motrice si sono date il fine della loro tendenza, cessano di confondersi con la corrente globale della vita, per costituire un fine specifico. Esse erano noi stessi; adesso diventano semplicemente nostre. E il motivo rimarrebbe come il termine astratto e ideale, come l'unica produzione oggettiva della loro azione, se non racchiudesse nulla più che il compendio completo del determinismo subalterno che esso ha portato alla luce della coscienza. È dunque necessario che questo motivo per essere efficace, per esistere, per operare la concentrazione delle energie diffuse e lanciarle all'attacco, apporti qualche prospettiva nuova, e la promessa di un ignoto da conquistare. Quando agiamo senza sapere del tutto perché ( ed è sempre così ), quando le motivazioni che diamo a noi stessi non sono né le sole né le più vere, significa senza dubbio che in questa spiegazione approssimativa della nostra condotta esiste sempre, accanto a idee chiare, un sentimento indistinto in cui si ricapitolano le inclinazioni naturali, le abitudini ereditarie, i desideri costruiti a poco a poco, tutto l'organismo e tutto l'universo. Ma ciò avviene soprattutto perché il motivo conosciuto, dominando tutte le energie antecedenti, le sfrutta per fini ulteriori che vanno sempre oltre l'esperienza e persino la previsione. Ma più ancora, il motivo attuale del nostro atto non è mai lo stesso che sussisteva all'origine della scelta che inclinava verso tale atto. Non esiste mandato imperativo: il deputato non è un semplice portavoce. Se ha il potere dei membri, ha l'iniziativa e la direzione del capo, ha lo slancio dell'improvvisatore. Perché al momento decisivo è sempre un imprevisto che ci trascina. Così, scaturita dalla forza, la luce interiore è un'origine di forza. L'immagine che risulta dai movimenti è causa di movimenti, e il pensiero fecondato incessantemente dalla natura la feconda a sua volta, come un organismo che digerisce e vivifica tutto ciò che assume. Partito da un'origine impenetrabile, l'atto concepito attraversa dunque il campo illuminato della coscienza, per tendere a uno scopo anch'esso impenetrabile. Come si dice, non si vive che di speranza, non si lavora che in prospettiva del meglio. Noi apparteniamo, ne abbiamo una lucida consapevolezza o meno, a un mondo superiore ai fenomeni sensibili e alla scienza dei fatti. Niente di ciò che è esteriore ci determina, e in quello che desideriamo al di fuori di noi cerchiamo sempre noi stessi. Se l'idea è niente senza il sentimento, neppure il reale ha alcuna presa su di noi senza l'ideale. E noi non agiamo, se non ricaviamo da noi stessi il principio della nostra azione, se questo principio non oltrepassa le esperienze passate, se non vi pronostichiamo qualcosa d'altro, se non ne facciamo una sorta di realtà trascendente. Uno si interessa ai propri atti solo se sono fermentati di passione ideologica. L'idea chiara è inerte; tutto ciò che è dimostrato e stabilito come certezza matematica non fa appello alla dedizione attiva. Non si muore, come non si vive, che per una credenza, - quando in ciò che sappiamo ci aspettiamo più di quello che sappiamo, quando abbiamo messo noi stessi come posta in gioco, quando amiamo questo misterioso termine conosciuto sia per ciò che contiene sia per ciò che promette. È cosi che l'istinto stesso sembra lavorare in vista di fini estranei all'individuo di cui stritola la vita; è così che nell'incertezza attuale del suo destino l'uomo talvolta ha l'oscuro e prepotente, sentimento che, tra le mani di una cieca fatalità, o di un'astuzia onnipotente o di una provvidenza insondabile, egli contribuisce alla grande opera che ignora. Quindi per il gioco stesso del determinismo interno l'azione è sospesa a una finalità effettiva. E lungi dal ridurre il dinamismo soggettivo al meccanismo delle forze brute, proprio l'attività inconscia serve a sostenere la vita nascente della coscienza. Dunque lo studio della dinamogenesi mentale assoda, precisamente in nome del determinismo, queste conclusioni legate tra loro: - la coscienza risulta da una serie di atti elementari e inconsci, e non soltanto dall'ultimo di essi; - essa costituisce una sintesi e un atto distinto; - essa prepara e abbozza una serie di atti nuovi di cui non prevede il termine, ma che si propone come fine almeno provvisorio. Concepire significa aver agito, agire tuttora, e dover agire ulteriormente. Prima di ogni riflessione questi diversi momenti che l'analisi riesce a distinguere sono confusi insieme, per esempio nell'istinto, o nella passione. Quando un'idea s'impossessa all'improvviso di una testa calda o di un cuore ardente, non vi sono ostacoli che tengano, non vi sono indugi, non v'è persino coscienza, tanto l'esecuzione segue immediatamente la concezione! Quanto prontamente l'opera si stacca dall'operaio! E con quale rapidità l'azione, che forse è stata elaborata lentamente ed è venuta alla coscienza a poco a poco, ne esce in seguito a qualche fenomeno di rifrazione e di amplificazione mentale! E se il nostro genio francese è più attivo di ogni altro, più dedito alle idee, più pronto a vivere di esse e a definirle attraverso la pratica, questo non è un tratto singolare o anormale, ma è la legge del carattere veramente umano: non si pensa ( è normale ) che dopo aver agito, agendo e per agire. Tuttavia rimane vero il proverbio: tra il dire e il fare ( il concepire e l'eseguire ) c'è di mezzo il mare. Perché? E per quale ragione di solito esitiamo, deliberiamo, sembra che scegliamo, mentre dovrebbe essere sufficiente che noi fossimo portati a fare una cosa con assoluta semplicità, con la certezza immediata dell'istinto, senza imbarazzo e senza contraccolpi? E dopo aver agito con questa unità imperturbabile come sotto il dominio di una suggestione, perché, se ci capita di accorgercene, crediamo di essere stati determinati, mentre nel corso stesso dell'azione abbiamo potuto ritenerci liberi? II. Un motivo non è tale se è solo. Se è solo, è un desiderio animale, un'immagine istintuale. Se affiora da solo alla coscienza, è un impulso della spontaneità o dell'abitudine meccanica, un delirio da malato o da demente, una suggestione da sonnambulo, un automatismo da distratto o da sognatore; è un'idea fissa, non un'idea. Ogni idea, ogni stato di coscienza distinto implica un contrasto, un'opposizione interna. Come l'occhio suscita spontaneamente il colore complementare a quello che si stanca di percepire, per farli vivere l'uno per mezzo dell'altro, allo stesso modo l'organismo mentale è cosiffatto che ogni rappresentazione evoca le rappresentazioni contrarie e antagonistiche, come altrettante enarmoniche destinate a metterle in rilievo con un accompagnamento in sordina. Come si è ricordato, la coscienza nasce solo da una discriminazione; essa si sviluppa sotto il dominio di una legge di relatività. Lo studio di quello che si chiama polarizzazione psichica mostra che sotto ogni percezione in apparenza semplice e schietta si nasconde l'immagine di un'altra percezione fittizia, pronta a soppiantare la prima. In questo modo altresì nell'isteria si può spiegare il bisogno di simulazione e quell'appetito di menzogna, che peraltro ha ossessionato certe complessioni delicate ma ancora sane. Perché accanto ai ricordi reali compare e cresce un sistema di associazioni opposte; e trascinati da una strana vertigine, si arriva nostro malgrado a dire il contrario di quello che si pensava, a sdoppiare la vita cosciente, a cadere nell'illusione, come se le rappresentazioni menzognere, proprio perché sono tutte soggettive, avessero maggiore autorità sul soggetto di quelle di cui ha subito l'impressione reale. Allo stesso modo il meccanismo normale della negazione mette in moto una coppia di affermazioni contrarie, di cui l'una riesce a escludere l'altra, ma senza mai distruggerla. Da ciò deriva lo spirito di contraddizione, e il rischio di risvegliare nel bambino il dubbio o la disobbedienza con qualche domanda prematura. Da ciò viceversa deriva l'utilità della tentazione vinta, proprio per confermare il vigore del senso morale. Insomma concepire nettamente un atto significa immaginare al tempo stesso la possibilità almeno vaga di atti differenti, i quali svolgono una funzione di contrasto, e servono a precisare per eliminazione e per approssimazione la concezione primitiva. Ogni concezione quindi è come una frazione che ha senso solo se rapportata all'unità totale, e richiede il complemento di un'altra frazione. Ecco i fatti: l'automatismo animale dell'uomo e il determinismo della sua vita, insieme fisiologico e psicologico, è permeato da questa legge di contrasti simultanei o alternativi. Il meccanismo interno è tale, fin nelle viscere stesse della nostra vita animale, che l'unità monocorde e inavvertita del processo organico è incessantemente attraversata, divisa, lacerata da lotte intestine. In questo modo dunque, se è vero come abbiamo visto studiando la spontaneità soggettiva, che ogni atto di coscienza e una sintesi di forze, e un nuovo principio di forza, è altrettanto vero che ogni coscienza di un atto ( idea o sentimento ) risulta da un conflitto, da un guasto e da un arresto nel dinamismo mentale, da una " inibizione " almeno parziale. Di questo fenomeno è necessario studiare le cause e gli effetti. Man mano che le immagini e le idee affiorano con maggiore abbondanza, si aprono all'attività sbocchi più numerosi. Perché il lavoro inconscio della vita psicologica si traduce spontaneamente sotto forma di fini da realizzare. Il determinismo progetta il fine che si assegna, e con l'aiuto delle condizioni antecedenti costruisce l'ideale da perseguire. Così tra le diverse tendenze che si manifestano in noi per una necessità ignota si formano contrastanti sistemi di fini conosciuti, ciascuno dei quali porta in sé un potere di realizzazione. E grazie all'attrazione dei diversi motivi coscienti le forze sparse della vita interiore si raccolgono, sotto una legge di finalità, in sintesi antagonistiche. Ora, come è possibile che vi sia opposizione tra questi gruppi eterogenei? Come è possibile che da questa lotta intestina scaturisca una conoscenza più lucida e un nuovo potere d'attenzione? Come è possibile che dalla stessa coscienza nasca la riflessione? Come è possibile che la divergenza di tendenze normalmente ineguali e sproporzionate vada a sfociare nell' " inibizione "? Ecco come. Se i sistemi antagonistici si oppongono nella coscienza, ciò avviene perché, malgrado questo stesso antagonismo, essi sono compresi nell'unità complessa di un solo organismo; perché dipendono ugualmente da una potenza superiore ai contrari; perché invece di essere frammenti isolati sono parti di un tutto. La molteplicità delle immagini e dei motivi prepara senza dubbio, ma prima suppone un'unità capace di comprenderli e di produrli tutti. Così in presenza di motivi avversi c'è come un terzo che interviene per opporli. Anche di fronte a un motivo unico, dal momento in cui è concepito distintamente, lo si considera come una soltanto delle soluzioni possibili, nella sua relazione con l'insieme delle impressioni e delle tendenze attuali. Questo rapporto nella coscienza delle parti in contrasto tra loro e col tutto costituisce propriamente la riflessione. Essa risulta dal carattere parziale degli stati antagonistici. Ma questa pluralità degli stati solidali e opposti è possibile solo grazie all'azione immanente di una potenza capace di abbracciare tutta la molteplicità dei contrari in un'unità superiore, potenza che bisogna chiamare senz'altro ragione. Pertanto dato che vi sono contrasti interiori e arresto di tendenze, la coscienza, scoprendo in sé una forza in più, diventa riflessione. Dal conflitto delle energie e dei desideri in sospeso nascono gli stati affettivi che fungono da materia e da alimento per gli stati intellettivi nuovi. Anziché restare oscuri e incoerenti, i diversi motivi d'azione si mettono a confronto. È la Ragione che abbraccia in sé il sistema totale delle ragioni contrarie. Essa non è nessuna di queste in particolare. Le contiene tutte, si distingue da tutte, e le mette tutte in bilancio, perché vede che ciascuna di esse, parte in un tutto, non è che un motivo tra gli altri e come altri, una e multis. Ecco perché, quale che sia l'inuguaglianza delle forze in campo, la riflessione le paralizza ugualmente. Perché essa suppone non soltanto la potenza di una delle frazioni ostili, ma il riaccorpamento di tutte le energie virtuali. Essa sottrae a queste energie spontanee tutta la forza di promozione che posseggono, e si serve di esse per bloccarle. Anche qui si scopre la maniera in cui si forma in noi la coscienza del determinismo. Noi infatti concepiamo la necessità di un atto sotto l'influsso allettante di una rappresentazione mentale solo immaginando che il sistema di motivi vittoriosi ha eliminato ogni tendenza contraria, diventando, per così dire, una parte totale. In altre parole, quando consideriamo per astrazione questo motivo dominante come il solo reale ed effettivo, per comprenderne la forza determinante manteniamo ferma nei suoi confronti l'idea che potrebbe essere soltanto una parte in un tutto. Sicché il determinismo è conosciuto solo in quanto troviamo in noi le risorse per oltrepassarlo. Questa analisi consente in ultima istanza di spiegare perché viceversa certe suggestioni che sfociano nell'atto sotto il dominio di una fatalità lasciano all'agente l'illusione della libertà. Infatti quando l'azione suggerita compare con tutto il seguito dei motivi che possono suffragarla, la suggestione medesima produce l'effetto di eliminare dal campo della coscienza gli ostacoli e le velleità contrarie. Vi è un'anestesia soggettiva, senza rimozione reale delle tendenze antagonistiche. Poco fa, con una finzione, immaginavamo che un motivo parziale aveva assorbito l'attività totale, e concludevamo al determinismo. Adesso, al paziente che esegue la suggestione sembra che in assenza di ogni altro motivo gli si prospetti uno scopo e, tendendovi, si crede libero, come lo sarebbe se agisse con l'abituale pienezza del discernimento. La conoscenza riflessa è dunque come una sintesi di secondo grado, una rappresentazione della rappresentazione. Essa compendia ciò che è in noi, e ciò che è in noi compendia tutto il resto. Ma dopo che siamo saliti, con un progresso necessario, a questo secondo piano graduato, se ci voltiamo indietro, come spiegare che in questo modo il più sembra risultare dal meno? Perché questa potenza vittoriosa degli stati derivati? Come mai la riflessione, proprio mentre restringe l'ampiezza della vita spontanea introducendovi limiti e contrasti, amplia la potenza dei motivi particolari, rendendo capace uno qualsiasi tra loro di mettere in scacco tutti gli altri? Perché il movimento ascendente è esso stesso predeterminato da una segreta aspirazione, la quale fin dall'origine ha gettato il seme di queste crescite impreviste. Visto dal basso in alto, secondo la serie dei mezzi, tutto sembra necessario; ma la costrizione è solo nelle apparenze. Visto dall'alto in basso, se così si può dire, e nell'ordine dei fini perseguiti, tutto nasce da un'iniziativa che ogni nuovo sforzo deve rivelare sempre meglio. Ecco perché ciascuna sintesi ulteriore contiene più dei suoi antecedenti già determinati; ecco perché la trascrizione nella coscienza degli stati inconsci crea un'energia nuova; ecco anche perché la riflessione, focalizzando su un punto la luce diffusa, la moltiplica in qualche modo; ecco infine perché questa luce, anche se intensificata, già non è più sufficiente per indurci all'azione, se non vediamo altresì, al di là, l'attrattiva dell'ombra e dell'incognito. Non è dunque possibile, se ci collochiamo nello spazio di un solo momento della vita interiore, risolvere in un solo colpo il problema della libertà e del determinismo. Infatti ciò che in un primo tempo è necessitante diventa a sua volta necessitato. Solo al termine, se lo raggiungiamo, scopriremo il vero carattere di questo movimento totale della vita. È dunque sufficiente indicare, a ogni grado di crescita dell'atto, la sequenza obbligata di questo stesso sviluppo, e la vittoria del nuovo stato sulle sue condizioni. Ma bisogna stare attenti a non invertire o a non confondere i gradi di questa progressione rigorosa, altrimenti si misconosce il carattere scientifico di questo concatenamento, e ci si espone a scambiare la produzione necessaria della libertà ( è questo un aspetto del problema che si solito viene trascurato ) per un assorbimento della stessa libertà nella necessità. Ecco la genesi, ecco l'efficacia della riflessione. Essa deriva dalla spontaneità, e se ne libera spiegandola; procede dal determinismo, e lo trascende per conoscerlo. Nata da una differenziazione interna e da una inibizione, è essa stessa ( come giustamente aveva notato il Positivismo ) questo potere di inibizione e di sconvolgimento. Dal momento in cui compare, ogni tendenza viene tenuta a bada. La riflessione sospende non la conoscenza, che invece fissa, ma l'attività immediata, grazie a un potere che mutua dalle diverse tendenze antagonistiche, e che è superiore a ciascuna e a tutte. Infatti non si è spesso rilevato che un'attenzione troppo concentrata disturba la naturalezza e impedisce la disinvoltura dei movimenti più abituali, che l'analisi minuziosa ed erudita paralizza lo slancio, il sentimento ingenuo della felicità, la fecondità della vita e persino l'amore? E non vediamo talvolta gli istinti e i costumi tradizionali soccombere davanti al progresso di questa forza dissolvente, la riflessione? Dunque dal determinismo dei moventi e dei motivi sorge una potenza che lo tiene in scacco. Grazie a essa nessuna suggestione della natura conserva il fascino magico che la rendeva imperiosa. Di fronte a essa nulla ha un'influenza decisiva, un valore assoluto; nulla, per così dire, vale la pena di essere fatto. C'è arresto, indifferenza. Non è forse la morte dell'azione? La quale non è forse concepita se non per abortire? * * * L'intento del capitolo secondo è di mostrare come il potere di inibizione, che è sufficiente a tenere a bada tutto il gioco delle tendenze spontanee, è per forza di cose titolare di un'azione propria. Dapprima studio la genesi necessaria della libertà ( perché non dipende da noi di essere, ai nostri occhi, liberi o di non esserlo ); e faccio vedere come, grazie a questa credenza popolare e inevitabile, ciascuno ratifichi e riprenda per proprio conto tutte le condizioni antecedenti di questa libertà almeno apparente, convincendosi di essere in qualche modo il proprio punto di partenza. Poi, dall'idea necessaria, passo a mostrare l'esercizio necessario della libertà in seno ai fenomeni interni e il ruolo non più solamente inibitorio, ma attivo e propulsivo, della riflessione liberante; e faccio osservare come questo atto di libera volontà abbracci tutto il seguito delle conseguenze, anche impreviste e in apparenza involontarie, che dovranno risultarne. Qui dunque siamo al punto culminante, che funge da spartiacque tra le acque affluenti del determinismo e le acque emissarie della determinazione personale; ma in tale contesto si vede che, nel passato o nell'avvenire, questo duplice movimento di concentrazione e di espansione ha la sua ragione nel volere attuale. Capitolo II - La ragione dell'azione Dal momento in cui il concepimento di un atto è accompagnato da concepimenti contrari, e in cui, grazie all'antagonismo di queste forze rivali, è comparsa la riflessione, la semplicità dell'automatismo primitivo è perduta. Messa in evidenza dallo stesso funzionamento del determinismo interno, una nuova potenza mantiene in sospeso tutto il movimento della spontaneità. Ora qual è questo potere di comprendere a un tempo un sistema di idee complementari e di paralizzarne l'influsso immediato, per riflettervi e per deliberare tra esse? È quello che comunemente si chiama la ragione. E l'atto che procederà da questo lavoro interiore è quell'atto che di solito, senza distinguere a sufficienza ciò che meriterebbe di essere distinto, si chiama l'atto umano, l'atto ragionevole, l'atto volontario, l'atto libero, l'atto o l'azione tout court. Ma come è possibile che vi sia, malgrado ciò che la riflessione sembra avere di paralizzante per l'attività, un'energia veramente riflessa? Come viene generata la ragione? E come è possibile che essa sia titolare di un'azione propria, senza essere separata dalle sue condizioni, un'azione necessaria, senza essere necessitante, un'azione decisiva, senza essere determinata? I. In che modo la ragione si costituisce in rapporto alla coscienza? E in che modo essa fornisce l'idea necessaria di libertà, insieme alle nozioni regolatrici della vita riflessa? Che questa idea compaia fatalmente in noi è certo, e non ci si è mai sognato di spiegarlo. Che essa compendi e rappresenti da sola tutta la storia anteriore del determinismo, è una verità altrettanto misconosciuta e altrettanto essenziale. Infatti da questo deriva che l'agente ( a torto o a ragione, - in effetti poco importa il valore assoluto dei fenomeni di cui qui si tratta di studiare semplicemente le mutue relazioni ), sostituendosi a tutte le condizioni antecedenti della sua azione, se ne attribuisce la paternità. I - Se i motivi e i moventi costituiscono in noi l'eco del mondo intero e l'espressione della nostra natura, la coscienza che li percepisce costituisce, da un punto di vista particolare, la percezione dell'universo e della solidarietà totale. Ora per conoscere l'universo è necessario che una nuova relazione si stabilisca grazie a questa stessa conoscenza. Più comprendiamo la grandezza del mondo e quest'immensa durata in cui siamo quasi smarriti, più siamo grandi al di sopra di essi. Conoscere significa possedere e dominare. Intellectus fit omnia, sed, ut fiat, superai. Per cogliere il proprio oggetto, l'intelletto lo trasforma nella propria sostanza. In effetti si possono comprendere le parti solo con l'idea del tutto; si conosce il tutto solo distinguendosi dall'universo con la percezione dell'universale. La coscienza di un motivo non era esente dalla presenza di altri motivi. La coscienza dei molteplici motivi per agire non è stata immune dalla visione, almeno confusa, di una loro opposizione e del sistema che essi formano. La coscienza di questi contrasti in seno a una unità organica non è immune dal pensiero di ciò che è inaccessibile alla relazione e alla limitazione, dalla presenza conosciuta e posseduta di un assoluto, dall'idea regolatrice dell'infinito. Non è possibile dubitare della presenza di queste nozioni razionali nella coscienza, del ruolo che esse svolgono nel modo stesso in cui noi consideriamo la nostra condotta personale. Se alcuni le hanno negate, lo hanno fatto per timore della realtà assoluta che potremmo essere tentati di attribuire loro immediatamente. Ora qui non avviene niente di simile. Si tratta semplicemente di determinare la generazione reciproca di queste idee, e di spiegarne l'apparizione nella coscienza. La nostra preoccupazione è tanto poco quella di conferire loro un valore oggettivo, che, lungi dall'elevarle all'assoluto, ci accingiamo a definirne le relazioni reciproche e gerarchiche. Esse si richiamano a vicenda, e si producono nel pensiero del soggetto come semplici fenomeni solidali. Come aveva osservato Leibniz a proposito delle matematiche, nel dinamismo mentale vi sono " parecchi gradi di infinito ". Idee regolative della ragione e libertà sono i nomi di due di questi piani graduati. Pertanto rendere conto della generazione di queste nozioni razionali significherà allo stesso tempo spiegare la produzione della coscienza del nostro libero volere. A In due parole: la coscienza dell'azione implica la nozione di infinito; e questa nozione d'infinito spiega la coscienza dell'azione libera. Infatti che cosa significa agire, secondo l'idea comune che ce ne facciamo? Significa inserire e aggiungere qualcosa di se nell'immensità delle cose che avvolgono ovunque e sempre un infinito attuale, in seno al determinismo che abbraccia tutta la complessità dei fenomeni. Nessuno pensa di agire, se non si attribuisce il principio della propria azione, e se non crede di essere qualcuno o qualche cosa, come un impero in un impero. Questa persuasione intima non fa che tradurre e confermare la definizione scientifica di ciò che è propriamente soggettivo data in precedenza. Non vi è sintesi effettiva, non vi è atto interno, non vi è stato di coscienza, per quanto oscuro, che non sia trascendente in rapporto alle sue condizioni, e in cui non sia presente l'infinito, - l'infinito, ossia in questo caso ciò che trascende ogni rappresentazione distinta e ogni motivo determinato; ciò che è senza comune misura con l'oggetto della conoscenza e con gli stimoli della spontaneità. La luce di ciascuna idea compendia tutto un sistema di forze; e con l'azione ideale che esercitano gli uni sugli altri i motivi travolgono le potenze che rappresentano. È così che possiamo trasformare in libertà interna le necessità esterne del mondo. La riflessione non è sterile, è la forza delle forze; e come una leva appoggiata sull'idea dell'infinito, essa può sollevare l'universo. Ecco perché la teoria agisce sulla pratica; perché il pensiero è una forma dell'azione di cui istituisce una volontà libera. È anche per questo che le dottrine speculative dei moralisti costituiscono degli eventi nella formazione della morale generale. Quindi la ragione decisiva di un atto non ci sembra mai risiedere in nessuna delle tendenze parziali che hanno contribuito a renderlo possibile. Ai nostri occhi essa sta in questo potere, che nessuna delle determinazioni particolari potrebbe esaurire e che, assorbendo tutte le ragioni particolari, sembra naturalmente capace di dominare l'insieme delle forze definite: energie fisiche, appetiti, tendenze, motivi, determinismo della natura e dello spirito. L'azione cosciente trova la sua spiegazione e la sua ragione totale solo in un principio irriducibile ai fatti di coscienza come ai fenomeni sensibili. Essa è cosciente della propria iniziativa solo in quanto si attribuisce un carattere di infinitezza e di trascendenza. Ora è proprio della riflessione di disporre per proprio conto delle risorse della spontaneità. Ciò che l'agente ha fatto d'istinto può, facendo leva sull'invenzione, rinnovarlo ad arte. Ciò che era compreso nell'espansione naturale della propria energia può essere dominato e sfruttato dall'agente. Ciò che risultava da una forza non deliberata, egli sa farne lo scopo di uno sforzo nuovo. E imitando se stesso, egli impiega al servizio di una causa finale tutta la potenza delle cause efficienti che porta in sé. Dal momento in cui l'azione cosciente gli appare come un risultato irriducibile alle condizioni determinate da cui procede, egli fa di questo stesso risultato il principio di sue eventuali decisioni. E la virtualità infinita celata nella natura del soggetto agente diventa sentimento della volontà libera. È dunque perché troviamo nei nostri atti una specie di sovranità creatrice che abbiamo la coscienza di noi e la ragione. È perché siamo ragionevoli e coscienti di noi stessi che ci riteniamo capaci di iniziativa volontaria. Così nell'intimità della ragione si elucida questa reciprocità dei mezzi e dei fini che già si era manifestata, in maniera ancora estrinseca, nel dinamismo della natura. Come in quest'ultimo contesto le sintesi superiori hanno spiegato le forme inferiori che, beninteso, ne sono le condizioni antecedenti, così qui le relazioni tra il determinismo immanente e la finalità trascendente. La ragione non sarebbe in noi, non vi si riconoscerebbe senza tutto questo ritmo della vita inconscia o spontanea di cui abbiamo seguito fin qui le leggi necessarie. E tutto questo processo organico non esisterebbe, non si svilupperebbe senza l'intervento latente di un'idea regolativa, perché proprio sotto l'influsso segreto di questa finalità tutti i motivi e gli stati di coscienza, richiamandosi, associandosi, opponendosi, hanno fatto nascere la riflessione, e con essa la coscienza di un potere libero. Dunque il ruolo dell'azione nella costituzione della ragione e nell'idea di libertà è tanto essenziale quanto poco evidenziato. Che cos'è infatti che rivela alla coscienza questo infinito apparente di un potere proprio dell'agente? È l'azione stessa che si compie in lui e per mezzo di lui. E che cosa gli ispira il desiderio e il sentimento di un potere proprio? È l'idea di questo infinito dell'azione che pone all'origine delle sue decisioni volontarie. La riflessione e la libertà sarebbero impossibili presso colui che invece di agire fosse agito. Perché c'è ragione e coscienza riflessa c'è sentimento di infinito solo là dove c'è attività libera, e c'è attività libera solo là dove c'è coscienza di agire. Se si prendono i fenomeni così come sono, senza aggiungere e senza togliere niente, vi è solidarietà tra la ragione e la libertà, tra la coscienza e la potenza dell'infinito. L'idea reale non diventa ideale, ossia riflessa, che grazie a questa mediazione. Perché se l'infinito è presente a ogni soggetto, non ogni soggetto è presente all'infinito e sa fruirne. Dunque l'atto volontario va dall'infinito all'infinito, perché in esso l'infinito è la causa efficiente e la causa finale. La libertà, lungi dall'escludere il determinismo, ne scaturisce e ne fa uso; il determinismo, lungi dall'escludere la libertà, la prepara e la produce. Poco importa l'ordine cronologico; il tempo è solo un modo di rappresentare l'unità soggettiva dell'azione nella molteplicità dei fenomeni subordinati, e la necessità immanente al concatenamento di questi fenomeni non è che la proiezione obiettiva, e per così dire il progetto, della finalità trascendente cui si ispira la ragione. In tal modo la riflessione, percorrendo in tutti i sensi la serie delle cause efficienti e delle cause finali, e vedendo da dove scaturisce l'atto, sa ritornarvi e riprodurlo. Essa discende o risale ugualmente la doppia sequenza delle operazioni spontanee di cui è a volta a volta il termine e il punto di partenza. Essa va a riprendere nella natura la trafila delle cause che sfociano nel suo fine, e predetermina il concatenamento dei mezzi appropriati ai suoi scopi. Al determinismo della forza bruta o dell'istinto animale o della spontaneità mentale si aggiunge, non per abolirlo ma per impiegarlo, la determinazione volontaria dell'atto. Insomma, per agire bisogna partecipare a una potenza infinita; per avere coscienza di agire bisogna avere l'idea di questo potere infinito. Ora è nell'atto razionale che c'è sintesi tra la potenza e l'idea di infinito. E questa sintesi è ciò che si chiama la libertà. II - Ecco dunque che la libertà, questo scandalo per la scienza, è stata affermata dalla stessa scienza, da una scienza più completa e conseguente alla legge del suo progresso. Essa esiste, perché il movimento della scienza e della coscienza non si spiega senza di essa. Esiste, perché dal determinismo si evade attraverso la breccia in cui si pone ciò che esso ha di vero. Ma intendiamoci bene sul senso e sulla portata di questa affermazione. Essa comprende una triplice verità: 1) nulla nel determinismo della natura e del pensiero, nei fenomeni come nella scienza dei fenomeni, contraddice la coscienza di una forza immune dalla necessità, immunitas a necessitate; 2) il movimento della spontaneità e il progresso del determinismo produce la coscienza necessaria e inevitabile della libertà, necessitas libertatis; 3) il gioco stesso di questo determinismo è spiegato e consacrato dalla libertà, necessitas a liberiate. Soprattutto su quest'ultimo punto è importante prevenire ogni malinteso. Ogni nostra azione personale sembra poggiare su un fondo ultimativo di passitivà, e sarebbe assurdo pretendere che dipenda da noi aver attraversato tutte le forme della vita inconscia per giungere infine all'alba della riflessione e alla luce della ragione. Invece di provare che noi siamo padroni di essere ragionevoli e liberi, abbiamo appena visto al contrario perché lo siamo inevitabilmente. Ciò vuol forse dire che questa libertà necessaria è assorbita nel determinismo? Non del tutto. Pertanto bisogna salvare insieme queste due asserzioni: da una parte il determinismo è sfociato necessariamente nella coscienza della libertà; dall'altra la libertà, prendendo coscienza di se stessa, ratifica tutto quello che precede, e vuole tutto ciò che le consente di volere. Dal momento in cui l'agente ragionevole si attribuisce una potenza superiore alle condizioni da cui derivano la sua coscienza, la sua ragione e la sua libertà, non potrebbe, neanche volendolo, smentire queste origini della volontà. E se potesse scoprire un motivo per rinnegare ciò che è, non lo troverebbe certo negli antecedenti del suo atto. In tal modo è legittimato tutto questo processo che sembrava estraneo al volere umano, e si vede che tutto il movimento della scienza poggia su una volontà profonda. Pertanto, quando con una decisione che poteva sembrare artificiale e arbitraria abbiamo optato per questo qualcosa, per questo fenomeno di cui si dà intuizione immediata e conoscenza scientifica, esprimevamo con una forma linguistica estrinseca questa verità essenziale, che cioè tutto il sistema dei fenomeni oggettivi e soggettivi, tutto l'organismo delle conoscenze positive, è subordinato e sospeso al fenomeno della libertà. In effetti si deve dire il fenomeno della libertà, per mettere bene in evidenza ancora una volta che qui non si pregiudica nessun problema ulteriore. Se talvolta il determinismo della natura e del pensiero è sembrato contraddire la libertà, è stato unicamente perché vi si annetteva un valore ontologico, e perché si trattavano i fatti positivi e gli stati di coscienza come esseri assoluti ai quali applicare il principio di contraddizione. D'ora in poi nessuna obiezione della meccanica, della fisica, della psicofisica, della psicologia sperimentale contro questo libero arbitrio ha senso. Perché le affermazioni scientifiche, avanzate sempre da visuali differenti, non potrebbero scontrarsi e urtarsi, dato che tra i fenomeni vi è eterogeneità, nonostante quella stessa solidarietà che abbiamo riconosciuto dappertutto. È una deformazione ottica, nettamente contraria allo spirito della scienza, la convinzione che, affermando la verità del determinismo, si neghi la libertà, come se non fossero compatibili diverse forme di fenomeni, o come se, per esempio, le leggi di gravita potessero escludere la spontaneità delle funzioni vitali! Qui dunque bisogna recidere decisamente il reticolo di radici invisibili che ci raccorda alle origini sotterranee della nostra condotta. L'azione ha la sua linfa propria. Essa è sempre un al di là. Se era indispensabile, per non lasciare che qualche intelligenza si attardasse in sterili difficoltà, determinare gli antecedenti della decisione razionale e libera, ormai bisogna partire da essa come dalla vera e salda origine del movimento che veicola l'uomo verso fini conosciuti e voluti. Da quando agisce, il soggetto, che sa e vuole, di solito non si preoccupa affatto delle cause efficienti della sua decisione; e ha ragione. Perché egli si sostituisce realmente a qualsiasi meccanismo della vita inconscia. La luce non lo rischiara di meno, se non indaga da dove viene. E d'altra parte non è certo guardando da dove viene che egli scopre la ragione decisiva della propria risoluzione, perché non ha mai coscienza di agire, senza aver trasformato la necessità immanente in finalità trascendente. Egli domina tutto ciò che precede, senza aver bisogno di conoscerlo distintamente, perché gli è sufficiente conoscere dove tende. Infatti, in ciò che sa, comprende e supera ciò che in tal modo ignora, in ciò che vuole, ratifica ciò che non aveva potuto volere ancora. Ecco perché la riflessione analitica dello psicologo, guardando retrospettivamente alle condizioni dell'atto, è esposta al rischio di snaturare quello che pretende studiare. L'autentica conoscenza è quella riflessione che dirige in avanti lo sguardo interiore, verso i fini che sollecitano la volontà, perché là soltanto c'è la ragione sufficiente delle determinazioni libere. Chiunque è nato per l'azione, guarda davanti a sé; oppure se cerca da dove viene, lo fa soltanto per meglio sapere dove va, senza mai rinchiudersi nella tomba di un passato morto. In avanti e in alto: l'azione non è tale che per questo. È pacifico che la causa finale è più che la causa efficiente. E proprio per mostrarlo era necessario definire il rapporto che le unisce. Troviamo così che il sentimento popolare è d'accordo con le conclusioni della scienza soggettiva. La nozione scientifica della libertà è assai prossima alla coscienza ingenua e all'esperienza pratica. L'azione volontaria appare come una creazione nella creazione. È un infinito ammassato in un punto; esso trionfa sull'oppressione universale e solleva il mondo, perché nel soggetto vi è una potenza in confronto alla quale il peso di tutto l'oggetto espresso dalla conoscenza non conta più. Per muovere di mia iniziativa il dito mignolo, è necessario che scuota l'intero sistema dei fenomeni. Certo, nell'istante in cui ne subisco l'impressione, bisogna che sia più forte di tutto ciò che mi è noto: io cammino sotto il peso dell'infinito. Infatti concepire l'unità dell'universo, affermare che questo universo non è un sistema chiuso, non significa forse ammettere che lo spirito in confronto al mondo è come un infinito capace di dominare tutte le forze naturali? Non sentiamo forse, non abbiamo forse osservato cento volte che siamo più forti di tutto, non sempre per il vigore dell'animale umano, ma per la direzione della volontà, per l'energia intima e l'azione centrale dello spirito? L'affrancamento grazie alla scienza sarà sempre incompleto; la liberazione grazie all'iniziativa morale, alla pazienza, alla stessa morte, affrontata eroicamente o accettata, rimane sempre possibile. La conoscenza scientifica non ci scioglie mai dai vincoli; viceversa grazie a questo semplice sentimento siamo liberati dalla conoscenza scientifica. Indubbiamente, accanto alla potenza misteriosa che sperimenta in sé, l'uomo si sente assalito e spesso vinto da oscure tirannie. Il grande enigma della sua natura è proprio questo estremo miscuglio di forza e di debolezza. Ma se talvolta è come un giocattolo in mani ignote, in ogni caso niente minaccia la sua sovranità, né dal lato delle scienze positive né nell'ambito del determinismo dei fenomeni. E se è vero che spesso il suo sforzo naufraga contro scogli fatali, ciò non avviene mai per cause che la scienza possa definire, né in nome delle leggi generali della natura o del pensiero. Era dunque essenziale, nella confusione in cui ci getta la vaga coscienza della nostra forza e della nostra sudditanza, sceverare questa libertà ultimativa, e difenderla contro le obiezioni non pertinenti con cui spesso la scienza positiva ha preteso tempestarla, approfittando del groviglio dei nostri vincoli reali. Infatti esistono abbastanza ostacoli all'esercizio di questa libertà, come vedremo studiando l'espansione naturale dell'azione volontaria. Pertanto queste conclusioni vanno tenute strettamente legate. La libertà è postulata dalla scienza. Essa affiora alla coscienza grazie al gioco stesso del determinismo. Non si dà coscienza del determinismo che grazie alla libertà. La libertà assume tutte le sue condizioni antecedenti. Ma non vi trova la sua ragion d'essere. La ragione vera dell'azione va ravvisata in un fine trascendente la natura o la scienza. II. Prodotta necessariamente in ordine alla coscienza, la libertà si esercita necessariamente. È chiara la latitudine di questo nuovo determinismo che abbraccia non più soltanto tutto il passato, ma vale per tutto l'avvenire? Da quando questa ragione liberante è rifulsa insieme con la riflessione, è fatta per sempre; essa è rifulsa. Ma stiamo attenti: questa necessità ulteriore è ancora avvolta nella determinazione attuale. Adesso dunque, con l'attenzione rivolta a questa duplice relazione, è necessario indagare come la libertà ha un influsso inevitabile, e come tuttavia essa non ripudia ne quest'uso inevitabile ne nulla di quanto può derivarne. Essa non evade dalla necessità di essere e di restare la ragione dell'azione; e nel fondo della sua sincerità vi acconsente. I - Non possiamo impedirci di aver visto quello che abbiamo visto. Quando la riflessione ha risvegliato il sentimento di un libero potere presente in noi, e ci ha consegnato nelle mani del nostro proprio consiglio, è troppo tardi: non volerne usare significa ancora farne uso. La libertà non è, come troppo spesso è stata rappresentata e a torto, un semplice potere d'arbitrio, sempre padrone di offrire o di rifiutare la mediazione della ragione. Essa è scaturita dal dinamismo dell'azione spontanea, e per questo tende necessariamente al dinamismo dell'azione riflessa. In ciò porta il segno indelebile della sua origine, e continua in qualche modo il movimento, beninteso accettato e legittimato, del determinismo. Quindi non voler volere significa sempre volere. E quando, sottraendosi in apparenza alle circostanze difficili in cui è chiamata a militare, la volontà si allontana dal raggio importuno che turba la sua quiete, non cessa di essere complice delle tendenze che la trascinano mentre da a credere di essere neutra. Le sarebbe comodo lavarsi le mani di tutto! Ma ciò che si fa davanti a essa senza di essa si fa grazie a essa, poiché, pur avendo coscienza di non trovare che in sé la vera ragione dell'atto, la pone non in sé ma altrove. Adversus rationem, non absque ratione velie est. E quando in effetti non si vuol volere, significa che agendo ci si vuole astenere dal volere, significa che si vuole agire. Quindi l'azione cosciente attinge sempre alla volontà, senza dubbio non tutte le condizioni da cui ricava la sua linfa, ma questa causa " incondizionata " senza la quale non sussisterebbe. Per meglio capire questa complicità dell'astensione pensiamo all'invincibile forza della resistenza; perché la libertà di non fare è infinita, sovrana e definitiva fin dal primo istante. Per far sì che un uomo agisca non c'è potere esteriore o violenza intima che faccia presa sulla sua ragione integra. Si arriverà forse a ucciderlo, ma proprio in ciò trionfa questa volontà di non agire, poiché la morte, distruggendo la libertà di fare, sancisce la libertà di non fare. Ciò che in tal modo l'eroica libertà di morire affida per sempre al passato, il potere uguale e contrario di vivere e di agire lo semina nell'avvenire in eterno. Anche quando la volontà sembra attenersi alle occasioni prossime e ai moventi transitori, per conservarli in sé senza abbandonar visi, è essa che si mette in quelli, e invece di servirsene li serve. Qualsiasi motivo che abbia efficacia su di noi è più che questo motivo. Chi ad esempio si propone la scienza come scopo della sua vita ne fa già un fine trascendente la scienza, una realtà morale. Allo stesso modo il determinismo universale non è oggetto di scienza. Quindi si potrebbe far ricorso a esso per scusare un atto solo in forza di una fede, e di una fede illegittima. L'atto voluto oltrepassa sempre infinitamente ciò che è conosciuto, analizzato, determinato. Al di sopra di ciò che brama l'uomo si interessa a ciò che in lui brama e gode. Egli si preferisce al mondo, perché di fatto vale più del mondo. E quindi agisce secondo l'idea che ha dell'azione solo in quanto è principio e fine dei suoi atti. II - La volontà libera è sorta necessariamente in noi, e ha fatto proprie tutte le sue origini. - La volontà libera è necessariamente impegnata nei nostri atti riflessi, e ratifica tutti i risultati del suo intervento e della sua astensione. Essa non è solo una possibilità necessaria, è un fatto necessario. È un compito delicato quello di mostrare che la libertà, esercitandosi necessariamente, conserva la proprietà volontaria di tutto questo retaggio forzato di cui la carica il futuro. Sembra che il determinismo la preceda, la accompagni e la segua, poiché essa germina, cresce e fruttifica per forza di cose. E tuttavia, acconsentendo essa alla necessità di volere e di agire, ratifica questa nuova necessità che da essa risulta. O meglio questa doppia costrizione non è altro che la forma nella quale essa si rivela a se stessa e si impone le proprie condizioni. Perché, dato che trova soltanto in sé la ragione sufficiente della propria condotta, non potrebbe mai prendersela con altri se non con se stessa per le conseguenze che derivano direttamente da ciò che ha voluto o ha escluso. È precisamente questo determinismo che legittima la scienza dell'azione libera, o meglio ne costituisce l'oggetto. Perché nell'infinita varietà delle decisioni e degli atti possibili il pensiero si perde come in un caos. Non si dà scienza del particolare. Ma se questa facoltà indeterminata si definisce solo in base al fatto che essa vuole, e non in base a ciò che vuole; se, meglio ancora, nel solo atto del volere si deve rivelare il fine cui tende e i mezzi di cui si serve, allora questo concatenamento rigoroso comporta una determinazione scientifica. Si dà una logica necessaria della libertà. Il nostro compito ormai è quello di svolgere il contenuto della volontà che è coerente con il movimento stesso che essa si imprime nel suo primo slancio. Precisamente grazie a questa espansione, e grazie a un metodo la cui originalità è incomparabile, essa scoprirà se ha una norma da osservare, un'operazione da eseguire, delle relazioni morali e sociali da istituire. Infatti proprio l'iniziativa a priori di questa libera attività deve ricostituire, nel suo dispiegamento, la necessità alla quale è assoggettata, per così dire, a posteriori. In tal modo l'eteronomia della sua legge corrisponderà alla sua autonomia interiore. Sicché quando facciamo veramente quello che vogliamo in tutta sincerità, noi obbediamo a un'obbligazione che, lungi dal dipendere dalla nostra decisione, è per noi un fine imperativo. In ciò sta il carattere unico della sperimentazione nella prassi: l'azione volontaria provoca in qualche modo la risposta e gli insegnamenti dal di fuori; e questi insegnamenti che si impongono alla volontà sono tuttavia avvolti in questa stessa volontà. Tutto quanto si argomenterà in seguito illustrerà e giustificherà questa visione. In riferimento alla coscienza la ragione dell'atto non potrebbe risiedere che in una libertà capace di compendiare, sfruttare e trascendere tutto il determinismo da cui è sorta e che essa accetta. E questa facoltà non è padrona di sottrarsi al proprio ruolo; essa non può, non vuole sottrarvisi. È sempre essa che rimane la vera ragione dell'atto riflesso e che ne sostiene legittimamente il peso. Ma non scorgete questo doppio scoglio su cui minacciano di infrangersi tutte queste prime parvenze di libertà? - Essendo prodotta necessariamente, costituendo essa necessariamente un agente, e un agente efficace, la libertà non è forse un altro nome del determinismo, un semplice automatismo spirituale la cui molla, invece di essere una forza cieca, sarebbe un'idea, la più forte delle forze? - Essendo inevitabilmente sovrana, e sola capace di decidere l'atto, di deciderlo da sola, non è forse l'arbitrio per antonomasia? L'alternativa che mi si presenta è questa: o l'indifferenza pura o un determinismo che, pur sembrando meno brutale, non è meno assoluto. Schiava o despota, niente o tutto, a seconda del punto di vista da cui si guarda a questa libertà nascente: sta forse qui tutta la ragione dell'azione? * * * La libertà, prodotta necessariamente ed esercitata necessariamente in noi, si conserva libera solo sotto forma di una determinazione, di un'obbligazione e di un'azione. In tal modo perché la volontà resti sincera, occorre passare dall'autonomia all'eteronomia, e dal formalismo dell'intenzione alla produzione dell'azione, con la quale essa trascende l'ambito della coscienza. L'accertamento di tutto ciò è compito del prossimo capitolo. - Qui si indaga anzitutto come la libertà, invece di avere un'efficacia certa e di dominare sovranamente tutti i motivi subalterni, si mescola a essi e ha bisogno di determinarsi in seno a loro. - Poi si definisce il carattere del fine che in tal modo la libera volontà si assegna, e si mostra come questo fine che la volontà si propone è irriducibile a questa stessa volontà, e le appare come una legge obbligante. - Infine si vede che questa concezione del dovere riveste una forma pratica, ossia che l'intenzione è completa e sincera solo nella misura in cui si traduce in azione. Insomma una volta che la volontà si è interiorizzata nella coscienza riflessa, non può rimanervi confinata; avendo attinto dal di fuori i propri alimenti, essa ritorna al di fuori per operarvi. - Eviteremo pertanto ad un tempo la concezione chimerica di una libertà di indifferenza, l'illusione contraria di un determinismo del bene, e l'errore del formalismo morale. Capitolo III - La determinazione della libertà e la produzione dell'azione Per avere coscienza del determinismo è sembrato che occorra essere liberi. Perché il sentimento di qualsiasi stato definito suppone e costituisce uno stato superiore. Ma per avere coscienza della libertà non occorre ricadere sotto una nuova necessità? La conoscenza che ne acquisiamo non contribuisce a neutralizzare questa stessa libertà? Essa non è esposta al pericolo dell'arbitrio, alla vertigine dell'immobilità indifferente o alla tirannia di un nuovo determinismo? Sembra che essa sia chiamata a essere il tutto dell'azione; e tuttavia da sola sembra che non sia ancora nulla. È dunque possibile che entri in esercizio? Se è possibile, inaugura forse nell'uomo un'altra forma di necessità? E dal momento in cui emerge dalle sue oscure condizioni come una facoltà superiore a ogni altra, di fatto non sarà sempre la più forte, necessariamente sovrana e determinante? - No. Prodotta fatalmente, essa si conserva solo liberamente. Bisogna mostrarlo. I. Ecco in che consiste l'aporia. Da una parte abbiamo coscienza di un potere interiore che solo conferisce alle nostre decisioni, quali che siano, la loro vera ragione. Dall'altra questo potere non è definito, e sembra essere unicamente un'indifferenza assoluta, una forza cieca e arbitraria, e per così dire una non-ragione. Come dunque intravedervi un principio di discernimento e di scelta? I - Il dinamismo mentale suscita immagini e idee contrastanti. È dunque impossibile che in rapporto alla coscienza riflessa un motivo, qualunque esso sia, appaia unico e totale. È esattamente questa la condizione del nostro affrancamento. La stessa libertà non è, o non lo è più di ogni altro, un motivo a parte o del tutto formale. Essa si incarna necessariamente nei motivi particolari. E quando se ne distingue non li elimina. Se si dà un bene universale, esso si presenta a noi solo in una figura singolare, portio. E se dobbiamo vivere sub specie totius, tutto il problema consisterà precisamente nel fare un tutto, unum et totum, di ciò che sembra essere solo un frammento. Tra le diverse ragioni che militano in noi, come potrà dunque il libero arbitrio intervenire, consegnarsi a una di esse, e diventare così la vera ragione della decisione finale, scegliendo, diciamo così, tra i determinismi quello cui preferisce abbandonarsi? - In ciascuna delle tendenze che sollecitano l'attività risiede intera la facoltà dei contrari che le abbraccia tutte. E senza avere in qualche modo un'espressione particolare, essa si particolarizza in ciascuna. Nel momento stesso in cui sente l'attrazione del movente, essa avverte anche la propria virtualità. In altre parole, con apparente assurdità, essa ha coscienza di determinare, se le piace, il trionfo del più debole, senza altra ragione che questa stessa volontà di affermare il proprio dispotismo. Essa trova in tutti un motivo per mettersi in ciascuno; e per forza di cose si mette in uno di essi. In tal modo, essendo dapprima necessariamente immanente a un motivo qualsiasi tra altri motivi ugualmente determinati, la libertà si distingue da tutti, e conferisce all'oggetto delle sue preferenze un carattere di trascendenza. Sottomettendosi a un'eteronomia per conservare la propria sovranità, essa mette al servizio di una tendenza prescelta le stesse forze delle tendenze rivali. Fa ciò che fa con la medesima potenza che avrebbe impiegata per fare ciò che non ha fatto. Ecco in che modo si propone come fine una ragione, sebbene debba essere essa stessa la ragione della propria decisione. Per determinarsi, aggiunge la propria sufficienza a ciò che è insufficiente per determinarla. Così l'atto decisamente volontario diventa per forza di cose espressione di un'iniziativa altra rispetto all'impulso del motivo vincente. Ora in questa sintesi, costituita dalla volontà e dal motivo col quale essa si coniuga, è forse il motivo la vera ragione della scelta? Se è così, significa che si cede, e volendo si vuole ciò che la sincerità del volere non vorrebbe, se fosse lasciata alla sua iniziativa e fosse immune da ogni tentazione. La libertà libera è quindi quella che vuole volere, quella che, rimuovendo anzitutto l'efficacia naturale delle tendenze spontanee, acconsente a subire l'attrattiva di una di esse solo nella misura in cui vi colloca la ragione della propria decisione. Per il momento è sufficiente rilevare che questa distinzione, i cui termini possono apparire sottili, viene fatta dalla coscienza con grande semplicità e con grande energia. Tutti conosciamo chiaramente la differenza che c'è tra la concessione voluta e l'iniziativa volontaria, tra ciò che sembra trascinarci e ciò che sembriamo produrre. Questo fenomeno ci si presenta abbastanza nitidamente: tra le nostre decisioni le une ai nostri occhi sono il risultato consentito di un movimento della passione, le altre sono la manifestazione fedele e verace di ciò che chiamiamo nostro volere. Ne abbiamo già abbastanza perché, evitando lo scoglio dell'indeterminazione e dell'indifferenza, adesso ci diamo da fare in questo difficile passaggio per evitare uno scoglio opposto, quello che potremmo chiamare il determinismo della libertà o la forma moderna del paradosso socratico. Perché se sappiamo ciò che vogliamo quando vogliamo veramente; se abbiamo coscienza che solo là si trova veramente la ragione efficace della nostra decisione, e se questa convinzione che domina tutte le suggestioni dell'automatismo psicologico è più forte di ogni altra tendenza, perché questa volontà vera di fatto non è sempre l'unica vittoriosa, come lo è in potenza? Come arriviamo a volere e a fare ciò che in fondo non vogliamo, a contraddirci e ad asservirci liberamente? Mette conto di esaminare con attenzione questo punto decisivo. II - Come ogni altro motivo, quando si manifesta alla riflessione, riveste un carattere oggettivo che lo depriva della sua energia immediata, perché su noi non agisce nulla che non sia soggettivo, allo stesso modo la libertà non sussiste che conoscendosi, e conoscendosi essa annienta la sua efficacia necessaria. Essa si pone davanti a sé come un oggetto, come uno scopo, come un fine particolare che in linea di diritto sta al di sopra degli altri motivi, ma di fatto costituisce uno tra gli altri motivi, una ex multis. Essa mi appartiene, non si identifica più con me stesso. Ecco perché, proponendosi la libertà come fine, si avverte una sproporzione tra la volontà volente, quod procedit ex voluntate, e la volontà voluta, quod voluntatis objectumfit. Proviamo le doglie di una scelta e di un sacrificio. Occorre che questa infinita facoltà dei contrari, che avvolgeva e dominava tutti i nostri modi di essere e di desiderare, si imponga una determinazione. Occorre che tagli e recida qualcuno dei membri dell'organismo che essa animava. Omnis determinano negatio est. Quello che si vorrebbe, pare, è il pieno sviluppo di tutte le tendenze naturali. Ora invece capita che nell'opposizione dei motivi in seno alla riflessione nessuno di essi, neppure la libertà, li riunisce e li appaga tutti. O meglio è soprattutto la libertà, assunta come fine, che sembra esigere da noi il maggior numero di sforzi e di restrizioni. Perché, per uno strano effetto ottico inferiore, proprio essa, che nel primo slancio della coscienza è così piena di se stessa e così seducente, appare vuota e inerte quando bisogna farne un fine per la volontà. Pertanto l'azione voluta non è di primo acchito adeguata alla stessa volontà. Sembra che ciò che vogliamo non possiamo mai volerlo tutt'insieme, e che la ragione dell'atto libero non costituisca tutta la ragione possibile. Occorre che alcune tendenze appaiano come se abortissero, e abortissero in modo definitivo, grazie a un sacrificio irreparabile. Nell'azione c'è una parzialità ineludibile della volontà. Mai dunque la ragione dell'atto è completamente chiara e interamente presente allo sguardo della coscienza. Per questo il dovere apparirà sempre con un carattere di rischio e di oscurità avvilente. Quindi, lungi dall'agire in noi quasi per una grazia invincibile, l'idea di ciò che vogliamo con maggiore intensità incontra la più dura opposizione nella lotta interiore. Spesso è sufficiente che la libertà compaia in mezzo al coacervo delle parti ostili suscitato dall'automatismo mentale perché tutte si coallzzino contro di essa. Così come essa, vista nell'intimità del soggetto, sembrava onnipotente, perché compendiava in sé tutte le energie della vita e del pensiero, considerata come oggetto e come scopo sembra niente. Non è quindi sorprendente che, se la cerchiamo tra i fini positivi che ispirano le nostre determinazioni, non la troviamo, perché diventa reale solo volendo l'essere. Essendo stata prodotta necessariamente, non resta se stessa che riproducendosi. Nessuno dunque è forzato a restare libero. Anche coloro che abusano della libertà vogliono ciò che ne hanno ricevuto: l'abuso comporta l'uso. Pertanto la libertà non è distinta dall'uso che ne facciamo. Se abdica e si rende schiava, è immanente alla propria decadenza. Se si riscatta e si sviluppa, è immanente alla propria trascendenza. In ogni modo la volontà riflessa è sempre duplice, perché è insieme un principio d'azione e un fine da raggiungere. Tutta l'arte della vita, tutto lo sforzo della sincerità sarà di indurre una conformità la più perfetta possibile tra la volontà iniziale e la volontà positiva. Dunque dopo le condizioni antecedenti della libertà necessaria bisogna studiare le condizioni che animano la libertà libera. Perché nel suo essere posta non è imposta a se stessa, ma è esposta al rischio di perdersi. Ma come è facile avere un presentimento delle difficoltà pratiche di questo compito! Perché le tendenze, il cui fascino ci sottrae al nostro proprio volere, hanno in sé la potenza della spontaneità soggettiva; mentre la libertà, proponendosi a se stessa come un ideale da realizzare, non sembra essere che un oggetto inerte e come una finzione astratta. Ormai l'enunciazione del problema è del tutto chiara: che vogliamo, quando vogliamo veramente tutto quello che vogliamo? E come scoprire un fine adeguato all'integrità del movimento originario? Come la volontà conserva la sua totale sincerità, malgrado la parzialità alla quale sembra condannata? II. Bisogna dunque adeguare il volere. Che cosa vuoi dire? Vuol dire che bisogna restituire a questo apparente nulla della libertà oggettiva l'infinitezza di questa facoltà interiore di cui la riflessione ci ha offerto la chiara coscienza. Vuol dire che bisogna trasferire la vita del soggetto nell'oggetto che egli si propone come fine. Vuol dire che ciò che di forza e di libertà riconosciamo in noi non è che un mezzo per raggiungere la pienezza di ciò che ne vogliamo fare. Vuol dire infine che non essendo ancora ciò che vogliamo, noi siamo in un rapporto di dipendenza verso il nostro vero fine. Insomma ciò che vogliamo realmente, non è ciò che è in noi già realizzato, ma ciò che ci trascende e ci governa. Qualsiasi cosa vogliamo, vogliamo ciò che non siamo. Di fatto alla coscienza si impone sempre un'eteronomia. I - Dunque la vera libertà soggettiva non può essere assunta come fine senza essere snaturata, a meno che, considerandola come oggetto, non le attribuiamo un carattere ideale, assoluto, imperativo. E la nostra volontà più autentica reclama e professa una legge che esiga da essa più di quanto ancora non sia. Di conseguenza proporci come scopo la libertà attuale, come fa il formalismo morale, e fermarsi definitivamente all'autonomia del volere, significa misconoscere il nostro primo dovere, e in esso tutti gli altri; significa, col pretesto di preservare la purezza e l'integrità della libertà, restringerla alla povertà della sua pristina forma e non conservarne che l'immagine morta. Pertanto un primo dovere è riconoscere il dovere. E riconoscerlo significa prendere atto che esso impone alla libertà intima non solo il rispetto e la sottomissione interiore, ma uno sforzo e dei sacrifici effettivi, un credito e una generosità la cui origine non è soltanto nella conoscenza che abbiamo della legge, un atto positivo che oltrepassa per forza di cose la conformità meramente formale dell'intenzione al dovere. Volere ciò che si vuole davvero significa subire una norma pratica. È dunque con un solo e medesimo atto che noi concepiamo la vera natura della legge morale e che cominciamo a praticarla. Perché essa esige dalla libertà più di quanto questa libertà non sia ancora in noi, un primo sforzo che assegna come oggetto alla nostra vita reale l'infinita virtualità del soggetto. Assumendo se stessa come fine ulteriore, la volontà libera cessa di apparire autonoma, perché non vi è più adeguazione tra ciò che noi siamo e ciò che vogliamo essere; ma essa lo è veramente, perché non resta se stessa che cessando di essere ciò che è. Perché la riflessione e la decisione, duplicando il movimento iniziale della ragione e sancendo il desiderio pristino del volere spontaneo, le conferiscono un nuovo carattere e un soprappiù di realtà. Proprio questa nuova realtà, sintesi del volontario e del voluto, è posta come norma. Essa diventa il fine trascendente della nostra libertà attuale, di questa libertà che non può considerarsi di primo acchito come un assoluto, poiché in rapporto all'oggetto ideale su cui proietta tutto ciò che può e vuole essere, il soggetto non è più ai propri occhi che un divenire imperfetto. L'obbligazione morale quindi, almeno fino a questo punto, stabilisce solo delle relazioni tra atti di coscienza, senza che siamo autorizzati fin dall'inizio a conferire al dovere un carattere mistico. Ne abbiamo appena individuate le origini, abbiamo visto come, comparso necessariamente davanti alla coscienza nello stesso ordine dei fenomeni, esso ha un influsso parimenti necessario. Ma lungi dal ridurne il valore, questa conoscenza ne fa emergere l'importanza perentoria, la certezza scientifica e la portata superiore. La legge morale, per il solo fatto che è rappresentata in noi, include in sé una realtà certa. Non è semplicemente un dover essere che potrebbe non essere; essa è già, perché deve essere. La ragione non è pratica che a condizione di non essere soltanto una ragione pura. Dunque la volontà in ciò che può violare pone ciò che non può rimuovere. Così definita, l'eteronomia non è contraria all'anelito profondo della libertà; essa non fa altro che consacrarlo e dargli una risposta. Così ritroviamo qui ancora una volta quell'instabilità che non ci ha consentito di arrestarci ad alcun punto. È impossibile arrestare in qualche punto il movimento continuo che ci porta attraverso tutto il dominio dei sensi, della scienza e della coscienza. A ogni grado scopriamo che bisogna sempre andare al di là, indubbiamente non più lontano di quanto si voglia, ma più lontano di quanto si prevedesse. A ogni grado c'è una sintesi nuova, un fine superiore da raggiungere. In questo modo la conoscenza sensibile e scientifica si è raccordata ai fenomeni soggettivi. In questo modo nel dinamismo interno abbiamo rilevato l'eterogeneità del motivo e dello scopo autentico. Perché se l'intenzione è a un tempo il termine cui si tende e lo sforzo che si fa per raggiungerlo, se la causa finale è l'espressione completa delle cause efficienti, essa nondimeno costituisce una novità originale rispetto a quelle. In questo modo infine la libertà diventa per se stessa un fine trascendente. Se essa pretende conservarsi interamente in se stessa, e compiacersi della propria potenza, questa sola pretesa comincia a snaturarla e a pervertirla. Sicché l'eteronomia morale è il complemento necessario dell'autonomia della volontà. Perché quello che conta non è volere ciò che siamo, ma essere ciò che vogliamo, separati come siamo, per così dire, da noi stessi da un immenso abisso. E questo abisso bisogna superarlo, prima di essere, alla fine, assolutamente all'altezza di quell'essere che esigiamo da noi stessi. II - Dunque la legge morale è indispensabile alla libertà. Il dovere è in tal modo elevato a fatto positivo, a verità scientifica. Sbarazzarsene, col pretesto che è oscuro, non ben fondato, pesante da sopportare, significa essere radicalmente incoerenti con la scienza e con la coscienza; significa non volere più ciò che si vuole. Ma ce ne sbarazziamo mai fino al punto di non averne più neanche l'idea? E, che lo osserviamo o vi ci sottraiamo, dal momento in cui ne abbiamo avuto un'idea, non vi sono conseguenze per tutto lo sviluppo ulteriore dell'azione? Possiamo fare come se non fosse esistito? - No. Non bisogna credere che in pratica snaturiamo ciò che spieghiamo male, che aboliamo ciò che neghiamo, che distruggiamo ciò che violiamo. Se per forza di cose l'obbligazione morale ci appare con un carattere imperativo, questa necessità, sia essa compresa o misconosciuta, accettata o respinta, ha in ogni caso anch'essa una ripercussione ineludibile nella nostra vita. Di fatto alla coscienza si impone un'eteronomia. Di fatto l'impossibilità di un'autonomia immediata ci induce all'azione come a un esodo inevitabile. Di fatto il sentimento di un'obbligazione, la necessità di una scelta nella decisione e di una presa di partito nell'azione conferiscono a tutta la nostra condotta l'inevitabile novità di un carattere morale. La presenza in noi del dovere è un principio di antagonismo interno; perciò è un principio di forza e il punto di partenza di un nuovo dinamismo. Se pure facciamo la mossa di rimuoverlo, se pure tentiamo di imbavagliarlo o di neutralizzarlo, mai più sarà indifferente per tutto il seguito dell'azione che questo testimone sia comparso. Pertanto dopo che questa coscienza dell'obbligazione è sorta, è finita. Qualunque cosa si voglia, in conformità o contro tale coscienza, dalla sola volontà ( a prescindere da ciò che vuole ) procede un immenso concatenamento di conseguenze necessarie. Quindi, pur condannando il formalismo morale, non si tratta più ormai di offrire alla volontà una materia e di immettere dal di fuori un contenuto nell'azione. Tutt'altro. Si tratta, qualunque siano le formule, i precetti o le falsificazioni della morale, qualunque siano le deviazioni o le illusioni della coscienza, qualunque siano le deficienze o le negligenze pratiche, si tratta, dico, di determinare l'elemento comune a qualsiasi impiego della libertà, di riafferrare quello che resta necessario e inevitabile sotto quello che è arbitrario e variabile. In ciò che si vuole liberamente c'è un determinismo latente. E solo il rigore di tale necessità consente una vera scienza dell'azione; solo lo svolgimento di essa rivela a poco a poco alla volontà la serie dei mezzi che essa si impone da sé; solo tale necessita ha per l'uomo un'importanza perentoria, poiché gli svela ciò che non può evitare di essere prima o poi, e con una logica inesorabile ricava dalle sue azioni volute tutto ciò che esse già contengono. Pertanto è impossibile che l'intenzione non si particolarizzi; è impossibile che la decisione esprima la volontà totale e le assicuri di colpo una piena autonomia; è impossibile altresì che questa parzialità della decisione non cerchi in un'azione effettiva la conferma precisa e il progresso cui essa aspira. Lungi dal credere che l'intenzione è isolata dalle sue condizioni, e dal considerarla come un impero in un impero, bisogna capire come essa contribuisce a formare l'ambiente in cui deve orientarsi, e determinare ciò che serve a qualificarla. Dal solo fatto che l'uomo vuole deliberatamente consegue tutta una serie di atti e di relazioni necessario che vanno a formare a poco a poco il quadro stesso della sua vita e la scena naturale della sua moralità. In tal modo nella morale sarà reintegrata tutta la natura, prima che si possa dare alcun contenuto all'intenzione. Allora la prospettiva sembra rovesciata, e il movimento che finora era sembrato centripeto diventa in qualche modo centrifugo. Dopo aver assorbito e dominato l'intero oggetto della sua conoscenza e tutto il dinamismo della natura, il soggetto si trova obbligato a uscire da se stesso e a sottomettersi a una legge di distacco, proprio per non vincolarsi a una forma imperfetta del proprio sviluppo. Sembra allora che occorra cercare fuori di noi il perfezionamento della vita interiore. Eccoci chiamati a vivere e a operare in una regione superiore alla coscienza chiara e distinta. Entriamo in un campo ancora misterioso, quello in cui la volontà si unisce al suo oggetto. Essa vi persegue il proprio perfezionamento, attende, come per un esperimento provocato a priori, la chiarezza di cui ha bisogno e la risposta da cui spera di avere requie. Siamo di fronte a contraddizioni apparenti: essa non tende che ad adeguare il suo slancio intimo, e sembra che cerchi ed elemosini al di fuori la soddisfazione che può gustare solo in se stessa; pretende sbarazzarsi di tutti gli ostacoli che impediscono la sua espansione, e si va a compromettere nel determinismo delle potenze esteriori. È questa necessità dell'azione che occorre spiegare e giustificare. Sotto questa apparente fatalità si cela istintivamente l'ambizione di una volontà bramosa di estendersi. III. È un fatto che qualsiasi immagine e qualsiasi idea esprimente un sistema di forze tende a passare all'atto. E in effetti è l'atto l'indice popolare delle convinzioni sincere e dei sentimenti che proviamo. Ma, si dirà, " lo sforzo col quale concepiamo e affermiamo la legge morale ha ancora bisogno di essere manifestato? Non è già un atto completo che acquisisce valore solo per l'energia e la purezza del sentimento del tutto interiore, come una fede che sia sufficiente e necessaria per la salvezza anche senza le opere? Non sarà sufficiente elevare e orientare l'intenzione, qualunque cosa poi avvenga nella macchina umana? E del resto il valore morale delle decisioni come potrà dipendere dall'esecuzione materiale di qualche movimento? È anzi concepibile che l'idea assolutamente intemerata del dovere possa essere davvero tradotta dal corpo di un'azione? Insomma, non ha ragione il formalismo? " Al contrario, la verità è che l'azione stessa è una parte integrante dell'intenzione, essa la vivifica e la illumina, avvia la volontà verso i suoi fini, precisando a poco a poco e realizzando il suo ideale. Per usare e governare i motivi inferiori occorre collocarsi sul loro terreno, occorre conquistarli fin nella loro origine materiale. Non se ne esce vincitori con una semplice preferenza o con un decreto astratto. Volere ciò che si vuole significa farlo con tutto se stesso. Al di là dell'intenzione che realizza l'esecuzione è un potere originale e un nuovo fine. - Infatti non bisogna dimenticare che solo agendo abbiamo preso coscienza della nostra libertà. È quindi necessario che agiamo per sviluppare la nostra libertà e per conoscerla meglio. Perché la volontà irriflessa è della stessa natura di quella di cui abbiamo coscienza assai lucidamente, e mettendo in luce ciò che la segue, la riflessione ci permette di produrre ciò che la precede. - Non bisogna dimenticare che nel conflitto tra i motivi la libertà si è rivelata solo rivestendo la figura di uno dei motivi particolari, e svolgendo nel loro contesto un ruolo efficace. È dunque necessario che per conservare la sua indipendenza essa continui ad agire, altrimenti verrà meno la base su cui poggia. - Non bisogna dimenticare che questa libertà, calamitata grazie al progresso dell'azione dal determinismo della natura, non si preserva e non si perfeziona che nella misura in cui si oggettiva in qualche modo, e pone in sé tutto ciò che vuole vi sia. È quindi necessario che essa immetta tramite l'azione, fino alle sorgenti da cui essa stessa procede, le acque che le ritorneranno più abbondanti. In tal modo, nata dall'azione, preservata dall'azione, perfezionata dall'azione, la coscienza della libertà e dell'obbligazione morale tende all'azione, ?e? ????e?. Il dovere prende consistenza e figura concreta sempre sotto la forma di un motivo, ossia di una tendenza all'azione. Bonum semper in actu. ?? t? ???? d??e? e??a? t? ??a??? ?a? t???. Immaginare che si riesca a determinare il dovere con una deduzione della ragione è un'illusione. Non è certo con un metodo deduttivo che si conferisce un contenuto alla legge formale. Ecco dunque che l'obbligazione pratica ancora indefinita riceve una prima determinazione. Come la libertà, che era sembrata dapprima indifferenza pura e arbitraria, aveva preso forma nell'idea del dovere, allo stesso modo adesso la coscienza del dovere veicola già una necessità definita e giustificata: " Noi dobbiamo tradurre in pratica, bisogna agire ". Pertanto sarebbe un errore madornale se si pretendesse isolare l'intenzione libera dal determinismo delle azioni. Perché come la libertà non è separata dai suoi antecedenti necessari, così non è separata da ciò che le consegue necessariamente. Di solito non ci si è affatto preoccupati di questo determinismo conseguente alla decisione. E tuttavia, come si mostrerà nel seguito di questa indagine, è questa la grande cosa che interessa l'uomo, quella da cui dipende la sua vita personale e sociale. Per il momento l'essenziale era capire come la volontà è fedele alla sua intenzione solo suscitando, attraverso la vita spontanea da cui emerge, bisogni, motivi, energie sempre più coerenti e cospiranti col suo proposito, qualunque esso sia. Ed essa non può farlo se non domandando all'azione il cammino segreto attraverso cui nascono il pensiero, i desideri e le abitudini. Infatti è grazie all'azione che l'intenzione morale penetra nelle nostre membra, fa battere il nostro cuore e fa scorrere la sua vita nelle nostre vene; grazie all'azione che si dispiega nell'immenso ambiente in cui siamo immersi; grazie all'azione che ritorna alla coscienza più piena, chiara, carica delle sue conquiste. Perché l'ingranaggio del determinismo restituisce ciò che gli si da; ma con quali trasformazioni e con quali arricchimenti! È quindi palese che ciò che vi è di necessario nell'obbligo d'agire corrisponde alla sincerità del volere primitivo. Questa stessa necessità contribuisce a realizzare la pienezza della nostra libertà. Di che si tratta in effetti? Di ottenere che ciò che vogliamo proceda spontaneamente da noi stessi, e che vi sia accordo perfetto, per quanto possibile, tra lo slancio e il risultato del nostro sforzo, uguaglianza tra l'ampiezza delle aspirazioni volontarie e la grandezza dei fini voluti. Ora l'intervallo tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere sembra sconfinato. E qual è dunque questa distanza che separa noi stessi da noi stessi? Che cosa impedisce che la nostra propria volontà sia semplice, piena e compiuta? È la presenza in noi di desideri ostili, è la divisione interiore delle nostre tendenze più vitali, è la guerra intestina che scatena in noi il movimento naturale dell'automatismo. Pertanto occorre penetrare a poco a poco in tutto questo meccanismo psicologico di influssi pacificanti e liberatori, perché i germi di unità depositati fin nelle sorgenti della vita inconscia crescano e fruttifichino, fornendo così alla volontà riflessa un'immagine sempre più fedele della propria natura, una vita sempre più conforme alla propria aspirazione. Senza dubbio l'intenzione sincera è già per se stessa un atto, e in certi casi non si da, a quanto sembra, operazione materiale che possa tradurla al di fuori. Tuttavia non c'è dubbio che ogni atto di coscienza si esprime con un'azione, ossia con uno stato particolare e con una disposizione sistematica degli organi; non c'è dubbio che questo atto intimo, se diviene oggetto di un'attenzione decisa e di una volontà espressa che vi acconsenta e lo duplichi in qualche modo aderendovi, determina una tensione organica che preserva e rafforza l'intenzione stessa. A nessun livello quindi possiamo isolare la libertà o l'obbligazione dai loro antecendenti e dalle loro conseguenze; essi vi sono connessi con un legame di necessità perfettamente intelligibile, perché la volontà trova in questa stretta relazione un mezzo, l'unico mezzo per perseguire il suo libero sviluppo. La nuova sintesi che bisogna ottenere è necessaria e trascendente rispetto ai propri elementi. Pertanto l'azione precede e segue la libertà morale, come una condizione doppiamente indispensabile perché essa nasca e sopravviva. Anche quando prende se stessa come fine, la volontà libera vuole altro da sé. Essa non si vuole oggettivamente così come è soggettivamente, essa diventa, si fa; non vive mai senza cambiare, e si conserva solo donandosi. Scaturita dal determinismo inferiore, ha bisogno di attingervi un perpetuo alimento, così come ha bisogno di rielaborare e di trasformare incessantemente questa spontaneità incoerente che essa deve far partecipare all'unità e all'attività morale. Si dà dunque un duplice scambio dall'oggetto al soggetto e dal soggetto all'oggetto. Ed è questo scambio che costituisce l'operazione volontaria. Dopo essersi disancorata dalle suggestioni animali e dall'automatismo psicologico, la volontà ritorna alla condizione non riflessa; l'intenzione si getta ciecamente nel movimento che la porta a esecuzione, come se nell'istante in cui cominciamo a realizzarla entrassimo nel buio di un sonno ipnotico. Non ammiriamo forse la cavalletta che si lancia con tutte le forze, a corpo morto? Quando ci si dedica all'azione sappiamo mai chiaramente dove andremo a finire? E se lo sapessimo chiaramente, agiremmo mai? Ma come minimo si vede già chiaramente che vogliamo agire, e perché; si vede altresì che agendo portiamo la luce nell'oscurità nella quale avanziamo, e che c'è una luce connessa a ogni passo che facciamo, lucerna pedibus et lex lux. Ce n'è dunque abbastanza perché il dovere si illumini man mano che abbiamo l'occasione e il bisogno di conoscerlo; esso produce in qualche modo questa luce che lo guida e lo giustifica. Ed è così che il piccolo germe di coscienza morale seminato in noi può sollevare tutta la massa delle forze indifferenti o ribelli. È quindi meschina e ambigua ogni filosofia, e soprattutto ogni morale, che si limita a ciò che coglie immediatamente lo sguardo dell'osservazione inferiore, o che si spinge anche ai fenomeni in penombra da cui è preceduta la riflessione, ma non arriva fino a penetrare nelle tenebre che precedono, accompagnano e seguono ogni conoscenza soggettiva. Prima e poi, al di sotto e al di sopra della coscienza dell'azione vi è qualcosa da sapere, e non si tratta di ciò che è meno rilevante per l'azione. La coscienza non è tutta la scienza, come non è tutta la persona. E in questa sede la cosa da tentare è lo studio non tanto dei fenomeni percepiti come oggetti, non tanto delle realtà del tutto soggettive, ma precisamente dell'azione in quanto compendia l'oggetto nella vita del soggetto, e fa vivere il soggetto nello stesso oggetto. La vita inferiore non sussiste che grazie a un'espansione e a una fecondità perenni. Noi dunque siamo indotti a considerare questa azione, nutrita di forze inconsce, di sentimenti spontanei e di desideri riflessi, questa azione che è una definizione concreta e fecondante, non un'analisi astratta e dissolvente dell'idea che realizza, come un germe vivo il quale, dotato di un potere evolutivo, ha fin dal momento in cui è concepito e impiantato nell'organismo umano una crescita naturale, uno sviluppo interno, e per così dire delle funzioni di nutrizione, di relazione e di riproduzione. Mette conto ormai di seguire il progresso organico di questa germinazione. Perché se, concentrando in sé l'infinità dell'ambiente da cui attinge la sua linfa, l'azione è la fine di un mondo, è allo stesso tempo l'inizio di un mondo nuovo. Essa appare all'improvviso come un colpo di spada che separa senza rimedio il passato dal futuro e il possibile dal reale. Per il suo carattere sintetico essa è il cardine tra il determinismo scientifico e il determinismo pratico; l'uno segue, l'altro precede la decisione volontaria, ma entrambi sono sospesi all'iniziativa del volere. Grazie a essa noi restituiamo all'universo tutto ciò che è parso mutuassimo da esso, e anche di più. Perché moralizziamo la nostra natura animale conficcando nelle nostre viscere la virtù operante del dovere. E, agendo, apprendiamo ciò che dobbiamo fare; ossia la nostra volontà riesce sempre meglio a conoscersi e ad adeguare se stessa. Così il sistema delle obbligazioni morali comincia a prendere forma a poco a poco grazie allo sviluppo medesimo della vita. Perché tendendo ai suoi fini veramente volontari l'azione compenetra, regola e orienta tutte le nostre inclinazioni personali e sociali. Prima di ritrovarci così come vogliamo essere occorre dunque concertare in noi la vita universale, di cui il nostro organismo pensante è il ricettacolo. Occorre altresì costruire in noi come un nuovo universo; perché il sentimento della legge morale, riepilogando simbolicamente tutto ciò che nel fondo di noi stessi aspira a crescere, è la molla del nostro sviluppo totale. Ciò che nel dovere non può essere violato, organizza nella nostra coscienza il sistema degli obblighi che possono esserlo. Così con la sua sterminata espansione in seno al mondo organico, intellettuale e morale, è sempre la medesima volontà che si cerca e a poco a poco si trova. In breve, la libertà si conserva e si sviluppa solo oltrepassando se stessa. L'autonomia attuale probabilmente è davvero eteronomia. Non si tratta quindi di proporre alla libertà un dovere dall'esterno. Si tratta di scoprire il dovere nella libertà medesima, e di trovare in ciò che essa non è ancora il desiderio segreto di ciò che è già. E come il determinismo antecedente è sembrato indispensabile alla manifestazione della volontà libera, allo stesso modo il determinismo conseguente è una condizione integrante della libertà. Questo duplice aspetto non è che una verità unica. Perché il modo di dividere e di ordinare le cose nel tempo è spesso solo un artificio dell'analisi. L'azione, che in parte è sempre cieca, avvolge in questa parte oscura che costituisce l'operazione vera e propria, tutta la serie delle sue condizioni scientifiche e delle sue relazioni morali. Tutto il seguito dell'argomentazione è dedicato a elucidare questo lato oscuro dell'atto. - Abbiamo fatto un passo avanti. Affermando qualche cosa, e volendo porre in essere una scienza positiva di questo qualcosa, abbiamo postulato il fenomeno soggettivo. Riconoscendo la realtà scientifica del fatto di coscienza, e studiando le leggi dell'automatismo psicologico, abbiamo preso coscienza del determinismo interno. Ponendo il determinismo ne induciamo la libertà. Volendo la libertà esigiamo il dovere. Concependo la legge morale sorge la necessità di produrla nell'azione, per conoscerla e per determinarla nella prassi. * * * L'intento dell'indagine che segue è questo: seguire il progresso della decisione volontaria nell'ambito dell'organismo in cui germina, e di cui, grazie a un oscuro lavoro, costituisce l'unità cooperante; studiare questa crescita interiore, dal punto in cui l'atto comincia a espandersi negli organi e a modellare il sistema dell'individualità umana, fino al momento in cui l'operazione motrice, oltrepassando inevitabilmente le frontiere dell'individuo, dopo questa gestazione si apre a un'espansione più completa. Terza tappa - Dallo sforzo intenzionale alla prima espansione esteriore dell'azione La crescita organica detrazione voluta L'azione è l'intenzione che vive nell'organismo e modella le energie oscure da cui era emersa. In effetti occorre che la libertà si esplichi e si incarni per conservarsi e svilupparsi. Acclimatando la vita dello spirito nel determinismo bruto, essa ottiene dalla vita spontanea che produca motivi e movimenti sempre più conformi alle sue aspirazioni profonde. Tutto il progresso della scienza e della coscienza proceda dall'azione, ma per tendere ancora all'azione, che sola l'alimenta e l'anima. Pertanto in questa sede occorre determinare il contenuto vivente dell'operazione volontaria. Perché l'azione voluta non è soltanto ciò che ne sappiamo in anticipo, come se fosse sufficiente essersi decisi per aver già operato. La si è voluta esattamente per ciò che in essa deve oltrepassare la volontà attuale. Non basta dunque decretarla, e neppure produrla; bisogna studiarne la produzione attraverso gli ostacoli o le resistenze, e il prodotto stesso con tutti i risultati dell'operazione, p??tte??, p?????, p???µa. Dopo averla posta in essere per una specie di sintesi a priori, non è possibile conoscerla davvero che per un'analisi a posteriori; perché apporta un insegnamento e un incremento. Ma prima di passare oltre, ecco sorgere due difficoltà preliminari; - Come spiegare, senza introdurre nella libera iniziativa del volere un elemento di disturbo inesplicabile, e senza rinnegare il metodo che fin qui è sembrato l'unico congrue, che vi siano lezioni dall'esterno, resistenza o passività organica? - Inoltre come si potrà eliminare, nell'infinita diversità delle decisioni possibili, l'elemento variabile per costruire la scienza dell'azione? Ecco la risposta ai due interrogativi. I - Se esiste una sproporzione tra ciò che siamo e ciò che tendiamo a essere, ne consegue forse che essa sia definitiva, che noi subiamo una smentita perenne, intollerabile, e che il sentimento di questa " miseria da gran signore decaduto " giustifichi il pessimismo? No. Ciò vuol dire che c'è in noi qualcosa da conquistare, che siamo ancora estranei a noi stessi, per una parte almeno, e invero per la migliore, e che dobbiamo trattarci non come un fine ma come uno strumento di conquista. Siccome noi non siamo ancora che un mezzo, quasi un oggetto, in rapporto al soggetto che vogliamo essere, diventiamo passivi rispetto alla nostra propria attività. Così i colpi dall'esterno, gli ostacoli, le stesse sofferenze possono rientrare nel piano volontario della nostra vita. Ciò che sembra a posteriori nelle lezioni dell'esperienza si raccorda al movimento a priori della volontà più profonda, è la risposta sollecitata e provocata. Infatti non agiamo se non perché l'azione apporta sempre qualche elemento nuovo, al di là o al di qua delle previsioni. L'effetto non può mai essere dedotto dalla sua causa, né quello che saremo da ciò che vogliamo. E non soltanto vi sono dei cali o delle plusvalenze su cui si può fare assegnamento come seguito dell'esercizio normale dell'attività, ma si incontrano disordini, irregolarità, uno strano disturbo, uno sconvolgimento nel gioco normale delle nostre forze condannate a sforzi, a una fatica, a sofferenze per così dire inintelligibili, quod operar non intellego. Di solito ci si è arenati nella difficoltà speculativa che c'è nel collegare questi tre termini: conoscere, essere e fare. Ma questa è una difficoltà insignificante in confronto a quella pratica di volere e fare ciò che conosciamo, di conoscere e fare ciò che vogliamo. Ora se la nostra vita è attraversata da prove istruttive, anche se penose e oscure; se non basta più agire, ma bisogna lavorare, cioè produrre più che si può e sforzarsi; se dobbiamo raccogliere un insegnamento sia pure imprevisto, fare una scoperta forse sgradita e dolorosa, evitare un'illusione sulla nostra natura, è qui che la lezione viene a proposito. Patire: si vede dunque come questa passività, questa sofferenza persino, è compresa nell'agire. Siccome ha bisogno di svilupparsi e di estendersi, la volontà si ritira in un campo in cui sembra ancora straniera, per quanto vi porti con sé la sua intenzione di conquista e l'ambizione di regnare. Non ha forse la pretesa di essere dovunque in casa propria, e i nostri desideri non abbracciano il mondo? Bisogna dunque seguire quest'espansione voluta studiando l'io, non quello che si concentra nell'analisi inferiore, ma quello che è creato dall'azione soltanto con la collaborazione o con l'antagonismo del suo termine di espansione. II - Ma come ridurre all'unità necessaria della scienza l'infinita molteplicità degli insegnamenti empirici? Sembra impossibile surrogare la pratica con la teoria. Infatti non è solo la sperimentazione morale che ci permette di conoscere in noi ciò che non è ancora nostro? Ma la difficoltà non sta tutta qui. Perché se la risposta che riceviamo può variare all'infinito, anche la questione posta dall'iniziativa volontaria può differire all'infinito, proprio in ragione dell'inesauribile varietà delle decisioni libere. Ma allora la scienza dell'azione non sembra minacciata di perdersi nel caos? No. È a questo punto che appare con maggiore chiarezza il pregio dell'unico metodo che possieda un rigore scientifico per la soluzione del problema, perché esso consente di eliminare la variabile. La sua forza è di riprendere, dopo la trafila del determinismo antecedente, la catena del determinismo conseguente alle azioni volute, e di studiarne la necessaria espansione. Probabilmente sembrerà che tra queste due serie vi sia una lacuna, una sorta di buco. Ma fare astrazione da questo interstizio non significa forse snaturare il problema, poiché la decisione arbitrale è un punto di convergenza unico cui tutto approda e da cui tutto si diparte? - Non c'è da ingannarsi. Tra queste due forme del determinismo si da una continuità certa. Ed ecco gli anelli intermedi: c'è una necessità che sorga la riflessione; c'è poi una necessità che la libertà si eserciti; una necessità che la libertà non sia necessaria; una necessità infine che non sia necessario produrre atti determinati, e che questi atti una volta determinati liberamente abbiano conseguenze necessario. Insomma anche in ciò che può essere violato, e che forse lo è, c'è sempre qualcosa che non lo è. Tanto basta perché la scienza si fondi su questa stessa impossibilità. Pertanto nell'atto di libertà e nella coscienza della legge morale occorre determinare non ciò che è mutevole e persino arbitrario, ma ciò il cui trionfo definitivo è prima o poi assicurato. Sia nel caso che ci si sottragga al dovere sia invece nel caso che vi si sottometta c'è un elemento comune: occorre appigliarsi a questo termine fisso. Perché attenersi, come si fa di solito, alle deviazioni provvisorie, alle smentite apparenti, alle menomazioni transitorie e superficiali che la volontà può infliggere agli obblighi pratici? Non vediamo che qualunque cosa si faccia, non ci si affranca comunque del tutto, e si resta sempre in un certo ordine? Anche il piacere egoista non può sempre impedire a se stesso di essere fecondo. Se nelle condizioni antecedenti dell'azione c'è un determinismo che induce la volontà a conoscersi, nel seguito si ritrova un determinismo nuovo, che consente alla libera decisione di portare i suoi frutti naturali e disegna il quadro in cui essa si esplica. Ciò che si pone in questo modo, per il solo fatto che vogliamo, non merita forse di essere studiato? E probabilmente da questo solo fatto che vogliamo, l'analisi ricaverà a poco a poco ciò che vogliamo. Perché, non bisogna dimenticarlo, l'ambizione permanente dell'uomo è quella di adeguare i suoi desideri. Fin dall'inizio di questa indagine il solo patto stipulato è stato quello di non esigere dalla volontà alcuna concessione, di non raccogliere che le sue confessioni, di non registrare che i risultati della sua stessa iniziativa. Ora, cosa c'è di più conforme a quest'intento se non il prescindere, nell'obbligazione morale, da tutto ciò che sembra esigere uno sforzo e un sacrificio, ossia da tutto ciò che si può trasgredire? Non avremo qui davvero una morale senza obbligazione, la morale scientifica, quella che non deve più preoccuparsi delle indeterminabili fantasie della libertà, e che esclude questa variabile di cui non si potrebbe dare scienza? In ciò che è libero essa non si appiglierà mai se non a ciò che è necessario, e per questo sarà una scienza senza cessare di essere una morale. Indubbiamente grazie al suo stesso progresso l'azione volontaria è portata a incontrare resistenze, a subire lezioni e prove. Ma non se ne parlerà in prima istanza che nella misura in cui riusciamo a esserne vittoriosi, a porvi rimedio, a trame profitto. Probabilmente con la fermezza, l'intelligenza e la bontà l'uomo arriverà a soddisfare la sua aspirazione e a compiere il suo destino. Forse potrà fare da solo quello che fa, guarire da solo quello che soffre, disfare da solo quello che ha fatto male. Chissà se le contraddizioni in apparenza più lancinanti non gli riveleranno il senso originario e la forma perfetta della sua volontà? Chissà se questa sperimentazione spesso costosa non sarà per lui il vero mezzo per guadagnare o riconquistare l'intera coesione del volere, dell'essere e del fare? Non può darsi che alla fine l'azione sia, in virtù propria, mediatrice e unificatrice, redentrice e perfezionatrice? - E quando avremo gettato nell'abisso aperto del volere tutta la grandezza e la generosità degli atti, delle opere e delle sofferenze umane, lo avremo forse colmato? Sarà questo il problema decisivo. Sia sufficiente allora abbandonarsi alla corrente del determinismo, poiché porta l'azione voluta ai suoi fini naturali. Abbandoniamoci a questa corrente, come se non ci fossero né libertà da esercitare, né obbligo da rispettare, né rappresaglie da temere. In tal modo si svilupperà la serie dei mezzi necessari suscitati dalla volontà in cerca di se stessa e desiderosa di possedersi pienamente. Il sole risplende per i malvagi come per i buoni. Voglio dire che la vita sembra imporre a tutti degli obblighi equivalenti. Bisogna dunque vedere come queste condizioni comuni si organizzano naturalmente. Le relazioni morali non rimangono per aria: innanzitutto è importante provvedere a disegnare il quadro in cui si costituiscono. L'intenzione ha bisogno di realizzarsi per mezzo dell'azione, e l'azione la arricchisce. Orbene bisogna studiare la natura e il progresso di questo arricchimento. Andando a operare nell'inconscio indubbiamente la volontà eleva al proprio livello ciò che modella; ma innanzitutto essa vi si abbandona. La vita soggettiva non si espande nell'oggetto che per completar visi; essa dona e riceve. Nemo agit qui non agatur. Così il problema del valore oggettivo delle nostre idee è ricondotto al suo senso scientifico. - Da una prima visuale il fenomeno dell'idea, sintesi mentale, è diverso e qualcosa di più di ciò che rappresenta. Il soggettivo è più reale dei fatti positivi di cui le scienze ci rivelano le leggi generali, perché li implica e li eccede. - Ma da una visuale superiore l'atto di coscienza, prendendo corpo nell'azione, penetra l'oggetto e gli inocula la propria realtà, per formare una sintesi originale del tutto. È questo il principio della solidità delle conoscenze pratiche. Noi sappiamo bene solo ciò che abbiamo fatto. Infatti portiamo la luce là dove agiamo. Ma questa luce non è solo in noi, ne soltanto nelle cose; bisogna andare avanti perché essa risplenda. La vita interiore, che poco fa sembrava assorbire tutto l'alimento della sua conoscenza, si ritrova incompleta e morta se non si spende e non si espande. Mentre trascende l'universo dei fatti, essa è trascesa da un ignoto in cui solo l'azione le consente di penetrare. Vi si impegna con tutte le sue forze. E se un segreto istinto la porta a farlo, ciò avviene per illuminare questo lato oscuro delle cose rischiarando se stessa. Qui facit veritatem venit ad lucem. ( Gv 3,21 ) Il primo campo in cui si esplica l'intenzione è l'organismo. Come appare nella coscienza il corpo? Come questa stessa resistenza rientra nello sviluppo del volere? Come derivano da cause soggettive la passività, la passione e la fatica organica? È questo il triplice oggetto di studio che occorre intraprendere, rinnovando l'analisi dello sforzo muscolare per scoprirne il vero significato. Così saranno reintegrate nella scienza dell'azione, fino a essere comprese nella serie dei mezzi subordinati alla ricerca del nostro destino, tutte le forme attive o passive della vita corporea, nella misura in cui questa vita organica si mescola alla coscienza dell'operazione voluta e compiuta. Capitolo I - Il corpo dell'azione e la fisiologia soggettiva Così come si sono saliti i gradini che portano alla luce della coscienza, bisogna ora seguire la degradazione del pensiero riflesso e dell'intenzione volontaria nell'operazione organica, che ne è la prima espressione. Ma è giusto dire degradazione? No. Se c'è ombra sia dietro sia avanti il campo rischiarato della vita interiore, ciò avviene perché l'azione penetra sia in alto sia in basso nella regione in cui la visione limitata dello spirito è distinta, precorrendo la luce che vi porta a poco a poco. L'inconscio non è soltanto al di sotto, ma al di sopra e al di là delle decisioni deliberate. Perché dunque l'intenzione volontaria ha bisogno di incarnarsi, e perché incontra la resistenza organica? Patendo che ha da guadagnare? Che cosa ci rivela questa necessità dello sforzo o della fatica nell'azione? Sono tre i problemi da risolvere. Diventare passiva, essere contraddetta e costretta, fare fatica: per la volontà questo sembra uno strano modo di raggiungere i suoi fini. E tuttavia è l'unica via del suo progresso. Ecco il paradosso che si tratta di giustificare. Infatti, appena deciso, l'atto si precipita alla fase dell'esecuzione. Come minimo l'esecuzione sembra la consacrazione naturale dell'intenzione. Senza di essa l'azione non è affatto l'azione. Quindi la prima preoccupazione di chi la studia deve essere quella di considerare quell'operazione materiale che ne è la condizione immediata. In che modo si incontra il corpo, e come mai questa vita organica, che senza esserci estranea tuttavia non si identifica con noi, mescola all'attività il sentimento di una passività? Il problema è stato discusso spesso. Ma esso può essere risolto solo da una visuale diversa da quella in cui ci si è posti solitamente. Indubbiamente mette conto di analizzare anzitutto i dati in apparenza eterogenei da cui è costituita la coscienza dello sforzo muscolare. Ma per chiarire le oscurità di questo labirinto bisognerà riafferrare il senso delle resistenze corporee e comprendere il ruolo che esse svolgono nella crescita della volontà. L'azione infatti sposta in qualche modo il centro di gravita dell'uomo, per trasferirlo dall'intenzione ideale all'operazione totale. E questo, che è l'aspetto più importante del problema, è stato anche il più trascurato. Dunque, per districare le complicazioni della fisiologia soggettiva, è essenziale vedere come la stessa presenza del corpo è legata al progresso del volere, e quale ne è l'interesse morale. I. Per descrivere le origini del sentimento organico e la coscienza dello sforzo muscolare, per rendere conto delle impressioni normali e dei casi patologici così svariati, occorre esporre e articolare in tre coppie solidali queste constatazioni incontrovertibili. 1. C'è una prima azione afferente dell'organismo che è inconscia nella sua modalità, cosciente nei suoi risultati. - In effetti l'automatismo che porta spontaneamente le immagini e i desideri alla soglia del pensiero distinto sfugge al pensiero che ne raccoglie i prodotti. Non si apre nessuna finestra sull'attività organica da cui dipende, come si dice oggi, l'ideazione o ideogenesi. Anche se si conosce scientificamente dove si alimenta la coscienza empirica e come questa è legata alle funzioni cerebrali, nondimeno la coscienza ignora da dove sorgono le sue visioni interiori. Così, studiando le condizioni scientifiche e gli elementi inconsci dell'azione, non si è neppure dovuto porre il problema del corpo proprio dell'agente. Come osserva Cartesio, si può far finta di essere senza corpo, sia pure per pensare ai corpi. L'origine fisiologica della coscienza è inconscia. 2. C'è una prima azione efferente del pensiero che è percepita solo nella sua essenza soggettiva. - Una volta superata la soglia della coscienza, la vita interiore si sviluppa nella sfera della riflessione, secondo una legge originale di finalità che non è riducibile al semplice concatenamento delle cause efficienti. Le sintesi mentali che si operano nella coscienza rivelano una nuova iniziativa. Per la loro componente cosciente esse costituiscono una forza propria. Il sentimento del potere che risiede nelle idee e che la riflessione dispensa non è illusorio. Non tutto nella vita interiore è effetto. La parte più essenziale dell'atto soggettivo è a sua volta causa, essa determina le proprie condizioni. Vogliamo avere una traduzione simbolica di questa verità nel linguaggio della fisiologia? È noto che gli emisferi cerebrali sono a un tempo un apparato funzionale terminale e un apparato funzionale iniziale. In altri termini in tutto il circuito dell'attività volontaria non c'è soltanto, come nelle reazioni automatiche, un arco semplice, ma un doppio arco riflesso: uno approda agli emisferi, l'altro se ne diparte dopo una rielaborazione originale. Vi sono dunque fenomeni organici che non costituiscono più la condizione antecedente, ma la condizione concomitante e conseguente delle energie coscienti. 3. C'è un'azione efferente della volontà che rimane inavvertita nei suoi effetti corporali. - Alla serie delle determinazioni interne che mettono capo alla decisione e al perseguimento volontario di un fine corrisponde, nel meccanismo cerebrale, una sequenza parallela di movimenti dipendenti. Di tali operazioni organiche, che rendono possibile questa attività soggettiva, non viene portata al livello di riflessione nessuna conoscenza diretta. Infatti la sintesi mentale contiene in sé e domina, mediante un ascendente del tutto spontaneo, le forze elementari che hanno contribuito a produrla. E determinandosi, la volontà coinvolge ipso facto la determinazione di tutto ciò che serve a sostenerla. Pertanto, nella misura in cui la natura sensibile e il corpo stesso sono immanenti alla vita riflessa, la produzione dell'intenzione attiva porta con sé le condizioni organiche che vi sono collegate. Essa non è percepita perché non c'è ancora in essa ne contrarietà ne inibizione. Fin qui solo la decisione è cosciente; ma l'operazione pristina della volontà negli organi che la permettono sfugge alla vista interiore. - Del resto, per discernere questa azione del pensiero sulle proprie condizioni, bisognerebbe non soltanto districare tutta l'immensa complessità dei fenomeni oggettivi, ma anche penetrare la natura di questo elemento soggettivo e sintetico che, come si è visto, funge da cemento di tutte le nostre conoscenze. Come ha osservato Maine de Biran, se noi sapessimo come muoviamo le nostre membra, sapremmo tutto. Concentrando in noi le forze dell'universo, per governare questo microcosmo abbiamo bisogno di una forza e di una molteplicità d'azione che l'analisi non districherà mai totalmente, né con la coscienza né con l'osservazione dei sensi. 4. Nello stesso tempo c'è un'azione efferente della volontà che, dapprima inavvertita nella sua natura soggettiva, viene percepita solo nei suoi effetti organici. - Qui sta il punto decisivo, il punto in cui il corpo appare alla coscienza e la passività entra a sua volta in azione, il punto in cui dal conflitto interiore delle tendenze sorge il sentimento dell'organismo, il punto infine in cui si opera la trascrizione dello spirituale in termini corporei. La volontà non ha potuto trovare nella sola intenzione il suo intero compimento. Per questo essa si da all'azione; per adeguarsi ha bisogno di prodursi. Quindi questo atto voluto si compie al di fuori e per così dire al di là della volontà presente. Esso è reale perché è dapprima ideale; ma non è reale unicamente nella misura in cui è ideale. Non sussiste equazione tra la conoscenza previa e l'operazione effettiva, ne tra il volere e l'agire. Pertanto, dal momento in cui il soggetto diventa oggetto per se stesso, esso proietta davanti a sé e porta in sé una materia. Visto a partire dallo sguardo interiore, il corpo è una conseguenza e quasi un prolungamento della nostra natura soggettiva: vogliamo che esso sia. Infatti se esso appare dapprima come un velo che ci nasconde a noi stessi, come un ostacolo che ci riduce alla necessità di conquistarci e che separa la volontà da ciò che vuole, allo stesso tempo è lo strumento della conquista, il passaggio dal volere incoativo al volere perfetto e il terreno della vittoria. Così, senza dover uscire da sé, il soggetto trova nel suo fondo una passività che indubbiamente non è impenetrabile alla sua azione, ma che non vi è collegata direttamente. Omne agens agendo repatitur. C'è in me qualcosa che è mio, che mi deve essere raccordato sempre più strettamente, e che tuttavia non si identifica con me. E questo mio dapprima mi appare solo sotto una forma distinta dall'io, come la coscienza di una resistenza materiale o di un termine di espansione all'esterno. Ecco quindi come si genera la nozione originale del corpo proprio dell'agente. C'è coscienza di un'iniziativa soggettiva, perché senza il sentimento primitivo di questa produzione mai ci attribuiremmo il risultato dell'operazione efficace. Ma nella crescita della volontà l'elemento nuovo apportato dall'azione appare alla coscienza come estraneo, anche nel momento in cui ne consente il progresso. Perché questo termine attuale non è mai completamente docile al volere. E per corpo dell'azione bisogna intendere tutto ciò che, in noi e fuori di noi, ci separa ancora da noi stessi. Su questa percezione diretta dell'organismo vengono infatti a inserirsi tutte le nozioni derivate che acquisiamo del nostro corpo e dei corpi estranei. Senza dubbio nella rappresentazione assai complessa che abbiamo dei nostri organi c'è una parte, non la più importante ma la più chiara, che noi dobbiamo ad associazioni del tutto estrinseche di percezioni e di immagini. La solidarietà sperimentale delle intenzioni, conosciute dal di dentro, e dei movimenti, percepiti dal di fuori, precisa e fortifica singolarmente la nostra coscienza dell'organismo e della sua docilità. Ma questa connessione empirica non è l'origine del sentimento che ogni uomo ha delle sue membra e del suo potere su di esse e sulle cose. Alla scaturigine medesima dell'esperienza comune e all'organizzazione delle conoscenze positive presiede un'azione effettiva, poiché solo questa azione fornisce alle scienze e proietta davanti a noi la materia delle loro ricerche. Se c'è un dato esterno alla conoscenza, un ignoto da penetrare, uno sforzo da compiere, ciò avviene perché sempre, fin dall'origine della vita, si presenta una sproporzione tra la volontà volente e la volontà voluta. E l'una appare all'altra sotto la forma di una resistenza organica o di una passività da vincere. 5. C'è un'azione efferente della volontà che, immaginata in una forma organica, non è avvertita nei suoi effetti organici, ed è percepita solo in una rappresentazione motrice. Infatti il sentimento dell'ostacolo materiale è, come ogni altro, uno stato di coscienza. L'organismo appare solo sotto forma di atto soggettivo. Esso è nel pensiero prima che il pensiero si metta in lui. La resistenza corporea quindi si presenta a noi non come una massa estesa e inerte che cede reagendo a uno choc unico e improvviso, ma grazie alla mediazione di un'immagine che opera in noi a poco a poco con la segreta complicità delle membra, - delle membra che a stento potremmo sollevare, se fossero staccate, e che tuttavia sembrano muoversi quasi da sole. Pertanto la stessa coscienza dell'organismo e il sentimento o la previsione della resistenza materiale è una nuova fonte di attività spontanea. Tramite il modo con cui conosciamo lo sforzo, noi produciamo già un'operazione effettiva. Le sensazioni afferenti diventano quindi l'alimento dell'energia motrice. È inutile sapere come l'operazione si compie, nella misura in cui segue il pensiero. È invece utile saperlo nella misura in cui c'è sproporzione e resistenza. Spesso i nostri movimenti non sono che un modo di pensare e di volere, come segni che, invece di manifestare semplicemente le idee che abbiamo già, ne suscitano di nuove. La coscienza dello sforzo continuo e molteplice è quindi fondata sulla percezione stimolante di un'opposizione molteplice e continua. In questo modo la sensazione organica, che media tutte le altre, è ricondotta a una sintesi di azioni infinitesimali, le quali, realizzando tutte un grado del volere, compongono progressivamente, attraverso una serie di ripercussioni e di iniziative parziali, l'operazione totale. Ecco come la stessa rappresentazione del corpo diventa, grazie alla mediazione dell'immagine motrice, una potenza spontanea che opera segretamente nelle membra, e serve a disporne la topografia interna, senza che noi conosciamo il dettaglio dell'operazione. Con ciò si spiega la nozione corrente di corpo o anche di materia in generale. Qual è il sentimento immediato che abbiamo del nostro organismo, e che cos'è per noi la materia? Se intendo quello che dico con questa parola, è perché la materia la trovo in me. Certo, in me trovo qualcosa che non è penetrato interamente ne dalla mia volontà ne dalla mia conoscenza, che ne io comprendo né si comprende da sé, che gli altri, se esistono, comprendono altrettanto poco, perché senza essere me questo qualcosa è almeno mio. E che cosa distingue il mio da me? Questa permanente molteplicità di una resistenza, tuttavia mobile e accessibile alla mia azione, per quanto costantemente impenetrabile al mio sguardo interiore e irriducibile al mio volere attuale. In tal modo l'organismo che poco fa sembrava fuori della mia coscienza e della mia portata, adesso pare in certo qual modo reintegrato nella coscienza che ne ho. E questa fisiologia soggettiva ha un'efficacia inconscia: l'immagine sigilla e muove il corpo, senza che si abbia la minima conoscenza di come ciò avvenga. 