Gli stati di vita del cristiano Hans Urs von Balthasar Prefazione a mo' di istruzione per l'uso Che cosa questo libro vuol essere Niente di più che una dettagliata meditazione sui fondamenti e i fondali della meditazione degli "Esercizi" di S. Ignazio concernente la « chiamata di Cristo » ( Eserc. 91 ), sulla risposta da dare a questa chiamata qualora « ci si voglia lasciare maggiormente afferrare » ( ibid. 97 ) e sulla scelta davanti alla quale questa chiamata ci pone: seguire Cristo nostro Signore « nella prima condizione di vita, quella che consiste nell'osservanza dei comandamenti », di cui egli ci ha dato l'esempio nella sua obbedienza nei confronti dei genitori, oppure « nella seconda condizione di vita, quella che consiste nella pienezza del Vangelo », allorché egli lasciò la sua famiglia « per essere libero nel puro servizio del suo eterno Padre ». E questo « affinché in qualunque stato o condizione di vita Dio nostro Signore ci dona per sceglierlo, possiamo pervenire alla perfezione ( dell'amore cristiano naturalmente ) » ( ibid. 135 ). L'Autore acclude al suo direttorio un'istruzione: ci vuole più di un motivo per imboccare la prima come la seconda strada. Questa nostra meditazione vorrebbe arrivare a comprendere perché questo atto di scelta di uno « stato o condizione di vita » è possibile e inevitabile « nell'ambito della Santa Madre, la Chiesa gerarchica » ( ibid. 170 ), da dove questo aut-aut abbia origine-giacché ambedue possono condurre alla medesima « perfezione dell'amore », come dunque la medesima cosa, considerata sotto differenti punti di vista, possa essere assoluta e relativa. Così noi prendiamo le mosse dalla piena serietà dell'esercitazione nell'atto fondamentale della vita cristiana, come gli « Esercizi » la vogliono rendere, riconoscendo questa serietà come quella del Vangelo stesso, dell'incontro personale del credente con Gesù Cristo, senza in alcun modo metterla in secondo piano annacquandola. Anzi ci interroghiamo all'interno di essa, cioè all'interno dei dati ecclesiali strutturali e storici nei quali soltanto il cristiano incontra il Cristo concreto e che per quanto riguarda chiamata, stato di vita e scelta non sono sostanzialmente mutati dal tempo della compilazione degli Esercizi. Questa assunzione dell'interpretazione ecclesiale del Vangelo fa sembrare la nostra trattazione ingenua e attaccabile; non c'è però nessun aspetto di questa interpretazione che non venga contestato e la cui puntellatura « scientifica » non esiga lunghi mercanteggiamenti, i quali però alla fine non soddisfano nessuno che non condivida il punto di vista ecclesiale. Ciò che viene presupposto 1. Che all'interno della Chiesa, nella quale tutti i cristiani sono da Dio chiamati a stare, e che costituisce per tutti l'unico luogo dove « si sta », esistono diversi « stati » che stanno l'uno di fronte all'altro e si completano a vicenda. A noi interessa la questione « stato », non l'antichità del termine o la sua ( presunta ) dipendenza da una immagine del mondo medievale; la stessa cosa venne chiamata ( ed è da Ignazio chiamata ) ugualmente « condizione di vita », « vita ». E noi cerchiamo di approfondire quale sia la provenienza teologica di questa opposizione che nella vita di Gesù ( e di Maria ) si spalanca e allo stesso tempo viene superata, e cerchiamo anche di documentarla nello « stato della natura decaduta », in cui quella sintesi da collocare alle origini si ritrova frantumata. Su ciò parleremo più avanti. 2. Che Gesù Cristo, per garantire l'unità della sua comunità, nella chiamata dei Dodici e nella richiesta di una sequela radicale operò una divisione primaria, in cui il momento personale ( la decisione di condividere la Sua vita ) era decisivo, mentre il momento del ministeriale ( cioè del « presbiterale » della Chiesa posteriore, in contrapposizione al laicato ) ne conseguiva solo secondariamente. In questa proposizione giace un presupposto fondamentale di tutta la nostra via di pensiero. Detto sommariamente questo significa cioè un'unione personale di stato dei consigli e stato sacerdotale in coloro che sono stati « specialmente » eletti alla sequela ( la parola « specialmente » non si può qui evitarla ), ma anche un primato, non solo temporale ma pure qualitativo, della condizione di vita ecclesiale che segue i consigli evangelici nei confronti del ministero ecclesiale. Cristo vuole primariamente non tanto fondare una Gerarchia, quanto piuttosto guadagnare uomini nella Sua personale sequela, che conduce alla riconciliazione universale con Dio attraverso l'amore rinunziante e infine crocifisso: essi dovranno insieme con lui essere « luce del mondo ». La teologia antica ha senz'altro visto ciò, e l'ultimo Concilio lo presuppone come ovvio. A partire dal libro di Martin Hengel ( « Sequela e carisma » ) non c'è più bisogno di occuparsi di esegeti minimalisti che vedono in Gesù solo una specie di rabbi il quale, analogamente ad altri, accettò allievi « a tempo », mentre soltanto dopo Pasqua il rapporto di elezione sarebbe stato compreso come qualcosa di assoluto, che esige la vita intera. Perciò anche il fondamentale ( sempre citato e sempre contestato ) studio di Heinz Schurmann ( « Il gruppo dei discepoli di Gesù come segno per Israele e come modello dello stato dei consigli ecclesiali » ) per tutto ciò che è essenziale conserva validità. Da ciò risultano due cose: 1. Con la richiesta dell'intera persona di coloro ai quali Gesù a suo tempo trasmetterà i pieni poteri ministeriali ecclesiali è data una permanente ordinazione del sacerdozio ministeriale alla partecipazione personale al sacerdozio di Cristo ( nello « stato dei consigli » ), per quanto flessibile e variabile questa ordinazione venga intesa lungo la storia della Chiesa. Nascondi 2. Se ambedue gli « ordines » sono funzionalmente - in quanto « servizi » - ordinati allo status fondamentale della Chiesa come tale ( del laos, del popolo ), essi sono tuttavia lo stato soggiacente ( Unterstand ) che rende possibile e che porta su di sé questo status fondamentale ( Grundsfafus ), e cioè in modo tale che la Chiesa è in primo luogo fondata sul ministero ( Ef 2,20 ) e su di esso rimane fondata ( Ap 21,14 ), ma il ministero a sua volta è fondato su quella dedizione totale della Ecclesia immaculata ( Ef 5,7 ), sullo stato di coloro che devono perlomeno rappresentare l'amore perfetto. 3. Non ci impegoliamo perciò nella problematizzazione esegetica dell'origine evangelica dei « tre consigli evangelici ». Naturalmente essi sono stati - come per esempio anche il numero dei Sacramenti - solo più tardi enumerati e messi in luce come gli elementi configuranti dello « stato dei consigli », e ciò naturalmente mai slegato dal loro significato cristiano: quello di essere un adeguamento alla dedizione d'amore di Gesù al Padre e agli uomini. E certo i tre « consigli » hanno nel Vangelo e presso Paolo radici svariate, ma questo non impedisce che essi l'uno insieme all'altro esauriscano il campo di ciò che si può offrire, cosicché essi non sono dei consigli qualsiasi fra altri consigli di Gesù. Se gli evangelisti e la Chiesa dei primordi con pieno diritto allargano analogamente i consigli da seguire alla lettera in una comprensione ( solo ) spirituale ( cfr. Eserc. 98 ), ciò non impedisce loro di mantenersi solidamente legati al loro fondamentale senso letterale. Soltanto pregiudizi esegetici ( che minimalizzano la richiesta di sequela di Gesù ai discepoli ) possono rifiutare come non biblico il concetto di sequela « speciale » ( o, come noi diremo, « qualitativa » ). E se la Chiesa primitiva vive veramente nel suo insieme in un'atmosfera di comprensione realistico-spirituale dei « consigli » ( = « vita apostolica » ), l'ovvia esistenza in mezzo ad essa di « vergini » e « asceti » testimonia che essa non tentò di spiritualizzare la forma di vita della sequela speciale. Le « duae vitae », che rinviano l'una all'altra, esistono sin dall'inizio, e non meno il ministero sacerdotale, il quale attraverso la storia cerca in maniera spesso drammatica di determinare il suo rapporto con le « duae vitae »; su ciò ritorneremo dettagliatamente nel testo. Molti chiameranno ingenua la maniera in cui noi seguendo la tradizione riconduciamo a Gesù ciò che contraddistingue la condizione di vita dei consigli. Similmente chiameranno « non critica » la nostra maniera di trattare la Scrittura, le cui parole noi frequentemente citiamo a illustrazione delle nostre intenzioni di fondo. Proprio così! Noi prendiamo la Scrittura come un tutto ispirato, che inoltre si interpreta essenzialmente nella Tradizione e nella storia della Chiesa. Un tentativo e i suoi limiti 1. Con ciò non è ancora espresso il centro del nostro intento. La fruttuosa opposizione degli stati di vita nella Chiesa, i quali da una parte rinviano l'uno all'altro ( e perciò possono rispettivamente sotto diversi aspetti rivendicare per sé il primato ), dall'altra permettono determinate sovra e subordinazioni, che sotto pena di anatema non si possono negare, rimanda ultimamente al mistero della Chiesa, e precisamente ad essa non come organizzazione esteriore, ma come prolungamento di Gesù Cristo, il quale per salvare la natura umana sceglie il suo stato di vita precisamente nella missione del Padre, che lo manda nel mondo per compiere là la volontà del Padre « come in cielo così in terra », e far così « venire » il « Regno di Dio » sulla terra. Paragonata con la posizione sociologica dell'uomo intramondano la sua posizione è eccentrica, poiché in un senso più profondo essa è, di fronte a Dio, concentrica. L'eco proto-ecclesiologica di tale posizione è lo stato di Maria ( come modello della Chiesa ), la quale ottiene la fecondità della maternità dalla obbediente-povera verginità. 2. Questa posizione eccentrico-concentrica in favore della salvezza della natura umana sembra però ora rinviare indietro verso una posizione primordiale dell'uomo: concentrico verso Dio, ma non per questo eccentrico verso il cosmo. Certo, se dal mistero ( Mysterion ) Cristo-Chiesa rivolgiamo lo sguardo indietro verso l'uomo nello stato primordiale, il quale non abbisognava ancora di alcuna salvezza e redenzione, si innalza davanti a noi un non meno grande mistero ( Geheimnis ), che i Padri della Chiesa guardarono con meraviglia, mentre noi o non lo vediamo o lo sfuggiamo imbarazzati. Senza dubbio Dio ha creato l'uomo non nell'estraniazione, ma lo ha creato « molto buono », nella rectitudo, per quanto riguardava la sua natura e la sua soprannaturale orientazione a Dio. Questo stato originario lo colloca al di qua dei contrassegni di stato sorti più tardi divaricandosi l'uno dall'altro ( ricco-povero, libero-obbediente, fecondo-verginale ) e così ogni chiara ricostruzione rimane inaccessibile. In lui appare però realizzata quella originaria sintesi dell'amore che è la misura assoluta: l'amore di Dio in se stesso, perciò anche Dio nella sua creazione; con questo amore noi introduciamo tutta la nostra trattazione. Nascondi Ma se nella ricostruzione dello stato originario andiamo a sbattere contro una prima barriera ( giacché non è possibile in alcuna maniera renderlo chiaro ), adesso andiamo a sbattere contro una seconda: da dove prendiamo i criteri per una simile descrizione dell'essenza dell'amore se non dalla Rivelazione, soprattutto dal Nuovo Testamento? Così Cristo, - a dispetto di ogni cronologia ( 1 Cor 15,46 ), viene a mettersi prima di Adamo: come vero Omega egli è anche il vero Alfa. Ciò si rivela nel modo più chiaro dal fatto che la sintesi del paradiso terrestre rimane sempre in sospeso ( posse non peccare ) fintantoché Adamo non l'ha ratificata per se stesso con la sua scelta libera. Questa scelta originaria ( quale preferenza di Dio nei confronti del mio io ) non ha niente a che fare con la scelta ( di uno stato ecclesiale ) negli Esercizi, così come neppure è preceduta da alcuna « chiamata » analoga a quella cristiana. Nascondi Perciò nella nostra trattazione lo stato paradisiaco-qui legit intelligat! ( Mc 13,14 ) - solo in quanto cifra di unità può essere posto prima delle antitesi di stato di vita ecclesiali, una cifra che certo ci sembra indispensabile al suo posto, poiché la sintesi conclusiva di Cristo è codeterminata dalla caduta dall'unità, vale a dire dallo stato di peccato. Così allora anche la descrizione introduttiva dell'unità dell'amore che sta prima di ogni operazione di sintesi rimane astratta; essa diventa sanguignamente concreta solo nel passaggio attraverso la sanguinosa « scelta » della Croce ( Eb 12,2 ), in cui nella totale rinuncia l'amore riguadagna la totale « gioia » dell'esser tutto in Dio e nel mondo. 3. Solo nel corso della storia della salvezza diviene attuale la « chiamata » differenziante di cui, sempre in collegamento ad Ignazio, si occupa la terza parte. Ma l'anticipazione dello « sfondo » ( 1a parte ), per quanto possa rimanere astratta ( anche il « principio e fondamento » ignaziano rimane a dire il vero relativamente astratto ), rende comprensibile secondo quale oggettivo parametro ogni chiamata alla sequela si verifica, e secondo quali soggettivi parametri di valore deve far seguito la risposta del chiamato. Sempre tuttavia si tratta, secondo Ignazio, « in ogni stato o condizione di vita » che la chiamata ci pone davanti da scegliere, « di pervenire alla perfezione » dell'amore. Sempre si tratta inoltre di un assoluto che impegna l'intera esistenza, per la qual cosa la scelta dello stato è un ephàpax, un « una volta per tutte ». Ciò che non trattiamo Con quanto detto è tracciato l'orizzonte della nostra trattazione; si vede, con delusione, quante cose rimangono escluse: la maggior parte di ciò che oggi - in parte con piena ragione - agita gli animi. Niente di diretto circa l'aggiornamento degli stati di vita, che il Concilio ha messo in moto ( il modo adeguato ai tempi di vivere i consigli evangelici, il rapporto degli stati ecclesiali alle grandi correnti mondiali di oggi, i presupposti filosofici per lo stato di vita cristiano ideale ); niente circa la sterminata casistica del concreto stato di vita, i problemi attinenti allo scontro tra le norme generali dello stato di vita e i problemi di vita individuali; niente circa la possibilità di passare da uno stato all'altro. Anche nel campo teologico molte cose rimangono escluse, principalmente l'Antico Testamento: lo sguardo si dirige centralmente verso la cattolica Chiesa di Cristo. Le questioni connesse allo « stato di grazia » ( qui menzionato solo brevemente ) non fanno parte del tema. Il tutto deve mantenere la struttura di una riflessione; per questo rinunciamo ad un apparato di note. Gli excursus ( stampati in piccolo ) di storia della teologia sono intesi solo a mo' di illustrazione, non vogliono in nessun modo essere una esauriente adduzione di prove. Se il tutto può rivendicare una qualche attualità, allora essa è quella di una riflessione sull'unica cosa necessaria, attraverso un'inesorabile obiettiva messa a nudo della structura amoris. Decisione non significa però unilateralità. Chi si prende la pena di leggere il tutto verificherà che ogni elemento al suo posto presuppone tutti gli altri al loro; il moviménto di pensiero rimane ciclico, secondo una crescente integrazione, come si addice al pensiero cattolico. Il comandamento principale Prima parte: Lo sfondo A. La vocazione all'amore « Maestro, qual è il comandamento più importante nella Legge? » Gli rispose: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il primo e il più importante dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come tè stesso. Nascondi Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti » ( Mt 22,36-40 ). Così Gesù riassume il fine ultimo dell'esistenza, e dunque il suo significato. Chi vuole andare verso la vita, chi vuole dunque raggiungere il suo destino, deve osservare i comandamenti ( Mt 19,17 ), che sono riassunti nel doppio comandamento dell'amore a Dio e al prossimo, a tal punto che chi osserva questo comandamento, sul quale riposano tutta la Legge e i Profeti, ha adempiuto tutto quanto ( Rm 13,10 ), mentre senza l'amore anche la perfetta osservanza dei comandamenti sarebbe inutile e senza senso ( 1 Cor 13,1-3 ). Ciò se ne sta saldo e pacifico, se ne sta così al di sopra del tempo e così apparentemente indifferente nei confronti di qualsiasi potere o non potere, di qualsiasi speranza o disperazione, di qualsiasi sforzo e qualsiasi fallimento, addirittura nei confronti di qualsiasi consapevolezza che nessuno in questo mondo potrebbe seriamente ritenere di averlo mai osservato in tutta la sua assolutezza, al punto che propriamente lo si vorrebbe considerare più l'espressione di un sogno irrealizzabile, di un'ideale ma irraggiungibile stella polare, alta sopra le bassezze dell'umana miseria, piuttosto che ciò che in verità è: un comandamento. Nascondi Ma il Signore non lo chiama semplicemente un desiderio di Dio, neppure lo chiama un consiglio, senza il quale si potrebbe ugualmente, sebbene forse con difficoltà, raggiungere il proprio destino; Egli non parla di esso come di una strada ripida, accanto alla quale ce ne siano altre più comode; Egli lascia così pochi dubbi sul carattere di comandamento dell'amore, che Egli non solo assume questo comandamento principale dell'Antico Testamento ( Dt 6,5; Lv 19,18 ) come il primo impartito in ordine di tempo, ma lo assume in maniera rafforzata e approfondita quale comandamento Suo proprio: « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » ( Gv 13,34-35 ). Nascondi Il comandamento dell'amore al prossimo, che nell'Antico Testamento poteva apparire in qualche modo come secondario di fronte al comandamento dell'amore a Dio, si sposta ora addirittura in primo piano, ma in modo tale che la sua misura diviene lo stesso amore del Dio fatto uomo: « Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati » ( Gv 15,12 ), e in modo che esso perciò avanza sino a diventare criterio dell'amore a Dio: « Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva », vale a dire i comandamenti dell'amore, « questi mi ama » ( Gv 14,21 ). Chi non ha l'amore è a tal punto caduto fuori dalla sua vocazione, da ciò a cui è destinato, che egli, pur vivente quanto al corpo, è morto: « Chi non ama, rimane nella morte » ( 1 Gv 3,14 ), egli stesso ha pronunciato su di sé il giudizio di condanna. Poiché su nient'altro verrà giudicato nel giorno del Giudizio che sull'amore. Questa sarà la sorpresa, per i buoni come per i cattivi. Fino all'ultimo essi non avranno afferrato quanto seriamente, quanto alla lettera l'unità di amore a Dio e al prossimo era intesa dal Signore che ora fa da giudice. All'affermazione del Signore i giusti porranno stupiti, non meno degli ingiusti, la domanda: « Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? ( … ) Nascondi Ma il Signore risponderà loro: « In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » ( Mt 25,34-40 ). Chi ama cristianamente il prossimo ha amato Dio in lui, poiché in Cristo entrambe le due nature sono legate in una sola persona. Perciò chi ha amato il prossimo ha amato, senza saperlo, Dio in lui, poiché « Dio è amore, e chi rimane nell'amore rimane in Dio, e Dio rimane in lui » ( 1 Gv 4,16 ), e chi così ama ha adempiuto al comandamento dell'amore e del Nuovo Testamento, ed entra nella vita eterna. Così viene convalidata l'affermazione che la vocazione all'amore è assoluta, non tollera alcuna eccezione, è di tale necessità che il non adempimento di questa vocazione equivale ad un assoluto andare in rovina. Dunque non c'è nessun dubbio: noi ci siamo per amare, amare Dio e il prossimo, e chi vuole indovinare il senso dell'esistenza deve fermarsi a questa semplice frase, dal cui centro si espande luce in tutte le oscurità della vita. E l'amore, che è il destino a cui siamo chiamati, non lo è in una qualche forma misurata, limitata, ristretta forse corrispondentemente alle nostre deboli energie umane. Non una parte soltanto della nostra vita deve venire occupata dall'amore, mentre le parti rimanenti possono essere occupate in qualche altro modo; non un periodo soltanto della nostra vita deve essere consacrato all'amore, mentre gli altri periodi potrebbero forse essere dedicati a noi stessi. Il comandamento è universale, e precisamente in una forma concreta, che richiede e riserva per sé tutto della nostra natura: « Con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze ». Il comandamento non ha dunque in alcun modo riguardo, così come viene enunciato, per la capacità dell'uomo di adempierlo. L'importante è solo che esso venga adempiuto; come esso possa venire adempiuto è una seconda questione, che non tocca la prima. Dovesse l'uomo non essere in grado da sé di adempierlo, Dio non mancherà di fornirgli il mezzo per questo. Ma una cosa Dio non fa: non commisura il suo comandamento principale all'incapacità dell'uomo. Giacché egli sa che l'amore sopporta tutto, tranne una cosa: che gli si pongano dei limiti. Esso vive di movimento; se lo si frena, intristisce e muore. Esso ha origine da Dio, e Dio è eterna vita senza limiti. Un amore che non restasse vivo, aperto al di più e all'ulteriore, non sarebbe affatto amore. Esso può respirare solo nell'infinità dell'amato e nel possibile superamento di se stesso. « Con tutta la tua anima » non può mai significare per l'amore che una qualche volta si raggiunga il massimo della dedizione e che l'amore sia ora perciò condannato a perseverare eternamente in questo grado di saturazione. Non può mai significare che esso si sappia pervenuto al margine estremo della sua capacità d'amare ( giacché l'anima, lo spirito, le forze sono pur sempre limitate ) e si possa accontentare del pensiero di aver adempiuto il suo dovere di amare. Un amore tra due persone in cui affiorasse questo pensiero sarebbe già in corso di raffreddamento. L'intima vita dell'amore non è affatto pensabile senza il ritmo del crescendo, della sempre nuova apertura e vivacità. Mai esso si è donato a sufficienza, mai è alla fine della sua forza d'inventiva per preparare nuovi piaceri all'amato, mai è soddisfatto di sé e delle sue azioni al punto da non ricercare nuove prove d'amore, mai ha riconosciuto pienamente l'essenza dell'amato al punto da non essere bramoso di nuove scoperte e sorprese. E anche se per coloro che osservano dall'esterno le quotidiane testimonianze d'amore degli amanti possono sembrare uguali fra loro, per essi stessi sono invece sempre nuove e sempre diverse, fintantoché il loro amore rimane vivo. Per questo c'è una cosa che il puro amore non conosce: il dovere. O meglio: il suo dovere è sempre un potere. La necessità che esso avverte di amare, la sente come la più alta e perfetta libertà, che non sacrificherebbe mai per nessun bene al mondo. Nascondi Ciò che per uno che non ama appare come un freddo obbligo, per lui è una gioia: « tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta » ( 1 Cor 13,7 ), fede e speranza sono le sue maniere di comportarsi; coprire e sopportare non sono per l'amore un peso indesiderato, ma elemento vitale. Esso accetta tutto, purché non gli si vieti una sola cosa: di amare. Esso è così prezioso che è superiore ad ogni prezzo. Non conosce grazia maggiore che quella di poter amare. Uno che cominciasse a parlargli di confini tra dovere e potere, obbligatorio e donato in sovrappiù, lo guarderebbe stupito e senza capire, al massimo direbbe: costui che parla così non fa parte di coloro che amano. Laddove si è convinti che all'amato spetta tutto, infinitamente di più di ciò che si è in grado di dargli, la parola « sovrappiù » non ha alcun senso. Quale amante non vorrebbe porre ai piedi dell'amato il mondo intero? Egli non conosce la differenza tra comando e desiderio; il desiderio dell'amato è per lui un ordine, una preghiera inespressa egli la legge dalle labbra e la adempie con la stessa premura con cui uno che non ama esegue degli stretti comandi. Noi non vogliamo sapere adesso se gli uomini sono così, se e quanto a lungo essi sono in grado di amare in questa maniera. Noi ci interroghiamo sull'essere ( Wesen ), sulla pura essenza ( Essenz ) dell'amore stesso. E quando cerchiamo di coglierla nelle sue espressioni più pure, ci imbattiamo sempre nel mistero della dedizione di sé. L'amore vorrebbe rinunciare a tutto ciò che è suo in favore dell'amato, onde arricchirlo. Al punto che esso accetterà anche volentieri regali dall'amato se sà che egli si sente arricchito e contento in virtù dei gesti dì donazione. Anche il suo ricevere sarà dunque una forma di dedizione; esso non vuole adornarsi per essere bello per se stesso, ma per apparire bello di fronte all'amato. È si priverà di ogni ornamento, se così gli è possibile adornare l'amato: Esso si augura di dimenticare se stesso in favore dell'amato e di rimanere in vita solo fino a che l'amato è desideroso di avere di fronte a sé qualcosa di vivo e di personale. Colui che veramente ama, che vive interamente per l'amore, non ha più alcuna sfera privata per se stesso, da sottrarre all'amore e al suo servizio. Egli non può trattare l'amore come qualcosa di penultimo nella sua mente, non può assegnargli nella propria anima uno spazio ben delimitato, non può porgli a disposizione una parte limitata delle sue forze. Egli deve lasciare che questo fuoco prenda possesso anche del punto centrale della propria anima. Egli non può far altro che offrire in dono all'amato tutto il suo io unitamente a tutte le sue energie. E per il futuro egli non vuole più avere come regola e legge della sua vita nient'altro che ciò che l'amato come regola e legge gli ridà. Egli stimerà come la sua più alta ricchezza quella di possedere nient'altro che ciò che l'amato gli dona. E vedrà, come sua massima fecondità quella di tenersi pronto esclusivamente come recipiente per ogni fecondante seme dell'amato. Lo spirito dell'amore è uno spirito di pura dedizione e perciò uno spirito del poter fare, avere il permesso di fare. Se l'amore è puro si volge a Dio e al fratello per proprio intimo movimento. Esso non è nient'altro che questo volgersi. Perciò non ha bisogno di nessun'altra legge che se stesso, e tutte le leggi sono in esso ad un tempo adempiute e superate. A questo volgersi esso non abbisogna di venir incoraggiato e spronato con una necessità che sia al di sopra di lui, secondo la quale esso debba orientarsi per trovare la propria giusta direzione. Esso stesso è la massima legge; esso ha bisogno solamente di svolgersi, per aver adempiuto tutto ciò che è adempibile. Non ha alcuna autorità sopra di sé, ma è anzi la massima autorità per tutto ciò che sta sotto di lui. Poiché esso non ha su di sé alcuna necessità, vengono in lui a coincidere il necessario e il libero. Quando esso si decide per se stesso nella massima libertà, ogni necessità è adempiuta. Poiché esso è l'unica cosa necessaria. Ciò muta subito, appena un ente scende fuori dall'amore. Nella misura in cui l'amore si raffredda, la lava della sua inafferrabile vitalità si irrigidisce in determinate forme limitate e in esse assume la figura di comandamenti singoli. « Dove l'amore si irrigidisce, si accumula la legge ». Chi si allontana dal nucleo dell'amore, si distanzia dall'amato e comincia a considerarlo con un nuovo sguardo, «"obiettivo », « non partitico ». Non è detto che ciò significhi già che l'oggetto d'amore d'una volta ha già perso ogni valore. l contrario esso può ancora apparire bello, meritevole d'esser desiderato e preferibile. Ma adesso gli si sta dinnanzi come al possibile oggetto di una libera scelta. Chi vive nel nucleo dell'amore non sceglie; la sua scelta è già dietro le sue spalle; egli ha scelto da sempre, da quando ha conosciuto l'amore, e se egli rafforza ad ogni momento della sua vita questo aver già scelto, non lo fa mai tuttavia nel senso di un aprire una nuova riflessione. L'amante come tale non sta mai nel punto dell'indifferenza tra amare e non amare, non incorre mai nella tentazione di collocarsi su questo punto. Egli sentirebbe come un'infedeltà nei confronti dell'amato il porsi mentalmente di fronte un secondo oggetto di possibile scelta estraneo, al fine di dare poi la preferenza al primo a partire da una sorta di calcolo mentale. Una tale indifferenza di scelta può essere una situazione d'avvio che conduce all'amore; ma all'interno dell'amore stesso questo atteggiamento non è più possibile. L'amore è così deciso che non ritorna mai nell'indifferenza antecedente alla decisione. Esso rinuncia a questa « libertà di scelta » in favore della libertà dell'amore. Solo l'amore che si è raffreddato torna ad avvicinarsi di nuovo alla zona della libertà indifferente. E nella misura in cui si avvicina a questo « punto mediano » tra amare e non amare, anche il carattere del poter amare si muta in un dover amare. Adesso l'amore sta sopra di noi come un obbligo. E l'unico comandamento dell'amore che tutto riassume in sé si scompone in tante sfaccettature e aspetti singoli; essi sono segni che noi siamo caduti fuori dall'unità dell'amore, ma allo stesso tempo anche vie per ritornare in essa. Il contenuto dei comandamenti è positivo nella misura in cui esso indica la strada verso l'amore e vive dell'amore che in essi si realizza. Il loro contenuto è invece negativo nella misura in cui essi offrono solo un aspetto limitato dell'amore, e quindi non annunciano più la mirabile unità di libertà e « non poter fare altrimenti », ma si presentano invece come barriere che esigono di essere obbligatoriamente rispettate. Il fatto stesso che ci siano simili comandamenti è allora il segno che l'uomo non vive nell'amore perfetto. Nascondi « Noi sappiamo che la legge è buona, se uno ne usa giustamente; sono convinto che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori » ( 1 Tm 1 ,8-9 ). Quanto più dunque ci si allontana dal punto centrale dell'amore, tanto più il comandamento acquista un carattere negativo e si tramuta in un divieto. Solo attraverso ciò la doIce convinzione del poter amare acquista l'apparenza di una dura costrizione di dover tendere all'amore, costrizione che diventa ancor più dura quando colui che sta sotto la legge non è più immediatamente cosciente che scopo e fine di ogni comandamento è l'amore. Nell'amore perfetto non c'è alcuna minaccia, poiché non sorge mai l'idea di deviare dalla volontà dell'amato, che è per me legge. Nascondi « Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore » ( 1 Gv 4,18 ). Solo dove l'amore si raffredda deve entrare in campo una sanzione per il non amore. Poiché la necessità dell'amore è così assoluta che esige necessariamente una tale sanzione per tutti quelli che non riconoscono la necessità dell'amore. Potere e dovere Soffermiamoci ancora un momento su questa considerazione dell'amore del tutto generale, assoluta, senza addentrarci ancora nelle concrete circostanze e condizioni che sussistono per l'uomo quale creatura e quale essere sociale, fornito di corpo e anima. Se allontanandoci dal punto centrale dell'amore vengono in primo piano, sempre più isolati e in forma negativa, leggi e divieti come obblighi, l'amore allo stato puro non è tuttavia affatto privo di legge. Nascondi Esso è piuttosto « la pienezza della legge » ( Rm 13,10 ), « poiché tutta la legge è adempiuta nell'unico comandamento: amerai il prossimo tuo come te stesso » ( Gal 5,14 ). Ma questo adempimento è più della somma di tutti i singoli comandamenti; esso è allo stesso tempo il loro superamento: « Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge. I frutti dello Spirito sono: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé contro queste cose non c'è legge » ( Gal 5,18.22-23 ). C'è dunque la possibilità di adempiere la legge e contemporaneamente vivere al di là della legge. Nascondi Chi vive nell'amore vive non parzialmente sotto la legge e i suoi obblighi e parzialmente là dove cessa l'ambito degli obblighi e iniziano i consigli, le raccomandazioni, il libero piacimento, ma bensì « noi siamo morti quanto alla legge [ … ] e liberati dalla legge che ci teneva prigionieri » ( Rm 7,4.6 ). Colui che vive nella legge dell'amore non ha bisogno di vivere ancora contemporaneamente sotto la legge dell'obbligo, poiché amando egli adempie comunque insieme anche le leggi dell'obbligo, e poiché queste, prese per sé sole al di fuori dell'amore compiuto, sono soltanto la corrispondenza oggettiva di uno stato soggettivo. Se non ci fosse nessun allontanamento dall'amore, cioè nessun peccato, non ci sarebbe nessuna legge che non fosse identica con la legge dell'amore. E l'uomo avrebbe adempiuto e sovradempiuto ogni legge, una volta che egli avesse seguito in tutto soltanto l'unica legge dell'amore. La forma della legge muta dunque a seconda della vicinanza o lontananza che un uomo ha rispetto all'amore. Anzi l'intera struttura della sua etica si sposta, qualora egli vada incontro all'amore oppure si allontani da esso. Se egli si allontana dall'amore, il comandamento dell'amore che tutto adempie si scompone in una molteplicità di singoli comandamenti, i quali si presentano a lui come singoli di volta in volta a seconda della situazione in cui egli in quel momento si trova a vivere. Dalla loro concentrazione nell'unità essi vengono fuori a creare ( giacché essi in quanto parziali possono venir tenuti soltanto l'uno dietro all'altro ) un tempo etico. Tra le singole esigenze vengono a crearsi degli intervalli di tempo nei quali non si verifica niente di moralmente rilevante, cosicché l'uomo si trova, ogni volta che la situazione gli pone davanti un'esigenza, a dover nuovamente raccapezzarsi: cosa mi viene adesso ( un'altra volta ancora! ) richiesto? Si avvertono le leggi come tanto più fastidiose quanto più l'uomo si è perduto in questa etica temporalità, lontano dal centro dell'amore. Può darsi che il singolo comandamento gli faccia ricordare e gli rammenti la totalità che sta al centro. Egli si chiederà forse allora: cosa devo fare per non venir separato completamente dall'amore ( poiché ciò sarebbe la morte ), dove sta il confine che io sotto pena di morte non posso oltrepassare? Ma anche così egli ragionerebbe in termini minimalistici; il poter fare dell'amore si sarebbe mutato per lui in un legalistico dover fare. E per uno che nuotando si tiene sempre al più basso livello, appena ancora al di sopra dell'acqua, l'amore dovrebbe finire a limitarsi a tenergli davanti soltanto i più rudimentali comandamenti, quelli di maglia larga. Ai più bei segreti dell'amore egli sarebbe per il momento insensibile; ciò che coloro che amano provano come un piacere e una soddisfazione apparirebbe a lui come una costrizione e una « sovrattassa ». Quando invece un uomo si muove incontro all'amore e cerca di rendere la legge dell'amore propria legge di vita, tutto cambia. I comandamenti non sono più l'uno accanto all'altro, ma l'uno nell'altro; le parti si integrano, attraverso il tempo etico brilla un orizzonte di eternità. Quanto più egli riconosce il fare dell'amore come la cosa definitiva e fine a se stessa, tanto meno egli ricade nell'indifferenza di una temporalità spezzettata da direttive singole. I precetti si integrano. E con ciò divengono infondate anche quelle differenze di livello che vengono indicate coi verbi dovere e potere. Se l'uomo è o era un peccatore, non dimenticherà certo queste differenze: egli le ha sempre in mente, come qualcosa in cui potrebbe ad ogni istante ricadere qualora non si tenesse aggrappato a ciò che è atemporale, vale a dire all'amore. Ma se egli guarda in avanti o in alto, la richiesta dell'amore gli apparirà non meno importante del suo comando; egli perderà l'abitudine di considerare la richiesta come una « semplice richiesta » e scoprirà che proprio nelle richieste e suppliche dell'amore, che non si vestono in forma di comando, possono nascondersi inviti più pressanti che nelle direttive generalmente esistenti. Nella storia dell'amore di Dio che va in cerca dell'uomo decaduto, cioè nella storia biblica, l'amore compie insieme con l'uomo chiari passi che già nell'Antico Testamento avanzano da una molteplicità di singoli comandamenti verso la formulazione del comandamento dell'amore, che sta al centro di tutto, e di là verso la promessa che un nuovo ed eterno patto donerà anche la possibilità di attenersi ad esso e di adempierlo in un cuore ormai unificato. È la via che conduce dalla schiavitù sotto i molti precetti alla libertà dei « figli di casa », i quali hanno ricevuto, a causa del gesto d'amore di Dio, dell'Incarnazione e della Croce del Figlio, lo Spirito Santo dell'amore, riversato nei loro cuori. Poiché era l'amore assoluto di Dio a rendersi noto, agendo e soffrendo, in Cristo, noi possiamo vedere da esso cosa significa superare il divario tra richiesta e legge ( del Padre ), tra consiglio e comando, dovere e potere. Poiché il Figlio non ha nessun altro desiderio che quello di adempiere il desiderio e la volontà del Padre, egli ha oltrepassato la differenza tra tempo etico ed eternità amante. Tutta l'opera di redenzione di Cristo si compie all'interno della sua obbedienza d'amore, della quale non possiamo dire se Egli adempie un « desiderio o un volere del Padre, o meglio detto: della quale dobbiamo dire che il desiderio del Padre, che umanamente parlando non contiene affatto comando o costrizione, non potrebbe venir compreso da Cristo, che ama sino alla fine, altrimenti che come comando. « Il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare. E io so che il suo comandamento è vita eterna. Nascondi Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me » ( Gv 12,49-50 ). « Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato » ( Gv 14,31 ). « Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio » ( Gv 10,17-18 ). l Figlio fa dunque liberamente ciò che il Padre gli ordina. Egli lo fa liberamente: "dedit itaque humana natura Deo in ilio nomine sponte, et non ex debito, quod suum erat, [ … ] sola libera voluntate, [ .. .] nec ulla cogente oboedientia » ( S. Anselmo, Meditationes il, PL 158, 766 ). « Habes igitur in voluntaria oboedientia voluntatum Patris adimpletionem, quas loco mandatorum ait esse apud se Filius. Nam cum Patris consilia ut Verbum intelligat … voluntatem eius ad opus perdu-cit, mandati loco eam habens" ( S. Cirillo d'Alessandria, In Job 15, S'IO, PG 74, 373 ). L'obbedienza d'amore di Cristo non è dunque né una obbedienza che esegua un semplice comando obbligatorio, giacché il Padre Lo lascia libero ( « Filium pati sivit »: S. Cirillo, In Ps 68, PG 69, 1173; « Potuit enim Christus non mori, si voluisset »: S. Ambrogio, PL 16, 1327 ), e nemmeno è l'esecuzione di un desiderio non obbligante, poiché Egli accetta la volontà del Padre come un « mandatum ». È invece proprio qualcosa che possiede la sua unità e necessità al di là di comando e consiglio, nell'unità d'amore dell'essenza divina fra Padre e Figlio, cosicché Franzelin vede giusto quando dice: « Mandata haec esse consilia aeterna, quae Pater communicat Filio non praecipiendo, sed generando » ( De Verbo ine. 445 ). Nascondi Proprio questa obbedienza però, questa forma di dedizione amorosa, che scaturisce dalla più intima sorgente dell'amore di Dio, al di là della distinzione di obbligo e consiglio, di prescrizione stretta e di richiesta che lascia tutto aperto, proprio essa deve d'ora in avanti essere l'archetipo della dedizione e dell'amore cristiano: di un amore che si sa così assolutamente legato dal volere e dall'auspicio di Dio, che un rifiuto è impossibile ( « Si fuisset passus non ex oboedientia, non fuisset ita commendabilis »; S. Tommaso, In Phil 2,1 ), e che sul Monte degli Ulivi può sentire questa necessità addirittura come costrizione ( cosa che sarebbe impossibile se qui si volesse parlare, come alcuni recenti teologi, solo di un « Mandatum latum » ), un amore, però, che si lega fino all'estremo solo per amore e in favore dell'amore: « quod placita ei sunt, facio semper ( Gv 8,29 ). Haec est enim perfecta et Uberrima humanae naturae oboedientia, cum voluntatem suam liberam sponte voluntati Dei subdit » ( Janssens, Summa Theol V, 722 ), cosicché si può dire altrettanto giustamente che il Padre lo consegna ( Rm 8,32 ), come pure che Egli ha consegnato se stesso ( Ef 5,2 ). Qui diventa già visibile quanto sia vicina all'obbedienza d'amore cristologica la forma d'obbedienza propria dei voti religiosi, la quale per puro amore dà alla sua libertà forma di legame e lascia, come il Redentore nella sua relazione col Padre, che il potere divenga un dovere. « Il suo respiro vitale è il dovere sempre di più ». Naturalmente questa obbedienza del Figlio incarnato ci riconduce - e qui sta il superamento della polemica oggi condotta spesso così stoltamente contro Anselmo - nell'insondabile mistero della Trinità pretemporale, in cui il Figlio si è posto spontaneamente dall'eternità a disposizione del decreto uno e trino di coprire ogni rischio della creazione con la Sua croce. Questa libera offerta d'amore colpisce centralmente nel cuore il Padre altrettanto quanto con l'Incarnazione e dopo di essa l'offerta accettata dal Padre e tramutata in un « comando » colpisce nel cuore il Figlio. Così si comprende in che maniera lo Spirito Santo è la quintessenza del più libero come del più pressante amore. Ed anche se il Figlio, a nostro favore, non ha disdegnato di conoscere addirittura la situazione della tentazione, di lasciarsi collocare là dove Adamo si è collocato, vale a dire in un punto da cui Dio e il diavolo diventavano abbracciabili con lo sguardo, questo tuttavia lo ha fatto solo per aggrapparsi da questo posto al volere del Padre con l'amore più completo, per rimanere appeso, per così dire, all'eternità etica nel tempo etico. Nascondi Questo lasciarsi trasferire di Gesù nella situazione del dover scegliere appartiene al mistero del Suo adeguamento alla « carne del peccato » ( Rm 8,3 ), adeguamento che si compirà più tardi sul Monte degli Ulivi e sulla croce. Ma anche se Egli per redimerci volle provare e sopportare il peso e l'angoscia del puro e semplice « obbligo », e nascose per questo l'amore che sentiva e di cui era conscio, questo accadde solo perché in noi c'era il peccato e la lontananza da Dio e perché per amore verso di noi il Figlio diede al suo amore eterno la forma manifesta della piena obbedienza. Da questo modo d'agire dell'amore riconosciamo ora però che questa obbedienza divenuta manifesta giaceva già da sempre nascosta nell'essenza dell'amore. Chi ama, rinuncerà in misura crescente al proprio dispotico determinare e disporre circa il proprio fare e lasciar fare, pensare e sentire, e sempre più lascerà tutto all'amato e lo terrà pronto per lui. Così facendo egli viene sempre più liberato dalla costrizione esterna delle leggi, poiché sempre più egli mette l'unica legge dell'amore a confronto con la propria legge di essere vivente, ma nello stesso tempo viene attratto in una sempre più stringente obbedienza, poiché ogni gesto d'amore lo obbliga più profondamente ad amare. Su questa via la disobbedienza di uno che ama nei confronti delle sommesse richieste dell'amore può pesare maggiormente di quella di uno che si è allontanato, il quale intuisce appena qualcosa dell'amore e dei suoi comandamenti. Le sue azioni, interne come esterne, vengono soppesate adesso con altri pesi; invano egli potrebbe richiamarsi alle rozze distinzioni che valgono per altri. Una richiesta che Dio gli soffia all'orecchio ( poiché Egli sa che potrebbe venire udito ) e che però viene respinta, può ferire l'eterno amore di Dio più finemente della trasgressione di un grosso comandamento da parte di uno che non è mai stato toccato dalle regole di comportamento dell'amore. D'altra parte, questo spostamento dei parametri etici ad opera della mutevole educazione di un uomo da parte del centro dell'amore non può venir demonizzata ( all' -- *-- nel senso della teologia dialettica ), come se con ravvicinarsi all'amore dovesse potenziarsi anche il peccato, e i pagani lontani fossero incolpevoli a confronto dei cristiani che sanno dell'amore e tuttavia gli si oppongono apertamente, e come se crescita nell'amore significasse anche crescita nel peccato. Tale demonizzazione non corrisponde alle leggi dell'amore, poiché la regola non è che chi cammina verso l'amore finisca per questo nella tentazione di allontanarsi tanto più da esso. Anzi egli volta le spalle, come fu mostrato, alla vera e propria situazione demonica in cui il serpente cercava di portare Adamo: la situazione della scelta indifferente fra il bene e il male. Egli si reca con tutta la sua libertà sotto la protezione dell'amore, consegna questa libertà all'amato per ricevere da lui al suo posto la legge dell'amore. Non c'è nessun camminare incontro all'amore senza almeno un accenno di questo gesto di consegna. Amore non può mai accontentarsi di porre un atto d'amore solo per l'attimo presente. Esso vuole definitivamente rimettersi, consegnarsi, affidarsi, racchiudersi. Vuole depositare presso l'amato una volta per tutte la sua libertà di circolazione, per lasciargli un pegno d'amore. Appena l'apre desta veramente alla vita, l'attimo temporale vuole essere superato in una forma di eternità. Amore a tempo, amore ad interruzione non è mai vero amore. Persino l'egoismo erotico non può far altro che giurare a se stesso « eterna fedeltà », e nell'attimo è proprio del suo godimento anche il fatto di crederci a questa eternità. Tanto più l'amore autentico vuole durare oltre il tempo! Per questo esso vuole disfarsi dell'avversario più pericoloso: la propria libertà di scelta. Ogni vero amore -- * -- del voto: esso si lega all'amato -- * -- dell'amore e nello spirito dell'amore. Ogni partecipazione all'amore verso Dio contiene in sé qualcosa come un voto: l'entrata nella vita cristiana attraverso il battesimo esige immediatamente la pronuncia dei voti battesimali come risposta del battezzando al dono dell'amore divino. E quanto più intimamente un uomo viene incluso nell'amore, tanto più il suo amore acquista proprio la forma interiore di un voto, nel quale egli baratta la sua liberta senza legami -- * --. Il vincolo, che all'inizio appariva solo una contrapposizione alla libertà dell'amore, cioè un peso e un obbligo, viene visto adesso sempre "Alia sunt communia vota Dei, scilicet sine quibus non est salus, ut vovere fidem in baptismo, et huiusmodi, [ … ] alia sunt vota propria singulorum, ut castitas, virginitas et huiusmodi. Ad haec ergo nos invitai [ … ] Votum ergo quod dam est in praecepto, quoddam in consilio" ( S. Tommaso, De perfezione vitae spiritualis, e 12. Opuscula Theol. II, Marietti 1954 ). Più come una sola cosa con la libertà dell'amore. E se per la prima forma di etica, lontana dall'amore, il potere di Pietro di legare e di sciogliere appariva come un doppio potere, comprendente in sé funzioni opposte ( in cui il potere positivo di sciogliere solo per questo ne ha accanto a sé uno negativo di legare, perché altrimenti non sarebbe garantita la libertà dello sciogliere ), appare adesso anche questo potere di legare come positivo: cioè come la potestà di poter legare così forte uomini i quali vogliono legarsi volontariamente nell'amore, che la loro volontà d'amore viene in cielo riconosciuta e approvata. Ma l'amore stesso, a dire il vero, si presenta con la sovrana pretesa di legare tutto a sé e proprio così di liberarlo. Se esso è realmente l'assoluto, allora non può far altro che legare tutto per tutto sciogliere e redimere. Ciò che sorprende a proposito del comandamento principale è che esso richiede l'amore pieno a Dio e al prossimo non in forma di un'offerta a libera scelta, un semplice invito, ma espressamente come un comando ( mandatum ), un comando così stringente che porta in sé anche tutti gli altri, dietro i quali stanno le più gravi punizioni. Non viene affatto comandato un amore fino a un certo grado, lasciando il rimanente, cioè la pienezza dell'amore, alla discrezione e al nobile spirito di emulazione di colui che ama. Tutt'altro, il comandamento abbraccia tutto, sia l'intera strada che il traguardo: l'amore pieno. Abbraccia dunque ciò che a partire dall'amore incompleto si lascia distinguere come ambito dell' « obbligo » e ambito del « consiglio ». Per l'amore perfetto questa distinzione cade, ed è l'amore assoluto stesso che ha impartito l'ordine. Nascondi Quando viene detto: « Forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore! » ( Ct 8,6 ), morte e inferi appaiono semplicemente come sedimenti o rimanenze di una potenza che già da sempre li ha trascesi. « Tutto diviene luce, ciò che prendo in mano, / tutto è carbone, ciò che io lascio: / certo io son fiamma. » Oppure: « Non la morte uccide, ma la vita più viva ». Amore e consiglio Sebbene l'amore, quello perfetto, è comandamento, e sebbene come comandamento esso ha in sé anche il « consiglio » - poiché gli amanti non amano per « obbligo » e il desiderio dell'amato è per essi come un suo ordine, incontriamo nella Chiesa due forme di vita o « stati », che si distinguono l'uno dall'altro come « via dei comandamenti » e « via dei consigli » ( cfr. S. Ignazio, Esercizi, Nr. 135 ). ( Dello stato sacerdotale si parlerà più avanti ). La via dei consigli ha presto ottenuto già una forma istituzionalizzata ed è stata designata come « via della perfezione ». Nascondi « I consigli evangelici della verginità consacrata a Dio, della povertà e dell'obbedienza » sono senza dubbio « fondati nella parola e nell'esempio del Signore » ( Vat. II, L.G. 45 ), da Lui però ( come da Paolo, 1 Cor 7,25 ) prescritti non come via di tutti i credenti, anche se possiamo ( con Luca ) osservare che ciò che alcuni prescelti per questo seguono alla lettera viene, in un senso più ampio, richiesto a tutti. Questa differenziazione delle forme di vita ci pone davanti ad una difficile questione: come può il « consiglio », che sinora appariva come una parte integrante dell'incondizionato « comandamento » dell'amore, uscirne fuori per formare di fronte ad esso un contrastante momento? Sarebbe forse possibile distinguere all'interno dell'amore perfetto, cui ogni cristiano è chiamato, dei gradi, dei quali i più bassi sarebbero rimessi all'obbligo e i più alti al libero afferrare dei consigli? In questa direzione Tommaso d'Aquino cerca la soluzione della questione, ed è per questo consigliabile prendere in considerazione precisamente le sue riflessioni. Tommaso parla nella sua opera su « La perfezione della vita spirituale » in primo luogo della forma più perfetta dell'amore, come solo Dio stesso può realizzarla. Dio solo sa quanto Egli è degno d'amore, ed Egli solo può amarsi così come Egli lo merita. Al secondo posto sta l'amore per Dio che hanno i beati nel Cielo, i quali adempiono il comandamento principale così perfettamente come è possibile a delle creature: essi stessi in quanto soggetti vengono con ciò riempiti dall'amore fino all'orlo, mentre Dio, l'oggetto infinito dell'amore, anche in Cielo sarà eternamente superiore ad essi. Al terzo posto sta la perfezione dell'amore come è raggiungibile in questa vita e come il comandamento principale lo richiede: « In un'altra maniera amiamo Dio con tutto il cuore, con tutto lo spirito, con tutta l'anima e con tutte le forze quando nulla ci manca dell'amore divino che non riferiamo attualmente o abitualmente a Dio, e questa perfezione dell'amore divino viene presentata all'uomo in forma di comandamento. Nascondi Esso richiede in primo luogo che l'uomo riferisca tutto a Dio come al suo fine, secondo le parole dell'Apostolo: « Sia che mangiate o che beviate o che facciate qualsiasi cosa, fate tutto per la gloria di Dio » ( 1 Cor 10,31 ). Questo viene adempiuto quando qualcuno pone la sua vita a servizio di Dio e quando a causa di ciò tutto quello che egli fa viene virtualmente ordinato a Dio, ad eccezione di tutto ciò che conduce lontano da Dio, come per esempio il peccato. In questa maniera l'uomo ama Dio con tutto il cuore. Nascondi In secondo luogo esso richiede che l'uomo sottoponga il suo intelletto a Dio, credendo tutto ciò che da Dio viene proposto a credere, secondo le parole dell'Apostolo: « rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza al Cristo » ( 2 Cor 10,5 ). E in questa maniera Dio è amato con tutto lo spirito. In terzo luogo, che l'uomo ami in Dio tutto ciò che egli ama, e che in complesso riferisca all'amore per Dio tutte le sue inclinazioni ad amare. Nascondi Così diceva l'Apostolo: « Se siamo stati fuori di senno, era per Dio; se siamo assennati, è per voi; poiché l'amore del Cristo ci spinge » ( 2 Cor 5,13 ). E in questa maniera Dio è amato con tutta l'anima. Quarto, che tutto ciò che noi esterniamo, parole e azioni, viene determinato dall'amore divino, secondo quel detto dell'Apostolo: « Tutto ciò che fate, sia fatto nell'amore » ( 1 Cor 16,14 ). E così Dio è amato con tutte le forze. A questa terza forma di perfetto amore divino sono: « Comprehensionem ( … ) non secundum quod importai aut tenninationem com-prehensi, sic enim Deus imcomprehensibilis est omni creaturae, sed secundum quod comprehensio importai consecutionem eius quod in sequendo aliquis quae-siyit » ( De perfectione vitae spiritualis, cap. 4 ). Tutti obbligati dalla necessità del comandamento ( Omnes ex necessitate praecepti obligantur ). Riassumendo ciò che Tommaso interpreta qui come contenuto universalmente obbligante del comandamento principale, nella misura in cui esso concerne l'amore di Dio, possiamo dire che al primo posto sta l'ordinazione dell'amore a Dio, cosa che comprende in sé l'esclusione di ogni disordine. La prontezza a regolare tutto secondo il punto di vista del servizio di Dio è determinata in secondo luogo dalla fondamentale obbedienza dell'intelligenza che non si da da sé la regola di vita, ma la riceve da Dio. Vivere all'interno di questa regola significa in terzo e in quarto luogo amare tutte le creature in Dio e far provenire ogni espressione della propria vita dall'amore di Dio. Ora non c'è nessun dubbio che chi nella sua vita attua questa interpretazione del comandamento principale porta in sé la pienezza dell'amore verso Dio raggiungibile sulla terra. Tanto più urgente si innalza allora la domanda in che rapporto stiano a questa interpretazione i consigli evangelici. Può l'amore prescritto, quale lo abbiamo appena delineato, venir conseguito senza di essi o sono essi intimamente necessari per pervenire a questa pienezza? Nascondi Tommaso seguita: E poiché l'Apostolo ha detto: " Non come se già l'avessi raggiunto o fossi perfetto ", aggiunge: " Solo mi sforzo di correre per conquistarlo " e dice alla fine: " Quanti dunque siamo perfetti dobbiamo avere questi sentimenti " ( Fil 3,12.15 ). Da ciò risulta chiaramente che anche se su questa terra non possiamo raggiungere ancora la perfezione dell'afferrare ( in cielo ) dobbiamo tuttavia tendervi, protenderci per quanto possibile verso l'unità di quella celeste perfezione. E in questo consiste la perfezione di quella vita a cui siamo dai consigli invitati. Poiché è chiaro che il cuore umano si indirizza tanto più intensamente verso l'Uno, quanto più si distoglie dai molti. Così l'indole umana viene condotta verso l'amore di Dio tanto più perfettamente quanto più viene chiamata via dalla dipendenza da ciò che è temporale. Per questo dice Agostino che la vista dei beni da ottenere o da mantenere è veleno per l'amore ( 83 Quasst. ). Ma la crescita dell'amore è la diminuzione della bramosia, la pienezza di esso è l'annientamento di questa. Tutti i consigli attraverso Sotto questo punto di vista i tre consigli che i voti abbracciano ( povertà, castità e obbedienza ) appaiono soprattutto come mezzo per un fine che per tutti rimane il medesimo: l'amore perfetto. « Poiché non viene fissato l'amore a Dio e al prossimo semplicemente secondo una certa misura ( secundum aliquam mensuram ) come comandamento, mentre i gradi più alti sarebbero riservati per i consigli; ciò risulta dal tenore stesso del comandamento, che urge alla pienezza". Di fronte a questo fine comune i consigli appaiono come ciò che è secondario e accidentale ( secundario et accidentali ter ), strumentale ( instrumentaliter ), come ciò che prepara la strada ( dispositive ), che spazza via ( ad removendum ) non solo ciò che rende impossibile l'amore come tale, ma anche ciò che, pur senza eliminarlo, ne rende più difficile la messa in atto. Nascondi Così l'abbandono dei beni esteriori non è già per questo equivalente all'essenza della perfezione, poiché possediamo esempi come quello di Abramo, che malgrado la sua ricchezza camminava nella perfezione davanti a Dio, anche se la perfezione conquistata nella ricchezza è, secondo le parole del Signore, difficile e rara, così rara che è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno dei cieli ( Mt 19,24 ). Ma ciò che è raro non 'è impossibile. Lo stesso punto di vista prevale nel dibattito sulla verginità. Tutte le forme di dipendenza dalla carne, in modo speciale l'amore sessuale, « scompigliano l'orientamento dello spirito e oscurano la sua nitidezza ». Riguardo all'obbedienza il punto di vista sembra spostarsi leggermente. Tommaso inizia subito con la dichiarazione: « Per la perfezione dell'amore si richiede non solo che l'uomo compia da sé le cose esteriori, ma anche che egli in una certa misura abbandoni se stesso. Poiché dice Dionigi [ … ] che l'amore divino è estatico, cioè sradica l'uomo da se stesso, non permettendogli di appartenere a se stesso, ma a ciò che egli ama ». Nascondi E vengono addotti a sostegno di tale tesi testi di S. Paolo: « Vivo non più io. Cristo vive in me » ( Gal 2,20 ); « voi siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio » ( Col 3,3 ); « Cristo è morto per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi » ( 2 Cor 5,15 ), e infine la parola del Signore: « Chi viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo » ( Lc 14,26 ). Seguita Tommaso: « L'osservazione di questo salvifico rinnegamento di sé e di questo odio pieno d'amore è in parte necessario alla salvezza e comune a tutti coloro che vengono salvati, e in parte appartiene al completamento della perfezione ( perfectionis complementum ) [ … ] Il rinnegamento di sé e l'odio di cui abbiamo parlato devono venir distinti a seconda del grado dell'amore divino ( divini amoris gradum ). Necessario alla salvezza è che l'uomo ami Dio a tal punto da porLo quale fine del proprio tendere e da non permettere nulla che egli consideri contrapposto all'amore di Dio; [ … ] appartiene invece alla perfezione che l'uomo compia da sé, per amore a Dio, anche ciò che gli sarebbe permesso utilizzare per il proprio comodo, per essere così più libero per Dio ». Così è allora « evidente, dal modo in cui il Signore parla, che la sua proposta riguarda la perfezione. Nascondi Poiché come egli ( Mt 19,21 ) dice: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri", non imponendo con questo alcuna necessità, ma lasciandolo alla libertà, così egli dice ora: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" ( Mt 16,24 ) ». Prototipo di questo rinnegamento di sé appare Cristo Signore, che rinunciò ad ogni gestione in proprio della sua volontà, per fare in tutto la volontà di colui che lo aveva mandato. E da qui manca solo un passo ancora - che Tommaso compie nel capitolo successivo - per collocare tutti e tre i voti sotto il nuovo punto di vista del sacrificio, in cui l'uomo, per amore a Dio, pone tutto a Sua disposizione, tutto quanto egli possiede: beni esteriori, corporali e spirituali. Con ciò la valutazione dei consigli come « perfectionis via » ( cap. 7 ), come puro mezzo per il raggiungimento di un fine per tutti egualmente auspicabile, si sposta ora decisamente verso una valutazione degli stessi come « amoris gradus » ( cap. 10 ), come grado più elevato d'amore, che in virtù di una dedizione più grande appare anche egli stesso come più grande. Questa duplicità d'interpretazione viene ad essere, nella successiva considerazione dell'amore per il prossimo come comandamento e come consiglio, una vera e propria mutazione di prospettiva ( cap. 13 ). Qui infatti l'analisi inizia subito con la constatazione che ci sono « molteplici gradi di perfezione riguardo all'amore del prossimo ». « C'è infatti una certa perfezione che è necessaria alla salvezza e cade sotto un comandamento necessario. C'è però anche, al di là di questa, una perfezione ulteriore, sovrabbondante, che cade sotto i consigli ». L'amore del prossimo comandato viene descritto da Tommaso ( così come era per l'amore di Dio comandato ) tutt'altro che in termini minimalistici. A questo amore egli richiede quattro qualità: esso deve in primo luogo essere vero. Non deve dunque amare il prossimo ( che è da amare come se stessi ) per amore del proprio io e del suo vantaggio, altrimenti sarebbe soltanto mascherato egoismo. Nascondi « L'amore non cerca ciò che è proprio » ( 1 Cor 13,5 ). Deve in secondo luogo essere retto e giusto, concedendo altruisticamente al prossimo e cercando di procurargli i beni spirituali più di quelli corporali, e quelli corporali più di quelli esteriori. In terzo luogo deve essere santo. Non è sufficiente che si ami il prossimo perché è nostro parente o appartiene allo stesso popolo o in generale alla razza umana. Piuttosto l'amore al prossimo, che riposa su questi vincoli naturali, deve venir espressamente ordinato verso Dio. È per amor di Dio e della nostra comune provenienza divina e patria celeste che si deve amare e apprezzare il prossimo. Nascondi E Tommaso adduce la frase di Giovanni ( 1 Gv 4,21 ): « Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello ». In quarto luogo, deve essere operante ed efficace. Al di là di questo amore del prossimo necessario per la salvezza va l'amore che non è comandato, ma consigliato ( cap. 14 ). Esso oltrepassa il primo in tre direzioni. Primo, nell'estensione. Nascondi Infatti esso comprende espressamente in sé anche l'amore per i nemici, che il Signore contraddistingue come appartenente alla perfezione dicendo in connessione a ciò: « Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro nei cieli » ( Mt 5,48 ). « Che questo vada però al di là dell'abituale perfezione diventa chiaro dall'Enchiridion di Agostino, dove egli dice che ciò è una cosa tipica dei perfetti figli di Dio, per la quale certo ogni credente deve ( debet ) sforzarsi e alla quale deve, con la preghiera a Dio e la battaglia con se stesso, indirizzare il suo spirito umano. È tuttavia questo bene così grande non viene raggiunto dalla gran massa, della quale però noi crediamo che viene esaudita, se preghiamo: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori ». Tommaso stesso trova la soluzione in questo, che il cristiano non esclude espressamente il nemico dal generale amore del prossimo, mentre appartiene invece alla perfezione del consiglio l'includerlo espressamente. Questa forma ultima di amore ai nemici ha origine direttamente dall'amore divino; essa non ha alcun fondamento naturale nella più o meno ampia simpatia umana. In secondo luogo ci sono nell'amore del prossimo gradi di intensità; quanto più l'amore è forte, tanto più facilmente colui che ama rinuncia ad un proprio bene per darlo al prossimo. Egli può lasciare i suoi beni esteriori, il suo corpo, ultimamente la sua vita al servizio del prossimo. A questo ultimo passo accenna Giovanni: « Da questo abbiamo conosciuto l'amore: egli ha dato la sua vita per noi. Nascondi Quindi anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ), la qual cosa deve valere espressamente come grado supremo dell'amore, secondo la parola del Signore: « Nessuno ha un amore più grande di colui che da la sua vita per i suoi amici » ( Gv 15,13 ). Perciò possiamo dire che questo grado supremo cade sotto il comandamento solo allorché non rimane nessun'altra via per ottenere la salvezza dell'anima del prossimo, mentre appartiene alla perfezione del consiglio l'offrire volontariamente per amore dei fratelli anche il sacrificio della propria vita. In terzo luogo, si può misurare l'amore dalla grandezza dei suoi effetti. Così si possono fornire al prossimo beni corporali, gli si possono far pervenire beni spirituali, gli si possono infine donare, attraverso la consegna della dottrina celeste e la trasmissione della grazia sacramentale, beni divini. Tommaso certamente parla stavolta non più dell'adempimento dell'amore come consiglio, poiché ciò che egli qui delinea non appartiene primariamente allo stato dei consigli, ma allo stato sacerdotale, soprattutto a quello episcopale. Abbracciando con lo sguardo questa serie di riflessioni, diventa chiaro che in essa ha luogo più fortemente ancora che nell'esposizione che concerneva l'amore per Dio uno spostamento di visuale. Sempre più avanza in primo piano la domanda a cosa sia obbligato l'uomo dal comandamento dell'amore, e cosa egli possa, al di là di questo, ancora fornire volontariamente. Questa distinzione viene presa come filo conduttore per la differenziazione dei due stati. Adesso però questa formulazione della domanda non sembra più essere, come dicevamo prima, attinente l'amore. Esso non chiede più quali sono i confini, fino a dove esso può venir costretto ad andare. Esso chiede soltanto quanto lontano gli è permesso di andare. Non lo si deve spronare, ma semmai tenere a freno. Se si volesse dunque giudicare lo stato contrassegnato dalla non obbligazione ai consigli unicamente dal punto di vista dell'amore che si dona, esso dovrebbe adesso starsene lì necessariamente come stato di un amore incompleto. Ma proprio questo voleva radicalmente evitare Tommaso: « L'amore a Dio e al prossimo non viene limitato dal comandamento ad una determinata misura, lasciando ciò che l'oltrepassa allo stato dei consigli ». E tuttavia egli deve ammettere nello stesso articolo: « Per il fatto di non attenersi nella maniera più perfetta ad un comandamento, uno non diviene ancora trasgressore di esso. Basta piuttosto che egli in qualche maniera vi si attenga [ … ] Il grado più basso dell'amore a Dio sta però in questo, che non venga amato niente al di sopra di Dio, niente contro di lui, niente così fortemente come lui; se qualcuno scende al di sotto di questo grado di perfezione non adempie in nessun modo il comandamento. C'è inoltre un grado di amore perfetto che sulla terra non può affatto venir raggiunto, e chi non lo adempie non è certamente un trasgressore del comandamento. Così pure non infrange il comandamento colui che non raggiunge i gradi medi di perfezione, posto che egli raggiunga solo il grado più basso ». Porre così la questione significa ammettere implicitamente che per la distinzione dei due stati l'angolo visuale dell'amore come puro movimento di dedizione non è sufficiente. Per l'amore la divisione tra comandamento e consiglio resta semplicemente incomprensibile. Se i consigli permettono in un qualche rapporto più amore, allora chi non segue i consigli dovrà inevitabilmente venire addebitato di un meno d'amore, e i due stati si distingueranno necessariamente come lo stato dell'amore imperfetto e quello dell'amore perfetto. Se dunque a partire dall'amore dell'uomo per Dio una tale distinzione nella struttura della Chiesa non può chiaramente venir fatta, si dovranno allora prendere per la sua fondazione altri angoli visuali. 1. C'è allora in primo luogo il fatto elementare che gli uomini, così come sono, non aspirano affatto al comandamento dell'amore, non pensano a vedere nell'adempimento di questo comandamento l'unico senso della loro esistenza. Solo perché non hanno più l'amore, perché sono, caduti fuori dal suo nucleo incandescente, l'amore può venir presentato ad essi generalmente nella forma di un comandamento. Il comandamento fondamentale, da cui dipendono tutta la Legge e i Profeti, chi lo osserva? Chi può dire che egli ha amato Dio non con cuore a metà, ma con tutto il suo cuore, se questa interezza non gli viene sborsata in anticipo, per misericordia col peccatore, in modo che egli può acciuffare per il rotto della cuffia il suo « grado più basso »? E lo acciuffa poi veramente questo grado più basso così come già Tommaso lo ha descritto: come ordinamento di tutta la vita a Dio, come sottomissione dell'intelletto a Dio, come amore di tutte le cose terrene in Dio, come lasciar sgorgare ogni espressione di sé dall'amore di Dio? Il peccato regna talmente nei cuori degli uomini, che uno che orienti la sua vita secondo questo grado più basso, che è comandamento in senso stretto, viene considerato da essi già quasi come un essere soprannaturale. Solo quando viene inclusa la realtà del peccato diventa chiaro il perché può venir posto un tale peso sui consigli come mezzo per l'allontanamento degli ostacoli. Solo a partire di qui appare giustificato il loro carattere sussidiario: essi creano via libera per l'amore che è - come sottolinea Agostino - sin troppo ostacolato dalla concupiscenza egoistica. Così solo diventa chiaro perché essi vengono designati come « consigli » e non come comandamenti, e perché la via dell'uomo appare tesa in questa maniera come una via che dal non amore conduce, attraverso tutti i gradi di amore imperfetto, sin dentro all'amore. 2. Ma questa considerazione abbisogna ancora di una radicalizzazione. Non solo il fatto che l'uomo è in cammino dal peccato verso l'amore determina la forma mobile, dinamica per così dire, in cui il comandamento dell'amore gli è presentato, ma anche il fatto più profondo che egli, in quanto creatura che sta innanzitutto nella sua naturalità di fronte a Dio secondo rapporti e leggi del tutto determinati, viene attratto con la Grazia in una « partecipazione alla natura divina », alla comunione d'amore tra Padre e Figlio nello Spirito Santo, attraverso cui il suo rapporto all'amore si tinge ancora nuovamente di tinte dinamiche. Se egli, considerato come peccatore ( quale di fatto è ), è continuamente nel pericolo di trattare i comandamenti dell'amore in termini minimalistici e di contrapporre all'eternamente incalzante esigenza dell'amore la fredda domanda, che certo è una domanda di non amore: « A quale grado di amore sono in caso estremo obbligato? », bisogna dire d'altra parte che, considerato come semplice creatura, sta di fronte al suo eterno creatore primariamente in un rapporto di rispetto, di « religio », di sottomissione, che giustamente viene collocata da Tommaso nella virtù della giustizia ( II II q 81 ). Religione è, sul fondamento della semplice creaturalità, la direttiva per il giusto rapporto della creatura nei confronti del suo creatore, e in quanto dottrina contiene necessariamente quelle definizioni dei confini che sono date dalla distanza tra Dio e creatura e così pure dall'intima limitatezza della creatura. E ci si può infatti qui chiedere se il concetto di un amore per Dio al di sopra di tutto, di un amore che dovrebbe essere pronto e capace di ogni dedizione, è richiesto già nel comandamento concernente il rapporto puramente naturale tra creatore e creatura. Tommaso, che pronuncia la parola di un tale amore « naturale » ( amor Dei naturalis ), notoriamente non distingue ancora tra un ordo naturae « creatae » e un ordo naturae « elevatae »; l'amore a Dio completamente altruista che egli ascrive alla creatura in base alla natura, prende a prestito in fondo la sua forma e intensità dalla carità soprannaturale, quale solo la Rivelazione ce l'ha portata. Ma proprio perché Tommaso qui non distingue chiaramente ordine naturale e soprannaturale, perché egli già nella sua descrizione della natura mischia momenti della soprannatura, farà giocare anche nella descrizione della relazione d'amore soprannaturale di nuovo momenti della natura. L'idea di « giustizia » e con ciò di obbligo nel senso di un adempimento di prescrizioni lo accompagnerà sin nella struttura dell'amore perfetto e si incrocerà là con i punti di vista suggeriti nella trattazione del comandamento dell'amore dal fatto della caduta dell'uomo e della sua peccabilità. Con ciò viene a sorgere un particolare mutamento all'interno della formulazione della domanda, nella misura in cui alle leggi dell'amore naturale vengono in duplice maniera accostati problemi che all'interno dell'amore non hanno alcun senso e alcuna validità. L'amore stesso è qualcosa di esoterico, in quanto è compreso nella sua logica, nella sua necessità, solo da coloro che amano. Nascondi Quando per esempio Giovanni erige la necessità: poiché il Signore ha dato la sua vita per noi, « per questo dobbiamo anche noi dare la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ), questo diventa ragionevole solo all'interno dell'amore, per uno che ama, mai invece per uno che si pone dal punto di vista della giustizia, cioè della « rettitudine » e « religione » naturale. Se ci si colloca su questo piano non si potrà far altro - discorrendo dell'amore dall'esterno - che distinguere « comandamenti » e « consigli ». Si distinguerà poi, sempre perché non ci si muove all'interno della vita e delle leggi dell'amore soltanto, tra ciò che si è « obbligati » a fare « ex iustitia » e « ex caritate ». Nascondi Il concetto di obbligo che si viene così ad introdurre nella formulazione della domanda non ha affatto origine da quell'ordine in cui il Signore adempie all'assoluta esigenza d'amore del Padre e la presenta senza indebolirla ai suoi discepoli come norma ( Gv 15,9-14 ), ma ha origine invece dall'ordine del « diritto naturale », anzi: del « diritto del peccato », nella misura in cui quest'ordine non è ancora compenetrato dall'amore perfetto. Da questo collocarsi all'esterno, che ha certo una sua realtà, una realtà per la maggior parte degli uomini anche troppo evidente, traggono origine quelle distinzioni, giustificate per coloro che non amano ancora, tra obbligo o comandamento e consiglio lasciato alla libertà. E nella misura in cui c'è non solo questo collocarsi « all'esterno », ma l'ancor più difficilmente fissabile collocarsi « tra » amore e non amore, c'è cioè la via verso l'amore, su cui gli uomini per lo più si trovano, è allora giusto che le leggi in vigore nell'amore perfetto, nell'amore per eccellenza, vengano presentate ad essi attraverso una rottura estranea, una ineliminabile deformazione. Considerata in questa luce e su questo piano, è inoppugnabile la verità della proposizione che Tommaso insieme alla maggior parte dei teologi difende: cioè che l'uomo non è obbligato a compiere sempre ciò che è più perfetto, perché altrimenti la distinzione tra comandamento e consiglio si cancellerebbe ( de Ver. q 17 a 3 ad 2; ibid. q 23 a 8 ad 4; Quodiib. 3 a 14 ). Su questo piano hanno poi reale valore anche quelle distinzioni che egli giunge a introdurre sin nel cuore del comandamento principale e che da una parte gli fanno dire che l'amore totale e perfetto è cosa del comandamento ( « perfectio [ … ] dilectionis [ … ] cadit sub praecepto, ita quod etiam perfectio patriae non excluditur ab ilio praecepto". II II q 184 a 3 ad 2 ), cioè per tutti: « sive sit religiosus, sive saecularis, sive clericus, sive laicus etiam matrimonio iunctus » ( Quodiib. 3 17 ), ma che poi però gli fanno di nuovo inserire all'interno della « perfezione dell'amore » gradi e livelli, dei quali quello più basso, il non compiere peccati gravi, viene considerato come possibile adempimento del comandamento dell'amore ( II II q 44 a 4 ad 2 ). Poiché poi il comandamento dell'amore come legge affermativa non obbliga « prò semper », è sufficiente un abituale volgersi a Dio ( II II q 88 a 1 ad 2 ). I confini che Tommaso introduce nel comandamento dell'amore si lasciano ricondurre a tre: a) Il confine della creaturalità in generale, il quale impedisce che in un qualsiasi atto creaturale Dio venga amato come in sé meriterebbe di essere amato ( « prout Deus tantum diligitur quantum diligibilis est, et talis perfectio non est possibilis alieni creaturae ». S Th II II q 184 a 2; III Dist. 29 q 1 a 8 sol 2 ad 4 ). Qui c'entra però anche la maniera in cui Tommaso comprende i voti come una forma di « religio » ( II II q 138 ), commisurando la forma di dedizione che per il cristiano è la più alta a qualcosa che ultimamente è espressione della ( creaturale ) analogia entis. -- * -- b) Il confine della condizione terrena, che non permette all'uomo di raggiungere la perfezione dell'amore prevista da Dio come traguardo ( II II q 44 a 5 ). Questo confine si concretizza in molteplici modi: « [ … ] alioquin esset obligatio ad infinitum, cuna tamen natura et ars et omnis lex certos fines habeant » ( Quodiib. 1 q 7 ad 2 ). c) Infine il confine tracciato dallo stato decaduto della natura umana, il quale ci fa rimanere per tutta la vita in una certa debolezza e imperfezione. Però Tommaso non può del tutto accettare tranquillamente una così statica fissazione dei confini all'interno della sconfinatezza dell'amore. Primo, perché l'amore che nel Nuovo Patto viene richiesto all'uomo ha la sua misura non nella limitatezza della natura umana, ma nel dono di grazia dell'amore divino, comunicatoci e riversato in noi, un amore che apre al di là di sé la creatura in sé limitata, la apre alla partecipazione alla sconfinatezza della vita divina: « amor autem vim transformativam habet, unde Dionysius ( 4 Div. Nom. ) dicit: est autem ex-stasis faciens divinus amor, non sinens sui ipsorum amantes esse, sed amatorum [ … ] lile perfecte caritatem habet, qui totaliter in Deum per amorem transformatur » ( Quodiib. 