Rene Latourelle L’uomo e i suoi problemi alla luce di Cristo Introduzione Gesù Cristo rivelazione dell'uomo Se il cristianesimo si presenta come l'intervento di Dio in una storia che ha il suo culmine in Gesù Cristo, è di somma importanza sapere se, come e in quale misura possiamo raggiungere questo avvenimento. Perciò il problema dell'accesso a Gesù attraverso i Vangeli è capitale in cristologia. Ma l'ermeneutica delle origini del cristianesimo non basta. Deve essere completata da un ermeneutica dell'uomo. Perché Gesù non è soltanto un'irruzione di Dio nella storia dell'uomo: è un'irruzione che rivela l'uomo a se stesso, lo decifra, lo interpreta e lo trasfigura. L'uomo non ha senso che in Cristo. Solo Cristo effettua l'esegesi dell'uomo e dei suoi problemi. Solo Cristo è la chiave del crittogramma umano. Il presente volume tenta di illuminare questo secondo aspetto della credibilità cristiana. L'uomo è anzitutto un interrogativo su se stesso e sul senso ultimo della sua vita: non è capace di sfuggire ne a questa domanda ne a se stesso. Lo vogliamo o no, osserva Pascal nel Pari, siamo « imbarcati ». Non possiamo sfuggire: chi siamo? dove andiamo? perché esistiamo? L'uomo non potrebbe eliminare queste domande senza rinunciare a vivere, senza rinunciare a esistere. Osserva il Vaticano II nella Dichiarazione sulle religioni non cristiane: « Gli uomini attendono la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo ». Siamo tutti imbarcati cioè coinvolti nella stessa avventura, tutti messi in questione, tutti interpellati. L'uomo è un enigma, un mistero ai suoi stessi occhi e non avrà fatto niente di valido finché non avrà svelato questo mistero. Non si dica che tale questione è anacronistica, che non si pone più e non trova più nessuna eco. Nascondi Al contrario, molti pensatori contemporanei ( romanzieri, filosofi, teologi ) e anche i testi del magistero della Chiesa ( dalla Gaudium et spes alla Redemptor hominis ) non cessano di dichiarare, precisamente come il Vangelo, che il problema dei problemi, è l'uomo. Un libro recente, che ha avuto un grande successo, formula il problema in termini semplici e suggestivi, ispirandosi a Pascal. Ne riproduciamo alcuni paragrafi. « Il problema che sta dietro alle domande: chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? è spesso irriso, quasi fosse da lasciare agli adolescenti, indegno degli adulti, … Non crediamo sia in torto chi ha paragonato la nostra condizione a quella di chi si svegli su un treno che corre nella notte. Da dove è partito quel treno su cui siamo stati caricati non sappiamo quando e perché? Dove è diretto? … C'è chi si accontenta di esaminare il suo scompartimento, di verificare le dimensioni dei sedili, di analizzare i materiali, per riaddormentarsi poi tranquillamente: ha preso coscienza dell'ambiente che lo circonda, tanto gli basta, il resto non è affar suo. Se l'angoscia dell'ignoto prenderà poi alla gola, ci sarà sempre modo di scacciarla pensando ad altro … Anche i più saccenti, qui, hanno una sola informazione sicura da dare: che il convoglio finirà per imboccare un tunnel oscuro, senza che alcuno possa scendere prima. Ma cosa vi sia oltre l'imbocco della misteriosa galleria, non sanno. "Non c'è nulla, c'è solo buio", dicono alcuni. Un'opinione rispettabile. Ha purtroppo il difetto di mancare di prove. Nessuno è tornato indietro per darci relazioni del suo viaggio al di là della Todeslinie, la linea della morte. Noi siamo tra gli ingenui, gli inguaribili adolescenti, gli alienati. Tra coloro che sono sgomenti, non ci vergogniamo affatto a riconoscerlo, dal silenzio eterno degli spazi infiniti che ci circondano. Invece di starcene tranquilli al nostro posto, guardando il buio correre fuori, preferiamo girare di scompartimento in scompartimento. Nella speranza, chissà?, di trovare un qualche "orario" che dia un nome e una direzione a questo viaggio che non abbiamo voluto … Gesù non sarebbe la risposta alle nostre domande? Egli, infatti, è il solo uomo nella storia di cui si dice che sia tornato vivo dalla galleria della morte. E se fosse vero? Certo, dopo di lui, il mistero sussiste. Tanti problemi non trovano risposta. "Credere non è capire tutto", dice Teilhard de Chardin. Quel mistero, quei problemi mi sembrano ancora più grandi se si afferma che il cristianesimo non è che il più grosso degli equivoci in cui gli uomini sono incappati ». Noi siamo ugualmente convinti che Cristo, e solo Cristo, da un senso non soltanto alla condizione umana presa nel suo insieme, spiegando all'uomo la sua vocazione di figlio chiamato per grazia alla vita e alla gloria di Dio, ma anche ai problemi concreti e particolari di tale condizione. Lui solo è quella luce penetrante che penetra nelle profondità dell'uomo e lo rivela a se stesso. In lui, pura Luce, l'uomo scopre la sua definitiva verità. Ma se è vero che Cristo, attraverso la sua vita e il suo messaggio, è mediatore del significato dell'uomo, unico esegeta dell'uomo e dei suoi problemi, se è vero che in lui l'uomo riesce a situarsi, a capirsi, a realizzarsi e anche a superarsi; se la luce che proietta sulla condizione umana è a tal punto penetrante, la questione della sua identità si pone ineluttabilmente. Non sarebbe Gesù, - come lo pretende la Chiesa e come lui stesso lo fa capire Il presente volume costituisce il secondo dei tre momenti, o approcci che riteniamo indispensabili per trattare convenientemente il problema della credibilità del cristianesimo. I tre momenti corrispondono a tre domande: Gesù è accessibile nella sua realtà storica? Gesù e il suo messaggio rispondono alla questione radicale del significato dell'esistenza umana? Gesù è identificabile come Dio in mezzo a noi? Tentiamo qui di rispondere alla seconda di queste domande. Dopo un capitolo che pone la questione del significato dell'esistenza umana, nel contesto contemporaneo, di fronte a Cristo e al suo messaggio, l'opera si articola in due parti: la prima studia il problema della condizione umana nella sua globalità a partire da tre autori diversi e complementari: Pascal, Teilbard, Blondel; la seconda si applica a dimostrare come Cristo dia un significato non soltanto alla condizione umana presa nel suo insieme, ma anche ai principali problemi di questa condizione: lavoro nel mondo, solitudine, alterità e comunione, libertà, peccato, sofferenza, morte, salvezza. Questo approccio di carattere storico, poi sistematico, ha il vantaggio di diversificare la presentazione e anche, crediamo, di rinnovare l'interesse. Capitolo primo Cristo, possibilità offerta all'uomo contemporaneo La necessità di decifrarsi, di « decodificarsi », è sempre presente alla coscienza dell'uomo. Si fa tuttavia sentire in modo più acuto in certi momenti di crisi della vita personale ( momenti di solitudine, di abbandono, di malattia ) e della vita dell'umanità. Allora una forte emozione viscerale afferra l'uomo, come una stretta al cuore. Il sentimento della fragilità si acuisce: l'uomo non sarebbe altro che questo? è tutto qui il senso della vita? come spiegare tanti apparenti controsensi? Ogni generazione umana sperimenta questi « punti critici » che possono diventare « punti di inserimento » del Vangelo che viene incontro alla nostra solitudine per colmarla e alla nostra indigenza per guarirla. Quali sono oggi i fattori che impongono la questione del significato dell'uomo e della condizione umana e che fanno di Cristo e del messaggio cristiano la possibile scelta dell'uomo contemporaneo? Non si tratta qui di dare un giudizio sul valore della nostra epoca, migliore o peggiore delle altre, ma di cogliere e di descrivere i fattori che agiscono sull'uomo del XX secolo, anche a sua insaputa, e gli conferiscono una fisionomia, un linguaggio, una mentalità. Ne indico alcuni, sulla base di osservazioni personali e di un certo numero di opere che, nel corso degli ultimi decenni, hanno avuto un impatto considerevole, in Occidente: quelle per esempio di H. Cox, H. Marcuse, J. Delumeau, A. Solgènitsyn, A. Toffler. I. Fisionomia dell'uomo del XX secolo 1. L'uomo areligioso o indifferente condivide almeno ufficialmente l'affermazione della « morte di Dio » decretata da un nucleo d'intellettuali ( Hegel, Feurbach, Marx, Freud, Nietzsche ). L'ateismo più o meno cosciente di buon numero di nostri contemporanei trasmette, amalgama, rimescola le critiche di questi intellettuali che hanno eliminato l'ipotesi-Dio. Tuttavia, ciò che si incontra più di frequente è l'idea di un Dio che esiste ma che è « in vacanza », una specie di presente-assente, che non interviene nelle vicende umane. Dio forse sussulta ancora, ma non turba più. Cosa potrebbe aggiungere a quello che abbiamo o che avremo? Perché aspirare al pane del cielo, quando quello della terra è largamente sufficiente? 2. Molti cristiani di un tempo coltivano amarezza, rancore contro un certo cristianesimo attestato dalla storia: un cristianesimo di Stato, autoritario, legato alle potenze politiche e alle potenze del denaro, armato di lance e di fulmini ( crociate, guerre di religione, processi di Inquisizione, atteggiamenti nei confronti degli ebrei, dei musulmani, delle streghe ) che dominava le coscienze con la paura più che con l'amore. Un cristianesimo cupo, imperniato sul peccato e sulla sanzione: codice penale più che stile di vita. Una religione di oppressione e di repressione. Molti cristiani si sono sbarazzati di tutti questi pesi e di tutte queste paure e vivono in margine alla Chiesa istituzionale, senza preoccuparsi di quello che essa pensa, dice e fa. Stiamo attenti però a non sbagliarci: in fondo a questa denuncia si trova spesso, specialmente nei giovani, un desiderio di ritorno alla freschezza e alla purezza del Vangelo. Il fascino esercitato da Giovanni XXIII, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, non è forse il segno che si è disposti ad aprirsi alla salvezza che passa attraverso Cristo e il suo amore? 3. L'uomo del tempo libero che reclama pane e giochi, generato dalla civiltà dei mass-media: radio, cinema, stampa, televisione. Questi mezzi di comunicazione di massa rappresentano un incontestabile progresso, ma con una tragica contro-partita al livello della coscienza personale. Essi diffondono informazioni, immagini, ritmi, idee; « distraggono » nel senso positivo del termine, ma nello stesso tempo « divertono » nel senso pascaliano. Impediscono all'uomo di cercare e di trovare se stesso. L'agitazione dell'animus uccide l'anima. Il solo a solo scompare; scompare anche il dialogo. Una sala di televisione è spesso una riunione di solitudini l'una accanto all'altra. Il rapido susseguirsi della pubblicità e dei programmi proibisce le pause necessario alla riflessione. Si riempiono gli occhi e le orecchie, ma non si pensa più. Soprattutto si fugge da sé. È impossibile rientrare in se stessi. 4. L'uomo del progresso e della tecnica. Grazie ai mezzi di comunicazione, viviamo tutti nell'ora del presente « universale ». Il nostro pianeta è diventato una casa di vetro dove ciascuno è visibile a ciascuno. Gli avvenimenti di una nazione, di una città, di un villaggio, sono avvenimenti dell'universo. Sappiamo e viviamo nel medesimo tempo quello, che avviene nel mondo intero. Così percepiamo oggi con un'acutezza sempre crescente la presenza minacciante di due spettri: la miseria e la guerra. Due realtà d'altronde legate tra loro. Come allontanare infatti la minaccia della guerra se non si elimina la fame e non si placa la collera e l'odio accesi dall'ineguaglianza delle condizioni? Come pensare che tra trent'anni, quando l'umanità avrà sei miliardi di abitanti, l'abisso possa continuare a dividere un miliardo di ben pasciuti da cinque miliardi di affamati, senza che scoppino le violenze? D'altra parte, di fronte all'accresciuta potenza degli attuali mezzi di aggressione, l'ipotesi della distruzione massiccia dell'umanità deve essere freddamente prospettata come una possibilità. Il nostro pianeta vive in un reticolato di ordigni di morte sulla terra, nell'aria e sotto i mari. Gli accordi intervenuti tra URSS e USA per ridurre il numero dei missili atomici autorizzati in ognuno del due campi, non modificano affatto i dati del problema. Come impedire una simile ipotesi? Ma allora che diventa l'uomo di fronte a questa minaccia incombente e brutale? che cos'è questa massa di uomini ridotti a numero? Di conseguenza l'ottimismo suscitato dal progresso si mescola col timor panico e cosmico. Questa presenza della guerra genera una psicosi di dimensioni planetarie. Dopo « l'uomo per la morte » di Heidegger, si dovrà parlare di « umanità per la morte »? Il tragico è che l'uomo stesso ha seminato i germi di questa morte universale. Al momento stesso in cui l'uomo sperimenta l'ebrezza del progresso, si scopre triste e inquieto. Lavora forse per la sua distruzione ed è questo il suo destino? Lo scandalo delle ultime due guerre ha rivelato la fragilità di una civiltà incapace di rispettare i valori cui si appella, capace soltanto di uccidere gli uomini col pretesto di difendere i diritti dell'uomo. 5. L'uomo della grande città o tecnopoli, ragnatela di Strade, buildings, cabine d'ascensore, autobus, metrò, taxi; e il concetto di vita che ne deriva: quello della contiguità e quello dell'anonimato. Nella tecnopoli i contatti coi vicini sono rari, rapidi e superficiali. Si sta fianco a fianco, senza conoscersi. Ciò che importa non sono le persone, ma quello che si fa, quello che serve e come ce ne serviamo, quello che funziona e come funziona. Si chiede agli altri di essere utili o per lo meno di non nuocere. Nelle città tentacolari dove la violenza e il terrorismo si aggiungono all'anonimato, ci si asserraglia e si ha paura. Non è una fatalità della tecnopoli, ma un fenomeno sempre più frequente. In un tale contesto si ha, o almeno si rischia, una svalutazione della persona. 6. L'uomo dei cervelli elettronici. Nell'era dei computers si dà valore solo alla verifica, alla sperimentazione, al calcolo. L'uomo, con la sua libertà, la sua inviolabilità, il suo mistero, con le sue convinzioni, emozioni, affezioni ( tutte cose di cui è il solo a possedere il segreto e a poter fare la rivelazione ) non offre alcun interesse. Codificato, ridotto a schede, alimenta i cervelli elettronici e arricchisce le statistiche. Ma il paradosso è che questa minaccia della tecnica calcolatrice si estende fino alle scienze dell'uomo, concepito anche lui come un micromeccanismo, smontabile come i pezzi di un motore. L'uomo non pensa più, non parla più: sono strutture incoscienti ( linguistiche, biologiche, psichiche ) che pensano e parlano per lui e che lo guidano a sua insaputa. Quest'uomo assorbito e digerito dalla scienza, non è contento di sé, perché ci sono in lui delle zone profonde di mistero e di verità, mai raggiunte e mai appagate. L'incredulità dell'uomo ha per oggetto l'uomo. 7. L'uomo della pubblicità. D'altra parte l'uomo rappresenta una sfida perché è il solo elemento dell'universo che resiste alla volontà di dominazione della civiltà della tecnica. Perciò la volontà di potenza che caratterizza il mondo della tecnica, cerca di penetrare il segreto della persona con l'effrazione, per strapparglielo. Da qui le indiscrezioni, l'impudenza, la violentazione delle coscienze esercitata con tutte le risorse della stampa sulla vita privata delle persone per sbandierare la loro vita intima davanti all'opinione pubblica, e così ferirle, svalutarle, avvilirle. È una delle forme più immonde dell'onnipotenza della pubblicità moderna. 8. L'uomo unidimensionale o agente di produzione. Nella società contemporanea la produttività è il valore supremo. Il processo di produzione è una cosa a sé stante, si impone e diventa aggressivo. L'ossessione della produttività porta presto al disprezzo delle persone. Produzione delle cose e distruzione degli uomini procedono con lo stesso ritmo. Facciamo notare che il marxismo e il capitalismo, a questo proposito, hanno lo stesso concetto riduttivo della persona. Nei due casi si considera l'uomo come strumento di produzione, di efficienza. Il valore dell'uomo va molto al di là della produttività del suo lavoro: esso si basa sulla dignità della persona, sulla sua vocazione di figlio di Dio. Ridurre l'uomo alla sua funzione di « produttore » vuol dire apprezzarlo in funzione di ciò che fa, non di ciò che è. L'uomo unidimensionale abdica la sua apertura sull'Assoluto personale, per rinchiudersi nelle categorie dello sfruttamento, della sistemazione delle risorse: è un essere sottovalutato. Di nuovo siamo agli antipodi della libertà interiore. 9. L'uomo della lotta di classe. Questa lotta, concepita come una legge del progresso sociale, è di origine marxista, ma essa si è imposta poco a poco in tutti i regimi. Di conseguenza, padroni e operai, governo e sindacati, datori di lavoro e lavoratori, si presentano come antagonisti. L'essenziale è vincere, con la pressione o con la violenza. L'uomo si ritrova col suo volto orrendo di homo homini lupus. Nei regimi totalitari, il singolo deve pensare come il regime, o sparire. In ogni caso gli atteggiamenti di accoglienza, di rispetto, di carità, sono soppressi lasciando posto solo ad avversari che si affrontano. Il più forte diventa il partito della giustizia. Il terrorismo diventa il nuovo mezzo di comunicazione. 10. L'uomo del consumismo. Ci hanno fatto diventare dei consumatori che vivono in un'aria contaminata dalla pubblicità. La libertà significa uso sfrenato, senza ritegno, del denaro e dei beni che esso procura. Lo sviluppo significa possedere sempre di più, estendere i mercati, aumentare i benefici, trasformare la terra in « centri d'affari » e « borse valori ». Al centro di tutto questo: io. Gli altri: possibilità di guadagno. La motivazione: il profitto, sempre maggior profitto. Di nuovo l'uomo si trova ridotto al rango di mezzo. In questo caso, di consumismo. Evidentemente in un tale contesto, il prossimo non esiste più, ma solo profitti da realizzare, un capitale da aumentare. Tutto ciò che costituisce la dignità dell'uomo, cioè la capacità di amare, di servire, di accogliere, di compatire, sembra abolito. 11. Il culto del corpo. Questo aspetto della svalutazione dell'uomo non è secondario. Il culto del corpo si manifesta nell'assoluto dello sport, nella valutazione eccessiva concessa agli atleti ( salari inauditi ) di fronte agli impegni superiori della società ( studiosi, ricercatori, artisti ), nell'ondata ciclonica della pornografia, nella creazione delle concupiscenze artificiali ( le mode ). L'imposizione di questi bisogni crea la spirale dell'inflazione per i soddisfatti. Anche questa volta la dignità dell'uomo è distrutta. Così l'uomo di oggi, più che mai fissato sull'uomo, si sente squilibrato, asservito dalle sue creazioni, vuoto di senso in un mondo ridotto in pezzi, di cui egli stesso è responsabile. In questo mondo disperatamente tecnicizzato, matematicizzato, abbandonato alle potenze anonime del cervello elettronico, in un mondo desacralizzato, diventato opaco, ma dominato da imperativi materialistici non meno dispotici di quelli del potere politico; in un mondo che si esalta del suo progresso, ma che si degrada nella guerra, nel terrorismo, nelle torture, nei conflitti razziali; in un .mondo apparentemente provvisto di tutto, ma incapace di una vera condivisione, di perdono vero, di vero amore, la vita sembra aver perduto il suo significato. L'ora non è lontana in cui l'umanità, soprattutto l'Occidente, non sopporterà più il vuoto sul quale sfocia il problema del significato. L'eclissi di Dio, la perdita di Dio, la morte di Dio, la mancanza di Dio: è questo un evento che rarefa l'ossigeno di cui l'uomo ha bisogno per respirare. In fondo a se stessi gli uomini disperatamente attendono ciò che darà un significato a ogni cosa: alla vita, al lavoro, alla sofferenza, alla solitudine, alla morte ( a meno di dissolversi nel buio del suicidio ). Il rumore delle macchine non riesce a soffocare queste domande di fondo che sorgono e risorgono sempre: dove andiamo? chi siamo? perché esistiamo? Sotto la sua maschera di sicurezza, l'uomo non può sfuggire a queste domande; esse sono troppo profonde, troppo viscerali. I fattori che agiscono sull'uomo contemporaneo ( spesso a sua insaputa ) modellano la sua mentalità, il suo linguaggio, il suo comportamento, possono creare l'impressione che l'uomo del XX secolo è un campione molto poco interessante, il sottoprodotto di una umanità avvilita, in ogni caso un cattivo candidato per il Vangelo. Noi pensiamo invece che questi fattori di crisi generano proteste, rivolte, frustrazioni, inquietudini, angosce e possono diventare punti di inserimento, addentellati per il Vangelo e costituire la « chance » inattesa di un incontro e di un dialogo con Cristo. Paradossalmente gli handicaps della fede possono diventare le possibilità della fede. Nell'uomo, la coscienza della Sua immagine difforme può essere l'occasione per ritrovare la sua immagine autentica, il suo vero volto d'uomo in Gesù Cristo. Infatti, in un mondo in-sensato, ecco che Cristo, figura evanescente, perduta nello spazio e nel tempo, e tuttavia sempre vivente, sempre presente, appare come mediatore del significato, come esegeta dell'uomo e dei suoi problemi. Quando l'uomo ascolta Cristo, capisce come Egli s'interessa all'uomo più che l'uomo a se stesso, che lo decifra, lo eleva e lo realizza oltre misura, Cristo non violenta nessuno. Invita, propone, ma non costringe. La fede, che è adesione alla sua parola, è una resa a Dio, ma nella piena e libera padronanza di sé. Il rispetto di Cristo per la dignità, l'inviolabilità, l'interiorità della persona umana, l'ha condotto fino alla morte. Per lui ogni uomo ha un nome, perché è stato, eletto, scelto, predestinao, chiamato da Dio alla vita stessa di Dio. Di tutti gli uomini dispersi Cristo forma un popolo, unito nell'amore. I piccoli, gli umili, i poveri, i miseri, gli emarginati, tutti coloro che l'umanità ignora, disprezza o respinge, Cristo li proclama « beati » e « primi » nel suo Regno. Il nostro mondo parla di produzione, di consumo, di profitti e guadagni, di capitale: Egli parla di servizio gratuito, di dedizione, di amore per gli altri fino al dono della propria vita. Il nostro mondo parla di guerra, di armamento a oltranza: Egli parla di perdono, di amore dei nemici, di pace. Proibisce di maneggiare la spada e lui stesso tende la guancia a chi lo colpisce, piega le spalle sotto la croce. In Cristo gli uomini scoprono l'esistenza di un amore assoluto che ama l'uomo in se stesso e per se stesso. Improvvisamente hanno la rivelazione di un mondo nuovo è di un uomo nuovo. Pensiamo che Cristo è la « chance » offerta all'uomo contemporaneo. Per l'uomo esasperato di non essere riconosciuto e trattato per ciò che è, Cristo è la sola risposta valida, la sola luce, la sola chiave del crittogramma umano. A condizione, tuttavia, che siano spiegate le ricchezze insondabili del suo mistero. Così quest'uomo del XX secolo, in apparenza tanto lontano da Dio, ne è forse molto vicino. Non è « schernito » e « sfigurato » come Cristo? Aspetta che gli si rendano la sua dignità e il suo vero volto. Pensiamo anche che una certa sensibilità contemporanea, sempre più attenta al senso della dignità umana, dei diritti dell'uomo ( libertà di coscienza, libertà religiosa ), al senso della responsabilità, dell'interdipendenza dei popoli, del necessario dialogo, sia il risultato conscio o inconscio, dichiarato o no, dell'attrattiva esercitata dal Vangelo e dai valori cristiani su un'umanità in crisi e in ricerca di significato, per la quale Cristo appare come una luce nella notte, come una sorgente d'acqua viva offerta al viandante sfinito. Capitolo primo - II II. Preoccupazione dei pensatori cristiani Di fatto, si nota che questa preoccupazione di proporre Cristo come l'esegeta, l'interprete dell'uomo, colui che « decodifica », si direbbe oggi, l'uomo e i suoi problemi, è centrale nel pensiero e nelle opere di diversi scrittori, sia filosofi sia teologi. Pensiamo a uomini come Pascal, Guardini, F. M. Sciacca, Blondel, Teiihard, Rahner, G. Marcel, Von Balthasar, M. Legaut, M. Zundel, A. Solgénitsyn. Tutti hanno cercato di capire l'uomo al quale si rivolgono, per farsi meglio ascoltare da lui e per condurlo a interrogarsi sulla sua vera identità in Gesù Cristo. È questa ugualmente la prima preoccupazione della Chiesa, in modo speciale dal Vaticano II a Giovanni Paolo II. Ognuno di questi uomini ha la sua prospettiva, il suo linguaggio, ma tutti perseguono lo stesso scopo, con la stessa terapia: mostrare all'uomo del nostro tempo che il mistero dell'uomo non potrebbe essere compreso senza il mistero di Cristo. L'uomo è ai propri occhi un enigma che soltanto Cristo può illuminare e decifrare . 1. Già PASCAL, nei Pensieri, cerca di risvegliare nell'uomo una profonda coscienza della sua paradossale condizione di essere miserabile e tuttavia contrassegnato di grandezza. L'uomo è un abisso che Dio solo può colmare e che solo Cristo può spiegare. Il cristianesimo è la sola religione che, non soltanto illumina l'uomo, sulla sua condizione, ma porta un rimedio alla sua miseria. « L'Incarnazione fa intendere all'uomo la grandezza della sua miseria per mezzo della grandezza del rimedio che fu necessario ». « Non soltanto non conosciamo Dio che attravèrso Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi che, tramite Gesù Cristo. Al di fuori di Gesù Cristo non sappiamo cosa sono ne la nostra vita, ne la nostra morte, ne Dio, ne noi stessi ». Pascal cerca dunque di rendere il cristianesimo augurabile, desiderabile all'uomo sincero che vuole trovare un senso alla sua vita, al mistero di contraddizione che lo costituisce. Nascondi 2. Maurice BLONDEL, ne L'Azione, cerca il punto d'incontro tra il mistero dell'uomo e il mistero della rivelazione cristiana nel dinamismo dell'agire umano. Per studiare il senso della condizione umana, osserva Blondel, si deve afferrare l'uomo in seno a questa realtà nella quale è immerso e alla quale non può sfuggire: l'azione. Nessuno sfugge all'azione, ne al problema che pone. Che lo voglia o no, nell'azione ciascuno decide il problema del suo destino, per la vita o per la morte. Blondel analizza dunque il dinamismo della volontà e dell'agire umano. Ora l'analisi di questo dinamismo rivela che esiste sempre una sproporzione tra ciò che si crede di volere e ciò che si vuole profondamente, tra l'oggetto voluto hic et nunc e il movimento spontaneo del volere, tra il termine concreto dell'azione e lo slancio del volere. Dopo aver osservato ogni forma dell'agire umano e dopo aver osservato dovunque questa sproporzione rinascente tra il voluto concreto e il dinamismo della volontà, possiamo misurare l'ampiezza del volere umano e siamo portati a concludere che l'uomo non potrebbe completarsi se non aprendosi a un'azione che non e la sua: «Da me a me c'è un abisso che"non posso colmare » Un conflitto, una crisi rinasce allora nel cuore dell'uomo, una scelta si impone: o l'uomo si richiude in se stesso, o si apre a un'azione divina, qualunque sia l'immagine sotto la quale si presenta. Nella sua realtà storica il cristianesimo sembra rispondere bene a questa attesa indeterminata, ma incoercibile del volere umano. 3. Romano GUARDIMI è un importante testimone della coscienza cristiana del XX secolo. Quest'uomo è stato intensamente presente ai problemi e alle aspirazioni degli uomini della nostra epoca. Non è un filosofo, ne un teologo di mestiere, ma piuttosto un « formatore » un « modellatore » del pensiero religioso del suo tempo. Alcune sue opere tuttavia costituiscono un vero universo filosofico: una ontologia, una antropologia, una cosmologia una teodicea. Nelle sue opere Guardini ritorna spesso sulla necessità per l'uomo di « aprirsi » a una rivelazione se vuole capire qualcosa del suo mistero. Così, in Welf una Person pone in evidenza la parola di Pascal: « L'uomo supera infinitamente l'uomo ». Già nella prefazione sottolinea che l'uomo è un enigma a se stesso. Queste pagine, dice, si occupano del problema della natura dell'uomo. Un problema studiato oggi come mai nel passato. Si è ormai imposta l'idea che l'uomo potrebbe essere molto diverso da ciò che pensa e dichiara l'opinione ufficiale: questa idea era nell'aria all'inizio del XX secolo, ma mai chiaramente espressa. L'uomo è oggi cosciente di essere diverso da ciò che pensava di essere: sconosciuto a se stesso, problema e progetto. Di conseguenza è ormai possibile chiedersi in che cosa consista la risposta che la rivelazione cristiana porta a questo problema. Queste pagine non hanno altro scopo che di approfondire un solo punto: cioè che « l'uomo non è un blocco di realtà chiuso su se stesso o una forma di autosufficienza che ha il suo sviluppo proprio, ma che esiste in funzione di un'altra cosa che viene incontro a lui, e dall'alto ». In verità, per capire la sollecitudine di Guardini per il mistero dell'uomo, rivelato in Gesù Cristo, si deve leggere il suo libro su Pascal o il dramma della coscienza cristiana. Guardini trova che Pascal si è posto il problema che l'uomo contemporaneo deve inevitabilmente affrontate. Secondo Pascal, dice Guardini, « l'uomo non è un essere capace di bastare a se stesso; non è rinchiuso nei suoi limiti. È un essere al di sopra di se stesso: l'uomo supera infinitamente l'uomo, secondo la bella formula del frammento 434. La sua natura non si realizza nello sviluppo di un sistema, ma in quanto è attratta al di sopra di se stessa in una comunicazione di vita con Dio ». 4. Teiihard DE CHARDIN pone anche lui il problema dell'uomo e del suo mistero, ma a partire dal fenomeno umano considerato nella totalità e nella prospettiva dell'evoluzione del mondo, dell'uomo e della storia. Ad ogni momento della durata del tempo si compie nell'universo uno sforzo gigantesco che prepara la realizzazione dell'avvenire. Questa crescita, sempre più complessa dell'universo non si spiega da sé, ma trova il suo senso definitivo nelle prospettive aperte dalla rivelazione cristiana. La fede ci rivela che Cristo è l'avvenire dell'universo, che trova in lui la sua definitiva interpretazione e il suo compimento. Cristo è la chiave che permette di decifrare i misteri del mondo e dell'uomo. Cristo alimenta l'evoluzione e la conduce al suo compimento e al suo superamento. L'amore di Cristo in particolare costituisce uno slancio nuovo verso una metamorfosi dell'umanità mediante la carità. 5. Karl RAHNER, in Horer des Wortes, segue lo stesso itinerario di Blondel, ma a partire dal dinamismo della conoscenza umana. L'uomo è spirito. Come tale possiede un'apertura illimitata all'essere e costituisce un orizzonte sul quale può disegnarsi un'eventuale rivelazione di Dio all'uomo. Inoltre se l'uomo vuole essere docile alla sua natura di essere storico, rivolto verso la storia, deve stare in ascolto di una eventuale parola di Dio nella storia, che potrebbe colmarlo. Blondel parte dal dinamismo dell'agire umano. Rahner parte dal dinamismo della conoscenza umana. 6. Gabriel MARCEL ( morto nel 1973 ), scrittore, filosofo, drammaturgo, si è convertito al cattolicesimo ed è stato battezzato nel 1929, all'età di quarant'anni. Si può dire che la sua filosofia era « cristiana » prima di lui e che era egli stesso un'anima naturaliter christiana. In Position et approches concrètes du mystère ontologique, che è come il suo Discorso sul metodo, G. Marcel osserva che la vita soprannaturale; senza essere una fioritura della vita naturale, deve trovare in questa « agganci e punti di inserzione ». Di conseguenza, la filosofia come ricerca del mistero ontologico, non è possibile che « per una specie di irradiazione fecondante della rivelazione stessa … Una tale filosofia, con un movimento irresistibile, va incontro a una luce che è presente e di cui subisce in fondo a sé lo stimolo segreto e l'ardente pressione ». Il filosofo credente è l'esempio vivente di questa indivisibilità: c'è in lui la convergenza del metafisico e del religioso. Secondo una definizione di Ricoeur, l'opera di G. Marcel si presenta come uno scontro tra una « sociologia delle tenebre » e una « metafisica della luce ». G. Marcel dà innanzitutto un giudizio sul mondo nel quale si trova impegnato: questo mondo è in disordine, è stonato. I suoi meccanismi funzionano ancora, ma il cuore non batte più. Il male di cui soffre proviene dalla mentalità « tecnicizzante ». Si tratta l'uomo e la realtà umana come « cose ». La tecnica è sia un idolo che una panacea. Ma le tecniche di manipolazione soddisfano soltanto il bisogno di avere, soffocano l'essere. L'uomo-oggetto, l'uomo-massa, l'uomo-robot, l'uomo-schedario, giudicato secondo le categorie del « rendimento », ha perduto la capacità di avvicinarsi al reale nella sua totalità. Il pantecnicismo ha impoverito e spersonalizzato l'uomo. L'uomo-cosa è profondamente insoddisfatto. Fa esperienza di un mondo vuoto, inconsistente, assurdo, difforme, indecifrabile, in una parola di un caos. L'euforia dei grandi successi tecnici e scientifici, che assicurano potenza e benessere, non colma il vuoto lasciato dall'assenza di una realtà profonda. È in nome della dignità umana che G. Marcel denuncia le « problematicizzazioni di ogni specie dell'esistenza e dell'essere ». Gli uomini sono stati sollevati contro l'umano, l'avere si sostituisce all'essere, il problema al mistero, cioè alla persona con ciò che ha di incomunicabile, d'ineffabile, di gratuito, di non riducibile a un concetto. È mediante una protesta contro questa caduta nell'assurdo che può prodursi un raddrizzamento salutare: occorre passare dall'avere all'essere, dal problema al mistero. È necessario trasformare l'atteggiamento di rifiuto, di auto sufficienza dell'uomo, in atteggiamento di partecipazione all'essere, di comunione con gli altri. Altrimenti l'uomo è condannato a non capire mai se stèsso e a non capire mai gli altri. Ora l'altro si presenta come un richiamo, un'invocazione alla quale possiamo rispondere con la disponibilità, l'incontro, l'amore. È nella misura in cui ci apriamo agli altri che incominciamo a capire e a capirci. D'altra parte la risposta definitiva alla domanda: chi sono? non può essere trovata, osserva G. Marcel, in una partecipazione con un altro essere che sarebbe dello stesso mio livello. L'uomo non può penetrare nel cuore del suo mistero personale che mediante una comunione con una presenza personale, ma trascendente, con un Tu assoluto, più intimo a me che a me stesso Se Dio è questo Tu trascendente, non lo posso conoscere che nell'umiltà, nella preghiera, nella conversione. Tutto ciò che è stato detto sull'incontro umano ( capacità o incapacità di comunicare ) vale sul piano dell'incontro tra Dio e il credente. Accolgo Dio, ma Dio stesso si fa mio prossimo. Se l'uomo approfondisce questo primo incontro, scopre che il Tu assoluto si manifesta in Gesu Cristo. La luce di Cristo, provo una strana emozione ad articolare queste parole, dice G. Marcel, perché sono per me qualcosa di insolito, ma significano che, per la mia mente. Cristo è non tanto un oggetto sul quale posso concentrare la mia attenzione, ma un Illuminante che può anche diventare un volto, uno sguardo. Ma giustamente non si guarda a dir vero uno sguardo, se ne è penetrati e forse tanto più in quanto ci si sente guardati. 7. In Dieu et l'homme d'aujourd'hui, H. U. von BALTHASAR studia i rapporti tra scienza, religione e cristianesimo. Il mondo della scienza come tale, dice, non si pone domande a proposito della rivelazione cristiana. Ma il mondo segnato dalla scienza moderna, si pone invece domande riguardanti il mondo e la religione, perché si interroga sul senso dell'uomo e dell'esistenza umana. Questa stessa questione, se si studia in profondità, porta l'uomo a interrogarsi sulla religione e, in particolare, su questa religione, interamente centrata sul senso ultimo dell'esistenza umana, cioè il cristianesimo. 8. Pensatore cristiano, ma personale, originale, indipendente, Marcel LÉGAUT si interroga anche lui sul senso della vita a partire dalla sua esperienza. La sua opera su L'homme a la recherche de son humanités si propone come una riflessione sull'uomo, sul senso della vita, sul senso della morte: un senso che non si trova e non si completa definitivamente che in Gesù. Più l'uomo matura, dice Légaut, più « sente il bisogno imperioso di riflettere sulla sua condizione per rendersene ragione. Si sente intimamente chiamato a prendere coscienza in modo personale della sua umanità per aderire pienamente alla sua vita. L'uomo prende tanto più coscienza di questo bisogno e di questo appello in quanto, grazie al suo approfondimento spirituale, è sempre più sensibile all'insoddisfazione profonda in cui lo lasciano i suoi beni più desiderati e i suoi più amati progetti. A partire da un livello sufficiente di umanità, l'uomo sente la necessità di cercare un senso ai suoi giorni per sposare il suo destino, assumerlo … invece di subirlo ciecamente e di essere così trascinato fino alla morte. Questa necessità gli è immanente come il fatto stesso di vivere ». Certamente « l'uomo può sottrarsi alla domanda che gli pone una vita già sufficientemente cosciente, fuggendo da se stesso mediante il turbine in cui lo trascina la conquista di beni sempre nuovi. C'è un'ebrezza di vita, un furore di vivere che dipendòno più da una fuga disperata davanti alla serietà dell'esistenza che dall'impetuosità delle passioni. Queste ingannano solo chi vi si abbandona non senza lasciargli intravedere di tanto in tanto il suo accecamento e la sua duplicità. Questa indispensabile riflessione sul senso della vita, osserva Légaut, può prendere due direzioni: o partire da una ideologia già costituita e cercare di inserirvisi alla meno peggio, o partire da sé, dalla coscienza della sua intima realtà, per capirsi, per situarsi rispetto al mondo. Solo la seconda via permette all'uomo di prendersi in mano e di trovare se stesso. Al termine della ricerca che passa attraverso Dio, si scopre Gesù: « Più si scopre Gesù scoprendo se stessi … più si capisce la necessità della sua venuta, e ancor più si intravede la profondità del mistero che unisce l'uomo a Dio ». 9. Maurice ZUNDEL, prete svizzero morto nel 1975, una delle più simpatiche personalità cristiane del nostro tempo - una "specie di genio spirituale, poeta, mistico, filosofo e teologo, autore di una ventina di opere e di saggi - non ha parlato che di un soggetto: l'uomo, l'interiorità umana, la liberazione e il compimento dell'uomo in Gesù Cristo. « Il problema dei problemi, dice, è l'uomo. Ci sono problemi soltanto perché l'uomo è un problema per se stesso » Il problema di sapere come l'uomo può diventare quello che è, cioè veramente uomo e come può risolvere i problemi che la vita gli impone. Ora, l'uomo non è veramente uomo che dal momento in cui si apre a un Altro, più interiore a lui che lui stesso, che solo può colmare la distanza infinita che c'è tra lui e lui stesso. Perché l'uomo, lo sappia o lo ignori, è aperto a un Valore infinito ed è veramente uomo dal momento in cui si apre a questo Valore e ne vive: « Non esisto, ma posso esistere ». « L'uomo non può esistere veramente che affermando Dio ». « l'uomo supera infinitamente l'uomo ». Zundel tuttavia è infinitamente rispettoso dell'interiorità e dell'inviolabilità della persona. La presenza dell'Altro non si impone. Dio è la piena luce e la piena misura dell'uomo, ma non costringe. La sua luce sgorga dal profondo dell'essere e si propaga da un'intimità all'altra. Sant'Agostino ci indica qui la condotta da tenere. « Occorre che l'uomo, al quale il Vangelo è proposto, si senta interpellato nel più intimo di sé, che vi scopra il senso estremo della sua libertà in uno spazio interiore senza frontiere, che vi scopra infine Qualcuno che possa afferrare e colmare tutte le sue capacità di ammirazione e di amore. Non si tratta di portare delle prove astratte di una realtà invisibile di cui il bisogno non è affatto sentito, ma di risvegliare in ciascuno tutto ciò che è propriamente umano in lui, fino a quando riconosce l'appello al quale nessuna risposta adeguata è data al di fuori di Cristo » 10. A queste testimonianze aggiungiamo quella di uno scrittore russo, Alexandre SOLGENITSYN. In un coraggioso M. DONZÉ, Puuvreté et Libération. La pensée théologique de Maurice Zundel, Genève, 1980. Il discorso pronunciato a Harvard l'8 giugno 1978, Solgénitsyn condanna la società occidentale orientata verso la materia a spese dello spirito; ossessionata dal desiderio di soddisfare i bisogni materiali, come se l'uomo fosse incapace di dare alla vita un senso più elevato; una società sazia di benessere e tuttavia incapace di trarre l'uomo dalla sua miseria morale; una società che ha annullato la coscienza delle sue responsabilità davanti a Dio e dei suoi doveri verso gli uomini. In breve, una società che ha perso il senso di Dio e il significato della vita interiore. L'Occidente marcisce. Se non vuole scomparire deve procedere a una revisione dei valori fondamentali della vita e della società umana: « l'uomo è effettivamente al di sopra di tutto ed esiste al di sopra di noi uno Spirito supremo? … È ammissibile sviluppare la vita materiale a detrimento della vita inferiore? ». Il mondo attuale deve effettuare una svolta non meno diffìcile di quella del medio evo e del Rinascimento. Questa svolta esigerà da noi « una salita verso nuovi orizzonti, verso un nuovo modo di vivere paragonabile a un nuovo grado antropologico. Nessuno sulla terra può risolvere il suo problema umano se non andando sempre più in alto ». Queste ultime righe dello scrittore russo lasciano intendere che l'Occidente non sfuggirà alla decomposizione se non diventerà « un uomo nuovo ». Precisiamo che quest'uomo nuovo non ci sarà, non esisterà, a meno che sia l'uomo salvato da Cristo, vivificato dal suo Spirito. Solo Cristo, può rivelare agli uomini, un nuovo modo di vivere, un nuovo stile di vita. Cristo infatti, conducendo in mezzo agli uomini uno stile di vita « filiale », ha operato una nuova composizione di tutti i valori Dopo la venuta di Cristo non si guarda più a Dio, agli uomini, al lavoro, alla sofferenza, alla morte, nello stesso modo. Questi sondaggi non hanno altro scopo che di illustrare come è espressa, da pensatori appartenenti ad ambienti molto diversi, una medesima preoccupazione di fondo. Tutti perseguono uno scopo comune, a volte chiaramente espresso, a volte discretamente proposto in modo allusivo, a volte semplicemente suggerito: mostrare che l'uomo non potrebbe capire se stesso, ne realizzarsi pienamente al di fuori di Cristo e del Vangelo. L'uomo è per se stesso un enigma che solo Cristo può decifrare. Capitolo primo - III III. Dal Vaticano II a Giovanni Paolo II La sensibilità ai problemi dell'uomo e della sua condizione che si trova nei pensatori recenti, è antica quanto il cristianesimo, che è essenzialmente religione della salvezza dell'uomo in Gesù Cristo. Nascondi Mai tuttavia tale sensibilità si è manifestata ed espressa così chiaramente, così esplicitamente come nei documenti dei due ultimi decenni, in particolare nella Costituzione pastorale sulla situazione della Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes e nelle dichiarazioni del papa attuale Giovanni Paolo II: discorso di Puebla, enciclica Redemptor hominis, discorso alle Nazioni Unite. La Gaudium et spes è un documento originale: a) È il più lungo documento di tutta la storia conciliare della Chiesa, b) È la prima volta che un documento del Magistero straordinario si esprime sugli aspetti direttamente temporali della vita cristiana. Mai si era parlato in modo così diretto dell'uomo alle prese coi problemi della sua vita terrestre, c) La struttura stessa del documento è nuova: invece di partire dai dati della fede, si appoggia su una descrizione della condizione umana nel mondo di oggi. Perciò struttura prima empirica poi teologica. Nel corso dei cinque schemi o versioni che scandiscono la storia della Costituzione, la sola vera linea continua di ricerca è stata questa preoccupazione di arrivare al mondo, di parlare dei suoi, problemi, di portargli i servizi della Chiesa e, più concretamente, la luce del Vangelo, d) Il mondo al quale si rivolge il Concilio è l'uomo totale: individuo e società, materia e spirito, inserito in una durata indefinita. L'uomo è l'individuo e la società, ma è l'uomo « di questo tempo », nel « mondo di oggi ». Nascondi L'esposto preliminare della Costituzione è precisamente una descrizione dello stato attuale della collettività umana ( nn. 4-10 ). Il fatto brutale è che l'uomo ha camminato con salti giganteschi verso il progresso. L'immagine del mondo ne è stata subitamente trasformata. Ma questa trasformazione non è avvenuta senza gravi difficoltà ( n. 3 ). Il primo a subire i contraccolpi di una mutazione accelerata è stato l'uomo stesso. La Costituzione enumera, sotto forma di antitesi, i principali cambiamenti con le loro contropartite ( n. 4, par. 4 ): 1) Crescita prodigiosa delle ricchezze e dell'economia; ma anche carestia e miseria di una larga parte dell'umanità. 2) Senso acuto della libertà, dell'autonomia; ma presenza multiforme di schiavitù sociale e psichica ( dominazione, tirannia della pubblicità ). 3) Coscienza dell'interdipendenza di tutti, di solidarietà universale ( creazione dell'ONU ); ma lacerazioni sociali, razziali, politiche, ideologiche, minaccia di guerra totale. 4) Diffusione universale delle idee; ma le medesime parole contengono significati ben diversi a seconda delle ideologie che le manipolano ( libertà, lavoro, progresso ). 5) Organizzazione temporale progredita; ma slanciò spirituale in declino. Di fronte a una mutazione così rapida, così profonda, così complessa che diventa l'uomo? È diviso tra la speranza e l'angoscia. Fa fatica a dissipare le ambiguità, a distinguere i valori permanenti. Perché tanti sforzi terreni? perché la tecnica? perché il progresso? perché l'ascesa della razza umana verso la cultura, se tutto questo sforzo non sfocia in uno stato di cose in cui l'uomo e i valori umani sono salvi? Nascondi Questa evoluzione del mondo è una sfida da raccogliere ( n. 5 ). La Chiesa, per prima, deve prendere coscienza della dimensione di questa evoluzione e del suo impatto con la collettività. Essa deve essere più umana per essere più cristiana. « Noi ci presentiamo come esperti in umanità », diceva Paolo VI alle Nazioni Unite. L'uomo è dunque il terreno d'incontro degli uomini: delle politiche e delle religioni. Perciò la Gaudium et spes, di proposito, prende l'avvio dalla condizione dell'uomo di oggi: è il dato di base del documento. Se la Chiesa cerca di capire « il mondo nel quale viviamo, le sue attese e le sue aspirazioni », è al fine di poter rispondere « in modo adeguato a ogni generazione, alle domande eterne degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche » ( n. 4 ). Tale fenomenologia non è quindi fine a se stessa: è in vista di un miglior servizio dell'uomo. Se la Chiesa scruta i segni dei tempi è perché si interessa all'uomo più che l'uomo stesso; è perché essa esiste unicamente per la salvezza dell'uomo. La sua fenomenologia è in vista di una antropologia, e la sua antropologia è ispirata da una teologia, cioè da una visione dell'uomo, in Gesù-Cristo, l'uomo nuovo. Nascondi La conclusione dell'analisi dei cambiamenti sociali, psicologici, politici, economici, morali, religiosi dell'umanità, si esprime alla fine del n. 9 e del n. 10 che servono di transizione a tutto il resto del documento: « In verità gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell'uomo » ( n, 10 par. 1 ). « Di fronte all'evoluzione attuale del mondo diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi capitali: cos'è l'uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte che malgrado ogni progresso continuano a sussistere? Cosa valgono queste conquiste a così caro prezzo raggiunte? Che reca l'uomo alla società, e che cosa può attendersi da essa? Nascondi Cosa ci sarà dopo questa vita? ( n. 10 par. 1 ). « Così nella luce di Cristo … il Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell'uomo e per cooperare nella ricerca della soluzione ai principali problemi del nostro tempo » ( n. 10 par. 2 ). Nel primo capitolo della prima parte, « la Chiesa e la vocazione umana », la costituzione Gaudium et spes si applica appunto a dimostrare che la rivelazione cristiana illumina il mistero dell'uomo. All'inizio, la questione di fondo: « Ma che cos'è l'uomo? … Spesso o si esalta fino a fare di sé una regola assoluta, o si abbassa fino alla disperazione, finendo in tal modo nel dubbio o nell'angoscia. Queste difficoltà la Chiesa le sente profondamente e a esse può dare una risposta che le viene dall'insegnamento della divina Rivelazione, risposta che descrive la vera condizione dell'uomo, da una ragione alle sue miserie, e insieme aiuta a riconoscere giustamente la sua dignità e vocazione » ( n. 12 ). La Gaudium et spes esprime così il paradosso « miseria-grandezza, elementi costitutivi dell'uomo ». Come non evocare Pascal e la sua dialettica? Nascondi I numeri da 12 a 18 propongono poi le grandi linee dell'antropologia cristiana. All'origine l'uomo creato a immagine di Dio ( n. 12 ) con l'affermazione storica del peccato ( n. 13 ). Poi la struttura fondamentale dell'uomo, come esplicita espressione dell'immagine di Dio, fondamento della sua grandezza: la sua unità e la sua interiorità ( n. 14 ), la sua intelligenza ( n. 15 ); la sua coscienza morale ( n. 16 ), la sua libertà ( n. 17 ). Nascondi Il n. 18 prolunga la riflessione su un problema particolarmente drammatico: quello della morte. « In faccia alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo ». La morte infatti è l'angoscia iscritta all'orizzonte della coscienza contemporanea: per ragioni stanche ( campi di sterminio, guerre permanenti, minaccia atomica, morte per incidenti stradali e aerei ); per ragioni culturali ( tema della morte che invade i romanzi, il teatro, la televisione e la stampa ); per ragioni filosofiche (definizione dell'essere umano come l'essere-per-la-morte ); e per ragioni eterne cioè l'angoscia umana, animale, spirituale davanti alla morte, l'uomo, grandezza e miseria insieme, si dibatte davanti alla morte come davanti a un enigma insolubile e insopportabile. « L'istinto del cuore umano lo fa giudicare rettamente quando aborrisce e respinge l'idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe d'eternità che porta in sé … insorge contro la morte » ( n. 18 ). Così l'uomo si sente fatto sia per morire sia per non morire, abitato dall'istinto e dal volere di non morire, in seno a un'esistenza votata alla disgregazione. A questo abisso solo un altro abisso può rispondere: quello del mistero cristiano. Dio non ha fatto l'uomo per la morte, ma per la risurrezione: ciò che è affermare, ma anche superare la morte. La morte è un passaggio che conduce alla « comunione eterna » con Dio. Cristo, per primo, ha attraversato la morte per la liberazione. La morte cristiana è l'atto nel quale l'esistenza umana finisce di maturare e assume il suo senso definitivo. La morte è la possibilità di una « comunione in Cristo » con tutti coloro che sono morti con lui e in lui. Nascondi Così là dove l'uomo non può più dire niente, la fede in colui che è risurrezione e vita, ci insegna che l'uomo è condotto oltre la morte, verso la vita eterna ( n. 18 ). Dopo aver parlato di quelli che rifiutano questo rapporto intimo e vitale dell'uomo con Dio ( l'ateismo ), la Gaudium et spes, in un paragrafo più elaborato ( n. 22 ), presenta Cristo come l'uomo nuovo, come la vera risposta al mistero dell'uomo. La frase essenziale è la prima: « In realtà il mistero dell'uomo non si illumina veramente, che nel mistero del Verbo Incarnato ». Testo molte volte citato e commentato da Giovanni Paolo II. Cristo appare come la chiave dell'enigma umano. È il ripensamento di tutta l'antropologia, colui che he scopre il vero senso, perché è l'uomo nuovo, il nuovo Adamo della nuova creazione e del nuovo statuto dell'umanità. Nascondi « Cristo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione » ( n. 22 par. 1 ). In verità il mistero di Cristo e il mistero dell'uomo non formano che un solo mistero. Ma se l'uomo, mediante Cristo, deve essere svelato a se stesso, lo è per mezzo della rivelazione di quanto c'è di più intimo e di più profondo nel mistero di Cristo, cioè il mistero della filiazione. Il segreto dell'uomo, che lo sappia o no, è che l'amore di Dio lo avvolge, è che nell'uomo c'è più che l'uomo, è che l'uomo è amato e salvato dal Padre in Cristo e nello Spirito. Soltanto quando l'uomo ha scoperto questo mistero può essere pienamente rivelato a se stesso, nella sua grandezza: oggetto della compiacenza di Dio, figlio di Dio destinato ad accogliere l'amore del Padre che si rivela in Gesù Cristo. È in questa partecipazione al mistero della vita trinitaria che gli uomini « si realizzano » e si scoprono figli nel Figlio. La chiave del mistero dell'uomo è che Dio, in Gesù Cristo, vuole generare nuovamente in ogni uomo un figlio, e inspirargli, somare in lui il suo Spirito d'amore, che è uno spirito filiale. L'incarnazione del Figlio mette in luce l'eminente dignità dell'uomo, facendo di Cristo uno di noi, mentre la Redenzione ci rivela il valore di ogni uomo. Quindi la Gaudium et spes afferma che la rivelazione vera dell'uomo, è la rivelazione del vero Dio, i due misteri essendo congiunti in Gesù Cristo, Dio fatto uomo. Nei paragrafi seguenti Cristo è presentato: Nascondi a) come l'immagine creatrice e ri-creatrice dell'uomo, come colui che ha restaurato nell'uomo la somiglianzà con Dio, alterata dal peccato ( n. 22 par. 1); b) come il redentore che « col suo sangue liberamente versato, ci ha meritato la vita », cosicché ciascuno può dire: « Mi ha amato e ha sacrificato se stesso per me » ( par. 3); c) come la salvezza dei cristiani, interiormente rinnovati e resi conformi a Cristo col dono dello Spirito ( par. 4 ); d) come la salvezza di tutti gli uomini di buona volontà, associati anch'essi al mistero pasquale ( par. 5 ). Il capitolo I della Gaudium et spes termina così: « Tale e così grande è il mistero dell'uomo, che chiaro si rivela agli occhi dei credenti, attraverso la rivelazione cristiana. Per Cristo e in Cristo riceve luce quell'enigma del dolore e della morte che al di fuori del suo Vangelo ci opprime ». Nascondi Cristo, il Figlio « ci ha fatto dono della vita, perché anche noi, diventando figli nel Figlio, possiamo pregare esclamando nello Spirito: Abba, Padre » ( n. 22, par. 6 ). È il mistero di Cristo che infine rivela l'uomo all'uomo. La sua « verità » è che è figlio e chiamato a entrare nella vita trinitaria. La rivelazione, lungi dall'essere estranea all'uomo, è così intimamente legata al suo mistero che l'uomo, senza di lei, non potrebbe identificare se stesso. Di conseguenza se la rivelazione apparisse all'uomo come una realtà storica di cui si possono distinguere le tracce, i segni, l'uomo dovrebbe interrogare la storia e soprattutto interrogarsi per scoprire se Dio l'ha interpellato. Si trovano numerosi echi di questi testi negli scritti di Paolo VI, come Populorum progressio e Evangelii nuntiandi. Per abbreviare, tuttavia, andremo direttamente alle dichiarazioni più recenti di Giovanni Paolo II, il cui pontificato si pone, più di ogni altro, sotto il segno dell'uomo in Gesù Cristo. La sollecitudine per l'uomo si esprime già nel discorso pronunciato a Puebla, il 28 gennaio 1979, davanti alla Conferenza episcopale dell'America latina. Una delle più clamorose debolezze della civiltà attuale, dichiara il papa, risiede nella sua visione incompleta dell'uomo. All'epoca dell'umanesimo e dell'antropocentrismo, si parla e si scrive molto dell'uomo. Eppure, paradossalmente, quest'epoca è nello stesso tempo caratterizzata da un'angoscia profonda dell'uomo sulla sua identità e sul suo destino. La nostra epoca di progresso è anche quella della regressione dell'uomo, quella in cui i valori umani sono calpestati, come mai prima di oggi. Come spiegare un simile paradosso? È il paradossò dell'umanesimo ateo, il dramma dell'uomo, ripiegato su se stesso, senza apertura sull'Infinito, senza ricerca dell'Assoluto e privato così del meglio di se stesso. Nascondi La Gaudium et spes tocca il cuore del problema quando afferma che il mistero dell'uomo non trova luce che nel mistero di Cristo ( n. 22 ). L'affermazione centrale dell'antropologia cristiana è che l'uomo, immagine di Dio, non potrebbe ridursi a una particella del cosmo, ne a un elemento anonimo della società. L'uomo che può essere oggetto di misure quantitative e numeriche è al tempo stesso unico, ineffabile, eternamente eletto e chiamato per nome da Dio. L'uomo non è asservito ai processi economici e politici: ma questi sono ordinati e sottomessi a lui. La Redemptor hominis, che è un testo programmatico, propone Cristo, fin dalle prime parole, come « il centro del cosmo e della storia » ( n. 1 ), come il redentore dell'uomo e del mondo ( n. 7 ). Questa enciclica è come lo statuto della dignità dell'uomo nuovo, creato mediante il sangue di Cristo. Con l'incarnazione Dio è entrato nella storia dell'umanità: « Come uomo, è divenuto suo soggetto, uno dei miliardi e, in pari tempo, Unico! Nascondi Attraverso l'incarnazione Dio ha dato alla vita umana quella dimensione che intendeva dare all'uomo sin dal suo primo inizio e l'ha data in maniera definitiva » ( n. 1 ). Con la redenzione, il vincolo di amicizia con Dio, infranto nell'uomo-Adamo, è stato riallacciato nell'Uomo-Cristo ( n. 8 ). Più di ogni altro, l'uomo del progresso ha bisogno di essere salvato. « Il mondo della nuova epoca, il mondo dei voli cosmici, il mondo delle conquiste scientifiche e tecniche, non mai prima raggiunte, è nello stesso tempo il mondo che geme e soffre e che attende anche lui, la sua liberazione » ( n. 8 ). Il redentore del mondo è Colui che è penetrato in modo unico e irrepetibile « nel mistero dell'uomo, e che è entrato nel suo cuore » ( n. 8 ). Il papa cita allora la Gaudium et spes: « In realtà soltanto nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo » ( n. 22 ). Nascondi Solo Cristo, specialmente mediante la sua morte in croce, rivela all'uomo l'infinito amore del Padre per lui ( n. 9). « L'uomo che vuole comprendere se stesso fino in fondo … deve, con la sua inquietudine e incertezza, e anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e con la sua morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in lui con tutto se stesso, deve appropriarsi ed assimilarsi tutta la realtà dell'incarnazione e della redenzione per ritrovare se stesso » ( n. 10 ). Questa coscienza del valore e della dignità dell'uomo è quindi « legata al cristianesimo » ( n. 10 ). La Chiesa che non cessa di contemplare l'insieme del mistero di Cristo « sa, con tutta la certezza della fede, che la redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all'uomo la sua dignità e il senso della sua esistenza nel mondo » ( n. 10 ). Entrando nell'intimità del mistero della redenzione, si raggiunge la zona più profonda dell'uomo, cioè quella del suo cuore, della sua coscienza, della sua vita. La terza parte dell'enciclica riguarda non soltanto l'uomo, la condizione umana in generale, ma in modo specifico l'uomo contemporaneo. Nascondi Per Giovanni Paolo II non c'è dubbio che Cristo sia la via dell'umanità della fine del secondo millenio, perché « in lui soltanto si trova la salvezza » ( n. 7 ). L'unico obiettivo della Chiesa di oggi è che « ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa con ciascuno, percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull'uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell'incarnazione e della redenzione, con la potenza di quell'amore che da essa irradia » ( n. 13 ). La sollecitudine della Chiesa è di condurre l'uomo a Cristo, l'unico Pastore degli uomini. Perciò l'enciclica da una parte può affermare che Cristo è « la via principale della Chiesa », che è « la via di ogni uomo » ( n. 13 ) e d'altra parte che « l'uomo è la prima fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell'incarnazione e della redenzione » ( n. 14 ). Nascondi Il Figlio, infatti, mediante la sua incarnazione e la sua redenzione, è l'unica Via dell'uomo e della Chiesa verso il Padre, così come l'uomo è la strada dove passa necessariamente la missione della Chiesa, di riunire e di salvare tutti gli uomini ( n. 14 ). L'uomo contemporaneo ha bisogno di Cristo e del suo Vangelo perché, a dispetto dei suoi progressi tecnici, non è evidente che sia diventato più uomo. Vive nella paura: teme che i frutti della sua tecnica diventino strumento della sua distruzione. Il progresso, chiede il papa, ha reso l'uomo più « umano », più maturo spiritualmente, più responsabile, più accessibile agli altri, specialmente i più sprovveduti, i più deboli? Le conquiste dell'uomo vanno di pari passo col progresso spirituale e morale? L'umanità progredisce nell'egoismo o nell'amore? La nozione di progresso è molto ambigua. La Chiesa si pone, e deve porsi questa domanda per essere fedele al Vangelo, perché la sua missione è di prendere in carico l'uomo ( nn. 15-16 ). Stando alle apparenze, il mondo del progresso tecnico sembra ancora molto lontano dalle esigenze dell'ordine morale, della giustizia e dell'amore, « della priorità dell'etica sulla tecnica, del primato della persona sulle cose, della superiorità dello spirito sulla materia ». Perché l'essenziale è di « essere più » e non di « avere più ». Il mondo contemporaneo non assomiglia forse a una gigantesca illustrazione della parabola del povero Lazzaro e del ricco che fa baldoria: contrasto scandaloso delle società opulente di fronte alle società affamate? La categoria del « progresso economico » non deve diventare l'unico criterio del « progresso umano ». Nascondi Un raddrizzamento della situazione si impone, ma è possibile soltanto sulla base della responsabilità morale dell'uomo, del rispetto della « dignità e della libertà di ciascuno » ( n. 16 ) La Dichiarazione dei diritti dell'uomo non deve restare « lettera morta », ma diventare realizzazione nello « spirito » ( n. 17 ). Questo sguardo sulla situazione dell'uomo nel mondo contemporaneo mostra in modo evidente che i materialismi multiformi della nostra epoca non fanno che scavare « l'insaziabilità del cuore umano » che, in fondo a sé, non cessa di ripetere con la Chiesa: « Vieni, Santo Spirito! … Guarisci ciò che è ferito … Riscalda ciò che è freddo! Raddrizza ciò che è deviato » ( n. 18 ). Capitolo primo - IV IV. Conclusione Il problema della credibilità cristiana passa inevitabilmente attraverso la domanda; Cristo, se esiste e se può essere avvicinato; il messaggio di Cristo, se può essere conosciuto, hanno qualche cosa da dire all'uomo sulle questioni fondamentali che sì pone? Queste questioni, che sono al centro dell'uomo, il cristianesimo non può eluderle. Si possono tentare tutti gli approcci che si vuole del cristianesimo, ma non si potrà mai prescindere dalla questione del senso che Cristo rappresenta per l'uomo e per i problemi della condizione umana. Cristo è, sì o no, colui che « decifra » il mistero dell'uomo? il solo « interprete » dell'uomo? D'altra parte abbiamo visto che i progressi incontestabili ottenuti dall'uomo del XX secolo, costituiscono, nello stesso tempo, fattori di crisi. È il senso stesso del progetto umano che è in causa. A che scopo tanto progresso se, in definitiva, l'uomo deve diventarne la prima vittima? Al momento stesso in cui domina la materia con una tecnica sempre più sicura di sé, l'uomo è afferrato dallo spavento di fronte alla potenza degli ordigni che ha concepito per distruggersi. Agente di produzione e di consumo, sperduto nella massa anonima, codificato e memorizzato dai calcolatori dominato dal sindacato .o dal partito, l'uomo del XX secolo soffoca, manca di ossigeno. Chiede di esistere, di essere identificato, di essere riconosciuto come persona, inviolabile e responsabile. Chiede alla società che l'ha distrutto di ritrovare la vita, la libertà, l'interiorità. Noi crediamo che questo stato di crisi dell'uomo, lungi dall'essere motivo di pessimismo, di disperazione, di amarezza, può diventare una « chance » inattesa per Cristo e il Vangelo a condizione di presentarlo come sempre vivo e sempre vivificante. Perché Cristo è pienezza di significato in questo mondo che è alla ricerca del significato perduto. Cristo rimane un mistero, ma un mistero illuminante, sorgente di significato sempre zampillante. Chi si apre a lui, vedrà aprirsi davanti a sé una strada di luce. Capitolo secondo - I Tre approcci della condizione umana: Pascal, Teihard, Blondel Parte prima La questione del senso dell'uomo e della condizione umana può essere considerata in una prospettiva storica o in una prospettiva di riflessione sistematica: filosofico-teologica. Le due prospettive sono per noi ugualmente valide, feconde, complementari. In questa prima parte, il punto di partenza è decisamente storico. Studiarne il problema posto a partire da tre autori diversi e complementari, che rappresentano ognuno un approccio e un contesto differenti: Pascal, Teiihard, Blondel. A prima vista può sembrare arbitrario paragonare tra loro pensatori tanto diversi: Pascal, uomo di scienza, scrittore e pensatore religioso; Teiihard, paleontologo e sacerdote; Blondel, filosofo e laico. Eppure questi uomini si incontrano su due punti essenziali. Hanno un progetto comune, cioè dimostrare che solo il mistero di Cristo illumina e porta al suo compimento il mistero dell'uomo. Presentano il cristianesimo come chiave di intelligibilità per decifrare le condizioni paradossali dell'uomo, abisso di miseria e di grandezza ( Pascal ); per manifestare la coerenza tra la visione del mondo proposta dalla scienza e ciò che ci dice il cristianesimo sull'universo e sull'umanità ricapitolata in Gesù Cristo ( Teiihard ); per proporre la rivelazione cristiana come « ipotesi » che permette di veder chiaro nelle esigenze del volere umano ( Blondel ). Inoltre questi uomini che appartengono a secoli differenti, hanno elaborato la loro riflessione sulla condizione umana a partire dal contesto del loro tempo. L'uomo al quale pensa Pascal, è l'indifferente, il giocatore, il libertino, spirito brillante agli occhi del mondo, avido dei problemi dell'uomo, ma vuoto di Dio. L'uomo del XIX secolo al quale pensa Blondel, è quello del conflitto suscitato dal principio di radicalizzazione dell'immanenza e dell'autonomia di fronte a ogni forma dell'eteronomia. L'uomo al quale pensa Teiihard, che pure è dello stesso secolo, è profondamente diverso: è l'homo faber segnato dalla scienza e dalla conoscenza del fenomeno umano, come durata e come collettività pensante, evolutiva, creatrice. Ognuno si rivolge all'uomo, ma a partire da un modello umano differenziato e ben identificato. A questo proposito la sensibilità dei tre pensatori al contesto e alla mentalità del loro tempo, li costituisce paradigmi di ogni riflessione antropologica che voglia costruirsi « su misura ». In questa prima parte si tratta quindi dello studio comparativo di tre approcci di uno stesso problema, cioè quello del senso della condizione umana. Questo aspetto comparativo è essenziale e orienta ciascuna monografia. BLAISE PASCAL: Cristo, totalità Capitolo secondo Del significato Pascal, primo in data degli autori che studiarne, ha influenzato notevolmente Blondel e Teiihard, senza parlare di molti contemporanei, come R. Guardini, F. Mauriac, M. F. Sciacca, M. Zundel, J. Guitton, Von Balthasar . I. Le e « La fonte » di Pascal Quando si studia Pascal si è subito stupiti per il ristretto numero delle sue fonti. Ignora i grandi filosofi dell'antichità, salvo Epitteto: Manuale e Dissertazioni. Non conosce meglio i teologi del medio evo: S. Tommaso, S. Bonaventura, Duns Scoto, per esempio. Dei Padri della Chiesa conosce innanzi tutto Agostino, non solo attraverso Port-Royal, ma mediante uno studio diretto delle sue opere. I Pensieri, fa osservare P. Sellier, « costituiscono l'abbozzo del trattato di teologia fondamentale che un genio si preparava a far nascere dall'humus agostiniano ». Si può concludere che Pascal considera l'apologià come una impresa nettamente teologica. Ma Sellier aggiunge subito che Pascal ha ripensato l'opera di Agostino, l'ha arricchita, l'ha modificata, riformulata, poetizzata, Tuttavia è la Scrittura, ancor più che Agostino, la fonte che Pascal ha veramente frequentato. Il resto gli è venuto dalle esperienze della sua vita personale di scienziato, di uomo di mondo, di pensatore. Molière ha imitato Plauto; Boiiau, Orazio; La Fontaine, Esopo; Racine, Euripide. Pascal si è indubbiamente ispirato ai Saggi di Montaigne, che ha conosciuto e studiato, ma soprattutto criticato e superato. Pascal ha imitato Pascal. I suoi maestri sono Epitteto, Agostino e Montaigne, ma soprattutto la Scrittura. Le lacune di Pascal in storia, filosofia, teologia, si spiegano per il tipo di formazione ricevuta. Suo padre era magistrato e matematico, ostile all'insegnamento della scolastica. Ha formato suo figlio alle scienze fisiche e matematiche, e con successo. A undici anni Pascal compone un Trattato dei suoni ( 1634-1635 ); a sedici anni stampa un Saggio sulle coniche ( 1640 ) e diventa così il beniamino dell'Accademia Mersenne; a diciannove anni, per aiutare suo padre nei fastidiosi calcoli sulle ripartizioni delle imposte, immagina una macchina calcolatrice e lavora due anni per realizzarla, pensando in seguito a un impiego su scala industriale. Seguono esperienze sul vuoto, sull'equilibrio dei liquidi, sulla pesantezza dell'aria; poi studi sulla roulette, sui calcoli delle probabilità. Nel 1661 e nel 1662, anno della sua morte, mette a punto col duca di Roannez un sistema di trasporto in comune: le « carrosses a cinq sois », cioè i primi omnibus di Parigi. Non ci stupisce se molto presto la salute di Pascal si sia alterata per l'eccesso dei suoi lavori. Infatti, dal 1647 la malattia entra nella sua vita per non uscirne più. D'ora in poi ogni lavoro « prolungato » gli sarà faticoso e, in alcuni momenti, impossibile. Su consiglio dei medici che gli raccomandano la distrazione, si stabilisce a Parigi nel 1647. In settembre vi incontra Descartes. A Parigi Pascal farà due esperienze decisive: quella dei salotti e della vita mondana, rappresentata dall'ambiente dei Roannez; quella di Port-Royal, rappresentata dall'influenza di sua sorella Jacqueline, che si farà suora di quell'abbazia. Al suo arrivo a Parigi è prodigiosamente cosciente del suo valore e si sente capace di stupire il mondo. La sua « prima conversione » così chiamata, e del resto poco profonda, fu occasionata dal movimento di fervore che, verso l'anno 1646, colse i membri della famiglia Pascal e al quale Blaise ha partecipato intensamente. Pascal scopre allora Saint-Cyran. Ma è nel 1648 che incomincia a conoscere più direttamente l'ambiente di Port-Royal, l'abbazia cistercense che si trova a sud-ovest di Versailles, decaduta, poi riformata a partire dal 1609 da Angelique Arnaud. Nel 1635 la direzione di Port-Royal passa all'abate Saint-Cyran, mistico ardente, severo, ma poco equilibrato, responsabile, col suo amico olandese Giansenio, futuro vescovo d'Ypres e autore dell'Augustinus, del movimento religioso chiamato giansenismo. Alla compagnia di Port-Royal appartengono i « Solitari »: uomini che hanno rinunciato a una vita brillante, a volte mondana, per condurre un'esistenza interamente consacrata a Dio, nutrita di Scrittura e caratterizzata da una morale rigorista. Essi sono medici, giuristi, educatori e teologi. Pascal è in relazione con questo ambiente dove conosce in particolare Singlin e Antoine de Rebours. La sorella di Pascal, Jacqueline, aveva deciso di entrare nel convento di Port-Royal: progetto che le fu possibile realizzare soltanto dopo la morte del padre, Etienne Pascal, deceduto nel settembre 1651. Anche Pascal, dopo essersi fortemente opposto al progetto della sorella, finì per consentire e fu presente alla professione di Jacqueline nel 1653. Ma, mentre frequenta Port-Royal, Pascal frequenta anche la società brillante di Parigi. Gli anni 1652-1653 rappresentano il periodo chiamato « mondano » della vita di Pascal. A Parigi, Pascal ritrova il duca di Roannez, amico d'infanzia, che ha ora venticinque anni, di alta nobiltà, di educazione raffinata, la cui casa è il ritrovo delle persone brillanti. Se Pascal deve a Port-Royal e alla sua famiglia, la sua formazione religiosa, deve al duca di Roannez la sua conoscenza del mondo e degli uomini. Tramite il duca, ha conosciuto quell'al di là della scienza, cioè l'uomo, solo oggetto di studio che non sia estraneo all'uomos. Il duca di Roannez, da parte sua, è affascinato dall'intelligenza prestigiosa, « mostruosa » di Pascal, e dalla sua reputazione di scienziato: l'ammirazione è reciproca. Grazie al duca, Pascal conosce Antoine Gombaud, Chevalier de Mere, figura abbastanza enigmatica, uomo di mondo e mondano, « professore di galateo », specialista nell'arte di piacere; conosce anche Damien Mitton, molto libero di costumi e di pensieri. In casa Roannez, Pascal si trova immerso in una società svariata dove si amancano gentiluomini e uomini d'affari, devoti e libertini. È in questo ambiente che il fenomeno dell'« indifferenza » ha destato l'attenzione di Pascal ( che combatterà nei Pensieri ). Fenomeno tipico di una certa società che ha messo Dio tra parentesi e che non sembra soffrirne. Pascal deve a questa società il suo interesse per l'analisi interiore dell'uomo, per Montaigne, per l'arte di scrivere e di conversare. Pascal ha imparato in questo ambiente a scoprire in se stesso ciò che Montaigne descriveva nei Saggi. A Parigi Pascal frequenta anche i salotti della duchessa di Longueville, della marchesa di Sablé, della duchessa d'Aiguillon. Va a corte. È affascinato dalla conversazione galante, dal gioco, dalla caccia, dalla danza. Della sua vita sentimentale non sappiamo niente di certo. Le ricerche di Jean Mesnard hanno fatto cadere la leggenda dell'amore di Pascal e di M.lle de Roannez, sorella del duca. Quello che si chiama comunemente il «periodo mondano» di Pascal, non ha niente a che vedere con una vita libertina; si tratta semplicemente di un periodo in cui frequenta ambienti mondani di Parigi e di un aftievolimento del suo fervore religioso, ma non di un abbandono della fede. Sul piano scientifico questo periodo, lungi dall'essere sterile, è uno dei più fecondi. Dopo essersi dedicato alla fisica, Pascal si dedica con slancio alla matematica. Nel 1654, scopre il principio del calcolo delle probabilità. Poi verso la metà di settembre del 1654, ignoriamo in seguito a quale evoluzione, Pascal da segni di smarrimento interiore. Malgrado il suo attaccamento al mondo e i suoi desideri di grandezza, sente disgusto per il mondo e per se stesso. Pensa di lasciare tutto. Pascal confida il suo stato d'animo alla sorella Jacqueline. Da una parte tutto contribuisce a fargli amare il mondo, dove è brillante; ma d'altra parte sente ripugnanza per le frivolità di quel mondo. La sua coscienza lo rimprovera continuamente: sa che dovrebbe staccarsi da ogni cosa, ma gli manca la volontà. « I suoi attaccamenti dovevano essere ben mostruosi per farlo resistere alle grazie che Dio gli faceva e agli stimoli che gli dava ». Prova rimorso di essersi fermato per strada, mentre Dio lo chiamava. Quasi ogni giorno Pascal ha dei colloqui con la sorella. È diviso tra lo scoraggiamento e l'orgoglio. Come può lui, lo scienziato, il fisico, l'amico del duca di Roannez, frequentatore dei salotti più distinti, come può consentire a mostrarsi così com'è, cioè peccatore, cambiare vita, perdersi tra la folla della bassa gente: durus sermo Pascal incontra Singlin di Port-Royal che gli raccomanda di pregare molto. Poi, attraverso vie a noi sconosciute, ecco che la crisi interiore si scioglie nella notte del 23 novembre 1654. Pascal riceve allora una grazia di conversione, vera, questa volta. A partire da quell'istante è un'apertura verso l'alto, una nuova partenza senza ritorno. Per capire il Pascal dei Pensieri, del mistero di Gesù, dei tre ordini, occorre prendere l'avvio da questa esperienza decisiva. La vera « fonte » di Pascal, l'unica fonte della sua ispirazione, è l'incontro con Cristo, nella Scrittura e nella sua vita personale, in occasione dell'esperienza spirituale sconvolgente annotata nel Memoriale. Eccone il testo: L'anno di grazia 1654 Lunedì 23 novembre, giorno di S. Clemente, papa e martire, e di altri del martirologio. Vigilia di S. Crisogono martire e di altri. Dalle ore dieci e mezzo circa di sera uno a mezzanotte e trenta circa. Fuoco « Dio d'Abramo, Dio d'Isacco, Dio di Giacobbe » non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo Deum meum et Deum vestrum. « Il tuo Dio sarà il mio Dio ». Oblio del mondo e di tutto fuorché di Dio. Egli non si trova che per le vie insegnate dal Vangelo. Grandezza dell'anima umana. « Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto ». Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia. Io me n'ero separato. Dereliquerunt me fontem aquae vivae « Mio Dio, mi abbandonerai? ». Che io non ne sia separato in eterno. « La vita eterna è questa: che conoscano tè, solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo ». Gesù Cristo! Gesù Cristo! Io me n'ero separato. Io l'ho fuggito, rinnegato, crocifisso. Che non ne sia mai più separato. Egli non si conserva che per le vie insegnate dal Vangelo. Rinuncia totale e dolce. Sottomissione totale a Gesù Cristo e al mio direttore. Eternamente in gioia per un giorno di esercizio sulla terra. Non obliviscar sermones tuos. Amen. Capitolo secondo - II II. Il « Memoriale » testimone di una esperienza decisiva I Memoriale, come pure il Mistero di Gesù, non si trova nelle prime edizioni delle opere di Pascal. Questi due testi infatti avevano un carattere così strettamente intimo e personale che non erano destinati alla stampa. Cronologicamente sono molto vicini l'uno all'altro, il Mistero essendo stato redatto probabilmente durante il primo ritiro di Pascal a Port-Royal, cioè solo qualche settimana dopo l'esperienza annotata nel Memoriale. Il testo del Mistero, pubblicato prima nel 1844, è stato poi inserito nell'edizione dei Pensieri. Il Memoriale invece è sempre stato considerato un testo a parte. È stato pubblicato per la prima volta nel 1740. È una semplice nota, ma di un valore unico, perché è la testimonianza di un avvenimento che ha radicalmente cambiato la vita di Pascal. L'avvenimento è datato con precisione: lunedì 23 novembre 1654, tra le dieci e mezzo e mezzanotte e mezzo. Non è un testo redatto a freddo, ma piuttosto una lava bruciante. Le parole sono contemporanee di un verbo interiore, molto più denso e ardente delle parole che si sforzano di tradurlo. Queste parole, in verità, sono soltanto punti di riferimento che scandiscono una meditazione. La forte emozione provata da Pascal è tale che, per salvarla dall'oblio, l'annota subito sulla carta. Il testo originale, insieme a una copia su pergamena fatta dallo stesso Pascal, è stata trovata dopo la sua morte, da un domestico. Era stata « cucita » da Pascal all'interno della sua giacca: senza dubbio per ravvivare continuamente la sua fede in Cristo e la fedeltà ai suoi propositi. Il testo era sconosciuto a tutti, anche a sua sorella Jacqueline: era un segreto assoluto tra Dio e lui. Le numerose citazioni bibliche indicano una meditazione della Scrittura, accompagnata da riflessioni, sorte spontaneamente, e seguite da un colloquio. Illuminano anche il contesto e il percorso dell'esperienza vissuta da Pascal. Nascondi Il primo testo, tolto da Esodo 3,6, evoca la scena del roveto ardente. Dio, per primo, interpella Mosé: « Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe ». Il FUOCO, sola parola del testo scritta in maiuscolo, è Dio stesso e il segno della sua presenza; fuoco del Sinai, fuoco della nube nel deserto, fuoco di Pentecoste. Per antitesi, Pascal intuisce che questo Dio vivente che fa irruzione nella storia umana e nella storia di ciascuno, che ha un nome e che interpella, non è il Dio dei filosofi ( causa prima, principio di ogni ordine, l'incondizionato e l'assoluto ), ma il Dio di Gesù Cristo, il Dio al quale pensa Gesù quando dice: « Padre mio e Padre vostro ». Il Memoriale prosegue immediatamente con la seconda citazione biblica: Deum meum et Deum vestrum ( Gv 20,17 ). Il testo è un'allusione all'apparizione di Gesù a Maria Maddalena. Cristo risorto, il vivente per sempre ci unisce a lui nel rapporto filiale che unisce Gesù al Padre: « Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro ». Nascondi « Il tuo Dio sarà il mio Dio » è certamente un'allusione a Rut 1,16. Rut, la moabita, che entra nel popolo di Dio non avrà più altro Dio che Jahvè. Essa dice a Noemi: « Il tuo Dio sarà il mio Dio ». Anche Pascal lascia una terra che è stata finora la sua, il mondo, per entrare in un'altra. Gesù dice: « Dio mio e Dio vostro ». Pascal risponde: « Il tuo Dio, Signore, sarà il mio Dio ». I testi si intrecciano, riecheggiano, secondo una logica del cuore, al di là di ogni cronologia. Pronunciare queste parole dal fondo del cuore, è accettare « l'oblio del mondo e di tutto, fuorché di Dio ». San Giovanni offre a Pascal la formula di questa opposizione: « Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto » ( Gv 17,25 ). Nascondi Gesù prega per gli apostoli che manda in un mondo in rottura col messaggio del Vangelo: « Non sono del mondo, come io non sono del mondo » ( Gv 17,14 ). Le parole raccolte da Pascal sono quelle che appaiono alla fine della preghiera sacerdotale. Il testo di Giovanni continua: « Questi sanno che tu mi hai mandato » ( Gv 17,25 ). Pascal non cita il seguito: « Io ho fatto conoscere loro il tuo nome … perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro » ( Gv 17,26 ). Ma « i pianti di gioia » significano che Pascal rivive nella propria vita questo mistero di adozione in Gesù. Ma la stessa gioia desta in Pascal il timore di una nuova « separazione », di una nuova infedeltà, che potrebbe condurre alla rottura definitiva. Nascondi « Dereliquerunt me fontem aquae vivae »; « Hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva » ( Ger 2,13 ). Il Dio vivente Pascal l'aveva conosciuto, ma l'aveva abbandonato. Come Israele che si è allontanato da Jahvè, Pascal si è separato da Dio: « Me ne ero separato … Dio mio, mi abbandonerai? ». Allusio- ne al salmo 119 « Voglio osservare i tuoi decreti, non abbandonarmi mai » ( Sal 119,8 ). Pascal si pente di aver abbandonato Dio, teme che Dio a sua volta lo abbandoni. Per due volte ripete: « Che non ne sia separato eternamente … Che non ne sia mai separato ». È la supplica ardente e tenace di Pascal davanti a Cristo ritrovato. « Eternamente », cioè per la « morte eterna ». Nascondi La parola serve d'aggancio per introdurre il tema opposto della vita eterna: « La vita eterna è che conoscano ( di quella conoscenza che è presenza, esperienza, amore ), tè, l'unico vero Dio e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo » ( Gv 17,3 ). Di nuovo, allusione alla preghiera sacerdotale. Gesù Cristo, Gesù Cristo, ripetuto, serve da transizione tra la conversione, l'incontro di Cristo e i propositi. Il finale riprende, con leggere varianti, le linee precedenti. Si tratta ormai di « conservare », di non dimenticare. Di nuovo, il salmo 119: « Mai dimenticherò la tua parola » ( Sal 119,16 ). Pascal, abbiamo detto, è stato nutrito, formato dalla meditazione della Sacra Scrittura. Non c'è da stupirsi quindi che trovi spontaneamente nella Sacra Scrittura i testi che sono lo specchio della sua esperienza. Non cerca i testi: sono i testi che accorrono, che traducono il suo stato d'animo, come nel Magnificat di Maria. Qual è il senso del Memoriale? Di quale esperienza è testimonianza? L'esperienza decisiva di quella notte è stata quella dell'incontro vivo, personale, col Dio vivente: il Dio dei due Testamenti, il Dio di Gesù Cristo. Dio, è QUALCUNO che viene, che interviene, che ha un nome, un volto, che è conosciuto perché ci precede e ci interpella. Pascal sente un bruciante rimpianto per essersi separato da lui nel passato; prega, supplica per non esserne più separato nell'avvenire, ne nell'eternità, e si impegna a « seguire le vie indicate nel Vangelo ». Alcune espressioni, alcuni vocaboli del Memoriale ( Dio dei filosofi e dei dotti, grandezza dell'anima umana, certezza, opposta al dubbio ) hanno potuto far credere che il Memoriale si presentava in Pascal come il termine di una crisi intellettuale, cioè il passaggio dalla conoscenza del Dio dei filosofi alla conoscenza del Dio della rivelazione cristiana. Tutt'altro è il senso del Memoriale. La crisi di Pascal non è quella di un filosofo deluso, ma di un cristiano tiepido, che ha ritrovato Dio in Gesù-Cristo, e che teme di esserne separato. Il vocabolario e le allusioni filosofiche del Memoriale si devono capire alla luce delle idee espresse nel Colloquio tra Pascal e de Sacy su Epitteto e Montaigne, e formulate in uno scrittore anteriore al Colloquio, anteriore anche all'esperienza del 23 novembre. Pascal nel Colloquio, oppone Epitteto a Montaigne, per respingerli entrambi, e far posto al Vangelo: Dio solo può insegnare. Stessa scelta esclusiva nel Memoriale. « Il Memoriale, osserva A. Blanchet, redige una meditazione che si regge unicamente su Gesù-Cristo e la sua parola, ma che si riaccende opponendo a Gesù-Cristo i filosofi e gli scienziati, e alla Sacra Scrittura, gli scritti profani ». Non v'è dubbio che il dramma di Pascal si situa all'interno della sua fede. A dir vero. Pascal non ha imparato ( come un sapere nuovo ) ciò che ignorava: è stato invece illuminato su ciò che sapeva già, da una luce che infiamma la volontà. Egli ha sperimentato, nell'intimo del suo essere, là dove l'intelletto diventa fiamma, dove la volontà diventa intuizione come l'amore, che il Dio che istruisce e che salva, il Dio che cerca l'anima umana, il Dio che cercava lui, Pascal, più di quanto Pascal cercasse Dio ( Agostino ) è QUALCUNO: il Dio di Abramo, il Dio di Gesù-Cristo, GESÙ-CRISTO stesso. Di ciò ha ora la certezza; una certezza che viene dal cuore, in senso pascaliano, cioè dall'essere intimo infiammato dall'amore. Pascal è conquistato: il tutto della sua vita è Gesù-Cristo. L'attrattiva di Dio e collaudata in lui, vissuta come una certezza che è fonte di giòia, di pace. La novità non riguarda quindi un contenuto nozionistico, ma un nuovo modo di conoscere: fino a quel momento Pascal non aveva conosciuto Dio « In questo modo ». La novità non sta nel conoscere Dio ma nell'essere stato preceduto e conquistato da lui, nell'avere riconosciuto la sua presenza luminosa, nella comunione di un incontro che rende Dio vivente e vivificante nella vita di Pascal, tale da infondergli un cuore nuovo e un'attrattiva tanto efficace da tradursi con la rinuncia a tutto. Si deve parlare di esperienza « mistica »? Forse non è possibile e nemmeno necessario rispondere. Certamente si tratta per Pascal di una esperienza religiosa profonda, situata alla radice dell'essere, di un tale impatto che ha illuminato e trasformato tutto il resto della sua esistenza. Esperienza caratterizzata dall'intensità e dalla subitaneità, senza paragone con quanto precede, e simbolizzata dal fuoco. Padronissimo chi vuole di qualificare mistica o no questa esperienza di cui ci rimangono tracce, più che una descrizione. Checché ne sia, la data di questo avvenimento-incontro con Cristo è rimasta impressa in Pascal che ne ha perpetuato il ricordo in una pergamena cucita nei suoi vestiti. La notte del 23 novembre 1654 segna la grande svolta della sua vita. La sua esistenza è divisa in due: prima e dopo il Memoriale. È questa esperienza che illumina il testo composto poco dopo, nel gennaio 1655, il Mistero di Gesù; è ancora essa che spiega il cristocentrismo dei Pensieri; è essa infine, crediamo, che ha permesso a Pascal di definire ciò che chiama i « tre ordini »: dei corpi, dell'intelligenza, della carità. Questo frammento, infatti, non è stato scritto semplicemente per esprimere delle verità generali sulla gerarchia degli esseri, ma per precisare delle esperienze che Pascal ha vissuto personalmente. È evidente che questo frammento è « cristocentrico ». Pone la persona di Cristo al culmine delle grandezze soprannaturali. Lo splendore dei re e dei dotti era inutile a Gesù, e l'umiltà della sua condizione terrena nulla toglie alla sua grandezza unica. Scritto col rigore di un matematico, questo testo è di un'emozione lirica intensa, anche se contenuta, che ha la sua sorgente nella vita di Pascal. Sappiamo che l'esistenza dell'uomo si realizza, « si compie » attraverso piani, tramite livelli da superare: c'è passaggio, ma anche superamento, salto qualitativo da un livello all'altro, superiore, più luminoso. In queste fasi o piani della vita si possono distinguere per Pascal, quello della fisica e della matematica; poi a Parigi, a contatto coi Roannez, de Mere e de Mitton, nei salotti che frequenta e attraverso la lettura di Montaigne, Pascal si sensibilizza ai problemi dell'uomo, realtà che si penetra solo con l'« esprit de finesse ». Pascal tuttavia non visse a lungo come uomo di mondo. Scoprì ben presto l'ordine superiore della carità. La morte del padre, la vocazione della sorella Jacqueline, e soprattutto l'insoddisfazione profonda della sua vita mondana, il vuoto sentito nella sua anima, hanno minato la sua superbia di scienziato e la sua sicurezza di uomo onesto, conducendolo, attraverso il mistero di una crisi interiore, alla notte del 23 novembre, nel corso della quale Cristo gli è apparso come la realtà delle realtà. Ci sono quindi nella vita di Pascal tre esperienze che, senza dubbio, non rispondono che parzialmente ai tre ordini di cui parla ( le scienze della natura e la scienza dell'uomo situandosi di primo acchito nell'ordine dell'intelletto ), ma egli ha conosciuto nondimeno l'ordine delle grandezze mondane ( cioè lo splendore della vita dei principi, lo splendore delle ricchezze, lo splendore delle armi e delle battaglie ), e soprattutto ha vissuto l'ordine dell'intelletto ( come scienziato e uomo di mondo) e l'ordine della carità. Tra questi tre ordini la distanza è infinita. Ognuno ha la sua grandezza e il suo valore, ma l'ordine della carità supera infinitamente gli altri due. È la notte del 23 novembre che, su questo punto, ha messo Pascal di fronte all'evidenza. Ormai, per Pascal, tutto il resto del mondo, tutto l'uomo, sono destinati a entrare in una nuova sintesi, infinitamente superiore, suscitata dall'irruzione della persona di Gesù Cristo nella storia dell'umanità e nella storia della propria vita: « Gesù Cristo, senza beni e senza alcuna esteriore manifestazione di scienza, sta nel suo ordine di santità. Non ha fatto scoperte [ ordine dell'intelligenza ], non ha regnato [ alla maniera dei principi temporali: ordine dei corpi ]; ma è stato umile, paziente, santo per Dio, terribile per i demoni, senza peccato alcuno. Oh, com'è venuto in gran pompa e magnificenza prodigiosa agli occhi del cuore che vedono la sapienza! ». Il Memoriale di Pascal trova un'ultima eco e la firma definitiva nella sua morte. Gli ultimi sei mesi della sua vita furono mesi di sofferenze atroci. Pascal si raccoglie allora nella preghiera e nella penitenza. Vende i suoi beni, da il suo denaro ai poveri, manda via i domestici e va a pensione presso sua sorella. È la « sottomissione totale a Gesù Cristo » di cui parla il Memoriale. Alla fine chiede di ricevere l'eucaristia: cosa che gli viene rifiutata, in un primo tempo. Chiede che almeno venga condotto nella sua casa un povero, come rappresentante di Cristo: questo desiderio non fu possibile realizzarlo. Chiede di essere trasportato all'ospedale degli incurabili per morire in mezzo ai poveri: i medici si oppongono per ragioni di salute. Finalmente all'ultimo giorno della sua vita gli viene portato il Viatico, che riceve tra due crisi. Ventiquattr'ore dopo si spegne, a trentanove anni, il 19 agosto 1662. Capitolo secondo – III III. Al punto di congiunzione di due apologetiche Come è nata in Pascal l'idea di un'Apologià del cristianesimo? Se cerchiamo testimonianze precise su un tale progetto e la sua origine, dobbiamo risalire al colloquio di Pascal con de Sacy, a Port-Royal, qualche settimana dopo la notte del 23 novembre 1654, cioè nel gennaio 1655; poi alle note che Pascal redasse nel 1656 sui miracoli, in occasione delle discussioni suscitate dal miracolo della Sacra Spina. L'Apologià di Pascal sembra situarsi al punto di congiunzione di due tipi di apologetica molto diversi, collegati a questi due avvenimenti. Ma sembra che soltanto a partire dal 1657 si sia seriamente dedicato al suo progetto, applicandosi per un anno intero alla sua messa in opera. 1. Il Colloquio con de Sacy Dopo la sua conversione, Pascal venne per due settimane a Port-Royal per fare un ritiro. Il suo direttore spirituale, Singlin, lo affida a de Sacy. Ciò che ancor oggi viene chiamato Colloquio con de Sacy sarebbe il resoconto di una lunga conversazione di costui con Pascal, inserito da Nicolas Fontaine, segretario di de Sacy, nelle sue Memorie. A lungo si è creduto che il colloquio fra i due uomini fosse stato messo subito per iscritto da Fontaine. Lo stile sarebbe quindi di Fontaine, ma il contenuto sarebbe di Pascal. Gli studi di P. Courcelle e di A. Gonnelle sulle fonti e gli enigmi di questo colloquio hanno messo fine a una simile interpretazione e precisato il vero contesto del Colloquio. Non si può negare il fatto di un colloquio, e anche di diversi colloqui tra Pascal e de Sacy. Ma l'ipotesi di un segretario che abbia assistito al colloquio o che abbia riassunto le conversazioni dei due uomini è esclusa. Il redattore del testo attuale ha fatto un « montaggio » con documenti scritti, dei quali del resto nessuno contesta l'autenticità. Questi scritti, secondo il parere di Courcelle e di Gounelle, sono note, estratti o compilazioni di Epitteto e di Montaigne ( da parte di Pascal ) e di Agostino ( da parte di de Sacy ), aventi lo scopo di alimentare e di sostenere la discussione tra i due uomini. Courcelle pensa anche che Pascal aveva già costituito un dossier, una specie di minuta, dove avrebbe annotato per lui, ed eventualmente per altri, le sue idee su Epitteto e Montaigne: « Uno strumento di lavoro di cui Pascal avrebbe continuato a servirsi » Con tutta probabilità Pascal ha sottoposto a de Sacy un testo già redatto e lungamente meditato che rappresenta l'utilizzazione apologetica che intende fare dei due filosofi. Infatti, il testo di Pascal, escludendo gli interventi di de Sacy che sembrano cattivi brani introdotti da Fontaine stesso, è di una notevole unità: elogio e critica di Epitteto, elogio e critica di Montaigne, utilità di queste due letture, malgrado le critiche di Pascal e di Agostino, all'interno di un progetto apologetico. Quando stende le sue Memorie, Fontaine dispone quindi di due testi: uno di Pascal, composto e redatto senza interruzioni; l'altro di de Sacy, ispirato ad Agostino, avente lo stesso carattere di continuità di pensiero e di stile, e che esprime le sue reazioni al progetto già consistente di Pascal. Gli interventi di de Sacy non rappresentano quindi la traduzione fedele di un dialogo, ma inserzioni artificiali, colpi maldestri, dovuti a Fontaine, in un testo già interamente redatto. Questi chiarimenti sul Colloquio, lungi dal ridurre il valore del testo, lo aumentano ancora, poiché provano che Pascal aveva fin dal 1655 e anche 1654, un progetto apologetico concreto e originale. Possiamo quindi estrarne la sostanza e l'argomentazione, lasciando a Fontaine la parte del genere letterario, specialmente nell'introduzione, nelle inserzioni e nella conclusione che parla di un accordo raggiunto tra Pascal e de Sacy sulla lettura dei filosofi. Il metodo di de Sacy con coloro che dirigeva era di entrare dalla loro porta, cioè di farli parlare sui soggetti che preferivano: « Tutto gli serviva per passare subito a Dio, e per condurvi gli altri ». Ora, Pascal confidò a de Sacy « che i suoi libri abituali erano stati Epitteto e Montaigne, e gli fece dei grandi elogi di questi due filosofi. De Sacy, il quale aveva sempre pensato che era bene non leggere molto questi autori, pregò Pascal di parlargliene a fondo ». Pascal si mise subito a dissertare dottamente su Epitteto e Montaigne. Dopo averlo lungamente e rispettosamente ascoltato, de Sacy gli fece notare che tutto questo si trova già in S. Agostino, e anche molto di più. Il primo lungo discorso di de Sacy prova che è spaventato dalle vedute di Pascal sull'utilità di Montaigne per la conversione cristiana. All'esperienza di Montaigne e di Pascal, egli oppone quella di Agostino, il convertito modello: importa solo la Sacra Scrittura, superiore ad ogni filosofia. Pascal non è sconcertato per questo e prosegue il suo discorso. Pensa che è possibile utilizzare la conoscenza dell'uomo che trova in Epitteto e Montaigne, non certo per approvare la loro filosofia, ma per insegnare agli uomini a conoscersi e tlisporli a favore del Vangelo. Infatti, Epitteto, lo stoico, ha ben visto ciò che noi dobbiamo fare, ma il suo orgoglio gli impedisce di misurare la debolezza e l'impotenza dell'uomo. Da parte sua, Montaigne, lo scettico, che mette la fede tra parentesi, ha ben visto ciò che siamo, cioè deboli e vili, ma si rifugia in una etica confortevole, che incorraggia la pigrizia e la mediocrità. De Sacy mantiene il suo giudizio sulla vanità dei filosofi e ritorna sempre a S. Agostino. Dice a Pascal che questi assomiglia « a quei medici esperti che, con il loro abile modo di usare i più forti veleni, ne traggono i migliori rimedi ». Ma Pascal è tenace. Resta convinto che Epitteto e Montaigne possono servire al suo progetto religioso. È vero che l'uomo deve essere come lo vuole Epitteto, è ugualmente vero che l'uomo è come lo vede Montaigne, ma le due posizioni sono vane e si oppongono precisamente là dove si afferma la loro verità: « Mi sembra, dice, che la fonte degli errori di questi due filosofi è di non aver saputo che lo stato attuale dell'uomo differisce da quello della sua creazione; di modo che l'uno, notando qualche traccia della sua prima grandezza e ignorando la sua corruzione, ha trattato la natura come sana e senza bisogno di riparatore, ciò che lo conduce al colmo della superbia; invece l'altro, sperimentando la miseria attuale e ignorando la prima dignità, tratta la natura come necessariamente inferma e irreparabile, ciò che lo precipita nella disperazione di giungere a un vero bene e da qui nell'estrema viltà. Così questi due stati che si dovevano conoscere insieme per vedere tutta la verità, essendo conosciuti separatamente, conducono necessariamente all'uno o all'altro di questi due vizi: l'orgoglio e la pigrizia ». La critica di Epitteto e di Montaigne non sfocia in una terza filosofia, ma obbliga la ragione a lasciare il piano dove si elaborano le filosofie. L'antropologia non può costruirsi che diventando teologia. L'uomo, non si riconosce che in Gesù Cristo. « Scusi, signore, dice Pascal a de Sacy, di inoltrarmi davanti a voi nella teologia, invece di restare nella filosofia, che era il mio solo soggetto, ma vi sono portato insensibilmente; è difficile non entrarvi, qualunque sia la verità che si tratta, perché la teologia è il centro di ogni verità ». La teologia, infatti, tramite il suo insegnamento sul peccato, sull'incarnazione e la redenzione, ci permette di distinguere ciò che è vero in Epitteto e in Montaigne, senza cadere tuttavia nei loro errori: « Se sono pieni del concetto della grandezza dell'uomo, che cosa possono aver immaginato in proposito che non resti inferiore alle promesse del Vangelo, che non sono se non il degno prezzo della morte di un Dio? E se si compiacciono invece di vedere l'infermità della natura umana, i loro concetti non eguagliano certo quelli della vera debolezza del peccato, di cui quella stessa morte costituì il rimedio. Quindi, tutti ci trovano più di quanto non abbiano desiderato e, quel che è mirabile, vi si trovano uniti, essi che non si potevano accordare su un piano infinitamente interiore ». I due stati che rappresentano la nostra vita quotidiana - grandezza e miseria, grazia e peccato - si riconciliano soltanto in Gesù Cristo, vertice dell'umanità. Così, Pascal trova in Epitteto ( Manuale e Dissertazioni ) e in Montaigne ( Saggi ) delle « verità di fatto » sull'uomo delle quali intende servirsi per provocare nei suoi lettori reazioni che li dispongano a ricevere la parola di Dio. Si servirà di Montaigne per abbattere l'orgoglio degli uomini, di Epitteto per scuotere la loro pigrizia. In tal modo la filosofia lavora per uno scopo a lei estraneo, contribuendo a mantenere uno stato di umiltà e un desiderio di ricerca che sono le prime condizioni della conversione. La sostanza del Colloquio è formata da una documentazione e da riflessioni in vista di un'apologetica. L'intenzione di Pascal è di utilizzare Epitteto contro Montaigne e Montaigne contro Epitteto, per turbare la pace di coloro che si dedicano all'uno o all'altro. Là dove si crede che Epitteto e Montaigne dispensano dal leggere il Vangelo, Pascal vuole mostrare che essi invitano invece a farlo per comprendere noi stessi, guardandoci dall'alto. Siamo di fronte a un nuovo tipo di apologetica che Pascal vuole utilizzare rivolgendosi ai libertini e ai cristiani intiepiditi. Si può quindi affermare che le riflessioni di Pascal non sono state provocate dal Colloquio con de Sacy, ma hanno invece provocato il Colloquio stesso. Pascal ha sperimentato la sua nuova apologetica su de Sacy prima di sperimentarla sugli altri. L'idea di scrivere un'apologià del cristianesimo sarebbe quindi contemporanea della conversione, di cui il Memoriale conserva il ricordo. Pascal è convinto dell'utilità di un'apologetica basata sugli autori in voga negli ambienti del suo tempo. Preoccupazione quindi di parlare all'uomo del suo tempo e consapevolezza di presentare un'apologià in cui la persuasione è cosa diversa dalla dimostrazione. 2. L'apologetica dei miracoli La riflessione religiosa di Pascal è stata inoltre sollecitata da un avvenimento che ha avuto un ruolo importante nella storia della sua vita e del suo pensiero, cioè il miracolo della sacra Spina, di cui beneficiò sua nipote, Marguerite Périer, di dieci anni. La bambina, che soffriva da tre anni di una fistola lacrimale purulenta, fu guarita instantaneamente il 24 marzo, al tocco di una reliquia della sacra Spina. Ricordiamo il contesto dell'avvenimento. Questo sopravvenne al momento delle più vivaci discussioni sulla condanna delle cinque proposizioni tratte da l'Augustinus di Giansenio, da parte di Innocenze X nel 1653 Ma i giansenisti distinguono la questione di diritto dalla questione di fatto. La condanna, dicono, riguarda l'eresia come tale, ma non il senso del testo di Giansenio. Una Bolla di Alessandro VII, datata del 16 ottobre 1656, conferma che le cinque proposizioni ( testo e senso ) sono tratte dall'Augustmus ( Ds 2010-2012 ). A Port-Royal il clima è surriscaldato. La prima Provinciale è del 23 gennaio 1656. È l'epoca in cui Arnaud, processato e censurato dalla Sorbonne ( 29 gennaio 1656 ), deve nascondersi « sotto falso nome e travestito ». Gli editori delle Provinciali, sono ricercati dalla polizia. I Solitari di Port-Royal devono disperdersi. Il 20 marzo 1656 corre voce che l'espulsione delle suore è imminente. Si vive in un clima di persecuzione. Ed ecco che il 24 marzo 1656 avviene a Port-Royal il miracolo della sacra Spina. Per giunta la miracolata è la nipote stessa di Pascal; la figlioccia di colui che ha appena pubblicato la quinta Provinciale e sta preparando la sesta. Sette medici consultati parlano di guarigione straordinaria, cioè di miracolo. Anche il primo chirurgo del re esprime la stessa opinione. L'Arcivescovo di Parigi dichiara autentico il miracolo. La convinzione di Pascal della guarigione miracolosa della nipote si basa su quello che ha visto non meno che sulla constatazione dei medici. La guarigione è totale: tutti i segni di anormalità sono scomparsi. La gioia di Pascal « fu così grande, scrive Gilberte Périer nella sua vita di Pascal, che ne fu tutto invaso; e poiché la sua mente rifletteva sempre molto sulle cose di cui si occupava, l'occasione di quel miracolo particolare gli suggerì molti pensieri assai importanti sul miracolo in genere sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento » Ben presto, a mano a mano che la notizia del miracolo si diffonde, una tesi è formulata a Port-Royal: il miracolo della sacra Spina, nel clima di persecuzione in cui vive Port-Royal, è interpretato come un segno di Dio in favore del giansenismo. Pascal usa la stessa chiave di lettura, si tratta di un segno: Dio è con noi. I gesuiti entrano nel dibattito. Non negano certamente l'autenticità del miracolo, ma si rifiutano di leggere nell'avvenimento un'approvazione del giansenismo, dicendo che la voce che si è espressa attraverso l'autorità di due papi non può essere contraddetta da un miracolo che darebbe ragione ai giansenisti contro la Chiesa. Port-Royal replica che Dio ha voluto dimostrare l'innocenza di una casa ingiustamente perseguitata e l'ortodossia della dottrina che vi si professa. Nella sesta Provinciale ( 4 dicembre 1656 ), Pascal se la prende coi gesuiti che rifiutano di vedere nel miracolo della sacra Spina un segno di Dio a favore di Port-Royal: « Voi calunniate quelle che non hanno orecchie per udirvi, ne bocca per rispondervi. Ma Gesù Cristo, nel quale sono nascoste per apparire un giorno con lui, vi ascolta e vi risponde per loro. Si sente oggi questa voce santa e terribile, che stupisce la natura e consola la Chiesa. Io temo, Padri, che coloro i quali induriscono i loro cuori e si rifiutano con ostinazione di ascoltarlo quando parla come Dio, siano obbligati di ascoltarlo con terrore quando parlerà come Giudice ». Come si vede il tono della polemica sale rapidamente. Pascal non smette, durante gli anni 1656-1657, di accumulare note in vista di uno scritto sui miracoli. Tuttavia non scriverà Provinciali su questo soggetto. Ma era giunto il tempo di uno studio su ciò che diventava il centro del dibattito, cioè il rapporto tra miracolo e dottrina. Durante la Quaresima, nel marzo 1657, il P. de Lingendes, gesuita, fa una predica sui veri miracoli, che confermano la nostra religione, in opposizione ai falsi miracoli degli eretici. L'allusione a Port-Royal è chiara a tutti gli ascoltatori. In seguito a ciò, Pascal conduce una inchiesta per proprio conto sui punti caldi che riguardano i miracoli: una definizione del miracolo che possa escludere i prodigi operati dal diavolo; il senso dei miracoli attribuiti ai pagani, agli eretici, all'Anticristo; il modo di stabilire che un vero miracolo è sempre segno della vera religione. Manda a questo proposito all'abate di Saint-Cyran un questionario di dodici domande. Le riflessioni di Pascal sul miracolo sono quindi state provocate dal caso particolare del miracolo della sacra Spina. In un primo tempo Pascal si interessa ai criteri che permettono di stabilire l'autenticità dei vari miracoli e del loro significato. Poi, a mano a mano che il dibattito si allarga, si interessa al problema più vasto dei rapporti miracolo-dottrina. Infine, in un'ultima generalizzazione, ben conforme alla logica del soggetto e alle esigenze del suo genio, Pascal pensa alla sua opera sui fondamenti della religione cristiana. La riflessione sulla prova tradizionale della religione mediante i miracoli, sarebbe situata fin d'allora all'interno di un'apologetica più generale. Testimonianze di questa riflessione, sempre più ricca, sono le note e i frammenti accumulati da Pascal e conservati nelle serie XXXII e XXXIII dell'edizione Lafuma. È quindi in occasione di una polemica sul miracolo che Pascal è stato condotto a concepire un progetto più vasto di apologià del cristianesimo. Progetto che includerebbe senza dubbio un capitolo sui miracoli, ma all'interno di una visione più generale. Che tale sia stato l'itinerario di Pascal, è un fatto attestato da Gilberte Périer nella vita di suo fratello; « Tutte le diverse riflessioni fatte da mio fratello sopra i miracoli, gli diedero nuovi lumi sulla religione. Poiché tutte le verità si ricavano l'una dall'altra, gli bastava applicarsi all'esame di una verità, che subito le altre gli arrivavano quasi in folla e si enucleavano nella sua mente in maniera da esaltarlo, come lui stesso ci ha confessato. E fu in quella occasione che si sentì talmente infervorato a combattere gli atei che, conscio dei lumi che Dio gli aveva dato per convincerli e confonderli senza scampo, si diede a comporre quell'opera, i cui frammenti raccolti ci fanno tanto rimpiangere che non abbia potuto riunirli lui stesso, e, con tutto quello che vi avrebbe aggiunto, farne un libro di compiuta bellezza ». 