l Principio-Persona Vittorio Possenti Introduzione 1) Scienza e filosofia rischiano costantemente di perdere di vista la persona in un atteggiamento antiumanistico, che le ha condotte lungo i sentieri dell'ideologia, del riduzionismo, della manipolazione. Per coloro che non accettano questo esito è tempo di " raddrizzare la barca " e di riprendere a meditare sulla persona: il tentativo è stato avviato in varie scuole filosofiche del '900, con esiti incerti in rapporto ai numerosi eventi di grande portata che si parano sul cammino. Ieri, oggi e domani lo scopo è di " mettere al mondo " la persona, promuovere l'accadimento dell'uomo di cui diceva F. Balbo in Il laboratorio dell'uomo ( 1946 ). Acuto è perciò il bisogno di riprendere la meditazione su di lui, questo sconosciuto che deve sempre essere riscoperto di nuovo. Si avverte l'urgenza di una rinascita personalista dinanzi agli immensi poteri mediatici, economici, militari, scientifici che spesso si accaniscono nel diminuire l'uomo, nel farne un essere asservito, umiliato, offeso. Da vari lustri si è imposta all'attenzione la " questione antropologica ", ormai prepotentemente affiancatasi alle usuali questioni pubbliche che, prendendo il nome di " questione istituzionale democratica " e " questione sociale ", hanno dato almeno in Occidente il tono a due secoli di storia. Rispetto a queste problematiche la questione antropologica presenta caratteri più radicali ed appare destinata a diventare sempre più pervasi va. L'uomo è messo in questione tanto nella sua base biologica e corporea quanto nella coscienza che forma di se stesso. E ciò non soltanto astrattamente, ma praticamente, perché le nuove tecnologie della vita incidono sul soggetto, lo trasformano, tendono ad operare un mutamento nel modo di intendere nozioni centrali dell'esperienza di ognuno: essere generato oppure prodotto, nascere, vivere, procreare, cercare la salute, invecchiare, morire. Si tratta di trasformazioni di nuclei sensibilissimi che hanno interessato migliaia di generazioni e che costituiscono il tessuto fondamentale dell'esperienza umana in tutti i luoghi e tempi. Il rapporto tra Persona e Tecnica costituisce uno dei temi più complessi dell'epoca. Dubbi circolano sulla reale indisponibilità della persona: l'uomo può migliorarsi ma anche distruggersi. Più si allarga il potere dell'uomo, più aumentano le possibilità di bene e di male, e forse in certo modo più i rischi che le opportunità. Intanto nella cultura risuona sempre più spesso l'interrogativo: che cosa rimane della nozione di persona ricevuta dalla tradizione filosofica? 2) " Non vi è alcun ideale o alcuno scopo al quale noi possiamo sacrificare, poiché di tutti conosciamo le menzogne, noi che non sappiamo affatto che cosa sia la persona umana ": tale sembra il messaggio, implicito o esplicito, diffuso da una parte considerevole della cultura attuale che talvolta dispera di se stessa dopo aver disperato dell'uomo. Nonostante l'accelerato sviluppo delle scienze umane, percepiamo la mancanza di un'adeguata conoscenza dell'uomo, di una vera sapienza dell'umano. La più alta e complessa controversia, da gran tempo in corso e che accende gli animi ovunque, è la controversia sull'humanum il cui esito appare aperto. Sembra che quanto più le scienze cercano di stringere da presso la conoscenza dell'uomo, tanto più questa si divincoli e sfugga alla presa dei saperi scientifico-analitìci, lasciando dietro di sé interrogativi e tensioni. La sfida si era già dispiegata dinanzi all'occhio scrutatore di Pascal. " Avevo trascorso gran tempo nello studio delle scienze astratte, ma la scarsa comunicazione che vi si può avere con gli uomini me ne aveva disgustato. Quando cominciai lo studio dell'uomo, capii che quelle scienze astratte non si addicono all'uomo, e che mi sviavo di più dalla mia condizione con l'approfondirne lo studio, che gli altri con l'ignorarle. Ho perdonato agli altri di saperne poco, ma credevo almeno di trovare molti compagni nello studio dell'uomo. Sbagliavo: sono meno ancora di quelli che studiano le matematiche ". Con questo pensiero Pascal propone la domanda antropologica pochi anni dopo l'infausta separazione cartesiana fra pensiero/mente e corpo/estensione, secondo cui l'io risiede nel pensiero e il corpo - affidato alla contingenza e all'inessenziale - è pronto per essere attribuito alla regia della scienza e ad entrare nell'area del dominio tecnico. Il presupposto di non poche utilizzazioni recenti delle scoperte genetiche e biologiche può venire con sicurezza individuato nel dualismo cartesiano. La semplicistica divisione dei compiti fra scienza e filosofia - alla scienza la res extensa e alla filosofia il pensiero - è diventata un ostacolo al sapere, in specie a quello vertente sulla vita che si rifiuta nella maniera più totale a essere ridotta a mera estensione. 3) L'ingresso nella cultura dell'idea di persona ha rappresentato un punto di svolta tanto nella vicenda della filosofia quanto nella storia universale. Essa mostrerà la massima fecondità quando si estenderà in modo planetario, ben oltre il mondo storico e culturale in cui ha preso avvio e sino ad oggi affonda le sue radici. Ma se la controversia sulla persona si accende di nuovo in questo ambito spirituale, è perché l'idea-realtà di persona attraversa un momento di eclissi e richiede nuovamente la fatica del concetto. In tale congiuntura occorre rimeditare speculativamente la realtà della persona, accedendo ad un'adeguata ontologia metafisica. La chiarificazione della modalità d'essere della persona è di pertinenza della metafisica. La sua ricerca è più originaria e radicale di quella delle scienze positive, comprese quelle umane, nel senso che l'indagine scientifica sulla persona non ne raggiunge mai l'essenza. Il ricorso alla concettualità ontologica vuole significare che il logos è altrettanto e forse più necessario del nomos per pensare la persona, nonostante l'immagine disfattistica della filosofia e della metafisica, oggi diffusa forse soprattutto nel pensiero continentale. Una razionalità ristretta attanaglia molti aspetti del pensiero attuale, pronto a gettare nel non-senso tutto ciò che non quadra con le sue misure. Il nostro sguardo si è fatto più anemico: spesso non siamo più in grado di cogliere nuclei dell'essere e del vivere che lungo millenni sono stati avvertiti dalle principali civiltà. Di questa razionalità diminuita fa le spese la persona. La nozione ( e la realtà ) della persona non è propriamente morale e/o valutativa, ma ontologica. Il valore che attribuiamo alle persone dipende fondamentalmente dal loro status ontologico, da cui in modo necessario procede la loro dignità, che è un " dopo " non un " prima ". Ora nella modernità l'ontologia metafisica della persona è andata incontro ad un velamento, che l'enfasi sul suo valore assiologico ( pensiamo a Kant ) non è in grado di bilanciare. La riscoperta della persona risulta impossibile finché si permane nella sfera del soggetto autocentrato che fa perno solo su se stesso e rende tutto il resto oggetto. Il soggettocentrismo moderno, sentendosi agli sgoccioli, cerca una rivitalizzazione consegnandosi alla tecnica e alla volontà di potenza, in cui ogni cosa assume senso e realtà solo se è assicurata come oggetto calcolabile e utilizzabile per la rappresentazione dell'io. Il soggetto non conosce l'altro nella sua alterità ma lo rende un oggetto, che deve dare ragione di se stesso rendendosi disponibile per ogni possibile manipolazione. 4) L'antropologia filosofica attuale non è più d'impronta idealistica o esistenzialistica o psicoanalitica, come accadde nel XX secolo per periodi alquanto estesi. Ha abbandonato l'idealismo con la sua visione eccessivamente ottimistica e intellettualistica dell'uomo, poco capace di mettere in conto le pulsioni irrazionali presenti in lui; ed ha pure in parte abbandonato la prospettiva esistenzialistica della decisione e della contingenza, nonché quella psicoanalitica dell'inconscio. Accade invece una decisa ripresa del positivismo col suo correlato quasi necessario che è il naturalismo, contro le intenzioni della fenomenologia: in effetti Husserl conclude la sua lunga polemica verso il positivismo con La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Secondo l'impostazione positivistica che adotta la lettura materialistica dell'essere umano, ciò comporta che l'antropologia filosofica appartenga alle scienze della natura. L'assunto era ben presente in vari filoni dell'illuminismo del '700 e Destutt de Tracy ne dà piena garanzia scrivendo nei suoi Eléments d'Ideologie ( "Prefazione" ):" "L'Ideologia è una parte della zoologia, ed è soprattutto nell'uomo che tale parte è importante e merita di essere approfondita ". Riportata a zoologia, l'ideologia o gnoseologia si riconduce più esattamente a fisiologia delle sensazioni. La premessa di Destutt è analoga a quella di Nietzsche: il pensare è sempre un sentire e alla sua base stanno le condizioni fisiologiche. L'uomo non c'è più, perché la sua psiche è considerata mero epifenomeno della volontà originaria e impersonale della vita come volontà di potenza; e perché il suo pensiero vale solo come un rapportarsi reciproco degli istinti. In sostanza il cammino dell'antropologia materialistica, iniziato nel Settecento e per un certo tempo fermato dalla barriera ottocentesca elevata dall'idealismo, è ripreso con forza. In tal modo tende a dissolversi per quanto concerne l'antropologia delle scienze cognitive e della mente artificiale la contrapposizione fra scienze della natura e scienze dello spirito, ma al prezzo di una fondamentale riduzione: quella dell'uomo ad elemento compiuto della physis. 5) Nel titolo del presente volume echeggia quello del celebre libro di H. Jonas: Il principio responsabilità. Un'etica per la società tecnologica, che forse a sua volta trasvalutava il Principio speranza di Bloch. Mi è parso che la fondamentalità della ricerca sulla persona potesse trovare un avallo in tale affinità, secondo cui ritrarre le cose verso il principio è operazione necessaria quando tutto si confonde. Il nostro specifico ritrarsi verso l'origine è di taglio ontologico, senza con ciò soggiacere all'illusione di aver detto tutto. Essendo la persona ultimamente eccedenza e ulteriorità mai completamente catturabile, non si da un unico linguaggio su di essa, per quanto quello metafisico sia imprescindibile e capace di andare alle radici. A maggior ragione appare insufficiente un rinnovamento soltanto discorsivo dell'accesso alla persona: finché non saranno riesperiti i nuclei centrali dell'esser-persona, non vi è molto da attendersi da operazioni di cosmesi linguistica. Principio-persona significa che nelle ricerche che riguardano l'uomo e il suo agire non è sufficiente limitarsi al termine coscienza, né a quello di soggetto, né a quello di individuo cui viceversa molte filosofie della modernità e postmodernità si sono riferite. La persona è originaria e primitiva, e raggiunge una profondità e permanenza che non hanno le altre categorie appena citate o l'uso che spesso ne è stato fatto. 6) In filosofia il Novecento è stato il secolo del personalismo, nel quale numerosi e profondi sono stati i corifei della persona. Un elenco incompiuto include i nomi di Max Scheler, Edith Stein, Dietrich von Hildebrand, Paul Landsberg, Adolf Reinach, Emmanuel Mounier, Gabriel Marcel, Jacques Maritain, Romano Guardini, Paul Ricoeur, Emmanuel Lévinas, Vladimir Soloviev, Karol Wojtyla, Robert Spaemann, Martin Buber. Indubbiamente il personalismo quale insieme di scuole e correnti filosofiche che assegnano speciale valore e dignità alla persona, non è in senso proprio un'invenzione del '900, ma originariamente della Patristica, del Medioevo cristiano e dell'Umanesimo: qui sono state elaborate in certo modo per sempre le idee fondamentali sulla persona e dischiuso come nuovo guadagno il suo spazio di realtà. E se è vero che il personalismo del Novecento talvolta toglie qualcosa a questa grandiosa tradizione, d'altra parte vi aggiunge anche non poco per quanto concerne lo sviluppo delle scienze sull'uomo, il tema dei diritti umani, le intuizioni sulla giustizia e l'eguaglianza umana, il valore della vita comune, il fatto che la dignità, inerente ad ogni persona, deve essere difesa concretamente per tutti. I personalisti hanno reagito a quella spersonalizzazione dell'uomo che può operarsi lungo varie strade e che conduce infallibilmente all'abolizione dell'uomo, quale è ad es. dipinta da Robert Musil in L'uomo senza qualità. Viceversa, sia pure entro una considerevole varietà di registri, le filosofie di taglio personalistico assumono che la persona umana è al centro della realtà o dell'essere, che ognuno è dotato di una speciale dignità, che alcune filosofie più intensamente personalistiche ritengono infinita. Perciò ogni essere umano è unico e insostituibile. Oggi il personalismo egualitario con il corteo dei diritti umani che appartengono alla persona, costituisce la base solida per edificare un cosmopolitismo politico: tale personalismo da voce all'idea che le unità fondamentali di rilevanza ontologica, morale e politica sono le persone, portatrici di eguale valore ed eguale dignità, e non gli Stati o altre forme di associazione umana. Due capitoli esplorano i riflessi di tale assunto sulle questioni della pace e della democrazia. Il personalismo del XX secolo, se è stato influente nella critica dei totalitarismi drasticamente antipersonalisti, e se ha gettato i suoi semi nella Carta dell'ONU e nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, ha incontrato minor penetrazione negli ultimi decenni in Occidente negli ambienti segnati da individualismo e darwinismo. Attacchi al principio-persona provengono dallo scientismo e, in altri contesti, dall'antipersonalismo a base marxista esistente in Cina e dall'antipersonalismo non così raro in India. Uno dei grandi compiti storici del personalismo fu di reagire alla crescita della spersonalizzazione, all'epoca delle masse amorfe, che non di rado conducono per reazione all'individuo isolato e senza legami. Secondo una nota posizione di Ricoeur, il personalismo negli anni '50 e '60 del secolo scorso " non è stato così competitivo da vincere la battaglia del concetto ", riuscendo con difficoltà ad influenzare l'elaborazione del pensiero mondiale. Il personalismo ha sì costituito insieme all'esistenzialismo e al marxismo un'espressione culturale diffusa a cavallo degli anni '50 del secolo passato, ma la sua durata è stata alquanto labile. Contribuirono al suo declino il pensiero strutturalista e la ripresa poderosa del nichilismo di matrice nicciana. D'altro canto si deve registrare un influsso positivo di alcune intuizioni personaliste, recepite ad es. nelle Carte costituzionali italiana e tedesca e nell'azione politica in vari Paesi. Alla valutazione ricoeuriana è giusto riconoscere una parte di verità, concernente forse alcune espressioni del personalismo francese, meno se volessimo estenderla a tutto l'ambito della filosofia della persona. Questa ha continuato ad esprimersi con vigore, incontrando però l'opposizione o venendo marginalizzata dal l'irrompere dell'oblio dell'essere, del nichilismo, delle filosofie del Neutro, da varie correnti analitiche, dalla diffusa postura antimetafisica e postmetafisica. Nell'oblio dell'essere non è precontenuto l'oblio della persona, essendo questa la più alta e piena realizzazione dell'essere? Da numerosi anni desideravo dedicare una riflessione specifica alla persona, e per altrettanti pensavo di abbinarle una filosofia dell'amore. Su entrambi i temi, in specie sul secondo, ho tenuto vari corsi presso l'Università di Venezia, di cui conservo schemi e stesure parziali. Nell'anno accademico 2000-01, un'epoca in cui insegnavo " Storia della filosofia morale ", svolsi il tema " Pensare la persona ", e ne pubblicai le dispense presso l'editrice Cafoscarina. Riprendendo adesso in mano il progetto, ho ritenuto opportuno concentrare il discorso sulla persona, assegnando minor sviluppo alla questione dell'amore. Parte prima - Metafisica della persona Per intendere il mistero ontologico della persona non è necessario entrare nel teatro della storia universale: oltretutto nessuno al mondo è tanto ricco da poter pagare il prezzo del biglietto d'ingresso, e questo teatro ha un solo spettatore reale, il quale vi accede gratis. Più che entrare nel teatro della storia universale, per il quale basta e avanza Hegel, è conveniente entrare nello spessore dell'essere. Quando pensiero e prassi entrano in crisi e le loro certezze si oscurano, è il momento di ritirarsi verso le sorgenti e i principi, mettendo i piedi sul solido terreno dell'essere per acquisire nuovo slancio. Se il compito della persona è di comprendere se stessa, il compito del pensiero è di comprendere la persona nell'esistenza. Capitolo primo - La persona nella dottrina dell'essere 1. Persona e modernità antropocentrica 1) Nel XIX e XX secolo parte dell'umanesimo europeo ha percorso un cammino discendente che ha provocato una restrizione di contenuto e significato attribuiti all'esser-persona; ciò è paradossalmente accaduto nell'epoca in cui l'idea di persona ed i connessi diritti umani producevano importanti progressi civili. Ma sono progressi a rischio, se l'idea di persona è svuotata del suo contenuto e ricondotta ad un'espressione verbale di maniera. Il processo è andato di pari passo con la conclusione dell'epoca della modernità filosofica, che prese le mosse dal soggetto e dall'Io trascendentale in una dichiarazione di assoluto antropocentrismo. Questo è in maggiore o minore misura rimasto nella cultura, ma meno certo di se stesso, nel senso che da tempo assume la forma di un antropocentrismo di declino piuttosto che di quello ascendente e di gloria dei secoli XVI-XIX. Siamo infatti dinanzi non alla sua fine, ma ad un ricentramento, ad un suo cambio profondo. Poiché non si crede più al mito prometeico dell'uomo nuovo ed alla società completamente liberata, l'antropocentrismo si ridefinisce facendo perno sul singolo e trasformando le grandi narrazioni collettive in racconti singoli e del singolo. Forse ciò che meglio definisce il ricentramento antropologico in atto risiede in una concezione antieroica della vita che produce un " io minimo ". La stessa filosofia dell'esistenza ( Existenz ) tedesca del primo dopo-guerra fu anch'essa antropocentrica per definizione, poiché il termine " esistenza " non intendeva indicare nient'altro che l'essere dell'uomo, anche se poi questo era letto con categorie di declino quali l'essere-per-la-morte. Nell'antropocentrismo non è in primo luogo rilevante il suo essere ascendente, pieno di confidenza in se stesso, o discendente e pervaso da un senso di declino e perfino di scoramento, ma il fatto di essere antropocentrismo, dove il soggetto umano si riferisce solo a se stesso, e si pensa in maniera compiutamente finitistica. Così è pronto per cadere nelle mani dei totalitarismi. Una delle basi del principio totalitario consiste nella riduzione idealistica dell'essere reale a concetto, processo logico di pensiero in cui le datità reali vengono annullate a vantaggio della Mente impersonale. Era quanto intuiva lucidamente G. Orwell nel suo 1984: " Tu credi che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno, che esiste per proprio conto. E credi che anche la natura stessa della realtà sia evidente per se stessa … Ma io ti dico, Winston, che la realtà non è esterna. La realtà esiste nella mente degli uomini, e in nessun altro luogo. Non nelle menti individuali, e cioè in questa o in quella, che invece possono commettere errori, e che in ogni caso è destinata a svanire prima o poi: ma solo nella mente del Partito, che è collettiva e immortale. Qualsiasi cosa il Partito ritiene sia vera, è vera. È impossibile vedere la realtà se non attraverso gli occhi del Partito ". 2) Assumendo che l'etica costituisca un rivelatore sensibile della condizione del soggetto, nella prima metà del Novecento accadde un'eterogenea simbiosi di positivismo scientistico e di esistenzialismo. Si realizzava perciò un ambiguo incontro fra una razionalità pubblicamente attestabile e proceduralmente modulata, e il problema della scelta ultima, privata e irrazionale dei valori, secondo la previsione di Max Weber sulla sdivinizzazione e sulla gabbia d'acciaio della razionalità strumentale. La neutralità rispetto al valore sostenuta dalla razionalità di tipo scientifico si accostava estrinsecamente all'irrazionalità e al politeismo dei valori propri della seconda linea, in una mescolanza in cui era in linea di principio impossibile trovare un esito. In consapevole alternativa a questo quadro vennero sviluppandosi nel periodo indicato varie scuole di indirizzo personalistico, miranti alla riscoperta e alla tematizzazione filosofica della persona, che ebbero considerevole rilievo nel tessuto del pensiero mondiale. Esse reintroducevano un motivo che era negato dalle prevalenti culture antipersonalistiche provenienti da Hegel, Nietzsche, Marx, Gentile, Lowith. L'esser planetario dei totalitarismi veicolanti massificazione e schiacciamento della persona, contribuì per la sua parte all'esito, creando un clima in cui la difesa della persona apparve a vasti settori urgente compito della politica e del filosofare. Avemmo allora un personalismo italiano in genere di origine attualistica, spiritualistica o ontologica ( Carlini, Guzzo, Sciacca, Stefanini, La Pira ), uno francese di impianto comunitario ed etico, talvolta congiunto con un quadro metafisico tomistico ( Maritain, Mounier, Nédoncelle, Lacroix, Bastide ), uno tedesco di impronta fenomenologica ( Landsberg, Scheler, E. Stein, in certo modo Guardini e Buber ), uno russo caratterizzato dalla mescolanza sinergica di letteratura, filosofia e teologia, che è propria di quella cultura ( N. Berdjaev, L. Sestov, S. Frank, N. e V. Losskij, P. Florenskij, S. Bulgakov ). Ne andrebbe dimenticato il pensiero neoebraico ( Rosenzweig, Buber, Lévinas ) che, pur non autodefindosi personalistico, raccoglie e svolge temi affini. In tempi più recenti la permanenza del personalismo è attestata dai lavori di K. Wojtyla ( Persona e atto ), J. Seifert ( Essere e persona ), P. Ricoeur ( Se stesso come un altro ), C. Taylor ( Radici dell'io ), I. Mancini ( Tornino i volti ), L. Pareyson ( Esistenza e persona ). Notevoli spunti personalistici si trovano nelle posizioni comunicative, narrative, etiche e linguistiche diffuse negli ultimi decenni nel pensare filosofico mondiale. Alla metà del '900 la situazione del personalismo pareva solidamente attestata. Eppure la triade di " personalismo, esistenzialismo, marxismo ", ritenuta da E. Mounier e da J. Lacroix la caratteristica durevole di un'epoca, ha in realtà avuto vita alquanto breve. Con gli anni '50 e '60 i tre fratelli nemici si sono trovati sottoposti all'attacco strutturalista vibrato contro la categoria generale d'umanesimo. Mentre l'esistenzialismo e il marxismo hanno per diverse strade sostanzialmente concluso il loro cammino, nella realtà della persona si incontra un nucleo perenne dell'essere e un elemento inaggirabile. La persona è infatti primitiva; non si deduce da nulla e non si può ridurre a cosa, a oggetto. " L'io - scrive Berdjaev - prima di tutto è esistente, appartiene al dominio dell'esistenza … L'io prima di ogni oggettivazione è, in virtù della sua natura esistenziale, libertà … È per natura iniziale e primitivo. Ciò che è primo non è, come pensano molti filosofi, la coscienza; è l'io immerso nell'esistenza ". Che poi questa scuola si denomini " personalismo " o in altro modo, è un'altra e meno rilevante questione. " Meurt le personnalisme, revient la personne " ha scritto un quarto di secolo fa P. Ricoeur, a indicare appunto l'inessenzialità del termine personalismo e l'essenzialità di quello di persona. Intendiamo bene la sua diagnosi. A rigore la persona non può " ritornare ", perché non e mai " andata via ". È invece cambiato il modo di guardare ad essa, sono mutate le dottrine sulla persona. Il personalismo non è più soltanto una filosofia militante come fu nella prima della metà del XX secolo, ma una scuola filosofica necessaria in ogni contesto storico e culturale. Intanto nello sfondo sta il permanente problema dell'umanesimo, quale categoria essenziale della storia dello spirito. " Ritorna la persona " può anche voler dire: ritorna la questione dell'umanesimo, con cui occorre nuovamente fare i conti, e con essa la domanda di Kant, la quarta: che cosa è l'uomo? 3) Le aporie provenienti dall'accostamento fra positivismo scientistico e esistenzialismo irrazionale e decisionistico non sono oggi meno preoccupanti di un tempo, e anzi più serie per il crescente potere di disposizione sull'uomo che proviene dalla scienza. Inoltre si è aggiunto l'attacco antipersonalistico condotto dal postmodernismo. Esso spesso si ammanta sotto le vesti di una filosofia del Neutro, dove il soggetto o quel che ne rimane viene risolto nell'eterno circolo della Natura o Physis: pensiamo a autori come Nietzsche e Lowith. Si consideri anche l'atteggiamento empiristico così ampiamente diffuso, che sulla scorta di Hume nega significato al termine di dignità umana e cerca di sostituirlo con un anonimo riferimento al concetto di vita. Qui l'antipersonalismo è massimo e l'idea di persona non può tornare. In tale congiuntura spirituale dove si sommano crisi del pensare filosofico e minacce alla persona umana, occorre riaccostare la realtà della persona. È quanto faremo in questo " discorso breve ", il cui registro essenziale o cantus fìrmus è ontologico e speculativo. La nozione ( e la realtà ) della persona non è principalmente morale, ma ontologica. Il valore che attribuiamo alle persone dipende fondamentalmente dal loro status ontologico, da cui procede la loro dignità. E a questo livello che occorre nuovamente vincere la battaglia del concetto. Le epoche postmetafisiche o antimetafisiche incontrano serie difficoltà a comprendere che cosa sia la persona, poiché la sua verità non è separabile dalla verità dell'essere. Nel momento in cui il pensiero cerca un adeguato ingresso al mistero ontologico che è la persona umana, esso avverte che una definizione dell'uomo in base al suo essere nel Mondo o al rapporto col Mondo o al con-essere ( vita nella comunità ) non ne raggiunge ancora il nucleo più originario. Il rapporto della persona con l'Essere e con la Verità è più radicale e universale del suo rapporto con il Mondo: con la sua interiorità essa sporge oltre la storia e il cosmo. Là dove l'uomo è fondamentalmente compreso a partire solo dall'essere nel Mondo, è immanente il rischio di una filosofia del Neutro. Secondo E. Lévinas un disguido del genere potrebbe valere per il pensiero heideggeriano: " In Heidegger il mondo è molto importante. Nel Feldweg c'è un albero: non s'incontrano uomini ". Nello speculativo è in certo modo presente il teologico. Con tale aggettivo intendiamo con Pareyson che " il rispetto della persona è un'esigenza così tipicamente cristiana, che si può dire non solo che soltanto una filosofia cristiana può giustificarlo e fondarlo teoreticamente, ma anche che una filosofia la quale ne dia una giustificazione teoreticamente fondata è perciò stesso cristiana ". Dalla teologia cristiana la filosofia riceve la notizia, senza compagna nella storia dell'umanità, che lo spirito umano ha come supremo polo di orientamento un atto interiore, ossia l'azione coronatrice del moto volitivo e intellettivo dell'uomo, col quale la persona umana si unisce all'Assoluto in un itinerarium mentis in Deum: ab exteriorihus ad intima; ex intimis ad Deum. Nell'atteggiamento io-tu e nel momento ek-statico si innesta come possibilità l'incontro con qualcuno che emette un appello, e dunque la dimensione della sequela. Non si potrebbe comprendere la filosofia platonica se non come sempre risorgente riflessione sull'incontro con Socrate, ne quella cristiana se non come stupore contemplativo dinanzi al mistero del Verbo incarnato. 2. Personalismo ontologico: il concetto di persona 1) Quando la filosofia esce dal pensiero astratto e si volge all'essere reale, comprende di essere sfidata da un difficile compito: è sempre arduo avere a che fare con l'esistenza. Aprendo gli occhi dinanzi alla realtà l'uomo ne incontra molte forme. Presto si accorge che la più alta ed enigmatica è l'esistenza della persona, dove la riflessione incontra un nucleo in certo modo inesauribile, un centro sempre nuovo di vita, libertà, azione. La multiforme ricchezza della persona rende possibile al pensiero molteplici accessi verso il suo nucleo costitutivo da dove promana la sua azione e a cui essa ritorna. In certo modo bisogna trasferire nella persona il centro della filosofia, perché là si trova il centro della vita e della libertà ( il senso di questo assunto, che è lungi dal ridurre la filosofia ad antropologia, diverrà via via chiaro ); perché là sta una cifra essenziale dell'essere. Pensare l'essere e pensare la persona si collocano sullo stesso asse per un duplice fondamentalemotivo: il livello più alto dell'esistenza è l'esistenza in forma personale, nel senso che la persona costituisce l'essere più perfettamente essente; la persona esiste e non può che esistere se non nella forma della conoscenza, comprensione e apertura all'essere. Con tali assunti non intendiamo sostenere che la metafisica della persona costituisca un terzo paradigma ontologico accanto a quello dell'Uno e a quello dell'Essere, poiché la persona è nell'essere e ne costituisce la più alta concretizzazione, e il principio-persona non fa che portare a compimento il paradigma della metafisica dell'essere. Sostenendo che occorre trasferire nella persona il centro della filosofia, ci siamo espressi a favore di quanto si potrebbe chiamare una concezione personalistica del filosofare, a patto però di intendersi. L'espressione può venire compresa in due maniere. Può significare ( ed è, crediamo, l'accezione corretta ) che, costituendo l'esistenza personale la più alta forma dell'essere, nell'ontologia della persona la filosofia raggiunge un vertice. Si tratta, se ci si passa l'espressione, di personalizzare l'ontologia. Possiamo conoscere più profondamente l'essere se lo studiarne attraverso la persona, considerandola un luogo privilegiato d'accesso alla realtà. Ma può anche significare che la filosofia assume come suo oggetto originario e unico solo la persona stessa, quasi essa fosse un'entità separata dalla vita cosmica; qui per concezione personalistica della filosofia si intenderebbe una sua riconduzione ad antropologia, che rappresenta una forma di riduzionismo cui la filosofia è soggetta nella postmodernità. 2) Nell'accostarsi alla persona molte domande si affollano. Che cosa definisce la persona? Il suo corpo? L'unità dell'io autocosciente che rimane se stesso entro il molteplice fluire delle sensazioni? La memoria che, raccogliendo nei suoi padiglioni i momenti successivi dell'esistenza vissuta, evita lo sparpagliamento e la frammentazione di sé nel tempo? Sono gli atti di volontà, conoscenza e amore che fluiscono dall'io? È la capacità di porsi in relazione con l'alterità? La persona è tutte queste cose insieme, che trovano un nucleo ultimo di appoggio nel suo atto d'essere, unico e unitario. Per inoltrarci nel cammino occorre raggiungere una definizione reale della persona, che si differenzi tanto da una definizione soltanto funzionale raggiunta attraverso il riferimento ad alcune proprietà dell'esser persona, quanto da un approccio nominale. Intendiamo per definizione nominale quella che ha un'apparenza di verità, ma che non coglie la natura specifica dell'oggetto definito: ad es. dire dell'uomo che è un "animale sociale", perché questa qualificazione non è soltanto sua ( un altro esempio è definire il cane come un mammifero a quattro zampe, determinazione che si applica a molte specie di mammiferi ). Con la ricerca di una definizione reale ci si volge alla natura della cosa stessa, non ad una semplice stipulazione contrattuale del comportamento legittimo. L'approccio è perciò di tipo fondamentalmente cognitivo, senza intenti giustificazionistici o apologetici. Nella tradizione filosofica sono state avanzate determinazioni del concetto di persona tra loro affini, e che per la loro coerenza razionale si pongono come imprescindibili termini di confronto: le citeremo in italiano, ricordando anche l'espressione latina originaria. La più nota ed antica è la determinazione boeziana, secondo cui persona è una sostanza individuale di natura razionale ( rationalis naturae individua substantia ): il richiamo alla sostanza mette in luce il carattere di soggetto esistente ( sostrato ), e non solo di semplice attività, della persona. Vicine alla boeziana si collocano le definizioni di Riccardo di San Vittore per il quale la persona è un'esistenza individuale di natura razionale ( rationalis naturae individua existentia ), e dell'Aquinate che la determina come un individuo che sussiste in una natura razionale ( individuum subsistens in rationali natura ), in cui si riflette la tensione fra riferimento universale alla specie ( rationalis natura ) e carattere individuale ( individua substantia ): noi tutti apparteniamo all'umanità, ma ciascuno a suo modo. Secondo Tommaso l'esistenza personale è la più perfetta tra tutte: " La persona significa quanto di più perfetto vi è nella natura, ossia qualcuno che sussiste in una natura razionale " ( " Persona significai id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura " ), poiché in nessun altro individuo si può rinvenire una gamma altrettanto ricca di perfezioni ontologiche e operative, e una più profonda unità, scaturente dalla forma sostanziale. Alcune avvertenze sono necessario per cogliere tutta la " dirompente " portata del discorso introdotto e non equivocare in merito. In effetti il principio-persona riceve in questo spazio di esistenza e di concettualizzazione lo slancio che ne assicura la carica di futuro. 2.1) La nozione di persona fa ricorso a concetti ( sostanza, natura, individuo, razionalità ) di piena pertinenza della filosofia, ciascuno dei quali fu ampiamente elaborato dal pensiero greco, senza che questo pervenisse a formulare l'idea di persona. La scoperta dell'universo della persona è guadagno postgreco, ed esso stabilisce una rivoluzione filosofica iniziata nei primi secoli della nostra era, che è ben lungi dall'aver esaurito le sue virtualità. Oggi e ancora domani dovremo fare i conti con essa. 2.2) In tutte le determinazioni citate compare la fondamentale nozione di individuo, la quale non significa che l'individuo sia indivisibile, ma che è indiviso ossia dotato di unità. L'individualità non implica l'indivisibilità come se l'individuo fosse un a-tomon, ma implica l'esistere come un tutt'uno in sé indiviso, e diviso dagli altri ( indivisum in se et divisum a quolibet alio ). 2.3) Altrettanto centrale è la nozione di sostanza prima. Nelle Categorìe Aristotele la definisce come " ciò che non è in un soggetto ne è predicato di un soggetto ". L'esistere in sé è dunque il carattere della sostanza, che gode di un modo di esistenza che basta a se stessa e che è indipendente da altri soggetti: ciò che esiste in sé e non in altro, e che esercita in proprio l'atto d'esistere, si dice che sussiste ( subsistit in quantum non est in alio sed per se existit ). Il carattere del sussistere rappresenta la proprietà più radicale dell'esistere sostanziale. Preferendo il participio subsistens al nominativo astratto substantìa della definizione boeziana, Tommaso stabilisce il costitutivo formale della persona come un esistente in sé ( o un sussistente ) e come un esistente per sé. Col primo termine si allude al fatto che la persona costituisce una realtà sostanziale, che non esiste in altro o come modo di altro; col secondo che non è in vista d'altro, ma esiste in vista di se stessa ( propter se, non propter aliquid ). Si pone come fine, non come mezzo. Questo carattere essenziale dell'essere persona, ossia il suo valore di fine, sarà ripreso da Kant nella ben nota, seconda formula dell'imperativo categorico. Ma Kant lascerà cadere il carattere ontologicamente antecedente e fondante della sostanzialità o dell'in sé, incamminando la dottrina della persona verso periodiche crisi. La persona sussiste in sé in quanto esercita il proprio atto d'essere, l'atto primo e radicale della sostanza individuale: poiché in esso si radicano e da esso prendono vita tutti gli altri atti ( secondi ) della persona, costituisce la fondamentale dinamizzazione dell'esistenza. 2.4) La concezione della persona quale emerge dalle determinazioni citate, è dunque legata a quella della sostanza, verso cui da secoli una parte del pensiero filosofico nutre un profondo sospetto, desideran-do sostituirla con quella di funzione ( Hume, Kant, Kelsen, Cassirer, ecc. ): su questo aspetto del tutto fondamentale ci soffermeremo ampiamente in questo capitolo e nel cap. IV. Qui basterà anticipare che la modalità più frequente con cui si cerca di dissolvere il concetto di sostanza riducendolo a quello di funzione, consiste nell'immergere ogni asserzione in una prospettiva evoluzionistica: le questioni di essenza e di origine sono negate e riportate entro un onnicomprensivo evoluzionismo. In tal modo tanto l'accertamento ontologico quanto la valutazione morale non sono compiuti richiamandosi a forme ed essenze, ma analizzando processi: le leggi della vita, della persona, dell'etica sono in processo esse stesse. Ciò segna la vittoria non della teoria scientifica dell'evoluzione che ovviamente mantiene un suo ambito di validità, ma di un'ingenua metafisica evoluzionistica secondo cui tutto è in divenire e niente è stabile e fermo. Un assunto in sé contraddittorio. Tanto più importante dunque è mettere in rilievo che nella persona umana il carattere della " razionalità " è immanente in maniera necessaria alla natura umana, nel senso che là dove vi è appartenenza alla specie umana vi è natura umana col suo carattere specifico della " razionalità " o del logos. Ciò significa che là dove è natura umana individuata sono parimenti presenti, per quanto possano risultare inapparenti, l'intellettualità e una persona umana singola e determinata. 2.5) Le espressioni " soggetto individuale ", " sostanza individuale " e " supposito " ( suppositum ), che possiamo assumere come equivalenti, possono riferirsi tanto a " qualcuno " come a " qualcosa ". Ora la persona, che è qualcuno, aggiunge un elemento essenziale a questi termini; è un soggetto ben diverso da tutti quelli che ci appaiono nel mondo visibile, in quanto è dotato di logos, ossia di ragione e di linguaggio. L'accertamento della sua natura non può venire semplicemente ricondotto agli enti del mondo che, pur viventi, possono avere voce ma non pensiero né linguaggio. 2.6) Le definizioni di Boezio e dei suoi successori includono il livello corporeo-biologico-genetico, poiché l'individuo umano è anche corporeo. Di conseguenza ci si può attendere che non venga messo da parte tale livello, diversamente dall'approccio idealistico che considera solo l'autocoscienza, la razionalità e il giudizio morale come elementi costitutivi della persona, e che pertanto introduce una sovradeterminazione della sua idea a svantaggio dell'elemento della corporeità, ritenuta quasi un'aggiunta inessenziale. Ora la persona umana quale unità di corpo e spirito non può essere privata né della componente biologica né di quella dell'anima. Appare un equivoco spiritualistico quello di trascurare l'elemento biologico come accidentale e ininfluente, come è un equivoco biologistico ridurre l'uomo alla sua valenza biologica. Mentre nelle teorie a base empiristica e pluralistica, quale quella di Derek Parfit ( cfr. Ragioni e persone ), la persona sarebbe un insieme di io successivi e di stati successivi privi di un sostrato comune, ciò non accade nell'approccio secondo sostanza. In esso risulta inoltre salvaguardata l'eccedenza della persona rispetto ai propri atti e fondata la differenza tra l'esser persona e la personalità, se con questo ultimo termine intendiamo la progressiva acquisizione su piano operativo ( atto secondo ) di qualità che appartengono alla persona in quanto fluiscono dalla sua essenza, ma che non necessariamente accompagnano fin dall'inizio l'esistenza della persona. Non c'è perciò contraddizione nel sostenere che un individuo può essere ad un tempo persona in atto e personalità in potenza. Mentre il divenir persona come possesso del proprio statuto ontologico radicale non è un processo, ma un evento o atto istantaneo, per cui si è stabiliti nell'esser persona una volta per tutte -, la personalità è qualcosa che si acquista processualmente, attraverso l'effettuazione di atti personali ( secondi ). 3) La persona come totalità e interiorità. La riflessione sinteticamente svolta sulle nozioni che strutturano la realtà della persona, è ad un tempo preziosa ed insufficiente a trasmettere tutta la densità che le è propria. Vi è bisogno di compiere altri passi e di elaborare ulteriormente, senza pensare di poter esaurire l'ambito della vita personale il cui nucleo centrale è parzialmente ineffabile. Anche se questo è vero e so di non poter esprimere l'inesprimibile, intuisco che l'inesprimibile è contenuto e in vario modo trasmesso in quanto è espresso. Quale soggetto sostanziale di natura spirituale, dotato d'intelligenza, libertà, autocoscienza ed interiorità, la persona vive nell'apertura alla totalità dell'essere, secondo una proprietà radicale che è la capacità dell'anima ( mente e volontà ) di porsi in rapporto intenzionale con tutte le cose. Ogni persona vive in un modo originale la sua relazione con l'universo, il suo essere copula mundi e li esprime con caratteri liberi e creativi, proiettando linguaggi sempre nuovi. Essa si presenta soprattutto come un centro di unificazione dinamica che procede dall'interno, un'unità che dura nel tempo al di sotto di tutti i cambiamenti e al di là dei flussi psicologici, della molteplicità delle sensazioni, dello sparpagliamento temporale e spaziale dell'io. Vale perciò come una totalità: la persona non è mai mera parte. Essa è capace di tenersi in mano, di ritornare su se stessa attraverso una autoriflessione compiuta e di scendere in se stessa possedendosi attraverso un'azione immanente. Ciò costituisce l'interiorità, concetto che non andrebbe inteso in senso primariamente spiritualistico ma ontologico. In virtù di tale privilegio l'io non è principalmente determinato dall'esterno ma si determina a partire da se stesso, rispondendo attivamente agli stimoli esterni e operando scelte. L'interiorità non possiede una portata soltanto psicologica avente a che fare con la coscienza e la memoria; costituisce una modalità d'essere e una " rivelazione " del fatto che, non essendo tutto in superficie secondo estensione e durata, esiste la dimensione del profondo e dell'intimo. Con la persona viene a manifestazione una profondità di ciò che è individuale ben maggiore di quella riscontrabile negli individui esclusivamente materiali: questi non possiedono alcuna interiorità, la persona sì, e ciò rivela un nuovo volto dell'essere. Interiorità significa altresì, stando in se stessi, esistere dinanzi all'altro e attivare la perfetta esteriorità della relazione con lui. Senza forzature si può sostenere che la relazione interpersonale è incontro nell'esteriorità di due interiorità. Proprio a tale livello inizia un cammina mai finito verso l'unità delle manifestazioni della persona ( esperienza che la sapienza indiana chiama col termine " advaita " ): raggiungere nei registri psicologico, affettivo, dell'agire e del pensare quell'unità che l'uomo possiede in radice, che gli è già data e che consiste nell'unità ontologica del suo atto d'essere. L'uomo deve diventare ( psicologicamente, moralmente ) quello che è già ontologicamente. Raggiungere l'interiorità è per ogni uomo tornare verso il centro di se stessi, operando un controesodo o un " controesilio ". Ogni persona è in esilio da se stessa. È un Ulisse che cerca costantemente il sentiero verso il proprio paese natale, che è in cammino verso Itaca, il proprio luogo interiore. Quando il viaggio ha successo, l'io riposa nel proprio centro, di cui durante il tempo anteriore conosce qualcosa nei simboli, nei segni, negli eventi del proprio esistere. Itaca come manifestazione del centro è il luogo dove l'io può incontrare la Realtà Ultima. Entro il quadro dell'interiorità si colloca il tema del cuore, di cui leggiamo nella Bibbia: " La radice del pensiero è il cuore " ( Sir 37,17 ), ed anche: " Custodisci il tuo cuore con ogni cura, poiché da esso sgorga la vita " ( Pr 4,23 ). Il cuore dunque come centro della persona, come luogo intimo di ciò che è più umano e personale, per cui un uomo " senza cuore " non è in primo luogo un malvagio ma un uomo poco uomo, un uomo riuscito a metà. Una filosofia che conosce il valore del cuore difficilmente si ingannerà sulla persona perché, rifuggendo dal razionalismo che vede nell'uomo solo l'attività razionale della mente, non lascerà da parte l'amore, gli affetti, i sentimenti, il patire. E sarà in grado di porsi come philosophia cordis, secondo cui la sopportazione del dolore rivela in profondità l'universo della persona. Una filosofia della persona come interiorità oggettiva è in grado di fondare l'intuizione di Kierkegaard, secondo cui il singolo è irriducibile al genere o alla totalità delle cose esistenti. Per la persona vale la legge che il singolo sta più in alto del genere: è un qualcuno, non un qualcosa, e come tale esiste in modo assoluto di fronte all'Assoluto. Essendo la sola creatura nell'universo voluta in vista di se stessa e non di altro ( solo la persona è propter se quaesita in universo dal creatore, osserva Tommaso ), essa è un microcosmo, un'immagine finita e incompiuta dell'infinito e perciò infinitamente moltiplicabile senza rischio di duplicazioni e ripetizioni. 3. Coprimento o controapocalisse della persona. Excursus sul suo concetto nella modernità Dopo la straordinaria esplorazione compiuta dai medievali sulla persona, la sua questione ha avuto innumerevoli riprese nella filosofia moderna, spesso all'insegna di periodiche crisi. Non vogliamo tracciarne qui la vicenda da Boezio ad oggi, ma il suo dipanarsi dall'Umanesimo in avanti. Il filo conduttore che intendiamo verificare in questo excursus o sintetico raccourci consiste nell'idea che nella modernità filosofica sia accaduto un velamento della persona, che sarei tentato di chiamare una " controapocalisse ", per quanto concerne non la sua dignità, numerose volte affermata, ma le sue radici ontologiche sostanziali. La crisi della sostanza in molte scuole della modernità impedisce la formazione di un adeguato personalismo a base ontologica. L'interrogativo che si ripropone è se l'esser persona si riconduca semplicemente all'esercizio di certe attività, o primariamente al possesso di una determinata natura/essenza, da cui scaturiscano operazioni specifiche proprie. Per anticipare quanto ci pare emerga dall'esame degli autori analizzati, la direzione prevalente nella filosofia moderna, salvo limitate ma autorevoli eccezioni ( Rosmini, Maritain, ecc. ), è stata di togliere alla persona la sostanzialità e di mantenerle, seppure non sempre, il valore di fine, quando non sia accaduto di negarli entrambi, pervenendo alla risoluzione-dissoluzione antiumanistica dell'uomo. Per fissare i termini, talvolta denominerò la sostanzialità come " inseità " ( dal latino in se, carattere proprio della sostanza ), e il valore di fine come " perseità " ( da per se ). Quando ha accolto quest'ultimo aspetto, la filosofia moderna ha operato come un'etica che si esprime con concetti di azione quali libertà, coscienza, autocoscienza, razionalità, memoria, non in termini di essere e di sostanza. Il primo è un registro attualistico ( ossia relativo all'azione e alle operazioni dell'io ), l'altro ontologico; e se è possibile comprendere in questo anche l'altro, appare assai arduo includere nello schema attualistìco quello ontologico. Forse il miglior esempio di ciò è l'idealismo, che nega al soggetto la sostanzialità e ne mette in luce quasi esclusivamente l'attività. Ma senza sostanzialità non vi è in senso proprio la radice e l'individualità della persona. Ci si trovava perciò dinanzi a una curiosa situazione, ossia che le filosofie della modernità formulate in prima persona ( io penso, io parlo, io agisco, ecc. ) potevano di primo acchito sembrare aperte al registro della sostanza e dell'essere, mentre di fatto si mostrarono in genere lontane e ostili a esso. 1) L'epoca dell'Umanesimo. Il pensiero dell'Umanesimo si nutriva di una filosofia religiosa della persona e così in parte quella del Rinascimento: la parola stessa di Rinascimento, con l'allusione esplicita al tema biblico ( soprattutto giovanneo e paolino ) della rinascita spirituale o nuova nascita ( renascentia ), rivelava l'origine religiosa del concetto. Se si volesse preparare una galleria di filosofi dell'Umanesimo, ne scaturirebbe il seguente elenco: Ambrogio Traversari ( 1386-1439 ), Giannozzo Manetti ( 1396-1459 ), Marsilio Ficino ( 1433-1499 ), Nicolo Cusano ( 1460-1464 ), Vittorino da Feltre ( 1378-1446 ), Giovanni Fico della Mirandola ( 1463-1494 ), Erasmo da Rotterdam ( 1466-1536 ), Tommaso Moro ( 1477-1535 ). L'opera in certo modo riassuntiva dello spirito dell'Umanesimo religioso può essere indicata nella pichiana Oratio de hominis dignitate: l'uomo è immagine di Dio ( imago Dei ) ed ha la capacità di progettare se stesso nella libertà. Qualcosa di molto simile espone Giannozzo Manetti nel suo scritto De dignitate et excellentia hominis: " Dopo che Dio ebbe creato gli uomini, li benedisse e li fece padroni di tutte le cose create, e sovrani e signori assoluti di tutta la terra ". In questo l'Umanesimo si poneva come un grandioso commento ad alcuni versetti del Salmo 8: " Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché tè ne ricordi, il figlio dell'uomo perché tè ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi ". Pico e Manetti sposano la posizione cristiana che, non separando Dio e uomo ma assumendone l'endiadi come inscindibile pur nella invalicabile differenza, si esprime per un umanesimo teocentrico, che dopo tre secoli avrebbe dovuto far fronte all'attacco dell'umanesimo ateo, segnato dalla cifra dell'uomo senza Dio o dell'uomo contro Dio. Ma già pochi decenni più tardi la posizione umanistica avrebbe subito il rifiuto luterano. Per la non più cattolica posizione del De servo arbitrio " il libero arbitrio è un dono divino e non può che convenire alla maestà divina … Attribuirlo agli uomini, sarebbe attribuirgli la divinità, cioè proferire la più grande bestemmia che si possa concepire ". Lutero apre qui un sentiero rischioso poiché, lasciando intravedere una concorrenza tra Dio e l'uomo, tutto ciò che si attribuisce all'uomo è considerato come tolto a Dio. Posizione che avrebbe compiuto un lungo cammino nell'Europa rinascimentale e poi moderna, e che sostanzialmente si ritrova nell'ateismo di Feuerbach e di Marx ( tante più cose l'uomo proietta in Dio, tanto meno ne conserva per sé ), nonostante l'opposto indice assiologico. Il pensiero dell'Umanesimo invece s'incardinava in larga misura intorno alla corrispondenza, considerata necessaria, tra teologia e antropologia. Essa sfociava in una concezione umanistico-cristiana della presenza di Dio nell'uomo, di modo che la concezione della persona umana era tenuta entro giusti confini da un'adeguata concezione di Dio. A partire dal Rinascimento è cominciata nella storia culturale dell'Europa, dapprima impercettibilmente e poi con crescente velocità, un processo di deterioramento dell'idea di Dio, di quella dell'uomo e del loro rapporto, che attraverso le fasi della separazione cartesiana tra filosofia e teologia, del dualismo antropologico tra res extensa e res cogitans, del razionalismo metafìsico e dell'illuminismo, ha condotto a crisi l'idea di Dio e quella dell'uomo, e dischiuso la strada all'affermazione atea. Nel secolare processo del pensiero europeo si verificarono qualificati punti di resistenza, ma una sua direzione importante procedeva verso una progressiva degradazione dell'idea di Dio e della sua presenza nella storia, con la connessa critica di ogni rivelazione e l'enfasi sulla religione naturale, sino al Dio architetto e orologiaio dell'universo del deismo. L'Umanesimo con lo slancio e la giovanile confidenza in se stesso che lo denotava, inclinava a concepire speranze eccessive. Di ciò rende testimonianza un'idea soverchiamente risplendente di filosofia, intesa platonicamente come avvio alla religione: " quod si natura rudimentum est gratiae, utique et philosophia inchoatio est religionis, neque est philosophia quae a religione hominem semovet " ( Pico, Heptaplus, Exp. 7, Proem. ). Massima è in proposito la distanza dalla Riforma che con Lutero sarebbe andata all'estremo opposto, sostenendo l'inconciliabilità fra ragione e rivelazione e considerando la prima semplicemente come prostituta di Satana. Di fatto la filosofia ancora cristiana dell'Umanesimo non resistette a lungo, fu una promessa breve o, per usare la vivida espressione di H. de Lubac a proposito di Pico della Mirandola e della sua precoce morte, fu l'alba incompiuta del Rinascimento. " Il suo [ di Pico ] genio precoce dominava e oltrepassava il suo ambiente. Quali che dovevano essere le circostanze, grandissime speranze potevano esser fondate su di lui per imprimere un nuovo slancio al pensiero cristiano. Ora ecco che egli muore a trentun anni … Quale sarebbe stata la sua azione sui contemporanei, sulla teologia, sulla vita della chiesa? … L'Europa cristiana poteva attendere molto da lui ". Nelle pagine finali della sua ricerca de Lubac, deponendo per un momento gli strumenti dell'indagine storica, si sofferma a congetturare quale avrebbe potuto essere il destino dell'Europa se Pico avesse incontrato Erasmo ( entrambi condussero una battaglia analoga ), il Gaetano e Lutero. La prospettiva umanistica individuava l'humanitas dell'homo humanus nel contemplare e nell'agire rettamente ( theorein e recte agere ), ed era perciò attenta a non ridurre l'uomo all'insieme dei rapporti sociali, alla ragione calcolante, al linguaggio, allo strato organico-vitale. Ponendosi alla scuola della metafisica della partecipazione e della teologia cristiana, l'umanesimo comprendeva la paradossale compresenza nell'uomo di finito e infinito, e vedeva nel rapporto tra Dio e il mondo l'esempio di una trascendenza immanente del primo nel secondo. Successivamente la filosofia della persona ha dovuto attraversare il deserto del razionalismo, i cui ultimi ingombranti spezzoni vivono ancora tra noi. Ha il razionalismo mai saputo che cosa sia la persona ( e che cosa l'amore )? O piuttosto l'ha accantonata e, scambiando la parte per il tutto, l'ha sostituita con il cogito, la mente, il pensiero, la dialettica, le forme a priori? In Agostino il filosofo vuol sapere solo dell'anima e di Dio; e l'anima è un padiglione dalle molte dimore, un'interiorità oggettiva ma non pienamente autotrasparen te, su cui il pensiero si appoggia per trovare il trascendente e le orme immanenti di una struttura trinitaria dell'essere personale. Col razionalismo cartesiano l'anima diviene res cogitans che si sforza di formare idee chiare e distinte. La riduzione dell'anima a cogito, ossia ad una soltanto delle sue operazioni, media il passaggio dall'interiorità agostiniana a quella cartesiana e del razionalismo, dove l'anima è intesa soprattutto come mente e attività pensante. 2) Da Cartesio a Locke e Hume. La filosofia della persona è stata posta in crisi da Cartesio col netto dualismo antropologico introdotto, con l'idea della autotrasparenza dell'io a se stesso, con l'assunto che il concetto di io pensante fosse perfettamente chiaro e distinto, e specialmente col modo equivoco con cui è definita la sostanza: " Per substantiam nihil aliud intelligere possumus quam rem quae ita existit ut nulla alia rè indigeat ad existendum " ( Principia philosophiae. I, 51 ). Spezzando l'unità dell'uomo in due sostanze indipendenti ( pensante ed estesa ), Cartesio dovette confrontarsi col problema di " localizzare " la persona, e lo risolse individuando nel pensiero autocosciente il carattere principale dell'esser-persona. Ego cogito significa che il pensare è un'attività per la quale un soggetto-per-sona deve essere posto come causa. È attraverso l'atto del pensare che io sono certo di me stesso, del mio esistere. Successivamente Kant con la critica al paralogismo della psicologia razionale ritenne impossibile mostrare la sostanzialità dell'anima. Col fatto che le categorie dell'azione passano davanti a quelle dell'essere, l'analisi filosofica lascia da parte l'atto d'essere ( actus essendi ) in cui risiede la continuità profonda della persona e della sostanza. In ciò deve ravvisarsi una tappa del moderno oblio dell'essere, la cui implicazione immediata è l'oblio o il fraintendimento della sostanza, dal momento che questa è la prima realizzazione o concrezione dell'essere. Nel postcartesianismo, ossia in Locke, Hume e Kant, diventa più difficile mantenere il significato originario di sostanza, già avviato su dubbie strade da Cartesio e Spinoza. Ciò è del resto ben presente in Locke che osserva: " Se qualcuno vorrà esaminare la propria nozione di pura sostanza in generale, troverà che non ne ha nessun'altra idea se non la supposizione di non si sa quale sostegno di quelle qualità che sono capaci di produrre idee semplici in noi; qualità che comunemente si chiamano accidenti … L'idea quindi alla quale diamo il nome generale di sostanza, non è altro che il sostegno supposto ma sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti, che non possiamo immaginare sussistano sine rè substante, senza qualcosa per sostenerle; e chiamiamo perciò quel sostegno substantia ". La sostanza diventa qualcosa di misterioso, una sorta di gruccia invisibile che dobbiamo presupporre per potervi innestare le qualità visibili. Il problema di Locke è forse più quello dell'identità personale e dei modi di accertarla piuttosto che quello della natura della persona. Domandando per che cosa stia il termine " persona ", risponde: " Per un essere pensante, intelligente, dotato di ragione e di riflessione, che può considerare se stessa come se stessa, cioè la stessa cosa pensante, in diversi tempi e luoghi, il che accade solamente mediante quella coscienza che è inseparabile dal pensare ". Pertanto l'io non è determinato dall'identità della sostanza, ma solo dall'identità della coscienza: " Questo ci può mostrare in che consista l'identità personale: non nell'identità della sostanza ma, come ho detto, nell'identità della coscienza, per cui se Socrate e l'attuale sindaco di Queinsborough si trovano d'accordo, sono la stessa persona … Null'altro che la coscienza può unire esistenze remote nella stessa persona … senza coscienza non vi è persona ". " E fin dove questa coscienza può esser estesa indietro ad una qualsiasi azione o pensiero del passato, fin lì giunge l'identità di quella persona; si tratta dello stesso io ora e allora ed è dallo stesso io - lo stesso di quello attuale che ora riflette su di esso - che quell'azione venne compiuta " ( p. 395 ). Secondo il filosofo inglese lo stesso io può continuare nella stessa sostanza o in sostanze diverse. L'essere persona è dunque collegato ( qui Locke rimane pienamente cartesiano ) al pensare e alla coscienza, e l'identità personale è posta nella coscienza. " Poiché è la stessa coscienza che fa sì che un uomo sia se stesso per se stesso, l'identità personale dipende proprio e solamente da questa, sia essa connessa ad una sostanza individuale sia che possa continuarsi in una successione di varie sostanze " ( p. 396 ). Locke sostiene l'idea curiosa che il cambiamento di sostanza di una persona nel mantenimento della coscienza non darebbe luogo a diverse persone: in altre parole, se effettuiamo un completo trapianto di corpo e il mantenimento della coscienza, non vi sarà alcun mutamento di persona. Ciò sembra dipendere, oltre che dal suo rimanere fedele al dualismo cartesiano, dalla dissoluzione della dottrina della sostanza nel suo pensiero. Nell'empirismo di Hume, per il quale è dubbio che si possa parlare di unità e identità dell'io, la persona come concetto sostanziale scompare senza residui. L'io è un flusso ininterrotto e torrenziale di percezioni e fenomeni, la cui unica unificazione è la memoria: " quando rifletto su me stesso, non percepisco mai questo io senza una o più percezioni, ne percepisco mai altro fuori di queste percezioni. E l'insieme di queste, dunque, che forma l'io … Il pensiero, solo, trova l'identità personale, quando, riflettendo sulla serie delle percezioni passate che compongono la mente, le idee di esse sono sentite come connesse insieme, e l'una tira con sé l'altra ". Questo è quanto Hume afferma nell'Appendice al Treatìse. Nel libro I ( Sull'intelletto ), nel paragrafo sull'identità personale aveva sostenuto: " Noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento … La mente è una specie di teatro dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un'infinita varietà di atteggiamenti e situazioni … Poiché la memoria, sola, ci fa conoscere la continuità e l'estensione di questa successione di percezioni, essa deve essere considerata, per tal ragione principalmente, l'origine dell'identità personale. Se non avessimo la memoria, non si potrebbe avere nessuna nozione della causalità, né, per conseguenza, di quel concatenamento di cause ed effetti che costituisce il nostro io, o la nostra persona ". La natura dell'io/persona risulta ormai pienamente psicologizzata, fenomenizzata, de-ontologizzata. Il soggetto è soltanto l'attaccapanni della memoria, un punto di accumulo di un processo, e la memoria un collante che cerca di tenere insieme alla bell'e meglio il flusso molteplice delle percezioni: se la memoria si indebolisce, altrettanto accade dell'unità e identità dell'io, fragile isola pronta ad essere dissella nella molteplicità pura. Oltreché la sostanzialità della persona dilegua in Hume il concetto di interiorità, poiché non c'è interiorità dove sussiste solo una memoria psicologica spazializzata, temporale e senza la dimensione della profondità. " Per parte mia, quanto più profondamente mi addentro in ciò che chiamo me stesso, sempre mi imbatto in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, d'amore o di odio, di dolore o di piacere, o d'altro. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che l'atto del percepire ". La critica lockeana alla sostanza e il resoconto humeano della mente e della conoscenza, non esenti da superficialità e assenza di domande ulteriori, inducono a pensare che l'empirismo sia una filosofia di bocca buona, ossia che si accontenta facilmente, e che tale esito si colleghi all'oblio dell'essere in cui giace. 3) Kant. In Kant l'idea di sostanza entra in crisi perché noumenica. Rimane la substantia phaenomenon che però si riduce a rapporti, " ed essa stessa non è altro che un complesso di semplici relazioni. Noi conosciamo la sostanza nello spazio soltanto mediante forze che operano in esso, sia attirandone altre ( attrazione ), sia impedendo alle altre d'entrare ( repulsione e impenetrabilità ), non conosciamo altre proprietà che costituiscano il concetto della sostanza, che è fenomenicamente nello spazio e che chiamiamo materia ". In base alla semplice autocoscienza scaturente dalla proposizione " io esisto pensando ", che secondo Kant è soltanto empirica, " non è assolutamente possibile determinare il modo in cui io esisto, se come sostanza o come accidente … e la conclusione è che in qualunque modo noi non possiamo conoscere nulla della natura della nostra anima, che riguarda la possibilità della sua esistenza separata in generale ". In quanto la proposizione " Io penso " o " Io esisto pensando " è ritenuta empirica, non si può per Kant inferirne alcuna sostanzialità. La discussione kantiana della psicologia razionale, condotta al di fuori d'ogni considerazione d'essere, non può che condurre all'assunto che " l'Io non è se non la coscienza del mio pensiero ", dove la sostanzialità della persona è risolta in una coscienza come autocoscienza, intesa come consapevolezza dello stare pensando. Con Kant viene a maturazione il personalismo assiologico, nel senso che l'essere persona diventa una qualità morale elevata, denotata dalla coscienza morale dell'io, dall'autonomia autolegislatrice della ragion pura pratica, dal rapporto con la legge morale: " Il secondo [ spettacolo, quello offerto dalla legge morale in me ] eleva infinitamente il mio valore, come valore di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile ". La seconda formulazione dell'imperativo categorico domanda di trattare la persona sempre anche come fine e mai solo come mezzo. Servendosi delle nozioni di dignità e di prezzo e ponendole in opposizione, Kant distingue la persona come fine in sé e dotata di dignità dalle cose che hanno solo prezzo e non dignità. Tuttavia l'interiorità assiologica legata alla presenza della legge morale non è ancora un'interiorità ontologica connessa al l'autopossesso in-statico del proprio atto d'essere. Al di là del registro morale, non pare esservi in Kant l'idea di persona come specifico modo d'essere di una sostanza spirituale, ma l'unità dell'io-coscienza e l'unità sintetica originaria dell'appercezione, espressa nell' " Io penso ". Difficilmente può venire attribuita interiorità a tale io, che viceversa potrebbe assomigliare a una macchina logica. Approccio trascendentale kantiano e interiorità non vanno d'accordo, se nell'interiorità si trovano l'amore e il desiderio, sconosciuti all'io trascendentale come unità sintetica originaria dell'appercezione. Ossia il soggetto logico costante del pensare ( Io penso ) non può essere spacciato per il soggetto reale cui inerisce il pensiero. In Kant emerge come centrale l'elemento della dignità della persona, certo un grande e duraturo guadagno. Rimane invece indeterminato un aspetto essenziale, la risposta alla domanda su chi sia persona, a chi spetti l'esser-persona, un'attribuzione legata a filo doppio ad un'ontologia metafisica della sostanza. Ciò ultimamente significa che il criterio kantiano non è in grado di operare una determinazione discriminante tra l'essere o non-essere persona, e questo emerge specialmente negli stati di confine quali l'inizio o la fine della vita, ossia proprio là dove il discernere risulta più necessario. Con la filosofia critica di Kant rimane alla persona il carattere della " perseità ", cioè di valere per sé, come fine e non in vista d'altro, mentre scompare quello della " inseità " cioè della sostanzialità, in linea con la generale crisi della metafisica della sostanza, che si accentua in maniera dirompente nei neokantiani quali Kelsen e Cassirer ( di cui cfr. Substanzbegriff una Funktionsbegriff, Darmstat 1980, 1° ed. Berlin 1910 ). Su ciò Kelsen ha detto l'essenziale, mettendo così in luce l'esecuzione dell'idea di persona che l'empirismo e il funzionalismo provocano attraverso il rifiuto del concetto di sostanza: " La dottrina pura del diritto ha riconosciuto il concetto di persona come un concetto di sostanza, come la ipostatizzazione di postulati etico-politici ( per es. libertà, proprietà ), e lo ha perciò dissello. Come nello spirito della filosofia kantiana, tutta la sostanza viene ridotta a funzione ". La dissoluzione neokantiana e successivamente neoidealistica della sostanza costituisce un passo notevole verso la crisi dell'idea di persona e del conseguente personalismo, poiché rimane solo la strada di un personalismo assiologico, importante certo ma insufficiente per dirimere o comunque affrontare delicati problemi quali quelli posti dalle biotecnologie. Il punto di arrivo della dialettica discendente che parte dalla negazione di ogni sostanzialità dell'io personale, non può esser altro che la completa fenomenicità della persona. Trattando del significato gnoseologico ultimo della posizione oggettivistica che si corona nel primato del diritto internazionale sull'ordinamento giuridico statuale, Kelsen osserva: " Una concezione oggettivistica del mondo, viceversa, parte dal mondo per arrivare all'io. Essa presuppone una oggettiva ragione universale, uno spirito del mondo di cui le soggettivizzazioni o concretizzazioni, gli individui che conoscono e vogliono, sono solo forme fenomeniche assai effimere e temporanee, i cui spiriti sono coordinati e affini, solo in quanto parti integranti dello spirito universale del mondo, la cui ragione conoscente è solo emanazione della suprema ragione universale, il cui io non è che il feudo dell'io universale unico sovrano … ". Espressioni particolarmente rivelatrici nella loro asprezza antipersonalistica, in cui la " persona " è solo un feudo di un ipotetico io trascendentale, e che limitano di molto la portata della pur nobile idea della civitas maxima, spesso avanzata dall'autore. Ma anche espressioni che conseguono coerentemente all'abbandono della sostanzialità. Esse, veicolando la fatale idea che la persona è mera parte, equivalgono ad una piena negazione dell'idea di persona. Non resta qui che anticipare una grande frase dell'Aquinate: la nozione di parte è contraria a quella di persona ( ratio partis contrariatur rationi personae ), su cui torneremo. In genere neppure nell'idealismo, pur così propenso a parlare di soggettività e di spirito, si può rintracciare una vera e propria dottrina sulla persona. Secondo Berdjaev " l'idealismo filosofico quale appare nella filosofìa tedesca all'inizio del XIX secolo, conduce all'impersonalismo, non contiene alcuna dottrina della persona. Ciò appare in special modo nella dottrina di Fichte sull'Io, che non ha nulla della persona umana ". Analogamente il tema dell'antipersonalismo e del tentativo di dissolvere il principio-persona si pone in Hegel, in Marx, nel positivismo e neopositivismo e nell'empirismo radicale che vi si connette, in Weber e in maniera sottotraccia in C. Schmitt. Per quanto concerne il marxismo non è qui il caso di ricordare la sesta tesi di Marx su Feuerbach, che riduce l'uomo all'insieme dei rapporti sociali. A questo punto dell'esplorazione emerge che la sostanzialità del soggetto personale è negata tanto nel monismo razionalistico uscito da Spinoza e rinnovato nell'idealismo, quanto nel fenomenismo empiristico, sia pure in base ad opposte considerazioni. Il monismo nega la sostanzialità dell'io poiché rifiuta l'idea che esso esista come realmente distinto da tutto ciò che lo circonda, e il fenomenismo obietta all'idea che l'io sia un'unità indivisa, pensandolo invece come un flusso caotico di sensazioni senza unità e perfino come una federazione di anime. Ossia le due prospettive rifiutano l'una o l'altra parte della determinazione di individuo come indivisum in se et divisum a quolibet alio. 4) Nietzsche. È con Nietzsche che si raggiunge il vertice della dissoluzione dell'idea di persona cui si sottrae la forma unitaria dell'anima e della razionalità, risolta in un caotico fascio di pulsioni e sensazioni. Per Nietzsche tanto il pensare quanto l'autore del pensare ( il soggetto ) sono fittizi, poiché non esistono né l'atto del pensare né il substrato soggettivo in cui avrebbe origine il pensare, e il mondo interiore ha carattere fenomenico. Conseguentemente non si da soggetto, e men che meno persona. Sono gli errori della lingua, ove si sono pietrificati quelli della ragione, a farci pensare all'io con l'impiego appunto dei termini " soggetto " e " io ". In realtà esiste solo l'agire senza alcun agente: " la seduzione della lingua … intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente, da un " soggetto ". Non esiste alcun sostrato, nessun essere al di sotto del fare: " colui che fa' non è che fittiziamente aggiunto al fare - il fare è tutto ". Se il fare è tutto, è perché l'essere e la sostanza sono niente. I soggetti sono solo illusioni grammaticali, l'interiorità un nome menzognero con cui si copre un immenso vuoto. La stoffa profonda della realtà è solo volontà di potenza, che si ramifica nella psiche; a sua volta la psicologia è solo morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza. Domandiamo però: senza soggetto, dove abita l'Ubermensch? In Nietzsche l'uomo è ponte e trapasso verso l'oltreuomo capace di recuperare in pienezza il senso della terra, dopo aver per un certo tempo creduto ed abitato un " mondo dietro il mondo ". Il superamento dell'uomo stanco, proiettato verso il mondo dietro il mondo, e il superamento del cristianesimo compongono in lui un cammino unico che mette in causa il dogma d'istologico: il senso salvifico di Dio che si fa uomo si annulla nel momento stesso in cui non vi è più uomo ma oltreuomo. In certo modo l'annientamento dell'idea di umanità è funzionale all'annientamento della religione del farsi uomo di Dio. Qui Nietzsche è profeta di un'umanità e di una oltreumanità senza prossimo. Rientra nell'intenzionalità decostruente del nicciano " filosofare col martello " l'attacco alla " superstizione popolare di età immemorabile ", la superstizione dell'anima e dell'io. Occorre sferrare un colpo decisivo a quel bisogno metafisico che si esprime nella funesta dottrina cristiana dell' " atomismo delle anime ", ossia " quella credenza che considera l'anima come qualcosa di indistruttibile, di eterno, d'indivisibile, come una monade, come un atomon; questa credenza deve essere estirpata dalla scienza! ". Bisogna invece pensare l'anima come un condensato, un punto d'aggregazione della struttura sociale degli istinti e delle passioni. Non dunque " io penso ", ma " esso pensa "; non è il soggetto " io " la condizione del predicato " penso ". Su una lunghezza d'onda analoga si collocano lo strutturalismo e le filosofie che riducono l'uomo a semplice particella del Tutto, a fenomeno di una natura ingenerata ed eterna, nella quale è destinato a dissolversi completamente: qui il tema dell'identità diacronica o transtemporale della persona non si pone, perché manca il soggetto/suppositum. Profonda è in tali casi l'ostilità all'interiorità. Basterà qui ricordare l'assunto di Foucault secondo cui l'uomo è tramontato, sostituito da una struttura impersonale, ad es. la lingua che parla in noi, e l'antiumanesimo, espresso lapidariamente da C. Lévi-Strauss: " il n'y a de sens que par l'homme, lequel n'a pas de sens ". Non bisogna essere troppo inclini a sottovalutare l'influsso antiumanistico di queste posizioni moderne e tardo moderne sulla vita sociale e politica. L'antipersonalismo si è fatto carne e mondo, è entrato nella storia degli uomini, è stato una componente essenziale del terribile fenomeno dei totalitarismi, che assumono sin dal primo passo la priorità del sociale, del collettivo, del gruppo sul singolo: la riconduzione del singolo al genere, nel quale soltanto egli può avere realtà e senso, è l'anima del totalitarismo. 