6. C'è infine un'azione afferente dell'organismo che costituisce propriamente la risposta provocata e attesa, la verifica del progetto della volontà, l'istruzione che si richiedeva all'atto operato, l'imprevisto previsto. Ciò che essa apporta realmente è la coscienza delle sproporzioni tra volere e fatto, la rappresentazione delle reazioni corporee, l'insegnamento delle smentite empiriche. Su questo dato si raggruppano e si organizzano tutti gli altri elementi che l'analisi ha appena districato nel sentimento dello sforzo. Ma ciò che gli è proprio non è tanto l'impressione organica stessa, quanto l'incremento di luce soggettiva e di esperienza di cui è la fonte. Perché nell'immagine cosciente di questa resistenza organica prende corpo l'ostacolo, si determina in una forma bloccata la posta in gioco della volontà attuale, si manifesta con precisione la conquista da fare. E la nitidezza, la solidità stessa di questo ostacolo preciso è già un primo vantaggio acquisito. In ragione della forza di ogni immagine, la rappresentazione determinata dalla resistenza è il risultato di un primo sviluppo, ma anche lo strumento e l'obiettivo di una crescita ulteriore del volere. La coscienza dello sforzo organico è dunque un insieme di dati assai complessi. Per effetto dell'abitudine questi apporti differenti si fondono e formano un solo tutto raccordato all'iniziativa dell'azione cosciente. Anche la reazione degli organi che ci rende veramente passivi in rapporto alla nostra attività è compresa nel progetto originario dell'azione, per quanto questo ostacolo possa apparire sconcertante. Ecco perché, quando stiamo per sollevare un peso conosciuto, sembra che misuriamo in anticipo l'intensità della forza necessaria per sostenerlo, mentre in realtà non facciamo altro che immaginare la resistenza abituale di cui solo le esperienze anteriori hanno potuto insegnarci l'esatta misura. Così la nozione preliminare dello sforzo è come il quadro preparato per ricevere tutte le lezioni precise dell'esperienza effettiva. Ciò che è afferente nella percezione reale è percepito come tale solo in seguito a un'iniziativa ancora indeterminata e grazie all'accoglimento a priori dell'a posteriori atteso. Quindi a seconda che si consideri la forma o il contenuto della sensazione organica, si deve dire ugualmente che lì tutto è effetto dell'iniziativa soggettiva o che tutto esprime l'impressione passiva della reazione corporea. Sicché davvero allo stesso tempo noi percepiamo immediatamente lo sforzo nella sua origine, e lo percepiamo mediatamente nel suo esercizio e nella sua esplicazione. Sicché altresì noi siamo informati più chiaramente sui nostri movimenti dalla reazione delle parti che non dall'innervamento diretto. Sicché infine le illusioni più varie e i casi patologici più contrastanti possono spiegarsi con la complessità delle trasmissioni, con l'incrocio delle azioni e delle reazioni, con il progresso della diffusione nervosa, con la molteplicità delle degradazioni successive in cui si disperdono la luce e la volontà iniziale. La coscienza riflessa vede solo all'ingrosso l'operazione motrice, grazie alla proiezione di tutti questi infiniti dettagli: è una ripercussione di ripercussioni integrate. L'immaginazione non potrebbe averne alcuna rappresentazione distinta. E noi non potremmo esonerarci dal nostro sforzo se non grazie alla consuetudine, quando con l'esercizio ripetuto e la verifica dei totali di queste azioni elementari abbiamo addestrato le facoltà subalterne, aperto le strade, stabilito le connessioni abituali e siamo riusciti a proporzionare l'energia alla resistenza. II. Fare l'anatomia di uno sforzo isolato in astratto non è tutto; occorre studiarne la vivente complessità e la fisiologia concreta. Infatti nel movimento della vita c'è un circuito che si chiude perennemente, ma per riaprirsi e crescere ancora. Ogni punto d'arrivo non è che un punto di partenza. Si possono senz'altro affermare separatamente queste tre proposizioni: la coscienza dello sforzo organico risulta dall'antagonismo di tendenze soggettive; - questo antagonismo interno il cui principio è dapprima inavvertito si esibisce a noi sotto la forma della resistenza corporea; - e questo aspetto materiale dell'ostacolo proposto alla volontà come un termine di espansione inaugura una nuova trascrizione del fisico a livello mentale, rivelando la diversità delle tendenze e traducendosi in effetti soggettivi. - Ma la cosa importante è vedere, in atto, come queste funzioni si combinano. Per attenersi principalmente allo studio dello sforzo organico, come se fosse il tutto o la cosa più importante dell'azione, bisognerebbe misconoscere il senso autentico dell'operazione volontaria, e precludersi l'intelligenza di questo sforzo nel momento stesso in cui lo si vorrebbe studiare in esclusiva. Su questo punto il senso popolare non si sbaglia. Il problema dell'azione non concerne quest'oscura questione della sensazione muscolare. Fermarsi a essa sarebbe retrocedere a un ordine di conoscenze superato, significherebbe esprimere in linguaggio positivo e in immagini sensibili la realtà della volontà operante, sarebbe ricondurre al determinismo vinto che precede la decisione cosciente lo sviluppo nuovo del determinismo vittorioso che segue e governa l'operazione prodotta. Non bisogna far deviare l'indagine. Essa devierebbe non appena ci preoccupassimo principalmente dei mezzi fisici che ci sembrano nascosti, esattamente perché sono subordinati a scopi morali. Quali che siano le vie fisiologiche dell'operazione, il modo in cui essa mette in movimento gli organi ed è portata alla coscienza non influisce per nulla sul progresso della nostra crescita volontaria. La grande difficoltà dello sforzo risiede non tanto nel trionfo più o meno completo sull'inerzia materiale, ma nel concerto delle tendenze, nella conquista dell'armonia e della pacificazione dei desideri intimi. L'ostacolo organico non è altro che il simbolo e l'espressione di opposizioni già psicologiche. La sofferenza è conosciuta solo nella misura in cui vi è sproporzione tra il percepito e il voluto, tra il fatto e l'ideale immaginato. Qui sta la causa profonda delle sensazioni di dolore anche fisiologiche. Pertanto proprio mentre si vede come l'iniziativa di una volontà imperfetta e divisa susciti la coscienza di una passività organica, si deve osservare allo stesso modo come il sentimento di questa resistenza corporea riveli una zizzania interiore, e un conflitto di tendenze che attraversa l'esplicarsi della nostra azione. Infatti una volta agito, c'è una nuova prospettiva e come una vita estranea che si è incorporata all'agente. La volontà è diversa da come era in precedenza. La conoscenza è cambiata. Prova questa che di fatto il vero contributo dell'operazione voluta e compiuta mediante gli organi è precisamente questo cambiamento, più che gli strumenti per ottenerlo. Ora a quale condizione questo rinnovamento della Vita interiore dipende dallo sforzo organico e dall'esecuzione materiale dell'atto? Ecco a quale condizione. Nei confronti della coscienza il corpo è un abbozzo di vita soggettiva. Esso è ciò che si oppone all'espansione immediata e alla realtà ideale del volere, ma è anche ciò che vi si sottomette e vi si presta. Esso sfuggirebbe radicalmente all'agente, se non inglobasse qualcosa dell'agente in via di realizzazione. Perciò l'azione è istruttiva. Essa manifesta al soggetto una vita soggettiva diversa dalla sua, una vita che egli conquista gradatamente, una vita che gli appartiene già più di quanto non sappia, ma che non possiede ancora interamente, e che spesso gli sfugge più di quanto non creda. C'è dunque un perenne circuito. Grazie all'operazione volontaria noi attingiamo in noi stessi il necessario per muoverci e per determinarci. Il sentimento dello sforzo e le reazioni organiche ( quale che ne sia l'occasione iniziale, impressioni esteriori o iniziativa motrice ) non fanno altro che alimentare in maniera inconscia la vita cosciente. È questa coscienza nuova che a sua volta agisce sulle sue condizioni subalterne. Noi consumiamo le forze profuse in noi per digerirle in idee e in nuovi motivi per agire. Di qui il carattere ambiguo di questa attività passiva, poiché essa cerca in questa stessa passività una forma superiore di attività, e in questo inconscio un mezzo per chiarirsi su se stessa. Quindi questo cerchio non gira su se stesso senza andare avanti. Grazie all'azione sembra che si rientri in possesso di noi stessi dagli estremi più lontani e che, rifacendo dalle fondamenta stesse la nostra vita personale, ci si porti avanti tutti interi. Ecco perché, pur arricchendoci, l'azione ci esaurisce e ci costa. È una specie di digestione dalla quale traiamo profitto solo se prima serviamo il pasto. Nella previsione e nell'apprensione dello sforzo, nel sentimento di ciò che vi si spende e nell'idea stessa di ignoto in cui si impegna l'azione, la volontà, sovrana allo stesso modo in cui la magia naturale dell'immagine opera d'istinto sulle forze istintive, incontra un ostacolo sconcertante di cui non trionfa senza fatica e senza lotta. In tal modo per quanto contrarie, queste due affermazioni sono ugualmente fondate. - Possiamo agire, forzare le membra, piegare la macchina, ma non sempre possiamo controllare i nostri sentimenti, i nostri pensieri e le nostre credenze. - Nulla ci blocca più che l'azione; e conformare la nostra condotta alle nostre convinzioni più ferme o alle nostre decisioni più risolute costituisce una difficoltà sovrumana. La resistenza organica ha quindi un duplice senso: talvolta appare come lo strumento di un guadagno desiderabile e di un incremento della vita soggettiva, talaltra come un impoverimento e una fatica. In entrambi i casi essa è la traduzione nella coscienza di tendenze e di azioni che, più o meno refrattarie alla volontà, vi si raccordano o vi si sottraggono. È questa lacerazione intima che rivela il sentimento doloroso della fatica e la coscienza del travaglio. III. Non è sufficiente infatti scoprire l'origine della coscienza che abbiamo di una passività organica. Non è neanche sufficiente spiegare come il sentimento delle resistenze corporee contrasti o stimoli la nostra azione. Bisogna andare più avanti. Non abbiamo affatto un'idea completa dello sforzo vitale, non abbiamo affatto un'idea giusta dell'azione autenticamente umana se non vi vediamo un lavoro impegnativo. Non facciamoci diversi da come siamo: noi tutti amiamo il riposo, cioè la liberazione e l'anarchia delle nostre forze. A tutti costa lavorare. Nessun atto di qualche importanza ha un buon esito senza fatica. La fatica è la passione nell'azione, una sofferenza, una contraddizione intima. Mentre concentro il mio pensiero sull'oggetto che studio, sento come una molla che cerca di allentarsi, un'attenzione pronta a svignarsela, un fascio le cui parti fanno resistenza alla stretta della riflessione. Così anche le membra dell'operaio sempre soggette agli stessi movimenti e compresse negli stessi meccanismi gridano fatica e dolore. Sono false e odiose certe formule di una nuova morale, che senza dubbio sono destinate a formare al lavoro un popolo deprivato di qualsiasi incoraggiamento più elevato. Stando a questi ottimisti, il lavoro è l'unica cosa piacevole, l'unica cosa naturale. No, per disciplinare le nostre forze non basta un semplice volere, e neppure uno sforzo unitario dell'energia centrale; ci vuole una fatica. Così si è potuto considerare il lavoro come un castigo, come un'espiazione, come un'elevazione di chiunque ha il coraggio di perseverarvi liberamente senza la costrizione del bisogno. E qualunque cosa se ne sia detto, non è ad alcun livello legge universale, ma è legge specificamente umana. Solo l'uomo si violenta, si combatte, fa soffrire se stesso, si uccide, fatica nel suo agire. Da quale parte di noi nasce questa sofferenza che mortifica la nostra azione? Anche a livello corporeo essa nasce, se così si può dire, da cause già morali. Per quanto sia retta, semplice e totale l'intenzione egemone, essa non ingloba la totalità delle decisioni possibili e non impiega l'insieme delle tendenze attuali. Questa divisione interiore dei pensieri e dei desideri spontanei è stata una condizione della vita riflessa. Volesse il cielo che la decisione ragionata concertasse nell'azione unica da essa ispirata tutta questa pluralità incoerente da cui è scaturita! Invece no, questo accordo non si crea o non si crea più. Ne la volontà governa e concentra in un solo atto i movimenti contrari che hanno esigenze esclusive, ne le tendenze ostili si prestano a una conciliazione pacifica. Pertanto qualunque cosa facciamo, quando agiamo schiacciamo come una parte di noi stessi. E non per questo soffochiamo ciò che mortifichiamo in questo modo. Il dolore nasce dunque da un'azione parziale, la quale impiega solo alcune delle energie disponibili e le impiega talvolta in eccesso, e nel contempo da un sacrificio delle tendenze represse. Pertanto la sofferenza cosciente suppone la presenza in noi di energie inconsce che non si raccordano tutte insieme alla volontà, qualunque essa sia, di energie che si contraddicono e cercano di escludersi, di energie che intaccano la sintesi organica quale è plasmata dall'azione attuale. Sembrava che con l'atto operato la volontà dovesse assicurare sempre di più la propria integrità. E invece basta volere e agire perché sorgano contraddizioni impreviste, come se tra i nostri servitori nell'ora del bisogno si manifestassero ribelli o traditori. Si tratta di tendenze divaricanti che non ci consentono più di perseverare nei nostri migliori propositi senza una specie di lacerazione interiore. Perciò gli uomini d'azione spesso sono ritenuti di scarsa sensibilità e di duro comprendonio. Sembra infatti che per puntare dritto davanti a sé con fiducia e ostinazione occorra andare avanti, senza guardare in faccia a nessuno, calpestando una folla di sentimenti che ci balzano incontro supplichevoli sulla nostra strada. Chi definiamo gente pratica, se non coloro che non sanno prestare un'anima alle cose, e si appigliano a questa dura scorza di verità alla quale si aggrappano gli spiriti senza immaginazione e senza simpatia? Come se per affermare e per agire fosse necessario ignorare i bisogni della testa e del cuore, i quali sono la fonte consueta degli errori e delle follie che rendono incomprensibile agli uomini calcolatori e ambiziosi la vita delle persone ardenti e appassionate. Si tratta di un pregiudizio maligno, ma esso è solo l'espressione imperfetta di un fatto d'esperienza costante. C'è in noi una discontinuità di volontà, una pluralità di desideri che rendono ogni atto una lacerazione interiore. Si tratta di un antagonismo segreto che costituisce il principio delle lotte nella vita pratica, e spesso fa abortire le nostre decisioni più ferme. Perché volere e fare sono due cose diverse. Se per noi è già molto conoscere ciò che vogliamo veramente, nosse; se è ancora assai più difficile volere questo stesso volere, velie, è infinitamente più difficile eseguirlo, perficere. Già tra il concepimento e la determinazione c'era un intervallo; ma tra la decisione e l'esecuzione c'è da superare un abisso. Ecco dove sta il passaggio critico e il punto decisivo nell'azione. E mentre nelle lotte dell'ascetismo le persone a esso dedite lo hanno sentito vivamente, le persone dedite alla speculazione non vi hanno prestato attenzione. Queste ultime spesso hanno intravisto la difficoltà laddove non risiede, senza vederla dove si trova davvero. Trattandosi del problema della libertà umana, che non bisogna pretendere di risolvere tutto d'un colpo, perché gli ostacoli sono scaglionati in piani successivi, non ci si deve fermare alla resistenza organica o allo sforzo dell'operazione motrice, ma a questi conflitti interiori della volontà, alle sorprese e alle rivolte spesso benefiche dell'attività subalterna. Riusciremo a risolvere queste contraddizioni intime e a pacificare questa guerra con la vittoria della volontà integrale? Tentiamolo almeno. È già importante comprendere come le resistenze e le sofferenze, anche quelle contrarie alle nostre aspirazioni più vive, possono servire come insegnamento e come via per il nostro volere profondo. Esse ci rivelano i segreti di noi stessi su cui forse preferiremmo stendere un velo. Scoprono prospettive sul dramma della vita che fino allora risultavano chiuse, e rompono il sistema artificiale delle nostre concezioni più chiare. Come si diceva, nulla ci è noto con certezza senza aver agito. Adesso bisogna aggiungere che nulla entra in noi senza che abbiamo sofferto. Si tratta di esplorare questo campo delle opposizioni, delle passioni, delle ribellioni dell'azione, per seguire su tale terreno la stessa crescita della volontà. Tre punti sembrano accertati. - Che cosa genera la coscienza dello sforzo organico e la nozione soggettiva del corpo? È l'idea di un progresso del volere da realizzare. - Come si spiegano la natura della resistenza da vincere e la causa delle passività corporee? Con la presenza di energie ancora estranee ma accessibili alla volontà. - Da che cosa dipendono le sofferenze della fatica e le difficoltà o le sconfitte dolorose dell'azione? Dalla divisione di quelle tendenze che acuiscono l'antagonismo tutte le volte che si dichiara di volerle risolvere. Pertanto non si può avere un'intelligenza sufficiente dello sforzo muscolare e persino della fatica fisica, se non si sa vedere alla base questo bisogno di espansione di una volontà divisa e contraddetta in se stessa. Vi sono in noi potenze che agiscono con noi o senza di noi o contro di noi. E che cos'è la sofferenza se non la divisione intestina delle cose vive che sono interdipendenti, e come l'intrusione dell'estraneo in noi? Precisamente di queste energie occorre studiare le tendenze peculiari, gli appetiti, le pretese. La coscienza è messa di continuo sull'avviso relativamente a queste esigenze improvvise o a queste spinte rivoluzionarie che minacciano l'opera della nostra unità interiore. Dunque nel corpo dell'azione non è sufficiente prendere in considerazione l'intenzione che ne è l'anima, e l'operazione che la produce; ma bisogna studiare l'azione del corpo, considerando l'organismo come una federazione spesso anarchica e conflittuale di vite elementari e di tendenze capaci di formare sistemi o fazioni. * * * C'è dunque una psicologia del corpo da studiare; e questa legge delle membra, che si rivela proprio per il suo conflitto con la legge dello spirito, cerca di confondersi con essa e di surrogarla. ( Rm 7,21-25 ) Pertanto l'intento del capitolo seguente è di mostrare che l'azione volontaria, quale ne sia l'orientamento, incontra in sé e suscita contro di sé potenze ostili; di constatare che queste tendenze possono intaccare, surrogare e contraffare la volontà; di far vedere infine che in ogni caso l'atto voluto riveste un identico carattere razionale. Con ciò tutta la possibile gamma delle azioni deliberate e delle passioni umane rientrerà in un medesimo tipo soggetto a un medesimo determinismo. In ogni caso l'operazione operante sfocia per forza di cose in una nuova aggregazione delle forze, e l'operazione operata è una sintesi che ingloba più di quanto ritenevamo metterci. Espandendosi, dunque, la volontà trasferisce il suo centro di gravita sempre più lontano dalle sue prospettive iniziali. Capitolo II - L'azione del corpo e la psicologia dell'organismo Quando la vita organica, concentrandosi nel fuoco della coscienza riflessa, vi ha rappresentato i bisogni e i desideri della nostra natura universale, e quando, una volta presa la decisione alla luce liberatrice della ragione, si è pronunciato il fiat, potrebbe sembrare che sia stato detto tutto, e che il potere superiore della riflessione abbia automaticamente un dominio immediato sull'esecuzione materiale dell'atto. Ma abbiamo dovuto riconoscere che la causalità ideale non diventa di primo acchito causalità effettiva. E dopo aver visto come la decisione risulta affrancata e diventa padrona di tutto il determinismo antecedente, ci siamo imbattuti in nuovi ostacoli, meno evidenti, anche se più reali di tutti gli altri. Gli avversari della libertà, negando ingiustamente la verità del principio, non hanno sempre intravisto ciò che avrebbero avuto ragione di vedere, cioè la difficoltà pratica delle applicazioni. Già quando abbiamo studiato lo sforzo necessario per l'esecuzione di qualsiasi atto deciso, abbiamo riconosciuto la presenza in noi di forze ostili all'azione, qualunque sia l'azione di cui la volontà prende l'iniziativa. Ma queste forze non sono una mera inerzia, non costituiscono un peso brutale e cieco. Sono forze plurime che si esprimono in noi mediante una tendenza istintiva verso fini intravisti, mediante appetiti, sollecitazioni che si riflettono nel nostro pensiero. In una parola, sono forze che rivelano al di sotto della riflessione una vita soggettiva e l'intervento costante di oscure coscienze. C'è dunque da conoscere una psicologia del corpo, e da districare un'azione complessa dell'organismo. Qui non si tratta più di analizzare " gli elementi dello spirito ". Indubbiamente a qualcuno questa sembra una delle verità più nuove, ma in realtà tra le verità che la psicologia contemporanea ha rinverdito, credendo di scoprirle, è una di quelle più antiche. Se il nostro organismo è formato da organismi elementari, autentici infusori che vivono, muoiono e si rinnovano ciascuno alla sua maniera, se il corpo è un sistema instabile di innumerevoli viventi di specie differenti, è esattamente l'immagine della composizione della vita soggettiva. E come una fisiologia avvertita studia il polizoismo dell'individuo, era necessario altresì discernere nella coscienza il " polipsichismo " che ne costituisce l'unità molteplice. È quanto abbiamo già visto. Adesso non si tratta tanto di mostrare questa collaborazione anonima delle coscienze subalterne fuse insieme nella vita centrale, ma di considerare quello che succede in seno a questa moltitudine confusa quando vi si getta un'azione, come un sasso in uno stagno brulicante. In questa sede poco importa in che modo l'atto è stato concepito, determinato e deciso. La cosa interessante è vedere come, penetrando nel sistema delle nostre abitudini, esso rompe l'equilibrio, provoca una nuova coalizione dei pensieri e dei desideri, fa scaturire dall'organismo psicologico una risposta al suo appello, rivela i movimenti segreti che sarebbero rimasti nascosti nel cuore, senza questo colpo penetrante della decisione. Quindi, quasi seminasse zizzania, l'azione sembra suscitare contro se stessa un nuovo determinismo di fronte al quale minaccia di soccombere. Col proprio slancio la volontà scopre la sua imperfezione; essa si impone una lotta intima che è la prova della sua sincerità e la condizione del suo sviluppo. I. In effetti riflettiamo su questa strana verità dell'esperienza comune: se voglio muovere la mano, il braccio, la testa, le altre parti più pesanti che a stento potrei reggere se fossero separate, i movimenti comandati si eseguono quasi da soli, senza che io conosca nessuno dei congegni di questa macchina straordinaria. Si eseguono precisamente perché nelle membra si trovano energie complici e coscienze coadiuvanti. Ma questa docilità che ottengo dagli organi sottomessi alla volontà non è erogata dalla stessa volontà. Io muovo il dito, ma non riesco a cambiare un desiderio; comando alle mie membra come a un animale vivo e attivo di cui domino le forze disciplinate, e quando si tratta di vincere un sentimento, di evitare un'occasione, di impormi un sacrificio, resto distratto, negligente, inerme. Voglio agire, ma agisco alla meno peggio. Voglio volere, ma al momento dell'esecuzione e di passare ai fatti non voglio più. Lo spirito comanda al corpo ed è obbedito; comanda a se stesso e oppone resistenza. Comanda di volere ciò che non comanderebbe se non volesse, e tuttavia ciò che comanda non si esegue. Governiamo più facilmente il lato materiale che non il lato morale dei nostri atti. I - Il fatto è che il volere non è affatto integro, e rimane diviso in se stesso. Di fronte a qualsiasi atteggiamento definito e deciso nasce il partito degli scontenti, per spirito di contraddizione. C'è una legge delle membra il cui ruolo nel complesso è di resistere alla legge dello spirito con più forza delle stesse membra. Ogni sforzo iniziale è come una dichiarazione di guerra alla rilassatezza e alla dissipazione delle forze vive, che pure hanno da parte loro l'istinto di conservazione e di indipendenza. Insomma, come l'autentica iniziativa della volontà trascende l'automatismo inconscio e le condizioni fisiologiche dell'atto, così la resistenza organica, lungi dal limitarsi all'inerzia bruta, mantiene soprattutto desti in noi stati di coscienza estranei o ostili alla coscienza, volontà nuove che si ergono contro la volontà. Nel corpo è già diffusa una vita psicologica; e quando lo sforzo volontario raccoglie in un manipolo separato le forze per l'offensiva, proprio allora si rivelano le potenze assopite e i desideri segreti. Perché di fronte alla decisione dichiarata, che assorbe in sé sotto la loro forma ideale tutte le rappresentazioni proiettate dal corpo nella coscienza, sussiste la realtà di queste tendenze eliminate solo in astratto, ma ancora vive e concretamente in azione. Queste non si estinguono da sé. Il concerto dei fini voluti provoca dunque una coalizione delle potenze ostili, che non si limitano più a produrre il loro insignificante effetto nella coscienza comune, ne a rimanere allo stato virtuale. Ma si uniscono, e dalla difensiva tendono all'offensiva. In tal modo l'attività volontaria, rompendo incessantemente l'equilibrio interiore della vita, scopre ciò che si agita confusamente sotto la superficie dei sentimenti apparenti. Senza dubbio l'automatismo, già governato da una ragione oscura, è sufficiente a provocare in noi quei contrasti di immagini e di desideri che rendono possibile l'esercizio della riflessione. Ma è l'iniziativa del pensiero e lo sforzo dell'azione determinata che costringe le tendenze ignorate a manifestarsi, grazie alla vivace protesta di quelle che si vorrebbe misconoscere o distruggere. Ecco perché i maestri della vita interiore ci consigliano di provocare, come in una battaglia a corpo a corpo, le passioni che bisogna imparare a conoscere e a sconfiggere. In questo modo l'azione, come una spada tagliente, apre allo sguardo un passaggio fin nelle profondità oscure in cui si preparano le grandi correnti della vita interiore. Attraverso lo stretto portello della coscienza essa ci rivela infinite prospettive, al di sotto di questo mondo complicato nel quale ci troviamo; e rinnova continuamente con i contrasti e le lotte intime la sorgente del pensiero e della libertà. Perciò spesso è difficile discernere quello che vogliamo davvero. E talvolta persino l'ardore della volontà fa nascere, come per un fenomeno d'interferenza, l'impotenza e l'indecisione. Chi non ha conosciuto, nelle circostanze più critiche, quella pena dell'incertezza inattiva che rende desiderabili come un prezioso antidoto tutte le possibili sofferenze dell'azione fiduciosa! Si direbbe che basti volere perché subito non si voglia più e che, favoriti da una decisione palese, si sviluppino nell'ombra un potere occulto e influssi ipocriti atti a dirigerei quasi a nostra insaputa. Non è stato osservato quanto spesso i nostri discorsi e la nostra condotta si ispirano tacitamente ai propositi di cui meno ci rendiamo conto, come se per un perfido sdoppiamento e una specie di diversione la volontà si ingannasse da sé per lasciare, sotto sotto, più spazio ai desideri inconfessati? Che singolare organo da suonare questa vita interiore in cui le note più giuste talvolta sembrano provocare gli accordi più stonati! Vi sono dei casi in cui non possiamo fare un passo senza che ci si ergano davanti e ci assalgano migliaia di nemici nascosti. E i nostri sentimenti più profondi sono anche quelli che ci dividono e ci sorprendono maggiormente come sconosciuti. Certe gioie intime ci lacerano e in una misteriosa felicità si confondono addirittura con l'eccesso del dolore. Quello che abbiamo desiderato più di tutto ci spaventa quando bisogna farlo nostro. Abbiamo paura di abbandonare le nostre miserie, come nella dolcezza di primavera si stende un velo di tristezza con i primi raggi che giocano con la fiamma del camino che va spegnendosi. E talvolta basta che temiamo un atto perché subito una vertigine ci trascini a compierlo, come quei bambini terribili cui la serietà dei luoghi e delle persone ispira le monellerie più irriverenti. È un circolo singolare: la volontà non potrebbe trovare la sua pienezza che nell'azione; e l'azione, talvolta persino il solo pensiero dell'azione, lacera, sconcerta e respinge la volontà. La libertà sembrava vincitrice, e lo era; ma non appena si rende palese, già non lo è più. E come se la decisione avesse esaurito le forze disponibili, davanti all'impresa iniziata insorgono difficoltà impreviste e accresciute, tanto da indurre la volontà a dubitare di se stessa. Per conservare intatti i loro propositi più cari, per non impegnarli in una lotta che li immiserisce e li deforma, vediamo che le persone delicate evitano di esprimerli, come se l'azione dovesse sopprimere quei sogni anche se vincitori, e come se realizzandoli corressero il rischio di sciuparne la grazia infinita! Per paura di non fare ciò che preferiscono e ciò che vogliono, fanno ciò che non vogliono e che non preferiscono. - Ma vediamo soprattutto quel gran numero di uomini che si ricoprono dei fiori dell'intenzione e non portano mai i frutti degli atti, senza neppure rendersi conto di questo perpetuo abortire! E tuttavia vale la pena considerare questo fenomeno; perché avendo atteso dall'azione un plusvalore, non vi si trova che deficit e perdita. II - Ogni atto è un sistema di potenze alleate. Ma tra questi alleati vi sono quelli fiacchi, quelli inerti, quelli infidi. Sono forze che si intralciano e si neutralizzano. L'uomo è come un quadro: la spada sta sempre sollevata sul nemico, e il colpo non viene inferto mai. Quando farà ciò che vuole, andando fino in fondo nelle sue decisioni più ferme e più assidue, senza deviazioni e senza ritardi? Tutti potremmo attribuirci l'espressione tipica dei bambini: " Io vorrei farti contenta sempre; ma dimmi, mamma, perché non sempre riesco a essere buono? ". E come spiegare che abbiamo tanta paura di fare, quando non lo facciamo, ciò che ci piace tanto quando lo facciamo? Sappiamo almeno fino a che punto ci facciamo illusioni sull'incoerenza consueta dei progetti e degli effetti? Questo accecamento in cui ciascuno versa circa la propria condizione costituisce una singolare ignoranza; e il principio della filosofia consiste nell'averle rilevato. Nonostante l'esperienza quotidiana dei nostri insuccessi, non possiamo mai credere alla nostra impotenza, ne possiamo prevederla o guarirla. Anche quando l'abbiamo riconosciuta, non riusciamo a tenerla presente in modo abituale, non più di quanto riusciamo a fare i conti con essa nei nostri disegni più misurati. Non sappiamo fin dove arriva questa malattia, e siamo ignari dell'oblio abituale nel quale viviamo circa il poco che facciamo e il poco che possiamo fare. Da dove deriva che ci abituiamo, senza farci caso, a questa perenne bancarotta della vita? Qual è il segreto di questi falsi giudizi che esprimiamo su di noi e sugli altri? È che facciamo attenzione soltanto ai nostri progetti e alle conseguenze che se ne ricavano, come se le nostre idee e i nostri propositi fossero già i fatti stessi. Quanto ai risultati, noi li consideriamo solo attraverso i bisogni logici della nostra natura intellettuale o le illusioni della vanità. La riflessione, nonostante il significato palese della parola, si proietta o molto più sull'avvenire, o almeno nel passato si richiama alle illusioni e ai desideri più che ritornare sulla verità degli atti. Spesso crediamo di aver fatto ciò che non abbiamo neppure abbozzato. E la severità dei nostri giudizi sugli altri di solito dipende dal fatto che prendiamo il nostro ideale per la nostra prassi, e la loro prassi per il loro ideale. Quante persone piegano al loro sogno tutta la realtà, e usano della loro ragione solo per sragionare con maggiore forza logica e per non accorgersi di se stesse! Altrimenti come spiegarci che si faccia esattamente tutto ciò che si è appena criticato sinceramente nel nostro vicino? Contro quanto si crede comunemente, noi siamo molto più ignari delle nostre azioni palesi e per così dire palpabili che non dei nostri pensieri invisibili o delle nostre chimere più effimere. Non sappiamo, e non vogliamo, mettere in rapporto le prime con i secondi per scoprirne le sproporzioni. Più le risoluzioni sono numerose, generose, importanti, al di sopra dell'insignificante dettaglio dei mezzi praticabili e delle riforme precise, più sono dannose. Perché si crede di migliorarsi tanto, ma non si fa altro che guardarsi compiaciuti in una finzione sempre più illusoria. Pertanto, quando si discute circa i principi della condotta umana, bisognerebbe domandarsi quasi sempre: " Intendete parlare in teoria, in astratto; oppure parlate della prassi ordinaria e delle azioni comuni? ". Quanto sono sciocchi quegli autori di morale che non hanno la preoccupazione ne percepiscono il senso di queste incongruenze costanti, e che tirano dritto per la loro strada, ragionando sulle cose che dovrebbero accadere come non accadono nella realtà. " Tu devi, dunque puoi ": è falso. Sarebbe forse vero soltanto se si facesse ciò che si crede di fare. Dunque nelle nostre azioni vi è un passivo abituale. Per così dire, noi non facciamo mai tutto ciò che vogliamo come lo vogliamo. Vi sono resistenze impreviste, attriti, spinte che logorano, intaccano e deviano la volontà. Ci conosciamo bene in generale, ma a ogni istante ci ignoriamo; ed è questo momento che decide degli atti. Spesso i nostri desideri ci nascondono i nostri veri desideri. Nel cuore umano vi sono due cuori; uno non sa i pensieri dell'altro. Ma per il solo fatto che una decisione è presa e uno sforzo viene tentato, la situazione inferiore è cambiata. L'ospite che è nascosto in noi si rivela. E per continuare a volere come si voleva, occorre in qualche modo volere di più e altrimenti. Dopo la decisione i motivi lasciati cadere e le tendenze messe da parte non sono più gli stessi di prima; e nel momento in cui si credeva di distruggere il loro impero, sembra che lo si sia restaurato. Com'è possibile? II. Non soltanto noi non facciamo tutto ciò che vogliamo, ma spesso addirittura facciamo ciò che non vogliamo. Oltre l'attività parassitaria che sussiste al di fuori, accanto o dentro la stessa azione, c'è un'attività direttamente contraria che talvolta si sostituisce alla volontà medesima e l'induce a trasmigrare in lei. Prima di qualsiasi intervento della riflessione esistono già negli elementi della vita soggettiva strane concupiscenze le cui esigenze sanno farsi valere di sicuro. Ma la stessa riflessione col suo intervento conferisce agli impulsi repressi una violenza raddoppiata. È proprio il progresso di questa sfuggente sostituzione, di questo cambiamento impercettibile delle volontà che dobbiamo prendere in considerazione. Talvolta, mentre si fanno valere le più belle norme generali, non ci si avvede affatto che esse si applicano al caso particolare da risolvere all'istante. Talaltra, mentre ci si sente in grado di fare i sacrifici più generosi o di dimostrare una fermezza eroica, si inciampa in un'inezia. Infatti qualche volta è più facile trionfare nelle cose più grandi che superare se stessi in quelle più piccole, è più facile subire il tracollo che tollerare con pazienza la perdita di uno scudo. Altre volte, man mano che i desideri si purificano e le aspirazioni sembrano sublimate, la bestia approfitta del fatto che l'angelo fa l'angelo, e nelle coscienze astute si avvale di una contabilità a partita doppia in cui sia saltato l'equilibrio tra passivo e attivo. Altre volte infine, prima ancora di rendersene conto e senza sapere come, si è già fatto quello che ci si riprometteva di non fare; e come se l'acqua accumulata per effetto della resistenza avesse una forza maggiore, una volta rotta la diga avviene l'inondazione. Quindi le sorprese provocate dalle potenze subalterne, le rivolte riuscite, le implicazioni rivoluzionarie minacciano il nostro intimo volere. E talvolta restiamo imprigionati in noi stessi, spettatori impotenti della nostra decadenza, o anche complici dei moti di rivolta cui la volontà aderisce come il capo che segue i suoi soldati. Bisogna conoscere, direttamente o per sentito dire, il tumulto di una sommossa, i disordini e il clamore della folla per distinguere in sé i movimenti talvolta esasperati di questa massa che da l'assalto alla volontà dichiarata! Non appena essa si lascia strappare una concessione, non appena accenna a esitare o " allenta un po' la corda ", è finita. Chi non lotta è già vinto, chi non agisce è coinvolto ed è sconfitto. Non abbiamo ancora finito di riportare nei ranghi quei ribelli, che subito si presentano in noi fermenti, complotti, un'esplosione di desideri e un disordine di appetiti. E a questo punto chi è abbastanza forte per fermare o riacciuffare l'animale scappato? Spesso e volentieri ci si illude che la riflessione sveli e sopprima la passione mettendo allo scoperto l'assurdità in cui cade, e si è convinti che per governare l'uomo è sufficiente una teoria morale, come se si trattasse semplicemente di maneggiare bambole di cartapesta o di far rinsavire le immagini colorate di Epinal. Ma una volta rotta la diga, la volontà, la quale forse fingeva di non aver dapprima acconsentito, non è tentata di accettare il fatto compiuto anche senza il suo consenso, di accettare ciò che è stato fatto, di prendere come nuovo punto di partenza ciò che non ha saputo impedire, di approfittare della situazione acquisita invece di risalire con coraggio al di là del punto in cui ha deviato, anche se per questo bisognerebbe sovvertire tutto l'equilibrio che si è stabilito su un altro fondamento? Non si avverte viceversa che un'incoerenza pratica trascina con sé inevitabilmente altre incoerenze, perché a quanto pare a una bugia si pone rimedio solo con una bugia? E la coscienza di una collera assurda, irritandoci maggiormente, non ci eccita fino all'esasperazione, come il bambino capriccioso che si abbandona alla sua sciocchezza proprio perché ne avverte la stupidità? Così quanti uomini, non conoscendo che gli aspetti evidenti e superficiali della loro natura attraverso le illusioni di un cuore egoista e vanitoso, intravvedono un enigma crudele là dove c'è solo la crescente tirannia dei sensi scatenati! È più facile rimanere casti che tornare a esserlo. E la falsità, il pericolo delle descrizioni romanzesche, sta nel fatto che la semplicità astratta e l'indipendenza relativa delle decisioni o delle passioni più complesse vi si espletano senza trascinare con sé tutto il seguito delle loro compensazioni e dei loro ostacoli naturali. Vi si fanno spuntare sentimenti straordinari che non hanno germi e non sono coltivati. L'eroismo sorge come dal nulla. L'amore puro, ingenuo e fresco, è preparato dalla lussuria, l'adulterio diventa purificante. Abbiamo il beneficio del vizio e il fascino della virtù. - Senza dubbio nell' " uomo vecchio " vi sono passioni contrastanti che finiscono per intendersi e per andare d'accordo. Ma se Don Chisciotte e Sancio sono la critica vivente di questa letteratura chimerica che non comporta il collaudo della vita, quale nuovo eroe farebbe nascere la pratica scrupolosa dei romanzi contemporanei! Pertanto la volontà non solo non attinge tutte le forze che vorrebbe mettere al servizio dei suoi fini, sicché la sua azione è sempre più o meno contrastata o inficiata, ma suscita altresì, accanto a sé e contro di sé, delle potenze che tendono a soppiantarla e vi riescono persino, sostituendosi a essa e tenendola sotto tutela. Spesso finiamo per agire volontariamente contro la nostra volontà. È questa l'origine di quel movimento della passione che è importante conoscere bene. III. Se nello sforzo laborioso ci sono fatica e sofferenza, è perché, come si è evidenziato, nell'organismo medesimo ci sono già una vita psicologica e un complesso di tendenze indisciplinate. Se nell'azione volontaria ci sono una perdita e una sproporzione abituali, è perché, anche questo abbiamo visto, tali attività subalterne esistono e resistono anche di fronte alla decisione più ferma. Ma se queste potenze ribelli sono capaci di trascinare e di subornare la volontà, è perché in esse ci sono ( occorre metterlo in luce ) un'energia analoga a quella della volontà stessa e un carattere per cosi dire razionale. Qualunque cosa abbiamo deciso o abbiamo fatto, siamo sempre portati a giustificarla e a ritenerla ragionevole, anche quando è contraria a una precedente volontà o a una valutazione imparziale. Ma riserviamo questa imparzialità ad altri casi analoghi. Nella prassi cadiamo in un perenne sofisma: " Le norme generali non si applicano mai al mio caso particolare; ma il mio caso, per quanto eccezionale sia, mi sembra avere dalla sua parte la ragione universale ". Come dunque è possibile che agendo al contrario di come si voleva l'atto sia realmente voluto, e trovi in sé la propria ragione? In realtà in noi la vita animale è già permeata da una specie di virtualità razionale. Una volta arrivate alla coscienza riflessa, le tendenze spontanee vi trovano, sotto una nuova luce, più forza e determinazione. Ormai di fronte alla volontà che le ha valutate e che, pesandole con la sua bilancia, ha comunicato loro un'energia doppia, esse conservano, anche una volta soppiantate, il segno della ragione che si è soffermata a esaminarle, come se all'occorrenza esse potessero soddisfarla e bastarle. In tal modo, quando grazie alla spinta del moto passionale abbiamo fatto quello che non volevamo, ma che potevamo anche volere, l'atto che avevamo creduto irragionevole contiene all'improvviso una ragione imprevista, una ragione da cui gli era venuta, così immaginiamo, parte della sua forza vincente, una ragione capace di ottenergli il consenso della volontà vacillante. Può sembrare strano che al di sotto della vita riflessa e fino ai confini estremi dell'automatismo psicologico vi sia una specie di ragione che presiede alle funzioni più oscure, e che prepara in anticipo l'attività volontaria prima di metterla in scacco; pur tuttavia ciò è fuori dubbio. Del resto non è caratteristico di una sintesi reale che gli elementi di cui è formata partecipino dei suoi caratteri originali e vi perdano in apparenza i loro caratteri propri? In tal modo la forma superiore della coscienza e della volontà si riflette fin nelle sue condizioni elementari. È dunque a torto che si parla della vita animale dell'uomo come se potesse essere puramente animale. Anche là dove la riflessione non interviene, dove la decisione libera dello spirito non penetra, c'è ancora in noi una dialettica immanente che presiede alle nostre operazioni sensibili, e ispira le nostre percezioni e le nostre conclusioni immediate. Le stesse sensazioni hanno un carattere razionale e una tessitura logica. Esse sono la risultante di inferenze acquisite o di integrazioni primitive in cui si manifesta la forza sintetica e persino, per così dire, la capacità sillogistica della nostra attività mentale. Ci sono come un ragionamento implicito e un'aritmetica inconscia che governano tutti i nostri movimenti. Il facchino che cammina più svelto sotto un carico più pesante, la danzatrice o il suonatore non sanno di essere geometri e matematici. È altresì in questo modo che gli errori dei sensi rivelano l'iniziativa logica di un meccanismo razionale che entra in esercizio anche all'insaputa della ragione e della coscienza. Si analizzino, per esempio, le cause che ingrandiscono gli astri all'orizzonte, o che fanno nascere false proiezioni visive e immagini accessorie nelle persone operate di strabismo. Quindi nelle nostre minime percezioni e nei nostri atti più insignificanti vi sono un rigore e una concatenazione che confondono la riflessione più evoluta, perché nella prassi spontanea non viene mai omesso nessuno dei dati integranti del problema, e tutti hanno il loro effetto di compensazione. Così prestiamo attenzione ai principi seminati volontariamente in questo terreno fecondo: vi sono una crescita naturale e una proliferazione delle conseguenze che i sofismi successivi e i palliativi interessati non arrestano più. Negli stati patologici, e specialmente nei fenomeni di ipnotismo e di suggestione, questa disseminazione di una ragione immanente fin nelle stesse funzioni organiche e l'iniziativa dei centri secondari appare con la più patente e più perentoria evidenza. Ivi si producono una dissociazione degli elementi dello spirito, un'analisi sperimentale dell'automatismo spirituale, che manifesta al tempo stesso l'indipendenza relativa e la ragione virtuale di ciascun frammento del nostro organismo mentale. Sembra che allora, grazie a una finzione soggettiva o a una simulazione inconscia, ciascuna parte del sistema possa svolgere il ruolo principale e universale, come in una rappresentazione teatrale in cui le comparse reciterebbero a loro piacimento la parte principale. Queste potenze subalterne, capaci di ricevere l'educazione della ragione, sono capaci anche di soppiantarla e di scimmiottarla, come quei bambini che vi impartiscono la lezione che voi avete appena impartita loro. Se l'ipnotizzato può diventare padrone della sua vita fisiologica allo stesso modo in cui noi nello stato di veglia disponiamo della nostra vita di relazione, ciò avviene perché in lui tutta l'attività si ritira in un organo e si applica a una funzione, come se la volontà vi si fosse trasferita e concentrata. È questo un potere sorprendente, che tuttavia non è di genere diverso dall'attività normale delle funzioni fisiologiche. Infatti grazie a esso, secondo un'antica formula di cui bisogna dare un'interpretazione scientifica, " l'anima ragionevole è la forma sostanziale del corpo organizzato ", vi imprime la sua impronta in tutte le singole parti, vi trova un'eco, vi è compresa e obbedita. In tal modo, nell'ipnotismo come anche nella passione, sia pure a un grado minore, la gerarchia ordinaria delle forze vitali e delle coscienze elementari è sovvertita, ma per ricostituirsi artificiosamente sotto il comando di una potenza che di solito è subordinata. La riflessione pare svuotata di ogni contenuto proprio con una sorta di tacita rinuncia. E grazie a questa sospensione parziale delle molteplici attività la cui opposizione e unione costituiscono la ragione, questa spontaneità di uno stato semplice assorbe e impiega tutte le energie disponibili. Non che la coscienza totale sia assolutamente abolita per un periodo di tempo che si può ipotizzare breve quanto si vuole, perché l'individuo ipnotizzato di solito è consapevole di non sapere. E nella maggior parte dei casi di sdoppiamento ciò che dimostra la persistenza inavvertita della ragione astratta e della coscienza generale è il fatto che il soggetto conserva una nozione dell'io sufficiente per conoscere che non è più se stesso. Egli ha la conoscenza larvata della sua palese ignoranza. E se è docile alle successive suggestioni, ciò avviene perché nell'incerto campo della sua coscienza spenta può seguire l'indice luminoso che lo sperimentatore vi introduce. Talvolta si riescono addirittura a dislocare come si vuole le pareti divisorie che sembrano fare di una vita due frammenti estranei. A dimostrazione che nonostante questa scissione interiore sussiste una compagine segreta e come un reticolo invisibile che avvolge con le sue maglie trasparenti tutte le più disparate forme dell'attività, perché in tutte vi sono una sufficienza virtuale, un carattere di universalità e una ragione immanente. Ciò che avviene al di sotto della riflessione avviene anche nel campo più rischiarato della vita interiore: alla ragione e alla volontà si sostituiscono altre facoltà, con tutti i caratteri, tutte le esigenze, tutta l'efficacia della ragione e della volontà. E questa azione che procede da noi contro il nostro volere, come se fosse volontaria, questa azione irragionevole di cui ci si fa una nuova ragione, a dirla propriamente è la passione. In effetti da quale segno si riconosce l'atto della ragione e la decisione volontaria? Da questo segno: i diversi motivi che si presentano spontaneamente alla coscienza sono concepiti come le parti di un medesimo sistema totale, e la decisione libera appare come una sintesi che ingloba queste tendenze parziali e impiega le forze di tutte le altre per realizzarne una privilegiata. Quindi il giudizio verte su tutto, e l'azione abbraccia tutto. Ora quando la coalizione delle potenze, alle quali la volontà determinandosi ha dichiarato guerra o che approfittano della sua inazione per svilupparsi, ha il sopravvento, la contraffazione dell'atto volontario diventa totale. Lo vediamo a sufficienza da quello che esibiscono gli uomini passionali. L'oggetto della loro passione è il loro tutto. Essere ragionevoli, liberi, felici significa agire solo in vista del tutto e per il tutto, goderne. Ed essi si ritengono ragionevoli, liberi, felici. Essi pensano di trovare affrancamento e gioia perfetta nella sottomissione totale e nella completa rinuncia. Ma non si tratta soltanto del loro tutto, essi vogliono che sia il tutto. A loro modo di vedere non c'è quindi altro dovere che verso questo uno e tutto, non c'è altra libertà che nella schiavitù nei suoi confronti, non c'è ne amore, ne venerazione, ne adorazione che nel suo culto. Al di fuori di ciò per essi tutto è niente: è il centro cui riferiscono tutto, il valore delle cose e il senso delle parole. È il dio cui sacrificano tutto, l'universo e la loro stessa vita. Ma essi vogliono altresì essere tutto per questo centro, sapere tutto su di esso, attribuire a sé tutto ciò che costituisce quel centro. Hanno spezzato i loro legami col resto, e il resto è per loro come annientato. Non esiste più nulla di vivo, di umano, di sacro, a quanto sembra, che possa esigere da loro devozione e rispetto. Al di fuori della loro passione non esiste niente che possa giudicarla e condannarla. Rimasto solo con quello che ama, unito a questo uno e tutto, l'uomo passionale si sente per così dire assoluto, indipendente, autosufficiente, infinito. Se ha ancora la coscienza che al di fuori di lui, o in se stesso, misconosce ciò che si illude di annientare; se lo spettacolo di altre passioni simili alla sua lo sorprende e lo ferisce, perché non ammette che vi siano altri mondi accanto al suo; se il ricordo della ragione lo irrita e lo esaspera, perché non vuole che vi sia altro che un solo universo ( ed egli preferirebbe accettare l'idea di una spartizione piuttosto che credere all'unica ragione che lo condanna e lo esclude ); se prova come un rimorso, allora egli si assolve mettendo fuori delle norme comuni ciò che avverte come sregolato. Convinto che dal momento che ama è completamente diverso da prima, si convince anche che non è come gli altri. Si attribuisce una natura differente e superiore, si glorifica, si giustifica con la stessa mostruosità della passione. E siccome ognuno ha la presunzione di possedere altrettanto e più spirito di chiunque altro, ognuno crede di essere il primo ad amare come ama. Isolato ad altezze sconosciute da cui domina la folla umana e la disprezza, non ha altro affetto, dovere, onore, forza e vita che per l'unica cosa amata, ma crede di avere tutto ciò a un grado estremo. Egli ferirebbe, spoglierebbe, annienterebbe il suo idolo per avere la possibilità di guarirlo, arricchirlo, crearlo. Diventa crudele per manifestare la sua onnipotenza e la sua smisurata bontà. In tal modo i bisogni e gli appetiti umani, per quanto siano analoghi a quelli del bruto, ne differiscono profondamente. La bestia non ha la passione; viceversa quello che c'è di bestiale nell'uomo reclama tutto ciò che la ragione e la volontà esigono, cioè una soddisfazione infinita. La sensualità umana è insaziabile e irragionevole solo perché è pervasa da una forza estranea e superiore ai sensi. E questa ragione immanente alla passione stessa assume un tale potere da riuscire a soppiantare la ragione ragionevole, da confiscarne le aspirazioni infinite e da usurpare le risorse inesauribili del pensiero. L'azione voluta sotto il comando della passione si realizza soltanto se ha reso schiava la libertà per trascinarla come prigioniera, come complice, come istigatrice. Siamo dunque costretti dalla più comune e più universale delle esperienze a riconoscere che non facciamo tutto quello che abbiamo voluto, e che non abbiamo voluto tutto quello che facciamo anche volontariamente. Chi non ha rilevato questo fatto non ha guardato in sé neanche una volta. E tuttavia vi è una verità più dimenticata? Come può essere che essa venga ignorata dalla generalità degli uomini, i quali non badano affatto all'incoerenza ricorrente dei loro propositi più fermi e della loro prassi quotidiana? Come mai è ignorata dai filosofi e dai moralisti, i quali non sono affatto penetrati nel cuore della vita umana, nei misteri della volontà carnale, in questo torrione difeso in cui la ragione, regina e prigioniera, tratta con le potenze ammutinate della natura? Come mai è ignorata da quegli stessi che non appena hanno riconosciuto questa malattia la dimenticano, e vi soccombono senza saperlo, sempre pronti come sono ad accusare gli ostacoli estranei più che queste ribellioni intestine, sicché l'antica massima " non abbiamo peggior nemico di noi stessi " rimane lettera morta o sembra un paradosso per gente bigotta? Tre livelli marcano il dominio crescente di questi nemici della volontà. - Sono estranei o nemici mascherati che compiono un'invasione; - sono vinti pieni di rancore; - sono vincitori che si accettano e si blandiscono. In questo modo dunque tutte queste incoerenze dell'azione si riassumono: noi non facciamo quasi mai tutto quello che vogliamo; spesso facciamo quello che non vogliamo; finiamo per volere quello che non volevamo. Dapprima l'azione contraria al volere nasce quasi a nostra insaputa; poi si acconsente alla conoscenza che se ne ha, e quello che si faceva senza vederlo, quello che si è fatto senza volerlo, si finisce per volerlo così come lo si fa. Nella coscienza, nella decisione e persino nell'esecuzione come ci lasciamo ingannare in fretta, e a quale ingegnosa varietà di sofismi siamo pronti! I disordini e i mutamenti possibili dell'azione sembrano infiniti. Ma allora da questo versante non è compromessa ancora una volta la scienza dell'azione che avevamo la pretesa di sviluppare? Rassicuriamoci. L'utilità delle analisi pregresse non è tanto quella di mettere in evidenza certe infermità morali di cui non si conosce mai abbastanza l'estensione, quanto piuttosto di assodare fino a che punto in ogni operazione riflessa si ritrova lo stesso carattere razionale, la stessa unità sistematica. Poco importa in questa sede il senso o la qualità dell'azione. Ma mostrando che essa, anche quando è voluta involontariamente, è l'esatta contraffazione degli atti del tutto opposti, siamo preparati a fare astrazione, almeno provvisoriamente, dalla sterminata varietà delle aberrazioni e delle deviazioni possibili, perché sia nell'abuso sia nell'uso è presente un medesimo elemento. O per meglio dire il termine abuso non ha ancora alcun significato, perché in questa sede si tratta semplicemente di assodare la crescita necessaria degli atti, qualunque essi. siano. Bisogna dunque far rientrare sotto la legge comune quegli stessi atti che paiono allontanarsene maggiormente, e ricondurre a uno stesso determinismo le forme più disparate e più anormali della condotta umana. Non diamoci dunque pensiero di sapere qual è, nella lotta intima, la volontà che ha il sopravvento. Forse che la dissolutezza della voluttà non genera e non prolifica come l'amore casto? Per quanto sia meno fecondo di quest'ultimo, essa non può sempre smentire il desiderio della natura. In tal modo, sia esso soccombente o vittorioso, il volere depone nel seno dell'azione un seme fecondante. Questo germe, talvolta buttato con noncuranza in una fantasia giovanile, può assorbire insensibilmente tutta la linfa della volontà, saldando gli atti futuri nel progresso della sua irresistibile vegetazione. Quanti uomini, divenuti prigionieri di se stessi, hanno subito la fatalità di un errore iniziale, o si sono immedesimati in un ruolo che avevano cominciato a svolgere per scherzo! Di un atto voluto non si può mai dire che sarà insignificante. La volontà dichiarata e lo sforzo incoativo dell'intenzione che si realizza incontrano un'opposizione nuova negli appetiti, nelle ribellioni e nelle concupiscenze del corpo. A questo livello essi non agiscono più con la proiezione ideale nella coscienza, sotto forma di motivi e di tentazioni, ma dopo aver espresso il giudizio, nel crogiolo concreto dei desideri e delle tendenze antagonistiche. Infatti ciò che la decisione ha scartato non per questo è rimosso; e le forze della vita spontanea che avevano sollecitato la riflessione, al momento in cui si tratta di operare effettivamente ricompaiono con un carattere mutato: prima sollecitavano, adesso sono nemici. Ora questa volontà contraria che coalizza in un sistema tutte le potenze escluse spesso di fatto riesce a soppiantare la stessa volontà. Ma essa arriva in questo modo a governare l'azione solo nella misura in cui si rende a sua volta ragione o volontà. Ciò mostra chiaramente che nell'uomo tutto è segnato da questo carattere razionale, poiché si ritrova in lui fin nelle follie della passione. Ciò rivela altresì nel modo più palese come l'azione compendia e raccoglie in sé elementi estranei alla relativa semplicità dell'intenzione iniziale. Essa infatti non potrebbe avere effetto che a condizione di dominare tutte quelle resistenze che essa stessa risveglia e incrementa. È sempre necessario che l'equilibrio perennemente instabile della volontà si stabilizzi interamente da una parte, e che questa sinergia costruisca la persona, formando un sistema unico di forze vincitrici e di forze vinte. Rimane dunque da discernere meglio come l'azione diventi in questo modo una conciliazione vivente dei contrari, come essa costituisca il cemento della sintesi organica e dell'individualità cosciente, in che modo plasmi il carattere. L'azione è il cemento della vita organica e il nesso della coscienza individuale: nell'atto c'è di più dell'atto medesimo; c'è l'unità dell'agente, la conciliazione sistematica delle sue forze, la coesione delle sue tendenze. - Rilevo dapprima come si instaura nel corpo medesimo la sinergia organica. Ma l'educazione delle membra non è separata da quella del pensiero e delle stesse inclinazioni. L'azione infatti forma con la vita corporea e spirituale un unico insieme naturale. - Studio poi il ruolo sintetico dell'azione nel conflitto dei sentimenti e nell'incoerenza delle disposizioni interiori. Faccio vedere che essa opera una conciliazione dei contrari, e che coordina e subordina tutte le forze che impiega. - Dunque assodo che nella cerchia dell'individuo l'azione costituisce un circuito chiuso, che essa ci plasma il corpo e l'anima, che ottiene l'omogeneità interiore, esprimendo, confermando e completando la volontà. Tuttavia questo circolo in movimento non si chiude che per aprirsi ancora di più, e per essere il punto di partenza di una nuova espansione. In tal modo il centro di gravita della volontà e dell'azione che la realizza si trasferirà al di là dello stesso individuo. Capitolo III - La sinergia interiore e la costituzione della vita individuale tramite l'azione Qualunque sia in noi la potenza che prende l'iniziativa, dal momento in cui l'atto è consentito, dal momento in cui si compie, una cooperazione intima associa anche le tendenze opposte, e stabilisce una solidarietà effettiva tra tutte le parti del meccanismo fisico e mentale. Disperdendo lo sforzo centrale del pensiero e della libertà nella confusione dell'organismo, poteva sembrare che l'azione indebolisca in qualche modo e dissipi l'intenzione, senza che questa oscura disseminazione venga compensata. È quanto appunto ammettono tutti coloro che nella loro condotta considerano solo la decisione iniziale, e si disinteressano dell'esecuzione materiale e delle conseguenze delle loro decisioni. Sembra loro che la volontà si degradi e si perda nell'oscurità dei movimenti inferiori; sembra addirittura che essa si depauperi e si asservisca, trovando nell'azione consumata un punto d'arresto, una determinazione che esclude l'infinita ricchezza della sua virtualità originaria. A sentire loro quando agiamo ci rimpiccioliamo, diventiamo un meccanismo, ci sporchiamo le mani. Ma da un'analisi che svolgeremo risulterà al contrario che l'azione collega in un fascio le forze sparse della vita, per costituire la sintesi organica e per mettere in funzione la mediazione tra tutte le forme dell'attività corporea e spirituale; risulterà che essa arricchisce la volontà, rispondendo al primo movimento centrifugo di espansione con un movimento centripeto il cui ritorno costituisce il ritmo vitale e chiude il circuito della vita individuale. In tale analisi si dovrà vedere altresì come tutte queste apparenti amplificazioni del volere iniziale vi erano già implicate, senza pregiudicare un'espansione ancora più ampia, la quale porterà l'azione fuori dell'individualità. I. Nel nostro organismo complesso vi è unità solo per coesione, e coesione solo per cooperazione. Forse che quando vengono tese e usate in maniera energica le membra non sono collegate meglio, e i muscoli non sono più invulnerabili che allo stato di riposo e di rilassatezza? L'azione è il cemento di cui siamo plasmati. Noi non esistiamo che nella misura in cui agiamo. L'ozio è una dissoluzione, la morte una decomposizione. Il fiat della volontà non è soltanto il colpo decisivo che tronca tutte le incertezze del pensiero, che conferisce a una rappresentazione ancora fluttuante e molteplice un'unità, una solidità, una precisione definitiva, che separa radicalmente il presente dal passato e il reale dal possibile. Essa è anche, sotto una forma particolare e determinata, la funzione generale e per così dire generatrice della vita organizzata. Infatti in un'azione c'è di più di questa azione; c'è la coesione, la solidarietà, l'unione reale di tutto ciò che essa impiega e di tutto ciò che vi collabora. Ecco in base a che cosa si spiega l'unità della sintesi e in che cosa si evidenzia l'autentica individualità che le scienze positive non avevano potuto considerare che dal di fuori, come un postulato, ma di cui adesso penetriamo la costituzione intrinseca. ?? t? ???? d??e? e??a? t? ?? In effetti l'azione reale non potrebbe essere parziale, divisa, molteplice come possono esserlo il pensiero o il sogno. Quello che facciamo è fatto. O tutto o niente. E nell'operazione che aziona gli organi c'è una connessione inevitabile tra le membra. Poco importa che io sia ancora esitante e combattuto: se agisco, trascino da un lato l'intera macchina. E tutto il resto segue, per persuasione o per violenza, ma in ogni caso per necessità. Il sistema organico è interessato al minimo atto cosciente e voluto, senza ambiguità possibile nell'operazione medesima. Pertanto l'azione ingloba e coinvolge in maniera del tutto naturale le tendenze più opposte. Essa ne fa un corpo unico, ne fa il corpo. E siccome forma un sistema armonico di tutto ciò che promuove o sacrifica in noi, non potrebbe essere confinata in un organo, limitata a una funzione, essere parziale con un membro senza recare pregiudizio o risultare ingiusta per gli altri. Non c'è dunque che un mezzo per contenere, regolare e impiegare le energie diffuse in noi e gli impulsi anche ribelli della concupiscenza: quello di captarli nel sistema di un'attività generale, e di farli convergere, con l'esercizio, all'integrità della vita individuale. In questo modo il bambino non diventa padrone del suo organismo e non da un ritmo alla sua vita fisica che grazie a un esercizio armonico delle sue membra. Per dominare i suoi sensi e per ovviare alle mostruosità di una cultura disarmonica, in cui talvolta si rompe arbitrariamente l'equilibrio delle funzioni nervose, ha bisogno di agire, consentendo alle sue giovani energie l'espansione regolata che le conserva nella loro gerarchia naturale. Anche lo scolaro non forma la sua intelligenza e non mobilita la sua attività mentale che con l'esercizio, un esercizio sistematico delle sue facoltà. La cosa importante non è dunque solo quella di rilevare l'utilità o la necessità dell'azione, ma di scorgere l'unità che vi presiede e che essa produce necessariamente. Indubbiamente essa è efficace e normale solo se è una sintesi, ed ecco perché l'educazione fisica e intellettuale deve essere generale. " Speciale, bestiale ", diceva un proverbio scolastico. L'uomo è uomo solo per la vita universale che c'è in lui. Ma bisogna capire bene che, piaccia o non piaccia, l'azione possiede questo carattere universale, e per quanto limitata la supponiamo, si attua sempre sub specie universi. Grazie alla diffusione e alla connessione dei riflessi, l'atto si ripercuote in tutta la sinergia organica. Pertanto non c'è una ginnastica parziale più di quanto vi sia un'educazione speciale. In altri termini ogni attività parziale, che uno vorrebbe limitare alla parte interessata, diventa il centro dell'articolazione totale. Laddove si spererebbe di sviluppare una parte nel senso del tutto, si tenderebbe a fare di questa parte il tutto stesso. Se la " specialità " rimanesse specialità, non sarebbe del tutto male; il male è che per forza di cose dell'accessorio si fa la cosa principale, rischiando di scambiare una fiaccola per una stella e un atomo per l'universo. Anche considerando anzitutto solo l'equilibrio delle funzioni fisiologiche, la verità dell'antico e banale adagio " Mens sana in corpore sano " è suscettibile, nonostante le eccezioni apparenti, di una dimostrazione in piena regola. I biologi come Preyer ritengono che nel neonato coabitano diversi principi d'azione e, per così dire, più anime che bisogna subordinare all' " anima cerebrale ". E come si potrà stabilire la perfetta armonia dei centri nervosi, se non attraverso un esercizio regolato di tutti gli organi? Agire solamente con la testa, come i " cerebrali ", significa spesso consentire alla bestia di vivere e di crescere in basso, e non soltanto a una bestia, ma a una muta di appetiti malsani e di gusti degenerati. Meno uno è capace di agire, più diventa sfrenata l'intemperanza dei desideri, perché l'equilibrio tra i sogni e la prassi quotidiana si rompe sempre di più. " Che importa il corpo ", si dirà. " È una sciocchezza interrogare questo giocattolo; e in qualunque follia mi comprometta, spetta a lui arrossirne di fronte a me! ". Stolto disdegno. Presto o tardi si stabilisce l'omogeneità, in un senso o nell'altro. Ed è una pericolosa chimera quella di voler erigere in sé compartimenti stagni. Pertanto, come nello studio dello sforzo e della resistenza organica non abbiamo potuto separare l'inerzia materiale dall'opposizione psicologica che ne è la vera spiegazione, così afortiori qui, nello studio dell'azione e del ruolo che essa svolge per la formazione dell'individualità, non si potrebbe isolare la sinergia degli organi dall'armonia delle funzioni psicologiche. I fenomeni corporei che accompagnano ed eseguono le nostre decisioni sono, in un certo senso, più che i segni o i simboli degli stati propriamente soggettivi ai quali corrispondono; si può dire, se interpretiamo bene, che ne sono la realtà medesima. Quindi l'attenzione diventa più intensa solo se c'è realmente una tensione più grande degli organi. Mentre nella coscienza c'è irradiazione, in più sensi e a diversi livelli, di immagini, di desideri e di movimenti incoativi, entra in gioco un'azione che, concentrando talvolta violentemente queste energie diffuse, le subordina tutte a un sistema unico, e ottiene la convergenza dei pensieri col concorso delle operazioni organiche, drenando in questo modo tutta l'attività disponibile, per formare col corpo e con lo spirito unicamente uno stesso insieme espressivo. Perché allora lo sforzo della produzione intellettuale talvolta è così doloroso, più che il parto che lacera il seno, al punto da sembrare che pensare sia contro natura? Perché per vivere e crescere questo pensiero deve comunicarsi a tutte le parti ribelli il cui concorso è necessario per esprimerlo; perché per raccoglierne gli elementi, come per manifestarne la vita completa, occorre estrarlo da tutte le nostre membra e produrlo attraverso tutti i nostri pori. Peraltro anche un sentimento, una passione non si ravviva che interessando più largamente e più profondamente l'organismo morale e fisico tutt'insieme. La memoria è legata alle funzioni di nutrizione; il meccanismo del pensiero è il motore: esso agisce tramite muscoli e sui muscoli. La realtà degli atti di coscienza consiste negli atti di cui essi ci rendono edotti e che ci consentono di rischiarare e di produrre. È dunque assurdo pretendere di isolare l'educazione del corpo da quella della volontà o dello spirito. Come il pensiero che rimane estraneo alla prassi militante della vita resta vuoto e illusorio, allo stesso modo lo sport che non è altro che sport distrugge l'equilibrio naturale e l'integrità dello sviluppo umano. Come la ginnastica produrrebbe dei mostri se esercitasse solo un membro, allo stesso modo la cultura, anche la più scientifica, dello spirito e del corpo finirebbe unicamente in una bancarotta per l'uno e per l'altro, se si occupasse separatamente dell'uno e dell'altro. Nel gioco è il gioco, più che l'esercizio, a essere salutare e a risollevare l'energia affievolita. Nel lavoro la resistenza fisica è il segno, il prezzò, il sostegno della forza interiore di una volontà abituata a passare oltre. La vita rude del contadino è meno utile alla nazione per gli alimenti che le procura che per la forte fibra del temperamento e del carattere che il contatto con la terra conferisce all'uomo. E se bisogna onorare questi membri attivi che accudiscono coraggiosamente alle mansioni necessarie, è perché nella forza, nella bellezza e nella salubrità del lavoro corporeo essi esprimono e operano al tempo stesso il risanamento morale, la pacificazione interiore, il vigore della volontà. Dunque non è certo risparmiando le nostre forze che le preserveremo meglio e ne otterremo il maggior rendimento. Non bisogna ragionare come per una bestia da soma, limitata ai movimenti dell'istinto, o come per una terra che si esaurisce quando nutre la pianta prodotta. Indubbiamente nella vita animale ogni dispendio usura e impoverisce l'organismo, e l'esaurimento dei sensi ne sovreccita la suscettibilità e le esigenze malsane. Pertanto è triste sentire che i movimenti della vita superiore restano soggetti al ritmo delle funzioni organiche. Tuttavia nella misura in cui l'attività volontaria pervade e domina le potenze del corpo, ne ricava un vantaggio. Essa vi trova un'eco in questa ragione immanente che può provocare le esigenze infinite della passione, ma può anche rispondere con un'inesauribile generosità all'appello dell'eroismo. È una tattica sbagliata quella di cedere alla rilassatezza, di ascoltarsi, di prendersi con le molle. Solo usando la nostra energia, proprio quando sembra che la sacrifichiamo e la mortifichiamo, la reintegriamo e l'amplifichiamo. In questo campo dell'azione volontaria più si spende, più si possiede. Caro operando deficit; spiritus operando proficit. Come il chirurgo, che durante l'operazione rimane impassibile di fronte al sangue perché sta operando, mentre talvolta non ne potrebbe sopportare la vista se fosse uno spettatore passivo; come il soldato che nella foga della lotta non avverte di aver già ricevuto parecchi colpi mortali; come lo scienziato o il mistico in estasi, trasportato nella contemplazione alla quale è appesa l'intera sua vita, sembra un paradosso fisiologico in quanto assorbe tutte le funzioni animali nell'unità di un pensiero o di un sentimento, così non c'è limite assegnabile alla cooperazione del corpo, alla sua forza di resistenza, alla sua potenza morale, perché l'azione lo unisce e lo solleva all'inesauribile fecondità della ragione e della libertà. La migliore igiene non è quella di aver cura del corpo mediante il solo corpo; e nello stesso ascetismo si ha un principio di ringiovanimento, di salute e di vigore. Arcum frangit intentio, corpus remissio. In tal modo dunque, se una decisione è completa e sussiste solo impegnandoci e plasmandoci interamente, a sua volta l'azione, grazie a un progresso della volontà iniziale nell'organismo, partecipa dell'integrità e della forza dell'intenzione superiore da cui procede. Per usare in questa sede, senza alcuna pretesa metafisica, le buone espressioni antiche, nonostante le distinzioni artificiose da esse favorite, è tramite l'azione che l'anima prende corpo e che il corpo prende anima; essa ne è il vincolo sostanziale, e ne forma un tutto naturale. In noi la trascendenza implica l'immanenza. La gente ha quindi ragione quando in maniera del tutto ingenua parla materialmente delle affezioni morali, quando per lei la persona è l'unità indistinta di una vita corporea e spirituale a un tempo. " Il cuore, la testa ", non si tratta soltanto di metafore atte a designare la generosità del carattere o la fermezza dello spirito, ma è l'espressione di una realtà sperimentata quotidianamente. Non ci si meravigli del culto reso a un cuore che ama. L'incarnazione del pensiero e del sentimento è una verità umana, la verità non è umana che incarnandosi. In sintesi l'azione, qualunque essa sia, scuote e mette in azione tutta la macchina. Dal momento in cui l'operazione voluta si compie in noi, c'è di fatto sinergia e concorso. È una sintesi vivente. Quante idee e sentimenti possiamo mettere in un atto assolutamente semplice e rapido, in una stretta di mano! Ora questa unità degli atti ha come corollario necessario la solidarietà della vita fisica e della vita morale. L'azione fa partecipare l'organismo materiale all'intenzione che l'anima, come pure fa riflettere nei nostri stati di coscienza le abitudini del corpo, e associa strettamente questo corpo ai movimenti del pensiero, tanto da farne uno strumento sempre più vibrante e docile ai tocchi segreti della volontà. Ma adesso bisogna comprendere come questo determinismo in apparenza brutale, che sembra escludere tutti gli atti possibili eccettuato l'unico compiuto, e pare condannare la volontà a un duro assoggettamento, invece è per essa un mezzo di conciliazione e di liberazione. II. Dal momento in cui è stata presa la libera decisione, essa si è trovata subito afferrata da un ingranaggio che a poco a poco l'ha trasformata. Infatti la decisione per rimanere sincera ha dovuto impegnarsi nell'esecuzione. L'esecuzione esige sforzo. E nello sforzo indispensabile all'operazione volontaria è apparsa una nuova necessità ancora: l'azione può prodursi solo suscitando una lotta intestina e uscendo vincitrice fin dall'inizio sul sistema antagonistico che si è formato contro la sua iniziativa. Quindi per forza di cose l'operazione nel momento in cui si compie investe l'insieme organico e mentale. E se è vero che questa unità totale ed esclusiva dell'atto contribuisce alla dipendenza mutua del " corpo e dell'anima ", ciò non avviene a detrimento della ricca varietà del pensiero o dell'infinita potenza della libertà? No. Assoggettando la volontà all'angusta ristretta semplicità di un esito unico, l'azione costituisce per essa la via dell'espansione e dell'arricchimento. Un grande sforzo da fare, una decisione virile da sostenere producono un sentimento di rinascita e di lucidità più vivo. Finché non si agisce, non ci si conosce. Vivere e pensare come in un sogno, come in un breve istante di lucidità tra due periodi di sonno, senza avere sufficiente stimolo ad alzarsi, ad aprire gli occhi, a vedere e camminare non costituisce forse l'unico atteggiamento che abbiamo dovuto condannare decisamente fin dall'inizio, perché è contrario al movimento più genuino e fondamentale della nostra natura? Ora come conoscere tutto ciò che si agita nel nostro universo interiore, come sapere se si ha un'attenzione abbastanza lucida, un'intenzione abbastanza precisa, un ardore abbastanza vivo, una volontà autentica? Ma appunto non c'è bisogno di saperlo in via previa. La garanzia e il criterio della sincerità è l'atto, il quale tronca le incertezze e manifesta i segreti più intimi che ignoriamo e nascondiamo a noi stessi. Esso quindi è una rivelazione sul nostro stato profondo. Manifestando il male cui siamo inclini, persino le mancanze possono servire come avvertimento premonitore e corroborante. Ogni caduta deve essere una promozione. Di solito le azioni sono in anticipo rispetto al bene che sembrano rivelare in noi ancor prima che vi si sia acclimatato, e sono in ritardo rispetto al fondo malvagio di cui paiono essere una manifestazione eccezionale, anche quando esso è abituale. Questa scoperta è tanto più importante in quanto è in contraddizione con l'idea illusoria del nostro merito. Pertanto è osservando i nostri atti, più che i nostri pensieri, che dobbiamo sperare di vedere quali siamo e di farci quali vogliamo. Come si getta il solcometro nell'acqua profonda per misurare la velocità della nave, così le azioni che emergono dalle profondità della vita inconscia devono servirci per studiare le correnti che ci trascinano, talvolta a nostra insaputa. Dandoci una lucida coscienza di ciò che vogliamo e di ciò che siamo, l'atto è per noi un segnale e un aiuto, come le figure geometriche aiutano il pensiero astratto con la rappresentazione materiale. Esso ci fornisce una definizione concreta dell'idea che esprime. E come ogni percezione distinta è una specie di cibo che accresce la nostra forza, la vista di ciò che facciamo è per noi un incoraggiamento, talvolta un entusiasmo e un'ebbrezza, come per Scevola il suo atto di singolare eroismo. Prole audacior actus. Si può dire che c'è un'azione dell'azione. Se si incontrano dei timidi che il solo suono della loro voce terrorizza, altri non pensano mai così bene o non pensano che parlando forte e chiaro. Talvolta addirittura agire per agire è un rimedio utile a coloro che non ne hanno altri, come certe cure che sono superflue per la persona morente ma sono salutari per coloro che la circondano. L'azione non soltanto serve a rivelare ciò che in noi è la cosa più forte, e talvolta persino ciò che è più forte di noi, ma spesso costituisce altresì un centro solido, nell'indifferenza e nella confusione degli stati inferiori, il quale diventa come il nocciolo del carattere. Quante volte vogliamo solo dopo aver agito e perché abbiamo agito! La vita del bambino alterna desideri opposti e movimenti capricciosi. Egli costruisce e distrugge, e ben presto si stanca di tutto: è un'anarchia vivente. Perché in lui si organizzi un sistema, e le sue forze si raccolgano in un fascio, occorre che impari a seguire decisamente una delle sue tendenze escludendone altre. L'educazione deve aiutarlo a questa cristallizzazione, come il filo che affonda nel bagno di zucchero candito. Dargliela sempre per vinta, non contraddirlo e non rifiutargli niente significa rovinarlo sistematicamente, significa rendergli incomprensibili i suoi desideri. Egli finisce per non sapere più ciò che vuole. Desidererebbe desiderare, e si irrita perché non lo deve più fare e non lo può più fare. Per ottenere questa unanimità interiore l'atto ha un'efficacia perentoria. Per conoscere, nello sconcerto dei sentimenti, la ferma decisione cui si arresta la volontà, non abbiamo che da chiederci se con tutta la calma della riflessione compiremmo un'azione semplicissima, da cui dipenderebbe ciò che abbiamo deciso, abbandonandoci per esempio a colui al quale vogliamo obbedire e al quale ci affidiamo con una promessa di sottomissione o con una carta in bianco. Proprio perché l'azione manifesta, fissa, conferma e produce persino la volontà, essa serve di garanzia alle promesse ed è come la sostanza degli impegni irrinunciabili. Ciò che suggella il contratto, ciò che stringe il vincolo nuziale, ciò che consacra il diacono, è una firma, una parola, un passo, ossia sempre un atto che domina con la sua unità decisiva tutte le divisioni intestine, e che impegna per sempre tutte le potenze probabilmente ancora incerte o esitanti. È letteralmente un bruciare le proprie navi. Si può sempre agire, per quanto poco ciò implichi e per quanto ci si senta combattuti. Questo esiguo principio di iniziativa che, se vogliamo, è invincibile, diventa come la leva della nostra liberazione. Infatti appoggiati alla solidità di ciò che è fatto, e come avendo alle spalle il muro superato, siamo passati dalla difensiva all'offensiva. L'azione è una conquista. In tal modo agendo riusciamo a volere ciò che, a quanto sembra, dapprima non potevamo volere, ciò che non volevamo veramente per mancanza di coraggio e di forza, ciò che vorremmo volere. Infatti determinandoci a volere, non sempre seguiamo l'ultimo giudizio dell'intelletto. Ma volendo, subiamo sempre l'influsso di tutte le nostre inclinazioni e delle nostre abitudini. Parlando correttamente, noi non vogliamo volere, perché si potrebbe dire ulteriormente che noi non vogliamo volere volere, e ciò all'infinito. Noi vogliamo agire e fare, ossia la volontà si offre a se stessa solo nella figura di un uso determinato. Bisogna dunque prendere una scappatoia e usare destrezza; e di solito solo con azioni volute noi contribuiamo indirettamente ad altre azioni volontarie. In tal modo, per quanto non si possa sempre giudicare o volere ciò che si vuole, è sempre lecito ottenere che si giudichi o si voglia col tempo ciò che si preferirebbe poter volere o giudicare oggi. In questo lavoro della conversione o della perversione impercettibile vengono adibiti mille espedienti per far proprio un motivo d'azione dominante fino al punto da ritrovarlo del tutto naturalmente in noi stessi. Come per Francesco Borgia, che volendo smettere il vizio di bere faceva cadere ogni giorno una nuova goccia di cera nella sua coppa. Le astuzie anche puerili, i piccoli sotterfugi, le promesse allettanti, le minacce, i falsi scopi, la fuga, tutto giova a seconda delle circostanze per governare la bestia, il bambino e l'uomo che ognuno porta in sé. Non bisogna parlare a tutte le nostre potenze lo stesso linguaggio, proprio come il capo di famiglia non comanda allo stesso modo agli animali, ai servi, ai figli e alla moglie. Ma da tutti si deve esigere lo stesso concorso, perché nell'azione occorre potersi fidare di tutti. In effetti voler agire significa lasciare le briglie a quelle forze infinitesimali che ci guidano più di quanto noi guidiamo loro. Come negli affari di uno Stato, in noi molti affari vengono espletati tramite agenti che non vengono resi noti. Ed è duro vedere che nonostante tutta la nostra circospezione siamo guidati da disposizioni momentanee che è impossibile calcolare in anticipo, con sicurezza. Dopo le più prolungate deliberazioni, la decisione è sempre opera di un istante. Poi, una volta superato questo punto critico, l'atto svolge senza fine e senza ritorno le sue conseguenze, quali che siano le fluttuazioni che l'hanno preceduto. In tal modo, poiché la volontà si propone non di volere ma di agire, quanto è importante che questo stesso agire sia già una forma genuina del volere! Per questo è prudente esercitarsi in anticipo nella lotta, provocare alla battaglia quegli avversari segreti finché sembrano indeboliti e smascherati, abituarsi a vederli come sono, prima del momento delle sorprese e delle illusioni. È bene prevedere, analizzare e far funzionare tutte le passioni e tutti i vizi, - tranne uno, quello appunto che si rende principale o unico alimento della curiosità, dei romanzi o degli spettacoli! Così, mentre ci si sforza di plasmare sentimenti generosi o di affrontare decisioni che ripugnano alla pusillanimità, li si imprime a poco a poco fin nella macchina organica con una specie di ipnotismo e di suggestione insistente. Anche quando non sentiamo tutto ciò che diciamo o facciamo, quando non abbiamo che un desiderio di autentici desideri, quando le parole e gli atti procedono dall'abbondanza del cuore meno che da una costrizione arida e ripugnante, ciò produce un effetto, scende a poco a poco nella realtà della coscienza, diventa la nostra vita. Talvolta sembra che vi sia mancanza di sincerità nel richiedere ciò che si teme, e nel fare ciò che è ancora odioso. Ma purché la volontà, nel suo estremo di superiorità e di impassibilità, ratifichi l'espressione del desiderio che non si prova o la violenta brutalità dell'atto cui essa è contraria, ciò basta. Viceversa è sufficiente che questa volontà superiore trovi una eco docile in ciò che vi è di più meccanico e di più bruto, perché contenga a poco a poco e domi tutte le ribellioni della vita media. Noi possiamo tenere a freno le nostre membra anche quando non possiamo fissare i nostri pensieri e i nostri desideri. Come per assediare una piazzaforte la si circonda di trincee convergenti, così la volontà nel tentativo di raggiungere la perfezione del suo libero movimento attraverso le resistenze accumulate usa una tattica a due tempi: siccome è più facile comandare agli ingranaggi del meccanismo animale che alle disposizioni interiori, spesso la generosità spontanea del sentimento si insinuerà nel cuore tramite l'operazione materiale, e dal cadavere smosso la vita risalirà allo spirito. È quindi a torto che talvolta si sono opposti due metodi di formazione dell'uomo, quello che fa produrre il frutto degli atti dalle affezioni segrete e intime come dalla sola radice feconda, e quello che fa germogliare le disposizioni interiori dalle azioni stesse come da un seme. Si tratta di un unico e medesimo metodo, proprio come il frutto non è altro che il seme. Indubbiamente è necessario dapprima che l'intenzione abbia attinto la sua linfa nelle pieghe più profonde della vita soggettiva. Ma abbiamo già visto per quali canali sotterranei scorre l'acqua che zampilla alla luce della riflessione. E l'azione voluta contribuisce precisamente ad abbeverare queste sorgenti più lontane. Infatti, se ci si aspettasse che l'armonia interiore e la pace si facessero automaticamente, si andrebbe direttamente contro l'aspirazione più genuina della volontà. Chi non fa è sconfitto. Non basta quindi volere semplicemente, quando si può e come si può, perché non si vorrebbe per molto tempo. Siccome ogni azione che passa alla fase di esecuzione fa ricorso necessariamente a una costrizione per raccogliere e collegare le forze sparse; siccome essa è il segnale di una guerra civile in cui vi sono dei morti e dei feriti; siccome noi non andiamo avanti se non schiacciando in noi e sotto i nostri passi un'infinità di vite, la guerra è dichiarata qualunque cosa facciamo. E se non prendiamo noi l'offensiva contro i nemici della volontà, sono loro che si coalizzano contro di essa. Bisogna battersi. Chi fugge la battaglia, per forza di cose perderà la libertà insieme alla vita. Anche nei migliori vi sono tesori di malizia, di impurità e di passioni meschine. Non dobbiamo lasciare che queste potenze ostili si coalizzino in abitudini e in sistemi; dobbiamo dividerle per l'offensiva. Bisogna sforzarsi di unire le forze leali contro l'anarchia prima che venga il tempo delle coalizioni, delle complicità e dei tradimenti. A priori tutto sembra così facile! Ci crediamo armati contro le spinte pericolose. Ma ci imbattiamo mai proprio in quello che avevamo previsto? E il fattore inatteso decide quasi sempre di tutto. Pertanto, per cautelarsi dalla vertigine dell'ultimo istante e dai sofismi della coscienza travestita, i quali dimostrano che quell'atto è permesso o quel piacere è legittimo, bisogna abituarsi a prendere l'iniziativa e a fare ben altro che evitare ciò che non si deve fare. Bisogna poter rispondere con la forza dell'esperienza pregressa: " anche se questo è legittimo, io voglio privarmene ". Dunque contro i movimenti involontari non è sufficiente volere, perché si resterebbe sorpresi e la stessa volontà verrebbe meno. Non è neppure sufficiente resistere, perché si sarebbe vinti. Occorre agire direttamente contro il nemico senza attenderlo, occorre provocarlo e suscitare con la lotta stati di coscienza nuovi, in modo da domarlo preventivamente e da captare fin nella sua scaturigine la fonte delle spinte rivoluzionarie. Agere contro. L'azione voluta è il principio dell'azione sempre più volontaria e libera. E non è mai un'impresa conclusa o una conquista consolidata. Questa costruzione vivente è continuamente instabile, quasi sul punto di disperdersi. Bisogna dunque sempre riscaldare con un soffio nuovo questi alleati pronti alle defezioni, e concentrare il calore dell'anima per così dire in un fuoco, in modo da fondere insieme tutti gli elementi necessari all'atto, il quale non può essere fuso in un solo blocco. Il fatto di aver agito non esonera dall'agire: nella vita morale non si vive di rendita. Pertanto si capisce che quando vogliamo agire perseguiamo, instaurando un circuito, il progresso della volontà medesima. Macinando il grano duro dell'azione comandata implacabilmente, si ottiene il cibo delicato e nutriente della libertà. III. A uno sguardo superficiale sembrerebbe che la necessità di racchiudere l'intenzione nell'angusta lettera di un atto, e di escludere così tutte le altre alternative che si prospettano alla magnifica vivacità del pensiero, non sia che intralcio e schiavitù. Ma uno sguardo più penetrante coglie in questa accaparratrice gelosia dell'azione solo un istinto segreto della volontà e un intento di pace, di concordia e di unità. Essa ci aiuta in maniera morbida, insinuandosi impercettibilmente, a volere ciò che vogliamo volere. Coordina e disciplina tutte le energie, raccoglie le tendenze contrarie in una forza composita, e orienta verso il fine voluto tutto ciò che in noi si può convenire a essa. Fa passare all'atto anche ciò che è opposto alla volontà dichiarata. Non omettendo nulla, e nella sintesi che essa forma con tutti gli elementi della nostra vita complessa, li ingloba e li coinvolge come in una rete invisibile. L'atto volontario, nel momento stesso in cui pare materializzarsi e restringere la volontà, viceversa la dilata e in qualche modo l'arricchisce. Anima operantium impinguabitur. La prassi riesce a compiere, senza soluzione di continuità e senza pretese, quel prodigio rispetto al quale falliscono le speculazioni astratte: unisce in una nuova sintesi le tendenze opposte, le quali sono tutte, vittoriose e vinte, rappresentate, riformate, trasformate nell'atto compiuto, perché c'è inevitabile solidarietà, solidarietà congruente con l'aspirazione della volontà tra parti che potrebbero essere indipendenti solo in un chimerico stato di indifferenza completa o di riposo assoluto. Indubbiamente agire significa tenere a freno certi desideri, mortificare certi organi per dare soddisfazione e per vivificarne altri. Ma non per questo il movimento combattuto e respinto è perso. Esso serve a modificare e a precisare il movimento prodotto. E soprattutto contribuisce ad arricchire con una specie di bottino conquistato la volontà vincitrice. Abbiamo appena mostrato il sacrifico apparente preteso dallo sforzo, dalla lotta e dalla stessa vittoria; ma in fin dei conti bisogna comprendere il guadagno reale di questa mortificazione, anche per il fattore vinto. In effetti l'azione non è come un'analisi logica dei motivi, nella quale con una scelta esclusiva della libera decisione si considerano le idee separate nella loro purezza e nella loro irriducibile opposizione. Essa non è neppure una conciliazione astratta dei contrari nella regione dei possibili, e ancora meno uno sviluppo di forze incoerenti che si disseminerebbero a raggiera nell'organismo inabissandosi nell'inconscio. È invece una concentrazione sistematica della vita diffusa in noi, è una presa di possesso di sé. Rivelando ciò che si agita oscuramente nelle profondità ignote della vita, porta alla luce e raccoglie in un fascio visibile quei fili impalpabili che formano il reticolo dell'individualità. È come un rete gettata in mare aperto: le maglie della rete ritornano chiudendosi e diventando sempre più cariche. Grazie all'azione dunque il meccanismo vitale si mantiene e si rinsalda. Tale meccanismo, formato da un assemblaggio di parti, ottiene la coesione solo col concerto ideale delle funzioni. Grazie all'azione la diversità delle tendenze antagonistiche, senza essere abolita, si fonda su un accordo meno effimero, e si opera ciò che le scienze naturali chiamano l'ontogenesi, ossia l'evoluzione particolare, e per così dire circolare e chiusa, di ogni individuo. Che cosa bisogna intendere in effetti con questa conciliazione dei contrari di cui l'azione diventa il principio? E in questo caso che cosa sono i contrari? Questo: dei motivi differenti, che con la riflessione si erano liberati dall'automatismo psicologico. Ora la decisione, costretta ad adottarne uno escludendo gli altri, ne ha fatto degli avversari in apparenza irreconciliabili, perché occorre che tutti cedano il passo davanti a quello preferito. Ora che cosa si propone la volontà, e che cosa la induce all'azione? È l'intento di ritrovare se stessa attraverso gli ostacoli che, separandoci per così dire da noi stessi, le impediscono di essere già ciò che essa vuole, e di andare liberamente verso ciò che vorrebbe volere e ottenere. Quindi le tendenze contrarie alla volontà in atto rappresentano in noi questa barriera provvisoria e mobile che noi desideriamo abbassare e arretrare a poco a poco davanti ai progressi della libertà maturata. E se l'azione coinvolge nella sua unità violenta le potenze recalcitranti, ciò avviene proprio perché esse sono la posta in gioco di questa volontà futura, e vi si raccolgono impercettibilmente. Pertanto in ciò che sembra assolutamente opposto al nostro volere presente vi è un segreto elemento di conformità con questo volere medesimo. Ciò che blocca e contraddice l'azione al suo inizio troverà un impiego nuovo nell'azione realizzata. E dal sacrificio apparente richiesto dalla mortificazione naturale dei desideri compressi si avrà come risultato il guadagno reale che la conversione dei moti ribelli apporta alla volontà. In tal modo diventa intelligibile la forma dapprima paradossale della crescita della volontà. Sembrava che per entrare in esercizio la volontà dovesse necessariamente restringersi. Adesso è palese il senso di questo determinismo. E osserviamo bene che qui poco importa l'orientamento delle intenzioni che si qualificano buone o cattive. Infatti, sia esso buono o cattivo, l'atto persegue lo scopo in tutta la sua genuinità. Nessuno si sottrae alle conseguenze di una decisione che ferisce il proprio sentimento del giusto; ma in seguito sarà la stessa persona che giudicherà? Sì, la stessa persona, ma trasformata dalla sua condotta, abile nell'assolversi, di solito incapace di accusarsi o di emendarsi. Peccato davvero che le conseguenze della nostra iniziativa siano determinate dai fatti e non dalle giustificazioni! Se almeno la vita fosse un calcolo che si potesse rifare una seconda volta. Ma ciò equivarrebbe a credere che si correggerà una sottrazione sbagliata facendo un'addizione giusta. Nell'azione manchevole c'è una terribile costrizione che dapprima può cambiare un uomo onesto in una persona furba, e poi può riconciliarlo con questo stesso cambiamento, per la semplice ragione che una nuova colpa si prospetta alla sua coscienza come la sola cosa buona ormai per lui. - Questo determinismo è analogo sia nell'opera della perversione sia in quella della conversione. Occorre prestare attenzione esattamente a questa necessità inerente agli atti. I " contrari " sono dunque il costo previsto e la posta in gioco prospettata alla volontà. Quando si agisce è in gioco non solo la volontà dichiarata che ottiene la vittoria in ciò che ha voluto, e che si afferma manifestandosi così come era, ma anche la volontà che ottiene la vittoria in ciò che non voleva, e che estrae dalle stesse resistenze l'oscuro desiderio che cospirava non essa. Essa quindi non si nutre solo della propria sostanza e sul campo acquisito, ma anche della sostanza dei suoi avversari e sulle terre conquistate. Restituendo alla vita spontanea alimenti già digeriti e vivificati, essa opera una specie di transustanziazione, nella misura in cui grazie a essa la legge dello spirito pervade la legge delle membra. Pertanto i progressi migliori e più profondi sono spesso quelli meno avvertiti, perché fanno davvero corpo con noi. La cosa importante è regolare con diligenza il senso dei dettagli usuali, il corso quotidiano della vita. Infatti nelle circostanze decisive noi siamo ciò che siamo stati, e cambiarne con grossi biglietti la moneta spicciola che bisogna accumulare pezzo per pezzo. L'individualità umana è dunque una sintesi insieme organica e psicologica, e questa sintesi è il risultato di una sinergia. È così che si determina la vita individuale, si profila il carattere, e la persona riceve la sua forma sostanziale, perché talvolta anche un solo atto è sufficiente a trasformarla. Penetrando grazie all'azione in questo mondo oggettivo che porta in sé, il soggetto gli comunica la propria vita. E, riprendendo per così dire la trama del lavoro per completarlo, come quando si riprende il filo per bloccare la maglia di un tessuto, egli raccorda i fenomeni ancora esteriori e fluttuanti alla realtà intima della volontà, offrendo loro la possibilità di partecipare alla solidità della riflessione e della libertà. Di modo che ogni atto è all'origine un'unità indivisibile nella quale l'iniziativa umana e il contributo dell'universo si incontrano. Così le due forme di fenomeni di cui avevamo già esibito la relazione scientifica, i fatti che la coscienza si rappresenta come oggettivi e i fatti la cui trama costituisce la vita propriamente soggettiva, si uniscono per formare una realtà nuova. Completandosi reciprocamente, la volontà prende corpo e si incrementa nell'oggetto in cui opera, e i fenomeni, ancora estranei alla vita inferiore, assumono anima e coscienza nella volontà che li impiega in vista dell'azione. La libertà, che all'origine era solo immune dalla necessità antecedente, immunitas a necessitate, diventa una volontà piena e padrona di sé, una volontà che sa e può volere, una volontà liberata a poco a poco da ciò che le impedisce di vedere, volere e fare, una libertà più libera, immunitas a servitute, liberum consilium. Nel sentimento indistinto di questa conciliazione arricchente bisogna vedere il segreto del piacere, frutto dell'azione. C'è piacere quando un elemento estraneo si incorpora all'organismo, quando l'organismo stesso partecipa maggiormente alla vita soggettiva, quando grazie a un movimento di concentrazione dal di fuori al di dentro l'energia centrale e la volontà risultano accresciute, comprese, obbedite. Ecco perché il piacere si aggiunge all'atto, non per renderlo perfetto, ma per testimoniare che è perfetto, ossia che un circuito si è appena chiuso, che c'è un ritorno o uno sbocco nell'attività. Ecco anche perché il piacere, nel momento stesso in cui funge da ricompensa, serve anche da incoraggiamento, da forza e da attrattiva per l'azione. Infatti sembra che nel piacere la volontà ritrovi se stessa. Essa si raccoglie attraverso l'oggetto che assimila a sé, come se, rimanendo ovunque presso di sé, dovesse costituire il vincolo universale, e rendere sottomesso e immanente a se stessa il mondo intero che si compendia nella nostra vita. Ma anche qui si rivela l'inconsistenza necessaria e l'insufficienza incurabile di questa vita individuale, per quanto il suo sviluppo circolare appaia saldamente stretto in un nodo. Se l'azione concilia le tendenze ancora incoerenti e procura questo benessere che nasce da una crescente armonia, questo stesso sentimento è l'indice e il principio di un movimento che rinasce. È una fine, ma anche un nuovo inizio. Il determinismo dell'azione la porta sempre al di là. Infatti nello stato passivo che fa seguito all'iniziativa volontaria riappaiono le contrarietà talvolta dolorose e l'incompatibilità dei desideri o delle affezioni che già prima avevano suscitato la decisione e lo sforzo. Infatti non è certo tutto d'un colpo che in noi l'azione unisce tutto, converte tutto, pacifica tutto. Essa stessa, prendendone coscienza, rompe l'equilibrio che aveva ristabilito. Le radici tagliate germogliano di nuovo, i bisogni soddisfatti rivivono, la volontà divenuta più forte e più estesa non soltanto aspira a restare padrona del terreno conquistato, ma a estendere i suoi successi: chi non avanza più indietreggia. Non si smonta una macchina durante il suo funzionamento. In tal modo, perché si conservi e si confermi l'unità dell'individuo, occorre che un'assidua cooperazione associ le sue forze, e che l'equilibrio perennemente minacciato sia di continuo restaurato, come in una marcia, la quale di fatto non è altro che una caduta sempre bloccata. Si è molto discusso sull'idea di sostanza: ricondotta a ciò che in questa sede ne evidenzia l'analisi, la sostanza dell'uomo è l'azione, ciò che egli fa. ?? t? ???? t? ??. Noi non siamo, non conosciamo, non viviamo che sub specie actionis. Non soltanto l'azione manifesta ciò che eravamo già, ma essa ci fa anche crescere e ci fa, per così dire, uscire da noi stessi. Di modo che dopo aver studiato il progresso dell'azione nell'essere, e il progresso dell'essere per mezzo dell'azione, occorre ormai trasferire fuori della vita individuale il centro di gravita della volontà coerente con la legge del suo progresso. Nella cerchia dell'universo che portiamo in noi, in mezzo a questa lotta intestina delle tendenze refrattarie alla piena coscienza e alla volontà, l'azione non è adeguata alle sue condizioni totali. Essa non è l'espressione integrale e definitiva della vita unificata, utilizzata, armonizzata nella sua interezza. Ora la sproporzione dell'azione rispetto alla causa efficiente è esattamente ciò che fa sorgere e spiega la causa finale: si va avanti soltanto se, indietro o sul posto, non si è in una condizione di sicurezza o di sufficienza. È dunque la pienezza della nostra volontà originale che rende conto della nostra esigenza inappagabile e ci proietta sempre più lontano. ?????? ?? st??a?. Pertanto non si agisce tanto per agire, e senza proporsi uno scopo. Nella sterminata varietà degli oggetti che essa sembra perseguire come uno scopo esteriore e superiore, ma che in realtà ingloba e domina, la volontà cerca sempre se stessa. Come la libertà formale non aveva preservato la sua autonomia che imponendosi l'eteronomia di un'obbligazione pratica e di uno sforzo, così allo stesso modo la persona non nasce nell'individuo, non si costituisce e non si conserva, che assegnandosi un fine impersonale. È questa la grande verità di cui vi è una percezione nel sentimento popolare. L'uomo non è sufficiente a se stesso, ma è necessario che agisca per gli altri, con gli altri e tramite gli altri. Non è possibile sistemare da soli gli affari della nostra vita. Le nostre esistenze sono talmente collegate che è impossibile concepire una sola azione che non si estenda, con ondulazioni infinite, ben al di là del fine cui sembrava tendere. Le azioni più insignificanti possono arrivare, assai lontano, a sconvolgere una vita oscura, a far uscire uno sconosciuto dal suo egoismo, e a provocare colpe o dedizioni che nel loro insieme concorrono a creare la tragedia umana. La coscienza individuale, che lo sappia o no, è una coscienza dell'universale. Pertanto, dopo aver mostrato che il dovere esiste e che la volontà deve agire, ?t? ?st??, a poco a poco emerge ciò che la volontà deve essere e fare, ? ?st??. Non che adesso occorra fare appello alla buona volontà: anche in questa sede si vuole semplicemente scoprire il determinismo dell'azione volontaria. Si tratta di avviarlo al suo termine necessario, una volta poste le premesse così come sono state poste. La zizzania cresce come il buon grano. Egoismo e disinteresse seguono la medesima legge, per quanto l'applichino differentemente: noi non possiamo mai bastare a noi stessi. Per riuscire a essere meglio e più completamente uno, non dobbiamo e non possiamo restare soli. La volontà dunque tende normalmente a un fine che sembra esserle esteriore; essa si espande. Da sintesi che già era diventa l'elemento di una società più ampia di noi. In effetti in noi stessi ci imbattiamo in una molteplicità e in un contrasto di desideri che non possiamo armonizzare tutti, perché come i pezzi spaiati di un intarsio aspettano i pezzi complementari per combaciare. Come dunque lavorare per tutto noi stessi, e soprattutto per quello che in noi sfugge alla coscienza distinta e alle decisioni esplicite, se non consacrandoci a qualche opera il cui interesse è troppo generale per non oltrepassare i calcoli riflessi? L'amore integrale di sé deve perdere terreno e annegare nell'oceano dell'io. C'è in noi un sentimento oscuro e permanente di tutte le vite estranee alla nostra, di queste vite che tramite la conoscenza vi si sono concentrate per alimentare e sostenere la nostra attività. Volentieri siamo propensi a credere che da queste profondità si sollevi la nebbia che vela sempre a metà la coscienza, a ritenere che rompendo ogni legame con le nostre origini ci apparterremmo maggiormente. E ci sembra che avremmo tutto da guadagnare a rifiutarci a chiunque. No, senza questo impersonale percepito vagamente noi non ci vedremmo, come in un cristallo trasparente. L'egoismo ci acceca. Noi ci possederemo meglio se usciamo dalla vita individuale, e ci leghiamo non a noi ma ad altro. Il bambino vive ancora soltanto per sé; e perciò non è ancora in sé. Non si preoccupa affatto degli altri, del loro giudizio o del loro piacere. In lui la ragione appare, ed egli diventa una persona, dal giorno in cui sa attribuire un io agli altri, contro se stesso, dal giorno in cui partecipa alla persona dell'altro, sia pure a proprie spese, e dal giorno in cui fa uno sforzo con se stesso per non essere ingenuamente il centro di tutto. In effetti in noi c'è un posto centrale da occupare. Esso non ci può appartenere. E allora a chi lo daremo? L'illusione dell'egoismo è quella di pretendere di averlo. Quindi la vittoria della volontà non potrebbe consistere in una specie di riserva gelosa o di apoteosi sacrilega, ma piuttosto in un'apparente rinunzia. Essa tende a fini impersonali e inconsapevoli. Per agire occorre in qualche modo alienarsi ad altri, abbandonarsi a forze che non domineremo più. Sembravamo appena sollevarci, all'epilogo di lenti processi di formazione, alla riflessione e alla volontà ed eccoci risucchiati da un ingranaggio capace di frantumare, almeno così sembra, l'individualità nascente. Si rileva scarsamente questo determinismo che afferra gli atti nel momento in cui sorgono per trascinarli lontano dalle nostre previsioni e dalle nostre intenzioni. Però di esso i grandi uomini di azione hanno avuto un vivo sentimento, persuasi come erano tutti che il soffio della fatalità passasse in loro e coinvolgesse il loro destino. Pertanto la nostra vita rappresenta il concorso di tutto il resto, la nostra persona costituisce la nostra espansione e la nostra dedizione a tutti, la nostra azione istituisce la collaborazione dell'universo e il trionfo dell'impersonalità. Forse che alienandosi in questo modo, la volontà si prepara a un arricchimento? E questo determinismo implacabile è ancora la vita della liberazione e della conquista? * * * Il mio proposito in questa sede è di percorrere il cammino che va da una coscienza a un'altra coscienza, seguire il progresso dell'azione dal perimetro dell'individuo fino al punto in cui la volontà, che anima sempre questo movimento di espansione, attende e reclama il concorso intrinseco degli altri, trasferire il baricentro dell'attività umana al di là della sinergia individuale, in una comunità reale di vita e di azione. - Anzitutto, espandendosi nel contesto ambientale, l'operazione volontaria vi costituisce un fenomeno espressivo e vi persegue un fine. - In questa stessa causa finale noi cerchiamo una risposta efficace e una cooperazione. La volontà cerca quindi di sottomettere e assimilare a sé l'universo esteriore, come già aveva tentato di conquistare e di penetrare l'organismo. - Grazie a questa stessa collaborazione la volontà iniziale si arricchisce e si espande. Considerata come una sintesi di energie concorrenti e come una creatura a sua volta feconda, l'azione diventerà così il cemento di una federazione sociale. - Non che si tratti già delle opere nate dall'unione profonda delle volontà e scaturite da vite fuse insieme; si tratta di opere che fanno nascere questa unione e consentono una più stretta cooperazione. Come giungiamo a cogliere e a volere altri noi stessi? In questa sede dunque bisogna studiare lo spazio che intercorre tra le coscienze e le azioni umane. Quarta tappa - Dall'azione individuale all'azione sociale Generazione, fecondazione e riproduzione delle azioni umane L'azione non si contiene nel perimetro della vita individuale. In noi non c'è causa efficiente che non abbia una causa finale e non costituisca un riconoscimento implicito di insufficienza e una richiesta di aiuto. Dopo aver mutuato dal contesto universale la materia per prodursi, l'azione non si confina in se stessa. Uscita dalla natura, sembra che debba ritornare alla natura e ricevere da essa il suo necessario complemento. Se all'inizio della nostra attività è apparsa una specie di egoismo spontaneo, ecco che nel corso della sua crescita personale si rivelano un bisogno di espansione, un disinteresse necessario, un dono di noi stessi che fanno appello a un dono reciproco e a un intervento estraneo. Siamo costretti a dare perché per forza di cose dobbiamo ricevere. L'individuo, quanto più si adatta al suo ambiente, si arricchisce: è questa la verità contenuta nella dottrina dell'utilitarismo. Una visione lucida del proprio vero interesse, un senso esatto della collaborazione infinita e universale impediscono all'uomo di essere angustamente egoista, e lo inducono a staccarsi da sé. Pertanto nessuna decisione può realizzarsi nell'intimo della persona senza interessare il mondo circostante, senza cercarvi un concorso, senza provocarvi un'azione corrispondente. Interessa ora esaminare questo incrocio, questa federazione degli atti, prima di approdare alla società e all'unione degli stessi agenti. Ci accingiamo dunque a vedere come la volontà, grazie alla mediazione della vita individuale, organizza al suo esterno un mondo sempre più conforme al suo desiderio. L'azione che essa segna con la propria impronta, che distacca da sé come una creatura distinta e affida alla circolazione, è simile all'essere vivente che si espande nella pubertà per attirare le attenzioni, contrae alleanza con l'oggetto del suo desiderio, e non perde la verginità che per diventare a sua volta fecondo. Nello studio di questa collaborazione c'è da descrivere un duplice movimento, una convergenza a partire da un piano di simmetria. L'operazione che procede da me e che va, attraverso l'esecuzione materiale e i fenomeni sensibili, a sottomettersi al determinismo bruto dei fatti inerti, per avere esito ha bisogno di seguire una trafila inversa e di fungere da alimento per altre forze che ne rigenerano la vita nascosta e ne assecondano più o meno le intenzioni. Pertanto studierò via via il propagarsi dell'atto iniziale nel corpo del segno che ne è l'espressione naturale, poi il meccanismo dei fenomeni che sono il legame materiale di ogni scambio e di ogni collaborazione, e infine l'influsso esercitato dall'azione là dove opera, l'eco risvegliata al di fuori di sé, la risposta ricevuta in replica alle sue profferte. Ma anche là dove sollecitiamo la cooperazione di estranei e la risposta dall'esterno, che suppone un movimento partito da altrove rispetto a noi, questo movimento di ritorno è inglobato esso pure dalla pristina ambizione della volontà. Per quanto il campo della nostra azione si sia esteso, l'iniziativa delle forze esterne all'individualità medesima è ancora immanente al primo desiderio. Qui agit semper idem est. Capitolo I - L'espansione immediata e l'espressione sensibile dell'azione Piantato nell'organismo, l'atto, per una sorta di germinazione naturale, produce il frutto al di fuori. Qui occorre riprendere il linguaggio dei fenomeni sensibili, perché grazie all'operazione volontaria e all'esecuzione organica, l'intenzione ricade nel campo e sotto la legge del determinismo meccanico. Non c'è pensiero, per quanto lo si ipotizzi depurato da qualsiasi immagine, che non sia legato a una modificazione cerebrale; non c'è movimento elementare che non interessi, nel sistema totale del corpo, gli organi solidali; non c'è funzione fisiologica che non si ripercuota al di là della periferia. Con la presenza e con l'azione ci espandiamo intorno a noi, e non possiamo muoverci, respirare, vivere e pensare senza lasciare un segno al di fuori. L'atmosfera dell'individualità è illimitata. Di questa apparente necessità si tratta adesso di rendere conto. La vita individuale ha un'espansione inevitabile. Quale significato ha questa uscita ovvero questa exergia? Perché la persona umana supera il suo perimetro? Questa espressione bruta dell'attività intima, che getta l'opera del nostro pensiero nella promiscuità dei fenomeni meccanici, nasconde forse ancora un'aspirazione segreta e conserva un'impronta della volontà iniziale? In che modo le azioni si distinguono dai fatti qualsiasi e dai fenomeni comuni ai quali questo termine non sembra si possa applicare? Sono nuovi problemi da risolvere. Di essi bisognerà definire il carattere originale, per affrontarli da un punto di vista che non sia ne fisico ne metafisico. Si tratta della generazione sensibile dell'azione, non del fenomeno. Prima di qualsiasi riflessione e di qualsiasi fine perseguito intenzionalmente c'è un'espressione immediata e totale dell'operazione attuale, un'azione dell'azione, la quale è come il segno primario ovvero la traccia spontanea. Essa ne costituisce la produzione iniziale e l'opera prima, origine e tramite di tutte le altre. I. È un fatto: noi segniamo perennemente la nostra impronta nel contesto in cui viviamo. Qualsiasi impressione sulla nostra macchina provoca uno stato di reazione sistematica negli organi. Siamo come un apparato di vibrazione che risuona al minimo urto, a qualsiasi soffio di vento. Ma non è un semplice apparecchio di registrazione. La corrente di forza che ci attraversa esce da noi soltanto se modificata e organizzata. Di questa trasformazione interna si ha una coscienza più o meno chiara. Ma questa nuova organizzazione e questo sistema di movimenti costituisce il fatto palese dell'azione. Pertanto a questo punto è importante studiare non tanto questi stessi movimenti, ma il loro coordinamento e la loro direzione. E non guardiamo soltanto ai segni più appariscenti del linguaggio dell'azione, né all'espressione spontanea o intenzionale delle emozioni e dei pensieri. Si tratta di una verità più generale, più precisa e più profonda. Non c'è stato mentale che non lasci la sua traccia determinata. I greci distinguevano p??tte?? e p??e?? a seconda che l'atto plasmi una materia o conservi un carattere in apparenza del tutto ideale. Ora anche nella forma più " contemplativa " dell'attività, ?e??e??, c'è una materia plasmata. E questa materia che modelliamo col pensare e col volere è costituita dalle nostre membra, e tramite queste dal contesto in cui si imprimono. Ogni atto scaturito dall'organismo umano, anche al di fuori di noi, è un organismo di segni e un simbolo espressivo della vita soggettiva. Pertanto non soltanto l'uomo in seno al determinismo universale agisce con la sua massa, come tutti i corpi bruti; non soltanto esercita intorno a sé l'influsso di una fonte di calore, e produce interamente l'effetto solito degli agenti naturali che contribuiscono alle funzioni vitali; non soltanto, come certi osservatori hanno creduto di rilevare, consente probabilmente l'irraggiamento di una forza distinta dagli agenti fisici già noti; ma l'azione determinata di ciascun individuo si esprime anche in una maniera determinata. In altre parole, indipendentemente dai mezzi fisici che servono a rappresentarla ai sensi, indipendentemente dalle opere in cui essa si realizza, l'azione ha la sua espressione e, per così dire, la sua traccia o la sua propria fisionomia. Così io scrivo queste parole sotto la spinta di una preoccupazione e per effetto di un intento che esse cercano di manifestare. Ma i segni percepibili e consapevoli non esprimono che una parte dell'attività riflessa, e non formano che una porzione del segno globale e spontaneo. Oltre i fenomeni che sono gli strumenti della mia decisione, oltre il risultato materiale della mia operazione, in me si produce una sintesi di immagini, di stati interni e di movimenti espressivi, di cui gli atti particolari che la manifestano non sono che una derivazione più o meno diretta e un'applicazione più o meno parziale e artificiale. A ogni istante il sistema totale che io formo e che costituisce il mio io attuale si esprime nella sua stessa totalità. In tal modo bisogna stare attenti a non far deviare la ricerca. Non si tratta affatto di reiterare il problema fisico della produzione e della trasmissione dei segni. Meno ancora si tratta di affrontare attraverso strade metafisiche il problema della comunicazione delle coscienze tra loro: esso è stato falsato dalla maniera in cui si è posto. Ritornare ai fenomeni che sono di competenza delle scienze positive significherebbe misconoscere proprio ciò che distingue l'azione e il suo profilo sempre particolare dall'insieme dei fatti e dalla loro generalità sempre astratta; anzi, più ancora, significherebbe immaginare erroneamente che questo contesto, in cui i sensi e le scienze sembrano seguire la nascita e lo sviluppo del segno, abbia una realtà identica alla conoscenza che ne abbiamo; significherebbe dimenticare il carattere fittizio del simbolismo scientifico. Questa apparizione nel mondo di un atto che vi discende come dall'alto sembra un miracolo stupefacente, perché esso pare esprimere direttamente la ragione e la libertà senza seguire la trafila della natura. - E tuttavia la segue. Quando l'intenzione, penetrando nelle membra, ha smosso gli organi, è fatta. Ciò che sembrava essere al di fuori del concatenamento delle forze fisiche è rientrato nell'ingranaggio. Il corpo e le sue servitù costituiscono l'intermediario di una libertà che vi si naturalizza, per usare con gli incolti che stanno al di fuori il linguaggio degli incolti. Non c'è dunque da preoccuparsi del modo in cui l'espressione dell'atto si manifesta al di fuori, come se questo fuori avesse una consistenza definitiva, o come se il determinismo scientifico fosse una legge dell'essere, la legge di una fisica metafisica che è un fantasma. Abbiamo visto come nel sistema dei fenomeni le decisioni soggettive coinvolgono le loro condizioni oggettive. È questa la cosa importante, perché la scienza delle relazioni positivamente determinate tra i fenomeni stabilisce che questo determinismo apparente è assorbito dalla stessa conoscenza che ne abbiamo. Il segno sensibile è una conseguenza naturale dell'operazione interna all'agente. E in ciò che tale espressione ha di sensibile o di materiale non c'è niente più da spiegare. Ecco quindi che cosa resta da scoprire: il senso di questa continua espansione che coinvolge l'agente nell'apparente necessità di esprimersi; l'ispirazione, il ruolo e lo scopo dei segni anche invisibili che fanno dell'individuo un centro di irraggiamento; la ragione dello stesso bisogno scientifico. Infatti nell'esplicazione dei nostri atti tutto è connesso. Bisogna comprendere a quale profonda aspirazione corrisponde, e su quale desiderio segreto si fonda il costituirsi dei segni, del linguaggio e dello stesso simbolismo della scienza positiva. C'è dunque da costruire una scienza della messa in opera delle conoscenze empiriche e scientifiche. Non che si tratti di costruire una teoria del lavoro umano e dei progressi della tecnica, come tenta di fare quella che è stata chiamata la prasseologia. Infatti lo studio delle procedure pratiche o dei metodi scientifici presuppone una ricerca anteriore. In effetti in base a che cosa l'uomo si inserisce efficacemente nel mondo dei fenomeni? Tramite che cosa opera la sua azione mediatrice, con l'aiuto dei simboli arbitrariamente costituiti, di cui essa sfrutta l'utilità pratica? Insomma qual è la ragione profonda di tutta la sua espansione nel mondo che diciamo esterno a noi? Precisamente per rispondere a tale questione dobbiamo scrutare la natura e la portata del segno inerente a ogni operazione dell'uomo, per quanto intima la ipotizziamo. Niente nell'espansione della volontà è superfluo e rimane fuori della serie dei mezzi che l'indirizzano ai suoi fini. Potrebbe sembrare che l'espressione del tutto spontanea ed estremamente impalpabile del lavoro organico e mentale sia trascurabile; affrontarne lo studio non significa forse entrare in un vicolo cieco nel quale solo i curiosi hanno interesse a impegolarsi? Al contrario, emergerà senza dubbio che questo è il passaggio naturale e necessario attraverso cui il volere si espande nell'universo e tende ad assorbirlo. II. Se considerassimo solo l'aspetto materiale del segno che manifesta l'azione, ricadremmo nello studio dei fenomeni che le scienze positive assoggettano alle loro leggi generali e al determinismo meccanico. Ma ciò che fa sì che l'azione, pur essendo un fatto o un fenomeno, non sia più un fenomeno come quelli, è il valore espressivo presente in essa, è il senso soggettivo, il sistema organizzato al quale deve la sua fisionomia sempre singolare. Producendosi al di fuori, essa conserva il carattere coerente e ordinato della sintesi individuale di cui è il prolungamento. In tutto ciò che produciamo persiste un'immagine e quasi un'anima di vita intima e di organizzazione soggettiva. Proprio in questo senso profondo produrre, t??te??, significa generare un essere animato e distaccare da sé una nuova creatura che continua a crescere come un organismo separato. Pertanto la prima opera dell'uomo è di plasmare se stesso come propria materia, di produrre con quest'operazione una traccia immediata, la quale organizza, di solito a sua insaputa, fuori dell'ambito individuale un'immagine, o meglio un'espressione dell'atto, un'espressione che è il distintivo peculiare di ogni agente e come il suo suggello inimitabile. Il punto preciso su cui si deve polarizzare lo sforzo di questo nostro studio è ciò che vi è di unico e di incomparabile in ciascun segno. Oggetto della scienza dell'azione è sempre il singolare e il concreto, ovverossia ciò che ignorano le scienze positive, che necessariamente si limitano all'astratto e al generale. Un gesto, per esempio, è la costruzione materiale di una sentimento la cui infinita complessità si rivela per gli innumerevoli dettagli di una struttura originale. Una parola è un pensiero rivestito di suoni ritmati e carichi di sfumature. Persino un pensiero è un sistema di vibrazioni che, prodotte dal lavoro cerebrale, esibiscono senza dubbio una tipologia altrettanto distintiva quanto un timbro di voce o il profilo di un viso. Pensiamo al paradosso del fonografo: in ogni suono articolato vi è una qualità del tutto peculiare le cui caratteristiche possono essere addirittura raccolte, conservate e riprodotte. Così è per tutti i segni sensibili che traducono la presenza e l'azione assolutamente singolare dell'individuo. Probabilmente occorre cercare in queste tracce infinitesimali dell'atto e del pensiero stesso il segreto della particolare lucidità propria dell'iperestesia ipnotica. Prodotti in modo inconsapevole, i segni primordiali della vita possono essere registrati e interpretati in maniera inconsapevole; all'incirca come un sordo il quale, pensando ad alta voce senza sentirla, resterebbe sbalordito nel vedere i suoi vicini proni ai suoi desideri e a conoscenza dei suoi sentimenti. In ogni caso, siano esse percepibili o no, queste tracce hanno la loro fisionomia originale. E come il cane segue i passi del padrone fiutandoli tra mille altri, come la mano dell'operaio e il tocco dell'artista si discerne con certezza, così in noi non c'è atto che non istituisca, al di fuori di noi, un reticolo sottile e fragile, ma organizzato ed espressivo, un sistema complesso di movimenti e quasi una creatura animata. Dunque che cosa costituisce l'incomparabile originalità di cia-scun atto nel fatto medesimo che lo manifesta? È l'unità delle relazioni intelligibili che formano la sintesi ovvero l'organismo stesso del segno. Non bisogna credere che nel segno non vi sia nulla di più che nella stessa operazione organica, e che esso costituisca semplicemente un'eco affievolita di quest'ultima. No, nel segno c'è già, per renderlo possibile e per realizzarlo, un contatto dell'agente con l'altro da sé, una nuova sintesi della vita individuale con il contesto in cui si espande. Pertanto non si parla nel vuoto; e un concorso esterno a parte acti consente la più elementare espansione a parte agentis. Ogni segno è già un'opera. Non è semplicemente l'operazione interna, quale quella che si era organizzata nell'intimità del corpo vivente, né un fenomeno qualsiasi, un atto banale di cui basterebbe affidare lo studio alle scienze positive. È, se così si può dire, un soggetto secondario, che in apparenza si è staccato dal soggetto agente, come un'intenzione che ha preso corpo e vita. È un'idea reale nella natura, quasi allo stesso titolo degli altri viventi. Ma prima di studiare questo concorso estraneo e la stessa sintesi che ne risulta, bisogna vedere ancora meglio ciò che apporta l'agente, e qual è l'aspirazione profonda di cui il segno prodotto e l'opera realizzata sono i fini provvisori e i mezzi naturali. III. Nel corpo sensibile dell'atto invisibile c'è un'unità ideale. E questa unità interna del fenomeno espressivo costituisce l'intenzione, ma l'intenzione già in via di realizzazione. Il segno, che forse si sarebbe tentati di prendere per un'appendice accessoria, soprattutto laddove è involontario e impercettibile, denota un progresso effettivo della volontà. Esso corrisponde a un bisogno reale. È conforme e utile all'intenzione primitiva, in quanto l'indirizza al suo compimento. C'è dunque un rapporto tra l'espressione naturale dell'atto e il fine più o meno intenzionale che esso si propone. Il linguaggio delle emozioni è l'abbozzo spontaneo dei movimenti atti a soddisfare i bisogni o a schivare i pericoli. Spesso un gesto disegna l'intero dramma in atto. Quello che è vero di una mimica, di un gioco di fisionomia, di un intero atteggiamento, lo è ugualmente delle tracce più infime dell'attività operante. L'espressione immediata della vita inferiore è la materia e quasi la sostanza sensibile dei desideri e degli stati invisibili i quali, raccolti dalla riflessione, ci indurranno a perseguire fini distinti e a produrre opere particolari. Questa espansione necessaria ha quindi un senso. E questo senso va individuato nel proposito della volontà in cerca della sua crescita: quindi niente che non rientri nel progetto volontario della nostra vita, niente che non sia funzionale a esso, neppure la manifestazione spontanea delle nostre operazioni intime e l'unità espressiva dell'atto. In effetti dal momento in cui l'operazione voluta e inaugurata segna la sua impronta nel determinismo dei fatti, dal momento in cui essa tende a determinare secondo il proprio orientamento il sistema globale, la volontà svela a poco a poco il suo potere e la sua ambizione. Essa comincia a pervadere il mondo con le sue intenzioni così come ne aveva già pervaso l'organismo. Aspira a diventare come l'anima di tutto ciò che la circonda e di cui si serve. Essa aspira a guadagnare l'universo e a dominarlo assorbendolo. Il movimento naturale dell'egoismo non è forse quello di rendersi centro, e di riferire tutto a sé soltanto? La sua istanza non è quella di possedere tutto l'oggetto esterno come se fosse il complemento e la dépendence del suo capriccio incontrastato? Pertanto il segno che esprime all'esterno l'operazione motrice è almeno in germe un'invasione, una conquista e un assorbimento dell'universo da parte della volontà. Come dunque il volere, espandendosi nell'organismo individuale, cercava istintivamente di arricchirsi e di ritrovarsi più perfetto, così penetrando in quello che si chiama il mondo esterno e travasandosi nel segno, assimila a sé nuovi alimenti. Esso non si spende se non per concentrarsi e per raccogliere di più, come se in fin dei conti l'intero universo gli dovesse diventare immanente, e non essere altro che un prolungamento del corpo del tutto docile al pensiero. Non è questo, in effetti, il prodigio che i progressi delle scienze permettono di compiere ogni giorno più perfettamente? Grazie a essi il mondo dei fenomeni è sottomesso all'uomo, è pervaso dallo spirito, è aperto alla circolazione della vita interiore. Divenuto davvero una dépendence dell'organismo per trasmettere o fissare, senza tema del tempo o dello spazio, la parola e tutti i segni dell'attività umana, questo mondo sembra essere compendiato nell'unità di un pensiero che lo porta in sé e che gli è ovunque presente. Come in un sistema animato in cui la vita, nonostante la sua indivisibile unità, è dappertutto a un tempo. In esso tutto comunica, circola, si scambia, senza che neppure si sappia come. E le forze della natura sembrano diventate spontaneamente un organo della volontà. Ecco il bello della civiltà scientifica! Ma il segno primitivo dell'operazione intima, proiettando davanti a noi il nostro proposito spontaneo, lo propone alla conoscenza distinta; ne fa un oggetto parziale offerto alla riflessione. E come nella deliberazione dell'atto il fine concepito si determina sempre sotto un'angolatura singolare, allo stesso modo nell'esecuzione il fine voluto e realizzato ha sempre un carattere determinato e parziale. All'origine della riflessione e della decisione libera è la sproporzione delle condizioni elementari e delle esigenze dell'attività volente e voluta che ha fatto nascere l'idea della finalità; qui invece non è più l'idea di un fine ma il fine stesso che la volontà operante continua a perseguire, e comincia ad assimilare a sé realmente quando si manifesta al di fuori. L'espressione sensibile dell'atto indica quindi una tendenza del volere verso uno scopo ulteriore. Ecco perché l'azione appare sempre come transitiva, ossia sembra essere in un perpetuo divenire. Non la si può considerare, se non per astrazione, come assolutamente conclusa. Infatti le sue conseguenze e i suoi incrementi sono virtualmente illimitati nel tempo e nello spazio. E ogni fine dopo che è stato raggiunto già non è altro che un gradino per andare al di là. Se l'individuo, quando agisce, sembra uscire da se stesso, ciò avviene esattamente perché in lui c'è insufficienza, penuria e dislivello tra l'iniziativa e i risultati della sua operazione interna. Con questa espansione l'agente obbedisce al bisogno creato dallo sviluppo stesso della sua volontà. Egli cerca la sua realizzazione e la sua equazione. Questo esodo non prova certo che in lui vi sia del superfluo e una sovrabbondanza. Al contrario, esso testimonia che la vita individuale non può contrarsi in sé, che anzi le è indispensabile un complemento, che c'è una mancanza di equilibrio tra ciò che è e ciò che vogliamo. Per questa ragione precisamente la finalità interna non va isolata dalla finalità esterna, perché il sistema dell'individualità e dell'operazione organica che la manifesta non è un circuito chiuso. Questa sintesi della vita non si preserva che protraendosi a un termine esterno di espansione e organizzando quest'ultimo secondo quella sintesi, pur organizzandosi secondo quel termine. L'azione non è azione se non in quanto costituisce un organismo, facendo concorrere a un fine unico una diversità di fenomeni. Quanto più questa finalità risulta realizzata nel complesso in modo da esserne come l'anima, più l'azione è palese e chiara, più l'atto è atto. È così che una bella macchina o una statua sono idee reali, intenzioni attive a loro volta: immagine sviluppata di questa produzione pristina che incarna l'atto nel segno naturale. Pertanto, per ritrovare l'accordo perennemente rotto tra il realizzato e il voluto, dobbiamo renderci causa efficiente di una causa finale e attirarla a noi. Dunque come nel nostro piccolo mondo inferiore avevamo trovato potenze favorevoli o ribelli alla nostra operazione, occorre che nel mondo esteriore esistano forze, dapprima indubbiamente estranee o ostili ai nostri propositi, ma forze che, dotate di energia propria, siano capaci di convertirsi all'iniziativa della volontà per sottomettersi a essa come le membra docili di uno stesso organismo. Volere, agire, operare, produrre: in tal modo siamo trascinati a poco a poco verso sviluppi forse imprevisti, ma sicuramente conformi all'aspirazione profonda del volere originario. L'espressione dell'atto, per quanto all'inizio sia impercettibile, è il germe di una crescita smisurata. Questo segno primario della vita, che si produce con la scioltezza infallibile di una spontaneità inconsapevole, diventa il principio dei segni più o meno naturali o voluti, delle opere più o meno artificiali e difficoltose che svilupperanno il pensiero e il regno dell'uomo. Ma ormai, anche in ciò che del resto sembra provenire da noi soltanto, bisognerà avere sempre in mente questa iniziativa che domina tutti gli incrementi futuri. Il duplice movimento, centripeto e centrifugo, di cui è composto il ritmo dell'espansione vitale, è ugualmente compreso in uno stesso disegno di conquista. Quindi causa efficiente e causa finale sono, con un progresso alternativo, le forme mobili di una stessa tendenza della volontà verso una nuova estensione del suo regno. Ma come attirare le forze estranee il cui concorso sembra indispensabile per qualsiasi produzione e per il più rudimentale dei segni naturali? Già abbiamo dovuto studiare le lotte intestine dell'operazione volontaria contro le resistenze organiche. E abbiamo presente con quale difficoltà, ma anche con quali risultati, la volontà armonizza le forze sparse o ribelli per farle rientrare nella composizione dell'individuo. In questa sede l'ostacolo sembra ancora più insuperabile, perché l'azione non scuote più soltanto l'organismo nelle sue profondità, ma ha bisogno di interessare alla sua opera l'universo circostante. Indubbiamente con gli insegnamenti dell'esperienza e delle scienze essa riesce a dominare queste potenze misteriose di cui è circondata. Ma precisamente di questi successi occorre rendere conto. A quali condizioni è possibile questa riuscita, e che cosa presuppone al tempo stesso nell'agente che la provoca e nell'agito che la consente e l'asseconda? - Non vi sono forse, intorno a noi come in noi, dei soggetti virtualmente conformi ai nostri disegni e accessibili all'influsso dei segni naturali dei nostri atti? È quanto si mostrerà nel seguito del nostro discorso. Pertanto il segno merita doppiamente questo nome. Anzitutto manifesta un proposito di crescita sotto il sistema dei fenomeni organizzati che lo costituisce. In secondo luogo per avere efficacia, persino per riuscire a costituirsi, ha bisogno di essere ricevuto, compreso, espresso dal contesto in cui appare. L'azione si produce nell'atmosfera in cui è avvolta solo interessando alla sua apparizione anche ciò che ignora e ciò che non coglie ancora. Collocandosi dal punto di vista dell'individuo, sembra che la sua espansione spontanea finisca qui, perché è a partire di qui che noi, risalendo dai fenomeni bruti di cui è rivestito il segno fino alle forze capaci di restituircene il significato, vedremo a poco a poco strumenti ausiliari mettersi a disposizione della nostra azione iniziale. Ma questa stessa collaborazione, questo concorso attivo di alleati estranei e in apparenza indipendenti, rimane inclusa nel senso originario del segno. Ne abbiamo abbastanza per far comprendere la pretesa ideale della volontà sul mondo intero. Ma rimane da indagare come essa si realizza, ottenendo una cooperazione effettiva. Poche verità sono meno rilevate e altrettanto degne di attenzione quanto quelle che seguono. 