3. Accostamento e articolazione delle due apologetiche Al centro di una grande opera c'è sempre una zona di mistero che sfugge all'autore stesso. Detto questo, sembra che l'apologià della religione cristiana, abbozzata nei Pensieri sia nata da un accostamento di due progetti complementari: quello di una apologetica moderna, adattata al linguaggio e alla mentalità dell'epoca; quello che si propone di riprendere, rinnovandoli, alcuni capitoli dell'apologetica tradizionale. Come è avvenuto, in Pascal, questo accostamento? Il luogo d'incontro e di articolazione dei due progetti è identificabile? Sembra di sì, alla luce di alcuni frammenti chiave. L'articolazione dei due progetti è visibile in un primo frammento ben conosciuto, generalmente riconosciuto come un abbozzo delle grandi linee del piano dell'Apologià: Parte prima: Miseria dell'uomo senza Dio. Parte seconda: Felicità dell'uomo con Dio. Oppure: Parte prima: La natura è corrotta ( provarlo con la stessa natura ). Parte seconda: Esiste un Riparatore ( provarlo con la Scrittura ) ( B60 C73 ). Il collegamento tra i due paragrafi costituito da oppure indica chiaramente che si tratta di uno stesso movimento. I due paragrafi indicano le due fonti dell'argomentazione: la natura e la Sacra Scrittura. L'apologetica del Colloquio con de Sacy sembra corrispondere al primo paragrafo; l'apologetica nata dalle riflessioni sul miracolo della sacra Spina sembra rispondere al secondo paragrafo. Ma osservando meglio, constatiamo che, prima di rinviare a due sezioni di un'opera, il frammento segna due momenti di una stessa riflessione. Ogni parte non ha senso che mediante l'altra: sappiamo che c'è corruzione nella natura perché la Sacra Scrittura ci insegna che c'è un Riparatore. In realtà questo movimento era già contenuto nel Colloquio. Il secondo frammento è più rivelatore: Ordine. Gli uomini mostrano disprezzo per la religione; hanno per essa odio e paura che sia vera. Per guarirli di ciò, bisogna cominciare col provare che la religione non è contraria alla ragione; è venerabile, e bisogna farla rispettare; in seguito renderla amabile, far desiderare ai buoni che sia vera e poi provare che essa è vera. Venerabile perché ha ben conosciuto l'uomo; amabile, perché promette il vero bene » ( B187 CI ). Si tratta di operare nell'anima un capovolgimento radicale. Là dove c'era disprezzo, si deve ispirare rispetto. Ciò che era oggetto di odio, deve diventare amabile. Al timore che la religione sia vera si deve sostituire il desiderio che lo sia. Fin qui siamo nel quadro della nuova apologetica di Pascal, basata sull'analisi della condizione umana, come è descritta nel Colloquio. « E poi provare che essa è vera »: qui Pascal s'impegna a riconsiderare l'apologetica tradizionale. Per Pascal, la descrizione della condizione umana non è un presupposto ( una specie di parte estrinseca ), ma parte integrante del discorso apologetico, perché egli è persuaso che non si arriverà mai a convincere l'indifferente offrendogli semplicemente delle prove: occorre prima farsi ascoltare ed essere gradito. L'apologetica deve prima trarre gli uomini dal loro disprezzo e dallo loro indifferenza; essa deve inquietarli, turbarli, poi metterli in condizioni di desiderare la ricerca della verità. C'è quindi la necessità di creare uno stato d'animo prima di passare all'esposizione dei fondamenti storici della fede. Si deve suscitare nell'uomo un'attrattiva per l'ipotesi cristiana, renderla « amabile », far « desiderare » che sia « vera », dimostrando che la religione cristiana, benché sia mistero e scandalo, riesce a decifrare il mistero dell'uomo. Senza dubbio la forza illuminante e rasserenante del Vangelo non è la prova della verità storica del cristianesimo, ma fa « desiderare » che il cristianesimo sia vero. Il libertino, indifferente o ateo, aveva paura di sbagliarsi credendo vera la religione: deve invece temere di sbagliarsi non credendo che essa sia vera ( B241 C458 ). Si tratta di un capovolgimento psicologico, di un cambiamento radicale di direzione. È venuto allora il momento di esporre le prove tratte dalla Sacra Scrittura. In un terzo frammento Pascal indica lo schema delle questioni da trattare nella parte dell'Apologià dedicata alle prove della religione: Prove della religione. - Morale, Dottrina, Miracoli, Profezie, Figure ( B290 C486 ). Prove: 1) La religione cristiana, con la sua affermazione nel mondo, si è affermata da sé così fortemente e così dolcemente, pur essendo contraria alla natura. 2) La santità, l'altezza e l'umiltà di un'anima cristiana. 3) Le meraviglie della Sacra Scrittura. 4) Gesù Cristo in particolare. 5) Gli apostoli in particolare. 6) Mosè e i profeti in particolare. 7) Il popolo giudaico. 8) Le profezie. 9) La perpetuità: nessuna religione possiede la perpetuità. 10) La dottrina che da ragione di tutto. 11) La santità di questa legge. 12) Il comportamento stesso del mondo. Nella conclusione si ritrova il movimento del frammento precedente, cioè che non si deve esitare, di fronte alle prove, a seguire l'inclinazione che ci porta ad accogliere una religione che sappiamo amabile e desiderabile ( B289 C487 ). Quindi l'apologetica prefigurata nel Colloquio con de Sacy ha per scopo di trasformare un atteggiamento più o meno ironico o anche aggressivo, in un sentimento d'inquietudine e anche di desiderio che il cristianesimo sia la vera religione. Nel corso di una seconda tappa, l'apologetica nata dalle riflessioni di Pascal sul miracolo, pone le condizioni di una adesione ponderata a questa religione che già si sa amabile e degna di venerazione. Arriviamo qui al punto limite di ciò che l'uomo può nel mistero della conversione. Capitolo secondo - IV IV. Sviluppo lineare o orchestrazione di temi convergenti Dell'opera progettata da Pascal, l'Apologia del cristianesimo, non rimane che un mucchio di note, a volte più elaborate ( qualche pagina ), a volte appena formulate, ome dei promemoria per la costruzione progettata. Lo stesso titolo Pensieri, è stato imposto tardivamente. Non si tratta quindi di massime, alla maniera di La Rochefoucauid, o di pensieri alla maniera di Joubert, ma piuttosto di note di lavoro, che rappresentano punti di riferimento e a volte isolotti già costituiti, una specie di arcipelago di un futuro continente. I Pensieri sono un cantiere abbandonato in piena costruzione, in cui le rare strutture elevate lasciano tuttavia intravedere lo splendore dell'edificio progettato. L'ordine seguito dai diversi editori dimostra appunto il carattere incompiuto, o meglio iniziale, di questa opera. Quanto rimane del progetto è tuttavia sufficiente per rivelare il genio dell'architetto che l'ha concepito. Si può applicare ai Pensieri di Pascal quanto diceva Valery dell'opera di Leonardo da Vinci: « I resti di non so qual grande gioco ». I frammenti dei Pensieri sono stati ritrovati dopo la morte di Pascal, riuniti sotto forma di fascicoli. Pascal, forse in occasione della conferenza che fece a Port-Royal nel 1658, aveva intrapreso di riordinare lui stesso le note accumulate e di raggruppare i frammenti per soggetto. Ha così costituito ventisette fascicoli, raggruppanti 382 articoli su un totale di 972. Tutti i frammenti sono stati raccolti da Gilberte Périer, sorella di Pascal. La prima cosa che si fece, dice Etienne Périer, « fu di farli copiare così com'erano e nella stessa confusione in cui erano stati trovati » ( Prefazione ). Questa copia, senz'altro la prima e la più fedele edizione dei Pensieri, servì all'edizione detta di Port-Royal, uscita nel 1669, a bassa tiratura, poi nel 1670, col titolo: Pensées de M. Pascal sur la religion et sur quelques autres sujets, qui ont été trouvées après sa mort farmi ses papiers, a Paris, chez Guillaume Desprez, nel 1670. A questa edizione ci si riferì per più di un secolo, fino all'edizione di Leon Brunschvicg, del 1897. La classificazione dei Pensieri di Pascal è un'impresa temeraria. Non c'è speranza infatti di trovare il piano esatto e definitivo dell'Apologià progettata da Pascal, perché l'opera non è stata condotta a quel punto di maturazione che avrebbe permesso all'autore stesso di prevedere il piano definitivo. D'altra parte, come concepire che Pascal abbia lavorato durante anni, senza pensare a mettere in ordine citazioni, referenze e riflessioni che si accumulavano nei suoi cassetti? Si può quindi legittimamente cercare le tracce di quegli abbozzi, di quegli stadi del pensiero, di quei piani parziali e provvisori che un autore non manca di tracciare. Ma dove trovarli? Critica esterna e critica interna ci offrono degli indizi: la critica esterna, cioè il raggruppamento provvisorio fatto da Pascal stesso, in ventisette fascicoli; la critica interna, cioè alcuni frammenti che parlano d'ordine e ci danno un po di luce sull'itinerario che Pascal intendeva seguire. 1. Un primo elemento di risposta ci viene dall'esposto che Pascal fece a Port-Royal ( verso ottobre-novembre secondo Lafuma, verso maggio 1658 secondo Mesnard ) davanti ad alcuni amici, e di cui Filleau de la Chaise, nei suoi « Discours sur les Pensées de Pascal » ci ha conservato il resoconto. Filleau de la Chaise era segretario del duca di Roannez e faceva parte con questi, con Arnauid e Nicole, del comitato incaricato dell'edizione dell'opera incompiuta di Pascal. Stando a Filleau de la Chaise o a Etienne Périer ( Prefazione dei Pensieri ), si classificano i Pensieri secondo l'ordine seguito da Jacque Chevalier. Ma si può ugualmente supporre che il piano sviluppato da Pascal nella sua conferenza, corrisponda all'ordine che aveva egli stesso introdotto all'interno dei ventisette fascicoli di note già classificate: in questo caso si tratta dell'ordine seguito da Lafuma. Ma nei due casi ci si riferisce in definitiva all'esposto di Pascal, perché i « Discours sur les Pensées de Pascal » di Filleau de la Chaise, come pure la Prefazione di Etienne Périer all'edizione di Port-Royal, affermano entrambi di basarsi su quell'esposto di Pascal per proporre una veduta ordinata dei Pensieri. Un punto tuttavia rimane oscuro: il testo di Filleau de la Chaise dipende da più fonti differenti: da una parte, da una testimonianza di un uditore della conferenza di Pascal; d'altra parte, dai frammenti stessi dei Pensieri; infine dalle riflessioni di Filleau de la Chaise. La Prefazione di Périer è certo più densa, più intelligente, meno « impastata » della dissertazione di Filleau de la Chaise, ma anche questa volta ci si può chiedere in quale misura Etienne Périer ha mescolato quello che ha saputo dal testimone della conferenza e quello che sa dalla lettura stessa dei Pensieri. Il problema resta: in quale misura Filleau de la Chaise e Périer hanno « interpretato ciò che hanno sentito completandolo con ciò che hanno letto? e come sapere se il piano della conferenza ricostruita nel loro testo viene da ciò che hanno sentito o da ciò che hanno letto » 2. Ma esiste un documento molto più vicino al discorso di Pascal di queste due prefazioni: sono le pagine stesse di Pascal conservate nei Pensieri con la menzione A.P.R.; a Port-Royal. Si tratta di cinque foglietti di cui questo è il contenuto essenziale: Primo foglietto: solo la vera religione, cioè il cristianesimo, rende conto della miseria e della grandezza dell'uomo. Le altre non ne sono in grado; la filosofia ne è incapace. Segue un discorso messo in bocca alla divina Sapienza. Secondo foglietto: è ancora la Sapienza che parla. Essa spiega la condizione dell'uomo nella prospettiva della creazione, poi della caduta. Adamo, poi Gesù Cristo. Il testo continua, sotto forma di note rapide, le quali suggeriscono che la Sapienza di Dio avrebbe argomentato mediante obiezioni e risposte. Terzo foglietto: Pascal riprende la parola. Non è incredibile che Dio si faccia conoscere a un essere capace di conoscere e di amare. Poi, di nuovo, la Sapienza riprende il discorso. Annuncia che presenterà le sue credenziali: « Non voglio che poniate in me la vostra credenza senza discutere, e non pretendo sottomettervi con tirannia. Non pretendo neppure darvi spiegazioni su ogni cosa. E per mettere d'accordo questi contrasti voglio farvi vedere chiaramente, con prove convincenti, alcuni segni divini in me, i quali vi convincano della mia natura e mi diano autorità con meraviglie e prove che voi non potete rigettare » ( B430 C483 ). Dio si è manifestato in Cristo, ma come un Dio nascosto: c'è in queste rivelazioni abbastanza luce per quelli che cercano Dio, e abbastanza oscurità per accecare quelli che lo fuggono. Quarto foglietto: sei linee di nuovo sul tema del Dio nascosto. Quinto foglietto: un ultimo paragrafo sull'interdipendenza grandezza-miseria. Questi cinque foglietti costituiscono quello che noi sappiamo di più certo sull'esposto di Pascal a Port-Royal. Si può supporre che questi testi non erano che note per sostenere un'improvvisazione e che Pascal ha fatto anche delle considerazioni sulle prove convincenti di cui parla: senza dubbio i miracoli e le profezie. È evidente che questi foglietti, che appartengono al fascicolo XI, non costituiscono un capitolo dell'Apologia, ma rappresentano una cosa a parte: uno schema di ciò che Pascal contava di dire o di scrivere prima di passare alle prove dell'apologetica tradizionale. Ora, se ci si riferisce a questi foglietti, l'abbozzo del progetto di Pascal conteneva i seguenti punti: a) paradosso della condizione umana: grandezza e miseria; b) insufficienza della filosofia e delle religioni; c) ricorso alla vera religione e alle sue prove; d) tema di Dio rivelato e nascosto in Gesù Cristo. C'è quindi in Pascal una preoccupazione di messa in ordine, almeno a breve scadenza, attestata da molteplici indizi: ritagli dai grandi fogli iniziali di passi da disporre in frammenti mobili ( oggi diremmo: schede ), rinvii da un testo all'altro, classificazione di un certo numero di frammenti riuniti in fascicoli sui temi generali. Le carte così disposte ( 27 serie ) o non classificate ( 33 serie ) rappresentano dei dossiers di lavoro. All'interno di essi, si trovano frammenti che sono abbozzi di argomentazioni, progetti di sviluppo, o a volte semplici riflessioni, pro-memoria. Ma non sappiamo nulla del piano definitivo ne del genere letterario che Pascal avrebbe adottato. « Ordine per dialogo », dice un frammento ( B227 C353 ). L'autore delle Provinciali avrebbe forse adottato un genere misto, fatto di dialoghi, di discorsi, di argomentazioni serrate, di analisi psicologiche. Raccolta di lettere o libro diviso in parti e in capitoli, la dimostrazione di Pascal sarebbe stata composta, probabilmente di intuizioni e di visioni panoramiche convergenti. Argomentazioni di tipo concentrico o unificazione dei temi si ottengono meno mediante un esposto lineare e logico di argomenti che attraverso un ricollegamento a un unico centro: Gesù Cristo, punto di convergenza e del più alto significato. Una cosa è certa, lo stato dei Pensieri ci proibisce di disporli in senso orizzontale, sotto forma di piano logico. Si può semplicemente intravedere, nei frammenti attuali, i movimenti di una mente al lavoro, ma sono movimenti già orientati, linee portanti, prima della costruzione definitiva. La critica esterna e la critica interna ci permettono, al massimo, di cogliere le grandi linee del pensiero di Pascal nel 1658. L'argomentazione progredisce andando dalla disproporzione dell'uomo alla posizione espressa del problema religioso e, di là, dopo aver scartato i tentativi delle altre religioni, alla prova storica della religione cristiana. L'inizio ( situazione dell'uomo ) e la fine ( religione di Gesù Cristo ) sono stabilite con certezza. La parte intermedia resta una costruzione ipotetica. All'inizio Pascal vuole turbare profondamente l'ateo o il libertino, descrivendogli la condizione dell'uomo come incomprensibile per la sua ragione e così miserabile che il suo cuore deve aspirare a portavi rimedio. Dimostrando che il cristianesimo decifra la condizione dell'uomo e vi porta rimedio, Pascal ispira rispetto per questa religione e fa desiderare che sia vera. Vengono in seguito le prove storiche. Non bisogna dimenticare che solo la prima parte ( quella che riguarda la grandezza e la miseria dell'uomo ) ha potuto essere sviluppata. Da qui la parte sproporzionata che occupa e l'accento pessimista che impone all'opera, a detrimento della sua parte positiva, appena abbozzata, su Gesù Cristo e il cristianesimo. Se si dimentica questo fatto si falsa il giudizio su Pascal. Le grandi linee del piano dell'Apologià sono abbastanza fisse. Perciò l'accordo di quasi tutti gli autori che hanno scritto su i Pensieri di Pascal è significativo. Quasi tutti, pur diversificandosi nella disposizione interna dei frammenti, riconoscono lo stesso movimento generale: 1. sproporzione e incomprensibilità dell'uomo senza Dio; 2. posizione del problema religioso e ricerca di una soluzione; 3. Gesù-Cristo e il cristianesimo, come ipotesi, poi come fatto storico che decifra e guarisce l'uomo. Non si può precisare oltre. Nessuna indicazione permette di definire esattamente quale ordine avrebbe seguito Pascal nell'affresco della condizione umana, ne come avrebbe strutturato la dimostrazione del fatto storico della rivelazione in Gesù Cristo. In mancanza di un piano dettagliato, possiamo intravedere una successione di temi orientali e orchestrati, come in una sinfonia. In termini simili J. Mesnard scrive: non l'ordine rigido e sistematico di un giardino alla Versailles, ma « un abile intreccio di temi, una composizione raffinata, musicale, un'argomentazione duttile, sfumata, benché sempre rigorosa » Capitolo secondo - V V. Nuovo tipo di apologetica e dialettica nuova L'apologetica di Pascal rappresenta qualcosa di inedito. La sua impresa non è subordinata ne a una filosofia ne a una scienza particolare. Essa è tuttavia di tipo filosofico: è esattamente una antropologia. In un universo in cui l'uomo è alla deriva, mistero ai suoi occhi, e mistero per gli altri, Pascal cerca di dimostrare come la religione cristiana da un senso a un'esistenza apparentemente assurda: è un'antropologia di carattere teologico. La chiave del mistero dell'uomo è in Cristo, totalità del significato, che permette, non solo di decifrare la condizione umana, ma anche di recarvi un rimedio. Oggi si direbbe volentieri dell'apologetica di Pascal che è un'ermeneutica, cioè una ricerca del senso, meno preoccupata di prove che di segni. Descrive l'esistenza umana che si sforza di interpretare come un testo. Al di là delle differenze, delle opposizioni, delle fratture, delle discontinuità, delle frantumazioni. Pascal cerca di « decifrare » la condizione umana. Perciò l'apologetica di Pascal non segue un ordine lineare: essa è piuttosto multidirezionale e multidimensionale. Essa è la ricerca e la scoperta di un significato a partire da osservazioni e figure che si possono distribuire e classificare in modo diverso. La ricerca del significato passa attraverso l'analisi del paradosso della condizione umana e la scoperta di un vertice che le assume e le illumina. Il paradosso, che è forma privilegiata della dialettica di Pascal, non e in lui una semplice tecnica di stile, un gioco di antitesi letterarie: propone i termini della realtà umana, stessa. Il paradosso consiste nella coesistenza e anche nell'alleanza dei contrari: amplifica i contrari senza tuttavia risolverli. L'urto che caratterizza gli scritti pascaliani, mettendo in contrasto i termini di miseria-grandezza, finito-infinito, tempo-eternità, carne-spirito appartiene a Pascal, come appartiene al Vangelo e a San Paolo, e descrive il movimento stesso dell'esistenza umana: « Conosci, dunque, superbo, quel paradosso che sei tu stesso » ( B434 C 438 ). L'intelligenza del paradosso non è da cercare in un equilibrio in cui i contrari, messi a confronto, finirebbero per annullarsi. Non è un equilibrio, ne una simmetria, che si deve cercare, ma un senso che viene da un vertice più alto capace di illuminare e di ordinare vedute divergenti. Questo vertice che permette di decifrare l'enigma della condizione umana, il cristianesimo lo offre, specialmente tramite il dogma del peccato originale e quello della redenzione. Il dogma cristiano non abolisce tuttavia i termini del paradosso, li fa piuttosto apparire in una luce più folgorante. Cristo è un punto di rottura più che di equilibrio. Mistero lui stesso, illumina il mistero dell'uomo mediante un passaggio a un ordine superiore: quello della carità rivelata attraverso la croce. Solo Cristo decifra la condizione umana. Capitolo secondo - VI VI. Sproporzione dell'uomo: prospettiva fisica Nella storia del pensiero, Pascal occupa un posto singolare: si colloca tra le scienze moderne della natura, che si sviluppano a un ritmo prodigioso, e una forma di pensiero animata puramente dalla fede, che è quella dei fideisti: giansenisti ( calvinismo appena larvato: fede e Sacra Scrittura ) e protestanti. Tra questi due poli è praticamente scomparso l'intermediario costituito dalla filosofia. Pascal, nemico della scolastica, cade in questo dualismo a picco, che caratterizzerà l'epoca seguente, tra le scienze esatte ( sperimentali e matematiche ) e la religiosità soprannaturale. Tutte e due ( scienze e religione ) per fedeltà al loro metodo, sembrano esigere che si rinunci alla filosofia. Una cosa è certa: Pascal rinuncia, nella costruzione dei Pensieri, alle prove metafisiche dell'esistenza di Dio. Esse esistono senza dubbio, ma mancano di quella forza di « persuasione » che ha tanta importanza agli occhi di Pascal. Gli argomenti, dice, sono accessibili a poche persone; e anche in loro non generano convinzioni durevoli: « Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal ragionamento degli uomini e così complicate che colpiscono poco; e quand'anche ciò servisse a qualcuno, servirebbe solo nel momento in cui vede questa dimostrazione, ma un'ora dopo, teme di essersi sbagliato » ( B543 C5 ). Pascal quindi non ci conduce dalla contingenza astratta dell'uomo all'Assoluto divino, ma dalla situazione e dalla condizione esistenziale dell'uomo, esattamente comprese, al Dio vivente. È quindi l'antropologia, e non la teodicea che è l'ancella della teologia. È quest'analisi dell'uomo che permette a Pascal, dotato tuttavia di forza metafisica, di collegare l'uomo a Dio. La sua originalità è di descrivere l'uomo come figura centrale della sua dimostrazione religiosa: l'uomo, gettato in un universo che gli sfugge quanto egli a se stesso; l'uomo che, per capirsi, deve fuggire a questo sguardo verso il basso ( il mondo e lui stesso ) e rivolgersi verso l'alto, mediante la fede, verso la figura di Cristo, che solo lo rende intelligibile nel suo ambiente insostenibile e gli dà senso e luce. Questa descrizione dell'uomo e della sua condizione è il cuore e il nerbo della dimostrazione di Pascal. Per comporla, Pascal si ispira a volte a immagini prese dalla fisica matematica ( situazione dell'uomo in un universo infinito, abbandono, deriva, assenza di punto di riferimento ), a volte a immagini ispirate dalla medicina ( descrizioni in termini di malattia e ricerca di una terapia appropriata ). In termini di fisica, si dovrà trovare « un punto alto »; in termini di medicina, una grazia medicinale, un « rimedio ». In un frammento diventato classico ( B72 C84 ), Pascal dimostra che l'uomo vive in seno a una sproporzione spaziale e temporale, segno visibile, percettibile, di una sproporzione più profonda ancora che è quella del suo essere stesso. Nell'universo l'uomo non ha il suo luogo; neppure in sé trova il suo equilibrio, « ugualmente incapace di afferrare il nulla da cui è tratto e l'infinito da cui è inghiottito ». La sproporzione che lo circonda si manifesta in seno a ogni ordine ( fisico e umano ) e tra gli ordini stessi ( i tre ordini ). Nell'ordine spaziale l'uomo è un punto situato tra due infiniti: l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo. L'universo è « una sfera infinita il cui centro è dappertutto e la circonferenza da nessuna parte ». In questo abisso spaziale, dovunque lo si collochi, l'uomo resta sperduto nell'infinito, perché niente potrebbe fissare il finito nell'infinito. È il primo senso del frammento sulla spropozione dell'uomo. Tra una figura geometrica finita ( un punto ) e lo spazio infinito in cui è posta, esiste la stessa « sproporzione » di quella che regna tra la figura finita dell'uomo e gli infiniti che la circondano. L'uomo può trovarsi qui o altrove, perché non ha nessun punto fisso in un universo infinito: « Quando considero il piccolo spazio che occupo e che vedo inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui, piuttosto che là, perché non c'è ragione che sia qui piuttosto che là, adesso piuttosto che allora » ( B205 C88 ). Di conseguenza, spazialmente parlando, tutti i finiti sono nella stessa situazione. D'altra parte, l'uomo, il quale non che è un punto nell'infinito, è a sua volta un universo, infinitamente complesso, che si apre sugli abissi non meno profondi dell'infinitamente piccolo: « chi non sarà colto da meraviglia considerando che il nostro corpo, che poco fa non era percettibile nell'universo, impercettibile nel seno del tutto, sia ora un colosso, un mondo, o meglio, un tutto, rispetto al niente al quale non si può giungere? » ( B72 C84 ). Quanto precede parte dall'idea che il finito è situato in mezzo all'infinito, a un posto tuttavia che non è mai necessario. Ma, d'altra parte, come parlare d'infinitamente grande e d'infinitamente piccolo senza punto di riferimento? Questo punto di riferimento che serve da misura e da mediazione tra due realtà infinite, senza tuttavia poterle equilibrate, è l'uomo situato tra i due abissi dell'infinito e del nulla. Gli infiniti stessi sono relativi. Infatti se tutto il mondo osservabile ( la nostra terra e la nostra galassia ) non rappresenta che « un tratto impercettibile dell'ampio seno della natura », e se l'uomo, il quale non è che un punto nell'universo, è lui stesso un universo infinito per il quale si tenta un'analisi, ciò conduce a dichiarare l'equivalenza dell'immenso e dell'infimo. Non c'è grandezza che non possa essere considerata come nulla, ne piccolezza che non possa essere considerata come infinita. Dall'infimo all'immenso non c'è scala ne progressione continua, perché l'immenso può diventare infimo o l'infimo immenso, a seconda del punto di paragone. Ma allora: « Che cos'è l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinità, un tutto rispetto al nulla? ». Come concepire il cosmo, quando un'uguaglianza avvicina, senza proporzionarli, la stella e l'atomo? Così l'uomo non arriva ne a situarsi ne a paragonarsi nello spazio fisico. Perciò in Pascal si trovano frequenti questi due temi: quello dell'estraneità dell'uomo nei riguardi del mondo che lo circonda: naufrago in un isola deserta, « sperduto in questo angolo remoto della natura », in questa « piccola cella dove si trova rinchiuso, voglio dire l'universo » ( B72 C84 ); e il tema della relatività di ogni posizione per un uomo abbandonato alla deriva, « vagante in un vasto mare » senza sapere, in assenza di qualsiasi punto fisso, se è lui che fugge o se lo scopo, che crede di afferrare, sfugge alla sua presa, « scivola e fugge, in una fuga eterna » ( B72 C84 ). « L'uomo è visibilmente sviato ed è caduto dal suo vero posto, senza poterlo ritrovare » ( B427 C275 ). Per Pascal l'infinito spaziale o temporale non è che l'indizio, afferrabile anche da una mente poco coltivata, di una situazione metafisica, cioè che l'essere e il sapere finiti dell'uomo si basano sull'abisso di ciò che l'uomo non è e che non può capire. Se, nell'universo, l'uomo non trova in nessun luogo il suo equilibrio nei riguardi di ciò che lo circonda, tanto meno lo trova in se stesso. « La nostra intelligenza nell'ordine delle cose intelligibili occupa lo stesso posto che ha il nostro corpo nell'estensione della natura » ( B72 C84 ). Di conseguenza, ritroviamo, sul piano del pensiero, la stessa instabilità, la stessa incertezza: « noi siamo qualche cosa e non siamo tutto ». Siamo « incapaci di sapere con certezza e d'ignorare totalmente ». Siamo « limitati in ogni senso » (B72 C84). L'origine e la fine di ogni cosa, anche delle cose finite, ci rimangono nascoste. Il nostro sapere su Dio e sul mondo è sempre intaccato dall'ignoranza. Tutto ciò che è comprensibile si rivela in un fondo di incomprensibilità. « Il colmo della nostra impotenza nel conoscere le cose sta nel fatto che queste sono semplici in se stesse mentre noi siamo composti di due nature opposte e di genere diverso: l'anima e il corpo » ( B72 C84 ). L'uomo non può afferrare ne la materia al di fuori dell'anima, ne l'anima al di fuori della materia, ma la materia e lo spirito in una lega ontologica che non restituisce nessuno dei due allo stato puro. « Cerchiamo quindi di capire che questo composto di fango e di spirito ci fa essere sproporzionati » ( B72 C84 ). L'uomo è un essere misto, costituito da due ordini ( materia e spirito ), e non può misurare la realtà che mediante questo strumento composito, « L'uomo è per se stesso il più prodigioso oggetto della natura; perché non può concepire che cosa sia corpo e meno ancora che cosa sia spirito. Sta qui la sua maggiore difficoltà e intanto è proprio questo il suo essere » ( B72 C84 ). Così l'uomo non sa ne come ne dove situarsi. L'alto, il basso, il centro, la periferia, perdono il loro senso in un universo infinito. Ogni posizione dell'uomo, per chi ne prende coscienza, è nello stesso tempo elevata e infinitamente bassa. Se l'universo non può avere un centro ( ma un'infinità di centri ), come rappresentarsi l'uomo in questo universo? Che cos'è questa sfera il cui centro è dovunque e la circonferenza da nessuna parte? A seconda del punto di vista l'uomo è un semplice punto, ma gravido dell'infinito. Nell'universo è il più debole degli esseri, un nulla può schiacciarlo ( B347 C264 ), ma ha il vantaggio sull'universo di sapere che è debole. Composto di materia e di spirito, non afferma ne l'una ne l'altro. I due infiniti spaziali che lo circondano, li ritrova in se stesso, incapace com'è di afferrare il tutto di nulla. L'uomo nel suo essere è « un nulla rispetto all'infinito, un tutto rispetto al nulla, un qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto. Infinitamente lontano dall'abbracciare gli estremi, la fine delle cose e il loro principio gli sono invincibilmente nascosti in un impenetrabile segreto, ed egli è ugualmente incapace di vedere il nulla da cui è stato tratto e l'infinito dal quale è inghiottito » ( B72 C84 ). Alla visione di infiniti spaziali ( di grandezza e di piccolezza ) si sovrappone sempre la visione di un essere che conosce, ma assoggettato a due limiti: quello che conosce, non lo conosce ne con certezza ne totalmente ( principio e fine ), soprattutto quando si tratta di se stesso. Di conseguenza, incapace di fissare il finito tra due infiniti che lo abbracciano e lo fuggono, incapace di penetrare il tutto di nulla, l'uomo deve cercare un punto di vista che gli permetta di comprendere gli estremi e di comprendere se stesso. Questo punto di vista non potrebbe trovarlo senza passare a un ordine superiore, come fa il pensiero nei confronti dello spazio e della durata. Per Pascal, questo punto alto, che è la chiave dell'interpretazione dell'universo e dell'uomo, è Dio creatore; e più precisamente è Dio in Gesù Cristo. Così il punto di riferimento cercato non tanto accentra l'universo su se stesso, quanto lo interpreta dall'alto. Appartiene meno a un dato empirico, che a una realtà spirituale. Cristo è questo « punto alto che tutto riempie » e tutto ordina. L'unificazione dell'universo non si realizza che attraverso il pensiero, ma questo a sua volta non si realizza che in Cristo. Questo tema della sproporzione dell'uomo che Pascal tratta innanzitutto in termini di fisica ( paradosso dell'infinito e del finito ), rappresenta un'orchestrazione, ma non l'unica, perché lo stesso tema riappare nel paradosso miseria-grandezza, con parole ispirate questa volta alla vita psichica e psicologica dell'uomo stesso. Capitolo secondo - VII VII. Sproporzione dell'uomo: miseria e grandezza Nell'universo l'uomo si sente perduto: in se stesso non è che contraddizione. Lo scopo che Pascal persegue, in questa descrizione, è di turbare il miscredente, di destare la sua attenzione sul suo dramma, di importunarlo fino a strappargli la confessione della sua incapacità. « Se si vanta, l'abbasso; se s'abbassa, lo vanto; lo contraddico sempre fino a che comprenda che è un mostro incomprensibile » ( B420 C330 ). L'uomo è una contraddizione vivente. Si rivela un abisso di miseria. Cerca la verità, la giustizia, la felicità, ma in realtà non conosce che l'incertezza o l'errore, l'ingiustizia o la forza, la disillusione o quel miraggio di felicità che è il divertimento. Il tutto concluso con la morte. Vediamo le componenti di questa descrizione. 1. L'uomo alla ricerca della verità Pascal obbliga il suo interlocutore a riconoscere che vive in apparenza, in balìa alle potenze ingannatrici dell'immaginazione, dell'abitudine e dell'amor proprio. Insieme esse sostituiscono alla prima natura ( quella vera, gratificata da Dio ) un'altra natura, rivolta verso l'errore. L'uomo non ha più natura; è in condizione, e questa condizione è quella dell'erranza. Non raggiunge la verità. La prima di queste potenze ingannatrici è l'immaginazione. L'universo delle nostre raffigurazioni, il mondo che ammiriamo, le persone che frequentiamo, tutto è visto attraverso il prisma deformante dell'immaginazione. Vale a dire che noi esistiamo attraverso l'immaginazione poiché essa regola i nostri rapporti con le cose, con gli uomini, con noi stessi. Ha lo scopo di perderci, « tanto più ingannevole che non lo è sempre » ( B82 C104 ). Siamo condannati a seguirla, senza poterci fidare di lei. L'immaginazione nel senso pascaliano ha quindi un senso esteso quanto quello che diamo a immaginario per opposizione a reale o vero. Perché manca di essere o di verità l'uomo cerca di sembrare. Infatti, importa per noi innanzitutto farci illusioni su noi stessi, perché ancora più preziosa della nostra vita reale, è la vita immaginaria che vogliamo vivere nella mente degli altri. Più importante, che la virtù reale, è una virtù in immaginazione. L'uomo è condannato a vivere diviso tra l'essere e il sembrare. L'essere assoluto appartiene solo a Dio: lui solo non ha bisogno di splendore per manifestarsi. Cristo è venuto nello splendore reale del suo essere e della sua santità; invece l'uomo perche manca di essere, deve « apparire » Porta una maschera. L'immaginazione è così il testimone della condizione umana: della sua instabilità, della sua incostanza e soprattutto della nostalgia che l'uomo porta in sé. L'immaginazione rappresenta il vuoto che produce l'assenza di Dio. Incapace di afferrare l'essere, l'uomo coltiva il miraggio. D'altra parte, cosciente della sua miseria, non rinuncia al volto che è sotto la maschera. Senza fine apparenza e realtà si rispondono e si illudono reciprocamente. Un'altra fonte di errore, è l'abitudine. Questa parola si trova quaranta volte in Pascal. Al posto della natura vera ( creata da Dio ) l'uomo si è formato una natura sostitutiva che si chiama l'abitudine. « L'abitudine è la nostra natura » ( B89 C449 ) « Perché non dobbiamo dimenticare la nostra condizione: noi siamo automa e intelletto, e da questo dipende che lo strumento per ottenere la convinzione non è la sola dimostrazione! … Le prove non convincono che l'intelletto. L'abitudine rende le nostre prove più forti e più credute; essa piega l'automa e questo trascina l'intelletto senza che se ne accorga. ìChi mai ha dimostrato che domani vivremo, oppure moriremo? E che cosa c'é di più creduto? Dunque è l'abitudine che ce ne convince, essa che fa tanti cristiani, come fa i turchi, i pagani, gli artigiani, i soldati ecc. Infine, bisogna ricorrere all'abitudine appena l'intelletto ha scorto dove è la verità se vogliamo abbeverarci e impregnarci di questa credenza che ci sfugge ogni momento, perché averne le prove sempre presenti è troppo arduo. Bisogna acquistare una credenza più facile, che è quella dell'abitudine, la quale, senza violenza, senza artificio, senza argomentazione, ci fa credere le cose e inclina tutte le nostre facoltà a questa credenza in modo che la nostra anima vi cada naturalmente … Bisogna far credere tutte e due le nostre parti: l'intelletto mediante le ragioni che è sufficiente aver viste una volta nella vita; e l'automa coll'abitudine » ( B252 C470 ). Così Pascal distingue nell'uomo l'intelligenza, cioè la facoltà di discernere la verità, di fondare delle convinzioni appoggiate su motivi validi e percepiti come tali. Ma c'è anche la macchina, l'automa, cioè l'uomo con tutti i suoi determinismi, acquisiti o ricevuti, che gli permettono di arrivare allo stesso risultato tramite la sola forza o effetto dell'abitudine. Che cosa crea in noi questo automatismo, del resto molto utile, poiché ci dispensa dello sforzo? Che cosa traduce i nostri giudizi coscienti, le nostre decisioni ponderate in rinessi inconsci? Insomma che cosa « biologizza » e « socializza » l'intelligenza? È l'abitudine acquisita o ereditaria. L'uomo è capace di riflessione, di deliberazione, ma in pratica affida buona parte delle sue conoscenze, dei suoi giudizi sul valore, dei suoi comportamenti, agli automatismi individuali o collettivi. Noi pensiamo, giudichiamo, facciamo ciò che si dice, si pensa, si fa intorno a noi: l'usanza inclina l'intelligenza in una data direzione senza farla pensare. Tutto quest'insieme di abitudini, di « routines », di stati di fatto, di usi stabiliti, che noi chiamiamo il costume, e che regge la nostra vita, finisce per creare nell'uomo una « seconda natura », che non è la prima, creata da Dio, ma una natura artificiale che l'uomo si è fabbricata. Il solo suo valore viene dal fatto che esiste e che infierisce. Che si chiami costume, moda, istituzione, essa regge sia la nostra vita individuale che quella sociale ( per esempio essa determina le classi e le professioni ). In ogni cosa essa determina i nostri atteggiamenti, le nostre scelte, i nostri desideri, i nostri bisogni, i nostri giudizi. Ripetiamo, Pascal non nega i buoni servizi del costume, come non nega quelli dell'immaginazione, ma constata con un realismo prossimo al cinismo, che ogni nostra attività procede in realtà dal costume, tanto imperioso quanto abusivo. « Il costume sembra il principio generatore della stessa natura ». Essa manifesta una dimissione della natura. Realismo amaro, ma anche intuizione di uno stato di cose che Pascal riconosce come ineluttabile. Questa sostituzione dell'abitudine alla natura, manifesta ancora una volta la debolezza dell'uomo: avendo perso la prima natura, si e rivestito di una seconda natura che si e creata. L'abitudine è forte soltanto della debolezza della natura che vorrebbe coprire. L'uomo si copre dell'abitudine, dei vestiti, della maschera per non vedere, la sua miseria. Queste riflessioni di Pascal mostrano che è difficile discernere la verità, di afferrarla e di possederla con certezza; esse non pretendono tuttavia che noi siamo incapaci di raggiungere la verità. Se Pascal insiste sulle difficoltà che l'uomo incontra nel conoscere la verità, è perché sono umilianti per l'uomo. Esse manifestano ancora una volta quella sproporzione che lo « contrassegna ». Pascal vuol far sentire all'uomo la distanza che esiste tra ciò che vorrebbe essere e ciò che è realmente, tra il suo essere e il suo sembrare. C'è contraddizione tra le sue aspirazioni profonde alla verità e la sua condizione presente. Aggiungiamo che se Pascal trova tanto miserabile la condizione dell'uomo, è perché esiste in lui un bisogno personale di assoluto che non gli permette di soddisfarsi di una verità limitata, precaria, deludente. 2. L'uomo alla ricerca della giustizia L'uomo cerca la giustizia, ma non la trova affatto. A lungo Pascal ha creduto che ci fosse una giustizia ( B375 C252). Ma, dopo aver osservato le oscillazioni degli uomini e delle nazioni in materia di morale, ha modificato il suo giudizio. La vera giustizia, dice, se esistesse, si ritroverebbe in ogni tempo e luogo. Ora, non esiste, tra le leggi umane, alcuna legge universale. Se è vero che Dio vuole la giustizia, il peccato ne ha stranamente stravolto l'esercizio. « Il latrocinio, l'incesto, l'uccisione dei figli e dei padri, hanno avuto tutti il loro posto tra le azioni virtuose » ( B294 C230 ). « Tre gradi di latitudine capovolgono tutta la giurisprudenza: un meridiano decide della verità » ( B294 C230 ). La ragione corrotta ha corrotto tutto. « Da questa confusione proviene che l'uno afferma che l'essenza della giustizia è l'autorità, l'altro l'utilità del sovrano, il terzo il costume vigente; e quest'ultima affermazione è più sicura; nulla, stando unicamente alla ragione, è giusto per se stesso; tutto rovina col tempo » ( B294 C230 ). Incapace di conoscere la giustizia, l'uomo è ugualmente incapace di realizzarla. Il motivo dei suoi atti è tutt'altro che la preoccupazione della giustizia: la vera regola del suo agire è l'amore di sé e la forza. L'amore di sé ispira tutte le azioni dell'uomo. Per essere ammirato inganna gli altri e si riveste di qualità immaginarie. Impastato di vanità e di orgoglio, si fa il centro di tutto, e cerca di asservire gli altri. Se si mette al loro servizio, è per trame qualche vantaggio. In breve, le sue azioni in apparenza più generose s'ispirano a motivi spesso fetidi. « Così la vita umana non è che illusione continua: non facciamo che ingannarci a vicenda e adularci a vicenda … L'uomo dunque è simulazione, menzogna e ipocrisia » ( B100 C130 ). « Sono certo che se tutti gli uomini sapessero quel che dicono gli uni degli altri non esisterebbero quattro amici nel mondo » ( B101 C131 ). Quest'uomo egoista è tuttavia riuscito a fondare l'ordine sociale. Mase si guarda da vicino, questa pace non è fondata sulla giustizia, ma sulla forza, perché solo la forza può stabilire un ordine tra gli interessi che si oppongono. « Tutti gli uomini vorrebbero dominare, e non tutti lo possono, ma soltanto alcuni … si combatteranno tra loro finché la parte più forte opprima la più debole e si costituisca infine una classe dominante » ( B304 C289 ). Una volta stabilito con la forza, l'ordine diventerà legge. Così all'idea morale di una vera giustizia, si è sostituito il concetto giuridico della legalità Ma in definitiva la giustizia umana riposa sulla forza. « Non si è potuto dare la forza alla giustizia perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha affermato che solo lei era giusta. E così, non potendo ottenere che ciò che è giusto sia forte, si è fatto sì che ciò che è forte sia giusto » ( B289 C285 ). La forza sarà giusta quando sarà al servizio della pace. Incapace di conoscere la reale giustizia, incapace di agire secondo la vera giustizia, l'uomo ha realizzato un ordine sociale precario, dove la forza è necessaria al mantenimento di una giustizia umana, e tutta relativa. Ordine sconcertante che Pascal riconosce come il frutto del peccato. « Tutti gli uomini si odiano naturalmente tra loro. Ci si è serviti della concupiscenza, come si è potuto, per farla servire al bene comune; ma questa è finzione e falsa apparenza di carità, perché in fondo c'è soltanto odio » ( B451 C134 ). Questo realismo sociale può facilmente diventare machiavellismo, se la forza abusa della debolezza del popolo: « La potenza dei re è fondata sulla ragione e sulla follia del popolo, anzi più sulla follia. La cosa più grande e importante sulla terra ha come fondamento la debolezza, e questo fondamento è mirabilmente sicuro; perché non c'è niente di più sicuro di questo, che il popolo sarà debole » ( B330 C297 ). « Platone e Aristotele, osserva Pascal, erano brave persone, che sapevano ridere coi loro amici ». « E, quando si sono divertiti a scrivere le Leggi e la Politica l'hanno fatto per gioco; questa era la parte meno filosofica e meno seria della loro vita, mentre la più filosofica era di vivere semplicemente e tranquillamente. Se hanno scritto di politica, l'han fatto come per dar norme per un manicomio; e se hanno finto di parlarne come di cosa seria, l'hanno fatto perché i pazzi a cui si rivolgevano credevano di essere re e imperatori, ed essi si immedesimavano dei principi di costoro per rendere la loro follia meno dannosa possibile » ( B331 C294 ). Come si vede, Pascal ironizza su uno stato di cose che sa ineluttabile, ma con un'ironia mista al cinismo. L'uomo, che sia individuo o Società, è una grandezza falsificata, l'ordine sociale, apparentemente stabile e forte, si basa su potenze torbide, apparentemente dominate, ma sempre pronte a destarsi e a scatenarsi. L'uomo individuale o sociale, porta una maschera. Sta in piedi, nonostante il disgusto che lo assale in fondo a se stesso. 3. L'uomo alla ricerca della felicità Il desiderio e la ricerca della felicità sono la molla del dinamismo umano, lo slancio fondamentale dell'uomo, anteriore a ogni esperienza. Pascal avrebbe senza dubbio dimostrato a lungo che l'uomo senza la fede non può raggiungere veramente la felicità. Ma, al di fuori dei frammenti dedicati al divertimento, non ci ha lasciato su questo tema che delle brevi indicazioni. « Tutti gli uomini cercano d'essere felici, senza eccezione, e tutti tendono a questo fine, sebbene diversi siano i mezzi che usano … E intanto da un numero infinito di anni, nessuno mai senza la fede è arrivato a questa meta a cui tutti mirano, continuamente … Un'esperienza così lunga, così continua e così uniforme avrebbe dovuto convincerci della nostra impotenza a raggiungere il bene con le nostre forze; ma gli esempi ci insegnano poco » ( B425 C370 ). Questa felicità « gli uni la cercano nell'autorità, altri nelle curiosità e nelle scienze, altri nei piaceri » ( B425 C370 ). Nessuno di questi beni riesce a colmare l'uomo. Il mondo in cui viviamo, è un mondo fragile, perituro. Tutto è sabbia, fluidità dell'acqua fuggitiva. La nostra felicità è precaria, e l'uomo è sempre deluso. Si immagina sempre altri piaceri, che lo deluderanno ancora. Ne segue l'incostanza che è, agli occhi di Pascal, uno dei tratti fondamentali dell'uomo. « Il sentimento della falsità dei piaceri attuali e l'ignoranza della vanità dei piaceri assenti sono causa d'incostanza » ( B110 C170 ). Deluso dal presente come dall'avvenire, l'uomo in definitiva non vive mai. Si dispone sempre a essere felice, senza poter mai esserlo. « L'esperienza ci inganna e di infelicità in infelicità ci conduce alla morte che ne è una conclusione eterna » ( B425 C370 ). La morte, ecco infatti l'argomento finale che Pascal adduce davanti al miscredente per turbarlo, ma invano: « L'ultimo atto è sanguinoso, per quanto bello possa essere tutto il resto della commedia; alla fine si getta un po' di terra sulla testa, ed è finito per sempre » ( B210 C227 ). Questa sete di felicità e questa impotenza ad afferrarla attestano tuttavia « che un tempo c'è stata nell'uomo una vera felicità di cui adesso non gli restano che il segno e la traccia che egli cerca inutilmente di colmare con tutto quello che lo circonda » ( B425 C370 ). Invano « perché l'abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile, vale a dire da Dio stesso » ( B425 C370 ). Nonostante le sue miserie « l'uomo vuole essere felice, e non vuole essere altro che felice, e non può non volerlo essere » ( B169 C214 ). Questo ci introduce nel tema del divertimento. Il divertimento a volte non è che l'azione innocente e inoffensiva di ricrearsi, di giocare ( dallo sport fisico, al divertimento sociale, allo studio scientifico ), ma spesso il divertimento è una fuga e un rifiuto: di « rientrare in se stessi » e di « rivolgersi verso Dio ». Divertirsi, infatti ( dal latino avertere ) è distogliere l'attenzione da sé, dalla sua condizione miserabile, per non pensarci. « Se la nostra condizione fosse veramente felice, non occorrerebbe distrarne il pensiero per renderci felici » ( B165 C212 ). Ciò che interessa l'uomo nel divertimento, è meno l'oggetto che la sua rincorsa, il movimento, la trepidazione, che lo distrae dal pensare a sé. « Si gusta più la caccia che la preda » ( B139 C205 ). E anche quando l'uomo dà molto valore a un oggetto o a un posto desiderato, il suo possesso non lo soddisfa. L'uomo si agita, « si diverte » per non pensare al senso della vita, alla sua condizione, alla morte che viene. « Nulla è tanto insopportabile all'uomo che lo stare in riposo completo senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il suo abbandono la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine, la tristezza, l'affanno, il dispetto, la disperazione » ( B131 C201 ). L'uomo si diverte per fuggire se stesso; ma questa fuga la sua più grande infelicità. « Il divertimento ci divaga e ci fa arrivare insensibilmente alla morte » ( B171 C217 ) 4. Grandezza dell'uomo L'uomo non è che un abisso di miseria. Cerca la verità, ma non raggiunge che l'incertezza e l'errore. Persegue la felicità, ma non trova che miseria e morte. L'uomo è miserabile, eppure è grande perché è intelletto e pensiero. Su questo tema i frammenti dei Pensieri sono pochi. Il fatto tuttavia non significa in Pascal una convinzione minore, ma una mancanza di tempo per elaborare questo tema. « Il pensiero costituisce la grandezza dell'uomo » ( B346 C257 ). « Mediante lo spazio l'universo mi circonda e mi inghiottisce come un punto: mediante il pensiero, io lo comprendo » ( B348 C265 ). Mente, essere che pensa, l'uomo conosce la sua miseria. « L'uomo conosce di essere miserabile; dunque è miserabile, perché lo è; ma è abbastanza grande perché lo sa » ( B416 C314 ). « L'uomo è una canna … Ma è una canna pensante » ( B347 C264 ). Questo intelletto è fatto per l'infinito. Perciò niente di ciò che è finito lo può soddisfare. Questo « abisso infinito non può essere colmato che da un oggetto infinito e immutabile, vale a dire da Dio stesso » ( B425 C370 ). La nostra miseria è il risultato di un baratro aperto sull'infinito, ma mai soddisfatto, di uno slancio che non raggiunge mai il suo scopo. Solo l'infinito può colmare questo abisso che Dio ha messo in noi. « L'uomo supera infinitamente l'uomo » ( B434 C438 ), perché c'è nell'uomo più che l'uomo. « Grandezza dell'anima umana », notava il Memoriale. La coscienza della sua grandezza non attenua tuttavia la miseria dell'uomo. « Ma per quanto infelici, e più che se non ci fosse grandezza nella nostra condizione, non abbiamo un'idea della felicità e non possiamo giungervi; mutiamo un'immagine della verità e non possediamo che menzogna » ( B434 C438 ). Vi è dunque un legame tra la grandezza e la miseria dell'uomo. È perché l'uomo conosce la sua grandezza che si sente tanto miserabile e, d'altra parte, il fatto di conoscere la sua miseria, è il segno della sua grandezza. La grandezza si deduce dalla miseria e la miseria si deduce dalla grandezza. Le miserie dell'uomo « sono miserie di un gran signore, miserie di un rè spodestato » ( B398 C269 ). Pascal non assolutizza quindi la miseria dell'uomo: non vi è miseria nell'uomo che senza Dio. Chiunque riconosce la sua miseria, il suo peccato e si volge verso Dio, trova Dio e si eleva verso di lui. Ogni vero male viene solo dall'uomo che pretende di bastare a se stesso. Per essere liberato dalla sua miseria e ritrovarsi nella sua vera grandezza, deve rinunciare a se stesso. 5. L'uomo, paradosso da decifrare Ma allora che cosa è l'uomo? « Che novità, che mostro, che caos, che soggetto di contraddizioni, che prodigio! Giudice di tutte le cose e miserabile verme di terra; depositario della verità e cloaca di incertezza e d'errore; gloria e rifiuto dell'universo. Chi riuscirà a sbrogliare questa matassa? … Riconoscete dunque, superbi, che siete un paradosso per voi stessi » ( B434 C438 ). Fin qui, Pascal ha osservato l'uomo, guardandolo vivere e pensare con lo sguardo di un biologo o di un ragioniere davanti a un bilancio. Si può protestare, se si vuole, contro i colori troppo scuri di questa descrizione. Ma le analisi di Nietzsche, Proust, Dostoievski, Kafka, Mauriac, Saxtte, non hanno che. potuto magnificare le intuizioni di Pascal e dargli ragione. L'uomo, senza il Vangelo, è orribile. Al di fuori della fede cristiana, l'uomo non scorge nel mondo che un destino assurdo che sfocia nel nulla. Che farà di fronte al proprio mistero? Vivrà sempre nell'indifferenza, incosciente del suo passato, noncurante del suo avvenire? Pascal fa dire all'indifferente: « Non so chi mi ha messo al mondo, ne che cosa è il mondo, ne chi sono io; mi trovo in una terribile ignoranza di tutte le cose; ignoro che cosa sia il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa parte del mio io che pensa quel che dico … Vedo degli spaventevoli spazi dell'universo che mi tengono prigioniero, senza sapere perché sono collocato in questo luogo piuttosto che in un altro … Non vedo che infinità da tutte le parti, le quali mi rinserrano come un atomo e come un'ombra che dura un istante e che non ritorna. Tutto quello che so è che devo presto morire; ma quello che ignoro di più è questa morte stessa che non potrei evitare. Come non so donde vengo, così non so neppure dove vado; e so soltanto che, uscendo da questo mondo, piombo per sempre o nel nulla o nelle mani di un Dio irritato, senza sapere quale di queste due condizioni mi toccherà in eterno. Questo è il mio stato pieno di debolezza e di incertezza. E da tutto questo concludo che devo dunque trascorrere tutti i giorni della mia vita senza preoccuparmi di cercare quello che mi deve accadere » ( B194 C335 ). Così il miscredente può accettare di vivere nella più totale indifferenza pratica. Può sentirsi a suo agio lasciando da parte i problemi che riguardano il senso profondo della sua esistenza. Può sentire inguietudine e nessuna disperazione davanti all'inquietudine inappagata degli altri. Pascal diventa allora più insistente: è mai possibile che sul piano della vita ( e non più sul piano della sola conoscenza speculativa ) si possa restare indifferenti a tal punto di fronte al problema che impegna il tutto della nostra esistenza? Vi sono tuttavia uomini che vivono in questo stato: « Di tutte le loro deviazioni, questa è senza dubbio quella che li accusa maggiormente della loro follia e del loro accecamento … Questo adagiarsi nell'ignoranza è una cosa mostruosa, di cui bisogna far sentire la stravaganza e la stupidità a coloro che trascorrono in essa la loro vita e bisogna metterla sotto i loro occhi per convincerli con lo spettacolo della loro follia » ( B195 C334 ). Paradosso di miseria e di grandezza, l'uomo non sa chi è, da dove viene e dove va. Può vivere così senza cercare il segreto della propria identità? « Prima di trattare delle prove della religione cristiana, dice Pascal, credo necessario prospettare l'ingiustizia degli uomini che vivono nell'indifferenza per la ricerca di una verità che è per essi così importante e li riguarda tanto da vicino » ( B195 C334 ). Poiché l'uomo è grande e miserabile insieme « giudichi quanto valga … Si odi, si ami; ha in sé la capacità di conoscere la verità e di essere felice, ma non ha affatto verità che sia costante o soddisfacente. Vorrei dunque portare l'uomo a desiderare di trovarla, a essere pronto e libero dalle passioni, per seguirla dove la troverà, sapendo quanto la sua conoscenza è annebbiata dalle passioni » ( B423 C331 ) Tale è il nodo del problema. L'uomo è un paradosso per se stesso, un mistero così profondo che deve impegnarsi a penetrarlo, a meno che non sia interamente sprovvisto di ragione. Ma la ricerca stessa è possibile solo a condizione di togliere gli ostacoli, vale a dire, le passioni, e di mettersi in atteggiamento di umiltà e di sincerità. Pascal nota: « Ordine. - Dopo la lettera sul dovere di cercare Dio, scrivere la lettera sull'eliminazione degli ostacoli » ( B246 C441 ). Si deve cercare la verità col desiderio di trovarla: « coloro che vi si dedicano con una sincerità perfetta e un vero desiderio di incontrare la verità, spero che troveranno soddisfazione e si convinceranno delle prove d'una religione tanto divina; prove che qui ho raccolto » ( B194 C335 ). « Perché la passione non rechi danno, comportiamoci come se avessimo soltanto otto giorni di vita » ( B203 C343 ). A dire il vero, « esistono tre categorie di individui: quelli che servono Dio, dopo averlo trovato; quelli che si sforzano di cercarlo senza ancora trovarlo; quelli che vivono senza cercarlo e senza averlo trovato. I primi sono ragionevoli e felici, gli ultimi sono pazzi e infelici, quelli di mezzo sono infelici e ragionevoli » ( B257 C364 ). Capitolo secondo - VIII VIII. La conversione come « Preliminare » di una autentica ricerca del significato Nell'apologetica di Pascal l'analisi della condizione umana ha un tale peso, una tale importanza tattica, che è necessario fermarvisi per valutarla. Pascal si rivolge dunque ai miscredenti del suo tempo, a quelli che allora si chiamavano i « libertini ». Inizia facendo la diagnosi della loro condizione. Questi uomini vivono nella più profonda apatia spirituale e religiosa. Niente potrebbe turbarli, nemmeno la sorte che li attende dopo la vita. Pascal si stupisce di una tale indifferenza pratica e dice: « è una cosa mostruosa », un « incantesimo incomprensibile » ( B194 C335 ). Pascal si applica allora a suscitare nel libertino la consapevolezza della sua reale condizione a partire da quattro constatazioni: a) l'ignoranza sulla sua origine e sul suo destino; b) l'impossibilità di situarsi nello spazio e nella durata; c) l'impossibilità di conoscere e di conoscersi; d) l'incapacita di vivere nella giustizia, nella verità, nella felicità, nonostante tutti i desideri che ne ha: Pascal esaurisce tutte le risorse della scienza e dell'esperienza per spaesare il libertino e togliergli le sue certezze. Spera di toglierlo dal suo torpore e metterlo alla ricerca della verità. Di questi adepti del « confort » intellettuale, vuol fare degli « estranei » in preda all'angoscia e alla deriva, per portarli a porsi le domande essenziali alle quali solo il dogma cristiano offrirà le risposte. Senza queste violente emozioni, nessun argomento potrebbe incidere: si sarebbe ridotti a un semplice dibattito accademico. Pascal non dispera di provocare nell'animo del miscredente questa lacerazione esistenziale e questa ricerca del significato. Infatti, la consapevolezza della sua miseria dovrebbe ridestare nell'uomo la sua vera vocazione, perché questa vocazione è una chiamata vissuta che non può soffocare. Ma la strategia di Pascal non si ferma qui. Al paradosso della condizione umana che è necessario decifrare, ne aggiunge un altro, più sconcertante ancora, che riguarda questa volta le esigenze di un deciframento autentico della condizione umana. Lungi dal lasciar credere che la verità dell'uomo si trovi in una specie di naturalizzazione di Dio, Pascal afferma crudamente: « Ciò che fa credere … è la croce » ( B 588 C828 ) Nient'altro pùo insegnarci a conoscereDio e a conoscerci. « Gesù Cristo non ha fatto altro che insegnare agli uomini che essi amavano se stessi, che erano schiavi, infelici, ciechi, peccatori; che egli doveva liberarli, illuminarli, beatificarli e guarirli; che tutto questo si otteneva odiando se stessi .e seguendolo attraverso la miseria e la morte sulla croce » ( B545 C689 ). Non vi è altra strada apologetica che quella della croce. Tutta la descrizione che Pascal fa dell'universo infinito e della condizione umana alla deriva, del mistero della miseria e della grandezza che abita nell'uomo e lo lacera, non ha altro scopo che di condurre l'uomo a scegliere questa strada. La ricerca della verità passa attraverso la croce. Questo approccio costituisce un altro tratto dell'originalità di Pascal. Ancora più che un preliminare dottrinale ( prove storiche del cristinanesimo ) propone come « preliminare » la « conversione del cuore ». In questo modo, Pascal taglia corto alle abiezioni del libertino e lo prepara a leggere i segni e le prove storiche. Infatti, per ragionevole che sia la decisione di fede, con l'insieme impressionante delle prove storiche non si è fatto nulla se le passioni non sono dominate e se il cuore non è disposto ad ascoltare. « Studiatevi dunque non già di convincervi col discutere le prove di Dio, ma col diminuire le vostre passioni » ( B233 C451 ). « Avrei già abbandonato i piaceri, dicono alcuni, se avessi la fede. Rispondo: Avreste già la fede, se aveste abbandonato i piaceri. Ora tocca a voi cominciare … Potete abbandonare i piaceri e sperimentare se ciò che dico io è proprio vero » ( B240 C457 ). Per vedere, in effetti, occorre sfebbrarsi, purificarsi. « Bisogna aprire il proprio intelletto alle prove … ma sottomettersi umilmente alle aspirazioni perché esse sole possono causare il vero e salutare effetto: Ne evacuetur crux Christi » ( B245 C482 ). L'apologetica di Pascal passa quindi attraverso la conversione del cuore e la croce. Si serve della prove storiche, ma vuole spiegarle a un uomo disposto, mediante la consapevolezza che ha di essere incomprensibile a se stesso, estraneo a tutto; a un uomo che, avendo posto in modo corretto la questione del senso della vita ( origine e destino ), desidera trovare la verità nell'unica luce che possa svelarla. Ora questa luce è la croce di Gesù Cristo e ci si prepara a riceverla mediante la mortificazione delle passioni. Questa salvezza piena di pericoli, follia per il mondo, umiliazione per l'orgoglio dei filosofi, non può esprimersi meglio che con la messa in guardia insistente: Ne evacuetur crux Christi. Esprimendosi così Pascal non vuole rifiutare la ragione, ma situarla nel suo ordine. Impotente a scoprire il mistero di Dio e dell'uomo, faticando a esercitarsi nel suo stesso ordine, la ragione deve decidere in favore di una religione che le permetta di decifrare Dio e l'uomo. Pascal non nega la ragione, ma è alla ricerca « di una più alta ragione ». Questa ragione superiore è Gesù Cristo. Non c'è conoscenza di Dio e dell'uomo che in lui. Ma l'accesso a una tale conoscenza esige dall'uomo un decentramento da se stesso e una disponibilità all'azione di Dio che inclina a credere, cioè che si converta. Il preliminare della conversione del cuore è prioritario in Pascal, sul preliminare dottrinale, vale a dire lo studio delle prove storiche. Capitolo secondo - IX IX. La chiave del crittogramma umano: l'ipotesi cristiana Il frammento sulla sproporzione dell'uomo nell'universo, come pure i frammenti sulla sproporzione interiore dell'uomo, mettono in luce una disarmonia obiettiva. Costituiscono un inventario dei fatti. La conclusione è che l'uomo è indecifrabile. Pascal solleva allora la domanda: come sormontare e superare questa sproporzione accertata? L'armonia esiste, ma in un ordine superiore. La vera immagine di Dio nell'uomo si chiama Gesù Cristo: immagine che si disegna sullo sfondo dell'esistenza umana scordata, assurda, incomprensibile e mostruosa. La descrizione della sproporzione dell'uomo costituisce la prima parte dell'Apologià di Pascal, che è la più curata. L'uomo non può situarsi ne nello spazio, ne in se stesso, perché è finito nell'ordine dell'essere e del conoscere. Se Pascal chiama l'uomo mostro, chimera, caos, prodigio, contraddizione, paraddosso, non è innanzitutto per dar risalto alla sua bruttezza morale, ma per dimostrare che la sua figura è indecifrabile. Ogni tratto esposto ( giustizia, verità, felicità ) è subito messo in scacco, minacciato dal tratto opposto. L'uomo è incomprensibile. A meno di precipitare in una indigenza peggiore della follia, non può soddisfarsi di questo stato e aspettare tranquillamente la morte. Deve cercare di spiegarsi, di decifrarsi. Soprattutto deve cercare con sincerità. Fin qui Pascal si è quindi preoccupato di inquietare l'uomo, di suscitare in lui la ricerca della verità. Gli ha anche mostrato a quale condizione questa ricerca può riuscire: che l'uomo si disponga ad accogliere la verità, per sconcertante che sia, mediante la conversione del cuore. Pascal si rivolge innanzitutto ai filosofi. Ora questi si rivelano incapaci di illuminare veramente il mistero dell'uomo. Gli stoici hanno optato per la grandezza e sono caduti nell'orgoglio; i pirroniani o scettici hanno optato per la miseria e sono caduti in una lamentevole indifferenza ( B525 C392 ). I filosofi si contraddicono l'un l'altro e contraddicono se stessi: « O uomini, è inutile che cerchiate in voi stessi il rimedio per le vostre miserie. Tutti i vostri lumi possono soltanto arrivare a conoscere che non in voi troverete la verità o il bene. I filosofi ve l'hanno promesso, e non hanno potuto mantenerlo. Essi non sanno ne qual è il vostro vero bene, ne qual è il vostro, vero stato » ( B430 C483 ). Pascal non ha tuttavia la pretesa di squalificare la filosofia nella sua ricerca della verità. Essa ha un ruolo nell'incamminare l'uomo verso Dio, a condizione tuttavia di non compiacersi del proprio discorso, ma di aprirsi, di accogliere dei fatti che la fede in seguito potrà illuminare. Perché la filosofia è sempre tentata d'idolatria, di narcissismo. Il voto di Pascal è che la speculazione diventi esperienza, la conoscenza comunione e che la filosofia si lasci completare dalla fede. Perché Dio, secondo Pascal, è innanzitutto l'essere misterioso che non cessa di interpellare l'uomo. Per accoglierlo si deve ricevere un nuovo modo di vedere: cioè una illuminazione della mente e del cuore con la fede. Dio non è conosciuto se non viene a noi; ci trova ancora più che noi lo troviamo. Si può dire che Pascal se la prende più con gli errori abituali « di fatto » della filosfia, che con la filosofia stessa. L'errore dei filosofi è di voler trovare Dio senza Dio, come si trova una « cosa », evidentemente senza di essa, e non come una persona, che si rivela mediante la confidenza, se vi consente e se si consente di ascoltarla. Per conoscere Dio le prove non potrebbero bastare: è necessario mettersi in ascolto, pregare e supplicare. Non si trova la verità; si riceve come un dono: dono delle prime nozioni in matematica; dono dell'esperienza sensibile nelle scienze; dono dell'amore e della grazia, che è la rivelazione. Ciò che è impossibile ai filosofi, neppure le religioni dell'umanità lo possono fare. Pascal interroga via via il buddismo, l'islamismo, la religione pagana, ma in pochi testi che sono delle allusioni più che reali sviluppi. Una cosa è certa: il nostro stato di miseria e di grandezza è così lampante che la vera religione se esiste deve poterci illuminare su questo paradosso. « Essa deve darci la spiegazione di questi stupefacenti contrasti … Deve insegnarci i rimedi a queste incapacità e i mezzi per ottenere questi rimedi » ( B430 C483 ). Ora, dice Pascal, si possono esaminare tutte le religioni del mondo: nessuna offre una risposta veramente decisiva al mistero dell'uomo e del suo destino. Esse lasciano tutte l'uomo insoddisfatto e non propongono alcun vero rimedio alla sua miseria. Fra queste religioni ve n'è una tuttavia che attira particolarmente l'attenzione: è la religione ebraica. A differenza degli altri popoli il popolo ebreo adora un solo Dio, che dice essere l'unico e vero Dio. Riceve da lui la sua morale, fondata sull'Alleanza. La Sacra Scrittura, mediante la quale questo popolo si governa, più si medita, più si rivela fonte inesauribile di luce. Passata nelle mani del cristianesimo, questa Sacra Scrittua si è diffusa in tutto l'universo. Solo il cristianesimo, erede della tradizione ebraica, spiega tutto l'uomo, la sua grandezza e la sua miseria; solo il cristianesimo lo salva dalla sua miseria. Esso rimane misterioso, ma nello stesso tempo fonte zampillante di luce. L'ultima parola sull'enigma dell'uomo non può essere dedotta filosoficamente, ma ricevuta come un dono, come la rivelazione di un mistero: quello del peccato originale. La verità sull'uomo non sgorga dopo tutto che da una sorgente di cui non si può forzare l'entrata. « Certamente, dice Pascal, nulla ci urta più brutalmente di questa dottrina; e intanto senza questo mistero, che è il più incomprensibile di tutti, siamo incomprensibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione s'attoreiglia e si intreccia in questo abisso, così che l'uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero non sia inconcepibile all'uomo » ( B434 C438 ). La verità dell'uomo sta in queste due verità: « la prima, che l'uomo nello stato di creazione e in quello di grazia è elevato al di sopra di tutta la natura, quasi simile a Dio e partecipe della sua divinità; la seconda, che nello stato di corruzione e di peccato è decaduto da quella condizione e reso simile alle bestie » ( B434 C438 ). La chiave della nostra condizione si trova in questi due stati e in queste due nature. La spiegazione cristiana è che l'uomo, nel suo stato attuale, non può essere capito che a partire da se stesso. « Imparate che l'uomo supera infinitamente l'uomo » ( B434 C438 ), cioè che l'uomo, mediante la sua partecipazione gratuita a Dio, nello stato primitivo, poi nella redenzione e nella glorificazione in Gesù Cristo, è elevato al di sopra dell'uomo e di conseguenza non può essere capito che mediante questa trascendenza. L'uomo non si capisce, alla fin fine, che attraverso il superamento al quale è chiamato. La sua prima vocazione era quella di una vita in Dio: era la sua prima « naturalità ». Col peccato si è rotta questa unione con Dio. Il risultato è che l'uomo è caduto al di sotto di se stesso. Il dilemma per l'uomo è di essere elevato al di sopra della sua natura o di essere caduto al di sotto della sua natura. Tutto questo è spiegato nel discorso tenuto da Pascal a Port-Royal, e quando fa dire alla Sapienza: « Voi adesso non siete più nello stato in cui vi ho formati. Io ho creato l'uomo santo, innocente e perfetto ». Ma l'uomo « ha voluto farsi centro di se stesso » e indipendente da Dio, che l'ha abbandonato al suo peccato. « Questo è lo stato in cui si trovano oggi gli uomini. Resta loro qualche impotente istinto di felicità della loro primitiva natura, e sono immersi nella miseria del loro accecamento e della loro concupiscenza, la quale è diventata la loro seconda natura » ( B430 C483 ). Gli uomini sono « incapaci di arrivare a Dio » e « se Dio non viene a loro, essi non possono avere nessuna comunicazione con Dio ». Perciò « Dio si è fatto uomo per unirsi a noi » ( B286 C837 ). Così il dogma del peccato originale è l'ipotesi che illumina e decifra la condizione umana. Non è tuttavia l'ultima e più potente luce sull'uomo. Il dogma del peccato originale deve essere anch'esso illuminato dal dogma dell'incarnazione e della redenzione. Il peccato originale illumina negativamente, per così dire, la distanza che ci separa dalla nostra vera natura di figli di Dio, come una realtà perduta. Ma solo Cristo restaura la somiglianzà con Dio, alterata dal peccato: mediante la sua vita, la sua passione e la sua morte, ci conferisce e ci fa vedere una vita di figli. È il nuovo Adamo. Capitolo secondo X X. Cristo, la totalità del significato L'elucidazione definitiva della condizione umana non può aver luogo che in Gesù Cristo. « In Gesù Cristo si concordano tutte le contraddizioni » ( B684 C558 ). È il punto di riconciliazione di tutti i nostri paradossi, non tramite un equilibrio o una simmetria dei contrasti ( peccato-grazia, grandezza-miseria ), ma mediante un cambiamento d'ordine. Per Pascal, Cristo è quell'immagine dell'uomo nuovo che non poteva essere data che da Dio: un'immagine che il mondo non poteva ne esigere, ne supporre, ne inventare. La contraddizione, mai sanata nell'uomo, si trova ricondotta in Gesù Cristo a una armonia il cui senso è meno la rivelazione dell'uomo in quanto tale, che la rivelazione dell'amore di Dio, che trasforma l'uomo. La sintesi che riunisce tutto, si produce per via di superamento. Cristo, rischiara tutto, decifra tutto, ma come mistero d'amore. Lla traccia vuota dell'amore perduto non permette all'uomo di misurare, soltanto attraverso essa, la distanza reale che lo separa dalla sua vera natura. Il rapporto tra i due stati si manifesta solo al momento in cui il legame di Dio e dell'uomo, nell'unione ipostatica, del redentore e del peccatore, dell'eletto fatto reprobo, congloba i due stati e produce una mutazione di valori. Il movimento d'amore venuto da Dio non solo decifra l'uomo: crea l'uomo nuovo, con un nuovo statuto. Adamo diventa Gesù Cristo, ogni uomo diventa figlio di Dio in Gesù Cristo. Così Cristo, per Pascal, è il centro di tutto, la ragione e il senso di tutto, il tutto dell'uomo e di Dio. 1. Cristo è il centro di tutto. « Gesù Cristo esiste dall'inizio del mondo » ( B846 C768 ). « Gesù Cristo è l'oggetto di tutto e il centro a cui tutto tende. Chi lo conosce, conosce la ragione di tutte le cose … Il mondo sussiste soltanto per mezzo di Gesù Cristo e per Gesù Cristo … Senza Gesù Cristo il mondo non sussisterebbe perché o dovrebbe essere distrutto oppure dovrebbe diventare come un inferno », vale a dire senza salvatore e senza salvezza ( B556 C602 ). Cristo non dipende da nessuna figura, perché in lui « la figura è stata fatta sulla verità » ( B673 C572 ). Di conseguenza la verità dell'uomo è solo in lui. 2. Solo in Cristo, l'uomo conosce Dio. « Noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo. Senza questo mediatore, è impossibile ogni comunicazione con Dio; per mezzo di Gesù Cristo, noi conosciamo Dio. Tutti quelli che hanno preteso conoscere Dio e dimostrarlo senza Gesù Cristo, avevano delle prove inefficienti … Ma per mezzo di Gesù Cristo e in Gesù Cristo si prova Dio e si insegna la morale e la dottrina. Gesù Cristo è dunque il vero Dio degli uomini, e non ce ne sono altri » ( B547 C730 ). Non semplifichiamo troppo però il carattere di questa manifestazione e conoscenza di Dio, perché in Gesù Cristo Dio si rivela e si nasconde insieme ( B585 C598 ). Questa dialettica del revelatus-absconditus è necessaria in considerazione del peccato: « Se non ci fosse oscurità, l'uomo non avvertirebbe la sua corruzione; se non ci fosse la luce, l'uomo non spererebbe alcun rimedio. Per questo, è non solo giusto ma anche utile per noi che Dio sia in parte nascosto e in parte manifesto, poiché è ugualmente pericoloso per l'uomo conoscere Dio senza conoscere la propria miseria, e conoscere la propria miseria senza conoscere Dio » ( B586 C599 ). D'altra parte questa economia di luce e di oscurità crea nell'uomo un campo psicologico necessario perché l'incontro di Dio e dell'uomo. avvenga nella libertà del cuore, senza costrizione, e tuttavia non senza luce sufficiente. ( B564 C831 ). 3. In Gesù Cristo ci è rivelato il mistero della nostra condizione paradossale. Solo Cristo illumina i termini del paradosso, ed è il solo anche a svelarne l'infinito sia di grandezza che di miseria. Da una parte, infatti, « l'incarnazione mostra all'uomo la grandezza della sua miseria, mediante la grandeza del rimedio che è stato necessario » ( B526 C677 ); d'altra parte la croce svela la « grandezza dell'anima umana » ( Memoriale ) chiamata per misericordia a condividere la vita stessa di Dio. In Gesù Cristo il mistero stesso delle nostre contraddizioni si approfondisce: « Un Dio umiliato e fino alla morte di croce, un Messia trionfante della morte con la sua morte. Due nature in Gesù Cristo, due eventi, due stati della natura umana » ( B765 C601 ). L'uomo non scopre l'abisso del suo peccato che nell'abisso della sofferenza e dell'amore che è stato necessario per liberarlo; non percepisce la sua grandezza che nell'infinito della sua vocazione di peccatore graziato, riconciliato e unito a Dio ( B556 C602 ). Affermando insieme il peccato e la grazia, la religione cristiana evita l'orgoglio degli uni e la disperazione degli altri: « Essa insegna ai giusti - che eleva fino alla partecipazione stessa della divinità - che in tale stato sublime essi portano ancora in sé la sorgente di tutta la corruzione, la quale durante tutta la vita li rende soggetti all'errore, alla miseria, alla morte, al peccato; e grida ai più empi che essi sono ancora capaci di ricevere la grazia del loro Redentore » ( B435 C439 ). « Gesù Cristo è un Dio a cui ci si accosta senza orgoglio e sotto il quale ci si abbassa senza disperazione » ( B528 C678 ). L'essenziale del cristianesimo, che è anche l'essenziale della nostra condizione, è che « per mezzo di un uomo tutto è stato perduto e il legame interrotto tra Dio e noi è stato riparato per mezzo di un uomo » ( B489 C431 ). Nascondi Eco di San Paolo ai Romani ( Rm 5,12-18 ). Il cifrario della condizione umana è Cristo. 4. Non soltanto Cristo illumina la condizione umana nella sua globalità, ma svela l'uomo a se stesso, nel suo mistero personale. « Non soltanto conosciamo Dio unicamente per mezzo di Gesù Cristo, ma conosciamo noi stessi unicamente per mezzo di Gesù Cristo. Noi non conosciamo la vita, la morte se non per mezzo di Gesù Cristo. Fuori di Gesù Cristo, non sappiamo che cosa sia la nostra vita o la nostra morte, Dio e noi stessi » ( B548 C729 ). Cristo ha fatto capire agli uomini che erano egoisti, schiavi delle loro passioni, ciechi su Dio e il loro destino ( B545 C689 ). Ma appena si rivolgono a lui e si impegnano sulla via indicata da lui, quella della croce, i loro occhi si aprono e conoscono chi sono e a chi si affidano. Così Cristo è mediatore su due piani: sul piano oggettivo perché rivela all'uomo l'immagine del Dio vivente e l'immagine dell'uomo secondo Dio; sul piano soggettivo perché offre all'uomo che si apre a lui il punto d'appoggio sicuro della sua esistenza; gli conferisce l'atteggiamento d'amore filiale che lo salva. 5. Cristo ci insegna ad amare Dio e gli uomini alla maniera di Dio. Perché l'uomo secondo Dio è lui. Il suo stile di vita è lo stile di vita dell'uomo autentico. Pascal giunge fino a dire: « Le nostre preghiere e le nostre virtù sono abominevoli dinanzi a Dio se non sono le preghiere e le virtù di Gesù Cristo. E i nostri peccati non saranno mai oggetto della misericordia ma della giustizia di Dio, se non sono quelli di Gesù Cristo », vale a dire visti come assunti ed espiati da Gesù Cristo ( B668 C648 ). Allo stesso modo gli altri non si possono vedere nella loro verità, se non in Gesù Cristo. « Considerare Gesù Cristo in tutte le persone e in noi stessi: Gesù Cristo come padre nel proprio padre, Gesù Cristo come fratello nei propri fratelli. Gesù Cristo come povero nei poveri, Gesù Cristo come ricco nei ricchi. Gesù Cristo come dottore e sacerdote nei sacerdoti, Gesù Cristo come sovrano nei prìncipi, ecc. Perché egli è, per la sua gloria, tutto ciò che c'è di più grande, giacché è Dio, ed è per la sua vita mortale tutto ciò che c'è di misero e di abietto. Per questo, egli ha preso questa miserabile condizione, per poter essere in tutte le persone e per essere il modello di ogni condizione » ( B785 C731 ). Così la risposta al mistero dell'uomo, paradosso di miseria e di grandezza, non è nella ricerca di una pura simmetria, in cui la grandezza sarebbe il contrappeso della miseria, e nello stesso ordine, ma nel passaggio a un ordine superiore, cioè quello del disegno di Dio che adotta gli uomini in Gesù Cristo. È questa grazia, questa gratuità dell'amore di Dio che fa la grandezza dell'uomo; è il rifiuto dell'uomo che fa la sua miseria, la sua perdita, la sua morte, la sua disperazione ( B546 C690 ). Cristo è veramente la totalità del significato dell'uomo: decifra e salva. È luce e rimedio, verità e vita. L'uomo non si scopre e non si realizza ne nella figura del saggio, ne in quella dell'eroe, ma in Gesù Cristo crocifisso. In lui il peccato è assunto, ma espiato e superato dall'amore. L'immagine dell'uomo in Cristo non è ancora quella del paradiso; è la nostra col peccato, ma confessato, perdonato e sormontato attraverso la grazia. Capitolo secondo - XI XI. Le prove della religione Pascal non ha ancora stabilito il fatto storico della religione cristiana. Fin qui si è applicato a disporre il credente, a suscitare in lui il desiderio di trovare la verità in una religione che offrirebbe all'uomo luce e rimedio. L'uomo è sincero? Vuole veramente dare un senso alla sua vita, al mistero che è per se stesso? È pronto a pagarne il prezzo, fosse anche il prezzo di un cambiamento radicale di se stesso, di una conversione? Il tempo è venuto di scoprire le carte e di far conoscere le prove della religione. Questa struttura, semplicemente abbozzata in Pascal, costituisce il secondo tempo dell'Apologià. Essa è originale in questo senso: che non stabilisce prima, come nell'apologetica tradizionale, l'esistenza di Dio attraverso prove filosofiche, per dimostrare in seguito che questo Dio si è rivelato nella storia. Subito, mediante prove storiche, stabilisce l'esistenza di Dio rivelata in Gesù Cristo. Sostituisce, alla base metafisica dell'apologetica o teodicea, una base psicologica, cioè l'analisi della condizione umana. Senza dubbio, l'apologetica, soprattutto dopo Pascal, darà spazio a una specie di preparazione psicologica del non credente. Ma questo spazio resta secondario ed esteriore alla dimostrazione propriamente detta. In Pascal invece questa descrizione è articolata con le prove storiche, come la dimostrazione metafisica nell'apologetica classica. Essa appartiene alla dimostrazione stessa del cristianesimo. Per Pascal infatti non esiste altra spiegazione dell'uomo al di fuori di quella cristiana. È quando la verità cristiana getta la sua luce .sull'abisso dell'uomo, è quando risponde del suo decadimento e della sua grandezza, che il non credente ha maggiori possibilità di essere « tentato » dalla soluzione cristiana. Vi è continuità tra la descrizione della condizione umana e le prove storiche. L'una e le altre sono pezze d'appoggio. L'esposizione completa delle « prove » enumerate da Pascal non fa parte del nostro programma. Gli strumenti critici di cui dispone oggi l'esegesi ( filosofia, storia, archeologia, scienze del linguaggio, studio delle letterature e delle religioni ) non si trovano evidentemente nelle mani di Pascal. Eppure Pascal ha delle intuizioni feconde, malgrado i suoi limiti. Fra le prove del cristianesimo, i miracoli, le profezie e la santità, hanno ai suoi occhi un ruolo primario. 1. Pascal concepisce il miracolo alla maniera di S. Tommaso: è un effetto che sorpassa la forza naturale dei mezzi impiegati ( B804 C755 ). Il miracolo colpisce rispetto all'effetto che ci si aspetta. È segno di Dio, il suo linguaggio, la sua voce squillante. I miracoli sono necessari, perché la verità cristiana, essendo sconosciuta agli uomini, deve essere sostenuta dai miracoli ( B843 C754 ). Se Dio sconvolge così l'ordine del mondo, è per rivelare all'uomo, con un prodigio che supera l'ordine attuale, l'esistenza di un ordine superiore e di una vocazione soprannaturale. Il miracolo agisce su un doppio registro: sul piano dell'esperienza comune, fa eccezione; sul piano religioso, è una parola che Dio pronuncia per noi. Per portare i suoi frutti il miracolo evidentemente deve essere riconosciuto. Ora, Pascal è troppo religioso per credere che il solo prodigio possa strappare la convinzione. Sa, per mezzo della Sacra Scrittura, che l'attaccamento a sé, l'orgoglio, ostacolano il discernimento dell'azione di Dio. « Ciò che non fa credere ai veri miracoli è la mancanza di carità » ( B826 C760 ); si vede come si è. I miracoli hanno una funzione permanente: « sono serviti alla fondazione e serviranno alla continuazione della Chiesa, fino all'Anticristo » ( B853 C772 ). 2. Agli occhi di Pascal, tuttavia, le profezie hanno maggior forza dei miracoli per stabilire la verità del cristianesimo. « La prova più grande di Gesù Cristo è data dalle profezie. E queste sono anche quelle che Dio ha curato di più; perché l'avvenimento che le ha realizzate è un miracolo permanente dalla nascita della Chiesa fino alla fine » ( B706 C526 ). Pascal è attento ai movimenti che attraversano l'Antico Testamento e mirano a Gesù Cristo. Questo orientamento della storia verso la persona del Messia è l'argomento decisivo. Dio annuncia ciò che farà e lo compie: i testi rimangono « affinchè questa concordanza non fosse scambiata per un effetto del caso » ( B707 C527 ). « Compiute tutte le profezie, il Messia resta dimostrato per sempre » ( B616 C774 ). Le profezie sono il grande segno piantato da Dio stesso nello spazio illimitato della storia e del mondo. Le profezie, tuttavia, non sono soltanto annunci o predizioni: esse sono soprattutto figure. Hanno due significati: un primo significato letterale e materiale, che si riferisce alle realtà visibili ( istituzioni, guerre, conquiste ecc. ); e un secondo, spirituale, mistico ( B642 C541 ), accessibile solo a coloro che gustano Dio. È alla realizzazione di questo secondo significato che Dio si è impegnato: alla fin fine è l'ordine della carità che è preso di mira. Chiunque si attiene alle realtà materiali, rimane un ebreo carnale e un cristiano carnale. Pascal si interessa prima di tutto al compimento spirituale delle profezie. Ora a questo livello noi possiamo sempre aspettare beni più veri e più autentici di quelli che ci sono promessi. Perciò Pascal vede dovunque Cristo presente fin dall'inizio. L'Antico Testamento è un cifrario di cui il Nuovo è la chiave. Una volta posto il Nuovo Testamento e accertato Cristo, la storia si illumina dall'alto. Pascal ha saputo vedere le profezie nel loro insieme, sottolineando giustamente, a volte eccessivamente, la superiorità del senso spirituale. 3. Ancora più che i miracoli e le profezie, la vera prova della verità cristiana è la carità di Cristo. La croce, in modo particolare, è la chiave che apre tutto, che rivela il cuore di Dio e il cuore dell'uomo. La santità di Cristo, che è quella di Dio, supera tutto, basta a tutto. Gesù merita la fede del non credente, meno per i suoi miracoli e più per le sue profezie, che perché sanguina per noi: « Ho pensato a te nella mia agonia, ho versato per te alcune gocce di sangue ( B 553 C736 ). Questo è il segno supremo. « Gesù Cristo senza beni e senza alcuna esteriore manifestazione di scienza, sta nel suo ordine di santità … Non ha regnato, ma è stato umile, senza peccato alcuno » ( B793 C823 ) É venuto nel suo ordine, che è quello della carità. E quest'ordine il Cristo lo riempie interamente. La grande prova del cristianesimo è l'Amore crocifisso. Capitolo secondo - XII XII. Un'antropologia teologica Riassumiamo la struttura dell''Apologià. L'uomo è incomprensibile: senza luogo nello spazio infinito, senza fine ne inizio databile nel tempo, paradosso interiore di miseria e di grandezza. È il nodo gordiano. Le filosofie vogliono districare questo imbroglio: non lo possono fare che voltando le spalle a un universo irrevocabilmente muto e negando lo smarrimento al quale l'uomo vi si trova abbandonato, in mancanza di proporzione con alcuna cosa. Pascal prende atto di questo fallimento per farne la prova della verità cristiana. Questa non ha la pretesa di equilibrare i contrari, ne di conciliare l'inconciliabile, ne di accerchiare l'inaccerchiabile, ma di prendere a carico le contrarietà dell'uomo, accentuandole invece di cancellarle, esasperandole anziché allentarle, elevandole per portarle fino al punto alto che permette di decifrarle. Questo incontro in cui il paradosso religioso assume il paradosso antropologico, costituisce per la religione cristiana la migliore verifica: « degna di venerazione perché ha conosciuto l'uomo; amabile perché promette di il vero bene» ( B187 C1 ). Alla ragione calcolatrice Pascal oppone il rischio totale, al quale è spinto colui che, qualsiasi cosa faccia, s'inabissa sempre nella consapevolezza della sua miseria, pur misurando la grandezza di questa miseria cosciente. Indicando il peccato originale come chiave d'interpretazione della condizione umana, il cristianesimo oppone mistero a mistero, risponde a uno scandalo con uno scandalo maggiore: ma questa follìa è più saggia di tutta la saggezza degli uomini. Per aver voluto costituirsi il centro del mondo, l'uomo ha rotto l'armonia: con Dio, con la creazione, con se stesso. È caduto in un vuoto infinito. Al mistero del peccato originale, capace di spiegare la nostra miseria, risponde quello della nostra redenzione che vi rimedia. Il cristianesimo offre significato e rimedio. Ad Adamo risponde Gesù Cristo. In Gesù Cristo la condizione umana trova un senso alle sue lacerazioni. I contrasti dell'uomo, in Gesù Cristo, diventano significativi. Grandezza e miseria misurano la levatura di un essere la cui elevazione tradisce l'incurabile pesantezza. L'elevazione è dovuta alla grazia, come l'abbassamento è dovuto al peccato. L'incomprensibilità dell'uomo sussiste, ma non è più la stessa quando il cristianesimo l'assume. Non basta tuttavia suscitare rispetto per la religione, si deve stabilirne la plausibilità, la credibilità, perché Dio non vuole sollecitare la fede senza ragione. La sua autorità sarà fondata su solidi argomenti costituiti dal messaggio stesso, le profezie, i miracoli, la santità. Ecco quanto basta per convincere coloro che cercano sinceramente la verità e sono disposti ad accoglierla nell'umiltà del cuore docile alla grazia. Coloro che non ne sono conquistati, dovranno prendersela con la loro cocciutaggine, cioè con il loro poco interesse per le cose soprannaturali. L'apologetica di Pascal è quindi un'ermeneutica che si applica a decifrare l'enigma due volte cifrato dell'esistenza umana. L'opera risulta un'antropologia teologica in cui l'uomo è interpretato in Gesù Cristo. Quest'antropologia dipende sia da una critica filosofica degli errori e delle illusioni dell'esistenza umana, sia da una conversione religiosa. La descrizione della condizione umana, con la violenta emozione che produce e il desiderio che suscita di penetrare l'enigma dell'uomo, è come la piattaforma da cui prende slancio la dimostrazione storica. Ma l'uomo non potrebbe leggere correttamente le figure della storia ( profezie ), e le figure della natura ( miracoli ) senza una conversione che strappa l'uomo al suo egocentrismo per centrarlo su Gesù Cristo. Non c'è luce che attraverso il passaggio obbligato della croce. Non c'è senso per l'uomo e rimedio alla sua condizione che in Gesù Cristo. L'uomo non si realizza che vuotandosi di se stesso per vivere in Gesù Cristo. La dimostrazione di Pascal segue un ordine concentrico, in cui l'unificazione dei temi avviene meno tramite il coordinamento tra loro che tramite il loro collegamento a uno stesso centro: Gesù, Cristo, punto di convergenza del più alto significato. Capitolo secondo - XIII XIII. Cristocentrismo di Pascal Se l'attenzione di Pascal per l'uomo nella sua Apologià è così insistente, è che è sicura del suo procedimento. Materialmente è l'uomo che sta in primo piano. Nell'ordine delle intenzioni, tuttavia, è Cristo l'uomo nuovo che offre l'illuminazione dell'analisi. È ancora lui che ne permette la profondità, come colui che distingue la verità dalla figura. In definitiva, il filo conduttore dei Pensieri è il cristocentrismo di Pascal. A questo proposito esiste un'armonia profonda tra il Memoriale, il Mistero di Gesù, i tre Ordini e i Pensieri. Infatti non si possono scindere in Pascal il pensatore e l'uomo che prega. Il suo pensiero religioso nasce contemporaneamente dalla sua meditazione e dalla sua riflessione. Quando Pascal, alla fine della scommessa, dice all'incredulo: « Se questo discorso vi piace, -sappiate che esso proviene da un uomo che s'è messo in ginocchio prima e dopo » ( B233 C451 ), non fa che svelare il principio della sua vita. Nella notte del 23 novembre 1654, Pascal ha incontrato e trovato personalmente Gesù: ha capito che il Cristo della storia era il suo medico, il suo salvatore personale. I suoi occhi si aprirono e vide Gesù nella sua dolorosa missione di redentore e nella sua tenerezza di amico. Ha udito la sua voce e ha risposto. L'amore di Cristo lo ha invaso, gli ha rivelato il segreto delle cose: Gesù Cristo è tutto. Questa è l'essenza del cristianesimo. Il Mistero di Gesù prolunga l'esperienza del Memoriale. All'origine questo testo, come abbiamo già detto, non faceva parte dell'Apologia e non era destinato a farne parte. Introducendolo nella trama dei Pensieri, gli editori non sono però stati infedeli a Pascal, perché questo testo è come l'anima dei Pensieri ( B553 C736 ). I primi diciannove versetti iniziano col nome di Gesù, evocando così il racconto della passione fatto da Matteo. L'oggetto della meditazione di Pascal è il dramma interiore vissuto da Gesù nel Getsemani. Senza pensare a sé, Pascal non si stanca di guardare il Salvatore. Con rispetto e tenerezza partecipa alla sua sofferenza. Quando scrive: « Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo: non si deve dormire durante questo tempo », Pascal non pensa solo alla vigilanza che si impone ai discepoli, pensa soprattutto che sarebbe sconveniente, perfino indecente da parte loro, non compatire l'immensa sofferenza di Gesù: è ciò che lui stesso si impegna a fare col suo cuore ardente d'amante. Nei primi versetti la Passione è evocata con una rara forza di suggestione, da qualcuno che l'ha meditata fino a sperimentare come la visione di una presenza. Due pensieri si impongono a lui come un'ossessione: la spaventosa solitudine di Gesù, abbandonato dagli uomini, e, in apparenza, da Dio stesso; poi la sua bontà, che salva gli uomini malgrado loro e malgrado l'indifferenza dei suoi amici più vicini. È soltanto dopo aver contemplato a lungo Gesù, senza pensare a sé, che Pascal considera la sua miseria. Colui che sta davanti a Gesù è un malato, e soprattutto un peccatore che teme, come dice nel Memoriale, le sue ricadute e si inquieta dell'avvenire. Inizia qui il lungo dialogo tra Gesù e Pascal: dialogo che lascia intravedere le confidenze preliminari di Pascal a Gesù, i timori di illusione che sente, le certezze che Gesù gli da. Alla fine del colloquio, Pascal dice a Gesù: « Signore, vi do tutto ». Segno non equivoco dell'autenticità dell'incontro di Pascal col suo Dio nel volto sconvolgente di Cristo in agonia. Cristo stesso chiude il colloquio: « Ti amo più ardentemente di quanto tu abbia amato le tue sozzure ». Nella sua struttura essenziale il Mistero di Gesù è molto semplice: Pascal contempla Gesù e si sente invaso da lui. In un primo movimento si perde di vista per guardare a lungo Gesù in agonia. Poi, in un secondo tempo. Pascal, ritornando in sé, prova la commovente consolazione di essere a sua volta guardato da Gesù, di vedersi in un certo senso in Gesù, sempre avvolto nella sua miseria fisica e morale, ma nello stesso tempo avvolto dalla tenerezza e dalla misericordia del suo Salvatore che, avendo versato il suo sangue per lui, non mancherà di guarirlo e di salvarlo. « I medici non ti guariranno, perché alla fine morirai, ma sono io che guarisco e che rendo il corpo immortale ». La preghiera di Pascal segue il ritmo di ogni preghiera autentica: è sguardo su Dio, su Cristo, prima di essere sguardo su di sé. Tale è il movimento del Padre nostro. Prima di pensare a lui Pascal pensa a Cristo, alla sua sofferenza, al suo amore per il Padre e per gli uomini che viene a salvare. Nei Pensieri, per lo meno in apparenza, Pascal non parte da Gesù per ritornare poi all'uomo, come fa nel Memoriale e nel Mistero di Gesù. Posa a lungo invece il suo sguardo sull'uomo, per condurlo poi a Cristo. In realtà, l'itinerario di Pascal nell'Apologià, è molto più vicino di quanto sembra, a quello degli altri due testi. Infatti Pascal non è un moralista o un analista che si compiacerebbe nella descrizione dell'uomo e delle sue contraddizioni interiori: ciò che vuole innanzitutto è condurre gli uomini a Cristo. Pascal, come Agostino, è un « convertito », e la sua Apologià è un progetto di convertito. Nell'esperienza del Memoriale, Cristo gli è apparso, con una chiarezza accecante, come il centro della storia umana e de sua storia personale. D'allora in poi, come potrà fare strazione un solo istante da Cristo, nella sua esplorazione della miseria e della grandezza dell'uomo? Nel Memoriale Pascal ha prima scritto: « Dio di Gesù Cristo », « Grandezza dell'anima umana ». In Pascal, come in Agostino e Paolo, la profondità della caduta dell'uomo gli è apparsa che alla luce della nuova vita a cui è chiamato. È nella luce di Cristo che Pascal ha scrutato miseria e la grandezza dell'uomo, ed è ciò che conferii alla sua analisi un'acuità che ci stupisce. Pascal guai l'uomo, ma attraverso l'uomo nuovo. In realtà, è il misero di Cristo che permette a Pascal di penetrare gli abitare della miseria e della grandezza dell'uomo. Senza l'agonia della Croce, non avremmo mai immaginato la profondità questi abissi. Questa visione cristocentrica trova la sua ultima espressione nel frammento dei tre Ordini, così succinto nei Pesieri che lascia appena intravedere l'intensità dell'esperieza che traduce. Questo testo è un inno alla gloria di Cristo centro e vertice di tutte le cose, terrestri e celesti. Si deve accostare all'inno della lettera ai Filippesi: colui che si umiliato fino alla morte di croce, possiede un Nome che è al di sopra di ogni nome. La sua umiliazione è grandezza della carità, della santità. Dio è Amore. Tutto questo nella sintesi della croce. Il riassunto dei Pensieri di Pascal, è Gesù Cristo. E, in Gesù Cristo, l'essenziale la croce e l'amore che rivela. Capitolo secondo - Nota biografica BÉGUINA., Pascal par lui méme, Paris, 1952. BALTHASAR H. U. von, La gioire et la croix. Les aspects estétiques la révélatlon, t. II: Styles, Paris, 1972. BLANCHET A., « La Nuit de feu de Pascal », Études (nov. 1954); 145-166; In., «Une lecture nouvelle du Mémorial», Eludei (1970), pp. 74-84. BOUTROUX E., Pascal, Paris, 1900. BROOME I.H., Pascal, London, 1965. BRUNSCHVICG L,, Blaise Pascal, Paris, 1953. BURKLIN H., Em Goti ftir menschen. Entwurf einer christoientrischen Antbropologie nach Bl. Pascal, Freiburg-Basel-Wien, 1976. CHEVALIER J., Pascal, Paris, 1922. COURCELLE P., L'entretien de Pascal avec M. de Sacy, Paris, 1960. D'ÀNGERS J.-E., Pascal et ses precwseurs, Paris, 1954. 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Capitolo terzo TEILHARD DE CHARDIN: Al centro universale Di convergenza La dialettica di Pascal sulla condizione umana considerata come avventura individuale, rischia di non incidere più sulle mentalità contemporanee, per lo meno su quelle che sono impregnate dalla scienza e dall'entusiasmo che essa suscita; come anche su quelle nelle quali si desta il senso della condizione umana come avventura collettiva. È qui che Teilhard dà il cambio a Pascal, che il fenomeno umano si presenta come il continuatore dei Pensieri. Come Pascal, Teilhard ha sentito fin dall'infanzia, il bisogno della solidità, della consistenza ( rappresentata da un pezzo di metallo, di ferro in particolare ), il bisogno anche di una Pienezza, di un Assoluto. « Per lontano che io risalga nella mia infanzia, dice, nulla mi sembra più caratteristico ne più familiare, nel mio comportamento interiore, del gusto o bisogno irresistibile di un Unico Sufficiente e Unico Necessario ». Come Pascal, Teilhard sente un bisogno incoercibile di universalizzare. Si interessa all'uomo, ma all'uomo come fenomeno e nella sua totalità; all'uomo ma inserito nell'universo e nella collettività umana, trascinato attraverso la durata infinita dei secoli, nel turbine dell'evoluzione. Si interessa al mondo, nella sua integralità, includendo il naturale, il religioso, il cristiano, il soprannaturale. La sua visione del mondo è unitaria, e questa unità è centrata su Cristo. Teiihard è l'uomo della sintesi totale. Secondo lui c'è Dio nell'universo; c'è l'universo in Dio; e c'è l'Uomo-Dio, Cristo, nell'universo che egli assume e ricapitola. Rivivendo a sessant'anni di distanza la sua infanzia, Teilhard vi scopre un duplice senso innato: un senso cosmico e un senso eristica. Questi due sensi sono cresciuti in lui prima paralleli e in apparenza indipendenti, poi riuniti fino a coincidere in Cristo, centro unico di convergenza universale. « Il pezzo di ferro dei primi giorni è da tempo dimenticato, ma al suo posto, sotto forma di Punto Omega, c'è la consistenza dell'universo, che tengo ora raccolta … in un solo Centro indistruttibile, che posso amare ». Teilhard ha finalmente trovato « un Dio in cui si raggiungono … Cristo e l'Evoluzione, il Personale e l'Universale, l'In-Alto e l'In-Avanti ». Cristo, centro unico di una convergenza universale, motore dell'energia unitiva di un mondo in evoluzione, garanzia trascendente dell'in-avanti dell'evoluzione, dinamismo unificante e armorizzante dell'universo: è questo carattere sintetico e dinamico della visione di Teilhard che abbiamo voluto esprimere col titolo di questo capitolo. Capitolo terzo - I I. Tratti dell'opera di Teilhard Per il fatto stesso del carattere sintetico della sua visione, Teilhard non è facile da capire e ancora più difficile da giudicare. E questo per diversi motivi. Prima di tutto a causa della dimensione della sua opera. La sua produzione letteraria, che si estende dal 1913 al 1955, data della sua morte, totalizza 32.000 pagine, raggruppate sotto circa 375 titoli, di cui 125 di carattere scientifico.6 In questa enorme massa, pochi libri propriainente detti ( Il fenomeno umano, Il gruppo zoologico umano, L'ambiente divino ), ma soprattutto note, pro-memoria, opuscoli, saggi ( spesso di poche pagine ). Un'autorità subito inquieta e repressiva, incomprensioni all'interno stesso del suo Ordine, hanno impedito a Teilhard di sottoporre i suoi scritti alla critica pubblica e così di correggersi e di precisarsi, prima di proporre una veduta d'insieme del suo pensiero. D'altra parte, le tenaci resistenze incontrate di fronte a ogni progetto di pubblicazione hanno senza dubbio reso impossibile per Teilhard una censura e una condanna durante la sua vita, ciò che avrebbe compromesso per sempre la sua influenza. Il caso di Teilhard si deve situare in questo più vasto contesto della Chiesa, contesto che ha condizionato il lavoro e lo statuto del ricercatore durante tutta l'epoca che ha seguito il modernismo fino al Vaticano II. Pascal ci ha lasciato i suoi Pensieri sotto forma di fascicoli sommariamente classificati. Teilhard ci ha lasciato una massa di scritti occasionali, di saggi, che riprendono e sviluppano vedute spesso già presenti fin dai primi scritti, ma maturate, decantate, arricchite mediante il lavoro scientifico. Il termine che qualifica meglio i suoi scritti è quello di saggi, dove gli stessi temi sono ripresi, ma arricchiti, orchestrati, elaborati in una sintesi sempre più coerente. « Si potrebbe quasi dire, fa notare Tresmontant, che Teilhard non ha scritto duecento saggi, ma che ha ricominciato duecento volte lo stesso saggio, fino al suo ultimo giorno di vita ». Come Pascal, Teilhard procede mediante « digressioni convergenti ». Moltiplica gli approcci e li illumina. Moltiplica anche i saggi di sintesi, ma ognuno amplifica e precisa il precedente. Per capire l'opera di Teilhard occorre partecipare alla sua « germinazione »; si devono leggere non uno, ma tutti i suoi saggi, perché così si può sempre opporre un testo all'altro. Si deve consentire a seguirlo nei suoi itinerari lenti e sinuosi; occorre rispettare il carattere brancolante e incompiuto del suo pensiero. Di Teilhard, come di ogni autore, ma molto più nel suo caso, si deve dire: per capirlo è necessario dargli fiducia, entrare nelle sue prospettive. Occorre accettare il suo linguaggio, col suo vacabolario esuberante, i suoi superlativi invadenti, i suoi neologismi che pullulano, il suo gusto dell'originalità, del brio, in una parola la disinvoltura. Più di Pascal, Teilhard non è classificabile. In realtà è un « veggente », un profeta che vedeva più di quanto non potesse esprimere. Fin dal 1916, ne La vita cosmica, scrive: « Non tento di fare, direttamente, ne scienza, ne filosofia, e meno ancora apologetica. Anzittutto espongo vedute ardenti ». Il suo sguardo non è soltanto quello di uno scienziato, ma di un poeta, di un mistico, cioè uno sguardo carico d'amore, animato dal desiderio di fare comunione con l'essere intimo delle cose. Teilhard è un veggente che ha l'ardore del neofita. La sua visione del mondo è nello stesso tempo un appello alla condivisione: « il richiamo del viaggiatore, che, dopo aver lasciato la strada, si viene a trovare per caso in un punto panoramico dal quale tutto si illumina, e che grida ai suoi compagni: Venite e vedete! ». Teilhard ha conosciuto la solitudine e l'incomprensione. Uomo della sintesi si è sentito estraneo fra i credenti come fra i non credenti. Ha urtato nelle resistenze degli ambienti scientifici che non vogliono impegnarsi in una religione che rifiuta il progresso; e anche in quelle di certi ambienti teologici che non vedono o non consentono lo sforzo necessario per entrare in un universo di pensiero loro estraneo. Questa sintesi che porta in lui come la sua stessa vita, Teilhard l'esprime come scienziato, filosofo, sociologo, teologo, mistico, profeta e artista. Sfugge agli scompartimenti e alle categorie tradizionali. Il dramma della sua vita è che fu giudicato dopo essere stato confinato, suo malgrado, a tale o tal'altro settore: scientifico, filosofico, teologico. Ma Teilhàrd non è uomo da indietreggiare e ancor meno lasciare la Chiesa o il suo Ordine per meglio diffondere il suo messaggio. Un tale atteggiamento sarebbe contrario a una convinzione incrollabile in lui, cioè che la salvezza dell'evoluzione passa attraverso Cristo e l'asse della Chiesa: « Mi è del tutto impossibile separarmi dalla Chiesa' che è, biologicamente, il phylum del Cristo. Tutto quello che posso fare è di lavorare dall'interno ». Una rottura con la Chiesa « sarebbe un suicidio »: « Sono deciso ad andare avanti con un ottimismo sfrontato. Se c'è un Dio, come io credo, farà servire gli ostacoli al mio cammino; e mi sentirò più capace che mai di far risplendere la luce che si sarà voluto spegnere … In fondo, dò che desidero tanto propagate, non è precisamente una teoria, un sistema, una Weltanschauung, ma un certo gusto, una certa percezione della bellezza, del patetico, dell'unità dell'essere … ». « Coloro che non sentono l'armonia fondamentale dell'universo, che cerco di trascrivere … e che cercano nei miei scritti non so quale sistema strettamente logico, sono sconcertati e infuriati. In fondo non è possibile trasmettere direttamente con le parole la percezione di una qualità, di un gusto. Ancora una volta, sarebbe meglio per il mio scopo che io fossi un'ombra di Wagner piuttosto che di Darwin. Prendendomi come sono, io non vedo niente di meglio da fare che ostinarmi, con tutti i mezzi, a rivelare agli uomini l'Umanità ». Se l'opera di Teilhàrd assomiglia a un immenso cantiere, è tuttavia possibile orientarvisi ( più che in Pascal ), a partire da un certo numero di testi chiave, di brevi sintesi che Teilhàrd stesso ha composto e che illuminano il nodo centrale del suo pensiero. Noi pensiamo per esempio, a: Il mio Universo ( 1924 ), Come io credo ( 1934 ), Abbozzo di una dialettica dello Spirito ( 1946 ), Come io vedo ( 1948 ), Il Cuore della materia ( 1950 ), Il Cristico ( 1955 ). In questi saggi, Teilhàrd, che da un grande valore all'evoluzione del suo pensiero, ci fa vedere il suo cammino interiore e fa in qualche modo il punto sulle sue posizioni. In questi testi Teilhard ha indicato i temi che permettono di raggruppare i suoi scritti. A parte qualche variante, questi temi sono quelli che propone in un lettera del 2 settembre 1947 a Mons. De Solages. Teilhard distingue nella sua opera: 1. Una fisica, cioè una fenomenologia: uno studio del fenomeno umano, con le sue leggi di complessificazione e di coscienza. 2. Una dialettica, che egli chiama anche una apologetica, cioè il passaggio del fenomeno umano al punto Omega. 