5) Il XX secolo 5.1) Heidegger. Polemizzando con Sartre, Heidegger scriveva che noi siamo su un piano in cui c'è soprattutto l'essere, ed il Dasein appartiene al modo d'essere nel mondo, segnato dalla temporalità e dalla finitezza. Le determinazioni heideggeriane secondo cui " l'essenza dell'esserci consiste nella sua esistenza " ( Sein una Zeit, p. 42 ), o anche " l'uomo dispiega la sua essenza ( west ) in modo da essere il 'ci' ( Da ), cioè la radura dell'essere " non paiono definizioni personalistiche. La celebre Lettera sull'umanismo non è né vuole essere una " lettera sul personalismo ": essa tace completamente sulla persona, procedendo a separare umanesimo e persona. Mentre Heidegger sottopone a critica l'idea di uomo come animal rationale, non introduce il concetto di persona. Criticare l'umanesimo greco ed europeo a partire dalla sola determinazione di uomo come animale razionale rappresenta una di quelle inaccettabili semplificazioni in cui la pagina heideggeriana incorre non di rado, e che nel caso in esame si concreta nell'assunto secondo cui cristianesimo, esistenzialismo e marxismo sono varietà di umanismo che si differenziano solo superficialmente. Data più o meno dagli anni della Lettera sull'umanismo l'apertura di una notevole falla nel progetto umanistico, con l'avvento del pensiero postumanistico e antiumanistico, di cui si sono fatte portatrici le ali radicali delle scienze umane. Se non si incontra in Heidegger l'idea che il livello più alto dell'essere sia l'esistenza personale, il Dasein difficilmente può valere come efficace surrogato della persona, la cui categoria capitale non consiste dell'essere-nel-mondo, ma nell'interiorità ontologica di un atto primo d'esistenza di carattere sostanziale e spirituale. Per raddrizzare la sua formulazione, si dovrebbe dire: noi siamo in un piano in cui c'è soprattutto l'essere, e la sua più alta modalità è l'esistenza in forma personale. La declinazione quasi fenomenologica degli atti secondi del Dasein, quali la cura, la chiacchiera, ecc. ( vedi Essere e tempo ) potrebbe risultare preparatoria ad un transito verso la persona, che non sembra accadere in Heidegger. Tuttavia in lui ( cfr. " La questione della tecnica " ) vi è la consapevolezza che il soggetto moderno il quale con la tecnica fa ruotare intorno a sé ogni altro ente, può alla fine indirizzare tale potenza verso se stesso e diventare lui stesso quel " fondo " ( Bestand ) da sfruttare così come si sfrutta un serbatoio di energia. L'imposizione tecnica mette in pericolo l'uomo nel suo rapporto con se stesso e con le cose, poiché rimanda al disvelamento nella forma dell'impiegare: quest'ultimo scaccia ogni altra possibilità del disvelare. Quando tutto ciò che è si presenta all'uomo soltanto come " fondo ", proprio allora l'uomo corre il massimo pericolo, in quanto egli stesso può essere considerato solo come " fondo ". Un varco rimane aperto per una più compiuta elaborazione sul soggetto-persona. 5.2) Gentile. Più precaria è la situazione della persona nel neoidealismo, in specie nell'attualismo gentiliano dove accade, come già in Hegel, l'immolazione dialettica della persona, di cui è segno la completa funzionalità dell'io empirico allo Stato e, da un altro punto di vista, la sua inespiabile mortalità. Anche per Gentile vale la grande regola in cui Engeis ravvisava il cuore della dialettica: " tutto ciò che esiste, merita di morire " ( su questi aspetti vedi infra al cap. IV ). Nel capitolo " Individuo " del volume Genesi e struttura della società ( a cura di G. Brianese, Gallone Editore, Milano 1997 ) Gentile coglie che per Aristotele l'individuo è sostanza, è cioè un essere determinato, unità di materia e forma, ma rifiuta quasi sprezzantemente questa posizione considerata espressione di un realismo ingenuo, che non comprende che l'individuo non è un essere naturale. La sua unità non sta nella natura ma nello spirito, " nell'Io che la sua unità conferisce a tutte le cose a lui opposte, che egli stringe in un nesso indivisibile, che è il sistema della coscienza e del pensiero … L'unità dell'Io è infinita, universale, intrascendibile, assoluta " ( p. 14 e s. ). Che cosa ne è della concretezza dell'individuo? Essa " non è quella dell'esistenza sensibile nello spazio e nel tempo, nella natu ra: ma quella invece dell'essere che esiste nello spirito, come autocoscienza ". Bisogna guardarsi, aggiunge Gentile, dal rappresentare l'individuo tra gli individui nella loro corpulenza tra gli oggetti dell'esperienza, poiché " l'individuo così rappresentato è sempre l'individuo realistico e aristotelico dal cui fantasma il pensiero deve liberarsi " ( p. 23; ma non è l'unico individuo che veramente conosciamo e che ci deve stare a cuore? ). Comunque la grande parola è stata detta e ridetta: autocoscienza, che appunto è atto secondo e funzione. E chi non la possiede ancora come gli infanti? Per Gentile non sono individui, però noi facciamo loro credito ritenendo che dimostreranno la capacità di diventare quegli individui che alla nascita ancora non sono; una previsione, aggiunge, che interamente non si avvera mai. Avvolgendosi in formule oscure e retoriche, dove dovunque risuona " spirito, spirito; Io, Io ", Gentile ha assestato un colpo notevole alla dottrina della persona. l suo nucleo ontologico-sostanzialistico è risolto in funzione, e la funzione è processo dove non permane alcun valore assoluto, compreso quello della dignità della persona. 5.3) L'orientamento empiristico. I pensatori di orientamento empiristico tendono a cancellare l'idea di dignità della natura umana e della persona e a sostituirle quella di dignità ( o viltà ) della vita. Ossia cancellano un concetto ontologico collocando al suo posto un concetto morale, coerentemente col deciso rifiuto empiristico di ogni conoscenza diversa da quella empirica e scientifica, e con l'incapacità, in cui l'empirismo versa, di intendere la realtà sotto il concetto di essere e di sostanza, e parimenti sotto quelli di natura ed essenza. Il loro problema è considerato irresolubile. Ciò implica che in base alle posizioni dell'empirismo vada abbandonata la pretesa di attribuire alla natura umana uno statuto di superiorità ontologica nei confronti degli altri esseri animali, di considerare dotato di senso il concetto di dignità dell'uomo, e di connettere questa dignità ad un valore intrinseco o a una realtà sostanziale. Si ritiene dunque che la domanda sull'eventuale dignità della vita umana possa venire posta solo dopo aver definitivamente accantonato la vecchia questione sulla dignità della natura umana e lo schema concettuale-reale che intendeva offrire una fondazione ontologica a tale valore. Il passaggio dalla dignità della natura umana alla dignità della vita umana apporta una conferma ulteriore allo slittamento intervenuto dalle categorie dell'essere a quelle dell'agire. Tuttavia anche il concetto di vita umana ( e sua dignità ), in quanto denotante un'essenza, dovrebbe risultare completamente fittizio per un empirismo coerente con se stesso. Nell'empirismo viene capovolta la posizione del senso comune, secondo cui negli enti vi sono valori che vanno riconosciuti, poiché per l'empirismo i valori morali sono invece sentimenti proiettati dal soggetto nell'oggetto. In altri termini l'empirismo tende a ribaltare il rapporto fra ontologia e assiologia: l'ontologia, se è possibile parlarne ancora, è radicata nell'assiologia, e quest'ultima gradua il rispetto morale che dobbiamo agli enti viventi ultimamente in base ad una procedura consensuale. 5.4) Differenti da questi indirizzi sono le filosofie che recuperano l'idea di persona attraverso il suo agire morale, la coscienza, la prassi di libertà, il riconoscimento dei suoi diritti politici e giuridici, pur non arrivando a collocarsi dal lato del personalismo ontologico. Rientrano in questo schema attualmente molto praticato numerose filosofie pubbliche di ispirazione liberale. In esse circola un " io kantiano ", la cui unità e struttura ontologica non sono esplorate, ma stabilite solo sul piano etico e procedurale e sul concetto di autonomia. Viene affermata una forma ridotta di unità del soggetto consistente nella sua capacità di scegliere e di darsi regole pubbliche contrattualmente convenute. La stessa coscienza morale è interpretata in senso restrittivo attraverso le sole regole del Giusto, non del Bene. Dalla priorità, affermata da Rawls, del Giusto sul Bene - il che va in senso contrario alla sequenza genetica dei concetti morali, per cui il Bene viene prima del Giusto e stabilisce il primo concetto fondamentale sistematico della scienza morale - consegue una teoria ristretta e procedurale dell'io. Trascurato è il tema della costruzione dell'io attraverso il moto verso i fini, poiché il rapporto con questi ultimi è reso in linea di principio indecidibile razionalmente, ossia intrinsecamente pluralistico per l'asserita incapacità di porre in scala fini e beni, e di individuare dialetticamente - cioè, per stare ad un esempio celebre, secondo il procedimento largamente adottato da Aristotele nell'Erica Nicomachea - il fine e il bene più alto. 5.5) Varietà del personalismo. Diversamente si situa l'originale concezione antropologica di Felice Balbo, giocata lungo un cammino metafisico, dove forse non è tematizzata l'idea di sostanza ma è svolta un'antropologia dinamica intesa come crescente livello di partecipazione all'essere e alla vita, ed in cui le categorie della possibilità e virtualità giocano un ruolo notevolissimo. In lui l'antropologia si radica nella dottrina dell'essere e in specie nella metafisica della partecipazione, che con le sue categorie include tanto l'uomo fisico quanto quello sociale cui secondo Balbo si riferiscono angustamente molte concezioni. Ogni persona è invece inclinata ad un più essere, e l'uomo è da lui definito come " il poter essere sussistente " che costantemente cerca nuove possibilità di svolgimento secondo la legge del progresso che è sviluppo e compimento di quanto è incompiuto, e che dunque mira al massimo bene umano. L'originalità della sua strada risiede nella coniugazione tra essere e bene nel cuore stesso dell'antropologia, senza scegliere un cammino a spese dell'altro. Nell'ambito dei personalismi che privilegiano la relazionalità, la dialogicità, la libertà, insieme ai personalismi di Buber, Lévinas, Berdjaev, si situa quello di Mounier, che così determina la persona: " La persona è un'attività vissuta come autocreazione, comunicazione e adesione, che si coglie e si conosce nel suo atto, come movimento di personalizzazione ", in una definizione connotata dal far centro sull'azione. Su sponde affini quanto al chiaro privilegiamento dell'etica si colloca il pensiero di Ricoeur, che si serve del concetto di identità narrativa risultante dall'unità effettiva di un'intera vita. La prospettiva ricoeuriana è delineata nei tre livelli che sostanziano l'approccio filosofico-ermeneutico al sé: tendere alla vita buona, con e per l'altro, all'interno di istituzioni giuste. La maestria delle analisi svolte in Sé come un altro conferma l'attenzione alle categorie dell'agire. Illustrando l'ermeneutica del sé, che costituisce l'asse di quest'opera fondamentale, l'autore ne individua le domande principali in: Chi parla? Chi agisce? Chi si racconta? Chi è il soggetto morale di imputazione? ( cfr. p. 92 ). Introducendo l'identità come idem ( ossia la medesimezza per cui uno è semplicemente " lo stesso " ) e l'identità come ipse ( in base a cui invece qualcuno è " se stesso " ), Ricoeur ritiene che la prima supponga l'esistenza di una sostanza ma che non sia importante, mentre la seconda lo è perché rinvia all'esistenza autentica del Dasein. Tuttavia l'identità secondo " ipseità " è soltanto un'identità narrativa che risulta e rinvia all'unità reale di una biografia. Facendo perno su tale identità, Ricoeur da via libera alla relazionalità: " L'ipseità del se stesso implica l'alterità a un grado così intimo che l'una non si lascia pensare senza l'altra ". Che bisogna uscire dal circolo della sola identità-medesimezza per raggiungere l'alterità è un compito necessario, ma niente lascia supporre che la metafisica della sostanza non sia idonea per ciò. Osserva E. Berti: " L'insufficienza della posizione di Ricoeur consiste, a mio avviso, nel fornire una fondazione puramente etica dell'identità personale, simile a quella teorizzata già da Kant ed applicabile soltanto a coloro che sono responsabili delle proprie azioni, cioè che possiedono un " carattere " morale, una capacità di restare fedeli a se stessi, un'affidabilità dal punto di vista degli altri ". Berti aggiunge che anche nel caso di Ricoeur " non si riesce a fornire un criterio di identificazione applicabile a tutti gli individui di specie umana, proprio a causa dell'abbandono della concezione classica, cioè aristotelico-boeziana-tomistica ". Come detto, tale abbandono in Ricoeur proviene da un retaggio kantiano. Nel dialogo con J. R Changeux, raccolto in J. R Changeux, R Ricoeur, La natura e la regola ( Cortina, Milano 1999 ), scrive: " All'epoca dei 'cartesiani' - Malebranche, Spinoza e Lebniz - si credeva di poter ancora concepire la realtà ultima in termini di sostanza, cioè di qualcosa che esiste in sé e per sé … Non è sul piano di quest'ontologia, le cui basi sono state scosse da Kant nella " Dialettica trascendentale " della prima Critica, che mi situerò " ( p. 13es. ). In una linea analoga si situa la nozione di persona di C. Taylor, anch'egli centrato sul registro dell'agire: " Una persona è un agente che ha un senso di sé, della propria vita, che può valutarla e compiere delle scelte su di essa. E su questo che si basa il rispetto che dobbiamo alle persone ". 6) Il criterio antisostanzialistico coerentemente seguito, porta con sé - per la già segnalata omogeneità fra sostanza e natura/essenza - il postulato antiessenzialistico secondo cui non vi è alcuna essenza umana, oppure essa è preceduta dall'esistenza. Che l'esistenza preceda l'essenza fu forse il leitmotiv dell'esistenzialismo sartriano, a significare che l'uomo non possiede un'essenza umana determinata, ma che ogni soggetto edifica la propria essenza agendo. L'uomo si progetta volta per volta nell'azione ed inventa parimenti il bene e il male. Preso alla lettera ( cosa che forse neppure Sartre con felice incoerenza fa ) questo linguaggio significa che l' " essenza " umana si può cambiare, come forse oggi sognano di fare la genetica e l'eugenetica, ed anche che non si da alcuna natura umana intangibile e nessuna teleologia inscritta in essa. Semmai occorrerebbe chiedersi se il " funzionalismo " ( chiamo funzionalismo ogni posizione che ritiene di poter ricondurre l'essenza umana ad una o più operazioni: la coscienza, l'autocoscienza, la libertà, il senso morale, ecc. ) non rischi di pensare anch'esso che non esista un'essenza umana, ma solo un insieme di sue operazioni. Diverse da tali posizioni sono quelle del " nuovo naturalismo " che riduce la persona senza residui ad elemento compiuto della natura/physis, come pare siano i casi di D. Dennett e di J. P. Changeux. Qui non solo è congedato il concetto di sostanza, ma anche è emarginato il principio-persona che in vario modo può rimanere nella posizione funzionalistica e " morale ". Nell'ambito di un approccio evoluzionistico a sfondo materialistico diventa arduo se non impossibile fissare una differenza fra uomo e animale. Scrive in proposito Lue Ferry: " Si tratta di trovare una distinzione che opponga il regno umano all'intero regno animale. Si può, certamente, rifiutare questa domanda - cosa che fanno tutti i materialisti che non vogliono una differenza di natura o di essenza tra l'uomo e l'animale, ma tutt'al più ( e ancora ) di grado ". Nel naturalismo una filosofia dell'interiorità ontologica è difficilmente pensabile, e con essa una filosofia della soggettività per la relazione strettissima fra soggettività e interiorità. Dove non si può parlare di persona, il Mondo è solo una scena esteriore, un grande palcoscenico fenomenico dove ogni ente si risolve nell'apparire. Lungo tale cammino il naturalismo contemporaneo a base biologica era stato in certo modo preceduto dal marxismo e dal neopositivismo, che hanno affermato il carattere esteriore e eterodeterminato del soggetto umano. Dove non vi è interiorità e autodeterminazione dall'interno, è l'essere sociale che determina la coscienza, secondo la sesta tesi di Marx su Feuerbach: " L'essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà è l'insieme dei rapporti sociali ", posizione che significa che non è la coscienza a determinare la vita quanto la vita la coscienza. " Tutte le cose sono in superficie e sono perfettamente accessibili ", si legge nel manifesto del Wiener Kreis, asserto di una filosofia dell'esteriorità senza interiorità, sostanzialmente indifferente al personalismo. L'analisi si è indirizzata ad autori del pensiero occidentale, non all'integralità della filosofia europea dove un livello paragonabile d'attenzione andrebbe dedicato al pensiero greco-slavo e russo. Soccorre qui l'idea che il pensiero dell'oriente europeo è stato segnato in maniera profonda dall'ambito teologico, e ciò, se da un lato non ha forse favorito il pieno sviluppo di un'ontologia personalistica, lo ha preservato da forme di inaridimento e banalizzazione che hanno afflitto e affliggono la filosofia europeo-occidentale della persona. 4. Conclusioni a) L'excursus sembra attestare il depauperamento dell'idea di persona e del suo originario radicamento ontologico, in larga misura dovuto al prevalere dell'oblio dell'essere nel Moderno e al dualismo tra piano gnoseologico e piano metafisico, inaugurato da Cartesio e portato all'acme da Kant e dai suoi successori. La nostra elaborazione ha volutamente omesso di esplorare autori moderni quali Rosmini, Maritain, E. Stein, per i quali il valore della persona e il correlato principio-persona si fonda su un chiaro personalismo ontologico che accoglie la sostanzialità dell'essere umano e le categorie dell'in sé e del per sé. Il silenzio in proposito non faccia ritenere che quanto non è stato trattato sia secondario, che anzi la sua presenza compone una sinossi molto più integra della dottrina della persona, senza di cui l'insieme risulterebbe seriamente sbilanciato. Ma, come detto, il nostro compito non era di dipingere un quadro compiuto coi suoi volumi e colori, bensì di approfondire la crisi antisostanzialistica. Oltre queste scuole abbiamo incontrato la linea in vario modo " etica " e funzionalistica che possiede molteplici versioni e diramazioni ( neokantismo, fenomenologia, un certo esistenzialismo ). Essa cerca di salvaguardare il valore di fine dell'uomo, ponendosi in genere come assiologia senza ontologia o con un'ontologia debole. Al di là di questa posizione si apre un ulteriore spazio molto variegato che tende a negare all'uomo anche la dignità di fine, adottando un aperto antiumanesimo. L'excursus analitico autorizza l'asserto secondo cui nel pensiero moderno la linea antipersonalistica è stata importante, seppure fortunatamente non totalitaria. Il disguido di parte della filosofia moderna sul concetto centrale di sostanza non sembra un masso erratico capitato per caso nel corpo del pensiero moderno, ma un evento concettuale di fondamentale rilievo in cui si esprime un portato di quell'oblio dell'essere che ha afflitto il moderno filosofico. Poiché la sostanza è la prima concrezione dell'essere, l'oblio del primo comporta necessariamente l'oblio o la confusione sulla seconda ( per un'approfondita analisi di questo tema e del nichilismo teoretico immanente al moderno filosofico in non pochi suoi aspetti rinvio al mio Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, Armando, Roma 2004). b) Una cosa resta da dire, cui annettiamo rilievo. La valutazione della dottrina della persona sin qui svolta con un chiaro carattere " analitico ", non è certamente inutile quasi che valesse per il filosofo il detto superbo " de minimis non curat praetor ", poiché la persona non è un minimo. Ad essa può positivamente accompagnarsi una valutazione " dialettica ", nel senso che le scuole filosofiche della modernità non hanno soltanto provocato una desostanzializzazione della persona, ma anche incrementi notevoli nell'ordine morale, politico, giuridico, economico, medico, dove appunto il principio-persona ha operato efficacemente, si è rinnovato e ha prodotto avanzamenti. Valutazione dialettica significa che, nonostante i disguidi ontologici messi in luce sopra, è possibile considerare per alcuni aspetti il pensiero moderno come un'introduzione o re-introduzione - talvolta in via diretta, talaltra in negativo - dell'ontologia tradizionale. In altri termini i notevoli guadagni personalistici accaduti e quelli che potranno venire, per poter tenere e durare postulano una ripresa dell'ontologia della sostanzialità in rapporto ai nuovi problemi e domande. Non si tratta semplicemente di restaurare, ma di rifondare, approfondire, di trovare inedite sintesi in relazione ai nuovi problemi: serve un'intelligenza più intima del l'esser-persona. Un mero rinnovamento discorsivo non può convenire adeguatamente l'idea di persona nella moderna solidarietà democratica e nel quadro dei diritti umani. c) Due grandiosi tentativi di colonizzazione della persona sono stati compiuti nel moderno o sono attualmente in corso: a) Il dispotismo sanguinario esercitato dalle ideologie totalitarie nel XX secolo; b) la tentata conquista dell'io da parte di versioni radicali delle biotecnologie ( neuroscienze, ingegneria genetica, eugenetica, clonazione ). Il secondo è in cammino e perciò aperto, non ancora fissato nei suoi esiti, sebbene attualmente sia operante l'intento di dissolvere la persona riportandola a momento transeunte dell'evoluzione cosmica. Come i totalitarismi hanno messo in atto un vero odio per la persona, parimenti seppure in maniera più obliqua può operare il progetto di ridurre l'uomo a physis. Se esso procederà, una grande demoralizzazione umanistica sarà l'esito del tentativo di integrale naturalizzazione dell'uomo, e si affermerà il " dispotismo dell'organico ". Esiste infatti una contraddizione fra il tentativo delle scienze di entrare nella sfera intenzionale, morale, cognitiva, deliberativa dell'uomo e la possibilità di un miglior governo di se stessi in vista dell'autodeterminazione. La soggezione dell'autodeterminazione all'organico compromette quest'ultima, mettendo in luce l'antinomia fra impulso alla libertà e risoluzione organico-naturalistica dell'uomo. Capitolo secondo - Persona: logos e nomos Imparare a vivere significa imparare ad essere persona: compito fra i più difficili in assoluto per ogni uomo e in vista del quale la filosofia, pur consapevole di poter offrire un limitato aiuto, non deve abbandonare il campo troppo presto. L'analisi ontologica del capitolo precedente, mentre costituisce un indispensabile filo conduttore del volume in vista di una ripresa del principio-persona, abbisogna di arricchimenti e sviluppi su vari piani. Svolgeremo brevemente sei aspetti: 1) Il nesso tra sostanza e relazione; 2) Interiorità estatica, amore, comunicazione; 3) La coscienza psicologica e morale; 4) Paradossi della persona; 5) Personalismo teologico e teocentrico; 6) Il rapporto dell'umanesimo secolare con la condizione umana. 1. Sostanzialità e relazionalità Secondo Berdjaev " L'io non esiste che nella misura in cui si trascende, perisce se resta in se stesso senza uscita ". La relazione è una ricchezza per l'ontologia dell'essere e la dottrina della persona che le è propria: solo nelle metafisiche dell'Uno la relazione è pensata come una privazione e un difetto. La filosofia della sostanzialità è una filosofia dell'alterità, per nulla una filosofia dell'identità chiusa: i due aspetti della sostanzialità e della relazione non possono venire opposti, ed anzi il secondo procede dal primo nel senso che la relazione accade a partire dalla sostanzialità. Il principio-persona cammina meglio quando tiene insieme, armonizzandole, l'idea che la persona è una realtà sostanziale aperta alla relazione; e che essa non può ridursi soltanto a relazione. L'essere in relazione è proprio della persona ma non la costituisce come se la sua essenza fosse la relazionalità, che d'altro canto non le può essere aggiunta estrinsecamente poiché le è interna: la persona non è un individuo umano isolato cui si aggiunge la relazione. Proprio per questo la persona è in grado di formare comunità, di edificare una communio personarum, in specie quella tra uomo e donna. Tali assunti, in genere concessi nelle culture del personalismo, non di rado sono portati all'estremo nel pensiero contemporaneo che frequentemente attribuisce alla persona quasi solo la relazionalità. Con queste considerazioni siamo avviati a considerare un importante problema: il rapporto fra sostanzialità e relazionalità, ossia se la persona possa ridursi ad uno dei due poli, subordinando o omettendo l'altro. Ponendoci nello spazio concettuale dell'idea boeziana di persona, avvertiamo che il logos/razionalità ( ragione e linguaggio ) implica necessariamente la relazionalità. La vita dello spirito è di per sé relazionale tanto dal lato della conoscenza quanto da quello dell'amore, per cui alla persona appartengono, oltre alle dimensioni della sostanzialità ( esistere in sé ) e del valore di fine ( esistere per sé ), quelle dell'esistere verso l'altro e con l'altro ( esse ad alterum, esse cum alio ). Nel rapportarsi all'altro si manifesta l'apertura costitutiva della persona, che si autotrascende, si compie nella comunicazione, in specie in quella " io-tu ". E nell'esistere con l'altro si mostra la reciprocità delle coscienze, l'empatia come capacità di " entrare " nell'altro, la comunità e la condivisione, dunque la struttura fondamentale della socialità. Questa si radica in una relazione " io-noi ", non solo " io-es " dove si fa esperienza degli oggetti. Il soggetto cerca una relazione vitale con persone, perché nel rapporto col tu e col noi l'uomo diventa un io: si tratta di relazioni costitutive d'ogni socialità dove il principio-persona va inteso entro l'indefinita gamma delle comunità e società in cui il soggetto vive. La nostra esistenza, interpretata come relazione con l'altro in un rapporto lo-Tu-Noi-Tutti, è fondata su una relazione originaria cui si può dare il nome di " metafisica dell'amore ", come hanno inteso numerose filosofie relazionali del Novecento ( Buber, Capitini, Lévinas, Marcel ). Questa compresenza di tutti a tutti diventa la regola radicale di ogni autentica politica, che è la costruzione della convivenza fra tutti e della giusta relazione con l'altro. Se il nostro essere è essere-con-l'altro, allora la violenza con cui colpiamo l'altro colpisce il senso stesso del nostro essere, e perciò va ripudiata. Dal nesso originario lo-Tu-Noi-Tutti, che possiamo riassumere in quello Uno-Tutti, si differenzia radicalmente il nesso Uno-Tutto proprio delle filosofie totalizzanti: in questo gli uomini valgono come presenze empiriche simili agli oggetti, ed il loro senso non risiederebbe in loro bensì nella totalità in cui sono inseriti e come dissolti. Ridurre la persona solo a relazione comporta che essa valga solo come parte di un Tutto, che diventerebbe fondante nei suoi riguardi: il concetto di parte è però in contrasto con quello di persona. La sostanzialità non è priorità dell'io, né la relazionalità priorità del tu, ma in entrambe si esprime l'idea che l'io e il tu siano radicati nell'essere e degni di rispetto. Se nell'uomo si mette in luce solo il momento dell'individualità materiale, egli può essere inteso come uno tra i molti, individuato dalla porzione di materia che fa sua. Inteso invece come persona, l'uomo non è parte o frammento, ma totalità, e come tale è un che di singolare e irripetibile: singolarità, totalità e interiorità vanno insieme. Non un numero nella folla, non un'efflorescenza del genere, ma singolo come totalità indipendente, la persona è capace di autotrascendenza e di dono. Essa può darsi, e a chi se non a un " tu " con cui entrare in dialogo? Donandosi essa trascende le proprie ristrettezze empiriche, e può costituire nell'amore un " tu " come il suo proprio tutto. Dopo aver riconosciuto la portata e il valore della relazione, due domande ci interpellano ancora. 1 ) Come può accadere il moto di uscita e di " esodo " dal proprio io? È la persona pura positività, di modo che nella relazione con l'altro entrerebbe in gioco solo questo elemento? Soltanto un eccesso di ottimismo potrebbe farlo credere, dal momento che la persona è insieme insufficienza e positività, e l'apertura si fonda su entrambi gli aspetti. Vi è un'apertura all'altro in ragione dell'indigenza e una in ragione della pienezza: dal lato dell'indigenza la persona ha bisogno dell'altro, mentre come pienezza vuole comunicarsi all'altro. Sarebbe una tentazione angelista puntare soltanto sulla comunicazione, dimenticando l'immenso carico del bisogno che preme le persone e che intride tanta parte della vita sociale. 2) Nel rapporto tra soggetti accade il fenomeno del riconoscimento, elemento centrale della relazione: sarebbe questo a fare la persona? Ciascuno di noi è diventato persona perché qualche altro l'ha riconosciuto e l'ha chiamato a far parte dell'umanità? L'esser-persona non dipende dal fatto che qualcuno mi riconosca tale, ma da un carattere più sorgivo ed essenziale, legato alla sostanzialità del mio atto di esistere. La relazione reciproca basata sul riconoscimento non precede " l'essere persona come sua condizione, ma risponde a un'esigenza che proviene da qualcuno. Essa presuppone inoltre che noi attribuiamo a questa esigenza, sulla base di certe caratteristiche di specie, il fatto che per il riconoscimento delle persone non è importante la presenza concreta di queste caratteristiche, ma soltanto l'appartenenza a una specie i cui esemplari ne dispongono " Concludiamo. Se non sussistono motivi per negare o diminuire il rilievo della relazionalità, cui l'approccio sostanzialistico fornisce il miglior supporto, non è possibile la sostituzione della sostanza con la relazione nella determinazione del concetto di persona umana, il che equivarrebbe ad introdurne una nuova definizione: la persona è una relazione individuale di natura razionale ( persona est rationalis naturae individua relatici ). In tal modo la persona sarebbe una " relazione sostanziale ", non una " sostanza relazionale ", assunto cui seguirebbe che con la soppressione della relazione verrebbe meno la totalità della persona. Consideriamo alcuni eventi: la morte, gravi malattie psichiche come l'autismo, l'aborto e la fecondità. A) Per coloro per i quali la relazionalità rappresenta la totalità della persona, la morte è l'ingresso nel nulla della relazione, annientamento del rapporto sociale e della persona in quanto costituita da tale rapporto: la morte dunque come l'atto " antipolitico " per eccellenza. L'io che è andato incontro alla morte è scomparso, si dice abitualmente. Scomparso significa che è uscito dall'orizzonte dell'apparire, dalla temporalità e spazialità in cui noi siamo tuttora inseriti e che consente il mutuo rapportarsi. Scomparso significa dunque che non è più possibile alcuna relazione con lui nel modo consueto. L'io è stato sottratto alla nostra esperienza, alle dimensioni che la rendono possibile, e non è più da noi esperibile come un ente nel mondo. Tuttavia il senso comune esita ad affermare che la soppressione della relazione esperita da noi con la morte dell'altro sia identicamente il suo annientamento. Ciò sarebbe vero se appunto la persona fosse ricondotta e risolta nella relazionalità: allora scomparendo la possibilità stessa della relazione, la persona non sarebbe più. Al massimo se ne conserverebbe il ricordo in una sorta di umbratile vita nella memoria degli altri. Diversamente si intende il problema quando la persona viene collegata alla sostanzialità, la quale può continuare - pur uscita dalla relazione spazio-temporale - la sua esistenza secondo nuove modalità. Naturalmente è qui evocato il problema della mortalità o dell'immortalità dell'io personale. Là dove la persona è ricondotta alla sola relazione, l'esito è la totale mortalità dell'io empirico ( eterno sarebbe eventualmente l'Io trascendentale ), a meno che l'affermazione dell'immortalità sia affidata solo alla fede, magari in una sorta di rischioso credo quia absurdum. Là dove invece la personalità è vista risiedere nella sostanzialità razionale, vi possono essere indizi e argomenti a favore di una sopravvivenza dell'io dopo la morte. B) Nell'autismo accade una perdita di contatto con la realtà e la costruzione di una vita interna e subiettiva che viene anteposta a quella reale. L'io è rinchiuso in se stesso, non ha comunicazione con l'altro, forse neppure affettiva. Il soggetto autistico è come noi, fatto come noi, ma non comunica, vive in un mondo suo proprio. Ben difficilmente possiamo però sostenere che egli, pur mancando in forma grave della relazionalità, non sia persona. In effetti, riconoscendoli i diritti umani fondamentali, riconosciamo anche che essi non sono legati alla capacità di relazione dell'io, e che rimangono validi anche quando il soggetto fosse privo della possibilità di rapportarsi e perfino di adempiere i suoi doveri verso la società, di partecipare all'obbligazione reciproca fra i cittadini che si vincolano attraverso la società politica e le sue istituzioni. Parlando più in generale della follia, Mario Tobino ritiene " di avere scoperto che, oltre all'intelletto, c'è nell'uomo l'anima e che nessuna malattia, neanche la più terribile, può arrivare a incenerire l'anima … La follia è un mistero. E una lebbra che attacca il corpo ma risparmia l'anima. Non c'è idiota, non c'è schizofrenico in cui il male uccida del tutto i sentimenti. A sprazzi, a barlumi, magari dopo anni e anni di silenzio e di vaneggiamenti, i matti rivelano all'improvviso la luce che hanno dentro, cercano di comunicare con gli altri, di mettersi in armonia con il creato, di farci capire che anch'essi sono figli di Qualcuno ". È quindi possibilissimo che il soggetto autistico abbia un intenso rapporto con se stesso, di cui nulla conosciamo, perché non ce lo comunica e più radicalmente perché un tale rapporto è ultimamente oscuro per ciascuno di noi. L'uomo può certo conoscersi attraverso i suoi atti; può vivere " interiormente i suoi atti come azione di cui egli - come persona - è l'agente ". L'autoconoscenza e autocoscienza così raggiunte incontrano un limite nel fatto che il fondo del proprio io sostanziale, dell'io nel suo atto primo di esistenza che vive della vita dell'anima, non può essere raggiunto e ci rimane ultimamente sconosciuto. Si incontra qui un punto di arresto non aggirabile: la sostanzialità dell'io personale motiva l'inconoscibilità ultima e l'inattingimento del nostro fondo più profondo, onde l'io è mistero a se stesso. C) Nelle posizioni del femminismo radicale si richiede che il rapporto della donna col suo corpo fecondo sia affidato esclusivamente alla donna stessa, che così intende difendersi da ogni intervento di un " potere " esterno che pretenda di introdurre regolamentazioni di qualsiasi tipo in materia di fecondità femminile. Perciò qualsiasi legge dello stato in tale materia non sarebbe compatibile con la libertà femminile: il corpo della donna è considerato una " zona franca ", esterna alla dimensione sociale cui sovrintendono leggi e norme. Ciò significa che l'altro, in questo caso l'embrione prima e poi il feto, non è di per sé un qualcuno da rispettare e proteggere, ma è o sarà un qualcuno solo se costituito tale nella relazione che lo lega al corpo materno, e non invece come sostanzialità individuale dotata di inderogabili diritti. È tale relazione e solo essa che costituisce un grumo di cellule più o meno rilevante come embrione/feto: il " qualcuno " nasce solo nella relazione col corpo materno. In genere in maniera inespli cita, troviamo qui uno dei maggiori esempi della riduzione della persona a relazione, cui consegue l'assunto - oppressivo e crudele - che il nuovo essere umano sia persona solo in quanto è voluto, appellato ed accolto in una relazione; nella misura dunque in cui gli si da un nome. Un equivoco che in certo modo ricorda, ma nel mutamento dal maschile al femminile, l'antico e barbarico diritto romano delle origini, quando il pater familias aveva unojus vitae ac necis sul nuovo nato ( ma ben più che dìjus deve qui parlarsi di nudo e bruto potere: il potere più terribile che esista, quello sull'altro, il potere del pollice verso nei confronti dell'altro ). Una volta che l'embrione, il feto e forse perfino il neonato non sono soggetti-sostanze, ma un qualcosa che passa alla condizione di " qualcuno " solo perché qualcun altro l'ha voluto e l'ha chiamato a entrare nel mondo dandogli un nome, allora è incombente il rischio che l'uomo sia prodotto quasi come un momento del ciclo capitalistico di produzione. La posizione femminista radicale è speculare ad un motivo centrale della tragedia greca, e le due posizioni tendono ad annullarsi reciprocamente. Nelle Eumenidi di Eschilo, la terza tragedia del ciclo di Oreste, Apollo difende il matricida Oreste con queste parole: Non è la madre che genera chi è chiamato suo figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei. Genera l'uomo che la feconda: ella, come ospite a ospite, conserva il germoglio, se un dio non lo soffoca prima. Ti offro la prova di questo argomento: padre senza madre è possibile. Una testimonianza è qui vicina, presente: Atena, la figlia di Zeus, che non crebbe nel cavo ombroso di un seno ( vv. 658-666 ). D) La relazione originaria nel mondo è la relazione padre/madre col figlio con la novità di ciascuna nascita, il miracolo della fecondità e della vita che si perpetua, che sottrae il mondo all'entropia e al naturale declino verso il tramonto: " il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane dalla sua normale, 'naturale' rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire ". L'uomo, la sua comparsa costituisce un nuovo inizio ( initium ) non un principio, secondo la distinzione di Agostino tra principium come inizio del mondo e initium come inizio dell'uomo: initium ut esset homo creatus est. Col principio inizia qualcosa, coll'inizio comincia qualcuno, il quale e agente e vale dunque come iniziato-iniziatore di una vicenda inedita e libera, come libera fu la sua creazione. L'uomo infatti non inizia per necessità ma per creazione. Al " vivere per la morte " la Arendt sostituisce la centralità della nascita, alla separazione l'agire in comune. Sin dall'inizio la prospettiva è relazionale. Nell'evento del figlio incontriamo una sostanzialità che si trasforma e che in certo modo conserva la propria sostanza trans-sustanziandosi: si trans-sustanzia nell'altro, nel figlio appunto, tramite l'incontro del maschile e del femminile. La fecondità è questa relazione col figlio che dischiude l'avvenire, e che ricarica la vita e la libertà. Attraverso la fecondità, scrive Lévinas, la noia della ripetizione si interrompe, " l'io è altro e giovane … La fecondità continua la storia senza produrre vecchiaia: il tempo infinito non dà una vita eterna ad un soggetto che invecchia. È migliore attraverso la discontinuità delle generazioni, ed è scandito dalle inesauribili giovinezze del figlio ". Dal mistero della fecondità sorge il futuro che si distacca da me, ma che è pure parte di me stesso e dell'altro da cui il figlio è pure sorto. Egli è mio, malgrado la discontinuità; e non-mio, malgrado la provenienza. Il suo avvenire non mi appartiene: l'intima essenza della fecondità è che sorga ed esista una possibilità non mia, che proviene dalla mia sostanza ma che si distende in un tempo in-finito, là dove l'essere comincia sempre di nuovo. La fecondità e il figlio mostrano l'assoluta vanità dell'essere parmenideo, sempre uguale a se stesso, rinchiuso nella medesimezza con se stesso: vuota e sterile identità senza crescita. L'infinitezza orizzontale e temporale dell'essere e la sostanzialità degli enti si producono tramite la fecondità, che propaga la specie e che assegna all'io un incremento nell'altro. Per ogni uomo, credente o meno, vale il lieto annuncio del Vangelo: " un bambino è nato tra noi ". Nascendo tra noi, il bambino entra in una famiglia: in quanto essere relazionale l'uomo è un essere familiare. Il principio-persona non può che svolgersi secondo una filosofia della vita e specificamente come una filosofia della natalità: non soltanto come j meditatio mortis, ma soprattutto come meditatio vitae. La filosofia che riconosce il suo bel paradigma nel pensiero di Platone e nella " meditazione della morte " del filosofo ( cfr. il Simposio ) non può andar da sola, se non viene affiancata e aperta dalla filosofia della natalità, dalla " meditazione della vita " altrettanto necessaria dell'altra di cui è non poco intessuta la tradizione del filosofare. Perché " vivere per la morte " (Heidegger) e non per la vita? Vi sarebbe un'affinità sostanziale tra filosofia e morte, e non invece e ancor più tra filosofia e vita? E se in Platone la filosofia come meditazione sulla morte è riscattata dal suo essere un'apertura al Bene e al Bello in sé, il nichilistico essere per la morte, per una morte non illuminata da alcuna immortalità, è un cedimento cui ci si sottomette tristemente. Esiste una solidarietà tra politica, vita e natalità, almeno nel senso che la continuità esistenziale di un popolo è assicurata dalla nascita e non dal volgere lo sguardo verso la mortalità. Il guardare verso la nascita apre a nuove aspettative. L'essere non è soltanto il Neutro, ma l'essere vivente e l'essere natale, la meraviglia della fecondità. Politica e filosofia non sono opposte come se la prima si fondasse sulla natalità e la seconda sul rivolgersi verso la morte, poiché entrambe, politica e filosofia, sono denotate dal rapporto con entrambi i fenomeni: nascita e morte. La nascita, iniziando, fonda l'unicità d'ogni uomo e introduce all'agire politico, mentre la morte, sottraendo il soggetto alla vita con gli altri, impedisce o sottrae la politica. La permanenza della politica è legata alla vita ed alla nascita, che le conferiscono quella speranza senza di cui non si può vivere. Personalismo comunitario e individualismo. Nella concezione della persona sinora sostenuta i concetti di " persona umana " e di " individuo umano " sono identici ed hanno la stessa estensione e comprensione: un individuo umano è perciò stesso persona umana. Diverso è il discorso sulle nozioni di personalismo e di individualismo. L'errore opposto alla riduzione della persona a relazione senza sostanzialità è l'errore dell'individualismo, che vede l'individuo come conchiuso in se stesso al punto che la relazione è per lui accidentale, estrinseca e pattizia, e la cui divisa suona all'incirca: " io non devo nulla a nessuno ", sino al punto che l'altro è considerato propriamente nessuno. L'io fa centro in se stesso come una monade senza finestre, che forse può entrare in rapporto con l'altro tramite contratto. Nella sua forma radicale l'individualismo rappresenta un principio rischioso per la vita sociale poiché, ruotando attorno alla propensione autocentrata dell'io, considera come irrilevanti le formazioni sociali intermedie che costituiscono il tessuto vitale della società civile, aprendo così la strada alla sua estenuazione. Nello schema di patto sociale del Leviatano entrano i singoli, non le famiglie e i gruppi. Inoltre il paradigma del dono non è colto nella sua rilevanza per la società civile e l'integrazione sociale. Antropologi come Marcel Mauss, Claude Lévi-Strauss e Marshall Sahlins ci ricordano che le società arcaiche erano organizzate intorno ai principi del dare, del prendere e del restituire. La maggior parte dei teorici contemporanei ritiene che nella modernità si sia operata una separazione fra la sfera privata del dono personale e quella pubblica e impersonale dei beni economici soggetti allo scambio nel mercato. Tuttavia autori come Marcel Mauss e Alain Caillé e il movimento antimilitaristico nelle scienze sociali ( MAUSS ) sottolineano la forza del dono in specie nelle relazioni sociali che non fanno affidamento sul commercio e mercato, né sulle relazioni statali gerarchiche e normative. Così il principio del donare e della reciprocità rappresenta un elemento importante nel tessuto di una decente società civile. 2. Interiorità estatica, amore, comunicazione 1) Nella triade " persona, essere, amore " si incontra un circolo in cui ogni termine rinvia agli altri, nel senso che occorre pensare l'essere della persona entro e a partire dalla verità dell'essere e dalla dialettica dell'amore; che la realizzazione più alta dell'essere è l'essere personale; che l'amore compiuto muove dalla persona e va verso le persone. Poiché la persona è capace di amore, e l'amore ne è la manifestazione più immediata, universale e transculurale, il sostare presso le forme dell'amore può rivelare la vita propria della persona, forse più di altre sue manifestazioni quali il linguaggio, l'azione sociale, l'arte, la fabbrilità e la tecnica. In quanto la persona sussiste in una natura intellettuale, essa ha nello spirito la sua propria radice. Vivendo della vita dell'anima, la persona si espande in azioni e manifestazioni: quali sono quelle che più radicalmente la denotano, che costituiscono con maggior diritto i segni della persona ( signu personae )? Tra gli atti della persona i più gelosamente propri sono il conoscere e l'amare: con il primo il soggetto personale può portare in se stesso, nel fuoco dell'identità intenzionale tra conoscente e conosciuto, la totalità dell'essere ossia l'Intero; col secondo egli esce ekstaticamente verso l'oggetto amato per riposarvi. Atti originari che rivelano la persona, il conoscere e l'amare lo sono anche dal punto di vista della edificazione della persona, nel senso che ogni uomo deve divenire tramite essi la persona che già è ontologicamente; deve conquistare nel registro dell'agire quell'esser-persona che è già per diritto di natura. La più alta forma di realizzazione della persona si istituisce nell'amore, perché esso va non solo o principalmente a idee o oggetti universali ma a persone singole: non si può amare eni masse, né essere persona en masse. L'essere persona in quanto determinazione del singolo può costituire nell'amore l'altro come il proprio tutto e donarsi a lui. Si può donare ciò che non si possiede? L'esistere della persona nel modo del dono esige prioritariamente l'autounificazione dell'interno, l'autopossesso e l'apertura all'altro. Sono qui in gioco qualificazioni più alte del solo richiamo alla prassi trasformatrice degli oggetti mondani, cui una corrente notevole del pensiero moderno ha voluto ricondurre l'esistenza personale, lasciando nell'ombra i suoi atti più radicali. Definita dall'amore, l'interiorità personale è " ekstatica ". Mediante le forme dell'amore la persona esce da se stessa verso l'alterità, perché l'amore decentra, delocalizza. Questo accade in prima battuta tanto nel bell'amore come nell'amore egoista. Nell'estasi di amore il soggetto " esce " verso la cosa amata, per amarla di un amore di dilezione e rimanere presso di lei nel primo caso, d'un amore rapace e finalizzato solo a se stesso che esce sì da sé per andare verso l'altro, ma con lo scopo di ritornare a se stessi, nel secondo caso. Che l'amore produca l'estasi ( ekstasis, da existemi ) significa che fa uscire la persona da se stessa per cercare la similitudine e l'unione con l'amato. Si dà dunque un'essenza ekstatica della persona in cui questa, a partire dalla sua esistenza quale atto d'essere radicale dell'anima, esce da se stessa per vivere e dimorare con e nell'amato. È la dialettica d'amore ( eros e/o agape ), sia esso attratto verso il Bene e il Bello forse impersonali come nel Simposio platonico, al vertice della scala ascendente cui Socrate è incamminato da Diotima, oppure dal volto dell'Altro come nella filosofia di Lévinas. Quale dei due movimenti è più originario: l'ascesa verso la suprema contemplazione dell'oggetto immenso ( il Bene e il Bello ), o l'appello che scaturisce dal volto dell'Altro e che accende il desiderio dell'Altro? " Prima dell'Eros c'è stato il Volto; e l'Eros stesso è possibile solo tra volti ", scrive Lévinas, con un asserto in cui il platonismo è ad un tempo ridimensionato e oltrepassato verso l'ultima vetta dell'esperienza d'amore, in cui eros è infine trasceso in agape. Nella meditazione sulla persona non può mancare il riferimento essenziale al volto, a quello dell'altro: esistere è esistere dinanzi a qualcuno; esistere in maniera personale è esistere dinanzi al volto dell'altro. Di questa esistenza massimamente personale la Bibbia ci offre esempi in abbondanza, in specie nella forma dell'esistere dinanzi a Dio nella chiamata. Mosè è chiamato e sta dinanzi a Dio; pure Samuele è chiamato; Elia nell'Horeb vede Dio. Diciamo che l'uomo vive in una relazione io-tu, non solo io-es, per cui la vita reale è incontro, relazione fra uomo e uomo prima che col mondo. Il nesso io-es designa l'ambito dell'esperienza degli oggetti che restano estrinseci all'uomo. Questi vuole una relazione vitale con persone. Soltanto nel rapporto col tu l'uomo diventa un io, e nel tu è compreso quello assoluto: " Le linee delle relazioni, prolungate, si intersecano nell'eterno Tu, che per la propria natura non può diventare Es ". Completando forse Lévinas, occorre aggiungere: l'eros è universalmente possibile tra i volti se si presuppone agape. Pur non escludendo eros, la relazione personale umana riuscita ha bisogno di agape. Nella sempre nuova meraviglia della maternità agape presiede al rapporto tra la Madre e il Figlio. L'elemento originario è che eros e agape non si rapportano in ugual maniera all'altro e al suo volto. Nell'uscita ekstatica dell'interiorità verso l'esteriorità sotto la spinta di eros, la persona muove verso ciò che ha già valore, bene e bellezza e che perciò attrae: è il risplendere di un volto carico di fascino e di un oggetto desiderato che da l'avvio alla dialettica di eros e al movimento del desiderio. Ma quando il volto dell'altro è povero, debole, addirittura sfigurato e senza nulla di desiderabile? Qui eros è impotente e tace; si ritrae e distoglie lo sguardo, lasciando il campo ad agape. Il movimento supremo di agape, di quella divina e di quella partecipata dell'uomo nella charitas, non è polarizzato dal risplendere di valore o bellezza già esistenti, ma li crea e li diffonde negli esseri e nelle cose. Con perfetta misura Tommaso d'Aquino e Lutero hanno espresso la legge dell'amore agapico. " Amor Dei est infundens et creans bonitatem in rebus "; a queste parole dell'Aquinate fa eco Lutero: " Amor Dei non invenit sed creat suum diligibile, amor hominis fit a suo diligibi li. Et iste est amor crucis ex cruce natus, qui illuc sese transfert, non ubi invenit bonum quo fruatur, sed ubi bonum conferai malo et egeno ". 2) Digressione su eros è agape. L'italiano, che pur si pone come una delle lingue più ricche che esistano, a proposito del termine " amore " manifesta una povertà lessicale notevole. Disponiamo quasi solo di questo termine per significare una grande latitudine di significati a scapito della pregnanza e precisione ( esiste anche il termine " dilezione ", ma è di uso sempre più rarefatto ). Ricorriamo ad " amore " tanto per designare l'amore di Dio quanto per dire " facciamo l'amore' nel senso più banale e corrente del termine. Dunque è necessario procedere fin dall'inizio a una purificazione linguistica e concettuale: in questo ci vengono in aiuto i termini latini e greci, che manifestano una maggiore ricchezza. I greci disponevano di eros e agape, i latini di charitas o dilectio e amor. Tuttavia la cultura ellenistica impiegava assai poco agape, per cui furono gli autori del Nuovo Testamento a dover " reinventare " un termine imprimendogli un nuovo significato per dire l'assoluta novità dell'amore divino che si effonde sugli uomini, un amore che non è eros. Il Dio dei filosofi greci è amato e desiderato da tutte le cose, ma se ne sta in sé e non ama altri che se stesso perché per il Greco amare significa desiderare, aver bisogno, dipendere, ed è perciò l'atto proprio del non-perfetto, di colui che manca di qualcosa. La reinvenzione del termine " agape " da nessuna parte appare con tanta chiarezza come nella Prima lettera di Giovanni dove ad indicare l'amore di dilezione o agapico manifestato da Dio per l'uomo si legge secondo la traduzione della Vulgata: " Ipse prior dilexit nos " ( 1 Gv 4,10 ), non " Ipse prior amavif nos ". Dobbiamo perciò distinguere - pena l'incomprensione del problema - tra amore nel senso immediato del termine come amore di desiderio, e amore di carità o di dilezione. Eros, in un senso; agape, nell'altro. Per intenderci e procedere a fissare i concetti, occorre chiarire la differenza che intercorre tra eros e agape, tra amore di desiderio e amore di carità. Le loro dinamiche sono diverse ed entrambe legittime: non si tratta di squalificare una delle due forme di amore. Quando noi amiamo qualcuno o qualcosa di un amore di desiderio/eros?, partiamo dall'esperienza di una privazione che è in noi: manchiamo di qualcosa ( persona e/o oggetto ) e questa carenza mette in moto la dialettica del desiderio che muove verso il possesso e la fruizione della cosa desiderata e amata, la quale prima del possesso dimora nella distanza e nella disequazione rispetto al soggetto desiderante. Il moto di eros parte dal soggetto che esperimenta una carenza, va verso la cosa desiderata e amata per farla propria, e torna al soggetto desiderante: è un moto circolare in cui la cosa desiderata viene riportata a noi stessi. Inoltre noi amiamo " eroticamente " qualcosa non solo nella misura in cui ne manchiamo, ma nella misura in cui questa cosa è preziosa attraente, ha valore per noi; non possiamo desiderare ciò che non vale nulla. L'amore di eros tende a un oggetto ( cosa o persona ), che manifesta apparenza di grandezza, di valore, di bellezza. L'agape è diversa: non è un amore di desiderio, ma di sovrabbondanza, un amore di dilezione, che parte non da una privazione che sia in noi e che liberi il movimento del desiderare, ma da una pienezza; e ha il suo vertice nell'amore divino. L'amore divino è un amore agapico o di dilezione; non un amore di desiderio, come se Dio mancasse di qualcosa. L'amore di dilezione è un amore gratuito di sovrabbondanza, che non si mette in moto, come l'amore di eros, perché la cosa verso cui si rivolge è di per sé bella e buona: magari si rivolge a cose che non sono né belle né buone, per versare in loro bellezza, bontà e verità. Perciò il moto di agape, nel suo vertice divino, discende dall'alto verso il basso, come una eterna fontana che sovrabbonda, mentre il vettore dell'amore di desiderio è orizzontale o ascendente: partendo da ciò che a me manca, tende verso qualcosa che sta al mio livello o più in alto. Un volto prezioso e nascosto di agape si svela a chi insiste nel meditare la differenza che intercorre tra l'esistere per qualcuno e l'esistere con qualcuno. Noi esistiamo per qualcuno se ci impegniamo per lui, lo aiutiamo, difendiamo la sua causa. Questo è necessario, ma a un livello più radicale spesso gli uomini hanno bisogno, più che di qualcuno che esista per loro, di qualcuno che esista con loro. Possiamo infatti esistere per qualcuno senza riuscire ad entrare in reale comunicazione intima con lui. Su queste sensibili frontiere si manifesta la duplice forma dell'amore di dilezione, che è, sì, amore di donazione e perfino di sacrificio in favore di qualcuno, ma a un livello più profondo e radicale è amore che si svela e si dona nel rapporto io-tu e nel dialogo allo scoperto, nella comunione delle due soggettività. Anche questo secondo amore, più raro e più decisivo del primo, e di cui gli uomini hanno speciale bisogno, rintraccia la propria sorgente in Dio, il quale ama gli uomini di un amore di dilezione tanto inviando l'Unigenito come vittima di espiazione per l'uomo, quanto rivelando all'uomo qualcosa della propria vita intima e chiamandolo al dialogo. Senza scindere l'atto di un amore indiviso, possiamo dire che nel primo caso Dio esiste per l'uomo, nell'altro che esiste con lui. 3) A che cosa si rivolge amore? Qui l'esprit de finesse di Pascal non è stato in pari con se stesso. Alla domanda se l'amore si indirizzi alla persona o alle sue qualità, egli risponde optando apertamente per il secondo corno. " Che cosa è l'i'o? Un uomo che si mette alla finestra per vedere i passanti, se io passo di là posso dire che si è messo per vedermi? No, perché non pensa a me in particolare. Ma colui che ama qualcuno per la sua bellezza, l'ama veramente? No, perché il vaiolo che ucciderà la bellezza senza uccidere la persona, farà che egli non l'ami più. E se mi si ama per il giudizio o la memoria, si ama il mio io? No, perché posso perdere queste qualità senza perdere me stesso. Dov'è dunque questo io, se non è né nel corpo né nell'anima? E come amare il corpo o l'anima, se non per queste qualità, che non costituiscono punto ciò che fa l'io, poiché sono periture? Si potrebbe amare la sostanza dell'anima di una persona, astrattamente, e quali che siano le qualità presenti? Ciò è impossibile e sarebbe ingiusto. Non si ama dunque mai la persona, ma solamente delle qualità ". Pascal, mentre sembra intendere che l'io è un nucleo intimo che non si risolve nelle sue qualità, nega che esso come tale possa valere come oggetto di amore. E così certo che egli abbia ragione? In realtà l'amore umano autentico, che è possibile chiamare il bell'amore, va soprattutto all'esistenza stessa dell'essere amato, gioendo che esista e cercando di coglierlo nel suo nucleo più interno, quello che le sue qualità ad un tempo rivelano e velano. Poiché certe qualità oggi ci sono e domani possono venir meno, l'assunto di Pascal preso alla lettera renderebbe impossibile l'amore umano autentico e duraturo: come sarebbe possibile continuare ad amare e ad avere cura dell'altro quando questi è malato, indebolito, sfigurato, se non fosse che il nostro amore va allora più intensamente alla sostanza dell'altro e non solo o non più alle sue qualità? Tale amore appartiene alla categoria dell'amore di amicizia, in cui si ama l'altro in quanto altro, si vuole non solo il bene dell'altro, ma bene all'altro amato per lui stesso, differentemente dall'amore di desiderio, in cui l'amato è cercato per il bene dell'amante. Forse Pascal è stato vittima di un equivoco, in certo modo, riducendo la latitudine dell'amore umano ad eros, a amore di desiderio, e lasciando da parte l'amore di amicizia e di benevolenza che si collega ad agape. Nella sua essenza ekstatica l'amore è tanto più forte e vero quanto più, facendo uscire da se stessi, non si arresta alle qualità che appaiono ma raggiunge il soggetto personale nella sua interiorità. Poiché la sostanza dura nell'essere, l'amore umano riuscito, il bell'amore, si dirige verso l'interiorità sostanziale dell'altro al di là delle vicissitudini delle qualità, distendendosi nella dimensione della permanenza e della fedeltà. Attraverso il cammino di eros e di agape diventa possibile affrontare il grande problema della conoscenza reale dell'alterità. L'amore si apre una strada verso l'interiorità dell'altro, l'amore cerca di conoscere l'altro. Questi è qualcosa di esterno a noi, non è la parte oscura di noi stessi; è l'altro nella sua costitutiva velatezza che si nega e si nasconde proprio nell'atto in cui si lascia in parte raggiungere. Se solo l'amore va verso la soggettività altra, la sua strada si pone come infinitamente preziosa, perché senza di essa l'altro come tale rimarrebbe ultimamente inattinto. Come comprendere meglio il tema qui alluso, che stabilisce una dialettica delicata su cui occorre sostare? Fissiamo dapprima il problema. Se si trascura la via dell'amore che ci porta nel cuore dell'alterità, è possibile conoscere mediante concetti ( di cui è intessuta la conoscenza umana e di cui non si può fare a meno nel conoscere oggettivante e universalizzante ) la soggettività in quanto tale? La risposta si presenta negativa. L'intelletto conosce solo oggettivando e universalizzando, mentre l'universo dell'interiorità personale è ultimamente inoggettivabile e perfettamente individuale. La conoscenza umana avanza mediante concetti e nozioni universali, appoggiandosi su oggetti di pensiero che lasciano da parte l'individuale, mentre qui si tratta proprio di conoscere la soggettività e l'interiorità individuali, che sfuggono per definizione a ciò che conosciamo tramite concetti. Come uscire da questa impasse, attraverso cui si tramanda il retaggio di non poter rendere vera giustizia alla persona? Se attraverso l'intelletto conosciamo come oggetti i soggetti personali, noi non rendiamo loro giustizia, perché non adeguiamo mai l'intuizione, oscura ma reale, che ogni soggetto ha di se stesso in quanto soggetto; intuizione esistenziale che forse non possiamo concettualizzare pienamente neppure a noi stessi. Solo nell'amore mi è rivelata in qualche modo la soggettività dell'altro. Il concetto oggettiva, l'amore ( di dilezione ) soggettiva, nel senso che raggiunge oscuramente ma realmente l'interiorità dell'altro. Ma questo genere di amore è raro. Quando esso accade, si può con ugual verità sostenere tanto il " soi-même comme un autre ", quanto il " un autre comme soi-mème ", per fare riferimento al noto titolo di un'opera di Ricoeur. Riprenderemo questo filo conduttore tra poco per mostrare la perennità del fenomeno religioso in quanto questo viene incontro ad un'indistruttibile esigenza della persona: quella di essere riconosciuta e compresa nella sua singolarità; quella che alla mia soggettività precaria e ferita sia resa giustizia, e che essa sia colta in un'esperienza di misericordia. 4) Aprendosi la strada verso l'altro, l'amore incontra quell'incoercibile bisogno di riconoscimento che erompe nel soggetto e che è fondamentale per il raggiungimento della vita buona, e cerca di corrispondervi. Conoscere in giusta luce l'uomo è dargli riconoscimento. Appropriatamente sottolinea questo punto C. Taylor: " La tesi è che la nostra identità sia plasmata, in parte, dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento, spesso, da un misconoscimento da parte di altre persone, per cui un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un'immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia … Un riconoscimento adeguato non è soltanto una cortesia che dobbiamo ai nostri simili: è un bisogno umano vitale ". Ed è attraverso una prassi di riconoscimento che si crea nella vita delle comunità e in specie nella famiglia una catena generazionale in cui relazioni, senso della comunità e " legature " - per usare il termine adottato da Dahrendorf - sono vitali per il raggiungimento della vita buona. Un progetto di vita buona implica che le generazioni comunichino: e questo suggerisce che vi siano bambini cui parlare e da amare, contrariamente all'evento per cui oggi i bambini - la vita nuova che fiorisce - si vedono con notevole parsimonia. Se scompare agape, se vengono meno i volti, siamo indifesi dinanzi ad un possibile esito antifraterno dell'azione. La fraternità non rappresenta un concetto derivato di cui si possa almeno in prima battuta fare a meno; insieme ad agape appare il più alto fattore disponibile per il miglioramento della condizione umana, la matrice di un'etica universale di liberazione, oltre l'etica procedurale autonoma cui guardano numerosi autori politici del postmoderno. Queste prospettive sulla filosofia dell'amore fanno apparire in luce nuova la questione dell'autonomia e dell'eteronomia. Dopo Kant è divenuto un luogo comune assegnare accezione solo negativa alla seconda, e vedere strettamente congiunte persona e autonomia. Eppure nella relazione d'amore l'interiorità si fa ekstatica e pone il proprio centro nell'altro, nell'amato, facendosi autonomamente ( ossia liberamente ) eteronoma. " La soggettività, in quanto responsabile, è una soggettività che è di colpo comandata: in qualche modo l'eteronomia è qui più forte dell'autonomia ". Il senso profondo dell'amore in quanto estatico è di far uscire la persona da se stessa, di decentrarla verso l'altro. Nel bell'amore l'amato è elevato a centro dell'amante, di modo che la pienezza dell'autopossesso interiore coincide col libero donarsi della persona: paradossale identità di autonomia ed eteronomia, paradossale coincidentia oppositorum. Il contrario dell'amore estatico è il narcisismo: non aprirsi agli altri, ad un " io altro " in un atto di comunione, ma vedere riflessa sempre e solo la propria immagine. Reinvestimento sull'io in una autocontemplazione compiaciuta, il narcisismo è lo scacco dell'amore, l'impossibilità di uscire dalla solitudine. 5) La comunicazione. Nel movimento ekstatico d'amore dell' " io " verso il " tu " le due soggettività comunicano. Il variopinto spazio della comunicazione umana si dischiude allo sguardo, proprio a partire dalla filosofia dell'amore e della persona: sulle sue basi si può stabilire con pieno diritto una filosofia della comunicazione umana e dello scambio con l'altro. In quanto atto più fondamentale e ricco del solo informare che è processo unidirezionale, il comunicare comporta la bidirezionalità ossia il coinvolgimento dei due poli della comunicazione; nel comunicare si trasmette qualcosa di se stessi all'altro in uno scambio personale, raggiungendo una almeno parziale fusione tra le due soggettività. La comunicazione umana riuscita è rischiarata dall'amore agapico, sotto il cui calore l'isolamento si spezza e le persone si incontrano nel mutuo riconoscimento. Ben al di là del momento del " si dice " e della chiacchiera, gli uomini entrano realmente in rapporto solo attraverso l'essere e le sue proprietà trascendentali: unità, verità, bontà, bellezza. Una coerente dottrina della comunicazione non può non considerare la " comunicabilità " di quanto esiste, la cui radice sta appunto nell'essere e nei trascendentali, e che differisce fondamentalmente dalla dialettica delle autocoscienze come analizzata da Hegel nella Fenomenologia dello spirito. L'autocoscienza qui si pone come pretesa al riconoscimento di se stessi da parte dell'altro, invece che come reciproco riconoscimento, ossia dell'altro e di se stessi con l'altro. L'autocoscienza vincente toglie invece la dimensione dell'alterità come tale, il signore sottomette il servo e gode del suo lavoro, ma l' " io " dell'uno e dell'altro rimangono un che di estraneo e di lontano. La relazione con se stessi e la relazione con l'altro, ossia l'autorelazione e l'eterorelazione, si separano senza rimedio, e una notte profonda sbarra l'accesso all'interiorità della persona. Il nucleo di una filosofia della comunicazione viene dischiuso dall'inizio del Vangelo di Giovanni: " In principio era il Logos ", ossia il Verbo, ossia la Parola. Poiché la Parola parla a qualcuno, e non può che parlare indirizzandosi a qualcuno e comunicando con lui, che in principio essa fosse implica un altro asserto: " In principio era la Comunicazione " o anche " in principio era la Persona ", poiché non sono note forme di comunicazione e di dialogo se non fra soggetti personali. Nel perfetto circolo della relazione trinitaria le tre Persone instaurano una comunicazione infinta che rimane come eterno, asintotico modello per ogni comunicazione urnana. Dio comunica entro se stesso nella vita trinitaria; Dio comunica se stesso agli uomini nella rivelazione fatta di eventi e parole. La comunicazione è riuscita quando, andando da coscienza umana a coscienza umana, transita e riconosce il proprio baricentro nella comunicazione originaria divina. Ogni autentico comunicare fra uomini è un processo triangolare, che non può non passare per la Trascendenza. In ciò sono precontenuti l'umanesimo dell'altro uomo e l'attenzione al volto dell'Altro. Con questi assunti ci si colloca su rive lontane da chi afferma che in principio era il Mondo, o l'Azione o la Tecnica, forme in cui si configura un predominio nel Neutro con la conseguenza che non vi siano nel cosmo veri soggetti personali, ne quello umano né quello divino. Un carattere notevole della comunicazione umana non consiste nel passaggio dall' " io " al " tu " e al " noi ", ma viceversa dal " noi " all' " io "; ossia dalla comunicazione data nel mondo quotidiano della vita alla comunicazione personale liberamente guadagnata. Questo rimane un compito per ogni uomo, reso non facile dalle false forme di comunicazione e dal rischio di integrazione funzionalistica, in cui le persone valgono solo come ruoli interscambiabili. L'osservazione ha il suo rilievo anche per la teoria della democrazia, dove si può domandare se una sua esclusiva identificazione con le regole del gioco salvaguardi la natura comunicativa del rapporto politico. L'interesse che attualmente si dispiega nella filosofia mondiale verso le etiche comunicative potrebbe ricondurre la ricerca verso questioni prossime a quelle qui sfiorate. Questo sarebbe possibile a patto che le etiche comunicative scendessero più in profondità di quanto accada oggi, non si mantenessero cioè per l'essenziale entro il quadro dell'egologia moderna nel tragitto che va da Cartesio a Kant ed oltre, e cercassero di riprendere contatto con la filosofia della persona, dell'interiorità e dell'amore di cui mancano in modo sorprendente. Sviluppatesi entro il grembo della filosofia del linguaggio del '900, esse sembrano da un lato volte alla ricerca del consenso intersoggettivo nella comunità illimitata del dialogo e della comunicazione, e dall'altro più o meno consapevolmente tributarie dell'assunto che la mediazione espressiva dell'interiorità si realizzi nel linguaggio ( o solo nel linguaggio ), piuttosto che nell'amore. Chi potrebbe negare che il linguaggio sia un grande veicolo di interpersonalità e di comunicazione? Il fatto è che l'amore lo è di più, in modo più universale, potendosi esprimere anche senza parole e segni, e potendo raggiungere nell'uomo strati ontologici più profondi di quelli attinti dalla parola. Chi considerasse le odierne più notevoli etiche del discorso, quali quelle di Apel e di Habermas, avvertirebbe che esse costituiscono una consapevole ripresa del programma kantiano sulla ragion pratica, nel senso di fondare una filosofia morale cognitiivista, universale, formale-procedurale -, riformato per quanto riguarda il passaggio dalla centralità dell' " io " a quella del " noi ". Riformulando la dottrina morale kantiana sulle norme attraverso la teoria della comunicazione, le etiche del discorso lasciano da parte l'ontologia della persona, dell'interiorità, dell'amore. Se esse hanno il merito di aver superato il postulato humeano e positivista della grande divisione tra essere e dover essere, ristabilendo la possibilità del cognitivismo morale, non hanno però esaminato la relazione tra linguaggio e essenza comunicativa della persona. 6) Conoscenza dell'altro. Insieme all'amore, il conoscere è l'atto più qualificante della persona, perché la rivela in profondità ed in modo complementare al disvelamento provocato dall'amore, dal momento che conoscenza e amore seguono movimenti diversi, seppure entrambi volti a sormontare la solitudine dell'io nell'unione con l'alterità. È fuori dai confini fissati a questa riflessione svolgere una metafisica della conoscenza, su cui ci siamo soffermati altrove. Limitiamoci ad un'annotazione. Una filosofia idealistica della soggettività rappresentante rende difficilissima l'esplorazione dell'abisso senza fondo della soggettività, nonché l'accesso all'altro come altro. In proposito l'idealismo paga lo scotto di un errore fatale nell'intendere la conoscenza, secondo cui rappresentarsi una cosa significa assimilarla a sé, includerla, negarne l'alterità riconducendola all'identità dell'io: riportata all'io conoscente, l'alterità viene digerita e contraffatta, e ciò rende impossibile in un idealismo conseguente, come fu quello di G. Gentile, la conoscenza dell'altro come altro. Conoscere non è però riportare a sé e identificare all'io, ma - al contrario - divenire intenzionalmente o immaterialmente l'altro ( fieri aliud in quantum aliud ), dimorando in se stessi carichi del contenuto intelligibile dell'altro. La dottrina realista della conoscenza incorpora il riconoscimento dell'altro, il primato dell'esteriorità, dell'alterità, della non-identità: è ad essa che occorre rivolgersi per un accesso all'altro mantenuto nella sua alterità, non ricondotto e " digerito " dall'io. Mentre l'amore è ek-statico, la conoscenza è in-statica: l'oggetto conosciuto è conosciuto entro lo spirito, e questo non deve uscire da se stesso per assimilarsi all'ente. È dall'interno del suo atto immanente che lo spirito conosce. 