3 17 ). Poiché però il comandamento dell'amore ottiene così una dinamica non più limitabile, in cui, nella misura in cui il comandamento stesso esprime il movimento, la distinzione tra comandamento e consiglio ultimamente cade, si dice conseguentemente: « Hoc quod dicitur: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde intelligitur esse praeceptum secundum quod totaliter exclu-dit omne illud quod impedii perfectam Dei inhaesionem, et hoc non est praeceptum, indicatur enim nobis per hoc non quid faciendum, sed potius quo tendendum sit » ( Quaest. disp. de Car. a 10 ad 1 ). Proprio l'eliminazione di tutto ciò che ostacola la piena unione con Dio è oggetto dei consigli, cosicché veniamo qui riaccompagnati a quell'ardita e spensierata posizione sulla « perfezione della vita spirituale » ( Opusc. 17 cap. 6 ). Tommaso non può fare a meno di lasciare i consigli in una certa tensione, in cui essi da una parte appaiono un mezzo per un fine che li trascende, poi però appaiono anche come una « partecipazione a » ed un « riposo in » questo fine, e infine come una rappresentazione e un'esperienza del fine stesso: « Religionis status potest considerari tri-pliciter: uno modo, secundum quod est quoddam exercitium tendendi in perfectionem caritatis; allo modo, secundum quod quietai animum humanum ab exterioribus sollicitudinibus [ … ], tertio modo, secundum quod est quoddam holocaustum, per quod aliquis totaliter se et sua offert Deo » ( S Th II IIq 186 a 7 ). Da tutto ciò dovrebbe esser diventato più chiaro come non semplicemente per il fatto del peccato, ma più profondamente ancora per il fatto del dualismo di natura e soprannatura, di ordine della « giustizia » e ordine dell' « amore », si giustifica una certa - anche se in maniera fluente - dinamica distinzione di comandamento e consiglio, di ciò che è dovuto e ciò che è in sovrappiù. Con ciò non si è però ancora risposto alla nostra domanda di partenza: perché lo stato che non segue i consigli ( o perlomeno non li segue alla lettera ), che non afferra questo mezzo così essenziale per il raggiungimento dell'amore, non è tuttavia da considerare univocamente, di fronte allo stato dei consigli, come inferiore, come stato dell'amore imperfetto. 3. Qui deve entrare in gioco una seconda, del tutto diversa visione: quella che prevale negli « Esercizi » di Ignazio di Loyola e che ha gettato una nuova luce evangelica sulle forme di vita cristiana. Finora abbiamo descritto l'amore come se esso fosse innanzitutto cosa dell'uomo soltanto. Ma se è vero che l'uomo ama Dio, è pur vero che Dio stesso è amore ed è anche la misura dell'amore dell'uomo verso di Lui. Nascondi Dio non è mai un puro e semplice oggetto che si lascia amare, Egli è il soggetto infinito che, prima ancora che noi fossimo, si è liberamente deciso ad amarci, e che inoltre ci ha liberamente amato « quando noi eravamo ancora peccatori » ( Rm 5,8 ), ancora immersi nell'odio, volti lontano da Lui. Egli è colui il cui amore possiede sotto ogni aspetto la priorità nei confronti dell'amore umano, e al cui amore ogni amore umano può essere sempre solo risposta. Solo perché l'amore di Dio per noi è così infinito e indivisibile ci viene dato il comandamento di riamare questo eterno Amore con: tutte le forze del nostro essere. Ma l'amore quando si dona non è invadente; esso domanda quali sono la volontà e il desiderio dell'amato, dai quali riceve la misura della sua donazione. Amare con tutte le forze non significa portare in casa all'amato indiscriminatamente tutto ciò che in beni esteriori ed interiori si possiede e gettarglielo ai piedi. Così facendo lo si potrebbe forse disturbare, si sarebbe in ogni caso indiscreti, e ci si dovrebbe aspettare che tutti questi regali inopportuni possano venir rifiutati e rimandati indietro. Non che l'amore non possa anche occasionalmente offrire un regalo amichevole, come sorpresa. Ma abitualmente il vero e proprio regalo consisterà nello stare con tutto ciò di cui si dispone a servizio dell'amato. Egli solo stabilisce, egli solo fa la scelta di ciò che gli si può donare. Ciò presuppone ora nell'amante un non meno perfetto atteggiamento di dedizione di quello che per propria decisione rinuncia letteralmente a tutto ciò che ha di proprio. L'amore vero rinuncia radicalmente e fondamentalmente a tutto, secondo la disposizione inferiore, per tenere a disposizione ogni cosa al primo cenno. Esso è pronto a percorrere ogni strada, la più ardua come la più agevole. È pronto a percorrere la strada dei comandamenti come quella dei consigli. Un tale amore è perfetto, anche se di fatto non gli viene richiesto tutto quanto sino all'estrema dedizione possibile. È perfetto come quelle ancelle nel Vangelo, che stanno nella notte coi fianchi cinti e le fiaccole accese, che il padrone arrivi oppure no. Esse tendono l'orecchio alla voce dell'amato, che la sua chiamata le raggiunga oppure no. E sono contente anche se non poterono, come altre preferite, donare di più. Accettano come un sacrificio il fatto di non aver sacrificato tutto ciò che avrebbero potuto sacrificare. Se lo stato dei comandamenti avesse in sé questa disposizione interiore non sarebbe in alcuna maniera svantaggiato nei confronti dello stato dei consigli. Ma ciò presupporrebbe che avesse in sé la disposizione dello stato dei consigli, cioè la completa indifferenza, a seconda della volontà del Signore di eleggere l'uno o l'altro stato. Qualcosa di questa disposizione era rintracciabile nella descrizione che Tommaso fece dell'amore di Dio in quanto comandamento. Colui che realmente ordina la sua vita al servizio di Dio, nella piena sottomissione della sua intelligenza sotto la regola della fede, colui che realmente non ama alcuna creatura fuori di Dio e tutto ciò che fa e dice lo ha misurato sul parametro dell'amore di Dio ( De perfezione, cap. 5 ), costui possiede anche la piena indifferenza, che gli permette di non opporre alcuna resistenza al volere di Dio quando questo gli viene reso noto, che Dio lo chiami ad uno stato o all'altro. Ma proprio qui diventa ora di nuovo attuale il primo punto di vista, nella misura in cui esso accennava all'ostacolo del peccato. Quando Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi, che nella loro intenzione ultima non hanno altro scopo che il compimento della scelta dello stato di vita e in vista di ciò la chiarificazione di una eventuale vocazione allo « stato dei consigli », fonda tutto sin dall'inizio sull'atteggiamento dell'indifferenza, per poi introdurre sempre più profondamente in questo atteggiamento ( Nr 98, 155, 166 ), fa questo non senza eliminare, alla fine della « Prima Settimana », tutti coloro dai quali ritiene di non potersi aspettare quella forma di indifferenza da lui sperata: un'indifferenza anche nelle sempre maggiori esigenze dell'amore di Cristo, sino alla sequela nella croce. Chi fosse privo di capacità di comprendere e di capienza spirituale per volere e aspettarsi di più che « un certo grado di tranquillizzazione della propria anima » ( Nr 18 ) non dovrebbe venir introdotto nelle cose riguardanti la « scelta ». Costui non avrà certamente colto nel « principio e fondamento » ciò che per Ignazio indubitabilmente v'è, anzi a cui esso addirittura mira espressamente: le leggi del « consiglio » e del « sovrappiù », che per colui che vuole amare rientreranno nella sfera dell' « obbligo » altrettanto quanto i « comandamenti ». Attraverso i suoi esercizi spirituali Ignazio non vuole affatto spazzare via forzatamente quella tensione esistente tra le due vie dei comandamenti e dei consigli, così come tra i due mondi dell'obbligo sotto il peccato e di ciò che al di là di questo è da fornire volontariamente. Anche se egli cerca di costruire ponti dal primo al secondo per facilitare l'accesso, e se per lui, che vive nell'amore e nelle sue leggi, questo passaggio è la cosa più ovvia e vorrebbe comunicare ad ognuno e presupporre per ognuno questa per lui evidente necessità di una generosità che offre tutto di sé, egli conosce bene tuttavia i limiti: non tutti hanno accesso a questo mondo interiore e a questa logica dell'amore ( ed è bene allontanare per tempo coloro che non sono adatti, per non danneggiarli, confonderli o addirittura portarli ad una palese ostinazione ), e inoltre non tutti quelli che vi hanno accesso sono di fatto chiamati. Così anche questa seconda ricognizione va a finire ultimamente in una impenetrabilità che rimane in sospeso. Se da una parte la via dei consigli sembra chiaramente migliore della via dei comandamenti. ( Nr 14-15, 356-357), il compimento dell'amore sembra però riportato indietro nell'atteggiamento dell'indifferenza che amando è pronta a tutto, a tal punto che non si capisce più perché la via dei consigli debba essere « più perfetta » della via dei comandamenti. E altrettanto poco si capisce ( come prima a proposito della riflessione sul peccato ) perché le vie dell'amore si dividano in due vie così fondamentalmente diverse che da questa separazione vengono a contrapporsi addirittura due « stati ». Come nel passaggio dal peccato all'amore appaiono possibili innumerevoli punti di osservazione, così appaiono qui di nuovo pensabili innumerevoli chiamate da parte di Dio e vocazioni cristiane corrispondenti ad esse, tutte configurabili a partire dal medesimo punto della disponibilità umana e prontezza a rispondere. Nel puro volere di Dio come tale ( anche nella sua volontà d'amore ) non si scorge alcun motivo del perché la Chiesa debba essere articolata in stati rigorosamente distinti. Così la ricerca sembra per il momento essere rimasta senza risultati. Partendo dall'essenza dell'amore, da cui avevamo preso le mosse, si può certamente giungere a comprendere che al di là del « doveroso » c'è una sfera in cui ci si lega liberamente, e che questa sfera, considerata a partire dall'obbligo, appare come « consiglio ». Ma né a partire dall'amore dell'uomo per Dio, né a partire dall'amore di Dio che elegge l'uomo si possono far derivare in maniera soddisfacente le forme di vita ecclesiali menzionate, poiché l'invito all'amore perfetto è indirizzato a tutti. Per questa deduzione sarà dunque necessaria una nuova impostazione di pensiero. 4. Amore e Voti Prima che noi su questo passiamo oltre, ciò che qui abbiamo trovato deve venir ancora una volta riferito a ciò che prima abbiamo detto circa il carattere di voto tipico di ogni amore puro e armonizzato con ciò. Giacché in qualunque modo ci si voglia rapportare ai « voti » che contraddistinguono lo speciale « stato » ecclesiale dei consigli, ci sono, come vedemmo precedentemente alla differenziazione degli stati di vita determinate relazioni tra l'essenza dell'amore perfetto e ciò che nel senso più generale si chiama voto. E questo al punto che la distinzione tra l'amore stesso e i voti come forma di vita che è alla base di uno stato, distinguibile rispetto ad altre forme di vita, può esser presente solamente laddove l'amore stesso è ancora per via, non è ancora divenuto perfetto: nello stato del pellegrinaggio terreno, in cui l'uomo cerca per strade e gradi diversi il ritorno alla patria originaria dell'amore divino. Solo in questo stato terreno i voti possono essere una forma esteriore distinguibile dall'amore stesso, eretta per servire come esercitazione nell'amore perfetto, come recipiente, per così dire, che contiene in anticipo la misura vuota dell'amore da raggiungere ed è destinato a riempirsi sempre più del contenuto dell'amore per contenere il quale è stato fabbricato. Il cosiddetto « stato della perfezione » come particolare stato ecclesiale ha come presupposto la generale imperfezione dell'amore qui sulla terra, poiché la forma che è a fondamento dello stato, come forma di vita speciale accanto ad altre forme di vita, non coincide per ora in maniera totale col contenuto, che è l'amore. Così Tommaso può fare le affermazioni a cui spesso ci si è richiamato: « una cosa è essere perfetti, un'altra essere nello stato della perfezione. Poiché alcuni sono nello stato della perfezione senza essere ancora perfetti, anzi non raramente sono peccatori. E alcuni sono perfetti, e non sono nello stato della perfezione » ( Quodl. 317 ). Così considerati, stato dei consigli e amore perfetto sono in rapporto secondo la prima delle tre maniere prima descritte da Tommaso: come mezzo in ordine ad un fine, « quoddam exercitium tendendi in perfectionem caritatis » ( S Th lI Il q 186 a 7 ), un fine che sta al di là del mezzo e sotto determinate circostanze può venir raggiunto anche senza di esso. Ma appena si prende in considerazione l'amore nella sua compiutezza, il rapporto muta; la relazione esteriore di mezzo e fine si trasforma in una relazione interiore, e precisamente in una doppia prospettiva, sia formale che contenutistica. 1. L'amore perfetto consiste nella offerta di sé senza condizioni, « in domina sui ». « L'amore consiste nella comunicazione da ambo le parti, in modo tale che l'amante dà e dona all'amato ciò che egli ha oppure parte di ciò che egli può dargli, e così pure l'amato all'amante » ( Ignazio, Eserc. Nr 231 ). Esso lo è a tal punto che nell'amore completo di Dio per la creatura tutto l'essere del mondo, come mondo della natura, della grazia, dell'elezione speciale, personale, non è nient'altro che una dimostrazione e una rappresentazione dell'amore di Dio per la sua creatura che giunge fino all'estremo: « Tutto quanto egli mi ha dato di ciò che ha, e perciò anche tutto quanto lo stesso Signore vorrà fare, donandosi a me, tutto questo gli è possibile solo in base alla sua divina condiscendenza" ( ibid., Nr 231 ). Il corrispondente atteggiamento della creatura che di fronte alla dedizione di Dio si sottomette e si offre « con ampia e giusta motivazione », « nella coscienza delle sue colpe » è espresso nella preghiera di offerta di sé degli Esercizi: « Prendi su di tè, o Signore, tutta la mia libertà, la mia mente, la mia intelligenza e tutta la mia volontà, tutto ciò che ho e posseggo. Tu me lo hai dato, a te. Signore, lo restituisco; tutto è tuo, Signore: disponi tu di tutta la mia volontà; dammi il tuo amore e la tua grazia e mi basta » ( ibid., 234 ). Contenuto di ogni amore reale è questo atto di offerta, che pone a disposizione di Dio tutto ciò che ha di proprio, gli affida tutto come un dono consacrato, con la forma interiore di un voto. Ogni voto esteriore, formale, vive ultimamente di un voto che inabita nell'amore stesso, identico al suo movimento di offerta. E questo tanto più, quanto la volontà d'offerta dell'amore, se questo è perfetto, è assoluta, irrevocabile. Il « Suscipe » in cui Ignazio riassume il risultato dei suoi Esercizi non è un atto provvisorio, inteso per certo tempo soltanto, ma è l'espressione di una volontà assoluta, che deve essere definitiva. Come l'amore di Dio è esclusivo e, in una certa maniera, inclusivo, cioè tale da non conoscere o non voler conoscere niente di ciò che è al di fuori del suo chiuso segreto, così anche l'amore di risposta della creatura si verifica una volta per tutte nel circolo chiuso della disposizione divina e chiude le porte dietro di sé a tutto ciò che si trova al di fuori dell'amore. Offrendo a Dio la propria libertà nell'atto di dedizione, l'amore creaturale si priva liberamente della libertà di cercare e decidere qualcosa al di fuori della libertà di Dio. Sceglie Dio una volta per tutte e rinuncia così una volta per tutte a qualsiasi libertà di scelta che possa scegliere qualcosa d'altro rispetto a ciò che Dio per lui sceglie. Poiché la sua libertà deve consistere d'ora in poi non più nello scegliere ciò che gli piace, ma nello scegliere ciò che è gradito all'amato. Solo per colui che sta al di fuori dell'amore e per il quale la libertà coincide con l'egocentrica autodeterminazione quest'offerta della libertà nell'amore apparirà come una privazione di libertà. Ma « come il non poter peccare non diminuisce la libertà, così non diminuisce la libertà nemmeno la consolidata necessità della volontà volta verso il bene, come vediamo chiaramente in Dio e nei beati, e di tal forma è anche la coercizione del voto, che ha una somiglianza con l'esser consolidato dei beati » ( S Th il il q 88 a 4 ad i ). La definitività è contenuta nel senso dell'offerta stessa. Un'offerta a tempo sarebbe perciò portata a non essere una reale offerta, ma al massimo una condizione preparatoria, d'attesa, di collaudo per una offerta reale. Nascondi Il momento del votarsi, intrinseco all'amore stesso, si esprime nelle parole del Signore: « Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà » ( Mt 10,39 ). « Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà » ( Mt 16,25 ). « Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna » ( Gv 12,25 ). Il perdere di cui qui si parla è la totale e definitiva offerta dell'amore, che però perde la sua energia piena ogni volta che egoisticamente si getta uno sguardo a lato per assicurarsi ancora qualcosa a dispetto della « perdita », per limitare questa perdita sotto qualche aspetto, nel tempo o a livello di contenuto. Questo « voto », per ricordarlo ancora una volta, è qualcosa di inerente all'amore stesso e precede ogni distinzione di singoli stati e forme di vita cristiani. Ma proprio perché esso è una connotazione dell'essenza dell'amore perfetto stesso e perché tutti gli stati della Chiesa sono chiamati a quest'amore, un'obiettiva delimitazione delle singole forme di vita si delineerà a seconda di quanto in essa si realizza questa totalità d'amore del voto, a seconda dunque di quanto attraverso lo stato di vita stesso il cristiano viene insediato non solo in un parziale perdere, ma in un totale aver perso la sua anima in Dio. Tutti i piccoli, reiterati e limitati sacrifici hanno valore e sono a Dio bene accetti se sono espressione e rafforzamento dell'indivisibile sacrificio dell'amore, che a sua volta è espressione della volontà di dare tutto e di tutto lasciarsi prendere da Dio di ciò che Egli trova in noi buono da prendere. 2. A questo interno e formale carattere di voto tipico dell'amore perfetto corrisponde perciò anche una totalità materiale, anche se questa non abbisogna di differenziazione o dettaglio alcuno: « Tutto è tuo, disponi interamente secondo la tua volontà ». Dal XII secolo si è formata la divisione di questa totalità materiale in tre ambiti, che insieme rappresentano tutto quanto l'amore perfetto può offrire: i beni dell'ambiente sui quali l'uomo può disporre, i beni del suo corpo e quelli del suo spirito: mente, intelletto e volontà, di nuovo nella misura in cui egli ne può liberamente disporre. A questi ambiti corrispondono i singoli voti della povertà, della castità e dell'obbedienza, che di nuovo coincidono coi tre consigli evangelici essenziali. Noi diciamo « consigli essenziali », poiché proprio recentemente è stato fatto spesso il tentativo di sminuire questi tre voti della loro importanza presentandoli come tre consigli qualsiasi tra altri e ( come si da ad intendere ) di egual valore presenti nel Vangelo. Ciò è contraddetto però dall'esposizione di S. Tommaso, che chiama questi tre i « tria principalia vota » a cui vengono ricondotte tutte le altre pratiche e opere buone. E precisamente sotto un duplice aspetto: primo, perché essi comprendono in sé materialmente tutto ciò che l'uomo è capace di offrire nell'amore ( S Th n il q 186 a 7c et ad 2 ); secondo, perché povertà e castità cadono ultimamente sotto il voto dell'obbedienza ( « quia votum oboedientiae con-tinet sub se alia vota », ibid., a 8c ), e la forma dell'obbedienza diventa quella forma generale di offerta che rende ogni comandamento, ogni consiglio, ogni singolo atto di offerta un'espressione di totale offerta d'amore, e conferisce così ad ogni azione limitata l'illimitatezza dell'amore divino: « Ea enim, quae ( … ) agunt, ad illam radicem referuntur, qua totam vitam suam Deo devoverunt; unde non est pensandum quid faciant, sed magis, quod ad quaelibet facienda se devoverunt, et sic quodammodo compa-rantur ad eos, qui aliquod singulare bonum opus faciunt, sicut infinitum ad finitum. Qui enim dat se alicui ad faciendum omnia quae iubet, in infinitum magis se dat ei quam ille qui dat se ei ad aliquod opus faciendum » ( Quodl. 3 17 ad 6 ). Se Tommaso riferisce questo anche ai voti religiosi compiuti esteriormente, niente impedisce di estendere il passo citato al voto qui inteso in senso più generale contenuto come intenzione nell'amore perfetto, e di sottolineare la distinzione dell'obbedienza e correlativamente anche dei voti in essa contenuti della povertà e della castità rispetto agli altri possibili consigli ( Ratschlagen ) per tendere alla perfezione. Più tardi mostreremo come lo spirito di povertà, castità e obbedienza si incarni in singole forme di stato di vita: cioè nello stato religioso, nello stato sacerdotale, che col sacramento dell'Ordine acquista la sua irrevocabilità, nello stato matrimoniale, che riceve la stessa irrevocabilità col sacramento del matrimonio, o infine nello stato cristiano in generale indifferenziato. Essenziale è qui solo il riconoscere che la vocazione all'amore perfetto come totale offerta di tutto ciò che è proprio a Dio e, per amor di Dio, al prossimo contiene un'intima relazione sia alla forma che al contenuto del voto. Da ciò risulta la conseguenza pratica che è di massima importanza per la tensione all'amore: nel perseguimento del fine ci si deve attenere al filo conduttore dell'idea dell'offerta. Non è né utile né consigliabile per quanto riguarda questa tensione attenersi a tutte le pie istruzioni escogitate, le pratiche e le devozioni, per costruire a partire da ciò, come da tante piccole pietruzze di un mosaico, un quadro d'insieme della perfezione cristiana, anche quando queste istruzioni sembrano avere un carattere ampiamente più « positivo », immediatamente pratico, al confronto con l'idea apparentemente negativa dell'offerta, della perdita, del sacrificio. Tutte queste presunte « positive » ascesi e direttive per lo stato di vita porteranno sempre in sé il carattere di una certa superficialità e scipitezza, di un arbitrio nella scelta e nella prospettiva, di un incatenamento al gusto personale e alla moda del tempo, mentre l'indicazione evangelica e tradizionale circa il perfetto amore si lascia guidare in tutto intorno all'asse dell'offerta di sé, che solo a colui che non ama appare dura e negativa, mentre a colui che ama appare come la quintessenza del valore che è degno di esser ricercato. L'amore si rapporta così ai triplici voti in maniera triplice: nella misura in cui i voti - espressi formalmente oppure esistenzialmente - sono di aiuto all'amore ancora imperfetto a sgombrare la strada dagli ostacoli verso l'amore perfetto, essi appaiono come un mezzo per il fine che è l'amore che li trascende. Nella misura in cui però l'amore stesso è essenzialmente offerta, possiede tanto formalmente quanto materialmente carattere di voto, contiene in sé contenutisticamente come formalmente i voti come sua essenza e come espressione sempre nuova di essa. Nella misura in cui l'amore come offerta è nello stesso tempo indifferenza nei confronti della volontà di Dio, rimane pronto nel suo generale carattere di voto a lasciarsi realizzare in questa o quella concreta forma di vita e stato ecclesiale, a seconda di quella che è la volontà di Dio. Esso contiene dunque potenzialmente, anche se è realmente perfetto, la prontezza ai voti formalmente espressi, senza però anticiparli a partire da sé. Fino al riconoscimento della volontà di Dio « io voglio impiegare la sua meticolosità per abbandonare tutto ciò che è secondo l'inclinazione, ponendo la sua energia nel non tendere a nessuna cosa determinata tranne che quando la muove unicamente il servizio di nostro Signore, in modo tale che il desiderio di poter servire meglio Dio nostro Signore spinga ad accettare oppure ad abbandonare la cosa suddetta » ( Ignazio, Eserc, Nr 155 ). Per trovare ora il passaggio ad una concreta dottrina degli stati di vita, l'intera riflessione deve venir condotta dall'attuale astrattezza, che in fondo non offriva altro che un'analisi immanente dell'essenza dell'amore, ad una più pregnante e concreta visione dell'uomo così come è stato da Dio pensato, creato e dotato: non in un'identità dell'essere con lui, ma bensì in una analogia che si mantiene sino in fondo. Solo così il concetto di stato di vita può ottenere l'evidente pienezza di una concreta forma di vita in cui l'uomo è stato posto da Dio. Poiché l'uomo non viene più posto come un ente senza contorni delimitati, non viene più collocato nell'esistenza unicamente con la determinazione dell'amore infinito e per così dire senza forma. Egli viene creato, proprio per poter adempiere realmente questa vocazione all'amore, in quella interna ed esterna costituzione di chiara conformazione ed evidenza che noi chiamiamo stato originario ( Ur-Stand ). B. Dallo stato originario allo stato finale 1. Creazione e servizio Per sapere dove l'uomo ha da stare e dove ottiene stabilità ( Stand ), ci si deve chiedere dove Dio lo ha collocato. Nascondi « Dio disse: facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza ( … ) così Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò » ( Gen 1,26-27 ). « Allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente » ( Gen 2,7 ). « Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse » ( Gen 2,15 ). Così l'uomo è immagine e somiglianza di Dio; secondo la materia della sua origine però egli è polvere e terra. Secondo la sua destinazione egli è ciò che v'è di più alto, di più vicino a Dio; secondo la sua provenienza è ciò che v'è di più basso. Ciò che giace dietro di lui, la polvere da cui proviene, resta per lui perpetuo ammonimento a non scambiare immagine originaria ( Urbild ) e copia ( Abbila ), ma la copia che egli è lo invita ad orientarsi sempre secondo l'immagine originaria che è la misura del suo essere. Così il suo primo stato è una doppia distanza: da Dio e dal nulla. Poiché egli origina dal nulla, nella sua pur così grande somiglianza con l'immagine originaria mantiene sempre l'ineliminabile e ancor più grande dissomiglianza rispetto a Dio. Non può diventare più simile a Dio dimenticandosi vieppiù della sua provenienza per assumere sempre più il modo d'essere di Dio; egli adempie invece la sua destinazione nella misura in cui tende ad essere immagine e somiglianza restando nella distanza. Se ha l'umiltà di non dimenticare o rinnegare per alcun istante il suo non esser Dio, la sua provenienza dal nulla, otterrà il massimo della sua somiglianza con Dio. Ogni tendere all'identità di immagine originaria e copia significherebbe la sua subitanea distruzione. La grazia che lo ha posto nell'esistenza gli ha contemporaneamente donato, in forza della distanza dall'immagine originaria che è il Creatore, la grazia della somiglianza. Proprio perché egli non è Dio, ma prende le distanze da Dio come qualcosa di sempre altro, può partecipare all'autonomia, unicità, personalità e libertà del Creatore. Se uno specchio volesse avvicinarsi a ciò che rispecchia sino al punto di coincidere con esso, l'immagine nello specchio verrebbe eliminata. E se due amanti volessero tentare di possedersi l'un l'altro al punto da fondersi l'un con l'altro, l'amore verrebbe, se ciò fosse possibile, annientato. L'amante, per poter mettere in atto il movimento dell'amore, abbisogna della non rimuovibile stabilità ( Stand ) del suo proprio essere. In base a questo mistero, che cioè proprio la distanza creaturale da Dio è quella condizione in cui la creatura può maggiormente avvicinarsi a Dio, la vocazione dell'uomo all'amore acquista un nuovo volto. Egli è chiamato ad esso, ma in modo tale che con ciò egli adempie perfettamente la sua condizione di creatura. Non solo egli può, ma egli deve tendere al massimo dell'amore; ma questo massimo coinciderà con la più alta realizzazione della verità del suo stato di creatura. Ciò però significa che il suo amore deve possedere la forma interna della dipendenza e della sottomissione, dev'essere una cosa sola con la glorificazione dell'eterna immagine originaria nella forma di un servizio pieno di riverenza ( Ehr-furcht ). « Immagine e somiglianza » non significa dunque per la creatura il compito di un'illusoria imitazione del modello ( Vorbild ) che è Dio ( in modo che un osservatore sarebbe tentato di scambiare l'uno con l'altro ), ma « immagine e somiglianza » significa invece sottolineatura della distanza, affinché diventando essa ben visibile si evidenzi tanto maggiormente anche l'inconfondibilità e unicità dell'immagine originaria. La ricezione dei tratti di somiglianza con Dio nella creatura presuppone che questa si distingua sempre più umilmente da Lui, per far spazio in sé all'accoglimento dei raggi divini. Questo atteggiamento non significa affatto annullamento dell'io autonomo-simile annullamento starebbe soltanto di nuovo segretamente a servizio di un farsi uguali a Dio, di una fusione mistica, ma assunzione della somiglianza nell'espressa distanza della riverenza e del servizio; non tende a cancellare una volontà propria, personale, ma ad assumere la volontà divina nella volontà propria con la chiara coscienza che in tal modo la volontà del signore viene accolta nella volontà del servo e da lui realizzata. In questa forma di servizio il dono dell'amore viene consegnato da Dio alla creatura. Se essa fa ciò che deve ( amare Dio e il prossimo ), allora adempie la sua vocazione, adempiendo la volontà di Dio e non la propria. Il suo amore, che venga prestato volentieri o no, con fatica o in maniera facile, è in ogni caso un servizio e in questo senso un « obbligo » ( « debitum », S Th II II q 44 a 1 ) che la creatura ha assunto da Dio nel momento in cui ha assunto da Lui la propria essenza. Se qui si parla di « obbligo » è solo nel senso che l'amore della creatura intimamente ha questa forma e destinazione. Poiché Dio è il Signore, la cui parola, in qualunque modo possa risuonare, è necessariamente comando, l'esecuzione di essa è per il servo a cui è rivolta un obbligo. Il carattere di obbligo non esprime nient'altro che il rapporto tra creatore e creatura, l'analogia entis naturale. Tutto l'amore che la creatura deve prestare al creatore e per suo volere anche alle altre creature, quell'amore con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze, quell'amore dunque che è il massimo dono di Dio alla sua creatura e che può da questa venir sperimentato solo come un potere, un avere il permesso, quest'amore ha, in base all'infinita distanza fra Dio e creatura, il carattere del dovere ( Sollen ). Questa necessità, che si esprime nel carattere di comando, non ha niente a che fare, come già abbiamo verificato, con quel carattere di obbligo come costrizione, quale fu descritta come prodotto dell'allontanamento dal nucleo incandescente dell'amore. Allora il concetto di obbligo veniva circoscritto nei confronti di quello di poter fare, aver il permesso; era un prodotto di scarto dell'amore raffreddato. L'amore vivo non domandava a cosa era obbligato per non peccare e quali azioni e manifestazioni d'amore avrebbe anche potuto tralasciare senza venir punito. Esso conosceva solo l'unico movimento dell'offerta completa di tutte le energie del cuore e della mente nel servizio dell'amore. E solo l'amore toccato dal peccato e ammalatesi giungeva all'idea priva d'amore di distinguere ciò a cui poteva ( ex iustitia ) venir costretto e ciò che poteva forse ancora prestare volontariamente ( ex caritate). Se invece il concetto di « obbligo » viene a introdursi nella relazione d'amore sulla base della distanza creaturale, allora ciò avviene solo in modo tale che l'intero amore indiviso assume per la creatura il carattere di una glorificazione di Dio nel servizio necessariamente collegato all'essenza della creatura stessa. La creatura, qualunque cosa essa possa di per sé essere, è presa e collocata a servizio dell'amore, e questo fonda il suo stato originario. Nascondi Lo stato dell'uomo, il luogo in cui Dio lo pone, è apparentemente dapprima distinguibile da lui stesso, nella misura in cui egli è una « natura »: Dio ha dapprima formato l'uomo come ente vivente, per poi collocarlo nel giardino dell'Eden che aveva preparato per lui ( Gen 2,7-8 ). « Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse » ( Gen 2,15 ). Ma questa prima collocazione e questo cambiamento del suo posto, questa prima distinzione tra essenza ( naturale ) e vocazione ( per grazia ) scompare immediatamente, giacché solo con questa vocazione viene per così dire insufflata all'uomo la sua anima più intima, il senso definitivo della sua esistenza. Se si vuole comprendere la sua essenza bisogna in primo luogo non tanto guardare all'indietro verso la sua provenienza, il suo esser stato formato dalla polvere della terra, quanto piuttosto in avanti, al suo destino di essere immagine e somiglianza di Dio. Ciò che egli può essere per natura si rapporta al suo essenziale destino così come la complicata anatomia di un occhio si rapporta al semplice atto del vedere. L'atto del vedere si serve di infinitamente complessi procedimenti fisici, chimici e fisiologici, senza che questi però siano degni di salire alla sua coscienza; egli si serve di essi per poter eseguire ciò che è necessario, il semplice, chiaro, trasparente atto del vedere. Tutti quei procedimenti non hanno altro senso esistenziale che quello di servire a rendere possibile la vista, la quale senza di essi non avverrebbe, ma che non è in nessun modo deducibile da essi né rappresenta la somma delle loro parti. Non diversamente si comportano nella creatura la sua natura ( corpo e anima ) e la sua vocazione: l'amore. La creatura non è essa stessa l'amore, poiché « Dio è l'amore ». Essa è una natura che sta a servizio dell'amore. Questa natura viene allora interpretata giustamente nel suo senso inteso da Dio solo quando la si comprende e la si interpreta come uno strumento dell'amore. In se stessa essa può essere un'opera meravigliosa di organi appartenenti al corpo e all'anima, di rapporti, di sentieri e di fili, il cui complesso intrico può certo far stupire, come un profano resterebbe ammirato davanti ad una centrale telefonica, ma il cui senso rimane incomprensibile finché non si presta attenzione alla sua vocazione ( Bestimmung ). Nel caso di qualsiasi altro servizio nel mondo resta la possibilità di distinguere fra l'essere occupati nel servizio del padrone e la restante sfera privata della propria libertà. Il servizio non riempie ogni minuto di colui che presta la sua opera di servizio e non assorbe le sue emozioni più interne, i sentimenti, le idee. Tuttavia anche nel caso di un vero servizio umano è già evidente che il valore, anzi il senso di una vita può essere misurato secondo la funzione che esegue. Il grande artista è come uomo solo lo strumento della sua arte; la sua natura è come una miniera che lascia che si utilizzi la materia preziosa che essa contiene, e che ha tanto più valore quanto più è in grado di fornire il prodotto ricercato. Dei rifiuti che rimangono dopo che si è scavato, della fatica, delle privazioni, delle lacrime, di tutta la tragicità delle fatalità esterne, dell'inadeguatezza di questa vita da artista all'ambiente nessuno si cura. Ci sono anche quei servitori nelle antiche famiglie che sono cresciuti in esse insieme ai loro figli e che per così dire fanno parte della casa, e ciò che essi sono si è a poco a poco identificato con la loro funzione mentre la loro anima ha forse trovato proprio così la sua chiarificazione ultima. Ma questi esempi umani rimangono insufficienti, poiché il servizio terreno non può mai riempire ed assorbire fino alle ultime pieghe dell'anima. Ciò che qui non è raggiungibile corrisponde proprio all'esigenza essenziale del servizio all'amore divino. Ciò che l'uomo è al di fuori di questa funzione, il cui adempimento lo fa essere ciò che egli è, non viene affatto chiesto. Tutti gli enti vengono ultimamente interpretati secondo il loro fine e il loro destino, e nel caso dell'uomo questo destino non è altro che l'amore. Il resto è mezzo, esso solo è scopo. Ma poiché l'uomo non è egli stesso l'amore, poiché questo destino gli è dato da Dio come una grazia che fa dirigere tutta la sua natura, come un magnete, al di là di sé verso un fine ultimo, per questo la destinazione all'amore acquista per l'uomo la forma di un servizio. Egli può prestarlo, e niente nobilita il servo così tanto come un tale servizio. Egli è libero di prestarlo, poiché niente libera così profondamente come l'amore. Ma egli non può mai intendere se stesso nella sua natura umana come identico col suo destino: per questo il suo amore rimane un servizio. Ed è questo che è alla base del concetto di stato di vita. Stato deriva dal verbo stare e significa all'interno del mondo il perdurante esser posto di un ente in una determinata situazione corporale o spirituale. All'interno della vita civile lo stato si fonda su una durevole « obbligazione della persona, a seconda che un uomo possa determinare se stesso oppure no; ( … ) perciò gli stati si distinguono secondo l'angolo visuale di libertà e servitù » ( S Th II II q 183 a le ).2 Nascondi Ciò che nella vita civile si esprime sulla base di un durevole esser posto in una di queste due forme di vita ha la sua prima, più profonda, comune radice nell'essere posto da Dio al servizio dell'amore, che è per lui tanto un'esigenza quanto una liberazione: « Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna » ( Rm 6,22 ). Grazia e missione Il servizio alla sua vocazione imposta originariamente da Dio, di amare Dio e il prossimo, fonda lo stato umano come sfato della grazia tout court, in cui l'uomo è stato da Dio posto e deve rimanere. Di fronte a questo stato generalmente umano c'è lo stato personale dell'uomo singolo, la posizione inconfondibile che determina la sua esistenza, in cui Dio lo ha posto e che da alla sua vita il vero contenuto, anzi la sua stessa giustificazione. Questa posizione viene determinata dalla grazia della missione personale. Già il generale stato dell'uomo è conferimento di grazia da parte di Dio; non solo un regalo, anche se inaudito, che l'uomo riceve passivamente, ma un sostegno rappresentato da un compito da eseguire, una trasmissione di poteri dall'archetipo ( Urbild ) alla copia ( Abbild ), un incarico che questi deve eseguire nell'autonomia della sua distanza dall'archetipo e per il quale è stato provvisto dei necessari mezzi e poteri. Questa dimensione attiva della sua destinazione toglie all'uomo la sensazione di esser sempre solamente colui che riceve il dono, e lo abilita ad una corrispondente coscienza del proprio stato. Così la grazia si rivela realmente come grazia. Se essa fosse solo l'unilaterale dimostrazione di benevolenza di un re nei confronti di un mendicante sarebbero sempre in luce solamente il re e i suoi beni, mentre il mendicante sarebbe importante solo come colui che viene illuminato, ma in sé sarebbe soltanto un oggetto indifferente. Solo allorché la grazia colpisce intimamente colui che la riceve e lo rinnova, lo innalza e lo nobilita in modo tale che egli diventa realmente colui a cui la grazia lo destina, cioè uno che è stato dotato di proprietà e qualità speciali tipiche della libertà autentica, della nobiltà autentica e dell'autentico sostegno che viene da una funzione regale, solo allora colui che è stato così innalzato diventa capace sulla base di questa grazia di adempiere alla sua nuova posizione con la dignità e la naturalezza richieste, senza venir continuamente trattenuto e ricacciato indietro dal pensiero della sua provenienza, dell'abisso che lo separa dall'altezza del suo ministero, solo allora la grazia ha portato a termine la sua opera e adempiuto se stessa. Visto dal punto di vista di colui che elargisce la grazia, è come se la grazia si svincolasse da lui per passare in colui che la riceve. Colui che dona la grazia non crede affatto di dover constatare che tutti quanti scruteranno subito in colui che ha ricevuto la grazia i contrassegni di un puro e semplice aver ricevuto una grazia per dare onore alla verità, subito tracceranno la linea di separazione tra natura e grazia. Il donatore ha piuttosto il desiderio che il ricevente si muova nel regalo che gli fu elargito in maniera talmente naturale come se in esso risiedesse la sua vera essenza. Se egli adotta un forestiero come figlio, egli vuole che questi si senta veramente tale, che dimentichi e non guardi più alla distinzione tra sé e il figlio nato in casa. Certo il ricevente si comporterà viceversa. Malgrado ogni naturalezza che gli è permessa e donata egli non dimenticherà mai che tutto ciò che egli è ( e lo è realmente ) lo può essere per grazia. Quanto più alto è il rango a cui egli è stato elevato, tanto meno egli si scambierà per colui che lo ha posto in tale rango. Se guardasse solamente a se stesso andrebbe a finire presumibilmente in una situazione psicologica inestricabile: oscillerebbe tra una disinvoltura assunta per far piacere al donatore e un imbarazzo radicato nella sua propria essenza, e questa situazione potrebbe crescere fino ad una sorta di spaccatura della coscienza e di tutta la sua struttura vitale, una metà della quale sarebbe quella di un servo, mentre l'altra sarebbe quella di un uomo libero. E così angustiato potrebbe facilmente giungere a sentir salire dentro di sé una specie di risentimento nei confronti di colui che gli ha donato la grazia ponendolo in questa situazione di impaccio. Tutto questo cambia, però, appena la grazia assume internamente la figura della missione personale. Adesso essa non si posa più sul ricevente soltanto come un magnifico vestito che lascia sotto di sé continuare ad esserci tutta la povertà di mendicante della sua essenza e della sua origine. Essa gli porta un compito, un campo d'attività e allo stesso tempo una gioia di svolgere questo compito, cosicché egli può identificarsi con esso e in esso vedere il nuovo e autentico senso della sua esistenza. Essa gli dona un punto centrale che come un magnete polarizza tutte le energie della sua natura in direzione di una figura chiara ed eretta, che non si lascia aggiungere come un corpo estraneo alle grandezze già enumerate o le importuna come un peso oppressivo, ma richiede invece queste energie come operai disoccupati vengono assunti per un compito che attira e che remunera bene. Questa è la forza della grazia della missione. Chi l'ha compresa, osa porre a suo servizio tutto ciò che trova in sé. Egli comprende che all'infuori di questo centro che gli è stato donato non ha alcun altro centro proprio; comprende che senza questa missione le sue energie diverrebbero infruttuose e inutili, mentre considerate alla luce della missione potrebbero tutte venir rese utili. Poiché la missione non è generale e impersonale come un vestito confezionato, essa è stata pensata proprio per lui e adattata a lui come il regalo più personale. Grazie ad essa soltanto l'uomo diviene persona in senso pieno. Il fine ultimo dell'uomo fu da sempre un fine soprannaturale e da sempre egli fu destinato a pervenire al suo adeguato sviluppo in questa dimensione che si trova al di là della sua natura. Mai dunque si può dedurre la sua vera destinazione partendo semplicemente dalle disposizioni naturali e dai tratti del carattere di una natura umana. L'amore perfetto a Dio e al prossimo, che è il contenuto del comandamento principale, non è una vocazione che si scopre o addirittura si adempie a partire dalle forze della natura. E neppure si può indovinare la personale volontà di Dio, che determina il senso della vita di un uomo, partendo da una qualche prefigurazione contenuta nelle predisposizioni umane. Potrebbe benissimo essere che due uomini con predisposizioni naturali del tutto simili siano stati predestinati per missioni completamente diverse: l'uno per l'azione nel mondo, l'altro per la contemplazione nel convento; oppure l'uno per il pieno dispiegamento delle sue energie naturali nel servizio di Dio, l'altro invece per il sacrificio di queste nel medesimo servizio. Su che cosa deve essere delle forze di una natura umana decide esclusivamente la missione che Dio le conferisce e che ultimamente proviene sempre immediatamente da Lui. Come Egli ha impresso in ogni uomo la destinazione all'amore e gli ha donato per grazia il fine e le forze per raggiungerlo, così ha collocato ogni singolo uomo nel suo stato, che è il luogo e la forma in cui egli deve tendere al suo destino. Ogni vita ottiene così un centro eccentrico. Attorno ad esso ognuno deve ordinare le sue forze naturali e renderle disponibili in ordine ad esso. Questa sarà la forma concreta in cui egli esegue la sua vocazione all'amore, e questa esecuzione sarà il suo servizio. L'uomo non ha assolutamente alcun punto di paragone a partire dal quale poter rischiarare il carattere paradossale della sua posizione originaria. Mai egli può scindere l'analogia del suo essere nei confronti di Dio in una parziale identità e parziale alterità. Da una parte egli, che ha ricevuto doni in sovrabbondanza, è in tutto una creatura. Non può considerarsi divino per la grazia ricevuta e chiamare invece creaturale la propria natura. E neppure egli può chiamare divina la sua missione ( che lo rende persona ) e creaturale invece il suo esser soggetto spirituale ( Geistsubjektsein ). Egli non può chiamare divina l'anima che Dio gli ha insufflato col proprio alito e creaturale invece il suo corpo fatto dalla polvere della terra. Come un tutto, anche con tutti i suoi doni così intimi che provengono dai tesori di Dio, come un tutto egli è costituito creatura di Dio, che deve ultimamente con la propria volontà adempiere la volontà di Dio. Egli non può dire a se stesso per consolazione che egli così compie solamente quel bene assoluto che ogni essere dotato di ragione deve di per sé mirare a conseguire, che perciò la sua « eteronomia » coincide con la sua « autonomia », che il suo riverente servizio con cui onora Dio è ultimamente solo l'esecuzione della sua autodeterminazione. Egli lascerebbe in tal modo coincidere la propria libertà con la libertà di Dio, non avrebbe più bisogno di tendere l'orecchio ad alcuna parola che provenga dalla profondità di Dio, per trovare la strada della sua autorealizzazione, anzi egli non avrebbe più ( una volta fatto equivalere l'amore assegnategli come compito con la sua propria inclinazione spontanea ad amare ) alcun oggetto d'amore che se stesso. Ma se egli ha compreso che, come dice Agostino, deve chiamarsi servo anche quando Dio lo chiama amico ( come Maria si chiama serva allorché ottiene l'attribuzione della dignità di una regina ), può e deve anche riconoscere che la parola che Dio gli rivolge ha decisamente ragione, anzi è la verità stessa. Nella coscienza della sua creaturale distanza di copia ( Bild ) dalla sua immagine archetipica ( Urbild ) l'uomo creato e dotato della grazia ha più che mai l'incontrovertibile e sconvolgente certezza della sua vicinanza a Dio. Dove questa vicinanza stia non lo sa però da se stesso, ma gli deve venir spiegato da Dio. Se egli non può trovare la sua perfezione in se stesso, ma nell'esecuzione della sua missione, se egli in quanto copia e somiglianza non può volgere lo sguardo via dall'immagine archetipa ma deve imitare fedelmente, non solo in generale ma sempre e sin nel più piccolo, ogni tratto che da Dio gli viene mostrato, egli ottiene allora proprio in ciò, senza poterlo intuire da sé, partecipazione al più intimo mistero dell'amore. Il carattere di servizio dell'amore, che prima ci era apparso come il suo distintivo contrassegno creaturale, si rivela come così essenziale all'amore da esser proprio anche dell'amore assoluto divino. Il rapporto tra modello e copia creaturale, che appariva come rapporto tra padrone e servo, diventa improvvisamente immagine derivata ( Abbild ) di un rapporto intradivino: il rapporto tra Padre e Figlio. Il Figlio proviene dal Padre, e viene da lui mandato nel mondo. Egli, che come persona è la copia ( Abbild ) uguale per essenza della patema immagine originaria ( Urtiild ), non conosce altro contenuto del proprio essere che quello di corrispondere in tutto al pensiero e alla volontà del Padre. L'amore del Figlio non è meno divino, meno assoluto di quello del Padre, e tuttavia ha internamente la forma della missione, del servizio, della « obbedienza ». Egli non è inferiore al Padre, ma la sua eterna gioia consiste nel vedere nel Padre colui che è sempre più grande. Egli non è meno libero del Padre, ma la forma della sua libertà consiste nell'esclusione di ogni altro volere che quello del Padre. L'essenza del Figlio come seconda persona divina è identica con la sua processione e la sua missione dal Padre, e mentre il Figlio afferra questa missione come sua propria e si eguaglia ad essa, la riconduce al Padre a sua eterna glorificazione. Questa divina « obbedienza » del Figlio è la sua massima libertà nell'amore, questa « povertà » del Figlio rispetto a ogni altra destinazione all'infuori di quella che il Padre gli da è la sua eterna ricchezza, e questa « purezza » del Figlio ed esclusività dell'amore con cui si è consacrato al Padre è la sua eterna fecondità. Così libero, così ricco e così fecondo è il suo amore, che il reciproco volgersi del Padre al Figlio produce la persona dello Spirito Santo, l'espressione, il sigillo, la testimonianza e l'infinito traboccante superamento del loro indivisibile amore. Davanti all'abisso di questo divino mistero d'amore ammutolisce ogni pensiero segreto dell'uomo che si sentiva forse danneggiato nella sua libertà dal fatto di esser creatura. A chi appare duro dover « sempre servire », dover eguagliare il senso e lo scopo della sua esistenza alla missione conferitagli da Dio, non poter avere mai altra volontà che quella tracciata nella missione, costui guardi all'eterno Figlio. Là imparerà che nome porta questo movimento estatico di uscita da sé per entrare nella missione ricevuta da Dio: il nome del più libero ( perché più assoluto ) amore. Là imparerà perciò anche a comprendere che l'estasi non è una condizione privata, concessa per il proprio piacere, nella quale l'estatico ha esperienze che non toccano nessuno all'infuori di lui stesso, ma che questo stare fuori di sé porta il nome di obbedienza, un'obbedienza in cui colui che serve vuol trovare il suo piacere definitivo in nient'altro che nell'adempimento del volere di colui che lo ha mandato. Il Figlio non si distingue dalla sua missione; in nessun momento si toglie dallo stato in cui il Padre lo ha posto per considerare se stesso in un impossibile « in sé » e inserire poi di nuovo nello stato della missione ciò che egli ha osservato e soppesato nel suo proprio valore. Il Figlio si fonda solo nel suo eseguire, approvare ed esser debitore del volere del Padre che lo invia, e conosce se stesso solo come ciò che serve al Padre per glorificare la sua origine. Di per sé egli è solamente materiale per questa glorificazione. Naturalmente l'impiego del concetto di obbedienza in riferimento alla persona divina significa un trasferimento, un antropomorfismo. Nascondi Ma in fin dei conti ogni discorso umano su Dio è antropomorfo, e questo modo di parlare è stato innalzato grazie alla forma umana assunta dal Figlio ( Fil 2,7 ) a modo di parlare definitivo e insuperabile. In questo impiego è da escludere dal concetto di obbedienza tutto ciò che ha origine dal rapporto fra Dio e creatura, nella misura in cui la creatura viene considerata come tale, vale a dire come proveniente dal nulla; è invece da mantenere e da elevare all'infinito ( nel senso della via eminentiæ ) tutto ciò che è in vigore nell'analogia tra Dio e creatura, considerata questa in quanto positiva immagine ( Abbild ) di Dio, anzi più precisamente: della Trinità. L'obbedienza che il Figlio di Dio vive per noi nella sua natura umana non è affatto fondata solo su questa natura umana come tale e pensata come esempio per noi creature, ma è invece, come ognuna delle sue espressioni, non solo portata dalla sua persona divina, ma è anche davvero una rivelazione della sua persona divina tradotta in linguaggio umano, e così è anche una rivelazione della sua stessa persona divina. Nascondi Proprio questo atteggiamento filiale che in tutto tiene lo sguardo al Padre e in tutto vuoi essere soltanto la rappresentazione e lo splendore ( Eb 1,3 ) dell'essenza del Padre è la maniera in cui il Figlio rende a noi comprensibile la sua identità col Padre, la maniera perciò in cui egli diviene per noi « interpretazione » dell'eterno amore del Padre stesso ( Gv 1,18 ). Se l'unico, indivisibile amore di Dio assume nella persona del Figlio la sua coloritura filiale dell'obbedienza, non è tuttavia che questa sia da pensare come tale subordinata al Padre ( alla maniera dell'eresia subordinazionista ). Non è nient'altro che l'eterna « espressione » ( karaktér, Eb 1,3 ) del perfetto altruismo e dedizione dell'amore paterno che spinge il Padre a non tenere per sé tutta la sua essenza divina, ma a donarla invece sovrabbondantemente al Figlio. Amore nel modo della missione generata è espressione dell'amore nel modo della missione attivamente generante. Questo reciproco rapporto della missione diventa nella terza persona divina, lo Spirito Santo, conclusiva e piena unità d'amore, in cui lo Spirito nella sua inconfondibile personalità unisce allo stesso tempo tratti del Padre e del Figlio, dai quali egli viene spirato. Egli è la dedizione, altruismo e missione personificata, la pura trasparenza fluente, l'amore come servizio all'amore di Padre e Figlio. Quando perciò il Figlio rivela il suo amore al Padre nel modo tradotto dell'obbedienza, questa rivelazione è una rivelazione dell'intero amore trinitario. Nascondi D'altra parte è comprensibile che il mondo fu creato proprio secondo il modello del Figlio: che « tutto fu fatto per lui e in vista di lui », che egli « è prima di tutte le cose e tutte le cose sussistono in lui » ( Col 1,16-17 ) poiché proprio il modo filiale dell'amore eterno di Dio era il più appropriato ad essere esemplare per il giusto rapporto tra Dio e creatura. « Dio volle che la comunicazione interna della sua natura e della sua essenza nella loro infinitezza uscisse anche all'esterno e si continuasse; ( … ) così estese il rapporto interno alla natura divina, nel quale egli sta nei confronti del Figlio, anche ad un uomo, generando il suo Figlio non solo all'interno di sé, ma anche all'esterno, in una natura umana creata ( … ) Se non ci fosse in Dio stesso alcuna interna comunicazione e glorificazione infinita, verrebbe a mancare la condizione base per l'incarnazione di una persona divina, non solo perché allora ci sarebbe anche in Dio una sola persona, ma principalmente perché così l'idea di una infinita comunicazione e glorificazione di Dio nel suo interno non troverebbe alcuna radice, alcun punto di collegamento ». Così però « l'Incarnazione non appare come un evento straordinario, ma come lo sbocciare di una radice contenuta nel processo trinitario, come il dispiegamento di un nucleo che giace in esso » ( Scheeben, Mysterien (2) 1941, pp. 296-7 ). Soltanto volgendo lo sguardo a questo amore del Figlio l'uomo comprende la sua vocazione: conoscere e guardare se stesso sotto nessun altro punto di vista che quello della missione, e così trovare nel perfetto servizio il perfetto adempimento di sé, l'eterna beatitudine, poiché per lui non c'è nessuna gioia tranne l'amore, e l'amore ha per lui la forma del servizio, o anche: perché per lui non c'è nessun'altra gioia che l'esecuzione del suo servizio, il quale consiste per lui - oh miracolo! - in nient'altro che nella vocazione all'amore. In questa grazia originaria comunicata all'uomo sin da principio, nella quale egli fu creato e nella quale egli ottiene parte al mistero intradivino dell'amore trinitario, egli viene anche sostenuto dal doppio dono dell'azione e della contemplazione. Esse appartengono l'una all'altra così intimamente come l'inspirare e l'espirare, come la sistole e la diastole. L'azione è la missione in quanto la grazia di Dio è sempre il conferimento di un'attività e di un compito da portare a termine autonomamente. In ciò Dio attira l'uomo nella sua fiducia e gli svela e tramanda una parte dei piani divini, in modo tale che egli può assumere sulle proprie forze e sulla propria creatività la realizzazione di questa parte. La contemplazione è la medesima missione in quanto l'uomo può comprendere ed eseguire questo incarico solo attenendosi strettamente, grato per la fiducia dimostratagli da Dio, ai pensieri di Dio, senza intraprendere alcuna azione indipendente dal volere di Dio e magari ostacolante i Suoi piani, ma cercando invece di cogliere ed eseguire in tutto la volontà divina, senza volgere mai lo sguardo lontano da Dio. Così il Padre ha trasmesso al Figlio tutto il potere, tutto il giudizio, ma il Figlio riceve questo potere non altrimenti che orientandosi sempre più strettamente secondo il volere del Padre. « Il Figlio da sé non può far nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa. Nascondi Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati » ( Gv 5,19-20 ). Il loro rapporto è da una parte azione, poiché ciascuno dei due opera: « Mio Padre opera sempre, e anch'io opero » ( Gv 5,17 ). Ma quest'azione si svolge in un vicendevole rapporto di mostrare e vedere, nella contemplazione in cui il Padre si rivela sempre di nuovo al Figlio e il Figlio si dona e si apre sempre di nuovo alla rivelazione del Padre. E anche se fra questi due aspetti c'è qualcosa come un ritmo di vita, essi non mutano tuttavia come fasi alterne che si cancellano a vicenda; il Figlio non guarda per un momento al Padre per poi di nuovo allontanarsi da lui e convenire da sé in azione ciò che ha visto. Operando egli guarda invece continuamente verso il Padre, per non lasciarsi sfuggire nemmeno per un momento la sua indicazione, e guardando non sprofonda nell'inoperosità, ma intende la sua visione come servizio e missione, al punto tale che tutto ciò che il Padre gli mostra lo volge in azione e realtà effettiva. In questo ritmo è posto anche l'uomo, il che non significa altro che il fatto che il suo stato originario è uno stato di preghiera. Nell'originario movimento estatico della sua natura verso la missione di Dio egli è posto in quel movimento che lo apre a Dio da capo a piedi. Egli riconosce in questo atto sia la sua creaturalità, che deve servire Dio e glorificarlo, sia l'infinita signoria di Dio, che ha il diritto di porre lui che è creatura in questo stato e in questa missione. L'atto dell'afferrare la propria missione è perciò originariamente un atto di adorazione e di ringraziamento con cui l'uomo ha posto ai piedi di Dio tutto ciò che Egli gli donò come proprio, per riottenerlo da Lui nella forma che a Lui piace: quella della Sua volontà come missione. Questo atto di riconoscimento della sovranità di Dio sta alla radice di azione e contemplazione, e contiene in sé la volontà di praticarle entrambe. Entrambe nella loro inseparabilità: essere autonomo per obbedienza e non voler essere autonomo altrimenti che nell'obbedienza. È indubitabile che una decisione simile è sensata e attuabile solo nell'amore, ma l'uomo è fatto proprio dall'amore e perciò per l'amore. Se egli afferra la sua missione prega sempre, che si trovi nell'azione o nella contemplazione. Se egli non afferra la sua missione, allora può intraprendere ciò che vuole e darsi ad infiniti esercizi di preghiera: egli sarà però in ogni caso completamente al di fuori del mondo della preghiera. Poiché la preghiera è vera solo laddove l'uomo esegue la sua missione. Nascondi « Non chiunque mi dice: Signore! Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli » ( Mt 7,21 ). Nel concetto di missione si incontrano tutti gli aspetti della creaturalità: la destinazione all'amore e la destinazione al servizio - e cioè in modo tale che l'amore si adempie nel servizio, e il servizio nell'amore -, la distanza da Dio e la vicinanza a Dio - e cioè in modo tale che la distanza della creaturalità trova la sua base e il suo compimento nella distanza dell'amore che il Figlio ha dal Padre, e la vicinanza si mostra nel fatto che essa è una vicinanza d'amore e quindi anche di riverenza e di servizio -, autonoma attività e contemplazione nell'offerta di sé - ma in modo tale che l'attività può essere tanto più autonoma quanto più la contemplazione è pronta a darsi e a ricevere, mentre questa a sua volta possiede la sua verità solo nell'assunzione dell'attività. Così è sufficiente il concetto di missione per esprimere la misura piena di ciò che l'uomo deve essere: l'adempimento della missione definisce il concetto di perfezione umana. Esso la può addirittura sostituire, poiché perfezione umana non è una grandezza che riposi in sé e sia finalizzata a sé, ma sta sempre a servizio della glorificazione dell'amore trinitario, che è l'unico scopo ultimo della creazione e a cui tutto, anche la perfezione e beatitudine delle creature, rimane ordinato. Questa discussione, che apparentemente conduce molto lontano, a proposito di servizio e missione era in realtà la via più rapida per giungere ad una concreta visione di ciò che significa « stato di vita » nelle sue più remote origini. L'essere collocati nella volontà di Dio è la realtà originaria che sta prima di tutto il resto, che lo condiziona e fonda. Al di fuori di questa realtà l'esistenza creata rimane solo un incomprensibile ammucchio di materiale senza senso e forma, senza scopo e struttura. Se si guarda alla volontà di Dio, che si esprime concretamente per ogni creatura nella sua missione personale, allora diviene piena di senso e coerente in sé come le lettere che compongono una frase. Se si cerca invece di dare un senso definitivamente coerente alle energie corporali e spirituali, ai destini e alle situazioni, prescindendo dalla missione, si brancolerà sempre nell'incerto, anzi ci si invilupperà sempre più in un inestricabile intrico, che diventerà tanto più impenetrabile quanto più lo si interpreta soltanto in direzione dell'uomo e a partire da lui, invece di guardare insieme con lui in direzione della sua missione divina. Se gli uomini interpretassero sin da principio la loro vita sotto il punto di vista della missione a gloria di Dio, non ci sarebbe alcun enigma o problema esistenziale, nessuna tensione o conflitto dell'anima, nessuna situazione senza via d'uscita. Poiché essi non sarebbero occupati con se stessi o con un mondo considerato per se stesso separatamente da Dio e dall'incarico ricevuto da Dio, ma guarderebbero piuttosto sempre via da sé verso la volontà di Dio, che si manifesta ad ognuno che la cerca e che contiene il senso ultimo di tutto ciò che esiste. L'uomo dell'Eden La linea di separazione che scorrerà attraverso la Chiesa e separerà lo stato di vita nel mondo dallo stato conforme ai consigli, ponendo perciò il cristiano - fondamentalmente ogni cristiano - di fronte alla scelta e alla decisione dello stato al quale Dio lo abbia destinato, questa linea di separazione non era prevista nella creazione originaria. Così come non lo era l'intero ordine visibile della Chiesa come un corpo speciale all'interno della restante umanità, delimitato nei confronti del « mondo » e ponente gli uomini sempre di continuo di fronte alla decisione prò o contro il cristianesimo; e così come nemmeno lo era perciò l'esistenza di uno speciale ordine di sacerdoti, incaricati del ministero della Parola e dei Sacramenti ( giacché anche una precisa parola di Rivelazione e Sacramenti nel nostro senso non erano previsti per l'umanità originaria ). Le linee di demarcazione che oggi delineano gli stati di vita cristiani sono collegati con lo stato della redenzione, che presuppone lo stato della caduta, del peccato. Esse non sarebbero state necessarie prima del peccato. Poiché ora però l'oggetto della nostra ricerca è la distinzione degli stati di vita cristiani, sarà importante disegnare il più chiaramente possibile l'origine di questa distinzione, per rendere comprensibile a partire da ciò la sua necessità e la sua odierna importanza. Partendo dallo stato originario come stato dell'uomo pensato, voluto e creato originariamente da Dio, deve poter venir dedotto e rischiarato alla fine quello stato posteriore che proviene esso pure da Dio. Gli stati posteriori, ognuno alla sua maniera, devono rispecchiare qualcosa di quell'idea che Dio volle sin dall'inizio realizzare con la creazione dell'uomo. Così deve anche in qualche modo esser possibile dagli stati odierni guardare indietro allo stato di Adamo, e determinare la vera posizione in cui Dio lo aveva posto, almeno a mo' di accenno, facendovi convergere come angoli visuali diversi gli odierni stati di vita. Chi si accinge a dire qualcosa sull'uomo dell'Eden deve però prima render conto di quanto, non solo temporalmente ma secondo la costituzione, quest'uomo originario sia lontano dall'uomo odierno. Egli è la sua origine e incorpora come tale l'idea dell'uomo, ma sarebbe sbagliato credere che noi possiamo giungere a scoprire quest'idea anche solo con un processo di avvicinamento ad essa. Alcune qualità particolari dell'uomo originario, che la Rivelazione ci indica quasi dappresso, aprono, se si cerca di riflettere sino in fondo sul loro senso, prospettive che ci rivelano che non siamo affatto in grado di immaginarci e di ricostruire l'interna forma della sua vita, del suo destino, della sua autocoscienza. Prescindiamo dal fatto espresso nel racconto delle origini che Adamo non ha genitori, non ha tradizione nella quale crescere destandosi ad essa, dal fatto che egli da solo chiama per nome gli enti che Dio gli conduce innanzi e così trova il linguaggio, finché diventa chiaro che questo chiamare per nome e parlare esige una vera corrispondenza, e Dio forma dal suo fianco la compagna, il Tu, e la conduce a lui. Nascondi Guardiamo piuttosto al fatto che entrambi « sono nudi ma non si vergognano l'uno davanti all'altro » ( Gen 2,25 ), che entrambi non soggiacciono alla morte, la quale è posta per la prima volta solo come punizione per aver colto il frutto dall'albero della conoscenza, che entrambi non distinguono il bene e il male, addirittura espressamente non devono distinguerli. Queste tre qualità sono così opposte a quelle dell'uomo odierno, che noi solo con fatica siamo in grado di vedere in esse dei pregi dello stato originario. Il sentimento del pudore, la consapevolezza della morte e la necessità della distinzione del bene dal male ci appaiono come tre colonne fondanti del nostro essere spirituale, del comportamento etico e religioso. 1. Il pudore è un fenomeno sottile, ramificato lungo tutto il nostro essere, attraverso il quale ci distinguiamo dalla bestia, e che appare fondato nella nostra doppia natura spirituale-corporale. Ciò che v'è di più delicato nel rapporto dell'uomo col suo corpo, nella relazione dei sessi l'uno all'altro, anzi nello stesso esser-uomo in generale, sembra collegato alla desta coscienza del pudore. Noi vediamo in questo fenomeno qualcosa di semplicemente positivo, e possiamo perciò pensare alla mancanza di esso solo come a qualcosa di negativo, che ci avvicina alla bestia. Da dove ha origine questo sopravvenire successivo della vergogna? Nascondi Non certamente dal fatto che l'uomo fosse stato prima privo del corpo, giacché Dio lo fece a dire il vero dalla polvere della terra, o privo di sesso, giacché Egli lo creò nel paradiso terrestre come uomo e donna; certamente nemmeno dal fatto che egli fosse stato allora più vicino alla bestia di oggi, giacché solo successivamente Dio rivestì i primi uomini di pelli di animali ( Gen 3,21 ), mentre prima li aveva installati come padroni sovrani su tutta la creazione, dotati del sigillo di immagine di Dio ( Gen 1,27-30 ). Entrambe queste vie di spiegazione sono state percorse. Poiché il fenomeno del pudore è indubitabilmente collegato con la struttura spirituale-corporale dell'uomo, l'origenismo ha creduto che l'uomo originario fosse stato puro spirito e solo più tardi incarcerato per punizione nei corpi simbolizzati dalle pelli di animale. Questa soluzione spiritualistica contraddice la Rivelazione troppo apertamente perché potesse venir mantenuta. Non meno la contraddice l'opposta soluzione razionalistica, che vuole vedere nella mancanza di vergogna dell'uomo dell'Eden una sorta di promiscuità animalesca, un grado di coscienza ampiamente al di sotto di quello oggi raggiunto. Così la mancanza di pudore nella contemporanea esistenza della sessualità e coscienza soprannaturale di sé ci pone di fronte ad un enigma apparentemente insolubile. Noi siamo costretti a vedere come conseguenza del peccato qualcosa in cui pensiamo di poter scorgere solamente un valore positivo, presupposta la costituzione spirituale-corporale dell'uomo. 2. Non meno incomprensibile rimane per noi una esistenza senza morte e senza tutto ciò che è collegato con essa, soprattutto l'invecchiare, che dà alla curva dell'esistenza umana, a quanto sembra, tutta la sua inimitabile importanza e il suo vigore. A prescindere dal fatto che biologicamente e fisiologicamente un organismo è inimmaginabile per la scienza naturale e la medicina senza il processo dell'invecchiamento, dalla mancanza della morte risultano infiniti problemi sociologici ed etici. Non hanno ragione quei filosofi che hanno ipotizzato un inestricabile legame tra procreazione e morte? Avrebbe un senso la riproduzione sessuale se gli individui non cercassero, in una cattiva coscienza del loro dover morire, di conservare la loro specie? Non contiene forse in sé lo stesso atto della generazione un presentimento della morte? Non sono forse entrambi così complementari che un rimanervi delle prime generazioni avrebbe presto fatto del mondo, col continuare delle procreazioni, uno spazio troppo gremito? E non hanno forse ragione anche quei pensatori, per interrogarci ancora più a fondo, che sottolineano l'intimo nesso tra morte e decisione morale? Potrebbe l'uomo agire moralmente se vedesse davanti a sé un indefinito continuare a vivere in cui egli avrebbe sempre tempo per recuperare ciò che ora ha tralasciato? Non è forse proprio la pressante finitezza del suo spazio ed orizzonte terreno, la salutare immanenza della morte nascosta in ogni attimo della sua vita, a costringerlo all'altezza di una vera decisione e così di una vera moralità? La morte appare da questo punto di vista una delle forze configuranti positive dell'esistenza terrena, una potenza che conferisce finalmente all'agire terreno il suo peso di eternità. Poter non morire sembra il privilegio delle bestie più infime, mentre quanto più un ente sta in alto tanto più è minacciato, fragile e quindi mortale. Morte e invecchiamento sono così inestricabilmente intrecciati con lo stato dell'umanità come noi lo conosciamo, che quanto più esattamente si osserva il loro intimo legame tanto meno si arriva a vedere come essi potrebbero venir separati l'uno dall'altro. Un uomo immortale su questa terra non riusciremmo a immaginarcelo.1 3. E infine addirittura la terza cosa: l'uomo senza conoscenza del bene e del male! Cioè l'uomo senza « etica ». L'uomo senza la situazione della decisione, nella quale noi ce lo immaginiamo nel punto più alto della sua dignità spirituale. Senza la conoscenza di bene e male non c'è libertà, senza libertà non c'è essere spirituale. Anche l'uomo che vuole il bene e si decide per esso deve possedere almeno una conoscenza teoretica del male per poter allontanarsi da questo e volgersi a quello. Altrimenti egli non avrebbe alcun merito, non avrebbe superato alcuna prova, il suo bene sarebbe altrettanto naturale e sub-spirituale come il « bene » delle bestie, che compiono istintivamente ciò che corrisponde alla loro natura, o al massimo come il bene dei bambini, che non hanno ancora raggiunto l'età della ragione e ai quali non si può perciò attribuire alcuna responsabilità morale. Così non è strano che lo stato di Adamo ed Eva prima del peccato sia stato sempre paragonato, anche dai Padri della Chiesa, con lo stato dei minorenni. Ma questo paragone è pericoloso. Poiché i bambini ci sono per divenire adulti; le loro capacità sono in essi ancora assopite solo perché un giorno devono risvegliarsi. Nascondi E così avrebbe ragione il Serpente, che consiglia di mangiare la mela perché gli si aprano gli occhi e imparino a distinguere il bene dal male ( Gen 3,5 ), mentre Dio apparirebbe come un padre che non permette ai suoi bambini di diventare adulti. Davvero Egli li trattiene ad arte in un non sapere tipico dei minorenni per impedir loro di giungere a quella conoscenza del bene e del male che conferisce loro la « uguaglianza con Dio »? Il Serpente lo dice, e Dio lo conferma: « Adesso l'uomo è divenuto come uno di noi! ». Nella prospettiva del Serpente, che preme diritto verso la « situazione etica » in cui prende corpo la « dignità umana », anche il divieto di Dio di mangiare dell'albero diventa ultimamente un provvedimento apparentemente senza senso e gretto. Non solo viene con esso sottratto all'uomo qualcosa a cui egli avrebbe diritto in base alla sua posizione sovrana sopra tutta la creazione, ma viene privato proprio di ciò che sembra essenziale per renderlo sovrano sopra la creazione che non possiede l'uso di ragione: esattamente la capacità di distinguere il bene dal male. Nel divieto sembra perciò esserci una contraddizione interna: Dio richiede all'uomo l'obbedienza, ma questi può prestare obbedienza come atto spirituale solo se la presta liberamente, cioè nella conoscenza della possibile disobbedienza. Eticamente rilevante diviene la sua obbedienza solo allorché egli possiede ciò di cui ora lo si priva. E tuttavia Dio ha fatto l'uomo secondo la sua immagine e somiglianza, lo ha fatto così come Egli lo voleva avere; e non si può supporre che lo abbia fatto in uno stadio non sviluppato per lasciargli tempo di crescere verso qualche altra condizione. Il comandamento di non mangiare dell'albero della conoscenza non viene impartito per un tempo determinato, ma assoluto, e dall'infrangere questo comandamento dipende tanto la conoscenza del bene e del male quanto la punizione della morte. Si vede da ciò che per la soluzione della questione si deve risalire molto più a monte, per trovare il punto dove i fili si intrecciano a formare un armonico tappeto. Nascondi Dio ha posto l'uomo in quella distanza da sé nella quale egli come immagine riflessa della sovranità divina deve dominare tutto ciò che è sulla terra, sottomettere «ogni essere vivente che si muove sulla terra » e prendersi come nutrimento « tutte le piante della terra e tutti gli alberi con frutti che portano semi » ( Gen 1,28ss ), « tutti gli alberi del giardino » ( Gen 2,16 ), contemporaneamente però deve rimanere di fronte a Dio nell'atteggiamento del completo servizio. Non deve prendere, non deve afferrare da se stesso dall'albero della conoscenza del bene e del male, che come l'albero della vita sta in mezzo al giardino. Egli ha libertà piena su tutta la terra, presupposto che questa libertà perseveri nella piena obbedienza a Dio, riferendosi a Lui come al centro di tutte le cose. Il centro: conoscenza e vita egli non deve prendersele da sé, ma riceverle da Dio. Gregorio di Nissa e altri osservano che non possono esserci stati due alberi nel centro del giardino, e dunque deve esserci un'identità piena di mistero tra i due alberi. Vietato viene l'albero nella misura in cui comunica conoscenza del bene e del male, poiché soltanto questi frutti l'uomo poteva cogliere da sé. La vita, in quanto era vita originaria, opposta alla morte, egli la doveva comunque, se non doveva morire, ottenere da Dio. Egli la doveva ricevere, senza pretendere di afferrarla, senza cercarla nella conoscenza del bene e del male. Nell'obbedienza che non vuol sapere egli doveva affidare la sua vita a Dio e accettare i frutti della vita dalla mano di Dio quando a Lui fosse piaciuto. Nascondi È come la dissigillazione di questo mistero delle prime pagine della Scrittura quando nel suo ultimo libro il Signore proferisce la promessa: « Al vincitore darò da mangiare dell'albero della vita, che sta nel paradiso di Dio » ( Ap 2,7 ), e quando nella Gerusalemme celeste su ambo i lati del torrente della grazia vivente sta l'albero della vita, che porta dodici frutti e le cui foglie servono a sanare i popoli ( Ap 22,2 ). Questo frutto, la vita eterna, l'uomo non poteva affatto coglierlo da sé, poiché esso era l'eternamente libero dono di grazia di Dio. E così è divina ironia (in cui si cela segretamente misericordia) se Dio dopo la caduta del peccato e la cacciata dal paradiso terrestre dice: « Adesso l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Nascondi Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell'albero della vita, ne mangi e viva sempre! » ( Gen 3,22 ). Poiché in effetti questo avrebbe solo aumentato la sua maledizione, l'avrebbe addirittura resa eterna, cosicché è una grazia che Dio cacci l'uomo dal paradiso terrestre nella mortalità terrena. Egli lo ricondurrà all'albero della vita per tutt'altre strade. 