1) Ogni azione interessa necessariamente il contesto estraneo in cui si esprime, e questa stessa espressione è possibile solo per un consenso immediato dell'altro dall'agente. 2) Questa traccia naturale dell'operazione è un sistema intelligibile di fenomeni in cui si imprime l'intenzione soggettiva e che ne costituisce un primo incremento; essa si rapporta alla causa efficiente, di cui è l'espressione, meno che alla causa finale, verso la quale già costituisce un avvio. 3) Pertanto ogni produzione è non solo un assetto di fatti sensibili, ma un concorso e una sintesi di operazioni emanate da agenti estranei. E tuttavia queste operazioni, le cui origini sembrano indipendenti o addirittura divergenti, sono inglobate in un medesimo volere. Quindi l'intenzione in via di realizzazione discende sul terreno dei fenomeni bruti solo per trovarvi e solo trovandovi già un'eco, una complicità, una cooperazione. È un fatto che l'azione si esprime per forza di cose con un segno, e che si colloca nel determinismo totale. Abbiamo dovuto sforzarci di comprendere questo fatto; e che significa comprenderlo se non ricondurlo allo sviluppo normale e conseguente della volontà, mostrando che sotto questa costrizione apparente si cela il germe di ogni fioritura futura? * * * Nel capitolo che segue ci tocca studiare la risposta provocata dall'agente, il concorso bruto e forzato che completa necessariamente la sua iniziativa, in una parola la coazione, nel senso sia etimologico sia corrente del termine. Dunque, dopo aver studiato ciò che si è chiamato l'esergia, bisogna analizzare l'allergia, se cosi si può dire, " l'azione degli altri ", azione che però rimane interamente sospesa all'iniziativa dell'agente. La conclusione di questo studio sarà quella di esibire la volontà sempre presente nell'opera, che tuttavia sembra non abbia prodotto da sola, sempre bisognosa di un'estensione più ampia, sempre in cerca di una collaborazione più intima e più docile. Capitolo II - La coazione Non c'è atto, per quanto intimo, che, sempre costretto a esprimersi, non faccia appello al di fuori dell'individuo a una specie di assenso e di collaborazione. Un gesto, una parola sono possibili solo grazie al contesto in cui si manifestano. Il fenomeno non riguarda noi soltanto, né il mondo circostante soltanto, ma entrambi, e in maniera indivisibile, per così dire. Ogni atto proviene dall'agente, ma per andare direttamente all'agito, senza il quale non esiste. Non soltanto non possiamo creare o fare niente col niente, ossia è indispensabile una materia qualsiasi come condizione preliminare per l'esercizio della nostra attività, ma inoltre le nostre operazioni, le nostre stesse intenzioni, si modellano in qualche modo sull'oggetto cui tendono, in modo da ricevere da esso la loro forma. È dunque assolutamente vero che per agire bisogna adattarsi all'ambiente, e che questo ambiente contribuisce al modo di essere e di fare che vi si esplica. Così le forme architettoniche sono comandate al tempo stesso dalla destinazione dell'edificio e dalla natura stessa dei materiali, ossia dall'idea dell'operaio e dall'azione corrispondente dell'oggetto cui si applica la sua operazione. Il segno in parte è plasmato dal corpo in cui si imprime, e la lettera del simbolo è attiva sullo stesso spirito che lo ispira o lo anima. Se nella percezione sensibile noi reagiamo per colorare l'impressione avvertita col nostro carattere soggettivo, viceversa la nostra iniziativa, insediandosi nell'oggetto, vi riceve un'impronta che è dell'oggetto e non più nostra. Quindi la nostra azione non è mai nostra soltanto. Non basta che essa sia indotta a uscire dal perimetro individuale, è necessario anche che susciti, per una specie di affinità naturale e per coazione, potenze estranee a noi, e che la sua opera o il suo fenomeno costituisca il risultato di una convergenza e di una sintesi di operazioni scaturite da origini differenti. In che modo dunque l'azione altrui, " l'allergia " si potrebbe dire, rientra nel movimento della nostra personale volontà? Come otteniamo questo concorso necessario? E qual è il risultato o la conseguenza di questa coazione? I. L'idea di un fine determinato da perseguire suppone già l'espressione immediata dell'intenzione ideale nel segno reale che ne costituisce l'opera prima. L'azione, nel momento in cui si produce e per prodursi, si determina secondo la tendenza che le è propria e secondo l'occasione stessa della sua espansione. In qualunque senso orientiamo la nostra attività, dobbiamo sempre tenere conto del termine di espansione cui essa si applica, perché è da quest'ultimo che deriverà, almeno in parte, la fisionomia dell'opera perseguita e voluta. Ciò che si chiama la causa formale non è dunque esclusivamente di pertinenza dell'iniziativa della causa efficiente, ma dipende tanto dall'oggetto cui tende l'operazione quanto dal soggetto da cui essa promana. Infatti se un oggetto funge da scopo dell'atto in quanto condizione susseguente, ciò avviene perché ci attendiamo da esso altro da ciò che vi apponiamo. A dire il vero per la nostra volontà non c'è causa finale se non quella in cui prevediamo, cerchiamo ed esigiamo una causa efficiente. È dunque a torto che, studiando la finalità intenzionale, si prenderebbe in esame unicamente la volontà che mira a uno scopo, come se essa riuscisse a raggiungerlo da sola, con le proprie risorse e con i propri sforzi isolati. La causa finale in parte è la sua causa efficiente. Essa fornisce non soltanto il termine, ma anche il contorno dell'azione che a essa si protende e l'invoca. È altresì a torto che si limiterebbe lo sguardo allo scopo previsto e predeterminato, perché immaginando di volere questo solo fine per se stesso, spesso a nostra insaputa noi perseguiamo ben altro, cioè il suo effetto, il suo dono, la sua incorporazione nel nostro volere. In altri termini se quella sembra essere una causa finale, di fronte alla quale noi svolgiamo il ruolo di causa efficiente, ciò avviene alla condizione reciproca e con l'intenzione segreta che essa sarà una causa efficiente di cui noi costituiremo la causa finale. Pertanto il vero fine dell'egoista non è quello che vuole e che conquista, ma è se stesso. Noi aspiriamo a ciò che non abbiamo solo se questo qualcosa deve produrre con noi o per noi una sintesi nuova, nella quale il fine desiderato in apparenza rientra unicamente come un elemento e come un mezzo. Quindi, che lo sappia o no, la mia azione, accettata o ripresa al di fuori di me da queste stesse forze cui la destinavo o nelle quali cercavo un compimento, deve essere profondamente trasformata. E questa trasformazione, talvolta imprevista e sproporzionata ai miei progetti, io l'ho voluta, essa è inclusa implicitamente nella decisione libera e nell'operazione che ne costituiva il punto di partenza. In effetti che cosa si propone la volontà? Di adattare a se stessa tutto il resto. E come un utensile è una specie di organo aggiunto ai nostri organi, l'azione è un'estensione del volere al di fuori di noi. Essa esce al di fuori, ma proprio per far entrare in sé e assimilare quello in cui sembra alienarsi. Pertanto qualsiasi cosa abbiamo da fare, occorre che coinvolgiamo forze estranee alla nostra. È questa una coalizione necessaria a produrre la minima opera, il minimo segno della nostra attività. Occorre dunque completare l'antica definizione peripatetica, e dire che un atto è più che il passaggio da una potenza all'attuazione sotto il dominio di una potenza già in atto, è la sintesi e il progresso di due potenze concorrenti, sotto la mediazione e grazie allo scambio di una causa efficiente e di una causa finale. Infatti ciascuna delle due cause presenti funge da fine relativo e provvisorio per l'altra. Ambedue devono dare e ricevere, di modo che il risultato ottenuto apparirà per ciascuna il prodotto del determinismo o dell'efficienza dell'altra. he altro significa ciò, se non che la volontà, già realizzata ma ancora imperfetta in noi, tende a inserirsi e a completarsi nel mondo così come aveva fatto già nell'organismo? Per quello che è già, essa non è che un mezzo; per quello che vuole essere, è una vera e propria causa finale. E tra questi due estremi del suo sviluppo si colloca, come un termine intermedio che sembra a prima vista un fine, mentre è solo un mezzo, il concorso estraneo, " l'allergia ". Quindi, per permettere e per perfezionare la nostra sinergia espansiva, la nostra azione personale esige l'azione dell'altro. Ma è proprio questo che la modifica profondamente, e complica il problema dell'efficacia o del successo dei nostri sforzi. Non si produce nulla che non venga estratto al tempo stesso dalle potenze spesso indocili o infide. Per esempio, è esperienza comune che nell'azione meglio preparata e più curata si avverta il disgusto, la sorpresa o la rabbia perché le nostre decisioni sono eseguite male, i nostri sogni sono delusi, le nostre cure mal ripagate. L'impenetrabilità, l'insufficienza, la non intelligenza dei nostri alleati rovinano i nostri progetti allo stesso modo dell'ostilità di ostacoli architettati. Essi fanno loro ciò che volevamo fosse nostro. Vedendo quanto poco possiamo, di fronte a questo infinito di cui abbiamo bisogno per agire, che dobbiamo maneggiare a tentoni e che contrasta, svia o affretta la nostra debole operazione, non sorge forse in noi un sentimento di apprensione? Noi dobbiamo temere al tempo stesso l'impotenza dello sforzo respinto e la fecondità imprevista di un intervento troppo assecondato. Talvolta più, talaltra meno, ma mai esattamente quello che vogliamo. È il motivo per cui di solito una disillusione tiene dietro a ogni soddisfazione del desiderio. In quello che volevamo, dietro il fine apparente del desiderio, si nascondeva un desiderio infinitamente più grande. Perciò è naturale per l'uomo il proposito di ottenere, con tutta l'esattezza possibile e con la costrizione, il concorso delle forze estranee. Cancellando per così dire se stesso, egli cerca di risparmiare il suo sforzo, in modo da consentire a quelle forze di produrre ciò che ha rigorosamente predeterminato, e di essere lui solo la volontà di ciò che non possiede volontà. In base a che cosa è possibile questa coazione? Perché il termine, oltre che l'idea di costrizione che evoca, deve conservare il suo senso etimologico: convergenza e unione di attività. Qui non si tratta più di individuare tendenze o di considerare progetti, ma di determinare un concorso effettivo e un intervento di fatto. Ma allora, come riesce l'operazione umana, secondo il suo bisogno e il suo desiderio, a impiegare e a sottomettere, ad assimilare e a incorporare a sé ciò che sembra esserle esteriore? II. Noi non agiamo mai soli. In che modo la nostra azione può condurre e anche costringere all'azione qualche altra cosa? E che cosa presuppone questa stessa possibilità? Il problema è delicato. Infatti invece di considerare il fenomeno sensibile o l'opera prodotta come espressione dell'agente, adesso bisogna vedervi il ruolo dell'agio. Dunque in questo stesso fenomeno non interessa più l'elemento sensibile, ma ciò che lo rende sensibile. Senza dubbio il determinismo fisico era già sorpassato e vinto. Ma rimane da vedere meglio ancora come la produzione vittoriosa dell'atto sia possibile solo grazie a ciò che vi è di soggettivo fuori dello stesso agente. Per penetrare nel sistema universale dei fenomeni, l'azione, producendosi, deve diventare l'alimento del contesto in cui compare. Allo scopo di farsi oggetto e di manifestarsi sensibilmente, la nostra vita soggettiva evoca soggetti ancora estranei a essa. Per aiutare l'immaginazione con l'ausilio dell'analogia occorre allora che ci collochiamo nella visuale da cui consideravamo in noi le condizioni elementari e le sorgenti inconsce dell'azione. In tal modo avremo una rappresentazione più agevole del modo in cui la nostra operazione volontaria, calata nel dominio dei fatti bruti, diventa a sua volta la sorgente invisibile e lo stimolo necessario di altre energie e di azioni provenienti da referenti altri rispetto a noi. Noi rientriamo nel determinismo della natura per sollecitarlo secondo il nostro volere e per orientarlo verso i nostri fini. Lo sollecitiamo come esso sollecita noi. Perciò per agire e per riuscire in qualsiasi cosa bisogna sapersi regolare. Che si lavori il granito e la creta o si trattino gli uomini, c'è sempre bisogno di un tatto istintivo o di un'ispirazione inconsapevole. Espandendosi nel dinamismo dell'ambiente l'azione vi porta, grazie al meccanismo del segno, un'intenzione e un'idea. Essa conserva un senso e una fisionomia individuale, racchiusi nel simbolo espressivo che viene a proporre, e persino a imporre, al sistema totale grazie alla costrizione del determinismo. È una virtualità soggettiva capace di organizzare altre spontaneità e di farle servire ai suoi disegni. Cosi si rende sempre più palese la finalità e l'efficacia di questa prima opera prodotta, che è l'espressione immediata dell'operazione stessa: essa diventa lo strumento del regno della volontà in via di crescita. Persino là dove sembriamo violentare la materia bruta, il nostro intervento è solo un segno, nel senso che facciamo appello a una reazione e paghiamo il prezzo di un aiuto. In tal modo dunque, a confronto della causa efficiente che gli fornisce un'intenzione e quasi un'ispirazione determinante, tramite il veicolo del fenomeno sensibile e sotto forma di un alimento soggettivo, il termine di esplicazione della volontà fornisce i mezzi, e da parte sua diventa, con maggiore o minore spontaneità, resistenza o intelligenza, la causa efficiente del fine comune che indubbiamente non avrebbe ottenuto da solo, e che tuttavia celava in sé. Ogni opera compiuta suppone due cause efficienti che si corrispondono e si completano; l'una e l'altra sono reciprocamente la condizione necessaria del loro successo comune. E l'anima di questa coazione è costituita da un'intenzione iniziale, da una volontà che si propone non solo l'oggetto cui tendeva in prima istanza, e neppure il concorso di questo fine oggettivo, ma una comunità d'azione e di effetto. Dominiamo i fenomeni solo servendoci di essi come di segni per risalire a ciò che li determina e li produce; in altri termini noi pure serviamo loro da segni, in modo da stimolare le forze da cui procedono. L'operazione meccanica che si realizza in questo mondo dei fenomeni, orientandosi secondo le apparenze sensibili, implica dunque un'azione più nascosta e più efficace, il confronto delle capacità dinamiche, la prova o il calcolo delle affinità profonde, tutto ciò che i metafisici avevano prematuramente chiamato la comunicazione delle sostanze. L'efficacia dell'atto nel mondo dei fenomeni riposa in ultima analisi su un concorso di spontaneità percepite mediante i loro simboli naturali. Quando l'ingegnere ricorrendo al calcolo determina la resistenza dei materiali che impiega, quando il fisico stabilisce con i suoi esperimenti la conducibilità di un corpo, quando l'artefice applica alle sue costruzioni le conoscenze empiriche che gli consentono di fare un buon lavoro, tutti, senza dubbio a loro insaputa, cercano di penetrare il quid proprium e, se così si può dire, la natura soggettiva e attiva degli elementi bruti, di cui si attendono una conformità con il fine proposto. È perfettamente vero che non facciamo nulla, neppure nell'adattamento dei materiali. Facciamo fare da altri ciò che il pensiero ha concepito e la risoluzione ha preso. E come nella vita individuale il concorso di energie subalterne opera in noi con la mediazione dell'intenzione iniziale, allo stesso modo fuori di noi il ruolo della volontà non è tanto di agire, quanto di suscitare e di orientare le potenze esteriori assimilandole all'atto. Persino nel caso in cui la provocazione dell'autore che ha l'iniziativa dell'opera pare necessitante, egli non agisce se non facendo agire: al di fuori raccoglie le condizioni; al di dentro è competente soltanto la causa determinante e operante. Come osservava già Bacone, noi ci limitiamo a rendere presenti le forze naturali: natura intus celerà transigi! E anche per renderle presenti, è necessario che già un segno abbia suscitato in esse un'energia sopita e sterile che asseconda le sue sollecitazioni. Quindi non tutto è assurdo nelle pretese della magia o dell'occultismo: c'è un incantamento naturale che, per quanto inefficace nelle condizioni normali, può diventare il principio di operazioni straordinarie o miracolose. Indubbiamente sembra strano dire che, per agire su una pietra, occorre rivolgersi con una specie di suggestione a energie virtuali che sonnecchiano in essa. Ma pare altrettanto strano che nell'iperestesia del sonnambulo l'ipnotizzato percepisca, senza rendersi conto degli intermediari, i segni più impercettibili e gli stati persino inconsapevoli di colui che lo ipnotizza. Ciò che viene prodotto oscuramente da un'attività intelligente non può essere ricevuto e interpretato altrettanto oscuramente? Questo è senz'altro il meccanismo consueto dell'interpretazione dei segni, anche i più palesi. L'armonia interna di un simbolo espressivo e vivo fin nelle sue parti più infime non è mai percepita che all'ingrosso, ed è il carattere arbitrario dell'espressione che finisce per prevalere. Ma se la convenzione artificiale nasconde, essa non abolisce questa istologia espressiva del segno naturale. Esiste un linguaggio inconscio che parla a dei sensi inconsapevoli; esso può essere appreso e perfezionato con l'uso come tutti gli altri linguaggi. Così l'ipnotizzatore prende possesso sempre meglio del suo soggetto, e si fa comprendere più chiaramente man mano che gli parla più spesso nel suo misterioso idioma. Ciò che si è chiamato lettura del pensiero probabilmente costituisce la percezione delicata e l'interpretazione segreta di queste tracce impercettibili, e?d??a. Così anche si comprende almeno la possibilità di spiegare la bizzarria delle simpatie o delle antipatie istintive, e la stranezza di quelle comunicazioni telepatiche di cui alcuni psicologi oggi vanno raccogliendo la testimonianza. Sembra che senza rendercene conto noi viviamo in un perenne incrocio di influenze impalpabili. Se nell'igiene dell'organismo animale siamo indotti a tenere in gran conto gli elementi infinitamente piccoli, senza dubbio è necessario attribuire allo stesso modo un ruolo a tutti questi elementi impercettibili nel dettaglio inconscio delle operazioni mentali. Sono come dei semi che, nascosti sotto la lettera morta del fenomeno materiale, attendono soltanto un terreno propizio per spuntare in seno a una spontaneità capace di nutrirli. Dunque è possibile operare ovunque vi sia un abbozzo di vita soggettiva, e cioè ovunque. Noi interveniamo nel determinismo dei fenomeni solo a questa duplice condizione: che desumiamo il nostro atto personale da una potenza che lo trascende; e che mutuiamo la nostra azione utile da una forza che è al di là di questo determinismo e dietro i fenomeni prodotti. Perciò, a dire il vero, noi non fondiamo mai la nostra scienza e il nostro regno sui fenomeni direttamente percepiti. Che cosa suppone in effetti il bisogno delle lezioni dell'esperienza che l'uomo d'azione ha? Che cosa suppone l'indagine scientifica? Che cosa suppone il potere della scienza sulla natura? Tutto ciò implica che per agire efficacemente occorre scoprire e convertire ai nostri fini quello che nei fenomeni percepiti costituisce l'invisibile fenomeno soggettivo e l'azione propria. Ed ecco come, dopo la soggettività interna e la soggettività organica, la soggettività esterna diventa anch'essa verità di scienza. Dunque tra la questione dei rapporti reciproci tra i fenomeni e il problema ancora insoluto, e forse chimerico, della comunicazione tra le sostanze c'è posto per lo studio di relazioni che non sono ne fisiche ne metafisiche, ma psicologiche. Nonostante le apparenze noi non agiamo sui fatti positivi, assunti come l'unica realtà; per operare su di essi occorre attingere, attraverso i segni che essi sono, le forze oscure capaci di produrli. Tramite i fenomeni noi ci rivolgiamo a delle cause. I fatti sperimentali non sono, per così dire, che l'eco delle risonanze profonde, nelle quali a tentoni ci sforziamo di cogliere nel segno senza vederci. Vi sono senz'altro cose, e alcune capitali, in cui uno zotico sa tanta filosofia, e forse di più, quanto Aristotele. Anche su questo terreno appare la sutura tra i metodi sperimentali e quelli matematici. Qual è l'oggetto del calcolo infinitesimale, e come si spiega l'adattamento paradossale e reciproco dei numeri all'osservazione e dell'esperienza al calcolo? Il calcolo infinitesimale presuppone esattamente nella natura una virtualità vivente e infinita, suppone a fronte del nostro pensiero altre energie, altri soggetti, delle monadi, un dinamismo sotto il meccanismo apparente. È proprio per questo che si applica alle apparenze e consente di governarle. Agire significa penetrare col tatto e con la divinazione nella chiusa intimità di altri soggetti, e interessarli a sé. Calcolare significa rappresentare simbolicamente questa infinità della vita e queste relazioni delle forze concorrenti. Ecco perché il calcolo supponeva l'azione, come si è mostrato, e perché l'azione è apparsa come la mediatrice naturale tra i numeri e l'esperienza. Così infine si spiega meglio come le scienze positive corrispondano a una segreta ispirazione della volontà. Infatti questo desiderio ancora esteriore e, per così dire, artificiale di conoscere, che già era apparso come una motivazione solida del sapere umano, si fonda, come si vede, su un bisogno più profondo: l'azione che vuole interessare altri agenti fuori di sé cerca, per essere efficace, di penetrare con un duplice lavoro di approccio, a priori e a posteriori, l'universo invisibile da cui promanano i fatti che essa intende suscitare. E come per governare le nostre membra e i nostri desideri noi regoliamo gli attacchi violenti, in modo da prendere come tra due fuochi ( tra la volontà superiore e l'obbedienza passiva degli atti materiali ) i ribelli al nostro interno, così anche qui con una tattica analoga noi usiamo come una morsa la conoscenza empirica e la deduzione matematica per ridurre al nostro servizio le inafferrabili forze della natura. È dunque l'azione che costituisce il campo delle scienze positive. Infatti da un capo all'altro esse hanno come oggetto quello di studiare il contenuto dell'operazione, il concorso della nostra conoscenza con le condizioni interne dei fenomeni, la coazione nel determinismo universale. In tal modo esse sono apparse collegate tra loro soltanto nell'azione. È anche per questo che esse sono volute come un mezzo per elucidare e sviluppare l'intervento riflesso dell'uomo, per accrescere il suo potere ed estendere il suo dominio. Studiando la nebulosa più lontana, o scrutando l'organismo di un insetto, lo scienziato, per chi sa comprendere, collabora alla soluzione del problema del destino umano. Ogni altro problema rientra in questo problema. In fondo le scienze analizzano le procedure del volere, e danno un contributo al servizio delle sue intenzioni. La loro vera ragion d'essere è quella di assimilare alla volontà altre energie, e di aggiungere alla vita individuale qualcosa della vita universale. III. Producendosi, l'azione si trasforma. a questa stessa trasformazione è quello che si cercava quando si agiva. L'agente si mette in ciò che fa, e ciò che fa lo modella. Quindi il centro di equilibrio della vita individuale si sposta, e si trasferisce nell'opera alla quale la volontà si dedica. ??e??e?a dp???sa? t? ????? ?st? p??. Per comprendere insieme alla nozione di causalità il rapporto tra la finalità esterna e la finalità interna conviene collocarsi da questo punto di vista. Ogni causa per essere efficace suppone una sintesi effettiva. In che modo diverse parti di uno stesso sistema possono cooperare in modo da diventare reciprocamente mezzo e fine, se non perché l'una, causa efficiente, trova nell'altra, causa finale, una spontaneità complice della propria alle dipendenze di una stessa idea direttiva? La stessa cosa succede per le forze che si dicono esteriori le une alle altre, ma che in realtà fanno parte di uno stesso complesso in cui tutto è solidale, e in cui l'adattamento è possibile e perfettibile a tutti i livelli. Pertanto il vincolo causale è insieme il risultato di una disposizione soggettiva e di una associazione empirica. La sua originalità consiste nell'essere al tempo stesso analitico a priori e sintetico a posteriori. Infatti nell'effetto prodotto ciascuno dei soggetti che vi contribuiscono è un agente principale. L'intenzione ideale sembra interamente ricavata dall'agente dell'iniziativa; la risposta sembra venire interamente dal collaboratore; ma di fatto vi è reciprocità tra la forma e la materia, e nell'opera vi è una doppia operazione simmetrica: ciascuno crede di fare tutto. A livello di intenzione il risultato appartiene tutto a ciascuno, sebbene non costituisca mai soltanto l'apporto di ciascuno. Indubbiamente l'effetto è raccordato alle sue cause solo tramite una relazione sintetica ( di qui l'impossibilità di elevare a verità assoluta il determinismo della natura ). Ma l'effetto non è solamente un fenomeno giustapposto al suo antecedente come sua conseguenza. Esso suppone l'intervento di una seconda causa, anch'essa soggettiva e naturata, se così si può dire ( di qui l'impossibilità di vedere nella causalità una connessione puramente arbitraria ). Tra l'agente e i suoi cooperatori si stabilisce una relazione analoga alla finalità, che associa i membri di uno stesso organismo. In tal modo la volontà diventa come l'anima del determinismo che essa pone al servizio dei suoi fini. L'uomo è davvero " tutto natura ", il vincolo universale. Siccome l'opera operata è sempre una sintesi differente dall'opera progettata, nulla potrebbe surrogare l'esperienza effettiva. E per quanto concerne la scienza della prassi, è già molto provare in questo modo l'impotenza irrimediabile della pura speculazione. Per esempio, nello studio delle funzioni economiche e sociali ci si espone inevitabilmente all'errore quando si considera l'espansione dell'attività umana, e se ne ricostruiscono le conseguenze, senza prendere in esame direttamente il movimento di ritorno e le reazioni naturali. Chi dà riceve. Ma la cosa ricevuta, la cosa donata serve da guida al donatore. Nello spirito più inventivo c'è sempre un fondo di passività; non si fa una scoperta senza imbattersi in un'occasione affrontata con una curiosità attenta. Noi non lavoriamo alla ventura, nel vago e nell'indeterminato, ma l'ordine delle cose orienta il nostro sforzo, sostiene il nostro pensiero, guida la nostra azione attraverso contraddizioni impercettibili. Indubbiamente restano possibili infinite deviazioni. Ma per quanto si faccia violenza all'ordine apparente, esiste sempre, persino negli atti più sregolati, una sequenza regolata nella crescita dell'operazione voluta. Astraendo dunque da questa diversità indeterminabile, dobbiamo continuare a studiare lo sviluppo necessario e la storia naturale dell'opera operata. Raccogliamo i risultati delle precedenti analisi. L'azione individuale si impone al di fuori, non fosse altro che tramite l'espressione naturale e il sistema organico di fenomeni che ne costituisce il segno. Ora questo segno, che cela una tendenza verso un fine voluto ulteriormente, si manifesta, si costituisce, e a più forte ragione opera il suo effetto solo se interessa già alla sua produzione qualcosa di estraneo alla vita individuale. È necessario che esista e, perché esista, è necessario che vi sia coazione. Questa coazione dalla quale risulta il fenomeno dell'atto, per quanto elementare esso sia, è possibile solo grazie a una corrispondenza del contesto in cui si esplica. La continuità meccanica dei fatti determinati e solidali implica un dinamismo esterno. Non c'è bisogno di ricorrere alla metafisica per assodare la verità di questo dinamismo. Che vi siano dei soggetti estranei all'agente è un fenomeno dello stesso ordine dell'esistenza del soggetto medesimo: la connessione di questi fenomeni è necessaria. E non se ne può erogare la scienza che riconoscendo questo determinismo. C'è dunque un duplice movimento in ogni operazione esteriore. Col primo il segno espressivo si impone al determinismo del contesto; col secondo attraverso questo segno si sollecita, si esige e si ottiene la reazione da cui nascerà l'opera desiderata. Perciò il fenomeno dell'azione suppone la convergenza di due serie di fenomeni, una che parte dall'agente, l'altra che è suscitata da un'altra parte. Ogni produzione esige il concorso di due attori. E l'atto carpito, procedendo grazie alla mediazione del segno dall'agente che ha l'iniziativa dell'opera, viene in qualche modo a riunirsi al segno o al fenomeno di cui ha subito la suggestione. Quindi l'operazione esteriore della volontà costituisce una sintesi di fenomeni che includono tra loro un'energia interna, una cooperazione forzata. In questo modo si costituisce il terreno comune su cui hanno luogo gli scambi inevitabili, e in cui si stabilisce la solidarietà universale. Per esempio, non dipende da me il fatto di aver sentito una parola. E tuttavia nel suono che mi ha colpito c'è una parte di spontaneità, una reazione naturale dei miei sensi. La mia recettività è attiva. Ed è così che i fenomeni percepiti hanno una doppia base o, per così dire, una doppia realtà in quello che li produce e in quello che li subisce. La loro consistenza deriva da un concorso di potenze, potenze isolate nella loro intimità, ma di cui essi sono il nodo e l'anello di congiunzione. Se le scienze positive sono sospese all'azione, ciò avviene perché dapprima l'azione fornisce ai fenomeni che ne sono l'oggetto la coesione e la solidità. E perciò il determinismo universale, dominio di queste scienze, rientra con la coazione che esso permette nello sviluppo più ampio della volontà. * * * L'intento del prossimo capitolo è mostrare come l'azione può esercitare un'influenza sugli agenti diversi dal suo autore, e sollecitare la loro cooperazione rispettando la loro iniziativa e la loro indipendenza, ancorché tenda a una unione quanto più intima possibile. - Indico dapprima come il risultato della coazione, staccandosi dalle sue cause, costituisca una creatura distinta che ha un'evoluzione propria e un'efficacia naturale. - Mostro come questa risuscita nelle coscienze in cui è ricevuta come alimento, e come vi è interpretata e ammessa con maggiore o minore riflessione. - Determino ciò che nella cooperazione spetta a ciascuno degli associati. E tutta questa ricerca è dominata dall'idea che sempre più l'intenzione profonda dell'agente è di ottenere una conformità reale con coloro che egli raggiunge, un'unità effettiva, una comunità di pensiero, di vita e di operazione. Lo studio di questo proselitismo spontaneo ci condurrà a comprendere il bisogno di una comunione più stretta delle coscienze e delle volontà tra loro. Capitolo III - Influsso e cooperazione Quando la coazione ha prodotto il suo effetto, il risultato sembra formare un tutto autosufficiente e come una nuova creatura in seno ai fenomeni. Ma per ciò stesso l'opera ha un " influsso " necessario, essa è un ingranaggio nel determinismo generale. Inevitabilmente l'azione è più che l'opera stessa; e al di là di ogni fine particolare c'è un fine più generale. Ciò che faccio da me stesso col concorso di un altro non è più per me solo e per quest'altro solo. L'atto compiuto ha per forza di cose una portata più vasta. E in un certo senso esso esiste ormai per tutti gli altri allo stesso modo che per quegli stessi che l'hanno prodotto. Che cosa significa questa necessità? E vi si cela una segreta ambizione del volere? - Sì; e quale allora? I. Nel momento preciso in cui nasce dal concorso delle sue cause, l'opera non è ancora uno spettacolo per i propri autori. In actu, actus nondum est actus. Quando parliamo non ci sentiamo parlare; e nel fonografo riconosciamo a stento il suono della nostra voce; e sulla pagina in cui ti ritorna stampato, tu sei sorpreso di leggere il tuo pensiero. Ma non appena la nostra opera è compiuta così come è cessata la cieca operazione da cui promana, essa diventa per noi e per tutti gli altri un oggetto in cui impariamo a rispecchiarci. Non conosciamo il nostro volto fin tanto che uno specchio non ce lo rivela. L'azione è lo specchio che ci rimanda un'immagine visibile del nostro carattere. Essa è fatta per essere vista. Il fine perseguito consapevolmente non preclude questo desiderio. Ciò che facciamo lo facciamo anche per cose diverse da quelle che crediamo. Nell'intenzione si cela qualcosa di superfluo. E proprio questa tendenza inglobata si ritrova nello stesso risultato dell'azione. Dapprima l'azione è travasata in un segno immediato; in seguito ha perseguito un fine determinato, per farne un'opera che pareva esserne il complemento; ma non è tutto. Sotto quest'opera afferente a questo scopo particolare sussiste un bisogno più vasto che già comincia a cercarvi soddisfazione. Avocando a sé il risultato di una collaborazione, l'uomo è portato a evocare, a volere non più soltanto l'opera, ma la stessa intimità dell'operatore e del collaboratore. Egli vuole mettere nel suo atto ciò che è universale in ogni soggetto; ed è proprio questo che vuole sia ritrovato nel suo atto. Quindi, ancora una volta, bisogna differire e allargare la nozione che conviene farsi della finalità. In un primo tempo il fine era stato il motivo prediletto, poi la decisione che si sforzava di eseguire l'intenzione volontaria, poi ancora l'oggetto al quale si protendeva l'operazione stessa, poi ancora la collaborazione di questa causa finale, e infine il prodotto di questa coazione riferito alla pristina intenzione dell'agente. Ma c'è di più. Grazie all'apporto del nostro partner che mantiene a distanza causa ed effetto, l'azione consumata è sempre differente dall'azione progettata, e si separa da noi. Comincia a comportarsi autonomamente e a fruire di una specie di vita impersonale. La nostra idea, proprio mentre è nostra, è una idea. E in ogni idea c'è un principio universale. Perciò agendo ci proponiamo ineluttabilmente una soddisfazione dell'amor proprio, diciamo così, disinteressato. Quel che facciamo, lo facciamo ( anche quando avviene per egoismo ) con una specie di lusso, di arte e di superfluo. Non vediamo l'esagerazione di questa propensione persino nel criminale che apprezza la bellezza del suo colpo, o nello sciocco " tanto insensato quanto un gallo che crede che il sole sorge perché lo sente cantare "? Noi non agiamo mai per noi soltanto, proprio come non agiamo mai da soli. Il contesto in cui questa tendenza si segnala in primo luogo con la massima evidenza tra le stesse opere sensibili è l'arte. E l'arte compare fin dai primi oggetti lavorati da mano d'uomo. Sembra che l'opera bella goda di una sufficienza assoluta, che viva, che sia non soltanto il riflesso di un'idea ma un'idea reale, che abbia davvero il potere di essere, di agire e di amare. La bellezza ha un fascino che va ben al di da e al di sopra di chi la percepisce o di chi la riveste. Come nelle opere del genio si cela un significato molto più vasto di quanto si percepisse in un primo momento, così nella bellezza si trova un'espressione impersonale che si gusta meglio quanto più si è di animo nobile. Siamo in presenza di un sentimento che per la sua stessa ampiezza e il suo irraggiamento diventa un'angoscia e un mistero. Come se in ciò che amiamo la nostra ammirazione investisse un amore remoto e più potente, di cui la bellezza conosciuta non sarebbe che un simbolo inadeguato. Quindi in ogni opera umana c'è un misticismo incoativo. Al principio pare che si sia annessa alla rappresentazione delle figure e degli ornamenti un'intenzione superstiziosa, come se l'immagine avesse una realtà in se stessa, facendo propria la vita interiore dell'oggetto che essa riproduce. Si direbbe che esprimere con segni il pensiero di cui è gravida l'anima significhi dare alla luce più di quanto contenuto in questo pensiero stesso, e costruire un idolo. Pertanto l'arte è, quasi in forza di una visione prolettica, il compendio mitico di tutto lo sviluppo futuro della volontà in cerca del suo perfetto compimento. Essa inserisce fittiziamente nell'opera sensibile, nel fenomeno, il reale, il vivente, l'umano, il divino. Essa ingloba istintivamente e scopre intuitivamente l'equivalente simbolico di tutte le aspirazioni ancora implicite del volere. Di tale tendenza all'estetica presente nell'azione, anche la più egoistica e la più interessata, non rileviamo che questa verità: l'opera compiuta acquisisce un'indipendenza relativa. Nella sua maturità essa cade come un frutto coperto del suo fiore e pieno di semi. E dal momento che vi abbiamo deposto un'intenzione e un pensiero, essa trascende singolarmente la vita individuale in cui affondava le radici. Se l'arte costituisce la natura stessa dell'uomo, o almeno il simbolo dell'esplicazione totale della sua attività, ciò avviene perché nella bellezza che essa esprime fa dell'opera bella una verità separata e impersonale; e tende a riscattarla dal tempo e dallo spazio perché domini la diversità dei gusti particolari. Proprio a motivo di questa impersonalità l'opera d'arte non sussiste per l'autore più che per l'osservatore, ma bisogna riplasmarla in se stessi per sentirla e comprenderla. Perciò in qualsiasi azione veramente umana c'è quello che Kant chiama " una finalità senza scopo ",48 cioè una realtà indipendente dalle occasioni immediate che ne sono state il pretesto e dagli agenti che l'hanno prodotta, una virtualità indefinita. Generata dalla potenza impersonale della ragione, quest'opera è a sua volta prolifica, conservando dalla sua origine un bisogno di espansione e di propagazione. Ecco in che modo di fatto, e senza superare le relazioni reciproche tra fenomeni, si realizzano da sé le formule in cui la Critica della ragion pratica cercava la pura espressione del dovere. Non si può e non si vuole ingabbiare in sé la propria vita. Agendo agiamo per tutti e in tutti. È questa la ragione per cui tutti noi siamo portati a massimizzare la nostra condotta. Nel momento stesso in cui siamo coscienti di fare un'eccezione in nostro favore, e di trattarci come una personalità incomparabile, fuori del comune, ci poniamo come un esemplare vivente con la forza bruta del fatto compiuto. Se siamo indotti a incarnare l'intenzione nel corpo di un'opera che sta davanti a noi e agli altri come un nuovo agente, è perché nella decisione iniziale era già incluso questo desiderio di fare dell'atto una specie di creazione separata dal suo autore, partecipe della realtà comune, con una sua consistenza al cospetto di tutti, dotata di questo carattere di universalità celato in tutto ciò che ha posto nel determinismo oggettivo della scienza. Non è forse necessario che vi sia proporzione tra l'impulso della forza e l'effetto che essa produce? Se per esprimersi con un segno e con un'opera l'intenzione ha innescato questo determinismo, è chiaro che lo ha fatto per segnare la stessa opera col sigillo della sua potenza, per farne una verità reale e generale, ?????. Ed è questo fine perseguito implicitamente che ha sostenuto lo sforzo, è esso che provoca l'efficacia del volere. Si riesce ad agire volontariamente nell'universo solo perché l'azione deve avere una portata virtualmente universale. Dunque ciò che è vero per l'apparenza materiale è vero innanzitutto per il senso che essa esprime e di cui il segno è il veicolo. Se l'atto realizzato ha un carattere impersonale e un'evoluzione indipendente, ciò costituisce il fatto letterale di cui bisognava ritrovare l'ispirazione interiore. L'intenzione, l'operazione che l'attua, l'espressione materiale che la manifesta, la coazione che costruisce l'opera, l'influsso che ne scaturisce per attrazione o per insegnamento, tutto questo costituisce una trafila. Gli stoici dicevano che niente è spregevole nella casa di Giove. Nell'esplicazione della volontà niente è arbitrario, insignificante, accessorio. E come sotto il segno in apparenza estraneo all'intenzione è stata scoperta la via diretta che porta al fine agognato, allo stesso modo qui, sotto l'opera realizzata, appare il proselitismo nascosto e l'influsso latente che ne è la ragion d'essere. Ogni opera prodotta è una propaganda in atto. Strana illusione quella di credere che si possano limitare o estendere a piacimento le conseguenze della propria azione, che sia lecito ingabbiare in sé la propria vita, di farsi del male senza farne a nessun altro, di entrare o di uscire come e quando si vuole dal mondo che ci circonda, dalla vita universale, dalla morale. Qui siamo, qui ci muoviamo, qui piantiamo i nostri atti e i nostri pensieri come semi fecondi all'infinito. Tanto varrebbe dire che il seduttore non deve nulla alla donna innocente che ha gravato con un germe di sofferenza o di morte. Traendoci fuori di noi stessi, l'azione è per gli altri affinché di rimando gli altri siano per noi. Essa offre loro i nostri pensieri, è il cemento sociale, è l'anima della vita comune. Perché non basterebbe isolarsi nell'intenzione? Perché l'individuo non può isolarsi. I suoi atti formano il contesto in cui affonderanno le radici altre opere. In questa atmosfera delle coscienze fioriranno nuove intenzioni. Certo, è un errore ingenuo immaginare che si possa mancare senza nuocere agli altri. Non è possibile agire male senza recare più detrimento e provocare più dolore di quanto si vorrebbe credere, come un'opera cominciata male arreca danni senza fine. Ma allo stesso modo qualunque cosa facciamo, sia che analizziamo a fondo un'idea o costruiamo un muro, farlo bene significa compiere un servizio pubblico. Pertanto se l'opera materiale ha un carattere di universalità nel quadro del determinismo dei fatti in cui si colloca, ciò avviene perché essa ha anzitutto una portata parimenti universale nel quadro del pensiero e dell'intenzione genuina. Senza dubbio noi agiamo in primo luogo per noi stessi; e se facciamo ricorso al di fuori, lo facciamo perché ignoriamo noi stessi fin tanto che non ci misuriamo con l'esterno. Ma ciò che facciamo per conoscerci è fatto per essere conosciuto da altri. È lo spettacolo della nostra ragione. È dunque lo spettacolo del/o ragione. Dal momento in cui l'atto è voluto, si indirizza implicitamente a tutto ciò che è in grado di comprendere e di volere. Una sola e identica parola è ricevuta integralmente da mille ascoltatori. L'azione è la moltiplicazione del verbo interiore che, avendo rivestito un corpo per offrirsi a tutte le sensibilità, si dispensa in comunione all'universo, e vi diffonde all'infinito il suo seme fecondante: è l'organo della riproduzione spirituale. In tal modo si spiega che tutti i segni, tutte le opere e tutte le produzioni dell'uomo o della natura abbiano il loro indice vivente nel linguaggio. Il linguaggio è l'equivalente manipolabile, animato, intellettualizzato dell'universo intero. Le parole conservano in sé qualcosa di tutti gli oggetti che evocano e di tutti i pensieri che se ne nutrono e se ne servono. Gravide di luci e di misteri, esse non rendono mai del tutto il verbo interiore, e lo trascendono sempre. Come la nuvola è un misto di ombre e di raggi, così né le parole adeguano l'infinito dei pensieri né i pensieri adeguano l'infinito delle parole. Esprimono a vicenda l'individuale e l'universale. E per questo le parole creano l'atmosfera intellettuale degli spiriti. Grazie a esse non c'è nulla che non sia una sorta di alimento già digerito dalle coscienze. E se qualsiasi azione può essere espressa e spiegata per mezzo della parola, ciò avviene perché dapprima ogni azione è una parola implicita, cioè esprime un bisogno di rivelarsi a tutti. Non vediamo con quale forza ogni giorno crescente l'uomo cerca di fissare le sue idee e i suoi sentimenti, di universalizzare e di immortalare i suoi atti o le sue opere, di comunicare con tutto il mondo e con tutte le epoche, di interessare l'intero universo alla sua infima persona? Un primo punto pare acquisito: l'azione volontaria, costituendo un'opera distinta, manifesta un'intenzione implicita ma certa. Al di là dell'atto individuale e dell'oggetto particolare in cui si è concretizzata, essa aspira a rivestire un carattere di universalità, a prodursi in modo da poter essere compresa da tutti, a creare un'opera che valga in se stessa, e che sia capace di esercitare a sua volta un'azione. Come diventa efficace questo influsso? II. Per il carattere universale di cui è rivestita, l'azione tende ad accostare e a penetrare altre coscienze. Possiamo dire che se essa diventa visibile, lo diventa per essere vista. Questa relazione, questa progressione continua che ci porta, dalla costruzione materiale del segno o dell'azione sensibile, al bisogno naturale di essere considerati, compresi, imitati, assecondati non è stata ancora rilevata a sufficienza. Senza conoscerli, noi facciamo assegnamento sul consenso di altri soggetti, in modo da irradiare, volere e vivere in essi. L'opera, separata dai suoi creatori di cui conserva e unisce i tipi senza esserne la riproduzione identica, vive e cresce come il bambino. Porta in sé la scintilla di un pensiero che cerca di comunicarsi; è a sua volta attiva e generatrice. Se si ritenesse che ogni pensiero può agire direttamente ed effettivamente su ogni altro per coazione, come si smuove una pietra, l'idea di influsso conserverebbe il carattere superstizioso o infantile che aveva ereditato dall'astrologia e costituirebbe un pregiudizio fatalista. Ma, viceversa, significherebbe cadere in un idealismo arbitrario e illusorio, se si abolisse, con una specie di protestantesimo spirituale, ogni comunicazione tra le coscienze, si pretendesse che ognuno viva per sé ( come se in questo caso si potesse conoscere in primo luogo che vi sono altri spiriti ), si ritenesse che ogni soggetto sia fondamentalmente originale " senza finestre verso l'esterno ", che niente entri in lui o ne esca, che l'individualismo e la discontinuità siano la legge assoluta del mondo intellettuale come l'evoluzione continua è quella dei fenomeni sensibili, ci si convincesse che possiamo restare indifferenti o che siamo davvero estranei alle conseguenze dei nostri atti, delle nostre parole, dei nostri esempi o dei nostri insegnamenti, come se nulla entrasse in noi o in altri che non fosse deliberatamente controllato e accettato in entrata o in uscita. E tuttavia quanto poco ci si è preoccupati di considerare in maniera ravvicinata questi problemi che presentano un interesse così vitale! Al contrario, è necessario considerare l'opera non soltanto come il prodotto o l'effetto, ma come lo strumento e il vincolo di un'unione più reale tra le coscienze che per natura sono solitarie e sconosciute le une alle altre. E come l'atto consumato costituisce un insegnamento, una convalida o un impulso per colui che lo compie, così l'opera compiuta e sussistente rappresenta un alimento e una spinta per chiunque ne subisce la presenza e ne è investito anche se involontariamente. Non v'è dubbio che questa predicazione vivente dell'opera può davvero produrre il suo effetto non per imitazione pedissequa o per un impulso materiale. Non c'è nulla di più stolto o di più pericoloso della fedeltà puramente esteriore di una copia maldestra o l'applicazione meccanica di ricette e di formule. Era questo il lato ridicolo delle Preziose. Per essere feconda, è necessario che l'opera, separata dai suoi autori come il seme di grano dallo stelo, in qualche modo muoia prima di essere pronta a rinascere su un altro terreno. È necessario che essa si dissolva, come il seme sotto terra, per germinare e crescere. È necessario che, per giungere alla coscienza degli altri, segua quei canali segreti attraverso cui passano goccia a goccia, in maniera invisibile, le infiltrazioni che alimentano la sorgente della conoscenza e dell'azione. In verità è un compito delicato quello di spiegare la trasfusione dei pensieri e dei moventi dell'azione da una coscienza chiusa a un'altra coscienza chiusa. Indubbiamente tramite il determinismo universale, come abbiamo visto, l'azione esce fuori di noi come un alimento offerto ad altri agenti. Ma a questo livello non è altro che il simbolo di una propagazione più intima. Infatti ogni pensiero è anche un'espressione particolare dell'universale. È questo il principio della comunione reale tra le intelligenze. Nelle concezioni e nelle opere più personali c'è un carattere di impersonalità che le rende accessibili a tutti, e che le colloca nella comunità degli spiriti. Quindi ogni azione, in cui l'uomo mette una piccola parte di pensiero, costituisce un'idea vivente, che ari il suo campo, che tessa una stoffa, che tagli una pietra di marmo. Ma queste idee reali conservano il loro valore universale sotto la forma determinata che esse rivestono, e da cui non possono separarsi senza perire. È questo che le rende incomunicabili. Quindi, grazie a quello che vi è in esse di comune e di impersonale, le suggestioni più singolari e le opere più eccentriche possono essere interpretate. In forza della duplice mediazione del segno particolare e dell'idea generale, la cui unione costituisce la loro vita, esse sono capaci di risorgere in altre coscienze, di agire sulle decisioni e di spuntare a modo loro su un terreno differente. Come il tipo specifico persiste attraverso tutti i capricci della natura e tutte le trasformazioni ereditarie, così vi sono anche famiglie di spiriti, una discendenza e un'evoluzione delle idee per via di filiazione o di alleanza. E grazie a ciò che vi è di generico in ogni atto umano, noi tutti penetriamo gli uni negli altri, e vi apportiamo insieme all'impulso della ragione generale le abitudini o le aberrazioni della nostra cultura particolare. Un vivente nasce da un vivente. E se fosse indispensabile entrare nei dettagli delle vie di questa fecondazione, quante vie aperte ai germi contagiosi apparirebbero! Che cos'è, infatti, un pensiero realizzato in un'azione, che diventa per noi uno spettacolo e una lezione, se non un esempio e un incentivo? Sapete che cos'è uno scandalo? È la formula dei bisogni confusi che si agitano in noi, che probabilmente non osano prendere chiara coscienza di sé. È il riflesso degli appetiti segreti che alla fine trovano la loro espressione manifesta. È la giustificazione di fatto delle tendenze inconfessate. È un ostacolo accantonato e un pudore smarrito. Spogliando a poco a poco certi sentimenti di quello che hanno di inconfessabile quando si ritiene di essere soli a provarli, l'insegnamento degli atti genera la tirannia del rispetto umano. In tal modo si forma sotto influssi invisibili l'atmosfera morale e lo spirito del secolo. Già la maniera del tutto materiale con cui viene realizzata l'intenzione costituisce una strada aperta agli imitatori. Ogni atto è una scoperta. Infatti per agire non basta provare un vago desiderio o formare una concezione astratta; occorre anche inventare mezzi precisi e gratificazioni reali. Ebbene l'esempio ne propone l'invenzione già bell'e fatta. Ma non è tutto. Più a fondo, nell'influsso esercitato dall'azione, c'è da tener doppiamente conto del pensiero e del corpo in cui esso vive. Dopo che, grazie alla coazione, l'opera di una parola e di uno spettacolo è prodotta al tempo stesso dall'attore e dal testimone, non soltanto essa agisce nella misura in cui vi è, nello spettatore, l'arida rappresentazione tutta esteriore del fenomeno che egli subisce partecipandovi; ma, al di sotto di questa visione distinta che lascia alla sua decisione la piena padronanza di sé, si attua anche un lavoro inconsapevole che riempie di incitamenti segreti e di sentimenti confusi il quadro astratto della conoscenza fredda e vuota. L'attività sorda che il testimone, anche passivo, esplica spontaneamente per fruire dello spettacolo che gli è offerto è come una prima velocità acquisita. Sentire e percepire significa già cominciare a fare. Perché, come osserva Platone, nell'acquisire le conoscenze si corre un grande rischio. Non le si può caricare su una nave diversa dall'anima. E quando vi sono entrate, si è fatto un bene o un male senza rimedio. Ma c'è di più. L'opera costituita infatti, racchiudendo più di quanto avesse pensato la previsione chiara, contiene anche più di quanto l'immagine chiara ne dipinga nella coscienza. Se da un lato l'espressione sensibile di un sentimento non rende mai tutto quello che sentiamo nel cuore, dall'altro c'è sempre anche in questo atto del segno qualcosa di più e di diverso dallo stato d'animo a cui corrisponde. Esso manifesta anche quello che in noi rimane oscuro e che ci sfugge. E siccome l'azione aggiunge un complemento necessario al pensiero e all'intenzione, perché l'operazione realizzata costituisce una sintesi arricchita ulteriormente di elementi nuovi, è dunque naturale che l'atto, rivestito della sua escrescenza sensibile, abbia su altre coscienze la doppia efficacia di ciò che esso ha a un tempo di intelligibile e di materiale. Pertanto grazie a ciò che la stessa lettera ha di infedele, di esteriore e di inadeguato allo spirito che vi si incarna, essa lo completa e lo trascende in qualche modo. Ciò che da all'opera percepita e interpretata tutta la forza di agire su chi la percepisce è ciò che in essa ha bisogno di essere interpretato. Essa porta con sé il suo magma e il suo involucro, come nel seme intorno al germe vi è sempre una prima provvista di alimenti. Dunque la natura profonda e duratura dell'influsso esercitato da un'opera dipende dal modo stesso in cui in essa l'idea è unita alla sua materia. Più questo legame è stretto, più la vita vi si esprime con potenza e fecondità. È proprio del genio scoprire i rapporti remoti tra le cose, e operare una sintesi più semplice e più stabile con più elementi dispersi. In questo medesimo composto, per ciò che ha di oscuro, esistono virtualità latenti che il tempo fa passare all'atto a poco a poco. Non vi è nessuna grande opera cui la folla non collabori. E con i secoli questi collaboratori anonimi riprendono o aggiungono la loro parte. Man mano che le opere umane vivono più a lungo occorre trovare motivi più profondi per questa sopravvivenza: non certo che il loro autore abbia visto in anticipo tutto ciò che le età successive scoprono nei loro pensieri. Il destino dei grandi inventori di solito è quello di trovare altre cose, e più numerose, di quante ne sapessero, di approdare in America credendo di sbarcare nelle Indie. E nondimeno essi ne hanno seminato il germe fecondo. Sono ancora loro che in qualche modo fanno ciò che fanno fare. Essi impegnano l'umanità in una via che forse senza di loro non si sarebbe aperta in quel modo; e, fungendo da capofila nel gregge umano, orientano, talvolta a loro insaputa, i popoli e le civiltà. La varietà dei mezzi e dei fini è illimitata nello sviluppo della vita e della scienza. Ogni azione è una svolta nella storia universale. Bisogna sempre agire come se si governasse il mondo: gli altri forse sapranno raccogliere e far fruttificare il minimo dono che sarà loro offerto. Ciò che facciamo fare, senza dubbio lo facciamo; ma nel contempo qualcuno ci fa fare ciò che facciamo. Pertanto le grandi opere della scienza, dell'arte o della virtù che trascendono la coscienza individuale appartengono a tutti. Da tutti esse ricevono a poco a poco il loro senso e il loro commento. Da tutti dipende che venga impercettibilmente modificato il giudizio su di esse. Il loro influsso è indeterminato. L'opera si arricchisce con ciò che il tempo vi aggiunge lentamente. E tuttavia rimane sempre se stessa, perché non vi si è aggiunto altro se non ciò che una pratica più lunga e più varia della vita ha dimostrato esservi contenuto di fatto. Forse che una pagina di Dante o una cattedrale gotica per noi uomini del XIX secolo è quello che era nel XIII secolo? È come se, posandosi sulle parole, sulle idee e sulle pietre, lo sguardo degli uomini finisca di scolpirle e le pervada di energie nuove che conferiscono alle rovine stesse un supplemento di vita. Ma il primo iniziatore non può rifiutare la paternità di questa generazione illimitata. Il legame che perpetua la continuità del suo intervento non si spezza mai. Se per natura l'azione operante è come l'unione tra un'idea e un corpo, ??µ??, questo matrimonio è indissolubile e fecondo all'infinito. Indubbiamente è possibile che l'opera, per così dire adibita ad altro uso e stravolta, subisca il vento delle opinioni e il capriccio delle interpretazioni insolenti. Una favola, che agli occhi del brav'uomo avventato che l'ha raccontata è priva di malizia per l'infanzia innocente, allo sguardo del moralista appare carica di egoismo e di libidine epicurea. Gli gnomi di Teognide, ispirati da un odio angusto e feroce da aristocratico vinto nelle lotte politiche, colmi di passioni ignobili, nella democrazia delle epoche successive diventano un'antologia morale per gli studenti. Ma proprio perché le opere sorpassano sempre la lucida visione del loro autore, perché le più rigide restano malleabili, perché la loro energia generatrice investe ciò che esse conservano di incompiuto, la volontà iniziale per una specie di atavismo resta immanente a tutta questa prolificazione, che talvolta sembra tradire o andare al di là delle sue intenzioni. Non c'è bisogno di aver previsto con chiarezza il contenuto di un'azione per rimanere legato alle più remote conclusioni delle premesse e per soggiacere, correttamente, alle esigenze della logica nascosta che vincola la decisione a tutti i suoi effetti. Perciò quante legittime precauzioni conviene prendere quando si tratta di questioni in cui il minimo errore si propaga a ondate infinite di sofferenze! Quante occasioni di responsabilità per chiunque insegna o agisce: ciò che si è detto, ciò che si poteva dire altrimenti, ciò che non si è detto quando bisognava dirlo! La cura della trasparenza e della chiarezza è una cura morale. Le false applicazioni di un'idea non si innestano forse sui punti oscuri? Perché la verità non vale mai se non per l'unità totale della sua espressione, mentre le obiezioni e le eresie hanno sempre il destro di attenersi al dettaglio. Quanto male può fare una conoscenza parziale! Finché le idee vengono dal di fuori, rischiano di essere funeste. Esse sono buone e vere solo se, nella circolazione della vita, affiorano dalle profondità dove si formano le certezze personali. Vi sono verità premature o fuori posto che bisogna, non dico snaturare o dissimulare, ma offrire agli spiriti nella misura in cui possono reggerle. Nell'educazione c'è un duplice eccesso perverso: l'indifferenza nell'esibire ogni cosa e la neutralità nel non insegnare nulla. In tutte le coscienze vi è per ogni idea un'epoca di pubertà che non si può anticipare senza commettere un delitto. Stiamo quindi attenti all'influsso anche di ciò che crediamo la verità. Qualunque cosa si dica o si faccia, c'è da esercitare un'arte, l'arte della vaccinazione intellettuale. L'azione dunque è efficace per ciò che ha di totale e per ciò che ha di parziale, per ciò che in essa è chiaro e per ciò che è oscuro, per la sua idea e per il suo corpo, per la necessità del determinismo e per le suggestioni della vita spontanea, per l'originalità della sua invenzione e per il principio universale che rende ogni idea accessibile a tutti gli spiriti. - Queste sono le vie, questo è il meccanismo dell'influsso. In primo luogo la decisione volontaria si proietta in un atto. Essa crea la sua espressione e si incorpora in un'opera. Quest'opera, che già presuppone il concorso effettivo di altri agenti e che si delinea in essi per effetto dello stesso determinismo dei fenomeni, con la vita infusa posseduta sollecita un lavoro di interpretazione e di assimilazione. Per esempio, non dipende da noi capire una parola: questa è una necessità ancora cieca, per quanto noi contribuiamo all'impressione soggettiva del suono. Non dipende sempre da noi il fatto che non capiamo questa parola. Si tratta di un'elaborazione spontanea contro la quale talvolta è impossibile difendersi. Ora, già in questo lavoro di traduzione interiore si insinuano, insieme all'immagine e al senso trasmesso al pensiero, un'attrattiva e un impulso. Proprio da questa suggestione la conoscenza deriva in parte la sua forza. Perché spesso è tanto più influente quanto meno la riflessione vi interviene, e quindi non ci si può guardare da essa. Ecco perché l'autentica azione che si esercita sugli altri non è sempre quella di cui essi si accorgono. Pertanto l'educazione deve il suo potere soprattutto al reticolo invisibile col quale avviluppa le facoltà nascenti, alla muta ispirazione che inocula nel cuore del giovane nel momento stesso in cui lo convince che le sue idee provengono tutte da lui stesso, alla silenziosa abitudine di cui pervade il suo giudizio e il suo carattere. III. Due punti sembrano assodati. - L'azione umana tende a rivestire un carattere universale e a diventare una propaganda vivente. - L'influsso dell'opera operata si esercita per vie molteplici. Esso si espande. Ma per espandersi e mentre si espande, trasforma e risuscita in modo sempre originale l'intenzione primigenia. - Si prospetta dunque un terzo problema da risolvere: questa trasformazione feconda delle nostre idee e delle nostre opere in altri agenti rientra essa stessa nella nostra pristina ambizione? Che cosa vogliamo noi di quanto gli altri fanno dietro la nostra ispirazione? Dove finisce la coazione e dove comincia l'adesione di un concorso libero? Come operare una separazione tra ciò che si raccorda veramente all'iniziativa dell'autore e ciò che rappresenta l'operazione specifica del cooperatore? A che cosa mira questo bisogno di essere visto, compreso, imitato? L'azione è una funzione sociale per eccellenza. Ma proprio perché è fatta per gli altri, riceve dagli altri un coefficiente inedito e, diciamo così, una riforma. Agire significa evocare altre forze, fare appello ad altri io. Si annida anche qui un disegno segreto del volere? Quando agisco su forze brute, di solito mi aspetto dalla loro operazione una modifica radicale del mio atto. Per ottenere la combinazione chimica di cui ha bisogno, l'industriale fa appello a energie di cui ignora la natura profonda. Egli provoca una risposta che sembra totalmente differente dalla sua iniziativa personale. Egli non si accorge neppure che, se contribuisce alla produzione comune con una sua idea, ne riceve altresì una dall'esterno, e che, se questi agenti estranei gli forniscono una materia, lui pure serve in qualche modo da materia alle potenze di cui requisisce il concorso. Egli dimentica volentieri ciò che c'è di suo nell'opera. Non sembra essere ciò che fa. - Ma nella misura in cui le forze che concorrono all'opera comune sono dotate di una spontaneità più consapevole, la natura della cooperazione sembra cambiare. Quando agisco su altri spiriti con l'insegnamento, o se impartisco un ordine, ho la pretesa di ritrovare il mio stesso pensiero in altri quasi come se fosse la mia opera. Voglio che l'azione del mio scolaro o del mio operaio ricalchi la mia. Esigo che la loro iniziativa si sottometta e si sostituisca alla mia operazione. Trasmetto loro tutto ciò che posso della mia attività, affinché la loro produzione sia identica a quella che ho in mente o che ottengo io stesso. Mi aspetto da essi una perfetta conformità al mio disegno, una totale duplicazione della mia vita intima. Suscito un altro io. E fin dall'inizio la mia azione tendeva precisamente a questa meta. Infatti, se ogni opera nasconde una forza latente di espansione, che cosa c'è di più naturale di questo bisogno di rivivere in altri, questo bisogno di avere discepoli, di avere aiutanti capaci di operare per noi come noi? - Poco fa sembrava che mi aspettassi dalle forze brute un'originalità d'azione; adesso sembra che esiga dalle forze intelligenti una passività di imitazione e di obbedienza. E tuttavia ciò che cerco veramente, ovunque, è un complemento di me stesso, ma un complemento sempre più simile a me, lui pure attivo, capace di iniziativa, insomma tale quale sono io stesso in rapporto a lui. L'apparente inerzia del discepolo non deve creare illusione: il vero maestro sa rendersi passivo e farsi da parte, affinché il bambino sappia ciò che apprende. Essere scolaro del proprio scolaro è l'unica maniera di procurargli questa vita di cui nessun uomo accende la luce in fondo alle coscienze. Hominibus non imperatur nisi parendo. È naturale desiderare che gli altri si conformino a noi. E in questa perfetta conformità delle anime è naturale desiderare che ciascuno conservi integra la propria iniziativa. Perciò, per qualsiasi pensiero bramoso di comunicarsi, quale lotta tra l'impetuosità di una convinzione perentoria e il rispetto di tutti gli intimi pudori! Desideriamo metterci in tutti così come siamo; e vogliamo ritrovarci diversi in ciascuno. Effondiamo ciò che abbiamo di più prezioso, offriamo noi stessi; e degli insegnamenti seminati non rimane nulla che appaia. Ma proprio perché il seme è come perduto nel solco, nessuno lo può più estirpare, e la messe si prepara. Contraddizioni apparenti dei desideri umani: vogliamo che gli altri siano noi e vogliamo che restino se stessi. Ma si tratta di un unico e identico desiderio: espanderci e crescere. Ed ecco come queste due proposizioni che sembrano opposte sono ugualmente giustificate. 1) L'influsso della nostra azione è virtualmente infinito. Esso ingloba tutti gli effetti particolari che ne costituiscono le conseguenze. E sia che queste conseguenze si attuino, sia che non si attuino, esso ne è gravido e quelle rimangono a suo carico. 2) Laddove c'è una decisione intenzionale, il complice, qualunque sia l'influsso subito, rimane responsabile di ciò che ha lucidamente ravvisato e deliberatamente deciso. La legge lo punisce come l'autore principale, e a giusto titolo. Ciascuno opera come se agisse per sé soltanto; e ciascuno opera come se agisse nell'altro e per mezzo dell'altro. Così, per esempio, uno scrittore i cui libri hanno corrotto migliaia di lettori sarà ritenuto responsabile di tutti i germi che una volta disseminati sono cresciuti, o avrebbero potuto svilupparsi nelle coscienze, senza che tuttavia nel suo centro più intimo e nella sua indipendenza radicale egli cessi di governarsi, di poter cambiare, di realizzare il proprio destino. L'idea che si desidera comunicare agli altri è offerta loro sotto una forma necessariamente simbolica. Ossia c'è un lavoro di elaborazione, indispensabile nel destinatario, per penetrare sotto la scorza e per ritrovare lo spirito nella lettera. Ciò implica al tempo stesso la salvaguardia della nostra e della sua spontaneità. Che cosa c'è di più straordinario, a un tempo, dell'impenetrabilità di un'anima refrattaria agli influssi che l'assediano, e della fecondità dei più piccoli semi quando hanno messo le radici! L'organismo è colpito dal contagio solo se porta in sé il germe patogeno. Ma sebbene gli stessi semi non crescano allo stesso modo nei diversi spiriti, tuttavia, grazie a ciò che vi è di impersonale nell'opera e di comune tra i diversi soggetti, il carattere individuale di un'idea, di un desiderio, di un'intenzione può essere, per così dire, innestato su questa nuova pianta e nutrito da una linfa estranea. I frutti colti da questa nuova pianta, anche se attingono l'alimento non alla loro origine ma altrove, ne conserveranno il sapore e la natura. In tal modo si spiega la necessità dell'espansione, i mezzi dell'influsso, e il senso stesso di questa fecondità che fa delle azioni umane come una perenne seminagione. Si da un processo duplice e inversamente simmetrico dalla mia volontà alla volontà degli altri, attraverso l'esecuzione materiale e i fenomeni sensibili che precedono e preparano la rigenerazione spontanea del mio pensiero in una coscienza estranea. Infatti dopo che l'atto si è propagato dalla mia decisione fin nel corpo del segno, esso risale in senso opposto, ma attraverso una via analoga, fino alla vita riflessa del mio testimone, per sollecitare da lui un'iniziativa e quasi una complicità. Il mio intervento, qualunque impulso peraltro gli imprima, gli appare come un motivo d'azione, ma senza vincolare la sua scelta. E nello stesso tempo è vero che io agisco in lui e che egli agisce in sé, da solo. Dunque l'influsso è possibile, e nel mondo delle coscienze si da filiazione e trasmissione, solo in ragione della portata universale dell'azione. Di fatto l'intenzione che io ho messo in pratica deliberatamente viene elevata a massima universale. Quali incalcolabili conseguenze nasconde il piccolo germe di vita soggettiva depositato nel cuore dell'azione! Refrattario alle leggi del tempo e dello spazio, vivo, contagioso e salutare mille anni dopo o a mille leghe di distanza come nel luogo o al momento della sua prima produzione, e capace di conservare sempre, in mezzo alle sue rinascite e alle sue metempsicosi, l'impronta del suo autore e il suo marchio d'origine. Passando all'azione, l'intenzione ha inaugurato un esodo e, per così dire, una " processione " in senso alessandrino. L'opera che essa costituisce segna un nuovo grado di espansione, e sotto il fenomeno che inserisce nel determinismo universale si manifestano il bisogno e il desiderio intimo della volontà. Infatti essa tende a espandersi, a presentare all'esterno la sua immagine, a incontrare altre coscienze, a fare della sua opera esteriore lo spettacolo della ragione e il pascolo comune degli spiriti, ad animare con la sua ispirazione tutto ciò che le si accosta. In effetti la traduzione fedele di questo istinto segreto non è forse l'ardore dell'adolescente pronto a dedicarsi a tutto, a consacrarsi, a effondersi, quasi che non gli costasse nulla, e come per un egoismo la cui stessa ingenuità e sincerità lo porta al di là delle grettezze della sua vita personale? Il segno di questa ambizione invadente e impegnativa non è forse dato altresì da quegli slanci di generosità, da quella confidenza talvolta presuntuosa, o da quegli scoraggiamenti malinconici di un animo giovanile che crede di amare molto perché aspira a essere amato molto, e che soffre di non esserlo abbastanza, perché è lui che non ama e non è disinteressato a sufficienza? Ma in questi sogni dell'adolescente, così colmi di tenerezza che egli vi si sente quasi fondersi e spandersi come uno zampillo d'olio, sogni cari a tutti i cuori, ispirati dall'ambizione del genio, degli onori e del potere sovrano per colare più impetuosamente; nella passione dell'artista che desidera vedere la propria gloria sbocciare come il sorriso sulle labbra o l'aurora in cielo; nell'ardente proselitismo di un'anima che muore dalla voglia di illuminare le menti, e ovunque la sovrabbondanza del cuore cerca di espandersi, si fa sentire un bisogno nuovo e più profondo. Sembra che noi non teniamo più in alcun conto tutto ciò che gli altri sono, fanno e danno, se non abbiamo loro stessi. È nell'opera dell'educazione che si misura meglio sia la forza sia l'impotenza dell'azione esercitata dall'influsso, e comincia ad apparire la necessità di una cooperazione più intima. Quali risultati talvolta insperati, quando si sa manipolare, plasmare e coltivare l'animo malleabile e attivo del fanciullo! Ma d'altra parte che cosa non si darebbe, e spesso non vi si riesce, per vincere resistenze invisibili, per abbattere quelle barriere contro cui non si urta da nessuna parte ma che si intravvedono dovunque, per accendere una scintilla, per entrare fino in fondo e toccare il cuore di coloro che abbiamo davanti, occhi negli occhi, e da cui ci sentiamo separati irrimediabilmente! La fatica del maestro non è nulla a paragone del beneficio che prova a essere meglio gustato dai suoi alunni, a interessarli un po' di più, a far progredire in loro una nuova luce e una più elevata concezione della vita. Non bisogna credere che questo ardore di proselitismo sia estraneo alla comunicazione del vero. Esso è l'anima dell'insegnamento, perché è tutt'uno amare la verità e amare le intelligenze, conoscerla e volerla diffondere, cercarla in sé e suscitarla negli altri, viverne e farne vivere gli spiriti. Pertanto il maestro e il discepolo si uniscono l'un l'altro sotto l'ascendente e nel reciproco amore per una stessa, comune verità. Proprio perché la scienza è indigena in ciascuno e impersonale in tutti, può germogliare e fruttificare sotto lo stimolo della parola dell'insegnamento. Ma anche questo lievito è necessario, perché la verità è vivente, amante e amata solo in uno spirito vivente. Essa ci diventa personale solo se proviene da una persona. Vedere nel maestro solo uno sterile maieuta significherebbe sminuirne il ruolo: egli apporta la vita e l'amore. E la comunicazione delle idee è un'immagine dell'unione che feconda i corpi, ????. Ma queste esigenze non sono contraddittorie? Quando agisco sulle forze cieche, di solito posso ottenere per coazione una loro sottomissione totale; esse mi appartengono. Sono parte di me. Tuttavia, man mano che questi docili servi si risvegliano alla spontaneità, non crescono altresì all'insubordinazione? E quando voglio avere a che fare con altri io, la coazione non sparisce per fare posto all'originalità indipendente di una ragione e di una libertà? Si tratta di strane condizioni da conciliare: voglio che il mio partner sia distinto da me come io lo sono da lui; e voglio che la sua autonomia segua la mia legge. Ho bisogno di avere con lui un'unione piena, sicura e perfetta, senza che l'unità e la dualità siano sacrificate l'u-na all'altra. Sarà possibile risolvere queste difficoltà? - Certo. E probabilmente vedremo persino che, proprio laddove la compenetrazione intima delle volontà sembra illusoria, l'unità diventa estremamente reale ed efficace. Infatti non si tratterà più soltanto di atti provenienti da fonti separate per convergere in un'opera comune, e neppure di coazione o di influsso, bensì di un'unione attiva e feconda a sua volta. Gli atti non nasceranno più da origini differenti, non saranno più i semplici strumenti di un avvicinamento e i risultati di una cooperazione. Scaturiti da una duplice e unica sorgente, essi nasceranno dalle vite e dalle libertà fuse insieme. * * * L'azione non è al termine della sua espansione naturale: essa costituirà le differenti società di cui l'uomo diventa il membro, ma che in fondo egli sorregge e ingloba col suo volere personale. Sembra strano che l'unione feconda delle volontà federate sia compresa in una sola e identica volontà, e tuttavia è così. Anzi, per di più questo bisogno di solidarietà si estende al di là dell'umanità, fino a un legame effettivo dell'uomo con l'universo; si estende al di là dell'universo, non più fino a ciò che è, ma fino a ciò che dovrebbe essere e a ciò che si vorrebbe che fosse; più in là ancora, va fino alle soddisfazioni illusorie di un'autolatria mascherata. La volontà esaurisce tutto, inventa tutto, ammette tutto, anche l'impossibile, per bastare a sé e per appagarsi. Ma non vi riesce; e questa stessa pretesa è contraria al suo desiderio più intimo. È quanto resterà da vedere. Quinta tappa - Dall'azione sociale all'azione superstiziosa L'unione feconda delle volontà e l'estensione universale dell'azione La vita individuale è per forza di cose indotta ad aprirsi e a espandersi. Essa fa concorrere altre forze ai suoi fini, cerca al di fuori un complemento, spera in una convalida e come in una reduplicazione della propria energia. Siccome l'individuo non può chiudersi e non vuole rimanere solo e tutto isolato in sé, aspira a rivivere negli altri. Egli trasferisce, per così dire, il suo centro d'azione non più nella sua opera esteriore, e neppure in quella cooperazione che gli permette di estendere il suo potere e il suo influsso, ma nell'unione intima che contrae con un altro se stesso. Non è questo un modo per moltiplicare in un certo senso e per riempire la propria vita? Egli quindi si dona, per ritrovare in ciò che riceve in contraccambio tutto quello che era già, - quello che era, ma senza poter tenere in serbo da solo l'abbondanza della sua vita. E con un surrogato dell'egoismo, che sembra un " altruismo " condizionato e reciproco, diffonde il suo ardore irradiante, ma perché gli sia riflesso più caldo e concentrato. Come nelle onde sonore vi sono dei nodi, o nella diffusione della luce in certi casi si formano dei fuochi virtuali, l'azione non si disperde senza ritorno e senza concentrazione ulteriore. Così si stabilisce, per azioni e reazioni simultanee, una circolazione e uno scambio da vita a vita. Due esseri formano un'unica e identica fecondità. Si costituisce, se così si può dire, una sinergia. Non si tratta più di una semplice cooperazione, limitata a produrre un'opera che forse sembra vivere, ma che in realtà non vive. È come una sostanza doppia, che vive e produce la vita. È una società reale e un'esistenza unica nella sua stessa molteplicità. È una comunità che funziona come un organismo prolifico, la cui fecondità è data dalla stessa unione. Quindi non si tratta più di consegnare un'intenzione alla morta lettera di un segno, ma si tratta per l'uomo di rivivere nella sua opera e di moltiplicarsi in essa. Qual è il senso di questo prodigio? Pur espandendosi, l'uomo vuole essere contraccambiato. Se si ripara per istinto in un sistema chiuso, quasi per sintetizzare l'irradiamento della sua vita con un duplice movimento di donazione e di recupero, lo fa anche per raggiungere in sé ciò che gli sfugge in se stesso. Se cerca negli altri, lo fa per meglio trovare se stesso. Che se ne renda conto o meno, egli appartiene a gruppi naturali all'interno dei quali i suoi atti non solo si alleano ad altri atti per formare un'opera comune, ma procedono dalla federazione sociale e ne costituiscono la funzione vitale. Qui l'unione non è più soltanto un effetto, ma è una causa. E questi atti veramente sociali presuppongono, per così dire, un connubio già consumato tra gli esseri di cui concertano le volontà. Essi quindi mettono a frutto in noi energie che non sono nulla se non sono fecondate. È un'alleanza da stipulare con tutte le forme della vita, in modo da determinare in noi le potenze sconosciute che tendono con l'azione a inserirci nella vita universale. In tal modo il baricentro del nostro equilibrio interiore si sposterà ulteriormente, e si attesterà in società sempre più ampie, fino a essere per così dire ovunque. Infatti queste società, più o meno comprensive, sono definite e limitate, come lo è ogni organismo. Esse configurano un'individualità collettiva, e posseggono, come un essere vivente, un nome proprio: la famiglia, la patria, l'umanità. Ma mentre sono circoscritte e quasi incastrate tra loro, rimangono aperte e si estendono senza deformarsi. E non soltanto ogni individuo in un gruppo sociale trova il suo posto e svolge il suo ruolo determinato, ma ciascuno appartiene nello stesso tempo a questi gruppi diversi, i quali, crescendo e allargandosi senza mai cessare di essere distinti, procedono come quei cerchi mobili formati da una palla caduta nell'acqua immobile: p??a? ?a? ????st??. Perciò, nello sviluppo spontaneo e persino necessario che fonda le società umane come un'opera della natura, bisogna ritrovare il movimento delle volontà, come se ciascuna per proprio conto, coniugandosi con tutte le altre, si alienasse a tutte senza cessare di trovare soltanto in sé il principio della vita collettiva. È un compito delicato quello di esibire come, mentre la volontà individuale rimane coestensiva allo sviluppo totale dell'azione comune, ciascuno dei diversi gruppi sociali si costituisce, si chiude, si apre, per passare al successivo e chiudersi ancora. - E una prima difficoltà sta nel sapere come arriviamo a volere, a conoscere, a investire altre vite umane: in che modo allora il soggetto può venire a contatto con altri soggetti e fondersi con loro? In effetti non si tratta più di ciò che degli estranei e degli sconosciuti possono apportare all'egoismo individuale, non sono più in questione tutti i contributi che la volontà esige e sfrutta a vantaggio della sua opera. Ciò rappresenta ancora " l'oggetto ", e quello che adesso vogliamo dal soggetto è il soggetto stesso, - non ciò che manifesta e produce, ma la sua intimità, ciò che egli possiede, per così dire, di infinito e di incomunicabile. Finora lo avevamo preso unicamente come mezzo, da lui chiedevamo unicamente un concorso in vista di un'opera che sembrava il fine principale, e di cui egli era unicamente uno strumento. Adesso lo trattiamo come " un fine in sé ", lo sollecitiamo e lo desideriamo per se stesso, da lui ci aspettiamo non quello che fa ma quello che è. Evidentemente quello che vogliamo è, prima ancora che l'opera, l'operaio stesso, per allearci con lui non più come il fine con un mezzo o come il tutto con la parte, ma come il principale con il principale e come la parte con la parte, in un tutto al quale si dedica l'individualità di ciascuno, in una vita davvero unica e in una comunione reale. Ora, come riesce a superare la barriera delle coscienze questo movimento che ci porta verso altre volontà? Se crediamo in maniera del tutto spontanea all'esistenza dei nostri simili, è perché abbiamo bisogno, vogliamo che essi siano. Non si tratta affatto degli indici di sensibilità o di intelligenza che troviamo da interpretare intorno a noi. Chiunque si ferma a questo punto ( se pure è possibile fermarsi qui ) può certo sfruttare la vita apparente degli uomini, ma a rigore rimane isolato di fronte a loro, non è penetrato in loro, non si mette al loro posto. Egli ha davanti solo strumenti di cui si serve con l'abilità e l'egoismo della sua passione, bestie da soma più intelligenti e macchine più sofisticate, ecco tutto. È un errore madornale pretendere di fondare la vita sociale sullo scambio dei fenomeni, sul contatto delle sensibilità o sul commercio degli interessi. No, la società umana, limitata o estesa che sia, non si fonda su un gioco di segni, su un calcolo delle forze utili, su un equilibrio di compensazione delle leggi economiche, sull'esteriorità dei fatti, ma possiede una realtà tutt'altra, perché implica l'unione attiva dei soggetti stessi, la messa in comune delle energie e delle vite. Perché l'opera comune si sottrae sempre, più o meno, alla nostra presa e alle nostre precauzioni. In ciò che facciamo c'è sempre quello che facciamo fare, e in quello che facciamo fare esiste sempre una riserva latente di energia che sfugge alla nostra previdenza e al nostro governo. In tutti i calcoli più accorti dell'uomo pratico o dell'economista bisogna fare i conti con un'incognita che indubbiamente è trascurabile per i sensi e persino per l'intelletto, ma che nasconde l'infinito di una forza o di una volontà. Quel soggetto misterioso e indefinibile che in un primo tempo sembra refrattario alla mia conoscenza e alla mia iniziativa, quell'infinito che sconcerta la mia azione solitaria modificandola senza posa, quell'egoismo che intravedo ergersi di fronte al mio ed è altrettanto inaccessibile nel suo fondo quanto io lo sono per lui, anelo a penetrarlo, ad annettermelo, sono tentato di sottomettermelo e di godermelo. Voglio che questa forza sconosciuta che collabora con me sia un soggetto simile a me, e che questo soggetto mi sia alleato, aiutante, amico. Voglio possederlo in qualche modo, averlo in mano, essere lui senza cessare di essere io e, per meglio essere me stesso, voglio legarlo a me come io mi lego a lui con quella reciproca affezione nella quale Aristotele ha visto il fondamento e la pristina virtù della società. Ai miei occhi lui esiste veramente solo se è per me così come è per sé. Per riconoscere al di fuori di me una vita soggettiva del tutto simile e uguale alla mia, è dunque necessario che con un atto di volontà implicito collochi sotto i segni sensibili e le opere palesi l'invisibile presenza di un'altra volontà. Ecco perché l'amore avido e bisognoso è un organo di conoscenza. Infatti se ogni soggetto è nel suo fondo riflessione, ragione, libertà, non può essere conosciuto veramente che come tale, e di fatto lo è solo nella misura in cui è voluto. Il solo modo di comprenderlo è amarlo. Amore ancora più egoista di quanto comunemente non immagini l'apparente generosità e la pretesa dedizione di chi ama in questo modo, ma amore che nondimeno costituisce una tendenza al disinteresse, e che se sincero conduce l'individuo a staccarsi da sé. Sincero e disinteressato, questi due sentimenti ne costituiscono uno soltanto, fino a tal punto la riflessione prima condanna l'egoismo esclusivo! Quindi " l'altruismo " non è meno naturale, necessario e volontario dello stesso egoismo, rispetto al quale rimane concentrico. L'altruismo è conforme al desiderio intimo della mia volontà, e sembra che non possa essere me stesso, come voglio, se non a condizione di mettermi al posto degli altri. Quindi le formule nelle quali si è preteso vedere l'espressione pura del dovere sono realizzate di fatto, qualunque cosa si faccia. E lo sono in effetti come delle leggi naturali, se non in atto come dei fini voluti. Infatti soltanto l'accordo tra il fatto necessario e la volontà spontanea, per essere voluto nella misura in cui è volontario, esige anche quello sforzo morale di cui la scienza accantona le infinite varianti. Se la vita sociale è una necessità, perché la natura orienta le simpatie e perché la ragione governa l'accordo tra le forze e tra gli interessi, allora a livello ancora più profondo essa è opera della libertà: noi vogliamo che sia. E qui, come del resto dappertutto, la forma spontanea, il carattere inevitabile della nostra azione non è che la traduzione esteriore di una volontà radicale e originale, scaturita dal fondo più intimo della nostra persona. Pertanto quando siamo portati volontariamente ad agire, esigiamo implicitamente al tempo stesso che la società sia, perché la società è il referente di esplicazione e la garanzia stessa dell'azione. Noi possiamo fare assegnamento solo sul concorso effettivo e affettuoso di volontà capaci di corrisponderci con la libertà e la fiducia che usiamo nei loro confronti. E per quanto in definitiva sia ancora e sempre una volontà - la mia volontà personale - che ricerca se stessa, per essere conseguente occorre che essa si guardi da un ritorno immediato all'egoismo. Lo stesso movimento che mi induce a volere che un altro sia come me, mi porta a volere che resti diverso per me, perché esattamente voglio da lui ciò che ha di incomunicabile. È questo mistero, questo infinito della sua vita che mi attira tanto più, quanto meno penetro in lui. Io ammetto veramente che lui è in se stesso come io sono in me solo a condizione di non rapportare la sua operazione, la sua vita, la sua persona alla mia individualità, a condizione di rispettarle nella loro integrità, o meglio di subordinarmi a lui nella misura in cui subordino lui stesso alla nostra comune azione. In effetti come ottenere che in questo rispetto reciproco, che a prima vista sembrerebbe tenere in sospeso e mantenere sulla difensiva i diversi soggetti in presenza, si suggelli un'unione e che la loro intimità li fecondi? - È necessario che da una parte e dall'altra ognuno si proponga un fine superiore a ciascuno di loro presi isolatamente, un fine che sia bene perseguire con uno slancio comune, un fine tale che l'uno possa sacrificarsi all'altro, come nel paradosso eroico in cui un uomo muore per salvare un altro uomo soltanto, simile a lui, inferiore a lui. Non ci uniamo semplicemente per essere uniti; non si può contenere fra due argini questo torrente che scorre dalla volontà. Occorre che l'unità delle vite congiunte sia più della somma delle vite isolate; occorre che questo eccesso si effonda, e che la sovrabbondanza dell'essere molteplice generi un'opera che divenga la sua ragione d'essere. In tal modo si vede ancora una volta, e con maggiore chiarezza, come la sintesi è sempre trascendente rispetto agli elementi che fonde e trasforma e si comprende che, se l'uomo è per l'uomo " un fine in sé ", ciò avviene in vista di uno sviluppo superiore alla loro solitudine reciproca. È perciò palese che non si dà propriamente una statica sociale, perché nelle relazioni umane tutto è in azione, tutto nasce dall'azione, tutto sfocia nell'azione. A questo livello soprattutto non c'è unione che grazie alla cooperazione. Dunque la giustizia, nonostante tutte le astrazioni contrarie, non consiste in un'immobile opposizione di diritti, in una separazione delle persone di natura tale che ciascuno resterebbe presso di sé e a sé; essa è una forza di promozione, che mantiene un equilibrio conforme alla volontà profonda di ciascuno, ma un equilibrio in movimento. Infatti se il bisogno che abbiamo degli altri nasce da un'espansione del volere individuale, esso diventa a sua volta una causa di azione. Tra gli uomini vi potrebbero essere relazioni reali e cooperazione vivente solo grazie a un progresso verso la sintesi sociale. Con ciò risulta dimostrato il carattere a un tempo naturale necessario e libero della società. L'intervento della riflessione non fa che sancire e perfezionare la natura. Alla lenta formazione degli organismi sociali, delle istituzioni tradizionali e delle federazioni spontanee che hanno amalgamato gli uomini senza una convenzione esplicita o un contratto consapevole, essa aggiunge tutto il lavoro di una volontà illuminata. Agendo, essi sono stati necessitati a unirsi, perché agivano allo scopo di unirsi. E agiscono in maniera concertata non soltanto per arrivare all'unione, ma anche per dedizione all'unità, una volta che questa sia costituita. Infatti non si può perseguire un fine comune se non subordinandosi a esso e personificandolo per dedicarvisi insieme agli altri. Pertanto le espressioni del linguaggio corrente come " spirito di famiglia, coscienza sociale, spirito di corpo, corpo della nazione " non hanno un semplice valore verbale, perché un tutto, in quanto esprime una sintesi vivente, non è uguale alla somma delle parti, non trattandosi di parti o di unità aritmetiche, ma di membra solidali che si vivificano a vicenda. Quindi l'azione volontaria è il cemento che edifica la città dell'uomo, è la funzione sociale per eccellenza. L'azione è destinata alla società e noi ci teniamo uniti a vicenda soltanto grazie all'azione. Su questo solo fondamento si costruirà solidamente la scienza sociale, una scienza che sarebbe incompleta o persino falsa se si limitasse a studiare il meccanismo dei fenomeni esteriori e il concerto astratto della vita collettiva, una scienza in cui non si arriva a rendere conto del diritto privato, del potere civile e dell'organizzazione politica se non guardandosi dal metodo impersonale e dalla generalità delle scienze positive, per considerare il modo sempre concreto e particolare in cui la società è generata. Infatti il carattere proprio degli atti è di non poter essere considerati come fatti, senza qualificazione singolare e soggettiva. E come uno non è prima un uomo, e poi il tale uomo in particolare, allo stesso modo la società non esiste senza essere una data società, senza diventare quasi il cuore comune di coloro che si amano in essa e per essa. La sociologia ha un carattere scientifico solo se non è una scienza come le altre. Quindi considerare i fenomeni sociali solo dal punto di vista delle scienze positive significa di fatto abolirli. Infatti è tralasciare esattamente ciò che li distingue dagli altri fenomeni. Per ciascuno di coloro che cooperano alla vita comune la famiglia, la patria esiste solo sotto una forma concreta e singolare, la loro per eccellenza. Bisogna dunque vedere come ciascuno di questi gruppi viene generato da una volontà particolare e precisa. Ciò significherà indicare la strada attraverso cui abbiamo accesso alle scienze sociali, facendo salvo il duplice carattere sociale e scientifico che esse debbono conservare. Molti errori sono derivati dal fatto di non aver saputo graduare la gerarchia ininterrotta e distinta delle differenti associazioni umane; molti altri dal fatto che si sono presi come realtà assolutamente esclusive le une delle altre fenomeni invece compatibili; molti altri infine sono nati dal fatto che si sono considerate delle singolarità dell'azione collettiva come astrazioni generali. Bisogna collocare al loro posto le diverse funzioni della vita. E sebbene forse un individualismo superiore debba assorbirlo, bisogna senza dubbio passare attraverso un socialismo provvisorio. A dire il vero in questa sede è impossibile esaminare in dettaglio la costituzione e la fisiologia di ciascuna delle società fondate col concorso delle persone. È questo l'oggetto di discipline regionali. Ma è quanto meno essenziale rilevare la continuità del legame scientifico, mostrando lo sviluppo ininterrotto dell'azione fino alla sua completa fioritura. Studiarne dunque la volontà, attraverso la sua espansione sociale e nell'impersonalità della sua azione feconda e indefinita. Essa cerca ancora e sempre di completarsi, non volendo affatto restare sola per meglio essere una. * * * Pur formando un sistema chiuso ed esclusivo, ciascuna società aspira a estendersi, e si apre per avere accesso a una sintesi più ampia. Bisogna dunque seguire il movimento della volontà, dall'unione più semplice e più intima da solo a solo, fino al punto in cui questa sinergia tende a oltrepassare i limiti della stessa vita sociale. - Dapprima studio il vincolo dell'amicizia e più in particolare dell'amore. - Poi indago come dalla famiglia si passa alla patria; e mostro che la vita nazionale è un bisogno spontaneo e una costruzione naturale della volontà. - Infine faccio vedere come, straripando oltre il perimetro della città, la nostra azione solidarizza con l'intera umanità, ma senza trovare ancora in questo nuovo allargamento l'equilibrio e la sufficienza di cui va in cerca. - Occorre capire bene che è sempre l'azione volontaria che col suo progresso genera e giustifica queste forme susseguenti della vita umana, che queste forme si sovrappongono e si completano a vicenda, che ciascuna aggiunge a quella che la prepara una nuova perfezione, ma senza per questo abolire l'indipendenza relativa e la perennità delle forme precedenti. Capitolo I - L'unità volontaria e l'azione feconda della vita comune Famiglia, patria, umanità Noi non abbiamo bisogno soltanto del concorso e delle opere degli altri. A che servono tutti i loro doni, se non si donano e non abbiamo loro stessi? Ciò cui aspiriamo è il loro affetto, la loro volontà, la loro azione carica di dedizione e di amore. È questa la sorgente capace di rinfrescare un ardore che non può raccogliersi interamente in noi, il focolare che riscalda un'attività che minaccia di estinguersi per mancanza di alimento. In questo bisogno e in questa volontà risiede il segreto del mistero dell'amicizia. Non basta un desiderio vago e generico di unione con gli uomini; ci vuole un punto di partenza preciso e una scelta estremamente concreta. L'uomo è entrato nella vita per un amore assolutamente unico, e per un amore del genere vi rientra a sua volta. Ma come legarsi in maniera tutta particolare a un essere che non ha niente di particolare? Come far sopravvivere l'affetto alla perdita di tutte le qualità che ci avevano legato alla persona amata? In effetti due vite si sono unite non soltanto in ciò che conoscevano l'una dell'altra o di se stessa, ma fino al principio delle loro azioni comuni e dei loro sentimenti indivisi. Ed ecco perché, secondo la bella espressione di Aristotele, un'amicizia che è potuta finire non è mai stata autentica. Ecco perché nella più ordinaria natura d'uomo c'è sempre qualcosa di unico che merita di essere amato in maniera unica. Il grido naturale del cuore è questo: amare se stesso amando sinceramente un altro; donarsi e duplicarsi con questa donazione; vedersi diverso in se stesso, e vedere se stesso nell'altro; non essere minimamente solitario ed essere solo; unirsi e abbracciarsi distinguendosi; avere tutto in comune senza confondere nulla, e restare due persone per fondersi continuamente come un tutto unico e in un solo essere più perfetto e più fecondo; focalizzare centomila raggi di gloria nella stima amorosa di un'anima; preferire un'anima che ama interamente a un milione che amano molto. Non vi pare che da questo accostamento ci si aspetti una vita nuova, e che ogni affetto totale sia destinato e quasi sospeso al proposito di dar vita a un'opera comune di coloro di cui essa consacra, giustifica e suggella l'unione? Ogni azione sociale è quindi una sorta di generazione. Essa infatti deriva dal bisogno che sentiamo di estendere ad altri la nostra volontà e di reduplicare la nostra vita. Noi vogliamo che il risultato di questa donazione sia altro da quello che eravamo già, un arricchimento, un pegno atto a incoraggiare, a stringere e a sancire il vincolo dell'affetto reciproco. Nel perimetro dell'umanità questo movimento di espansione e di ripresa si arresta a tre termini progressivi principali: la famiglia, la patria, l'intera società umana. In che modo la volontà genera ciascuna di queste sintesi definite in cui si incorpora la sua azione, e come passa dall'una all'altra ampliandosi? I. Tutto quello che tocca, tutto quello che sa, tutto quello che ottiene dal concorso degli altri, tutti i fini finiti che persegue all'esterno e che raggiunge non hanno potuto saziare l'appetito che ha spinto l'uomo fuori di sé, in cerca di una risposta adeguata al suo appello. L'immensità di questa soddisfazione, che l'uomo può aspettare solo da un altro se stesso - da un altro incomunicabile e impenetrabile come lui, - si offre a lui nell'unità intima e chiusa di una vita estranea alla sua. Essa gli è estranea. Egli ci vuole entrare per formare con essa un mondo separato e per rinchiudersi quasi in un universo totale e indipendente. È l'amore, l'amore esclusivo, geloso, passionale, spesso egoista nel suo fondo. Ma seguiamone lo sviluppo, decifriamone le aspirazioni segrete. Sotto gli allettamenti del godimento sterile si ritroverà il profilo serio della volontà feconda. Non è forse anzitutto una prima attrattiva e un movimento sincero quello che ci porta a vivere per mezzo degli altri e per gli altri? Quella tenerezza e quella dedizione che l'egoismo solitario è impotente a darsi, l'amore dell'uno le vuole e le realizza per l'altro. È un egoismo a due, tanto più delicato e remunerativo in quanto perde di vista se stesso e immagina di essere diventato l'esatto contrario. Indubbiamente se si andasse al fondo di tutte le cortesie, le sollecitudini e le generosità dell'affetto scambievole, se dagli atti si risalisse, attraverso il tenue filo dei ragionamenti impliciti, fino al principio dei sentimenti inavvertiti, si rimarrebbe sorpresi, come lo è stata la maggior parte dei moralisti, dell'amor proprio mascherato che è in gioco dietro una facciata di bontà e abnegazione. Per fare un esempio: quando si piange per una separazione, si piange se stesso. Ma l'amor proprio ha la vista ancora più lunga dei moralisti. Esso intravede che l'affetto vero che si sente per un altro è più gratificante di un egoismo troppo sollecito a godere di se stesso. Poiché il fine ricercato consapevolmente non esaurisce il desiderio e l'azione di solito supera l'intenzione definita, ne viene che le cause profonde dell'atto e i suoi stessi effetti possono apparire sottomessi alla legge dell'interesse, senza che lo stesso agente sia interessato. Quindi a livello ingenuo adoriamo essere amati, e desideriamo amare. Infatti nell'amore donato c'è un'attività liberale che sola prepara il cuore a gustare un dono reciproco. E nell'amore ottenuto e ricevuto c'è un'ammirazione, una fiducia e un'abbondanza che restituisce con l'interesse tutto ciò che l'amante era sembrato sacrificare all'amato. Quando il bambino, che parla di sé con una ingenua tenerezza, si stupisce di non potersi abbracciare, è l'immagine di questo egoismo disinteressato che aspetta il bacio di un altro egoismo e si scambia con