3. La coscienza psicologica e morale Con il riferimento alla coscienza si opera un prelievo tematico di prim'ordine entro il campo della filosofia della persona, dal momento che la sua questione costituisce un luogo massimo del filosofare, cui guarda anche la scienza. Coscienza è inoltre una delle parole-chiave che possono ambire a rappresentare la filosofia moderna sino alla contemporaneità, attraverso le varie indagini fenomenologiche, morali, gnoseologiche e metafisiche su di essa. Esiste una traiettoria della coscienza nella modernità che, a partire da Cartesio, attraverso Kant, Fichte, Hegel, Husserl giungendo sino all'epoca presente, ne veicola significati differenti. La coscienza cartesiana, strettamente legata al cogito e all'io come sostanza pensante ( res cogitans ), si apparenta assai più alla coscienza come conoscenza ed " essere consapevoli di " che alla coscienza morale: è una coscienza di tipo conoscitivo, riflessivo, monologico, dove l'alterità dimora lontano quando non è francamente assente. Differentemente il tema si pone in Hegel, dove la coscienza si struttura, irenicamente o agonisticamente, come coscienza dell'altro nella ricerca del riconoscimento, il quale ne attesta la struttura relazionale. La coscienza in Husserl riprenderà formule e modalità cartesiane, incontrando conseguentemente come suo delicato problema quello dell'intersoggetti vita, ossia dell'apertura e del riconoscimento dell'alterità. Dubiterei che sia possibile formulare una teoria della coscienza in base alla scienza attuale o ai suoi prevedibili sviluppi, poiché o si riduce la coscienza a un quadro logico-computazionale ( ma allora è ancora coscienza? ), oppure suoi rilevanti aspetti si sottraggono alle prese della scienza, della neurofisiologia, delle teorie della mente come " software ", del cervello-macchina. Quantomeno ne fuoriescono la coscienza morale e larga parte di quella cognitiva: nella produzione del verbo mentale o concetto, la coscienza come mente cognitiva differisce pienamente dal " software " ed anche da processi di elaborazione dell'informazione; altrettanto si dica per l'intenzionalità. Non possiamo perciò risolvere la soggettività cosciente nel dominio della scienza naturale. Questa può certo rivolgersi anche alla soggettività e alla coscienza, mantenendosi tuttavia consapevole che molto le sfugge. L'immagine scientifica del mondo, lungi dal coprire tutta la realtà e la soggettività cosciente, è qualcosa di ineliminabile e ad un tempo di limitato: una scienza della soggettività, se c'è, è esterna alla scienza naturale. " Coscienza " è parola centrale nella cultura, dove incontriamo senza risparmio un lessico che in modo diretto o traslato parla di coscienza morale, psicologica, pedagogica, religiosa, civile, politica; di formazione della coscienza; di coscienza dei propri diritti e doveri, di libertà di coscienza, ecc., secondo mille cammini che partono e ritornano alla persona. Di tale tema polivalente vogliamo qui tratteggiare qualche elemento relativo alla coscienza psicologica e morale, secondo i due significati fondamentali che emergono nell'analisi: 1) coscienza come consapevolezza; ossia coscienza psicologica nel senso dell' " esser coscienti di "; 2) coscienza come coscienza morale, come avvertenza del bene e del male. Le lingue neolatine come l'italiano e il francese hanno a disposizione un solo sostantivo ( coscienza, conscience ) per esprimere le due maggiori funzioni proprie della coscienza. La relativa povertà del lessico, sorprendente se commisurata all'importanza del nucleo cui ci si riferisce, può essere in parte superata accostando al sostantivo gli aggettivi pertinenti. Il tedesco e l'inglese dispongono invece di due sostantivi: bewusstein e consciousness per il primo significato, gewissen e conscience per l'altro. Con la bipartizione introdotta viene evocata una prima scansione del tema, cui occorre ora assegnare un contenuto maggiormente determinato. Si vedrà allora che almeno il significato 1) di coscienza è polivalente, ospitando al suo interno altri modi e livelli della coscienza. Procedo per larghe differenziazioni, quasi a colpi di sciabola, per disegnare un perimetro accettabilmente significativo. A) La coscienza psicologica. Essa vale come consapevolezza interna delle percezioni apportate dagli organi sensoriali, e quale presenza a se stesso dell'io: del pensiero a se stesso; della volontà a se stessa; della memoria a se stessa. In altri termini, mentre la persona è rivolta agli oggetti, all'alterità nel suo senso più ampio, contemporaneamente la coscienza è conscia di sé. Il soggetto è consapevole dei propri stati d'animo ( coscienza concomitante, che può diventare coscienza riflessa e susseguente ), proprio mentre è volto verso l'altro, è coscienza dell'altro. Qui la coscienza vale come centro di consapevolezza del sentire, del percepire, dell'intendere e del volere. A tale quadro si riferisce il " senso interiore " di cui parla Agostino nel De libero arbitrio, quale luogo di inerenza, concentrazione e sintesi delle modificazioni degli organi sensoriali. A questa forma di coscienza psicologica, in unione con la memoria, si collega l'esperienza interna del tempo, come da altro lato si rapportano i diversi stati psichici della coscienza vigilante, di quella onirica, della perdita di coscienza, dell'apertura del campo di coscienza, ecc. E si rapporta anche l'esperienza psicologica della continua molteplicità degli stati di coscienza, con la connessa difficoltà a riportare all'unità dell'io lo sparpagliamento dei flussi coscienziali in mille rivoli e direzioni, a governare la torrenziale molteplicità che ci abita. Nel cinematografo della psiche ad un tratto qui appare un'immagine, là ci attira un suono, all'interno si libera un ricordo, multiformi maschere dell'io e dell'altro si alzano, si levano, si confondono, combattono fra loro, si quietano, riprendono vigore. Il soggetto non avrà mai finito di battagliare con la molteplicità dei propri stati coscienziali, in un confronto che può condurre ad un'accettabile unità dinamica, sempre da riconquistare, o nelle forme patologiche verso la irammentarietà e perfino la frantumazione della coscienza, dove l'io non e più in grado di unificare apprezzabilmente. Deve qui rimanere come un interrogativo se l'esperienza dello sparpagliamento possa venire regolata e ordinata scendendo più in profondità in se stessi. Alla coscienza psicologica quale raccolta e concentrazione dei vissuti psichici in un proprio punto interno, per cui essa diventa un luogo di sintesi e di presenza di sé a se stessi, si lega strettamente l'autocoscienza, che è qualcosa di più della coscienza psicologica di sé, di cui si è detto poco sopra. Autocoscienza significa che nel processo generale della consapevolezza l'attenzione si volge a se stessi, in virtù della fondamentale capacità dello spirito di poter ritornare su se stesso attraverso un atto completo di autoriflessione, e dunque che il soggetto fa di se stesso una totalità dalle infinite risonanze, un poligono di infiniti lati. Nell'autocoscienza l'io diventa un universo a se stesso e per se stesso, scopre la dimensione del profondo e si indirizza verso l'interiorità. L'interiorità autocosciente quale proprietà fondamentale della persona non possiede una portata esclusivamente psicologica, avente a che fare con i flussi psichici e la memoria. Si colloca in una dimensione ontologica più profonda, costituisce una rivelazione del fatto che, poiché non tutto è in superficie secondo estensione e durata, si da la dimensione del profondo e dell'intimo; rappresenta il modo meno inadeguato con cui è possibile raggiungere qualcosa della vita profonda dello spirito. Secondo le analisi svolte da Kierkegaard in La malattia mortale, la cosa più difficile per l'uomo sta nel percepire di essere un io, di valere come soggetto, come interiorità autocosciente, come spirito. Da tale difficoltà scaturiscono le tre forme della disperazione: disperatamente non essere consapevole di essere un io; disperatamente non volere essere se stesso; disperatamente voler essere se stesso. Nel continuo " si dice " mondano e nella chiacchiera che lo accompagna si conversa spesso di vite fallite, un punto su cui si concentra la tristezza di non poter più cambiare il filo conduttore di un'esistenza largamente trascorsa, e la nostalgia per qualcosa di diverso. La conversazione mondana sa ciò di cui discorre, ossia il senso di una vita sciupata? Non potrebbe essere vita sciupata quella dell'uomo incapace di diventare conscio di sé come interiorità autocosciente? " Sciupata è soltanto la vita di quell'uomo che la lascia passare, ingannato dalle gioie e dalle preoccupazioni della vita, in modo che non diventò mai, in una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come io ". Si diventa consapevoli di essere un io in specie nelle situazioni-limite o nel " naufragio " di cui dice Jaspers, nelle quali l'uomo comprende la finitudine della propria esistenza e fa esperienza di non essere Dio. Nello stesso tempo si esperisce come esistente nel modo della libertà ed interiorità, e comprende che l'uomo è più di tutto ciò che pensa e fa. L'io e l'altro. Fra i temi notevoli della filosofia della persona si colloca l'interrogativo se sia più originaria la coscienza dell'io/se stessi o la coscienza dell'altro. Sembra difficile negare che sin dalle prime fasi della vita del bambino, del nuovo nato, la coscienza operi soprattutto come coscienza dell'alterita, come apertura in certo modo incondizionata a ciò che si dà nell'esteriorità. La coscienza è di per sé aperta all'alterità. Il pensiero di Lévinas ha elaborato con vigore questo aspetto originario della coscienza sostenendo che l'esperienza dell'altro ( e correlata apertura della coscienza ) sia costitutiva del filosofare ancor più che le platoniche meraviglia e meditazione della morte: in quanto la coscienza è coscienza dell'Altro ( autrui ), la relativa filosofia si darà come pensiero dell'esteriorità. La filosofia dell'essere è anch'essa in certo modo una filosofia dell'esteriorità, poiché sostiene che dapprima accade la coscienza dell'altro rispetto all'autoconoscenza dell'io: quest'ultima si sviluppa gradatamente con la maturità del soggetto. Oltretutto nel proiettarsi verso il reale il soggetto pensa l'essere prima di percepire di pensare. Sicché la comunicazione umana, quale scambio fra soggetti spirituali per i quali vale la regola dell'interiorità, è propriamente il riconoscersi e il relazionarsi di due interiorità nell'esteriorità. Scarso è quindi il fondamento con cui si oppongono esteriorità ed interiorità, individualità soggettiva e alterità. La coscienza che risponde all'appello dell'Altro è la coscienza di un io, di un soggetto dotato di interiorità; il pensiero dell'alterità è insieme una ( ri ) visitazione della soggettività e dell'interiorità. In una concezione della coscienza come coincidenza di interiorità ed esteriorità e come originariamente etica, la donazione di senso non appartiene alla coscienza trascendentale dei moderni dove non di rado sussiste il rischio di pervenire ad una egologia chiusa, ma all'esteriorità etica del volto d'altri. Ciò getta effetti in molte direzioni, in specie sullo schema dell'autonomia morale quale autolegislazione della ragione ( cfr. Rousseau e in specie Kant ), legato alla coscienza trascendentale, in certo modo costituente, che entra in crisi e tende a dissolversi, " metamorfosandosi " nel pulviscolo delle singole soggettività empiriche. Il recupero dell'altro e dell'apertura del soggetto all'alterità sembra piuttosto legato alle filosofie del realismo e dell'esteriorità, nella relativizzazione dello schema egologico-monologico. Conosciamo le difficoltà entro cui si è avvolta una parte della filosofia moderna a proposito del rapporto tra la mia e l'altrui coscienza. Difficoltà che si imperniano intorno all'interrogativo che, se rimane inevaso, conduce al solipsismo: come si può essere certi dell'esistenza di altre coscienze, di altri io? Tale problema che impegnò a fondo Husserl nelle Meditazioni cartesiane, porta in sé un'inerente difficoltà a rendere conto della comunicazione, poiché le filosofie legate alla monologia del cogito devono quasi dedurre quello che è invece già presente nell'esistenza. Nelle filosofie personalistiche l'altro è dato immediatamente all'io in virtù del carattere aperto, relazionale e comunicativo della persona. Il fatto che la certezza dell'altra coscienza sia data, non cancella la dialettica particolarmente rischiosa, soggetta a successi ed a scacchi, della comunicazione. B) La coscienza morale. Il possesso della coscienza morale - quella psicologica non è tipica soltanto del genere umano - è un segno decisivo dell'uomo, e forse il più evidente indizio della persona. Per questo toccando il suo tema e quello dell'etica, ci si può attendere che ogni filosofia non possa non fissarvi lo sguardo, poiché l'esperienza morale e la coscienza morale sono universali, elementi che accompagnano necessariamente l'esser-persona. Il principio-persona si depotenzia molto, se non è esplorato anche tramite la strada della morale; del nomos dunque e non solo del logos. Ora l'esperienza morale, di cui si occupano i filosofi e le scienze umane, cercando di decifrarla e di comprenderne la verità e il dinamismo, è qualcosa di straordinariamente vasto che qui non presumiamo di accostare. Intendiamo soltanto svolgere alcune intuizioni sulla coscienza morale quale chiaro testimone della persona, quale " facoltà " che sta in noi in modo innato, ci accompagna tutta la vita e rappresenta la più immediata manifestazione dell'umano. Nella coscienza morale di ciascuno si esprime la qualità del suo individuale rapporto col bene e col male. Bene e male sono le sentinelle costanti con cui la coscienza morale, qualsiasi sia il grado del suo sviluppo, deve fare i conti: una presenza costitutiva per la coscienza, senza la quale non sarebbe. La voce più radicale ed originaria della coscienza, qualcosa che concerne ogni uomo in quanto uomo e che stabilisce un universale che travalica appartenenze religiose, tradizioni e filosofie, è la voce che dice in ogni persona: fai il bene perché è bene; evita il male perché è male. Su questo piano la coscienza decide. Essa sceglie un'azione perché la ritiene buona, e lascia andare un'altra azione perché considerata cattiva. In tali ambiti la coscienza è arbitra, nel senso che decide in proprio. Si riconferma che nella coscienza morale più che in quella psicologica sta la dignità della persona, capace di riconoscere il vero e il bene. Nella coscienza morale si esprime la responsabilità verso l'altro e prima verso il Bene: lasciare che nella quiete delle passioni l'essere sia, il bene appaia e ne possiamo comprendere qualcosa. Le scuole greche, le grandi religioni mondiali, il pensiero moderno e contemporaneo risultano coinvolti sino all'osso nel suo problema. La coniugazione fra pensiero filosofico e pensiero biblico, lungamente esperita in Occidente e tuttora vitale, autorizza a non escludere quest'ultimo, per accertare talune forme della coscienza morale. La coscienza e il cuore. Nel linguaggio biblico il cuore più che lo spirito è l'organo interiore nascosto che designa la parte più profonda della personalità, la coscienza ( il termine " spirito " viene di preferenza applicato a Dio, già dai primi versetti della Genesi ). Il cuore è il luogo dei sentimenti, affetti, amori, delle fondamentali inclinazioni morali. Esso veicola la mah ( anima, soffio ), affinché la vita ( nephesh ) sia normale. Esso è anche l'organo dell'intelligenza e della coscienza ( 1 Sam 24,6; 2 Sam 24,10; Pv 23,12; Qo 7,27 ). Tipica in proposito una frase dei Vangeli: "Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore " ( Lc 2,19 ). Ed è il cuore che detta all'uomo la sua condotta morale ( Is 57,17; Qo 11,9 ), per cui un uomo vale quanto il suo cuore. L'io sarà là dove conducono i desideri del cuore: " là dove è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore " ( Mt 6,21 ). La coscienza morale del bene e del male appare come un elemento dell'intelligenza, come parte dell'anima. Il retto atteggiamento esistenziale e morale sta nell'ascolto: occorre ascoltare la parola con cuore buono e perfetto, e custodirla ( Lc 8,15 ). Nel Nuovo Testamento il termine " coscienza " ricorre esplicitamente nella forma greca di syneidesis ( Rm 2,15 ), tradotto dalla Volgata con conscientia: " Essi ( i pagani ) dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano e ora li difendono ". In altri passaggi incontriamo ulteriori riferimenti alla coscienza: " Ringrazio Dio, che io servo con coscienza pura come i miei antenati … "; " Anzi, io neppure giudico me stesso, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna, non per questo sono giustificato ". ( 2 Tm 1,3; e 1 Cor 4,4 ) In tali testi il termine " coscienza " viene ad indicare l'essere moralmente consapevole del proprio agire e delle proprie intenzioni, e dunque del bene o del male che c'è in noi; e soprattutto dell'esistenza nel soggetto di una legge morale che non viene dall'uomo, che egli non si dà, che la tradizione chiama la legge naturale, la quale vale come una guida scritta non nei codici ma nel cuore, nella coscienza. Conosciamo la determinazione, classica nella sua brevità, che ne offre Tommaso: " La Iegge naturale altro non è che una partecipazione della legge eterna nella creatura razionale " ( Lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali creatura ). Con esplicito riferimento al passo della Lettera ai Romani appena citato, il Concilio Vaticano II nella Costituzione Gaudium et Spes ( n. 16, " Dignità della coscienza morale " ) illustra la portata e la profondità della coscienza: " Nell'intimo della ( coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a are il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa questo, fuggi quest'altro … La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge, che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo ". Entro tali aspetti si disvela il carattere di trascendenza della coscienza, che si manifesta come una presenza di trascendenza nella coscienza: il venire alla luce in essa di qualcosa che è oltre e sopra la coscienza, di un appello che proviene dall'altrove rispetto al mondo e che difficilmente può risultare del tutto spento anche nelle coscienze più opache. Anche ad un esame cursorio la coscienza si presenta come organo percettivo della legge morale e delle realtà morali e, in stretto rapporto con questo aspetto, come la sede di uno degli elementi più fondamentali della vita etica: l'obbligazione morale. La coscienza, percependo l'appello che promana dalla legge morale con la sua divisione tra bene e male, si sente inclinata a compiere il bene e a fuggire il male. Nasce nell'uomo il sentimento dell'obbligazione morale, del dovere. La forza persuasiva dell'obbligazione morale raggiunge il vertice quando si avverte che vi sono cose che vanno compiute costi quel che costi; e cose che non vanno compiute costi quel che costi. Antigone, che va incontro alla morte pur di non disobbedire al dettame della coscienza e della legge non scritta, è l'eroina dell'obbligazione morale e della legge naturale. Coscienza e libertà: la scissione del libero arbitrio. Presupposto della coscienza morale, della responsabilità del soggetto agente e della connessa imputabilità, per cui la responsabilità di un'azione può venire attribuita ad un soggetto come a suo vero autore, è la libertà. In un ideale lessico dalla voce " coscienza " siamo rinviati alla voce " libero arbitrio ", sul cui problema filosofia e teologia hanno nel corso dei tempi apportato contributi, approfondimenti, aperture nuove di prim'ordine, tra cui quello che potremmo chiamare l'impotenza o la scissione del libero arbitrio: la mente indica alla volontà di volere un certo oggetto A o una certa azione B, ma essa non li vuole, non si adegua. Il tema era noto ad Agostino, che nel libro VIII delle Confessioni osserva: " Lo spirito comanda allo spirito di volere, non è un altro spirito, eppure non esegue " ( VIII, 9,21 ). E per quale motivo non esegue? Non esegue perché, essendo necessario alla produzione dell'atto libero l'apporto del volere, questo con il peso della sua potenza di desiderio può volere difformemente dal giudizio della mente. Ed anzi in ultima istanza può far pronunciare all'intelletto il giudizio pratico ultimo, con cui la volontà viene determinata all'azione individuale e concreta qui ed ora. Su questo difficile problema la filosofia cristiana si è inoltrata non poco, forse in specie la scuola tomista. Scandagliando l'abisso dell'atto libero, essa ha messo in luce il primato esistenziale ultimo della volontà e del desiderio sul giudizio della mente. Questo giudizio, da cui è mossa la volontà nell'agire, è in ultima istanza-pronunciato dalla ragione nel modo e nella forma voluti dalla volontà. Essa lo volge come e dove vuole: " L'indifferenza della libertà consiste nel dominio della volontà non solo sul proprio atto, al quale spinge, ma anche sul giudizio [ dell'intelletto ] dal quale è mossa " [ Indifferentia libertatis consistit in potestate dominativa voluntatis non solum super actum suum, ad quem movet, sed etiam super iudicium a quo movetur ]. Domande sull'educazione. Il dominio esistenziale della volontà sul giudizio della ragione, avvia a notevoli considerazioni sul cruciale problema dell'educazione della coscienza morale. L'assunto mostra l'insufficienza di un'educazione soltanto intellettuale o dottrinale della coscienza, pur necessaria, e la centralità dell'educazione esistenziale del volere, in specie nei suoi due movimenti primi: l'amore e il desiderio. Ora l'educazione della coscienza morale, momento cruciale dell'educazione della persona e del cittadino, è divenuto uno dei massimi problemi in Occidente per vari motivi, fra cui due emergono come essenziali: il relativismo intellettuale che trova in quello morale un esito di primo piano; l'azione dissolvente di parte delle scienze sociali moderne che hanno spesso finito per rendere vaga, evanescente, oscillante, relativa la distinzione fra bene e male, che l'umanità aveva avvistato in una lunga storia di dolori, di delitti e d'eroismo. Per teorici e pratici delle scienze umane e sociali ( psicologia, psicoanalisi, sociologia, antropologia, economia, politica ) il male morale non è più un argomento degno di attenzione: meglio assumere che il male sia esterno alla persona e di origine sociale, in modo da semplificare il problema e congedare abilmente la responsabilità personale e Satana. Secondo Freud i demoni non esistono più di quanto esistano gli dèi, e noi siamo manovrati non dalla coscienza morale ma dall'inconscio. Lanciando il suo atto d'accusa contro le scienze sociali, lo scrittore israeliano Amos Oz osserva acutamente: " Per la prima volta dal Libro di Giobbe il diavolo si trovava a dover pazientare … Satana era stato congedato. Era l'età moderna. Ma i tempi possono cambiare di nuovo. Satana sarà anche stato licenziato, ma non è rimasto disoccupato. Il ventesimo secolo è stato il peggior teatro di male premeditato nella storia dell'umanità. Le Scienze sociali non hanno saputo prevedere, affrontare, e neppure cogliere questo male moderno, altamente tecnologizzato ". Quanto al relativismo intellettuale e morale, che senso avrebbe educare se appunto non vi sono verità ferme e valori stabili? La crisi deleducazione morale in Occidente, che erode come silenziosa talpa le sue radici, rischia di render vano il recupero o la rinascita del principio-persona. In merito l'enfasi del liberalismo sulla libertà esclusiva dell'individuo e del neoilluminismo sulle capacità trasformatrici della tecnica non è fatta per tranquillizzare, poiché sposta verso terreni impropri un tema che riguarda il rapporto dell'uomo con se stesso e con l'altro. A lungo, in specie nelle morali del dovere di derivazione kantiana, si è detto: " devi, dunque puoi ". Oggi la potenza della tecnica capovolge il detto: " puoi, dunque devi ". L'obbligazione morale a fare o non fare non è un " prima ", un'intuizione originaria procedente da qualcosa che vale, ma un " dopo ", un comando condizionato dalla volontà di potenza. Quest'ultima, aiutata dall'estesa scepsi etica tuttora prevalente e da una formulazione debole e funzionalistica del principio-persona, tende a far passare in secondo piano la responsabilità verso l'altro uomo. Questo è il terreno dell'etica pubblica che, incontrando il pluralismo morale, vede come unica via d'uscita la ricerca del consenso, come sostiene Engeihardt: " La sola speranza che rimane è la soluzione tramite accordo ". 4. Paradossi della persona Quanto più si riflette sulla persona, tanto più si moltiplicano e quasi sfuggono i punti di prospettiva, sì da far ritenere che solo un'ontologia dell'inesauribile e dell'ulteriorità sia a misura di un oggetto a tal punto complesso e polivalente. Non si può mai presumere di averla completamente afferrata, di averla oggettivata come si obiettiva un essere naturalistico. I suoi confini sono qui ed in ogni dove, secondo l'intuizione che vibra in un frammento di Eraclito: " I confini dell'anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie: così profondo è il suo logos " ( n. 45 ). Accogliendo il senso dell'ulteriore e dell'inesauribile, le filosofie personalistiche inseriscono nella cultura un elemento di apertura, di oltrepassamento senza di cui la vita individuale e sociale rischierebbe di isterilirsi; ed un'istanza di risorgimento di valori repressi o anche umiliati. Della persona desideriamo ora mettere in luce gli aspetti paradossali. Paradosso in generale può essere inteso come qualcosa che va contro l'opinione accettata e perciò sorprende come strano e inaspettato, poiché in esso il senso comune non avverte immediatamente dove collocarsi. I paradossi di cui parleremo sono espressi in proposizioni entrambe vere ma che apparentemente confliggono; rispecchiano situazioni in cui il sì e il no si danno la mano, nel senso che sembrano valere un elemento e il suo contrario, ma non affermano e negano contemporaneamente lo stesso dello stesso e perciò non cadono nella contraddizione. Il carattere unico dell'essere persona si riverbera in un certo numero di paradossi. Ne consideremo quattro: coesistenza di già e non ancora nell'esistenza della persona; incomunicabilità ontologica e comunicabilità intenzionale; manifestatività e velatezza; superiorità del singolo sul genere. 1) Il soggetto umano è persona nel registro ontologico e deve diventare persona in quello dell'azione, in una costante dialettica tra il nostro " io " temporale e puntuale e il nostro " io " essenziale: primo grande paradosso dell'esistenza personale! Siamo già persone ontologicamente e non ancora persone sul piano delle qualità e dell'agire. Diventare quello che si è significa svolgere le potenzialità o le virtualità che sono in noi per giungere intellettualmente, moralmente, affettivamente alla pienezza d'essere inclusa nell'idea di soggetto personale, ossia diventare atto di tutto l'essere a noi consentito e incluso nell'idea dell'esser-persona. Si può immaginare l'ampiezza di elaborazione necessaria per dare sostanza analitica e per così dire empirica a tale paradosso, poiché morale, pedagogia, amore, progetto e molti altri fattori andrebbero presi in considerazione. Secondo un'autorevole tradizione questo compito non può venire condotto ad esito senza l'apporto esistenziale del livello teologico. Se nell'elemento speculativo la difficoltà è comprendere la persona, nell'elemento dell'esistenza la difficoltà è il divenirlo: divenire consapevoli di essere un io, una coscienza eterna e di esistere dinanzi a Dio. Nell'opera di Kierkegaard il tema del rapporto assoluto dell'io con l'Assoluto è dominante: " Essere un io è la più grande concessione fatta all'uomo, ma nello stesso tempo è ciò che l'eternità pretende da lui … L'io è la sintesi cosciente del finito e dell'infinito, che si mette in rapporto con se stessa, il cui compito è divenire se stessa, compito che non si può risolvere se non mediante un rapporto con Dio … L'io è la sintesi dove il finito è quello che limita, l'infinito quello che allarga ". 2) Il secondo paradosso, già veicolato in parte nell'assunto secondo cui l'individualità è incomunicabile ( individuum importai incommunicabilitatem ), può venir formulato dicendo che la persona è compresenza di assoluta incomunicabilità ontologica e di illimitata comunicabilità intenzionale, nel senso che è la stessa e identica persona che sussiste in sé e per sé della sussistenza dell'anima - nessun altro può esistere al suo posto, la sua esistenza è assolutamente individuale, non può essere comunicata ad altri, né esercitata vicariamente o assunta da altri - e che comunica con la conoscenza e con l'amore con l'altro e col tutto. In quanto incomunicabilità del proprio atto d'essere - esplicitata nella determinazione di Riccardo di san Vittore per il quale la persona è un'esistenza incomunicabile di natura intellettuale - e apertura o comunicabilità spirituale d'intelligenza e libertà, la persona è coincidenza degli opposti, ossia dell'in-stasi nel proprio esistere sostanziale e dell'ek-stasi comunionale d'amore. La dialettica d'in-stasi ed ek-stasi stabilisce forse il carattere più complesso della vita della persona. La persona è capacità di porsi in relazione con l'intero; non come la parte si rapporta al Tutto, ma come un tutto al Tutto. Più si discende alla radice dell'incomunicabilità ontologica dell'esistenza personale, più si incontra una sovrabbondanza, una generosità espansiva dello spirito sul piano intenzionale della conoscenza e dell'amore. Qui la persona è apertura, comunicazione, relazione, libertà, novità; ed il punto di saldatura tra l'incomunicabilità ontologica e la comunicabilità intenzionale è l'interiorità, microcosmo in cui si riflette il macrocosmo, vertice della dinamica espansiva e comunionale che anima la vita e il tutto. Quando si dice che nessuno può vivere al mio posto e nel contempo si sostiene che l'anima è in certo modo tutte le cose, si è dinanzi al paradosso di cui trattiamo, per cui ad un tempo l'io è esistenza perfettamente individuata e apertura senza limiti. Il secondo paradosso dell'esistenza personale conduce verso la seguente idea anch'essa paradossale: l'io o la persona umana che è finita, aperta verso l'infinito. La finitezza reale-ontica si accompagna ad un'apertura illimitata sul piano intenzionale. Nel secondo paradosso si può forse leggere la coincidenza di autorelazione e d'eterorelazione, come sottolinea Pareyson: " Il personalismo ontologico sostenuto in questo libro si riconduceva a quello che mi sembrava il centro ispiratore dell'esistenzialismo, il principio della coincidenza di relazione con sé e relazione con altro ". Slmilmente Berdjaev: " La coscienza di sé è necessariamente la coscienza degli altri: nella sua natura metafisica essa è sociale … L'isolamento assoluto dell'io, la sospensione di ogni contatto con altri, con un tu, equivarrebbe alla distruzione dell'io da parte di se stesso ". L'io si autodistruggerebbe se non incontrasse anche il tu; morirebbe di solitudine, perché solo i soggetti, non gli oggetti, possono toglierla. Sartre ha sostenuto che l'inferno sono gli altri; eppure si può domandare se l'inferno non sia piuttosto l'assoluta solitudine, là dove un io è un io solo per se stesso, che insiste ossessivamente sul proprio esistere individuale, recidendo ogni legame. 3) Il terzo paradosso concerne l'appartenenza della persona alla sfera della manifestatività e ad un tempo a quella della velatezza: ciò che si manifesta, anche si vela, sottraendosi alla piena oggettivazione. Ciò è del resto incluso sia nel concetto di re-velatio che indica ad un tempo lo svelare, il manifestare ma anche il velare, il nascondere, sia nel termine latino " persona " e in quello greco " prosopon " che indicando il personaggio-maschera, alludono al fatto che esso tanto esprima quanto nasconda. Un'intrinseca ambivalenza, un darsi e un ritrarsi, un rapporto mai pienamente determinato tra lo spirituale e il corporeo sono perciò comuni alla vita della persona, e possono venir attribuiti alla trasparenza solo parziale di uno spirito in condizione corporea. Essa non riguarda solo la conoscenza che altri ha di me; si applica al rapporto dell'io con se stesso, perché lo spirito incorporato non è autotrasparente. Non esiste un'autointellezione radicale dell'anima, in cui la sua essenza sia dal soggetto conosciuta allo scoperto. Se vogliamo evitare il riferimento agli autori della filosofia dell'essere, dove il tema è canonico, si potrà prestare ascolto al suggerimento di Kant: " Io non ho affatto una conoscenza di me, così come sono, ma semplicemente nel modo in cui appaio a me stesso ". Si danno vari livelli del discendere in se stessi, ma in tutti si evidenzia la non-coincidenza fra coscienza e persona: nulla autorizza a porre la radice della personalità soltanto nella coscienza, e la coincidenza fra evento psichico ed evento di coscienza: l'area della psiche è più ampia e ricca dell'area della coscienza. Nella psiche quale realtà dinamica si intrecciano desideri, tendenze, istinti, impulsi, immagini, che in parte entrano nella zona della consapevolezza, provenendo dal più vasto ambito dell'anima, la quale ancor meno della coscienza è esplorabile o oggettivabile. Approfondendo se stesso, cercando di autoconoscersi e di discendere nella conoscenza di sé, l'io trova abbastanza presto un punto d'arresto. Noi non ci rapportiamo a noi stessi come a un qualsiasi oggetto, non possiamo pienamente oggettivarci, ne essere trasparenti a noi stessi, perché incontriamo l'opacità, l'intrasparenza, la notte della coscienza ( di sé ). Raggiungiamo qui un'idea di autocoscienza molto lontana da quella di Cartesio e di espressioni dell'idealismo, in cui lo spirito è essenzialmente fenomenologia dispiegata, cioè manifestazione e automanifestazione di una coscienza che stando in sé e per sé, riposa in se stessa certa di sé, conoscendosi allo scoperto. Al contrario non è raro esperire che più discendiamo in noi stessi, più il buio si fa fitto, perché la soggettività, l'interiorità, la vita profonda della coscienza non sono completamente oggettivabili. La soggettività individuale " è un abisso sostanziale che, ben lungi dal definirsi mediante la coscienza di sé, sfida la coscienza di sé, perché è per la coscienza una notte che diventa sempre più profonda man mano che essa vi si immerge ". Se cerchiamo di analizzare, nei limiti in cui ciò sia realmente possibile, la discesa in se stessi, è forse possibile riassumerla in tre fasi. La prima modalità di rapportarsi a se stessi è psicologica: avvertire il fiume caotico delle molteplici percezioni che si accavallano in noi. È il livello primordiale e in certo modo più " banale ", quello in cui l'io appare come una galleria di specchi o come un palcoscenico dove si svolge un'incessante rappresentazione. La seconda modalità discende ulteriormente nell'io dove desideri, timori, slanci, paure e fantasmi si presentano a turno, non adeguatamente ordinati e compresi, e che anzi affondano nella notte senza fondo della soggettività. Qui l'io, mentre appare come una pinacoteca che cela dietro ogni quadro un mistero insospettato e inesauribile, tenta di porre in ordine e di analizzare, ma incontra abbastanza presto un punto di arresto in cui il processo di analisi e di ordinamento sfugge di mano. In terzo luogo mediante un'ascosi abolitiva prolungata e ardua, mediante un atto di svuotamento da ogni altro atto, andare oltre in direzione del profondo sino a raggiungere il centro in quiete dell'io: divenire con una discesa alla sorgente un centro immobile, qualcosa di analogo a quanto è ricercato nello zen. Divenuti un centro immobile, toccare atematicamente e fruire metaconcettualmente dell'atto primo di esistenza della nostra anima, là dove è gioia, pace e fruizione. Nella notte della soggettività si dischiude qualcosa della bellezza dello spirito, sia pure di uno spirito come quello umano in condizione di incarnazione, di uno spirito incorporato. A questi elementi si può aggiungere la percezione di noi stessi che si raggiunge facendo leva sulla connaturalità che sperimentiamo con la nostra esperienza di vita, una conoscenza che chiamerei di " connivenza " dell' io con se stesso. Prendendo le mosse da consimili analisi, alcuni pensatori quali Platone, Bergson, e in specie Maritain sono stati condotti a chiedersi se non si dia una vita preconscia dell'anima, un'attività originaria di primevale freschezza che si svolge alle sue radici e che solo in parte passa nella zona della coscienza. Esiste una vita preconscia dello spirito nella sua sorgente, nascosta all'intelligenza discorsiva, e che prende origine in quella zona profonda dell'anima in cui si radicano tutte le sue facoltà, dove esse si annodano e si uniscono prima di distinguersi in base agli oggetti verso cui si dirigono e ai corrispondenti atti. Vita preconscia dello spirito, che si differenzia nettamente dall'altra grande zona esplorata da Freud e dalla psicanalisi: la zona dell'inconscio, degli istinti, delle pulsioni, delle tendenze, e che potremmo chiamare " inconscio freudiano " o anche " inconscio istintuale ". Naturalmente il preconscio spirituale e l'inconscio istintuale possono comunicare e intrattenere scambi; provenendo però da diverse zone dell'io sono ben lungi dall'identificarsi. Le attività delle facoltà dell'anima ( intelletto e volere ) sono influenzate da quanto accade nella sfera preconscia dello spirito. L'elaborazione dei concetti, l'opera del discorso razionale, le scelte e le deliberazioni che impegnano la libertà sono preceduti da un lavorio che si svolge nella notte, nella penombra, nel chiaroscuro della vita preconscia, dove non è possibile discendere oltre un certo limite con atti deliberati e consapevoli di introspezione. La persona è dunque il luogo di un mistero quasi insondabile poiché, come osservato in precedenza, la conoscenza della soggettività è il grande scoglio contro cui si infrange ogni velleità conoscitivo-oggettivante del pensiero, essendo contraddittorio voler conoscere oggettivamente la soggettività come tale. 4) La persona: parte e tutto. La persona è una totalità concreta, un tutto autonomo e indipendente, che non assume il suo valore dal fatto di esistere come parte di una totalità. Paradossale è perciò in essa la compresenza di due aspetti: l'individuo è particella del cosmo, granello di polvere piccola iridescenza sulla cresta dell'onda che un istante è e subito dopo non è più, e ad un tempo un tutto in cui si rispecchia l'infinito. Elemento che conduce lontano e che porta, per la prevalenza del secondo aspetto sul primo, a dover considerare la società non come un tutto formato di parti, ma come un tutto composto di tutti: " Dire che la società è un 'tutto' composto di persone, è quindi dire che la società è un 'tutto' composto di tanti 'tutti' ". Questa paradossalità emerge anche quando consideriamo la società. L'individuo entra come parte nella vita sociale e nel contempo la sopravanza: vi entra come servitore e nel contempo come servito. E servitore poiché deve contribuire al bene comune; è servito poiché il bene comune, le opere della cultura e del lavoro sono risorse per il suo perfezionamento, per divenire uomo. Già a questo livello la persona possiede dignità di fine, non è semplicemente subordinabile al tutto sociale. Il motivo ultimo per cui l'uomo trascende la totalità sociale e si pone come irriducibile al genere è il suo essere ordinato a Dio come fine ultimo assoluto. È una ragione teologica che fonda ciò, espressa robustamente da Kierkegaard: il Singolo come Singolo è più alto del generale in quanto " il Singolo come Singolo sta in un rapporto assoluto all'Assoluto ". Già Tommaso aveva espresso in termini non troppo diversi questo aspetto sostenendo: " Bonum gratiae unius majus est quam bonum naturae totius universi ". 5. Personalismo teologico e teocentrico 1) Nell'elaborazione sin qui seguita, e in quella che seguirà, vertente sulle biotecnologie, la pace, la guerra, il concetto di persona ha assunto un significato principalmente antropologico, senza che ciò debba essere inteso come un restringersi del piano della persona al solo piano dell'uomo. La nozione di persona è analogica, una delle massime concretizzazioni dell''analogia entis, il che vieta di restringere il concetto di persona all'uomo. Persona non è soltanto l'essere umano, e questi non è il solo a dire io. La Persona assoluta è capace di dire " Io " in modo assoluto, e di esistere in modo assoluto: Ego sum qui sum. La rivelazione di Dio quale essere personale che accade nel libro dell'Esodo dice che Essere, Io, Persona si danno la mano. Il supremo nome di Dio è Essere - un infinito oceano di esistenza - e tale oceano è Autocoscienza/Io e Persona. Incontriamo quanto Carlo Arata ha opportunamente chiamato la metafisica della Prima Persona. Vipsum esse per se subsistens non è un neutro, ma identicamente un Ego: Ego sum qui sum; e anche: Ego sum Veritas. Le filosofie del Neutro sono nettamente antipersonalistiche e infine nichilistiche. Il nostro compito è ora di esplorare il campo del personalismo teologico, là dove il messaggio biblico ha gettato una inedita luce sulla persona, la sua origine e il suo destino. 2) Secondo Maria Zambrano ( Agonia dell'Europa, Marsilio 1999 ) il vero padre dell'Europa fu Agostino. Con lui inizia la vita e la cultura europea, in specie con due grandi opere: le Confessioni e La Città di Dio. E nelle Confessioni che viene formato ed espresso un nuovo concetto di uomo, di modo che con questa opera accade secondo l'autrice il transito dal mondo antico cosmocentrico a quello moderno ruotante intorno al soggetto o " soggettocentrico ": questo termine sembra più appropriato di " antropocentrico ", una nozione che in Agostino è del tutto estranea. Quando egli ricorre alla celebre frase: in tè ipsum redi, in inferiore nomine habitat veritas, non mirava certo a visioni antropocentriche, ma piuttosto riteneva che nell'uomo interiore, nella persona stesse l'essenziale. Si tratta della scoperta dell'interiorità, dell'interiorità oggettiva dove si incontra se stessi e la verità. Tale grande scoperta era stata forse adombrata da Platone in alcuni passaggi della sua antropologia come risulta dalla Repubblica ( libro IX ), ma in un modo incompiuto per la latitanza dell'idea di persona nella filosofia ellenica. La platonica dottrina tripartita dell'anima contempla un'anima concupiscibile, un'altra irascibile ed una terza razionale: " Colui che afferma l'utilità dell'essere onesti sostiene che bisogna agire e parlare in modo che l'uomo inferiore sia reso il più forte possibile, così da riuscire a dirigere la bestia dalle molte teste " ( 589ab ). Conseguentemente Platone coglieva che lo scopo dell'opera educativa consisteva nell'edificazione dell'uomo inferiore, e nella conoscenza adeguata di se stessi. Agostino avrebbe aderito a tali intuizioni, aggiungendovi in maniera decisiva l'orientamento teocentrico della soggettività umana, e così dischiudendo l'era del personalismo teologico, " Per quanto mi riguarda, il mio bene è rimanere unito a Dio, perché se non permango in Lui, non permarrò nemmeno in me " ( Confessioni, VII, 11 ). In queste espressioni prende forma l'umanesimo teocentrico, a lungo una stella direttrice dello spirito europeo. L'avvento del cristianesimo ha introdotto come acquisto per sempre il concetto di uomo come persona, per cui non è l'uomo ad esitere per l'universo ma l'universo per l'uomo. Non nella somiglianza col cosmo ma nell'essere immagine del Creatore sta la nobiltà dell'io. A queste altezze il personalismo ontologico di cui si è finora discorso vale come personalismo teologico ( la persona umana come imago Dei ), e parimenti relazionale nel senso che la relazione dell'uomo con Dio è primaria: l'uomo è creato da Dio e a lui ritorna. Tale personalismo trova la sua fonte più pura nelle dottrine della Trinità e della comunione dei santi. C Taylor ha messo in luce con acutezza questi aspetti ricordando che l'idea di umanità è qualcosa che non può essere realizzato in ogni singolo essere umano, quanto piuttosto nella comunione tra tutti gli uomini: " La pienezza dell'umanità non deriva dalla somma di differenze, ma dallo scambio e comunione fra di esse. Esse raggiungono la pienezza non separatamente ma insieme. L'immagine usata da Herder è quella di un coro, o potremmo dire di un'orchestra. La ricchezza definitiva sopraggiunge quando tutte le differenti voci o strumenti convergono … La teologia che sta alle spalle di questa concezione trova le sue fonti in certe cruciali dottrine cristiane, ad esempio quella della Trinità e della Comunione dei Santi " 3) Possiamo raggruppare sotto il termine di " personalismo teologico " le scuole che riconoscono come positivo e valorizzano come essenziale il nesso fra persona e trascendenza. Il loro modello è rintracciabile nella Bibbia, storia di un'eterna vicenda di dialogo e di scontro fra Dio e uomo. Dal nucleo reggente del cristianesimo apprendiamo che l'io esiste immediatamente dinanzi a Dio, sta in modo assoluto innanzi all'Assoluto e possiede il proprio centro in lui. Il personalismo teologico, che si presenta come originale coniugazione di teologia e di antropologia, è un termine appropriato almeno per tre ordini di ragioni: per l'origine, in quanto il concetto di persona si è sviluppato entro fondamentali dibattiti teologici tesi alla comprensione della Trinità e dell'Incarnazione; per il fine nel senso che l'uomo è immediatamente destinato a Dio come suo fine ultimo assoluto; e per l'evento, poiche la dignità della persona umana e il suo effettuale rispetto sono un'esigenza sorta nell'area della rivelazione cristiana. Complessivamente verificabile sul piano culturale e storiografico è la regola secondo cui le posizioni personaliste mostrano legami o almeno simpatia per l'elemento teologico, mentre quelle antipersonaliste in genere si abbinano ad un'istanza ateologica o antiteologica, coniugata col criterio " immanente " di procedere etsi deus non daretur. I personalismi possono accampare due fattori di affinità con la teologia: individuare nella trascendenza la miglior garanzia e difesa della persona umana, e ravvisare nelle Persone divine la realizzazione ultima e perfetta dell'idea di persona. Secondo Berdjaev, espressione del pensiero slavo-ortodosso particolarmente attento al livello religioso, " nessun cerchio dell'essere può avere la sorgente della vita unicamente in sé, salvo Dio che è la vita infinita ". I personalismi teologici ritengono che il principio-persona possa emergere e fiorire nello spazio spirituale del creazionismo biblico in cui Dio e uomo sono destinati ad un rapporto personale, che non potrebbe esservi se l'uomo fosse solo un'emanazione inconscia dell'essere divino. Il personalismo teologico si oppone alle dottrine che postulano l'esistenza del divino solo in forma di immanenza, come accadeva nell'idealismo storicistico per il quale Deus manet in nobis et nos est. Qui Dio non è inteso come persona trascendente, ma come essenza impersonale o Ragione trascendentale la quale, quasi vertice o profumo dell'esistenza stessa dell'uomo, finisce per essere l'uomo che parla di se stesso col tono più alto e attribuisce - ma provvisoriamente e per artificio - a Dio quello che pensa di se stesso. Può un dio esclusivamente immanente in noi essere altro che una proiezione dello spirito umano? Piuttosto con quel concetto viene rappresentato un altro nome dell'Uomo stesso. Così si conferma ancora una volta il carattere di sogno e di irrealtà del razionalismo e dell'immanentismo: essi si muovono nello spazio dell'onirico. In virtù delle controversie trinitarie e cristologiche del III e IV secolo che diedero l'avvio alla metafisica della persona, si può affermare l'anteriorità del personalismo teologico su quello umanistico-metafisico. Nella modernità il personalismo teologico si è espresso come "personalismo teocentrico" o anche "umanesimo teocentrico". Se quest'ultimo termine ricorre frequentemente in Maritain ( cfr. in specie Umanesimo integrale del 1936, largamente imperniato su tale nozione ), l'altro è spesso evocato da Pareyson in Esistenza e Persona col riferimento al carattere teocentrico della persona, concepita " come ordinata a nient'altro che a Dio " ( p. 186 ). In base all'assunto che l'uomo " più che essere in rapporto con Dio, o avere rapporto con Dio, è rapporto con Dio " ( p. 193 ), Pareyson trae anche il carattere essenzialmente teocentrico della società. Si potrebbe pure con pieno diritto ricordare la posizione di K. Rahner che fa dell'uomo un uditore della Parola: " L'uomo è l'ente che nella sua storia deve tendere l'orecchio ad un'eventuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola umana ". 4) Kierkegaard ha scritto che " "il singolo" è la categoria cristiana decisiva ed essa diventerà decisiva anche per il futuro del cristianesimo ". Se numerosi sono i fattori in base a cui una filosofia può denominarsi cristiana, essa è cristiana par excellence proprio sulla questione della persona, quando fa propria e integra nella sua riflessione la rivelazione biblica sulla natura, la condizione storica e il destino dell'uomo. Anche a partire da questi argomenti diventa imprescindibile la scelta tra cristianesimo e anti-cristianesimo, secondo un ammonimento elevato da Pareyson: " Il cristianesimo, oggi, non è cosa davanti a cui si possa restare indifferenti. Bisogna scegliere o prò o contro. Non c'è via di mezzo: ogni posivione intermedia è stata spazzata via dalla crisi della cultura moderna ". Di fronte all'esito della cultura moderna intesa come laicizzazione del cristianesimo Pareyson tiene aperta la possibilità di un suo recupero o di un suo ritrovamento. Non un nuovo cristianesimo, ma un nuovo incontro col cristianesimo di sempre, col cristianesimo eterno. 5) Nuclei del personalismo teologico e teocentrico. Per introdurci nel tema, sintetizziamo le fasi fondamentali della relazione tra uomo e Dio come ci provengono dalla Rivelazione biblica: 1) il Paradiso terrestre: Dio e il mondo, o meglio: Dio nel mondo, dunque la Presenza. Dio come Trascendenza immanente e presente; 2) la Caduta: l'uomo si ritira da Dio, Dio si 'ritira' dal mondo. Inizio delle religioni storiche e della stessa storia umana. Distanza, Trascendenza lontana; 3) l'Incarnazione: Dio nuovamente nel mondo, con l'uomo e nell'uomo. Prosecuzione della storia, nuova Presenzialità trascendente-immanente; 4) il secondo Avvento, la Parusia: fine della storia e del mondo come lo conosciamo, e inedito inizio con cieli nuovi e terra nuova. Alla luce di tali tappe essenziali riassumiamo in tre nuclei il personalismo teologico e teocentrico: a) et incarnatus est, ossia la discesa del divino nell'umano; b) l'ordinazione diretta dell'uomo a Dio; c) il tema dell'imago Dei e dell'analogia. a) Al centro dell'evento cristiano sta l'Incarnazione del Verbo. Questa novità quale la storia mai conobbe né mai conoscerà di nuovo, si riverbera in tutto il Libro e forse in specie in due espressioni: " Benedetto il Signore Dio d'Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo " ( Lc 1,67s ); " Et Verbum caro factum est " ( Gv 1,14 ). Sovviene qui una grande espressione di Pascal: " Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi se non per mezzo di Gesù Cristo; non conosciamo la vita, la morte se non per mezzo di Gesù Cristo. Senza Gesù Cristo, non sappiamo che cosa sia la nostra vita, la nostra morte. Dio, noi stessi ". L'evento dell'Incarnazione dipende solo dalla libera iniziativa divina e non rientra in alcuna connessione necessaria fra cause ed effetti. Libertà dunque, non necessità. Tale evento unico è un tempo puntuale e con portata universale: Vincamatus est costituisce un universale concreto, l'accadimento fondamentale della storia universale come di ogni singola vita. Una speranza eterna, una redenzione eterna e una beatitudine eterna vengono perciò fondate su un fatto storico puntuale, contro il dettato razionalistico di Lessing. I Padri greci formularono il circuito dell'intero, il senso terminale della storia, dicendo che Dio si è fatto uomo affinché l'uomo diventasse Dio. Tommaso d'Aquino l'ha espresso in un testo di pari portata: " Nel mistero dell'Incarnazione è più decisiva la discesa della pienezza divina nella natura umana che l'ascesa dell'uomo verso Dio ". Ora, poiché Dio è Persona assoluta, e dunque Soggettività e Interiorità, la persona umana che come immagine di Dio partecipa più altamente del divino, può entrare in un dialogo da solo a solo con Dio, nelle vette della contemplazione d'amore. È ultimamente per questi aspetti ( ma senza dimenticare la dignità della persona raggiunta per via ontologica ) che la persona umana è dotata di un valore unico e merita rispetto. b) Nel personalismo teologico si elabora la risposta alla domanda su quale sia il fine ultimo assoluto della persona umana. Ci appoggeremo su due frasi: una proviene dalla Scrittura, l'altra da un filosofo cristiano. L'apostolo Pietro scrive che noi siamo partecipi della natura divina ( 2 Pt 1,4 ) e Maritain: " La persona umana è ordinata direttamente a Dio come al suo fine ultimo assoluto, e questa ordinazione diretta a Dio trascende ogni bene comune creato, bene comune della società politica e bene comune intrinseco dell'universo ". Queste posizioni e quelle già citate di Kierkegaard e Pareyson sono vicinissime: esse fanno dipendere il valore in certo modo assoluto della persona dal suo rapporto con Dio, e perciò si collocano di primo acchito nell'ordine soprannaturale e rivelato. Avanzando l'inaudita e quasi inconcepibile verità per cui l'uomo è chiamato per libero dono dall'alto alla beatitudine eterna consistente nella conoscenza e nell'amore di Dio, la filosofia cristiana mostra la sua novità in paragone a tutte le sapienze mondane, d'ora innanzi scoronate. Dall'aldilà del mondo si proietta una luce sul mondo che, facendolo apparire deformato e manchevole, lo apre all'evento messianico del secondo Avvento e al compimento di tutte le cose. Intorno a tale affermazione si organizza la riflessione credente sulla persona in quanto esce da Dio ed a lui ritorna: quell'uscita da Dio e ritorno a Dio ( exitus a Deo et reditus ad Deum ), che è il circolo assoluto dell'essere e della vita. Nell'orizzonte teologico il cammino della persona è di assimilarsi a Dio e di ritornare alla sorgente. Qui il cominciamento non si può fare dalla speculazione filosofica ma dalla scelta della libertà. Il cristianesimo significa: Dio è persona; Dio è entrato nel tempo affinché l'uomo entrasse nell'eterno; il Logos incarnato è il ponte fra finito e infinito, mediatore che conduce l'infinito nel finito e viceversa. Si tratta di un annuncio assolutamente inedito, sconosciuto alle epoche e alle sapienze anteriori, compresa la sapienza greca. Ce ne è abbastanza per disilludere autori contemporanei secondo i quali il cristianesimo non insegna nulla d'intellettualmente rispettabile che non sia già stato scoperto a suo tempo dai Greci. Mentre la metafisica studia l'esistenza ma non la comunica, il cristianesimo è prooriamente una comunicazione di esistenza. c) La concezione della persona umana come immagine di Dio può venire approfondita entro i quadri della metafisica della creazione, della partecipazione e dell'analogia dell'essere, che consentono di esplorare qualcosa dell'abisso interposto tra finito e infinito, tra principiato e principio. Secondo la dottrina della partecipazione una perfezione che esiste in maniera infinita nel principio può venire comunicata in maniera finita nei principiati; e reciprocamente una perfezione esistente in questi ( a titolo di perfezione pura ) rinvia ad un abisso di perfezione nel creatore. Per intendere il nesso fra finito e infinito e l'uomo come imago Dei, ci si può appoggiare alla dialettica " immanenza-trascendenza " ossia alla relazione " in/al di sopra di "; e forse ancor più alla dialettica " somigliante/dissomigliante ", cioè all'analogia. Ad essa alluse il IV Concilio Laterano, asserendo: " Tra il creatore e la creatura non si può affermare una somiglianza tanto grande che la dissomiglianza che si trova tra essi non sia sempre ancor maggiore ( Denz., n. 432 ). Dunque l'analogia tra creatore e creatura, sempre imperfetta e allusiva, va pensata secondo il tipo " somigliante/dissomigliante ", e non col modulo " identità/differenza ", la cui dialettica giace al di fuori dell'analogia dell'essere: il che equivale a dire che la dialettica " identità/differenza " non è analogica, e risulta inidonea a pensare il nesso tra finito e infinito, e la persona umana come immagine di Dio e analogia dell'Infinito. Quando Agostino cercò di comprendere l'uomo come immagine di Dio, mosse alla ricerca di analogie e corrispondenze trinitarie nello spirito umano, poiché un Dio-Trinità non poteva non aver lasciato orme trinitarie nella sua immagine: " Non del solo Padre, o del solo Figlio, o del solo Spirito Santo, ma ad immagine della stessa Trinità l'uomo fu fatto " ( " Non ad solius Patris, aut solius Filii, aut solius Spiritus Sancti, sed ad ipsius Trinitatis imaginem factus est homo ", De Gen. ad litt. op. imp., 61 ). Una tale immagine è impressa nell'uomo interiore, nell'anima intellettiva, non nel corpo: " L'uomo fu creato ad immagine di Dio non secondo la forma del corpo, ma secondo la sua anima razionale " ( " non secundum formam corpons homo factus est ad imaginem Dei, sed secundum rationalem mentem ", De Trinitate 12,7,12 ). L'immagine della Trinità sta nell'uomo interiore, che non si volge alle cose temporali per averne la scienza, ma che cerca l'eterna verità e la sapienza. Ora nell'uomo interiore esiste una prima immagine della Trinità: mens, notitia, amar, di cui si tratta nel libro IX del De Trinitate; ed una trinità più evidente ( evidentior trinitas ) formata da memoria, intelligentia, voluntas. Una tale struttura trinitaria è insita nello spirito, che conosce, ama, ricorda. Sa di conoscere, di amare e di ricordare. Ama di conoscere, d'amare, di ricordare. Ricorda di conoscere, d'amare, di ricordare. L'unità dell'anima e la trinità delle sue operazioni sono un riflesso dell'unità di Dio e della Trinità delle Persone. In virtù dell'immagine trinitaria impressa in lei, la persona umana è un testimone barcollante di qualcuno che sta oltre il mondo. La somiglianza con Dio non si limita al carattere spirituale presente nell'uomo, ma include la capacità della persona umana di entrare in relazione con l'Assoluto e di partecipare alla communio personarum della Trinità. 6) Perennità del fenomeno religioso. Le verità teologiche sulla persona possono svolgere un compito essenziale per riconciliare nell'esistenza i liberi scopi umani, dotati di autonomia e determinatezza, con la coscienza religiosa, affinché i primi nella loro molteplice varietà mondana siano fecondati dal divino e ad esso ricondotti. Uno dei massimi compiti del personalismo nella tarda modernità sta nel raggiungere un nuovo equilibrio tra conoscenza di Dio e conoscenza mondana, affinché la crescente estensione delle attività terrestri e dei fini mondani, in cui consiste lo spirito dell'illuminismo, non renda irrilevante la conoscenza religiosa. L'elemento teologico risulta essenziale non solo per l'integra custodia del concetto di persona, tanto più necessaria in un'epoca in cui i totalitarismi politici e l'impiego ideologico della scienza hanno costituito e costituiscono una permanente minaccia per l'uomo ma più radicalmente per la custodia del mondano. Sostenere questo assunto rinverga con l'idea che in una forma o nell'altra il soggetto religioso non verrà mai meno; e che nessuna cultura o filosofia potrà mai sostituirlo. Di questa impegnativa tesi si possono avanzare due giustificazioni l'una discendente, l'altra ascendente; l'una pensata in termini di evento trascendente; l'altra di struttura trascendentale. La rivelazione cristiana si sviluppa tra la creazione e l'incarnazione, ossia tra due eventi che dipendono dalla libera iniziativa di Dio, e che sono indeducibili da qualsiasi struttura: il ricondurre l'evento a struttura, lo storico all'astratto costituisce la tentazione perenne del razionalismo, che come tale si mostra inadeguato a cogliere lo spessore della storicità. Se invece consideriamo l'uomo dal lato della sua struttura essenziale, del suo apriori antropologico, scopriamo in lui il desiderio incoercibile e indistruttibile di essere riconosciuto da un'altra soggettività: che vi sia qualcuno che possa rivolgersi alla mia soggettività precaria e riconoscerla, che vi sia qualcuno che avvicinando la mia soggettività fragile e ondivaga, le renda giustizia. Questo è quanto offre la religione nella sua più pura natura. L'essenza della religione, per cui essa sta costitutivamente al di là della scienza e della filosofia, consiste in un rapporto assoluto con l'Assoluto, in un dialogo tra persona e Persona, con tutti gli smarrimenti, le delizie, le fughe e le riprese di un colloquio fra due soggettività. E cosa alta vivere secondo l'etica e la ragione; ma è cosa più alta esistere dinanzi a Dio. Sperimentata da Mosè e dai profeti, tale è l'esistenza assoluta che sta al di sopra dell'esistenza autentica, di cui ci parla Heidegger. L'esperienza religiosa non potrà venir meno, perché l'uomo avverte che in essa non è oggettivato, ma compreso nella sua soggettività più profonda, incontrato in una esperienza di misericordia e dunque riconosciuto. Consideriamo infatti. La filosofia e la scienza oggettivano anche il soggetto, perché lo conoscono solo in quanto lo pongono come oggetto, attraverso l'astrazione, l'universalizzazione, il concetto. Questi eventi non dipendendo dalla buona o cattiva volontà dei singoli, bensì dalla struttura della condizione e conoscenza umane, non sono volontari, ma insuperabili e inerenti. Se attraverso l'intelletto conosciamo come oggetto l'universo del soggetto personale, non gli rendiamo giustizia, non adeguiamo la sua verità, ne l'intuizione oscura ma reale che ogni soggetto ha di se stesso in quanto soggetto. Il concetto universalizza e oggettiva, l'amore di dilezione individualizza e soggettiva: solo nell'esperienza di un tale amore mi è in qualche modo rivelata la soggettività dell'altro, al di fuori di ogni fenomenologia dello sguardo estraneo, analizzata da Sartre. La più fondamentale esigenza umana è forse quella di essere riconosciuti. Può darsi che con molta fatica l'uomo possa rinunciare o moderare la spinta verso la felicità; non può però spogliarsi del bisogno primordiale di essere compreso, ossia che esista qualcuno che gli renda giustizia. L'esperienza che non vi sia qualcuno, né uomo, né altro, che possa rendere giustizia alla mia soggettività singolare, precaria e ferita, riconoscendola e comprendendola, è per l'uomo l'ingresso nella disperazione e una specie di anticipo dell'inferno. Il rapporto religioso autentico possiede una peculiarità che non ha la maggior parte degli scambi umani: in esso ha luogo un'esperienza di dialogo e di misericordia, in cui il mio io, la mia soggettività più nascosta non è obiettivata e perciò universalizzata, ma compresa nella sua singolarità. Conoscendo la mia singolarità debole e fluttuante allo scoperto, fin nelle sue più intime pieghe con le sue nobiltà e viltà. Dio mi conosce più di quanto io mi conosca. Egli mi rende giustizia, almeno nel senso che di fronte a Lui la mia soggettività non è resa astratta, ma colta nella sua esistenza propria. Egli mi comprende, così che il mio io può uscire dalla solitudine e dal rapporto inautentico. Può darsi che Wittgenstein avesse presente anche questo aspetto quando scriveva: Noi sentiamo che, persino nell'ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati ". Il desiderio di riconoscimento di cui si è detto, radicato in una struttura antropologica invariante, e in certo modo rappresenta dal lato dell'uomo la possibilità trascendentale della permanenza della religione. E possibile che la ripresa del personalismo teologico attribuisca nuova vitalità all'elemento religioso, capace di rimodulare la versione oggi prevalente di filosofia pubblica che in mille rivoli si spande nella piazza pubblica e che si nutre di fattori che prendono il nome di privatizzazione della religione, priorità del giusto sul bene, liberalismo individualistico, spazio pubblico secolarizzato, priorità dell'identità sul riconoscimento, primato della sola libertà di scelta. L'immagine dell'uomo del personalismo teologico può diventare principio di una diversa prassi, contro l'idea che alla fede cristiana sia dischiuso solo lo spazio del privato. La Chiesa presbiteriana americana dichiarò: " It is a limitation and a denial of faith not to seek its expression in both a personal and a public manner, in such ways as will not influence but transform thè social order. Faith demands engagement in thè secular order and involvement in thè politicai realm ". 6. Il rapporto dell'umanesimo secolare con la condizione umana Un ultimo punto concerne la parziale impotenza di un umanesimo ateo-logico o compiutamente secolare nel conoscere la reale situazione esistenziale dell'uomo: un umanesimo pienamente laicizzato ignora la grandezza dell'uomo e parimenti la sua miseria. Un umanesimo teistico conosce meglio la condizione umana se evita di considerare solo il potenziale di bontà e di grandezza della persona oppure solo il suo potenziale di abiezione. Una conoscenza non può andare disgiunta dall'altra, se vogliamo evitare tanto l'enfasi dell'orgoglio, quanto il suo capovolgimento nella delusione e nel duro trattamento inflitto ad un materiale umano ingrato e refrattario alle nostre pretese. Il passaggio dalla filantropia alla misantropia è breve. Messa da parte agape, il più grande rischio di ogni umanesimo positivo è di nutrire in partenza un senso alto e trionfante dell'umano e poi, giunti dinanzi agli uomini in carne ed ossa, pervenire dalla delusione, al disprezzo e alla coercizione per obbligare la pesante pasta umana a ricevere nell'illibertà la forma che le si vuole imprimere. Un umanesimo pienamente secolarizzato e privo di agape può produrre orrori più crudeli di quelli che la critica illuministica ha imputato alle società di cristianità del passato. La modernità ha inteso che il compito della politica fosse di alleviare la sofferenza nel mondo e creare prosperità, dando avvio ad azioni di solidarietà e aiuto al debole che rappresentano un nucleo centrale nelle società democratiche. L'umanesimo secolare nutre una giusta indignazione contro l'ingiustizia e l'oppressione e chiede imperiosamente di sanarle. Esso accoglie dall'eredità cristiana l'appello alla benevolenza, alla solidarietà, al rispetto verso l'altro che promanano dalle intuizioni evangeliche e che fanno spesso parte del discorso pubblico 'laico' e dell'etica pubblica: di ciò siano rese grazie. Ma tale umanesimo non si rende conto di porre con le richieste del suo idealismo laicizzato un aggravio morale non sopportabile - i costi pesanti dell'attenzione all'alterità - su soggetti che non sanno come portarlo. L'etica della dignità umana e della benevolenza colloca sulle persone reali pesi morali, che difficilmente possono essere onorati senza l'apertura alla Trascendenza e il ricorso all'agape. Ciò produce la conseguenza che alle richieste di concreta solidarietà i soggetti rispondano spesso volgendo le spalle: come onorare quelle pur giuste esigenze, se non si partecipa ad una fonte adeguata di vita in cui esse possano trovare sostentamento e il fardello etico possa venire considerato non schiacciante? Riemerge l'antico e sempre inquietante interrogativo se, tolta ogni fede religiosa motivante, sia possibile obbligare moralmente in vista di valori e ottenere dagli uomini in carne ed ossa un'azione conforme. Se manca l'agape, che l'umanesimo secolare non è in grado di rendere disponibile, il cammino può sfociare in un esito antifraterno e in un declino della solidarietà per un ritorno al privato. Una filosofia pubblica incorre in un limite grave quando non si interroga sulla realizzabilità dell'azione proposta in premessa; quando si riduce ad un'essenza incapace di passare all'esistenza per il buio antropologico in cui dimora. Questa fondamentale difficoltà - spesso aggirata mediante l'escamotage di metterla da parte - circola in quei tentativi di trarre dal cristianesimo, dapprima debitamente laicizzato ossia privato del suo contenuto trascendente, uno stimolo umanistico per la solidarietà interpersonale ed un'etica del finito amica dell'uomo. S. Natoli che non si definisce cristiano, si è posto il problema. Egli riconosce che il nucleo centrale del cristianesimo è la carità/agape, aggiungendo però che il cristianesimo difficilmente è riconoscibile senza l'incarnazione, la resurrezione dei morti, la vita eterna e la visione di Dio, ossia senza il contenuto del Credo. A questo egli si sottrae nel senso che cerca di reinterpretarlo all'interno di una visione umanistica senza trascendenza. Natoli è persuaso che " la secolarizzazione ha vinto e che il cristianesimo può sopravvivere alla fine della cristianità, se non unicamente certo plausibilmente, in una sua versione profana ": un cristianesimo senza fede, senza trascendenza, senza vita eterna, ma capace di non abbandonare la terra e di non smentire l'agape, la fraternità, il dono. Un cristianesimo di cui si cerca di racogilere il meglio del suo passato per il nostro futuro. Una posizione sollecitante, che culmina nella frase: " E Dio s'incarna davvero ogni qualvolta gli uomini diventano capaci di dono ". Ma possono gli uomini donare e donarsi nell'agape, se prima Dio non si è incarnato? Una prassi agapica senza Dio riposa su impossibili illusioni. È a partire dalla fede in un Dio crocifisso e risorto, è dalla corrente di agape che da qui si diparte, che l'uomo può amare l'uomo. L'immanentismo sogna molto. La negazione della trascendenza non solo pone sulle spalle dei soggetti concreti un fardello troppo gravoso, ma pone a rischio i guadagni e le idealità positive dell'umanesimo secolare, la sua pietas verso il finito, l'intento di ridurre la sofferenza nel mondo e di accrescere la vita. Un umanesimo separato corre appunto il doppio rischio di non saper raggiungere i valori umanistici che ama, e talvolta di regredire verso il disprezzo per l'uomo. Se l'intento è di preservare la vita e di non cedere ai criteri dell'utilità e dell'efficacia tecnica, vi è bisogno di un umanesimo eroico che vada oltre quel rimpicciolimento di orizzonti e quell' " io minimo " che viceversa ricorrono di frequente nelle nostre latitudini occidentali. Essi possono mettere in pericolo importanti conquiste della modernità quali i diritti umani e la giustizia. Pur lasciando in sospeso se effettivamente ci attendono secoli bui dove un nuovo San Benedetto sia da attendere, come ritiene McIntyre in Dopo la virtù, possiamo legittimamente auspicare molti nuovi San Benedetto nell'epoca della scienza e della tecnica, affinché i dottori dell'efficacia non prevalgano sui monaci dell'amicizia e dell'agape. Parte seconda - Problemi del presente Premessa I. Dalla filosofia della persona alla bioetica Sorto nelle altezze del pensiero metafisico e teologico, il principio-persona vi è rimasto a lungo, per più di un millennio custodito e come tenuto in serbo per compiti futuri. Il suo sviluppo storico-spirituale è avanzato lentamente e solo da una manciata di secoli si è propagato con crescente velocità agli ambiti morale, giuridico, politico, psicologico, economico, bioetico, annuncio di quella " rivoluzione della persona " che stabilisce un'asse della storia universale nel passaggio dal cosmocentrismo greco all'universo storico-personale della rivelazione cristiana. Del principio-persona innumerevoli sono le derivazioni e le possibilità di gettare luce con novità di intuizione nel variopinto campo dell'agire umano: una pluralità di aspetti che affonda le sue radici nell'unità della persona, in essenza dovunque la stessa, e che richiede concrete salvaguardie e promozioni mediante istituzioni giuste. Queste e il movimento dei diritti umani operano tanto meglio quanto più un'intuizione solida sulla persona si mantiene attiva. Volgendoci verso l'attualità storica, il personalismo risulta al centro di un nodo di problemi che provengono dalle condizioni della vita contemporanea. La latitudine degli argomenti in cui esso opera come fermento permanente, suggerisce di operare un prelievo di alcuni argomenti-guida, che per la loro rilevanza e ricchezza di implicazioni si prestino meglio di altri a saggiare le modalità lungo le quali far divenire mondo e storia l'idea di persona. Ci volgeremo in specie a due grandi spazi tematici: 1) problemi bioetici, cui è dedicata la Parte Seconda; 2) la questione della guerra e della pace ( vedi la Parte Terza ). Si tratta di temi molto controversi e a prima vista con scarsi punti di collegamento; tanto più si prestano a far percepire la grande copertura e pervasività del principo-persona. Capitolo terzo - Questioni bioetiche Nell'affrontare i problemi bioetici ci portiamo dietro non solo tutta la nostra etica, come comunemente si afferma, ma tutta la nostra filosofia e la visione del mondo cui aderiamo. Spesso anzi le differenze morali tra diverse visioni risultano minori delle differenze ontologiche e antropologiche, per cui le questioni convenzionalmente determinate come bioetiche, si presentano non di rado come questioni antropologiche e ontologiche più che morali. Molti hanno osservato che le contrapposizioni sono più difficili da superare nel momento dei principi che in quello delle soluzioni di singoli casi concreti. Se il concepito o lo zigote umano sia persona o meno non è in alcun modo un tema morale - il quale interverrà successivamente in ordine al grado di rispetto che occorre riconoscere all'embrione - ma uno schietto tema ontologico. 