1. Nell'Eden l'uomo stava dunque nella obbedienza a Dio, e da questa obbedienza dipendeva il fatto che egli regnava libero e sovrano sulla terra intera. Le cose non stavano affatto come il Serpente cerca di presentarle: che l'uomo, chiamato di per sé alla libertà, fosse oppresso in maniera insopportabile dal divieto di Dio. « Il serpente disse alla donna: veramente Dio ha detto che voi non potete mangiare di nessun albero del giardino? » Astutamente il serpente fa sì che il divieto getti la sua ombra su tutti gli alberi. Egli fa sì che la libertà dell'obbedienza appaia come sottrazione del potere sovrano su ogni creatura. Finora Eva non aveva affatto sentito l'obbedienza a Dio come qualcosa che sta in opposizione alla propria libertà. L'obbedienza era per lei l'ordine stesso: lei obbediente a Dio e così ogni ente obbediente all'uomo. Questo ordine era così chiaro, così evidente, che non esigeva alcuna riflessione. Niente era più semplice di questo ordine, poiché in esso gli uomini servivano Dio, e tutto il resto serviva gli uomini. Era un'obbedienza che non costava sforzo, poiché ad essi non veniva in mente di contrapporre la propria volontà alla volontà di Dio. Perciò essi non dovevano affatto rinunciare alla propria volontà per fare la volontà di Dio. La loro volontà era semplicemente e ovviamente identica con questa obbedienza, era solo lo strumento che essi usavano per obbedire, e in forza di questa concordia con Dio essi si sapevano e si sentivano sovranamente liberi nella creazione. La loro libertà era protetta all'interno di questa obbedienza, e questa era a sua volta servizio a Dio nella fiducia, gratitudine e amore. Era sostanzialmente fede. Era fede il moto dell'animo con cui ricevevano da Dio il loro essere e lo restituivano sempre a Lui nell'amore. In questa fede era inaccessibile per essi la distinzione di bene e male, poiché conoscevano solo il bene, mentre il male restava ad essi nascosto. Essi vivevano nel fuoco dell'amore. Non vivevano ancora nella tiepidezza dell'indifferenza di bene e male, punto in cui diventa possibile la decisione tra questi due. Essi non vivevano al di sotto, ma al di sopra di questa situazione « etica », in una condizione che conteneva in sé l'esser decisi al bene. Essi erano in questa situazione di fede assoluta non senza conoscenza; le loro nozioni erano però solamente nozioni positive, al punto che Adamo era in grado di dare il nome a tutti gli esseri viventi, di dominare e coltivare il giardino e la terra intera, nozioni dunque che non escludevano la gioia del progresso, della scoperta, della cultura. Ma tutto ciò era come ricoperto dalla significazione che abbracciava tutto, era come appeso all'obbedienza della fede che tutto portava su di sé e rendeva possibile. All'interno di questa buccia poteva crescere la conoscenza e giungere a maturazione, e l'uomo poteva con lo strumento della ragione adempiere i suoi compiti terreni.2 Se si fosse però spaccata questa buccia, se l'uomo avesse mandato in frantumi la fede mutandola in curiosità di sapere, per portare in luce la nuda ragione nascosta in essa, una ragione senza la fede, allora gli si sarebbero davvero aperti gli occhi, e avrebbe saputo allora quello che Dio saggiamente gli teneva nascosto: la distinzione di bene e male, che adesso improvvisamente non ha per contenuto nient'altro che il riconoscimento della propria nudità. 2. In questo imprevisto evidenziarsi della loro nudità nell'attimo in cui essi acquisiscono la conoscenza del bene e del male sta la chiave per il secondo problema: l'insorgere del pudore. Già prima di cadere nel peccato essi erano uomo e donna; Adamo osservò con gioia la compagna che Dio gli aveva condotto, esclamando: « Questa è finalmente ossa delle mie ossa e carne della mia carne! ». « Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Nascondi Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna » ( Gen 2,24-25 ). Già prima di cadere nel peccato essi avevano ricevuto da Dio l'incarico: « Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra » ( Gen 1,28 ). E quest'opera e questo incarico erano fra quelli che Dio vide come molto buoni. Malgrado ciò Adamo ha riconosciuto la sua donna solo allorché entrambi erano stati cacciati dal paradiso terrestre con la maledizione della fatica di lavorare e dei dolori del parto. È addirittura la prima cosa che viene raccontata di essi dopo la cacciata. La soluzione di questo enigma deve venir cercata nell'esatta continuazione della prima soluzione. Là le forze spirituali naturali dell'uomo erano come velate e polarizzate dall'atto, che tutto portava su di sé, dell'obbedienza di fede a Dio, e solo allorché questo si infranse essi risultarono nudi, in quanto « intelletto critico » e « libertà del volere ». Questi erano originariamente destinati a funzionare all'interno della fede quale forma dell'amore obbediente, così come funzionano gli organi interni dell'uomo. Nello stesso rapporto in cui stanno le forze naturali dell'uomo a quelle soprannaturali della fede che ama stavano anche il suo corpo e le sue forze rispetto a quelle della sua anima. Era l'anima che racchiudeva in sé e ricopriva il corpo, allo stesso modo in cui ciò che è inferiore e che serve viene ricoperto e portato da ciò che è dominante. Dev'essere qui ricordato il detto di Nietzsche: « La frase più assennata che io abbia udito: "Dans le véritable amour, c'est l'àme qui enveloppe le corps". ( "Nell'amore vero è l'anima a ricoprire il corpo ") ». L'irraggiamento del corpo ad opera della purezza dell'anima è effettivamente la castità assoluta. Essa è così pura che porta « all'esterno » tutto ciò che appartiene « all'interno », e per questo non ha bisogno di nessuno sforzo o provvedimento, poiché essa non cade nella tentazione di gettare uno sguardo bramoso sull'altro né di aspettarsi un tale sguardo dall'altro, di cui conosce l'amore. Essa sa piuttosto che il vero amore ha il suo centro nello spirito, e il corpo è solo il suo campo di espressione. Così l'uomo dell'Eden possiede gli istinti, ma come ciò che naturalmente serve e collabora rimanendo subordinato. Come l'intelletto e la volontà esercitano in lui le loro sovrane funzioni solo all'interno dell'obbedienza di fede che abbraccia tutto, così anche gli istinti e le funzioni corporali esercitano il loro ruolo solo all'interno dell'onnicomprensivo amore spirituale dell'anima. I primi uomini avevano certo ricevuto il comando di essere fecondi e moltiplicarsi. Ma la fecondità dell'amore umano sarebbe stata nell'Eden - se l'uomo fosse rimasto in esso - un'altra rispetto a quella che diventò dopo la caduta del peccato. Come le forze dell'anima a causa del peccato si emanciparono infelicemente dall'obbedienza di fede amante, così le possibilità del corpo si svincolarono dalla fecondità dell'amore, che a sua volta era stato stravolto a causa della disobbedienza, e si impossessarono con violenza dell'amore sessuale. Solo a causa di ciò sorge una differenza tra verginità e fecondità. La verginità di Eva non sarebbe stata minacciata, all'interno dell'Eden, dalla sua maternità. Poiché l'amore di uomo e donna sarebbe stato il più casto, un amore che avrebbe preso le mosse dallo spirito per essere fecondo e avrebbe incluso il corpo solo a servizio di questa castità dell'amore. Di ciò che sarebbe stata questa fecondità nell'Eden possiamo farci un'immagine tanto poco quanto per la maggior parte delle altre condizioni di vita dell'uomo originario. Solo una immagine può ricondurci dal nostro mondo decaduto verso la forma perduta della fecondità paradisiaca: quell'Una che dopo la caduta del peccato ma ancora prima della cacciata dall'Eden viene presentata ad entrambi come immagine di speranza; quell'unica che sarà idonea, poiché rimane libera dalla colpa ereditaria, ad essere contemporaneamente vergine e madre. Adamo ed Eva vivono nella completa verginità al punto che non conoscono nemmeno la concupiscenza. Ma verginità non significa nell'Eden rinuncia, bensì pienezza dell'amore, forma di perfetta fecondità, che nel suo adempimento richiede tanto poco abnegazione dolorosa quanto poco nell'adempimento dell'obbedienza di fede giaceva un atto doloroso di abnegazione nei confronti della libertà di scelta tra bene e male. Così era costituito l'ordine originario. Se però adesso che il peccato lo manda in frantumi gli istinti del corpo fuoriescono nudi e crudi dai velami dell'anima, questo porta alla nascita del pudore. Né l'istinto stesso né il pudore sono cattivi. Ma è cattivo il disordine che lascia uscir fuori gli istinti e rende necessario il pudore corporale come risposta a ciò. Pudore c'era sinora soltanto nella forma del tutto incosciente dell'innocenza; poiché il peccato ha distrutto l'innocenza dell'anima, esso trapassa nella forma del vergognarsi. Così il rapporto immanente tra corpo e anima resta nell'uomo lo specchio esatto del rapporto trascendente dell'anima con Dio. I teologi della grande epoca prendono tutti le mosse per il loro pensiero dal presupposto che nell'Eden non ci poteva essere alcuna corruptio dell'uomo nella sua verginità. D'altra parte essi sono convinti che nello stato edenico gli uomini si sarebbero moltiplicati, giacché il comandamento divino: « Crescete e moltipllcatevi » sta prima di ogni ordinamento del peccato. Così essi sono alla ricerca di una sintesi - intellettualmente necessaria, anche se inimmaginabile - di stato matrimoniale e stato verginale, così come Suarez ( De op sex dier v, 2,3; Opp in, 385 ) pone il problema: « An in statu innocentiae in eisdem personis simul esse possit virginitas vera cum matrimonio consummato », e come già Guglielmo di Auxerre nella sua Summa ( tr 10, c2, q 4 ) lo esprime nel migliore dei modi, quando dice: in quello stato il matrimonio sarebbe stato in praecepto, e così non ci sarebbe stata alcuna distinzione statuum matrimonii et coelibatus. Ciò deriva per i teologi dal fatto che « altrimenti lo stato della natura caduta supererebbe lo stato dell'innocenza per quanto riguarda la perfezione della verginità, cosa che sembra essere tanto contro la superiore eccellenza di questo stato quanto contro il fatto su cui i santi pongono tanta importanza: che cioè Adamo non senza un profondo mistero conobbe la sua donna solo allorché fu stato cacciato dal paradiso » ( Suarez, 385 ). A ciò si aggiunge la considerazione che anche se Cristo fosse divenuto uomo in una natura non decaduta, egli e sua madre sarebbero rimasti vergini ( ibid., 389 ), pensiero che rinvia al valore assoluto, non semplicemente relativo, della verginità. Certo, quando i teologi non si accontentarono del fatto della sintesi, ma vollero fissare anche il come matrimonio e verginità fossero unificabili l'un con l'altro, dovettero smarrirsi su strade senza uscita. Le loro opinioni, che qui vengono accennate solo in uno sguardo sommario, non devono conservar valore più della loro chiara convinzione della necessità di una unità delle forme di stato di vita oggi separatesi l'una dall'altra. a) I primi tentativi di soluzione hanno questo di comune, che essi presuppongono l'atto sessuale nella forma odierna e cercano di far concordare la verginità con esso. Così Tommaso ha distinto in una prima ipotesi, che egli ha più tardi modificato ( 2 d 20 q 1 a 2 ad I ), tra la verginità corporale e quella spirituale, e sacrificato la prima per lasciare andare avanti solo la seconda. Nella Summa Theol. ( II II q 151 a 1 ) distinse poi nella verginità tre elementi: l'integrità corporale, la mancanza di esperienza nella voluttà e l'integrità spirituale costituita dalla decisione di trattenersi dal piacere dell'unione sessuale. Poiché grazie a questa precisione l'opinione prima espressa nel Commento alle Sentenze non era più sostenibile ( giacché il terzo elemento formale della verginità non sarebbe stato presente in Eva ), egli più tardi formulò la questione diversamente. ( Similmente Bonaventura, 2 d 20 4 ). Si potrebbe poi supporre che le vie corporali nello stato dell'innocenza fossero state aperte solo per l'attimo dell'atto sessuale e della nascita, per rimanere per il resto chiuse. E si potrebbe presupporre che questo non fosse accaduto necessariamente per un particolare miracolo di Dio, ma per una costituzione della natura originaria, in cui le vie anziché venir recise si sarebbero dilatate. In questa direzione pensano Riccardo di Mediaville ( 2 dist 20 a 1 q 4 ) ed Egidio di Roma ( 2 dist 20 q 1 ad fin, in dub litt ). Durando ( 2 dist 20 q 2 ad 1 ) è così convinto di questa soluzione che cerca di estenderla anche al parto verginale di Maria ( 4 dist 44 q 6 ad 1 ). Alessandro di Hales ( 2 q 85 a 4 ) aveva preso la controparte nei confronti della prima opinione di Tommaso, sacrificando la verginità spirituale di Eva - poiché ella si era decisa volontariamente per il matrimonio -, ma, per salvare nonostante ciò la sua verginità, sosteneva il mantenimento della piena integrità corporale grazie all'onnipotenza di Dio o grazie ad una grazia speciale conferita allo stato originario. b) Con ciò è però già implicito un nuovo presupposto: che l'atto sessuale e corrispondentemente anche il parto non sarebbero avvenuti nella stessa maniera di oggi. Già la teoria di Durando accenna in questa direzione, e ancor più quella di Alessandro. Completamente in questa direzione pensa Agostino dopo la revoca di una soluzione più estrema ( di cui dobbiamo ancora parlare ), e la sua soluzione viene citata da Tommaso nella Summa ( I q 98 a 2 ad 4 ). Tommaso pone il problema nei seguenti termini: « In statu innocentiae nulla fuisset corruptio. Sed per coitum corrumpitur integritas virginalis. Ergo coitus in statu innocentiae non fuisset ». Nascondi Egli risponde citando Agostino ( De Civ Dei 14,26 ); « In quello stato il marito avrebbe inseminato la moglie senza violazione alcuna dell'integrità verginale. Poiché il seme maschile avrebbe potuto altrettanto bene venir versato rimanendo la vulva pienamente intatta, come adesso il flusso mensile può riversarsi dal grembo della vergine senza detrimento della medesima integrità. Poiché come nel parto non il dolore delle doglie avrebbe aperto il grembo materno, ma l'impulso della maturazione, così anche nel concepimento non la brama del piacere, ma l'uso intenzionale avrebbe unito i due.» Agostino insiste però, in una frase tralasciata da Tommaso, sul fatto che noi non possiamo più immaginarci una forma simile di rapporto, poiché ci manca qualsiasi esperienza di ciò. Nascondi Egli sottolineava già prima ( De Civ Dei, 14,21 ): « Gli uomini odierni, che naturalmente non hanno alcuna idea della felicità paradisiaca di allora, possono immaginarsi la generazione di figli solo nei modi noti ad essi per esperienza. » Certo Agostino rimane convinto che la sessualità corporale era propria essenzialmente nella forma odierna anche alla creazione originaria ( « non avrebbe alcun senso trincerarsi contro questa interpretazione testuale », ibid., 14,22 ), egli vede la differenza soprattutto nella piena volontarietà e dipendenza dalla ragione del movimento e adeguamento degli organi sessuali ( 14,23-24 ). Così egli è costretto ad ammettere che il modo di un incontro sessuale che lasci intatti gli organi femminili eccede le capacità di immaginazione dell'uomo odierno. Nascondi Egli perviene a questa concezione però solo perché egli non vede come la sua primitiva opinione ( De Genesi e Manich 1,19 ) sia conciliabile con una sessualità autentica nell'Eden. c) Forse sarebbe stato meglio perseverare nell'opinione che pone solo il fatto trascurando ogni appariscente colorazione, secondo cui nello stato originario verginità e fecondità corporale ( non diciamo « sessuale » ) sarebbero state conciliabili. L'essenziale di questa concezione sostenuta dai Padri si può riassumere in due affermazioni. La prima è negativa: l'Eden è il regno della verginità, e il matrimonio così come noi lo conosciamo non vi ha alcun posto. Esso è piuttosto sopravvenuto dopo la caduta del peccato. La seconda è positiva: gli uomini si sarebbero riprodotti anche nell'Eden in una maniera che i Padri chiamano « spirituale » e che è paragonata alla maniera di riprodursi degli angeli, maniera che però non esclude a priori la cooperazione del corpo. Questa maniera di riprodursi non è afferrabile per l'uomo decaduto, perciò sembra essere la cosa migliore confessare qui la nostra ignoranza di essa. Gregorio di Nissa ( De hom opif e 17 ) introduce audacemente questa opinione: « Noi non avremmo avuto bisogno del matrimonio per riprodurci, se non avesse avuto luogo per noi alcun rovesciamento e alcuna deposizione dalla dignità angelica, ma quale che possa essere la maniera di riprodursi nella natura degli angeli - indicibile e inspiegabile per le supposizioni umane essa ha in ogni caso luogo -, essa sarebbe stata operante anche in coloro che sono « di poco inferiori agli angeli », per moltiplicare il genere umano fino alla misura stabilita dalla decisìone del Creatore. » Che l'uomo però già nell'Eden sia stato fornito degli organi sessuali, questo è stato messo in atto dalla sapienza di Dio in previsione della futura caduta del peccato. Gregorio paragona così la natura originaria dell'uomo a quelle opere d'arte « nelle quali con sorpresa dell'osservatore sono posti due volti su un capo » ( ibid., e 18 ), dove viene lasciato decidere all'uomo di subordinare la possibilità inferiore della sua natura a quella superiore, ma anche di perdere la superiore a causa dell'inferiore. Crisostomo è della medesima opinione: « Adamo conobbe la sua donna. Considera quando ciò accadde. Dopo la caduta, dopo la perdita del paradiso, solo allora iniziò l'uso della sessualità. Prima del peccato essi imitavano la vita degli angeli, e non si parlava affatto di vita sessuale » ( Hom in Gen 18,4 ). « All'inizio e prima del matrimonio c'era la verginità, poi venne il matrimonio e diventò necessario, sebbene esso non sarebbe stato usato se Adamo fosse rimasto obbediente. Come sarebbero però allora sorte così tante migliaia di uomini? Se ti affligge questa questione, allora io ti pongo la questione contraria: da dove ha origine Adamo, da dove Eva senza il sopravvenire del matrimonio? E con ciò, incalzi tu, dovrebbero tutti gli uomini nascere in questa maniera? In questa o in un'altra maniera, non sono in grado di dirtelo. Solo questo sta certo: che Dio non aveva bisogno del matrimonio per moltiplicare gli uomini sulla terra » ( De Virg e 17 ). Massimo si riferisce espressamente al Nisseno ( Qu ad Thai 59; PG 90,613 c ). Egli stesso espone: solo quando a causa della caduta penetrò nella natura la legge della passione, entrò nell'esistenza quella maniera di procreare che è collegata da una parte col piacere carnale, dall'altra con la morte ( ibid. 61; PG 90,632 B ). « Poiché la volontà originaria di Dio era che noi non venissimo generati attraverso l'unione carnale a causa della caducità; solo l'infrazione della legge introdusse il matrimonio » ( Qu et Dub 3; PG 90,788 AB ). Giovanni Damasceno ritiene che Dio abbia « creato l'uomo come maschio », « poiché però nella sua preveggenza Dio sapeva che egli si sarebbe macchiato della disobbedienza e sarebbe soggiaciuto alla rovina, creò da lui una donna, ( … ) per ottenere dopo la disobbedienza una posterità che si consegue per mezzo della generazione ( … ) Creazione è il modo originario di Dio di formare l'uomo, procreazione è invece il modo di aver origine l'uno dall'altro sopravvenuto a causa della condanna dopo la disobbedienza » ( Sorgente di conoscenza, il 30 ). « Ma essi forse obietteranno: cosa significa allora l'espressione "uomo e donna" e "crescete e moltipllcatevi"? Noi replicheremo: il "crescete e moltiplicatevi" non significa certo moltiplicazione attraverso il commercio sessuale. Dio poteva certo moltiplicare la stirpe umana anche in altra maniera, se essi osservavano il comando sino alla fine senza infrangerlo. Solo Dio, che tutto sa prima ancora che accada, sapeva che essi avrebbero disobbedito e sarebbero stati condannati. Per questo egli creò sin dall'inizio maschio e femmina e comandò loro di crescere e di moltiplicarsi » ( ibid. iv 24 ). Cfr. Eutimie Zigabeno ( in PS 50, PG 129 ) e Procopio di Gaza ( in Gen 4, PG 87 ). Ugualmente Gerolamo: « Di Adamo ed Eva bisogna dire che essi prima del peccato erano vergini nell'Eden, ma dopo la colpa e fuori dall'Eden si unirono in matrimonio ben presto » ( C Jov I, 16 ). « Se tu replichi che già prima del peccato il genere umano era stato diviso in maschile e femminile, e che anche senza il peccato essi potevano unirsi nell'atto sessuale, io rispondo: cosa sarebbe accaduto non si sa, poiché non possiamo misurare i piani di Dio e afferrare in anticipo il suo giudizio secondo quanto a noi sembra. Cosa è accaduto, questo lo sappiamo: quelli che nell'Eden erano rimasti vergini, cacciati dall'Eden si sono uniti in matrimonio » ( ibid. i, 29 ). Nascondi Gerolamo rinvia poi decisamente al fatto che nel nuovo uomo cristiano « non c'è né maschio né femmina » ( Gal 3,28 ), e che dunque « la somiglianza col Creatore non include la unione matrimoniale ». « Quando però si dice: "Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra", era allora prima di tutto necessario piantare il bosco e lasciarlo crescere, per aver più tardi da disboscare. Allo stesso tempo si deve considerare il significato della frase "riempite la terra": il matrimonio riempie la terra, la verginità il paradiso » ( ibid. I, 16 ). Alla domanda perché allora siano stati creati gli organi sessuali, Gerolamo rinvia all'umanità di Cristo, che era ciò che di più perfetto c'è nella creazione e che tuttavia non volle servirsi della sua sessualità che pure possedeva, come dimostra la circoncisione, ma piuttosto disse beati coloro che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli ( ibid., I, 36 ). Nascondi Agostino ha pensato la stessa cosa nell'anno 388-90: « "Crescite et multiplicamini ": licet a nobis ea ita spiritualiter accipere, ut in carnalem foecunditatem post peccatum conversa esse credatur" ( De Gen I,19 ). Attorno al 400 egli distingue nelle « Confessioni » ( 13,24 ), similmente a Gregorio di Nissa, due direzioni fondamentali dell'atto della procreazione: una generazione dal basso, come le bestie, e una generazione dall'alto, come era previsto per l'uomo, cosicché anche qui stanno l'uno di fronte all'altro un modo primariamente corporale e secondariamente spirituale e un modo primariamente spirituale e secondariamente corporale. Quando egli nell'anno 401 giunge nella sua opera « De bono coniugali » a delimitare il valore di matrimonio e verginità l'uno nei confronti dell'altro, comincia con la constatazione: « Il primo legame annodato dalla natura nella società umana è quello tra uomo e donna. Dio non li ha creati come singoli e collegati l'un con l'altro come stranieri, ma li ha fatti l'una dall'altro, contrassegnando le forze del loro legame col fianco dal quale ella venne tratta e formata. Poiché fianco a fianco essi sono uniti, insieme camminano e insieme guardano dove la strada conduce. A ciò corrisponde il legame sociale fra i bambini, che è uno dei frutti più onorabili non tanto del rapporto sessuale fra uomo e donna, quanto dell'essere insieme. Poiché sarebbe anche stato possibile che anche senza tale rapporto sessuale tra i due sessi regnasse un legame di tenera amicizia, in cui una parte avrebbe fatto da guida e l'altra parte si sarebbe lasciata guidare. Tuttavia ora non è necessario indagare e pervenire ad una precisa opinione sulla maniera in cui i primi uomini, se non avessero peccato, avrebbero ottenuto una discendenza allorché Dio li benedisse e disse loro: « Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra », giacché in questo caso è da ritenere che i loro corpi solo col peccato erano divenuti mortali e che non c'è alcun rapporto sessuale al di fuori dei nostri corpi mortali. » Agostino enumera ora tre teorie, la prima delle quali ( « un'altra sorta di incontro carnale » ) egli la lascia senza critica, mentre la seconda, puramente allegorica, e la terza, che si basa sulla pura e semplice determinatezza dell'immortalità, sembra piuttosto rifiutarle. Egli chiude con la constatazione: « Limitiamoci a dire che nello stato presente del nascere e morire come noi li conosciamo e nei quali siamo stati fatti il matrimonio tra uomo e donna è qualcosa di buono ( aliquid boni ess ). » ( Cfr. M. Muller, Die Lehre des hi. Augustinus von der Paradiesesehe, 1954, pp. 29ss. ) Riassumendo si può dire circa la dottrina dei Padri e degli Scolastici: essi sono protesi in una maniera o nell'altra a spiegare la compatibilità di verginità e riproduzione nello stato originario, dove la verginità sembra stare loro più a cuore che la procreazione. Alle diverse interpretazioni noi diamo valore nella misura in cui esse esprimono il loro tenace impegno per una chiarificazione del fatto che per loro è incontestabile. Si sottolineerà però espressamente, se si vuole mantener fermo il nucleo che rimane nelle loro argomentazioni, che la distinzione dei sessi fa parte in modo assoluto della originaria creazione di Dio, e dunque non può venir considerata semplicemente come determinata dalla ( successiva ) caduta del peccato. La distinzione partecipa piuttosto della stessa « imago Dei »: « Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza ( … ) Così Dio creò l'uomo a sua immagine. Nascondi A immagine di Dio egli lo creò. Maschio e femmina li creò » ( Gen 1,26-27 ). Se le cose non stessero così, Cristo non potrebbe né rifarsi al rapporto tra i due sessi per presentare il mistero di Sé nei confronti della Chiesa, né corrispondentemente dare al sacramento del matrimonio il potere e la possibilità reale di simboleggiare questo rapporto nella relazione corporale. Su questo parleremo ancora in occasione dello stato di vita matrimoniale. 3. L'uomo come creatura è finito. Ma poiché Dio gli donò la possibilità di rimettere il suo spirito alla grazia della missione e di lasciar rifugiare il suo corpo nel suo spirito, la sua finitezza diventò aperta a Dio. Adesso che essa si stacca da Dio e rende un fine ciò che doveva essere un mezzo, anche la finitezza si volge nuda verso l'esterno: la vita terrena, che non giace più protetta all'interno della vita eterna, viene murata senza speranza nella sua finitezza, e questo muro si chiama morte. Nascondi « Attraverso il peccato venne nel mondo la morte » ( Rm 5,12 ), attraverso la morte però anche la preoccupazione per la fiammella della vita temporale minacciata sia internamente che esternamente, poiché morte non è soltanto l'improvvisa conclusione della vita, ma piuttosto la malattia che la corrode, l'invecchiamento, l'intorpidimento e l'affaticamento, la sazietà della noia e l'improduttività, l'inutilità e la mancanza di prospettive della vita terrena. Questa caducità afferra a causa dell'uomo la natura intera ( Rm 8,20 ). La pienezza dell'Eden viene meno, a causa di Adamo il suolo della terra viene maledetto, produrrà spine e cardi. Nascondi Così l'uomo coltiverà i campi col sudore della sua fronte, mangerà il suo pane nella fatica, finché tornerà alla terra da cui è stato tolto ( Gen 3,17-19 ). Con questa maledizione, che punisce la cupidigia degli uomini, essi vengono condannati a ciò che si erano presi da sé: alla proprietà personale. La vita nell'Eden era una vita nell'abbondanza della grazia di Dio che scendeva dal cielo, alla quale l'abbondanza del giardino era come una risposta proveniente dalla terra. Essi avevano in sovrabbondanza ciò di cui abbisognavano, e quanto poco essi si vergognavano della loro nudità altrettanto poco si preoccupavano di arraffare qualcosa per sé; essi vivevano in uno stato che era contemporaneamente perfetta ricchezza e perfetta povertà. Povertà perché essi non possedevano per se stessi niente di ciò che non ricevevano immediatamente da Dio o mediatamente dalla natura e che non rendevano di nuovo a Lui con altrettanta ovvietà e gratitudine. Poiché essi non conoscevano alcuna indigenza e necessità, non avevano bisogno per sé di niente che avessero dovuto nascondersi o rifiutarsi l'un l'altro. Solo allorché dopo il peccato gli si aprirono gli occhi e videro che erano nudi, cominciarono a intrecciare cinture, ognuno la sua, e a porre così un inizio di proprietà. Dopo preparerà loro Dio stesso vestiti di pelli di animali e confermerà così la convinzione della proprietà personale. La proprietà privata, al pari di ragione critica, libertà di scelta e sentimento del pudore, non è qualcosa di cattivo. Ciononostante essa appartiene, come tutte queste realtà, all'esistenza tipica del dopo la caduta del peccato. Esse erano tutte come sospese in virtù della grazia dello stato originario. Esse sarebbero state destinate ad adempiere la loro funzione come interne parti costitutive inosservate di un tutto più grande, ad operare invisibili nella grazia. Solo adesso che tutto diviene scarso, e che inizia la battaglia per l'esistenza, diventa inevitabile la dura necessità della proprietà privata. Nascondi Al posto della volontarietà dell'amore che non abbisogna di ciò che gli è posto a disposizione altrimenti che per donarlo ulteriormente, entra in campo ovunque la costrizione della « giusta » ripartizione dello scarso bottino; costrizione nella famiglia, poiché la moglie, invece del rapporto libero da costrizioni tra Adamo e la sua compagna conforme a lui ( Gen 2,18 ), con la quale egli formava una sola carne ( Gen 2,24 ), viene posta sotto la signoria dell'uomo ( Gen 3,16 ); costrizione nell'acquisizione del necessario per vivere, poiché in base alla maledizione Adamo deve arraffare, risparmiare, preoccuparsi e far calcoli in anticipo; costrizione infine nella comunità statale, poiché il vivere assieme di così tanti uomini preoccupati della vita propria conduce a conflitti circa il mio e il tuo, e questi non possono esser risolti altrimenti che attraverso l'ulteriore costrizione di autorità e potere. C'è da stupirsi di quanto i più recenti studiosi cattolici di diritto naturale abbiano misconosciuto le formulazioni della teologia classica a questo riguardo. Questo misconoscimento, che per lo più porta ( cfr. O. Schilling ) a distorcere e capovolgere l'intera letteratura patristica e scolastica almeno fino a Tommaso d'Aquino per motivi ritenuti apologetici, mentre ricercatori non prevenuti come Cariyle ( A History of Medieval Politicai Theory in thè West, 5 voll. 3° ed. 1930 ) e fondamentalmente anche Troeltsch ( Die Soziallehren der christlichen Kirchen una Gruppen, 1919 ) colgono semplicemente nel segno, ha la sua causa in un concetto di natura che divenne possibile solo grazie all'ipotesi, posteriore alla Riforma, di uno status naturae purae che sarebbe da metter fuori parentesi, come una grandezza identica ad essi, rispetto a tutti gli stati concreti ( stato originario, stato della caduta e stato della Redenzione ). L'impiego di questo concetto di natura conduce sin dagli inizi, come presto mostreremo, a profondi fraintendimenti. Volendo condurre la dottrina della teologia cristiana circa la proprietà privata che arriva sino a Tommaso e addirittura quella che arriva fino al tempo posteriore a lui verso una linea unitaria - e questo è possibile senza sforzo, poiché le singole concezioni a questo riguardo oscillano solo di poco e nelle loro divergenze per lo più si completano -, possiamo dire col linguaggio di Giustiniano e di Isidoro di Siviglia: secondo lo ius naturale, cioè secondo il diritto originario in vigore nell'Eden, non c'è alcuna proprietà privata; questa è piuttosto una istituzione dello ius gentium, che entrò in vigore nella situazione dell'umanità venutasi a creare a causa del peccato. Essendo queste denominazioni di ius naturale e ius gentium anche espressioni più tardive, assunte dal linguaggio dei giuristi, va però detto che la cosa stessa era già solidamente acquisita sin dall'inizio della letteratura cristiana. ( Noi trattiamo qui solo la questione della proprietà, mentre per la questione della libertà e uguaglianza degli uomini risulterebbe uno stato di cose analogo, e per la questione dell'ordinamento statale in generale risulterebbe uno stato di cose solo leggermente diverso. ) La vistosa indifferenza, anzi talvolta ostilità del Nuovo Testamento contro Mammona, l'invito di Gesù alla povertà, la comunanza dei beni presso i primi cristiani a Gerusalemme insieme con gli elogi dell'elemosina spinsero sin dall'inizio i primi pensatori cristiani a distinguere tra una valutazione assoluta e una relativa della ricchezza e della proprietà privata: nella valutazione assoluta questa apparve come ciò che propriamente non deve esserci, che originariamente non era stato da Dio voluto; in quella relativa come ciò che da Dio è in parte « sopportato » e in parte « voluto » come il male minore di fronte all'avidità del peccato. Cariyle e dopo di lui Troeltsch hanno mostrato che per questa valutazione del cristianesimo delle origini esisteva un vistoso parallelo nella contemporanea filosofia del diritto e dello stato degli stoici, la quale pure distingueva uno stato originario ideale basato su umanitarietà e altruismo cosmopoliti, libertà, uguaglianza e comunanza di beni come diritto originario rispetto allo stato attuale originato invece da ricerca di dominio, avidità e amor proprio, che hanno reso necessaria l'organizzazione statale e il diritto basati sulla coercizione, la proprietà privata e il rapporto di servitù come reazione di difesa ( Troeltsch, in RGG (1) 1913. Art. "Naturrecht", Sp 699 ). I cristiani poterono perciò, come gli stoici nella loro maniera, se non ricostruire completamente almeno tentare di rappresentare avvicinandovisi l'ordinamento giuridico originario, al di là di quello attualmente esistente, in diverse gradazioni a seconda che avessero davanti agli occhi più la « via dei comandamenti » o la « via dei consigli ». Nascondi Si possono trovare nei Padri espressioni antignostiche e antimanichee asserenti che né lo stato, né la proprietà privata e neppure la schiavitù sono espressione del peccato o del principio del male, poiché altrimenti Cristo e gli apostoli non avrebbero impartito il comando di stare sottomessi allo Stato, di rimanere ognuno nel proprio stato di vita, mentre avrebbero invece impartito non il consiglio, ma l'ordine di vendere tutto ( Agostino, De mor eccl 1,35; Contro Adimantum 20,2; Ilario, in Mt 19,9; Ambrogio, EP 63,92, ecc. ). « Ma se abbiamo riconosciuto questo fatto, dobbiamo allora osservare anche che questa maggioranza ritiene che la Chiesa accettò le istituzioni riguardanti la proprietà come conformi alle attuali condizioni di vita, così come accettò le istituzioni della schiavitù o del governo coercitivo; essa non ritiene che la Chiesa abbia considerato la proprietà privata conforme alla condizione naturale o alla condizione originaria della vita umana » ( Cariyle, op. cit., i, 136 ). Ambrogio è a questo punto categorico: « Formam iustitiae putaverunt, ut quis communia, id est publica, prò publicis habeat, privata prò suis. Ne hoc quidem secundum naturam, natura enim omnia omnibus in commune profundit ( … ) Natura igitur ius commune generavit, usur-patio ius fecit privatum » ( De off 1,28 ). Cicerone aveva detto: « Sunt autem privata nulla natura » ( De off 1,7 ). Ancora Ambrogio: « Osserva gli uccelli del cielo! Solo per questo infatti essi si rallegrano nel godere del cibo offerto loro in abbondanza senza fatica: perché essi non sanno niente dell'ammassare, del pretendere per sé in una sorta di diritto alla proprietà privata i frutti offerti al comune pasto di tutti. Noi invece perdiamo i doni ricevuti in comune perché ce ne vogliamo appropriare singolarmente in modo speciale » ( In Luc VIII 124 ). « Dio nostro signore volle che questa terra fosse possesso comune di tutti gli uomini e i suoi frutti fossero sufficienti per tutti; ma l'avidità ha diffuso i diritti di proprietà ? ( In PS 118,8.22 ). La motivazione continua: « Tutto sulla terra appartiene a Dio, ciò che sembra essere nostro; in verità esso non appartiene a noi, ma è proprietà di Dio ». Così Tertulliano, De patientia, e 7; Commodiano, ìnstr 1, 29. E Agostino: « Unde quisque possidet quod possidet? Nonne iure humano? Nam iure divino Domini est terra et plenitudo eius. ( … ) Iure tamen humano dicit: haec villa mea est, haec domus mea, hic servus meus est » ( In Job tr 25 ). E Zeno da Verona: « Sed inquies, iustum est, ut mea servem ( … ) Primo omnium, optime Christiane, scire cupio quae sunt tua, cum sint ti-mentibus Deum omnia communia? » ( Tract I, 3,6 ). Gregorio Magno: « Incassum ergo se innocentes putant, qui commune Dei munus sibi pri-vatum vindicant » ( Reg Postar 3,21 ). Nello stato originario non c'era questo « ammassare », questo prendersi per sé qualcosa separandolo da ciò che è comune; non c'era, come ripete il più grande rappresentante del « comunismo patristico », Crisostomo, « questa fredda espressione "mio e tuo". Da allora inizia la battaglia, da allora la viltà ». Ma con uguale ragione possono al contrario Clemente ( "Quis dives salvetur" ) e Lattanzio ( "Div. Instit." ) sostenere la tesi che nello stato originario c'era già proprietà privata, nella misura in cui cioè gli uomini potevano prendere per sé ciò di cui abbisognavano, senza invidia e senza vicendevole delimitazione dei beni. Poiché essi non lo prendevano per sottrarlo agli altri, ma erano di una tale generosità che tutto ciò che possedevano Io tenevano nuovamente a disposizione di tutti. Questa « vita comune », in cui Lattanzio non vede alcuna contrapposizione alla proprietà privata ( Div Insf 5,5 ), è anche l'atteggiamento tipico dello stato paradisiaco che Clemente raccomanda, e che per lui significa il superamento della contrapposizione non solo tra povertà e ricchezza, ma più profondamente tra privato e comune. Si è perciò nel torto quando si pongono questi due Padri in contrapposizione con gli altri per ricavare almeno da essi le basi per una validità « giusnaturalistica » della proprietà privata, giacché con le loro tesi sarebbero stati d'accordo persino Crisostomo e Ambrogio. Lo ius naturale dello stato originario non è la mancanza di possesso come qualità negativa, bensì « ius naturale est ( … ) communis omnium possessio » ( Isidoro ) Per comprendere quest'affermazione nella sua « ambivalenza » ( cfr. Cariyle, op. cit., i, 143 ) in maniera giusta, bisogna lasciare dietro di sé quella dialettica tra proprietà privata e comunismo, come necessariamente sorge all'interno dello ius gentium, e realizzare la sintesi di possesso e non possesso, di « ricchezza » e « povertà », sintesi impossibile in questo regno, ma non più problematica nel regno dello ius naturale originario. Questa sintesi è il presupposto evidente di tutta la concezione patristica. Ciò risulta chiaro dal fatto che continuamente il peccato di avidità viene presentato come origine della ( delimitante ) proprietà privata nel senso dello ius gentium. In generale i digest ( I 1,5 ) delimitano il regno dello ius gentium come segue: « ex hoc iure gentium introducta bella, discretae gentes, regna condita, dominia distincta, agris termini positi… », e Isidoro parimenti ( Etym 5,6 ): « Ius gentium est sedium occupatio, aedificatio, munitio, bella, captivitates, servitutes, postliminia ecc. » I teologi vedono come atto di passaggio dallo ius naturale allo ius gentium la usurpatio ( Ambrogio, De off 1,28 ), la confisca ( prolépsis: Basilio, PG 31, 275s. ), attraverso la quale, come descrive quasi miticamente Gregorio di Nazianzo, ebbe luogo la frantumazione dell'eguaglianza originaria in libertà e servitù, ricchezza e povertà ( PG 35,889-92 ). L'origine della proprietà privata coincide a tal punto col momento della caduta del peccato, che sempre nuovamente ci si torna a chiedere in maniera rischiosa come avvenne il passaggio dal nostro odierno possesso apparentemente inattaccabile all'acquisizione operata dai nostri padri e antenati su su fino a quel primo che contro il diritto si arrogò una proprietà. Già Ireneo vede così le cose: « Noi tutti conseguiamo un piccolo o grande possesso, che abbiamo acquisito dal Mammona dell'ingiustizia. Da dove proviene la casa in cui abitiamo, i vestiti che indossiamo, i vasi che adoperiamo e tutto il resto che serve al nostro mantenimento, se non da ciò che noi acquisimmo con avidità quando eravamo ancora pagani oppure che abbiamo acquisito da genitori pagani, da parenti o amici pagani, i quali lo acquisirono praticando dei torti? » ( Adv Haer 4, 30,1 ). Così pure domanda Crisostomo: « Dimmi, da dove ha origine la tua ricchezza? Tu sei debitore di essa ad un altro. E questo altro, a chi ne è debitore? A suo nonno, si dice, o a suo padre. Potrai tu ora, seguendo ulteriormente all'indietro l'albero genealogico, fornire la prova che questa proprietà è stata acquisita per vie conformi alla giustizia? Questo non lo puoi. Al contrario: l'inizio, la radice di questa proprietà, sta necessariamente in un qualche torto praticato. Perché? Perché Dio da principio non ha creato l'uno povero, l'altro ricco ( … ), ma ha affidato invece a tutti la stessa terra in possesso » ( In 1 Tim hom 12 ). Questa opinione penetra così a fondo che ancora nel XIII sec. Guglielmo di Auxerre nella sua « Summa Aurea » lancia la domanda « se colui che per la prima volta si è appropriato di qualcosa ha peccato gravemente ». Guglielmo risponde saggiamente soppesando: se egli lo ha fatto per avidità, sì; no invece, se egli lo fece per la ragionevole considerazione che nell'attuale stato della natura decaduta la comunione dei beni sarebbe dannosa ( Grabmann, Mittelalt, Geistesleben 1926, da Graziano a Tommaso, p. 73 ). A causa della distanza temporale Guglielmo non comprende più che per i Padri la caduta del peccato coincideva con la perdita della comunione dei beni, ma anche con la avidità stessa. Le conseguenze sono molteplici. Poiché la spartizione dei beni, che oramai divenne necessaria, secondo Agostino avvenne iure imperatorum, la proprietà privata è anche in questo diritto qualcosa di relativo. Ciò che è stato dato può, in determinate circostanze, anche venir di nuovo tolto, tanto più se l'uomo non ne fa un retto uso: « Hoc enim certe allenum non est, quod iure possidetur, hoc autem iure quod iuste, et hoc iuste quod bene. Omne igitur quod male possidetur, alienum est" ( Ep 154,6. Cfr. ep 44,11; tr in Job 25-26; Sermo 50,2 ). Inoltre la miglior possibile parificazione dei beni attraverso donazioni ed elemosine non è una pura e semplice opera d'amore dato gratuitamente, ma è un'opera animata dall'obbligo: « lustum est igitur, ut si aliquid tibi privatum vindicas, quod generi humano (…) in commune collatum est, saltem aliquid inde pauperibus aspergas » ( Ambrogio, in PS 118,8,22 ). Nascondi « Misericordia ergo haec iustitia appellata est ( … ) lustus ergo est, qui sibi solo non detinet quod scit omnibus datum » ( Ambrosiaster, in 2 Cor 9,9 ). « Nam cum quaelibet necessaria indigentibus ministramus, sua il-lis reddimus, non nostra largimur, iustitiae debitum potius solvimus quam misericordiae opera implemus » ( Gregorio, Lib Past 3,21 ). Ultimamente l'impegno dei cristiani si indirizzerà a riprodurre secondo le possibilità lo ius naturale dello stato originario. Nascondi Il grande esempio rimane la comunità di Gerusalemme, dove « nessuno di essi diceva suo ciò che possedeva » ( At 4,32 ). Già nella Didaché ( 4,8 ), nella lettera di Barnaba ( 19,8 ), in Giustino ( Apol 14, cfr. 67 ) e Tertulliano ( Apol 39 ) echeggia questa frase e conduce se non alla richiesta di un comunismo obbligatorio, certo però alla più profonda conseguenza etica, come negli Atti degli Apostoli stessi, che si debba essere un cuor solo e una anima sola, per « poter avere tutto in comune ». Non diversamente procedono anche i più estremi tentativi dei Padri di produrre nuovamente lo ius naturale sulla base della grazia dello stato originario ridonataci da Cristo: quando Crisostomo in prediche entusiasmanti incita tutta la sua comunità a mettere insieme i suoi beni e a rinunciare ad ogni proprio possesso ( PG 60,96-98 ), egli non parla come economista dello ius gentium, ma come amante e credente, che si appella alla generosità del puro amore altruista dei cuori dei suoi ascoltatori, e che fondamentalmente sente così pressante ciò che il Vangelo ha enunciato come consiglio, da credere di poter presupporre in tutti lo stesso sentimento: « Io non so come sono arrivato a esigere una così alta perfezione da uomini che credono di fare già molto quando danno del loro denaro appena un po' di elemosina. Perciò le mie parole devono valere solo per i perfetti, ma ai meno perfetti io dico tuttavia: fate parte dei vostri beni! ( In I Cor hom 15,6 ). Infine egli comprende: « Nei monasteri si vive adesso come una volta i credenti » ( PG 60, 96-98 ). Se in ciò non manca del tutto il punto di vista del successo, addirittura della rendita, questo non è però contrario allo spirito del Vangelo, che promette il centuple già su questa terra a coloro che hanno lasciato tutto, se questo accade per il regno dei cieli. E Ambrogio conserva ragione quando dice che « solo l'avidità è il motivo della nostra indigenza » ( In Lue 7,124 ). Riassumendo si può dire circa i Padri che non solo la loro teoria, ma il loro più intimo sentimento della vita viene determinato dalla distinzione nel « diritto naturale » di uno strato primario e uno strato secondario. Nascondi « All'inizio non era così! » ( Mt 19,8 ). Se di fatto non si giunse a nessun tentativo di puro comunismo nella Chiesa, questo mostra solo quanto la Chiesa sia cosciente che non è suo compito quello di condurre l' « eone presente » in quello « venturo » attraverso azioni estrinseche, e che tutte le facili unificazioni del comunismo delle sette e dell'economia moderna con la Chiesa delle origini sono fallite ( cfr. E. Salin, Ge-schichte der Volkswirtschaftsiehre, 1° ed., p. 37 ). Nascondi Questo mostra però d'altra parte anche quanto questa Chiesa sia penetrata dalla parola dell'Apostolo secondo cui si deve possedere come se non si possedesse ( 1 Cor 7,31 ), poiché questo mondo non è né quello inteso originariamente da Dio né quello definitivo. In base al sentimento della vita la tendenza alla povertà corrisponde esattamente a quella alla verginità; solo l'appoggio dato ai giuristi romani e alla filosofia stoica impedisce il parallelismo pieno, poiché qui la coniunctio maris et feminae e la liberorum procreatio erano indicate come appartenenti allo stato dell'ingiustizia. Nel Medioevo e molto ancor più nell'era moderna la posizione fondamentale si sposterà verso il diritto naturale secondario; la distanza e la accentuata indifferenza dei primi secoli si cambierà sempre più in un sentimento di responsabilità e di missione verso la positiva configurazione cristiana del mondo così com'è. Ma « missione nel mondo » non elimina per il cristiano il fondamentale « non esser di questo mondo », e il più gioioso assenso al mondo non può anche per i cristiani moderni - proprio per quanto riguarda la questione della proprietà - offuscare o addirittura eliminare la valutazione fondamentale del Nuovo Testamento Un mutamento nella teoria dell'antico ius naturale avviene grazie alla ricezione di Aristotele al tempo di S. Tommaso. Adesso inizia, anche se lentamente e certo non subito in maniera conseguente, la sostituzione del concreto e analogo concetto di natura ( che si realizza solo nello stato originario, nello stato del peccato e in quello della redenzione ) col concetto astratto, staccabile dagli stati suddetti, di una « natura in sé ». Aristotele non conosce ancora, a dire il vero, la considerazione e graduazione storica della fusis, come la introdusse la Stoa. Così i concetti giustiniano-isidorici di ius naturale, ius gentium, ius civile, sperimentano un profondo cambiamento di valore. Se prima ius naturale era correlato al concreto stato originario, ius gentium allo stato dopo la caduta in generale, e ius civile alla determinazione concreta dello ius gentium presso le nazioni singole, adesso ius naturale contiene il diritto della natura umana considerata a prescindere dalla storia e da tutti gli stati storici; ius gentium e ius civile sono compresi in esso come due possibili derivazioni del diritto naturale: lo ius gentium sorge attraverso universalmente valide conclusiones ex principiis, lo ius civile attraverso determinationes quaedam aliquorum communium ( S Th I II q 95 a 2 ). Il cambiamento nel concetto di diritto naturale ha per conseguenza una nuova posizione a proposito della proprietà privata. La spaccatura diventa chiara con Alessandro di Hales, il quale cerca di far entrare il vecchio contenuto immutato dentro la nuova forma di concetto. Il diritto naturale, così egli obietta, è mutabile, poiché secondo Isidoro e Graziano il possesso comune è di diritto naturale, mentre ora però si può avere senza colpa un possesso privato. Risposta: « Dicendum, quod iure naturali essent omnia communia ( … ) hoc fuit ante peccatum, et post peccatum quaedam sunt quibusdam propria, et haec duo sunt per legem naturalem » ( Summa 3 q 27 m 3, a 2 ). « Secundum diversos status dictat ( lex naturalis ) bonum esse quod omnia sint communia, et quod quaedam sint propria » ( ibid., a 3 ). Stesso modo di vedere è sostenuto da Innocenze IV nel suo « Apparatus ad 5 partes Decret ». ( Cfr. Cariyle V, p. 16, dove ci sono anche altri esempi. Per il primo Medioevo: id. il 41 s., p. 137s. ) In ogni caso è da dire che se in Alessandro è ancora presente il primitivo contenuto dentro la nuova forma concettuale, in lui però la « radicale corrente sotterranea come ricordo della legge naturale assoluta e dell'autentico ideale cristiano » ( Troeltsch ) si è già essenzialmente indebolita. In Tommaso sarà quasi scomparsa del tutto. Quando egli nella sua teoria circa la proprietà privata incontra le teorie patristiche, nella forma in cui Basilio, Ambrogio, Isidoro e Graziano presentano la proprietà privata, allora egli ha a portata di mano una distinzione che è di grande portata: l'uomo ha per natura ( e questo concetto è adesso univoco, e non più analogo in base agli stati della natura ) il diritto di acquisire dei beni per sé e di cederli da sé. Diversamente invece è stabilito per quanto riguarda l'uso di essi: « Aliud vero quod competit homini circa res exteriores, est usus ipsarum, et quantum ad hoc non debet homo habere res exteriores ut proprias, sed ut communes, ut scilicet de facili aliquis eas communicet in necessitate aliorum » ( S Th il li q 66 a 2 ). Per quanto concerne l'affermazione di Isidoro, la comunanza dei beni della terra non significa per Tommaso nient'altro che essi di per sé potenzialmente non appartengono più all'uno o all'altro ( II II q 57 a 3: « si enim consideratur ager absolute non habet unde magis sit huius quam illius »; cfr. i li q 94 a 5 ad 3 ), e in questo senso ( che tacitamente presuppone il concetto di natura di Isidoro ) può Tommaso aggiungere: « unde proprietas possessionum non est centra ius naturale, sed iuri naturali superadditur per adinventionem rationis humanae » ( il II q 66 a 2 ad 1 ). Questo « Non est centra » è come un'ultima concessione dell'aristotelismo alla concezione primitiva per quanto riguarda la terminologia; ma per quanto riguarda il contenuto c'è tuttavia ancora nella richiesta di S. Tommaso, di possedere il privato in modo tale da tenerlo sempre a disposizione per esser usato dalla comunità per i suoi bisogni, una grande vicinanza alla concezione radicale del Vangelo. Ciò si rafforza nell'applicazione pratica del suo principio, la quale sottrae l'elemosina alla valutazione libera per avvicinarla fortemente alle esigenze della giustizia: « per rerum divisionem et appropriationem ex iure humano ( ! ) procedentem non impeditur quin hominis necessitati sit subveniendum ( … ), et ideo res quas aliqui superabundanter habent, ex naturali iure debentur pauperum susten-tationi ». La libertà rimane solo per quanto riguarda la scelta della persona a cui dare l'elemosina: « Quia multi sunt necessitatem patientes, et non potest ex eadem rè omnibus subveniri, committitur arbitrio unius-cuiusque dispensatio propriarum rerum ». A meno che in casu necessi-tatù il povero o un terzo che ha il dovere di aiutarlo non sottragga al proprietario il necessario per vivere, a cui il povero ha diritto ( II II q 66 a 7 ). Il possesso è peccato nella misurai in cui il ricco « alios ab usu rei indiscrete prohibeat » ( II II q 66 a 2 ad 2 ). Con ciò è salvaguardata l'etica evangelica, ma col rifiuto dell'analogia patristica nel concetto di natura stesso era però fondamentalmente aperta la strada alla moderna « canonizzazione della proprietà privata » ( Salin, loc. cit., p. 46 ). Già Alberto aveva introdotto nel concetto di natura una nuova forma di analogia, che più tardi avrebbe permesso di interpretare giusnaturalisticamente, più o meno, anche ciò che faceva parte del diritto positivo: la natura può venir presa prevalentemente come fùsis o come ratto ( lògos, ragione ) o nell'equilibrio di entrambi questi due momenti ( Grabmann, loc. cit., pp. 92-93 ). Se prendiamo in esame lo stato della questione in Suarez vediamo che essa è già quasi decisa in anticipo dal fatto che ora lo ius gentium viene risolutamente separato dal diritto naturale come tale: « Ius gentium simpliciter ( est ) humanum ac positivum » ( De legibus lib 2 e 19,3; opp v 167 ), esso si distingue dallo ius civile solo per il tatto che è non scritto e come tale nella maggioranza dei popoli fa parte del costume ( ibid., 19,6 ). Ignaro dei reali contesti egli soggiunge: « Idem videtur sensisse Isidorus ». Significativamente emerge ancora una volta in quest'epoca tarda presso certi giuristi una reminiscenza del reale stato delle cose, e la loro opinione la fa propria Vasquez: « Ius gentium prout a naturali dinstinguitur, non continere sub se praecepta aut promissiones, sed solum concessiones quasdam, seu facultates aut permissiones aliquid agendi vel non agendi, non tantum impune, sed etiam iuste et honeste » ( ibid., c 18,1 ). Questo non è nient'altro che l'antica syngnome evangelica e paolina, la concessione di qualcosa di meno buono, che però come tale non è male, la base di tutto il « diritto naturale secondario » dei Padri. Ma questa idea è talmente seppellita dall'aristotelismo che Suarez è costretto a riconoscere onestamente la sua incapacità di comprendere: « hanc vero sententiam, ut verum fatear, non satis intelligo ». Anche Suarez ha pur sempre salvato l'essenziale dell'idea patristica nella misura in cui egli parla solo di una legittimità, non di una necessità della proprietà privata. Egli si contrappone all'opinione di Scoto ( in 4 dist 14 q 1 a 1 ), secondo cui nello stato originario il comunismo era stretto comandamento, abolito però a causa del peccato. Suarez ritiene che un simile « comandamento » nell'Eden non sia dimostrabile, « sicut e converso congruentiae quae ostendut divisionem rerum esse commodiorem in natura lapsa, non probant hanc divisionem esse sub praecepto naturali, sed solum esse buie statui et conditioni hominum accom-modatam » ( De leg 1 2 e 14 n 13 ). Anche Lessio ( De iustitia et iure e 5 dub 3 ) e Laymann ( Theoi mar lib 3 tr L c 5 n 5 ) sono della stessa opinione: la proprietà privata è anche nell'attuale stato dell'umanità non necessaria ma solo legittima, adeguata. Tuttavia bisogna dar ragione a Cathrein quando dice che i motivi addotti in favore della legittimità dimostrano ultimamente anche la necessità per lo stato attuale dell'umanità ( Moralphilosophie n (3), p. 318 ). Essenziale resta quello che anch'egli ammette: « In paradiso non sarebbe certo sopravvenuta proprietà privata alcuna ( … ) Riguardo al presente stato decaduto dell'umanità si può perciò dire che la proprietà privata è conseguenza del peccato, o meglio: che il peccato ha portato l'uomo nella situazione in cui la proprietà si rivela come un necessario ordinamento razionale » ( ibid., p.314 ). Che emerga il concetto di « mio e tuo » e divenga indispensabile, questo l'umanità lo deve al suo allontanamento dalla « ricchezza » dell'Eden, in cui si poteva essere completamente « poveri » senza per questo languire. Questa povertà corrispondeva alla pienezza della grazia e della destinazione dell'uomo all'amore. Poiché l'amore dona solamente e non trattiene nulla per sé. Il possesso in proprio, a cui la necessità spinge l'uomo, rimane qui sulla terra un freno alla dedizione completa. Nell'atteggiamento di fondo uno può esser pienamente generoso e povero, e tuttavia egli non può far a meno di esigere per sé certi beni del mondo che gli sono necessari e che di donarli non ha neppure il diritto. Così pure egli non può rinunciare in questo mondo all'uso autonomo della sua ragione e della sua libera volontà; egli ha per così dire distillato questi poteri dalla loro unità con la grazia dello stato originario, e adesso essi restano a lui in mano come doni, come natura sua, sovraccaricata però della maledizione, non più organo interno invisibile della fede e dell'amore, ma parte estratta artificiosamente dal tutto, con la quale soltanto egli non sarà più in grado di adempiere alla sua destinazione originaria. Al posto della fede e dell'amore egli ha ricevuto in cambio il bene dell'autodeterminazione, ma questo bene in sé positivo resta però, visto a partire dall'origine, risultato di un depotenziamento e non è più sufficiente, senza la fede e l'amore, a raggiungere la destinazione originaria. La stessa cosa vale per la sessualità quale si è venuta a creare: essa non è assolutamente cattiva, ma la forma del suo manifestarsi è parimenti conseguenza di un depotenziamento, ed anche la più grande premura nell'evitare ogni colpa nell'utilizzo di queste energie non basta a riprodurre la purezza e la verginità originarie. Nascondi Tutti e tre i risultati della caduta sono inseparabilmente collegati: la sessualità da una parte con la morte e i suoi segni precursori - poiché « molto gravame imporrò sulla tua maternità: nel dolore tu avrai figli » -, dall'altra con la volontà di proprietà e di possesso, al punto che proprio essi si svilupperanno fino a divenire il campo delle più mortifere battaglie per il potere: « E tuttavia il tuo istinto ti porterà verso il tuo uomo, che dominerà su di te » ( Gen 3,16 ). L'autonomia morale come riconoscimento del bene e del male non si lascia separare dall'autodisposizione sulla speciale determinazione degli istinti del corpo e dal possesso di sé quale garanzia e manifestazione esterna di questa autonomia. E la volontà di possesso è al fondo già identica alla volontà di padronanza del bene e del male e di comando della propria fecondità corporale. Nascondi Solo in questo si differenziano qui i due sessi, che l'uomo ha più da soffrire per il possesso esteriore ( in quanto il terreno è stato a causa sua maledetto ), mentre nell'ambito sessuale è piuttosto colui che domina e possiede, la donna invece soffre piuttosto del venir posseduta nell'ambito sessuale, ma come madre di tutti i viventi ( Gen 3,20 ) ottiene una posizione che la eleva nei confronti dell'uomo. Così il nuovo stato dell'umanità creato dal depotenziamento è ben concatenato e altrettanto coerente e unitario come lo era lo stato originario. Una parziale riacquisizione della destinazione originaria è a partire da esso impossibile. Infatti « Dio scacciò l'uomo dal giardino dell'Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Nascondi Scacciò l'uomo e pose ad oriente del giardino dell'Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all'albero della vita » ( Gen 3,24 ). Riguardando indietro allo stato dell'uomo nell'Eden la sua essenza diventa ora meglio comprensibile. Essa è la totalità di quello che dopo si è disgregato in parti contrapposte: la perfetta, salda e inattaccabile unità di fede obbediente che comprende e che è libera, di purezza verginale che è feconda, e di povertà che non distingue mio e tuo, ma è pienezza e ricchezza. Perché Adamo è obbediente, per questo egli è sovrano padrone della creazione. Perché egli ed Eva sono vergini, per questo essi sono destinati alla massima fecondità, che è quella della purezza. Ed è perché essi sono perfettamente poveri che vivono nella sovrabbondanza dei doni di Dio e non conoscono né necessità né bisogno. Lo stato originario è dunque la perfetta sintesi dello stato di vita cristiano nel mondo e di quello che segue i consigli, dove lo stato dei consigli esprime l'atteggiamento e la disposizione interiori mentre lo stato mondano esprime l'adempimento e la corrispondenza esteriori. Che la disposizione interiore era quella della perfetta obbedienza, della perfetta verginità e della perfetta povertà lo si può arguire dal fatto che i tre consigli come atteggiamento interiore esprimono l'amore più perfetto che nella grazia è raggiungibile per l'uomo. Poiché però nello stato originario non c'è ancora alcuna scelta fra stati di vita diversi, l'atteggiamento interiore dei consigli è una cosa sola con la loro pratica esteriore. L'uomo originario è non solo interiormente pronto a scegliere povertà, verginità e obbedienza se Dio lo vuole scegliere per questo stato; egli è piuttosto sin da principio realmente insediato in questo stato come « stato della perfezione » che Dio ha scelto per lui come il migliore che egli potesse ideare. Nello stato originario i tre atteggiamenti d'amore non significano in alcun modo rinuncia; essi sono piuttosto l'espressione di un amore che possiede in sé ogni ricchezza, ogni benedizione, ogni pienezza. Nessuno è più libero di colui che obbedisce a Dio; nessuno è più fecondo di colui che è casto, nessuno più ricco di colui che non vuol possedere niente di proprio. Chi invece vuole accaparrarsi la benedizione senza l'atteggiamento d'obbedienza, castità e povertà, riceverà in cambio la maledizione. Così la presunta libertà che non vuole obbedire a Dio si volge nella maledizione dell'obbedienza alle leggi del mondo, nell'amara servitù del duro dovere, dentro la cui costrizione l'uomo si trova ad essere preso. E la fecondità che l'uomo decaduto si prende per sé sarà una fecondità sotto la maledizione, legata alla perdita della verginità e alla mortificazione dell'amore spirituale ad opera dei più bassi istinti della natura. Nascondi Il possesso, che l'uomo prendendo la mela afferra per sé, si muterà infine nella più evidente delle maledizioni, giacché la creazione sottoposta controvoglia alla caducità ( Rm 8,20 ) costringe l'uomo a preoccuparsi della sua proprietà, che egli con fatica si guadagna, con fatica difende e da ultimo tuttavia o consuma o perde o deve nella morte lasciarsi strappar di mano. Il cielo Dio non congeda l'uomo dall'Eden gettandolo nella disperazione. Egli pone all'uscita del paradiso terrestre la spada fiammante non senza però l'immagine della madre col bambino. Verrà una che muterà in benedizione la maledizione di Eva. Nella perfetta obbedienza del suo sì ella spegnerà ciò che la bramosa disobbedienza di Eva ha acceso. Nella perfetta purezza della sua eterna verginità ella realizzerà in sovrabbondanza la fecondità dell'Eden: partorirà Dio stesso, che redime il mondo dalla sua colpa. É nella completa povertà che pone tutto il suo essere, corpo e anima, a disposizione dei piani di Dio, ella volgerà di nuovo la forzata povertà e miseria dell'umanità decaduta verso l'originaria ricchezza dell'offerta di sé. Tutto ciò ella non lo compirà per forza e virtù propria, ma come colei che è stata prescelta, portata dalla grazia di Dio, avvolta in questa grazia ancor più di Adamo ed Eva, più immune di essi prima della caduta, più protetta nei confronti di ogni tentazione. Senza questa promessa la caduta dal paradiso terrestre sarebbe stata un precipitare in un sicuro tramonto senza speranza di ritorno. Così invece si apre sin dall'inizio la prospettiva di una ancora inimmaginabile possibilità di adempiere malgrado tutto la destinazione originaria. L'uomo ottenne questa destinazione quand'era ancora all'inizio del suo cammino, con la possibilità di decidersi a favore di essa e così anche di decadere. Noi interpretiamo qui il Protoevangelo secondo la tradizione antica, la quale - qualunque obiezione possano fare gli esegeti - guardando l'intera economia della salvezza ha sicuramente ragione. Egli fu posto nel mondo terreno per mantenersi nello stato originario e così andare incontro al suo stato finale presso Dio: il cielo. Nascondi A suo tempo Dio avrebbe porto a lui i frutti dell'albero della vita ( Ap 2,7 ) e gli avrebbe fornito l'altra immortalità, quella celeste, dalla quale non si può decadere. Poiché egli soggiacque alla tentazione, deve ritrovare per strade più lunghe l'accesso allo stato finale, che partendo dallo stato originario sarebbe stato più vicino e privo di fatica. Sarebbe stato un cammino di pienezza, di ampliamento, di eternizzazione di ciò che è fondato e cominciato nel bei mezzo del mondo terreno. Anche il cielo non lo si può descrivere altrimenti che come la perfetta unità di ciò che adesso, nel mondo decaduto, si intravvede in ambedue gli stati. Il cielo è il compimento dell'amore, la definitiva iniziazione negli abissi e nelle infinitamente aperte dimensioni della dedizione trinitaria. Così esso è in primo luogo la completa unità di obbedienza e libertà. Sarà un'obbedienza che è parte integrante dell'amore stesso: la prontezza contemporaneamente totale e tuttavia sempre superata ad esser una sola cosa con la volontà di Dio, a riconoscere questa volontà come la regola e l'adempimento del proprio essere, anzi come la massima beatitudine, così come la gioia eterna dell'eterno Figlio è quella di fare la volontà del Padre. Ogni volta che l'Apocalisse, in mezzo alle visioni dell'epoca attuale del mondo, ci permette di gettare uno sguardo nella vita celeste, si apre la veduta di un'enorme scena di adorazione, in cui angeli ed eletti davanti al trono del Padre e dell'Agnello si prostrano, gettano le loro corone ai loro piedi e nell'incenso che sale ogni pensabile rendimento di lode viene tributato dalle preghiere di tutti i santi. Nascondi « Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen! » ( Ap 7,12 ). È la schiera completa degli appartenenti all'amore: « Il trono di Dio e dell'Agnello sta in mezzo ad essa », la sposa celeste, « e i suoi servi lo adorano. Essi vedono la sua faccia e portano il suo nome sulla fronte » ( Ap 22,3 ). La loro beatitudine consiste nello stare eternamente nel più ampio spazio di Dio, nel riconoscere e adorare Dio come colui che è eternamente superiore. Nascondi Così si adempie la profezia a cui Cristo si richiama: « Tutti saranno istruiti da Dio » ( Gv 6,45 ). È un'obbedienza al di là di ogni timore, « poiché l'amore perfetto scaccia il timore » ( 1 Gv 4,18 ), ma per questo tanto più ricolmo di timore reverenziale, che cresce all'infinito insieme con la conoscenza e l'amore di Dio ( Sal 19,10 ), ed esige la sottomissione di tutte le proprie forze, pensieri e decisioni. Questa sarà la « libertà » della « Gerusalemme celeste » ( Gal 4,26 ). E un uomo non entrerà nel regno dei cieli prima che non abbia imparato nell'anticamera del cielo a rinunciare ad ogni volontà propria, ad ogni ricerca di sé e autonomia personale che si contrapponga come istanza autosufficiente alla volontà di Dio. Nel cielo la verginità dell'Eden troverà il suo compimento. Certo, se noi non possiamo formarci alcuna immagine già della fecondità dell'uomo dell'Eden, che dev'essere stata una fecondità primariamente spirituale e solo secondariamente sessuale, ancor meno possiamo immaginare ciò che sarà l'adempimento celeste di questo miracolo paradisiaco. Nascondi Noi sappiamo solo che risorgeremo con corpi spiritualizzati, e che in questi corpi « saremo simili agli angeli e figli di Dio », poiché « siamo figli della Risurrezione » ( Lc 20,36 ). Al matrimonio non si penserà più: « essi non prendono moglie né marito, poiché non possono più morire » ( Lc 20,34ss ). Da questo « poiché » diventa ancora una volta chiaro che gli uomini, nello stato originario, in quella maniera in cui « i figli di questo mondo si sposano » ( Lc 20,34 ) non avrebbero certo potuto sposarsi, giacché nell'Eden essi non erano mortali. Nascondi Da quella misteriosamente feconda verginità, che non stava in indissolubile collegamento, come è per l'attuale matrimonio, con umiliazione, dolore e morte, sarebbe stato possibile un passaggio immediato alla verginità angelica tipica del mondo nuovo, dove non solo « non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno » ( Ap 21,4 ), ma anche nessun mare minaccioso ( Ap 21,1 ), da cui sale la bestia della sensualità ( Ap 13,1 ), ed anche « nessuna notte » ( Ap 21,25 ) in cui si è esposti alla tentazione. Tutti « vivranno per Dio » ( Lc 20,38 ) col corpo e con l'anima, e poiché non c'è niente di più fecondo dell'amore, e nella dedizione a Dio l'amore sarà perfetto, questo amore celeste sarà una fecondità senza confini e inafferrabile. Nascondi L'amore sessuale sulla terra è, a causa del suo legame con la materia, qualcosa di scarso e limitato a confronto con quella fecondità che i frutti dell'albero della vita ( Ap 22,2 ) e l'acqua della fonte della vita ci possono comunicare. Questi frutti diverranno in noi, come tutte le grazie di Dio, frutti nostri, così come l'acqua che il Signore concede diverrà in noi sorgente di acqua viva che sgorga nella vita eterna ( Gv 4,14; Gv 7,38 ). E tutto ciò che è torbido e opaco, che grava sugli istinti quando essi non sono, come nell'uomo paradisiaco, puri strumenti dello spirito, si muterà nel mondo celeste nella trasparenza del vetro e del cristallo. Nascondi Le acque, sulle quali il Signore nella sua verginità poteva camminare sicuro e su cui Pietro nella fede tentò di camminare, ma per debolezza cominciò ad affondare, saranno lassù trasformate in un « mare cristallino », « sul quale coloro che hanno vinto la bestia stanno ritti in piedi e cantano il canto dell'agnello » ( Ap 15,2s ). Sprofondare può lo spirito solo ormai in ciò che è al di sopra di lui: nell'incomprensibilità di Dio; ma in ogni caso egli sta saldo su ciò che è sotto di lui: sul mondo sensibile. Le strade della città celeste « saranno di oro puro, come cristallo trasparente » ( Ap 21,21 ). Così il cielo sarà da ultimo anche la perfetta povertà. « Quella fredda parola di mio e tuo » ( Crisostomo ) là non ci sarà più, poiché tutto sarà comune a tutti. Non sarà però una comunanza del furto e dell'espropriazione, ma bensì dell'offerta e della volontaria donazione, e per questo, giacché tutti riceveranno doni da ogni parte, la pienezza della ricchezza. Ognuno possiederà tutto tranne ciò che è proprio, e infine anche ciò che è proprio, in quanto esso gli viene attribuito da Dio e dal prossimo nell'amore. Ma non più ci sarà lo scambio dei beni che sta lì a soppesare, col pensiero segreto da ambo le parti di arricchirsi attraverso lo scambio. Tutto ciò che fa pensare al commercio sarà completamente sparito. Nascondi Nella Scrittura i commercianti vengono menzionati l'ultima volta quando si parla della caduta della grande prostituta Babilonia: insieme ai re della terra essi si lamentano perché dopo il suo annientamento nessuno compra più le loro merci ( Ap 18,11 ). Tutti loro si sono arricchiti grazie alla grande Prostituta, direttamente o indirettamente, come i « naviganti e marinai », che pure piangono la sua caduta, perché adesso non ha più importanza la produzione e il trasporto delle merci ( Ap 18,17-19 ). Tutto ciò che è collegato alla compravendita deve venir deposto, azioni e intenzioni, nell'anticamera del cielo. Nascondi Nel cielo si dona e si riceve tutto « gratis » ( Ap 21,6; Ap 22,17 ), come già nell'Antico Testamento la sapienza era gratuita ( Is 55,1 ), e come il Signore si offre senza prezzo a tutti ( Gv 7,37 ) e istruisce i suoi discepoli a dare gratuitamente ciò che essi gratuitamente hanno ricevuto ( Mt 10,8 ). È povertà non a favore di se stessi, ma a servizio dell'amore e come espressione di esso, che si manifesta in un eterno scambio circolare di tutti i beni. Esso non elimina il carattere speciale delle nature e delle grazie pensate da Dio per i singoli uomini, e tanto meno elimina i compiti; ma ciò che ognuno ha, lo possiede solamente per tenerlo a disposizione degli altri, in modo che non solo è pronto a prestare beni esteriori a Dio e alla comunità, ma trasforma in dono tutto dò che egli ha ed è. Nascondi In questo, altrettanto che nella compiuta obbedienza e nella purezza, consisterà una parte della beatitudine, giacché « vi è più gioia nel dare che nel ricevere » ( At 20,35 ), a meno che il ricevere stesso non divenga una forma del dare, così come Paolo sa ricevere per donare ai Filippesi la gioia e il merito del dare ( Fil 4,10.17 ), e così come Maria si rallegra di essere colmata da Dio di simili doni, poiché così ella sarà occasione di beatificazione per tutti i popoli ( Lc 1,48 ). Nell'anticamera del cielo ognuno verrà purificato fintantoché non ha acquisito l'atteggiamento interiore della povertà perfetta: ogni disputa per il mio e il tuo, per ciò che mi viene per vie legali addebitato e ciò che per vie legali tocca a te in sanzioni, diffide, ispezioni, istruttorie, ogni distinzione tra ciò che è mio diritto e ciò che è tuo diritto, ogni pretesa accampata nei confronti di Dio o del prossimo a qualsiasi titolo, in nome proprio o in nome del prossimo o in quello di una qualche giustizia universale in generale, tutti questi concetti e rappresentazioni, che complessivamente sono cresciuti sul terreno di una sfera privata ( quantunque anche così spirituale ed etica ), devono venir deposti, al più tardi nel fuoco purificante. Là sarà da imparare anche la cosa più difficile, che solo a fatica entra in testa all'uomo di questo mondo, desideroso di giustizia e diritto: non distinguere più, nella stessa questione circa la colpa, tra mio e tuo, ma vedere nel peccato solamente ormai l'offesa inferta all'eterno amore di Dio, senza curarsi più di chi possa aver commesso il peccato, e perciò di conseguenza essere pronti ad espiare per ogni peccato, chiunque possa averlo commesso, così a lungo come piaccia a Dio. Nascondi Non è infatti possibile entrare nel cielo con un amore meno perfetto di quello che Paolo possedette sulla terra, lui che per amore ai suoi compagni di stirpe avrebbe portato volentieri su di sé la loro sorte, di essere anatema, separato da Cristo ( Rm 9,3 ), e che con questo non fece altro che assumere l'atteggiamento del Signore, il quale ha redento il mondo e ha fondato l'amore cristiano attraverso una sofferenza che non ricercava la giustizia della punizione, ma la grazia di poter soffrire. Nascondi Questa sarà dunque l'ultima e decisiva povertà del cielo: che ogni pensiero alla giustizia e alla ricompensa verrà definitivamente tolto da noi e realmente « diverrà manifesta la giustificazione da Dio senza la legge » ( Rm 3,21 ), unicamente in base alla legge della gratuita misericordia di Dio, in cui ogni giustizia è allo stesso tempo adempiuta e sovradempiuta. Poiché nella stessa misura in cui noi richiediamo la giustizia essa ci verrà anche elargita ( Rm 4,4 ), ma questa giustizia allora può essere soltanto una giustizia giuridica: « poiché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati ». Nascondi Dunque « non giudicate, per non esser giudicati » ( Mt 7,1-2 ). Come poi anche il re « consegna ai torturatori finché non abbia pagato l'intero debito » il servo non misericordioso, così il Signore si ricollega a ciò ammonendo: « così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello » ( Mt 18,35 ). Ma « se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi » ( Mt 6,14 ). Nascondi « Perdonate, e vi sarà perdonato » ( Lc 6,37 ). Questa è però l'estrema povertà: la rinuncia al proprio diritto, a tutta la rappresentazione in noi radicata di una inattaccabile sfera privata di diritti, pretese, esigenze motivate. Una volta lasciata perdere questa, saremo « poveri nello spirito », che vengono per primi detti beati ( Mt 5,3 ). Così lo stato finale nel cielo sarà il compimento dello stato originario nell'Eden. Nel piano originario di Dio gli stati di vita che la Chiesa oggi conosce non avrebbero avuto bisogno di differenziarsi staccandosi dalla sua unità. Povertà, verginità e obbedienza non sarebbero stati in opposizione alcuna rispetto a ricchezza, fecondità e libertà, ma sarebbero invece stati sin dall'inizio la loro più valida espressione e nel compimento del cielo la loro definitiva conferma. Così l'uomo avrebbe potuto adempiere alla sua prima destinazione: la destinazione all'amore; povertà, verginità e obbedienza sarebbero state solamente le tre forme in cui si sarebbe manifestata la piena figura del suo amore. In esse si sarebbe soltanto dispiegato il suo voto originario senza dolorose rinunce; esse avrebbero manifestato l'orientamento fondamentale della sua anima verso l'amore, equivalente all'orientamento verso la felicità. Il desiderio di felicità avrebbe sempre avuto la forma del donarsi, dell'estasi dell'io al di fuori di sé, del completo servizio a Dio e al prossimo. E così questa tensione avrebbe da sé collocato ogni singolo nel compito ideato da Dio per lui, poiché nulla nell'uomo, nessuno scrupolo egoistico, nessun oscuramento provocato da egoistici istinti contrari, si sarebbe contrapposto al chiaro riconoscimento e alla pronta accettazione della volontà di Dio. L'uomo avrebbe così avuto il suo inconfondibile stato ( Stand ), nella distanza ( Ab-Stand ) da Dio tipica del servizio e nella vicinanza ( Nah-Stand ) a Lui tipica della missione, poiché colui che ama sa bene che egli non sarà mai identico all'amato, tuttavia per amore si immedesima nella volontà di lui. Seconda parte: Gli stati di vita del cristiano A. La prima separazione degli stati di vita L'opera della separazione L'unità dello stato originario, che era destinata a sfociare nello stato finale celeste, è infranta. La solidarietà tra tutti coloro che partecipano della natura umana è infatti così grande che nessuna decisione di un singolo può rimanere senza conseguenze per l'intero genere umano. E nessuno che partecipi della natura decaduta comune a tutti può innalzarsi al di sopra del genere umano per salvarlo tutto quanto. Dovrebbe venire uno non soltanto dall'interno, ma contemporaneamente dall'alto, per ricostituire il piano originario di Dio. La realtà del peccato non può venir mutata in irrealtà da un decreto esterno di Dio. Il Figlio di Dio doveva prenderla su di sé, per espiarla nell'abbandono della croce. Ma anche questo non poteva accadere semplicemente dall'esterno. Non avrebbe corrisposto alla dignità della natura umana, se questa fosse stata trasferita in un altro stato come un oggetto senza vita; molto più si addiceva invece che nell'opera della massimamente libera grazia di Dio non mancasse il sì della cooperazione umana. Per questo dallo stato della colpa in cui finora essa si trovava, l'umanità viene portata dal Redentore in un nuovo stato riconciliato con Dio: lo stato della croce, nel quale essa, grazie alla libera grazia della croce stessa, viene posta nella condizione ( in-Stand-gesetzt ) di cooperare alla completa redenzione e di percorrere la strada verso lo stato finale celeste insieme col Redentore. Questo venir posti nella condizione di cooperare era necessario, poiché lo stato decaduto della colpa tolse all'uomo ogni possibilità di ricollocarsi con una prestazione propria nello stato della riconciliazione con Dio. Nascondi Quello che l'uomo come peccatore può fare è duplice: o rendersi conto della sua separazione da Dio a causa del peccato e lasciarsi andare disperato nella finitezza e nella caducità - « mangiamo e beviamo, perché domani moriremo! » ( 1 Cor 15,32 ) - oppure ( fondamentalmente non meno disperato ) tirarsi fuori con la violenza da questa finitezza e caducità attraverso progetti e tecniche religiose che si presume debbano liberare dai limiti salendo dall'uomo al superuomo, dal legame col corpo al puro spirito, dallo spirito finito a quello assoluto. La prima via è testarda rassegnazione, la seconda altrettanto testardo titanismo. Su ambedue queste strade l'uomo distrugge se stesso, poiché il suo destino sta al di là della sua natura e delle sue capacità, e solo nella riconciliazione con Dio egli può percepire questo destino e con la grazia di Dio perseguirlo. Ciò che Gesù chiamerà « il mondo », nel senso negativo dell'ambito della lontananza da Dio, che ritiene di non abbisognare della grazia di Dio, oscilla tra questi due estremi della ricerca di sé e della fuga da sé, e in questo movimento rimane caotico e tenebroso. Il peccato infatti è essenzialmente caos, non volendo riconoscere l'originaria analogia della creatura nei confronti di Dio e oscillando perciò disperato tra identità e dialettica ( della negazione di Dio ), per giungere infine a considerare caoticamente l'uno e l'altro uguali. Analogia significa l'ordine di distanza e vicinanza, in cui attraverso una chiara distinzione viene costituita una chiara relazione. Il caos rimane tenebra, poiché senza Dio l'uomo - che egli neghi Dio o che si eguagli a Lui - non può rischiarare se stesso. Nascondi « Allora Dio disse: sia la luce! e la luce fu. E Dio vide che la luce era cosa buona. Così Dio separò la luce dalle tenebre » ( Gen 1,3-4 ). Questa volta appare non la luce creata, ma la luce increata. Dio stesso, « che è luce, e in lui non ci sono tenebre » ( 1 Gv 1,5 ), mandato dal « Padre della luce » ( Gc 1,17 ), colui che viene come luce per brillare nelle tenebre ( Gv 1,5 ) del mondo: « Io sono la luce del mondo; chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma ha la luce della vita » ( Gv 8,12 ). Nascondi « Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre » ( Gv 12,46 ). La luce che questo inviato porta è egli stesso, cioè l'amore, e venire in luce significa entrare nel suo amore, significa « essere chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce » ( 1 Pt 2,9 ), significa essere in grado di « partecipare alla sorte dei suoi santi nella luce » ( Col 1,12 ). Essere nella luce significa però amare, così come egli ama, in maniera perfetta ( 1 Gv 2,5 ); ed essere nelle tenebre significa rifiutare l'amore, significa odiare. « Le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende. Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v'è in lui occasione di inciampo. Nascondi Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va » ( 1 Gv 2,8-11 ). Luce e tenebre vengono separate da Dio prima di ogni altra cosa, prima ancora che si possa pensare ad una mediazione tra le due. Solo allorché esse stanno polarmente l'una di fronte all'altra come chiare realtà, senza più mischiarsi in maniera sfumata, diviene possibile una creazione ordinata. Questo vale più che mai quando stanno l'una di fronte all'altra la luce dell'amore e la tenebra dell'odio. Nascondi Per questo appare il Figlio di Dio, che deve alla fine riconciliare tutto e abbattere ogni muro di separazione innalzato dal peccato ( Ef 2,14 ), la Chiesa del Quale sarà universale e in segno di unità nello spazio e nel tempo, nella struttura interna e nel modo di pensare, si distinguerà da tutte le sètte. I suoi appartenenti « devono studiarsi di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace; poiché voi siete un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione » ( Ef 4,3-4 ). Per questo il Figlio di Dio appare, dicevo, nel segno della radicale separazione. Separazione, diamerismòs, è il suo messaggio: « Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, vi dico, ma divisione. Nascondi D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre » ( Lc 12,51-53 ). « Io non sono venuto per portare la pace sulla terra, ma la spada » ( Mt 10,34-36 ). Questa spada diventa suo attributo permanente: « nella bocca teneva una spada affilata a doppio taglio » ( Ap 1,16 ), giacché la sua parola - ed egli è questa parola - essenzialmente taglia e divide, « poiché la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore » ( Eb 4,12 ). Nascondi Con questa spada della sua bocca egli minaccia di combattere contro i peccatori ( Ap 2,16 ) e di sconfiggere i popoli ( Ap 19,15 ), con essa vengono uccisi tutti coloro che gli hanno combattuto contro ( Ap 19,21 ). Così egli fa partire anche, con l'apertura del secondo sigillo apocalittico, quel cavaliere al quale « è stato conferito il potere di togliere la pace dalla terra, cosicché gli uomini si sgozzassero a vicenda. Per questo gli fu consegnata una grande spada » ( Ap 6,4 ); egli è il principio della divisione. Gesù non ha timore di porre gli uomini di fronte alla decisione ultima. Egli la provoca addirittura, e si crea così una schiacciante schiera di nemici. Nascondi Egli non lascia valere zona alcuna di verità neutrali, teoretiche, poiché « Io sono la verità » ( Gv 14,6 ). Verità e menzogna dell'uomo, luce e tenebra, salvezza e perdizione si decidono dalla decisione prò o contro lui ( Mc 8,38 ). Una volta posta l'affermazione generale: « Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro » ( Mt 6,24 ), verranno da essa tratte due conseguenze: « Chi non è con me è contro di me » ( Mt 12,30 ), e: « Non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi, è per noi » ( Mc 9,39-40 ). Nascondi Insopportabile è ora la tiepidezza: « Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè ne freddo ne caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca » ( Ap 3,15-16 ). Il suo effetto è dunque primariamente un effetto divisore, e in tal modo un effetto che è in grado di porre ordine. Solo sulla base di un chiaro « sì, sì, no, no » ( Mt 5,37 ) egli può e vuole operare in quanto amore. Nascondi Egli sa che cosa con un simile programma aspetta i suoi e non si stanca di annunciare questa sorte ai suoi discepoli, né tantomeno di lasciarli nell'ignoranza di che cosa attende anch'essi se vogliono essere suoi discepoli e seguaci: « Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Beelzebùi il padrone di casa, quanto più i suoi familiari! » ( Mt 10,22-25 ). Come egli sarà odiato, perseguitato e ucciso dall'odio delle tenebre, così i suoi discepoli saranno da tutti odiati, arrestati e perseguitati; chi si lasciasse da questo destino distogliere dalla sua sequela, anche solo si stupisse di ciò e per questo diventasse incerto, non sarebbe degno di Lui ( Mt 10,17-22; Lc 21,8-19 ). Nascondi E a chi lo avrà rinnegato davanti agli uomini egli promette che lo rinnegherà davanti agli angeli di Dio ( Lc 12,9 ). Egli stesso è il fuoco che consuma ( Eb 12,29 ), che egli è venuto a gettare sulla terra e il cui effetto divorante egli attende ansiosamente su se stesso ( Lc 12,49 ). Chi si avvicina a lui, si avvicina al fuoco ( àgrafon ). Così egli non vuole neppure movimenti di massa in cui il singolo venga in certo qual modo trascinato anonimamente; vuole invece la decisione personale, in cui si è sempre unici e soli: « Larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano! » ( Mt 7,13s ). Con inflessibilità simile alla durezza dell'acciaio il Figlio ripete il comandamento dell'amore come suo comandamento. Nascondi È egli che riassume tutta la Legge e i Profeti in queste parole che esigono tutto ( Mc 12,29-31 ) e che nei suoi discorsi d'addio fa sfociare tutto in questo comandamento. Ed anche se egli dapprima lo ripete nella forma dell'Antico Testamento, vale a dire che si deve amare il prossimo come se stessi, e cioè « tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro » ( Mt 7,12; Lc 6,31 ), tuttavia egli supera questa misura dell'amore al prossimo che resta collegata all'amore di sé con il suo proprio comportamento, lasciando che lo si trattasse così come non si augurerebbe a nessun uomo, rinunciando a misurare l'amore agli altri secondo l'amore a sé e consegnandosi così completamente da salvare tutti proprio attraverso il suo esser abbandonato. Nudo egli si espone al peccato, per non lasciare nessuna distanza fra le tenebre e la luce, per far brillare la sua luce fin negli ultimi ripostigli della potenza antidivina passando attraverso morte, abbandono ed esperienza degli inferi. Nascondi Questa mancanza di risparmio dell'amore ( Rm 8,32 ) che offre volontariamente la sua vita per i nemici supera il comandamento dell'amore dell'Antico Testamento, e giustifica la sua denominazione di « comandamento nuovo » ( Gv 13,34 ). Ciò che è nuovo è dunque il fatto che come misura dell'amore al prossimo non venga più posto il proprio io con i suoi desideri, ma l'amore del Signore. E questo comandamento nuovo diventa il criterio dell'appartenenza a Lui. « Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Nascondi Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » ( Gv 13,34-35 ). « Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando » ( Gv 15,12-14 ). Nascondi Il comandamento di amare così come Gesù lo ha fatto non viene però presentato come un grado raggiungibile solo con estrema fatica, un affare altamente delicato, ma come una cosa ovvia, semplice, naturale e valida per tutti, che risulta come di per sé dal fatto della redenzione: « A questo infatti siete stati chiamati. Anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme » ( 1 Pt 2,21 ). Niente suona così semplice e così convincente come la conseguenza che il discepolo dell'amore tira dal fatto della dedizione di Cristo: « Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato » ( 1 Gv 2,6 ). Nascondi « Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ). « Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri » ( 1 Gv 4,11 ). « Sì, questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, deve anche amare il suo fratello » ( 1 Gv 4,21 ). Non si dice affatto che il « deve » che si esprime in questo comandamento sia da interpretare come un semplice consiglio. Nell'opera della separazione di luce e tenebre non si tratta di passaggi a tastoni e di penombre, di umani tentativi e fallimenti, ma solamente di bianco e nero. Nascondi Il comandamento è come all'inizio l'amore perfetto: « Chi dice: lo conosco, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto » ( 1 Gv 2,4-5 ). « Io vi dico: amate i vostri nemici ( … ) Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » ( Mt 5,44.48 ). Si tratta di un inaudito, apparentemente del tutto irreale, utopico aut-aut tra Dio e il diavolo, amore perfetto e perfetto odio. « In Lui ( Cristo ) non v'è peccato. Chi rimane in lui non pecca; chiunque pecca non lo ha visto ne l'ha conosciuto. Figlioli, nessuno vi inganni. Chi pratica la giustizia è giusto com'egli è giusto. Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché il diavolo è peccatore fin dal principio ( … ) Chi è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio. Nascondi Da questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, né lo è chi non ama il suo fratello » ( 1 Gv 3,5-10 ). In nessun posto nel Vangelo la perfezione dell'amore viene presentata come un semplice consiglio e non invece come un autentico comandamento. Una cosa così ovvia come la luce, che semplicemente c'è, brilla e si profonde. Il comandamento viene infatti impartito dall'amore stesso, e l'amore non conosce alcun altro riguardo che il riguardo per l'amore stesso. Tutto quello che appartiene ad esso è necessariamente buono, tutto quello che lo offusca o lo ostacola è altrettanto necessariamente cattivo; non ha alcuno spazio nell'amore: l'amore non lo conosce e non può nemmeno entrare con esso in relazione. L'amore non può trattare e mercanteggiare su se stesso. Esso è indivisibile, lo si può solo prendere o lasciare, amare od odiare. L'opera della separazione porta alla formazione della Chiesa nella sua contrapposizione al « mondo ». La Chiesa è lo spazio della luce, che si staglia al di sopra dello spazio delle tenebre e al di fuori di esse. Questa separazione si compie attraverso un duplice e tuttavia unitario atto di Dio: la scelta e la chiamata. Attraverso la scelta Dio si prende cura di un uomo o di un popolo e lo tira fuori in tal modo dagli altri che restano non eletti. Attraverso la chiamata Dio notifica questa scelta agli eletti, che divengono così dei chiamati. Non è possibile che Dio si scelga un uomo o un popolo senza notificare questa scelta nella chiamata. Nascondi Così i cristiani, in quanto formano la Chiesa, sono « la stirpe eletta, ( … ) il popolo - che Dio si è conquistato ( … ) chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce » ( 1 Pt 2,9 ). Questi due concetti di chiamata ed elezione ( klésis kai /ekloghé, 2 Pt 1,10 ) stanno assieme e si completano l'un l'altro a formare ciò che fonda lo stato del cristiano nella Chiesa. Nascondi Questo stato ha la sua origine addirittura nell'atto di Dio, che nella chiamata che sceglie separa il cristiano dal mondo e lo colloca là dove egli in forza dell'elezione e della chiamata può stare e deve stare: « Io vi ho scelti dal mondo » ( Gv 15,19 ). Così i cristiani si chiamano semplicemente gli eletti, electi ( Col 3,12; 2 Tm 2,10; Tt 1,1; 1 Pt 2,9; Rm 8,33 ), ma anche i chiamati, vocati ( Rm 1,6; 1 Cor 1,24; Gd 1 ecc. ). E l'insieme di coloro che sono stati così eletti e chiamati è la « convocazione », la Ek-klesìa, la Chiesa. Nella sua sostanza la Chiesa non è nient'altro che l'elezione oggettivata e la chiamata di Dio formalizzata, che nel mondo si presenta come lo spazio in cui ci si trova quando la scelta e la chiamata di Dio hanno colpito un singolo o una comunità. La chiamata e l'elezione di Dio sono a tal punto ciò che è primario e che è portante, e la reazione dell'eletto e chiamato è a tal punto ciò che è portato, secondario, che la Chiesa è, secondo la sua oggettività, anteriore agli uomini che la compongono: questi vivono da essa e per essa, così come è in forza dell'elezione e della chiamata di Dio che essi sono quello che sono, cioè cristiani. Innegabilmente l'elezione di Dio è così fatta che esige dall'eletto una cooperazione e sequela; la Sua chiamata deve venir in qualche modo udita ed esaudita dall'uomo. Questo viene dagli evangelisti e dagli apostoli sempre nuovamente raccomandato alla cristianità, con ogni chiarezza desiderabile. E tuttavia ciò non impedisce che il cristiano stia primariamente all'interno di un'iniziativa di Dio che si compie nei suoi confronti e che in forza dell'elezione e chiamata lo trasferisce nel suo nuovo stato fuori del « mondo », per fargli solo allora afferrare veramente quanto questa grazia della vocazione includa in sé l'esigenza di una risposta, di una vita conforme allo stato. Nascondi Elezione e chiamata hanno la loro origine nell'eternità di Dio, « che in lui ( in Cristo ) ci ha scelti già prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati davanti a lui che ci ha predestinati nell'amore ( … ) poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà » ( Ef 1,4-5-9 ), affinché noi possiamo perciò sfociare di nuovo nell'eternità, poiché ogni vocazione intende essere una vocazione all'eredità eterna ( Eb 9,15 ), all'eterna gloria ( 1 Ts 2,12; 2 Ts 1,10 ), alla vita eterna ( 1 Tm 6,12 ), anche se essa è in primo luogo vocazione alla Chiesa visibile come ad un « corpo » ( Col 3,15 ) con tutte le sue membra e vie della grazia ( 2 Pt 1,3 ), e con ciò alla comunione con il Figlio di Dio ( 1 Cor 1,9 ). Nascondi Essa è « elezione per la salvezza e vocazione attraverso il Vangelo ad aver parte alla gloria di Gesù Cristo » ( 2 Ts 2,14 ), ma « attraverso l'opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità » ( 2 Ts 2,14 ), cioè attraverso l'oggettiva santificazione sacramentale e la fede assunta oggettivamente, attraverso il fatto oggettivo del venir collocati entro la morte e la sepoltura di Cristo, col Battesimo, da cui sorge l'esigenza - certo pressante - di corrispondere a questo fatto, a questa elezione e a questa chiamata di Dio con una vita degna della vocazione ricevuta ( Rm 6,4ss ). Secondo questa immagine, progettata nelle lettere degli apostoli a partire dall'esistenza ecclesiale che si basa su elezione e chiamata di Dio, potrebbe sembrare che con ciò l'opera di separazione attuata dalla Parola di Dio fosse compiuta. Dal vasto ambito dei ( dapprima ) non chiamati, dal « mondo ». Dio si è appropriato di un « popolo eletto », per portare a termine la decisiva unificazione di tutti percorrendo questa via della separazione che a noi appare incomprensibile. Nascondi Si tratta di coloro per i quali Dio si è deciso dall'eternità che « venissero chiamati alla comunione col Figlio suo » ( 1 Cor 1,9 ), per compiere insieme a lui l'opera della redenzione e combattere nella grande battaglia decisiva insieme con l'Agnello come « chiamati, eletti e fedeli » contro le potenze del male e i loro seguaci ( Ap 17,14 ). In base a questa elezione e vocazione a stare nella Chiesa, che non è nient'altro che l'oggettività di elezione e chiamata, tutti i cristiani sembrano appartenere ad un unico stato comune. Ma il Vangelo ci mostra un'altra immagine. L'opera della divisione si compie non solo tra Chiesa e « mondo », ma continua anche all'interno della Chiesa, e precisamente in una duplice maniera, che corrisponde alla duplice divisione nel racconto della creazione tra acqua e terra ferma, tra cielo e terra, una divisione in verticale e orizzontale - conformemente alla forma della croce -: dapprima come divisione tra « stato dei consigli » e stato di vita nel mondo, poi come divisione tra stato sacerdotale e stato laicale. Nascondi Che si tratta di una doppia divisione inizialmente non viene nel Vangelo evidenziato, poiché la chiamata degli eletti di mezzo al popolo si compie in una elementare unitarietà, e perché per Gesù stesso, che a dire il vero « non è neppure sacerdote » ( Eb 8,4 ) nel senso derivato dall'Antico Testamento, non si tratta in primo luogo di fondare un nuovo sacerdozio, ma di guadagnare collaboratori per la sua opera nella vigna del Padre. Questa vigna non è già la Chiesa ( post-pasquale ), ma il popolo di Dio; o meglio: le pecore perdute di questo popolo di Dio ( che rappresenta l'umanità ). La prima articolazione divisoria nella vita di Gesù è la chiamata che separa alcuni e li fa partecipare alla missione divina del Figlio. Solo allorché questa missione volge verso il completo sacrificio di sé di Gesù, allorché egli affida sacramentalmente questo sacrificio ai suoi e dispone del suo esito, la remissione dei peccati, solo allora spunta chiaramente dalla prima divisione la seconda. E solo in uno stadio ulteriore della riflessione si chiarirà per la Chiesa la differenza fra le divisioni, in modo tale che verrà riconosciuta una distinzione tra diverse vocazioni e missioni. Gesù incontra durante la sua vita pubblica due gruppi di uomini. Il primo, numericamente molto superiore, è il popolo. Di fronte ad esso stanno i discepoli, che il Signore in una scena quotidiana si sceglie secondo il suo libero giudizio e chiama fuori dal popolo. Nascondi « Egli salì su un monte, chiamò a sé quelli che volle, ed essi andarono da lui » ( Mc 3,13 ). È questa una scelta più ristretta dopo una chiamata più estesa: « Egli chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli » ( Lc 6,13 ). « Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. Nascondi C'era una gran folla ( òklos ) di suoi discepoli e gran moltitudine di gente », che da ogni parte « erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; ( … ) tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usava una forza che sanava tutti » ( Lc 6,17-19 ). La potenza di questa simbolica è evidentissima: il Signore sale da solo la montagna, lassù chiama i dodici a sé, « affinché essi fossero presso di lui » ( Mc 3,14 ), e discende insieme con loro verso la restante moltitudine dei discepoli e delle turbe che si accalcavano attorno a lui. Proprio in questo accalcarsi delle turbe attorno a lui, che sta in contrasto così acuto col movimento degli apostoli, i quali si fanno avanti in quanto chiamati e si accompagnano al Signore, diventa chiara la distinzione dei due « stati ». Nascondi La folla corre dietro al Signore con un'imperturbabile invadenza, che non lo lascia ne dormire ne mangiare ( Mc 6,31 ), quasi lo schiaccia ( Mc 5,31 ), lo costringe a salire in una barca per non venire sospinto nel lago ( Mc 3,9 ). La gente gli viaggia dietro, perfino sin dove egli si rifugia, lo ritrovano ovunque egli si nasconde, sono in tutto simili ad un gregge che è senza guida ( Mc 9,36 ) e che pieno di intuizione fiuta in lui una guida, un bene e una potenza. Grandi schiere si accalcano, ma anche singoli, che quasi come portavoce di esse si offrono da sé alla sequela, senza esser stati chiamati dal Signore ( Lc 9,58 ). Di quelli che il Signore sceglie perché facciano parte del suo seguito più ristretto non si sente dire che essi si siano accalcati in maniera invadente incontro al Signore da se stessi. I primi due discepoli, a dire il vero, seguono Gesù, ma lo fanno dopo il cenno di indicazione del loro maestro, il Battista. Nascondi Gli altri se li prende Lui stesso, via dalle loro reti da pesca o dal banco della dogana, come Levi ( Mt 9,9 ). Oppure vengono raccolti per strada, come Filippo ( Gv 1,43 ), o trascinati da amici o parenti, come Pietro ( Gv 1,41-42 ) o come il prudente Natanaele ( Gv 1,45-49 ). Oppure essi, oppongono delle scuse davanti al "Seguimi!" ( Mt 8,21; Lc 9,59-62 ), o infine, dopo essersi offerti da loro stessi alla sequela e dopo che Gesù gli ha dischiuso la via della sequela, all'ultimo momento rifiutano ( Mt 19,16-22 ). In nessun luogo la scelta e la chiamata del Signore nella comunità più ristretta appaiono una continuazione o una conseguenza di un anelito alla sequela che abbia la sua origine nell'uomo stesso. Nascondi Proprio quando si tratta di sequela in senso qualificato deve regnare a questo proposito una perfetta chiarezza: "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi" ( Gv 15,16 ). Questo viene confermato dal movimento di alcuni singoli fuori dalla massa, i quali personalmente vengono a contatto col Signore: sono soprattutto quelli guariti con miracoli. Tranne poche eccezioni - per esempio l'uomo alla piscina delle pecore ( Gv 5 ) - è la massa che porta gli ammalati al Signore o perlomeno lo chiama a venire dagli ammalati. Il Signore non scansa questo movimento di avvicinamento, egli lascia che gli uomini si facciano incontro a lui, oppure va incontro al luogo dove essi giacciono ammalati o morti. Egli donò loro la sua grazia salvifica per il corpo e per l'anima; la prima visibilmente, la seconda o formulata espressamente nella remissione dei peccati o inclusa nella guarigione dalla malattia. Egli si rivela per essi un salvatore, un liberatore, un consolatore, uno che li incoraggia, si rivela come colui che è la vera luce del mondo. Ma una volta impartita loro la grazia e una volta che essi stanno nella sua luce, egli li congeda e li fa tornare di nuovo in mezzo alla massa della gente. Egli li ricolloca nei loro ambienti come uomini nuovi, cambiati. Non c'è quasi nessuna guarigione del Signore che non trovi la sua conclusione nel sempre ritornante « vade », va'. Così viene congedato il paralitico: Nascondi « Prendi il tuo letto e va' a casa » ( Mc 2,11 ), così l'emorroissa: « Va' in pace e sii guarita dal tuo male » ( Mc 5,34 ), così la Cananea: « Per questa tua parola va', il demonio è uscito da tua figlia » ( Mc 7,29 ), la peccatrice: « Va' in pace, la tua fede ti ha salvata » ( Lc 7,50 ), Nascondi il cieco di Betsaida: « Egli lo mandò poi a casa » ( Mc 8,26 ); il cieco di Gerico: « Va', la tua fede ti ha salvato » ( Mc 10,52 ), l'adultera: « Va' e non peccare più » ( Gv 8,11 ), il centurione: « Va', e sia fatto secondo la tua fede » ( Mt 8,13 ), il decimo lebbroso: « Alzati e va', la tua fede ti ha salvato » ( Lc 17,19 ), il funzionario reale: « Va', tuo figlio vive ». Nascondi Spesso egli ripone un sanato o un risorto espressamente nel suo normale ambiente di vita: egli comanda di dar da mangiare alla figlia di Jairo ( Mc 5,43 ), e il giovinetto di Naim lo restituisce a sua madre ( Lc 7,15 ). Persino il suo amico Lazzaro non lo abbraccia, dopo che lo ha risuscitato, ma ordina invece: « Scioglietelo dalle bende e lasciatelo andare » ( Gv 11,44 ). Spesso egli non riesce apparentemente ad attuare con sufficiente rapidità il suo gesto di congedo: il lebbroso lo monda e « lo rimandò subito via » ( Mc 1,43 ). Nascondi E quando egli ha predicato o ha operato un miracolo di fronte a tutto il popolo come nel caso della moltiplicazione dei pani, conclude poi la sua opera giornaliera con un esplicito gesto di congedo delle folle ( Mc 8,9 ). La più caratteristica di queste scene di congedo è quella dell'indemoniato di Gerasa, il quale dopo la sua guarigione prega il Signore « di permettergli di accompagnarlo. Ma egli non glielo permise, bensì gli disse: Va' a casa tua, dai tuoi, e annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato » ( Mc 5,19; Lc 8,38-39 ). Il permesso di parlare del miracolo è come una consolazione per il permesso negato riguardo al poterlo seguire, giacché solitamente il Signore vieta rigidamente al guarito di diffondere la notizia del miracolo. Certamente quell'uomo era stato una piaga per l'intero territorio, e i Geraseni erano già venuti dalla città e avevano visto tutto. L'incarico apostolico che quell'uomo ottiene rimane del tutto limitato e riferito soltanto alla sua persona; non può affatto venir scambiato con gli incarichi di predicazione che ricevono i discepoli. È come se Gesù non sopportasse di avere tra i suoi discepoli nessuno di coloro sui quali egli ha compiuto un miracolo. E neppure nessuno che abbia una storia precedente troppo collegata alla sua persona. Nascondi Coloro che dovevano essere presso di lui li aveva invece già nella prima chiamata « forniti del potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità » ( Mt 10,1 ), e aveva poi impartito loro la missione: « Andate e predicate: il Regno dei cieli è vicino; guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni » ( Mt 10,7-8 ). Così il movimento dei due gruppi di seguaci è esattamente opposto. I discepoli pervengono a Gesù in base ad un invito, un quasi stereotipo « Vieni! » che li sollecita e che si contrappone al « Va'! » con il quale Gesù congeda i non chiamati. Nascondi In base a questo « Vieni », « Vieni e vedi », « Vieni e seguimi », i discepoli, che oramai sono presso Gesù, vengono inviati lontano da lui e poi « tornano da lui per riferirgli tutto quello che hanno fatto e insegnato » ( Mc 6,30 ), mentre invece la massa, allontanandosi dal mondo nel quale vive, si avvicina al Signore e dopo l'incontro con lui viene di nuovo rimandata al suo posto nel mondo. Ambedue le forme di incontro, ambedue i movimenti circolari si completano l'un l'altro reciprocamente, ma ciò avviene in maniera tale che il percorso della massa incontro al Signore è un percorso contrassegnato dalla ricerca nello stato di bisogno e il suo congedo significa una guarigione e il conferimento di una grazia in ordine al suo futuro continuare a stare nel mondo, mentre l'invio dei discepoli nel mondo avviene unicamente dietro incarico del Signore e per suo interesse, e il loro ritorno a lui significa un ritorno al loro vero e proprio luogo di residenza. La maniera brusca con cui vengono qui descritti i due contrapposti movimenti dell'unico e medesimo rapporto con Cristo non può far dimenticare che entrambi questi due movimenti saranno nella Chiesa di Cristo forme della sua personale sequela, sulla cui perfezione nell'amore, attraverso la forma in sé non è ancora stato detto niente. I punti di vista che si completano a vicenda sono molti: essi diverranno riconoscibili in tutta la loro portata solo allorquando noi ( nel capitolo « Parabola e verità » e nelle riflessioni sullo « Stato di vita cristiano » ) saremo penetrati più a fondo nel rapporto tra « stato » e « vita » cristiana. Solo a mo' di accenno si deve qui ora richiamare l'attenzione su tre punti. a) Discepoli e popolo prefigurano durante la vita e l'opera terrena di Gesù non semplicemente due degli stati che esisteranno nella Chiesa post-pasquale; è piuttosto vero che nello stato dei discepoli e nella loro chiamata è prefigurato anche lo stato e la chiamata dei credenti, mentre il popolo, anche in quanto credente, rappresenta anche l'antico Israele, anzi addirittura l'umanità in generale, dalla quale viene chiamata fuori la Chiesa. Nascondi b) Nella chiamata dei Dodici viene poi non solamente fondato lo stato di coloro che stanno presso il Signore, ma viene anche prefigurato oltre a ciò l'apostolato presbiterale, il ministero in vista del quale i Dodici sin dall'inizio vengono dotati di « poteri » ( Mc 3,15 ). Dietro di essi stanno altri discepoli - Luca li chiama i settantadue -, i quali potrebbero venir scelti e « designati » ( Lc 10,1 ) per missioni speciali, stanno però soprattutto le donne che seguono Gesù ( Lc 8,2s ), lo stato delle quali rimane dapprima difficilmente determinabile ( esse « lo servono con le loro capacità », ma non camminano insieme ai discepoli ) e si illuminerà solo quando avremo parlato dello stato di Maria. Nascondi Ciò che qui è leggibile prendendo in considerazione le persone viene formalmente chiarito nella maniera in cui la sequela che devono vivere i discepoli viene presentata come vincolante per tutti i credenti in Cristo ( Lc 9,23s; Lc 9,37; Lc 2,32s ). Così si può per lo meno dire anticipatamente che lo spirito di radicalità che appare incarnato nel passo compiuto dai dodici chiamati deve forgiare l'intera comunità dei credenti. c) Quanto questo abbia valore per Gesù lo si vede nelle predizioni a tutti i suoi seguaci, secondo cui essi si troveranno inevitabilmente collocati in posizione esposta e dovranno restare fedeli a lui a costo di rimetterci ogni rispetto da parte del mondo. Nascondi A questo proposito entra in gioco l'affermazione circa « l'odio del padre e della madre, della moglie e del figlio … » ( Lc 14,26 ) come presupposto per il discepolato in generale, cosa che a fortiori include una perdita di tutti i beni materiali, e alla fine anche della propria libertà ( « colui che non odia perfino se stesso … » ). La serietà della situazione del confessare la propria fede non è inferiore a quella della situazione di morte, che trasferisce ugualmente il credente nello « stato » in cui i discepoli chiamati sono anticipatamente passati. Ciò mostra ancora una volta quanto la forma di vita dello « stato dei consigli » proietta la sua luce o la sua ombra, al di là del modo attuale in cui questo stato viene vissuto, sull'insieme della Chiesa. Vogliamo però tornare per un momento a considerare più da vicino questa forma di stato di vita. La fondazione dello stato di elezione L'opera della divisione, così come la abbiamo descritta, non è affatto la spaccatura di una massa omogenea in due parti quantitativamente disuguali. La chiamata a far parte della comunità di Cristo appare piuttosto sin dall'inizio come qualcosa che in sé non è univoco, bensì analogo. La chiamata allo stato d'elezione è una chiamata qualificata, speciale, differenziata, di fronte alla quale non sta in simile maniera nessuna altrettanto differenziata chiamata allo stato di vita nel mondo; questa è contrassegnata piuttosto, nei confronti dello stato d'elezione, dal fatto che non si è chiamati in questo senso eminentemente qualificato. La chiamata qualificata è, come la generale chiamata a far parte della Chiesa, chiaramente non solo una chiamata dal « mondo » che è esterno alla Chiesa, ma anche dal mondo che è all'interno della Chiesa. Nascondi La conseguenza di questa chiamata è immutabilmente sempre la stessa: « Essi tirarono le barche a riva, lasciarono tutto e lo seguirono » ( Lc 5,11 ). « Lasciarono sul posto le loro reti e lo seguirono » ( Mt 4,20 ). « Subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono » ( Mt 4,22 ). « Lasciarono il loro padre nella barca insieme al ricavato giornaliero e lo seguirono » ( Mc 1,20 ). Nascondi « Egli disse a lui: seguimi! Ed egli si alzò e lo seguì » ( Mt 9,9 ). « Egli si alzò, lasciò tutto e lo seguì » ( Lc 5,28 ). Il « lasciare tutto » è la chiara condizione per la sequela: questo « lasciare tutto » viene richiesto dalla chiamata stessa, la quale è così esigente e così chiara che chi la ode la può udire soltanto in questa maniera. Ciò viene ancora appositamente chiarito per coloro che volessero apportarvi delle riduzioni: « Se uno di voi vuole costruire una torre, non si siede forse prima a calcolare i costi, se egli abbia anche i mezzi sufficienti per la costruzione? ( … ) Nascondi Così nessuno di voi può essere mio discepolo, se non rinuncia a tutte le sue proprietà » ( Lc 14,28-33 ). Il tutto è indivisibile. È il lasciare non solo i viventi, ma anche i morti ( Mt 8,21-22 ). È un lasciare così radicale che addirittura conduce fuori dalla tana e dal nido verso ciò che è completamente al di fuori di ogni « luogo in cui posare il capo » ( Mt 8,20 ), dunque in un punto che è al di fuori di ogni umana sicurezza nel mondo, in un luogo che in base al mondo non è fissabile, poiché non è un luogo interno al mondo degli ordinamenti naturali e delle possibilità calcolabili, non è un luogo previsto nella creazione, ma a partire dal mondo può solo venir designato come non-luogo ( ouk èkei pou ). Nascondi Esso è l'al di fuori per eccellenza ( èxo, Eb 13,12-13 ). E quelli che hanno compiuto il passo sono consci della sua indivisibilità. Essi non stanno a enumerare ciò che hanno lasciato; sanno che il loro lasciare comprende tutto: « Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito » ( Mt 19,27 ). Essi hanno posto questo atto e lo hanno sentito come un atto che è unico, anche se lo devono ripetere ogni giorno e ogni giorno rinnovare ciò che è unico ( Einmalige ) in piccole rinunce. Nondimeno esso è tutto. Se ne stanno così: col tutto che è il mondo dietro di sé, e davanti a sé nient'altro che la sequela di Colui che ha designato se stesso come la Via. Verso dove egli conduca non lo si può, partendo dal mondo, prevedere. Nascondi Perciò è lecito porre la domanda: « Che cosa ci spetterà per questo? » ( Mt 19,27 ). Se infatti si deve prendere realmente sul serio questo « tutto », allora non è più immaginabile una pura e semplice continuazione dell'esistenza interna al mondo portata avanti sinora. L'uomo ha bisogno nel mondo di beni e di mezzi per prorogare la sua vita. E poiché questi beni sono, dopo il peccato originale, scarsi e contesi, egli è costretto a preoccuparsi di come impadronirsi di essi. Nascondi L'al di fuori e « Non di questo mondo » ( Gv 18,36 ) in cui i chiamati vengono condotti non può d'altra parte essere un fare a meno del mondo: essi devono « essere nel mondo » ( Gv 17,11 ) e in esso vivere, anche se interiormente essi « non sono di questo mondo » ( Gv 17,14 ). Così il loro stato diventa per il mondo qualcosa di incomprensibile e inafferrabile, qualcosa che sta al di là delle leggi e degli ordinamenti terreni, ai quali tuttavia essi non vengono sottratti ed esentati. Questo luogo impossibile per il mondo è da percepire e da abitare solamente nella fede che segue ciecamente. Nascondi Esso è il luogo della fede e della sequela stessa: « Chi mi vuol servire mi segua; e dove sarò io, là sarà anche il mio servo » ( Gv 12,26 ); il « dove » di Gesù è però, tanto più nella croce, precisamente questo « al di fuori » ( Eb 13,12 ), « senza dimora », « non di questo mondo ». Ma così esso è il luogo che viene creato dalla sua missione. Il « dove » del Redentore è la missione del Padre, e così il « dove » del chiamato è la missione del Figlio: « Come il Padre mi ha mandato, così io mando voi » ( Gv 20,21 ). Poter stare nel luogo della missione ha dunque come prima condizIone il radicalismo del lasciare tutto. Ogni sicurezza che ci riannoda al mondo costituisce una minaccia non solo per una parte, ma per l'interezza di questo « stare ». Nascondi Per il tesoro nascosto devono venir venduti « tutti quanti i propri beni », e così pure per la perla preziosa del regno dei cieli ( Mt 13,44-46 ). Ogni voltarsi a guardare indietro, anche solo per prendere congedo, è un tradimento nei confronti del « tutto »: « Ti seguirò, Signore. Ma lascia prima che prenda congedo dai miei a casa mia. Gesù gli spiegò: Chiunque pone mano all'aratro e si volta a guardare indietro non è adatto per il Regno di Dio » ( Lc 9,61-62 ). Il tentativo di trattenere qualcosa di quello che si diede ad intendere di voler lasciare è apportatore di morte ( At 5,1-11 ). Nascondi Se uno possiede poco, come i discepoli, o molto, come il giovane ricco che aspirava alla perfezione, è indifferente, una volta che la chiamata sia risuonata; infatti anche al giovane ricco viene rivolta la richiesta: « Vendi tutto ciò che hai, danne il ricavato ai poveri …, poi vieni e seguimi » ( Lc 18,22 ). Si tratta di un lasciare i beni materiali esteriori, in modo così reale che una interpretazione simbolica sarebbe qui ridicola, ma si tratta pure di un lasciare interiore, un rinunciare ad ogni dipendenza mondana: « Se uno viene a me, e non odia suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli e le sue sorelle, e perfino se stesso, non può essere mio discepolo » ( Lc 14,26 ). Nascondi L'odio verso se stesso si estende in un odio verso tutta la vita terrena ( Gv 12,25 ), e precisamente non col pensiero segreto di trattenere, ma con la certezza di perdere questa vita terrena ( Lc 17,33 ). Proprio in mezzo a questo esodo radicale, che per l'uomo si presenta come un'esigenza irreale e inadempibile, giacché egli la pone nel puro vuoto, risuona il secondo comando: lasciando perdere tutto possedere una fiducia cieca, un'ingenua mancanza di paura. « Non preoccupatevi, non abbiate paura » sono le ammonizioni del Signore che ritornano incessantemente. Tutto dipende da un giusto ordine di successione degli atti: non cercare dapprima una sicurezza terrena, per poi solo allora lasciar perdere e offrirsi, ma nel rinunciare ad ogni preoccupazione e sicurezza terrena, ad ogni considerazione circa il possibile e l'impossibile, nel puro dipendere dall'obbedienza del « Seguimi! », nel perdere ogni terreno sotto i piedi, accettare di venir collocati in quel luogo in cui si potrà vivere unicamente in base alla fede. Dopo che è risuonata la richiesta di non voler servire a due padroni, a Dio e a Mammona, vengono proferite quelle pressanti ammonizioni e promesse che vogliono toccare intimamente il cuore dell'uomo e capovolgerlo: « Così io vi dico: Non preoccupatevi angustiosamente per la vostra vita, di cosa mangiare e bere, e nemmeno del vostro corpo, di cosa vestirete. Di tutto ciò si preoccupano i pagani. Il vostro Padre celeste sa di che cosa avete bisogno. Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù. Nascondi Non preoccupatevi per il domani, poiché il domani si darà già pena per se stesso » ( Mt 6,25-31-34 ). « Non accumulate tesori sulla terra » ( Mt 6,19 ), « anche se uno vive in abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni » ( Lc 12,15 ). Senza paura i credenti devono ricevere il Regno, offrendo tutte le loro cose terrene, dalle mani del Padre; « Non temere, piccolo gregge, poiché è piaciuto al Padre vostro di dare a voi il Regno. Vendete i vostri averi e date il ricavato in elemosina » ( Lc 12,32s ). L'esortazione a non preoccuparsi e a non temere non basterebbe a indurre l'uomo ad un così folle passo. La fede deve essere ciecamente fiduciosa; ma nei confronti di questa generosità della dedizione umana il Signore è debitore di una risposta che sorpassa cento volte ogni generosità umana. Egli deve costruire un fondamento, nel bei mezzo del puro « al di fuori » tipico della sequela nella fede, sul quale colui che segue possa stare anche come uomo. Nascondi Egli deve, fintantoché prega il Padre: « Non che tu li tolga dal mondo, ma che tu li protegga dal male » ( Gv 17,15 ), conferire ai suoi uno stato d'esistenza all'interno del mondo creato. Egli deve per primo letteralmente creare questo luogo in cui stare ( Stand-Out ), fondarlo come una possibilità sociologica garantita, come una possibilità certa all'interno di una sociologia soprannaturale, la quale verrà sempre di nuovo posta in questione da ogni sociologia naturale, ma come una possibilità perfino semplice per i credenti, anzi cento volte provata e sperimentata: quella di poter stare realmente nel posto che è stato loro ordinato. Nascondi Così il Signore elargisce la grande promessa che ha da valere come documento di fondazione del nuovo stato: « Ognuno che lascia case o fratelli o sorelle o padre o madre o figli o campi per il mio nome li riotterrà assai più abbondantemente, e guadagnerà in eredità la vita eterna » ( Mt 19,29 ). « In verità vi dico: Non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per me e per il Vangelo, che non riceva cento volte tanto già qui in questo tempo, in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e in futuro la vita eterna » ( Mc 10,29-30 ). Nascondi « In verità vi dico: Non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o sorelle o figli per il Regno di Dio, che non riceva il centuple di questo nel tempo presente e in quello futuro la vita eterna » ( Lc 18,29-30 ). La semplice legge enunciata da Matteo viene in diversa maniera determinata più da vicino da Marco e Luca. Da una parte Marco descrive il centuplice guadagno già in questo mondo nei suoi singoli aspetti: al posto della casa: case, al posto della madre: madri; dall'altra egli pone questo centuplice guadagno terreno, in maniera corrispondente alle ulteriori predizioni del Signore, nella cornice delle persecuzioni. Quindi in mezzo all'insicurezza dell'aver abbandonato tutto, che ha come ripercussione l'odio del mondo e giunge fino a subire persecuzioni da parte di esso, c'è spazio sufficiente per un centuplice guadagno già in questo mondo. Luca aggiunge come elemento nuovo e significativo l'abbandono non solo di fratelli, genitori e figli, ma espressamente anche della moglie. Questa rinuncia era certo già inclusa nel lasciare case, campi e figli, ma con questa esplicita formulazione completa il quadro che altrimenti avrebbe dato adito ad incertezza e domande su un punto importante. La rigorosità di questi testi mette a tacere ogni dubbio. Così alla lettera come nel Vangelo viene presentato e richiesto l'abbandonare, è da prendere anche la promessa. Non solo sarà a malapena possibile esistere nel nuovo spazio di vita, ma questo stato che agli occhi del mondo è impossibile, avrà, quanto ad ampiezza del poter stare, il centuple rispetto allo stato mondano. Sarà uno stare « in mezzo a persecuzioni », dunque uno stare che ricorderà ogni giorno il radicalismo dell'uscita dal mondo, e agli occhi del mondo apparirà sempre come un puro e semplice essere appesi al nulla, uno stare che non potrà mai mutarsi in un'esistenza sicura camuffandosi ( rispettivamente cento volte tanto ). Nello stesso modo dopo l'esodo dall'Egitto il popolo nel deserto dipendeva unicamente dalla guida di Dio, dal nutrimento che riceveva dal cielo e dall'acqua da bere che riceveva dalla roccia. O con un'immagine tratta dal Nuovo Testamento: nel momento in cui il discepolo non cammini più nella pura fede sulle onde di questo mondo, ma cominci invece, riflettendo solo su se stesso, a perdere di vista il Signore, inizierebbe a sprofondare. La povertà evangelica è possibile solo sul fondamento della fede evangelica. Se essa si trasforma impercettibilmente o anche in maniera percettibile in una pura e semplice « virtù morale », in qualcosa che può venir reso conforme con astuzia ai rapporti tipici del mondo, essa ha perso il suo splendore cristiano e la garanzia della grazia. Tutto dipende dalla verità del lasciare totale. Solo se questo accade « per il mio nome », « per il Vangelo », « per il Regno di Dio », ha diritto al guadagno della promessa. E questo « per » è indivisibile, non solo nel momento del primo lasciare ma anche per tutto il tempo della sequela di Cristo. L'uscita dal mondo è definitiva; anche se al credente essa appare come un tratto di deserto, non c'è per lui nessun ritorno alle « cipolle d'Egitto ». Il ricevere questo centuplice guadagno non è un ritorno indietro dall'elezione verso lo stato di partenza, ma è assicurato nella misura in cui la sequela continua in povertà, castità e obbedienza. Poiché in effetti è dell'unità di queste tre che si tratta. La povertà viene sempre con una certa ampiezza e insistenza posta all'inizio. Il vendere tutti i propri averi e distribuire il ricavato in elemosina è una richiesta così evidente e inattaccabile da alcuna sottigliezza intellettuale, che viene posta come la concretizzazione percettibile del « lasciare tutto ». Non avrebbe alcun senso voler crearsi un accesso all'obbedienza evangelica senza passare attraverso questa porta d'entrata. Per questo anche la promessa viene così manifestamente collegata a questo atto, come se l'intera struttura del nuovo stato di vita da fondare fosse determinato dalla povertà, e la verginità e l'obbedienza fossero solo conseguenze o forme di più profonda comprensione di questa prima rinuncia. La verginità appare da una parte ( in Luca ) inclusa nella legge della povertà, giacché il lasciare la moglie viene posto nel bel mezzo del lasciare gli altri parenti e i beni terreni. Essa appare d'altra parte ( in Matteo ) precisamente parallela alla povertà, nella misura in cui l'apertura della possibilità della povertà e della verginità da parte del Signore avviene entrambe le volte come risposta ad un perplesso stupore dei discepoli. Nascondi Nel caso della povertà è la sgomenta domanda dopo che il giovane ricco se ne è andato: « Chi dunque si può salvare? » ( Lc 18,26 ) che serve come introduzione alla grande promessa. Nel caso della verginità è la non meno sgomenta osservazione dei discepoli: « Se le cose stanno così tra uomo e donna, allora è meglio non sposarsi » ( Mt 19,10 ). Entrambe le volte l'uomo viene condotto dall'inesorabilità dell'esigenza cristiana come davanti a un muro di roccia, dove nessuna via sembra condurre oltre, finché non avviene il miracolo della fondazione del nuovo stato, miracolo che apre uno spazio là dove non sembrava possibile. Il fatto che la povertà viene messa così chiaramente al primo posto, mentre la verginità dapprima arretra maggiormente nella promessa, ha il suo motivo in questo, che il Signore chiama i suoi discepoli dall'Israele dell'Antico Testamento, nel quale il matrimonio era uno stato della promessa. Nascondi Egli, che veniva per adempiere la Legge, non per abolirla ( Mt 5,17 ), non voleva costruire la sua Chiesa su uomini che non avevano vissuto nell'autentica tradizione messianica. Così il celibato poté dapprima essere soltanto l'eccezione, certo un'eccezione posta così fortemente in luce sin dall'inizio - nel Battista, e poi in Giovanni e in Paolo - da poter diventare una regola per le successive generazioni sorte all'interno del Nuovo Testamento. Infatti dalla legge vitale della completa disponibilità, che il Signore formula per i discepoli eletti e che Paolo vive in purezza ancor prima dei dodici, risulta sufficientemente che la rinuncia alla moglie viene richiesta non meno che quella a casa, campi e legami familiari. Nascondi Tuttavia nei testi neotestamentari la verginità viene contrassegnata nella maniera più chiara come un « consiglio » ( Mt 19,10-12: « Chi può comprendere, comprenda! » 1 Cor 7,8-25: « É meglio per essi se rimangono come io ( … ) Per quanto concerne le vergini, non ho dal Signore nessun comando, ma voglio dare un consiglio, come uomo che per la grazia del Signore merita fiducia » ). Se povertà e verginità sono l'accesso chiaramente delineato al nuovo stato, il suo punto centrale è l'obbedienza. Il disfarsi di tutti i beni e le dipendenze terrene, come il Signore lo delinea, è sempre soltanto un mezzo nei confronti del fine della perfetta sequela, di quella mobilità esterna e tanto più interiore che permette al discepolo di seguire il maestro ovunque egli va, addirittura via da tutto verso il totale « al di fuori » ( Eb 13,11-13 ). Nascondi Le due fasi vengono chiaramente separate: « Se vuoi essere perfetto va', vendi ciò che hai, danne il ricavato ai poveri, ( … ) poi vieni e seguimi » ( Mt 19,21 ). Questo seguire è per il futuro il contenuto e la legge della vita del discepolo. L'obbedienza del Figlio, che non è venuto per farsi servire, ma per servire, anzi per sacrificare la sua vita in riscatto per tutti ( Mc 10,45 ), viene eretta a modello per la vita del discepolo, la cui condizione sarà d'ora in poi determinata in base alla perfezione di questo servizio ( Mt 20,26-28 ). Il servizio al Signore diventa l'esclusivo contenuto della vita dei discepoli. Nascondi Essi devono far propri i suoi pensieri, lasciarsi inviare da lui per eseguire i suoi incarichi, accettare minuziose istruzioni, che possono sembrare quasi una piccolezza, circa il nutrimento, il vestito, l'equipaggiamento, il viatico, il loro comportamento per strada e nelle case straniere, circa lo stipendio e il lavoro manuale, essi devono uscire a due a due e sbrigare l'incarico per cui sono stati mandati ( Mc 6,7-13; Mt 10,5-14; Lc 9,1-6 ), e al loro ritorno render conto esattamente del loro agire e fare ( Mc 6,30 ). Essi hanno anche ordini singoli da eseguire: prendere il largo e gettare le reti ( Lc 5,3-4 ), o tener pronta una barca per lui ( Mc 3,9 ), o slegare un'asina senza preoccuparsi di tutte le difficoltà che forse insorgeranno e portarla a lui ( Mt 21,3-6 ), o preparare la cena in base a precise istruzioni ( Lc 22,8-13 ). In questo rapporto del Signore coi suoi discepoli viene prefigurato non solo pressappoco il futuro rapporto della Chiesa docente con la Chiesa discente, o il rapporto fra capo e corpo, ma al di là di questo viene molto chiaramente prefigurata l'intima forma di vita di quelli che per il suo nome hanno lasciato tutto per seguirlo: la forma di vita nell'obbedienza, che non obbedisce solamente nel caso di occasionali decisioni "ex cathedra", quando la Chiesa fissa in maniera solenne la verità divina, ma anche nelle piccolezze del quotidiano. Per apprezzare giustamente la portata di questa obbedienza bisogna considerare soprattutto che i discepoli durante gli anni della vita pubblica di Gesù non hanno ancora riconosciuto la sua figliolanza divina, la sua divinità, in alcuna maniera; il massimo a cui essi giungono è la confessione della sua messianità, anche nel qual caso rimane però incerto se essi comprendono le sue vere implicazioni. In Gesù diventa loro trasparente in maniera singolare Dio; nei suoi comandi l'autorità di Dio. Ma Gesù rimane per essi l'uomo che trasmette la volontà di Dio. Nascondi Proprio questo viene fondato nella Chiesa: « Chi ascolta voi, ascolta me » ( Lc 10,16 ); la Parola giunge - nei riguardi del ministero - direttamente ad ogni credente. Ma quanti sono quelli che prendono per sé questo atteggiamento d'obbedienza come forma di vita, anziché soltanto come caso limite? A partire di qui diventa comprensibile che questa meta dei consigli evangelici poteva e doveva venir concretizzata attraverso l'approvazione della Chiesa stessa come un « consiglio », anzi come il consiglio che racchiude in sé gli altri, come la forma di sequela che contraddistingue la vita secondo i consigli. Nascondi In questo rapporto dei discepoli verso Gesù viene finalmente compiuto davvero il « lasciar tutto », e la sequela esteriore diventa finalmente davvero una sequela interiore, che fa sì che l'atteggiamento di Cristo, un atteggiamento di perfetta obbedienza nei confronti del Padre ( Fil 2,5-8 ), si incarni realmente nella sociologia soprannaturale dello stato della vocazione nel rapporto tra superiore e subalterno. Nascondi Lungi dall'essere un tardo accessorio della Chiesa o addirittura un'infiltrazione di elementi estranei al cristianesimo, la forma di vita dell'obbedienza che per amore del Signore rinuncia all'impostazione della vita in proprio è la più stretta pensabile sequela di Cristo, il quale « non è venuto per fare la sua volontà, ma la volontà di colui che lo ha mandato » ( Gv 6,38 ). Ancor più che il voto di povertà e di verginità quello dell'obbedienza è legato esclusivamente all'esistenza e al modello di Cristo. L'obbedienza cristiana come definitiva rinuncia al proprio volere e all'autodeterminazione è possibile soltanto all'interno dell'obbedienza di Cristo e grazie al suo permesso che ci rende possibile di trovarci sulla sua strada ( Gv 12,26 ). Se il Signore non avesse percorso questa strada, se non fosse stato egli stesso questa via, essa sarebbe non solo priva di senso e incomprensibile, ma addirittura inaccessibile. Non ci sarebbe affatto la possibilità di rinunciare al proprio io e abbandonarlo, poiché non ci sarebbe quel concetto di servizio che scaturisce unicamente dall'amore perfetto che il Figlio ha per il Padre e che è venuto a portare agli uomini. Così si va sempre più profilando che lo stato d'elezione per eccellenza è lo stato di Cristo, del quale più avanti tratteremo più dettagliatamente. Egli ha creato questo stato togliendolo dallo stato mondano con la sua chiamata e la sua separazione, ha fondato la possibilità di uno « « stare » là dove prima non ce n'era alcuna, e questa possibilità l'ha fondata addirittura in se stesso. Essa è la possibilità di stare in lui, di avere il proprio posto nel suo amore al Padre e agli uomini, un amore di completa abnegazione. Nascondi È la possibilità, fondata nella chiamata, di andare a lui ( pros auton, Mt 10,1 ), di essere presso di lui ( met'autou, Mc 3,14 ), attorno a lui ( peri auton. Mc 4,10 ), insieme a lui ( syn auto. Lc 8,38 ), di condividere la sua sorte, di partecipare alla sua passione, alla sua riprovazione, al suo smacco, di bere al suo calice, di divenire i confidenti dei suoi pensieri più intimi, onde alla fine non solo risorgere insieme con lui, ma insieme con lui espressamente giudicare ( Mt 19,28; 1 Cor 6,2 ) e in forza di questo giudizio loro affidato insieme con lui regnare ( Ap 20,4-6 ). Si vede ora anche come questa nuova possibilità fondata nel Redentore si rapporta allo stato originario dell'esser uomo. Lo stato originario era uno « stato di perfezione », in cui tra stato mondano e stato d'elezione non era necessaria né possibile alcuna distinzione. In esso la natura umana era a tal punto sorretta dalla grazia e predisposta all'amore, che povertà poteva significare solo l'espressione della ricchezza dell'amore, verginità solo l'espressione della sua fecondità, e obbedienza solo quella della sua libertà nel servizio. Quanto la dedizione contenga di rinuncia al proprio possesso restava non accentuato e nascosto nella potenza dell'amore reciproco che tutto riempie. L'esistenza dell'umanità decaduta aveva mutato questa pienezza in una scarsità all'interno del mondo; per questo la ricerca di ciò che è necessario per vivere e la proprietà singola erano divenuti inevitabili, l'istintivo determinante per la procreazione, e la scelta fra bene e male grazie ad una ragione che pensa alla maniera del mondo decisiva per il comportamento morale. La destinazione dell'uomo espressa nel comandamento dell'amore non era posta fuori vigore, ma chi poteva pensare di renderla legge e quintessenza dell'intera esistenza, quando pure questa originaria totalità era frantumata e irrestaurabile per l'uomo? Chi poteva pensare, in mezzo alla battaglia per l'esistenza, che l'amore non cerca ciò che è suo? La nostalgia della totalità poteva continuare a vivere, ma nei suoi tentativi di ristabilire con forza propria il rapporto originario doveva - come dicemmo prima - sprofondare dallo stato dell'analogia davanti a Dio e in Dio verso forme titaniche di identità mistica o di puro umanesimo che mette l'uomo al posto di Dio. La strada fra stato originario e stato finale era crollata. Chi voleva ciononostante trovare la via doveva, là dove si era verificato uno smottamento, arrampicarsi su per i burroni. Questo fece il Figlio di Dio. Egli si calò giù nel profondo e divenne uomo. Non un uomo edenico, ma uomo come noi. Nascondi « Egli assunse la forma di servo, comparve nella somiglianza degli uomini e fu trovato come un uomo quanto a caratteristiche, forma e figura » ( Fil 2,7 ), anzi egli venne addirittura nella « uguaglianza alla carne del peccato » ( Rm 8,3 ), più ancora: egli che era senza peccato fu in sostituzione ( Gv 8,46; Eb 4,15 ) « fatto peccato » ( 2 Cor 5,21 ) dal Padre al nostro posto, marchiato « come maledizione » ( Gal 3,13 ). Egli rivestì la carne e lo spirito che dopo la cacciata dall'Eden non erano più capaci della « giustizia delle origini », vale a dire dell'amore perfetto, e assunse l'inconcepibile e per l'uomo incomprensibile incarico di corrispondere all'interno del mondo decaduto all'originaria richiesta di Dio di un amore perfetto. Chi contempla la grandezza di questo miracolo, a costui apparirà meno sorprendente il fatto che la realizzazione divino-umana dell'amore perfetto nella natura indebolita basta per riconciliare la giustizia di Dio con il mondo e per attuare la redenzione dell'intera natura. Costui comprenderà però anche che questo non poteva venir attuato altrimenti che attraverso l'apparire della rinuncia radicale nell'amore, attraverso un sacrificio che non coincide più ad adempimento e gioia, ma che doveva invece compiersi nella notte dell'abbandono della Croce. Egli cammina « in profondità » ( unten durch ) nella piena verità della vita terrena così come viene vissuta dopo la cacciata dal paradiso terrestre, e tuttavia egli la vive come se camminasse al livello originario non abbassato, come se percorresse la strada che non esiste più tra paradiso terrestre e cielo. E mentre egli così cammina, questa strada stessa sorge nuovamente con lui. Egli pareggia in se stesso la differenza tra sotto e sopra; la sua via rasoterra e la sua via in alto sono entrambe verità integrali e senza riduzioni. E queste due verità non stanno l'una accanto all'altra senza relazione, ma poiché egli è disceso in basso adempie l'alto. Nascondi Poiché egli si svuota e si umilia fino all'ultimo, diventa totalmente povero e obbediente sino alla morte in croce, « per questo il Padre lo ha innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome » ( Fil 2,9 ). Poiché egli discese nel più profondo poté salire al di sopra di tutti i cieli, per essere tutto in tutti ( Ef 4,9-10 ). Nella sua incarnazione la discesa assume le forme della povertà, della verginità e dell'obbedienza, e proprio queste forme gli rendono possibile di vivere quaggiù come se vivesse lassù. Egli porta la prova che ciò che per l'uomo è impossibile non è impossibile per Dio; ma ciò che Dio rende possibile, diventa per questo possibile anche per l'uomo. E percorrendo la via egli crea necessariamente anche per gli altri la possibilità di percorrerla. Nascondi Infatti non appena egli come colui che viene dall'alto ( Gv 3,15; Gv 8,23 ) non solo secondo l'apparenza, ma in piena realtà vive in forma divina ( goffformig ) una « interiore » vita d'uomo secondo il volere di Dio, c'è questa possibilità; ed essa può essere vissuta seguendo le sue tracce. Si può vivere terrenamente come se valessero ancora le leggi dell'Eden. « Noi non siamo dunque, fratelli, debitori della carne, per vivere secondo la carne » ( Rm 8,12 ). Questa possibilità di superare la differenza tra il mondo di adesso e la « terra nuova » ( Ap 21,1 ) promessa con una vita che vista a partire dal mondo rimane utopia, ma che nella chiamata e nella sequela di Cristo si da sempre di nuovo, è per il mondo sostanzialmente un segno promettente, che addirittura « contiene » sacramentalmente ciò che significa. Questa via si chiama essenzialmente rinuncia, poiché la differenza tra lo stato originario e lo stato attuale può venir pareggiata solo attraverso la sottrazione di ciò che l'ha causata: cupidigia e disobbedienza, che si staccò dall'ordine dell'amore. Solo a causa del peccato povertà, verginità e obbedienza acquistarono un tratto negativo. Nascondi Ma è per la grazia del Signore che nella sua sequela questa rinuncia introduce non solo in una nuova promettente pienezza di beni tanto terreni quanto celesti ( « Vi ha forse mancato qualcosa? » Lc 22,35 ), non solo nella libertà della verità ( Gv 8,51-32 ), nella libertà di Cristo ( Gal 5,1 ), ma partecipa espressamente alla fecondità del sacrificio della redenzione e con ciò reca la prova della sua natura paradisiaca. Solo per gli occhi del mondo le rinunce nel cristianesimo sono qualcosa di negativo. Solo per i peccatori lo scettro di Cristo si fa sentire come un rastrello di ferro ( Ap 12,5 ). Nascondi Per chi vuole portare il Suo giogo esso diviene « dolce e leggero » ( Mt 11,30 ), « i suoi comandi non sono pesanti » ( Gv 5,3 ), e nella dolcezza e umiltà di Colui che « non griderà e non farà strepito e la cui voce non si ode sulle piazze » ( Mt 12,19 ) « troverà pace per la sua anima » ( Mt 11,29 ), « una pace che sorpassa ogni immaginazione » ( Fil 4,7 ), poiché è presentimento « della nostra patria dei cieli » ( Fil 3,20 ). Il nuovo stato che il Signore ha creato, che solo sulla base della sua propria vita, anzi solo sulla base dell'unità di entrambe le due nature nella sua persona divina diventò possibile, è dunque da parte sua una sintesi tra la vita terrena e quella paradisiaca. Esso è uno stare nella croce come nell'accesso al paradiso, o uno stare nel paradiso che viene di nuovo donato nella forma della croce. Esso è pienezza in mezzo alla rinuncia e beatitudine in mezzo al dolore, fecondità divina nella rinuncia a quella terrena, libertà divina nel legame all'obbedienza terrena. Esso è in questa sintesi non lo stato definitivo, che non conterrà più nessun dolore e croce, ma l'essenziale accesso ad esso, una misteriosa anticipazione del cielo in una « prima morte » e una « prima resurrezione »: « Felice e beato colui che ha parte alla prima resurrezione; su di lui la morte seconda non ha alcun potere. Nascondi Essi saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno con lui mille anni » ( Ap 20,6 ). Essi anticipano quella morte che gli altri senza volere devono soffrire nel passaggio da questa vita terrena al paradiso di Dio: « Gli altri morti ritornarono di nuovo in vita solo quando i mille anni furono compiuti » ( Ap 20,5 ). Circa il rapporto degli stati Se noi da qui rivolgiamo indietro lo sguardo verso la relazione messa in mostra all'inizio fra amore perfetto come vocazione dell'uomo in generale e la forma interiore di questo amore essenzialmente come « voto », appare adesso ancora più chiaro il loro nesso reciproco. Allora il carattere di voto dell'amore apparve in una triplice maniera: il voto era in primo luogo quella forma ( esterna ) che si offriva come mezzo per il raggiungimento dell'amore ( interiore ), poi era però inoltre formalmente come contenutisticamente la espressione dell'amore stesso in quanto la sua essenza è dedizione, infine era, di nuovo come forma esteriore, contenuto potenzialmente nell'indifferenza dell'amore perfetto, in quanto esso non decide in anticipo la scelta dello stato, che sarà fatta da Dio. Trasferendo queste relazioni generali sullo stato concreto della natura decaduta, appare prima di tutto più chiaramente la distinzione ( come già allora enunciammo ) tra la forma esterna e lo spirito interiore dei voti. Ogni amore ha interiormente forma di voto, ed ogni amore imperfetto, se anela alla perfezione, deve anche realizzare sempre più questa forma di totale e irrevocabile dedizione, questa forma del perdere, anzi dell'aver perso la propria anima. Non è detto con ciò che tutti quelli che anelano all'amore debbano anche giungere alla forma esteriore della pronunciazione dei voti. Qui infatti interverrà la scelta e la chiamata del Signore, il quale secondo il suo libero beneplacito chiama o non chiama, invita o non invita allo speciale stato esteriore dei voti. Questa chiamata ( Herausruf ) alla forma di vita speciale della perfezione, che immediatamente obbliga con questo anche ad una corrispondente perfezione a livello di contenuto, sarà una chiamata ad una speciale, qualificata missione. In vista di questa missione avviene l'elezione, che come chiamata ad uscir fuori dagli ordinamenti mondani esige la forma di stato di vita esteriore del voto. E a seconda che il Signore chiami ad una missione qualificata o alla generale missione cristiana nel mondo pone i chiamati nello stato dell'elezione o nello stato della cristianità in generale, nello stato dei voti formalmente espressi o nello stato che mira allo spirito interiore del voto dell'amore. Per il fatto che la natura è decaduta viene ad articolarsi più chiaramente la relazione tra l'amore e i voti come mezzi per la perfezione. Nascondi Nel Vangelo essi compaiono quasi come condizioni della perfezione: « Se vuoi essere perfetto, va', vendi ciò che hai, ( … ) poi vieni e seguimi » ( Mt 19,21 ). Questo « perfetto » è ciò che a colui che domanda è sinora mancato: « una cosa ti manca ancora » ( Lc 18,22 ). E come per inchiodare definitivamente questo duro insegnamento soggiunge il Signore, dopo che il giovane ricco lo ha lasciato: « Come è difficile per un ricco entrare nel Regno di Dio! Nascondi È più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel Regno di Dio » ( Lc 18,24 ). La durezza di questo « com'è difficile! » viene un po' mitigata dall'aggiunta in Marco: « Com'è difficile per quelli che pongono la loro fiducia nei loro averi entrare nel Regno di Dio! » ( Mc 10,24 ) e dall'affermazione misteriosa: « è impossibile agli uomini, ma non a Dio » ( Mc 10,27 ). Nascondi Impossibile agli uomini è che un ricco non ponga la sua fiducia nei suoi averi, che egli « guadagni come se nulla possedesse » ( 1 Cor 7,39 ), poiché come potrebbe egli altrimenti acquisire il guadagno con tutta la premura e la passione che questo richiede? E come può colui che è sposato essere così « come non fosse sposato » ( 1 Cor 7,29 ), giacché « chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, di piacere al Signore, mentre invece chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, di come piacere alla moglie » ( 1 Cor 7,32s )? Così la chiamata del Signore allo stato dei voti sembra quasi equivalente ad una chiamata alla perfezione della sequela di Cristo e con ciò alla perfezione dell'amore divino nell'unico modo concreto in cui esso viene offerto agli uomini all'interno del mondo decaduto. O detto altrimenti: la vocazione ad una missione speciale, che è il motivo della scelta di Dio e della sua chiamata allo stato d'elezione, appare coincidere con una vocazione ad espressa santità, che viene donata formalmente al chiamato con lo stato d'elezione e alla quale egli viene con ciò anche contenutisticamente obbligato nella realizzazione di questa forma. Si comprende perciò perché storicamente l'esteriore « stato dei voti », lo « status religionis » per antonomasia, poté venir messo alla pari con lo stato della perfezione, lo « status perfectionis ». Et ita identitas utrius-que status cernitur ( Suarez, loc. cit. 1.2, e 1,4, Opp xv, 115 ). Infatti quando il Signore presenta la perfezione, propone contemporaneamente il consiglio del lasciar tutto « ut medium seu viam necessariam » ( ibid. 1 i, e 10,3. S 49 ). Questa necessità sgorga dalla legge evangelica secondo cui la disposizione intEriore deve esprimersi nell'azione esteriore per dimostrarsi disposizione vera. L'azione richiesta non è però nient'altro che la effettiva ed attuale rinuncia a ciò che è proprio per essere liberi per la dedizione a Dio. D'altra parte l'esortazione a questa azione è una libera grazia della scelta e della chiamata di Dio, che l'uomo non può egli stesso darsi, poiché la sua ragione ultima non è l'astratta perfezione dell'amore in generale, ma la concreta grazia e il concreto conferimento di una specifica missione. Così la necessità assoluta diventa da capo per l'uomo una necessità condizionata; « Distinguere autem possumus inter perfectionem et statum perfectionis, nam ad perfectionem acquirendam est quidem utilissimum et moraliter ne-cessarium divitiis abstinere, non est tamen simpliciter necessarium. Nam dives, bene utendo divitiis, et alia opera perfectionis faciendo, potest ad perfectionis gradum pervenire" ( ibid. 1.2, e 2,4. S 118 ). O per meglio dire: la necessità è una necessità assoluta allorquando essa segue ad una particolare chiamata ad una missione qualitativamente determinata. Una volta risuonata una simile chiamata, l'uomo non ha più la possibilità di distinguere tra una assoluta e una relativa necessità. Gli rimane allora soltanto da scegliere: o rinunciare allo stato della perfezione, ma allora rinunciare anche alla missione speciale e accontentarsi della legge dello status cristiano comune, oppure insieme alla missione abbracciare anche la sua corrispondente forma di vita. Anche la seconda e la terza relazione tra amore perfetto e voto ( interiore ) acquista nello stato della caduta e della redenzione un nuovo profilo più marcato. Infatti mentre la chiamata universale all'amore perfetto cristiano viene rivolta a tutti, la vocazione allo « stato della perfezione » esteriormente riconoscibile si fonda completamente nella volontà di Dio che sceglie. La separazione degli stati che il Signore compie è determinata talmente dalla sua scelta, che egli può respingere e rimandare nello stato mondano persino quelli che si offrono a lui per la sequela, che credono di essere pronti a seguirlo dovunque egli vada. Questa non accettazione nello stato d'elezione non è certo equivalente ad un rifiuto della perfezione dell'amore, che Gesù ha indubbiamente donato a tutti quelli che egli ha guarito dalle loro infermità dell'anima e del corpo e che ha congedato come nuove creature. Nascondi Il cieco ad esempio, al quale egli alla fine si da a riconoscere come Dio e Redentore e che nella fede gli si prostra ai piedi ( Gv 9,37-38 ), la peccatrice, il cui amore egli elogia, alla quale egli in virtù del suo amore perdona e concede in dono così l'amore perfetto ( Lc 7,47 ), Lazzaro, suo amico, che egli risveglia dai morti e al quale egli che è « la resurrezione e la vita » dona nuovamente la sua vita fuori dai « brividi della morte » ( Gv 11,25-33-43 ), il ladrone, al quale egli dalla croce apre le porte del Paradiso ( Lc 23,43 ), essi e tanti altri hanno ottenuto nel contatto col Signore il dono dell'amore eterno, senza essere divenuti partecipi di quella speciale missione che è legata al cambiamento dello stato. Tutti questi sarebbero pronti, poiché posseggono l'amore, a seguire il Signore se egli manifestasse loro corrispondentemente la sua volontà. Ma poiché egli non lo fa, essi sono parimenti pronti a rimanere nel loro stato di gente del mondo, a ritornare in mezzo alla moltitudine, al posto non appariscente che il Signore indica loro, per servirLo lì con tutto il cuore e con tutte le forze. Nascondi Di essi si udrà ancora poco: la Samaritana, per esempio, dopo che ha compiuto la sua opera e ha fatto conoscere il Signore ai suoi compaesani ritornerà espressamente al suo posto: « Ora noi non crediamo più perché tu ce lo hai detto, ma abbiamo udito noi stessi e sappiamo che egli è veramente il salvatore del mondo » ( Gv 4,42 ). Lazzaro, il risuscitato, non andrà in giro a predicare, ma siederà semplicemente a tavola col Signore come padrone di casa al prossimo pranzo ( Gv 12,2 ). Il Signore avrebbe potuto chiamarlo, non lo fece; ma il fatto che dopo aver ricevuto la grazia essi non furono chiamati ad un cambiamento di stato non può in nessun caso significare per essi che sia stato loro negato l'amore perfetto. Qui appaiono dunque entrambe le altre due forme in cui i consigli evangelici sono legati all'amore: la prontezza intEriore, propria dell'indifferenza, ad ascoltare la chiamata del Signore, e l'interiore disposizione dell'amore, che reca in se stesso lo spirito dei consigli e con ciò lo spirito della perfezione. L'indifferenza come prontezza per ogni manifestazione della volontà divina è l'espressione di un amore come non può venir pensato più perfetto, prima che il Signore non abbia manifestato la sua scelta. Essa, e non invece un'anticipazione della scelta di Dio intraprendendo di propria iniziativa la via dei voti, è in questo stadio la maniera di comportarsi migliore possibile. Da ciò segue necessariamente che se il Signore sceglie in modo tale che non chiama all'esplicito stato dei voti, è allora l'interiore atteggiamento conforme ai consigli tipico dell'amore, che ne contiene lo spirito, a dover essere la prosecuzione pienamente valida di quell'atteggiamento di indifferenza nel caso di quelli che non sono chiamati. Così è possibile in entrambi gli stati divenire perfetti, vale a dire possedere l'amore pieno a Dio e agli uomini. Dalla parte del mondo e della natura, del tendere dell'uomo ad una realizzazione della sua vocazione all'amore, non c'è niente che giustifichi la separazione degli stati. Solo il punto di vista che parte da Dio e dalla sua positiva volontà e chiamata rende possibile una tale osservazione degli stati, in cui entrambi stanno l'uno di fronte all'altro come voluti da Dio e perciò come due forme positive di vita cristiana. Questo volere divino rimane però per noi non soltanto impenetrabile, al contrario! La separazione degli stati non si riconduce semplicemente ad un nudo e crudo decreto di Dio. Sempre le disposizioni di Dio sono allo stesso tempo manifestazione della più alta sapienza; tutte le interpretazioni ultime nel mondo si lasciano ricondurre rispettivamente a questa duplice e unica ( zweieine ) sorgente del piano divino. Così si mostra anche qui alla fede che ricerca una comprensione, che la divisione degli stati era la via più sensata, all'interno del mondo decaduto, per instaurare un ordine della redenzione. Da una parte è innegabile che l'integrità dello stato paradisiaco non poteva in un mondo simile venire rappresentata e reintrodotta altrimenti che nella rinuncia a quei beni il cui prorompere fuori dal velame della grazia che li racchiudeva in sé appartiene all'essenza dello