3. Una metafisica o dogmatica, che tratta la creazione, l'incarnazione, la redenzione, il male. 4. Una mistica o morale della carità. L'opera dello scienziato sfocia in una interpretazione filosofica ( dalla fisica alla dialettica ), mentre il credente vede che la sua fede ( metafisica e mistica ) e il movimento dell'evoluzione sono in perfetta coerenza. Non occorre dire che, fra i temi che ispirano l'opera di Teilhard, noi ci occuperemo dei primi due, vale a dire della fisica e della dialettica o apologetica. Capitolo terzo - II II. L'intuizione fondamentale di Teilhard Secondo Bergson, all'origine di ogni opera, di ogni pensiero, vi è un'intuizione centrale, che è qualcosa di semplice, d'infinitamente semplice, che il linguaggio non può dettagliare, ma che è il fermento dell'opera intera. È il caso di Teilhard che scrive nel 1918: « L'insieme di tutte le mie idee e di tutti i miei gusti, sviluppati in tante pagine, mi appaiono sempre più come un punto o un atteggiamento estremamente semplici e ricchi: si riducono a un nulla, in un certo modo, e questo nulla mi da in ogni cosa soluzione e consolazione ». Questa intuizione, in Teilhard, si riferisce al senso del dramma contemporaneo: Teilhard ha la certezza che il cristianesimo e l'uomo moderno, la fede e la scienza, attualmente dissociate, sono indispensabili l'una all'altra e complementaril? Profondamente inserito nel mondo moderno col suo impegno scientifico, Teilhard ne ha sentito le aspirazioni come pure gli smarrimenti. Da una parte, infatti, importanti scoperte ( pensiamo a Galileo, Darwin, Freud ) hanno sconvolto la coscienza moderna. Prima l'uomo ignorava le dimensioni indefinite dello spazio e della durata; viveva in un mondo statico, senza evoluzione, rassicurante. Inoltre, la speranza del cielo offriva un esito felice alle miserie, alle sofferenze, alle ineguaglianze di quaggiù. Ora ecco che questo paesaggio da paradiso terrestre è stato turbato. Tra Dio e l'uomo si intercala ormai un terzo personaggio: il mondo, non soltanto come realtà fisica, ma come realtà da costruire, capace di mobilitare e di dinamizzare l'energia dei popoli ( pensiamo al marxismo ). Il cosmo statico si è rivelato un cosmo mutevole. Vi è ormai un passato e un avvenire, una genesi e una crescita del mondo, un abisso nel passato in cui tutto afionda all'indietro in una durata indefinita, e un abisso futuro, ugualmente indefinito, verso cui tutto si slancia. « Il mondo moderno … è nato, corpo e anima, fin dalla scoperta del tempo organico dell'evoluzione ». Per conseguenza l'uomo si è destato alla coscienza delle sue responsabilità nuove. Un tempo, dice Teilhard, noi guardavamo come spettatori inattivi e irresponsabili, un grande scenario terrestre posto intorno a noi, come bambini. Oggi, diventati adulti, abbiamo capito che siamo degli operai, votati a una immensa fatica. Gli uomini hanno scoperto che esistono, non soltanto degli affari degli uomini, ma un affare umano universale, cioè la costruzione del mondo. Il mondo è un avvenire che tocca a noi costruire. Questa visione evolutiva del mondo ha rivoluzionato il senso della vita e dello sforzo umano. A questo proposito niente è più suggestivo dell'allegoria della nave, in cui Teilhard esprime in un linguaggio ricco di immagini, ermetico per le menti geometriche, questa nuova concezione del mondo: « La scoperta del Tempo … Da qualsiasi parte si prenda in questo momento il problema umano, è inevitabile che si manifesti l'influenza di una rivoluzione mentale che, senza che ce ne accorgiamo, ci fa radicalmente diversi, a meno di duecento anni di distanza, dalle generazioni che ci hanno preceduto … Allo stesso momento è un mondo di nuove possibilità che si apre, non soltanto alle costruzione speculative della nostra ragione, ma ancor più, notiamolo bene, agli sviluppi dell'Energia umana. Fin qui, si potrebbe dire, gli uomini vivevano sia dispersi che rinchiusi su se stessi, come dei passeggeri casualmente riuniti nella stiva di una nave, di cui non immaginano ne la natura mobile ne il movimento. Sulla Terra che li raggruppava, non trovavano niente di meglio da fare che di litigare fra loro o di distrarsi. Ora ecco che, per fortuna, o meglio per un effetto normale dell'età, i nostri occhi si aprono. I più coraggiosi tra noi salgono sul ponte. Hanno visto il vascello che ci portava. Hanno notato la schiuma al filo della prua. Si sono detti che c'era una caldaia da alimentare e anche un timone da tenere. E soprattutto hanno visto passare le nuvole, hanno sentito il profumo delle isole, oltre il cerchio dell'orizzonte: non più l'agitazione umana sul posto, non la deriva, ma il Viaggio … È inevitabile che un'altra Umanità esca da quella visione … ». Così il mondo presente è segnato dalla scoperta dell'immensità dello spazio e del tempo, del mondo evolutivo. L'umanità, in questo mondo diventato ad un tratto troppo grande e troppo organico, ha momentaneamente perso di vista il Dio tradizionale: il mondo con la sua immensità blocca la vita di Dio. Il Dio-mondo, il Dio delle attese terrestri, della tecnica, del progresso, dell'avvenire, si è sostituito al Dio antico, almeno per un certo tempo. Questa mutazione dell'uomo provocata dalla scoperta di un mondo in evoluzione, non è avvenuta senza crisi ne lacerazioni. Più ancora che Pascal non potesse immaginarlo, l'uomo si sente sperduto e privo di senso nell'immensità spaziale e temporale che gli rivela la fisica matematica, trascinato verso un avvenire misterioso da un torrente di energia: « È una cosa terribile essere nato, cioè trovarsi irrevocabilmente trascinato, senza averlo voluto, in un torrente di energia formidabile che sembra voler distruggere tutto ciò che trascina con sé » L'uomo si sente ugualmente sperduto in una umanità smisuratamente ingrandita. L'umanità è un « organismo gigante e corrosivo, dal quale ci si sente aspirati, assorbiti e come digeriti vivi … L'universo di cui tutte le influenze umane, operando insieme, sembrano mutarsi in una sola grande potenza di disumanizzazione ». Ancor più, l'uomo moderno comincia a intravedere la possibilità di una scomparsa collettiva, di una morte della specie umana: « Incontestabilmente, l'Uomo del XX secolo, malgrado tutte le sue scoperte e le sue invenzioni, è un essere triste. Perché questa ansietà, se non forse, in fondo, perché, succedendo alla visione esaltante della specie che cresce, un'altra evidenza scientifica sta salendo al nostro orizzonte: quella della specie che si spegne? … L'uomo si accorge ora che i germi della scomparsa sono in fondo a se stesso. Inseparabilmente mischiata alla nostra carne e al nostro sangue, la fine della Specie ». Tutti questi fattori ( senza contare i conflitti tragici che lacerano l'umanità ) hanno provocato nell'uomo del progresso un timor panico. « Tramite un contrasto tanto drammatico quanto psicologicamente inevitabile, l'uomo individuo … non ha mai avuto l'impressione più viva e più ragionata di non avere più la terra sotto i piedi in vero Dio che non includesse i valori dell'uomo e dell'universo, la speranza di un successo dell'avventura umana. Questo Mondo, al momento preciso in cui credeva in fondo a sé di avere definitivamente emerso ». Così, in mezzo ai suoi trionfi, l'uomo moderno sente l'impotenza, in cui si trova, di utilizzare, per il compimento dell'uomo, i valori stessi che pretende di padroneggiare e monopolizzare. Infatti, l'umanità senza Dio non ha nessuna valida ragione di promettersi un avvenire senza fine. Il grande progetto dell'uomo sul mondo non può vivere senza la presenza e lo stimolo permanente di un Assoluto vivente, senza la speranza di uno sbocco trascendente che consacra e ricupera definitivamente il suo sforzo. « La grande Paura … che pesa sul Mondo in questo momento, osserva Teilhard, non è forse cosmica, più che politica, vale a dire dovuta all'oscuramento di un cielo dedivinizzato, molto più che alla nube atomica? ». A questa esperienza umana attualizzata e coscientizzata, che vive l'uomo del progresso e dell'evoluzione, si aggiunge la crisi interiore permanente descritta da Pascal: contraddizione tra l'essere che si dissolve, e il bisogno d'assoluto, d'inalterabile, di definitivo; scandalo della morte. Perché costruire? « Più o meno coscientemente … noi portiamo tutti in noi il triste sentimento della dispersione e del carattere insignificante delle nostre esistenze. Ogni nuovo giorno che inizia, gli stessi doveri ci assalgono, la cui monotonia ci disgusta, la cui pluralità ci esaurisce, e di cui l'apparente inutilità ci scoraggia. Dispersione, abitudine e soprattutto noia … Oh, se potessimo almeno sentire che facciamo qualcosa di grande! ». Sembra di sentire la voce di Pascal. Per Teilhard, la sola forza spirituale che possa assumere le aspirazioni dell'uomo moderno, che possa operare un « capovolgimento » della sua paura e convertirla in fiducia esistenziale, che possa rianimare l'uomo di oggi e salvare l'evoluzione, è il cristianesimo. Sfortunatamente un abisso separa il cristianesimo dall'umanità contemporanea. Il Dio rivelato sembra eclissato per il mondo. Invece di cercare la salvezza dall'alto, l'uomo la cerca in avanti. La sua adorazione va al Dio del progresso che valuta agli antipodi del Dio dei cristiani. Benché possieda la salvezza, il cristianesimo, o meglio i cristiani, hanno delle responsabilità in questo atteggiamento aggressivo dell'uomo moderno. Queste responsabilità Teilhard non ha mai smesso di denunciarle e di analizzarle: mancanza di apertura alle aspirazioni della coscienza universale, prevalenza dei concetti giuridici e moralizzanti, mancanza di reale simpatia nei confronti di coloro che lavorano alla costruzione del mondo, concetto statico dell'universo. E, di conseguenza, mancanza di fascino del cristianesimo. L'intuizione e la vocazione di Teilhard si collocano a questo punto preciso. Teilhard è da parte sua convinto che il cristianesimo rimane, nonostante tutto, la sola salvezza del mondo moderno, del progresso, dell'evoluzione: a condizione tuttavia di ritrovare mediante una riflessione nuova sul suo mistero, un adattamento del suo linguaggio, il suo potere di seduzione; a condizione di ringiovanirsi nel suo contatto col mondo e nella sua azione sul mondo; a condizione infine di cristificare i valori legittimi della coscienza moderna. Si tratta, quindi, per Teilhard, utilizzando il linguaggio e le forme del pensiero dei suoi contemporanei, di dimostrare che l'esistenza dell'uomo e dell'universo in evoluzione, senza il riconoscimento di un Assoluto e di una incarnazione temporale di questo Assoluto, come la propone il cristianesimo, è un non-senso. L'umanità in evoluzione si trova situata tra il suicidio e l'adorazione. Si deve o no riconoscere un significato, un avvenire, uno sbocco, all'evoluzione? La vita è una via o un vicolo cieco? Come conservare nel cuore dell'umanità il gusto della ricerca e del progresso? È possibile guardare in faccia il Dio crocifisso, pur essendo appassionati dagli impegni umani? Si possono amare nel contempo il mondo e Dio? Lavorare al regno della terra, senza rinunciare al regno di Dio? Scienziato, cristiano e sacerdote, Teilhard si è scoperto una vocazione. Appassionato del mondo e di Dio, si è sentito chiamato a ristabilire un legame tra il mondo della scienza del suo tempo e il cristianesimo, tra gli adoratori di Cristo e gli adoratori del mondo, tra la passione della terra da costruire e la passione del cielo da guadagnare. Questa duplice vocazione di figlio della terra e di figlio del cielo, recepita come sua, col messaggio che implica agli uomini del suo secolo, è l'anima di tutta la sua opera. Semplice come una intuizione, ma dinamica come una vocazione. Preciseremo nel paragrafo seguente come questa prima intuizione ha preso forma e si è sviluppata in un progetto apologetico sempre più consistente. Capitolo terzo - III III. Disegno apologetico Se cerchiamo di guardare più da vicino l'opera di Teilhard per definirne la natura, dobbiamo dire che è un'apologetica, cioè la riflessione di un uomo di scienza sulla sua fede, allo scopo di vedere se e come scienza e fede possono armonizzarsi. Non soltanto un grande numero dei suoi scritti hanno direttamente o indirettamente questo carattere apologetico, ma Teilhard stesso propone la sua opera come una « apologetica ». Nell'Abbozzo di una dialettica dello spirito, presenta persino i « tempi successivi » della sua « apologetica », o se si preferisce, della sua « dialettica ». Il suo primo obiettivo è di rovesciare la barriera che, da quattro secoli, non ha cessato di crescere tra scienza e rivelazione, tra Chiesa e scienza. In un mondo dominato dalla scienza, Teilhard si applica a riconciliare visione religiosa e visione scientifica dell'universo. A questo proposito scrive Mons. de Solages, egli « si mostra come il più grande apologista del cristianesimo, da Pascal in poi ». Cuénot afferma ancor più: « Teilhard è tra i più grandi apologisti della religione cristiana … Ha elaborato una apologià del cristianesimo la cui potenza dimostrativa è paragonabile e forse superiore al pensiero di Pascal, di Newman, di Maurice Blondel ». Il cristianesimo, all'inizio del XX secolo, cioè all'epoca del modernismo, si trova di fronte un mondo nato al di fuori di lui: un mondo formato e influenzato dalla scoperta dello spazio immenso, dalla scoperta soprattutto della durata, che porta con sé l'idea di un progresso indefinito. A prima vista, questa religione del progresso e dell'evoluzione non si armonizza col cristianesimo. Adoratori della terra e adoratori del Dio del Vangelo sono in conflitto. « Per nascita, l'universalismo e il futurismo del Mondo moderno sono a tendenza panteista, immanente, organicista, evolutiva … mentre quelli del Cristianesimo sono soprattutto espressi in termini di personalità, di trascendenza, di rapporto giuridico e di fissità … Una Religione della Terra sta formandosi contro la Religione del Cielo ». Agli occhi dei non credenti il cristianesimo sembra coagulato, chiuso su se stesso. L'uomo moderno ha l'impressione che la Chiesa volti le spalle al progresso, allo sforzo dell'uomo per costruire l'universo. Teilhard condivide questa convinzione: il cristianesimo perde velocità, segna il passo. La Chiesa non accoglie le aspirazioni profonde dell'uomo moderno. Con le sue resistenze a seguire l'umanità sulle vie del progresso, ha lasciato che si creasse una spaccatura inguaribile tra essa e la scienza. Il non credente ha l'impressione che, per diventare cristiano, deve « diminuirsi ». Nascondi Evidentemente dopo il Vaticano II e la Gaudium et spes, molte delle lamentele di Teilhard non hanno più ragione di essere; per lo meno sul piano delle dichiarazioni. Ma Teilhard scrive agli inizi del secolo. Uomo di scienza e credente, Teilhard si sente « visceralmente » cittadino delle due città nemiche. Ora è convinto che esiste, nonostante tutto, un punto di congiunzione e di riconciliazione tra questi due mondi in apparenza irriconciliabili e che parlano un linguaggio estraneo. È ugualmente convinto che la sua vocazione propria, è di dire agli uomini del suo tempo la parola che attendono, in particolare di dire ai teologi come dovrebbero esprimersi per essere presi sul serio dagli uomini di scienza. Ma perché avvenga questa congiunzione, è necessario che da ambo le parti si faccia un passo per avvicinarsi. Teilhard infatti si trova di fronte a positivisti senza religione e a cristiani senza gusto della vita. Una certa maniera di vedere il mondo è chiusa ad alcuni credenti tanto quanto il mondo della fede può esserlo ai non credenti. Vi sono cristiani che non capiscono il senso dell'agire umano, dello sforzo umano, del progresso umano e, di conseguenza, si rifiutano di impegnarvisi. Perciò l'apologetica di Teilhard si rivolge sia ad intra che ad extra. In una lettera del 22 agosto 1925 a Auguste Valensin, scrive: « Raccolgo poco a poco gli elementi di una Divinizzazione della Terra che seguirà ( ad usum christianorum ) a l'Ominizzazione … » scritta, questa, ad usum Gentilium. L'insieme farà, insomma, la mia Apologetica, un'Apologetica a base evoluzionista, ma che mi sembra veramente e adeguatamente cristiana. L'impresa di Teilhard si rivolge quindi sia ai cristiani che ai non cristiani. Un uguale sforzo di comprensione è richiesto ai credenti come agli uomini di scienza. Per gli uomini di scienza, l'evoluzione è un fatto e una certezza. A questo mondo occorre quindi proporre un deciframento accettabile del testo della natura. L'approccio di Teilhard sarà risolutamente una visione scientifica del mondo concepito come evolutivo. Al punto di partenza, pone dei princìpi generalmente riconosciuti dagli scienziati: origine dell'universo a partire da un atomo primitivo che esplode e si diffonde ( teoria dell'abate Lemaìtre ), granulazione della materia, teoria atomica, strutturazione progressiva degli esseri in livelli fisici discontinui, cerebralizzazione delle vertebre come preparazione all'ominizzazione, socializzazione umana, ecc. La sua spiegazione dell'universo e del fenomeno umano deve convincere gli intelletti, perché è coerente e rende conto dei fatti. Teilhard vuoi condurre gli uomini di scienza a riconoscere che l'unità convergente dell'evoluzione non ha senso, se non ammette, non soltanto l'in-avanti del progresso, ma anche l'in-alto che la dirige efficacemente fin dall'inizio. Teilhard introduce così l'idea di trascendenza, come pure l'idea di finalità, che gli scienziati gli rimprovereranno. Inoltre, pensa Teilhard, senza la fede in un senso e in uno sbocco della vita, l'uomo non può continuare a vivere e ad agire. Teilhard prepara così la strada per l'accettazione del Cristo, solo capace di garantire l'avvenire dell'uomo. Solo il cristianesimo è capace di dare un senso totale all'universo in via d'evoluzione. Teiihard vuole giungere a « cristificare » l'evoluzione. Il suo progetto in definitiva è di dimostrare all'uomo di scienza che l'evoluzione dell'universo trova in Dio e, finalmente nel cristianesimo, una coerenza che costituisce un criterio di verità. Teilhard, tuttavia, non vuole una conclusione « placcata » dall'esterno. Concepisce la rivelazione e la fede come una risposta inattesa e appagante a un misterioso appello venuto dalle profondità del cosmo e dell'uomo: e in questo si avvicina a Pascal e a Blondel. Lo sforzo di avvicinamento e di comprensione chiesto ai cristiani non è minore. Per riconquistare le posizioni perdute di fronte alla mentalità moderna, occorre più che una revisione: ci vuole una conversione totale. Non senza ragione il cristianesimo è stato accusato di lesa umanità, di antiumanesimo. Troppi cristiani hanno dato l'impressione che, per essere cristiani, ci si doveva opporre al progresso. La Chiesa « pur accettando verbalmente alcuni risultati e alcune prospettive del Progresso … sembra non credervi. A volte benedice. Ma le manca la voglia ». Per riconciliare scienza e cristianesimo, si deve ripensare il senso cristiano del lavoro, del progresso, della ricerca, dello sforzo umano. Perché il Dio salvatore è anche il Dio creatore. Cristo ha condannato il mondo superbo, vile, gaudente, ma non il mondo del lavoro e dello sforzo disinteressato. Questo mondo continua l'impulso del Creatore. Il cristiano deve capire che lavorare al progresso dell'universo, sotto tutte le sue forme, non è soltanto occasione di merito, ma innanzitutto una collaborazione alla creazione del mondo e all'edificazione del Cristo totale. Fin che i cristiani non proveranno le aspirazioni e le ansietà del mondo moderno, non potrà mai realizzarsi l'incontro del cielo e della terra. Il cristianesimo deve accettare « senza reticenze le nuove dimensioni ( spaziali, temporali, psicologiche ) del Mondo intorno a noi ». La Chiesa deve accettare con magnanimità il mondo del progresso e credervi veramente. « Immergersi per emergere e sollevare. Partecipare per sublimare. È la legge stessa dell'Incarnazione … Io penso che il Mondo moderno non si convertirà alle esperienze celesti del Cristianesimo se prima il Cristianesimo non si converte ( per divinizzarlo ) alle speranze della Terra ». Tutta la sua vita, Teilhard, credente e scienziato, ha lavorato per riconciliare il nostro mondo con Dio e con Cristo, invitando l'uomo contemporaneo, figlio della civiltà scientifica e tecnica a raggiungere Cristo nell'universo. Per lui senso cosmico e senso cristico, lungi dall'opporsi e dall'escludersi, sono destinati a incontrarsi e a esaltarsi. Teilhard cerca di raggiungere l'uomo del XX secolo sulla sua strada, nella sua fede nel progresso, per condurlo a credere, prima allo Spirito, poi a Dio, poi a Cristo. Sogna di riconciliare l'amore dell'uomo per il progresso col lavoro per il progresso del Regno di Dio. In una lettera del 26 maggio 1923 diceva già: « Io credo in un Assoluto che hic et nunc si manifesta a noi in nessun altro modo che attraverso Cristo … In ciò consiste tutta la mia Apologetica. Non ne concepisco altra ». All'uomo del XX secolo, appassionato per il progresso di un universo di cui ha scoperto la durata e lo spazio infiniti, propone la figura del Cristo cosmico, abisso di grandezza in tutte le direzioni, che abbraccia l'universo, l'uomo e il suo progresso. Nel 1943 scrive: « Per Super-Cristo, io non voglio assolutamente dire un altro Cristo, un secondo Cristo diverso dal primo, e più grande di lui; ma intendo dire lo stesso Cristo, il Cristo di sempre, che si rivela a noi sotto una figura e delle dimensioni ingrandite ». Capitolo terzo - IV IV. Alla ricerca di una coerenza dinamica Così Teilhard, credente e scienziato, cerca di realizzare l'incontro e la sintesi di Dio e del mondo. Per temperamento e per i suoi studi professionali, si sente particolarmente adatto a realizzare questa sintesi. Invece di un'antinomia, vuole manifestare un'armonia tra la fede cristiana e l'universo della scienza moderna. Questo luogo d'incontro, lo trova nel fenomeno fisico dell'evoluzione, caratterizzato da un cammino in avanti dal complesso verso l'unità e nel fenomeno cristiano, che viene incontro all'evoluzione per assumerla, prolungarla e compierla mediante l'amorizzazione. L'evoluzione converge verso l'omega e finalmente verso Cristo, che polarizza, dirige, compie l'evoluzione. Teilhard vuoi trarre dall'accordo e dalla complementarità delle due visioni un « motivo di credibilità ». Se si vuole qualificare la sua apologetica o la sua dialettica in ciò che ha di più fondamentale, si può dire che si definisce come la ricerca di una « convergenza » e di un'« armonia », di una « coerenza dinamica » tra, da una parte la rappresentazione che la scienza ci fa dell'universo e, d'altra parte ciò che la rivelazione ci dice dei disegni di Dio sull'universo ricapitolato in Gesù Cristo. Più volte e in testi importanti, Teilhard è tornato su questa idea di « coerenza » e « armonia » tra l'evoluzione dell'universo che sale verso lo Spirito e, d'altra parte, il Cristo universale che l'assume e la completa. « L'armonia d'insieme [ dell'Universo ], dice, è spesso più convincente che il rigore locale di un sillogismo ». La verità, dice ancora, non è altra cosa che la coerenza totale dell'universo rispetto a ogni punto di se stesso. « Coerenza e fecondità: i due tocchi inimitabili e i due fascini irresistibili della verità ». La coerenza è tanto più forte in quanto si manifesta feconda, cioè propria a suggerire la scoperta di una coerenza più vasta ancora. È in questa prospettiva che Teilhard istituisce una critica comparata delle religioni: « Ai nostri occhi il criterio che decide in definitiva della verità di una Religione non potrebbe essere che la capacità manifestata da questa Religione di dare un senso totale all'Universo in via di scoperta attorno a noi. La vera Religione … si deve … riconoscere, non per lo splendore di qualche avvenimento insolito e particolare, ma a questo segno che, sotto la sua influenza e la sua luce, il Mondo riveste, nel suo insieme, un massimo di coerenza per la nostra intelligenza, e un massimo di interesse per il nostro gusto dell'azione ». Già nel 1921, Teilhard nota: « Ciò che è legittimo e incoraggiante, … è di constatare come i punti di vista cristiani vengono armoniosamente a rispondere a ciò che noi cerchiamo. La scienza, abbiamo visto … ci ha insegnato che ci dovrebbe essere, nella direzione dove le cose si complicano nell'unità, un Centro supremo di convergenza e di consistenza, in cui tutto si allaccia e mediante il quale tutto si regge. Godiamo ( il termine non è troppo forte ) osservando come Gesù Cristo, con la sua morale più fondamentale e i suoi attributi più sicuri, viene stupendamente a riempire questo posto vuoto segnato dall'attesa di tutta la natura … Cristo non è un accessorio aggiunto al mondo, un ornamento, un re come noi ne facciamo, un proprietario … Egli è l'alpha e l'omega, il principio e la fine, la pietra delle fondamenta e la chiave di volta, la Pienezza e il Pienificante. È colui che completa e che da a tutto la consistenza. Verso di lui e tramite lui, Vita e Luce interiore del mondo, si realizza, nel gemito e nello sforzo, l'universale convergenza dì tutto lo spirito creato. Egli è il Centro unico, prezioso e consistente, che scintilla al vertice futuro del mondo ». Nel 1924, nel mio universo, Teilhard spiega come, dopo venticinque anni di riflessione e di esperienze multiformi, e anche perché in qualità di prete e di scienziato si è trovato « posto a un incrocio privilegiato del mondo », ha trovato l'equilibrio della sua vita interiore « in una concezione fisicista e unitaria del Mondo e di Cristo ». E sottolinea: « Ciò che da al punto di vista che cercherò di definire la sua potenza di seduzione e il suo valore di pace, è la maniera duttile e agevole con cui, a partire da lui, gli innumerevoli elementi del mondo fisico, morale, sociale, religioso … si concatenano, si riordinano, si illuminano vicendevolmente, a perdita di vista, e nel loro profondo più intimo. Dimostrare questa coerenza ferma, naturale, totale, sarà tutta la mia Apologetica ». Non c'è che la verità che possa operare così senza sforzo la sintesi del reale. Nel 1934, in Come io credo, saggio sul suo modo di vedere e di capire la totalità del reale, Teilhard ripete che, per educazione, e per formazione intellettuale, appartiene ai « figli del Cielo » e ai « figli della Terra ». La sua visione del mondo immerge le sue radici nei due campi, considerati abitualmente come antagonisti. Ha lasciato questi due mondi e le loro influenze agire e reagire in piena libertà in fondo a se stesso. « Ora, al termine di questa operazione, dice, dopo trent'anni dedicati al perseguimento dell'unità interiore, ho l'impressione che una sintesi si è operata naturalmente tra queste due correnti che mi sollecitano ». E aggiunge, in una nota che chiude tutto il saggio: « Più ci penso e meno vedo un altro criterio per la verità oltre quello di stabilire un massimo crescente di coerenza universale. Un tale successo ha qualche cosa di obiettivo, che supera gli effetti del temperamento ». Nel 1936, nell''Abbozzo di un universo personale, riflettendo sull'armonia che intuisce tra la rappresentazione del mondo proposta dalla scienza e, d'altra parte, ciò che dice il cristianesimo a proposito del disegno di Dio in Gesù Cristo, osserva: « È nel segno di questa coincidenza che, mediante la porzione più critica e più positivista del mio essere, comincio a pensare che il fenomeno cristiano potrebbe ben essere ciò che pretende rappresentare … una Rivelazione ». Infine, nel 1940 ne il fenomeno umano, nota, a proposito della « coerenza » come indice di verità in materia d'evoluzione: « Tanta coerenza e, aggiungiamo, tanto agio, tanta fedeltà inesauribile e potenza evocatrice nella coerenza, non potrebbero essere l'effetto del caso » L'oggetto della ricerca paziente e ostinata di Teilhard è quindi di manifestare questo massimo di armonia, di coerenza, che intuisce tra i dati della scienza e i dati del cristianesimo: e ciò contrariamente agli insegnamenti ricevuti. Questo modo di procedere, senza dubbio, non basta a costituire un'apologetica integrale e sistematica, ma risponde al bisogno crescente dell'epoca. Questa apologetica non è quella del concordismo, ne del compromesso, ma della sintesi: essa si studia di dimostrare l'armonia possibile e necessaria che esiste tra una visione scientifica dell'universo e la visione cristiana della fede. A rigor di termini, si tratta più di « mostrare » che di « dimostrare ». La manifestazione tuttavia di questa coerenza dinamica tra le due visioni, dovrebbe esercitare sulle menti in cerca di verità più seduzione che una giustificazione puramente razionale e speculativa. Aggiungiamo che la manifestazione di questa armonia tra fede e scienza non esercita il suo potere di seduzione, Teilhard ne è convinto, che se si radica in una prassi. Ciò che occorre sono uomini più che liberi. La vita stessa deve diventare « contagiosa » della fede in Dio e nell'uomo; « È evidente che in un primo tempo il lavoro dell'apologeta moderno … deve essere uno sforzo di riflessione intellettuale, che stabilisca che le due Fedi in questione ( Fede in Dio e Fede nell'Uomo ), lungi dall'opporsi tra loro, rappresentano al contrario le due componenti essenziali di una mistica umano-cristiana completa. Non vi è fede cristiana realmente viva se non raggiunge e non solleva, nel suo movimento ascensionale, la totalità del dinamismo spirituale umano … E non vi è neppure fede nell'Uomo psicologicamente possibile se l'avvenire evolutivo del Mondo non raggiunge, nella trascendenza, qualche focolaio di personalizzazione irreversibile. Insomma, è impossibile di andare In-Alto senza muoversi In-Avanti, ne di progredire In-Avanti senza dirigersi verso l'In-Alto ». Notiamolo bene comunque, per brillante che sia questa dimostrazione dialettica della conciliabilità delle « due Fedi », è destinata a restare sterile fin che non si presenterà al Mondo come concretamente vissuta. Che teoricamente, in astratto, l'In-Alto e l'In-Avanti dell'Universo coincidano, va bene, ed è già molto. Ma perché la soluzione proposta sia veramente convincente e contagiosa, deve manifestarsi, essere sperimentata in atto e in realtà, vale a dire in vivo. Perché si costruisca, in altre parole, tra Fede in Dio e Fede nell'Uomo, la risultante sotto il cui impulso, ne sono convinto, il Cristianesimo si prepara a rimbalzare domani … non sono trattati o libri che ci occorrono, ma esemplari umani, cioè voglio dire uomini animati appassionatamente e simultaneamente dalle due specie di Fede, che realizzano in se stessi in uno stesso cuore, la congiunzione delle due potenze mistiche, in modo da presentare intorno a loro, la sintesi realizzata; uomini tanto più convinti del valore sacro dello sforzo umano in quanto s'interessano in primo luogo a Dio ». Teilhard ha dato questa testimonianza della prassi, offrendo così con la sua vita un nuovo argomento a favore della sua apologetica. Nel 1950 nel cuore della materia scrive a proposito dell'avventura della sua esistenza: « Una grande e splendida avventura, nel corso della quale io continuo ad avere spesso paura, ma nella quale non mi era possibile di non arrischiarmi ». « Per necessità strutturale, tra il Dio dell'In-Alto e il Dio dell'In-Avanti, una lotta si era ingaggiata nella parte più intima della mia anima e, più in generale, ne sono convinto, nell'intimo di ogni anima moderna, attraverso la coesistenza definitiva e l'avvicinamento invincibile nel mio cuore del senso cosmico e del senso cristico ». E ancora: « Senso cosmico e senso cristico: in me due assi apparentemente indipendenti l'uno dall'altro al loro nascere, e di cui soltanto dopo molto tempo e molti sforzi ho finito per afferrare … il legame, la convergenza e infine l'identità di fondo ». Infine, in una lettera personale al Generale della Compagnia di Gesù nel 1951, confida: « Dalla mia infanzia, la mia vita spirituale non ha cessato di essere completamente dominata da una specie di sentimento profondo della realtà organica del Mondo, sentimento in origine molto vago nella mia mente e nel mio cuore, ma sentimento gradualmente diventato, con gli anni, senso preciso e invadente di una Convergenza generale su di sé dell'Universo, convergenza coincidente e culminante al suo vertice con Colui "in quo omnia Constant"', che la Compagnia mi ha insegnato ad amare. Nella coscienza di questo movimento e di questa sintesi di tutto in Christo Jesu, ho trovato una straordinaria e inesauribile fonte di chiarezza e di forza interiori e un'atmosfera al di fuori della quale mi è diventato fisicamente impossibile respirare, adorare, credere ». È Cristo che da un senso, una direzione all'evoluzione crescente. Fu quando Teilhard capì che il cosmico e il cristico convergevano in Cristo che la sua vita personale si semplificò. Ma tutta la sua attività di pensatore e di scrittore è stata dominata dalla preoccupazione di manifestare questa unità vivente tra l'In-Alto della sua fede in Dio e l'In-Avanti della sua fede nel mondo e nell'uomo. Impressionante apologià che si rivolge all'uomo di scienza contemporaneo e che si muove sul suo terreno. Non si tratta per Teilhard, di dedurre Cristo a partire dalla natura, ma di confrontare due serie distinte di dati; da una parte un movimento di pensiero che, appoggiandosi sui dati della scienza e interpretandoli, conduce fino all'ipotesi Omega; d'altra parte, l'analisi del messaggio cristiano e il riconoscimento in esso di una risposta divina, preesistente, inattesa, sovrabbondante, alle aspirazioni misteriose dell'universo e dell'uomo in evoluzione. Nel primo caso si tratta di una esplorazione scientifica e razionale che sfocia nell'ipotesi di un Omega. L'asse dell'evoluzione richiede, per completarsi e completare il suo significato, un Centro unificatore delle persone, ma esso non è che ipotesi e attesa. Nel secondo caso si tratta di un dono storico e gratuito offerto dalla presenza del Verbo incarnato. Quest'armonia e questa complementarità tra i dati convergenti di due fonti tanto diverse, diventa tanto più sorprendente. Sarebbe possibile che una così ammirevole coerenza non fosse che coincidenza? La chiave di volta dell'apologetica di Teilhard è la « dimostrazione » dell'armonia, della coerenza sorprendente e universale tra due movimenti convergenti che vanno uno incontro all'altro. Da una parte l'universo sale verso l'uomo e verso l'Omega, centro personale di raduno; d'altra parte Cristo, princìpio, centro e termine dinamico di tutta la creazione ( fisica e umana ) assume e polarizza tutta l'evoluzione, le da un senso e la completa. Cosmogenesi e antropogenesi sono in vista della cristogenesi. Le due visioni si raggiungono e si illuminano reciprocamente. Capitolo terzo - V V. Le tappe della dialettica di Teilhard La manifestazione della coerenza che Teilhard intuisce tra visione di scienza e visione cristiana del mondo, segue un itinerario, implica un certo numero di tappe che Teilhard, più volte, ha indicato. In Alcune riflessioni sulla conversione del mondo, indica i « passi necessari » di una riflessione che mira a scuotere il mondo moderno in profondità per condurlo al cristianesimo. In Abbozzo di una dialettica dello spirito, nel 1946, precisa i momenti di questa riflessione: « Al fine di evitare ogni equivoco in avvenire, credo utile presentare qui, chiaramente disarticolati, i tempi successivi della mia apologetica, o se si preferisce, della mia dialettica ». Queste tappe, nei diversi scritti di Teilhard, comportano delle varianti, ma per l'essenziale, restano le stesse. In Abbozzo Teilhard indica quattro tappe. Riassumiano qui questo testo capitale: 1. Il primo tempo costituisce una fenomenologia e una interpretazione dell'evoluzione fino all'affermazione di un Dio trascendente. Si distingue nell'universo « una corrente crescente di complessificazione accompagnata da coscienza » questo movimento culmina nell'uomo. La noosfera, o strato pensante dell'universo, a sua volta assume una forma nettamente convergente disegnando un punto di maturazione o di riflessione collettiva: il « Cervello » dei cervelli associati. L'umanità si trova trascinata verso una posizione terminale dove non può andare oltre in complessità di coscienza, ne d'altra parte indietreggiare o semplicemente fermarsi lì. La curva del fenomeno umano postula, in avanti e al di là, l'esistenza di un polo « extra-cosmico », dove si trova « integralmente riunita e consolidata tutta l'incomunicabile riflessione formata nell'Universo … nel corso dell'Evoluzione ». Visto dalla nostra parte, il vertice del cono evolutivo ( il punto Omega ) si profila all'orizzonte come un focolaio di convergenza immanente, cioè l'umanità totalmente riflessa su di sé. « Ma, esaminando bene, si deduce che questo focolaio per durare suppone dietro di lui, più in profondità, un nocciolo trascendente, divino » 2. Secondo tempo: la creazione evolutiva e l'attesa di una rivelazione. Dio, faccia trascendente dell'Omega, è non soltanto i per centro ( un al di là dell'evoluzione che la supera ) ma, per forza di cose, anche un autocentro. Sussiste da sé, indipendente dal tempo e dallo spazio. È un ultra-focolaio di convergenza, non soltanto virtuale, ma attuale. Infatti, se il multiplo si unifica, vuoi dire che è già attratto fin dall'inizio, secondo la natura degli elementi. Ora, nel caso dell'uomo, Dio attrae gli attuabili personali. Dio è motore in avanti, ma « rivolgendosi a noi uomini, a quanto c'è di più umano in noi, cioè alla nostra intelligenza, al nostro cuore, alla nostra libertà ». Si pone d'ora in poi la questione: non ci sono, in seno all'evoluzione, « parole » rivolte all'uomo, « segni », in breve, una « rivelazione »? 3. Terzo tempo: il fenomeno cristiano e la fede nell'incarnazione. È allora che, in pieno fenomeno umano, il fenomeno cristiano si propone e si impone all'attenzione. Infatti, storicamente, a partire da Gesù, si è rivelato un phylum di pensiero religioso, che non ha cessato di influire sempre più profondamente sullo sviluppo della noosfera. In nessun luogo, al di fuori del fenomeno cristiano, l'idea di Dio, raggiunge una simile chiarezza, una simile vitalità, una simile ricchezza, una simile coerenza. Tutto ciò sostenuto, nutrito dalla convinzione di rispondere a una rivelazione venuta dall'alto. All'origine di questo movimento religioso non conviene riconoscere la Parola personale giustamente attesa? Se rifiutiamo di riconoscere il fatto cristiano, la volta dell'universo si richiude ermeticamente sulle nostre teste. L'evoluzione non conduce da nessuna parte. Se invece l'accogliamo, la rivelazione ci insegna che se l'universo si eleva progressivamente verso l'unità, è perché l'amore di Dio lo abita fin dall'inizio, ciò che si traduce storicamente con l'incarnazione di Dio in un uomo che fu Gesù. Il trascendente si immerge nel nostro mondo. Ma per fare questo passo, cioè per ammettere la realtà di una risposta venuta dall'alto, è necessario porre un atto, non soltanto di conoscenza, ma di « riconoscimento », di fede teologale, sotto l'influenza della grazia. 4. Quarto tempo: la Chiesa vivente e il Cristo-Omega. Una volta riconosciuto il fatto della rivelazione, possiamo penetrare più avanti nel fenomeno cristiano. La Chiesa vivente è il germe di « super-vitalizzazione » deposto in seno alla noosfera mediante l'apparizione di Gesù Cristo, che invade e solleva gradualmente verso l'unità tutta la massa umana. Alla fine, il punto Omega appare come il focolaio, nel contempo uno e complesso, in cui, rinsaldati da Cristo, si scoprono tre centri sempre più profondi: a) esteriormente, il vertice immanente e naturale del cono umano-cosmico; b) in mezzo, il vertice immanente e soprannaturale del cono cristico umano-divino; c) nel cuore, il centro trascendente, trinitario e divino. Il Pleroma completo si costituisce e si realizza sotto l'azione mediatrice del Cristo-Omega. L'Universo intero evolve verso Cristo, centro umano-divino, che da consistenza, senso e coerenza a tutto il movimento ascendente dell'evoluzione. Capitolo terzo - VI VI. Angolo d'approccio: tutto l'universo e tutto l'uomo a partire da una fenomenologia L'interpretazione teilhardiana dell'universo si basa su due premesse: un approccio fenomenologico del fenomeno umano, considerato nella sua globalità; una visione evolutiva dell'universo. Prima premessa: una visione totalizzante dell'universo. Adottando quest'angolo d'approccio, Teilhard è perfettamente cosciente che si espone ad avere contro di lui i puri scienziati, come anche i filosofi e i teologi. Ma è del parere che nelle vicinanze del Tutto, fisica, metafisica e religione convergono straordinariamente. Esaminiamo più attentamente le componenti di questo approccio. 1. Come scienziato, Teilhard parte dall'osservazione scientifica e dall'analisi, ma considera che l'analisi non è l'operazione più importante per farci penetrare nella comprensione dell'universo. L'analisi, infatti, ci mette in presenza di un mucchio di meccanismi smontati: essa disgrega, dissolve la realtà in frammenti sempre più piccoli. Ma in definitiva perde di vista la realtà analizzata, perché questa è altra cosa che un brulichio di particelle. La scienza non vede che la crosta delle cose. A forza di atomizzare prescinde da tutto ciò che è unificazione superiore a un certo livello. La scienza moderna, per ossessione dell'analisi, ha proiettato il centro del mondo verso il basso, cioè verso « l'infimo ». Essa deve « convertirsi » e fare più attenzione alla « totalità » del reale. Una interpretazione dell'universo deve raggiungere il di dentro tanto quanto il di fuori delle cose, lo spirito tanto quanto la materia. Non basta scomporre un fenomeno per comprenderlo. A questo proposito l'evoluzione ci ricorda opportunamente che il movimento principale del reale è la sintesi, che si manifesta sotto forme sempre più complesse e organizzate. Occorre prendere come oggetto di scienza la « totalità » del fenomeno. Ora, il centro di coerenza del reale non è da cercare in basso, nell'elemento, ma in alto, nell'uomo, centro di prospettiva e di costruzione dell'universo. Il mondo non va verso il basso, ma in avanti e verso l'alto. La scienza segna il passo perché non ha mai cercato di integrare il pensiero nelle sue categorie. Di conseguenza, Teilhard rovescia i dati del problema: invece di poggiare sul basso, nell'elemento, il mondo non dipenderebbe piuttosto dall'alto, tramite ciò che sta avanti? In altre parole, non siamo in presenza di un mondo orientato, finalizzato? In conformità a questa convinzione Teilhard si applica a operare sulla totalità del reale. Non ammette compartimenti stagni tra scienza e filosofia, tra scienza della natura e metafisica. Evidentemente una tale ambizione lo conduce a un'estensione, di cui lo hanno rimproverato ( nonostante le precisioni che ha dato ), di alcuni concetti, come quelli di coscienza e di energia. Così egli applica la nozione di « coscienza » anche a sistemi elementari che il senso comune considera sprovvisti di ogni bagliore psichico. Teilhard insiste sul fatto che ogni materia, vivente o no, possiede un di dentro tanto quanto un di fuori, un aspetto psichico quanto uno fisico. Questo aspetto psichico, effetto della complessità interna, lo chiama coscienza. La parola non è sinonimo di pensiero: indica ogni specie di interiorità, dalle forme più elementari di attività interna fino al fenomeno umano della coscienza riflessa. Questo postulato di un di dentro delle cose è essenziale per capire lo studio che Teilhard fa dell'evoluzione. Materia e coscienza non si oppongono, ma fanno parte integrante di un solo e medesimo schema dell'universo: « La materia puramente inerte, dice Teilhard, la materia totalmente bruta non esiste. Ma ogni elemento dell'Universo contiene a un grado per lo meno infinitesimale, qualche germe di interiorità e di spontaneità, cioè di coscienza. Nei corpuscoli molto semplici … questa proprietà ci rimane impercettibile, come se non esistesse. In compenso la sua importanza cresce con la complessità, o, ciò che vuol dire la stessa cosa, col grado di centrazione dei corpuscoli su se stessi ». Di conseguenza, più l'organizzazione è grande, più la centrazione è importante e più la coscienza stessa è sviluppata. La coscienza è proporzionata alla complessità: è la legge della complessità-coscienza. Queste nozioni onnipresenti nell'opera di Teilhard, non devono essere irrigidite, ma conservate nella fluidità che egli stesso ha dato loro. 2. Un approccio totalizzante del reale suppone che si dia all'uomo nell'universo un posto preminente. Teilhard è convinto che non si può penetrare profondamente il senso dell'universo se lo si separa dal « fenomeno umano », perché il senso di ogni cosa risiede nell'uomo. Precisiamo tuttavia che Teilhard, quando studia l'uomo, non lo considera innanzitutto nella sua vita psicologica, come Pascal, o nella sua natura di animale ragionevole, come il filosofo; ma dal di fuori, come uno scienziato. Non studia l'individuo, ne la natura umana astratta, ma la massa degli uomini, la collettività umana, la carovana umana, il fenomeno umano, così come si potrebbe osservare con un telescopio gigante, attraverso i secoli. Teilhard studia l'uomo da un punto di vista obiettivo e globale, come fenomeno inserito nello spazio e nella durata dei secoli, e all'interno del fenomeno più vasto ancora dello sviluppo dell'universo. In breve, egli studia l'uomo e l'universo come un solo blocco. Fino ad ora si è costruita una scienza dell'universo senza l'uomo, e una scienza dell'uomo ai margini dell'universo. Si deve ora costruire una scienza dell'universo che abbraccia sia l'uomo che l'universo. E questo ci porta a precisare ciò che si deve intendere per « fenomenologia » di Teilhard, così come si svolge nel fenomeno umano ( 1940 ) e nel gruppo zoologico umano ( 1949 ). La sua fenomenologia non si deve confondere con quella di Husseri, Merleau-Ponty o Sartre, che vuol essere un'analisi rigorosa dell'atto cosciente. Non è una fenomenologia della coscienza, ma della natura. Teilhard ha conservato alla parola « fenomeno » il suo senso elementare, pre-filosofico, vale a dire tutto ciò che si presenta come un dato oggettivo alla conoscenza e alla sperimentazione. La sua fenomenologia è rivolta verso le realtà del mondo esteriore e si imparenta con le scienze naturali. Per i fenomenologi l'uomo è centro di riferimento, perché è la coscienza umana che da alle cose senso e valore; per Teilhard, l'uomo è centro dell'universo perché costituisce oggettivamente il coronamento e lo scopo dell'evoluzione. La sua fenomenologia è una prima riflessione scientifica il cui oggetto è « l'osservabile »: niente di più del fenomeno, ma si deve subito aggiungere, tutto il fenomeno. Questa precisazione è capitale. Teilhard infatti non vuole semplicemente descrivere e analizzare l'osservabile. Si mantiene sul terreno della scienza senza dubbio ( e non della filosofia propriamente detta ) ma cerca un legame tra le cose, come può apparire a livello delle scienze. È a questo livello che cerca di scoprire un ordine coerente tra antecedenti e conseguenti. Il principio di questo ordine strutturante, sarà un princìpio di valore scientifico, cioè il principio dell'evoluzione, che da a questa realtà terrena il suo posto nel processo del divenire: l'evoluzione, con la sua legge fondamentale di complessificazione interiorizzante e crescente, conglobante la totalità dei fenomeni. Questa legge o principio dell'evoluzione si snoda seguendo un ritmo di divergenza, cioè di diversificazione a ventaglio; di convergenza, cioè di raduno, di unificazione, di unione; d'emergenza, cioè di convergenza che sfocia in una sintesi superiore che, pur restando in continuità con quanto precede, porta del completamente nuovo. Questa dialettica a tre tempi permette di includere anche la socializzazione umana, secondo un ritmo di espansione ( divergenza ), di compressione ( convergenza ), e di superamento ( emergenza ), vale a dire l'apparizione di un Omega ultra-umano. Benché questa fenomenologia abbia per oggetto i fenomeni così come si presentano alla scienza, essa non si indentifica semplicemente con la scienza; essa non è neppure una pura metafisica. Il suo ideale è di essere una riflessione scientifica, che congloberebbe tuttavia la totalità dei fenomeni, per scoprirne la struttura e l'unità. È una specie di iperfisica o di ultra-fisica, che corona i due abissi di Pascal con un terzo abisso: un abisso di complessità. Questa scienza nuova integra i dati delle scienze particolari, ne supera i limiti e abbraccia la totalità della realtà terrena: dalla materia all'uomo. Si propone di riunire tutti i dati dell'esperienza umana in una visione unica, che va dalla fisica e dalla chimica alla storia e alla religione. In breve, essa abbraccia il fenomeno umano nella sua globalità e totalità. « Come avviene per i meridiani alle vicinanze del Polo, Scienza, Filosofia e Religione convergono necessariamente avvicinandosi al Tutto … Impossibile tentare una interpretazione scientifica generale dell'Universo senza aver l'aria di volerlo spiegare fino in fondo ». Il principio di questa unità, l'abbiamo detto, è quello dell'evoluzione, che va dalle infime radici materiali della vita fino al suo sviluppo spirituale più elevato. L'ambizione di Teilhard è la costruzione di una serie legata di fenomeni che si estendono, sotto l'azione del processo evolutivo, fondamentalmente unico, dal polo materiale al polo spirituale dell'esperienza. Se il fenomeno umano è completato dal fenomeno cristiano è perché Teilhard ha sempre pensato il fenomeno umano nella sua totalità e nel suo completamento in Gesù Cristo. L'ideale di Teilhard può lasciare scettico lo scienziato, stupire il filosofo, sconcertare il teologo. Ma seduce incontestabilmente l'uomo che vede il reale con uno sguardo d'insieme. Il pensiero di Teilhard è affascinante perché supera i limiti della specializzazione e tende a una visione che considera l'uomo nella sua totalità. Teilhard vede il mondo intero rivolto verso l'uomo e, al di là di lui, verso Cristo. Il punto di partenza di Teilhard è deliberatamente quello della scienza, non quello della rivelazione e della fede; la sua visione del mondo, tuttavia, ha una portata filosofica e teologica più grande di quanto lui voglia. In particolare il modo in cui deduce l'esistenza e la natura del punto Omega, dipende dalle modalità di pensiero caratteristiche della filosofia. Anche la sua visione del mondo è tributaria della sua fede cristiana. Non avrebbe tracciato con mano cosi sicura l'immagine del punto Omega, se non avesse conosciuto prima Cristo e il mistero del Corpo di Cristo. Questo lo confessa, ma rimane convinto che è condotto a queste prospettive da una fenomenologia strettamente scientifica: è sicuro che una riflessione imparziale sulla totalità dei fenomeni condurrà a modi di vedere che orienteranno per lo meno nella direzione della dottrina cristiana. Perché ha sete di avvicinare la fede e la scienza, Teilhard presenta a volte forme affrettate d'armonizzazione. In realtà Teilhard è un profeta, un veggente, che ha tutto l'ardore del neofita: egli vuole ispirare una fede, convenire l'uomo moderno a una visione, che è la sua, cioè il mondo nella sua potente ascensione verso l'uomo; e l'uomo nella sua vocazione di « costruttore » del Corpo di Cristo. Capitolo terzo - VII VII. Il movimento generale dell'universo: una evoluzione La seconda premessa per capire l'interpretazione teilhardiana dell'universo, concerne la sua intuizione di base: l'intuizione dell'evolutivo. Nel 1950, ne Il cuore della materia, scrive: « Fu nel corso dei miei anni di teologia, a Hastings … che a poco a poco … è cresciuta in me, fino a invadere interamente il mio cielo Ulteriore, la coscienza di una deriva profonda, ontologica, totale dell'Universo intorno a me ». Questa visione evolutiva è l'oggetto de Il fenomeno umano ( 1940 ). È sviluppata in modo sistematico in Come io credo ( 1948 ). Nelle linee essenziali questa visione si riconduce ai seguenti punti. L'universo forma un tutto omogeneo, ma è sottoposto a un movimento: quello dell'evoluzione. L'universo non è statico, ma in via di genesi, di formazione: vi è una cosmogenesi. Inoltre, questo movimento segue una direzione determinata: è sottoposto alla legge di complessificazione crescente. Il mondo si sviluppa nel tempo, dal molto semplice all'estremamente complesso. Ora questo movimento di complessità è legato a un aumento correlativo di interiorizzazione, cioè di coscienza: « Dagli infimi e più instabili elementi nucleari fino ai viventi più elevati, niente esiste, ora lo vediamo - niente è scientificamente pensabile nella Natura - se non in funzione di un enorme e unico processo associato di « corpuscolizzazione » e- di « complessificazione » nel corso del quale si distinguono le fasi di una graduale e irreversibile interiorizzazione (« coscientizzazione ») di ciò che noi chiamiamo ( senza sapere che cos'è ) la Materia: a) Innanzitutto in basso e in quantità enorme corpuscoli relativamente semplici e ancora ( almeno in apparenza ) incoscienti ( Pre vita ). b) Poi, consecutivamente all'emergenza della Vita, e in quantità relativamente debole, esseri semplicemente coscienti. c) E adesso … esseri diventati improvvisamente coscienti diventare ogni giorno un po' più coscienti per effetto della co-riflessione. Ecco a che punto siamo». Con l'ominizzazione, o l'apparizione nell'universo del potere di riflessione, assistiamo a una nuova forma di vita, caratterizzata dalla capacità d'inventare, di prevedere, di organizzare, ancora più per la coscienza di una responsabilità, dell'obbligo di inventare e di prevedere. La biosfera è così coronata dalla noosfera. Il movimento dell'evoluzione tuttavia non cessa. Fino all'uomo vi è progresso nella coscientizzazione. Con l'umanità c'è una crescita di coscienze nel senso di una unificazione sempre più spinta: è il fenomeno della socializzazione che, dopo una fase di espansione, inaugura una fase di compressione, cioè di graduale consolidamento e organizzazione dell'umanità stessa. L'umanità si incammina verso un secondo punto critico di riflessione, ma questa volta collettivo; punto al di là del quale non possiamo vedere nulla ( perché è « critico » ), ma pronosticare un incontro, un contatto con il polo ultimo, un focolaio trascendente, Omega, capace di operare l'unificazione delle monadi umane arrivate all'estremo del loro punto di centrazione. Questo focolaio deve operare l'unificazione, non attraverso una identificazione o assorbimento, ma attraverso l'azione dell'amore, che unisce e differenzia. Il fenomeno umano, in tutta la sua ampiezza, si presenta quindi come un fenomeno di avvolgimento su se stesso, di complessificazione, d'unificazione e d'orientamento verso un polo d'attrazione già attuale: Omega. Questa visione, imposta dai fatti, dall'orientamento della curva dell'evoluzione, si trova realizzata di fatto nel fenomeno cristiano, che è presente davanti a noi, come una delle realtà del mondo. Il fenomeno cristiano, infatti, presenta una notevole similitudine con tutto ciò che ci insegna lo studio del fenomeno umano, cioè la convergenza dell'universo sull'uomo e su un Omega trascendente e personale. In seno all'evoluzione ci sono dei gradi, dei salti di qualità. Teilhard parla di punti critici, di piani, di crisi, di soglia critica, di grado critico, di mutazione, di emergenza, di ordine nuovo, di discontinuità. Ma attraverso queste discontinuità, uno stesso movimento si prolunga. Vi è discontinuità, ma non rottura. Due di queste discontinuità maggiori sono l'apparizione della vita e l'apparizione del pensiero. Questa successione di trasformazioni in cui si passa da un piano precedente a un nuovo piano, per produrre un essere di una complessità nuova, costituisce una legge di ricorrenza ( ripetizione periodica dello stesso processo ), che è anche una legge fondamentale dell'universo. La scienza conosce solo due punti critici: la biogenesi e la noogenesi. Il cristianesimo parla di un altro passaggio inatteso, di un salto decisivo, nel quale lo slancio vitale realizzerà la sua perfezione: questo punto è il Cristo-Omega. Cristo è l'avvenire dell'uomo, non soltanto alla maniera dell'uomo che è l'avvenire dell'universo materiale ( il suo termine di evoluzione ), ma come colui che rappresenta un nuovo tipo di vita, un nuovo statuto dell'umanità, che supera le attese anteriori, le colma e da loro un compimento inatteso. Pascal direbbe che si passa a un altro ordine. Senza dubbio è attraverso la sua fede che Teilhard sa questo, ma è convinto che il fenomeno cristiano può attirare e trattenere l'attenzione dell'uomo di scienza. Concludiamo questo paragrafo sul principio dell'evoluzione. La realtà e la successione di un concatenamento di forme viventi non sono più discusse oggi. « Studiata su una profondità sufficiente ( milioni di anni ), la vita si muove. Non solo essa si muove, ma progredisce in un senso determinato. Non soltanto essa progredisce, ma di questa progressione possiamo seguire il processo o meccanismo sperimentale ». Il tempo si caratterizza tramite una « riunione graduale della materia in raggruppamenti suprapposti, il cui assetto, sempre più ricco e meglio centrato, si aureola di una frangia sempre più luminosa di libertà e di interiorità ». Dall'alto in basso della storia dell'universo, scopriamo organizzazione e organizzato. Tutto è collegato, perché tutto si è organizzato geneticamente. La struttura del mondo è il frutto di una evoluzione. L'evoluzione della vita non è che un caso particolare di un fenomeno d'insieme, che è l'evoluzione universale, il divenire dell'universo. Non siamo di fronte a un cosmo statico, di una cosmograna, ma di una cosmogenesi. La nostra nozione della durata ne è trasformata. Prima di Teilhard, l'evoluzione era materialista. Tutto si spiegava dal basso, mediante gli elementi primi della materia; è negli atomi che si cercava la solidità dell'universo. Teilhard al contrario cerca l'asse dell'evoluzione mediante l'alto, nell'uomo, chiave dell'evoluzione. Si applica a situare l'uomo nel cuore del mondo, senza deformare ne l'uno ne l'altro. La posizione dell'uomo nell'universo, come fascia pensante della Terra, da all'evoluzione il suo senso e la sua singolarità. Non solo l'uomo rappresenta uno stato di vita assolutamente nuovo nel mondo, ma in lui l'universo diventa capace di riflessione. L'uomo opera un legame organico tra il cosmo e l'essere personale. Capitolo terzo - VIII VIII. Analisi dell'evoluzione: dall'inizio all'ominizzazione Gli elementi dell'abbozzo che abbiamo proposto sono ormai familiari al lettore di Teilhard; meritano tuttavia di essere ricordati, non fosse altro che per mantenere sotto una illuminazione continua le interpretazioni che ne da Teilhard stesso. L'opera di Teilhard, abbiamo detto, è uno sforzo per dimostrare che l'evoluzione ha un senso. La sua originalità è di dimostrare che il senso di questa evoluzione può essere scoperto unicamente mediante il metodo scientifico. « La scienza nelle sue ascensioni, dice, e lo dimostrerò, l'Umanità nel suo cammino, segnano il passo in questo momento, perché gli intelletti esitano a riconoscere che vi è un orientamento preciso e un asse privilegiato dell'Evoluzione ». Nonostante tutte le oscurità e le certezze, la scienza deve riconoscere l'evoluzione come un fatto, ancor più, deve riconoscere che l'evoluzione è orientata. Geologo e paleontologo, Teilhard osserva quindi il movimento graduale dell'evoluzione attraverso i secoli e i millenni. Scopre una legge di ricorrenza, cioè la ripetizione periodica di uno stesso processo nel corso dell'evoluzione. Ora nota che la materia si orienta verso stati sempre più complessi e che l'emergenza della coscienza si trova legata a questo aumento di complessità. Per complessità, si deve intendere qui la qualità che ha una cosa di essere formata da un numero sempre più grande di elementi, e di elementi organizzati sempre più strettamente tra loro. Così, l'atomo è più complesso dell'elettrone; una molecola è più complessa di un atomo. 1. Questo parametro di complessità crescente nel « di fuori » ( organizzazione ) e nel « di dentro » ( coscienza ), permette una classificazione naturale e universale degli elementi. In basso, i corpi semplici della chimica, poi le molecole. Più in alto, i virus; più in alto ancora, le prime cellule. Questa classificazione, basata sulla struttura interna degli esseri, ci ragguaglia egualmente sulla loro successione genetica. Nel quadro delle complessità, il posto occupato da ogni corpuscolo, colloca cronologicamente questo elemento nella genesi dell'universo, cioè nel tempo. Non si distinguono qui i rispettivi campi della fisica e della biologia. Al livello delle constatazioni fenomenali, la biologia si presenta come la fisica dei grandi complessi. « Infatti, per grande che sia la differenza di natura, che per ragioni filosofiche, si crede di dover mantenere tra vita e materia, una legge di ricorrenza si scopre infine, nell'ordine delle apparenze, collegante sperimentalmente l'apparizione dei due fenomeni. Al di là di milioni di atomi, tutto avviene come se i corpuscoli si animassero, si vitalizzassero, tanto che l'Universo si assesta in una sola grande serie, più o meno densa, certo, ma di un insieme chiaramente orientato e ascendente, dall'atomo più semplice fino ai viventi più elevati ». L'evoluzione sembra orientarsi verso forme sempre più complesse. Gli esseri più evoluti comprendono un numero maggiore di elementi costitutivi, di una maggiore varietà, collegati da un complesso più grande di relazioni. In questa prospettiva genetica e temporale, l'uomo si situa al vertice del tempo, come la freccia di un orientamento che mira verso i più alti complessi. Inoltre, questa sintesi di complessità va nel senso di una interiorizzazione che ha per risultato di far salire la coscienza al cuore dei corpuscoli successivamente generati. Teiihard riconosce nell'universo un movimento di « auto-avvolgimento », che si traduce mediante la irresistibile ascesa della cerebralizzazione e della coscienza. Ne Il cuore della materia, un testo fa il punto: « Non più l'attrazione universale che avvicina gradualmente su di sé la Massa cosmica, ma la potenza ancora non conosciuta e non nominata, che forza la materia ( a mano a mano che si raggruppa sotto pressione ) a disporsi in corpuscoli sempre più grossi, differenziati e organizzati. Al di là e al di sopra della curva-che-ravvicina, la curva-che-assesta … non spostamento tranquillo verso l'equilibrio e il riposo, ma irresistibile « vortice » che ritorce su se stesso, in senso unico, dal più semplice al più complesso, la Stoffa delle cose; torcendola in un nocciolo sempre più voluminoso e più astronomicamente complicato; questa torsione di assestamento avendo per risultato di far salire, mediante un movimento di interiorizzazione, la coscienza ( la temperatura psichica ) al cuore dei corpuscoli successivamente generati ». 2. Il parametro di complessità-coscienza crescente permette di leggere il senso del processo cosmico fino all'apparizione della biosfera o della vita. Ma si può seguire ancora il senso dell'evoluzione, ormai biologica? Per andare avanti occorre trovare un parametro più preciso. Altrimenti « l'aggregazione degli esseri viventi forma, qualitativamente, un labirinto inestricabile ». Si tratta di misurare il grado di vitalizzazione e d'interiorizzazione della materia. Questo grado si valuta a partire dal sistema nervoso, particolarmente legato allo sviluppo psichico dell'essere: è quindi la complessità del sistema nervoso che permette di misurare il grado di vitalizzazione raggiunto dal vivente: « La variazione del sistema nervoso, o meglio ancora la variazione della sua porzione cefalizzata; più semplicemente e in una sola parola, la cefalizzazione, ecco il filo conduttore di cui abbiamo bisogno » Una lunga serie di osservazioni conduce Teilhard a constatare che di fascia in fascia, per salti successivi, il sistema nervoso non cessa di svilupparsi e di concentrarsi. Raggiunge il suo livello più alto nei mammiferi il cui cervello è più voluminoso e più organizzato che in qualsiasi altro gruppo di vertebrati. La scoperta di questo criterio conduce a due risultati: a) è attraverso il ramo dei mammiferi che passa sulla terra l'asse principale di torsione; b) è nella famiglia degli antropoidi o dei primati che il cervello manifesta una più grande raffinatezza. Così seguendo la legge di complessità-coscienza crescente, la materia si assesta in raggruppamenti sempre più complessi e sempre più carichi di coscienza. Da qui in poi è nella perfezione e nella cefalizzazione crescente dei sistemi nervosi che si deve cercare il senso dell'evoluzione. « La sola cosa che in definitiva conta, nella classificazione dei viventi superiori, è la perfezione, in struttura e in assestamento, dei loro neuroni cerebrali. La crescita della coscienza è direttamente proporzionata al grado di « cefalizzazione » cioè alla complessità del sistema nervoso e del cervello. Attraverso questo fenomeno, il progresso ascendente della vita si trova lentamente orientato verso il punto critico per eccellenza, la soglia della riflessione. 3. Alla fine del terziario, infatti, un cambiamento enorme, strabiliante si produce sulla terra. A un periodo in cui si sarebbe potuto viaggiare, « senza incontrare nessuno », fa seguito un altro: noi intravediamo « degli Uomini ovunque, Uomo a sazietà. Uomo ingombrante il campo visivo ». « Ciò che spiega la rivoluzione biologica causata dall'apparizione dell'uomo, è un'esplosione di coscienza; e ciò che a sua volta, spiega questa esplosione di coscienza, è semplicemente il passaggio di un raggio privilegiato di corpuscolizzazione, cioè di un phylum zoologico, attraverso la superficie, rimasta fino allora impermeabile, che separa la zona dello psichismo diretto da quello dello psichismo riflesso. Arrivata, seguendo questo raggio particolare, a un punto critico di assestamento ( o, come noi diciamo qui, di torsione ), la Vita si è ipercentrata su di sé, al punto di diventare capace di previsione e di invenzione. È diventata cosciente al secondo grado. E ciò basta perché sia diventata capace in qualche centinaio di millenni di trasformare la superficie e la faccia della Terra » Allo sguardo della scienza, e nelle sue apparenze esteriori, l'ominizzazione è una mutazione simile alle altre. Eppure differisce da tutte le altre nei suoi sviluppi. Anche allo stadio embrionale dell'umanità, alcune singolarità rivelano le caratteristiche rivoluzionarie di questa nuova mutazione che segna il passaggio dalla vita istintiva alla riflessione. « Psicologicamente … ciò che fa l'uomo, è il potere apparso nella sua coscienza di ripiegarsi precisamente su se stessa. Come si è detto, l'animale sa; ma solo l'uomo tra gli animali, sa che sa. Da questa nuova facoltà emerge evidentemente un fascio di nuove proprietà: libertà, previsione dell'avvenire, attitudine a dominare dall'alto, a costruire, ecc. ». La coscienza, per sua natura, non può essere messa sullo stesso piano che i centomila altri prodotti dell'evoluzione. Qualitativamente, essa li supera tutti, anche se anima una piccolissima quantità di materia: essa è il fiore dell'universo. 4. Introducendo il parametro di complessità d'interiorizzazione, Teilhard riesce a esprimere l'unità di tutto il processo dell'evoluzione. La stessa legge agisce a tutti i livelli, ma in modo specificamente diverso, mantenendo la distinzione tra materia inanimata, materia animale, materia vivente umana. La scoperta di questa legge di complessificazione interiorizzante si dimostrerà forse un giorno come il contributo essenziale di Teilhard al genio del pensiero umano. Costruisce un ponte tra scienze naturali e scienze dell'intelletto e, soprattutto, situa l'uomo nell'universo. Questo modo di presentare l'uomo nei confronti della specie animale, prepara le menti scientifiche a vedere la grandezza dell'uomo come spirito nella materia. « La vera Fisica, osserva Teilhard, è quella che arriverà un giorno a integrare l'Uomo totale, in una rappresentazione coerente del mondo ». In una visione evolutiva dell'universo, l'uomo non è un'anomalia, ma il coronamento del movimento fondamentale dell'universo verso la complessificazione interiorizzante. L'uomo rappresenta un vertice nell'ascesa della materia e della vita. Attraverso l'uomo, l'evoluzione prosegue a livello della coscienza e della libertà. Se quindi l'uomo percorre lo sviluppo della Terra, se segue la direzione della crescita, della sintesi, della complessificazione, dell'interiorizzazione, scopre di essere il coronamento e il compimento di ciò che il mondo materiale ha portato in sé durante miliardi di anni. L'uomo assume dimensioni cosmiche, perché l'evoluzione del cosmo, in definitiva, è servita a formarlo. Questa fierezza si basa sulle osservazioni della scienza. L'uomo appare come la « freccia » di un universo in via simultaneamente di complessificazione materiale e d'interiorizzazione psichica sempre accelerate. Seguendo l'evoluzione dell'universo, dall'atomo all'uomo, Teilhard dimostra anche che il modo di vedere unilateralmente analitico delle scienze naturali deve essere corretto. Per capire il mondo, non si deve semplicemente scendere verso gli elementi infimi, ma seguire la direzione opposta, la quale dimostra che la realtà si snoda dal più semplice al più complesso. Il movimento verso la sintesi è un dato oggettivo della realtà fisica. L'uomo è il termine e il coronamento di questo cammino in avanti. Se quindi l'apparizione dell'uomo è legata all'evoluzione dell'universo, ciò che è provato, si impone come uno dei significati maggiori dell'universo. Questa convergenza della natura fino all'uomo pone una grave questione; questo universo ha percorso un cammino così prodigioso che sarebbe difficile pensare che non va da nessuna parte, che non è fatto per raggiungere uno scopo. Capitolo terzo - IX IX. Analisi dell'evoluzione: dall'ominizzazione alla socializzazione Con l'apparizione dell'uomo e della coscienza riflessiva, l'evoluzione, lungi dal fermarsi, continua con uno slancio nuovo. Il movimento di complessificazione interiorizzante continua la sua progressione. Occorre tuttavia sottolineare il carattere analogico di questa applicazione della legge di complessità-coscienza, scoperta nel campo biologico, che si verificilerebbe in seguito sul piano sociologico del raggruppamento degli uomini. Il dinamismo della vita funziona, ma questa volta a livello riflesso-psichico. Non soltanto l'evoluzione da un senso all'uomo, ma l'uomo a sua volta da un senso all'evoluzione. Un primo fenomeno osservabile è la socializzazione, vale a dire un lento processo di cerebralizzazione collettiva, nella quale la legge di complessità-coscienza opera alla stessa maniera in cui lo faceva un tempo nel caso di cerebralizzazione individuale, prima dell'apparizione del pensiero. La tendenza a raggrupparsi esisteva già nelle colonie di animali, ma non comprendeva mai tutta la specie. Invece con l'uomo è il phylum « tutto intero che, improvvisamente, e in blocco, sembra totalizzarsi ». La socializzazione, tuttavia, non è un semplice fatto biologico, essa tende a creare una sfera pensante: « La Noosfera … sovraimposta coestensivamente … alla Biosfera ». Tra gli uomini e le nazioni si stabiliscono degli scambi, dei legami di pensiero, delle relazioni giuridico-sociali. La noosfera è spirituale e sociale: essa riguarda lo sviluppo degli individui in quanto persone, e della società, al livello di relazioni interpersonali. In questo processo di socializzazione, Teilhard distingue due fasi: una, divergente o di espansione; l'altra convergente o di compressione. Per spiegarsi, Teilhard ricorre alla seguente immagine. Immaginiamo, dice, un'onda che si propaga sulla superficie del globo terrestre. Si propaga in un ambiente curvo. Fino all'equatore essa si dilata; in seguito essa si contrae fino a raggiungere il punto di convergenza che è il polo. È con un ritmo simile che procede l'assestamento della noosfera. La prima fase è quella dell'espansione. La specie umana si diffonde e, progressivamente, popola la terra, e nel contempo appaiono le prime civiltà. In secondo tempo, le ondate umane si ripiegano su se stesse e si interpenetrano. Radio, televisione, telefono, stampa, aviazione: tutto ciò significa una intensificazione costante dei rapporti umani e sociali. « Si può affermare senza esitazione … che sarebbe più facile impedire alla terra di girare che all'umanità di totalizzarsi ». Dopo la socializzazione, la piane frazione. Dopo avere, nella sua fase di espansione, occupato tutti gli spazi liberi della terra, « l'onda umana di socializzazione sta compenetrandosi e rafforzandosi fino al più profondo di se stessa ». Gli uomini costituiscono un blocco di umanità quasi solido. Vi è supercompressione nella noosfera, e supercoscientizzazione, seguita a sua volta da una supercompressione, e via di seguito. Il movimento non sembra doversi fermare. « Mediante il gioco congiunto delle due curve, ambedue di natura cosmica - una fisica ( rotondità della terra ), e l'altra psichica ( attrazione del Riflesso su se stesso ) -, l'umanità si trova presa, come in un ingranaggio, al cuore del vortice, sempre accelerato, di totalizzazione su se stessa ». Il mondo sembra stringersi sulle nostre teste, come se una cupola si richiudesse su se stessa. Così l'umanità continua a evolvere e sembra incamminarsi verso una collettività armonizzata di coscienze personali. Al semplice livello di fenomeno, tuttavia, non abbiamo nessun mezzo per sapere se questa evoluzione arriverà o no al suo scopo. Lo schema complessità-coscienza è incapace, da sé, di dirci se in realtà, l'universo è destinato a raggiungere un termine o polo o centro ultimo. L'analisi fenomenologica di Teilhard dimostra semplicemente che l'umanità sembra incamminarsi verso una super-umanità, verso una specie di Cervello planetario, costituito da cervelli associati. Punto, stato che non sarà raggiunto, secondo Teilhard, se mai sarà raggiunto, che tra centinaia di migliaia di anni. Teilhard ha riassunto egli stesso la sua fenomenologia dell'evoluzione nelle tré proposizioni seguenti: a) « Nel Mondo materiale, il fenomeno essenziale è la Vita ( perché interiorizzata). b) Nel Mondo vivente, il fenomeno essenziale, è l'Uomo ( perché riflesso ). c) Nel Mondo umano, il fenomeno essenziale è la totalizzazione graduale di una Umanità ( nella quale si super-riflettono su se stessi gli individui ) ». Tali sono i fatti registrati dall'osservazione scientifica, che occorre « interpretare ». Come l'umanità può sapere che di fatto converge verso un centro ultimo? e di che natura è questo centro? Capitolo terzo - X X. L'ascesa verso l'omega L'interpretazione di Teilhard si basa sull'osservazione scientifica, ma si prolunga in riflessione filosofica: filosofia della natura e anche filosofia religiosa. Un'analisi semplicemente fenomenologica ci mostra che l'universo è in cammino verso l'unità. Tuttavia, a partire dall'uomo, l'evoluzione non è soltanto diventata cosciente di se stessa, l'uomo prende anche coscienza che costruisce l'avvenire, che il mondo di domani dipende da lui: legata alla sua libertà, l'evoluzione può riuscire o abortire. L'uomo porta il peso e, a volte, l'angoscia di questa responsabilità. Fin qui ( è un fatto di osservazione scientifica ), l'evoluzione ha progredito nel senso di unità sempre più complesse. Ciò che noi viviamo ora, è lo stesso fenomeno, ma a livello della coscienza collettiva. Fin qui la storia della vita è apparsa come una storia « orientata », come un « progetto » che si realizza per tappe dalle durate vertiginose. La fase attuale di planetizzazione dell'umanità rappresenta una tappa di questo unico processo. « La totalizzazione in corso del mondo moderno non è in realtà che il risultato naturale e il parossismo di un procedimento di raggruppamento fondamentale nell'elaborazione della materia organizzata … Vitalizzazione della materia innanzitutto, legata a un raggruppamento di molecole. 0minizzazione della vita in seguito, legata a un super-raggruppamento delle cellule. E infine per terminare, planetizzazione dell'umanità, legata a un raggruppamento chiuso di persone …: una sola arci-molecola, iper-compressa, iper-centrata, iper-cosciente ». La nostra epoca si caratterizza per uno stato di pressione e di compressione crescente dell'umanità. Non è il sintomo di un « punto critico » superiore? Una cosa è certa, si va preparando una coscienza della specie, o della comunità umana come tale. I segni ne sono visibili, nel fascio sempre più stretto delle relazioni economiche, politiche, culturali, ideologiche. « Tutto porta a credere … che noi entriamo, in questo stesso momento, in una fase particolarmente critica di super-umanizzazione ». Ma è soltanto quando l'unità della famiglia umana sarà coscientemente riconosciuta e accettata da tutti i suoi mèebri che l'umanità, come tale, sarà realizzata. Ma che sarà questa umanità futura? La coscienza collettiva non può concepirsi come un soffocamento, un annientamento, un assorbimento della cosciènza individuale personale, ma al contrario come un compimento supremo della coscienza. Fin qui infatti è la personalità cosciente che ha prodotto e assicurato il cammino dell'evoluzione. La prospettiva di una evoluzione che andrebbe nel senso di una dissoluzione della persona in una collettività impersonale, toglierebbe ogni dinamismo all'evoluzione e arresterebbe il suo slancio. Nello stesso tempo in cui l'evoluzione progredisce e accelera il movimento di ultra-umanizzazione in corso, occorre che le ragioni e il gusto di vivere si rafforzino in fondo all'anima umana. Se quindi il punto di maturazione e di completamento dell'umanità non può realizzarsi che attraverso lo sforzo ardente degli uomini, l'unità della collettività umana deve essere del tipo di unità che esiste tra persone libere, cioè un'unità di concordia, di simpatia e infine d'amore. Unità tra le menti e i cuori. L'amore « è la sola potenza capace di totalizzare, senza contraddizioni interne, le possibilità dell'azione umana ». « L'unione, non soltanto differenzia, ma centrifica ». La vera unione nell'amore non distrugge, non diminuisce le componenti, ma le fortifica, le super-personalizza, le ultra-personalizza. Altri fattori, senza dubbio, potranno contribuire all'unificazione dell'umanità, ma il fattore determinante sarà l'amore. Si può quindi giustamente parlare di amorizzazione dell'evoluzione. Ciò che si realizza quotidianamente a livello di individui, di famiglie, non può realizzarsi a livello di popoli, di nazioni, di Terra intera? Dal punto di vista fenomenologico, l'umanità sembra quindi incamminarsi verso una coscienza colletiva, verso un'unità della specie, verso un polo superiore di contrazione e di riflessione. Ma come concepire questo polo? Finora si poteva concepire questo polo come la sola unità interna dell'umanità. Questo modo di vedere sembrava insufficiente a Teilhard, che fa allora un altro passo decisivo. Questo polo, questo polo di convergenza, dice, non può consistere nella sola collettività umana come tale, sia pure riunita nella concordia. La forza d'attrazione che centra l'umanità su se stessa, deve essa stessa essere una Persona: una persona alla quale gli uomini possano rivolgere il loro amore e nella quale possano amare i loro simili. Questo centro personale, questo polo ultimo di coscienza che Teilhard chiama Omega, è necessario per assicurare all'evoluzione il suo slancio e il suo successo. È necessario per ragioni d'amore e di sopravvivenza, in modo equivalente, per ragioni d'irriversibilità ( o di sopravvivenza, d'immortalità ), di polarità ( o di centrazione ), e d'unanimità ( d'amore ), o ancora di immortalizzazione e di personalizzazione. Il vocabolario qui è leggermente fluttuante, ma i due motivi essenziali che, agli occhi di Teilhard, esigono un polo personale e trascendente dell'evoluzione, sono ragioni di umanizzartene ( amore ) e d'irreversibilità dell'evoluzione. Innanzitutto un motivo di unificazione, d'unanimizzazione dell'umanità. Lo slancio dell'umanità, infatti, non potrebbe raggiungere il suo scopo senza accettare, al vertice del mondo e sopra le nostre teste, un Amante e un Amabile. « In quanto tale il Collettivo è essenzialmente in-amabile … È impossibile donarsi a un Mondo anonimo ». L'umanità non è amabile come umanità se il punto centrale della comunità non è costituito da una Persona vivente. Teilhard scrive nel 1941: « Non è di un solo a solo, ne di un corpo a corpo, ma di un cuore a cuore che abbiamo bisogno. In queste condizioni più scruto la questione fondamentale dell'avvenire della Terra, più io credo intravedere che il principio generatore della sua unificazione è in definitiva da cercare, non nella sola contemplazione della stessa verità, ne nel solo desiderio suscitato da Qualche Cosa, ma nell'attrattiva comune esercitata dal medesimo Qualcuno ». E nel 1948, in Come io vedo: « Non vi è vero amore in una atmosfera, per calda che sia, di Collettivo, cioè d'Impersonale. L'Amore non può nascere, ne stabilirsi se non nell'incontro di un cuore, di un volto … Il solo modo possibile per la torsione cosmica di raggiungere lo scopo è di sfociare, non solo su un sistema centrato dei centri, ma su un Centro dei centri, ne più ne meno ». Il punto Omega deve essere il punto in cui tutti si amano perché tutti amano il medesimo punto centrale. Per diventare pienamente viventi noi siamo condannati a unificarci. Ma, a sua volta, questa polarizzazione interna dell'umanità non è possibile che a una condizione: « Sotto pena di essere impotente a diventare chiave di volta della Noosfera, Omega non può essere concepito che come il punto d'incontro tra l'Universo giunto al limite di concentrazione e un altro Centro ancora più profondo, Centro per sé sussistente e principio assolutamente ultimo, questo, d'irreversibilità e di personalizzazione, il solo vero Omega … E, se non mi sbaglio, è a questo punto che nella Scienza dell'Evoluzione ( perché l'Evoluzione si mostri capace- di funzionare in ambiente ominizzato ) si inserisce il Problema di Dio, Motore, Collettore e Consolidatore in avanti, dell'Evoluzione ». Nel 1950, Teilhard espone come meglio può il suo punto di vista sulla necessità di un Omega personale, che agisce mediante l'amore, per effettuare l'unanimiztazione dell'umanità. L'unificazione dell'umanità rimane libera. Benché spinti dalla necessità sociale a vivere e a pensare più strettamente insieme, gli uomini non per questo si amano di più. Lungi da ciò! La massa umana non si unificherà di fatto fino in fondo che sotto l'influenza di un'energia affettiva che ponga gli uomini nella necessità di non poter realizzare se stessi che alla condizione di amare e di completare, a qualsiasi grado, tutti gli altri. Ma è possibile arrivare a questo stato di unanimizzazione? Una cosa è certa: l'umanità attuale ha preso coscienza dell'unità organica dell'universo. Noi ci scopriamo in modo solidale impegnati nell'immensa avventura della cosmogenesi e della antropogenesi. Il senso della specie, al di sopra di tutti gli individualismi e tutti i nazionalismi, emerge e cresce. L'umanità sviluppa la convinzione che si incammina, come umanità, verso un vertice della sua traiettoria. I pareri si dividono, tuttavia, sul modo di concepire questo vertice. Per gli uni ( soluzione di tipo marxista ) basterebbe, per eccitare e polarizzare le energie umane, far loro intravvedere, al termine dell'antropogenesi, uno stato superiore dell'umanità ultra-tecnificata, ultra-socializzata, ultra-cerebralizzata, di cui ciascuno profitterebbe per partecipazione, dove ciascuno troverebbe intellettualmente e affettivamente la sua pienezza nella misura in cui fa corpo col sistema tutto intero: tutto ciò sema apparizione, ne necessaria, ne concepibile, di alcun centro universale e autonomo di riflessione. Tale sarebbe il termine superiore dell'ominizzazione. Per i cristiani, al contrario ( soluzione di tipo personalista ), « è appunto qualche Centro di aggregazione, è precisamente una Chiave di volta, che occorre prevedere e postulare ad ogni costo, perché niente crolli di fatto dell'edificio umano ». Se una forza reale non nasce nel cuore dell'evoluzione, un amore più forte di ogni egoismo privato e collettivo, la noosfera non può stabilizzarsi. « In verità, per connettere, senza stritolare, la moltitudine umana ( anche presa nel suo stato attuale di sopra-compressione ), sembra indispensabile un campo di attrazione a un tempo potente e irreversibile, che non potrebbe emanare collettivamente da una semplice nebulosa di atomi riflessi, ma che esige alla sua sorgente un astro per sé sussistente e potentemente personalizzato ». Teilhard è del parere che, sotto la pressione degli avvenimenti, un numero sempre crescente di biologi e di psicologi saranno condotti, anch'essi, alla « scoperta graduale … non soltanto di Qualche cosa, ma di Qualcuno, al vertice generato dalla convergenza su se stesso dell'Universo in Evoluzione ». In un altro testo di questo stesso anno 1950, esprime in termini più suggestivi ancora questa necessità di un Omega personale e trascendente, per realizzare efficacemente l'unanimizzazione della massa umana: « Secondo gli altri ( soluzione di tipo "cristiano" ) solo in definitiva l'apparizione al vertice e al cuore del mondo unificato, di un Centro autonomo di raduno, è strutturalmente e funzionalmente capace di suscitare, di mantenere e di liberare a fondo, in seno alla massa umana ancora dissociata, le forze attese di unanimizzazione. Solo infatti … un reale super-amare ( vale a dire solo l'attrattiva di una super-persona ) può, per necessità psicologica, dominare, captare e sintetizzare la folla degli altri amori della Terra. Senza l'esistenza di un simile focolaio ( non metaforico o virtuale, ma reale ) di universale convergenza, non vi è coerenza possibile per l'Umanità totalizzata; e di conseguenza, non vi è consistenza. Da un Mondo culminante e Impersonale non potrebbe scendere su di noi il calore di attrazione, ne la speranza d'irreversibilità ( immortalità ) senza la quale il nostro egoismo avrà sempre l'ultima parola. Occorre un reale Ego al vertice del Mondo per consumare, senza confonderli, tutti gli ego elementari della Terra … Ho parlato qui dal "punto di vista cristiano". Ma l'idea fa la propria strada anche altrove. Non è Camus che ha scritto, in Sisyphe "se l'Uomo riconoscesse che l'Universo può amare, sarebbe riconciliato"? E non è Welis che fa esprimere al suo interprete, il biologo umanitario Steele ( Anatomy of Frustration), la nostalgia di trovare, al di sopra e al di là dell'Umano, qualche "Universal Lover"? ». Per efficace che sia la fede dell'uomo in qualche ultra-umano, dice Teilhard in conclusione, « non sembra che il suo slancio verso Qualche cosa in avanti possa completarsi senza combinarsi con un'altra aspirazione più fondamentale ancora, che scende dall'alto e da Qualcuno ». Una seconda ragione per concepire e postulare un Omega personale e trascendente, è una ragione di irreversibilità ( o d'immortalità o di sopravvivenza ). Infatti, senza un Motore in avanti personale e trascendente, l'evoluzione non è garantita, perché fazione umana non è garantita. In un universo di coscienza riflessa, gli uomini non si piegheranno a un impegno di progresso e di unificazione dell'umanità, presentito come sempre più faticoso, se non hanno la convinzione che lo sforzo richiesto ha delle possibilità di successo. La prospettiva di una morte totale, contro la quale si spezzerebbe la coscienza individuale e collettiva, spezzerebbe simultaneamente ogni ascensione evolutiva. Ecco a questo proposito alcuni testi scaglionati tra il 1931 e il 1950. « Il mondo cesserebbe legittimamente e infallibilmente di agire, per scoraggiamento, se si rendesse conto ( nelle sue zone pensanti ) di andare verso una morte totale ». Ciò sarebbe l'atonia, il disgusto. Ancor più, « un universo che continuerebbe ad agire laboriosamente, nell'attesa cosciente della morte assoluta, sarebbe un mondo stupido, un mostro dell'Intelletto, vale a dire una chimera … Dal momento che ammette in sé il Pensiero, un Universo non potrebbe più essere temporaneo, ne a Evoluzione limitata: gli occorre, strutturalmente, emergere nell'Assoluto ». L'intelligenza « rappresenta la porzione indistruttibile dell'Universo ». Così, al momento in cui la vita si riflette su se stessa, « si trova di fronte al Problema dell'Azione. Si desta a se stessa sul cammino ascensionale e difficile di una unificazione progressiva … Dove si troverà non solo la legittimazione, ma anche il coraggio e il gusto dello sforzo? … Nessuna considerazione potrebbe, di diritto, spingerci a fare il minimo passo in avanti, se non sapessimo che la strada in salita conduce a qualche vetta da dove la vita non ridiscenderà più ». Al seguito di Blondel e di Le Roy, Teilhard afferma che l'azione umana è impossibile, un puro non senso, senza una garanzia di immortalità. La prospettiva di una morte totale, diventata cosciente, « inaridirebbe immediatamente in noi le fonti dello sforzo. Nell'universo personalizzato, rinesso, che si pensa nell'uomo, la vita non può continuare senza esigere, per sua stessa struttura, di salire sempre più in alto, di essere assicurata di una sopravvivenza. « Una morte totale, un muro invalicabile, dove si urterebbe e sparirebbe definitivamente la coscienza, sono quindi incom-possibili col meccanismo dell'attività riflessa ( ne spezzerebbe immediatamente il meccanismo ) ». Ma, fa notare Teilhard, il focolaio che mantiene nell'uomo il gusto di vivere e di agire, in una parola, di lavorare al successo di una evoluzione unificante dell'umanità, deve essere esso stesso riflesso, personale e trascendente: « A quale scopo poter svelare, in testa all'Evoluzione, un focolaio qualsiasi, se questo focolaio può e deve un giorno disgregarsi? … Per soddisfare alle esigenze supreme della nostra azione, Omega deve essere indipendente dalla caduta delle potenze di cui si tesse l'Evoluzione ». È in Come io vedo, nel 1948, che Teilhard sistematizza meglio le sue idee sulla necessità di un Omega personale e trascendente per assicurare l'irreversibilità dell'evoluzione: « Il movimento di complessificazione cosmica, una volta innescato, non si ferma più … L'uomo, destato simultaneamente alla previsione del futuro e al suo potere di invenzione, si accorge sempre più chiaramente che sarebbe ben pazzo di prestarsi al prolungamento, e ancor più, al rimbalzo, mediante lui, dell'Evoluzione, se l'essenza insostituibile e incomunicabile, sia di ogni persona individuale, sia dell'umanità planetarizzata, non fosse in definitiva riunita e integrata da un compimento, per sempre. In altre parole, in un Universo diventato cosciente di un Avvenire, la torsione cosmica si arresterebbe immediatamente dall'interno, davanti all'eventualità disperante di una morte totale. Che significa ciò se non che, all'istante ineluttabile in cui, presto o tardi, in ogni essere o sistema pensante, il Focolaio 1 di complessità si prepara a disfarsi, un Focolaio comune e supremo deve trovarsi là già pronto, sul quale si appoggino e si congiungano i F 2 di coscienza, affinchè si riformi, senza possibilità di disgregazione, questa volta, l'elissi umana? ». A partire da un certo livello di complessità e di coscienza, ciò che è fatto non può essere disfatto. L'immortalità ( o l'irreversibilità ) appare come una proprietà o un complemento necessario a ogni progresso umano. In breve, il ragionamento di Teilhard è questo. La vita ha impiegato miliardi di anni per arrivare all'uomo, vale a dire alla coscienza di sé. Sarebbe assurdo pensare che questo sforzo fosse vano e votato all'autodistruzione. L'essere, infatti, a partire da un certo livello, non potrebbe negarsi radicalmente. La vita non sarebbe più possibile se non avesse coscienza, almeno nella sua zona superiore, nell'uomo, di essere irreversibile, immortale. Credere all'universo è credere alla sua coerenza, perché là è la sua verità. Ora un'evoluzione « guidata » che sale verso l'uomo, sarebbe incoerente, assurda, se la persona umana ( individuale e collettiva ) frutto superiore dell'evoluzione, dovesse alla fine perire. L'abolizione degli ego, dopo la morte, costituirebbe la più grave regressione, contraria all'essenza stessa dell'evoluzione, che è ascesa verso lo spirito e, mediante lo spirito, verso la persona umana. Per continuare, un'evoluzione ormai ominizzata, deve essere irreversibile. Ecco due altri testi degli anni 1947 e 1948, che illustrano questa convinzione di Teilhard: « A partire dal momento in cui essa si pensa, l'Evoluzione non potrsbbe più accettarsi, ne autoprolungarsi senza riconoscersi irreversibile, cioè immortale. Infatti, vivere costantemente e laboriosamente puntando sull'avvenire, fosse anche quello della Noosfera, se questo avvenire si chiude con uno zero, a che serve? Non sarebbe meglio fermarsi e morire subito? … L'irreversibilità così svelata e riconosciuta, sensibilizza, non una porzione qualsiasi, ma il focolaio stesso più profondo e più incomunicabile della nostra coscienza … Una salita irreversibile nel Personale: senza la possibilità di soddisfare uno qualsiasi di questi due attributi, l'Universo … non può che diventare rapidamente asfissiante per un'attività riflessa ». « L'Ominizzazione ( socializzazione compresa ) è un fenomeno convergente … Ma questo Fenomeno convergente è ugualmente, per struttura, di natura irreversibile: nel senso che l'Evoluzione, diventata riflessa e libera nell'Uomo, non potrebbe più continuare il suo cammino ascendente verso la complessità-coscienza senza riconoscere che la torsione vitale, non soltanto sfugge ( verso l'avanti ) a un annullamento o morte totale, ma raccoglie anche tutta l'essenza preservabile di ciò che la Vita avrà generato cammin facendo. Questa esigenza implica strutturalmente, al termine superiore della Convergenza cosmica, l'esistenza di un Centro trascendente d'unificazione, il Punto Omega. Senza questo focolaio, insieme irreversibilizzante e raccoglitore, è impossibile salvare la legge della ricorrenza evolutiva ». Solo una conversione massiccia dell'umanità a un centro personale e distinto, insieme immanente e trascendente, insieme al termine e al di fuori del processo evolutivo, può impedire una caduta nell'impersonale e, ipso facto, un aborto di tutta l'evoluzione. « Non basta che il Polo cosciente del mondo emerga dall'ascesa delle coscienze; occorre aggiungere che, da questa genesi, si trova già nel contempo emerso. Senza questo non potrebbe ne soggiogare nell'amore ne fissare nell''incorruttibilità. Se per natura non sfuggisse al Tempo e allo Spazio, che riunisce, non sarebbe Omega. Autonomia, attualità, irreversibilità e quindi trascendenza: i quattro attributi dell'Omega ». Ultimo termine della serie. Omega è nello stesso tempo « fuori serie ». Altrimenti, la somma mancherebbe a se stessa. È questa indipendenza nei riguardi del mondo che permette a Omega di raccogliere tutto ciò che l'universo comporta di eterno, di assoluto, d'irreversibile. Omega, è Dio, « Motore, Collettore e Consolidatore dell'Evoluione ». Così l'evoluzione appare come un gigantesco movimento d'unificazione e di personalizzazione che sale verso Dio. In un primo tempo l'ascesa umana verso Omega appare come una « ricerca », uno sforzo dell'umanità per arrivare a una realizzazione pienamente cosciente e voluta della comunità come tale. Ma l'umanità non può tendere efficacemente ed effettivamente a questa unità d'amore reciproco se non tende all'unione d'amore con Dio Omega. L'evoluzione, ascesa verso l'uomo; poi, ascesa dell'uomo verso l'unione d'amore coi suoi simili; infine ascesa verso l'unione di tutti mediante l'unione con un Dio personale e trascendente: tali sono le tappe attraverso le quali Teilhard spera di fare scoprire Dio agli agnostici, un Dio in avanti e in alto. Dopo la biosfera e la noosfera, la presa di coscienza di un Omega personale nel cuore della noosfera, fa nascere poco a poco la teosfera. In breve, l'Omega deve essere personale, per personalizzare e armorizzare l'evoluzione; deve essere trascendente per consolidare e immortalizzare l'evoluzione. Capitolo terzo - XI XI. Dal Dio omega al Dio rivelatore Alla fine del Fenomeno umano, Teilhard osserva: « Per far posto al pensiero moderno, ho dovuto interiorizzare la materia; immaginare un'energetica dello Spirito; concepire al rovescio dell'Entropia una ascendente Noogenesi, dare un senso, una freccia e dei punti critici all'Evoluzione; far infine ripiegare ogni cosa in Qualcuno ». Ma questo qualcuno, questo Omega divino, personale e personalizzante, autonomo e trascendente, sarebbe muto? una specie di presente assente? L'ipotesi sembra strana. La parola non è infatti il modo più naturale di comunicare tra spiriti personali? Nella Introduzione alla vita cristiana, nel 1944, Teilhard dice esplicitamente: « Una volta ammesse, la personalità di Dio, la possibilità e anche la probabilità di una Rivelazione, cioè di una riflessione di Dio sulla nostra coscienza, non solo non fanno difficoltà, ma sono eminentemente conformi alla natura delle cose. Nell'Universo, le relazioni tra elementi sono dovunque proporzionali alla natura di questi elementi: materiali tra oggetti materiali, viventi tra viventi, personali tra esseri pensanti. Dal momento che l'Uomo è personale, Dio personale deve influenzarlo a un grado e sotto una forma personale, cioè intellettualmente e sentimentalmente: in altre parole, gli deve parlare. Tra intelligenze una presenza non potrebbe essere muta ». Evidentemente, altra cosa è stabilire il fatto storico di questa parola. Nel 1954, scrive: « Più si riflette sulla necessità di un Omega per sostenere e animare la continuità dell'Evoluzione ominizzata, più ci si accorge di due cose: la prima, è che un Omega puramente congetturato ( puramente « calcolato » ) sarebbe ben debole per mantenere nel cuore dell'uomo una passione sufficiente perché si ominizzi fino in fondo. E la seconda, è che se Omega esiste realmente, è difficile concepire che il suo supremo Ego non si faccia direttamente sentire come tale, in qualche modo, a tutti gli ego incoativi ( cioè a tutti gli elementi pensanti ) dell'Universo. Da questo punto di vista, la vecchia e tradizionale idea di Rivelazione riappare e si reintroduce ( questa volta tramite la via della biologia e dell'energetica evolutiva ) in cosmogenesi ». Un essere superpersonale, infatti, non può non tendere al dialogo con gli esseri di cui ha suscitato e affermato la personalità. Di conseguenza non dobbiamo essere sorpresi di afferrare nell'universo dei segni attraverso i quali Omega ci manifesterebbe la sua presenza misteriosa. « Se Omega si trova già attualmente esistente e operante nel più profondo della massa pensante, allora sembra inevitabile che la sua esistenza, mediante qualche indice, si manifesti fin d'ora alla nostra osservazione … Sulla cosa pensante che noi siamo diventati attraverso l'ominizzazione, gli è possibile ora di irraggiare da Centro a centri, personalmente. Sarebbe verosimile che non lo facesse? … Da qualche parte intorno a noi, sotto una forma o sotto un'altra, qualche eccesso di energia personale, extra umana, deve essere rilevabile, che tradisca la grande Presenza … se noi guardiamo bene ». « È molto, faceva notare ancora Teilhard, ( è persino l'essenziale ) per l'Uomo poter essere sicuro che il Cosciente, preso secondo il suo asse principale di Riflessione, non potrebbe retrogradare nell'Incoscienza. Ma quanto sarebbe più confortevole e elettrizzante per il nostro sforzo se qualche segnale o qualche segno ( qualche appello o qualche eco ) ci giungesse dal di là della Morte, per assicurarci positivamente che qualche focolaio di Convergenza esiste realmente avanti a noi! Ed ecco … dove si insinua ed emerge, non solo semplicemente il problema filosofico dell'immortalità, ma ( cosa molto più inattesa, tutta teologica in apparenza ) di una Rivelazione … La Rivelazione … l'Al di là che si manifesta "personalmente" al Quaggiù ». Ed è qui che si scopre per la scienza l'importanza del fenomeno cristiano. Nel 1936, Teilhard scrive: « Mediante la porzione più critica e più positiva del mio essere, incomincio a pensare che il Fenomeno cristiano potrebbe essere ciò che ha la pretesa di rappresentare … una Rivelazione ». Chiunque è attento a una visione evolutiva e convergente dell'universo, che si completa in un punto di superpersonalizzazione delle coscienze, non può non essere attento al fatto cristiano che si presenta come una delle realtà di questo mondo. Il fenomeno cristiano, infatti, mediante il suo credo, il valore della sua esistenza, la sua straordinaria vitalità, presenta una notevole somiglianzà con tutto ciò che noi sappiamo sulla convergenza dell'universo e un Omega trascendente e superpersonale. Il cristianesimo è caratterizzato dall'affermazione di un Dio personale, che dirige l'universo con saggezza e di un Dio rivelatore che si comunica all'uomo mediante le vie dell'intelligenza. In Gesù Cristo, questo Dio si immerge parzialmente nella materia, assume la direzione e si mette a capo dell'evoluzione. Uomo fra gli uomini, Cristo dirige, purifica e anima l'ascesa generale delle coscienze nella quale è inserito. Attraverso un'azione di comunione e di elevazione, si aggrega lo psichismo totale della terra. E quando avrà tutto riunito, tutto unificato, tutto trasformato, raggiungerà il focolaio divino da dove non è mai uscito e si richiuderà su se stesso e sulla sua conquista. Allora Dio sarà tutto in tutti, e ogni elemento troverà, nello stesso tempo che l'universo, la sua consumazione Il cristianesimo s'impone inoltre per il suo valore di esistenza e di vita. Rivolgendosi a ogni uomo e a tutto l'uomo, s'impone tra le correnti più vigorose e più feconde registrate dalla storia della noosfera. Vale quantitativamente e soprattutto qualitativamente, per l'apparizione di uno stato di coscienza assolutamente nuovo: l'amore cristiano. Quest'amore cristiano ha sollevato e animato fino all'eroismo, durante venti secoli, migliala di uomini che ne hanno fatto il tutto della loro vita. Senza quest'amore che la sostiene dal di dentro, la Chiesa cadrebbe nel nulla. L'apparizione sulla terra di un amore universale e di una tale intensità, sempre crescente, è un fenomeno capitale da registrare. Infine, il cristianesimo, lungi dall'essere indebolito dalla prova della durata non ha fatto che diventare più vigoroso e più necessario. In un mondo sottoposto alla legge dell'evoluzione e della convergenza, la cristogenesi appare come il prolungamento della noogenesi nella quale culmina la cosmogenesi. In un mondo prodigiosamente allargato dalla scienza, il cristianesimo, lungi dall'essere « smontato », preso di sorpresa, appare come la sola corrente di pensiero capace di abbracciare in un gesto completo il tutto dell'universo e il tutto della persona. Rimesso nella corrente di una evoluzione interpretata come un'ascesa di coscienza, il fenomeno cristiano, considerato oggettivamente e come apparizione storica osservabile, attraverso il suo orientamento verso una sintesi a base d'amore, progredisce nella direzione presunta dalla freccia della Noosfera. Nel suo slancio in avanti, questa freccia ascendente implica la coscienza di trovarsi in relazione attuale con un polo spirituale e trascendente di convergenza universale. In presenza di tanta perfezione e di coincidenza con il cammino dell'universo, non sarebbe il caso di chiedersi, semplicemente, come uomo di scienza e al di fuori della fede cristiana, se il cristianesimo non rappresenti probabilmentè la realtà esplicativa estrema del movimento dell'universo in avanti e in alto. Agli occhi dell'uomo contemporaneo, è la capacità di dare una interpretazione significativa del mondo che fa la verità di una religione. Per Teilhard, abbiamo visto, la religione che meglio si armonizza con la visione di un universo che progredisce, attraverso vie di complessità e di coscienza crescente, verso un centro di convergenza e di trascendenza, sarà la religione più vera, quella che da alla vita e all'azione dell'uomo il suo massimo significato. Ora, fra tutte le correnti umanitarie e religiose, solo il cristianesimo si dimostra capace di operare questa sintesi in Gesù Cristo. Questa coerenza dei due fenomeni dovrebbe attirare l'attenzione, anche dei non-credenti. La riflessione fenomenologica e la filosofia religiosa di Teilhard si fermano qui. Capitolo terzo - XII XII. Il Cristo-Omega La grande scoperta e la grande gioia di Teilhard è stata la graduale identificazione del punto Omega col Cristo della rivelazione. Il grande avvenimento della mia vita, dice, sarà stata la graduale identificazione dei due soli: uno di questi astri essendo la vetta cosmica postulata da una evoluzione generalizzata, di tipo convergente, e l'altro essendo formato dal Cristo risuscitato della fede cristiana. Teilhard non confonde scienza e rivelazione, ma, confrontando la sua visione del mondo tratta dall'evoluzione cosmica e organica, nella sua spinta ascensionale, con i dati della rivelazione sull'universo e sull'umanità, intuisce tra le due visioni una coerenza, un'armonia che lo meraviglia. Uno stesso movimento sembra portarli all'incontro reciproco: movimento dal basso verso l'alto e dall'alto verso il basso. Cambiando quindi di prospettiva, capovolgendola, e guardando il mondo dall'alto in basso, Teilhard parla ora da credente: si situa di colpo in regime di fede. Alla luce della rivelazione, Omega si « cristifica ». « Cristo possiede tutti gli attributi umani del Punto Omega ». « Cristo, hic et nunc, occupa per noi, in posizione e in funzione, il posto del Punto Omega ». « Sotto l'influenza illuminatrice della grazia, la nostra mente riconosce, nelle proprietà unitive del fenomeno cristiano, una manifestazione ( riflessione ) d'Omega sulla coscienza umana e identifica l'Omega della ragione con il Cristo universale della rivelazione ». La cosmogenesi e l'antropogenesi sono in vista della cristogenesi. Capire l'evoluzione è capire la misteriosa figura di Cristo risuscitato come lo scopo e il punto di convergenza dell'evoluzione. Ma allora noi passiamo dall'ipotesi filosofica al fatto storico, dall'analisi fenomenologica e filosofica al piano della fede e della cristologia. Possiamo seguire, nell'opera di Teilhard, questa « cristificazione » progressiva della visione dell'evoluzione. Ne Il fenomeno umano, 1940, Teilhard ammette esplicitamente che fu Cristo che gli ispirò il suo concetto del punto Omega: « Mai, senza dubbio, avrei osato considerarne o formularne razionalmente l'ipotesi se nella mia coscienza di credente, non avessi trovato, non soltanto il modello specifico, ma la realtà vivente ». Finché noi restiamo a livello di analisi scientifica o dell'interpretazione filosofica dell'evoluzione, il volto di Omega resta vago. È la rivelazione che viene a rivelare la reale identità di Omega: si chiama Cristo. Allora, « al posto del vago focolaio di convergenza, richiesto come termine a questa evoluzione, appare e si istalla la Realtà personale e definita del Verbo incarnato in cui tutto prende consistenza. La Vita per l'Uomo. L'Uomo per Cristo. Cristo per Dio ». Nel 1943, Teilhard descrive la coincidenza in Cristo dei due centri, cosmico e divino: « Cristo coincide … con ciò che ho chiamato qui sopra il Punto Omega … si girino e rigirino le cose come si vuole, l'Universo non può avere due teste, non può essere bicefalo. Di conseguenza, per soprannaturale che sia infine l'operazione sintetizzante rivendicata dal dogma per il Verbo incarnato, questa non potrebbe esercitarsi in divergenza della convergenza naturale del mondo, come noi l'abbiamo qui sopra definita. Centro universale cristico, fissato dalla teologia, e Centro universale cosmico, postulato dall'antropogenesi, i due focolai in fin dei conti coincidono ( o per lo meno si sovrappongono ) necessariamente nell'ambiente storico, in cui ci troviamo posti. Cristo non sarebbe il solo Motore, il solo Sbocco dell'Universo, se l'Universo potesse, in un modo qualsiasi, unificarsi, anche a un grado interiore, al di fuori di lui. Ancor più Cristo si sarebbe trovato apparentemente nella incapacità fisica di accentrare in lui stesso, soprannaturalmente, l'Universo, se questo non avesse offerto all'Incarnazione un punto privilegiato in cui tutte le fibre cosmiche per struttura naturale tendono a ricongiungersi. È quindi verso Cristo, di fatto, che si volgono i nostri occhi quando, a qualsiasi grado di approssimazione, guardiamo in avanti verso un Polo superiore d'umanizzazione e di personalizzazione ». Infine nel 1955, ne Il Cristico, Teilhard dice: se noi accettiamo « l'evidenza che il Cristo della Rivelazione non è altro che l'Omega dell'Evoluzione … uno sbocco comincia a intravedersi positivamente in cima all'avvenire. In un mondo certamente aperto al suo vertice in Cristo Jesu, noi non rischiamo più di morire soffocati ». Per Teilhard questa identificazione del Cristo e di Omega, questa coerenza, questa armonia tra una religione di tipo cristico e una evoluzione di tipo convergente, trovano il loro appoggio e il loro fondamento nella cristologia stessa di S. Paolo e di S. Giovanni. « Se il mondo è convergente e se Cristo ne occupa il Centro, allora la cristologia di S. Paolo e di S. Giovanni non è altra cosa, ne niente di meno che il prolungamento insieme atteso e insperato della Noogenesi, nella quale, per nostra esperienza, culmina la cosmonegesi ». In considerazione della sua divinità e della sua unione ipostatica, il Cristo storico, Verbo incarnato, è il centro della cosmogenesi e la cima del cono evolutivo. Cristo è identicamente il punto Omega. Nascondi San Paolo dice: « Tutto sussiste in lui » ( Col 1,17 ), « Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza » ( Col 1,19 ). Il cosmo tutto intero, come un solo blocco è sostenuto dalla potente energia del Verbo incarnato. Attraverso l'incarnazione, che è la kénosi di Dio nella materia, Cristo è diventato solidale di tutto il cosmo: spazio e tempo; attraverso la redenzione, attraverso la sua risurrezione, la sua eucaristia, prosegue la sua opera di unificazione di tutti gli uomini e di ricapitolazione in lui dell'umanità e dell'universo intero. L'azione di Cristo si estende a tutti; è veramente il Cristo universale. Nel 1934, in Come io credo, Teilhard propone così gli articoli del suo credo: « Io credo che l'Universo è una Evoluzione. Io credo che l'Evoluzione va verso lo Spirito. Io penso che lo Spirito, nell'uomo, si completa nel Personale. Io credo che il Personale supremo è Cristo universale ». L'essenza del cristianesimo si riconduce al Dio super-personale che si aggrega, senza confonderli, in Gesù Cristo e per Gesù Cristo, tutto il creato cosmico e tutto il creato personale. Cristo è il centro di unificazione di una convergenza universale, il Motore dell'energia unitiva di un mondo evolutivo. Grazie al Verbo incarnato, costruendo l'in-avanti, abbiamo la garanzia della trascendenza dell'in-alto. Per Teilhard, questa visione del Cristo Omega, centro cosmico e divino insieme, è di grave conseguenza: ecclesiale e spirituale. Amando Cristo-Omega, noi amiamo l'evoluzione fino in fondo. In regime cristiano le due attrazioni fondamentali ( teocentrismo e antropocentrismo ) che finora separavano il cielo dalla terra, isolavano cristiani e scienziati, Chiesa e scienza, si riconciliano infine e coincidono in Cristo e nel cristianesimo. Di fatto « nessuna Fede religiosa sviluppa … un sì alto ardore, un più intenso dinamismo dell'unificazione che il Cristianesimo ». Capitolo terzo - XIII XIII. Significati e aspetti diversi di Omega Possiamo ora tentare di sistematizzare i diversi significati che ricopre in Teilhard, la realtà Omega. Questo punto Omega, infatti, poiché non svela la sua pienezza che per tappe, riveste diversi significati: che danno luogo a volte a delle ambiguità. Distinguiamo innanzitutto due approcci d'Omega: il primo, basato sui dati della scienza e della ragione; il secondo basato sui dati della rivelazione e della fede. Stando a questi due approcci e a queste due fonti, Omega ha due significati. Nel primo è il centro di convergenza dell'umanità: centro vivente, supercosciente e superpersonale, centro reale e attuale, irreversibile e trascendente. Nel secondo significato è il Dio rivelato in Gesù Cristo. È Cristo che si aggrega tutti gli uomini e raccoglie tutto l'universo: è il Cristo totale e universale. Ma occorre subito precisare che la conclusione del primo approccio si effettua anch'essa in due tempi o due tappe, per cui l'insieme della riflessione di Teilhard su Omega è, in realtà, scandita da tre tempi: a) dal punto di vista della scienza e dell'analisi fenomenologica. Omega appare come la cima immanente del cono dell'evoluzione; b) dal punto di vista della riflessione filosofica. Omega è un centro divino, personale e trascendente; c) dal punto di vista della rivelazione. Omega è il Cristo universale. Consideriamo dettagliatamente questi tre momenti della riflessione di Teilhard e, di conseguenza, questi tre significati d'Omega. 