esso. Cosi ciascuno ha il merito della sua rinuncia totale e morbida. Nello stesso tempo ciascuno ha il beneficio di una tenerezza vigile, di cui l'egoismo più odioso non eguaglierebbe la nobile sollecitudine. Ciascuno ha la gioia generosa di gustare e di ammirare la dedizione da cui trae profitto. Il miracolo dell'amore non è forse di godere sia del proprio disinteresse sia del disinteresse dell'amante, pur raccogliendo ciò che non potrebbero procurare le finezze dell'interesse più avvertito e più sottile? Ma per raggiungere questa perfetta intimità quale arte, potremmo dire quale scienza della vita comune, non bisogna acquisire ed esercitare! Se per padroneggiare e governare le potenze della natura lo scienziato o l'empirico hanno bisogno di un così grande sforzo di pensiero e di un tale dispendio di energia, per entrare in un cuore, per mantenervisi, per armonizzare davvero l'unanimità durevole di due coscienze fuse in una, quale ingegnosità della tenerezza e quale diplomazia della dedizione reciproca non diventano necessario! Nulla sembra che costi pur di suggellare questa unione, che pare il fine agognato e che tuttavia è solo una tappa provvisoria. E ciascuno sembra pronto a sacrificare tutta la sua vita individuale per questa vita a due. E come non volere altresì che questa intimità sia, essa sola, più di tutto l'universo esteriore? Se per ognuno di noi la minima idea che brilli dentro di noi ha più fascino e più verità di qualsiasi irraggiamento al di fuori, come stupirsi che gustando la vita interiore di un altro se stesso si provi una sensazione di pienezza, quasi un'ebbrezza? Per una straordinaria astrazione operata dall'amore l'essere amato è isolato completamente dal resto del mondo. Lui solo sembra avere agli occhi dell'amante una vita reale. Diventa per lui la misura delle sue impressioni e dei suoi giudizi. E come non ammettiamo che un altro diverso da noi lo ricerchi e lo possegga, così nello slancio sincero del cuore non ammettiamo neppure che possiamo ricercare un altro diverso da lui. Gli amanti risultano davvero ridicoli; ma è una specie di rappresaglia. Infatti sono essi, per primi, che sembrano mettere gli altri fuori della porta del mondo, pronti a sacrificare tutto il resto a questo nulla che essi sono nell'immenso spazio delle anime, purché questo nulla sia per loro tutto il resto. Dunque in tutto l'uomo non c'è niente di analogo. Persino colui che ama non riesce a comprendere l'amore negli altri. Tra due amori non sussiste alcun rapporto, perché in fondo ce n'è soltanto uno. E ciascuno ritiene di esaurire tutto, senza credere di esaurirsi mai. In lui niente è generale o comune, tutto è particolare, peculiare a colui che lo sente e a colui che lo ispira, incomparabile, infinito. Incomprensibile gioco di prestigio del cuore innamorato, pronto a divinizzare la povera realtà che crede di possedere lui solo e tutta intera per l'eternità, e che invece gli sfugge già nel medesimo istante! Accecamento dispotico e volontario, che trasfigura l'oscuro idolo per vederlo, per vederlo meglio chiudendo gli occhi! I corpi vivono di una strana solitudine. E tutto ciò che si è potuto dire dell'unione non è nulla a confronto della separazione che essi causano. Voi che avete le braccia stanche prima di aver fuso i cuori, quello che cercate ancora, mentre pensavate di raggiungerlo già, è l'unità perfetta, è la perpetuità esclusiva e indissolubile. Ed ecco perché, quando parlano, la ragione e la passione cospirano insieme. per esigere a un tempo, e proprio in nome della grandezza e della genuinità dell'amore, l'unione indivisibile, indefettibile, perfetta. Il divorzio è contro natura. E questa unità, che la debolezza della natura pare rendere impossibile, questa unità, che lo sforzo della tenerezza reciproca, abile a mascherare le sue discontinuità e le sue carenze reiterando le sue attestazioni, non riesce a ottenere, deve essere consacrata tra i coniugi da un vincolo invisibile e permanente, in modo da congiungerli ancora e da stringerli con tutta la forza del loro desiderio intimo. Perciò, proprio perché ha un immenso bisogno d'amore, la volontà aspira all'unità, alla totalità, all'eternità del nodo col quale lega l'uno all'altra, loti totus, unus uni. Se è perfettamente coerente con la sua brama, aspira alla monogamia, attende quasi una consacrazione dell'indissolubilità matrimoniale. Infatti ciò che ama dell'essere amato non è soltanto ciò che si può vedere, toccare, conoscere e comprendere. È tutto questo, ma è anche la realtà oscura, inconsapevole, impenetrabile, il fecondo infinito che egli nasconde, e che rivela in tutto se stesso. Quello strano feticismo che si lega a un dettaglio per farne l'oggetto astratto di un culto è un amore malsano. L'amore vero abbraccia l'intera persona, considerandola come un'unità vivente di parti che derivano la loro bellezza dal loro rapporto intimo col tutto. L'amore vero è, se così si può dire, monoteista. Infatti non gli basta dire: un cuore solo in due corpi. Esso unisce non solo le volontà amanti, le intelligenze che si comprendono e si compenetrano, ma fonde anche le parti tenebrose e sconosciute, quelle da cui nascono gli atti, quelle in cui la volontà si è incarnata e arricchita. Rispettando la distinzione delle coscienze che continuano a fruire della loro peculiarità e della loro unione voluta e sentita, esso fonde le sostanze, associa intimamente le azioni, immedesima le fonti dell'essere e della vita, suggella per sempre, fin nelle fondamenta originarie, le pietre dell'edificio comune: duo in carne una unum sunt. È dunque fatta: sembra che uniti col corpo per formare un'anima sola, uniti con l'anima per formare un solo corpo, i coniugi abbiano trovato il loro tutto. Tenui eum nec dimittam. E tuttavia, quando per uno scambio misterioso due esseri non formano più che uno stesso essere più perfetto, forse che la loro presenza reciproca, la loro azione reciproca chiude il cerchio della loro volontà? È questo il pieno possesso, il termine in cui si arresta lo slancio del desiderio? No. Due esseri non sono più che un solo essere, e proprio quando sono uno diventano tre. Questo miracolo della generazione segnala con un fatto quello che deve essere, quello che è la volontà profonda di quegli stessi che sperano di trovare nella loro precaria unità un momento di riposo, di appagamento e di sufficienza. Perseguendo un fine amato, si ama non tanto questo fine quanto il frutto di cui esso, fecondato dall'amore, arricchirà coloro che si prodigano per lui. Perciò la volontà pare sempre trascendere se stessa, come se nuove ondate provenienti dal centro spingessero incessantemente i cerchi sempre più ampi dell'azione, - dell'azione che a ogni istante sembra la fine e la perfezione di un mondo, ma che è perennemente l'origine di un nuovo mondo. Essa non si chiude e non si concentra che per aprire orizzonti più ampi all'insaziabile ambizione del desiderio. Ecco dunque nel bambino questa perennità pretesa dall'amore, questa unità indissolubile e superstite. Lo stesso slancio della passione spezza il cerchio magico in cui forse sperava di rinchiudersi per sempre. Nell'istante stesso in cui raggiunge questo assoluto, questa sufficienza e questa eternità di un momento che cercava infinitamente, la volontà è già al di là di se stessa. Essa vuole l'anima dell'amato per produrre un corpo. Compare un terzo, come per supplire all'infruttuoso tentativo dell'unità. Egli non è più l'amore, osculum, ma è nato dall'amore, ne rivela la potenza e la debolezza, lo suggella in una tomba - la culla - che non restituisce più quello che ha preso dai genitori. Sono parecchi, è questa la ricchezza. Sono parecchi, ma questa è anche la povertà, perché non sono più uno. Un'alba straniera è sorta. Crescendo, è necessario che la famiglia si apra e si disperda, che l'affetto comune si moltiplichi dividendosi. I due esseri uniti non possono più, non vogliono più essere tutto l'uno per l'altro. Spesso la loro tenerezza stornata si ritrova soltanto sulla testa del bambino. E nella loro vita ormai parallela essi talvolta non trovano altro che abitudine, indifferenza, persino ostilità. Pertanto il fine dell'amore non è l'amore ma la famiglia, prima aggregazione naturale e necessaria nel cui seno la vita nasce e cresce, come in un seno che riscalda al riparo dall'immensità dell'universo. È quindi nella generazione che l'uomo riesce a esprimersi, a dedicarsi, a sopravvivere interamente a se stesso, è nella generazione che trova la perfezione del suo atto e la prima risposta compiuta cui anela. La sua prima opera vivente è il bambino, sintesi mirabile: due e uno e tre, non hi tres unum, sed hoc unum tres sunt. Questa è la ragione segreta dell'attrazione che consegna due esseri l'uno all'altro, corpo e anima. Infatti quello che la volontà persegue è al di là delle soddisfazioni egoistiche e godibili, al di là persino dell'insondabile soggetto amato che sfugge al soggetto amante, è l'opera comune della loro potenza e del loro amore incarnato, l'immagine visibile e reale della loro duplice e unica vita, l'espressione di ciò che sembra inesprimibile e inaccessibile in ciascuno. Il progresso delle ambizioni del volere è palese. Una volta avevamo voluto l'opera utile, il concorso esterno da parte di altri. Eravamo al livello di un egoismo ancora solitario. Poi il desiderio si era polarizzato sull'operaio stesso. Siamo sul piano di un egoismo a due. Adesso si vuole e si fa esistere l'opera vivente, e in quest'opera ciò che in ciascun operaio è impenetrabile e infinito. Siamo a un egoismo a tre. Il bambino è l'azione sostanziale di potenze che non si conoscono bene se non in lui, che non sono una cosa sola se non in lui, che si consumano come un fuoco di tenerezza davanti a lui. E in lui si trasferisce la volontà, come al suo fine naturale, la volontà coerente con la propria legge e conforme all'anelito sincero dell'amore. È lui quindi che fonda l'unità indissolubile, e che rivela la malattia che dissolve il vincolo nuziale. - La malattia dissolvente, in quanto vogliamo sopravvivere a noi stessi solo perché passiamo e moriamo, perché non possiamo ingabbiare tra due lo slancio infinito del volere. - L'unità indissolubile, in quanto il bambino rimane là, nella sua stessa individualità, come il pegno dell'irreparabile e indivisibile unione. Egli è il segno indelebile di ciò che la ragione amante dell'unità e dell'eternità ha voluto, di concerto con la passione genuina, la quale non anela ad altro che a essere esclusiva e perenne. Tale ragione ha segnato col suo sigillo l'opera generata. E siccome il bambino ha in sé l'infinita potenza di sviluppo che desume da quegli stessi di cui rappresenta un primo compimento, egli resta per loro il mezzo permanente, attraverso l'educazione che essi gli danno, per avviarsi al loro destino. Nei suoi confronti essi hanno un dovere illimitato, una responsabilità imprescrittibile, un vincolo indistruttibile, perché si tratta di formare la sua ragione e di realizzare in lui all'infinito ciò che hanno di meglio in sé. Elevandolo al di sopra di loro, essi elevano anche se stessi. Sono superiori e subordinati al bambino sul quale conservano l'autorità, ma al quale debbono dedicarsi. Infatti da loro egli riceve quello che bisogna perfezionare in lui. E a lui, come al loro fine, essi relazionano il loro proprio perfezionamento. Da questo esame risulta che l'amore procede dalla volontà individuale, anche se trascende l'individuo; che esige una generosità e un'abnegazione talvolta eroiche, ma non per questo è contrario al disegno di colui che vi si sacrifica; che come motivo e come giustificazione ha un fine più alto e più remoto dello scopo palese del primo desiderio, senza tuttavia che l'attrazione di cui è insignito costituisca, per così dire, un'astuzia ingannevole e un crudele artificio della natura. Indubbiamente se fosse " il genio della specie " che con il fascino di un effimero piacere inganna l'individuo, nascondendo sotto una risposta immediata di vita e di felicità una realtà di dolore e di morte, il pessimismo avrebbe un fondamento. Tutto quello che si è detto sui profondi calcoli dell'istinto della razza è giusto. Ma questo movimento impetuoso parte da più lontano per andare più lontano di quanto si sia intravisto. Lo zampillo dell'amore scaturisce dalla volontà più intima in ciascuno. E se anche questo flusso è trascinato dal suo stesso impeto al di là del termine dapprima bramato, questa pristina volontà rimane sempre coestensiva a tutta la sua espansione, persino se imprevista. L'amore va al di là della persona, al di là della specie, all'infinito. Ma non perché conduce la vita individuale a fini ulteriori, senza mai bloccarne l'espansione, è necessario ritorcersi col pessimismo contro il misticismo dell'amore, il quale non è altro che una trappola. Quindi non si tratta di un volere impersonale e oscuro, che non solo sarebbe estraneo e ignoto a coloro che muove grazie a una fatalità istintiva, ma sarebbe contrario a essi e mortifero. Si tratta di una volontà profondamente personale, che la riflessione può illuminare senza cambiarne la natura e senza sconfessarne il senso, di una volontà che non si limita a lavorare ciecamente soltanto per la specie, ma che serve insieme gli interessi dell'individuo e quelli della specie, perché non si ferma neppure ai confini della specie, e al termine estremo della sua espansione aspira a confondere i suoi fini personali con i fini universali. Perciò vi è continuità e coerenza nel suo sviluppo. La volontà solitAria ha abbracciato un'altra volontà; essa fonda la famiglia, la vuole, e la vuole una, fissa, permanente. Quindi non vi è nulla di artificiale in questa prima società, tipo e origine di tutte le altre. Rimane da vedere che la famiglia sociale e la famiglia umana sono ugualmente conformi al disegno della libertà, e che per quanto vaste siano queste vite composte, rientrano anch'esse nel piano sempre allargato dell'azione volontaria. II. I - Per il bambino non c'è veramente che una famiglia, la sua. Essa gli sembra incomparabile, unica. Le altre non esistono che nella misura in cui si relazionano a questa sola, o meglio non esistono ancora. È dunque in questo ambito ristretto che in un primo tempo egli impara a conoscere vite diverse dalla sua, vite che appartengono ancora a lui, e che egli quasi non distingue dagli interessi del suo egoismo ingenuo; perché non si sbaglia affatto rendendosi in un certo senso il centro di questo piccolo mondo che anima con la sua presenza. In tale contesto fa veramente l'apprendistato del nostro e del noi. Per questa via giunge alla coscienza, alla volontà, all'amore devoto per una società più larga. Peraltro bisogna notare che l'accesso alla vita sociale presuppone più i sentimenti filiali o fraterni che l'affetto coniugale. E proprio perché la famiglia è un gruppo chiuso ed esclusivo, essa funge in tal modo da scuola preparatoria alla vita collettiva, di cui costituisce la cellula elementare. Essendo chiusa, concentra e perfeziona il sentimento di affetto reciproco, prima che si trasferisca, a dire il vero con tutt'altro profilo, in un contesto più ampio, ma ugualmente chiuso, cioè la città o la patria. L'istante in cui il bambino percepisce nettamente che lui, ossia la sua famiglia, non è solo sulla terra, che vi sono altre famiglie come la sua, che tutti gli interessi del mondo non ruotano intorno a questo centro unico, che esistono altre persone capaci di avere anche i loro affetti, il loro orizzonte precipuo, la loro vita separata, è un istante decisivo nella storia del suo pensiero e del suo cuore. Non v'è dubbio che prima di avere questa sensazione egli lo sa già. Ma invece di considerare gli uomini, per così dire, dal di dentro, attribuendo loro il proprio bisogno di essere un centro di prospettiva e di azione, egli li vedeva ancora solo dal di fuori, senza realtà intima. Felice infanzia, che consente una fioritura più ricca del cuore, e si prolunga per le nature amanti e nelle famiglie eccezionali, in cui è più legittima l'illusione che nessuno è simile a coloro che circondano il focolare domestico; fino al giorno in cui, per una rivelazione inattesa che si attua in ciascuno per una via differente, il cuore affranto, ma intenerito e allargato, si espande su altre case e abbraccia altre vite. Inizia l'adolescenza, quando per la prima volta ci si può rivolgere, come Tolstoj grandicello, questi interrogativi ancora infantili: " Di che cosa possono occuparsi tutte queste persone, dato che non prestano alcuna attenzione a noi e non sanno neppure della nostra esistenza? Come e di che cosa vivono? Come educano i loro bambini? Fanno impartire loro delle lezioni? Li fanno giocare? Come li chiamano? ". Sarebbe un errore immaginare che, diventando grandi, a poco a poco il cerchio del focolare domestico si riformi intorno all'altare della patria. Il sentimento nazionale non si manifesta così, né nella costituzione storica dei popoli né nel risveglio di ogni coscienza individuale. Perché in effetti, in fondo in fondo ai nostri affetti, la patria è altra cosa da una famiglia accresciuta, e il movimento da cui emana l'organismo morale della città è totalmente originale. Indubbiamente la nazione desume i suoi membri dalla famiglia. Ma come in una combinazione chimica, in cui gli elementi, sebbene presenti, sono trasfigurati nella nuova unità del composto, la vita individuale, la vita di famiglia, senza perdere il loro vigore naturale, sono trasformate nel cuore della nazione in cui si riparano. Quindi per studiare la società non bisogna partire dagli elementi, ma dal gruppo stesso. Come si forma un popolo? Perché gli uomini sono indotti a mettere insieme le loro idee e i loro affetti nel crogiolo della grande comunità sociale? Perché questo carattere di un'unità delimitata e questa chiusura delle frontiere? In che modo la volontà profonda di ciascuno produce questa estensione ristretta, così da ratificare al tempo stesso l'ampiezza e la ristrettezza della vita nazionale? Qui sta veramente il problema. Se il vincolo che unisce i membri di una stessa patria non è più della medesima natura di quello che stringe e lega la famiglia, allora la solidarietà dei cittadini non si spiega certo con un'estensione dei rapporti domestici e dei legami del sangue. hi non sa con quanta facilità si allentano queste relazioni della famiglia e come addirittura, non contente di spegnersi, si trasformano facilmente in ostilità e in rancore! Nel corpo di tutta la nazione circola una stessa vita e una stessa volontà, come in un organismo unico di cui tutte le parti sembrano legate da un reciproco rapporto di finalità. Ciò quindi significa che, se la famiglia è l'elemento sociale, la nazione però non è un semplice irradiamento e quasi un prolungamento della società domestica. Essa infatti forma una sintesi, per così dire, omogenea, dal parente più stretto fino al compatriota più lontano. Sicché nelle parti più distanti, come alle frontiere del corpo, risiede la sensibilità più viva. E la dimostrazione sicura che la patria è un organismo peculiare sta nel fatto che il raggio che si diparte dalla volontà bramosa di estendersi, invece di propagarsi al di là dei limiti della città, comincia a riflettervisi e a ritornare su se stesso, quasi si fosse imbattuto nel termine cui tendeva. Il patriottismo precede il sentimento dell'umanità o oltrepassa gli affetti della famiglia, come una sintesi originale e peculiare tra i due. Talvolta sembra persino che sia loro contrario. A quale bisogno corrisponde questa costruzione dell'unità nazionale, e questo perimetro della patria? - Ci si spiegherebbe il cuore a cuore nello scambio di due vite che si compenetrano e che ne riscaldano altre al loro focolare. Ci si spiegherebbe il tutti a tutti nella sconfinata fraternità degli affetti imparati nel centro della famiglia. Ma come far posto, nel frattempo, e come trovare giustificazione per questa federazione già generale ma ancora ristretta formata da una nazione? Non è una costruzione artificiale? E come pretendeva non molto tempo fa un cosmopolitismo invadente, non è un pregiudizio destinato a sparire, una superstizione secolare, una meschinità di mente e di cuore? Oppure questo amore geloso per il proprio paese si fonda su una volontà profonda, su un bisogno naturale e duraturo della nostra umanità? Indubbiamente è difficile determinare ciò che istituisce la patria. Non è soltanto la famiglia ingrandita, la razza o l'etnia comune, né la configurazione di un medesimo suolo, né il vantaggio di uno stesso clima, di uno stesso tipo, di una stessa lingua, di una stessa legge, di una stessa tradizione. Perché, al di là del fatto che certi popoli non presentano questo concorso di circostanze favorevoli, senza per questo cessare di essere un popolo solo, grazie alla simpatia e alla dedizione di tutti a tutti, queste condizioni hanno a che vedere solo con le modalità esteriori dell'attività umana. Ora la vita sociale non costituisce solo uno scambio regolato di interessi, non è limitata ai fenomeni economici, non rimane estranea all'intimità degli affetti e non resta neutrale nell'ambito riservato delle coscienze. Fintanto che un popolo non è uno a livello di pensiero, non è un popolo, ma un conflitto equilibrato di appetiti e di cupidigie. Per esso il tutto non sta nel conservare e riconquistare l'integrità del suolo. La coesione materiale e la solidità esteriore di una nazione è solo un effetto di cui bisogna scoprire la causa nella volontà di ciascuno di coloro che la compongono. Infatti perché sia davvero una sintesi omogenea e un organismo vivente, occorre che l'azione individuale abbracci in qualche modo l'azione comune; occorre che tutto il popolo si muova, per così dire, nel cuore e nell'amore disinteressato di ciascun singolo; occorre che il cittadino, partecipando all'autorità come all'obbedienza, abbia una volontà che coincida con l'espansione collettiva e che fondi perennemente la sinergia nazionale. È dunque nell'intimità della vita personale che bisogna cercare, qui come altrove, il segreto della vita sociale, chiedendoci come siamo indotti a volere la cerchia della città, le frontiere inviolabili della patria. Perché esistono queste società parziali che nella specie umana formano delle individualità composte, ciascuna con la sua fisionomia propria e col suo carattere ben definito? Per quanto ingrandita sia l'azione, è sempre la stessa volontà che ne anima tutta l'espansione, e che si estende per meglio ritrovare se stessa dopo ogni nuova uscita. In altri termini il movimento centrifugo ha il suo senso e la sua ragione solo grazie al movimento centripeto, che riferisce al volere originario ciò che anelava raggiungere, proprio perché non lo possedeva e non lo era ancora. La prima preoccupazione della volontà, per quanto ampia già la supponiamo, è di corroborarsi dopo ogni conquista, e di escludere in un primo tempo proprio ciò che è destinata ad acquisire più tardi. Essa si apre solo per assorbire e per rinchiudersi. Evidentemente in un primo tempo non vogliamo avere tutto, per meglio sentire ciò che possediamo, e per avere ancora al di fuori di noi qualcosa di cui arricchirci. Ciò che l'individuo non può prendere o conservare da solo, lo prende, lo conserva e lo assimila tramite il potente organismo della città. Ma per sapere che lo possiede, per godere della sua nuova estensione, occorre che respinga almeno provvisoriamente ciò che non ha ancora assorbito nella sua vita. Pertanto il fascino, la forza, l'incomparabile saldezza del vincolo coniugale consistono nel fatto che escludono dall'abbraccio amoroso tutto l'universo. Tale unione ha come prezzo l'isolamento rispetto alla molteplicità circostante di coloro che coinvolge. La sua realtà concreta e viva è di essere un'astrazione e quasi una protesta contro la banalità della folla. Per il sentimento nazionale avviene esattamente così. Non si forma un concerto con un solo suono. Perché vi sia una società umana occorre che ve ne siano parecchie, ognuna con i suoi attributi individuali o la sua differenza specifica. La pluralità delle città è analoga alla pluralità delle persone, alla ripetizione particolare della stessa vita e della stessa volontà comune, possedendola ciascuno interamente in sé. E siccome la natura si diletta a moltiplicare, variandoli, gli esemplari di un medesimo tipo, le azioni umane la imitano su questo punto. O meglio, come un movimento genuino della volontà ci ha portato a desiderare che vi siano al di fuori di noi una o più volontà che si uniscano e si identifichino con la nostra pur restando distinte, così vogliamo che vi sia una città, che sia limitata, e che al di fuori delle sue frontiere vi sia un mondo straniero. Quindi l'unità della patria, a esclusione di tutte le altre società, non rappresenta uno stadio transitorio e artificiale. L'orgoglio del cittadino, che mette il suo paese a parte e al di sopra degli altri, è un sentimento naturale. Come ciascuna coscienza conserva in sé il segreto di ciò che la rende unica e incomparabile, ciascuna patria, vissuta e amata dal di dentro, possiede un fascino al quale necessariamente gli stranieri restano estranei. O meglio per ciascun uomo c'è solo una patria, e questo nome non possiede il plurale. Pertanto il carattere sempre singolare della vita si deve ritrovare nella scienza sociale, perché sia una scienza. Omne individuimi ineffabile. La vera ragion d'essere della storia è di determinare l'originalità di ognuna delle sintesi viventi generate dal movimento della vita generale. In forza di ciò, essa si raccorda saldamente con tutte le scienze, già meglio organizzate, che definiscono il concatenamento dei fatti e l'eterogeneità degli esseri che studiano. È un'evoluzione globale a creare le razze, più che le razze non contribuiscano alla formazione delle nazioni. Come si costituiscono diversi casi di equilibrio stabile? E qual è il genio unico, l'opera peculiare, l'organizzazione incomparabile, la fisionomia completamente nuova di ciascuna nazione? Ecco il problema storico. Perciò non parliamo, col pretesto dell'imparzialità scientifica, di fare astrazione dai sentimenti che fanno battere il cuore di un popolo: la storia più autenticamente patriottica è la più rigorosamente scientifica. Quindi ogni popolo ha un'idea e un sentimento da far vivere nel mondo. È la sua ragione, la sua missione, la sua anima. Anima mortale, talvolta morente per mancanza di azione comune, ma anima capace di risorgere, anzi imperitura, se l'idea di cui vive è di quelle che toccano gli interessi permanenti o la coscienza sacra dell'umanità. Vi sono popoli dispersi e quasi in decomposizione che conservano un'indistruttibile vitalità, grazie all'idea di cui sono depositari e che si è impressa nella loro carne, o alla fede che li ispira e il cui ardore si è amalgamato col loro sangue. Per quanto fiaccati siano, portano nel loro seno ferito un'inesauribile potenza di rigenerazione. La grandezza e la durata dei popoli dipendono dal ruolo che sono chiamati a svolgere. A ciascuno la sua opera. Ciascuno, come un organo nel grande corpo dell'umanità, assorbe il pensiero delle altre nazioni in base al proprio genio, e lo restituisce alla circolazione come una nuova ricchezza, differente in ciascuno e comune a tutti. Non che questo sviluppo storico delle nazioni e delle razze si compia con l'infallibile spontaneità dell'istinto. Non si tratta affatto soltanto di quella vita confusa, che vegeta in seno alle masse popolari. La storia umana non è una storia naturale in senso stretto. In altri termini, al di là delle forze indistinte che agitano le grandi correnti dell'umanità, la riflessione e la libertà sono potenze originali, capaci di penetrare profondamente come fattori essenziali nel destino dei popoli. Siano esse cause di perturbazione o di risanamento, di promozione o di dissolvimento, le idee e le azioni riflesse, le istituzioni e le rivoluzioni, anche in quello che hanno di arbitrario, esercitano un'influenza sicura sul cammino delle società. Come si è superficiali a credere, senza mettere in conto il ruolo giocato da cause anonime, che le gesta, le parole e i decreti degli attori principali dirigano il mondo, così è errato trascurare quello che avviene nella regione delle decisioni deliberate, dei grandi eventi e persino dei capricci. Un metodo storico che, col pretesto di non abbandonare il terreno delle realtà viventi, escluda quali semplici risultati astratti le codificazioni positive e le teorie dei giuristi, cade nel medesimo errore di una psicologia per la quale l'atto cosciente non è che un'escrescenza inutile in rapporto alle sue condizioni elementari. Dunque la coscienza nazionale è una forza la cui efficacia cresce man mano che ne penetriamo maggiormente le ragioni profonde. Non è uno di quei sentimenti che bisogna evitare di guardare in faccia, come se vederlo qual è significasse violarlo e perderlo. Indubbiamente i progressi della riflessione o il bisogno di uno sviluppo più ampio hanno potuto compromettere il culto della città. Ad alcuni questa forma dell'amore, della dedizione e dell'eroismo chiamata patriottismo sembra poggiare solo su un'illusione, rispettabile ma effimera. Ma una riflessione più approfondita restaura questo sentimento spontaneo giustificando l'istinto del cuore. Anche dopo esserci educati a una comunione più larga con tutta l'umanità, a un sentimento di solidarietà universale, che l'antichità ha intravisto a stento e che è comparso molto tardi nella storia delle idee morali, rimane vero che le frontiere della nazione sussistono e devono sussistere. Lungi dall'escludere un bisogno d'affetto più generoso, il patriottismo lo prelude, come l'attaccamento alla regione nativa, al campanile, alla casa prepara e riscalda l'amore per la grande patria. Qui dunque ritroviamo di nuovo la legge di cui abbiamo rilevato l'applicazione in tutta la sequenza delle sintesi che l'azione ha formato nella sua espansione, e il cui senso si chiarisce a poco a poco. Ogni volta che la volontà si è proposta un nuovo fine, è stata indotta a considerare come insufficienti o persino illusori i fini antecedenti cui si era fermata. Ma approdando al termine agognato, si accorge che anche questo nuovo fine è transitorio. Ormai si rende meglio conto che le tappe pregresse, nonostante l'instabilità che vi ritrovava, erano condizioni necessarie, e costituivano punti relativamente fissi nel progresso della sua espansione. Perciò si avvede che, lungi dall'escludersi, le sintesi successive, che solitamente parevano contraddirsi, si presuppongono, che ognuna è a un tempo un fine e un mezzo, e che in tutte c'è un sistema fissato, un carattere originale, una determinazione precisa. Sicché si procede da una di queste sintesi a un'altra unicamente passando da un equilibrio stabile a un altro equilibrio stabile. In effetti nell'organizzazione della vita o dell'azione c'è progresso possibile solo se ogni punto successivo fornisce un solido appoggio, e se a ogni grado dello sviluppo il sistema costruito è qualificato non dall'addizione delle parti ma da una nuova idea d'insieme. Di qui il bisogno di inserire in ciascuna forma della vita personale o collettiva una parvenza di assoluto. Come per istinto si attribuisce un carattere sacro al vincolo nuziale, quasi per assicurarne la solidità, allo stesso modo per istinto si consacra anche la patria, si santifica la bandiera. Come se il perimetro della città inglobasse il cielo e la terra, e il cielo più ancora che la terra. C'è quindi una specie di misticismo spontaneo che permette alla volontà di fermarsi a tappe successive, come se ciascuna fosse il fine. Infatti essa mette in ciascuna, almeno provvisoriamente, l'illusione dell'infinito nel finito stesso. Perciò la città è costituita non come un corpo amorfo o come un organo di transizione nell'evoluzione generale della vita sociale. Essa ha una relativa sufficienza, un'organizzazione necessaria. Per questo, lo vedremo meglio, essa non nasce da una convenzione più o meno arbitraria, non dipende dal capriccio dei membri che la compongono, e al suo interno l'autorità è indispensabile per rispondere al bisogno che per la sua missione è chiamata a soddisfare. Il potere, che ne è il vincolo sintetico e quasi " la forma sostanziale ", rimane l'espressione della volontà profonda che fonda la stessa nazione. E la forma politica nella quale l'autorità viene esercitata rivela l'azione particolare delle circostanze e delle libertà umane nella tradizione della vita nazionale. Una società quindi non è mai una società qualunque, perché si fonda sempre su un sentimento molto particolare e su una volontà assolutamente concreta. La prima verità sociale, quella stessa da cui dipende la sociologia, pone in linea di principio l'originalità storica e il carattere individuale di ogni organismo nazionale. Di qui discendono le leggi generali che governano l'organizzazione delle società umane e i principi astratti del diritto pubblico. II - Grazie allo sviluppo spontaneo della vita collettiva, tra l'individuo e il gruppo totale di cui fa parte si costituiscono uno o più sistemi di forze di bilanciamento. Come nel corpo vi sono gli organi, nella società vi sono le associazioni organizzate e viventi. Questi organi elementari mostrano meglio di qualsiasi altra cosa quale differenza di natura sussiste tra la famiglia e il corpo sociale. Infatti questi elementi della vita collettiva, costituendosi talvolta sotto i nostri occhi, ci rivelano una legge di formazione del tutto opposta a quella della società domestica. Nel da solo a solo dell'amore si effonde e si moltiplica l'unità feconda di una duplice vita. Nel tutti per tutti dell'associazione o della patria la molteplicità si concentra in ciascuno, e la sintesi totale si incarna nell'ultimo dei suoi elementi, comunicandogli la sua forza e la sua dignità. Pareva che la dedizione patriottica facesse dell'individuo un mezzo, essendovi un fine comune e superiore. Ma ci accorgiamo che in fondo la relazione è inversa, e che il tutto è un mezzo per ciascuno dei suoi membri. Capiamo adesso a quale anelito segreto del volere personale corrisponde l'immensa crescita che esso trova nella vita sociale? Perché esso diventa ciò che questa è. E che la società non sia un meccanismo artificiale è dimostrato dal fatto che, anziché creare un antagonismo tra il tutto e le parti, il progresso della vita sociale deve estendere al tempo stesso l'azione dello Stato e l'iniziativa individuale. Nella società ciascuno possiede in sé ciò che sono tutti insieme. Anche qui l'idea dell'insieme qualifica la natura degli elementi. Ma al tempo stesso il principio della sintesi si trova integralmente al fondo di ciascuna volontà personale. Nessuno ha bisogno di uscire da sé per scoprirne la presenza e l'efficacia. La forza che rende attuale la società, e attraverso essa ogni cittadino, è presente in ciascuno. Da questa verità concreta scaturiscono come corollari necessari le stesse condizioni della giustizia sociale e dell'organizzazione politica. Indubbiamente, qui come ovunque, la libertà introduce elementi di disturbo infinitamente vari. Ma è ancora possibile eliminare la variabile per considerare solo ciò che non viene violato, in ciò che può esserlo, e ciò che rimane conforme alla logica della volontà umana, in ciò che viene violato. Sotto le aberrazioni più rivoluzionarie esiste una norma latente e un principio d'ordine. È questo determinismo dell'azione voluta che bisogna recuperare nello sviluppo articolato della giustizia sociale e del potere politico. - Dal momento in cui, per essere meglio me stesso e per diventare più uno, non posso rimanere solo, ho l'esigenza che un principio di pace e di armonia presieda alla cooperazione sociale. Chi vuole il fine vuole i mezzi. Quindi evocando l'azione collettiva io istituisco, qualunque ne sia la forma vaga o precisa, una forza centrale capace di rappresentare l'intera comunità di cui è quasi la coscienza. Siccome nella società tutti sono per ognuno, ho bisogno di un'espressione, qualunque sia, di questa sollecitudine universale per me soltanto. L'idea di una protezione penale, il sentimento di una sanzione sociale, il bisogno di un potere armato di giurisdizione e di forza coercitiva è essenziale alla vita comune. E tale necessità è fondata sulle stesse esigenze della volontà personale. La società evidentemente si costituisce sotto l'azione di un fine trascendente l'individuo unicamente per procurare all'individuo la garanzia di questo potere superiore di cui ciascuno beneficia. Ma bisogna stare attenti a non snaturare questa giustizia sociale e a non pervertire il carattere inevitabilmente relativo del diritto penale umano. Anche se è impossibile riuscirvi, nulla è più pericoloso e più ingiustificato della pretesa di stabilire una proporzione esatta tra il castigo e la colpa morale. Per esempio c'è un modo di legittimare la pena di morte che, col pretesto della giustizia e della moralità, la rende sanguinaria e barbara. Perciò, per diradare la confusione delle idee correnti, è importante non complicare in maniera maldestra il problema, e mettere da parte qualsiasi considerazione estranea all'ordine di competenza della giurisdizione umana. Senza dubbio accanto all'atto bruto e al danno materiale causato dalla colpa, bisogna tener conto di un altro elemento, che per opposizione possiamo già qualificare come morale. Ma è questo aggettivo che si presta all'equivoco. Infatti non si tratta di apprezzare il valore assoluto né dell'atto né dell'intenzione, ma si tratta della difesa pubblica, dell'interesse generale, della vita comune. Ora l'interesse collettivo non investe soltanto l'aspetto materiale dei fatti, proprio perché la società non è un semplice sistema di fenomeni economici o politici. Perciò quando si parla del carattere morale che deve rivestire il diritto penale bisogna intendere unicamente che qui la colpevolezza non è altro che una funzione del pericolo sociale; che le circostanze attenuanti, aggravanti o assolutorie non possono essere valutate che dal punto di vista della protezione comune; e che invece di preoccuparsi di una giustizia assoluta, di una libertà ideale e di una responsabilità perfetta, si deve semplicemente definire in quale misura l'azione incriminata, procedendo da una decisione riflessa e concernendo quindi ciò che costituisce il vincolo delle volontà, assume un carattere contagioso, imitabile, dissolvente per la vita collettiva. Dunque ciò che è essenziale e legittimo in questa sede è il bisogno della società di conservarsi. Non serve a niente sollevare davanti al giudice il problema metafisico della libertà. Infatti, se egli è autorizzato a condannare, ciò non avviene in nome di un'equità superiore che non è affatto impegnato a far regnare. Proprio in questo contesto il meglio è amico del peggio. No, non si giudica il valore intrinseco dell'accusato. Questa sarebbe una giurisdizione temeraria e colpevole, e sarebbe oltretutto odiosa, perché non potrebbe perdonare neppure nel caso di un pentimento profondamente sincero e assolutamente purificatore. Dunque ciò che vi è di assoluto nella giustizia umana è il fatto che essa è relativa alle esigenze della coscienza e della vita comune, in una cultura e in un'epoca determinate. In ogni configurazione dello stato sociale si determina un tipo dell'uomo onesto, e si producono necessità particolari di difesa generale. È questa la norma vivente e flessibile che conviene applicare alla mobilità dei fenomeni sociali, e che più o meno si applica, qualunque cosa si faccia o si voglia. - Allo stesso modo ciò che vi è di assoluto nell'organizzazione politica è il fatto che essa è relativa allo sviluppo storico e alle tradizioni particolari, peraltro sempre perfettibili, di una società concreta. A quale bisogno profondo corrisponde l'ambizione politica del cittadino? E in che modo il potere civile può essere costituito, perduto o trasmesso? La volontà suscita la vita sociale grazie al suo espandersi necessario cui si acconsente. Ora nessuna società è possibile senza un'autorità che sia come il motore e il regolatore di questa grande macchina. Quindi società e autorità sono al di sopra degli attacchi dell'arbitrio umano. Ma proprio perché corrispondono a un'aspirazione fondamentale dell'uomo, l'uomo determina l'esercizio del potere pubblico. Egli ne designa, o ne accetta, o ne diventa il titolare. L'investitura politica rientra nel diritto nazionale. E qui sta il punto delicato. Infatti se l'autorità è necessaria a ogni società, è necessario che il potere sia costituito. Il popolo non ne ha affatto il libero deposito, occorre che si stabilisca un governo. E se la costituzione del potere poggia su una base di libera opzionalità, al tempo stesso rimane vero che l'autorità permane necessaria anche nella sua forma arbitraria, e che questo potere è sempre perfettibile, sebbene sia intangibile nel suo fondo. Ecco dunque le conseguenze che si concatenano, nonostante le apparenti opposizioni. La società è voluta e necessaria. L'autorità è voluta e necessaria. Esse sono al di sopra di qualsiasi volontà umana. Spetta al concorso delle volontà umane riconoscere o ratificare il potere. È impossibile che il concorso delle volontà umane non riconosca o non ratifichi un potere. Il potere è al tempo stesso superiore e subordinato alla nazione. Quello è fatto per questa, non questa per quello. Siccome l'autorità ha ragion d'essere solo per il bene comune, la nazione può trasferire in altre mani un potere che viene meno ai suoi obblighi. Questo diritto in linea teorica è certo. Di fatto, siccome il disordine sociale è il peggiore dei mali, siccome il diritto di stabilire o di trasmettere l'autorità risiede non suddiviso in ogni individuo, ma indivisibilmente nell'unità del corpo sociale, siccome tutte le generazioni sono solidali, la tradizione rappresenta un'eredità nazionale contro la quale le proteste brusche e le decisioni improvvise sono dannose e spesso perniciose. Nel diritto pubblico come nel diritto privato la prescrizione è rispettabile. E al di fuori dell'elezione, che è la maniera innocente di stabilire il potere, la stessa usurpazione, perdendo il suo carattere odioso, diventa legittima con l'andare del tempo e col consenso del popolo. Non è la legge dei numeri che crea la legge e il diritto. È dunque sbagliato pensare, con Rousseau, che " il sovrano per lo stesso fatto di essere, è sempre quello che deve essere ". L'autorità è superiore a tutti esattamente perché il bisogno di autorità scaturisce da ciascuno. In un corpo la testa è fatta per le membra senza cessare di essere il capo. Nella vita politica il potere a motivo della sua origine è al di sopra di quegli stessi che l'hanno costituito. Infatti esso non è la somma delle volontà individuali o l'espressione delle forze comuni. Non è revocabile ad nutum. Non è una semplice delega, ma una potenza regolata e regolatrice che rimane proprietà personale di ciascuno anche quando è esercitata da uno solo. E come una volontà coerente esige l'unità e l'indissolubilità della vita domestica, allo stesso modo quella potenza tiene in piedi il fatto sempre singolare delle istituzioni pubbliche, senza dubbio riformabili e in perenne movimento, ma al di sopra degli attacchi legittimi di ciascuno di coloro che le animano con il loro volere. Perciò il potere non è ne una somma di volontà arbitrarie, ne una formula astratta applicabile indifferentemente a tutti i popoli. Esso ha sempre assunto una forma concreta, e rimane sempre fondato su una volontà antecedente alle convenzioni artificiali e mutevoli. Pertanto anche l'organizzazione politica e la giustizia sociale, che compongono e assicurano la vita nazionale, non fanno che manifestare un volere intimo e assolutamente personale. Infatti grazie a esse la forza intera del corpo pubblico è a disposizione di ciascun membro, anche il più infimo. Lo Stato in un primo momento è un fine rispetto all'individuo soltanto per essere, in seguito, un mezzo. Se ciascuno deve vivere e agire per tutti ( è la forma embrionale della città, che a torto il socialismo presenta come la perfezione della vita politica ), significa che ciascuno vuole che tutti si adoperino e si concentrino in ciascuno. Nello stesso modo in cui nel sistema organico una cellula è un fine per tutto il resto al punto che una puntura basta a scombussolare tutto il meccanismo, così in una società ordinata c'è una solidarietà tale che il più umile cittadino porta in sé, interi, la dignità, la potenza e l'egoismo molteplice del corpo sociale. E siccome la volontà sociale è tutta in ciascuno, si ha come risultato che ogni forma politica può ugualmente organizzarsi e ugualmente giustificarsi. La differenza dei costumi, dei climi e delle circostanze rende inevitabile la varietà, e non si ha un concerto con un solo suono. Risieda esso effettivamente in uno solo, in parecchi o in tutti, il potere ha sempre il ruolo di assicurare nella nazione la solidarietà e la comunione più intima delle parti. Esso deve e può sempre essere in uno ciò che sarebbe in tutti. Tuttavia proprio in ragione di questa presenza multipla del principio sociale in ogni volontà i bisogni, a lungo segreti, vengono alla luce a poco a poco. Man mano che la coscienza collettiva si risveglia in ciascuno con maggiore lucidità, nelle masse popolari si opera un profondo lavoro di crescita. Senza dubbio la coscienza comune compare anzitutto nella testa dell'organismo politico, prima che si diffonda per tutto il corpo. Che grande dedizione dei cuori a uno solo, e quale fremito d'amore attraversa talvolta i popoli saggi sotto lo sguardo del capo amato! Che valore straordinario sembra avere la minima parola dello zar che investa il misero mugiko! Ma anche quanto il sentimento della dignità, l'apprezzamento del ruolo, l'altezza del potere ampliano lo sguardo, allargano gli affetti, contribuiscono alla lucidità di un'intelligenza e al calore di un'anima che sa essere il cervello e il cuore di un popolo sterminato! E come se il capo, da solo, amasse in maniera più elevata e più profonda di tutti insieme, da quest'altezza l'affetto più semplice e più mite sembra defluire con una forza sovrana. Ma questo sentimento di dedizione reciproca non può essere ispirato e ricevuto da un solo uomo; ogni cittadino può farlo, quando nel membro del corpo sociale sa vedere e amare l'anima comune che vive in tutti. Quindi la coscienza nazionale non è una somma di frazioni. Il cittadino è la città vivente. In lui risiedono virtualmente la potenza e l'azione di tutti. Per questo in realtà ciascuno aspira a essere anche lui la testa e il cuore del grande corpo di cui veicola in sé tutta la sostanza. Se il concorso delle volontà lo eleva all'autorità, non per questo egli riceve un mandato imperativo, non è il totale astratto di un'operazione aritmetica, ma diviene in atto ciò che era in potenza. Per una specie di naturale grazia di stato e per le risonanze in lui della vita generale il capo, avendo coscienza di essere il referente di tutto un popolo, sembra elevato al di sopra di se stesso. E tuttavia la sua autorità ha sempre un'altra fonte che non sia l'addizione dei suffragi popolari. Il suo ruolo è di prendere un'iniziativa personale. Tanto più che l'uomo più mediocre è capace di una visione più lucida, di una decisione più illuminata, di una continuità d'azione più reale che non questa somma di volontà individuali di cui a torto si vorrebbe fare l'espressione della coscienza sociale. Così la volontà del cittadino anima e assorbe in sé l'intero organismo sociale. Essa ne determina il carattere sempre concreto, ne forma una sintesi originale come lo sono le specie viventi e le razze peculiari nel mondo animale. E ciascuna società, qualunque sia l'unità di origine o le leggi generali che la reggono, è una nazione peculiare. È la patria, perché deriva da un amore personale di ciascuno dei suoi membri, e perché l'amore investe sempre ciò che è unico. Senza dubbio la vita nazionale si prolunga al di là delle frontiere. Per essa, come per ogni organismo, le funzioni di assimilazione e di differenziazione costituiscono un principio di perenne rinnovamento. E nondimeno rimane un'individualità specifica, anche di fronte a sintesi ulteriori e a nuove estensioni dell'azione umana. III. La volontà dell'uomo e la sua azione non si arrestano alle frontiere della patria. Nel suo sciamare la città è il simbolo di questa vita interiore della volontà che si espande, senza che alcuna cerchia ne limiti l'espansione. La legge dell'egoismo attivo e aggressivo è quella di contraddirsi e di ricredersi in qualche modo, per estendersi a ciò che prima pareva respingere. Non è più sufficiente portare in sé quasi un'intera nazione e formare con essa un'anima sola. L'uomo aspira, per così dire, a sposare l'umanità stessa, e a formare con essa una sola volontà. La vita individuale tende dunque a identificarsi alla vita universale. O meglio, è questa volontà generale e impersonale che sembra concentrarsi in ciascuna coscienza. La stessa idea di un progresso o di un'evoluzione è la prova di questa crescente solidarietà. Finché le generazioni e gli individui si sono giudicati indipendenti, è sembrato che il mondo invecchiasse e deperisse. Certo, lo sembra ancora. Ma comprendendo meglio che l'umanità è come un solo uomo che non muore, noi acquisiamo altresì sempre più il senso di una crescita e di un'unione reale. Perciò lo stesso progresso della vita sociale sviluppa negli spiriti un nuovo sentimento dell' " umanità ", un sentimento che, quasi sconosciuto nell'antichità nonostante le testimonianze di certe imprese eccezionali o qualche verso dei poeti, ha preso diritto di cittadinanza, se cosi possiamo dire. Entrato ufficialmente nel concerto dei motivi che influenzano la condotta degli uomini e dei popoli, esso dirige l'opinione pubblica al punto di aver ispirato già una nuova forma dell'ipocrisia o persino un culto. Per la filosofia antica lo sforzo supremo era stato quello di pensare, di definire e di volere la città. Tutto è subordinato a essa, morale e religione. L'ordine politico è il simbolo, o anche la realtà che contiene l'oggetto infinito della dedizione di tutti. E nonostante qualche trascorso del cuore, il nemico cominciava alle porte della repubblica, come nella cerchia delle mura viveva l'estraneo indigeno, lo schiavo. Forse in nessun altro contesto risulta più evidente la differenza tra lo spirito antico e lo spirito nuovo. Per lo stesso Aristotele tutto risulta subordinato, come a un fine ultimo, alla politica, nell'ordine speculativo o pratico, morale o religioso. La città non è un piano qualsiasi nell'edificio umano, è il coronamento di tutto. E laddove noi non vediamo altro che un grado o un mezzo, egli trovava il termine supremo e la perfezione dell'attività umana. In un solo popolo dell'antichità, il popolo ebraico, il culto patriottico coincideva con il culto religioso. E tuttavia questo Dio eccelso, nonostante la gelosia sequestrante e l'esclusivismo passionale del sentimento nazionale che requisiva Dio, non è stato ridotto alle stesse dimensioni del " Popolo eletto ", ne è stato riservato unicamente a esso per sempre. Ma d'altra parte a quale condizione è stato possibile questo atteggiamento peculiare? Alla condizione di anticipare un futuro di espansione universale, di considerare il presente, angusto e chiuso, come il simbolo e il germe di un enorme allargamento della coscienza, di veicolare in ciascuno degli atti della vita nazionale la promessa di tutta l'umanità futura. Ma dopo questa infanzia del tempo e della storia in cui l'egoismo non vede che l'individuo, in cui l'individuo non conosce che la sua famiglia, ritenendola incomparabile e unica, in cui la famiglia delimita il suo orizzonte alla vita politica della città, le idee morali a poco a poco hanno fatto molta strada. Senza rinunciare al patriottismo, e proprio per conservarne il sapore, è stato necessario imparare a essere più che un cittadino, in modo da gustare, da amare negli altri non il congiunto, l'amico, il compatriota, l'ospite, lo straniero o l'alleato, ma l'uomo che non possiede altri titoli che l'essere uomo; uno sconosciuto, un nemico forse, ma un uomo. La ragione ha compiuto un grande atto e ha fatto un passo prodigioso quando ha avvertito che nello schiavo, nel selvaggio, nel povero, nel malato o nel debole c'è l'umanità stessa. E quanti sono ancora incapaci di vederlo! Per dirlo, lo dicono, ma lo sanno in modo astratto. Probabilmente lo sentono, ma in essi questa volontà dell'umanità non arriva fino ai fatti, ai fatti congruenti con la conoscenza e con le parole. Tuttavia, quali tesori di pace e di unione ci riserva il futuro! Sembrava impossibile che si potesse liquidare la necessità sociale della schiavitù; eppure è stata liquidata. Sembrava impossibile che proprio sui campi di battaglia si potessero avere dei riguardi nei confronti del nemico. Invece, a poco a poco si è costituito un diritto delle genti che, per quanto possa essere violato, si impone al giudizio dei popoli. Sembra impossibile che la guerra sparisca e si attui il disarmo. Ma ancora una volta chissà quali tesori di pace e di unione ci nasconde il futuro, senza recare detrimento alla splendida diversità delle federazioni nazionali in seno alla confederazione umana! In ogni caso, sotto questi sviluppi della coscienza riflessa, bisogna sempre identificare la volontà segreta che li anima. Essi non sono altro che uno sforzo crescente per adeguarla. Senza che neppure ne abbiamo un'idea precisa, o senza voler regolare la decisione sul sentimento che ne possiamo avere, l'azione umana implica di fatto la solidarietà tra gli uomini, ed esprime l'unità della specie. Unità che, peraltro, è conforme a questa misteriosa continuità della generazione che fa scorrere in tutti lo stesso sangue, che in un bambino realizza in una sola vita la duplice vita dei genitori, che invece di dividerli li rinsalda moltiplicandoli, e li perpetua entrambi sotto le stesse specie corporali. Pertanto l'azione, scaturita in un primo tempo dall'intenzione assolutamente personale dell'agente, a poco a poco si è incorporata la famiglia e la città, per prendere il volo nell'intera umanità. Esigendo la solidarietà totale tra tutti gli uomini, essa diventa ciò che vuole essere. E vuole essere per libera scelta ciò che è già sotto l'impulso del suo primo slancio. Se quindi sembra che le venga imposto, come una legge, l'obbligo di erigere se stessa a massima universale, se a ciascuno si comanda di agire con l'intenzione di fare ciò che tutti devono fare, se bisogna avere il sentimento di veicolare nella propria azione particolare la volontà e l'azione degli altri, tutto ciò non è altro che la traduzione, non soltanto di ciò che deve essere per la volontà deliberata e voluta, ma di ciò che è già per la volontà volente e operante. In effetti qualunque cosa facciamo, l'umanità è interessata all'azione di ciascuno come a un nuovo elemento dell'equilibrio generale. L'azione di cui l'uomo si attribuisce la paternità è quella che potrebbe accadere a nome di tutta la specie. Indubbiamente sembra strano dire che quando vogliamo e agiamo di fatto trascendiamo la famiglia e la città per investire e interessare dei nostri atti l'umanità. Ma il fine ordinario delle decisioni consapevoli non appare fin dal primo momento, nel motivo che le determina, superiore a tutte le condizioni domestiche e politiche nel cui contesto si producono? Se il sentimento pristino della libertà e del dovere implica l'idea di un fine trascendente in rapporto a tutti gli elementi inconsapevoli o consapevoli dell'azione, vuoi dire che l'azione stessa di fatto ingloba nella sua espansione reale più delle sue condizioni individuali o sociali. Che lo sappiamo o meno, l'azione volontaria possiede una tale ampiezza che subito sfugge ai limiti della società domestica o politica. Non possiamo, non vogliamo vivere soltanto per noi, soltanto per i nostri familiari, soltanto per i nostri concittadini. Perciò, grazie alla forza del movimento ininterrotto che la trascina, l'azione supera ulteriormente anche la cerchia della federazione umana. * * * Mi propongo di studiare l'estensione dell'azione nel contesto universale che essa investe, e in cui cerca le risposte e le sanzioni alle quali aspira; e mostro come essa attraversa le diverse sfere morali, nelle quali di volta in volta si è preteso confinarla, come se vi trovasse la sua regola definitiva e il suo uso sufficiente. - Esamino anzitutto quella che si potrebbe chiamare la morale del naturalismo, con l'intento non di confutarla, ma di far vedere ciò che vi è allo stesso tempo di giusto e di insufficiente. - Poi indico come l'azione, trascendendo l'ordine della natura, sembra esigere un altro campo e quasi un altro mondo in cui esplicarsi e trovare soddisfazione. - Infine, mostrando che questa morale metafisica non soddisfa ancora alle esigenze della volontà e non adegua l'estensione dell'azione, studio " la morale morale ", quella che sembra unicamente preoccupata di definire le condizioni sufficienti e necessario dell'azione volontaria, indagando quali sono i postulati o le credenze indispensabili per fondare scientificamente la condotta umana. Queste diverse forme della morale " naturale ", che dal punto di vista dell'intenzione sembrano inconciliabili ed esclusive, tuttavia di fatto, e dal punto di vista dell'azione, sono conciliate e, per così dire, dislocate su vari piani. Sicché, formulandole in presenza della coscienza riflessa, non si fa altro che analizzare in maniera sempre più completa il contenuto della volontà operante, finendo per mostrare, in questo capitolo, che essa eccede il dominio morale, per quanto depurato, ingrandito e sublimato lo supponiamo. Qui il reale oltrepassa ancora una volta l'ideale, e il fatto attuale esorbita dal dovere formale. Capitolo II - L'estensione universale dell'azione Le forme graduate della morale naturale Agendo, l'uomo non limita il suo sguardo alla famiglia, alla città, all'umanità. Egli proietta la sua intenzione ancora al di là. Si inserisce nell'intero universo, come giustamente dicevano gli stoici. In effetti l'azione volontaria investe il sistema totale, nel quale ha attinto i suoi elementi e nel quale intende regnare. Perciò non sorprende veder convergere due tendenze in apparenza divergenti in questo bisogno di solidarietà universale: da una parte il disegno egoistico della volontà individuale che cerca sempre di riempire e di gratificare se stessa, dall'altra il movimento infinitamente complesso della vita generale, il cui enorme ingranaggio sembra frantumare tutti i fini particolari e le pretese dell'individuo. Ma si tratta di un solo e identico movimento. E anche qui, malgrado le fluttuazioni della libertà umana, malgrado la diversità delle concezioni, delle teorie o delle abitudini morali, un determinismo derivato dall'atto voluto, qualunque sia questo atto, svolge le inevitabili conseguenze delle premesse poste dall'azione stessa. Come dunque l'uomo si eleva a un carattere sempre più disinteressato e morale? Senza beninteso cessare, perdendo di vista se stesso, di lavorare nel senso autentico del suo destino, di concorrere al suo interesse più incontrovertibile, di assecondare, tramite l'intenzione e la scienza circa quello che fa, il disegno segreto che ispira le sue azioni volontarie. I. Agire significa in qualche modo affidarsi all'universo. Come l'avarizia perde tutto proprio volendo guadagnare tutto, l'egoismo più geloso potrebbe conservare tutto soltanto depauperandosi ed estenuandosi, senza mai riuscire a non mettersi in gioco ( se livrer ). Piaccia o non piaccia, l'azione è a suo modo una speculazione. Ed è per questo che l'uomo d'azione rassomiglia spesso a un giocatore che, attraverso i calcoli più attenti, non fa che azzardare un colpo. Per avere il coraggio di agire, ha bisogno quasi di un amore del rischio e di un distacco forzato, per non parlare ancora del disinteresse voluto o dell'abnegazione sincera. Quindi l'utilitarismo, coerente con la legge necessaria del suo sviluppo, è obbligato a superare se stesso. Infatti la volontà individuale non può cercare se stessa che attraverso un'infinita complessità in cui sembra perdersi. In tal modo, per il sentimento della vastità immensa e oscura in cui si svolge, sentimento provocato in noi dalla vita, l'azione riveste inevitabilmente un carattere che possiamo già dire morale. Infatti non è utile e non è possibile che la nostra condotta sia un mero calcolo. Essa ingloba un campo più vasto di tutte le combinazioni riflesse. Pertanto, quando la volontà sempre ampliata ha trasferito il suo centro dall'intenzione all'operazione organica, dall'operazione all'opera esteriore, dall'opera all'intimità di una volontà alleata, da un cuore amato in maniera esclusiva all'amore della famiglia e della città, dagli affetti esclusivi e gelosi all'assemblea universale delle generazioni umane, è ancora necessario fare un nuovo passo avanti e cercare questo equilibrio nel sistema totale del mondo. Agire è la funzione del tutto. Non si tratta più di inserire la nostra operazione personale nel determinismo generale. Al contrario si tratta di inserirvi noi stessi, di volere e di ammettere in noi l'azione di questo determinismo, di accettare e di fare nostro quello che sorpassa la nostra previsione, la nostra comprensione, la nostra libera disposizione, di riconoscere sotto il gioco dei fenomeni le forze inaccessibili che li producono, e di dare il consenso a recepire i dettami oscuri e le ispirazioni dell'esperienza morale emanati da questa misteriosa potenza che le scienze positive ammettono senza intaccare. Perciò, anche in quello che sembra moralità volontaria, bisogna ritrovare ancora l'espansione necessaria e la conseguenza naturale del volere iniziale. Il merito delle dottrine deterministiche e utilitaristiche è quello di far vedere che, laddove altri non vedevano che un dovere ideale, c'è già un fatto inevitabile. Perciò, per ricondurre al suo senso autentico questa morale naturalistica, conviene accostarla sotto questa duplice visuale. - Da un lato, per effetto di una sperimentazione che nulla surroga e nulla abolisce o impedisce, l'azione riceve a posteriori le lezioni del contesto in cui si esplica. Essa subisce le reazioni del contesto universale. E, grazie al gioco stesso di questo meccanismo vivente, si forma a poco a poco la coscienza, si consolida la tradizione secolare delle regole pratiche, e sorge per forza di cose il fatto della moralità umana. - Dall'altro, questo fatto diventa la coscienza di un dovere. Questo distacco obbligato è la via per un disinteresse intenzionale. Questa necessità a posteriori deriva dal movimento a priori della volontà. Infatti noi interpretiamo le lezioni dell'esperienza solo nella misura in cui le provochiamo. Bisogna quindi scoprire in che modo il fatto dell'ideale morale si sprigiona per forza di cose dall'empirismo pratico sotto lo stimolo di un'aspirazione intima. I - È impossibile inserire l'abnegazione tra i termini di un calcolo interessato; ed è altrettanto impossibile trovare con sicurezza il piacere e il profitto al termine di una dedizione reale. Questo mondo è troppo complicato perché non perdiamo in tale labirinto il filo delle nostre deduzioni pratiche. L'aritmetica utilitaristica è un'illusione. E di solito l'egoista va contro il suo intento. La nostra azione non è mai tutta nostra soltanto. Occorre che gettiamo i nostri atti, il nostro tesoro più prezioso, agli sconosciuti, agli ingrati, ai ladri. L'evidenza dei fatti è questa: beni e mali mischiati, nel caos universale, si manifestano l'indifferenza e il disordine. È l'immoralità stessa. E tuttavia, per un sistema di compensazioni oscure e per la confusa reazione di tutte le forze mischiate, nella coscienza dell'umanità si profilano alcune grandi correnti, e in noi sorgono una concezione e un senso della vita. Sembra che solo l'inizio delle azioni sia in nostro potere, e che svolgendosi esse avvolgano nel tessuto delle loro conseguenze persino l'uso futuro della nostra apparente libertà. Tuttavia da questo concatenamento fatale non emerge nulla che non sia stato in germe nell'atto seminato in origine: le circostanze poco modificano la nostra natura, piuttosto la svincolano dalla sua indeterminazione di partenza. E senza creare niente di nuovo in noi, ci rivelano ciò che portavamo in noi stessi senza saperlo. Man mano che la trama degli atti si dipana, un determinismo più serrato ci stringe più fortemente. E questa costrizione esteriore procede ancora da noi, anche quando, rivoltandosi contro i nostri disegni, la responsabilità nascosta in fondo alle concessioni o alle mancanze in apparenza più insignificanti ci priva dell'indipendenza, della pace, dell'onore, facendoci pagare a usura i nostri debiti segreti. In questo modo appunto dal cimento della vita scaturiscono massime, precetti empirici, " criteri " popolari di moralità che palesemente compendiano la sapienza dei secoli e delle nazioni. Determinare con maggiore precisione e rigore la legge delle ripercussioni necessario e le conseguenze degli atti umani; spiegare la formazione delle nozioni morali correnti in un'epoca e in un paese; regolarne il movimento e affrettarne il progresso tramite la presa di coscienza: è questo l'oggetto della scienza dei costumi, della morale veramente scientifica, la quale, indipendentemente da qualsiasi ricorso alla libertà e a prescindere da qualsiasi obbligazione particolare, si fonda sul determinismo delle azioni e delle reazioni a livello complessivo. E in effetti, per preservare questo carattere scientifico, occorre che la scienza dei costumi si collochi non nella visuale dell'individuo, e neppure nella visuale sociale, ma nella visuale del tutto. La condotta umana non si organizza nella sfera della conoscenza chiara, e la vita individuale non si concerta nei limiti dell'individualità. È quindi necessario gettare l'azione nell'immensità delle cose e attendere la risposta di questa stessa immensità. L'azione è un appello e un'eco dell'infinito: viene dall'infinito e all'infinito va. Qui la scienza non può essere che pratica, ossia fondata su una reale sperimentazione relativa alla complessità impenetrabile della vita. Difatti i costumi non hanno la loro norma in ciò che conosciamo di noi stessi, in ciò che vogliamo e facciamo con chiara coscienza, ma in se stessi. E non bisogna neppure ritenere che questo meccanismo universale restituisca esattamente ciò che gli abbiamo affidato. Al disinteresse non corrisponde il beneficio di una natura che si impegnerebbe a essere interessata per nostro conto. Che stoltezza parlare della cosiddetta giustizia immanente! E che ingenuità credere che il mondo si incarichi di ricompensare le virtù naturali, anche nell'angusta sfera in cui si muove l'egoismo empirico! Disinteresse forzato, sia nella sorgente che nei risultati dell'atto. Perciò, anche quando ci convinciamo che solo le conseguenze delle azioni sono importanti, non c'è niente di più " scientifico " che distaccarsi da queste stesse conseguenze, per seguire le indicazioni della coscienza che già sono una lezione per l'azione. Mettiamoci dunque all'opera, senza chiederci con futile avidità: " A che serve ciò, e che valore ha? ". Gli atti sono come le pietre di un edificio sconosciuto, laddove è più bello essere un umile manovale che ergersi ad architetto, perché il piano dell'insieme sfugge ai nostri occhi, e le esperienze più comuni della vita pratica restano misteriose per la nostra ragione, come quelle piastrelle, che non guardiamo nemmeno, e tuttavia su di esse poggiamo i nostri passi. Perciò come è importante porre la scienza morale al riparo sia dalle sanzioni empiriche sia dalla ragione ragionante e dalle fantasie individuali! Infatti se si ritenesse che " la coscienza " è giudicabile da parte della dialettica, sarebbe finita. In questo contesto niente è più pericoloso delle deduzioni logiche, delle idee chiare e distinte, del semplicismo. Le credenze vitali dell'uomo sono il risultato di un lungo brancolare, di innumerevoli prove, e per così dire di un lento assestamento. In esse si compendia più saggezza e previdenza che nei sistemi dei geni più luminosi o nelle idee più profonde di un'intera accademia. Ciò che chiamiamo ideale morale in un certo senso è solo un estratto e un'anticipazione dell'esperienza, un postulato o un'ipotesi necessaria per l'interpretazione dei fatti, o meglio un adattamento reale e progressivo dell'azione e della coscienza alle condizioni della vita. Questa corretta appropriazione è la norma empirica della prassi. Infatti questa ragione pratica non enuncia assiomi partendo da concezioni astratte in base alle quali pretendere di plasmare una volta per sempre tutte le coscienze e tutte le società, ma si forma a poco a poco e si rinnova interiormente col movimento stesso dell'evoluzione generale. Sicché, considerata sotto questo profilo, la morale è il compendio e la conclusione sempre provvisoria e mutevole della storia non solo dell'umanità, ma di tutto l'universo. Quindi le idee regolatrici della condotta non costituiscono una rivelazione improvvisa, ma una lenta cristallizzazione dell'esperienza totale, e quasi l'espressione del nostro senso sociale, del senso della vita universale in noi. Dopo un periodo di brancolamenti e di instabilità, le azioni si consolidano. Esse paiono reclamate in noi da qualcosa che è fuori di noi, dall'interesse comune, dalla verità dei rapporti reali, dal sistema totale del mondo in cui si inseriscono. Perciò di fatto il carattere di obbligazione di cui appaiono rivestite si spiega con la sintesi necessaria e le compensazioni spontanee delle azioni che si combinano e si corrispondono. I costumi non sono semplici abitudini individuali generalizzate. Se c'è un'azione dell'individuo sulla società e della società sull'individuo, bisogna tenere conto soprattutto dell'influsso della società sulla società stessa. In altri termini i costumi creano i costumi, un fatto sociale deriva da altri fatti sociali e collettivi in cui il sentimento ha una parte maggiore dell'idea chiara, e l'azione individuale non può essere sufficiente a organizzare la vita dell'individuo, perché nella logica pratica c'è sempre più di quanto l'analisi astratta non riesca a scoprire in essa. Ecco perché la morale non è soltanto un'arte, una questione di tatto e di delicatezza, una grande abilità della coscienza di pochi privilegiati, una questione di gusto, un decreto del senso di ciascuno. È una scienza che si sviluppa di età in età secondo leggi, man mano che si istituiscono di fatto e sono riconosciuti dalla riflessione i rapporti reali e l'organizzazione delle azioni di solito cospiranti. Il vero ruolo della morale scientifica è quello di far vedere all'uomo che non è un tutto, ma la parte di un tutto, di studiare le condizioni della sterminata società in cui intreccia la sua vita, e di formulare ciò che è necessario all'esistenza parziale e globale. Essa è scienza dell'insieme sociale, per essere scienza dell'insieme individuale. Infatti, nella legge del tutto, l'azione va in cerca del segreto soggiacente al ritmo delle parti. Essa è la proiezione in un punto dell'unità complessa. In tal modo si spiega come questa morale scientifica, senza uscire in qualche modo dal reale, propone una specie di ideale, e senza fare ricorso all'intervento della libertà, legittima la propria esistenza e la propria utilità esibendo le condizioni positive del funzionamento sociale. E proprio grazie a questa conoscenza essa agisce sulla coscienza individuale. Inoltre in questo modo si percepisce in che misura l'organizzazione economica sfugge o si presta alle riforme meditate. La società non è una macchina che venga messa in moto dall'esterno, ma è un vivente che si muove dal di dentro. Non è un automa costruito in base a calcoli e riflessioni, ma un organismo nel quale c'è interazione tra le idee chiare e gli influssi inconsci, equilibrio tra le funzioni sociali e le abitudini individuali. Sicché nell'opera perenne di conservazione e di riforma delle " virtù " morali e sociali ci devono essere, insieme, la parte della ragione e quella della natura, dei costumi e delle leggi, dell'iniziativa privata e dell'azione pubblica. Senza dubbio non si può trasformare radicalmente quello che c'è di necessario e di naturale nel gioco della vita umana. E tuttavia queste regole hanno una flessibilità e, per così dire, una elasticità indefinita. A tal punto che mai ci imbattiamo in violazioni brutali, in impossibilità irrimediabili, in smentite perentorie. Pertanto, siccome le molle di questo smisurato meccanismo sono troppo numerose perché esso possa essere scrutato dallo sguardo più penetrante, e possa essere manovrato dalla mano più potente; siccome attingiamo solo le conseguenze prossime delle nostre azioni e non tutte le loro ramificazioni nelle profondità del corpo organizzato; siccome ci vorrebbe una straordinaria perspicacia per discernere nel dettaglio che, per esempio, l'egoismo è nemico di se stesso; siccome gli atti, diffusi e amplificati nell'organismo universale, ritornano alla coscienza carichi di una nuova ricchezza, di cui è impossibile fare l'inventario completo, la volontà sincera e coerente non ha altra risorsa, per intravedere e per attingere lo scopo nascosto cui mira, che affidarsi in qualche modo con gli occhi chiusi a questa grande corrente di idee, di sentimenti, di regole morali che si sono a poco a poco sprigionate dalle azioni umane, grazie alla forza della tradizione e all'accumulo delle esperienze. Quindi, essendo già stata sconfessata in nome dell'autenticità pratica, la rivolta dell'uomo contro la sua " coscienza " deve essere condannata in nome della stessa scienza. II - La concezione del diritto scaturisce dal fatto stesso. Ma è il fatto che la produce? No. Se le oscure lezioni dell'esperienza ci insegnano che la ricerca dell'interesse egoistico risulta essere il peggiore dei calcoli, e che il miglior mezzo per raggiungere la felicità non è quello di perseguirla, perché la via diretta è senza sbocco, nondimeno il disinteresse resta un fatto reale dal momento in cui, qualunque cosa facciamo, bisogna abbandonarsi all'ingranaggio universale, senza sapere esattamente che cosa ci renderà. Qualunque sia il grado più o meno elevato di libera generosità impegnato dall'intenzione, comunque per agire bisogna cominciare a distaccarsi da sé. In qualsiasi impresa umana si da una porzione di abnegazione forzata. Ma non bisogna farsi illusioni sulla produzione necessaria di questo disinteresse che conferisce all'atto un carattere già morale: nulla è più delicato di questa trama tenue, ma infinitamente complessa, della moralità nascente. E come ogni mattina il risveglio è misterioso, così il destarsi della coscienza in ciascuno di noi risulta impercettibile quanto i cambiamenti della luce all'alba. Tuttavia, come è stato possibile spiegare l'inevitabile genesi della libertà, è ugualmente possibile e necessario spiegare l'inevitabile produzione di questo minimo di moralità che, nonostante tutti gli abusi o tutti i disimpegni immaginabili, rimane uno dei caratteri specifici di quello che è stato chiamato il Regno umano. Se nella coscienza dell'azione c'è più di quanto vi sia nell'azione stessa, se la ragione dell'operazione volontaria si trova solo nel concepimento di un fine distinto dalle sue cause efficienti, è necessario altresì che questo stesso fine risulti a sua volta superiore alle esperienze pratiche che esso ispira. Nell'ideale realizzato rinasce perennemente un ideale ulteriore, come il miraggio di un'acqua che scompare man mano che si avanza. È così che la prassi positiva della vita proietta davanti a sé senza soluzione di continuità un dovere al tempo stesso ideale e reale. Reale perché, essendo fondato sull'esperienza già costituita, vi attinge la sua efficacia operativa, ma veramente ideale perché nell'azione stessa fa scaturire quello che non si riduce mai al semplice fatto. Ecco dunque i termini del problema. Dal loro mero accostamento risulterà la soluzione. 1. La volontà, quando agisce, cerca se stessa in maniera del tutto spontanea. È questo lo slancio della sua autenticità di fondo, la ragione della sua espansione. 2. Perseguendo un fine, qualunque esso sia, l'azione è obbligata ad abbandonarsi all'immensa, impenetrabile potenza di tutto l'universo. Per quanto prenda delle precauzioni, per quanta scienza abbia, l'uomo d'azione si consegna, con una dedizione anonima, alla grande esperienza universale, dalla quale forse non ricaverà un vantaggio. 3. Cercando se stessa, la volontà è dunque costretta a distaccarsi più o meno da se stessa. Essa non può servire e regnare se non dando a vedere di disimpegnarsi, e disimpegnandosi effettivamente. La vita più intensa è quella che ha la massima estensione. L'unica maniera di portare l'azione individuale al suo più alto grado di forza e di fecondità non è di sigillarla in sé, ma di distribuirla e di sacrificarla a tutti. Questa generosità non è una passione cieca e folle, né un calcolo previdente, ma esprime in una forma ancora incompleta l'intento più profondo e più ragionevole dell'uomo. Quindi la volontà normale è una volontà impersonale e universale, che tende a identificarsi con la vita comune e ad arrecarvi il proprio contributo disinteressato, senza pretendere un ricambio. 4. Dunque tra ciò che vuole e ciò che è voluto, tra ciò che agisce e ciò che è fatto, intercorre effettivamente un mondo. Ecco perché ciò che si diparte da noi e ciò che ritorna a noi sono cose incommensurabili. Visto all'origine, il movimento dell'azione procede da un amor proprio; visto al ritorno, assume l'aspetto contrario. E proprio perché tende fin dall'inizio a ritornare a sé, l'uomo riconosce per forza di cose fino a che punto ciò che ritorna a lui non è affatto partito da lui. Quindi la coscienza e la necessità del disinteresse presuppongono un primo slancio di amor proprio, un bisogno di crescita, una ricerca di sé ingenua. 5. Il risultato è che l'interesse e il disinteresse sono ugualmente reali e ugualmente fondati sul determinismo della vita morale. È perfettamente vero che in ogni azione il corredo iniziale è dato da un amore dell'agente per se stesso. Ed è altrettanto vero che per agire esattamente secondo questo amore occorre esporsi e donarsi. Invano si è tentati di ridurre tutti gli impulsi che il cuore manifesta a furbizie recondite, proprie dell'egoismo. Queste sono sottigliezze da moralisti! Non si riesce a operare questa riduzione. E se pure vi riuscissimo, rimarrebbe ancora vero che persino la coscienza illusoria del disinteresse ratifica un disinteresse reale. Infatti il principio di un distacco necessario risiede nell'impossibilità di collegare con certezza il punto d'arrivo al punto di partenza dell'azione. Se supponessimo di aver dimostrato, in linea astratta e generale, che l'abnegazione della dedizione coincide con l'utilità ( una conclusione peraltro inconsistente allo stesso modo della dimostrazione ), non per questo avremmo convinto la coscienza di ciascuno che in ogni evenienza e in ogni dettaglio della vita sarà così. Di fatto l'azione, anche quella egoistica, è sempre una speculazione e un rischio. 6. Così si spiega che le massime disinteressate facciano presa sulla volontà, che il motivo ideale possegga un'efficacia reale, che a tale motivo in apparenza del tutto arido si aggiunga, senza snaturarlo, un movente attraente, e che l'autonomia morale ammetta un'eteronomia. Risulta vero a un tempo che la natura ci inganna e che la virtù non è una mistificazione. Fondato in linea di fatto, il disinteresse non ha nulla da attendere dal fatto. La nostra ricchezza spirituale si forma al di là dell'ordine della natura. Sembrava impossibile capire perché e in che modo l'universalità di un precetto meramente formale potesse interessarci e potesse motivarci. Ed ecco la spiegazione. Soggiacente al disinteresse più totale e più sincero c'è sempre l'ambizione di fondo del volere personale, non per viziarlo, ma per renderlo possibile e attivo. 7. Perciò, per quanto scaturito da un pristino amor proprio, il distacco rimane nondimeno autentico; per quanto vincolato al reale dei fatti, il concepimento necessario di un ideale nondimeno prospetta alla coscienza un dovere superiore ai fatti. Come il determinismo delle cause efficienti aveva proiettato di fronte a noi, fin dal primo risveglio della riflessione, un fine da perseguire, così anche qui afortiori il meccanismo della vita fa sorgere un motivo superiore agli stessi fatti che ne approntano la conoscenza. L'azione quindi è sospesa a una finalità effettiva, senza la quale la concatenazione pregiudiziale dei mezzi non sarebbe neppure intelligibile. 8. In questo modo la volontà recupera in sé e convalida non soltanto le apparenze del determinismo universale, ma la realtà universale che ne è la fonte. Essa ne aveva già accettato la verità oggettiva, nella misura in cui la scienza se ne impadronisce e vi regna. Adesso ne accetta il potere intrinseco e inaccessibile, nella misura in cui questo universo configura e scandisce l'individuo stesso, il suo pensiero e la sua debole azione. Dunque non si tratta più semplicemente di acconsentire alle condizioni elementari della conoscenza riflessa e della libertà, e neppure di ammettere l'azione di altre forze concorrenti e la presenza di un contesto la cui cooperazione contribuisce al successo dell'iniziativa personale. Occorre diventare in qualche modo questo determinismo e questo contesto stesso, in modo da concorrere per intero all'intera immensità del mistero della natura. Quindi il centro dell'azione individuale risulta trasposto all'infinito. Perciò la volontà, il cui sviluppo pareva restare sempre concentrico, nonostante la sua ampiezza crescente, diventa per così dire eccentrica rispetto a se stessa. Come se la circonferenza, oltrepassando il suo limite, che è la linea retta, andasse a formarsi intorno a un altro punto infinitamente lontano. 9. Non che occorra lasciarsi illudere dalla vuota chimera di una " coscienza universale ", né attribuire un'anima di vita e di ragione al " grande Tutto ". Immaginare che l'atto umano debba recare vantaggio ad altri significa interpretare male il disinteresse necessario di quell'atto. Indubbiamente ci vuole grandezza d'animo per abbandonarsi alle forze dell'universo, con il sentimento che una stessa legge governa il movimento delle stelle e le recondite disposizioni del cuore. Senza dubbio ci vuole generosità a rassegnarsi alla ragione nascosta della natura. È bello per l'uomo acconsentire a compiere atti apparentemente spietati, e amare tutta la propria opera a motivo della grandezza d'animo che ci vuole per buttarvi in pasto la propria vita. Senza dubbio per il saggio stoico, pronto a morire per una virtù che non deve essere ricompensata, questa gioia nel morire bene, anche durasse solo un lampo, è preferibile alla mediocrità di un'esistenza piatta e lunga. È fuori discussione che, per soddisfare cuori nobili, sensibili e fieri, è già una sanzione il piacere orgoglioso di un rinnovato quietismo che non vuole affatto una sanzione. E tuttavia queste sono tutte illusioni. Il piacere di essere gabbato, di sapere che lo si è, di volerlo essere, non impedisce che lo si sia. Il disinteresse morale non gravita intorno a tutte queste belle, sottili e pretestuose chimere. Non è fuori di noi che ne troviamo la ragione, ma l'immensa sintesi che sfocia in questo distacco inevitabile si opera in ciascuno di noi nella volontà personale e per mezzo di essa. Tuttavia non abbiamo ancora trovato il senso, il termine di questo movimento disinteressato. 10. In tal modo si svela a poco a poco l'aspirazione profonda dell'uomo, e si svolge la serie dei mezzi tramite i quali cerca il suo fine. L'intero ordine della natura rientra nel campo della sua esperienza. Tutto ciò che da esso recepisce a posteriori, egli lo sollecitava già a priori. Quello che cerca è precisamente la definizione del proprio interesse; per l'appunto, che cosa deve intendere per suo interesse? Egli attraversa l'universo senza trovarlo. E quindi si disinteressa dell'universo. Il mondo ha un carattere ambiguo; in esso la coscienza non dimora presso di sé. C'è bisogno di qualcosa al di sopra del mondo per spiegarlo e per apporvi un senso. La morale naturalistica quindi, utile per evidenziare la continuità del progresso della vita e il risveglio della coscienza, è sospesa a una nuova forma del pensiero e dell'azione, a una morale metafisica. Per un'iniziativa originale lo spirito umano, in maniera del tutto naturale, al di là del mondo attuale ne presuppone un altro, un mondo ideale. II. Come nella sensazione più insignificante siamo portati a cercare al di là di essa ciò che è, così attribuiamo sempre, in una forma o nell'altra, un senso ulteriore alla nostra vita personale: quello che non è dato dall'esperienza, presumiamo trovarcelo o mettercelo. Sembra che da tutto il reale traiamo motivo di ravvisare che non è quello che deve essere, che non è ciò che noi vogliamo sia. Quindi per forza di cose l'uomo si eleva dal fatto al diritto, anche quando pare identificare o subordinare l'uno all'altro. Adesso bisogna spiegare questa genesi necessaria di una metafisica perlomeno implicita. Anche in ciò di cui si ha l'esperienza più completa possibile c'è sempre qualcosa che per illuminare e regolare l'azione trascende l'esperienza stessa. Da dove nascono queste concezioni metafisiche? Come intervengono nell'organismo della vita umana? Quale ne è il ruolo e la portata? - In effetti è proprio dell'uomo creare nozioni universali per conformare a esse i suoi sentimenti e la sua condotta, per adattarvi i fatti. Ma in questa sede è necessario, se così si può dire, costringere a rientrare nei ranghi questa metafisica, di cui di solito si pretende fare un ordine a parte, un ordine sovrano e assoluto, un ordine forse immaginario. L'originalità della sua collocazione è di non essere un termine più o meno definitivo o fittizio, ma piuttosto un gradino nella serie dei fini perseguiti. L'idolatria dell'intelletto ne farebbe volentieri il tutto, il dio. Ma la metafisica non è tutto, è qualche cosa nel progresso dinamico della volontà. Essa configura un grado del determinismo dell'azione e, diciamo così, un fenomeno nuovo, che ha una efficacia sua propria pur essendo legato agli altri. È un passaggio che, muovendo se stesso, consente il movimento della vita. Quello che c'è di vero, di originale e di efficace nella metafisica si compendia dunque in queste tre proposizioni che sarà necessario giustificare succintamente: 1) la metafisica ha un fondamento sperimentale; essa si nutre di tutto il reale; 2) essa subordina i fatti attuali a fatti che non sono affatto, nel senso positivo in cui i primi sono; essa prolunga il mondo della natura in un mondo del pensiero che ne diventa la ragione e la legge; 3) essa afferma ciò che non è, e lo mette in pratica perché sia; l'atto diventa così una naturalizzazione del possibile nel reale. La metafisica è dunque un dinamismo. Essa parte dai fatti per ritornare ai fatti, ma fatti di un ordine superiore. Essa, per forza di cose, induce l'uomo ad attingere il principio della propria condotta non nell'universo ma altrove. Nel ritmo della vita, che va dall'azione all'azione, essa inserisce il pensiero, frutto e germe di una volontà più perfetta. Così le idee che la metafisica organizza in sistemi sono al tempo stesso - reali, perché esprimono a livello di coscienza le reazioni molteplici che lo sguardo non arriva a cogliere fin nelle profondità della vita universale in noi; - ideali, perché, illuminando e oltrepassando l'esperienza attuale, preparano le decisioni prossime; - pratiche, perché hanno un influsso incontrovertibile sull'orientamento degli atti volontari. 1. È necessario capire bene che queste idee metafisiche sono reali e si fondano sul fatto. Il pensiero non è per nulla isolato dal mondo dei fenomeni da cui la coscienza attinge i suoi alimenti. Ciò che era vero per le immagini e i desideri del tutto spontanei bisogna ripeterlo, con maggiore forza e in un senso più pieno, delle più alte concezioni del pensiero riflesso. Quest'ultimo, arricchito come è da tutti gli incrementi della vita organica, sociale e universale, raccoglie l'insegnamento di questa sterminata sperimentazione. Pertanto in questo fuoco dell'idea nata dall'azione c'è una concentrazione di tutti i raggi sparsi, e quasi una sintesi dell'intero reale. Ma perché siamo indotti a concepire, al di là dei fatti, qualche altra cosa ancora? Da dove deriva questa necessità di proiettare al di fuori di noi, al di fuori del mondo, ciò che non vi è? E se è vero che nella metafisica ci sarebbe una verità sperimentale, per quale determinismo siamo indotti a estrarre da ciò che non è dato di fatto un principio di spiegazione globale per gli stessi fatti? Nella vita spontanea della coscienza lo stesso meccanismo delle cause efficienti suscita, come abbiamo visto, una causa finale, una causa che col suo carattere sintetico costituisce un progresso rispetto alle potenze ancora cieche di cui si impossessa a suo vantaggio. Nello sviluppo riflesso dell'azione volontaria si produce, in maniera più articolata, un lavoro simile: dallo stesso gioco della vita nasce una concezione che sembra superiore alla vita, quasi un ideale oggettivo. Se è vero che la prassi umana fornisce la materia di una scienza positiva dei costumi, e costituisce una sperimentazione senza la quale le deduzioni più sottili poggerebbero sul vuoto, diventa necessario aggiungere che la nostra condotta si organizza solo rischiarandosi alla luce di un'idea totale, e che, progettando nella forma di un fine ultimo da raggiungere, la ragione completa la propria produzione. Perché questo bisogno di unità nella spiegazione totale? E perché questa proiezione " oggettiva " dell'ideale concepito? Perché l'azione non potrebbe essere parziale, astratta o provvisoria, come può esserlo la scienza. Noi agiamo in realtà sub specie totius. Quindi man mano che prendiamo coscienza più chiara e possesso più libero dei nostri atti, li raccordiamo a un principio più universale. L'attività e la socialità sono in ragione diretta tra loro. E, sia che si consideri la vita personale come una sintesi cospicua del misterioso dinamismo della natura, sia che si consideri l'universo come una vasta società in via di formazione, come una federazione di coscienze che si risvegliano o un concorso di volontà che si cercano e a poco a poco si trovano, in ogni caso l'azione palesemente si ispira e si richiama non a ciò che vi è di ciascuno in tutti, ma a ciò che vi è di tutti in ciascuno. Questa unità totale di un'azione inserita nel tutto deve senz'altro ritrovarsi nella coscienza che ne prendiamo in maniera sempre più lucida. È per questo che ogni maniera di vivere sorretta da una decisione ingloba una metafisica, almeno allo stato di abbozzo. L'azione è, se così si può dire, universalistica. Allo stesso modo diventa universalistica la coscienza che la esprime e il pensiero che ambisce governarla. E poiché l'azione apporta sempre un nuovo alimento al pensiero, così come il pensiero apporta nuovi elementi di chiarezza all'azione, questo circolo in movimento non si ferma e non si chiude. La speculazione e la prassi sono sempre al tempo stesso in anticipo e in ritardo l'una sull'altra, ma con la perenne pretesa di raggiungersi e di adeguarsi. Esse non vi riescono, e questa sproporzione necessaria induce un contraccolpo necessario nel sistema delle nostre idee. Infatti, se la vita è l'autentica scuola per la vita, come tutte le acque del fiume provengono già dall'oceano cui ritornano nuovamente e sempre, così il centro di equilibrio cui è sospeso tutto questo movimento del pensiero e dell'azione non può evidentemente trovarsi che più in alto, così come è il sole che solleva l'onda del mare fino alle altezze da cui discende la fecondità. Perciò del tutto naturalmente l'uomo proietta al di sopra di sé una specie di " motore immobile ". E il concepimento di questa finalità ideale manifesta non già l'insufficienza o la penuria di una volontà bisognosa, ma la sovrabbondanza di una vita intima che non trova nell'universo reale da espletarsi interamente. Questo ordine metafisico non è affatto fuori del volere come un fine estraneo da raggiungere. Vi è contenuto come un mezzo per andare oltre. Non rappresenta una verità già costituita di fatto, ma il luogo che si vorrebbe volere quasi fosse un oggetto ideale davanti al pensiero. Non esprime una realtà assoluta e universale, ma l'aspirazione universale di una volontà particolare. Ogni pensiero umano è quindi una metafisica, e una metafisica singolare e unica. Senza dubbio queste idee regolatrici della vita non si costituiscono in ciascuno e per ciascuno. Esse si formano in seno alla società e tramite la comunione di tutti con tutto. Tuttavia, come ogni personalità umana si organizza attraverso determinazioni sempre più riflesse, ciascuno dà una trascrizione sempre più personale di queste azioni determinate e organizzate in una metafisica almeno implicita. Man mano che la riflessione governa meglio il sistema degli atti e delle idee, palesemente i principi astratti acquisiscono maggiore efficacia, e la vita si conforma più perfettamente a una regola assoluta. Gli uomini di pensiero ne sono persuasi. a al tempo stesso questi medesimi principi riflettono più fedelmente le tendenze spontanee e le abitudini morali di chi le applica. Riteniamo di sottometterci alla verità, ma altresì la sottomettiamo a noi, ci facciamo la nostra verità. E più le idee agiscono sulla prassi, più ancora la prassi agisce sulle idee. Nella vita ciascuno trova quello che vi mette: la realtà è ambigua. Chi scandalizza uno, edifica l'altro. Le medesime lezioni illuminano quello e invece accecano e induriscono questo. Per comprendere gli avvenimenti occorre trovare in sé la chiave per interpretarli. Omnia sana sanis. Noi tutti nei nostri giudizi su noi stessi e sugli altri siamo dei grandi idealisti, inclini come siamo a dare il massimo rilievo alla nostra condotta e a giustificare ciò che abbiamo fatto perché lo abbiamo fatto. Quindi allo sguardo della coscienza, grazie al sentimento e all'effetto immediato dell'azione, c'è qualcosa di più reale del reale. 2. Qualunque sia l'origine e la forma particolare delle idee direttrici che l'uomo impone alla propria vita, ciascuno di noi ha necessariamente la sua metafisica. E questa metafisica, per quanto grezza la immaginiamo, ha un influsso necessario e un'efficacia propria. , Sebbene le nostre concezioni più teoriche e più impersonali in apparenza derivino, anche a nostra insaputa, da recondite disposizioni morali, tuttavia la speculazione conserva un'indipendenza incontrovertibile: il suo sviluppo è autonomo. Il sistema che genera la riflessione scientifica ha un'evoluzione originale, secondo le leggi di una dialettica interamente razionale. È vero che questo carattere trascendente della metafisica non deve far dimenticare le sue origini sperimentali. Infatti col pretesto di emanciparla e di purificarla, tagliando il cordone che la tiene legata alla vita vissuta, non si farebbe altro che indebolirla. Sarebbe come sperare che l'aquilone si libri meglio senza il filo teso che lo collega con la mano mobile del bambino. Ma, d'altra parte, se le idee con cui la metafisica forma le sue sintesi hanno le loro radici nella prassi, esse crescono sul suolo da cui nascono, servono a liberare la volontà dai suoi intralci, ne esprimono l'iniziativa e il progresso, le offrono, nella figura di nozioni regolative e " oggettive ", il compendio delle conquiste fatte, il simbolo delle conquiste da fare, ciò che essa vuole già, ciò che vuole volere, ciò che aspira a essere e ad acclimatare nella crescente spontaneità della vita morale. Da questo punto di vista la conoscenza sembra in anticipo di un passo sulla realtà. È la ragione per cui al di sopra dei fatti dati e conosciuti noi siamo indotti a costruire quest'ordine ideale che li spiega, e che è come la verità a priori di tutte le cose. Non dobbiamo quindi essere indifferenti, o addirittura ostili, al lavoro talvolta complicato della dialettica. Quelle persone meditative, che non si lasciano scoraggiare da nessuna sottigliezza quando si tratta di precisare meglio le loro ragioni in merito ad affermazioni e a opinioni, conservano un senso profondo della vita dietro le loro formule astratte. Essi sanno che non si da influsso duraturo, lezione convincente, insegnamento capace di offrire orientamento, senza aver scavato fondamenta sotterranee anche col rischio di sprofondare nella notte, come se occorresse perforare la terra da parte a parte per ritrovare la luce al di là. L'uomo ama le astrazioni: ne parla male, le irride, ma non ne può fare a meno. Persino quando le scaccia e le distrugge, esse lo governano ancora. Indubbiamente c'è un'infinità di modi per attuare questa dialettica astratta. E la ragione ragionante rappresenta un terribile potere di dissoluzione, se non diventa una forza costruttiva. Siccome è il frutto e l'espressione, a livello del pensiero, di una condizione intellettuale, morale e sociale, di solito è inquinata alla fonte da tutte le imperfezioni di una vita incompleta e manchevole. E una volta che sia stata già compromessa da questa specie di peccato originale, rimane ancora esposta ai rischi della sua crescita. Perciò gli uomini che sono divisi dalla vita, lo sono ancora di più dal pensiero. È indispensabile un'unità pratica di credenza e di azione perché gli spiriti, nonostante le divergenze inevitabili e la necessaria varietà di ciò che vive e di ciò che è libero, si colleghino e si armonizzino nell'unità intellettuale di una " scuola ". Quindi per coloro che sono già uniti il pensiero diventa un principio di unione più perfetta. Ma in questa sede non si tratta affatto di spiegare il caos delle metafisiche, né di determinare i principi di un'autentica dialettica, e neppure di cercare le condizioni per l'accordo delle intelligenze. Viceversa si tratta di eliminare come sempre la variabile che non deve tenere in allarme la scienza, e di discernere l'elemento comune di qualsiasi impresa metafisica, qualunque essa sia. Quale conseguenza deriva all'uomo dal fatto di aver formulato queste idee regolative? E qual è il ruolo indispensabile di queste concezioni nella sua vita? 3. Dal momento in cui abbiamo concepito l'unità di una spiegazione universale e dietro il fatto poniamo qualcosa d'altro, sia pure il fatto medesimo duplicato in qualche modo da una riflessione negativa ( così come tenta di fare il Positivismo, che si inibisce qualsiasi ricerca sulle cause e sui fatti ), anche la nostra vita si raccorda a quella spiegazione delle cose. Se nell'azione volontaria vi è qualcosa che interessa il principio, il centro, il tutto, quel qualcosa appunto che una trascrizione metafisica arreca al pensiero riflesso, viceversa ogni concezione che rivesta un carattere di universalità ingloba l'azione e sfocia nella prassi. Un sistema completo diventa un'etica. Senza dubbio in un certo senso l'azione va dal pensiero al pensiero. Ma allo stesso tempo la conoscenza speculativa non è altro che una forma di transizione nel progresso della vita volontaria. Infatti il pensiero parte dall'azione per andare all'azione. In tal modo, a poco a poco, penetriamo nel laboratorio segreto in cui si compie lo scambio perennemente arricchente tra il pensiero e la vita e tra la vita e il pensiero. Ogni grande filosofia, lungi dall'essere una semplice costruzione dello spirito, ha il suo principio e il suo fine in una concezione del destino umano. La prassi orienta la filosofia e questa, a sua volta, orienta la prassi. Ogni idea che non proceda da una sperimentazione reale della volontà è morta e possiede una presa meramente verbale. Ma soprattutto è morta e fittizia ogni conoscenza che non si traduca in agire. E se è vero che ogni condotta deliberata implica in noi una soluzione del problema umano, è ancora più vero che ogni metafisica prepara e postula in qualche modo una prassi che ne costituisca il frutto. Noi siamo guidati dalle nostre idee più di quanto non le guidiamo. Ed è giusto così, perché esse rientrano nel determinismo che la volontà ha scelto, e contribuiscono a svilupparne le conseguenze. Quindi l'originalità della metafisica è quella di preparare l'azione ad attingere il suo autentico motivo al di fuori di tutto ciò che è già realizzato, nella natura o nello stesso agente. Essa propone al pensiero ciò che non è nulla di positivo o di reale, e glielo propone come più reale del reale, perché è quello che deve farsi, quello che è già compreso nell'ambizione del volere umano. Non che da ciò si debba concludere che la metafisica è la categoria dell'irreale. Ciò significherebbe prendere un abbaglio colossale. Essa infatti veicola in sé tutto l'oggetti vo e tutto il soggettivo, come gli elementi necessari della sintesi ulteriore da essa formata. È un fenomeno nuovo, ma gravido di tutti gli altri. Evidenzia in noi ciò che trascende quello che è già in noi. Ha quindi un duplice fondamento, in ciò che è fatto e in ciò che non è ancora fatto. Pertanto l'uomo, afferrando nel suo sviluppo tutto l'ordine naturale, ne desume, nella forma di un pensiero più comprensivo, la nozione di un ordine ideale che, fondato relativamente sulla realtà universale, sembra fondarla assolutamente trascendendola. Non si deve separare il pensiero dalla vita che alimenta la sua fecondità; né si deve ridurre la metafisica a essere nient'altro che un prolungamento dell'ordine empirico e quasi un lusso superfluo o un vicolo cieco, fuori dalla corrente generale dell'attività volontaria. Ma neppure si deve farne un assoluto sostanziale, un oggetto definitivo e immutabile. Le idee sono efficaci soltanto perché promanano dal luogo in cui la vita lavora oscuramente. Ma non avrebbero efficacia, se non contenessero altro rispetto a ciò di cui sono l'espressione. Scaturita dalla prassi, la ragione speculativa tende a diventare una ragione pratica, pur rimanendo una ragione, ossia aggiungendo ai fatti un principio capace di spiegarli e di orientarli. È una stessa volontà che fa sì che l'uomo interessi alla sua azione l'intero ordine reale; una stessa volontà che lo induce a sovrapporre alla realtà data una realtà nuova; una stessa volontà ancora che lo porta a cercare in quest'ordine nuovo una direzione e una norma pratica. Questo è il rango, questo è il ruolo necessario delle concezioni speculative. Esse costituiscono una sintesi particolare della realtà universale digerita e incorporata nel pensiero dall'azione. Esprimono alla coscienza lucida il senso intimo e l'orientamento profondo della volontà. Bisogna dunque considerarle non come un mondo di entità immutabili e separate, ????? ma come la verità eminente di ciò che è già realizzato, e come la ragione movente di ciò che è in procinto di farsi. La metafisica ha la sua sostanza nella volontà agente. Essa non ha verità se non sotto questo profilo sperimentale e dinamico. È una scienza non tanto di ciò che è, quanto di ciò che fa essere e divenire. L'ideale di oggi può essere il reale di domani. Ma l'ideale sopravvive sempre, ed è sempre lo stesso ideale, più o meno misconosciuto, che si innalza man mano che l'umanità diventa adulta. Perciò, per quanto la metafisica rimanga mobile, per quanto essa sia meramente transitoria, come tutti i fenomeni della vita e del pensiero studiati in precedenza, si può dire che essa determini ciò che nel reale trascende già il fatto, e quindi ciò che è relativamente stabile, assoluto, trascendente, ciò che l'azione volontaria aggiunge necessariamente alla realtà data per costituirsi, in una parola ciò che costituisce l'apporto permanente del pensiero e della ragione nella conoscenza del mondo e nell'organizzazione della vita umana. III. Indubbiamente la scienza, che definisce le idee senza le quali l'ordine reale non sarebbe né intelligibile né possibile, possiede una sufficienza e una certezza proprie. Ma essa non si limita a essere la scienza regolativa dell'intelletto. La metafisica, assodando che la realtà data non si spiega e non si regge da sé, che di fatto è sospesa a un ordine superiore ai fatti, che essa non blocca il movimento del pensiero perché non raggiunge il contenuto dell'azione umana, è indotta a diventare a sua volta una scienza in grado di promuovere. Essa esige una nuova forma dell'azione. In effetti queste idee che si sprigionano dall'esperienza scientifica o pratica, proprio perché non si possono contenere in tale contesto ed eccedono l'attuale, esprimono ciò che nell'azione volontaria non proviene dalla natura, ciò che la volontà vuole ancora quando ha assimilato a sé tutto l'ordine reale, ciò che anela a essere e a realizzare, perché non esiste, e invece occorre che esista, affinché la volontà diventi ciò che il movimento della sincerità la induce a desiderare imperiosamente. Si tratta dunque di incorporare nell'azione volontaria questo ordine ideale che è il fine trascendente dell'ordine naturale. In altri termini la volontà è indotta a porre il suo baricentro al di fuori di qualsiasi realtà data di fatto, a vivere in qualche modo al di sopra di se stessa, a cercare in sé solo la ragione meramente formale del suo atto. Pertanto, proprio grazie a ciò che possiede di irreale, essa va incrementando la propria fecondità. Dunque nell'azione volontaria vi è più della stessa conoscenza scientifica, più della stessa vita soggettiva quale è rivelata dalla coscienza, più della realtà universale di cui si alimenta la morale naturalistica o la stessa metafisica. E proprio questa eccedenza va ora acquisita alla riflessione, analizzando le condizioni e le esigenze dell'azione propriamente morale. I - Come mai nell'uomo per forza di cose sorge una morale? Che cos'è precisamente la Morale? La scienza naturale dei costumi può prepararla, ma non ci offre neppure l'abbozzo di questa morale indipendente. Le concezioni metafisiche possono esserne le condizioni antecendenti, in quanto enunciano un ideale ed elevano il diritto al di sopra del fatto, ma questa morale razionale non è morale. Come dunque è possibile che vi sia una Morale morale? Il fatto morale, anche allo stato embrionale, non è un fatto come gli altri. Perché la prima nozione della moralità sia un fenomeno di coscienza, perché l'idea stessa del diritto sia un fatto, perché il sentimento dell'obbligazione pratica si erga come un imperativo davanti alla volontà, dobbiamo anzitutto imparare a porre il vero motivo della nostra condotta non nei fatti ma altrove. Il dovere appare alla coscienza come una realtà solo grazie alla mediazione di una metafisica implicita. Nel fenomeno di un'obbligazione cosciente ( praticata o meno, poco importa ) si opera una sintesi del reale e dell'ideale. Ma a sua volta questa sintesi diventa qualcosa d'altro e di indipendente. Nella prassi illuminata dalla ragione vi è un mistero nuovo, come ce n'era uno nel pensiero in rapporto alla natura. È quindi a torto che si avanzerebbe la pretesa di distruggere la metafisica per costruire la morale. La solidarietà tra questi fenomeni rimane tanto indissolubile quanto la loro eterogeneità è incontrovertibile. Tra loro intercorrono relazioni definite e gerarchiche. Perciò abbiamo ragione di insediare la morale, come una sovrana, al di sopra della metafisica. Abbiamo ragione di ritenere che non c'è bisogno di conoscere le origini oscure di questa coscienza pratica per essere obbligati da essa. Abbiamo ragione di credere che sotto la capziosità degli errori intellettuali spesso si nasconde la semplicità delle mancanze volontarie. Abbiamo ragione di affermare che nel dubbio non è affatto legittimo astenersi, e che di fronte all'onestà palese non vi sono obiezioni speculative che tengano. Abbiamo ragione di pensare che le grandi verità che regolano la vita sono pretese dalla morale, e non viceversa, che la morale sia pretesa da esse. Abbiamo ragione di riconoscere che c'è di più nel sistema dei postulati pratici che nel sistema delle ipotesi metafisiche, perché l'azione porta sempre più lontano della speculazione. Dunque la conoscenza si arresta, prima o poi, ma sempre inevitabilmente, davanti a un mistero impenetrabile allo sguardo dello spirito, per quanto la coscienza sia illuminata dalle lezioni della sperimentazione pratica, per quanto ricca la supponiamo di dati empirici o di chiarezze metafisiche. Al di là degli orizzonti più vasti del pensiero vi sono terre ignote. Le nostre idee sono sempre corte da qualche versante. Anche i sistemi più coerenti, lungi dal riuscire mai ad avere il monopolio dell'infinita verità, lasciano cadere nell'ombra qualcosa di quello che avevano la pretesa di far rientrare nella loro luce. Ma dove viene meno la visione, viene meno anche l'azione? No di certo. E se l'uomo si lancia nell'incerto, se talvolta dona la vita per l'incerto, lo fa per ricavare dall'azione stessa una nuova certezza. L'azione attraversa sempre una regione tenebrosa; entra nella nube per trovare al di là maggiore luce. L'oscurità, la stessa mancanza di coscienza, sono un principio di movimento. Perciò le persone più generose, quelle che maggiormente si infiammano per l'infinito e per il mistero, contrariamente a quanto si pensa comunemente non sono i grandi sognatori, ma le persone impegnate nella dedizione e nell'azione. Queste sono più mistiche degli stessi mistici. Per agire moralmente possiamo astrarre, senza trascurare nulla di vitale, da ogni scienza umana tranne che dalla coscienza. La luce non sta dietro, ma davanti. Il metodo euristico per progredire nella conoscenza risiede più nell'azione ce nel pensiero. Quindi la metafisica serve a scavare un abisso tra la natura e la morale. Infatti, una volta che la riflessione s'innalza, per la stessa iniziativa della vita spontanea, alla concezione di un ordine ideale, una volta che si è compreso che nell'azione umana c'è più di quanto possa fornire la natura intera, una volta che la volontà prende possesso di ciò che in lei è autonomo e trascendente, l'uomo non cerca più l'appoggio e non trova più il fine della sua condotta nei fatti reali, e neppure nelle idee regolative dell'intelletto, ma aspira soltanto a uguagliare l'ampiezza della sua volontà agente. E pertanto l'azione ( lungi dall'apparirgli un fenomeno condizionato da un'infinità di altri fenomeni antecedenti, poco importa se oggettivi o soggettivi ) gli appare come un referente che condiziona tutto il resto. Considerata in tutta la sua purezza, a prescindere dai fatti e dalle idee, essa comanda e produce le idee e i fatti, si organizza liberamente, crea gli organi delle sue funzioni necessarie. Quindi non dobbiamo più parlare della supremazia dell'azione e dell'autonomia sovrana della volontà come se, per conservare il primato della ragion pratica, occorresse isolare l'azione volontària dalla natura e spezzare il legame tra il pensiero speculativo e la prassi morale. È vero il contrario; c'è una correlazione tra ciò che troppo spesso si è contrapposto. Proprio operando nella natura e cercando se stessa nel suo contesto, la volontà è indotta a porre fuori dell'ordine reale un sistema di verità metafisiche. E proprio perché queste concezioni celano ancora una virtualità impenetrabile - impenetrabile al pensiero che si blocca davanti a essa, ma accessibile al movimento dell'azione, - la volontà si emancipa, senza rinnegare le sue origini, e in questo ambito nuovo persegue liberamente le sue sintesi morali a priori. Pertanto la distinzione e la solidarietà tra l'ordine positivo, l'ordine metafisico e l'ordine morale sono in proporzione diretta tra loro. Noi dobbiamo trovare i nostri doveri in ciò che ci capita, e non in ciò che immaginiamo avrebbe potuto essere. Il campo da fecondare è l'aspetto terra-terra della vita quotidiana. E qui, come ovunque, la grande mediatrice è l'azione effettiva. Essa riesce a conciliare ciò che nella visuale statica della conoscenza, per una filosofia critica o idealistica, si esclude formalmente. Per un verso infatti è dalla natura praticata e digerita che l'azione estrae l'ordine ideale col quale si esprime tutta l'eccedenza del volere; per un altro è ancora l'azione che scava il tunnel tra le idee regolative dell'intelletto e le verità morali. Si da dunque un passaggio ininterrotto dalla natura al pensiero puro, e dal pensiero alla prassi. Si tratta di fenomeni eterogenei ma solidali. E come trovarci qualcosa di sorprendente? Trattando delle concezioni metafisiche o delle obbligazioni morali, non le abbiamo forse considerate, così come tutto il resto, fenomeni della volontà, in funzione della coscienza, nella cui sfera sorgono, e dell'azione, che le produce alla luce interiore? Le prime esprimono più completamente delle altre ciò che vogliamo. Le une e le altre non sono che mezzi subordinati a un fine che non sappiamo ancora riconoscere chiaramente, ne sappiamo volere deliberatamente. II - Poiché l'azione morale trova in sé qualcosa che non proviene né dalla natura né dal pensiero, man mano che si nutre di se stessa con la prassi prende maggiormente coscienza della sua relativa autonomia. Quindi non si tratta più di spiegare la coscienza dell'obbligazione, e tanto meno di fondarla su un assoluto. Si tratta di vedere ciò che implica e fonda questo sentimento del dovere, e di sviluppare il determinismo della ragion pratica. Dunque non c'è niente di strano che, essendo ormai in possesso di sé in maniera più piena, la volontà crei e proietti davanti a sé, sotto forma di postulati, nuovi fenomeni, fenomeni originali, conosciuti non in quanto elementi integranti o cause determinanti, ma in quanto cause finali e condizioni susseguenti dell'azione morale. Essi ne sono la conseguenza e il prodotto necessario. Di tali verità pratiche pretese dall'azione volontaria la prima è la stessa definizione del dovere. Definire quest'ultimo non significa uscire dal determinismo o fare appello all'intervento variabile di qualche decisione libera. Significa invece riconoscere e descrivere i fenomeni così come si presentano necessariamente alla coscienza. Si può costruire la morale pratica senza chiamare in causa il libero arbitrio. L'unica cosa necessaria è che essa va praticata. La questione non è se sia praticata o meno, se sia di questa o di quella natura, se addirittura sia praticabile di fatto. È fuori dubbio che la nozione di ciò che è bene è stata infinitamente varia, a seconda dei costumi e delle idee. Niente è più relativo dell'assoluto morale. Ma esso rimane un assoluto: c'è sempre un ordine da osservare. E come si determina quest'ordine? Col concatenamento necessario delle conquiste successive della volontà. Vi sono relazioni naturali e una gerarchia delle funzioni di cui per legge una libertà genuina e coerente deve seguire l'orientamento e rispettare la disposizione dei livelli. Quindi né la forma né la materia dell'obbligazione morale sono espressione di un imperativo privo di radici nella vita reale, di un comandamento misterioso e arbitrario. Il dovere non è un fatto dato, né un ordine che si imponga ciecamente alla coscienza, ma è un postulato necessario della volontà, non più soltanto quale si pone al principio, ma quale si è dispiegata e arricchita a poco a poco mediante la sua continua espansione. Il dovere è una sua produzione inevitabile. L'eteronomia molteplice e crescente della pristina libertà è senz'altro conforme al suo anelito più profondo, e serve unicamente a garantire sempre di più la sua autonomia reale. Se dunque da questo punto culminante ci rivolgiamo indietro verso tutto quanto precede, che cosa vediamo in sintesi con questo rovesciamento di prospettiva? Scopriamo sempre più chiaramente