stato decaduto: possesso in proprio, fecondità legata all'istinto e caparbietà nel voler fare la volontà propria. Ma la pura e semplice rinuncia a ciò non basta come tale a restaurare la perduta unità dello stato paradisiaco. Essa rimane, finché la natura per punizione o per espiazione è sottoposta al dolore e alla morte, qualcosa di negativo, che include la perdita dei beni complementari: ricchezza, fecondità naturale e libertà. Per questo la chiamata ad una simile rinuncia non può essere universale. Nascondi Essa minaccerebbe, anzi eliminerebbe l'ordine della natura quale esso sussiste nello stato decaduto, poiché a dire il vero non verrebbero più adempiute le esortazioni all'umanità fatte nel paradiso terrestre: « Siate fecondi e moltiplicatevi! Riempite la terra e soggiogatela! Dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che si muove sulla terra! » ( Gen 1,28 ). Un comando universale che imponesse agli uomini, in favore del Regno dei cieli, la castità sessuale, la rinuncia ai beni terreni e al libero dominio sulla natura, verrebbe ad esser simile ad un'eliminazione di questi comandamenti originari. Il Figlio, che è venuto per portare a compimento le opere del Padre e per dimostrare e consolidare la loro bontà, con un universale comandamento di castità non farebbe altro che eliminare piuttosto i comandamenti del Padre, farli passare per sorpassati e addirittura per intrinsecamente imperfetti. La universalizzazione dello stato dei consigli nella Chiesa sarebbe praticamente marcionismo: separazione di Vecchio e Nuovo Testamento, di ordine della creazione e della redenzione, di Jahwè e Cristo. Radicalizzata, essa condurrebbe, in un qualche tempo futuro, ad una morte dell'umanità, rendendo impossibile la sua economia terrena. Per questo lo stato d'elezione può costituire all'interno del mondo decaduto sempre solo l'eccezione. I chiamati , a ciò resteranno una minoranza, destinata più a testimoniare con l'eccezionalità della loro esistenza che c'è un altro mondo, quello dello stato originario e finale, che non a insediare questo stato originario e finale già adesso. Essi devono rapportarsi allo stato dei non chiamati come lo speciale al generale, come il modello innalzato rispetto a quelli che lo devono far proprio, e anche come il sostituto rispetto alla totalità di ciò che egli sostituisce. Così lo stato d'elezione è non solo ciò che ricorda a tutti che lo stato attuale dell'umanità è uno stato decaduto, che l'Eden e il Cielo sono la nostra patria comune, dove tutti dobbiamo far ritorno, ma è anche la rappresentazione di ciò che nello stato originario perduto e nello stato finale sperato era e sarà il configurante, ciò che conferisce la forma ( Formgebende ): la perfezione dell'amore nell'offerta di tutto ciò che è proprio, possedimenti, il proprio corpo e tutti i beni dello spirito. Lo stato d'elezione è uno stato rappresentativo: rende presente l'idea dell'uomo così come Dio lo ha pensato e come egli deve diventare. Certo esso rappresenta questa idea all'interno del mondo decaduto, per così dire in forma capovolta come in uno specchio, in forma negativa, nella forma della rinuncia, la quale però, nella misura in cui origine e senso di questa rinuncia è l'amore del Redentore per il mondo, lascia trasparire già adesso l'intima pienezza del positivo: un ricordare la felicità dell'Eden e un gustare in anticipo la beatitudine eterna. Non ci sono sulla terra uomini più felici di quelli che per amore hanno effettuato una volta per tutte l'irrevocabile offerta di sé e in questa forma di vita cercano di raffigurare per il futuro l'amore. Poiché è volontà dispositiva del fondatore della Chiesa che lo stato dei chiamati rimanga permanentemente una minoranza nei confronti dello stato generale dei credenti che vivono nel mondo, è parimenti suo volere dispositivo che i molti che non sono chiamati allo stato speciale rimangano nel comune stato mondano. Questa volontà dispositiva che non fa dello stato mondano ( Welfstand ) un semplice negativo dello stato d'elezione, ma lo rende invece un reale stato nell'ambito della Redenzione e della Chiesa, non può però essere intesa come una seconda chiamata del Signore, di uguale importanza rispetto alla prima. L'esser posti nello stato mondano può soltanto come un « non esser chiamati » venir descritto come una missione qualitativamente determinata. Il positivo dello stato cristiano mondano è da una parte ciò che del comando originario del Creatore rimane nel mondo decaduto sempre attuale e che deve perciò venir realizzato: il comando che giace nella natura creata come tale e che non è dato solo con la natura elevata soprannaturalmente, paradisiaca, e che perciò non è nemmeno tolto col peccato originale, di asservire la terra a sé, di moltiplicarsi, di regnare sul mondo. Nascondi Di questo comando si narra nel primo racconto della creazione ( Gen 1-2,4 ), dove l'uomo appare come coronamento della creazione naturale, senza che l'aspetto soprannaturale dell'esistenza paradisiaca venga già ( come nel secondo racconto della creazione, Gen 2,4bss ) iemalizzato. Questo comando che giace nella natura dell'uomo sussiste ulteriormente anche laddove l'integrità dello stato originario non può venir ripristinata. Così anche il cristiano sta nel mondo sotto questo comando naturale di coltivare il mondo; egli deve adempiervi come gli uomini che vivono al di fuori della Chiesa. D'altra parte - e questo è il secondo aspetto positivo del suo stato - il cristiano è uno che è stato nel senso universalmente ecclesiale chiamato fuori dal mondo, toccato dalla grazia e trasferito nella comunità dei redenti, posto sulla via dell'amore perfetto a Dio e al prossimo, e fornito di un universale ma anche carismatico-personale incarico di dare testimonianza per Cristo. Tuttavia egli è ed ha tutto questo senza però aver ricevuto la chiamata qualificata alla sequela nella totale rinuncia. La sua situazione è in tal modo più complessa e difficile di quella di colui che è stato espressamente chiamato. Egli ha l'incarico, che continua a sussistere, di coltivare il mondo, ma per eseguirlo non possiede gli originar! ordinamenti naturali, ma bensì quelli inestricabilmente fusi con la condizione della natura decaduta: l'ordinamento della proprietà privata e del diritto coercitivo, della procreazione legata all'istinto sessuale, della libera personale formazione di opinioni. Egli non può sottrarsi a queste modalità della natura, facendo come se esse non lo toccassero o fossero per lui non vincolanti, come se egli personalmente si muovesse nell'ordine paradisiaco originario. Egli non ha la possibilità di ripresentare questa integrità sulla base del comando della creazione, come l'eletto invece la ripresenta sulla base della sua rinuncia. Perciò egli nemmeno può insieme con colui che è stato eletto ripresentare le loro totalità in modo tale che entrambe, contenendo rispettivamente una metà della perduta unità, si completino all'interno della Chiesa sino a formare una totalità. Il comando di coltivare il mondo, insito nella natura, e la destinazione alla vita secondo i consigli sono ben lungi dall'essere due metà di ugual valore di un tutto. Il cristiano nello stato mondano deve eseguire il comando di prendersi cura del mondo, come pure corrispondere all'universale vocazione all'amore cristiano, che dal mondo decaduto lo chiama ad entrare nell'ordine della redenzione. Egli sta sotto una duplice legge, che quanto più egli diviene conscio della sua situazione tanto più lo pone in tensione. Nascondi « Così egli è diviso » ( 1 Cor 7,34 ). La frattura della croce, in cui il chiamato si è sin da principio inserito, passa anche attraverso di lui, ma in modo tale che essa viene sperimentata e sofferta come frattura fra natura e soprannatura. Egli vive in una totalità della rinuncia, che è prodotta dalla chiamata del Signore e che lo fa partecipare all'unità del Cristo che viene « dall'alto » ma che cammina quaggiù. Egli sta nella croce, e qui egli riguadagna qualcosa della totalità del paradiso. Il cristiano nel mondo viene lasciato all'interno degli ordinamenti della natura decaduta, ma in maniera che l'ombra e la forma della croce cade su di essa, in maniera dunque che egli, obbedendo alla legge di questo mondo, non è però di questo mondo. Nascondi Così vive anch'egli in un « come se »; « Perciò chi è sposato viva come se non fosse sposato; chi possiede, come se non possedesse nulla; chi fa uso del mondo, come se non ne facesse uso alcuno, poiché passa la forma di questo mondo » ( 1 Cor 7,29-31 ). Con ciò, però, lo stato mondano va a finire irrefrenabilmente sotto la stessa legge dello stato d'elezione. L'incarico di gestire il creato, che egli condivide con il mondo che è all'esterno della Chiesa, non è un incarico specificamente cristiano, sebbene il cristiano debba cercare di eseguirlo nello spirito dell'amore cristiano. Il compito specificamente cristiano per lo stato mondano non si distingue invece, nella sua essenza, dal compito dell'eletto: si chiama rinuncia e sacrificio come via della redenzione verso lo stato finale da aspettarsi in avvenire. Quindi mentre lo stato d'elezione in base ad una speciale chiamata del Signore dà il permesso di anticipare in mezzo al mondo attuale il mondo venturo ( a partire però dal centro della croce ), lo stato mondano simboleggia la vita nel suo passaggio dall'eòne presente a quello futuro. La « divisione » che giace in esso è sopportabile solo nel movimento del passaggio. Non si può stabilire un tranquillo equilibrio fra civilizzazione del mondo ( Kultur ) e croce, all'incirca come punto centrale fra assenso al mondo e uscita dal mondo, fra al di qua e al di là, o fra famiglia e stato da una parte e vita ecclesiale dall'altra. Nascondi Ogni sintesi che in questa direzione mira ad una specie di condizione definitiva viene sempre di nuovo fatta saltare dall'inarrestabile movimento nel quale soltanto può esser vissuta la vita cristiana nel mondo: « infatti passa la figura di questo mondo » ( 1 Cor 7,31 ). « Guardate alle cose di lassù, non a ciò che è terreno, poiché voi siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio » ( Col 3,2-3 ), « la nostra cittadinanza è nei cieli » ( Fil 3,20 ). Così il cristiano, cercando di adempiere all'incarico ricevuto da Dio di civilizzare il mondo, fa più opere di nostalgia che opere di soddisfazione, o sicuramente, se gli riesce qualcosa di soddisfacente, opere che destano in colui che le riceve la nostalgia della patria eterna di tutto ciò che è bello, vero e buono. In questa caratteristica di transizione ( Ueberganglichkeit ) della vita cristiana nel mondo risiede come un surrogato, un risarcimento per la non avvenuta chiamata speciale. Lo spirito dei voti si pone, percettibilmente o anche impercettibilmente, con crescente chiarezza a partire dal Battesimo, sopra questa vita e in maniera misteriosa la fa partecipare intimamente all'essenza dell'altro stato, allo spirito dell'amore indiviso nelle forme della povertà, della verginità e dell'obbedienza. La conduzione di Dio in questa vita cristiana provvede a che, se non ci si sottrae ad essa, queste forme si attuino in essa anche senza un esplicito saltar fuori dal mondo. Se l'eletto vive sin da principio nella croce, anche il cristiano nel mondo vive tuttavia in tensione verso la croce, e una parte del peso che egli ha da portare consiste nel fatto che egli rimane fino all'ultimo un uomo in sé teso, uno straniero in questo mondo e non ancora di casa però nel cielo. Nascondi In questo « esistere tra » ( Zwischendasein ) anch'egli non ha « dove posare il capo » ( Mt 8,20 ) e a lui, spesso più recalcitrante che spontaneamente desideroso, viene richiesto di portare i legni della croce dietro al Signore. Entrambi gli stati si trovano così sulla comune via del sacrificio; « ognuno infatti verrà salato col fuoco, così come ogni vittima viene condita con sale » ( Mc 9,49 ). Nella prontezza alla rinuncia e così all'esser liberi per l'amore sta dunque ultimamente il comune denominatore di entrambi gli stati. È prontezza in quanto sacrificio, consistendo la perfezione cristiana nel porsi nell'amore a disposizione dell'intera volontà di Dio e nel rinunciare alla propria scelta della strada di vita. Questa prontezza è l'indifferenza che lascia che Dio scelga quello stato che egli ha stabilito, indifferenza che quindi è fondamentalmente d'accordo su entrambi gli stati. È però parimenti prontezza al sacrificio, prontezza che deve perseverare anche quando lo stato è scelto, sia come stato sacrificale nella rinuncia, sia come stato mondano, il quale acquisisce pur sempre la sua forma cristiana dal sacrificio che il Signore può sempre nuovamente esigere e imporre. Parabola e verità La scelta e la chiamata che il Signore fa pervenire ai dodici li seleziona dalla moltitudine per destinarli ad una missione qualificata. Nascondi Essi non devono, come il miracolato di Gerasa, andare a casa e raccontare quello che di grande il Signore ha compiuto in essi; a se stessi essi non devono affatto pensare, bensì solamente annunciare il Regno dei Cieli che si avvicina ( Mt 10,7 ). Essi devono nella rinuncia a se stessi identificarsi con l'atteggiamento interiore e l'ufficio di Colui che li invia, come Gesù si è identificato con la missione del Padre suo: « Chi accoglie voi, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato » ( Mt 10,41 ). Questa missione, che è una partecipazione alla missione del Figlio, presuppone che quelli che sono chiamati ed eletti comprendano il nucleo essenziale del Vangelo. Nascondi Come il Signore comunica al mondo in piena responsabilità personale il messaggio del Padre e dal Padre ha ottenuto che gli sia stata trasmessa tutta l'autorità ( Gv 5,22 ), per poter pascolare il gregge affidatogli con responsabilità propria ( Gv 10,11-18 ), così anche il chiamato deve essere non « mercenario », ma autentico « pastore » con tutti i suoi obblighi, cognizioni e responsabilità ( Gv 21,15-17 ). Questa comprensione della verità del Vangelo può però di nuovo venir partecipata solo a colui che vive la sua verità, che cioè condivide la forma di vita del Redentore, il quale da la sua vita per le sue pecore. In Dio, infatti, verità e vita sono un'unità, al punto che « chi non ama, non riconosce Dio » ( 1 Gv 4,8 ). I chiamati vengono dal Signore non da ultimo per questo selezionati e posti sulla via dell'elezione, perché attraverso questa forma di vita acquisiscano il presupposto per comprendere la verità del Vangelo in quella pienezza che è raggiungibile dall'uomo e perché la rendano comprensibile ad altri con la loro vita e il loro annuncio. Nascondi La luce che il Signore è e che illumina scandagliando le tenebre di questo mondo ( Gv 1,4-5 ) non solo brilla sugli eletti ma li trasforma essi pure in sorgenti di luce. All'isolato « Io sono la luce del mondo » ( Gv 8,12 ) sta di fronte il diffuso, molteplice « Voi siete la luce del mondo » ( Mt 5,14 ), una luce che deve consumarsi completamente nella missione dell'illuminare, che possiede un senso puramente strumentale, vale a dire l'illuminazione del mondo, non l'illuminazione di se stessi. Lo stato della vocazione qualificata si rapporta in tal modo allo stato cristiano comune come l'illuminante primario all'illuminato, come la verità alla parabola. Lo stato d'elezione è così forma sui et totius, la figura ( Gestalt ) posta in risalto della vita cristiana, che come « forma » deve informare anche la « materia » dello stato cristiano mondano. Nascondi Alle folle Gesù non parla altrimenti che in parabole: « Tutto questo diceva Gesù al popolo in parabole, corrispondentemente alla loro capacità di comprendere, e senza parabole non diceva loro niente » ( Mt 13,34; Mc 4,33s ). I discepoli si stupiscono di ciò: « Perché parli a loro in parabole? Egli rispose: A voi è concesso di comprendere i misteri del Regno dei Cieli; ad essi invece non è concesso » ( Mt 13,10-11 ). « A voi è affidato il mistero del Regno; a quelli che stanno fuori viene comunicato tutto in parabole » ( Mc 4,11 ). Nascondi Così il Signore aspetta finché è solo coi discepoli, e « quando furono soli, egli spiegò ai suoi discepoli tutto » ( Mc 4,34 ). In virtù della divisione di parabola e verità essi acquisiscono il diritto di domandare circa il senso della parola di Dio: « Allora Pietro gli disse: spiega a noi questa parabola! » ( Mt 15,15 ). « Quando furono tornati a casa lontano dal popolo, i suoi discepoli lo interrogarono circa il senso delle parabole » ( Mc 7,17 ). Gesù esige però come condizione che essi non soltanto si imprimano meccanicamente nella mente le spiegazioni, ma trovino essi stessi la chiave per l'interpretazione. Nascondi Infatti la beatitudine rivolta ai loro occhi e orecchi, che apprendono ciò che « molti profeti e giusti desiderarono di vedere e non videro » ( Mt 13,17 ), include per essi l'impegno di vedere e udire in modo tale che nella parabola terrena divenga trasparente il senso divino. Per questo egli rimprovera i discepoli quando essi non capiscono le sue parole nel loro vero senso ( Mc 8,15-21 ). Essi devono diventar capaci - solo la discesa dello Spirito Santo li equipaggerà definitivamente per questo - di mutare la terra in spirito vivificante, il cui splendore irraggia infinitamente su quello presente nella parabola ( 2 Cor 3,6-10 ). Al popolo Gesù parla in parabole che non vengono spiegate. Così egli va incontro alla capacità di comprensione della gente. Essi devono venir toccati dalla potenza della sua parola, devono rimaner sbalorditi della sua sapienza e lodare Dio per questo. Essi devono venire attirati dalla grandezza del contenuto, che li supera. Nascondi Lo splendore e la chiarezza del sole divino deve estendersi sulla loro vita nel mondo - « Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce » ( Mt 4,16 ) - ed essi devono aver la possibilità « di credere alla luce », « di camminare nella luce » ( Gv 12,35-36 ), fintanto che è giorno e brilla la luce. È sufficiente se la loro vita si muove all'interno del suo circolo d'irraggiamento, se i doveri mondani che essi devono sbrigare vengono rischiarati e cambiati di valore dal raggio della luce che li colpisce. Così essi possono, cosa che è loro quotidiano compito terreno, trasformarsi in una parabola della vita eterna e dell'eterna verità. Essi non la conoscono forse così come essa è in se stessa, ma sanno che ciò che costituisce la loro vita non è l'ultima e conclusiva verità dell'esistenza. Riconoscono il suo senso simbolico trasparente che rinvia verso un altro, definitivo mondo, al cui svelamento ( Enfhiillung ) essi vanno incontro con perseveranza nella pazienza e nella fede. Nascondi Così essi acquistano distanza dalla loro vita e mettono in pratica, anche se spesso non in maniera conscia, l'esortazione dell'Apostolo: vivere nel matrimonio come se non fossero uniti in matrimonio, sposarsi come se non si sposassero, essere felici come se non lo fossero, dedicarsi al commercio come se non possedessero niente, trafficare con il mondo come se non ne guadagnassero nulla ( 1 Cor 7,29-31 ). Nella parabola della parola del Signore essi apprendono che il mondo è solo una parabola e che « la sua figura passa » ( 1 Cor 7,31 ), « che il mondo passa insieme con le sue passioni, mentre invece chi fa la volontà di Dio rimane in eterno » ( 1 Gv 2,17 ). Ciò che il Signore dice al popolo in parabole, ai discepoli lo spiega. Nascondi È dunque la stessa parola che viene rivolta ad entrambi, ma « secondo la capacità di comprensione » ( Mc 4,33 ): l'una volta nel velame del simbolo, che la fa apparire umanamente afferrabile, ma divinamente inafferrabile, l'altra volta nello svelamento, che lascia apparire ciò che è divino ma rende la Parola più difficilmente sostenibile. Non avviene dunque affatto che il Signore presenti una dottrina esoterica ai discepoli, e una dottrina popolare, exoterica, sminuita e appiattita al popolo. La parola di Dio è sempre la stessa, e il messaggio che il Figlio da parte del Padre ha da trasmettere al mondo lo è altrettanto. Egli stesso è anzi la Parola, e la sua testimonianza è una cosa sola con la sua vita: così non ci può essere in lui spaccatura alcuna. Nascondi Ma come la voce del Padre che parla a lui prima della Passione e davanti a tutto il popolo gli conferma la volontà salvifica del Cielo: « Io l'ho ( il mio nome ) glorificato e lo glorificherò più avanti! », come questa voce viene compresa dal Figlio in tutta la sua pienezza, ma dagli uomini viene percepita in maniera così indebolita che alcuni la credono una voce di angeli, altri pensano di aver udito soltanto un rombare di tuono ( Gv 12,28-29 ), così la stessa parola del Figlio viene ricevuta dai discepoli e dalle folle da distanza diversa e con diversa intensità. Ogni parola del Vangelo ha un senso per la Chiesa intera, anche quelle parole che furono dette a uomini singoli in situazioni determinate. Non c'è nel canone della Scrittura nessuna parola del Signore della quale un cristiano non se ne debba far nulla. Anche parole che vengono rivolte ai discepoli, pensate quindi in prima istanza per gli eletti, sono indirizzate alla Chiesa intera e ad ogni cristiano nello stato mondano. Non solo nel senso che il popolo deve sapere ciò che il Signore si aspetta dai suoi discepoli e come egli li ammaestra e li istruisce, ma pure e ancor più affinché il popolo afferri quello che l'unica, indivisibile parola di Dio al mondo contiene, e si orienti nella sua vita in mezzo al mondo in base ad essa. Nascondi Per questo Gesù si dà cura di rivolgersi ai discepoli anche in presenza delle folle: « Quando si furono radunate frattanto folle così numerose che si calpestavano i piedi l'un l'altro, egli parlò dapprima ai suoi discepoli: ( … ) Ciò che avete detto segretamente nel buio lo si udrà in pieno giorno » ( Lc 12,1-3 ). Questo discorso continua finché Pietro interrompe il Signore e gli chiede: « Signore, questa parabola la riferisci solo a noi o a tutti? » ( Lc 12,41 ); domanda a cui Gesù impartisce una risposta piena di mistero, il cui senso pur tuttavia è l'analogia della parola di Dio a seconda della capacità di comprensione dell'uditore: « Il servo che conosce la volontà del suo padrone, ma non si accinge ad eseguirla, riceverà molte percosse. Colui che invece non la conosce, ma fa ciò che merita percosse, ne otterrà soltanto poche. Nascondi A chi è stato dato molto, molto sarà chiesto; a chi è stato affidato molto, molto sarà richiesto » ( Lc 12,47-48 ). Quindi per i discepoli, che conoscono la spiegazione della Parola nella sua nuda realtà divina, la responsabilità sarà considerevolmente più grande che per le schiere, che certo « odono, ma non comprendono » ( Mt 13,13 ). La presentazione di questa analogia della Parola è la replica del Signore alla domanda di Pietro se la frase si riferisca solo ai discepoli o a tutti. Per questa analogia non si potrebbe trovare conferma migliore che il fatto che parole che in un vangelo sembrano rivolte esclusivamente ai discepoli, in un altro sono indirizzate quasi sempre anche o soprattutto alle folle. Nascondi Niente sembra contraddistinguere in maniera più esclusiva lo stato d'elezione che il grande discorso di invito del Signore ai discepoli nel Vangelo di Matteo, nel quale egli illustra ad essi il loro apostolato e nel bei mezzo di esso pronuncia le parole: « Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me. Chi non prende la sua croce su di sé e non mi segue, non è degno di me » ( Mt 10,37-38 ). Le medesime parole si indirizzano però in Luca espressamente alle grandi folle ( Lc 14,26-27 ). La parola del perdere la propria vita viene detta in Matteo soltanto ai discepoli ( Mt 16,25 ), in Giovanni ad una grande moltitudine ( Gv 12,25 ), in Marco infine espressamente « al popolo insieme coi suoi discepoli » ( Mc 8,34 ). Nascondi La più impressionante di queste relazioni duplici è il discorso della montagna, che viene tenuto contemporaneamente di fronte al cerchio più ampio e a quello più ristretto: « Vedendo le folle, egli salì sulla montagna e si sedette; venuti a lui i suoi discepoli, egli aprì la bocca e li ammaestrava dicendo: Beati i poveri nello spirito » ( Mt 5,1-2 ), o come è detto in Luca: « Ed egli alzò gli occhi sui suoi discepoli e disse: Beati i poveri » ( Lc 6,20; Lc 12,22-32 ). Il cerchio più ristretto si chiude attorno al Signore sulla montagna; guardando a questo, insegnando a questo, Egli dona contemporaneamente la sua parola alla grande folla in ascolto, che lo circonda ulteriormente giù in basso. Così tutto il discorso della montagna acquista una particolare duplicità di fondo e prospettività, che consente sempre entrambe le interpretazioni: una come verità in senso stretto, alla lettera, e l'altra come parabola, come « tendenza » all'interno della vita cristiana nel mondo. Ad esempio l'istruzione di non preoccuparsi con angoscia per il domani, di non chiedere: cosa mangeremo, cosa berremo, questa istruzione può venir seguita da quelli che hanno lasciato tutto e hanno posto tutta la loro speranza esclusivamente sul Signore in maniera diversamente radicale che da una donna di casa o da un padre di famiglia, i quali la devono intendere più come una linea di orientamento per il loro atteggiamento interiore all'interno delle loro inevitabili preoccupazioni quotidiane. Ambedue i gruppi vengono dalla stessa parola arricchiti nella misura più alta; dovranno però interpretarla nella maniera loro propria, ed entrambe le maniere di comprendere sono vere, pur in una certa mancanza di passaggio tra l'una e l'altra, poiché esse corrispondono a due stati di vita delimitati l'uno rispetto all'altro. Può essere che se si osservano le persone nelle loro situazioni concrete le graduazioni di passaggio sono infinitamente continue fra di loro, e che non si possa tirare alcuna precisa linea di separazione fra la comprensione dei discepoli e quella del popolo. Abbiamo già accennato alla schiera di discepoli più ampia, ai settantadue, alle donne che seguono Gesù, ai suoi amici, alle persone ben disposte. Ma anche queste graduazioni personali non eliminano l'originaria polarità dei due luoghi di stato di vita ( Standorte ), che ha effetto polarizzante sulla decisione ultima circa il luogo in cui una persona cristianamente sta. E il luogo di stato di vita, a sua volta, ha effetto decisivo sulla maniera in cui la parola di Dio viene personalmente compresa. Lo stato d'elezione è chiamato all'assunzione della missione qualificata: perciò gli viene partecipata la grazia di udire la Parola in modo tale che possa venir assunta in ciò anche la missione di Cristo e condotta avanti. Nascondi Esso verrà incaricato più tardi di « essere la forma del gregge » ( 1 Pt 5,3 ), il modello a cui la comunità potrà guardare quando essa cerca di realizzare la vita cristiana: « Imitate me, fratelli, e guardate a quelli che così camminano, ed avete così in noi una forma, un modello » ( Fil 3,17 ). Tuttavia i due stati non stanno in rapporto semplicemente come modello e copia, verità e parabola. Questo rapporto viene sempre nuovamente incrociato e superato ( uberspieit ) dal fatto della comune vocazione all'amore pieno. E l'immagine di vita cristiana che il Signore come pure gli Apostoli mettono davanti alla comunità non è affatto una copia sbiadita, un compromesso col mondo, poiché contiene senza riduzioni l'esigenza del totale impegno nella fede, speranza e carità e in tutti gli atteggiamenti cristiani. Poiché tutti sono chiamati al cambiamento conformemente alla grazia di Cristo, tutti hanno l'obbligo di tendere alla meta dell'amore assoluto. Nascondi Il passaggio dal fatto di essere cristiani all'esigenza della vita cristiana perfetta è tanto per Paolo ( Rm 6,1-4 ) quanto per Pietro ( 1 Pt 2,13ss ) come per Giovanni ( 1 Gv 3,16 ) assolutamente necessario, secondo quella logica che è espressione della grazia. Questa logica è così stringente che vale ancora anche quando apparentemente non le corrisponde nessuna realtà, quando l'immagine ideale della comunità sembra disegnata nel vuoto come un'utopia. L'esigenza rivolta ai cristiani nel mondo conserva sinceramente la pretesa di essere da parte sua « forma per tutti i credenti » ( 1 Ts 1,7 ), anche se questo stato rimane strutturalmente uno stato dell' « esser divisi ». E lo stato d'elezione è talmente posto a servizio della comunità, per ripresentare di fronte alla comunità l'ideale che si ha di mira, che questo servizio costituisce tutta la sua giustificazione di esistere. Nascondi Esso è dunque ordinato alla comunità come ciò che è secondario ( secundario et instrumentaliter, S Th il li q 184 a 3c ) a ciò che è primario, poiché ultimamente secondo l'ordine cristiano qualcosa può venir posto in posizione dominante solo nella misura in cui si sottopone al subordinato, in base alla vocazione come pure in base all'inclinazione spontanea ( Lc 22,24-26 ). « Dio ha formato il corpo in modo tale e attribuito alle membra che hanno meno importanza un onore più grande, affinché non ci sia nel corpo disordine alcuno, ma ogni membro in armonia si prenda cura dell'altro » ( 1 Cor 12,24-25 ); affinché lo stato dei non espressamente eletti riconosca quello degli eletti come tale e riceva come modello la sua forma di vita, e lo stato degli eletti si riconosca invece completamente come strumento per lo stato mondano, poiché la relativamente maggiore grazia e conoscenza include anche la relativamente maggiore esigenza di darsi e logorarsi nel servizio ai fratelli. Viene così ultimamente a sorgere, al posto di una semplicemente unilaterale sovraordinazione ( Uberordnung ) dello stato d'elezione e subordinazione ( Unferordnung ) dello stato mondano all'interno della verità dell'amore, una tutt'altra, reciproca sovra e subordinazione. I due stati si muovono l'uno sull'altro come due metà complementari di un tutto, in una così particolare articolazione che riceve nell'ordine soprannaturale della Chiesa un significato analogo a quello dei due sessi all'interno dell'ordine naturale. La subordinazione della donna sotto l'uomo, che viene espressa nel racconto della creazione e rafforzata nel Nuovo Testamento, non contraddice l'uguaglianza di diritti di entrambi davanti a Dio: « Non fu fatto l'uomo per la donna, bensì la donna per l'uomo ( … ) Nascondi ( Ma ) come la donna ha origine dall'uomo, così l'uomo a sua volta nasce dalla donna; tutto però ha origine da Dio » ( 1 Cor 11,9-12 ). E se la donna « deve essere sottomessa al marito come al Signore, poiché il marito è il capo della moglie », così l'uomo deve darsi nell'amore per sua moglie, « come Cristo ha amato la Chiesa e si è dato per essa » ( Ef 5,22-25 ). La sovraordinazione dell'uomo rimane relativa e funzionale, ed obbliga ad un tanto maggiore amore pronto a servire, che come Cristo « non tiene per sé gelosamente la sua uguaglianza con Dio, ma si annienta e prende forma di servo » ( Fil 2,6-7 ). Una analoga graduazione viene ora fondata anche fra i due stati nella Chiesa, ma solo allo scopo di una reciproca subordinazione nell'amore. Il crollo dello stato originario paradisiaco come conseguenza del peccato venne mutato dalla grazia riconciliante di Dio in un mezzo di amore più grande, così come l'androgino di Platone si divide nei due sessi e grazie a questa « caduta » dalla sua unità rende possibile il miracolo dell'eros. Sarebbe troppo presto tirare a questo punto già tutte le conseguenze ecclesiali da questo rapporto fra i due stati, poiché per poter riflettere sull'ordinamento ecclesiale coi suoi ministeri e carismi deve ancora apparire al nostro sguardo la seconda, intraecclesiale, divisione degli stati: quella fra sacerdozio e stato laicale. Ma questa seconda divisione, ben lungi dal mettere in ombra la prima, viene piuttosto condeterminata da essa. E precisamente in duplice maniera. L'arretrare in secondo piano nel servizio, proprio dello stato d'elezione, sarà un presupposto perché il ministero di servizio sacerdotale possa farsi avanti nella sua funzione, e ambedue insieme, stato d'elezione e stato sacerdotale, entreranno a servizio, in quanto elezioni qualitative, dello stato dei non espressamente eletti, conformemente all'istruzione del Signore: « Chi è più grande tra di voi, divenga come il più piccolo; e chi presiede, come colui che serve ». Nascondi E per acquisire anche il « come » ancora a partire dal mondo, egli soggiunge: « Chi è infatti più grande? Colui che siede a tavola o colui che serve? Colui che siede a tavola, certamente! Io sono invece in mezzo a voi come uno che serve » ( Lc 22,26s ). Qui deve stare il « come », ma dove uomini servono uomini esso non può stare. B. Lo stato cristiano Lo stato di Cristo Non siamo però penetrati ancora abbastanza a fondo nel mistero della divisione degli stati, che solo a partire da Gesù Cristo si lascia rischiarare. Ogni prospettiva extracristiana, più o meno puramente sociologica, di avvicinamento alla questione vedrà sempre in quello che cristianamente appare come stato d'elezione una forma di fuga dal mondo, sotto pretesto di avvicinarsi, uscendo dal molteplice e relativo, all'uno e assoluto, per arrivare a stare presso di esso. Una simile via che partendo dal mondo va verso Dio, tentata costantemente nelle più diverse maniere nelle religioni del mondo, può da una parte apparire profondamente fondata nella natura umana, e d'altra parte essa deve, come vedremo, abbandonare se stessa, condurre ad una negazione dell'analogia originaria Dio-creatura e distruggere l'uomo posto nella distanza da Dio. Ma noi abbiamo superato nella nostra impostazione questa visuale sociologica naturale, quando abbiamo preso come nostro punto di partenza lo stato paradisiaco originario, presupponendo che Dio ha creato l'uomo nel giusto rapporto verso di sé ( nella « rectitudo » secondo Anselmo, « iustitia originalis » secondo tutti i Teologi ), e niente affatto in un rapporto che dovrebbe venir contrassegnato come alienazione, mancanza di relazioni, smarrimento nel mondo. Simile alienazione può essere venuta a realizzarsi solo a motivo del peccato; per questo la dottrina dello stato originario che era « molto buona » è necessaria. E con essa noi siamo, nella teoria sugli stati di vita cristiani, già sfuggiti alla critica della sociologia: lo stato d'elezione non si riferisce più al Dio che è senza il mondo, ma alla sintesi creata all'origine nell'uomo e nel mondo, dei quali essa vuoi essere formale disegno previo e che alla fine dei tempi sarà di nuovo riacquisita. Ora è però importante notare che non potemmo stabilire la relazione dello stato d'elezione allo stato originario senza la questione circa Gesù Cristo e il suo stato, che allora dovette venir sollevata anche la questione del rapporto fra il suo stato e lo stato originario. Essa fu però soltanto condotta avanti finché non diventò evidente questo: Cristo ristabilisce il collegamento fra la strada dell'amore « in alto » e la strada della rinuncia « in basso »; discendendo dall'alto egli è in grado, attraverso la « vita secondo i consigli » vissuta sino alla piena rinuncia sulla croce, di rendere anticipatamente la realtà frantumata in cui noi viviamo espressione della totalità integra dello stato originario e finale. Ma con questo abbiamo già detto abbastanza? A quanto pare abbiamo fatto compiere a Cristo una sintesi fra lo stato della natura integra e quello della natura corrotta; ma non viene Egli forse dall'alto in quanto dal Paradiso adamitico, vale a dire dal Padre? E non mira egli con ciò anche ad una sintesi più alta di quella da noi descritta come paradisiaca? Nascondi Non allude forse la Scrittura nelle sue affermazioni finali su di lui a qualcosa di simile, quando ci dice che egli è « il primogenito di tutta la creazione, poiché in lui tutto fu fatto, ciò che è nei cieli e ciò che è sulla terra, ( … ) tutto fu fatto per mezzo di lui e in vista di lui » ( Col 1,15s ), dunque anche l'uomo adamitico e il suo stato paradisiaco, che addirittura viene esplicitamente relativizzato a Lui: « Il primo Adamo era un essere vivente, ma l'ultimo Adamo sarà uno spirito vivificante. Ma non è lo spirituale che viene per primo, bensì ciò che è sensibile, e solo dopo viene lo spirituale. Il primo uomo è tratto dalla terra, è polvere; il secondo uomo ha origine dal cielo » ( 1 Cor 15,45-47 ). Dobbiamo quindi oltrepassare una concezione che vede lo status di Cristo semplicemente come superamento della differenza fra stato originario e stato decaduto, e riferire piuttosto al Suo status ultimamente anche lo stato originario. Così lo stato cristiano d'elezione, che è in ogni caso un collocarsi nello stato di Cristo, viene ancora una volta del tutto nuovamente determinato, e a partire da esso ogni stato cristiano. Nascondi Determinato radicalmente, lo status di Cristo è uno stare « presso » il Padre, come sua Parola originaria che crea e tutto sostiene ( Gv 1,1; Eb 1,3 ); perciò nessun movimento e missione può eliminare questo suo stare presso il Padre. Ma se egli è Verbo di Dio attraverso il quale tutto fu fatto, allora egli stesso è ( come dicevano i Padri ) la idea originaria ( Uridee ) di tutto quanto è stato creato, e allora egli, venendo nel mondo, viene ultimamente nella « sua proprietà » ( Gv 1,11 ), anche se il mondo alienatesi nel peccato non lo riceve e si rende estraneo a Lui. Ma il mondo, che lo sappia o no, che lo voglia o no, ha in Lui il suo centro, il suo punto di partenza e punto di arrivo; in Lui il mondo è nella maniera più alta presso se stesso. Queste affermazioni esigile a partire dalla Scrittura vengono salvaguardate dai dogmi della Chiesa antica contro l'arianesimo e il monofisismo. Se Cristo è il Verbo di Dio che crea e porta a compimento il mondo redimendolo, allora non può essere inferiore a Dio, non può operare la sintesi tra Dio e il mondo a partire da un punto che non è né divino né creaturale. E nemmeno egli può perciò attirare la creatura, che egli venne a salvare, fuori dalla sua reale creaturalità per porla in un immaginario mondo intermedio, ma deve invece trasferirla nel suo giusto stato davanti a Dio e in Dio, stato che ultimamente è reso possibile ed è determinato dal suo proprio stato, quello di Figlio di Dio. Nascondi È così che viene descritto lo stato cristiano! Esso è uno « stare nella fede » ( 1 Cor 16,13 ), uno « stare nella grazia » ( Rm 5,2 ) e perciò anche uno « stare nella perfezione » ( Ef 6,13 ). È uno stare che viene reso possibile da una decisione e una disposizione del Signore: « Poiché dove sono io, là sarà anche il mio servo » ( Gv 12,26 ). Cristo è il luogo in cui sta il cristiano. Egli determina lo « stare » del cristiano non dall'esterno come un luogo geografico; Egli è una realtà personale, divino-umana, e « stare in Cristo » significa, stare in questa realtà in modo tale che si viene da essa determinati e plasmati fino a formare ciò che è secondo la sua essenza. In Lui in quanto Verbo di Dio è infatti l'idea del cristiano. Così abbiamo in primo luogo da riflettere più dettagliatamente su quanto abbiamo detto concisamente circa lo status di Cristo. Il « dove » del Figlio è il Padre. Nascondi « Non credi che io sono nel Padre, e il Padre è in me? » ( Gv 14,10 ). Questo essere nel Padre viene affermato anche per il tempo che il Figlio trascorre sulla terra e durante il quale egli adempie all'incarico del Padre nei confronti del mondo. L'incarico, la missione, esigono un uscire dal Padre e un ritorno a lui: « Io sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo. Ora io lascio il mondo e vado al Padre » ( Gv 16,28 ). L'una e l'altra affermazione è vera e deve stare accanto all'altra non sminuita: « Io sono nel Padre » e: « Io sono uscito dal Padre ». Il suo uscir fuori non è solo apparente, quasi che egli sia rimasto in verità immutabilmente nel Padre. E il suo rimanere non è un rimanere attenuato, all'incirca come un ricordo da lontano, come se egli si trovasse in verità nel mondo. Egli è invece nel Padre ed è allo stesso tempo uscito dal Padre. Questa inafferrabilità del suo « dove », del suo stato, è fondata nella sua stessa essenza divina. Nascondi Egli infatti è colui che « è Dio » per il fatto che è « presso Dio » ( Gv 1,1 ), è « l'irraggiamento della sua gloria e l'espressione della sua essenza » ( Eb 1,3 ). Il suo eterno essere e rimanere nel Padre e presso il Padre ha la forma dell'ipostatica distinzione dal Padre, dell'uscire ( processio ) da lui e del ritorno a lui. Egli è secondo la sua divinità la missione ( missio ) del Padre; la sua persona sussiste nella rivelazione del Padre. La sua persona è dunque l'espressione dell'essenza di un'altra persona; il suo conoscere, il suo amare, il suo operare sono nel loro fondo più intimo a servizio di questa rivelazione. Egli non è una persona « autonoma », che in un secondo momento ha assunto il ruolo di trasmettere al mondo, a servizio del Padre, il suo messaggio. Egli è persona in Dio solo in quanto è « servizio » al Padre. Un « servizio » che coincide perfettamente con l'amore, giacché il Padre lo ha generato per amore e il Figlio vede in questo la sua essenza: nel ridare al Padre questo amore nella stessa infinita perfezione con cui egli lo ha ricevuto e si è ricevuto da lui. Il Figlio è dunque la prima missione intradivina, ed esprime in se stesso essenza e volontà del Padre. Egli non potrebbe possedere il Padre più perfettamente in sé che lasciandosi da lui inviare. Non potrebbe in maniera più perfetta essere presso il Padre, che uscendo dal Padre per far ritorno a lui nell'amore. E se ora il Padre lo invia nel mondo, in questa uscita da Dio egli rivela contemporaneamente il Padre e se stesso. Egli si allontana cioè dal Padre nella misura in cui il mondo non è il Padre, e rimane tuttavia altrettanto veramente nel Padre, poiché egli ha in sé la missione del Padre, anzi è questa missione. Il Padre non ha perciò affatto bisogno di compiere il movimento del Figlio insieme con lui, per accompagnarlo; egli è nel Figlio, poiché il Figlio anche nel mondo rimane il perfetto « irraggiamento della sua gloria ed espressione della sua essenza ». Quando egli esprime il compito che il Padre gli ha dato, parla lui come inviato del Padre, ma parla in ugual maniera anche il Padre in lui, poiché egli è la stessa Parola del Padre. « Io non sono solo; il Padre che mi ha mandato è con me. Nascondi Non sono solo io a testimoniare per me; il Padre che mi ha mandato, anche lui testimonia per me » ( Gv 8,16-18 ). Questa unità delle deposizioni non risulta dal fatto che l'opinione del Padre e quella del Figlio accidentalmente coincidono. Essa ha origine piuttosto dal fatto che il Figlio sin da principio è la deposizione ( Aussage ) del Padre, che egli impiega tutto il suo essere ( memoria, intelletto e volontà ) per nient'altro che per esprimere il volere del Padre. « Il Figlio non può far niente da se stesso. Egli può far solo quello che vede fare dal Padre. Ciò che questi compie, lo compie ugualmente anche il Figlio ». Nascondi E per escludere che questo non poter fare sia per il Figlio un limite o comporti per lui una costrizione, soggiunge: « Il Padre infatti ama il Figlio, e gli mostra tutto ciò che egli fa » ( Gv 5,19-20 ). La perfetta e totale dedizione alla glorificazione del Padre, la quale è la radice dell'essenza del Figlio, sboccia nell'intera pienezza divina: « Il Padre ha messo tutto il giudizio nelle mani del Figlio, affinché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre » ( Gv 5,22-23 ), ma in modo tale che la radice non viene mai abbandonata e dimenticata: « Il mio giudizio è giusto, poiché io non seguo la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato » ( Gv 5,30 ). A questo Figlio il Padre guarda con infinita compiacenza, poiché egli vede ritornare a sé filialmente il suo amore paterno in tutta la sua perfezione. Tre volte durante l'esistenza terrena del Figlio il Padre lascia udire la sua voce per testimoniare il suo amore per il Figlio: Nascondi al momento del Battesimo come vocazione e missione: « Questi è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto » ( Mt 3,17 ), sul Tabor al momento della Trasfigurazione che costituiva una conferma: « Questi è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo! » ( Mt 17,5 ), e prima della Passione come consenso alla sofferenza redentrice: « L'ho glorificato e ancora lo glorificherò » ( Gv 12,28 ). Il Padre si vede così perfettamente rappresentato nel Figlio, che per condurre gli uomini a sé egli ha bisogno soltanto di rinviare al Figlio, anzi si sa perfettamente glorificato nella stessa decisione del Figlio di affrontare la Passione. Così il mistero del compito del Figlio nel mondo è un mistero trinitario, e l'uscita dal Padre, che condurrà fino all'abbandono ( Verlassenheit ) del Figlio, non può cader fuori da questo mistero. Il « dove » del Figlio, che fissa il suo status, è quindi, che egli si trovi nel seno del Padre o sulle vie del mondo, sempre chiaro: è la missione, il compito, la volontà del Padre. Qui lo si può trovare ad ogni tempo, giacché egli è la stessa quintessenza della missione paterna. In quanto sussistente missione del Padre egli è, detto umanamente, la persona predestinata in Dio dall'eternità ad adempiere il compito di riconciliare il mondo con Dio. Così come egli venendo nel mondo non si allontana da se stesso, altrettanto non si allontana perciò dal Padre. Nascondi Distanza e vicinanza sono per lui da sempre conosciute come un'unità: la distanza dal Padre che « è più grande di me » ( Gv 14,28 ), perché egli è l'eterna origine e l'eterno fine, questa distanza che fa del Figlio l'eterno adoratore del Padre nella lode, nella deferenza e nel servizio, è sin dall'eternità colmata ( Uberbriickt ) nella più alta vicinanza, nel richiudersi dell'amore nello Spirito Santo: « Io e il Padre siamo una cosa sola » ( Gv 10,30 ), nella coessenzialità ( Gleichwesenthchkeit ) della sostanza. Lo « svuotamento » ( Fil 2,7 ) che il Figlio accetta su di sé venendo nel mondo ( il quale certo non è Dio, e quindi esige necessariamente da lui una nuova situazionalità ( Zustàndiichkeit ) in mezzo alle creature ), questo svuotamento non è tuttavia per lui semplicemente una cosa che gli è estranea: esso viene reso possibile e come prefigurato nell'eterno rinnegamento di sé del Figlio nei confronti del Padre, autorinnegamento in cui egli non vuol essere altro che l'adorante immagine speculare della sua Origine. La potenzialità, sulla cui pista egli con l'Incarnazione si mette sino al totale annientamento nella obbedienza della Croce, è fondata nella assoluta attualità dell'eterno amore trinitario. Non c'è nessuna uscita che non sia presa e superata dall'eterna uscita del Figlio dal Padre, e nessun ritorno che non si debba compiere all'interno dell'eterno ritorno del Figlio al Padre. Così il movimento di uscita nel mondo e di ritorno dal mondo a Dio non rappresenta alcuna interruzione dell'eterna uscita e dell'eterno ritorno del Figlio dal Padre verso il Padre. Il mistero dell'ordine della salvezza ( oikonomìa ) ha come base portante, anzi come perno ultimo del suo svolgimento il mistero della vita trinitaria ( theologia ). Che il Figlio nel mondo venga attratto dal Padre divino sino a far trasparire la sua divinità sul Tabor, o che venga consegnato dal Padre nell'estrema distanza dell'abbandono e della perdizione, sempre la loro unità è in egual maniera perfetta, lo stato del Figlio è immutato, vicinanza e distanza di Padre e Figlio nello Spirito Santo sono le stesse. Così grande è l'intima ricchezza dell'eterna vita trinitaria, che ogni situazione della vita terrena di Cristo ( l'esultante gioia dell'unità col Padre come pure l'angoscia del trovarsi abbandonato da lui ) è soltanto una rappresentazione all'esterno delle possibilità interne del loro eterno amore. Così come tutte le parole che Cristo pronuncia sulla terra sono solo sfaccettature e aspetti dell'unica eterna Parola che egli è, altrettanto tutte le posizioni che egli occupa nel corso della sua vita, morte e risurrezione sono solo forme di apparizione del suo unico, eterno stato nel Padre. Ed anche se la sua vita nel mondo è un incessante movimento, di cui il dove e il verso dove non sarà mai per il mondo afferrabile, poiché esso sembra dissolvere tutto ciò che è statico nella dinamica del suo venire dal Padre e andare al Padre, l'inarrestabile procedere della sua via è tuttavia prodotto e guidato da un unico punto: il suo stare presso il Padre. Questo stato è, proprio perché è infinito e perciò immutabile, eterna e mai conclusa vita e pienezza di tutte le possibilità. Il Figlio sta così sicuro in Dio, da potersi permettere per così dire ogni movimento verso l'esterno. Ogni lontananza dal punto centrale sta solo a mostrare quanto egli stia irremovibilmente in questo punto centrale. L'identità che persiste anche nelle violente oscillazioni pendolari della sua via attraverso il mondo è l'identità della sua uscita e del suo ritorno al Padre, dunque l'identità della sua missione, che egli non solo ha, ma che egli è in quanto Verbo del Padre. La dimensione eccentrica della posizione del Figlio nel mondo non pone in questione quella concentrica della sua posizione nel Padre. Nel cuore del Padre si compie la missione eterna, ma anche quella nel tempo. Nascondi « Al centro del trono », che è il trono del Padre, « sta l'agnello come sgozzato » ( Ap 5,6 ); il Signore stesso testimonia anche proprio per quanto riguarda la sua vita nel tempo questa concentricità del suo stare nel Padre: « Non credi tu che io sono nel Padre, e che il Padre è in me? ( … ) Credetemi, io sono nel Padre, e il Padre è in me » ( Gv 14,10-11 ). Ma il mutamento della posizione del Figlio incarnato nei confronti del Padre diventa però comprensibile solamente attraverso la nuova collocazione dello Spirito Santo nell'ordine dell'Incarnazione ( oikonomia ). In questa lo Spirito mandato dal Padre è attivo: egli porta il Figlio - che si lascia incarnare - nel seno della Vergine. Egli viene durante il Battesimo mandato sul Figlio come la missione che permane in lui e sopra di lui, alla quale egli guarda come ad una regola oggettiva per obbedire al Padre in ogni tempo. Nascondi Lo Spirito riposa in pienezza sul Figlio ( Gv 3,34 ); nello Spirito egli opera ( Mt 12,28 ), ma prima che egli non lo riesali verso il Padre sulla croce ( Gv 19,30 ) lo Spirito non se ne va da lui ( Gv 7,39 ). Certo Cristo obbedisce allo Spirito in quanto portatore del volere del Padre non come ad uno Spirito straniero, esterno a lui ( altrettanto poco quanto farà un religioso se obbedisce alla sua regola ), ma egli si colloca nel suo abbassamento là dove egli in Dio stesso riceve dal Padre la possibilità di spirare lo Spirito insieme col Padre, e con ciò anche là dove stanno gli uomini creati, i quali ottengono lo Spirito di Dio ( per con-spirarlo ) non altrimenti che obbedendo a lui in quanto Spirito della missione. Questa « inversione » della seconda e terza persona divina che ha luogo con l'Incarnazione spiega come il Figlio possa diventare obbediente al Padre fino alla morte in croce senza mutare il suo essere personale, è come egli sia in tal modo divenuto archetipo ( Urbild ) di ogni obbedienza creaturale, non servile ma filiale. L'obbedienza della Passione è resa possibile solo dal fatto che il Padre oggettiva a tal punto il suo volere nello Spirito Santo, che egli in quanto persona può scomparire dietro questa oggettivazione. Lo Spirito garantisce la completa identità del rapporto Padre-Figlio anche per il tempo di questo oscuramento personale o apparente assenza. Nascondi Così la non solo creaturale, bensì colpevole, eccentricità del mondo, per cui viene espiato sulla croce, può venir inclusa nella immutata ( anche durante l'abbandono divino del Figlio ) intimità trinitaria, e lo Spirito, quando l'obbedienza del Figlio alla missione è penetrata sino al termine estremo, può venir alitato sulla Chiesa e sul mondo, poiché oramai il Figlio, in quanto « innalzato a Signore » ( At 2,36 ), dal Padre e insieme col Padre lo può inviare ( Gv 14,26; Gv 15,26 ), riversare ( Rm 5,5 ), alitare ( Gv 20,22 ). Tutta l'eccentricità del mondo creato nel suo rapporto verso Dio è possibile ultimamente solo perché questa eccentricità è situata all'interno delle parentesi del Verbo di Dio incarnato e della sua concentricità nei riguardi del Padre. Nascondi Attraverso la Rivelazione noi non sappiamo di nessun altro piano di Dio sul mondo all'infuori di quello nel quale egli dall'eternità, « da prima della fondazione del mondo », « ci ha scelti in Gesù Cristo per essere suoi figli », e cioè in quel Gesù Cristo nel quale noi riceviamo « la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati » e nel quale « tutto nel cielo e sulla terra deve venir ricapitolato » ( Ef 1,3-10 ). Il cosmo e gli uomini in esso non hanno nessuna storia chiusa in sé, nessun senso ultimo tranne che grazie a questa esauriente missione a partire dalla quale poi anche gli eletti nel Figlio ottengono la loro missione e così il senso della loro esistenza o la loro « idea ». Nascondi Certo « in principio tutto fu fatto nel Verbo, e senza di lui nulla fu fatto di ciò che è stato fatto: in Lui era la vita, e la vita era la luce del mondo » ( Gv 1,3-4 ). Ma questa affermazione è solo in cammino verso ciò che segue, poiché la luce viene nelle tenebre, là illumina ogni uomo e infine si fa persino carne, per portare a tutti la pienezza della grazia e della verità. Solo questo passo è la storia originaria, il punto d'incrocio che raccoglie in sé tutti i fenomeni del mondo e del suo sviluppo storico. Così infatti il Figlio di Dio sta nella stessa nostra distanza creaturale, nella distanza del « servo di Dio », sul quale ora si può caricare anche tutta l'estraneità del peccato, senza che il suo status cambi. Egli non ha schivato l'anonimità, nella quale è invece sprofondato come uno degli innumerevoli possessori della natura umana, ha guardato al Padre con occhi di uomo e gli ha parlato con bocca d'uomo. Egli non si sottrae all'analogia tra Dio e creatura. Nascondi Egli non vuole esser separato dai suoi fratelli da alcuna parete di vetro, ma « diventare simile a noi in tutto fuorché nel peccato » ( Eb 4,15 ) e fare « l'esperienza dell'obbedienza » ( Eb 5,8 ), anzi l'esperienza, che tutto abbraccia senza lasciar fuori nulla, del « venir reso peccato » ( 2 Cor 5,21 ), del portare la « maledizione » di tutti ( Gal 3,13 ). Ma in tutto ciò egli è la realizzazione in persona dell'idea del mondo ( Weltidee ) onnicomprensiva, qui racchiusa in unità, che il Dio uno e trino aveva in principio. Nascondi Egli è questa Idea non in un qualche luogo al di là del mondo reale e della sua storia, ma proprio entrando in questo mondo e nella sua storia e ricapitolandola dall'interno « in sé come capo » ( Ef 1,10 ). Misurando in sé l'analogia del mondo a Dio, ma senza contrapporre la sua posizione nel mondo alla sua posizione nel Padre come qualcosa d'altro, egli diviene misura per tutte le creature analoghe, diviene concreta analogia dell'essere. In base a lui deve orientarsi chi vuole stare nella giusta distanza e nella giusta vicinanza nei confronti di Dio. Infatti « egli è al principio di tutto, e tutto ha in lui consistenza » ( Col 1,16-17 ); egli è l'Alfa e l'Omega ( Ap 1,17; Ap 2,8 ), misura della creazione sin dentro i suoi ordinamenti più mondani. Questo è così vero che l'obiezione che egli è entrato nel mondo solamente alla fine dei tempi è priva di valore, giacché il processo mondano non avrebbe nemmeno avuto il varo se non fosse stato previsto questo momento nella pienezza del tempo. E inoltre ancora una volta: questo diventar reale dell'idea del mondo nell'Incarnazione è divenuto realizzabile solo perché la sua idea giaceva all'interno delle libere possibilità dell'eterna realtà della vita trinitaria. Per questo il passaggio dal Padre al mondo nella storia e dal mondo al Padre, questo passaggio che supera ogni distanza, è l'asse fisso attorno a cui gira tutta la storia del mondo. Anche lo stato originario non costituisce eccezione alcuna a ciò. Nel piano di Dio sul mondo non è un assoluto, ma un inizio e un transito. In esso non sono percorse tutte le dimensioni; la tentazione, che da Gesù viene inserita nel suo unico e onnicomprensivo stato, costituisce il suo confine. Così esso mantiene, all'interno della perfetta identità di idealità e realtà in Cristo, una idealità unilaterale ( e una corrispondente irrealtà ). Da ciò consegue per la creazione che non c'è per essa alcuna altra relazione ultima a Dio che in Cristo Signore. Consegue ancor più concretamente per l'uomo che egli non ha bisogno di cercare per primo il vero rapporto tra creazione e Dio, tra ordinamenti naturali e grazia soprannaturale, che l'unità di misura e il « dosaggio » tra le due sfere gli è sottratto, poiché l'unità è concretamente prodotta in Cristo ed è già data, come il dono più grande. È impossibile che un uomo possa collocarsi al centro fra il mondo naturale e Cristo, per ripartire giustamente i pesi sotto di essi. Come Cristo non trasporta il suo stato al di fuori del Padre, per mediare tra Dio e mondo, in un immaginario ( praticamente ariano ) punto centrale che mantenga eguale distanza da ambedue o che stia da entrambe le parti in modo tale che egli trovi un giusto equilibrio fra di esse come fra due partner equiparati, così pure il cristiano non può mettersi fra Cristo e il mondo, o fra la Chiesa come Corpo di Cristo e gli ordinamenti naturali, per guadagnare a partire da questa immaginaria, inacquisibile posizione un'unità di misura per le vere relazioni fra i due. Come Cristo è una persona divina con una natura divina e una natura umana e a partire dall'unità della sua persona ristabilisce per l'intera creazione la vera relazione tra Dio e uomo, corrispondentemente il cristiano non potrà andare ad abitare in nessun altro luogo all'infuori di quello in cui lo colloca la fede in Cristo, e solo a partire da esso egli può valutare le relazioni grazia e natura, fede e ragione. Come dunque il Figlio non conosce alcuna neutralità fra Dio e mondo, ma percorre la sua via verso il mondo e nel mondo in base alla sua eterna decisione per Dio, così non c'è per il cristiano alcuna possibile neutralità fra Cristo e il mondo. Nascondi Infatti « Io sono la via, la verità e la vita » ( Gv 14,6 ), e su questa via, che sola conduce alla verità e alla vita, può trovarsi solamente chi si decide per essa. « Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde » ( Mt 12,30 ). Togliendo al Signore ogni possibilità di una doppia collocazione, una in Dio, l'altra nel mondo, per unificare tutte le possibili collocazioni nel suo status onnicomprensivo, egli diventa non solo il Signore di tutti gli stati, ma anche, cosa che è assai più paradossale, il fondatore della divisione degli stati. Per poterli in maniera cristiana dividere, egli stesso deve stare al di sopra di entrambi, in una unità di status alla quale entrambi possano aver parte. Altrimenti essi non sarebbero stati cristiani. Ma perché questa dualità non cada fuori dalla sua unità, non basta intenderla come una unità trascendente nei confronti di ambedue; essa deve anche venir dimostrata espressamente come immanente ad ognuna delle due forme di stato di vita. Anzi, deve proprio venir resa visibile in maniera cristiana anche l'origine della dualità nella e dalla unità. L'unica via di Cristo dal Padre al Padre passando attraverso il mondo deve esser fatta in modo tale che egli possa divenire origine di entrambe le possibilità dello stare, senza venir egli stesso scisso in un doppio stato. Il Signore rappresenta lo stato mondano ( Weltsfand ) nella sua via attraverso il mondo con i primi trent'anni della sua vita. Durante questo tempo egli è membro di una famiglia umana, generato ed educato come ogni uomo e soprattutto sottomesso ai suoi genitori in quel legame che contraddistingue lo stato mondano. Lo stato di Gesù durante questo tempo non è lo stato mondano stesso, ma il modello dello stato mondano. Infatti né egli è costretto per natura a questo stato come gli altri uomini, ma si è volontariamente posto in questo legame, né è nato da un matrimonio naturale, né si sottopone al legame del matrimonio che contraddistingue lo stato mondano. Il suo stare nel mondo è come la velatura del suo perdurante stare nel Padre, senza che si possa dire che il suo stare nel mondo sia per questo in realtà uno stato d'elezione. Questo viene infatti fondato solo con lo scioglimento dei naturali legami con la famiglia, che pure contraddistinguono proprio il suo primo periodo. Questo rimane dunque l'autentico e non solo apparente modello dello stato mondano, poiché il Figlio, come bambino, adolescente e uomo all'interno di una cornice veramente umana e in vera obbedienza rispetto alle leggi della famiglia naturale e della società, vive la possibilità di stare nel Padre e nella di Lui volontà e missione. Quando egli più tardi, all'inizio della sua missione pubblica, lascia questo ambito, si reca in una nuova forma di vita, fonda insieme ai suoi discepoli una nuova comunità, allora egli non continua semplicemente in questo secondo periodo della sua vita ciò che ha cominciato nel primo, ma sottolinea con tutta forza il salto che sta frammezzo, e pone ancor più chiaramente in luce con la diversità ( Andersartigkeit ) del secondo lo stare a sé ( Eigenstàndigkeit ) del primo stato. Nascondi Questo confronto avviene laddove egli rinnega la sua parentela terrena verso madre e fratelli, per riconoscere oramai soltanto la parentela soprannaturale con coloro che fanno la volontà del Padre, in prima linea i suoi discepoli ( Mc 3,31-35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21 ). Questa opposizione attua come una dimostrazione, a mo' di insegnamento scolastico, dell'unità del suo stato che lo conduce attraverso entrambi gli stati. Come egli adempie la volontà del Padre suo nascendo all'interno del primo stato ( Gal 4,4 ), così egli la adempie adesso nel secondo stato, che si contrappone al primo, sciogliendosi dal primo legame in favore del secondo. L'identità sta nel medesimo adempiere la volontà del Padre, in cui il cambiamento dell'obbedienza ha l'aspetto di un'emancipazione dal legame mondano. Il Figlio, per evidenziare la ripidezza dell'abisso che separa i due stati, utilizza addirittura sua madre, la quale, nel momento in cui insieme coi suoi fratelli lo cerca, deve rappresentare lo stato mondano, mentre egli stesso vive già nello stato d'elezione. Questa utilizzazione di sua madre per chiarire l'altra cosa che sta di fronte non indica per questo ( come a torto volevano da ciò dedurre alcuni Padri della Chiesa ) una imperfezione della Madre, poiché il Figlio stesso aveva anzi vissuto fino a poco tempo prima in quello stato. Egli lascia semplicemente sopravvenire un differimento di fasi tra il suo transito e il transito della madre dal primo al secondo stato, onde chiarire nel punto di rottura l'articolazione tra i due stati. Nascondi La nuova comunità non è ostile alla prima, poiché anche se il Signore a Cana accenna dapprima alla distanza che adesso lo separa dallo stato di sua madre ( Gv 2,4 ), egli la prende tuttavia proprio qui alla festa con sé, adempie il suo desiderio e accenna in anticipo al punto di convergenza della Croce che sta davanti a loro, dove lo stato di loro due di nuovo coinciderà ( Gv 2,4 ). La nuova comunità, che si staglia così chiaramente nei confronti della precedente, non significa per questo per il Figlio nessuna frattura con la sua prima fase di vita, giacché egli già nel bel mezzo del suo stato mondano aveva innalzato il segno del dodicenne, che appare come un « trait d'union » fra le due vite ( nella misura in cui anticipa l'uscita dal « mondo » nella sfera del Padre ), intimamente però mostra l'unità dello stato del Figlio nella invariabile volontà del Padre. Solo perché il Padre lo lega all'ordine mondano egli è obbediente ai genitori nella prima fase di vita, e solo perché il Padre lo chiama ad uscir fuori del mondo egli si scioglie da quell'ordine per fondare il nuovo ordine soprannaturale. Nascondi Diventa chiaro con questo che lo stato mondano non significa affatto un cedimento alle leggi di questo mondo ( Gal 4,3s ), ma un lasciarsi legare per obbedienza nei confronti del Padre. Per quanto l'uomo naturale possa di fatto esser naturalmente legato alle cose di questo mondo, il cristiano, che nel Battesimo in Cristo « è sepolto con lui nella sua morte e cammina in novità di vita » ( Rm 6,4 ), è anche nello stato mondano liberato dalla schiavitù degli elementi del mondo ( Gal 4,3 ) e sta di fronte alle cose di questo mondo in una tale distanza di libertà, che egli « non è debitore alla carne, per vivere secondo la carne » ( Rm 8,12 ). Nascondi Egli è « chiamato alla libertà » ( Gal 5,13 ), « non più servo, ma figlio » ( Gal 4,7 ), legato unicamente dalla legge dell'amore, in cui tutte le leggi del mondo, nella misura in cui esse originano da Dio, sono adempiute ( Gal 5,14 ). Ma in questa libertà dal mondo, che sulla base dell'unico stato di Cristo è propria ad ogni cristiano, diviene ora però di nuovo chiaro che lo stato mondano riceve la sua ultima idea e sostanza dallo stare nell'elezione. Nella dolorosa scena del rifiuto dei familiari il Signore rende chiaro che la libertà cristiana all'interno degli ordinamenti di questo mondo non significa ancora la libertà ultima possibile nella volontà di Dio, che al di là di ciò c'è il lacerante passo del seguire il Padre anche laddove questi ama sciogliere e se necessario far saltare con violenza i legami terreni. Mentre la libertà del cristiano all'interno del mondo permetteva una certa possibilità di dominio, in quanto il redento dai nocivi legami del peccato trovava nell'ordine mondano il materiale e l'occasione per condurre e rappresentare una vita cristiana, e otteneva da Dio il permesso grazioso di far sì che il dono della figliolanza si ripercuotesse in tutti gli ambiti dello spazio mondano, così c'è al di là di ciò, in base all'insondabile decreto del Padre, la possibilità di sciogliere colui che vuoi essere obbediente sino all'ultimo da questi ambiti mondani, per rapirlo in un invisibile « al di fuori ». Questo « al di fuori » venne descritto già precedentemente come lo stare nella pura missione del Padre, ma anche come croce, cioè come rinuncia a tutto quanto è proprio nella pura privazione ad opera del Padre. Qui ora, dove gli stati vengono considerati nella loro nascita dall'unico stato di Cristo, diventa più chiaro che lo stato d'elezione significa certo la radicalizzazione dello stato mondano, ma non soprattutto perché l'uomo cerchi a partire da sé una via migliore, più perfetta, o impieghi mezzi migliori per giungere alla méta dell'amore, ma primariamente perché l'insondabile disposizione del Padre può plasmare lo stare nella sua volontà in modo tale che esso diviene uno svuotamento e una privazione di tutto ciò che non è questa volontà stessa. Nascondi Infatti il Figlio percorre questa via fuori dal mondo « mosso dallo Spirito » ( Lc 4,1 ), cioè nell'obbedienza nei confronti del Padre. È il Padre che per così dire lo attira a sé fuori dal mondo, dal mondo non solo della sua famiglia, della sua stirpe e della sua città paterna ( Mc 6,4 ), ma dal mondo della sua natura umana e delle sue leggi, dal mondo della sua memoria, del suo intelletto e volontà, poiché egli nella notte redentrice della Passione sottrae al Figlio anche tutte queste intime ricchezze naturali, che il Figlio spontaneamente offre a lui. Egli può disporre a piacimento anche delle energie intime del Figlio, gli può sottrarre « il sapere circa quell'ora » ( Mc 13,32 ), privarlo della certezza circa la sua vicinanza paterna e la sua esistenza ( Mt 27,46 ), negargli la volontà propria umana per lasciarlo andare a fondo totalmente in quella divina ( Lc 22,42 ). Legame nella sola disposizione divina, cosa che costituisce il nucleo dell'elezione, significa dunque, visto dallo status del Figlio, una tale offerta a Dio di tutto ciò che è proprio e naturale, che Questi può disporre per la sua attività di tutto l'insieme della natura come di qualcosa che è stato consegnato a lui. Per subire la croce ( e ultimamente era per questo che il Figlio era apparso sulla terra ) egli doveva quindi dapprima entrare nello stato d'elezione: la Croce è solo il culmine e la conseguenza ultima del voto totale, in quanto il Padre qui accetta realmente ciò che viene offerto e lo assume in sé. Nella croce la piena estasi del Figlio nel Padre è compiuta, poiché tutto quello che di fronte al Padre sembrava avere una ( seppur così legittima ) autosufficienza ( Selbstàndigkeit ) è interamente consegnato, affinché nel puro patire possa compiersi in purezza l'atto della volontà paterna. Che un simile star fuori sé ( Heraus-Stehen ) della natura nella pura volontà del Padre sia possibile non poteva affatto venir supposto a partire dal mondo. Non giaceva nell'orizzonte dell'analogia dell'essere. Infatti la realizzazione di questo stato non dipende dal tentativo o dall'offerta di colui che desidera legarsi, ma unicamente di Colui che dona il legame e lo accetta, in un atto che sta al di là di ogni aspettativa. A partire dal gesto dell'offrire il sacrificio di per sé non è possibile desumere se colui al quale il sacrificio viene presentato lo prenderà davvero in proprio possesso e a proprio uso. Così l'essenza più intima dello stato d'elezione, così come esso viene fondato dallo stato di Cristo sulla croce, rimane una possibilità che non può essere scorta e calcolata a partire dal mondo, anzi nemmeno a partire dallo stato cristiano di vita nel mondo. La sola radicalizzazione dello stato mondano non basta per suscitare la forma dello stato d'elezione; c'è bisogno per questo di un atto qualitativamente nuovo di Dio, che in una estatica trascendenza su tutte le possibilità interne al mondo fondi con la sua accettazione del sacrificio sulla croce del Figlio un nuovo spazio d'esistenza ( Standort ). Nascondi Certamente in questo stato estremo di offerta di sé nel servizio « sino alla fine » ( Gv 13,1 ) il Figlio mostra solamente dove egli è dall'eternità sempre stato: nel centro del volere del Padre. Se egli a dimostrazione di questo stato si lascia con inimmaginabile violenza strappar via e spogliare di tutte le sue energie naturali e umane, anche questo atto estremo non ha tuttavia cambiato il suo stato, poiché egli anche in quanto Dio stava da sempre presso il Padre del tutto al di fuori di sé. Dopo che egli nel mondo aveva fornito dapprima la prova positiva che « suo cibo è fare la volontà del Padre » ( Gv 4,34 ) e che egli « vive per il Padre » ( Gv 6,57 ), apporta ora la prova negativa col fatto che, una volta sottrattogli questo cibo, muore. Ma anche questa morte che il Padre dispone e che il Figlio volontariamente offre per il mondo e lascia accadere, si converte nella prova più positiva di tutte del suo stare nel Padre, poiché ora egli rimette il suo Spirito nelle mani del Padre. Adempiendo in tal modo il piano del Dio trino sul mondo, egli non va ( alla maniera di una fuga dal mondo ) fuori dal mondo per andare incontro a Dio, ma va invece sino al fondo del mondo, o meglio: si rivela egli stesso come il fondo più intimo del mondo. Perciò lo stato d'elezione, che riceve in consegna come sua forma la croce, può venir designato come lo stato mondano più profondo e più intimo, come status nella ideal-reale realtà fondamentale del mondo. Le persone che vivono nello stato dei consigli lo sanno, o dovrebbero saperlo. Stato mondano e stato d'elezione sono in tal modo fondati dall'unico stato di Cristo. In ambedue egli esegue l'unica volontà del Padre; ma in maniera che nel primo stato egli la segue sottomettendosi ai legami naturali, nel secondo ai legami soprannaturali giustificabili solamente a partire dall'evento della redenzione. Il suo primo stato rimane internamente uno stare soltanto nella volontà del Padre, ma in modo tale che questo stato interiore rimane all'esterno velato: « Non è egli forse il carpentiere, il figlio di Maria, e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone? Nascondi E non abitano forse tra noi le sue sorelle? » ( Mc 6,3 ). Questo velamento fa parte dell'essenza dello stato mondano, poiché gli stessi ordinamenti mondani sono i velami in cui la realtà della vita cristiana si nasconde: « Voi infatti siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio » ( Col 3,3 ). Il velamento viene preso dal mondo come cosa normale, cosicché l'improvviso svelamento nel secondo stato diventa necessariamente per coloro che stanno più lontano uno scandalo ( « perciò si scandalizzavano di lui ». Mc 6,3 ), addirittura per i « parenti » ( Mc 6,4 ), anzi per Maria e Giuseppe esso diventa una cosa incomprensibile ( Lc 2,50 ). Visto nell'insieme del mondo e anche della Chiesa, il passaggio nel secondo stato manterrà sempre qualcosa del suo originario carattere di scandalo, poiché questo stato riceve la sua giustificazione ultima non da motivi umani ( seppur così elevati ), ma unicamente dal volere del Padre. Come lo stesso nudo « Aldifuori » dal mondo, esso può apparire al mondo che è dentro e fuori della Chiesa solo come la impossibile possibilità, a meno che lo Spirito di Dio, che è anche lo Spirito della croce e del sacrificio, non desti i cuori di coloro che sono nel mondo e li faccia partecipare allo Spirito di quelli che hanno abbandonato il mondo. Questa unità dello Spirito non è impossibile, poiché entrambi gli stati sono una sola cosa nell'unità dello stato di Cristo. Lo stato di Maria Cristo non volle, nel suo stato unitario che riassume in sé i due stati della Chiesa ventura e li fa prender le mosse dalla sua unità, essere solo. Egli volle farvi partecipare sua madre ( che come Chiesa sarà la sua sposa ), affinché anch'ella fosse insieme a lui a fondamento dei due stati, in una analoga trascendenza nei loro confronti. Maria è madre e vergine allo stesso tempo; ella può perciò venir rivendicata da ambedue gli stati di vita come modello e patrona. E tuttavia ella non è da subordinare né all'uno né all'altro stato; ella sta, come suo figlio, al di sopra di entrambi, anche se li attraversa entrambi passando dall'uno all'altro, e con il suo « stare al di sopra » ( Darubersfehen ) aiuta il figlio nella fondazione degli stati stessi. Ella è la sorgente della natura umana del Redentore, non solo in base al suo corpo, ma ancor più in base al suo spirito. Dio infatti non violenta l'uomo; per diventare uomo egli voleva il consenso dell'umanità, e questo « sì » della madre detto in rappresentanza per tutti ( loco totius generi humani ) era condizione perché ella venisse adombrata dallo Spirito Santo. Un così sconfinato « sì » poteva però venir pronunciato solo a partire da una totale purezza dell'anima, cosicché l'immacolata concezione era condizione previa per l'incarnazione. Essendo preservata dalla corruzione del genere umano - a motivo di una speciale grazia del Dio trino meritata anch'essa sulla croce - Maria sta al di là del mondo decaduto, in una integrità che è paragonabile a quella di Adamo ed Eva prima della caduta. Per questo non è internamente toccata dalla divisione degli stati. Essa collaborerà a fondarli, passerà attraverso le forme di vita in maniera sua, ma in modo tale che facendo ciò ella persevera in un'incomparabile unità della sua intera esistenza. In questa unità ella, in quanto vergine e madre, farà irradiare sul mondo ( in maniera per noi uomini quasi ancora più chiara che il Figlio ) la gloria originaria dell'idea dell'uomo inondato di grazia. Come concepita senza peccato, il suo spirito è da sempre completamente rivolto a Dio e posto a sua disposizione. Così nel suo più intimo ella è nello stesso stato del Figlio: ella sta nel volere, nella disposizione del Padre. Ma nel « come » di questo stare si differenzia, in quanto donna creata, in doppia maniera da suo figlio. Il Figlio, che è Dio, sta attualmente in questo « sì » alla volontà paterna sin dall'eternità. La madre, che è creatura umana, cresce nel tempo e partendo dalla mancanza di consapevolezza della sua infanzia va incontro a questa volontà attuale, ma in maniera tale che anche ciò che in ella era sopito e poi diviene cosciente non era mai nient'altro che un sì a Dio. E inoltre il Figlio, in quanto uomo, assume attivamente la volontà del Padre, mentre ella, in quanto donna, deve aspettare finché non è da Lui afferrata e presa in possesso. Così fino all'incontro con l'angelo ella sta certo a disposizione, ma nel modo dell'attesa, che non conosce ancora la sua vera missione. Questa attesa della manifestazione della volontà di Dio su di lei sta precisamente ancora prima della scelta cristiana dello stato di vita. Nella misura in cui nell'Antico Testamento non c'è ancora nessuna alternativa teologica fra matrimonio e verginità e il matrimonio è il modo normale in cui un credente vive proteso alle promesse di Dio, la illimitatezza della sua disponibilità non viene limitata dal suo esser fidanzata a Giuseppe. Ella non abbisogna nemmeno di prendere internamente le distanze da ciò, per