1. In un primo tempo, per fedeltà alla lettura degli avvenimenti della storia dell'evoluzione, Teilhard suppone Omega come un punto di convergenza dell'umanità e del cosmo intero, come un termine della maturazione planetaria. Omega appare come il polo superiore dell'evoluzione, come « la cima del cono evolutivo terrestre », come « il focolaio di convergenza semplicemente immanente », come lo stato collettivo della coscienza riflessa. In questo primo tempo, Omega è posto, pena l'incoerenza scientifica, come il punto terminale dell'evoluzione cosmica culminante nel trionfo dello spirito. Al momento in cui « visto in ascesa dalla nostra parte delle cose, la cima del cono evolutivo ( il punto Omega ) si profila innanzitutto all'orizzonte come un focolaio di convergenza semplicemente immanente: l'Umanità totalmente riflessa su di sé ». Omega è concepito semplicemente come l'ultimo termine della serie e definito come la concentrazione ultima della noosfera su se stessa: « In virtù stessa della sua natura convergente, l'Ominizzazione non si può affatto concepire ( vista dal punto in cui noi ci troviamo ) se non come sfociante, qualunque sia il tragitto percorso, in un punto di riflessione collettiva in cui l'umanità, avendo realizzato ( sia tecnicamente che intellettualmente ), in sé e intorno a sé, il massimo di coerenza possibile, si troverà portata a un punto critico superiore, insieme di instabilità, di tensione e di metamorfosi, che coincide, sembra a noi, coi limiti fenomenali del Mondo ». Sotto questo primo aspetto, Omega non appare ancora come trascendente. È concepito come il punto più elevato e più denso del processo di complessità cosciente dell'evoluzione: punto congetturato e probabile, punto futuro, frutto della co-riflessione dell'umanità, che non sarà raggiunto, se mai sarà raggiunto, che dopo una durata imprevedibile, che sfugge a ogni calcolo. Sotto questa prima forma, Omega è un punto ideale e virtuale, un'unità di pura convergenza, interamente da realizzare. Omega non si identifica ancora con Dio. Una volta congetturato e posto, in un primo tempo, questo punto di maturazione dell'umanità attraverso una via di progressiva interiorizzazione, ci si può fermare, soddisfatti; ma ci si può anche chiedere se non ci sarebbe da cercare ancora per scoprire la condizione estrema d'intelligibilità di questo processo irreversibile. Teilhard si sforza di dimostrare che questo nuovo passo è indispensabile, perché il primo significato d'Omega è lontano dall'esaurire tutta la ricchezza della sua realtà. Ma la riflessione diventa allora filosofica. 2. È analizzando le condizioni concrete dell'esistenza futura di questo primo Omega che Teilhard, l'abbiamo già detto, giunge ad affermare l'esistenza attuale, indipendente, autosussistente d'Omega. In effetti, considerato sotto il suo aspetto evolutivo, come una grandezza che si realizza tramite l'unificazione progressiva dell'umanità, all'interno e come ultimo termine della serie, Omega non basta a giustificare il cammino concreto dell'evoluzione. Visto « sotto questo aspetto evolutivo, Omega mostra solo la metà di se stesso. Ultimo termine della serie, è nello stesso tempo fuori serie ». « Esaminandolo si capisce che, per durare, suppone dietro ad esso, più profondo di esso, un nocciolo trascendente, divino »: un centro amabile e amante, ultimo principio di unificazione, capace di assumere effettivamente il processo di personalizzazione e di unanimizzazione ( amorizzazione ) dell'umanità. Questo focolaio supremamente autonomo, autosussistente, supercosciente e superpersonale, è il solo reale Omega, il Dio Omega. Così il termine Omega, applicato innanzitutto a uno stato congetturato di riflessione collettiva dell'umanità, appare di conseguenza e per sempre come il centro supremo e personale, responsabile hic et nunc del processo evolutivo, solo capace di promuovere l'amore tra gli uomini e di garantire il successo dell'evoluzione. Questo già uno, pre-esistente dell'evoluzione, questo Omega, è Dio. Omega non è più il semplice prodotto finale dell'evoluzione, ma un punto trascendente l'evoluzione, il Motore che già l'alimenta e la garantisce. Omega è concepito come una realtà eminentemente personale e attuale, autonoma, trascendente e ciò per ragioni d'irreversibilità, di polarità, d'unanimità ( Come io vedo ) o, in modo equivalente, per ragioni d'amore e di sopravvivenza ( Il fenomeno umano ). A più riprese, Teilhard dettaglia gli attributi d'Omega perché possa assolvere le sue funzioni. a) Omega è un centro personale. Infatti per soddisfare le esigenze di una evoluzione della biosfera che si prolunga ormai in noosfera. Omega deve effettuare la riunione di tutte le coscienze. Ora, per effettuare l'aggregazione di ciò che c'è di unico e di più elevato nell'uomo, cioè la sua qualità di persona, Omega deve possedere lui stesso questo carattere: sarà quindi supercosciente e superpersonale. Altrimenti come potrebbe essere il luogo di comunione degli « unici » nella loro unicità? Omega deve essere lui stesso una Persona, Qualcuno. b) Inoltre, un Qualcuno amabile e amante. Infatti perché il completamento del processo di ominizzazione conduca all'unione delle persone occorre che questa unificazione si produca attraverso ciò che hanno di migliore, tramite la sola energia capace di avvicinare gli uomini personalizzandoli, cioè l'amore. Perché si realizzi l'unione personalizzante, si deve riconoscere la realtà di qualche Amabile e Amante al vertice del mondo. Solo Omega, riconosciuto come avente un volto e un cuore, diventa attirante e unificante. Altrimenti l'evoluzione ricade. « Perché l'amore muore a contatto dell'impersonale e dell'anonimo ». c) Omega è un centro reale e attuale. Infatti, il principio dinamico di un fenomeno reale e attuale, deve essere esso stesso reale e attuale. L'universo è orientato fin dall'inizio: è una constatazione della scienza. Se quindi c'è una evoluzione orientata, ciò che rende conto dell'evoluzione deve agire esso stesso fin dall'inizio. « A Noosfera attuale e reale, Centro reale e attuale ». Senza attrazione attuale, come potrebbe Omega orientare fin dall'inizio l'unificazione progressiva dell'umanità? E deve anche essere attuale per ragioni d'amore. Infatti, il ruolo del Centro dei centri essendo di favorire l'unione delle persone attraverso l'amore, deve godere di una esistenza attuale. « Per essere supremamente attirante, Omega deve essere supremamente presente ». In breve, se non fosse reale e attuale, Omega non potrebbe dirigere l'evoluzione fin dalle origini: e non potrebbe neppure essere oggetto d'amore e unificare mediante l'amore. d) Omega è un centro irreversibile e trascendente. Dopo il passo della coscienza riflessa, l'evoluzione non potrebbe morire. Il pensiero non può più ricadere. Perché, in una prospettiva di morte totale, l'uomo non può vivere, ne agire. In una umanità planetizzata, l'esigenza d'irriversibilità si deduce come una condizione esplicita dell'azione. Ora, per consolidare l'evoluzione e impedirle di morire, Omega deve rivestire un carattere di trascendenza, cioè essere lui stesso emerso e indipendente dall'evoluzione. Altrimenti, trascinato anche lui nello spazio-tempo dell'evoluzione, non potrà compiere la sua missione di consolidatore. Solo l'esistenza e l'incontro di un centro sussistente possono consolidare: « il principio che ci voleva per spiegare … la solidità paradossale del più fragile, lo conosciamo: è l'Omega ». e) Omega è un centro divino. Caratterizzato così com'è, non vi è più dubbio che il Centro dei centri, più profondo di tutti i centri, è divino. Teilhard identifica esplicitamente Omega come « Dio centro dei centri ». Frequentemente parla di Dio-Omega. Questo Omega, postulato come termine della complessificazione crescente dell'universo, non è più soltanto un focolaio immanente di convergenza, ma un centro già autosussistente, principio ultimo di personalizzazione, d'amorizzazione, d'irreversibilità. Così, il cammino razionale verso Omega diventa una specie di prova dell'esistenza di Dio, su una base allargata. Da una parte una riflessione scientifica sull'approdo dell'universo alla noosfera, dimostra che l'evoluzione ha un senso, un orientamento, una finalità. D'altra parte, la contingenza dell'universo dimostra che non può rendere conto pienamente, da solo, della sua finalità. Si deve concludere ammettendo l'esistenza del Dio-Omega. Infatti, solo Dio da una spiegazione coerente, intelligibile, totale del fenomeno dell'evoluzione. Se vogliamo ridurre l'itinerario di Teilhard a un sillogismo, potremmo formularlo così: Maggiore: ci troviamo di fronte al fatto di una evoluzione orientata, convergente, attraverso la via di complessificazione-coscienza. Nella minore deduciamo le condizioni trascendentali di questo fatto. In conclusione, affermiamo la realtà di Dio che solo può spiegare con piena coerenza questo fatto iniziale. Invece di partire dalle aspirazioni di ogni uomo, Teilhard parte dalle aspirazioni della noosfera tutta intera. La base della via verso Dio è l'evoluzione, coi suoi miliardi di anni e nella totalità del fenomeno, includente l'umanità e l'universo. Dio appare allora necessario per dare al fenomeno totale il suo significato e la sua coerenza. Dopo la biosfera e la noosfera, la teosfera. Omega è un essere attuale, preesistente all'evoluzione, autonomo, personale, trascendente l'universo, amabile e amante, « Motore, Collettore, e Consolidatore in avanti dell'Evoluzione ». Personale, personalizza e amorizza; transcendente, consolida e immortalizza l'evoluzione. 3. In un terzo significato, infine, Omega; per Teilhard cristiano, è Cristo, in quanto realizza la coincidenza tra il Centro universale divino, fissato dalla rivelazione e dalla teologia, e il centro universale cosmico, termine dell'evoluzione, postulato dall'antropologia. Il Cristo della rivelazione appare come l'Omega dell'evoluzione. Questo Cristo-Omega è innanzitutto il Gesù della storia, ma anche e soprattutto il Cristo risuscitato, allargato alle dimensioni del mondo, che si aggrega tutti gli uomini e raccoglie tutti gli elementi del mondo. Per parlare di questa funzione del Cristo nei confronti del mondo e dell'umanità, Teilhard parla del Cristo universale, del Cristo evolutore, del Cristo della parusia. Esaminiamo il senso e la portata di questi titoli, perché costituiscono altrettanti capitoli della cristologia di Teilhard. Capitolo terzo - XIV XIV. Il Cristo universale Teilhard ritorna spesso su questo tema del Cristo universale, specialmente nelle Note sul Cristo universale ( Opere, 9 ), Cristianesimo ed Evoluzione ( Opere, 10 ), Il Cuore della Materia ( Opere, 13 ), Il Mio Universo ( Opere, 9 ) Come io credo ( Opere, 10 ). Teilhard impiega i sinonimi di « Cristo universale », di « Cristo totale », di « Cristo cosmico ». Queste espressioni si riferiscono a Cristo nel ruolo che assume di riunire e di unificare in lui tutto l'universo e tutta l'umanità. In un universo organico, « tutto è collegato a tutto … Per ogni uomo che pensa, l'Universo forma un sistema interminabilmente legato nel tempo e nello spazio. È parere comune, che esso forma un blocco … Il Mondo costituisce un tutto ». L'uomo, e ogni uomo, è collegato inseparabilmente al resto dell'universo: è un solo e stesso tessuto non lacerabile. Di conseguenza, incarnandosi, « inoculandosi » in una porzione di materia, Dio divinizza innanzitutto questo pezzo dell'universo, ma anche, in ragione della solidarietà che esiste tra tutte le componenti del mondo, Cristo si aggrega poco a poco tutto l'universo e tutta l'umanità. Cosi l'unificazione di tutto e di tutti si realizza progressivamente intorno a un asse, a un centro, che è Cristo. In definitiva, il processo dell'evoluzione è una Cristogenesi. Molteplici sono le espressioni impiegate da Teilhard per indicare la realtà che anima e dirige questo processo. Il Cristo universale è il Cristo totale e totalizzante, il « Centro organico dell'Universo intero … quello che ci presentano i Vangeli e specialmente S. Paolo e S. Giovanni ». Con l'incarnazione Dio si « cristifica » e, tramite lo stesso movimento, « cristifica » l'universo e l'umanità. « L'universo cristificato » o il « Cristo universale »: sono tutt'uno. Il Cristo universale è « colui che mediante la sua nascita e il suo sangue, riconduce ogni creatura al Padre suo », « Il Cristo dell'Eucaristia e della Parusia, il Cristo perfezionatore e cosmico di S. Paolo … Polo fisico e sintesi universale ». Questa visione di Cristo, nella sua azione dinamica di riunire in lui il cosmo e l'umanità, è una intuizione già presente nei primissimi scritti di Teilhard. Nel 1916, ne La Vita cosmica, scrive: « L'Incarnazione è una rinnovazione e una restaurazione di tutte le forze e di tutte le potenze dell'Universo; Cristo è lo strumento, il Centro, il Termine di tutta la creazione animata e materiale; per mezzo di lui tutto è creato, santificato, vivificato. Ecco l'insegnamento costante e corrente di San Giovanni e di San Paolo ( il più cosmico degli scrittori sacri ), insegnamento passato nelle frasi più solenni della Liturgia …, ma che noi ripetiamo e che le generazioni ripeteranno fino alla fine, senza poterne padroneggiare, ne misurare il significato misterioso e profondo, legato come è alla comprensione dell'Universo. Dall'Origine delle cose, un Avvento di raccoglimento e di lavoro ha avuto inizio, nel corso del quale, docilmente e amorosamente, i determinismi si piegavano e si orientavano nella preparazione di un Frutto insperato eppure atteso. Così armoniosamente adattate e maneggiate che il supremo Trascendente sembrerà germinare interamente dalla loro immanenza, le Energie e le Sostanze del mondo si concentravano e si purificavano nel ramo di Jesse; esse componevano coi loro tesori distillati e accumulati, il gioiello scintillante della materia, la Perla del cosmo e il suo punto di congiunzione con l'Assoluto personale incarnato, la beata Vergine Maria, Regina e Madre di tutte le cose, la vera Demetra … e quando venne il giorno della Vergine, la finalità profonda e gratuita dell'Universo si rivelò improvvisamente: dal tempo in cui. il primo soffio dell'individualizzazione … faceva sorridere in lui le monadi originali, tutto era in movimento verso il Bambino, nato dalla donna … E dopo che Gesù è nato, è cresciuto, è morto, tutto ha continuato a muoversi, perché il Cristo non è totalmente compiuto. Non ha ricondotto a sé le ultime pieghe della veste di carne e d'amore formata ai suoi fedeli … Il Cristo mistico non ha raggiunto la sua completa crescita, e quindi neppure il Cristo cosmico. L'uno e l'altro insieme esistono e diventano e nel prolungamento di questa nascita è situata la molla suprema di ogni attività creata. Mediante l'Incarnazione che ha salvato gli uomini, il Divenire stesso dell'Universo è stato trasformato; Cristo è il termine dell'Evoluzione anche naturale degli esseri; l'Evoluzione è santa. Ecco la verità liberatrice, il rimedio divinamente preparato per le intelligenze fedeli, ma appassionate, che soffrono di non saper conciliare in esse due slanci quasi ugualmente imperativi e vitali: la fedeltà al mondo, la fede in Dio ». L'opera di Teilhard rappresenta certamente uno dei più grandi sforzi contemporanei per allargare e rinnovare la cristologia. Secondo lui, il cristianesimo deve ringiovanirsi e dilatarsi per far fronte alle richieste di un mondo che si scopre sempre più vasto. Teilhard infatti intuisce una differenza di livello, per lo meno al suo tempo, tra l'immensità sorprendente dell'universo ( spazio, durata, complessità ) rivelata dalla scienza, e la presentazione troppo spesso ristretta, meschina, statica, giuridica del mistero di Cristo. I non credenti si allontanano da un Cristo che è loro presentato come più piccolo del mondo; i credenti sono lacerati nel più profondo di se stessi. Come ridare al Cristo Signore tutta la sua « realtà » in un universo in espansione? Teilhard non aveva forse gli strumenti filosofici e teologici adatti per fondare e formulare le sue intuizioni, ma ha giustamente presentito la necessità di un aggiornamento della teologia tradizionale. Una cosa è certa, la cristologia è nel cuore del pensiero religioso di Teilhard. La questione, per lui, si pone così: che ne è di Cristo in un mondo in cui la complessità e l'immensità dell'universo scoppiano da ogni parte? Occorre esplicitare, dispiegare una cristologia che sia proporzionata alle dimensioni dell'universo, cioè riconoscere che Cristo possiede, in virtù dell'incarnazione e della redenzione, attributi universali e cosmici che fanno di lui il centro personale dell'evoluzione. « Universalizzare Cristo è il solo modo di conservargli i suoi attributi essenziali in una creazione prodigiosamente ingrandita »: è anche il solo modo di captare, ma correggendoli, tutti i tentativi dei panteismi moderni. Mentre la nozione di Cristo-Re evoca un potere che rischia di essere concepito come puramente giuridico, quella di Cristo universale propone il Cristo come centro organico dell'universo intero ( compresi gli angeli e gli uomini ). Fino a oggi, nota Teilhard, si sono messi in luce soltanto due aspetti di Cristo: l'uomo Gesù e il Verbo di Dio. Un terzo aspetto è rimasto nell'ombra, cioè il Cristo universale affermato da san Paolo. Ritorniamo a san Paolo, scrive Teilhard nel 1927, ricordiamoci che il soprannaturale si nutre di tutto e accettiamo fino in fondo queste magnifiche prospettive, secondo le quali il Cristo di san Paolo ci appare come Colui in cui tutto è creato e Colui in cui il mondo intero, con tutta la sua profondità, la sua larghezza, la sua grandezza, il suo fisico, il suo spirituale, raggiunge e prende consistenza. È infatti su san Giovanni e san Paolo che Teilhard si basa per proporre la sua visione del Cristo universale. Il Prologo di san Giovanni ci insegna che il Cristo dei Vangeli è la Parola di Dio che ha preso carne tra gli uomini, che si è immerso nella materia. Nascondi San Paolo da parte sua afferma che « tutto è stato creato per mezzo di lui » e « che tutto sussiste in lui » ( Col 1,15-19 ). Teiihard, che vede in tutta l'evoluzione una ricerca di unità cosmica, poiché il mondo materiale si sintetizza nell'uomo, e l'umanità a sua volta è collegata, tenuta insieme da un'energia unificante e amorizzante, si basa su questi messaggi della Scrittura per affermare l'indentila del punto Omega con Cristo Signore e col suo Corpo mistico. San Bruno è stato sedotto dal Cristo solitario; san Francesco dal Cristo povero; san Domenico dal Cristo verità; sant'Ignazio dal Cristo capo e re. Teilhard è stato affascinato dal Cristo universale di san Paolo, centro e capo dell'universo, presente a ogni momento dell'avventura cosmica e umana che regge dall'alto. Per Teiihard, il Cristo universale, è il suo modo di capire l'incarnazione in tutta la sua pienezza, e con tutte le sue implicazioni concrete; è il Verbo incarnato, col suo prolungamento e il suo compimento nel Cristo risuscitato e nel Cristo eucaristico. Cerchiamo di cogliere il significato dell'espressione nella prospettiva di Teilhard con le sue componenti e il peso di ciascuna. 1. In un primo significato il Cristo universale non è altra cosa che Gesù di Nazareth, il Cristo storico dei Vangeli. Nel 1944 Teilhard scrive a questo proposito: « Concretamente e storicamente, è incontestabile che la nozione viva e conquistatrice di Cristo universale è apparsa ed è cresciuta nella coscienza cristiana a partire dall'Uomo-Gesù riconosciuto e adorato come Dio. Ancora oggi, sopprimere la storicità di Cristo … sarebbe far sfumare immediatamente nell'irreale tutta l'energia mistica accumulata da duemila anni nel phylum cristiano. Cristo nato dalla Vergine e Cristo risorto formano un blocco inscindibile ». « Più si riflette sulle leggi profonde dell'Evoluzione, dice ancora Teilhard, più ci si convince che il Cristo universale appare alla fine dei tempi al vertice del mondo perché si era prima di tutto introdotto strada facendo, attraverso la nascita, sotto forma di un elemento. Se veramente è per mezzo del Cristo-Omega che il mondo si tiene in movimento, è in compenso dal suo germe concreto, l'uomo di Nazaret, che il Cristo-Omega trae … per la nostra esperienza, tutta la sua consistenza ». 2. È quindi Gesù di Nazareth che Teilhard ha in vista quando identifica il Cristo della rivelazione all'Omega dell'evoluzione. Questa identificazione lo conduce a una seconda affermazione, cioè che Cristo forma un centro personale per tutta l'umanità e per tutto l'universo materiale. Nell'ordine concreto attuale Cristo ha ormai la funzione del Dio-Omega, centro personale, che esercita la sua influenza unificante e amorizzante su tutto il processo dell'evoluzione. Questa destinazione del Cristo è un favore inatteso e gratuito che il mondo non poteva naturalmente aspirare a ricevere, ma resta vero che l'incarnazione ha così bene rifuso l'universo nel soprannaturale, che parlando concretamente, non vi è più nell'universo che un solo centro, insieme naturale e soprannaturale, che muove tutta la creazione, cioè Cristo Gesù, centro personale e cosmico di tutto e di tutti. Ormai il mondo è centrato in Cristo Jesu. D'altra parte, Cristo non potrebbe centrare in lui l'universo, se questo non avesse offerto all'incarnazione un punto privilegiato in cui tutte le fibre cosmiche tendono a congiungersi. Nel 1951 Teilhard scrive: « Per incorporare ( secondo l'espressione di san Paolo ) tutte le cose in sé e poi rientrare nel seno del Padre col mondo in lui, non basta a Cristo … santificare soprannaturalmente una messe di anime, ma gli occorre anche, con lo stesso movimento, portare creativamente la Noogenesi cosmica al termine naturale della sua maturità ». Il Cristo universale è il Super-Cristo, cioè « il Cristo di sempre, che si rivela a noi sotto una figura e delle dimensioni, con una urgenza e una superficie di contatto, allargate e rinnovate ». A questo punto possiamo inserire un testo già citato: « Si voltino e rivoltino le cose come si vorrà, l'Universo non può avere due teste, non può essere bicefalo … Centro universale eristica, fissato dalla teologia, e Centro universale cosmico, postulato dall'antropogenesi: i due focolai, in fin dei conti, coincidono ( o per lo meno si sovrappongono ) necessariamente nell'ambiente storico in cui ci troviamo posti. Cristo non sarebbe il solo Motore, il solo sbocco dell'Universo, se l'Universo potesse, in un modo qualsiasi unificarsi, anche a un grado inferiore, al di fuori di lui » ( Super-Humanité, Super-Christ, Super-Charifé, 1943, Oeuvres 9, pp. 209-210 ). La funzione del Cristo universale si basa in primo luogo sull'incarnazione. Per Teilhard l'incarnazione è il mistero centrale del cristianesimo. Dio ha creato per incarnarsi e per divinizzare gli uomini: incarnazione e divinizzazione dell'uomo sono tutt'uno. Sotto questo aspetto, la Natività o l'Epifania di Dio nella carne, hanno maggior peso nella cristologia di Teilhard che la risurrezione. Teilhard sottolinea molte volte, e con forza, tutta la « serietà » dell'incarnazione: Dio si è veramente « immerso » nella, materia e nel mondo: « Il Redentore non ha potuto penetrare la Stoffa del Cosmo, infondersi nel sangue dell'Universo che fondendosi prima nella materia per poi rinascere … La piccolezza del Cristo nella sua culla e le piccolezze ben più grandi che hanno preceduto la sua apparizione tra gli uomini, non sono soltanto una lezione morale di umiltà. Esse sono innanzitutto l'applicazione di una legge di nascita e, consecutivamente, il segno di una influenza definitiva di Gesù sul mondo. È perché Cristo si è inoculato nella materia che non è più separabile dalla crescita dello, Spirito, talmente incrostato nel mondo visibile che non si potrebbe più strapparvelo ormai se non facendo crollare le fondamenta dell'Universo. Di ogni elemento del mondo ci si può chiedere, da buon filosofo, se non estenda le sue radici fino agli estremi limiti del Passato. A maggior ragione conviene riconoscere a Cristo questa misteriosa preesistenza! Non soltanto in ordine intentionis, ma in ordine naturae, omnia in eo condita sunt. Le prodigiose epoche che precedono il primo Natale non sono vuote di lui, ma permeate dal suo influsso potente. È l'agitazione della sua concezione che mette in movimento le masse cosmiche e dirige le prime correnti della Biosfera. È la preparazione della sua nascita che accelera il progresso dell'istinto e la fioritura del Pensiero sulla Terra. Non scandalizziamoci più stupidamente delle attese interminabili che ci ha imposto il Messia. Non ci voleva niente di meno delle fatiche estenuanti e anonime dell'Uomo primitivo, e l'antica bellezza egiziana, e l'attesa inquieta d'Israele, e il profumo lentamente distillato dei mistici orientali, e la saggezza cento volte raffinata dei Greci, perché sullo stelo di Jesse e dell'Umanità potesse sbocciare il Fiore. Tutte queste preparazioni erano cosmicamente, biologicamente necessarie perché Cristo mettesse piede sulla scena umana … Quando Cristo apparve nelle braccia di Maria, aveva sollevato il mondo ». Così, mediante l'incarnazione, Cristo « è interiore al mondo, radicato nel mondo fino al cuore del più piccolo atomo ». L'evoluzione non potrebbe essere pienamente evoluzione, se una « involuzione », cioè l'incarnazione, non le garantisse un significato che la trascende. Vi è evoluzione dell'immanente, perché nel Verbo incarnato, vi è involuzione trascendente. Mediante l'incarnazione. Cristo incorpora quindi non soltanto tutta l'umanità, ma anche tutto il mondo materiale assunto da questa umanità. « Supposto stabilito, attraverso la sua incarnazione, in questo punto cosmico di ogni convergenza, Cristo diventa immediatamente coestensivo all'enormità spaziale … Così posto, Cristo si trova anche, con la stessa agiatezza, in equilibrio con l'abisso temporale in cui si immergono le radici dello spazio … Che Cristo sia emerso nel campo delle esperienze umane un istante soltanto, due mila anni fa, questo non potrebbe impedirgli di essere l'asse e il vertice di una maturazione universale ». La funzione del Cristo universale si basa in secondo luogo sulla risurrezione che è la manifestazione sensibile della padronanza del Cristo sull'universo. La risurrezione « segna la presa di possesso effettiva da parte di Cristo delle sue funzioni di Centro universale. Fino a quel momento era dovunque come un'anima che faticosamente riunisce i suoi elementi embrionali. Ora irraggia su tutto l'universo come una coscienza e un'attività padrone di sé. È emerso dal mondo dopo esservi stato battezzato. Nascondi Si è esteso fino ai cieli dopo aver toccato le profondità della Terra: descendit et ascendi! ut impleret omnia ( Ef 4,10 ). Quando, di fronte a un Universo la cui immensità fisica e spirituale si rivela a noi sempre più vertiginosa, siamo spaventati dal peso sempre crescente di energia e di gloria che si deve depositare sul figlio di Maria per avere il diritto di continuare ad adorarlo, pensiamo alla risurrezione ». È questo il momento di sottolineare che, per Teilhard, creazione, incarnazione e redenzione sono tre misteri intimamente legati. Già nel 1918, scrive: « Creazione, Incarnazione, Redenzione pur segnando ciascuna un grado in più nella bellezza dell'operazione divina, non sono esse tre atti indissolubilmente legati nell'apparizione dell'essere partecipato? ». Nel 1945, in Cristianesimo e evoluzione, propone i tre misteri come collegati tra loro e collegati all'idea del Cristo universale. Infine, in questa impresa di aggregazione universale dell'universo, Teilhard attribuisce una funzione importante all'eucaristia. Attraverso l'eucaristia, infatti. Cristo si rende capace di unirsi, « corpo in quanto persona », a tutti i fedeli, in ogni momento e in ogni luogo. Cristo diventa così, fìsicamente, un ambiente di vita e un centro che controlla il movimento totale dell'universo. Mediante questa presenza e questa azione, Cristo santifica l'umanità e in qualche modo la materia apportandole una promessa di trasfigurazione. Attraverso l'eucaristia, che prolunga l'incarnazione, l'onnipresenza di Cristo raggiunge la totalità dell'universo e della sua durata. Nel 1926, ne L'ambiente divino, Teilhard scrive: « Se quindi l'Eucaristia influisce sovranamente sulle nostre nature umane, la sua energia si estende necessariamente, per effetto di continuità, alle regioni meno luminose che ci sostengono … A ogni istante il Cristo eucaristico controlla, dal punto di vista dell'organizzazione del pieremo … tutto il movimento dell'universo … La nostra umanità assimilando il mondo materiale, e l'Ostia assimilando la nostra umanità, la trasformazione eucaristica trabocca e completa la transustanziazione del pane all'altare. In un senso secondo e generalizzato, ma in un senso vero, le specie sacramentali sono formate dalla totalità del mondo e la durata della creazione è il tempo richiesto per la sua consacrazione ». La materia del sacramento è il mondo stesso, in cui Cristo è presente per portarlo a compimento. Attraverso l'eucaristia, l'evento dell'incarnazione raggiunge tutti gli uomini di tutti i tempi. In realtà, dalla creazione del mondo, un solo avvenimento decisivo si sviluppa, cioè la divinizzazione del mondo mediante l'incarnazione e mediante il suo prolungamento, l'eucaristia. Questa presenza eucaristica che prosegue e cresce fino alla fine dei tempi, autorizza Teilhard a parlare del « Cristo sempre più grande », cioè del Cristo il cui potere sul mondo e sugli uomini si estende sempre più. Mediante l'eucaristia si prepara il Cristo totale, il Cristo della parusia. « Al di là dell'Ostia transustanziata, attraverso il susseguirsi dei secoli, l'incarnazione mai terminata, trasforma. Vi è una sola Messa al mondo, in tutti i tempi: la reale ostia, l'ostia totale, è l'Universo che, sempre un po' più intimamente, Cristo penetra e vivifica. Dalla lontana origine delle cose fino alla loro imprevidibile consumazione, attraverso le agitazioni innumerevoli dello spazio senza limiti, la Natura intera subisce lentamente e irresistibilmente, la grande Consacrazione. In fondo, una sola cosa si fa, da sempre e per sempre nella Creazione: il Corpo di Cristo ». Così l'universo si muove verso l'uomo e l'uomo si muove verso la sua consumazione finale, attirato da Cristo che, mediante la sua continua attività creatrice ( come Verbo ), mediante la sua attività santificante nelle anime ( come Cristo salvatore risorto ), mediante la sua onni-presenza eucaristica, costruisce il suo Corpo mistico e prepara il pleroma, unione in Cristo dell'umanità e dell'universo. Il processo intero della creazione è in vista del pleroma, stato finale del mondo, consumazione di tutte le cose ( umanità e cosmo ) in Cristo. Le espressioni di Teilhard sono a volte oscure, le sue spiegazioni insufficienti, ma esse non mirano che a esprimere, in un certo modo, a partire dall'evoluzione, la funzione cosmica attribuita al Cristo da san Paolo. Teilhard intende sottolineare decisamente che la cosmogenesi è una cristo genesi. Come Verbo incarnato, Cristo sostiene tutto, anima tutto, orienta tutto. In una parola, il Cristo universale, è Dio incarnato, e dunque il Cristo storico, ma col suo prolungamento e il suo compimento nel Cristo risorto e il Cristo eucaristico che perpetua la sua presenza e la sua azione fino alla parusia. Il Cristo universale è una sintesi del Cristo e dell'universo. Teilhard ha scoperto nel Cristo universale, colui che sognava: il Cristo capo del mondo cosmico e umano, ricapitolatore, che deve tutto rimettere al Padre; il Cristo totale, con la realtà del suo corpo mistico; il Cristo tutto in tutti. Questo Cristo non si capisce bene che in un mondo che ha fatto scoppiare le dimensioni di spazio-tempo. Questo Cristo totale e totalizzante: ecco il vero punto Omega. Creando il mondo Dio ha voluto Cristo; per avere Cristo ha dovuto creare l'uomo; per avere l'uomo ha dovuto creare l'enorme movimento della vita cosmica e organica. Fin dalle origini tutto sale verso lo spirito nell'attrazione del Cristo universale. Verso la fine della sua vita, Teilhard scrive da New York: « La sola cosa chiara concernente l'avvenire è che io vorrei impiegare il più intensamente possibile gli ultimi anni che mi restano, a cristificare ( come ho detto ) l'Evoluzione ( ciò che suppone insieme il lavoro scientifico per stabilire … la convergenza dell'Universo, e il lavoro religioso per far emergere la Natura universale del Cristo e della storia ). Questo, e poi finire bene, cioè morire testimoniando questo Vangelo ». Capitolo terzo - XV XV. Cristo evolutore e Cristo parusiaco Questa due espressioni descrivono gli aspetti dinamici del Cristo universale. Termine, dal suo compimento, piuttosto che partendo dalle sue origini. Da qui l'importanza del punto Omega. L'universalità del Cristo non si capisce che in funzione dell'evoluzione. 1. Il Cristo universale, è il Cristo evolutore, cioè colui che è insieme motore ( colui che fa evolvere senza evolvere lui stesso ) e termine dell'evoluzione. Nessun elemento del mondo infatti, in nessun istante del mondo, che sia mosso, che si muova o debba muoversi al di fuori del suo influsso. Ugualmente, Cristo è il termine in cui convergono tutte le linee del mondo; è lui che da alla creazione la sua consistenza; di conseguenza è in lui, « Capo della creazione », che si compie e culmina l'evoluzione. « Cristo animatore e collettore di tutte le energie biologiche e spirituali elaborate dall'Universo. Dunque infine Cristo Evolutore … Tale è la figura, esplicita e generalizzata, sotto la quale Cristo Redentore e Salvatore si presenta ormai alla nostra adorazione ». Per Teilhard, « Cristo Redentore va completandosi ed esplicitandosi nella figura di un Cristo Evolutore ». Il Cristo evolutore implica dunque nel pensiero di Teilhard una coestensività del Cristo e dell'universo in evoluzione. Il Cristo non soltanto prende la sua parte dell'evoluzione cosmica: ma essa è « la sua stessa avventura ». Molto presto Teilhard parla di una « informazione progressiva dell'Universo mediante Cristo »; Cristo è il « principio plasmatico » dell'universo; Cristo agisce nell'elemento cosmico per « soggiogare » e « assimilarsi » tutto il resto; Cristo è il « collettore delle energie ». La cristogenesi è l'ascesa di una presenza e di una potenza unificanti. Senza dubbio è attraverso i lavori dell'uomo, immagine di Dio, e del cristiano, sale della terra, che il Cristo si manifesta maggiormente nell'universo per fecondarlo e trasformarlo. Tuttavia è pur sempre Cristo che in definitiva anima, muove l'universo mediante la sua azione sugli uomini, che incita a lavorare alla costruzione del mondo. 2. Il Cristo parusiaco, è il Cristo universale considerato nel suo stato finale. La natività è stata una prima parusia velata. La reale parusia del Cristo universale, totale, avrà luogo alla fine dei tempi, cioè alla fine dell'evoluzione. Per Teilhard il Cristo pleromizzante, che completa la misteriosa sintesi del creato e dell'increato, e il Cristo parusiaco, sono sinonimi. Poiché l'evoluzione è orientata, vi sarà una consumazione dei tempi, uno « sbocco » per il mondo. Questo sbocco, è il Cristo parusiaco, il Cristo totale, il Cristo compiuto, il Pantocrator, il Super-Cristo. Per Teilhard maturazione planetaria, noosferica e parusia coincidono. È impossibile evidentemente determinare il tempo della crescita dell'umanità, ma si può constatare l'ascesa della maturazione della noosfera. A dispetto delle scosse e dei detriti l'umanità si totalizza, si unifica. Cristo emerge. Questa maturazione psichica non può crescere senza fine. Quando avrà raggiunto il suo parossismo, si produrrà, come nelle tappe anteriori dell'evoluzione, un passaggio a un'altra sfera. Questa mutazione, questo passaggio è ciò che noi chiamiamo parusia. Questa per Teilhard è quindi legata alla maturazione psichica dell'umanità. Il ritorno di Cristo, tuttavia, rimane un intervento gratuito di Dio, anche se questo gesto non è arbitrario. Il massimo di maturazione dell'umanità non è raggiunto prima della parusia, ma con essa. Si tratta di un passaggio a un altro ordine, di una soglia, di un punto critico di cui solo la fede può assicurare l'evento. Inoltre nessuno sa come avverrà. In questo cammino verso la consumazione della storia, in questo processo di pleromizzazione, la Chiesa, agli occhi di Teilhard, è un fattore determinante. « L'affare unico del mondo, scrive, è l'incorporazione fisica dei fedeli al Cristo che è di Dio ». Ora la Chiesa è lo strumento privilegiato di questa impresa: essa è l'asse della cristificazione dell'universo. La pleromizzazione si compie in e mediante la Chiesa, che è l'ambiente divino per eccellenza. La funzione della Chiesa è di essere l'autentica portatrice dell'evoluzione, tra la risurrezione e la parusia. In effetti, la maturazione della noosfera, essendo innanzitutto un processo di amorizzazione, si traduce naturalmente nell'azione animatrice della Chiesa, « phylum d'amore », secondo l'espressione di Teilhard. La Chiesa è lo strumento, come pure il risultato di questo processo di amorizzazione. Mediante la carità che ispira e diffonde, la Chiesa costruisce poco a poco questo super-organismo che è il Cristo totale. La cristogenesi indica infine la crescita del phylum della Chiesa nel phylum umano. Di conseguenza sul piano apologetico, soltanto i segni d'amore trasformante, inseriti nel mondo di oggi sono capaci di rendere credibile l'annuncio del messaggio cristiano -attraverso la Chiesa. Da qui l'importanza insostituibile della testimonianza che dimostra la riuscita dell'amorizzazione. Capitolo terzo - XVI XVI. Impatto dell'apologetica di Teilhard Ricordiamo che per Teilhard il criterio di verità più decisivo è il massimo di coerenza. La verità di una visione del mondo, di una religione, si apprezza dalla sua capacità di dare un senso totale all'universo, come pure a ciascuno dei suoi elementi. « La vera religione … deve … riconoscersi da questo segno, che sotto la sua influenza e la sua luce, il mondo riveste, nel suo insieme, un massimo di coerenza per la nostra intelligenza e un massimo di interesse per il nostro gusto dell'azione ». Ora, nella visione del mondo che propone Teilhard, materia e spirito, scienza e religione, mondo e Cristo, si ritrovano uniti e armonizzati. Il luogo, come anche il mezzo di questo incontro e di questa sintesi, Teilhard li trova nel Cristo universale, -nel Cristo totale. La forza di Teilhard, nella sua visione del mondo, sta nella sua capacità integrativa: non lascia da parte nessun elemento, ma li riunisce tutti in una visione dinamica. Riesce a manifestare la coerenza universale dell'universo naturale e soprannaturale in Gesù Cristo. In questa visione, il fisico, il morale, il sociale, il religioso, sono assunti e unificati in Cristo e da Cristo. Riprendiamo in breve gli elementi di questa coerenza, fatta dell'incontro di due convergenze, o meglio, di una « convergenza » e di una « emergenza » ( Cristo ). Da una parte convergenza cosmica di un universo sottoposto a una evoluzione orientata, che progredisce nel senso di assestamenti sempre più complessi e coscienti fino allo spirito, e nel senso di una co-riflessione sempre più ardente. Il mondo converge su se stesso attraverso un movimento incoercibile e irreversibile d'unificazione. L'umanità è in cammino verso una sempre crescente libertà e personalità. D'altra parte, sotto l'azione del Verbo incarnato, la cui presenza storica è stata preparata da millenni di evoluzione, un dinamismo sempre più potente di unificazione, di personalizzazione, d'amorizzazione realizza l'unità di tutti gli uomini in Cristo, capo del corpo mistico. L'universo convergente si cristifica in un super-ambiente evolutivo. Fisico e cosmico, cosmico e cristico, vanno alla ricerca uno dell'altro. Nell'universo che converge, Cristo emerge per assumere e completare la convergenza cosmica. Così, solo il cristianesimo è capace di conciliare e riconciliare queste due visioni e queste due fedi: in un personale trascendente e in avvenire immanente. Solo Cristo realizza la sintesi dell'in-alto e dell'in-a vanti, del Dio dell'in-alto e del Dio dell'in-avanti. « Il Cristo-Universo così come lo capisco, dice Teilhard, è una sintesi del Cristo e dell'Universo ». « L'Universo e Cristo, ciascuno per conto suo, completandosi e coniugandosi ». In lui ( Omega ) tutto sale verso un focolaio di immanenza. Ma da lui tutto scende come da un focolaio di trascendenza. « L'Evoluzione salva Cristo ( rendendolo possibile ); e nello stesso tempo Cristo salva l'Evoluzione ( rendendola concreta e realizzabile ) ». Solo il cristianesimo, perché può mettere Qualcuno al vertice dello spazio-tempo, è in grado di dedicarsi al successo di una evoluzione personalizzata e personalizzante. « È qui che diventa lampante la virtù del Cristico, così come ci è apparso nei capitoli precedenti, generato dall'incontro progressivo, nella nostra coscienza, tra le esigenze cosmiche di un Verbo incarnato e le potenzialità spirituali di un Universo convergente. In seno all'Ambiente divino, una rigorosa composizione ha luogo … tra le forze del Cielo e le forze della Terra. Un'esatta congiunzione si produce tra l'antico Dio dell'In-Alto e il nuovo Dio dell'In-Avanti ». In verità dal momento in cui, invece di isolarlo e di opporlo a ciò che si muove, si « innesta » risolutamente sul Mondo in movimento, il Cristianesimo … riprende istantaneamente e integralmente il suo potere iniziale di attivazione e di seduzione. Perché esso soltanto, tra tutte le forze d'adorazione nate nel corso della storia umana, manifesta … lo stupendo potere di energificare all'estremo, « amorizzandole », sia le potenze di crescita e di vita sia le potenze di diminuzione e di morte, al centro e nel corso della Noogenesi in cui ci troviamo coinvolti. Il Cristianesimo ancora e sempre, lo ripeto: ma un Cristianesimo "rinato", sicuro come ai primi giorni di trionfare domani … perché solo capace di diventare la Religione specificamente motrice dell'Evoluzione ». Per Teilhard, l'universo evolutivo ubbidisce a una genesi orientata e ascendente, dalla materia alla vita, dalla vita allo spirito, dallo spirito a Cristo. È centrato sul piano dell'immanenza, perché l'umanità tende a planetizzarsi; è centrata sul piano della trascendenza, perché, più profondo che il centro virtuale del mondo, regna un centro reale: il Cristo. Tutto è stato creato per Cristo e, in lui, tutto trova il suo compimento. Tutto concorre all'edificazione del pleroma, cioè il Cristo e l'universo riunito da lui. Questa sintesi, o meglio, questo affresco gigantesco, prodigioso ( che evoca quello di Michelangelo nella Cappella Sistina ) di tutte le cose in Gesù-Cristo, polo e motore dell'evoluzione, Teilhard lo esprime in quanto scienziato, filosofo, sociologo, teologo, mistico, profeta, artista. Questo tentativo titanico di sintesi poteva difficilmente sfuggire all'incomprensione di certi spiriti che, per temperamento o per formazione, sono incapaci di entrare nelle nuove prospettive del mondo che ci rivela la scienza moderna. Ma Teilhard si rivolge innanzitutto agli scienziati del suo tempo. Questa coerenza e convergenza universale che Teilhard ha cercato, capace di armonizzare la scienza e la fede, l'ascesa di una evoluzione verso la riflessione e un'amorizzazione ardente dell'umanità, Teilhard l'ha infine trovata definitivamente nel Cristo universale, centro universale di coerenza e di convergenza. È lui che da significato e consistenza alla totalità del reale. È lui la chiave di intelligibilità del fenomeno umano considerato nella sua totalità; l'uomo e il suo universo segnato dallo spazio e dalla durata. Teilhard spera che la contemplazione di questa armonia universale, di questa coerenza sovranamente intelligibile, sia di natura tale da suscitare nell'uomo di scienza interesse, attrazione, e forse anche, sotto il soffio dello Spirito, adesione e consenso. Capitolo terzo- Nota biografica Opere: « Index bibliographique et chronologique des oeuvres », in Oeuvres de Pierre Teilhard de Chardin, t.l3: Le Coeur de la Matière, Éditions du Seuil, Paris, 1976, pp. 225-245 ( trad. it. Il Saggiatore, Milano ). Studi: L. POLGAR, « Bibliografia de Historia Societatis Jesu », Archivium Historicum Societatis Jesu, indica tutti gli studi pubblicati su Teilhard dal 1956. Lessico: C. CUÉNOT, Nouveau lesique Teiihard de Chardin, Paris, 1968. BARJON L., Le combat de Pierre Teiihard de Chardin, Québec, 1971. BARTHÉLEMY-MADAULE M., La personne et le ararne humain chez Teilhard de Chardin, Paris, 1967; ID., Bergson et Teiihard de Chardin, Paris, 1963. BAUDRY G.-H., Qui était Teilhard de Chardin? Introduction a sa vie et a san oeuvre, Lille, 1972; ID., Le Christ universel, Espoir pour le monde, Paris, 1979. BERGERON P., L'action humaine dans l'oeuvre de Teilhard de Chardin, Montreal, 1969. 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Vi è nei nostri atti una incompletezza non soltanto di fatto, ma di diritto, cioè un'incompletabilità naturale e incurabile. La dialettica messa in opera da Blondel mette in luce in noi « una fessura inguaribile » che non può essere colmata che da un Altro, non da noi. Per dare significato alla sua vita, l'uomo deve rimanere aperto alla possibilità di un Dono divino che, per il credente, è evidentemente la rivelazione cristiana o la risposta attesa. Se il nostro studio verte principalmente su L'Azione, è innanzitutto perché quest'opera, che è il capolavoro di Blondel, pone direttamente il problema che ci occupa. In alcuni punti è chiaro che L'Azione è invecchiata. Numerose preoccupazioni del nostro tempo vi sono assenti. D'altra parte il suo stile, brillante, ma spesso oratorio e moralizzante, ci stanca più presto di quello di Pascal o di Teilhard: è il segno della sua epoca. Ma per quanto riguarda il problema del senso della vita, dell'agire umano, rispetto alle richieste dell'uomo e alle promesse del cristianesimo, L'Azione non è invecchiata. Capitolo quarto - I I. L'ambiente e le influenze Per capire Blondel occorre tener presente il triplice quadro della sua esistenza: la sua formazione spirituale, l'ambiente intellettuale del suo tempo, il progetto fondamentale realizzato ne L'Azione. 1. Vita spirituale. Blondel è stato formato in un ambiente familiare profondamente cristiano e praticante. Per lui, « ogni parola del Vangelo … ha un senso assoluto », ciascuna è « vivente fino alle sue estreme profondità » ( CI: 276 ). I Quaderni intimi testimoniano che molto presto ha voluto uguagliare il suo pensiero alla sua vita, alla sua azione: « Tra il mio pensiero e la mia vita, mi sento portato a stabilire un accordo il più completo possibile » ( CI: 553 ). Una zia, che ha perso quando aveva ventidue anni, è stata per lui il modello di questo profondo accordo tra il Vangelo e la vita. Le sue grandi amicizie spirituali sono S. Paolo, S. Agostino, S. Bernardo. Basta leggere i Quaderni intimi, di cui molte pagine sono elevazioni spirituali, per cogliere tutta l'intensità di questa vita alimentata dal Vangelo. Non stupisce allora che l'idea del sacerdozio sia germinata in lui. Gli sembra « anteriore alla presa di coscienza che ne ho avuto » ( CI: 545 ). Il pensiero del sacerdozio lo ha accompagnato lungo i suoi studi al liceo di Digione, poi alla scuola Normale. È stato per lui fonte di fervore e catalizzatore della sua riflessione; esso ha fecondato il progetto apologetico espresso ne L'Azione. « Esso mi ha concesso, dice, di essere quel poco che sono, di pensare quello che penso, e di fare ciò che ho fatto. Mai senza di esso sarei stato elevato alla concezione filosofica che mi ha legato alla vita cristiana, e che mi ha stimolato ad andare fin dove in ragione può andare, fin dove deve andare per arrivare alla pura attesa religiosa » ( CI: 555 ). 2. Ambiente intellettuale. Blondel appartiene a una generazione che è considerata fra le più ricche nella storia della cultura francese. È la generazione di Barrès, Gide, Proust, Péguy, Claudel ( in letteratura ), Matisse et Rouault ( in pittura ), Ravel et Debussy ( in musica ), Bergson et Brunschvicg ( in filosofia ), Lagrange, Lebreton et De Grandmaison ( in teologia ). Dopo aver studiato al liceo di Digione, Blondel entrò alla scuola Normale superiore, nel 1881. Vi incontrò maestri e amici che lo segnarono profondamente. « Devo molto, dice, ai due maestri che ho incontrato alla scuola Normale, Emile Boutroux et Ollé-Laprune. Il secondo mi ha dato qualcosa della materia, e l'altro qualcosa della forma delle mie convinzioni filosofiche ». Infatti Ollé-Laprune, ispirandosi a Ozanam, volle rendere testimonianza al cristianesimo nel mondo filosofico e universitario del suo tempo. In lui pensiero e vita sono tutt'uno. Blondel lo imiterà. Da Boutroux, che è stato il suo maestro, il suo direttore di tesi, e un amico sempre fedele, Blondel imparerà la preoccupazione del rigore nelle analisi e il metodo genetico che governa L'Azione. Entrando alla scuola Normale, Blondel si trova in un ambiente ostile alla Chiesa e al cristianesimo. Basti ricordare che la vita pubblica della Francia alla fine del XIX e all'inizio del XX secolo è dominata dall'idea laica, modellata da Comte, Taine, Renan, Littré, Renouvier. Il dogma fondamentale dell'epoca è che la ragione umana può capire tutto, purché gli oggetti d'osservazione siano metodicamente spiegati e catalogati. Lo scientismo domina tutto, compreso le scienze dell'uomo. Lo scienziato è il santo dei tempi nuovi. La separazione tra la Chiesa e lo Stato manifesta nelle istituzioni politiche una rottura, già consumata da tempo al livello delle idee e dei costumi, tra la realtà umana e la realtà cristiana. Una vera filosofia voleva dire una filosofia separata dal cristianesimo e che l'ignorasse completamente. Parlare di filosofia cristiana era bizzarro tanto quanto parlare di chimica o di fisica cristiana. Presentarsi come cattolico negli ambienti della scuola Normale, provocava l'ironia o lo stupore accorato: come mai un ragazzo intelligente poteva dirsi cattolico? L'originalità di Blondel è stata di voler ristabilire i ponti, non elaborando un'apologetica che avrebbe esposto ai pensatori dell'epoca le credenziali storiche del cristianesimo, ma costruendo una filosofia che, per la logica stessa del suo movimento razionale, sarebbe andata incontro al cristianesimo, e, senza imporre la fede, avrebbe posto inevitabilmente il problema cristiano. Il problema che preoccupava allora il pensiero moderno, era il conflitto tra l'autonomia e l'eteronomia dell'esistenza. « Il pensiero moderno, notava Blondel, considera la nozione d'immanenza come la condizione stessa della filosofia, vale a dire che secondo esso niente può entrare nell'uomo che non sia già in lui e che non corrisponda a un bisogno di espansione; non vi è per lui verità che conti senza essere autonoma e autoctona. Ora, d'altra parte non vi è di cristiano e di cattolico, se non ciò che è soprannaturale … vale a dire che è impossibile all'uomo trarre da se stesso ciò che tuttavia si pretende imporre al suo pensiero e alla sua volontà ». Ecco come Blondel definisce l'opposizione esistente alla sua epoca tra il cristianesimo e il pensiero moderno. Si deve quindi togliere questa obiezione di principio e dimostrare che le esigenze del Vangelo, in realtà, rispondono a un appello dal di dentro, in modo che l'eteronomia appaia come la condizione stessa della reale autonomia. « Il soprannaturale, spiega ancora Blondel, costituisce un doppio scandalo per il filosofo: da una parte è autentico soltanto se è dato dall'alto e ricevuto, ma non trovato e scaturito da noi; e d'altra parte questo dono, gratuito nella sua sorgente, è obbligatorio per il destinatario, in modo tale che, impotenti a salvarci, abbiamo il potere di perderci per sempre ». Blondel fa notare allora: ciò che sembra una incompatibilità è anche ciò che permette l'avvicinamento e l'incontro. Dal momento, infatti, che l'atteggiamento neutro è impossibile e che l'uomo è impegnato, volendo nolendo, in un'esistenza che sfocia sulla vita o sulla morte eterna, il problema dell'incontro della filosofia e del cristianesimo è posto. Se è vero che le esigenze del Vangelo sono fondate ( cioè che l'uomo è impotente e che ha bisogno di salvezza ), ne consegue che in noi, non siamo completamente in noi. Di questa insufficienza dell'uomo e di queste esigenze della rivelazione, devono esserci delle tracce, degli indizi, un'eco, nell'uomo concreto, in modo che la filosofia, riflettendo sull'uomo, deve poter scoprire queste tracce. È il punto d'incontro che Blondel vuole stabilire tra filosofia e cristianesimo. Ne direttamente apologista, ne teologo in senso stretto, Blondel ha tuttavia intuito con rara profondità il problema centrale che poneva allora il pensiero non credente del suo tempo al cristianesimo. Perciò la sua opera ha avuto un'enorme risonanza sul pensiero religioso della fine del XIX e dell'inizio del XX secolo: non tuttavia senza procurargli attacchi sia da parte cattolica, che lo accusa di razionalizzare il cristianesimo e di ridurlo a una filosofia, sia da parte universitaria che lo accusa di misconoscere l'autonomia della filosofia e di volere soprannaturalizzare tutto. 3. Progetto di vita. Niente di meglio, per conoscere la fisionomia di Blondel e la sua intenzione fondamentale, che leggere i suoi Quaderni intimi. A questo proposito esiste un testo-testimonio importante, cioè le Memorie inviate al Signor B. il 9 settembre 1893, e redatte dopo aver dato la tesi. Fin dal liceo, dice Blondel, « la mia attrattiva era di conoscere lo stato d'animo dei nemici della fede, alfine di poter agire efficacemente su di loro » ( CI: 546 ). Perciò dopo essersi laureato in lettere, poi in scienze e in diritto, ebbe l'idea di proseguire i suoi studi letterari alla scuola Normale di Parigi. « Mi sembrava che questa scuola, che ispirava spavento intorno a me e a me, era la strada che si doveva percorrere per raggiungere i miei scopi, per armarmi contro coloro ai quali volevo far sentire la verità, per acquistare conoscenza più diretta e più profonda delle menti sviate o degli increduli sinceri dei quali il mio sogno di adolescente era quello di dissipare i pregiudizi parlando loro il loro stesso linguaggio» ( CI: 546 ). Di fatto Blondel fu ammesso alla scuola Normale. Questa decisione gli diede la pace. Non soltanto perché trovava alla scuola Normale il miglior impiego dei suoi doni intellettuali, ma inoltre perché « da nessun'altra parte, dice, avrei potuto sviluppare in modo così completo ciò che era per me la molla del mio pensiero e la ragione della mia vita, voglio dire quest'impresa di una filosofia cristiana, questo progetto di studiare i pregiudizi delle menti più coltivate, questa conoscenza delle risorse e degli obblighi nuovi dell'apologetica, questo desiderio ardente di provare che il pensiero cattolico non è sterile e fargli assegnare un posto nel conflitto delle dottrine moderne, da dove per molti sembra escluso » ( CI: 547 ). Così, come Pascal e Teilhard alla loro epoca, Blondel, frequentando la scuola Normale, vuole conoscere la mentalità del suo tempo, alfine di trovarvi un punto d'inserimento favorevole al cristianesimo. È stato servito a dovere, perché sovente si è scontrato, alla scuola Normale, con un atteggiamento di rifiuto, di chiusura totale nei riguardi del cristianesimo. « Perché, gli chiedeva uno dei suoi condiscepoli, sarei obbligato a tener conto di un fatto qualsiasi avvenuto 1900 anni fa in un angolo oscuro dell'impero romano, mentre mi glorio d'ignorare tanti grandi avvenimenti contingenti di cui la curiosità impoverirebbe la mia vita interiore? ». Lungi dal deprimerlo, questa resistenza è stata per Blondel l'occasione di considerare e di far maturare un progetto di tesi sul senso della vita e dell'azione umana. Nel frattempo, l'idea del sacerdozio non lo lasciava, senza tuttavia essere abbastanza chiara perché egli potesse prendere una decisione in proposito: « Questa idea, che mi sembra fissa, sfugge appena cerco di afferrarla; appena penso di sottrarmene, essa mi riafferra; tanto efficace quando mi porta a fare qualcosa al di fuori di essa, quanto vaga e inerte quando si tratta di fare qualcosa direttamente per essa » ( CI: 549 ). Il pensiero del sacerdozio gli appare come un elemento « dinamizzante » per la sua azione intellettuale e apostolica, ma non come una realtà immediata. Ma nel contempo il suo progetto di vita si precisa: « La mia ambizione, dice, è di dimostrare che l'uomo, pienamente fedele al suo voto di indipendenza, arriva a sottomettersi a Dio, che il supremo sforzo della sua natura è di confessare il bisogno di ciò che la supera, e che la sua volontà gli impedisce di giungere alla sua volontà vera » ( CI: 550 ). Blondel vuole risalire alla sorgente della mentalità della sua epoca per rimediare al male che propaga: « Senza dubbio sono penetrato dal sentimento che nessuna azione salutare è possibile senza l'iniziativa di Dio, e che l'unico principio di ogni verità feconda è nel cristianesimo: ma, giustamente, ciò che desidero è di dimostrarlo agli uomini di questo tempo,… è di attingere nel Vangelo ciò che vi si trova sempre di nuova luce, è di assimilarne, per i bisogni delle giovani generazioni, l'alimento sconosciuto che contiene, è di sprigionare dalla sua divina abbondanza una nuova ricchezza umana, e attraverso uno sguardo rispettosamente filosofico, giustificare la parola sempre vera: medius inter vos quem vos nescitis » ( CI: 551 ). Blondel riconosce che non si sente particolarmente dotato, a causa della sua estrema timidezza, per l'azione diretta, « nella mischia ». Il suo carisma è altrove. Si sente dotato piuttosto per esercitare un'azione discreta, a distanza, più lenta, ma forse più efficace su l'« intelligentsia » del suo tempo: « Ho notato che per la forma stessa del mio pensiero, ero portato a questo genere di lavoro per così dire sotterraneo » ( CI; 551 ). A dire il vero il successo de L'Azione dimostra che aveva ragione e che la sua ambizione non era una chimera: « Posso legittimamente sperare di far penetrare, di far prendere in considerazione la nozione di Rivelazione e l'idea del soprannaturale cristiano, in questo campo oscuro e ristretto dove si formano le correnti filosofiche » ( CI: 551-552 ). Non soltanto si precisa l'intenzione fondamentale del suo progetto, ma anche la prospettiva in cui si dovrà porre affinchè la sua opera sia accolta: « Mantenendo l'indipendenza e l'inaccessibilità dell'ordine soprannaturale, occorre dimostrarne la possibilità e la necessità per l'uomo. È un dono, ma questo dono gratuito non potrebbe essere facoltativo e supererogatorio; vi è quindi un bisogno che, superiore alla natura, sia conforme alle più profonde esigenze della natura. Perciò io parto dalle naturali pretese della ragione e dalle aspirazioni implicite della volontà; mi pongo sempre dove sono coloro a cui mi rivolgo, al di fuori del cristianesimo, alfine di far loro capire che non si può fare a meno del cristianesimo senza colpa e senza perdita; compito che mi sembra più utile che mai in un tempo in cui tante intelligenze non vogliono seguire che le vie naturali e in cui tutte le vie che conducono alla verità cattolica sembrano ostruite » ( CI: 552 ). Blondel definisce così il suo angolo d'approccio: « Ho cercato di mettermi esattamente al punto in cui si vede che l'ordine naturale non può essere nulla, ne essere tutto, dove, di conseguenza, l'ordine soprannaturale, benché distinto e gratuito, appare come necessario anche se inaccessibile all'uomo puramente uomo. Per considerare così questi rapporti, io rimango dalla parte della natura, spingo la ragione verso ciò di cui non può fare a meno, ne conquistarlo, ma non mi pongo nell'ordine superiore per attirarvi la ragione. Tento un'apologià laica e come laico le dò e le lascio il suo reale significato e la sua ragion d'essere » ( CI: 552 ). Blondel si è chiesto se, nel suo lavoro, non introduceva la filosofia nel campo riservato alla teologia o se, inversamente non insinuava indiscretamente la teologia nella filosofia. Boutroux al quale aveva sottoposto il suo manoscritto, lo rassicura: « Se il risultato di questo lavoro è di condurci alla soglia della religione, il carattere è non di meno filosofico » ( CI: 553 ). Blondel interroga ugualmente il suo amico domenicano Beaudouin, che gli dice: « Mantenete le vostre posizioni, che vi saranno senz'altro contestate: la vostra forza è di non penetrare nel campo della Rivelazione e di giungere al soprannaturale affermando che è inaccessibile quanto necessario all'uomo » ( CI: 553 ). Infine, dopo questo lungo dibattito per veder chiaro nella sua vocazione, Blondel conclude che farà opera più utile restando fuori dal santuario, cioè nel campo della filosofia e lavorando come laico. Se diventasse sacerdote, la sua missione sarebbe ostacolata. Rinuncia quindi al sacerdozio, cosciente tuttavia che l'idea del sacerdozio sarà stata all'inizio del suo disegno apologetico, come pure l'elemento fecondante, dinamico, provocatore della sua riflessione. « D'ora in poi e per tutta la vita non potrebbe essere indifferente il fatto che sono stato travagliato da questa idea; … è un'unzione di cui si rimane segnati » ( CI: 555 ). La fonte d'ispirazione della filosofia di Blondel, è quindi la sua fede cristiana; si deve anche aggiungere che, all'interno della sua vocazione cristiana, è l'idea del sacerdozio. Capitolo quarto – II II. La dialettica de « L'azione » Cerchiamo ora di rilevare la struttura e l'itinerario de L'Azione. Ma perché studiare l'azione? Nel 1886, nei suoi Quaderni infimi, Blondel risponde sotto forma di meditazione: « Mi propongo di studiare l'azione perché mi sembra che, nel Vangelo, è attribuito soltanto all'azione il potere di manifestare l'amore e di raggiungere Dio. Studierò l'azione perché in questo tempo non sappiamo più soffrire per agire e produrre. Manca la voglia. Si sa, si capisce, si sottilizza, si contempla, si gode; non si vive. In ipso vita erat et vita erat lux hominum. Vita innanzi tutto; vivere e agire col cuore, per vedere con lo spirito. Voglio dimostrare che la maniera più elevata di essere è agire; che la più completa maniera d'agire è soffrire e amare, che la vera maniera d'amare è aderire a Cristo » ( CI: 85 ). Il cristianesimo non è una gnosi, una pura speculazione, ma una vita, un fatto di amore. La filosofia dell'azione sarà una filosofia delle esigenze dell'amore. Più tardi, nell'Itinerario filosofico, definisce il suo progetto in opposizione all'ambiente che lo circonda e di cui voleva liberarsi: « Un ambiente dove gli estremi opposti si provocavano e non si compensavano, un ambiente dove si oscillava dal dilettantismo allo scientismo; dove il neo-cristianesimo alla russa si urtava alla dura virtuosità dell'idealismo radicale alla tedesca; dove nell'arte e nella letteratura come in filosofia, per non dire nella stessa pedagogia religiosa, mi sembrava trionfasse il nozionale, il formale, vedi l'irreale; dove gli sforzi stessi che si tentavano per riaprire le sorgenti di una vita profonda e di un'arte nuova non sfociavano che nel simbolismo, senza arrivare a riabilitare il concreto, il diretto, il singolare, l'incarnato, la lettera vivente che prende tutto il composto umano, la pratica sacramentale che insinua nelle nostre vene uno spirito più spirituale che il nostro spirito, il senso popolare e il realismo cattolico. Si credeva di arricchirsi attraverso l'inflazione di tutte le ideologie fiduciarie; come se le interpretazioni grafiche e le altere speculazioni dei semi-abili portassero più lontano e avessero più valore che le umili e sublimi realtà dei semplici e dei saggi! Ora, l'azione mi sembrava essere il « legame sostanziale » che costituisce l'unità concreta di ogni essere assicurando la sua comunione con tutti. Non è essa infatti la confluenza in noi del pensiero e della vita, dell'originalità individuale e dell'ordine sociale e anche totale, della scienza e della fede? Traducendo ciò che vi è di singolare, d'inedito, d'iniziativa in ciascuno, essa subisce tuttavia le influenze del mondo inferiore, del mondo interiore, del mondo superiore: essa viene dall'universale e vi fa ritorno, ma introducendovi il decisivo; essa è il luogo geometrico dove si incontrano il naturale, l'umano, il divino ». L'azione per Blondel è ciò che i moderni chiamano l'esistenza concreta dell'uomo totalmente impegnato. La sostanza dell'uomo è l'azione: egli è ciò che fa. L'originalità di Blondel è di situarsi al di qua dell'intelligenza e della volontà, alla sorgente comune, in questo dinamismo originale dell'essere spirituale, dove esse attingono la loro forza. Studia l'azione non mediante la descrizione psicologica, ma attraverso l'analisi riflessiva, per capire ciò che implica: è una dialettica delle implicazioni dell'azione: « L'azione è travagliata da una legge immanente e creatrice, un progetto che le da forma e di cui è possibile discernere il significato. Vi è una intenzionalità immanente, una specie di mira che opera all'interno dell'azione umana ». Fin dalle prime righe dell'opera Blondel pone il problema dell'azione in termini che ricordano Pascal: « La vita umana ha, sì o no, un senso, e l'uomo un destino? Agisco, ma senza neppure sapere che cosa è l'azione, senza aver desiderato vivere, senza conoscere esattamente chi sono e persino se esisto » ( A: VII ). E, d'altra parte, sento dire che i miei atti portano in essi una responsabilità che impegna o la vita o la morte. Non posso nemmeno rifugiarmi nel nulla. Se vi è qualcosa da capire, lo voglio capire. Voglio sapere se questo mistero che io sono per me stesso, ha qualche consistenza. « Scoprirò senza dubbio ciò che si nasconde nei miei atti, in questo estremo fondo dove, senza me, nonostante me, io subisco l'essere e mi vi attacco » ( A: VII ). Ne ho l'evidenza, sottolinea Blondel, l'azione nella mia vita è più che un fatto: è una « necessità » alla quale non posso sfuggire. Anche il suicidio è un atto. Più che una necessità, l'azione è spesso un obbligo: « essa si deve produrre attraverso me » ( A: VIII ). Anche se mi impone delle scelte dolorose, non posso sfuggirvi. E quando mi impegno in una dirczione, elimino per il fatto stesso un'infinità di atti possibili. Non ho nemmeno la possibilità di fermarmi, di non agire. Se non agisco di mia spontanea volontà, vi è qualche cosa in me o fuori di me, che agisce senza di me e spesso contro di me. Se tento di sottrarmi a delle opzioni decisive per la mia vita, sono asservito, perché non ho agito; se invece agisco sono assoggettato a ciò che ho fatto. In pratica nessuno sfugge all'azione e al problema che essa pone. E agendo, ciascuno risolve il problema nel senso della vita o della morte. Per capire il senso della condizione umana, si deve quindi affrontare il problema dell'azione umana, cioè studiare la dialettica della vita reale, percepire ciò che è inevitabile e necessario nello svolgimento dell'azione umana considerata nella sua totalità. « Mi sono posto, per così dire, all'interno dell'azione umana, dice Blondel … per riconoscere quali ne sono le esigenze, per misurarne tutta l'espansione irresistibile ». Perché l'itinerario sia rigoroso, occorre non presupporre nulla e non tralasciare nulla. Gli uomini hanno inventato una gran quantità di atteggiamenti per sfuggire alle esigenze dell'azione. Dobbiamo considerarle tutte, per vedere se portano in esse la loro giustificazione o la loro condanna. « Alla radice delle più impertinenti negazioni o delle più folli stravaganze della volontà, occorre quindi cercare se non c'è un movimento iniziale che persiste sempre, che si ama e che si vuole, anche quando si rinnega o se ne abusa. È in ciascuno che è necessario trovare il principio del giudizio da portare su ciascuno » ( A: XX ). Il problema dell'azione non è « una questione particolare, una questione come un'altra che si offre a noi. È la questione, quella senza la quale non ce ne sono altre» ( A:XXI-XXII ). In tutti gli atteggiamenti attraverso i quali l'uomo cerca di sfuggire alle esigenze dell'azione, Blondel dimostrerà che esiste sempre una « sproporzione » ( A: XXIII ); una « discordanza » ( A: XXIV ) tra ciò che si crede di volere e ciò che si vuole profondamente, tra l'oggetto voluto e il movimento « spontaneo » del volere. Vi è sempre inadeguatezza tra il termine dell'azione e lo slancio del volere, tra la volontà volente e la volontà voluta. Per volontà « volente », si deve intendere qui il dinamismo spirituale che anima l'uomo tutto intero, compresa la sua intelligenza: è l'essere dinamizzato. Dopo aver percorso tutta la serie degli itinerari umani, e osservato dovunque questa sproporzione, questa discordanza che rinasce sempre tra il voluto concreto e il dinamismo spontaneo dell'uomo, noi misuriamo l'ampiezza di questo dinamismo e siamo condotti a capire che l'uomo non può completarsi che aprendosi a un'altra azione che non è la sua. Si dimostra così che, nel suo profondo, alla sua radice, il volere umano, sempre « scalpitante », sempre insoddisfatto, è attesa e desiderio di qualcosa in più. Possiamo infine mostrare che il cristianesimo sembra essere la risposta appropriata a questo appello, a questo bisogno. Tale è già l'itinerario dell'Azione. La molla del metodo di Blondel è la dialettica della volontà voluta e della volontà volente, del movimento riflesso e del movimento spontaneo del volere. Essa è una tematizzazione riflessa del vissuto dell'azione. Diamo subito qualche precisazione. 1. Quando si parla di una sproporzione tra la volontà voluta e la volontà volente, si deve intendere con ciò una specie di discordanza inerente alla stessa volontà voluta, una specie di falla all'interno della volontà voluta. In altre parole, la volontà volente non esiste a lato della volontà voluta: si esercita in essa e, in se stessa, sfugge a ogni introspezione. Non appare che attraverso un'analisi regressiva, come una condizione di esercizio della volontà voluta, che sola è oggetto di conoscenza diretta. 2. L'intenzione fondamentale di Blondel è di dimostrare che noi vogliamo effettivamente, di fatto, in actu exercito, il soprannaturale ( senza poter tuttavia darcelo ), nel senso che è iscritto nel nostro dinamismo spirituale più profondo: in realtà, è l'essere elevato e dinamizzato dalla grazia. Questo volere effettivo del soprannaturale che Blondel intende manifestare, non è quindi quel volere esplicito che si esercita in seno alla fede, ma un volere implicito che solo l'analisi riflessa ( non l'introspezione psicologica ) conduce a riconoscere al princìpio dell'attività spontanea, in ogni uomo, fosse egli non credente. Attraverso il suo metodo d'immanenza, Blondel vuole condurre il non credente a riconoscere che vuole suo malgrado il soprannaturale, e ciò perfino nell'atto stesso mediante il quale lo rifiuta. Lo sforzo di Blondel consiste nel dimostrare che vi è, fin dall'origine, immanenza del trascendente in noi. 3. Notiamo che l'oggetto di questo soprannaturale non è ancora il soprannaturale sotto la forma positiva e determinata della rivelazione cristiana, ma sotto una forma ancora indeterminata. La dimostrazione di Blondel resta anteriore all'atto di fede e non esce dal campo della filosofia. 4. Infine Blondel non vuole stabilire che Dio deve donarsi, ma che l'uomo deve accogliere il suo libero dono, se si manifesta. Questo obbligo, senza dubbio, è proclamato dal Vangelo, ma occorre che questa notifica esteriore del dono appaia come una risposta a una attesa, a un volere implicito. L'Azione si compone di cinque parti. Le prime tre possono intitolarsi: « L'uomo nel mondo » e portano a concludere dell'insufficienza dell'ordine naturale. La quarta parte, intitolata « L'essere necessario dell'azione », conclude con la necessità di aprirsi all'azione divina. La quinta parte, intitolata, « Il compimento dell'azione », conclude con la necessità di prendere sul serio l'idea della rivelazione e dell'ordine soprannaturale, come lo definisce il cristianesimo. Le due ultime parti ci interessano particolarmente. 1. Parte prima: esiste un problema dell'azione? Per essere fedele al suo metodo, che consiste nel non supporre nulla, non tralasciare nulla, Blondel incomincia col domandarsi se questa questione ha un senso, se vi è motivo di porla. Incontra innanzi tutto l'atteggiamento negativo del dilettante e dell'esteta. Il dilettante elimina il problema, facendo coesistere in lui, se si può dire, diverse vite contrarie: « saggismo in azione » ( A:8 ). Egli pretende di gustare il piacere relativo di tutto, senza mai impegnarsi a fondo. Ma di fatto il suo atteggiamento rivela una contraddizione, perché pretendere di godere di tutto, senza niente volere, senza mai impegnarsi è volere se stessi: « Niente prima di me, niente dopo di me, niente al di fuori di me » ( A: 16 ). Non voler nulla è rifiutarsi ad ogni oggetto, ma per riservarsi interamente e proibirsi ogni dono di sé, ogni abnegazione. Si vorrebbe che l'essere non esistesse, ma si è felici di esistere per negarlo: egoismo radicale. Il dilettante vuole essere, al punto di annientare tutto di fronte al suo capriccio personale e sovrano. In fondo, ha un sistema come gli altri, perché ha la pretesa « di essere al di fuori e al di sopra di tutti gli altri » ( A: 17 ). « La sua dottrina, è di non averne allatto, e ne è una » ( A: 18 ). Il suo scopo è sostituire al dogmatismo assoluto, l'anarchia deliberata; all'obbligo morale, la fantasia infinita; all'unità dell'azione, il capriccio personale. In fondo sostituisce l'oggetto col soggetto, coll'Io ( A: 18 ). L'analisi dell'atteggiamento del dilettante manifesta due cose: 1) Sotto lo stesso sforzo che fa per non impegnarsi in nulla, vi è il proposito sottile e positivo di non volere che sé per oggetto ( A: 19-20 ). 2) Se pretende di perseverare nel non volere nulla, deve, per logica, annientare se stesso. Ma, in realtà, osserva Blondel, « ha sputato sulla vita solo per ubriacarsi di essa e di sé. Si ama abbastanza per sacrificare tutto al suo egoismo; si ama abbastanza male per dispendersi, sacrificarsi e perdersi con tutto il resto » ( A: 20 ). In breve, il dilettante pretende che il problema del destino umano non esiste. Ha un bel pretendere di non impegnarsi in nulla, si getta sul suo io, che diventa il suo oggetto. Non voler nulla è amare il proprio essere; e, d'altra parte, affermare il nulla è annientare se stesso. È volere e non volere nello stesso tempo ( A: 21 ). È mantenersi nella contraddizione. Si pretende sopprimere ogni problema della vita: in realtà, lo si pone. 2. Parte seconda: la soluzione del problema dell'azione è negativa? Quanto sopra conduce Blondel a considerare la soluzione negativa del problema della vita: quella del pessimismo e del nihilismo. Di fronte al problema del destino umano, che non si può eludere, vi è una soluzione: quella che pretende di fare del nulla la conclusione dell'esperienza umana, il termine della scienza e lo scopo dell'ambizione umana. I partigiani di questa soluzione preferiscono una soluzione radicale ai giochi del dilettante: « Perché tante storie per allontanare un problema chimerico? Una franca e brutale negazione vai di più che tutti i sotterfugi ipocriti e tutte le sofisticazioni del pensiero. Gustare la morte in tutto ciò che è perituro prima di essere sepolti anche noi, sapere che saremo annientati e volerlo essere, ecco per le menti chiare, libere e forti, l'ultima parola della liberazione, del coraggio e della certezza sperimentale: alla morte, tutto è morto » ( A: 23 ). Del resto, tutti quelli che hanno fatto l'esperienza della vita sotto le forme più svariate ( fortuna, ambizione, successi ), lo sanno: non ne ricavano che disgusto e vuoto. Ciò che si deve uccidere non è l'essere che non esiste, ma la volontà chimerica di esistere. Non si deve attendere nulla dalla vita, perché nulla può dare. La scienza conduce allo stesso risultato: conoscere è vano, perché la conoscenza mette in evidenza la vanità dell'essere umano. Essa non fa che allargare la zona del mistero. Così, « poiché la volontà di esistere non riesce a esistere, e in questo è il dolore supremo …, ciò che occorre, è uccidere in sé, non l'essere che non c'è, ma la volontà chimerica di essere, consentire al non essere della persona umana, recidere alle estreme radici il desiderio e ogni amore della vita: svelare la furberia di ogni istinto di conservazione e di sopravvivenza, è procurare all'umanità e al mondo la salvezza nel nulla, questo nulla che si deve definire l'assenza del volere » ( A: 29 ). A questa soluzione negativa del problema dell'azione mediante il pessimismo e il nihilismo, Blondel risponde: non si può concepire ne volere il nulla assoluto. Non si concepisce che affermando un'altra cosa. Non si afferma il nulla se non perché si ha bisogno di una realtà più sicura di quella che non si vuole accettare. « Si può pure stimolare il pensiero e il desiderio: nel voler essere, nel volere non essere, nel voler non volere, sussiste sempre questo termine comune, volere, che domina con la sua inevitabile presenza tutte le forme dell'esistenza o dell'annientamento e dispone sovranamente dei contrari » ( A:37 ). In realtà, la volontà del nulla procede da un amore assoluto dell'essere, deluso dall'insufficienza del fenomeno, dell'apparente ( A: 38-39 ). Così, la critica del dilettantismo dimostra che non si può eludere il problema del destino umano. La critica del nihilismo dimostra che non si può attenersi a una soluzione negativa: la volontà del nulla implica contraddizione. In realtà « ciò che si vuole è che ci sia qualche cosa, ma che questo qualche cosa basti a se stesso veramente ». Si vuole che ci sia qualche cosa di consistente. « Si vuole che il fenomeno esista, che la vita sensibile, che la scienza, che tutta questa immensità dell'universo conosciuto e da conoscere di cui riempiamo il nostro sguardo è il nostro cuore, esista, ed esista per noi. E dietro questo schermo del fenomeno, si spera che la vita sarà chiara, completa e soddisfacente; si vuole che l'azione vi si sviluppi e vi si concluda. C'è qualche cosa: questa semplice e vaga proposizione … finisce per diventare evidente e rassicurante tanto quanto lo è poco quell'ambigua e terribile parola: « non c'è nulla » … Queste parole ( vi è qualche cosa ) traducono il movimento ingenuo della vita che si innamora di se stessa e di tutto quanto la sostiene senza sapere ciò che è. Nei miei atti, nel mondo, in me, fuori di me, non so ne dove ne cosa, vi è qualche cosa » ( A: 40-41 ). « È su questa convinzione che la maggior parte della gente vive: è la strada lunga e larga su cui cammina il grosso dell'umanità » ( A: 41 ). « Da questo dato consentito, sorgerà, continua Blondel, mediante una segreta iniziativa, tutto l'ordine sensibile, scientifico, morale e sociale … E seguendo fino al termine delle sue esigenze lo slancio del volere, si saprà se l'azione dell'uomo può essere definita e limitata in questo campo naturale » ( A: 41 )". « La vita dell'uomo si ridurrà, sì o no, a ciò che è dell'uomo e della natura, senza ricorso a nulla di trascendente? » ( A: 42 ). Si tratta di sapere se la volontà dichiarata ( la volontà di superficie, voluta ) di limitare l'uomo al campo dell'attività naturale, è accordata alla sua volontà più profonda ( la volontà volente ), da dove procede tutta l'attività spirituale. Blondel arriva così alla terza parte della sua opera. 3. Parte terza: il fenomeno dell'azione Questa parte, molto sviluppata ( A: 43-323 ), corrisponde a ciò che si può chiamare la prima tappa della genesi del soprannaturale, secondo Blondel. Trova la sua analogia in Pascal nell'analisi della condizione umana; in Teilhard nell'analisi del fenomeno umano. Blondel vi sviluppa successivamente le diverse sfere dell'attività umana, considerando nello stesso tempo le dottrine .o gli atteggiamenti che vorrebbero limitare, circoscrivere il destino dell'uomo a qualche aspetto o settore dell'attività umana: per esempio, lo scientismo, il nazionalismo. Riassumiamo a grandi linee l'itinerario di Blondel. 1. Il dato umano più elementare è la sensazione ( il sensibile, lo sperimentale ). Ma la sensazione porta in essa un'incostanza che conduce l'uomo a superarla, creando la scienza. La scienza è necessaria, ma possiamo limitarci alla scienza? Può essa risolvere il problema della condizione umana, come lo pensa l'atteggiamento positivista? Vi è nella scienza e nelle certezze delle sue conquiste successive e indifinite, quella sufficienza assoluta, che fissa l'uomo nella certezza e nella pace? La scienza può ridurre alle sue leggi il mistero profondo dell'uomo? Blondel fa allora la critica dell'atteggiamento positivista. La scienza non basta, perché essa non basta a se stessa. Infatti nel suo lavoro di integrazione continua, mediante l'analisi e la sintesi, essa fa costantemente appello all'attività sintetizzante del soggetto conoscente. Ora chi è questo soggetto, questa coscienza organizzatrice? Non è un semplice determinismo psicologico, riducibile, anch'esso a leggi rigide. Perché la coscienza del determinismo dell'universo fisico si realizza tramite la coscienza del soggetto in quanto libero, cioè di un soggetto che sfugge al determinismo. La libertà esiste, « poiché mediante il punto in cui si pone ciò che il determinismo ha di vero, vi si sfugge » ( A:121 ). Non vi è coscienza del determinismo che attraverso la libertà, che è non-determinismo. L'idea di libertà sorge dal concetto stesso di determinismo. 2. Una volta apparsa, la libertà non può fermarsi qui. « Occorre infatti che la libertà si esprima e s'incarni per esistere e svilupparsi » ( A: 144 ). Il progetto, l'intenzione, hanno bisogno di realizzarsi attraverso l'azione. Concepire è aver agito, agire ancora e dover di nuovo agire. La libertà è progetto. È vero che passando all'atto il progetto sembra « limitarsi » perché, per esercitarsi, la volontà deve necessaria mente restringersi. La scelta obbliga a escludere altre possibilità d'azione. Inoltre, nel suo esercizio l'azione incontra degli ostacoli, sente delle resistenze. Ma occorre notare subito che, da questi ostacoli stessi, l'azione trae una sostanza di cui si nutre. « Agendo, è non soltanto la volontà dichiarata che trionfa in ciò che ha voluto …; è ancora la volontà che trionfa in ciò che non voleva, e che estrae dalle resistenze stesse l'oscuro desiderio che in essa cospirava » ( A: 195 ). Attraverso l'azione alle prese con le resistenze del corpo e dell'universo, la vita individuale si determina, il carattere si profila, la persona riceve la sua forma, « poiché a volte un solo atto basta a trasformarla » ( A: 196 ). La persona nasce dall'azione: l'uomo è ciò che si fa ( A:197 ). 3. Ma l'azione non si limita al cerchio della vita individuale: essa si impone al di fuori. Non c'è azione che non cerchi di esercitare una influenza. « L'uomo non basta a se stesso; occorre che agisca per gli altri, con gli altri, attraverso gli altri … Le nostre esistenze sono talmente legate che è impossibile concepire una sola azione che non si estenda in ondulazioni infinite, ben al di là dello scopo al quale sembra mirare » ( A: 198 ). « La coscienza individuale, che lo sappia o no, è una coscienza dell'universale » ( A: 198 ). L'azione è la funzione sociale per eccellenza. L'individuo, infatti, vuole contrarre una unione intima con un altro se stesso. È il movimento profondo della volontà individuale che vuole la società e che accetta in anticipo le suggestioni che impone. Blondel dimostra così, mediante l'analisi riflessiva, come la volontà genera la famiglia, la patria, la società umana tutta intera. 4. Tuttavia l'uomo proietta la sua intenzione più lontano ancora. Da una parte, ha bisogno di « solidarietà universale » per arricchire se stesso, ma, nello stesso tempo e attraverso lo stesso movimento, sente il bisogno di sottomettervisi, perché ha bisogno di un ordine da osservare che sia un appoggio alla sua condotta. Blondel fa qui la genesi della metafìsica e della morale. L'analisi delle condizioni dell'attività morale sfocia nella seguente conclusione: « Il termine al quale l'azione riflessa sembra sentire l'imperioso bisogno di attaccarsi, è un assoluto, qualche cosa d'indipendente e di definito che sia fuori dal concatenamento dei fenomeni, un reale fuori dal reale, un divino » ( A: 303 ). Da dove nasce questo bisogno « se non da ciò che, nello slancio primitivo della volontà, vi è di più di quanto non si sia ancora impiegato? Non essere affatto soddisfatti dell'effetto, è ammettere la superiorità della causa » ( A: 303 ). 5. Per completare la sua azione e perfezionarsi, l'uomo infine tenta di assimilare il divino e di fabbricarsi un dio a modo suo e di accaparrarsi mediante la sua sola forza di che bastare a se stesso. È il fenomeno della superstizione ( A: 304 ). « Questa infinitezza che sente oscuramente in sé e di cui ha bisogno per essere ciò che vuole essere », l'uomo la proietta in un idolo ( A: 306 ). Vuole in qualche modo captare l'infinito, imprigionarlo in un oggetto finito e dominarlo ( A: 306 ). « L'infinito finito, l'infinito posseduto e impiegato », ecco il culto superstizioso. Questa superstizione va più lontano del culto degli idoli. Blondel la scopre in molte pratiche dell'uomo civilizzato, ogni volta che « assolutizza » una sfera del finito: scienza, nazione, umanità. « Quando il metafisico, pretendendo di alloggiare nel suo pensiero l'oggetto infinito che persegue, s'immagina che, attraverso i suoi concetti e i suoi precetti, attraverso i suoi sistemi e attraverso la sua religione naturale, metterà le mani sull'Essere trascendente, per conquistarlo e padroneggiarlo in qualche modo, non è idolatra a modo suo? » ( A: 314 ). Perché è sempre una supertizione porre l'infinito e l'assoluto in un oggetto finito di cui l'uomo dispone, non fosse che mediante il suo pensiero. Quest'atteggiamento di ricerca dell'infinito è contraddittorio. Esso consiste infatti nel voltarsi verso tale o tale fenomeno, per farne qualcosa di più di ciò che è. Ora Blondel ha dimostrato, dopo aver studiato tutte le sfere dell'attività umana che nessuna di esse, ne la loro totalità, bastano a esaurire il volere profondo dell'uomo. E la prova è che l'uomo tende a conferire un valore assoluto ( che non ha ) all'una o all'altra di queste sfere. 6. La conclusione s'impone: « È impossibile non riconoscere l'insufficienza di ogni ordine naturale e non sentire affatto un ulteriore bisogno; è impossibile trovare in sé di che accontentare questo bisogno religioso. È necessario ed è impraticabile: ecco allo stato grezzo, le conclusioni del determinismo dell'azione umana » ( A:319 ). Blondel usa ancora un linguaggio indeterminato. Conclude semplicemente, in questa terza parte, che la condizione necessaria del compimento dell'azione umana, è inaccessibile all'azione umana. « Con la sua azione volontaria, l'uomo supera i fenomeni; non può uguagliare le proprie esigenze; vi è in lui più di quanto può impiegare da solo; non riesce, con le proprie forze, a mettere nella sua azione voluta tutto ciò che è al principio della sua attività volontaria » ( A: 321 ). Blondel osserva ancora: « Ogni tentativo di compimento dell'azione umana fallisce; ed è impossibile che l'azione umana non cerchi a completarsi e a bastarsi. Questo le occorre, e non lo può … Il sentimento dell'impotenza come del bisogno che l'uomo ha di completamento infinito, rimane incurabile. Così, tanto quanto ogni religione naturale è artificiale, altrettanto l'attesa di una religione è naturale » ( A:321 ). In quale inestricabile difficoltà la volontà umana si è impegnata e si è ficcata da se stessa! « Dove camminare? il fenomeno non basta all'uomo; non si può ne accontentarsene, ne negarlo. Si troverà, con una soluzione che sembra necessaria e tuttavia inaccessibile, la salvezza? » ( A: 322 ). 4. Parte quarta: l'Essere necessario dell'azione Questa parte corrisponde alla seconda tappa -della genesi dell'idea del soprannaturale in Blondel. La dialettica abbozzata nella terza parte ci conduce poco a poco all'idea dell'« unico necessario ». Il necessario inaccessibile riceverà allora il nome di soprannaturale. Ma questo termine, si vedrà, è inteso in un senso ancora molto generale, non specificamente cristiano. All'inizio della quarta parte, Blondel raccoglie tutto quanto ha sviluppato nella parte precedente e ripone il problema dell'azione, ma a partire dall'uomo che si interroga su se stesso. Il fatto, ormai verificato, che l'uomo pretende trovare la sua sufficienza nell'ordine naturale e che non vi riesce, costituisce per lui una crisi. Questa crisi appare non soltanto nel cuore dei suoi progetti particolari: essa è immanente alla sua stessa condizione umana. Infatti noi vorremmo bastare a noi stessi, e non lo possiamo. E d'altra parte, in quello che vuole, l'uomo incontra dovunque resistenza e sofferenza; in ciò che fa si insinuano debolezze o errori di cui non può riparare le conseguenze; infine, la morte viene a consacrare tutti questi fallimenti ( A: 324-332 ). Tuttavia, sottolinea Blondel, questo aborto apparente dell'azione voluta ( A: 325 ) manifesta l'indistruttibilità del dinamismo dell'attività volente, perché non avrei coscienza di questo aborto se non ci fosse in me una volontà superiore a tutte le contraddizioni della vita. La presenza in noi, di ciò che non è voluto ( errore, fallimento ), mette in evidenza la volontà volente in tutta la sua purezza. Tale è la condizione dell'uomo: ho coscienza che la mia vita è un fallimento, perché non posso darmi l'essere da me stesso, per essere pienamente. « Diviso tra ciò che faccio senza volerlo e ciò che voglio senza farlo, sono sempre come escluso da me stesso. Come quindi entrare e mettere nella mia azione ciò che vi si trova già senza dubbio, ma a mia insaputa e fuori dal mio tiro? Come uguagliare il soggetto al soggetto stesso? Per volermi io stesso pienamente devo volere più di quanto non abbia saputo trovare finora … Da me a me vi è un abisso che non posso colmare » ( A: 337-338 ). Se considero la strada percorsa sotto la costrizione del determinismo inflessibile, sono obbligato a concludere: non posso ne fermarmi, ne indietreggiare, ne avanzare da solo ( A: 339 ). « Nella mia azione, vi è qualcosa che non ho ancora potuto capire e uguagliare; qualche cosa che le impedisce di ricadere nel nulla e che è qualche cosa solo perché è nulla di ciò che ho voluto finora. Ciò che ho volontariamente posto non può quindi ne essere soppresso, ne durare » ( A: 339 ). « È questo conflitto, prosegue Blondel, che spiega la presenza forzata, nella coscienza, di un'affermazione nuova; ed è la realtà di questa presenza necessaria che rende possibile in noi la coscienza di questo stesso conflitto. Vi è un unico necessario » ( A: 339 ). E niente di tutto il resto è necessario. Riassumiamo la dialettica di Blondel. Finora ( terza parte ) tutto il campo in cui si svolge l'attività umana è stato inventariato, ma senza che il problema dell'azione sia stato risolto. « Impossibile fermarsi », dice Blondel, perché la volontà continua sempre a volere mentre non ha più nulla da volere ( come contenuto particolare ). « Impossibile indietreggiare », perché il problema rimane posto. « Impossibile avanzare solo », perché ciò che vi è al di là mi è inaccessibile. Davanti a questa triplice affermazione, si prova il sentimento di uno sconosciuto « inaccessibile », la cui presenza è « presentita » senza essere riconosciuta. Blondel dice a proposito di questo sconosciuto inaccessibile: « Senza conoscerne il nome e la natura, si può indovinare il suo approccio e quasi sentire il suo contatto, così come nel silenzio della notte, si sentono i passi e si tocca la mano di un amico che ancora non si riconosce » ( A: 340 ). Ma la dialettica prosegue sempre. Non avendo più oggetti finiti da volere, la volontà non può più tuttavia non volere. Dopo aver fatto l'inventario di tutto ciò che può essere voluto, rimane sempre uno iato, un'inadeguatezza tra il volontario e il voluto. Ne risulta che l'azione volontaria, che è andata di fallimento in fallimento, si vede costretta a un ripiegamento su se stessa: ricondotta al centro del soggetto, là dove il movimento della volontà è nato, e ciò in vista di un « supplemento d'inventario ». È qui che Blondel introduce le prove dell'esistenza di Dio: prove che riprende in modo nuovo, e non isolatamente, ma unendo mediante convergenza gli argomenti classici chiamati cosmologico, teologico, ontologico. Non si tratta di tre strade diverse ( alla maniera delle cinque vie di S. Tommaso ), ma piuttosto di tre forme diverse di un solo e stesso itinerario; si tratta di un solo corso che cambia tre volte di nome. Inoltre Blondel insiste: non si tratta « di una sterile soddisfazione dello spirito », « di argomento puramente logico » ( A: 340-341 ). Si tratta piuttosto di riconoscere « una presenza » in noi; si tratta di afferrare, nell'azione volontaria, ciò che già vi si trova ( A:340 ). L'argomento cosmologico degli scolastici parte dalla constatazione della contingenza delle cose sensibili e conclude con l'esistenza di una Causa prima, necessaria e fuori serie. Blondel parte dal mondo dei fenomeni. Esercitandosi in tutti i settori dell'azione umana, la volontà ha fatto l'esperienza della insufficienza di tutto ciò che esiste nel mondo finito: dell'effimero, del perituro. Non si può rinunciare a quest'ordine dei fenomeni e tuttavia non vi si può fermare: è un trampolino per prendere slancio e saltare più lontano. Se ne sente insieme il bisogno e l'insufficienza. Se quindi i fenomeni sono necessari alla volontà, senza tuttavia bastarle e bastarsi, vi deve essere, per sostenere questo perituro nell'essere, qualche cosa « che non è ne il nulla, ne il fenomeno » ( A: 344 ). In questa argomentazione, osserva Blondel, invece di cercare il necessario fuori dal contingente, come un termine ulteriore, lo si mostra nel contingente stesso, come una realtà già presente. Invece di farne un supporto trascendente, ma esteriore, si mostra che è immanente al centro stesso di tutto ciò che è » ( A:343 ). « La necessità relativa del contingente ci rivela la necessità assoluta del necessario » ( A: 344 ). A questo qualcosa tuttavia Blondel non da un nome. L'argomento teologico degli scolastici parte dall'armonia delle cose esistenti per concludere con l'esigenza di una Causa intelligente, responsabile dell'ordine dell'universo. Blondel invece parte dalla sproporzione che esiste tra l'ideale perseguito e il reale raggiunto dall'azione. L'ideale supera sempre il reale, e rinasce sempre. Non arriveremo mai a far coincidere il reale con l'ideale voluto. Il movimento mediante il quale noi cerchiamo di realizzare l'ideale e di idealizzare il reale, non potrebbe essere perseguito e svolgersi sempre se non fosse alimentato dalla presenza di una « inaccessibile perfezione » in cui l'ideale e il reale coincidono. « L'unico necessario » è questa identità del reale e dell'ideale che noi attraversiamo quando agiamo ( A: 344-348 ). Infine, l'argomento ontologico ( di Anselmo o di Descartes ) parte dall'idea in noi di un Essere assolutamente perfetto, per concludere all'esistenza reale di un tale Essere. Blondel parte dalla realtà del movimento stesso dell'azione in noi. « È quindi vero che, per raggiungere l'unico necessario, noi non lo afferriamo in se stesso, dove noi non siamo; ma noi partiamo da lui in noi, dove egli è, alfine di meglio vedere che è ( che esiste ) comprendendo un po' ciò che è » ( A: 348 ). « A mano a mano che, tramite un'esperienza più completa e una riflessione più penetrante, definiamo meglio a noi stessi ciò che noi non siamo, vediamo più chiaramente ciò senza di cui noi non saremmo » ( A: 349 ). Ciò che appare poco a poco non è un'idea che si elabora, ma una presenza che emerge. La mente progredisce verso un incontro. I tre argomenti proposti, Blondel vi insiste, sono tutti collegati tra loro e non fanno che dichiarare ciò che vi è nel movimento dell'azione. Sono elaborati sotto la pressione dell'azione che si riflette su se stessa. È la totalità del fenomeno dell'azione ( sotto i suoi diversi aspetti ) che impone poco a poco l'indiscutibile presenza dell'Assoluto personale. La prova ( tramite approcci convergenti ), è la totalità dell'azione esposta dialetticamente; essa « risulta dal movimento totale della vita » ( A: 341 ). Da qui viene la sua forza costringente. È soltanto al termine di questa dialettica che Blondel introduce il nome di Dio. « Al termine, presto raggiunto di ciò che è finito, dice, … eccoci quindi in presenza di ciò che il fenomeno e il nulla racchiudono e manifestano ugualmente, di fronte al quale non si può mai parlare come di un estraneo o di un assente … Dio » ( A: 350 ). Ma l'originalità di Blondel, è nel pensare che la prova ci invita ad andare molto più lontano. Non si può restare in presenza di questo Assoluto personale, di Dio, senza essere condotti nello stesso tempo a prendere posizione, a optare per la vita o per la morte dell'azione. Il conflitto che abbiamo osservato nell'uomo, vale a dire io non posso darmi l'essere necessario e tuttavia non posso rinunciare alla necessità del volere, non si risolve che in una inevitabile alternativa ( A: 353 ). « Vorrà, sì o no, l'uomo vivere, fino a morirne, se si può dire così, consentendo ad essere soppiantato da Dio? oppure pretenderà di bastare a se stesso senza di lui, approfittare della sua presenza necessaria senza renderla volontaria, prendere da lui la forza di fare a meno di lui e volere infinitamente senza volere l'infinito? Volere e non potere, potere e non volere, è l'opzione stessa che si offre alla libertà … Non che questa opzione si riveli a tutti con questa chiarezza e questo rigore. Ma se il pensiero che c'è qualcosa da fare della vita si offre a tutti, ce n'è abbastanza perché anche i più rozzi siano chiamati, anch'essi, a risolvere il grande affare, l'unico necessario » ( A: 354-355 ). Blondel esamina allora i termini dell'alternativa, in vista di esplicitare le conseguenze inevitabili di ciascuna delle due opzioni possibili. Egli analizza innanzitutto l'atteggiamento del rifiuto o opzione negativa. Se l'uomo pretende di trarre da sé ciò di cui ha bisogno, si priva del princìpio stesso della sua vita e si condanna. Ponendo il tutto della sua vita là dove non vi è nulla per colmarla, l'uomo si condanna alla morte eterna. « Credere di trovare in sé la verità necessaria alla propria coscienza, l'energia della sua azione e il successo del proprio destino, è, non solo privarsi di un dono gratuito e facoltativo che, respinto o disprezzato, non comprometterebbe tuttavia la felicità di una vita media; è, in verità, mentire alla propria aspirazione e, col pretesto di non amare che sé, odiarsi e perdersi …, perdersi, senza sfuggire a se stessi. Perché, uccidendo per sempre in essa l'ambizione dei beni imperituri, la volontà che si è limitata ai fini passeggeri, non rimane pertanto meno indistruttibile; e questa volontà immortale che ha messo il suo tutto in beni effimeri, è come morta appena ne prova la brutale nullità. Il suo desiderio perisce, essa avrà quindi voluto per sempre ciò che non può mai essere, ciò che vuole le sfuggirà eternamente, ciò che non vuole le sarà eternamente presente » ( A: 372 ). È questo essere senza essere. Se l'uomo sceglie la seconda opzione, come insediare Dio liberamente al cuore dell'azione umana? Come lasciare la Causa prima riprendere il primo posto? Come aprirsi all'azione di Dio? « Quale può essere la maniera pratica ed efficace di fare infine ciò che noi non possiamo fare da soli? E, poiché l'atto non si può compiere se Dio non si da a noi, come sostituire in qualche modo la sua azione alla nostra? Come, senza sapere se ha parlato, senza forse conoscerlo direttamente, partecipare alla sua mediazione segreta? Come … prepararsi, se ve n'è una, a una rivelazione più chiara del destino umano? » ( A: 375 ). Blondel risponde a questa questione in tre punti, che definiscono le disposizioni di una volontà sincera che si vuole conseguente con se stessa. Come Pascal, Blondel da una estrema importanza a queste disposizioni interiori. 1. Che l'uomo faccia tutto ciò che crede essere bene, tutto ciò che gli sembra conforme alla sua coscienza: « adempiendo ciò che si sa, … si rimane aperti, pronti, docili a ogni verità più completa; agire secondo la luce e la forza che si hanno, senza limitare la generosità e l'ampiezza del desiderio, ecco la disposizione di una volontà retta » ( A: 375 ). « L'essenziale e il faticoso, è di far bene quello che si fa, cioè con spirito di sottomissione e di distacco, di farlo perché vi si sente l'ordine di una volontà alla quale si deve subordinare la nostra » ( A: 376 ), anche se non si conosce esplicitamente questo Assoluto al quale ci si dona e ci si sottomette. 2. Se il distacco è all'inizio della buona azione, non è sorprendente che la vita morale sia accompagnata dal sacrificio e dalla rinuncia. La misura del cuore dell'uomo è l'accoglienza fatta alla sofferenza ( A: 380 ). La sofferenza ci distacca e ci invita ad aprirci agli altri: « La sofferenza è il nuovo, l'inspiegabile, lo sconosciuto, l'infinito, che attraversa la vita come una spada rivelatrice » ( A: 381 ). « Ciò che allora muore in noi, è quello che ci impedisce di vedere, di fare, di vivere; ciò che sopravvive è già ciò che rinasce » ( A: 383 ). « Se nessuno ama Dio senza soffrire, nessuno vede Dio senza morire. Niente lo tocca che non sia già risorto, perché nessuna volontà è buona se non è uscita da sé, per lasciare tutto il posto all'invasione totale della sua » ( A : 384 ). 3. Agire con abnegazione, accettare la sofferenza, questo non basta ancora. « Dopo aver fatto tutto come se non si aspettasse nulla da Dio, occorre attendere tutto da Dio, come se non si fosse fatto nulla da sé » ( A: 385 ). Blondel formula così la conclusione di questa quarta parte: « Assolutamente impossibile e assolutamente necessaria all'uomo, è questa la nozione propria del soprannaturale: l'azione dell'uomo supera l'uomo; e ogni sforzo della sua ragione, è di vedere che non può, che non deve limitarsi a questo sforzo. Attesa cordiale del messia sconosciuto; battesimo di desiderio, che la scienza umana è impotente a provocare: perché questo stesso bisogno è un dono. Essa può mostrarne la necessità, ma non può farlo nascere » ( A: 388 ). Questa nozione del soprannaturale ha fatto molto discutere. L'affermazione di Blondel sarebbe difficile da difendere se, per soprannaturale, si dovesse intendere il dono che Dio fa di se stesso in Gesù Cristo. Ma questa interpretazione sembra superare il pensiero di Blondel. Questi infatti nella sua genesi dell'idea del soprannaturale, procede per tappe. Alla fine della prima tappa, conclude che il compimento dell'azione è insieme necessario e inaccessibile all'uomo solo. Nella tappa attuale ( la seconda ), non introduce ancora, come farà nella terza, l'idea del soprannaturale che presenta il cristianesimo. Si limita per il momento a un'idea più generale, sprovvista di ogni determinazione positiva. La parola soprannaturale, qui, indica semplicemente l'azione divina che, in ogni uomo, è all'origine del movimento volontario e che ciascuno deve, almeno implicitamente, riconoscere come tale, se vuole che questo movimento possa raggiungere il suo termine, la sua perfezione. « Il nostro ruolo è di fare sì che Dio sia tutto in noi, come lo è in sé, e di ritrovare, al principio stesso del nostto consenso alla sua azione sovrana, la sua presenza efficace » ( A: 387 ). Ciò che Blondel vede sorgere dal determinismo dell'azione umana, è l'idea indeterminata di un soprannaturale, cioè di un Assoluto, che ogni uomo, anche senza conoscere il cristianesimo, vuole oscuramente, ma che non si acquista come una Cosa. In altre parole, è l'idea dell'unico necessario che non si acquista che abbandonandosi a lui; è l'idea dell'azione divina alla quale ci si deve aprire, qualunque sia la figura sotto la quale si presenta. 