come la volontà ha fondato progressivamente tutte le forme del pensiero, come essa riprende e completa tutte le produzioni della vita. Non le verità morali procedono dai fatti positivi, ma i fenomeni si ricollegano alla realtà dell'azione e risultano sospesi a essa. La loro solidità consiste nel fatto che sono voluti come il terreno in cui la libertà germina e porta frutto. L'azione è stata il legame sempre presente nelle sintesi successive che hanno creato quel vasto sistema di fenomeni di cui abbiamo appena mostrato i livelli. E ciò che in questo cammino ascendente è apparso come uno sviluppo necessario del determinismo, allo sguardo discendente della riflessione appare come una gerarchia di relazioni obbligatorie e di doveri da ratificare con una prassi accettata. Quindi la libertà morale è il fine e la forma di realizzazione dell'ordine naturale. Perciò, grazie alla crescita del germe seminato dall'atto volontario, si produce un'assimilazione sempre più completa della natura al pensiero e del pensiero alla volontà. Con i fenomeni sensibili studiati dalle scienze positive, con la vita interiore dell'individuo, con la città, con la società umana, con la solidarietà universale, con la repubblica ideale delle intelligenze, con il regno morale dei fini, si crea un organismo in cui questa volontà si è effusa per costituirne l'anima, e in cui, per uguagliare se stessa, si è allargata al punto da diventare coestensiva col tutto e da collocare il suo centro dappertutto. Sicché invece di essere il risultato o almeno il compendio di una necessità antecedente, l'azione umana è, da questa visuale ancora provvisoria, la ragione di questo splendido ordinamento. Il fenomeno universale evidentemente esiste solo per diventare il teatro della moralità, o meglio ancora per essere il corpo stesso della volontà. Quindi l'azione volontaria ha assorbito tutto il resto, per plasmarsi a poco a poco degli organi e formarsi il suo universo. Ciò a cui tende sempre di più è l'accordo tra il volontario e il voluto: mentis et vitae, intelligentis et agentis, volentis et voliti adaequatio. In questo senso le verità morali ne costituiscono più la conseguenza che il principio. Quindi, come sono state determinate per via di analisi le condizioni della conoscenza scientifica, siamo indotti a determinare le condizioni dell'attività morale. È fuori dubbio che le soluzioni di questo lavoro spontaneo o riflesso sono infinitamente varie. Ma proprio questa diversità deve essere eliminata, per prendere in considerazione unicamente il tratto comune a tutti questi tentativi. Qual è in sintesi questo tratto comune? Eccolo. Il referente, al quale l'azione riflessa sembra avvertire il bisogno perentorio di agganciarsi, è un assoluto, qualcosa di indipendente e di definitivo che sia fuori del concatenamento dei fenomeni, un reale fuori del reale, un divino. Sembrerebbe che dai fenomeni morali, come da tutto il resto, non si possa ricavare altro che fenomeni. E tuttavia si postula un'altra cosa. Il termine giusto è proprio postulare. Il postulato è un'affermazione necessaria che non è della stessa natura delle premesse. Da dove nasce questa esigenza, se non dal fatto che nel pristino slancio della volontà c'è più di quanto finora messo in opera? Non essere affatto soddisfatto dell'effetto significa ammettere la superiorità della causa. Non sarebbe forse il caso di dire che, portando in noi stessi un fardello insopportabile, abbiamo fretta di sbarazzarcene, gettandolo sul primo sostegno che ci capiti? Palesemente, per dare a intendere di non uscire dai fenomeni e di trovarci in essi a nostro agio, ci rivolgiamo a essi per farne qualcosa di più di quello che sono. Si tratta di uno sforzo sovrumano che è illuminante studiare, perché la stessa inconsistenza di questo tentativo illusorio renderà palese la necessità a livello di volontà di un'altra soddisfazione. Rimane dunque da vedere come, per cercare di perfezionarsi, l'uomo alla fine tenta di assorbire ciò che gli sfugge infinitamente, di fabbricarsi un dio a sua immagine e di acquisire con le sole sue forze quello che gli serve per diventare sufficiente. È il fenomeno della superstizione che bisogna studiare. Il fenomeno, ossia la manifestazione necessaria di un bisogno, in qualsiasi forma esso cerchi di appagarsi. La superstizione, ossia l'uso di un residuato dell'attività umana, fuori del reale. Se poco fa sembrava strano dire che la volontà crea le sue condizioni subalterne, non è ancora più strano, e tuttavia non risulta più chiaro, dire che essa in ultima analisi ha la pretesa di sottomettere a sé l'infinita potenza? Essa non immagina forse volentieri di aver piegato e padroneggiato il misterioso potere di cui sente il bisogno? E non pretende forse di produrre con le proprie forze il legame che la congiunge al divino e che glielo consegna docile e soggiogato? * * * Per quanto ampio sia diventato il fenomeno della volontà, esiste sempre un residuo di cui non è stato trovato il senso, l'uso, l'equazione. Di qui le forme molteplici dell'attività superstiziosa, per cercare di eguagliare l'azione umana al volere dell'uomo. Il determinismo dell'azione suscita imperiosamente questo bisogno. Ma per discernere quali esigenze dobbiamo soddisfare, mette conto di vedere quali soddisfazioni illusorie quel determinismo è sembrato esigere. La storia delle trasformazioni cospiranti dell'oggetto, del rito e del sentimento superstizioso ci permetterà di purificare l'aspirazione religiosa da ogni elemento allotrio. E lungi dal temere in questo contesto le audacie dell'analisi critica, bisogna paventare unicamente di fermarne intempestivamente i colpi; come se alla fine l'uomo potesse accontentarsi di quel " qualcosa " che si è dato come idolo! Capitolo III - L'azione superstiziosa In che modo l'uomo cerca di portare a compimento la sua azione e di bastare a se stesso Fin qui niente ha arrestato il movimento iniziale della volontà. Essa ha superato tutti i recinti successivi, senza essersi imbattuta in un termine abbastanza resistente per farla rimbalzare tutta quanta verso la sua origine, con la forza che ha sviluppato nel corso stesso della sua espansione. E se, cammin facendo, ha riscosso soddisfazioni parziali, pare ne metta in serbo maggiori energie ed esigenze; Aliquid superest. Scaturita dalla potenza infinita che il soggetto celava nelle profondità della sua vita, l'azione risulta non poter trovare sostegno ed epilogo che in una realtà infinita. Dove trovare questa utilizzazione totale? Dove operare questa perfetta equazione che stabilisca una reciprocità tra l'espansione necessaria e il ritorno di una libertà sempre in progresso? Si pone allora la necessità di scavare più a fondo, poiché nell'azione volontaria, così come è data di fatto, esiste un elemento di cui nessuna forma della vita personale, sociale o morale esaurisce la misteriosa fecondità; poiché dopo aver immesso in questo abisso della volontà umana tutte le dimensioni della scienza, della coscienza, degli affetti, delle idee, dei doveri, resta un vuoto; poiché, per quanto prolungate siano le linee curve, il cerchio non riesce ancora a chiudersi. Di fatto nel più insignificante atto voluto vi è più di quanto non siamo riusciti ancora a determinare. Di fatto a tutto ciò che abbiamo via via detto dei fenomeni eterogenei, compatibili e solidali si aggiunge una credenza che introduce in loro una forma nuova di realtà, e che sembra renderli incompatibili ed esclusivi, come se, per esempio, il determinismo e la libertà, il disinteresse e l'amore di sé, la morale pura e la metafisica non potessero conciliarsi. Di fatto si annuncia inevitabilmente un bisogno ulteriore. E se anche non ricevesse che soddisfazioni illusorie, esso è tuttavia un bisogno reale. È indispensabile che la scienza dell'azione renda conto pure di questo fatto, di questa illusione, di questa realtà. Espandendosi, realizzandosi al di fuori, la volontà non può ritrovare nella sua opera oggettiva tutto ciò che tiene in serbo nel santuario della vita interiore. Il soggetto desume da se stesso questa infinità che oscuramente avverte in sé, e di cui ha bisogno per essere ciò che vuole essere, ciò che è già a livello di desiderio e di intenzione. Esso prospetta a se stesso sotto la forma di un simbolo o di un idolo il proprio bisogno di compimento e di perfezione, adorando la vita incomunicabile e inesauribile di cui porta in sé la sorgente latente. Nel cuore stesso dell'azione volontaria si annida dunque un mistero. E noi non sfuggiamo al desiderio di venire a capo di tale mistero. Come lo spettro solare è più ampio dei raggi colorati, così l'azione è al tempo stesso luce e calore oscuro. Essa eccede la portata della nostra vista. Singolare condizione! L'uomo proietta fuori di sé, per farne l'oggetto di un culto, proprio ciò che non può afferrare, esprimere, produrre. Come se, non potendolo lambire in se stesso, sperasse di attingerlo collocandolo all'infinito. E, attraverso un movimento opposto, ma anche sorprendente, ciò che egli colloca infinitamente al di sopra di se stesso è proprio ciò cui si indirizza la sua pretesa di dominio, di monopolio, di assorbimento; come se l'avesse divinizzato solo per pretendere perentoriamente una risposta adeguata all'appello creatore di un cuore avido. In tal modo vogliamo realizzare al di fuori ciò che sfugge al di dentro, col recondito intento di ingabbiare in qualche modo questo infinito nel finito di un oggetto reale, con l'intima speranza che questo sia il valido mezzo per conquistarlo, e per ottenere finalmente in un'azione perfetta l'esito, la sicurezza, il riposo cui anelavamo. ?? t? a?t? p??a? ?a? ?pe????. L'infinito finito, l'infinito posseduto e utilizzato: ecco il senso e l'ambizione dell'atto rituale. Il culto quindi sembra uno sforzo supremo per colmare l'intervallo che separa la volontà da ciò che vuole essere, e per collegare, quasi congiungendole nella preghiera e nell'adorazione, le braccia enormemente aperte dell'azione completa. L'oggetto del culto, proiettato e creato in qualche modo di fronte all'adoratore come uno specchio in cui la volontà possa riflettere la sua immagine compiuta e il suo calore integrale, è allora soltanto un'occasione per lei per conoscersi meglio e per imparare ad adeguare se stessa. Dunque nulla di strano che l'uomo abbia cercato di abolire, o di sublimarlo a poco a poco, questo intermediario esterno all'intimo anelito del cuore. Adesso dobbiamo studiare questa genesi necessaria, questa purificazione progressiva della superstizione. Il triplice elemento di ogni atto superstizioso risulta essere l'oggetto, il culto e il sentimento. Noi vedremo ciascuno di questi termini fondersi nel seguente, man mano che l'uomo intravvede in essi semplicemente un'immagine della sua natura e un bisogno più profondo della sua coscienza. Probabilmente al termine di questo sforzo troveremo finalmente l'equazione tra il volontario e il voluto, tra il principio e il fine dell'azione; forse l'uomo finirà per bastare a se stesso. I. Questa eccedenza dell'atto umano che esorbita sempre i fatti sensibili e la vita sociale, questo residuo di forza e di volontà che pare non sappia a cosa appigliarsi, fa sorgere la tentazione naturale di assegnargli un oggetto; ma tale oggetto, finito e insufficiente come gli altri, non avrebbe affatto per se stesso la capacità di ricevere la venerazione che gli si vuole tributare, e tuttavia, precisamente a causa di questa finitezza, soddisfa il duplice bisogno dell'uomo di creare il suo dio e di disporne. L'uomo possiede l'istinto di temerlo e di conquistarlo. Vuole che gli rassomigli e che sia infinitamente differente da sé. Per uno strano capriccio, lo assume nella serie delle cose per collocarlo fuori della serie. Di qui la duplice forma della superstizione primitiva, di cui non si sa dire qual è la più antica, procedendo entrambe da una medesima iniziativa: il culto del doppio e il culto del feticcio. Il doppio è ciò che nell'uomo sopravvive all'uomo, ciò che rimane inaccessibile all'uomo, ciò che comanda e obbedisce all'uomo. Il feticcio è l'oggetto visibile e misterioso, incomprensibile e accessibile, minaccioso e protettore che sintetizza il divino; come se il finito potesse diventare la stessa realtà dell'infinito. Dunque proprio perché anzitutto l'idolo non è automaticamente in armonia con il ruolo che gli viene accollato, esso si presta all'illusione e corrisponde alle esigenze del fedele. L'appetito del divino si getta famelico persino sulle pietre. Esso prende per buono ciò che appare estremamente lontano dalla maestà divina, come se fosse indispensabile che " l'oggetto sacro " sia al tempo stesso assai enigmatico, proprio per l'assurdità della scelta da cui desume tutto il suo mistero, e perfettamente manipolabile per essere alla portata del potere umano. Si vuole insieme che la sua vera grandezza non sia nulla di ciò che appare ai sensi e che sia tuttavia qualcosa di cui i sensi si possano impadronire e pascere. L'ambizione dell'uomo non è forse sempre quella di forzare il segreto delle cose, di disarmare e di soggiogare il potere occulto di cui avverte che sono intessuti i suoi atti? E quando è convinto di essere in effetti riuscito a realizzare con la sua sola iniziativa questa impresa straordinaria, quando ha la certezza di aver messo le mani sulle forze infinite celate nella natura o trascendenti la natura, quando ha commisurato le sue idee e il suo cuore alla statura dell'idolo che si propone di adorare, allora senza dubbio la sua azione gli sembra giunta alla perfezione, ed egli si ritiene garantito. Non c'è atto, per quanto abominevole, in cui non si sia potuto porre il divino; non c'è atto che non abbia suscitato un'idolatria. Insomma, che cos'è l'oggetto del culto superstizioso? È l'espressione, nella modalità della proiezione fittizia ( perché qui il bisogno crea l'organo e l'alimento che lo nutre ), di quel fondo inesauribile della vita interiore che nessun atto particolare ha eguagliato, è un desiderio che prende corpo, il desiderio appunto di una risposta infinita a una tendenza infinita. E poiché in questo modo l'uomo adora il segreto impenetrabile della sua coscienza individuale, egli è indotto dal progresso stesso della sua riflessione a concepire questo oggetto misterioso sulla falsariga della sua umanità, ma di un'umanità quale non può essere realizzata in lui, e che rimane la perenne e mobile prolessi del suo ideale rispetto al suo sviluppo reale. In tal modo si spiega l'evoluzione cospirante dell'idolo, del culto e persino del mediatore. Quando l'idolo cessa di essere un mistero bruto e inintelligibile, l'atto rituale non riveste più soltanto il carattere superstizioso. L'antropomorfismo che si aggiunge al feticismo complica il ruolo dello stregone con quello del sacerdote. Il sentimento oscuro che un infinito soggettivo, ?e???t?, è presente in ciascuno dei suoi atti, porta l'uomo a diffondere questo stesso divino in tutta la sua vita. L'atto superstizioso non è più un atto a parte, senza altra ragione che quella di essere superstizioso, ma tende a inglobare tutti gli altri. Quindi agli atti di stregoneria e di magia si aggiungono le preghiere e i sacrifici. Infatti dal momento che l'idolo possiede una coscienza analoga a quella dell'uomo, dal momento che nell'uomo e nei suoi atti questa coscienza pervade precisamente ciò che sfugge anche a lui, non è forse proprio all'idolo che l'uomo può e deve rivolgersi con una supplice mediazione, allo scopo di ottenere quel concorso impareggiabile e di ratificare tutte le sue imprese, di cui nessuna giunge a perfezione senza questa onnipotenza? In tal modo si spiega perché il culto rifluisce dall'unico oggetto, che in un primo tempo risultava reclamare per sé soltanto tutta la pienezza dell'adorazione, sulle altre azioni, per perfezionarle e per sanzionarle. E grazie a questa estensione del cerimoniale, che corrisponde a una coscienza più lucida del carattere insondabile di ciascuna azione, la stessa idea dell'oggetto sacro assume altresì una valenza intellettuale, si umanizza. Sotto la pratica letterale si insinua uno spirito nuovo, il sentimento di un dio che non esige soltanto un tributo, da essere egoista o da tiranno feroce, ma attende dalle azioni umane che siano ciò che devono essere, come se la loro esecuzione perfetta e corretta fosse necessaria alla sua stessa perfezione. II. L'azione superstiziosa quindi non si limita a istituire una formazione nettamente distinta da tutte le altre. Man mano che l'oggetto sacro è concepito sempre più a immagine dello stesso spirito, sembra che la sua trascendenza possa divenire immanente a ciascuna delle sue azioni particolari, per consacrarla e imprimerle il sigillo dell'infinito finito reclamato dalla coscienza umana. Se abitasse interamente nel simbolo materiale che lo rende manifesto e lo mette a disposizione dell'uomo, sarebbe sufficiente assolvere ai riti di cui è il fine diretto, all'oggetto sacro, senza che la superstizione investa il resto della vita. Ma quando in ciascuna delle azioni rilevanti crediamo di sentire la sua presenza e la sua potenza, quando accanto a ogni ispirazione del cuore, alla sorgente di ogni energia operante e al di là di ogni fine parziale sembra esserci posto per quest'ospite ignoto e velato, allora, come osserva Platone, occorre che tutti coloro che hanno un po' di ragione invochino la divinità all'inizio e alla fine dei loro atti piccoli o grandi. In tal modo qui si verifica, ancora una volta, e si spiega, questa legge di cui tutto lo sviluppo della scienza e della vita ha manifestato la verità. Ogni sintesi, una volta costituita, riprende in qualche modo i propri elementi per imprimervi la propria impronta e per infondervi l'idea superiore che è il suo principio. Il rito finisce per inglobare tutto l'uomo e tutta la sua condotta, dalla nascita alla morte. Perciò in un certo senso lo sbocciare del sentimento superstizioso e dei riti che gli conferiscono un corpo presuppone che l'uomo abbia già attraversato le forme progressive della vita individuale e sociale. Non a torto, dunque, si è sostenuto che la religione è soprattutto un fenomeno di solidarietà e un corollario della società organizzata. Ma in un altro senso il suo germe è posto fin dalla forma più rudimentale della vita individuale, e per quanto sia poco elevato il livello di cultura cui l'uomo è giunto, egli ha sempre una superstizione, perché scopre sempre nella sua azione una sorta di residuo di cui non trova l'utilizzazione. E sempre, altresì, considera la sua vita da questa prospettiva superiore, ispirando a essa la sua condotta. Infatti, se la ragione della superstizione è di chiudere il cerchio dell'azione e di formare con essa un sistema chiuso, se essa cerca di " saldare " la vita umana e di organizzare una città perfetta nella quale in ipotesi tutto sarebbe reciprocamente fine e mezzo, allora è necessario che le forme più diverse dell'azione concorrano a preparare e ad alimentare la fede o il culto, e al tempo stesso è necessario che, una volta ideato e idolatrato, l'oggetto del culto torni a trasfigurare e a perfezionare tutti gli abbozzi dell'azione e tutte le opere incomplete. Perciò l'atto superstizioso risulta procedere più direttamente dalle forme estremamente complesse raggiunte da una cultura, poiché comincia in qualche modo laddove all'uomo il terreno viene meno sotto i piedi. Ma, se si incarna in particolare nel risultato più alto dell'evoluzione, ciò avviene per subordinare a esso tutto il resto. Pertanto in un certo senso tutti gli altri atti precedono e preparano l'azione superstiziosa. E in un senso più profondo il rito pervade e fonda tutti gli altri. Non solo l'individuo, la famiglia, la città, l'universo sono come il terreno di cultura su cui sboccia la superstizione, quale fiore al tempo stesso naturale e parassitario, ma viceversa tutte queste forme della vita sembrano sospese all'atto sacro, che ne era il fine e ne diviene il principio, ne conteneva lo spirito nascosto e ne costituisce il sigillo, la lettera, la pietra angolare. Non vi è " rito " senza la famiglia e la città, ma non vi è famiglia o città saldamente organizzata senza una consacrazione, senza un pensiero mistico. Quindi in ogni atto umano c'è un abbozzo di mistica incoativa. Quando l'atto umano rompe la monotonia quotidiana, quando lo si vuole concepire come un tutto sufficiente, e lo si vuole portare a termine come una creatura distinta e vitale, lo si sacralizza. Se il corso ordinario delle cose ci addormenta, la prima eccezione che capiti, il più semplice evento che spezzi la catena delle abitudini risvegliano la riflessione, e la prima riflessione, che ci dischiude la visione del mistero, ci getta nell'infinito. È così che, persino nella vita privata, ogni evento rilevante suscita non soltanto un sentimento e una preoccupazione del divino, ma tutto un cerimoniale. In questo caso non si tratta più del misticismo dell'amore, né dell'entusiasmo dell'ispirazione, né di tutte le idolatrie successive del bambino, dell'amante, del cittadino, del pensatore; si tratta del culto positivo, il quale, per una specie di rivalsa, pretende introdurre in tutte queste forme della vita ciò che esse in un primo tempo non avevano potuto trovare o trattenere in se stesse. La nascita, le decisioni solenni, i pericoli che strappano una preghiera o un voto, i contrasti, la parola impegnata, la morte sono altrettanti momenti importanti cui si riagganciano i riti. In ogni dove sia indotto a riflettere su ciò che fa e su ciò che può con le sole sue forze, l'individuo non vuole e non può essere solo. Infatti non si sente padrone ne di tutto il suo potere né dei risultati del suo sforzo. La vita domestica è fondata da pratiche rituali; essa è preservata da un culto, che originariamente è esercitato come proprietà esclusiva ed essenziale della famiglia. La vita politica è legata fin dall'origine al rispetto tradizionale di minuziose pratiche di culto e di osservanze legali. Gli dei della città antica appartengono a essa come essa appartiene a loro. Tra gli dei e la città si svolge uno scambio rigoroso di servizi e di garanzie. E ancora al giorno d'oggi, in forme meno rozze, si ritrova qualcosa dello stesso sentimento nella grande passione del cittadino, agli occhi del quale la causa della patria è unica, è incomparabile, è santa, è protetta gelosamente ed è amata dall'alto, così come lui stesso l'ama. La patria simboleggia l'oggetto infinito della dedizione. E sta bene. Non vediamo forse che, per alcuni, lo Stato diventa a sua volta un idolo che ha bisogno di feste, che non ammette altro culto pubblico diverso dal suo e che, invece di considerarsi come un gradino nello sviluppo universale della vita morale e religiosa, non tollera nulla al di là o al di sopra della sua fantasia sovrana? Si noti questo bisogno di riti e questa imitazione delle cerimonie di un culto vero e proprio persino in coloro che si vantano di essere emancipati da ogni superstizione, come se ci fosse bisogno di sublimare a ogni costo con una specie di solennità liturgica la povertà troppo appariscente delle azioni nude e crude. Il meraviglioso e l'occulto rappresentano un bisogno per l'uomo, e gli vengono dati, non foss'altro che con un'iscrizione greca sulla porta di un cimitero. Quando nella vita sociale o nelle abitudini individuali avviene uno sconvolgimento, un cambiamento, una parziale inibizione, e quando di fronte a una decisione da prendere la coscienza si risveglia, non sembra più sufficiente fare esattamente e semplicemente tutto quello che si pensa di fare. Infatti se non si agisce mai per quello che è perfettamente chiaro, senza aspettarsi dall'esecuzione più di quanto sia contenuto nell'idea o nel progetto, ciò non avviene forse perché sembra logico agire anche andando al di là della semplice intenzione? Perché una cosa sia fatta bene occorre che nell'azione vi sia, diciamo così, del superfluo. E l'esagerazione delle formalità rappresenta già una soddisfazione per la gente ingenua, pronta a chiedersi, anche dopo lungaggini particolarmente noiose: " È già finito? ". Perciò a ogni progresso nell'offensiva della riflessione sembra che l'uomo cerchi di sottrarsi alle spinte spontanee che a livello ingenuo lo portavano al di fuori di sé. Egli è pronto a bruciare ciò che adorava, quando ritiene di essersi elevato al di sopra di esso. Evidentemente è la propria apoteosi che persegue. Non ha forse preso posto lui stesso sull'altare, allo scopo di ridimensionare l'oggetto del suo culto, e di non avere altri doveri religiosi che i suoi doveri umani? Non abbiamo assistito, come a modelli significativi, all'avvento messianico della Ragione o al tentativo di una religione positiva dell'Umanità? - L'atto rituale, senza commistione di alcun altro, era apparso anzitutto come il culto dovuto in esclusiva all'oggetto idolatrato. Il rito e l'idolo erano insieme la forma e la materia della superstizione. In altri termini l'azione superstiziosa, come un lusso totalmente superfluo e tuttavia necessario, non aveva altra ragione che quella di conciliare con l'uomo la potenza misteriosa da cui dipende. Ma via via l'idolo si umanizza, il rito tende ad aggiungersi, come una forma perfetta, a tutte le azioni comuni che costituiscono la stoffa stessa della vita umana. Ci rimane da scoprire perché, invece di contrapporsi mediante un culto positivo ad altri atti distinti, la superstizione si insinui, in maniera più impercettibile e meno visibile, in tutte le forme della prassi, del pensiero, della scienza, della metafisica, dell'arte e della morale naturale. Sicché, proprio laddove pareva morta, per mancanza di oggetto palese e di culto positivo, rivive in maniera più inafferrabile e più perentoria. III. La volontà umana, nello sforzo che fa per giungere a compimento e per conferire alla sua opera un carattere di totale sufficienza, finisce per cercare nella stessa azione incompleta il complemento da essa reclamato. Invece di ricorrere a formule magiche o a cerimonie di consacrazione, fa leva direttamente sulla sua perfezione, come se gli atti fossero sufficienti e perfetti non perché sono religiosi, ma fossero religiosi e divini perché sono perfezionati e completi, perché sono " morali o umani ". Pertanto, di questo mistero che sopravvive nel cuore dell'azione, nel più intimo della coscienza e che trascende tutta la realtà data, ci si forma un ideale che sembra identificarsi sempre di più con l'azione umana stessa. Per un rovesciamento di prospettiva la religione, invece di apparire il fine, è presa come un mezzo. Invece di valutare gli atti a seconda che siano sospesi all'osservanza rituale, si pretende giudicare delle forme religiose precisamente in base al valore delle azioni. Invece di orientare l'uomo verso un oggetto esteriore o superiore, si tenta di ricondurlo alla sua coscienza e al suo pensiero. E la conseguenza di questa inversione è di ridurre in qualche modo a due i tre termini dell'azione superstiziosa, di abolire l'oggetto trascendente del culto, per mettere l'uomo in presenza del mistero che porta nella propria coscienza, di cercare il referente dell'adorazione nello stesso adoratore. Come se questo fosse l'autentico culto in spirito e verità e l'unico mezzo per togliere dalla vita umana l'ignominiosa etichetta di superstizione. In questo modo forse, una volta lasciata sola in apparenza e ridotta alla sua semplice espressione, l'azione sarà finalmente autosufficiente nella sua totale indipendenza. E non era questo il desiderio primitivo del volere? Ottenere che il fenomeno sia cosi ampio e così ricco da assorbire tutto e da rimanere solo. Per dare all'ordine morale un fondamento solido e per farne un tutto sufficiente, ad alcuni è sembrato che basti considerare i doveri come indipendenti in linea di principio da qualsiasi nozione metafisica o da ogni compromesso sensibile, considerandoli tuttavia tutt'uno con postulati tali che agendo bene si compie, in modo senza dubbio misterioso ma certo, la volontà presunta del legislatore perfetto. Si tratta in definitiva di postulati tali che la stessa morale costituisce il vero culto. Tutti i doveri e solo i doveri risultano essere religiosi. Asserendo che Dio ci ha posti nel mondo perché agiamo secondo la sua volontà e non per tenergli dei discorsi o per fargli dei complimenti, si conclude insieme a Kant: " Tutto ciò che l'uomo crede di poter fare, fuorché tenere una buona condotta per rendersi gradito a Dio, è mera superstizione ".63 Ora, tutto questo che altro significa se non che l'azione umana con le sue sole forze presume di assimilare a sé, fino a esaurirlo, ciò che la conoscenza non riesce ad attingere e che la volontà non riesce ad abbracciare completamente? E il metafisico, non è anch'egli idolatra a modo suo, quando, con la presunzione di ospitare nel suo pensiero l'oggetto infinito di cui va in cerca, immagina di essere in procinto di cogliere l'Essere trascendente, di stare per conquistarlo e per manipolarlo in qualche modo, grazie ai suoi concetti e alle sue norme, ai suoi sistemi e alla sua religione naturale? Come se imprigionasse in una esile rete di idee la verità vivente; come se, concedendo al suo dio l'onore di affermarlo e di definirlo, lo seducesse completamente; come se, penetrando nell'intimo della potenza, della sapienza e della santità infinita, fosse in procinto, per essersi creato un ideale di perfezione, di parteciparvi lui pure, e di diventare in realtà proprio quello che dichiarava inaccessibile, quello appunto che nella sua coscienza non ha altra ragione se non di essere incomunicabile e misterioso. Ma in tal modo non trasforma il fenomeno metafisico, di cui dispone al suo interno, in una sostanza, in un Essere di cui ritiene di poter altrettanto disporre al suo esterno? Tutto ciò significa quindi soggiacere sempre alla singolare pretesa di afferrare e di utilizzare Dio con le sole forze umane; significa volere al tempo stesso che questo assoluto sia fuori dell'azione, per diventarne la conclusione, sia nell'azione, perché questa sia autosufficiente. L'uomo, in quello che fa, non può né introdurre né lasciar cadere questo divino. E tuttavia preferisce dare a intendere che c'è il divino in quello che fa, e c'è soltanto per opera sua. Anche quando si degna di prescrivere atti particolari nei confronti dell'essere primo ammesso dalla sua ragione, ritiene che la preghiera o l'adorazione procedano unicamente dalla sua ragione e dalla sua volontà. E queste azioni, qualificate come religiose, sono emendate come tutte le altre da qualsiasi formazione parassitaria e da qualsiasi rito opaco o sacramentale. La superstizione di quest'uomo è quella di illudersi che non vi sia nulla di superstizioso e di credere di vivere unicamente in base a idee chiare e a pratiche razionali. Al pensiero di aver soppiantato i vecchi dogmi, gongola. Anche questa è una fede, ma quanto corriva e intransigente! Anche l'Inconoscibile, la solidarietà universale, l'organismo sociale, la patria, l'amore, l'arte, la scienza, sono tutti idoli, quando la passione si impadronisce di un cuore, e lo convince che in essi trova quanto occorre per appagarsi, quando consacra a essi tutte le possibilità della tenerezza e della dedizione, come se l'uomo avesse finalmente trovato in loro il suo tutto. Se l'evoluzionista, elevando le sue idee al di sopra delle prospettive individuali o politiche, ritiene che la cosa migliore per lui è quella di aderire al tutto della natura mediante la conoscenza delle leggi cosmiche; se il socialista consacra il suo pensiero che giudica salvifico a un'opera che reputa d'importanza assoluta; se lo scienziato vive nella fede di avanzare verso la piena verità, e di lavorare per diventare il mago, il sacerdote e il profeta di un futuro già presente, tutto questo non implica forse che costoro attribuiscono all'impiego della loro vita e all'efficacia del loro sforzo una pienezza e una perfezione che bisogna senz'altro qualificare anche come superstiziose? Infatti, nel loro stato di coscienza due parti su tre sono l'effetto di un desiderio, più che l'espressione di una realtà. Quello che fanno contiene indubbiamente un senso e un'importanza. Ma su tale fondamento reale essi aggiungono una duplice finzione: - la vuota convinzione del carattere eminente e, per così dire, sacro dell'oggetto cui si dedicano religiosamente, - l'orgogliosa pretesa di rendergli un culto vero e proprio. Come se il fine e il risultato dei loro atti facessero sì che la vita meritasse di essere vissuta come loro la immaginano. In tal modo per molti è la scienza stessa che diventa il feticcio. E talvolta essi si prestano a svolgere agli occhi della gente il ruolo di maghi. Dispensando alle persone semplici termini colti, espressioni misteriose, simboli scientifici destinati a soddisfare negli ignoranti il bisogno impellente dello straordinario, propongono un oggetto di fede, laddove essi per conto loro presumono trovare piena luce, e danno agli altri per oscuro ciò che al loro sguardo è luminoso, mentre sanno bene che al di là di questa debole luce essi pure si imbattono nelle tenebre e nell'ignoto. Sicché, forse a loro insaputa, convincono i creduloni che per essi ogni oscurità è già luce, ottenendo che la loro scienza venga adorata come il mistero svelato e il miracolo permanente. Pertanto, proprio là dove gli atti sembrano determinati nella maniera più rigorosa e dove la vita risulta ridotta all'asciuttezza di contorni geometrici, nella concezione più scientifica dell'esistenza umana che ci si possa immaginare, da dove è bandito a livello di intenzione e di fatto qualsiasi sentimento, qualsiasi slancio di fede, qualsiasi parvenza di superstizione, ebbene proprio là è in atto un colossale postulato. E bisogna aggiungere che più quella concezione e quelle azioni sembrano positive, più sono rivestite di ingenuità e di illusioni in quelle persone che sono così poco lucide e così illuminate dal proprio entusiasmo da non vedere iscritto in se stesse e nell'universo altro che la gloria, la potenza e la divinità della scienza. Quando non lo portiamo in noi stessi, non possiamo trovare il divino da nessuna parte. Ma non possiamo rimuoverlo a tutti i livelli se non concentrandolo in noi stessi e surrogando la fede assente con una nuova credulità. IV. Siccome ogni convinzione, anche negativa, e ogni forma del libero pensiero rappresenta ancora una superstizione, non deve sorprendere che la critica si spinga sempre più avanti. Per protesta contro il culto austero di un imperativo morale velato come Iside, contro l'idolo metafisico dei sistemi adeguati all'universo, contro la devozione dispotica di una Scienza che coniuga talvolta un'insolenza da uomo spocchioso con la temerarietà corriva di un bambino, in molti uomini contemporanei nasce quello che è stato chiamato il nuovo misticismo. Nuovo, perché in effetti presume di essere fondato sulla stessa scienza e su tutte le negazioni della critica moderna, senza rinnegarne neppure una. Nuovo, perché in sintonia con tutte le superstizioni del passato, curioso delle credenze popolari, dei riti, delle forme sacramentali, delle pratiche letterali cui talvolta persino si presta, crede di segnare un progresso ulteriore in ciò che chiama giustamente la miscredenza, pur rimanendo più religioso di quanto non lo sia la devozione più ortodossa. E come se ormai quest'oro fino dell'autentica pietà fosse purificato da ogni amalgama, il mistico miscredente fonde in una sola aspirazione il sentimento, il culto e l'oggetto stesso della sua venerazione. In verità egli incensa il mistero della sua azione e il fervore del suo cuore. Lui pure è pietista, a modo suo. Come dunque si opera questo prodigio? È grazie a quale astuzia di sentimenti ci si vanta di scoprire sempre aperta la porta della cappella, dove ognuno sale sull'altare, dove l'enigma è svelato e si trova finalmente il riposo della volontà? L'atteggiamento religioso dei nuovi mistici risulta composto di queste due essenze, alla maniera di un profumo leggero: nessun atto in cui non si avverta quasi un'ebbrezza e un'esaltazione benefica, come al soffio dell'infinito che lambisce l'anima; nessun atto in cui non si avverta che l'oggetto della dedizione, il risultato dello sforzo è illusorio, finito, nullo. E proprio perché l'agire è vano, perché è fallace, risulta bello, disinteressato e pio compierlo. Pare che più l'atto è vuoto di qualsiasi oggetto, più si sviluppa la coscienza appagata da una sufficienza e da una pienezza soggettiva. Il fedele ingenuo proiettava al di fuori il suo amore e il suo tutto. Ma se conduciamo a fondo l'analisi, non possiamo confinare in noi stessi il nostro culto, e senza adorare nulla, adorare noi stessi? La persona evoluta, nella sua superiorità sovrumana, non solo non vuole essere costretta ad alcun atto particolare di qualche religione naturale, ma per lei in qualsiasi atto non c'è più alcuna regola specifica, non imponendosi a lei alcun criterio di condotta a causa dell'infinita varietà delle situazioni e dei sentimenti attraverso cui passa. Sicché, se ciò che fa le importa poco, il grande valore, la sorgente inesauribile del sentimento, il culto consiste nell'agire comunque, nell'agire sempre. Un culto senza oggetto, senza credenza, senza riti, senza sacerdozio, senza nient'altro: il Culto. E non è questo lo stesso sentimento che, in una forma meno rarefatta e più generosa ispira quegli apostoli laici, quei predicatori della pietà e della dedizione, il cui Credo e il cui Decalogo si riassume in una parola: l'Azione? Agire per agire diventa quindi la superstizione di coloro che non tollerano altra superstizione. Qual è il senso di questa strana devozione? E tale disposizione raffinata si fonda forse sulla verità di sentimenti provati? - Nell'azione, qualunque sforzo si possa fare per confinarla in ciò che la scienza insegna all'uomo intorno a lui stesso e all'universo, il meglio resta refrattario a qualsiasi analisi. Siamo riusciti a svelare la vanità di tutto il resto. Ma per quanto siano inutili i fini di un'attività sempre delusa e sempre risorgente, l'azione stessa rimane avvolta come in una nube d'incenso che ne cela le squallide miserie e l'inanità. Ogni atto, ogni opera è bacata, carente, imperfetta. Ma l'agire rivela quel mistero dell'impotenza che contiene l'aspirazione infinita del cuore. Quindi anziché cercare di fondarsi sulla sufficienza di una cosa qualsiasi, la volontà celebra il suo trionfo sull'insufficienza di tutto. Essa adora ciò che le sfugge e la trascende per sempre. Essa è divina, finché vive, finché ama, finché produce, finché si prodiga anche se in maniera sterile. A tutti gli atti superstiziosi, che avevano la pretesa di stringere e di fissare l'assoluto, sopravvive solo la superstizione dell'azione e la fede nel divenire, o meglio l'amore di ciò che non può essere fatto e neppure sfiorato, di ciò che non è reale e neppure lo sarà. Avevamo voluto concentrare tutta la realtà delle cose nell'azione umana, facendola partecipare alla solidità di tutto quello che a quanto sembra sussiste senza di essa. E invece l'azione non è il sogno che fagocita la sostanza dei fenomeni, il baratro in cui precipita ogni parvenza di esistenza? E non dovremmo pensare di aver percorso questa lunga peripezia dell'indagine scientifica unicamente per ritornare al punto di partenza, al vuoto? V. Il più grande servizio che si possa rendere all'uomo è quello di far svanire ai suoi occhi tutte le superstizioni una dopo l'altra, ma allo scopo di erogare in lui il puro sentimento dell'attesa religiosa. Quanto è importante non lasciar perdere questo beneficio della Critica impietosa, di non consentire la deviazione della grande corrente del misticismo che oggi vive una rinascita, di non lasciar cadere questo sforzo di una generosità indubbiamente genuina nel vuoto di gratificazioni illusorie, che paralizzerebbero le volontà facendone abortire lo slancio! Nell'opera di distruzione del pensiero: c'è un grande senso religioso. Perciò, anziché respingere questo movimento, bisogna impedirgli con tutte le proprie forze di arrestarsi prematuramente. Non c'è nulla di più incontestabile, di più necessario che considerare ( a parte l'orgoglio o l'ingenuità ) come un selvaggio dedito al feticismo il metafisico invaghito delle sue costruzioni, l'artista innamorato della sua opera, il devoto compenetrato dall'ideale morale o l'apostolo dall'azione per l'azione. In tutti costoro troviamo la stessa pretesa e la stessa presunzione. Tutti sono ugualmente propensi a fare di se stessi il loro dio senza Dio. Mettere a nudo l'inanità di questo sforzo umano è un'opera di religiosa empietà. Infatti, se l'empio si attiene alle sue conclusioni negative, se è contento di esse con la speranza di aver confiscato e pressoché dissolto il divino, se si vanta di aver scavato in sé un abisso abbastanza profondo per seppellirvi per sempre la sua azione e ogni cosa, non è ancora abbastanza empio. Egli conserva la superstizione di non soggiacere ad alcuna superstizione; rimane un idolatra. È lui che, nonostante la sua aria da avanguardia e da portatore dei lumi, risulta retrogrado e oscurantista. Bisogna allora penetrare più a fondo e demistificare quest'ultimo idolo, l'unico al quale l'uomo potrebbe ancora appigliarsi allo scopo di convincersi che è pienamente sufficiente a se stesso. Se nell'azione superstiziosa, accanto a un'illusione cangiante ed effimera, c'è un movimento genuino e invincibile della volontà, stiamo ben attenti nella nostra analisi a non prendere l'illusorio per reale e il reale per illusorio. Percorrendo lo sterminato territorio del fenomeno, l'unica acquisizione che l'uomo ha fatto è stata quella di far emergere con maggiore chiarezza un mistero che sopravvive all'impiego, in apparenza integrale, di tutte le sue facoltà. Questo residuo non va aggiunto all'azione voluta, ma vi è già contenuto. E ponendolo, la volontà da cui procede l'atto ne esige l'utilizzazione. Invano cerchiamo di consacrarlo con un rito all'oggetto chimerico di un culto idolatrico. Invano presumiamo di inserirlo come suggello in ciascuna delle azioni che qualifichiamo con un carattere sacro, o di depositarlo come una zavorra pesante in qualcuno dei fenomeni di cui questo bisogno nascosto ci aveva fatto sentire l'inanità. Invano, via via che la coscienza rinuncia all'ambizione mistificante di confiscarlo, intendiamo adorare unicamente l'inconoscibile e l'inaccessibile. Da tutti questi tentativi scaturisce solo questa conclusione doppiamente perentoria: è impossibile non riconoscere l'insufficienza di tutto l'ordine naturale, e di non avvertire un bisogno ulteriore; è impossibile trovare in sé di che soddisfare questo bisogno religioso. Esso è necessario, ma è impraticabile. Ecco, in termini nudi e crudi, le conclusioni del determinismo dell'azione umana. Ma in questa crisi quasi disperata, com'è facile stravolgere questa duplice constatazione obbligata, con la perfidia, forse inconsapevole, di un'interpretazione alla rovescia! In fin dei conti bisogna mettere a nudo la grossolana sottigliezza di questo sofisma, che si cela sotto tutte le forme della superstizione e della miscredenza. Invece di riconoscere che l'uomo è impotente a produrre una soddisfazione qualsiasi in ordine al suo bisogno necessario del divino, si tira la conclusione che qualsiasi soddisfazione religiosa è necessariamente impotente ad appagare un bisogno immaginario. Una tentazione insinuante dell'orgoglio sempre smanioso di essere autosufficiente è questa: dopo aver messo a nudo la falsità di tutti gli idoli e di tutte le superstizioni, vantarsi di conoscere, riconoscendola, la debolezza umana. Per una strana mistificazione finiamo per essere fieri di una debolezza che riusciamo ad avvertire solo impiegando tutte le nostre forze, e a intravedere solo col massimo di lucidità. Rimaniamo appagati di non poterci appagare. E mentre guardiamo dall'alto in basso tutti coloro che hanno chiuso i loro occhi, ingabbiando la loro vita in una formula qualsiasi, noi pure ci attestiamo a contemplarli. In fin dei conti vogliamo che questa azione umana, di cui abbiamo avvertito l'insufficienza solo perché in ultima istanza volevamo che fosse autosufficiente, sia insufficiente, perché riteniamo che questo è l'unico mezzo per insediarci nell'azione e per essere autosufficienti nel suo spazio. È chiaro l'equivoco? Individuiamo il circolo in cui ci rinchiudiamo con una decisione arbitraria e capziosa? Sentiamo risorgere, data l'incoerenza, il conflitto mortale tra due volontà? E non vediamo in quale sottile forma d'intolleranza siamo pronti a cadere, col pretesto dell'indifferenza e della tolleranza? Se il dispotismo delle idee chiare e delle certezze scientifiche è tremendo, perché evidentemente non lascia alcun riparo d'ombra a coloro che avvolge nella sua luce, esso tuttavia non riesce a violare il santuario del mistero che ci circonda. Quindi la tirannia dell'oscurità è ancora più tremenda, perché pesa nella notte su coloro che si credono al sicuro. Essa impedisce loro non di intravedere una penombra protettiva ai confini della loro scienza, ma di uscire dalle tenebre e di sperare che un barlume possa mai brillare nell'abisso da cui viene fuori e in cui ricadono il loro pensiero e la loro azione. In effetti che cosa ne sappiamo? E se crediamo di saperlo, qual è il meccanismo di questa fede, stando la cecità obbligata? Anche l'irreligione mistica è una superstizione, dal momento che partendo dall'impotenza reale della volontà umana e dalle assurde devozioni del feticismo, dal falso misticismo della scienza o dalle fantasticherie della teosofia, conclude all'impossibilità di ogni rivelazione ulteriore. Un'impotenza può essere constatata, ma non un'impossibilità. Probabilmente nella negazione settaria si cela una dose maggiore di credulità e di intolleranza che non nel fanatismo violento. E, per dirla tutta, di fatto c'è una coscienza dell'impotenza solo grazie a una nozione della possibilità. Dunque la pretesa dell'uomo di limitarsi ai fenomeni e di essere autosufficiente è radicalmente inconseguente. Ponendo tale pretesa, l'uomo la smentisce e la supera. Fondarsi sull'azione debole e incompleta per ammettere la debolezza irrimediabile dell'azione, elevare un fatto all'esponente della verità definitiva ed esclusiva, significa snaturarlo, pur senza dare a vedere di manipolarlo. Nell'ordine dei fenomeni non si da contraddizione o esclusione, possibilità o impossibilità; si danno solamente fatti determinati. Ora nel momento in cui si presume di ricavare da questi fatti una negazione che concerne la possibilità stessa di altri fatti, si è fuori della scienza e dei fatti. Si è superstiziosi, e della peggiore specie dell'empio superstizioso. Anche in nome del determinismo c'è una sola conclusione inevitabile. Eccola espressa nei suoi termini nudi e crudi, ne più ne meno: con la sua azione volontaria l'uomo trascende i fenomeni; egli non può adeguare le sue stesse esigenze; possiede in sé più di quanto non possa utilizzare da solo; con le sole sue forze non riesce a mettere nella sua azione voluta tutto quello che è all'origine della sua attività volontaria. Pertanto, anche se presume di fare a meno di qualsiasi religione o di crearsene una a suo piacimento, nondimeno non esorbita il suo diritto, e tantomeno appaga il suo bisogno necessario o le esigenze della sua volontà. Tutti i tentativi di portare a compimento l'azione umana falliscono. Ed è impossibile che l'azione umana non cerchi di portare a compimento se stessa e di essere sufficiente a se stessa. Questo le è indispensabile, ma non lo può. Da una parte c'è la necessità di fare piazza pulita di tutte le invenzioni che, partendo dall'uomo e procedendo dal santuario più intimo del suo cuore, hanno come obiettivo ridicolo e patetico di monopolizzare il divino. Dall'altra il sentimento dell'impotenza e del bisogno che l'uomo ha di un compimento infinito rimane insanabile. Perciò, per quanto artificiale sia ogni religione naturale, altrettanto naturale è l'attesa di una religione. Che inestricabile difficoltà, nella quale la volontà umana si è impegolata e si è cacciata da sola! Infatti richiamiamo alla mente tutte le conclusioni che già le tagliano la strada di qualsiasi ritirata. È impossibile non porre il problema. È impossibile trovare una scappatoia nel nulla; non è fatto per noi. È impossibile accontentarsi del " qualcosa " in cui si è cercato di rinchiudersi. Dove andare? il fenomeno non è sufficiente per l'uomo; non possiamo ne confinarci in esso ne negarlo. Troveremo la salvezza, con una soluzione che risulta necessaria e tuttavia sembra inaccessibile? * * * Dall'indagine precedente, il cui risultato sembra completamente negativo, vedremo scaturire necessariamente la più positiva delle conclusioni. Abbiamo depurato la scienza dei fenomeni da ogni amalgama, l'abbiamo sgombrata da ogni ontologia, unicamente per giungere, con una specie di metodo dei residui, a rendere manifesto ciò che nell'azione non è più semplicemente un fenomeno. Ci imbattiamo in qualcosa d'altro che occorre definire. E questa realtà dell'azione non è soltanto un fatto che si constata direttamente; se tale realtà ha un valore scientifico, è perché è una necessità, risultante dal determinismo globale del pensiero e della vita. Aver dato grande rilievo a questo determinismo significa aver eliminato le difficoltà speciose, le quali inducono a confondere i problemi, creando spesso aporie per la filosofia; ma significa anche ricondurre tutto all'opzione suprema, che investe il grande e unico interesse dell'uomo. Parte IV - L'essere necessario dell'azione I termini del problema del destino umano sono posti per forza di cose e volontariamente Invano si tenta di restringere l'azione volontaria a ciò che dipende dalla volontà stessa. Lo sterminato ordine dei fenomeni in cui si espande la vita dell'uomo risulta esaurito, e il volere umano non lo è affatto. La pretesa di quest'ultimo di essere autosufficiente subisce uno scacco, ma non per penuria. Subisce uno scacco perché nel campo di ciò che si è voluto e fatto finora colui che vuole e che agisce rimane sempre superiore a ciò che è voluto e fatto. Ma da questa constatazione precisamente non vedete nascere un singolare conflitto, anzi quasi una sorta di antibolia? L'uomo aveva la pretesa di arrangiarsi da solo, e di trovare nell'ordine naturale l'autosufficienza e il suo tutto. Ma non vi riesce. Non riesce né ad attestarsi né ad andare oltre. Ma neppure può tornare indietro, perché il minimo di ciò che ha potuto volere è quest'ordine naturale dei fenomeni, questo qualcosa in cui scopre puramente e semplicemente non una ragione di non volere, ma una ragione perentoria di volere di più. Qual è il senso o l'effetto necessario di questa crisi, la quale, in una forma o nell'altra, segretamente si produce in ogni coscienza umana? - In ogni coscienza umana per forza di cose nasce il sentimento che la volontà non è né il proprio principio, né la propria norma, né il proprio fine. E vi sono molte strade che conducono l'uomo ad accorgersene, non foss'altro che l'impotenza in cui versa di essere autosufficiente e di sottrarsi alla necessità di volere. Era venuto in chiaro che l'uomo non può essere suo malgrado. Ed ecco invece che egli sente, fino all'angoscia, di non essere autore e padrone di sé. Per lui il punto non è di accettare lo splendido ordinamento dell'universo o di sancire il determinismo delle proprie azioni, ma è indispensabile altresì che accetti se stesso. È indispensabile che voglia non tanto ciò che vuole, non tanto la vita e l'uso che ne fa, ma quello che in lui la produce, la critica e la giudica. Sarà allora possibile spiegare e giustificare questa tirannia apparente, risolvere il conflitto e offrire alla volontà un'alternativa necessaria, ma un'alternativa tale che, su qualunque dei lati si fissi l'opzione, non venga mai più smentita? Primo momento -Il conflitto La volontà contraddetta e vinta Scacco apparente dell'azione voluta Non si capisce se è un pura banalità o un paradosso intollerabile asserire che l'uomo aspira a essere integralmente ciò che vuole, e che non può assolutamente essere suo malgrado. - È una verità risaputa, se si intende esprimere la grandezza illusoria delle ambizioni, le lusinghe o le lamentele di un amor proprio introverso, il quale ritiene che tutto gli sia dovuto. - È un'inaudita sfida al senso comune, quando si ha la pretesa di dire che di fatto la volontà sussiste solo nella misura in cui produce e ratifica se stessa in qualche modo, nella misura in cui pervade, domina e suscita persino i suoi organi di espressione. E tuttavia è proprio questo paradosso che ha giustificato la storia naturale dell'azione, perché, per il solo fatto di volere, l'uomo pone o accoglie una sterminata molteplicità di condizioni necessarie. E viceversa proprio questa verità banale, per quanto poco vi si rifletta, da l'impressione di dover sconvolgere il piano volontario della nostra vita. Noi vorremmo essere autosufficienti, ma non possiamo esserlo. Contro il determinismo dell'azione voluta sembra ergersi, con una forza e un'evidenza ancora maggiore, un determinismo opposto. Riconoscere questo dato significa recuperare il linguaggio comune: la volontà non sembra essersi voluta essa stessa. In ciò che vuole incontra perennemente ostacoli insuperabili e disagi spiacevoli. In quello che fa si introducono debolezze insanabili o errori alle cui conseguenze non può porre rimedio. La morte da sola compendia tutti questi insegnamenti. Quindi per forza di cose prima di volere e in tutto quello che vogliamo esiste evidentemente qualcosa che non vogliamo. Perciò non è semplicemente un nuovo determinismo che bisogna opporre al determinismo dell'azione voluta, ma è un determinismo antecedente e più profondo, un determinismo che precede, ingloba e trascende la nostra iniziativa personale. Sicché non abbiamo risolto niente ancora, se non si supera la difficoltà che sorge a questo punto. Infatti ne va di ciò che è, in noi stessi, il principio della nostra volontà, di ciò che ci rivela, al di fuori di noi, che questo principio non risulta affatto nostro, poiché noi siamo vinti nella vita e siamo vinti nella morte. In che modo dunque questa contraddizione sconcertante si profila nella nostra conoscenza, laddove sembrava che nulla potesse affiorare che non fosse espressione di una volontà recondita e, diciamo così, un estratto dell'iniziativa interna ovvero dell'azione spontanea? - Ma prima di dare una spiegazione di questo fatto inevitabile, raccordandolo alle sue scaturigini, ci incombe il compito prioritario di constatarlo adeguatamente. I. Supponete che l'uomo faccia tutto sulla falsariga di quanto vuole, che ottenga quello che brama, che animi l'universo a suo piacimento, che organizzi e produca secondo i suoi desideri l'ordinamento complessivo delle condizioni su cui fonda la propria vita. Resta il fatto che egli non ha posto questa stessa volontà, e che non l'ha determinata così come in effetti è. E anche se non trova nell'utilizzo che ne fa nulla che la contrasti, tuttavia scopre in fondo a se stesso questa contraddizione originaria: vuole, ma non ha voluto volere. In effetti non basta che la traversata sia favorevole. Perché mi sono imbarcato? Non c'è in questo una costrizione inesplicabile, che inquina proprio alla sorgente ogni azione umana, anche la più felice? Può un cuore nobile e generoso accettare anche il più grande dei beni, se è imposto? Indubbiamente la maggior parte degli uomini non possiede né abbastanza perspicacia né, forse, abbastanza orgoglio per avvertire tutta la singolarità di questo problema. Però tutti hanno il sentimento acuto di non appartenere a se stessi. Sanno che non trovano in sé né l'origine, né la sussistenza, né il fine della loro azione. E pensarvi costituisce per loro un cruccio. È vero che la malia delle cose futili è assai potente. È vero che a giudizio dei sensi o allo sguardo della scienza l'universo è abbastanza vasto, abbastanza popolato e curioso per creare miraggi, ma solo per coloro che vogliono essere ingannati. Con quale ragionamento capzioso spesso ci divertiamo ad accumulare inezie! E quando abbiamo percepito l'insufficienza di ciascuna minuzia, come ci convinciamo presto che almeno l'insieme è sufficiente! Allora centomila inezie sembrano formare qualcosa. Senza dubbio ci vuole un'estrema perspicacia per vedere chiaramente la miserabile pochezza delle conoscenze, delle gioie e dei successi umani, e per tracciare esattamente il limite di tutto ciò che risulta così vasto allo sguardo infantile. Ma ci vuole una perspicacia ancora maggiore per figurarci di averne un appagamento. E vi riusciamo solo facendo di tale appagamento e di questo egoismo ironico un nuovo idolo. È stato merito di una critica lucida mettere a nudo l'inanità delle soddisfazioni apparenti offerte da tutta la gamma delle superstizioni umane a una coscienza bramosa di appagamento. Che giova all'uomo guadagnare l'universo? Tutto quello che ha non gli basta, e non gli sembra nulla quando lo ha, perché non basta a se stesso, perché non possiede se stesso. E tutto quello che aggiunge a questo cibo stuzzicante la fame è cibo poco sostanzioso. Egli si disgusta degli idoli via via che li insedia nei momenti culminanti della sua vita. E li innalza solo per infrangerli, come se avvertisse in anticipo che la sua mano apporrà questo coronamento solo per protervia sacrilega. Ma come il malato, anche quando non ha più speranze, vuole fare ancora qualche cosa per guarire, quante persone acconsentono a essere gabbate, e non vogliono sapere che lo sanno! Sono commoventi e insieme sciocche quelle illusioni volontarie che sopravvivono alle delusioni più illuminanti, quei sacrifici talvolta eroici che si fanno per puntiglio, per cameratismo, per solidarietà umana, per spirito di corpo, per convenienza, mentre d'altra parte si sa di farli solo per abitudine, con noia, per nulla. Da tutto ciò bisogna ricavare soltanto una confessione, sempre la medesima: la volontà umana non può custodirsi interamente in sé, perché non deriva interamente da sé. Per quanto grande sia il cerchio, l'azione lo fa sempre esplodere. Essa non è padrona di limitarsi. Nella sua forma astratta, " la volontà è obbligata a volere se stessa ", il problema può risultare artificioso o inutile. E tuttavia nella verità della vita esprime la grande tirannia che sembra gravare sul cuore umano, ed è il principio delle sue pene più profonde. Alla scaturigine dei nostri atti ci sfugge un'incognita misteriosa. È come un germe di sofferenza, di oppressione e di morte seminato nella nostra stessa volontà. Noi non abbiamo voluto ciò che è capitale in noi stessi. Abbiamo il sentimento invincibile di portare un giogo e di non appartenerci. È vero che abbiamo potuto accogliere e fare nostro tutto il resto. Ma tutto il resto non è niente a confronto del fatto che vogliamo. Anzi meno che niente, è dolore, finché la volontà non ha accolto, compreso e recuperato se stessa. II. Indubbiamente la lezione della sazietà è forse quella più probante di qualsiasi altra. Immesso nell'azione, l'universo non la satura. Accostarsi allo scopo significa allontanarsi dal desiderio. E la volontà, che attraversa quasi con un balzo tutte le gratificazioni apparenti in cui si imbatte, si ritrova alla fine di fronte a un vuoto più insondabile. Ma non tutti sembrano ugualmente in grado di comprendere questo insegnamento. Quante poche persone vedrebbero chiaro, se bisognasse sperimentare e intendere tutto per ricevere la grande luce del disgusto e del distacco! Non è possibile, ma non è neppure necessario, esaurire il mondo per avvertire che non ci dissetiamo con esso. Un'amarezza più forte, un altolà più brutale e diretto ci rendono edotti delle contraddizioni insolenti cui siamo esposti. Questa lezione è la sofferenza, la sofferenza che defluisce inesauribile dalla nostra misera sostanza di uomini, e che ha spinto istintivamente tanti occhi a sollevarsi, tante braccia a tendersi verso un liberatore. È vero che certi ostacoli possono essere superati, certe resistenze possono essere vinte, certe sofferenze possono essere comprese, accettate e usate come stimolo salutare di un'attività che riesce a farle rientrare nel piano volontario di una vita felice. Ma nonostante tutta l'energia possibile e malgrado la tattica più abile, quante volte il dolore infierisce al punto da spingere l'uomo a rimpiangere di essere nato! Non si da spiegazione sufficiente o deduzione possibile di quella sofferenza che distrugge una vita senza ucciderla, o la uccide senza averla deprivata della sua attrattiva: è lo scandalo della ragione. Che importano le formule astratte di cui ci lusinghiamo, o le teorie generali di cui ci corrediamo? Che differenza incalcolabile tra ciò che si sa e ciò che si sente! Possiamo ben accettare e prevedere le fatiche e i fastidi del lavoro, i rovesci della fortuna, i tradimenti della vita. Sempre ne restiamo sorpresi e oppressi, perché colpiscono non dove avevamo temuto, e in modo diverso da come ci aspettavamo. E non è ancora niente conoscerli con la nostra mente. La cosa atroce è provare la delusione e quasi la tortura della volontà impotente: " Allora è impossibile; allora è inutile, non cambierà niente; per sempre! ". - Il male, la sofferenza, esattamente come la morte, non sono soltanto fatti che si esibiscono all'osservazione positiva, o conseguenze che scaturiscono dalla ragione, o mezzi voluti dall'uomo in maniera recondita. Al contrario, costituiscono l'opposizione straziante tra il fatto e la ragione, il conflitto tra il reale e una volontà il cui primo movimento è l'odio e la rivolta contro il reale. E queste smentite insolenti non nascono soltanto dal di fuori, ma anche dal di dentro. A che serve parlare di libertà? Deboli come siamo di fronte alla seduzione, fiacchi nell'iniziativa, senza energia per la resistenza, se vogliamo discernere il bene dal male sbagliamo; se tentiamo di fare il bene veniamo meno; se ci cimentiamo a combattere il male veniamo vinti. Non soltanto dobbiamo subire ciò che non vogliamo, ma neppure vogliamo veramente ciò che vogliamo. Prima di prendersela con gli altri, la volontà se la prenda con se stessa! Essa si sente corrotta fin nelle midolla, senza sapere come. La cosa che le fa difetto è pensare a volere e a fare ciò che ha voluto fare e pensare. E mentre le decisioni svaniscono quasi nel nulla senza lasciare tracce, in noi e contro di noi si organizza una vita parassitaria che soppianta l'iniziativa personale. Punta dall'insetto, la foglia è obbligata a emettere abbondante linfa per avvolgere e nutrire il suo nemico: immagine della passione che assorbe e divora la migliore sostanza dell'anima. Possiamo subire ciò che non vogliamo, non fare tutto ciò che vogliamo, fare ciò che non vogliamo e finire per volerlo: mai sfuggiamo totalmente a questa fatalità umiliante e dolorosa. Essa ci rivela, in base agli stessi fatti e ai nostri propri atti, ciò che non vogliamo. Ci costringe a mettere in evidenza ciò che ci resta da volere perché vogliamo tutti i fenomeni, e più ancora perché vogliamo la stessa volontà che li produce così come sono, spesso nostro malgrado. Eliminando ciò che sembra conforme ai nostri desideri intimi, essa mette in luce ciò che viene comunque imposto all'uomo senza ch'egli vi abbia ancora acconsentito, sia esso favorevole o contrario alle sue profonde aspirazioni. III. Laddove questa soggezione si esprime in maniera forse ancora più inesorabile è nell'impossibilità di rimediare ai nostri atti, e di lavarne le inevitabili macchie. - " Come! Non sono abbastanza forte da disfare ciò che ho avuto abbastanza forza di fare? " No. - " Come! Sarei incapace di cancellare totalmente ciò verso cui sono stato abbastanza debole da non potermi impedire di commettere? " Sì. In verità sarebbe assai comodo sconfessare con un decreto, compensare con un atto ciò che un atto ha prodotto, come se, dopo averne fruito i vantaggi, non dovessimo fare altro che sputarne il duro nocciolo. - Ciò non soltanto sarebbe ingiusto, è impossibile. Ciò che ho fatto non l'ho mai fatto e basta: al di fuori e al di dentro di me il passato è per sempre. Infatti al di fuori le nostre opere, come figli disgiunti da noi, agiscono a loro volta senza il nostro consenso. Ma i figli muoiono, mentre gli atti vivono e sono indistruttibili. Sarebbe bello per noi convincerci che non abbiamo fatto niente di reprensibile e di compromettente, sperare che il bene possa scaturire dal male stesso con un facile accomodamento, e che felici compensazioni o coraggiose espiazioni rimettano perfettamente a posto tutte le cose. Ma questo desiderio è una chimera. C'è una specie di torto che è irreparabile. Ed è purtroppo vero quello che più ci fa orrore credere: l'azione è indelebile. Nessun risarcimento costituisce mai una riparazione assoluta. Nessuna espiazione, nessuna pena messa su un piatto della bilancia fa sollevare l'altro piatto. Le conseguenze si ripercuotono all'infinito nel tempo e nello spazio, come per rivelarci l'energia interiore dell'azione con la grandezza visibile dei suoi effetti. Chi non ha avvertito fino all'angoscia la contraddizione di un passato che risulta morto solo per essere suggellato e irrevocabile come un testamento! Al di dentro, sulla nostra condotta pesa una fatalità che, proprio perché è meno appariscente, è tanto più tremenda. Probabilmente il peggio non è che non possiamo cambiare i nostri atti, ma che i nostri atti ci cambiano, al punto che non possiamo più cambiare noi stessi. - Talvolta desidereremmo non accettare le conseguenze vantaggiose di un nostro errore come punto di partenza per il futuro. Ma l'effetto corruttore dell'azione è precisamente quello di provocare nuovi giudizi e di rovesciare le prospettive interiori della coscienza. - Talaltra desidereremmo rompere con un passato opprimente e tirannico che ci espone senza soluzione a nuovi compromessi per la logica stessa del disordine. Ma per ritornare indietro e per rimuovere, con l'impulso colpevole, tutta la covata di desideri ignobili sbocciati nell'ombra, ci vorrebbe qualcosa di più di un timore egoistico o di una velleità di saggezza e di rettitudine. Chi dunque è capace di questa lacerazione più radicale che apre al sole il fondo di una coscienza? Vi sono momenti in cui le passioni parlano e decidono come se lasciassero all'uomo solo il diritto di stupirsi dell'ispirazione malvagia che fanno trapelare; una rivelazione questa, che talvolta è violenta come un colpo di Stato e improvvisa, ma dopo quale lunga premeditazione e quali malignità impercettibili! In tal modo quindi, prima, durante e dopo i nostri atti, c'è dipendenza, costrizione, deficienza. È per l'appunto questo fondo di schiavitù e di debolezza che viene costretto a svelarsi dall'urgenza dell'azione. Sappiamo che abbiamo fatto e abbiamo voluto quello che non volevamo e che forse non vorremmo più. Ma la macchia resta. E in effetti che cosa vuol dire macchiarsi, se non mescolare insieme due volontà ostili? Una che palesemente prende lo slancio unicamente in se stessa, l'altra che immette nella corrente dell'azione l'inquinamento di un'acqua estranea. Se l'impotenza che l'uomo avverte di portare a compimento da solo la più piccola delle sue opere l'ha indotto a tutte le forme della superstizione, l'impossibilità in cui si trova di governare con padronanza assoluta la propria vita e di purificare se stesso gli ha ispirato tutta la gamma di suppliche, preghiere e sacrifici di propiziazione. - Se non avessimo misurato dapprima l'intera potenza della volontà umana, se non avessimo per nulla percorso lo splendido sistema dei fenomeni che essa riesce a organizzare, forse queste constatazioni non sembrerebbero definitive, e neppure queste contraddizioni insolubili ovvero queste condanne senza appello. Ma dopo l'analisi dell'azione non c'è più scappatoia: è un fatto. E la forza di questo fatto è che esso è appurato col metodo scientifico dei residui. Individuando tutto quello che abbiamo potuto, vediamo con precisione tutto quello che non possiamo. E se abbiamo esibito la possibilità, fino al paradosso, non l'abbiamo fatto per far sentire fino all'evidenza la debolezza del volere umano? Ciò che non possiamo fare o disfare come vogliamo dimostra che non vogliamo con piena indipendenza neppure quello che riusciamo a produrre o a sanare. Ma allora, questo enorme sforzo tentato dall'uomo per sollevarsi verso qualche cosa è forse sembrato riuscire, in un primo momento, soltanto per ricadere a un livello ancora più misero? Partita come conquistatrice vittoriosa, la volontà è forse condannata al fallimento per la stessa grandezza delle sue ambizioni? Si tratta evidentemente di una delusione tanto più irrimediabile m quanto la volontà incorre in un simile fallimento non per difetto nell'aver agito o acconsentito a tutto quello che le si presentava, ma per aver esaurito tutto, per essersi prestata a tutte le esperienze, per aver affrontato le sofferenze e le bruttezze della vita. Agire è un bene, per un certo tempo: è una cura, una specie di psicoterapia, che rinfocola un po' di fiducia, offrendo a chi vi si sottopone la splendida illusione di una fede o di un amore fecondo. Ma dopo? Vivere per vivere non è in fin dei conti assurdo e penoso? Ha voglia l'uomo di cercare in sé o fuori di sé, nell'infinito della scienza o dell'universo. Egli è ancora solo, e non può restare solo. Questa impotenza avvertita non è effetto della sua ignoranza. Al contrario, più sa, più ha, più è, e più altresì si rinfocola la coscienza che non ha affatto, che non è quello che vuole. Si direbbe che introiettando in sé tutte le soddisfazioni dei sensi, della mente e del cuore, non faccia che scavare un abisso. Nella gioia come nella sofferenza, nel successo come nel fallimento, nel possesso come nell'indigenza, eccolo ugualmente costretto a questa dura constatazione: qualunque cosa la volontà sia riuscita a raggiungere con le sue sole forze, l'azione non è ancora equiparata al volere da cui procede, la volontà non ha ancora voluto se stessa integralmente. I fallimenti palesi dell'azione, le sofferenze o le deficienze che l'attraversano e la gravano, le macchie di cui è incapace di lavarsi, la morte e tutto questo determinismo delle contraddizioni pratiche non fanno che rivelare in modo più perentorio questa impotenza radicale. Secondo momento - La volontà affermata e confermata Indistruttibilità dell'azione volontaria È un fatto: in fin dei conti le pretese umane ricevono una totale smentita. Qualunque cosa abbiamo guadagnato da ciò che abbiamo voluto, se ci collochiamo allo stesso livello delle cose volute, la bancarotta è inevitabile. Ma questo fatto, come tutti gli altri, si manifesta necessariamente alla coscienza solo in seguito a un'iniziativa più profonda. Si tratta di un effetto che bisogna raccordare, con un legame di necessità, alla sua causa, prima di individuare quale ne è per forza di cose l'efficacia, prima di comprendere come anche questo effetto rientra nel determinismo della volontà. Tre proposizioni riassumono questo concatenamento necessario. - Il sentimento del fallimento palese della nostra azione è un fatto solo in quanto implica in noi una volontà superiore alle contraddizioni della vita e alle smentite empiriche. - La presenza in noi di quello che non è voluto mette in evidenza la volontà volente in tutta la sua purezza. - E questo meccanismo interno non fa che manifestare la necessità in cui si trova la volontà di volere e di porre se stessa. L'essere che abbiamo lo subiamo. Ma allo stesso tempo non possiamo fare a meno di farlo nostro come se fosse di nostro pieno gradimento. Pertanto, grazie a una progressione inevitabile dell'analisi, che mette semplicemente in luce una verità già vivente in noi, siamo indotti a volere non tanto l'oggetto, non tanto il fatto, ma l'atto o l'essere medesimo della volontà. Ci resterà da vedere che cosa comporta, che cosa suppone questa nuova necessità. La potremo ancora giustificare in noi stessi davanti ai nostri occhi? I. L'esperienza della vita e della morte, della persona e delle sue possibilità, della sua azione, della sua sofferenza e delle sue deficienze non è ne totalmente empirica ne puramente a posteriori. No, il male, il dolore e la morte non sono fatti totalmente positivi, non sono cioè di quei fatti che si possono constatare senza introdurvi prima un'ipotesi nascosta o un desiderio, urtando contro il quale la realtà produce la coscienza di una semplice negazione. Sono fatti soltanto per contrasto, per effetto di un'opposizione interna tra la volontà voluta e la volontà volente. Solo questo conflitto spiega in noi il sentimento di una dipendenza, di una privazione o di una " inibizione ", in una parola la stessa coscienza e la riflessione. Coscienza non più soltanto dei fenomeni che accadono in me, ma di me stesso nel quale quei fenomeni accadono. Coscienza del fenomeno in quanto fenomeno, ossia di ciò che non è autosufficiente e non può sostenersi da solo. Dunque riconoscere l'insufficienza di qualsiasi oggetto esibito alla volontà, sentire la debolezza della condizione umana, fare l'esperienza della morte significa manifestare un'istanza superiore. Quei fatti sono possibili, sono reali, sono coscienti soltanto in seguito a un'iniziativa che li preceda. Chi pone il problema dell'essere e dell'immortalità ne ha già in se stesso la soluzione, grazie all'energia nascosta di una specie di argomento ontologico, ma di un argomento che non si basa su una dialettica delle idee, di un argomento che sviluppa semplicemente l'energia reale e attuale del volere umano. Non dunque l'immortalità, ma la morte stessa è contro natura, e la sua nozione ha bisogno di spiegazione. Non siamo noi a essere nel tempo e nello spazio, ma sono lo spazio e il tempo a essere in noi. Se la morte è un fatto e un fenomeno palese, le azioni viceversa non muoiono. Il fatto di morire viene constatato e compreso perché possediamo la certezza implicita di sopravvivere. Poco fa sembrava che un determinismo esteriore, e di conseguenza sconcertante e inintelligibile, si fosse eretto contro il determinismo interno dell'azione voluta. Ecco che adesso cominciamo a intravedere come l'uno si raccorda con l'altro. Le contraddizioni in apparenza più ripugnanti alla volontà servono unicamente a mettere in luce il suo invincibile attaccamento a se stessa. Tramite quello che nega, essa afferma e costruisce se stessa in modo indistruttibile. Falsificate tutto quello che è voluto, per lasciare sussistere solo ciò che non è voluto: questo metodo rigoroso di falsificazione rivela con maggiore precisione il referente che vuole, e attribuisce al volere unicamente la risorsa del volere. È quanto dobbiamo capire bene. Ma come bisogna stare attenti a non intendere male il senso di queste constatazioni necessarie! Intenderle male non significa rimuoverle o impedirne gli effetti. Ma questi stessi effetti possono essere stravolti da una falsa interpretazione, portando fuori strada la volontà riflessa sul terreno dell'opzione suprema, alla quale ben presto essa sarà indotta per forza di cose. È dunque importante comprendere convenientemente l'apparente fallimento dell'azione, e mostrare attraverso quali passi successivi arriviamo a constatare questo fatto, questo fatto decisivo di cui resteranno da determinare le conseguenze necessarie. II. Nello scoraggiamento di non poter approdare subito dove pareva portarla il fuoco divorante della sua ambizione, la volontà delusa di tutto ciò che ha voluto ricadrà forse nel nulla, come ha immaginato il pessimismo? Ma questo nulla, che talvolta essa sembra desiderare e presagire, non esiste ( e per tagliarle la strada di questa pseudo-ritirata è stato bene fin dall'inizio dissipare ogni fittizia speranza dei disperati ). Abbiamo visto che nessun autentico appetito brama questo nulla. Questa via del nulla è stata chiusa irrimediabilmente con un muro. E come un ostacolo che oppone una resistenza infinita, questo baluardo ricaccia indietro con la sua impenetrabilità lo slancio di cui riceve l'impatto. Proprio mentre sembra anelare all'inabissamento nel nulla, la volontà, che avendo esaurito il fenomeno da a intendere di gettarsi nel nulla, rimbalza in se stessa. E vi ritrova il suo essere peculiare e autentico, lo sappia o no chiamare col suo nome. Nonostante un carattere di necessità apparente, l'indistruttibile attaccamento della vita alla vita è l'effetto di un'adesione radicale della volontà alla propria natura. Solo la volontà è abbastanza forte per sbarrare la strada al volere e impedirgli di distruggersi. Indubbiamente questo è un modo di parlare all'immaginazione. Ma viceversa sotto queste parole, che mentre servono a polarizzare la mente, sembrano falsare le procedure naturali del pensiero con una specie di precisione artificiosa, bisogna discernere un'azione più precisa, più certa, più immediata della volontà, una volontà che non ha bisogno di operazioni complicate, di dialettica scientifica, di momenti successivi per giungere a questa conclusione: " Io voglio; e niente di quello che è voluto mi soddisfa, anzi, se non voglio niente di quello che è e di quello che sono, è perché voglio me stesso più di tutto ciò che è e di tutto quello che sono ". Cessiamo forse di desiderare quello che abbiamo desiderato perché in effetti non raggiungiamo subito il traguardo che anelavamo conseguire? No, noi lo desideriamo ancora, desideriamo ancora di più. Non abbiamo trovato che sia troppo per noi tutto questo splendido cosmo dei fenomeni in cui la scienza si muove a proprio agio. Anzi troviamo che è troppo poco. E quando dure contraddizioni ci strappano dalle mani quello che pensavamo possedere, forse che, togliendoci il cibo, ci tolgono anche l'appetito? Sia che si tenga stretto l'oggetto offerto al desiderio, sia che lo si disdegni, è un'identica aspirazione che eccita questa fame o provoca questo disgusto. Le gratificazioni apparenti o provvisorie hanno potuto mascherare questo bisogno, ma esso era già presente. Le prove lo svelano. In quello che vogliamo come in quello che non vogliamo c'è qualcosa che vogliamo al di sopra di tutto. Dunque nell'azione voluta risulta esserci un contenuto reale di cui la riflessione non ha ancora adeguato lo spessore. Sembra trattarsi di conclusioni totalmente negative: impossibilità di fermarsi e di appagarsi. Ed è per questo che sono totalmente positive. Esse significano: necessità, non di indietreggiare, ma di andare avanti. La testimonianza più certa è quella che, ingannata da un'apparenza superficiale, in realtà depone contro quello che crede di appurare. Quindi laddove si dice: nulla del fenomeno, insufficienza del fenomeno, fallimento e insensatezza dell'azione umana, bisogna tradurre: necessità e bisogno di altro, altro di fronte a cui il fenomeno sembra unicamente un nulla. Sicché, viceversa, per riprendere il linguaggio delle apparenze, è questo altro che sembra nulla, poiché è fuori dei fenomeni. Senza questo altro i fenomeni non esisterebbero, e senza i fenomeni noi non conosceremmo questo altro. Perciò da un identico volere procedono sia il proposito di accertare il fenomeno, sia l'impossibilità di attestarsi in esso, sia il movimento di contraddizione che sembra far fallire l'azione, sia l'indistruttibilità di tutte queste aspirazioni naturali. In una parola, tutto quello che abbiamo voluto fin qui non può più non essere, e non può neppure rimanere semplicemente quello che è. Questa duplice necessità, in apparenza contraria, è fondata ugualmente su un solo disegno totalmente coerente con se stesso. Ed è l'unità di questo determinismo che lo rende intelligibile. III. A quali profondità non siamo portati? Se pure non volessimo niente del tutto, vorremmo noi stessi. E volendo noi stessi, ratifichiamo ciò che fa sì che tutto il resto sia per noi. Ed ecco giustificata e quasi accettata con favore ogni apparente costrizione che via via è risultata pesare su di noi. Ma nella misura in cui la necessità recede davanti a una volontà che la assume come piattaforma, quella non ricompare al di là di tutto in maniera più imperiosa? Siccome il determinismo continua a svolgere la sua catena, non finiamo per ricadere sotto i colpi di un dispotismo più tirannico che mai? Ci è imposto di volere noi stessi, ci è imposto di imporci a noi stessi. Non ci sottraiamo al bisogno di renderci conto anche di questa necessità. Essa ha nella coscienza il suo contraccolpo obbligato e la sua espressione naturale. Quindi a questo punto bisogna discernere come si rivela alla coscienza. In effetti dal conflitto che travaglia qualsiasi coscienza nasce inevitabilmente un'alternativa ultimativa, e per forza di cose bisognerà sciogliere quest'alternativa. Ora la scienza deve seguire il determinismo dell'azione fino a questo problema e a questa soluzione necessaria. È fuori discussione che questo problema tragico certamente non si prospetta alle coscienze sotto questa forma astratta. Ma poco importa il modo di presentare il conflitto che sorge in noi, se di fatto vi sorge. La vita è più sottile di qualsiasi analisi, più logica di qualsiasi dialettica. La cosa che si avverte di primo acchito, senza aver bisogno di poterla esprimere, è che la volontà non si accontenta di nessuno degli oggetti che ha voluto. C'è sempre di meno in quello che è fatto o desiderato che non nel referente che fa e desidera. Il risultato sembra quasi una caricatura o una contraffazione della sua vera causa. Quindi la difficoltà da cui partivamo rimane integra: è possibile volere se stesso? E qual è il senso vero di questa ambizione necessaria? Dissociato tra ciò che faccio senza volerlo e ciò che voglio senza farlo, sono sempre, diciamo così, escluso da me stesso. Come dunque rientrare in me stesso, e immettere nella mia azione ciò che senza dubbio vi si trova già, ma a mia insaputa e fuori della mia portata? Come adeguare il soggetto al soggetto medesimo? Per volere pienamente me stesso occorre che io voglia più di quanto non abbia saputo trovare finora. Dunque, imbattendomi nella necessità ultimativa della volontà, debbo determinare quello che voglio, affinché possa voler volere in maniera assolutamente piena. Sì, occorre che io voglia me stesso. Ora è impossibile che io attinga me stesso direttamente. Da me a me stesso c'è un abisso che niente ha potuto colmare. Non c'è scappatoia per sottrarmi a questa distretta, non c'è passaggio per andare avanti da solo: chi uscirà da questa crisi? * * * Impossibilità di fermarsi, impossibilità di tornare indietro, impossibilità di andare avanti da solo: da questo conflitto che sorge in qualsiasi coscienza umana scaturisce per forza di cose il riconoscimento dell' " unico necessario ". Che lo si sappia nominare o meno, è la via per la quale è impossibile non passare. Perciò in questa sede non si tratta di cercarne una definizione metafisica. Bisogna farne oggetto di studio non nella misura in cui la conoscenza presume di penetrare nel suo spazio, ma nella misura in cui la sua azione compenetra e promuove la nostra. Lui pure rientra nel dinamismo della coscienza: grazie alla presenza di questa idea che lavora tacitamente le anime, la vita volontaria riveste per forza di cose un carattere di trascendenza. Il conflitto dunque si risolve in un'alternativa, la quale, dati i termini contraddittori del dilemma, esige un'opzione ultimativa, e sola permette alla volontà di volere se stessa liberamente quale anela essere per sempre. Terzo momento - L'unico necessario L'inevitabile trascendenza dell'azione umana Osserviamo con un solo sguardo il cammino percorso sotto l'impellenza di un determinismo inflessibile. È impossibile non porre il problema dell'azione. È impossibile darne una soluzione negativa. È impossibile ritrovarci, sia in noi stessi sia negli altri, quali vogliamo essere. Insomma è impossibile fermarsi, ritornare indietro o andare avanti da soli. Nella mia azione c'è qualcosa che non ho potuto ancora comprendere e adeguare, qualcosa che le impedisce di ricadere nel nulla, e che è qualcosa solo in quanto non è niente di quello che ho voluto fin qui. Quindi ciò che ho posto volontariamente non può né abolire né conservare se stesso. È questo conflitto che spiega la presenza obbligata nella coscienza di un'affermazione inedita. Ed è la realtà di questa presenza necessaria che rende possibile in noi la coscienza di questo stesso conflitto. C'è un " unico necessario ". Tutto il movimento del determinismo ci conduce a questo referente, perché è da esso che si diparte questo determinismo medesimo, di cui tutto il senso è di ricondurci ad esso. Ma non bisogna equivocare: nonostante un'apparenza dialettica, in questa argomentazione non c'è niente, assolutamente niente, che sia una deduzione. Il nerbo della prova consiste nel fatto che rende manifesta puramente e semplicemente l'espansione reale della volontà. Qui la dimostrazione non scaturisce da una costruzione logica dell'intelletto. Non si tratta di inventare una cosa qualsiasi o di inserire nell'azione volontaria quello che non vi sarebbe ancora. Si tratta invece di cogliervi esattamente quello che già vi si trova, e di conseguenza ciò che si esprime necessariamente a livello della coscienza e vi è sempre rappresentato sotto una forma qualsiasi. C'è da scoprire un'incognita, ma più per un complemento di inventario che per un progresso euristico, più in vista di un arricchimento della vita attiva che per uno sterile appagamento dello spirito. Il problema non è sapere se questo " unico necessario " è il referente astratto di un ragionamento, ma se lui pure potrà rientrare come una verità vivente nello sviluppo dell'azione voluta. In effetti che importano gli idoli, più o meno raffinati, che l'intelligenza umana riesce a proporre a se stessa? Non sarà certo perché daremo dell'essere una definizione più esatta, che lo possederemo meglio in noi stessi. E forse è meglio, forse anzi si deve persino ricercarlo sempre senza pretendere di averlo trovato, per non smettere di attenderlo cessando di cercarlo. Amen non inveniendo invenire potius, quam inveniendo non invenire te! I maestri della vita inferiore osservano che " negli atti della volontà, quando pensiamo alla presenza di questo unico necessario, da parte nostra ci vuole un maggiore rispetto che se facciamo uso dell'intelletto tramite la riflessione ". In effetti più essenziale della nozione col quale lo definiamo è il modo col quale siamo indotti a proporlo necessariamente come un fine all'azione volontaria; beninteso come un fine trascendente, anche quando è già presente in essa. Senza conoscerne il nome e la natura, possiamo presagire il suo avvicinarsi e quasi avvertire il suo contatto, esattamente come nel silenzio e nella notte si sente il passo e si tocca la mano di un amico che non si riconosce ancora. È fuori discussione che la precisione delle definizioni metafisiche non è affatto inutile. Come abbiamo visto, esse hanno la loro efficacia originale, e rientrano nel dinamismo generale della vita volontaria. E tuttavia non sono le nozioni, anche le più chiare e le più corrette, che da sole ci fanno agire e agire bene. Le opinioni e le definizioni scientifiche talvolta sono solo etichette o nomi che prendiamo a prestito, in modo da parlare di sentimenti che non abbiamo mai conosciuto. C'è di meglio da fare che non speculare su idee sempre inadeguate da qualche lato. Eliminiamo allora ciò che, nell'opera del pensiero, rimane arbitrario, variabile e artificioso. In ogni stato d'animo, a ogni livello della cultura, " un unico necessario " si esibisce, si impone alla coscienza umana. Ed è estremamente importante chiarire la scienza di questa lingua conosciuta da tutti. Non che occorra attenersi a un sentimento indefinibile del mistero, e neppure disperare di coglierne qualcosa col pensiero o inibirsi di cercarne qualche dimostrazione necessitante. Tutt'altro. Una dimostrazione che sia unicamente un argomento logico rimane sempre astratta e parziale, non conduce all'essere, non necessariamente rimanda il pensiero alla necessità reale. Al contrario, una prova che promana dal movimento integrale della vita, una prova che è l'azione nel suo insieme, avrà questa forza stringente. Per uguagliarne la forza spontanea con l'esposizione dialettica occorre quindi non lasciare allo spirito nessuna scappatoia. In effetti la caratteristica dell'azione è di formare un tutto. Perciò in forza di essa tutti gli argomenti parziali si uniranno in una sintesi dimostrativa. Isolati, essi rimangono sterili, mentre uniti sono probanti. Soltanto a questa condizione essi imiteranno e stimoleranno il movimento della vita. Scaturiti dal dinamismo dell'azione, ne conserveranno per forza di cose l'efficacia. I. A rigore di termini, niente è dimostrato scientificamente se non ne abbiamo stabilito la necessità. Per fondare una verità reale non è sufficiente supporre che è, dimostrando che nulla impedisce che essa sia. Occorre supporre che non è, dimostrando che è impossibile che non sia. Quando si sono precluse tutte le vie di uscita, la conclusione s'impone. In questo senso è stato necessario, fin dal principio di questa indagine, precludere senza rimedio la via del nulla. Questa idea del nulla non è disgiunta dall'idea dell'altro. E l'argomento che probabilmente si potrebbe qualificare meglio di tutti come ontologico è quella controprova che dimostra l'impossibilità del non-essere assoluto, fondandosi sull'insufficienza dell'essere relativo. Infatti, sotto quale forma si presenta alla coscienza questa idea del nulla? Sotto la forma di una negazione. E che cosa si nega per affermarla? Tutto ciò che è oggetto immediato di conoscenza e di desiderio. In altri termini la grandezza di tutto il resto non serve altro che a far risaltare l'eccellenza incomparabile di questo presunto nulla. Aspirando a esso, professandolo, effettivamente si vuole e si afferma, non tanto ciò che si fa e ciò che si pensa, ma ciò che non si può né fare né pensare, e che tuttavia non ci si può impedire di volere e di affermare. La nostra scienza, la nostra azione non è mai quale la istituirebbe una volontà limitata ai soli fenomeni. Ecco perché, di fronte a opere fatte, a parole e idee definite, sembra che il vero nome di quell'incognita sia " morte e nulla ", invece che essere e vita. Per non ridurlo alle determinazioni e ai simboli che in qualche modo lo negherebbero, si indica ciò che non è, e non ciò che è, dicendo in tutta verità che non è nulla, nulla di tutto ciò che è. A tal punto l'uomo è pregno del sentimento irresistibile che nella sua azione l'essenziale trascenda la realtà percepita o prodotta! In questo contesto dunque l'affermazione è meno giusta e la negazione è più vera. La negazione in effetti penetra più addentro nella natura di questo mistero presente nei nostri atti. Perciò non è senza ragione che i mistici abbiano parlato splendidamente del nulla, come della sorgente profonda da cui zampilla la vita; che anime religiose abbiano mantenuto il silenzio dell'adorazione davanti all'ineffabile, per non travisarlo con le loro parole, perché nessuno è capace o degno di chiamarlo col suo nome segreto; che le menti più elevate abbiano avuto timore di negare questa misteriosa realtà nel tentativo di una definizione positiva; e che cuori amanti abbiano creduto di intravedere nell'ateismo una forma, la più rispettosa secondo loro, della pietà delicata e profonda. Dietro questi velami si nasconde una manifestazione di venerazione per l'essere: è il nulla che per forza di cose lo professa. Da qualsiasi parte ci si giri, lo si incontra, e anche fuggirlo è un modo di andargli incontro e di cadere tra le sue mani. Solus est qui frustra nunquam quaeri potest, nec eum inveniri non potest.3 II. Ma questo necessario riconoscimento acquista tutto il senso e tutta la precisione solo col complemento di un'altra lezione. La dimostrazione dell'essere, fondata dapprima sulla totalità di " ciò che appare non essere ", è decisiva soltanto se poggia nello stesso tempo sulla totalità di " ciò che appare essere ". In effetti, come potrebbe essere messa in evidenza la pienezza del nulla, e la necessità dell'essere che vi si cela, se non con l'uso dei fenomeni e la prova della loro insufficienza? Esplicandosi nell'universo, la volontà prende coscienza più chiaramente di se stessa e delle sue esigenze. La natura, la scienza, la coscienza, la vita sociale, il campo metafisico, il mondo morale sono stati per lei soltanto una serie di mezzi. Essa non può rinunciarvi, ma neppure accontentarsene. Quindi se ne serve come di trampolini per prendere lo slancio. Per ea quae non sunt et apparent, ad ea quae non apparent et sunt.4 Pertanto la dimostrazione dell' " unico necessario " mutua la sua forza e il suo valore dal cosmo complessivo dei fenomeni. Senza di lui tutto è nulla, e nulla può essere. Tutto ciò che vogliamo presuppone che egli esista, e tutto ciò che siamo richiede che egli sia. Dunque l'argomento ricavato dalla contingenza universale può essere formulato in mille modi. Questo unico necessario si attesta all'inizio o al termine di tutte le strade su cui l'uomo si può addentrare. Alla fine della scienza e della curiosità della mente, in cima alla passione autentica e tormentata, agli estremi della sofferenza e della nausea, al culmino della gioia e della riconoscenza, ovunque rinasce lo stesso bisogno, sia che si rientri in se stessi sia che ci si innalzi ai confini della speculazione metafisica. Nulla di quello che è conosciuto, posseduto, fatto, è autosufficiente e neppure si nientifica. È impossibile attestarsi in esso, ma è impossibile rinunciarvi. Così inteso, l'argomento a contingentici possiede tutto un altro carattere, una forza più poderosa di quanto si sia creduto di solito. Invece di cercare il necessario al di fuori del contingente, come un termine ulteriore, lo esibisce nel contingente stesso, come una realtà già presente. Invece di farne un supporto trascendente ma esteriore, scopre che è immanente nel cuore stesso di tutto ciò che è. Invece di dimostrare semplicemente l'impossibilità di affermare il contingente soltanto, dimostra l'impossibilità di negare il necessario che lo fonda. Invece di dire: " Posto che a un dato momento non esista nulla, per l'eternità nulla sarà ", esso argomenta: " Dal momento che qualcosa è stato, per l'eternità l'unico necessario è ". Invece di far leva sulla simulazione di un ideale necessario, si basa sulla necessità stessa del reale. Infatti non bisogna presumere che i nostri atti siano nulla e che i fenomeni siano completamente vuoti. Ciò significherebbe svisare l'esperienza comune. In quello che fa, nella vita dei sensi, nei suoi atti e nei piaceri che gode, l'uomo avverte al tempo stesso una singolare indigenza e una più stupefacente pienezza. Quindi non venitegli a dire che questa vita, questi interessi che lo catturano, questi stessi piaceri da cui è affascinato, sono privi di consistenza. Noi percepiamo che in tutte queste vanità c'è già più di quanto noi stessi non sappiamo. E se via via che si prende gusto ai fenomeni talvolta l'appetito sembra crescere, senza mai essere sazio, significa che sempre, quando vogliamo e per volere questo poco, anzitutto vogliamo altro ancora. In questo modo quindi l'intero cosmo della natura è per noi necessariamente un garante di ciò che ci trascende. La necessità relativa del contingente ci rivela la necessità assoluta del necessario. Senza dubbio nella nozione di questi fenomeni che hanno, per così dire, la loro sostanza in altro, in questa forma di esistenza imperfetta di cui non possiamo enunciare la perfetta definizione, esiste un'ambiguità sconcertante in relazione alla riflessione. Sembra cioè che noi possediamo abbastanza essere per non poterne fare a meno, troppo per potercene distaccare; ma troppo poco, per accontentarcene; di più o di meno di quanto desidereremmo, poiché ne abbiamo solo per sentire che non ne abbiamo. Ma è esattamente questo il vero carattere del contingente: il contingente partecipa alla necessità del reale, senza condividerne il privilegio. Ciò che è esiste necessariamente mentre è, sebbene per natura non abbia nulla di necessario. Ecco perché le cose visibili, le scienze umane, i fenomeni della coscienza, le arti e le opere, ea quae nec sunt, nec non esse possunt, tutto in noi e fuori di noi esige " l'unico necessario ". E se queste ombre d'essere costituiscono un fondamento solido per sostenerlo, è perché lui stesso funge da sostegno invisibile. III. Che cos'è dunque questa misteriosa x, che non è né il nulla né il fenomeno, sebbene non si possa concepire il fenomeno o il nulla senza includerla nel pensiero che li ammette? Per trovarla non possiamo partire da essa, non essendovi noi inclusi, ma bisogna partire da noi, essendo essa inclusa in noi. Nella nostra conoscenza, nella nostra azione, sussiste una sproporzione costante tra l'oggetto stesso e il pensiero, tra l'opera e la volontà. L'ideale concepito è superato senza soluzione dall'operazione reale, e la realtà ottenuta è superata senza soluzione da un ideale sempre risorgente. Di volta in volta il pensiero supera la prassi e la prassi supera il pensiero. Occorre dunque che il reale e l'ideale coincidano, perché questa identità ci è data di fatto, ma ci è data solo per sfuggirci subito. Quale singolare condizione di vita è istituita da questa reciproca e alternativa propulsione dell'idea e dell'azione! Come due moti con velocità periodicamente ineguale si allontanano e si avvicinano di volta in volta per coincidere in un punto, sembra che tutti i nostri comportamenti oscillino intorno a un asse di coincidenza nel quale non si attestano mai, sebbene vi passino continuamente. Dunque da noi stessi non ricaviamo né la luce del nostro pensiero né l'efficacia della nostra azione. Energia implicata nel fondo della coscienza, verità che ci è più intima della nostra conoscenza di noi stessi, potenza che fornisce a ogni momento del nostro sviluppo la forza, l'impulso e la luce che ci vogliono, tutto ciò è presente in noi senza provenire da noi. Noi siamo indotti per forza di cose a concepire questo mistero solo in quanto vi scopriamo nel contempo una potenza e una sapienza che ci superano infinitamente. Dobbiamo quindi comprendere bene l'estensione di questa dimostrazione. Essa raccoglie tutto quello che abbiamo trovato, fuori di noi o in noi, di intelligibilità e di intelligenza, di movimento e di forza, di verità e di pensiero, allo scopo di esibirne il principio comune. La stupenda armonia dell'universo visibile, l'armonia, forse ancora più straordinaria, delle scienze, il meccanismo della coscienza, e tutto lo splendido complesso delle opere umane risultano così sospesi a questa chiave di volta, quasi come per provarne la solidità. Questo argomento, dal canto suo, può quindi rivestire mille forme diverse, ma la sua essenza è quella di rivelare in ciò che si muove, si organizza e si conosce una sorgente comune di potenza e di sapienza. Se tutto il resto si compendia e si fonda nella nostra azione e nel nostro pensiero, il nostro pensiero e la nostra azione non si fondano e non si fecondano reciprocamente se non grazie a " l'atto puro del pensiero perfetto ".5 In tal modo, come l'argomento cosmologico, la prova teleologica è rinnovata e corroborata dalla sua unione con le altre. Presentarla isolatamente significa privarla del nerbo del suo valore. Qualsiasi dimostrazione che non è all'altezza del suo oggetto, e che dimostra meno di quanto deve, è traballante. Addossarle un compito più pesante non significa affatto indebolirla. Per essere probante, è necessario che dimostri tutto ciò che va dimostrato. Quindi non è sufficiente assodare con un sillogismo l'armonia dei mezzi, la grandezza dei fini, la necessità di una causa saggia e intelligente capace di istituire l'ordine dell'universo e del pensiero. La vera prova teleologica va più in là. Essa dimostra che la sapienza delle cose non sta nelle cose, che la sapienza dell'uomo non sta nell'uomo. Essa non si limita a mettere in presenza l'opera e l'operaio, per intravedere la presenza e i disegni dell'uno sulla base delle qualità dell'altro; ma cerca di indagare in che modo il pensiero e l'azione coincidono, e in base a che cosa si uniscono la sapienza e la potenza. Essa prende come punto di partenza non soltanto ciò che è già realizzato, ma anche ciò che si realizza e si perfeziona incessantemente. Essa non commisura la Causa che afferma alla stregua degli effetti, ma, riconoscendola in essi, la colloca fuori di essi, e trova nella bellezza relativa delle cose il principio stesso di ogni bellezza. Nella sua forma astratta, ecco come si esibisce alla riflessione questo argomento tanto ricco di aspetti svariati. Ne il mio pensiero può adeguare la mia azione, né la mia azione può adeguare il mio pensiero. In me c'è sproporzione tra la causa efficiente e la causa finale. E tuttavia né l'una né l'altra possono essere in me quello che sono già senza la mediazione costante di un pensiero e di un'azione perfetti. Tutto quello che c'è nelle cose sul piano della bellezza e della vita, tutto quello che c'è nell'uomo sul piano della luce e della potenza, ingloba nella sua stessa imperfezione e nella sua stessa debolezza una perfezione eminente. Pertanto si profila questa triplice correlazione: - È in noi, è nel reale che noi scopriamo come in uno specchio imperfetto questa perfezione inaccessibile. E tuttavia, - ne noi possiamo confonderci con essa, - né la possiamo confondere con noi. - Il nerbo di questa dimostrazione è di prendere come fulcro la nostra esperienza più intima. Non è facendo la somma delle nostre piccole qualità, non è estraendo dalle cose la bellezza e la potenza che esse manifestano, ossia non è né per astrazione né per contrasto che scopriamo " l'unico necessario ", come se fosse un ideale esterno a noi e senza radici nella nostra vita. Lungi dall'essere una proiezione, e quasi un prolungamento immaginario del mio pensiero e della mia attività, esso è al centro di ciò che penso e di ciò che faccio: lo comprendo in me stesso. E per passare dal pensiero all'azione o dall'azione al pensiero, per andare da me stesso a me stesso, lo attraverso incessantemente. Perciò l'ordine, l'armonia, la sapienza che scopro in me e nelle cose non è semplicemente un effetto a partire dal quale un ragionamento mi obbligherebbe a risalire a una causa assente dalla sua opera. Io non posso considerare quest'armonia e questa bellezza come costituita e sussistente in se stessa, non ne faccio le premesse di una deduzione. Non invoco alcun principio di causalità, ma trovo in questa sapienza imperfetta delle cose e del mio pensiero la presenza e l'azione necessaria di un pensiero e di una potenza perfetta. - E sebbene io trovi in me questa presenza e questa azione, non posso dire che siano mie. Questo " unico necessario " ha ragion d'essere solo perché noi non adeguiamo noi stessi. Per descrivere l'equazione della nostra azione volontaria, occorre gettare lo sguardo in noi fin dove finisce quello che è nostro. Come la purezza di uno sguardo si vede nello specchio di uno sguardo puro, così la coscienza si conosce solo nella luce della vita interna alla propria vita. Nel fondo della mia coscienza c'è un io che non è più io, ma vi è riflessa la mia immagine peculiare. Io non vedo che in lui. Il suo mistero impenetrabile è come lo strato di stagno che riflette in me la luce. - Ma se lui è in me più di me, tuttavia non è me più di quanto io non sia lui. Non adeguo me stesso perché non adeguo lui. Non è dunque la facciata oscura del mio pensiero, il rovescio invisibile della mia coscienza e della mia azione, come se non dovessi vederlo che in me, e come se tutta la sua realtà non consistesse che nell'idea che io ne ho. Sono indotto necessariamente a concepirlo solo perché sono indotto per forza di cose a riconoscere ciò che mi manca proprio in quello che faccio: l'identità assoluta del reale e dell'ideale, della potenza e della sapienza, dell'essere e della perfezione; ecco cos'è lui, perché io sia quello che sono. I termini cospiranti del mistero che si impone alla mia coscienza sono pensiero e volontà, senza i quali in me non vi sarebbero né pensiero né volontà, e al tempo stesso però né il pensiero né la volontà possono comprenderli. Ho ragione di affermare quel mistero solo perché mi è al tempo stesso necessario e inaccessibile. Esso è ciò che non può essere fatto o pensato da me, sebbene non possa fare o pensare niente se non per mezzo di lui. E se mi resta inaccessibile, non è per difetto di essere o di chiarezza in lui, ma in me. Esso dunque è ciò che io non posso essere: pensiero totale e azione totale. E lo conosco veramente soltanto perché mi è incomprensibile. Non succede forse che per abbondanza di luce, i cui raggi infrangono i contorni degli oggetti, talvolta c'è una profondità insondabile ancora maggiore, come nello splendore del misterioso Oriente, che non in seno a un'oscurità, dove almeno si può immettere la luce? IV. In questo modo altresì l'argomento ontologico riacquisterà un senso e una forza nuovi. Nell'esposizione dialettica delle prove non è indifferente seguire un ordine piuttosto che un altro. Altrimenti ci si trova esposti al rischio di considerare l'idea di perfezione come un'invenzione arbitraria senza fondamento reale, mentre è una realtà estremamente viva nella nostra coscienza, e dalla nostra azione complessiva mutua tutta la certezza positiva già presente in noi. Essa per noi non è tanto una visione quanto una vita. E non deriva da una speculazione, ma è legata a tutto il movimento del pensiero e dell'azione. Non è un'astrazione, da cui non si potrebbe ricavare che un'astrazione, ma un atto che fa agire. Non è un ideale da cui si pretenderebbe estrarre il reale, ma un reale nel quale si trova l'ideale. Quindi non bisogna cercare in essa ciò che solo permetterebbe di fondare un'obiezione contro di essa, una realtà distinta dall'ideale stesso. Pertanto in questa sede, e soltanto in questa sede, è legittimo identificare l'idea all'essere, perché dietro questa identità astratta collochiamo anzitutto l'identità del pensiero e dell'azione. Quindi non bisogna dire soltanto che andiamo dall'idea all'essere, ma bisogna dire che troviamo dapprima l'idea nell'essere e l'essere nell'azione. Scoprendo in noi la perfezione reale, passiamo alla perfezione ideale. Se così si può dire, andiamo da noi a essa, per andare da essa a essa. Senza dubbio la prova ontologica per noi non ha mai tutto il valore che ha in sé. Infatti essa è assoluta solo laddove vi è l'idea perfetta della perfezione stessa, laddove l'essenza è reale e l'esistenza ideale. È dunque vero che per raggiungere " l'unico necessario " noi non lo cogliamo in lui stesso, non essendo presenti nel suo spazio, ma partiamo da lui presente in noi, affinché, comprendendo in parte ciò che è, possiamo vedere meglio che è. Siamo costretti ad affermarlo nella misura in cui ne abbiamo l'idea, perché questa stessa idea è una realtà. A poco a poco, grazie a un'esperienza più completa e a una riflessione più penetrante, precisiamo meglio a noi stessi quello che non siamo, vediamo più chiaramente quello senza cui non saremmo. Conoscerlo e possederlo maggiormente fanno tutt'uno. La luce in cui lui mi vede è esattamente quella in cui io vedo lui e vedo me stesso, perché è la luce in cui lui per primo si vede. Infatti che cosa ci rivela ogni tentativo intrapreso esattamente per penetrare il mistero della perfezione? ( Infatti la prova ontologica non è che un gioco con entità di ragione, se le mancano questo coraggio e questa portata necessari ). Se per noi la perfezione è un mistero, non è perché non ci sia nota, o perché non conoscerebbe se stessa, ma è proprio il contrario: è perché noi di necessità pensiamo che ci conosce e conosce se stessa assolutamente. Ai nostri occhi la sua oscurità è costituita da un eccesso di luce. Mentre nei nostri atti avvertiamo una sproporzione irrimediabile, nel suo asseriamo un'identità immediata. Essa ci appare impenetrabile per quello che ne conosciamo. La sua intimità inaccessibile non ci sfugge perché ci è estranea, ma perché ci è più intEriore del nostro intimo. Quello che crea in noi sconcerto è che non possiamo adeguare noi stessi. Quello che ci sconcerta in lei è l'equazione assoluta tra l'essere, il conoscere e l'agire. È un soggetto nel quale tutto è soggetto, anche la coscienza che ha di sé, anche l'operazione intima con la quale si realizza, trovando una risposta uguale al suo appello e un amore corrispondente al suo. E come la personalità non potrebbe essere isolata, essendo una solo in quanto non è sola, così parlare di questa misteriosa perfezione come se in essa l'esistenza differisse dalla conoscenza o la conoscenza dall'azione, significherebbe degradarla al livello delle imperfezioni, che, riconosciute in noi, ci hanno indotto a passare in essa. Essa senza la trinità è più incomprensibile di quanto la trinità stessa non sia incomprensibile all'uomo. La trinità costituisce l'argomento ontologico trasferito sul piano dell'assoluto, laddove questa prova non è più una prova, ma la verità stessa e la vita dell'essere. E non è certo riducendola, o evitando di definirla con precisione, che si renderà più accettabile al pensiero questa verità necessaria. O tutto o niente. Ed è impossibile che sia niente. È più facile, più scientifico riconoscere il massimo della verità necessaria, che non accontentarsi di un minimo vago e indeterminato. La superstizione consiste nel limitarsi a un argomento parziale o a una conclusione frammentaria. Prendiamo la nozione di una causa prima o di un ideale morale, l'idea di una perfezione metafisica o di un atto puro. Tutti questi concetti della ragione umana sono vuoti, falsi e idolatrici se li consideriamo isolatamente come rappresentazioni astratte; sono invece veri, vivi ed efficaci quando, essendo cospiranti, non sono più un gioco dell'intelletto ma una certezza pratica. Quindi quello che la fatica discorsiva del pensiero rende lungo e lascia sterile diventa immediato e pratico, se nella molteplicità delle prove si recupera il mezzo per presentarle tutte insieme. Tutte insieme sono più semplici e più dirette che non ciascuna separatamente. Esse hanno valore unicamente per la loro unità sintetica. Infatti, proprio grazie a questo concatenamento, esse riproducono e contengono il movimento della vita, provengono davvero dagli insegnamenti dell'azione e ritornano all'azione per insegnarla e animarla. È dunque esattamente nella prassi che la certezza dell' " unico necessario " possiede il suo fondamento. In ciò che concerne l'intera complessità della vita solo l'azione è a sua volta necessariamente completa e integrale. Essa investe il tutto. Perciò da essa, e solo da essa, deriva la presenza indiscutibile e la prova cogente dell'Essere. Le sottigliezze dialettiche, per quanto siano articolate e ingegnose, non hanno maggior valore di una pietra scagliata da un bambino contro il sole. E colui che nessun ragionamento sarebbe in grado di ritrovare si manifesta in noi in un attimo, in un solo slancio, per una necessità immediata. Perché nessuna deduzione adegua la pienezza della vita agente, e lui è precisamente questa pienezza. Quindi solo lo sviluppo integrale e concreto dell'azione lo rivela in noi, non sempre con tratti che lo rendano riconoscibile alla mente, ma in maniera da farne una verità concreta e da renderlo efficace, utile e afferrabile da parte della volontà. Al termine, presto raggiunto, di ciò che è finito, fin dalla riflessione prima, eccoci in presenza di ciò che il fenomeno e il nulla nascondono e manifestano allo stesso modo, di fronte a cui non si può mai parlare di memoria come se fosse un estraneo o un assente, davanti a colui per riconoscere il quale tutte le lingue e tutte le coscienze hanno una sola parola e un solo sentimento. Dio. V. Quando ci si accosta a Dio e quando, grazie alla prima riflessione, che ci proietta davanti a lui sempre presente e sempre inaudito, ci si risveglia alla luce della sua visione, c'è come un blocco improvviso; la vita sembra sospesa, e non si procede oltre. - Sì, si procede oltre. In qualsiasi forma si esibisca alla coscienza, l'idea di Dio vi è introdotta da un determinismo che ce la impone. Scaturita necessariamente dal dinamismo della vita interiore, essa produce per forza di cose un effetto, e ha un influsso immediato sull'organizzazione della nostra condotta. Occorre, beninteso, precisare questa azione necessaria dell'idea necessaria di Dio. Vedremo come l'atto volontario rivesta inevitabilmente un carattere trascendente, e come questa necessità sia l'espressione stessa della libertà. Perciò, grazie al gioco del determinismo, il conflitto sorto nella coscienza si risolve per forza di cose in un'alternativa, la quale prospetta alla volontà umana un'opzione ultimativa. I - L'idea di Dio in noi dipende doppiamente dalla nostra azione. Da una parte, proprio perché agendo scopriamo in noi una sproporzione infinita, siamo costretti a cercare all'infinito l'equazione della nostra azione. Dall'altra, proprio perché affermando la perfezione assoluta non riusciamo mai ad adeguare la nostra affermazione, siamo costretti a cercarne il complemento e l'elucidazione nell'azione. Il problema posto dall'azione può essere risolto soltanto dall'azione. Quando si reputa di conoscere Dio a sufficienza non lo si conosce più. Indubbiamente l'attimo della sua apparizione nella coscienza rassomiglia talmente all'eternità, che si ha quasi paura di entrarvi interamente, con lo sguardo teso verso il bagliore che si è acceso solo per oscurare la notte. Ma la mistura di ombra e di luce rimane tale, che sono ugualmente confuse sia la presunzione di chi crede di vedere sia la pretesa di chi fa finta di ignorare. Contro coloro che ci vedono troppo chiaro bisogna tenere fermo che in ciò che conosciamo e vogliamo Dio rimane ciò che non possiamo né conoscere né fare. Contro i ciechi volontari bisogna tenere fermo che senza complicazioni dialettiche e senza lunghi studi, in un batter d'occhio. Dio è per tutti, e a ogni momento, la certezza immediata senza la quale non ce n'è altra, la luce primordiale, la lingua conosciuta senza averla appresa. Egli è l'unico che non si possa cercare invano, senza che mai possa essere trovato pienamente. Nemo tè quaerere valet, nisi qui prius invenerit: vis igitur inveniri ut quaeraris, quaeri ut inveniaris; potes quidem quaeri et inveniri, non tamen praeveniri.6 Quindi nel momento in cui pare di avvicinarsi a Dio con un guizzo del pensiero, egli sfugge, se non lo si trattiene, se non lo si cerca con l'azione. La sua immobilità non può essere presa di mira come un bersaglio fisso se non con un moto perpetuo. Ovunque ci si fermi, egli non c'è; ovunque ci si muova, egli c'è. È una necessità passare sempre oltre, perché egli è sempre al di là. Quando non ne rimaniamo più stupefatti, come davanti a una novità inesprimibile, e quando lo consideriamo dal di fuori come un argomento di conoscenza o una mera occasione di indagine speculativa, senza la giovinezza del cuore e senza l'inquietudine dell'amore, è finita; tra le mani non abbiamo altro che un fantasma e un idolo. Tutto quello che abbiamo visto o udito a proposito di lui è soltanto un mezzo per andare più avanti; è una strada, non ci si fermi dunque, altrimenti non è più una strada. Pensare a Dio è un'azione; ma, altresì, noi non agiamo senza cooperare con lui e senza farlo collaborare con noi, con una specie di teoergia necessaria che reintegra nell'operazione umana la parte di Dio, in modo da creare nella coscienza l'equazione dell'azione volontaria. E proprio perché l'azione è una sintesi dell'uomo con Dio, essa costituisce un perenne divenire, come se fosse tormentata dall'aspirazione di una crescita infinita. Il pensiero, quando si adagia in se stesso e si accontenta di sé, è un mostro. La sua natura è di introdurre un dinamismo progressivo nell'espansione della vita. È un frutto della vita unicamente per diventare un germe di nuova vita. Ecco perché inevitabilmente l'idea del trascendente impone all'azione un carattere trascendente. Beninteso non bisogna immaginare che, per innestare nella nostra vita questo carattere di trascendenza, occorra sempre discernere la presenza o riconoscere chiaramente l'azione di Dio in noi. Per riconoscerla, per farne uso, non è indispensabile chiamarlo per nome o definirlo. Possiamo persino negarlo, senza togliere ai nostri atti la loro portata necessaria. Infatti negandolo, non si fa altro che spostare l'oggetto dell'affermazione. Ma la realtà degli atti umani non è raggiunta, nel suo fondo, dal gioco superficiale delle idee e delle parole. È sufficiente che, sia pure mascherato e travestito, il bene universale abbia sollecitato segretamente la volontà, perché la vita intera rimanga segnata da questa impronta indelebile. Per sentire il suo appello o avvertire il suo contatto non c'è bisogno di fissarlo. Quello che per forza di cose nasce in ogni coscienza umana, quello che nella prassi ha un'efficacia ineludibile, non è la nozione di una verità speculativa da definire, bensì la convinzione, forse vaga, ma perentoria e incontrovertibile, di un destino e di un fine ulteriore da raggiungere. Infatti non si tratta di qualche dettaglio della condotta da chiarire o di decisioni parziali da prendere, ma ciascuno è indotto a preoccuparsi decisamente del carattere complessivo dell'intera sua vita. Un'inquietudine, un'aspirazione naturale verso il meglio, il sentimento di un ruolo da assolvere, la ricerca del senso della vita: ecco, tutto questo segna con un'impronta necessaria la condotta umana. Qualunque risposta vi si dia, il problema si pone. L'uomo annette sempre ai suoi atti questo carattere di trascendenza, per quanto se ne renda conto solo oscuramente. Quello che fa non lo fa mai tanto per fare. Qui dunque abbiamo a che fare col principio che anima tutto il movimento della vita in noi. Per vivere, diciamo così, metafisicamente non c'è bisogno di aver risolto alcun problema metafisico. L'argomento ontologico è applicabile anche a noi. Il pensiero e l'azione si esplicano in noi soltanto perché in tale contesto l'essenza diventa reale e l'esistenza ideale. Non lo si può negare senza mentire a se stessi. E non lo si nega veramente, perché la menzogna non cambia minimamente la necessità delle verità che mimetizza. Quindi, non attribuendo più ai punti oscuri o agli errori speculativi l'importanza che di per sé soli non hanno, bisogna in ultima istanza vedere qual è l'effetto necessario di Dio presente nell'uomo. Questa presenza ha un'efficacia incontrovertibile, in qualunque forma la sua verità si riveli alla coscienza, in forma chiara o confusa, nella forma del consenso o del rifiuto, in forma riconosciuta o anonima. Quel che più di tutto ci interessa è lo studio di questo meccanismo superiore. II - Nata dall'impulso stesso del determinismo, di un conflitto in seno alla coscienza umana, l'idea necessaria di Dio con un ultimo progresso del determinismo risolve questo conflitto in un'alternativa ineludibile. Siccome sono obbligato a concepire e ad assegnare al mio pensiero e alla mia azione un referente superiore, è altresì una necessità che senta il bisogno di adeguare a esso il mio pensiero e la mia vita. L'idea di Dio ( che lo sappiamo nominare o meno ) costituisce il complemento ineludibile dell'azione umana. Ma, a sua volta, l'azione umana ha l'indeclinabile ambizione di raggiungere e di adoperare, di definire e di realizzare in sé quest'idea della perfezione. Ciò che conosciamo di Dio è questo eccesso di vita inferiore che reclama di essere impiegato. Quindi non possiamo conoscere Dio senza volerlo diventare in qualche modo. L'idea viva che abbiamo di lui non è e non resta viva se non si trasforma in prassi, se non si vive di essa e non se ne nutre l'azione. Qui, come altrove, la conoscenza non è mai altro che una conseguenza e un'origine di attività. Ma in quale aporia ci siamo impegolati? L'uomo avverte un invincibile bisogno di conquistare Dio. E proprio perché non può farlo, crede in lui e lo afferma. Ma non crede in lui e non lo afferma veramente se non usando di lui e praticandolo di fatto. Per noi Dio non ha ragion d'essere se non perché è ciò che non possiamo essere noi stessi e non possiamo fare con le nostre sole forze. E tuttavia risulta che noi non abbiamo essere, volontà e azione se non in vista di volere Dio e di diventarlo. Sembra che egli si interponga tra noi e noi, che ci divida fin nelle giunture delle ossa, e che noi dobbiamo passare, se così osiamo dire, sul suo corpo. E tuttavia non abbiamo potere su di lui. La nostra volontà muore laddove egli nasce in noi, la nostra opera cessa laddove comincia la sua e, per meglio dire, la sua sembra assorbire tutto ciò che vi è di reale nella nostra. Quindi quello che è di nostra pertinenza è di essere senza essere, e tuttavia siamo obbligati a voler diventare ciò che non possiamo raggiungere o possedere da soli. Che singolare esigenza! Proprio perché ho l'ambizione di essere infinitamente, sento la mia impotenza, non ho fatto me stesso, non posso quello che voglio, sono costretto a trascendere me stesso. E allo stesso tempo non posso riconoscere questa debolezza radicale se non intravedendo già il mezzo per sfuggirvi, col riconoscimento di un altro essere in me, con la sostituzione di un'altra volontà alla mia. In tal modo, grazie al meccanismo della vita interiore, eccoci condotti di fronte a un'alternativa che sintetizza tutti gli insegnamenti della prassi. L'uomo da solo non può essere quello che già è suo malgrado, quello che presume diventare volontariamente. Allora vorrà vivere o no, fino a morirne, se così si può dire, consentendo di essere soppiantato da Dio? Oppure avanzerà la pretesa di essere autosufficiente senza Dio, di trarre profitto della sua presenza senza renderla volontaria, di mutuare da lui la forza per fare a meno di lui, e di volere infinitamente senza volere l'infinito? Volere e non potere, potere e non volere, è questa precisamente l'opzione che si prospetta alla libertà: " Amarsi fino al disprezzo di Dio, amare Dio fino al disprezzo di se stessi ". Beninteso questa opposizione tragica non si rivela a tutti con tale chiarezza e con tale rigore. Ma se l'idea che c'è " qualcosa da fare della vita " si presenta a tutti, ce n'è abbastanza perché anche gli uomini più comuni siano chiamati a risolvere il grande compito, l'unico necessario. Dunque il determinismo dell'azione finisce per suscitare nella coscienza umana un'alternativa. E l'utilità di tutte le analisi pregresse è di esibire ciò che ingloba necessariamente l'opzione della volontà. Poco importa se le analisi stesse sono manchevoli. L'importanza della scelta non dipende dalla spiegazione che si tenta di darne. È sufficiente che agendo deliberatamente si realizzino in un sol colpo tutte quelle condizioni implicite. Avendo assegnato al determinismo la sua parte, siamo riusciti a determinare esattamente quella della libertà. Essa si compendia interamente proprio in quell'opzione, perché la volontà si esercita pienamente solo laddove c'è una posta in gioco degna di essa. È bene aver fatto l'analisi di tutto il contenuto dell'azione volontaria, ma tale analisi non deve nasconderei il principio che ne opera la sintesi. La serie dei mezzi si organizza nella coscienza soltanto in vista di questo problema decisivo. Tutto il movimento della vita sfocia qui. Il fenomeno più elementare non sarebbe per noi quello che è, senza il legame che lo collega a qui. Sicché, all'inverso, la conoscenza del fenomeno più insignificante ha come compito di farci risalire, attraverso la catena del determinismo, a questa libera decisione da cui dipende il destino di ciascuno. In tal modo la volontà dell'uomo si propone la serie dei mezzi che hanno come effetto di imporle l'esercizio del suo potere. Beninteso proprio nel quadro di tale necessità la volontà non subisce nulla che non abbia voluto. Senza dubbio l'alternativa sorge per forza di cose davanti alla Coscienza, ed è altresì una necessità pronunciarsi. Ma non equivochiamo. A dire il vero l'opzione ci è imposta; ma proprio grazie a essa noi diventiamo ciò che vogliamo. Qualunque cosa ne debba derivare, non potremo prendercela che con noi stessi. Perciò in ultima analisi non è la libertà a essere assorbita nel determinismo, ma è il determinismo globale della vita umana a dipendere da quest'alternativa ultimativa: o escludere da noi qualsiasi altra volontà diversa dalla nostra, o affidarsi all'essere altro da noi come all'unico che ci salva. L'uomo aspira a fare il dio. Il dilemma è: essere dio senza Dio e contro Dio, o essere dio per mezzo di Dio e con Dio. Di fronte all'essere, e all'essere soltanto, la legge di contraddizione si applica in tutto il suo rigore, e la libertà si esercita in tutta la sua forza. La necessità, per l'uomo, di scegliere non fa altro che manifestare la sua volontà di essere, e di essere ciò che vuole. La sua azione quindi ha un essere necessario. Ma questo essere si rivolge contro di lui, se avanza la pretesa di trovarlo o di conservarlo interamente in se stesso. Se la sua libertà, di fronte all'alternativa che si impone a lui, non lo avvia a una forma nuova di vita, egli si perde. È inutile conoscere già questa vita superiore, per poi sapere che, se i suoi atti la respingono, egli fallisce il suo destino. Non essere cambiato per l'uomo è la morte dell'azione. Egli dunque non potrà vivere se non rinascendo, per così dire, nello sforzo di una nuova generazione, e aprendosi a un'azione altra dalla sua. Ma, in qualsiasi modo si risolva il conflitto, l'opzione della libertà non abolirà quanto c'è di essere necessario nell'azione voluta. Nascondi 2 Citazione di Agostino, dalle Confessioni I, 6 in J.