1. Obiezione empiristica e nuovo naturalismo Nella cultura attuale - in genere segnata dalla nuova koinè naturalistica e scientistica che sta sostituendo quella ermeneutica, rimasta in auge alquanto a lungo - non è raro incontrare una quasi irriflessa consonanza con le posizioni empiristiche, come se tale filosofia fosse il pensiero spontaneo dell'epoca. Le obiezioni più diffuse nei confronti dell'ontologia sostanzialistica sulla persona provengono dall'empirismo filosofico radicale, spesso alleato col positivismo e l'utilitarismo, e da settori della scienza-tecnica, oggi in specie dalla genetica e dalla biologia. In realtà o lezione dell'empirismo si rivolge all'intera filosofia, cui tende a negare il carattere di disciplina intellettuale e conoscitiva dotata di autonomo esso alla realtà. Secondo l'empirismo i problemi considerati filosofici sono solo quelli morali ossia prescrittivi. Conseguentemente esso opera una riduzione della filosofia alla morale, assegnando l'intero ambito della conoscenza teoretica ( spesso designata col riduttivo termine di " conoscenza descrittiva " ) alle scienze empiriche, frettolosamente considerate la sola forma di spiegazione della realtà. Naturalmente del riduzionismo empiristico fa le spese in maniera pesante la dottrina della sostanza. Il motivo fondamentale per cui l'empirismo non possiede i titoli per intenderla è che esso risulta impermeabile e a vero dire cieco dinanzi al concetto di essere: si può illustrare ad un empirista radicale la scienza dell'essere? Sarebbe come insegnare ad un cieco nato quella del colore. Conseguentemente l'empirismo è impermeabile alla nozione di sostanza che costituisce, come già rilevato, la prima e fondamentale concrezione del concetto di essere: infatti solo le sostanze individuali esistono e la loro esistenza si esprime in funzione dell'idea di essere. Lasciando da parte l'elaborazione del concetto di essere o riducendolo a un quadro nominale che include alla bell'e meglio le infinite percezioni sensoriali che si susseguono entro il divenire, l'empirismo non è in grado di elaborare il concetto di persona ( se non forse sul piano emotivo dell'eventuale rispetto a essa dovuto ), né di pervenire ad un'accettabile teoria dell'identità personale, le cui difficoltà sono già presenti in Locke e Hume. L'emergere dell'empirismo e delle culture collegate, fra cui il biologismo e l'evoluzionismo, segnala che i rapporti fra natura e storia, tra naturalismo e storicismo, sono mutati. Mentre per un periodo più che secolare la storia ha rivendicato con Marx e il liberalismo, e con Dilthey e l'ermeneutica, la sua primazia sul naturalismo settecentesco di ascendenza illuministica, da qualche tempo si assiste ad un ritorno del naturalismo a base biologica, all'avvento del biologismo come nuova figura del materialismo. Questo, negando reali discontinuità fra regno animale e vita umana, riprende e prosegue l'opera decostruttiva iniziata dagli illuministi, basata allora sulla fisica e la meccanica ed oggi sulla biologia e genetica. Dopo il materialismo storico del marxismo, entro cui l'attacco antipersonalistico ha toccato un vertice d'inusitata violenza, è adesso l'epoca di un non meno virulento materialismo, quello naturalistico, anch'esso apertamente antipersonalistico. Entro tale quadro si conferma l'alleanza tra utilitarismo e materialismo biologistico, che comporta la dissoluzione del principio-persona e la crisi delle etiche normative. La naturalizzazione della mente/anima. Nello scientismo radicale si ritiene che ogni mistero sia stato dissolto dalla " luce al neon " della scienza. Richard Dawkins ( cfr. la prefazione al suo Orologiaio cieco ) sostiene che la nostra esistenza, un tempo il massimo di tutti i misteri, oggi non sia più tale perché l'enigma è stato sciolto. Un noto esponente della biologia molecolare, Francis Crick, afferma: " Lo scopo ultimo dell'indirizzo biologico moderno è in realtà quello di spiegare tutta [ corsivo dell'autore ] la biologia in termini di fisica e di chimica ", che è una chiara posizione di riduzionismo radicale. Niente vitalismo dunque, niente forze vitali, niente finalismo di alcun genere, ma riduzione della vita a fisica e a chimica. Il riduzionismo, ossia il cercare di comprendere e di riportare i fenomeni di un certo livello in termini di concetti relativi a un livello inferiore, ritenuto più fondamentale, diventa il metodo esplicativo primario. Ciò comporta il passaggio dal riduzionismo metodologico, necessario nelle scienze per ridurre la complessità, a quello contenutistico, di cui un caso è la riconduzione della mente umana a fatto puramente biologico. In tal caso il riduzionismo non più metodologico ma contenutistico consiste nell'espungere completamente i termini mente, coscienza, percezione, pensiero e di impiegare solo i termini sinapsi, lobotomia, proteine, segnali elettrici, ecc. In sostanza il nuovo naturalismo antropologico radicale ha vari volti, che convergono nel ritenere che ogni problema, filosofico o meno, relativo alla " mente " e all'uomo possa essere risolto entro il quadro delle scienze naturali: fisica, chimica, biologia, neuroscienze. Il tentativo di pervenire alla naturalizzazione della mente/anima è parte di un processo indirizzato all'integrale naturalizzazione dell'uomo: l'uomo risolto nella vita della physis, nel suo divenire evolutivo e cieco. Sembra crescente la persuasione che la concezione scientifica del mondo porterà necessariamente ad un paradigma antropologico apertamente naturalistico. L'anima come spirito, come " spettro nella macchina ", sarebbe solo il cattivo frutto nato da un dogma: la res cogitans cartesiana. In realtà non vi sarebbe alcuno " spettro nella macchina " da cercare, nessun anima come entità a sé da studiare, perché la psiche e i fatti psichici si riconducono soltanto a fisica. In questa linea viene a conclusione contraddittoria - grandiosa eterogenesi dei fini - l'aspirazione di Nietzsche a preparare l'avvento dell'oltreuomo ( Ubermensch ): quell'aspirazione non si è realizzata, a meno che non si intenda per avvento dell'oltreuomo le possibilità di potenziamento della sua corporeità offerte dalle recenti scoperte biologiche e genetiche. Non dobbiamo sottovalutare il rischio che un esteso naturalismo antropologico conduca infine a un deciso nichilismo sull'uomo: l'uomo come " null'altro che ", infine l'uomo come prodotto casuale dell'evoluzione quale ultima parola dell'evoluzionismo nichilistico. Con l'avvento della tecnica si è confermato quanto l'homo faber possa essere nel bene e nel male una sfida mai terminata per l'homo sapiens. Le biotecnologie pongono in discussione credenze e abitudini assai antiche, su cui si è basata la civiltà per millenni. Esse mutano desideri, bisogni, modi di comportamento. Provocano la separazione fra sessualità, genitorialità e procreazione. Cambia l'immaginario, si amplia di molto la portata del desiderio. Mentre per lunghissime epoche l'uomo è stato abituato a non desiderare troppo - se vuoi essere contento, sii modesto nei desideri, si diceva - da tempo la vita sociale è fondata sulla sollecitazione dei desideri, più recentemente sulla fissazione sull'immediato. Va in crisi l'etica del sacrificio e ci si concentra nel presente per cercarvi tutto ciò che la vita può dare. Lo scientismo tecnologico diventa un'ideologia popolare nel senso che è la lente attraverso cui guardiamo alla realtà e interpretiamo le nozioni di soggetto, mente, mondo, verità. Veicolando un'idea di libertà intesa come potenza di trasformazione di ogni cosa, lo scientismo tecnologico ne riduce la portata perché vede la libertà solo come potere di operare cambiamenti esterni e non come interna autodeterminazione dello spirito per scopi ultimi. Inoltre esso si fa portatore di un'etica secondo cui non solo è possibile fare tutto ciò che è tecnicamente fattibile, ma tale attività è doverosa. Si può riassumere il problema mettendo a confronto tre asserti: - non tutto ciò che è tecnicamente possibile/fattibile è moralmente lecito; - tutto ciò che è tecnicamente possibile è ipso facto lecito e può essere fatto; - è doveroso fare tutto ciò che è tecnicamente possibile. Nella prima posizione si riconosce l'esistenza di un dislivello fra tecnica ed etica; nel secondo tale dislivello cessa; nel terzo l'ideologia della tecnica svela il suo carattere di volontà di potenza, ossia la fattibilità tecnica si muta in imperativo categorico a fare comunque e senza remore. Il corpo-oggetto. In vari casi l'approccio naturalistico include la possibilità per il soggetto di trasformare ad libitum il proprio corpo, considerato come un oggetto separato o una proprietà, come sostiene Engeihardt: " In quanto persone, possiamo fare dei nostri corpi degli oggetti. Possiamo scoprire dei modi migliori in cui avremmo potuto essere plasmati ". Questa posizione in cui i corpi non nascono, ma si fanno e vengono prodotti, è legata ad un'antropologia dualistica che vede il corpo come mera proprietà di un soggetto. Non viene valutata l'idea che i mutamenti del corpo inducano mutamenti nella psiche, poiché si ritiene acriticamente che l'uomo sia la giustapposizione di corpo e psiche, e che questi comunichino il meno possibile. Gli interventi sul corpo sono interpretati da alcuni autori " liberali " come non limitati alla linea somatica degli individui di modo che non possano essere trasmessi alla discendenza, ma mira linea germinale con trasformazioni destinate a trasmettersi alle generazioni future. Nello sfondo sta l'idea di produrre Superman e Wonderwoman. Rimane l'inaggirabile interrogativo su che cosa ci autorizzi ad intervenire sull'altro, sul futuro suo e della specie umana, soprattutto in quanto domani nessuno di quelli oggi esistenti sarà presente per rispondere delle decisioni assunte. Questo elemento tipico di un'etica dellaresponsabilità è stato ricordato da Jonas: " Azioni sugli altri, di cui non si debba rendere loro conto, sono ingiuste. Il dilemma morale di ogni manipolazione biologica sull'uomo che vada al di là del fatto puramente negativo di preservare da difetti ereditar! è proprio questo: che la possibile accusa del discendente contro colui che l'ha creato non trovi più nessuno che sia in grado di rispondere e pagare nessun mezzo di risarcimento ". 2. Sul concetto di natura 1) Il concetto di natura e i suoi significati fondamentali. Attraverso gli interventi sull'uomo si ritiene possibile e forse necessario dare un nuova forma alla natura umana, considerata come una realtà variabile cui la libertà e i desideri dell'uomo possono assegnare la versione preferita. Spesso si ritiene che i concetti di natura e di naturale siano superati e ormai inservibili ai fini di qualche normatività etica. La situazione merita un approfondimento, in specie in rapporto alla profonda equivocità del termine " natura ", di cui spesso non si è minimamente consapevoli: sarebbe un tributo pagato alla malinconia raccogliere, anche da opere di grido, un dossier che mostri quante volte la nozione di natura/naturale è usata del tutto univocamente, ossia come se si riferisse esclusivamente alla natura fisica, alla natura che è il cosmo. In realtà della nozione di natura, cruciale come poche altre per la comprensione della vita, dell'uomo, del cosmo, si danno almeno tre concetti: 1) la natura come physis e cosmo, come universo soggetto ad evoluzione e strutturato secondo una notevole varietà di leggi meccaniche, chimiche, elettriche, elettroniche, biologico-genetiche, ecc. di cui si occupano le scienze. Tale prima idea di natura come cosmo comprende tanto l'area della vita come quella degli enti inanimati; 2) la natura come sinonimo di essenza: questi due concetti riguardano tutto ciò che è tipicamente proprio, o appunto essenziale, di una specie e la definisce. Col riferimento alla natura come essenza viene introdotto un concetto centrale e insostiuibile della tradizione filosofica. Quando diciamo che il sorgere del sole, i terremoti, le maree sono fenomeni naturali, impieghiamo naturale nel primo significato. Quando parliamo di natura od essenza umana lo impieghiamo nel secondo significato e i due termini lessicalmente identici rappresentano concetti molto lontani; 3) la natura come vita, come principio interno di autocostruzione o autopoiesi che si esplica nella crescita e declino propri di un soggetto vivente: questo terzo concetto è legato al secondo, e come il precedente riguarda l'ambito dei viventi, umani e non-umani. È ovvio che si partirà col piede sbagliato e ci si caccerà in un ginepraio inestricabile, se non si provvede preliminarmente ad operare un poco di pulizia concettuale, il che accade raramente poiché non ci si cura di distinguere almeno fra il significato 1) e il significato 2) di natura. Il tema si complica ulteriormente quando in opposizione al naturale viene introdotto l'artificiale, spesso osservando che nella vita di oggi vi è un mix inestricabile di naturale e di artificiale. Osservazione corretta se riferita al significato 1 ) di naturale, ma che però viene spesso giocata malamente sottintendendo che l'intervento artificiale possa cambiare la natura/essenza secondo il significato 2). Quando si rivolge all'uomo, la cultura oggi prevalente tende a vedere nella natura come essenza ( dunque nel significato 2) o un costrutto culturale privo di ogni normatività, o una realtà inferiore, puramente biologica, un dato che trasformare e assoggettare tramite la tecnica. Viene supposto uno iato fra esistenza individuale-biografica e dimensione corporeo-bio logica: la prima vissuta come evento totalmente soggettivo e sganciato dal momento corporeo, l'altra riportata a base biologica oggettivata e non personale. Una delle maggiori direttrici della critica verso l'idea di natura come essenza prende le mosse dalla teoria dell'evoluzione intesa come nuova " filosofia prima " che, si dice, ci informerebbe che siamo soli e abbandonati a noi stessi nel cosmo. La natura è soltanto l'insieme dei prodotti della storia evolutiva passata, che fa tranquillamente a meno d'ogni essenza, ridotta a meroflatus vocis. Secondo H. T. Engeihardt " l'appello alla natura umana come guida per l'azione morale, benché tradizionale, ci viene tolto nel momento in cui riconosciamo che non siamo plasmati secondo un piano deliberato, ma dalle forze cieche della mutazione e della selezione naturale ". Conseguentemente la natura umana potrà essere riprogettata, e noi siamo liberi di riplasmarla ( cfr. p. 433 ). Il termine " natura umana " rimane ancora qua e là poiché rappresenta un lessico tradizionale, ma non significa più nulla ( non compare neppure nell'indice analitico del libro di Engeihardt, a testimonianza che è un concetto del tutto residuale ). La domanda se sia possibile mutare la natura umana, una questione veramente cruciale e inaggirabile, non viene posta tanto è considerata ovvia la risposta. L'empirismo evoluzionistico si assolve facilmente cancellando i problemi. Spesso l'elogio di una morale pluralista e relativa, praticato da numerosi autori, è figlio diretto di questi assunti nel senso che il concetto di natura è meramente fattuale e privo di ogni normatività. Anzi la normatività dell'etica è basata sul consenso, né pare che vi siano azioni buone o cattive in sé, essendo la natura e perfino l'etica un mero prodotto dell'evoluzione. In altre parole si ritiene che, avendo l'evoluzionismo cancellato ogni nozione di essenza/natura, la realtà si distende lungo un continuum, un flusso ininterrotto entro cui non sono possibili tagli netti, e su cui ci informa esaurientemente solo la teoria dell'evoluzione universale. Se invece elaboriamo il concetto di natura attraverso il metodo ontologico - che può accogliere elementi della teoria dell'evoluzione, ma non la sua " filosofia prima " per cui all'origine vi è solo caso e divenire puro - vediamo che nell'uomo quel concetto è portatore di un finalismo, nel senso che si innesca in ogni essere umano la dialettica fra l'uomo come è e l'uomo come dovrebbe essere se raggiungesse la pienezza concreta della sua natura. Se intesa adeguatamente nella sua universalità, l'idea di natura umana ( e di uomo come soggetto dotato di logos, ossia ragione e linguaggio ) è invariante tanto diacronicamente quanto sincronicamente: le essenze sono " eterne ". Conseguentemente l'uomo non può cambiare la natura o l'essenza umana, intesa nel suo significato proprio e rigoroso. Si può intervenire sul singolo uomo con molte trasformazioni accidentali, mai con una trasformazione sostanziale. Le prime, pur non mutando la natura/essenza umana, rivestono notevole rilievo per i rapporti sociali, l'etica del genere, l'uguaglianza e i diritti, le libertà del singolo ( questi aspetti saranno svolti nel cap. V ). Aggiungiamo che l'idea di una natura/essenza umana invariante non implica il fissismo, ma il mandato di edificare se stessi nel senso che l'uomo non è mai pienamente la sua essenza: l'individuo A è insieme " già se stesso " e " non ancora se stesso ". Lungi dall'essere un criterio che blocca, l'idea di essenza umana come invariante fondamentale di paragone opera entro la persona singola e l'intera storia umana come un potente e mai spento principio di movimento, inadempimento e " rivoluzione ". Tanto il singolo quanto l'intera specie umana non avranno mai finito di diventare nella realtà ciò che già sono per essenza: diventa sempre meglio di quello che già sei. 2) La natura come vita e attività interna di autocostruzione. Se ora ci volgiamo al significato 3) di natura, la sua legittimità è stata, contro ogni apparenza, piuttosto rinforzata che abolita dalla scienza contemporanea della vita, quando essa sia capace di lasciare da parte il meccanicismo che, assimilando gli esseri viventi a macchine, conduce fuori strada nell'intendere il vivente. Intendiamo per natura in tale terzo significato " un principio e una causa del movimento e della quiete in tutto ciò che esiste di per sé e non per accidente ", o con un linguaggio oggi più idoneo, l'esistenza nel vivente di un principio interno di autocostruzione o autopoiesi. Questo concetto " classico di physis è primariamente orientato alla sfera del vivente e il suo paradigma è l'uomo ". La natura è dunque qui compresa come principio interno o regola immanente di autocostruzione, a partire dal fenomeno elementare del metabolismo cellulare, agevolmente interpretabile con le categorie dell'ilemorfismo nel senso che lo scambio di materia ed energia con l'ambiente avviene nel mantenimento della forma. Nel metabolismo inizia sin dal suo livello più modesto un presagio di libertà in quanto vi si manifesta un primo livello di interiorità. Il meccanicismo non conosce l'interiorità e perciò non conosce la spontaneità e l'autodeterminazione dall'interno; conosce solo l'esterno e la causa efficiente di natura meccanica. Vi è radicale differenza fra movimenti e processi che sono regolati e provenienti dall'interno, e movimenti indotti o regolati da forze esterne. Il riduzionismo fisicalista e il meccanicismo dove ogni movimento è indotto dall'esterno ( una forza si applica dall'esterno su un corpo e lo mette in moto ), lo negano. Ma l'epistemologia biologica più avvertita evita di interpretare la vita alla stregua di un puro meccanismo. Il concetto di natura come quasi-sinonimo di vita e di essere vivente rappresenta uno snodo essenziale del tema della persona, nel senso che il suo recupero e recupero dell'idea di vivente vanno insieme. Il dualismo cartesiano nasce nel momento stesso in cui viene congedata l'idea di vita, rimasta poi marginale in tante filosofie successive. Ora per studiare la vita occorre partire non dall'astratto ma dal concreto, ossia decidersi a studiare i viventi: la vita si spiega solo con la vita e il paradigma della vita sono gli esseri viventi nella loro quasi infinita varietà, fra cui l'essere umano. Il suo vivere va compreso nella sua realtà e specificità propria. In base all'idea di natura come principio di autopoiesi e crescita dall'interno si stabilisce la differenza fra ciò che è tecnicamente prodotto o fabbricato, e ciò che cresce organicamente, dislivello che manca nelle bioetiche che intendono prescindere da un'analisi sufficiente dell'idea di natura. Anzi la cancellazione della differenza fra ciò che è naturalmente divenuto e ciò che è tecnicamente prodotto sembra essere lo scopo o il desiderio della eugenetica " liberale ". 3) Il concetto di natura umana è normativo? Nei confronti del concetto di natura umana e della sua normatività ( è infatti la natura dell'uomo, non la natura come cosmo regolato da leggi di vario genere, a essere luogo di normatività ), si elevano in genere due obiezioni: quella naturalistica o materialistica e quella libertaria. In entrambi i casi ma in diverso modo la natura non è ritenuta normativa, e l'uomo sprovvisto di fini determinati dal suo essere. Nel materialismo la " normatività " sarà seguire impulsi e istinti, nel libertarismo sarà rendersi indipendenti da ogni naturalità biologica e concordare contrattualmente nella piazza pubblica le regole da seguire. Le filosofie morali che si collegano a queste posizioni, fra le maggiori del XX secolo, presentano un mix variabile di razionalismo contrattualistico, di esistenzialismo decisionistico e di istintivismo. Non lontano è il rischio del positivismo morale che, aderendo acriticamente alla scienza e alle sue scoperte, ricalca la morale del momento sullo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, ossia trasforma in dover essere l'essere fattuale della scienza. Una forma frequentata di riduzionismo nei confronti dell'idea di natura è la sua storicizzazione, operata sostenendo che essa sia compiutamente culturale, dipendente dalle scelte, valori, decisioni degli uomini: la dialettica natura/essenza-cultura viene abolita, con la risoluzione del primo termine nel secondo. In tal modo il problema del loro rapporto è segato alla radice per cui, essendo in ipotesi tutto culturale, niente è più naturale e niente è più innaturale. Nella riduzione storico-culturale dell'idea di natura e nel silenzio sulla sua plurivocità si individua un limite maggiore del " Manifesto di bioetica laica " pubblicato nel 1996: " Al contrario di coloro che divinizzano la natura, dichiarandola qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno che il confine fra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell'idea di natura … i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da una pretesa distinzione tra ciò che è naturale e ciò che naturale non sarebbe " ( " Il sole 24 ore ", giugno 1996, p. 27 ). Gli estensori hanno proceduto per le spicce, facendo ruotare il loro argomento intorno ad un'affermazione che solleva molti problemi, almeno per l'evidente equivocità con cui si è assunta l'idea di natura e il mancato suo chiarimento; ossia non ci si cura di definire se sia quella fisica o qualcosa che assomiglia all'essenza. Ora un concetto di natura umana non-ontologico e non-universalistico ma di tipo esclusivamente storico e culturale, oltre ad essere infondato, è esposto al gravissimo svantaggio di non essere universalizzabile, di lasciare nelle mani dei potenti di turno lo stabilire chi appartiene alla natura umana e chi no. Il Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo del 1948 adotta una diversa prospettiva, nella quale è chiaramente implicita l'idea che non tutto è culturale e storicamente variabile, ma che esistono valori e diritti universali e non contestuali: " il riconoscimento dell'inerente dignità e di uguali ed inalienabili diritti a tutti i mèmbri della famiglia umana è il fondamento della libertà, giustizia e pace nel mondo … i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nella Carta la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e valore della persona umana, e negli uguali diritti di uomini e donne ". L'idea che la natura ( umana ) sia un costrutto culturale e storicamente variabile è contraddittoria e autodistruttiva, specialmente se è proposta da coloro che aderiscono ai valori di libertà, giustizia, tolleranza per tutti e prestano fiducia alla scienza come fonte universale di conoscenza. La contraddizione consiste nel sostenere da un lato valori universali, che possono essere tali se sono radicati in una natura umana parimenti universale, e d'altro lato nell'accettare la posizione opposta del multiculturalismo e contestualismo che intende culture, popoli e tradizioni isolati in spazi incomunicanti e senza alcuno zoccolo comune. Il Preambolo della Carta delle Nazioni Unite nonché la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo oppongono una forte resistenza al tentativo, molte volte esperito in Occidente negli ultimi 30-40 anni, di proporre un'interpretazione esclusivamente libertaria dei diritti umani, trattando i due testi come una lista da cui si può scegliere a piacere i diritti che meglio fanno al caso nostro, ossia alla battaglia cui ci si è votati che spesso privilegia i diritti di libertà. Ne è seguito un esito sconcertante, ossia che non poche agenzie culturali, mediatiche e politiche hanno creato un insieme di frammenti iperlibertari strappati con forza dal tessuto unitario della Dichiarazione universale, e proiettati in contesti extraoccidentali dove fanno molto fatica ad attecchire per la ben differente situazione della cultura e delle istituzioni. Nel contempo queste avanguardie libertarie hanno cercato di gettare l'oblio o il discredito sul paradigma legato alla dignità della persona umana e sugli aspetti che più lo connotano, ad es. i temi della solidarietà, giustizia e del carattere naturale della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna. Ora la Dichiarazione non è una lista di garanzie assolutamente separate l'una dall'altra, di modo che ciascuno a piacere ne estrae quella che al momento gli viene utile. Essa è un quadro di diritti inalienabili e interconnessi, di modo che nessun diritto può essere assolutizzato e portato all'infinito a spese degli altri, e in specie dei diritti fondamentali. Se i diritti umani sono universali, indivisibili e interdipendenti è impossibile assumerne uno ignorando la sua relazione con gli altri, di modo che nessun diritto può essere lasciato fuori e nessuno completamente subordinato ad un altro. D'altra parte se ogni diritto viene inteso come un assoluto privo di qualsiasi limitazione, l'esito sarà solo un inconciliabile conflitto. Ciò significa che oggi come ieri e domani abbiamo bisogno di una cultura realistica dei diritti umani che ne conservi e ne illustri il valore. Realistico qui significa che i diritti umani sono fondati al meglio in una filosofia a base obiettiva e realistica ( parlo del realismo filosofico quale quello di Tommaso d'Aquino e nel XX secolo di Maritain ), che non cede alle sirene del relativismo e del contestualismo. Digressione sul genere. Nelle questioni di " genere " ( gender ) il dibattito evidenzia l'esistenza di posizioni femministe che pongono l'accento sul genere come elemento strutturale o essenziale, e di altre che lo dissolvono a favore di un primato attribuito alla cultura. Nel primo caso emerge il tema della differenza, che si fa avanti nel momento in cui l'esplosione dei concetti forti della modernità ( soggetto, identità, io, trascendentale, uno ) propizia la nascita di culture che intendono la differenza come " differenza tra " ossia tra i due poli del maschile e del femminile negando che uno sia superiore all'altro. Questo tipo di differenza è diverso dalla " differenza da ", concetto in cui è veicolata l'idea che esista un canone o un modello in rapporto al quale si stabilisce la distanza e il paragone ( il canone ancor oggi prevalente, ma ormai in difficoltà, rispetto a cui si misurano le differenze è l'uomo bianco cui si attribuisce una superiore razionalità ). Nel caso della donna si è passati dall'idea della sua inferiorità al riconoscimento della diversità rispetto all'uomo, entrambi portatori dello stesso valore e dignità; e poi dalla diversità al riconoscimento dei diritti. Dunque dalla subordinazione alla rivendicazione di uguaglianza, giocata in vario modo fra cui quello che fa della donna un'antagonista dell'uomo, che si appella alla rivalità fra i sessi per ottenere la liberazione femminile. Nel secondo caso, quello del " femminismo di genere ", si cancellano le differenze fra i due sessi, considerate l'esito di condizionamenti storico-culturali reversibili. In omaggio al primato della cultura sulla natura, la differenza sessuale o corporea è minimizzata e quella propriamente culturale ritenuta primaria. Il genere sarebbe qualcosa che si sceglie: ciascun essere umano, a prescindere dal genere in cui è stato posto dalla nascita, avrebbe un sovrano diritto di libera scelta del proprio genere sociale, culturale e personale. Pertanto ogni differenza e ogni rapporto fra differenze sarebbe perfettamente possibile e moralmente privo di connotazioni negative. Si tratta di un ulteriore caso di rifiuto del " secondo natura " ( kata physin ) per il primato della libertà di scelta. Second Judith Butler ( Il problema del genere. Il femminismo e la sovversione dell'identità ) " Il genere è una costruzione culturale, non è il risultato causale del sesso. Concependo il genere come una costruzione culturale indipendente dal sesso, risulterà libero da vincoli. Di conseguenza, uomo e maschile potranno essere riferiti sia a un corpo femminile, sia a uno maschile; donna e femminile, sia a un corpo maschile sia a uno femminile ". Coerentemente i sessi non sono più due ma cinque: femminile eterossessuale, femminile lesbico, maschile eterosessuale, maschile omosessuale, individui bisessuali. Le differenze naturali di sesso vengono perciò negate in questa posizione, mentre nel femminismo concorrente sono divaricate sino allo scontro fra i due generi. 3. Sulle nozioni di salute, malattia, terapia ( e gli scopi della medicina ) Le idee di essenza e di natura avanzate in questo saggio implicano una filosofia che si sottragga all'empirismo radicale che risolve differenze di qualità/essenze in mere differenze di quantità. Una filosofia del genere è oggi rara per l'antiessenzialismo indotto da generalizzazioni pseudoscientifiche dell'evoluzionismo, che qui mostra una valenza nichilistica. Quando questa si esercita sulla natura umana, cerca di privarla di ogni necessità, di considerarla completamente trasformabile e in sé priva di un senso, che le dovrà essere attribuito dal soggetto. Un esito di questo processo è l'attenuazione sino alla cancellazione delle differenze fra interventi terapeutici e interventi " manipolativi-migliorativi ", nell'intento di rimettere alle preferenze individuali dei soggetti, all'ingegnere genetico e alle regole del mercato il compito di gestire l'intero ambito della salute, della terapia, della selezione genetica. Coerentemente N. Agar ha scritto:" I liberali dubitano che il concetto di malattia possa servire a risolvere, in sede di teoria morale, i problemi posti dalla distinzione fra terapia e selezione genetica ". Su questo importante aspetto che chiama in causa due concetti reggenti di ogni medicina, quelli di malattia e terapia, ora ci soffermiamo. Là dove si eserciti una scepsi senza restrizioni sul concetto di natura ( umana ), essa implica la crisi di un suo correlato immediato, ossia dell'idea di normalità di funzionamento del soggetto umano in quanto corpo, e dunque dei concetti di salute, di malattia e di terapia. Le idee di malattia e terapia necessariamente rinviano alla natura come normalità di funzionamento, alla malattia come scostamento da tale normalità, e alla terapia come ricostituzione della normalità. In effetti l'idea di terapia è dipendente e consecutiva a quella di malattia e quest'ultima implica che vi sia una deviazione dallo stato normale, cioè dalla condizione di salute, che costituisce la "condizione naturale ". La medicina come arte e scienza e l'idea di terapia che le è immanente non possono venire esplicitate senza fare riferimento a queste nozioni e al loro accertamento anche statistico. Ora, se il concetto di natura smarrisce ogni rilevanza obiettiva almeno fenomenologicamente accertabile, e diventa soltanto il prodotto culturale storicamente variabile di scelte e decisioni del singolo in cui si esprimono i suoi desideri, impulsi, istinti, anche i concetti di malattia e di terapia andrebbero abbandonati. Se niente è di per sé naturale e normofunziona le, neppure lo stato di salute lo è, e neppure la declinazione dal naturale ( ossia la malattia ) ha senso: conseguentemente cade il concetto di terapia. Più in generale viene compromesso il concetto di medicina ippocratica, che è basata su poche ma nodali nozioni che ne sostengono l'impalcatura: il concetto di naturale quale normalità di funzionamento, la malattia come deviazione da una condizione naturale o normale, la terapia quale azione volta a ristabilire la salute. Il fine originario della medicina è il guarire ed in ciò il medico è un aiutante della natura: medicus curat, natura sanat. Per i " culturalisti " occorre riconoscere il valore meramente convenzionale di quanto viene ritenuto fisiologico e di ciò che si giudica patologico: categorie culturali appunto, senza alcun fondamento nella realtà o nell'uomo. In tal modo il concetto di statisticamente normale perderebbe significato. Ne consegue che, sganciate da ogni obiettiva distinzione fra fisiologia e patologia, le aspirazioni del paziente o dell'uomo rischiano di essere subiettive e arbitrarie. Ma la salute è largamente definita dalla natura, non dai desideri o dalla cultura: difficilmente gli individui potranno restare in forma e sentirsi bene con la febbre a 40 gradi. Poiché la contingenza genetica sta diventando qualcosa che è a disposizione dell'uomo, ciò può produrre profonde dissimmetrie fra persone in linea di principio libere ed eguali, mediante un intervento anomalo e arbitrario sul futuro di un individuo, esercitato in ipotesi di genitori o dall'ingegnere del genoma sul corredo genetico dei figli. Il diritto ad un patrimonio genetico integro e non manipolato è il diritto a essere e rimanere se stessi, nel senso che - pur non dandosi coincidenza fra uomo e suo patrimonio genetico - quest'ultimo è un segno notevole dell'essere uomini. Se dunque occorre garantire la nostra identità personale che si radica pure in chiari fondamenti biologici e nel genoma, occorre rispettare l'indisponibilità e la non-manipolabilità del nostro individuale patrimonio genetico. Rimane aperto il notevole interrogativo se la medicina debba mantenere la diversità fra fisiologia e patologia, oppure aderire alla " medicina dei desideri " secondo cui l'elemento trainante della domanda di salute risulta il modellamento del corpo in base al desiderio, assunto che nega l'idea stessa di limite naturale. Forse la maggior parte dei problemi acuti che travagliano la medicina e la bioetica ( procreatica, manipolazione genetica, Fivet, clonazione, ecc. ) deriva dal ruolo centrale assunto dal desiderio rispetto al bisogno. Sappiamo la delicatezza, la problematicità, le insidie che si parano dinanzi nel trovare un adeguato e complessivamente condiviso concetto di salute. Quello proposto nel 1946 dall'OMS ( Organizzazione Mondiale della Sanità ), secondo cui la salute è definita come un completo benessere fisico, psichico e sociale, e non solo dall'assenza di affezioni e malattie, è diffuso internazionalmente, per quanto da varie parti si osservi che la definizione finisce per rendere la salute un bene assoluto di portata sì vastissima, ma anche largamente indeterminata e definibile entro limiti non poco variabili. In effetti la definizione dell'OMS finiva per abbandonare il concetto di fisiologia o di normalità di funzionamento tradizionalmente implicato nel concetto di salute come assenza di malattie, e spostava il problema sul lato soggettivo cui appartiene l'idea di completo benessere. Ciò si ripercuote sui concetti stessi di malattia, terapia, fisiologia e patologia. Secondo alcuni autori, la medicina assume un carattere costruito in base a cui diventa convenzionale la distinzione fra ciò che è fisiologico o normale e ciò che si giudica patologico. Oltre questi aspetti emergono ulteriori domande sul concetto di salute, se cioè sia identico in se stesso e valido per tutte le stagioni della vita, o se invece possegga una interna modulazione per cui non abbia lo stesso significato per il giovane e per il vegliardo. Ne è difficile cogliere il rilievo dei problemi sollevati dalla definizione dell'OMS quando si rifletta sulla portata del termine " psichico ", chiedendosi se esso includa o meno il livello spirituale: un problema veramente arduo, cui qui basterà aver accennato senza minimamente pretendere di suggerire soluzioni. Una certa qual assolutizzazione del diritto alla salute influisce fortemente su un problema che si incontra con grande frequenza, quello del bilanciamento fra diritti diversi, che diventa quasi ingestibile se un diritto come quello alla salute viene posto come assoluto. Esso si mostra molto più lato e indefinito rispetto alla pratica medica precedente che puntava essenzialmente alla tutela ( profilassi e cura ) dei disturbi anatomici e funzionali, cui d'altro canto si può addebitare una comprensione incompiuta e non piena degli scopi della medicina. Ad esempio quest'ultimo tipo di approccio non includeva - ma spesso per motivi essenzialmente legati alla mancanza di conoscenze e di tecnologie adeguate - la " medicina potenziante " fra gli scopi della medicina. Ed è proprio su questi aspetti che si palesa l'importanza e l'urgenza di riprendere a riflettere sulla teleologia della medicina, come ha fatto il Comitato Nazionale di Bioetica nel documento " Scopi, limiti e rischi della medicina " ( 11 dicembre 2001 ): urgenza avvalorata dal fatto che i mezzi sempre più potenti di cui dispone la scienza medica rischiano di prendere la mano al medico, se appunto non si ritorna con grande determinazione sui fini. La discrasia fra mezzi potenti e scopi incerti o soggetti a dubbi crescenti appare una condizione alquanto generalizzata in Occidente, assai oltre il pur importante campo della medicina. Il documento puntualmente osserva come negli ultimi anni l'attenzione prevalente " si sia concentrata soprattutto sugli strumenti e sui mezzi della medicina e dell'assistenza sanitaria, piuttosto che sugli scopi. Hanno dunque prevalso le analisi sugli aspetti gestionali e organizzativi, sui costi e sul problema dei finanziamenti, sulla questione delle privatizzazioni, sulle innovazioni politiche e burocratiche, ed altri di interesse indubbiamente rilevante … Ma il nucleo centrale degli scopi attuali della medicina che qui cerchiamo di individuare è rimasto un po' in ombra, probabilmente proprio a causa della complessità che lo connota " ( p. 23 ). Occorre dunque riesaminare ex novo i fini stessi della medicina, non evitando la riflessione su un aspetto che serpeggia abbondantemente nell'opinione pubblica e che genera entusiasmi, aspettative eccessive e non di rado miracolistiche, ossia " l'erronea idea che sia vicina e definitiva la sconfitta delle malattie " ( p. 23 ). Se così fosse, ne dovremmo trarre l'ammaestramento che la medicina non avrebbe più limiti, contrariamente al titolo del documento che espressamente sottolinea l'immanenza del limite nell'attività medica, anche se questo non è fermo e col progresso può subire uno spostamento in avanti. 4. Intermezzo: La persona nell'età della Tecnica Che cosa ne è della persona nell'età della Tecnica? Possiamo produrre la persona e cambiare la natura umana? Queste domande dischiudono una questione fondamentale che viene oggi rilanciata in vari modi, e che forse non ha ancora ricevuto un'adeguata risposta. La domanda sulla possibilità di produrre la persona introduce immediatamente la categoria della produzione. Le produzioni che conosciamo avvengono ricorrendo alla tecnica secondo le modalità volta a volta disponibili ed assicurate su un sapere scientifico e certo di se stesso: ad esempio la produzione industriale di beni economici d'ogni tipo, e la crescente produzione del diritto come un insieme di norme e procedure che - si pensa - dipendono solo dalla volontà puntuale e variabile dell'uomo. Tecnica è la grande parola dell'economia e in parte del diritto ( almeno di quel diritto/jus che taglia il suo legame costitutivo con la justitia ), e con la tecnica il suo " mito ": la produzione. Se vi sono officine che producono automobili ed altre leggi o norme, perché non potrebbero esservi officine per produrre la persona? Essa potrebbe venire prodotta come un artefatto, secondo le regole dell'artificialità e dell'efficacia. Come la produzione industriale riposa su leggi scientifiche, e il diritto sulla volontà degli uomini e del potere, altrettanto varrebbe per la persona consegnata alla tecnica, alla volontà di potenza, al produrre. Le officine della Tecnica possono tanto? Il contesto spirituale entro cui tali questioni sono elevate è tributario di fondamentali delocalizzazioni o rivoluzioni culturali che negli ultimi Secoli hanno costituito delle sfide esigenti per il soggetto, sottoposto a tre [ distinte detronizzazioni: a) la detronizzazione cosmologica, in quanto la terra e l'uomo non sono più il centro del cosmo; b) la detronizzazione biologica, innescata dal darwinismo secondo cui l'uomo non è superiore agli animali; c) la detronizzazione psicologica, iniziata dalla psicanalisi, che identifica nell'inconscio, non nell'io conscio, il livello basale e primario del dinamismo psichico. Dopo le tre grandi umiliazioni inflitte al narcisismo dell'uomo da Copernico, Darwin e Freud, che sembrano suggerire che siamo soli e abbandonati a noi stessi nell'universo, si fa avanti un'ulteriore, più radicale detronizzazione: il progetto di fabbricare l'uomo. Un brano chiarirà le pretese che la nuova filosofia veicola. " Un'idea centrale, ad esempio, è che il mondo non è statico ed eterno, ma si evolve nel tempo. Nel XIX secolo questa verità riguardava solo il mondo biologico, mentre nel secolo successivo l'ipotesi evoluzionista è diventata valida per l'universo nel suo complesso. Questa idea ha impiegato molto tempo ad affermarsi, così come è dovuto passare un secolo perché le ipotesi di Copernico fossero confermate. Si può dire che solo in questi anni ci stiamo rendendo conto di cosa significhi una realtà in evoluzione perenne. Inoltre, questa nuova filosofia naturale considera inutile, anzi ridicola, l'ipotesi di una intelligenza superiore responsabile della bellezza e della complessità del mondo. Si può sostenere, invece, che in un contesto biologico la materia vivente si è creata e organizzata da sé a partire da principi semplici, come la selezione naturale. Credo che lo stesso si possa affermare per le leggi della fisica e la struttura del cosmo " La produzione dell'uomo diviene un'ovvietà se siamo soltanto materiale organico che emerge come esito casuale del divenire cosmico. Prodotti dall'evoluzione, perché mai non dovremmo continuare la storia della nostra specie, producendoci tecnicamente come vogliamo e mutando la nostra essenza a piacere? Secondo H. T. Engeihardt " in quanto persone possiamo fare dei nostri corpi degli oggetti ", e quindi decidere di riplasmarci, dal momento che " non c'è nulla di sacrosanto nella natura umana ". L'uomo è la misura di tutte le cose, osservava Protagora. La Tecnica sembra completare così il suo detto: " l'uomo è la misura di tutte le cose, compreso se stesso ". Ma appunto al prezzo di considerarsi una cosa, è necessario aggiungere. Cancellare dalla lavagna. Lo spirito oltranzista dello scientismo tecnologico è ben espresso da Brecht: " Sì, rimetteremo tutto in dubbio. E quel che troviamo oggi, domani lo cancelleremo dalla lavagna ". Niente è valido per sempre, tutto muta e diviene, non esistono verità ferme, immutabili. In questa posizione emergono due enormi presupposti nichilistici: a) il primo assume che una metafisica del puro divenire non abbisogni di giustificazioni e verifiche, ma valga come allant de sol; b) il secondo ritiene che la volontà di potenza dell'uomo possa tutto. a) In Essere e libertà ho cercato di mostrare l'errore di coloro che negano ogni strato eterno dell'essere e che si precipitano acriticamente nel torrente del puro divenire. Mi permetto di citare qualche riga. " L'assunto speculativo fondamentale di questa linea di pensiero, poderosa per la sua diffusione, può essere così formulato: la natura delle cose comporta che niente sia eterno e che il tutto perennemente divenga. L'innocenza improblematica del divenire viene assunta come " verità " non soggetta ad analisi, come un'evidenza su cui sarebbe tempo perso interrogarsi … In larghi settori della metafisica moderno-contemporanea sembra dominante un preteso argomento, che suona così: poiché il divenire esiste e rappresenta un'evidenza primaria e indubitabile, non può esistere l'immutabile, l'eterno. Non si incontra qui un chiaro non sequitur? Tanta parte della tradizione filosofica invece ha detto: poiché il divenire esiste, esiste/deve esistere l'immutabile … In esso [ nell'attuale nichilismo ] muta la comprensione essenziale dell'essere. Essere nel senso più alto non significa più " essere sempre ", ma solo esistere in modo finito e temporalmente limitato, e dunque essere per la morte. Il pensamento postmoderno e postmetafisico della morte, su cui agisce potentemente la comprensione dell'essere propria della scienza-tecnica, risulta segnato dalla filosofia della finitezza e temporalità, e può pervenire al congedo della questione dell'immortalità. Talvolta si dice: l'uomo proviene dal nulla e va verso il nulla, dal nulla iniziale al nulla finale, mentre non si da voce alla tensione inscritta nell'uomo a trascendere la temporalità. L'oblio dell'eterno è nichilismo dispiegato, rifiuto dell'unità fra eternità ed essere. Dunque il più radicale nichilismo che qui da la mano al più radicale storicismo, è costituito dall'oblio del concetto di eternità. Pertinente è su questo aspetto la critica di L. Strauss: " Le difficoltà inerenti alla filosofia della volontà di potenza condussero, dopo Nietzsche, all'esplicita rinuncia della stessa nozione di eternità. Il pensiero moderno raggiunge il suo culmine, la sua più alta autocoscienza, nel più radicale storicismo, cioè esplicitamente condannando all'oblio la nozione di eternità " Nello stesso testo ho pure indicato il cammino da percorrere: dall'eterno ritorno al ritorno all'eterno. Ossia da Nietzsche alla filosofia dell'essere e a Tommaso, per nominare il pensiero che ci fa uscire dal nichilismo e il massimo antagonista del niccianesimo. b) Potenza e impotenza della tecnica. Per avviare la risposta alla seconda questione che domanda se la volontà di potenza possa tutto e se essa trovi oggi la sua massima esplicazione nella Tecnica, dobbiamo chiedere sulla natura della Tecnica, sulla sua potenza e impotenza. Dove volgersi per determinare l'essenza della tecnica? Dove Heidegger fatica a soccorrere, il pensiero può trovare un appoggio in quell'antico maestro di realismo e cacciatore di essenze che fu Aristotele. Nella sua opera la natura della tecnica è sobriamente determinata in relazione alla metafisica del necessario e di ciò che può essere altrimenti da come è, in un quadro ontologico in cui l'essere e l'ente sono intesi come ordo e struttura. Aristotele ha elaborato un tessuto concettuale che rende possibile la risposta all'interrogativo sull'essenza della tecnica moderna sollevato da Heidegger, ossia come un tentativo di livellamento di ogni ordo e valore. L'approfondimento aristotelico è immune dall'enfasi moderna sul subjectum rappresentante, che pregiudica in senso antropocentrico la percezione della verità dell'essere. Il dibattito sull'essenza della tecnica si svolge grossomodo tra le posizioni fissate da Aristotele e da Cartesio, poiché le loro concezioni si dispongono in polarità dicotomica. Le filosofie e le culture che non hanno accettato l'impostazione del problema dell'essere, del soggetto e dell'oggetto propria dell'enfasi razionalista e antropocentrica moderna, e che hanno evitato di omologarsi a semplici umanesimi economici ed estetici, troveranno un alleato nell'idea aristotelica di tecnica. Cercando di determinare nell'Etica Nicomachea ( in specie nel cap. VI ) la natura della tecnica ( techne, tradotto dai latini con ars ) e il suo campo d'esercizio, Aristotele scrive: " Ogni arte ( techne ) riguarda la produzione, e il cercare con l'abilità e la teoria come possa prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci, sia non esserci, e di cui il principio è in chi crea e non in ciò che è creato. Infatti l'arte non riguarda le cose che sono o si producono necessariamente, ne le cose che sono o vengono all'esistenza per natura, dal momento che queste hanno il loro principio in se stesse ". Dunque il fondamentale punto di mira della tecnica è l'artificiale, l'artefatto; il far venire all'esistenza ciò che da solo o per natura non vi entrerebbe mai. Dispiegandosi in un quadro in cui compaiono sia l'ambito del necessario che quello dei processi naturali, l'approccio aristotelico alla tecnica ne compie un ( ri )dimensionamento per il fatto che essa non è l'unica ad occupare la scena. Esistono cose che hanno in se stesse il loro principio, tra cui si collocano gli enti dotati di vita, e che in vita permangono in virtù di un interno principio organico di autocostruzione o autopiesi. Al riguardo Aristotele distingue la tecnica in quanto creativa di oggetti nuovi dalla tecnica in quanto ausiliaria, la quale segue da vicino i processi naturali, cooperando alla loro integrità: " L'arte ( techne) o esegue ciò che la natura è impotente a effettuare o la imita ". Ciò non significa - tante volte però l'idea aristotelica fu intesa proprio così - che l'" artista " debba pedissequamente imitare la natura: la massima arte starebbe allora nella fotografia. Piuttosto si attira l'attenzione sull'intima parentela fra " processo naturale-vitale e processo tecnico poiché in entrambi abita una razionalità, un principio intelligente; e là dove la tecnica li coglie, può procedere a riparare la natura quando qualcosa in essa devia dalla norma. Ciò presuppone che, una volta varcato il confine della vita, la natura sia un principio interno di attività e di spontaneità, ossia secondo la già citata definizione della Fisica: " Principio del movimento e della quiete in una cosa ". Adottando un linguaggio moderno ma già incluso in quello aristotelico, diremo che fenomeno centrale della vita è l'autocostruzione o l'immanenza del principio poietico. In Aristotele tecnica e natura appaiono sorelle capaci di cooperare, contrariamente a certe posizioni dell'idealismo e dell'attualismo ( portatori di un'idea antagonista del rapporto fra io e non-io ), e lo sono anche in quanto la sua filosofia non cancella la finalità dall'essere. L'intervento sull'uomo non poteva venire previsto da Aristotele nelle forme con cui oggi si esercita nelle tecnologie biologiche; eppure la regola dell' " imitazione della natura " si mostra sorprendentemente idonea in proposito, nonché nel caso, certo diverso, dell'intelligenza artificiale che cerca di simulare o di emulare i processi cognitivi umani. L' " imitazione della natura " comprende anche la possibilità generale di una tecnologia di imitazione della mente umana, almeno in talune sue operazioni. Nel dettato dello Stagirita la tecnica appare al suo posto: 1) quando produce strumenti e oggetti nuovi aggiungendo alle cose naturali quelle artificiali, senza pretendere di fare intrusione nel necessa|rio. Lo scopo della tecnica è far nascere un essere nuovo, un ente artificiale. Esso è prodotto dall'uomo, che lo ha prima concepito in se stesso. Da qui la radicale differenza tra gli esseri della natura, che possiedono in loro stessi il loro principio, e gli enti artificiali che lo hanno esteriormente nel produttore. Questi è misura delle cose producibili, non di ogni ente. Il non-producibile è custodito dalla dimensione déll'indisponibile, cioè dalla dimensione delle cose che o sono necessariamente o vengono all'esistenza per natura e possiedono il loro principio in loro stesse. La cifra essenziale con cui la filosofia aristotelica della tecnica si sottrae all'ideologia, consiste nell'accertamento del necessario: se una regione dell'essere è necessaria, non tutto può essere prodotto e oggettivato. Il necessario è il non-producibile. E tale dimensione custodisce il soggetto produttore dal cadere nell'alienazione di produrre od oggettivare anche se stesso. L'interpretazione oltranzistica della tecnica moderna si palesa invece imparentata alla perdita delle verità eterne, all'eclissi del senso del necessario. Solo con la " caduta degli immutabili " l'uomo può intendersi come misura e canone di ogni ente; 2) quando è ausiliaria e " correttiva " dei processi naturali, che possono in un certo numero di casi allontanarsi dal tragitto normale: essa dunque accompagna la natura e ne è continuazione. Se la medicina costituisce l'esempio massimo di tecnica cooperante con la natura allo scopo di restituire la salute, la posizione aristotelica applicata alla genetica contemporanea distinguerebbe fra terapie geniche e manipolazioni geniche, accogliendo le prime e lasciando a lato le altre: in effetti le nuove possibilità tecnologico-genetiche non sono soltanto terapeutiche ma tendono a espandere il potenziale umano o comunque a trasformarlo. Si pensi alla selezione di tipi umani più alti e forti: in tal caso cambia la natura della medicina, non più soltanto curativa ma potenziante. Da questi scorci si trae l'idea che solidarietà e armonia fra tecnica e natura costituiscano obiettivi saggi, capaci di evitare un loro rapporto violento. Il loro raggiungimento è agevolato da una concezione in cui ci sia spazio per la comunanza tra individuo umano e natura. Non solo col suo corpo l'uomo sta in essa; anche la sua mente mostra affinità con essa. Non c'è forse miglior augurio per la tecnologia futura di quello di recuperare il legame " ecologico " e non dominativo fra uomo e natura. Per questo scopo occorre che di quest'ultima si abbia un'idea lontana da quella del meccanicismo. Torniamo al punto di partenza: è possibile produrre la persona? La Tecnica può arrivare a tanto? La risposta si palesa negativa, poiché la Tecnica non può produrre l'essenza umana, immanente in ogni individuo della specie umana: il proprium dell'uomo è il logos, ossia ragione e linguaggio. La Tecnica può produrre un'infinità di cose e lo fa in genere egregiamente, ma non può produrre né la ragione, né il linguaggio, che appartengono all'ambito del necessario. La Tecnica non solo non può produrre, ma neanche può cambiare l'essenza/natura umana, come vedremo nel cap. V. Nella posizione contraria s'incarna un deciso nichilismo delle essenze. Negazione del necessario o nichilismo delle essenze. La nuova filosofia prima dell'evoluzionismo radicale e il metodo genealogico che le è connesso riposano sulla negazione della sfera del necessario e dell'idea di sostanza, poiché tutto è risolto-dissolto in un processo senza essenze. E definibile ciò che ha essenza, ed ha essenza ciò che almeno in parte sfugge alla storia. " Definibile è soltanto ciò che non ha storia ", ha scritto Nietzsche, senza forse rendersi conto di quale esplosivo poneva alla base delle sue ricerche. Nella decisione di non riconoscere o cancellare ogni dimensione della necessità - intendo il necessario come ciò che non può essere diversamente da come è - prende origine un nichilismo da volontà di potenza e di dominio portato all'acme, e perciò disposto ad osare cammini temerari, dove sarà sconfitto non senza aver prima provocato enormi danni. Qui il ichilismo si palesa come oblio delle essenze: un oblio che rende inconsapevoli dell'impossibilità di mutare le essenze, in specie quella dell'uomo, inteso come un sussistente individuale di carattere intellettuale o spirituale. Chiamo nichilismo delle essenze quest'atteggiamento. Ad esso si volge l'ideologia ( in sé nichilista ) dello scientismo tecnologico, che oggi individua la sua ala marciante nel settore biologico-genetico. La sorgente da cui trae nutrimento questa specifica forma di nichilismo si riconosce in un innalzamento enfatico del solo divenire, congiunto ad una negazione apriorica dello strato necessario dell'essere e all'assunto che le essenze siano mere convenzioni lessicali, qualcosa che fondamentalmente dipende dalle scelte dell'uomo e dalle mai ferme determinazioni della sua libertà. L'antirealismo gnoseologico, stigma centrale di ogni nichilismo, qui si declina come antirealismo o irrealtà delle essenze/nature. In quanto tale negazione è postulata e dunque velleitaria, essa appare allo scrutinio dell'intelletto condannata allo scacco e insieme pericolosa, poiché molti esiti negativi possono emergere nel tentativo di violare l'inviolabile. Tale nichilismo delle essenze si può anche chiamare un " antinaturalismo " oppure un " denaturalismo ", intendendo appunto con ciò la posizione fìlosofica che ritiene nullo e privo di senso il concetto di natura, come accade nelle posizioni nominalistiche, empiristiche ( Hume ), dualistiche secondo il dualismo Sein-Sollen ( Kelsen ). In conclusione, per quanto la volontà di potenza voglia mettere le mani sulla persona e consegnarla alla Tecnica per mutarne l'essenza, ciò è sottratto alla sua presa: questo è l'ambito del necessario, che sfugge alle rapaci mani della volontà. Aggiungo che molti che vorrebbero opporsi a Nietzsche sono in realtà dei veri nicciani, poiché adottano una posizione centrale di Nietzsche: la volontà di potenza come stoffa unica ed ultima della realtà. Non soltanto tale volontà è solo un aspetto e neppure il più fondamentale dell'essere, ma quand'anche fosse la totalità del reale, essa non potrebbe produrre la persona. Amici della terra e amici delle forme. Nella questione delle essenze e del nichilismo prende nuovo vigore la gigantomachia tra coloro che sostengono che esiste veramente solo ciò che offre qualche possibilità di essere afferrato e toccato, e coloro che si appoggiano alle regioni superiori, alle zone dell'invisibile, sostenendo che il vero essere sono forme pensabili e incorporee. Una battaglia implacabile vertente su questi problemi si svolge tra gli " amici della terra " e gli " amici delle forme ", di cui dice Platone ( cfr. Soph., 246 a e s. ), e perdura ancora oggi. Secondo lo Straniero che interviene nel dialogo, gli amici dell'essere e delle forme sono miti, mansueti, oggi diremmo nonviolenti per inclinazione e scelta. Da un luogo diverso da quello della filosofia proviene un detto instauratore che completa quello di Pliatone: beati i miti perché possederanno la terra. L'elogio della metafisica è anche un elogio della mitezza, una grande virtù che Carlo Mazzantini faceva consistere " nel lasciar essere l'altro quello che è ". L'atteggiamento degli amici della terra è invece ritenuto dubbio da Platone. Capitolo quarto - Ontogenesi: embrione e persona Ritengo assodato che la scienza sia una straordinaria impresa conoscitiva, ma aggiungo che non è l'unica e forse neppure la più fondamentale. Come filosofo che ha riflettuto sulle varie modalità con cui l'intelligenza umana conosce la realtà, sono amico del pluralismo conoscitivo e avversario della posizione che riduce ad una sola le fonti del conoscere, un assunto che ha rivestito diverse forme nella storia della cultura. Attualmente ritengo che un rischio notevole provenga dallo scientismo che definirei come l'assunto secondo cui solo la scienza conosce, solo essa ci offre il bene della conoscenza. Il prodursi dello scientismo indica frequentemente una crisi della filosofia, un approccio riduzionistico e un postura depersonalizzante e oggettivante nei confronti dell'uomo. Naturalmente lo scientismo non è la scienza, ma una sua contraffazione seppure oggi alquanto diffusa. Le scoperte della scienza rivestono un valore primariamente conoscitivo: in tal senso non esagererei nel senso di un fallibilismo oltranzista, di un popperismo senza limiti, che forse finisce per fare più male che bene alla scienza, confinando le sue imprese nel vasto campo del sapere incerto, probabile, rivedibile, su palafitte. Aggiungo che la verticale della conoscenza scientifica e filosofica è indispensabile, poiché prima di passare al momento morale e politico-giuridico, dobbiamo necessariamente comprendere il tema in esame. I problemi, prima di valere come interrogativi morali, si pongono spesso come questioni ontologiche. Nel campo della vita sono perciò necessarie una bio-ontologica, una bio-etica, una bio-giuridica e una bio-politica. Il metodo. L'attuale condizione della bioetica e dei suoi problemi, nonostante il convergere su di essa di tante ricerche e attenzioni, non può non apparire alquanto precaria, per la difficoltà a fare emergere " evidenze " condivise. L'urgenza di trovare soluzioni ai dilemmi morali suscitati dal progredire di tecnologie che realizzano un potere di disposizione sulla vita, ha il suo peso nell'indirizzare verso elaborazioni precipitose. In questo quadro assume valore emblematico il tema dell'embrione umano, in cui si combinano la sua " inapparenza ", ossia il suo ridursi a qualcosa di quantitativamente e dimensionalmente minimo, e il costituire un crocevia imprescindibile, perché in esso ne va della comprensione dell'uomo e della vita. Naturalmente con la questione dell'embrione emerge in tutta la sua forza la domanda sulla persona. Il chiarimento del concetto di persona appare un'esigenza prioritaria per avviare a soluzione molti problemi con cui la bioetica si confronta. Se da un lato l'idea che si debba rispettare la persona risulta quasi universalmente accettata ( è una sorta di valore ecumenico ), occorre ammettere che non di rado si è d'accordo solo a parole. Non è infrequente che nella ricerca sulla identificazione della persona, particolarmente complessa nei casi di confine, vengano ritagliati concetti di persona ad hoc tra loro distanti. Un tale evento si verifica in ambito bioetico, dove quella identificazione è messa alla prova in modo diretto. Le scienze biologiche non sanno della persona: con la riflessione su di essa ci si colloca al di fuori della biologia, si accede alla sfera del sapere filosofico. Volgendosi verso le cose stesse, il metodo della filosofia cerca, diversamente dalla scienza che opera un esteso processo di " disontologizzazione " ( legittimo, sul suo piano ), l'ordine, il valore e per così dire il " sapore " dell'essere. Nel progetto scientifico moderno l'uomo è visto come sdoppiato in un livello in cui è considerato soggetto inalienabile ( la persona, interpretata soprattutto come titolare di diritti ), e in un altro in cuiè oggetto, ossia parte della natura fisico-biologica, su cui sovrintende la mano della scienza-tecnica. La prospettiva qui perseguita, che denominerei come " personalismo ontologico ", pur assegnando rilievo alla ricerca degli indizi che possano segnalare la presenza della persona, non ritiene che l'esser-persona o il divenirlo siano accettabili solo funzionalmente o empiricamente ( e questo in particolare negli stati-limite ), ma che siano argomentabili razionalmente entro una concezione dell'essere e dei suoi diversi gradi, capace di apprendere nella misura massima possibile dalle scoperte della scienza, non limitandosi però solo ad esse, piuttosto integrandole e interpretandole. 1. Bio-ontologica: sull'embrione umano e la persona Sollevando la domanda sull'embrione umano ci collochiamo in un ambito problematico diverso da quello morale, oggi tanto frequentemente evocato, che intende rispondere al quesito se qualcosa sia moralmente lecito o illecito. Non è l'etica il filo conduttore del mio discorso, ma l'ontologia. Opino che lo slittamento quasi immediato al piano dell'etica sia un equivoco gravido di conseguenze. Sarà dalla risultanza dell'indagine ontologica che prenderanno rilievo delle obbligazioni morali, in virtù dell'idea che le strutture ontologiche che verranno emergendo veicolano connotazioni di valore e integrità tali da richiedere o porre doveri alla nostra libertà. Se i dati della biologia saranno costantemente tenuti presenti, l'argomentazione non potrà che risultare inferenziale e non biologica, perché l'esser-persona è una condizione ontologica radicale non sempre evidente, per l'affermazione della quale l'analisi biologica fornisce solo alcuni elementi. Essa rileva nell'embrione umano una serie di caratteri, dal cui insieme non è possibile attribuire immediatamente la personalità all'embrione: non pare esservi cioè deduzione immediata dallo statuto biologico dell'embrione di un suo eventuale statuto ontologico personale. Per affrontare tali questioni sono disponibili nella tradizione filosofica linguaggi e concetti fra loro un poco distinti ma fondamentalmente convergenti: il linguaggio ilemorfìco che ricorre alle nozioni di materia e forma e al concetto di anima ( con le funzioni vegetativa, sensitiva, intellettiva ) come forma del corpo, e il linguaggio della sostanza e della trasformazione sostanziale. Qui mi muoverò soprattutto lungo la seconda strada, non senza adoperare anche il linguaggio della forma. Non farò ricorso al paradigma concettuale dell'anima ( cfr. l'Annesso 1 ), non perché lo reputi obsoleto, ma perché occorrerebbe preliminarmente dissipare non pochi equivoci di cui si avverte la presenza nella cultura contemporanea. Individuo e sostanza. Comunque le domande pertinenti sono chiaramente determinate e suonano: l'embrione è un individuo umano? E una persona umana? È fondata l'equiestensionalità dei concetti di individuo umano e di persona umana? Le idee di individuo e di persona sono assunte insieme nella nota determinazione di Boezio dell'esser-persona: la persona è una sostanza individuale di natura intellettuale ( rationalis naturae individua substantia ). La nozione boeziana è analogica, applicandosi ad una vasta classe di persone: qui faremo riferimento solo alla persona umana e all'individuo umano. Il termine individua substantia è la traduzione latina del lemma aristotelico " sostanza prima " ( pusìa prole ) anch'essa individuale. Individuo significa indivisum in se et divisum a quolibet alio. Il concetto di individuo non allude ad un soggetto indivisibile quasi si avesse a che fare con un atomon, ma a qualcosa che allo stato è indiviso e insieme individuale e determinato. Non è dunque l'indivisibilità a fare l'individualità. L'individuo è una sostanza determinata che può essere divisibile in parti, che sono a loro volta sostanze. Lo zigote è una sostanza individuale determinata con l'unità propria dell'intero, che in casi rari può scindersi dando origine a due sostanze determinate ( gemelli monozigoti ), appartenenti per il patrimonio genetico alla specie umana. Al concetto di individuo appartiene quello di individuo biologico che, secondo il Lessico universale Treccani, è " ogni organismo uni o pluricellulare che non può essere suddiviso senza perdere le sue caratteristiche strutturali e funzionali ". Il concetto di sostanza è un pilastro dell'idea boeziana di persona. Secondo Aristotele è sostanza ciò che non è in un soggetto ne è predicato di un soggetto ( Categorie ). Le sostanze prime sono gli individui, i soggetti, che costituiscono tutto ciò che sta nell'universo. Esse perdurano sotto un certo tipo di cambiamenti ( accidentali ), mentre mutano dando origine a nuove sostanze quando quella di partenza è sottoposta a trasformazione sostanziale, qualcosa che incontriamo in natura molto frequentemente ( ad es. nella nutrizione tramite cibi ), e che ricorre in ogni generazione umana, ossia nell'evento mediante cui dalle cellule germinali maschili e femminili si forma l'embrione. Non esiste pertanto continuità fra le prime e il secondo nel senso che nella formazione di questo interviene una trasformazione sostanziale e la produzione di una nuova sostanza. Questo evento essenziale sfugge completamente alle posizioni empiristiche che, in quanto cieche nei confronti della sostanza, lo sono parimenti nei confronti delle trasformazioni sostanziali. Ciò che è prima della formazione dell'embrione, ossia le cellule germinali, appartiene all'umano ma non è in alcun modo un essere umano. L'idea funzionalistica di persona. Oltre all'idea boeziana di persona, che ci viene dalla tradizione filosofica, si è in vari settori della cultura moderna introdotto un concetto in qualche misura stipulativo e funzionale della persona, nel senso che sotto di esso raccogliamo aspetti o funzioni che conveniamo di considerare del tutto proprie della persona, che riteniamo siano empiricamente accettabili, e che possono ( e di fatto sono ) variabili secondo le assunzioni stipulate e le singole filosofie di riferimento. Pensiamo alle proprietà quali: libertà, esistenza di flussi psicologici, autocoscienza, riflessione, linguaggio, comunicazione intersoggettiva, capacità simbolica. Facendo riferimento a diverse funzioni, si va incontro alla spiacevole conseguenza che esser-persona secondo un certo carattere A non comporta l'esserlo secondo un altro carattere B, e dunque esisterebbero diverse classi di persone. Se partiamo dall'assunto che flussi psicologici siano funzioni essenziali per l'esser-persona, allora determiniamo una classe di persone molto più ampia di quella determinata dall'autocoscienza, dal senso morale, ecc. Inoltre riducendo la persona ad un certo numero di funzioni, l'esser-persona avrà dei gradi a seconda dell'ampiezza con cui eserciterà quella funzione; potrà anche passare dallo stato personale a quello non-personale se quella funzione per un certo tempo scompare, e poi ridivenir persona. Non è chi non veda la problematicità di una simile posizione che introduce surrettiziamente una discriminazione fra gli esseri umani sulla base del possesso di certe funzioni, differenziati non in base a ciò che sono, ma in base a quello che fanno o possono fare; non in base al loro atto primo di esistenza, ma in base ad un ventaglio variabile di funzioni. L'approccio stipulativo è in genere funzionalistico, empiristico, ma anche " idealistico " perché spesso mette l'accento sulle funzioni alte del soggetto ( l'autocoscienza, la libertà ). Collocarsi sul piano dell'essere e della sostanza significa che si è persona originariamente, prima ancora di comportarsi da persona. L'approccio funzionalistico in certo modo capovolge l'assunto: poiché ci si comporta da persona, allora lo si è. La definizione boeziana non esclude il livello corporeo-biologico- genetico, nel senso che la sostanza individuale umana è anche corporea. Non viene perciò messo da parte il livello genetico-biologico, come sembra accadere nell'approccio " idealistico " che vede l'autocoscienza, la razionalità e il giudizio morale come i fondamentali o unici elementi costitutivi della persona. Nella tradizione filosofica cui mi riferisco il concetto di azione è strettamente legato a quello di sostanza, essendo solo le sostanze capaci di agire ( actiones sunt suppositorum ), mentre nella posizione moderna, filosofica e scientifica, l'idea di sostanza è sostituita da quella di funzione, come in Kelsen e Cassirer, e funzione significa il variare di una grandezza al variare di un'altra ( a questo aspetto notevole dedicherò attenzione più avanti ). 2. Formazione dell'embrione, autopoiesi, individualità 1) Con la fecondazione si ha l'inizio di un nuovo organismo, dove la fecondazione è il processo mediante il quale due diverse cellule sessuali altamente specializzate e programmate, i gameti, si fondono insieme per creare un nuovo individuo con un corredo genetico derivato da entrambi i genitori. Queste due cellule hanno la caratteristica di possedere un patrimonio cromosomico dimezzato ( o aploide ) cioè composto di 23 cromosomi. La fecondazione avviene all'interno di uno dei due canali di collegamento tra ovaia e utero, detti " trombe di Falloppio " o " tube ", si sviluppa in una serie complessa di reazioni fino a realizzare la fusione dei nuclei delle due cellule, pervenendo così a costituire una cellula unica con 46 cromosomi, che è il numero specificatamente proprio dell'essere umano. Il suo patrimonio genetico è nuovo e diverso da quello paterno e materno e da quello di ogni altro essere umano, frutto di una delle miriadi di possibili combinazioni fra i circa i 30.000 geni di cui consta il patrimonio genetico di ognuno dei due gameti. Incontrandosi i cromosomi dei due gameti, combinano i loro geni, permettendo la formazione di un nuovo essere umano che ha una sua unicità e irripetibilità, e non è solo un miscuglio anonimo di qualcosa dell'uno e dell'altro genitore, bensì un nuovo uomo, altro dal padre, dalla madre e da qualunque altro fratello possa nascere. Lo zigote, la nuova cellula che risulta al momento della fusione dei gameti unicellulari paterno e materno, inizia a operare come un nuovo sistema - come un'unità, un essere vivente ontologicamente uno - come ogni altra cellula in fase di divisione cellulare ( mitotica ), ma con alcune peculiari proprietà. Infatti con esso inizia lo sviluppo embrionale di un nuovo essere che, appartenendo alla specie umana, è un nuovo individuo umano al primo stadio del suo sviluppo, che inizia il ciclo vitale, da cui avranno origine per successive divisioni tutti i circa 100.000 miliardi di cellule che compongono il corpo adulto di un uomo o di una donna. Nel processo che inizia con la fecondazione, tra le molte attività altamente coordinate di questa nuova cellula, durante un periodo compreso all'incirca tra le 20 e le 24 ore, le più importanti sono: a) l'organizzazione del nuovo genoma, che rappresenta il principale centro informativo e coordinatore per lo sviluppo del nuovo essere umano e delle sue ulteriori attività; b) l'inizio del primo processo mitotico che porta l'embrione a due cellule, e successivamente a un numero via via crescente. 2) L'autopoiesi. Sono da sottolineare due principali aspetti della nuova cellula: il primo, che lo zigote ha una sua precisa identità, cioè non è un essere anonimo; il secondo, che è intrinsecamente orientato a un ben definito sviluppo, e ciò attraverso un'autopoiesi ( autocostruzione ), ossia costruendosi progressivamente le sue cellule. L'autopoiesi è la caratteristica centrale della vita, ciò che differenzia individui viventi dagli individui non viventi come un tavolo o una saracinesca. Mentre in questi ultimi l'individualità si conserva mantenendo inalterate le parti materiali che lo costituiscono, negli individui viventi l'identità si mantiene non attraverso conservazione di parti materiali ma attraverso il mantenimento della forma/informazione che organizza e supervede al ricambio organico. Dal lato biologico tale forma in ogni individuo vivente è il proprio patrimonio genetico, il proprio DNA. Sin quando tale patrimonio si conserva nell'individuo, questi possiederà una ben definita identità biologica, continuerà ad essere se stesso. L'apparizione di un nuovo patrimonio genetico sarà il segno dell'accadere di una trasformazione sostanziale. L'autocostruzione è indirizzata a formare un soggetto umano con una precisa forma corporea identificante; e ambedue, identità e orientamento, sono essenzialmente dipendenti dal genoma che porta inscritta, in ben determinate sequenze molecolari, la cosiddetta informazione genetica. Tale informazione, sostanzialmente invariante, stabilisce la sua appartenenza alla specie umana, definisce la sua identità biologica individuale, e porta a un programma codificato che lo dota di enormi potenzialità morfogenetiche, cioè di capacità intrinseche che si attueranno autonomamente e gradualmente durante il processo ( epigenetico ) rigorosamente orientato. Da queste considerazioni emerge l'implausibilità ed anche la rozzezza dell'idea che vede nell'embrione niente più che un grumo informe di cellule. Lo zigote è il punto esatto nello spazio e nel tempo in cui un individuo umano inizia il proprio ciclo vitale. Secondo Scott F. Gilbert " con la fertilizzazione inizia un nuovo organismo vivente. C'è un unico continuo processo dalla fertilizzazione allo sviluppo embrionale e fetale, alla crescita postnatale, alla senescenza e alla morte ", in cui l'individuo umano allo stadio di embrione è l'attivo orchestratore del proprio annidamento e della propria vita. Da forme molto semplici l'individuo umano svilupperà forme, tessuti e organi sempre più complessi, in un processo di differenziazione guidato dal suo genoma, che è quello di un essere individuale della specie sapiens sapiens dotato di 46 cromosomi. Secondo E. Boncinelli " dal punto di vista biologico non c'è in sostanza nessuna discontinuità dal concepimento alla nascita ed oltre ". L'embrione-zigote, possiede già il suo patrimonio cromosomico e genetico, che dal nucleo dello zigote verrà trasmesso al nucleo di ciascuna dei miliardi di cellule del corpo umano nel suo complesso. Tale patrimonio, detto genoma, è unico e individuante per ciascun individuo ( la prova del DNA possiede valore dirimente nei procedimenti giudiziari ), ed è un manuale completo di istruzioni per la fabbricazione e il funzionamento dell'intero organismo. Tale processo vitale è interno o immanente, ossia capace di autorealizzarsi e autoprogrammarsi. 