5. Parte quinta: il compimento dell'azione Questa parte corrisponde alla terza tappa della genesi dell'idea di soprannaturale in Blondel. L'introduzione netta e chiara della nozione cristiana di soprannaturale appare all'inizio di questa quinta parte. L'ordine soprannaturale che Blondel vuole ormai considerare, è « ciò che, dal di fuori, i dogmi ci propongono » ( A: 391 ), accettati a titolo d'ipotesi. L'idea del soprannaturale è quindi quella che propone il cristianesimo storico. Blondel si chiede se il cristianesimo storico, con i suoi dogmi e le sue pratiche, non sarebbe la determinazione e l'identificazione cercata del rapporto dell'uomo all'Assoluto. A coloro che vorrebbero scartare senza esame il soprannaturale cristiano, Blondel risponde che questo atteggiamento è contrario al vero spirito filosofico. Infatti, l'itinerario della riflessione sull'agire umano ci conduce « alla coscienza di un'incurabile sproporzione tra lo slancio della volontà e il termine umano dell'azione » ( A: 390 ). Si è visto che l'uomo non può completarsi che aprendosi a un'altra azione che la sua ( A: 401 ). Sarebbe quindi irragionevole sottrarsi alla nozione cristiana di soprannaturale rivelato. Cosciente, sia della sua impotenza che delle sue esigenze, la ragione si deve chiedere se il rivelato cristiano non sarebbe conforme al voto profondo, originale della volontà umana. Non si tratta di ricostruire razionalmente il dato cristiano. Altrimenti il cristianesimo non sarebbe rivelazione. « Nel suo principio, nel suo oggetto e nella sua fine, la rivelazione, per essere ciò che deve essere, se essa è, deve sfuggire alla ragione; e nessuno sforzo umano puramente umano potrebbe penetrarne l'essenza » ( A: 406-407 ). Nel suo contenuto essenziale, infatti, la rivelazione, è la vita intima del Dio-Trinità, comunicata all'uomo per grazia ( A: 407 ). Ma se è interdetto il voler scoprire questo mistero altrimenti che mediante la rivelazione, è legittimo, spiega Blondel, spingere la ricerca filosofica « fino al punto in cui sentiamo che dobbiamo desiderare intimamente qualche cosa di analogo a ciò che, dal di fuori, i dogmi ci propongono. È legittimo considerare questi dogmi, non subito come rivelati, ma come rivelatori; cioè di confrontarli con le profonde esigenze della volontà e di scoprirvi, se vi si trova, l'immagine dei nostri bisogni reali e la risposta attesa. È legittimo accettarli, a titolo di ipotesi, come fanno i geometri, supponendo il problema risolto e verificando la soluzione fittizia mediante l'analisi » ( A: 391-401 ). Questo testo definisce bene la posizione e l'itinerario di Blondel in questa ultima tappa. Si tratta quindi di considerare la rivelazione cristiana come una ipotesi che permetterebbe di veder chiaro nelle esigenze del volere. Se il tentativo riesce, non si sarà tuttavia affermata la realtà storica della rivelazione cristiana; non si sarà neppure stabilita la sua possibilità intrinseca ( A:406 ), perché il suo contenuto come pure la sua esistenza sfuggono alla ragione lasciata a se stessa. Ma si sarà fatto vedere che « qualche cosa di analogo a ciò che i dogmi propongono » ( l'espressione è prudente ) sembra necessaria per spiegare la discordanza della volontà volente e della volontà voluta; si sarà anche stabilito l'obbligazione pratica di accogliere il soprannaturale notificato attraverso la predicazione cristiana, se mai la rivelazione cristiana si manifestasse come una realtà storicamente, effettivamente data. Blondel vuole quindi mostrare che l'attesa del volere umano va verso qualche cosa di analogo all'ordine soprannaturale cristiano. Di modo che, il soprannaturale resta insieme inaccessibile ( gratuito, come dono libero dell'iniziativa divina ) e tuttavia necessario ( di una necessità pratica: si deve accettare, se di fatto è donata ). Blondel dedica due capitoli alla sua dimostrazione. Nel primo studia i caratteri formali che deve presentare la rivelazione divina, se essa esiste, e soprattutto le disposizioni richieste perché sia ravvisata e accolta come merita: « È quindi soltanto nel vuoto del cuore, è nelle anime di silenzio e di buona volontà che una rivelazione si fa utilmente ascoltare dal di fuori … Il suono delle parole e lo splendore dei segni non sarebbero nulla senza dubbio, se non ci fosse interiormente un disegno di accettare la luce desiderata … Per riconoscere la verità, ci si deve aspettare che essa sia, non come la si vorrebbe, ma come essa è » ( A: 398 ) Nel secondo capitolo, Blondel studia filosoficamente la necessità della pratica religiosa, perché l'accoglienza della verità non può sussistere senza la sottomissione alla verità. La religione « ipotetica » dovrebbe avere dei dogmi e imporre una pratica. Che il cristianesimo sia questa religione e che permetta alla volontà di volersi pienamente, e all'azione di completarsi, solo l'esperienza religiosa integralmente vissuta può testimoniarne. Ma alla fine della sua opera, Blondel ha tenuto a dare questa testimonianza personale, pur sottolineando ancora una volta che supera infinitamente la filosofia. « Tocca alla filosofia dimostrare la necessità di porre l'alternativa: È o non e? Tocca ad essa provare che non si può, in pratica, non pronunciarsi prò o contro questo soprannaturale: È o non e? Tocca alla filosofia esaminare le conseguenze dell'una o dell'altra soluzione e di misurarne l'immensa differenza: essa non può andare oltre ne dire nel solo suo nome, che sia o che non sia. Ma, se è permesso aggiungere una parola, una sola, che supera il campo della scienza umana e la competenza filosofica, l'unica parola capace, di fronte al cristianesimo, di esprimere questa parte, la migliore, della certezza che non può essere comunicata perché essa non viene che dall'intimità dell'azione strettamente personale, una parola che sia essa stessa un'azione, si deve dire: È » ( A:492 ). Capitolo quarto - III III. Genesi dell'idea di soprannaturale nelle sue tre tappe Riconsideriamo in sintesi le tre tappe della genesi dell'idea di soprannaturale ne L'Azione, sottolineando il rapporto dell'una all'altra. Blondel ha innanzitutto stabilito l'insufficienza dell'attività umana. Ha dimostrato che la condizione indispensabile al compimento dell'azione umana è inaccessibile a questa azione. Questa dialettica dell'indispensabile-inaccessibile, o del necessario-impossibile, comanda e ritma tutto l'itinerario ulteriore. Si tratta sempre di dimostrare che l'esigenza della volontà supera il suo potere. È di qui che nasce l'idea di soprannaturale, in due tempi ( seconda e terza tappa ). In un primo tempo, la necessità è assoluta, ma il soprannaturale resta indeterminato. In un secondo tempo, la necessità è quella di un'ipotesi, ma questa ipotesi è l'ordine soprannaturale cristiano. Ciò che appare al primo tempo, è la necessità assoluta di aprirsi all'azione di Dio, qualunque essa sia. Ciò che appare al secondo tempo, è la necessità di accogliere la rivelazione positiva di Dio, se è dimostrato che questa rivelazione è realtà. La tappa decisiva non è l'ultima, ma quella in cui l'idea di Dio ( nella quarta parte ), nata dal conflitto interiore alla volontà, mette la coscienza davanti a una alternativa e le impone di optare prò o contro l'apertura all'azione divina ancora indeterminata. Questo è così vero che, nel manoscritto deposto alla Sorbona per ottenere il permesso di stampare la sua tesi, Blondel aveva scritto: « Parte quarta: parte decisiva ». A conclusione dell'opera, Blondel scrive: « L'unico affare è tutto in questo conflitto necessario che nasce al centro della volontà umana e le impone di optare praticamente tra i termini di una inevitabile alternativa, di una alternativa tale che l'uomo, o cerca di rimanere padrone di se stesso e di mantenersi interamente, o si arrende all'ordine divino più o meno oscuramente rivelato alla sua coscienza » ( A: 487 ). Blondel certo non limita il suo sguardo a questo soprannaturale indeterminato: mira al di là, ma sa che non può, come filosofo, approdare alla rivelazione cristiana che mediante questo approccio. La fenomenologia de L'Azione è una logica dell'azione. Logica rigorosa secondo la quale si concatenano necessariamente i passi successivi dell'azione alla ricerca di un termine che sia adeguato al dinamismo da cui essa procede. Ciò che fa la forza della dialettica di Blondel, è che essa non costruisce un ideale che sarebbe il termine dell'azione umana: essa esprime semplicemente il contenuto ineluttabile dell'attività umana. L'infinito del volere non è il punto di partenza della sua ricerca, ma il suo punto di arrivo. Blondel non misura le diverse tappe dell'azione dall'ampiezza, supposta conosciuta, del volere; è al contrario lo sviluppo inesorabile dell'azione umana che rivela progressivamente l'ampiezza del dinamismo spirituale il cui volere è segretamente animato dalle origini. Ogni volta, si rivela una inadeguatezza, una discordanza, tra la volontà volente e volontà voluta. Vi è, nel movimento del pensiero che conduce l'uomo dall'analisi del dinamismo volontario fino al conflitto interiore che obbliga l'uomo alla opzione decisiva mediante la quale si chiude su se stesso o si apre a Dio e all'ordine divino oscuramente presentito, una riflessione ancora valida oggi. Infatti, oggi come ieri, non abbiamo fatto nulla se non arriviamo a dimostrare che l'uomo deve per lo meno aprirsi a un'eventuale Parola di Dio rivolta all'uomo nella storia. Ciò che Rahner ha tentato di fare partendo dal dinamismo della conoscenza umana, Blondel lo ha tentato a partire dall'essere dinamizzato dell'uomo alla sorgente. Capitolo quarto - IV IV. Natura del progetto di Blondel Blondel è un apologista o un filosofo? Da parte sua ha sempre rifiutato l'etichetta apologista. Non ha cessato di ripetere che il suo progetto e il suo metodo erano filosofici e che, anche quando poneva il problema religioso, non aveva altra intenzione che di parlare da filosofo. Quindi come il pensiero di Blondel è una filosofia? E che cosa la caratterizza? Queste domande si pongono tanto più che Blondel stesso ha brancolato prima di giungere a definire il proprio progetto. L'elaborazione de L'Azione, come si può seguire tramite i Quaderni intimi e le note di lavoro, dimostra che è attraverso approssimazioni successive che Blondel ha precisato la natura della sua opera. Per molti anni il suo progetto generale di « riallacciare la scienza e la mentalità moderna alla filosofia cristiana e alla metafisica cattolica » è presente, ma i due piani filosofico e teologico non sono ancora chiaramente differenziati. È tipico a questo proposito il passo seguente tratto da una lettera di Blondel al suo amico Victor Delbos del 6 maggio 1889, all'epoca in cui aveva appena redatto qualche pagina di un abbozzo de L'Azione: « Il ritmo trinitario di Hegel mi piace molto, ma qualunque sia l'altezza della Tesi e dell'Antitesi, l'idea cristiana, sempre meglio capita e sviluppata, offre una sintesi superiore. Si cerca sempre di inventare un ideale migliore e più bello, una verità più larga. E il compito perpetuo della Flosofia e dell'Apologetica ( per me sono in fondo tutt'uno ), è di scoprire che esso è più grande e incomparabile. Dove è la soluzione del problema dell'Immanenza e della Trascendenza? Essa è nell'Incarnazione e nella Comunione. La confusione monista del finito e dell'infinito non è che un aborto, una contraffazione vaga dell'unità. L'ideale dell'unità si trova nell'Ostia che riassume in essa tutta la natura, opulenza della terra, rugiade, raggi, prima che, mediante una specie di alimento perfetto, essa sia diventata l'umanità e la divinità per formare in noi l'essere nuovo, una realtà per così dire più che divina, una sintesi veramente universale. Sarebbe strano se si potesse spiegare qualcosa al di fuori di Colui senza il quale niente è stato fatto, o come mi piacerebbe tradurre, senza il quale tutto ciò che è stato fatto è diventato nulla ». Si riconosce già l'intuizione dell'opera futura: una logica dell'azione, ispirata a San Paolo e che conduce, al di là di ogni filosofia chiusa su se stessa, fino al mistero di Cristo, in cui sussiste ogni unità. Riflessione calamitata, dinamizzata da Cristo, ma quanto poco differenziata ancora! È filosofia? teologia? apologetica? I piani si confondono ancora. La stessa confusione dei piani nel « primo abbozzo » de L'Azione redatto alla stessa epoca ( dall'ottobre 1888 al gennaio 1890 ). Blondel si applica a tradurre in linguaggio filosofico la dottrina cattolica, ma in realtà sviluppa ciò che noi chiamiamo in teologia l'argomento di convenienza. « Si dovrebbe, dice, prendere una a una le verità del catechismo, e dimostrare ai filosofi che niente di più bello e di migliore potrebbe essere concepito; che questo supera l'immaginazione dell'uomo ». D'altra parte, avendo appena terminato queste prime note, Blondel si rende conto da solo, che il suo tentativo di tradurre « filosoficamente » il catechismo, non è sfociato in una filosofia, neppure in una apologià veramente filosofica. L'impresa di una « trasposizione » o di una « traduzione » della verità cristiana poteva forse sfociare in qualcos'altro che in un « catechismo » spiegato con linguaggio più dotto? Una cosa è certa, ne L'Azione del 1893 e nella Lettera del 1896, Blondel definirà il suo progetto in modo ben diverso. È la prova che si è ancora evoluto. Dopo una prima redazione della sua tesi nel 1890, poi una seconda nel 1890-1891 ( chiamata « Progetto di tesi » ), Blondel redige il testo che deposita alla Sorbona nel 1892, per ottenere il permesso di stamparlo. È in questa occasione che Boutroux, incaricato di esaminare il testo, scrive a Blondel: « Se il risultato di questo lavoro è di condurci alla soglia della religione, il carattere rimane essenzialmente filosofico ». Poi aggiunge: « Metteteci mano per l'ultima volta per ben far risaltare chiaramente il significato filosofico ». Blondel intraprende allora una drastica opera di correzione: trasforma capitoli interi, cambia i titoli; sopprime persino l'ultimo capitolo che non ha avuto tempo di rifare. Così, dalla prima stesura fino all'opera stampata nel 1893, Blondel corregge sempre più nel senso di una filosofia autonoma, ma mantenendo all'orizzonte l'ipotesi della verità del cristianesimo. Al termine di questa ricerca brancolante di Blondel per « trovare se stesso » ( progetto e metodo ), le posizioni si sono infine precisate e si percepisce meglio il punto a cui tendeva oscuramente questa maturazione interiore. Blondel non pone il suo problema in funzione di una filosofia particolare, ma in funzione della verità del cristianesimo. Lo formula nei termini seguenti: costituire a partire dal cristianesimo o, meglio, dall'ipotesi della verità del cristianesimo, una filosofia autonoma, che si accorda con esso, in virtù di esigenze razionali. « Supponiamo un momento, dice, il problema risolto nel senso in cui il cattolicesimo indica l'Unico necessario del destino umano: qual è l'atteggiamento normale del filosofo, e come mantenere l'autonomia di questa ricerca, come esplorare tutto il campo aperto davanti a lui, nelle profondità della natura o nelle vette dell'anima? ». Questo progetto che parte dal cristianesimo « supposto vero », mira a condurre il non-credente fino alla soglia della fede. Perciò quando vuole caratterizzare la sua impresa, Blondel parla « di un'apologià filosofica del cristianesimo », o « di un tentativo insieme filosofico e apologetico ». Nel 1924, traccia l'insieme della sua opera, pubblicata o inedita, con queste parole: « lo sforzo apologetico e filosofico che perseguo da quasi quarant'anni ». Così, da una parte la sua opera filosofica ha uno scopo apologetico in questo senso che vuole scuotere le menti e preparare alla fede. D'altra parte, Blondel vuole edificare un'apologetica filosofica distinta quindi da ogni apologetica tradizionale basata sulle prove storiche del cristianesimo. Perciò rifiuta sempre il titolo di « apologista » senza determinazione, ogni volta che si misconosce il carattere filosofico della sua impresa. Blondel rifiuta anche ogni accostamento della sua opera con quelle di Fonsegrive o di Ollé-Laprune ( che stima ambedue profondamente ) perché il loro metodo non gli sembra essenzialmente filosofico. Il suo proposito è di « dire qualche cosa che conta per un intelletto filosofico e incredulo ». È perciò che la sua impresa si propone di mantenere dall'inizio alla fine la sua autonomia razionale. Secondo l'espressione di A. Cartier, Blondel « vuol fare una filosofia che, per essere fedele fino in fondo ai propri princìpi, costituirà in più un'apologetica ». Le dichiarazioni di Blondel sono chiare, ma il problema sussiste: come può, un pensiero che si elabora nell'ipotesi della verità del cristianesimo e in vista di condurre le menti alla soglia della fede, avere il carattere di una filosofia autonoma? Blondel dice di « aver tentato, come credente, uno sforzo da filosofo ». Come un tale sforzo può restare quello di una filosofia autonoma? Si trattava per Blondel, di verificare, non certo i dogmi cristiani considerati in se stessi, ma l'esistenza globale del cristianesimo rispetto all'uomo, vale a dire la sua pretesa di essere accolto come rivelazione divina. Verificare un'affermazione, agli occhi della scienza, è innanzi tutto « sospenderla », fin che non si sia riusciti a stabilirne le prove. Blondel sospende quindi la sua affermazione di credente e adotta come punto di partenza la negazione più radicale che ci sia, cioè quella che rifiuta persino di ammettere che vi sia un problema del destino e che le nostre azioni, di conseguenza, comportino una responsabilità. Ma considerando il fatto dell'azione nella sua totalità e analizzando ciò che questa implica inevitabilmente, Blondel dimostra, di tappa in tappa, che ogni negazione include ciò stesso che pretende scartare. Il processo rimane razionale e vale di conseguenza per ogni spirito, compreso quello del non-credente. È la dialettica de L'Azione. Lungi dall'appoggiarsi sul cristianesimo, Blondel si fa piuttosto il complice di tutti gli atteggiamenti e i pensieri che lo negano. Così come non ne era il punto di partenza, l'affermazione della verità cristiana non costituisce neppure una « conclusione » de L'Azione. Infatti, il riconoscimento della verità cristiana, Blondel lo sa, non è il termine necessario di una dialettica intellettuale, ma un atto di fede, un dono di Dio. Blondel si ferma sulla soglia della fede. In nessun modo introduce il minimo contenuto di religione cattolica. Così la filosofia di Blondel si elabora nell'ipotesi della verità del cristianesimo: ma non parte da questa verità come presupposto o come fondamento. Ha per scopo di preparare le menti alla fede, ma non valica mai la soglia della fede. È interamente un processo razionale. Blondel aveva una profonda preoccupazione di evitare un amalgama di dogma e di filosofia. La sua filosofia, osserva De Lubac, « è la filosofia che si rende conto da sé, in un ultimo passo che è ancora un'opera di pura riflessione razionale, di non concludere. È dunque una filosofia che rimane aperta al cristianesimo, ma che, di diritto, non procede affatto da esso, poiché, se volesse procederne, non potrebbe farlo che togliendogli il suo carattere soprannaturale, nel momento stesso in cui lo proclama mediante la sua ultima confessione ». D'altra parte, Blondel- ha talmente affermato l'indipendenza della sua filosofia nei riguardi di ogni presupposto cristiano che alcuni, come Maritain ", l'hanno accusato di avere una concezione cartesiana della filosofia, di concepire questa come « sorda », vale a dire come non ricevente nulla dal di fuori. Se Blondel, in quanto filosofo, si rifiuta il diritto di fare citazioni dirette della rivelazione e del dogma, non resta sordo agli insegnamenti del cristianesimo. Al contrario. Infatti in una sua Lettera del 1896, non cessa di ripetere che il filosofo cristiano « non ha più il diritto di mettere le sue convinzioni religiose fuori dal proprio pensiero », che « l'idea propriamente cattolica » deve suscitare « una filosofia che le sia appropriata, tanto meglio quanto sarà autonoma ». Di fatto, Blondel deve molto al Nuovo Testamento, specialmente a S. Paolo, a S. Bernardo, a S. Ignazio e agli Esercizi, ai maestri spirituali che vanno dal XVI al XIX secolo, anche se questo cristianesimo deve più, a dir vero, alla vita liturgica e alla pratica cristiana che allo studio sistematico della teologia dogmatica. Una cosa è certa, la filosofia di Blondel, lungi dall'essere sorda all'insegnamento cristiano, lo ascolta invece con attenzione. Ma l'importante è di capire come lo ascolta. Non l'accoglie direttamente, come primizia o come conclusione del suo itinerario. Infatti, ne all'inizio, ne al termine della sua dialettica, Blondel si arroga il diritto di affermare la verità del cristianesimo. Da 'un capo all'altro, sospende l'affermazione di questa verità che possiede in quanto credente. Ma da un capo all'altro mantiene sotto gli occhi l'idea cristiana a titolo di ipotesi. Ipotesi che scruta non alla maniera di un semplice « curioso » di fronte a qualsiasi religione ma come qualcuno che vuole verificare l'idea cristiana che muove, che provoca la ricerca, e anche perché la ricerca stessa è guidata dall'idea cristiana considerata come ipotesi. Ma la filosofia, messa così in movimento, rimane autonoma nel sua itinerario, cioè non accetta alcuna affermazione che le verrebbe dal cristianesimo. Lo sforzo di Blondel è quindi quello di un credente, nel senso che parte dall'ipotesi della verità del cristianesimo, al fine di verificarla per se stesso e di condurvi anche altri intelletti. Il suo itinerario è suscitato e guidato dall'idea cristiana e ha anche uno scopo apologetico. Ma ciò che tenta come credente, Blondel, non l'effettua con argomenti da credente, perché sospende, dall'inizio alla fine del suo discorso, la sua affermazione di fede. Infine, si può dire che la filosofia di Blondel è una filosofia nel senso classico del termine? Si può affermare che essa corrisponde al concetto d'« apologetica filosofica » piuttosto che a quello di filosofia. Oggi, l'apologetica filosofica, che si serve della filosofia come di una scienza ausiliare, deve soddisfare alle stesse esigenze alle quali soddisfa la filosofia concepita da Blondel. La filosofia di Blondel non è una semplice apologià del cristianesimo, ne una semplice filosofia della religione: essa è realmente una « apologetica filosofica ». Ma appunto perché è filosofica, questa apologetica può essere capita da tutti gli uomini di buona volontà. Preserva i credenti dal fideismo. D'altra parte mostra agli uomini sinceri che il salto nel soprannaturale non è meno ragionevole ne meno necessario che le verità della vita abituale. Capitolo quarto - Nota Biografica Bibliografia completa VIRGOULAY R. e TROISFONTAINES C., Maurice Blonde!. Bibliographie analytique et critique. I: Oeuvres de Maurice Blondel, 1880-1973, Louvain, 1975; II: Études sur Maurice Blonde!, 1893-1975, Louvain, 1976. Studi ARCHAMBAULT P., Initiation a la philosophie blondelienne en forme de court tratte métaphysique, Paris, 1938. BORNE E., Passion de la verité, 1962, BOUILLARD H., Blondel et le christianisme, Paris, 1961; ID., «L'idèe du sumaturel et le mystère chréticn », in L'homme devant Dieu, Mélanges offerts'au PèEe H. de-Lubac, III, Paris, 1963, pp. 153-166; ID.,Logique de la foi, Paris, 1964. CARTIER A., Existence et vénti: philosophie biondelle/ine de l'action et problematique existentielle, Paris, 1955. DB.; LUBACH., Blondel et Teilhard de Chardin. 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Troveremo tra loro dei punti di contatto e dei punti di accordo, ma anche dei contrasti e delle divergenze. Questo procedimento comparativo da un nuovo rilievo all'immagine di ciascuno e permette di afferrare tratti che l'analisi individuale ha potuto lasciare nell'ombra. Sotto molti aspetti c'è più affinità tra Pascal e Blondel; secondo altri punti di vista, invece Pascal e Teilhard si assomigliano ( per esempio nel modo di trattare i temi mediante spirale ). Infine, in questa « sinossi » dei tre autori, il problema di Cristo, come esegesi e realizzazione dell'uomo, è visto in una nuova luce. Capitolo quinto - I I. Epoche diverse Per capire gli uomini e le loro opere è necessario situarli nella storia. Non è evidentemente qui che possiamo scrivere la storia del XVII, del XIX e del XX secolo. Ricordiamo soltanto qualche fatto importante. Pascal ( 1623-1662 ) scrive quando Keplero ( 1571-1630 ), Galileo ( 1564-1642 ) e Newton ( 1642-1727 ) aprono alla scienza spazi inimmaginabili. L'uomo comune del XVII secolo, tuttavia, non ha ancora una coscienza molto aperta all'infinito temporale, ne soprattutto al carattere « evolutivo » della realtà cosmica e umana. Gli uomini dell'epoca vivono in strutture sociali ristrette: più a livello di nazioni. Non si è ancora finito di fare l'inventario del nostro pianeta. La visione del mondo è più statica che evolutiva. Al contrario, quando Teilhard scrive, Lamark e Darwin hanno scoperto sul passato e sull'evoluzione delle forme viventi prospettive indefinite. La coscienza dell'umanità come collettività, come specie che pensa e agisce, rappresenta un fenomeno recente. L'umanità nuova non accetta più, come al tempo di Pascal, stati di fatto nella società, senza pensare di cambiarli, fosse necessario anche con la forza: per esempio le ingiustizie che riguardano i popoli e le classi sociali, l'ineguaglianza delle condizioni della donna ecc. La coscienza dell'homo faber, capace di trasformare l'universo, si è prodigiosamente sviluppata. Il modo di pensare è cambiato. In breve, dal XVII al XX secolo, il ritmo della storia è caratterizzato da una formi-dabile accelerazione. Capitolo quinto - II II. Personalità contrastanti Pascal un « mostro » d'intelligenza ( nel senso etimologico della parola ), un essere che stupisce. Come Leonardo da Vinci, al quale fa pensare ( benché questi sia più completo e abbia vissuto più a lungo ), è un genio polivalente: « versatile », nel senso inglese del termine. Uomo di scienza, di lettere, pensatore profondo, dotato tuttavia di un senso pratico stupendo: capace, per esempio, di pensare allo sfruttamento industriale della sua macchina calcolatrice e di organizzare, l'anno stesso della sua morte, il primo sistema di omnibus per la città di Parigi. Un giorno capace di osservazione psicologica molto fine e molto profonda, di ragionamento sottile fino ali arguzia, tagliente come un bisturi, ma ancor più dotato di quello spirito di sintesi che fa i geni, che collega tutto con tutto, che vede e giudica le cose nell'insieme a partire da « un punto alto ». L'immaginazione, in lui, si compiace dei contrasti e delle grandi antitesi. Pascal ha la volontà di eccellere in tutto. È un ardente, un violento, come molti rappresentanti della sua generazione. Scrittore, ha quella foga padroneggiata, disciplinata che produce i grandi classici. Cerca l'assoluto in tutto. È appassionato di scienza, di verità, d'autenticità: perciò diventa sarcastico, cinico, feroce, di fronte a ogni forma di duplicità, d'ipocrisia, di politica, fino a essere egli stesso vittima di quello che prova. La sua passione può accecarlo momentaneamente, come nell'affare di Port-Royal, ma la sua intellegenza e il suo senso dell'assoluto lo riconducono infine al Centro, a Dio. La sua volontà è ardente, così come la sua mente. Per lui, la facoltà prima dell'uomo è il « cuore », vale a dire l'intelligenza infiammata dalla volontà, dall'amore. Perciò, una volta convertito, diventa subito un proselito: la verità dell'uomo, della storia umana, è Gesù Cristo. In Pascal la sintesi della fede, della scienza, della condotta umana, si fa a livello della vita, nel suo stato di cristiano. È agli antipodi del pensiero laico del XIX secolo, che rivendica l'autonomia assòluta della ragione. Il problema scienza-fede di Teilhard, filosofia-fede di Blondel, non si pone nella sua coscienza cristiana, che non cambia statuto perché cambia oggetto. Tutte le sue facoltà sono coordinate alla fede e all'ordine della carità, in Gesù Cristo. La scienza potrà passare, ma non Gesù Cristo. Pascal è essenzialmente serio, fino a mancare d'umorismo: avrebbe avuto bisogno dell'amiciza di san Francesco di Sales, per imparare il sorriso e la serenità. Ma questa mente abita un corpo troppo fragile, sempre malato. L'umiltà e la semplicità della fine della sua vita sono una conquista su un temperamento di fuoco, teso all'estremo. La grazia e la prova lo hanno umanizzato, intenerito, semplificato. Pascal è forse meno un maestro di pensiero che un'energia insorgente, una potenza d'urto che scuote e si propaga. Teilhard è un aristocratico. Uomo di scienza e precisamente, paleontologo, si basa sui fatti, sull'osservazione. È un « fisico » nel senso antico del termine, perché studia il fenomeno: è un fenomenologo della natura, ma precisando subito che l'uomo è al centro della sua fenomenologia. Non tralascia certamente l'analisi, ma l'inclinazione del suo temperamento lo spinge naturalmente verso le vedute d'insieme, verso la sintesi. Teilhard è innamorato d'unità, di continuità, di coerenza, d'armonia, di convergenza. Perciò, benché la sua formazione filosofica e teologica sia deficiente, sfocia infallibilmente su prospettive filosofiche e teologiche. Una volta impegnato in un « grande progetto », come quello della riconciliazione della fede e della scienza, è capace di un prodigioso ardore e di perseveranza, sapendo superare la sofferenza e anche la persecuzione per far trionfare le proprie convinzioni. Vi è in lui nobiltà di carattere. L'immaginazione e la sensibilità sono di quelle che fanno i creatori e i poeti. Da qui proviene quel linguaggio ricco di metafore, di simboli, di allegorie. L'insieme è armonioso, ma, osserva il Padre Rideau che lo ha ben conosciuto, con una prevalenza della sensibilità. Una sensibilità vibrante che lo mette in comunione col mondo, con Dio, con gli uomini e che lo fa molto soffrire; che gli fa presentire le sue idee come « vedute ardenti » e non come semplici speculazioni; che lo rende avventuroso, perfino temerario, amante dei rischi, per lo meno nell'espressione verbale, esuberante, prolifero, ma non sempre abbastanza controllato. Teilhard « si appassiona » per tutto. Attento innanzitutto al reale fenomenico, è meno sensibile che Pascal ai problemi interiori, esistenziali della persona, alla maniera di Agostino, Kierkegaard, G. Marcel, M. Blondel. Ma la sua visione del mondo non è meno cristocentrica di quella di Pascal, benché segua vie diverse. Blondel è borgognone e appartiene a una famiglia borghese. Per temperamento è un uomo timido. Professore, ha sempre avuto paura dell'insegnamento. Invece di desiderare Parigi, come i suoi colleghi, ha preferito lavorare in provincia, alla Facoltà di Lettere di Aix-Marseille, dove ha del resto esercitato una profonda influenza, perché ha avuto non solo degli studenti, ma dei discepoli. È soprattutto un uomo di pensiero: riflessivo e meditativo. Non un moralista, ma un filosofo, anche se la finezza delle sue analisi psicologiche basterebbe a classificarlo fra i più grandi moralisti francesi. Non un poeta, come Pascal e Teilhard. Non un uomo dotato per l'azione, benché abbia avuto preoccupazioni sociali e si sia attivamente occupato dei poveri, nella conferenza di san Vincenzo de Paoli. Blondel è un uomo di vita morale elevata e di una rara fedeltà: fedeltà alle sue amicizie e alla sua fede cristiana. La sua vita religiosa è di tipo « tradizionale », vale a dire legata alla pratica ecclesiale e sacramentale ( ascesi, messa, eucaristia, preghiera ), ma nello stesso tempo di una grande interiorità, che va fino all'esperienza mistica. Notevolmente intelligente, di una intelligenza penetrante, vigorosa e creatrice, non è tuttavia brillante come Teilhard o Pascal. Il suo linguaggio, sempre ritmato, ma un po' oratorio, lento nei suoi percorsi e non sempre chiaro, stanca il lettore moderno. Pascal è invecchiato meno di Blondel. Tutti e tre hanno questo in comune che sono prima uomini che autori. Pascal ha potuto terminare la sua Apologia del cristianesimo; Teilhard, costantemente paralizzato dalla censura, non ha pubblicato quasi nulla da vivo. In tutti e tre, l'opera è intimamente legata alla persona. I Pensieri sono inseparabili dall'evoluzione religiosa di Pascal: dalla sua conversione, dal suo incontro con la vita mondana di Parigi, coll'ambiente religioso di Port-Royal. L'opera di Teilhard è inseparabile dalla sua vita di scienziato e dall'ambiente scientifico che ha conosciuto. L'Azione di Blondel, infine, non si spiega senza il suo incontro con gli ambienti laici ostili della scuola Normale, e senza l'idea del sacerdozio che ha suscitato e fecondato il suo zelo apostolico. Questi uomini non scrivono per scrivere, per fare carriera, ma sotto la pressione della vita: vita della loro epoca ( libertina, non credente, ostile ) e vita cristiana che li ha modellati. Capitolo quinto - III III. Scopo apologetico comune Diversi come personalità, Pascal, Teilhard e Blondel sono tuttavia imparentati. Tutti e tre hanno preso in carico i problemi dei loro contemporanei: quello del senso della vita, quello del destino, quello della salvezza. Tutti e tre perseguono lo stesso scopo: a partire dalla loro esperienza di credenti, propongono l'ipotesi cristiana, meglio, Cristo come chiave della condizione umana ( Pascal ), del fenomeno umano ( Teilhard ), dell'azione umana ( Blondel ). Inoltre, tutti e tre hanno esplicitamente dichiarato questo scopo apologetico della loro opera. Pascal vuole comporre una « apologià » del cristianesimo per inquietare gli spiriti forti della sua epoca ( mondani, indifferenti, increduli, atei ), per far loro provare fino al « brivido » il tragico destino dell'uomo. Teilhard pensa un'apologetica o dialettica per riconciliare la fede e la scienza. Blondel vuole scrivere un'apologetica filosofica e dire « qualche cosa che conta per una mente filosofica e incredula ». Tutti presentano il cristianesimo meno come un fatto storico da stabilire che come chiave d'intelligibilità: per decifrare la condizione paradossale dell'uomo, abisso di miseria e di grandezza ( Pascal ); per manifestare la coerenza tra la visione del mondo che propone la scienza e ciò che ci dice la rivelazione sull'universo e sull'umanità ricapitolata in Gesù Cristo ( Teilhard ); per proporre la rivelazione cristiana come « ipotesi » che permette di veder chiaro nelle esigenze del volere umano ( Blondel ). Tutti cercano di riconciliare, di far evolvere, di orientare verso un più alto livello dove brilla maggior luce; verso una promozione, una realizzazione dell'uomo, verso un nuovo statuto dell'umanità. I tre sono dunque meno preoccupati di dimostrare che di mostrare. Essi rompono i quadri della teodicea classica. Inoltre, Pascal scavalca la teodicea e passa direttamente dalla descrizione della condizione umana a Gesù Cristo. Teilhard suscita la necessità del Dio-Omega, ma attraverso la via inattesa dell'analisi dell'evoluzione e delle aspirazioni della noosfera. Blondel elabora la sua riflessione a partire da un'analisi del movimento totale dell'azione, in cui l'Unico necessario emerge come una Presenza. Nei tre casi, si tratta di un progetto apologetico, ma originale: più preoccupato del soggetto che dell'oggetto, di disposizioni che di prove e, di conseguenza, preoccupato di stabilire un punto di partenza accettabile per tutti. Perciò il loro atteggiamento si propone come un paradigma, come un caso esemplare di approccio dell'uomo contemporaneo, Capitolo quinto - IV IV. I destinatari Pascal, Teilhard e Blondel cercano di capire l'uomo del loro tempo per meglio farsi intendere da lui e per condurlo a interrogarsi sulla sua reale identità in Gesù Cristo. Tutti e tre cercano nell'uomo del loro tempo un punto d'inserzione favorevole al cristianesimo. Il punto debole del del destinatario deve diventare il punto forte della dimostrazione. Pascal si rivolge agli spiriti forti del suo tempo: colti fino alla raffinatezza, ma superficiali e mondani fino al libertinaggio, pronti a divertirsi fino ailo stordimento che fa dimenticare il tragico dell'avventura umana, avidi di tutto, ma vuoti di Dio. Sono questi uomini, che vivono nell'apatia religiosa più totale, che occorre inquietare fino al brivido della morte eterna. A questi mondani, Pascal, parlerà il linguaggio degli autori alla moda: Epitteto e Montaigne. A questi gaudenti parlerà della vita. Pascal cercherà di far barcollare quella falsa sicurezza, di dimostrare loro il volto smorfioso e orrendo che nascondono sotto la maschera del piacere. In realtà, sono esseri miserabili, feriti, sconvolti, contraddittori, che hanno bisogno di essere illuminati e salvati. Teilhard si rivolge agli scienziati del suo tempo, che vedono nel cristianesimo una religione che non soltanto non si interessa al progresso, ma gli è ferocemente opposta. Scienza e religione sono due universi chiusi su se stessi, senza linguaggio comune. Lo scisma tra fedeltà al mondo e fede in Dio è completo. Da una parte una religione statica; dall'altra una scienza altera e sprezzante. Come favorire l'incontro di questi due universi? Come far capire che senso cosmico e senso cristico, lungi dall'opporsi sono destinati a incontrarsi, a completarsi, a esaltarsi? Cristo è ancora più grande dell'universo. D'altra parte lo scienziato, a dispetto delle apparenze, è inquieto davanti all'avvenire di un mondo la cui padronanza gli sfugge. Anch'egli, in fondo a sé, cerca un appoggio. A quest'uomo segnato dalla scienza, Teilhard parlerà il linguaggio della scienza. A una mente che non concepisce la realtà che in termini d'evoluzione, parlerà il linguaggio dell'evoluzione. Teilhard convoca gli scienziati del suo tempo all'intelligenza di un universo in evoluzione; mostrerà loro che, per capire l'evoluzione nella sua totalità ( incluso l'uomo ) e trovargli uno sbocco, occorre uscirne, invocare Qualcuno che assicuri il successo dell'evoluzione. Ora, se vi si riflette, il fenomeno cristiano sembra appunto la chiave che decifra l'evoluzione e la consolida. Blondel si trova confrontato al mondo laico: un mondo che evolve in modo autonomo, di fronte alla Chiesa e al cristianesimo. Il pensiero della fine del XIX secolo è gelosamente attaccato alla sua autonomia. Esso non deve niente al cristianesimo e non attende nulla da esso. Filosofia e cristianesimo seguono vie parallele. Una rivelazione esterna che si propone come obbligatoria, è un non senso, ancor più che un'offesa alla dignità dell'uomo. Il pensiero laico dei secoli XIX e XX non potrebbe accettare altre prospettive che quelle dell'immanenza. Sarà precisamente la strada seguita da Blondel: mostrare che la vera immanenza dell'uomo deve passare attraverso la confessione della sua indigenza interiore e attraverso l'accoglienza di un azione che la colmi, ma che non è sua. Blodel, come Teilhard si interessa all'azione umana, tuttavia meno nelle sue realizzazioni concrete, sempre più stupende, che nel suo dinamismo interiore; meno all'oggetto che alla facoltà realizzatrice. Pascal si interessa all'uomo peccatore, macchiato, infelice, per indicargli dov'è la sua vera salvezza e la sua vera felicità. Teilhard si rivolge al nostro desiderio di vita e di speranza, e ci indica l'opera da fare. Blondel si rivolge al nostro volere insaziabile per indicarci ciò che solo lo può colmare. Capitolo quinto - V V. Questione posta e mediazione proposta La vita ha un senso e l'uomo un destino? La filosofia, che si pone questa domanda, offre risposte diverse, perfino contraddittorie. Molti uomini, senza essere filosofi, si pongono questa domanda. Gli uni rispondono con l'ipotesi del nulla, col suicidio, l'eutanasia, l'aborto; altri optano per la fede, la santità, il martirio. Pascal, Teilhard e Blondel si pongono la stessa questione, perché prendono sul serio la vita e perché si fanno carico della vita dei loro simili. Tutti e tre invitano a « scommettere » per Dio, per Cristo. Identica in sostanza, la loro questione è tuttavia formulata con sfumature diverse, che vengono dall'esperienza e dalle intuizioni personali di ciascuno. Pascal, davanti all'uomo, si domanda: che è questo mostro, questo caos di contraddizioni, questo paradosso incomprensibile? Teilhard si domanda: dove va la carovana umana? L'evoluzione ha uno sbocco, o è un vicolo cieco? Blondel si chiede: che cosa persegue l'uomo nella sua attività umana? Cosa cerca in definitiva nel suo volere? Dei tre si può dire che è Pascal colui che, cercando di sensibilizzare l'uomo al mistero della sua condizione, è al principio degli approcci moderni del cristianesimo, alla maniera di Blondel, Guardini, G. Marcel, M. Zundel. Per rispondere alla domanda posta, i tre non fanno direttamente appello al cristianesimo, ma prendono in prestito una mediazione antropologica. Meglio, tutti e tre procedono per via di fenomenologia ( Pascal e Teilhard ) o di analisi regressiva ( Blondel ). Quest'approccio antropologico è in qualche modo la piattaforma o la rampa di lancio del movimento dialettico che conduce a Dio, poi a Cristo. Per Pascal, la mediazione, è la descrizione della condizione umana. L'uomo si agita, si stordisce, perché è vuoto di Dio. Pascal sottolinea meno la ricchezza della creazione e le conquiste dell'uomo che le sue debolezze improvvise, le sue insufficienze, le sue ferite. L'uomo è un malato grave. Pascal fa quindi appello all'esperienza personale e il suo sguardo va direttamente alla condizione interiore dell'uomo. Per Teilhard, la mediazione, è l'analisi del fenomeno umano nella sua globalità, in seno a una evoluzione orientata. Teilhard è innanzitutto sensibile al progresso dell'uomo. Se l'uomo si muove, si agita, è perché è ossessionato dal progresso. Ciò che importa è meno il peccato originale passato, che ciò che viene, che si prepara, ciò che sale all'orizzonte come una promessa d'avvenire ( allegoria della nave ). Teilhard da meno importanza all'individuo che alla collettività umana. Se vi è un'angoscia, è quella di uno sbocco al progresso collettivo, quella della sopravvivenza della specie, di una realizzazione dell'umanizzazione dell'umanità. Blondel, anche lui,, studia l'uomo non mediante l'introspezione. psicologica o l'osservazione scientinca, ma attraverso l'analisi di implicazioni dell'agire dell'uomo. L'agire umano, smontato, passato in inventario, taglia corto, non arriva mai a soddisfarsi; l'aborto apparente dell'azione non è capace di soffocare ne di colmare l'abisso del volere. Blondel assomiglia di più a Pascal che a Teilhard. Il suo sguardo si posa più sull'insufficienza, l'indigenza, l'impotenza interiore, che sulle realizzazioni dell'homo faber, più sulla persona-individuo che sulla collettività. Ma, tutti e tre, partono da una descrizione, da un'analisi dell'uomo, in vista di una diagnosi e di una terapia. Capitolo quinto - VI VI. Punto di crisi e apertura a Dio Pascal, Teilhard e Blondel cercano tutti e tre di mettere in stato di crisi il non credente: una crisi esistenziale che obbliga a un capovolgimento dal quale risulterà un'apertura a Dio. Pascal rappresenta l'uomo in stato di deriva, spaesato nell'universo, senza equilibrio in se stesso, ignorante del proprio destino, impotente a vivere nella giustizia, nella verità e nella felicità che persegue. L'uomo di Pascal è un essere braccato e ripugnante. Il divertimento è una nuova manifestazione della, sua ebetudine. Se ne va stupidamente verso la morte, per mancanza di riflessione su se stesso che gli permetta di riprendersi. Che l'uomo si fermi quindi un momento: vi è in lui un abisso che non potrebbe essere colmato che da un altro abisso; l'uomo supera infinitamente l'uomo. Se Pascal lavora così a turbare l'uomo fino a sconvolgerlo, è per condurlo a mettersi in cammino, in cerca della verità, col desiderio soprattutto di trovarla; è per deciderlo a voler decifrare il proprio mistero. La verità dell'uomo, per Pascal, è in Gesù Cristo, totalità del significato, sola luce e solo rimedio. Per Pascal, Dio, è il Dio di Gesù Cristo e non quello della teodicea. Perciò passa direttamente dalla descrizione della condizione umana a Gesù Cristo crocifisso. La crisi sbocca in Gesù Cristo. Anche in Teilhard vi è un punto di crisi. Ma questo punto di rottura o di crisi concerne il fenomeno totale dell'evoluzione, nel quale si trova impegnato in prima istanza il fenomeno umano. A differenza dell'uomo pascaliano, l'uomo secondo Teilhard vive in un mondo orientato, dove lui stesso è posto come la freccia dell'evoluzione. Ma si tratta di sapere se l'uomo arriverà al termine della corsa. L'evoluzione abortirà o riuscirà? Ha un avvenire? Oppure è entrata in un vicolo cieco, condannata a una morte totale, o peggio ancora, al suicidio dell'odio universale? Per Teilhard l'evoluzione non può continuare senza un vertice ( Omega ) personale e divino, amabile e amante, motore e consondatore dell'evoluzione, capace di eternizzare l'evoluzione. Teilhard fonda la sua riflessione sulle aspirazioni della noosfera più che su quelle dell'individuo. Fa appello al Dio-Omega, causa finale, per attirare, unire, amorizzare; causa efficiente per consolidare. In un secondo tempo, questo centro divino è identificato al Cristo universale, evolutore e parusiaco. Per Blondel il punto di crisi è nel cuore dell'attività volontaria dell'uomo. Vi è discordanza sempre rinascente tra il termine concreto del suo volere e il dinamismo inesauribile della sua volontà. Per volersi pienamente, l'uomo deve volere di più di quanto non abbia potuto trovare finora. Non riesce a eguagliare se stesso, a colmare l'abisso, che lo separa da se stesso. Deve andare avanti per trovare la sua realizzazione, ma non potrebbe avanzare da solo. Si trova davanti all'inaccessibile necessario. Da questo conflitto interiore nasce la ricerca dell'Unico necessario, dell'inaccessibile sconosciuto, dell'ideale irrealizzabile che persegue. L'Assoluto, che scopre come una presenza che emerge, è Dio e la sua azione sovrana: un'azione alla quale l'uomo è invitato ad « aprirsi » per vivere; altrimenti si rinchiude da sé nella morte eterna. Il cristianesimo è proposto come l'ipotesi che potrà permettere di identificare e di determinare il rapporto cercato tra l'uomo e l'Assoluto. In Pascal, Cristo è proposto di primo acchito come la chiave dell'enigma umano, e come rimedio alla miseria dell'uomo. Per Teilhard, Cristo, identificato a Omega, è proposto come fattore di coerenza e di consistenza del mondo della scienza e del mondo della fede. Per Blondel, Cristo è l'ipotesi posta all'orizzonte della coscienza umana, come colui dal quale l'uomo potrebbe ricevere una risposta che colmi gli appelli e i bisogni della sua azione volontaria, se mai il cristianesimo si affermasse come rivelazione storica. Pascal vuole condurre l'ateo fino al Dio di Gesù Cristo; Teilhard vuole condurre l'evoluzione fino al suo termine; Blondel vuole condurre la fragilità umana fino all'invocazione dell'Unico necessario. Ma ciò che Pascal pone e Teilhard propone, Blondel l'insinua. Capitolo quinto - VII VII. La realizzazione dell'uomo: il soprannaturale Pascal non ha una terminologia consacrata per indicare il soprannaturale. Il « soprannaturale » è lo stato di giustizia e d'innocenza della creazione primitiva, poi lo statuto nuovo dell'uomo restaurato in Gesù-Cristo, mediante la grazia. In breve, il soprannaturale è Gesù Cristo, il Centro verso il quale tutto tende, che è insieme la chiave dell'enigma umano e il nuovo Adamo, il Salvatore, la verità dell'uomo e il rimedio di tutti i mali. Per Teilhard, il compimento dell'evoluzione, del fenomeno umano, è il Dio-Omega, indicato in seguito come il Centro dei centri, poi come il Cristo universale, che ricapitola tutto in lui: l'universo e l'umanità. Per Blondel, il conflitto interiore che ha luogo nella volontà, mette subito la coscienza davanti a una alternativa e la obbliga a optare prò o contro l'apertura all'azione divina, l'accoglienza o il rifiuto del soprannaturale indeterminato ( l'Assoluto necessario e personale ) che, di fatto, per Blondel, è il soprannaturale cristiano, ma, nella sua prospettiva di filosofia, resta un'ipotesi da verificare storicamente. Più tardi Blondel farà appello al termine di « transnaturale » per esprimere il radicamento della grazia nell'uomo. Il transnaturale indica lo stato concreto dell'uomo che risulta dalla sua necessaria vocazione soprannaturale e dall'autocomunicazione di Dio. La natura umana è « attraversata » dall'appello antecendente di Dio e trascinata al di là di se stessa. Il transnaturale di Blondel si situa al piano dell'esercizio concreto della natura. Nei tre casi, il soprannaturale resta un dono assolutamente gratuito dell'iniziativa divina. Per tutti ugualmente, è in Gesù Cristo e nel suo Vangelo che la grazia, il soprannaturale, il transnaturale scopre il suo vero volto e la sua espressione. Per tutti, l'uomo non potrebbe realizzarsi, essere se stesso che in Gesù Cristo. È mediante un sovrappiù, un dono, che si identifica e si completa. La sua immagine « di vero uomo », che porta in sé senza saperlo, l'uomo la trova nell'immagine perfetta di Dio, proposta in Gesù Cristo. Capitolo quinto – VIII VIII. Dall'immanenza alla trascendenza In Pascal, Teilhard e Blondel, vi è un passaggio dall'immanenza alla trascendenza, ma attraverso vie diverse. In Pascal, il punto di partenza e l'elemento motore di tutto l'itinerario, è l'analisi interiore della condizione umana. Il paradosso dell'uomo, il suo mistero interiore è così profondo, così opaco, così sconcertante, che obbliga a una fuga verso l'alto, a una ricerca di luce e di armonia attraverso il superamento e la trascendenza. Il rapporto miseria-grandezza dell'uomo non si interpreta che nella contemplazione dell'eletto-reprobo, del Dio-crocifisso. Cristo è un abisso di luce e di grazia che si apre sull'abisso dell'uomo e ne fa una creatura nuova: là dove il peccato ha abbondato, l'amore ha sovrabbondato. Cristo è il trascendente-immanente, che ricrea l'essere dal di dentro, attraverso una seconda creazione. In Teilhard, il punto di partenza è il dinamismo interno dell'universo, poi dell'umanità impegnata in un'azione cosciente e riflessa. Ma l'azione, in Teilhard, non ha il significato che riveste in Blondel. Teilhard non si domanda se l'azione è la sintesi del volere, del conoscere e dell'essere. Tanto quanto l'azione, è l'uomo, come agente nell'universo, che interessa Teilhard. L'uomo nel mondo è più che un elemento del mondo; è l'attore e il costruttore del mondo. Il mondo avanza, si unifica, per via dell'azione e della ricerca dell'uomo che spinge in avanti l'evoluzione. In questo impegno tutti gli uomini sono solidali. Ma vi è uno sbocco all'azione dell'uomo? Vi è Qualcuno che raccoglie e completa l'azione dell'umanità come specie? Le aspirazioni della noosfera sono destinate a essere colmate? È qui che Teilhard fa appello alla trascendenza, a Omega, che consolida l'azione, che personalizza e eternizza l'amore. Il passaggio alla trascendenza avviene quindi a partire dalle aspirazioni immanenti della noosfera come tale. Blondel parte dall'analisi dell'azione personale vissuta, e svela poco a poco le esigenze di cui è portatrice. Questo metodo d'immanenza si svolge in due tempi. In un primo tempo, Blondel studia le strutture concrete dell'agire umano, i settori in cui essa si svolge. Poi, in un secondo tempo, cerca di scoprire l'orientamento del dinamismo nascosto nelle azioni umane, di afferrare l'estremo dinamismo, in sorgente, del volere umano. Conclude che questo dinamismo non si spiega che facendo appello a un'azione divina superiore, a un Necessario assoluto e personale, che fonda e completa l'azione umana. Si chiede infine, a titolo d'ipotesi, se il cristianesimo non sarebbe questo Assoluto che viene a colmare il vuoto profondo e inesaudito dell'azione vissuta. In tutti e tre, l'immanenza sbocca sulla trascendenza. Ogni metodo d'immanenza, inoltre, se è autentico, non ha un fine di trascendenza? Capitolo quinto - IX IX. Concetto di Cristo Cristo è entrato nella vita di Pascal al momento della sua conversione, come ne testimonia il Memoriale. Ora il Cristo del Memoriale è il Cristo dell'agonia, della passione e della croce: il Cristo del mistero di Gesù. Il Cristo glorificato della risurrezione sembra cancellato. Ciò che le scienze ci fanno conoscere, non ha niente a che vedere con la « scienza » di Gesù Cristo, di cui parla san Paolo. Le grandezze della materia e dello spirito non sono niente in confronto alle grandezze della carità manifestata in Gesù Cristo: è di un altro ordine. Per Pascal, Gesù Cristo è il termine della sua apologetica perché solo il Cristo può rivelare l'uomo rivelandogli Dio. Non soltanto Cristo è Luce, Verità, ma è anche rimedio alla miseria umana. È il Salvatore. Perché il nostro vero male, tutto il nostro male, è il peccato, e il Cristo soltanto ce ne libera mediante la sua obbedienza fino alla morte di croce. Dio si è incarnato, meno per regnare sulla sua creazione che per salvare e unire a sé coloro che credono in lui. Il fondo della miseria dell'uomo è il suo peccato, l'assenza di Dio. Il grande mistero, di conseguenza, è quello della croce. La vera gioia ( quella del Memoriale ) è quella che nasce dal riconoscimento di questo dono di salvezza, che è l'inizio della vita eterna. Pascal, come scienziato, lavora certamente al progresso della scienza, ma non chiede al cristiano di costruire il mondo. In nessun momento, secondo lui, il mondo sembra interessare il fondo della condizione umana. Piuttosto che una realtà da costruire, il mondo è una realtà alla quale si corre il rischio di attaccarsi troppo. Pascal non pensa alla collettività umana come tale, ma al « prossimo » personale, al « vicino » che si incontra nella vita, come membro di Gesù Cristo. Questa visione individuale e interiore ha tuttavia una risonanza universale nell'idea del corpo mistico: « il minimo movimento importa a tutta la natura; il mare intero cambia a causa di una pietra. Così è nella grazia, la minima azione importa, per le conseguenze, a tutto. Quindi tutto è importante » ( B505 C656 ). Ogni azione ha una risonanza universale, in quanto appartiene all'ordine della carità. In Teilhard, non si tratta di conversione ( al punto di partenza ), ma piuttosto di vocazione, in cui fedeltà al mondo e fede in Dio sono un tutt'uno, in cui ogni sforzo umano, fosse esso profano, deve concorrere a costruire il Regno. Lo sforzo umano è la continuazione, fino al suo termine, dell'evoluzione universale. E l'evoluzione, a sua volta, nel suo esercizio concreto, non è che il volto visibile di un'opera che è insieme creazione, incarnazione e redenzione. L'evoluzione, in definitiva, è l'edificazione del Cristo totale. Per Pascal, Cristo viene incontro al cuore umano, ferito, peccatore, per guarirlo. Per Teilhard, Cristo viene incontro all'uomo, freccia dell'evoluzione, per assicurare il successo del suo cammino in avanti. Il Cristo di Teilhard è il Cristo evolutore, che fa andare avanti l'evoluzione; è il Cristo universale che riunisce l'universo e l'umanità mediante l'amorizzazione. Teilhard certo, non nega le rotture, le discontinuità di questo cammino dell'evoluzione, ma la sua attenzione va innanzitutto al progresso da promuovere, all'umanizzazione da realizzare. Fin d'ora il mondo riceve, fin nelle sue fibre materiali, gli effetti della discesa di Dio in una carne d'uomo e in una materia transustanziata dall'eucaristia. Il Cristo di Teilhard è il Cristo dell'Apocalisse, il Cristo cosmico della lettera ai Colossesi, il Cristo universale, il Cristo ricapitolatore e parusiaco, il super-Cristo. Teilhard cerca di esprimere in immagini volutamente eccessive ( moltiplicazione dei super e dei superlativi ) l'influenza del Verbo incarnato su tutto l'universo materiale. Influenza che egli riallaccia soprattutto alla risurrezione e all'eucaristia. Il Cristo di Teilhard guadagna in estensione ma perde molto della interiorità pascaliana. Si trovano, certo, nell'opera di Teilhard ( specialmente nell'Ambiente divino ) pagine nelle quali si tratta dell'incontro personale dell'uomo con Gesù, ma il cuore a cuore del cristiano con un Cristo intensamente presente, come lo descrive san Paolo, per esempio, affiora raramente nei testi. In generale, il dettaglio della vita di Gesù, il messaggio delle parabole, delle beatitudini, in breve la lettera del Vangelo tiene poco posto negli scritti di Teilhard. La croce appare come la legge dell'evoluzione. Non vi è progresso, non vi è evoluzione, non vi è unificazione del multiplo, senza sofferenza e senza dolore. La croce è il simbolo più del lavoro arduo dell'evoluzione che della condizione del cristiano che, ogni giorno, deve morire al peccato. La via regale della croce, è il cammino dello sforzo umano, arduo e continuamente rettificato. Il peccato appare meno come responsabilità individuale che come responsabilità collettiva della carovana umana. L'umanità consentirà a unirsi per amorizzazione? Oppure comprometterà il successo dell'evoluzione? È votata al suicidio o all'adorazione? Senza alcun dubbio vi è più posto in Teilhard per il Cristo vincitore e pantocrator che per il Cristo salvatore e giudice. Tuttavia, ciò che è passato sotto silenzio, o capito in un'altra prospettiva ed espresso in altri termini, non è, per questo, negato. Blondel, a differenza di Pascal e di Teilhard, non presenta il Cristo apertamente come chiave d'intelligibilità del mistero dell'uomo o del mistero dell'evoluzione dell'umanità. L'ipotesi cristiana è semplicemente presentata come la risposta possibile al voto profondo dell'agire umano. Senza dubbio, nel pensiero di Blondel, Cristo è quell'Assoluto personale al quale è sospeso tutto il dinamismo volontario. Ma nei termini espliciti de L'Azione, che vuole essere un discorso solo filosofico, Cristo non è al proscenio. Cristo rimane tuttavia il cifrario intimo, la chiave del pensiero e dell'azione di Blondel. Cristo per. Blondel è innanzitutto il Verbo incarnato e il Cristo eucaristico. Il pancristismo di Blondel è il Cristo totale, il Verbo incarnato, che assume tutta la realtà ( cosciente o incosciente, storia e universo ) e gli da consistenza e unità. Senza il Cristo, che, per l'incarnazione, è il legame e il fine della creazione, l'universo sarebbe irrimediabilmente incompiuto. Cristo è l'Amalgamante universale, il Vinculum di tutta la realtà eterogenea che egli unifica e consolida. A differenza di Pascal che separa i tre ordini, Blondel, mediante il suo pancristismo ( come Teilhard del resto, mediante il suo Cristo universale ) cerca di unirli. Capitolo quinto - X X. Originalità e coplementarietà Nessuna di queste apologetiche passa per vie battute: ciascuna rappresenta una impresa originale. L'apologetica di Pascal è innanzitutto religiosa e di ispirazione biblica. Mira alla conversione dell'incredulo e del libertino. Mette crudamente davanti alla croce. Esige, umilia. Pascal ha le sue esagerazioni: è fissato, ossessionato dal peccato, dalla caduta originale. L'uomo è un essere deteriorato e ferito. Il giansenismo ha segnato Pascal. L'apologetica di Teilhard è un'apologetica della speranza, che desidera salvare l'uomo e l'universo. Esalta l'uomo e l'evoluzione, in vista di un lavoro gigantesco, la cui unità universale sarebbe il termine trionfante. Anche Teilhard ha le sue esagerazioni. Quest'epopea grandiosa della natura riflessa sembra svolgersi al di sopra dell'esistenza opaca che noi conduciamo. Il peccato, i peccati, il male, la malattia, sembrano eclissati dalla luce accecante dell'evoluzione in ascesa. L'apologetica di Teilhard è promettente e sembra facile. Coloro che vi rispondono sono pronti ai più grandi sacrifici? Desiderano una salvezza che, di fatto, passa attraverso la croce, o semplimente una speranza in un mondo migliore? La via della salvezza, troppo stretta in Pascal, sembra troppo larga in Teilhard. L'apologetica di Blondel è un'apologetica d'appello, d'invito. Prima di proporre il cristianesimo, vi è una serie di operazioni, di « prime cure » da fare: uno sblocco intellettuale preliminare. Occorre dimostrare all'uomo che mancherà di ossigeno se pretende di vivere solo. Le sue pretese di autonomia sono irrealizzabili e si urtano al fallimento. Solo non si vive. La vita diventa presto un campo della morte. Occorre che la paura dell'asfissia faccia desiderare un aiuto dall'esterno: l'aiuto di Qualcuno, un aiuto efficace. L'Azione ci lascia sulla soglia dell'edificio. Si apre la porta e ci lascia intravedere attraverso uno spiraglio ciò che potrebbe essere la vita. La filosofia non si crede in diritto di andare più lontano. Se tu vuoi! Pascal fa pressione; Teilhard cerca di creare un contagio mediante la visione entusiastica di un mondo coerente; Blondel insinua e indica, puntando il dito, una direzione, ogni apologetica ha la sua originalità. Teilhard guarda l'uomo in modo benevolo e ottimista, più incline a sottolineare i suoi lati buoni che le sue debolezze. Teilhard fa uscire l'uomo dalla prigione in cui Pascal l'aveva rinchiuso. Dio facendo l'uomo non gli ha soltanto aperto il cielo: gli ha consegnato la terra perché la rendesse abitabile, degna dell'uomo, promessa anch'essa alla gloria. La funzione dell'uomo è di ominizzare il mondo per sottometterlo a Cristo, prima della trasformazione degli ultimi tempi. Questa visione ottimista di un universo in progresso è tale da piacere agli uomini di scienza, come agli uomini contemporanei in generale. Conquistando il suo passaporto di figlio di Dio, il cristiano di oggi non vuole perdere il suo passaporto di figlio della terra. Pascal, a differenza di Teilhard, richiama l'uomo al sentimento dei suoi limiti. Pascal non condivide l'ottimismo di Teilhard sulla riuscita dell'umanità; per quest'ultimo, infatti, tutto si accomoda o finirà per accomodarsi ( per lo meno lo spera ). Per Pascal, invece, l'esistenza umana resta drammatica: rappresenta il conflitto della luce e delle tenebre. Pascal riconosce al peccato il suo volume, il suo peso nella storia dell'uomo, individuo o collettività. Il sangue di Cristo è una realtà che conta, e non è stato sparso invano. La natura dell'uomo è di aver bisogno di salvezza e di salvatore. Trasformato fin che si vuole, il mondo resterà un luogo di prova. Perciò a ogni crisi personale, si ritorna a Pascal. Ciò che l'uomo vuole in definitiva e in fondo a se stesso, non è il progresso, ma la felicità. La visione di Pascal aderisce di più alla realtà umana e personale di quella di Teilhard. L'uomo è innanzitutto un peccatore graziato, in cerca della salvezza e della felicità in Gesù Cristo. A questo proposito Pascal si situa nella linea di Agostino, di Newman, di san Paolo, per i quali la fessura è nel cuore dell'uomo. Blondel si situa nella linea di Pascal. Anche per lui l'uomo non coincide con se stesso: vive a distanza da sé. Il solo male dell'uomo è di chiudersi in se stesso, pretendere di bastarsi; è rifiutarsi di essere sostituito da Dio; è di mentire al proprio destino; è di voler essere senza essere. La salvezza, invece, la vera vita incomincia per l'uomo quando accetta di aprirsi a un'azione che non è la sua, quando si lascia invadere da Dio, lasciando alla Causa prima il primo posto. A partire da questa apertura tutto è possibile. Tutti e tre sono di natura ponderata, uomini seri davanti alla serietà della vita, che si fanno carico del problema supremo dell'uomo. Perché sono seri, insistono tutti sulle disposizioni interiori. Non si arriva alla verità se non si cerca di tutto cuore, se non si è pronti ai più grandi sacrifici per trovarla. Questa necessità delle disposizioni interiori, che si riallaccia al Vangelo di san Giovanni, è particolarmente sottolineata da Pascal e da Blondel. Capitolo quinto - XI XI. Atteggiamenti spirituali in causa Sullo sfondo di queste apologetiche si disegnano, come in filigrana, atteggiamenti spirituali diversi. Su questo punto possiamo avvicinare Pascal e Blondel, che contrastano con Teilhard. Teilhard, per conto suo, si entusiasma davanti al progresso, davanti alle conquiste dell'intelligenza, davanti all'unificazione progressiva dell'umanità. L'aspirazione all'unità è quella della noosfera: è una impresa d'unanimizzazione, d'amorizzazione, di cui la Chiesa è il mezzo e il risultato. Ma questa aspirazione all'unità non ha il patetico dell'aspirazione della persona verso Dio. Il cammino della Chiesa, in Teilhard, non ha il carattere drammatico di un cammino di peccatori perdonati, di una Chiesa reformata et semper reformanda. Il Cristo di Teilhard riveste le caratteristiche del Pantocrator piuttosto che i lineamenti del Salvatore e del Giudice. È il Cristo cosmico, motore e scopo dell'evoluzione. Teilhard, che è uno spirituale serio, vedi un mistico, non nega evidentemente il rapporto personale, diretto, immediato, della persona alla persona del Cristo, ma questo Cristo passa al secondo piano, dopo il Cristo cosmico. Teilhard non nega il peccato, ma non si ferma a studiare il male che è nel cuore dell'uomo, il peccato che è rivolta e rifiuto di Dio. Il peccato è considerato più in riferimento diretto al progresso del mondo che in riferimento a Dio. Teilhard da a volte l'impressione che il male è come la frangia inevitabile del progresso o come il sottoprodotto di una evoluzione che non potrebbe funzionare senza una certa percentuale di scarti ( decomposizione fisica nei previventi, sofferenza nei viventi, peccato nell'uomo ). L'equivoco viene dal fatto che Teilhard integra male la prospettiva personalistica nella sua prospettiva evolutiva e universalistica. Il peccato non potrebbe essere « ridotto a un sotto-prodotto, inevitabile statisticamente, dell'Unificazione del multiplo ». L'evoluzione, arrivata al livello dell'uomo, si fa mediante atti liberi e quindi morali. Perciò non si potrebbe applicarle la legge sempre crescente della cosmogenesi, con la sua proporzione di scarti. È contestabile il dire che « la sintesi scientifica dell'uomo si prolunga tanto necessariamente in progresso morale quanto la sintesi chimica delle sostanze proteiche in manifestazioni biologiche ». Progresso morale e peccato sono legati al mistero della persona e della sua libera personalità: come tale la persona sfugge al determinismo statistico. In breve l'assunzione del peccato da parte della prospettiva universalistica, evolutiva, conduce Teilhard a identificare evoluzione e redenzione, a minimizzare il peccato come mistero della persona e della libertà. Il mondo peccatore, l'uomo peccatore, questa dimensione che l'evoluzione non basta a spiegare, manca a Teilhard. La vittoria del Cristo cosmico fa dimenticare la vittoria del crocifisso e del risorto sul peccato e sulla morte. Nello stesso senso, la gratuità dei doni di Dio, la sua libera iniziativa nella creazione, nell'incarnazione, nella redenzione, sono sottolineate in modo insufficiente. La debolezza di Teilhard è stata di tradurre, senza sufficiente precisione, le realtà spirituali e religiose in un linguaggio che le mantiene troppo in dipendenza delle forze cosmiche di un universo in progresso. Il linguaggio del paleontologo e del biologo non basta da solo a esprimere il mistero del peccato e della salvezza. Teilhard era allergico alla tecnicità del linguaggio teologico: atteggiamento spiegabile forse per le delusioni dell'insegnamento che ricevette. È certo che si esprime su soggetti religiosi importanti ( peccato originale, redenzione, incarnazione ) senza strumenti teologici sufficienti. Per Pascal, come per Blondel del resto, la grandezza del cosmo e del progresso tecnico non fanno che rendere più patetico il grido dell'uomo verso un liberatore, un salvatore. È il cuore dell'uomo, è la sua vita interiore, che non potrebbe bastare a se stessa e che grida verso l'infinito. Pascal, come Blondel, per definire la vera grandezza dell'uomo, fa appello a ciò che è stato fatto da Dio e che non può rinascere che per la grazia di Dio. Per Pascal, un Cristo che apparirebbe come il termine dell'evoluzione, sembrerebbe inutile tanto quanto il Dio dei filosofi. Ciò di cui l'umanità ha bisogno, è di un Salvatore, e non di un Cristo evolutore; è di un Cristo che riconduce l'uomo alla sua giusta relazione con Dio, tutto il resto è un di più. Non basta all'uomo di « progredire » per liberarsi dal peccato: il male è nel cuore dell'uomo, e nessun progresso tecnico gli darà Dio, se non la grazia di Cristo, che gli viene dal sangue, dalle lacrime e dalla passione del Redentore, che si rivolge a ciascuno nell'intimo del cuore, al di là delle forze della natura e della storia. Per Pascal, l'universo coi suoi tre infiniti, di fronte alla miseria dell'uomo, è un falso infinito. Non c'è bisogno di ingrandire un Cristo che porta all'uomo l'infinito della Carità. Cristo resta sempre il maestro del cosmo e dell'umanità, dell'ordine dei corpi e delle intelligenze. Ma, in un certo senso, questo è secondario. La grandezza vera del Cristo è quella che ha voluto rivelarci lui stesso: cioè quella del suo amore, del suo sacrificio, della sua oblazione che ci salva dal nostro egoismo. L'ordine del Cristo e della grandezza è quello nel quale egli appare e ha voluto apparire: quello della carità. Nascondi Quando san Paolo, nella lettera agli Efesini ( Ef 3,18-19 ), svela le dimensioni infinite del mistero di Dio, si tratta di dimensioni dell'« amore di Cristo » che supera ogni conoscenza. La funzione di Cristo, è di farci entrare in questo ordine della carità. E la sua vittoria finale è quella del suo amore crocifisso e vivificante. Questo, Teilhard non lo nega sicuramente, ma non lo mette in rilievo, perché il suo obiettivo e i suoi destinatari sono diversi. Blondel, come Pascal, è attento innanzitutto a scrutare il vuoto del cuore e del volere, per aprire e spalancare nell'uomo il desiderio dell'infinito. Pascal e Blondel raggiungono Agostino. In fondo, ci troviamo di fronte a due atteggiamenti spirituali, contrastanti, e, di conseguenza, a due tipi di apologetica. Teilhard vuole condurre al Cristo universale, non soltanto lo scienziato che egli è, ma tutto se stesso, col suo entusiasmo per l'uomo e la sua azione sulla terra. Per Pascal, come per Blondel, tutto è spazzatura, fuorché Cristo. Pascal è stato afferrato, « preso in mano » da Cristo. Per lui la vita è in Cristo, il progresso è in Cristo. In fondo ciascuno vuole condurre il non-credente al Cristo al quale si è lui stesso convertito: al Cristo cosmico, ingrandito, universale, Teilhard; al Cristo salvatore della condizione umana, dell'agire umano, Pascal e Blondel. Il contrasto è sicuramente grande tra questi due atteggiamenti, ma non traducono forse la tensione che è nel cuore di ogni cristiano contemporaneo: tensione tra l'interiorità personale, da una parte, misurata attraverso la nostra debolezza incommensurabile e, dall'altra, il mondo della tecnica, della collettività umana che ci solleva e ci inebria? Capitolo quinto - XII XII. Il Cristo, chiave del crittogramma umano Ritorniamo alla prospettiva di questo studio: manifestare Cristo come esegesi e pienezza dell'uomo. Per Pascal, Cristo è il mistero che illumina il mistero dell'uomo, abisso di miseria e di grandezza: che illumina e guarisce insieme mediante un mistero ancora più grande. Per Teilhard il Cristo-Omega-Universale, il Risorto, il Pantocrator, riconcilia tutto, riassume tutto nella coerenza e fa tutto convergere: fede e scienza, cosmico e cristico. Per Blondel, l'Unico necessario ( il Cristo per lui ) è una strada di luce che illumina il mistero dell'agire umano. Per Pascal, il Cristo è il Punto alto che domina tutto, che illumina tutto, che offre la globalità del significato. Per Teilhard, il Cristo-Omega, il Cristo universale, è il principio e il termine dell'evoluzione, l'in-avanti e l'in-alto. Blondel, il filosofo, afferma, davanti alla fragilità dell'agire umano, sempre debole, la consistenza dell'« È », cioè « Dio è », tutto si regge in Gesù Cristo. Punto alto che illumina, in-avanti e in-alto che muove e consolida. Trascendente che dà unità e solidità: le tre prospettive si raggiungono. Pascal, Blondel, Teilhard: tutti e tre hanno cercato di presentate la verità cristiana adottando come filo conduttore l'esistenza umana, ai suoi diversi livelli, nei suoi momenti di crisi. Il più prezioso apporto di questa riflessione è di rendere più accettabile l'incontro storico con Gesù di Nazareth che non è semplicemente un mito, una gnosi, ma la realtà di Dio che viene verso l'uomo: Dio con noi, l'Emanuele. Incontro sconvolgente, inaudito di due misteri fatti l'uno per l'altro, nonostante la distanza che li separa: Mistero che decifra l'uomo, che consolida il cammino dell'umanità, che esaudisce il voto segreto, ma impotente dell'azione umana. Tuttavia, quest'incontro è possibile soltanto se trova nell'uomo un atteggiamento di apertura, di disponibilità, di ricerca sincera della verità, che è sempre una forma di preghiera, affinchè lo Spirito possa fecondare il cuore dell'uomo e trarlo verso il Cristo. Parte seconda Cristo e i nostri problemi umani Per poco che ci rifletta, l'uomo contemporaneo, soprattutto l'uomo occidentale, è ben disposto a riconoscere che la crisi del XX secolo è una crisi di civiltà, perché tutto è rimesso in questione. È tanto più abbattuto da questa crisi in quanto è stato modellato, in ciò che ha di migliore, dal cristianesimo e dal senso cristiano della vita. Ora, questo mondo occidentale è diventato sempre più estraneo al cristianesimo, non soltanto come pratica, ma come interpretazione della vita. D'altra parte l'uomo occidentale vive sempre più alla periferia di se stesso; rimane estraneo al suo mistero e alle sue aspirazioni profonde. Di conseguenza è sempre meno capace di capire che solo il cristianesimo è in condizioni di illuminarlo e di salvarlo. Certo, ha dei problemi, anzi soccombe sotto la valanga dei problemi. Ma l'uomo della tecnica ha sostituito ai valori fondamentali, desideri soltanto esteriori, come il benessere, la ricchezza, la salute, i divertimenti. I suoi problemi hanno nomi che ben conosciamo perché riempiono i giornali e alimentano la televisione. Si chiamano: salario, bilancio, imposte, guadagni, inflazione, programmazione, contratto di lavoro, sindacato, diritto di sciopero, assicurazioni sociali, ecologia, tecnocrazia, burocrazia, ideocrazia, economoprazia, ecc. L'uomo del XX secolo è più sensibile ai disordini economici che ai disordini della sua coscienza; più sensibile alle scelte politiche che alle scelte religiose. Si interessa ai problemi concreti, perché ha la preoccupazione di verificare, analizzare, calcolare, matematicizzare. Ma i problemi che lo sollecitano non impegnano il suo essere profondo. Ora Cristo non ha promesso di rispondere alle attese epidermiche dell'uomo. Perché l'incendio portato da Cristo divampi, occorre che la sua parola attraversi i rivestimenti esteriori dell'uomo, gli strati periferici del suo essere e raggiunga la zona più intima. Perché la parola di Cristo sviluppi tutta la sua energia e riscaldi ciò che è morto, occorre arrivare alla fissione dell'atomo, vale a dire fino a quel centro dove si pongono le vere questioni, perché è a proposito di esse che Cristo offre la luce decisiva. Questi problemi, se cerchiamo di considerarli sotto tutti gli aspetti, si riducono infine ai rapporti dell'uomo col mondo, con gli altri, con se stesso, con Dio. Infatti sono queste le dimensioni costitutive dell'uomo: distinte, inseparabili, interdipendenti. Le relazioni col mondo pongono il problema del lavoro e del progresso; le relazioni con gli altri uomini pongono il problema dell'alterila, sotto forma di giustizia, di amicizia, di amore, di carità; le relazioni dell'uomo con se stesso pongono i problemi della solitudine, della malattia, della morte; le relazioni con Dio pongono i problemi della libertà, della legge, del peccato, della salvezza. Ma possiamo anche raggruppare questi problemi sotto forma di binomi, in un rapporto dialettico. Otteniamo allora il seguente quadro: lavoro e progresso, solitudine e alterila, legge e libertà, morte e vita, peccato e salvezza, sofferenza e speranza, Dio trascendente e salvatore. È l'ordine che abbiamo adottato, perché si presta a una presentazione più dinamica. Su ciascuno di questi problemi che appartengono alla condizione umana, Cristo ha qualcosa da dire e qualche cosa di decisivo. Dando a queste ineluttabili questioni una pienezza di significato inattesa, il messaggio cristiano attesta la sua credibilità. Capitolo sesto - I Cristo e le nostre solitudini I. Solitudine e alterità Può sembrare strano parlare di « solitudine » in una società che parla continuamente di comunicazione, di condivisione, di dialogo. Nella Chiesa non siamo forse all'ora della collegialità, dei sinodi, delle conferenze episcopali, dei consigli presbiterali, delle comunità di base, delle comunità di preghiera, dei gruppi carismatici, delle omelie partecipate? Nella società civile non si parla che di sindacati, di riunioni di partito, di meetings, di clubs, di pranzi di lavoro tra uomini d'affari. Nelle università, è il girotondo dei consigli d'amministrazione, dei consigli di facoltà, dei consigli di studenti, dei laboratori di lavoro, delle équipes di ricercatori, mentre negli ospedali, si pratica la terapia di gruppo. Il tempo della solitudine è diventato anacronistico. Si pensa in gruppo, si lavora in gruppo, si vive in gruppo. D'altra parte quest'uomo della comunicazione ha un bei vivere in seno alla moltitudine, inondato di discorsi; egli aspira alla tranquillità, alla pace, se non alla solitudine. Aspira al week-end, agli uffici chiusi, ai telefoni finalmente ridotti al silenzio. Evade dalle città, in ricerca di un'oasi di verde, vicino al lago. Ma, nuovo paradosso, appena arrivato, appena fermo, si annoia; si chiede che cosa farà, dove potrebbe andare, chi potrebbe invitare. Apre la radio, accende il televisore, mette in moto il giradischi ad alto volume, corre al club di golf. Soffre di star solo. È il paradosso dell'uomo contemporaneo. Vive in gruppo, parla di comunicazione, ma il discorso non giunge a salvarlo dal suo isolamento. Aspira alla tranquillità, ma non è capace di rientrare in se stesso. Desidera la folla, ma soffre dell'anonimato che lo dissolve. Desidera la pace, ma teme di ritrovarsi solo. Risente dolorosamente l'impossibilità di comunicare con gli altri, come pure la sua impotenza a rientrare in se stesso. In fondo è incapace di vivere con gli altri, così come è incapace di vivere solo. Non più di quanto si sopporta, sopporta gli altri. Solitudine e alterità: la riuscita o il fallimento della nostra vita dipendono dall'equilibrio più o meno riuscito tra questi due poli. Noi passiamo dalla tristezza di sentirci incompresi, respinti, abbondonati, sepolti, alla gioia di essere accolti, capiti, chiamati a condividere. Una parola d'amicizia ci sembra più preziosa di una fortuna: ma se questa amicizia si rompe, subito noi sentiamo il morso della solitudine, dell'isolamento. La nostra esistenza si tesse così attraverso un'alternanza di solitudine e di comunione, che ci fa soffrire, ma nello stesso tempo ci purifica e ci approfondisce. Solitudine e alterità essendo a tal punto legate, conviene studiare l'una e l'altra, in una prospettiva cristiana. Capitolo sesto - II II. La solitudine e le sue forme Appena si parla di solitudine, si incontrano subito delle difficoltà di linguaggio, perché il termine è ambiguo e ha molte applicazioni. Per esempio uomini esausti, stanchi del lavoro di amministrazione, diranno: « Oh, se potessi trovare un momento di solitudine! ». Altri, in apparenza circondati e sostenuti dal loro ambiente, diranno in tono di lamento: « Oh, come mi sento solo! Non c'è nessuno con cui possa veramente parlare! ». Si dirà anche che le persone della terza età sono terribilmente sole. Vi sono infatti molti tipi di solitudine: la solitudine sofferta e subita, imposta dagli avvenimenti; la solitudine aggressiva e cattiva, cioè l'isolamento; e infine la solitudine feconda, accettata, aperta e accogliente: per esempio quella dei santi e di Cristo. La solitudine generata dall'indifferenza, dalla mancanza di soccorso, dall'abbandono, può diventare buona o cattiva, secondo l'atteggiamento di chi la subisce: cattiva se porta all'amarezza, all'esasperazione, all'isolamento aggressivo, alla rottura; feconda al contrario se è assunta come luogo privilegiato di attività orante o come prova di purificazione, sublimata dalla comunione a Cristo abbandonato, ma unito al Padre. A dir vero, la sola distinzione valida passa tra la solitudine cattiva o isolamento e la solitudine feconda, sola autentica. Il problema è di passare dall'isolamento alla solitudine. Esiste oggi una prima forma di solitudine, largamente diffusa, che dipende dallo stile di vita imposto dal mondo moderno. Tale stile crea tra gli uomini un atteggiamento d'indifferenza e, di conseguenza, uno stato di abbandono. In apparenza, l'uomo della città, del telefono, della metropolitana, vive più « prossimo » che mai al vicino. Ha tutto ciò che occorre e più di quanto occorre. Vive in un reticolato di forze rassicuranti. Basta infatti esserne privati per qualche ora per rendersene conto. Pensiamo ai guasti elettrici o telefonici di Roma, Parigi, New York, Montreal. La grande città, che riunisce tante persone, che avvicina fino alla promiscuità dovrebbe sviluppare il senso della comunità. In realtà essa significa il regno della « cella » e della « carcerazione ». Gli stabili ad appartamenti multipli sono caserme, gabbie di cemento e di acciaio, dove coesistono ammassi di molecole. Si vive parallelamente e nell'anonimato. Si costeggiano gli altri, come lungo un muro. Non vi è calore umano, ma indifferenza glaciale da icebergs. Si può incrociare il vicino per anni senza identificarlo, senza identificarsi. Può morire senza che si sappia, senza nemmeno preoccuparsene. Gli uomini passano, sfilano, se ne vanno. Il vicino è raramente il prossimo. Le città suonano il rintocco funebre della vera solitudine. L'uomo indifferente non incontra intorno a sé che l'indifferenza. È privato di quell'humus di umanità che potrebbe suscitare e nutrire i contatti, favorire gli scambi, svilupparsi in unione e comunione. La vita delle grandi imprese, con la loro foresta di uffici e di macchine, non migliora la situazione. L'uomo e la macchina funzionano con lo stesso ritmo. A forza di vivere con le macchine si corre il rischio di occuparsi macchinalmente di tutto e di tutti. L'attitudine all'incontro umano si atrofizza. L'indifferenza finisce per generare l'abbandono e a volte, l'isolamento aggressivo. Una seconda forma di solitudine subita è quella che nasce dalla mancanza di comprensione da parte di coloro che ci sono vicini: parenti, amici, compagni di lavoro. Solitudine tanto più dolorosa in quanto proviene da coloro sui quali dovremmo, normalmente, poter contare di più. Questo tipo di solitudine si incontra nelle famiglie, dove gli sposi vivono gomito a gomito, chiusi l'uno per l'altro, prima di « sganciarsi » ( fenomeno particolarmente frequente quando la vita professionale - del medico, dell'amministratore, del ricercatore - viene a complicare la vita coniugale ); a volte anche nelle comunità religiose, dove i membri si incontrano senza parlarsi, o parlano senza incontrarsi veramente, perché, da ambo le parti ci si sa incompresi o perché si ha paura di non essere capiti. Questa solitudine, che nasce dall'incomprensione, può a volte andare molto lontano, fino al martirio interiore, senza che si possa per questo parlare di cattiva fede in coloro che ne sono la causa. Penso qui ai tipi di incomprensione di cui sono stati vittime uomini di Chiesa, ricercatori meritevoli e fedeli, come Teilhard de Chardin. Questi uomini sono stati sospettati, messi da parte e anche esiliati, corrosi per sempre nella loro salute. Eppure, i responsabili di questi drammi, hanno agito, sembra, non per malizia, ma per fedeltà alla loro coscienza. Ma quante sofferenze! Questo fenomeno d'incomprensione e di conseguente solitudine, si ritrova, non soltanto tra i membri di uno stesso gruppo, ma anche, non meno virulento, tra le diverse classi della società ( operai e padroni, sindacati e governanti ) e tra le diverse generazioni: è il dramma attuale dell'incomprensione tra figli e genitori: genitori impotenti e sprovveduti, nonostante la loro immensa buona volontà; figli che disertano la casa, sbattendo le porte, per unirsi a gruppi clandestini: disoccupati, disadattati, drogati. Una terza forma di solitudine involontaria, ma dolorosa, lacerante, ha il nome di abbandono, di derelizione, di rigetto. Di tutte le forme di solitudine subite è certamente quella che gli uomini temono di più: la più vaga, la più viscerale, la più profonda anche. Chiunque l'ha conosciuta, non vuole più ricordarsene, perché è l'esperienza di una totale svalutazione e disintegrazione dell'essere. L'ho incontrata in giovani sacerdoti, in Europa e in America: esperienza deprimente, dissolvente di giovani uomini, ardenti e pieni di zelo, ma abbandonati a se stessi, in ambienti scristianizzati e indifferenti, induriti, ghiacciati e agghiaccianti, senza vera possibilità di « rifare il pieno » spiritualmente e intellettualmente. Oh, l'orrore di questi abbandoni, affrontati da soli, con tutti i rischi della solitudine « cattiva »! Lo stato di abbandono, l'ho incontrato anche tra i profughi e i rifugiati. All'inizio si fa loro buona accoglienza; ma la luna di miele nel paese di adozione, è di corta durata. Sulla metropolitana, sui treni, il loro accento o il loro colore rivelano presto « lo straniero ». Rari sono i gruppi familiari, più rari ancora i cuori che li accolgono con il calore di un'amicizia fedele. Come è difficile per lo straniero, sentirsi « del paese », della « famiglia »! Questa forma di solitudine, l'ho incontrata ugualmente in persone della terza e della quarta età: tanto più frequente in quanto la pensione anticipata e la longevità accresciuta, nei nostri paesi d'Occidente, hanno fatto della vecchiaia un vero « stato di vita ». Rapidamente, i legami con l'ambiente professionale si rompono; la cerchia degli amici si restringe. L'anziano si sente come uomo la cui morte è differita, biologicamente finito e socialmente inutile. Passa la maggior parte del suo tempo a letto, di fronte alla TV, o seduto alla finestra, contemplando un mondo che non lo riguarda più. È di troppo, perché non guadagna più. Ci si ricorda di lui appena in periodo elettorale! L'entrata all'ospizio istituzionalizza il restringimento della sua esistenza e discolpa la famiglia. Questa situazione drammatica è ancora aggravata, in alcuni paesi, dalle condizioni di soggiorno dell'ospizio: separazione delle coppie, incomprensione del personale poco rimunerato, carenza di cure mediche, assenza di cure estetiche per mantenere la persona nella sua dignità. L'ospizio diventa allora uno « scaricatoio », dove si getta l'irricuperabile, l'anticamera della morte, il luogo privilegiato per trasformare la morte sociale in morte biologica. Ci si deve stupire se un tale abbandono genera l'amarezza, l'isolamento aggressivo? Ma l'essere colpito più spesso dalla solitudine-abbandono, è il malato incurabile, il malato cronico. Rapidamente si sente fisicamente, spazialmente e socialmente messo da parte. Il suo corpo lo ha già abbandonato: si sente deteriorato, diminuito, alienato. Non è più lui. A ciò si aggiunge l'inquietudine per l'avvenire ( a-venire ). Coloro che ancora lo avvicinano non contano più su di lui. Si sente rigettato dalla vita e dalla cerchia dei viventi. Può uscire da questa crisi purificato, cresciuto; ma può anche affondare nella « cattiva » solitudine che lo taglia fuori da se stesso e dagli altri. Vi è infine, l'abbandono-derelizione-rigetto, questo tragico destino, di tutti gli impotenti, di tutti i senza risorse, davanti alla potenza brutale dei regimi d'oppressione: politici, militari, economici. Ogni ingiustizia nel mondo lascia la vittima sola, di fronte alla tentazione del suicidio. Questa condizione è quella dei popoli che, da secoli, vivono in una « solitudine collettiva »; dominati, oppressi, asserviti, senza neppure la speranza di uscirne, come il naufrago che, dopo ogni tentativo per emergere, si sentisse afferrato alla nuca e irrimediabilmente « affogato ». Capitolo sesto - III III. L'isolamento o la cattiva solitudine In sé, l'esperienza dell'indifferenza subita, dell'incomprensione, dell'abbandono vissuto, è una prova, ma non necessariamente un fallimento dell'esistenza. Può sfociare in una solitudine feconda, così come può diventare isolamento o « cattiva » solitudine. L'isolamento è alla solitudine ciò che il mutismo o il broncio sono al silenzio. Tacere è poter parlare; essere solo è potersi incontrare. Nella solitudine l'assenza dell'altro o degli altri è risentita, ma come momentanea. È destinata a risolversi in un incontro. Nell'isolamento, al contrario, l'allontanamento e il mutismo sono vissuti come una rottura minacciante. Nella solitudine concepita come un momento privilegiato della nostra esistenza nel mondo, l'uomo scopre che può esistere solo, pur restando aperto agli altri. L'isolamento invece diventa rapidamente morboso, patologico. L'isolamento è una solitudine che si è inacidita invece di maturare. Si incontra di frequente in uomini che hanno fallito presto nella loro vita, ma non lo hanno mai accettato, né superato. Sono diventati amari, aggressivi verso tutto e verso tutti; la loro vita non ha più senso, perché hanno perso contatto con gli altri e con Dio. A volte ricoprono la loro amarezza con una maschera di pseudo-saggezza, dichiarando che la vita, per chi l'ha conosciuta, non è che uno smaltitoio di scarti, lo scarto essendo un compromesso tra ciò che è stato e ciò che non sarà. Questo tipo di isolamento attende di solito al varco l'uomo che invecchia e che vede le sue possibilità di successo diminuire, poi sparire. « Ho dato quello che avevo da dare! Che si arrangino! ». Una vita che poteva fruttificare, diventa sterile. L'isolamento può coincidere con la follia, perché è innanzi tutto un atteggiamento interiore. L'isolato è uno lasciato a se stesso, un abbandonato, un male-amato, che diventa male-amante, un disprezzato che risponde col disprezzo. L'isolamento è uno stato di rottura con sé e con gli altri. Non è raro che conduca al suicidio. Il numero spaventoso dei divorziati, dei drammi di vita coniugale e familiare, rivela una forma tragica di questa solitudine. Per ogni specie di motivi, due persone che non potevano vivere una senza l'altra, giungono a odiarsi, a fuggirsi. Questa rottura, a sua volta, genera una spirale di rotture, di isolamenti: quella dei figli e dei genitori, quella dei figli in guerra contro una società che li riduce a non appartenere a nessuno. Questo fenomeno delle « solitudini a catena » è una delle tristi caratteristiche del nostro tempo. Gli ambienti cristiani non sono esenti da queste tensioni, non meno feroci che quelle delle colonie animali. Se non si appartiene a tale collettività, a tale partito, a tale clan, si è esclusi da tutto, non soltanto dal potere, dai favori, ma ancora dall'ossigeno necessario per respirare. Tali ambienti invece di sbocciare in carità, diventano inferni dove ciascuno si rinchiude, si protegge, si difende o attacca. Se si incontrano gli altri è per urtarli o spezzarli. Occorre infine dire una parola di quella forma estrema d'isolamento, di cattiva solitudine, che consiste nel prendere congedo da Dio come da un personaggio di leggenda. Molti uomini, oggi, sono caduti più in basso di Nietzsche nell'allontanamento da Dio. L'uomo contemporaneo non è neppure più toccato da Dio, che è una realtà assente dalla sua vita. Si incontra ancora di peggio, cioè la rivolta appassionata, violenta, contro Dio, considerato solo responsabile di tutte le alienazioni. I pagani dell'antichità servivano le divinità a modo loro: è il privilegio del nostro secolo di conoscere masse che fanno professione di ateismo e militano per le loro convinzioni. L'uomo, ormai, monologa con se stesso e con le sue opere. In verità l'uomo isolato è orribile: ha bisogno di essere salvato. Capitolo sesto - IV IV. Gli sbocchi della solitudine Occorre trovare uno sbocco alla solitudine subita e all'isolamento scelto. In pratica vi sono due sbocchi: il divertimento o il superamento. Un primo modo di sfuggire alla solitudine è di distrarsi, di stordirsi, di « divertirsi », nel senso pascaliano del termine, cioè voltare le spalle a se stesso e alla propria condizione miserabile per non pensarci affatto. Si tratta di dimenticare, per infine dimenticarsi. Ci si agita, ci si affanna, si freme, ci si stordisce, fino all'ubriacatura morale e fisica. Se si viaggia, è per darsi alla soddisfazione epidermica della curiosità. Si attraversano paesi e continenti: non si vede che con un occhio, non si ascolta che con un orecchio, ci si rimpinza di monumenti, di musei, di spettacoli. Al ritorno, se per caso qualcuno ci interroga sul periplo compiuto, tutt'al più si può dire che si sono visti e attraversati tanti paesi, fatti tanti chilometri. Evidentemente non si è avuto il tempo di capire, e ancor meno quello di penetrare le mentalità e le culture. Se si resta a casa, ci si stordisce col suono e l'immagine. E quando il rumore soffoca tutte le voci, non se ne sente nessuna, ne la propria, ne quella di Dio. Il solo vero sbocco all'isolamento ( caricatura della solitudine ) o al divertimento ( alibi peggiore del male ) è la solitudine vera, feconda. Ma questa, a sua volta, è una conquista e il frutto di un tirocinio. La solitudine feconda, infatti, esige che ci si allontani dal tumulto, dal fracasso, dagli alto-parlanti tonanti e rabbiosi, che ci si ritrovi dopo essersi persi. Se cerchiamo di definire le componenti di questa solitudine autentica, vi troviamo gli elementi seguenti. Il primo, e più evidente, è il ritiro, il distacco. Finché ci si stordisce, trepidanti, si vive al di fuori di sé, a lato del suo vero io. Finché l'animus si agita, direbbe Claudel, l'anima, o l'Io profondo, non riesce a farsi sentire. Si deve cessare di folleggiare, come lepri, e rientrare a casa. Solo la separazione, un certo distacco, anche se fossero dolorosi, danno accesso alla vera solitudine. Un secondo elemento che, in fondo, non è che il rovescio del primo, è il raccoglimento. Cristo si ritira in disparte, ma per pregare, per ritrovarsi, come Figlio, nell'intimità del Padre. Senza il raccoglimento, il ritiro diventa siccità, deserto intollerabile. Se si lascia il tumulto, il vortice, è per ritrovarsi in acque calme. « Ogni atomo di silenzio è la possibilità di un frutto maturo » ( Valery ). Si rientra in sé per ritornare agli altri, ma più ricchi, con qualche cosa da offrire. Un terzo elemento della solitudine vera è infatti l'apertura agli altri. Senza questa apertura, il raccoglimento non è che ripiegamento su se stessi, narcissismo, e rischia fortemente di ricadere nell'isolamento aggressivo. Raccoglimento e apertura costituiscono ugualmente una sola operazione. La solitudine, riconducendo l'uomo al centro, lo rivela a se stesso, nella sua libertà, nel mistero della sua insostituibile unicità, anche nella sua limitatezza, col suo bisogno di conoscere, di amare, di agire per realizzarsi. Altrimenti si atrofizza e muore. La solitudine insegna anche a vedere gli altri con lo stesso sguardo, non come ombra indifferente, o come oggetto da possedere, da sfruttare, ma come un uguale mistero di libertà e di unicità, che non si scopre che attraverso una libera testimonianza. Esclusivismo e totalitarismo sono nemici della vera solitudine. L'altro si offre come un Tu di fronte a un Io. Questi due misteri non si rivelano che nella vicendevole accoglienza, apertura all'Io altrui, mediante la fiducia, la confidenza e l'amore. Altrimenti ci troviamo di fronte a delle monadi ermetiche, come conchiglie ben chiuse. Ma, per donarsi così nel proprio mistero personale, occorre prima essersi afferrati, identificati e rivelati a se stessi mediante il raccoglimento. Non vi è offerta senza un dono da offrire. Solo la solitudine vera conduce all'amicizia e all'amore autentici. Là dove esiste, il dialogo, nutrito dal raccoglimento e dall'apertura, sgorga dal più intimo di ciascuno per raggiungere il più intimo dell'altro. La solitudine allora è feconda, a immagine della solitudine divina, che è insieme pienezza infinita e disappropriazione infinita. La vera solitudine conduce infine al rinnovamento di sé. Chi è sceso nelle profondità del proprio cuore e si apre agli altri, crea in sé un essere nuovo. Scoprendosi e aprendosi realizza se stesso. La vera solitudine e fonte di progresso, di creatività, d'integrazione. La dialettica della vita è quella della solitudine e della comunione: un ritmo a due tempi. Intellettualmente e spiritualmente nasce fecondità vera senza solitudine. Lo sposo, l'amico, il mistico, il ricercatore, tutti devono passare di lì. Capitolo sesto - V V. Solitudine radicale innevitabile Detto questo sulla solitudine autentica e feconda, il discorso non è completo. Infatti, anche in seno al più grande amore e negli ambienti più protetti, sussiste sempre, in fondo a ciascuno, una solitudine congenita, radicale, ineluttabile. Il mistero della nostra soggettività si presenta a noi come quello di una « cella segreta dove si svolge la nostra vita ». Percepire che noi esistiamo, è improvvisamente rendersi conto che noi siamo soli, separati, espropriati, inaccessibili. E se ci capita di pensare che coloro che ci stanno intorno sono ugualmente « celle segrete » come ciascuno di noi, allora il sentimento della nostra solitudine si accresce. Noi rabbrividiamo evocando tanti ritiri misteriosi. Eppure questa presa di coscienza, risentita prima come uno stato di angoscia, può diventare benefica e mutarsi in appello verso Colui che si trova là dove nessuno può penetrare, più interiore a noi di noi stessi; può diventare anche un appello verso solitudini simili alla nostra, con le quali sentiamo il bisogno di comunicare, in un circuito ininterrotto di luce e di amore. La nostra radicale solitudine dipende da due cause: il mistero della nostra unicità e il mistero della nostra limitatezza, della nostra incompletezza congenita di creatura. Chiunque non abbia provato questa solitudine non è sceso nelle profondità del cuore umano. Questa Solitudine dipende innanzitutto dal mistero della nostra grandezza. Dio è Unico, ha fatto di ciascuno di noi, analogicamente, un mistero di unicità, d'ineffabilità, d'inaccessibilità. Non si può coincidere da persona a persona. L'amore, anche il più perfetto, resta un dialogo tra due unicità. Se l'unicità dell'uno sparisse, ci sarebbe allora possessione dell'altro, asservimento all'altro, ma non vero amore. Questa unicità ci rende « solitari » anche nella folla, è il sigillo del dito di Dio. Noi siamo unici, ma chiamati alla comunione, precisamente perché differenziati. La nostra solitudine profonda, congenita, dipende anche dal fatto della nostra limitatezza, dalla nostra indigenza di creature. Fatti a immagine di Dio, per Dio, non possiamo essere colmati che da Dio. « Il nostro cuore non ha pace se non riposa in tè », diceva sant'Agostino. Infatti, che lo sappia o che lo ignori, che lo confessi o che lo neghi, l'uomo porta in sé un'invincibile nostalgia di Dio, una sete d'infinito che non potrà calmarsi che in lui: « Io sono la Vita, la Sorgente d'acqua viva ». Tutti abbiamo fatto o faremo l'esperienza che gli appoggi umani restano fragili, che gli altri, anche i più fedeli, ci lasciano, ci deludono o ci mancano. Anche l'amore più profondo vive sotto questa minaccia e lo sa. Un giorno o l'altro, in ogni caso all'ultimo giorno, ci troveremo soli, davanti a Dio, senza appoggi o schermi. È questa la solitudine congenita, inevitabile, necessaria. Più rapidamente ce ne rendiamo conto, più rapidamente la nostra solitudine sarà popolata, perché allora la Pienezza ci coprirà del suo amore e colmerà la nostra indigenza. Quest'incontro della nostra solitudine con la Pienezza non potrebbe aver luogo nel fracasso, nel chiasso delle passioni, ma nel distacco e nel silenzio che lasciano l'anima guardare, ascoltare, respirare, aprire la porta al suo amante divino. Quando ci si raccoglie così, la voce di Dio, che è brezza leggera, si amplifica e si lascia percepire. La solitudine è abitata dalla presenza dell'Altro, presenza che è luce, calore, lucidità, nuovo amore, forza nuova, gioia nuova, armonia tra Dio e noi. Una donna colpita da cancro e in fase terminale, alla quale dicevo: « Dovete sentirvi ben sola in certi momenti », mi rispose: « Oh, no! Quando sono sola, siamo sempre due! ». Non si potrebbe dire meglio. La morte infatti, è l'incontro della nostra radicale solitudine, nativa, col Tu divino che svela infine il suo volto. La morte e la solitudine giunta al suo punto di maturità: la solitudine colmata dalla Pienezza. Capitolo sesto - VI VI. Cristo e le nostre solitudini È incontestabile che le tecniche umane, come anche le risorse della psicologia e della psichiatria come scienze, portano degli elementi di risposta validi al problema della solitudine. È pure incontestabile che incontri umani, fortuiti, provvidenziali o procurati, con persone particolarmente attente alla sofferenza degli altri, particolarmente perspicaci, potranno aiutare a superare passaggi difficili, ma non potrebbero eliminare quelle forme di solitudine che contrassegnano inevitabilmente ogni esistenza umana. Solo Cristo offre la risposta definitiva alle nostre solitudini umane. Ma che non ci si inganni. La sua risposta non è un discorso, ma un atteggiamento. Perciò, le forme ,di solitudine possono variare: la terapia, essendo quella di un atteggiamento, resta sostanzialmente la stessa. Cristo non è solamente Unico, ma è il mistero per eccellenza dell'unicità: la Parola vivente, in cui Dio si esprime per intero. Ha coscienza di essere il Figlio diletto del Padre, lui che si rivolge a Dio dicendo: « Abba, Padre, Papa ». A questo riguardo, Cristo è Mistero di solitudine. Nascondi Spesso il Vangelo sottolinea che egli desidera essere solo per pregare, cioè per intrattenersi nell'intimità del Padre ( Mc 1,36; Mc 6,46; Lc 5,16; Lc 9,18 ). Sono questi momenti intensi di solo a solo che lo hanno aiutato nelle sue scelte concrete, nei suoi giudizi e nelle sue decisioni in occasione delle svolte importanti della sua vita, nei suoi rapporti coi suoi discepoli, i suoi amici, i suoi nemici. È stato solo sulla via della passione. Ed è qui che le nostre strade si incontrano. Se Cristo non avesse conosciuto i nostri abbandoni, avremmo potuto mormorare e argomentare contro di lui, come Giobbe nelle sue imprecazioni verso Dio. Ma sulla strada dell'abbandono, ci ha preceduto, fino nell'abisso. All'origine, Dio non aveva voluto che gli uomini fossero abbandonati, incompresi, lasciati soli, rigettati, divisi, isolati, murati dall'odio e dalla violenza: al contrario, li aveva voluti riuniti nell'unità e nell'amore. Alla radice della solitudine « cattiva », vi è il peccato, personale e collettivo, che corrompe i nostri rapporti con gli altri e con Dio. Il frutto del peccato è l'uomo « isolato », vale a dire prigioniero sulla sua « isola », privato di tutto, che deperisce e perisce. È a causa del peccato che gli uomini sono solitudini murate. C'è voluta la passione di Cristo per mostrarci fino a quale abisso di odio, di bassezza, di crudeltà, il peccato può condurre; così come c'è voluta la passione di Cristo, amorosamente, filialmente accettata, per capire fin dove può elevarci la « buona » solitudine, che è unione, comunione con Dio. La « cattiva » solitudine, che rende l'uomo orribile, sarebbe la nostra se Cristo non fosse venuto a liberarci e a destarci alla comunione e all'amore. Ma per aprirci così all'amore e volgerci verso il Padre, con lui e come lui. Cristo ha dovuto fare l'esperienza delle nostre solitudini, conoscere tutte le forme d'incomprensione, d'abbandono, di rigetto; inoltre, assumere la solitudine atroce del peccato che separa l'uomo da Dio. Il dramma della solitudine di Cristo, è innanzitutto il dramma dell'amicizia tradita. Nascondi « È venuto tra i suoi e i suoi non l'hanno ricevuto » ( Gv 1,11 ). Da parte sua non c'è stata che fedeltà. Ha amato il suo popolo, che ha confortato nelle sue sofferenze, istruito, illuminato, esortato. Ha amato Marta, Maria e Lazzaro; i dodici soprattutto, che ha fatto suoi compagni, suoi confidenti, suoi commensali, suoi missionari. Del resto, non hanno forse optato per lui? « Signore, da chi andremo? » ( Gv 6,68 ). Malgrado le loro lentezze e le loro incomprensioni, fino alla fine, dopo la Cena, li chiama « amici » ( Gv 15,15 ). Invita Pietro, Giacomo e Giovanni a essere testimoni della sua trasfigurazione e della sua agonia. Ma all'ora della sua sofferenza, al Getsemani, i suoi più intimi sono sconvolti, sprovveduti, impotenti. Quell'ora è al di sopra delle loro forze. L'impotenza dell'amicizia a raggiungere Gesù traduce bene la situazione in cui siamo: « separati » gli uni dagli altri. Cristo ha fatto l'esperienza di tutte le delusioni crudeli che noi possiamo infliggere agli altri, o di cui noi possiamo essere vittime. Dolorosamente deluso, Gesù mantiene intatta la sua amicizia. A Giuda che lo ha consegnato, dice « amico », sempre disposto a rendergli la sua amicizia. Abbandonato dai suoi, rinnegato da Pietro, tradito da Giuda, Cristo esperimenta la solitudine in cui il peccato ci rinchiude tutti. Gli uomini lo abbandonano; lui solo non abbandona. Abbandonato, senza appoggio, può riunire tutti gli angosciati, gli abbandonati, i rigettati, i traditi. Condivide la loro condizione, con questa differenza, tuttavia, che tutti possono contare su di lui. Rigettato da tutti, non rifiuta nessuno. Nascondi « Colui che viene a me, dice, non lo butterò fuori » ( Gv 6,37; Mt 11,28 ). Al momento della sua passione, arrestato, legato come un criminale pericoloso, Gesù cade nelle mani dei suoi nemici. Infatti, il dramma della solitudine di Gesù, è anche il dramma dell'amore tradito, beffato, schernito, condannato e crocifisso. Cristo è solo, senza difesa, di fronte all'opposizione congiunta di tutti i suoi avversari. I deboli, i gelosi, quelli che lo odiano: tutti si presentano uniti contro di lui. Il peccato è là, crudo, freddo, brutale, contro l'innocente. Una sola voce si alza: « A morte, crocifiggilo » ( Gv 19,15 ); è la coalizione dell'umanità peccatrice contro il giusto, per eliminarlo. Nuova solitudine, imposta questa volta dal blocco dei nemici. Lo si « consegna », se lo passano di mano in mano, come un oggetto di baratto, fino al carnefice, fino alla croce. Cristo vive tutto ciò che l'odio, la crudeltà, la paura, l'invidia, la debolezza, possono fare di noi. Esperimenta l'accanimento dell'uomo a mentire, a far soffrire, a degradare, ad avvilire i suoi simili. Gesù prova il disgusto che noi proviamo a volte per l'umanità: il sentimento che non c'è niente da aspettarsi da nessuno. Tuttavia, a noi, all'umanità capace di tutto, egli resta fedele. All'ora in cui non trova intorno a sé che ostilità, rifiuto, non ha una parola di indietreggiamento, di rimprovero, di repulsione, di rigetto. Gesù ci, prende là dove siamo, prigionieri del nostro rifiuto ostinato del nostro inferno. Tutto il peccato del mondo non riesce a separarlo da noi, ne dal Padre. Capitolo sesto - VII VII. Cristo e l'abisso della solitudine Al Getsemani, Gesù ha conosciuto un abisso di solitudine che resta un mistero. I testi evangelici, tuttavia, lasciano intravvedere qualcosa di questa solitudine lacerante. Steso a terra, Gesù è stritolato dalla prova. Nascondi Marco parla di « spavento e angoscia » ( Mc 14,33-34 ). Giovanni parla di « turbamento » ( Gv 12,27; Gv 13,21 ): espressione da capire senza dubbio in rapporto con « l'ora » della passione che viene, del « calice » che deve bere. La preghiera di Gesù si svolge in tre tempi. Si rivolge al Padre, perché « tutto gli è possibile ». Che il Padre passi da lui questo « calice »! Gesù esprime così il suo voto ardente, profondo, vitale, di non morire, anzitempo, di una morte crudele. Ma il Padre tace. In questo terribile conflitto, Gesù vuole restare fedele al Padre fino in fondo. Questo dramma è da capire innanzitutto a livello della missione di Gesù. Lui che è venuto a riunire, a raccogliere ciò che era diviso, si è trovato di fronte al risultato opposto: alla divisione. Tutta la sua vita, ha tentato di riunire i Dodici, di riunire il popolo. Ora fra i Dodici, si scopre un traditore; gli altri fuggono e lo lasciano solo. Il « portatore di unità » è diventato causa di « dispersione ». Egli che è venuto a predicare il Regno di Dio, fa esperienza della solitudine, del rifiuto che il popolo di Dio oppone al Regno di Dio. È il fallimento, la solitudine della solitudine. Il silenzio di Dio risponde pesantemente al silenzio degli uomini. Ma Gesù non cessa di proclamare la presenza di colui che sembra assente. Continua a dire: « Abba, Padre », fedele al mistero del suo essere. 