perseverare nella piena indifferenza. Esteriormente la sua attesa è uguale a quella di una qualsiasi ragazza che cresce, che nell'indifferenza attende con costanza il segno di Dio per sapere quale dei due stati ella deve prendere per sé. E tuttavia diventa già qui chiara la differenza che la separa dalle altre creature umane. Maria è non soltanto innocente nel senso che non conosce ancora le cose riguardanti il sesso, come lo possono essere giovani ragazze prima del matrimonio, che in tutta ingenuità si offrono ad entrambe le possibilità di « convento » e « matrimonio », senza prendere da queste due possibilità nulla in anticipo. Maria è innocente nel senso dell'immacolata concezione: una grazia quindi che le permette di non essere toccata dalla sfera della natura decaduta e dunque anche dalla sfera della sessualità così come essa si presenta dopo il peccato originale. La sua indifferenza, la sua offerta per ogni disposizione di Dio, esclude dunque, consciamente o inconsciamente, tutto quanto costituisce possibilità della natura decaduta. Ella è per questo non di meno, ma di più aperta a Dio; la limitazione apparente è, vista da Dio e dall'ideale originario dell'uomo, non restrizione, ma allargamento. Ella è infatti, senza poterlo intuire, aperta a Dio per possibilità che solo Dio conosce e che Dio custodisce nel suo segreto per sorprendere così la persona che si affida totalmente a lui. La sua è un'indifferenza dell'amore perfetto, che si piega solo verso l'amore divino e non può includere le possibilità imperfette della vita mondana terrena. E il fatto che ella possa dimostrare a Dio questo amore di indifferenza è il segno che Dio l'ha già dotata di una grazia unica, alla quale egli conta di rispondere con la sua sovrabbondante grazia dell'Incarnazione. Grazie alla forma della sua indifferenza ella è già, prima ancora di pronunciare il suo sì all'angelo, posta al di sopra degli stati di vita della Chiesa; e la sua indifferente attesa ha già internamente un'altra struttura rispetto a quella che può avere la più perfetta indifferenza di un cristiano speciale. Il cristiano normale è col Battesimo chiamato fuori dal mondo del peccato e sino alla scelta del suo stato sta obbediente davanti a Dio aspettando in quale stato egli possa venir posto. Due possibilità circoscritte stanno davanti al suo sguardo, ed egli aspetta con impazienza l'ora in cui una speciale chiamata lo trasferirà forse nello stato d'elezione oppure la mancanza di questa chiamata lo lascerà nello stato mondano. Maria, sebbene sia già fidanzata, non è indifferente ad alcuna possibilità circoscritta. L'angolo d'apertura del suo amore che attende è illimitato. Ella non anticipa nessuna forma di vita nota, ma è pronta per possibilità che Dio solo concede e che Dio solo conosce. Ella sta in Dio al punto tale che il suo status può essere scelto e determinato solo a partire da Dio. Nell'attesa perfetta ella ottiene in dono da Dio la perfetta risposta: quella Parola che era stata il motivo della sua attesa e che con la sua venuta adempie così se stessa. E tuttavia il sì della madre non rimane semplicemente esteriore; esso viene assunto per grazia fra le condizioni interne dell'Incarnazione. D'ora innanzi ella possiede in sé un nuovo centro: la stessa eterna Parola di Dio. Il suo essere madre si avvolge attorno a questo centro ( a lei estraneo che la supera infinitamente e che tuttavia le è donato sino a diventare completamente suo proprio ) come un velo, di più: come pura disponibilità, che si lascia usare e aprire in direzione di questo centro. Se il suo stato era da sempre in Dio, esso è adesso adempiuto dal fatto che il centro divino della sua esistenza è trasferito dentro di lei. Con ciò essa si conforma, per quanto lo può una creatura, al modello del suo figlio, che nel centro della sua persona possiede la volontà del Padre. In lei viene percettibilmente presentato che una simile estasi di tutto l'essere nella volontà divina non è affatto una possibilità assurda, che elimina l'armonia umana, ma in questa equiparazione del proprio punto centrale con la volontà divina sta ogni adempimento, ogni fecondità e felicità dell'uomo. Mai una vita fu, anche umanamente, più realizzata di questa, che Dio ha colmato di ogni grazia dal cielo in virtù del perfetto sì donatole. Ma l'unico status di Maria, in cui ella è allo stesso tempo vergine e madre, rispecchia tuttavia, sebbene esso sia superiore ad ambedue, il preciso ordine degli stati. È il suo assenso nello spirito che diventa causa della sua fecondità corporale. La sua verginità, nella quale ella si pone interamente a disposizione di Dio, sta al punto di partenza della sua maternità. Quest'ultima deriva dalla prima come una conseguenza, certamente non come una conseguenza naturale, ma come una conseguenza soprannaturale donata per grazia. Nascondi L'assenso che ella attraverso l'angelo dà a Dio è il riassunto di tutta la sua persona, offerto in un voto totale: « Ecco la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola » ( Lc 1,38 ); e all'interno di questa disponibilità illimitata avviene il miracolo della maternità. Ciò che essa possiede in comune con lo stato mondano, il frutto corporale, è esso stesso un frutto di ciò che ella ha in comune con lo stato d'elezione: la fecondità spirituale del suo sì nella grazia. Così si ripete in lei quello che già avevamo visto nel Figlio; lo stato nella volontà del Padre si manifesta nell'incarnazione primariamente come stato d'elezione, anche se questo stato temporalmente è secondario, velato dapprima in uno « stato mondano ». Dove, detto comunemente, si rafforza l'affermazione, a partire da Cristo e da Maria, che lo stato d'elezione è forma sui et totius. Così risultava dall'ordine paradisiaco, in cui ogni fecondità nel mondo derivava dal primato dello spirito e dell'amore, così viene adesso riprodotto nell'ordine della redenzione, mentre nell'incarnazione del Figlio vengono allo stesso tempo messe allo scoperto le più profonde radici intradivine di questo ordine. Maria non è dunque madre e vergine allo stesso titolo. Ella diventa madre perché è e rimane vergine, perché è colei che è completamente consacrata a Dio. In lei diviene leggibile il primato dello stato d'elezione sullo stato mondano. Ma d'altra parte la méta a cui tutta la sua esistenza tende è la maternità. Ella è vergine per poter diventare madre. Nell'eterna previsione della sua incarnazione Dio ha formato nel tempo questo essere senza macchia, che doveva servirgli per la sua offerta come perfetto recipiente per le sue finalità spirituali e materiali. E così viene consolidata qui anche l'altra verità: che il secondo stato di vita nella Chiesa non è finalizzato a se stesso, ma è ordinato al primo, come tutto quello che nella Chiesa è più in alto solo per questo e grazie a questo sta più in alto, se più serve ed è pronto a servire. Anzi, questa prontezza ad abbassarsi di più è il punto più alto, poiché l'unico valore che può valere come un "di più" è l'amore, ma un amore che è sempre pronto a servire e ad offrirsi. Questo servizio del secondo stato al primo è un servizio reale; esso non è limitato ad esempio solo ad un lontano modello all'interno di una sfera chiusa in sé, inaccessibile È già stato mostrato come il Figlio nella sua incarnazione, sebbene non abbandonò il suo stato nel centro del Padre, entrò tuttavia nella piena realtà dell'esser uomo, acquistò anzi la completa esperienza di tutte le altezze e le profondità della vita e della coscienza umana. Lo stato in Dio, proprio perché esso è in Dio, non è chiuso verso l'esterno, ma procura l'apertura al mondo più grande possibile: l'apertura a partire dal Creatore stesso. Nella stessa maniera Maria con la chiusura della sua immacolata verginità non è bandita in una sfera che non permetta alcun accesso verso il di fuori, verso il mondo reale e realistico. La sua illibatezza non è assenza di esperienza, non è mancanza di intima partecipazione. Al contrario, niente apre così tanto alla partecipazione alle vicende del prossimo come l'amore altruista, mentre invece le esperienze di egoismo e di bramosìa chiudono gli uomini l'uno all'altro. Maria è la prova che non è necessario aver « vissuto » ogni esperienza per essere esperti del mondo; ella, sede della sapienza, sperimenta tutta la verità del mondo decaduto guardando la sua vera e propria efficacia e realtà nel corpo straziato e nel dolore spirituale del suo figlio. Niente di più di questo è vero e degno di essere saputo circa il peccato nel modo in cui Dio lo conosce. Maria non deve abbandonare la contemplazione del suo figlio, per essere colei che su tutte le vie del mondo ama, aiuta e fa da mediatrice. Ella lo è perché per primo lo fu il Figlio nella sua profusione eucaristica, e come lui anch'ella non ha bisogno di spostare il suo stato per chinarsi compassionevolmente e operativamente su ogni dolore e ogni colpa del mondo. Ella è così pura e così amorosa che non necessita di clausura alcuna per non venir contaminata dal mondo. Laddove essa va, porta con sé la purezza, l'amore, il cielo; il suo amore è per se stesso clausura, e ogni muro di separazione fra mondo e convento, terra e cielo, cade, dove ella sopraggiunge. Ella insegna ai cristiani ad essere senza paura nella sequela di Cristo, il quale non teme di mandare i suoi in mezzo ai lupi e di esperii senza protezione alle ingiurie del mondo. La clausura, laddove è richiesta, non è un'invenzione dell'angoscia, ma ha di nuovo, come tutto lo stato d'elezione, una funzione rappresentativa: raffigurare percettibilmente l'intimo distacco dal mondo e lo stare in Dio. Qui si può vedere anche che Maria non ripete semplicemente la sintesi paradisiaca, ma ha in modo assoluto il suo posto nell'onnicomprensiva sintesi cristologica. La prova di sopportazione del peso, che la sua libertà deve subire quando ella ha da dire sì ad ogni abbandono patito dal Figlio o dal Figlio imposto a lei, è maggiore rispetto a quanto poteva venir richiesto all'uomo edenico. Questa libertà dell'amore ha sin da principio un sostegno dalla croce. Esclusività dello stato in Dio e apertura al mondo sono, come mostra la Madre, concetti complementari. Che questa apertura si presenti in una missione visibile come quella degli Apostoli o degli ordini religiosi attivi, oppure nella invisibilmente efficace corrente dei contemplativi, la legge rimane in entrambi i casi la stessa. Occasionalmente, come nel caso della piccola Teresa, l'intima energia d'irraggiamento della contemplazione può esser resa visibile nel mondo - ella fu poi insediata infatti come patrona di tutte le missioni -, ma nella maggioranza dei casi questa energia rimane nascosta o al massimo diventa in piccole parti percepibile per alcuni credenti. Nascondi L'unità nella missione della Madre fra esclusivo stare in Dio e fecondità di questo stare per il mondo è garanzia per tutta la Chiesa che una fecondità dell'apostolato interno ed esterno non può mai venir cercata in un « avvicinamento allo spirito di questo mondo » ( Rm 12,2 ), ma unicamente nel radicalismo dello stare in Dio. Tutti i metodi di attirare il mondo per guadagnarlo a Cristo rimangono subordinati a questo principio primo. Anche la madre vive, come il figlio, lo scorrere dal primo al secondo stato, quando ella viene dapprima indirizzata dalla legge dell'Antico Testamento verso la comunità di vita naturale con Giuseppe, poi dal mistero del Figlio crocifisso verso la soprannaturale comunità d'elezione con Giovanni. Nascondi Ma come il Figlio vive lo stato mondano non solo nello spirito ma nella verità del voto di offerta al Padre, e così prefigura il successivo stato d'elezione, così Maria vive il matrimonio non solo « come se non fosse sposata » ( 1 Cor 7,29 ), ma nella piena verità di povertà, verginità e obbedienza. E tuttavia questa vita e il successivo periodo di stato vedovile, dalla morte di Giuseppe fino alla Croce, è ancora autentica vita nel mondo. È vita all'interno delle leggi e dei legami della famiglia, del governo della casa, dell'educazione dei figli, delle mille piccole preoccupazioni che una famiglia povera conosce. Poveri essi lo erano già perché la chiamata del Signore li spinse sempre via dal loro possesso e li costrinse ad impiantare altrove il loro piccolo artigianato; vergini, perché il tenero amore che legava Maria a Giuseppe includeva per lui una vera rinuncia all'interno di un matrimonio vero e non soltanto apparente; obbedienti, perché Maria seguiva immediatamente i messaggi di Dio al suo sposo altrettanto come quelli che la voce dell'angelo aveva fatto giungere personalmente a lei. In questa famiglia i voti non stanno a fianco della vita familiare, ma sono totalmente impiantati al centro di essa. E Maria cerca di attenervisi in nessun altro luogo che in quello dell'adempimento delle faccende e degli obblighi imposti a lei dall'ambito della famiglia. Quanto in questa prima fase ella fondi lo stato di vita nel mondo, lo si vede dal già menzionato rifiuto da parte del Figlio. Egli, che è già oltrepassato nell'altro stato, si distacca da lei, che deve qui impersonare la « carne e il sangue » da Cristo abbandonati. Apparentemente il Figlio la lascia dietro di sé, in questo primo stadio della sua vita. Egli la lascia espressamente rimaner fuori, non la riceve e si dice libero da lei in quanto madre carnale, indicando i discepoli e i credenti come sua madre e suoi parenti spirituali. Ma proprio in questa amarissima esperienza del venir abbandonata, il Figlio la prende già con sé in maniera nascosta e la fa passare dall'altra parte. Lasciandola egli la obbliga ad essere da lui lasciata, e precisamente senza che ella afferri e comprenda questo abbandono. Ciò che qui è cominciato troverà il suo compimento sulla croce, dove il Figlio, che pende egli stesso nell'estremo abbandono dal Padre, non può far parte alla madre del suo mistero altrimenti che abbandonandola altrettanto e come definitivamente, per indirizzare la sua maternità verso un nuovo figlio, Giovanni. Come il Figlio nella Passione va a finire nella passività del venir sacrificato, poiché il Padre si vela a lui e gli sottrae così la sua vita più intima, in modo che egli non può far altro che sprofondare nell'abisso della morte, così anche il Figlio sottrae alla madre nella Passione quel luogo dove ella ha il suo stato: se stesso, per farla partecipare a questa morte, che è la nascita del nuovo mondo. Nella vita di Maria niente è forse più incomprensibile e più soprannaturale di questo: che la madre non sia morta insieme col Figlio; giacché è pur vero che in fondo ella viveva di lui, non meno di quanto egli viveva di suo Padre. Il Padre e lo Spirito la mantengono soprannaturalmente in piedi, come un involucro, mentre il contenuto, il punto centrale della sua anima, il Figlio, le viene strappato per tre giorni. Ma nel frattempo Giovanni - e con lui l'insieme degli amici del Signore, anzi l'insieme dei credenti - ha cominciato a occupare questo posto: là dove sinora stava Dio, il suo Dio in figura d'uomo, là sta adesso l'amico del suo Dio e attraverso lui ogni uomo nel quale ella riconosce l'amore del suo figlio. Così si compie sulla croce il mistero dell'identità fra interno ed esterno, fra chiusura in Dio e apertura al mondo. Questa volta non più in maniera tale che una esclusività verso Dio viene da lui premiata con una fecondità nel mondo, ma in maniera che Dio stesso mette al posto di Dio il mondo, che deve venire amato al posto di Dio con amore divino. Questo scambio non avviene però in una sintesi facilmente eseguibile di amore a Dio e amore al mondo, ma accade piuttosto sotto la croce, sulla vetta dello stato d'elezione, laddove anche alla Madre nella passività della Passione viene sottratto tutto ciò che ella è ed ha: non solamente lei stessa, ma ciò che in lei è più di lei stessa, il suo centro più intimo, il Figlio. E solo perché la Madre si presta a questo estremo atto di violenza della Passione, diventa madre di tutta la cristianità. Il mistero della sua verginità ed esclusività deve andare sino all'ultimo svuotamento di tutto, attuabile solo da Dio, per pervenire alla nuova fecondità, ancora una volta possibile solo a partire da Dio, al di là di ogni fecondità mondana. Lo stato in cui Maria grazie al suo essersi offerta per il compimento del sacrificio è stata collocata, questo stato, che in maniera latente era già presente nel suo stato matrimoniale, ma che poi nei crescenti atti di congedo da parte del Signore - dalla fuga del dodicenne alla dipartita del trentenne, al pronunciamento della differenza di compiti a Cana, al non accoglimento della madre coi parenti, alla sottrazione di sé del figlio sulla croce - si manifestò sempre più apertamente, rimane il definitivo e irreversibile stato di Maria. La sua vita con Giovanni è perciò necessariamente vita nello stato puramente soprannaturale: vita comune di verginali, ognuno dei quali è consacrato esclusivamente al Signore, ma vita comune su espresso comando del Signore e sotto la legge del suo amore. Ambedue, che stanno vicino al Signore il più possibile, vengono uniti in questa nuova maniera dal Signore stesso. In essi deve venir rappresentato - visibilmente e in maniera conforme allo stato di vita - il mutamento della presenza visibile di Cristo sulla terra in una invisibile, là dove due o tre sono riuniti nel suo nome. Essi devono vivere la possibilità del cristianesimo per tutte le generazioni: la possibilità di trovare realmente il Dio amato nell'uomo amato, senza che l'amore umano minacci minimamente l'assolutezza di quello divino. Infatti il volgersi al prossimo non solo accade per comando di Dio, ma il divino Figlio e Amico vive nel prossimo, al punto tale che d'ora innanzi lo si può cercare e trovare completamente in questi. Nella posizione di Maria, che è superiore agli stati di vita e che fonda ( insieme a Cristo ) la loro unità e la loro differenza, viene confermato quello che già prima fu detto sulla priorità della Chiesa rispetto ai credenti che vivono in essa. In Maria è inoltre evidente che non si tratta di una priorità della « istituzione » rispetto alla vita che in essa viene vissuta, ma molto più: della priorità di una vita libera resa possibile dalla grazia, che dalla sua pienezza sprigiona ambiti istituzionali per poter essere imitata. Nascondi La Chiesa non comincia a Cesarea di Filippo o con la chiamata dei Dodici, ma essenzialmente nella stanzetta di Nazareth: col consenso della Vergine a diventare Madre del Figlio di Dio e dei suoi « fratelli », sua « restante discendenza » ( Ap 12,17 ). Lo stato del cristiano: "in Cristo" Quando lo stato cristiano fu descritto una prima volta nella sua universalità, esso apparve fondato su di una scelta e una chiamata di Dio ad uscir fuori dal mondo decaduto, su di un'opera di divisione che continuava poi all'interno della Chiesa ancora una volta come divisione fra lo stato dei consigli fondato da una chiamata che elegge e lo stato di vita nel mondo, che colloca all'interno degli ordinamenti naturali. Là apparve preferito il secondo stato, in quanto stato nel luogo e nello stato di Cristo, che era uno stato - al di là del paradiso terrestre - contemporaneamente del Cielo e della Croce. L'uomo nello stato mondano era non meno chiamato all'amore perfetto, ma sembrava averlo più difficilmente; egli aveva tuttavia da raggiungere la stessa méta, partendo da uno stato in cui gli ordinamenti mondani sono inestricabilmente mescolati con la caducità della natura umana. Egli era così « diviso ». Ma la frattura che lo attraversava era la forma in cui in fin dei conti anch'egli si veniva a trovare sotto l'unica legge della Croce. E se nella descrizione della doppia concezione del Vangelo come verità e come parabola si rafforzò ulteriormente l'impressione di una graduazione d'importanza, questo fu soltanto per sfociare ultimamente nel riconoscimento della reciproca prestazione di aiuto dei due stati, anzi dell'espressa sussidiartela del secondo stato nei riguardi del primo. Qui diventò chiaro quanto entrambi gli stati siano partecipazione all'unico stato di Cristo e di sua madre, e quanto dunque nell'analogia del concetto di stato nella Chiesa persista l'unità di status o dì tutti i cristiani. La prima caratterizzazione di questo stato, chiamata e scelta da parte di Dio, restò una caratterizzazione formale. Poi la considerazione dello status di Cristo e di Maria portò ad un concreto adempimento contenutistico dell'idea cristiana di stato di vita. Partendo di qui noi incontrammo i due stati ecclesiali in una nuova maniera. Essi si sono mostrati ora come il dispiegamento dell'unico stato di Cristo e di sua madre, che conteneva in sé prefigurate, pure analogamente, entrambe le possibilità, in modo che cioè l'unica perfetta via di Gesù e di Maria ( in fasi differite l'una rispetto all'altra ) conduceva dallo stato nel mondo allo stato nell'elezione. Poiché però l'unico e indivisibile stato di Cristo conteneva in sé il movimento da Dio al mondo e dal mondo a Dio, per questo la differenziazione degli stati non può condurre adesso a nessuna ripartizione di questa indivisibile via. Questo significa che entrambi gli stati possono contenere in sé entrambi i movimenti in unità, entrambi, anche se in maniera diversa, devono rappresentare in sé l'interezza dello stato di Cristo. In ogni caso il senso della chiamata e scelta di Dio è quello di far partecipare il cristiano allo stato originario di Cristo. Nascondi « Infatti dove sono io, là deve essere anche il mio servo » ( Gv 12,26 ). « Padre, voglio che quelli che tu mi hai dato siano con me là dove sono io » ( Gv 17,24 ). Il « dove » del cristiano è Cristo stesso, così come il « dove » di Cristo è il Padre. Questo « dove » non è n spaziale-temporale, n la semplice prefigurazione di un ideale o di un programma di vita, n l'assunzione esteriore di un incarico o di una dignità, come può ben essere il caso per quanto riguarda l'insediamento in uno stato civile pubblico; esso è piuttosto una neodeterminazione dell'intera esistenza dei chiamati, cosicché questi attraverso l'inserimento nello stato di Cristo ottengono la loro definitiva determinazione personale, che assorbe in sé e relativizza tutto il resto. Quello stare di Cristo nella volontà e nell'essenza del Padre, dove status ed esser persona per lui coincidono, diviene forma del nuovo « stare » del cristiano. Sebbene costui non sia Dio, né venga divinizzato dall'inserimento nella Chiesa, la forma di Cristo diviene tuttavia forma sua propria, e precisamente altrettanto immediatamente secondo l'essere quanto secondo il dover essere. Nascondi Per lui la vera sorgente della vita non sta più in lui stesso; essa sta, da quando egli ha rivestito la forma di Cristo ( Rm 13,14 ), l'uomo nuovo che è fatto secondo Dio ( Ef 4,24 ), in Cristo: « Come il Padre che ha la vita mi ha mandato, e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me » ( Gv 6,57 ). Questo significa ora che il cristiano, in qualunque stato viva, deve sempre stare in un rapporto concentrico nei confronti di Cristo. Così come per Cristo non c'era nessuna possibilità di collocarsi al di fuori del Padre, per mediare fra lui e il mondo, così anche per il cristiano non ci può essere alcuna cristiana possibilità di collocarsi al di fuori di Cristo, per ripristinare a partire di là il collegamento tra Cristo e il mondo. Nascondi Come Cristo non lasciò il Padre quando egli stava nel mondo, e come il suo passaggio dalla famiglia nella comunità dei discepoli non significò un ritorno al Padre, un perfezionamento, un progresso, così anche lo stare del cristiano nel mondo - e in fin dei conti stanno in qualche modo nel mondo i cristiani di ambedue gli stati di vita ( Gv 17,11; 1 Cor 5,10 ) - non può significare nessuna seppur piccola distanza nei confronti di Cristo. Il cristiano che vive nel mondo non è « diviso » per il fatto che egli deve vivere negli ordinamenti naturali, giacché una simile vita l'ha condotta anche Cristo senza distanziarsi minimamente dal Padre e dalla sua volontà; egli lo è soltanto perché è nella tentazione di « non preoccuparsi delle cose del Signore, di come piacere al Signore, ma delle cose del mondo, di come piacere alla moglie » ( 1 Cor 37,32s ). In cosa consista questa tentazione, deve venir chiarito ancora una volta guardando a Cristo. Il Figlio vive nel mondo, ma non è del mondo. Ciò significa due cose: egli vive come uomo nella partecipazione alla natura creata dal Verbo eterno, ma parla e agisce con un'autorità che lo rivela come il Verbo eterno stesso. Nascondi « Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno » ( Mc 13,31 ). Come origine della natura egli è libero di fronte alle sue leggi. Ma questo significa in maniera ulteriormente accentuata: tutto ciò che rientra nella natura, che non solo « attraverso di lui », ma « in vista di lui » fu fatto, ha « in lui la sua consistenza » ( Col 1,16-17 ), nella misura in cui egli lo relaziona alla libera grazia divina che egli dal Padre porta al mondo. L'ordine naturale è stato posto da sempre soltanto in vista del suo compimento nell'ordine della grazia. Che il mondo decaduto, che si occupa solo di se stesso, non riconosca più ciò, non cambia nulla nel piano di Dio. Quando il Figlio come libera Parola di Dio che crea e redime viene nel mondo, diventa l'unica unità di misura del rapporto fra natura e grazia. Nascondi Dio, che attraverso la sua « parola onnipotente » ( Sap 18,15 ) fondò l'ordine naturale, non lo distruggerà quando questa Parola appare personalmente nella sua creazione come Grazia, ma così pure non sarà nemmeno legato interiormente alle sue leggi. Esse, promulgate da lui liberamente, non hanno di fronte a lui che è il Signore nessuna autorità. Se egli in principio ha comandato agli uomini di moltiplicarsi e di dominare la terra, non è affatto detto con questo che se egli stesso, il Signore, apparirà in figura d'uomo, si debba attenere a questo decreto. Egli è in verità la sovrana Parola creatrice di Dio stesso, che non soltanto attraverso - le leggi della natura può divenir feconda, giacché essa è sin dall'eternità l'assoluta fecondità. Nascondi Egli non ha bisogno di rendere la terra sottomessa, essa è da sempre completamente a suo servizio ( Mc 4,41 ). Incarnandosi egli può cioè adeguarsi al mondo, divenir sottomesso alla sua naturalità, ma la misura di questa sottomissione sta racchiusa unicamente nella sua discrezione inappellabile. Nessuno gli può chieder ragione del perché egli, già che diventa uomo, non obbedisce alle leggi del mondo in egual maniera come un qualsiasi altro uomo. Perché egli non si sposa, quando egli stesso ha pure impartito il comandamento di moltiplicarsi; perché egli non coltiva la terra, dal momento che egli stesso ha impartito questo comando. Egli si serve della natura per i suoi scopi, che sono divini e soprannaturali, e la conduce così alla sua destinazione. Non varrebbe la pena apparire nel mondo personalmente come Parola di Dio, se con ciò dovessero solo venir confermate le leggi naturali e non piuttosto divenire manifesta una essenza completamente nuova, che fa saltare tutto ciò che appartiene alla natura e rapisce al di là di essa. È infatti la libertà di Dio di fronte alla sua creazione che deve venir rappresentata all'interno di essa stessa. Il rapporto di natura e grazia, come Cristo lo presenta, è un rapporto di reciprocità, che rimane in sospeso, tra la Grazia che volontariamente si china e si lega nelle leggi della natura e la Natura rapita al di sopra di sé e tuttavia proprio così in sé adempiuta, portata alla propria idea originaria. Infatti la Natura con tutte le sue leggi esplorate dalle scienze naturali e culturali può trovare il suo senso finale solo nell'eterno Verbo divino, al di là di ogni creaturalità naturale. Nascondi Essa è materiale che sta a disposizione per questo Verbo, « che si diletta a giocare continuamente davanti a Dio sulla faccia della terra » ( Pr 8,30-31 ). La sottomissione alle regole della Natura può condurre fino alla morte sulla croce, tuttavia essa deve sempre manifestare il modus della libertà divina, e il Signore si preoccupa che gli uomini non perdano mai di vista la sua libertà. Egli è signore del Sabato, egli sa in anticipo e predice la sua Passione, egli getta a terra i suoi nemici, prima di lasciarsi legare, egli insegna anche ai suoi discepoli, prima di pagare il tributo, che i figli di Dio sono liberi ( Mt 17,27 ). Se egli si lega, questo avviene per libero amore; e se egli mostra di non essere legato, questo è per far risplendere la libera origine di ogni legame. A questa libertà devono partecipare i suoi. Egli da schiavi li rende figli. Nascondi Li lega nella legge del suo proprio stato nel Padre per scioglierli dal legame delle leggi e degli elementi di questo mondo: « Se rimanete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli; conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi » ( Gv 8,31s ). Il cristiano viene così strappato alla caducità temporale, e ottiene insieme al Figlio la sua posizione nella vita eterna. « Il Padre ama il Figlio e gli ha messo in mano tutto. Chi crede nel Figlio ha la vita eterna » ( Gv 3,35-36 ). Nascondi Se i cristiani « sono predestinati a divenire conformi all'immagine del Figlio, che è il primogenito tra molti fratelli » ( Rm 8,29 ), se essi « sono stati in Lui eletti già prima della fondazione del mondo e predestinati in Gesù Cristo a essere suoi figli » ( Ef 1,4-5 ), se dunque l'idea prima che Dio ebbe di essi non era un'idea naturale, ma di grazia nel suo Figlio, allora il loro trasferimento « dalle tenebre nella sua ammirabile luce » ( 1 Pt 2,9 ) non è niente di forzato, ma solo il collocamento di essi nel loro luogo ereditario, naturale nel senso più alto. Se attraverso ciò essi divengono pure « stranieri e pellegrini » ( 1 Pt 2,11 ) in questo mondo, entrano tuttavia solo nella loro propria eredità, « l'eredità dei santi nella luce » ( Col 1,12 ), entrano « nella festosa assemblea dei primogeniti, i cui nomi sono scritti nei cieli » ( Eb 12,23 ). Con ciò è detto che la partecipazione alla libertà di Cristo di fronte alla creazione non significa per gli eletti alcuna innaturalità o richiesta eccessiva. Nascondi È infatti per questo posto che la loro esistenza è stata prevista ( Ef 1,4-5 ), e se anche temporalmente ciò che è terreno precede ciò che è celeste ( 1 Cor 15,46 ), esso deve tuttavia necessariamente trapassare in esso. Infatti « quelli che Dio ha predestinati, li ha anche chiamati, e quelli che ha chiamati, li ha anche giustificati, e quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati » ( Rm 8,30 ). « Come abbiamo portato in noi l'immagine dell'uomo terreno, così porteremo in noi anche l'immagine dell'uomo celeste » ( 1 Cor 15,49 ). Se Cristo chiama a partecipare alla sua libertà dalle leggi e dai comandi della natura, ad abbandonare le ristrettezze delle strade terrene, per camminare sulle grandi strade del cielo, i cristiani sanno che essi così non vengono trasferiti in un luogo a-cosmico, ma bensì là dove tutte le leggi del mondo acquistano la loro origine, la loro regolamentazione e la misura della loro validità. Essi sono, se entrano nello stato di Cristo, al cuore e alla sorgente della natura. Nascondi E se qui la molteplicità delle cose appare come abbagliata e dissolta dall'unità del sole che sta al centro, nel quale « tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti » ( Col 2,3 ), i cristiani ricevono tuttavia, dopo un attimo di abbagliamento, qualcosa degli occhi di Dio, per vedere il mondo insieme a Lui a partire dalla sua origine. Essi vengono iniziati al piano di Dio: « ricapitolare tutte le cose, nei cieli e sulla terra, in Cristo come capo, nel quale anche noi siamo stati predestinati a ricevere la nostra parte di eredità » ( Ef 1,10-11 ). Al centro delle loro anime sboccia questo destino: « Piacque allora a Colui che mi ha scelto fin dal seno materno e mi ha chiamato per sua grazia, di rivelare in me suo Figlio » ( Gal 1,15 ). « Vivo non più io. Cristo vive in me » ( Gal 2,20 ). Questo rapporto fra natura e grazia, nel quale la natura da una parte trova il suo compimento - poiché nella sua strumentalità per la grazia ritorna alla sua idea originaria -, dall'altra viene attratta al di sopra di sé in una nuova legge e privata così della sua chiusura, questo rapporto acquista la sua acutizzazione ultima nel rapporto cristiano fra libertà e obbedienza. Nascondi Se prima lo status cristiano apparve come libertà dalle leggi di questo mondo, poiché il cristiano viene condotto non solo in parte, ma completamente nello stato di Cristo che sta al di là di esse, adesso questa libertà dal mondo significa immediatamente una libertà per Cristo, una strumentalità per lui, così come le membra di un corpo servono, al di sopra di sé, il capo ( 1 Cor 12,27 ). La nostra strumentalità ha sin da principio una duplice fondazione: essa significa in primo luogo che tutta la nostra natura e persona è stata posta a servizio, nella misura in cui noi siamo fatti per Cristo, nostro capo divino; subito dopo però anche l'intima assunzione dell'atteggiamento interiore di Cristo, la cui divina libertà e personalità coincide col suo servizio di obbedienza al Padre. Nel primo aspetto l'obbedienza è creaturale, nel secondo è divina. Nel primo essa è espressione della strumentalità propria anche del nucleo personale del cristiano in base alla « graziosita » ( Gnadenhaftigkeit ) del suo stato; nel secondo l'apparente costrizione che vi giace viene dissolta dal fatto che lo stesso stato di Cristo consiste nell'identità di libertà e obbedienza. Nel primo aspetto lo stato appare come qualcosa di formale, che sostituisce il contenuto naturale della persona quasi soppiantandolo: « Vivo non più io, Cristo vive in me ». Ma nel secondo diventa subito chiaro che il formale stesso dello status è un contenutistico, poiché l'essenza della persona divina di Cristo ( quella di essere immagine del Padre, e perciò obbedienza nell'amore ) coincide completamente col suo stato. Il cristiano che viene inserito in questo stato di Cristo perde cioè, visto a partire dalla natura pura e semplice, la sua « autonomia » personale. Egli non possiede più alcun diritto di determinazione sulla sua persona e il suo destino, sulla configurazione e la conduzione della sua vita. Egli rinuncia statutivamente a questo diritto, per ricevere da Cristo e dalla sua Chiesa la legge della sua nuova vita. Nel più intimo egli è un servitore, anche se in questo servizio egli deve impiegare responsabilmente tutte le sue capacità personali: la sua memoria, il suo intelletto e la sua libera volontà. Nascondi Egli ha scambiato l'indegno servizio al peccato col nobile servizio a ciò che è divinamente giusto ( Rm 6,16-23 ). Ma a questa spersonalizzazione in virtù dello stato di vita corrisponde immediatamente una più alta personalizzazione, poiché il cristiano partecipa ora statutivamente al mistero proprio di Cristo dell'esser persona divina. Finora la sua persona, che si riteneva autonoma, era tuttavia sotto il giogo di leggi formali e astratte, « racchiusa, tenuta prigioniera sotto la legge in attesa della fede che doveva venir rivelata » ( Gal 3,23 ), « non ancora adulta, sotto la schiavitù degli elementi del mondo » ( Gal 4,3 ). Solo mettendo a disposizione tutta la sua persona per la fede, egli ottiene parte all'unica « legge » che coincide con la personalità stessa, con l'infinita persona del Figlio. E partecipando a questa « legge » il cristiano supera il dualismo lIbera, concreta persona, e legge astratta, che lega. Per questo l'unica legge del nuovo status è la legge dell'amore, legge nella quale il cristiano servendo si libera e per libertà serve. « Liberandovi, Cristo vi ha posto nella libertà. Fratelli, voi siete chiamati alla libertà; non usate della libertà come un'occasione per darvi ai desideri della carne. Nascondi Servitevi piuttosto l'un l'altro nell'amore. Tutta la legge, infatti, si adempie nell'unico comandamento: Amerai il prossimo tuo come te stesso » ( Gal 5,1.13-14 ). Così lo stato del cristiano è il contrario di una formalizzazione della sua vita; solo visto dal di fuori e da chi non crede il suo stare nell'obbedienza di Cristo può destare quest'impressione. Il suo stato significa piuttosto un'incomprensibile vivificazione di ciò che nella sfera naturale rimane astratto e formale. Nascondi Infatti « il comandamento di Dio è vita eterna » ( Gv 12,50 ), e « chi crede nel Figlio ha la vita eterna » ( Gv 3,36 ). Questa partecipazione all'obbedienza di libertà dell'amore divino è il dono più sovrabbondante che poteva venir fatto all'uomo. Se per l'uomo dell'Eden questo innalzamento dello stato creaturale ad una « partecipazione alla natura divina » ( 2 Pt 1,4 ) non racchiudeva in sé alcuna rinuncia dolorosa ( nel caso che l'uomo fosse rimasto obbediente ), per colui che vive nella caducità questo innalzamento diverrà ora una dolorosa tensione tra le leggi della natura che pecca e quelle della grazia che espia. L'obbedienza di fede appare come un sacrificio dell'autonomia personale, la dedizione dell'amore a Cristo come una kènosis della propria natura. Lo stato di grazia porta adesso il timbro di una morte nei confronti dello stato intramondano: « Non sapete che noi tutti che siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte? Così attraverso il Battesimo siamo sepolti con Lui nella morte. Nascondi Camminiamo dunque in novità di vita, come Cristo è risorto dai morti a gloria di Dio Padre! » ( Rm 6,3-4 ). È una morte che quanto all'essere è definitiva, ma quanto alla coscienza di questo esige un « portare la croce ogni giorno » ( Lc 9,23 ), un « morire ogni giorno » ( 1 Cor 15,31 ), e così un « rinnovarsi di giorno in giorno dell'uomo interiore » ( 2 Cor 4,16 ). L'esistenza cristiana sarà così un'esistenza in continuo passaggio ( 2 Cor 5,1 ), nella nostalgia e nel sospirare, poiché il vecchio sta scomparendo e il nuovo rimane però ancora velato. Nascondi Di ciò che era, il cristiano non deve più ricordarsi ( Ef 4,17-22 ), ciò che egli sarà, non è ancora manifesto ( 1 Gv 3,2 ). Il raptus della Grazia, che lo strappa alla terra e lo trasferisce nel cielo, è come un togliere la terra da sotto i piedi e l'aria per respirare; l'essere « radicato e fondato nell'amore » ( Ef 3,17 ) può sembrargli, nella notte della fede, una pura utopia, che viene contraddetta ogni giorno dalla brutale realtà. Per il mondo e addirittura per lui stesso questo suo passaggio mobile può sembrare una mancanza di posizione in cui stare, un pendere nel vuoto, e la pretesa che egli dimori in un simile « non luogo » una pretesa assolutamente eccessiva. In ciò diventa però chiaro che nell'ordine della Redenzione lo stato del cristiano significa già uno stare nella espiazione della Croce. Essere cristiani significa già essere sacrificati, ancor prima che il singolo fornisca coscientemente il suo contributo al sacrificio della croce. E la cristianità è la comunità di quelli che Dio in base ad una scelta d'amore fa partecipare all'agire e patire redentivo del suo Figlio. La comunità di Cristo è composta certo da uomini che sono stati da Cristo redenti, ma questi redenti sono subito e direttamente anche uomini che vengono inseriti nel mistero della Redenzione e attraverso il sacrificio dell'esser cristiani divengono collaboratori di questa Redenzione. La formale partecipazione ( determinata dal proprio stato di vita ) al sacrificio di Cristo è inseparabile da una personale partecipazione alla disposizione interiore di Cristo. Nascondi La kénosi del cristiano, che viene strappato al suo uomo vecchio, il quale « muore ogni giorno » ( 2 Cor 4,16 ), per divenire in Cristo una « nuova creatura » ( 2 Cor 5,17 ), non è qualcosa che possa trovare la sua spiegazione ultima in se stessa o nel suo proprio passaggio. È partecipazione alla kénosi di Cristo stesso, il quale « non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso, prese forma di servo, divenendo simile agli uomini, e fu trovato in forma d'uomo » ( Fil 2,6-7 ). Non è quindi una semplice provvisorietà psicologica o « etica » del perdere il terreno d'appoggio finché non si è trovato il nuovo. Cristo, ma è un perdere il terreno insieme con Cristo che muore. Nascondi « Se uno è morto per tutti, allora tutti sono morti. Ed egli è morto per utti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per tutti » ( 2 Cor1 5,15 ). Questo morire con Cristo attraverso il Battesimo e attraverso tutta la vita cristiana diventa però immediatamente un vivere in Cristo, e cioè espressamente nel Cristo risorto ( Rm 6,4 ); infatti un morire con Cristo senza resurrezione sarebbe non solo privo di senso, ma impossibile. Esso significa « esser risorti insieme con Cristo Gesù, e insieme a lui esser trasferiti nel Regno dei Cieli » ( Ef 2,6 ), aver parte alla « stessa grande potenza che ( Dio ) ha dimostrato in Cristo, facendolo risorgere dai morti e sedere alla sua destra nel più alto dei cieli » ( Ef11,20 ). Vita cristiana e stato cristiano non stanno dunque semplicemente in parallelo all'esistenza terrena di Cristo: come se il cristiano fino alla morte terrena dovesse vivere nella sequela di quella condizione in cui Gesù ha vissuto fino alla croce. Non è semplicemente imitazione della vita nascosta e della vita pubblica del Signore. È piuttosto sin da principio e in ogni momento partecipazione tanto alla Croce quanto alla Risurrezione del Signore. Il capo della Chiesa, la quale è il corpo di Cristo, è già un capo glorificato, e la carne e il sangue che i cristiani gustano è carne e sangue trasfigurata, risorta. Nascondi E la legge dell'amore, che regola la vita dei cristiani, è in verità già la legge « della città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, la festosa assemblea dei primogeniti, i cui nomi sono scritti nei cieli » ( Eb 12,22s ), quella città che però tuttavia già viene trovata sulla terra come « la dimora dei santi e la città amata » ( Ap 20,9 ). La sequela di Cristo è quindi assai più che un semplice morale attenersi ai suoi comandamenti e consigli, una semplice imitazione dei suoi atti e delle sue virtù. È un vivere, qui e adesso, della verità della sua morte e della sua resurrezione, quanto all'essere oggettivo per la forza della sua grazia di croce e di pasqua, e quanto alla coscienza soggettiva per l'adempimento nella fede - nella misura in cui Egli chiama e rende idonei a ciò - delle sue vie verso il Cielo attraverso il mondo e gli inferi. Nascondi Così lo status dei cristiani si rivela veramente come uno stare in Cristo: ma non come una situazione localizzabile, bensì come una condizione di vita nella piena apertura di colui che « discende sino agli inferi e sale sopra tutti i cicli per riempire tutto » ( Ef 4,9-10 ), nell'ampiezza e vitalità di colui che è « la via » ( Gv 14,6 ) in un infinito « venire e andare » ( Gv 16,28 ), e che colloca i suoi servi sulla sua via, in tutta la sua « larghezza e lunghezza, altezza e profondità » ( Ef 3,18 ). 29 E tuttavia questa immensa pienezza e ampiezza dello status cristiano, come stare con Cristo nel Padre, come stare col Redentore nella croce e col Risorto nel Cielo non è un dissolvimento del normale ambito terreno. Nascondi Il cristiano, che ha parte a realtà così incomprensibili e possiede in esse il centro della sua esistenza, rimane però nondimeno un membro della società terrena, un fedele servitore anche dello Stato ( « per questo motivo pagate anche le tasse », Rm 13,6 ) un custode della morale pubblica ( « nessuno deve permettersi abusi e truffare negli affari il suo fratello », 1 Ts 4,6 ), della umile preoccupazione anche per il bene materiale del prossimo ( 1 Gv 3,17; Gc 2,1-8 ), della fedeltà coniugale, della disciplina familiare e della giusta relazione tra padrone e servo ( Col 3,18-4,1 ). Tutto questo i cristiani lo seguono non soltanto dall'esterno e apparentemente, mentre all'interno essi sarebbero essenzialmente occupati con tutt'altre cose; essi sono con tutta la loro attenzione rivolti a questo, poiché sono posti nello stato di Cristo, che ha dimostrato la sua libertà divina nel servizio ai fratelli. La loro elevazione non è un movimento contrario all'abbassamento di Cristo, ma il suo compimento concomitante per grazia. Nascondi Ogni tendenza che neghi, anche se solamente pensandolo in maniera nascosta, l'incarnazione di Cristo, non è spirito di Dio, ma spirito dell'Anticristo ( 1 Gv 4,2-3 ). Il mantenimento dell'autenticità dello stato cristiano avviene all'interno del mondo così com'esso è oggi e adesso. Questo significa però che la grazia di stato cristiana non viene concessa altrimenti che in forma di una missione. Essa è la significatività che inabita nello stato. La missione è però l'amore a Dio e al prossimo così come è stato rivelato dall'opera di Cristo, e diventa eseguibile se si sta là dove egli è stato. All'interno di questa missione si deve trovare tutto quello che il cristiano opera nel mondo. Egli non deve mediare fra il cristianesimo e il mondo. Egli deve testimoniare al mondo la forma di Cristo, viverla davanti ad esso e imprimervela. Anche se egli ha sempre da fare i conti con le leggi di questo mondo, non ha mai il diritto di erigersi a unità di misura del rapporto fra natura e grazia, mondo e Chiesa, cultura e cristianesimo. Nascondi La misura dell'assunzione in servizio delle forze mondane giace nella relativa situazione cristiana, la cui interpretazione si lascia trovare nell'attimo di volta in volta sempre attuale e presente della chiamata divina: « La parola di Cristo abiti in voi in tutta la sua ricchezza! » ( Col 3,16 ). Questa è abbastanza ricca per contenere la soluzione adeguata per ogni situazione mondana; soluzione che certo può spesso essere una « parola di croce » ( 1 Cor 1,18 ). Così il cristiano è costretto ad uscir fuori dallo stato di Cristo per scendere a un compromesso che gli sembra inevitabile. Una volta fatto ciò, l'unità di Cristo è abbandonata, vuoi per una qualche colpa personale, vuoi per una colpa comune. In nessun luogo il Signore o gli Apostoli diedero istruzioni ai cristiani che si trovano a vivere nel mondo su come, in situazioni perplesse, scegliere il « male minore ». Le descrizioni della vita cristiana che per noi sono state abbozzate nella Scrittura mostrano sempre la possibilità dell'incondizionato esser cristiani, dell'indivisa risposta del credente al pieno dono della grazia di stato cristiana. Anche del matrimonio Paolo abbozza un'immagine cristiana, che egli ha rilevato dall'ideale assoluto di Cristo: « Come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così lo devono essere in tutto le mogli nei confronti dei loro mariti. Nascondi E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per essa » ( Ef 5,24-25 ). Egli innalza questo ideale assoluto senza che ciò pregiudichi la sua consapevolezza che « è bene per l'uomo non toccar donna » e il suo desiderio che « tutti gli uomini vivano come me » ( 1 Cor 7,1-7 ), fermo restando dunque il fatto che colui che vive nel matrimonio può di fatto solo in mezzo a difficoltà, a causa del peccato personale e di quello universale, mantenere l'unità di stato a lui presentata. « Egli è diviso »; ma non dovrebbe esserlo, visto a partire da Cristo. Ed egli non ha il diritto di installarsi nel suo essere diviso come in un dato di fatto ineliminabile. Egli deve tendere ogni giorno dalla divisione all'unità prefigurata dal suo stato. E quello che vale per il matrimonio vale ugualmente per ogni altra attività del cristiano nel mondo; nell'ambito sodale, economico, politico e culturale egli non ha nessun permesso di seguire nella sua attività mondana un'altra legge che quella dell'esser cristiano. Nascondi Poiché infatti tutte le cose sono state fatte in Cristo, per Cristo e in vista di Cristo, e a Lui Dio « ha tutto sottomesso e posto ai suoi piedi » ( 1 Cor 15,25-27 ), poiché Egli è il vincitore su tutte le potenze del mondo, sarebbe mancanza di fede fare come se le forze mondane seguissero una legge autonoma, emancipata da Cristo. Certo la loro sottomissione, che nella Croce è « compiuta » ( Gv 19,30 ) una volta per tutte, giacché « adesso il Principe di questo mondo è stato precipitato » ( Gv 12,31 ), è sempre solo avviata a realizzarsi, fintante che ancora « la creazione è sottoposta alla vanità » ( Rm 8,20 ) e « Cristo nostra vita » non è ancora apparso ( Col 3,4 ). Ma questa provvisorietà non dà al cristiano alcun diritto di padroneggiare la situazione mondana con giudizi e metodi puramente mondani. Anche laddove egli dalla finitezza delle cose terrene e dalla caducità della natura è apparentemente costretto a compromessi, nella soluzione adottata non c'è adeguamento alcuno al modo di pensare del mondo, bensì la risposta possibile adesso dell'amore cristiano. Nascondi Il prestarsi ad ogni situazione parziale ( « mi sono fatto tutto a tutti, pur di salvare qualcuno in ogni modo possibile », 1 Cor 9,22 ) ha come presupposto la libertà interiore, l'intenzione pura senza compromessi ( « sebbene io sia sotto ogni riguardo libero, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne un gran numero [ … ], tutto io faccio per il Vangelo, per ottener parte ad esso », 1 Cor 9,19-23 ). In base alla missione di Cristo, lo stato dei cristiani è infine, nel più profondo, uno stato di comunione. Esso è di natura sociale. Questo non può essere senz'altro evidente, se si guarda solo all'urgenza personale della chiamata che elegge. Perché Dio non dovrebbe chiamare un uomo anche in uno stare solitario verso di Lui? Ma la chiamata cristiana non ha mai questo carattere. Essa è infatti in primo luogo chiamata a entrare nella Chiesa, la quale, come fu mostrato, come luogo della comunione precede la chiamata individuale. In secondo luogo essa è una chiamata ad uscir fuori dall'io solitario ed egoista per entrare in uno stato che nella sua idea originaria significa il far scoppiare ogni isolamento. Esso è infatti lo stato di Cristo, la cui persona è servizio e amore al Padre, e per voler del Padre servizio e amore agli uomini. Già la trasposizione dallo stato a sé allo stato di Cristo, e ancor più l'appropriazione del contenuto di questo stato, fanno apparire impossibile che il cristiano viva per qualcosa d'altro che per Dio e il prossimo. In forza di questo stato egli è espropriato per esser introdotto nella comunità; egli non può più avere, giacché oramai vive nella forma di Cristo, nessun'altra idea di personalità, di esser persona, all'infuori di quella che si esprime in missione, servizio e offerta di sé. Lo stato matrimoniale Se lo stato di vita cristiano è uno stato di comunione, questo è perché Cristo è per eccellenza colui che si è donato alla Chiesa e attraverso essa al mondo. In un tale rapporto alla Chiesa, sua fidanzata e sposa, egli non è però senza relazione all'originario mistero della creazione di uomo e donna. Nascondi « Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa » ( Ef 5,31-32 ). E poiché Cristo non è venuto a dissolvere nessuna delle opere del Padre, ma a dare a tutte compimento, innalzandole, così egli prese questa non semplicemente a modello per la sua umana relazione d'amore alla Chiesa, ma ricompensò per così dire il modello offertogli, conferendo ad esso l'espressa consacrazione sacramentale del Nuovo Testamento. Nascondi Lasciando però entrare il suo amore incarnato non nella forma matrimoniale, ma dandogli piuttosto la forma verginale, egli mostra chiaramente che l'elemento formale della relazione fra uomo e donna dello stato originario sta nella dedizione primariamente spirituale, e la Chiesa stessa vigila sull'ordine degli stati così fondato: « si quis dixerit, statum coniugalem anteponendum esse statui virginitatis vel coelibatus, et non esse melius ac beatius manere in virginitate aut coelibatu quam iungi matrimonio, anathema sit » ( Trid. sess. 24, can. 10 ). Nascondi Poiché però Cristo non solo non condanna il matrimonio, ma approva la relazione tra uomo e donna dello stato originario e la conferma come proveniente da Dio ( Mt 19,6 ) e dalla croca la santifica redimendola ( « Gratiam vero, quae [ … ] coniuges [ … ] sanctificaret, ipse Christus, venerabilium sacramentorum institutor atque perfector, sua nobis passione promeruit », Trid. sess. 24 ), egli mostra che la forma del suo amore non sta di fronte al mistero dello stato originario in maniera estranea, ma può invece innalzarlo a vero contenitore ed espressione di questo amore. Così le relazioni tra uomo e donna nel matrimonio da una parte, Cristo e la Chiesa nella Redenzione dall'altra, divengono così strette che si possono oramai comprendere questi due misteri soltanto l'uno attraverso l'altro. Nascondi Il mistero della creazione originaria rimane il « primo »: « Non lo spirituale viene per primo, ma prima ciò che è terreno, e solo dopo ciò che è spirituale » ( 1 Cor 15,46 ); il mistero della redenzione troverà dunque la sua forma nell'adeguamento ( omoìoma, Fil 2,7 ) a ciò che sta prima. Ma questo adeguamento è talmente un atto della più sovrabbondante obbedienza, che colui che lo compie diventa per ciò stesso assoluto schema e modello ( Vorbild ), anzi archetipo ( Urbild ) di tutte le realtà creaturali, le quali devono incondizionatamente adeguarsi a lui per ottenere la loro verità ultima. Questo trasformante adeguamento a Cristo viene non solo esigito, ma allo stesso tempo anche donato: con la grazia sacramentale, che fa della comunione creaturale del matrimonio una comunione cristiana. Come attraverso incarnazione, croce e redenzione, Cristo diventa significato assoluto della creazione, e al di fuori del suo sole c'è soltanto la tenebra della maledizione, così nel matrimonio cristiano c'è solo l'aut-aut tra una vita secondo il senso soprannaturale e la legge della grazia sacramentale oppure un perdere il vero senso del matrimonio in generale. L'unione carnale di uomo e donna non è niente di accidentale per la persona umana; essa è così essenziale e centrale che quasi tutta la narrazione circa l'uomo ideale, quale Dio lo fece nell'Eden, sta sotto il segno della distinzione di uomo e donna. E sebbene l'uomo abbia la differenza sessuale in comune con gli animali, non si dovrebbe tuttavia dubitare del fatto che la divisione primaria di uomo e donna, fondata insieme al suo essere natura spirituale che domina sull'intera creazione, fa parte della « somiglianza di Dio » che a lui solo fra tutte le creature fu donata, non meno che il suo dominare sulla creazione. « Allora Dio disse: Facciamo l'uomo a nostra immagine, simile a noi! Egli dominerà sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche del campo e su ogni essere che striscia sul terreno. Così Dio creò l'uomo a sua immagine. A immagine di Dio lo creò: maschio e femmina egli li creò. E Dio li benedisse e ordinò loro: Siate fecondi e moltiplicatevi! Riempite la terra e soggiogatela! Nascondi Dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che si muova sulla faccia della terra! » ( Gen 1,26-28 ). Proprio anche la fecondità del moltiplicarsi, che ha origine dall'unione di uomo e donna, è immagine di quella misteriosa essenza di Dio che qui dice a se stesso in un imperscrutabile plurale: « Facciamo! » L'essenza di Dio è infinita fecondità nella Trinità, che si manifesta verso l'esterno nella creazione, e ogni cosa che è fatta secondo la sua immagine deve essenzialmente partecipare a questa fecondità. Così gli uomini vengono creati e posti direttamente nella fecondità, poiché essi vengono formati come uomo e donna, e la prima parola che Dio dice ad essi è questa: « Siate fecondi e moltiplicatevi ». Questo essere immagine è allo stesso tempo naturale e per grazia, come infatti creaturalità ed elevazione alla grazia nello stato originario non sono affatto da separare. La sessualità naturale è donata all'uomo completamente a favore della sua fecondità, che è unitariamente naturale e soprannaturale. E non è affatto vero che la dimensione sessuale regni solo nella sua sfera materiale, mentre quella dello spirito, presumibilmente la sede della vera e propria « immagine di Dio », rimarrebbe non toccata da essa. Infatti la distinzione sessuale regna attraverso tutto lo spirito dell'uomo, fino alle radici più profonde e alle cime più alte, al punto che la differenza corporale appare, accanto a questa differenza che concerne l'intera persona, come un semplice momento parziale. Il mistero della fecondità, per la quale Dio ha fatto l'uomo e attraverso la quale egli è un'immagine della Trinità eternamente feconda, è però connesso con l'essenza di Dio ancora più strettamente di quanto il primo racconto della creazione lascerebbe supporre. Dio creò l'uomo non solo maschio e femmina così come aveva creato sessualmente distinti gli animali. Egli li creò non solo per giungere all'unità a partire dalla dualità dei sessi, ma creo espressamente la loro dualità a partire dalla loro propria unità. Nascondi Egli fa provenire Eva dal fianco di Adamo, non in una generazione naturale, ma in una maniera preternaturale, in cui egli si serve della strumentalità di Adamo che dorme, ma per il resto esegue l'opera senza di lui e lo pone poi davanti al risultato compiuto: « Dio plasmò la costola che aveva tolto ad Adamo facendola diventare una donna, e la condusse ad Adamo » ( Gen 2,22 ). L'unità da cui scaturisce la comunità di Adamo ed Eva è così l'unità della carne di Adamo, che per grazia diviene origine della dualità di uomo e donna. Adamo riconosce subito in questo dono condottogli da Dio se stesso, la sua propria carne. Nascondi « Adamo esclamò: Questa è finalmente ossa delle mie ossa e carne della mia carne! Essa si chiamerà donna, perché è stata tolta dall'uomo! » ( Gen 2,23 ). Il comando della fecondità che Dio impartisce ad Adamo ed Eva è perciò un comando non solo morale, lasciato alla loro libertà, con l'adempimento del quale essi rispecchiano qualcosa dell'archetipo secondo il quale essi sono stati creati: la fecondità della Trinità. Esso proviene di volta in volta già da una fecondità fisica di Adamo, che Dio ha operato durante il suo sonno e che con lo scaturire di Eva dall'unico, vivente corpo di Adamo, è divenuta un'immediata immagine fisica del sorgere dell'eterno consustanziale Figlio dalla sostanza del Padre. In nessun modo Adamo ed Eva sono una sola cosa soltanto in una astratta « natura umana », per divenire poi attraverso la loro unione sessuale un'unità concreta e con ciò anche feconda, bensì l'origine della loro astratta unità come uomini è essa stessa già concreta unità e fecondità, per grazia, e così è immagine della divina, concreta unità d'essenza con la sua fecondità trinitaria. Certo uomo e donna rimangono solo immagine, è la loro unità è un'unità in divenire, in movimento, da realizzare in una sempre nuova attualizzazione, così come poi anche il frutto della loro unione rimane sottratto al loro potere e viene donato loro da Dio. Nascondi Per questo Eva, dopo che ha partorito il suo primo figlio, dice: « Ho ottenuto un rampollo con l'aiuto del Signore » ( Gen 4,1 ). La fecondità della loro comunione è certo una fecondità naturale, poiché Dio in verità aveva pronunciato anche sugli animali la benedizione della fecondità ( Gen 1,22 ) e questa benedizione non verrà ritirata dopo il peccato. E tuttavia nel caso dell'uomo la fecondità naturale è come inalveata nella sua soprannaturale origine e nel suo fine soprannaturale, ai quali tutta la sua natura doveva servire e ancor sempre deve servire. Nascondi Poiché Adamo riconosce in Eva colei che per grazia « è ossa delle mie ossa e carne della mia carne », « per questo l'uomo lascia suo padre e sua madre e si unisce alla sua donna, ed essi diventano un unico corpo » ( Gen 2,24 ). La sua fede, che lo chiama fuori da ogni rifugio in se stesso, nel suo ambiente, nella sua patria, per trovare quel completamento di cui egli ha bisogno al fine di ritrovare tutta la sua carne e ossa, non è una fede puramente naturale, ma una fede di più profonda provenienza e perciò anche di mete più lontane. E tutto ciò all'interno dell'innocenza del paradiso terrestre. Il prelevamento della costola e la separazione di uomo e donna non è per niente identica ad un peccato originale o anche soltanto ad un suo gradino previo. Anche il « lasciare padre e madre », per unirsi alla moglie, sta ancora interamente all'interno della regola dello stato originario. Il prelevamento della costola è per Adamo una grazia che lo eleva infinitamente: la grazia di poter partecipare al mistero dell'autodedizione del Padre al Figlio, che per così dire si priva della sua propria divinità per donarla al suo eternamente consustanziale Figlio. È la ferita dell'amore che Dio imprime in lui per introdurlo nel mistero dell'amore divino, che consiste in pura autodonazione senza limite ( Selbstverschwendung ). Diventa così comprensibile che dopo il peccato non solo continua ad esserci una certa fecondità naturale del matrimonio, bensì anche ora il matrimonio nella sua interezza proviene da più lontano e mira più lontano che una semplice comunione naturale. Il naturale conserva una provenienza soprannaturale e perciò anche una finalità soprannaturale. Nascondi E nell'Antico Testamento, nel quale il matrimonio era l'unico stato normativo dell'uomo, poiché la verginità dell'Eden non c'era più e la verginità della croce non ancora, lo stato matrimoniale era collocato come un tutto fra la provenienza edenica, che rimane conscia - « Non avete letto che il Creatore all'inizio li creò maschio e femmina e disse: Perciò l'uomo lascerà padre e madre ( … )? » ( Mt 19,4-5 ) - e il futuro messianico, al quale ogni matrimonio è orientato e per il quale ogni infecondità appare come una vergogna e una punizione di Dio. Un celibato praticato coscientemente sarebbe nell'Antico Testamento privo di ogni senso, anzi potrebbe venir considerato solo come disobbedienza nei confronti dell'originario comandamento natural-soprannaturale di moltiplicarsi e come mancanza di fede nei confronti della promessa fatta ad Abramo. Nascondi Così l'angelo Raffaele dice a Tobia: « Prendi con te la vergine nel timore del Signore, spinto più dal desiderio di aver dei figli che dalla concupiscenza, affinché tra la discendenza di Abramo tu ottenga ricca benedizione di figli » ( Tb 6,18 ); e Tobia stesso prega tre notti prima di unirsi a Sarà: « Signore, Dio dei nostri padri, ti lodino il cielo e la terra, il mare, le sorgenti e i fiumi e tutto ciò che tu hai creato. Tu hai formato Adamo dal fango della terra e gli hai dato Eva come compagna. Nascondi Tu sai, o Signore, che io prendo in sposa questa mia sorella non per voluttà, ma per amore della discendenza, attraverso la quale il tuo nome sarà lodato in eterno » ( Tb 8,5-9 ). L'unione sessuale è nell'Antico Testamento unione nella promessa e perciò nella fede: « Noi infatti siamo figli dei santi, e non possiamo unirci come i pagani che non conoscono Dio » ( Tb 8,5 ). Ma tutto questo si compie al di fuori dell'unità paradisiaca di fecondità e verginità. L'unità degli stati è irrecuperabile, e l'essenziale completamento del matrimonio, la verginità e la sua fecondità speciale spirituale e soprannaturale sono ancora vive soltanto come lontano ricordo e come futuro irrappresentabile. Nascondi Che « la vergine concepirà e partorirà un figlio » ( Is 7,14 LXX ): interpretare ciò rimane riservato al tempo dell'adempimento. Che in generale la verginità possa avere un senso in Dio e una fecondità, non era possibile nel tempo delle prefigurazioni secondo la carne intravvederlo. Nascondi Che « al primo Adamo, che era un essere di natura sensibile » potesse subentrare un « secondo Adamo, che è spirito che vivifica » ( 1 Cor 15,45 ), che la frase del Siracide: « Al di sopra di tutti quelli che hanno vissuto nel mondo sta Adamo » ( Sir 49,16 ) potesse venire un giorno superata dalla frase di Paolo: « Nel nome di Gesù si devono piegare tutte le ginocchia, nei cieli, sulla terra e sottoterra » ( Fil 2,10 ): questo non era possibile prevederlo. Così nel Vecchio Testamento la fecondità rimane di fatto una fecondità limitata. Il flusso illimitato della fecondità cattolica è solo accennato da lontano nella delimitata fecondità del matrimonio veterotestamentario: « Bevi acqua dalla tua fontana e flutti scorrenti dalla tua sorgente. Fluirà la tua fonte al di fuori, riversandosi sulle strade, con mille rigagnoli? No, essa deve appartenere a te solo, e accanto a te nessun altro. Nascondi La tua fonte sia benedetta. Gioisci della donna della tua giovinezza, ( … ) l'amore per lei possa sempre allietarti! » ( Pr 5,15-18 ). Il matrimonio è comunione di vita come protezione dalla minaccia della solitudine non gradita all'uomo. « Due sono meglio che uno solo ( … ) Se si dorme in due c'è più calore. Come può uno riscaldarsi da solo? » ( Qo 4,9-11 ). « Chi acquista una donna, guadagna la proprietà migliore: una compagna che gli si confà, e una colonna a cui appoggiarsi. Dove non c'è alcuno steccato, il terreno verrà saccheggiato. Dove non c'è alcuna donna, là c'è lamento e smarrimento. Chi si fida di un predone, che tutto armato imperversa di città in città? Nascondi Così accade all'uomo che non ha casa e fa sosta là dove arriva alla sera » ( Sir 36,24-27 ). E tuttavia questa assicurazione dell'esistenza attraverso il matrimonio non è intesa egoisticamente, ma come l'ovvia grazia che il Creatore concede all'uomo che si sottomette al suo insegnamento. Questa grazia è una grazia di legame e dunque di fedeltà, una fedeltà che non può venir separata dalla fedeltà del credente nei confronti di Dio. In Dio viene stretto il vincolo matrimoniale; Egli lega in unità e contemporaneamente dona la fecondità. Indivisibili sono nell'Antico Testamento fedeltà matrimoniale e fedeltà al patto divino. Nascondi Sempre nuovamente la fedeltà al patto viene descritta nell'immagine della fedeltà matrimoniale ( Os 2,21ss; Ger 2,2; Ez 16 ), ma anche la fedeltà matrimoniale viene posta sotto la protezione della fedeltà al patto con Dio. Perché Dio non guarda più con favore ai sacrifici del popolo? « Solo per questo, perché il Signore è stato testimone fra te e la donna della tua gioventù, la fedeltà alla quale tu ora hai infranto, sebbene essa fosse la tua consorte, la donna a te affidata. Non ha Egli creato un essere unico, che ha carne e respiro vitale? Nascondi E cosa cerca questo essere unico? La discendenza di Dio! Proteggi dunque il respiro di Dio, e non essere infedele alla donna della tua giovinezza! » ( Ml 2,14-15 ). Nessun matrimonio viene contratto altrove che in Dio, dal quale ha origine l'unità di uomo e donna, e il quale esige come pure dona la fecondità di questa unità. La fedeltà è una caratteristica indivisibile: non si può mantenerla nei confronti di Dio e infrangerla nei confronti della moglie, ma nemmeno si può conservarla per la moglie senza mantenerla nei confronti di Dio. Dove non c'è fedeltà verso Dio, là c'è già adulterio, e ogni fedeltà, ogni fiducia, ogni sincerità è svanita. « Infatti essi sono tutti quanti adulteri, una banda di imbroglioni; con la menzogna, e non con la verità essi si sono impadroniti della nazione. Si guardi ognuno dal suo amico! Nessuno si fidi del suo fratello! Poiché ogni fratello è un impostore. Ogni amico cerca di calunniare. Nascondi Ognuno inganna l'altro, e nessuno dice la verità » ( Ger 9,1-4 ). Nel popolo di Dio la verità è indivisibile: essa è la verità di Dio oppure è menzogna. Un matrimonio deve perciò essere contratto in Dio; deve avere Dio per testimone, per stare all'interno del patto della promessa di Dio. Questo vale anche durante il tempo in cui l'adempimento del matrimonio previsto in principio è divenuto impossibile a causa del peccato. Nascondi Vale anche laddove Dio, poiché l'adempimento di Cristo è ancora lontano, lascia infiltrarsi nell'unità frantumata ancora ulteriori fratture; « A causa della vostra durezza di cuore Mosé vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli! In principio non era così » ( Mt 19,8 ). « Infatti io detesto il ripudio, dice il Signore, il Dio d'Israele » ( Ml 2,16 ). Tutto quello che presso Giudei e pagani si allontana dall'unità originaria quale Dio la ha elargita come unica e vera forma della fecondità a immagine di Dio tra uomo e donna, deve esser considerato come una concessione della generosità di Dio determinata dal peccato, come qualcosa di provvisorio in attesa dell'adempimento in Cristo. Dio fa questa concessione per gettare un ponte sul periodo di tempo che sta fra l'Eden e la Riconciliazione, e in esso far continuare a sussistere in mezzo agli uomini almeno un'ombra di ciò che in principio era stato pensato come matrimonio. Anche il matrimonio giudaico non poteva essere di più di un'ombra, poiché l'immagine originaria non poteva più brillare prima che « la vergine concepisse e partorisse un figlio ». Per questo Cristo non poteva provenire da un'unione di uomo e donna così com'essa è praticata dopo la caduta. Ciò che è essenzialmente connesso con la sàrx, con la natura decaduta, vale a dire l'atto che distrugge l'essere verginale dei coniugi, non può essere origine di Colui che è venuto a infrangere il potere del peccato. Ma il ripristino dello stato originario non poteva nemmeno essere qualcosa di meccanico; si trattava pure, in effetti, di un superamento della colpa. Così il nuovo Adamo portò quaggiù il compimento da molto più in alto che da dove il primo Adamo lo aveva ottenuto: non soltanto egli inviò grazia sulla terra, ma venne egli stesso come la grazia di Dio fattosi uomo, come cielo fattosi terra. Non solo si adeguò all'immagine originaria del matrimonio, ma diventò egli stesso immagine originaria di esso. Fece questo senza distruggere l'antico ordine della creazione. Nascondi Mentre egli « adempiva ogni cosa » ( Ef 4,10 ), adempì anche il matrimonio; ma lo adempì riempiendolo di un contenuto di grazia che traeva la sua origine dal mistero di Dio ancor più profondamente di quanto aveva fatto il matrimonio dell'Eden. Per questo il matrimonio come sacramento cristiano vive d'ora innanzi di questa grazia più elevata. In essa ha la sua immagine e il suo parametro, e deve orientarsi secondo il suo spirito e la sua concezione per essere matrimonio cristiano. « Come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così lo siano in tutto anche le mogli nei confronti dei loro mariti. Voi, uomini, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per santificarla ». L'unità di misura dell'amore matrimoniale diventa l'amore fra Cristo e la sua Chiesa. Anche qui sussiste un'originaria unità per grazia di ciò che è maschile e ciò che è femminile; ma l'uomo è adesso quel nuovo Adamo che è Dio egli stesso e che per sposa ha l'intero popolo di Dio, l'intera Chiesa da redimere. La piccola, limitata fecondità del primitivo matrimonio vede i suoi confini abbattuti e si vede aprire alla cattolica, eucaristica fecondità del liberante amore del Verbo incarnato e del liberato amore della sua sposa e consorte, la Chiesa, che è allo stesso tempo suo corpo. L'unità originaria consiste in questo, che la Chiesa nasce da Cristo come Eva da Adamo: scaturita dal fianco squarciato del Signore dormiente in croce all'ombra della morte e degli inferi. Per questo essa è suo corpo, come Eva era carne della carne di Adamo. Nascondi In questo sonno mortale della Passione egli « ha formato per sé la Chiesa, come sposa meravigliosa senza ruga e senza macchia » ( Ef 5,24-27 ). Egli stesso si lascia come uomo cadere nel sonno della morte, in modo da potere, come Dio, prelevare misteriosamente dal morto quella fecondità dalla quale egli si creerà la sua sposa, la Chiesa. Così essa è lui stesso, e tuttavia non è lui stesso: è suo corpo e sua sposa. « Chi ama sua moglie, ama se stesso. Nessuno ha mai odiato la sua propria carne; la si protegge e la si cura. Nascondi Così fa anche Cristo con la sua Chiesa, poiché noi siamo membra del suo corpo » ( Ef 5,28-30 ). Solo che adesso non si riversa alcun singolo seme carnale in un singolo grembo carnale, bensì tutta la fecondità del « seme divino » ( 1 Gv 3,9 ) viene nell'estasi di passione della morte in croce « inseminata » ( Gc 1,21 ) nel grembo spiritual-carnale della Chiesa e, in essa, di ognuno che è pronto a riceverlo. Ciò non è più, come nel caso di Adamo, una benedizione che dalla misteriosa fecondità della Trinità irraggia sull'immagine creaturale; è la diretta effusione della stessa fecondità intradivina attraverso lo « strumento congiunto » dell'umanità di Cristo. E questa fecondità è oramai una fecondità perfettamente verginale: in primo luogo perché essa è ripristino della verginità di Adamo, ma oltre a ciò perché essa deve essere espiazione per la perdita della verginità dello stato paradisiaco a causa del peccato, e da ultimo ( e più importante ) perché essa, come fecondità direttamente divina, non può essere legata da un particolare grembo femminile, ma può avere per grembo solo la cattolicità della Chiesa di tutti i redenti. Solo adesso diventa chiaro quanto la nuova verginità della Croce sia un superamento tanto del carattere di comunionalità quanto della fecondità del matrimonio originario. Se essa non lo fosse, non potrebbe con la propria nuova energia adempiere anche tutte le perfezioni del matrimonio creaturale, e far sgorgare dalla grazia della Croce anche il sacramento del matrimonio. Se la Croce stesse in una contrapposizione alla comunione e alla fecondità dell'uomo così come Dio lo ha creato, essa non realizzerebbe il compimento della creazione del Padre. Da ciò segue però immediatamente che il cristiano che al di là della forma di vita del matrimonio viene chiamato dal Signore ad una partecipazione diretta alla forma di vita verginale della sua Croce è parimenti chiamato, con ciò, a partecipare ad una ( superiore al matrimonio ) dedizione alla comunità e alla fecondità per la comunità. La verginità, che prima di Cristo non poteva avere nessun significato positivo ( all'infuori di quello di un segno di promessa ), può dunque avere dopo Cristo solo un significato: quello di essere fecondità per la Chiesa, fecondità che scaturisce da una dedizione più grande di quella che può attuare l'uomo che vive nello stato matrimoniale. Non c'è nessuna verginità che sia feconda e piena di significato in sé ( essa lo è altrettanto poco, quanto poco ha un qualche senso e una fecondità il non mangiare di un digiunatore per l'ecologia ); essa acquista il suo senso e la sua fecondità unicamente dalla totale dedizione nella Chiesa, una dedizione che nel senso della Croce deve essere ancora più radicale della dedizione e donazione di sé dei coniugi cristiani. La verginità della Croce esclude che uno si scelga il celibato come stato ecclesiale per amore di incarichi mondani più importanti ( non parliamo poi di chi lo sceglie per condurre una vita piacevole per se stesso, programmata secondo i suoi piani ). Questi piani possono essere eticamente e religiosamente ineccepibili, possono essere piani di utile lavoro caritativo e sociale. Se essi sono solo una forma di vita scelta da lui stesso, e la funzione della propria scelta e del proprio capriccio rimane e può venir mutata ad ogni momento, allora colui che ha scelto una simile vita si è, come cristiano, ingannato: egli non ha nemmeno raggiunto il grado di dedizione che esige il matrimonio col suo indissolubile « sì », egli non ha offerto la sua anima a Dio e al prossimo al punto tale da non poter più riprenderla indietro, ed è ancora ben più lontano dall'averla offerta come il Figlio in croce, che si è definitivamente incatenato e ha riversato se stesso, corpo e anima, su tutti. Il chicco di grano non è caduto in terra e morto; la sua verginità rimane così da sola e non porta alcun frutto. La verginità cristiana sta o cade col mistero della Croce, con l'apertura della ferita sul fianco e la nascita della Chiesa da essa come « corpo e sposa di Cristo ». Essa sta o cade col completo spargersi fuori di sé della potenza spirituale, e questo non si verifica altrimenti, come dimostra il Signore sulla croce, che nella completa obbedienza. L'obbedienza è la povertà dello spirito per amore, e la verginità, che è una povertà del corpo per amore, diventa feconda solo laddove ha per presupposto il sacrificio spirituale. Questo la Chiesa lo ha capito sempre meglio nel corso dei secoli. Mentre all'inizio essa, come abbagliata dalla bellezza della nuova verginità, vedeva questa quasi come sufficiente per la fondazione di un proprio stato di vita, comprese però presto che la castità fisica possiede un senso e una fecondità per la Chiesa solo se unita con una reale dedizione dello spirito: cioè con una forma di vita che in una qualche maniera richiede una vera obbedienza, e precisamente un'obbedienza che - attraverso l'azione o la contemplazione - dona i suoi frutti alla Chiesa cattolica ed è così un'obbedienza nella comunità. La verginità nella Chiesa non può mai essere nient'altro che un aspetto parziale di quell'unico stato che sta di fronte al matrimonio, quello stato che nell'unità di povertà, verginità e obbedienza Cristo sulla croce ha portato nel mondo come la nuova forma della fecondità divina. Solo questo stato può allo stesso tempo superare e riempire dall'alto con nuovo spirito ogni perfezione del matrimonio natural-soprannaturale. Questo dovrebbe essere evidente senza difficoltà nel caso del sesso maschile. A nessuno verrà in mente di porre accanto agli uomini sposati e a quelli che appartengono allo stato d'elezione un terzo stato proprio di coloro che nel mondo sono rimasti celibi. Nella molteplicità dei destini umani, tanto più dopo il peccato originale e le sue conseguenze, ci saranno certo sempre destini che non sono classificabili nella forma generale abituale: uomini che a motivo di una qualche malattia dello spirito o del corpo non sono idonei al matrimonio ( ma nemmeno all'elezione ) e si vedono perciò costretti a vivere nel mondo non sposati. Forse anche uomini che non vogliono restare fedeli ad un amore per una persona che sulla terra non è possibile realizzare, uomini che di per sé appartengono allo stato matrimoniale ma che per motivi esterni sono stati impediti alla sua realizzazione, uomini che di per sé appartengono allo stato dei consigli ma per motivi esterni - ad esempio la cura dei parenti - non sono potuti entrarvi. Una dottrina dello stato di vita non può regolarsi in base a queste eccezioni, che sorgono necessariamente nella sterminata varietà e contingenza dei destini. Anche questi uomini stanno all'interno dell'universale status cristiano della Redenzione e hanno parte alla grazia dello stato della Croce. Anche nell'Antico Testamento c'erano stati simili uomini, e anche là la loro esistenza non esigeva un tale riguardo da dover progettare per essi una propria forma di vita, un proprio stato particolare. Quello che vale in modo ovvio per gli uomini vale però nondimeno anche per le donne, sebbene per motivi naturali le donne non sposate siano più numerose che gli uomini celibi. L'uomo infatti sceglie la sua moglie, la donna invece viene scelta per il matrimonio. A parecchie donne, che volentieri si sarebbero sposate, è mancata l'occasione per farlo. Ma di nuovo la dipendenza da questi casi non può costituire alcun motivo per prevedere uno stato proprio per donne che sono rimaste non sposate. Esse appartengono piuttosto, se erano intimamente decise per il matrimonio, potenzialmente allo stato matrimoniale, e Dio metterà loro in conto la loro prontezza alla dedizione come se fosse dedizione effettuata. Egli terrà conto anche del peso della loro rinuncia e farà diventar fruttuoso a suo modo il loro sacrificio, se sostenuto interiormente nello spirito di Cristo. Ma essere rimasta per un qualche motivo non sposata non significa ancora vivere nello stato della verginità. A meno che a questa verginità corporale non corrisponda ciò che fa diventare la verginità una cristiana verginità della Croce: la volontaria e incondizionata rinuncia alla fecondità corporale per amore della più grande fecondità della grazia, la quale si esprime come legame dello spirito nell'obbedienza in una qualche comunità. Di nuovo possono esserci qui eccezioni, casi marginali per così dire, che non possono essere visti come la regola: casi nei quali l'entrata in una comunità era per motivi seri impossibile e alla donna in questione fu data facoltà sotto conduzione ecclesiale di pronunciare un voto di verginità all'interno della sua vita in mezzo al mondo, eventualmente collegato con un voto di obbedienza e di povertà oppure no. Una tale donna apparterrà potenzialmente allo stato dei consigli, altrettanto come quella per cause accidentali non sposata appartiene potenzialmente allo stato matrimoniale. Ma si dovrà provvedere a che queste forme di vita marginali, che possono essere giustificate nel caso singolo, anzi in esso sono le uniche possibili, non portino a far apparire una specie di « terzo stato » fra lo stato del matrimonio e quello dei consigli come qualcosa di normale o addirittura di auspicabile. Un tale « terzo stato », se venisse realmente riconosciuto come stato, potrebbe solo condurre a minacciare gravemente il radicalismo cristiano tanto del matrimonio cristiano quanto della vita cristiana secondo i consigli. Non si vedrebbe più cosa significhi nella Chiesa offrire la propria anima per Dio e i fratelli in maniera così definitiva e irrevocabile che non la si può più riprendere indietro. Il sì della promessa matrimoniale e il sì del voto religioso corrispondono a quello che Dio si aspetta dall'uomo: la consegna di sé senza condizioni, così come il Signore sulla croce offrì tutto, anima e corpo, per il Padre e per il mondo. Nello stato d'elezione il cristiano da a Dio la sua anima e il suo corpo, e Dio distribuisce il frutto del sacrificio ai suoi fratelli e dona a colui che si è offerto una missione all'interno della Chiesa. Nello stato matrimoniale il cristiano dona col « sì » sacramentale il suo corpo e la sua anima al coniuge, ma in Dio, per la fede in Dio e nella speranza nell'appagante fedeltà di Dio, la quale non priverà la sua offerta dei frutti promessi, materiali o spirituali. Nessun « tertium quid » è pensabile come forma di vita fondante uno stato, accanto a queste due forme di vera dedizione, nessun « tertium quid » è previsto anche nella Rivelazione. Ancora una volta viene così allora giustificato, con l'esempio della verginità, il concetto teologico di stato di vita. « Stato » è all'interno della Chiesa una determinata forma di vita, che attraverso un legame cristianamente rilevante ( e non semplicemente civile o professionale ) come differentìa specifica determina lo stato cristiano universale generico. Questa forma di vita come tale lega il cristiano nel suo essere più intimo in maniera irrevocabile ( cum immobilitate, sine facultate resiliendi ). Attraverso questo legame che è alla base dello stato, gli viene data la possibilità di partecipare in fecondità soprannaturale al mistero del « perdere la propria anima » e con dò al mistero di croce e redenzione. Ora è certamente vero che già il generico stato cristiano procura una forma di vita, un legame che, paragonato con l'esistenza al di fuori della Chiesa, è molto serio e radicale. Ma paragonato con lo stato matrimoniale e quello dei consigli ( o per il prete con lo stato d'elezione in generale ) questo stato cristiano comune non significa ancora nessun legame ultimamente concreto che tenda il suo spirito e il suo corpo in una soprannaturale attitudine a servire. Di simili forme di vita ce ne sono secondo la tradizione comune solo due. « Eadem veritas sumitur ex antiquis Patribus, qui communiter docent Christianorum vitam et statum in duos ordines Christum distribuisse: unum profìtentium communem vitam mandatorum, ut sunt coniugati, alium qui profitentur altiorem et angelicam vitam, i.e. religiosam » ( Suarez. De rei., lib 3 c2 n4 ). « In Ecclesia Dei duo modi vivendi instituti sunt » ( Eusebio, Demonstr. 