3) Natura umana e individualità dell'embrione. Occorre ora affrontare due punti: la natura umana dell'embrione; e la sua individualità. Entrambi sono necessari per " verificare " nell'embrione la persona. Se l'embrione come essere individuale è dotato di natura umana, allora " il semplice possesso della natura umana implica per ogni individuo umano il fatto di esser-persona ", poiché la razionalità è un requisito che accompagna necessariamente la natura umana. 3a) Che l'embrione possa non possedere ancora una natura pienamente umana è posizione non nuova, e riportabile alle tesi dell'animazione ritardata o successiva/multipla, teoria talvolta legata a conoscenze sull'embriogenesi ormai decisamente superate. Viene in taglio l'avvertenza che, nonostante le evidenti carenze delle conoscenze biologiche sull'embrione umano presenti negli antichi ( la forma o il patrimonio genetico proviene da entrambi i genitori, non solo dal padre come riteneva Aristotele ), i criteri filosofici da loro elaborati possono rimanere validi quando sono applicati alla conoscenza offertaci dalla moderna embriologia. Questa consente di assumere il DNA come depositario di quelle caratteristiche che accompagnano ogni vivente dall'inizio al termine della sua storia, e che nel caso dell'embrione umano ne segnano l'appartenenza alla specie umana. Che l'embrione sia individuo appartenente alla specie umana è quanto sostiene il documento Identità e statuto dell'embrione umano elaborato nel 1996 dal Comitato Nazionale di Bioetica ( CNB ): " Ogni embrione derivato dalla fusione di gameti umani possiede sin dalla fase della sua costituzione zigotica un DNA che contiene sequenze specificatamente umane. Questi sono dati biologici non controversi, che permettono di attribuire all'embrione una natura umana sin dalla fecondazione, anche perché il DNA è portatore di un programma di sviluppo che ( se l'embrione si sarà regolarmente impiantato nell'utero materno ) condurrà alla formazione di un individuo umano completo o eccezionalmente di più individui umani ( in altri termini, lo sviluppo è endogeno e non potrebbe condurre ad esiti diversi ) " ( p. 11 ). Possiamo dire che il patrimonio genetico assume le funzioni dì forma che presiede al processo di sviluppo dell'embrione e che ne marca l'appartenenza alla specie umana. 3b) Individualità dell'embrione. Controversa si presenta l'attribuzione dell'individualità all'embrione sin dalla fase del concepimento-zigote, essendo arduo far collimare il linguaggio della scienza che verifica processi biologici distesi nel tempo, e la concettualizzazione ontologica che introduce eventi o mutamenti istantanei ( trasformazioni sostanziali ). A mio avviso la transizione dai gameti allo zigote, che può occupare del tempo ed essere perciò un processo, segnala che a un certo momento, quello della completa fusione dei due patrimoni genetici, è accaduto un evento che ha dato origine ad una sostanza nuova, ad un nuovo essere individualmente determinato che da allora in avanti si svilupperà senza discontinuità. E accaduto quanto abbiamo chiamato una " trasformazione sostanziale ", ossia la nascita-formazione di una sostanza nuova a partire dalle due sostanze ( i due gameti ) che si fondono nello zigote, e che non è la somma o qualcosa di analogo delle due sostanze precedenti, ma un essere nuovo, dotato di una forma nuova, che da allora governa il processo di modo che le successive mutazioni saranno quelle accidentali, quali il processo di crescita e di differenziazione corporea. La forma, qui emblematizzata dal genoma individuale, stabilisce la continuità di un soggetto, che sotto la sua regia si sviluppa senza ulteriori trasformazioni sostanziali in un cammino di formazione di cellule, tessuti, organi. Come la morte è la perdita di unità del vivente, così la vita è l'acquisto di tale unità, che accade con la formazione dello zigote. I due estremi del processo vitale sono concepimento e morte: come si muore individualmente, così si è concepiti individualmente. Tutto ciò che mi costituisce materialmente esisteva prima di me ( di me come zigote ): atomi, molecole, ecc. ma la forma quale principio di unità e di autoprogrammazione intrinseco allo zigote non esisteva prima di me o di lui. In un certo modo viene al mondo ma non dal mondo. A sostegno della posizione secondo cui l'inizio della vita umana individuale si colloca all'atto della fecondazione vengono presentati i seguenti argomenti: " già al primo stadio dello sviluppo embrionale sono presenti tutte le informazioni genetiche in grado di portare a termine il programma di sviluppo della persona; tale programma di sviluppo è caratterizzato da tre proprietà biologiche importanti: la coordinazione dei vari geni strutturali e di regolazione; la continuità nella formazione dell'organismo; la gradualità di un progetto individuale unico che passa da struttura più semplice a struttura più complessa " ( documento del CNB, cit., p. 14 ). Sono sufficienti questi aspetti per poter affermare non solo un'identità ma anche una piena identità individuale dello zigote? 3c) Gemelli monozigoti. In effetti in alcuni casi l'identità genetica non coincide con l'identità individuale, come nel caso della gemellarità monozigotica che implica il medesimo DNA pur entro una individuale distinzione. Qui rimarrebbe da determinare se un embrione che poi si scinderà sia all'inizio una sola sostanza, o una soltanto in apparenza: ma in entrambi i casi abbiamo che fare con individualità sostanziali appartenenti alla specie umana. In altri termini non vi sono motivi sufficienti per sostenere che nel processo di formazione di gemelli monozigoti accada una seconda trasformazione sostanziale dopo la prima consistente nell'unione fra spermatozoo e ovocita: piuttosto può accadere una moltiplicazione per due o duplicazione. In merito osserva L. Lombardi Vallauri: " L'embrione è un individuo-uomo in atto, è semplicemente un uomo che comincia a vivere, a partire dallo stadio zigote ( se c'è scissione e diventano due, gli uomini sono due; se diventano tre, gli uomini sono tre ). Quando si parla del 14mo giorno, della stria primitiva, di qualsiasi altro criterio che divida l'indivisibile diacronia dell'individuo ( individuo vuol dire indivisibile ), a me sembrano tutti arrampicamenti sugli specchi. Vedo con evidenza che a partire dalla fusione dei pronuclei c'è un individuo-uomo in atto, che è in potenza solo all'acquisizione di capacità ulteriori come io sono in potenza - spero - all'apprendimento del sanscrito, ma non è in potenza all'acquisizione della natura dell'uomo. Questa è la prima evidenza ". 4) Sul concetto di forma e la sua causalità. Se, come è innegabile, il processo evolutivo dell'embrione umano è volto finalisticamente alla pienezza dell'esistenza personale, occorre concedere che si dia sin dall'inizio un principio formante di questa esistenza, un principio costruttivo attivo della totalità personale, che progressivamente si autonomizza. Qui emerge l'importanza della nozione di forma: in base alla dottrina ilemorfica intendo come forma ciò che da unità, identifica una determinata classe di individui o di oggetti, e così operando consente l'intelligibilità. Vi sono due significati di informazione: quello di diffondere e trasmettere notizie ( informare ), e quello filosoficamente decisivo di conferire forma ad un corpo di qualsiasi ordine. La forma/morphé in senso aristotelico significa il secondo aspetto in cui è il patrimonio genetico/genoma ad operare come causa informante del corpo in sviluppo. Ma quale tipo di causa fra le quattro cause aristoteliche ( materiale, formale, efficiente, finale )? Se ci poniamo dal lato della scienza correntemente praticata, che ha ridotto in genere le quattro cause ad una sola, quella efficiente, saremmo indotti a rispondere che la causalità del genoma sia solo quella efficiente. Ma sarebbe un equivoco in quanto la causalità del genoma è formale più che efficiente. Lo intendiamo facilmente meditando sul fatto che qui l'atomismo e la sommatoria di fattori diversi non approdano a nulla, nel senso che non possiamo ridurre il vivente ad un complesso di geni: la mera somma aritmetica dei geni di uno zigote non è la sua forma e non spiegherebbe i complessi fenomeni di interrelazione e coordinamento fra i geni. La causa formale non è surrogabile nella generazione da alcuna causa efficiente. Nella generazione ( umana ) rimane fondamentale l'analisi dell'intervento della causalità formale, un tema difficile per la scienza contemporanea che ha cassato la forma: si pensi all'opera di Monod Il caso e la necessità. L'unità del vivente è inspiegabile se la pensiamo come effetto del concorso di molteplici cause efficienti, riducendola ad una mera addizione di geni. Di conseguenza la sua unità implica una causalità formale, ossia la presenza e l'unità di una forma che si mantiene e perdura e che " informa " sotto la sua regia l'intero processo vitale. Ed è in questo campo concettuale che prende rilievo la realtà della trasformazione sostanziale, che illustra come lo zigote valga quale sostanza nuova emergente sotto la guida di una nuova forma ( che non è più quella dell'ovocita o dello spermatozoo ), che permane e orienta il processo di sviluppo corporeo, e rende ragione dell'unità dell'individuo. 5) Breve digressione sull'ambiente. Ovviamente i fattori ambientali influiscono su vari caratteri dell'individuo che ha iniziato il suo processo di sviluppo. Porto ad esempio il fatto secondo cui la specie umana è quella in cui l'individuo nasce col cervello più immaturo, nel senso che alla nascita poche sinapsi sono attivate. Se le connessioni sinaptiche sono stabilite tanto dal mio genoma quanto dalle mie esperienze personali ed ambientali, questa plasticità non cambia i caratteri essenziali della specie e la mia complessità genetica è tale già prima dell'interrelazione con l'ambiente. Diremo perciò che nella relazione dell'individuo con l'ambiente non accade una nuova trasformazione sostanziale dopo quella della formazione dello zigote, ma una vasta serie di trasformazioni accidentali, che naturalmente non sono per nulla secondarie. Sarebbe un serio equivoco ritenere che il termine " accidentale ", tipico del linguaggio filosofico, significhi irrilevante o secondario. 3. Equiestensionalità fra i concetti di individuo umano e di persona umana Cercheremo di provare che non si può distinguere fra due qualità, quella più ampia dell'essere uomo, e quella più ristretta dell'essere persona. L'essere persona è una qualità essenziale, non una condizione o uno stato. Essere persona è un predicato attribuibile come tale a creature viventi in virtù della loro natura o essenza. Non sono persone soltanto coloro che possono articolare i propri interessi ed entrare in un accordo reciproco con altri partecipanti, puntando sul mutuo riconoscimento. Se si assume la non-personalità dell'embrione al concepimento, si apre la lunga querelle sul momento in cui la vita umana diventerebbe personale, e qui le opinioni divergono molto: secondo alcuni al 14mo giorno, secondo altri dalla ventesima settimana ( nascita cerebrale ), altri dalla nascita, per altri ancora ( come G. Sartori ) addirittura soltanto quando si è autocoscienti e capaci di ragionamento ( soluzione nominalistica e dalle conseguenze devastanti ). Si perviene dunque ad un'ampia varietà di risposte, a seconda delle esigenze del momento o in base a posizioni ideologiche. Non di rado si sostiene che vita e persona non sono sinonimi, una vera banalità che è stata ripetuta molte volte: lo sanno tutti che vita e persona sono cose diverse, ma non è questo il punto, poiché la domanda verte non solo sulla vita indistintamente, ma su quella umana. Nella bio-ontologica come sin qui elaborata non si da differenza fra individuo umano e persona umana, che risultano concetti equiestensionali. Viceversa il loro diffalco è teorizzato nell'approccio che abbiamo chiamato funzionalistico e stipulativo. In base alla corrente che determina la persona sulla scorta della coscienza/autocoscienza, è possibile che esistano individui umani non ancora/non più persone. Tale è la posizione di Engeihardt che, negando l'equivalenza dei termini " essere umano " e " persona ", conclude: " Non tutti gli esseri umani sono persone … I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane. Tali entità sono membri della specie umana ". Tuttavia la definizione di persona come un ente dotato di coscienza o di autocoscienza o di stati psichici non stringe adeguatamente il problema, perché non costituisce una definizione pienamente reale della persona; ne coglie solo un aspetto o un attributo che non è in senso proprio essenziale, cioè relativo ai caratteri essenziali. Se nella definizione di una cosa si seleziona una sua proprietà, si determina una classe di " oggetti ", cui naturalmente appartengono tutti coloro che la possiedono. Con questo siamo però lontani dall'avere risolto il problema di una definizione reale, che è quanto soprattutto importa, perché la proprietà prescelta potrebbe non essere " essenziale " in senso proprio. Se si procede così nella determinazione del concetto di persona, ne consegue che verranno arbitrariamente eliminati dalla " classe delle persone " individui che lo sono, ma che mancano del carattere abusivamente assunto come essenziale ( in ipotesi: la coscienza, la memoria, ecc. ). Per chiarire meglio questo aspetto, è consigliabile condensare i principali asserti che lo riguardano: - se definiamo caratteri essenziali quelli che concernono la determinazione di essenza di un qualsiasi ente, essi non posseggono un più o un meno, ma ci sono o non ci sono, a differenza dei caratteri accidentali che sono soggetti a cambiamento ( crescita, diminuzione, alterazione, ecc. ). Nel caso della persona, ciò che la rende tale è l'essere un individuo di natura razionale ( la qual cosa o c'è o non c'è ), non il maggior o minor grado di coscienza; - i caratteri e le funzioni che possono crescere, diminuire, mancare, sono per ciò stesso non essenziali. In particolare la privazione di una qualità ( ad es. la vista, la parola, la coscienza ) ammette gradi, mentre ciò non accade con le proprietà essenziali. Di conseguenza per il fatto che la coscienza o gli stati psichici possono avere gradi, essi non costituiscono una determinazione essenziale dell'esser-persona. Si può anzi arrivare sino alla privazione completa di una certa qualità non essenziale, senza che muti la natura ontologica di un oggetto: una persona umana non è meno persona se è cieca. - mentre i caratteri essenziali sono presenti sin dall'istante in cui si forma la sostanza in oggetto, e si perdono solo con la sua dissoluzione, quelli non essenziali possono essere posseduti prima potenzialmente, poi svilupparsi e infine declinare. Le precedenti considerazioni, nonché quelle che potrei aggiungere sul dislivello tra registro dell'essere e quello dell'agire/funzioni, rendono plausibile sostenere che l'individuo umano è per sé persona, nonostante la possibilità di essere talvolta privo della coscienza ( o della capacità di relazione, ecc. ). Affermare ciò implica la equiestensionalità dei due concetti di " individuo umano " e di " persona umana ". L'equivalenza dei concetti di " individuo umano " e di " persona umana " conduce ad attribuire all'embrione lo statuto di persona. Tale conclusione, che gode del grado di certezza che è proprio del sapere filosofico, sembra la più plausibile. In virtù dei più sicuri elementi offerti dalla scienza biologica è certa l'individualità sostanziale dell'embrione umano, manifestata dalla sua attività immanente, autonoma, autoprogrammata, finalizzata. Appena concepito, lo zigote comincia a comportarsi come un essere vivo, indipendente ( nel senso che è autoprogrammato, non nel senso che sia in grado di autoalimentarsi ), in possesso di un patrimonio genetico assolutamente individualizzato e appartenente in modo esclusivo alla specie umana, e che procede a svilupparsi in modo omogeneo e continuo. Secondo il rapporto Warnock, " una volta che il processo è incominciato non c'è una particolare parte dello sviluppo che sia più importante di un'altra: tutte sono parte di un processo continuo ". Dalle informazioni della biologia si trae la certezza che sin dall'istante del concepimento c'è vita umana per la sua origine, la sua struttura genetica, per l'organizzazione cellulare, per il senso teleologico dell'ontogenesi. Ogni individuo che possieda la natura umana è di per sé persona. Un indizio forte dell'esistenza della natura umana nell'embrione umano è il suo codice genetico che è proprio della specie umana, sebbene non vi sia equivalenza tra codice genetico e natura umana. L'uomo non può nascere prima della persona, né la persona morire prima dell'uomo. Né si entra nella comunità delle persone per cooptazione, essendo chiamati, nominati o accolti da coloro che già lo sono; né si dà alcun passaggio graduale da " qualcosa " a " qualcuno ". Queste deduzioni rigettano la tesi rapidamente diffusasi in varie scuole a sfondo analitico ed empiristico, secondo cui non tutti gli esseri umani sono persone; pertanto l'idea stessa dei diritti dell'uomo dovrebbe venire riformulata in quella dei diritti delle persone: gli esseri umani non avrebbero diritti in quanto uomini, ma solo in quanto persone. Una conseguenza rischiosissima è che il concetto di persona sia volta a volta ridefinito in base a certe caratteristiche accolte da alcuni e rifiutate da altri, di modo che l'idea stessa di diritti della persona diventi variabile, arbitraria, evanescente. Ed è l'insieme di tali aspetti che invita a esaminare attentamente le incoerenze e gli svantaggi del funzionalismo. 4. L'equivoco dell'approccio funzionalistico In correnti radicali della bioetica contemporanea a sfondo riduzionistico viene rifiutato il concetto stesso di persona, e tutto è ricondotto a forme compiute di utilitarismo etico e di " sensismo ": hanno diritti solo gli esseri senzienti capaci di provare piacere o dolore. Di conseguenza, saranno titolari di diritti gli animali adulti, perché capaci di godere e di soffrire, ma non gli embrioni umani privi del sistema nervoso. Dal punto di vista ontologico questo sensismo estremo, che appiattisce ogni rango dell'essere riducendo tutto a materia animata capace di provare sensazioni, si potrebbe definire un " animalismo trascendentale ". Diverso è il caso del funzionalismo che cerca di definire la persona a partire da sue operazioni ritenute particolarmente qualificanti. Questa posizione si potrebbe anche denominare empiristica in senso lato, perché ritiene empiricamente accertabile l'esser-persona e il divenir persona, attraverso la verifica della presenza di certi caratteri, che sono stati assunti come rilevanti per definire la persona stessa. È noto che vari autori definiscono la persona attraverso i caratteri dell'autocoscienza, dell'autonomia, della razionalità, del possesso del senso morale. Altri, come Derek Parfit, in base al possesso di stati mentali/psicologici coscienti. Questa determinazione della persona è più larga della precedente, per cui coloro che sono persone in base al primo paradigma lo sono anche secondo Parfit, mentre è falso il viceversa. Nelle due posizioni si verifica rispettivamente una " sovradeterminazione " e una " sottodeterminazione " dell'idea di persona: in genere l'approccio kantiano-trascendentale, a cui quello di Engeihardt si collega, inclina verso il primo corno, perché include nel concetto di persona sue funzioni alte, mettendo tra parentesi il lato biologico-materiale, mentre l'approccio psicologico-empirico inclina verso una sottodeterminazione della persona. In tutti questi casi il principio " ecumenico " del rispetto della persona è da intendere come rispetto di sue singole proprietà o funzioni, non del suo nucleo ontologico radicale. Con l'assunto secondo cui la condizione necessaria e sufficiente per essere persona è il possedere stati mentali coscienti, si viene tra l'altro a impoverire la vita psichica, perché il riferimento al livello della coscienza psicologica lascia da parte sia la vita dell'inconscio istintuale, sia quella del sopraconscio o preconscio dello spirito. La definizione psicologica di persona sembra assumere senza prove l'identità di mente ( o spirito ) e di attività psichica conscia, non di rado riducendo lo stesso livello psichico a quello cerebrale-neuronale. Si è perciò di fronte a una forma di riduzionismo, se intendiamo con questo termine l'intento sistematico di riportare il più alto al più basso, e nella fattispecie lo spirituale allo psicologico, e questo al cerebrale. Rimane come problema aperto quello dell'identità personale, affidata alla precaria e fluttuante continuità stabilita dalla memoria. La teoria della persona definita in base ai suoi stati psichici nega più o meno implicitamente la possibilità di una differenza intrinseca tra la specie umana e le altre specie, perché i flussi che accadono nella psiche possono essere ridotti a quanto è comune a specie non-umane e possono coprire molti livelli, da un minimo a un massimo, senza che con questo siano stabilite essenze ontologicamente diverse. A tale concezione, che trasforma differenze essenziali in differenze di quantità secondo un canone tipico dell'empirismo, si lega il suggerimento di estendere il gradualismo anche ai diritti dell'uomo, ad esempio al diritto alla vita. In tal caso verrebbe formulato un diritto alla vita che parte da zero e progredisce in relazione al processo ontogenetico del feto, raggiunge un massimo nella vita post-natale sino alla piena maturità e incipiente vecchiaia, e poi inizia a declinare in relazione all'invecchiamento e all'alterazione psicologica dell'anziano. La concezione gradualistica della persona e del suo diritto alla vita è stata sostenuta da Parfit: " L'ovulo fecondato non è un essere umano e una persona fin dall'inizio ma lo diventa lentamente … ( si osservi che viene negata all'ovulo fecondato anche l'appartenenza alla specie umana, non solo la personalità, n.d.r. ), la distruzione di questo organismo all'inizio non è moralmente sbagliata, ma a poco a poco lo diventa. Mentre all'inizio non è per nulla moralmente sbagliata, in seguito diventa una mancanza non grave che sarebbe giustificata solo se, tenuto conto di tutto, la futura nascita del bambino fosse un'eventualità seriamente peggiore o per i suoi genitori o per gli altri ( manca ogni cenno agli interessi del feto, n.d.r. ). Quando l'organismo diventa un essere umano a pieno titolo, ossia una persona, la mancanza non grave si trasforma in un atto moralmente molto sbagliato ". Chiaro e sgradevole è l'assunto fondamentalmente materialistico che individualità, personalità e dignità dipendano dal numero di cellule di cui siamo composti, ossia: poche cellule = poca o punta dignità. Nel caso della bio-ontologica qui seguito l'essere persona non dipende dal grado di presenza e di realizzazione empirica di certe qualità e funzioni, ma da una posizione d'essere, cioè dalla natura ontologica ( essenza ) di determinati individui, costante in loro. Ne consegue che dalla identica posizione d'essere (essenza) scaturisce l'ugual valore di ogni persona, in modo indipendente dal possesso attuale di certe proprietà e/o funzioni. Nell'approccio funzionalistico le differenze di essenza sono ricondotte ( già è stato notato ) a differenze di grado, disposte secondo un continuum, per cui non sarebbe più possibile fissare univocamente in base a considerazioni di essenza che cosa sia persona e chi lo sia. A ciò consegue che la risposta a tali due domande dipenda fondamentalmente da una stipulazione contrattuale per sua natura soggetta a variazione. In questa posizione si fa avanti un equivoco filosofico notevole, consistente nella dissoluzione della sostanza ( e della sua realtà ) e nella concomitante sua risoluzione nel concetto di funzione. Kelsen ha espresso in modo incisivo questa capitale trasformazione: " La dottrina pura del diritto ha riconosciuto il concetto di persona come un concetto di sostanza, come la ipostatizzazione di postulati etico-politici ( ad es. libertà, proprietà ) e lo ha perciò dissolto. Come nello spirito della filosofia kantiana, tutta la sostanza viene ridotta a funzione. Ciò è stato dimostrato da Cassirer, uno dei migliori kantiani, quando era ancora kantiano, nel suo bei libro ". Nel noto dibattito di Davos del 1929 tra Heidegger e Cassirer, quest'ultimo affermava: " L'essere della nuova metafisica non è più l'essere di una sostanza, ma l'essere che viene da una molteplicità di significati e di determinazioni funzionali ". L'equivoco cui alludiamo consiste fondamentalmente nell'identificare ordine dell'essere e ordine dell'agire, con una piena risoluzione del primo nel secondo; di modo che la sostanza non è più in radice denotata dal suo atto d'essere ma da una processualità funzional-attualistica, in cui a seconda dei casi e delle scuole si pone l'accento su singole funzioni del campo dell'agire, ad es. quelle idealistiche dell'autocoscienza e della relazione, quelle prassistico-sociali, quelle produttivistico-tecniche, ecc. Abolito il dislivello tra sostanza/esistenza e le sue funzioni/operazioni, il soggetto individuale è interpretato come attuosità funzionale che si esprime in una somma di atti, non come atto primo di essere d'una sostanza, che costituisca il " luogo " di consistenza e di inesione di tutti gli altri atti, che saranno dunque atti secondi operativi, e che li renda possibili e li " sostenga ". La filosofia dell'essere avverte che sì l'ordine dell'agire dipende da quello dell'essere ( operatio sequitur esse ) - di modo che l'analisi del primo è utile e necessaria per conoscere qualcosa del secondo - ma che i due ordini rimangono distinti nell'ente finito. Questo non si identifica mai con le sue operazioni, mentre ciò accade solo nell'Atto puro, che è identicamente il suo essere e il suo agire, il suo conoscere e il suo amare. Con l'anteriorità e la distinzione dell'atto primo della sostanza rispetto alle sue operazioni si guadagna un assioma notevole, ossia l'antecedenza e il maggior valore della persona nei confronti delle sue operazioni; in ciò si fonda anche l'identità del soggetto, che altrimenti rischierebbe di esser dissolta nella molteplicità anche contraddittoria degli atti temporalmente succedentisi. Non sembra pertanto risolutivo e corretto il metodo di inferire il carattere personale di un individuo in base a certe sue operazioni. In virtù del dislivello non colmabile tra i registri dell'essere e dell'agire, dovrebbe rimanere aperta la possibilità che la persona sia presente anche in mancanza di sue operazioni. Non c'è perciò contraddizione nel sostenere che un individuo può essere allo stesso tempo persona in atto e personalità in potenza. Mentre il divenire persona come possesso del proprio statuto ontologico radicale non è un processo, ma un evento o atto istantaneo, per cui si è stabiliti nell'esser-persona una volta per tutte -, la personalità è qualcosa che si acquista processualmente, attraverso l'effettuazione di atti personali ( secondi ). Ne consegue che dalla identica posizione d'essere ( essenza ) scaturisce l'ugual valore di ogni persona, in modo indipendente dal possesso attuale di certe proprietà e/o funzioni. In linea generale l'approccio funzionalistico si manifesta impari nel cogliere la densità preoperazionale e l'ulteriorità della persona, in certo modo risolta-dissolta nelle sue operazioni, nonché nel raggiungere la cosa stessa, ossia il cuore della realtà. Questa è un'immensa repubblica di soggetti individuali, ciascuno dei quali esercita in proprio, nei gradi e nelle forme più diverse e con una ricchezza al di là di ogni immaginazione, il proprio atto d'essere ( actus essendi ). Dovunque l'essere e la vita sovrabbondano, crescono, declinano, si mescolano. Di fronte a ciò sarebbe degno del pensiero lo stupore, la contemplazione, il risveglio al senso dell'essere nel superamento del sonno di fronte ad esso, in cui perlopiù versiamo. 5. Bio-ontologica e bioetica: la Fivet Difficilmente si può essere tanto disattenti da non cogliere la profonda rivoluzione introdotta dalle tecniche di " fecondazione assistita o extra-corporea " umana ( torneremo su quale sia il miglior modo per denominarle ), iniziate nel 1978 e da allora entrate nella vita di tutti, compresi quelli - e sono la maggior parte - che probabilmente non vi faranno mai ricorso. Le nuove tecniche cambiano il nostro modo di guardare alla procreazione, alla nascita, alla vita, alla famiglia, accendono i desideri, creano nell'immaginario collettivo una nuova percezione della paternità, maternità, figliolanza, sviluppano attese e paure inedite, danno all'uomo un sentimento di onnipotenza. Se non è qui idoneo il termine di rivoluzione, difficilmente sapremmo dove potrebbe applicarsi. Il fatto è che la tecnica si pone come mediatrice di un desiderio umano fondamentale: quello di avere un figlio. È un desiderio sano e solido, non però un diritto che esibisca se stesso per farsi valere a ogni costo. Il desiderio lasciato a se stesso può raggiungere di fatto due esiti opposti, di cui da testimonianza la cronaca quotidiana. Essa parla due lingue completamente estranee, entrambe però lingue del desiderio assolutizzato: nessun figlio a nessun costo ( aborto ), e un figlio a ogni costo ( Fivet ). Sostenuta dalla tecnica, la logica del desiderio, se non è regolata da altri fattori, produce esiti contraddittori. Naturalmente è facile l'obiezione che, se l'attuale situazione delle tecniche e della loro efficacia è assai meno rosea di quanto si tende a far credere, si può congetturare con buone probabilità di azzeccarci che i progressi delle tecniche potranno rendere sempre più efficaci e con minimi sprechi la " fecondazione assistita ". Allo stato attuale comunque ignoriamo se e quando sarà possibile arrivare a un solo ciclo di " cura " e a un solo embrione prodotto e impiantato per ottenere un figlio in braccio. Ma il porsi in una situazione ideale in cui si da per acquisito che la tecnologia della Fivet ( acronimo di " fecondazione in vitro ed embryo transfer " ) abbia raggiunto un alto grado di efficacia e di compiutezza ha il vantaggio, se così si può dire, di far emergere con maggior forza i problemi insiti nella " fecondazione assistita ", a cominciare da quello del linguaggio. La sua costante e spesso intenzionale manipolazione, suggerita dallo scientismo, rinforzata dall'emergere di un'etica utilitaristica e ampiamente propagandata dai mezzi di comunicazione, costituisce la premessa di valutazioni e decisioni erronee. Opporsi alla manipolazione del linguaggio e ripristinare il suo corretto impiego concettuale costituisce un passo indispensabile per recuperare libertà per l'opinione pubblica e freschezza di giudizio non pilotato. Evitare le mistificazioni che provengono dall'impiego artefatto del linguaggio è in realtà una grande battaglia di civiltà. In questo spirito riterrei necessario eliminare i termini in vario modo ingannevoli di " fecondazione assistita " e di " procreazione assistita ", che viceversa sono tuttora assai impiegati nel trasmettere all'opinione pubblica un modo non corretto di percepire il problema. Nella sua fredda oggettività il termine Fivet descrive meglio il processo e poco si presta a manipolazioni: esso dice appunto che il procedimento crea artificialmente o in provetta un embrione umano, che successivamente viene trasferito meccanicamente nel grembo della futura madre. Ancor meno ingannevole è il termine acronimo inglese " ART " ( Artificial Reproduction Technique ) perché dichiara che siamo di fronte a una tecnica di riproduzione artificiale. Sufficientemente parlante è pure il termine " tecniche di fecondazione/generazione extracorporea ". Riterrei invece decisamente da evitare la dizione, peraltro molto usata, di " procreazione assistita " : non siamo infatti di fronte alla procreazione per unione fra due persone di sesso diverso e conseguente gestazione nel grembo materno, ma a qualcosa di qualitativamente differente, nonostante l'identico sbocco dei due processi che sfociano nella nascita del bambino. La differenza qualitativa sorge dalla considerazione di che cosa significhi " assistere ": là dove vi è realmente assistenza, il soggetto assistito opera come soggetto primo, autonomo e iniziante di un processo vitale, che non gli viene sottratto nelle sue naturali modalità, mentre l'assistenza si limita a coadiuvare. Nella cosiddetta fecondazione assistita invece i " tecnoioghi della provetta " si sostituiscono ai due soggetti, i futuri padre e madre. Là dove vi è sostituzione, non può più parlarsi di assistenza, in quanto la Fivet è attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell'intervento. Essa affida la vita e l'identità dell'embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull'origine e sul destino della persona umana. Se dunque nel termine " fecondazione assistita " è l'aggettivo a fare problema, in quello di procreazione assistita lo fanno tanto il sostantivo quanto l'aggettivo. Si aggiunga che nella massima parte dei casi la generazione artificiale extracorporea non è attualmente una terapia in senso proprio, poiché se è vero che riesce generalmente a mettere a disposizione l'effetto desiderato ( il figlio ), non interviene sulle cause, ossia non cura i soggetti sterili che rimangono tali e non vengono liberati dalla loro patologia. E che dire di coloro che mettono a disposizione il loro seme a fini di fecondazione eterologa, e che si disinteressano totalmente dei loro figli, perché tali sono gli embrioni prodotti, compresi quelli congelati? Il confuso e manipolato lessico finora invalso li chiama " donatori ". Ma essi non donano un bel niente. Mettono a disposizione qualcosa che in natura è in genere sovrabbondante, ossia il seme/sperma umano; ma lo rendono disponibile in maniera dissociata, separando il momento della fecondazione da quello in sé fondamentale dell'incontro dell'uomo e della donna in un atto che non è solo biologico ma coinvolge tutto il dinamismo personale e interpersonale della procreazione umana. Di per sé il dono è un atto personale, libero, intenzionale, rivolto a qualcuno che ci sta dinanzi e di cui vediamo il volto. Il supposto " donatore " di seme è altra cosa: egli fornisce sperma come un oggetto a qualcuno che è per lui sconosciuto, una x. Probabilmente il termine donatore è un'estrapolazione impropria di fenomeni chimici all'ambito della generazione. In chimica si chiama donatore un elemento capace di cedere a un altro qualcosa come un atomo o un raggruppamento atomico: ad esempio è donatore di idrogeno un composto capace di cedere idrogeno ad altro composto che funziona da " accettore ". Si intende immediatamente quale equivoco vi sia nell'estendere alla generazione umana extracorporea il linguaggio della chimica: significa appunto disumanizzarla e riportarla pienamente nell'area della oggettivazione scientifica e della produzione tecnica. Non pare dunque scenario inventato la previsione che i successi della scienza e la fiducia in essa che facilmente producono, uniti alla mentalità eugenetica che va prendendo piede, conducano a ritenere che la vera e sicura generazione sia quella interamente artificiale, non più il naturale concepimento seguito da gravidanza. Si perverrebbe allora alla realizzazione del sogno faustiano della produzione artificiale dell'uomo, descritto oltre due secoli fa da Goethe nel Faust. Se Darwin credeva che l'uomo fosse stato " creato dagli animali " nel senso che provenisse da essi, oggi ci incamminiamo a credere che l'uomo futuro sarà prodotto dai tecnologhi. Faust e Wagner hanno prevalso su Darwin. Con la nuova posizione l'intero ambito di quel che era appropriato chiamare " procreazione umana " cambia nettamente e, uscendo dall'area del procreare, entra in quella del fare, del produrre tecnico. Contestualmente nasce una nuova industria: l'industria altamente tecnologica della fecondazione extracorporea che, come ogni industria, è soggetta a fattori ben noti: il profitto, la legge della domanda-offerta, la pubblicità, la concorrenza, il mercato, la sollecitazione al consumo, ecc., dove l'affare ( il business ) è appunto produrre bambini e costruire artificialmente famiglie. Con il cambiamento detto si opera una transizione per cui " essere qualcuno " si muta in " essere qualcosa ". A nessuno sfugge la problematica concezione sottostante e i seri rischi che le sono connessi, dipendenti in ultima istanza dalla fuoriuscita del delicato evento della procreazione umana dall'ambito del rapporto naturale fra uomo e donna per entrare in quello della produzione tecnica. Il congelamento dell'embrione umano. Uno degli aspetti più inquietanti della Fivet non è solo l'inclinazione quasi irresistibile alla eugenetica che essa comporta; consiste nel fatto che si finisce per negare all'embrione ogni diritto. Esso diventa res nullius, cui si infligge la " pena " violenta del congelamento. Ma l'indisponibilità dell'embrione umano richiede che nessuna violenza sia esercitata nei suoi confronti, fra cui appunto quella inapparente ma non per questo meno insidiosa e profonda, di congelarlo. Con questo metodo il soggetto adulto si arroga un potere arbitrario e mostruoso: quello di bloccare la crescita naturale dell'embrione, impedendogli di svilupparsi e di diventare feto e poi neonato. Sulla base di quale " diritto ", se non quello di considerare l'embrione umano o il concepito un " signor nessuno "? Molti di coloro che sostengono la liceità di manipolare e sopprimere l'embrione, affermano infatti che non si fa del male a " nessuno ". L'embrione umano, appunto, come nessuno. Il suo congelamento rappresenta una forma di negazione dell'alterità dell'altro. L'embrione congelato come nuovo schiavo moderno, reso tale dai nostri desideri e dalla nostra volontà di potenza. Riducendo l'embrione a nessuno, questi viene escluso dal criterio centrale e fondativo di ogni civile convivenza, raffigurabile nel principio del neminem laedere. Ma ciò non può che comportare conseguenze catastrofiche, poiché nelle società umane si può forse fare a meno per qualche tempo di un criterio di giustizia distributiva, non invece in alcun modo della garanzia del neminem laedere che non trae la sua validità dal consenso, e tolta la quale non vi si da più alcuna forma di società civile. Una biopolitica degna di questo nome, chiamata a non derogare al rispetto rigoroso del criterio del neminem laedere, non può che garantire adeguata protezione all'embrione come essere umano appartenente alla specie umana. 6. Bio-giuridica: sul cammino dei diritti umani Il valore e la portata del " principio-persona " come qualcosa di originale e primitivo, la cui chiarificazione è di pertinenza della metafisica, devono passare dal momento ontologico a quello giuridico-politico per ricevervi riconoscimento e sostegno, alla luce di un intendimento adeguato dell'uguaglianza umana. Si tratta di un cammino mai finito, di cui anzi ad ogni svolta si scoprono nuovi aspetti. Nella Dichiarazione di Indipendenza americana ( 4 luglio 1776 ) leggiamo: " tutti gli uomini sono creati uguali ". Proposizione valida, ma allora falsificata dal fatto che africani, schiavi, donne, le parti deboli della società del tempo, ne erano esclusi. Due secoli dopo la validità ideale è diventata reale e i diritti di quelle categorie riconosciuti. Il sentiero dei diritti va nel senso di riconoscerli a tutti gli esseri umani, estendendo la loro fruizione a coloro che in un certo momento ne erano privi perché deboli, inapparenti o ritenuti inferiori. Entro questo cammino si pone la legge 40 sulla " fecondazione assistita ", varata dal Parlamento italiano nel febbraio del 2004, che riconosce parità di diritti fra il concepito e l'adulto. Il sentiero della libertà e dell'uguaglianza passa attraverso un crescente godimento di diritti per tutti gli esseri umani. Il futuro della civiltà si misura in rapporto al reale rispetto dell'altro che è debole e inapparente. L'abolizione della schiavitù è stato un grande passo in avanti; oggi ci attende quello di rispettare il concepito attribuendogli una sostanziale intangibilità e riconoscendogli la pienezza del diritto alla vita. Civiltà giuridica è stare dalla parte del più debole, di colui che non può prendere la parola e autorappresentarsi, di colui che è nelle nostre mani, spesso rapaci, e da cui si attende rispetto e tutela. Nei confronti di tale posizione si eleva un'obiezione frequente e che all'incirca suona: non possiamo con leggi dello Stato ridurre troppo lo spazio di ciò che è legalmente lecito, che si estende fra quanto è legalmente obbligatorio e quanto è vietato. " Nello spazio di quanto è legalmente lecito debbono invece poter ricadere azioni che sono moralmente riprovevoli secondo una certa etica e moralmente ammissibili secondo un'altra, in base a principi pur sempre ragionali ( è questo il senso non banale del pluralismo e della tolleranza, che non si identificano con un rozzo relativismo etico ) ". Agazzi non nega che l'ordinamento giuridico debba rispettare alcuni principi etici fondamentali, e come tali assoluti e inderogabili, ma ritiene che il rispetto della vita umana sia derogabile in base a ragioni adeguate, ed assume che in una società pluralista la legge debba corrispondere " il più possibile all'effettivo stato della coscienza morale della società entro cui viene emanata ". Una soluzione scivolosa che, nonostante il tentativo di evitare il relativismo a parole, compromette, quando sia fatta valere nei confronti della vita e del corrispondente diritto, la natura della vita sociale, e il compito della legge e dello Stato. Su questioni di tanto rilievo il loro compito non è quello di trovare una media aritmetica fra le varie posizioni, ma di garantire i diritti fondamentali dell'uomo, fra cui quello alla vita. Quando ci sono di mezzo i diritti dell'uomo, il compito essenziale dello Stato è di proteggerli, di garantire il meglio possibile il criterio cardinale del neminem laedere, violato il quale non sussiste più alcuna società civile. Questo principio non può essere messo ai voti o soggetto a referendum, e neanche quello dell'uguaglianza umana. 7. Conclusioni Le scoperte della genetica e della biologia entrano profondamente nell'esistenza e ci costringono a rinnovare la nostra esperienza fondamentale. Per lunghe epoche gli estremi dell'esistenza sono stati segnati dal nascere e dal morire. Ormai questo non è più vero: gli estremi dell'esistenza sono il concepimento e la morte, e il campo di realtà che si dischiude dinanzi a noi si è molto ampliato. Ancor più vero risulta il detto: nel principio la fine, ossia nell'origine sta scritto già molto dello sviluppo, del destino e del finire. Guardando dal lato della cultura, non sono sicuro che siamo sufficientemente attrezzati per intendere il nuovo campo, per ascoltare il messaggio che da qui proviene. Siamo fortemente influenzati dal modo di pensare tecnico e non da quello teoretico-contemplativo, cui in vario modo appartiene anche la scienza: il primo cerca di operare nella realtà e di produrre, l'altro di ascoltare e comprendere. La domanda sull'embrione risulta cruciale per la comprensione di noi stessi e della specie umana, ed entra a far parte dell'ingiunzione socratica a conoscere se stessi ( gnothi sauton ): io infatti ero un embrione. Chi sono io? Quando ho iniziato ad esistere? La crucialità delle domande va posta a confronto con lo svilupparsi di forme di aggressività nei confronti del concepito, ritenuto disponibile e alla nostra mercé. Dinanzi ad una simile posizione dovremmo arrestarci a riflettere, poiché l'embrione umano costituisce un caso serio in cui ne va della nostra condizione di uomini. 8. Annesso: Sull'anima In base alla dottrina ilemorfìca e alla filosofia dell'essere di ascendenza aristotelica e tomistica, dove vi è vita vi è anima, forma e automovimento che procede dall'interno. Alludendo all'anima umana come forma del corpo umano non ci impegniamo sul discorso della sua mortalità o immortalità. Neppure nella formula boeziana sulla persona vi è riferimento al tema dell'immortalità, che in prima battuta non è toccato. Per Aristotele l'anima è forma e atto di un corpo organico avente vita in potenza: " l'anima è forma del corpo naturale che ha la vita in potenza " ( De anima, 412 a 21 ). Il carattere essenziale dell'anima è di essere forma e di dare vita, di essere principio di vita e nel caso dell'uomo del sentire, dell'intendere e del volere. " Dei corpi naturali altri hanno vita, altri no: per vita intendo il fatto di nutrirsi da sé, di aumentare, di deperire " ( De anima, 412a 13es ). Il carattere essenziale e primario dell'anima è la vita, e di quella razionale la razionalità, non la coscienza come autocoscienza. Secondo un'interpretazione di Aristotele abbastanza diffusa, l'anima superiore contiene in sé quelle inferiori ( l'intellettiva contiene la vegetativa e la sensitiva ); in tal senso nell'embrione umano può essere presente l'anima intellettiva, la quale però esercita dapprima le sue funzioni minori, quella vegetativa e sensitiva. Per Tommaso l'anima è forma sostanziale del corpo, dotata nonostante la sua strettissima unione al corpo di alcune operazioni in cui non " comunica " interamente col corpo: " humana anima non est forma in materia corporali immersa, vel ab ea totaliter comprehensa, propter suam perfectionem. Et ideo nihil prohibet aliquam eius virtutem non esse corporis actum; quamvis anima secundum suam essentiam sit corporis forma " ( S. Th., I, q. 76, a. 1, ad 4m ). Di conseguenza l'intelletto non dipende intrinsecamente dal cervello, ma in modo cooperativo nel senso che il pensare della mente non può avvenire senza la cooperazione della sensazione. L'anima come forma sostanziale possiede delle facoltà che non sono ad essa identiche. Per l'Aquinate la mente non è la stessa cosa che l'anima: viene qui segnata una differenza radicale rispetto alla futura posizione cartesiana della mens sive anima. L'anima ( razionale ) si unisce al corpo come forma e non solo come motore, e perciò essa è tutta in tutto ed in ogni singola parte ( cfr. S. Th., I, q. 76, a. 8 ). Il criterio tomistico sull'anima si colloca all'opposto del principio cartesiano, secondo cui l'anima è fondamentalmente autonoma e separata dal corpo, cui ben poco contribuisce. Nelle posizioni di Aristotele e di Tommaso l'anima è principio di vita, il che riconduce a considerare come assolutamente centrale l'analisi dell'idea di vita. In rapporto a ciò non sottovaluterei la pista della neurobiologia della mente, tema che può alludere alla stretta unità " classica " fra anima e corpo e che potrebbe aprire la strada ad un concetto " vitalistìco " tanto dell'anima quanto del corpo, differente dall'idea di mente come computer e come processo calcolante, e aperto invece a impiegare al meglio l'idea di mente come vita. 9. Annesso: Sul pre-embrione Inizialmente il termine pre-embrione è stato usato da alcuni membri della European Science Foundation, che riuniti a Londra il 5/6 giugno 1985 hanno dato questa definizione: " Il termine embrione è stato tradizionalmente usato per lo stadio raggiunto nello sviluppo dove l'organogenesi ha incominciato a mostrare la stria primitiva e la certezza che da questo momento si sta sviluppando l'individuo singolo, piuttosto che, per esempio, due gemelli. Il nome pre-embrione descrive il gruppo di cellule ( cluster of cells ) precedenti la comparsa della stria primitiva. Il pre-embrione è invisibile a occhio nudo ". Come si nota il termine ha valore descrittivo di un periodo di sviluppo biologico, anche se parlare oggi di occhio nudo diviene un'espressione di poco senso, dal momento che ormai esistono le indagini elettroniche. Un esempio emblematico della manipolazione semantica al fine di modificare la percezione della realtà da parte dei cittadini proviene dal Rapporto che la Commissione Warnock ha prodotto nel 1984 ( Great Britain, Wamock Committee, Report of inquiry info human fertilization and embriology, Her Majesty's Stationery Office, London 1984 ). Questa Commissione istituita dal governo britannico per rispondere ai problemi sollevati dalla fecondazione extracorporea e in particolare dagli embrioni in vitro, ha suscitato un vivace dibattito con la tesi della frattura tra disponibilità/non disponibilità dell'essere umano individuato nello sviluppo dello zigote. Nel rapporto si sostiene la liceità a disporre dell'embrione per sperimentazioni scientifiche entro i primi 14 giorni dalla fecondazione in vitro. Quanto all'aspetto scientifico il testo afferma sorprendentemente: " Una volta avvenuta la fecondazione, i successivi processi di sviluppo si susseguono l'uno all'altro in ordine sistematico, conducendo attraverso la segmentazione mitotica dall'ovulo fecondato alla morula, la blastocisti, lo sviluppo del disco embrionale e poi verso le caratteristiche identificabili dentro il disco embrionale come la stria primitiva, la cresta neuronale e il canale neuronaie. Una volta che il processo ha avuto inizio, non vi è un momento più importante di un altro; sono tutti momenti di un processo ininterrotto, e ogni ulteriore sviluppo cesserà a meno che ogni fase avvenga in modo normale, al momento giusto, e nella corretta sequenza ". Ma allora perché la frattura del 14° giorno? Il Rapporto riconosce di aver posto un limite " per alleviare la preoccupazione dell'opinione pubblica " e " dare agli scienziati il tempo necessario e pubblicamente accettabile per proseguire la ricerca sull'embrione ". Capitolo quinto - Cambiare la natura umana? Biotecnologie e questione antropologica " Naturarti expelles furca, tamen usque recurret". Orazio "L'uomo, non il superuomo, sia il fine". H. Jonas 1. La questione antropologica Sull'idea di natura umana, piatto ghiotto per il filosofo, s'addensano innumerevoli dibattiti, resi ancor più delicati dall'interrogativo su che cosa essa significhi e se sia possibile cambiare la natura umana. Intervenendo sull'uomo in maniera influente ma per molti aspetti ancora ignota quanto agli esiti e alle conseguenze, le biotecnologie postulano un'adeguata conoscenza di chi sia l'uomo e di che cosa egli abbia soprattutto bisogno. Ma proprio questo essenziale elemento è divenuto problematico, anzi particolarmente arduo da inquadrare. La più alta e complessa controversia, da gran tempo in corso e che accende gli animi ovunque, è appunto la controversia sull'humanum, come si è ricordato nell'introduzione dove abbiamo citato un pensiero di Pascal. Questi, dopo aver messo da parte lo studio delle matematiche, credeva di trovare molti compagni nello studio dell'uomo: " Sbagliavo: sono meno ancora di quelli che studiano le matematiche ". Il crocevia dove scienza-tecnica e persona si incontrano è divenuto un incrocio problematico, nel quale le scienze cercano di trasmettere una nuova comprensione dell'umano. Ad un'attenta considerazione risulta che, a fronte di una grande varietà di saperi che si rivolgono ad aspetti dell'uomo - in particolare al corpo - si trova un grande vuoto quando si cerchi una considerazione interale dell'uomo. Nell'epoca dell'essor delle scienze umane di ogni tipo diventa ancor più vero dire che questi è un essere sconosciuto che deve sempre e nuovamente venire riscoperto. Larga parte della discussione morale e antropologica contemporanea scaturisce dagli sviluppi incalzanti delle scienze della vita e delle neuro-scienze. Ora tanto le prime che trovano un punto di elezione nella genetica e nella biologia molecolare, quanto le seconde sono nuclei meritevoli di particolare attenzione per i problemi antropologici che sgorgano dai due ambiti. Nel primo caso è in gioco la possibilità di pervenire, manipolando il genoma umano, ad una nuova forma dell'umano ( l'espressione è volutamente indeterminata perché siamo alle prese con reali dubbi sulle possibilità e gli esiti delle manipolazioni genetiche ), nell'altro emergono i problemi del funzionamento del cervello, dell'intelligenza artificiale, del rapporto fra mente e cervello ( identità, differenza? ) e quello non meno cruciale dell'anima e della psiche. Se in questo Capitolo ci dedicheremo al primo aspetto ciò è dovuto al fatto che mentre il dibattito sulle neuro-scienze è da tempo avviato, quello sulla natura umana e la genetica appare più decisivo e forse meno avanzato. L'indirizzo generale metodico sarà di comprendere quanto sta accadendo, evitando l'atteggiamento della paura come quello dell'entusiasmo: neque lugere, ncque rìdere sed intelligere. Per comprendere occorre aggiungere che il discorso sulle biotecnologie chiama in causa i saperi, in specie la filosofia. Quanto più avanza la scienza, tanto più indispensabile diventa la filosofia, oggi in specie una filosofia che si allontani dallo spensierato orientamento antiessenzialistico che predomina, sul quale osserva Jonas: " L'antiessenzialismo della teoria dominante che conosce solo i risultati defacto della casualità evoluzionistica e non conosce alcuna essenza valida, che li possa sanzionare, affida il nostro essere a una libertà senza norme ". Il rifiuto apriorico delle essenze, equiparate a un suono ( flatus vocis ) senz'altro significato, è atteggiamento diffuso, che sconfina nel nichilismo. Abbiamo perciò estremo bisogno di un rinnovato sapere sulla natura dell'uomo e sul suo posto nell'universo. Dopo aver scelto il tema di questo Capitolo, mi sono reso conto che col riferimento alla natura umana esso richiama quello di due notevoli saggi recenti di J. Habermas e di F. Fukuyama. Il titolo del primo suona: II futuro della natura umana e l'altro L'uomo al di là dell'uomo ( Rizzoli, Milano, 2003 ). L'evento conferma che nelle tecnologie della vita è in gioco il significato stesso di uomo e di natura umana, qualcosa che conceme l'autocomprensione del genere. Gli esiti collegati non potranno non esercitare un profondo e per ora poco prevedibile influsso sulla politica: è possibile che le conseguenze dell'impiego delle biotecnologie siano ben superiori a quelle accadute col crollo del muro di Berlino. Negli approcci di Habermas e Fukuyama, nati in contesti culturali diversi e avendo alle spalle prospettive filosofiche e antropologiche forse lontane, la domanda centrale suona all'incirca: il concetto di natura umana che si ritiene rilevante tollera o meno che l'uomo sia costruibile e dunque manipolabile entro confini volta a volta determinati? Tale questione ne introduce un'altra che non sempre emerge in maniera diretta ma che influisce sull'intero dibattito: è possibile cambiare la natura umana? Desidero attirare l'attenzione sul fatto che essa di per sé solleva una questione di possibilità ontologica, non di liceità morale. La domanda, se è imposta dalle applicazioni biotecnologiche all'ambito delicato e antropologicamente geloso dell'embrione, della fecondazione extracorporea, dell'intervento sul genoma umano, genera problemi di alta complessità per il cui schiarimento sembra impossibile non ricorrere alla riflessione sull'uomo e al concetto di natura umana. Nell' 800 si era ancora persuasi di ciò e di conseguenza il filosofo morale responsabile componeva trattati di antropologia in ausilio della scienza morale e della politica. Con l'ingresso del nichilismo speculativo, di cui costituisce una manifestazione l'essor del pensiero debole, non si ritengono più possibili risposte filosofiche solide ai temi della vita buona, della natura umana, di un'etica sostantiva e non soltanto procedurale e formale. Un " debolista " di classe quale è J. Habermas cerca da almeno vent'anni di promuovere questa prospettiva che implica una diversa autocomprensione dell'uomo e della filosofia: " Oggi, superata la metafisica, la filosofia non crede più in risposte vincolanti sulle questioni della condotta di vita, personale e collettiva che sia ". La filosofia " si limita a indagare le caratteristiche formali dei processi di autocomprensione, facendo astrazione dai loro contenuti. Certo tutto questo può sembrare deludente. Ma che obiezioni potremmo mai sollevare contro questa astensione ben giustificata? ". Dinanzi a questa corriva rinuncia - cui curiosamente contravviene Habermas stesso che di fatto nelle pagine successive difende posizioni sostantive - si fa più chiaro che le questioni sollevate dalle biotecnologie richiedono di porre nuovamente la domanda sulla natura umana, senza risparmiarci alcune necessario spese intellettuali. La riflessione scientifica e filosofica farlo: anzi sussistono al presente obiezioni così forti contro tale concetto che potrebbe forse convenire chiudere il dossier e allontanarci in silenzio. E perciò ancor più significativo che Habermas e Fukuyama lo richiamino in servizio, il primo già nel titolo: ma con quali modalità? Qui le vie tendono a divergere; per rendercene conto è opportuno ripercorrerle in modo succinto. Successivamente svolgeremo qualche spunto sulla natura umana, adottando una riflessione ontologica sull'uomo, non un cammino di antropologia filosofica. I due approcci risultano notevolmente diversi. La riflessione ontologica è più sobria, incisiva, capace di stabilire i limiti - molto vasti - entro cui si muove la complessità dell'uomo, mentre l'antropologia filosofica è disciplina dallo statuto alquanto incerto e ondivago. Socrate e i suoi molti successori erano interessati all'uomo, non all'antropologia filosofica, ambito novecentesco che può esibire caratteri variabili dal conservatorismo al progressismo, e che è spesso connesso a filosofie della storia altrettanto diversificate. Di gran lunga precedente all'antropologia filosofica, la riflessione ontologica sulla natura umana non nutre nostalgie dell'uno o dell'altro tipo. Standosene all' " oggetto " essa apre il significato di che cosa sia esser uomo e quali siano le sue possibilità, quale sia l'umanità dell'uomo. Tenta di rispondere alla domanda: che cosa fa dell'uomo un uomo? Quanto manca alla bioetica è proprio questa riflessione che - individuando nell'umano il " fondamentale " e lo " storico " e percependo che le quasi illimitate manifestazioni storiche dell'umano sono possibili solo entro i limiti di campo stabiliti dal fondamentale - può delineare i tratti comuni e universali dell'uomo, ossia costanti antropologiche e inclinazioni umane basali che fluiscono dalla natura umana e che stabiliscono il confine fra ciò che è umano e quanto umano non è. 2. Habermas: un approccio etico per stabilire il futuro della natura umana Esula dai miei scopi l'esposizione compiuta delle posizioni di Habermas: ci concentreremo sui due casi, cui egli destina adeguato spazio, costituiti dalla diagnosi di preimpianto sull'embrione e dagli interventi di modificazione del genoma. Essi aprono scenari nuovi la cui rilevanza morale " oltrepassa ampiamente la sostanza delle tradizionali questioni politiche " ( p. 19 ), e richiede attenti e lenti processi di rischiaramento normativo sottratti alle pressioni degli interessi e delle preferenze. Questi viceversa pesano per l'autore in un'eugenetica liberale che " trascurando ogni differenza fra interventi terapeutici e interventi migliorativi rimette alle preferenze individuali degli utenti del mercato il compito di definire gli obiettivi degli interventi correttivi " ( p. 22 ). Nel caso del test preimpianto sull'embrione l'autore chiede se sia compatibile con la dignità della vita umana l'essere generato con riserva, cioè giudicato degno di vita e di sviluppo, oppure no, in base agli esiti di una prova genetica. Nel caso della manipolazione genetica si domanda se essa non tocchi la stessa identità di genere, e non intacchi la distinzione fra ciò che è spontaneamente cresciuto e ciò che è prodotto tecnicamente. Dalle due questioni emergono altre fondamentali domande, ossia 1) se l'insieme di questi processi non cambi la nostra comprensione etica del genere; 2) se la conoscenza expost della programmazione genetica del proprio patrimonio ereditario effettuata da altri non riduca gli spazi creativi della propria autonomia individuale negando al soggetto di considerarsi l'autore indiviso della propria vita, e comprometta le relazioni idealmente simmetriche fra persone libere e uguali. " Stiamo chiedendoci se possiamo giustificare la tutela di predisposizioni genetiche integre, non manipolate, facendo appello alla indisponibilità dei fondamenti biologici della nostra identità personale. La tutela giuridica potrebbe trovare espressione in una sorta di " diritto a un patrimonio genetico non compromesso da interventi artificiali ". Un diritto che è già stato proposto dal Consiglio di Europa e che non pregiudicherebbe affatto la liceità di una eugenetica negativa fondata in sede terapeutica " ( p. 29 ). Secondo l'autore l'ingegneria genetica potrebbe " modificare la nostra autocomprensione di 'esseri di genere', nel senso che essa potrebbe intaccare, assieme alle moderne concezioni del diritto e della morale, anche i non aggirabili fondamenti normativi dell'integrazione sociale " ( p. 29 ). Conseguentemente egli fa appello all'indisponibilità dei fondamenti biologici della nostra identità personale. Perciò la strumentalizzazione della vita embrionale - quale emerge nell'idea che il nuovo concepito è generato con riserva e ammesso alla vita dopo un test genetico - " mette a rischio quella autocomprensione etica del genere che è discriminante per poter decidere, anche rispetto al futuro, se noi vogliamo continuare a intenderci come esseri che agiscono e giudicano in termini morali " ( p. 71 ). Col riferimento " alle moderne concezioni del diritto e della morale " fanno ingresso due grandi domande: quella sull'idoneità del solo diritto positivo a valere come metodo di regolazione sociale, e quella se esso sia in grado di esercitare un governo efficace della tecnica e della volontà di potenza che vi si può manifestare. Tali questioni sono in Il futuro della natura umana appena accennate; il loro obiettivo rilievo induce a tentarne una prima elaborazione, come faremo nell'Annesso. In genere un grave problema soggiacente è se sia lecito cambiare il mix finora vigente di naturale e di volontario, spostando il confine fra caso e decisione; e di rischiare nel test preimpianto, " la strumentalizzazione di una vita umana - generata con riserva - rispetto alle preferenze e agli orientamenti di valore nutriti da terzi " ( p. 33 ). Ciò violerebbe per Habermas l'obbligo reciproco che gli uomini come membri di una comunità morale si danno vicendevolmente, obbligandosi l'un l'altro e accettando una simmetria di relazioni. In altre parole gli esseri umani non sono individualizzati solo dalle sequenze del DNA ma pure dal processo di socializzazione: " Solo nella sfera pubblica di una comunità linguistica, l'essere di natura si costituisce come individuo e come persona dotata di ragione " ( p. 37 ). La critica del liberalismo eugenetico da parte di Habermas non si indirizza alla valenza terapeutica delle biotecnologie, ma a quella programmatoria e decisoria di interventi " migliorativi ". Il perno dell'argomentazione risiede nel fatto che l'intervento migliorativo rischia di alterare quell'uguaglianza casuale della nascita cui tutti i cittadini devono l'inizio del loro esclusivo destino di socializzazione. Mantenendo giuridicamente indisponibile la casualità della nascita, i cittadini si garantiscono uguaglianza di accesso alla comunità ideale dei soggetti morali e alla comunità reale dei cittadini. La peculiarità del discorso habermasiano risiede nell'assunto che su piano morale - nonostante i vantaggi che le biotecnologie arrecano - non ci sono sufficienti motivi per pagare il prezzo alto che esse esigono. Egli ritiene che la grande spinta per un uso disinvolto della tecnica in ogni campo della vita, non esclusi i fondamenti biologico-genetici della specie umana, stia sollevando e debba sollevare una reazione riflessiva che si confronti con le nuove tecniche e individui nuclei umani indisponibili all'oggettivazione tecnologica. Egli chiede: " possiamo considerare l'autotrasformazione genetica della specie come un mezzo per accrescere l'autonomia individuale, oppure questa strada metterà a repentaglio l'autocomprensione normativa di persone che conducono la loro vita portandosi mutuo ed ugual rispetto? " ( p. 31 ). In Habermas assume speciale rilievo un'etica del genere che assume come primari i temi dell'uguaglianza e della reciprocità. Il problema dell'uguaglianza umana verrà infatti reso assai più acuto dalle pratiche prenatali tanto di prevenzione della nascita di un bambino tarato, quanto di eugenetica in cui si procede a selezionare e " migliorare " l'esito ( il bambino ). In effetti con la diagnosi pre-impianto sull'embrione, alcuni singoli si arrogano il diritto, che loro non compete, di stabilire che cosa è degno di vivere e che cosa no. Inoltre " Se si accetta come normale la generazione e l'impiego di embrioni ai fini della ricerca medica, si trasforma anche la percezione culturale della vita umana prenatale, con il risultato di rendere sempre meno affilato il sensorio morale che stabilisce i limiti entro cui far valere il calcolo " costi-benefici ". Oggi noi avvertiamo come oscena questa prassi di reificazione. Ci chiediamo anzi se vorremmo davvero vivere in una società in cui il rispetto narcisistico per le preferenze personali venga affermato al prezzo di un'insensibilità verso i fondamenti normativi e naturali della vita " ( p. 23 ). Il fatto è che l'alterazione, sia pure migliorativa, del genoma, e la programmazione eugenetica introducono nuove forme di disuguaglianza fra gli uomini. Conseguentemente l'autore suggerisce l'indisponibilità dei fondamenti genetici della nostra esistenza corporea ( p. 25 ), per cui sono possibili interventi " negativi " di tipo terapeutico e non interventi " positivi " di manipolazione e alterazione. Ciò presuppone una condizione naturale del genoma, e un recupero almeno parziale del concetto di natura umana, che l'autore opera differenziando in senso nettamente antistoricistico e antidebolistico natura ( umana ) e cultura, la prima universale e la seconda invece situata: " Non si tratta dunque della cultura che è in ogni luogo diversa, bensì dell'immagine che le diverse culture si fanno dell'uomo: di quell'uomo che è in ogni luogo identico a sé sul piano della universalità antropologica " ( p. 41 ). È notevole che l'assunto habermasiano vada in direzione opposta alle posizioni che intendono l'idea di natura come irrimediabilmente culturale e situata. La preservazione del genoma umano adombrata nelle posizioni suddette può essere considerata come un'istanza normativa di rispetto dell'essenza umana: essa introduce un dubbio fondato sulla possibilità di rispettare la dignità umana se accettiamo di manipolare le sue basi genetiche e biologiche. 3. Fukuyama: il tentativo " neoaristotelico " di ristabilire il concetto di natura umana In Our Posthuman Future ( trad. it. L'uomo oltre l'uomo, cui ci riferiremo ) Fukuyama elabora la sua prospettiva sulle biotecnologie, imperniandola attorno al concetto di natura umana che assume importanza reggente. Negli intenti dell'autore l'argomentazione vuole seguire il modello aristotelico di dissertazione in merito alle questioni di natura e di politica ( p. 21 ). Muovendosi in senso contrario all'antiessenzialismo prevalente, l'autore non rifiuta i concetti di natura umana e di diritto naturale: " La natura umana esiste, è un concetto pregnante e ci ha fornito un elemento di continuità nella nostra evoluzione come specie. Insieme alla religione, rappresenta ciò che definisce i nostri valori fondanti. La natura umana attribuisce la forma e stabilisce i confini dei tipi possibili di regime politico, quindi una tecnologia abbastanza potente da rimodellare ciò che siamo può dar luogo a conseguenze perniciose per la democrazia liberale e per la stessa natura della politica … Sebbene vi fossero forti divergenze fra chi cercava di definirla [ la natura umana ], nessuno contestò mai la sua importanza come fondamento dei diritti e della giustizia. Sostenitori del concetto di diritto naturale furono i padri fondatori degli Stati Uniti … Negli ultimi cento o duecento anni, però, tra gli intellettuali e gli accademici di filosofia questo concetto è caduto in disgrazia " ( p. 14 e p. 22 ). Oltre, Fukuyama allude al " pregiudizio contemporaneo contro il concetto di natura umana " ( p. 23 ), e alla possibilità che le biotecnologie ce la facciano perdere: " Ma in che cosa consiste questa essenza umana che potremmo rischiare di perdere? Per un fedele potrebbe essere un dono divino, la scintilla con cui nascono tutti gli esseri umani. Da un punto di vista laico, invece, si potrebbe trattare di qualcosa che appartiene alla natura, cioè le sue caratteristiche tipiche condivise da tutti gli esseri umani in quanto tali. In fin dei conti questa è la posta in gioco nella rivoluzione biotecnologica " ( p. 140 ), e con essa la stessa base del senso morale umano. La scelta metodica di non poter emarginare l'idea di natura umana merita una sottolineatura, anche in rapporto alla scelta diversa praticata sino a pochi anni fa dalla filosofia politica di un Rawls, di un Dworkin fondata su un approccio procedurale e contrattualistico. Esso, forse idoneo per i bisogni di un pensiero volto a problemi politici usuali, si manifesta in seria difficoltà nell'affrontare i dilemmi proposti dalle biotecnologie, che richiedono un ri-aggancio all'idea di natura e un allontanamento dalla prospettiva kantiana. Questa, in cui complessivamente si manifesta un rapporto disturbato con la natura, procedendo a separare natura e libertà, assume che l'etica opera realmente solo quando volontà e libertà si esprimono separatamente dalle inclinazioni della natura ( umana ). L'elaborazione filosofica dell'idea di natura umana non si spinge peraltro molto in là nelle pagine di Fukuyama, per cui il richiamo ad Aristotele appare forse sovradeterminato. Non vi è infatti ricorso all'analisi ilemorfica e alla categoria essenziale di forma, necessaria per stabilire il concetto di natura/essenza: la teoria darwiniana che nessuna specie è portatrice di un'essenza particolare significa appunto cancellare le forme specifiche. " La definizione di 'natura umana' cui farò riferimento in queste pagine è la seguente: la natura è la somma delle caratteristiche e dei comportamenti tipici della specie umana, originati da fattori genetici piuttosto che ambientali " ( p. 177 e s. ). In questo approccio orientale al gene e che con la tipicità chiama in causa la statistica, l'idea di natura umana in Fukuyama pare ricondursi ad una sommatoria di fattori certo notevoli ma che nella loro molteplicità e dispersione non sembrano in grado di designare l'essenza/natura, richiamando invece sue manifestazioni operative di vario genere. Impiegando la concettualità aristotelica, la determinazione di Fukuyama sembra includere tanto proprietà essenziali come il linguaggio, la razionalità, il senso morale, quanto proprietà accidentali come la statura, il peso, il colore della pelle, la maggiore o minore loquacità. Un'elaborazione più approfondita dell'idea di natura ( umana ) dovrebbe a mio parere richiamare in servizio le prospettive di Aristotele e di Tommaso, riprese dalle rispettive tradizioni, almeno secondo due direttrici: a) l'assunto secondo cui la natura è un'invariante che stabilisce i caratteri essenziali del genere umano, include un elevato grado di universalità e difende un carattere cui come uomini siamo legati, ossia che tutti partecipiamo a qualcosa di comune, di invariante, di metaculturale; b) l'idea di natura ( e di vita ) come principio immanente di autocostruzione e di automovimento. La seconda accezione sembra applicarsi validamente alle attuali scoperte genetiche dove il genoma appare come un codice interno di autocostruzione e di 'programmazione' dell'individuo, qualcosa che concerne il lato della 'forma' e che potrebbe favorire il superamento del paradigma deterministico. In effetti la struttura genetica dell'uomo rappresenta non una forma che ci determina in un solo modo ( determinano ad unum ), ma una forma che schiude un campo di possibilità, un ventaglio di linee aperte, e che verrà orientale e ulteriormente determinato dalla libera attività del soggetto. Non dunque un soggetto ricondotto al determinismo genetico di chi sostiene che noi siamo i nostri geni, gradino estremo di un processo riduzionistico che dapprima riduce l'uomo a corpo, e successivamente il corpo al genoma. Nonostante la diversità di linguaggio e di orizzonti di riferimento, vi sono somiglianze fra le posizioni di Habermas e quelle di Fukuyama, fra cui il mantenimento della differenza fra terapia genica ed eugenetica: la prima a scopo curativo, l'altra volta a interventi selezionanti, migliorativi e potenzianti. Entrambi si esprimono criticamente sull'eugenetica liberale, ossia su un impiego della genetica che conduca al superamento della differenza fra terapia e potenziamento, o che proceda a selezionare fra coloro cui si concede di continuare lo sviluppo e coloro che vengono soppressi. Concordo sul fatto che l'eugenetica " negativa " o terapeutica non possa venire giudicata sfavorevolmente: non vi è nulla di censurabile bensì di meritorio nel curare le malattie genetiche, a condizione che lo scopo terapeutico non proceda ad autoinvalidarsi mediante la violazione del principio per cui l'essere umano non può mai diventare mezzo per altro o altri. 