7 A livello della storia della salvezza, questo dramma si illumina ( e in parte soltanto ) all'interno della missione di Cristo come vittima volontaria del peccato e come mediatore della nostra riconciliazione col Padre. Che il Padre non risparmi il proprio Figlio e lo consegni a noi e per noi, è il fatto dell'amore del Padre per noi; ma è anche il fatto dell'amore del Figlio per il Padre, amore manifestato nell'essersi dato per la salvezza del mondo. All'agonia, come al Calvario, colui che prega e che muore, è il Servo sofferente che accetta di fare tutt'uno con i peccatori: caricato dei peccati del mondo, diventato lebbroso, vive la solitudine orribile, l'assenza lacerante che il peccato crea tra l'uomo e Dio. L'agonia, come la morte in croce, è dunque una prova messianica. La lotta di Gesù, nella sua preghiera del Getsemani, ha per oggetto il sì alla volontà del Padre: « La tua volontà » e « non la mia ». L'uomo Gesù, nella sua volontà d'uomo, dice sì al calice offerto dal Padre, all'ora segnata da lui: un sì liberamente proferito nell'orrore della notte e della solitudine, un'umile preferenza alla volontà del Padre amata per se stessa. Portando il peccato del mondo, Cristo, tuttavia, resta rivolto verso il Padre, indefettibilmente unito a lui. La solitudine di Cristo, per smisurata e atroce che sia come esperienza umana, non potrebbe « tagliarlo fuori » da Dio. L'Ecce homo sfigurato è l'unica immagine di ciò che è il peccato allo sguardo di Dio; ma è anche l'unico Ecce Deus, nel suo amore infinito per noi. L'abisso di solitudine di Cristo, coincide, in lui, con l'abbandono totale a Dio, con l'abbraccio d'amore della sua obbedienza. Portando così, fino in fondo, la solitudine del peccatore, ma nell'amore, Cristo uccide l'odio e ci da la forza di uscire dalla nostra solitudine cattiva, di rivolgerci verso il Padre, ripetendo dopo di lui: « La tua volontà, o Padre ». Cristo in agonia, Cristo in croce: e il peccato che fa di Dio la prima vittima della libertà che egli ci ha dato; è il nostro peccato assunto, la nostra cattiva solitudine « convertita » in « buona » solitudine, vale a dire in amore, mediante il costato « aperto»: apertura del cuore, che ci apre all'amore. Capitolo sesto - VIII VIII. La solitudine creatrice nello Spirito La solitudine radicale, nativa, quella che deriva dal nostro essere unico, ma finito, non ci lascia mai. Essa non si colma, non si colmerà che attraverso l'apertura all'Infinito. Ma la solitudine che ci minaccia ogni giorno, per distruggerci, è la solitudine dell'abbandono, dell'incomprensione, del fallimento immeritato, del rigetto. Nessuna esistenza umana potrebbe sfuggire a questa solitudine, che può diventare atroce, vero martirio del cuore e dell'anima. È il buio, la parete fredda, dura, a picco, della montagna. Non si vede più nulla: nulla fuorché la notte! È allora che la solitudine può diventare cattiva e ritorcersi contro di noi, contro gli altri e anche contro Dio. Ma è anche il momento in cui la solitudine può diventare possibilità di superamento nella fede e nell'amore. Gesù infatti, assumendo le nostre solitudini, ancor più, portandole con amore, unito al Padre, fin nell'abisso dell'abbandono e del silenzio di Dio, ci ha introdotti nella comunione col Padre. Fedele al Padre fino alla morte di croce, Cristo è stato glorificato dal Padre e ci ha dato il suo Spirito, che è uno Spirito di figli e che ci da la forza di dire dopo di lui, con lui, nell'orrore della notte: « Sì Padre, non vedo, non capisco! Ma ti scelgo e scelgo la tua volonta! L'accetto, l'abbraccio, dovunque mi conduca. Io sono tuo figlio, tuo figlio per sempre! ». Adesione crocifiggente, ma resa possibile dalla grazia della Solitudine agonizzante e crocifissa. Questa solitudine, amorosamente e dolorosamente accettata, è la solitudine feconda, che ci fa uscire dall'isolamento o dalla cattiva solitudine. Chiunque ha conosciuto, riconosciuto e accettato una tale solitudine, non è mai più solo. Sfugge al vuoto e al disgusto della vita, a tutte le forme di scetticismo e di amarezza, di stizza e di odio. Ha superato la cattiva solitudine, l'incarcerazione del peccato. Nascondi Può dire con san Paolo: « Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me » ( Gal 2,20 ). Quando lo spirito di Cristo si è introdotto nel cuore dell'uomo, egli fa un tutt'uno con il Figlio e il suo Spirito: la vita trinitaria è in lui. Questa solitudine feconda e colmante è quella di Francesco d'Assisi, spogliato di tutto; del curato d'Ars, perseguitato da Satana; del padre de Foucauid nel deserto coi suoi Touareg; del Padre Kolbe, nel suo campo di concentramento; d'Isaac Jogues, prigioniero degli irochesi. Quando qualcuno ha fatto così il tirocinio della solitudine nello Spirito e della comunione con la Pienezza, scopre la gioia e la serenità. Chi tra noi, lungo la sua vita, non ha incontrato quella dolce serenità delle persone anziane, che hanno attraversato la vita, col loro bagaglio di prove a volte più pesante di quanto occorresse, e che conservano tuttavia la loro freschezza d'animo; capaci di commuoversi, di compatire, di ascoltare, di dimenticare se stessi, o semplicemente di confortare coloro che li avvicinano, mediante il loro indimenticabile sorriso di dolcezza e di bontà, luminoso, illuminato dal di dentro dall'unica Presenza che colma ogni solitudine? La solitudine vissuta così in unione e in comunione con colui che è ogni Pienezza, riveste nella Chiesa un carattere che la assimila alla vocazione dei « contemplativi »: non meno necessaria e non meno efficace. La solitudine degli « oranti » è senza dubbio, con quella dei « sofferenti », la più potente energia spirituale del mondo. La solitudine così compresa si ricollega alla vocazione di Maria: supplica perpetua verso il Figlio e verso il Padre, nello Spirito. Capitolo sesto - Nota biografica BALTHASAR H. U. von, « Le Mystère pascal », in Mysterium salutis 12, Paris, 1972, pp. 13-275 (trad. it. Queriniana, Brescia). DELBRÈL M., VASSE D., DEVAUD J., COUREL F., LATOUR J. J., BEAUCHAMP P., GUILLET J., Christus, n. 49, gennaio 1966. FEUILLET A., L'agonie de Gethsémani, Paris, 1977. FROMM E., L'arte di amare, Milano, 197814. GUILLET J., « Rejeté des hommes, abandonné de Dieu », in M. DE CEETEAU et F, ROUSTANG, ed., La solitude, Paris, 1967. LAVELLE L., De l'intériorité spirituelle, Paris, 1955; ID., « Tous les étres séparés et unis », in Le mal et la souffrance, Paris, 1940, pp. 133-216. JLÉON-DuFouR X., Face a la mori. Jésus et Paul, Paris, 1979. LOTZ J.-B., De la solitude hiiniame, Paris, 1964. MALATESTA E;, « Jesus and Lonelinees », Thè Way, 16 (oct. 1976), pp. 244-253. NOUWEN, « Solitude and Community », Worship 52 (1978), pp. 13-23. THOMAS L.-V., Antropologie de la mori, Paris, 1976 (trad. it. Antropologia della morte. Garzanti, Milano, 1976). TOFFLER A., « La nouvelle psychosphère », in La Troisième vague, Paris, 1980, pp. 449-466. VASSE D., « De l'isolement a la solitude », in M. DE CERTEAU et F. ROUSTANG, ed., La solitude, Paris, 1967, pp. 173-185. Capitolo settimo Alterità e comunione Non si sfugge al problema « degli altri » o dell'attenta, così come non si sfugge a quello della solitudine. A parte i casi molto rari, nel passato, di bambini selvaggi allevati da animali, o, nel futuro, di eventuali robots, « gli altri » sono sempre là: simpatici, accoglienti o temibili. Nei paesi dove la popolazione è particolarmente densa, come la Cina, si dice che non è possibile muoversi, persino esistere, senza essere sotto la mira di sguardi convergenti. Per il meglio o per il peggio, la maggior parte delle nostre giornate le passiamo con « gli altri ». Li abbiamo ai talloni o noi pestiamo loro i piedi. Sono affascinanti e noi cerchiamo la loro compagnia, oppure ci innervosiscono e noi li fuggiamo. Non si sfugge alla vita di gruppo, come non si sfugge alla solitudine. Si ha un bel dire tutto il male che si vorrà della società, senza di essa che saremmo noi? Non potremmo neppure maledirla, perché l'uomo non impara a parlare che mediante la società. D'altra parte le nostre possibilita di riuscita nella vita « con gli altri » non sono più numerose che nella vita « solitària ». Il problema evidentemente si pone in modo diverso, secondo il tipo di società al quale noi apparteniamo, benché a dir vero, noi siamo tutti presi in un reticolato di mini o di macro-società, di diversi livelli e di tessuti differenti. Parleremo qui soltanto dei nostri rapporti di base, dall'uno all'altro, a livello di persone. Anche a questo livello, si deve riconoscerlo, l'estrema mobilità e fluidità della vita contemporanea rendono difficile lo stabilirsi di rapporti in profondità. Si moltipllcano gli incontri occasionali, effimeri, tra due sessioni di lavoro, tra due caffè, ma la pressione degli avvenimenti e dei compiti da svolgere ci impediscono di conoscere veramente gli altri, di « comunicare » veramente. Perciò i rischi frequenti di malintesi, di urti, che finiscono per imporre rapporti « neutri ». Si vive in parallelo, come convogli di una metropolitana che si incontrano, ma sempre a uguale distanza. È anche vero che i nostri rapporti con gli altri, soprattutto coi nostri compagni di lavoro, possono raggiungere un coefficiente di riuscita sempre più elevato. Come cristiani, noi vogliamo vivere la carità di Dio, nei nostri rapporti con gli altri. Il problema è di realizzare questo tipo di esistenza nelle condizioni concrete che sono le nostre, di afferrare « sperimentalmente », se posso dire così, la presenza di Dio nel volto di coloro che ho a fianco, di essere effettivamente portato verso di loro dallo spirito di Cristo. Non si tratta quindi di fermarsi a una semplice fenomenologia dell'incontro, benché sia illuminante, ma di portare sull'uomo uno sguardo tale che ci consenta di scoprirlo nella sua verità. Ora, questa verità, una volta ancora, non si trova che in Gesù-Cristo. Lui solo ci permette di capire « gli altri » in profondità. La loro verità profonda è Cristo in loro. Tutti gli altri sguardi sull'uomo restano superficiali o falsi. Capitolo settimo - I I. Gli altri come oggetto Lo sguardo di Jean-Paul Sartre su « gli altri », in Huis-Clos, è dell'ordine delle constatazioni: una constatazione del resto molto incompleta, poiché ignora quell'aspetto della realtà umana che si chiama la santità. Quando dice: « L'inferno, sono gli altri », Sartre non nega il valore degli altri, ma descrive una situazione di fatto. L'inferno è nella menzogna delle nostre relazioni interpersonali. Lasciato a se stesso, l'uomo non riesce a raggiungersi: ne a impegnarsi, ne a disimpegnarsi. La sua solitudine è uno stato di conflitto interiore. La presenza degli « altri » non fa che amplificare questo conflitto, perché gli ricorda costantemente la sua insufficienza, la sua frustrazione di essere totalmente. Gli uomini sono costretti a « vivere con gli altri », ma in fondo, rimangono soli. Per sfuggire alla loro angoscia, si rifugiano nell'inautenticità. Tutti sono commedianti, sono attori senza valore che recitano falsi ruoli, che si lasciano suggerire parole e atteggiamenti ipocriti. L'uomo non è trasparenza, ma menzogna. E perché gli uomini sono così divisi tra loro, le loro relazioni assumono aspetti infernali. Si deve ammettere che gli uomini non sono angeli. Visti in se stessi, ci sembrano spesso egoisti, ipocriti, ripugnanti, pieni di sentimenti fetidi e inconfessati. Peccato, fonte di peccato, l'uomo è spesso orribile. Questo sguardo sugli altri, che vuole essere « realista » genera spesso atteggiamenti negativi: svalutativi, utilitari, possessivi. L'altro allora è concepito in termini di oggetto. Il suo carattere di persona gli è rifiutato. Abbiamo già parlato dell'indifferenza generale che caratterizza l'uomo contemporaneo, specialmente quello delle grandi città; o dell'indifferenza « particolare » che colpisce tale partito, tale gruppo, tale persona. Nei due casi l'altro non esiste più. Non è raro tuttavia che tale indifferenza serva a mascherare la paura di un rivale, reale o eventuale. Allora, si evitano i contatti: l'altro è là come se non ci fosse. Ma presto si arriva alla svalutazione: « un tale è considerato più intelligente di me, ma l'intelligenza non basta a qualificare un uomo »; poi è la detrazione, per maldicenza o calunnia. Si afferma una qualità nell'altro, con un « ma » che la distrugge immediatamente; oppure, raffinatezza suprema, si provoca una terza persona ad abbattere il rivale, riservandosi il ruolo di attenuare la critica con una parola « caritatevole ». Alla fine è la diffamazione, l'accusa velenosa: « se .non l'ha fatto, ne ha fatte ben altre! ». In fondo, si abbassa l'altro per elevare se stessi, per attribuirsi un valore che non si possiede, adombrati da colui che lo possiede. La negazione dell'altro, tuttavia, non è una vera vittoria. Un atteggiamento più frequente consiste nel fare dell'altro un « oggetto utile », un valore commerciale: mercé d'acquisto, di scambio o di vendita; un oggetto da acquistare, da possedere, da sfruttare. In ogni caso, il soggetto, la persona ne resta degradata. Non cadiamo tuttavia nell'angelismo. Non ci si deve offendere di espressioni come « ho bisogno di lei per questo affare », « lei mi sarà molto utile », « lei è l'uomo della situazione ». Nessuno si lascia ingannare da simili espressioni. Non si può vivere nell'estasi oblativa mancando al realismo della vita. Nella società abbiamo tutti un « valore commerciale »! Si deve riconoscerlo e saperne anche ridere. L'atteggiamento diventa negativo quando questo comportamento, normale in sé, innocente, si ipertrofizza e diventa possessivo, sfruttatore. Allora si tratta l'altro come una cosa, uno strumento. La sua interiorità non esiste più per chi lo usa. Uno « strumento animato »: è appunto la definizione dello schiavo. Il suo Io, la sua personalità non conta più: ciò che conta è il suo rendimento. Le rivolte operaie del XIX e XX secolo, erano precisamente una protesta contro la misconoscenza del valore umano del lavoratore, contro la riduzione del suo essere a sola energia che una macchina può vantaggiosamente sostituire. Questo sfruttamento dell'altro come oggetto può estendersi anche al campo affettivo, per captare l'attenzione, la stima, il cuore dell'altro. Ogni volta che noi cerchiamo così di confiscare la soggettività dell'altro, noi lo trasformiamo in puro oggetto, lo svalutiamo. Ma, di fatto, un'alterità ridotta al silenzio, non è mai conquistata: o l'altro conserva la sua libertà, la sua dignità, e allora il suo possesso ci sfugge: oppure abdica alla sua. libertà per terrore o seduzione e allora si cosifica. È vano ignorare l'alterila degli altri o pretendere di sormontarla annettendola, dominandola o sfruttandola. I rapporti con gli altri non si possono stabilire che sulla base di diversità riconosciute, rispettate, volute. Si tratta di riconoscere l'altro in se stesso e per se stesso; di rispettare il suo voler essere, il suo poter essere, il suo voler essere meglio. In breve, si deve riconoscere la sua dignità di persona. Ora, è attraverso l'amore, nel senso corrente del termine, sgorgato dalle profondità dell'Io e che raggiunge le profondità dell'Io, che si realizza una reale alterila o interiorità reciproca. Capitolo settimo - II II. Gli altri come persone Riconoscere gli altri come « persone » è un fatto di grande conseguenza, che porta molto lontano: a dire il vero fino alla soglia della loro estrema verità. Questi tratti della persona sono oggi oggetto di una presa di coscienza accelerata da parte dell'umanità tutta intera. Se dunque noi vogliamo farci sentire dagli uomini di oggi, è importante riflettere sulle componenti della persona. 1. Il primo tratto che segnala e caratterizza la persona, è la inviolabilità. Maurice Zundel la descrive così attraverso un esempio tratto da un romanzo dello scrittore svizzero-tedesco Gottfried Keller. Il protagonista del romanzo, il piccolo Enrico, di otto o nove anni, è il figlio unico di una donna, diventata vedova, che lo alleva come meglio può, votandogli tutta la sua tenerezza. Un giorno, il giovane Enrico ritorna dalla scuola; il pranzo l'attende. Quando si inette a tavola, per la prima volta omette la preghiera. La madre, supponendo che si tratti di una semplice distrazione, lo corregge dolcemente e gli fa notare la sua omissione. Il ragazzo fa orecchio da mercante. La madre insiste. Muto, il ragazzo s'impunta. Allora la madre gli dice in tono di comando: « Tu non vuoi pregare! Ebbene, allora va a dormire senza mangiare! ». Il ragazzo accetta la sfida e va a dormire senza dire nulla. Dopo qualche momento, la madre, presa dal rimorso, gli porta la cena a letto. Troppo tardi: da quel momento il ragazzo cessò di pregare. Questo piccolo incidente è pieno di significato: il ragazzo ha scoperto improvvisamente che vi è in lui uno spazio in cui sua madre non può penetrare senza il suo permesso, una zona interiore che gli appartiene, inviolabile. È questa stessa esperienza che, in ogni epoca, impedisce agli schiavi di rassegnarsi alla loro condizione di oggetto di scambio e di lavoro. Perciò ogni forma di violenza, di tortura per violare la coscienza provoca l'indignazione. Una persona si distingue essenzialmente da una cosa, da un oggetto, per una certa interiorità la quale fa sì che ogni tentativo per assoggettarla con l'obbligo esteriore, costituisce una profanazione. 2. L'inviolabilità è anche l'esperienza della dignità e del valore della persona, perché è inviolabile soltanto ciò che è riconosciuto come valore. La grande solitudine di un miserabile o di un deficiente mentale sta appunto nel fatto che nessuno ha bisogno della sua amicizia: è senza valore! Questa presa di coscienza della dignità della persona, cioè del suo valore insostituibile, che nessuno può possedere, si manifesta a volte in gesti molto semplici, ma quanto mai pieni di significato. Anche questa volta, cito un esempio di Zundel. Nel corso dell'ultima guerra, nel 1941, un giornalista russo e comunista che si chiamava Koriakoff, convertito al cristianesimo mediante la lettura dei Vangeli e diventato capitano, si serve della sua influenza per difendere i civili, particolarmente le donne. Un giorno ha l'occasione di salvare dallo stupro due tedesche. Ma lo stesso giorno è fatto prigioniero. È inviato in un campo nazista dove è accolto da un capitano che lo schiaffeggia brutalmente dicendogli: « Lei è uno di quei bruti sovietici che oltraggiano le donne tedesche ». Il colpo è così violento che gli fa cadere gli occhiali. Nello stesso momento si presenta una contadina tedesca che indica Koriakoff dicendo: « È quest'uomo che ha salvato stamattina le mie due figlie! ». Allora un colonnello tedesco, che aveva assistito impassibile all'oltraggio inflitto a Koriakoff, si china, raccoglie gli occhiali e glieli porge rispettosamente. In un istante i muri di separazione erano caduti. Il tedesco non aveva più di fronte un russo, il colonnello un capitano, il vincitore un vinto; non vi era che un uomo, la cui dignità era stata ingiustamente schernita e al quale si sentiva in dovere di offrire un'immediata riparazione. Con questo gesto di rispetto il tedesco riconosce nel russo un valore identico al suo, al punto che non può raggiungere questo valore in se stesso, se non lo rispetta nell'uomo che dipende da lui. In un lampo la persona riconosce la persona. La dignità della persona riposa sul valore che essa è e che si impone a tutti, perché è partecipazione a un Valore assoluto su cui si basa, cioè Dio, da cui l'uomo procede, a sua immagine e somiglianza. Che lo sappia o che lo ignori, è questa dignità intrinseca, comune a tutti, che fa la grandezza e la dignità dell'uomo. 3. La dignità della persona è legata alla sua interiontà che è l'uomo stesso in quanto si conquista e si costruisce. Gli animali hanno un'interiorità precostituita; l'uomo possiede, anche lui un'interiorità, ma cosciente, che conquista con una liberazione dai suoi determinismi, ereditati o acquisiti, e attraverso un dono di sé, nell'amore, che è apertura all'altro, sempre più vasta, sempre più accogliente. Questa interiorità, tuttavia, non potrebbe compiersi ne realizzarsi che mediante rincontro con una interiorità pura, illimitata, con un Altro, trascendente, che sia nello stesso tempo più intimo all'uomo che l'uomo stesso. Esperienza che sant'Agostino esprime in termini insieme semplici e mai uguagliati: « Tardi ti ho amato, o Bellezza, antica e nuova, tardi ti ho amato! Ma come? tu eri dentro di me e io ero al di fuori di me stesso! Ed è al di fuori che ti cercavo: mi precipitavo, nella mia bruttezza, sulla grazia delle tue creature. Tu eri con me e io non ero con tè! Tu mi hai chiamato e il tuo grido ha forzato la mia sordità; tu hai brillato e il tuo splendore ha scacciato la mia cecità; tu hai esalato il tuo profumo e io l'ho respirato ed ecco che per tè sospiro; ti ho gustato e ho fame di tè, sete di tè; tu mi hai toccato e ho bruciato d'ardore per la pace che tu mi doni ». Fino a quel momento Agostino viveva al di fuori di se stesso; non aveva accesso alla sua interiorità. La sua conversione l'ha fatto passare dall'esterno all'interno: è Dio stesso, in lui, che lo getta nel cuore della sua stessa intimità, e che lo fa nascere a se stesso. 4. Un quarto lineamento della persona è l'esperienza della libertà perché l'interiorità, o il passaggio dall'esterno all'intemo non può essere una violazione, ma un rispettoso incontro. La libertà, nell'uomo, non è un ornamento della sua natura, ma un'esperienza personale, originale, inalienabile. Uccidere la libertà, è uccidere l'uomo. Il termine, tuttavia, è ambiguo: non occorre confondere libertà e anarchia. Il potere di fare ciò, che si vuole implica in realtà il rifiuto di subire ogni costrizione esteriore o interiore, ma implica anche un accoglimento dell'illimitatezza, dell'infinito, che non restringe. La libertà come l'interiorità, è una conquista. Essa esige ina liberazione da una servitù che viene dal di dentro: le passioni. Ma come essere veramente libero, come colmare questo appello verso il largo, verso l'infinito, di cui portiamo il segno? Non vi è vera libertà senza essersi prima svuotati di sé, per aprirsi alla sola Realtà capace di colmare le nostre potenze d'amare e di conoscere. Noi non siamo liberi in noi, ne da noi, ripete sant'Agostino, prima di aver incontrato Colui che ci fa nascere a noi stessi. La liberazione da sé apre la libertà a una Pienezza che le toglie sempre più i suoi limiti, colmandola sempre più. Ciò mediante il quale siamo agganciati, ciò che ci limita dentro e fuori, è allora trascinato via in uno slancio che toglie i nostri limiti: noi passiamo dall'io possessivo, ripiegato su di sé, all'io oblativo, universale; in una parola, dall'individuo alla persona. Perché l'individuo è imperniato su di sé, mentre la persona è focolaio di irradiazione. In questo ritratto della libertà, tre elementi si accordano: il rifiuto dell'eteronomia, l'incontro interiore dell'Infinito, il dono di sé che realizza la liberazione da sé. Francesco d'Assisi è il tipo esemplare di questa esistenza umana pienamente sbocciata, veramente fonte dei suoi atti. A questo livello, la libertà è essa stessa una regola, perché è potere di donarsi e di donare tutto donandosi. I quattro tratti che abbiamo abbozzato: inviolabilità, dignità, interiorità, libertà, concorrono alla realizzazione della pienezza umana che è insieme espropriazione di sé e dono di sé. È una rifusione di tutto l'essere. Che cosa è quindi la « persona »? La persona, è l'uomo che diventa soggetto, per aver conquistato liberamente la sua interiorità staccandosi da quella esteriorità che lo rende prigioniero degli oggetti e ormai aperto all'Assoluto, nel dono di sé agli altri e all'Altro, trascendente e immanente, che lo colma nel cuore del suo essere. È l'Io diventato libero, interiore, oblativo: conquista che è l'affare di tutta una vita. La « personalità » è la maniera unica in cui ciascuno realizza la sua interiorità. È evidente che questa riflessione sull'uomo come persona, si elabora su uno sfondo di cristianesimo, perché diventare persona è accedere all'ordine della carità, di cui parla Pascal. Come, infatti, parlare di espropriazione di sé, di dono di sé, senza riferirsi a un Valore infinito che attira, al di là di tutte le forme di possessione e che suscita un dono di sé senza limiti: un Valore infinito e di cui non ci si può impossessare? Il segreto della persona umana è in Dio. Diventare pienamente uomo e persona umana, è incontrare Dio, ma a sua volta il vero incontro con Dio, il suo vero volto, è Gesù Cristo. In definitiva la chiave del problema dell'alterità, degli « altri », è in Gesù Cristo, che assume tutti i valori della persona umana, ma li eleva fino a fare del nostro incontro con gli « altri » un mistero di incontro e di comunione con le persone divine, nell'incontro del Cristo e del suo Spirito. Capitolo settimo - III III. Gli « altri » in Cristo La grande novità della fede cristiana, infatti, è che l'alterità unica di Dio, l'Altro trascendente, si è fatto l'altro, che la sua alterità verticale si è fatta accessibile a noi attraverso una alterità orizzontale. Questo Altro è nello stesso tempo l'altro; quest'uomo, nella sua realtà più intima, è Dio. Il suo Io è un Io divino. Così, mediante Cristo, nel Cristo, Dio diventa veramente per l'uomo un Tu, e un dialogo può instaurarsi. Ma vi è di più. Attraverso Cristo, Dio entra nel mondo per cambiare i nostri rapporti con lui, come pure i nostri rapporti con « gli altri ». A dire il vero, noi non possiamo capire e amare seriamente, in modo durevole, « gli altri » se non aderiamo a Cristo, sacramento del Padre, in cui vediamo gli uomini come figli del Padre, rigenerati dallo stesso sangue, fratelli di Cristo, primogenito dell'umanità nuova, chiamati come lui a condividere la vita divina. Il luogo dove noi possiamo incontrare gli « altri » nella loro verità radicale, è Cristo, appello del Padre all'amore degli altri, perché il Padre, in Cristo, è il Padre per il mondo; è il Padre che, in Gesù Cristo, adotta l'uomo come suo figlio. Gli « altri », non sono « l'inferno », sono Cristo. Comunicandoci il suo Spirito, Cristo ha fatto una vera rivoluzione nei nostri rapporti con gli altri; ha inaugurato un nuovo stile di vita. L'amore del prossimo non prende il posto dell'amore di Dio. Ma Cristo proclama un legame talmente intimo tra questi due amori che uno non può esistere senza l'altro. L'amore si volge verso l'altro nella misura in cui il prossimo è figlio del Padre, fratello di Cristo, tempio dello Spirito. Per il giudaismo dell'Antico Testamento, il prossimo, sono i membri del popolo eletto ai quali si oppongono tutti gli altri, in quanto pagani. Cristo si esprime del tutto diversamente. Non dice: « Amate coloro che vi amano, prestate a coloro dai quali sperate ricevere » perché i peccatori fanno altrettanto. Nascondi Non dice soltanto: « Non fate agli altri quello che non volete che gli altri facciano a voi », ma in maniera positiva: « Ciò che volete che gli altri facciano per voi, fatelo voi per gli altri » ( Lc 6,31 ). Il prossimo non è soltanto quello che è legato a me dal sangue, dall'amicizia, dall'interesse, ma anche lo straniero, anche colui che, lungi dall'attirarmi, suscita la mia ripugnanza. Il « prossimo », nella parabola del Buon Samaritano, è colui che è steso sul ciglio della strada, il viaggiatore derubato, colpito da percosse, lasciato mezzo morto, il cui abbandono è un appello. Il samaritano ascolta questo appello, si avvicina fisicamente e spiritualmente, si rende prossimo di quella miseria che incrocia la sua strada: fascia le piaghe del malato, lo conduce alla locanda, lo fa curare, paga il conto. È così che vorremmo essere trattati: è così che dobbiamo trattare gli altri. Amare gli altri « come se stessi »: tale è la misura, tale è la regola d'oro ( Mc 12,31 ). È un amore di parità tra l'altio e se stesso. Ora l'uomo ama se stesso fino a ricercare instancabilmente tutto ciò che vi è di meglio e con ogni mezzo. A proposito di quegli « altri » che sono i nostri nemici, l'insegnamento di Cristo sconcerta ogni nostra concezione. Nascondi « Avete imparato, dice, che è stato detto: "Tu amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico" ( Mt 5,43 ). "Occhio per occhio, dente per dente" ( Mt 5,38 ). Ma io vi dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi oltraggiano » ( Lc 6,27-29 ). Se vi schiaffeggiano, presentate l'altra guancia ( Lc 6,2 ). Se vi offendono, non contate i vostri perdoni, ma perdonate sempre, come il vostro Padre, la cui misericordia non calcola mai. Senza la parola e l'esempio di Cristo, non avremmo mai potuto concepire un amore del prossimo elevato a un tale livello. Ai nostri occhi, la giustizia e l'amore non domandano tanto! Perciò occorre aggiungere: concretamente, l'anima della regola d'oro, il suo principio vivificante ed efficace, è l'amore degli altri « come » Cristo e « perché » Cristo li ha amati. Nascondi « Questo vi comando, dice, di amarvi gli uni gli altri come io vi ho amato » ( Gv 15,12; cfr. Gv 13,34 ). Ora Cristo ci ha amati fino al limite massimo dell'amore, fino al colmo del servizio e dell'amore che consiste nel donare la sua vita per salvare gli altri ( Gv 13,1 ). Cristo si è a tal punto identificato agli altri che la sentenza di vita o di morte che deciderà la nostra sorte eterna, è legata al nostro atteggiamento di accoglienza o di rifiuto degli altri. Accogliere e amare gli altri, è accogliere e amare Cristo; rifiutare gli altri è respingerlo ( Mt 25,31-46 ). Se noi vediamo negli altri il Figlio dell'uomo, il Servo sofferente, che ha fame e sete, che è nudo, malato, abbandonato, ma destinato alla gloria, allora il Padre dirà di ciascuno di noi: « Ecco il mio figlio diletto ». In Cristo, infatti, non ci sono più estranei, ma figli dello stesso Padre, fratelli dello stesso Cristo. Il nostro amore allora procede da una stessa fonte, dove non c'è più conflitto tra me e gli altri, ma c'è la comunità degli uomini riuniti dallo stesso Spirito. Nella prima lettera di san Giovanni, amor di Dio, amor di Cristo e amor del prossimo sono a tal punto indivisibili che l'incontro effettivo dell'uomo con Dio si realizza nell'amore degli uomini. L'importanza decisiva che il Nuovo Testamento da all'amore tocca qui il suo apice. Nascondi Non soltanto Dio ha dell'amore per noi, ma è Amore ( 1 Gv 4,8 ). « In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: ha mandato il suo unico Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati … Se Dio ci ha amati così anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri » ( 1 Gv 4,9-11 ). Perché non si può amare veramente Dio, se non si amano simultaneamente tutti coloro a cui Dio accorda il suo amore. Il comandamento che noi abbiamo ricevuto, è « di amarci gli uni gli altri » ( 1 Gv 3,23 ). Di conseguenza, « colui che ama suo fratello dimora nella luce », ma « chi odia suo fratello è nelle tenebre e cammina nelle tenebre » ( 1 Gv 2,10-11 ). San Giovanni osa affermare: « Se qualcuno dice: Io amo Dio, e odia il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede » ( 1 Gv 4,19 ). Infatti non si potrebbe amare Dio senza un cuore purificato. A questo proposito la carità esercita un ruolo pedagogico, perché purifica il nostro sguardo. Un uomo egoista, ripiegato su se stesso, attaccato alle sue comodità, vittima delle sue passioni, è incapace di un amore disinteressato. Con le labbra potrà dichiarare che ama Dio, sapendo che Dio non ha bisogno di nulla, ma gli manca la volontà. Di fronte al prossimo che vede, bisognoso, forse ripugnante, non può recitare la commedia: il suo atteggiamento egoista si scopre. È davanti agli « altri » che noi misuriamo l'autenticità di un amore reale, che consiste nel dare e pagare di persona. Il nostro amore deve esprimersi con dei fatti, dice san Giovanni. Nascondi Come il samaritano, « non amiamo a parole e con la lingua, ma con gli atti e in verità » ( 1 Gv 3,18 ). Se qualcuno che gode delle ricchezze di questo mondo, vede il suo fratello nel bisogno e gli chiude l'accesso alla sua benevolenza, « come l'amore di Dio potrebbe dimorare in lui? » ( Gv 3,17 ). In questo tirocinio di servizio gratuito, disinteressato, impegnato, per gli altri, purifichiamo il nostro sguardo, allarghiamo il nostro cuore e lo prepariamo ad amare Dio di un vero amore. Impariamo che un tale amore del prossimo non può sgorgare dal nostro cuore limitato, così meschino, ma che è un dono di Dio: del suo Spirito che opera in noi ( 1 Gv 4,13 ). È allora che scopriamo Dio, che incominciamo a vederlo. « Colui che non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è Amore » ( 1 Gv 4,8 ). L'amore del prossimo diventa così principio di conoscenza di Dio stesso. Capitolo settimo - IV IV. L'amore degli altri: partecipazione alla vita trinitaria Questa unione e comunione degli uomini tra loro, trova nella Trinità il suo modello e la sua sorgente. Dio, infatti, ha voluto introdurre gli uomini nel mistero d'amore della comunione trinitaria. Ha voluto che gli uomini dispersi, divisi, figli della collera e dell'iniquità, fossero radunati e uniti nello Spirito d'amore, come le persone divine. Mediante la Chiesa, Dio ha voluto fare di tutti gli uomini una sola famiglia, un solo popolo, un solo Corpo di Cristo e ha voluto che l'elemento di unione, di coesione di questo popolo, fosse lo stesso amore col quale il Padre ama il Figlio e il Figlio ama il Padre. Senza Cristo e il suo Spirito, gli uomini sono divisi, armati gli uni contro gli altri, lupi contro lupi. Nascondi Il passaggio da questo stato di divisione e di odio all'unità della carità, è il frutto dell'obbedienza amante del Cristo, immolato « per riunire nell'unità i figli di Dio dispersi » ( Gv 11,52 ). È attraverso la sua morte e la sua risurrezione che ha meritato agli uomini di diventare figli del Padre, di accedere al Padre in un solo Spirito, di poter dire: « Abba, Padre » con lo Spirito di Cristo ( Gal 4,6 ) e di amare gli altri come Cristo e il Padre li amano. Ciò che ci sembra impossibile per natura, è possibile mediante la grazia. La meraviglia delle meraviglie è infatti che noi, uomini, siamo chiamati a partecipare al mistero della filiazione del Figlio. Dio « ci ha predestinati a essere per lui figli adottivi per opera di Gesù Cristo » ( Ef 1,5 ). Nascondi « Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! » ( 1 Gv 3,1 ). « Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio … perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abba, Padre! » ( Gal 4,4-6 ). Il cristiano è questo essere nuovo, che ha lo Spirito di Cristo in lui e che vive sotto la guida di questo Spirito ( Rm 8,14 ). Se noi siamo figli, se gli « altri » sono figli, è che tutti noi possediamo lo Spirito del Figlio, questo Spirito d'amore col quale il Padre ama il Figlio e il Figlio ama il Padre, e che opera in noi ciò che compiva in Cristo, cioè una vita filiale interamente sottomessa al Padre. Perché è guidato dallo Spirito di adozione, che è lo Spirito filiale, il cristiano riceve in lui il ritmo della vita divina, lo stile della vita filiale. Mediante la fede, vede gli altri come Dio, come Cristo li vede e li capisce, perché ha occhi nuovi, dono del Padre, principio di un nuovo sguardo. Mediante la carità, ha i gusti di Dio, le inclinazioni di Dio. Perché è abitato dallo Spirito d'amore, simultaneamente si apre agli altri, come si apre a Dio. Lo Spirito di Cristo fa del cristiano un uomo nuovo, rigenerato da Dio, vivificato dal suo Spirito. Ha in sé la Carità di Dio. Capitolo settimo - V V. Chiesa primitiva e testimonianza contemporanea A prima vista, un simile ideale d'alterità-comunione ci sembra inaccessibile. Eppure è quest'ideale che vivevano i primi cristiani. Nascondi Gli Atti degli apostoli ci raccontano che questi erano « assidui all'insegnamento degli apostoli » e « fedeli alla comunione fraterna » ( At 2,46 ). Lavoravano a creare nel mondo questo nuovo tipo di rapporto con gli altri, illustrato e generato da Cristo; si sforzavano di vivere la dinamica dell'amore di Cristo. « Abbiate in voi i sentimenti che furono nel Cristo Gesù », diceva san Paolo ai Filippesi ( Fil 2,5 ). « Seguite la via dell'amore nel modo in cui Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per voi » ( Ef 5,1-2 ). « Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo » ( Ef 4,32 ). Si capisce che lo spettacolo di questo nuovo tipo di esistenza, ispirato dallo spirito d'amore abbia esercitato sugli uomini del tempo una segreta attrattiva. I primi cristiani, dicono ancora gli Atti, « lodavano Dio e godevano della simpatia di tutto il popolo. Nascondi Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati » ( At 2,47 ). Il comportamento del cristiano risulta infatti da ciò che egli è diventato in Gesù Cristo, cioè un uomo nuovo, con un nuovo modo di agire. Il suo essere fraterno deriva dal suo rapporto filiale in Gesù Cristo. L'essere sociale di Marx si sa nato per la lotta, lo scontro e, eventualmente, per l'odio e la violenza. L'essere fraterno e filiale ispirato da Cristo, si sforza di rendere più fraterno il mondo mediante un'infusione d'amore. Cerca di gettare un mantello d'amore sulle spalle di ogni uomo.6 Di questo ideale di alterità-comunione, vissuto dai primi cristiani, abbiamo un'illustrazione vivente e contemporanea nell'opera dei Missionari della carità, come anche dei Fratelli missionari della carità, di cui Madre Teresa di Calcutta è la fondatrice. Madre Teresa è come una scintilla incandescente di quella fusione dell'amore di Dio e del prossimo di cui parla Cristo in Giovanni. La sua prima fondazione è stata quella di un focolare per i morenti ( « il meritorio » ), affinchè almeno l'ultimo sguardo incontrato da questi reietti della terra fosse quello dell'amore di Cristo chinato su di loro. Poi si è occupata dei lebbrosi, dei bambini votati alla spazzatura, delle ragazze violentate, degli alcolizzati, dei negri. Essa fa tutto quello che può per aiutare, nutrire, curare, guarire, ben cosciente tuttavia che ogni attività non è che una goccia d'acqua nell'oceano della miseria umana. Il suo lavoro, come quello dei suoi compagni e delle sue compagne, è quantitativamente insignificante, paragonato alle risorse di cui dispongono i grandi Stati: e non si è mancato di dirglielo! Ma essa e il suo gruppo non sono dei « lavoratori sociali »: ciò che apportano è unico, insostituibile, è l'amore di Cristo. Se questo amore venisse a mancare, l'umanità ritornerebbe all'epoca glaciale. Si tratta meno di fare qualche cosa che di « rendere presente Qualcuno ». Ciò che attende il lebbroso che non ha più dita, più mani, che quasi non ha più corpo, ma soltanto dei grandi occhi sperduti e spaventati, è l'incontro di uno sguardo carico d'amore, è la tenerezza di un cuore che piange, capace d'amare come Cristo ha amato. Ciò che importa per Madre Teresa non sono navi cariche di viveri, ma cuori carichi d'amore. Non chiede che una cosa a coloro che si presentano a lei: il loro amore e le loro mani per servire. La più grande malattia attuale dell'umanità, dice, non è la tubercolosi, la lebbra, il cancro, è l'assenza d'amore e di carità. Su tutta la faccia della terra, anche nelle nazioni supercapitalizzate, gli uomini hanno fame e sete dell'amore di Dio. Ciò che Madre Teresa offre al mondo, è l'amore di Cristo. « Occorre che il nostro amore di Dio si chini su qualcuno ». L'amore di Madre Teresa per gli altri è così potente che trasfigura il prossimo e lo rende più bello di quanto sia: essa ha creduto all'amore e lo ha fatto nascere. La sua creatività è così prodigiosa che l'hanno soprannominata « il Bulldozer di Cristo ». Essa è convinta che se noi riusciamo a vincere la prigione di ferro dei nostri egoismi, la breccia dell'amore sarà fatta e l'amore zampillerà e si spanderà nel mondo. Capitolo settimo - VI VI. Conclusione L'inno alla carità della prima lettera di san Paolo ai Corinzi, riassume tutto. Fra i doni di Dio o carismi, ve n'è uno che supera tutti gli altri: è la carità infusa nei nostri cuori « per grazia ». È mediante un dono dello Spirito che noi amiamo gli altri come Cristo li ha amati. Questo dono non passerà, perché Dio è AMORE. « La carità è servizievole; non è invidiosa; la carità non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine … Nascondi Tre cose ora rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità » ( 1 Cor 13,4-8.13 ). Capitolo settimo - Nota biografica DIANICH S., « Carità », in BARBAGLIO-DIANICH, Nuovo dizionario di Teologia, 1976, pp. 98-122. BARBOTIN E., Le témoignage spirituel, Paris, 1964. BRUNNER A., La personne incarnée, Paris, 1964. CONGAR Y., « Réflexions et propos sur l'originante d'une étique chretienne », in: Miscellanea Haring, Studia moralia XV, Roma, 1980, pp. 39-40. COSTER R., « L'homme fraternel », Nouvelle Revue théologique 102 (1980), pp. 641-671. DE FINANCE J., L'affrontement de l'autre. Essai sur l'alterile, .Roma, 1973. GORRÉE G., BARBIER J., (a cura). Mère Teresa de Calcutta. Tu m'apportes l'amour, Vendóme, 1975. GUITTON J., L'amour humain, Paris, 1948. LOTZ J.-B., Pour aimer. Désir, amitié, charité, Paris-Tournai, 1974; ID., 'De la solitude humaine, Paris, 1956. MASSABKI C., « L'amour du prochain », in Le Christ, rencontre de deux amours, Paris, 1958, pp. 689-720. MOUNIER E., « Le moi parnai les autres », in Traile du caractère, Paris, 1947, pp. 483-537. MUGGERIDGE M., Qualcosa di bello per Dio. Madre Teresa di Calcutta, Alba, 1972. NÉDONCELLE M., La réciprocité des consciences, Paris, 1942. ORAISON M., Sire avec: la relation a nutriti, Paris, 1968 ( trad. ir. Essere con… la relazione all'altro, Cittadella, Assisi, 1971 ); ID., Les confiits de l'existence, Paris, 1970 ( trad. it. I conflitti dell'esistenza, Cittadella, Assisi, 1972 ). ROUSTANG F., « La rencontre des autres », in M. DE CERTEAU et F. ROUSTANG, ( a cura ), La solitude, Paris, 1967, pp. 157-161. SCHELER M., Nature et formes de la sympathie, Paris, 1950. RAHNER K., « Unità di amore di Dio e del prossimo », in Nuovi Saggi I, Roma, 1978, pp. 386-412. SOLOVIEV V., Le sens de l'amour, Paris, 1946. TROISFONTAINES M., De l'existence a l'otre, 2 voi., Paris, 1953. ZUNDEL M., Quel homme et quel Dieu, Paris, 1976; ID., Je est un Autre, Paris, 1971; ID., L'homme passe l'homme, Paris, 1948. Capitolo ottavo - I Lavoro, Ricerca, Progresso I. Il lavoro, luogo privilegiato della nostra presenza nel mondo Per vivificare la nostra vita, il Vangelo deve vivificarci là dove siamo, cioè nei nostri impegni quotidiani. Ora, un luogo particolarmente denso della nostra presenza al mondo, è il lavoro, includendo in questo termine tutte le forme di lavoro umano: lavoro manuale, artigianale, ricerca, tecnologia, con le applicazioni che ne derivano nei settori dell'economia, del commercio, dell'industria, della politica. Nascondi I recenti documenti del Magistero, per esempio, Mater et magistra ( 1961 ) e Pacem in tefris ( 1963 ) di Giovanni XXIII; Populorum progressio ( 1967 ) di Paolo VI; Redemptor hominis ( 1979 ) di Giovanni-Paolo II, sottolineano la dignità e il senso dei nostri compiti terrestri. La Gaudium et spes ( 1965 ) consacra tutto il capitolo III della prima parte ( nn. 33-39 ) a « l'attività umana nell'universo ». Gli stessi temi si ritrovano ai numeri 21 e 57. Nascondi All'opposto del concetto marxista, la Costituzione dichiara che « la speranza escatologica non diminuisce l'importanza dei compiti terreni, ma ne sostiene piuttosto il compimento per mezzo di nuovi motivi » ( n. 21 ). « L'attività umana, individuale o collettiva, questo gigantesco sforzo mediante il quale gli uomini, lungo i secoli, si sforzano di migliorare le loro condizioni di vita, corrisponde ai disegni di Dio » ( n. 34 ). La Costituzione riconosce « l'autonomia delle realtà terrestri » come pure i metodi e le tecniche delle scienze che si applicano a studiarle. Essa deplora l'atteggiamento di alcuni cristiani che, « non sufficientemente avvertiti della legittima autonomia della scienza », arrivano a pensare che « scienza e fede si oppongono » ( n. 36 ). E infine: « l'attesa di una nuova terra non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell'umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Nascondi Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dalla sviluppo del Regno di Dio, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l'umana società, tale progresso è di grande importanza per il regno di Dio » ( n. 39 ). Queste dichiarazioni rassicurano molti ricercatori che, per lungo tempo, hanno avuto l'impressione che, lavorando all'esplorazione e alla costruzione dell'universo, facevano opera pagana, lavoravano fuori dalla Chiesa, se non contro la Chiesa. Notiamo tuttavia che i documenti citati risalgono al massimo a due decenni. Prima della Gaudium et spes, mai la Chiesa, salvo in qualche dichiarazione di Pio XII, aveva parlato tanto esplicitamente dell'uomo alle prese coi problemi della vita terrena. La teologia, da parte sua, ha impiegato molto tempo per arrivare a considerare queste realtà come oggetto della sua riflessione. Infatti, il Dictionnaire de théologie catholique, incominciato all'inizio del secolo e terminato nel 1950, si proponeva di esporre « sotto i loro diversi aspetti tutte le questioni che interessano i teologi ». Ora il Dictionnaire non dice nulla su realtà tanto importanti come: mestiere, lavoro, famiglia, paternità, maternità, sesso, gioia, sofferenza, economia, politica, bellezza, storia, terra, mondo, laico. Si deve concludere che la fede non ha nulla da dire su queste realtà che costituiscono la trama della nostra esistenza? Questo silenzio si spiega, sembra, mediante un certo concetto della teologia, secondo il quale il suo discorso deve portare esclusivamente sui misteri di Dio e del suo progetto di salvezza. Affermazione certamente legittima, ma che lascia intatta la questione: è vero che la fede non ha niente da dire sulle realtà umane, in particolare il lavoro? Questa esclusione dalle realtà terrene della riflessione teologica dipende anche dalla situazione di una Chiesa vivente ai margini della scienza o in guerra contro di essa; e, d'altra parte, da una scienza che disprezza la Chiesa: dramma tante volte denunciato e descritto da Teilhard de Chardin. Ma, dopo la guerra, il mondo è cambiato. Numerosi teologi hanno preso coscienza di questa situazione e si sono applicati a ristabilire dei legami tra Chiesa e mondo, tra fede nel progresso e fede in Dio. Benché sia recente, questa riflessione, una volta iniziata, è stata estremamente rapida: i pionieri e gli artefici sono legioni. Citiamo: Teilhard de Chardin, M. D. Chenu, A. Auer, E. Mersch, J. David, G. Thiis, K. Rhaner, J. Daniélou, Y.-M. Congar, von Balthasar, J. Alfaro, J. B. Metz, A. de Nicolas, J. M. Aubert, A. de Bovis, J.-Y. Calvez, D. Dubarle, Ch. Duquoc, M. Flick, Z. Aiszeghy, C. V. Truhiar, Ph. Land, L. Malevez, J. Mouroux, E. Rideau, H. Rondet, P. Smulders, ecc. Di tutti gli artefici di questa riflessione, Teilhard è senza dubbio colui che ha di più contributo, dall'inizio del secolo, a scuotere le coscienze cristiane, a risvegliare il senso delle responsabilità di fronte all'evidenza del progresso. Ha dimostrato che solo il cristianesimo era capace di riconciliare il mondo del progresso con quello della fede; ancor più, che solo il Cristo universale, creatore e ricapitolatore di tutte le cose, poteva operare la sintesi dell'in-avanti del progresso umano e dell'in-alto della fede. Teilhard ha avuto un ruolo di stimolatore e di catalizzatore in questa vasta operazione di presa in carico del mondo da parte della riflessione teologica. I pensatori che l'hanno seguito, hanno precisato, arricchito, orchestrato, soprattutto fondato meglio filosoficamente e teologicamente, le sue intuizioni. Hanno fatto l'inventario della molteplicità degli aspetti che danno al lavoro e alla ricerca la sua pienezza di significato, ma è Teilhard, pensiamo, che è stato la fonte di ispirazione del movimento stesso. Il Vaticaho II, nella Gaudium et spes, ha in qualche modo « canonizzato » questa riflessione teologica, che è nello stesso tempo punto di partenza di un nuovo approfondimento. Appena intraprendiamo una riflessione sulle realtà terrene, come lavoro, ricerca, tecnica, siamo minacciati da uno scoglio. Il mondo del lavoro che intendiamo descrivere e capire, è certo quello di oggi, coi suoi lineamenti attuali. Tuttavia non dobbiamo lasciarci affascinare e dominare da questa visione del mondo presente. Dobbiamo capirlo, con il suo contributo specifico, con le sue ricchezze, le sue ambiguità, le sue deviazioni. Ma questa fenomenologia è in vista di una teologia. Ciò che vogliamo capire, in definitiva, è il senso, cioè la molteplicità dei sensi che la fede trova o infonde in queste realtà terrene che noi chiamiamo lavoro, ricerca, tecnologia. Noi descriviamo il mondo attuale, con la sua fisonomia attuale, non quello del Medio Evo, perché è in questo mondo che noi pensiamo, viviamo e agiamo, senza tuttavia mai dimenticare che la nostra intenzione è prima di tutto la scoperta di un significato. Noi seguiamo, insomma, l'itinerario della Gaudium et spes: descriviamo per poi capire il significato cristiano, cioè la polivalenza del significato del lavoro e del progresso, come realtà terrene. Capitolo ottavo - II II. Il mondo del lavoro e i suoi tratti attuali Se cerchiamo di raggruppare i tratti che caratterizzano il mondo del lavoro nel XX secolo, possiamo, schematizzando un po', ricondurli a questi tre: 1. Il mondo attuale è prodigiosamente cosciente delle dimensioni delle sue conquiste, come pure del ritmo sempre più accelerato delle sue vittorie. È cosciente, fino all'ubriacatura, della sua presa in carico del mondo e del suo progresso. Che il nostro mondo sia quello del lavoro, della ricerca, del progresso, è un fatto fin troppo chiaro per essere contestato. Fino a poco tempo fa i ricercatori erano considerati uomini bizzarri e originali. Oggi, la ricerca mette in moto milioni di uomini e migliala di organismi. Si dice che il mondo attuale è caratterizzato dall'« ascesa delle masse »; si potrebbe dire altrettanto giustamente dalla « ascesa della ricerca ». Agli inizi la sete di sapere e di padroneggiare il mondo, poteva confondersi con una pura e semplice curiosità. Ma se oggi la ricerca invade il mondo, è perché l'uomo, diventato adulto, è cosciente che l'evoluzione della vita sulla terra dipende da lui e che la ricerca è l'espressione di questo sforzo evolutivo. L'uomo non è più sulla terra come un artista in contemplazione, ne come un viaggiatore in crociera, ma come un capitano alla manovra: egli conduce il mondo verso un nuovo orizzonte, verso nuove prospettive. 2. Questo mondo del progresso è un mondo desacralizzato. A dire il vero abbiamo già superato quattro secoli di desacralizzazione, che sono passati da una mentalità spontaneamente religiosa a una mentalità volontariamente spoglia di ogni riferimento religioso. Lo sguardo dell'uomo sulla natura passa attraverso la sperimentazione, la verifica, l'analisi matematica. L'universo ha le sue leggi che conviene studiare come quelle di un sistema chiuso. Questa affermazione non è un giudizo, ma una constatazione: scienza e religione lavorano in parallelo. Valori considerati una volta come di origine cristiana hanno acquisito uno statuto puramente umano e profano. Questi valori sono valori in sé, e non più in riferimento a un Valore supremo, trascendente. Tutto il vocabolario religioso ( creazione, fede, libertà, fraternità, responsabilità, assoluto ) è così ricondotto all'orizzontale. L'avvenire dell'uomo è quello della sua gestione economica e politica, del suo progetto tecnologico. Tale è la realtà, nella quale è immerso il credente, a sua insaputa. La questione allora si pone: è ancora possibile, in questo mondo, conservare un riflesso cristiano, scoprire, a un altro livello di profondità, il senso autentico connesso alle realtà di questo mondo? 3. Un mondo segnato dalla razionalità tecnologica. Ciò che caratterizza il lavoro di oggi, è la sua organizzazione. Il mondo contemporaneo è stato conquistato dalla grande impresa, ciò che significa dalla tecnica razionalizzata e dalla preoccupazione del rendimento. La grande impresa, con la sua piramide di direttori, di assistenti-direttori, di capi servizio, di controllori, si preoccupa prima di tutto di efficienza, perciò pianifica, organizza. Vi si studia il tempo richiesto per ogni gesto, per ogni pezzo, per il prodotto finito. Quando il rendimento sembra insufficiente si sostituisce all'uomo la macchina, che ne prende il posto vantaggiosamente. Ogni lavoratore deve produrre il massimo nel minimo di tempo. Perciò è nato il lavoro « a catena » e la produzione « in serie ». Il prodotto è l'opera di tutti e di nessuno. Per mantenere o aumentare il consumo, e quindi anche la produzione, la grande impresa deve sviluppare e sofisticare la pubblicità, ricercare nuovi mercati, creare filiali all'estero, associarsi ad altre imprese. Eccoci al livello delle multinazionali, reale tela di ragno che copre e divora il pianeta. Senza dubbio, la razionalità tecnologica tocca risultati stupefacenti, ma non senza detrimento alle persone. Capitolo ottavo - III III. Conseguenze di questi mutamenti Sarebbe assurdo negare i prodigiosi vantaggi che l'umanità ha tratto da questo progresso accelerato. In sé la tecnica non è da biasimare: essa è neutra. Non si guariscono i mali della tecnica chiudendo le officine e i laboratori; non si ritorna alla carriola quando si dispone della metropolitana, del treno, degli autocarri o del « Concorde ». Ciò che si critica, sono gli abusi che il mondo contemporaneo ha fatto della tecnica. Questi abusi, del resto, erano previsti, data la dimensione astronomica dei cambiamenti avvenuti nelle forme e nell'organizzazione del lavoro. Una cosa è certa, di questo progresso è l'uomo la prima vittima. 1. Alienazione professionale Nella società tecnologica attuale, diventa sempre più raro esercitare un mestiere, nel senso tradizionale del termine. L'uomo non è creatore ( o lo è raramente ) di un'opera che lo esprime. È anche dispensato dal fare scelte, di porsi domande, di cercare di capire. Non ha che responsabilità limitate, cioè nessuna responsabilità. Cellula in un ammasso di molecole, garantisce un gesto, un movimento. Senza reale iniziativa, senza possibilità di creatività, senza responsabilità nella gestione dell'impresa, garantita da altri o da un sistema impersonale, il lavoratore si sente preso in un reticolato che gli sfugge e sul quale non ha alcun potere. Il sentimento di frustrazione, di vuoto, di nullità che ne risulta, colpisce immediatamente la sua vita familiare e sociale. Così concepito, il lavoro disfa l'uomo che cerca subito un alibi per sottrarsi ai suoi doveri d'uomo. La sera, di ritorno a casa, dopo un viaggio estenuante ( in metropolitana o in autobus ), dove è stato sballottato, stiracchiato, soffocato dalla mancanza di spazio e di ossigeno, si sprofonda in una poltrona, assorto nella lettura del suo giornale. Non parla con nessuno, non si occupa di nessuno, neppure di sua moglie e dei suoi figli. Facilmente diventa irritabile e collerico. Si scusa dicendo: « Non è colpa mia, non posso fare altrimenti! Che sporco lavoro! E poi, chi porta a casa i soldi? ». A questo proposito, l'avvilimento dell'officina, dell'ufficio, del laboratorio si assomigliano stranamente. Ci si estenua, all'occorrenza, per essere ammirati, ma questa ammirazione costretta non è evidentemente un vero riconoscimento del lavoro. Questo affaticamento eccessivo è una forma di piacere nevrotico. All'opposto, si trova l'atteggiamento che consiste nel considerare il lavoro come una dura realtà, e che deve essere dura, come una legge penale. Nei due casi il lavoro cessa di essere una mediazione tra gli uomini: subito, portato come un pesante fardello, isola e indurisce i cuori. Il lavoro diventa una legge in sé e non più un'attività feconda, ordinata alla realizzazione dell'uomo e della società. Questa alienazione ha altre conseguenze non meno funeste. In una civiltà dove regna la costrizione della tecnica, le vacanze annuali sono febbrilmente attese e considerate come un periodo di distensione, di sgombero generale. Il lavoro, che ha distrutto, autorizza tutto, giustifica tutto. Se, inoltre, per sfortuna, le vacanze falliscono ( temperatura sfavorevole, compagnia sgradevole ), la frustrazione diventa aggressiva e il cerchio del lavoro ne diventa ancora più infernale. L'uomo non trovando più nel suo lavoro la gioia di compierlo, d'imprimere a un'opera la testimonianza della sua esistenza, della sua personalità creatrice, si getta nel consumismo. A difetto di essere, cerca di possedere, di collezionare, di tesaurizzare: compra libri, che del resto non legge; compera dischi, cassette, senza ascoltarle nemmeno; colleziona francobolli, pipe, monete, o bastoncini da cocktail. Così, quando il lavoro diventa fine a se stesso e perde la sua qualità di mediazione, si disumanizza, distrugge l'uomo. 2. Alienazione sociale e politica Il lavoro organizza la comunità degli uomini, ma a condizione di rispettare la loro libertà. Se la società imprigiona il lavoratore nelle sue esigenze, o se il lavoratore, da parte sua, non fa che rivendicare diritti, senza i doveri correlativi, nei due casi l'eccesso della società o dell'individuo conduce all'anarchia, al caos. Il lavoro è destinato a essere il cemento di una comunità che si modella modellando il mondo. Ma non basta costituire una comunità di lavoro per fare una comunità di persone. Il partito, la società possono garantire agli uomini la loro sicurezza, ma espropriandoli di se stessi. I membri del partito ricevono tutto, ma a condizione di non porre più domande, di consegnarsi anima e corpo al partito. Lo Stato o il partito dominano tutto e si sostituiscono alla persona. L'alienazione che abbiamo notato sul piano professionale, si fa qui più densa. L'uguaglianza sociale è un ideale, ma la volontà di arrivarci in modo assoluto, conduce al totalitarismo che elude la libertà, che stabilisce l'uguaglianza, ma livellando le personalità. Quando le strutture sociali diventano un assoluto, distruggono l'uomo in modo tanto radicale quanto il lavoro a catena. Quando la tecnica è al servizio esclusivo dello Stato onnipotente, l'uomo interessa unicamente come riserva di energia che si tratta di captare e di dirigere in vista di un obiettivo prefissato. Ciò che si cerca, ciò che si ammira è la bravura tecnica e non l'uomo e la sua opera. La tecnica, nelle mani del partito o dello Stato, imperniato sul rendimento e ispirato da fini politici o militari, disumanizza e avvilisce. Infine, l'uomo finisce per aver paura della tecnica che ha concepito: rimane senza fiato. L'angoscia lo sommerge. L'uomo si distrugge credendo di costruirsi. Il vero lavoro è quello che regge il gruppo e la sua attività, ma non identifica l'uomo col lavoro, ne l'uomo col gruppo. L'uomo umanizza le cose, ma non si identifica con esse. Contribuisce all'edificazione della comunità, ma permette anche all'uomo di crescere, di valutarsi, di possedersi. Il lavoro è come la parola dell'uomo che mette in gioco il suo corpo. Non potrebbe quindi esaurire il suo valore nella sottomissione al partito o allo Stato. 3. L'uomo unidimensionale Sotto apparenze meno totalitarie, con mezzi meno drastici, notiamo che la società tecnologica, così come esiste nelle grandi democrazie, non è meno dispotica delle dittature militari. La democrazia, in un certo senso, consolida ancor più fermamente la sua dominazione che l'assolutismo più radicale. La produttività pianificata e controllata dell'impresa internazionale, distrugge, ma su scala planetaria. La produzione segue il ritmo di un consumismo orchestrato da una pubblicità gigantesca e tentacolare, tirannica per gli occhi, le orecchie, i nervi. La dialettica produzione-consumo è accompagnata da una serie di conseguenze: aggressività nella strutturazione del tempo libero, clubs clandestini, commercio di droga, prostituzione, rapimenti di persone e rapine multiformi. L'uomo della città tecnologica risponde alle provocazioni della pubblicità, come alle immagini della TV, come ai semafori: senza riflettere. I suoi riflessi sono teleguidati. Tutta l'apparecchiatura sociale è mobilitata per dominare o sovraeccitare i bisogni, alimentare i desideri artificiali, impedire la creati vità. Gli scienziati, gli esperti, i tecnici, gli specialisti stessi sono asserviti a un sistema « che paga bene ». Ma il prezzo del salario, è l'uomo ridotto a « robot ». Più la società diventa razionale, tecnicizzata all'eccesso, più gli individui fanno fatica a trovare i mezzi che permetterebbero loro di ricuperare la loro libertà. Un condizionamento ne condiziona un altro. Infine, classe diretta e classe dirigente sono vittime del tipo di lavoro che hanno concepito. Mezzi di trasporto, d'informazione, di comunicazione, di alimentazione, di abbigliamento, impongono reazioni comuni ai produttori come ai consumatori. Si finisce per avere comportamenti generalizzati, tipi di pensiero uniformi. L'uomo unidimensionale è creato. Capitolo ottavo - IV IV. Alla ricerca di un significato È un fatto acquisito: grazie al progresso tecnico, in pochi decenni, l'uomo ha decuplicato i suoi mezzi di produzione e, di conseguenza, prodigiosamente accresciuto lo sviluppo dell'umanità. Pensiamo all'elettronica e a quello che permette, alla televisione, per esempio, il più importante prodotto della tecnica: nello stesso istante l'umanità è presente ai gesti, agli sguardi, alle parole del Papa, nel Messico, in Polonia, in Africa, in Brasile, nelle Filippine, in Giappone. Si pensi al progresso realizzato nel mondo delle comunicazioni ( radio, telefono, telex, aereo, satelliti, navicelle spaziali ), ai prodigi della medicina dovuti alla scoperta degli antibiotici, allo slancio scientifico provocato dalle ricerche spaziali. D'altra parte, inevitabilmente, una tale crescita, così accelerata, ha colto l'uomo di sorpresa e lo ha messo in crisi. « Questo progresso è meraviglioso, dice Giovanni Paolo II, ed è difficile non scoprire in esso anche autentici segni della grandezza dell'uomo …; tuttavia questo stesso progresso non può non generare molteplici inquietudini. La prima inquietudine riguarda la questione essenziale e fondamentale: questo progresso il cui autore e fautore è l'uomo, rende la vita umana sulla terra, in ogni suo aspetto, più umana? La rende più degna dell'uomo? … L'uomo, nel contesto di questo progresso, diventa veramente migliore, cioè più maturo spiritualmente, più responsabile, più aperto agli altri, in particolare verso i più bisognosi e i più deboli, più disponibile a dare e a portare aiuto a tutti » Notiamo che l'umanità stessa, una volta passato il brivido dell'esaltazione, prova già il brivido della paura. L'uomo ha paura dei congegni che ha costruito e dell'autodistruzione che possono provocare in un momento di panico. Nel contempo, una coscienza più acuta dell'interdipendenza delle nazioni, nell'ordine economico e militare, li obbliga, per interesse, se non per virtù, a dialogare, a sedersi allo stesso tavolo per discutere, concludere accordi, o almeno porre le premesse che un giorno li renderanno possibili. La grande impresa stessa rende più agili le sue strutture. Lo prova la creazione di associazioni di padroni-operai, di governanti-sindacati, la presenza, in seno all'impresa, di responsabili di pubbliche relazioni, la previsione dei tempi di divertimento, l'assicurazione contro i rischi della disoccupazione, della malattia, degli infortuni; il frammentare la grande impresa in filiali di dimensioni più umane, la rotazione dei compiti per dare all'operaio il senso della sua partecipazione al prodotto completo. La società tecnologica non è quindi necessariamente distruggitrice, anche se può facilmente diventarlo. Tenuto conto dei suoi aspetti positivi e degli ammorbidimenti che sta attuando, il regime attuale del lavoro nella società tecnologica pone problemi inediti, a motivo soprattutto del contesto in cui è nato. 1. Si ha l'impressione, in un mondo scrupolosamente secolarizzato, che i gesti del lavoro, della ricerca, della tecnica, siano paralleli ai gesti religiosi e non abbiano alcun legame tra loro. Da una parte vi è il reale, tangibile, verificabile, che utilizza le risorse della tecnica; dall'altra vi sono le ideologie, la fede, universo senza dubbio reale, ma che sfugge alla verifica. Si giunge così allo scisma interiore, che è il dramma del nostro tempo. Come pensare che Dio abbia il suo posto in questo mondo dell'acciaio, del cemento armato, dei computers, del laser? Mondo del lavoro e mondo della fede evolvono parallelamente. Quindi, se Dio è assente dalla nostra presenza quotidiana al mondo, perché tenerne conto? Progressivamente, osservava già Teilhard de Chardin, la ricerca e la tecnica bloccano la visione di Dio, e si sostituiscono a lui. Dio è il Progresso. 2. La posta in gioco è importante, perché il senso del lavoro è il punto d'incontro del cristianesimo e del marxismo. L'uomo contemporaneo, credente o no, è convinto che il suo destino è di trasformare il mondo e di contribuire così al bene dell'umanità. È appunto questa convinzione che rende così seducente ai suoi occhi la visione marxista del mondo. L'atteggiamento escatologico dell'esistenza, fondamentale nel cristianesimo, gli appare come un'alienazione, perché la vede come una fuga dall'impegno essenziale dell'uomo. Nel dialogo tra cristianesimo e marxismo, è dunque capitale riflettere sul significato del lavoro e del progresso umano. 3. Se si chiede a un cristiano di oggi: « Perché lavori? », risponderà nella migliore delle ipotesi: « Per guadagnarmi da vivere, per costruirmi una casa, per assicurare l'avvenire della mia famiglia e dei miei figli, per guadagnare il paradiso ». Tutte queste risposte sono esatte, persino nobili. Ma sono sufficienti? È vero che il lavoro è soltanto un modo per guadagnarsi il pane in maniera meritoria per via dell'intenzione che lo anima? Basterebbe allora dire: ciò che conta è l'intenzione, l'oggetto fabbricato essendo solo l'occasione di fare gesti meritori. Se si aggiunge che l'uomo è il sacerdote della creazione, incaricato di offrirla a Dio, come lo propone Teilhard nella sua Messa sul mondo, ci si trova sempre in una spiritualità dell'intenzione: il mondo è dato all'uomo perché egli possa offrirlo a Dio. Questa prospettiva ci sembra ugualmente incompleta. Si deve aggiungere che il mondo e il lavoro hanno un senso che preesiste al gesto dell'uomo. Dio è già presente e attivo nel cuore dell'universo, perseguendo il suo disegno di salvezza. È dunque compito della fede decifrare e mettere in risalto il significato, anzi i diversi livelli di significati che conferiscono alle realtà terrene un'espressione religiosa autentica. Il cristiano deve raggiungere un'ermeneutica, una scoperta del significato divino delle attività umane. Il conflitto che l'uomo contemporaneo percepisce tra fede nel progresso e fede in Cristo, è soltanto apparente. Fin dalle prime rotazioni della nebulosa primitiva, il mondo è destinato all'uomo; ma attraverso l'incarnazione e la redenzione, tutta l'evoluzione del mondo, tutto il lavoro dell'uomo è assunto, elevato e finalizzato per mezzo di Cristo. L'errore del marxismo è di « concludere » l'avventura umana richiudendo su se stesso il cerchio del progresso terreno, ed esclusivamente terreno. Emancipandosi dal Dio creatore, il marxismo si costituisce solo creatore di se stesso e dell'universo. Il cristianesimo, al contrario, conclude « sfociando » su un Assoluto che assume, eleva e completa tutto il progresso umano. Non vi è fede cristiana reale, infatti, se non raggiunge e non solleva la totalità del dinamismo umano. E, d'altra parte, non vi è fede nell'uomo e nel suo progresso, se l'avvenire dell'uomo socializzato, planetizzato, non raggiunge un Centro trascendente, irreversibile, di personalizzazione e d'amorizzazione. In breve, è impossibile progredire in-avanti, senza andare anche verso l'in-alto. È questo significato, meglio questa molteplicità di significati che occorre svelare per capire il lavoro e la ricerca. Ora questo significato non può essere percepito ne approfondito senza una teologia della creazione, dell'incarnazione, della redenzione, dell'escatologia. Capitolo ottavo - V V. La creazione, gesto di alleanza e di liberazione Nell'Antico Testamento, il Dio dell'alleanza è stato conosciuto prima del Dio della creazione. Israele, infatti, è risalito dal Dio della storia della salvezza al Dio della creazione. La sua fede è innanzitutto nata dalla prima esperienza di fatti storici ( esodo, cammino nel deserto, entrata nella terra promessa ) che lo hanno « letteralmente » creato come popolo e che hanno rivelato Jahvè come un Dio di salvezza, sempre presente al suo popolo, con la sua onnipotenza; così l'idea di creazione si presenta sempre associata all'idea di salvezza e di liberazione. La creazione è la proiezione verso il passato della potenza di Dio dispiegata nella storia. È in un secondo tempo, a un'epoca relativamente tardiva ( verso la fine dell'esilio ) che la riflessione ispirata ha capito che, se Dio è padrone delle nazioni e delle forze della natura è proprio perché ha suscitato tutto dal nulla: ha creato tutto. Ugualmente la creazione resterà sempre associata all'alleanza, come l'esodo. La creazione dell'universo è il primo atto di liberazione e la prima alleanza di Dio col suo popolo. Creando il mondo Dio pensava già all'alleanza, meglio la inaugurava. Per capire il senso cristiano del lavoro, occorre dunque fare riferimento innanzitutto a questo concetto di una creazione concepita come gesto d'alleanza e di liberazione. 1. Se Dio è Amore, non è un semplice « fabbricante », sia pure dell'universo. Un simile concetto farebbe di lui l'artigiano di un prodotto finito di cui non dovrebbe più occuparsi: una specie di Deus otiosus. La creazione, come ogni opera di Dio, è un gesto nuziale: gesto interiore dell'amore di Dio che inaugura un regime di alleanza, di reciprocità, un gesto sempre più generoso, poiché la creazione è il primo momento delle gesta della salvezza, il primo atto salvifico che si prolunga, mediante l'incarnazione e la redenzione, fino alla creazione dei cieli nuovi, di una terra nuova, di un mondo nuovo. Attraverso un gesto nuziale Dio introduce l'uomo in un dialogo, in una storia a due, in cui l'Onnipotente sollecita il sì della sua creatura. Infatti, la creazione non è stata messa nelle mani dell'uomo come uno scenario interamente compiuto, dove egli non avrebbe che da circolare come un dilettante. Se l'uomo è a immagine di Dio, lo è innanzitutto per essere suo alleato. Bergson diceva: « Dio ha creato dei creatori »: per lo meno dei co-creatori dell'universo. La presenza dell'uomo, infatti, è come una seconda creazione, perché in lui il mondo acquista un dinamismo illimitato; mette in luce le ricchezze di cui è gravido. Mediante la tecnica, la scienza, l'arte, il mondo si spiritualizza e partecipa alla dignità dell'uomo. Creando l'uomo Dio l'invita a « elevare » l'universo, a ricapitolarlo con l'intelligenza e l'amore, a esprimere questo sì nuziale che ambedue, egli e il mondo, che è il suo corpo, rivolgono a Dio. D'altra parte, è attraverso la sua azione sul mondo che l'uomo si scopre, si valuta, si supera. Edificando il mondo, l'uomo si edifica. L'energia dell'universo e la potenza creatrice dell'uomo contribuiscono all'umanizzazione reciproca dell'uomo e dell'universo. L'uomo, infatti, non progredisce che modellando il suo spirito nella materia e spiritualizzando la materia. Penetrando i misteri del mondo, simultaneamente penetra il proprio mistero. Scopre le leggi del suo agire nel mondo e sul mondo. 2. Meglio, la creazione rappresenta per l'uomo un atto di liberazione rispetto al cosmo: liberazione più significativa di quella dal giogo egiziano. Attraverso il riconoscimento di un Dio creatore, l'uomo si libera infatti dalla stretta delle forze della natura ( cicli delle stagioni, della fecondità, degli astri; ritmo di nascita e di morte ). Presso gli antichi popoli politeisti, l'uomo cerca la sua sicurezza integrandosi in questo ritmo e nella sua ripetizione annuale. Israele, al contrario, sfugge al cerchio fatidico delle stagioni e delle ripetizioni: ne emerge. Invece di creare degli idoli a sua immagine, come presso i popoli che non conoscono un Dio personale e trascendente, Israele si trova situato rispetto al cosmo: è chiamato a « dargli un nome », a padroneggiarlo, a trasformarlo, ma come alleato di un Dio vivente che ne è l'Autore assoluto. La creazione, a questo proposito, è dunque più liberatrice dell'esodo perché libera l'uomo dalla schiavitù delle forze cosmiche. L'uomo prende le sue « distanze ». 3. La novità dei tempi attuali, è che la dominazione dell'uomo sul mondo si è prodigiosamente accresciuta: si tratta di un progresso qualitativo, che scompiglia le strutture economiche, politiche e sociali, che trasforma l'abitazione, il vestiario, le comunicazioni: in una parola, che crea un nuovo stile di vita. La tentazione dell'uomo, oggi, è di abusare del potere che detiene. Se, infatti, la tecnicizzazione a oltranza finisse per asservire l'uomo alla macchina e alla sete di guadagno, ciò significherebbe che l'uomo è di nuovo dominato dalle forze della natura che egli ha dominato. L'universo sarebbe di nuovo chiuso su se stesso e il dialogo nuziale di nuovo interrotto tra Dio e l'uomo. L'uomo è legato al mondo, ma destinato a Dio; responsabile del mondo, ma sempre di fronte al Dio trascendente. Così, la trasformazione del mondo mediante l'uomo è una istanza dell'azione creatrice. Senza il lavoro dell'uomo, la creazione sarebbe in un certo modo frustrata della sua finalità interna. Lavorando alla trasformazione del mondo, l'uomo, lo sappia o no, si rende conforme all'intenzione del Creatore. La sua azione ha un senso autentico che coincide con il disegno di Dio. Egli opera nella verità. Il cristiano che, mediante la sua fede, conosce esplicitamente questo primo significato della creazione e ordina coscientemente il suo lavoro alla glorificazione di Dio, fa un gesto identico, materialmente, a quello del non credente. Il senso del suo gesto, tuttavia, non è « creato » dalla sua sola intenzione: è un senso voluto da Dio, iscritto nella sua stessa opera creatrice, cioè nel potere creatore affidato all'uomo fin dalle origini. I due gesti sono correttamente orientali, ma l'intenzione cristiana aggiunge questo: che è cosciente del sì d'amore che rivolge alla proposta di Dio. Capitolo ottavo - VI VI. Il lavoro, servizio degli uomini L'azione dell'uomo nel mondo e sul mondo non ha solamente come scopo la sua perfezione personale: è essa stessa orientata al servizio della collettività. Ai nostri giorni soprattutto, l'ampiezza delle imprese di produzione deve fare appello a gruppi umani sempre più considerevoli. Senza ritornare all'esempio delle cattedrali del medio evo, delle piramidi d'Egitto, della grande muraglia cinese, come concepire oggi i prodigi della ricerca spaziale, della costruzione di dighe gigantesche, delle centrali d'energia elettrica o nucleare, dei sistemi di comunicazione, terrestri o aerei, senza fare appello a gruppi di ricercatori, di tecnici o di operai, che impegnano non soltanto una nazione, ma tutte le forze disponibili del pianeta? Il progresso comporta quindi una nuova dimensione della solidarietà e della responsabilità. Questa responsabilità, senza dubbio, è più visibile nella grande impresa, ma è presente a tutti i livelli. Di conseguenza, il volto stesso del lavoro è cambiato e porta i lineamenti di questa dimensione comunitaria. L'impresa privata esiste sempre ( aziende agricole, laboratori artigianali, botteghe ), ma il tratto dominante del lavoro, è quello degli agglomerati urbani, dei centri industriali giganteschi e degli spostamenti in massa per raggiungerli. Senza dubbio, questi agglomerati, fondati su un comune lavoro, non creeranno mai quei legami potenti, fondati sul sangue e sulla cultura, quali sono la famiglia e la nazione. Accade anche al contrario che suscitino e alimentino conflitti e violenze. Ma, senza cadere nell'idillio o nell'utopia, è incontestabile che la comunità di lavoro crea dei legami di solidarietà che orientano l'umanità nel senso del Regno. È la natura e il senso di questi legami che si tratta di manifestare. L'avventura umana, intessuta di faticosi la vori che gli uomini vivono in comune, costituisce la forma temporale del nostro cammino verso il Regno. L'umanità, infatti, si costruisce mediante la libertà, ma anche mediante la solidarietà. L'esistenza umana concreta è progressiva e interdipendente. Attraverso la paternità, la maternità, l'educazione noi siamo legati ai nostri genitori tramite un intreccio di dipendenze. I genitori sono co-creatori e co-provvidenti dei loro figli. È la stessa cosa per l'autorità civile che da alla collettività umana le sue strutture, le sue leggi, i suoi obiettivi. L'aspetto co-creatore del lavoro è già stato sottolineato. Occorre adesso aggiungere che il lavoro costituisce uno dei più potenti motivi di aggregazione degli uomini. Il primo scopo di una società è di assicurare la collaborazione dei cittadini in vista di un comune servizio. Il lavoro è dunque creatore del tessuto sociale delle solidarietà che si intrecciano anche al di sopra delle nazioni. Lavorando per il progresso della collettività umana, l'uomo si rende conforme, anche questa volta, alla sua struttura di essere « sociale » e « al bene autentico dell'umanità, secondo il progetto della volontà di Dio ». Aggiungiamo che se il lavoro contribuisce alla formazione della società e alla creazione delle civilizzazioni, è nello stesso tempo, quella forma concreta, tangibile, oggettiva nella quale si incarna e si esprime una civiltà. Di questa il lavoro è come il corpo che permette l'accesso alla sua anima. Per conoscere la civiltà egiziana, greca, etrusca, romana, azteca, interroghiamo i suoi monumenti, le sue tombe, le sue opere d'arte. Questo corpo di opere e di monumenti è frutto del lavoro dell'uomo. Gli americani hanno nascosto sotto terra un campionario dei principali prodotti della nostra civiltà affinchè siano ritrovati un giorno, nell'ipotesi di un cataclisma atomico, e siano 'immagine della nostra civiltà scomparsa. Il lavoro edifica la comunità umana, tesse la sua storia; ma a sua volta il frutto del lavoro, l'opera, testimonia della società che l'ha prodotta. È vero che la civiltà della tecnologia è responsabile di gravi abusi. Ma questi abusi dipendono dagli atteggiamenti e dalle mentalità che hanno bisogno di conversione non meno che dai metodi. Il lavoro, considerato come impresa comunitaria al servizio dell'umanità, appartiene al progetto di Dio. Tende al raggruppamento di tutti gli uomini per farne un solo popolo, un solo corpo. Capitolo ottavo - VII VII. Aspetto teologale e pasquale del lavoro Ma per capire pienamente la missione del lavoro nel progresso dell'umanità, come atto di servizio e di amore; occorre situarsi in una prospettiva di incarnazione e di redenzione. Il fatto stesso che Dio, in Gesù Cristo, abbia assunto la condizione umana, conferisce dignità a ogni realtà umana: sia al lavoro che alla sofferenza e alla morte. Anzi, mediante la passione, la morte e la risurrezione di Cristo, ogni uomo si trova davanti agli altri uomini come davanti a Cristo visibile. I rapporti umani, compresi quelli di lavoro, acquistano, in forza di ciò, una dimensione cristologica e teologale. Se è vero che la trasformazione del mondo attraverso l'uomo è al servizio dell'umanità, occorre aggiungere che Cristo ha elevato il significato di questa azione: essa diventa la realizzazione e l'espressione dell'unione fraterna di tutti gli uomini, in Cristo, e tramite Cristo, con Dio. Il processo « d'amorizzazione » ( Teilhard ) che unisce gli uomini tra loro contribuisce così al Regno di Cristo nel mondo. Senza la carità, tuttavia, che è l'anima delle relazioni umane tra lavoratori, o tra imprenditori e lavoratori, e che interiorizza le esigenze della giustizia, la giustizia stessa è costantemente minacciata. Senza la carità, l'egoismo si riaccende subito con la sua scorta di passioni. In secondo luogo, vi è nel lavoro un aspetto sacrificale e pasquale, cioè l'espressione di « passaggio » dalla morte alla vita. Il lavoro, senza dubbio, è un servizio d'amore a beneficio della comunità ma comporta anche un aspetto sacrificale ( è « faticoso » ). La sopravvivenza e il progresso dell'umanità sono assicurati dal sudore e dal sangue del lavoro quotidiano. Come tale, il lavoro è partecipazione al sacrificio della croce e mette l'uomo sulla strada del Regno. Cristo ci salva, non strappandoci all'austerità del lavoro e della ricerca, ma rivelandoci il senso estremo di questo lavoro faticoso. Cristo, tramite i sacramenti, specialmente l'eucaristia, ci svela il significato divino delle realtà terrene. Questo pane, « frutto della terra e del lavoro dell'uomo », è destinato a. diventare il Pane della vita eterna; questo vino, « frutto della vite e del lavoro dell'uomo », è destinato a diventare il Sangue dell'alleanza eterna. « Al di là dell'ostia transustanziata, dice Teilhard, l'operazione sacerdotale si estende, al cosmo stesso che, gradualmente, attraverso il susseguirsi dei secoli, l'incarnazione, mai pienamente compiuta, trasforma. Vi è una sola messa nel mondo: l'ostia reale, l'ostia totale, è l'universo, che, sempre un po' più intimamente. Cristo penetra e vivifica … Una sola cosa si crea, in fondo, da sempre e per sempre, nella Creazione: il Corpo di Cristo ». Così, l'universo si muove verso l'uomo, attirato da Cristo che, con la sua attività creatrice, mediante la sua attività santificante e la sua onnipotenza eucaristica, riunisce in sé tutta l'umanità e tutto il cosmo. Riceviamo da Cristo la rivelazione del significato sacrificale e pasquale della nostra esistenza e della nostra attività umana. Cristo ci rivela nel lavoro, servizio dei nostri fratelli, che l'umanità, che fa maturare e fruttificare il cosmo, si prepara a entrare nella gloria del mondo nuovo. Tuttavia, questa entrata nella nuova vita, si presenta come un esodo attraverso il deserto, come la semina del chicco di grano che diventerà frumento, come una pasqua, un passaggio alla vita, attraverso il lavoro e la morte. L'accesso alla beatitudine del Regno passa attraverso la croce del lavoro quotidiano. Capitolo ottavo - VIII VIII. Cristo fine ultimo del lavoro e del progresso Se l'uomo infatti è il senso del mondo, Cristo è il senso ultimo dell'umanità. L'uomo e il mondo esistono soltanto per la loro destinazione eristica. Mediante l'incarnazione, vi è nel mondo una presenza di Dio più profonda di quella che deriva dalla creazione dell'universo. L'umanità di Cristo è « tra noi » quando il Verbo di Dio l'assume personalmente. Atto creatore per eccellenza, l'incarnazione implica da parte di Dio l'intenzione di donarsi all'uomo e al mondo attraverso Cristo. Dal momento che tutta l'azione creatrice di Dio passa attraverso questo atto del Figlio che si fa uomo-nel-mondo, è tutto l'universo ( l'uomo e il mondo ) che trova in Cristo il suo punto d'appoggio, il suo centro di unificazione e di finalità. Questa funzione unificatrice di Cristo trova il suo compimento nella risurrezione, che stabilisce tra Cristo, primogenito tra i morti, e gli uomini suoi fratelli, chiamati a condividere la sua gloria, un nuovo legame e un nuovo destino. Il mondo stesso diventa il mondo dell'umanità divinizzata da Cristo. Nascondi Infatti, in seguito al legame essenziale dell'uomo col mondo ( tramite la sua corporeità ) il fatto che l'umanità sia destinata a una nuova esistenza, integralmente umana, tramite la sua unione con Cristo risorto, implica che la creazione stessa partecipa alla gloria del Signore ( Rm 8,19.25 ). Il mondo materiale stesso è destinato a essere trasformato. Infatti il mondo non può esistere che per l'uomo, e questi per il Cristo: perciò la finalità dell'uomo in Cristo, implica necessariamente quella del mondo. Mediante Cristo la destinazione antropocentrica del mondo diventa cristocentrica. Questa finalità, fondata sull'incarnazione e sulla risurrezione come pienezza dell'incarnazione, costituisce la destinazione più profonda dell'uomo nel suo rapporto col mondo tramite il lavoro e il progresso. Queste premesse ci svelano un altro livello del senso totale dell'attività umana nel mondo. La creazione da una parte è destinata all'uomo cristificato, divinizzato, chiamato alla gloria di Cristo; d'altra parte, col suo lavoro l'uomo è destinato a trasformare il mondo in vista della partecipazione alla gloria di Cristo e dei suoi fratelli. Poiché il mondo è così strettamente legato e subordinato all'uomo per raggiungere il suo destino e poiché si tratta di un'umanità unificata in Cristo, destinata a Cristo, l'azione dell'uomo sul mondo deve condurre il mondo verso il progresso dell'umanità e, infine, verso la pienezza della gloria di Cristo e degli uomini. Il mondo è destinato a sfuggire alla « caducità » per partecipare, anche lui, alla gloria dei figli di Dio. Nella gloria, Cristo si rivela come il Signore di un mondo trasformato dall'uomo. In questa manifestazione di Cristo, l'opera dell'uomo sul mondo apparirà come espressione umana della gloria di Cristo e della glorificazione degli uomini divinizzati da Cristo. Il ruolo dell'uomo non è quindi soltanto di completare l'azione creatrice di Dio ma anche di assicurare al mondo la sua destinazione finale in Cristo. Senza Cristo, infatti, non sappiamo dove va l'uomo, dove va la storia dell'umanità. I progressi di ogni generazione sono raccolti e trascinati dalle generazioni seguenti verso orizzonti nuovi e imprevedibili. Ne la persona, ne la comunità umana possono controllare la loro azione sul mondo, se non per un periodo ben limitato. Le pianificazioni della storia sono sempre a breve scadenza. Anche se l'uomo potesse pienamente dirigere le leggi e l'energia del mondo, il destino dell'umanità resterebbe sempre davanti a lui come un enigma. Dove va la carovana umana? Il progresso in quanto tale può diventare l'assoluto dell'umanità ( concetto marxista )? In questa prospettiva le società passano, muoiono e ritornano al nulla, e rimane soltanto un progresso sempre ipotetico. Chi, infatti, può assicurarci che questo progresso stesso avrà uno sbocco fatalmente positivo? L'umanità prepara il suo suicidio o la sua sopravvivenza mediante un salto qualitativo Solo l'orientamento della persona e dell'umanità verso l'ai di là della morte, verso una libertà trascendente e assoluta che dirige la storia, può garantire, non soltanto il cammino del progresso, ma anche il dinamismo necessario per non crollare di fronte alle sconfitte parziali. Il progresso umano e lo sforzo umano non hanno senso in definitiva che se l'umanità cammina verso Dio. La comunità umana è destinata, in Gesù Cristo, all'intimità di vita con la Trinità, e predestinata ai superamento del tempo, nel nuovo corso, definitivo, unificante, di Cristo risorto. Capitolo ottavo - IX IX. Progresso terreno e Regno dei cieli Se l'edificazione della Città terrena è elevata, mediante la grazia, all'edificazione del Regno, come comunità di servizio e di carità, quale rapporto esiste tra.il progresso umano e il Regno di Cristo, tra la storia dell'attività terrestre e la storia della salvezza? Secondo la Gaudium et spes, non vi è tra le due ne identificazione, ne separazione, ma contributo reciproco: « Se si deve accuratamente distinguere il progresso terreno dalla crescita del Regno di Dio, questo progresso tuttavia ha molta importanza per il Regno di Dio nella misura in cui può contribuire a una migliore organizzazione della società umana ». Cristo stesso non è protagonista del progresso umano e del Regno di Cristo nel mondo? E aggiunge: « La Chiesa cammina con tutta l'umanità e condivide la sorte terrena del mondo; essa è come il fermento e per così dire, l'anima della società umana, chiamata ad essere rinnovata in Cristo e trasformata in famiglia di Dio ». Il progresso umano, in quanto tale, non si deve confondere con la storia della salvezza. Ma, per grazia, l'uomo tutto intero è chiamato a partecipare alla gloria del Risorto: ne deriva un orientamento comune dell'uomo e del mondo verso la vita senza declino. A causa della sua esistenza nella grazia, l'uomo contribuisce alla trasformazione totale della collettività umana e del cosmo stesso. Se il senso più profondo del progresso umano è la sua integrazione nella gloria escatologica di Cristo, la storia della salvezza e la storia dell'umanità non sono semplicemente sovrapposte: il progresso umano si trova di fatto incluso e integrato nella storia della salvezza. Ma questo sforzo d'integrazione è costantemente minacciato e a volte paralizzato dall'uomo che perverte il senso del lavoro, col suo egoismo. Ha sempre tendenza a costruirsi degli idoli fatti dalla mano dell'uomo, a fare del progresso il suo vitello d'oro, il suo assoluto. Perciò la vittoria definitiva è riservata alla fine dei tempi. Questo rinnovamento reale e definitivo del mondo è tuttavia già anticipato. Già Cristo glorioso attira l'umanità e la creazione verso questa trasfigurazione definitiva. Mediante il mistero pasquale Cristo è legato per sempre all'umanità, al cosmo, alla storia. La venuta del Figlio nel mondo non può significare la distruzione della storia, ma la sua salvezza. Il Vaticano II non parla mai di una distruzione del mondo e dell'opera dell'uomo, ma di una trasformazione del cosmo. Certamente, passa la figura di questo mondo deformata dal peccato; ma, noi lo sappiamo, « Dio ci prepara una nuova dimora e una terra nuova dove regnerà la giustizia e la cui beatitudine colmerà e supererà tutti i desideri di pace che abitano il cuore dell'uomo ». Il legame col mondo dell'uomo in Gesù Cristo, implica che il mondo sia destinato a partecipare, anch'esso, in un certo modo, con l'uomo, alla gloria del Cristo. Slegato dal « suo mondo », l'uomo non potrebbe raggiungere la sua pienezza d'uomo. In breve, se Cristo glorioso è Signore e Centro unificante di tutto; se l'uomo è legato al mondo per trasformarlo; se la salvezza è quella dell'uomo tutt'intero ( compresa la sua corporeità ); se l'uomo è destinato, col suo servizio d'amore a una comunione con gli altri uomini mediante il suo lavoro e la sua ricerca; se infine, è destinato, come Cristo risorto, alla glorificazione di tutto il suo essere, si deve concludere che la pienezza escatologica non può essere distruzione del mondo, ma la sua trasformazione nel compimento trasfigurante dell'uomo e del mondo attraverso Cristo Capitolo ottavo - X X. Piani di significato Così, alla luce del messaggio cristiano, il lavoro, la ricerca e il progresso che ne risulta, rivestono un senso inatteso: anzi, una molteplicità di sensi, rivelati da una teologia della creazione, dell'incarnazione, del mistero pasquale, del Regno escatologico. 1. Il lavoro è innanzitutto un gesto d'alleanza e di liberazione che evoca la liberazione dall'Egitto e l'alleanza del Sinai. Infatti, mediante il lavoro, l'uomo diventa l'alleato di Dio, il co-creatore dell'universo. La trasformazione dell'universo è il sì dell'uomo al progetto di Dio: inaugura un dialogo nuziale tra Dio e la sua creatura. Allo stesso tempo l'uomo sfugge al pericolo dell'idolatria, alla dominazione delle forze cosmiche e dei cicli della natura. Invece di rinchiudersi nel suo universo per dominarlo ed essere poi dominato da esso, mantiene la sua funzione di mediatore tra il mondo e Dio: libero di fronte al mondo perché riconosce liberamente in Dio il suo creatore e salvatore. Questa prospettiva conferisce alla risposta dell'uomo una drammaticità più grande. 2. Mediante il suo lavoro, l'uomo umanizza e spiritualizza il cosmo, ma, in compenso, attraverso questa stessa azione sul mondo e nel mondo, scopre se stesso, prende possesso delle sue possibilità, della sua capacità creatrice. Diventa egli stesso più uomo. Una specie di dialogo si stabilisce tra il mondo che esprime tutto ciò che è e può diventare, e l'uomo che, tramite l'impronta del suo intelletto sul mondo, esprime tutto ciò che è e che può diventare. 3. Attraverso il lavoro, l'uomo approfondisce il senso delle sue relazioni con gli altri, perché la trasformazione del mondo è orientata al servizio e al progresso dell'umanità. L'uomo si sente così responsabile del cammino della carovana umana. Anzi, il cristianesimo ha elevato il senso di questa azione sul mondo, per farne l'espressione dell'unione fraterna degli uomini tra loro e con Cristo. Lo sforzo per trasformare il mondo diventa così una missione sacra, di carattere teologale, animata dalla carità. Questo senso del lavoro non è evidentemente possibile che alla condizione di riconoscere il lavoratore come persona libera e responsabile, capace di decisione, di creatività. Solo la carità può garantire un tale rispetto. 4. Non solo il lavoro ha un senso teologico, ma anche un senso pasquale. Col suo aspetto di fatica, di dolore, è partecipazione al sacrificio della croce e alla trasformazione della risurrezione. Questo pane e questo vino, frutti del lavoro dell'uomo nel corso dei secoli, sono la materia della consacrazione totale dell'uomo e dell'universo: significano il passaggio alla vita attraverso la croce. Liberamente offerto, il lavoro fa dell'uomo il sacerdote e l'interprete della creazione: non soltanto attraverso un gesto esteriore, mediante un'intenzione aggiunta, ma riconoscendo che egli, l'uomo, è salvatore e consacratore di una creazione che gli è donata da Dio per la sua salvezza e la sua consacrazione. 5. Con l'incarnazione e la risurrezione Cristo diventa il fondamento, il centro e il fine ultimo dell'umanità e del mondo. Il mondo e l'uomo non esistono che per la loro destinazione eristica. Cristo è l'Omega di cui parla Teilhard, colui che, dalle origini, dirige l'evoluzione per condurla alla sua pienezza, cioè al Cristo universale, totale, sintesi del creato e dell'increato. 6. Infine, il progresso umano, benché non identico al Regno dei cieli, contribuisce a quella unificazione dell'umanità, di cui la Chiesa, animata dallo Spirito, è il compimento parziale. Perché questo rinnovamento finale è veramente anticipato ( anche se di un'anticipazione parziale, fragile, ambigua, sempre da scoprire ), nel senso che gli uomini, vivificati dallo Spirito di Cristo, attuano insieme, quaggiù, nella speranza del mondo futuro, l'opera che Dio ha loro affidato e avanzano così verso la pienezza della storia, quando l'umanità e l'universo parteciperanno alla gloria di Cristo. Lo sforzo per trasformare il mondo fa dunque parte della speranza escatologica, cioè dell'attesa di Cristo, Signore del mondo e della storia. Il senso cristiano del lavoro è polivalente: agisce simultaneamente su molti piani, e punta in diverse direzioni. Questa molteplicità e sovrapposizione dei significati del lavoro, in campo cristiano, dimostrano quale è la sua nobiltà. Notiamo ancora che questi aspetti non sono indipendenti, ma si illuminano l'un l'altro, come i colori di un prisma usciti da una stessa fonte luminosa. Capitolo ottavo - Nota biografica ALFARO J., Teologia del progresso umano, Assisi, 1969; In., Cristologia e antropologia, Assisi, 1973. ALSZEGHY Z. e FLICK M., Metodologia per una teologia dello sviluppo, Btescia, 1970. ANGELINI G., « Progresso », in Nuovo Dizionario di Teologia, Roma, 1977, pp. 1213-1234. AUBERT J., Pour une théologie du développement, Paris, 1968, pp. 13-19. 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THILS G., Théologie des réalités terrestre!, I: Louvain, 1946; II: Bruges, 1949 (trad. it. Teologia delle realtà terrene, Paoline). THOMAS J., « Perspectives sur une théologie du travaii», Revues de l'Action populaire 166 (1963), pp. 273-286. TRUHLAR C. V., Labor christianus, Madrid, 1963. Capitolo nono - I Potere del male e salvezza mediante la crice I. La questione che si pone Di tutti i problemi, la presenza del male nel mondo, se vi si include la sofferenza, la malattia, il peccato, la morte, è senza dubbio quello che suscita il maggior numero di « perché »: angosciati, tormentati, ribelli. Perché prima di essere un problema, il male è una questione che si porta in se stessi, o piuttosto una cascata di questioni: perché i flagelli della natura? perché la carestia? perché milioni di esseri, da millenni, non sono nati che per soffrire, e nell'assurdità, prima ancora di aver fatto un atto di libertà? Perché esistenze sono interamente sotto il segno della sofferenza? Perché il genocidio? Perché l'umanità, a dispetto del progresso e delle tecniche, ricade periodicamente nelle stesse ingiustizie, nelle stesse crudeltà? Perché la storia dell'umanità è intessuta di divisioni, di odii, di tirannia, di distruzioni massicce? Perché queste crudeltà raffinate? Perché questa impotenza a rompere il cerchio infernale del male multiforme? Perché la morte, solo sbocco della vita? Confessiamolo, davanti a questa onnipresenza e onnipotenza del male, siamo sprovveduti, senza risposta. Come è possibile, onestamente, far credere agli uomini che Dio è onnipotente e solo amore, che è Padre e che ci ama? Questo Dio sembra impotente o sadico: questa è l'alternativa che si sente e che si esprime brutalmente. « Se c'è qualcuno sopra di noi, diceva un'operaia, dovrebbe essere punito ». Si accusa Dio di essete, non soltanto incapace o inutile, ma colpevole. In La Peste Camus esprime urlando il suo scandalo davanti alla sofferenza degli innocenti. Il Dott. Rieux e il gesuita Paneloux assistono impotenti all'agonia di un bambino torturato, suppliziato dalla peste, bruciante di febbre. Davanti al piccolo morto, Paneloux dice: « Forse dobbiamo amare quello che non possiamo capire ». Il Dott. Rieux replica: « No, Padre … Mi faccio un'altra idea dell'amore. E mi rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati ». « Ciò che odio, dice anche, è la morte e il male, e voi lo sapete » Il dramma di Giovanna D'Arco di Peguy ( 1897 ) è dedicato « a tutte le donne e a tutti gli uomini che saranno morti della loro morte umana per cercare di porre rimedio al male umano universale ». La pastorella di Domrémy s'interroga dolorosamente, perdutamente, sulla presenza del male nell'universo. Essa è ossessionata dalla miseria dei feriti, dei malati, degli abbandonati, degli affamati, dei peccatori, dei dannati: « Perché il buon Dio permette che vi siano tante sofferenze? ». Giovanna si sente impotente davanti a questa marea montante, inesorabile e viscida del male, del peccato, dei sacrilegi di ogni specie. Non riesce più a pregare. La sua anima è stritolata quando vede l'eterna dannazione delle anime. Giunge fino a offrirsi senza fine alla sofferenza umana per salvare i dannati dalla sofferenza eterna: « E se occorre, per salvare dall'Assenza eterna Le anime dei dannati spaventati dall'Assenza, Lasciare a lungo la mia anima nella sofferenza umana, Che resti viva nella sofferenza umana ». Giovanna D'Arco, a fatica, si arrende a Dio, che senza dubbio, ha agito per il meglio. Ma non potrebbe rassegnarsi: bisogna agire, lottare contro il male. È certo che, d'altra parte, il problema che ossessiona Dostojevski è il problema della libertà, della ribellione, del male, della sofferenza degli innocenti: questo problema costituisce il centro de I Fratelli Karamazov. L'arringa d'Ivan contro Dio e contro l'assurdità della creazione, è così radicale, così violenta, così spinta, che Dostojevski stesso ha paura e si chiede se saprà trovare la risposta sufficiente. « In tutta l'Europa, dice, non si trova espressione così forte dell'ateismo. Non è quindi come un bambino che io credo in Cristo e lo confesso. È attraverso il crogiuolo del dubbio che il mio osanna è passato ». La risposta, a dir vero, non sarà una confutazione, punto per punto, di tutti gli argomenti dell'ateismo. Al ragionamento, Dostojevski sostituisce l'uomo. La risposta sarà la figura di Zosima, la sua vita, la sua persona, la sua pratica, il suo amore. Per Dostojevski, come per noi del resto, non esiste un argomento risolutivo per rispondere alla mole del male. La risposta di Dio, non è un discorso, ma un atto, una passione, un silenzio d'amore. Dio risponde lasciando morire sulla croce suo Figlio innocente.8 Vi è qualche cosa di più folle, di più potente che il potere del male: è la seduzione dell'amore disarmato. La risposta al problema del male, non è una confutazione ma una figura, una persona un volto torturato dalla sofferenza accolta nell'amore. Capitolo nono - II II. Molteplicità degli approcci e delle forme del male Se la risposta al problema del male è così diffìcile da proporre, lo è innanzitutto a motivo della molteplicità dei suoi approcci, a motivo anche della diversità delle forme del male. Spesso si parla del male in termini di problema. Ora questo approccio, senza essere falso, è molto incompleto e rischia di fallire. In realtà il male si manifesta nello stesso tempo come esperienza, come scandalo, come problema e come mistero. Il male entra nel campo della nostra conoscenza e incomincia a diventare una questione quando noi stessi facciamo l'esperienza dei suoi danni: come minaccia o pericolo, come perdita o separazione di un essere amato, come sofferenza fisica o morale, come morso del peccato in noi, o come malvagità provocata dagli altri. Allora è l'uomo tutto intero e non soltanto la sua ragione che si urta al male. Questo diventa immediatamente scandalo, perche appare come un non-senso della creazione. Se vi è un Dio onni-potente e onni-amante, perché tante ingiustizie e tante sofferenze immeritate? ( scandalo di Camus, di Dostojevski ). Dire che, dietro l'uomo vi è Satana, l'Avversario e il suo mistero d'iniquità, è far indietreggiare la questione, non è rispondervi. Se vi è lotta tra il Regno del cielo e il regno delle tenebre, vi sono dunque perdite irreparabili: esiste un universo deformato, il bene soffocato, perversioni nel male che rimangono per sempre. L'inferno precisamente attesta questa impenitenza ostinata che provocava lo scandalo di Giovanna D'Arco. L'onnipotenza di un Dio infinitamente misericordioso è messa in scacco dall'ostinazione determinata. Allora lo scandalo del male prende la configurazione di un problema, con dei dati che si possono delimitare. A questo livello la filosofia ha ragione di cercare spiegazioni ai suoi « perché », così come lo fa per gli altri problemi dell'esistenza umana. Il problema del male appare allora come il problema della creazione e di tale creazione. Tuttavia, la tendenza in filosofia è di trattare il male come un semplice vizio di funzionamento in questa macchina che è l'universo, un vizio da esaminare dall'esterno, come farebbe un meccanico che smonta una vettura per scoprire il pezzo rovinato. Perché la macchina è difettosa? La filosofia può moltiplicare le precisioni e le distinzioni: resterà sempre nella mente una zona insoddisfatta, un turbamento residuale, un ultimo perché. È perché il male è insieme un problema e un mistero: o, se si vuole, il problema del male non è soltanto filosofico, ma religioso. È mistero, e il più incomprensibile di tutti, in quanto esperienza personale, perché ha la sua fonte nel mistero della libertà umana e non si illumina che attraverso il mistero della croce, che è esso stesso mistero della libertà e dell'amore insondabile di Dio. Davanti al mistero noi possiamo raccoglierci, avvicinarlo, riconoscerlo e meditarlo. Ma qui, come altrove, riconoscere il mistero non elimina il mistero; credere non è capire tutto. Tuttavia la luce che proietta il mistero sull'enigma del male è ancora la più penetrante. Davanti al male non si tratta di esporre argomenti per eliminarlo: si tratta piuttosto di passare dal non-senso al senso. Ora, in definitiva, ci si trova davanti all'Innocente che fallisce, è crocifisso e muore: è a questo scandalo che si deve rispondere. Dio ha la sua risposta che ha dato una volta per sempre, in suo Figlio, uomo fra gli uomini, per assumere i peccati del mondo fino a morirne; la sua risposta è la croce, appello dell'Amore disarmato all'amore ribelle. In secondo luogo, se la questione del male è così complessa, è perché il male riveste forme infinite. Si fa fatica a orientarsi in questa giungla tenebrosa e velenosa. Si distingue generalmente il male cosmico, cioè i flagelli della natura ( scosse sismiche, vulcani, uragani, cicloni, tifoni, marosi, inondazioni, siccità ), il male fisico ( malattia, mutilazioni, infermità, deformazioni, degradazione della vita, e la morte stessa ), il male psichico ( depressioni, angosce, traumi ), il male morale, che è tradimento dello spirito, della libertà, dell'amore. Esso tocca gli individui e i gruppi. A livello personale si chiama egoismo, orgoglio, odio, ribellione, vendetta, adorazione dei propri istinti. A livello sociale, si chiama nazionalismo esaltato, militarismo distruttore, asservimento economico e politico, eliminazione o avvilimento degli avversari, culto del sesso, del potere, del denaro. Da solo, il male morale è responsabile della maggior parte dei mali fisici e psichici. Il male ha forme infinite, ma il male più profondo ha la sua sorgente nel cuore dell'uomo. Nel secolo del romanticismo, il male era la sofferenza, la malattia, il languore. Oggi si rende asettica l'esistenza umana negando il peccato. Ma noi sappiamo che il peccato rimane; anzi che è un male sovrano. Si può essere insieme sofferenti e felici. Ma non si può essere insieme peccatori e profondamente felici. Il linguaggio comune del resto non si sbaglia quando distingue ciò che fa male e ciò che è male, il male subìto e il male voluto. La sofferenza e la morte sono dette « umane », a motivo del soggetto che colpiscono; ma, in senso stretto, solo il peccato è « umano », perché solo l'uomo ne è l'agente, il soggetto libero e responsabile. Attraverso il suo peccato, non soltanto l'uomo fa male, ma si fa male. Ciò che esce dal cuore, ecco ciò che rende l'uomo cattivo. Nascondi « Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie » ( Mt 15,19-20 ). Una malattia, un terremoto possono condurre alla morte. Ma l'avvilimento di un campo di concentramento che consiste nel trasformare l'altro in un rifiuto cosciente di esserlo, è di un altro ordine. Per usare un termine popolare, il vero male, sono le « porcherie » dell'uomo nei riguardi degli altri uomini. La fonte profonda del male in definitiva, è l'uomo che, prende il posto di Dio e si deifica. Questo male ci allontana per sempre da ogni calore e da ogni luce; ci condanna alle tenebre, al freddo, alla morte. Quando noi parliamo del male, si tratterà innanzitutto del male morale, del peccato, di questa marea nera dell'amore pervertito che soffoca la vita di tutte le creature e del cosmo intero. La malattia e la morte appartenenti comunque allo scandalo del male, dovremo studiarle, ma come problemi specifici. Capitolo nono - III III. Acquietamento o ribellione Prima di ascoltare la muta risposta del Crocifisso, esaminiamo due posizioni che si oppongono tra loro, così come si oppongono al cristianesimo: cioè la via dell'acquietamento, che è una forma di anestesia, e la via della ribellione. 