1, e 8 ) E poiché non tutti possono percorrere la difficile via della sequela diretta nei consigli, per questo, dice Basilio, « benevolo verso gli uomini Dio ha provveduto alla nostra salvezza dividendo il cammino degli uomini in due vie, cioè il matrimonio e la verginità, affinché chi non era in grado di affrontare la battaglia della verginità vivesse insieme con una donna, in modo però che egli sapesse che dovrà render conto della continenza e della santità, alla maniera di vivere di quei santi che, come Abramo, vissero nel matrimonio e nell'educazione dei figli ( … ) Questi infatti non aveva ancora udito la parola: Vendi ciò che hai e dallo ai poveri! » ( Sermo de renuntiatione saeculi, PG 31,628 ). Alcuni testi patristici pongono i due stati l'uno di fronte all'altro solo nel senso di genere e specie, come comune stato cristiano ( senza menzionare espressamente il matrimonio ) e stato della perfezione o dei consigli, che si rapporta all'altro « tam quam perfectio ad perfectibile vel tamquam determinatio ad determinabile » ( Suarez, loc. cit., lib 1 e 2 n 9 ). Tommaso non conosce in generale alcuna ripartizione degli stati nel senso sopra descritto. Suarez, camminando sulle piste tracciate prima dalla Scolastica, non vede quanto il sacramento del matrimonio fondi non solo uno status civile, ma uno status cristiano, « quia simpliciter loquendo in ordine ad vitam aeternam ( matrimonium ) non excedit communem statum vitae christianae » ( ibid., libl,c2n2 ). Tuttavia tanto dall'Antico quanto dal Nuovo Testamento risulta chiaramente che l'uomo non sposato ma non altrimenti legato non è previsto come regola, bensì solo come eccezione. Il matrimonio è talmente fondato nella creazione originaria, talmente appartenente all'uomo come « immagine e somiglianza », garantendo all'uomo tutti i mezzi naturali del vero dispiegamento di sé nel Tu e in Dio, è talmente l'adeguato avviamento al puro amore e all'altruismo, che al di là di questo stato, che è fondato dalla natura e consacrato ed elevato dal sacramento, può esserci solo una possibilità di stato di vita del tutto soprannaturale, che supera tanto il legame definitivo quanto la fecondità del matrimonio. Questo stato si fonda direttamente « in matrimonium Christi cum Ecclesia ». Un terzo stato non c'è, tanto che Suarez pone inflessibilmente anche i preti secolari davanti all'aut-aut di appartenere a questo o a quello stato: « in omni vero opinione certum est sub altero ex dictis contineri » ( ibid., n. 13 ). Certo lo stato dei consigli conosce forme di realizzazione molto diverse. « Stato religioso » vero e proprio c'è solo canonicamente laddove i tre voti sono stati pronunciati solennemente e pubblicamente nelle mani della Chiesa. Ovunque questo concetto di stato di vita non viene realizzato pienamente si può e si deve parlare di una partecipazione per analogia allo stato d'elezione. Così già nel caso di un semplice voto di verginità, tanto più se unito a un voto di obbedienza, oppure nel caso di un qualche altro modo di partecipare nel mondo alla vita secondo i consigli: « omnis modus vivendi spiritualiter, ordinatus ad perfectionem caritatis acquirendam, si alioquin habeat immutabilitatem seu firmitatem ad statum sufficien-tem aliquo modo dici potest et debet status perfectionis ( … ) quaprop-ter (canonice) ( … ) distinguendus est in statum integrum ac perfectum et statum imperfectum ». Di quest'ultimo vale: « statum religiosum ali quo modo participat, et in lata signifìcatione seu analogia quadam status ille potest dici religiosus » ( thid., lib 2 e 3 n 17-18 ). Ma anche questo solo sotto il presupposto della corrispondente irrevocabilità. Da ciò consegue in primo luogo che i « non sposati appartengono certo secondo la legge statale allo stato civile dei celibi, ma non per questo già allo stato dei vergini. Solo chi sceglie il celibato come tale e lo abbraccia volontariamente per il Regno dei Cieli [ e, aggiungiamo noi: con un voto o una promessa durevole ], entra in questo stato ( … ) Tale verginità come dedizione a Dio e al servizio del prossimo è oggettivamente una benedizione per il mondo, similmente allo stato delle vergini in convento. » Consegue in secondo luogo che tutte le forme di vocazione mondana che necessariamente esigono donne celibi nel mondo devono, per essere conciliabili con una concezione cristiana di stato di vita, offrire ai loro membri la possibilità di rinunciare alla libertà ( Ungebundenheit ) con cui l'uomo può disporre sempre nuovamente della sua vita, in favore di un autenticamente cristiano venir vincolato ( Gebundenheif ). Solo allora la donna sentirà la benedizione che sta nel venir continuamente educati cristianamente da una oggettiva regola di vita, e verrà protetta dal minaccioso destino di diventare una vecchia zitella inaridita. Poiché la società umana non consiste, come uno stato di api o di formiche, di tre esseri: maschili, femminili e asessuati, un uomo non può semplicemente astrarre dalla sua sessualità nel dar forma alla sua vita e nell'adempimento dell'immagine di Dio in lui. Non sarebbe difficile mostrare che nazioni ed epoche veramente cattoliche non hanno conosciuto questo sostanziale assenso al « terzo stato » che nel tempo recente, con nausea del matrimonio e secolarizzazione dei conventi, società anonima tipo quella delle formiche e un liberalismo che stima la libertà dell'autodeterminazione come il massimo dei beni, è diventato quasi un ideale, e che anche da cattolici viene considerato come qualcosa di praticamente normale. Si crede di fare già molto se si impegna la propria vita per un certo periodo di tempo per un qualche scopo umanitario, sempre con la riserva, se « qualcosa non va » o non piace più, di darsi a qualcos'altro. Se però abbiamo parlato di una analogia dello stato dei consigli, giacché, accanto alla dedizione piena nei tre voti religiosi solenni esistono anche molteplici maniere di aver parte a questa vita di dedizione, bisogna dire allora che la partecipazione al vero e proprio stato d'elezione diventa tanto più piena quanto più fortemente in una forma di vita viene compreso e vissuto il legame più intimo, cioè il legame spirituale dell'obbedienza. Verginità e povertà sono beni cristiani solo allorquando sono espressione di una dedizione e un legame spirituali a Dio. « Infatti col voto dell'obbedienza viene offerto il bene più grande, cioè la volontà stessa, che è più nobile che il proprio corpo, che l'uomo offre a Dio con la continenza, o i beni esteriori, che egli sacrifica a Dio col voto di povertà », al punto che l'obbedienza costituisce per Tommaso chiaramente l'elemento che contraddistingue formalmente lo stato dei consigli: « Anche se qualcuno senza il voto dell'obbedienza pratica la povertà volontaria e la verginità per voto, non appartiene perciò stesso allo stato religioso, il quale stesso viene preferito alla verginità per voto » ( S Th n n q 186 a 8 ad 3 ). Vicinanza e distanza nei confronti della perfezione del concetto di stato di vita sono dunque da leggere, nella suddetta analogia, a partire da questo elemento formale. Il legame pieno attraverso il sacramento o i voti è stato cristiano adempiuto. Fino alla scelta dello stato l'uomo deve perseverare in uno stato d'attesa, che come tale non è assolutamente imperfetto, giacché corrisponde alla volontà di Dio. Qui trova il suo posto autentico una verginità puramente fisica. Non si scambi però questa verginità dello stato d'attesa ( alla quale con ragione si devono attenere le giovani ragazze nei circoli e nelle associazioni ) con uno stato definitivo e compiuto. Se al tempo adeguato non avviene una scelta di stato, non per questo la verginità in attesa passa di per sé ad essere una verginità compiuta, giacché per questo ci sarebbe bisogno dell'esplicito collegamento ad una qualche forma di vita secondo i consigli. In caso diverso questa forma di vita rimane uno stato d'attesa prolungato. Del tutto in modo diverso stanno le cose riguardo allo sfato vedovile. Il giogo è stato portato, il sacrificio offerto, la vita adempiuta davanti a Dio. Nascondi La persona è adesso libera - e questa libertà è come una ricompensa di Dio per il peso portato - di sentirsi ancora legata e di conservare così la fedeltà matrimoniale al di là della morte oppure di contrarre un nuovo legame nello stato matrimoniale ( 1 Cor 7,39 ), oppure infine di legarsi spiritualmente nel senso di una partecipazione allo stato dei consigli. Paolo conosce una terza possibilità. Dalle vedove che hanno figli o nipoti egli si aspetta « che imparino prima a praticare la pietà verso quelli della propria famiglia e a rendere il contraccambio ai loro genitori, perché è gradito a Dio ». « Se qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele. » Invece egli si augura che « le vedove più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare all'avversario nessun motivo di biasimo ». Infatti nel caso che esse abbiano fatto un voto e poi « prese da un desiderio indegno di Cristo abbiano voglia di sposarsi di nuovo, si attirano un giudizio di condanna per aver infranto il primo voto ». Nascondi Solo le vedove più anziane egli le fa iscrivere nel catalogo delle vedove e pronunciare così il voto dello stato di vita ( 1 Tm 5,4-14 ). Quello che Paolo in ogni caso ha voluto evitare è il « girare ozioso qua e là per le case », che poi diventa una minaccia, se la donna non appartiene a stato alcuno. La via è per lei tracciata: « Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia » ( 1 Tm 2,15 ), a meno che ella non voglia, anziché delle cose del marito, « occuparsi delle cose del Signore » e nella verginità « essere santa nel corpo e nello spirito » ( 1 Cor 7,34 ) Se sceglie quest'ultima possibilità, allora deve entrare in un tal legame col Signore, che per lo meno non rimane al di sotto del legame matrimoniale; nessun legame per prova, nessun matrimonio d'amicizia « soprannaturale » può scegliere, bensì una forma di dedizione che può valere come risposta all'assolutezza della dedizione del Signore. Se lo stato d'elezione si fonda direttamente sulla Croce e ottiene da essa tutta la sua possibilità d'esistere e la sua energia, il matrimonio cristiano ricava indirettamente il suo compimento e la sua conferma ultima patimenti dalla Croce. Come forma di vita esso non ha origine, così come nemmeno il sacerdozio di cui tratteremo in seguito, dal Nuovo Testamento. Esso è radicato nel primo racconto della creazione. Ma già là era più che un mistero puramente naturale. Nella sua fondazione esso trasse origine da un atto preternaturale di Dio, e mirava con la collaborazione dell'uomo alla sempre nuova realizzazione della più che naturale unità dell'amore. Dio rimaneva pronto a donare ogni volta, in un atto unitario che per noi non è più immaginabile, la grazia della sua fecondità creativa, quando uomo e donna si incontrassero spiritualmente-corporalmente all'interno di questa grazia. Nel Nuovo Testamento dalla generale soprannaturalità della grazia del matrimonio nasce la concreta, configurata soprannaturalità della grazia di Cristo sulla croce. Dall'apparire del Figlio nel mondo non c'è nessun'altra forma di amore, per noi, all'infuori della forma in cui egli ci ha amato. Nascondi « In questo consiste l'amore, che non noi abbiamo amato per primi Dio, ma egli ha amato noi e ha dato suo Figlio come espiazione per i nostri peccati » ( 1 Gv 4,10 ). « Da questo riconosciamo l'amore, che Egli ha dato la sua vita per noi. Perciò anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ). « Questo è il mio comandamento: amatevi l'un l'altro come io vi ho amato. Nessuno ha un amore più grande di colui che da la sua vita per i propri amici. Nascondi Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando » ( Gv 15,12-14 ). Questo è dunque il canone per ogni amore cristiano, anche per l'amore e la fedeltà matrimoniale. E solo per il fatto che al mistero della fecondità corporale Cristo infonde nuovamente dall'alto l'infinitamente più profondo mistero della fecondità spirituale di fede, amore e speranza e con ciò anche lo spirito di povertà, castità e obbedienza, il matrimonio diventa capace di venir elevato a sacramento all'interno della Chiesa cristiana. Esso lo può diventare solo per il fatto che partecipa allo spirito del sacrificio di Cristo. E questo lo può nuovamente solo se attraverso questo spirito riottiene misteriosamente qualcosa dello spirito del paradiso terrestre, come regnava prima della separazione degli stati. Il matrimonio cristiano non può dunque venir compreso se lo si considera dapprima solo come un istituto naturale con una determinata forma di amore naturale, istituto che successivamente verrebbe « innalzato » dal sacramento al livello della Grazia. Lo si deve sin da principio interpretare dall'alto, cioè dall'atto cristiano che lo fonda come matrimonio. Questo atto è quello della fede cristiana, che se è viva include sempre in sé l'amore e la speranza. In questo atto viene pronunciata la promessa matrimoniale al coniuge. È un atto che giunge direttamente e immediatamente a Dio; è un voto di fedeltà a Dio, poiché Dio per primo si è rivelato nelle sue promesse e manifestazioni come la fedeltà eterna, a cui si deve credere, sperare e che si deve amare. Dentro questo voto di fedeltà a Dio viene pronunciato il voto di fedeltà al coniuge. È l'atto di fede di entrambi i contraenti che si incontra in Dio e che da Dio, base della loro unità, testimone del loro legame e garante della loro fecondità, viene plasmato, assunto e restituito. È Dio che nell'atto di fede dona i coniugi l'uno all'altro, all'interno del fondamentale atto cristiano d'offerta. A Lui essi si offrono l'uno insieme all'altro, da Lui essi si riottengono l'un l'altro in un dono di grazia, di fiducia, di richiesta cristiana. La fedeltà che essi si promettono reciprocamente è solo per questo così indissolubile, perché essa affonda le sue radici nella stessa fedeltà di Dio, ottiene la sua energia, infrangibilità ed eternità dalla Sua fedeltà, la quale continua ancora ad essere fedeltà anche quando l'uomo pensa di stare alla fine della sua fedeltà. L'atto nel quale i coniugi cristiani si promettono reciprocamente fedeltà è perciò, come lo stesso atto cristiano fondamentale della fede, un atto assolutamente non dominabile con lo sguardo, aperto in Dio: come la fede crede di più di quanto può comprendere e vedere, poiché Dio vede, e la sua parola è sufficiente, così la promessa matrimoniale promette di più di quanto le sole forze umane sono in grado di mantenere, poiché Dio è fedele e dona al credente la forza della sua fedeltà. Nascondi Questa dedizione per la vita e per la morte ha qualcosa della forma dell'indissolubile, eterno voto che è immanente ad ogni amore; è un atto di una tale definitività che equivale ad una reale « perdita della propria anima » ( Mt 16,25 ). E solo perché l'anima ha offerto in sacrificio il diritto all'autodisposizione della propria vita può venir offerto in sacrificio anche il diritto all'autodisposizione del proprio corpo. « La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie » ( 1 Cor 7,4 ). In questa dedizione i coniugi sperimentano che essi non erano due unità chiuse che successivamente si sono unite, e delle quali, come per caso, è fuoriuscita una terza nuova unità, il figlio. Essi vengono a sapere piuttosto che entrambi sono « una carne » e che già lo erano originariamente, senza saperlo, poiché Eva ha origine da Adamo. Che essi perciò, congiungendosi e rinunciando così alla loro supposta autosufficienza, seguono solo una legge profonda di autodedizione, la quale attraverso la perdita di ciò che sembrava essere unità trova questa unità con l'altro e nell'altro. Un'unità però che non proviene semplicemente dai due partners, ma dal frutto della loro dedizione, che è più che il loro seme; è qualcosa di insospettato, gratuito, meraviglioso, risultante dalla dedizione: il figlio. Finché si considera il matrimonio come un'istituzione puramente naturale, il figlio apparirà sempre come un prodotto casuale, anche se allietante, forse sperato, dell'unione sessuale. Il frutto non giace nella reciproca dedizione dei coniugi, non è derivabile da essi, non si può comprendere a partire da essi. Accade così che in questa considerazione puramente naturale del matrimonio si deve distinguere tra diversi « fini » del matrimonio: il fine dell'educazione dei figli e il fine della dedizione reciproca, che si può distinguere poi anche come « scopo » e « senso » del matrimonio. Questa distinzione però cade ( e con ciò anche certi imbarazzi a cui questa distinzione conduce ) se si considera il matrimonio nel suo sacramentale esser fondato nell'atto di fede. Ora infatti i coniugi sono non più soltanto aperti l'uno all'altro - e in questa apertura chiusi a tutti gli altri -, essi stanno piuttosto aperti primariamente a Dio, e offrendosi davanti a Dio l'uno all'altro in questo stato si donano allo stesso tempo a Lui e attendono da Lui l'inatteso: il frutto della sua grazia. La maniera in cui essi si offrono a Dio è essa stessa già grazia, e perciò è feconda. Così la fecondità della fede in essi attende la fecondità dall'alto donata da Dio, che questa sia un figlio che Dio dona loro oppure un frutto spirituale, se non ottengono la fecondità fisica. L'atto di consegna all'interno del sacramento si distingue altrettanto essenzialmente dall'atto d'amore in un matrimonio « puramente naturale » quanto l'atteggiamento spirituale di un credente si distingue da quello di un non credente. Il credente attende ogni frutto da Dio, senza voler sapere in anticipo che cosa otterrà; egli è aperta speranza, che anticipatamente da il suo assenso e accetta ogni grazia di Dio, in qualsiasi forma essa si presenti. Così i coniugi cristiani, incontrandosi, aspettano sempre da Dio la sovrabbondante risposta della sua grazia: è impossibile per essi distinguere il « senso » del matrimonio dal suo « scopo ». La ragione ultima di ciò è che la loro fede partecipa alla grazia della croce, la cui fecondità si apre all'infinito. Il loro amore, esternamente un affare che si esaurisce fra due persone, partecipa nascostamente dell'illimitato, sempre cattolicamente ed eucaristicamente aperto amore del Signore, la cui fecondità si riversa sempre ulteriormente al di là di tutto ciò che rimane chiuso. E questo perché in questa fecondità dell'amore crocifisso del Signore è divenuta manifesta la stessa legge dell'amore trinitario, che non si esaurisce fra Padre e Figlio, ma ha per frutto il terzo, lo Spirito, al quale appartiene perciò in maniera speciale l'amore in Dio. Solo questa partecipazione alla Croce dà anche alla dedizione corporale reciproca tra i due coniugi la sua giustificazione ultima liberante. Ora infatti questa non appare più semplicemente ( come nello stato originario ) come il simbolismo di una grazia invisibile di fede, speranza e amore, ma come espressa partecipazione all'incarnazione della grazia divina, che nella vita e nella passione del Signore niente più opera senza l' « instrumentum coniunctum » della sua carne e sangue. Stato matrimoniale e stato d'elezione non stanno l'uno di fronte all'altro come stato dell'amore carnale e stato dell'amore puramente spirituale, poiché entrambe le forme di stato di vita sono rappresentazione dell'unico spiritual-corporale amore di Cristo per la sua Chiesa e in essa per l'umanità. Con l'incarnazione della Grazia l'amore spirituale ( del secondo stato ) diventa un amore necessariamente incarnato, e l'amore corporale ( del primo stato ) diventa un amore legittimo anche nel corpo e compenetrato dallo spirito. Così al posto della tragicità del sesso è entrata la feconda, liberante visuale della Croce. È ben vero che dopo l'Eden l'amore sessuale è finito sotto quella dialettica di generazione e morte dalla quale niente a livello umano poteva liberarlo. Desiderio e angoscia erano presi in un cerchio chiuso da cui non c'era via d'uscita alcuna, poiché l'amore perfetto che Dio all'inizio aveva elargito ai coniugi come principio del matrimonio non era più, nell'ambito della colpa ereditaria, ritrovabile. Questo cerchio tragico viene eliminato solo allorché Cristo sulla croce, al di là della schiavitù sotto desiderio e angoscia, produce dalla sovrabbondanza del suo amore una nuova unità: quella di generazione di vita eterna nel bei mezzo della morte eterna, generazione della Chiesa, sua sposa, dall'abisso dell'abbandono da parte del Padre e dello sprofondare nella piena verità della morte. Così soltanto è superata la demonicità della sessualità. Così soltanto il matrimonio può venir nuovamente inserito nelle forme di dedizione cristiana, sebbene l'unità dello stato originario non sia ripristinabile. Esso lo può solamente a condizione di essere vissuto a partire dal sentimento della croce, dove ogni concupiscenza, per quanto disordinata ed egoistica, viene superata dall'altruismo della dedizione cristiana. Così entrambi gli stati vivono del medesimo amore: l'amore di Cristo, che rimane il paradigma di ogni amore. Ed entrambi gli stati sono fecondi in forza di questo amore, poiché entrambi portano in sé il principio della fecondità, cioè l'amore stesso, che è riversato nei nostri cuori insieme con fede e speranza. Infatti Dio volle sorprendere gli uomini non solo con una ricompensa donata dal di fuori, ma volle far derivare il frutto della grazia dall'amore che egli dona agli uomini come una cosa loro propria: come loro frutto e allo stesso tempo come Suo frutto per essi e in essi. Quanto maggiormente però l'amore di un uomo assomiglia a quello divino, quanto maggiormente dunque rinuncia a se stesso e si sparge intorno a sé per assumere interiormente la forma di povertà, verginità e obbedienza, tanto maggiormente anche il frutto di questo amore sarà un frutto divino: un frutto superiore ad ogni umana fecondità e umana aspettativa. Questo frutto nella sua unità è donato allo stato d'elezione, che rinuncia col voto non soltanto ai propri frutti corporali e spirituali, ma ( cosa che è decisiva ) alla visione dei frutti che Dio gli donerà. Egli lascia nelle mani di Dio, insieme a tutto il proprio io, anche il risultato della propria consegna. Infatti il Signore sulla croce non ha guardato ai frutti della sua dedizione, ma piuttosto li ha posti del tutto nelle mani del Padre, per riceverli solo al terzo giorno, risorgendo, dalla mano del Padre, in tutta la loro sovrabbondanza. A questo frutto prende parte anche lo stato cristiano matrimoniale, lasciando a Dio sin da principio nella promessa solenne del sacramento i frutti spirituali e corporali che Dio voglia donare e accettando lietamente qualsiasi risposta divina. Se il coniuge cristiano è capace di compiere realmente questo atto di perfetta consegna di sé, la sua comunione limitata si apre allora all'universalità della Chiesa cattolica, e il suo amore, che sembra limitato ad un circolo così ristretto, ottiene fattiva partecipazione alla realizzazione del Regno di Dio sulla terra. Certamente egli rimane in ciò « laico ». Anche attraverso questo sacramento particolarmente cristologico non trapassa infatti nello stato della vocazione qualitativa. Egli rimane nella forma di vita che già nell'Antico Testamento era in vigore e che ha ottenuto dal sacramento una consacrazione soprannaturale, senza diventare per ciò stesso una fondazione nuova ad opera di Cristo. Egli rimane legato alla forma della dedizione carnale, che solo in un difficilmente raggiungibile caso-limite può condurre ad un perfetto scioglimento da ogni bramosìa condizionata dalla colpa. Ed egli non può trasmettere ai suoi figli la grazia sacramentale sulla quale cresce il suo matrimonio, poiché essi nascono a loro volta nella caducità del genere umano. Egli non ha il diritto, sulla base del suo stato di vita, di compiere quel completo olocausto non solo dello spirito ma anche del corpo, in povertà, castità e obbedienza, al quale sono invitati gli eletti. Ma egli non sta in nessun modo di fronte a questi come un cristiano di minor valore, poiché la scelta di Dio dona ad ognuno, anche se in maniera diversa, quello che per lui è il meglio. Ambedue gli stati, lo stato laicale, che raggiunge la sua pienezza nello stato matrimoniale, e lo stato d'elezione, si condizionano l'un l'altro e sono fino all'ultimo dipendenti l'uno dall'altro; non però come due metà di ugual valore, che si completano l'un l'altra, ma come lo stato particolare, che proviene da quello generale e col sacrificio e la missione ritorna ad esso, e lo stato generale, che non senza quello particolare è quello che è: uno stato cristiano proprio. In questo rapporto si specchia la legge fondamentale dell'economia della salvezza: il Vecchio Testamento tanto perdurante nel Nuovo quanto superato, tanto assunto quanto sopraelevato, il Nuovo compimento dell'Antico, ma a tal punto « nuovo » che nessuno all'infuori di Dio lo vide già venire nell'Antico. C. La seconda separazione degli stati Lo stato sacerdotale Intenzionalmente si è parlato sin qui della prima separazione, che Gesù fondamentalmente compì chiamando i suoi discepoli fuori dai loro legami terreni, affinché essi fossero presso di lui nella sua missione, con la forma di vita commisurata a questa. Di un insediamento di sacerdozio neotestamentario si può parlare in un senso pieno solo con la croce e la resurrezione, allorché fu compiuta la morte sacrificale di Gesù che è alla base di ogni nuovo ministero sacerdotale. Nascondi I « poteri » di cui Gesù subito all'inizio dota i suoi discepoli non sono ne quelli di Aronne ne quelli episcopali, ma per il momento poteri tali che li rendono capaci di partecipare alla sua evangelizzazione « con potere » ( Mc 1,27 ). Solo all'Ultima Cena, quando egli si consacra irrevocabilmente nella morte sacrificale, consacra anche i suoi discepoli ( Gv 17,17-19 ). L'affermazione nel vangelo di Matteo rivolta a Pietro ( Mt 16,18 ) e quella rivolta ai Dodici ( Mt 18,18 ) rimane una promessa previa, che ha il suo posto vero e proprio e il suo adempimento dopo la Pasqua ( Gv 21,15-19 ). Lo stato dei consigli esiste prima dello stato sacerdotale, e i discepoli vengono condotti dal primo al secondo. Con ciò viene fissata - al di là di ogni differenza più tardi apparsa possibile e attuata - l'affinità, anzi l'intima appartenenza reciproca delle due forme di vita risultanti in modo speciale dal Nuovo Testamento. Per poter vedere la necessità di questa affinità occorre solo tornare a guardare all'unità dello stato d'elezione di Cristo che sta prima di ogni distinzione. Da questa sorgente derivano ambedue le forme di elezione. Lo stato di Cristo è contrassegnato dal suo stare nella volontà d'amore del Padre, nella perfetta offerta di tutto ciò che ha di proprio a Lui e, per amore di Lui, al mondo. Questa offerta prende la forma di sacrificio quando il Figlio si incarna nel mondo peccatore per redimerlo. Espiando in sostituzione vicaria Cristo conferirà al suo essersi offerto e venir accettato quella modalità che fa della sua offerta uno svuotamento di tutto ciò che è proprio, un esser privato di ogni luce per venir gettato nelle tenebre. Quando il Figlio si presenta davanti al Padre con la disponibilità ad offrire se stesso e a rinunciare a tutto ciò che ha di proprio: alla sua divinità ( che egli può lasciare presso il Padre ), alla sua umanità assunta ( che può perdere nella morte ), addirittura alla per lui indispensabile unione col Padre; quando egli in questa maniera lascia al Padre in povertà, verginità e obbedienza ogni potere di disporre su di sé, diventa allora potenzialmente vittima sacrificata, e il Padre può fare, quando vuole, di questa possibilità una realtà. L'una e l'altra cosa, l'attivo gesto di disponibilità a lasciarsi sacrificare e il conseguente passivo venir sacrificato, formano nell'atteggiamento interiore del Figlio un'unità, che in entrambe le fasi è ugualmente perfetta. Nascondi Per questo il suo sacrificio redentore non inizia solo sul monte degli Ulivi, allorché il Padre comincia a sottrarsi a lui, ma già nell'attimo dell'incarnazione, allorché il Figlio si spoglia della sua uguaglianza a Dio ( Fil 2,7 ) per entrare nella condizione della vittima che offrendo il sacrificio viene a sua volta offerta essa stessa. Questa condizione, che è connessa alla disposizione interiore dell'amore, è nel suo ( e in qualsiasi ) sacrificio l'elemento propriamente fecondo e redimente. In quanto dunque l'amore perfetto del Figlio possiede come sue modalità inferiori povertà, verginità e obbedienza e grazie ad esse diventa offerta sacrificale, queste modalità non significano nient'altro che la fondazione del suo sacerdozio. Infatti il Signore è sacerdote in nessun'altra maniera che divenendo, con l'offrire attivamente, passiva vittima sacrificata. Ciò che egli offre in sacrifìcio è la propria sostanza divino-umana, qualcosa di talmente prezioso e perfetto da superare di peso tutta la colpa del mondo. Essendo però questa offerta sacerdotale solo un modo della sua dedizione al Padre, e risiedendo questa dedizione nell'essenza della sua persona divina, diventa evidente che la caratteristica sacerdotale non gli giunge accidentalmente dall'esterno, ma piuttosto egli è consacrato in forza della sua essenza sacerdote per eccellenza, contiene in sé l'idea di ogni « sacerdozio in sé e per sé » ( egli è auto-ierosune ), e conseguentemente ogni vero sacerdozio nel mondo può solo essere una imitazione e partecipazione al suo sacerdozio eterno e assoluto. Questo significa però immediatamente due cose. Cristo è sacerdote in quanto egli erige in sé l'unità di ministero e amore; egli detiene la carica sacerdotale solo perché è l'offerta per eccellenza. E Cristo realizza questa unità di ministero e sacerdozio solo per il fatto che egli è allo stesso tempo l'offerente e l'offerto, il sacrificante e il sacrificato. Egli assume insieme l'azione sacrificale e la passione sacrificale. 1. Se si considera solo la prima di queste due sintesi potrebbe sembrare che nel Signore la dimensione sacerdotale sia nient'altro che il suo amore. Tutto il concetto di sacerdozio appare allora come assorbito e trapassato nel concetto di offerta amorosa. Là dove la sua funzione sacerdotale è al suo culmine, sulla croce, non sembra più esser visibile niente del ministero. Considerato così egli è, secondo l'insegnamento centrale della Lettera agli Ebrei, il superamento di un sacerdozio ministeriale in cui la funzione non coincide con la persona, e così nemmeno l'azione con la passione. Nascondi Il sacerdozio funzionale del Vecchio Testamento era solo una « ombra dei beni futuri » ( Eb 10,1 ), perciò anche legato al tempo e solo nella continua ripetizione poteva ricordare l'unico ma irraggiungibile significato. Cristo riassume tutti questi sacrifici in sé, ponendo al posto di « olocausti e sacrifici per il peccato » la semplice disponibilità: « Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà! » ( Eb 10,7 ). « Egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo. Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre ». « Con il proprio sangue egli è entrato una volta per tutte nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna ». Nascondi Se già il sangue degli animali nell'Antico Testamento produceva una purificazione legale, « quanto più il sangue di Cristo, che offrì se stesso come sacrificio senza macchia a Dio, purificherà la vostra coscienza dalle opere morte! » ( Eb 9,12-14 ). Questo sacrificio è quello della sua « volontà », che è qui per fare la volontà di Dio e che giunge fino a versare il proprio sangue. È una morte per obbedienza, una morte che fu a tal punto obbedienza che egli superò in sé ogni sacrificio legale ed esteriore e fissò la fine del Vecchio Testamento ( Eb 9,15-16 ). Nascondi La legge è d'ora in poi trasferita nella disposizione interiore: « Io pongo la mia legge nei loro cuori e la iscrivo nel loro intimo » ( Eb 10,16 ). A tal punto il sacrificio di Cristo è compimento e abolizione del precedente sacrificio secondo la legge, che « se Gesù vivesse sulla terra non sarebbe neppure sacerdote » ( Eb 8,4 ). I sacerdoti infatti attendono solo ad un « servizio che è una copia e un'ombra delle realtà celesti » ( Eb 8,5 ), mentre il perfetto sacrificio di sé del Figlio, « nel quale egli imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono » ( Eb 5,8s ), lo insedia in un « sacerdozio che non tramonta », poiché « egli rimane in eterno » ( Eb 7,24 ). Il Figlio è dunque nell'oggettivo ministero sacerdotale nella misura in cui egli è nell'offerta soggettiva. Il ministero non costituisce nessun resto, nessuna eccedenza al di là della soggettività della sua offerta e del suo venir accettato. Nascondi Per lui non c'è nessun puro e semplice « opus ope-ratum »; egli deve piuttosto fornire l'intera opera sacerdotale e sacrificale fino all'orlo, e la fornisce anche col fatto che egli « nell'amore per i suoi va sino alla fine » ( Gv 13,1 ), in cui « tutto è compiuto ». Visto così lo stato dei consigli come stato del pieno sacrificio soggettivo ( holocaustum ) appare come l'autentica prosecuzione cristiana dello stato sacerdotale dell'Antico Testamento. Lo stato dei consigli, uomo o donna che sia colui che vive in esso, sarebbe allora lo stato ecclesiale sacerdotale nel senso più pieno, quello cioè che offre il sacrificio insieme con Cristo. Maria e Giovanni, che stanno sotto la croce, fondano, in quanto vergini, poveri e obbedienti nell'amore sino all'ultimo, il nuovo stato sacrificale in croce. Essi hanno ricevuto e scelto come forma della loro vita la forma del Redentore che offre se stesso. Nascondi Per Giovanni l'unità di questa forma di vita risulta ovvia: « Da questo conosciamo l'amore, che egli ha dato la sua vita per noi. Anche noi allora dobbiamo dare la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ). Lo stato dei consigli è la grazia di entrare in questo amore in modo tale che esso divenga forma di una vita umana. Colui che pronuncia il voto indossa questa vita come un vestito, e deve adattarsi alle intime dimensioni ed esigenze che esso contiene. Egli deve modellare il proprio corpo finché il vestito che indossa gli vada bene. Questa forma di vita esige completa offerta di tutto ciò che è proprio: possedimenti, corpo e spirito, al fine di lavorare insieme al Signore all'opera della redenzione. Nascondi E giacché il Signore ha redento il mondo con la sua completa obbedienza d'amore ( Fil 2,7 ) e nella vita secondo i consigli tutto ciò che viene offerto si riassume nel voto d'obbedienza ( quia votum oboedientiae continet sub se alia vota: S Th n n q 186 a 8c ), il voto d'obbedienza totale appare come la forma più preferibile di partecipazione alla redenzione, di continuazione dell'obbedienza di croce. 2. E tuttavia sotto molteplici aspetti questo assorbimento di tutta la dimensione ministeriale all'interno dell'amore, di tutto il sacrificio oggettivo nell'esecuzione soggettiva del sacrificio, non può bastare. Ciascuna delle ragioni che anche nel Nuovo Testamento esigono un'espressa continuazione dell'ufficio sacerdotale unitamente col perfetto amore del Signore è collegata con lo stato di colpa e di redenzione del mondo, ma ognuna in maniera diversa. a) La ragione più profonda è che il Redentore, che nella Passione assume su di sé e in sé il peccato del mondo, nel suo sacrificio deve a tal punto spogliarsi di ogni amore cosciente e sentito, che la stessa esecuzione del sacrificio nella notte della croce riceve il carattere di ciò che è puramente aggettivo e ministeriale. E il Padre stesso, che per amore della redenzione nasconde il suo amore nel profondo della notte, appare, come Abramo nei confronti del sacrificio di Isacco, nella pura oggettività e assoluta neutralità del ministero. È chiaro che ministero non sta qui a significare un confine dell'amore, ma al contrario quel modo in cui l'amore stesso è giunto sino all'estremo dell'offerta, vale a dire del sacrificio di se stesso. Soffrire nell'amore non è la cosa più difficile, ma rinunciare per amore alla coscienza dell'amore, perdere per amore l'amore stesso, cosicché tutto appare ormai solo come un'esecuzione oggettiva, ministeriale, questa è l'ultima cosa nella sofferenza vicaria del Redentore. L'elemento formale dell'amore, la assoluta preferenza del volere dell'amato al posto di quello proprio, che altrimenti nella felicità dell'amore rimane nascosto come il cuore nell'organismo, appare, là dove l'amore giunge all'estremo, nella sua nuda formalità e fornisce così la prova che l'amore era realmente amore e nient'altro che amore. Così sulla croce l'infinito amore tra Padre e Figlio assume la modalità della nuda obbedienza e perciò di ciò che è ministeriale, che significa tanto l'estremo velamento degli amanti l'uno rispetto all'altro, quanto l'estremo svelamento della mancanza di confini del loro illimitato amore reciproco. Nascondi Tanto il Figlio quanto il Padre realizzano qui l'opera dell'amore nel reale modo del ministero: il Figlio lasciando che tutto ciò che è soggettivo ( « Se è possibile, passi da me questo calice », Mt 26,39; « Ora l'anima mia è turbata. Padre, che devo dire? Salvami da quest'ora », Gv 12,27 ) si perda nel lasciar adempiere su di sé la volontà del Padre, al di là di tutte le proprie energie ( « Tuttavia sia fatta non la mia volontà, ma la tua ». Lc 22,42; « Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome », Gv 12,28 ); il Padre volgendosi al figlio con lo sguardo della durezza, anzi: dell'ira per il peccato del mondo: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato! » ( Mt 27,46 ). Questo è il mistero cristiano della Passione, e qui si vede che per rendere comprensibile l'essenza del ministero nel Nuovo Testamento deve venire addotta, oltre alla prima sintesi attuata nel sacerdote Cristo, la seconda: la sintesi fra azione sacrificale e passione sacrificale. Infatti solo nella Passione si manifesta visibilmente per gli uomini quel momento formale ultimo della dedizione d'amore, che non solo adesso, ma da sempre era quanto di più intimo v'è nell'amore del Figlio al Padre, e che di conseguenza anche per il futuro, giacché il Signore lascia in eredità il proprio amore alla Chiesa, dovrà essere ciò che caratterizza formalmente la dedizione cristiana: l'obbedienza. L'erezione, nel bel mezzo del Nuovo Patto dell'amore, di una autorità assoluta come ciò che rende possibile un'obbedienza assoluta sarà quindi la grazia massima che il Redentore poteva conferire alla Chiesa da lui fondata: la grazia di poter insieme a lui addurre la prova dell'amore perfetto, che giunge fino a preferire la volontà di un altro alla propria, anche nella notte del « non capire più ». Con l'obbedienza assoluta, dunque con l'adempimento dell'Antico Patto sino all'ultimo, sino alla più cieca dedizione alla volontà del Padre, laddove egli non conosce più il Padre e non comprende più il senso dal suo sacrificio, Cristo ha deciso la svolta al Nuovo Patto. Questa obbedienza, in quanto azione centrale del suo amore, rimane il punto centrale della redenzione e di tutto il Nuovo Testamento. Nascondi Se dunque l'esortazione dell'Apostolo « ad avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù ( … ) che annientò se stesso e assunse la condizione di schiavo ( … ) e umiliò se stesso facendosi obbediente sino alla morte, sino alla morte in croce » ( Fil 2,5.7-8 ) deve aver validità, se i cristiani devono poter prestare realmente questa obbedienza radicale, che va sino all'ultimo, allora deve venir presentata loro un'autorità che è o può diventare altrettanto concreta, vicina e ineludibile, altrettanto esigente e inflessibile come lo fu sulla croce l'autorità del Padre per il Figlio. Un cristianesimo che volesse raccogliere solo il frutto della croce, la « libertà dell'uomo cristiano », senza voler conoscere l'atteggiamento interiore del Crocifisso, avrebbe lasciato solo il Signore a soffrire, separando i sentimenti del corpo dai sentimenti del capo. Nascondi Che l'autorità del Padre per il Figlio abbia realmente il valore di una legge sempre attuale e incarnata nella legge umana egli lo mostra con la sua sottomissione alla legge di Mosé nella circoncisione ( Lc 2,21 ), nella purificazione ( Lc 2,22-24 ), nel pellegrinaggio a Gerusalemme ( Lc 2,42 ), nelle ripetute visite al Tempio in occasione delle feste giudaiche, nell'adeguarnente di tutta la sua vita alle profezie dei padri, che tracciano alla sua vita la pista da seguire ( Gv 12,14 ). « Io sono disceso dal cielo per fare non la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato » ( Gv 6,38 ). La legge di Dio sta al centro del suo cuore ( Sal 40,9 ), è l'oggetto continuo del suo amore adorante. Essa è, come dicemmo prima, lo Spirito Santo in lui e sopra di lui, che gli presenta di volta in volta la volontà del Padre, in cui l'Antico Testamento, legge e profeti, è adempiuto e sovradempiuto, il quale però come Spirito divino non cessa di essere per il Figlio incarnato la norma assoluta degna di essere adorata, l'istanza ministeriale per eccellenza. Così anche nella Chiesa solo un'autorità assoluta, non sminuibile da alcunché, da nessun sentimento, considerazione o opinione umana, è in grado di rendere comprensibile e addirittura eseguibile ai cristiani qualcosa dell'obbedienza d'amore del Figlio nei confronti del Padre. Il ministero ecclesiale, che in base alla forma esteriore porta in sé tratti veterotestamentari, appartiene così all'intima essenza del Nuovo Testamento. Nascondi Esso è ciò che nella Chiesa rende possibile l'obbedienza d'amore neotestamentaria; esso costituisce quell'ostacolo, superare il quale ( 2 Sam 22,30 ) è il compito cristiano. Con la sua perfetta obbedienza d'amore Cristo ha mostrato, rappresentato in sé e reso nuovamente nota al mondo l'assoluta autorità del Padre. Egli fu così obbediente che il Padre nella trasparenza dell'amore del Figlio poté impersonare in lui la sua propria autorità. Nascondi Già in quanto fattosi uomo il Figlio è il rappresentante di questa autorità del Padre nel mondo, poiché il Padre gli ha conferito tutto il potere di giudicare ( Gv 5,22 ); più che mai egli lo è dopo la sua Passione, giacché il Padre gli dà adesso il nome che è al di sopra di ogni altro nome, « affinché ogni ginocchio si pieghi, in cielo, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami a gloria di Dio Padre: Gesù Cristo è Signore » ( Fil 2,10-11 ), lui, al quale « è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra » ( Mt 28,18 ). Come egli dunque rappresenta in tutto il creato, a motivo della sua dedizione obbediente sino alla fine, il ministero e l'autorità del Padre, così egli trasmetterà ora alla sua Chiesa insieme col suo amore anche la sua autorità, che è inseparabile da esso. Nascondi Anzi egli non può dotare il nuovo sacerdozio di alcuna autorità più piccola della sua, corrispondentemente al fatto che per lui l'autorità del Padre non è relativizzabile da nulla: « Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me. Ma chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato » ( Lc 10,16 ). Infatti: « Come il Padre mi ha mandato, così io mando voi » ( Gv 20,21 ). E per questo: « Chi riceve uno che io mando, riceve me; ma chi riceve me, riceve colui che mi ha mandato » ( Gv 13,20 ). Il parallelismo è ineccepibile, non perché l'uomo a cui viene conferito il ministero sia di per sé in qualche modo paragonabile a Cristo, ma perché il volere del Figlio trasmette alla Chiesa l'autorità che il Padre possiede per lui, affinché essa in nome Suo possa innalzare nei confronti dei credenti richieste incondizionate. Solo chi realmente si sottomette conosce per esperienza l'amore, e non una semplice immagine apparente di esso, che significa in realtà ricerca di sé, egoismo. Nascondi E non in terreno neutrale si gioca la decisione circa l'amore, là dove facilmente ci si può comprendere al di là delle opposte opinioni, ma nella prova più difficile, dove l'autonomia propria dell'apostolo davvero « viene fatta prigioniera, per renderla soggetta all'obbedienza al Cristo » ( 2 Cor 10,5 ). Se però questa obbedienza per la salvezza dell'umanità la deve prestare il cristiano, allora essa esige dal Fondatore della Chiesa la garanzia assoluta che l'autorità a cui egli la deve prestare sia di origine divina e stia al posto stesso di Dio. b) Da questa prima ragione per la prosecuzione della dimensione ministeriale nel Nuovo Testamento si possono dedurre e mettere in ordine le altre. Esse erano necessarie tanto per coloro che dovevano seguire il Signore nell'amore perfetto ( ratione caritatis ), quanto per quelli che attraverso il ministero e l'autorità dovevano venir educati, partendo da un amore imperfetto o dal timore, all'amore perfetto ( ratione timoris ). Quelli che pronunciano il voto d'obbedienza nello « status perfectionis », voto che comprende in sé tutti gli altri voti ( S Th, loc. cit. ), si sottomettono volontariamente all'obbedienza di croce del Signore. L'aspetto ministeriale che giace nell'obbedienza secondo i consigli corrisponde dunque, a motivo della sua piena volontarietà, molto di più alla pura obbedienza d'amore neotestamentaria che ad una continuazione dell'obbedienza ministeriale veterotestamentaria prima dell'amore o accanto ad esso. Poiché però da una parte non tutti quelli che hanno pronunciato il voto d'obbedienza possiedono l'amore perfetto, oppure talvolta si allontanano da esso, e poiché d'altra parte la moltitudine di quelli che non sono scelti per questo stato e che tuttavia sono chiamati all'amore perfetto è parimenti rinviata all'assoluta obbedienza nella Chiesa e può rivendicare il diritto ad essa, doveva perciò un vero e proprio ministero presbiterale impersonare per l'insieme della Chiesa quello che il superiore rappresenta all'interno di una comunità religiosa: l'autorità divina. E poiché anche gli ordini religiosi sono solo una parte della Chiesa, e l'insediamento da parte del Signore del ministero ecclesiastico concerne la Chiesa intera, stanno perciò anche gli ordini religiosi e le altre forme di vita dello Stato dei consigli sotto l'autorità ecclesiastica. Questo soprattutto perché il ministero ecclesiastico va ampiamente al di là di una semplice rappresentazione astratta dell'autorità divina. Esso deve piuttosto trasmettere all'interno del suo potere d'ufficio l'intera pienezza della concreta presenza del Signore nella Chiesa e la elargizione sacramentale della sua grazia. La grazia del Signore, infatti, volle aiutare in ogni suo stato la natura decaduta non semplicemente con un invisibile completamento della sua continua carenza, ma volle donare ad essa questo sovrabbondante completamento in segni visibili, corrispondenti alla dimensione corporale dell'uomo, dipendente dai sensi, segni nei quali il continuo aiuto dall'alto si fa visibile anche qui e ora, nella nostra temporalità e nel nostro spazio. Non solo volle Cristo rimaner presente nella sua Chiesa per ogni tempo, ma piuttosto dovevano anche i suoi aver sempre davanti agli occhi i segni evidenti che garantissero questa presenza. Essi dovevano non solo poter vedere le più o meno difettose approssimazioni all'ideale del suo perfetto sacerdozio, ma vedere, velato nei segni ma per la fede amante davvero visibile, questo stesso perfetto sacerdozio. Ed essi dovevano allo stesso tempo trovare che lo scarto tra questa perfezione e la loro propria imperfezione è sempre di nuovo superato dalla grazia del Signore, poiché egli li attira giorno dopo giorno nel suo proprio sacrificio, che realmente continua a vivere: come sacrificante nell'atto sacrificale della S. Messa, come sacrificato nella Comunione, non più nella contrapposizione di immagine archetipa ( Urbild ) e immagine derivata( Nachbild ), ma in una unificazione, quale l'inventa l'amore di Dio. Nascondi Tutto questo, però, il Cristo vivente lo opera attraverso il suo Spirito Santo, che oramai nel ministero ecclesiale opera e media con la stessa oggettività con cui il Figlio sulla terra aveva efficacemente e « sostanziosamente » mediato la volontà paterna: « Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato » ( Gv 4,34 ). E ancora una volta lo Spirito normatore nel ministero ecclesiale non è qualcosa di estraneo, ma il medesimo che come amore è stato riversato nelle anime dei credenti ( Rm 5,5 ). Nascondi E ciò che vale per la realtà del sacrificio continuamente operante e per i sette sacramenti che si irradiano a partire da questo centro della Messa vale anche necessariamente per le altre funzioni del Signore: per la sua perfetta rappresentazione della verità del Padre, in quanto egli è la sua Parola ( « Io infatti non ho parlato da me stesso; il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare », Gv 12,49 ) e per la sua perfetta rappresentazione dell'autorità del Padre, in quanto il Figlio ha da rappresentare nel mondo tutta la sua signorìa e cura di pastore ( « II Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre », Gv 5,22). ( « Il Padre mio che me le ha date - le mie pecore - è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalle mani del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola », Gv 10,29-30 ). Così Cristo come sacerdote è allo stesso tempo maestro e pastore, perché l'amore del Padre è una cosa sola con la sua verità e la sua gloria. E Cristo non potrebbe rimanere presente nella sua Chiesa veracemente e credibilmente se questa non ricevesse in consegna anche una rappresentazione sensibile ( sinnfällige ) del suo potere assoluto di insegnare e di guidare. Una Chiesa che amministri il sacerdozio e la parola di Cristo, ma non rappresenti la sua potestà di guidare come pastore, non può essere la Chiesa del Signore; essa non rappresenterebbe per gli uomini nel mondo l'intera essenza del Redentore. Nascondi Cristo ha infatti trasmesso anche esplicitamente alla sua Chiesa tutti e tre gli uffici: quello sacerdotale, quello dell'insegnamento e quello pastorale ( Mt 16,18; Mt 18,18; Mt 28,18s; Lc 10,16; Lc 22,19; Lc 24,47s; Gv 20,23; Gv 21,15s ). L'effettività della trasmissione di questi uffici non è qui da dimostrare. Essa è espressa nel Vangelo in maniera sufficientemente chiara. Piuttosto ciò che è decisivo adesso è che il Signore ha trasmesso questi ministeri ad una piccola schiera di eletti, ai suoi apostoli, che egli ha educato con lunga pazienza a queste funzioni ecclesiali. La trasmissione degli uffici avviene gradualmente, come se il Signore volesse abituarli alla nuova esistenza, il cui nucleo è rappresentare ministerialmente il Signore. Pietro, il rappresentante primo del ministero ecclesiale, ottiene nel primo incontro un nuovo nome; con ciò viene mostrato che egli d'ora in poi non condurrà più un'esistenza privata, ma è spersonalizzato e inserito nella funzione da esercitare. Gli viene fatto vedere che in forza della sua fede egli può tutto, addirittura camminare sulle acque, addirittura riconoscere il Figlio di Dio esattamente per quello che è, ma non può niente per forza propria, allorché egli esprime con ostinazione intenzioni che sono opposte a quelle che ha la Grazia. Nascondi Egli deve venir trattato come « Satana » ( Mt 16,22-23 ), nella sua spavalderia di voler morire insieme col Signore non si lascia ammonire ( Mt 26,33s ), infine rinnega tre volte ( Mt 26,69s ). E in questo fallimento, desolante, dell'essere quello che è, Pietro viene insediato nella funzione definitiva, il pascere le pecore del Signore ( Gv 21,15-17 ). Il carattere e la sorte di Pietro vengono descritti cosi accuratamente solo perché egli è il primo tra i suoi compagni di ministero, molti dei quali nella loro bonaria ingenuità attraverso un sempre nuovo fallimento, ultimamente attraverso la loro vergognosa fuga davanti alla Passione, devono venir educati a distinguere tra persona e ufficio, a separare l'importanza del loro ministero, che ha le dimensioni del Signore, dalla irrilevanza di loro stessi, per divenire così adeguati funzionari del Signore. Mentre essi conoscono per esperienza la propria non corrispondenza viene loro donata l'umiltà, che forma la base per l'aspetto gerarchico. Nascondi « Allontanati da me. Signore, perché sono un peccatore! » è la base per la promessa di divenire pescatore di uomini ( Lc 5,8-10 ). « Tu non mi laverai i piedi in eterno! » è il presupposto per la comprensione della Chiesa, che senza il Sacramento non si ha « parte alcuna » a Gesù ( Gv 13,6-10 ). E la bruciante vergogna di dover confessare tre volte il proprio amore dopo aver rinnegato tre volte, è la giusta disposizione d'animo per venir insediato nella dignità gerarchica. Solo sulla base di questa aperta discrepanza tra ministero e persona, che esclude per sempre ogni identificazione, viene conferito lo Spirito Santo, che dona all'autorità la spregiudicatezza ( parresìa ) e conferisce non soltanto oggettivamente la giusta attuazione delle funzioni sacerdotali, la garanzia dell'assolutezza di insegnamento e guida, ma anche soggettivamente rende sostenibile il peso di un ufficio divino. L'educazione al ministero contiene da una parte un continuo incoraggiamento all'audacia della fede al di là delle capacità umane, ma d'altra parte un perdurante ammonimento a non ascrivere il successo a se stessi e a non scambiare l'incremento dell'operare di Dio attraverso il funzionario con la sua propria crescita in « virtù » e « perfezione ». Nascondi Fino all'ultimo Pietro viene umiliato; anche l'ultima parola del Signore a lui, dopo il suo giuramento d'amore, è un secco « A te che importa? » ( Gv 21,22 ). Queste umiliazioni significano per Pietro e i suoi pari l'indispensabile aiuto della Grazia ad essere nel ministero veramente servitori di tutti ( Mt 20,27 ), e in ciò, nell'intensa esecuzione dell'incarico, a esser conscio che egli non è mai corrispondente a ciò che dovrebbe. « Si riterrà [ il padrone ] obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare » ( Lc 17,9-10 ). Non c'è per il ministero conferito nessuna umana forma di vita che corrisponda pienamente alla grandezza dell'incarico divino. Come dovrebbe un uomo corrispondere al fatto che egli può amministrare la parola di Dio, può distribuire le grazie di Dio, può dire in nome del Figlio: « Questo è il mio corpo » e: « Ti assolvo dai tuoi peccati », al fatto che egli può sciogliere e legare in modo tale che la sua azione viene patimenti eseguita in cielo? Solo la coscienza, penetrante sino in fondo al suo essere, di un'irrecuperabile indegnità può essere la balbettante risposta dell'eletto al ministero conferitegli. E questo sebbene egli debba impegnarsi, per dovere e per gratitudine, a lasciare che Dio stesso cambi forma a tutta la sua esistenza nel senso del suo ministero. Questa evidenza dell'assoluta inadeguazione tra persona e ministero resta punto di partenza e punto d'arrivo dell'autorità ecclesiale. Essa aiuta colui che è caricato del ministero a portarlo, e colui che deve obbedirgli a scorgere attraverso la persona ( anche attraverso le debolezze di colui che riveste l'ufficio ) il divino che egli amministra. L'amore del Signore, che conferisce alla Chiesa questa forma di autorità ministeriale, è per entrambi il contenuto e la ragione sufficiente dell'esistenza del ministero; solo così viene garantita l'integrità della presenza dell'amore redentore come sacrificio, come verità e come signoria. La forma in cui questo amore viene reso presente nella Chiesa significa necessariamente anche una certa mutata continuazione di ciò che è veterotestamentario. Fintanto che gli uomini sono peccatori non si può prescindere dalla forma dell'autorità, neanche quando l'amore perfetto è il contenuto e il fine dell'obbedienza autoritativa. Nascondi Un momento di timore - poiché la sanzione per la non osservanza della competenza ministeriale le viene insieme data, lungo la via: « Chi disprezza voi, disprezza me » ( Lc 10,16 ) - non è da pensare come eliminabile dal ministero ecclesiastico. La forma dell'autorità è inseparabile dal Nuovo Testamento, poiché il Signore entra in scena con l'autorità del Padre come un giudice e separatore, e perché il suo ufficio non è quello, qui sulla terra, in mezzo al disprezzo e al rinnegamento di Dio, di far sciogliere tutto a contatto con l'amore. Come la ebbe il Redentore fino alla croce, così la Chiesa ha una figura adeguata al mondo che si trova nel peccato. Nascondi Certo « nell'amore non c'è timore; al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore » ( 1 Gv 4,18 ). Ma chi di noi ha poi amore perfetto? Chi non ha bisogno continuamente anche del timore? E precisamente un timore della massima serietà, come quello con cui Paolo intende adombrare anche le sue immagini più luminose ( Gal 6,12; Eb 6,4ss; Eb 10,26-31 ), e che fino all'irruzione del mondo nuovo ( Ap 21 ) in incalzanti visioni di terrore non cessa mai di animare la Rivelazione e attualizza così ancora una volta alla fine della Scrittura l'intera dottrina del giudizio finale dell'Antico Testamento. Alla fine però la forma dell'autorità diventa il nucleo dell'amore neotestamentario, poiché proprio l'opera della redenzione si compie, come abbiamo visto, in questa forma ministeriale. Diversamente che nella durezza del sacrificio dell'obbedienza non era ripristinabile l'originaria obbedienza d'amore dell'Eden, che adempiva il comandamento di Dio come la cosa più ovvia. Nell'Eden l'obbedienza all'autorità di Dio non si era distinta dal semplice atteggiamento della fede e dell'amore. Se allora fossero stati impartiti da Dio a singoli uomini incarichi obbliganti per tutta la comunità, sarebbe ancora una volta stato sufficiente l'amore per fornire gli incaricati della necessaria autorità e per farli apparire degni di fede davanti agli altri. Solo il peccato ha provocato la fuoriuscita dell'elemento formale dell'obbedienza dall'amore vissuto in pienezza e felicità; così esso dovette essere messo a nudo sulla croce e poi impersonato nel sacerdozio ministeriale della Chiesa. La dimensione ministeriale si tende così tutt'attorno alla distanza fra l'amore perfetto e quello imperfetto: se esso è nella Chiesa espressione del fatto che l'amore pieno non è raggiunto ( poiché l'oggettività dell'opus operafum supera in ogni aspetto la misura della dedizione soggettiva ), nella Croce esso è il segno che la dedizione soggettiva è giunta sino alla sottomissione nella cieca obbedienza. I due aspetti del ministero non sono nella Chiesa nettamente separabili. Non c'è qui una « obbedienza forzata » per gli imperfetti e là una « obbedienza d'amore » per i perfetti. Piuttosto il ministero ecclesiale sottende entrambe le forme, essendo esso ordinato a condurre dolcemente ma inesorabilmente attraverso i molteplici gradi di coercizione verso la spontaneità, e attraverso il « timore » verso la mancanza di timore. Ed è del tutto possibile che l'autorità ecclesiale si dia dolce e pena d'amore verso la persona nei riguardi di uno che è imperfetto, mentre nel caso di un progredito essa non ha più bisogno di usare questa concessione, e lo mette a confronto perciò con la pura ministerialità, corrispondentemente alla sequela della Croce. Così poi anche l'obbedienza dello stato dei consigli, che di fronte a quella comune a tutta la Chiesa è fatta risaltare come qualcosa di speciale, come pura espressione d'amore e non come opera di timore, può tuttavia ultimamente non avere altra forma che quella dell'obbedienza cristiana in generale, quale viene richiesta ad ogni cristiano nei confronti del ministero ecclesiastico: sottomissione dell'intelletto e della volontà nella fede e nell'amore sotto una legge che certo è imposta dall'amore, ma che non necessariamente ha bisogno di venir vista e sperimentata continuamente come amore. E l'obbedienza ecclesiale ministeriale tenderà, corrispondentemente alla sua ultima tendenza, alla forma dell'obbedienza secondo i consigli, poiché nella sua totalità essa è una derivazione e una ripresentazione della pura obbedienza d'amore del Signore. Stato sacerdotale e stato dei consigli L'elezione al sacerdozio come ministero oggettivo nella Chiesa e l'elezione allo stato dei consigli come forma di vita soggettiva della sequela di Cristo sono ambedue forme d'espressione dell'unico stato d'elezione ecclesiale. Ambedue debbono perciò anche corrispondere alle strutture generali di questo stato, per quanto esse possano anche essere rette da leggi speciali. Sarà bene, se si vuol descrivere le loro complesse relazioni reciproche, prescindere dapprima da ogni valutazione e accontentarsi di presentare solo la struttura comune e poi quella specifica di entrambi gli stati. Perciò deve ora seguire dapprima una descrizione di queste strutture, quale risulta dai presupposti prima enunciati. Poi quanto detto verrà esaminato alla luce dell'insegnamento della Scrittura. Da ultimo può essere utile occuparci sommariamente della discussione storica su questa questione. Qui verrà dapprima mostrato il percorso che va dagli inizi fino alla definitiva separazione nell'alto Medioevo, poi verrà sviluppata la dottrina della Scolastica, e infine la problematica attuale. Qualcosa di conclusivo circa il rapporto fra i due stati d'elezione verrà detto soltanto allorché anche lo stato laicale sarà stato incluso nel confronto ( nel capitolo finale: « Stato dei consigli, stato sacerdotale, stato laicale » ), a) Forma di vita ed ethos Il sacerdozio è primariamente una funzione ecclesiale, un ministero oggettivo, e in base a questo è in seguito una personale forma di vita. Lo stato dei consigli è primariamente una personale forma di vita, che in seguito diventa una forma di vita ecclesiale e con ciò analoga al ministero, obiettivamente anonima. Comune a entrambe le forme è che esse - fondate da Cristo nel medesimo atto - sono forme di elezione speciale, obbligano l'eletto ad un totale e di per sé irrevocabile legame ad una legge di vita superiore al soggetto: il prete attraverso la consacrazione sacramentale, colui che vive nello stato dei consigli attraverso la professione dei voti e l'assunzione di una regola che dia forma alla vita. A ciò che è comune appartiene così anche una tensione mai del tutto eliminabile fra forma oggettiva, soprannaturale - per il prete il ministero, per chi vive secondo i consigli la regola a cui si ha solennemente promesso fedeltà - e la persona collocata in questa forma, che deve adattarsi alla forma come ad un canone di vita, senza mai però poter coincidere con essa. Questa tensione è il destino speciale di ogni inviato, la cui soggettività sta nel puro servizio alla missione oggettiva, per orientarsi secondo le sue leggi, necessità ed esigenze e realizzare così l'essenza della fede, che vive più in Dio che in se stessa, guarda più all'unità dell'esistenza in Dio che al dualismo di essere e dover essere, quale si spalanca ad un « ragionevole » sguardo su di sé. All'interno di questa unità strutturale possono ora venire registrati più chiaramente i già menzionati tratti distintivi. Il sacerdozio è primariamente funzione e ministero; al punto che la cosa prima e permanente è l'incongruenza tra l'assoluto della funzione e la relatività del suo portatore. Anche solo mirare ad un pareggio fra i due fino a farli coincidere sarebbe presunzione e mostrerebbe che non si è capito cos'è la funzione. La funzione del ministero sacerdotale all'interno della Chiesa vive del fatto che essa è di più di quanto un qualsiasi uomo, anche col massimo impegno, può raggiungere e rappresentare da sé. Nel sacerdozio la dimensione ministeriale e perciò impersonale del portatore deve rimaner visibile, affinché attraverso di lui si irradi tanto più fortemente la personalità di Cristo. Quanto più il prete si pone a disposizione del suo ministero senza sue proprie accentuazioni, per vivere solo della sua funzione, tanto meglio egli la adempie. In tale dedizione il prete « perde la sua anima », compie quindi l'azione d'obbedienza della sua soggettività, quale è necessaria in ogni speciale elezione e missione. L'autorità che viene amministrata e rappresentata dagli esponenti ecclesiastici è quella di Cristo, il Redentore, che si fece obbediente sino alla morte. Non soltanto essa esige obbedienza, ma è nella sua stessa essenza obbedienza. In tal modo essa può solo piegare tanto più profondamente colui che la porta nell'obbedienza di Cristo. Nascondi Ma essa non è solo autorità come servizio, bensì espressamente autorità per il servizio, partecipazione alla responsabilità del divino pastore, che dà la sua vita per le sue pecore ( Gv 10,15 ) e nella trasmissione del suo amore e della sua responsabilità di pastore si aspetta dai suoi che « come egli ha dato la sua vita per noi, anche essi diano la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ). Elezione al sacerdozio è equivalente a « servizio sacrificale alla vostra fede » ( Fil 2,17 ), « consacrazione delle energie di vita » alla Chiesa ( 1 Ts 2,8 ), fino alla « follia », affinché la Chiesa sia assennata, allo « smacco », affinché essa sia onorata, ad essere « rifiuto di tutti », affinché essa sia così purificata e senza macchia ( 1 Cor 4,10-13 ). Ma questo servizio al ministero non è nel caso del prete, come abbiamo detto, il tentativo di identificarsi come soggetto col ministero, di far coincidere in sé col massimo impegno ufficio e persona, per essere così « all'altezza » del proprio ufficio. L'esistenza sacerdotale viene piuttosto fondata definitivamente, come viene presentato nell'ultimo capitolo nei confronti di Pietro, nell'aperta discrepanza tra ministero e persona, e perciò in un ethos che sorge radicalmente dall'umiltà e viene mantenuto vivo da una sempre nuova umiliazione, che apre e rinnova il permanente scarto tra dignità ministeriale e prestazione soggettiva. L'impegno del prete ad essere degno del suo ministero, lasciando così che la sua soggettività ancor più di prima si disfi e scompaia in esso, non dovrà aspettarsi altro compenso che la coscienza che non egli è all'altezza del ministero, ma il ministero ha potuto affermarsi in lui nonostante la sua insufficienza. Nell'ethos del prete domina fino all'ultimo la contrapposizione di ufficio e persona, uno statico dualismo che nessuno sforzo esistenziale può superare e nemmeno smorzare. La sua dedizione conserva primariamente la forma dell'umiltà. Lo stato dei consigli non è funzione, bensì ripresentazione di Cristo nella forma di vita dei voti. In povertà, verginità e obbedienza colui che è stato a ciò eletto può rappresentare nella Chiesa e per la Chiesa la via del Redentore, rinunciare a tutto ciò a cui Cristo ha rinunciato, per testimoniare con l'offerta della propria esistenza la viva continuità della risposta ecclesiale che aderisce alla chiamata della parola e dell'essere di Cristo. Se nel sacerdozio viene posta a disposizione della Chiesa intera l'azione del Capo della Chiesa nella sua integrità e ogni giorno nuova attualità, attraverso membri eletti della Chiesa, nella vita secondo i consigli diventa visibile, in base alla medesima « gratia capitis », la personale cooperazione dei membri del Corpo Mistico ( nella misura in cui la Grazia può diventare visibile ). Anche la forma in cui viene immessa la soggettività dell'uomo che vive nello stato dei consigli è una forma oggettiva, superiore alla misura e alle possibilità della persona, una forma anonima ( come regola obiettiva ), che diventa per la soggettività l'occasione desiderata per aderire ad essa e in essa perdersi. Ma poiché questa forma non è più qui funzione ministeriale in mano a Cristo, ma forma personale della dedizione redentrice di Cristo stesso, la « perfezione » di colui che è stato a ciò eletto deve consistere nello sforzo di appropriarsi sempre più di questa forma, di far divenire sempre più piccolo lo scarto fra essa e sé. Ciò a cui egli tende è la dedizione incondizionata, che gli viene presentata come forma della regola; e quanto più perfettamente egli mantiene i suoi voti, tanto più egli viene conformato all'atteggiamento redentore e così all'opera redentrice di Cristo. Così egli personifica nella Chiesa, di fronte al sacerdozio oggettivo e funzionale del ministero, il sacerdozio soggettivo, senza ufficio, dell'amore e ripresenta così nella sua vita il Signore, come il sacerdote ministeriale lo rende presente oggettivamente ( nella predicazione, Messa, Sacramenti e cura pastorale ) in forza della sua potestà. « Se io rinuncio a tutto quello che possiedo e prendo su di me la mia croce e seguo Cristo, ho « offerto un sacrificio sull'altare di Dio », o se offro la mia vita alle fiamme e ho la carità, ( … ) se amo i miei fratelli sino a donare la mia anima; se io « combatto sino alla morte per la giustizia e la verità », ho « offerto un sacrificio sull'altare di Dio ». Se io « mortifico le mie membra » da ogni concupiscenza della carne, se « per me il mondo è crocifisso e io lo sono per il mondo », ho « offerto un sacrificio sull'altare di Dio » e sono diventato sacerdote della mia propria offerta » ( Origene, in Levit hom 9,9, Baehrens 6,436 ). « Ci sono alcuni, delle tribù di Israele, che attraverso i leviti e i sacerdoti offrono le « decime » e le « primizie », ma non godono essi stessi delle decime e delle primizie. I leviti e i sacerdoti, che da tutto trattengono per sé le decime e le primizie, offrono a Dio le decime e, come penso, anche le primizie attraverso il sommo sacerdote. Fra di noi, però, che siamo entrati alla scuola di Cristo, i più sono quasi sempre occupati con le cose di questo mondo ed elevano solo poche azioni verso Dio ( … ) Quelli che invece attendono alle parole divine e stanno regolarmente a servizio di Dio solo possono venir definiti leviti e sacerdoti. » ( id., in Joh comm. 1,3, Preuschen 4,5 ). Questo sacerdozio interiore e soggettivo ha il suo centro nella sempre dinamica adeguazione di tutta la vita personale alla forma oggettiva dell'offerta nella regola, nell'impegno giorno per giorno nuovo di lasciare che ciò che una volta per tutte è stato promesso col voto si realizzi. Anche questa forma di vita è fondamentalmente senza termine, poiché la perfezione della dedizione di Cristo ci sta davanti agli occhi non altrimenti che in un eternamente aperto tendere verso di essa. Questo tendere diventa così la forma distintiva dello stato dei