4. La natura umana e l'impossibilità di cambiarla Sotto questo titolo affrontiamo una questione filosofica decisiva, il che significa moltiplicarne le difficoltà se si considera che l'orientamento delle scuole filosofiche contemporanee si unifica nella diffusa propensione scettica. La riflessione sulla natura umana non sfugge a tale temperie, di cui anzi sembra soffrire in modo particolare in quanto produce difficoltà teoretiche, che bloccano l'argomentazione razionale e finiscono per addossare le decisioni sulle biotecnologie alla scienza, alla politica, al diritto. È nelle biotecnologie problema scottante, sotteso ad ogni discussione su di esse ma spesso alluso solo di sbieco se sia possibile cambiare la natura umana. La modernità può essere letta in vari suoi aspetti come un tentativo di cambiare o andare contro inclinazioni fondamentali della natura umana: nel comunismo mediante l'abolizione della proprietà privata e nel tentativo di far prevalere la solidarietà di classe contro quella del gruppo familiare, nelle biotecnologie con l'intento di pervenire all'oltreuomo trasformando la natura umana. A questo crocevia si materializza l'interrogativo sulla trasformabilità dell'uomo, in merito al quale una risposta può essere trovata solo se le domande giuste sono state formulate. Ora sembra che perfino la domanda sia diventata difficile nel senso che l'idea di natura umana, che ha forti radici nel senso comune e che è poi elaborata filosoficamente, è diventata qualcosa di estraneo su cui l'accordo è raro e il disaccordo frequente: in larga parte della cultura scientifica e filosofica paiono mancare i presupposti minimi per poter impostare con speranza di successo l'argomento. D'altra parte la diffidenza contemporanea verso il concetto di natura umana non ha ragione di esistere, una volta che si è determinata la natura umana in modo adeguato tramite una determinazione essenziale capace di ospitare una grande varietà di comportamenti. L'uomo pratica il mestiere di cercatore e cacciatore delle essenze molto più frequentemente di quanto si pensi e - più curiosamente ancora - continuerà a praticarlo contro ogni invito scettico di smettere un tentativo considerato inutile, superato, sterile. Non verrà mai il tempo in cui non chiederemo più " che cosa è l'uomo? ". Una volta afferrata l'idea d'essenza, si percepisce che le essenze sono immutabili, " eterne ", non soggette alla presa della volontà di potenza e di trasformazione. Se l'uomo è un essere dotato di logos ( ragione e linguaggio ), se è un animai rationale, intuiamo agevolmente che sino a quando ci sarà l'uomo, egli avrà queste qualità essenziali; e che è del tutto impossibile trasformare l'uomo togliendogli tanto la ragione quanto il linguaggio. Che le essenze siano eterne e immutabili significa esattamente questa impossibilità, la quale rilancia però la domanda su che cosa nel soggetto umano è aperto alla trasformazione biotecnologica. All'indagine si aprono tre cammini. 1) Possiamo mutare un gran numero di elementi " accidentali ", ossia elementi che fanno parte dell'uomo, ma non ne stabiliscono l'essenza, quali sono la statura, il grado di intelligenza, il colore degli occhi, il sesso, la magrezza o la grossezza, la velocità dei movimenti, ecc. Dio mi guardi dal sostenere che accidentale significhi secondario e ininfluente! Un uomo privo di molte malattie di origine genetica e dotato di memoria acuta e di gradevole aspetto si trova avvantaggiato rispetto ad un altro senza tali proprietà. Molte qualità dunque che definiamo col linguaggio preciso della filosofia come accidentali, rivestono per noi e per gli altri massimo rilievo, ma il loro mutamento non provoca un cambiamento di natura, non produce una trasformazione sostanziale, cioè un cambiamento da un ente-sostanza a un altro ente-sostanza appartenente ad un diverso genere. Sostenere l'immutabilità delle nature non significa minimamente negare il mutamento, la trasformazione e il loro impatto sulla nostra vita, ma neanche significa accogliere l'idea che mutamenti di quantità a un certo momento si ribaltino in mutamenti di qualità, ossia di essenza. 2) Un'altra importante linea di argomentazione concerne il livello morale, dove l'intervento delle biotecnologie sull'uomo può generare una diversa sensibilità morale, non nel senso di mutare oggettivamente la linea che divide bene e male, ma di cambiarne la percezione che ne abbiamo, variando la nostra attenzione etica. Trasformazioni accidentali dell'uomo possono alterare il senso morale fondamentale che portiamo in noi, ossia accentuare, indebolire o colorare diversamente le inclinazioni basali inscritte in noi e che sono alla base della moralità. Ciò può accadere rinforzando alcune inclinazioni ( ad es. l'inclinazione a persistere nell'esistenza con l'allungamento della vita ) e indebolendone altre come l'inclinazione a conoscere la verità. Oltre al problema di acquisire conoscenza della eventuale relazione causale fra geni e inclinazioni, si pone quello di mantenere desto il maral sense, evitando che differenze indotte biotecnologicamente snaturino il senso di uguaglianza, di rispetto dell'altro, di desiderio di conoscenza, di sentimenti di giustizia, di pietas per il debole, che sono propri dell'uomo; in certo modo quella che Habermas chiama l'autocomprensione etica del genere. 3) Con trattamenti del genoma è possibile influire sulle relazioni umane e quelle sociali, modificando le differenze fra individui e cambiando la percezione che il soggetto ha di se stesso come singolo e nel rapporto con gli altri. Il fatto è che risulta possibile impiegare in modo ancipite le tecnologie genetiche, per aumentare le differenze oppure per diminuirle, per una politica razzista e antiegualitaria alla Nietzsche oppure per una politica egualitaria giacobina. Nel primo caso col ricorso all'eugenetica potenziante arriveremo finalmente a dare concretezza alla profezia nicciana dell' Ubermensch, finora sempre smentita, nella versione del superuomo genetico? E con l'altro arriveremo agli schiavi felici tutti uguali? L'influsso politico e sociale delle biotecnologie apre un campo immenso e per ora poco battuto, che si affianca a quello altrettanto delicato delle conseguenze morali delle trasformazioni biotecnologiche. Pur senza assumere che i soli mutamenti del soggetto siano dovuti alla linea genetica, nelle trasformazioni genetiche vi saranno geni la cui manipolazione condurrà a trasformazioni accidentali lievi dell'uomo; e altri geni la cui manipolazione produrrà trasformazioni accidentali profonde dell'uomo: pensiamo ipoteticamente a manipolazioni che incidano sulla forza della mente e le abilità cognitive, oppure sull'inclinazione sessuale. La plausibilità tecnica di queste prospettive rilancia il tema della loro liceità. L'aver stabilito che non si può cambiare la natura umana potrebbe avere l'esito paradossale del quietismo: non preoccupiamoci di come andranno le cose perché comunque avremo sempre a che fare con uomini, non potremo evadere dalla natura umana! Esito infausto in quanto se non possiamo cambiare l'essenza umana, diventa proprio allora acutissima la domanda sull'entità dell'intervento manipolativo " accidentale " che è lecito praticare. Poiché esso è l'unico alla nostra portata, ci interpella più che mai. Ed è su questi aspetti che ferve la battaglia bioetica, nel confronto fra posizioni libertarie permissive, posizioni che pongono limiti ricorrendo alla leva di un'etica della responsabilità anche collettiva, posizioni ispirate da una morale utilitaristica in cui il fine giustifica i mezzi, posizioni ontologiche che individuano nuclei indisponibili i quali non possano essere assoggettati al criterio dell'utile e della convenienza terapeutica per altri. Uno dei maggiori rischi dell'eugenetica liberale è la richiesta di allentare i controlli in favore dell'autonomia individuale, che spesso conduce al piano inclinato del " fai da te ", in cui potrebbe affermarsi l'idea che ogni trasformazione accidentale è lecita perché non muta la natura umana. In realtà molti altri fattori possono intervenire nella valutazione etica, legati al rapporto con gli altri e ai valori fondamentali che devono essere rispettati. Una trasformazione accidentale innocente sembra quella concernente l'aumento di statura. Eppure non può essere concessa senza beneficio di inventario perché soggetti differenziati in statura molto al di là delle normali differenze naturali possono dare origine a pericolose discriminazioni. Il gruppo di coloro che sono altissimi per manipolazione può sviluppare sentimenti di superiorità e di dominio verso gli altri e viceversa questi ultimi sentimenti di soggezione e al limite di sudditanza verso gli altri. Affermare " io sono mio e faccio di me quello che voglio " è un'espressione antisociale che le biotecnologie potrebbero rendere frequente. Tiriamo alcune somme del percorso intrapreso. L'essere umano è profondamente plastico, dotato di caratteri soggetti a mutamento: egli è una sorta di camaleonte della creazione. Non è però pienamente indeterminato, un essere al quale nulla sia proprio e specifico. Il fatto che egli sia tanto plastico ( ma non in-forme ) deriva dalla sua natura che è quella di un essere materiale e spirituale, di una persona: ed è ciò che assicura ad un tempo la sua plasticità e la sua fondamentale invarianza di essenza. Al di là dell'impossibilità di cambiare l'essenza umana rimane la possibilità di migliorare l'uomo, ossia certe sue qualità tanto fisiche quanto culturali e spirituali. Si aprono qui due strade che sommariamente chiamerei del miglioramento culturale e del miglioramento genetico ed eugenetico: la prima guarda verso l'umanesimo e si impernia sull'educazione e la coltivazione dell'uomo, ed è strada da sempre percorsa con esiti alterni ed oscillanti. La seconda è relativamente nuova e non sappiamo ancora come possa essere realizzata. Intravediamo la differenza fra disponibilità non manipolante del genoma a fini terapeutici e sua indisponibilità per operazioni di selezione eugenetica. Supponendo, come più di una volta è il caso, che esistano malattie genetiche ( siano esse monogeniche come la talassemia, ossia attribuibili all'alterazione di un solo gene, o plurigeniche ), non sussistono motivi per negare interventi terapeutici sul genoma, ossia interventi volti a restituire una normalità fisiologica di funzionamento. Ben diverso è l'intervento sul genoma a scopi eugenetici, fra cui quello di creare una sottoclasse d'individui umani dotati di caratteristiche genetiche e fisiche superiori a quelle di altri. Dunque una manipolazione volta non a restituire una normalità, ma a creare una differenza. 5. Persona e unità dell'uomo L'analisi svolta ha chiamato in causa il concetto di natura umana, lasciando però nello sfondo quello di persona e la domanda sull'unità dell'uomo, su cui un richiamo appare ora necessario, dal momento che le trattazioni antropologiche e morali sulle biotecnologie sembrano dimenticarli o comunque assumere come allant de soi la completa separabilità fra corpo e anima. Questa separabilità induce a trascurare l'indagine concernente i riflessi della manipolazione corporea sulla vita della psiche. In proposito una visione antropologica semplificata diventa un via libera etico ad intervenire sull'uomo, ponendosi come un'autorizzazione al dominio delle biotecnologie sulla dimensione corporea. Chi è l'uomo e che cosa la persona? Su questi temi la storia della filosofia ha percorso un cammino di progresso dai Greci a noi, in cui centrale è stato l'apporto della riflessione biblico-cristiana. Infatti nella nota definizione aristotelica che suona: homo est animal rationale ( Zoon logon echon ), l'uomo è definito mediante il genere prossimo e la differenza specifica, in una maniera che non rende pienamente ragione della sua originalità e non-assimilabilità ad elemento del cosmo. Dopo l'avvento del cristianesimo incontriamo in Boezio la prima decisiva determinazione della persona: rationalis naturae individua substantia. Aristotele definisce l'uomo mediante il riferimento alla sua natura/essenza, Boezio la persona nella sua sostanzialità spirituale, ossia nella sua identità metafisica inoltrepassabile, come qualcosa di originale e di irriducibile, al cosmo. Tuttavia le due determinazioni si collegano nel senso che la prima incammina verso la seconda, poiché è proprio della natura umana individuata in un singolo l'essere persona. Ogni essere che è dotato di natura umana e appartiene per la sua dotazione genetica al genere umano è per ciò stesso persona. Nonostante le rielaborazioni, gli opportuni approfondimenti e le critiche più o meno pertinenti cui è stata sottoposta, la determinazione boeziana si pone come un punto di svolta nella storia universale della filosofia e come un riferimento imprescindibile: con essa il grandioso tema della persona, introdotto per sempre nella cultura, continuerà a dare i suoi frutti e a compiere il suo percorso nella storia universale. Un cammino che è ancora al suo inizio, se si pone mente alle aree di civiltà ancora alquanto ristrette in cui è riconosciuto il " principio-persona ". Numerosi spazi geoculturali solo recentemente cominciano ad incontrarlo, sì che esso celebrerà la sua fecondità quando sarà riconosciuto universalmente, oltre il mondo storico in cui prese forma. Se vogliamo evitare espressioni vuote, parlare di dignità della persona significa che l'uomo ha valore, che non si riduce a cosa. Ciò induce a cercare Virréductible dans l'homme, ossia ciò che è originariamente e fondamentalmente umano, [ di ] ciò che costituisce l'originalità piena dell'uomo nel mondo … Irréductible significa anche tutto ciò che nell'uomo è invisibile, che è totalmente interiore, e per cui ogni uomo è come il testimone evidente di se stesso, della propria umanità e della propria persona ". Le posizioni personaliste affermano appunto che nell'uomo vi è qualcosa di irriducibile alla natura cosmica: l'uomo non è un oggetto del mondo, ma un ente dotato di autocomprensione ed esperienza di sé come eventi spirituali. Il personalismo si colloca agli antipodi del recente radicalismo antropologico, che prima mette da parte l'idea di persona e poi quella di natura/essenza umana, per approdare all'uomo come prodotto del caso. Una volta acquisito che la dignità di fine dell'individuo umano è salvaguardata se questo è persona, ossia una totalità concreta, un tutto che non è subordinato alla specie, e non vale perciò solo come un transitorio punto di addensamento dei rapporti sociali, rimane aperta la domanda sulla " incisività antropologica " delle biotecnologie dal punto di vista della retroazione sullo " psichico " dell'intervento sul corporeo. Difficile questione, che non sembra poter ricevere risposta adeguata se non si prende in conto un'antropologia unitaria, in cui cioè l'uomo esiste come essere unitario, come un tutto, corpore et anima unus. Molto dubbio appare l'assunto secondo cui sarebbe possibile intervenire quasi illimitatamente sulla corporeità umana quasi che essa non facesse parte della persona e il corpo fosse un indifferente, qualcosa che può venire affidato senza problemi alla tecnica, e la cui manipolazione risulterebbe senza effetti sulla persona. Se questa è tale nell'unità dell'anima e del corpo, la considerazione antropologica dovrà prendere le distanze dal dualismo cartesiano fra res extensa e res cogitans che spesso è il presupposto del modello di uomo che le biotecnologie presuppongono, quando non sia invece uno schietto monismo materialistico. Una corporeità separata dalla persona e analizzata in vitro non è più portatrice di senso e finisce nel meccanicismo. Analogamente deve dirsi per la complessa sfera della sessualità umana che rimane incompresa nel dualismo e nel monismo. Tali inconvenienti non sono facilmente aggirabili muovendosi solo sul piano di un'argomentazione morale, che intenda allontanare i rischi delle biotecnologie ricorrendo all'etica del genere. 6. Digressione sui rischi del " riduzionismo contenutistico " Assumo come provato che le scienze, cercando leggi e regolarità per singoli ambiti del cosmo, costruiscono modelli semplificati, in cui cioè alcuni fattori non vengono considerati per evitare un'ingovernabile complessità del problema, e che pertanto risultano validi entro certi limiti: si tratta del riduzionismo che chiamerò metodologico, nel senso che alcuni fattori sono " ridotti " ossia semplificati o tralasciati. Costruendo legittimamente modelli di realtà in cui entrano un ristretto numero di variabili, le scienze dovrebbero essere consapevoli dei limiti del metodo che adottano. Quando ciò non accade, spunta una seconda forma, pericolosa, di riduzionismo, quella contenutistica che presenta due versioni. Nella prima ciò che è stato tralasciato sul piano metodologico volto a gestire la complessità, viene considerato ontologicamente inesistente o irrilevante; nell'altra si cerca di riportare altri livelli di realtà solo al livello empiricamente accessibile alle singole scienze. Nel problema antropologico il riduzionismo di secondo tipo significa che, scoperto un nuovo campo di indagine e le relative verità e spiegazioni, si cerca di riportare o ridurre ad esse senza residui l'uomo. A titolo di esempio cito il riduzionismo genetico: accadono importanti scoperte genetiche e puntualmente si presenta il tentativo di spiegare tutto con i geni ( analogamente nel campo delle neuroscienze ). Si può però domandare: siamo solo l'insieme dei nostri geni? O l'insieme delle nostre sinapsi? Il riduzionismo contenutistico avanza l'idea secondo cui " una realtà x è null'altro che … "; spesso la riduzione è effettuata nel senso di riportare senza residui il superiore all'inferiore, ad es. la mente al cervello entro l'assunto apriorico che la realtà dell'uomo è null'altro che materia organizzata in vari modi e in vari modi manipolabile. In genere il limite di tale riduzionismo è di considerare inesistente quanto è inconoscibile mediante l'accertamento empirico, dimenticando l'imperfezione dei modelli e il fatto che essi riguardano parametri misurabili che non hanno presa su ciò che non è empirico. Al riduzionismo contenutistico si può addebitare il difetto di non saper fronteggiare la sfida della complessità, l'illusione di aver risolto i problemi quando essi sono stati appena scalfiti. La riduzione della qualità a quantità, delle differenze di essenza a differenze di grado ( intensamente praticata dalle scuole empiristiche ), dell'intellettuale-spirituale al corporeo, del non-necessario e contingente al deterministico risultano modalità frequenti di riduzionismo. Spesso tale approccio esamina un fattore per volta, ritenendo senza giustificati motivi che l'intero risulterà dalla somma dei vari fattori, senza considerare che l'interrelazione non la consente. I sensi umani presi uno ad uno probabilmente funzionano similmente a quelli di un cavallo, ma l'uomo non è un cavallo perché i suoi sensi operano in sinergia con l'intelligenza. Ad un certo impiego dell'ingegneria genetica è immanente un conflitto preoccupante: da un lato si assegnano al tecnico o ai genitori grandi possibilità di scelta nei confronti del futuro nato, ma tali scelte tendono oggettivamente a ridurre per lui le contingenze e il ventaglio delle possibilità, di modo che si dà proporzione diretta fra mutamento delle caratteristiche individuali e riduzione dello spazio del possibile. Ne sussistono elementi apriorici per stabilire che la sostituzione del casuale col pianificato sia la soluzione ottimale, in particolare a livello di genere. Una volta che si sia ammessa una qualche forma di autoplasmabilità dell'io, rimane come grande domanda l'invenzione di un giusto mezzo fra fissismo genetico e illimitata modificabilità genetica.8 7. Epilogo 1) Due domande ci hanno accompagnato lungo il capitolo, la prima espressamente formulata, la seconda rimasta nello sfondo: possiamo cambiare la natura umana? Abbiamo il diritto di cambiarla? La risposta è negativa in entrambi i casi, e il no alla prima non deve far scomparire i motivi del no alla seconda: anche se fosse possibile cambiare la natura umana non sarebbe lecito farlo, per le inaccettabili discriminazioni che ciò comporterebbe. Naturalmente diversa è la questione quando si tratta di interventi terapeutici. 2) Secondo Paul Valéry " Atene è la scoperta dell'individuo, Roma la creazione del cittadino, Gerusalemme la rivelazione della persona ". In vario modo le tre città storico-mondiali hanno favorito il rispetto della persona nella sua integrità, inviolabilità e " non-patrimonialità ", ossia nel suo carattere non-mercantile o commerciale. Le biotecnologie vanno ad incidere su una situazione spirituale dell'occidente in cui si confrontano due modi estremi, entrambi riduzionistici, di concepire l'uomo. Quello per cui la natura umana è solo una costruzione sociale, di modo che P. Ehriich sostiene che i cittadini delle democrazie hanno una natura umana diversa da quelli che vivono sotto una dittatura; e quello che all'inverso squalifica i fattori sociali-ambientali e punta sull'uomo espressione solo dei suoi geni. La prima posizione, di taglio storicistico e attenta ai fattori ambientali, è stata a lungo forte e si è legata spesso a visioni politiche di sinistra. L'altra, una forma di naturalismo attento ai fattori genetico-ereditari e che può sfociare nel determinismo biologico, risulta oggi in ripresa e non sembra interessare un'area più di un'altra delle visioni politiche. Nell'oscillazione fra natura e cultura sembra prevalere il primo elemento. Il rapporto fra la quota che nell'uomo occorre riconoscere all'ambiente e quella proveniente dall'ereditarietà è comunque problema lungi dall'essere risolto. Va anche considerata la discrasia emergente fra due versioni di globalizzazione: quella tecnico-economica che omogeneizza procedendo a cancellare le differenze, e quella tecnico-genetica che " singolarizza ", rendendo più sensibili e profonde le diversità fra i soggetti. 3) L'assunto secondo cui è impossibile mutare la natura umana non deve paradossalmente indurre a disinteressarsi delle biotecnologie ( tanto non succederà niente di importante … ), ma a dedicare loro la più acuta attenzione. Se infatti non possiamo diventare una specie che si autocrea nel senso proprio e radicale del termine ( sebbene non manchino affatto fantasie di questo tipo ), le biotecnologie possono variare una grande quantità di fattori nell'individuo e nei rapporti sociali, mutando il rapporto fra volontario e naturale a favore del primo e ponendo nelle mani dell'uomo un potere ancipite. Da una rinnovata meditazione antropologica può sorgere il superamento della contrapposizione fondamentale che ha afflitto il cammino della bioetica sin dalle origini, ossia la polarità fra una bioetica di pura difesa da ogni innovazione sulla scorta di principi tradizionali e un'altra di mera giustificazione di ogni forma di novità offerta dalla tecnologia. La prima diffidente verso la scienza, la seconda pronta ad accogliere ogni sua scoperta. La prima più presente in Europa in specie nei Paesi latini e in Germania, l'altra prevalente nella bioetica anglosassone e accolta in Europa dai fautori dell'indirizzo liberale. Le due propensioni mostrano limiti in quanto non pongono in maniera adeguata la questione del bene umano, certo assai difficile in rapporto alla diffusa situazione di scepsi del pensare filosofico, già rilevata. La ricerca del bene umano e la sua parziale attuazione si pongono come il centro di ogni bioetica degna di questo nome, nonostante i modi spesso conflittuali sotto cui il bene umano è inteso. 4) In un noto libro H. Rommen ha parlato dell'eterno ritorno del diritto naturale ( Die Ewige Wiederkehr des Naturrechts ). Forse le biotecnologie potranno stimolare un " eterno ritorno " della natura umana e dei suoi diritti fondamentali. Un adeguato concetto di natura umana è a fondamento dell'ordine politico e morale, forse in modo più diretto che la religione la quale peraltro non marginalizza la natura umana: piuttosto aiuta a conoscerla meglio, a contribuire a che l'uomo si comporti secondo giustizia. E di grande rilievo osservare che solo un ordine politico fondato sulla natura umana e sui diritti naturali che spettano all'uomo in virtù della sua natura, è giusto e durevole: già Vico osservava che le cose portate a forza fuori dal loro equilibrio naturale non vi stanno ne vi durano. 8. Annesso: Sul diritto positivo e il governo della tecnica Il futuro della natura umana sotto l'incidenza delle biotecnologie è da Habermas pensato secondo un'etica del genere, che pena l'inefficacia dovrà presto generare esiti normativi a livello giuridico e politico. In tale ambito emergono domande sulla natura del diritto e sulla tecnica, con il connesso tema se il pensiero postmetafisico possa riuscire nell'impresa di governare la tecnica quale espressione di volontà di potenza e mezzo universale, ossia mezzo potente per ogni scopo. Nella complessa costruzione habermasiana del mondo dell'azione il diritto occupa un posto molto rilevante, ampiamente trattato in varie opere e in specie in Fatti e norme ( Faktizitàt una Geltung ). Derubricando la ragion pratica a ragione comunicativa e procedurale, gli scritti habermasiani fanno perno sul diritto positivo che diventa polo di orientamento della vita civile. Di conseguenza il problema della legittimità viene interamente risolto in quello della legalità democratica della produzione del diritto. Questo aspetto non è che un altro modo per espellere il diritto naturale e per considerare superata l'idea di ragion pratica, senza di cui muta l'architettura della filosofia pratica: " Con la teoria dell'agire comunicativo io ho scelto una via diversa: al posto della ragion pratica subentra la ragione comunicativa. E non si tratta solo di un cambio di etichetta … la ragione comunicativa non è direttamente produttiva di norme di azione ". L'accantonamento dell'idea di ragion pratica, totale in Kelsen, viene ripreso in senso postmetafisico da Habermas. In tal modo la concezione proceduralistica del diritto risulta inconciliabile con " "l'idea platonica di un diritto positivo attingente legittimità da un diritto superiore ", e perciò risulta impossibile gerarchizzare diritto naturale e diritto positivo. " Il diritto positivo non può più ricavare la sua legittimità da una superiore legge morale, ma soltanto dal procedimento di una formazione dell'opinione e della volontà presuntivamente razionale ". In genere il motivo radicale per cui non si accoglie il diritto naturale è che non si ammette l'esistenza di una natura umana: il diritto naturale è valido in quanto esprime la natura/essenza dell'uomo in cui circola qualcosa di un Ordinamento superiore. Rimosso tale Ordinamento, in tempi rapidi tende a risultare vuota anche l'idea di natura umana: questa potrà essere accessibile ad una considerazione immanente, ma in maniera progressivamente più ardua. Parimenti non sembra risolubile il problema della fondazione dei diritti dell'uomo. Questi si radicano a profondità variabile nel diritto naturale e da qui traggono la loro forza e permanenza. Se così non è, pare difficile evitare che Cesare o il potere politico, come li ha concessi, così li possa revocare o modificare a proprio piacimento. In tale contesto può accadere un cedimento al positivismo giuridico assoluto di un Kelsen. Consideriamo infatti. Se il diritto positivo è l'unico esistente ed esso non può che essere un diritto posto ( positum ), e posto da una volontà, diventa cruciale comprendere posto da chi, per quali scopi e con quali contenuti. Sappiamo che per Kelsen il diritto naturale è una bugia utile al più per il popolo, mentre il diritto positivo non ha nulla da spartire col giusto ( dunque lo jus è totalmente differente dal justum, nonostante la palese affinità di radice che dichiara una sorgente comune ). Ora il diritto positum che non si ispira ad un diritto sovrastante che lo misuri, è solo espressione di un'adeguata volontà ponente: là dove il diritto non è tradizione, è imposizione, un diritto che procede interamente dalla volontà, la quale dice: volo, ergo sum. In quanto espressione di volontà il diritto è arbitrario e costantemente revocabile come ogni prodotto del volere: il diritto esiste nella misura in cui la volontà lo pone, ma questa volontà potrà in futuro volere altro e perfino il contrario, secondo norme che si configurano essenzialmente come " editti revocabili ": oggi vigono i diritti umani, domani chissà. In effetti il diritto vale come impresa variabile secondo il divenire delle volontà, se non è pensato all'interno di un ordinamento immutabile, il che significa che non tutta la realtà si risolva in un universale divenire, senza causa e senza scopo. In Kelsen si compie una " grande trasformazione ", quella che porta il diritto da espressione della ragion pratica a manifestazione del volere, a statuizione imperativa da parte della sovranità, dotata di adeguata volontà ponente e im-ponente, che sola crea il diritto e il torto, il giusto e l'ingiusto. In tal senso col normativismo kelseniano si configura l'ingresso del nichilismo nel dominio giuridico. Su questo aspetto Nietzsche si è espresso con esemplare chiarezza, rappresentando forse l'antefatto tanto di Weber quanto di Kelsen: " Ma l'elemento più decisivo, quel che la suprema potestà fa e attua contro la strapotenza dei sentimenti avversi e pervicaci - così fa sempre, non appena è in qualche modo abbastanza forte per questo - è la statuizione della legge, la chiarificazione imperativa di quel che deve in generale valere ai suoi occhi come permesso e legittimo e di quel che invece deve valere come proibito e illegittimo. Conformemente a ciò, solo a partire dalla statuizione della legge esiste " diritto " e " torto " … Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso … Un ordinamento giuridico pensato come sovrano e generale, non come strumento nella lotta di complessi di potenza, bensì come strumento contro ogni lotta in generale … sarebbe un principio ostile alla vita, un ordinamento disgregatore dell'uomo, un attentato all'avvenire dell'uomo, un indice di stanchezza, una via traversa verso il nulla ". Se il carattere più proprio del positivismo giuridico è che solo a partire dalla statuizione della legge positiva esistono giusto e ingiusto, Kelsen è stato un nicciano, mentre per Habermas si potrebbe parlare di un rischio di niccianesimo, che non potrà essere pienamente esorcizzato sin quando il diritto non verrà pensato non solo in via procedurale e democraticamente deliberativa, ma anche in maniera che non veda solo nel processo deliberativo e nella decisione del legislatore l'unica sua fonte. Habermas è d'altronde consapevole del paradosso implicito nel modo di validità della legge positiva: " If thè function of law consists in stabilizing normatively generalized behavioral expectations, how can this function stili be fulfilled by a law that can arbitrarily changed and whose validity is due solely to thè decision of a politicai legislator? ". Col riferimento ai complessi di potenza la sentenza di Nietzsche avvia a riflettere sulla tecnica e sul diritto, poiché l'ideologia dello scientismo tecnologico è penetrata in esso conducendo a intenderlo come tecnica giuridica mirata ad uno scopo efficace. Il diritto riportato a mera procedura per ogni scopo è appunto il diritto ridotto a tecnica, che ritiene di poter spazzar via gli ultimi residui del diritto naturale che ancora resistono. In tal modo il diritto si subordina alla Tecnica, che si candida alla guida del mondo, poiché ha compiuta coscienza di essere la forza massima a disposizione della volontà di potenza: un mezzo universale, un mezzo per ogni possibile scopo. Acuta è perciò la domanda se, nonostante le migliori intenzioni, il pensiero postmetafisico sia in grado di controllare la tecnica: esso forse lo desidera e Il futuro della natura umana è un attestato in proposito, ma è in grado di operare ciò che desidera? Ci si può servire della tecnica o la tecnica si serve di noi? Si può addomesticare la volontà di potenza? Forse sì, ma a patto di prendere le mosse da una filosofia altra da quella postmetafisica. Questa sostiene che occorre porre un limite alla tecnica, ma non sembra in grado di individuare come sia possibile porlo, dal momento che pare aver accolto l'idea di un divenire originario senza scopo né causa, in cui vi è solo trasformabilità e processualità. La tecnica, compresa quella del positivismo giuridico assoluto che sfocia nel nichilismo, non è il nostro destino, piuttosto si pone come implicata in un pensiero filosofico che non avverte più limiti o essenze da rispettare e che sfocia in un aperto nichilismo delle essenze ( vedi sopra ), dove queste sono " ritenute nominalisticamente un flatus vocis privo di sostanza. Affinché la tecnica deviata in mera volontà di potenza non sia l'unico esito, occorre fare perno su una filosofia diversa da quella che ritiene possibile e auspicabile un'illimitata trasformabilità dell'essere. Al momento la situazione non è tranquilla, poiché non pochi operano sconsideratamente per attribuire crescente libertà di movimento alla tecnica. Il pensiero debole è forse vittima dell'illusione di poterla prendere in mano e farla servire a scopi umani, nel momento stesso in cui si vuole come pensiero debole che assottiglia o congeda i concetti di verità, essenza, stabilità. La pretesa spesso formulata di governare la tecnica con l'etica appare postulatoria, poiché l'etica senza metafisica, l'etica da sola rischia di rassegnarsi all'idea che solo la scienza conosca e che dunque solo essa abbia diritto a guidare l'uomo. Qui il vecchio dogma positivistico procedente da Comte, tanto spesso riproposto in mille fogge, lascia l'uomo sguarnito dinanzi alla tecnica e alla sua volontà di potenza. Parte terza - Problemi del presente II. Il personalismo, la pace, la democrazia Remota oggi appare l'epoca della competizione fra speranze forti: illuminista, marxista, cristiana, che emerse negli anni '60 come elemento centrale dell'epoca e che segnò in profondità molti progetti. Il presente sembra il tempo del ripiegamento, dell'abbassamento degli orizzonti, della caduta talvolta amara e delusa delle speranze, di cui fa le spese quella nella pace. Se non poniamo il problema di che cosa vogliamo fare della guerra, sarà la guerra a fare di noi ciò che essa vuole. Anche se volessimo abbandonare la guerra, questa non abbandonerà noi, a meno che non ne saniamo in radice le cause che la producono. Le filosofie storicistiche e ottimistiche della storia sono da molti decenni in grave affanno: anzi dopo le manifestazioni di idealismo che hanno accompagnato la nascita della Società delle Nazioni e poi dell'ONU, sembra prendere piede una sorta di rassegnazione di fronte alla guerra. Nella storia dell'uomo s'incrociano azioni profondamente eterogenee: essa è un prodotto del rispetto dell'altro, della creatività, della giustizia verso il vicino e il lontano, ma è parimenti un esito della violenza, della sopraffazione del forte sul debole, dell'odio. Una concezione personalistica si sforza quanto può perché il variabile equilibrio fra le due direttrici si sposti verso la prima. Essa dice di no alla guerra per far arretrare le frontiere dell'ingiustizia e della sofferenza umana. Fino a che punto? A questa domanda non vi è alcuna risposta pronta a priori. Le risposte possono venire volta per volta dall'esito dell'azione intrapresa. Il realismo storico e antropologico è lì ad ammonirci che - contro ogni forma di determinismo - le barbarie oggi superate potranno domani ricomparire, che nessuna conquista è perpetua e al sicuro da indietreggiamenti. Non abbiamo garanzie assolute che la schiavitù, oggi largamente debellata, non possa domani ricomparire. Come la storia non è in costante progresso vero il peggio, il che sarebbe una concezione terroristica e disfattistica, così non è in costante progresso verso il meglio, il che sarebbe una concezione irresponsabile e a buon mercato. Ed è qui che deve intervenire la politica, cercando di intendere le cause delle guerre e di porvi rimedio. Alcuni potrebbero sollevare la domanda che non saprei se chiamare della disperazione o dell'indifferenza: perché preoccuparsi tanto della guerra e della pace, se da decenni i morti per inedia, fame, pandemie sono stati assai più che i morti in guerra? Ci preoccupiamo della guerra non solo perché, come osserva Kant, produce più persone malvagio di quante non ne tolga di mezzo, ma perché la guerra nella situazione presente del mondo è una possibilità tragica sempre aperta, che può tornare con un numero immenso di morti, con la sua tremenda crudeltà, con i suoi strascichi illimitati di odio, con la sua carica selvaggia, con la negazione dell'uomo e dell'umanità che le sono propri. Mentre vi sono buone ricette per raggiungere, se lo si vuole, una cura della fame, molti sono incerti sul da farsi per mettere fine alla guerra: si ritiene che la lotta alla fame sia ardua ma alla nostra portata, mentre quella alla guerra velleitaria ed anzi impossibile, e forse si pensa che armarsi sino ai denti sia la strada migliore. Il movimento di partenza non può che essere l'indignazione e lo scandalo per la violenza che fa strage, e un immenso sentimento di pietà e dolore. " Come può la coscienza umana non rivoltarsi al ricordo di tutte queste violenze e di tutte le persone il cui volto attraverso il corso dei secoli è stato sfigurato dal ferro e dal fuoco? È lo scandalo di questa violenza esercitata da uomini su altri uomini che mette in movimento il pensiero filosofico; è la certezza che questo male non-deve-essere, che provoca la riflessione. Noi vogliamo sostenere che la rivolta del pensiero, davanti alla violenza che fa soffrire gli uomini, è l'atto fondatore della filosofia. Noi vogliamo affermare che il rifiuto di ogni legittimazione di questa violenza fonda il principio di nonviolenza ". Massimo tra i problemi politici, quello della guerra e della pace angustia l'uomo sin dagli albori, ed è divenuto progressivamente sempre più impellente. La straordinaria complessità del problema proviene da due sorgenti: la difficoltà a maneggiare concettualmente una questione dal numero pressoché illimitato di variabili; la possibilità che nel momento dell'azione la volontà esistenziale di scontro, espressa da forze effettualmente in vigore in un certo momento, prevalga su ogni altra considerazione. Qui vogliamo interrogarci se il pensiero personalistico possa condurre all'abolizione della guerra, almeno a quella forma grande di guerra che è lo scontro tra Stati; e se tale pensiero, alleato con quello democratico, abbia elaborato nel corso del XX secolo un'adeguata prospettiva che consenta di fondare la democrazia e di avanzare verso l'abolizione della guerra. La difficoltà del percorso sarà scandita in due capitoli. Capitolo sesto - Pensiero personalista e abolizione della guerra 1. Il rilievo civile del principio-persona Entrando nel campo della pace e del suo rapporto con la persona, operiamo un prelievo tematico ossia, tenendo presenti le acquisizioni relative alla metafisica della persona elaborata nei primi due capitoli, ci concentriamo specialmente sul versante etico-politico. Per quanto il termine " personalismo " sia stato coniato alla fine dell'800 da Renouvier, un vero e proprio clima personalista si riscontra in varie espressioni della cultura europea del Novecento dagli anni '30 in avanti, e non riguarda solo la questione della pace, ma anche quelle dello Stato, del diritto, della struttura della famiglia, delle comunità intermedie, dell'economia. Una nuova attenzione etico-politica rappresenta uno dei prodotti più considerevoli della sensibilità personalista, che trova il suo fondamento in un diverso modo di intendere la realtà della persona umana. Oggi, a settant'anni di distanza dalla massima emergenza della cultura del personalismo, la sua prospettiva è ancora sostenuta dalla cultura cristiana, dal pensiero ebraico ( ieri Buber, oggi Lévinas ), e da varie correnti dell'umanesimo laico che, magari senza riconoscersi nella fondazione ontologica della persona, ne sentono il valore primario per ogni decente res publica ( per l'Italia avanzerei i nomi di N. Abbagnano e di N. Bobbio ). Mentre sono venute meno le posizioni antipersonaliste del fascismo e del nazismo e del marxismo, impatto non secondario esercitano le dottrine non personaliste dello strutturalismo, del nichilismo e del neonaturalismo. La domanda di partenza suona: in che cosa il principio-persona ci aiuta nel campo della politica, e in special modo in quello rischiosissimo della pace e della guerra? Enumero alcuni argomenti. 1) Rapporto unico tra personalismo e pace. L'idea di persona come sostanzialità spirituale e apertura relazionale implica un rapporto amico con l'altro, presente dovunque emerga una chiara propensione alla pace, capace di includere il rapporto tra civitas maxima del genere umano e persona. Il principio-persona vede nel personalismo egualitario il primo criterio di un ordine politico nuovo. Esso dà voce all'idea che le unità fondamentali di rilevanza ontologica, morale e politica sono le persone, portatrici di eguale valore ed eguale dignità, e non gli Stati o altre forme di associazione umana. L'importanza del rapporto tra personalismo e pace sta nel fatto che il primo porta coerentemente ad una cultura del dialogo e del rispetto delle persone e dei popoli. La dottrina personalista stimola un apporto collettivo al problema della pace, i cui caratteri sono profondamente influenzati dall'immagine di persona cui si ricorre. A seconda dell'idea di uomo si hanno differenti idee di pace: la pax nazista suppone il dominio del biondo ariano, la pax personalista s'ispira alla tradizione giudeocristiana e all'umanesimo europeo, che vede nell'uomo un essere dinamico abitato da pulsioni contraddittorie ma non incapace di venirne a capo; e che punta su pedagogia, politica, diritto e istituzioni adeguate per raggiungere un esito accettabile nei vari contesti politici sino a quello planetario. Una vocazione universalista e cosmopolitica appare infatti omogenea con la valenza ultimamente universale della persona. Il personalismo fa riposare la custodia della persona e la sua indisponibilità da parte dello Stato sull'idea di diritti naturali inalienabili, mentre la cultura antipersonalista considera il diritto una sovrastruttura dello scontro vitale, oppure lo riconduce ad una convenzione sociale con l'esclusione di un diritto superiore e indisponibile da parte dell'uomo ( tale è la posizione del positivismo giuridico assoluto, contrario al diritto naturale ). Dalla cultura personalista scaturisce un atteggiamento di pacifismo attivo, che non ritiene la guerra impossibile, ma ingiustificabile e improponibile, e si adopera con un'opera di prevenzione perché non accada. Per il personalismo ( analogo discorso vale per ogni forma di pacifismo attivo ) la guerra non è un'istituzione automaticamente destinata a scomparire, quanto piuttosto una figura che deve essere eliminata. Un passo avanti è compiuto quando ci si libera dall'idea, sepolta nell'inconscio collettivo dei popoli, che la guerra sia un istituto inevitabile cui gli uomini e i popoli debbono acconciarsi; quando si relativizza l'idea che la guerra trovi il proprio fondamento nella " natura umana ", sempre uguale e a se stessa, inclinata alla violenza e al dominio. Al personalismo latamente inteso appartengono il pensiero di Kant col suo progetto di pace perpetua; varie correnti pacifiste; la dottrina sociale della Chiesa; le correnti dell'umanesimo laico favorevoli all'idea dei diritti dell'uomo, cardine d'ogni ordine internazionale di pace e grande codice dell'umanità che cerca i modi per tradursi in istituzioni capaci di limitare la violenza. 2) Antipersonalismo e propensione alla guerra. Viceversa si dà una connessione innegabile tra antipersonalismo, spirito bellicoso e propensione alla guerra. Tanto le culture di pace sono apertamente o implicitamente personaliste, altrettanto le culture di lotta e di guerra sono apertamente o implicitamente antipersonaliste, ed a questo versante sono ascrivibili filosofi della guerra quali Machiavelli, Hobbes, Hegel, Schmitt, nonché i totalitarismi: quelli di sinistra centrati sulla dissoluzione sociale dell'uomo, e quelli di destra affascinati dall'idea dello Stato come sostanza etica, o della razza come realtà biologica. Di solito le posizioni antipersonaliste legano insieme cultura di guerra e un'antropologia in cui l'uomo è inteso come un essere dinamico abitato dalla violenza e dalla lotta per la supremazia. Hegel. Poiché lo Stato è " spirito oggettivo, l'individuo esso medesimo ha oggettività, verità ed eticità, soltanto in quanto è componente dello Stato ", per cui il suo " dovere supremo è di essere componente dello Stato ". Questa è la formula originaria di ogni totalitarismo politico, in proposito Maritain parla di " immolazione dialettica della persona " e non c'è che da consentire. L'arma della dialettica è volta contro la persona per dissolverne la sostanzialità e la dignità, e fame un momento transeunte del movimento dello spirito. Gentile. In lui affiora una metafisica dell'unità e dell'identità la quale non può che sboccare nel momento dello Stato etico, supremo livello di unità e di autocoscienza dei singoli. Tentazione che è intrinseca al neohegelismo, se l'ultima opera di Gentile Genesi e struttura della società - composta tra l'agosto e il settembre 1943 quando le vicende della seconda guerra mondiale avrebbero già dovuto insegnare molte cose sulla vocazione antiumana degli Stati totalitari - ripropone la forma dello Stato etico e non coglie la persona come il livello primo e ultimo del politico: " gli uomini, in quanto molti, sono cose ". Le formule con le quali Gentile ripropone il mito della Stato come creatore di leggi, di verità, di eticità, di valori, vanno attentamente meditate: rappresentano infatti la fase culminante nella quale l'illusione dell'immanentismo idealista raggiunge il delirio, tanto più sconcertante quanto più sembra chiudere gli occhi dinanzi alle dure lezioni della storia. Innanzi tutto l'affermazione centrale, vero proton pseudos del totalitarismo, secondo la quale la persona non ha realtà se non nello Stato: l'uomo politicamente è Stato; ed è uno Stato o nulla. " Lo Stato, autoconcetto o volontà è libero. Perciò infinito. Il concetto perciò di uno Stato tra gli altri Stati che lo limitano, è contraddittorio … Lo Stato, concreta attività dello spirito, è svolgimento, e perciò storia. Tutte le altre storie ( dell'arte, della religione, dell'economia, della scienza, ecc. ) sono storie astratte perché storie di momenti o forme ideali o astratte della vita dello spirito, la quale in concreto è sempre Stato … Lo Stato, in quanto l'Unico, è divino ". Da siffatte premesse è coerente che segua sia la distruzione d'ogni diritto naturale, sia l'identificazione tra diritto e volontà dello Stato: " La volontà dello Stato è diritto … Non c'è diritto senza Stato ". Lo Stato di Gentile si pone come il nuovo Leviatano. Schmitt. Una vena antipersonalista, sia pure meno drastica, circola nelle pagine di C. Schmitt, e dichiara una forte dipendenza da Hobbes, la cui concezione dell'uomo è ad un tempo materialistica e non-personalista. Secondo Schmitt " resta valida la constatazione stupefacente e per molti versi inquietante che tutte le teorie politiche in senso proprio presuppongono l'uomo come " cattivo ". Che cioè lo considerano come un essere estremamente problematico, anzi " pericoloso " e dinamico. Ciò è facile da provare per qualsiasi pensatore politico in senso specifico ". Questo assunto è necessario al Begriffdes politischen, ne è in certo modo la condizione di possibilità: senza la tesi di un uomo cattivo o inclinato molto più al male che al bene, non avrebbe senso l'idea schmittiana che la polarità amico-nemico e lo scontro a morte siano le possibilità reali della politica. L'uomo singolo e un popolo acquistano vera esistenza politica e vera coscienza di sé solo nella lotta contro il nemico; si riconoscono solo nel momento dell'odio esistenziale dell'altro. Questi autori, sostenendo la coappartenenza tra politica e guerra, ed esigendo la politica a luogo in cui le persone non contano, cancellano alla radice la tensione stessa ad eliminare la guerra. Rispetto all'età dei totalitarismi, la cultura contemporanea offre nuove forme di attentati alla persona, che possono essere ricondotti a filosofie riduzionistiche, tra cui vanno annoverati il fisicalismo materialistico; il positivismo tecnologico; la cultura radicale centrata sul primato del desiderio di larghe masse di individui casuali; il consumismo edonistico basato sulla richiesta di una pronta soddisfazione di ogni tipo di bisogni. Sono inoltre da considerare antipersonaliste le culture che riducono l'uomo a volontà di potenza, che predicano forme di darwinismo sociale, e le teorie di sociobiologi contemporanei, che vedono nella società umana solo meccanismi animali. Non va minimizzata l'azione contro la pace che queste posizioni lamentano depositandosi nell'inconscio collettivo dei popoli. 3) Dialogo tra le religioni. Con il ricorso al principio-persona si apre un terreno d'incontro sull'uomo e i suoi diritti, dove possono intervenire le grandi religioni monoteistiche e la coscienza religiosa compiere i suoi passi. Scrive R. Panikkar: " Prova del cambiamento della coscienza religiosa del nostro tempo è il fatto che la pace tende a ritrovare la sua radice religiosa. È con essa che non solo si approfondisce lo studio della pace, ma anche si purifica il concetto medesimo di " religione " … Dobbiamo abbandonare l'idea che la pace ( politica ) non possa realizzarsi in questo mondo e che essa accadrà solo nell'aldilà per pura opera di Dio, esclusivamente per suo dono. In questo modo non si consegna troppo facilmente la terra al conflitto? ". Ritrovando la sua radice religiosa, la pace dovrebbe ritrovare anche la sua radice " terrena ", ossia l'assunto che possa essere edificata in questo mondo, sia pure in maniera imperfetta e precaria: che cos'altro è la nostra insistenza a superare le guerre tra Stati mediante la costruzione di un'autorità politica mondiale ( vedi oltre ), se non l'esito della convinzione che la pace politica è possibile? Si tratta di abbandonare l'idea, forse ancora prevalente, che la pace si può realizzare soltanto oltre il tempo e il mondo, rassegnandoci per l'aldiquà alle soluzioni violente dei conflitti, ritenuti insuperabili. L'attenzione verso le religioni aiuterebbe a non cedere allo scontro di una religione e di una cultura contro un'altra, e a costruire " terre di mezzo " aperte alla speranza. La speranza di poter vivere con l'altro, di non essere dominati dalla memoria dei torti subiti, la speranza di costruire un mondo in cui tutti possano vivere con dignità. La globalizzazione non può essere solo la libera circolazione dei beni; deve essere anche globalizzazione della solidarietà, del dialogo, della giustizia e della sicurezza. In questo lavoro per la speranza bisogna costruire ponti, non muri. Ponti tra culture, ponti tra fedi religiose. Non possiamo farci trascinare nella logica perversa dello " scontro di civiltà ". Nel dialogo si esprime la " forza debole " delle religioni e la critica ad ogni idolo. Nel 1996, decennale dell'incontro interreligioso di Assisi ( 10 ottobre 1986 ), l'appello finale concludeva così: " Abbiamo fatto memoria delle vittime dei conflitti e delle ferite ancora aperte. Solennemente ripetiamo l'invito alla pace. Le religioni non spingono all'odio e alla guerra, non giustificano lo spargimento del sangue innocente. Le religioni non vogliono la guerra ma la pace! Non c'è santità nella guerra. Solo la pace è santa! ( … ) Convinti che le religioni hanno una grande responsabilità nel predicare il perdono ci rivolgiamo a tutti coloro che uccidono o fanno la guerra in nome di Dio. Ricordiamo loro che la pace è un nome di Dio. Parlare di guerra di religione è un'assurdità. Nessun odio, nessun conflitto trovi nella religione un incentivo ". 2. Beni esclusivi ed inclusivi Nelle società umane incontriamo una grande varietà di beni, che possiamo suddividere in beni esclusivi e beni inclusivi. I primi, generalmente i beni materiali, sono indispensabili alla prosecuzione della vita, vengono appropriati e consumati individualmente e non sono in genere compartecipabili: per questo li denominiamo " esclusivi " nel senso che se A consuma un certo bene, B non lo può consumare contemporaneamente. Sono beni non permanenti in quanto l'uso da parte del singolo li distrugge e vanno dunque costantemente ri-prodotti nell'incessante ciclo della natura e attività economica. Quando, come è frequente il caso, non sono in quantità sufficiente o sono sufficienti ma mal distribuiti, scatenano la lotta per l'appropriazione. Viceversa i beni che chiamiamo inclusivi, generalmente di tipo culturale e immateriale, vengono non consumati ma fruiti e perciò non patiscono in genere né distruzione né diminuzione, e possono traversare il tempo mantenendosi nella dimensione della durata. Essi, in linea di principio disponibili per tutti, si sottraggono alla lotta per l'appropriazione e possono includere invece che escludere. Anzi può accadere che la loro fruizione da parte di molti conduca alla compartecipazione e ad un innalzamento collettivo. L'arte con la fruizione della bellezza che le è intrinseca, è uno, ma non l'unico, degli esempi più persuasivi del rilievo dei beni inclusivi. Una posizione personalista, senza minimamente sottovalutare il rilievo eccezionale dei beni esclusivi ( ed in verità come sarebbe possibile, quando beni essenziali per la prosecuzione della stessa vita fisica sono negati a tanti? ), osserva che nell'edificazione della pace l'attenzione vada indirizzata anche verso l'area dei beni inclusivi e accomunanti che generano cooperazione e relazione, invece che sulla tensione al possesso, che produce aggressività, competizione ed esclusione. La strada della pace va verso una crescente partecipazione ai duraturi beni della civiltà umana, che sono spirituali e inclusivi ( amicali, morali, poetici, conoscitivi, religiosi ). La loro logica è la gratuità: liberamente vengono creati, liberamente circolano e vengono fruiti. La divisione è la logica dei beni esclusivi dove il riconoscimento del diverso è tanto più difficile quanto più si entra in concorrenza, la partecipazione gratuita è quella dei beni inclusivi. Per aumentare le probabilità della pace sono necessari tanto una giusta ripartizione dei beni esclusivi, quanto un incremento della sfera dei beni inclusivi. La pace come assenza di guerre è un bene inclusivo, ed insieme insufficiente, in quanto possono permanere focolai di violenza, di ingiustizia, violazioni dei diritti dell'uomo, paura, oppressione. Questa valutazione guida gli autori personalisti: bisogna rendere la pace non soltanto un bene insufficiente, ma un bene sintesi, un bene completo. Se dopo la scoperta delle armi nucleari la guerra non è più proponibile, bisogna che la necessità della pace sia garantita da una nuova struttura politica e sociale del mondo, contrassegnata dal motto: " pace mediante il diritto, le istituzioni, la giustizia ", definendo in positivo la pace e oltrepassando la posizione che la determina come assenza di guerra e di ricorso alla forza. Quest'ultima determinazione di pace che Kelsen configura come " una situazione caratterizzata dall'assenza della forza ", appare insufficiente poiché si allontana dall'idea che la pace è opera di giustizia ( opus justitiae pax ): là dove vive l'ingiustizia potrà esservi assenza di guerra e di forza, ma non vi è vera pace. " La pace non è la semplice assenza di guerra, ma essa viene definita con tutta esattezza: opera della giustizia, opus justitiae pax ", osserva il Concilio Vaticano II nella costituzione Gaudium et spes ( n. 78 ). Una profonda solidarietà lega i vari livelli della pace. Non si può parlare della pace internazionale nel rapporto tra gli Stati, senza cogliere il rinvio alla pace dei cuori e alla conversione delle coscienze, senza cui l'avvento della pace internazionale e le garanzie del diritto restano insufficienti e precari. Ne si può porre l'accento sulla rigenerazione spirituale del soggetto senza contemporaneamente sentire che la costruzione della pace in noi richiede la fondazione della pace fuori di noi, nelle strutture. La posizione personalista appare ben equipaggiata per comprendere le nascoste origini psicologiche della violenza e della guerra e per avviare un processo d'educazione alla pace. Sappiamo che la guerra è crudele e tremenda; se pochi la vogliono, e malgrado ciò avviene, debbono esserci in noi condizioni che non siamo ancora in grado di percepire distintamente. Un grande servizio d'educazione alla pace consiste nell'assumere coscienza dei pericoli insiti negli istinti ereditati da migliaia di generazioni passate, che dominano la nostra vita crepuscolare tra conscio e inconscio: la violenza, l'angoscia del nuovo, il timore dell'ignoto, l'aggressività che nasce dalla paura verso l'estraneo, la proiezione all'esterno delle nostre tensioni, forse una segreta propensione verso la morte quale segno di dimissione dalle fatiche della vita, la punizione verso noi stessi e gli altri con la quale cerchiamo di vendicarci per i nostri fallimenti. In tutto ciò hanno origine gli ostacoli alla pace: la guerra è anche una trasposizione all'esterno del conflitto tra odio e amore che si svolge dentro di noi; la paura che abbiamo di essere meno amati degli altri, di essere in svantaggio al banchetto della vita, scatena la nostra avidità e la nostra invidia. Se nascondiamo a noi stessi quanto pericoloso sia l'aggressivo desiderio di soppressione del rivale, sia esso persona o nazione, siamo vittime della legge del taglione, nella quale è ancora radicata buona parte della nostra esperienza interiore. 3. La guerra non è un destino 1) La guerra come prosecuzione delle politica. La guerra è un prodotto dell'azione e delle scelte umane. Le guerre le fanno gli uomini: non sono catastrofi naturali ma disastri evitabili, poiché possiedono delle cause che possono essere identificate e rimosse. Fra queste si annovera l'etica di politici e statisti, che spesso è l'etica della potenza, l'affermazione del principio della Forza come legge della storia contro o sopra l'ideale della Giustizia: in certo modo Machiavelli contro Platone. L'etica della potenza ignora le risorse della pace: " La storia comunemente conosciuta è la registrazione delle guerre del mondo … Se nel mondo fosse avvenuto soltanto questo l'umanità avrebbe cessato di esistere da lungo tempo … Il fatto che vi sono ancora tanti uomini vivi nel mondo dimostra che questo non è fondato sulla forza delle armi, ma sulla forza della verità o dell'amore ". Una lunga tradizione ritiene invece che la guerra sia una naturale manifestazione della politica, di modo che il rapporto tra politica e guerra è di continuità. Poiché la politica raccoglie e spesso contrappone uomini, la guerra sarebbe inevitabile, un risultato del disordine esistente nei soggetti e nelle società. A tali posizioni si deve rispondere che la guerra è un atto politico, uno dei massimi e più tragici, non una fatalità o un destino. La celebre frase di Clausewitz " La guerra è una semplice continuazione della politica con altri mezzi " dice appunto con la sua scomoda verità che la guerra è un atto politico e nient'altro; e che - aggiungiamo noi - per eliminare la guerra è necessario cambiare alla radice l'atto politico e i rapporti fra comunità politiche. La dichiarazione di Clausewitz forse non è cinica ma rispecchia ciò che emerge da un esame del rapporto politica-guerra. Il suo massimo limite risiede altrove: ciò che manca alla ricerca clausewitziana è la possibilità di ingiustificare la guerra in base ad atti ed analisi politiche, di una politica " altra " rispetto a quelle per la quale la guerra è un mezzo. Il paradigma da lui adottato considera la guerra un elemento immanente alla ragion politica, che è pensata secondo lo schema della potenza dello Stato. Considerando la guerra come appartenente alla storia naturale della politica e della potenza, non può neppure iniziare la ricerca sui modi con cui tentare di superarla. Clausewitz si arresta come un soldato che non guarda oltre il suo oggetto scientifico immediato. Non sembra preoccupato dall'idea che una politica degna di tale nome debba assumere il compito di ingiustificare la guerra e la concezione dello Stato come entità suprema cui tutto il resto è subordinato. Tale sembra il punto debole della sua ricerca sulla guerra, cui si aggiunge in seconda battuta la sordità all'aspetto etico e umano del tema. La guerra è studiata in vitro, senza nessi con l'uomo e la sofferenza: " La guerra è un atto della violenza, e non c'è limite alcuno al suo impiego ", oppure " Nella filosofia della guerra non può mai essere introdotto un principio di moderazione senza incorrere in un'assurdità ", il che significa che occorre bandire benevolenza, spirito umanitario e invece nutrire intenzioni intrinsecamente ostili salendo nell'azione bellica senza riguardi all'estremo. 2) Il nodo della sovranità. In ordine alla ingiustificazione e al superamento della guerra tra Stati, un'analisi strutturale dei rapporti internazionali ha da tempo avanzato la risposta che si impone: occorre privare lo Stato sovrano del monopolio della guerra e della pace che in specie nella modernità gli è appartenuto, quando il polemos è stato attratto nell'orbita dello Stato e questo ha gestito come cosa esclusivamente sua lo ius ad bellum. La guerra è coessenziale alla sovranità, la quale è particolare, anarchica, volta al proprio interesse e perciò in linea di principio aperta allo scontro. Superare la sovranità dello Stato significa recuperare il carattere universale della ragione politica, frammentata nel particolarismo degli Stati, e far emergere il principio-persona al centro della vita sociale, operando per la formazione di uno spazio politico universale e razionale. Dobbiamo prendere sul serio le istanze dell'universalismo cristiano e di quello moderno, d'altronde collegate, e riferirle al principio-persona, anch'esso universale. La ragione umana e la ragione politica non possono più restringersi ai soli ambiti della sovranità statale, ma cercare nuova vitalità in una ragione politica universale, eticamente aperta all'altro. Universalismo antropologico e apertura morale debbono darsi la mano, nel tentativo di disarmare la ragione armata, separando la continuità che spesso intercorre tra ragione e guerra, tra logos e polemos, quando la ragione si pone al servizio della potenza. 3) Il dovere della pace. Sono almeno quattro le filosofie della storia che considerano la pace un auspicabile punto d'approdo della vicenda storica: l'illuminismo, il positivismo saintsimoniano e comtia no, il marxismo, il personalismo ed " ecumenismo " cristiani. Nonostante alcuni punti di contatto, le loro diagnosi non sono convergenti: una differenza importante consiste nella diversa valutazione che viene attribuita al ricorso alla violenza. Per l'illuminismo il cammino verso la pace esige che prevalgano Stati a regime repubblicano ( ossia democratico ): Stati dunque né dispotici né totalitari, con il corollario che un insieme di Stati democratici può senza insormontabili difficoltà evolvere verso forme federative d'ampiezza crescente. Per il positivismo la pace sta in fondo al cammino che conduce dagli Stati e dalle società militari a quelli industriali: la pace sarebbe un sottoprodotto della trasformazione da organizzazione militare ad organizzazione produttiva della società, un frutto della rivoluzione produttiva che si espande mondialmente e della rete di commerci che favorisce. In prospettiva marxista è l'abbattimento del capitalismo imperialistico a costituire la necessaria e sufficiente premessa per l'edificazione della pace: questa fiorirà nella " città salvata " del comunismo realizzato. Il personalismo cristiano ritiene che il cammino verso la pace sia molto più impervio di quanto ritengano le precedenti dottrine, alcune delle quali sono state smentite seccamente dai fatti. Esso pone l'accento, oltre che sui fattori strutturali e geopolitici, su quelli etico-personali, sulla lotta tra bene e male che si svolge nella persona e sulla libertà che l'uomo possiede di scegliere tra l'uno e l'altro. A livello strutturale individua nell'odierna situazione internazionale la necessità di un nuovo ordine economico che garantisca la libertà dalla fame; e quella di istituzioni pubbliche mondiali. Il pensiero politico del personalismo, a differenza del positivismo e del marxismo ma in ciò vicino al pacifismo illuminista, non considera la pace come un risultato presto o tardi inevitabile del processo storico, bensì come un ideale o un dovere da raggiungere. Una specifica novità è che dal XVIII secolo in poi sono aumentate le voci che elevano la pace a dovere, ad obiettivo che deve mettere in moto tutte le risorse umane, onde porre termine all' " età di Clausewitz ", come si esprimeva G. La Pira. Se la pace non è un esito necessario dell'evoluzione storica, ma è soltanto possibile, la sua possibilità eleva un dovere morale di prima grandezza: quello di edificarla e non di attenderla come qualcosa che il processo politico immancabilmente ci darà col passaggio dalla preistoria alla storia. Un'esperienza universale rende edotti che la guerra non è " destinata " a scomparire nel senso che per una necessità tanto oscura quanto misteriosa essa finirebbe per dileguarsi. Ma la guerra deve scomparire nel senso che la sua abolizione stabilisce un dovere morale: si tratta di assumere il progetto di abolire la guerra ( almeno quella fra Stati ). Se la guerra non si elimina da sola, ma è ingiustificabile e inaccettabile, la pace rappresenta un compito morale, sebbene non abbiamo certezze che la pace perpetua sarà mai raggiunta. Secondo Kant esiste per noi un dovere morale assoluto di operare per la pace. È nostro dovere agire secondo l'idea di un tale fine ( che la ragione comanda ), anche se ci fossero scarse probabilità che esso possa essere conseguito. Una visione deontologica della politica rimane una partenza indispensabile, specialmente se in rapporto ai diritti e doveri dei singoli sarà sviluppata la parte nuova dei doveri degli Stati, con l'applicazione dell'etica alle relazioni internazionali. Questa prospettiva è svolta da L. Bonanate secondo cui è possibile " individuare una serie di doveri degli stati, doveri morali in primo luogo, ma poi anche giuridici ", in rapporto alla crescita del nuovo diritto internazionale dei diritti umani. 4. Globalizzazione politica, superamento della sovranità, federazione mondiale 1) Dinanzi al dovere della pace con giustizia si pone come ostacolo primario la frammentazione della famiglia umana in unità politiche separate, di cui Kelsen diceva: " Solo temporaneamente e nient'affatto per sempre l'umanità si divide in Stati, formati del resto in maniera più o meno arbitraria ". Il punto di partenza cui tornare senza riposo è che esiste un bene comune universale, oggi avvertibile ancor più fortemente del passato, da assicurare per tutti. Con urgenza si pone la domanda se l'attuale organizzazione politica ed economica internazionale sia in grado di procedere verso la costruzione del bene comune planetario e la promozione dei diritti umani, o manifesti il bisogno di incisive riforme strutturali e concreti passi avanti. Affinché la pace si consolidi e progredisca occorre, oltre alla buona volontà di tutti, un'istanza politica suprema, in mancanza della quale nessuno potrà legittimamente prendere in carico il problema pace né quello del bene comune. La grande contraddizione che rode dall'interno la questione, è che non pochi desiderano la pace, mentre sinora non esistono un'autorità politica mondiale e istituzioni planetarie, dotate di poteri sufficienti a porre la pace come il loro scopo obbligante e a raggiungerla di fatto. Nel compito di tali istituzioni rientrerebbe l'accentramento al più alto livello dell'uso della forza legittima. Si tratta di aspetto molto notevole ma tutt'altro che unico, nel senso che per l'ideale della pace-giustizia e della edificazione di un bene comune della società mondiale non ci si può limitare al monopolio della forza legittima. Il cammino tratteggiato si basa almeno su una constatazione difficilmente smentibile, ossia che in una situazione di vuoto politico internazionale e di dissidi tra gli Stati, non potendosi stabilire il torto e la ragione da parte di un'autorità superiore, la norma è il ricorso alla guerra, e la vittoria spesso non del più giusto ma del più forte. Uscire dalla logica dello scontro, secondo cui l'esito di un contrasto è la guerra e la disfatta del nemico, implica l'avviarsi verso soluzioni sovrastatuali. È giusto fondare l'idea di un'autorità politica mondiale sul fatto accertato dell'anarchia delle relazioni internazionali, ma è ancora più giusto fondarla sull'inadeguatezza dell'attuale organizzazione politica del mondo in ordine al concreto bene comune della società mondiale. 2) In questo ambito concettuale giocano un ruolo fondamentale la nozione di anarchia del sistema internazionale e quella di sovranità, su cui qui non mi dilungo, avendo sviluppato il tema altrove, limitandomi a riassumere il succo della questione. L'irrazionalità dell'attuale organizzazione politica del mondo è causa della mancanza di pace, la quale in linea di principio non può esserci finché uomini e nazioni cercano di vivere insieme senza un'autorità comune, cioè in una condizione di anarchia: la ragione giuridico-politica della condizione di guerra è l'inorganizzazione o il disordine politico e giuridico della società delle nazioni. Sotto tale profilo non moltissimo è cambiato nella struttura delle relazioni internazionali dai tempi delle guerre del Peloponneso indagate da Tucidide: tali relazioni continuano ad incarnare lotte ricorrenti per la ricchezza e la potenza tra attori indipendenti in una condizione di anarchia. Anche da questo lato siamo condotti alla centralità del tema della sovranità. Maritain riteneva che la sua stessa nozione dovesse essere cancellata, perché richiama l'idea di un potere assoluto e trascendente dello Stato rispetto al corpo politico all'interno ( assolutismo e totalitarismo ), e libero da ogni ipoteca morale in campo internazionale dove è guidato solo dalla ricerca del suo interesse. Pure Rawls è pienamente consapevole della serietà del tema, sino a dichiarare senza reticenze: " We must reformulate the powers of sovereignty in light of a reasonable Law of Peoples and deny to states the traditional rights to war and to unrestricted internal autonomy ". I problemi della guerra e della pace non sono più risolubili, se mai lo furono, né entro il quadro dello Stato-nazione né attraverso le vie dell'accordo esclusivo e bilaterale degli Stati sovrani. Se gli Stati perlopiù si rapportano in una condizione di anarchia, in cui non esiste un'istanza superiore capace di decidere ed arbitrare, i loro scontri periodici disegnano una sorta di storia naturale della guerra e della distruzione. Ed è dinanzi a tale diagnosi che nel Novecento, dopo le due guerre mondiali, si è cercato di creare istanze superiori con la Società delle Nazioni e l'Onu, sebbene esse non vadano alla radice del male e non possano che limitarlo, non estinguerlo, poiché risultano da un patto associativo tra Stati sovrani in cui non si configura un'autorità politica sovra-ordinata: la presenza del diritto di veto attribuito in sede ONU ad alcuni Stati è eloquente. Le istituzioni di cui discorriamo sono organismi creati e messi in moto dagli Stati sovrani, di cui non possono che registrare le decisioni. Oggi la Società delle Nazioni non c'è più, mentre l'ONU è in serie difficoltà, ed alcuni vorrebbero sbarazzarsene, prendendo occasione dalla attuale crisi dei sistemi di organizzazione giuridica collettiva, in genere paralizzati dinanzi ai conflitti in corso. Se esiste in una minoranza elitaria un aumento di coscienza pacifista, si avverte nell'umanità che conta e che decide, un grave arretramento, impensabile anche soltanto venti fa, una desensibilizzazione sul piano giuridico e politico, una volontà di procedere per conto proprio. La guerra ( preventiva ) diventa una questione di volontà, non di legittimità, capace di scavalcare ogni istanza. Le valutazioni più attente convergono però nell'ammonire che la condizione del pianeta non consente di indebolire, nonostante i limiti appena segnalati, il ruolo d'istituzioni sovranazionali faticosamente edificate dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale al prezzo di pesanti difficoltà e sacrifici. Il loro smantellamento costituirebbe una regressione e aprirebbe scenari inediti, dovuti al venir meno di una sede planetaria di dialogo e dibattito dove le voci dei governi e dei popoli possano essere ascoltate e partecipare alle decisioni. Se l'attuale struttura dell'ONU, in quanto espressione di Stati membri che la costituiscono e che mantengono intatta la loro sovranità nelle scelte che più contano, è per vari aspetti obsoleta, la via d'uscita migliore non è porre l'ONU sotto la tutela dei potenti di turno, ma farla evolvere verso la costituzione di reali poteri pubblici capaci di un multilateralismo planetario, per porre rimedio alla grande contraddizione, quella per cui il villaggio globale è senza governo. L'enciclica Pacem in terris ( 1963 ) ha espresso in termini oggettivamente persuasivi e per nulla moralistici tale prospettiva: " I Poteri pubblici delle singole Comunità politiche, posti come sono su un piede di uguaglianza giuridica fra essi, per quanto moltiplichino i loro incontri e acuiscano la loro ingegnosità nell'elaborare nuovi strumenti giuridici, non sono più in grado di affrontare e risolvere gli accennati problemi adeguatamente; e ciò non tanto per mancanza di buona volontà o di iniziativa, ma a motivo di una loro deficienza strutturale. Si può dunque affermare che sul terreno storico è venuta meno la rispondenza fra l'attuale organizzazione e il rispettivo funzionamento del principio autoritario operante su piano mondiale e le esigenze obiettive del bene comune universale … Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni; di poteri pubblici cioè che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale. Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali Poteri vengano istituiti ". Prolungando il discorso dell'enciclica, si potrebbe aggiungere che gli auspicati Poteri pubblici dovrebbero possedere una struttura federale, entro uno sviluppo così descrivibile: di federazione in federazione sino alla federazione mondiale. La strutturazione dell'autorità dal basso verso il livello mondiale sarà a molti strati ( multilayered ), disposta secondo sussidiarietà, entro criteri fondamentali di coordinamento: la pace non nascerà dalla mano invisibile o da un polimorfismo di centri di autorità tra loro indipendenti e in concorrenza, ma da un quadro e un progetto voluti. La Pacem in terris oltrepassa e completa l'opera anticipatrice di L. Sturzo, La comunità internazionale e il diritto di guerra, pubblicata a Londra nel 1929, dove la questione dell'abolizione della guerra è posta con forza sin dalle prime pagine: va oltre nel senso che non si limita a rilevare che il monopolio dell'uso della forza legittima al più alto livello, quello mondiale, allontanerebbe lo scatenamento periodico della violenza tra gli Stati, ma indica il cammino della formazione di una società politica mondiale con autorità di pari livello. Così suona la tesi di Sturzo: " Il problema, pertanto, che noi ci poniamo è questo: 'Se e come l'istituto della guerra sia eliminabile nell'organizzazione internazionale… '" La guerra non è fatale, non è necessaria, ma è volontaria, sono gli uomini, determinati uomini, pochi o molti, i responsabili della guerra, di ogni guerra, anche quando dicono di non volerla ". Sturzo, che ritiene necessaria la limitazione della sovranità degli Stati e la formazione di un'organizzazione internazionale dotata di potere coercitivo, individua la grande contraddizione nel fatto che " nello Stato tutti i cittadini sono disarmati e solo il potere politico è armato; nella comunità internazionale tutti gli Stati sono armati e solo l'autorità internazionale è disarmata " ( p. 202 e s. ). Molto probabilmente gli uomini non potranno risolvere i conflitti senza mai ricorrere all'uso della forza, ma se tale uso è monopolizzato in un'autorità politica sovranazionale, allora decade l'idea e la possibilità stessa della guerra quale scontro fra Stati. In questo modo Sturzo andava oltre la constatazione della fine dello jus publicum europaeum che per alcuni secoli aveva regolato il " diritto di guerra ", per impostare il tema della sua eliminabilità quale diritto sovrano dei singoli Stati. 