-P. Migne, Patrologiae Cursus Completus. Series Latina (Parigi 1844-1855), 32, 665. 3 La frase è una citazione di san Bernardo, De consideratione XI, 24 in op. cit., Ili, 486 4 L'espressione latina ricalca espressioni bibliche: cfr. Sap 13,1 e Rm 1,19-20. 5 Per questa formula cfr. Aristotele, Metafisica, A, 7 e 9 6 Citazione di san Bernardo, De diligendo Dea VII, 2 in op. cit:. III, 137ss. Cfr. anche il testo di sant'Agostino In Johannem, tract. 63, 1 Indice L'alternativa È impossibile che lo sviluppo dell'azione volontaria non sfoci in un'alternativa. Infatti l'opzione è la forma necessaria nella quale una volontà, imposta a se stessa, prende possesso di sé, al fine di volere ciò che è essendo ciò che vuole. Questa necessità è quindi la conseguenza di una libera iniziativa. E la maniera estremamente semplice in cui la coscienza popolare concepisce il problema del destino come una scelta, personale di ciascuno, tra il bene e il male, tra l'ordine di Dio e l'impulso dell'egoismo, corrisponde al dramma più profondo della vita interiore. Ma quello che la coscienza popolare non riesce a determinare, quello che invece la scienza dell'azione è servita a mettere in luce, sono i termini esatti dell'alternativa. Grazie alla sua ineludibile espansione, la volontà umana, anche a sua insaputa, ha delle esigenze divine. Il suo desiderio è di raggiungere e di conquistare Dio; brancola alla cieca per toccarlo. E tuttavia nel nostro pensiero e nella nostra azione Dio non ha una ragion d'essere se non in quanto, inaccessibile e inviolabile nel suo mistero, resta fuori della nostra presa. Che fare, dunque? Si vorrà forse morire a se stessi, per vivere per lui? Ma come? Oppure si riuscirà alla fine a fare a meno di lui o, nel caso, a metterlo al servizio dell'uomo, in modo da averlo per sé senza essere per lui? E quanto a queste domande, non è strano che si possa addirittura porle? Se " l'unico necessario " è sempre presente nelle nostre azioni volute, quale spazio rimane all'uomo per scegliere? E se, qualunque cosa facciamo o sappiamo, il nostro destino svolge la sua divina trama, che significato hanno sia l'intervento superficiale delle nostre decisioni caduche sia i miseri tentativi di una scienza che si sforza di sondare questo mistero delle nostre vite, come se anticipasse le rivelazioni di un giudizio supremo? - Ma quello spazio che rimane all'uomo è sufficiente per atterrire ogni pensiero abbastanza coraggioso per misurare l'abisso aperto davanti a sé. - Ma quelle decisioni, per quanto poco efficaci appaiano, lo sono tuttavia abbastanza per decidere della formidabile e decisiva questione. - Ma questa scienza dell'azione, per quanto presuntuosa sia nel sollevare il velo delle responsabilità presenti o delle rivelazioni future, è sufficiente a prevenire le sorprese e a giustificare la gravita delle sanzioni riservate alle azioni umane. È dunque necessario che vi sia un'alternativa; è necessario che ci si pronunzi. E la stessa necessità dell'azione non fa che manifestare questa libera costrizione. Pertanto il problema del nostro destino si risolve nell'azione volontaria, e per mezzo di essa; ed è impossibile che non si risolva. Su quale crinale aguzzo siamo gettati! Non possiamo attestarci su di esso. E ovunque ci andremo a perdere o a salvare, lo avremo voluto. Indice La morte dell'azione Prima opzione L'ambizione dell'uomo non era quella di essere autosufficiente, da sovrano di se stesso? Pronto a riconoscere la sua dipendenza in rapporto a esseri uguali o inferiori, egli acconsente a tutte le catene naturali purché non debba riconoscere un padrone, non debba pregare un Dio. Senza dubbio egli sente che le sue azioni trascendono l'ordine della natura, che in esse c'è più che un sistema di fenomeni comuni, e che la sua vita ha un significato di cui non la può liberare. Ma, dopo tutto, questo mistero del proprio destino non gli appartiene come tutto il resto? Non è egli capace di ridurre a proprio piacimento la portata della sua condotta, e di rinunciare all'onore di una vocazione troppo sublime per non essere molesta? Oppure, se non è più padrone di non volere affatto " l'unico necessario ", se non può ignorare o dimenticare completamente che è impossibile respingerlo o mistificarlo come un idolo inanimato, non pretende forse di usarne a suo piacimento, di misurargli il posto, di dargli quel poco che gli aggrada di dare per avere il tutto che ha bisogno di avere? Questi desideri e queste speranze hanno sempre travagliato le coscienze umane. E, in particolare, travagliano oggi molte anime che si sono emancipate da qualsiasi fede, ma non da qualsiasi inquietudine religiosa. Non è forse vero che da Dio si vorrebbe tutto, eccetto Dio stesso? Che dopo averlo escluso, per godere di tutto senza di lui, lo si vorrebbe ancora, quasi suo malgrado? Non è forse vero che, qualsiasi cosa si faccia, sembra che alla fine si debba essere sicuri della salvezza, e degni di una felicità senza la quale non riusciamo a capire che l'essere possa essere veramente? È il mito dell'eroe audace che ha rubato il fuoco al cielo, e che giunge al trionfo finale senza essersi pentito. È l'antica leggenda dell'uomo mortale che ha amato una dea immortale, nonostante i divieti sacrali, e che si deifica, a onta degli dei che costringe a riconoscere questa divinità conquistata contro di loro. È " la fine di Satana ", proclamata come il mezzo per finirla col Padrone e col Giudice temuto. - Si tratta di illusioni artificiose che urge dissolvere. Infatti poco importa che non sempre si distinguano nettamente le conseguenze necessario di quello che si fa: non è questo che impedisce loro si svolgersi regolarmente. Non c'è bisogno di nominare e di definire le colpe commesse, per conoscerle e volerle. La scienza autentica è quella che è efficace nella prassi, come la vera libertà è quella che determina la volontà nella formidabile e decisiva questione: senza Dio o per Dio. Essere autosufficiente, limitarsi a quello che vuole e a quello che può: qual è la portata di questa pretesa dell'uomo? Come può egli sussistere, rifiutando il principio di qualsiasi sussistenza? Ma in che modo gli è impossibile abolire in sé quello che esclude da se stesso? In che modo gli è impossibile trovare, in quello che impedisce alla sua azione di morire, il principio di un ritorno alla vita? Un essere senza l'Essere, un destino volontario che ci si rifiuta di volere, una morte che non muore più: ecco la singolare soluzione di cui bisogna rendere ragione. I. L'azione volontaria crea un'equazione nella coscienza solo in quanto si riconoscono in essa la presenza e il concorso dell' " unico necessario ". Se noi non siamo e non possiamo niente senza di lui, e se è impossibile che noi non siamo nulla, allora in base a che cosa spiegare che la volontà possa riconoscerlo senza accettarlo, o possa negarsi senza distruggersi? Che cos'è questa stupefacente mutilazione? Ovvero come comprendere che è sempre per mezzo di Dio che noi possiamo persino quello che possiamo senza di lui e contro di lui? In quello che è volontario c'è dunque qualcosa che può non essere affatto voluto? E in quello che è voluto, c'è qualcosa che può non essere volontario? - Sì; ed è proprio questa contraddizione intima che costituisce la morte vera e propria dell'azione. La disposizione consistente nel non volere tutto quello che vogliamo convincendoci di volerlo, mentre non lo vogliamo e lo sappiamo, è contorta, se badiamo alle parole che la esprimono a livello di riflessione, ma è assai semplice e assai frequente nella prassi che la innesta nella vita. Quanti uomini palesemente non hanno più niente nel cuore, come se nulla fosse assente dal loro cuore! E il grande sforzo del pensiero moderno non tende forse a giustificare questa assicurazione dell'uomo di fronte al suo destino? Ma andiamo al fondo di questa pretesa. La coscienza può benissimo ritagliarsi addosso quasi un secondo abito di sincerità, enunciando che si trova in condizione di sicurezza, senza vuoto e senza inquietudine. Se analizziamo il modo stesso con cui si convince di trovare la sua requie, scopriremo la molla interna che glielo impedisce. Se indaghiamo come è possibile per l'uomo rinunciare al proprio destino, troveremo in che modo gli è impossibile sottrarsi a esso. Non ci deve stupire che la potenza infinita inglobata nell'azione volontaria possa applicarsi e quasi esaurirsi in un termine finito. È più stupefacente, se vogliamo, che l'azione volontaria possa ritrovare, sotto il simbolo dei fini limitati che la sollecitano, il termine infinito al quale aspira. Non bisogna dimenticare che il bene universale potrebbe prospettarsi alla coscienza unicamente con tratti particolari. Nella misura in cui muove la volontà come il principio e la causa efficiente di una vita bramosa di espandersi, il bene conserva davvero la sua infinità. Nella misura in cui si propone davanti al pensiero come un oggetto da conquistare e come la causa finale dell'azione, esso non è più che un motivo parziale e limitato. Ecco perché il senso del movimento che trascina la volontà umana è ambiguo. In apparenza quello che è finito è quello stesso Dio cui bisogna tendere; quello che è infinito è l'aspirazione del cuore, quello che parte dall'uomo, siamo noi. Ma osservate l'equivoco che l'azione si incarica di dissolvere: vorremo forse monopolizzare quel grande slancio dell'autenticità attiva, rivolgendolo verso di noi? O al contrario vorremo, attraverso un libero riconoscimento, restituire a quel finito apparente di Dio la sua infinitezza reale, riferendo a lui quel movimento che pareva provenire da noi, e che invece proviene da lui per ritornare a lui? Dunque l'azione, che sembrava assurda e impossibile, è fin troppo facile. Con quanta rapidità la violenza della passione o l'orgogliosa perversione dell'intelligenza inducono la volontà, così piena della sua potenza derivata, ad autocompiacersi e a limitarsi a se stessa! Quanto è facile dimenticare chi è colui che si cela sotto questa ispirazione di forza e di luce! E tuttavia egli è lì, presente e velato, nel sentimento del meglio che sublima senza soluzione ogni vita, in quell'ordine oscuro del dovere che sprona l'egoismo, nello stesso rimorso che mantiene tuttora fermi i diritti dell'ideale sulle colpe morali e le rovine del cuore. Egli è lì, in quei doni perenni della coscienza, più di quanto non sia nel concetto più chiaro che ci possiamo formare della sua essenza. Ed è proprio per questo che monopolizzare a profitto dell'uomo e dei suoi desideri egoistici questo pristino slancio dell'autenticità, mentre sembra di optare tra motivi limitati, significa immettervi invece l'immensità stessa. Comportandosi come limitata, aderendo agli oggetti di cui ha riconosciuto l'insufficienza, cercandovi la soddisfazione infinita cui anela, la volontà, se così si può dire, si obiettiva in sé e si soggettiva in essi. Giudicando sufficiente la loro insufficienza, trovandoli degni di sé, immette in se stessa la loro debolezza, e immette in essi la propria infinità: si perde. Quindi sia che l'uomo, invece di adorare Dio in Dio, adori se stesso nei suoi sensi e nella natura, sia che ( per adoperare il linguaggio di Spinoza ), trovando in sé l'infinito della Sostanza che lo fa essere, separi dalla Sostanza stessa questa forma dell'infinito per applicarla al suo essere particolare e limitato, in ogni caso la stranezza di quest'opzione incoerente si spiega fin troppo. E non c'è bisogno di essersela spiegata per cadervi. Questa formidabile questione si decide per ciascuno sotto il simbolo dei motivi più ordinari e nel conflitto dei sentimenti più semplici. Quello che sfugge alla conoscenza è la formula astratta, non la realtà concreta della scelta, ne il sentimento che, dietro queste insignificanti futilità con le quali ci trastulliamo, c'è un dramma di cui noi siamo la posta in gioco. D'altra parte, anche supponendo che il male non sia che un bene minore, proprio senza snaturare l'intrinseca verità è possibile esprimere, con un calcolo rigoroso, questa alternativa drammatica che nessuna vita umana evita di dissolvere. Ecco in ipotesi due atti che allo sguardo della coscienza giudico di valore ineguale. Io non so quale dei due è il bene, ma vedo che uno è migliore; è un dovere. Noto questo rapporto di qualità, mettiamo 7 e 13. Io opto per 7. Probabilmente è l'attrattiva facile di un piacere, di un guadagno che mi fa rifiutare 13, laddove sentivo maggiore affanno, uno sforzo necessario, un piccolo sacrificio da fare, perché quello che è meglio non è esente dal richiedere qualche impegno di lotta e di dedizione. 7-13=-6. È sembrato che avessi qualcosa con la fruizione di 7; ed è per questo che la vita più vuota e più indebitata possiede ancora un vacuo sentimento di pienezza e di abbondanza. Ma in realtà ciò che possiedo è -6. Ecco la tremenda, sorprendente e giusta bancarotta dell'azione deficiente! A quelli che non hanno sarà tolto anche quello che hanno. ( Lc 19,26 ) E in verità se scelgo o 13 o 7, riflettendoci, vi posso mettere qualcosa di più. È esperienza incontrovertibile e quotidiana che in un atto che ci appare buono, obbligatorio per noi, oltre a questo piccolo bene relativo c'è altro. Infatti, amandolo e volendolo come si conviene, sono pronto a sacrificarlo a uno migliore, non per il gradimento che vi trovo, perché quello che sembra migliore in sé spesso è più difficile e più penoso per noi. Quindi non è questo bene che voglio e faccio, ma ciò che esso rappresenta; qualcosa che è indeterminato, che non ha posto nel mondo e non ha affatto influenza naturale o attrattiva sensibile; un nulla, che nel linguaggio dei matematici potrà essere chiamato, se si vuole, l'infinito ( l'infinito che non ha segno, e per questo occorre che si prospetti a noi con la mediazione di un motivo particolare da cui dipenderà il carattere positivo o negativo dell'atto ); qualcosa che nella coscienza di tutti non ha neppure bisogno di essere nominato per essere il dovere. Io ho preso 7. Sotto questo simbolo finito ho compromesso tutto quello che sono, tutto quello che dovrei essere. Riprendendo una via condannata, debbo rispondere di ciò che ho rifiutato di conoscere, che ho omesso di sperimentare, rifiutato o temuto di praticare. L'uomo dedito ai piaceri reputa di non essere privo di qualsiasi generosità, di non indebitarsi: 7-13 8 == - 8. Bisogna quindi dirgli e che possiede qualcosa e che perde tutto. E più avverte il misero nulla di quello che ama, più abusa della forza indistruttibile e della luce che ha. A quelli che credono di avere sarà tolto anche quello che non hanno. Indubbiamente l'alternativa non si prospetta a tutti né sempre con uguale chiarezza né con la medesima gravita. Se, nel contesto dell'oggetto che la volontà si propone come fine, essa subisce l'attrattiva del movente che la coinvolge, più di quanto non pensi o non acconsenta all'abuso della sua potenza infinita, l'opzione, anche se perversa, rimane veniale. Ma c'è colpa grave, riflessione mortale quando, in questo bene particolare che si disprezza, si ha il sentimento di respingere al tempo stesso ciò di cui esso non è che l'espressione, ciò che è bene amare e fare. Se sembra più colpevole rubare un milione che un soldo, è perché si sente istintivamente che, dal momento in cui si è risvegliata la riflessione, la violenza della tentazione e l'attrattiva naturale del motivo non sono niente a confronto della potenza che governa l'azione. È vero che con l'impercettibile progresso della perversione l'uomo può giungere al punto di amare quello che chiama il male per il male stesso. Ponendo nel piacere della rivolta o nella provocazione della passione esaltata dalla coscienza della sua illusione l'equivalente di tutto ciò che dovrebbe volere, egli sente che nell'azione indipendente c'è qualcosa di falso e di voluto, e ancor più vi si intestardisce, con l'ostinazione del superbo che non è disposto a subire una smentita né a riconoscere, neppure sotto sotto, il proprio torto. Ma non è frequente, e neppure necessario, perché l'azione sia gravata di morte, che si giunga a questa scienza astratta o a questo amore formale del male. E non costituisce scandalo per il pensiero la sola ipotesi di un male morale e di un male infinito, che sarebbe commesso dall'uomo ignorante e limitato, di un male inescusabile, mentre l'uomo ha tante scuse, per la debolezza dell'intelligenza, la brevità della vita, la deficienza della sua intelligenza? Che significa allora, quando si aggiunge che, se l'uomo rifiuta di trascendere ciò che è dell'uomo puramente uomo, contrae un debito, e un debito che è per sempre incapace di saldare? Nondimeno cerchiamo di capire questa duplice affermazione. - La virtù puramente umana, per quanto buona in se stessa, non ha un valore infinito; essa non ha valore per la felicità integrale, e non porta a compimento il destino dell'uomo. - La colpa puramente umana, e la sola pretesa di non trascendere l'ordine umano, implica un male tale da giustificare non solamente la privazione del bene, ma l'eternità dell'infelicità. Quanto è impellente chiarire questo mistero, poiché tante anime ottenebrate e proterve sono convinte dei due errori esattamente con-trari a queste due verità! II. Se è possibile applicare a un referente limitato l'infinita tendenza della volontà, risulta impossibile distruggere questo carattere di infinitezza in quel referente. È impossibile neutralizzare la forza del movimento, mentre è facile stravolgerne il senso. È impossibile sottrarsi alla grandezza del destino umano, anche se lo si fallisce. Per quanto ci si dedichi completamente all'oggetto del desiderio, per diventare simili a lui, non ci si riduce alla misura dell'idolo preferito, ma l'agente, pur diventando ciò che fa, preserva interamente nella sua azione le esigenze cui non da soddisfazione. Non si tratta di un di più facoltativo al quale si potrebbe rinunciare, rifiutando l'onore per evitare l'onere, o il guadagno per non rischiare la perdita. E non è detto che, siccome ci si crede a posto con la coscienza, lo si sia veramente. Indubbiamente, per una logica occulta e sottile, sembra spesso di riuscire a pacificare l'inquietudine del cuore, a inaridire la piena dei desideri divini e a mettere fuori campo nella coscienza le aspirazioni più naturali. Ma ci vuole uno sforzo e un attento studio, come quando si fissa accuratamente lo sguardo su un vetro coperto di tenui disegni, perdendo di vista per buona parte lo spettacolo delle prospettive lontane. E tuttavia è sempre questo campo di visione confusa che funge da sfondo. Esso getta luce su quelle inezie trasparenti che ci sforziamo di osservare isolatamente e che non vedremmo se al di là non ci fosse la profondità di prospettiva e la luce. D'altra parte è fuori dubbio che, dopo aver sentito il vuoto di ciascuna delle esperienze su cui puntavamo tutto, dopo ciascuna delle delusioni della vita, rinasce la ridente speranza e la perseverante illusione. E infatti in questo vuoto stesso non tutto è vuoto. La più inutile delle azioni è per la volontà almeno un'occasione per saggiare la propria potenza indistruttibile. Quanta intraprendenza e disinvoltura ci vuole talvolta, per ingannare la noia della vita e per nascondere a se stessi l'inutilità delle ore impiegate a " fare quello che si vuole "! Non è vero che, mentre ciascun particolare risulta ozioso, l'insieme sembra che non lo sia? Mentre ogni singolo pezzo del sistema sembra falso e deteriorato, non si arriva forse a saltare con alquanta leggerezza dall'uno all'altro perché non avvenga il crollo? Non è forse vero che una conclusione fondata correttamente su un principio di cui si conosce l'errore finisce per apparire solida e corretta? - Il sofisma di accumulazione o di astrazione è abituato a questo gioco di prestigio. Esso dimostra una sola cosa, che cioè vogliamo infinitamente più di quello che non troviamo dove cerchiamo, ma che cerchiamo unicamente dove vorremmo trovare. Quanti agiscono in questo modo, collocando quello che vogliono esattamente laddove non potrebbe esserci! Sento che qualcuno si scandalizza per l'enorme responsabilità di cui sembra gravato l'uomo, per il peso infinito di atti compiuti con tanta leggerezza che spesso non si sono messe in conto neppure le loro conseguenze prossime. Quale ingiustizia può esservi in quello che si ignora, in quello che si fa quasi senza averlo voluto, in quello che è sproporzionato? Ma proprio questo lamento rappresenta la condanna. Da dove nasce questo grido di ribellione e questo interrogativo di indignazione, se non da un cuore invaghito di luce, perché protesta contro le tenebre, amante dell'equità, perché si erge a giudice del suo giudice? Tanto si ama la giustizia quando si è ingiusti! E in questo amore sconfinato dell'uomo per se stesso, per la sua ragione, il suo diritto e la sua felicità, non c'è forse esattamente la molla dei suoi atti volontari, il principio della loro eterna sanzione? Ma come! L'uomo si impegnerebbe a questo livello senza volerlo e senza saperlo, come se potesse mettere l'infinito nel finito e l'eterno nel tempo? - Eppure questa scusa lo accusa, perché la sproporzione di cui si lagna è l'inverso di quella che crede di intravedere. Gli sembra quasi un tranello, mentre invece è, se così si può dire, una disposizione di favore. In effetti perché parlare della fugace brevità del tempo? Più si avverte che è breve e incerto, più è strano agire come se non dovesse finire, come se fosse tutto. Ammettiamo pure che sia un'apparenza, una forma della sensibilità umana. Ma proprio per questo non c'è scusa a limitare a esso il desiderio e a rinchiudervi l'azione. L'azione non ricade sotto la legge della durata. Se è vero che la critica speculativa ha eroso il valore oggettivo del tempo o dello spazio, ormai da tempo il senso morale e la critica della vita hanno di fatto la loro Estetica Trascendentale. Forse che la retta coscienza non trova con un solo slancio le conclusioni che l'analisi razionale raggiunge faticosamente? L'uomo rispettoso del dovere è emancipato dalle seduzioni della sensibilità e dall'illusione del tempo. E viceversa, procrastinare la conversione non significa volere che ciò che si vuole al presente duri per sempre? Dunque quello che vogliamo deliberatamente, quello che facciamo liberamente di gusto nostro, lo vogliamo e lo facciamo non perché il tempo trascorra, ma nonostante il tempo trascorra palesemente. L'eternità è tutta a ogni istante. Come l'intenzione ha una portata universale, così essa ha un'ambizione intemporale. Vivere come se non si dovesse morire, amare il tempo come se fosse l'eternità, desiderare di godere senza fine di un piacere effimero, e voler rimpiangere unicamente di non poter sempre vivere come si vive: ecco, in questa disposizione della volontà non c'è nulla che ne attenui l'irragionevolezza e l'incoerenza? Abbandonandosi a un piacere miseramente breve, l'uomo nondimeno in questo stesso abbandono conserva la sua aspirazione eterna. Egli vorrebbe per sempre quello che non riesce a cogliere, o anche soltanto a gustare, durante tutta una vita: in suo aeterno peccat. Perciò, per quanto durature appaiano le conseguenze delle azioni umane, nell'unico e indivisibile istante che le ha prodotte c'è di che giustificare non soltanto tutte le loro conseguenze nella durata, ma infinitamente di più. Quindi abbiamo unicamente un'immagine incompleta della loro estensione invisibile, quando questi atti, gettati da una decisione improvvisa nel gigantesco ingranaggio del determinismo universale, vi prolungano la loro eco, quando non si esauriscono interamente nel punto del luogo e del tempo in cui nascono, e talvolta sembrano ingranditi dalla vasta eco del mondo. Questa vastità stupefacente dei loro contraccolpi è come un avvertimento salutare che talvolta, tramite un simbolo visibile, risveglia brutalmente la riflessione, rivelandoci quello che già sappiamo, ma che dimentichiamo sempre, ossia la smisurata portata dell'azione volontaria. Dunque l'uomo si indebita infinitamente proprio perché usa di beni insufficienti come se fossero sufficienti. Perché in lui è infinito il titolare di quell'uso. E la sua disgrazia è di mettere non il tempo nell'eternità, ma l'eternità nel tempo. Non cum tempore transit quod tempera transit: fugit hora, manent opera.8 In tal modo l'atto deliberato e voluto naturalizza l'assoluto nello stesso relativo. Non sapendo chiaramente quello che facciamo, facciamo più di quello che sappiamo, e sappiamo più di quello che facciamo; in modo tale però che, in questo miscuglio di ombra e di luce in cui è avvolto il nostro destino, si cela anche una grazia. Se la gravita della colpa è velata, la forza dell'aiuto lo è ancora di più. Infatti se il male a tutta prima non sembra che un bene minore, ciò avviene perché il bene a sua volta riveste anche le fattezze particolari e la figura attraente di un motivo sensibile, di un atto migliore, di un bene relativo. Ma, in base a queste relazioni apparenti, a queste semplici differenze di grado, stiamo attenti a non tirare conclusioni contro la genuina testimonianza della coscienza. Essa si conserva viva e ardente solo nella misura in cui, secondo l'osservazione di Cariyle,9 ci ricorda con maggiore o minore forza quello che tutti più o meno sappiamo, ossia che sotto quelle approssimazioni della conoscenza c'è una differenza assolutamente infinita tra un uomo per bene e un malvagio. Indubbiamente nella regione intermedia dell'anima solo sfumature di superficie distinguono il tratto normale degli uomini. Come ammettere una responsabilità senza confini in una debolezza senza limiti? Come credere alla malizia infinita di quest'uomo che conosco e che amo, debole, incoerente e infelice? Ma non occorre credervi, perché il compito della nostra ignoranza umana non è la giustizia, bensì l'indulgenza e l'amore. E tuttavia, senza giudicare nessuno - perché il comandamento morale " non giudicate " è assoluto -, penetrate più a fondo, mettete alla prova i cuori. Osservate con la vostra immaginazione quel pezzente che, senza averci mai pensato, morirebbe di fame piuttosto che commettere un atto infame: rozzo com'è, quell'uomo col lembo della sua anima appartiene alla vita eterna. Osservate quel riccone avido che, probabilmente senza alcuno scrupolo, defrauda quello stesso povero. Quale separazione nel giorno del giudizio! E nell'estrema severità delle punizioni di contrappasso non vi sarà niente di arbitrario, di esteriore o di eccessivo! Palesemente non c'è niente di più semplice, di più naturale o di più legittimo che dire alla propria volontà: " Tu non andrai più lontano; non riceverai niente di più alto; non darai niente di ciò che hai; non uscirai da te stessa ". Ecco però che questo atteggiamento di riserva e di attesa racchiude una negazione volontaria e una privazione positiva, st???s??. Per rifiutare qualsiasi dono eminente e confinarci in noi stessi, facciamo uso proprio di quello di cui diamo a intendere di fare a meno. A vederlo dall'esterno, sub specie materiae, l'atto così mortificato sembra senza dubbio limitato e caduco. Ma il grande sbaglio dell'uomo è di usare, per limitarsi, la sua infinita potenza: solo la sua volontà è abbastanza forte per fermare la sua volontà. E se la strada è sbarrata persino a Dio, se l'uomo può ucciderlo, facendo sì che non esista più per l'uomo, ciò avviene perché si serve di lui contro di lui, accettando anzitutto quello che ci vuole di lui per respingerlo. Non pretenda quindi che la sua responsabilità sia lieve, con la scusa di non fare altro che cose limitate e di corto respiro. È colpevole esattamente di non volere altro, di non fare altro che cose limitate, è colpevole di una carenza di desiderio e di amore, la quale non annulla la suscettibilità del suo orgoglio. Insomma è colpevole di volere e di non fare. Noi ci lamentiamo solo laddove non vorremmo che le cose stessero così come sappiamo che stanno. E chi si assegna un valore assoluto, chi ha un amore sconfinato per il proprio benessere mente a se stesso, se si rinchiude in godimenti meschini. Se dunque, nell'insaziabile ambizione dell'egoismo, c'è un motore con un'energia infinita, è per sollevare l'uomo all'infinito. L'ampiezza della colpa si misura dall'energia del movimento più ancora che dal fine cui tende. E l'offesa coglie nel segno solo perché il referente divino dell'offesa è raggiunto dall'offensore con tutta la potenza che deve essere diretta a lui. Quindi il recondito giudizio dell'eternità va ricercato non fuori dell'uomo, ma nell'uomo. Anche quando è condannabile per la presunzione di fare a meno di qualsiasi legge superiore alla propria decisione, l'uomo è ancora la propria legge e la propria condanna. Essendo giudicato in base ai propri giudizi, egli è preso per norma. Non i suoi pensieri, che talvolta sono buoni suo malgrado. Non le sue parole, che rivelano un ideale di solito illusorio. Neppure l'apprezzamento col quale giudica gli altri, per quanto spesso in esso venga definita con imparzialità l'applicazione pratica delle leggi impersonali delle quali egli riconosce il dominio universale e necessario, nel momento stesso in cui forse per parte sua ne esonera se stesso. Ciò che lo giudica è la sua stessa azione. È la forza interna del suo movimento volontario che funge da metro e da sanzione. III. Ma se all'uomo è possibile distorcere il senso e limitare la tendenza infinita della sua volontà, se gli è impossibile rimuoverne le sconfinate esigenze nel momento stesso in cui le disattende, ed escludere ciò che respinge, come comprendere però che una volta ricreduto egli non sia o convertito o distrutto? È concepibile, è necessario che la piena rivelazione del suo oscuro stato non lo cambi, e che la sua disgrazia sia, per sempre, di non essere cambiato? Proprio questo dimostra fino a che punto i veli da cui è avvolto lasciano integro e libero il vigore dell'azione umana. Togliete questi veli, e allora la volontà si determina da sé nella sua opzione, e la contraddizione in cui è caduta rifiutando la vita sovrumana di cui sentiva il bisogno le appare per sempre come opera sua. Non basta allora dire: che giustizia ci sarebbe a sbagliare finché si è potuto farlo, per poi volere che questi sbagli restino impuniti, e rinunciarvi quando non sarebbe più possibile commetterli. Neppure è sufficiente comprendere l'impossibilità di un libero ritorno nel caso di un folgoramento di luce abbagliante: chi non ha voluto quando ha potuto, non potrà più quando vorrà. La cosa da tenere presente è che la stessa volontà nelle sue profondità non si converte, e che, rivelandosi fuori del tempo, l'azione per tutta l'eternità rimane volontariamente quella che è nel tempo. In suo temporis aeterno peccai homo: in suo aeternitatìs aeterno luit.10 La colpa mortale consiste nell'abusare del fatto che l'intero ordine naturale, anche se privato del suo compimento, non può annientarsi, nel cercare in quello che è effìmero una soddisfazione permanente, nel vivere di quello che muore. Nella libera opzione si introduce l'assoluto e l'infinito di una volontà che da un essere ai fenomeni, e che ne fa una realtà sussistente e indistruttibile. L'uomo muore per aver preteso di accontentarsi della durata e di limitarsi alla natura. Non che egli non possa riempire e oltrepassare lo spazio o il tempo; ma ha talmente ingrandito questo dominio dei sensi e della scienza, che potrebbe quasi immaginare di muoversi a suo agio in tale spazio, e di trovarvi una dimora definitiva, se non fosse costretto a uscirne sempre, per amore o per forza, grazie all'ineludibile ammonimento della coscienza, allo scandalo della sofferenza, alla morte. Se morire al tempo gli insegna che cosa significa vivere, è perché questa vita, che non trapassa nel tempo, è esposta alla seconda morte, a quella morte che sussiste per sempre. Fare è stata l'opera di un solo istante; aver fatto e volere è per sempre. Quodfactum est, factum non esse non potest. Questa necessità rivela la presenza dell'essere nello stesso fenomeno. Ecco perché la legge di contraddizione si applica al passato, perché è la legge dell'essere, e sotto le apparenze che si succedono nella nostra conoscenza, si cela l'azione che ne fissa la realtà permanente. Quindi non si tratta più soltanto di porre riparo alle cattive apparenze, al disordine di fenomeni transitori, al male commesso nell'ordine naturale. Non si tratta più soltanto di questa impossibilità umana. Si tratta di ben altra riparazione e, per così dire, di un'impossibilità divina. L'uomo già non ha potuto porre rimedio agli effetti di atti che hanno una ripercussione infinita nel suo organismo e nell'universo. Ma come concepire addirittura che sia possibile porre rimedio al principio di sue azioni volute, cambiarne l'essere e non più il fenomeno? Osservate ora quelle persone presuntuose, cui è sufficiente un barlume di pentimento, una velleità più positiva, un'elemosina da quattro soldi fatta con spirito di vanità e di sentimentalismo, un po' di tempo trascorso perché si siano cancellate le testimonianze sensibili dei loro sbagli, un oblio da parte loro e una sorta di perdono che esse hanno il coraggio di concedere al loro passato, come se provandone rammarico facessero un favore invece di chiederne uno, ebbene è sufficiente questo perché si credano pure, integre, piene di meriti e di bellezza davanti a Dio e davanti agli uomini! Quello che l'uomo può fare, non può distruggerlo. Ma quello che non può costruire, lo può distruggere da solo. Quindi capiamolo una volta per tutte: nell'azione volontaria si opera un segreto connubio tra la volontà umana e la volontà divina. Essere chiamato alla vita della ragione e della libertà significa partecipare alla libera necessità di Dio che non può fare a meno di volere se stesso. Noi pure non possiamo fare a meno di volere noi stessi. L'essere che riceviamo come nostra proprietà peculiare è tale che è impossibile non accettarlo. Non si può abusare di questo dono, non si può far finta di rifiutarlo se non accettandolo già, e usando, per così dire, di Dio contro Dio. Perciò respingere il suo concorso, abbandonare i nostri cuori e le nostre opere all'amplesso dei falsi beni, costituisce un adulterio. Noi possiamo violare, senza mai voler rompere, questa unione che ci costituisce, questo vincolo che noi vogliamo tra noi e lui, come lui l'ha voluto tra lui e noi. Tremenda grandezza dell'uomo! egli vuole che Dio non sia più per lui, e Dio non è più per lui. Ma conservando sempre nel suo fondo la volontà creatrice, vi aderisce tanto fermamente che essa diventa completamente sua. Il suo essere resta senza l'Essere. E quando Dio ratifica questa volontà introversa, è la dannazione. Fiat voluntas tua, homo, in aeternum! Abusare del mondo e corromperlo non è dunque niente a confronto del delitto di cui si grava la volontà depravata: abusare di Dio e ucciderlo nell'uomo, ucciderlo per quanto dipende dall'uomo, inferirgli un colpo divino. Sembrerebbe che non possiamo distruggere da soli quello che non possiamo costruire da soli, ma non è vero. Se il principio della colpa umana è interamente nella volontà colpevole, il suo effetto letale non è limitato totalmente all'uomo. L'azione è una sintesi tra l'uomo e Dio; né Dio solo né l'uomo solo la può cambiare, produrre o annullare. Per porvi rimedio non è sufficiente un decreto dell'onnipotenza. Ci vuole altro. Se il delitto dell'uomo deve essere riparato, ci vuole, se è lecito dire così, che Dio muoia necessariamente. Se il delitto dell'uomo può essere perdonato e cancellato, ci vuole che Dio muoia volontariamente. Ma da solo l'uomo non può farvi nulla. Il suo stato naturale è quello di non essere cambiato. E non essere cambiato significa il fallimento irrimediabile del suo destino. Vediamo adesso che cosa implica, per l'uomo, la pretesa di agire e di vivere con le sole sue forze? La pretesa di camminare, di salire e di rialzarsi da solo e senza aiuto? La pretesa di essere autosufficiente nella propria virtù, nel proprio pentimento, nella propria espiazione? Reputare di trovare in sé la verità necessaria alla coscienza, l'energia per la propria azione e il successo nel proprio destino, non significa soltanto privarsi di un dono gratuito e facoltativo che, una volta respinto o disprezzato, non comprometterebbe però la felicità di una vita normale, bensì significa in verità smentire la propria aspirazione, e col pretesto di amare soltanto se stessi, odiare e perdere se stessi. Perdere se stessi! Comprendiamo la pregnanza di queste parole? Perdere se stessi senza sfuggire a se stessi. Infatti sopprimendo, per sempre, in se stessa, l'ambizione per i beni imperituri, la volontà che si è limitata ai fini transitori rimane nondimeno indistruttibile. E questa volontà immortale, che ha collocato il suo tutto nei beni effimeri, è come morta quando alla fine ne avverte la cruda inanità. Il suo desiderio deperisce; essa dunque avrà voluto per sempre ciò che non può mai essere. Quello che vuole le sfuggirà eternamente, e quello che non vuole le sarà eternamente presente. Essere senza l'Essere, avere il proprio centro fuori di sé, sentire che tutte le potenze dell'uomo, rivoltandosi contro l'uomo, gli diventano ostili senza essergli estranee, tutto ciò non è la conseguenza e il castigo per l'orgogliosa sufficienza di una volontà introversa, la quale ha posto il suo tutto laddove non c'è niente per appagarlo? È una giusta necessità che l'uomo, il cui egoismo ha rotto con la vita universale e col suo principio, sia strappato dal tronco comune. E, fin nelle radici della sua sostanza, egli perirà senza fine, perché tutto quello che aveva amato sarà in qualche modo fagocitato e annientato dalla grandezza del suo desiderio. Chi ha voluto il niente lo avrà e lo sarà, ma non per questo sarà annichililo. Ma allora, perché non l'annientamento totale di coloro che sono separati dalla vita? Perché hanno visto la luce della ragione, perché conservano la loro volontà indelebile, perché sono uomini solo in quanto non possono essere sterminati, perché hanno agito nell'essere e circolato nella vita. E per sempre. Nel loro stato non c'è nulla che derivi da una costrizione esteriore. Essi perseverano nella loro volontà, che è al tempo stesso delitto e castigo. Non sono cambiati, sono morti, e l'essere che hanno è eterno. Come un vivo legato con ambedue le braccia a un cadavere, devono rimanere il loro idolo inerte. E se si dovesse dare in pasto all'immaginazione un simbolo del supplizio interiore che, armando la volontà contro se stessa, contrappone tutte le passioni mortificate dell'anima separata, sarebbe senz'altro ovvio fare ricorso all'immagine del fuoco che dissolve. Se il dolore non è altro che la separazione delle cose vive che sono legate le une alle altre, quale lacerazione più profonda di una fiamma che, alimentata per così dire dalle stesse viscere, non consuma mai quello che disgiunge senza fine! Immagine di quell'anarchia lancinante di un essere decomposto nelle sue fibre intime, nemico di se stesso e di tutto ciò che esiste. E malgrado l'oscurità presente che non lascia presagire la forza penetrante della rivelazione finale, è già nello stato attuale del colpevole che si cela la collera della giustizia vendicatrice. Dietro le montagne con cui si copre egli sa e vuole abbastanza perché non vi siano né sorpresa né iniquità nel terrore di un giudizio che resterà comunque l'opera del primo amore. Prospettando all'uomo un'alternativa e imponendogli un'opzione, il determinismo dell'azione volontaria ha aperto una duplice strada. Ma da qualsiasi parte la volontà si incammini, questo determinismo l'accompagna per fargli produrre tutte le sue conseguenze, e per rivelargli il suo essere necessario. Abbiamo appena visto come l'uomo si perde. Troverà il modo di salvarsi? E per quale direzione imboccherà quella strada della salvezza? Se di fatto la scienza non lo può introdurre ne sostenere su quella via, almeno deve seguire questo nuovo determinismo che sviluppa logicamente le condizioni necessario della vita autentica. 8 La frase ricorreva quale iscrizione sugli orologi solari. Essa deriva peraltro da san Bernardo, De considerazione XII, 26 in op. ci'?.. Ili, 489: " Non transit cum tempore, quod tempera transit". 9 Thomas Cariyle (1795-1881), storico scozzese di tradizione calvinista, esponente della reazione vittoriana contro l'utilitarismo e il mito del progresso meccanico. La sua storiografia prospetta una concezione eroica della storia, e si impegna non tanto nella ricostruzione dei fatti quanto nella loro interpretazione. Celebre per una monografia sulla Rivoluzione francese (1837) e per una serie di opere monumentali, come le due dedicate a O. Cromwell e a Federico il Grande. 10 La frase latina risulta composita: la prima parte è una citazione biblica, la seconda parte è coniata da Blondel. Indice La vita dell'azione Seconda opzione I surrogati e i preparativi dell'azione perfetta L'azione non può confinarsi nell'ordine naturale: non ci sta tutta. E tuttavia, da sola, non può oltrepassarlo. La sua vita è al di là delle sue possibilità. L'uomo con le sue sole forze non riesce a restituire volontariamente ai suoi atti tutto ciò che vi si trova spontaneamente. Se presume di limitarsi a quello che può, se pretende di ricavare da sé quello che fa, si priva del principio stesso della sua vita. Per ristabilire nell'azione voluta la pienezza della sua natura originaria, non occorre forse che egli consenta che la Causa prima vi riprenda il primo posto? Tocca all'uomo cedere il passo. Quello che non sopprime in sé lo uccide. E la sua volontà personale gli impedisce di giungere alla sua volontà autentica. È quindi una necessità per lui riconoscere la propria dipendenza nei confronti di quest'ospite misterioso, di sottomettere la propria volontà alla sua. Deve passare di là. Altrimenti non c'è alcun modo di risolvere il problema, quel problema che egli pone e ratifica col proprio pieno assenso. Vuole che si sia esigenti nei suoi confronti, perché è il segno della grandezza della sua natura, la risposta alla fervida avidità della sua vocazione. Per questo la sua è una ricchezza bisognosa, poiché per lui niente di quello che ha voluto e ha fatto è acquisito, né può sussistere, se non ne trova il possesso e la consistenza in quel Dio presente e nascosto nel cuore di ogni azione volontaria. E quello che in questa sede bisogna chiamare Dio è un sentimento del tutto concreto e pratico. Per trovarlo non occorre rompersi la testa, ma bisogna metterci il cuore. Ma allora, come insediarlo liberamente nella vita umana, perché questa immanenza assecondata del trascendente integri in ultima istanza l'operazione riflessa della volontà, adeguando quello che vuole a ciò che è voluto e posto nell'azione? La volontà umana, in quello che proviene da essa grazie alla riflessione, avverte l'irrimediabile insufficienza del proprio atto, così come l'invincibile bisogno di portarlo a compimento. Contratta nelle sue sole risorse, essa non può fare altro che riconoscere la propria ignoranza, la propria debolezza e il proprio desiderio. Infatti solo riconoscendo la sua impotenza infinita è fedele alla sua ambizione infinita. Quale può essere il modo pratico ed efficace per fare infine ciò che non possiamo fare da soli? E siccome l'atto può essere portato a termine solo se Dio si dona a noi, come sostituire in qualche modo la sua azione alla nostra? Come partecipare alla sua mediazione occulta, senza sapere neppure se lui ha parlato, senza forse conoscerlo chiaramente? Come prestarsi e aprirsi agli equivalenti dell'azione perfetta, e prepararsi, qualora se ne dia una, a una rivelazione più chiara del destino umano? C'è dunque una transizione alla vita? I. Se c'è qualcosa che si reputa buono o per una conoscenza personale o per un insegnamento ricevuto, è necessario aderirvi con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le proprie forze, altrimenti si incorre nella condanna della propria coscienza. Tutto ciò che è conforme alla coscienza, anche se quest'ultima fosse errata senza volerlo, esige dall'uomo un'effettiva dedizione. Per questo certi costumi barbari o certi riti superstiziosi possono fungere da materia per la buona volontà e da veicolo dell'ispirazione salvifica. Ma con quale riserva? Con la riserva che nell'atto particolare e nel simbolo finito l'intenzione vada al di là del simbolo e dell'atto. Di modo che, adempiendo al dovere conosciuto in mancanza di meglio, rimaniamo aperti, pronti e docili a qualsiasi verità più completa. La disposizione di una volontà retta è questa: agire secondo la luce e la forza che si ha, senza limitare la generosità e l'ampiezza del desiderio. Bisogna dunque ritornare alla norma pratica che fin dall'inizio era apparsa come la garanzia dell'autenticità dell'azione e la chiave del destino umano: consegnare se stessi e l'universo a ciò che si reputa il bene. Ma questa norma adesso è giustificata e chiarita. In tal modo è risolta la contraddizione apparente che fa del dovere al tempo stesso il trionfo e il sacrificio della volontà. In effetti da una parte si è riconosciuto che l'intera gerarchia dei beni naturali esprime semplicemente l'anelito più intimo del volere umano, e che aderire a esso a qualsiasi costo significa in definitiva fare ciò che si vuole genuinamente. D'altra parte sembra che ci voglia un sacrificio e quasi un'immolazione mortificante per essere fermamente fedeli agli obblighi morali, mentre è la cosa più naturale del mondo e la più desiderabile. Per essere precisi non si tratta unicamente di fare tutto il bene che vogliamo, nella misura in cui lo vogliamo quasi spontaneamente con un movimento di libera adesione, bona omninofacere. La cosa essenziale e faticosa è fare bene quello che facciamo, ossia con spirito di sottomissione e di distacco, di farlo perché vi sentiamo l'ordine di una volontà alla quale si deve sottomettere la nostra, bene omniafacere. Così si spiega che i precetti morali ci sembrino molto meno la formula del nostro volere ( e tuttavia lo sono, in un senso estremamente vero ) che l'espressione di un'autorità sovrana, verso cui nostro primo dovere è riconoscere il suo diritto su di noi. Riflettiamoci infatti: più la morale scientifica dimostrerà di essere conforme agli autentici interessi dell'uomo o di risultare dalle esperienze positive accumulate dalle generazioni ( e questo è esatto ), più sarà necessario chiarire come mai soltanto l'uomo, per un'inclinazione al male, va contro il proprio bene, allontanandosi dalla tradizione sperimentata. Se quindi, in quello che è il bene e il suo bene, egli misconosce il proprio bene respingendo il bene, ciò avviene perché in realtà vi vede a ragione una volontà altra dalla sua, e per accoglierla pienamente ha bisogno di abnegazione. Senza dubbio è grazie a un impulso naturale che la ragione provvede ai bisogni e agli interessi legittimi, non tanto perché sono interessi quanto perché sono legittimi. È grazie a quell'impulso che presta ascolto ai sentimenti generosi, non tanto perché allettano la sensibilità quanto perché sono generosi. L'intera gerarchia di questi beni naturali è una sorta di scala apprestata per le ascensioni della volontà. E tuttavia, se non facciamo altro che quello che ci alletta e ci sembra vantaggioso, non andiamo lontano nella via del dovere, o meglio non vi entriamo davvero,. Non vi entrano neppure gli uomini e i popoli che preservano la dignità del loro contegno solo in quanto hanno coscienza di imporre a se stessi i loro obblighi specifici. In verità è più facile obbedire alla legge che ci facciamo da noi e piegare la volontà davanti alla sola volontà. Ma ciò significa sottrarre alla vita morale tutto il fondamento di umiltà e di abnegazione che le è necessario. Stando alla testimonianza immediata della coscienza, l'azione è buona quando la volontà, per compierla, si sottomette a un'obbligazione che esige da essa uno sforzo e, diciamo così, una vittoria su se stessa. E questa testimonianza è fondata, perché di fatto c'è un bene autentico solo laddove sostituiamo a tutte le attrattive, a tutti gli interessi, a tutte le preferenze naturali della volontà una legge, un ordine, un'autorità assoluta, laddove facciamo entrare nei nostri atti un'iniziativa diversa dalla nostra. Unus est bonus Deus. Il dovere è il dovere soltanto nella misura in cui si obbedisce intenzionalmente a un comandamento divino. Si tratta di una sottomissione pratica che peraltro è indipendente dalle affermazioni o dalle negazioni metafisiche. C'è un modo di servire Dio senza nominarlo e senza definirlo, e questo è " il Bene ". Perciò il disinteresse morale è assoluto, anche per chi sa scientificamente che il suo interesse supremo consiste nel bene. Perché è impossibile che, aderendo agli obblighi della coscienza, non si abbia la sensazione di rinunciare alla nostra volontà peculiare. È impossibile che, obbedendo alla legge, non ci sembri di sacrificare per sempre, senza un tornaconto e senza una perequazione precisa, i piaceri attraenti, il cui fascino maggiore consiste probabilmente in questa illusione, che lasciandoli cadere ci si preclude per sempre quel mondo infinito di godimenti nel quale l'uomo sembra non dovere niente se non a se stesso. È impossibile che, rimanendo fedeli a qualsiasi costo al patto divino, nel momento critico della decisione e nelle angustie dell'azione spesso tribolata come un parto, non smarriamo il sentimento di lavorare per noi, e persino di lavorare per un padrone partecipe e compassionevole; come se, sordi, fossimo costretti a cantare davanti a un sordo o per uno che è assente. Agire per quello che non è niente all'occhio dei sensi e persino della mente costituisce quell'apparente follia che esige la ragione quando arriva fin dove deve arrivare. Pertanto, qualunque sia il valore naturale del motivo che sollecita la volontà, è necessario in qualche modo ammortizzarlo, prima di restituirgli un valore veramente morale. Tale valore non sarà più fondato sul grado di conformità di questo motivo col nostro volere personale, ma sul suo carattere propriamente obbligatorio e imperativo. Sta sine electione et elige. Esiste un solo modo di conciliare i contrari e di dominare i desideri opposti: quello di sacrificare le diverse alternative, anche quelle che sceglieremo, di recuperarle unicamente con un sentimento superiore all'attrattiva naturale che ci sollecitava. Altrimenti sarebbe troppo doloroso avere delle preferenze, dissolversi col tempo, sentirci sfuggire tra le mani una parte seducente e buona della realtà. Acquisiamo il merito di equiparare tutto, di amare tutto e di ridurre tutto a nulla di fronte al bene infinito, in modo da diffondere in tutto la presenza esclusiva di questo assoluto. L'autentica libertà interiore consiste nel non farsi mai determinare dalla passione, sia pure la passione del bene, nel tenersi sempre pronti, qualunque cosa si desideri, a compiere l'atto contrario, in modo tale che, se è bene, si ritorna all'inclinazione originaria soltanto con un cuore cambiato; consiste nel desiderare addirittura di avere piacere per tutto quello che si sacrifica e ripugnanza per tutto quello che si fa. In un certo senso quindi il distacco perfetto e universale ci congiunge in maniera assolutamente genuina a tutto, senza vincoli e senza disistima, perché ci rende al tempo stesso perfettamente indifferenti alle forme particolari dell'azione e del tutto dediti al grande e supremo motivo che solo trasmette a tutti gli altri e ai più insignificanti il suo valore infinito. Che importanza ha una differenza di grado, a confronto di Dio che ci destina a lui, e di fronte al quale tutto è buono e tutto è cattivo, a seconda che lo riferiamo a lui o che lo rifiutiamo a lui? Non che ci dobbiamo disinteressare assolutamente del contenuto naturale degli atti umani. Infatti, se questi atti finiti devono esprimere e realizzare il bene che non sussiste se non in quanto è infinito, ciò avviene a condizione che compiamo il migliore, perché è il migliore che funge da involucro transitorio e sempre mutevole del bene stesso. Un miliardo o un centesimo che cosa sono a confronto di un'azione buona? Che cos'è il mondo intero? Lo sentiamo bene. E in tutte le cose che riguardano noi stessi non dobbiamo forse giudicare come se si trattasse di un altro, o come se fossero in gioco gli affari di stato di Amenofi a centomila anni e a centomila leghe di distanza, sul piano dell'assoluto e dell'universale, facendo calare l'azione dalle serene profondità dell'eternità, quasi appartenesse al regno dei morti? È dunque necessario che l'idea di infinito divenga viva in noi, che sia voluta e praticata, che agisca e regni in noi, che in qualche modo si sostituisca a noi. Essa può farlo sempre, e noi dobbiamo consentirglielo. Assolviamo quindi al nostro compito, che è quello di abbandonare la nostra angusta visuale individuale per realizzare in noi l'assoluto e noi nell'assoluto, quello di immettere l'universale in ogni forma particolare della nostra vita, in modo da dare un valore infinito al relativo e al particolare. La libera necessità che costituisce il carattere dell'azione divina non è forse anche l'ideale dell'azione umana? L'azione umana non deve lasciare fuori di sé nulla di quello che costituisce l'uomo. Essa fa vivere tutto quello che c'è in lui, coniuga tutte le sue tendenze contrarie, e lo eleva al di sopra delle opposizioni contingenti che frammentano la sua coscienza. Ma non può restaurare quella perfetta semplicità se non rimuovendo la volontà propria, per restituire al bene che la sollecita attraverso aspetti particolari il suo carattere assoluto e totale. Chi non possiede più una volontà propria fa sempre la sua volontà, e proprio non volendo niente, ci si trova ad aver fatto quello che si è voluto. La tentazione sempre insorgente nel cuore dell'egoista si esprime in questo rigurgito dell'orgoglio e della sensualità: " Fa' cosi; puoi farlo, perché la tua natura è unica, perché la circostanza è straordinaria, perché le norme comuni non si applicano a te ". Questo è un sofisma della passione, alla quale presta ascolto la persona presuntuosa sempre pronta a etichettare ogni suo passo e a far mettere tutto in ginocchio davanti a ogni battito del suo cuore. Al contrario l'azione buona è quella che nell'uomo stesso trascende e immola l'uomo. Ogni volta che compiamo un dovere dobbiamo sentire che esso ci strappa la vita, sostituisce la nostra volontà e suscita in noi un essere nuovo. Infatti bisognerebbe morire piuttosto che non compierlo, e vivere per assolverlo già implica che un altro vive in noi. Ogni atto è come un testamento. Bisognerà certo avere il tempo di morire: bisogna vivere come se si stesse per morire, con quella semplicità che va dritto all'essenziale e al vero. Quindi è assolutamente buono e voluto soltanto quello che non siamo noi stessi a volere, ma che Dio vuole in noi e da noi. Ma, se in quello che vogliamo con la migliore intenzione, nell'azione che più è conforme alla nostra aspirazione intima, c'è già una mortificazione, che sarà di tutto quello che contrasta, umilia e mortifica il volere? Se, per agire bene, bisogna sopportare di essere sostituiti da una volontà, conforme certo, ma superiore alla nostra, ciò non avviene forse perché nella stessa sopportazione, in tutto ciò che ripugna alla nostra natura, c'è bisogno di un'azione più coraggiosa, per far rientrare anche il dolore e la morte nel piano volontario della vita? Ma non avviene altresì perché questa mortificazione è la verifica autentica, la comprova e l'alimento dell'amore generoso? Non amiamo il bene, se a causa sua non amiamo ciò che vi è di meno amabile. Laddove siamo meno presenti, il bene è padrone. II. Se all'origine dell'azione buona c'è un principio di rinuncia, di passione e di morte, non sorprende che in tutto lo sviluppo della vita morale si incontri costantemente la sofferenza e il sacrificio. Si è già visto come la sofferenza serva a stimolare lo sviluppo della persona, come sia un mezzo di formazione, un segno e uno strumento di risarcimento o di progresso. Essa ci libera dall'illusione di volere il meno per assurgere a volere il più. Ma accettare la stessa sofferenza, acconsentirvi, ricercarla e amarla, farne il segno e l'oggetto stesso dell'amore generoso e distaccato, collocare l'azione perfetta nella cornice della passione dolorosa, essere attivi fino alla morte, fare di ogni atto una morte e della morte stessa l'atto per eccellenza, tutto questo costituisce un'apoteosi della volontà che sconcerta comunque la natura, e che di fatto genera nell'uomo una vita nuova e più che umana. L'accettazione della sofferenza dà la misura del cuore dell'uomo, perché essa costituisce in lui l'impronta dell'altro. Anche quando proviene da noi per insediarsi, col suo aculeo lancinante, nella coscienza, ciò avviene sempre nonostante l'aspirazione spontanea e l'impulso originario del volere. Per quanto sia prevista, per quanto ci esponiamo in anticipo ai suoi colpi con rassegnazione, per quanto possiamo essere sedotti dal suo fascino austero e vivificante, essa nondimeno rimane un'estranea e un'importuna. È sempre diversa da come ce l'aspettavamo. E sotto i suoi assalti anche colui che l'affronta, che la desidera e l'ama, non può esimersi di odiarla al tempo stesso. Essa uccide in noi qualcosa per mettervi qualche altra cosa che non è nostra. Ed ecco perché ci rivela quello scandalo della nostra libertà e della nostra ragione: noi non siamo ciò che vogliamo. E per volere tutto quello che siamo, tutto quello che dobbiamo essere, occorre che comprendiamo e accettiamo la sua lezione e la sua benedizione. Pertanto la sofferenza in noi è come una seminagione: grazie a essa entra in noi qualcosa, senza di noi e nostro malgrado. Accettiamolo quindi, prima ancora di sapere che cos'è. Il contadino lascia cadere la sua semente più preziosa, la nasconde sotto terra, spargendola al punto che sembra non ne resti niente. Ma proprio perché il seme è sparso, resta e non lo si può portare via, marcendo per essere fecondo. Il dolore è come questa decomposizione necessaria alla nascita di un'opera più piena. Chi non ha sofferto per una cosa non la conosce e non l'ama. E questo insegnamento si sintetizza in una parola, ma ci vuole del fegato per intenderla. Il senso del dolore è di rivelarci quello che sfugge alla conoscenza e alla volontà egoista, di essere la via dell'amore effettivo, perché ci sottrae a noi per darci agli altri e per spronarci a donarci agli altri. Infatti esso non opera in noi il suo benefico effetto senza un concorso attivo: costituisce una prova perché costringe le disposizioni recondite della volontà a manifestarsi. Guasta, inacidisce e indurisce coloro che non riesce a intenerire e a migliorare. Rompendo l'equilibrio della vita indifferente, ci mette in grado di scegliere tra quel sentimento personale che ci porta a ripiegarci su noi stessi escludendo con violenza ogni intrusione, e quella bontà che si apre alla tristezza che feconda e ai germi apportati dai grandi acquazzoni della prova. Ma la sofferenza non è soltanto una prova, è una prova d'amore e un rinnovamento della vita interiore, come un bagno rigenerante per l'azione. Essa ci impedisce di acclimatarci in questo mondo, e ci lascia vivere nel mondo quasi con un malessere incurabile. In effetti che cosa significa acclimatarsi, se non trovare il proprio equilibrio nell'ambito angusto in cui si vive fuori del proprio ambiente? Quindi sarà sempre una novità dire: ovunque ci giriamo, ci troviamo male. È bene avere questa sensazione. Il peggio sarebbe non soffrire più, come se si fosse trovato l'equilibrio e si fosse già risolto il problema. Senza dubbio nella calma di una vita ordinaria o nel raccoglimento della speculazione spesso la vita sembra aggiustarsi da sola. Ma di fronte a un dolore reale non vi sono belle teorie che non risultino inutili o assurde. Quando ci si accosta a qualcosa di vivo o di sofferente, i sistemi risultano vacui, le idee inefficaci. La sofferenza costituisce il nuovo, l'inspiegabile, l'ignoto, l'infinito che trapassa la vita come una spada rivelatrice. Perciò si scopre una specie di reciprocità o, per così dire, di identità tra l'amore autentico e la sofferenza attiva. Infatti senza l'educazione del dolore non si arriva all'azione disinteressata e coraggiosa. L'amore ha per l'anima gli stessi effetti che la morte ha per il corpo: trasferisce colui che ama in quello che ama, e quello che è amato in colui che ama. Amare significa quindi amare di soffrire, perché significa amare la gioia e l'azione dell'altro in noi. Si tratta di un dolore amabile e persino prezioso, cui acconsentono coloro che lo provano e che non lo scambierebbero con tutta la dolcezza dell'universo. Se per l'uomo soffrire è bene, non lo è per convenzione, ma per una ragione ricavata dal fondo delle cose. Capire bene che il dolore produce la gioia infinita e autentica non significa forse aver risolto la difficoltà ultimativa della vita e aver soppresso lo scandalo più acuto per la coscienza umana, offrendo in fin dei conti alla nostra volontà quella grande consolazione di poter approvare tutto? Quando si possiede il segreto di trovare la dolcezza nella stessa amarezza, allora tutto è dolce. Ma non è ancora sufficiente. Se la sofferenza è la verifica e la prova della volontà generosa e intrepida, è perché essa a sua volta è l'effetto e come l'atto medesimo dell'amore. Infatti, se è vero che siamo più laddove amiamo che non laddove siamo, ossia laddove la nostra volontà personale è ricoperta e sostituita da una volontà contraria, è evidente che ogni movimento dell'interesse personale non è più un guadagno, ma una perdita, e che qualsiasi arricchimento apparente diventa un impoverimento reale. Lo spettacolo delle gioie e dei festeggiamenti è amaro per il cuore in angustie. Così ogni gratificazione troppo assaporata è penosa per colui che ama il bene più del proprio bene. La privazione, non l'appagamento, è fonte di gratificazione. Infatti l'inquietudine degli uomini eguale anche nelle condizioni più disparate è una verità gravida di insegnamenti. Non appena si forma l'equilibrio, in uno stato di fortuna o d'animo, per quanto basso o alto che sia, non vediamo altro che quello che rimane da desiderare, e la minima mancanza pare un vuoto infinito; e lo è. Se si riesce a colmare questo vuoto, la stessa impressione insorge di nuovo ancora più inquietante, a dimostrazione che tutti i godimenti e tutti i possessi attuali sono ugualmente privi di valore a confronto del bene che auspichiamo. Quanto dunque è più saggio orientare le nostre aspirazioni in senso inverso di coloro che vanno in cerca di queste gratificazioni deludenti! È senza dubbio costoso, ma salutare, amare tutto ciò che ci mette sull'avviso della nostra grandezza insaziabile, preferire il meno al più e le privazioni che saziano ai piaceri che incentivano la fame, essere contenti nel sentimento della nostra carenza. La sofferenza è la via che procede e che si inerpica, e per andare molto avanti basta senz'altro voler farsi portare. La felicità non consiste in quello che abbiamo, ma in quello di cui facciamo a meno e ci priviamo. Perciò, anche il bene che facciamo, occorre farlo come se non fosse nostro. A tutti i livelli il sacrificio della volontà personale costituisce per l'uomo la via maestra della vita. Quello per cui ci priviamo, vale infinitamente di più di quello di cui ci priviamo. Praticare questo metodo rigoroso di mortificazione equivale a mettere in evidenza e in libertà quella piccola eccedenza di forza che in noi trascende tutte le potenze naturali. Non si guadagna l'infinito come se fosse una cosa, ma solo col vuoto e con la mortificazione gli si apre un varco in noi. E basta avere un minimo di magnanimità e di avidità spirituale per godere più di quello che non si possiede che di quello che si ha. Quindi non appagarsi di niente che sia finito è il segno di una volontà genuina e coerente con la sua pristina generosità. Essa non solo accetta la sofferenza causatagli dall'azione degli altri come un dono doloroso e istruttivo, ma con la propria iniziativa, e dilatando tutte le sue possibilità di amare, crea in sé una specie di passione volontaria e di morte permanente. Lungi dal farsi piccola, quasi per evitare troppi contatti quando si modella sulle circostanze, essa si ingrandisce senza misura per essere ovunque alle strette come sotto una pressa. L'uomo, con la sua intenzione deliberata, adegua la pienezza della sua aspirazione spontanea solo a condizione di annullare la propria volontà, instaurando in se stesso una volontà contraria e mortificante. Non che cessi di sentire, fin nella carne viva, il tormento della sua natura amante dell'indipendenza, perché la radici riposte dell'amor proprio, continuamente tagliate e sempre risorgenti, non possono andar distrutte. Ma neppure deve trattare il suo nemico interiore con una specie di collera e di asprezza violenta, perché il sacrificio, invece di indurire il cuore, spesso rende più teneri i sentimenti che reprime. Non fare niente di quello che si sceglierebbe, e farlo con grazia e dolcezza, significa avere in sé una volontà altra dalla propria, significa essere morti, ma per essere già risuscitati alla vita, e attingere il principio dell'azione alla sua scaturigine. La mortificazione quindi costituisce l'autentica sperimentazione metafisica, quella che investe l'essere stesso. Quello che muore è quello che impedisce di vedere, di fare, di vivere; quello che sopravvive è già quello che rinasce. Sopravvivere a se stessi rappresenta la verifica della volontà buona. Essere morti non sarebbe niente; il vero capolavoro dell'uomo è questo: sopravvivere a se stesso, sentirsi spogliato delle proprie gioie intime e dei propri gusti di indipendenza, essere in questo mondo come se non ci fosse, trovare per tutti gli impegni umani più entusiasmo nel distacco di quanto non se ne possa attingere alla passione. Tanta gente vive come se non dovesse mai morire; ma questa è un'illusione. Bisogna vivere come se fossimo morti; è questa la realtà. Se mettiamo nel conto questo infinito della morte, come tutto cambia di segno! E quanto è poco avanzata la stessa filosofia della morte! Il fatto è che niente surroga la pratica di questo metodo delle rimozioni volontarie. Quante poche persone l'hanno sperimentato! Quanti vorrebbero strappare alla sua presa proprio quello che bisogna consegnarle, senza immaginare che la morte può e deve essere l'atto per eccellenza! È questo il segreto del sacro terrore che la coscienza moderna prova, come l'aveva sentito l'anima antica, accostandosi al divino, al suo solo pensiero. Se nessuno ama Dio senza soffrire, nessuno vede Dio senza morire. Nulla viene a contatto con lui senza essere risuscitato; perché nessuna volontà è buona, se non è uscita da se stessa, per lasciare tutto lo spazio all'invasione totale della volontà di Dio. Indubbiamente non è necessario, anzi addirittura non sempre è utile, conoscere la ragione e il beneficio di questa misteriosa sostituzione operata dalla sofferenza accettata con coraggio, ottenuta dalla generosità di un cuore di cui nulla di finito circoscrive l'aspirazione, compiuta dalla morte che viene affrontata o subita con magnanimità. Questo che è lungo da spiegare, difficile da giustificare, spesso nella pratica richiede solo un semplice sforzo capace di compendiare e di trasfigurare tutta un'esistenza. Quanto poco ci vuole per trovare accesso alla vita! Un minimo atto di dedizione, in una forma popolare e talvolta infantile, è probabilmente sufficiente perché in un'anima venga concepito il germe divino, e venga risolto il problema del destino. III. Ma per preservare intatto il pudore della coscienza, e quella sincerità generosa che altro non è che una volontà perfettamente coerente con se stessa, rimane essenziale un'ultima disposizione. Compiere tutto il dovere che sappiamo e che possiamo, dovessimo arrivare fino allo spargimento del sangue, soffrire e morire per guadagnare ciò senza cui nessuna vita merita di essere vissuta, ecco, tutto questo è bene, ma è insufficiente. Dopo aver fatto tutto senza aspettarci nulla da Dio, bisogna aspettarsi tutto da Dio come se non avessimo fatto niente da noi. C'è quindi da temere quella riposta presunzione che rappresenta un ritorno ultimativo della volontà propria. Volentieri ci persuadiamo che le sole forze umane riescano, in forza di qualche necessità naturale, a portare a termine la grande opera della salvezza. No, esse non portano a termine questa enorme fatica, perché non la cominciano neppure. Reputare che la rinuncia alla propria volontà da parte dell'uomo costituisca una sua opera originale, convincersi in fin dei conti che questa abnegazione sia perfettamente valida, espiatoria e salvifica, significa ancora una volta regredire all'illusione iniziale, equivale a perdere di vista la verità del Dio vivente e trattarlo ancora come un oggetto inerte, opera della mano dell'uomo e materia docile al suo arbitrio, insomma significa donarlo a se stessi, non donarsi a lui. È dunque necessario ( qui sta la difficoltà della via stretta che conduce alla vita ) accordare queste due disposizioni pratiche: fare tutto quello che possiamo, come se dovessimo contare unicamente su di noi; ma allo stesso tempo convincerci che tutto quello che facciamo, per quanto necessario, è radicalmente insufficiente. La forza e la luce che abbiamo non ci potrebbero appartenere legittimamente se non in quanto lo riferiamo anzitutto al suo principio. In un certo senso l'azione deve essere tutta dell'uomo, ma in prima istanza è necessario che sia voluta come se fosse tutta di Dio. In questa perfetta sintesi dell'uno con l'altro non si può dire che la prima parte dell'atto viene dall'uno e la seconda dall'altro. No, ciascuno deve agire per il tutto. Solo a questa condizione c'è comunione tra le due volontà. L'una non può nulla senza l'altra. E tuttavia l'azione, essendo opera comune, procede interamente da ciascuna. Non basta quindi concepire buoni desideri e nobili intenzioni, aspettando, per eseguirli, di essere mossi da un'ispirazione estranea. Non basta che la volontà sia incinta, occorre che abbia partorito. Non viviamo nel regno di quello che vorremmo fare; perché è il regno di quello che non facciamo e che non faremo mai. Bisogna agire, anche laddove la pusillanimità ci convince che è impossibile. Come non dobbiamo fare assegnamento senza riserve sulla solidità degli atti compiuti, perché quello che in essi viene dall'uomo è sempre esposto al deperimento, allo stesso modo non bisogna diffidare delle opere future, perché dobbiamo sempre attendere un soccorso e una collaborazione onnipotente. È sempre il medesimo sentimento che conduce l'uomo a quella timorosa circospezione riguardo al passato in cui si è impegnato, e a quella coraggiosa iniziativa di fronte al futuro in cui deve considerare che un altro da sé è già presente. Allora di fronte al problema del suo destino l'unico atteggiamento che convenga all'uomo è quello di agire per quanto è possibile, secondo la forza e la luce che possiede, ma con la coscienza di non trovare in se stesso il principio, il mezzo e il fine della sua azione, di non ritenere mai di essere arrivato alla fine, di ricominciare sempre daccapo con lo slancio del giovane soldato e il timido entusiasmo del novizio. Il dovere è di cercare senza scoraggiarsi, perché non cercheremmo se non avessimo già trovato quello che non raggiungiamo mai fino in fondo, e che invece perdiamo quando presumiamo di averlo a portata di mano. Quindi mentre agiamo nel miglior modo possibile, dobbiamo desiderare ulteriormente il bene che non conosciamo e che non facciamo. Dobbiamo vivere col sentimento che il presente non è una dimora permanente, ma un luogo di passaggio e quasi un trapasso continuo. Dobbiamo vivere con la paura di adeguarci fin troppo a questa vita morente, fruendo della dose di pace che essa offre alle persone miti e a quelle navigate. Indubbiamente in questo modo dobbiamo sopportare il peso di un giogo. Tuttavia, questo fardello della vita morale, pur essendo pesante quando lo vagliamo e lo solleviamo, diventa leggero via via che avanziamo, e rende leggero tutto il resto. Onus cuncta exonerans. Così come per l'uccello le piume che porta, lungi dall'essere un peso, lo sollevano. Ma se in tal modo l'uomo deve proiettare i suoi atti al di là del tempo e dello spazio, fuori del finito e fuori di se stesso, ciò non, avviene per un'inconsistenza del desiderio o per un appetito da infermo, che non potrebbe tollerare niente di solido, pur essendo sempre affamato. Infatti questa inquietudine tenace è positiva solo nella misura in cui stimola l'attività presente, proprio mentre non ci consente mai di limitarci a essa. È l'azione stessa che deve somministrarci, insieme al cibo che sazia, quella energia ricostituente tipica della salute e quella fame insaziabile che è il segno di una volontà sana e integra. È necessario che noi collochiamo fuori di noi l'origine di questo movimento volontario, incluso il nostro desiderio di concepire buoni desideri. Anche quando ci limitiamo a chiedere di possedere di che donare, questa preghiera non proviene interamente da noi, e non è una preghiera se non in quanto contiene almeno implicitamente questo riconoscimento. All'iniziativa assoluta dell'uomo è necessario sostituire liberamente, essendovi implicata necessariamente, l'iniziativa assoluta di Dio. Non è in nostro potere di conferirci questo potere, né di consegnarci a noi stessi. Il nostro compito è fare in modo che Dio sia tutto in noi, così come lo è da sé, e di trovare alla stessa scaturigine del nostro consenso alla sua azione sovrana la sua presenza efficace. La vera volontà dell'uomo è il volere divino. Riconoscere la propria passività radicale è per l'uomo la perfezione dell'attività. A chi riconosce che Dio fa tutto, Dio concede di aver fatto tutto; ed è vero. L'unico metodo per guadagnare l'infinito è quello di non appropriarsi di nulla. Egli è presente ovunque noi non ci apparteniamo più. Ma anche qui, soprattutto qui, come questa disposizione salvifica è indipendente dalla scienza astratta che possiamo averne! Perché la sincerità sia integra, è necessario e sufficiente che agendo come meglio sappiamo ci fondiamo, col desiderio e con l'intenzione, su colui, conosciuto o ignoto, che solo può ispirare, sostenere e perfezionare l'abbozzo di creatura che noi siamo. Noi non abbiamo né la forza di fare, quando si tratta di compiere una buona azione, né il mezzo per espiare, quando si tratta di rimediare a una mancanza volontaria. È quindi necessario riconoscerlo per rimanere nella verità. La verità si espande solo nei vasi vuoti. Se gli operai dell'ultima ora sono chiamati a riscuotere il compenso quasi senza aver lavorato, è perché prima non sono stati assunti da nessuno e non hanno avuto affidato alcun compito. Perciò è necessario che in fondo al cuore rimanga sgombro un cantuccio da dove l'ospite ignorato e desiderato arrivi a toccare l'anima. Egli può donarsi solo laddove gli venga fatto posto. Ma, in mancanza di ogni altra evidenza a suo riguardo, quanta rettitudine e generosità autentica presuppone quel sentimento di bisogno che si ha della sua operazione! Per invocarlo così ancora prima di conoscerlo, bisogna essere rimasti fedeli fino in fondo alla genuinità del buon volere: disposizione estremamente semplice questa, che può essere prodotta da un solo istante, forse da un semplice impulso del cuore, ma che abbraccia l'infinito. Sembrava che lo sforzo supremo della volontà fosse quello di sacrificare tutto quello che ha e tutto quello che è. Ed ecco invece che questo stesso sforzo è insufficiente, qualora ce ne attribuissimo il merito o ne ammettessimo l'efficacia. È fuori dubbio che questa è la via sicura e dritta per amare l'invisibile; per desiderare al di sopra di tutte le cose quello che rinunciamo a possedere al presente; per perdere tutto al fine di salvare l'unica cosa che conti e che meriti di essere; per morire, se necessario, al fine di vivere, perché sembra impossibile giungere all'essere senza attraversare la morte: è il consenso dell'uomo all'assoluto, è la partecipazione del nulla che noi siamo alla vita reale grazie all'oblazione della vita apparente. E tuttavia tutto questo è niente ancora senza la coscienza dell'impotenza naturale, dell'impossibilità stessa in cui versa l'uomo di raggiungere con le sue sole forze il suo fine necessario. Aristotele ne aveva un presentimento, quando diceva: nell'uomo c'è una vita migliore della vita dell'uomo. E questa vita non può essere alimentata dall'uomo. È necessario che qualcosa di divino abiti in lui. A rigore la nozione del soprannaturale è questa: assolutamente impossibile e assolutamente necessario all'uomo. L'azione dell'uomo trascende l'uomo; e lo sforzo supremo della sua ragione consiste nel vedere che egli non può, che non deve circoscriversi a essa. È un'attesa sincera del messia ignoto, un battesimo di desiderio che la scienza umana è impotente a provocare, perché questo stesso bisogno è un dono. La scienza può mostrarne la necessità, non può farlo nascere. In effetti se bisogna istituire una associazione reale e cooperare con Dio, come presumere di riuscirvi, senza riconoscere che Dio rimane padrone assoluto del suo dono e della sua operazione? Questo riconoscimento è necessario, ma cessa di essere efficace, se non facciamo appello al mediatore ignorato, se ci chiudiamo al salvatore rivelato. * * * Mostro come l'idea stessa di una Rivelazione rientra nello sviluppo interiore della coscienza umana, di modo che, venendo dal di fuori, non può tuttavia agire al di dentro che in forza di una congruenza previa. - Indico a quali caratteri questo dato, in apparenza esteriore, deve la sua autorità e il suo credito intrinseco. - Infine faccio vedere quale ne è l'utilità: è necessario che essa abbia una funzione e un'efficacia pratica, se vogliamo che la misteriosa conoscenza dell'incomprensibile rivelato abbia un senso e in qualche modo si umanizzi. Essa pure quindi viene a inquadrarsi nel dinamismo dell'azione. La scienza umana non deve indagare se è reale o persino se è possibile, ma deve mostrare, in nome del determinismo, che è necessaria. Indice Il compimento dell'azione Parte V Il termine del destino umano L'azione non si completa nell'ordine naturale. Ma il solo termine del soprannaturale non costituisce lo scandalo della ragione? E il solo atteggiamento del filosofo di fronte a una tale incognita non è quello di ignorarla o, in maniera più decisa e più schietta, di negarla? - No. Negarla o ignorarla è proprio il contrario dello spirito filosofico. Lungi dall'invadere un campo riservato, bisogna mostrare che qualsiasi invasione reale è impossibile. Da questa stessa impossibilità scaturisce una relazione necessaria. E tocca proprio alla scienza razionale indagare sull'indipendenza assoluta e sulla necessità di quest'ordine superiore. Proprio a proposito del soprannaturale è quanto mai giusto ripetere l'espressione di Aristotele riguardante la filosofia prima: " Se non si deve filosofare, si deve appunto filosofare ". Non si può mettere da parte la metafisica se non con una critica metafisica. E allora la pretesa di pronunciarsi contro quello che in ipotesi è estraneo all'ordine filosofico non eccede forse, in questo suo giudizio sommario, la competenza filosofica? Allo stesso modo due proposizioni superano lo stretto ambito di diritto della scienza puramente umana: " Non è ". - " È ". Ora, dimostrare che è impossibile alla filosofia respingere o costituire con le sole sue forze una verità, un'azione, una vita superiore alla natura, è ancora di spettanza del filosofo. E tuttavia questa critica in apparenza del tutto negativa, la quale rimane sul terreno stesso di coloro che presumono ignorare quello che in effetti negano, ha necessariamente un risultato assai positivo. Assodare che è impossibile avanzare su questo argomento una negazione valida significa di fatto appurare, non tanto che " è " ( essendo la fede, in ipotesi, un dono gratuito ), ma che " è possibile ", poiché non è possibile dimostrare che è impossibile. Peraltro non bisogna credere che la supposizione del soprannaturale sia puramente arbitraria. Se lo fosse, si sarebbe autorizzati di fatto a lasciarla cadere come una finzione chiaramente inconsistente. Ma tutto il discorso fatto in precedenza ha come risultato di indurre in noi la coscienza di una sproporzione insanabile tra l'impulso della volontà e il termine umano dell'azione. Perciò, studiando le condizioni dell'autenticità integrale, cercando di definire le disposizioni di una volontà totalmente buona e conseguente, non abbiamo ritenuto di intravedere che ci fosse un continuo sottinteso? A riprova, non tanto che questa indagine nascondeva un secondo fine o intenzioni artefatte, ma che corrispondeva al movimento recondito di una coscienza che, precorrendo il lento cammino dell'indagine, né sa già più di quanto non affetti di sapere, e che volentieri si stupirebbe di vivere nel contesto di verità, dogmi e tradizioni antiche di cui aveva perduto il senso e che ritrova come delle novità. Ma non è tutto, perché di questa disposizione, che la prassi di vita autentica fa nascere nella solitudine della coscienza, incontriamo anche la testimonianza vivente intorno a noi. Certo, si tratta di testimoni, µ??t??e?, forse importuni e indiscreti; ma la loro condizione di spirito richiede un po' di quella curiosità partecipativa che si accorda a tanti altri. Infatti, vivendo nel contesto di questa cultura storica e scientifica che viene sbandierata loro, in quest'epoca di critica e di naturalismo, molti di loro sanno almeno come stanno le cose. Capiscono le critiche e conoscono il disprezzo degli spiriti forti. Essi pure pronunciano il motto che si dice a loro riguardo: Stultitia et scandalum. Se passano oltre, hanno probabilmente le loro ragioni; ed è interesse della scienza conoscerle, così come si conosce un rito buddistico. Ci si chieda soltanto se i motivi che abbiamo per negare non siano esattamente quelli che dovrebbero indurci ad affermare e a volere quello che respingiamo e disprezziamo! Sarebbe dunque strano che fosse interesse della scienza escludere quello che non è suo interesse ammettere. Come se la dimostrazione negativa non fosse in se stessa più difficile da argomentare della dimostrazione positiva. Infatti, per negare la mera possibilità logica del soprannaturale bisognerebbe far leva su un'impossibilità di fatto. Ma noi non comprendiamo fino in fondo il minimo dettaglio del più insignificante dei fatti abituali. Non sappiamo neppure quello che facciamo. E poi pretenderemmo dire: ecco quello che è possibile, ecco quello che non lo è. In un certo senso tutto è soprannaturale e niente lo è, perché in ogni atto, o meglio ancora in ogni fenomeno, rimane un mistero irriducibile in tutto ciò che conosciamo. L'esperienza sensibile è un mistero, eppure tutti ci credono, e sull'autorità dei sensi si costruisce una scienza. Ma poi ci si rifiuta di riconoscere che vi sia un altro mistero oltre quello. Come se grazie a quello che ne conosciamo, avessimo definito e limitato anche quello che ne ignoriamo! Sarebbe dunque strano che fosse competenza della scienza analizzare la lettera e lo spirito di tutti i culti tranne uno. Abbiamo forse ritenuto che criticare, come è stato fatto, tutte le forme superstiziose e tutte le fantasie escogitate dall'azione umana per crearsi l'illusione di essere perfezionata significasse oltrepassare i diritti della filosofia? No. Perché allora essa non dovrebbe avere il diritto di indagare se non vi sia qualche forma religiosa che si sottrae a queste stesse critiche e sulla quale non ha più presa? Non che sia legittimo pretendere di scoprire con la sola ragione quello che deve essere rivelato per essere conosciuto. Ma è legittimo approfondire l'indagine fino al punto in cui sentiamo che dobbiamo desiderare qualcosa di analogo a quello che i dogmi ci propongono dal di fuori. È legittimo considerare questi dogmi, non certo in prima linea come rivelati, ma come rivelatori. In altri termini è legittimo confrontarli con le esigenze profonde della volontà, scoprire in essi, se vi si trova, il riflesso di nostri bisogni reali e la risposta auspicata. È legittimo accettarli a titolo di ipotesi, come fanno i geometri, i quali suppongono risolto il problema, e ne verificano attraverso l'analisi la soluzione simulata. Probabilmente considerandoli sotto questo profilo, rimarremo sorpresi del senso umano di una dottrina che molti reputano non meritevole di un esame più approfondito, e che confondiamo ( secondo una critica opposta, e proprio questa contraddizione dovrebbe far sorgere qualche sospetto ) con un arido formalismo di pratiche, un'affettazione di emozioni mistiche, una consuetudine di cerimonie sensibili, una giurisprudenza casistica, una disciplina meccanica. Occorre interpretarne bene lo spirito, con l'identica diligenza adibita nello studio di un testo sanscrito o di un costume mongolo. Sarebbe infine strano opporre al soprannaturale quello che ne costituisce l'unica ragion d'essere e la definizione appropriata. Esisterebbe forse il soprannaturale, se fosse soltanto un oggetto di studio, una conquista dello sforzo umano, se scaturisse dalla stessa filosofia? Esisterebbe, se non esigesse dall'uomo nulla che trascenda, sovverta e mortifichi la sua natura? Esisterebbe, se il dono eminente che in ipotesi apporta alla nostra coscienza non fosse talmente consono alle imperiose esigenze della volontà, da esserci imposto come un dovere, invece di essere facoltativo e supererogatorio? Abbiamo riflettuto su questo coacervo di incongruenze? - C'è chi sarebbe pure disposto a riconoscere che l'ordine naturale non è sufficiente per l'uomo. Ma vorrebbe che il soprannaturale rientrasse nello stesso ordine naturale. - C'è chi ritiene che la sola nozione di rivelazione non sopporti la discussione razionale. E non si consente che questa conclusione negativa venga messa in discussione. Col pretesto del rispetto, il libero esame ricusa proprio l'esame della questione. - C'è chi di fronte al dogma s'impone una riserva sottintesa, una riserva che il dogma non richiede e che invece condanna. E proprio agli occhi di queste persone rispettose del dogma, perché non vogliono che sia assoggettato a critica, il dogma rappresenta un'invenzione totalmente umana. - C'è chi riconosce, con la lucidità di una critica tagliente, l'assoluta inanità di tutte le invenzioni superstiziose, perché fanno derivare dall'uomo soltanto quello che non può venire solo dall'uomo. E di fronte a una dottrina che condanna tutte le superstizioni e si presenta col sigillo di un'origine superiore, si induce una nuova accusa da questa pretesa che la colloca su un altro piano: la si accusa di essere quello che alle altre si rimproverava di non essere. - C'è chi attribuisce alle stesse superstizioni qualcosa del valore intrinseco che sottrae alla religione, come se in fondo in fondo tutti i culti fossero equivalenti. E non si rende conto che le persone che non si accontentano di nessuna forma meramente naturale dell'azione sono le stesse che si sanno accontentare della fede, e a essa acconsentono. È infatti un identico sentimento che ci educa a sentire il bisogno della fede, a trovare in essa l'appagamento cui aneliamo e ad amare le sue esigenze. Quelli che attendono e che accolgono la verità sono gli stessi che non ne attendono e non ne accolgono altre. - C'è chi sembra " in procinto di morire per non poter dare un nome a ciò che adora ". E se poi quello si da un nome, si strappa le vesti gridando alla bestemmia. Siamo in presenza di una strana fame, che dietro l'apparenza di un appetito divorante, cela una sazietà, una nausea, un'assenza di qualsiasi fame feconda. Quando si ama la verità più di se stessi, che cosa costa chinarsi col proprio debole pensiero davanti all'infinità di quello che c'è da credere? E qui si annida il germe di un'incoerenza ancora più grave, da cui di solito sono originate tutte le altre. - Sembrava che l'espansione del cuore umano fosse infinita, che il suo bisogno di tenerezza, di dedizione, di felicità meritata, l'unica di cui possa fruire, fosse insaziabile. Sembrava che fossimo pronti a soffrire e a morire per amore. Ma di fronte ai sacrifici sensibili o intellettuali che l'egoismo dell'orgoglio o del piacere deve portare alla coscienza, ecco che ci ribelliamo come se si trattasse di tirannia e di intolleranza. La volontà retta riconosceva che solo la mortificazione dei sensi può aprirci, come il crogiolo di una sperimentazione, a una vita superiore, che niente di sensibile ci deve sedurre nel nostro volere l'essere, che per accogliere colui che attendiamo è necessario che in qualche modo annientiamo noi stessi. E l'uomo crocifigge per odio chi gli chiede di essere crocifisso per amore. Il compito della filosofia non è forse di raddrizzare fino in cima la volontà dell'uomo, ricercando sempre nella sua azione ciò che è davvero conforme alla sua intenzione primitiva? Perciò, senza pregiudizio per alcuna questione specificamente religiosa - che rientra in un altro ordine - è necessario superare con la filosofia gli ostacoli che una filosofia, ostile per partito preso, frappone, senza dubbio a torto, non tanto al contenuto di questa o quella formula dogmatica, quanto alla stessa nozione di rivelazione e alla possibilità, all'utilità di qualsiasi dogma definito. L'esigenza è che la filosofia abbia il suo ambito specifico e indipendente. Anche la teologia lo vuole insieme a essa e per essa. Entrambe esigono una separazione delle competenze. Esse restano distinte tra loro, ma distinte in vista di un concorso effettivo: non adjutrix nisi libera; non libera nisi adjutrix philosophia.1 La pienezza della filosofia consiste non in un'autosufficienza presuntuosa, ma nello studio delle proprie impotenze e dei mezzi che le vengono offerti dall'esterno per farvi fronte. È vero o no che questi mezzi si confanno alla sua esigenza? 