1. La prima cerca di integrare il male in qualche cosa che lo supera, cioè l'ordine della totalità e della bellezza dell'universo. Ci si dice che per il momento noi non vediamo che un aspetto della realtà: il lato scandaloso. Ma se il nostro sguardo potesse abbracciare la totalità della storia, l'ingiustizia ci apparirebbe allora come il mezzo provvisorio di una giustizia integrale. A questo proposito, una certa visione cristiana del mondo, che predica la rassegnazione dicendo che « non è grave », che « tutto finirà per arrangiarsi », che « il bene finirà per prevalere », assomiglia stranamente al concetto marxista della storia. Per il marxismo infatti, l'angoscia, la disperazione difronte alla sofferenza di una umanità alienata, sfruttata, proviene dalla nostra conoscenza incompleta della storia. L'inferno attuale è la condizione necessaria per un accesso all'ordine definitivo. La dialettica dei contrari finirà per suscitare un'umanità finalmente una e riconciliata. È quindi lo stato stesso di miseria del proletariato che sarà il motore e l'esplosivo della sua liberazione. Nato dalla disperazione, il progetto proletario tende all'instaurazione di una società senza padroni ne schiavi, dove gli antagonismi, fin qui necessari, cederanno il passo a una duplice armonia: quella degli uomini tra loro e quella degli uomini col mondo. Il sangue e il fango di ieri saranno assunti e trasfigurati dall'umanità di domani. Per polarizzare le energie degli uomini basta per il momento far loro intravvedere uno stato superiore di umanità ultra-tecnificata, ultra-sviluppata, da cui ciascuno trarrà profitto mediante la partecipazione, dove ciascuno troverà il suo sviluppo intellettuale e affettivo nella misura in cui farà corpo coll'intero sistema. La lotta delle classi, che è il parossismo del male, annuncia la salvezza dell'uomo. Il gioco della necessità e della libertà, nel sistema marxista, rimane molto ambiguo. Si tratta di libertà o di impeccabilità? Siamo ancora nel mondo di quel tempo? Situare il paradiso terrestre nel futuro, piuttosto che nel passato, non cambia niente al problema. In un primo tempo il marxismo si batte contro l'oppressione che, ai suoi occhi, rappresenta il male. Ma, in un secondo tempo, si trasforma, come un certo cristianesimo, in religione di consolazione, in rifiuto di vedere una realtà che non è bella quanto il sogno. Alla questione del male, il marxismo risponde con un ottimismo di comando. Questa via di acquietamento ha qualcosa di grande, ma non è una risposta alla angoscia e all'orrore del male. Perché se Dio esistere se è l'Amore, non lo posso giustificare dicendo che sacrifica milioni di innocenti a un'armonia che trionferà un giorno. Che sia di origine cristiana, storica o marxista, la soluzione dell'acquietamento si riduce infine a un concetto estetico del mondo. Si incontra a volte una soluzione più radicale ancora. Nei secoli scorsi, gli uomini peccavano, e fortemente, ma senza schivate ne bravate si riconoscevano peccatori. La singolarità del XX secolo, anche in un ambiente cristiano, è di negare il peccato, di metterlo tra parentesi e di non riconoscere che l'uomo sia peccatore. Ossessionato dal peccato, dal male, l'uomo rifiuta di portarne il peso: lo scarica sulle istituzioni, sulle strutture, sui determinismi ( ereditari, biologici, psichici ), sugli altri, mai su se stesso. É molto più preoccupato di liberazione collettiva che di salvezza personale. Si sterilizza l'esistenza umana come gli strumenti di chirurgia che si toccano. Ma dichiarando così che tutto è permesso e che l'uomo è puro, non ci si lascia neppure la speranza di trovare Qualcuno che ci ama così come siamo, con la nostra miseria; ci si toglie la possibilità stessa di quell'essere-più che è legata alla nostra condizione di peccatori, ma coscienti e convertiti all'amore. D'altro lato è certo che il cristianesimo autentico, mantenendo con la Sacra Scrittura la certezza che il mondo è stato veramente voluto da Dio e che è il frutto di un'intenzione, rende diffìcile la sua parte. Perché ciò equivale a dire, con lucidità, che c'è il male perché c'è il bene. Affermando che Dio ha voluto il mondo, e il nostro mondo, ci si espone alla questione di Giovanna D'Arco: « Ma allora, Dio mio, perché, perché tanto male? Quale gioco drammatico giochi con noi, Signore? Fino a quando, fino a quando, dovremo non capire? ». Ci sono in definitiva soltanto due sbocchi: disarmare e arrendersi al Dio crocifisso, nell'adorazione e nella fiducia, oppure ribellarsi. 2. Se si rifiuta l'atteggiamento cristiano, non vi è infatti altro possibile atteggiamento che la ribellione. In un certo modo, di fronte al male, è impossibile non ribellarsi. Chi non ha conosciuto quei ribollimenti di ribellione che si esprimono nelle imprecazioni di Giobbe? Questa angoscia di fronte al male è in noi come una forza oscura, assopita, ma sempre pronta a scattare, mai perfettamente dominata. Accettando nella fede il giudizio della Scrittura sul mondo: « E Dio vide che era cosa buona », il cristianesimo rischia di provocare verso di sé e verso Dio una ribellione totale, assoluta, implacabile. Di questa ribellione Dostojevski ha dato l'espressione più drammatica ne I Fratelli Karamozov. Rivolgendosi a Cristo ritornato sulla terra per rianimare la fede e il coraggio degli uomini, ma di nuovo arrestato e messo in prigione, il Grande Inquisitore gli dichiara: « Sei tu, tu. Non dire nulla. Taci. Del resto, che potresti dire? Lo so anche troppo. Tu non hai il diritto di aggiungere una parola a ciò che hai già detto un tempo. Perché sei venuto a disturbarci? Perché ci disturbi, lo sai bene. Ma sai che cosa succederà domani? Domani, io ti condannerò e tu sarai bruciato. Tu hai visto gli uomini liberi. Tu vuoi andare verso il mondo con le mani vuote predicando agli uomini una libertà e una speranza che la loro stupidità non permette loro di capire, una libertà che fa loro pau ra … Ma finiranno per deporla ai nostri piedi, questa libertà … Tu, hai creduto alla libertà umana, invece di confiscarla … Noi, invece abbiamo corretto la tua opera e gli uomini si sono rallegrati di essere di nuovo condotti come un gregge. Oh! noi li persuadiamo che non saranno veramente liberi se non abdicando alla loro libertà a nostro favore ». Il giorno in cui noi scopriamo che ciò che non dovrebbe essere è, e che il male sembra scaraventarsi su ogni realtà e prevalere, giungeremo a porci la domanda: dove sta la maggiore colpevolezza? nell'uomo o. in Dio? nell'egoismo e nella cupidigia degli uomini che scatenano tutti i mali, o in Dio che punisce un male che ha acceso con la libertà? Questa tenebrosa domanda è nel cuore di tutti, sorda e angosciata. L'uomo moderno si ribella contro Dio: così come il poeta Lautréamont che si suicida a ventun anni e rimprovera a Dio di contemplare da tutta l'eternità il supplizio che non ha meritato; così anche Nietzsche: « Dio è morto … Dio resterà morto … Noi l'abbiamo ucciso ». Nietzsche è morto pazzo, ma con lui è nato l'uomo ribelle. La ribellione infatti « è la condanna di Dio in nome della giustizia e dell'orrore del male ». Per correggere l'opera di Dio, si deve sopprimere la libertà, ma per sopprimere la libertà si deve sopprimere Dio, perché non ci si ribella contro un Dio inesistente. La ribellione si fa contro un Dio che esiste e, più concretamente, contro il Dio dei cristiani. Si vuole il silenzio di Dio, per non sentir più parlare di lui, per non essere scomodati da lui. Si preferisce assassinare Dio, come hanno fatto i Giudei, per non dover più subire, in fondo al cuore, l'interrogativo che ci condanna. Dietro questa ribellione che se la prende con Dio, si nasconde non soltanto il rifiuto eterno di ogni speranza, ma anche il rifiuto della condizione umana stessa. Ribellandosi contro Dio, gli uomini si rendono capaci dei peggiori orrori. La ribellione infatti è totalitaria: esclude ogni presenza fuorché la sua, ogni ideologia diversa dalla sua. Per farla finita col male, per cambiare a ogni costo la condizione umana, si sacrificano milioni di esseri a un progresso progettato e fatto « a misura d'uomo ». Per correggere l'opera di Dio si confisca la libertà: si entra allora in un ordine peggiore di ogni male. Quando il nazismo ha voluto farla finita con la schifezza dell'Occidente, non ha indietreggiato di fronte a milioni di morti. Quando il marxismo vuole imporre ciò che considera la giustizia, sacrifica porzioni intere di umanità. I peggiori assassini di Shakespeare arrivano a una decina di cadaveri, perché non hanno ideologia. Con le sue ideologie il nostro secolo non smette di accumulare crimini per liberarci da ogni male. Per sterminare il male, si stermina Dio. Ma una volta crocifisso Dio, l'uomo è alla mercé dell'uomo, lupo capace di tutte le malvagità. In definitiva, perché la ribellione è possibile? Dio non ha voluto la ribellione, ma ha voluto la libertn che permette la ribellione. Se noi fossimo solo minerali o robots, la ribellione non sarebbe possibile. Se il potere terribile, formidabile di dire no ci è lasciato, è proprio a motivo della libertà. L'uomo non è soltanto un tasto di pianoforte: è libero e in questo consiste la sua libertà, che può scegliere tra il rifiuto e l'amore. Cristo ci lascia l'ultima parola. Bernanos diceva giustamente: « Lo scandalo dell'universo, non è la sofferenza, è la libertà ». Infatti. Ma di fronte a un tale potere, attribuito all'uomo, e capace di scatenare le peggiori catastrofi, di provocare i peggiori orrori, come non essere tentati di dire: « Ne valeva la pena? Perché, perché, Signore? ». Se Dio dovesse scusarsi non lo dovrebbe fare per il male che ha fatto, ma per averci fatti liberi. Ha scelto da una parte i sassi, gli animali, i calcolatori e, dall'altra parte, persone, esseri capaci di dire sì o no, anche a Dio. Creando delle persone, ha corso il rischio supremo. Perciò viene a noi senza difesa, come un bambino, le mani vuote le braccia stese su una croce, per provarci che ci voleva veramente liberi Dio vuole che la grandezza dell'uomo si manifesti sia mediante la ribellione che mediante l'amore. Per un cristiano il problema è più tragico ancora, perche la libertà offre la possibilità di una ribellione eterna. Come Cristo, noi siamo invitati a entrare nella prova, nella sofferenza, nell'ingiustizia, senza difesa, rivolti verso il Padre. Non vi è altro appuntamento decisivo col male che il Getsemani e il Golgota. Alla follia della ribellione e del male non vi è altra risposta che la follia della croce. Per rispetto della nostra libertà ci ha fatto capire che la follia verso la quale ci trascina consiste nel disarmare senza difenderci, nell'arrenderci a Dio, nel rimetterci a lui totalmente, nella fede e nell'amore. Questa apparente disfatta, questa disfatta, è la sola saggezza. Altrimenti, l'uomo ribelle distrugge o si distrugge con la violenza. Se. noi affermiamo che l'Innocente è morto per tutti, colpito per tutti, allora, solidali con Cristo, ci disarmiamo con lui, uniti come lui nell'ultima supplica: « Padre ». Restiamo nella notte, ma sotto le stelle. Tutti coloro che hanno vinto la ribellione, hanno rifiutato di difendersi e si sono consegnati a Dio: san Paolo, sant'Agostino, san Francesco d'Assisi, Charles de Foucauid, Padre Kolbe. Capitolo nono - IV IV. Precisazioni necessarie Anche se la follia della croce è la sola che possa affrontare la follia del male, non si può impedire che il problema si ponga, ne che la ragione umana rifletta a suo riguardo. Anche se l'ultima parola spetta alla rivelazione, la filosofia ha il suo contributo da dare, ed è un contributo valido: essa situa il problema, vi porta delle precisioni, evita i vicoli ciechi. Dio può non creare essere liberi, ma se crea angeli e uomini, potranno fallire, perché ogni volontà creata, finita, è subordinata a una regola increata che non si identifica con essa. L'uomo è libero, ma non è impeccabile. Una creatura libera « naturalmente impeccabile » sarebbe una contraddizione: se non pecca, è « per grazia ». Dio, senza dubbio, avrebbe potuto creare esseri di colpo beatificati, glorificati, ma in un tale ordine non vi sarebbe stato posto per il perdono, l'incarnazione, la croce » - Jacques Maritain scrive a questo proposito: « La peccabilità della creatura è la condizione dell'effusione stessa della bontà creatrice, la quale per donarsi personalmente al punto di trasformare in sé un essere distinto da sé, deve essere liberamente amata d'amicizia, e per essere liberamente amata d'amicizia, deve fare delle creature libere, e per farle libere, deve farle fallibilmente libere. Senza la libertà fallibile, non vi è libertà creata; senza libertà creata, non vi è amore d'amicizia tra Dio e la creatura; senza amore d'amicizia tra Dio e la creatura, non vi è trasformazione soprannaturale della creatura in Dio, non vi è entrata della creatura nella gioia del suo Signore. Ed era bene che questa suprema libertà fosse liberamente conquistata. Il peccato, il male è il prezzo della gloria ». Il peccato esiste, ma ciò che è voluto è il compimento di un'opera d'amore che trascende tutto l'ordine del mondo. Il peccato non può essere considerato al di fuori della trasfigurazione dell'uomo mediante la grazia. Esiste dunque un legame tra libertà-peccato, da parte dell'uomo, e l'eccesso d'amore manifestato mediante l'incarnazione, la redenzione, la divinizzazione, da parte di Dio. Nello stesso progetto, Dio ha decretato un ordine dove abbonda il peccato è dove sovrabbondano il suo amore, la sua grazia, la sua misericordia. Davanti alle soluzioni insoddisfacenti dell'acquietamento e della ribellione, la filosofia ha moltipllcato le precisioni per meglio delimitare il problema, senza pertanto risolverlo. Ha innanzitutto sottolineato che il male è la privazione di un bene, di una perfezione necessaria all'essere perché sia se stesso. Il danaroso che non ha potuto arrotondare il suo patrimonio perché ha perso al gioco, e l'uomo che ha perso la vista in un incidente stradale, non sono afratto nella stessa situazione. La vista rappresenta per l'uomo un bene necessario alla sua integrità d'uomo. Bene e male quindi non si oppongono come due realtà positive, fatte della stessa stoffa. Il male è relativo al bene, ma non ne è il contrario, come caldo e freddo. Precisiamo ancora che il male è l'assenza di un bene ( per esempio la salute ) necessario per essere pienamente se stesso. Si deve tener conto dell'idea di compimento inscritta in ogni cosa. Il male infatti scivola in questo intervallo che separa ciò che gli esseri sono da ciò che possono diventare: è legato a un non-compimento radicale. In un universo dove ogni essere possedesse subito la pienezza di cui è capace, la sola alternativa sarebbe di essere o di non essere. Se, d'altra parte, una volta realizzati, gli esseri non potessero perdere niente di ciò che sono, nessun male li potrebbe colpire. La verità è che Dio non ha voluto creare un museo, ma un universo vivente e libero, che si crea o si discrea. Ciascuno è fonte di un potere creatore, fonte di un superamento possibile, capace anche di mancare alla sua dignità. L'idea statica del miglior mondo possibile è incoerente. Il mondo attuale, in un certo senso, non è il migliore possibile, perché dipende da noi che sia sempre migliore, sempre più unito a Dio, partecipe della sua stessa vita. Il nostro compimento, come quello del mondo, dipende dalla nostra libertà. La libertà verte su un punto preciso: io posso rifiutare di di ricevere il mio compimento da un Altro. Se non ci fosse in me uno slancio, un'aspirazione verso un Valore supremo solo capace di colmarmi, non ci sarebbero in me che deficienze tecniche: non ci sarebbe il problema del male. Il dilemma è il seguente: o io sono per me stesso la sola regola, la sola misura dei miei atti, e allora io sono Dio; oppure mi riconosco finito, limitato e di consegunza cosciente che non posso completarmi, realizzarmi che dipendendo da Qualcuno che non sono io. Dio, da parte sua non può che volere la pienezza del mio compimento. Ma la potenza della libertà umana è di poter dire no all'attrattiva che si completerà. La fonte del male è questo potere di rottura legato alla libertà. Il male morale non consiste nell' « uscire dalla regola », ma nel « rifiutare di entrarvi » Io posso volere non riferirmi a un altro diverso da mee, per il fatto stesso, perdere la realtà che sarebbe il mio completamento. Parlare di « privazione » senza aggiungere subito l'idea di compimento e di superamento dell'uomo, conduce alla caricatura atroce di un Dìo sadico, che ha creato degli esseri liberi e dunque fallibili per soddisfare il suo piacere d'esteta. La verità è che se Dio ha creato degli esseri liberi, è per meglio conformarli a se stesso, per dare loro il potere di decidere essi stessi del loro libero completamento mediante una risposta d'amore a colui che si presenta egli stesso come mendicante d'amore. Queste precisioni segnano il cammino, ma non acquietano le questioni concrete dell'uomo di fronte al crimine, all'odio, all'ingiustizia, al martirio dell'innocente. All'enigma del peccato, Cristo non propone una spiegazione metafisica, ma un intervento, una presenza: il castigo dell'Innocente al nostro posto di peccatori. Comprenda chi può. Capitolo nono - V V. Cristo difronte al peccatore Non abbiamo altro modo di conoscere il punto di vista di Dio sul peccato che a partire da Cristo. Se c'è qualche cosa da capire, lo si capisce guardandolo. Se la luce deve venire, è da lui che viene, la luce che approfondisce il mistero invece di rimuoverlo, che si fa più intensa a mano a mano che l'accogliamo. Dalla Genesi al Vangelo, da Osea a Giovanni, la Scrittura non cessa di presentare Dio come un « amante ». La creazione è una storia a due dove il sì di Dio sollecita il sì della sua creatura. La creazione, per compiersi, ha bisogno del consenso dell'uomo, perché Dio non crea degli schiavi come lo pretendeva il Grande Inquisitore, ma dei liberi. Non è un despota, ma un amante: invita, chiama, prega: « Se tu vuoi! ». Dio ama abbastanza gli uomini per deporre la sua potenza e correre il rischio di un rifiuto. Se vi è un inferno sarà quello che ciascuno avrà voluto. L'uomo infatti, può sottrarsi a questa collaborazione, soffocare quest'appello e trascinare con sé una « de-creazione » dell'universo, ma non può impedire all'Amore di continuare ad amare. A mano a mano che si capisce Dio e il suo amore, si entra negli abissi della sua tenerezza e della sua fragilità. Creando delle libertà, Dio accetta di essere crocifisso da coloro che rifiutano di amarlo, ma non può per questo cessare di essere sempre « in stato d'amore ». Nella prospettiva della rivelazione si deve invertire la negazione di Camus e d'Ivan Karamazov. Invece di dire: « Se il male esiste, Dio non esiste », si deve dire: « Se il martirio degli innocenti è così grave, è perché Dio esiste ed è vittima con l'innocente ». Se il peccato è così mostruoso, è perché colpisce l'uomo nella sua dignità infinita. È perché Dio esiste che il male può avere quel volto orribile, scandaloso, di un tradimento. Dio è preso di mira nell'innocente, crocifisso con lui. Il peccato siamo noi stessi « in stato di rifiuto ». Davanti a una umanità ostinata, chiusa su se stessa, murata nella sua ribellione, che può fare l'amore, se non continuare ad amare, perché Dio è Amore? Continuare ad amare, come lo sposo ferito dal tradimento della sposa e che offre la sua fedeltà lacerata e lacerante, nella speranza che l'amore infine risponda all'amore. È proprio così che Cristo si rivela nelle sue parabole, nei suoi atteggiamenti, nei suoi gesti che sono dei segni. Davanti alla samaritana avremmo noi agito come Cristo? A questa peccatrice, propone la via della più alta riconciliazione. Avremmo noi scelto dei traditori come Pietro e Giuda, per farne uomini di fiducia? Agli occhi di Cristo, il più miserabile è capace del più grande amore, il cattivo ladrone è il primo candidato al Regno dei cieli. L'originalità del cristianesimo, è di aver definito il rapporto dell'uomo con Dio, dell'infinita piccolezza con l'infinita grandezza, in termini di « reciprocità ». Dio attende di essere amato in contraccambio, e per amore del nostro amore, ci lascia il potere della rottura o del consenso. È questo il significato della parabola del figlio! prodigo. Dio fa il gioco della libertà: tace di fronte alle nostre partenze. Al ritorno del figlio, che ha sperperato tutto quanto ha ricevuto, non è ne la collera, ne la giustizia, ne il perdono che si esprimono nel comportamento del padre: è il padre che attende il figlio, che lo vede venire da lontano, che interrompe le scuse, che gli fa indossare la veste, gli mette l'anello e le scarpe, che corre incontro a suo figlio e gli getta le braccia al collo, perché colui che soffre di più è colui che ama di più. Dio ama, ma « alla misura di Dio », di un amore totalmente diverso da quello degli uomini. La prima vittima del peccato, è Cristo. La lavanda dei piedi anticipa l'atteggiamento di Cristo, definitivamente fissato nel « plastico » della croce. Al momento di celebrare la sua ultima cena coi suoi, Cristo si abbassa, si abbassa fino a lavare i piedi dei suoi discepoli, compresi quelli di Giuda. Incontro dell'amore e del rifiuto, della luce e delle tenebre, di Cristo e di Satana, del potere del male e della onnipotenza dell'amore. Perché qui la onnipotenza è quella della fragilità, dell'abbassamento, della povertà. Deliberatamente, Cristo assume la condizione di servo, interamente donato agli altri: al servizio degli uomini fino a quel servizio che consiste nel salvare gli altri a prezzo della propria vita. La Cena, la lavanda dei piedi, la croce: è sempre l'amore che si dona, per amore, per disarmare l'odio e il rifiuto. Ma il dramma dell'uomo, è di non credere all'amore di Dio per lui. Capitolo nono - VI VI. Il Dio crocifisso: sola risposta All'interrogazione dell'uomo sul problema del male, Dio non propone spiegazioni filosofiche; d'altra parte non rimane indifferente al peccato, ne ai suoi danni. La risposta di Dio, è il volto sfigurato di suo Figlio « crocifisso per noi ». L'incontro di questo volto è la risposta più decisiva, la più sconvolgente al problema del male. Senza la croce, Dio resta dalla sua parte e noi dall'altra. Ma, mediante la croce, Dio si mette dalla parte delle vittime, dei torturati, degli oppressi, dei degradati. Nascondi La fede cristiana regge o crolla davanti a questo sguardo: « Signore, mostraci il tuo volto e noi saremo salvi » ( Sal 80,4 ). Conosciamo il dialogo drammatico, scritto da G. Bernanos ne Il diario di un curato di campagna, tra quest'ultimo e la castellana del villaggio, che avendo perso il suo bambino, vive nell'odio e nella ribellione contro Dio. Se la prende con Dio! Il curato, timidamente, osa parlargli di rassegnazione. « Se non fossi rassegnata, replica la contessa, sarei morta ». Appena cosciente delle sue parole, il curato prosegue: « Non si mercanteggia con Dio, occorre arrendersi alle sue condizioni. Le dia tutto, egli vi renderà ancora di più ». Irata, la contessa grida: « Se esistesse in questo mondo, o altrove, un luogo in cui Dio non fosse presente … vi porterei il mio piccolo morto e direi a Dio: soddisfati! schiacciaci! ». Il curato pensava ai singhiozzi, ai rantoli strappati alla nostra povera umanità sotto il torchio. Dice: « Signora, se il nostro Dio fosse quello dei pagani e dei filosofi … potrebbe rifugiarsi nell'alto dei cieli, la nostra miseria lo farebbe precipitare. Ma lei sa che il nostro Dio è venuto incontro a noi. Lei può mostrargli il pugno, sputargli in faccia, e infine, inchiodarlo su una croce, che importa? Questo è già avvenuto, figlia mia … L'inferno è di non amare ». Allora, sfinita da una lotta interiore che dura da undici anni, la contessa si arrende. Con un rapido gesto, getta nel fuoco la ciocca di capelli biondi del suo piccino che conservava in un medaglione e che testimoniava la sua ribellione contro Dio. Essa sfugge così alla solitudine terribile: incontra l'Innocente sfigurato. Improvvisamente il suo cuore si era aperto. La speranza vi entrava, accorrendo dal largo, e la invadeva come un grande soffio di primavera. Nello sguardo di Cristo, ella aveva ritrovato la serenità, la pace, la gioia incommensurabile. La notte seguente, infranta dall'agonia che aveva vissuto da tanti anni, la castellana moriva, riconciliata con l'Amore. Due cuori spezzati nello stesso frantoio: ma l'amore aveva prevalso sull'odio. Ugualmente, se noi vogliamo capire senza sfuggire, dobbiamo avere fiducia nella croce, in questa follia agli occhi del mondo, che si rivela più saggia di ogni spiegazione, più forte di ogni contestazione, più potente di ogni violenza. Ciò che la croce ci insegna è che il primo ad essere colpito dalla libertà che ci ha dato, è Dio stesso: ne muore. La legge suprema del mondo, non è una legge cosmologica, ma quella di un misterioso dialogo instaurato tra la libertà umana, alla quale è data la possibilità di avere l'ultima parola, e la libertà di Dio, la cui ultima parola, non è una parola, ma un atto, una passione che ci scopre fin dove va il peccato, ma nello stesso tempo fin dove va l'amore. La ribellione non è padroneggiata dall'esterno, ma immersa nell'abisso dell'amore. Invece di incontrare la resistenza, l'uomo incontra due braccia distese. Per disarmare le nostre ribellioni, Dio propone una sovrabbondanza d'amore. Diventa sulla croce, innalzata all'incrocio dei secoli, il contrappeso dell'amore lacerato, sanguinante, che in un certo modo squilibra per eccesso tutto il peso dei nostri disordini, disinnesca tutti i nostri odii. Cristo in croce riesce a mettere nel mondo più amore di quanto potrà mai esserci di odio. Occorre quindi revisionare tutte le nostre idee su Dio. Per rispetto della nostra libera decisione, Dio si lascia schiacciare e crocifiggere dal peccato. Nascondi Davide, venendo a conoscenza della morte di suo figlio Assalonne, grida: « Figlio mio, fossi morto io al posto tuo » ( 2 Sam 19,1 ). Quando Dio vede i suoi figli scegliere la morte rifiutando di rispondere al suo appello, prende il loro posto: muore per loro, si fa il loro « garante ». La croce ci trasferisce quindi in un universo situato al di là di ogni giustizia, nell'universo dell'amore, ma di un Amore totalmente altro, che è Mistero, perché è a « misura di Dio ». Il peccato tende a eliminare Dio: Dio si lascia eliminare, senza dire nulla. In nessun luogo, Dio è più se stesso che sulla croce: rifiutato, maledetto, condannato dagli uomini, ma senza cessare di amare, sempre fedele agli uomini che lo rifiutano, sempre « in stato d'amore ». In nessun luogo Dio è più potente che nella sua impotenza. Se il mistero del male è indecifrabile, quello dell'amore di Dio lo è ancora di più. La croce è l'ultimo tentativo dell'amore per dissolverein noi l'odio, per smantellare l'egoismo, per togliere Dio dalla croce. Ma che vi è dunque nell'uomo, in questa umanità pervertita, perché provochi un tale eccesso d'amore, se non la possibilità di un amore che può nascere, di un essere nuovo da generare, per sempre libero e liberato, di un « figlio » da introdurre nella vita trinitaria? Sospeso al legno della croce, Cristo invita gli uomini a consegnarsi nelle mani del Padre, come figli che ha concepito col suo amore. La croce di Cristo è la morte di Dio, è l'estremo dell'irragionevole, la vittoria più sbalorditiva, più allucinante delle forze del male su colui che è la Vita, la Potenza. Ma nello stesso tempo è la rivelazione di un amore che prevale sul male, non attraverso la forza, non mediante un più d'amore, ma con un eccesso d'amore che consiste nel ricevere la morte dalla mano stessa di colui che ama e nel sopportare il castigo che gli è destinato, nella speranza di convertire all'amore l'amore ribelle. La onni-debolezza di Dio diventa allora la sua onnipotenza. Nascondi « Le grandi acque non potranno spegnere l'amore, ne i fiumi sommergerlo » ( Ct 8,7 ). Questo mistero dell'amore che si consegna è ancora più insondabile di quello dell'amore che si ribella. « Sì, Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unico Figlio, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui » ( Gv 3,16-17 ). « Sì, dice san Paolo … noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma, per coloro che sono chiamati … potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini ( 1 Cor 1,22-25 ). Nascondi «Colui che non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è Amore » ( 1 Gv 4,8 ). Che poteva fare l'Amore che non abbia già fatto? Ormai noi viviamo la nostra vita presente nella fede nel Figlio che ci ha amati e ha dato se stesso per noi ( Gal 2,20 ). Non siamo più noi che viviamo, cioè noi stessi egoisticamente centrati su di noi, ma è Cristo che vive in noi. Noi viviamo di un amore donato, consegnato, per Colui che si è prima consegnato, donato per noi. In Gesù Cristo e la sua croce, è Dio che si riconcilia il mondo ( 2 Cor 5,18 ). D'ora in poi siamo figli di Dio e il suo Spirito abita in noi, ma per trasformare così la nostra condizione, è stato necessario che Dio diventasse solidale con gli uomini, che attraversasse ( senza tuttavia conoscere il peccato ) l'abisso dell'« assenza » aperto dal rifiuto e dalla ribellione dell'uomo. Diventare così solidale con gli uomini peccatori e più che morire per loro, rappresentandoli in un modo esteriore; è più che assicurare il loro destino di fronte alla morte; è più che morire per amore del Padre: l'atto redentore consiste nell'assumere in un modo assolutamente unico tutto il peccato del mondo. Perché solo l'atto del Figlio, nella sua duplice natura umana e divina, è capace di assumere una simile missione. Cristo è il solo punto di convergenza in cui ogni cosa è compiuta, superata, abolita e sostituita dall'opera unica di Dio, compiuta in quanto uomo e che soltanto Dio, in quanto uomo può compiere. E perciò lui solo può far partecipare alla sua unica croce gli uomini suoi simili, coi quali è più profondamente solidale di qualsiasi uomo, e ciò nella morte, dove ciascuno è assolutamente solitario . Alla serietà di Cristo crocifisso, consegnato per noi, deve rispondere la serietà del nostro amore, che lascia sciogliersi ogni rivolta e ogni rifiuto nell'incandescenza dell'amore trinitario: del Padre che dona suo Figlio perché sovrabbonda d'amore per gli uomini. Capitolo nono - VII VII. Dal peccato all'amore Il cristianesimo non elimina il male, il peccato, la morte. Non è una religione di consolazione, ne di diversione, ma una religione di conversione. L'amore apre una breccia nell'impero del male e della morte, che si apre sulla vita eterna. La risposta del cristianesimo al peccato è l'Amore che disarma, invitando a disarmare per amore. Il messaggio del cristianesimo è un messaggio sul senso della libertà e dell'amore e sul dinamismo onnipotente dell'amore. Se vi è una vittoria sul male, essa si ottiene mediante un amore più grande dell'odio. Cristo è questo amore allo stato puro: perciò può trionfare delle nostre ribellioni che sono limitate. È la storia di tutti quei capovolgimenti di situazione che noi chiamiamo « conversioni » e che, di un peccatore, di un criminale, in un lampo fanno un santo. Nascondi Paradossalmente, secondo il Vangelo ( Lc 15,17-20 ), è il peccatore, nella sua discesa agli inferi, che è più vicino al Regno. Troppo spesso, noi ci compiacciamo di un certa mediocrità, equidistante tra la santità e la cattiveria. Questa compiacenza ci impedisce di vedere gli abissi che sono in noi e che il peccatore già in fondo al baratro spesso percepisce meglio del « giusto ». La sua stessa miseria può così diventare una « scorciatoia » verso l'amore e lo « precipita » in Dio. Certo Dio ci capisce, ma non facendosi complice dei nostri inganni. Ciò che ci è chiesto è di non rifiutare di riconoscere ciò che siamo veramente, classificandoci in una « onorevole » media. Il peccatore, il criminale che non si considera che tale, possiede un'apertura nel cuore in cui può entrare la misericordia. Si riconosce « peccatore amato ». Le nostre resistenze, i nostri fariseismi sono stupidi e falsi. Siamo tutti colpevoli. Abbiamo tutti bisogno di disarmare di fronte all'amore e di riconoscerei prigionieri del peccato, ma amati da Dio: e mai saremo amati da un amore più grande. La risposta del cristianesimo al problema del peccato relativizza o elimina un buon numero di pseudo-soluzioni, superando: a) I moralismi, secondo i quali la questione del male si risolve mediante l'obbedienza alla legge, la soddisfazione di una buona coscienza, la rassegnazione nella prova, la distanza presa a riguardo dei peccatori. Ma si dimentica che il male è in casa, nel cuore dell'uomo, come una possibilità permanente e perpetua. b) I manicheismi, che concepiscono il mondo come un campo di battaglia dove si affrontano i buoni e i cattivi, in concreto i nostri contro gli altri. Visione semplicistica, perché la zizzania e il buon grano sono sempre mischiati nelle cose di questo mondo. Pretendere di eliminare il male di colpo con l'ultima guerra che ucciderà la guerra, con la buona e definitiva rivoluzione che stabilirà per sempre la giustizia, è la suprema illusione, perché la libertà e la grazia possono ad ogni momento spostare o far saltare le frontiere meglio stabilite, c) I ptometeismi, secondo i quali il male è interamente in un'alienazione che, a difetto di sapere e di potere, rende l'uomo dipendente dalle potenze naturali e dalle forze sociali di cui sarà padrone un giorno mediante i suoi apparecchi tecnici. L'alienazione cesserà grazie alla pianificazione razionale dell'esistenza attuale e della felicità avvenire. Ma niente è più equivoco di questa nozione di padronanza del mondo. I tecnici possono asservire l'uomo all'uomo con mezzi di sfruttamento e di manipolazione sempre più raffinati, sempre più dispotici. Anche se una società tecnicamente impeccabile procurasse a ognuno la sua razione di pane e la sua razione di cultura, questa stessa pianificazione provocherebbe delle temibili frustrazioni, dei riflussi aggressivi, l'inquisizione delle coscienze, la proscrizione delle libertà: la storia contemporanea illustra troppo abbondantemente che queste minacce non sono utopie. Il cristianesimo è prometeico, ma a modo suo, cioè proponendosi una dominazione della natura e la sistemazione di un ordine più degno di Dio e dell'uomo contro le false fatalità della miseria e dell'ingiustizia. Questa padronanza del mondo associa l'uomo all'opera ancora incompiuta della creazione e della redenzione. Il cristianesimo, tuttavia, annunciando la salvezza già compiuta e sempre da fare, è più ottimista di tutti gli ottimismi, e più pessimista di tutti i pessimismi. I due atteggiamenti hanno il loro posto in un mondo che non è ancora il Regno definitivo. Nascondi Tutti noi attendiamo questo mondo nuovo dove non vi sarà più ne pianto, ne male, ne morte ( Ap 21,4 ). Ma, in attesa, la sproporzione ci appare tanto grande tra ciò che verrà e ciò che vediamo, che la fede stessa è come presa da vertigini. Davanti allo spessore del male, alla sua forza sempre rinnovata, alla sua ampiezza, alla sua proliferazione, alla sua violenza esasperata, l'urto è troppo forte. Finché il male ha il buon senso di stare entro certi limiti, allora noi possiamo reggere. Ma a volte si scatena con una tale virulenza che abbiamo paura di essere sommersi. Gridiamo verso il Signore: « Salvami, perisco ». Avremmo resistito alle condizioni dei nostri fratelli di Dachau, di Buchenwaid, d'Auschwitz, della Cambogia, del Cile? Si è farisei o ingenui se si pretende che noi non saremo mai provati dall'urto del male, dall'orrore dell'ingiustizia! Sì, la nostra fede rimane esposta allo scandalo dell'iniquità: esposta alla prova e senza sicurezza di uscirne. Ma, precisamente, se la nostra fede è vulnerabile, è perché esiste. Tutti, un giorno, -saremo passati al setaccio dallo scatenarsi del male. Tuttavia la fede stessa proclama che se tutte le consolazioni della terra non possono controbilanciare il male, vi è ancor meno proporzione tra il peso di gloria che viene, che ci attende, che è già presente, e il peso del male che noi subiamo. È vero che il male, in certi momenti, ci sembra più violento, più duro, più orribile di tutto ciò che noi possiamo immaginare: è l'ora dello scandalo, della prova, del buio. Prova che ci fa scoprire che, soli, non siamo all'altezza di fronte al male. Ma, in un secondo tempo, scopriamo che siamo ancor meno « adattati » all'immensità del bene che verrà. Al mistero terrificante del male risponde il mistero più impenetrabile ancora della felicità che ci è preparata. Due luoghi, due parole simbolizzano questo mistero; il Golgota e il Tabor. Vi è il peso del male, della passione, ma vi è il peso più grande ancora della gloria che sale, animata, invadente, come quelle aurore boreali che trasfigurano la notte, già popolata di stelle. Ho visto quest'aurora boreale di Dio illuminare e trasformare volti di peccatori, di morenti i cui occhi si rivolgevano verso Dio, già affascinati dalla sua gloria. Accettiamo di non vincere il male con trionfalismo, ma piuttosto di essere disarmati dall'amore, perché Cristo, per primo, ha disarmato di fronte al nostro rifiuto, fattosi debole per amore. Capitolo nono - Nota biografica BALTHASAR H. U. von, « Le mystère pascal », in Mysterium salutis, voi. 12, Paris, 1972 (trad. it. Queriniana, Brescia). 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Capitolo decimo - I Autonomia, liberazione e libertà I. Un problema del tempo presente Il problema del male, come abbiamo visto, ci riconduce al problema di una libertà che ha il terrificante potere di dire sì o no, di consentire o di opporre il suo rifiuto, anche a Dio. Ora ecco che, dal XIX secolo, l'uomo contesta il fatto stesso della sua libertà. Asserisce di essere alienato a tutti i livelli e da tutte le parti. Non è più padrone in casa sua, ne in sé, ne intorno a sé. È incatenato. Donde l'atteggiamento dell'« uomo ribelle », per scuotersi di dosso tutti i gioghi che l'asserviscono, per diventare infine ciò che è. Meglio informato dei suoi antenati, l'uomo moderno, constatando che la sua « libertà di fatto non si è accresciuta proporzionalmente alla coscienza » che se ne è fatta, constatando ugualmente che questa situazione è quella di tutti gli uomini, ha deciso di ribellarsi: « Io mi ribello, quindi noi esistiamo ». Anche prima di Nietzsche, si trova in Max Stirner ( 1806-1856 ) una ribellione allo stato virulento. Stirner spazza via tutto ciò che potrebbe negare o toccare l'individuo. Egli è la sua legge propria, la sua verità propria: « Tutte le verità che sono al di sotto di me, mi sono care; una verità al di sopra di me, una verità secondo la quale io dovrei dirigermi, non la conosco. Per me non vi è verità, poiché nulla sta al di sopra di me ». Ogni uomo è quindi la sua norma assoluta; è l'autonomia, senza teonomia. La verità, per ciascuno, consiste nel sentirsi il padrone di sé, il proprietario di se stesso. Da allora l'ondata della ribellione non ha cessato di affluire, passando dal livello del pensiero a quello della storia. Nietzsche, considerando la morte di Dio come un fatto acquisito, si volge contro tutto ciò che mirerebbe a sostituire falsamente la divinità scomparsa. La salvezza è senza Dio e sulla terra; la divinità è lo spirito individuale. Marx da parte sua vuole liberare l'uomo , dallo sfruttamento economico soggiogando la natura e sostituendo la dominazione dei padroni con quella degli schiavi. Per obbedire alla storia l'umanità cammina verso una schiavitù tale che non se ne è mai vista l'uguale. Freud, infine, vuole liberare gli individui dal determinismo e dalle catene di determinismi non vinti. I movimenti contestatori degli anni 68 e 70 danno il cambio, su scala mondiale e in maniera rude, a tutte le ribellioni anteriori. Ma la novità, è la presa di coscienza di uno stato di oppressione, non soltanto da parte dei paesi poveri, sotto-sviluppati, ma anche da parte dei paesi ricchi, borghesi, democratici. Le popolazioni di questi paesi si sentono manipolate, assoggettate dai governi, dalle potenze economiche, dai « mass media » che tacciono, filtrano o deformano i fatti, soffocando così la libertà e creando nuove catene. La parola magica, « carismatica », diventa allora liberazione da ogni forma d'autorità. Non subire alcuna costrizione, non essere legato ad alcun ordine preesistente, volere e poter fare ciò che si vuole, sentirsi libero da tutto e da tutti: tale è l'ideale della libertà. Si crede che una società che non conoscesse ne la contestazione, ne la violenza, sarebbe una società apatica, sclerotizzata, incapace di rinnovamento, votata alla morte. Si giunge così a confondere libertà e anarchia, libertà e terrorismo, uccisione di chiunque pensa in altro modo. Si pensa che basti spazzar via le istituzioni, infrangere i vetri perché sorga un ordine ideale dove ciascuno godrà i suoi diritti, senza doveri corrispondenti. Si dimentica generalmente che i privilegi della dignità umana, specialmente quelli della libertà, suppongono una dura conquista. Anche in seno alla fede, sembra esservi conflitto tra l'autonomia, cioè la libertà di coscienza dell'uomo e gli imperativi della fede: comandamenti di Dio, comandamenti della Chiesa, prescrizioni del Magistero. L'armatura dei precetti, nel corso dei secoli, ha ricevuto tali perfezionamenti che assomiglia a una corazza senza fessure. Moralisti e canonisti hanno catalogato e moltipllcato le possibilità d'infrazione con una precisione elettronica. Non si potrebbe agire, ne muoversi senza rischiare di essere in colpa. Ma allora che diventa la libertà? Si percepisce il cristianesimo come una religione di permessi e di proibizioni, somigliante più a un codice che a una vita, più a un addestramento che a una educazione. Si vede anche nella grazia un intervento minaccioso per l'autonomia. Come mai la carità, che è presentata come il comandamento nuovo, non è una determinazione della volontà? Non distrugge essa nell'uomo la naturale libertà, che è potere di determinarsi da se stessa per il bene? Non è questo movimento naturale della volontà che cerca la sua autonomia e la sua indipendenza? Ora, la grazia costituisce per l'uomo, nell'abnegazione di se stesso, una dipendenza ancora più grande di fronte a Dio. La grazia appare come un doppio attentato alla libertà: perché, o distrugge l'autonomia dell'uomo, o gli è sovrapposta, in contraddizione con la sua naturale inclinazione. Come risolvere l'antinomia tra una religione i cui precetti sembrano imporsi dall'esterno, e la coscienza di una libertà provata come una potenza di autodeterminazione? Tale è il punto di convergenza di tutti i movimenti che confluiscono nel rifiuto radicale di cui siamo testimoni e che collegano tanti dei nostri contemporanei che insorgono contro ogni eteronomia, cioè contro ogni regola di pensiero o di condotta ricevuta dal di fuori. L'errore dell'umanesimo ateo non consiste nella pretesa che la realizzazione suprema dell'uomo risieda in una libertà perfetta, perché è a questo vertice che Dio ci invita, ma nel pretendere di conquistare mediante le sue sole risorse naturali la deificazione o la perfetta libertà alla quale aspira. Il cristianesimo ci dice invece che a Dio solo appartiene per natura la perfetta libertà, ma che essa è accordata all'uomo, se vi consente, mediante Gesù Cristo. Modello di tutti, Cristo accede a questa sfera della libertà che completa, realizza tutti e ciascuno. Si tratta dunque di dimostrare che l'iniziativa di Dio in Gesù-Cristo è un invito a entrare in questo spazio, in cui può dispiegarsi la nostra libertà, fino alla sua deificazione. Capitolo decimo - II II. Autonomia, eteronomia, teonomia Prima di riflettere sulla libertà in regime cristiano, conviene segnare la strada con un certo numero di considerazioni sulla libertà in regime umano. Una pura eteronomia non ha senso, perché un tale modo di essere non sarebbe che passività, pura sottomissione alla legge: una specie di robot. L'uomo libero si prescrive dei fini, attualizza per sé dei valori, si da una figura. In questo senso, ogni uomo è per se stesso una legge: è autonomo e responsabile. D'altra parte, un'autonomia totale non ha senso, perché l'uomo non è la fonte prima della sua legge. In Dio solo, necessità e spontaneità coincidono. Al nostro livello di creatura non può essere così. Essendo il nostro essere contingente, partecipato, limitato, noi non siamo per noi stessi la nostra regola assoluta: perciò la nostra autonomia è in un certo senso eteronomia. Questa dipendenza nativa, tuttavia, non distrugge la nostra autonomia interna. Dio infatti, non comanda dall'esterno, come gli uomini, ma in fondo al nostro essere, per il fatto che ne è il creatore. A dire il vero. Dio non comanda: fonda ciò che si chiama comandamento, cioè l'esigenza del-senso e della coerenza in seno alla condotta umana. Questa esigenza è formulata dagli uomini ed è l'uomo che capisce che essa si fonda in Dio. Noi siamo liberi nel mondo, ma non abbiamo creato questo mondo che contribuisce al nostro essere: noi non abbiamo creato la libertà che noi siamo. Tutto questo ci è stato dato e ci è dato ad ogni istante, per un tempo provvisorio, poiché non possiamo sottrarci alla morte. Tutto quello che noi siamo, tutto quello che facciamo, tutto il sistema delle nostre relazioni umane, l'emergenza del nostro io libero in seno a queste relazioni, la possibilità di trovarvi la nostra realizzazione, tutto ha la sua sorgente e il suo fondamento in un Altro da noi. Ora quest'Altro è immanente al nostro essere, come la sua sorgente interna e il suo fondamento. La nostra libertà si sperimenta quindi come libertà che non è la Libertà. Vi è un ordine di valori che non dipende da noi. La nostra autonomia, di conseguenza, è una teonomia. Ma ben lontano dal contraddire l'autonomia, la teonomia ne è la condizione, perché è in Dio che la legge morale trova il suo potere normativo. Noi non siamo mai tanto liberi quanto nella nostra adesione volontaria a questa Libertà liberante. Come la persona stessa, la libertà è un potere di autonomia e un potere di dono; un potere di scelta, inalienabile e un potere di realizzazione, che è una conquista. Il problema della personalizzazione è un problema di liberazione. L'atto della libertà, che impegna la persona intera, è essenzialmente una scelta. Infatti, poiché lo spirito è aperto sull'infinito e non incontra mai che esseri finiti, vi è sempre un abisso tra il suo desiderio e i suoi oggetti, la sua capacità e le sue realizzazioni, ciò che vuole e ciò che si offre, tra la « volontà volente » e la « volontà voluta » ( Blondel ). Questo abisso, in seno a se stesso, lo spirito non lo può colmare. Esso traduce il suo desiderio di un fine assoluto nel desiderio, senza tregua rinnovato, di fini particolarizzati. Finché non vede Dio e non è soddisfatto, l'uomo deve scegliere, deve fare delle opzioni. Questo potere di scegliere è il potere che abbiamo di orientarci e di realizzarci rispondendo alla nostra vocazione con un atto che sia insieme obbedienza e dono. Ma questo slancio, per orientato che sia, resta fallibile. La persona infatti, è capace dell'Infinito, ma non è l'Infinito. Poiché la volontà quaggiù non è necessariamente legata al Bene assoluto, se ne può staccare, può sbagliarsi, mancare a se stessa e peccare. La volontà è orientata verso il bene, ma è capace di bene e di male e le forze che pesano su di essa la trascinano spesso verso il male. Il primo vero problema è quello del senso della libertà. Essa non ci è data per se stessa, ne per qualsiasi cosa, ma perché ci si possa realizzare. Tuttavia si può volersi realizzare, partorire se stessi, sia rispondendo alla propria vocazione sia facendo la propria volontà. Per coloro che rifiutano di dipendere da qualche cosa o da Qualcuno che li superi, la libertà si esprime mantenendosi indipendente da ogni appello trascendente; per gli altri, la libertà si esprime donandosi al Bene supremo, aprendosi a Dio. La libertà che si rifiuta, è essenzialmente anarchica e distruggitrice. La libertà che si dona, è impegnata e costruttrice. Nel primo caso, la libertà fissa il suo slancio su un oggetto finito ( arte, potenza, ricchezza, onori ), di cui si proclama il solo padrone. In realtà, l'oggetto della sua libertà, è la sua volontà propria. Nel secondo caso, sapendosi orientato verso Dio, chiamato da Dio, l'uomo si realizza donandosi a qualche cosa che lo supera, che lo libera, che « completa » la sua libertà. In questo dono, vi è riconoscimento e accettazione di una dipendenza radicale. Questa libertà di dono è un impegno mediante il quale l'uomo si possiede e si realizza donandosi a Dio. Ma una tale libertà suppone una conquista lenta e difficile: una conoscenza lucida e una padronanza degli istinti che asserviscono: essa implica una liberazione di sé e un'apertura all'Infinito. Ma l'uomo che, deliberatamente, si orienta così verso Dio, che lo chiama, interiorizza le leggi e i comandamenti. Ama ciò che gli è domandato, e così è « libero ». Capitolo decimo - III III. Legge e libertà nell'antico testamento Che la perfezione della libertà, che la sua reale autonomia si trovi, non nel potere anarchico di fare tutto, ma nell'accordo della volontà umana con la volontà divina, che è il Bene supremo, è ciò che attesta la Scrittura, dall'Esodo alla croce. La vera libertà, che sfugge a tutte le costrizioni esteriori, a tutte le servitù delle passioni, risiede in una volontà che tende con tutta la sua forza verso Dio. L'obbligo, se ancora esiste, è quello dell'amore sovrano. L'alleanza è la categoria biblica più adatta a illuminarci sulle relazioni di Dio con l'uomo. Fin dalle origini della rivelazione il rapporto tra Dio e la sua creatura si esprime in termini di reciprocità, di alleanza tra la nostra piccolezza e la sua grandezza infinita. Anche la legge, i comandamenti, che sembrano mettere alla prova la libertà, sono da capire a partire dall'alleanza. Ma per capire questa luce stessa della rivelazione su ciò che noi chiamiamo gli « imperativi » della legge naturale messa nella coscienza dell'uomo, occorre situarla nel suo contesto storico che è quello dell'Alleanza del Sinai e della liberazione d'Israele. L'Alleanza ha un duplice effetto. Nascondi Prima di tutto essa ha conferito l'esistenza a Israele come popolo eletto, come popolo di Dio: appartenenza che si esprime nelle formule seguenti: « Jahvè, Dio d'Israele», o: « Israele, popolo di Jahvè » ( Es 19,5-6 ). In secondo luogo, l'Alleanza ha dato a Israele una norma di vita liberamente accettata e destinata a conformare la sua condotta alle esigenze di Jahvè. Questo legame tra l'Alleanza e la Legge è dovunque attestata nelle tradizioni di Israele. La Legge, o il Decalogo, è la « magna charta » dell'Alleanza. La Legge del Sinai ha una tale importanza che, più tardi, i compilatori delle tradizioni d'Israele hanno creduto di dover inserire in questa legislazione delle prescrizioni anteriori e posteriori alla Legge. Inoltre non vi è altro legislatore che Mosè e nessun'altra legge può esistere al di fuori della Legge mosaica, perché l'esistenza della nazione si basa sull'Alleanza di cui Mosè fu il legislatore. Separata dall'Alleanza, la Legge, non soltanto perderebbe il suo significato, ma non esisterebbe neppure. La Legge non è una parola umana, ma divina. Nascondi Perciò, nel libro dell'Esodo è chiamata: « le dieci Parole di Jahvè » o « le Parole dell'Alleanza » ( Es 34,27-28 ). Ma la rivelazione è sempre avvenimento e parola, storia e commento ( Dei Verbum, 2 ). Perciò la Legge non può essere capita che alla luce di quegli avvenimenti che le conferiscono un significato, cioè la liberazione dall'Egitto e l'Alleanza. La Legge è in relazione con la liberazione dall'Egitto. La frase che introduce il Decalogo - « Io sono Jahvè, TUO Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla dimora della schiavitù » ( Es 20,2 ) - usa il linguaggio della reciprocità. Sottolineiamo il fatto che Dio interpella uomini liberati in circostanze disperate; interpella come Dio salvatore della vita e della libertà. In altre parole, Israele riceve il dono della Legge dopo aver ricevuto il dono della libertà. La Legge è promulgata nell'ora storica in cui Dio ha letteralmente dato la vita al suo popolo. A motivo di questo atto salvatore, può chiedere a Israele un servizio esclusivo, cioè l'osservanza delle sue dieci Parole, che sono la stipulazione dell'Alleanza proposta da Dio. La storia è dunque il fondamento della Legge, mentre la Legge è conseguente all'avvenimento della salvezza: tutto ciò in piena conformità con una economia in cui Israele è chiamato a collaborare con Dio. La Legge è in rapporto con un altro fatto storico, cioè l'Alleanza del Sinai. Nascondi Nel fatto dell'Alleanza, si deve notare che è Dio che prende l'iniziativa ( Es 19,3-5 ); inoltre, prima di essere proposta, vi è un richiamo della liberazione gratuita e dell'elezione gratuita da parte di Jahvè. Tramite il suo mediatore Mosè, Dio notifica il suo progetto di fare di Israele il suo partner, il suo collaboratóre. Il popolo risponde allora liberamente: « Metteremo in pratica tutto quanto Dio ci ha ordinato » ( Es 24,8 ). Dopo il rito dell'aspersione del sangue, Mosè dice: « Ecco il sangue del patto che Jahvè ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole » ( Es 24,8 ). La libera accettazione della Legge del Decalogo conclude l'Alleanza: è quindi evidente il legame tra l'Alleanza e la Legge, il Decalogo essendo « il Libro dell'Alleanza » ( Es 24,7 ). Questo legame è così stretto che i due termini sono intercambiabili ( Dt 4,13; 2 Re 17,37-38 ). In questo contesto storico, il senso religioso della Legge è fin troppo visibile. Da una parte, infatti, la grazia precede la Legge. Dio non dice innanzi tutto: « Tu devi fare questo », ma « Io ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto ». La Lieta Novella della salvezza viene all'inizio, non alla fine. Nascondi È soltanto dopo aver salvato il suo popolo, dopo aver offerto la sua Alleanza e ricevuto la risposta d'Israele, che Jahvè proclama: « Tu non avrai altri dèi in mia presenza » ( Es 20,3 ). L'indicativo precede l'imperativo. La Legge non potrebbe essere capita che in questo contesto di salvezza: Dio si rivolge a un popolo liberato e libero. D'altra parte, non vi è Alleanza senza Legge, perché la Legge è parte integrante dell'Alleanza. Come, infatti, potrebbe sussistere una reale alleanza, una vera comunione tra Dio e l'uomo, se l'uomo non adottasse uno stile conforme alla sua Alleanza con Dio? La Legge, insomma esprime la natura e la qualità di questa intimità di vita che deve esistere ormai tra Jahvè e il suo popolo. Il Dio santo vuole un popolo santo, cioè intimamente unito alla sua volontà. Nascondi Ora il Decalogo, appunto, è il segno concreto che manifesta Israele come popolo di Dio, come sua proprietà: « Voi sarete per me dei privilegiati fra tutte le nazioni » ( Es 19,5 ). Questa formula riassume tutta l'Alleanza nella sua dimensione morale e religiosa. Più chiaramente ancora, si legge in Geremia: « Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo », poi: « Camminate nelle vie che io vi indicherò » ( Ger 7,23 ). Ugualmente nel Nuovo Testamento, l'osservanza dei comandamenti del Signore - amore di Dio e amore del prossimo - è il segno che i cristiani sono veramente discepoli di Cristo e appartenenti al Popolo di Dio ( Gv 13,35 ). La Legge, nell'Antico Testamento, è concepita essenzialmente come un dono di Dio: segno di un'Alleanza conclusa nella riconoscenza per il beneficio della vita e della libertà. Nascondi Perciò il Deuteronomio ha cura di sottolineare che l'osservanza del Decalogo deve essere una risposta d'amore e di gratitudine: « Ama Dio e osserva i suoi comandamenti e le sue leggi » ( Dt 10,12-13 ). Se Dio comanda così l'amore è affinchè l'amore sia il motivo ispiratore dell'obbedienza agli altri precetti. La Legge si trova così interiorizzata. La sorgente dell'obbedienza è nel cuore dell'uomo; è l'amore che fa aderire ai comandamenti: « La Parola è molto vicina a tè, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica » ( Dt 30,14 ). Accolta e vissuta nell'amore, la Legge è destinata ad avvicinare a Dio, a sviluppare una intimità sempre crescente col Dio tre volte Santo. Il Decalogo si presenta dunque come un'esigenza interna della vocazione d'Israele: esprime come deve vivere un popolo chiamato da Dio e consacrato a lui. Ugualmente, nel Nuovo Testamento, se i cristiani sono « chiamati » da Cristo, per diventare figli di Dio, devono vivere conformemente a questa vocazione. La vocazione a Cristo ha come corollario necessario una vita secondo Cristo: i precetti accompagnano la vocazione. In questo contesto, il Decalogo non è un semplice codice naturale, ma Parola di Dio. Certo, esprime, nella sua materialità, le esigenze fondamentali della natura umana creata da Dio e, di conseguenza, protegge l'uomo contro se stesso. Ma, in questo contesto storico, è innanzitutto l'espressione della volontà del Dio di grazia e di salvezza; non è un semplice codice astratto, ma una risposta personale di gratitudine al Dio che ha liberato Israele in un momento critico della sua storia. D'altra parte, tutto il Popolo essendo stato liberato e salvato, e l'Alleanza essendo stata conclusa con tutto il popolo, è tutto il popolo che è chiamato a manifestare la sua riconoscenza attraverso la sua obbedienza alla Legge. Tanto più che la fedeltà a Jahvè è destinata ad assicurare l'unità e la coesione di tutto il popolo. Ahimè, là lunga storia delle infedeltà d'Israele ha dimostrato l'impotenza della Legge a mantenere il popolo nella fedeltà all'Alleanza. Ma Jahvè fedele alle sue promesse, rivela a Geremia il suo progetto di riunire Israele con un patto indistruttibile. Nascondi Geremia annuncia che ci sarà una nuova Alleanza e che la Legge, ormai, sarà scritta nei cuori: « Io metterò la mia legge in fondo al loro essere e la scriverò nei loro cuori » ( Ger 31,33 ). L'Alleanza annunciata da Geremia manifesta quindi un superamento del giudaismo e del legalismo: la legge passa dal di fuori al di dentro e sarà efficace. Mai, prima d'ora, la Legge del Sinai era stata presentata a questo punto come via d'interiorizzazione spirituale per la santificazione dell'individuo. Il termine di legge, tuttavia, poteva essere ambiguo. Nella descrizione della nuova Alleanza, presentata da Ezechiele ( Ez 36,26-27 ), Dio promette di dare un cuore nuovo, uno Spirito nuovo: metterà in noi il suo Spirito. La legge diventa un principio d'azione e non soltanto una norma per dirigere l'azione: essa è nient'altro che lo Spirito di Jhavè. Lo Spirito compirà una trasformazione radicale del centro vitale dell'uomo: come una nuova creazione che produce un nuovo istinto. Il concetto di legge interiore di Geremia si trova legato, in Ezechiele, a una teologia dello Spirito. In Geremia, Dio dà una legge scritta nel cuore; in Ezechiele, il dono ricevuto ha un nome determinato; è lo Spirito. Diventa evidente che il rinnovamento annunciato proviene, non dal di fuori, ne dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio stesso. In Ezechiele, la novità non è l'Alleanza, come in Geremia, ma il cuore e lo Spirito: significa la trasformazione interiore dell'uomo. Lo Spirito di Dio servirà da legge: si passa dalla legge scritta nel cuore, allo Spirito, legge vivente che agisce nel cuore. Nascondi Infine, nel Deutero-Isaia ( Is 42,6 ), il mediatore della nuova Alleanza sarà il Servo sofferente, cioè il Figlio di Dio. La Legge è stata data da Mosè; la grazia è stata data da Cristo ( Gv 1,17 ). Così, lungo tutto l'Antico Testamento, assistiamo a una interiorizzazione progressiva della legge. In un primo tempo, la legge è la parola di Dio fedele e misericordioso data al suo amato popolo; in seguito, essa è iscritta da Dio stesso nell'intimità del cuore. Israele aveva poco a poco distaccato la legge di Dio dal suo autore. Adesso, l'adesione alla legge è adesione a Dio stesso. Mediante la legge, poco a poco, Dio si prepara un nuovo popolo, la sua Chiesa. Mediante il sangue di Cristo una nuova alleanza è instaurata tra Dio e gli uomini. Questa alleanza si basa non soltanto sul dono esteriore di una legge positiva, ma su una grazia che trasforma il cuore dell'uomo in cuore filiale e gli conferisce la possibilità di dire, come Cristo: Abba, Padre. Il Decalogo resta ma, ormai, è il dono dello Spirito che unisce la volontà dell'uomo alla volontà di Dio. La legge positiva non è soppressa, ma essa guadagna in efficacia, grazie allo Spirito che abita nei nostri cuori. L'osservanza dei comandamenti di Cristo si presenta più che mai come una risposta d'amore filiale al Dio che ci ha salvati mediante Cristo. Capitolo decimo - IV IV. La vita cristiana, vocazione alla libertà Nascondi San Paolo è chiaro: diventando cristiani è una vocazione alla libertà che noi abbiamo ricevuto ( Gal 5,13 ). Senza la grazia di Cristo, infatti, la libertà è prigioniera; animato invece dallo Spirito di Cristo, il cristiano si trova liberato da tutte le costrizioni esteriori, liberato dalla sola vera schiavitù, quella del peccato. L'uomo aspira alla libertà, ma è cosciente del fallimento delle sue aspirazioni. Aspira a liberarsi da ogni alienazione; ma incontra intorno a sé soltanto l'oppressione multiforme: economica, politica, psicologica, spirituale. Inoltre, tutto quanto inventa per liberarsi ( tecniche, sindacati, svaghi ), lo conduce a una nuova schiavitù. All'origine di questo fallimento vi è il peccato, cioè l'uomo stesso disunito, diviso, in mano all'ostilità della carne e dello spirito, complice del male, in stato di conflitto cronico. La libertà è prigioniera, all'interno come all'esterno. Per liberarla, si deve trasformare l'uomo, perché sono le radici stesse dell'uomo che sono colpite. Nascondi Si deve operare una rifusione totale dell'essere, una vera rinascita nello Spirito ( Gv 3,5 ). Questa grazia è un dono iniziale, che deve essere seguito da una conquista. Infatti, mediante la grazia, le radici della libertà sono deposte nell'anima, come in germe, ma esse chiedono di crescere e di fortificarsi. Tutto è trasformato, in un certo senso e, tuttavia, tutto resta da fare. Il fondo dell'anima è cristiano, ma tutto il resto è da evangelizzare. Più egli lotta contro le sue passioni e le padroneggia, più si libera dei suoi legami, più si libera. Più l'influenza di Cristo cresce e matura in lui, e l'amore diventa il principio della sua azione, più la sua vita diventa comunione con Dio e con la sua volontà. L'amore lo inclina secondo le sue esigenze e lo fa agire in piena libertà. La timida e fragile libertà dei primi giorni diventa poco a poco libertà agile e vigorosa dei figli di Dio. Poiché la persona è fatta per realizzarsi unendosi a Dio, ormai essa risponde alla sua vocazione. Non vi è più dualità in essa, perché fa ciò che ama e ama ciò che deve. La libertà cristiana è una libertà liberata ". È San Paolo che descrive meglio questa condizione del cristiano sotto la nuova legge, che paragona alla legge dell'Antico Testamento. A dire il vero, il cristiano non vive più sotto la legge, perché è l'amore che lo muove. Nascondi « Se lo Spirito vi anima, voi non siete più sotto la legge » ( Gal 5,18 ). « Voi non siete più sotto la legge, ma sotto la grazia » ( Rm 6,14 ). Se è così, è che « la legge dello Spirito che da la vita, mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte » ( Rm 8,2 ). Non si tratta di sostituire al codice mosaico, un codice più perfetto. La nuova legge differisce radicalmente dall'antica, perché si identifica con la persona stessa dello Spirito e con la sua attività in noi: essa è un dinamismo nuovo, messo in noi dallo Spirito. San Paolo a volte parla di legge e di grazia. Quando parla di nuova legge si riferisce a Geremia: « Ecco l'alleanza che io concluderò con la casa d'Israele: porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore » ( Ger 31,33 ). Ma è lo Spirito stesso che è la nuova alleanza, operando in noi l'amore, pienezza della legge. Al codice dell'antica legge risponde, non un nuovo codice, ma il dono dello Spirito. Ricevendo lo Spirito che agisce in lui, il cristiano diventa capace di camminare secondo lo Spirito d'amore, cioè conformemente a ciò che la legge antica esigeva senza riuscirvi. Nascondi Se il cristianesimo si riconduce all'amore ( Gal 5,14 ), è che l'amore, più ancora che un comandamento è un dinamismo, una forza d'azione. Senza amore la legge non poteva giustificare. Si capisce come il cristiano, dal momento che è animato dallo Spirito, possa insieme essere liberato da ogni legge esteriore e condurre una vita perfettamente morale e virtuosa: « Lasciatevi condurre dallo Spirito e non rischierete di soddisfare la cupidità della carne » ( Gal 5,16 ). Colui che è animato dallo Spirito d'amore, evita come d'istinto tutto ciò che è carnale ( Gal 5,19-21a ). « I frutti dello Spirito e dell'amore sono la pace, la gioia, la bontà, la dolcezza, la padronanza di sé » ( Gal 5,22 ), in breve tutto il corredo delle virtù cristiane. Senza aver bisogno di una legge che li obbliga dall'esterno, il cristiano, animato dallo Spirito, compie tutta la legge per amore. Senza dubbio occorre evitare di cadere nell'utopia. Cristo, infatti, non è venuto ad abolire, ma a dare compimento. Il battesimo è una nascita, ma non un completamento. Cristo vive in noi, ma il vecchio io sopravvive sempre. L'unzione dello Spirito non ha ancora penetrato tutte le pieghe del nostro egoismo tenace. La legge è interiore, ma richiede di essere interiorizzata più profondamente ancora. Noi siamo cristiani, ma esistono ancora in noi zone di paganesimo. Siamo figli di Dio, ma non ancora nella gloria dei figli di Dio. Perciò la legge mantiene la sua utilità, anche per i giusti, perché fintanto che siamo « in cammino » la nostra libertà resta esposta e può fallire. Il comandamento dell'amore è essenziale, ma l'essenziale non tutto. Occorre camminare sul terreno accidentato della vita quotidiana. Perciò il Vangelo abbonda in direttive pratiche ( perdono, servizio, umiltà, ecc. ). Cristo stesso evoca il Decalogo di fronte al giovane ricco. I comandamenti di Dio e della Chiesa, lungi dall'opporsi al comandamento dell'amore, ne sono come la mediazione necessaria e la traduzione concreta. Gli obblighi distinti che contiene precisano e attualizzano il precetto generale dell'amore seguendo il dettaglio della nostra vita. L'apertura all'infinito dell'amore non rende dunque inutile una certa segnalazione, per non perdersi nelle nebbie e rischiare il naufragio. I comandamenti rimangono, ma mentre l'ebreo dell'Antico Testamento, dimenticando lo spirito, spesso non leggeva che un testo, il cristiano è in presenza di una Persona vivente: questa è la grande novità. La legge, è Cristo, amore vivente del Padre per noi. Nascondi Ora Cristo abita in noi mediante la fede ( Ef 3,17 ). « L'amore di Cristo ci spinge » ( 2 Cor 5,14 ). È l'amore della persona di Cristo che ispira tutto, che vivifica tutto; che ci fa agire secondo i precetti, non per pura osservanza, ma per amore. Le infrazioni diventano allora mancanze all'amore. Non siamo più nel moralismo, ma nella reciprocità dell'amore. Vivere da cristiani, è adottare lo stile di vita di Cristo, il Figlio in persona venuto a insegnarci a vivere una vita di figli; è adottare le vedute e i gusti di Dio. « Vivete nella carità, nel modo che Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi » ( Ef 5,2 ). A questa condizione, il cristiano è libero, perché « là dove è lo Spirito del Signore, là è la libertà » ( 2 Cor 3,17 ). Il cristiano ama tanto che non può non fare, non volere ciò che vuole Dio e Cristo. La vita cristiana non è senza norme, ma al di là delle norme. Essa è una schiavitù d'amore, frutto dello Spirito di Dio e dunque sovrana libertà. Nascondi Così la grazia, lungi dall'essere un attentato all'autonomia, guarisce e perfeziona la libertà, per, condurre alla libertà divina ( Rm 8,21 ): supera tutti i sogni, tutte le ambizioni degli umanesimi contemporanei. La grazia, infatti è la stessa di Dio che si comunica alla sua creatura per rigenerarla nel suo libero volere. La grazia, in seno al volere dell'uomo, è l'irradiazione della carità divina, che tocca l'operazione volontaria nel suo primo progetto, per santificare, alla sua stessa sorgente, ogni attività che procede da questo primo amore. La carità nel cuore della creatura diventa una partecipazione all'amore divino, tale che lo spirito creato si mette ad amare Dio come Dio stesso, in virtù della sua pura bontà, e tutte le cose per amore di lui. Questa carità che è puro dono, è come un innesto su Dio stesso ( Gv 15,3-11 ). Nascondi È un'impulsione, una ispirazione dello Spirito divino nel cuore della creatura, che fa vivere l'uomo al ritmo della vita di Dio, che lo anima dello stesso soffio, che lo fa entrare in comunione col Padre e il Figlio, per farne un figlio di Dio, « perché tutti coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio » ( Rm 8,14.29; Gal 4,6 ). Come Dio, creando l'uomo a sua immagine, gli ha dato un amore del bene in generale, che fa da base a un amore naturale di Dio, così, mediante la grazia Dio infonde nell'uomo un amore mediante il quale egli ama Dio per se stesso e ogni cosa a causa di lui. Quest'amore perfeziona la volontà e l'eleva al di sopra della sua natura: l'uomo passa così dalla condizione di servo a quella d'amico ( Gv 15,15 ), di .commensale del Figlio ed erede del suo Regno. La carità guarisce la libertà conferendole la vita divina ( Rm 5,21 ). Liberato dal suo egoismo, dalla schiavitù delle sue passioni, l'uomo ritrova la sua autonomia, la sua signoria sulle altre creature ( Rm 6,22 ). Questa liberazione totale, tuttavia non sarà compiuta che nella patria, nell'intimità della vita trinitaria, allorché l'anima, possedendosi perfettamente, potrà ridonarsi totalmente a Dio, nei legami di un amore reciproco. Il capolavoro della grazia è di mettere la creatura in un possesso così completo di se stessa e di tutti i suoi valori, che essa può donarsi completamente a colui in cui risiede la pienezza di tutte le cose. Più la volontà si trova accordata alla vita divina, animata da una stessa aspirazione, più essa fa comunione con questa sovrana libertà, che è quella di Dio: « Là dove è lo Spirito del Signore, là è la" libertà. » ( 2 Cor 3,17 ) É importante sottolineare una volta di più che la grazia non è una costrizione, un'intrusione, un intervento minacciante, una pressione esteriore, ma un'attrattiva interiore, la più dolce, la più intima, la più potente che ci sia: è la voluttà del cuore. Sant'Agostino ha così mirabilmente descritto questa attrattiva divina: « Non pensare che sei attratto malgrado tè; perché l'anima è attratta dall'amore … Ma come può essere che per volontà mia io credo, se sono attratto? E io dico: è poco dire che è secondo la mia volontà, è mediante l'attrattiva della voluttà che sono attratto. Che cos'è l'attrattiva della voluttà? Dammi qualcuno che ama e capirà quello che dico; dammi un essere che desidera, dammi un essere che ha fame, dammi un essere errante e assetato in questa solitudine e che sospira di incontrare la sorgente dell'eterna patria; dammi un tale essere e lui saprà ciò che dico … Presentate un ramo verde a una pecora e l'attirate. Che si mostrino delle noci a un bambino e ne è attratto: e la prova che è attratto è che corre, è dall'amore che è attratto, è dai legami del cuore che è attratto. Se dunque quelle cose attirano rivelandosi a chi le ama come delizie e voluttà terrene, poiché è vero che ciascuno è attirato dalla sua voluttà, come si può rifiutare di dire che egli, il Cristo rivelato dal Padre, attrae? Infatti che cosa desidera più ardentemente l'anima se non la verità? ». La creatura si sente deliziosamente attratta da un obbligo che non è una costrizione, ma un legame d'amore. La volontà tende con tutta la sua forza verso Dio, ma mediante uno slancio d'amore, e nello stesso tempo, verso il suo maggior bene, verso la sua perfezione. Al vertice del mistero regna una così profonda unità che va fino all'identità tra la legge, la grazia e la libertà perfetta. Paradosso di Dio, Cristo concilia nella sua persona tutte le antinomie identificandole nell'amore, nell'agape. Nascondi Ora, mediante la sua unione a Cristo, il cristiano riceve lo Spirito, fonte zampillante dove si dissetano tutti coloro che credono in lui, liberati dalla Verità che egli è: « La verità vi renderà liberi » ( Gv 8,32 ). Capitolo decimo - V V. Liberazione umana, salvezza e libertà Nascondi Nel Nuovo Testamento, i cristiani sono « chiamati alla libertà » ( Gal 5,13 ) e l'azione salvifica di Cristo è definita come una « liberazione » ( Gal 5,1 ) o una « redenzione » ( Mt 20,28 ). Cristo, liberandoci dalla carne, dal peccato, dalla morte, da Satana, ci ha reso la vera libertà, quella dei figli di Dio. Negli ultimi decenni, tuttavia, si nota, nel linguaggio corrente, e anche nel linguaggio teologico, uno slittamento del significato. Sotto l'influenza del pensiero contemporaneo, ipersensibile ai problemi dell'oppressione e della liberazione sociale, si è inclini a identificare salvezza e liberazione sociale. Si concepisce la salvezza come la pienezza della libertà, ma insistendo sulle condizioni che permettono di realizzarla, in particolare la liberazione dalle oppressioni sociali, politiche, economiche. Si giunge fino ad accordare minore importanza all'oppressione della libertà religiosa che alle forme di oppressione sociale. Inoltre si scaricano sulle strutture le colpe delle persone; si finisce per dimenticare che la salvezza è personale: « Cristo mi ha amato e si è sacrificato per me ». La salvezza è per me, così come il peccato è mio. Le strutture, certo, favoriscono la salvezza, ma non salvano. Le liberazioni esteriori sono delle condizioni, ma non dicono l'essenziale. Vi è salvezza, quando la libertà dell'uomo si rivolge verso Dio e, come Maria, l'accoglie e gli risponde. Inoltre, si dimentica che la salvezza promessa da Cristo, non è sulla terra, ma nell'aldilà. Altrimenti si ritorna al concetto dell'Antico Testamento per il quale la salvezza era la Terra Promessa, la prosperità materiale. Notiamo che, nel Vangelo, la liberazione dalla malattia è in vista della conversione, della salvezza. Cristo guarisce i corpi, libera dalla malattia, ma in vista di un incontro e di una comunione. Qual è dunque il posto delle liberazioni umane o temporali nella salvezza cristiana? Molti dei nostri contemporanei vogliono « liberarsi » dalle loro alienazioni, oppressioni e miserie, ma non ci tengono molto a essere « salvati ». La nozione di liberazione tende a soppiantare quella di libertà, perché la libertà appare astratta, statica, individuale, soprattutto dopo la critica fatta dal marxismo della libertà delle società liberali, borghesi, capitaliste. La liberazione, al contrario, è collettiva, dinamica, implica la presa di coscienza di una situazione d'oppressione, cioè di schiavitù, e una volontà di uscirne che significa combattimento. È così che si parla di liberazione socio-economica, di liberazione dei popoli colonizzati, di liberazione della donna, di liberazione sessuale. Dopo le teologie dello sviluppo, della rivoluzione, si assiste ora a una proliferazione delle teologie della liberazione. Liberazione è il nuovo nome della salvezza. I movimenti di autentica liberazione umana rientrano nel progetto di Dio e ne fanno parte. Il Sinodo del 1971 è stato categorico su questo punto: occorre liberare l'uomo dal peccato personale e dalle sue conseguenze nella vita sociale. « La Chiesa, dice il Sinodo, ha ricevuto da Cristo la missione di predicare il messaggio evangelico che comprende la vocazione di convertirsi dal peccato all'amore del Padre, alla fraternità universale e, di conseguenza, all'esigenza della giustizia nel mondo. Perciò la Chiesa ha il diritto e il dovere di proclamare la giustizia su scala sociale, nazionale e internazionale, e di denunciare le situazioni d'ingiustizia quando i diritti fondamentali e la salvezza stessa dell'uomo lo esigono ». La salvezza che Cristo dona si trova nella conversione alla grazia di Dio e alla giustizia verso il prossimo. Dissociare carità cristiana e giustizia sarebbe una perversione dell'amore cristiano, perché la giustizia è, appunto, la prima esigenza della carità. Rispettare effettivamente il prossimo nella sua dignità personale e nei suoi diritti inalienabili, è amarlo concretamente. Lungi dal sopprimere le esigenze della giustizia, il vero amore cristiano le interiorizza e le radica in fondo al cuore: l'amore diventa l'anima della giustizia. I cristiani devono quindi prendere la loro parte, con gli altri uomini, nelle liberazioni che il mondo ha la possibilità di realizzare, perché mancherebbero al progetto di Dio, se non portassero al riondo ciò che lo deve salvare dalle sue miserie come dai suoi peccati. Se dunque si può parlare di unità profonda tra queste due liberazioni, ciò non implica che ci sia tra loro identità pura e semplice. Se è vero che la libertà liberata lavora alla liberazione dalle forze d'ingiustizia, quest'ultima non conduce automaticamente al riconoscimento della salvezza in Gesù Cristo. Solo la libertà, dono di Dio, impedisce di ridiventare schiavi a coloro che libera. La liberazione sociale non si prolunga in avvenimento del Regno, come una fase si prolunga in un'altra, secondo un processo omogeneo. La salvezza in Gesù Cristo promette un avvenire assoluto, una vita senza declino. Questo compimento escatologico non è indifferente al progresso umano, ma questo non ne è il risultato naturale. Nascondi Di fatto, la Chiesa non identifica mai liberazione umana e salvezza in Gesù Cristo ( Ev. nuntiandi, n. 35 ). Le liberazioni umane si compiono mediante strumenti della tecnica, della politica, dell'economia. Ora, Cristo « libera », ma a una profondità che non raggiungono le liberazioni economico-politiche: egli porta una « speranza » che supera ogni « attesa » umana. Se si può dire che la salvezza è liberazione, non si potrebbe dire che la liberazione sociale sia la salvezza. L'uomo ha delle aspirazioni che vanno ben al di là della realtà sociale e terrestre; porta in sé un'apertura all'Assoluto che non può colmare da sé. La verità è che le due forme di liberazione sono insieme distinte e profondamente unite, perché è lo stesso essere umano che si deve liberare dalle due servitù. La liberazione cristiana s'incarna nelle liberazioni umane, che essa assume, quando sono giuste, ma nello stesso tempo le vivifica, le purifica, le sublima, infondendo loro uno spirito nuovo, che è lo Spirito d'amore. La salvezza cristiana non può prescindere dalla liberazione umana e non si potrebbe parlare di vera liberazione escludendo la salvezza cristiana. Nascondi La salvezza cristiana, infatti, se è ben capita, comprende liberazioni parziali e necessarie: « Mancando ai suoi obblighi terreni, il cristiano manca ai suoi obblighi verso il prossimo, anzi, verso Dio stesso e compromette la sua salvezza eterna » ( GS 43 ) La novità radicale del cristianesimo risiede nel fatto che in Gesù Cristo c'è data la possibilità di condurre una nuova esistenza, perché siamo liberati dal peccato e dalla morte, partecipando alla vita stessa di Dio. Portandogli la liberazione, Cristo rivela all'uomo sia che la sua libertà è prigioniera sia che deve rinascere dall'alto per accedere alla vita eterna ( Gv 3,3 ). Il cristiano sa che il peccato, causa ultima di ogni servitù, personale o sociale, risiede nel cuore dell'uomo, nel suo atteggiamento di autosufficienza. Attraverso la sua vita, tutta orientata verso il Padre, Cristo ci rivela la vera strada della nostra libertà: abbiamo bisogno di un amore che viene a noi rinnovandoci radicalmente. La vera liberazione, che è salvezza, è diversa dalla nostra rivendicazione, che è un grido per difendere i propri diritti, dalla emancipazione, dalla liberazione sociale e politica, compiuta dall'uomo con le sue sole forze. Ogni liberazione, per essere valida, deve essere determinata in ultima analisi dalla liberazione in Gesù Cristo, che è liberazione dal peccato. Per il marxismo, al contrario, il processo di liberazione si costruisce solo mediante l'uomo. Il vero salvatore dell'uomo è l'uomo. Il cristianesimo ricorda che ogni uomo ha un valore assoluto agli occhi di Dio: è perché partecipa alla vita della Trinità che non può essere schiavo, anche se la sua condizione sociale ne fa un asservito. Il Cristo delle beatitudini non promette improvvisamente la sovrabbondanza dei beni temporali, come se il povero dovesse diventare ricco. Non si tratta neppure di fare degli oppressi di ieri gli oppressori di domani. Nascondi Ordinariamente, non vi sarà altro miracolo economico in favore del povero che la condivisione di cui il Vangelo fa un tanto grave dovere ( Mt 25,41-46 ). I ricchi sono invitati a farsi un'anima da poveri, che permetterà loro di condividere i loro beni con gli affamati; i poveri, da parte loro, sono invitati a non farsi un'anima da ricchi, cioè a non volere allo stesso tempo la beatitudine del povero e il conforto materiale del ricco. Per Cristo, la condizione sociale non basta a definire la salvezza. La nuova relazione istituita dal Vangelo, è l'appartenenza a Cristo vissuta in qualsiasi regime sociale. Ciò che la Chiesa annuncia è infinitamente di più che la liberazione economica: essa propone il tesoro incomparabile che è Cristo ( At 3,6 ). Ma essa annuncia già il Regno che verrà vivendo la condivisione dei beni ( At 4,32-35 ). È così che la Chiesa primitiva cerca di vivere concretamente questa speranza di una maggiore giustizia per i poveri che essa sente legata alla sua missione. Questa condivisione dei beni è il frutto naturale dell'appartenenza a Cristo, il povero e beato per eccellenza, e della comunione nell'amore realizzata dallo Spirito della Pentecoste. Nascondi È lui, lo Spirito d'amore che agisce in fondo ai cuori e spinge i cristiani alla condivisione spontanea ( 1 Gv 3,17 ). « Qui non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri … Per il momento la vostra sovrabbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza » ( 2 Cor 8,13-15 ). La vera liberazione sociale è frutto dello Spirito d'amore: non gli uni contro gli altri, non gli uni senza gli altri, ma gli uni con gli altri, nell'amore. Capitolo decimo - VI VI. Libertà di Cristo e libertà dell'uomo La libertà, abbiamo visto, consiste nel potere autonomo e creatore di scegliere e di decidere: questo potere fa dell'uomo un essere responsabile. È nell'orientamento che da alla sua esistenza e nelle opzioni che determinano questo orientamento, che si esercita soprattutto la libertà dell'uomo. Ora, anche qui, il mistero di Cristo ci situa di colpo nel cuore del dramma della libertà. Il racconto della triplice tentazione, per esempio, ci dimostra i due orientamenti possibili dell'esistenza umana, e le due opzioni: il dono di sé a Dio oppure l'autosufficienza, il ripiegamento su di sé, l'isolamento. In primo piano, si tratta di due concetti messianici: quello di un Messia umile e servitore, o quello di un Messia terreno e trionfante. Ma l'episodio mira più lontano. Ha per teatro la coscienza di Gesù, davanti a Dio. Il dilemma è il seguente; la sottomissione alla parola di Dio o l'autonomia che si chiude; la disponibilità alla volontà di Dio o la sottomissione di Dio ai progetti dell'uomo: l'obbedienza che adora i disegni del Padre o la potenza personale che si afferma. Il battesimo ha aperto a Gesù la via dell'obbedienza filiale. Si tratta ora di entrarvi effettivamente e di viverla. Il comportamento di Gesù nel suo ministero presso gli uomini non farà che ratificare la scelta radicale effettuata nell'intimità della sua coscienza. Il Messia obbediente sarà il Servo sofferente: il Messia ribelle sarebbe stato il Messia dominatore e glorioso. L'orizzonte della tentazione di Gesù non è soltanto il ricordo della tentazione d'Israele nel deserto, ma anche l'evocazione di tutta la storia della salvezza, della storia che si ripete senza fine nei rapporti di ogni uomo con Dio, nel gioco dell' opzioni: è la storia di Adamo, di Abramo, di Giobbe, di Davide, di ciascuno di noi. Cristo illumina il passato d'Israele, che si concentra in lui, ma è nello stesso tempo, se così si può dire, il paradigma, l'esempio tipico del dramma di ogni coscienza umana. È il « tentato » per eccellenza, cioè l'uomo in cui la scelta fondamentale tra Dio e l'uomo, tocca il suo vertice di intensità e di lucidità. La sua coscienza è il teatro dell'opzione decisiva che attraversa ogni vita umana; essere complice del mondo, della carne, dell'orgoglio umano oppure fidarsi di Dio, appoggiarsi alla sua parola, perdersi in lui per vivere in lui. Il dramma dell'esistenza umana, che culmina nella morte, si snoda lungo tutto il corso della vita. L'uomo usa della sua libertà per i inchiudersi nel suo mondo ( denaro, potere, piacere ), e allora rimane nelle tenebre e diventa schiavo degli idoli che ha costruito; oppure riconosce la sua indigenza, come quei « piccoli » che hanno accesso al Regno, si apre a Dio in cui riconosce, l'Assoluto, e allora è libero di fronte al mondo e ai suoi idoli. Nascondi Non vi è vera libertà che quella dei figli del Padre, che hanno in sé, come Cristo, uno Spirito filiale, che fa loro dire: « Padre, quello che tu vuoi » ( Mc 14,36 ). Il cristiano, il quale riconosce che il senso della sua esistenza e del suo agire non si realizza pienamente che in Gesù Cristo, adotta, come Cristo, uno stile di vita filiale. L'orientamento della sua libertà lo vive in termini di vocazione, di sequela Christi. La certezza di ricevere da Cristo un dono senza ambiguità, cioè lo Spirito d'amore, che ci libera dai nostri egoismi, gli conferisce la possibilità di essere pienamente libero. La sua autonomia responsabile, non è abolita, ma si esercita nella luce di una rivelazione sul significato profondo della sua esistenza, cioè la liberazione dalla condizione di peccato, e l'appello alla vita dello Spirito. Il suo agire è animato dallo Spirito d'amore; e perché ama ciò che gli è domandato, sfugge alle costrizioni della legge; o piuttosto la sua legge è l'amore. « Là dove vi è lo Spirito del Signore, là è la libertà » ( 2 Cor 3,17 ). Capitolo decimo - Nota biografica AA. W., Violenza. Una ricerca per comprendere. Contributi al XXXIV Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate 1979, Brescia, 1980. ALFARO J., La jnsticc dans le monde, Roma, 1973. BERGER K., « Freiheit », in Sacramentum mundi 2 (1968), pp. 71-77. BOURASSA F., « La liberto sous la gràce », Sciences Ecclésiastiques 9 (1957), pp. 49-66; 95-127. CONGAR Y., Un peuple messianique. Salut et libération, Paris, 1975 ( Trad it. Un popolo messianico, Queriniana, Brescia ). DB FINANCE J., «Falsa y verdadera liberaciòn », Augustinus 11 (1966), v pp. 115-140; ID., Existence et liberté, Paris-Lyon, 1955; In., «Autonomie et théonomie », in Atti del Congresso internazionale, n. 5. 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Ma, peccato, malattia e morte pongono problemi tanto numerosi, tanto gravi, tanto specifici, che meritano di essere trattati separatamente: è quindi deliberatamente che abbiamo dedicato a ciascuno un capitolo speciale. Parliamo innanzi tutto della sofferenza fisica, di quel morso che si attacca alla carne, all'organismo tutt'intero, che lo corrode, lo dissolve, col suo evidente corteo di sofferenze morali che lo accompagnano, perché la malattia-sofferenza, lo vedremo, non è un'astrazione, ma uno stato che soggioga tutta la persona. Non parliamo della sofferenza che consegue ai nostri peccati personali, ai nostri eccessi di ogni tipo. Ci basti evocare tante sofferenze e tante malattie apparentemente immeritate: vittime del cancro, della lebbra o della paralisi, che riempiono di orrore chi le avvicina; bambini innocenti deformi o crocifissi prima ancora di poter esprimere la loro sofferenza; sofferenze atroci di tanti prigionieri il cui solo crimine è di appartenere a un'altra nazione, di avere nelle loro vene un sangue diverso. Perché le carestie che decimano popolazioni già affamate? Perché terremoti che trasformano regioni, già povere, in cimiteri o ospedali? Perché tante vite ridotte, atrofizzate dalla malattia? Dove è Dio nei campi di sterminio e nei forni crematori? Perché quei lunghi lamenti di malati cronici, per i quali ogni istante di vita è un'eternità che si ripete? Spettacolo allucinante e scandaloso della sofferenza umana. Il progresso contemporaneo, lungi dall'attenuare, rende più intollerabile ancora il fatto di soffrire. Ci si ribella contro l'impossibilità di curare il cancro, le malattie cardiache. Questa sofferenza incontrollata esaspera più che nel passato. In una civiltà che vuole soddisfare l'uomo nei suoi bisogni e preservarlo dai mali, la sofferenza sembra un attentato ai successi della scienza. Attraverso i mass-media, che rendono ogni uomo testimone della sofferenza degli altri, conosciamo meglio i flagelli che ci minacciano. Conosciamo in anticipo il « virus dell'anno », quello che metterà a letto milioni di persone sane. Abbiamo sviluppato di fronte alla malattia una psicosi di difesa. È diffìcile parlare della sofferenza tanto quanto della croce e della morte. La collera, spesso, scoppia in noi: se ne ha abbastanza di soffrire e di veder soffrire. Da millenni e millenni gli uomini soffrono, gridando o in silenzio. Davanti a questo scandalo gli uomini bestemmiano o pregano, si ostinano o cercano, disperano o chiamano. Ciò che ci spaventa, non è tanto il silenzio eterno degli spazi infiniti di cui parla Pascala quanto quella lunga lamentela, quel gemito continuo che riempie lo spazio attraverso i secoli. Se il problema della sofferenza è così pungente, è perché raggiunge quello dell'esistenza. Il cristiano, come il non credente, è spaesato davanti a questo mistero ed esposto alla tentazione. Per gli uni il peccato originale spiega tutto; per altri, la sofferenza è il castigo dei nostri peccati. Ma rimane sempre lo scandalo della sofferenza innocente. Cristo da parte sua, si è rifiutato d'identificare sofferenza e peccato personale. Non ha spiegato la sofferenza. L'ha assunta, condivisa, trasfigurata; ne ha fatto un luogo di salvezza e di santificazione. La sofferenza è onnipotente, quando è accettata altrettanto liberamente che il peccato, in unione con l'Innocente crocifisso. Nascondi Il cristiano, come il marxista, lotta contro la carestia, contro la malattia, contro la sofferenza, sapendo bene tuttavia che la vittoria definitiva non è quaggiù, ma nella nuova terra, nei cieli nuovi, là dove non c'è ne pianto, ne gemito, ne sofferenza ( Ap 21 ). Il sofferente che vive questo mistero di fede, è già, fra gli uomini, un profeta della vera vita, di quella che non passa. Capitolo undicesimo - II II. La malattia come stato di vita La nostra mente superficiale, sempre pronta a svagarsi, a dimenticare, riduce facilmente la malattia a un fenomeno episodico, di corta durata: un mal di denti, una nevralgia forte, l'ablazione di un organo recalcitrante ( tonsille, cistifellea, appendice ). Insomma, un brutto momento che finirà per « passare ». Il fatto che le amministrazioni ospedaliere si applicano ad abbreviare sempre più i soggiorni in cllnica, anche dopo un grave intervento, favorisce ancor più questa impressione. Si passa all'ospedale, se ne esce, o … se ne muore. Si arriva così a dimenticare gli innumerevoli casi di tutti coloro per i quali la malattia è diventata uno stato di vita che modifica profondamente il loro essere e il loro comportamento. Ora, quando noi parliamo di sofferenza e di malattia, è a loro, i cronici ( malati di cancro, di tubercolosi, di cuore, ecc. ) che pensiamo in primo luogo. È fin troppo facile parlare di malattia e dimenticare il malato. In ogni caso, la malattia rappresenta un cambiamento qualitativo. Il malato cronico entra in un nuovo stato di vita ( paragonabile a quello che possono essere l'infanzia, la pubertà ) in cui si trovano modificati contemporaneamente alla sua personalità, anche i rapporti col mondo, con se stesso, col suo ambiente. L'universo del malato si restringe. L'attenzione, soprattutto all'inizio si concentra sul corpo, sui dolori, sulla sua perdita di autonomia; sugli alti e bassi della temperatura, sulle medicine da inghiottire, sull'appetito che va e viene, sui tests e analisi di laboratorio. Il malato si osserva, paragona il suo stato attuale con la sua vitalità precedente; si sente diminuito, danneggiato. Egli non è più se stesso. Abituato fino allora a decidere, a tenere in mano la sua vita, deve ora cedere i comandi. Si credeva invulnerabile, senza limiti: d'ora in avanti ha la prova brutale del contrario. Col tempo, si rassegna e consente a vivere questo nuovo stato di vita come « suo ». Il malato è sempre se stesso, ma decaduto, dimezzato. Le coordinate spazio-tempo cambiano dimensione. L'universo spaziale si riduce alla camera, al letto, al corridoio, alla stanza di soggiorno. Il tempo è un presente assurdo che non smette di allungarsi e di divorare. Se amora il passato, è come nostalgia della salute persa, o come fenomeno di regressione verso lo stato d'infanzia o di adolescenza. Ma è al livello della comunicazione soprattutto che la vita del malato si trova modificata. Si sente trattato come un minore, come un debilitato mentale. Se si incontrasse nella vita normale, non si oserebbe mai trattarlo così. Si sente come « scomunicato » dalla società. Ci si avvicina a lui, lo si « visita », ma appartiene a un altro universo. Solitario, può diventare isolato. Anche il medico lo visita, lo interroga, poi passa a un altro, come un guardiano che fa la ronda. Solo l'infermiera ( o l'infermiere ) abita in permanenza con lui, conosce il dettaglio del suo bollettino medico, a volte accede ai suoi pensieri intimi. Ma anch'essa rimane una « specialista » dei malati, estranea anche se più vicina. Un solo essere può entrare più avanti in questa solitudine e popolarla: è il cappellano, se sa compatire e ascoltare. I veri rapporti del malato si creano con questo confidente, coi compagni di camera, che vivono lo stesso stato di malattia: tra loro conversano, si sostengono. La malattia non è dunque un semplice fatto biologico, ne un semplice fatto sociale. Essere ammalato è da concepire come un modo di essere particolare che colpisce tutta la persona, nel suo modo di pensare, di giudicare, di reagire, di comportarsi. La malattia possiede il malato. Con maggiore verità del barbone che dice: « Io sono povero », il malato può dire: « Io sono malato », perché qui non è solo l'avere che è colpito, ma l'essere stesso del paziente. Essere malato, è diventare un altro nel proprio io: prova da cui si può uscire distrutti o cresciuti, purificati, trasfigurati. Capitolo undicesimo - III III. Reazioni e atteggiamenti Di fronte alla malattia, le reazioni sono tanto diverse quanto i malati, le evoluzioni tanto rapide quanto imprevedibili. Fin dall'inizio, quando la forza fisica improvvisamente si trova falciata alla base, il malato barcolla. La malattia produce un effetto di stupore, poi di collera: « Perché doveva succedere a me? Come Dio può permettere questo? Che ho fatto per meritare ciò? ». Antico riflesso di colpevolezza che si trova già negli amici di Giobbe. Poi la paura s'infiltra, multiforme: paura del dolore, della mulilazione; paura, specialmente negli esseri dotati di una forte personalità, di vivere in stato di dipendenza totale e umiliante; paura dell'allontanamento, poi, dell'abbandono da parte delle persone care; paura dell'avvenire, dell'incognito, di una eventuale morte, dolorosa, incerta; paura ancor più di quella cospirazione di silenzio che si legge sui volti e che circonda il malato più saldamente di un reticolato di filo spinato. Nell'ambiente, l'avvenimento inatteso, produce un colpo momentaneo. La situazione « grave » ispira l'emozione, rende i parenti e gli amici pieni di sollecitudine. Ma se la situazione si prolunga, l'interesse sparisce. Le attenzioni continuano, ma perdono la loro freschezza; la carità fraterna diventa un'abitudine. Ben presto il malato si ritrova solo con se stesso, cosciente del suo stato: vulnerabile e sprovveduto. È l'ora della tentazione. Due atteggiamenti sono allora possibili: o la ribellione o l'accettazione cristiana della sofferenza. A volte, il dolore è così acuto che getta in uno stato di prostrazione, di paralisi delle forze vive. Al di là di una certa intensità, il dolore schiaccia, cessa di essere umano. La coscienza non è più che passività pura. Un tale stato dipende da una terapia di palliativi più che da un appello alla coscienza. Può accadere anche che la malattia faccia di un essere lucido e cosciente, un ribelle, che si irrigidisce contro la prova, che si ostina contro ciò che chiama un'ingiustizia. Invece di cercare un senso alla sofferenza, al di là del suo peccato, insorge contro la vita, contro coloro che lo circondano, contro Dio che lo riduce all'impotenza. Il ribelle è come un « corazzato »: nessuna simpatia, nessuna pietà può penetrarlo. « Lasciatemi soffrire e morire in pace », dice con amarezza. Questo stato di rottura può condurre al suicidio o, attraverso la grazia, dal profondo dell'abisso, mutarsi in grido d'implorazione. In clima cristiano, solo la preghiera può far cadere la ribellione e distendere la durezza di un volto. Privato di ogni appoggio, il malato si rende conto della sua precarietà di fondo, della sua insufficienza, della sua finitezza. La malattia lo raccoglie e l'approfondisce; essa svuota l'anima di ogni preoccupazione che abitualmente la « svaga » e la ingombra. L'unico Necessario si staglia con un crudo rilievo sull'insignificante carettere degli oggetti che ci fanno correre e trepidare. Perché concentra l'attenzione sul solo e reale Assoluto dell'esistenza, la sofferenza conferisce al malato una gravita, una profondità che lo distingue da tutti coloro che non hanno conosciuto altro che la salute. Se inoltre la morte si profila all'orizzonte, ogni istante, agli occhi del malato, acquista una nuova densità. Poiché morire è nascere alla vita, è importante nascere bene. Non vi è tempo da perdere: ogni momento è donato per preparare questa nuova vita. La morte è soltanto la fine della precarietà e l'entrata nella consistenza. Nei riguardi degli altri, la malattia sviluppa il desiderio di comunicare, di amare: è fonte di delicatezza e di tenerezza. Al momento in cui gli esseri cari stanno per esserci tolti, la comunione con loro si intensifica. Quando la sofferenza è così accettata e vissuta, diventa potenza di ascensione, luogo di salvezza e di santità. Ma per arrivare a un tale atteggiamento, occorre aver capito il senso della malattia come atto d'unione con Cristo e partecipazione alla sua sofferenza. Ora, se è vero che i « sofferenti » giungono più in fretta a questa intelligenza della malattia rispetto ai « sani », è pur vero che i sani di oggi possono prepararsi a capire la loro condizione di domani. Capitolo undicesimo - IV IV. Un problema da « ridimensionare » Prima di insorgere contro ogni forma di sofferenza, non è inutile « farcene una ragione », sotto pena di « sragionare ». Le nostre obiezioni, infatti, si sollevano spesso contro falsi problemi; oppure le nostre proposte per correggere, una creazione che stimiamo difettosa, sono infine più disastrose dei mali che deploriamo. 1. Dimentichiamo troppo spesso che dolore, sofferenza e malattia sono in rapporto con la perfezione del sistema nervoso e della coscienza riflessa. Più è elevata la vita biologica e psichica, più vivamente sono risentiti i disordini di questa vita. Il dolore, nell'uomo, è « finalizzato ». Ha il ruolo di avvertimento: è un segnale d'allarme e di protezione. Se ha fame l'uomo cerca di nutrirsi; spontaneamente, si allontana dal fuoco che brucia; si mette in attività per difendersi contro il freddo; si riposa quando si sente stanco. Altrimenti, muore di freddo, di fame, di esaurimento, di asfissia. Se, per disgrazia, una malattia distrugge la trasmissione nervosa della sensibilità, è la catastrofe. La finalità del dolore è di farci prendere coscienza di un disordine, per condurci a ristabilire l'ordine. La sofferenza è la contropartita della perfezione dell'uomo. Per sopprimerla non ci sono che due mezzi: sopprimere il disordine ( è evidentemente la migliore soluzione ) o sopprimere la coscienza ( nei casi di anestesia necessaria ). Ma, in sé, il dolore è finalizzato alla salvaguardia e al ricupero della salute. 2. Ce la prendiamo in modo particolare contro le sofferenze causate dai cataclismi cosmici. Sognarne tutti un pianeta dal comportamento esemplare: senza uragani, senza inondazioni e soprattutto senza terremoti. Ma noi dimentichiamo subito che è alle scosse sismiche che dobbiamo l'equilibrio del nostro habitat e le possibilità di vita e di civiltà che esso ci offre. Per dare un giudizio d'insieme sull'economia dell'universo attuale, dovremmo avere la sapienza di Dio. Un universo statico non ha senso. Senza le correnti d'aria dell'oceano, non potremmo beneficiare dei cambiamenti di temperatura che portano la pioggia e la fecondità della terra. Senza le scosse telluriche che gettano per aria i fondi dell'oceano, la superficie della terra sarebbe vuota, arida e sterile, perché i fiumi divorerebbero presto le montagne, e il vento trasformerebbe le pianure in deserto. Se le case crollano, lo dobbiamo senza dubbio al genio costruttore dell'uomo, ma l'indiano della pampa, che vive a cielo aperto, non ha i problemi dell'uomo di città, quando la terra si mette a tremare. 3. Inconsciamente ci capita di confondere il problema della sofferenza con il problema del male, il male fisico con il male morale. A dire il vero vi è un solo male: il peccato. La malattia è il segno di una infermità della carne, ma, come tale, non costituisce una ribellione contro Dio. Cristo stesso si è schierato contro il concetto corrente del suo tempo che attribuiva la malattia e le altre disgrazie ai peccati di colui che ne era la vittima. Nascondi « Quei diciotto, sopra i quali crollò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico » ( Lc 13,4 ). Ai discepoli che gli chiedevano a proposito del cieco nato: « Maestro, chi ha peccato, quest'uomo o i suoi genitori, perché sia nato cieco », Gesù risponde: « Ne lui ha peccato, ne i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio » ( Gv 9,2-3 ). Cristo lascia intravvedere un senso alla sofferenza, legato al mistero dell'azione divina nell'ordine della salvezza. Agli occhi di Cristo, la sofferenza non è castigo del peccato personale, benché strettamente legato al peccato dell'umanità. Avendo, infatti, il peccato dell'uomo introdotto nella storia umana uno spirito di ribellione contro Dio, ne consegue, nella creazione, un disordine di cui la sofferenza e la malattia sono la conseguenza e l'espressione. Perciò Cristo, quando guarisce, salva l'uomo tutto intero, ma lo salva innanzitutto dal suo peccato. Nascondi « Se non vi convenite, perirete tutti allo stesso modo » ( Lc 13,3.5 ). La dinamica della guarigione, è la salvezza in Gesù Cristo. 4. In fondo noi vorremmo che ci fosse coincidenza tra l'ordine fisico e l'ordine morale: che i « buoni » fossero sani, riuscissero negli affari, tenessero il potere, e che gli imbecilli o « sporcaccioni » fossero destituiti e castigati. Nella migliore delle interpretazioni, un simile atteggiamento indica che noi siamo fatti per il regno di Dio, in cui ogni giustizia trionferà, santità e potenza saranno alleate. Ma, per ora, non è detta l'ultima parola e tutta la creazione, l'uomo soprattutto, attende la manifestazione gloriosa del Figlio di Dio e dei suoi eletti ( Rm 8,21-22 ). Nell'ordine attuale, un treno di pellegrini può deragliare come qualsiasi altro treno, un uragano può distruggere una cattedrale come un casinò. Ciò che Dio ci domanda, non è di avere una buona salute, ma una obbedienza filiale, perché essa è l'ossigeno che si respira nell'aldilà. La fede del cristiano, è che la salvezza è alla fine di tutto ciò che ci sembra disordinato e lugubre; che i cieli nuovi e la terra nuova rappresentano l'equilibrio finale al quale tendono le dolorose trasformazioni del tempo presente. 