3) E questo obiettivo ragionevole o meno? Hanno ragione i pacifisti quando invitano a lottare per la pace? Prima di abbozzare una risposta è opportuno interrogarsi sul significato di termini quali " pacifismo " e " pacifista ", chiedersi se non si debbano introdurre altri termini quali pacifico, pacificatore, almeno come aggettivi poiché il sostantivo " pacifismo " non pare avere alternative. La situazione è scomoda perché " pacifismo " rischia d'essere ambiguo. Spesso l'opinione pubblica vi proietta un significato negativo, come se il pacifista fosse disposto a cedimenti, a chiudere gli occhi sull'ingiustizia e la violenza pur di ottenere la pace. Sarebbe il pacifista uno che ama la pace solo nel senso che vuole starsene in pace e, come si dice icasticamente, farsi i fatti suoi e tenersi lontano dai fastidi? La beatitudine evangelica non parla solo di persone che sono in pace con se stesse, e ancor meno di coloro che non vogliono fastidi, ma di quelli che " fanno pace ", operano per la pace, costruiscono pace: eirenepoioi è il termine impiegato dal Vangelo di Matteo ( Mt 5,9 ). " Beati gli operatori di pace, perché essi saranno chiamati figli di Dio " è la traduzione dal greco. Il pacifico è insieme un pacificatore, non sta in pace solo con se stesso, ma crea la pace sociale e politica intorno a sé: è un pacifista attivo, un facitore di pace. I pacifici sono " uomini di pace " che cercano la verità e rifuggono dalla menzogna, che è componente essenziale della condizione di guerra. Il pacifismo senza protagonisti pacifici e pacificatori rischia di tradire lo scopo della pace. Il pacificatore attivo e lungimirante può percorrere vari cammini, tra cui primario quello di edificare mediante la politica e il diritto poteri pubblici di livello crescente. Bobbio nel suo bei libro Il problema della guerra e le vie della pace osserva che il pacifismo attivo ha dinanzi a sé tre strade: a) il disarmo esteso e controllato, b) la via istituzionale, che interpreterei come il superamento dell'attuale sistema internazionale fondato sugli Stati sovrani e il passaggio ad un sistema politico planetario basato su poteri pubblici sopranazionali e infine mondiali, c) la riforma morale e pedagogica della natura umana, nell'intento di far emergere in essa il lato di luce contro quello d'ombra. Il primo obiettivo è il meno difficile ma anche quello che offre minori chances di condurre alla pace mondiale ( eppure, a dispetto della sua relativa fattibilità, la ripresa della corsa agli armamenti e di spese militari sempre più smisurate è un dato che impressiona e che non apre alla speranza ); mentre il terzo sarebbe il più efficace, se è vero che la sorgente ultima delle guerre stia nell'aggressività umana, ma è anche il più arduo. Come giungere a modificare la natura umana? Come intervenire nel fitto tessuto d'amore, odio, paure, emozioni, repulsioni che vivono in noi? La via più efficace e realistica, ma tutt'altro che scontata, alla pace è di secondo tipo. La possiamo chiamare via politico-giuridico-istituzionale: politica poiché prende in esame gli Stati quali unità politiche basali, il loro funzionamento, e la loro sovranità; giuridica in quanto cerca nel diritto internazionale e nell'oltrepassamento della sovranità uno strumento di superamento dello scontro bellico; istituzionale in quanto prefigura nuove istituzioni e autorità politiche disposte secondo sussidiarietà su scala planetaria ( e perciò non nell'inaccettabile forma del superStato mondiale ), una funzione delle quali è, come detto, di accentrare al livello più alto l'uso della forza. In questo pacifismo si perviene all'eliminazione di una forma fondamentale di guerra, quella fra Stati, mediante il congiunto operare di politica, diritto e sapienza istituzionale. Non si perviene all'eliminazione d'ogni forma di violenza e di ricorso alla forza. Oggi la costituzione di un'autorità politica mondiale rappresenta una possibilità lontana, un ideale storico verso il quale spingono potenti ragioni, ma che non sappiamo se e quando si realizzerà. In tale situazione e nonostante ogni difficoltà, dobbiamo agire per porre i suoi fondamenti remoti, come se il risultato fosse assicurato e la cosa senz'altro possibile, non solo perché vi è un dovere morale di agire così, ma anche perché tale dovere è fondato intellettualmente in un'analisi strutturale dei rapporti internazionali. Si tratta di prendere atto in modo consapevole che l'attuale organizzazione del sistema politico internazionale, ancora largamente basata sullo Stato-nazione e sulla sua sovranità, è ormai del tutto inadeguata alla nuova dimensione dei problemi. 5. Principio-persona e nonviolenza 1) Il compito della filosofia consisterebbe nel disarmare la ragione armata. La nonviolenza agevola tale cammino. 2) Il filosofo personalista può sperare, anzi ha lo stretto dovere di farlo, ma non può sapere se il principio-persona si estenderà su scala planetaria oltre il mondo storico-spirituale in cui prese vita e slancio. Solo una filosofia profetica della storia potrebbe saperlo, ma una tale filosofia non esiste. Anche le filosofie ottimistiche del costante progresso verso il meglio hanno fatto il loro tempo, o comunque non conosciamo se abbiano ragione. Se però accadrà che il principio-persona raggiunga concreta estensione mondiale - tale obiettivo è forse il massimo che la libertà dell'uomo possa porsi - dovranno prendere slancio nuove concezioni di lotta politica e una nuova riflessione sui mezzi pesanti o carnali e sui mezzi poveri e nonviolenti di azione. In essi rientrano il dialogo, la trattativa, la ricerca della comunicazione umana, la mitezza, la non-collaborazione con l'avversario oppressore, il rifiuto di ricorrere alla violenza nelle sue varie forme, la preghiera. Tra i metodi nonviolenti di lotta politica spicca in specie la nonviolenza attiva, distinta da quella in cui si opera una mera resistenza passiva. La nonviolenza attiva è una forma d'azione che dista infinitamente dalla scelta dell'inazione, dal quietismo passivo di chi si ritrae. La nonviolenza attiva, seguita secondo l'ispirazione di Gandhi, di Lanza del Vasto, di Capitini, di M. L. King è una strada aperta verso il futuro capace d'interpellare i forti e i superbi, e forse di piegare i malintenzionati. Questa strada sta lentamente passando dall'irrisione, di cui la nonviolenza è stata fatta segno dai cosiddetti realisti e benpensanti, ad un maggiore livello critico d'elaborazione e all'applicazione concreta. Si tratta di una necessità assoluta che va oltre la buona volontà dei singoli. Il XX secolo è cominciato con un processo di rapida globalizzazione della violenza che è sfociato in due guerre mondiali e l'invenzione e costruzione in massa di armi termonucleari con le quali è possibile cancellare l'intero genere umano. Il nuovo millennio si è aperto con guerre, terrorismi, estese globalizzazioni tutt'altro che prive di violenza. 3) Sulla nonviolenza Gandhi meditò, agì, scrisse lungo tutta la vita. " Non pretendo di essere perfetto. Ma pretendo di essere un appassionato ricercatore della Verità, la quale non è altro che un sinonimo di Dio. È nel corso di tale ricerca che ho scoperto la nonviolenza. La diffusione di essa è la missione della mia vita. Non ho altri interessi nella vita che lo svolgimento di questa missione … È inutile che io ripeta ancora una volta che la non violenza del forte è la forza più grande che esista al mondo … Per questo nostro mondo tormentato non vi è alcuna speranza di salvezza se non nella stretta e diritta via della nonviolenza. È possibile che milioni di persone come me non riusciranno a dimostrare tale verità nel corso della loro vita, ma il fallimento sarà loro, non della legge eterna ". Queste espressioni indirizzano ad approfondire i nessi tra persona e nonviolenza. Se il personalismo del Novecento è stato una feconda ripresa e rinnovamento di un perenne nucleo di realtà, la nonviolenza gandhiana rimane una scoperta essenziale che ha aperto nuovi campi all'azione. Una conferma dell'omologia tra principio-persona e nonviolenza si trae dal fatto che spesso furono gli autori personalisti ad avvertire l'importanza della lezione di Gandhi. Il personalismo francese, forse più di quello italiano talvolta tinto di accademia, colse con Massignon, Maritain, Mounier e successivamente Ricoeur l'altezza della testimonianza del saggio indiano. 4) La nonviolenza non è sotto mentite spoglie una nuova forma di buonismo razionalistico, che si aspetta il trionfo definitivo della verità e del bene perché appunto sono la verità e il bene. Il termine gandhiano di Satyagraha significa " forza della verità ", non sua vittoria. Vi sono numerose tecniche nonviolente che possono essere messe in pratica da persone di buona volontà, ma un'effettiva fiducia storico-pratica nel metodo della nonviolenza richiede l'accettazione della legge dell'amore e in certo modo la fede in un governo divino del mondo: Gandhi e Maritain si sono espressi in merito. Tratteggiando le caratteristiche e le condizioni del successo della nonviolenza Gandhi osserva: " 1) La nonviolenza è la legge della razza umana ed è infinitamente più grande e più potente della forza bruta. 2) Essa non può essere di alcun aiuto a chi non possiede una fede profonda nel Dio dell'Amore … 5) La nonviolenza è un potere che può essere posseduto in eguai misura da tutti - bambini, ragazzi, ragazze, e uomini e donne adulti - posto che essi abbiano una fede profonda nel Dio dell'Amore e che quindi possiedano un ugual amore per tutto il genere umano ". Secondo Maritain l'uomo politico " deve vivere di speranza. È possibile vivere di speranza senza vivere di fede? … Io non credo che in politica gli uomini possano sfuggire alla tentazione del machiavellismo se non credono all'esistenza di un governo supremo e propriamente divino dell'universo e della storia ". La nonviolenza del Satyagraha è la nonviolenza dei forti, di coloro che in sommo grado sono capaci di sopportare, e ciò la diversifica senza ombra di dubbio dalla debolezza dei codardi o dei rinunciatari. Il nonviolento pratica al massimo grado la virtù di fortezza il cui atto fondamentale consiste nel sopportare più che nell'attaccare: in sustinendo tristia maxime aliqui fortes dicuntur, osserva l'Aquinate riprendendo un detto di Aristotele. È veramente forte colui che governa se stesso sopportando ogni male e la tristezza senza perdere l'orientamento verso il bene e la speranza. Illustrando il senso del Satyagraha, Gandhi spiegò che " pazienza significa disposizione a soffrire " ; e il suo metodo consiste nella difesa della verità attuata non infliggendo sofferenze all'avversario ma a se stessi. 5) La nonviolenza in certo modo si colloca più in alto del pacifismo, se questo si limita a ripudiare la guerra come la forma più macroscopica e ripugnante di violenza. In senso proprio il pacifista manifesta avversione alla guerra e scelta per la pace, mentre il nonviolento è sensibile a tutte le forme di violenza, tra cui certo quella politica ma anche quelle di tipo strutturale-economico e culturale ( intendo con questo termine le forme di violenza ed oppressione che sono depositate in idee e costumi tramandati e che possono incorporare disprezzo per l'altro ). Il nonviolento rifiuta l'amoralità della politica e il dualismo tra etica pubblica e privata, ed è convinto dell'omogeneità tra mezzi e fini, ossia che mezzi impuri producono un fine impuro. Inoltre la nonviolenza non è mera teoria ma prassi che cerca di mettere a punto metodi e tecniche efficaci di lotta nonviolenta: da quelli impiegati dalle classi lavoratrici nella lotta tra capitale e lavoro, a quelli praticati nella lotta per l'indipendenza di un popolo o per l'affermazione di fondamentali diritti umani. La nonviolenza cerca di spengere la fiamma dell'odio e della violenza in radice. Essa vuole assorbire nell'amore e con l'amore il colpo della violenza, vuole evitare che si propaghi in un'ininterrotta dialettica di colpo, reazione e nuovo colpo, dove la regola rimane quella del mors tua vita mea. Alla domanda se solo il polemos stia alle radici dell'essere e dell'uomo, la nonviolenza risponde che non è così, che tale posizione è falsa, e che occorre limitare il polemos con i mezzi dell'amore e della libertà. La nonviolenza non è utopia ma profezia, a partire dall'idea che nessuna logica necessitaria che obblighi alla violenza e all'odio è inscritta nell'essere: mentre l'utopista disegna a tavolino rapporti e perfezioni meramente pensate, il profeta si attiva qui ed ora per agire. Il nonviolento rifiuta la disperata logica di Nietzsche secondo cui la volontà di potenza sta alla base della vita e della realtà, un assunto che continua ad avvelenare tante vite e tanti pensieri, poiché volontà di potenza e volontà di violenza confinano pericolosamente. Assumere che la persona sia volontà di potenza e nient'altro, è una posizione antipersonalista disastrosa. La questione della nonviolenza è più ampia di quella della risposta ad un ingiusto aggressore od oppressore, e si estende a tanti campi della vita. Nella vita il primo movimento è l'amore per l'altro: all'inizio l'altro sono io, che vengo accolto e amato entrando nell'essere con la nascita, e che così divengo capace di amare. Amo, ergo sum. " Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte … Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore " ( 1 Gv 3,14; 1 Gv 4,8 ). 6) La nonviolenza agisce sugli strumenti, le istituzioni, gli uomini, cercando un'omogeneità tra fine e mezzi: se lo scopo è la pace essa non può che essere opera di mezzi pacifici. La nonviolenza come pedagogia dell'umanità si spende affinché gli uomini si convertano ad uno stile di vita nonviolento e mite. Dopo la seconda guerra mondiale sono aumentate le riflessioni, le ricerche, le pratiche per sperimentare tecniche nonviolente di difesa e resistenza che vanno dalla disobbedienza civile al rifiuto di collaborare e simili. Una vastissima letteratura è disponibile, di cui in nota segnalo solo alcuni pochi titoli. Si è cominciata a stendere una storia della nonviolenza, " che è anche la storia delle lotte contro la violenza degli "uomini irragionevoli". E sorprendente che questa storia non abbia maggiormente attirato l'attenzione degli uomini "ragionevoli" che raccomandano e giustificano la violenza ". Tale storia avvalora una fondata persuasione di Aldo Capitini: " Esistono vittorie senza violenza ". In genere i "realisti" nutrono molti dubbi sull'efficacia della resistenza nonviolenta, in specie di fronte ad un avversario pronto a colpire duramente, come è stato il nazismo. Eppure anche nei suoi confronti alcuni risultati vennero raggiunti. " La storia degli ebrei danesi è una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo danese non trova riscontro in nessun altro Paese d'Europa, occupato o alleato dell'Asse o neutrale e indipendente che fosse. Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università dove vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un'idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l'avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori. Certo, anche altri Paesi d'Europa difettavano di " comprensione per la questione ebraica ", e anzi si può dire che la maggioranza dei Paesi europei fosse contraria alle soluzioni " radicali " e " finali ". Come la Danimarca, anche la Svezia, l'Italia e la Bulgaria si rivelarono quasi immuni dall'antisemitismo, ma delle tre di queste nazioni che si trovavano sotto il tallone tedesco soltanto la danese osò esprimere apertamente ciò che pensava. L'Italia e la Bulgaria sabotarono gli ordini della Germania e svolsero un complicato doppio gioco, salvando i loro ebrei con un tour de force d'ingegnosità, ma non contestarono mai la politica antisemita in quanto tale. Era esattamente l'opposto di quello che fecero i danesi. Quando i tedeschi, con una certa cautela, li invitarono a introdurre il distintivo giallo, essi risposero che il re sarebbe stato il primo a portarlo, e i ministri danesi fecero presente che qualsiasi provvedimento antisemita avrebbe provocato le loro immediate dimissioni ". I nazisti desistettero. 7) Nutro stima e consonanza per la prospettiva nonviolenta, e mi auguro che essa possa penetrare sempre più in profondità nei rapporti tra gli uomini e nei gruppi politici, mettendo a fuoco e raffinando le tecniche di positiva azione nonviolenta. Non penso però che sia possibile eliminare completamente l'uso della forza e della sanzione nei rapporti sociali e politici. Conseguentemente reputo necessario muovere verso il monopolio mondiale dell'uso della forza accentrato in poteri pubblici planetari rappresentativi, come antidoto alla guerra internazionale. Come già evidenziato nelle pagine precedenti, non si tratta dell'obiettivo politico più alto, che sta nella costituzione di una società grande quanto il mondo abitata dalla giustizia e dal mutuo riconoscimento, ma di uno scopo necessario per estirpare la mala pianta della guerra. Ciò non toglie minimamente che mille e mille azioni nonviolente siano valide e raccomandabili tanto nell'attuale situazione di anarchia internazionale quanto nella sperata futura situazione di una società mondiale. Sulla nonviolenza possono valere le sensate riflessioni di Bobbio: " Non mi considero un nonviolento militante, ma ho acquistato la certezza assoluta che o gli uomini riusciranno a risolvere i loro conflitti senza ricorrere alla violenza, in particolare a quella violenza collettiva e organizzata che è la guerra, sia esterna sia interna, o la violenza li cancellerà dalla faccia della terra … Certamente l'uomo non può rinunciare a combattere contro l'oppressione, a lottare per la libertà, per la giustizia, per l'indipendenza. Ma è possibile, e sarà anche producente e concludente, combattere con altri mezzi che non siano quelli tradizionali della violenza individuale e collettiva? Questo è il problema ". Senza nutrire illusioni sulla possibilità di estirpare completamente la mala pianta della violenza dalla storia dell'uomo, all'interrogativo bobbiano sembra possibile rispondere in modo parzialmente positivo, se l'umanità perverrà ad una forma d'organizzazione politica meno primitiva dell'attuale. 6. Annesso: La questione della guerra giusta 1) La guerra introduce una frattura brutale nel processo di globalizzazione della famiglia umana, delle relazioni fra soggetti e comunità: la sua irrazionalità ( bellum est alienum a ratione, enciclica Pacem in terris ) risulta ancor più intensa e tragica oggi che nel passato in rapporto alla crescita esponenziale dei mezzi di distruzione. Ne consegue la necessità di bandire la guerra, portando gli Stati a rinunciare allo jus ad bellum e ricorrendo ad un'azione di polizia da parte di poteri pubblici mondiali nei casi in cui si renda necessario: blocco di un ingiusto aggressore, riparazione di un grave torto e di comportamenti gravemente lesivi, protezione di popolazioni a rischio di genocidio o comunque soggette a profonde violazioni dei diritti umani. Nonostante qualche modesto passo avanti, siamo molto lontani da un tale esito: di conseguenza diventa ancora più urgente svolgere una riflessione politico-morale sulla guerra. In tale crocevia riemerge la questione della guerra giusta, certo da rielaborare nel nuovo quadro mondiale, mutato rispetto a quello entro cui era stata pensata la teoria moderna della guerra giusta, e che si imperniava sugli Stati e i rapporti interstatali. La teoria in vario modo rinasce come chiara antitesi al realismo politico, quale posizione spesso dominante nelle relazioni internazionali che concepisce la politica estera e i rapporti internazionali come una lotta perpetua per la potenza, l'utilità e la forza del proprio Stato. E rinasce poiché ci si rende conto che la limitazione della guerra può essere l'inizio della pace. E noto che la teoria è stata elaborata nella tarda antichità e nel Medioevo cristiano, quando lo Stato moderno come lo conosciamo da vari secoli non esisteva. Ha avuto una ripresa ed una rielaborazione dal XVI secolo in avanti entro il quadro dei rapporti interstatali di allora e la nascita del jus publicum europaeum; è entrata in crisi con e dopo la seconda guerra mondiale, in rapporto all'avvento delle armi nucleari. Il declino della teoria della guerra giusta si è da allora accelerato nell'opinione di tanti, che la ritengono del tutto superata dalle guerre nucleari. A torto però, perché proprio i tradizionali criteri della guerra giusta rendono impercorribile ogni ipotesi di guerra nucleare per la violazione palese di almeno due suoi criteri centrali: la proporzionalità tra il momento dei fini e dei mezzi impiegati e quello degli effetti ottenuti, l'immunità dei non combattenti o dei civili. Alla domanda: è lecito vim ( nuclearem ) vi ( nucleari ) repellere?, si deve rispondere negativamente, ed è di primaria importanza osservare che la risposta negativa non rappresenta una deroga o un crollo della dottrina della " giusta difesa ", ma sono proprio i suoi criteri a rendere illecita una guerra nucleare anche difensiva. Ciò significa che è rischioso rifiutare tale dottrina, ed anche coloro che la considerano obsoleta o inapplicabile nel caso estremo, in realtà se reputano illecita una guerra nucleare difensiva si rifanno ad essa. La guerra nucleare è ingiusta per definizione perché viola i due criteri ricordati. Dopo gli anni '50-'80 del Novecento, in cui la teoria della guerra giusta venne in larga misura abbandonata, da qualche tempo si assiste a segnali di sua ripresa entro una situazione in cui i diritti umani e la loro protezione hanno acquisito notevole peso, quasi sconosciuto 60 anni fa quando molto ruotava ancora attorno agli Stati. Un segnale significativo del periodico ritorno della dottrina tradizionale sulla guerra giusta che va da Maimonide, ad Agostino, Tommaso d'Aquino, Grozio, Viteria, Suarez ecc., è la nota opera di Michael Walzer, Guerre giuste e ingiuste, in cui l'autore intende riappropriarsi " della nozione di guerra giusta ai fini della formulazione di una teoria politica e morale ". 2) La questione della guerra giusta è stata discussa infinite volte, né qui mi riprometto di ricostruirne il dibattito o di pronunciarmi sulla sua applicabilità in specifici casi concreti. In un volume di oltre trent'anni fa esaminai il tema entro un quadro geopolitico da allora molto variato. Ciò mette in luce che, se i criteri principali della dottrina sulla guerra giusta non mutano nel tempo, può mutare profondamente il contesto stesso in cui dovrebbero applicarsi. Tra i tanti esempi ne richiamo uno, riguardante la forma della guerra: che cosa hanno in comune le guerre omeriche e i loro eroi dotati di coraggio, potenza, senso epico, che si affrontano a viso aperto, e la moderna guerra tecnologica in cui larga parte delle battaglie sono combattute stando dinanzi ad un video? E che cos a hanno in comune la guerra " conservatrice " che mira a ristabilire il diritto violato, e quella rivoluzionaria che punta a creare un ordine nuovo? A tali forme conseguono due diverse violenze. Se la storia europea ha conosciuto per vari secoli ( XVI - XVIII ) la guerra conservatrice che restaura l'ordine e il diritto violati e che assomiglia ad una procedura giudiziaria il cui scopo é porre rimedio ad un'ingiustizia, per circa un secolo abbiamo conosciuto la guerra volta non a restaurare un ordine vecchio, ma a produrre un nuovo ordine rivoluzionario e il relativo diritto. 3) Attualmente la questione della guerra giusta riemerge dinanzi all'interrogativo se la difesa dei deboli, dei loro diritti umani fondamentali di fronte al rischio concreto di catastrofe umanitaria, possa giustificare un intervento militare. Oggi l'uso della forza e forse perfino una guerra potrebbero essere giuste se fossero indirizzate, in mancanza d'ogni altra alternativa percorribile, a tutelare i deboli oppressi, a contrastare violazioni massicce di diritti fondamentali, ad allontanare pratiche di sterminio e genocidio. La teoria torna dunque nuovamente d'attualità in rapporto ad un'idea di pace giusta, intesa non solo come assenza di ricorso alla forza. Poiché il fine della guerra dovrebbe essere quello della pace ( almeno della pace come tregua, trattato, e assenza di forza ), la guerra giusta rinvia alla pace giusta. Ma quale pace giusta? E prima ancora quale pace? Pace come assenza di ricorso alla forza? Come sicurezza? Pace come frutto di giustizia? Anche da questo lato siamo necessariamente rinviati dal tema della guerra a quello della pace, a testimonianza del fatto che i due aspetti non sono separabili e che le istituzioni e il diritto internazionale devono compiere importanti passi avanti per tenere conto di nuove e più fondamentali esigenze che consentano di differenziare una pace giusta da una ingiusta. In effetti in base alle vigenti determinazioni tecnico-giuridiche della pace, quali sono depositate nella Carta dell'ONU e negli sviluppi del diritto internazionale, è arduo procedere a distinguere una pace giusta da una ingiusta in cui importanti diritti umani siano violati, poiché quei testi assegnano speciale rilievo alla pace individuata nella sicurezza, nel mantenimento dello status quo e nell'assenza di ricorso alla forza, e meno alla giustizia. Su queste basi potrebbe risultare illegittimo il ricorso alla forza per tutelare i diritti umani. D'altro canto l'importanza attribuita a questi e alla loro tutela concreta spinge ad interrogare nuovamente la dottrina tradizionale, a partire dal rispetto di tali diritti come elemento centrale di una pace giusta. Si chiede cioè se la difesa di fondamentali diritti possa configurarsi come justa causa belli, e se non si debba ridefinire il criterio tradizionale di non ingerenza, raccordandolo non alla sovranità dello Stato ma ai diritti dei singoli e dei popoli. Tutto ciò scaturirebbe dall'intento di prendere i diritti sul serio. Le nuove prospettive rappresentano un cuneo fastidioso per la questione della sicurezza nazionale. In merito la posizione di Realpolitik sostiene che coloro cui spetta garantire la sicurezza nazionale sono gli unici competenti a stabilire ciò che essa esige. Ma la dottrina della guerra giusta, collocata nel contesto uscito dalla seconda guerra mondiale, invalida tale idea precipuamente dal lato dello jus ad bellum, ormai regolato dalla Carta delle Nazioni Unite. Né la questione della sicurezza nazionale, né quella della sicurezza internazionale possono essere affidate esclusivamente al giudizio dei singoli Stati. 4) La teoria della guerra giusta affonda le sue radici nell'idea che esista un giusto naturale che occorre restaurare se viene violato. Importanti posizioni filosofiche ritengono che i diritti umani, e in specie quelli più fondamentali, interpretino tale giusto naturale. Se non si pensa che esista una giustizia da riconoscere e rispettare, la guerra esce dal quadro di un " processo in tribunale " e diventa un fatto esistenziale privo d'ogni regolazione. Se cade la nozione di iustum cade quella di iusta causa, ed emerge solo l'elemento dello scontro col nemico. Non dobbiamo sottovalutare il nesso tra nichilismo giuridico ( negazione del diritto naturale e della stessa idea di giustizia come ordine razionale non soggetto alla mera volontà degli attori ) e crisi dell'idea di giusta causa e guerra giusta ( resa giusta dalla giustizia della causa e dall'appropriatezza dei mezzi ). Sul piano dei presupposti filosofici e morali, avversari della dottrina della " guerra giusta " sono quelle teorie che negano si possa parlare di una norma durevole e riconoscibile di giustizia. In genere a favore è stato ed è il giusnaturalismo nelle sue varie forme. Nel caso in cui esista una giusta o ben fondata causa di guerra, siamo sollecitati ad esplorare il quadro della giusta conduzione della guerra ( insto modo ). Spesso " guerre giuste " dal lato dello jus ad bellum - consideriamo nuovamente il caso di interventi umanitari per proteggere una popolazione da un imminente o attuale rischio di strage e genocidio -, diventano ingiuste quanto allo jus in bello, ossia in rapporto alla concreta conduzione delle operazioni militari. Opino che tale fu il caso della seconda guerra mondiale: esisteva una giusta e ben fondata causa di guerra da parte degli alleati, ma la sua conduzione fu ingiusta e non di rado barbarica per il sistematico bombardamento di città e strage di civili, e infine per l'impiego della bomba atomica. 5) Le dottrine sulla guerra possono essere suddivise in tre gruppi: quelle che giustificano tutte le guerre; quelle che le ingiustificano tutte; quelle che alcune ne approvano, altre ne rifiutano. In quest'ultimo gruppo rientra la dottrina della guerra giusta, che dovrebbe più esattamente essere chiamata dottrina della " giusta difesa ". Essa è una dottrina della legittima difesa, non della legittima offesa. Tale dottrina, sviluppata dai moralisti, di per sé non è antipersonalista, come invece lo sono la guerra totale, la guerra civile mondiale, la guerra ideologica, la guerra di conquista e di dominio, le quali si nutrono del disprezzo dell'uomo e mirano alla distrazione e all'avvilimento dell'avversario. Escluse queste forme di guerra, rimangono le guerre difensive contro un ingiusto aggressore, dove vim vi repellere licei, ed a queste in specie si riferisce la dottrina in questione. La dottrina della guerra giusta cerca di introdurre una forma di ordine e di responsabilità in quel fenomeno eminentemente irrazionale e esistenzialmente senza regole che è la guerra. M. Spieker osserva: " La preoccupazione principale della dottrina del bellum iustum non è tanto quella di legittimare l'impiego militare delle armi, cosa che da più parti le viene attribuita, quanto quella di assicurare la pace o di impedire la guerra e, qualora questa non fosse evitabile, di limitarla ". N. Bobbio nota che la dottrina della guerra giusta è etica, non giuridica, dal momento che il diritto positivo internazionale " non regola la causa della guerra bensì regola la sua condotta, quale che sia la causa ". In merito emerge nuovamente il diffalco attualmente insuperabile tra lo jus ad bellum, regolato con severi criteri dalla dottrina della guerra giusta, e la condizione giuridico-politica della comunità mondiale dove quel " diritto " è ancora per vari aspetti consegnato alle scelte dei singoli Stati. Nel momento più delicato e decisivo, quello dello scatenamento della guerra, la dottrina enuclea criteri che in genere rimangono teorici e scavalcati dal comportamento concreto degli attori, che si comportano tanto come giudici quanto come parti in causa. La ragione profonda dell'esistenza delle guerre tra Stati è la mancanza di organizzazione politica e giuridica della società delle nazioni. La dottrina della guerra giusta consente un giudizio etico-politico necessario, purtroppo molto spesso inidoneo ad evitare le guerre o a regolarle una volta scoppiate. Di fatto l'aporia fondamentale pratica della dottrina non sta nei criteri dell'esistenza di una insta causa ma in quello dell'autorità legittimata ( legitima auctoritas ) a portare la guerra: dove individuarla, a chi attribuire sensatamente tale carattere? La domanda ci riporta dinanzi alla drammatica inorganizzazione politica della società mondiale. Questo aspetto emerge con forza nell'insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II nella costituzione Gaudium et spes: " La guerra non è purtroppo estirpata dalla umana condizione. E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa … Il progresso delle armi scientifiche ha enormemente accresciuto l'orrore e l'atrocità della guerra. Le azioni militari, infatti, se condotte con questi mezzi, possono produrre distruzioni immani e indiscriminate, che superano pertanto, di gran lunga, i limiti di una legittima difesa … Tutte queste cose ci obbligano a considerare l'argomento della guerra con mentalità completamente nuova … È chiaro che dobbiamo con ogni impegno sforzarci per preparare quel tempo, nel quale, mediante l'accordo delle nazioni si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerr a. Questo naturalmente esige che venga istituita un'autorità pubblica universale, da tutti riconosciuta, la quale sia dotata di efficace potere per garantire a tutti i popoli sicurezza, osservanza della giustizia e rispetto dei diritti " ( n. 79 e s. ). La linea di riflessione della Gaudium et spes insegna la liceità della legittima difesa nelle guerre convenzionali, e l'illiceità dell'impiego delle armi nucleari, convalidando implicitamente la dottrina della " guerra giusta ". La dottrina della guerra giusta entra in crisi sul piano effettuale, perché a tutt'oggi non esiste un'istanza internazionale sopra le parti, che possa emettere un verdetto sulla validità delle ragioni dei contendenti. Quis iudicabit? Ma sul piano etico, nonché su quello della guerra puramente difensiva, la dottrina rimane valida. Non direi perciò con Bobbio che tale dottrina sia completamente superata in rapporto alla nascita della guerra nucleare, cui egli si riferisce. In realtà abbiamo visto che proprio i criteri etico- politici, pensati in tempi in cui nulla si poteva immaginare o prevedere sulle armi nucleari, rendono illecita e improponibile ogni guerra di tal tipo. 6) Numerose dottrine sulla guerra sono state spiazzate dall'avvento dell'arma nucleare. Un esempio sta nella teoria di Clausewitz per cui la guerra non è altro che la politica perseguita con altri mezzi ( Der Krieg ist eine blosse Fortsetzung der Potitik mit andern Mittein ), a meno di non accettare che la presupposta continuazione bellica della politica conduca al baratro del nulla. Proprio l'escalation delle armi verso l'arma totale, delle guerre verso la guerra totale falsifica l'assunto di Clausewitz, pensato in un contesto diverso in cui si riteneva che la ragione politica avrebbe saputo guidare la guerra, tenerla sotto controllo e fermarla al momento opportuno. In Clausewitz si presuppone il primato continuo della politica sulla strategia militare, mentre l'enorme potenza delle armi nucleari fa passare la voce della politica sotto quella delle armi, né sembrano sussistere effettive possibilità di graduare i mezzi bellici e gli obiettivi, una volta che il conflitto nucleare si sia avviato. La guerra nucleare non è la continuazione della politica con altri mezzi, ossia con mezzi diversi da quelli diplomatici, economici, ecc., ma sua fine catastrofica. La guerra nucleare falsifica anche il Begriffdes Politischen di Schmitt, secondo il quale la guerra è lo strumento, il criterio e il presupposto essenziale della politica, che è veramente tale solo se è traducibile in termini bellici. Secondo Schmitt, " la guerra non è scopo o mèta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale … è da questa possibilità estrema [ la lotta tra amico e nemico ] che la vita dell'uomo acquista la sua tensione specificatamente politica ". Lo stallo strategico tra le due superpotenze, prodottosi all'epoca della guerra fredda dalla mutua deterrenza nucleare, allontanando la possibilità della guerra totale, ha declassato il criterio schmittiano, che da categoria universale del politico tende ad essere confinato al caso della guerra partigiana. In effetti la dottrina schmittiana secondo cui l'essenza del politico risiede nella contrapposizione amico-nemico, subisce un'inesorabile falsificazione consistente nella coincidenza tra massima realizzazione del politico ( la guerra totale ) e suo toglimento ( la catastrofe totale ). 7) La dottrina della guerra giusta implica che la vita non sia sempre il valore supremo, per quanto sia alla base di ogni altro, perché i diritti dell'uomo non hanno senso senza di esso. Asserire che il diritto alla vita è il più basilare, non significa ancora dire che esso sia il più importante in ogni caso. Lo è quando il diritto alla vita è inteso come diritto a nascere: qui si tratta di difendere la vita non nata e totalmente dipendente da altri, dall'arbitrio di chi ne può disporre a piacimento; lo è anche quando opera come divieto dell'assassinio e delle lesioni corporee inferte ad altri. Ma una volta che l'essere umano è nato ed è divenuto consapevole di sé, il diritto alla vita non può essere sempre e comunque invocato come un assoluto intangibile: l'uomo può mettere a repentaglio la propria vita per testimoniare valori assoluti, per difendere la propria società ingiustamente aggredita. Non si può ridurre il problema della pace, come vorrebbe certo pacifismo ad oltranza, alla pura e semplice salvaguardia della vita. Il personalismo non accetta che sia lecito propter vitam vivendi perdere causas. Una concezione tutta passiva e consumistica dei diritti dell'uomo, che assilla società e governi con continue richieste di sicurezza assoluta, di salute, di consumo, di felicità garantita, non pare una concezione personalista, anzi rischia di considerare l'uomo alla stregua di un animale ben nutrito. 8) A mio avviso la dottrina della " giusta difesa " risolve in modo coerente con la natura della politica il dilemma tra rinuncia alla forza e uso indiscriminato della stessa. Va da sé che non ogni uso della forza sia legittimo, e con ciò il secondo corno del dilemma non sussiste nella sua nuda crudezza. Più complesso è valutare la posizione del pacifismo radicale che, facendo appello al Discorso della montagna, rifiuta in assoluto ogni guerra, compresa quella difensiva. Se il vertice del Vangelo è costituito dal comandamento: " Amerai il Signore Dio tuo con tutta la tua mente, con tutta la tua anima, con tutto il tuo cuore, e il tuo prossimo come te stesso ", l'amore del prossimo può richiedere che venga soccorso quando è ferito ( episodio del buon samaritano ), e che venga difeso quando è attaccato ingiustamente. Nel farlo, rimane possibile il ricorso a mezzi nonviolenti di lotta e resistenza. Capitolo settimo - Fondamenti personalisti della democrazia Il personalismo ha fornito notevoli elementi per quella definizione positiva della pace, di cui abbiamo riconosciuto la necessità, e si è opposto all'ambiguo fascino esercitato dalla lotta, al quale soggiacciono varie correnti della filosofia politica moderna. Costituisce perciò un essenziale catalizzatore di una cultura di pace che include un apprezzamento per la democrazia, quale metodo non violento di convivenza politica in cui i contrasti di opinione e di interessi sono risolti in un libero dibattito secondo regole concordate. Entrando nell'area della democrazia, il principio-persona esercita un notevole influsso ma non è da solo in grado di dar vita ad una compiuta concezione del governo democratico. Per questo scopo deve contrarre alleanza con altri cespiti e temi, dando luogo ad alcune versioni di cui qui svolgiamo quella che appare meglio fondata. 1. L'ascesa della democrazia Da un secolo non vi è forse tema così frequentato e perfino usurato come quello della democrazia e dei suoi fondamenti. Kelsen osservava: " Per seguire la moda politica, si pensa di dover usare la nozione di democrazia - di cui si è abusato più di ogni altra nozione politica - per tutti gli scopi possibili e in tutte le possibili occasioni, tanto che essa assume i significati più diversi, spesso fra di loro assai contrastanti ". Vi è una ragione persuasiva perché ciò sia accaduto: l'evento forse più decisivo del Novecento è stato l'ascesa della democrazia, un fenomeno considerato di maggiore portata rispetto alla sanguinosa realtà dei totalitarismi da un autore come A. Sen in La democrazia degli altri. In effetti i totalitarismi sono finiti, mentre la democrazia è in cammino, e forse stiamo procedendo oltre la sua terza ondata, avvenuta negli anni '70 e '80 del secolo scorso, verso una quarta. Ciò rende sensato esplorare la crescente diffusione della democrazia per registrarne il cammino e anticiparne il domani: sarà quello che N. Bobbio prefigurava in un noto libro di oltre 20 anni fa ( Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco )? O invece dovremmo riconsiderarne vari aspetti in rapporto ai molti mutamenti da allora intervenuti? In questo processo appare indispensabile l'apporto della riflessione, tanto più che a dispetto della aumentata estensione della democrazia, la sua cultura appare da tempo in difficoltà nel raggiungere una sufficiente armonia fra persona e comunità. Ormai superato il rischio di porre la collettività come fine ultimo, dottrina e prassi della democrazia non hanno per ora oltrepassato il rischio opposto che pone l'individuo isolato sopra tutto il resto: fra i pericoli della democrazia prossima futura si annovera quello di un'esplosione dell'individualismo che vanifichi ogni bene comune e mutua comprensione, in conseguenza della rottura dell'equilibrio fra basilari elementi di una società politica: mercato e amministrazione, solidarietà sociale, azione orientata ai valori, al dialogo e al mutamento responsabile di noi stessi come appartenenti ad una società. Ciò implica che la democrazia non sia ridotta ad un insieme di regole procedurali ma includa cultura e forme di vita comune. Riemerge il problema di scandagliare i fondamenti migliori per la democrazia, la cultura che meglio le consenta di fiorire, le origini storiche e ideali da cui dovrebbe tuttora trarre nutrimento. Non cerchiamo in primo luogo un elenco delle principali definizioni della democrazia, quale ad esempio quello prodotto da Giovanni Sartori nel libro Democrazia e definizioni del 1957, che nonostante il rilievo esamina un poco in vitro il tema. La democrazia non è un concetto puro, ma impuro nel senso che contrae e ha contratto alleanza con molte culture, alcune più, altre meno idonee alla formazione di un ethos democratico. Impuro significa anche che non è possibile definire la democrazia in un vacuum indipendente dalla storia e dal contesto sociale, e che dunque riveste rilievo domandare sulle sue " radici ". 2. Fondamenti della democrazia La ricerca dei fondamenti della democrazia si può condurre tanto su piano storico, valutando gli apporti dell'idea liberale, dell'illuminismo, del pensiero cristiano, del socialismo, quanto su piano concettuale, ricercando quali siano le giustificazioni migliori della democrazia: le due vie non sono opposte ed anzi in genere l'una sostiene l'altra. Qui mi volgerò in specie alla seconda, cercando la miglior cultura che possa supportare la vita democratica, osservando che in prima battuta è bene parlare dei fondamenti razionali, morali, antropologici della democrazia senza ulteriori aggettivi. Successivamente si potranno valutare le diverse origini e i vari influssi di matrice razionalistica, illuministica, religiosa, dove potrà accadere di rinvenire sorprendenti mutamenti di prospettiva e scambi delle maschere. Si ponga mente all'idea di laicità che è di matrice cristiana per l'origine, sebbene da tempo abbia in parte mutato senso e sia considerata un assunto che non ha più nulla a che vedere col cristianesimo. I principi del governo democratico fanno parte di quelli del buon governo politico, e lo qualificano ulteriormente. Sono principi del governo democratico l'uguaglianza, il flusso dell'autorità dal basso verso l'alto, la non-discriminazione, la rappresentanza, mentre fanno parte del secondo il nesso stretto fra autorità e bene comune, il governo in vista del bene comune e non dell'interesse privato, la libertà, la giustizia, la regola della legge, l'esistenza di principi che non dipendano dalla mera volontà dello stato o del potere. Esiterei a ravvisare nel pensiero contrattualistico una cultura di base della democrazia per la sua possibilità di essere giocato in modo ambivalente, poiché ad esso appartengono filosofie come quella hobbesiana che non possono considerarsi democratiche. Del governo democratico fa parte un insieme di regole del gioco come quelle dell'alternanza al potere senza spargimento di sangue, il criterio di maggioranza, le elezioni libere e periodiche, la separazione fra i fondamentali poteri dello Stato. In particolare il sentimento dell'uguaglianza umana - l'idea cioè dell'homo homini homo, contrario all'homo homini lupus da cui secondo Hobbes si esce solo col contratto socìale/pactum societatis - mi pare un retroterra di base della percezione democratica. La democrazia è fondata assai più sul rispetto dell'uomo che sulla paura della morte violenta, e sull'assunto che occorra stabilire il diritto e la giustizia, ossia sulla prevalenza del paradigma della giustizia su quello della forza. I riferimenti alla cultura di base della democrazia devono ora essere meglio articolati, enucleando i principi cui essa si raccorda: a) entrando nel dominio della politica, il principio-persona rivendica per il soggetto il valore di fine e non di mero mezzo, la sua dignità, l'intrinseca socialità e il suo non ridursi ad oggetto del mondo. Il soggetto umano è nel mondo, ma non è interamente del mondo, aspetto che evoca un postulato antinaturalistico. Il governo democratico riposa sulla persona umana, sull'apertura all'altro, sulla sua trascendenza reale rispetto alla comunità politica: trascendenza qui significa che la persona, pur sempre inserita in comunità, non è mai soltanto parte di gruppi sociali da cui non possa emergere o in cui risulti dissella. Questi assunti sono coerenti con un moderato ottimismo antropologico o, se si preferisce, con un moderato pessimismo, che considero un prerequisito di ogni autentica concezione politica. In proposito si potrebbe citare una lunga serie di testi. Limitiamoci a richiamare le posizioni di R. Niebuhr e di C. Schmitt. Il primo rifiuta l'ottimismo antropologico moderno incapace di fare i conti col problema del male: " Sia l'uomo razionale sia quello naturale vengono concepiti come essenzialmente buoni, e l'unica cosa necessaria è ergersi sopra il caos della natura verso l'armonia della mente, oppure discendere dal caos dello spirito verso l'armonia della natura ". L'altro, sia pure forzando il tema attraverso una curvatura pessimistica del dogma del peccato originale come se questo rendesse impossibile un concetto universale di uomo, sostiene: " Tutte le teorie politiche in senso proprio presuppongono l'uomo come " cattivo ", [ che ] cioè lo considerano come un essere estremamente problematico, anzi " pericoloso " e dinamico. Ciò è facile da provare per ogni pensatore politico in senso specifico. Per quanto diversi possano essere questi pensatori per natura, importanza e significato storico, essi sono tutti d'accordo nella visione problematica della natura umana ", che Schmitt assume a base antropologica della sua discussa idea del politico come scontro fra amico e nemico. Dall'idea dell'uomo come essere debole e inclinato al male, eppure capace di bene, deriva una fondamentale regola di ogni governo democratico o costituzionale, ossia la separazione del potere - il potere non controllato corrompe e il potere assoluto corrompe in modo assoluto - che trova applicazione nella divisione tripartita dei poteri costituzionali. b) L'idea di popolo come unione ordinata di persone che cercano sotto la rule of law un bene comune politico e che sono legate da tradizioni, costumi e comunicazione reciproca. L'idea di popolo così declinata risulta equivalente a quella di società politica. Come scrivevamo altrove " il concetto di popolo costituisce la nozione-cardine della filosofia politica, in special modo di una filosofia politica personalistico-umanistica: esso è l'elemento dinamico della forma politica. Il modo in cui è elaborato il suo concetto è un rivelatore molto sensibile della qualità e delle opzioni di ogni pensiero politico ". Il popolo composto di persone umane col loro inedito e peculiare volto è la sostanza e il soggetto della società politica e dello Stato prima di esserne l'oggetto. La centralità del popolo trova realizzazione effettuale nella formula con cui Lincoin determinò il carattere del governo democratico: government ofthe people, by the people, for the people. Naturalmente diventerebbe necessario stabilire in maniera comparativa i migliori resoconti della nozione di popolo. Qui mi limiterò a segnalare che con la filosofia politica personalista non sono coerenti i concetti di popolo elaborati ad es. da Kelsen o da Schmitt, pur fra loro lontani, e neppure quello di Rousseau secondo il quale, affinché la volontà generale possa esprimersi, non deve esistere alcuna formazione sociale fra il singolo e lo Stato. Questa idea darà origine alla soppressione di ogni società intermedia durante la Rivoluzione Francese ( legge Le Chapelier ), all'origine del centralismo che per due secoli ha inquinato vari Paesi europei. c) L'idea di partecipazione alla cosa pubblica, ossia una democrazia discorsiva che in quanto governo di tutti, coinvolga tutti nel processo deliberativo: un assunto che accomuna il personalismo comunitario ( Maritain e Mounier ), la democrazia dialogica di Apel e Habermas, A. Sen e altri. La democrazia partecipante pare un'ancora di salvezza, se non vogliamo che la democrazia diventi di fatto il governo di pochi, degli esperti e basta, e che la cooperazione di tutti al costituirsi del diritto e della giustizia appaia qualcosa di marginale. Contro la partecipazione si drizza il paternalismo che governa coloro che hanno rinunciato alla libertà. Tocqueville ha descritto il nuovo dispotismo da cui possono essere afflitti i popoli democratici: " Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi a parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri … al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all'autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell'infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l'unico agente e regolatore … ". d) La preminenza dell'autorità sul potere, poiché solo l'autorità può andare d'accordo con la libertà responsabile, emarginando la forza arbitraria. L'abbandono del concetto di autorità e la sua sostituzione con quello di potere provoca una crisi profonda del pensiero democratico: la rinuncia al primo non coincide affatto con la liberazione dal potere ma col suo rafforzamento. In democrazia l'autorità fluisce dal basso verso l'alto, aspetto di cui non si sottolinea mai abbastanza il rilievo fondante per il governo democratico, ma è nel contempo limitata da vincoli razionali e morali: la maggioranza al governo non può decidere qualsiasi cosa, poiché esistono azioni e regole che sono la negazione del diritto e della giustizia ed altre che richiamano un diritto e una giustizia immutabili nel loro fondamento e cui occorre ispirarsi: il diritto naturale, appunto, da cui deriva un certo modo di intendere il nesso fra morale e diritto positivo. Pur mantenendo la loro distinzione, il criterio del diritto naturale impedisce di divaricarli oltre un certo limite, per cui le regole valide per tutti non possono che basarsi in ultima istanza su principi morali universali, contrariamente all'assunto della kelseniana dottrina pura del diritto, per la quale è valido ogni diritto positivo legalmente posto, qualsiasi sia il suo contenuto. e) La democrazia internazionale o cosmopolitica verso cui lentamente muove l'esperimento democratico, non nasce solo per contratto ma riconosce l'esistenza di una comunità internazionale in certo modo anteriore agli Stati, e criteri ultimi non soggetti o creati dal consenso, ossia principi dijus naturale e dijus gentium che devono sovrintendere all'ordine internazionale. Questo, se non è inteso in senso meramente pattizio, può condizionare quello statale, secondo un'idea svolta nell'intervento di La Pira all'Assemblea Costituente italiana ( 11 marzo 1947 ). Il pronunciamento lapiriano merita di essere ricordato per la critica esplicata contro Kant, Rousseau e in specie Hegel: " Penso a quanto dissero Hegel in ordine alla comunità internazionale e Kant e Rousseau prima di lui. Per Kant e per Rousseau, non essendoci il corpo sociale, non c'è un diritto internazionale anteriormente a quello statale e condizionante il diritto statale … ". Nella posizione secondo cui la comunità internazionale preesiste agli accordi fra gli Stati riemerge l'idea che totus mundus est quasi una res publica ( De Vitoria ). Nell'arena internazionale si innesta la possibilità, intravista da Kant ed altri, di pervenire alla pace perpetua, oltrepassando l'orizzonte dello Stato-nazione cui per molto tempo la democrazia è stata assimilata e limitata, per muovere verso contesti internazionali e planetari e l'edificazione di istituzioni sopranazionali. " Da tempo ormai la popolazione mondiale è stata costretta a unificarsi come " comunità del rischio ". Non appare dunque inverosimile l'aspettativa che, sotto questa pressione, la grande spinta astrattiva che ha già trasformato sul piano storico la coscienza locale e dinastica in una coscienza nazionale e democratica possa ulteriormente svilupparsi ". f) Nella cultura democratica occupa un posto notevole l'idea che, a partire dall'inferiorità della morale del gruppo rispetto a quella del singolo, sia possibile condurre l'etica di una società democratica verso una migliore morale di gruppo, ossia portare quest'ultima verso livelli simili a quelli di una valida etica personale. Scrive R. Niebuhr: " Per le persone singole, essere morali può significare essere in grado di prendere in considerazione, ai fini della determinazione della propria linea di condotta, interessi diversi dai propri ed essere capaci - in certi casi - di anteporre ai propri interessi quelli degli altri … L'inferiorità della morale dei gruppi rispetto a quella degli individui è dovuta in parte alla difficoltà di dar vita ad una forza sociale razionale abbastanza potente da potersi misurare con gli impulsi naturali su cui la società fonda la sua coesione; ma in parte non è altro che una dimostrazione dell'egoismo collettivo, un prodotto della combinazione degli impulsi egoistici degli individui, i quali giungono ad un'espressione molto più vivida e più potenziata quando sono cumulati che non quando si esprimono separatamente e privatamente ". g) L'idea di laicità. Questa non è soltanto propria della democrazia ma di ogni buon governo politico, e proprio per questo non può essere assente dal governo democratico. È ben noto che l'idea di laicità con la duplicità della rappresentanza al posto dell'unità ieropolitica della città antica, in cui si congiungeva in un solo vertice ( nell'imperatore che era anche pontefice ) la rappresentanza sacrale e quella civile, proviene dall'area del cristianesimo, anzi dal suo stesso fondatore: è un portato ultimamente cristico, non solo cristiano. Fu così introdotta una tensione permanente fra Dio e Cesare, fra l'obbedire all'uno ( magari rappresentato dalla coscienza ) o all'altro, che è tuttora in atto e che non terminerà tanto presto. Diventa essenziale che tale dialettica permanga nella sua potenziale fecondità, evitando l'assorbimento di un termine nell'altro: la religione intesa come semplice strumento della politica o viceversa la politica sottoposta ad una teocrazia. Argomentare a favore della laicità implica il distinguerla dal laicismo quale programmatica esclusione della religione dalla società e come dichiarazione almeno metodologicamente atea di procedere etsi Deus non daretur: un evento quasi soltanto occidentale e tale da apparire nel contesto planetario come un'anomalia da sanare. L'interpretazione laicista che nel logion " Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio " ( Mt 22,21; Mc 12,17; Lc 20,25 ) evidenzia solo il riferimento a Cesare, non sembra funzionare, poiché la frase dice non solo che occorre marcare i confini fra Dio e Cesare, ma che occorre rendere o dare. Il risuonare di tale verbo cambia la prospettiva della semplice separatezza fra Dio e Cesare. Il dare a Cesare quanto è necessario: giustizia, pace, diritti, rispetto, è qualcosa di grande. Ma Cesare non è Dio. Cesare può essere patria temporale, ma non è patria definitiva per alcun uomo. Il dare a Cesare implica, perché sia autentico e pieno, il dare a Dio quanto è necessario e salutare. Dare solo a Cesare senza dare a Dio è l'inizio della rovina. L'equivoco laicistico consiste nel dare a Cesare senza voler dare a Dio. Il versetto evangelico domanda un doppio dare, e l'uno non può stare senza l'altro. Che cosa significa dare a Dio? Varie cose, fra cui la possibilità d'influenza della religione nella sfera pubblica, diversamente dal postulato liberale canonico secondo cui la fede è un mero fatto privato. La religione merita forse rispetto a patto che si rintani nell'ultimo angolino che il pensiero laicista le assegna: la coscienza individuale. A questo assioma si è aggiunto per lunghe epoche un desiderio, che sotto i paludamenti delle scienze sociali esprimeva un progetto, quello dell'irrilevanza della religione: a più modernità corrisponde meno religione e più secolarizzazione, si è detto e ripetuto. La libertà della religione diventava libertà dalla religione. Un assunto che è parso vero per un certo tempo ed oggi non lo è più, poiché le religioni mondiali sono in ripresa ( " la rivincita di Dio ", dice G. Kepel ). Ci si è poi accorti che esisteva un notevole problema, ossia che lo Stato laico riposa su fondamenti che non può garantire, e che possono essere garantiti solo se nella società civile circola una robusta linfa etica e una cultura intellettuale di rispetto, giustizia, libertà che lo Stato da solo non può assicurare. Occorre dunque andare alla ricerca del migliore modello di laicità. Forse sarebbe quello europeo o addirittura quello francese? Tocqueville aveva intuito il problema e colto la soluzione. Essa dice che in America, entro la separazione fra Stato e Chiesa, la religione è fondamento indipendente della politica e che essa " contribuisce potentemente alla conservazione della repubblica democratica negli Stati Uniti ". La religione non come elemento della politica, ma come ispirazione necessaria di ogni passabile vita democratica: in tal modo la religione non diviene instrumentum regni, ma seminarium reipublicae, forza di vivificazione e d'ispirazione. I nuovi termini del problema della laicità segnalano l'insufficienza della pur importante distinzione fra ultimo e penultimo. A lungo si è detto: lasciamo alla sfera intima della coscienza, alle libere scelte individuali le questioni ultime, neutralizziamole nell'arena pubblica e concentriamoci sui problemi penultimi dove sarà più agevole trovare un accordo. Ora ci si accorge che questa posizione non regge, che l'indifferenziato richiamo alla tolleranza come medicina sempre e comunque valida rischia di essere vano, perché i problemi con cui dobbiamo confrontarci richiedono una determinazione che vada oltre il procedurale. La scomoda realtà è che entro il penultimo nascono problemi che interessano in pieno l'etica, l'antropologia, il diritto pubblico. E se interessano il diritto pubblico, è perché questo si trova dinanzi a problemi di principio dove la sola tolleranza teoretica ( fatta salva quella pratica ) e la pura mediazione politica non sono sufficienti, essendo le questioni di principio senza punto medio. Diversamente dagli interessi che hanno un prezzo e ammettono perciò un punto medio, i principi possiedono una dignità e non si prestano alla mediazione. Tutto ciò si scarica con violenza sul diritto, dove si rischia di far prevalere le ragioni dei forti su quelle dell'altro debole e inapparente. Lo Stato laico non può garantire i propri fondamenti. Quando Locke scriveva sui diritti umani aveva un'intuizione nitida di questo e altrettanto Maritain nel XX secolo. Non invece oggi il laicismo, che da un lato si lamenta con buoni motivi che la faccenda dei diritti sia un supermercato dove ciascuno reclama a ragione o a torto il suo, e dall'altro si limita a richiamare l'autonomia kantiana consistente nel rispettare le leggi che liberamente ci si è dati: ma quale legge fondamentale possiamo darci se non quella che è inscritta in noi? Che la legge civile debba essere intesa soltanto come l'espressione di un accordo fra i cittadini non è soluzione sufficiente, poiché la maggioranza volta a volta egemone può decidere qualsiasi ignominia, se non esistono criteri che antecedono il diritto positivo. La soluzione dell'autonomia kantiana, espressione di un cristianesimo laicizzato, poteva funzionare al suo tempo in cui il codice morale accettato era quasi identico a quello dell'etica cristiana e ritenuto universale ( vedi Voltaire e in genere l'illuminismo ). Ma oggi, quando l'universo etico si è sbriciolato in un pluri-verso morale dove ciascuno legifera per se stesso? Quando esistono solo individui solitari, pronti a pensarsi come assoluti? 3. Does democracy need religion? Varie difficoltà della democrazia occidentale attuale provengono dalla necessità di ricostituire il fondamento etico ed antropologico delle società contemporanee dinanzi all'affermarsi di una civiltà impersonale tentata dal nichilismo. Si tratta di rispondere alla domanda che molti nel passato hanno elevato e fra questi R. Niebuhr: " Does democracy need religion? " O anche: " does civilizatìon need religion? " Autori non poco diversi quali Dawson, Huntington, Maritain hanno osservato che le grandi religioni sono le basi su cui riposano le grandi civiltà: se lo Stato è laico, e la società civile no, è perché esiste una matrice teologica della società civile. Non dobbiamo concedere troppo facilmente che la democrazia se la possa cavare eliminando ogni contatto con la religione, fidando sull'assunto che il procedere della secolarizzazione sia inarrestabile. Con soffusa ironia Tocqueville aveva scritto intorno al 1835: " I filosofi del secolo XVIII spiegavano in un modo molto semplice il graduale affievolirsi della fede. Lo zelo religioso, essi dicevano, deve estinguersi via via che la libertà e la cultura aumentano. Ma è spiacevole che i fatti non vadano d'accordo con questa teoria ". Quanto al rapporto fra democrazia e cristianesimo, non sosterrò che vi sia un nesso intrinseco fra i due per l'eterogeneità fra politica e religione, ma che a) si da notevole affinità fra l'antropologia personalistica coerente col cristianesimo e la democrazia; b) il linguaggio cristiano custodisce ed esprime ragioni che il discorso pubblico democratico non può ignorare, nel senso che la ragione secolare dovrebbe essere disponibile ad ascoltare quanto promana dalla semantica biblica di liberazione. La cosa sarà tanto più possibile quanto più si percepirà la forza di universalizzazione del messaggio religioso e il suo nesso con gli ideali moderni di universalismo etico, giuridico, politico, di unità della famiglia umana. Un'obiezione frequente all'idea di un'ispirazione religiosa della democrazia è che le leggi devono possedere validità erga omnes e non possono valere per tutti sulla base di ragioni religiose cogenti solo per una parte della cittadinanza. Se tu non vuoi, perché devi impedire che io possa? Questo sembra il criterio dell'etica pubblica, fondamentalmente libertaria, che cerca di imporsi attualmente in Europa, ed in cui il tema dell'altro e del suo rispetto possono andare in ombra. Si pensa che la soggettività personale abbia diritto a tutto, e che inique siano le norme pubbliche entro cui occorre inquadrarla. Il punto centrale è presto enucleato e domanda se le norme fondamentali dell'etica pubblica possano essere assoggettate al criterio relativistico, ossia se tale criterio sia posto come supremo, oppure se, andando a sufficiente profondità, esistano alcune basi ferme dell'etica pubblica che provengano dal diritto naturale, dai diritti che trovino espressione nel dettato costituzionale. L'argomento che vorrebbe emarginare come meramente confessionali varie posizioni, appare in genere specioso perché, almeno in Occidente, i contenuti della legge civile avanzati da cittadini che si riconoscono in una base religiosa, non sono motivati religiosamente ma razionalmente ed eticamente. Se ci si interroga sulla questione dell'embrione, la difesa della sua appartenenza al genere umano, il suo essere " qualcuno " e non " qualcosa " e di conseguenza il suo essere titolare di diritti, non sono un tic del club cristiano o cattolico, come si da a credere dando prova di rozzezza, ma l'esito di un argomento motivato, controllabile e razionale. I fondamenti laici e religiosi della democrazia sono in certo modo inclusi nel dialogo fra ragione e fede, e nella purificazione che esse si apportano reciprocamente e che operano anche verso la democrazia. La ragione quale partecipazione finita ma reale del Logos è chiamata ad esercitare un controllo purificante delle deviazioni e delle patologie, che secondo i tempi possono assediare la coscienza religiosa e renderla succube di allucinazioni e di tentazioni impure. Reciprocamente la ragione, che facilmente cede alla hybris e alla volontà di potenza, è purificata dalla fede, se non nega di poter apprendere da essa i modi con cui frenare la sua tendenza a diventare distruttiva. Un tale rapporto fra razionalità secolare e razionalità di fede si palesa come fondamentale per l'avvenire della democrazia per vari motivi, fra cui il fatto che esse oggi incidono sulla situazione mondiale in modo più intenso di qualsiasi altra espressione spirituale nel mondo. La loro cooperazione può favorire un processo di purificazione e di dialogo universali, facendo emergere ciò che è comune, ossia valori e norme stanno alla base del convivere umano lo tengono coeso. 4. Personalismo, individualismo e rapporto tra le generazioni La giustificazione della democrazia qui schizzata è di tipo personalistico e sostanziale, nel senso che la persona e le società fondamentali ad essa connesse sono principio, fondamento e fine dell'intero sistema democratico. La frequente giustificazione della democrazia solo come insieme di regole e procedure si lega ad una ragione " neokantiana ", certo universale ma solo sul piano formale e pertanto vuota di contenuti etici ed antropologici. Questo diffuso assunto appare oggi più ancora del passato qualcosa di troppo vago. Fra tutte le questioni che assillano la democrazia la più centrale è nuovamente quella antropologica, il che significa che occorre ripartire dalla persona e dal suo naturale e multiplo sistema di relazioni. Poiché la società altro non è che la parola " uomo " scritta in grande, la questione sulla democrazia implica la questione sull'uomo. Quanto agli esempi non occorre scomodare i classici, dove la connessione è espressamente tematizzata. Basti porre mente alle teorie politiche a base biologica, psicologica, psicoanalitica; ai tentativi di impiegare i metodi causali delle scienze naturali alla vita politica, il che presuppone una risoluzione naturalistica dell'uomo; a Freud che, nell'avvenire l'influenza dell'antropologia, possedeva un intuito più sicuro del contrattualismo e che tentò con la teoria della libido e dell'inconscio di risolvere la psicologia delle masse negli elementi individual-psichici. Il personalismo non ha molto a che fare con l'individualismo. Quest'ultimo si appoggia fortemente sul dogma liberale secondo cui le azioni e decisioni di adulti consenzienti, specie nell'area della vita sessuale e del matrimonio, riguardano solo loro, sebbene esista una notevole evidenza empirica degli effetti a catena su altri di tali comportamenti. Ciò comporta inoltre l'atteggiamento di una competizione dividente e il conflitto fra generazioni per l'accaparramento delle risorse piuttosto che l'atteggiamento della solidarietà intergenerazionale. È ancora rara la consapevolezza che l'aprire sempre nuove libertà e opportunità agli adulti rischia di penalizzare in maniera pesante le future generazioni. Ora l'individualismo tende a segare i legami fra le generazioni, e qualcosa di simile osservava Tocqueville: " Fra i popoli democratici … il tessuto del tempo è strappato ad ogni momento e la traccia delle generazioni è cancellata. Quelli che sono esistititi prima sono facilmente dimenticati e nessuno dedica un pensiero a quelli che seguiranno ". Quasi assente nelle prospettive che fanno centro sull'individuo è la famiglia, che pur rimane scuola indispensabile di umanizzazione e socializzazione, mentre notevole è la sottovalutazione della crisi delle norme etico-sociali su cui ultimamente riposano le società e gli Stati. L'idea di democrazia di Habermas, proiettata del resto a buon diritto verso l'universale e il cosmopolitico, sembra fondata solo sul dialogo e comunicazione di soggetti individuali, che non hanno riferimento ai loro gruppi, reti e comunità di appartenenza. Altre impostazioni si imperniano sulla triade " individuo-mercato-stato " e marginalizzano la famiglia e le formazioni sociali intermedie della società civile. In genere nelle scienze sociali e nelle politiche sociali ciò produce un'enfasi fuori misura dell'autosufficienza del soggetto e una svalutazione della dipendenza reciproca reale in cui i soggetti umani si trovano, in specie nelle fasi iniziali e finali della vita. L'icona dell'individuo libero, capace di piena autodeterminazione e autosufficienza esercita un'alta attrazione sull'immaginazione individuale e sociale che tende a relegare ai margini ogni considerazione che metta in luce la condizione umana di dipendenza: tuttavia gli esseri umani sono e rimangono fortemente dipendenti l'uno dall'altro, e una parte delle loro virtù si sviluppa nella consapevolezza di ciò e della necessità di cooperare, di prendersi cura dell'altro, di partecipare allo scambio sociale del dare e del ricevere. In alcune visioni del Welfare State questo limite si somma a quello di non stimare a sufficienza la capacità del soggetto di agire in base a valori e di non essere guidato solo dal calcolo del selfinterest. Reputo perciò più appropriato parlare di personalismo invece che di individualismo; ma se proprio si rimane al vecchio uso del secondo termine, occorre vedere l'individuo non come una totalità in sé compiuta, ma come un soggetto relazionale pronto a entrare in comunicazione e in cooperazione con l'altro. Secondo Bobbio " la dottrina democratica riposa su una concezione individualistica della società ", il che - se ben interpreto - vuoi dire che solo i soggetti individuali esistono e che la società non è una realtà sostanziale ma una relazione d'ordine; un'idea volta contro ogni assunto distico e organicistico. Comunque anche Bobbio parla di individualismo là dove sarebbe più appropriato parlare di personalismo, poiché lui stesso scrive che " i rapporti dell'individuo con la società vengono visti da liberalismo e democrazia in modo diverso " ( p. XII ). Non è inutile osservare che l'artificio del velo di ignoranza introdotto dal contrattualismo liberale di Rawls significa che l'individuo non fa parte in alcun modo di gruppi e comunità, ma è separato e deve essere separato da tutto ciò. Nella sua forma radicale l'individualismo rappresenta un principio rischioso per la democrazia, poiché abbandonando le nozioni di persona relazionale e di popolo, ruota attorno alla propensione autocentrata dell'io. Una debolezza della cultura democratica in Occidente consiste nell'essere spesso pilotata da teorici liberali puri che puntano sull'individuo, i suoi diritti, e sull'idea di contratto quale fatto artificiale su cui costruire regole e socialità. Ciò comporta che la versione liberale attuale della democrazia abbia come scopo ultimo quasi solo la libertà, retoricamente intesa come una forza illimitata e autosalvifica, l'unica capace da sola di generare progresso, pace, buona società. Questa concezione assolutizzata ed antropologicamente dubbia erompe nelle recenti posizioni dei neoconservatori americani, per i quali la vera ed unica forza vitale e creativa della storia è costituita dalla libertà. Nella dimensione politico-sociale l'essere umano, che possiede il proprio statuto di persona solo come una radice da far fruttificare e che è per ciò stesso soggetto a serie sconfitte, cerca una liberazione dalle grandi servitù che lo minacciano ( malattia, miseria, ignoranza, tirannia ) ed un compimento del proprio io comunicativo e relazionale. Ne completamente risolto nei rapporti sociali ( Marx ), ne un tutto in sé perfetto, chiuso e pienamente costituito prima del rapporto sociale ( Rousseau ), la persona è dal personalismo comunitario intesa come una realtà aperta al vero e al bene, come un centro di attività e di libertà. L'uomo vive socialmente non soltanto per soddisfare bisogni, perseguire interessi o per l'utilità della divisione del lavoro, ma anche per comunicare perfezioni, " dire " se stesso all'altro, obiettivare la propria essenza in creazioni oggettive. La persona è inserita in uno schema di socialità, che potremmo definire a cerchi concentrici oppure a " cono rovesciato ", nella partecipazione a comunità sia naturali sia volontarie. 