1 L'espressione ricorre altre due volte nell'opera di Blondel: nella Lettera sull'apologetica (ed. it., a cura di G. Forni, Brescia, Queriniana, 1990, p. 87) e in La Philosophie et l'Esprit chrétien, ove l'autore dice di riassumere il pensiero di san Bernardo espresso nel De Gratta et libero arbitrio. In realtà nel testo di san Bernar-do l'espressione non ricorre. Invece nel De consideratione (in op. cit., III, 442) c'è un testo che sembra poter essere all'origine della formula adoperata qui (e altre due volte) da Blonde!: " Nam etsi constet in christiana philosophia non decere nisi quod licei, non expedìre nisi quod decet et licei, non continuo tamen omne quod licei, decere aut expedìre, consequens erit ". Indice La nozione di dogma e di precetto rivelato e la critica filosofica Capitolo I Se fosse necessario ritenere che la stessa rivelazione provenga assolutamente dall'esterno come un dato interamente empirico, anche la sola nozione di dogma e di precetto rivelato sarebbe assolutamente inintelligibile. Infatti, per ipotesi e per definizione, la rivelazione si serve di intermediari sensibili soltanto come di un veicolo per il soprannaturale, rispetto al quale né i sensi né la scienza sono giudici. Perciò, senza ancora doversi pronunciare in alcun modo sul valore di ciò che si qualifica come rivelato, è essenziale indagare il meccanismo e la genesi di questa nozione. Si tratta di una critica che la filosofia non ha quasi neppure avviato. I. L'origine della nostra idea di rivelazione non deve essere vista nei segni sensibili, siano essi soprannaturali o meno nel loro principio. È grazie allo sviluppo dell'attività pratica e allo sforzo compiuto dalla volontà per adeguarsi al proprio impulso che è nato, e abbiamo visto come, il bisogno di una corrispondenza esterna e di un complemento necessario alla nostra azione intima. Perciò, a seconda della disposizione interiore delle volontà, i medesimi segni rivelatori producono effetti e provocano interpretazioni opposte. - A colui che ha la pretesa di essere autosufficiente, qualsiasi dottrina o qualsiasi disciplina che si presenti come avente origine soprannaturale risulta una mostruosità più odiosa di qualunque superstizione. Almeno la superstizione non è che un'invenzione più o meno dichiarata dell'uomo e, diciamo così, un attentato da parte della volontà al mistero universale. Per chi ha sentito un desiderio dell'infinito, per chi ha coscienza dei bisogni della coscienza, ma senza essere entrato francamente in questa via stretta del trapasso alla vita, a proposito della quale abbiamo mostrato che è la sola strada percorsa da una volontà conseguente, la rivelazione, anche se forse attesa e invocata, rimane opaca, scandalosa, odiosa, dal momento che non è quello che si auspicherebbe che fosse. In effetti bisogna intendersi sulla natura dei simboli espressivi che soli possono apportare all'uomo, dall'esterno, la risposta positiva che egli reclama. Essi non potrebbero essere che dei segni ambigui, precisamente perché l'originalità sovrana della vita interiore ammette unicamente quello che essa ha in qualche modo digerito e vivificato. Quindi tali segni, per quanto eclatanti li supponiamo, non potrebbero avere un'efficacia necessitante, e non possono presentare l'infinito che sotto i lineamenti del finito. E proprio questo costituisce per gli ingegni sottili uno degli ostacoli più difficili da superare, perché sembra quasi naturale trovare l'assoluto nell'eliminazione del relativo, e la vita soprannaturale nella morte sensibile. Ma qui sta il miracolo: afferrare l'essere sotto le apparenze sensibili; ammettere che un atto particolare, contingente e limitato, possa contenere l'universale e l'infinito; prendere, nella serie dei fenomeni, un fenomeno che cessa completamente di appartenere a essa. Le grandezze spirituali non hanno niente di quello sfoggio che imponendosi ai sensi costringe all'assenso, niente di quell'evidenza che violenta l'intelligenza senza salvare la piena libertà del cuore. Ciò che di esse è visibile agli occhi ed è evidente al pensiero sembra contraddire e nascondere la loro invisibile bellezza. Sicché sarebbe quasi più facile credervi senza l'apporto del sensibile e del ragionevole presente in esse. Questo miscuglio di luce e di ombra costituisce un singolare indizio dello spirito, per cui in mancanza della piena luce sembrerebbe che sia possibile unicamente la piena notte.2 E tuttavia non è forse questo il desiderio espresso del cuore, l'invocazione insistente della volontà? Chiediamo che l'inaccessibile si renda accessibile, e poi se il fattore mirabolante risulta esaurito, ci rifiutiamo di credervi come se fosse uno scandalo troppo forte per la ragione. Ecco perché quello che soggioga e illumina gli uni è anche quello che indurisce e acceca gli altri. Signum contradictionis. Ci si imbatte in un tale groviglio di contrari, che i malintenzionati trovano sempre qualcosa per cui ostinarsi, e invece i credenti qualcosa di utile al loro comportamento e di illuminante per la loro intelligenza. È così che, talvolta, un uomo troppo lucido alla gente comune appare enigmatico, ed esiste una follia apparente come quella di Amieto, la quale non è altro che l'espressione energica e cruda, fuori delle convenzioni banali, della ragione perspicace. Quindi, per quanto necessari, i segni non sono mai sufficienti. La cosa decisiva è l'interpretazione, il bisogno interiore, poiché dipende da questa disposizione che la luce sia accecante o che le tenebre facciano risaltare in maniera più vivida la luce. Infatti per chi sa intenderlo, il mistero stesso è una nuova illuminazione, perché propone come oscuro ciò che giustamente deve eccedere la capacità di uno sguardo limitato. E gli stessi miracoli, di cui nessuna scienza può dire che sono impossibili, dato che la scienza si pronuncia unicamente sul reale e non sul possibile, gli stessi miracoli possono essere altro che una sfida alla ragione comune, sempre pronta a farsi da parte nelle sue consuetudini abitudinarie? Tale provocazione a sua volta soddisfa o irrita i cuori, a seconda della loro disposizione. Questi colpi bruschi agiscono solo in quanto se ne coglie, non certo l'aspetto prodigioso sotto il profilo sensibile, ma il senso simbolico. E qual è questo senso? Nessun fatto, per quanto singolare e impressionante, è impossibile. L'idea di leggi fisse nella natura non è altro che un idolo. Ogni fenomeno è un caso singolo e una soluzione unica. Volendo andare a fondo, non c'è dubbio che nel miracolo non c'è niente di più che nel più insignificante dei fatti ordinari, ma altresì nel più ordinario dei fatti non c'è niente di meno che nel miracolo. Ed ecco il senso di quei colpi bruschi, eccezionali, che inducono la riflessione a conclusioni più generali. Essi rivelano che il divino non sta soltanto in ciò che evidentemente trascende le possibilità ordinarie dell'uomo e della natura, ma ovunque, anche laddove reputiamo volentieri che l'uomo e la natura siano autosufficienti. I miracoli quindi sono miracolosi soltanto allo sguardo di coloro che sono già disposti a riconoscere l'azione divina negli avvenimenti e negli atti più consueti. La natura è talmente smisurata e varia da essere ambigua a tutti i livelli, e quando batte sulle anime da il suono che si vuole da lei. Quindi all'uomo l'idea di precetti o di dogmi rivelati non può venire ne dalla stessa rivelazione ( nell'ipotesi in cui si dia ) né dai fenomeni naturali ( nell'ipotesi in cui non si dia ). Questa nozione scaturisce da un'iniziativa interna. Ma in che modo tale disposizione assolutamente soggettiva potrebbe riconoscere all'esterno, se c'è effettivamente, un alimento pronto per sedare questa fame del divino? E poi, dopo aver provato l'inevitabile tormento dell'infinito, dopo aver intimato a Dio di sollevare i veli del mondo e di mostrarsi, come ravvisare questa presenza, se è reale? Come riconoscere questa risposta autentica, se è pronunciata davvero? II. Certo, chiediamo a Dio di rivelarsi. Ma per lo più l'uomo comincia col porre le sue condizioni, come se non cercasse altro che celebrare l'apoteosi dei propri desideri. Col desiderio di seguire per conto proprio un sentiero più agevole, ha la pretesa che tale sentiero costituisca anche la via giusta. Di regola, quando non ci abbandoniamo alla volontà di Dio, vogliamo che Dio voglia ciò che vuole l'uomo. E tuttavia credere in Dio, desiderarlo, invocarlo, tutto questo consenso necessario della coscienza per noi non ha senso, se non in quanto attendiamo da lui quello che non siamo, quello che non possiamo né essere né fare da soli. Se non lo vogliamo dove è, ciò avviene perché lo vorremmo dove non può essere. Dove dunque trovarlo, se non laddove la volontà è spinta al di sopra di se stessa per una specie di espropriazione? E siccome questa abnegazione non è immune da una sofferenza riposta, siccome per essere soprannaturale quest'operazione ha bisogno di crocifiggere le gratificazioni dell'amor proprio, siccome essa tende, secondo le parole di san Paolo, ( Eb 4,12 ) a dividere anima e spirito fino alle giunture più intime e al midollo delle ossa, allora l'identico carattere fa respingere il divino alle persone piene di sé o prive di coraggio, e invece lo rivela alle persone devote, delle quali si può dire che non vogliono saperne di un Dio che non abbia nei loro confronti quelle gelose pretese. Infatti il grande sforzo del cuore è quello di credere all'amore di Dio per l'uomo. E chi ha compreso perché l'uomo può e vuole essere amato divinamente come se fosse il Dio di Dio stesso, non si stupisce più che la via dell'annientamento e della mortificazione sia la strada dell'amore pieno. Chi è buono pretende che si sia esigenti nei suoi confronti. Quindi una rivelazione si rende utilmente disponibile all'ascolto dall'esterno solo nel vuoto del cuore, nelle anime dedite al silenzio e piene di buona volontà: solo ciò che la rende spregevole e odiosa per gli altri, la rende degna di essere accolta agli occhi di queste persone. Di sicuro il suono delle parole e la vistosità dei segni non sarebbero nulla, se intEriormente non ci fosse il proposito di accogliere la luce desiderata, il senso già predisposto a giudicare della divinità del verbo ascoltato. Gli uomini hanno sempre teso l'orecchio e l'occhio, per accogliere quello che non possono vedere e sentire senza morire. E se hanno creduto di discernere questa parola mortifera e vivificante laddove ancora non risuonava, se le hanno chiuso l'accesso quando ha deciso di risuonare, ciò probabilmente è avvenuto perché non portavano in sé depurato questo senso di una vita più alta. L'uomo di desiderio è raro; ed è l'unico che sia la misura della verità offerta, l'unico che possegga la competenza e il discernimento circa la sua origine. Per riconoscerla è necessario aspettarsi che sia non come la vorremmo, ma come è. E che cosa può essere, che cosa è necessario che sia di fatto, se cerchiamo di formulare, sia pure contro di noi, l'ultimatum della nostra volontà, restando coerenti fino in fondo con noi stessi? Se esiste, è necessario che la rivelazione divina si presenti come indipendente dall'iniziativa umana. È necessario che esiga un atto di sottomissione, una surrogazione del pensiero e della volontà, una confessione dell'impotenza della ragione. Sicché la stessa ragione la reputerebbe falsa, se non pretendesse da noi quel sacrificio ineludibile. Ma questa salutare disposizione di obbedienza non può afferire unicamente allo sforzo della volontà umana. Infatti il movimento soprannaturale non si origina da noi. Quindi è necessario che lo stesso impulso della ricerca che ci conduce a Dio sia, nel suo principio, un dono. Senza questa mediazione indispensabile noi non siamo e non possiamo niente. Dunque si da una rivelazione, offerta o ricevuta, unicamente tramite un mediatore. È questa una esigenza prima ed essenziale. E tanto meno possiamo portare a termine quello che non possiamo concepire da soli. Niente di quello che l'uomo compie, niente di quello che rientra nell'ordine naturale dell'azione raggiunge la sua perfezione e perviene a Dio. Per fare di Dio il fine dell'uomo, secondo il bisogno imperioso della nostra volontà, per diventare suo cooperatore, per riferire tutta la vita alla sua sorgente e al suo destino, è necessario un aiuto, un intercessore, un pontefice che sia quasi l'atto dei nostri atti, la preghiera delle nostre preghiere e l'offerta del nostro dono. Solo per mezzo di lui la nostra volontà può adeguare se stessa e reggere, dal principio alla fine, tutti gli anelli della catena ( tout l'entre-deux ). È questa la seconda e più essenziale esigenza: via et veritas, - via innanzitutto. E un soccorso è essenziale per l'uomo non soltanto per credere e per agire, per conoscere e operare la verità, ma anche per porre rimedio alle ineludibili carenze dell'azione. Quello che fa, anche nell'ordine specificamente naturale, ha una ripercussione infinita. E se ha agito male, il suo errore contiene sempre qualcosa di assolutamente irrimediabile. Quindi per neutralizzare il male c'è bisogno di una potenza e di un'espiazione di cui in noi non ritroviamo mai neppure il fattore più debole. Distruggere il passato fissato per sempre! Ridare la vita all'azione morta e alla volontà pervertita! Porre rimedio a un attacco che è mortale per l'uomo e per Dio! Il pensiero si smarrisce di fronte all'enormità di questo compito necessario. Per donare, conservare e restaurare la vita c'è bisogno di un salvatore. Si tratta di esigenze ultimative cui l'uomo si sente incapace di dare soddisfazione, e di cui la ragione, più che comprendere la possibilità, intravede la necessità. Esse già per essere semplicemente concepite suppongono un'ispirazione che non proviene dall'uomo solo. Ma poi ( è questa un'ultima istanza della coscienza umana ) è necessario che questa ispirazione iniziale sia offerta a tutti, come un minimo sufficiente. Se esiste, la rivelazione per essere autentica deve rivolgersi profeticamente a coloro che l'hanno preceduta, e deve rivolgersi simbolicamente e in maniera anonima a coloro che non hanno potuto conoscerla. Deve essere indipendente dai tempi e dai luoghi; deve essere davvero universale e deve possedere un'efficacia permanente, perpetuandosi non come qualcosa di futuro o di passato, ma come l'eterno presente; deve essere molteplice e reiterata nella sua applicazione, senza per questo cessare di essere unica e persistente nel suo principio. III. E tuttavia non abbiamo ancora di fronte la difficoltà maggiore? Siamo senz'altro riusciti a mostrare come, grazie a una disposizione del tutto soggettiva, nasce l'idea di una rivelazione possibile e il bisogno di una rivelazione reale. Siamo riusciti a vedere come, venendo dal di fuori, essa deve esibire i caratteri consoni alle esigenze intime. Ma è essenziale capire in che modo agisce e conferisce a se stessa le garanzie appropriate per suffragare il suo credito. Infatti, se anche vedessimo a livello teorico quali sono quelle disposizioni soggettive e quelle condizioni oggettive, se anche ravvisassimo dove e come si stabilisce la concordanza tra loro, questa conoscenza speculativa non sarebbe ancora quella che è necessario avere, poiché, per essere creduta come deve esserlo, la dottrina rivelata deve fornire da sé le proprie credenziali e deve comportare la propria certezza, come un dono soprannaturale. Se è necessario che venga ammessa, non potrebbe mai esserlo in quanto ci è chiara e in quanto proviene da noi ( peraltro mai questa chiarezza è veramente del tutto trasparente ). Essa può essere accettata come si deve solo in quanto ci è comunicata e in quanto rimane misteriosa nel suo fondo. Ora questo è il grande e piuttosto delicato problema: come introdurre e far vivere in noi un pensiero altro, una vita diversa dalla nostra? E che utilità c'è nell'affermare quello che rimane imperscrutabile? Quale efficacia e quale salvezza vi sono nel professare l'incomprensibile rivelato? Come credere in quello che non si può comprendere, e a che giova crederci? Ancora e soprattutto, si evidenzia qui l'efficacia perentoria e la potenza mediatrice dell'azione. Infatti da una parte la verità rivelata attraverso il canale dell'azione penetra fin nel pensiero, senza perdere nulla della sua integrità soprannaturale. Dall'altra se il pensiero credente, per quanto rimanga oscuro tra i raggi che la fede espande dal suo fuoco inaccessibile, ha un senso e un valore, è perché sfocia nell'azione, e trova nella pratica letterale il suo commento e la sua realtà viva. Soffermiamoci per un momento a riflettere su questa elucidazione decisiva. Non è necessario ammettere la verità formale del dogma, quando lo sottoponiamo a esame. Come succede per la geometria, è sufficiente esaminare le relazioni intrinseche e le ragioni di convenienza certe di un'ipotesi, della quale, proprio in forza del determinismo dell'azione umana, l'analisi scopre semplicemente la necessità e la coerenza. Ecco dunque in che cosa consiste la difficoltà. Per portare a compimento la natura e per dare sbocco all'aspirazione dell'uomo, l'uomo e la natura non sono sufficienti. Ora è impossibile che l'espansione integrale dell'azione volontaria non ci conduca a quella voragine spalancata che ci separa da ciò che vogliamo essere. È impossibile che colmiamo l'abisso; è impossibile che non vogliamo che sia colmato; è impossibile che non pensiamo alla necessità di un'assistenza divina. E tuttavia sembra inconcepibile che quell'operazione rimanga soprannaturale quando diventa nostra, o che sia nostra senza cessare di essere soprannaturale. Se, da un lato, dovrebbe, ci sembra, provenire interamente da una sorgente esterna a noi, dall'altro dovrebbe essere totalmente immanente. Per quale via dunque questa vita superiore potrebbe insinuarsi nella nostra vita, se è vero che nel suo stesso principio deve essere assolutamente indipendente dalla nostra iniziativa? Quale via di accesso le possiamo aprire? I nostri pensieri? Ma non si può credere senza agire; i nostri atti? Ma non si può agire senza credere. E in questo circolo perfettamente chiuso della vita intEriore sembra non vi sia una porta atta a permettere l'intromissione di un'operazione allotria. Come fare intervenire allora questo aiuto indispensabile e inaccessibile in quel vuoto enorme che si spalanca al centro della nostra vita? Si tratta di un'aporia tutt'altro che immaginaria; e non è necessario definirne la difficoltà, per avvertirla. Anche quando è stata avvertita vagamente, essa ha sconvolto fino all'angoscia tanti uomini pronti a correre, stando a quanto dicono, sulla via di Damasco, se l'avessero conosciuta. Ma essi conoscono questa strada meglio di quanto non pensino. Infatti, grazie a una dialettica necessaria, la progressione regolata della vita inferiore rivela loro le esatte condizioni di una sincerità totale. Forse senza sapere perché, essi avvertono che bisogna agire ancora. E se non vogliono agire senza sapere perché, è possibile, anzi necessario, che la scienza dell'azione manifesti loro la ragione profonda di questa docilità pratica che sembra loro imposta. Anche dopo aver messo a tacere le ultime rivolte del proprio io, e dopo aver professato la propria incapacità e il proprio bisogno, l'uomo non ha in sé la vita. Può essere convinto finché si vuole dell'eccellenza del dogma; può persino riconoscere la possibilità e la necessità del soprannaturale, senza per questo esservi convertito, senza avere la fede, quello che si chiama la fede. E non l'avrà, finché si fonderà sul proprio pensiero e sulla propria iniziativa, perché fondarsi su di sé significherebbe ancora limitarsi a ciò di cui si è riconosciuta l'insufficienza. È dunque proprio su questo punto, per reintegrare nella sua operazione voluta tutto ciò che si trova allo stesso principio della sua aspirazione volontaria, che il non credente dotato di grandezza d'animo deve fare il passo decisivo. Perché? Perché ha bisogno di un dono: e tuttavia è necessario che lo riceva; e l'azione è l'unico ricettacolo che possa contenerlo. Se, affinché la volontà trovi la sua equazione, ci deve essere sintesi tra l'uomo e Dio, non bisogna dimenticare che l'atto comune che sancisce qualsiasi alleanza costituisce, in un certo senso, nella sua integralità l'opera di ciascun soggetto che entra nella cooperazione. All'uomo si prospettano atti che per ipotesi sono meramente di fede, atti che non ha alcuna ragione naturale di imporsi, e che ripugnano al proprio io perché richiedono da lui una specie di espropriazione, atti che l'uomo in quanto semplice uomo non compirebbe mai per sé soltanto. Ed è per questo che ha un'inedita ragione d'agire. La natura e l'uomo non gli bastano; egli dunque agirà per ciò che non rileva minimamente né dalla natura né dall'uomo. È vero, senza la fede egli potrebbe produrre quelle singolari azioni solo come opere naturali. Ma, in fin dei conti, non possiede egli una ragione naturale per farne la prova? Certo, se è coerente, deve fare la prova. E la ragione di quest'esperimento ineludibile è di apportare, nel contratto desiderato, tutto il contributo dell'uomo, agendo per quello che non rileva minimamente dall'uomo, in modo da vedere che ivi tutto si rivela come proveniente da Dio. Non si può sapere come stanno le cose se non attraverso una sperimentazione effettiva. Qui c'è un motivo d'azione sufficiente, un motivo umano che rende inescusabile qualsiasi omissione sistematica. Trascurarlo significa venir meno a se stessi. " Ma poi, come si potrebbe agire con fiducia e senza ipocrisia o servilismo, mettendo in pratica quello che non si crede? " - Sgombriamo il campo da qualsiasi timore e da qualsiasi equivoco. Non abbiamo la fede; ammettiamolo pure. Ma non l'avremo mai con uno sforzo del pensiero. La fede non investe direttamente la mente, e tanto meno la mente attinge la fede. Tuttavia, se quanto precede ha un senso, questa visuale umana, questo desiderio umano di ciò che sembra giusto e necessario, è sufficiente a legittimare precisamente l'atto voluto, un atto naturale nella sua intenzionalità. E probabilmente in questa azione si cela quello che la semplice intenzione non conteneva ancora, la presenza della vita soprannaturale, la quale se esiste si rivelerà all'uomo, e non può rivelarsi che in questo modo. Se l'uomo elimina gli ostacoli che l'offuscavano, se giunge fino al culmine della sua autenticità, nell'operazione volontaria recupererà la certezza voluta. Quale scrupolo lo fermerebbe? - La paura di profanare ciò in cui non crede? Ma, siccome prima di agire non vi crede, non saprebbe rimproverarsi un atto naturale dal momento che ne riconosce la convenienza naturale. - L'inquietudine per non essere abbastanza sincero con se stesso? Ma non abbiamo forse rilevato nella sfera dell'ordine umano quel bisogno di agire per confermare e produrre la volontà di volere seriamente? - Il terrore per il mistero che affronta e per la luce che forse lo pervarrà e lo soggiogherà subito dopo l'azione? Ma non è proprio questo che deve augurarsi, se è sincero fino in fondo? E proprio perché, giustamente, l'atto è quasi il pedaggio e il transito della fede: suppone la rinuncia totale al proprio io; esprime l'umile attesa di una verità che non proviene dal solo pensiero; mette in noi uno spirito altro dal nostro. Fac et videbis. Pertanto ( benché questa regola di condotta possa risultare strana ) chi ha capito la necessità, chi ha avvertito il bisogno della fede, senza averla deve agire come se l'avesse già, affinché essa scaturisca nella sua coscienza dalle profondità di quell'azione eroica che sottomette tutto l'uomo alla fecondità del suo impulso. Infatti essa non procede dal pensiero al cuore, ma dalla prassi desume una luce divina per l'intelligenza. Dio agisce in questa azione, ed è per questo che il pensiero successivo all'atto è più ricco di un infinito rispetto a quello che lo precede. L'azione è entrata in un mondo nuovo in cui nessuna speculazione filosofica la può condurre o seguire. In ogni caso, mettendo tra parentesi questo dato soprannaturale di cui l'uomo non ha la disponibilità né per maturarne la scienza né per farne uso nella prassi, rimane necessario porre puramente e semplicemente questo dono a titolo di ipotesi, per analizzarne non più soltanto la possibilità astratta o le condizioni preliminari, ma per definire il concorso naturale e le conseguenze condizionate che l'azione religiosa esige e porta con sé. Infatti ( l'insistenza su questo punto non è mai troppa ), supponendo che questa azione teandrica sia totalmente fondata sulla volontà divina, la volontà umana le è coestensiva. È un dono, ma un dono che si acquisisce come se fosse un guadagno.4 Ma se la prassi può sfociare nella fede, può la fede a sua volta sfociare nella prassi? E non ci imbattiamo in un'aporia ultimativa, sotto forma di quel dilemma che sembra escludere la fede dall'azione e l'azione dalla fede? Infatti, se l'atto, anche iniziato senza convinzione, viene portato a termine alla luce di una nuova credenza, tale credenza, una volta recepita e posseduta, non costituisce forse uno stato di sicurezza e di riposo in cui è sufficiente adorare in spirito e verità, senza mescolare le miserie dell'azione effimera con questa vita superiore? Ovvero, se quella fede è sempre misteriosa come un dono venuto totalmente dall'alto, per quale via il dogma trascendente e incomprensibile potrebbe ispirare atti capaci di esprimerlo senza snaturarlo, e cristallizzarsi nella lettera di un simbolo, di un rito o di un sacramento senza capovolgere in idolatria la purezza del sentimento interiore? Si tratta di un errore sottile assai diffuso, nato da una filosofia incompleta e da una carenza del senso religioso. La filosofia lo deve eliminare con una visione più corretta della dignità dell'azione umana e della sua capacità infinita. Infatti ( volendo semplicemente sviluppare la sequenza regolata delle congruenze basate sulla stessa natura dell'azione ) è al contrario grazie alla prassi che la fede si sviluppa e si purifica, così come è la fede che ispira e trasfigura tutta la vita pratica dell'uomo. Si dà uno scambio perenne e una solidarietà intima tra la lettera e lo spirito, tra il dogma e il precetto. La lettera è lo spirito in azione. E se i misteri sembrano verità meramente speculative, tuttavia, coniugando un mistero con un altro, sorgono verità assolutamente pratiche. I dogmi sono non soltanto fatti e idee incarnate in atti, ma sono anche principi di azione. È quanto capiremo studiando il valore della pratica letterale e il senso degli atti di precetto. Capitolo II - Il valore della pratica letterale e le condizioni dell'azione religiosa Probabilmente siamo riusciti a capire e ad ammettere che grazie allo sviluppo integrale della volontà umana e a una piena generosità nell'azione siamo giunti a riconoscere e ad avvertire l'indigenza relativa a una verità superiore alla ragione. Ma che a sua volta questa fede possa diventare il principio di atti incarnati nella natura sensibile; che l'intervento divino si cali nel particolare della vita pratica attraverso segni materiali; che la vita soprannaturale abbia un'espressione naturale, tutto ciò è senza dubbio cosa che a prima vista sembra inaccettabile e inintelligibile. Cercare negli atti umani più che un simbolo imperfetto dell'atto puro di Dio, e pretendere che il divino si contenga, per così dire, interamente nell'umano senza farlo esplodere; credere che il trascendente sia immanente sotto la determinazione particolare dei dogmi, dei riti e delle pratiche, senza nulla perdere della sua infinitezza, non costituisce forse una forma, la più insolente, della superstizione e dell'idolatria? - No. L'unica maniera di adorare in spirito e verità è quella di elevarsi a una fedeltà letterale e a una sottomissione pratica. Se lo spirito esige e suscita la lettera, la lettera autentica ispira e vivifica lo spirito. È fuori dubbio che in questa sede è lecito parlarne solo a titolo di ipotesi. Ma è necessario farlo, se è vero che questo dono ipotetico deve essere al tempo stesso acquisito integralmente e naturalizzato nell'azione umana. Lo stesso movimento che ci induce necessariamente a concepire l'idea di un'azione religiosa ci conduce a definire, con la forza di una logica alla quale non si sfugge, le esigenze e, diciamo così, i requisiti di questa concezione inevitabile. Siamo quindi di fronte a un altro anello del determinismo. È necessario cogliere anche questo. Dato quello che sappiamo dell'azione volontaria, rimane da appurare per via di inferenza la condizione indispensabile del suo compimento. Non abbiamo bisogno di sapere se tale condizione è reale o possibile. Dal lato dell'uomo non lo è. Ma si tratta di mostrare che è necessaria. L'analisi completa del determinismo dell'azione approda non a una realtà né a una possibilità, ma a una necessità. La scienza non ci deve offrire niente di più e niente di meno che il necessario. Non ci deve dire se le condizioni da essa richieste sono poste realmente; ma, ammesso che lo siano, le sue esigenze diventano assolute. D'ora in poi a ciascuno di noi tocca tener conto di questa necessità. Infatti questo contenuto intrascendibile dell'azione determinato dall'analisi scientifica è precisamente quello che davanti alla riflessione si trasforma in esigenze morali e in obbligazioni pratiche. È dunque conveniente portare la filosofia fin dove può giungere, fin dove occorre che giunga, senza falso rispetto e senza protervia. Troppo spesso essa ha abbandonato una parte, la più elevata, del suo campo; bisogna che le sia restituita. Malgrado i termini insoliti e i problemi negletti che le saranno sottoposti, nessuno si inganni sull'intento propriamente filosofico che ispira questa indagine. Si tratta sempre di quest'identica considerazione: " Come adeguare il termine voluto allo stesso principio dell'aspirazione volontaria? ". Infatti, non è possibile indurre gli uomini alla sottomissione, se non facendo loro comprendere che è il segreto della loro autentica indipendenza. Bisogna dunque mirare all'autentica indipendenza, per comprendere il segreto della necessaria sottomissione. Perciò, proprio quando è in gioco il soprannaturale, si fa sentire sempre una preoccupazione radicalmente umana, e quasi un grido della natura. Si tratta di vedere come questa nozione del soprannaturale abbia una genesi necessaria, e come il soprannaturale appaia indispensabile alla volontà umana perché l'azione venga risolta in equazione nella coscienza. Non si tratta affatto di definire lo stesso contenuto della Rivelazione divina. Per essere ciò che deve essere se esiste, la Rivelazione deve sfuggire alla ragione nel suo principio, nel suo oggetto e nel suo fine. Nessuno sforzo dell'uomo meramente uomo potrebbe penetrarne l'essenza. Quindi credere che si invada un campo riservato, sottomettendo all'esame razionale quello che è razionale anche nella nozione del soprannaturale, significherebbe ignorare radicalmente quello che la Rivelazione ha la pretesa di essere. Il compito del filosofo è quello di stabilire che, essendo pienamente coerenti col nostro anelito riposto, giungiamo fino alla pratica letterale, e quello di esprimere le esigenze ineludibili del pensiero e, diciamo così, la preghiera naturale della volontà umana. Niente di più, ma niente di meno. Il problema è serio quanto delicato. Se risulta assai agevole all'uomo mettere in atto la sua giustificazione, quanto è complicato e disagevole giustificare questa prassi salutare! Senz'altro comprendiamo anche che la prassi preceda e prepari la fede; ma che l'atto di fede ci ispiri la fede negli atti, per alcune tra le coscienze più accese dal divino costituisce il paradosso intollerabile. Indubbiamente queste anime religiose hanno infinitamente ragione di provare ripugnanza per le ricette e le applicazioni meccaniche che profanano il loro sentimento ineffabile. Ma, pur essendo superiori a queste meschine superstizioni, esse tuttavia a torto dimenticano che il punto cui godono di essere arrivate è ancora soltanto un gradino intermedio, e che rimane loro un progresso da fare. Quanto auspicherei di mostrare loro che la fede, nel senso più vasto e più profondo, trova la sua perfezione in atti ben precisi, che solo questa prassi terra-terra e magari umiliante, conserva tutta la sublimità e la purezza del culto interiore, e che, se c'è una lettera abitata unicamente dalla morte e dalla corruzione, ce n'è una necessaria che veicola la vita e la salvezza. I. Ciò che non possiamo conoscere, e che soprattutto non possiamo comprendere chiaramente, lo possiamo fare e praticare: qui sta l'utilità, la ragione eminente dell'azione. Essa non è soltanto il veicolo provvisorio che consegna alla coscienza il dono agognato, la sua mediazione non è effimera, ma permanente, è lo strumento perenne della conversione interiore e del regno della fede. Infatti essa fa scorrere fino al midollo, in un modo incomprensibile, il senso di una fede ancora oscura, e percorre le vie misteriose che conducono alla luce della riflessione le verità implicite di cui si è nutrita. Questo è il segreto del valore, questo è il principio naturale dell'efficacia della pratica letterale. Insomma la fede, per vivificare le membra, ha bisogno di agire in loro, e per vivificare se stessa ha bisogno che esse agiscano su di lei. Sempre l'azione da più di quanto riceve, e riceve più di quanto da. Come nessuna intenzione particolare viene portata a termine senza l'operazione che sembrava determinarla, ma che in realtà la completa e l'arricchisce, come la vita morale e religiosa si perfeziona nell'uomo solo interessando tutto l'uomo, allo stesso modo qui come altrove il sentimento non è indipendente dall'organismo in cui si esprime, qui come altrove l'azione non è soltanto una conseguenza o una condizione dell'intenzione, ma vi aggiunge una eccedenza essenziale. Essa contiene ciò che costituisce la ragion d'essere del sentimento o il referente della tendenza. Credere che adorare in spirito e verità significhi astenersi da qualsiasi pratica determinata è l'errore assai simile all'illusione in cui si cade, quando si immagina che l'esecuzione reale è soltanto un'appendice accessoria e quasi una degenerazione della decisione ideale. È fuori dubbio che l'azione sembra restringere la splendida espansione della vita interiore, e sembra depauperare la ricchezza del sentimento; ma è solo un'apparenza. La necessità di una determinazione pratica, lungi dall'inaridire la generosità dell'effusione intima, ne satura la sorgente. Come la schiavitù dei segni e delle forme impedisce al filosofo o all'artista di crogiolarsi in intuizioni confuse, così l'anima religiosa trova nel rigore coercitivo della lettera un aiuto contro se stessa. Sotto lo stimolo di questa coercizione essa si rinnova e, anziché perdersi in una vaga e instabile aspirazione all'infinito, approfondisce e vivifica quei sentimenti che temeva di profanare o di sopprimere, esprimendoli all'esterno, nel corpo di un atto. Perciò nella semplicità delle pratiche più popolari c'è più infinito che nelle speculazioni più boriose o nei sentimenti più squisiti. E la persona umile, quando segue letteralmente precetti devozionali che reputa estremamente chiari, mentre non li comprende, possiede senz'altro il senso della verità più di tutti i teosofi di questo mondo. Nella lettera quella persona ha lo spirito, senza averne la pretesa. Questi invece hanno la pretesa di avere lo spirito senza la lettera, e invece non l'hanno. Chi dunque dimostra la propria fecondità spirituale: colui che ostenta grandi discorsi, oppure colui che sa fare quello che non saprebbe dire? E invece succede che il dialettico del sentimento interiore si vanta dell'esuberanza della sua pietà, mentre la persona fedele alla lettera viene stigmatizzata per una devozione tutta di facciata. Ma sono i sentimenti, i pensieri, a essere esteriori, mentre le opere sono la cosa più intima, quella che manifesta meglio di tutto la vita e la trasfigura. Che importanza hanno le evanescenti meraviglie della dialettica o le coinvolgenti emozioni della coscienza: ci vuole una conclusione, l'azione. In actu perfectio. Quello che è vero per qualsiasi intenzione particolare, obbligata come è a ricercare nell'operazione che la realizza il suo commento vivente, vale afortiori per l'aspirazione religiosa. Dove tende quest'ultima, se non a far passare all'atto tutto l'uomo, e a produrre in lui la pienezza di una vita nuova, quasi che, per essere portata a termine, qualsiasi azione dovesse essere una comunione? Ora questa comunione cui aneliamo necessariamente non può essere realizzata che dalla prassi. Infatti soltanto la prassi è capace di collegare tra loro due ordini che sembravano incomunicabili. E soltanto negli atti Dio può prendere piede in noi con l'immensità del suo dono. Il pensiero umano, sempre insufficiente da qualche lato, quando si crogiola in se stesso non ha mai l'ampiezza atta a contenere tutto ciò che concepisce ed esige. Ma quello che sfugge a uno sguardo limitato, per la stessa estensione della verità e per la varietà della vita, rimane praticabile. Non si possono comprendere subito i variegati aspetti di tutto ciò che deve essere conosciuto. Ma si può passare subito alla realizzazione pratica di tutto ciò che si deve fare. Agire soltanto nei limiti della chiarezza presente, e limitarsi alla nozione o al sentimento del divino così come lo si prova, senza cercarne nella vita stessa un'applicazione immediata, significa sminuire se stessi. Con la sua tirannia il pensiero immiserisce l'azione. Viceversa con la sua sottomissione il pensiero è amplificato dall'azione. Non parliamo dunque della schiavitù del credente e del praticante. La sudditanza in cui sembra vivere non è un impaccio per la sua libertà, ma è il mezzo per riuscire a volere tutto quello che vuole veramente. Quello che asservisce davvero è non pensare ad altro che alla propria luce e agire unicamente a proprio giudizio. Ogni uomo che non avverta più il bisogno di rinnovarsi e di superarsi non possiede la vita. Abbarbicarsi alle forme anguste del proprio pensiero significa essere già morti. Bisogna essere sempre pronti a distruggere le nostre costruzioni illusorie o disastrose, in modo da essere docili alle contraddizioni. Senza vincoli di passione, di interesse o di abitudine, comporta indubbiamente un certa sofferenza lo sforzo di ringiovanirsi di continuo in spirito nella lettera, ma è l'unico mezzo per conservare tutto il pudore della coscienza e l'autenticità totale. Non attestarsi né nel dubbio né nella certezza, non abbarbicarsi mai alla verità, come altri fanno con i loro idoli, vivere in timore e libertà, pur promettendo una fedeltà a tutta prova, temere sempre di perdere la luce e attenderla sempre, portare nel cuore l'angoscia dell'investigatore con la serenità e la docilità fiduciosa del bambino: è questa, senza dubbio, la via non della schiavitù, ma della liberazione. La maggior parte degli uomini si dà da fare per vedere quanto hanno ragione. Invece bisogna darsi da fare per vedere in che cosa abbiamo torto. Quanti uomini si reputano religiosi o perché hanno radicata la convinzione di aver emendato lo spirito dalla lettera, o perché si invaghiscono di qualche parola divina, e si beano di essere pienamente d'accordo col suo senso! Vorremmo che tutto fosse chiaro al pensiero, e che ci fosse un centro di prospettiva unico. Ma non esiste, questo centro è ovunque. E quello che non vediamo chiaramente, lo possiamo fare pienamente. Il vero commento è la prassi. Perciò gli uomini non hanno veri discepoli, perché non sanno fare appello alle misteriose profondità da cui scaturisce, grazie alle molteplici operazioni della pratica ligia, l'unità delle libere convinzioni. Quindi la cosa necessaria è stare attenti a quello che ci contraddice, andando al di là del punto in cui vorremmo fermarci. Nella fede e nei precetti vi sono affermazioni che sembrano in conflitto, prescrizioni che sembrano in contrasto con noi. Ma per questo è necessario e salutare che acconsentiamo a esse. Se esiste la legge esteriore, è per ricordarci che finché essa ci appare esteriore, finché spezza in noi alcuni legami della nostra ragione o del nostro cuore, noi non siamo ancora al centro della verità e dell'amore. Anziché chiuderci, ci obbliga ad aprirci, a vedere in che cosa il nostro pensiero è insufficiente e la nostra volontà carente, ad ammettere gli aspetti con-trari di una verità più ampia della nostra conoscenza, e a conferire misteriosamente alla nostra azione tutta la potenza di questa scienza perfetta. La lettera, pur essendo incomprensibile e soggiogante, costituisce il mezzo per pensare e per agire divinamente. Pertanto le esigenze dell'azione umana e le condizioni da essa richieste per essere portata a termine risultano concatenate senza soluzione di continuità. Grazie al movimento profondo della sua libertà l'uomo è indotto a volersi alleare con Dio e a formare con lui una sintesi unica: ogni atto tende a essere una comunione. Questa sintesi non potrebbe realizzarsi che grazie all'azione, unico ricettacolo capace di accogliere il dono agognato. E l'alleanza può non soltanto essere conclusa, ma anche persistere e consolidarsi, unicamente grazie alla pratica letterale. La fede dunque non è soltanto un atto e l'effetto di un atto, ma per una necessità naturale essa è a sua volta un principio di azione. Come nel dinamismo della riflessione il pensiero, che è il frutto dell'esperienza della vita, diventa esso stesso un motivo e il punto di partenza di un'esperienza ulteriore, allo stesso modo la fede, che potremmo definire l'esperienza divina in noi, è l'origine di un'attività che investe l'uomo intero e gli fa produrre con tutte le sue membra la credenza di cui vive. Infatti, se le idee costituiscono momenti di forza, ciò avviene non solo perché hanno già elementi di chiarezza, ma soprattutto perché conservano in sé elementi di oscurità; ed è proprio penetrando in questa penombra che esse ottengono un'aggiunta di luce. Gettando il nostro pensiero nelle oscurità della prassi, noi troviamo nella chiarezza della prassi di che illuminare le oscurità del pensiero. La fede dunque è autentica e viva solo se tramite l'azione tende, in ragione delle sue stesse tenebre, a guadagnare le idee e le energie che in noi le sono estranee e refrattarie. Si tratta di ottenere un'assimilazione totale, un'assimilazione di tutto l'organismo a quel principio di vita superiore. Dunque nel nostro piccolo mondo dobbiamo cooperare a una specie di creazione, ottenendo la fede da tutti i nostri poteri, fin nelle profondità più riposte degli organi. In effetti come raggiungere queste energie oscure, come realizzare in quel caos l'opera della ragione e della volontà, come produrre l'uomo e far espandere Dio nel suo seno, se non attraverso la prassi? La pratica letterale deve essere come un fermento che attraverso una progressione impercettibile solleva a poco a poco tutto il peso delle membra. Quando alimentiamo in noi questa energia vivificante, nella nostra massa di carne, nei nostri desideri e nei nostri appetiti si produce una lenta opera di transustanziazione e di conversione. Ogni atto ispirato da una nozione di fede da inizio alla gestazione di un uomo nuovo, perché genera Dio nell'uomo. Perciò, come il corpo senza l'anima è morto, così la fede senza le opere è morta. E in effetti che cosa può morire nella fede, se non la sua presenza e la sua operazione vivificante nelle membra? Il membro non vive che in una stretta dipendenza. Esso non può elevarsi alla dignità del capo. Il suo compito è di agire secondo l'ordine del capo, perché è questo il suo modo di partecipare alla vita dello spirito. Esso non pensa, agisce; e l'agire gli comunica l'essenziale del pensiero. È questo il suo pensiero e la sua preghiera. Ma la pratica letterale è necessaria non soltanto per armonizzare tutta la nostra vita interiore. Infatti la nostra azione è gravida della vita universale. Essa non è una semplice funzione dell'individuo, ma è una funzione del grande corpo sociale. È dunque necessario che vi sia cooperazione ed edificazione, per alimentare la circolazione e l'unità nella città degli spiriti, per ritmare la respirazione della vita universale in noi. Che bella parola, edificazione! Non è mai sufficiente agire per sé, non lo si può fare. Bisogna costruire negli altri, farsi parte dell'opera complessiva e identificarsi con l'edificio. Se, grazie all'azione, ciascuno trova in sé la via alle sorgenti da cui emanano i sentimenti e le credenze, sempre grazie a essa ciascuno trova negli altri il segreto delle idee e delle aspirazioni comuni. Precisamente in forza di questa unione pratica gli uomini, facendo scaturire da un fondo che essi stessi ignorano le loro certezze e i loro affetti, si legano tra loro con un vincolo così potente e così dolce da non formare che una sola anima e un solo corpo. Certo, solo la prassi opera questo miracolo di plasmare con la diversità degli spiriti un corpo unico, perché essa adopera e forgia ciò attraverso cui sono uniti gli uni agli altri. Ecco perché non si da unità dottrinale se non come portato di una disciplina comune e di una conformità di vita. Ed ecco perché i dogmi e le credenze costituiscono insegnamenti per il pensiero solo al fine di diventare principi di azione. Bisogna giungere fino a questa verità per comprendere che risulta impossibile l'unione intellettuale tra gli uomini, i quali tuttavia hanno bisogno di essa, e hanno bisogno che essa sia libera e totale; impossibile finché pretende di rimanere indipendente dalla disciplina e dalla tradizione. Perché la tradizione e la disciplina rappresentano l'interpretazione costante del pensiero mediante gli atti, e nell'esperienza consacrata offrono a ciascuno una sorta di controllo anticipato, un commento autorizzato, una verifica impersonale della verità. Poi spetta a ciascuno di risuscitarla in sé per prendere posto nell'assemblea delle intelligenze. Siccome è necessario che ci muoviamo quasi cospirando con noi stessi, con l'umanità e con l'universo, per una tale comunione è necessaria una pratica letterale. Essa è come il pensiero di questo organismo spirituale, e rappresenta il contributo di ciascun membro di questo grande corpo alle funzioni dello spirito. Quindi stando a quanto l'analisi delle relazioni necessario e delle esigenze naturali della vita volontaria ci induce a evidenziare, nell'azione scaturita dalla fede è all'opera un duplice mistero. È per mezzo dell'azione che il divino abita nell'uomo, vi cela la sua presenza, vi inocula un pensiero e una vita nuova. È per mezzo dell'azione che le parti infime e oscure che esprimono i bisogni dell'organismo e le ripercussioni dell'universo si elevano alla fede, e cooperano all'opera umana e divina che si compie in noi. Senza l'azione la sintesi non si compie. Perché tutto il corpo sia rischiarato, è necessario che l'occhio sia luminoso. Perché l'occhio sia luminoso, è necessario che il corpo sia attivo e sano. II. Sembrano superate queste due obiezioni filosofiche. " La religione, diceva qualcuno, è interiore e non può essere coartata in nessuna forma ". Anzi, la lettera è necessaria allo spirito. " La fede in se stessa, aggiungeva qualcun altro, ha valore solo per il sentimento che la ispira, non per la formula che la determina deformandola, né per gli atti che non potrebbero contenere l'immensità del divino nella sua interezza ". Tutt' altro, la pratica è necessaria alla fede. E tuttavia queste due obiezioni contengono una verità più profonda di quanto comprendano quegli stessi che se ne avvalgono. Se la mettiamo in luce, faremo vedere l'errore in cui essi cadono. Ecco come. Si ha ragione di sostenere che le opere sono indispensabili al sentimento interiore. Esse devono essere vivificanti in rapporto a tale sentimento. Allo stesso tempo si ha ragione di sostenere che le opere scaturite spontaneamente dal sentimento sono inadeguate rispetto a quello che esprimono, e che cercare negli atti umani l'alimento divino significa ricadere nella superstizione. Gli atti sarebbero letali per il senso religioso. Perciò una pratica è assolutamente necessaria alla fede, e la pratica, che nasce naturalmente dalla fede nella misura in cui la fede a sua volta è un principio di azione, rimane radicalmente insufficiente e vuota. A coloro che sostengono che non sono i nostri atti che ci santificano, ma che siamo noi che santifichiamo i nostri atti, bisogna opporre che solo l'azione può essere salutare. A coloro che sostengono che le loro opere buone sono perfettamente salutari bisogna ribattere che solo la fede è santificante. Per sfuggire a questa contraddizione apparente, qualcuno ha escogitato un compromesso ibrido. Ma questa soluzione intermedia deve essere assolutamente respinta. Ecco in che cosa consiste. Quando si parla della fede e delle opere indispensabili alla fede, c'è un'ambiguità sulla natura di questa relazione necessaria. Da un lato si ritiene che la pratica è una conseguenza naturale del sentimento intimo che la ispira; dall'altro si riconosce che per avere una fede viva bisogna agire. Nel primo caso si fa dell'azione una subordinata accessoria della fede; nel secondo caso la si considera come un elemento integrante, un fine essenziale, un'eccedenza indispensabile della fede. Quindi per opere si intende o la conseguenza naturale di una credenza interiore che si manifesta mediante la spontaneità indeterminata di controprove pratiche, oppure atti determinati compiuti per se stessi, i quali conservano il loro senso originale. Si riconosce senz'altro che il sentimento più profondo del divino ha bisogno di esprimersi mediante atti. Ma siccome nessuno di essi risulta adeguato alla stessa fede, si pretenderebbe che questi atti, a differenza degli altri, non costituissero un fine per l'intenzione o un progresso per l'agente. Si vorrebbe farne una categoria a parte, come se la vita religiosa potesse sottrarsi alle leggi consuete della vita. E tuttavia proprio per evitare qualsiasi deroga alla natura si è indotti a derogarvi in questo modo! Insomma, si vorrebbe credere nei propri atti senza mai agire in base alla propria fede. Ma, in tutta questa scienza della prassi, è risultato di continuo che l'azione è qualcosa di nuovo e di eterogeneo rispetto alle sue condizioni specifiche. Questa verità scientifica trova anche qui la sua convalida. Non è possibile considerare la pratica religiosa come una dipendente subordinata e come un accessorio arbitrario o accidentale del sentimento che la ispira. Credere che questo sentimento totalizzi la religione autentica, reputare che le opere scaturiranno dal cuore nella misura in cui esso vi sarà portato, emanciparsi dalla disciplina di una pratica letterale, significa essere in difetto sia nella sfera della scienza sia nella sfera della coscienza. Invano quindi si cerca di mantenere questa posizione erronea, come se allo stesso tempo si potesse dire sia che la fede è tanto più viva quanto più è attiva, sia che fare di quelle azioni un mezzo per credere significa sminuire o deteriorare la fede. Le persone devote nemiche della lettera non sono coerenti fino in fondo né quando hanno torto né quando hanno ragione. Riconoscendo la necessità di una pratica, bisogna riconoscere l'assoluta inutilità di qualsiasi pratica umana, senza mai sacrificare una di queste due affermazioni all'altra. Esse sembrano incompatibili, ma siamo indotti con invincibile necessità a enunciarle. Ed è appunto da questa incompatibilità che scaturisce fuori l'inevitabile soluzione del problema. Da una parte nessun atto scaturito in modo naturale dalla fede religiosa ne perfeziona o ne adegua la dignità. Dall'altra la fede è possibile solo nella forma di una lettera precisa e grazie all'efficacia di una sottomissione pratica, e il vero infinito potrebbe essere immanente unicamente nell'azione. È dunque una necessità che questa azione sia a sua volta l'oggetto di un precetto positivo, e che essa derivi non più dal movimento della nostra natura, ma dal comando divino. La sua determinazione deve essere riferita a un'autorità diversa da noi, anche quando abbiamo coscienza di acquistare, a prezzo della docilità, un'autonomia più autentica. Che tale azione ci sia prescritta è appunto conforme alla nostra volontà. Bisogna giungere a questo riconoscimento per ottemperare alle esigenze proprie delle persone che sono le più giustamente ostili alle devozioni superstiziose, e per essere più coerenti di loro con i loro principi. E così si accordano queste verità, non già opposte ma concatenate dalla logica del senso religioso più corretto: non si da fede senza pratica; non si da pratica che sia naturalmente adeguata alla fede; non si da verità rivelata se d'altra parte non si danno atti prescritti. Se dunque la fede, sia per quel tanto di ombra impenetrabile che presenta, sia per quel tanto di chiarezza superiore a ogni altra che arreca, è naturalmente la sorgente necessaria di una pratica, questa esigenza naturale non è sufficiente a determinare la natura particolare o la forma precisa degli atti necessari per sancire l'alleanza indispensabile e l'unione perfetta cui aspira l'uomo. Perché quegli atti rituali non si riducano a una finzione idolatrica, e perché adeguino la fede di cui devono essere l'espressione vivificante, si richiede che siano non un'invenzione dell'uomo e l'effetto sempre imperfetto del movimento naturale, ma l'espressione di precetti positivi e l'imitazione originale del dogma trascritto divinamente in comandamenti particolari. Non basta che diventino il veicolo del trascendente, ma è necessario che ne contengano la presenza reale e che ne costituiscano la verità immanente. Caro Verbum facta. La disciplina e l'autorità delle prescrizioni positive, essendo emanazioni del dogma, diventano a loro volta dei dogmi originali. È necessaria una pratica. E ogni pratica che non sia prescritta come un ordine soprannaturale è superstiziosa. Non è nulla, se non è tutto. Perciò l'azione che deve racchiudere la presenza e comunicare la realtà della vita religiosa non potrebbe, esattamente come la fede, partire dall'iniziativa umana. Se la stessa lettera del dogma è, per definizione, il pensiero divino incarnato in un segno sensibile, il precetto positivo deve anche lui, per quanto arbitraria ne appaia la formula, contenere una volontà diversa da quella dell'uomo. Nonostante il carattere determinato, relativo, mutevole degli atti prescritti, questo dogmatismo pratico offre a chi vi si sottomette il mezzo per cooperare con l'autore del precetto. E la volontà umana è pienamente coerente con se stessa solo se giunge fino ad acconsentire a quel bisogno di sottomissione effettiva. Esimersi dal compiere gli atti, col pretesto che essi costituiscono una costrizione esteriore e degradante, significa disattendere allo spirito, il quale in ultima istanza esige quella sottomissione impegnativa. Nella pratica letterale l'atto umano è dunque identico all'atto divino. E sotto l'involucro della lettera si insinua la pienezza di uno spirito nuovo. Perciò non bisogna dire che certe azioni possono assumere un valore assoluto, nella misura in cui offrono una rappresentazione simbolica del fondo delle cose, e realizzano nei fatti i rapporti che esprimono con fedeltà estrema il mistero reale della verità e del bene. Del resto non è questa una contraddizione in termini? Non si da assoluto approssimativo o simbolico. No, l'atto religioso non potrebbe essere un simbolo; o è o non è una realtà. Perché i rapporti essenziali che l'uomo intrattiene con l'assoluto si costituiscano in maniera precisa, è necessario che siano assolutamente definiti, e che in quel commercio divino vi sia una consacrazione e un dono che non potrebbero provenire da noi. Se nell'uomo il bene infinito può essere realizzato solo mediante atti finiti, è necessario altresì che questo finito stesso sia concesso, per una condiscendenza soprannaturale, come il rivestimento, o meglio come il corpo stesso del trascendente. Se Dio non si mette in quel corpo perché l'uomo lo trovi e se ne nutra, l'uomo non ve lo metterà affatto. È fuori dubbio che la pratica non opera né per una cieca magia né per un semplice meccanismo. Esistono atti morti, senza spirito e senza anima. Essi rappresentano una devozione esteriore, altrettanto inutile o peggiore di ogni altra superstizione. È fuori dubbio altresì che, in assenza di qualsiasi forma rituale e di qualsiasi precetto riconosciuto, vi sono atti vivificanti che suppliscono all'ignoranza di una rivelazione più chiara. Si tratta di atti non ispirati da qualcosa di sensibile, di egoistico, di presuntuoso. Essi fanno appello al dono ignorato. Ma, se la pratica letterale non è né una mera formalità per coloro che vi si devono sottomettere né una condizione essenziale di salvezza per coloro che non possono essere istruiti in proposito, in ogni caso la nostra volontà nel suo potere di realizzazione dipende, anche se non lo sappiamo, dalla riposta efficacia di una mediazione reale. È persino possibile che la sconfessiamo, pur non cessando di trame profitto e non cadendo nel peccato contro lo spirito. Ma questa stupenda estensione della misericordia a coloro che conservano una generosità autentica, pur nel rifiuto esplicito, non elimina la verità integrale alla quale partecipano senza vederla. L'uomo di desiderio trova nei precetti positivi come tante esperienze confezionate, tante ipotesi da verificare, in cui questa verità integrale si convalida e si consegna a colui che non distoglie da essa né il suo sguardo né le sue mani. A ben comprendere la pratica, anche quella in apparenza la più arbitraria e la più gravosa per la natura, non è altro che una perfetta conformità alle esigenze della libertà. Quindi non bisogna trasformare in obiezioni contro il dogma o la disciplina le conseguenze che derivano dalla semplice supposizione che si diano. In sintesi, c'è un infinito presente in tutti i nostri atti volontari. Noi da parte nostra non possiamo contenere questo infinito nella nostra riflessione, ne possiamo riprodurlo col nostro sforzo umano. Quindi, per coglierlo e produrlo come aspiriamo, è necessario che questo principio riposto di ogni azione ci si conceda nella forma specifica nella quale ci è possibile entrare in comunione con lui, riceverlo e possederlo nella nostra piccolezza. Abbiamo bisogno dell'infinito finito. E non spetta a noi limitarlo, altrimenti lo ridurremmo alla nostra misura. Spetta a lui solo mettersi alla nostra portata, e accondiscendere alla nostra pochezza per esaltarci e commisurarci alla sua immensità. È vero, ancora una volta la realtà di questo dono resta fuori della portata dell'uomo e della filosofia. Ma è compito essenziale della ragione vederne la necessità e definire le compatibilita naturali che regolano il concatenamento delle stesse verità soprannaturali. Se gli atti simbolici che hanno lo scopo di realizzare nell'uomo la vita perfetta, e di creare l'equazione della volontà con se stessa nella coscienza, provenissero dall'uomo soltanto, non potrebbero essere che protervi e superstiziosi. Ed ecco perché siamo sempre tentati di stupirci e quasi di scandalizzarci alla vista di un segno contingente che pretende esprimere la realtà necessaria di un atto relativo e transitorio che si esibisce come assoluto, di qualcosa che deve contenere tutto. Sarebbe meglio, sembra, che non fosse niente di visibile. Ma se il precetto proviene, come la stessa ragione richiede, da una fonte diversa dalla volontà dell'uomo, allora deve venir meno lo stupore: la grandezza infinita può adattarsi alla nostra infinita piccolezza. Il divino è più che universale; è particolare in ogni punto ed è interamente in ciascuno. Se si offre a tutti come la manna che aveva tutti i gusti, ciò avviene nella forma più accessibile e più umile, perché in questa sublime degradazione la sua bontà e dignità esigono che egli non sia condiscendente con noi a metà. Più il simbolo sarà poca cosa in relazione ai sensi, più corrisponderà alle esigenze della ragione e del cuore. Il suo splendore può essere solo quello di un punto, come la stella il cui raggio, salvo una sottile striscia di luce, sembra lasciare nell'ombra l'Oceano, pur illuminando l'immensità dei flutti, poiché da qualsiasi punto guardi l'occhio è attratto dalla sua luce. Pertanto, nella pratica religiosa è necessario che i rapporti ordinari tra il pensiero e l'azione siano al tempo stesso conservati, completati e rovesciati. - Conservati, perché rimane vero che la fede, per essere viva e autentica, per compenetrare le membra e assimilare a se stessa l'organismo, ha bisogno di manifestarsi mediante convalide pratiche. - Completati, perché nel precetto positivo, e Soltanto in esso, si da per ipotesi equazione perfetta tra lo spirito e la forma letterale in cui si esprime. - Rovesciati persino, perché, a differenza degli atti abituali, nei quali il pensiero precede le operazioni sensibili e compenetra in maniera imperfetta l'organismo che lo realizza, qui proprio il segno sensibile contiene oscuramente la luce di cui il pensiero cerca di scoprire a poco a poco il fuoco invisibile. Ed è proprio questo che, adesso, è importante capire bene. III. L'azione è prescritta soltanto se, in quello che bisogna fare, contiene le realtà di quello in cui bisogna credere. La pratica e il dogma, eterogenei in rapporto a noi, sono identici in sé. Il loro compito è quello di rendere identiche in noi la verità conosciuta e la vita conseguita, di introdurre nel pensiero e nella volontà l'unità tra l'ideale e il reale, di reintegrare nell'uomo che costruisce liberamente la propria personalità l'integralità della causa che lo crea e lo anima. Tale restituzione è possibile solo se la volontà umana, da cui procede come da una causa efficiente il movimento della vita personale, si assimila al fine concepito e voluto come termine del nostro destino. Perciò, mentre nell'ordine naturale l'operazione materiale che traduce l'intenzione non fa altro che estendere il dominio della volontà e valorizza il pensiero solo nella misura in cui gli concilia le potenze ancora cieche della vita, qui la stessa operazione diventa per lo spirito nutrimento e luce. Infatti è il volere divino che riluce attraverso l'oscurità del segno sensibile. Dunque è proprio nel comandamento formale, nell'atto rituale, nella materia sacramentale che si trova il perfetto alimento, l'unico capace di vivificare un pensiero e una volontà animati dalla fede. Quello che nella pratica letterale è visibile e materiale non è messo in pratica in quanto tale. Nella pratica non ci si orienta sulla base dei fenomeni. Al contrario, sotto l'involucro sensibile che serve per dare mordente all'azione, tocchiamo, possediamo la realtà che i sensi non attingono. L'atto si produce interamente nello spazio dell'assoluto, pur conservando il suo aspetto e le sue leggi naturali. È come se, obbedendo al precetto, facessimo discendere in noi la verità eminente che esprime. Questo è vero, ma è vero altresì che trasformiamo e facciamo assurgere al livello di quella verità l'atto prescritto dal precetto. Se così si può dire, il precetto letterale è più vivo e più spirituale dello spirito di cui prende possesso. Noi l'assorbiamo in noi ed esso ci assorbe in sé. La lettera autentica è quindi la realtà stessa dello spirito. Essa ce ne rende manifesta la vita inaccessibile nel suo fondo; ce lo comunica, perché possiamo generarlo e farlo rivivere in noi. La generazione non si realizza forse tramite il corpo? In essa si consuma un mistero impenetrabile all'intelletto, il miracolo di una fecondità che, con un'opera assai singolare, inserisce l'intera specie in ciascun vivente. Allo stesso modo non è attraverso la parola rivelatrice e la pratica obbediente che un pensiero e una vita non nostra si innestano in maniera diversa, ma interamente, in ciascuno di noi? Avete riflettuto sullo straordinario potere dell'innesto? Basta innestare sul tronco poche cellule viventi, perché avvenga una rivoluzione fisiologica in questo punto di contatto intimo, il pollone riprenda nuova linfa e, all'improvviso, per una magia naturale, la fecondità soppianta la sterilità. Così l'inserimento nelle nostre viscere di un pensiero di fede e di una pratica sacramentale riforma e trasfigura le funzioni della natura. La linfa umana è l'alimento della vita soprannaturale. Ma è questa vita che spunta in noi fruttuosamente e si sviluppa per portare alla fine opere piene. Ma quello dell'innesto è un paragone ancora imperfetto, perché la linfa arricchita non ridiscende alle radici, in modo da farne scaturire direttamente la fecondità. Al contrario, nell'operazione straordinaria, che grazie a una duplice assimilazione fa di due vite infinitamente distanti una sintesi e un'azione unica, la pratica letterale inocula il germe divino fin nelle più infime funzioni dell'organismo. Essa associa il corpo a una vita più alta di quella dello spirito. E proprio da questa materia sacramentale, sotto cui l'infinito vivente sembra azzerato e quasi morto, questa vita divina e umana insieme deve risuscitare grazie allo sforzo della buona volontà. Tutti noi dobbiamo partorire, generando Dio in noi, ?e?t????. E quasi che bisognasse essere Dio per essere pienamente uomo, l'uomo nonostante la sua incomprensibile debolezza è tale da avere in se stesso quanto basta perché nessun altro essere possa essere più grande. Il dono che l'azione religiosa gli arreca si incorpora alla sua sostanza in maniera così stretta, che la natura umana diventa capace di produrre e di creare in qualche modo colui dal quale dipende in tutto e per tutto. Come se, al tempo stesso, il donatore volesse dipendere in tutto dal destinatario del dono, e come se l'uomo, chiamato a dare finalmente soddisfazione all'eccesso infinito del suo volere, diventasse, secondo un'espressione di san Tommaso, " il Dio del suo Dio ". Quindi, per seguire fino in fondo il determinismo delle esigenze dell'azione umana e la catena delle relazioni necessarie per portare a compimento il nostro destino, è necessario che Dio si offra a noi quasi annientato, perché restituiamo la sua pienezza a questo nulla apparente. Egli si fa così piccolo nella nostra concezione e nel nostro desiderio che possiamo contenerlo; così debole da aver bisogno che gli prestiamo le nostre braccia e i nostri atti; così condiscendente da abbandonarsi al flusso e al riflusso della vita sensibile; così spossessato da aver bisogno che noi lo restituiamo a se stesso; così morto da doverlo generare di nuovo, come nel misterioso lavoro che ricava le membra vive dagli alimenti inerti. Era la grande tentazione di diventare " come dei "; sogno impossibile. E tuttavia sembra che all'uomo sia dato di compiere un prodigio più stupendo: per essere, noi dobbiamo, possiamo far sì che Dio sia per noi e attraverso noi. Fino a questo punto bisogna giungere perché la nostra volontà trovi finalmente la propria equazione, mettendo in rapporto il suo fine col suo principio. L'atto per eccellenza è una comunione autentica, una specie di mutua generazione delle due volontà che vivono in noi. È possibile che i desideri dell'uomo siano appagati e sopravanzati in questo modo? Chi non ha bramato di ricevere atti di adorazione e di essere oggetto di atti di culto? Alla ragione spetta dire che noi vogliamo esserlo, alla fede invece spetta dire se lo siamo. Ma più in là desideriamo ancora un eccesso di bene che non sappiamo definire. E appunto è necessario che questo eccesso sia promesso a colui che ha la grandezza d'animo di volerlo. Si tratta di vedere se è stato promesso o no. Se ogni atto deve fecondare l'anima quasi in vista di un concepimento divino, la morte stessa non rappresenta l'ultima comunione, quella completa, eterna? E non sarà necessaria di fatto l'eternità, perché l'uomo possa ricevere e assorbire Dio? Quel Dio che l'uomo ha bisogno di produrre e di volere così come è conosciuto e voluto da lui, per essere e per vivere pienamente. Non è in nostro potere soddisfare queste esigenze. Mentre lo è constatare l'ampiezza del vuoto preparato in noi. E non è il caso di andare a cercare, sotto la straordinaria forza delle parole che abbiamo dovuto adoperare, chissà quale senso simbolico, come se tale senso dovesse essere più esatto, più tollerabile, o ancora più profondo. No, non si tratta di idee da interpretare, ma di atti da praticare. L'autentico infinito sussiste non tanto nella conoscenza quanto nella vita. Non sussiste né nei fatti, né nei sentimenti, né nelle idee, ma nell'azione. Le angustie apparenti della pratica sono immensamente più ampie della presunta larghezza della speculazione o di qualsiasi misticismo del cuore. Lo spirito senza la lettera non è più lo spirito. La verità non vive affatto nella forma astratta e universale del pensiero. L'unico commento che la lasci intatta è la pratica, che rinnova in ogni intelligenza il mistero del suo concepimento, e la immette interamente in ciascuna di esse con la ricchezza dei suoi aspetti contrari. È scientificamente accertato che il cielo si trova tanto sotto i nostri passi quanto sopra le nostre teste. Ma, poiché noi camminiamo e viviamo ancora sulla terra, è precisamente nelle bassure dell'atto che occorre vedere, nonostante l'ostacolo, il cielo che si estende al di là. La lettera va desunta dalla lettera, perché soltanto in essa, e non nell'interpretazione che se ne darebbe, si cela la realtà dell'operazione che essa prescrive. La lettera non è anzitutto pensata, ma è soprattutto praticata. E se nella sua stessa oscurità si danno parole chiare e penetranti come uno sguardo innamorato, ciò avviene a condizione che esse risultino decisive e taglienti come la spada dell'azione. In questo modo, a poco a poco, si rivela l'ambizione totale della volontà, la quale cercava se stessa senza dapprima conoscersi interamente. È avanzando la pretesa di adeguare effettivamente la propria potenza che essa cessa di trovare la sua sufficienza soltanto in se stessa. Volevamo, sembra, fare tutto da noi. Ed ecco che, attraverso questo progetto, siamo indotti a riconoscere che non facciamo nulla, e che solo Dio agendo in noi ci consente di essere e di fare quello che vogliamo. Quindi quando vogliamo pienamente, è lui, è la sua volontà che vogliamo. Chiediamo che egli sia, che sorregga, porti a compimento, e prenda sotto le sue ali tutte le nostre operazioni. Siamo nostri unicamente per fare appello e consegnarci a lui. La nostra vera volontà è di non avere altra volontà che la sua. E il trionfo della nostra indipendenza consiste nella nostra sottomissione. Sottomissione e indipendenza ugualmente reali. Infatti quello che dobbiamo ottenere è che il nostro volere si regoli sul suo, e non il suo sul nostro. E quando, grazie a questa libera sostituzione, riconosciamo che egli compie tutto in noi, ma tramite noi e insieme a noi, proprio allora egli ci consente di aver compiuto tutto. Noi partecipiamo liberamente alla sua libertà necessaria. Accettando che egli sia in noi quello che è in sé, otteniamo di essere a nostra volta quello che lui stesso è, Ens a se. Arriviamo all'indipendenza solo attraverso l'abnegazione, ma vi dobbiamo arrivare. Ciò che è impossibile rispetto all'intelletto e col solo sforzo del pensiero diventa una realtà nella prassi. Questa coniuga in una sintesi perfetta due nature in apparenza incompatibili. Pur essendo sole, le volontà possono entrare in connubio così, in modo da non formare che una sola cosa in una stretta cooperazione, ut unum sint. Per questo all'azione soltanto è attribuito il potere di manifestare l'amore e di conquistare Dio. Tutto quanto precede non costituisce altro che un insieme di condizioni subordinate all'azione. Per giungere al termine di questi bisogni pratici, non resta che giustificarli in assoluto e a loro subordinare l'azione. Dopo aver considerato tutto, persino la conoscenza e l'affermazione dell'essere, come semplici fenomeni, alla fine bisognerà scoprire nei fenomeni l'essere stesso. Ciò significa quindi rovesciare i termini usuali del problema, e cercare non ciò che è sotto quello che appare, ma ciò che è in quello che appare. La visione completa delle esigenze implicate nell'azione ci rivela il segreto delle esigenze che essa subisce; e constatando tutto quello che esigiamo, comprendiamo e giustifichiamo tutto quello che è richiesto da noi. Il legame tra la conoscenza e l'azione nell'essere Capitolo III È possibile spingerci ancora più avanti e seguire il progresso dell'azione anche oltre questa forma perfetta della pratica religiosa che sembra chiudere il circolo del destino umano? Sì, è possibile ed è necessario farlo. Sotto il dominio di questo determinismo senza soluzione sviluppato dalla scienza dell'azione, perché esprime le esigenze e l'espansione reale della volontà, diventa inevitabile un passo estremo del pensiero, un passo che fungerà da garanzia e da giustificazione di tutti i passi precedenti. Non che tutti gli scalini con i quali siamo saliti alla vita integrale debbano essere buttati via come mezzi transitori. Al contrario, proprio fondando in assoluto la realtà universale di cui l'azione si è nutrita, l'uomo realizza il suo compito, quel compito che consiste nel diventare il vincolo reale delle cose, e di conferire loro tutto quello che comportano a livello dell'essere. Ma non bisogna equivocare su quanto seguirà, come su quanto precede: si tratta sempre di determinare la sequenza necessaria dei bisogni della prassi, fino al punto in cui sarà assodata in assoluto, grazie alla definizione delle sue condizioni totali, la verità delle relazioni pretese dall'azione. Come in noi si forma inevitabilmente l'idea di esistenza oggettiva; come affermiamo inoppugnabilmente la stessa realtà degli oggetti della nostra conoscenza; qual è esattamente il senso necessario di questa esistenza oggettiva, e a quali condizioni questa realtà, concepita e affermata per forza di cose, è di fatto reale, tutti questi problemi a prima vista non fanno altro che continuare il movimento del determinismo pratico. Essi non sembrano investire altro che i rapporti interni, che rendono tutti i fenomeni solidali nella nostra coscienza. Ma alla fine troveremo che questi stessi fenomeni costituiscono l'essere delle cose. La necessità pratica di porre il problema ontologico ci induce necessariamente alla soluzione ontologica del problema pratico. Perciò quella che fin qui, in un'analisi regressiva, era apparsa come una serie di condizioni necessarie e di mezzi richiesti in successione per istituire a poco a poco l'azione, ora, grazie a una visione sintetica, si rivela come un sistema di verità reali e di esseri ordinati sincronicamente. Abbiamo considerato tutto quello che è indispensabile per portare a compimento l'azione; adesso bisogna considerare in che modo l'azione porta a termine e costituisce tutto il resto. Ciò che esprimeva semplicemente i bisogni della nostra volontà, deve acquisire, di fronte all'intelletto medesimo, una verità assoluta. Ciò che non era altro che necessità di fatto, sarà fondato in termini di ragione. Ciò che di fronte al pensiero era stato posto unicamente come una serie di mezzi immanenti al volere, sarà posto fuori della volontà come una serie di fini immanenti al pensiero. E, mentre prima l'azione era apparsa originaria, e l'essere derivato, adesso la verità e l'essere appariranno originari, ma senza che la loro sussistenza e la loro stessa natura cessino di essere determinate dall'azione, la quale trova in loro la propria regola e insieme la propria sanzione. Questo necessario aggiornamento di prospettiva, mentre ci induce a definire con più precisione il giusto valore di tutte le affermazioni pregresse, non ne delimiterà la portata che per chiarirne meglio il carattere specificamente scientifico. Non soltanto siamo di solito tentati di fare troppo presto il nodo prima di aver avvolto tutto il contenuto dell'azione, ma rischiarne altresì di attribuire a ciascuna delle successive constatazioni un significato metafisico che ancora non hanno. In effetti fin qui, per quanto abitudini mentali contrarie abbiano indotto nel lettore qualche convinzione in proposito, non si è trattato di altro che di mezzi subordinati rispetto all'azione, e non si è trattato di trasformare queste condizioni pratiche in verità reali. - Anche quando si è dovuto parlare della Metafisica, ci siamo limitati a considerare in essa unicamente l'elemento comune a qualsiasi concezione della vita e delle cose. E astraendosi tanto dalla varietà quanto dal valore dei sistemi, abbiamo avuto di mira unicamente la necessità per l'uomo di formarsi un'idea dell'universo e del suo destino, la necessità per l'azione volontaria di rivestire, sotto la spinta di questa concezione inevitabile, un carattere nuovo, principio di un dinamismo originale. È per questo che tale principio è stato trattato dalla Metafisica a proposito delle forme stratificate della morale. Essa è rientrata in linea solo per conferire ai nostri atti un valore trascendente. - Anche quando, a un punto più avanzato dello sviluppo dell'azione, abbiamo dovuto incontrare l'idea di Dio, ci siamo limitati a considerarlo unicamente sotto un aspetto del tutto pratico. Mostrando che questa nozione, generata ineludibilmente nella coscienza, ci obbliga ad affermare almeno implicitamente la realtà vivente di questa perfezione infinita, non si è trattato minimamente di concluderne l'essere di Dio. Si è trattato viceversa di constatare che questa idea necessaria del Dio reale ci conduce all'alternativa ultimativa da cui dipenderà che per noi Dio sia realmente o non sia: e questa è l'unica cosa che in assoluto ci interessa anzitutto. Assodare l'efficacia del Dio concepito come reale e vivo non significa affatto pregiudicare la viva realtà del Dio concepito: anche in questo caso la sua verità è totalmente relativa all'azione umana come un mezzo pratico. Quindi le prove che si adducono circa la sua esistenza risultano rinnovate, non tanto in primo luogo per la forma dell'argomentazione, quanto per lo spirito che le ispira e per la natura stessa della conclusione. - Inoltre, anche quando abbiamo dovuto parlare della necessità di un soprannaturale, di un dogma rivelato e di una pratica letterale, abbiamo preso in considerazione unicamente un bisogno naturale della volontà, senza avere in mente di vedere se questa esigenza ultimativa viene soddisfatta. - Infine, anche quando dovremo definire l'idea, necessariamente generata in noi, di una realtà sussistente, affermare l'essere degli oggetti della conoscenza e determinare la natura di quell'esistenza oggettiva, dovremo considerare anzitutto solo la sequenza ineludibile delle relazioni integrate nella coscienza: si tratta di istituire nella sua integrità la scienza delle apparenze solidali. Nonostante l'apparente diversità degli anelli che formano la catena, in essa tutto è continuo, tutto è dello stesso ordine; ovunque siamo in presenza delle medesime relazioni scientifiche, fondate su una medesima necessità pratica. Questa visuale sembra sovvertire le nostre abitudini mentali. Ma è difficile collocarsi in tale visuale soltanto perché bisogna ritornare alla visione estremamente semplice dei fatti concatenati, senza pregiudizi sistematici di alcuna specie. Spiegare la genesi necessaria della nozione di esistenza reale; mostrare che siamo per forza di cose indotti ad affermare la realtà degli oggetti della conoscenza e dei fini dell'azione ( qualunque sia, peraltro, il valore di questa affermazione ); far vedere come, grazie alla mediazione di quest'idea inevitabile dell'esistenza oggettiva, i bisogni dell'azione si trasformano in verità regolatrici dell'azione; indicare a quale precisa concezione dell'essere oggettivo siamo condotti per forza di cose, e determinare le condizioni che ci appaiono indispensabili perché questa esistenza, così definita, sia realizzata proprio nella maniera nella quale non possiamo fare a meno di concepirla, tutto ciò, nonostante l'aggiornamento della prospettiva, non significa uscire dal determinismo dei fenomeni, ma significa far vedere quanto sia necessario, per il fatto stesso che pensiamo e agiamo, che ci comportiamo come se questo ordine universale fosse reale, e queste obbligazioni fondate. In effetti il compito e la forza della scienza stanno nell'escludere ogni possibilità di dubbio legittimo, nel costringerci, attraverso la via indiretta della necessità, al riconoscimento della verità che è in noi prima di essere nella scienza, e che questa attinge solo alla fine, mentre noi viviamo di essa fin dal principio. - Quindi ora che risulta chiarito il senso di questa indagine inedita e la portata della soluzione da trovare, bisogna vedere qual è la genesi e l'organizzazione del problema in questione. Dalla contestualità globale dei fenomeni si ricava sia che è impossibile arrivare legittimamente al problema ontologico prima di aver percorso tutti quegli anelli concatenati, sia che è impossibile non arrivarvi dopo aver sviluppato tutto quel determinismo dell'azione. Per porre con precisione e competenza scientifica il problema della conoscenza e dell'essere, bisogna prima aver definito esattamente il sistema globale delle relazioni che si inseriscono tra i due termini estremi. Dal volontario al voluto, dall'ideale concepito al reale operato, e dalla causa efficiente alla causa finale, bisogna attraversare tutti i termini intermedi prima di avere il diritto di volgersi retrospettivamente, e di vedere nella dileguante successione dei fenomeni la solidità stessa dell'essere. Ma, una volta che esso ha abbracciato l'insieme delle operazioni transeunti che a poco a poco rendono la causa finale immanente alla causa efficiente, è altresì una necessità per il pensiero far sì che tutta la serie dei suoi oggetti partecipi alla realtà del termine che era già presente fin dal punto di partenza. Di qui scaturisce una duplice conseguenza. - Siccome l'inevitabile determinismo dell'azione, inglobando tutta la sequenza dei mezzi necessari, ci conduce per forza di cose a quel termine, ne risulta che in noi si da una conoscenza certa dell'essere alla quale non possiamo sottrarci. E questa conoscenza, esplicita o meno, è anche coestensiva al suo oggetto. Per cui si può dire che tra l'essere e il conoscere si da una corrispondenza assoluta e una reciprocità perfetta. Infatti è impossibile che l'uomo non si formi, per quanto confusamente, la sintesi di cui la scienza dell'azione ha appena compiuto l'analisi, ed è impossibile che questa sintesi, assumendo ai suoi occhi un valore oggettivo, non rappresenti realmente quello che si deve conoscere e si deve fare. - Siccome, d'altra parte, per raggiungere il termine bisogna passare per l'alternativa e risolvere il problema pratico che ci si prospetta come una questione di vita o di morte, ne risulta che tra la conoscenza e l'essere sussiste un'eterogeneità radicale, che tra la visione e il possesso dell'essere la distanza rimane infinita, e che, pur essendovi un essere necessario dell'azione, l'azione non necessariamente ha l'essere in sé. La natura universale delle cose, la persona umana, Dio, la vita soprannaturale sono senza dubbio condizioni richieste dall'azione e fondate sull'azione; ma non necessariamente l'azione si fonda in Dio, e non necessariamente realizza tutte le condizioni che essa stessa pone. Con questa distinzione pare che il problema della conoscenza e dell'essere assuma un senso nuovo: metodo e soluzione risultano trasformati. - Reputare che si possa approdare all'essere, e che si possa legittimamente affermare una realtà qualsiasi senza aver raggiunto il termine stesso della serie che va dalla prima intuizione sensibile alla necessità di Dio e della pratica religiosa, significa pascersi di illusioni. Non è possibile fermarsi a un oggetto intermedio per farne una verità assoluta, senza cadere nell'idolatria dell'intelletto. Ogni asserzione prematura è illegittima e, agli occhi della scienza, è falsa anche quando più tardi bisognerà ritornare a quell'asserzione, ma per un'altra via e in un senso differente. - Viceversa, reputare che la condotta umana sia indipendente da qualsiasi visione metafisica, che la prassi sia autosufficiente, e che sia possibile vivere disinteressandosi dell'essere, è un errore analogo. Al contrario delle dottrine antiche, secondo le quali la volontà agisce conformemente a un oggetto, ?at? ?????, al punto di costituire una cosa sola con esso, µet? ????? al contrario delle dottrine moderne, secondo le quali la volontà si crea il proprio oggetto e procede, non sulla strada della scienza, ma su quella della fede, bisogna dire che la conoscenza e l'azione sono reciprocamente autonome e subordinate, che tra la verità e l'essere c'è fondamentale identità e radicale eterogeneità, insomma che nel pensiero c'è una presenza necessaria della realtà senza che la realtà sia necessariamente presente al pensiero. Anche coloro che, in teoria, hanno attribuito al volere un ruolo estremamente decisivo nella conoscenza, di fatto non hanno saputo tener conto della diversità introdotta in essa dall'opzione ultimativa cui è sospesa tutta la vita dell'uomo. Viceversa, pur mantenendo al di sopra delle variazioni della libertà umana la verità dell'essere, la quale apparirà come una norma e una sanzione, bisogna mostrare che il nostro essere risulta totalmente cambiato a seconda che accogliamo o rifiutiamo l'azione in noi di questa verità. Il Verbo risplende in tutti, ma non tutti lo hanno in sé. Sarebbe strano se il problema della verità e dell'essere potesse essere risolto al di fuori della decisione pratica impostaci da quell'alternativa alla quale tutto il movimento della scienza non ha avuto altra ragione che di condurci. Quindi la conoscenza è viva o morta a seconda che l'essere, di cui porta in sé la presenza necessaria, costituisce per essa un peso morto o regna per effetto di una libera adesione. Perciò è importante approfondire questo triplice aspetto della soluzione. 1) In che modo il pensiero concepisce ineludibilmente la realtà di tutti gli oggetti che sono risultati mezzi per la volontà o condizioni per l'azione? 2) Che cosa si può respingere nella sfera dell'inevitabile concezione dell'essere? E che cosa rimane di questa realtà necessaria nel pensiero che la esclude o nella volontà che si sottrae a essa? 3) Un libero riconoscimento o un'adesione pratica che cosa aggiungono all'essere concepito necessariamente e alla verità riconosciuta per forza di cose? Insomma, in che modo l'azione consumata porta a termine tutto ciò che era servito per costituirla? Si tratta dunque di istituire per il pensiero la verità assoluta di tutte le relazioni poste di fatto dall'azione. Bisogna mostrare che le condizioni presupposte dall'azione, per adeguarsi alle sue esigenze, costituiscono al contrario una realtà che esige dall'azione ciò che è richiesto perché l'azione adegui se stessa. Pertanto mantenendo ferma tutta l'eterogeneità, bisogna ribadire tutta la contestualità tra la conoscenza e l'essere che ne costituisce l'oggetto. In un certo senso la verità dell'essere si impone totalmente dall'esterno; il suo scettro è di ferro. In un altro senso essa è scaturita totalmente dalla libertà più intima, e il suo giogo è completamente volontario. E questi due aspetti sono, se non inseparabili, almeno correlativi. Essi sono parimenti radicati in quella verità viva che, istituendo tutta la sostanza delle cose, costituisce altresì il lato positivo nella conoscenza privativa e il lato reale nell'errore che la nega. I. La natura complessiva delle cose mi è apparsa come la serie dei mezzi che debbo volere, e che di fatto voglio per realizzare il mio destino. Ma bisogna inoltre comprendere in base a che cosa quella serie di mezzi mi si esibisce come una natura reale delle cose. Perché la funzione mediatrice dell'azione risulti completamente elucidata, è necessario giustificare completamente questo duplice aspetto. Si tratta quindi di estendere perché la sequenza del determinismo pratico, così come è stata esposta dalla scienza dell'azione, riveste il carattere di una verità reale, e in che modo nasce questa nozione di esistenza oggettiva. In tal modo avremo spiegato ciò che è presente ed è affermato inevitabilmente nella più elementare delle asserzioni che pongono davanti all'intelletto la realtà di un oggetto. Infatti, se si riesce a constatare che non possiamo avere la nozione di una vera esistenza ne possiamo accertare la verità di alcuna esistenza, senza che sia almeno implicitamente compreso nella nostra conoscenza il determinismo integrale delle condizioni pratiche, ne deriveranno al tempo stesso due conseguenze: che è impossibile non istituire come oggetti per il pensiero la serie globale di quelle condizioni e che è impossibile, nonostante la totale eterogeneità degli anelli che formano la catena, affermare la verità di uno di quegli oggetti contestuali senza coinvolgere nella medesima affermazione tutti gli altri oggetti. Mostrare come nasce in noi l'idea di esistenza oggettiva, far vedere in che modo questa si applica a ciascuna componente della serie complessiva, indagare in che modo il valore della serie porti giovamento a ciascuna componente e in che modo ciascuna componente implica la serie integrale, significherà mettere in luce ciò che nella conoscenza è indipendente dalle determinazioni della volontà, ma anche ciò che subordina il possesso della verità e il senso dell'essere alla soluzione del problema pratico imposto a ogni coscienza umana da quel minimo di conoscenza necessaria. I - Qualunque cosa pensiamo e qualunque cosa vogliamo, dal solo fatto di pensare e di volere, consegue l'ordine universale del determinismo. Invano tentiamo di negarlo o di infrangerlo. Con lo sforzo fatto per distruggere o per sottrarci a quel determinismo lo poniamo e lo ribadiamo. C'è una volontà antecedente e immanente a qualsiasi deroga alle necessità pratiche. C'è un'affermazione dell'essere anteriore e intrinseca a qualsiasi tentativo di negazione anche globale. Qualunque cosa dobbiamo sussumere di qui a poco sotto queste parole, le condizioni soggettive del pensiero e dell'azione rivestono un aspetto oggettivo. Pertanto, benché il determinismo universale sia in noi nella misura in cui è implicato automaticamente in ogni passo della volontà umana, per ciò stesso ci appare sempre come indipendente dalla nostra potenza positiva, dalla nostra volontà deliberata, dal nostro pensiero riflesso. Esso costituisce per noi una natura, nel senso che, pur ratificando questo ordine mediante la nostra azione attuale, ne riconosciamo la presenza necessaria nella nostra azione. Pur essendo legato alle produzioni più intime del soggetto ( senza tale condizione non lo conosceremmo ), nondimeno ai nostri occhi ne costituisce l'oggetto ( altrimenti non potremmo vedere in esso un sistema di mezzi e di fini per la volontà ). E siccome il ruolo di questo determinismo è esattamente quello di imporre alla nostra volontà un'alternativa, sta di fatto che, potendo accettarlo o respingerne le istanze, ci troviamo di fronte a qualcosa che indubbiamente è già nostro, grazie alla produzione spontanea del pensiero, ma che al tempo stesso è fuori di noi come un referente per l'operazione voluta. In tal modo scopriamo la genesi reciproca e i rapporti tra nozioni che sembrano del tutto differenti. La natura delle cose ci appare come una realtà oggettiva, perché si impone a noi con l'unità del determinismo, e perché ci impone una libera opzione. Questi due aspetti del problema, davvero contestuali, sono ugualmente indispensabili per qualsiasi concezione di un'esistenza reale. Per giungere alla mera idea di una sussistenza oggettiva, è necessario che questa nozione sia assicurata da un duplice atto di intelligenza e di volontà. Pertanto nella misura in cui non possiamo fare a meno di porre questa catena di necessità che sono la condizione della nostra attività pratica, qualunque essa sia, siamo ineluttabilmente condotti ad attribuire a quest'ordine complessivo delle cose un'esistenza oggettiva, perché, se così si può dire, questa verità reale degli oggetti del pensiero è prelevata dalla stessa sostanza della volontà. E la questione si decide anteriormente al gioco dialettico delle idee, laddove il dubbio più eccessivo non penetra, al di sotto della sfera dell'intelletto, prima dell'intervento delle nozioni discorsive, più a fondo del piano in cui le necessità intellettuali fanno pesare il loro giogo, fino al principio stesso della nostra personale adesione alla nostra natura, fino al punto in cui noi vogliamo noi stessi. Noi siamo irrimediabilmente, e le cose sono per noi irrimediabilmente. E non dimentichiamo mai che si tratta della serie integrale. Nel sistema delle cose, nulla vige se non per la continuità e l'unità del determinismo globale. Per proporre all'intelletto la minima idea dell'insieme, bisogna proporre alla volontà, almeno confusamente, l'alternativa che la coinvolge globalmente. Per quanto siano distinti, l'uso speculativo del pensiero non è mai indipendente dall'uso pratico della vita. E se la sterminata molteplicità degli oggetti è a prima vista inglobata nell'idea astratta di esistenza oggettiva e nella cornice vuota di un determinismo unico, ciò avviene perché il destino è interamente subordinato a un'identica questione, all'unico necessario. La serie delle cause efficienti che fornisce all'intelletto il concatenamento intelligibile dei suoi oggetti, e gli prospetta il problema dell'essere, è al tempo stesso correlativa e irriducibile al sistema delle cause finali, il quale con la gerarchia dei mezzi offerti alla volontà, ci induce a risolvere il problema del nostro essere. Quindi questa doppia unità di serie e di sistema è necessaria per qualsiasi nozione noi abbiamo di un oggetto, ossia per qualsiasi pensiero. E, reciprocamente, la mera idea di un'esistenza oggettiva implica la doppia legge che istituisce un solo e identico determinismo. In sintesi, ciò che è necessariamente volontario è concepito come reale e indipendente da noi, perché deve essere voluto liberamente. Causalità e finalità, oggetti concatenati di fronte all'intelletto e fini coordinati nella volontà: ecco come l'essere e il pensiero sono l'uno per l'altro. L'idea dell'essere è soggettiva, perché la coinvolgiamo in ogni atto di volontà. L'idea dell'essere ha per noi un senso oggettivo, perché ciò che è prodotto in noi ci appare come un sistema di mezzi e di fini ancora esterni al nostro volere e al nostro essere. Infatti senza l'assimilazione di questi oggetti e senza il possesso di questi fini noi non siamo quello che vogliamo essere. Questa d'altra parte non è che la mera nozione astratta e generale dell'esistenza oggettiva. Ma, per spiegarne la genesi necessaria nella coscienza, bisogna già arrivare a scorgere che il problema intellettuale dell'essere è posto nel momento stesso in cui si pone il problema morale del nostro essere. II - In noi nasce per forza di cose l'idea di un determinismo al tempo stesso unico e globale. Siamo di fronte a una serie e a un sistema. Ma non è sufficiente concepire la cosa in questi termini. Siccome affermiamo la realtà del sistema, è una necessità affermare la realtà degli oggetti che lo costituiscono e senza i quali esso non sussiste. Non soltanto il fenomeno che occupa un posto nella serie delle cause e degli effetti non sussiste realmente nel nostro pensiero se non occupa un posto nel sistema dei mezzi e dei fini; ma inoltre non esiste davvero per noi, se non riempie con la sua natura singolare la cornice vuota della mera possibilità. Anche le leggi che governano il concreto, fossero pure la legge della convenienza e dell'armonia o quella di finalità, non sono altro che astrazioni. Perché la nozione di esistenza oggettiva sussista nella coscienza, è necessario che questa concezione astratta si realizzi in oggetti concreti. Perciò la conoscenza fa tutt'uno con l'affermazione di una realtà determinata. Questa affermazione è un fatto, indipendentemente dallo stesso valore degli oggetti. La nozione di una conoscenza oggettiva e quella di un'esistenza reale, per quanto nettamente distinte, sono connesse. Non basta quindi ricercare, nel doppio legame del determinismo e della finalità, il segreto della nostra ineludibile credenza in una realtà esterna. La catena del determinismo non sussiste che grazie a ciò che essa concatena e determina. Non il sistema, ma ciò che esso contiene, ossia ciascuna delle sintesi originali, ognuna delle quali racchiude la legge complessiva, la natura singolare e la qualità irriducibile di ciascuno degli oggetti dati all'intuizione: di questo bisogna fondare il valore oggettivo. Essi hanno un valore oggettivo perché è necessario che questo determinismo medesimo ne abbia uno per noi. Ogni componente è sostenuta dalla serie completa, e la serie è ricca del contenuto di ciascuna componente. Ogni anello intermedio partecipa della solidità del tutto e possiede un'esistenza a parte, come un mondo a sé. Ecco in che modo nel quadro della contestualità globale e della continuità universale ogni sintesi particolare si presenta con un carattere di assoluta eterogeneità e di totale originalità. Ecco in che modo altresì ogni oggetto particolare può diventare per la volontà la materia di un'opzione, e ci può indurre a risolvere l'alternativa che decide della vita. Da tutto ciò si ricava la nozione esatta che conviene avere di quel determinismo. L'unità che quest'ultimo istituisce tra tutti i suoi termini eterogenei non è esclusivamente né quella di una logica analitica, ne quella di una costruzione matematica, ne quella di una sintesi sperimentale, ma è quella del più complesso dei nessi, il nesso causale. Per quanto riguarda la causalità sono state elaborate due idee estreme. - O si è visto, nel concatenamento delle cause e degli effetti, un rapporto meramente intelligibile e una legge del pensiero che è possibile dedurre a priori, come se quel determinismo si riducesse al collegamento necessario dei movimenti, e come se la spiegazione meccanica della natura, e le stesse deduzioni matematiche, avessero quella coerenza e quella sufficienza di cui abbiamo assodato che non si possono avvalere. - O si è vista, nella sequenza tra gli antecedenti e i conseguenti invariabili, unicamente una relazione arbitraria e una successione di fatto. Ambedue queste concezioni trovano posto in una dottrina più ampia. È vero che la contestualità di tutti i termini della serie è una necessità per il pensiero; ed è vero altresì che ciascun termine è così nuovo in rapporto a tutti gli altri da cui dipende come dalle sue condizioni che è impossibile dedurlo da essi. E se queste due concezioni sono ugualmente fondate, ciò avviene perché, invece di vedere nella causalità universale o una verità specificamente soggettiva o una relazione esclusivamente empirica, bisogna spingere l'indagine più in là, e vedere in essa la legge necessaria che esprime idealmente al pensiero il concatenamento reale delle necessità pratiche di cui la volontà stessa ratifica le esigenze. Di qui il carattere ambiguo del nesso causale. Per approfondirne la natura logica, bisognerebbe risalire fino al punto in cui si rivelerebbe l'unità dell'uso analitico e dell'uso sintetico del nostro pensiero. Dunque la duplice affermazione implicata nell'idea del nesso causale è, da un lato, l'idea astratta di una realtà sussistente in sé, dall'altro, la nozione della qualità singolare e concreta che determina l'idea medesima di questo determinismo. E gli elementi di questa sintesi sono ugualmente indispensabili alla conoscenza distinta del minimo oggetto, e quindi al compimento dell'atto umano più insignificante, poiché è proprio dell'azione umana di determinarsi in forza della visione di un oggetto o della visuale di un fine. Ecco che, a poco a poco, ci avviarne verso questa conclusione. L'idea necessaria che abbiamo della realtà oggettiva, benché in noi sia indipendente da ciò che può essere voluto da noi, ha come effetto necessario di subordinare all'uso della nostra volontà il possesso di quella realtà medesima. Ciò che si da di inevitabile nella conoscenza è implicato in qualsiasi moto volontario. Ecco perché è inevitabile che quella conoscenza necessaria, non ancorandosi mai al carattere meramente soggettivo di cui è rivestita, ci ingiunga di agire, e faccia dipendere la sua portata oggettiva dall'azione voluta. IlI - Da quanto precede scaturisce una triplice conseguenza. 1. Ciascuno degli oggetti successivi, che ci è apparso come una sintesi irriducibile alle sue condizioni elementari, deve essere considerato qual è, nella sua originalità specifica, indipendentemente dalle relazioni che intrattiene con tutto il resto. La sua natura e la sua verità sono date da quello che esso ha di eterogeneo e di proprio; esso sussiste così come è dato all'intuizione. E quanto di anteriore o di ulteriore va scoperto in quell'oggetto costituisce il nuovo obiettivo di un'indagine ulteriore o anteriore, che rivelerà la natura differente di altre sintesi ugualmente irriducibili. Per esempio, tentare di rappresentarsi sotto i fenomeni sensibili altri fenomeni più veri di quelli significa essere vittima di un miraggio e correre dietro un'ombra, dimenticando di prendere la realtà data per quello che è. Ciò che sta dietro la sensazione non è più la sensazione. 2. Ma, nello stesso tempo, ogni termine, non cessando di essere eterogeneo in rapporto a tutti gli altri, è legato a quelli con una tale contestualità, che non si può conoscere né affermare uno di loro senza coinvolgerli tutti. Quindi gli oggetti concatenati da questo determinismo non sono né più né meno reali in un punto della serie piuttosto che in un altro vicino. Non bisogna cercare il segreto dell'uno nell'altro, né bisogna credere che si possa ammettere l'uno senza l'altro. Tutti, essendo ugualmente reali, sono ugualmente inconsistenti e ambigui. 3. Non si da dunque alcun oggetto rispetto al quale sia possibile concepire e affermare la sua realtà senza abbracciare con un atto di pensiero la serie globale, senza assoggettarsi di fatto alle esigenze dell'alternativa che da essa ci è imposta, insomma senza passare per il punto in cui brilla la verità dell'Essere che illumina ogni ragione, e di fronte al quale ogni volontà deve pronunciarsi. Abbiamo l'idea di una realtà oggettiva, affermiamo la realtà degli oggetti; ma per farlo è necessario porre implicitamente il problema del nostro destino, ed è necessario subordinare a un'opzione tutto quello che siamo e tutto quello che esiste per noi. Noi arriviamo all'essere e agli esseri solo passando per quell'alternativa; in base al modo in cui la decidiamo, inevitabilmente cambia il senso dell'essere. La conoscenza dell'essere implica la necessità dell'opzione; l'essere nella conoscenza non è prima, ma dopo la libertà di scelta. II. Pensando e agendo poniamo in modo del tutto spontaneo davanti a noi un sistema di condizioni e di oggetti che rimangono indipendenti dal nostro intervento riflesso, e che assumono ai nostri occhi un carattere di realtà oggettiva. Quello che in tal modo sembra sfuggire alla nostra azione, quello che non possiamo fare a meno di pensare e di affermare, è proprio ciò che, in apparenza, si da di più reale e di più sicuro al di fuori di noi. Ma non c'è da farsi illusioni: l'idea di esistenza oggettiva e l'ineludibile fede negli oggetti della rappresentazione non esprimono altro che una necessità interna. L'autentica realtà degli oggetti che si impongono alla conoscenza bisogna scorgerla in quello che è possibile accettare o rifiutare. Ma ancora una volta non si tratta di attribuire a questa asserzione una portata che a prima vista non ha. Affermando che la conoscenza privativa dell'essere ha una realtà positiva, non facciamo altro che dipanare le esigenze del pensiero e della prassi. È in gioco, se così si può dire, la costituzione del t? p??? d??a? universale. I punti, quindi, che adesso vanno chiariti sono i seguenti: far vedere come tutto ciò che di oggettivo la visione della mente prospetta può essere escluso, non in quanto si tratta di una visione soggettiva, ma in quanto si tratta di una verità reale per il soggetto stesso; far vedere in che modo quell'esclusione, anziché lasciare le cose come stanno, abolisce il possesso, ma non il bisogno e la conoscenza della realtà conosciuta; infine spiegare in che modo questa conoscenza privativa ricava dall'essere escluso la stessa sanzione dell'atto che lo respinge. I - La natura universale delle cose si impone al pensiero come una serie di oggetti e come un sistema di fini particolari. Questa necessità intellettuale non fa altro che esprimere le condizioni della nostra vita interiore. Essa ci ingiunge di determinare il nostro atteggiamento nei confronti di ciò che in noi è spontaneo e volontario senza essere ancora voluto. Quindi la verità reale degli oggetti, il loro essere non consiste nell'inevitabile rappresentazione che ne abbiamo, ma nel fatto che dipende da noi di volere o di non volere in essi. Perché tali oggetti siano in noi, è necessario che noi vogliamo che siano per noi ciò che sono in sé. Ora, come abbiamo visto, la ragion d'essere del determinismo globale è stata quella di indurci o a ratificare le necessità apparenti che pesano sulla nostra vita, subordinandole, quasi fossero la nostra stessa volontà, alla volontà divina che ne è il principio comune, o a respingere non certo l'ineludibile conoscenza di quel determinismo, ma le esigenze pratiche che esso ci prospetta. Subire le necessità intellettuali non significa ancora uscire da sé. Accettare o respingere le esigenze pratiche significa accogliere in sé o espungere da sé la realtà da cui derivano queste stesse necessità. Ora per aprire un varco a questa realtà bisogna riceverla non in quanto essa è subordinata a noi, ma in quanto noi dipendiamo da essa. E siccome, nonostante la molteplicità degli oggetti, la catena è unica, per noi si tratta di includere o di escludere la presenza reale dell'intero sistema. Quindi tutto dipende dall'atteggiamento che si assume di fronte all'unico necessario, poiché è il principio dell'intera serie, e poiché la sequenza del determinismo globale ha come effetto di condurci incontrovertibilmente a esso. Senza l'essere non si danno altri esseri in noi; con lui tutti saranno presenti. Perciò, sottraendosi agli obblighi che si sono presentati come le condizioni vivificanti dell'azione volontaria, ci si preclude al tempo stesso l'accesso, ci si priva del possesso della realtà conosciuta, ma senza per questo abolire la conoscenza della realtà. Questo punto va compreso bene. II - Sembra strano che la conoscenza della realtà, per quanto coestensiva alla realtà che deve essere presente alla conoscenza, possa essere radicalmente distinta da essa, e che sorga una differenza specificamente intellettuale tra la conoscenza necessaria e la conoscenza involontaria di una verità il cui oggetto è identico. E tuttavia non si da distinzione che sia meglio fondata e più rilevante. Quello che è necessario nella nozione che possediamo della verità oggettiva ha come effetto incontrovertibile di prospettarci un'alternativa ineludibile. È dunque impossibile che le cose rimangano come sono. La conoscenza che, prima dell'opzione, era meramente soggettiva e propulsiva diventa, dopo, privativa e costitutiva dell'essere. Senza cambiare oggetto, cambia natura. Conserva tutto quello che è necessario nel suo spazio, ma perde tutto quello che avrebbe dovuto essere volontario. Confinandosi in quello che era, perverte il senso del dinamismo che aveva in sé, che si identificava con se stessa; ma non ne elimina gli effetti. Il dinamismo andava nel senso dell'essere, per riempire la conoscenza con la realtà che quella presentava a una libera adesione. Adesso va ancora nel senso dell'essere, ma per svuotare la conoscenza di quella realtà che essa continua a esigere in forza di un'istanza necessaria. E il risultato di quella privazione volontaria è senz'altro una differenza intellettuale tra queste due conoscenze, positiva e negativa, che a prima vista potremmo ritenere identiche, perché, a parte il segno, coincidono in tutto e per tutto e hanno la medesima estensione. In effetti la prima, quella che pone necessariamente il problema e ci procura una visione globale, anche se spesso confusa o ridotta, dell'ordine universale, non è altro che una rappresentazione dell'oggetto nel soggetto. O meglio ( volendo sottolineare chiaramente l'origine di questa verità soggettiva ), non è altro che la produzione da parte dell'uomo dell'idea secondo cui gli oggetti del suo pensiero e le condizioni della sua azione sono per forza di cose reali. La seconda conoscenza, che è successiva alla determinazione assunta liberamente di fronte a quella realtà concepita necessariamente, non è più semplicemente una disposizione soggettiva. Invece di porre il problema pratico, essa ne traduce la soluzione nel nostro pensiero; invece di metterci in presenza di quello che è da fare, condensa in quello che abbiamo compiuto ciò che è. Si tratta dunque veramente di una conoscenza oggettiva, anche quando si riduce a constatare il deficit dell'azione. Infatti quello che, prima di consumare l'opzione, non è altro che visione della mente, diventa, dopo, coscienza di una lacuna reale e, se così si può dire, di una privazione positiva. IlI - In tal modo intravediamo quello che risulta ineludibilmente oggettivo nella nostra conoscenza. Anche quando abbiamo la pretesa di limitarci a ciò che è presente necessariamente al pensiero e che peraltro risulta meramente soggettivo, la verità rinnegata ed esclusa appartiene all'essere. Quindi, dopo averne espunto tutto quello che possiamo non volere, in essa rimane più di quello che era semplicemente necessario. Senza dubbio per colui che la respinge e che rifiuta di farne l'asse della propria vita, la verità non è come per colui che se ne nutre, e tuttavia essa esiste ancora. Per quanto sia completamente differente nell'uno e nell'altro, il suo regno non rientra nella visuale dell'uno più che in quella dell'altro. In questo modo, beninteso, si salva perfettamente la distinzione e la contestualità tra la conoscenza e l'essere. - La distinzione è totale. Essa è messa in evidenza con quel metodo delle falsificazioni ( suppressions ) che sembra isolare la verità dalla realtà, al punto di renderle opposte l'una all'altra. Infatti se il pensiero ci prospetta per forza di cose l'ordine universale delle cose, questa rappresentazione della realtà è indipendente dall'atto da cui dipenderà che la realtà stessa sia o non sia per noi e in noi. - Ma anche la contestualità è totale. Infatti se il volere risolve il problema prospettato dall'intelletto, a sua volta la natura della soluzione, ossia il senso stesso dell'essere e il modo con cui la verità è in noi, è legata all'opzione della volontà. Quindi non si può dire ne che il pensiero e l'azione sono indipendenti, ne che sono subordinati. Essendo intimamente uniti, ognuno di essi è originale in rapporto all'altro, come la stessa verità e realtà. Perciò ognuno dei due termini costituisce per l'altro, vicendevolmente, una norma e una sanzione. Nell'uomo che agisce come se gli esseri esistessero senza l'Essere, e che accetta i mezzi senza orientarli verso il suo fine, la volontà continua a produrre l'esigenza di tutto l'essere che occorre alla conoscenza, e la conoscenza estende, pur escludendolo, tutto l'essere necessario alla volontà. Essa certamente afferma l'infinito di cui abbiamo bisogno nei confronti di chi l'ha negato, ma per rifiutare a colui che l'ha negato tutto ciò che gli asserisce. Al di sopra degli errori e delle deviazioni di qualsiasi natura sussiste una verità che, portando in se stessa la propria luce, costituisce la convalida di se stessa, una verità che conserva i suoi diritti sovrani su ogni ragione e su ogni libertà, con tutta la precisione e tutto il rigore della necessità. Alla domanda " qual è il minimo di essere che persiste nell'uomo che ne ha diffalcato tutto quello che può essere non voluto? " si deve dunque rispondere: in costui rimane integra e positiva la conoscenza soggettiva della verità. A sua volta la conoscenza della realtà è integra, ma negativa. La sanzione consiste insieme in quello che conosce e in quello che non conosce dell'essere reale. Infatti, sapendo quello che bisogna sapere, sa parimenti che il possesso reale di quello di cui si è privato gli avrebbe arrecato un'eccedenza infinita di luce e di gioia. Resta dunque da definire questa eccedenza. Infatti la privazione è reale solo in base al contrasto con il possesso autentico, ed è sempre proprio dell'azione conservare in sé qualcosa dei contrari tra i quali ha optato, qualcosa di quei termini che ha escluso. Ma altresì la sintesi da essa creata è sempre originale, e la scienza dei contrari non è mai identica. Se la conoscenza soggettiva della verità, per quanto coestensiva alla conoscenza privativa della realtà, è risultata del tutto diversa da essa, la conoscenza compiuta, che unisce alla visione del vero il possesso integrale del reale, differirà dall'una e dall'altra, per quanto quelle due non sussistano che in riferimento a questo compimento perfetto. III. Perché la verità abiti realmente nella conoscenza che ne abbiamo, occorre che nello spazio della sua necessità noi vogliamo ciò che può essere non voluto, e che istituiamo l'equazione tra il quantum di libera adesione che essa esige e il quantum di chiarezza inevitabile che ci impone. Può darsi che ci sia l'impressione di creare confusione tra competenze, e di attribuire alla conoscenza un carattere che non è più specificamente intellettuale, perché palesemente è subordinato a un atto volontario. Ma apriamo bene gli occhi. Quando vogliamo, non si tratta di far sì che la realtà sussista in sé, in quanto un decreto arbitrario l'avrebbe creata in noi. Si tratta invece di far sì che sia in noi perché è e come è in se stessa. Questo atto di volontà non la fa dipendere da noi, ma ci fa dipendere da essa. Il ruolo di quella conoscenza necessaria che precede e prepara l'opzione è precisamente quello di essere una regola inflessibile. Ma dal momento in cui ciò che ha di necessariamente volontario è voluto liberamente, essa non cessa per questo di essere una conoscenza. Al contrario ottiene il guadagno di veicolare, realmente presente in essa, l'essere di cui finora aveva soltanto la rappresentazione. Ciò che era semplicemente un'idea dell'oggetto diventa, in maniera perfettamente vera, certezza oggettiva e possesso reale.7 Poiché la conoscenza ha bisogno di essere integrata e quasi riempita da una libera adesione, la quale senza mutarne la natura ne cambia la portata, che cosa bisogna accogliere in sé per immetterlo in quella? In che modo si trasfonde in noi questa pienezza dell'oggetto? Se, per conoscerli davvero, dobbiamo donarci agli altri, quale mezzo c'è di donarli a noi e di donare noi a noi stessi? Da dove deriva che, anziché essere una causa di confusione, l'unione universale appare come la condizione della distinzione reale tra gli esseri? In che modo le stesse apparenze che li distinguono devono e possono essere fondate in assoluto? In che senso sussiste il determinismo dei fenomeni? Infine, in che modo persino quello che sembra possa essere visto soltanto dall'esterno deve essere reintegrato nell'essere, servendo alla costituzione dell'autentica esistenza oggettiva? Sono questi i problemi di cui adesso bisogna indagare il senso. Comprenderli bene significherà risolverli, perché significherà constatare semplicemente la sequenza necessaria delle relazioni che li fanno nascere l'uno dall'altro, avviandoli attraverso una serie di progressi provvisori fino alla soluzione definitiva. Si tratta infatti di vedere in che modo tutto quel determinismo, prodotto e implicato automaticamente in ogni operazione volontaria, quel determinismo che deve essere accolto e voluto da quello che c'è di più intimo in noi, trova tuttavia tra quei due poli soggettivi una consistenza propria e una realtà veramente oggettiva, senza peraltro che questa cessi di essere nostra. È questo il solo mezzo per amministrare bene ciò che la conoscenza deve attingere da se stessa e dall'essere contemporaneamente, e per conciliare la necessaria originalità del pensiero con la necessaria autorità della verità. I - A livello della nostra conoscenza l'ordine universale è reale soltanto nella misura in cui accettiamo quello che c'è di necessario. Ora noi non possiamo accettare ogni cosa, non possiamo accettare noi stessi, senza passare per " l'unico necessario ", nel quale giustamente si è visto il principio del determinismo totale. Se la nostra volontà personale ci impedisce di giungere alla nostra volontà vera, niente può essere in noi realmente finché non abbiamo abbandonato questa solitudine dell'egoismo, sostituendo con il volere divino l'amor proprio, il quale volendo guadagnare perde tutto. Occorre dunque comprendere questa doppia verità: noi non potremmo arrivare a Dio, affermarlo veramente, fare come se esistesse e fare realmente sì che esista, averlo in noi, se non esistendo per lui, sacrificando a lui tutto il resto; ma tutto il resto entra in comunicazione con noi soltanto attraverso questo mediatore, e l'unico modo di guadagnare il piano del tutti per tutti è quello di cominciare con il solo a solo con lui. No, non si potrebbe essere ne per sé ne per gli altri senza essere dapprima per lui. Dimitte omnia et invenies omnia. Conoscere Dio realmente significa dunque portare in sé il suo spirito, la sua volontà, il suo amore. Nequaquam piene cognoscitur nisi cum perfecte diligitur. Se egli si offre all'uomo sotto una forma di annichilimento, l'uomo non può offrirsi a lui se non annichilendosi, egli pure, per restituirgli il suo privilegio divino. Il sacrificio è la soluzione del problema metafisico attraverso il metodo sperimentale. E se l'azione, lungo tutto il corso del suo sviluppo, è risultata una fonte inedita di chiarezza, è necessario altresì che proprio al termine la conoscenza che consegue all'atto perfetto di abnegazione contenga una rivelazione più piena dell'essere. Essa non lo vede più dal di fuori, ma lo ha colto, lo possiede, lo trova in sé. La filosofia autentica è la santità della ragione. La volontà ci aliena e ci assimila al suo fine, l'intelletto ci assimila e ci ottiene il suo oggetto. Ecco perché, donandoci a Dio con una dedizione totale, possiamo penetrarlo meglio col nostro sguardo. La purezza del distacco interiore è l'organo della visione perfetta. Non è possibile vederlo senza possederlo, possederlo senza amarlo, amarlo senza rendergli l'omaggio da parte di tutto quello che esiste, per ritrovare in tutto unicamente la sua volontà e la sua presenza. Qualunque cosa ci costi, noi vogliamo che lui sia quello che è; e in tal modo lui diventa in noi quello che è in sé. Perciò quando presumiamo di raggiungere direttamente una cosa qualsiasi, sbagliamo strada. È impossibile imbattersi realmente in un altro essere, è impossibile imbattersi in se stesso, senza passare per questo unico necessario che deve diventare la nostra unica volontà. Possiamo guadagnare una nostra consistenza interiore soltanto se non ci separiamo da lui. Per essere uno, per essere, non è necessario che io resti solo. Ho bisogno di tutti gli altri. E tuttavia, per esprimermi con estremo rigore, al mondo non ci siamo che lui e me, per entrare in commercio immediato con l'insieme degli uomini. Da solo, con lui solo. Gli altri non c'entrano. Poco importa tutto il determinismo delle condizioni che favoriscono o intralciano la mia vita. Quello che importa è di captarne in me la sorgente e di addossarmene non più la coazione esteriore, ma la verità e l'azione intima. Tutto quindi deve essere riferito alla causa prima di tutto, sia ciò che mi piace sia ciò che mi dispiace in quel determinismo. E nulla mi colpisce, mi penetra, mi smuove, se non ciò che procede da quella causa prima. Anche quello che al di fuori può essere contrario al volere divino, in me non è altro che permesso e decisione divina. Io non entro in comunicazione che con Dio. E per questo l'espressione verbale della separazione sensibile, che comincia con l'abbraccio degli amici che ci lasciano, un abbraccio sempre lontano anche nell'amplesso più stretto, è la parola addio. Ma è altresì la parola dell'unica e autentica unione, quella consacrata dalla stessa assenza, perché quest'ultima con l'eliminazione dei legami illusori attesta la solidità del vincolo reale. Se si giunge a Dio unicamente sacrificando tutto quello che non è lui, in lui si ritrova la realtà autentica di tutto ciò che non è Dio. Non ci presentiamo mai soli alla sua presenza, perché nella testimonianza che lo riconosce davvero è inglobato l'omaggio e il dono di tutto l'universo. Ma non lo ritroviamo mai solo, perché dopo aver sacrificato all'Essere tutti gli esseri che non esisterebbero senza di lui, recuperiamo in lui tutti gli esseri che esistono grazie all'Essere. L'illusione del distacco senza compenso provoca la verità e la gioia del possesso senza eccezione. Adesso dunque bisogna comprendere in che modo si realizza in noi l'unione universale, prima di vedere in che modo da questa comunione totale dipenda il nostro essere noi stessi e il nostro rimanere distinti nell'incomunicabile singolarità della persona umana. II - L'intelligenza profonda dei sentimenti altrui ha sempre come causa o come effetto un legame affettivo. È una verità dell'esperienza comune, ma che interessa il fondo della nostra natura. L'essere è amore; quindi se non si ama, non si conosce niente. E per questo la carità è l'organo della conoscenza perfetta. Essa depone in noi quello che è nell'altro. E rovesciando, per così dire, l'illusione dell'egoismo, ci inizia al segreto di qualsiasi egoismo diretto contro di noi. Nella misura in cui le cose esistono, agiscono e ci fanno patire. Accettare questa passione, recepirla attivamente, significa essere in noi quello che esse sono in loro. Dunque escludersi da sé, mediante l'abnegazione, significa generare in sé la vita universale. Ed è facile dare una spiegazione. Ciò che si impone necessariamente alla conoscenza non è altro che l'apparenza. E ciascuno conserva nel suo fondo l'intima verità del proprio essere singolare. In me c'è qualcosa che sfugge agli altri, e che mi innalza al di sopra di tutto l'ordine dei fenomeni. E anche negli altri, se sono come me, c'è qualcosa che mi sfugge, e che sussiste solo se mi è inaccessibile. Io non sono per loro come sono per me, ed essi non sono per me come sono per loro. L'egoismo è sconvolto dalla sola idea di tanti egoismi antagonistici. E, nonostante tutta la luce della nostra scienza, rimaniamo avvolti nella solitudine e nell'oscurità. Soltanto la carità, collocandosi nel cuore di tutti, vive al di sopra delle apparenze, si comunica fino all'intimità delle sostanze, e risolve completamente il problema della conoscenza dell'essere. Essa ha quello straordinario privilegio per cui, senza privare nessuno di ciò che gli appartiene e partecipando con la semplice intenzione al bene degli altri, fa proprio tutto quello che essi hanno a livello di vita e di azione. E come possiamo conferire l'atto e l'essere ad altri noi stessi? In che modo " l'altro e io " diventano identici nell'assoluto? In che modo gli altri sono in noi e per noi quello che sono in loro e per loro, se non quando noi diventiamo per noi stessi quello che siamo per loro e quando essi diventano per noi quello che sono per loro? Non è dunque sufficiente una giustizia formale, che consideri unicamente nella persona il suo carattere impersonale e la sua astratta dignità in quanto uomo. È necessario che, facendoci per così dire oggetto impersonale e strumento dedito al servizio degli altri, arriviamo fino a quell'amore che abbraccia le caratteristiche spesso così urtanti dell'individuo. Ognuno in tutti tranne che in sé, è questo il motto della carità, la quale accorda agli altri la tenerezza indulgente che rifiuta a sé e, non contenta di essere buona con loro, accetta ugualmente sia la loro ingratitudine, perché vince facendo del bene a chi non è buono, sia la loro bontà, perché vince altresì diventando obbligata nei loro confronti, e praticando l'arte di ricevere, che è più difficile e forse superiore alla scienza del dare. Perché rinfacciamo agli altri di essere egoisti solo se lo siamo noi, e soffriamo in loro le nostre miserie. Si dà persino un desiderio estremo della perfezione negli altri che denota una carenza di perfezione in noi. Bisogna dimenticare gli altri per sé e dimenticare se stessi per loro, giudicando se stessi come se si trattasse di un altro e gli altri come se si trattasse di sé. Quante volte, per biasimarli, li mettiamo al nostro posto senza mettere noi al loro posto! Essere tutto per tutti significa essersi dilatato al punto da non avere più né particolarità né difetti. Amare gli uomini senza illusioni significa dare loro tutto, senza chiedere niente in contraccambio, senza aspettare niente da loro, senza rifiutare niente di buono da loro. La vita universale non è la somma astratta delle forme impersonali del pensiero o dell'essere. Essa si compone di tutta la varietà delle coscienze e delle sensibilità. Possederla in sé significa dunque essere egoista in tutti e trasformare in felicità il martirio della vita comune. La felicità razionale è la felicità degli altri. Ed esercitare su di loro un'azione favorevole significa farli agire bene. Così la verità dell'amore si estende fino alla vita sensibile, fino ai corpi sofferenti, fino all'elemento della materia bruta. Limitarsi a una misericordia affettata, che col pretesto di far elevare gli uomini al suo livello non è accondiscendente con loro, non significa affatto amarli, conoscerli. L'uomo che bisogna comprendere e amare è formato da questa miseria fisica e morale che sembra non farne più un uomo. E non bisogna credere che questo sia soltanto una questione di sentimento. Siamo sempre portati a dimenticare che non ci è lecito fare una specie di selezione nel campo del determinismo universale e di accettarne una parte per respingerne l'altra. Se prima non passiamo attraverso tutte le sue esigenze, non possiamo abbracciarne nulla in noi. Come per amare e per conoscere un uomo è necessario amarlo, così bisogna amarli tutti a livello di intenzione, e, all'occorrenza, anche di fatto, amarli come sono, senza aspettare che siano come dovrebbero essere. Per donare loro l'essere in noi, è necessario che volontariamente ci attrezziamo di pazienza verso la loro azione reale. Tutto concorre a tale azione; di conseguenza in essa niente sarà reale, o lo sarà tutto, anche quello che ha di più individuale e di più sensibile. Come abbiamo visto, è proprio questo elemento sensibile che costituisce il vincolo universale della solidarietà. Sicché l'amore più sconfinato è quello più puntuale, e per portare nel proprio cuore l'umanità intera, bisogna dedicarsi con ogni cura e con la massima concretezza a qualche umile opera di misericordia. Solo a questa condizione la carità è autentica e, se è consentito dirlo, scientifica. Essa è universale e si prende cura sempre di ciò che è unico. Altrimenti, con quale diritto e in nome di quale virtù si sacrifica la propria vita per salvare quella di un altro, e un uomo si perde per preservare un altro uomo? Quando si conserva nell'altro la vita transitoria, mentre la si perde per sé, si guadagna in sé la vita che non passa. Sottraendo alla distruzione quel corpo, si rende un culto alla carità indelebile, la quale coniuga insieme tutti i membri dell'umanità. Ogni volta che una figura di uomo trapassa, bisogna sentire che dovremmo essere pronti a morire per il più umile dei piccoli: la morte è il trionfo dell'amore e l'accesso alla vita. Essa diventa come un dovere, e il dovere non è che la morte. Questa passione è ancora più attiva e più eroica quando è causata dalle miserie morali. E come presumere che l'amore sia interessato e mercenario, quando spinge la persona misericordiosa ad amare, a costo di tanti dolori, coloro che si pervertono, quando la porta a morire per l'uomo traviato, se occorre? Come se questa morte volontaria fosse l'unica maniera per conoscere coloro che si separano dalla vita, per rimanere ancora legati a coloro che si distaccano di propria iniziativa dalla comunione umana. Gli uomini si accostano soltanto a coloro che soffrono dei loro stessi mali, perché soltanto da questi sono conosciuti. L'amore e la scienza degli uomini formano una sola cosa. Pertanto, secondo una bella espressione di Leibniz, " amare tutti gli uomini e amare Dio è la stessa cosa ", perché in tutto e per tutto c'è soltanto lui da amare, e perché non si può conoscere nessun uomo senza abbracciarli tutti con la medesima carità. Essi si uniscono tra loro realmente solo grazie alla fiamma di un fuoco che il mondo intero non sarebbe in grado di attizzare. È dunque giustificato questo circolo: senza quell'amore attivo, che i membri dell'umanità hanno l'uno per l'altro, per l'uomo non c'è Dio; chi non ama il proprio fratello non ha la vita in sé. Ma si tenterebbe altresì invano di raccogliere gli spiriti in una famiglia respingendo il Padre degli spiriti, invano si tenterebbe di ingannare le istanze della ragione, di nascondere quel grande vuoto esaltando altri sentimenti; nel fondo delle cose, nella pratica comune della vita, nella logica riposta delle coscienze, senza Dio non c'è uomo per l'uomo. C'è quindi un'intrinseca contestualità tra questi sentimenti, tra questi atti così differenti: adorare in spirito e in verità nel solo a solo con Dio; rendere un culto al corpo dell'umanità in ciascuno dei suoi membri come se fosse il corpo di Dio vivente in ciascun punto dell'organismo universale. E, in effetti, che cos'è un organismo, se non la distinzione, e al tempo stesso l'unione, tra parti animate da una stessa vita, al punto che ogni cellula ha l'onore di tutte le funzioni, poiché solo le più umili rendono possibili le più nobili? Perciò in una società che possiede, per così dire, un'identica coscienza, ciascuno è in tutti grazie alla carità, tutti sono in ciascuno grazie alla conoscenza e all'azione. E mentre nell'ordine delle apparenze i fuochi di luce si disperdono progressivamente e perdono il loro splendore e il loro calore, qui i raggi si concentrano in nuovi fuochi. Più diamo, più abbiamo. Quale sconfinata produzione di essere e di bontà si verifica laddove la sorgente è infinita e i suoi canali di distribuzione si accrescono, irradiandosi! Ciascuno per sé, ciascuno per un altro, ciascuno per tutti, ciascuno per ciascuno, tutti per tutti, tutti per ciascuno: tutti questi amori si congiungono e si irrobustiscono quando Dio è in tutti. E la conoscenza che ne abbiamo è piena della realtà che esprime. Ma, fondendo insieme in questo modo le vite più disparate, non si espone la coscienza personale al rischio di esplodere e di perdersi in quella confusione universale? I limiti della conoscenza attuale e le peculiarità sensibili dell'individuo non costituiscono le condizioni necessario della stessa distinzione tra le persone? Facendo sparire le frontiere dell'egoismo e le ripugnanze reciproche delle sensibilità tra loro più impenetrabili degli stessi corpi, non si finisce per far svanire contemporaneamente anche quello che è sempre risultato essere " il principio di individuazione "? - No. Anziché essere causa di confusione, questa comunione universale diventa l'unico mezzo di possesso e di distinzione perfetta. Essa rappresenta l'unica maniera per realizzare la