5. Detto questo, resta un caso in cui tutte le nostre distinzioni sembrano inciampare: quello della sofferenza innocente e sproporzionata, che si abbatte sul giusto, sui bambini. A questo punto solo uno sguardo più penetrante sul senso della sofferenza può illuminarci, senza tuttavia darci l'evidenza. Capitolo undicesimo - V V. Da Giobbe a Gesù Cristo A volte, la malattia ci visita soltanto, non rimane. Ma a volte essa si « istalla » e ci trattiene nel suo regno. È il caso di Giobbe, la cui miseria ci svela che, al di là della sofferenza, essa è un mistero. Giobbe, come Cristo, rappresenta la sofferenza innocente, immeritata. Giobbe è stato precipitato in fondo all'abisso. È stato colpito nei suoi beni e nel suo corpo. Privato di tutto, torturato nel suo corpo, orribile e ripugnante, è spinto verso lo scandalo del non-senso. Perché questo fedele, questo giusto, è provato così, mentre tanti empi sono nella prosperità e nella felicità? Nascondi Giobbe non ha che una parola: « Jahvè ha dato, Jahvè ha tolto: che il nome di Jahvè sia benedetto » ( Gb 1,21; Gb 2,10 ). Ma non capisce. I suoi amici evocano la dialettica malattia-castigo: « Se soffri è perché hai peccato ». Ma Giobbe rifiuta di vedere nella sua prova un castigo diretto e proporzionato del suo peccato. Le sue domande sulla giustizia restano senza risposta, ma Giobbe riconosce che Dio non ha conti da rendere e che la sua saggezza può dare un senso insospettato a delle realtà come la sofferenza e la morte. Vi è nella sofferenza dell'innocente un mistero di Dio. Nascondi Una cosa è certa, la più solenne smentita della dialettica sofferenza-castigo si trova nella figura del Servo sofferente, schiacciato a causa dei nostri peccati ( Is 53,4-5 ) e nella sofferenza del tre volte santo, dell'Innocente per eccellenza, prima vittima dei nostri peccati. Giobbe non ha capito tutto ( e come l'avrebbe potuto? ), ma ha intuito che il suo Dio è veramente vivente, e che egli è nelle sue mani, nella prosperità come nella disgrazia. La sofferenza, come la fede, come la felicità, è un dono di Dio. Se la disgrazia dell'uomo fosse a misura del suo peccato, non ne uscirebbe mai, perché è sempre peccatore. Jahvè non chiede a Giobbe di mettersi in regola con lui per ridargli la sua prosperità, ma di aver fede in lui: nel mistero della sua onnipotenza, della sua sapienza, della sua presenza vivente e vivificante. L'uomo non si salva per i suoi meriti matematicamente calcolati, ma mediante la grazia. Dio non sarebbe Dio se la sua volontà non fosse libera e misteriosa ai nostri occhi: per Giobbe, per Mosè, per Abramo e per Maria. Nascondi Dio fa grazia a chi vuole ( Es 33,19 ). È libero di santificare Giobbe attraverso la sofferenza, come è libero di salvare il mondo attraverso il mistero insondabile della morte in croce di suo Figlio. Davanti a Dio, torturato e inchiodato, ultima conseguenza della nostra ribellione contro di lui, come non credere che Dio è amore, anche quando la sofferenza cade su di me, come su Giobbe? Io credo al suo amore per me, anche quando soffro e mi sembra di non averlo meritato, perché la sua morte in croce è la prova più indiscutibile del suo amore per me. Come dubitare del suo amore, anche se non capisco? La libertà della grazia e dell'amore di Dio è la sola spiegazione della sofferenza di Giobbe, come dell'avvenimento della croce: sono nascosti nello stesso mistero. Applicandomi posso capire una parola, un comandamento, ma davanti alla croce mi sento « superato » per sempre. Dio salva per mezzo della croce: è il mistero, gelosamente custodito, del suo amore. Giobbe dice: « Non so perché soffro ». Il cristiano dice: « Non so perché sono salvato dalla sofferenza di Cristo ». Ma ambedue sanno che, dietro questa sofferenza, vi è un mistero d'amore che ambedue adorano. Noi non troviamo le ragioni ultime dell'amore crocifisso, così come non comprendiamo le sofferenze di Giobbe. Nascondi Dio è presente a Giobbe, nell'abisso della sua sofferenza, compiendo in lui un'opera di salvezza: « Ora il mio occhio ti ha visto » ( Gb 42,5 ). Dio è presente nella croce e compie un mistero decisivo. « Noi abbiamo veduto, e abbiamo riconosciuto e creduto: Dio è Amore » ( 1 Gv 4,14-16 ). Rompendo con Dio, l'uomo si è incamminato sulla via della sofferenza e della morte. Dio l'ha seguito fino nel suo abisso: lo ha afferrato là dov'era. Ma, assumendo la sofferenza e la morte, frutto del peccato, Cristo ha operato in esse il più prodigioso capovolgimento del significato: le ha trasformate in mezzi di salvezza. D'ora in poi la sofferenza umana, unita a quella di Cristo, diventa partecipazione ai frutti della redenzione. Nello stesso tempo, Cristo ha messo fine all'idea che colui che soffre è un punito, perché egli stesso, l'Innocente, è anche l'uomo dei dolori. Accettando la via della sofferenza e della morte per riscattare l'umanità. Cristo ha fatto ricadere su di sé la sofferenza e la morte che derivano dal peccato. D'ora in poi la sofferenza è materia del sacrificio redentore. Essa riveste un nuovo significato: è in vista della salvezza. Colui che soffre del suo peccato riconosciuto, non è un punito, ma un perdonato che si unisce liberamente alla passione di Cristo. L'innocente che soffre, è associato al mistero dell'Innocente ingiustamente sacrificato. Se siamo ancora sottoposti alla sofferenza, non è quindi in una prospettiva di castigo, ma di salvezza. Niente è sottratto al progetto redentivo: ne la sofferenza, ne la morte. Questa trans-mutazione del senso della sofferenza è uno dei più grandi paradossi del cristianesimo. Nel piano redentivo, la sofferenza è destinata a promuovere il più grande amore, in unione d'amore con colui che ha conosciuto l'eccesso della sofferenza, precisamente per risparmiarci il castigo meritato. Così Cristo non è venuto a spiegarci la sofferenza, ma a riempirla della sua presenza, a condividerla, a trasfigurarla, mostrandoci in quale spirito si deve assumere, per conformarci a Lui. La sofferenza è il volto del Crocifisso. Capitolo undicesimo - VI VI. Il profetismo dei sofferenti La sofferenza di Cristo trasfigura la sofferenza del malato. Questi a sua volta, sta in mezzo ai sani, come un testimone di Dio. Alla maniera dei profeti, proclama che è nello sradicamento da se stesso e dalla terra che l'uomo nasce all'eternità. La maggior parte degli uomini, infatti, hanno un attaccamento viscerale alla terra: camminano col volto rivolto a terra. Non si rendono conto che ogni radicamento alla terra è morte. Per loro Dio esiste, nei casi urgenti, ma sperano bene di non averne bisogno, come la maschera a ossigeno e le cinture di salvataggio, di cui ci viene spiegato il funzionamento all'inizio del volo. Teoricamente sappiamo bene che la nostra felicità è in Dio, ma finché abbiamo la fortuna di trovarla altrove, ce ne dimentichiamo. Il malato è là per ricordarci che le nostre piccole felicità di quaggiù sono effimere, che siamo tutti segnati da una « insufficienza » che finiremo bene per scoprire. Il giorno in cui dovremo ammainare le bandiere di fronte a Dio, gli offriremo il miserabile avanzo … che ci resta. Ma Dio non è superbo! L'essenziale è di andare a lui, quando non vi è altro da sperare, in ultima istanza, o all'ultima ora. Dio non ha che poco tempo per mostrarsi, perché appena la malattia si allontana, noi vogliamo riconquistare la nostra libertà per ritornare ai nostri balocchi. Il sofferente è là per aiutarci a trovare o a ritrovare lo stato d'animo che dovrebbe essere nostro in ogni tempo, cioè che la terra e il denaro non sono il nostro Dio, che il nostro vero tesoro è Cristo. È a questo proposito che conviene parlare del formidabile e potente profetismo che esercitano i malati. La loro presenza fra noi è la più eloquente e la più terribile Parola di Dio rivolta agli uomini per far loro capire che la terra è una pensione, una casa provvisoria; per ricordare loro che sono in cammino verso la terra promessa, che il vero riposo non è che in Dio. Sono loro, i sofferenti, che sono nella verità, quando si rimettono totalmente a Dio, quando riconoscono in lui solo la vera vita. Impotenti, possiedono nella speranza la potenza di Dio. Beati coloro che soffrono! A modo loro, i sofferenti, nella loro impotenza, come Cristo in croce, fanno sentire un clamore immenso che risuona attraverso i secoli; essi proclamano che tutti i nostri attaccamenti ai beni della terra, ai piaceri della terra, sono falsi, perché sono legami che ci impediscono di gettarci in Dio. È l'homo patiens che ha ragione contro l'homo sapiens, perché lui solo conferisce alla vita il suo senso ultimo, la sua densità massimale. Sono i malati che hanno ragione: il loro abbandono li solleva e li eleva verso Dio. Sradicati dalla terra, sono radicati in Dio, ai confini della terra promessa. Respirano già l'aria pura dell'eternità. La sofferenza vissuta e interpretata dal malato per istruire i sani, costituisce per l'uomo la possibilità di « ominizzarsi », cioè di aprirsi all'Assoluto come alla sola possibilità di realizzarsi. Il profetismo dei sofferenti, quando è capito, apre all'amore umano dimensioni insospettate. La sofferenza trasforma, purifica, eleva fino alle vette della più alta santità, sia colui che soffre sia colui che ha capito il messaggio dei sofferenti. Vi sono uomini che sono stati afferrati, agguantati da questo profetismo dei sofferenti, in particolare degli innocenti, e che sono diventati a loro volta testimoni dello Spirito. Niente di più commovente a questo proposito della testimoniarla di Emmanuel Mounier, nel momento in cui apprendeva che il suo primo bambino, in seguito a una encefalite, sarebbe rimasto per sempre immerso in un misteriosa notte dello spirito: « No, non è possibile che sia per caso, per incidente … Qualcuno è arrivato, era grande e non è una disgrazia … Non c'era che da fare silenzio davanti a questo giovane mistero che a poco a poco ci ha invaso di gioia … Mi sentivo avvicinare a questo lettino senza voce, come a un altare di qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso segni … Non ho mai sperimentato così intensamente lo spirito di preghiera come quando la mia mano diceva alcune cose a quella fronte che non rispondeva nulla, come quando i miei occhi rischiavano uno sguardo verso quello sguardo distratto che portava lontano, lontano dietro le mie spalle, non so quale atto imparentato, allo sguardo che guarda meglio di uno sguardo. Mistero che non può essere che bontà, si oserebbe dire: una grazia, una grazia troppo carica? Un'ostia vivente in mezzo a noi, muta come un'ostia, risplendente come un'ostia … Con tanti innocenti lacerati, tanti innocenti calpestati, questo piccino, immolato giorno dopo giorno, era forse la nostra presenza all'orrore del tempo … Dal mattino alla sera, non pensiamo a quel male come a qualche cosa che ci viene tolto, ma come a qualche cosa che noi doniamo, al fine di non avere demeriti nei confronti di questo piccolo Cristo che è in mezzo a noi, di non lasciarlo solo, lui che ci deve tirare in avanti, non lasciarlo lavorare da solo con Cristo … Niente assomiglia di più a Cristo che l'innocente che soffre ». Capitolo undicesimo - VII VII. Potenza dell'intercessione Emmanuel Mounier desidera associarsi alle sofferenze del suo piccolo « per non lasciarlo lavorare solo con Cristo ». Eco della lettera di san Paolo ai Colossesi, risposta della fede cristiana ai « perché » della sofferenza di Giobbe. Nascondi Infatti, è nel momento in cui è incatenato ( Fm 1,9 ), impoterte, impedito nei suoi desideri di apostolato, che san Paolo stende il suo inno di ringraziamento di fronte al piano di Dio: « In questo momento sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa » ( Col 1,24 ). Il segreto della sua gioia, è che Cristo risorto non cessa di intercedere per noi. Questa intercessione prolunga l'atto unico della nostra redenzione sulla croce. Essa applica a ciascuno di noi, nel presente, ciò che è stato fatto per tutti al Calvario. Inoltre Cristo vivente agisce in noi e attraverso noi, per mezzo della sua Chiesa, che è il suo Corpo, misteriosamente associato alla sua opera fino alla fine dei tempi. La Chiesa infatti non lavora indipendentemente da Cristo. Cristo è il Capo di un corpo, terreno, che è la Chiesa, di cui noi siamo le membra. Quando san Paolo dice che completa le sofferenze di Cristo per il suo Corpo, che è la Chiesa, considera Cristo e la Chiesa come un tutt'uno. Vuol dire che Gesù Cristo è sempre vivo e all'opera nella sua Chiesa, che è il suo Corpo, e in ciascuno delle sue membra. È sempre lo stesso Cristo che oggi completa, mediante san Paolo, ciò che manca alla misura di sofferenza che il Cristo totale, cioè il Corpo in unione col Capo glorificato, deve patire. Senza dubbio noi non possiamo aggiungere nulla alla sofferenza redentrice del Cristo personale; ma occorre che la Chiesa, il Corpo attuale di Cristo, io stesso, in cui vive Cristo mediante la fede, il battesimo, l'eucaristia e l'unzione dei malati, sia reso « conforme » a Cristo nella sua sofferenza per me. Come redentore Cristo ha compiuto tutto, ma occorre che io porti in me la sua morte, nello stesso spirito, con le stesse disposizioni. Durante tutta la mia vita devo perfezionare nel mio cuore, nella mia carne l'immagine di Gesù crocifisso. Ciò che manca alla passione del Cristo totale, cioe della Chiesa intera, Capo e Corpo, io lo completo, aggiungo « la mia piccola parte » soffrendo in me stesso in unione col Capo. Manca a Cristo di soffrire in Paolo e in ognuna delle sue membra. Perché questa sofferenza, dal momento che solo la sofferenza di Cristo ci salva? È perché la salvezza deve essere proclamata ieri, oggi e domani; è perché la salvezza deve essere proclamata, non soltanto a parole, ma con gli atti ( verbis gestisque ) Se, come san Paolo, non conosciamo, non predichiamo che Gesù crocifisso, dobbiamo dare alla nostra vita la forma di Gesù crocifisso: dobbiamo presentare al mondo le stimmate di Cristo. Dobbiamo « visibilizzare » Cristo nel suo atto decisivo: nel-dono-di-sé-a-gli-altri. Ora, attraverso la nostra sofferenza, associata a quella di Cristo, noi assomigliamo talmente a Cristo nel suo atto redentivo, che diventiamo i suoi testimoni viventi e attuali: rappresentiamo Cristo consegnato, offerto per tutti. Inoltre, per tutti coloro che sono lontani da noi, la sofferenza ha un potere d'intercessione. San Paolo soffre per i Colossesi, che non ha evangelizzato: ne è lontano fisicamente perché è prigioniero. Eppure soffre per loro, perché crede al rapporto mistico che unisce tra loro tutte le membra del Corpo di Cristo. I « sofferenti » sono talmente vicini a Cristo, talmente « simili » a lui, che sono le membra più attive, più potenti del suo Corpo. Non è senza ragione che la Chiesa primitiva considerava i martiri speciali e potenti intercessori. Infatti, chi più dei martiri, più dei sofferenti, ha meglio conosciuto la condizione di Cristo abbandonato, torturato, consegnato per noi? Chi ha vissuto più in comunione di vita e di pensiero con lui? Chi è stato maggiormente il suo confidente? Dottrina stupendamente espressa da Pascal, nella sua Preghiera per il buon uso delle malattie: « Signore, non vi chiedo ne la salute, ne la malattia, ne la vita, ne la morte; ma che voi disponiate della mia salute e della mia malattia, della mia ( vita e della mia morte, per la vostra gloria, per la mia salvezza e per l'utilità della Chiesa e dei santi … E poiché nulla è gradito a Dio se non è offerto mediante voi, o Cristo, unite la mia volontà alla vostra, i miei dolori a quelli che voi avete offerto. Fate che i miei diventino i vostri. Unitemi a voi; riempitemi di voi e del vostro Spirito Santo. Entrate nel mio cuore e nella mia anima, per portare le mie sofferenze, e per continuare a patire in me ciò che resta da soffrire della vostra passione, che voi completate nelle vostre membra fino al perfetto compimento del vostro Corpo; affinchè essendo pieno di voi, non sia più io che vivo e che soffro, ma siate voi a vivere e soffrire in me, o mio Salvatore ». Capitolo undicesimo – VIII VIII. Dinamismo santificatore della sofferenza « Gli oranti » e i « sofferenti » ( questi ultimi essendo spesso nel contempo ambedue ) rappresentano nel mondo l'energia spirituale più densa del corpo mistico. Come Cristo sospeso tra cielo e terra, attirano tutto a loro. Nella loro sofferenza, unita a quella di Cristo, è nascosta la vera forza ascensionale del mondo. Conducono l'umanità verso i cieli nuovi e la terra nuova. In loro si compiono tutte le beatitudini. Chi è più povero di loro, privati del loro corpo? Chi è più mite, più paziente, più pacifico di questi disarmati? Chi è più puro di questi sguardi già fissati su Dio? Chi è più tenero di questi esseri rivolti verso Dio e verso gli altri? Nessuno più di un malato grave sa compatire. Privato di tutto, conosce il valore di un gesto, di un sorriso. Il sano manca spesso di delicatezza, di attenzione, di indulgenza, di comprensione: tutte qualità che fioriscono nella terra della sofferenza. Nella sua debolezza, il malato è potente. Partecipa al mistero della povertà e della debolezza di Dio, perché mai Dio è più potente che nel suo amore disarmato: bambino a Bethlemme, crocifisso sul Golgota, ostia nell'eucaristia. Come Cristo il sofferente possiede una misteriosa potenza di santificazione su quelli che si avvicinano. Un religoso malato di cancro che gli rodeva il volto, non aveva più occhi, ne naso, ne palato. Poteva a malapena parlare. In un soffio diceva: « Non sono mai stato tanto prete come da quando sono crocifisso ». Una persona colpita dall'età di quattro anni, da una malattia della pelle, che portava come un cilicio naturale, ne aveva fatto un mantello di tenerezza a servizio degli altri. Quante volte colui che si avvicina al malato come consolatore, se ne va « consolato »! Il malato, il sofferente, come Cristo eucaristico, lavora a trasformare l'universo. Il suo corpo torturato, come il seme macinato, diventa la materia del sacrificio. Già in stato di vittima, è tutt'uno con Cristo immolato. Nessuno è più adatto di lui alla comunione. Distaccato, vuoto di sé, offre al Signore tutto il suo spazio vitale perché Egli lo invada, affinchè Egli possa entrare in lui. Così la sofferenza, provata, vissuta, assunta sul piano personale, può diventare, sul piano ecclesiale e sacramentale, incontro nuziale dello Sposo e della Sposa, anticipazione del rinnovamento finale della storia. Dio quindi non ha eliminato la sofferenza, ma ne ha cambiato il significato. Abitata dall'amore dell'Innocente crocifisso, essa s'illumina dal di dentro. Trasfigura, salva, divinizza. La sofferenza innocente ha d'ora in poi il volto dell'Innocente crocifisso: è trascinata nello stesso mistero d'amore. Si può immaginare un mondo senza sofferenza; ma non si potrebbe immaginare maggior amore che nel nostro universo sofferente. Nascondi E san Paolo aggiunge: « Le sofferenze del tempo presente non si possono paragonare alla gloria che deve essere rivelata in noi » ( Rm 8,18 ). Capitolo undicesimo - Nota biografica ALBERTON M., Un sacrement pour les malades, Paris, 1978. BALTHASAR H. U. von, « Le Christ, forme de notre vie, ou la féte de la souffrance», Communion 24 (1970), pp. 38-48. BOURASSA F., L'onction des malades. Roma, 1970. BROCHU G., « La maladie pourquoi? », Christus 57, gennaio 1968, pp. 123-129. CHAINE L., La souffrance constructive, Paris, 1961. CHARLIER L., GEIGER L. B., TROISFONTAINES R., La souffrance valeur chrétienne, Tournai-Paris, 1957. 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VARILLON F., Beante du monde et souffrance des hommes, Paris, 1980. Capitolo dodicesimo La morte per la vita La morte è l'avvenimento universale, più ancora della vita, perché molti che sarebbero potuti nascere, non sono nati, ma tutti muoiono. La morte è il dramma integrale e senza replica; non si può sperimentare in vista di un discorso logico, ma è la sola certezza. È la cosa più corrente, la più banale, la più attesa, tuttavia, ci trova sempre sprovveduti, increduli, scandalizzati, ribelli. Ripugna il parlarne. Infatti, come considerare allegramente questo punto finale della mia vita? D'altra parte, parlare della morte degli altri, è indecente, perché è l'ultima malattia, senza rimedio. Se ci si accosta è per farne della sociologia, cioè per studiare le pratiche, gli atteggiamenti, il linguaggio degli uomini di fronte alla morte, nel corso dei secoli, o per compilare statistiche sui tassi di mortalità. La teologia tradizionale, certo, ha molto parlato delle ultime realtà, ma essa ha troppo facilmente dimenticato l'umile gemito del morente. Inquadra rapidamente la morte di ciascuno nella morte di Cristo, e questa nell'economia della salvezza. La vera morte per i teologi è la morte del peccato e nostra sorella morte corporale non è per essi che l'impronta di quella. La teologia, troppo facilmente fa della morte un oggetto di studio, come il paradiso, il purgatorio e l'inferno. Parla della morte del peccatore, della sorte degli eletti, della sorte dei dannati. Ma sembra dimenticare che sono io che muoio, che sono io il protagonista del dramma. La teologia recente si è resa conto che non può dispensarsi da un'antropologia della morte. Perché la morte è una realtà complessa. Presenta un aspetto biologico e personale, individuale e comunitario, storico e metastorico, teologale e sacramentale. Essa è insieme fine della nostra corsa terrena e compimento della nostra vita, avvenimento, esperienza, problema e mistero. Nascondi Molto giustamente, la Gaudium et spes dichiara: « È di fronte alla morte che l'enigma della condizione umana tocca il suo apice ». Anche questa volta, Cristo è l'unico ermeneutico che getta la sua luce sul più misterioso dei misteri. In lui la morte diventa morte in Dio, abbandono a Dio e comunione totale con lui. Anche se ripugna parlare della morte, se ne deve parlare, perché la vita ha il senso che noi diamo alla morte. Infatti e la morte che conduce l'uomo a porsi la questione estrema su se stesso: è un essere per la vita, o un essere per la morte? Se la morte è per la vita l'uomo può sperare e aspirare a questa vita. Al contrario, quale senso può avere la vita, se deve inevitabilmente terminare col naufragio delle sue aspirazioni e dei suoi progetti? Se la morte non ha senso, la vita non ne ha alcuno, perché essa non ha scopo alcuno. Capitolo dodicesimo - I . Atteggiamento e linguaggio attuale nel mondo occidentale Nel medio evo, e fino a un'epoca abbastanza recente, si moriva giovani. La guerra, le epidemie, l'inesistenza degli antibiotici, abbreviavano la vita e avvicinavano la morte. Molto presto l'uomo si rendeva conto della sua fragilità e caducità. Nascondi Il salmo 90 dice dell'uomo: « Settantenni sono gli anni della nostra vita; ottanta per i più robusti ». A cinquant'anni si può dire che l'impresa della vita si era compiuta. Il malato era informato della sua prossima morte, del resto spesso presentita, perché le malattie un po' gravi erano sempre mortali. Questo ruolo d'informatore era assunto dai parenti o dall'amico più vicino. Il morente non doveva essere privato della sua morte. Ogni membro della famiglia, compresi i bambini, sfilavano nella camera del malato, che benediceva ciascuno, parlava a ciascuno, esprimeva le sue ultime volontà, riceveva il viatico. Oggi, il malato, è trattato come un « minore ». Non deve sapere che sta per morire: tutti devono recitare la commedia e far finta di non saperlo. La morte è diventata un soggetto « tabù », come un tempo il sesso. Si cerca di nascondere l'evento morte, di mascherarlo. L'urbanizzazione e lo sviluppo della medicina, hanno fatto sì che più della metà della popolazione muoia all'ospedale o all'ospizio, di fronte a un personale medico anonimo. I compagni di camera sono spesso coloro che sanno di più e che aiutano di più. Mediante una specie di « patto sociale » si evitano le scene di pianto e di angoscia. Si danno al morente delle medicine che rendono il servizio medico più facile e che tengono il malato nell'euforia fino all'ultimo momento. La morte non deve turbare i vivi. Occuparsi della morte significa oggi scoprire le tecniche e le tattiche più adatte a ridurre i traumi che la morte introduce in seno alla vita quotidiana, all'ospedale o in casa. Si deve sparire in punta di piedi! È ciò che si chiama an accep fobie style of facing death - un modo conveniente di vivere durante la propria agonia - che evita una morte scomoda e sgradevole. Reciprocamente i vivi non devono sembrare turbati dalla morte. Un tempo il lutto era la manifestazione per eccellenza del dolore; si prolungava per mesi e per anni. All'abitudine millenaria del lutto è succeduta la sua proibizione. Non è conveniente mostrare la propria pena, ne avere l'aria di sentirla. Questa proibizione o assenza del lutto conduce spesso il sopravvissuto alla solitudine, alla depressione. Si imbalsama il cadavere perché sembri bello, quasi vivo. In salotto si chiacchiera, si ride, si beve, si getta sulla bara uno sguardo furtivo, si prega raramente. Un tempo si informavano i bambini della nascita dei piccoli dicendo che … nascevano come i cavoli; oggi si informano della morte dei morenti dicendo che se ne vanno come fiori. Nei nostri paesi industrializzati, le cerimonie funebri diventano un avvenimento « sociale ». Si onora la morte, senza però darle il suo statuto di morte. L'industria delle pompe funebri prospera. I cimiteri sono giardini fioriti e luoghi di passeggiata. Inoltre, i cimiteri essendo saturi, si procede alla cremazione che da spazio e riduce lo « stress ». Nelle conversazioni si riduce la morte a un fenomeno fisico, medico, così come la nascita, la malattia, l'invecchiamento; a un fenomeno sociale come la natalità, la nuzialità ( la popolazione aumenta mediante le nascite, diminuisce mediante la morte ); a un fenomeno legale che arricchisce gli archivi del municipio. Nessun mistero, ma un fenomeno empirico al quale l'impersonalità delle statistiche toglie ogni carattere di tragedia. I morti provocano mutamenti, promozioni e nomine. Paradosso dell'uomo contemporaneo: si accanisce a lottare medicalmente contro la morte, ma con lo stesso ritmo con cui si accanisce a produrre armi per distruggere l'umanità. Sappiamo tutti che moriremo, ma tutti lavoriamo come se non dovessimo mai morire. I nostri funerali sono sempre più discreti e l'antico carro funebre, color nero e argento, è diventato una banale vettura che si perde nel traffico della città, appena rallentato dai semafori. Si tende a fare del dramma della morte un fatto di cronaca pubblicato dai giornali, per essere poi altrettanto rapidamente dimenticato. Eppure la morte rimane un avvenimento incommensurabile, un naufragio senza scampati. Ciò che stupisce nel mondo attuale, non è la paura della morte, è la sua dimenticanza. Capitolo dodicesimo - II II. La morte come fenomeno e come avvenimento La morte sfugge all'esperienza diretta. Per parlarne in modo conveniente bisognerebbe averla vissuta. Ma i morti non possono essere interrogati e i morenti non possono dire nulla di ciò che non hanno ancora vissuto. Si vedono dei cadaveri, ma non si vede la morte. La morte di cui parliamo, è il fenomeno della morte, come avvenimento « mondano », non la morte come tale. Finché vivo, la morte non esiste; e quando la morte esiste, io non ci sono più. L'uomo e la morte giocano a nascondino. Se parliamo della morte lo facciamo dall'esterno, cioè dal suo volto voltato verso di noi, livido, ma leggibile. Vi è anche una scienza della morte, la tanatologia, che si nutre di sociologia, di storia, di etnologia, e vi sono società di tanatologia. Della morte, vista dall'esterno, ciò che ci colpisce, è il suo volto ambiguo di certezza e di incertezza, come pure il nostro atteggiamento paradossale a suo riguardo. La morte è certa e universale. Nessuno vi sfugge; la morte non fa discriminazioni. La scadenza può essere ritardata, ma non è che differita. Tra cento anni non ci saremo più. Noi viviamo feriti dalla morte, inseguiti fino nel più profondo di noi stessi. Eppure questa attesa di una cosa certa, ci trova increduli. Ci rifiutiamo di credere che questa verità generale di una morte certa è indirizzata a ciascuno di noi. Il vecchio sogno d'immortalità ci assale sempre, inestirpabile. Non è del resto la molla segreta, il postulato inconfessato della scienza medica? Il sogno della mummia, dell'ibernazione, della criogenizzazione, della reincarnazione? La morte non sarebbe una malattia come le altre? L'illusione della morte incerta, o per lo meno della sua ora incerta, mantiene la speranza chimerica di non morire. Sono gli « altri » che muoiono! Ogni minuto è per me un prolungamento che autorizza una nuova speranza. Ma noi abbiamo un bel fare bravate, vi sarà un ultimo appuntamento, un istante che sarà l'ultimo. Le generazioni precedenti vivevano nella familiarità della morte; la morte fa sgranare gli occhi ai nostri contemporanei. Si deve quindi sognare una proroga senza fine? L'ipotesi non è attraente. Che sarebbero questi viventi congelati o surgelati il cui risveglio, per gli uomini del futuro non sarebbe certamente quello del Principe azzurro o della Bella addormentata? D'altra parte una morte certa, prevedibile, prevista, senza margine di speranza, da l'immagine di un condannato a morte come lo descrive Pascal. Con poche differenze, la nostra situazione è quella di un malato incurabile che è informato della natura del suo male e della breve dilazione che gli è accordata. Tutto è già finito, poiché tutto deve finire presto. Il solo modo di fissare l'ora con precisione sarebbe il suicidio. In ogni caso la vita è una battaglia che si finisce sempre per perdere. Morte certa, ora incerta: tale è la verità della nostra condizione mortale. Questa incertezza dell'ora, legata alle circostanze, al come della morte, accresce ancora il suo carattere di minaccia continua e sorniona. La sua brutale subitaneità la rende spesso scandalosa. La peste nera del 1348, in Europa, ha fatto 25 milioni di vittime: due generazioni soppresse di colpo. L'ultima guerra falciò 26 milioni di uomini. Il fumo si alza al di sopra delle paludi, giorno e notte, acre: è il forno crematorio di Dachau. Il naufragio del Titanio provocò la morte di 1500 persone. Alle Azzorre, due Boeing 747 entrano in collisione: è la più grande tragedia dell'aviazione civile. Un fiume fa cadere un ponte e getta un treno nel baratro: 200 vittime. E che dire dei terremoti, degli uragani? Un recente sisma, in Italia, ha fatto perire 4000 persone. Quante vite falciate al momento in cui stavano per produrre, quanti compiti incompiuti! Davanti a questa brutalità della morte che colpisce indistintamente ogni ambiente, gli innocenti, giovani come anziani, quanti perché angosciati, disperati, ribelli? Le morti lente ci fanno orrore per le sofferenze atroci che si prolungano, ma le morti rapide sono spesso più tragiche, perché non lasciano il tempo di mettere in ordine i nostri affari. Vorremmo dimenticare la morte anche come avvenimento. Impossibile, essa è dovunque, e ci attende: sulla terra, nell'aria, sui mari. Che importa! Finché ha il buon senso di restare la morte degli « altri », non ci tocca troppo. Capitolo dodicesimo - III III. La morte come esperienza Un giorno, tuttavia, ciò che sappiamo da sempre « si presenta » alla nostra coscienza, come una cosa che ci concerne. Questo sentimento della morte come « mia », e della sua prossimità, si fa sentire in modo più acuto in alcuni momenti della nostra esistenza: per esempio, in occasione di una malattia più grave, della morte di un amico, di un parente prossimo. Noi sentiamo allora il sentimento della nostra fragilità, della nostra impotenza: la malattia si presenta come un'aggressione alla vita personale. È vissuta come un'anticipazione della morte biologica, o per lo meno come una morte « parziale » della persona; ci si sente andare. L'uomo colpito prende da quel momento la morte sul serio. Passa subitamente dal nozionale al reale, dall'evidenza ragionevole all'evidenza vissuta: lascia il libresco, l'informazione, e anche la metafisica, per il vissuto. Il suo sapere diventa « effettivo ». Ciò che conosceva con la punta del pensiero, lo scopre improvvisamente presente in lui, tanto intensamente quanto la vita. L'assurdo è imminente, alla mia porta. Sconvolgente questa idea che la grande sera, è questa stessa sera! Prima, la proroga, il linguaggio potevano attutire il mio contatto con la morte. Vi erano come dei tamponi, degli schermi tra la morte e me: ormai sono aboliti. Anche gli anziani sono presi dalla sorpresa, come se non avessero avuto il tempo di prevedere e di prepararsi. Per vecchi che si sia, si muore sempre troppo presto! L'uomo avvicina sempre la morte in condizioni d'improvvisazione. Ma a partire dal momento in cui il mortalis diventa moriturus e, per forza di cose, moribundus, in istanza di morte, l'uomo si rende conto che la morte non è più una eventualità astratta, ma l'approssimarsi di un evento per me. Quando l'uomo si sente preso di mira, la morte diventa esperienza efficiente, realizzata, vissuta: è un affare personale, un'avventura che non accade agli altri soltanto, ma a me stesso preso in mezzo agli altri. Questo passaggio dal nozionale al reale personale e vissuto non si effettua mediante il ragionamento, ma balza come un dato immediato, tramite un'intuizione istantanea. Fino allora parlavo della morte in terza persona: in modo generale, astratto, anonimo, come il medico che fa una diagnosi, come si parla di un problema, di un oggetto che si descrive e che si analizza. Al contrario, quando parlo della morte in prima persona, « io » sono ferito a morte: si tratta di un mistero che mi riguarda interamente e personalmente; sono io ad essere interpellato dalla morte col mio nome; sono io ad essere tirato per il braccio e indicato col dito. I rinvii e gli alibi sono ormai impossibili. È la mia sorte che è in gioco: devo prenderne atto. Entro anche nella solitudine, perché la morte è un passo che si fa da solo, senza compagni di viaggio. Mi si può assistere, ma non sostituirmi. La mia morte tuttavia resta sempre un futuro: fino all'ultimo battito del cuore, la morte è ancora da morire. Alla fine della vita, all'incrocio della vita e della morte, ogni distanza spaziale e temporale è abolita. La mia morte sarà un'istantanea: una presenza « presentissima », eternizzata. Abbiamo sottolineato che l'esperienza della morte può essere data, fino a un certo punto, anche attraverso la mediazione della morte degli altri: parenti, amici, consiglieri spirituali. Vivere, infatti, è essere attivamente inseriti in un insieme di rapporti. Ne puramente biologico, ne puramente solitario, l'uomo è il centro di una molteplicità di legami personali ( di lavoro, di amicizia, d'amore ) che lo riallacciano alla nazione, alla sua professione, alla sua famiglia. L'uomo che va in pensione sa quanto costi rompere tutti quei legami e vivere ai margini della società. Ora la morte è la distruzione di ciò che fu lentamente creato e che forma il tessuto della mia coscienza. La morte dell'altro diventa un po' la mia morte. Incomincio a morire la mia vita, vivendo la morte che mi tocca. Più il legame con l'essere amato era profondo e autentico, più la morte è vissuta come morte. Si pensi alla lacerazione di una madre alla morte del suo figlio unico, carne della sua carne! Se la morte colpisce mio padre o mia madre, di colpo mi rendo conto che perdo l'ultimo intermediario tra la morte e me. Posso reinventare, riordinare le mie idee, ma non posso ridare vita all'essere che amavo. La morte mi appare allora come l'assenza di comunicazione da me a me stesso. Inoltre più il numero degli amici scomparsi aumenta, più ho l'impressione che il mio universo si sposta, che è con loro, piuttosto che quaggiù. Tuttavia è vero che io non muoio la morte dell'altro: è sempre l'altro da solo che muore davanti a me e prima di me. L'esperienza della morte degli altri non mi informa sull'esperienza stessa di morire, ma mi insegna che si muore soli, senza schermo davanti a Dio. A questo riguardo, mi aiuta a capire il senso della morte per la coscienza personale. Capitolo dodicesimo - IV IV. La coscienza umana di fronte al mistero della morte Per sperimentare la morte, occorrerebbe prendere le distanze nei confronti del vissuto. Ora la morte è precisamente l'abolizione di ogni distanza e di ogni vissuto. Non posso parlare di morte che se sono ancora vivo. Sono quindi ridotto a parlarne in termini di rottura, di abbandono, d'impotenza radicale, di limitatezza. Ma quando io parlo così lascio già il terreno dell'avvenimento, per entrare nel terreno del mistero e del senso della morte. La morte presenta lo stesso carattere eminentemente personale della coscienza dell'io: così come ogni uomo vive la propria vita, ogni uomo vive la propria morte. La sente coesistente a tutta la sua vita, presente come un cancro che rode furtivamente la sua esistenza. La morte non offre alcuna presa. Mi afferra senza lasciarmi le possibilità che mi darebbe la lotta, perché nella lotta, io posso afferrare colui che mi afferra. Nella morte, al contrario, sono esposto all'aggressione assoluta, all'uccisione nella notte. La mia morte mi arriva in un istante sul quale non ho alcun potere. Strappato alla vita, mi sento assolutamente impotente a salvarmi da me stesso. Assisto al crollo totale della mia autosufficienza. Non posso evitare la morte, ,né trovare, nel mondo e negli altri, una garanzia qualsiasi di sopravvivenza. Sono costretto al silenzio totale, di fronte all'inverificabile e all'inintelligibile. La morte è l'impossibilità di ogni possibilità. La sola possibilità che mi rimane, è di lasciarmi portare dalla vita verso la morte e di sperimentare la mia impotenza. Passività, impotenza, imprevedibilità: non vi è altra alternativa. Ma è precisamente in questo crollo finale dell'esistenza che la morte rivela il nocciolo intimo dell'essere umano, che è desiderio inestinguibile della sopravvivenza. Questo desiderio si identifica con la coscienza stessa dell'io personale che non può rassegnarsi alla propria scomparsa, alla sua caduta nel nulla. L'uomo insorge contro l'idea di una rovina totale, di un annientamento definitivo della sua persona. La disintegrazione dell'io significherebbe infatti l'annientamento dello spirito personale dell'uomo. 0ra l'uomo porta nella luce della sua coscienza, l'affermazione vitale e invincibile della propria esistenza, l'aspirazione a essere se stesso e a restarlo: è la sua coscienza che rigetta l'annientamento. Nascondi « Il germe d'eternità che porta in lui, irriducibile alla sola materia, insorge contro la morte » ( GS 18 ). Se infatti, il nulla dovesse essere l'ultima tappa dell'esistenza, questa perderebbe il suo significato. Vivere sarebbe camminare verso il nulla. L'aspirazione dell'uomo a realizzarsi, sarebbe una vana illusione, una sterile passione. Questo sentimento dell'assurdo, risentito come una nausea, è l'affermazione implicita che l'io personale vive nella sua coscienza l'aspirazione a non morire. In questa aspirazione, è profondamente convinto che non scomparirà totalmente. Come l'uomo, infatti, può vivere la propria esistenza esigendo che abbia un senso, se prova nello stesso tempo la sensazione che il crollo totale della sua persona nel nulla toglie ogni senso all'esistenza? Se l'ultima tappa dell'esistenza umana è la distruzione della persona nella morte, occorre dire che la tendenza dell'uomo e del suo spirito è totalmente frustrata, e che il suo dinamismo interiore, che la spinge alla sua piena realizzazione, è totalmente privo di senso. Così l'uomo si sente costretto a morire e, tuttavia, chiamato a non morire; posseduto dalla volontà di vivere, ma in seno a un'esistenza segnata dalla morte. Nella sua dialettica interna, la morte rivela che l'essere dell'uomo è chiamato alla speranza. Da una parte, infatti, la morte rivela all'uomo la sua totale impotenza ad assicurare da solo la propria sopravvivenza. E d'altra parte, la morte gli fa scoprire che in fondo alla sua coscienza vi è un'invincibile aspirazione a vivere e a sopravvivere. Da quel momento, tutto ciò che l'uomo può fare di fronte alla morte, è di sperare un'esistenza nuova che è incapace di donarsi. La morte mette l'uomo davanti a una scelta ineluttabile: o riconosce che la sua esistenza, in quanto progetto e aspirazione a un essere-più possiede un senso, ed è la speranza di un avvenire trascendente, di una sopravvivenza dopo la morte; oppure accetta che la sua esistenza sia priva di senso, ed è la dispersione totale. D'altra parte, essendo la morte una possibilità di ogni momento, è tutta l'esperienza umana che si svolge in questa prospettiva di una situazione-limite, aperta alla speranza o chiusa dalla disperazione. Ogni uomo è chiamato in modo permanente a fare la scelta tra sperare e non sperare: è l'ermeneutica fondamentale dell'esistenza umana. Capitolo dodicesimo - V V. Posizioni e proposizioni sulla morte Molteplici sono i tentativi dell'uomo per decifrare l'enigma della morte. Considereremo tre posizioni che hanno ciascuna la loro nobiltà, anche se non toccano la sublime grandezza della risposta cristiana. 1. Nel concetto socratico della morte, così come lo descrive Platone nel Fedone, la morte è considerata come una separazione dal corpo che muore, mentre l'anima immortale continua a vivere. Essendo il corpo la prigione dell'anima, questa desidera disfarsene per arrivare alla vera vita che è conoscenza e contemplazione di idee immortali. Per il cristiano, al contrario, l'uomo, dal più profondo del suo essere desidera il compimento totale della sua esistenza, corpo e anima, non essendo il corpo un elemento negativo, ma parte sostanziale dell'uomo. Lo scopo della vita perfetta è l'incontro del Dio personale, nell'amore e nella verità. Nel Fedone, la separazione dell'anima dal corpo è rappresentata come l'apice del processo di purificazione dell'anima che si distacca dalla materia. L'elemento di mortalità, che è nell'uomo, scompare con la morte, mentre l'immortale e l'indistruttibile dimora intatto, al riparo dalla morte. Per il cristiano al contrario, la morte è il vertice della disarmonia introdotta dal peccato. Non muore soltanto il corpo, ma tutto l'uomo, nella sua realtà globale: spirituale e corporale. La morte che teme il cristiano è dunque la morte amata da Socrate. Per Platone, l'uomo giunge a un'idea chiara del senso della morte; per il cristiano, al contrario, la morte resta un mistero che solo la fede riesce a illuminare. La morte di Socrate, sobria, volontaria, è una morte ideale, idealizzata, senza spasimi; ma non regge di fronte a tante morti violente, atroci, brutali, avvilenti, diabolicamente raffinate, che fanno parte dello scenario della morte umana, e così ben descritte dalla letteratura del nostro tempo. La morte di Socrate è un vertice del paganesimo antico. Ma la morte del Crocifisso, assumendo le morti più ignobili, nell'abbraccio del più grande amore, è un vertice oltremodo più elevato. Il cristianesimo mantiene insieme la seduzione e la paura della morte. 2. Per Jean-Paul Sartre, non c'è ragione di interiorizzare e di personalizzare la morte per farne un'ultima possibilità di compimento, perché, al contrario della vita che è slancio, progetto, libertà, la morte è rottura, frattura, limite tutto esterno. Lungi dal dare un senso alla vita, le toglie ogni significato. La morte, come la nascita, è inattesa e assurda. Si nasce senza motivo, si muore per caso e inoltre la morte toglie all'uomo la sua libertà e annienta tutte le sue possibilità di realizzazione. Essa ci getta in preda ai vivi, alla mercé dei loro giudizi. Partendo dallo stesso orizzonte, Albert Camus conclude diversamente. Al centro della vita, vi è l'uomo, con la sua vita assurda, priva di senso: piena di dolori e limitata dalla morte. Ciò che appare è la vita che tende alla pienezza, mentre la morte è fonte di assurdità. La vita ha la prima parola, ma la morte ha sempre l'ultima. Che fare allora? Accettare la vita nella sua assurdità, poi esercitare la propria libertà per dare un senso a questa assurdità. Davanti a un destino comune a tutti gli uomini, Camus dichiara che, lungi dall'isolarsi, occorre rendersi solidali con la sofferenza e con la morte degli altri. Questa solidarietà deve manifestarsi specialmente nei riguardi dei più umili, dei più sofferenti. Così, di fronte al destino amaro della morte che infrange la libertà e le aspirazioni di ciascuno, Camus si rinchiude in una specie di autosufficienza mediante la quale da a se stesso il suo valore: la solidarietà col mondo della sofferenza. Camus mantiene davanti alla morte la libertà e la solidarietà con gli altri, ma non riesce a far sfociare questa libertà e questo amore in un rapporto di fiducia filiale in Dio. Questa concezione di Sartre e di Camus illustra bene il contrasto irriducibile che esiste tra il dinamismo della libertà che aspira alla pienezza della vita e l'abisso enigmatico della morte. 3. Il marxismo non prende in considerazione la morte come « mia », cioè come crisi e come angoscia personale. Il superamento della morte si trova nella dedizione incondizionata alla causa, al partito, al mondo nuovo che si edifica. Per il marxista la morte è superata dalla soddisfazione di essere stato strumento efficace della promozione dell'uomo in seno alla collettività, con la certezza che l'opera continuerà e finalmente trionferà. Se vi è un paradiso, esso è nel cuore dei compagni di lavoro che si ricorderanno e troveranno nell'esempio dello scomparso uno stimolo per la lotta. 4. A dire il vero, al mistero della morte non può rispondere che un altro mistero: quello della morte di Cristo, solo esegeta della morte. Dio non ha fatto l'uomo per la morte, ma per l'immortalità. Per la fede cristiana, l'uomo non è un essere per la morte, ma per la vita: ciò significa affermare e insieme superare la morte. La vita ha un senso, perché la morte ha un senso: è un passaggio che sfocia sulla vita. La rivelazione intera, a questo proposito, è una rispósta all'enigma e allo scandalo della morte; la teologia intera è una teologia della morte per la vita. Il prefazio dei defunti giustamente dice: vita mutatur, non tollitur. Capitolo dodicesimo - VI VI. Ambivalenza della morte termine e ratificazione dell'esistenza La morte, in regime cristiano, è allo stesso tempo azione e passione, rottura e pienezza, disfatta e vittoria, termine della nostra esistenza terrena ed entrata nella vita eterna. Da una parte la morte è l'esperienza di uno sradicamento, di una rottura violenta, di una frattura. Si deve togliere l'ancora, fare i bagagli. Il cristianesimo non cerca di sminuire il lato « duro » della morte, ne di galvanizzare le volontà, come gli stoici. È un'esperienza che impegna tutto l'uomo, quella di un naufragio che colpisce tutta la nostra vita terrena. Cristo stesso ha vissuto questa violenza della morte. Ciò che ci inganna, a volte, è un'antropologia dualista, di tipo socratico, che vede nello spirito una sostanza separata che assiste, insensibile, all'erosione e poi allo sfacelo del suo compagno di carne. Ci si immagina la sopravvivenza di un'anima che continuerebbe la sua strada senza inquietarsi del peso morto abbandonato. La verità è che l'anima anima il corpo, ne fa la sua intima espressione modellandolo e guidandolo nel corso di tutta la vita. D'altra parte, l'anima ha bisogno del corpo per perfezionarsi, poiché è il corpo che le offre i primi oggetti della sua conoscenza e del suo amore, e che, inversamente le permette, nella sua azione, di entrare in contatto con gli altri uomini e col cosmo. Nella morte la dominazione dello spirito subisce una disfatta; la sua potenza di organizzazione è vinta. Ma se è vero che la morte colpisce tutto l'uomo, l'uomo non è pertanto annientato. Questa morte come termine della vita biologica, col suo carattere di aggressione, d'assalto dall'esterno, è la manifestazione dell'essenza del peccato come rottura dell'alleanza con Dio, come conseguenza e castigo del peccato ( del peccato personale come pure del peccato originale ). Nascondi « Il salario del peccato è la morte » ( Rm 6,23 ). Ma le cose avrebbero potuto andare altrimenti, perché l'uomo creato da Dio non doveva conoscere l'angoscia e la corruzione della morte. La vita dell'uomo paradisiaco avrebbe senza dubbio avuto un termine, perché la morte, a causa della natura spirituale e corporale dell'uomo, rimane un avvenimento « naturale », ma non avrebbe avuto questo carattere di crollo tragico. Essa sarebbe stata piuttosto la fioritura della nostra vita interiore, dopo la sua maturazione realizzata durante la vita terrena. Così maturato, l'uomo avrebbe trasformato il suo corpo di carne in corpo spirituale. Tale è Cristo risorto che rivede i suoi, mangia con loro e tuttavia possiede un corpo spirituale, sottomesso allo spirito. Tutto ciò non è un mito. La rivelazione ci insegna che tale sarebbe stata la condizione dell'uomo originale, dotato dell'immortalità, se non avesse peccato. La fase terrena sarebbe finita, ma per fare posto immediatamente alla vita celeste, senza angoscia ne corruzione. Nascondi È ciò che si augurava san Paolo ( 2 Cor 5,1-5 ); è ciò che ha vissuto Maria. Tuttavia, anche dopo il peccato originale, l'uomo conserva sempre una tendenza incoercibile verso questo compimento che avrebbe caratterizzato la sua fine sentita come arrivo alla maturità. Nello stesso tempo in cui termina la sua vita temporale e corporale, mediante la separazione dolorosa del corpo dall'anima, l'uomo si realizza definitivamente dall'interno, come persona, ratificando la sua condotta passata. La morte mette un termine alla nostra condizione di viaggiatori: chiude il tempo del sì o del no, dell'adesione o del rifiuto: « non si muore che una volta, dopo di che, vi è il giudizio » ( Eb 9,27 ). L'opzione maturata liberamente quaggiù, in una vita corporale sottomessa al tempo, riceve il suo carattere definitivo, irrevocabile: ciò che conferisce alla vita la sua serietà radicale. La vita assume il carattere di una storia unica, senza ripetizione e senza ritorno possibile. Lo stato nel quale l'uomo si trova per libera decisione, differisce ormai dalla situazione transitoria e indeterminata di quaggiù, che può sempre cambiare, revocare. Il carattere definitivo di questa opzione, che impegna tutta l'esistenza, è un elemento intrinseco della morte, considerata come un atto spirituale e personale dell'uomo. La morte comporta quindi sempre un doppio aspetto: una fine biologica, passivamente subita e nello stesso tempo un cammino spirituale, mediante il quale, in seno a questa stessa passività, l'uomo si realizza dall'interno ratificando la condotta passata, tramite la quale si è lui stesso realizzato. La morte biologica coincide con il dies natalis, la sua nascita all'eternità che ha liberamente scelto. Notiamo che essendo la morte spiritualmente presente all'insieme dell'esistenza, è nella condotta della sua vita quotidiana che l'uomo modella poco a poco la sua realizzazione e ne prepara l'avvento. La morte si anticipa in tutte le nostre opzioni. La morte e dunque ratifica, più che decisione. Perciò non si deve puntare unicamente sull'opzione da fare in piena lucidità al momento della morte. Senza dubbio, non si deve inculcare l'idea di una contabilità terrena senza possibile pentimento finale, come pure quella di una santità di vita alla mercé di un traviamento finale. Ma la teoria della decisione finale sembra rendere impossibile l'impenitenza finale. Diventa comodo in questa prospettiva rimandare sempre, attendere l'ultima ora o il dopo ultima ora. Vi è un inferno, ma nessuno dentro. La gravita dell'ultima ora non deve svuotare la vita temporale della sua densità, della sua attualità di fronte alla morte. L'albero rimane dove è caduto. L'opzione fondamentale è intrinseca alla morte stessa. In altre parole, la morte è spiritualmente presente all'insieme dell'esistenza. L'aldilà è dentro la vita. La sopravvivenza non si costituisce dopo la morte, ma prima, o piuttosto al di sopra e nel cuore della vita, liberamente. Così il Padre Kolbe, che muore liberamente al posto di un altro che non poteva subire una morte che non era pronto ad affrontare. Per il Padre Kolbe, al contrario, la morte è la sua vita già eternizzata giorno per giorno, nell'offerta di sé. Così anche Francesco d'Assisi, la cui morte è consenso totale e sereno, come un frutto maturo che si stacca. Il cielo è per coloro che ci pensano. È molto imprudente rimandare a un'ultima possibilità offerta a tutti, al momento del passaggio all'eternità. Capitolo dodicesimo - VII VII. La morte di Cristo Il tratto più sorprendente della rivelazione cristiana sulla morte, è che Dio ha fatto della morte il mistero dell'amore di Cristo per il Padre e nello stesso tempo il mistero dell'amore del Padre per Cristo, e, attraverso lui, per tutti gli uomini. La morte umana è diventata avvenimento di salvezza, per Cristo e il mondo. Questa trasformazione della morte avviene nell'avvenimento dell'esistenza umana di Cristo, cioè nell'esperienza della nostra morte. Perché, in sostanza Cristo, è morto della nostra morte: di quella stessa morte della razza umana decaduta in Adamo. Come la nostra, la sua morte è termine biologico di una storicità vissuta e, nello stesso tempo, compimento, dall'interno, di una vita umana personale. L'originalità del cristianesimo è che Cristo ci ha redenti precisamente mediante la sua morte e non mediante alcun altra azione possibile. È entrato in questa esistenza che non riesce a compiersi che attraverso il passaggio della morte. In piena libertà ha assunto questa morte, che è manifestazione del peccato nel mondo, per farne l'espressione di quel sì alla volontà del Padre che il peccato nega. La vita di Cristo, con tutte le sue azioni, ci riscatta nella misura in cui la morte è presente nella vita tutta intera: ma poiché è nella morte che la persona raggiunge la sua realizzazione definitiva, è appunto nella sua morte che Cristo ci salva e ci riscatta. L'uomo Gesù ha vissuto la nostra morte in tutto ciò che ha di minaccioso, di tenebroso; in tutto ciò che rappresenta di rottura, di angoscia, di totale smarrimento, di esperienza dell'impotenza umana, di prova, di tentazione suprema della libertà. Più di chiunque, Gesù ha sperimentato una morte di solitudine completa, di sofferenze corporali indicibili, di umiliazioni e di fallimento completo. Niente di ciò che la morte rappresenta di annientamento dell'esistenza umana gli fu risparmiato. Cristo non nega la morte, ma dà alla morte la sua verità, il suo senso più profondo. La morte, che è la manifestazione concreta del peccato dell'uomo e della sua rottura con Dio, diventa in Cristo l'espressione suprema della sottomissione a Dio. Il peccato e l'amore raggiungono qui il loro massimo effetto. Al momento in cui il peccato degli uomini raggiunge il colmo e crocifigge il giusto, la morte di Cristo è abbraccio d'amore del Figlio che si consegna al Padre. L'amore pure raggiunge il colmo, perché Gesù mantiene fino in fondo la sua alleanza col Padre: « Mio Dio sei Tu ». Attraverso la sua resa totale al Padre e mediante la sua speranza in lui, Cristo ha vinto la morte. È questo dono di se stesso al mistero del Dio-amore, nell'accettazione del suo fallimento sulla croce, che ha dato un senso all'esistenza umana finalmente realizzata nella morte. La morte, così abbracciata dall'obbedienza di Cristo, diventa, senza perdere il suo carattere terribile, tutt'altra cosa, cioè la resa di tutto l'uomo a Dio per vivere della sua vita. Mediante la sua unione a Dio nella morte, Cristo, infatti, passa alla vita stessa di Dio. La morte gli ha aperto il cammino del Dio vivente che risuscita i morti. Cristo ci rivela così una dimensione nuova della grazia della salvezza; la sua morte acquista, al momento in cui abbonda il peccato, la potenza sovrabbondante che permette di vincerla. La morte, che era annientamento dell'esistenza ed espressione del peccato, diventa, in Cristo, abbandono all'amore e al potere salvifico di Dio, dialogo d'amore con l'Amore. Cristo trasforma la morte in sacramento in segno espressivo ed efficace della realizzazione assoluta dell'esistenza umana in Dio. Capitolo dodicesimo - VIII VIII. Morire con Cristo Morire con Cristo significa innanzi tutto morire di quella morte umana che è rottura e termine della nostra corsa quaggiù, di quella morte che Cristo ha sperimentato nel suo orrore totale. Perché, per il cristiano, come per ogni uomo, la morte non ha perso nulla del suo potere di distruzione. Essa rimane una minaccia perpetua per la sua esistenza e la manifestazione della sua totale impotenza ad assicurare la sopravvivenza. Ma morire con Cristo significa anche rimettersi con fiducia a colui che, in Gesù Cristo, si è rivelato risurrezione e vita. Cristo dà la sua vita biologica perché ha un'assoluta fiducia nel Dio vivente. Ugualmente la speranza cristiana accetta l'enigma della morte, perché si rimette fiduciosa alla promessa di Dio in Gesù Cristo. Morire con Cristo significa infine mettere sulla nostra vita cristiana il sigillo di quella morte al peccato che ci ha meritato la sua morte. Mediante la sua morte, infatti, Cristo ha offerto questo « corpo » di peccato che è la morte: ne ha fatto un corpo di grazia, tanto che possiamo, anche noi, morendo al peccato, appartenere a Dio e a Cristo. I testi di san Paolo sono qui il migliore commento. « Chi è morto è ormai libero dal peccato. Se noi siamo morti con Cristo, crediamo che vivremo anche con lui, sapendo che Cristo è risuscitato dai morti e non muore più … Perché è morto, egli morì per il peccato una volta per tutte … Nascondi Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Gesù Cristo » ( Rm 6,7-10 ). « Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore » ( Rm 14,7-8 ). Oltre questa comunione alla morte di Cristo mediante la morte al peccato e la nostra partecipazione alla sua morte umana, nello stesso spirito, vi è un morire con Cristo che configura alla sua morte in modo privilegiato, ed è il martirio, la punta più avanzata dell'esistenza cristiana. La morte è una caduta nell'abisso che solo la fede interpreta come una caduta tra le mani del Padre. La morte cristiana è la libertà della fede che dispone di tutta la sua vita e la lascia alla libera disposizione di Dio che le conferisce un senso. Ora il martirio è il luogo dove si manifesta visibilmente ciò che si compie nella morte. Il martirio infatti è la libera morte, perché potrebbe essere evitata, liberamente accettata, con una libertà in cui tutta una vita si concentra nel bruciante istante che la consuma e la compie. Nel martirio vi è coincidenza dell'azione esteriore e dell'azione interiore: un sì intimo a Dio e alla sua Parola, un sì che è solo sì. Ciò che la morte cristiana è, e deve essere essenzialmente, il martirio lo manifesta. Non soltanto proclama la morte di Cristo come salvezza dell'uomo, ma vive questa morte, con lui, come lui, per lui, in tutta verità. Il martirio è sacramento e più che sacramento, perché dove la morte del martire è celebrata nel sangue, trionfa veramente la grazia di Cristo, in tutta verità. Il martirio è il super-sacramento, che porta sempre i suoi frutti di vita eterna. È centro di unificazione e di unità: morte e vita, violenza e libertà, malizia del peccato e grazia di Dio, testimonianza resa e realtà attesa. La morte con Cristo tocca qui la sua piena misura: comunione alla morte e comunione all'amore. Il martirio della nostra epoca, in cui la raffinatezza delle tecniche di tortura uccide la persona, prima di uccidere il corpo, è forse quello che rende più simili a Cristo disprezzato, schiaffeggiato, diffamato nella sua dignità umana, prima di essere appeso al patibolo e crocifisso come un bandito. Capitolo dodicesimo - IX IX. Atto teologale supremo e compimento della vita sacramentale Per coloro che vivono la loro vita come un mistero di morte e di vita con Cristo, la morte diventa il punto culminante dell'appropriazione della salvezza inaugurata dalla fede e dai sacramenti. Essa è meno un limite che un compimento, una maturazione e fruttificazione. Essa è perdita di sé, ma incontro con Dio e vita in Dio. La morte, infatti, è l'atto teologale supremo. Per mezzo della fede l'uomo si basa sulla Parola di Dio. La realtà dell'aldilà invade il presente e ispira tutte le sue azioni. Ma nella morte egli gioca il tutto per il tutto. Davanti alla morte che, in apparenza, non è che tenebra assoluta, disperazione e freddo mortale, egli crede « sulla parola » che questo crollo sfocia sulla vita e che egli vivrà eternamente. La fede non può andare più lontano: qui va fino alla fine di se stessa. Nella morte, che è speranza contro ogni speranza, si abbandona al Dio della promessa. La morte così vissuta e realizzata in questo abbandono totale e fiducioso, diventa realmente un incontro con Dio in Cristo. Così come Cristo ha ricevuto il dono della sua glorificazione mediante la sua fiducia nell'amore del Padre, il cristiano riceve la grazia della sua risurrezione abbandonandosi a Dio in Cristo. Attraverso la speranza, il cristiano si proietta in Dio e gli affida la sua vita per l'eternità. Infine, nella morte, la carità, che è amore di Dio al di sopra di tutte le cose, trova la sua espressione e il suo compimento supremo. Coi nostri peccati noi abbiamo spesso resistito agli appelli di Dio. Ora ecco che ci è offerta l'occasione di dire un sì totale. Spesso abbiamo sofferto di non poter dare tutto, o di dare soltanto con le labbra. Questa volta, noi possiamo in qualche modo raccogliere tutto il nostro essere e offrirlo a Dio, come un'ostia vivente: « Signore, nelle tue mani, rimetto il mio spirito ». Penetrando nella morte, quelle tre potenze fondamentali della vita cristiana - fede, speranza e carità - trasformano la morte. L'uomo muore nel tempo, ma per vivere eternamente. La sua morte non è una seconda morte, ma vittoria definitiva della vita di Dio sulla morte. Compimento della vita teologale, la morte è anche assimilazione reale a quella morte di Cristo che si opera misticamente mediante i sacramenti. I sacramenti sono la manifestazione visibile, nella vita umana, degli atti principali mediante i quali l'uomo si appropria la salvezza. Ora, fra questi atti, vi è -l'appropriazione della morte di Cristo che trasforma la nostra morte. Tre sacramenti ci fanno partecipare più direttamente alla morte di Cristo: il battesimo, l'eucaristia, l'unzione degli infermi. I sacramenti tuttavia, non sono un processo magico che assicura automaticamente la nostra risurrezione con Cristo. Sono la manifestazione effettiva del dono dello Spirito che ci chiama a soffrire e a morire in comunione con Cristo, cioè ad accettare con lui e come lui la morte in un atteggiamento di sottomissione a Dio e di fiducia nella sua promessa. Il battesimo ci assimila alla morte di Cristo principalmente in questo: che l'uomo muore al peccato per vivere una vita nuova. La nostra partecipazione alla morte di Cristo si compie senza tregua lungo tutta la nostra esistenza e trova il suo compimento nella morte reale. Ora, questa morte reale, presente lungo tutta la vita come morte di salvezza in Cristo, incomincia col battesimo. Il battesimo è l'inizio della morte cristiana, perché è l'inizio della vita della grazia, mediante la quale la morte può essere cristiana. Nascondi Attraverso il battesimo, infatti, noi siamo immersi nella morte di Cristo ( Rm 6,3 ), crocifissi con Cristo ( mediante la morte al peccato ), sepolti e risorti con lui. L'uscita dall'acqua, come l'uscita dalla tomba, segna la nascita dell'uomo nuovo, purificato, rigenerato, vivente della grazia e dei doni dello Spirito. La vita cristiana non è altra cosa che lo sviluppo progressivo e continuo, l'applicazione pratica, attraverso tutta la nostra vita, del duplice risultato di morte e di vita prodotto dal battesimo. Nella nostra morte reale, noi completiamo la configurazione a Cristo, iniziata nel battesimo e vissuta nella vita. Moriamo realmente con Cristo per risorgere con lui. Il segno coincide con la realtà: noi siamo effettivamente morti e risorti. Mediante l'eucaristia, noi annunciamo sempre la morte di Cristo che è nostra morte e nostra vita. Se, nell'eucaristia, annunciamo Cristo « consegnato per noi », occorre che questo sacramento operi in noi la morte di Cristo. È necessario che colui che partecipa a questo mistero, proclami così questa morte sperimentandola nella realtà della propria vita. Se è vero che, mediante l'eucaristia, Cristo viene modellato in noi, questo modello è il Crocifisso. Partecipiamo alla sua morte perché ogni giorno celebriamo e riceviamo il sacramento della sua morte. L'unzione degli infermi, infine, è il sacramento della situazione di morte. Manifesta che il cristiano, fortificato dalla grazia di Cristo, sostiene l'ultima prova della sua vita e compie la sua ultima azione, la sua stessa morte, in comunione col Signore. Così, l'inizio, il decorso e la fine della vita cristiana, che è appropriazione della morte di Cristo come nostra salvezza e nostra risurrezione, si trovano significati e consacrati da questi tre sacramenti. Capitolo dodicesimo – X X. Esperienza temporale e dimensione d'eternità Il senso cristiano della morte deriva dal senso della vita presente, relativa all'altra vita, la vera vita, la vita eterna. Nascondi Per il cristiano, questa vera vita, che è la vita di Dio, penetra già la vita presente, e questa vale per il suo rapporto con la vita eterna: « Per noi, dice san Paolo, la morte è un guadagno » ( Fil 1,21 ). La morte, infatti, è l'istante in cui si realizza totalmente e definitivamente l'incontro della nostra vita temporale e della vita eterna divina, in cui si opera la fusione di queste due vite che sono state senza tregua coesistenti. Ciò che cambia interamente la nostra idea della morte, è questa tangenza e questa presenza della vita eterna, divina, con la nostra vita umana, temporale. La morte viene a fissare per sempre, in modo. irreversibile, questo rapporto dove, in ogni istante della nostra vita terrestre, noi consentiamo a Dio, viviamo nella sua alleanza e fedeltà. Di modo che, nella visione cristiana delle cose, vi sono due istanti importanti: l'istante presente e l'istante della nostra morte. Sono i due istanti precari per i quali imploriamo l'aiuto di Maria: ora … e nell'ora della nostra morte e perché è in essi che si opera l'incontro con Dio. Nascondi « Oggi, se voi sentite la sua voce, non indurite i vostri cuori » ( Eb 3,7 ). Che passi oggi e non temeremo domani. Poiché morire è nascere alla vita eterna, è importante prima di tutto vivere bene l'istante presente. La grande verità che sottende questa visione delle cose, è la nostra relazione a Dio: una relazione verticale, immediata, continua, nell'ordine del presente. A ogni istante, quando rispondiamo all'appello di Dio, ci disponiamo a entrare nel riposo del Signore, con questa differenza che l'ultimo istante ricapitola, ratifica tutti gli istanti precedenti e ci fa entrare definitivamente nella vita eterna. L'essenziale della nostra vita, è questa presenza a Dio, in ogni istante della nostra vita, orientata tutta verso Dio, come il fiore che segue il sole durante la giornata. Dio non è alla fine della nostra vita, che ci aspetta, ma il suo sguardo è costantemente posato su di noi, a ogni istante; ma all'ultimo istante, questa Presenza si svela e diventa Luce per sempre. Questa visione delle cose può aiutarci a sormontare lo scandalo della morte che coglie una vita in fiore, che lascia un'opera incompiuta: pensiamo a Pascal, a Teilhard de Chardin. La morte di un giovane o di qualcuno che prometteva, è irritante, scandalosa. In realtà, tuttavia, se noi ammettiamo che la vita si definisce mediante il nostro rapporto con Dio, si deve riconoscere che questo rapporto possiede la sua pienezza in ogni istante. Qualunque sia la durata della vita di un uomo, il suo valore è dato in definitiva dall'immensità dell'amore che la abita, e che è l'amore stesso di Dio. Ora, chi può misurare l'immensità di questo amore? La fede non conosce un amore di Dio che sia proporzionato all'età o allo sviluppo intellettuale. Questa interiorità e questa attualità dell'amore divino ci collocano in ogni momento al termine della nostra storia personale. Se il cristianesimo non fosse che legalismo, calcolo matematico di meriti, sarebbe scandaloso che la morte intervenisse dall'esterno e falciasse delle vite appena incominciate. Ma se il cristianesimo è essenzialmente l'entrata in una reciprocità d'amore, e se l'amore di Dio è senza misura, il compimento della nostra vita è sempre presente. Che l'uomo sia salvato per grazia, significa che la storia umana personale, che non è mai compiuta, raggiunge sempre il suo compimento, che è l'entrata nella comunione divina, nell'Amore infinito che ci copre della sua Luce senza tenebre. Capitolo dodicesimo - XI XI. Conclusione Essere cristiano è accettare liberamente l'esistenza che ci è donata; è aprirsi a Dio e abbandonarsi al suo mistero impenetrabile. Accettare Cristo è accettare la sua croce e la sua morte, nello spirito della risurrezione. Accettare la croce significa aprirsi al mistero di un'esistenza votata alla morte: mistero al quale l'uomo non ha altra risposta se non quella della risurrezione nella speranza di essere accettato e perdonato da Dio. Il vero senso della vita è di prepararsi a morire, cioè a maturare per la vita eterna. Davanti al mistero della morte si alza il mistero della speranza: del Dio che risuscita e fa nascere alla vita eterna. Da quando Cristo è morto, non vi è più nell'universo avvenimento più importante di questa morte. Se moriamo con lui, il fatto banale di morire è trascinato nel mistero stesso di Dio. Non ci sarà risparmiato nulla della morte, ma noi abbiamo fede nella Buona Novella della morte che sfocia sulla vita; nella venuta del Signore, che è vita che non conosce la morte. Possiamo soffrire nell'attesa, soffrire di non vedere, ma sappiamo che verrà un giorno che non finirà più. Nascondi « Il mio desiderio è di andarmene per essere con Cristo » dice san Paolo ( Fil 1,23 ). 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Nella vita personale, e anche a livello della scienza, abbiamo tendenza ad addomesticare Dio, per farne un'immagine adattata ai nostri schemi di pensiero, alle nostre preoccupazioni. Noi « proiettiamo » su di lui le caratteristiche della nostra epoca, della nostra cultura. Oggi, come ieri, noi ci fabbrichiamo degli idoli. Nascondi Senza dubbio il quarto Concilio del Laterano ci ha opportunamente ricordato che tra Dio e l'uomo non potrebbe esistere che un rapporto di analogia e che la differenza tra lui e noi è ancora più grande della somiglianzà: siamo noi che dobbiamo allinearci su Dio, e non lui su noi. Eppure, nel corso della storia, quante immagini di Dio persistenti e grossolane! Quante caricature! Un Dio inaccessibile e inavvicinabile; un Dio dominatore e despota; un Dio legislatore e vendicatore che spia ogni minima debolezza; un Dio matematico, che soppesa meriti e demeriti; oppure al contrario un Dio addomesticato, che si invoca nei casi urgenti ( noie di salute e di denaro ); un Dio bonaccione, col quale si pratica ogni specie di accomodamento. Al di fuori del cristianesimo, pensiamo al Dio orologiaio, architetto, meccanico, di Voltaire e dei deisti; al Dio morto di Nietzsche, di Marx, Feuerbach, Freud; al grande represso del XX secolo, ora ritirato nelle sue terre e poco ingombrante. I cristiani sanno bene che solo Cristo, vero Dio e vero uomo, può dirci chi è Dio. Eppure anche di Gesù la storia ci offre una galleria infinita di ritratti, modelli secondo le epoche, gli ambienti, le culture, le opzioni politiche. I ritratti di Gesù sono tanto numerosi quanto sconcertanti. Chi è Gesù? Un esempio eminente? un genio religioso? un maestro del pensiero? un focoso adolescente? un tenero romantico? un rivoluzionario? un liberatore? un capo operaio? un contestatore? un eretico? un ribelle? un utopista? Ciò che lo fa accettare dai cristiani come Signore ( amore crocifisso, prossimità, umiltà, incarnazione ), è precisamente ciò che lo fa rigettare dai musulmani. Davanti a tanti ritratti così contraddittori, si è tentati di gridare, come Maurice Clavei: Dieu est Dieu, nom de Dieu. Non si può manipolare Dio in questo modo, diluire l'Infinito, scomporre l'Assoluto. Non si può disporre di Dio. E Gesù non è un presta-nome, un sosia di Dio. Gesù non è un codice, ma il volto umano dell'Assoluto, l'epifania di Dio. Non si può dissociare Dio da Gesù, come due esseri diversi. Solo Dio parla bene di Dio. Nascondi Solo la rivelazione può dire chi è Dio, perché « nessuno ha mai visto Dio; il Figlio unico che è nel seno del Padre, lui, lo ha fatto conoscere » ( Gv 1,18 ), « Chi mi ha visto, dice Gesù, ha visto il Padre » ( Gv 14,9 ); « nessuno va al Padre » se non mediante Cristo ( Gv 14,6 ); « nessuno conosce il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare » ( Mt 11,27 ). Per sapere chi è Dio, occorre mettersi in ascolto e alla scuola del Figlio, che è la Parola del Padre: « Questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo » ( Lc 9,35 ). Il Dio in cui noi crediamo è colui che ha parlato per mezzo del Figlio: « Dopo aver parlato nei tempi antichi ai Padri per mezzo dei profeti, Dio … ci ha parlato per mezzo di suo Figlio » ( Eb 1,1-2 ). Se si può parlare di Dio, è perché Dio ha parlato di se stesso per mezzo di suo Figlio. Proponendoci tuttavia un Dio « a misura di Dio », Gesù ha rivelato i lineamenti di una immagine paradossale: ogni tratto troppo marcato esige subito una correzione. Anche se conosciuto, Dio resta sempre paradossalmente sconosciuto: nella rivelazione del Figlio, resta il più conosciuto e il più sconosciuto, l'accessibile inaccessibile. Il Dio di Abramo, di Mosè, di Amos, di Isaia, di Davide, di Maria, di san Paolo, di san Giovanni, di Francesco d'Assisi, di Teresa d'Avila, resta sempre sconcertante, imprevedibile, inquietante. Capitolo tredicesimo - II II. Trascendente e vicino Mentre gli ebrei osavano appena pronunciare il nome di Dio, duemila anni di cristianesimo ci hanno condotti a un uso immoderato di questo nome. Ma un Dio che si lascia vedere, udire, toccare, sballottare dalle folle, cessa pertanto di essere il totalmente Altro, l'Incomprensibile? Anche se Dio è uscito dal suo mistero, perché incarnandosi è diventato uno di noi, perduto tra i miliardi della massa umana, rimane tuttavia l'Unico, colui che noi conosciamo realmente, ma come sconosciuto e indicibile. Nascondi In realtà, il Mistero, nascosto da tutta l'eternità, poi svelato in Gesù Cristo, notificato e predicato dagli apostoli ( Rm 16,25-27 ), non elimina mai il Mistero. Il Dio manifestato in Gesù Cristo sfida ogni definizione e ogni spiegazione. « Nessuno conosce i segreti di Dio, se non lo Spirito di Dio » ( 1 Cor 2,11; Ef 3,19 ). Quando affermiamo che Dio è Trinità, pronunciamo parole esatte su un mistero impenetrabile. È solo per analogia che parliamo di « persone » in Dio; come è solo per analogia che parliamo di « tre » persone, perché il numero « tre » significa tutt'altra cosa che la cifra tre della serie dei numeri matematici. Si deve quindi rinunciare a riflettere su Dio, a parlare di Dio? No, perché se Dio è venuto a noi, vuol dire che vuole esistere per noi, rivolgersi a noi come a un tu, attirarci nelle profondità della sua vita stessa. Non possiamo strappare all'Amore il suo estremo segreto; ma non possiamo, non dobbiamo ignorarlo: perché l'Amore rivelato è la sola luce che illumina la nostra esistenza. Vi è, deve sempre esserci una tensione tra il Dio nascosto e il Dio rivelato, trascendente e vicino. Questa tensione non può risolversi, perché appartiene all'essenza stessa del Mistero: si deve mantenere la trascendenza nella prossimità, e la prossimità nella trascendenza, perché non vi è mai trascendenza allo stato puro, ma sempre legata a una manifestazione di prossimità. Questo Dio trascendente, infatti, non è ne assente, ne puramente inconoscibile. Invisibile nella sua natura, si è reso visibile nella nostra, e conoscibile, per lo meno in parte. Attraverso l'incarnazione, Dio si crea un corpo d'espressione, mediante il quale si rivela, ma ancor più si dissimula. È il paradosso del Cristo: per manifestarsi, Dio si serve di ciò che vi è di più dissimile da lui, cioè la carne. E tuttavia questa oscurità della carne diventa il linguaggio privilegiato tramite il quale Dio vuole manifestarsi, definitivamente, con una rivelazione insuperabile, e intramontabile. Si deve affermare che la natura umana di Cristo è « sua » e che egli si esprime all'interno di ciò che è. Cristo è personalmente uomo e questo uomo è personalmente Dio. L'amore di Cristo è l'amore di Dio reso visibile; gli atti di Cristo sono gli atti di Dio in forma umana; le parole di Cristo sono parole umane di Dio. Il Trascendente è anche un Dio che viene, interviene nella nostra storia, che si avvicina e si fa prossimo di ciascuno; che ama, attende, spera, si rallegra, si stanca, piange, soffre, agonizza e muore. Nascondi L'Antico Testamento, che non cessa di lodare l'Altissimo e l'Onnipotente, dichiara anche che nessun altro popolo ha conosciuto un Dio tanto vicino quanto il suo ( Dt 4,32-34 ). Il Nuovo Testamento sottolinea ancor più questa prossimità di Dio. Che cosa vi è di più prossimo, di più fragile di questo bambino che ci è nato, di questo Figlio che ci è donato? Che cosa di più disarmato di questo Crocifisso, dalle braccia distese e dal costato aperto? Che cosa di più disponibile, di più annientato, di questa ostia che si offre alla nostra adorazione e al nostro amore? In verità che vi è di più povero, di più condiscendente, di più accessibile del Dio rivelato in Gesù Cristo? È l'Emmanuele, Dio-con-noi ( Mt 1,23 ). In lui il trascendente si fa vicino, l'intoccabile si rende palpabile, il tre volte santo si rivolge nell'amicizia a colui che si è ribellato contro di lui. Questo peccatore Dio lo inizia a quanto vi è di più intimo in lui, cioè il mistero della sua intimità col Padre e con lo Spirito. Eppure, anche quando si fa così vicino, così fragile, così disarmato, Dio rimane il totalmente Altro, nella sua prossimità come nella sua trascendenza. Anzi, è la trascendenza della prossimità di Dio, che è l'ultima parola della rivelazione: il Verbo ( trascendenza ) si è fatto carne ( prossimità ). È perché è l'Unico che Dio può perdersi nella moltitudine umana; perché è l'Onnipotente che può sembrare senza potere; perché è la Vita che può .affrontare la morte. Cristo, come Dio, non è il relativo a fianco dell'Assoluto, ma l'Assoluto e soltanto l'Assoluto. Aggiungiamo tuttavia che un tale paradosso è possibile solo se si ammette il carattere trinitario della rivelazione: cioè Cristo che, nella sua forma di schiavo, rivela Dio; lo Spirito che illumina questa forma di schiavo e ne fa apparire la gloria; il Padre che testimonia dell'identità di Cristo risuscitandolo nello splendore di Piglio e Signore. Questo carattere trinitario è necessario perché in Cristo risplenda la luce divina al di là dell'umile forma umana di Gesù. Capitolo tredicesimo - III III. Alla ricerca dell'uomo Contrariamente a quanto noi immaginiamo, non è l'uomo che va alla ricerca di Dio, ma Dio per primo va alla ricerca dell'uomo. L'originalità del cristianesimo è appunto di proporci un Dio che ha l'iniziativa in tutto, prima ancora che l'uomo se ne renda conto. È Dio che entra nella nostra vita, all'ora imprevista, all'incrocio inatteso, che suscita in noi i primi desideri, le prime domande, i primi passi, che ci invita a una reciprocità d'amore. Questo carattere d'iniziativa è uno dei tratti più vigorosamente sottolineati dalla rivelazione vetero-testamentaria: non è l'uomo che scopre Dio; è Jahvè che si manifesta quando vuole, a chi vuole e come vuole. Per primo ha scelto ( Abramo, Mosè, i profeti ), promesso, stretto alleanza, salvato. Questa iniziativa risplende ancor più nell'intervento decisivo dell'incarnazione. Nascondi « Non siamo noi che abbiamo amato Dio, ma è Lui che ci ha amati e ci ha mandato suo Figlio » ( 1 Gv 4,10 ). Quando ci rendiamo conto che cerchiamo Dio, scopriamo che era lui che ci cercava, che aveva mosso in noi il movimento di ritorno verso di lui. Il Nuovo Testamento parla di un'azione che « apre il cuore » al mistero del Vangelo ( At 16,14 ), di « un'attrazione » interiore del Padre ( Gv 6,44 ), di una « illuminazione » nuova, paragonabile alla creazione della luce al primo mattino ( 2 Cor 4,4-6 ), di una « unzione » di Dio ( 2 Cor 1,22 ), di una « testimonianza » dello Spirito ( 1 Gv 5,6 ), di una « rivelazione » interiore ( Mt 11,25; Mt 16,17 ). Una cosa è certa: è sempre Dio che precede; è lui il primo che si rivolge alla sua creatura e la chiama con quel nome che le destina da sempre. Il ricercatore non è l'uomo, è Dio. Si può fuggirlo, fuggirlo instancabilmente; si stancherà meno di cercarci che noi di fuggirlo. Nascondi « Un uomo aveva due figli … » ( Lc 15,11 ). « Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? » ( Lc 15,4 ). E quando il « cercato » ritorna, scopre che era Dio che lo cercava, che camminava con lui, che lo precedeva per accoglierlo, per prenderlo con lui e metterlo là dove lui è ( Gv 14,3 ). Ma, paradosso non meno grande, in questo gioco del cercatore e del cercato, Dio non esercita ne pressione, ne costrizione. Da quando ci ha creati liberi, la sua Onnipotenza si affida alla nostra libertà. Ci ama abbastanza, è abbastanza potente per affrontare il più grande rischio: quello di essere messo in scacco dal nostro rifiuto. Perché vuole dei figli non dei robots. Dio non vuole prendere nulla che non sia liberamente donato. Preferisce l'amore misconosciuto all'amore che si impone. Quello che vuole sono dei figli liberamente generati, liberamente compiuti, liberamente realizzati, che scaturiscono, liberamente nello Spirito: « Abba, Padre ». Ma quando il Cercatore e il cercato si « incontrano », il cercato scopre che l'amore di Dio lo copriva con la sua ombra, a sua insaputa, prima ancora di conoscere il suo nome e il suo volto: se ha trovato Dio, è « per grazia ». Ma quando lo ha trovato tutto si illumina, tutto acquista un senso: non che il mistero scompaia, ma la luce aumenta e si proietta su ogni realtà. Nascondi Come a san Paolo, folgorato da tanta luce e da tanto amore, non gli resta che balbettare e glorificare Dio ( Ef 1 ). Il cercato scopre anche che se Dio lo cerca è per introdurlo nel mistero della sua stessa vita. Perché Dio che cerca è un Dio che condivide. Il suo progetto è di ri-generare in ciascuno di noi dei figli, di infondere in essi il suo Spirito, affinchè vivano della sua vita. Colui che cerca ci invita alla condivisione più inaudita che ci sia, dandoci accesso al « focolaio » più unito, più legato dall'amore: quello della Trinità. Capitolo tredicesimo - IV IV. Un Dio paziente e misericordioso In una delle preghiere della messa, la Chiesa ci fa dire: « Dio che dai la prova suprema della tua potenza, quando sei paziente e misericordioso senza stancarti … ». Infatti Dio usa la sua potenza a pazientare e a perdonare: anche in questo è il totalmente Altro. Noi, gli uomini, siamo impazienti: vogliamo risultati immediati. E poi, oggi apparteniamo alla generazione del rendimento e della velocità. Non sappiamo « temporeggiare ». Vogliamo che i divorziati risposati si mettano in regola con la Chiesa, da oggi, per fare la comunione domani. Vorremmo che gli sbandati rompessero col loro passato all'istante, per rientrare subito nel campo della normalità. Vorremmo che i criminali, i banditi di tutta la terra passassero alla corte marziale e fossero castigati immediatamente. Se Dio ci imitasse, saremmo tutti spazzati via e la terra sarebbe presto un deserto! Dio usa la sua potenza a non schiacciare e a pazientare. È il Dio delle opere lente e piccole. Con noi, con gli altri, usa il tempo, perché … ha l'eternità davanti a sé! Hai impiegato miliardi di anni a dispiegare l'universo e a prepararci un luogo di abitazione conveniente; e milioni di anni per realizzare questa creatura ammirevole che è l'uomo. A Dio non piace far pulizia castigando: ha scacciato i mercanti dal tempio, ma solo una volta. Dopo di che si è offerto ai colpi dei suoi persecutori. Dio potrebbe anche infierire, ma usa la sua potenza nel salvare: del resto non è forse venuto per « salvare ciò che era perduto »? Là dove noi vediamo un crimine da condannare e da punire, lui vede una miseria da soccorrere. Dio, l'Onnipotente, è anche il più mite e il più paziente degli esseri. Potrebbe distruggere il peccatore, ma quale piacere proverebbe a distruggere ciò che ha creato con tanto amore? Dio è come una madre di fronte a suo figlio: è disarmato. Ha pagato così caro il generarci come figli. Ecco il segreto della sua pazienza infinita che ci stupisce e a volte ci scandalizza. Quanta pazienza nei confronti di Israele, di questo popolo di dura cervice! Quanta pazienza con i suoi apostoli, così lenti a capire, così stupidamente attaccati al loro concetto del Regno! Quanta pazienza con la sua Chiesa, che si impelaga e ci mette secoli a riconoscerlo! Quanta pazienza con noi! Dio conosce meglio di noi le leggi della temporalità, gli itinerari o meglio gli stazionamenti dell'uomo alle prese col suo ambiente, la sua eredità, la sua stessa pesantezza. Siamo tutti figli avidi di libertà e di indipendenza. A ogni momento possiamo partire, dimenticare. Ma Dio è sempre là che aspetta, che ci porta nel suo amore. Possiamo dilapidare i suoi beni, distruggere in noi la sua stessa immagine. È sempre là, pronto a perdonare. Un « Dio ricco in misericordia » : è l'immagine che Dio ha voluto dare di se stesso. Nascondi Egli è il « Padre delle misericordie » ( 2 Cor 1,3 ). Non soltanto ha parlato il linguaggio della misericordia, ma si è fatto lui stesso misericordia: Cristo è la misericordia incarnata e presente in mezzo i a noi. Dire che Dio è amore e che è misericordia, è tutt'uno. In Dio la misericordia è più fondamentale della giustizia. Se Dio ha un debole, è per la misericordia. Nel Nuovo Testamento, Maria magnifica il Signore « per la sua misericordia manifestata di generazione in generazione » ( Lc 1,50 ). Ma parlare di misericordia è correre immediatamente il rischio del malinteso. Perché la misericordia in Dio è ben diversa da ciò che gli uomini indicano con questa parola. Del resto, ordinariamente, l'uomo non sa perdonare: rimugina sempre il male che gli è stato fatto. E quando usa misericordia, è per pietà: fa l'elemosina del suo perdono. Raramente ridona al suo nemico l'amicizia di una volta. Per capire la misericordia « a misura di Dio », occorre lasciar parlare Dio, guardarlo agire nel'suo Figlio. A questo proposito la parabola del figliuoi prodigo resta il luogo privilegiato di ogni riflessione. Il prodigo è l'uomo di tutti i tempi: rappresenta ogni rottura dell'alleanza con Dio, ogni infedeltà, ogni peccato, come pure ognuno di noi. Il figlio è partito di casa sbattendo le porte, portando con sé i beni acquisiti dal Padre e ricevuti da lui, per grazia. Non solo ha dilapidato la sua eredità, ma si è degradato da se stesso: ha perso la sua dignità di figlio e la sua dignità di uomo. Nel vuoto dell'abisso invoca colui che ha ferito. Nascondi Decide di far ritorno al Padre e di dirgli: « Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di tè; non merito più di essere chiamato tuo figlio » ( Lc 15,18-19 ). Convertito, si rivolge verso suo Padre. Come si comporta costui? Non soltanto perdona, non soltanto manifesta la sua fedeltà mai scalfita, ma ancora ristabilisce suo figlio nella sua dignità e nella sua libertà di un tempo. Si « rallegra » perché suo figlio è là, di nuovo con lui, sempre amato, sempre degno d'amore, come se nulla fosse avvenuto. L'atteggiamento magnanimo del padre contrasta con l'atteggiamento meschino del figlio maggiore, tipicamente umano, geloso di un amore che sovrabbonda. Colui che ama di più è colui che ha sofferto di più! Così è la misericordia di Dio. Rappresenta nel nostro mondo una novità assoluta: Dio ama gli uomini, ma secondo la misura di Dio. Gli uomini possono rinnegare Dio, ma Dio non può rinnegarsi. Al figlio che l'ha tradito, offre la sua amicizia, condivide con lui la sua stessa vita. La misericordia è il « secondo nome » dell'amore. Credere alla misericordia è credere all'amore, perché Dio è Amore. Occorre quindi cambiare le nostre idee su Dio. Invece di dire: Dio è onnipotente, infinito, paziente, si deve dire: l'Amore è onnipotente, infinito, paziente. Dio non è che Amore. Lui solo è capace di andare fino in fondo all'amore. Il suo perdono è l'amore che ci ricrea una libertà, che ci ridona il potere di crearci noi stessi. Il perdono non è un colpo di spugna: è la creazione di questa libertà, nuova come al primo mattino della creazione, che Dio ci ha donato creandoci un essere nuovo: nati da Dio. Capitolo tredicesimo - V V. Dio è amore Dopo Cristo non possiamo più pensare Dio, senza pensarlo come Amore. La trascendenza della sua prossimità si manifesta nell'immagine della sua potenza disarmata, crocifissa per amore. Dio solo poteva parlarci dell'amore in quel modo. L'Antico Testamento ci ha rivelato che Dio è onnipotente, giusto e santo, fedele e paziente, innamorato e geloso. Ma ciò che è innanzitutto, ciò che vuole essere al di sopra di tutto, questo non possiamo saperlo, se non per mezzo di colui che è la Parola epifanica di Dio: cioè per mezzo di Cristo. Nascondi Ora, questa Parola ci rivela che Dio si identifica con l'Amore: « Dio è Amore » ( 1 Gv 4,8 ). Per san Giovanni, vi è unità essenziale tra persona e funzione di Cristo: è l'Amore che rende visibile l'Amore. Ma anche qui si tratta di un amore senza confronto con le nostre parvenze d'amore, sempre sofisticate, sempre contaminate di egoismo. Ciò che non comprendiamo veramente nella rivelazione di Dio, è che Dio è amore, nient'altro che amore, un amore abissale come l'infinito in tutte le direzioni: infinito di tenerezza, di pazienza, di misericordia. È questo amore di Dio per gli uomini che Gesù è venuto a esprimerci, ripeterci, predicando e percorrendo le città e i villaggi di Galilea fino a estenuarsi. Ma gli uomini non hanno captato il suo messaggio; non hanno capito l'amore di Dio. L'amore non è amato! Allora viene il momento dei grandi gesti: la lavanda dei piedi, il pane spezzato, la passione e la croce. Quando le parole non bastano più, non rimane che l'ultima parola: il dono di sé fino al dono della vita. Allora, tutto è detto, tutto è consumato. La parola si fa gesto, poi silenzio. Attraverso l'eucaristia Cristo dispone di sé, offrendo il suo corpo e il suo sangue; nella lavanda dei piedi manifesta le sue disposizioni intime; con la sua morte accetta la disposizione di se stesso decisa dal Padre, all'ora del calice. La Cena, è il convito d'addio del Signore che va alla morte: l'ultimo dono del suo amore per i suoi, come la promessa del regno che verrà, con la speranza di una nuova comunità di mensa all'ultimo giorno. « Questo è il mio corpo donato per voi ». Il pane che Gesù offre in cibo, è il suo corpo, cioè, secondo il significato ebraico del termine, è lui stesso, tutto intero, consegnato alla morte, al nostro posto e al posto di tutti gli uomini. Il Servo di Dio è consegnato alla morte, ma più realmente ancora, si consegna, si dona da se stesso attivamente. Quando il Signore ci presenta il pane del suo corpo, siamo nutriti della salvezza che ci ha meritato consegnando se stesso al nostro posto. Il calice del vino è il calice della Nuova Alleanza o, meglio, il calice di un'alleanza completamente nuova, di un nuovo statuto dell'umanità che fa di tutti gli uomini dei figli di Dio in Gesù Cristo. Bere al calice di questa Alleanza stabilita dal sangue di Gesù, è partecipare al mondo nuovo inaugurato dalla sua morte: un mondo di unione e di comunione a Dio mediante l'amore impresso nei nostri cuori. Quando Gesù dice: « fate questo in memoria di me », non vuole solo che ce lo ricordiamo tramite la memoria, per commossa che sia; è l'azione di Gesù nella sua totalità, gesti e parole, che deve essere un'azione commemorativa. Si tratta di commemorare un atto, un avvenimento sempre presente e sempre attivo come oblazione sacrificale. La Cena è insieme banchetto e oblazione, morte sacrificale. Questa ultima cena di Gesù coi dodici, è la sua ultima cena sulla terra, prima di quella pasquale del mondo che verrà, quando Gesù risorto sarà presente e berrà di nuovo il calice del festino. Per il momento, Gesù dispone di se stesso e si dona. Nella lavanda dei piedi, manifesta le sue disposizioni intime. San Giovanni ci dice che Gesù, nel bel mezzo del banchetto, e non all'inizio, come ci si potrebbe aspettare, si mette a lavare i piedi dei suoi discepoli. Questo servizio che veniva ordinariamente affidato a uno schiavo. Gesù lo assume, Egli che san Giovanni presenta come Maestro e Signore, come colui che viene da Dio e ritorna a Dio. Deliberatamente si abbassa, si inchina per lavare i piedi dei suoi discepoli. Gesto tanto più sconcertante in quanto Gesù lo compie una sola volta. In verità questo gesto enigmatico e simbolico, se ci si riflette, esprime il significato estremo della sua vita. Questo gesto manifesta che egli, Cristo, il Figlio a cui il Padre ha affidato tutto, assume deliberatamente, fra gli uomini, la condizione di « servitore »: interamente a disposizione, interamente in balìa degli uomini. Servo sofferente di cui parla Isaia, consegnato per la salvezza di tutti; servo obbediente fino alla morte di croce, di cui parla san Paolo ai Filippesi; servo sempre a disposizione nostra, sempre consegnato, donato, nella Cena e l'eucaristia. Il Mistero che ci viene qui rivelato, è che Dio in Cristo, è un Dio servitore: al servizio degli uomini. La sua vita è nel servire fino al supremo servizio che consiste nel salvare gli altri al prezzo della propria vita. Infine, all'ora della sua passione, Gesù consuma il dono che ha già fatto di se stesso. È già stato « consegnato » da Giuda in mano agli uomini, in mano ai pagani, in mano ai peccatori. Nascondi Anche il Padre « consegna » suo Figlio, ma per amore: « Dio ha tanto amato il mondo che ha donato il suo Figlio unico … perché il mondo sia salvato per mezzo di lui » ( Gv 3,16-17 ). Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per noi ( Rm 8,32 ). Che strano contrasto tra Dio che « consegna » per amore, e gli uomini che « consegnano » per odio e per gelosia! Qui si compie ciò che Abramo non è stato costretto a fare: Dio « sacrifica » suo Figlio consegnandolo agli uomini per essere crocifisso. Ma, nel contempo, Cristo per amore del Padre e degli uomini, accetta la disposizione del Padre: si consegna, in modo che l'azione degli uomini che lo consegnano resti subordinata a quella del Padre e del Figlio. Gesù ha amato il suoi fino all'esaurimento della sua vita. Sulla croce, tutto ciò che Gesù ha voluto dire, è detto. La Parola è diventata Silenzio, ma questo Silenzio è la Parola suprema: quando Dio ci ha donato suo Figlio, quando il Figlio ha dato la sua vita; quando il corpo di Gesù è dissanguato, non vi è più nulla da dire; non vi è più che da contemplare le braccia distese e il costato aperto, e capire. Nascondi Gesù ha amato i suoi fino ai limiti e fino alla pienezza dell'amore: « Non vi è amore più grande che di dare la vita per i suoi amici » ( Gv 15,13 ). Se Dio è Amore, mai l'amore di Dio, in Cristo, è stato più simile a questo amore. Mai lo ha espresso in modo più commovente. La Cena, la lavanda dei piedi, la croce: tre gesti, tre segni dello stesso Amore spinto fino ai limiti dell'amore. Il giorno in cui, per grazia, il nostro cuore si apre alla comprensione dei segni di questo Amore, allora incominciamo a capire chi è Dio. Questo giorno, questo istante è come il fuoco che si accende nella notte: illumina, infiamma, riscalda, abbaglia. «Mi ha amato e ha dato se stesso per me » dice san Paolo ( Gal 2,20 ). Tutto è detto. Il giorno in cui ho capito che Cristo è Qualcuno, tanto reale quanto io per me, che ha preso il mio posto nella morte per me, allora ho capito che devo, che posso amarlo, che lo amo. Questo cambia tutta la mia vita! Non si può più dire allo stesso modo: « mio Signore e mio Dio » … Vi si mette tutto l'amore dell'apostolo Tommaso, tutto il cuore di Pascal. Si vorrebbe morire al suo posto! Soprattutto si vorrebbe che il dramma non si ripetesse più! L'uomo di oggi, orgoglioso delle sue prodezze tecniche, resta affettivamente fragile. Un'immensa solitudine pesa su di lui di fronte alle minacce del morte che lo circondario. Ha bisogno di sapere, di sentirsi amato, ma di un amore forte, fedele, che nel contempo rispetti la sua libertà. Ora, in Cristo, gli uomini scoprono questo amore assoluto, che ama l'uomo in se stesso, senza l'ombra di repulsione, perché vede in noi dei figli, i suoi figli. Dio ci raggiunge là dove nessun essere umano può arrivare. Con lui possiamo essere noi stessi, senza sentirci giudicati, ma, al contrario, totalmente accettati, col nostro peso di grandezza e di miseria, di nobiltà e di viltà, di oblio di sé e di ripiegamento su se stessi. Non siamo mai stati tanto amati come dall'Amore! Il senso della nostra vita è di accogliere questa incredibile offerta di alleanza dell'Amore con il nostro egoismo, col nostro nulla. Capitolo tredicesimo - VI VI. Alle fonti dell'Amore: la Trinità Se Cristo ci ha rivelato Dio come Amore, è perché la vita divina è essenzialmente un focolaio d'amore. Ciò che il Nuovo Testamento ci rivela, è la rivelazione di Dio, Padre, Figlio e Spirito, vale a dire di persone che si amano e che ci amano. Questo Dio, che è unità perfetta di persone amanti, è quindi identicamente Carità. Nella vita divina, quello che colpisce, più che la Trinità delle persone, è l'irresistibile attrattiva vicendevole che le tiene legate. Ogni persona si distingue dalle altre per il modo in cui possiede l'amore supremo. Ora, la meraviglia delle meraviglie, è che l'umanità sia invitata a entrare in questo cerchio d'amore. Per san Paolo, Dio è il Dio e Padre di Nostro Signore Gesù Cristo, suo Padre e nostro Padre. « Abba, Padre », è il termine scelto da Cristo per rivolgersi a Dio, perché è questo termine che meglio esprime la generosità totale. Il Padre infatti è l'iniziativa d'amore, la sovrabbondanza di una vita che non vuole che donare e donarsi. Il Padre non si esprime, non si afferma che in un altro, infinitamente amato, il Figlio. Il Padre è interamente Paternità, Padre di un unico Figlio, e da sempre. Tutto il suo amore è nel suo Figlio. Nascondi E tuttavia questo Padre « ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito » ( Gv 3,16 ), affinchè noi fossimo con lui. Poiché la natura divina, indivisibilmente una, è comunicata integralmente, occorre dire che il Figlio, che riceve tutto il suo essere dal Padre, ne è la perfetta immagine. Da ambo le parti l'amore è infinito. Come il Padre è la paternità stessa, il Figlio è interamente filiazione: Figlio unico, del Padre unico, e da sempre. Riceve tutto dal Padre, non per compiacersi nel dono ricevuto, perché il Figlio, orientale interamente verso il Padre, si nutre della sua volontà, brama di glorificarlo: il suo slancio verso il Padre è uguale alla generosità del Padre. Poiché Cristo è la trasparenza del Padre ( Col 1,15 ), la Parola in cui il Padre si esprime interamente ( Gv 17,26; Mt 11,25-27 ), è anche il solo che possa rivelarci fino a che punto il Padre ama il Figlio, fino a che punto ama gli uomini, suoi figli, generati dal sangue di suo Figlio. L'amore umano aspira a una unione che, senza distruggere l'amore, e mantenendo la distinzione delle persone, abolirebbe tra loro ogni distanza. Impossibile desiderio di una reciprocità perfetta, sentita come tale. Nella Trinità, invece, l'intimità d'amore del Padre e del Figlio è tale che questo amore stesso si esprime in una persona che è Amore: è lo Spirito. Precisiamo che lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio non in quanto sono due, ma in quanto sono uno. Lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio, in quanto il Padre-Figlio, ad modum unius, si ama lui stesso di un amore fecondo. In linguaggio più tecnico, diciamo che lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio, ma in virtù di un'unica aspirazione d'amore, o in virtù di un'unica relazione. È perché lo Spirito è quindi estasi totale verso il Padre e verso il Figlio, che la Trinità si chiude sulla terza persona. Così lo Spirito Santo è il legame indecifrabile, l'amore comune del Padre per il Figlio, del Figlio per il Padre, che li porta uno verso l'altro: nodo per sempre sussistente della divina comunione. Lo Spirito non è che trasparenza: si nasconde per meglio rivelare il Padre e il Figlio. È in noi come la Luce, come l'Acqua, come il Soffio che fa vivere. Nascondi All'origine di tutto, si trova « l'Amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » ( Rm 5,5 ). Gli si danno i nomi più diversi: soffio, libertà, forza, dono, legame, consolatore, spirito di verità. È lui che « scruta tutto fino alle profondità divine … Nessuno conosce i segreti di Dio se non lo Spirito di Dio » ( 1 Cor 2,10-11 ). È lo Spirito che ci dà la conoscenza di Cristo, che ci svela il senso della sua vita, del suo messaggio, della sua morte. Non aggiunge nulla al messaggio di Gesù, ma lo ripete, lo interiorizza, lo rende solubile nell'anima, perché l'amore è fonte di conoscenza ( Gv 14,21 ). È pure lo Spirito che agisce in noi, come sorgente di « ripresa », quando la stanchezza ci assale, quando il soffio ci abbandona. Allora è lui che viene alla riscossa, che ci « vitaminizza », ci rilancia. È lui che è la sorgente di tutti i nuovi slanci, di tutti i rinnovamenti, di tutti gli aggiornamenti della Chiesa. Perché lo Spirito non si stanca mai, non invecchia mai: sempre giovane, sempre nuovo, sempre ardente come il primo amore. Dio è un perpetuo sgorgare d'amore. Così, dall'origine alla fine, nella vita divina come nella storia della salvezza, tutto è dono, tutto è amore. Dono dell'amore di una persona all'altra, in seno alla Trinità; dono della persona del Figlio nell'incarnazione e nella redenzione; dono di Cristo nell'eucaristia. Ciò che stupisce, in Dio, non è la salvezza offerta a tutti gli uomini, ma piuttosto la sovrabbondanza dell'amore. Dio è Amore. Ora l'amore di persone divine è insieme rivelazione, esempio, origine e sorgente di ogni amore. La Trinità non è quindi un dogma facoltativo: è l'essenza stessa del cristianesimo, la sua chiave di volta. Capitolo tredicesimo - Nota biografica BALTHASAR H.U. von, La Gioire et la Croix, I: Apparition, Paris, 1965; In., Le Coeur du monde, Bruges-Bruxelles-Paris, 1956; ID., « Le mystère pascal », in M.ysterium salutis, voi. 12, Paris, 1972, pp. 13-264 (trad. it. Queriniana, Brescia); ID., Points de repère, Paris, 1973. BOISSET L., Visages insolites de Jésus, Vendóme, 1977. 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Conclusione Gesù Cristo salvezza dell'uomo Molti nostri contemporanei, compresi dei cristiani, considerano che il cristianesimo è in crisi e che la sua forza è diminuita. Invece di chiedersi se il cristianesimo non uscirà da questa crisi ringiovanito e vivificato, considerano l'ipotesi della sua scomparsa. Tanto più che questa crisi è legata a quella dell'Occidente. Innumerevoli infatti sono le opere e gli articoli che si preoccupano della disintegrazione delle democrazie occidentali. Queste hanno offerto all'uomo un grado di libertà mai raggiunto finora, ma questa libertà non ha dato i risultati che si attendevano. Essa ha generato l'uomo della contestazione, della violenza, del terrorismo; l'uomo della permissività universale e multiforme: dell'amore libero, del divorzio, dell'aborto, della droga, dell'eutanasia, del suicidio. Questa libertà che avrebbe dovuto dare un senso a tutte le cose, anche arricchire di significato tutte le cose, ha svuotato invece tutte le cose di significato. Si sono moltipllcate le distrazioni, nella speranza di far dimenticare, di « divertire » senza però fare della vita una realtà che valga la pena di essere vissuta. L'uomo rimane solo, messo alle strette dai suoi problemi: incapace di utilizzare per il suo bene questa libertà così faticosamente acquisita, incapace di portare il suo progresso spirituale e morale al livello del suo progresso tecnico; incapace di essere più, pur possedendo molto di più; capace tutt'al più di preparare la sua autodistruzione. La crisi dell'uomo occidentale, indifferente al cristianesimo, deluso, o amareggiato, o ribelle, è nello stesso tempo la crisi di tutta una civiltà, modellata senza dubbio dal cristianesimo, ma diventata esangue, di una ignoranza dolorosa, che non vede più ciò che il cristianesimo potrebbe offrirle per salvarla, perché non sa più o non capisce più ciò che il cristianesimo è per l'uomo, vale a dire la sola interpretazione autentica della sua salvezza. Una crisi di queste dimensioni non potrebbe essere sormontata con dei palliativi, ma con una riscoperta del vero volto e del vero messaggio di Cristo. Al tempo dell'impero romano, il cristianesimo ha dovuto affrontare il paganesimo; questa volta deve riallacciare rapporti con l'uomo post-cristiano, che ha abbandonato e tradito Cristo. Il primo veniva a Cristo; il secondo deve convenirsi e ritornarvi. Ora l'esperienza di molti popoli d'Europa e d'America dimostra come questo ritorno sia lento e mortificante. D'altra parte, un'epoca come quella che noi attraversiamo, come del resto tutte quelle durante le quali il cristianesimo ha dovuto soffrire con Cristo le angosce del Getsemani e del Golgota, in cui il saggio sembra essere colui che si allontana per cercare altrove la salvezza, queste epoche, dicevo, non sono le meno feconde. È infatti in queste ore di dubbio e di tenebre, mentre la Chiesa vive nelle catacombe, che si purifica e si prepara al domani che è una nuova Pasqua, una risurrezione di cui percepiamo già gli indizi in tanti rinnovamenti stupendi: gruppi di preghiera, di studio, azioni caritative. I cristiani del tempo presente non hanno alcun motivo valido di essere delusi da Cristo e di cercare altrove la risposta ai vari problemi della condizione umana. La salvezza dell'uomo passa solo attraverso l'incontro con Cristo o il ritorno a Cristo. Il cristianesimo non è ne superato, ne superfluo, ne estraneo all'uomo, ne nemico dell'uomo: è la sola immagine autentica dell'uomo, rivelata in Cristo, che è la verità dell'immagine. Quando noi diciamo che Cristo, e la sola interpretazione dell'uomo e dei suoi problemi, non diciamo che gli sforzi umani sono insignificanti. Al contrario. L'interpretazione cristiana non esclude, ma include l'esperienza umana: questa è anzi il punto di partenza obbligato di tutti i problemi che abbiamo studiato. D'altra parte, l'originalità di Pascal, di Teilhard e di Blondel, è precisamente di aver elaborato una riflessione sulla condizione umana a partire dall'uomo e dal contesto del loro tempo: la loro antropologia è costruita « su misura ». Il cristianesimo assume quindi l'esperienza umana, soprattutto l'esperienza religiosa, ma la arricchisce, l'approfondisce, la porta a una pienezza di significato che nessuna ideologia, nessuna religione potrebbe raggiungere, perché il cuore del cristianesimo è l'Uomo-Dio. Le grandi filosofie, le grandi religioni contengono, è vero, un raggio più o meno ardente di questa verità che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Ma solo Cristo è capace di discernere con certezza ciò che è autenticamente opera della Parola. A questo riguardo, neanche l'Antico Testamento possiede da se stesso un'interpretazione assoluta e infallibile, perché non conosce la Parola definitiva che dissolve le sue ambiguità, che illumina le sue figure, che dissipa le sue ombre. Solo Cristo rende possibile la perfetta intelligenza dell'Antico Testamento, come pure di tutte le forme religiose dell'umanità. Solo l'avvento di Cristo si interpreta da sé totalmente e infallibilmente, perché qui il principio d'interpretazione, è Dio stesso in Gesù Cristo. Sì, il cristianesimo ha qualche cosa da dire all'uomo di oggi, in particolare all'uomo dell'Occidente, e qualche cosa di decisivo. Ciò che esso può donare, nessuna potenza sulla terra, nessuna ideologia sarebbe in grado di donarlo, perché è la via della salvezza tracciata da Dio stesso nel suo Figlio incarnato. Cristo, infatti, essendo la teofania suprema, cioè insieme Dio rivelante e Dio rivelato, occupa una posizione unica, che distingue il cristianesimo da tutte le religioni che si dicono rivelate, compreso il giudaismo. È la sola religione la cui rivelazione si incarna in una persona che si presenta come la verità vivente e assoluta, riunendo e unificando in essa tutti gli aspetti della verità che percorrono la storia dell'umanità: trascendenza della verità che caratterizza le correnti platoniche, storicità della verità che caratterizza il pensiero moderno e contemporaneo, interiorità della verità messa in luce dalle forme diverse di esistenzialismo. Altre religioni hanno avuto fondatori, ma nessuno di essi ( Budda, Confucio, Maometto, Zoroastrò, Mosè ) si è proposto come oggetto della fede dei suoi discepoli. Qui, al contrario, la rivelazione di Cristo ha Cristo per oggetto. Incontrare Cristo, è incontrare Dio; credere a Cristo, è credere in Dio. Cristo non è un semplice fondatore di religione: è insieme immanente alla storia degli uomini e il trascendente assoluto. Perciò Cristo appare come il solo mediatore del significato, il solo esegeta dell'uomo e dei suoi problemi. Il messaggio di Cristo è misterioso, certo, ma fonte di significato, inesauribile e sempre zampillante. L'essenziale di questo messaggio, è che l'uomo, lasciato a se stesso, non è che odio e peccato, egoismo e morte, ma che, per grazia, l'Amore assoluto si è introdotto nel cuore dell'uomo, al fine di conferirgli, se l'uomo vi consente, la propria vita e il proprio amore. Cristo è colui nel quale questo dono ci è elargito. Figlio di Dio, in seno alla Trinità, Dio incarnato in mezzo agli uomini, fa di noi dei figli del Padre, aventi in essi lo Spirito del Padre e del Figlio, che è Spirito d'amore, riunisce tutti gli uomini in questo amore. In Cristo ugualmente, il mistero degli « altri » affiora nella sua profonda verità. Gli « altri » sono il Figlio dell'uomo, servo sofferente, che ha fame e sete, che è nudo, malato, abbandonato, ma destinato alla gloria del Figlio diletto. In Cristo, non vi sono più « stranieri », ma unicamente figli dello stesso Padre e fratelli di Cristo Stesso. Non vi è più che l'amore del Padre e del Figlio, l'amore degli uomini, tutti riuniti nello stesso Spirito. La libertà, a sua volta, è consenso all'Amore che invade l'uomo, apertura all'amicizia divina che lo invita a condividere la sua vita. La morte stessa è meno una rottura che un compimento e una maturazione, un passaggio del figlio alla casa del Padre, l'incontro definitivo dell'Amore accolto nella fede. In questo è la salvezza. Nell'ottica cristiana, l'uomo non si capisce e non si realizza pienamente che nell'accoglienza del dono di Dio, dell'Amore. Quanti uomini di oggi assomigliano a quelli dell'Antico Testamento! Aspettano la pace, la giustizia, la verità, la vita, la pienezza della salvezza. Nel segreto del loro cuore, cercano un senso per ogni cosa in un mondo apparentemente sprovvisto di senso. A queste istanze Cristo risponde: « Io sono la Via, la Strada ». A questi uomini che camminano nelle tenebre, dichiara: « Io sono la Luce; Io sono la Verità ». A questi esseri fragili e peccatori, dice: « Io sono la Vita ». A questi uomini che non vedono altro intorno a loro che odio e morte, dice: « Io sono l'Amore ». A tutti dice;, « Io SONO », il Signore. A ciascuno di noi può capitare di non vedere più chiaro, di non sapere più a che punto si trovi, come se ogni valore intorno a noi vacillasse e fosse senza consistenza. O Signore, se un giorno tutto mi sembrasse insensato, se giungessi a non sapere più dove sbattere la testa, chi ascoltare, dove trovare appoggio, dammi la forza di voltarmi verso di tè, come per un istinto viscerale! Intorno a me tutto è mistero! Il mistero fa eco al mistero! Ma Signore, il tuo Mistero è così grande, così appagante, in tutte le sue dimensioni! Ciò che tu mi offri, Signore, supera talmente ciò che gli uomini, con le loro ideologie, hanno da offrirmi! E poi, credere non è capire tutto: il tuo amore, il tuo perdono, il tuo servizio, il tuo messaggio, la tua morte, la tua vita! Oh, tutto può scomparire, purché Tu rimanga, Tu solo che dai un senso ad ogni cosa e innanzitutto a me! A chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna! E so che è vero, perché l'ho visto nella tua vita, nella vita dei tuoi santi, dei tuoi martiri. Senza di Tè, io non esisterei! Che io sia con Tè, in Tè!