5. Scuole democratiche e paradigmi di giustificazione I fondamenti della democrazia enucleati trovano variabile accoglienza nelle dottrine democratiche a base morale, antropologica, epistemologica, di cui lo storico delle idee traccia il profilo, e su cui ora ci soffermiamo brevemente, riassumendo un tema molto vasto. Il nostro scopo è di cercare la filosofia più solida, capace ad un tempo di giustificare la democrazia e di organare la dottrina democratica. Cercando una teoria " materiale " e non solo procedurale, ci collochiamo in una prospettiva in cui forma e contenuto non siano scissi e posti in contrapposizione. Giustificare la democrazia significa ricondurla a principi: occorre prendere sul serio l'assunto, tentando di superare un deficit di fondazione, che circola nelle teorie politiche che pensano essere la democrazia sufficientemente garantita da tradizioni storielle. Nel XX secolo la teoria della democrazia è stata un crocevia estremamente frequentato. È possibile riassumere in sei indirizzi le principali posizioni emerse, sebbene esse non rivestano oggi uguale incidenza pratica. Ai fini dello svolgimento del discorso, che verte sul momento della giustificazione, l'elenco cita brevemente pure le posizioni filosofiche normalmente accolte all'interno dei suddetti indirizzi: 1) le teorie elitistiche elaborate dalla scienza politica wertfrei ( Mosca, Parete, Schumpeter ), per cui la democrazia è da intendersi come governo di minoranze in competizione per il potere; democrazia governata perciò più che governante, in cui continua a valere la logica ferrea delle oligarchie, ossia il fatto che il potere reale risieda in minoranze dirigenti, periodicamente accettate o rifiutate mediante legittimazione da voto popolare; 2) la teoria marxista-leninista, in cui la critica dell'economia e della politica condurrebbe alla fine dello sfruttamento e all'estinzione dello Stato quale strumento di dominio della classe economicamente egemone; il punto di arrivo dovrebbe essere ciò che il giovane Marx chiamava la vera democrazia egualitaria. Essa rappresenta la scomparsa del politico ( diritto e Stato ) e, secondo la nota posizione engelsiana, la sostituzione del governo degli uomini con l'amministrazione delle cose in una comunità totalmente autonoma e autoregolantesi: democrazia impolitica perciò che si realizza solo in una società senza classi. Filosoficamente la dottrina democratica marxista è soprattutto una teoria dell'emancipazione umana, giocata a livello economico-produttivo e interpretata dal materialismo storico-dialettico; 3) le teorie democratiche a base epistemologica, che sottolineano il legame fra dottrina della conoscenza, dottrina della scienza e teoria democratica ( Kelsen, Popper ). Esse assumono che la miglior giustificazione della democrazia riposi sul relativismo filosofico ( Kelsen ), oppure su un'epistemologia fallibilista accompagnata da fede morale nell'uomo ( Popper ): escludono perciò la razionalità ontologica, adottano in genere una posizione non-cognitivista, rigettano il diritto naturale. Tali teorie richiamano l'attenzione sull'importanza delle " regole del gioco ", cioè sull'aspetto procedurale della democrazia, in modo più o meno forte a seconda del grado di non-cognitivismo e di separazione tra forma e contenuto assunti. Ma debbono comunque uscire dall'epistemologia, poiché questa non può generare ethos da sola: dai dibattiti scientifici emergono nuove conoscenze, non nuova coscienza morale. 4) le teorie centrate sul discorso o prassi comunicativa ( Arendt ) oppure sul consenso comunicativo ( Apel, Habermas ). La prima posizione guarda all'esperienza storica della polis antica e in questo trova alcuni elementi di somiglianza col pensiero di L. Strauss. La seconda critica il decisionismo positivistico sui fini, conseguente alla divisione is-ought, e cerca per la democrazia una morale politica universale, individuata in un'etica comunicativa e della responsabilità deliberativa, assumendo una posizione cognitivista in base al metodo della comunità trascendentale dell'argomentazione. Mira inoltre a definire discorsivamente i fini della convivenza in un'autoriflessione critica della società su se stessa, in un mix tra etica della responsabilità ed etica della convinzione, mirato al proseguimento dell'ideale illuministico di emancipazione e di quello kantiano di autonomia proiettati su scala planetaria; 5) le teorie personalistico - comunitarie considerano la democrazia il regime politico più consono ai valori della persona, di cui in genere svolgono una dottrina sufficientemente elaborata ( Capograssi, Maritain, Mounier, Sturzo, La Pira ). Esse sottolineano la base morale della democrazia, il suo fondarsi su una cultura non scettica né relativistica. Rinviano a una razionalità ontologica, al cognitivismo etico e ad una morale universale del bene umano; sul piano pratico a istituzioni che, nell' ossequio alla formula democratica di Lincoin, realizzino il bene comune mediante l'autogoverno del popolo sotto la mie of law, entro un movimento mirato a coniugare libertà e giustizia, globalizzazione e radicamento nelle comunità originarie. Considerano l'autorità giustificata solo dalla ricerca del bene comune, di cui danno ormai un resoconto planetario e chiedono l'istituzione di poteri pubblici sovranazionali e infine mondiali. Adottano la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo come un ideale morale adeguato, espressione dell'intuizione originaria sulla persona di cui si nutrono; 6) le teorie politiche derivanti dall'approccio contrattualistico o utilitaristico svolto in ambiente anglosassone. Più che di compiute teorie della democrazia si deve in tal caso parlare di diramazioni da indagini sui diritti, la giustizia, l'uguaglianza ( Nozick, Dworkin, Rawls, Harsanyi ). Spesso forte è la tendenza a rielaborare la posizione del contrattualismo moderno come canone razionale in rapporto alle nuove situazioni politiche del XX secolo. Ciascun indirizzo incorpora un certo modo di interpretare e giustificare la democrazia. Se si riporta all'osso il loro procedimento argomentativo, operando una ricerca sulla loro struttura concettuale, le principali giustificazioni della democrazia ( ad eccezione forse del marxismo ) possono essere ricondotte a tre distinti paradigmi, in alcuni casi impiegati congiuntamente, nel senso ad esempio che il secondo e il terzo si integrano agevolmente ed essi possono senza serie difficoltà legarsi anche al primo, quando questo non sia giocato solo in senso noncognitivistico: - giustificazioni in base ad un paradigma gnoseologico: cognitivismo/non-cognitivismo; relativismo; ricorso alla scienza; - giustificazioni in base al nesso tra etica e politica, e più generalmente tra verità e politica; - giustificazioni in base alla dottrina della persona, ai suoi diritti naturali, alla sua libertà e capacità comunicativa. Vari caratteri accomunano le suddette concezioni: la democrazia è alimentata da valori morali, dal rispetto della persona e dei suoi diritti, si collega spontaneamente ad una società libera, non dominata da un'oligarchia chiusa, nella quale vige un governo rappresentativo costituzionale, ed in cui lo Stato è al servizio della società politica. Estese sono le convergenze sul metodo democratico e sulle regole del gioco, che circoscrivono un' " area minima dell'universale ", senza di cui non ci può essere né società né democrazia, sebbene esse non possano stabilire il contenuto " materiale " del bene comune. Nel complesso non è poco, ma non è neppure molto perché l'accordo non raggiunge il livello dei principi, dove perlo più divergono le posizioni filosofiche e antropologiche. Le impostazioni analizzate rendono impervio il discorso della " democrazia totalitaria ", quell'insieme del tutto ibrido di concetti per cui Mussolini parlava del fascismo come " compiuta democrazia " e Stalin del comunismo come " democrazia popolare " e che poteva reclamare qualche radice nell'idea della volontà generale. Notevole è anche la presa di distanza dal retaggio utilitaristico benthamiano, ostile ai diritti naturali della persona, e insieme affascinato dal costruttivismo e dal quantitativismo felicifico. In sostanza si disegna negli esponenti più titolati della teoria democratica del XX secolo un allontanamento dalla filosofia sociale che raggiunse l'apogeo a cavallo tra XVIII e XIX secolo, secolo e che in termini generali viene definita razionalistica e utilitaristica, riconoscendosi che ne il razionalismo rousseauiano né quello utilitaristico rappresentano una teoria soddisfacente del corpo politico e della democrazia. In rapporto alla teoria settecentesca si è raggiunta nel '900 una maggiore chiarezza sugli istituti della democrazia. Il suo asse di sviluppo sta nell'avvicinarsi sempre meglio a una democrazia come umanesimo politico, basato sulla persona e su un credo umano comune lontano dallo scetticismo. Tra i filosofi che sottoscriverebbero queste condizioni indichiamo: Bergson, Capograssi, La Pira, Maritain, Mounier, Olivetti, Simon, Sturzo, ed in buona misura anche Benda. Supposto che il compito prioritario sia conferire legittimazione alla democrazia, questi autori sono in grado di adempiere il programma. All'estremo opposto sembra collocarsi Kelsen, favorevole ad una democrazia dell'individuo, ad una razionalità debole, formale e relativistica, al non-cognitivismo etico ed alla estraneità tra democrazia e cristianesimo. Egli è sostenitore di una teoria " fredda " e procedurale della democrazia. Bobbio, Popper ed in certo modo Apel, Habermas e Schumpeter si situano a metà strada: non assegnano particolare rilievo al nesso cristianesimo-democrazia, sostengono una teoria ridotta della razionalità, talvolta anche il non-cognitivismo etico, ma non l'idea che la filosofia idonea alla democrazia sia il relativismo, né il distacco tra etica e politica. 6. Quale cultura favorisce meglio la democrazia? 1) Come già osservato, la democrazia non richiede necessariamente una visione antropologica ottimistica, sebbene nella vicenda della cultura politica sia stata più vicina a questa che al pessimismo. Ne fanno fede l'idea dell'individuo e della sua bontà naturale del razionalismo e dell'illuminismo settecentesco, nonché l'elaborazione romantica dell'idea di popolo e di Volksgeist quale riserva inesauribile di virtù e di saggezza. In tempi a noi più vicini si è invece venuto evidenziando un nesso tra democrazia e moderato pessimismo antropologico, in relazione ad una più generale curvatura dell'epoca, favorita anche dall'esplorazione dell'inconscio e della psicologia del profondo, che presenta l'uomo come un essere assai dinamico nel bene e nel male, abitato da istinti potenti. E d'altronde difendibile l'opinione che la democrazia sconti un certo pessimismo sull'uomo. Lo mostra la conquista stessa del suffragio universale, tra le cui ragioni c'è l'esperienza ininterrotta e universale che il governo elitistico o aristocratico non si cura del popolo che in misura assai ridotta. " L'argomento decisivo in favore del suffragio universale, cioè il bisogno di distribuzione del potere a coloro che non fruiscono di nessuna altra distinzione, a parte il fatto di avere i numeri dalla loro parte, è strettamente imparentata con il pessimismo. L'esperienza mostra che l'azione delle élite non è rassicurante per coloro che di fatto non sono inclusi in alcuna élite riconosciuta ". 2) Nella ricerca sulle migliori culture per la democrazia spesso si sente tessere l'elogio di una cultura a base empiristica e sociologica. Si tratta di un assunto che, sostenuto da autori di rilievo per i quali l'opzione per l'empirismo è irrinunciabile, veicola verità e ambiguità. Naturalmente sono lontano dal negare il valore di una sana cultura a base empirica, soprattutto se la paragono con la vocazione antidemocratica dello Stato etico del neohegelismo ( G. Gentile ) o di varie filosofie dell'idealismo che si nutrono di una malcelata adesione alla violenza e allo scontro fra gli Stati. Tuttavia l'adesione ad un empirismo chiuso e alquanto dogmatico come quello di un Neurath o magari anche di un Russell non sembra una risposta adeguata. In una situazione migliore si trovano le culture prodemocratiche di un Bobbio e di un Popper, che pur tessendone l'elogio, si difendono da un empirismo assolutizzato in base ad un'opzione etica che finisce per limitare di molto la tesi, tipica ad es. in Kelsen, che lo spirito scientifico, empiristico e pragmatico sia il migliore per la democrazia. Rimane il rischio che la mentalità empiristica pura, in quanto considera irrazionale tutto ciò che esula dall'esperienza empirica, non sia in grado di opporre sufficiente resistenza alla volontà di potenza che oggi può esplodere entro un uso estremo della tecnologia. Non meglio vanno le cose con il relativismo cui si attribuiscono virtù che non ha e del quale si nascondono difetti seri. Secondo l'enciclica Centesimus Annus " Un'autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana … Oggi si tende ad affermare che l'agnosticismo e il relativismo scettico sono la filosofia e l'atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti sono convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici. A questo proposito bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia " ( n. 46 ). Una fondata fiducia nella verità si allontana tanto dal relativismo quanto dal fondamentalismo, sebbene oggi lo scontro fra i due fratelli nemici sembra opporli senza mediazione. In effetti si ritiene che solo volgendo verso il relativismo sia possibile sconfiggere il duro volto del fondamentalismo. Vedremo più avanti che esiste un'altra strada di gran lunga migliore. 3) Un notevole problema, di solito alquanto trascurato, consiste nell'individuare le tradizioni meglio capaci di persuadere, educare e favorire il passaggio all'azione, un tema nuovamente cruciale nelle società atomizzate, poco capaci di creare un solido legame fra i cittadini. Éarduo vivere insieme solo sulla base delle libere scelte individuali. Acuta è la domanda se lo Stato costituzionale e democratico sia da solo in grado di gestire e rinnovare le proprie basi di valore e ancor più di offrire ai cittadini sufficienti motivazioni all'agire: E. W. Bockenforde ha ricordato che lo Stato laico riposa su fondamenti che non può garantire. Se è possibile, come ritengo, una fondazione razionale autonoma ( ossia indipendente dalla religione ) dell'etica, che non è comunque un gioco da ragazzi, considero ben più difficile per non dire impossibile motivare il volere all'azione civicamente buona e giusta senza l'appoggio delle grandi tradizioni educative. Tutto ciò richiede quell'educazione del volere, una sorta di pedagogia nazionale, che appare drammaticamente assente in quasi tutto il pensiero politico e la prassi politica contemporanee, forse in specie liberali, compreso il repubblicanesimo attuale di stampo kantiano. Qui il richiamo alle culture religiose opera non solo come capace di legittimare ma anche di motivare. 7. La tentazione del fondamentalismo A) Domandiamo: che cos'è il fondamentalismo? Senza trascurare i rischi della coscienza illusa o i morbosi travestimenti del ressentiment e dei complessi di inferiorità e di delusione che sboccano in terribili reazioni, in esso vedo un duplice atteggiamento intellettuale e volitivo consistente nell'assolutizzare la propria parziale verità - talvolta fondata ma appunto limitata, talaltra invece si tratta di mera opinione cui volontà e passione attribuiscono un valore assoluto - intendendola come la verità unica, assoluta e definitiva, e nel tendere a imperla ad altri in maniera intollerante e perfino violenta. L'aggettivo in corsivo intende dire che nel fondamentalismo entrano in gioco tanto le convinzioni della mente quanto, e con quale forza!, gli orientamenti del volere e le passioni, per cui sarebbe una grave semplificazione limitarsi all'ambito cognitivo e curare il fondamentalismo col relativismo. Si dice infatti: relativizziamo il vero, il bene e il bello per far fronte alla violenza, maneggiare la diversità e disinnescare il conflitto. Il richiamo al relativismo riceve oggi molti applausi, in specie se considerato l'anticamera della tolleranza. Questa è qualcosa di valido, purché si sappia da che parte prendere l'uomo. Ora gli uomini vanno a verità tanto quanto i termosifoni a metano, ed hanno perciò bisogno di verità per esistere. Consisterebbe in questo il massimo pericolo, per cui chi crede in verità ferme sarebbe un killer virtuale? Tuttavia non si uccide in nome della verità, ma in forza dell'odio dell'altro. Non la verità è violenta ma l'odio. Ricondurre la violenza all'uso fondamentalista della verità è una semplificazione che equivoca in merito a uno dei più grandi enigmi dell'avventura umana, quello dell'oscura origine della violenza in noi. Siamo intrisi di violenza ben più che di verità. Riterrei perciò che non si dia un legame necessario fra tolleranza e relativismo. Nel relativista teoretico e nel nichilista che impiegano la ragione per procedere in giudizio contro ogni valore, è nascosta una segreta violenza, una violenza " ermeneutica ". Essi pensano la ragione come uno strumento di decostruzione e di distruzione, alla fine anche di se stessa. L'analisi dissolvente è l'esito di una ragione solo critica, che gira a vuoto e si decentra dalla realtà. Il nichilista è come Kirillov che non ride mai, che non è ironico, mentre la verità lo è. E i terroristi fanatici di I Demoni hanno le loro radici in Nicolaj Stavroghin, depravato e lucidissimo, ma soprattutto scettico e incapace di amore o almeno di rispetto. Il fondamentalismo è di due colori: religioso e laicistico. Il primo tende a fare della propria religione un assoluto e quindi a totalizzare tutta la verità in essa: non dunque la verità religiosa come una verità alta e universale ma come la verità unica e totale ( si ponga attenzione alla differenza fra universale e totale ), e conseguentemente tende ad imporla anche con la forza. Il fondamentalismo laicistico tende a considerare i valori che si richiamano ad una fede o rivelazione religiosa, come una favola o peggio una superstizione del passato, da cui occorre liberarsi a ogni costo. Per cui tale fondamentalismo è secolaristico, ostile ad ogni religione e a favore della libertà assoluta del singolo. Nel fondamentalismo di marca religiosa spesso si vuole erigere la legge religiosa a legge civile, fare della seconda quasi la fotocopia della prima. Specularmente il fondamentalismo laicistico intende procedere etsi Deus non daretur e cancellare accuratamente la religione dalla piazza pubblica, marginalizzandola nel privato. Il fondamentalismo che si esprime con l'intolleranza introduce un'alterazione del rispetto e dell'agape, poiché follemente ritiene che la guerra, il dominio, la forza siano l'anticamera della conversione e del vero. Uno dei compiti fondamentali delle religioni, quando non deviino dalla loro vocazione, consiste nel mantenere viva la consapevolezza della comune appartenenza alla famiglia umana. Esse debbono ricordare agli uomini e alle donne di ogni popolo che nonostante le loro diversità sono fra loro fratelli. Ricordando il trascendente destino cui sono indirizzati, possono educare gli uomini a camminare insieme senza guerre né contrapposizioni. Ma le religioni possono cedere al fanatismo e andare nella direzione opposta, magari spinte da una ricerca spasmodica di appartenenza, tanto più intensa quanto più ci si sente privi di un luogo di consistenza ed esposti a precipitare. Non dimentichiamo i legami che intercorrono fra mancanza di appartenenza e violenza: lo spaesamento o delocalizzazione " spirituale ", prodotto da un aggressivo relativismo che dissolve i valori ricevuti, può generare la via di fuga del fondamentalismo. B) Va mantenuta l'estraneità di due poli che, pur avendo qualche affinità lessicale, fanno riferimento ad universi concettuali lontani: il fondazionalismo e il fondamentalismo. Il primo termine dice che un certo pensiero è fondato e che può render conto di sé, mentre il secondo è l'atteggiamento di chi vuole imporre qualcosa. Nel caso della fondazione o fondazionalismo si ricerca un principio fermo dell'essere o del conoscere che consenta di giustificare il discorso che intendiamo proporre, mentre nel fondamentalismo la partenza e l'intento sono largamente pratici: trarre da una convinzione, un'ideologia o una fede criteri assoluti, non negoziabili e intolleranti di prassi. C) La base spirituale del principio totalitario risiede nella distruzione dell'idea di persona, nell'adozione di un'antropologia in cui l'io empirico non ha valore, e nella cancellazione delle religioni trascendenti con contestuale elevazione della politica a religione intramondana ( la politica è tutto ). Viceversa il fondamentalismo è un cortocircuito fra religione e politica oppure fra irreligione e politica. Dunque appariscenti sono le diversità fra i due fenomeni, nel senso che nel totalitarismo la religione è distrutta o è allontanata dalla politica nel segno di un assoluto primato della politica, mentre nel fondamentalismo religioso accade il contrario, cioè la subordinazione della politica alla religione. D) Nei fondamentalismi religiosi si può forse giungere a pensare che Dio è verità, ma una verità separata dall'agape, e perciò intesa con una coloritura di passionalità e di intolleranza. Remota appare la considerazione che chi converte e volge il cuore a riconoscere il vero è Dio, e che Dio lo fa nel silenzio, nella mitezza, senza violenza. In proposito la mente corre ad un celebre episodio narrato nell'Antico Testamento, al dialogo fra Elia e il Signore sul monte Oreb, quando il Signore passò ed Elia desiderò vederlo. Dapprima ci fu un vento grande e gagliardo, ma il Signore non era nel vento, e neppure successivamente nel terremoto e poi neanche nel fuoco, ma nel sussurro di una brezza leggera: " non in spiritu Dominus, non in commotione Dominus, non in igne Dominus " ( 1 Re 19,11 ). Siamo perciò ammaestrati che Dio non si fa presente nel disordine, nell'affanno, nello zelo amaro e violento. Va da sé - ma non è inutile sottolinearlo - che le guerre di religione e le lotte scatenate dai fondamentalismi non sono in alcun modo guerre sante, per il semplice motivo che l'idea stessa di guerra santa è illecita e ingiustificata. Nessuna guerra ha mai e in nessun caso il diritto di chiamarsi santa: non esistono " guerre sante ", neppure quelle che si vorrebbero combattere nel nome di Dio. E) Non si può debellare il fondamentalismo religioso rinunciando all'ambito della verità, ossia derubricando le religioni e assegnandole al quadro del non-vero, della sola pietas e del culto: questa sarebbe una soluzione illusoria poiché l'uomo è un essere che mira al vero. Occorre distinguere fra tolleranza teoretica che accoglie la validità di qualsiasi opinione e che è assurda, e tolleranza " morale " che è valida. La tolleranza verso l'altro non esige la tolleranza teoretica, in cui tutte le opinioni valgono ugualmente. Illustrando la convergenza tra sentimento cristiano e democrazia personalista, Maritain sostiene che la fede nell'Assoluto è garanzia contro la creazione di falsi assoluti terreni e contro atteggiamenti totalitari: si tratta di tesi contraria a quella di Kelsen, per il quale chiunque ritiene di conoscere la verità assoluta cercherà di imperla agli altri e non potrà essere un democratico. Rispondendo, Maritain qualificherà come barbara e sbagliata tale posizione, aggiungendo: " Non c'è tolleranza reale e autentica se non quando un uomo è fermamente e assolutamente convinto di una verità, o di quella che ritiene una verità, e quando, nel medesimo tempo, riconosce a quelli che negano questa verità il diritto di esistere e di contraddirlo e quindi di esprimere il loro pensiero, non perché siano liberi nei confronti della verità, ma perché cercano la verità a modo loro e perché rispetta in essi la natura umana e la dignità umana, e quelle risorse e quelle sorgenti vive dell'intelligenza e della coscienza che li rendono, in potenza, capaci di attingere anche loro la verità che egli ama, se un giorno arriveranno a vederla ". F) Un problema notevole riguarda la collocazione geografica dei fondamentalismi e del loro paradigma polare, il relativismo. Mentre il relativismo è più diffuso nell'area occidentale sì da costituirvi la congiuntura spirituale prevalente ( non saremmo divenuti in Occidente troppo scettici per appassionarci a una fede? ), il fondamentalismo religioso circola più ampiamente nei Paesi islamici. Nel rapporto tra fondamentalismo e relativismo lascerei un punto interrogativo per quanto riguarda la complessa situazione asiatica, difficile da interpretare anche sul piano religioso. Per il resto sarei incline a sostenere che fondamentalismo religioso e relativismo si richiamino a vicenda nel senso che ciascuno dei due indurisce e radicalizza la propria posizione al cospetto dell'altro, per non parlare poi di non infrequenti passaggi dall'estremo dogmatismo all'estremo relativismo e viceversa. 8. Esportare la democrazia o i diritti umani? L'Isiam 1) Si può esportare la democrazia e in che modo? Non certo con le armi, i missili, i bombardieri, la guerra preventiva. Oltre questa ovvia considerazione rimane centrale la domanda se sia più fondamentale esportare la democrazia oppure i diritti umani o almeno una loro lista minimale. In molti Paesi l'obiettivo primario appare quello di garantire diritti essenziali più che quello dell'esportazione della democrazia, poiché la garanzia dei primi pone rimedio a grandi mali che la procedura democratica da sola non offre: diritto al cibo, alla vita, ad un ambiente decente, a una soglia minima di cure sanitarie, ecc. Il pur auspicabile godimento dei diritti civili e politici quali si hanno con la democrazia non è sufficiente e può non avere priorità sul godimento di essenziali diritti economici e sociali. È l'idea fra gli altri di A. Cassese: " Per quanto riguarda i diritti sostanziali da proteggere, la proposta che ritengo di avanzare è che la comunità internazionale dovrebbe concentrarsi in primo luogo su alcuni fondamentali diritti sociali ed economici, la cui realizzazione, necessaria in qualunque parte del mondo, rivestirebbe particolare valore per i Paesi più svantaggiati ". Diversa, ma forse solo all'apparenza, è la posizione di A. Sen che in La democrazia degli altri non nutre alcuna generale sfiducia sulla possibilità di esportare la democrazia perfino nell'attuale Iraq ( cfr. p. 5 ), poiché per lui le radici della democrazia non si trovano esclusivamente in un tipo specifico di pensiero occidentale al di fuori del quale la democrazia languirebbe e morirebbe ( cfr. pp. 7 e 40 ). La democrazia è qui intesa non come un insieme di procedure ma come l'esercizio della ragione pubblica, circolazione d'informazioni, discussione aperta con la partecipazione dei cittadini al dibattito politico, secondo una determinazione larga di democrazia, più ampia di quella promossa da Lincoin a Gettysburg. Una posizione quella di Sen alquanto diversa dalla visione di Huntington per il quale le elezioni libere e aperte a tutti sono l'essenza o il sale della democrazia, con il grande rilievo della salvaguardia del pluralismo e delle libertà fondamentali. 2) Anche supponendo che la democrazia possa essere di casa dappertutto, vi sono errori notevoli da evitare per conseguire l'esito. Non persuade l'assunto di esportare una versione del tutto secolarizzata di democrazia nei Paesi islamici. Un autore americano autorevole come A. Etzioni scrive: " Gli Stati Uniti dovrebbero desistere dal promuovere, in Iraq e in altri Paesi, una società civile laica come unica alternativa a una teocrazia sciita di stampo talebano ". Non vi è un solo schema di democrazia, e tentare di imporre quello che si ritiene unico rappresenta un serio equivoco. Se la democrazia non è solo un'invenzione occidentale ma qualcosa che ha radici in India e in Africa, in specie sotto l'aspetto della discussione e deliberazione pubblica, non esiste un unico codice democratico, ed è problematico il progetto di esportarne una versione completamente secolarizzata, magari raddoppiata da un arrogante scientismo. Un islamismo flessibile può convivere con istituzioni democratiche, ammettere elezioni libere, libertà di stampa, uguali diritti, mentre si troverebbe in contrasto con un aggressivo laicismo. 3) Con l'evocazione del " problema Isiam " ci si imbatte in un pelago di difficoltà. Mi limito ad una sola considerazione, ossia la necessità di conoscere a fondo la situazione e la storia dei Paesi arabo-mussulmani dal lato culturale, religioso, geopolitico. La loro cultura attuale è impregnata più di quanto pensiamo del ricordo di eventi accaduti nel VII, X, XII e XV secolo, profondamente e tenacemente sedimentatisi nella memoria collettiva. Sottolinea con appropriatezza il diverso peso della storia in Europa e nell'Isiam B. Lewis, grande conoscitore di quei Paesi, osservando che perdura in Europa un certo disprezzo e non-conoscenza della storia araba. Nel rapporto fra democrazia e religione si osserva finora una differenza fra area del cristianesimo e area dell'Isiam. Mentre nella prima democrazia e cristianesimo hanno raggiunto dopo notevoli difficoltà un'intesa, nell'altra non ancora. Anzi alcuni domandano se democrazia ed islam siano compatibili, se sia possibile trovare sufficienti evidenze empiriche della loro compatibilità: in effetti non pare essere disponibile una esperienza storica sufficiente per corroborare o meno l'assunto, il quale invece è attestato per la relazione fra induismo e democrazia dopo oltre mezzo secolo di accettabile funzionamento della democrazia in India. Alquanto diversamente vanno le cose nell'area islamica, che ha sì trapiantato modelli europei in casa propria nel XX secolo, ma molti di loro sono stati modelli sbagliati desunti dal fascismo, dal nazionalismo, dal nazismo e in tempi più vicini dal socialismo sovietico, con l'effetto di trasformare le forme tradizionali di governo mediorientale, in genere autoritario ma non dispotico, in forme dittatoriali e totalitarie copiate dall'Occidente. Potrebbe perfino darsi che il terrorismo islamico abbia imparato qualcosa dall'epoca del Terrore. " Il movimento rivoluzionario islamico oggi in agguato nel mondo, da Kabul a Giava, non sarebbe esistito senza lo smaccato laicismo propugnato dallo scià Reza o senza i vari esperimenti di un socialismo di stato azzardati in Egitto, Siria e Algeria. Per questo deve considerarsi un'enorme sventura, per molti versi, che il Medio Oriente sia entrato per la prima volta in contatto con l'Occidente moderno attraverso gli echi della Rivoluzione Francese. In Robespierre e nei giacobini il radicalismo arabo vedeva modelli di eroismo: propugnatori del progresso e dell'egualitarismo, avversi alla Chiesa cristiana. Ancor più disastrosi furono i paradigmi cui guardò in seguito: l'Italia mussoliniana, la Germania nazista e l'Unione sovietica " ( I. Buruma e A. Margalit, Occidentalism: thè West in thè Eyes of its Enemies, Penguin Press 2004 ). Spesso i fondamentalisti arabi hanno combattuto l'Occidente con idee sorte in Europa. È comprensibile che il fallimento di queste politiche abbia suscitato nel mondo islamico la persuasione che abbandonare le proprie tradizioni per seguire quelle altrui abbia condotto alla distruzione della propria civiltà, per cui l'unico rimedio intravisto resta il ritorno all'Islam. Così l'occidentalizzazione che alcuni ancora desiderano, per altri sarebbe la causa di molti mali: si presenta oggi nell'area islamica, certo in termini propri, qualcosa di analogo all'illimitato dibattito fra occidentalisti e slavofili iniziato quasi due secoli fa in Russia e tuttora in corso. 9. Conclusioni Per diffondere la democrazia nel mondo occorre rendere meno debole quel sentimento di comune appartenenza al genere umano che oggi, nonostante la globalizzazione, langue, e che se non si sviluppa non è in grado di stabilire un sistema di reciprocità nel riconoscimento di diritti e di doveri. Qui il personalismo e non l'individualismo può aiutare il cammino della democrazia contro i rischi di degenerazione. Poi occorre prestare attenzione ai fondamenti preanalitici della democrazia quale evento di portata storico-mondiale: l'idea che la storia umana ha senso, che non va verso una fine catastrofica, che non è un racconto privo di significato e scritto da un idiota. In secondo luogo un tema assume sempre di più decisivo rilievo, tale da condizionare profondamente il futuro della democrazia: la sua capacità di esercitare un controllo morale, giuridico e politico del potere, oggi in specie quello tecnologico, il quale si trova di fatto investito di enormi e crescenti possibilità di operare e distruggere. Anche da questo lato si evince la necessità del predomino del paradigma della Giustizia sul paradigma della Forza e del Potere, che è al cuore dello spirito democratico e dell'autentico governo politico. Epilogo 1. L'epoca della riproducibilità tecnica della vita In queste pagine abbiamo elaborato il convincimento che il principio-persona trovi solida espressione nel personalismo ontologico più che nel solo personalismo etico, e che la filosofia dell'essere ne rappresenti la miglior garanzia. In base alla determinazione boeziana una ripresa dell'idea di persona richiede di riscoprire i concetti che ne formano il tessuto: individuo, natura, ragione, sostanza. Qui il compito è stato compiuto seguendo in specie il filo conduttore della sostanza, il concetto su cui si sono forse addensati i maggiori equivoci, e più in generale la via metafisica: quest'ultima si è mostrata ineludibile per la " personologia ", né sarebbe difficile mostrare che lo è anche per l'assiologia, dal momento che la dottrina dei valori e dell'azione affonda radici nella dottrina dell'essere. Nella prospettiva che si è dischiusa la persona non è apparsa come un elemento riducibile solo al divenire della storia e del cosmo. Se questi non sono " macchine " per produrre la persona, è perché essa appartiene con una parte di se stessa ad un ordine più alto. Storia e cosmo costituiscono luoghi in cui essa da prova di sé e compie il suo cammino personalizzante, allo scopo di diventare nel registro dell'agire, del pensare, dell'amare quella persona che è già per dono di natura nel registro dell'essere. Argomentando in favore di una filosofia della persona intesa come la sfera più alta e interiore dell'essere, ci si è allontanati da una concezione del soggetto ridotto ad alcune funzioni e ultimamente a quella tecnico-produttiva, che non conosce la relazione umana. Il principio-persona ruota intorno a due nuclei filosofico-teologici alti: l'uomo è dotato di ragione e volontà libera; l'uomo è creato da Dio a sua immagine. Questi cardini sono un chiaro portato del cristianesimo: riposano su una base elaborata dalla Patristica, successivamente con particolare vigore dal pensiero medievale dall'XI al XIII secolo, e poi ripresi dalla cultura umanistica. In tale lunga fase i riferimenti simbolici essenziali per pensare l'uomo sono più biblici che greci, e si chiamano Adamo e Cristo, non Prometeo. La particolare dignità dell'uomo è stata espressa con illuminanti immagini nel pensiero biblico, ed il Salmo 8 può ben essere il nucleo di una biblica oratio de hominis dignitate. La controprova storica di quanto asserito sta in un evento, su cui non è mai troppo tardi meditare: le posizioni antipersonaliste si collocano entro il distacco del progetto moderno da quei presupposti metafisici e cristiani che nutrono l'idea di persona. Reciprocamente larga parte degli autori personalisti del Novecento affonda più o meno ampiamente le proprie radici nel discorso biblico, come se nel momento del più travolgente pericolo per la persona, il movimento personalista abbia trovato solide ragioni di speranza nella vicenda della Creazione e dell'Incarnazione. Nel secolo da poco iniziato le difficoltà d'avanzamento del principio-persona manifestano nuovi volti, e il personalismo è di nuovo " in tiro " per esprimere il suo massimo rendimento. Più che sollevare la domanda " Ne sarà capace? ", faremo meglio a dire: " Ne saremo capaci? " Nella storia possono accadere guadagni durevoli, ma anche e forse spesso le perdite: quelle perdite che succedono quando l'occasione cairotica passa davanti a noi e nessuno l'afferra: thE lost moments ofhistory, appunto. Se saremo all'altezza del tema, dopo l'epoca dell'egologia moderna e della crisi della soggettività trascendentale può aprirsi l'era della " personologia ". Questa non dice: cogito, ergo sum, e neppure, volo, ergo sum, ma: ego existo uti persona. Il principio-persona si inserisce con originalità nel movimento fondamentale della ricerca umana. Se consideriamo i massimi orizzonti della scienza contemporanea: 1) la teoria del Tutto cosmico con i temi dell'inizio dell'universo e del tempo; 2) la questione della vita, che chiama in causa biologia e la genetica e la domanda sulla creazione della vita in laboratorio; 3) la questione dell'evoluzione: da dove vengo? 4) la domanda sulla mente e il suo rapporto col cervello: come penso e chi sono? La questione della persona è implicata in trE dei quattro titoli. Il principio-persona deve essere rappresentato pubblicamente e questo lo può fare una metafisica ontologica che di per sé è pubblica. Non sono viceversa in grado di cogliere la valenza del principio-persona e di farsene rappresentanti pubblici né il pensiero tecnico, ne quello economico, né la razionalità dell'efficacia strumentale, incapaci di comprenderne la complessità e gli strati profondi di cui si compone. Da qui i principali avversali della persona: il nichilismo di ogni forma; teoretico, pratico, politico, giuridico, teologico; le filosofie scientiste e materialiste; positivismo e storicismo di vario genere; l'atteggiamento riduzionistico che opera un'estrema semplificazione della persona, rendendola unidimensionale. Queste culture non sono in grado di dare forma al principio-persona, di rappresentarlo pubblicamente; piuttosto ne operano una costante critica mirante a dissolverlo. 2. Un nomos personalista In nessuna epoca come la nostra il massimo potere si unisce al massimo vuoto; il massimo di conoscenza tecnica va insieme col minimo sapere sugli scopi. Per evitare la débàcle del principio-persona risulta necessario passare dalla tastiera del logos, su cui è stata sin qui accordata la musica fondamentale, a quella del nomos: un nomos della persona, fondato sulla comune appartenenza umana, contrario a dividere gli esseri umani in liberi e schiavi, signori e servi, cittadini e stranieri, uomini e donne. La base da cui partire sta nell'inscindibilità tra logos e nomos, che solo un equivoco può voler separare: un logos personalistico, orientale da un diverso modo di guardare la persona, non può che favorire un cambiamento degli ordinamenti concreti. Il nomos è ciò in cui si esprime non solo il modo in cui è pensata la società, ma il modo in cui è organizzata e normata, e in cui è stabilito il rapporto con l'Altro. Il nomos, che è il nome greco della legge, non è solamente un codice, un complesso di norme scritte e non scritte. Per i greci esso era nello stesso tempo ethos, costume, usanze, culto, insomma l'ordine complessivo della società; non a caso nomos è la parola con cui i Settanta traducono l'ebraica Torah. Si possono indicare alcuni nomi o imperativi di un'etica personalista del futuro. Ne suggerisco sei, consapevole che altri imperativi possono essere aggiunti. 1) Impiega il principio-persona e il suo linguaggio come nuovo medium transculturale, ponendolo più in alto del linguaggio della scienza occidentale, che oggi vuole essere l'unico medium valido di comunicazione universale. La teoria della scienza come unico specchio della realtà si può sostenere solo se si mantiene fuori dal quadro tutto ciò che esso non può contenere. Panikkar sottolinea la violenza di cui si fa portatore il razionalismo illuminista, quando considera la scienza occidentale l'unico linguaggio transculturale: " Oltrepassare le frontiere culturali spianando il fucile della " pura " ragione (cioè la sola ragione) è abbandonarsi a un atto di violenza " e di contrabbando culturale ". Panikkar respinge la pretesa della scienza di proporsi come universale e neutrale, rispetto alle altre cosmologie. L'esportazione del modello occidentale appare oggi forte nel momento in cui si ammette che la cultura scientifica è superiore ad ogni altra e che le altre culture sono destinate a scomparire: impossibile in tal caso parlare di interculturalità. Se esiste una sola cultura universalmente valida, quella della scienza galileiana, le culture altre diventano irrilevanti e inferiori. Il dialogo interculturale è autentico solo nella consapevolezza che la nostra visione del mondo non è l'unica. 2) Dal lato del nomos e dell'azione il principio-persona è asimmetrico: rimani fedele a tale asimmetria. Asimmetria significa che sono chiamato a rispettare l'altro, indipendentemente dal fatto che l'altro non applichi la regola della simmetria e non eserciti rispetto. In merito non si dà scambio degli equivalenti come nei rapporti economici e nel mercato. Naturalmente posso chiedere ed agire per favorire una chiara reciprocità, senza però cessare dal rispetto dell'altro. Non posso dunque negarglielo se l'altro me lo nega. 3) Non porre mai a rischio il principio-persona nei dibattiti sull'essere e sull'agire dell'uomo, in modo che diventi una posta in gioco. Di questo assioma si possono offrire due implicazioni: a) La prima è stata formulata da H. Jonas così: " Includi nella tua scelta attuale l'integrità futura dell'uomo come oggetto della tua volontà ". In merito preciserei, aggiungendo un aggettivo: " Includi nella tua scelta attuale l'integrità presente e futura dell'uomo … ". Che cosa significhi integrità, è stato accennato nel cap. V, almeno in rapporto alle biotecnologie; b) la seconda implicazione potrebbe suonare: " Nelle vicende dell'essere e dell'agire non cercare di produrre la persona ". Quest'ultimo criterio può essere ulteriormente sviluppato in altri " imperativi ": b1) evita l'assolutizzazione del momento produttivo che, giunto al suo apice nella società tecnologica, non ha altro fine che la produzione stessa; b2) non rapportarti all'altro, al mondo, alla natura, come a ciò che può soltanto essere prodotto, fino a pervenire all'alienazione che percorre la storia dell'Occidente, l'annullamento del soggetto nella cosa; b3) allontanati dall'idea di una producibilità universale, nella quale lo stesso soggetto alla fine si trova incluso, rimanendo contraddittoriamente identificato col suo opposto, l'oggetto; b4) evita l'influsso dell'antropologia utilitaristica centrata sul selfìnterest e non considerarea l'economia politica la scienza sociale fondamentale: esse conducono al declino del politico e dello spazio pubblico ( cfr. Alain Caillé, Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali. Dedalo, Bari 1995 ). 4) Adotta il principio-persona come filo conduttore per l'educazione della persona. L'uomo può e deve essere educato a divenire concretamente quello che è già per essenza: educato fisiologicamente, corporalmente, psicologicamente, moralmente, intellettualmente, spiritualmente a crescere e ad entrare in rapporto positivo con l'altro. Educare significa prendere per mano una persona e aiutarla a percepire il senso integrale della realtà, aiutarla a fare i conti con il reale, non con sogni, siano essi alti o modesti. Ogni autentico processo educativo inizia con un atto di realismo, guardando le cose che sono e come sono. Il vero educare è un processo antìnichilistico, essendo il nichilismo in radice denotato dal rifiuto del principio di realtà, e dall'adesione a criteri d'irrealtà e di sogno che sembrano costitutivi di importanti aspetti della postmodernità. Il nichilismo è una costante sfida al linguaggio, è un modo di adulterarlo e di fargli dire l'antirealtà. L'educazione è educazione della persona, prima ancora che educazione civica e politica ad essere buoni cittadini, o il dressage a competere con l'altro come in un combattimento tra galli. L'oggetto dell'educazione è il soggetto, la persona del bambino e del giovane. La conversione al materialismo che emerge in varie zone della società occidentale rende arduo il processo educativo. Una pedagogia personalista evita che l'essere umano sia ridotto a transito di cibo, e punta sulla forza e l'educazione dell'anima. Qui l'obiezione scientista è particolarmente distruttiva poiché, privando l'uomo della dimensione spirituale e del suo essere ad imaginem Dei ( prima si toglie Dio, poi la sua immagine ), lo abbassa quasi alla stregua di un animale fra i tanti che popolano il cosmo: magari più evoluto ma privo di una sua specifica dignità. Da questo lato l'antropologia si pone semplicemente come un ramo della zoologia. In certo modo il processo è stato iniziato da Machiavelli, uno dei maggiori negatori impliciti del principio-persona. Riducendo l'uomo ad animalitas eferinitas, intendendolo come un animale per la potenza, sostituendo il paradigma della giustizia con quello della forza, ethos con kratos, egli ha avviato quel processo, con conseguenze devastanti nell'ambito dell'idea politica e dell'educazione. Dalla posizione antiumanistica si diparte una difficoltà: come procedere all'educazione morale dell'essere umano, se questi è un animale che potrà forse venire addomesticato come un bipede implume, non moralmente educato per la verità e il bene. Allevare e addomesticare da un lato ed educare dall'altro sono processi lontani. Il filosofo-re platonico possiede un sapere per allevare e addomesticare o un sapere per educare? In generale vi può essere un'educazione dell'uomo solo quando se ne ha un concetto adeguato, quando conosciamo i fini dell'educare e non falliamo nell'educare gli educatori. Non possiamo educare se non siamo in grado di sostenere il valore umanistico e non meramente zoologico della vita umana. In caso contrario il processo pedagogico può essere compreso solo come un cammino di addomesticamento e di allevamento dell' " animale uomo ", come sembra ritenere P. Sloterdijk quando parla di " parco umano " e pare introdurre l'idea di una storia naturale dell'addomesticamento. L'umanesimo non cerca di produrre né il sottouomo, né il superuomo, ma l'uomo in carne ed ossa cui la cultura morale, l'esperienza e l'esempio, incarnato in persone, delle migliori possibilità dell'esistenza umana forniscono un appello che conta più di tante altre cose. 5) Fai valere il principio-persona come sorgente di riforma nei fondamentali ordinamenti concreti della vita: matrimonio e famiglia; lavoro; cultura e sapere; politica e diritto; religione. O anche: applica il principio-persona a società, politica, cultura, e fanne il perno di un'azione conseguente: rapporto con l'altro entro istituzioni giuste ( come suggerisce Ricoeur ). La società infatti non è un microcosmos ma un macroantropos; è la parola uomo scritta in grande, e risulta illusorio ricercare una scienza della società senza dotarsi di una scienza dell'uomo. Tommaso d'Aquino aveva determinato lo scopo della società nel modo seguente: " Ad hoc enim homines congregantur, ut simul bene vivant ". Ora il bene vivere, che è lo scopo, non può essere definito dalla società o dalle scienze sociali. Quale sia la buona vita, la forma di vita più degna dell'uomo come essere sociale diventa anzi il presupposto di ogni pensiero e di ogni prassi politica che vogliano realizzarlo. Da questa fondamentale lezione della filosofia politica personalista diverge larga parte della modernità, in cui la dimenticanza fra vivere ( zen ) e bene vivere ( eu zen ) denota spesso la nuova partenza. In Telesio e Campanella, nel conatus sese conservandi di Spinoza, in Hobbes, ecc., il massimo bene è la conservazione della vita. Lo zen prende il sopravvento sull'eu zen, particolarmente in Hobbes per il quale società e Stato non sono stabiliti sul bene vivere ma sulla volontà dell'individuo di conservarsi in vita. Le concezioni politiche del personalismo hanno contribuito a rompere questo schema, reintroducendo la questione della buona vita, dei diritti umani, del solidarismo e comunitarismo, aprendo il cammino ad un nuovo paradigma antihobbesiano di cui è superfluo sottolineare la necessità. In parte del pensiero politico dell'ultimo mezzo secolo è in atto un tentativo di recidere i legami con l'eredità hobbesiana e di riscoprire l'ambito del bene vivere. Un essenziale passo avanti accadrebbe quando il principio-persona fosse applicato ai rapporti internazionali e al tema della guerra e della pace, dove la sua emarginazione è maggiore. 6) Per l'ultimo suggerimento ci affidiamo alle parole di E. Scalfari, sospeso tra tentazione antiumanistica e nostalgia dell'Altro: " Personalmente non credo che il ruolo della specie alla quale io appartengo sia superiore a quello delle api o delle formiche o dei passeri " … In questo scenario letteralmente occidentale ( cioè da " tramonto ", perché " occidente " vuole dire terra del tramonto del sole ) brilla ancora più forte e affascinante la luce della fede: essa ci svela il senso della vita e, conseguentemente, accende una lampada davanti alla nostra libertà. La fede, innanzi tutto, dando forza all'evidenza, dice che Dio ha creato l'uomo e la donna per puro amore ( quale altro scopo poteva avere Dio? ) e li ha collocati nella festa della creazione, la quale oggi, a motivo delle straordinarie scoperte scientifiche, ci appare sempre di più come uno scenario di divina sproporzione e di divina fantasia: la galassia - soltanto per fare un esempio - nella quale si trova il sistema solare con il nostro piccolo pianeta ha un diametro di 100.000 anni luce, pari a un miliardo di miliardi di miliardi di chilometri! E la nostra galassia è un angolo dell'universo! Viene subito la domanda: perché Dio ha creato l'uomo? La risposta della fede è stupendamente semplice, ma anche meravigliosamente rispondente a ciò che la ragione umana cerca e intuisce: Dio ha creato l'uomo, affinché possa, con la sua libertà, firmare l'innata relazione con Dio e così possa aprirsi ad un abbraccio di amore con Lui, che è la sorgente della festa e di ogni festa " ( "la Repubblica", 24 gennaio 1996 ). 3. Due ostacoli 1) Il postulato antropocentrico, che fa perno sull'uomo intendendolo centrato solo su se stesso, non è superato: appare in crisi ma non domo. Nella transizione da un antropocentrismo orgoglioso di sé sino alla presunzione ad altre forme, non poco è mutato ma è finora rimasto l'antropo centrismo. Per perpetuarsi esso ha di molto abbassato i suoi orizzonti, adottando una concezione antieroica dell'esistenza, cedendo alle pusillanimità dell'io minimo, concedendosi all'abbraccio della tecnica, acconciandosi ad una razionalità diminuita come quella rappresentata dal proceduralismo e dalla morale secolare ( questi aspetti sono ampiamente svolti nei capp. V e VI del mio Religione e vita civile, cui rinvio ). L'umanesimo antropocentrico ha raggiunto esiti e successi, ma ha pure incontrato a Dachau ed Auschwitz il suo " altro " fiammeggiante, il nemico che da solo non è in grado di debellare. Una frase di Solgenitsin dà da pensare: " Un antropocentrismo sicuro di sé non può dare risposte a molte domande della vita ed è tanto più impotente, quanto più le domande sono profonde ". Da tempo si verifica un passaggio intenso da un antropocentrismo a sfondo idealistico ad uno materialistico ed evoluzionistico: e qui infine l'antropocentrismo potrebbe rinnegarsi e concludere nel suo contrario. Ciò che oggi dobbiamo temere è la diminuzione dell'uomo, l'abbassamento che si infligge con le proprie mani, diventando nemico di se stesso e finendo per disprezzarsi. Ancora recentemente si è tornati a parlare di " morte di Dio ", con scarsa verosimiglianza, perché se per " morte di Dio " si intende la fine delle religioni le evidenze empiriche sembrano dire il contrario, ossia che è in atto una ripresa del ruolo anche pubblico delle grandi religioni mondiali. Più appropriato è parlare di rischio di " morte dell'uomo ", di declino di ciò che è più tipicamente umano. Mentre Dio sembra tornare, l'uomo continua ad andare, ad andare via, ad essere assoggettato a violenze, manipolazioni, nuove forme di schiavitù. Non siamo fuori dalla notte del materialismo, come molti anni fa avvertiva con la lucidità dei poeti B. Pasternak. In una lettera del 5 marzo 1933, indirizzata ai genitori a Berlino, così si esprime: " Una stessa cosa mi deprime sia nella nostra condizione sia nella vostra. È il fatto che questo movimento [ il nazismo ] non è cristiano ma nazionalistico, cioè corre lo stesso pericolo di scivolare nel bestialismo del fatto. C'è lo stesso distacco dalla secolare misericordiosa tradizione che viveva di trasformazioni e anticipazioni, e non delle sole constatazioni della cieca emozione. Sono movimenti binari [ nazismo e comunismo ], dello stesso livello, l'uno provocato dall'altro e per questo tutto ciò è ancora più triste. Sono l'ala destra e l'ala sinistra di una nuova notte materialistica ". 2) L'obiezione del nichilismo europeo. Lo spostamento dei Zentralgebiete ( C. Schmitt ). La ricomprensione naturalistica della persona, quale cerca oggi di farsi valere attraverso il biologismo e larghe parti della teoria dell'evoluzione quale nuova filosofia prima, segnerebbe la supremazia del funzionalismo sul sostanzialismo nella metafisica della persona e il trionfo della concezione " mobilista " della realtà secondo cui tutto diviene e niente è. Il passaggio dal sostanzialismo al funzionalismo è un modo per integrare senza residui l'uomo in un divenire che non ammette eccezioni o sporgenze. Entro tale quadro appare un nuovo volto del nichilismo che tratteggiamo così: speculativamente come oblio della sostanza quale portato dell'oblio dell'essere; antropologicamente come dissoluzione della sostanzialità della persona e sua riconduzione-riduzione a funzione; teologicamente come abbandono della verità dell'imago Dei. L'antipersonalismo costituisce una forma notevole di nichilismo. Questo procede da antefatti che hanno interessato la storia europea dal XVI secolo in avanti, attraverso uno spostamento progressivo dei centri di riferimento della cultura o Zentralgebiete secondo la denominazione impiegata da C. Schmitt nello scritto: " L'epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni ",7 verso cui ci volgiamo. Il saggio, breve e succoso, è notevole. Per il suo autore può valere quanto don Ferrante dice di Machiavelli, " mariolo sì, ma profondo ". Schmitt è a mio parere un " mariolo " per il suo Begriff des Politischen disperatamente consegnato allo scontro senza requie tra amico e nemico, ma acuto per i lampi di intelligenza che rischiarano la sua visione del diritto e del nomos. L'ambito del discorso schmittiano è l'Europa e in senso affine l'Occidente, non la storia universale: che il nichilismo sia l'esito attuale della storia mondiale lo si può assumere solo a patto di elevare, ricorrendo a potenti semplificazioni, la vicenda spirituale dell'Occidente a vicenda universale. La questione del nichilismo deve essere ancora compresa nel suo ambito nativo d'origine e di sviluppo prima di ricorrere ad azzardate estrapolazioni alla storia mondiale e ad altri contesti di civiltà come l'India, la Cina, e in certo modo l'Isiam. Le diagnosi oracolari e onnicomprensive, cui hanno ceduto Heidegger e i suoi successori persuadendo a cercare fuori dalla modernità le scaturigini del nichilismo, suonano dubbie. Schmitt ricostruisce sobriamente " le fasi attraverso cui si è sviluppato lo spirito europeo negli ultimi quattro secoli e le diverse sfere spirituali nelle quali esso trovò il centro della propria espressione umana. Si tratta di quattro grandi, semplici passi secolari. Essi corrispondono ai quattro secoli [ dal XVI al XIX ] e vanno dal teologico al metafisico, da questo al morale umanitario e infine all'economico … Negli ultimi quattro secoli della storia europea la vita spirituale ha avuto quattro centri diversi, e il pensiero dell'elite attiva, che costituiva il gruppo di punta nei diversi momenti, si è mosso, nei diversi secoli, intorno a centri di riferimento diversi " ( p. 168 e s. ). Fra tutti i rivolgimenti spirituali della storia europea Schmitt considera il più intenso e carico di successo quello avvenuto nel '600 che condusse dalla tradizione teologica cristiana al sistema di una scientificità " naturale ", la quale abbastanza rapidamente allontanerà da sé il correlato metafisico-ontologico cui era in partenza unita. Il passaggio da un centro di prospettiva al successivo comporta la neutralizzazione e l'emarginazione di quello precedente, nell'intento di trovare sul nuovo terreno e intorno al nuovo centro di riferimento quel minimo d'accordo e di premesse comuni che " permettano sicurezza, evidenza, comprensione e pace " ( p. 176 ), sino all'approdo sul terreno della tecnica. In questo si crede di aver trovato il luogo assolutamente e definitivamente neutrale, che risponde all'esigenza del " nient'altro che tecnica ". Illusione maestosa tuttavia, poiché dietro alla tecnica sta lo spirito della tecnica, ed esso non è qualcosa di tecnico, ma di essenzialmente spirituale che impiega la tecnica per i suoi scopi. Tanto lo spirito della tecnica non è qualcosa di tecnico, altrettanto il senso della politica ( e del diritto ) non sta solo o principalmente nelle regole, norme e procedure. Di tale illusione testimonia l'idea, diventata moneta passepartout, che la democrazia non abbia bisogno di alcun presupposto etico, antropologico e religioso. Per ciascuno dei quattro centri di riferimento vale la tendenza a costruire attorno ad esso un autonomo " concetto di verità ". E propria della posizione di Schmitt l'idea che la storia non sia uno " sgomitolamento lineare ", ma che includa fratture interne, cesure, salti qualitativi: la filosofia della storia non è ne può essere una filosofia della certezza proiettata verso il futuro. Da rimarcare pure l'assunto schmittiano che molto dipenda dall'azione delle élites volta a volta attive. I centri di riferimento prendono tale nome in quanto assicurano se non una totalità ordinata, almeno una qualche unificazione: attorno ad essi si riformula e si unifica una cultura seppure a livelli di indebolimento crescente. É una diagnosi ripetuta che il nichilismo consista non solo nell'erosione dei valori, ma appunto nella perdita di ogni centro di riferimento e di prospettiva. Il nichilismo avanza man mano che i centri di riferimento individuati da Schmitt si depotenziano e unificano in modo sempre più precario, sino a quando si evidenzia l'esito di cui la pancia della storia era per così dire già gravida: il soggetto umano rotola via da ogni centro e precipita da ogni parte come è annunciato dall'uomo folle sulla piazza del mercato, che rende nota ai distratti e agli inconsapevoli la " morte di Dio ". Con validi motivi dunque il processo del nichilismo è riassumibile nella " morte di Dio " nel senso che spentosi il Centro, ogni altro centro minore e derivato dura solo per un tempo limitato e poi si dissolve. Spentosi il fulgore di Dio sulla storia universale, la dispersione vince, la vita si sparpaglia, l'umanità dell'uomo si dissolve. Simpatizzo con l'analisi schmittiana per il rilievo attribuito al mutamento, che spesso fu piuttosto uno scardinamento, dei centri fondamentali della cultura. Non sostengo che il processo del loro mutare e l'avvento del nichilismo siano pienamente sovrapponibili e procedano di conserva. L'assunto che intendo svolgere è che con l'imporsi dei nuovi centri di riferimento dello spirito europeo si è progressivamente estenuata l'apertura contemplativa della mente, ci si è mossi verso un'accettazione supina del divenire come fenomeno innocente e improblematico, e verso un affidamento alla potenza trasformatrice della tecnica: la volontà di potenza al posto della volontà di verità. Uorbis ad deum ordinatus e l'intellectus ad esse ordinatus vengono meno e sono sostituiti dal principio tecnico-economico. È accaduto un depotenziamento del realismo, un crescente oblio dell'essere, una riformulazione del concetto di verità, sino all'arrivo sul terreno del null'altro che tecnica, dove si sviluppa l'antireligione del tecnicismo o la fede secolare nella tecnica, che rappresenta l'opposizione più forte al livello teologico di partenza. Invertire il processo di declino nichilistico significa riaprire il cammino verso un riattingimento dei centri di riferimento oggi in eclisse: questo lo possono minoranze creative o élite attive. Nessun destino è già segnato. 4. Umanesimo e ( neo ) illuminismo Secondo C. Taylor si danno varie forme di umanesimo: vi sono i sostenitori di un umanesimo secolare, i neonietzschiani, e " coloro che riconoscono un bene che va oltre la vita. Ciascuno dei tre può allearsi con un altro contro il terzo su qualche importante questione. I neonietzschiani e i fautori di un umanesimo secolare condannano la religione e respingono ogni idea di un bene che vada oltre la vita. Ma i neonietzschiani e chi riconosce il trascendente sono accomunati dal distacco con cui assistono ai continui scacchi dell'umanesimo secolare, e concordano anche sul fatto che la sua visione della vita manca di una dimensione. In un terzo scenario, i fautori dell'umanesimo secolare e i credenti si alleano nella comune difesa di un'idea di bene umano contro l'antiumanesimo degli eredi di Nietzsche ". Nella triade delle possibili relazioni isoliamo la terza: i migliori fautori dell'umanesimo secolare sono attualmente i sostenitori dell'illuminismo e neoilluminismo. Tuttavia l'umanesimo secolare è solo una parte della realtà dell'umanesimo come tale: nella cultura europea umanesimo e illuminismo designano atteggiamenti tipici dello spirito su cui conviene sostare per delineame i caratteri differenziali. Ma prima per amore di precisione è saggio richiamare la differenza tra umanesimo e personalismo: il primo possiede un significato più ampio e forse più vago dell'altro. Vi sono stili di umanesimo che non sono personalisti: se in passato si è parlato di " umanesimo marxista ", sarebbe impossibile richiamarsi ad un personalismo marxista ( lo vieta la sesta tesi di Marx su Feuerbach ), o anche ad un personalismo ateo che scelga tra Dio e l'uomo, poiché nel marxismo l'uomo non è persona ma particolarizzazione transeunte della Gattungswesen ( essenza del genere ). Messo a punto il linguaggio, inoltriamoci nel rapporto tra umanesimo e illuminismo. L'umanesimo ( con la minuscola ) costituisce una categoria generale dello spirito, di cui l'Umanesimo ( con la maiuscola ) del XV e XVI secolo rappresenta un'importante espressione storico-culturale. Esso si nutriva di una filosofia religiosa della persona ( spesso di una concezione teandrica della presenza di Dio nell'uomo ), aperta a valorizzarne l'interiorità e il suo rapporto col mondo. La sua cifra si gioca nell'equilibrio tra il fin " contemplativo " del conoscere e dell'amare gli " oggetti ", in specie i più alti, e la molteplicità dell'agire in cui predominano la relazione con l'altro uomo, la giustizia, la responsabilità verso l'altro. Il profilo di persona che si delinea nell'umanesimo non può perciò essere raggiunto dalla critica heideggeriana al soggetto moderno manipolante, animato da volontà di potenza Nella cultura dell'illuminismo si esprime una fondamentale fiducia nei saperi mondani, nella progettazione tecnico-politica, nella duttile capacità di disporre delle cose, nella liberazione che verrà all'uomo per il suo concentrarsi sull'azione civile e politica. Accadono un mutamento del desiderio e una trasformazione dell'ondo amoris: la gestione confortevole del vivere tende ad occupare la scena, anche per la non infrequente alleanza tra illuminismo e utilitarismo. Dell'umanesimo rimane l'idea dell'azione guidata da regole morali e valori ( forse meno quella di una sapienza contemplativa ), che però si estendono universalmente e che tendono al riscatto della vita comune e al riconoscimento di una sostanziale uguaglianza tra gli uomini. Mentre l'illuminismo rischia di trovarsi accaparrato dalla gestione tecnica, dall'orizzonte acquisitivo e dallo scambio economico nel mercato, l'istanza dell'umanesimo introduce un'ulteriorità, una riserva critica aprente contro i sempre ritornanti riduzionismi. D'altra parte istanza umanistico-personalistica e istanza illuministica trovano un buon terreno di incontro sulla questione dei diritti umani, entro il quale levare difese contro l'antiumanesimo degli eredi di Nietzsche. Si tratta di un nucleo fondamentale, attualmente messo alla prova nel rapporto difficile tra uomo e tecnica. Qui non sappiamo come evolverà la dialettica tra personalismo e illuminismo in specie per quanto riguarda la parte del naturale e dell'artificialmente prodotto nell'uomo. È possibile riassumere le categorie discriminanti dell'universo di pensiero e cultura proprio dell'umanesimo e dell'illuminismo, disponendole secondo alcune endiadi polari: umanesimo illuminismo Persona Individuo Interiorità Io nell'azione Teismo Riserbo sulla trascendenza Comunità ( filosofia io-tu ) Società contrattuale Concezione della vita aperta ad una ulteriorità Concezione intramondana 5. Compito del principio-persona La modernità filosofica prese le mosse con l'io e la soggettività, non con la persona: queste partenze assolute non si dimenticano e portano a conseguenza. La crisi della centralità del soggetto nella filosofia contemporanea, attestata dai suoi esiti antiumanistici e antipersonalistici, testimonia del declino probabilmente irreversibile della linea soggettocentrica moderna, espressasi in specie lungo il versante dell'io trascendentale. In questo processo l'istanza umanistica ha rappresentato un momento di resistenza contro la dissoluzione dell'idea di persona. Se è stato il principio-soggetto a dare il segnale del nuovo avvio moderno, confidiamo che sarà il principio-persona ad aprire una strada diversa, a dare vita ad una " rivoluzione della persona ", ampliando a tutte le culture il riconoscimento concreto della sua centralità: una rivoluzione che, per usare un termine caro a E. Mounier, potremmo chiamare " personalista e comunitaria ", capace di attuare un mutamento della vicenda storica ed una svolta rispetto al mattatoio " rivoluzionario " del XX secolo. L'immenso dibattito innescatesi in rapporto ai temi bioetici e alle biotecnologie segna una fase da cui il criterio personalistico può ricevere un colpo o un rilancio. Non esistono compartimenti stagni nella cultura e quanto risulterà al termine di tale dibattito, influirà diffusamente. Che il principio-persona possa dissolversi, non lo credo. Può però entrare in una prolungata eclissi in cui " essere umano " e " persona " saranno intesi come diversi, in cui cioè gli esseri umani non sarebbero più persone e le persone non più esseri umani. Lo stesso dibattito in corso sta facendo emergere una nuova vitalità dell'idea di persona che, sotto la pressione delle contingenze, da prova del suo coefficiente di realtà. Una grande dottrina, in epoche remote pensata per altri problemi, mostra la sua forza nel fronteggiare nuove sfide. Queste spremono il massimo rendimento dall'idea di persona, obbligano la tradizione a ripensarsi e precisarsi, favoriscono la critica delle posizioni avverse che presumono di valere solo perché sono venute dopo. Là dove prima non vi erano risposte poiché non vi erano domande, nascono nuove risposte a nuove domande; ed è corroborante osservare che i nuovi sviluppi sono omogenei col contenuto essenziale dell'essere persona. È in tal modo verificata una legge generale del progresso in filosofia, secondo cui esso accade nella forma paradossale di un'identità che cresce, cioè di uno sviluppo o incremento omogeneo. Nonostante gli accentuati contrasti del quadro tratteggiato, il filo conduttore finora seguito suggerisce che non siamo dinanzi alla fine della persona, quanto ad una sua eclissi che potrà lasciare il passo ad una ripresa. La necessità di una " resurrezione " della persona e di un umanesimo ad essa conforme fa parte delle migliori speranze: un umanesimo come dottrina delle autentiche potenzialità umane; capace di riconoscere i propri limiti, la propria finitezza e di accettarsi senza orgoglio; di ritenere che il male non avrà la meglio. Non tutti i giochi sono fatti, e non è detto che dopo i fallimenti dei miti del XX secolo, ci restino solo un ateismo meno presuntuoso ed un materialismo ancora più esagitato. Ci resta la speranza fondata nella divisa: humana dignitas servando, est. Alcune condizioni sono necessario : ne elenco tre. La prima è che l'Occidente secolarizzato ritorni alle sorgenti metafisiche e religiose dell'umanesimo, non dimenticando che il principio-persona procede da Gerusalemme. Dio ha parlato non in Occidente ma in Oriente e qui si è incarnato. L'Occidente non ha ascoltato direttamente la voce di Dio, ma solo indirettamente attraverso la missione evangelizzatrice: eppure un tempo comprese che attraverso la missione gli veniva affidato il compito di esplorare, entro lo sguardo che il Vangelo porta sull'uomo, le sue molteplici dimensioni. Che l'Occidente non accompagni la diffusione planetaria dei diritti umani mediante la diffusione concomitante di ateismo e secolarismo, secondo un modello di modernizzazione innervato dall'indifferenza per le esigenze spirituali dell'uomo! Se l'Occidente ebbe e forse ha ancora una missione, questa è di sviluppare il principio-persona nella cultura e nella civiltà, di dargli slancio, di stimolare una tensione di inappagamento nell'uomo: principio-persona e quanto chiamerei principio di inappagamento vanno insieme. Questo grande sforzo si sta allentando e irrigidendo in un formalismo che prende il sopravvento sulla vita: l'umanesimo occidentale appare stanco, e non può riprendere slancio attraverso il riferimento esclusivo ai canoni liberali della tolleranza, della libertà, della più estesa privatizzazione dell'esistenza, della separazione fra fede religiosa e vita civile. Su questi temi decisivi lo spirito occidentale si impoverisce nel momento stesso in cui esprime il massimo sforzo per diventare mondiale, alla cui cultura non porta però il principio-persona ma la globalizzazione economica. La seconda condizione è che la filosofia della persona superi l'attacco di cui è fatta oggetto in Occidente dal materialismo e oggi dal biologismo. L'adagiarsi nella finitezza rende più agevole il tentativo di intendere l'uomo sulla base di un compiuto naturalismo e materialismo biologico. L'uomo, si dice, possiede intrinseca similitudine con la materia, è qualcosa di impersonale, è corporeità soggetta alla tecnologia e/o corporeità in cui si esprimono pulsioni. Il processo è indirizzato all'integrale naturalizzazione dell'uomo, risolto nella vita della physis. Settori della cultura filosofica contemporanea, abbandonando l'apriori idealistico e soggettocentrico del passato, guardano verso un nuovo apriori, quello bioantropologico. Una grande demoralizzazione umanistica può essere l'esito del tentativo di integrale naturalizzazione dell'uomo, che può giungere al predominio del biologico e dell'organico su ogni altro aspetto. Nelle correnti radicali si esprime talvolta l'idea che l'uomo sia un animale mal riuscito a causa della presenza dello spirito in lui, e che dunque per portarlo ad essere un animale riuscito e adattato a se stesso, occorra intraprendere una lotta contro lo spirito per abolirlo. Di ciò è traccia in filigrana la " morte dell'anima " nella cultura corrente, fenomeno che va di pari passo con una grande afflictio animarum, con quel male oscuro della depressione che nessun farmaco e nessuna terapia riescono a debellare compiutamente. La terza condizione è che il principio-persona sia impiegato per avviare l'incontro fra le civiltà verso il dialogo e non il conflitto, favorendo l'interfecondazione culturale. Un compito urgente poiché negli ultimi lustri siamo nuovamente immersi in un clima di crisi e di scontro delle civiltà che, nonostante innegabili differenze, può avere elementi di somiglianza con la crisi di civiltà che infierì negli anni '20 e '30 del secolo scorso, e di cui molte sentinelle della cultura furono consapevoli: B. Croce, D. H. Lawrence, J. Huizinga, E. Husseri, T. Mann, J. Maritain, O. Spengler, A. Toynbee, S. Zweig, Ortega y Gasset, N. Berdjaev. La congiuntura odierna rimette in onore il concetto di civiltà/cultura, lungamen te sacrificato a favore di quello di ideologia. Di ciò è emblema il noto volume di S. Huntington Thè Clash of Civiliwtions ( Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, trad. it, Garzanti 2000 ), in cui si ristabilisce la centralità storica ed ermeneutica dell'idea di civiltà/cultura. Secondo quest'autore " la storia umana è la storia delle civiltà … nel corso della storia le civiltà hanno rappresentato per l'uomo la più importante fonte di identificazione " ( p. 43, trad. it. ). Huntington sostiene l'intercambiabilità dei concetti di civiltà e cultura: " Tranne che in Germania, una civiltà rappresenta sempre un'identità culturale … [ i ] tentativi di distinguere fra cultura e civiltà non hanno attecchito " ( p. 45 ). Individuata la tesi di fondo nel fatto che " la cultura e le identità culturali - che al livello più ampio corrispondono a quelle delle rispettive civiltà - siano alla base dei processi di coesione, disintegrazione e conflittualità che caratterizzano il mondo post-Guerra Fredda ", Huntington lo conclude sostenendo che " nell'epoca che ci apprestiamo a vivere, gli scontri di civiltà rappresentano la più grave minaccia alla pace mondiale, e un ordine internazionale basato sulle civiltà è la miglior protezione dal pericolo di una guerra mondiale ( p. 14 e p. 479 ). Affinché ciò accada occorre essere aperti agli incroci, sia pure misurati. Ma la civiltà occidentale e quella islamica sono disposte a questo, dal momento che l'incrocio richiede due soggettività capaci di comunicare? L'Occidente politico-economico cerca oggi l'universalismo del mercato, del capitale, della scienza-tecnica, della democrazia, mentre dialoga meno con le altre culture. Forse anche a questo elemento si collega il rinchiudersi dell'Occidente, a dispetto della portata mondiale di alcuni processi quali la globalizzazione, partiti dall'Occidente stesso. All'incirca dal Rinascimento questo ha meno praticato l'interfecondazione culturale, cercando di esportare e non di rado di imporre la sua cultura. D'altro canto nella tumultuosa area islamica le tensioni tra moderati e fondamentalisti radicali stanno salendo ad un livello distruttivo, mentre aumenta l'obiezione contro l'Occidente, e cresce il bisogno di identità e di riconoscimento. Esso si manifesta più basale del bisogno di libertà, su cui la modernità ha puntato le sue carte migliori. L'attuale orientamento rende più complesso il pervenire alla solidarietà fra estranei, perché essi cercano di restare se stessi, di mantenere le proprie radici prima ancora che di rivendicare libertà civili. I rapporti in gioco non si fondano sul conflitto strategico degli interessi o sulla razionalità utilitaristica, ma sulle aspettative di riconoscimento e di comunicazione. L'esito sarà possibile se si edificheranno identità aperte all'altro che possano provocare l'incontro e non l'inimicizia fra le civiltà. Se vi è una " morale della favola " che sorregge il dipanarsi della presente ricerca, l'esprimerei così: l'estendersi effettivo del principio-persona nelle culture costituisce il racconto o la storia dell'umanizzazione dell'uomo. Esso mostrerà la sua massima fecondità quando si estenderà oltre il mondo storico e culturale in cui ha preso avvio e dove sino ad oggi affonda le sue radici, quando sarà attivo in contesti geoculturali in cui non venne pensato e da cui appare assente.