persona umana e per costituire, mediante questa, tutto il resto. Beninteso, ci rimane da giustificare la verità assoluta di questo ruolo mediatore dell'azione. III - Il problema che adesso ci si presenta è singolare. Non basta possedere la conoscenza necessaria e l'idea di una realtà oggettiva. Non basta avere accumulato volontariamente in sé quella verità reale, né aver messo se stesso nell'altro con un'azione che, comunicando agli altri tutto quello che siamo, ci riporta tutto quello che gli altri sono. Occorre anche che quelli siano loro in se stessi e che noi restiamo noi in noi stessi. E queste due condizioni sono contestuali. Infatti se ci realizziamo soltanto partecipando a quello che gli altri sono, siamo reali e diversi solo in quanto anche loro lo sono. È dunque necessario fondare la realtà esteriore degli oggetti esterni, affinché, viste dal di fuori, le cose di fuori abbiano una consistenza reale. La verità della realtà esterna oggettiva è indispensabile per mantenere la realtà interna soggettiva degli esseri. Eccoci indotti necessariamente a ricercare la realtà oggettiva delle cose non in un al di sotto sempre sfuggente, non in uno degli aspetti che esse assumono per i sensi o per l'intelletto, non in una loro essenza metafisica oppure nell'intimità di quella vita incomunicabile in cui penetriamo quando le amiamo, ma in tutto questo a un tempo. Il loro essere è precisamente l'unità di quell'apparenza molteplice e la diversità simultanea di quei fenomeni inseriti in un contesto universale. Tra i termini che la scienza dell'azione ha appena perlustrato con un continuo avanzamento, nessuno è più solido o meno solido dell'altro, finché la relazione che li unisce tutti non è eretta essa stessa a realtà. Grazie all'analisi di quella conoscenza oggetti va che sembra metterci in possesso della realtà, siamo indotti a reintegrare in essa tutta l'apparenza delle cose, e a conferire una verità sostanziale a tutte le forme della conoscenza e dell'azione, alle illusioni, persino agli errori, che sembrano privarci dell'essere. Questo obiettivo palese è l'elemento comune che costituisce l'unità dell'insieme. Quindi bisogna assodare la certezza peculiare della totalità del determinismo palese dei fenomeni, considerando non più quel tanto di conoscenza necessaria che ci impone, ma quel tanto di realtà che contiene in sé. È necessario che esso sia quello che appare e che quello che ha di necessario, di oggettivo, di esteriore, di dispotico resti tale. Tutto è connesso: se in quel determinismo non tutto fosse reale, niente lo sarebbe; bisogna allora arrivare fino all'estremo di queste istanze, mostrando non tanto che l'azione mediatrice è un fatto necessario per la costituzione di tutto l'ordine delle cose, quanto che la mediazione dell'azione è essa stessa una verità, che è reale indipendentemente dalle realtà di cui istituisce il rapporto nella nostra conoscenza e che quelle realtà medesime sussistono unicamente perché la mediazione ha una realtà intrinseca. In altri termini tutte le condizioni transitorie dell'azione, la cui palese costrizione è stata ricondotta a essere semplicemente una forma del volere nella sua massima intimità, devono diventare per la volontà stessa una necessità assoluta e una norma definitiva. Insomma si tratta di conferire al fenomeno tutto " l'essere in sé " che comporta. È necessario che vi sia un " essere in sé ". Altrimenti in mancanza di questo piccolo tassello tutto quello che abbiamo fatto si ridurrebbe a nulla, l'intero ordine della natura svanirebbe, e la stessa personalità si dileguerebbe, e niente di quello che abbiamo concepito sarebbe concepibile. La solidità dell'intero sistema è interessata alla consistenza del minimo fenomeno. E se, guardando dal basso alle condizioni più elementari dell'azione, la verità reale del fenomeno deve essere fondata perché tutto il resto lo sia, guardando dall'alto, questa stessa necessità si rivela ancora più perentoria. Nel primo caso avremmo l'annichilimento, qui l'assorbimento di ogni essere distinto nell'immensità divina. Se l'insignificante individuo che la coscienza ci mostra in noi non fosse che un'illusione effimera; se, una volta che la morte ha squarciato il velo del mistero sensibile, gli angusti limiti della stessa persona dovessero cadere per sempre, la leggenda di Cristoforo, stramazzato sotto il fardello che sembrava così leggero, sarebbe il simbolo del nostro opprimente destino. Ma no. Lungi dall'essere un impaccio e un confinamento, le determinazioni individuali sono per l'uomo la condizione e il mezzo per la sua sconfinata dilatazione. Se ha una vocazione divina, se nel cuore dello stesso infinito deve rimanere persona distinta, ciò avviene non cessando di essere un individuo, ma a condizione di rimanere tale. Omne individuum ineffabile. L'autentico infinito non sta nell'universale astratto, ma nel singolare concreto. E proprio in base a ciò si manifesta, in tutta la sua grandezza, il ruolo di quello che abbiamo chiamato la lettera e la materia, di tutto quello che costituisce l'operazione sensibile, di quello che, più propriamente, compone l'azione, il corpo dell'azione. Infatti proprio tramite questa materia la verità dell'infinito che ci soverchia si comunica intimamente a ogni individuo, e proprio tramite essa ciascuno è protetto dalla soverchiante potenza della verità infinita. Per raggiungere l'uomo, Dio deve attraversare tutta la natura e deve offrirsi a lui sotto l'aspetto materiale più crudo. Per raggiungere Dio, l'uomo deve attraversare tutta la natura e lo ritrova sotto il velo in cui egli si nasconde unicamente per essere accessibile. Perciò tutto l'ordine naturale si erge tra Dio e l'uomo come un legame e come un ostacolo, come un tramite necessario di unione e come uno schermo necessario di distinzione. E quando, grazie a una duplice convergenza, ciascuno ha percorso tutta la strada verso l'altro, e Dio e l'uomo si sono incontrati, questo ordine naturale rimane stretto nel loro amplesso reciproco, diventando così per l'uomo il sigillo della sua intima adesione al suo autore e della sua personalità inalienabile. In che modo dunque può essere realizzata, a sua volta, questa relazione mediatrice? Adesso, quindi, che risulta palese l'importanza del problema, non possiamo fare a meno di rilevarne tutta la difficoltà e persino la singolarità. Fin dalla pristina intuizione, la questione della verità reale del fenomeno sensibile emergeva palesemente come un problema insolubile. Non appena si preme la percezione immediata, ne viene fuori altro da quello che è. Ciò che la scienza ne estrae non è più, mai più, quello che il senso percepisce. L'analisi non si azzardi a tentare di sondare questo abisso che separa la qualità data dalla proprietà supposta, perché vi si perde. Attenendosi al dato intuitivo, l'analisi rimane prigioniera del fenomeno soggettivo; perseguendo l'elemento razionale che crede di cogliervi, non riesce mai più a ritornare al dato concreto. È obbligata a lasciar perdere le apparenze, ?a??e?? ???,9 e il sensibile non esiste più come sensibile. Sembra addirittura inconcepibile che esista, e a prima vista non si riesce a comprendere che cosa significhi l'essere per esso. E quanto si è appena detto del fatto sensibile bisogna ripeterlo per ogni altro oggetto di conoscenza relativo a ciascun termine della serie totale delle cose. Come le intuizioni sensibili, i concetti dell'intelletto non tollerano di essere costituiti in realtà da parte dello stesso intelletto. Ogni ordine di fenomeni solleva una critica che fa arretrare il centro di prospettiva. E tuttavia, se viene meno anche una sola pietra, l'intero edificio si sgretola rovinosamente. È dunque necessario elevare al suo quoziente di essere e di assoluto questo elemento relativo, questa apparenza dello stesso fenomeno per completare la restituzione complessiva del determinismo dell'azione. IV. Se semplicemente determiniamo la sequenza delle relazioni concatenate nella coscienza sotto la spinta coercitiva delle necessità pratiche, ecco che ci imbattiamo, dove neppure sognavamo di intravederla, nella definizione della realtà oggettiva. Invece di voler applicare al referente sempre sfuggente una nozione arbitraria e indeterminata di esistenza reale, bisogna vedere in quale punto preciso e in che senso definito quella nozione trova il suo impiego necessario. Invece di collocare la realtà in oggetti sempre incapaci di contenerla, bisogna collocare quelli nella realtà. Invece di cercare quello che è al di fuori di ciò che appare, bisogna fare di ciò che appare quello che è. Quindi il primo passo da fare è quello di comprendere che cosa significa essere, nel momento in cui si parla di esistenza oggettiva. Resterà da vedere come è possibile pensare che questo essere sia, e quali sono le condizioni necessario e sufficienti per una soluzione in grado di soddisfare tutte le istanze del problema. I - Da una parte, l'intero ordine dei fenomeni, nella misura in cui ne abbiamo una conoscenza necessaria, è coinvolto in ogni azione umana. E la stessa idea che abbiamo della sua esistenza oggettiva risulta originata in noi. Sotto questo profilo tale conoscenza necessaria è soggettiva. - Dall'altra quel determinismo globale del pensiero e della natura, nella misura in cui l'azione vi cerca il proprio alimento e i propri fini, è reintegrato nella volontà di cui era parso una produzione spontanea. Sotto questo profilo, quella conoscenza e quel possesso volontario dell'oggetto è ancora soggettivo. Ora quello che è specificamente e realmente oggettivo si colloca tra questi elementi soggettivi. In che modo? Quello che è soggettivo nella pristina produzione della conoscenza non è identico a quello che è soggettivo nel possesso finale della verità acquisita. È fuori dubbio che da un capo all'altro si manifesta quella fecondità del pensiero e quell'iniziativa generatrice senza la quale nulla avviene in noi. Ma da un capo all'altro si erge come una sorta di tramite o di ostacolo la serie complessiva delle cose di cui la scienza dell'azione ha appena dipanato il grandioso concatenamento. Dobbiamo assimilare con un'adesione pratica esattamente quello che sorge dal fondo della nostra aspirazione volontaria. Se lo vogliamo per noi, vuoi dire che non è nostro. E l'azione, nella sua tendenza a rendere soggettiva la realtà che ci viene prospettata da una prima visione soggettiva dell'oggetto, determina quello che è specificamente oggettivo nella nostra conoscenza. L'oggetto reale è esattamente la differenza tra quei due termini soggettivi. E perché quell'espressione abbia un senso, occorre che si applichi a quelle sintesi eterogenee e contestuali che ci sono apparse come intermediari naturali tra quello che vogliamo, perché non lo siamo ancora, e quello che dobbiamo essere, perché lo avremo voluto. Da sé quei due termini sono irriducibili l'uno all'altro. Ciò che per forza di cose li unisce ha per noi una realtà propria. Analizziamo dunque l'esistenza oggettiva, sotto la forma nella quale è concepita necessariamente: mai la potremo collocare altrove. Per noi costituisce una necessità il fatto che sia. Ed è necessario che sia così: essa non ha altro senso, secondo quanto costituisce la convinzione spontanea di qualsiasi uomo. La verità e l'essere non possono essere in ciò che non è conosciuto, e nemmeno conoscibile. È necessario che quello che è conoscibile sia quello che è. In che modo quello che è conosciuto in quanto oggettivo sussiste oggettivamente così come è affermato e voluto soggettivamente? È questo il punto da chiarire. In ogni forma di conoscenza ricorre questo duplice elemento, la produzione interna della nozione che appare come un oggetto, e l'oggetto che appare come un principio esterno di percezione e come un fine per l'azione. E in tutta la serie dei fenomeni si estende questa stessa dualità di iniziativa soggettiva e di passività esterna. Ovunque ricorre un analogo impasto di conoscenza prodotta e di conoscenza subita. Ed è proprio su questo piano, in cui è sembrata consumarsi la rovina di qualsiasi affermazione oggettiva, che scopriremo il segreto di ogni esistenza reale degli oggetti in quanto oggetti. È stata una scoperta quando si è notato, come ha fatto Kant, che anche l'intuizione sensibile, che si pensava totalmente a posteriori, presuppone un a priori, e che in ragione di questa iniziativa soggettiva è impossibile ricondurre all'assoluto il meccanismo della natura, o realizzarlo fuori del pensiero, come è in sé. È una scoperta ulteriore quando si sottrae a questa conclusione critica il valore assoluto che essa detiene solamente per un'incoerenza, come se fosse legittimo servirsi dell'intelletto contro la sensibilità, mentre ci si serve della sensibilità contro l'intelletto. Ipotizzare differenze di natura e di solidità tra i fenomeni eterogenei da cui è composta la catena del determinismo, opporre tra loro le diverse facoltà, evidenziare distinzioni radicali tra i risultati disparati del loro lavoro, tutto ciò costituisce un residuo di idolatria. Le pretese del kantismo, mentre da un lato sono fondate, in quanto sono dirette contro ogni tentativo fatto per collocare la realtà oggettiva qui o là in un termine della serie delle conoscenze umane, dall'altro sono illegittime, in quanto, accontentandosi di combattere contro quel tentativo artificioso, trasformano in autentica e positiva soluzione di un problema reale la critica negativa di uno pseudoproblema. Il Criticismo, vero in quello che nega, è falso in quello che afferma. Venuti meno i problemi inconsistenti che lo tenevano in piedi, viene a cadere il sistema che li dissolve. A sua volta quella dottrina cospira con le dottrine che combatte, perché ammette che occorra cercare di collocare l'idea ingombrante di esistenza reale in un termine, sempre spostato all'indietro, della serie delle cose. Come se l'essere, cacciato progressivamente dall'intuizione sensibile verso i concetti dell'intelletto o dal noumeno verso il mistero delle verità morali, dovesse sempre essere altrove rispetto a dove siamo. Le cose sono tutte ugualmente irrealizzabili, quando si pretende di mettere in esse la realtà, quasi fosse una cosa distinta da quelle, e sono tutte ugualmente reali, quando si è in grado di vedere a quali condizioni sono integrate tutte insieme nell'essere. La verità quindi è al tempo stesso più ricca e più semplice di come l'hanno concepita i filosofi; ed eccola, del tutto conforme al sentimento popolare. Tutto ciò che abbiamo chiamato dati sensibili, verità positive, scienza soggettiva, crescita organica, espansione sociale, concezioni morali e metafisiche, certezza dell'unico necessario, alternativa inevitabile, opzione mortale o vivificante, compimento soprannaturale dell'azione, affermazione dell'esistenza reale degli oggetti del pensiero e delle condizioni della prassi, tutto ciò non è altro che fenomeno allo stesso titolo. Se consideriamo a parte ciascuno di questi elementi, nessuno può essere realizzato. Tutti sollevano una critica che ci porta al di là di quello che sono, senza che possiamo attenerci a ognuno di essi, ma senza che possiamo farne a meno. Né l'estensione o la durata, né il simbolismo scientifico, né la vita individuale, né l'organismo sociale, né l'ordine morale, né le costruzioni metafisiche sopportano di essere istituiti separatamente in realtà sussistenti: sarebbe come dire che la società può vivere senza la famiglia. Ciò che l'Estetica Trascendentale è per le intuizioni dei sensi, una critica analoga deve esserlo per i simboli scientifici o per i concetti razionali o per le leggi dell'etica. Ogni ordine di fenomeni è ugualmente originale come una sintesi distinta, trascendente in rapporto a quelli che ne sono le condizioni antecedenti, irriducibile a quelli cui sembra subordinato come a sue conseguenze, solidale con tutti, non trovando in nessuno la sua spiegazione integrale, non avendo la propria realtà né in esso né in nessun altro. Non ha senso la ricerca che pretende di trovare in uno degli anelli del determinismo la solidità dell'intera catena, perché gli altri anelli sono privi di consistenza. Nel giudizio popolare ciò che è non è né questo né quello, ma è tutto questo e tutto quello. E il popolo ha ragione. Non vi sono fenomeni privilegiati. Per esempio, il fenomeno sensibile è gravido di tutte le spiegazioni e di tutte le conoscenze ulteriori che a prima vista sembrava escludere, ma che di fatto implica. Ogni ordine di verità sembra costituire un tutto sufficiente, formando un determinismo che esclude ogni altro determinismo. Ma questi differenti determinismi sono tutti correlati e ne formano uno soltanto. Perciò nella percezione del fatto più insignificante è già inglobato il problema metafisico o morale. La realtà quindi non è in uno dei termini piuttosto che negli altri, né nell'uno senza gli altri, ma risiede nella molteplicità delle relazioni reciproche che li rende tutti contestuali. La realtà è questo complesso medesimo. Collocata nella serie, la nostra conoscenza subisce e produce le cose, in qualità di mediatrice. Ecco, dal suo punto di vista particolare l'esistenza oggettiva è costituita da quello che essa subisce, da quello che produce e da quello che è. Pertanto, per quanto strana possa apparire questa istanza, bisogna che gli oggetti siano quello che appaiono, e che la loro realtà consista non in chissà quale sostrato inaccessibile, ma in quello che di essi è determinato con precisione ed è conoscibile con esattezza. È sembrato che essi fungano da intermediari: ebbene proprio questa relazione, proprio questo ruolo mediatore costituisce il loro essere, e ne istituisce la verità assoluta. Per loro, essere significa sussistere così come sono conosciuti e voluti da noi, indipendentemente dalle deficienze dell'azione e della conoscenza umana. È necessario che il determinismo delle apparenze scientifiche sia, in verità, l'ordine degli oggetti reali, e che il suo dispotismo esteriore si fondi sull'intimità dell'essere. Quello che è per noi, deve essere anche senza di noi o nostro malgrado. E quello che l'idealismo soggettivo esibisce come l'autentica espressione dell'esistenza, deve essere di fatto la materia di un vero realismo oggettivo. Le cose non esistono perché noi le facciamo essere, ma sono così come noi le facciamo essere, e così come ci fanno essere. È questo il duplice profilo della soluzione che ci resta da chiarire. II - Prima di determinare tutte le condizioni indispensabili per l'esistenza delle cose è necessario vedere in che modo essa è concepibile. Definita nel modo in cui è stata appena definita, non è impossibile? Senza arrivare subito a dire che le cose sono, senza di noi o nostro malgrado, così come noi le facciamo essere, è comprensibile che esse siano tramite nostro e per noi così come le conosciamo? Per prendere un esempio particolare nella serie delle cose, la realtà del fenomeno sensibile può forse essere il fenomeno sensibile stesso? Come comprendere allora che siamo quello che conosciamo, o che quello che conosciamo sia? Con un'espressione che va spiegata, la realtà del fenomeno è compresa tra quei due raggi di cui essa è il punto di convergenza, e che riunendosi in noi la costituiscono in se stessa. Le cose sono perché i sensi e la ragione le vedono, e le vedono in comune, senza che quel doppio sguardo, ognuno dei quali a parte sembra penetrarle completamente, si confonda in esse. Conoscere significa essere quello che conosciamo, significa produrlo, averlo, diventarlo in noi. Sumus quod videmus. La materia ha l'essere solo se l'essere diventa materia esso stesso, se ciò che è verbo interiore e vita in sé è realmente carne. In tal modo dunque quello che l'astrazione distingue nella realtà sensibile deve rimanere indissolubilmente unito. Se ne possono mostrare gli aspetti irriducibili, ma non se ne possono separare le facciate solidali. E proprio perché non è possibile né separarle né riunirle, tra queste due apparenze conosciute sussiste quello che ne costituisce il sostegno e il vincolo, quello che ne istituisce la verità consistente. Noi agiamo in loro e su di loro, esse agiscono su di noi e in noi. La conoscenza, attiva e passiva, che ne abbiamo è, secondo quanto dobbiamo pensare, il doppio fondamento del fenomeno, sensibile e reale. Ecco perché è ugualmente giusto dire che quei fenomeni consistono in ciò che è colto immediatamente per mezzo dell'intuizione, e che essi consistono in ciò che i nostri sensi non percepiscono. Da una parte, la scienza è un'opera meravigliosa che, discendendo progressivamente di astrazioni in astrazioni fino ai rapporti più elementari e all'unità più universale delle leggi naturali, spoglia il mondo delle sue maschere sensibili. Nella stessa materia essa esibisce ciò che è intelligibile, accessibile alle conquiste del pensiero, indipendente dal luogo e dalla durata, obbediente allo spirito, ciò che al limite, e a livello della conoscenza perfetta, non è altro che il pensiero creatore. Essa tende a ricondurre l'universo all'intuizione divina del suo autore. D'altra parte, la scienza è un'opera straordinaria che, determinando via via sempre più esattamente i caratteri originali delle sintesi percepite direttamente, mette maggiormente in evidenza la realtà definita delle qualità e delle specie sensibili, fino a poter dire che i fatti d'esperienza sono come ce li rivela la scienza sperimentale; che in questa conoscenza sensibile essi hanno una verità razionale; che i fenomeni possiedono in quanto fenomeni una consistenza incontrovertibile; che, in una parola, le cose sono ben più profonde di quanto non emerga nel nostro sapere sul piano della riflessione seconda, poiché allo stesso tempo esse sono realmente come le conosciamo sinteticamente grazie a un primo sguardo. E questi due aspetti sono entrambi reali solo nella misura in cui, essendo reciprocamente irriducibili, solo correlati nell'unità di un medesimo atto di volontà, nella percezione di una medesima sensibilità o di una medesima ragione. Quindi proprio perché la ragione è immanente al sensibile e il sensibile è immanente alla ragione, quei fenomeni hanno una sussistenza propria. Essi sono, perché la ragione li vede e penetra il segreto della loro produzione. Sono, perché il senso li subisce e diventa passivo rispetto alla loro azione. Il loro essere consiste precisamente in ciò che costituisce l'unità sintetica di questa doppia esistenza. Perciò, per esempio, un paesaggio non è che uno stato d'animo, e l'armonia oggettiva delle linee e dei colori è inoppugnabile. Perciò il dolore non è altro che la coscienza di essere il dolore, ed è precisamente lo stato la cui appercezione causa la sofferenza cosciente. Perciò l'universo non è altro che la mia rappresentazione, ed è la condizione preliminare e la verità scientifica della conoscenza sensibile che ne posseggo. Il fenomeno quindi ha, in ciò che lo percepisce, la stessa realtà di quel vincolo sostanziale che costituisce la sintesi degli elementi. Infatti le cose che non esistono per sé, e che sono in sé unicamente in rapporto ad altri capaci di percepirle, hanno la proprietà di essere a un tempo conosciute e sentite. Quest'ultimo è un carattere di loro pertinenza. Noi siamo in loro grazie alla conoscenza razionale che, in forza del suo carattere di universalità, le ingloba tutte e ne definisce i rapporti secondo l'ordine intelligibile della loro produzione; esse sono in noi grazie alla percezione sensibile, che in forza del suo carattere singolare le individualizza e le qualifica. Noi dunque abbiamo una conoscenza assoluta del relativo in quanto relativo. Ed è per questo che quel relativo è. È, senza che occorra cercare dietro il fenomeno una spiegazione che lo snaturerebbe. È ciò che appare lungo tutta la sequenza delle sue manifestazioni eterogenee, ma contestuali. Per la diversità dei suoi aspetti è ambiguo; ed è questa ambiguità che ne costituisce la verità reale. Il suo fenomeno molteplice è il suo stesso essere. Quindi non è sufficiente dire che l'essere delle cose sensibili è di essere percepito, se non si aggiunge che il soggetto percipiente è lui pure tramite il percepito. Essere oggettivo significa quindi essere prodotto e subito da un soggetto. Infatti avere un'azione reale su un essere reale significa essere reale. Perciò, perché siano veramente, è necessario che le cose agiscano; perché agiscano, è necessario che siano percepite e conosciute. Infatti, non percependosi direttamente da sé perché non sono causa di sé, è senz'altro necessario che siano percepite da chi è in grado di agire su di esse. Essendo prodotte e subite, il loro essere consiste nell'essere attive e passive in uno e, in maniera mediata, in sé. Inserito come un termine necessario nella serie, a sua volta, il pensiero, da cui dipendono le cose, deve in un certo senso dipendere da loro, perché esse non si riducano al pensiero. Occorre dunque comprendere come la conoscenza oggettiva, per quanto indispensabile e identica all'esistenza oggettiva, rimane distinta da questa, e come a sua volta lo stesso pensiero, in funzione del quale abbiamo appena espresso la realtà del resto, non è che un termine medio che può essere espresso in funzione degli altri. III - È questo dunque l'ordine inconsueto ma necessario delle questioni, quell'ordine appunto che corrisponde alle credenze ingenue e ai procedimenti naturali del pensiero: pensiamo, affermiamo inoppugnabilmente un'esistenza oggettiva. Di conseguenza bisogna determinare in che cosa può consistere, e come è possibile che sia realizzata, come lo è necessariamente ai nostri occhi, poiché è necessario che lo sia per noi. Questo in verità significa rovesciare i termini consueti del problema. Ma la questione dell'essere non è preliminare, bensì finale. E probabilmente è bene, prima di praticare la ricerca, sapere di che cosa veramente si va in cerca, senza pretendere di trovare la realtà fuori del reale. Quindi, anziché arrabattarsi invano a vedere come può essere dato quello che è, bisogna estendere come quello che è dato è. Con la pretesa di far gravitare gli oggetti intorno al pensiero, il Criticismo si era collocato fuori del centro, quasi a contemplare lo spettacolo dal di fuori. E se è stato attento soprattutto al movimento centripeto che riconduce tutte le cose al soggetto, ciò è avvenuto perché è rimasto nella sua collocazione esterna, quasi a giustificare l'utilità del suo sforzo e la novità della sua prospettiva. Ogni dottrina soggettivistica parte da un pregiudizio realistico, poiché i contrari non sono mai altro che gli estremi in uno stesso genere. Un idealismo perfettamente conseguente fa sparire tutte le distinzioni che lo separano dal realismo, ed elimina quanto c'è di artificioso nel problema mal posto che pretendeva risolvere. La vera difficoltà, quindi, sta nel comprendere perché ciò che conosciamo è reale così come lo conosciamo, senza che la nostra conoscenza particolare sia assolutamente essenziale alle relazioni che tuttavia sembrano esistere solo in funzione di essa. Se per noi è necessario pensare e affermare l'esistenza oggettiva, questo bisogno suscita ineludibilmente la sua espressione. Pertanto bisogna vedere ciò che è necessario perché quell'esistenza, secondo le istanze stesse del nostro pensiero, sia realizzata necessariamente anche senza il nostro pensiero. Infatti questo pensiero, per essere veramente, ha bisogno che quelle condizioni con cui è in rapporto di contestualità siano a loro volta sussistenti. Quindi non si tratta più semplicemente del fenomeno sensibile, ma di tutti i fenomeni, anche delle verità positive o metafisiche o morali o religiose, di qualsiasi forma della realtà concepita nell'unità molteplice di un identico determinismo. Indubbiamente abbiamo già cominciato a comprendere come è possibile che un oggetto sia un oggetto. Essere, ed essere in sé, per l'altro: è qui che sta il mistero dell'esistenza oggettiva, il mistero di ogni esistenza mutuata, che non ha in sé la propria sorgente e che tuttavia non smette di sussistere. Ma non è più sufficiente pensare la possibilità di questa esistenza, bisogna vedere come è reale, e necessariamente reale. A quali condizioni la conoscenza e la volontà possono creare il loro oggetto? In base a che cosa bisogna rovesciare i termini del rapporto, e dire che le cose che sono così come le conosciamo sono conosciute così come sono? In che modo ciò che in noi è apparenza nelle cose è realtà? Di modo che la verità oggettiva, senza che mai si possa accusarla di esserci imposta dal di fuori, deve esercitare su di noi il suo dominio e stabilire un regno esteriore. È anzitutto una necessità che l'intero ordine delle cose, così come la scienza dell'azione lo ha progressivamente dipanato davanti alla conoscenza riflessa, abbia nella sua globalità il medesimo valore oggettivo. Un anello non potrebbe essere meno solido, meno necessario, meno reale di un altro. E nonostante l'estrema diversità degli elementi che compongono la serie, tutti, tanto l'intuizione sensibile o le verità positive quanto le condizioni della vita individuale, sociale o religiosa, partecipano a un'unica e identica necessità ipotetica. Tutto, sia l'affermazione del Dio vivente sia il fenomeno fisico più bruto, non sono altro che forme di un identico bisogno interiore. Di conseguenza ogni elemento ha bisogno di essere assolutamente fondato in linea di diritto, e nessuno lo può essere senza l'altro. La stessa conoscenza, che sembra contenerli e produrli tutti in noi, a sua volta non è che un termine subordinato e necessario agli altri. Ecco perché, simulando l'abolizione della nostra coscienza individuale, non eliminiamo l'idea della coscienza, poiché, mentre sembra sostenere tutto il resto, essa è sostenuta da tutto il resto. Grazie al mio pensiero, non riesco a eliminare il pensiero, e neppure a pensare che esso venga abolito. Posso supporre finché voglio la non esistenza della mia persona, ineluttabilmente lascio sussistere in me l'impersonale, ossia la necessità almeno di una persona fuori di me, per sorreggere tutto ciò che è, o tutto ciò che può essere, a livello del suo pensiero e della sua volontà. Pertanto in noi sussiste una verità necessaria e impersonale che è nostra, nel momento in cui la reputiamo indipendente da noi, e che è indipendente da noi, nel momento in cui riconosciamo di avere un pensiero nostro unicamente grazie alla sua presenza in noi. Conferire un valore oggettivo al determinismo degli oggetti, che non avevano altra esistenza se non in quanto pretesi dall'azione, significa attribuire una realtà propria a ciascuna delle sintesi che lo formano. Ora, è possibile fare ciò unicamente a condizione di non escludere nessuna delle parti contestuali dell'insieme, e di far rientrare il mio stesso pensiero nella serie al medesimo titolo di ogni altro fenomeno contingente. Le cose esistono senza di me, così come sono tramite me, e così come io sono tramite esse. Perciò, dal momento in cui la serie globale ha assunto questo carattere di oggettività, la necessità di quel determinismo esteriore cessa di essere condizionata per diventare assoluta. I ruoli risultano invertiti: mentre prima era esigila dallo sviluppo della volontà, adesso la verità oggettiva diventa esigente e dominatrice. E quindi, perché sussista davvero questa molteplicità di oggetti, è necessario altresì che i loro aspetti infinitamente vari siano percepiti come da altrettanti centri di prospettiva, che, da una visuale particolare, riducano all'unità quella stessa diversità. Di qui la ripetizione e la moltiplicazione delle sensibilità diffuse ovunque, le quali, contribuendo ciascuna per la sua parte singola alla ricchezza infinita della natura e ai liberi giochi della sapienza divina nell'organizzazione della storia universale, preparano l'opera necessaria della concentrazione finale. Infatti perché le cose che sono percepite siano percepite così come sono, non basta una conoscenza percettiva o passiva, ci vuole una conoscenza razionale e produttiva. Ma non è sufficiente neppure una conoscenza produttiva o razionale, ci vuole una conoscenza percettiva o passiva. La realtà delle cose è quella di essere mediatrici tra quel doppio profilo. Esse quindi esistono a condizione che la loro variegata molteplicità agisca su colui che le percepisce e le subisce; esistono a condizione che quelle percezioni molteplici e passive, ricondotte all'unità di un pensiero in grado di abbracciarle tutte, si fondino su una volontà che, mentre le produce così come sono, le accetta così come appaiono. Noi possiamo diventare e far essere quello che subiamo passivamente solo se rendiamo questa passione attiva e volontaria. Dunque, la realtà oggettiva degli esseri è legata all'azione di un essere che, vedendo, fa essere quello che vede, e che, volendo, diventa a sua volta ciò che conosce. Se le cose sono perché Dio le vede, esse dapprima sono soltanto passive rispetto alla sua azione creatrice, e quasi non esistono in sé. Ma se le cose sono attive e davvero reali, se sussistono sotto il loro profilo oggettivo, insomma se sono, è perché lo sguardo divino le vede attraverso lo sguardo della stessa creatura, non più in quanto le crea, ma in quanto sono create, e in quanto il loro autore si rende passivo nei confronti della loro azione specifica. Esse non consistono in un'astratta e inintelligibile possibilità di percezione. La loro realtà viva dipende dal fatto che si da, insieme alla scienza universale e all'onnipresenza divina, una conoscenza, totale e singolare a un tempo, di tutte le sintesi parziali raccolte da tutte le sensibilità e tutte le ragioni disseminate. Le cose quindi sono quello che sono, fenomeniche e reali, soltanto nella misura in cui, essendo passive e attive, hanno un'iniziativa ed esercitano un potere sulla loro causa medesima. In tal modo trovano il loro principio e il loro termine di espansione in un identico centro, da cui desumono l'unità originale della loro azione derivata, e in cui trovano l'unità finale delle percezioni sintetiche delle quali sono la condizione antecedente. Pertanto il determinismo totale è essenziale per ciascuna delle esistenze derivate; e per il determinismo totale è essenziale il pensiero consenziente, che lo ingloba interamente e singolarmente nell'unità di un'azione e di una passione volontaria. Il criterio cartesiano della veracità divina conferiva alla verità reale solo una parvenza di fondamento. Perché ciò che è conosciuto sia, non è sufficiente che un essere reale conosca, occorre che sia ciò che si deve conoscere, perché quella cosa conosciuta abbia l'essere. Gli esseri sono, ma non senza l'essere di colui che li vede e li fa essere, così come non riescono a conoscere se stessi senza la sua luce e la sua presenza. Ciò significa andare ben oltre qualsiasi realismo e qualsiasi idealismo. Infatti laddove si presumeva di imbattersi già nella verità dell'esistenza oggettiva, in nome della metafisica e dell'ontologia, non bisogna vedere altro che fenomeni determinati e contestuali. Laddove si credeva di non imbattersi in altro che in fenomeni senza realtà, bisogna saper individuare già la solidità dell'essere che li vede e li fa tutti quello che sono, dalle forme più ricche del pensiero e della vita fino ai fatti più bruti. La presunta cosa in sé è ancora un fenomeno; ed è il fenomeno che diventa autentica cosa in sé. Con il duplice vantaggio di ricondurre in tal modo alla scienza quello che sembrava estraneo all'ordine dei fatti positivi, e di portare all'essere quello che sembrava estraneo all'ordine della realtà assoluta. Senza questo duplice legame, del relativo con l'assoluto e dell'assoluto col relativo, si dileguerebbe la realtà del fenomeno, e con essa il sistema globale e la stessa repubblica degli spiriti. Non che il relativo sia minimamente necessario. Esso è reale solo nella misura in cui riceve dall'assoluto il dono di essere causa nella sfera stessa dell'assoluto. È una necessità condizionata che non intacca per nulla l'indipendenza sovrana della causa prima, ma che esprime semplicemente a quale condiscendenza da parte di quella causa soggiace l'esistenza delle cause seconde. Quod sciebat ab aeterno per divinitatem, aliter temporali didicit experimento per carnem. Fino a questo punto bisogna arrivare, per vedere, se non l'intera ragione e il fine vero, almeno gli espedienti dell'amore creatore nel dono gratuito dell'essere ad altri che non siano l'Essere. E senza questa visione, mai riusciremo a fondare l'esistenza di una cosa qualsiasi. Pur essendo passiva nel suo fondo, è necessario che la natura, per essere, abbia un'azione autentica, e che tale azione trovi la sua piena consistenza nella passione volontaria di un essere capace di conferire alla sua conoscenza un carattere di assoluto. Può darsi che l'uomo, destinato a ricevere in sé la vita divina, avrebbe potuto svolgere questo ruolo di vincolo universale, e avrebbe potuto essere sufficiente per questa mediazione creatrice, perché questa immanenza di Dio in noi fosse, per così dire, il centro magnetico che collegherebbe tutte le cose, alla maniera di un insieme di aghi affastellati da una potente calamità. Ma d'altra parte, perché la mediazione fosse nonostante tutto integrale, permanente, volontaria, insomma tale da assicurare la realtà di tutto ciò che indubbiamente potrebbe non essere, forse c'era bisogno di un Mediatore che si facesse paziente in rapporto a questa realtà integrale, e che fosse come l'Amen dell'universo, " testis verus et fidelis qui est principium creaturae Dei ". ( Ap 1,5 ) Forse c'era bisogno che, divenuto carne egli stesso, istituisse con una passione contemporaneamente necessaria e volontaria la realtà di ciò che è determinismo apparente della natura e conoscenza forzata dei fenomeni oggettivi, la realtà delle mancanze volontarie e della conoscenza privativa che ne rappresenta la sanzione, la realtà dell'azione religiosa e del destino sublime riservato all'uomo perfettamente coerente col proprio volere. È lui la misura di tutte le cose. V. Quanto precede non fa che esprimere le istanze ineludibili del pensiero e della prassi. Ecco perché è un sistema di relazioni scientifiche, prima di risultare come una catena di verità reali. Pensando e agendo, coinvolgiamo questo sterminato organismo di rapporti necessari. Esporti alla riflessione, significa semplicemente mettere allo scoperto ciò che non possiamo fare a meno di ammettere per pensare, e di affermare per agire. Anche se non sempre lo rileviamo chiaramente, siamo sempre indotti per forza di cose a concepire l'idea di esistenza oggettiva, a porre la realtà degli oggetti pensati e dei fini perseguiti, a supporre le condizioni richieste perché quella realtà sussista. Infatti, non potendo fare come se non fosse, non possiamo fare a meno di coinvolgere nella nostra azione le condizioni indispensabili per qualsiasi cosa. E reciprocamente, non possiamo non tendere a rendere immanente in noi, attraverso la prassi, ciò che non può non essere immanente al pensiero. Il cerchio è chiuso. È necessario esibire ancora la solidità di quest'ultimo anello, proprio perché ha un ruolo a parte a motivo della sua collocazione unica tra i due capi della catena. Infatti nel momento stesso in cui, se così si può dire, è condizionato dalla prassi, a sua volta la condiziona. È per una necessità soggettiva che siamo costretti ad accertarne la verità reale. E quella verità in effetti sarà investita da tutta quanta la realtà oggettiva che il pensiero più sicuro di sé possa affermare, da una realtà che non può essere intaccata ne infirmata neppure dalle sfide più esigenti dello spirito critico. L'esposizione completa delle necessità soggettive non lascia al di fuori di esse nessun punto d'appoggio per il dubbio o per la negazione. Quando sono definite tutte le condizioni del pensiero e dell'azione, quando tutto il contenuto della vita è reintegrato nella coscienza, volenti o nolenti bisogna pensare che esiste; ecco perché dobbiamo fare come se esistesse. Il ruolo della scienza sembra del tutto negativo. E nell'ordine speculativo lo è. Ma nell'ordine pratico è del tutto positivo. Di qui il carattere di ambiguità e l'impressione di un malessere che nel corso di questa indagine si sono ripetuti a ogni tappa successiva. È impossibile non tener conto di ogni nuovo livello come se fosse definitivo. È questa una verità incontrovertibile per l'azione. Ma è impossibile fermarcisi: non è che una tappa provvisoria e una relazione parziale per il pensiero. Quindi, mai si potrebbe insistere troppo a un tempo sulla stabilità e sull'instabilità, sull'importanza e sull'insufficienza di ciascuna delle sintesi progressive che abbiamo dovuto istituire e superare senza soluzione. Perciò è impossibile che l'ordine naturale sia, ed è impossibile che non sia. È il formidabile cimento dell'uomo, che volendo infinitamente, spesso vorrebbe che l'infinito non fosse. Perciò, al contrario, è impossibile che l'ordine soprannaturale sia senza l'ordine naturale, al quale è necessario, ed è impossibile che non sia, poiché l'intero ordine naturale lo garantisce in quanto lo esige. Siamo di fronte a una contestualità delle condizioni scientifiche che si traduce in un sistema di verità reali. L'impossibilità teorica del dubbio implica quindi l'affermazione pratica della realtà, nel momento stesso in cui la possibilità pratica della negazione sembra implicare l'impossibilità teorica della certezza. Ma a loro volta le obbligazioni morali non sono altro che una necessità apparentemente in sospeso. Presto o tardi ciò che deve essere sarà, perché si tratta di ciò che è già. E le deviazioni, le mancanze, i fenomeni illusori resteranno per sempre fondati sulla verità, che ne rivelerà l'errore e la deficienza attuale. È la conoscenza dell'inevitabile a indicarci ciò che bisogna evitare. Comprendendo anche quello che non dovrebbe essere, senza che mai la menzogna e il male cessino di sussistere, la visione di ciò che è segna ciò che deve essere. Il dovere è ciò che è. Ma ciò che è ingloba anche ogni deroga al dovere. Perciò la distinzione radicale tra il male e il bene risulta giustificata, senza dualismo, così come risulta giustificata, senza monismo, la reintegrazione totale del falso e del vero nell'essere. In rapporto alla scienza quale differenza potremmo rilevare tra ciò che sembra essere per sempre e ciò che è? E come distinguere la realtà stessa da un'illusione insuperabile e costante ovvero, per così dire, da un'apparenza eterna? In rapporto alla prassi è diverso: facendo come se fosse, solo la prassi possiede ciò che è, se è veramente. Mai dunque bisogna pretendere di trovare in una teoria, per quanto perfetta sia, un equivalente inattendibile. Non si risolve il problema della vita senza vivere. E chi dice o si cimenta non è mai dispensato dal fare e dall'essere. Ecco dunque giustificato in assoluto, sul piano della stessa scienza, il ruolo dell'azione. La scienza della prassi accerta che non si surroga la prassi. Pertanto rappresenta una necessità supporre la verità dell'ordine naturale, dell'ordine soprannaturale e dell'intermediario divino che ne costituisce il vincolo e la sussistenza. È ancora una necessità non potere ne cercare la sua convalida altrove che non sia nella prassi effettiva, ne fallire nel ritrovare tale convalida nel campo della prassi. Supponiamo che l'azione ce l'abbia data. Allora l'anello che chiude la catena è perfettamente saldato. Bisognava che i due capi fossero congiunti, e lo sono. Bisognava che la necessità del determinismo globale fosse raccolta in un libero atto di volontà, e lo è interamente. Bisognava che il ruolo di mediazione dell'azione fosse giustificato e fondato in assoluto, e lo è. Bisognava che questa mediazione fosse un principio di unità e di distinzione, e lo è: allora siamo degli esseri nell'Essere. Le stesse apparenze, la durata, tutte le forme inconsistenti della vita individuale, anziché essere abolite, partecipano alla verità assoluta della conoscenza divina del Mediatore. Il tempo è quello che è solo quando è passato, quando entra nell'eternità. Ma esso è, perché rimane eternamente vero che la sua apparizione mobile e sfuggente è conosciuta sotto la forma della successione. La persona umana sembra trapassare, ma i suoi atti sono al di là di ciò che trapassa. E così, senza cessare di lambire le sponde del tempo, l'uomo usa e gode dell'eternità e al tempo stesso della perenne ripetizione della durata. Dal punto nel quale sembra confinato al fine di rimanere un individuo distinto, egli usa e gode dell'universalità e nello stesso tempo della singolarità della sua vita personale. Chiamato a vedere tutte le cose nell'unità del piano divino, attraverso gli occhi del Mediatore; chiamato a vedere se stesso nell'atto permanente della liberalità, e ad amare se stesso amando la perenne carità da cui attinge l'essere, l'uomo è precisamente questo atto del suo autore, e lo produce in sé così come è in lui. Col suo volere che non è sempre stato, si unisce alla volontà che è sempre stata. L'uomo ha avuto inizio; e questo limite rimane per sempre il suo segno distintivo. Ma una volta che le apparenze, senza dileguarsi, si spalancano per rivelargli tutte le cose nella loro ragione universale, egli partecipa alla verità dell'amore creatore. È semplicemente immortale, ha la vita eterna. Constatando semplicemente la sequenza delle istanze dell'azione umana, e postulando quel tanto di realtà che essa suppone per costituirsi, eccoci dunque alla presenza del referente ineludibile al quale, lo sappiamo o meno, è sospeso tutto lo sviluppo della vita e del pensiero. Ma quest'ultimo anello dipende da tutti gli altri soltanto per farli dipendere tutti da sé. Quello che esigiamo per agire è richiesto innanzitutto da noi. Senza dubbio ciò che precede, ciò che accompagna e ciò che segue la nostra decisione personale è conforme al movimento più profondo della libertà. Ma altresì tutte le condizioni sensibili, scientifiche, intellettuali, morali e religiose della vita umana trovano al di sopra di noi il loro principio e la loro autorità. Ecco perché, sebbene siano implicate automaticamente in noi, noi dobbiamo riconoscerle tramite un libero sforzo. Ed ecco perché, sebbene possiamo rivoltarci contro di esse, esse non cessano di realizzarsi in noi. Per giustificare questa sussistenza esterna della verità che inabita nell'interiorità dell'uomo ci vuole una specie di Metafisica alla seconda potenza, che fondi non soltanto ciò che una metafisica prima, ancora del tutto soggettiva, ci presentava a torto come la stessa realtà dell'essere, mentre era una semplice visione della mente o un fenomeno speculativo, bensì tutto il determinismo della natura, della vita e del pensiero. Perciò, nel corso del suo farsi, la scienza deve semplicemente descrivere e registrare l'inevitabile, e non ha niente di perentorio. Ma quando è in atto, è lei a comandare, ed esercita la sua giurisdizione grazie al solo ascendente di ciò che è. Allora, quando la catena è saldata, tutto il determinismo, che era risultato essere il fenomeno della volontà umana nell'intelletto, appare ormai allo stesso tempo come una realtà assoluta che l'intelletto impone alla volontà. Sicché alla verità del primato dell'azione, Im Anfang war die That, " al principio era l'Azione ", corrisponde la grande affermazione dell'analogo primato della verità: " In principio erat Verbum ". ( Gv 1,1 ) Questo regno della verità è interamente al di fuori di noi; essa non sarà mai privata del suo scettro di ferro. Ma altresì questo regno della verità è interamente in noi, poiché ne produciamo in noi stessi tutte le esigenze dispotiche. Nel destino umano non c'è nulla di tirannico; nell'essere non c'è niente di involontario; nella conoscenza davvero oggettiva non c'è niente che non scaturisca dal fondo del pensiero. È questa la soluzione del problema dell'azione. Ed ecco stretto di nuovo il nodo in comune tra la scienza, la metafisica e la morale. È sufficiente tirare fuori quello che vi si trova dal più insignificante dei nostri atti, dal più insignificante dei fatti, per imbattersi nell'ineludibile presenza non soltanto di una causa prima astratta, ma dell'unico autore e del vero realizzatore di ogni realtà concreta. L'azione mediatrice istituisce la verità e l'essere di tutto ciò che è, fino all'ultimo dettaglio dell'ultimo dei fenomeni impercettibili. E, in effetti, sarebbe strano che si potesse spiegare una cosa qualsiasi al di fuori di colui senza il quale nulla è stato fatto, senza il quale tutto ciò che è stato fatto diventa nuovamente nulla. Conclusione Il bisogno dell'uomo è quello di adeguare se stesso, in modo che nulla di quello che è rimanga estraneo o contrario al suo volere, e nulla di quello che vuole resti inaccessibile o venga rifiutato al suo essere. Agire significa cercare questo accordo tra il conoscere, il volere e l'essere, e contribuire a produrlo o a comprometterlo. L'azione è il doppio movimento che porta l'essere al termine cui tende come a una perfezione inedita, e che integra la causa finale nella causa efficiente. Nella pienezza del suo ruolo mediatore, essa è un ritorno dell'assoluto all'assoluto. Essa redime il relativo, il quale dall'azione viene inglobato e sorretto tra quei due termini. Redimere significa conferire il vero e l'essere a chi non l'ha da sé. Il ruolo dell'azione è dunque quello di sviluppare l'essere e di Costituirlo. Senza dubbio essa lo determina e sembra addirittura esaurirlo, come se lo sforzo costituisse un impoverimento della vita e come se l'esecuzione deprezzasse l'intenzione senza mai adeguare il reale all'ideale. Ma bisogna elevarsi al di sopra di questa parvenza. È vero che, nella misura in cui l'agente è passivo nei confronti della propria operazione e dell'attività delle forze che fa concorrere alla propria opera, subisce nel corso della stessa azione una specie di deterioramento, e l'intenzione conserva in sé qualcosa che l'esecuzione a prima vista non produce. Tuttavia l'azione compiuta restituisce all'essere che l'ha concepita e voluta una ricchezza che non era ancora presente né nel suo concepimento né nella sua decisione. Tutto quello che era semplicemente ideale nell'intenzione non sfugge all'azione, e almeno in parte vi si realizza. E questo elemento reale è eterogeneo in rapporto a quell'ideale. Ecco perché, dopo aver agito, siamo diversi, conosciamo diversamente, vogliamo in maniera diversa da prima. Ed ecco perché quell'incremento originale merita di essere approfondito, più ancora che la stessa tendenza, la quale, pur tuttavia, sembrava prepararlo e contenerlo già interamente. L'azione è l'intermezzo, quasi il passaggio in forza del quale la causa efficiente, che ancora ha soltanto l'idea della causa finale, intellectu et appetitu, perviene alla causa finale, la quale si incorpora progressivamente alla causa efficiente, per comunicarle la perfezione cui aspirava, re. Essa da l'impressione di saziarci, ci riempie. Pare scaturire da noi. Ma ciò che in tal modo emana dal nostro fondo più intimo ci riporta ciò che è fuori come un fine da raggiungere, e ci rende immanente la serie globale dei mezzi con cui tendiamo dal nostro principio al nostro termine. Dare spontaneamente significa dunque ottenere più di quello che si dà. E la vita più sacrificata o più generosa è anche la più intensa. È vero anche che gli effetti dell'azione variano all'infinito, e sono addirittura opposti, a seconda dell'uso che l'uomo fa della propria libertà nei confronti dell'alternativa di cui si può dire che è il suo interesse precipuo e l'unico necessario. Ma non si tratta anzitutto di regolare o di giudicare l'azione. Si tratta di constatare ciò che essa è e, se così si può dire, di misurare la sua ampiezza da un capo all'altro del suo sviluppo reale. Questa visione esaustiva di ciò che l'azione è basta a mettere in evidenza ciò che deve essere. E l'autorità della legge che si impone all'azione deriva precisamente dal fatto che la scienza non parte dalla legge stessa, ma senza averla cercata vi si imbatte, per la forza inoppugnabile di ciò che è. Anche quando vi si sottrae, pone ancora quella norma, che non rappresenta solo un ideale, ma è già una verità, è la verità stessa. Infatti gli errori si susseguono per quel tanto di realtà che hanno in sé, e percorrendoli tutti arriviamo alla realtà piena che li ingloba e li giudica tutti. Pertanto lo studio approfondito dell'azione ha come risultato necessario quello di giustificare gli stessi termini del problema che si impone a tutti, offrendo una spiegazione esaustiva dell'originaria ambizione dell'uomo, e quello di determinare la legge della vita umana, con la semplice constatazione di ciò che è. Veritas norma sui. Non c'è esortazione o istruzione che valga quanto quella visione dell'inevitabile. Per comunicare all'uomo la grande e salutare inquietudine per il proprio destino, la scienza non deve fare altro che mettere allo scoperto ciò che l'uomo fa, misurando con inflessibile rigore il notevole scarto che sussiste tra i termini tra i quali egli oscilla. Senza avere preoccupazioni di carattere ontologico o deontologico, senza fare uno sforzo di persuasione, ma con la pacata sicurezza di una carità più contenuta per essere più premurosa, dobbiamo semplicemente lasciare che quella verità necessaria si dispieghi nonostante tutte le resistenze. Bisogna avere abbastanza fiducia in essa per non attendere nulla se non dalla sua sola presenza. Anziché tentare di sorreggerla con una dottrina che le dia appoggio, bisogna opporle tutte quelle dottrine che la misconoscono, affinché, nonostante tutto, essa regni in tutti, e domini o inglobi anche coloro che palesemente la ignorano o la escludono. Ciò che è, è ciò che deve essere ed è ciò che sarà. Quindi sviluppare la scienza della prassi e trovare l'equazione dell'azione non significa soltanto dipanare, di fronte al pensiero riflesso, tutto il contenuto della coscienza spontanea, ma più ancora significa indicare il mezzo per reintegrare nell'operazione voluta tutto ciò che è alla scaturigine dell'operazione volontaria. Non si tratta affatto di una conoscenza parziale o di una riflessione morale, atta senza dubbio a elucidare la volontà buona, ma senza possedere carattere dimostrativo. Si tratta invece di una scienza globale, capace di abbracciare il determinismo universale dell'azione, e di seguirne lo sviluppo continuo che porta all'infinito le sue necessarie conseguenze. Dal pensiero alla prassi e dalla prassi al pensiero: il cerchio deve essere chiuso nella scienza perché lo è nella vita. In base a ciò risulta determinato con una precisione inedita anche quel doppio rapporto tra la conoscenza e l'azione. Da una parte, gli atti umani moltiplicano le loro conseguenze e giustamente ce le imputano, senza che per esserne responsabili ci sia bisogno che conosciamo chiaramente tutto il loro contenuto, senza che la chiara rivelazione della loro portata spesso dimenticata e misconosciuta le cambi nell'essenziale, senza che alcuna conoscenza ulteriore ne modifichi il valore con la sanzione che introduce. Dall'altra, quel poco di luce interiore che consegue all'azione, che l'accompagna e la prepara, è sufficiente per orientarla e per animare il suo sterminato organismo, come il timone, che per quanto piccolo, a poppa della nave, la orienta nella sua rotta in avanti. Ecco perché per risolvere il problema vi sono palesemente due metodi, quello indiretto e quello diretto, quello scientifico e quello pratico. Ma questi due metodi devono coniugarsi insieme. Ecco perché lo stesso termine destino ha due significati; ma essi sono ugualmente legittimi. Questo termine ancipite designa lo sviluppo necessario della vita, indipendentemente da ogni intervento dell'uomo nella trama degli avvenimenti che si svolgono in lui e fuori di lui. Ma al tempo stesso designa il modo personale col quale noi raggiungiamo i nostri fini ultimi in conformità all'uso stesso della vita e all'impiego della nostra volontà. - È dunque indispensabile far vedere che c'è una logica dell'azione, e che il concatenamento delle operazioni volontarie è soggetto a un determinismo rigoroso. - Ed è indispensabile far vedere che la sperimentazione pratica comporta una chiarezza sufficiente, che essa surroga la scienza senza che la scienza la surroghi, che presenta un'esattezza a suo modo scientifica, anche quando questa disciplina morale è destituita di qualsiasi giustificazione teorica. È compito di queste pagine conclusive esaminare questo duplice profilo del problema e far vedere l'unità della soluzione. I. Siccome la legge della vita va trovata nella vita medesima, e siccome per giudicare l'azione basta mettere in luce tutto quello che è, questa duplice verità troverà la sua verifica. Da una parte tutte le forme possibili dell'azione sono compatibili di fatto. La scienza della prassi le raccoglie tutte. Nel reale non si danno termini contraddittori ma solo termini contrari, di cui uno stesso determinismo concatena gli sviluppi opposti. Dall'altra, sotto quelle forme diversamente compatibili dell'azione, ci imbattiamo in un principio di contraddizione, che fa valere il suo diritto anche a livello del fatto, e decide in assoluto del senso dell'essere. Pertanto compatibilità ed esclusione: è questo il senso profondo della legge di contraddizione che ci interessa chiarire. Essa fa regnare la verità nell'errore senza eliminare l'errore, e introduce l'assoluto dell'essere nel fenomeno senza abolire il relativo del fenomeno. Lungo tutta la storia naturale dell'azione è stato possibile prescindere dalla variabile per considerare unicamente il carattere comune e il tratto essenziale di qualsiasi sviluppo dell'attività umana. Mettendo da parte le valutazioni premature e i giudizi spesso azzardati che si danno intorno alla qualità degli atti, abbiamo dovuto esaminarli tutti senza qualificarne nessuno. Ciò significa che sotto le forme contingenti e arbitrarie della vita c'è sempre una sequenza necessaria e, diciamo così, uno scheletro rigido sul quale poggiano i movimenti più duttili e più vari. Probabilmente è sembrato che parecchi capitoli di questo libro, in particolare quelli terminali, oltrepassino l'ordine della ragione, ovvero che non abbiano affatto il valore impersonale e universale, né la necessità stringente della scienza. In apparenza senza dubbio, ci si può sottrarre provvisoriamente alle conseguenze del determinismo della prassi. Ma, nel fondo delle cose, non vi si sfugge. E la forza di un'autentica Critica della vita deve essere quella di recuperare, sotto le deviazioni superficiali e temporanee, quella logica nascosta dell'azione, le cui leggi non sono meno rigorose di quelle delle scienze astratte. Non basta. Infatti tutte le leggi del pensiero, tutte le forme particolari della logica rientrano in quel determinismo concreto della prassi, di cui non sono altro che un aspetto a parte. La logica dell'azione non è una disciplina particolare, ma è la vera Logica generale, nella quale tutte le altre discipline scientifiche trovano il loro fondamento e il loro accordo. Per svilupparne l'intero contenuto sarebbe necessario, attraverso un'analisi approfondita delle condizioni che la volontà impone a se stessa, definire le stesse energie propulsive del destino umano. Di tale impresa, che esigerebbe una trattazione a parte, in questa sede non possiamo offrire altro che pochi cenni, nella misura in cui la conoscenza di quella necessità inerente all'azione ha un interesse pratico. Se è vero che la volontà non subisce niente che non approvi, e non è nulla che non voglia, non è meno vero che le condizioni di cui ha bisogno per essere ciò che vuole si concatenano rigorosamente sotto l'ispirazione recondita del suo intento specifico. E non è meno vero che quella necessità, che ha la sua sorgente in noi, è indipendente da noi, e ha il suo principio al di fuori di noi nella verità reale. Perciò, pur essendo volontarie nella loro origine, le leggi del pensiero e della vita non sono meno necessarie e imposte, sia nella loro applicazione sia nella loro istituzione primordiale. - Tuttavia proprio perché esprimono la verità ineludibile, e proprio perché sono fondate su una recondita uniziativa della volontà, nella loro stessa necessità esse conservano un carattere che è essenziale mettere in luce. Mentre le forme particolari della logica hanno il diritto di escludere o il dovere di ignorare quello che sfugge alla loro presa, la Logica dell'Azione, essendo totale, deve in un certo senso comprendere e ammettere persino quello che condanna e che elimina. In effetti, a differenza della scienza astratta del pensiero che isola le idee e procede per inclusione o per esclusione completa, la realtà concreta della vita concilia perennemente i contrari. Ciò che è incompatibile e formalmente contraddittorio dal punto di vista speculativo, di fatto si collega, in modo da costituire nuove sintesi distinte dai loro elementi. E, come in un meccanismo di pezzi assemblati, tutti i movimenti producono il loro effetto di compensazione. Nell'intera indagine sull'azione umana niente è più importante di questa contestualità tra ciò che si fa e ciò che non si fa. Non c'è atto che non compendi le tendenze contrarie, e non formi un sistema tanto con i vinti quanto con i vincitori. I motivi, che di fronte al pensiero sono contraddittori, nell'azione rimangono contestuali. - All'inverso, nell'ordine dei fenomeni non vi sono mai contraddizioni formali, perché mai le proposizioni particolari che enunciano i fatti dati sono contraddittorie. E tuttavia la legge di contraddizione si applica al passato reale. Perciò, mentre dal punto di vista formale la conciliazione è impossibile, dal punto di vista reale è la contraddizione che è impossibile. E, mentre i futuri contingenti sono compatibili a livello di pensiero, gli atti passati sono incompatibili nella realtà. Anzi, mai possiamo realizzare altro che dei contrari; e tuttavia la legge di contraddizione governa i nostri atti compiuti. Mai le contraddizioni sono date di fatto; e tuttavia, quando agiamo, coinvolgiamo nei nostri atti, che sembrano vertere semplicemente su dei contrari, la contraddizione che non realizziamo. Come uscire da queste aporie? È l'azione che, fungendo da anello di congiunzione tra le forme opposte del pensiero e della vita, insinua nel cuore delle cose la legge di contraddizione, pur operando perennemente una sintesi sperimentale dei contrari. Ma come riesce a fare ciò? I fenomeni, presi semplicemente per quello che sono, non si contraddicono mai, essendo sempre eterogenei e solidali. Se dunque la legge di contraddizione si applica al passato, significa che l'atto soggiacente al fatto apparente ha introdotto nel fenomeno qualcosa d'altro rispetto al fenomeno, qualcosa d'altro rispetto allo stesso possibile: tutto il movimento della vita interiore sfocia nell'affermazione necessaria dell'essere, perché tale movimento è fondato proprio su questa necessità. L'alternativa che si impone a ogni coscienza umana, e che sola ci colloca, precisamente sul piano della prassi, di fronte alle contraddizioni, non fa altro che rivelare il gioco di questo dinamismo interno. D'altra parte, siccome la volontà, quando opta in conformità alle condizioni che impone al proprio sviluppo, non elimina il termine dell'alternativa che respinge, abbiamo come conseguenza che, qualunque cosa abbia scelto, essa conserva in sé la presenza del termine escluso come un termine della sintesi che crea. Dunque ciò di cui si priva, st???s??, non è assolutamente al di fuori di essa. Ecco perché, quando con la mortificazione rinuncia a dei fenomeni, il suo sacrificio è solo apparente. Ed ecco perché, al contrario, quando rimuove le molestie del dovere o le esigenze de " l'unico necessario ", si perde ma senza per questo annientarsi. Mai sfuggiamo alla necessità di implicare i contraddittori, e sempre ne realizziamo uno soltanto eliminando l'altro. Con la rinuncia otteniamo un doppio guadagno, con il godimento esclusivo patiamo una doppia perdita. Il fenomeno, ancorché estraneo alla legge di contraddizione, è tale che in esso dobbiamo scegliere tra i poli contraddittori, dobbiamo guadagnare ciò che sembriamo sacrificare spontaneamente, dobbiamo lasciarci sfuggire ciò che sembriamo trattenere gelosamente. Dunque il problema logico non è che un aspetto del problema dell'azione. Non solo la prassi si fonda su una dialettica di cui è possibile esibire la rigorosa esattezza, ma altresì le leggi più astratte dell'intelletto hanno tutto il loro senso solo se rapportate allo sviluppo concreto della vita. Perciò lo studio completo del meccanismo del pensiero e della prassi ci indurrebbe a legare tra loro le diverse forme particolari della logica ancora frammentaria, e al tempo stesso a evidenziare la molla interna che in noi mette in moto tutto e che promuove il nostro destino. L'utilità di uno studio del genere sarebbe duplice. Infatti costruirebbe finalmente quella Canonica generale dello spirito umano di cui la logica formale e la metodologia delle diverse scienze non offrono che dei saggi. E contemporaneamente utilizzerebbe per la soluzione del problema morale il rigore che è proprio della più astratta ed esatta delle scienze. Il ruolo della logica dell'azione è proprio quello di determinare in questo modo la catena delle necessità di cui è composto il dramma della vita e da cui quel dramma è portato per forza di cose a soluzione. Mostrando il carattere scientifico di tale concatenazione, essa deve per ciò stesso avere un'efficacia incontrovertibile: assoda che la soluzione è inevitabile e investe necessariamente tutto; mette in luce che ogni prassi fondata su una teoria incompleta è azzardata, ma che la teoria completa porta necessariamente alla prassi, poiché soltanto l'azione può risolvere il problema posto dall'azione. Quella logica indica gli estremi nei quali può sfociare lo slancio della volontà umana. Tra il dato iniziale e quelle soluzioni estreme del problema inserisce tutta la serie degli elementi intermedi necessari; ma non ha la pretesa di realizzare con una semplice visione la soluzione, la quale appartiene unicamente alla prassi effettiva. Al contrario, la speculazione deve porre rimedio ai danni della speculazione, dando prova di offrire una luce alla coscienza non semplicemente per rischiarare, ma per andare avanti. Conoscere non dispensa dal fare, mentre il fare può dispensare dal conoscere. Se la vita è un enigma anche per le persone esperte, è sufficiente una volontà davvero integra perché la leggano correntemente anche le persone semplici. In effetti, poco importa che esse sappiano quello che fanno, purché facciano quello che sanno. L'autenticità della coscienza e il discernimento delle verità vitali dipendono più dagli atti che dalle idee. Perché non è mai del tutto sufficiente fare ciò che si reputa buono: bisogna anche che sia bene credere che lo si debba fare. La logica dell'azione cerca unicamente di scoprire un itinerario che permetta all'intelligenza delle persone istruite di raggiungere lentamente e sicuramente le altezze delle persone umili e dei piccoli. Essa li conduce a un punto di partenza. Ma la luce con la quale rischiara la strada non dispensa nessuno dallo sforzo che rimane necessario per salire a quelle altezze. II. A qualcuno è potuto sembrare che una Scienza della prassi dovrebbe formulare regole di condotta, esortare le coscienze al bene, e insegnarci efficacemente quello che dobbiamo fare. Ma la battaglia da fare è stata precisamente quella di combattere questa pretesa di ogni morale, che vorrebbe risolvere il problema della vita senza superare l'onesta mediocrità di istruzioni edificanti. Un'autentica scienza del destino umano non si costruisce così a buon mercato. E l'azione è troppo complessa per lasciare adito a una siffatta condotta. È fuori dubbio che tra la rettitudine dell'uomo che senza discutere, senza transigere con la propria coscienza, preserva a tal prezzo il privilegio dell'infallibile semplicità, e la conoscenza integrale delle condizioni necessario e sufficienti richieste dall'azione, c'è posto per un'arte delicata di esortazioni salutari o per le riflessioni del moralista, ma non c'è affatto posto per una soluzione veramente scientifica del problema morale. Di proposito e a ragion veduta si è dovuto lasciar cadere ogni istruzione di carattere morale, per fare astrazione dalla varietà introdotta nella vita dalla libera iniziativa della coscienza, e per determinare meramente ciò che è ineludibile e necessario nello sviluppo integrale dell'azione umana. A paragone dell'insegnamento ultimativo apprestato da questo metodo tutto il resto è di secondaria importanza. La conclusione di una ricerca come questa è di esibire il carattere illusorio e superstizioso di ogni tentativo esperito per fondare direttamente una morale capace di essere autosufficiente, e di istituire una scienza autonoma. Non esiste una concezione chiusa del dovere che abbia valore per se stessa, e che istituisca il bene attraverso precetti del tutto formali. Non esiste neppure una verità speculativa la cui visione adeguata renda la vita perfetta. Ne il problema etico ne il problema metafisico potrebbero mai essere risolti da soli. Non esiste una morale al di fuori della verità; ma la verità compresa non si identifica, per sé soltanto, con la morale. Il segreto della vita è più in alto di quanto non abbiano visto Kant o Spinoza. Probabilmente questo risultato sembra del tutto negativo: " l'azione non è autosufficiente; l'uomo non trova i se stesso la propria norma e il proprio fine ". Ma proprio per questo quel risultato è estremamente importante. Esso toglie via alcune illusioni che, pur essendo spesso generose, assennate, tenaci, non per questo sono meno inconsistenti. È, infatti, inutile accertare che si sbaglia strada, quando si spera che la morale possa essere fondata come una scienza, senza oltrepassare l'ordine naturale o il fenomeno del dovere o persino le concezioni metafisiche? È inutile far vedere che è superstizioso ogni sforzo tentato dall'uomo per confinarsi in quella maniera di pensare e di vivere? È inutile stabilire a quali condizioni la pratica della vita può diventare sicura e scientifica in senso proprio? Questi non sono altro che dei prolegomeni alla morale, poiché non è in questione la definizione del contenuto di qualche precetto. In ogni caso questa ricerca ha un interesse che non è dato neppure dalle formule più belle e più precise proposte per esprimere i nostri doveri. Essa indica la via unica per la quale bisogna passare perché il bene sia il bene, disegna le disposizioni necessarie perché la conoscenza del dovere sia ben altro che una vana teoria, ed esprime le condizioni richieste perché la stessa pratica delle virtù naturali diventi efficace e pienamente salutare. Può risultare ostico confondere, in una comune accusa di superstizione, l'uomo fedele al dovere e il selvaggio dedito al feticismo. Ma significherebbe essere ingiusto con il primo solo nella misura in cui egli stesso sarebbe ingiusto col secondo. Entrambi possono essere ugualmente vicini o ugualmente lontani dalla verità, perché gli atti più rozzi possono servire da veicolo per il bene. Ma se ci vogliamo accontentare della conoscenza parziale alla quale siamo giunti, se approfittando della poca luce che abbiamo già ci chiudiamo a ogni luce nuova e a ogni esigenza inedita, si verifica l'appropriazione indebita di un pensiero nella cui sfera non abbiamo competenza, si attua la perversione della sincerità. Pur pieni di ammirazione e di tenerezza per tutte le persone generose, da qualsiasi parte provengano, che vanno avanti e si dedicano a un'opera di salvezza personale e sociale, non potremmo ( senza mai mettere in dubbio la buona fede di nessuno, perché il segreto delle coscienze ci sfugge ) mai armare di sufficiente inflessibile severità contro se stessi tutte quelle persone presuntuose che si fermano, e che fermano anche gli altri, sulla strada lungo la quale bisogna sempre camminare, senza mai vantarsi di essere arrivati. Queste persone non hanno altro che l'orgoglio che le distingua dal selvaggio dedito al feticismo. E quando reputano di scoprire loro stessi, e di propalare la prima e l'ultima parola della salvezza, invece di agire, si agitano. Non si da dunque un medio tra la scienza della prassi e quella scienza pratica che si fonda, non su una riflessione teorica, ma su una cultura del senso pratico mediante la stessa prassi. Il ruolo della prima è quello di vigilare perché non si surroghi o non si mutili la seconda. Non c'è bisogno di sapere tutto ciò che si fa, per farlo con conoscenza di causa. Il pensiero che è efficace non necessariamente è un sistema completo di astrazioni analitiche, p????? µet? ?????, ma è una sintesi concreta, che in ogni disposizione interiore può compendiare a livello di coscienza tutto il lavoro della vita, ???? ?µet? p???e??. L'azione, anche senza essere accompagnata da una giustificazione teorica, veicola in sé una certezza sufficiente. Essa costituisce un metodo stringente. È una sperimentazione nel senso più scientifico del termine; una sperimentazione rigorosa e dimostrativa che supplisce all'indagine speculativa e non può essere supplita da nulla. L'intelletto convalida il metodo pratico facendo vedere che esso non ha neppure bisogno di essere confermato. Quindi la conclusione di una scienza dell'azione non deve essere questa: " ecco che cosa bisogna pensare o credere o fare ". Qual è allora? Deve essere quella di agire effettivamente. Tutto qui, ma proprio tutto qui. Perciò si dà una via diretta che parte dal punto cui il metodo indiretto della scienza ci conduce come al suo risultato. Infatti si tratta non di un problema da risolvere se si riesce, ma di un progetto da realizzare se si vuole. Una soluzione è sempre ineludibile, e per questo è più urgente prepararla che non prevederla. Rispetto a questo obiettivo necessario la previsione è facoltativa, la preparazione invece è obbligatoria. La scienza sempre accessibile, la sola indispensabile a chi non ne possiede altra, è questa: prepararvisi aprendo la strada che non è aperta in anticipo, facendo la verità prima di vederla chiaramente, riempiendosi di realtà per meritare la luce. L'ascetica è una vera scienza, l'unica scienza della direzione delle coscienze. Essa illumina coloro che vi si esercitano, e concede loro il dono di illuminare gli altri con la perfezione di un tatto che comunica tutta la precisione della vista al palpare interiore della prassi. Perciò, con un rovesciamento di prospettiva, bisognerebbe ora considerare la serie delle necessità pratiche come un sistema di obbligazioni morali, e trascrivere nei dettami della coscienza le conclusioni della logica dell'azione. Ma questo sarebbe argomento di uno studio a parte. Ci basti indicare, insieme alla differenza dei punti di vista, la convergenza di quei due metodi, quello speculativo e quello empirico. Infatti nell'empirismo del dovere si trovano inglobati tutti gli elementi dell'autentica scienza della prassi. La teoria completa dell'azione aveva inferito la prassi. - La prassi a sua volta deve sfociare nella conoscenza completa delle ragioni profonde che la giustificano o la condannano. Le norme sono una sorta di ipotesi di cui dobbiamo verificare la verità. E la chiarezza umbratile della coscienza è destinata a diventare, tramite la pratica fedele, la piena luce della scienza. Il determinismo dell'azione era risultato, allo sguardo conseguente della riflessione analitica, come una serie di mezzi necessari e di relazioni coattive. - Viceversa allo sguardo della coscienza morale risulta come una scala di fini, che sollecitano la volontà buona e permettono l'esercizio della libertà nell'alternativa cui è sospeso l'intero destino dell'uomo. Con un'anticipazione del tutto speculativa, la scienza dell'azione aveva cercato di prevedere le conseguenze della prassi, e di prospettare alla coscienza attuale la rivelazione futura del suo immenso contenuto. - Invece, con uno sforzo del tutto pratico, la sperimentazione morale prepara quello che non prevede, e, impegnandosi a riempire la vita attuale con ogni realtà possibile, semina il futuro nel presente. La logica dell'azione aveva esibito la perenne conciliazione dei contrari, nell'ordine dei fenomeni, fino alla contraddizione ultimativa che impone alla volontà un'opzione intrascendibile. - Nella prassi invece quello che era conciliazione dei contrari diventa sacrificio e mortificazione; quello che era alternativa e contraddizione necessaria diventa guadagno complessivo o perdita attuata liberamente. Infatti, sacrificando i beni apparenti, si ottiene il bene reale, e si è salvato anche quello che sembrava mortificato; al contrario, abbarbicandosi alla vita che passa, la si perde insieme a quella che non passa. La scienza speculativa, per quanto la si ipotizzi perfetta, si limitava a esibire la contestualità dei fenomeni eterogenei e l'originalità relativa delle sintesi successive studiate, ma senza produrre, e di conseguenza senza conoscere mai la forza che, come una scintilla di vita, opera la combinazione degli elementi. - La prassi a sua volta opera perennemente questo prodigio. Essa dunque è la sostanza stessa di ciò che è conosciuto, e la verità che realizza l'ordine universale. È in essa che i dati sensibili, nonostante la loro inconsistenza; il simbolismo scientifico, nonostante la sua incoerenza; il dinamismo della vita soggettiva, nonostante l'instabilità che ne rompe continuamente l'equilibrio; i fenomeni organici e sociali, nonostante il determinismo che non forma mai una sintesi se non per farne l'elemento di sintesi ulteriori, insomma tutte le forme della scienza e della vita trovano la loro comune ragion d'essere. L'essere non è mai nell'idea separata dall'azione; e quindi la stessa metafisica, considerata anzitutto sotto un profilo speculativo, non è vera se non in quanto rientra nel dinamismo generale della vita come un gradino del sistema dei fenomeni. L'azione fonda la realtà dell'ordine ideale e morale; essa contiene la presenza reale di ciò che, in sua assenza, la conoscenza può soltanto rappresentare, ma che, in sua presenza e per suo tramite, è verità vivente. Perciò la prassi porta in sé la propria certezza e la sua vera luce. Luce che indubbiamente non è di natura diversa da quella della visione speculativa, ma che tuttavia ne differisce come diversi aspetti dello stesso paesaggio, a seconda che il sole stia davanti o dietro lo spettatore. La visione è più nitida dal versante dove ci sono meno raggi, e il riflesso ci guida meglio della fonte luminosa. Allo stesso modo, siccome la luce della coscienza nasce dall'azione per proiettarsi sulla strada che bisogna fare, essa illumina meglio il viaggiatore che cammina senza voltarsi verso la fonte da cui la luce proviene. Guardarla dal lato da cui brilla significa vederla più splendente, ma forse significa anche vedere meno chiaramente la strada da fare. La scienza è buona, ma per condurci al di là di quello che già sa. Qualunque conoscenza teorica abbiamo delle obbligazioni morali, metterle in pratica è sempre una cosa nuova e istruttiva, e non è mai semplicemente affare di scienza. La perfezione della scienza, sebbene sia identica alla perfezione della vita, non la surroga mai. La prassi non è un semplice succedaneo, transitorio o approssimativo, per coloro che non possono vivere del loro pensiero perché non possono neppure pensare alla loro vita. La prassi non è ne affare del sentimento o dell'ispirazione generosa senza rigore logico, né semplicemente un teorema in atto. Ciò che porta in sé è infinitamente maggiore della conoscenza, per quanto del tutto penetrabile da parte della conoscenza. - Talvolta qualcuno ha ritenuto che la vera esperienza consista nello sperimentare tutto. È un errore. C'è un'esperienza che depaupera la vita e riduce in noi la conoscenza dell'essere. Al contrario, la sottomissione al dovere che richiede mortificazione conferisce all'uomo di sacrificio una competenza universale e una ricchezza interiore che non si acquistano altrimenti. - Qualcun altro ha ritenuto che solo il pensiero porta in sé il vero infinito, che invece l'azione limita il pensiero determinandolo, e che i francesi, ad esempio, hanno troppo il genio dell'azione, troppo l'amore per la chiarezza, per avere la testa filosofica. Ma è un altro errore. Nella prassi più dimessa e negli atti soggetti all'angustia di una norma austera c'è un senso della vita più pieno, una maggiore larghezza di mente, un maggiore senso del mistero che in tutte le epopee metafisiche. - Qualcun altro ancora ha ritenuto che la lettera finisce per uccidere lo spirito, che ogni dogma definito è mortifero per la libertà di pensiero, che la pratica letterale è mortale rispetto al senso del Dio vivente. Ma anche questo è un errore. Lo spirito è vivificato soltanto grazie alla lettera. Il culto positivo e l'atto di precetto estremamente chiaro sono nient'altro che le funzioni della vita divina in noi. Il senso religioso, la coscienza del genio nazionale della Francia, il carattere di generosità e di dedizione attiva, l'amore della chiarezza e della decisione, come il grande sentimento del mistero sono inseparabili. Non rinunciamo a nessuna di queste eredità, per non perdere tutto. Pertanto la scienza pratica, pur essendo del tutto differente dalla scienza della prassi, sa accettarne il concorso e allo stesso modo sa farne a meno. La loro solidarietà è tale che la perfetta conoscenza dei nostri atti sarà la sanzione dei nostri atti stessi, e la piena rivelazione di ciò che abbiamo voluto e fatto deve stabilizzare per sempre la volontà. La loro indipendenza è tale che questa piena rivelazione non potrebbe modificare in nulla la natura degli atti operati nella penombra della coscienza, e che tutta la scienza delle opere volontarie e delle loro conseguenze deve lasciare intatta la volontà che persiste in quelle. Quegli atti sono voluti così come li conosciamo, e li conosceremo così come li vogliamo. Rovesciandosi, il rapporto non cambierà; la reciprocità è perfetta. Ma se è la conoscenza che deve recare la sanzione futura, è la prassi che definisce l'obbligazione attuale. III. La Critica della vita per risolvere il problema umano non può fare a meno di risolvere il problema universale. Essa determina il nodo in comune tra la scienza, la morale e la metafisica. Stabilisce le relazioni che intercorrono tra la conoscenza e la realtà. Definisce il senso dell'essere. Questo plesso vitale viene individuato all'incrocio tra il conoscere e il volere, nell'azione. Anziché cercare l'essere dietro ciò che è conosciuto e voluto, in un termine medio o in un substrato immaginario, quella Critica rimuove ogni realtà occulta, per trovare nella mediazione che adegua i due termini senza confonderli la verità reale di tutto ciò che è. Le cose sono conosciute così come sono, e sono così come sono conosciute. È l'unità di questo duplice aspetto che rende vero il loro essere: è questo l'unico modo per conciliare l'esistenza oggettiva e la stessa realtà degli oggetti dell'esperienza con il primato dello spirito e la suprema originalità della vita interiore. Studiare il determinismo globale della conoscenza e l'ordine complessivo dei fenomeni è compito della scienza integrale. Far vedere che questa conoscenza necessaria ha una verità assoluta, indagare in che senso o a quali condizioni l'esistenza conosciuta è realmente oggettiva è il ruolo della metafisica. Tracciare, per le ascese della volontà, l'itinerario che conduce dall'aspirazione originaria e dalla conoscenza necessaria al possesso volontario dell'essere, trasformando il sistema delle necessità in una gerarchia di obbligazioni, è il ruolo della morale. La critica dell'azione funge da prolegomeni a questa triplice indagine. A ciascuna di esse giova recuperare l'indipendenza del proprio sviluppo, se vuole individuare la sfera di sua competenza. - Ora, senza voler percorrere in questa sede quelle tré strade che si aprono davanti a noi, sia sufficiente indicare il vantaggio che abbiamo ottenuto giungendo al loro punto di convergenza, laddove volgendoci indietro le vediamo divergere. I - Poiché la realtà di ciò che è conosciuto non va cercata in un substrato posto dietro ciascun fenomeno, ne deriva che l'indagine sulle cose deve mettere da parte in un primo momento qualsiasi questione ontologica, e che tra gli oggetti della conoscenza non può esservi contraddizione. Non vi è laddove non si da un essere che funga in qualche modo da nucleo resistente e da fondo impenetrabile. Al contrario, se dovessimo supporre nei fenomeni un sottofondo distinto da essi, o se affermassimo che essi costituiscono l'unica e vera realtà, sarebbe impossibile non trasformare in opposizione formale la loro eterogeneità inoppugnabile, e non istituire in assoluto il determinismo che li rende contestuali. Da ciò sorgono aporie insolubili, perché sono artificiose. In effetti, vi è anche solo una dottrina che abbia evitato la tentazione ontologica nell'esaminare i fenomeni stessi? Ve ne è anche solo una che non abbia avanzato affermazioni o negazioni premature, incompetenti, fuori luogo? E la prova è che invece di considerare quegli oggetti della conoscenza come appaiono, cioè come eterogenei e contestuali, si è ritenuto che essi sono tra loro esclusivi, incompatibili, carichi di antinomie. Ora, come mai si giunge a dare questo giudizio, se non perché si inserisce surrettiziamente in essi un occulto principio di contraddizione, il quale conviene loro solo nella misura in cui si attribuisce loro l'essere? Anche il fenomenismo cede a quella tentazione, avanzando la pretesa di attenersi ai fenomeni come se non ci fossero che i fenomeni, e ritenendo che essi escludono ogni altra realtà. Lo stesso criticismo subisce quella vertigine metafisica, intravedendo opposizioni irriducibili laddove non c'è che eterogeneità. Persino il positivismo è incoerente col suo principio, escludendo in nome di certe scienze, investite, in forza della stessa pretesa, di un valore oggettivo, tutta una parte delle nostre conoscenze che non sono meno positive delle altre, poiché abbiamo visto che esse rientrano tutte in un medesimo determinismo. Dunque tutte queste dottrine, cadendo in analoghe illusioni sia in relazione al fenomeno sia in relazione all'essere reale, e popolando di idoli il mondo dell'intelletto, hanno intravisto la difficoltà dove non sussiste, non avendola vista dove si trova realmente. Pur contrarie tra loro, esse sono solamente delle specie differenti di uno stesso genere falsato. Perché la Filosofia meriti questo nome specifico, occorre che sia una dottrina diversa dalle altre, e che definisca esattamente nell'ambito del controvertibile ciò che non lo è; infatti è proprio ciò che rientra nel campo della scienza. In tal modo, laddove i sistemi di solito si sono esauriti in vuote dispute, essa non trova più alcuna materia di discussione, perché vi immette puramente e semplicemente le abitudini dello spirito scientifico, il quale non si mette a speculare su nessuno dei suoi oggetti. Per essere scientifico l'esame dei fenomeni, quali che siano, non ha bisogno di indagarne la natura; al contrario, ha bisogno di essere immune da quella sterile curiosità. L'esame scientifico assume quei fenomeni per quello che sono, senza alcuna restrizione surrettizia, senza immettere in questo termine alcun significato estraneo rispetto a ciò che esso designa. Ogni sintesi risulta originale, eterogenea, irriducibile alle proprie condizioni: bisogna dunque condurre un esame a parte per ogni ordine differente. Ogni ordine di fenomeni è legato a tutto il sistema da un determinismo senza soluzione. È quindi impossibile che la scienza si restringa a un punto, e che escluda uno qualsiasi degli oggetti contestuali che entrano a comporre un solo e identico universo, un solo e identico problema. Ma invece di cercare in un nuovo ordine di fatti la spiegazione o la realtà di un ordine precedente, l'esame scientifico riserva per una ricerca successiva gli oggetti ulteriori che gli mette davanti la sequenza necessaria delle sue investigazioni. Pur essendo trascinato continuamente, per così dire, al di là di se stesso, esso si difende dal miraggio che gli fa balenare ogni nuova incognita, il miraggio cioè di essere il segreto di quanto è conosciuto. L'esame scientifico si attiene a ogni anello della catena come se fosse l'unico, e non ritiene affatto di trovare, per esempio, nelle scienze positive la verità delle intuizioni sensibili. Ogni ordine possiede la sua verità e, diciamo così, la sua solidità propria. Il suo valore oggettivo consisterà non in quello che non è, ma in quello che è. È per questo motivo che la scienza prende possesso pacificamente di ogni ordine, senza temere che uno di essi avanzi la pretesa esclusiva di rendere ragione di ogni cosa, e di contenere esso solo il vero e l'essere. Kant aveva notato che tra la tesi e l'antitesi delle ultime antinomie da lui esaminate non vi è affatto opposizione, come tra due rette che, pur non essendo parallele, non si incontrano se sono tracciate su piani differenti. Ma bisogna essere più radicali: tra gli oggetti contestuali studiati dalla scienza sullo stesso piano del determinismo non c'è mai collisione, perché a quel livello la solidità dell'essere è ancora carente. Ma se si riesce a liberare dall'essere ogni campo di indagine per consegnarlo integralmente alla conoscenza scientifica, ciò avviene correttamente perché si è indotti per altro verso a reintegrarlo ovunque, facendo dello stesso fenomeno una verità metafisica. Prendere i fenomeni per quello che sono, né più né meno: questa restrizione sembra la cosa più naturale del mondo. Ma per metterla in pratica bisognerebbe già essersi innalzati a una concezione più alta; e, operandola, la filosofia è indotta ad aggiornare il senso delle sue indagini. Essa reintegra nella parte del suo dominio in cui regna la grande pace della scienza la maggior parte delle questioni sulle quali si è persa in controversie senza sbocco possibile. Giova dunque soffermarsi per un momento a considerare a quali illusioni siamo esposti, per meglio vedere quante pseudodifficoltà o quante disastrose divisioni sia facile evitare. Si eviteranno alla sola condizione che si escluda dall'esame del determinismo dell'azione ogni preoccupazione ulteriore. Occorre, è vero, che vi sia sempre un problema ulteriore. Ma proprio per averlo individuato laddove non esiste, siamo stati portati a introdurlo in tutti i contesti in cui non c'è. - Siamo portati a cercare nei dati della sensibilità la verità stessa e l'essere reale. - Ma occorre che il pensiero si metta in guardia contro questo falso misticismo. Esso deve assumere quei dati sensibili non come una realtà che esclude tutte le altre, ma così come appaiono, come un sistema di simboli da decifrare. Ed è agevole misurare la forza di quella seduzione, se consideriamo quale sforzo di riflessione ci sia voluto per emancipare l'intelligenza dal fascino dei sensi. - Siamo portati a cercare nelle scienze positive l'unico segreto della realtà, e a rivoltare le conclusioni accertate da quelle scienze contro tutto ciò che oltrepassa la loro portata. Non vediamo forse certe intelligenze, tutte invasate come sono dalla critica kantiana, attribuire un valore metafisico ai simboli scientifici, e considerare i fondamenti delle matematiche come se si trattasse di ontologia? - Ma non dimentichiamolo. Le scienze positive non sono altro che un simbolismo continuato. E se pure troviamo in esse un mezzo di azione, mai possiamo attribuire ai fenomeni che le scienze collegano o ai risultati che ottengono non dico una portata oggettiva, ma semplicemente un valore soggettivo tale che se ne possa dedurre un argomento qualsiasi contro ogni altra verità soggettiva. Esse non consentono che si escluda o si neghi alcunché, ne fuori di noi ne in noi. La contingenza delle relazioni necessarie è la prima delle verità positive. - Siamo portati a cercare nel determinismo della coscienza precisamente l'espressione della vita reale, e a credere che quel dinamismo interno escluda tutto ciò che non è automatismo e necessità. - Ma tale automatismo è ancora un idolo, se si reputa che è la vera e ultima parola delle cose. Ma anziché essere assoluto ed esclusivo, esso è relativo alla libertà. Tra il determinismo scientifico e il determinismo psicologico c'è lo stesso rapporto che c'è tra il determinismo psicologico e la libertà stessa. Sembra che si respingano, e invece si richiamano. L'automatismo delle idee e il libero arbitrio sono due fenomeni contestuali. La libertà non può essere negata in nome del determinismo interno o esterno della scienza, perché reciprocamente la scienza è determinata in nome della libertà, che è l'anima della vita intellettuale e della conoscenza scientifica. La psicologia in apparenza più positiva non è altro che un'alchimia mentale, finché sotto la spinta delle sue indagini inocula preoccupazioni a carattere positivistico. Chiedere allo studioso di psico-fisiologia se è seguace della dottrina della monade, o allo studioso di psicologia se esclude il libero arbitrio, significa porgli una domanda strana allo stesso titolo di quella posta al chimico, al quale oggi chiedessimo se è seguace della teoria del flogisto. - Una volta ammessa la libertà, siamo portati a cercare in essa l'unica molla dell'azione umana, come se dovessimo o respingerla in assoluto o affermarla in maniera esclusiva. - Ma come non bisogna negarla in nome del determinismo antecedente, neppure bisogna negare in nome suo il determinismo conseguente all'azione. Uno dei risultati essenziali della scienza dell'azione è precisamente quello di mettere in piena luce le conseguenze necessario del fenomeno dell'azione, a prescindere dalle variazioni indeterminabili della condotta umana. Dal solo fatto di volere deriva uno sterminato concatenamento di fenomeni inediti, che costituiscono progressivamente lo stesso quadro della vita morale. Così definita, la libertà non interrompe la serie, ma è dentro la serie. E probabilmente il paradosso più stridente testimoniato dal presente lavoro è quello di studiare il determinismo delle azioni libere, senza intaccare minimamente l'uso determinato della stessa libertà. - Siamo portati a subordinare sia l'autonomia all'eteronomia, sia l'eteronomia all'autonomia della volontà, come se anche qui ci fosse incompatibilità. - Ma il concatenamento scientifico dei fenomeni di coscienza esibisce la subordinazione reciproca e la contestualità di questi due aspetti. Grazie a un'alternanza progressiva, la libertà è di volta in volta un mezzo e un fine. Lo scopo che essa persegue come un termine esterno rientra nella serie degli intermediari che le consentono di ritrovare se stessa. La norma che le sembra imposta è ancora inclusa nel suo intento iniziale, senza cessare di esserle offerta come una vera e propria eteronomia. - Siamo portati a considerare come definitivi ed esclusivi tutti i fini parziali che l'azione raggiunge, l'uno dopo l'altro; come se i sacrifici richiesti non consentissero compensazioni possibili; come se le sintesi costituite avessero una consistenza e una sufficienza assoluta; come se ogni nuovo gruppo di fenomeni, assorbendo tutto, non lasciasse posto a niente altro. - Ma questi sacrifici apparenti procurano un arricchimento reale. Ciascuno dei fini conseguiti non è altro che un mezzo nella serie dei progressi della volontà. Gli affetti e i doveri sociali anziché escludersi si sorreggono e si completano a vicenda. Ogni sintesi è nuova in rapporto ai suoi elementi. Superandoli, essa non li elimina, e conservandoli non risulta compromessa. - Siamo portati, ed è questo il grande idolo dello spirito, a istituire come assoluto il sistema globale dei fenomeni, e a conferire alle concezioni universali, in qualunque forma si organizzino a livello di pensiero, un senso tale che non ci sia più nulla da aggiungervi. Tali concezioni, per quanto poco differiscano tra loro, sembrano escludersi: costituiscono metafisiche inconciliabili. - Ma esse non sono la verità assoluta ne sono reciprocamente esclusive. Formando diversi gradi nello sviluppo generale del pensiero e nel dinamismo della vita, sono a loro volta solidali come gradini di una scala. Le soluzioni naturalistiche hanno il loro ruolo e la loro efficacia incontrovertibile, così come le concezioni idealistiche. Le une e le altre contengono una verità solo nella misura in cui, essendo legate allo sviluppo dell'azione, ne raccolgono gli insegnamenti, ne rischiarano il cammino e ne preparano il progresso. - Siamo portati ad attribuire un valore assoluto alla prassi fondata sulla sola testimonianza della coscienza, rischiarata dalla sola luce della ragione, sorretta dal solo sforzo della buona volontà. Come se i fenomeni morali in se stessi, isolandosi da tutti gli altri, avessero una sufficienza divina, investissero il fondo delle cose, operassero la salvezza e rendessero superflua ogni ricerca ulteriore. - Ma questa pretesa non è altro che una ulteriore superstizione. La verità è che, senza fermarsi a quello che non conosciamo, bisogna agire in base al dovere che conosciamo. L'errore è quello di reputare che questo cammino in avanti non possa e non debba portare a una nuova luce, e che la ragione sia esclusiva di un ordine superiore, mentre essa è solidale con tale ordine. Tutti questi problemi, che formano l'argomento consueto di discussioni appassionate, suscitano i conflitti e totalizzano la sostanza della metafisica, devono essere lasciati nella zona neutra della coscienza, senza introdurvi prematuramente, come un fermento di discordia, preoccupazioni estranee allo studio dei fenomeni eterogenei e contestuali. In sostanza si tratta di far scorrere la catena completa del determinismo. E dove si dà soltanto il necessario, non si da l'essere, dove non si da l'essere, non si da contraddizione. II - Ma è possibile acquisire alla scienza questa zona neutra, in cui deve regnare la pace, soltanto se mettiamo tra parentesi il principio occulto delle divisioni, se sappiamo cercare l'esistenza oggettiva unicamente dove può essere, se troviamo l'essere unicamente dove è. La conoscenza necessaria della verità non è altro che un mezzo per guadagnare o perdere il possesso della realtà. Sebbene questa conoscenza oggettiva debba essere identica al suo oggetto, tuttavia tra quella conoscenza e quest'oggetto intercorre tutta la differenza che può separare il possesso dalla privazione. In tal modo dunque essere e conoscere sono i poli più diversi e più simili che si possano immaginare. E l'esistenza oggettiva consiste in quello che, a livello di questa identità necessaria, può e deve essere accettato liberamente per costituire l'identità volontaria. Pertanto la realtà degli oggetti conosciuti è fondata non su una specie di doppio soggiacente, non sulla forma necessaria del loro fenomeno, ma su ciò che ci impone una scelta inevitabile. Essa si realizza nell'azione mediatrice, la quale fa sì che essi siano ciò che appaiono. Dunque la loro esistenza è in loro, poiché essi sono come sono conosciuti, ed è fuori di loro, poiché sono conosciuti come sono. Quindi le cose, essendo indipendenti dall'uso che ne facciamo, essendo sottratte al capriccio umano, essendo tutte suscettibili di essere studiate con l'imparzialità della scienza, sono totalmente subordinate alla grande e decisiva questione circa l'impiego della vita. La loro ragion d'essere è quella di sollevare per noi quel problema. E nella soluzione di tale problema esse trovano la loro ragion d'essere. Omniapropter unum. La metafisica è controversa ma non controvertibile. E lo è perché la scienza relativa a ciò che è, senza esserne dipendente, fa corpo con la volontà relativa a ciò che è. È questa la sua originalità. Ecco dunque il punto preciso intorno a cui si scatenano tutte le battaglie, l'unico segno di contraddizione che non deve mai venir meno, quel segno che si leva non soltanto per effetto di un malinteso o di un'ignoranza transitoria, quel segno che non lascerà mai le coscienze nella condizione ignominiosa della pigrizia. È l'unica questione essenziale. Per non intravederla in tutti quei contesti in cui non ricorre, bisogna individuarla soltanto lì dove ricorre. Non ricorre nelle opposizioni immaginarie del positivismo e dell'idealismo, e neppure nei contrasti tra la natura e la morale. Essa ricorre in pieno in quel conflitto necessario che nasce nel cuore della volontà umana, e che le impone di scegliere a livello pratico tra i termini di un'alternativa ineludibile, di un'alternativa tale per cui l'uomo o cerca di rimanere padrone di sé e di preservare gelosamente il proprio essere, o si abbandona al comando divino rivelato alla sua coscienza in modo più o meno oscuro. Quindi per noi l'essere e la vita non consistono in quello che si deve pensare, o in quello che si deve credere, e neppure in quello che si deve praticare, ma in quello che è messo in pratica di fatto. È necessario, se così si può dire, decentrare l'uomo e la filosofia, in modo da collocare questo punto vitale dove in effetti si trova, non negli oggetti raggiunti dai sensi, non nei fini verso cui si protende il desiderio, non nelle speculazioni intellettuali, non nelle prescrizioni morali, ma nell'azione. Perché per forza di cose proprio tramite l'azione si decide di fatto la questione dei rapporti tra l'uomo e Dio. Perciò, come la critica della vita sposta e rivela progressivamente il centro prospettico del pensiero, così essa sposta e rivela il baricentro della prassi. Per individuare l'equazione dell'azione essa è chiamata ad abbracciare e a trascendere tutto l'ordine naturale. Senza introdurre dal di fuori nessuna costrizione o nessun postulato, e grazie alla sola energia della molla interna alla volontà umana, essa costringe l'uomo ad aprirsi al dono di una vita più alta, oppure, se si chiude in sé, a condannarsi da sé. III - L'intero determinismo dell'azione ha dunque il compito di far sorgere ineludibilmente un conflitto, perché tutto l'essere delle cose e l'intera sorte del nostro essere sono sospesi all'indeclinabile dovere di risolverlo volontariamente. Persino la concezione di Dio che abbiamo di primo acchito non è altro che un effetto di quel determinismo interno, e una molla destinata a potenziare il dinamismo della coscienza fino al punto in cui bisogna scegliere. La soluzione del problema è dunque fondata sull'integralità dell'esperienza e della scienza umana. Ma tutto quest'ordine naturale nel suo insieme non è altro che un mezzo per realizzare un destino superiore. Se non si accede a quel destino, anche la vita meglio organizzata rimane come una cornice ben rifinita ma vuota. Qualsiasi dottrina che non metta capo all'unico necessario, qualsiasi filosofia separata cadrà nella fallacia delle false apparenze. Sarà una dottrina, non " la Filosofia ". Le renderemo il migliore servizio, se la metteremo in contatto con quest'ordine superiore, in cui la filosofia non può penetrare, ma che non può ignorare ne escludere senza mutilare se stessa. Se non giunge fino al punto di evidenziarne la necessità, tutte le altre questioni di cui la dottrina e la filosofia trattano perdono il loro senso e il loro nesso, e la filosofia non è più scienza. Qualsiasi affermazione dell'esistenza oggettiva è destituita di significato e di fondamento, e la filosofia non è più metafisica. Qualsiasi prassi rimane priva di efficacia salutare, e la filosofia non è più una morale. In tal modo si manifesta l'unità del problema. Poco importa che la soluzione speculativa risulti difficile da rischiarare con un po' di luce, se la soluzione pratica non è ritardata o compromessa da alcuna oscurità. Non sempre la volontà più chiara è quella più distinta, e la volontà che non analizza le proprie condizioni è della stessa natura della volontà la cui conoscenza ha penetrato le ragioni riposte. Dottrine recenti hanno avanzato la pretesa di ricondurre tutto, nell'universo, a un volere oscuro e irrazionale. Ma esso non merita questo nome. Noi dobbiamo cercare il segreto anticipato del nostro essere in una volontà che dapprima non è ragionata, ma può esserlo. Si tratta del dramma profondo delle nostre vite. Non vi è nulla di immaginario o di esteriore, ne nel problema ne nella stessa soluzione. Ogni vita umana è intessuta di una logica sopraffina. Formule scorrette possono invilupparla con illusioni e con intralci, ma essa finisce sempre per sradicarli via, spesso senza averli esaminati. La forza della ragione consiste semplicemente nel dipanare il contenuto intrinseco dei nostri atti. Infatti ciò significa far leva su qualcosa che, lentamente forse, ma sicuramente, produce a poco a poco i suoi effetti. La scienza dell'azione ha come oggetto quello di evidenziare la potenza di questo motore interno. Sia che consideri la deviazione che spinge per sempre la volontà fuori dal suo centro, sia che contempli la maniera stupenda con la quale l'uomo, per una sorta di trapasso alla vita, acquisisce il dono di Dio, essa individua sempre nell'intimo volere di ciascuno il principio del destino di ognuno. Pertanto la forza delle prove che essa impiega dipende dal fatto che ciascuno le porta in sé. La sua ambizione è quella di mettere allo scoperto quello che noi preferiamo nasconderei. Non che possa anticipare davvero le rivelazioni del futuro, ma può almeno svelare le mistificazioni del presente. Se per l'uomo la conoscenza non è tutto, in lui essa è sufficiente per fargli riconoscere la sua strada. - Può darsi che ricercare il referente dell'azione al di là della realtà data, e orientarsi a un bene che non si incontra più nella natura, significhi essere mistico. - Può darsi che, per la volontà, riconoscere la necessità di trascendere se stessa significhi operare una petizione di principio e presupporre quel bisogno di infinito che è in questione. - Può darsi che la pretesa di procurare all'uomo le soddisfazioni infinite oggetto dei suoi sogni significhi venir meno alla saggezza filosofica, perché palesemente l'ambizione e il punto d'onore della filosofia sono sempre stati quelli di frenare l'impulso cieco dei desideri umani. Sgombriamo dunque il campo dagli errori. - Abbiamo dovuto affrontare di petto l'azione non per introdurvi ciò che non vi sarebbe contenuto, non per interpretarla, non per orientarla, ma per constatare tutto ciò che è, che lo sappiamo o lo ignoriamo, che lo vogliamo o non lo vogliamo espressamente. Si tratta non di mere tendenze, ma di atti concreti, non di quello che potrebbe e dovrebbe essere, ma del reale, di quello che facciamo e vogliamo. La sola analisi della volontà, esibendoci quello che bisogna ratificare per giungere a raccogliere nel volere persino la nostra stessa volontà, ci ha fatto vedere attraverso quali condizioni dobbiamo passare ineludibilmente. Per la ricerca scientifica volere l'infinito non è un punto di partenza, ma un punto di arrivo. Ma per l'attività spontanea della vita è un punto di partenza e un principio, ecco il problema. Se c'è in noi questo bisogno, come far sì che non ci sia, come sottrarsi alla necessità di riconoscerlo? Tutto quello che si può tentare di fare è di supporre che non esista, di fare in modo che non esista, di volere infinitamente senza volere l'infinito. Ed ecco da dove deriva il carattere negativo del metodo che ci è apparso l'unico in grado di esibire il rigore della scienza: sottrarsi con tutte le proprie forze alle conclusioni cui saremo indotti, cercare tutte le scappatoie, significa forse introdurre un postulato recondito? - E da tutti quei tentativi non scaturisce che un sistema di affermazioni connesse, che a poco a poco ci costringono a porre di fronte al pensiero riflesso il referente che era già presente all'origine del movimento col quale tentavamo di sottrarci a esso. Come Cartesio aveva immaginato nuovi motivi per dubitare, così noi abbiamo dovuto far entrare nel campo delle dottrine filosofiche atteggiamenti morali singolari, e partire più da lontano, per procedere più lontano di dove eravamo arrivati, dallo stato d'animo dell'esteta alla devozione di una suora di carità. Ma il Dubbio metodico rappresentava la disposizione particolare di una sola mente, mentre qui bisogna ammettere tutta la diversità delle coscienze umane, e far mettere in movimento quegli stessi che vogliono far credere di non partire affatto. Il Dubbio metodico era limitato a una difficoltà intellettuale, parziale, artificiosa, mentre qui si tratta del problema vitale, del problema totale. Dal Dubbio metodico si usciva come da una simulazione, mentre qui bisogna rimanere ancorati all'azione come alla realtà. Pertanto quello che era puramente e semplicemente il problema dell'intelletto diventa il problema della volontà. Non è più soltanto il problema cartesiano, ma è il problema kantiano che abbiamo dovuto risolvere su nuove basi, definendo il rapporto tra il conoscere, il fare e l'essere. Anzi, più ancora, è il problema del pessimismo intorno al valore della vita, e intorno all'accordo tra il nostro volere e le condizioni universali della conoscenza e dell'esistenza. Anzi in ultima istanza è in gioco il problema filosofico nella sua integralità, poiché si tratta del rapporto tra l'ordine naturale e il soprannaturale stesso, e del procedimento della filosofia come disciplina a parte. - Per eliminare la contraddizione che l'uomo ha sempre avvertito tra il principio e il termine dell'aspirazione volontaria, la saggezza umana ha da lungo tempo indicato questa soluzione: " Invece di tendere invano ad adeguare il fine voluto al principio infinito del desiderio, non si può regolare il desiderio sulla base dell'oggetto, e limitare l'aspirazione? ". Certo, si può farlo, e lo si fa, ma a quale prezzo? Infatti quello che si respinge non è affatto eliminato, e in questa rinuncia sistematica ci imbattiamo, come in un principio di condanna e di morte, in quella contraddizione riposta che sembrava tolta. - Pertanto non sono in gioco né il misticismo né la petizione di principio, ma la visione del contenuto reale dell'azione volontaria, il disvelamento di quello che contiene e anticipa la presunta sapienza dell'astensione, la giustificazione, nei confronti di una scienza fatua e proterva, della grande follia di vivere e di morire, se necessario, per salvare la propria anima. Non sfuggiamo affatto a ciò che vogliamo, anche quando sembra che non lo vogliamo. L'intero mistero della vita deriva da quel disaccordo di superficie tra i desideri palesi e l'aspirazione autentica del volere originario. Niente ci è imposto in maniera tirannica, sia nelle condizioni ineludibili della nostra vita, sia nell'uso personale delle nostre forze, sia nelle conseguenze talvolta impreviste dei nostri atti. L'essere che riceviamo è identico a quello che vogliamo, e mai cessiamo di volere quel tanto di essere che possiamo perdere. In tal modo risulta definito il senso stesso dell'essere. Come un'arma a doppio taglio, l'azione risolve in sensi opposti il problema della vita o della morte che si impone a tutti. E le sintesi da essa operate, sempre con gli stessi elementi, le soluzioni cui mette capo, sono talmente estreme da superare o tutto quello che il pessimismo più nero ha immaginato, o tutto quello che l'ottimismo più audace ha sognato. E proprio in questo consiste la grandezza e la bellezza del nostro destino. Nel fondo originario della volontà umana c'è un abbozzo di essere che non può più venire meno, ma che, deprivato del suo compimento, vale meno che se non fosse esistito. E perché quell'abbozzo giunga a compimento è necessario che riceva la perfezione da una mano più che umana. L'uomo non può guadagnare il suo essere che rinnegandolo, in qualche modo, per rapportarlo al suo principio e al suo fine autentico. Rinunciare a quello che ha di proprio, e annientare quel nulla che è, significa ricevere quella vita piena alla quale aspira, ma della quale non ha in sé la sorgente. Per essere alla propria altezza e salvarsi ha bisogno di trascendersi. Il suo modo per contribuire a creare se stesso è quello di acconsentire a essere invaso da tutto ciò che è vita anteriore e volontà superiore alla sua. Volere tutto ciò che vogliamo, nell'integrale autenticità del cuore, significa collocare in noi l'essere e l'azione di Dio. Indubbiamente questo ci costa, perché non avvertiamo che questa volontà è la nostra volontà a un grado eminente. Ma bisogna giocare il tutto per tutto. La vita ha un valore divino. E nonostante le sue debolezze sul piano dell'orgoglio e della sensualità, l'umanità è abbastanza generosa per preferire di darsi in proprietà a colui che esige di più da essa. La scienza può estendere la necessità di quest'opera di vita e di salvezza. Non è essa che la compie; anzi non la comincia neppure. L'azione umana deve prepararla e deve prestare il suo concorso. Ma anche l'azione non ha l'iniziativa di quell'opera, non procura il suo successo. Scavare il letto del fiume non significa riempirlo d'acqua. La critica razionale e la prassi morale hanno un ruolo incontrovertibile di sgombero e di preparazione. Ma la sorgente viva è altrove, non in loro. Anche dopo aver posto, a titolo di ipotesi necessaria, l'ordine soprannaturale come un postulato scientifico, bisogna guardarsi dal ritenere che si possa dimostrare la sua verità reale sviluppando le sue conseguenze o esibendo le sue analogie interne. L'affermazione che il soprannaturale è non costituisce mai un riconoscimento che provenga da noi soltanto. Per noi, dunque, è sufficiente eliminare tutto ciò che in una falsa prospettiva lo farebbe apparire impossibile, mostrare tutto ciò che lo rende giustamente necessario, dimostrare che non può essere accertato ne escluso dalla filosofia, e che tuttavia l'uomo non potrebbe farne a meno senza colpa e senza perdizione. Se non possiamo darne una dimostrazione integrale di fronte alla ragione, non possiamo neppure avere la competenza di negarlo senza averne fatta l'esperienza. E quando ne abbiamo fatta l'esperienza, in quest'ultima non troviamo che ragioni positive per affermare il soprannaturale. Ecco perché l'educazione è in grado di comunicarlo come una verità sperimentale, grazie alla pratica obbediente. Non facciamo come se non esistesse affatto, perché per noi esisterà di sicuro. Qui è in gioco l'interesse globale della vita. A ogni altro livello è possibile astenersi o trovare scappatoie, perché le affermazioni o le negazioni, sempre amalgamate ad altre componenti, rimangono relative. Ma di fronte a questo sì senza no, e qui soltanto, tutto si decide in assoluto. Non c'è via di mezzo o astensione neutrale: omettere di fare quello che in ipotesi sarebbe vero, significa fare quello che in ipotesi è falso. Spetta alla filosofia estendere la necessità di porre l'alternativa: " Esiste o non esiste? ". Spetta a essa far vedere che soltanto questa domanda unica e universale, che abbraccia l'intero destino dell'uomo, si impone a tutti con questa perentorietà assoluta. " Esiste o non esiste? ". Tocca alla filosofia dimostrare che in pratica non si può fare a meno di pronunciarsi prò o contro quel soprannaturale: " Esiste o non esiste? ". Tocca a essa, ancora, esaminare le conseguenze dell'una o dell'altra soluzione e misurarne l'immenso divario. La filosofia non può andare oltre e non può dire in base alla sua sola competenza che cosa è o che cosa non è il soprannaturale. Ma, se è consentito aggiungere una parola, una sola, che oltrepassi il campo della scienza umana e la competenza della filosofia, l'unica parola capace, di fronte al cristianesimo, di esprimere questa parte, la migliore, della certezza che non può essere comunicata, perché nasce unicamente dall'intimo dell'azione perfettamente personale, una parola che sia essa stessa un'azione, bisogna dirla: " Esiste ".