consigli: esso è e rimane fino all'ultimo status perfectionis acquirendae, di quella perfezione che l'uomo ha promesso nel voto di assumere come forma di vita, per adattarsi ad essa all'infinito. Fa parte del concetto di perfezione cristiana il fatto che essa non diventa mai una mèta raggiunta, al di là della quale non sarebbe più possibile aspirare ancora a qualcos'altro, ma consiste invece nella « perfezione del tendere verso la perfezione ». E questo non solo a motivo dell'imperfezione dello stato peccatore dell'uomo sulla terra, ma proprio a causa di una proprietà caratteristica essenzialmente di Dio e della sua Grazia: l'essere « sempre di più », « sempre più grande » di ciò che può venir raggiunto. Così anche le elezioni e le missioni neotestamentarie, corrispondentemente alla partecipazione cristologica alla natura divina, non sono più internamente limitate come quelle veterotestamentarie e perciò nemmeno sono da assolvere una volta per tutte, per poi lasciarsele dietro le spalle. Così già Origene interpreta il « semper sperabo » nel senso di un interminabile progredire ( Comm in PS 70,14, Pitta, Ana-lecta Sacra 9,91 ). Così Ireneo fa continuare nell'eternità non solo la carità, ma anche fede e speranza, poiché « al di là di tutto Dio deve essere sempre il più grande ( … ) e questo non soltanto in questo mondo, ma anche in quello futuro, affinché Dio rimanga sempre colui che insegna, e l'uomo come allievo impari sempre da Dio » ( Adv. haer., 2,28, 3 ), e giunge sino ad un'equiparazione di « andare » e « stare » ( ibid., 5, 8,3 ). Anche i beati « riceveranno il Regno continuamente e in esso progrediranno continuamente » ( ibid., 4,28,2 ). Così Gregorio di Nissa descrive la stessa beatitudine eterna come infinito tendere verso Dio, e pone sullo stesso piano « nostalgia » e « visione » ( In cant. hom. 8, PG 44,941s; hom. 6, PG 44,89 ). Per ulteriori esempi cfr. il nostro studio « Présence et Pensée » ( Parigi 1942, 67-80 ). È anche la formula di Agostino: « ut inventus quaeratur ( Deus ) immensus est » ( In Joh tr 65,1 ). Nascondi E commentando le parole di Paolo ( Fil 3,6-16 ), che ora dice di sé non pensa di aver raggiunto la perfezione, ma dimentica ciò che sta dietro di lui e tende a ciò che sta davanti a lui, ora invece parla di nuovo di sé come di uno che è perfetto; « Prima si diceva imperfetto, adesso perfetto. Per nessun altro motivo che per il fatto che la perfezione dell'uomo consiste nell'aver scoperto di non essere perfetto ( … ) Nascondi E se voi forse ad un qualche grado di progresso spirituale vi ritenete perfetti, potete d'altra parte, leggendo la Scrittura e trovando che cos'è la perfetta giustizia, scoprirvi peccatori, condannare il presente nel tendere al futuro, vivere di fede, speranza e carità ( … ) fino a ereditare un'insaziabile sazietà senza noia: in eterno diventiamo affamati e in eterno siamo saziati » ( Sermo 170 ). Così parla sempre Agostino ( In 1 Job tr. 4; Sermo 15 de Verbis Apost.; Sermo 50 de tempore, liber de Cant. novo ). Così Cassiano ( collatio 1, cap. 7 e 13 ). Così Gregorio Magno ( In Ezech. hom. 13 ). Così ( pseudo ) Bernardo ( tr. de vita solit. ), riassumendo la dottrina e rivolgendola allo stato religioso: « Ab omnibus vobis perfectio exigitur, licet non uniformis; sed si incipis, incipe perfecte, si iam in profectu es, et hoc ipsum iam perfecte age; si autem perfectionis aliquid attigisti, teipsum in temetipso metire et die cum Apostolo: « non quod iam apprehenderim aut perfectus sim ( … ) Quotquot ergo perfecti sumus, hoc sapiamus. » In quo manifeste Apostolo docente declaratur, quia perfecta eorum quae retro sunt oblivio, et perfecta in anteriora extensio, ipsa est hominis iusti in hac vita perfectio ». E concisamente nella lettera 253: « Indefessum proficiendi stu-dium et iugis conatus ad perfectionem perfectio reputatur ». Al di là di questa perfezione dinamica non ce n'è nessuna superiore, statica, da cercare. E questa dinamica personale, all'interno della medesima tensione generale tra forma di vita assunta e sforzo soggettivo di dedizione, è l'atteggiamento che contraddistingue lo stato dei consigli. Nascondi Se Pietro non supera nel suo ministero la brusca antinomia tra funzione e corrispondenza personale, se egli nel suo primo incontro col Signore viene scaraventato immediatamente dalla persona ( « Tu sei Simone, il figlio di Giona » ) nel ministero ( « Ti chiamerai Cefa, Pietro », Gv 1,42), viene invece presentato subito Giovanni ( egli è certo il primo discepolo, quello senza nome ) nel movimento dinamico del seguire ( « essi seguirono Gesù » ), del venir invitato e andare con lui ( « Cosa cercate? » « Dove abiti? » « Venite e vedete », Gv 1,37-39 ). Da questa caratterizzazione è divenuto chiaro che ambedue, sacerdozio e stato dei consigli, hanno la loro propria legge all'interno dell'unica forma d'elezione. Ambedue sono, come forma ecclesiale, un puro dono di Dio agli uomini, ma nel sacerdozio l'uomo viene esigilo da Dio più strumentalmente e deve consegnarsi al ministero quasi senza proferir motto, nello stato dei consigli invece il dono assume più espressamente la forma del poter rispondere personalmente. Nel sacerdozio è talmente funzione, che Dio può operare anche attraverso uno strumento recalcitrante. Nello stato dei consigli il dono assume di più la colorazione dell'amore reciproco, in cui Dio non va avanti se l'uomo non segue volontariamente. Se ambedue stanno in una speciale tensione di essere e dover essere, nel prete prevale tuttavia l'essere, nell'uomo dei consigli il dover essere. Si possono caratterizzare i due stati nella loro distinzione e reciproca appartenenza anche a partire da ciò che fu detto a proposito dello « stato di Cristo » circa il suo rapporto con lo Spirito Santo. Da una parte la vita terrena di Gesù comincia col fatto che egli si lascia incarnare per opera dello Spirito Santo e conserva lo Spirito Santo in sé e sopra di sé come regola durante la vita intera, o detto altrimenti: che egli aderisce al Padre così profondamente che, insieme col suo proprio esser Figlio, riceve anche la possibilità di spirare insieme col Padre lo Spirito Santo. Nascondi Questo profondamente umile esser aperto per il Padre e per lo Spirito che, come regola di vita, promana da Lui è l'atteggiamento originario della vita secondo i consigli: obbedienza in povertà e purezza nei confronti dell'insuperabile « Padre più grande » ( Gv 14,28 ), e questo nell'eterno movimento del Figlio verso il Padre all'interno dello Spirito, che questo Spirito soffi dal Padre verso il mondo e indichi l'Inviato oppure oramai dal mondo verso il Padre. Dall'altra parte la vita terrena di Gesù sfocia nello spirare lo Spirito Santo della missione - prima sulla croce, poi a Pasqua e nell'Ascensione al Padre -, e di questo ( post-pasquale ) Spirito della missione vive lo stato sacerdotale, che ha da comunicare lo Spirito primariamente a livello ministeriale, in una totalità a cui esso esistenzialmente non può mai corrispondere, sebbene debba tentare di corrispondervi meglio che può. Da ciò viene di nuovo posto in luce, però, che le due forme d'elezione così come sono costituite si rapportano tuttavia l'una all'altra anche in maniera, complementaria. Nella misura in cui il sacerdozio è funzione oggettiva a servizio del sacerdozio di Cristo, invoca di per sé un completamento personale, che non può esser altro che l'incondizionata dedizione che include in sé il voto fondamentale insito in ogni amore, la rinuncia a tutto ciò che si ha di proprio. Il prete, che d'ufficio è rappresentante della grazia redentrice di Cristo, non può rispondere a questa grazia altrimenti e meglio che con l'essere anche soggettivamente uomo sacerdotale nel senso di Cristo, cioè, come abbiamo visto, uno che nel completo olocausto della sua vita sta a disposizione di Dio e degli uomini. Non c'è nessuna etica presbiterale che in nucleo possa avere altro contenuto che la totale espropriazione dei propri interessi privati e hobby, per essere puro strumento delle intenzioni di Cristo con la Chiesa. Simile dedizione è contenuta inclusivamente nella decisione di diventar prete; nel dono della grazia sacramentale e del carattere incancellabile è donata al prete e da lui richiesta e attesa altrettanto quanto essa giace nella irrevocabilità dei voti. In nessun modo si può dire che la funzione presbiterale, presa di per sé, richieda una dedizione meno grande e completa che la grazia dell'elezione alla vita secondo i consigli. È piuttosto vero il contrario: la grandezza della vocazione al sacerdozio esige dall'eletto la più piena dedizione di cui un uomo sia capace, e solo allorché egli ha dato tutto, ma realmente tutto, si potrà definire servo inutile, ma pur sempre utilizzabile. Che egli pronunci espressamente i voti oppure no, deve in ogni caso, in risposta alla grazia del Signore, mettere tutto ciò che è suo a disposizione di Dio. Egli cercherà dunque la sua « perfezione », cioè la giustezza del suo servizio, in niente di diverso rispetto a colui che è stato eletto allo stato dei consigli, vale a dire nella povertà, verginità e obbedienza. Certo la maniera della spersonalizzazione, della rinuncia alla configurazione in proprio della vita e dell'attività si conformerà per lui alla particolare anonimità tipica del carattere funzionale del suo ministero. L'espropriazione esteriore e interiore di un membro di un ordine religioso, attraverso i voti, mira di più ad una generale disponibilità e libertà per ogni forma di conformazione al Signore, quale può venir disposta tanto da Dio nella contemplazione, quanto dal superiore per l'azione. Il membro di un ordine religioso vive in una continua indifferenza nei riguardi di qualsiasi configurazione che attraverso l'ordine stesso e all'interno della generale forma dell'ordine gli possa venir conferita da Dio o dai superiori. Questa è la forma particolare della sua « umiltà » - come « coraggio del servizio » -, di cui tutte le grandi regole degli ordini religiosi concordemente parlano, e che è un coraggio di compiere quel servizio che nella preghiera o in un atto esteriore gli può venir imposto. Il divenir anonimo del prete secolare è di un'altra specie, sebbene l'atteggiamento di fondo del sacrificio della propria « personalità » sia lo stesso: è l'adeguamento della persona alla di per sé già anonima funzione. Nelle loro funzioni i preti sono ampiamente interscambiabili, e quanto più trasparente è la loro sostanza spirituale, quanto più essi sono permeabili allo Spirito, quanto meno intorbidano con la pesantezza della loro cosiddetta personalità ( o addirittura del loro « ideale di personalità »! ) la pura attualizzazione del divino, tanto più essi saranno preti ideali. Questo puro stare a servizio nel senso del loro ministero per tutte le necessità di Dio e della Chiesa ha necessariamente come sua anima lo spirito - espresso come voto oppure no - della povertà, della verginità e dell'obbedienza, ma nella particolare colorazione determinata dal ministero. È chiaro che questa anonimità ministeriale che rende il prete strumento nelle mani di Dio e della Chiesa non lo dispensa affatto dallo sviluppare e impegnare le energie del suo spirito. Esse sono la cosa più preziosa che di suo egli può porre a servizio di Dio, e sarebbe ingratitudine rifiutarle a Dio. Ma la misura e il modo del loro dispiegamento stanno fondate completamente nell'apostolato del prete. Anche le sue vacanze, anche il tempo che egli può e deve dedicare a ciò che è disinteressatamente bello e piacevole, rimangono circondati dalla legge superiore del suo servizio: è riposo per un migliore servizio. Questo si differenzia contenutisticamente in molteplici modi da quello di coloro che vivono nello stato dei consigli, per cui di conseguenza ciò avviene anche per quanto riguarda rispettivamente la concreta maniera di lavorare e di riposare. Ma comune ad entrambi è l'esclusività del servizio e la rinuncia a qualsiasi oasi riservata di pura esistenza privata o di interessi personali. Nessun prete può mai dire che ha lavorato abbastanza; nell'aperto comparativo in cui il suo ufficio lo colloca egli incontra l'ethos della vita secondo i consigli, e quanto più delle sue sostanze egli offre al servizio, tanto più viene usato di esse per la fecondità di questo servizio. In ogni predica, in ogni amministrazione dei sacramenti egli può distribuire e donare non solo il Signore e il suo Spirito, ma all'interno di questo Spirito anche se stesso. Egli non verrà usato invano; ogni suo nascosto sacrificio verrà inserito nella divina fecondità a cui egli serve. Che il suo servizio sia ricco di successo oppure no, egli ha la certezza che tutto verrà usato. All'assolutezza in cui egli d'ufficio è posto e che egli non può né diminuire né aumentare, si aggiunge la relatività della sua prontezza. Se quella fu difesa con ragione da Agostino contro la relativizzazione ad opera di Donato, si deve però sottolineare, non appena questa è acquisita, la fecondità soprannaturale della prontezza sacerdotale al sacrificio. Senza dubbio un buon prete comunica più grazia che uno cattivo, non solo perché questo suscita scandalo e allontana i credenti dalla via della salvezza, ma perché già per essenza al prete che vive in grazia viene donata più grazia da distribuire che a quello che è fuori della grazia. In ambedue gli stati d'elezione il compito consiste così nell'armonizzare un comportamento soggettivo con una forma o funzione oggettiva ricevuta in dono. E ambedue le forme di vita sono create dal Signore della Chiesa e pensate per essa. Ma le due forme come tali non tendono a coincidere, bensì conservano qualcosa della contrapposizione di movimenti che già osservammo tra lo stato dei discepoli e lo stato del popolo credente. Le persone che vivono nello stato dei consigli sono pur sempre di per sé « laici », e non sta nella linea del loro ideale il tendere al presbiterato. Le donne non lo possono affatto, e fondatori di ordini religiosi come Benedetto, Francesco d'Assisi e altri non lo vollero. Come già abbiamo detto, il prete rappresenta prevalentemente nella sua funzione il capo della Chiesa per il corpo e deve perciò secondo le possibilità conformare la sua esistenza a quella del Capo. L'uomo nello stato dei consigli rappresenta prevalentemente il corpo, la Chiesa sposa; egli è fermento in mezzo al popolo, e dovrebbe secondo le possibilità conformare il sì della Chiesa nel suo insieme al sì di Maria, che a sua volta trae la sua misura dal Figlio. La spersonalizzazione di chi vive nello stato dei consigli è non tanto, come invece è quella del prete, servizio alla Chiesa, quanto piuttosto servizio della Chiesa stessa. Vivere nello stato dei consigli è molto meno un mezzo per raggiungere gli scopi personali del singolo che tende alla « perfezione », che piuttosto un'espressione di ciò che la Chiesa nella sua purezza dovrebbe essere e fare per ricevere nella maniera più adeguata possibile quello che, sempre anche con la mediazione del prete, le perviene. In tal modo le due forme di vita eletta mirano l'una all'altra. Non quasi che siano così opposte da non poter essere ambedue insieme espressione di esistenza cristiana, poiché anche il prete appartiene primariamente alla Chiesa, è « presbitero », esponente della comunità, prima che esser eletto e ordinato per il suo « episcopo », preposto e superiore. La sua elezione al ministero è secondaria rispetto alla sua elezione a « essere presso il Signore » e ad accompagnare con l'intera esistenza il Suo servizio redentore. Ma per lui questo stare a servizio mira all'assunzione della funzione ministeriale, in cui egli deve rappresentare il Signore presso i suoi fratelli. In questa funzione egli deve « perdersi ». La persona nello stato dei consigli, invece, « si perde » nel servizio al sì della Chiesa, e racchiuso in esso anche al sì che dovrebbero pronunciare nella Chiesa i ministri sacerdotali. Che questa reciprocità corrisponde già all'intenzione del Signore può confermarlo uno sguardo al Vangelo. I due stati d'elezione nel Nuovo Testamento Già la prima descrizione dell'elezione dei discepoli lasciò trasparire quanto nel Vangelo l'unità delle due forme d'elezione sovrasti ogni successiva distinzione. Da una parte c'è qui un'unione personale tra gli eletti al sacerdozio e quelli allo stato dei consigli. È l'unica e medesima separazione dal mondo e dalla folla, in cui i discepoli ricevono la chiamata alla sequela esistenziale e il conferimento del ministero. E le promesse che ad essi vengono date, che riguardano loro stessi, il loro futuro operare, l'assistenza del Signore, il loro destino di gente esposta, perseguitata, vittoriosa nella perdita di sé, valgono in inseparabile unità per essi come persone consacrate e come persone contrassegnate dal ministero. Quella speciale fecondità che, poiché essi hanno lasciato tutto e hanno seguito il Signore, viene ad essi promessa come il centuplo di ciò che nel mondo, nello stato laicale, avrebbero potuto fare, è certo in primo luogo il compenso per la loro totale dedizione, il loro coraggio di rinunciare a tutti i beni di questo mondo. Nascondi Infatti questa scena si pone espressamente di fronte alla scena del giovane ricco che non ha seguito la chiamata allo stato dei consigli ( Mt 19,27-30 ). Ma nella stessa promessa si dice anche: « In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele » ( Mt 19,28 ). Le stesse parole ai dodici Apostoli le riferisce Luca durante la scena dell'ultima Cena, anteponendo ad esse la frase: « Io preparo per voi il regno, come il Padre l'ha preparato per me » ( Lc 22,29 ). Possiamo lasciare aperta la questione, quale preciso significato Gesù attribuisca a questo numero dodici. Le dodici tribù già da lungo tempo non esistono più; il numero rappresenta perciò in primo luogo l'Israele originario, ideale, anche qualitativamente completo, integrale. A ripristinare questo Israele qualitativo come il perfetto popolo di Dio era Gesù venuto, e i suoi discepoli eletti dovevano dapprima formare con lui le primizie di esso. Giudici sarebbero stati allora come allineatori, linee direttrici. Solo allorché il ministero di Gesù richiamò l'attenzione in misura sempre crescente sulla croce, apparve chiaramente, dalla loro rappresentatività universale, la ministerialità ecclesiale dei Dodici. Essa è pienamente sviluppata nella consapevolezza degli Undici dopo la resurrezione del Signore, ad esempio nel discorso in cui Pietro propone la sostituzione del traditore nel collegio dei dodici: « Egli era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero ( … ) nel libro dei Salmi sta infatti scritto: ( … ) il suo ufficio di testimone lo prenderà un altro ». Nascondi E poi pregano per coloro che sono stati proposti per l'ufficio: « Signore ( … ), mostra quale di questi due tu hai designato a prendere il posto in questo ministero e apostolato » ( At 1,17-20-24-25 ). D'altra parte Giovanni, nell'Apocalisse, dove il promesso giudicare insieme con Cristo viene descritto come una realtà raggiunta, vedrà i troni, innalzati in una specie di indeterminatezza, affidati a tutti coloro che hanno combattuto e vinto insieme con Cristo: « Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono » ( Ap 3,21 ). « Poi vidi alcuni troni, e a quelli che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare. Nascondi Vidi anche le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la bestia e la sua statua e non ne avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano » ( Ap 20,4 ): le anime dei martiri e dei confessori. Sono coloro « sui quali la seconda morte non ha potere alcuno » ( Ap 20,6 ), poiché essi già in questo mondo sono definitivamente morti con Cristo e hanno preso parte alla sua resurrezione nel cielo. Sono i santi, che « hanno disprezzato la vita sino a morire » ( Ap 12,11 ), i medesimi che « sono vergini e seguono l'Agnello dovunque egli va; essi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l'Agnello » ( Ap 14,4 ). Essi sono « beati e santi, ( … ) saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con lui per mille anni » ( Ap 20,6 ), vale a dire per il tempo della Chiesa fino al Giudizio finale. Il sacerdozio di cui qui si parla è un sacerdozio personale, non ministeriale; è la partecipazione delle anime vergini, che senza riserve si sono consacrate a Dio, al Suo giudizio redentore, alla sua conduzione del mondo e della Chiesa. Così il « ministero » promesso nel Vangelo di giudicare insieme col Signore si estende dagli Apostoli a tutti quei santi che a motivo della speciale elezione o della disposizione interiore dei voti ( come i martiri ) hanno parte al sacerdozio esistenziale di Cristo. Nascondi A partire di qui può poi Paolo trasmettere il ministero del giudicare insieme con Cristo a tutti i ( realmente ) santi: « Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? » ( 1 Cor 6,2 ), con la qual cosa egli ha in mente la comunità. Ma certo in modo tale che devono essere considerati come santi quelli che si sono distinti dal mondo, sono morti ad esso e « non appartengono più a se stessi » ( 1 Cor 6,19 ), quelli che dunque vivono dello stesso spirito che per Giovanni è esemplarmente e pienamente impersonato nella verginità sacerdotale. Nell'originaria separazione degli Apostoli dalla folla il Signore esige tutto: l'abbandono di tutto ciò che è proprio e la sequela incondizionata. Nascondi In questo salto totale fuori dal mondo per andare incontro a Lui risiede quella interezza di vita cristiana che rende idoneo l'eletto a divenire nella sua sequela anche ministerialmente pastore buono delle « pecore stanche e sfinite » ( Mt 9,36 ). Egli esige questo salto non solo dai suoi Apostoli, ma da ognuno che voglia far le cose per intero e « voglia seguirlo dovunque egli vada » ( Mt 8,19 ); quindi certamente anche da certuni che non perverranno alla consacrazione sacerdotale. Egli lo esige a fortiori dai suoi preti. Il salto viene continuamente descritto come un « lasciare tutto », di conseguenza come piena povertà, all'interno della « sequela dovunque tu vada », dunque nella piena obbedienza. Nascondi La verginità, come già abbiamo visto, non è urgentemente richiesta dal Signore, poiché i discepoli, provenendo dall'Antico Testamento, sono per lo più sposati, e « l'uomo non separi ciò che Dio ha unito » ( Mt 19,6 ), Gesù stesso non venne « ad abolire la Legge, ma ad adempierla » ( Mt 5,17 ). Nel Vangelo viene accennata qui una prima differenziazione tra sacerdozio e stato dei consigli: quest'ultimo aggiunge alla povertà e all'obbedienza sacerdotale anche la verginità. Nascondi Se perciò Pietro, che è sposato, appare come il rappresentante del sacerdozio ministeriale, gli apostoli Giovanni e Paolo, vergini, sono i rappresentanti designati di quel sacerdozio personale e interiore che sta nella esplicita sequela del sommo Sacerdote ( Eb 9,14 ) che consacra se stesso. Per Paolo, che con tale vigore richiama continuamente l'attenzione su se stesso come modello, sulla sua personale conduzione di vita, questo non abbisogna di spiegazione alcuna. Nascondi Egli si sa e si sente non solo funzionario di Cristo, ma è del tutto consapevole di essere lo « strumento prescelto » che deve soffrire per il Signore ( At 9,15-16 ), che reca nel suo corpo le stimmate di Gesù ( Gal 6,17 ), « portando sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo » ( 2 Cor 4,10 ), e questo in rappresentanza della Chiesa ( 1 Cor 4,9-13 ): « Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo, che è la Chiesa » ( Col 1,24 ). Tutto ciò è sacerdozio assolutamente soggettivo, che si appoggia anche chiaramente alla - consigliata, non comandata ( 1 Cor 7,25 ) - verginità. Nascondi Infatti chi come Paolo è per la comunità un padre ( 1 Cor 4,15 ) e una madre ( 1 Ts 2,7 ) non può, accanto a questo doloroso partorire figli spirituali ( Gal 4,19 ), occuparsi anche nella maniera dovuta di una famiglia secondo la carne. E chi gelosamente si fa garante della verginità spirituale della Chiesa - « io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promesso a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo » ( 2 Cor 11,2 ) - come potrebbe non dare l'esempio con la verginità propria? Come potrebbe egli « prodigarsi volentieri, e anzi sacrificare se stesso fino all'ultimo per le vostre anime » ( 2 Cor 12,15 ) e rallegrarsi di « spargere il suo sangue ( … ) nel servizio sacrificale per la vostra fede » ( Fil 2,17 ), se avesse da preoccuparsi di una moglie e dei figli? Nascondi Ancora una volta però alla fine del Vangelo di Giovanni viene evidenziato chiaramente il rapporto tra un sacerdozio prevalentemente ministeriale e uno prevalentemente soggettivo, e perciò in senso più ampio anche il rapporto tra il sacerdozio ( secolare ) prevalentemente funzionale e lo stato dei consigli che è prevalentemente da eseguire in maniera personale: ciò avviene nella crescente, sempre più simbolica, sequenza scenica fra Pietro e Giovanni, finché entrambi, alla fine, diventano per un certo tempo, all'inizio degli Atti degli Apostoli, una specie di indivisibile unità duplice ( At 3,1-3-11; At 4,13-19; At 9,14 ). Pietro, che incontra il Signore dopo Giovanni e si chiama già allora « figlio di Giovanni ( Giona ) » ( Gv 1,42 ), rimane fino al conferimento finale del suo ufficio in una certa qual dipendenza da lui. Giovanni non si intromette a forza tra il Signore e l'ufficio, ma viene insediato dal Signore stesso nel « ministero dell'amore », che deve mediare fra Lui e il ministero ufficiale. Così Pietro, nella sala dell'ultima Cena, si rivolge a lui, che poggia il capo sul petto del Signore, per pervenire alla per lui importante conoscenza del traditore. E il Signore risponde apertamente e chiaramente, perché egli non lascia senza risposta nessuna domanda che gli venga posta dall'amore. Il mattino di Pasqua Pietro e Giovanni si affrettano insieme verso il sepolcro; l'amore, non appesantito come lo è il ministero, è più veloce nel raggiungere la méta; non sfrutta però la vicinanza concessagli contro il ministero, ma aspetta finché Pietro arriva, lascia entrare lui, ed entra a sua volta solo dopo che Pietro ha terminato il suo controllo ministeriale. Nascondi « Allora entrò anche quel discepolo che per primo era arrivato al sepolcro. Egli vide e credette » ( Gv 20,8 ), cosa che per Pietro non viene espressamente notata. Ancora una volta in occasione della pesca sul lago l'amore è più svelto e comunica al ministero la conoscenza del Signore ( Gv 21,6-7 ). Adesso Pietro può svolgere il suo ufficio e condurre gli eventi: egli si getta in mare per essere per primo presso il Signore, e trae personalmente a Lui la rete con la grande pesca che gli altri discepoli sulla barca avevano portato a riva ( Gv 21,11 ). Sin qui il rapporto fra personale e ministeriale all'interno dell'unità della Chiesa appare bilanciato, nella reciproca sovra - e subordinazione. Nascondi Ma in quest'attimo il Signore pone a Pietro la domanda che ribalta tutto: « Simone, figlio di Giona, mi ami tu più di costoro? » ( Gv 21,15 ). Ciò che qui è incomprensibile è non tanto la domanda circa l'amore come presupposto per il conferimento del ministero, quanto piuttosto il « più di costoro ». Più di Giovanni, il discepolo dell'amore, deve Pietro amare il Signore, per corrispondere a ciò che egli ora riceverà dal Signore. La « polarità » sinora vigente fra ministero e amore è alla fine. Pietro non può più, come ha fatto sinora, affidarsi semplicemente al più grande amore di Giovanni, quando c'è da apprendere qualcosa dal Signore o circa il Signore. Egli non può nemmeno giustificarsi dicendo che il peso del ministero è già grande abbastanza, che egli perciò può lasciare il peso dell'amore, che è di per sé un ministero proprio, a colui che è stato eletto per questo: Giovanni. Egli deve impersonare anche l'amore. Egli deve incorporarlo a sé, come rappresentante della Chiesa intera; non è egli forse responsabile per la Chiesa intera? Le cose non stanno così, che il ministero valga solo per ciò che è esteriore, lasciando ciò che è interiore in dominio dell'amore privo di ministero. E non è nemmeno così, che il ministero governi solo certi ambiti inferiori della sfera religiosa, mentre le regioni superiori, quelle dell'incontro immediato con Dio, le regioni del puro amore e della mistica, sarebbero trascendenti nei confronti del ministero. Ora però è impossibile comprendere qualcosa nelle regioni dell'amore senza viverlo. Nascondi « Chi non ama, rimane nella morte » ( 1 Gv 3,14 ); « Chi non ama, non ha conosciuto Dio, poiché Dio è amore » ( 1 Gv 4,8 ). Ciò ha valore così universale, che il ministero non costituisce qui eccezione alcuna, nemmeno esso. In base a questa domanda del Signore a Pietro gli viene messo a disposizione l'amore più grande di Giovanni. Egli dispone di esso, poiché riceve l'intero ministero; ma può disporne solo appropriandosi egli stesso, personalmente e non solo ministerialmente, di questo amore più grande. Un gesto impegnativo da entrambe le parti deve avvenire: da parte di Giovanni, che per amore al Signore e alla Chiesa trasmette a Pietro, rinunciandovi, il suo primato dell'amore, e da parte di Pietro, che può assumere il suo primato del ministero solo se si appropria personalmente di questo amore più grande di Giovanni. Così la « tensione » tra amore e ministero nella Chiesa è superata. Dove il Signore compie la decisiva trasmissione di poteri, vuole unità. Nascondi Pietro riceverà una funzione, e tutto il suo essere personale aderirà a questa funzione e in essa si perderà: « Tu sei Simone, figlio di Giona; ti chiamerai Cefa ( che vuoi dire Pietro ) » ( Gv 1,42 ). Ma alla fine Pietro viene personalmente chiamato per nome - un nome la cui nascosta simbolica difficilmente sarà sfuggita al quarto Evangelista - e richiesto di giurare un amore personale: « Simone, figlio di Giona, mi ami tu? » Dove l'intero amore di Giovanni si riversa al di fuori di sé, espropriato nella generazione della Chiesa, il ministero viene riempito con la sostanza dell'amore. Viene iniziato all'amore, a questo divino-umano mistero di amicizia e tenerezza fra Gesù e Giovanni, e deve rispondere al Signore donandogli in contraccambio tutta la persona. Pietro dice sì anche perché lo assale l'afflizione per il suo triplice no. Il Signore, però, non solo gli conferisce tre volte il ministero, ma allo stesso tempo anche l'altro dono: quello della sequela fino alla morte. Egli dona a Pietro la sottrazione della libertà: « Quando tu eri giovane, ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi ( … ) Nascondi E detto questo aggiunse: Seguimi » ( Gv 21,18-19 ). Attraverso questa specie di morte, in cui egli perderà la sua libertà tanto fisica quanto spirituale, Pietro glorificherà Dio e potrà in tal modo partecipare al legame di tutto il proprio io, quale lo, conosce e lo ha per nucleo lo stato dei consigli. Colui che può legare e sciogliere deve per primo essere pienamente legato, e sciolto da tutto ciò che non è il Signore. Ciononostante egli non ha cessato di essere Pietro, e non Giovanni. Non ci sarà nessuna fusione fra i due. Lo stato dei consigli non è eliminato dalla realizzazione di Pietro, non è fuso col ministero. Tuttora Pietro vede l'altro discepolo, « quello che Gesù amava, seguirli, quello che nell'ultima cena si era trovato al Suo fianco e gli aveva domandato: « Signore, chi è che ti tradisce? » Nascondi Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: « Signore, che ne sarà di lui? » » ( Gv 21,20-21 ). L'amore offertosi in sacrificio nella Chiesa ufficiale è, dopo il suo sacrificio, ancora qui. E sebbene Pietro abbia ottenuto il ministero sul gregge intero e inoltre la grazia della sequela personale, il Signore gli sottrae il controllo sul destino di Giovanni. « Se io voglio che egli rimanga sino al mio ritorno, che importa a te? Tu seguimi! » ( Gv 21,22 ). C'è questo confine del ministero. Esso ha il diritto di porre domande al Signore, ma deve anche aspettarsi che il Signore non ad ogni domanda ministeriale impartisca informazioni. Egli ha coi suoi prediletti dei misteri che sono così intimi, così ultraterreni, che sfuggono ad ogni altra vista che a quella del Signore. Il ministero ha ottenuto l'amore per arrivare a comprendere che nessun ministero abbraccia il perimetro dell'amore, perché l'amore è sempre di più di quanto si può misurare. Così il ministero ecclesiale può ben richiedere - e addirittura lo deve - di gettare lo sguardo dentro le coscienze delle persone che vivono nello stato dei consigli, persino dei contemplativi e degli anacoreti. Ma solo Dio conosce le grazie che egli dona alle anime a lui consacrate. C'è questo regno interiore che nessun occhio ha visto e nessun orecchio ha udito, e che tuttavia appartiene talmente alla Chiesa che senza di esso la Chiesa verrebbe derubata della sua vita più preziosa, della sua energia più viva. Questo regno « rimane » e deve rimanere fino al ritorno del Signore; ma è a disposizione soltanto del Signore. Ciò non significa affatto, per ripeterlo ancora una volta, l'esistenza di una Chiesa esoterica o pneumatica all'interno o accanto alla Chiesa exo-terica, ufficiale. L'autenticità di questo regno nascosto dell'amore viene garantita solo dalla sua sempre nuova prontezza ad aprirsi e a sottomettersi al ministero. Non è egli stesso a sottrarsi alla conoscenza di Pietro, ma è il Signore che può riservarsi la sfera del segreto. Nascondi Giovanni ha sempre inteso l'amore come un ministero: il ministero di servire « alla signora eletta e ai suoi figli » ( 2 Gv 1 ). Di questo privilegio di amare egli non ha fatto uso altrimenti che per Pietro, per comunicare a questi cosa l'amore può ottenere. Egli, che è stato sotto la croce e là ha ottenuto come dono dell'amico morente la madre, aspetta al sepolcro vuoto finché il tre volte rinnegatore non sopraggiunga, e cede il passo a lui nella contemplazione della Risurrezione. Egli possiede i pieni « sentimenti ecclesiali », poiché ama ciò che ama il Signore, e serve a quello a cui il Signore serve. D'altra parte egli è ben consapevole del suo ministero d'amore. Dopo che egli ha consegnato se stesso e il suo primato dell'amore nel primato di Pietro, l'ultima parola che lo contrassegna è tuttavia una parola del Signore circa questo primato e una umiliazione del ministero. Nascondi E nelle sue lettere Giovanni sviluppa in maniera davvero regale « la legge regale » ( Gc 2,8 ). Egli lo fa in una tale assolutezza, in una così chiusa ( così bastante a se stessa, spiegabile solo da sé ) legalità, che si capisce: se l'amore obbedisce al ministero, segue la sua propria legge, poiché diviene obbediente sino alla morte; il ministero, che da ordini all'amore, lo fa solo affinché esso adempia fedelmente questa sua legge. Certo nella Chiesa l'amore non basta a se stesso, in quanto esso è dipendente dai Sacramenti e da tutte le mediazioni della grazia della Chiesa ministeriale, e in nessun « grado di perfezione » può fare a meno di questa Chiesa ministeriale. Ma la Chiesa amministra le grazie di Dio unicamente per trasmetterle a coloro che amano; la sua autorità è un servizio agli amanti, affinché in essi l'amore cresca. E ultimamente Giovanni stesso è sacerdote; in quanto vergine egli è rappresentante dei « preti regolari » nei confronti del coniugato « prete secolare » Pietro. E come Pietro portò in sé Giovanni allorché egli fu incluso nell'amore più grande, così anche Giovanni porta in sé Pietro. Ma essi effettuano un movimento che va in direzioni opposte. Pietro ottiene un ufficio, e per l'ufficio, per esercitarlo meglio, gli viene in aggiunta donato l'amore. Giovanni impersona originariamente l'amore; così egli segue il Signore fino al Gòlgota e là viene iniziato ai misteri ultimi del sacrificio: a partire dall'aspetto personale egli ottiene l'ufficio di sacerdote. Nascondi Non è in contraddizione con questo il fatto che nel Cenacolo gli Apostoli ricevano insieme la consacrazione sacerdotale ( Gv 17,17-19 ). Infatti per Giovanni, reclinato sul petto del Signore, l'Eucaristia è solo « l'amore del Signore che giunge sino in fondo » ( Gv 13,1 ), il « corpo dato » in anticipo, il « sangue versato per voi » ( Lc 22,19-20 ) in anticipo, anticipazione della croce. Per lui è la personalità dell'amore che si espande nei discorsi d'addio, che si estende a tal punto da diventare il canone di ogni amore e perciò realtà oggettiva che include il ministero. È un fatto della massima necessità che proprio egli incontri sotto la croce la madre del Signore, che proprio egli la riceva dal Figlio come propria, che nell'attimo in cui l'amore profluisce definitivamente fuori di sé venga fondata questa comunità soprannaturale, la cellula originaria di ogni vita secondo i consigli. Il ministero può esser conferito prima o dopo. Non era necessario che sotto la croce fosse presente il protagonista del ministero. Il suo ministero non è un compenso per il suo amore. Esso può venir conferito anche ad un altro uomo fallito. Ultimamente esso è indifferente rispetto alla persona. Ma lo stato dei consigli non poteva venir fondato nell'assenza di coloro che sono chiamati a formarlo. Esso è infatti sacerdozio soggettivo e richiede il coadempimento della Passione e l'assenso tanto alla Croce quanto al nuovo legame in comunità soprannaturale. I membri di un ordine religioso vanno incontro nella Croce l'uno all'altro, e il Crocifisso li unisce nell'amore, in un amore che può essere partecipazione al suo abbandono. Lo stato dei consigli viene infine fondato insieme con Maria, non solo sotto il suo patronato, ma in maniera tale che essa viene espressamente legata alla nuova comunità. Con ciò viene chiarito che essa non soltanto ha parte alla forma di vita della dedizione di sé, ma viene impiantata in essa come sua anima. Ella consacra la forma di stato di vita, facendo diventare quella forma di vita sua propria, così come il Signore trasmette funzionalmente il suo sacrificio al presbiterato, ed ella introduce con ciò anche la donna in generale nella forma di stato di vita ecclesiale che è interiormente sacerdotale, in quanto offerentesi. Mentre Maria insieme alle donne credenti sperimenta ed esegue sotto la croce la liturgia viva e personale ( alla quale i discepoli, tranne uno, rimangono assenti e della quale ad essi verrà dopo trasmessa solo la forma funzionale ), ottiene un posto, per sé e per la donna in generale, nel cuore della vita ecclesiale. Nascondi Se la donna rimane esclusa dal sacerdozio funzionale, e se qui si rispecchia nella Chiesa qualcosa dell'ordine naturale della creazione, secondo il quale « l'uomo è immagine e gloria di Dio, la donna è gloria dell'uomo, ( … ) e non l'uomo fu fatto per la donna, ma la donna per l'uomo » ( 1 Cor 11,7-9 ), secondo il quale il funzionale in generale spetta all'uomo, mentre è proprio della donna il « portare un velo sul capo » in segno di modestia ( 1 Cor 11,13-16 ), è anche vero tuttavia che questa esclusione non significa affatto un'inferiorità della donna, o che a questa rimanga precluso un « grado di perfezione ». Ogni teoria che soppesi gli stati d'elezione secondo la loro rispettiva « perfezione » l'uno rispetto all'altro è un'offesa per la donna e per la madre del Signore in modo speciale. Nascondi La sovra - e subordinazione dei sessi conforme alla creazione serve piuttosto solo alla loro ordinazione paratattica: « tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l'uomo, né l'uomo è senza la donna; come infatti la donna deriva dall'uomo, così l'uomo ha la vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio » ( 1 Cor 11,11-12 ). Ciò significa, applicato agli stati della Chiesa: la so-vraordinazione dell'ufficio gerarchico, che alla donna non è concesso, sta solo a servizio dell'amore, che alla donna non solo è concesso, ma è essenzialmente da lei, conformemente allo stato di vita, co-fondato ( mitbe-grùndet ), mentre il puro ministero, impersonato da Pietro, alla sua fondazione è assente. Durante questa assenza ( e senza chiedere il suo parere ) il Signore lega i vergini in una nuova unità, elargita direttamente dall'alto, che Pietro in seguito dovrà riconoscere come originante dal Signore. Così si effettueranno anche più tardi le vere fondazioni di ordini religiosi: attraverso missioni donate direttamente dallo Spirito Santo, che vengono calate sui fondatori come un nuovo « Spirito », una nuova « spiritualità », e, dopo il dovuto esame della loro autenticità, vengono riconosciute dalla Chiesa ministeriale e innestate nella più intima vita della Chiesa. Maria stessa, la cofondatrice dello stato dei consigli, sta solo indirettamente sotto l'autorità di Pietro. Ella sta al di sopra degli stati; insieme col Signore è principio che li rende possibili entrambi. Ma nella misura in cui il suo « stato » definitivo sulla terra è il legame a Giovanni, e Giovanni sta sotto la giurisdizione di Pietro, ella ottiene parte indirettamente anche alla vita della Chiesa governata ministerialmente. Fra lei e Pietro media Giovanni, il « sacerdote regolare », che unisce nella sua persona il sacerdozio soggettivo e quello ministeriale. Attraverso di lui vengono legati insieme i due punti della Chiesa che in forza della grazia e garanzia divina sormontano il mondo decaduto: l'immacolata e l'infallibile; il grembo della Chiesa, da cui questa fuoriesce, e la roccia su cui essa sta. Nascondi Legata alla Chiesa attraverso lo stato dei consigli, Maria, la genitrice della Chiesa ( Ap 12,1-2.17 ), diventa membro di questa Chiesa. Attraverso lo stesso stato dei consigli innalzato, Pietro ( che ottiene il ministero esteriore ) viene condotto ad una corrispondenza ad esso anche nella sua persona. Tutta questa interpretazione del rapporto fra gli stati in base al carattere simbolico-rappresentativo di Maria, Giovanni e Pietro non può naturalmente venir isolato dall'insieme del procedimento della fondazione della Chiesa, o addirittura visto in una contrapposizione ad esso. Se si è detto che lo stato religioso deriva dalla croce e viene fondato sotto la croce, questo vale in nessun altro senso che in quello che anche la Chiesa nella sua totalità nasce dalla Croce, come nuova Eva che esce dal fianco squarciato del nuovo Adamo. Ciò che Cristo aveva fatto durante la sua vita pubblica per formare questa Chiesa si rapporta al momento attuale come la preparazione del materiale, come la formazione del corpo di Adamo dal fango della terra si rapporta all'insufflazione dell'anima, al conferimento dell'intima forma vivente. Così l'affermazione della fondazione dello stato dei consigli sotto la croce non sta in contrapposizione alcuna all'affermazione tradizionale che il Signore ha fondato questo stato durante la sua vita pubblica, con la chiamata degli Apostoli, la proposta dei consigli evangelici e soprattutto la concreta formazione di una comunità insieme coi discepoli, in cui anche Pietro ha parte, a modo suo, alla vita secondo i consigli. La comunità dei discepoli con Gesù deve pure rappresentare in nuce tutti gli essenziali rapporti ecclesiologici e le strutture della Chiesa successiva: essa è tanto rappresentazione della Chiesa intera ( chiamata fuori dal resto dell'umanità ) quanto dell'intero stato d'elezione ( di fronte al « popolo ecclesiale » ), come pure dello stato sacerdotale ( di fronte ai « laici » ), e come infine del vero e proprio stato dei consigli ( di fronte ad un cerchio più ampio di eletti, che all'incirca può venir rappresentato dai settantadue discepoli ). In questo senso l'affermazione che Cristo ha fondato direttamente lo stato dei consigli appartiene al patrimonio fondamentale della tradizione ecclesiale. « Status religionis secundum se et quoad substantiam suam ab ipso Christo Domino immediate traditus et institutus fuit ( … ) haec est sententia omnium catholicorum recte sentientium » ( Suarez, op. cit., lib 3, e 2, n 3; Opp xv, 231 ). Suarez cita in favore di ciò una gran quantità di testimoni. Egli spiega inoltre che il Signore ha fondato lo stato dei consigli in tale generalità ( « religionis statum secundum se ») che le forme di questo stato poterono venir concretizzate nelle più diverse singole forme di « ordine religioso »; che egli però d'altra parte formò insieme coi suoi discepoli un determinato, concreto « ordine » ( « quandam religionem in particulari » ), la cui figura era esattamente delineata. I discepoli, dice Tommaso, avrebbero ( almeno implicitamente ) emesso dei voti ( « Apostoli intelliguntur vovisse pertinentia ad perfectionis statum, quando Christum relictis omnibus sunt secuti », S Th il il, q 88 a 4 ad 3 ) e ciò definitivamente, senza possibilità di ritirarsi ( q 186 a 6 ad 1 ). Nascondi Così anche Agostino ( De conson. Ev., lib 2, e 17; De Civ. Dei 17, e 4; Ep. 89,4), Crisostomo ( bom. 17 ad pop.; in Mt hom. 17 e 69; Contro vitup. mo-nast., lib 4 ), Guglielmo di S. Thierry ( Ad fratres de Monte Dei ), Bernardo ( Apol. ad Guill. ecc. ). Suarez si spinge oltre e determina il carattere di questo « ordine » apostolico come « vita mixta » con il « finis specialis cooperandi Christo in salute animarum », dunque la « aedo », ma secondo At 6 « ex plenitudine contemplationis » ( loc. cit. n 10 ). Questo « ordine » di Cristo si fonda su di una perfetta povertà, castità e una speciale obbedien-za, che in primo luogo fu accettata da Cristo stesso, poi però, poiché questa forma di vita si deve conservare nella Chiesa, fu trasmessa in consegna ad essa ( n 12-14 ). Qualunque cosa si possa pensare di questa tesi, certo è che lo stato dei consigli non risale ad una tardiva utilizzazione di alcuni sparsi accenni della Scrittura, ad esempio il consiglio della povertà e della verginità solamente, bensì che esso, altrettanto direttamente quanto il sacerdozio e in strettissimo collegamento con esso, fu voluto da Gesù come una realtà concreta, fu da lui fondato e anche vissuto nella sua prima comunità. Ciò è stato recentemente confermato anche dalla trattazione di Heinz Schurmann citata nell'introduzione. Lo sviluppo dei due stati d'elezione Non si tratta qui di ripercorrere lo sviluppo storico dello stato presbiterale e dello stato religioso e le loro complesse relazioni nel corso dei secoli, ma semplicemente di presentare ciò che nei loro reciproci rapporti è fondamentale, teologicamente rilevante. Ci si deve in questo attenere, come sempre allorché si tratta di verità del « depositum fidei », non solo all'immagine esteriore, quale può offrirla l'osservazione storica mondana, ma alle leggi dello sviluppo del dogma, quali sono state formulate per l'epoca antica da Vincenzo di Lerino, per l'epoca moderna da Newman. Se ad un primo sguardo certi dogmi e verità possono apparire quasi assenti nei primi secoli, essi erano tuttavia anche allora realmente ( sebbene implicitamente, più « vissuti » che riflessi ) presenti sin dall'inizio, in maniera riconoscibile per la contemplazione teologica della Chiesa. Ciò vale in misura eminente per lo sviluppo dello stato d'elezione nelle sue due forme di stato presbiterale e stato religioso, e precisamente tanto per la sua unità quanto per la sua differenziazione. Si comprende lo sviluppo esattamente solo se per la consapevolezza dei primi secoli si cerca di avere in mente contemporaneamente ambedue le affermazioni ( solo apparentemente non unificabili ): che c'è un unico stato d'elezione, e perciò solo una forma fondamentale di « perfezione » cristiana, che quindi deve apparire realizzata in ognuno degli appartenenti a questo stato, e che d'altra parte le singole espressioni ( Auspragungen ) di questa perfezione cristiana, ad esempio il prete, il martire, la vergine, l'anacoreta e il cenobita, posseggono rispettivamente il loro proprio carattere inconfondibile. Proprio perché nel Nuovo Testamento l'unità personale e obiettiva di sacerdozio ministeriale e soggettivo viene presentata con tale peso, non sorge per il momento, pur tenendo conto di ogni singola distinzione di maniera di vivere, il pensiero di fissare diversi canoni di perfezione evangelica. L'elemento comune sta in primo luogo nel « carattere di stato » ( Stand-haftigkeit ) della vita evangelica in generale, cioè nella solidità e definitività della decisione per una vita conforme ai consigli e alle istruzioni del Signore. È la « quaedam immobilitas », che Tommaso esigerà più tardi come fondante lo stato ( S Th II II, q 183 a 1 ), e che vista cristianamente deve essere non solo un aspetto esteriore temporale, ma un aspetto interiore dell'intensità della decisione. Così il cristianesimo delle origini, orientato escatologicamente, può trovare questa intensità come concentrata puntualmente nella forma di santità escatologica del martire, che al di là della durata temporale realizza pienamente nella morte l' « una volta per tutte » della decisione, quale corrisponde allo « stato della perfezione ». E non è strano che i secoli successivi sviluppino le forme di vita secondo i consigli, che a poco a poco sbocciarono, a partire da questa forma superiore al tempo: verginità e monachesimo sono martirio perpetuo; incruento, ma continuato nel tempo. Il cristiano di quel tempo vedeva nei primi tentativi di una configurazione della vita nel senso dei consigli evangelici soprattutto la disposizione interiore: la volontà di un'offerta totale, di quel voto interiore che offre tutto e che poi diventò presto anche un voto esteriore, ecclesiastico, quale ad esempio il voto pronunciato dalle vergini nelle mani del vescovo, dai monaci in quelle dell'abate. Di fronte a questo aspetto essenziale le domande del diritto canonico se un tale voto è semplice o solenne, se esso rende invalido un successivo matrimonio oppure no, rimangono secondarie, anzi esse appaiono in gran parte anacronistiche, poiché retro-proiettano una posteriore coscienza differenziata in un tempo che pensava semplicemente e unitariamente, e ancora faceva appena attenzione alle distinzioni ( cfr. la polemica di H. Koch, Virgines Christi, T.U. 31 [1907], 62-112, con Schiwietz, Das morgen-làndische Mónchtum, i [1904] e Wilpert, Die gottgeveihten Jung-frauen in den ersten Jahrhunderten der Kirche [1892]; specialmente Koch, 109-112 ). Importante per quel tempo è la decisione dello stato, che in quanto interiore ed esteriore allo stesso tempo trasferisce nello stato di perfezione, di appartenenza a Dio ( « così pròthesis, omologhici [ … ], proàiresis apparvero in Clemente come concetti sinonimi [ … ] se egli con ciò avesse in mente un voto vero e proprio rimane incerto » Koch, 96. Ma cosa significa qui « voto vero e proprio »? ). Dall'abbondante letteratura sullo stato verginale risulta chiaramente che i cristiani consideravano questo stato come la maniera di vivere la perfezione evangelica; che nel caso delle vergini, anche laddove esse non rinunciavano espressamente ai beni esteriori, a motivo della verginità veniva presupposto almeno l'atteggiamento assoluto della povertà, e anche quello di una dedizione al Signore come sposo, che, anche se ancora implicitamente, includeva in un senso ecclesiale più ristretto l'atteggiamento dell'obbedienza. La vergine si è consacrata a Dio « tam carne quam mente » ( Cipriano, De hab. virg., Hartel i, 189 ). Lo stesso vale in grado ancora più alto per le prime configurazioni della vita monastica, nelle quali, viste complessivamente, è soprattutto sorprendente quanto rapidamente l'implicita presenza dei tre « voti » si sia trasformata in una presenza riflessa ed esplicita, quanto rapidamente soprattutto nelle vite dei monaci l'obbedienza sinora rimasta ancora in ombra sia stata riconosciuta come essenziale, praticata e fondata teologicamente. Di fronte a ciò lo sviluppo dello stato clericale percorre la sua propria strada. La concessione del matrimonio dei preti ( necessaria all'inizio, come abbiamo detto ) ottiene provvisoriamente nelle lettere pastorali un rafforzamento. Con ciò viene presa anche una certa distanza, necessaria per il clero, dall'esigenza di totale povertà evangelica, e così è già posta una base per l'esplicita separazione, sorta molto più tardi, di stato secolare e stato regolare. Ma per il momento i chierici formano nient'altro che un ramo speciale dello « stato d'elezione », nel quale si entra con un « voto » ( esplicito o implicito ), con un « propositum » o « votum » o « professio», attraverso cui si diventa un « consacrato a Dio », un religioso. L. Hertiing ( Die professio der Kleriker una die Entste-hung der drei Gelùbde, ZKTh 56 (1932) ha dimostrato sulla scorta di un gran numero di testi che le espressioni e i concetti citati furono impiegati senza distinzione tanto per le vergini, quanto per i monaci, come per i chierici; che anche il chierico fu indicato come religioso, il quale fa la « religiosa professio », la « sacra professio », la « deifica professio », « in religionis professione vivit, se Deo devovit ac tradit » ( ibid. 151 ). Hertiing perviene al risultato « che i tre stati ecclesiali: chierici, monaci e vergini in senso generale vennero valutati alla pari, che tutti e tre rappresentano una consacrazione della propria persona a Dio e un'irrevocabile assunzione di sacri obblighi, che tutti e tre contengono qualcosa di ciò che noi oggi indichiamo teologicamente come « voto ». Espresso altrimenti: « Se noi guardiamo alla « professio » dei monaci ( anche senza promesse parziali singolarmente espresse e formalmente elaborate ) come a qualcosa che contiene in sé la dimensione del voto, vale lo stesso anche per la « professio » dei chierici; e se sin dall'inizio consideriamo il « propositum » delle vergini come un voto, dobbiamo allora collocare sul medesimo piano il « propositum » dei chierici e quello dei monaci » ( ibid. 153-154 ). Il « propositum» dei monaci fu sin dall'inizio « la piena dedizione a Dio; il monaco promette nella sua « professio » di offrire se stesso e tutto ciò che ha » ( ibid. 155 ), quello delle vergini si sviluppa sempre più da un esplicito voto di castità alla stessa offerta totale, e si conforma così sempre più a quello dei monaci ( ibid. 157-160 ). Il «propositum » dei chierici percorre perciò una via sua propria, perché quello complementare delle vergini e dei monaci fu dapprima espressamente un affare di laici nella Chiesa. Questa circostanza si farà sentire fortemente anche nella riflessione teologica ( tanto più presso Crisostomo, Dionigi Areopagita e anche presso Gerolamo ) e per un certo periodo di tempo oscurerà l'originaria unità evangelica dello stato d'elezione. Se per le vergini era la castità la base e il punto di partenza della vita perfetta, e per i monaci soprattutto la povertà, così per i chierici lo è l'obbedienza nei confronti del vescovo, la vita nella dipendenza esteriore dalla Chiesa. A poco a poco si impone il celibato, e cioè il candidato all'ordinazione deve fornire una formale promissio, sponsio o professio, quindi senza dubbio un voto. Più tardi verrà indicato espressamente come « religionis votum, castitatis votum » ( Hertiing 161 ). Sin dall'inizio questa professio comprende in sé anche « sanctae vitae disciplinam », la quale include per lo meno lo spirito di semplicità, generosità e di conseguenza povertà. Sempre nuovamente spuntano tentativi di esigere per lo stato clericale la perfetta povertà, che nel Vangelo viene presentata come condizione e porta d'ingresso alla perfezione. Agostino non ammette nel suo clero nessuno che possegga una proprietà privata. Egli intraprende con ciò niente di meno che il tentativo di erigere l'intera vita evangelica secondo i consigli tipica dei primi discepoli come forma di vita del clero, e così di rendere ancora una volta uguali le diverse caratterizzazioni dell'unico propositum, dell'unica professio. Eusebio da Vercelli e Ambrogio l'avevano preceduto con l'esempio, tentando di introdurre nelle loro famiglie clericali soprattutto la vita comune e la proprietà comune. Tensioni nella medesima direzione s'incontrano lungo tutto l'alto Medioevo. Cfr. Urbano II, Sinodo del 1159, can. 4: « Quelli dei suddetti gradi dell'Ordine Sacro ( prete, diacono, suddiacono ), che obbedendo al nostro predecessore ( Leone IX ) si attengono alla castità, devono nelle Chiese in cui sono consacrati, come si addice a chierici devoti ( sicut oportet religiosos clericos ), mangiare insieme, dormire insieme e avere insieme i proventi ecclesiastici. E noi preghiamo ed esortiamo che essi tendano seriamente a giungere al modo di vivere apostolico, cioè in comune » ( ibid. 350 ). Il modo di vivere apostolico è qui quello della totale mancanza di possesso, nello stesso senso e grado in cui è « modo di vivere evangelico » la totale continenza. Quando Agostino formula l'affermazione: « Clericus duas res professus est: et sanctitatem et clericatum » ( De vita et mor. cler. 4, PL 39, 1573 ), esige l'originaria unità evangelica di funzione e vita, di sacerdozio soggettivo e oggettivo. La forma di tale santità è fondata per i chierici nei canoni, come per i monaci nella regola. Sotto questo concetto sta tutto quello che nella Scrittura, nella Tradizione e nelle decisioni conciliari costituisce l'ideale del prete ideale secondo l'intenzione di Cristo e della Chiesa. « I « cànones » vengono essi stessi contrassegnati come « regula ». Dal settimo secolo questi due ( la « regula », e cioè la « regula S. Benedicci », per i monaci, e i « canones » per i chierici ) appaiono sempre l'uno a fianco dell'altro. In un sinodo gallico del nono secolo si dice che entrambi [ … ] sono dati dal medesimo Spirito Santo » ( 163 ). Questo getta una luce sulla preistoria del cosiddetto clero regolare. I primi undici secoli conoscono fondamentalmente, nonostante ogni distinzione fra chierici ( che si chiamano anche indifferentemente canonici, o regolari, poiché vivono secondo i canoni, cioè secondo le regole ideali e giuridiche del Vangelo e dei Padri, dove « regula » non è nient'altro che la traduzione di « canon » ), monaci e vergini, solo un unico « stato di perfezione », che nella sua totalità si pone di fronte allo stato dei laici nel mondo. A partire dal tempo di S. Benedetto la regola diventa in misura crescente il canone dei monaci, di fronte al quale gli altri gruppi di monaci e i chierici unitariamente si distaccano come « regolari », poiché sottostanno non ad una regola particolare, ma agli universali canoni ecclesiali come loro forma di vita. « I canoni sono per il chierico esattamente quello che per il monaco è la regola » ( 163 ). « Il sorgere dei canonici regolari nella seconda metà dell'undicesimo secolo non è da immaginare come se in questo tempo i preti secolari avessero vissuto insieme, per emettere i voti alla maniera dei monaci. Chierici « secolari » non ce n'erano ancora allora, per lo meno « de iure ». Ogni chierico era « Deo devotus, religiosus, sub sacra professione vivens ». L'intenzione della riforma del clero dell'undicesimo secolo non era di creare qualcosa di nuovo, ma solo di riportare in vigore in tutte le sue dimensioni l'antica concezione di stato clericale come stato di vita santo, e questo specialmente ridando vita agli antichi « canones » » ( 164-165 ). « Non la professio della regola di S. Agostino ha fatto sorgere o ha formato l'Orde Canonicorum; esso era già formato allorché si assunse questa regola per avere in mano, al posto dei « canones » semplicemente ideali e diversamente interpretabili, un documento che potesse sostenere la concorrenza della « regula monasteriorum » di S. Benedetto" ( 166 ). Lasciamo ancora la parola a Hertiing per la sua descrizione della Riforma Gregoriana, nella quale per la prima volta cominciò a porsi di fronte al clero « regolare » o « religioso » qualcosa come un clero « secolare ». « La riforma del clero dell'undicesimo secolo è un imponente tentativo di fare dell'insieme del clero dei monaci. Lo scritto di S. Pier Damiani « Contra clericos regulares proprietarios » si indirizza non a « chierici regolari » nel senso odierno, ma a tutto l'orde canonicus, a tutti i chierici, a tutti coloro che credono che essendo chierici regolari o canonici possono tuttavia possedere delle proprietà. Pier Damiani, richiamandosi ad Agostino, controbatte: « Un chierico che possegga denaro non può essere proprietà o eredità di Cristo, o possedere in eredità Dio ». E in un altro scritto dice: « È certo che l'intera Chiesa è stata fondata da monaci, non da canonici ( … ) Se voi leggete il Nuovo Testamento con occhi non prevenuti, troverete che gli Apostoli e i loro successori hanno vissuto alla maniera dei monaci, non dei canonici ». È caratteristico dei sostenitori delle cosiddette idee gregoriane che essi si preoccupavano poco se i loro piani di riforma erano attuabili oppure no. Ciò derivava non tanto da un fanatismo estraneo al mondo, quanto piuttosto dalla profonda convinzione di fede e dal forte idealismo di quegli uomini. Diritti e doveri si imporranno, anche se ciò sembra ancora così improbabile, e fra bene e male non si scende ad alcun compromesso, andasse anche per questo in rovina mezzo mondo. Questa era la politica di questi riformatori. Sul terreno del celibato essa ha avuto col tempo un successo pieno, sebbene qui le prospettive non fossero proprio le più favorevoli ( … ) L'aspirazione a riempire l'intero clero di spirito monastico non ebbe certo un successo completo, ma pur sempre un successo molto grande. Se si volesse indicare Gregorio VII e Pier Damiani come i creatori della pastorale dei membri dell'ordine presbiterale, si avrebbe in un certo senso ragione, certo non come se Gregorio e Pier Damiani avessero l'intenzione di fondare un nuovo ordine; ciò che essi volevano era condurre tutto il clero all'ideale monastico, ciò che essi ottennero fu che una parte di essi divennero monaci veri" ( Kanoniker, Augustinerregel una Augustiner orden, in ZKTh 54 [ 1930 ], 351-2 ). « Riassumendo, lo sviluppo dei voti di stato di vita religioso si presenta all'incirca così. All'inizio ci sono tre stati ecclesiali ( accanto al generale stato cristiano che riposa sui voti battesimali generali ): chierici, monaci e vergini, tutti e tre col voto proprio del loro stato, che viene indicato per tutti e tre come « propositum » o « professio », più raramente come « votum». Il voto delle vergini si amplia a poco a poco in direzione del voto dei monaci, cosicché lo stato delle vergini va a confluire nello stato dei monaci, un processo che all'incirca nell'undicesimo secolo è compiuto. Lo stato dei chierici si divide nell'undicesimo secolo in due metà. Una prima metà adegua i suoi voti a quelli dei monaci, senza che però i canonici divengano veri monaci. Con ciò ha luogo una ripartizione completamente nuova degli stati ecclesiali. Il concetto di monaco si estende sino a comprendere quello di religioso. Monaci, chierici regolari e vergini formano un comune stato, lo stato dei religiosi o « stato religioso », nei confronti del quale sta in concettuale opposizione l'altra metà dei chierici, separatasi come stato presbiterale secolare. Nello stato religioso appare più chiaramente il concetto di voto ( o voti ), specialmente per l'introduzione della triade ascetica povertà, castità e obbedienza, ulteriormente elaborata speculativamente dalla Scolastica, e in modo speciale da Tommaso. Per i preti secolari impallidisce il concetto di voto, però si mantiene la struttura dell'obbligo del celibato come « votum implicitum », e questo certamente non più come promessa d'obbedienza concepita alla maniera di un voto. La divisione degli stati ecclesiali in religiosi e preti secolari è ora però solo una divisione in base al diritto canonico; nel senso ascetico, invece, appartengono anche i preti secolari ( adesso come prima ) allo stato della perfezione. Essi sono consacrati a Dio, non solo per l'ordinazione sacramentale, ma in senso soggettivo-morale, e hanno in base al loro stato di vita l'obbligo di tendere alla perfezione evangelica nel senso dei consigli evangelici, quindi con castità, obbedienza ecclesiale e povertà nello spirito, vale a dire spogliandosi di ciò che è terreno" ( Zkth 56 [ 1932 ] 173-4 ). Abbiamo lasciato così a lungo la parola a Hertiing perché egli traccia lo sviluppo storico e teologico in modo assai chiaro e fedele. Si riconosce in ciò anche la pericolosità ( in quanto univocità di tendenza ) di porre il prete, invece che sotto i canoni generali dello stato dei consigli, sotto quelli dello speciale stato dei monaci, restringendo così l'analogia ( da lasciare aperta quando si è agli inizi ) nel modo di vivere lo stato dei consigli a favore dell'univocità di una singola forma di vita. Ci sarà bisogno della rinnovata analogizzazione dello stato monastico lungo la travagliata storia degli ordini, congregazioni e comunità secolari, per fare nuovamente venire in luce l'analogia originaria fra clero regolare e cosiddetto clero secolare, insieme alla loro appartenenza reciproca. La Scolastica e lo « stato di perfezione » Non poté venir taciuto il fatto che lo status quo venutosi a creare nel primo Medioevo esercitò un influsso decisivo sulla speculazione della Scolastica circa gli stati di vita. Poiché però d'altra parte questa speculazione è costruita sulle premesse patristiche e inserisce con cura nel suo edificio di pensiero i testi dei Padri, si doveva mettere a punto una molteplice sovrapposizione di strati e prospettività. È bene, prima della considerazione della « sintesi » scolastica, dare uno sguardo al suo condizionamento storico, che può venir riassunto in quattro affermazioni. 1. Lo stato clericale appare in una duplice luce, poiché da una parte l'intera pienezza dello stato d'elezione ( come la videro i primi secoli ) appare in esso riassunta ( sacerdozio oggettivo e soggettivo ), mentre d'altra parte il nuovo sviluppo ha portato ad uno svincolamento della funzione pura e semplice ( nel « prete secolare ») dalla soggettiva « perfezione evangelica » ( nello « stato religioso » ). Ciò si manifesterà nella sorprendente teoria che il vescovo, in forza del suo ufficio, è nello « stato di perfezione », mentre il clero a lui subordinato viene contato nello stato secolare. 2. Lo stesso stato religioso, da una parte, col rapido fiorire degli ordini mendicanti ha compiuto un passo essenziale al di là dell'epoca patristica e anche di quella benedettina. L'idea di « perfezione evangelica» è entrata in uno stadio di riflessione più avanzata e di consapevole autointuizione; quello che nell'epoca precedente era implicito si chiarisce nell'esplicita teoria dei tre voti, all'incirca nel medesimo tempo in cui ciò che era implicito nell'amministrazione dei Sacramenti si esplicita nell'espressa dottrina dei sette Sacramenti. Con ciò si rafforza per il momento la distanza fra le due forme di stato d'elezione. 3. Tuttavia l'idea di stato religioso conserva pur sempre, grazie al perdurante appoggio ai testi patristici, una coloritura simile a quella del cristianesimo delle origini. Ciò si manifesta in primo luogo nel fatto che lo stato religioso si considera sempre, nel suo insieme, come stato laicale, così come in effetti i taumaturghi, gli eremiti, i cenobiti, i monaci di S. Basilio, Benedetto e Francesco d'Assisi furono primariamente laici. Si manifesta inoltre nel fatto che è ancora preponderante la tendenza contemplativa e perciò il carattere apparentemente puramente personale, quasi privato, della via monastica alla perfezione. L'idea che perfezione evangelica e missione ecclesiale ( che non necessariamente deve essere funzionale ) appartengono inseparabilmente l'una all'altra è rimasta quasi completamente estranea alla speculazione scolastica. Con ciò è già data la quarta affermazione. 4. L'intera considerazione degli stati di vita si sposta sotto il segno del concetto di « stato di perfezione ». Questo ha certo il vantaggio che il concetto di perfezione viene delineato più chiaramente, ma anche il considerevole svantaggio che così venne posto fortemente in primo piano il lato del tendere ed esercitare soggettivamente la santità ecclesiale, mentre il lato oggettivo della missione e del carisma sbiadiva dietro di esso. I monaci, che a dire il vero erano quelli che soprattutto davano forma a questa speculazione, avevano con questo già un certo vantaggio nei confronti del clero, in qualunque modo poi si compisse l'intera formazione della dottrina sugli stati di vita all'interno di spesso incresciose rivalità fra i due stati. Per Tommaso stato di vita significa, come già in precedenza abbiamo esposto, una immutabile forma di vita che conferisce a colui che vive in essa una determinata, delimitata perfezione riposante in se stessa. Ora però egli riferisce immediatamente questa perfezione, che come tale è propria di ogni stato, al concetto cristiano di perfezione, cosicché la graduazione degli stati di vita appare allo stesso tempo come una graduazione della loro perfezione: « distinctio diversitatis fidelium accipi potest ( … ) per respectum ad perfectionem, et secundum hoc accipitur diffe-rentia statuum, prout quidam sunt alliis perfectiores » (S Th II II q 183 a 3c ). Egli delimita questa divisione nei confronti di quella degli uffici ( officia ), i quali deputano quelli che li rivestono a diverse « actiones », come di fronte a quella dei gradi che possono esser presenti all'interno del medesimo stato o del medesimo ufficio, senza mutare la loro costituzione fondamentale. Ogni stato di vita cristiano, se è veramente tale, ha la sua perfezione a lui commisurata, in primo luogo a partire dal concetto filosofico di stato di vita, in secondo luogo dalla visione teologica che una durevole forma di vita nella Chiesa deve essere disposta in modo tale da garantire a colui che vive in essa il conseguimento della perfezione cristiana, che consiste nell'amore ( ibid. q 184 a 3c ). Lo « stato di perfezione » in senso forte sarà però quello la cui forma di vita, come tale, cioè stabile e immutabile, ha come fine esclusivamente il raggiungimento dell'amore perfetto. « Sic ergo in statu perfectionis proprie dicitur aliquis esse, non ex hoc quod habet actum dilectionis perfectae, sed ex hoc quod obligat se perpetuo cum aliqua solemnitate ad ea quae sunt perfectionis » ( ibid. a 4c ). A questo « stato di perfezione » appartengono secondo Tommaso tanto i religiosi quanto i vescovi, non però gli altri chierici che stanno sotto il vescovo. Questi formano insieme con gli altri credenti lo stato cristiano generale, anche se per il loro ministero possono rivendicare una speciale dignità. I religiosi sono entrati in questa forma di vita attraverso i loro voti, coi quali essi hanno rinunciato al mondo per vivere solamente per Dio. Nascondi « Similiter etiam Episcopi obligant se ad ea quae sunt perfectionis, pasto-rales assumentes officium, ad quod pertinet, ut animam suam ponat ( pastor ) prò ovibus suis, sicut dicitur Gv 10, ( … ) unde Apostolus dicit 1 ad Tim ult: confessus bonam confessionem coram multis testibus ( id est in sua ordinatione, ut Glossa ibidem dicit ); adibetur etiam quaedam solem-nitas consecrationis simul cum professione praedicta ». Il vescovo formula dunque un « voto » ( professio, confessio ) di porre definitivamente tutta la sua esistenza a servizio del gregge a lui affidato. Tommaso cita in seguito specialmente Dipnigi ( Eccl. Hier. 5 ), chiarendo il motivo e la necessità di questo « voto »: il vescovo è « participativus integrae totius hierarchicae virtutis », è attraverso il suo ufficio ( questo è da notar bene! ) « illuminativus » di tutta la Chiesa ed è colui che comunica le grazie e le energie divine ( ibid. a 5c ). Questo fatto Tommaso non vuol farlo valere per i preti subordinati al vescovo, né in base al loro « ordo », né in base alla « cura » trasmessa loro dal vescovo. Per quanto concerne l'orde, « accipunt potestatem, quos-dam sacros actus perficiendi, non autem obligantur ex hoc ipso ad ea quae sunt perfectionis ( nisi quatenus apud occidentalem Ecclesiam in susceptione sacri ordinis emittitur continentiae votum, quod est unum eorum quae ad perfectionem pertinent ) ». Certo per l'esercizio delle funzioni sacerdotali c'è bisogno di una « interior perfectio », ma poiché « ad eos non peninet principaliter pastorale officium nec obligatio ponendi animam prò ovibus » ( ibid. a 6 ad 3 ), essi per questo non sono posti, come il vescovo col suo voto, nello stato di perfezione. Nascondi Anche per quanto concerne la « cura » essi non lo sono; « nec enim obligantur ex hoc ipso vinculo perpetui voti ad hoc quod curam animarum retineant, sed possent eam deserere vel transeundo ad religionem, etiam absque lilicentia episcopi ( … ) vel parochiam dimittere et simplicem praebendam accipere sine cura, quod nullo modo liceret, si essent in statu perfectionis: nemo enim mittens manum ad aratrum et respiciens retro, aptus est regno Dei ( Lc 9 ) » ( ibid. a 6c ). Questa per noi sorprendente teoria di S. Tommaso è il punto terminale di un lungo sviluppo; essa può venir compresa solo se allo stesso tempo si prendono in considerazione i gradini previi in essa riconoscibili. L'immagine che Tommaso abbozza del vescovo è quella del perfetto buon pastore, di colui che è vera immagine riflessa di Cristo, che insieme con Lui da la sua vita per le sue pecore, ponendo tutta la sua esistenza a disposizione della sua missione, in maniera solenne e irrevocabile. In questa immagine sfumano, corrispondentemente all'immagine patristica e biblica dell'unità dello stato d'elezione, i contorni di essere e dover essere, di funzione oggettiva e di soggettiva consacrazione e dedizione completa. È l'immagine che, ancora completamente all'interno della tradizione giovannea, aveva del vescovo abbozzato Ignazio di Antiochia. È ancora una volta l'immagine del « gerarchico » che del vescovo abbozzò nella sua « Gerarchla divina » Dionigi l'Areopagita. Nella sua maniera di guardare mistico-liturgica non c'è spazio alcuno per una considerazione morale, un'aspirazione: ogni grado della « gerarchia » viene descritto in una visione puramente ideale, in cui esso appare come copia diretta della celeste « gerarchia » degli Angeli. Ognuno è qui quello che deve essere; l'oggettiva perfezione del rispettivo stato è l'unica unità di misura della perfezione soggettiva, che appare come assorbita in quella dello stato. Il vescovo è talmente il perfetto prete e maestro, il suo ministero viene talmente visto nella pura esecuzione, in cui tutta la dedizione personale e l'impegno è come assorbito e integrato, che in tale visione rimane appena spazio per il lato della richiesta o esortazione a vivere anche personalmente in maniera corrispondente al suo stato. In dettaglio, la struttura della Chiesa si presenta in Dionigi nella forma seguente: Stati comunicanti Stati riceventi funzioni Gerarca ( Vescovo ) Monaci Perfezionare Prete Laici Illuminare Liturgo ( Diacono ) Penitenti eCatecumeni Purificare Da ciò risultano le seguenti relazioni: 1. In quanto gli stati comunicanti stanno complessivamente al di sopra dei riceventi, lo stato monastico si riannoda come quarto allo stato del liturgo. In Tommaso questo si rispecchierà nell'affermazione: « Semper agens praestantius est patiente; in genere autem perfectionis secundum Dionysium episcopi se habent ut perfectores, religiosi autem ut perfecti, quorum unum pertinet ad actionem, alterum autem ad passionem; unde manifestum est quod status perfectionis potior est in episcopis quam in religiosis" ( II II q 184 a 7c ). 2. D'altra parte tanto il vescovo quanto il monaco stanno entrambi sul gradino dei perfetti. Se i diaconi devono occuparsi prevalentemente dei penitenti e dei catecumeni da purificare, e i preti del popolo ecclesiale da illuminare, i vescovi devono da parte loro occuparsi della perfezione dei monaci: « Il sacro ordine dei monaci ( … ) è sottoposto al potere perfezionante dei gerarchi e viene ( … ) elevato dalla loro sacra scienza alla completa perfezione in gradi corrispondenti » ( Hier. eccl. 6,1,3 ). Accanto alla subordinazione di stato presbiterale e stato laicale, al quale appartengono i monaci, sta dunque la coordinazione dei due stati di perfezione, che si rispecchia in Tommaso nell'affermazione: « Et inde est quod Dionysus ( … ) perfectionem attribuii solis episcopis quasi perfectoribus et monachis quasi perfectis; illuminationem vero attribuii presbyteris tanquam illuminatoribus per sacramentorum admi-nistrationem, et sacro populo tamquam illuminandis; purgationem vero diaconibus tamquam purgatoribus et ordini immundorum tamquam purgandis » ( Quodl. 3,17c ). Questo però non basta. Il monaco così « illuminato » passa da parte sua, per il domenicano Tommaso, all'azione: egli diventa dottore e di qui viene promosso al medesimo rango del « perfector » episcopale: « In aedifìcio spirituali sunt quasi manuales operarli, qui particulariter insistunt curae animarum, puta sacramenta ministrando, ( … ) sed quasi prin-cipales artifices sunt episcopi, qui imperant et disponunt qualiter praedicti suum officium exequi debeant; propter quod et episcopi, id est superintendentes dicuntur, et similiter theologiae doctores sunt quasi principales artifices, qui inquirunt et docent qualiter alii debeant salutem animarum procurare » ( Quodl. 1,14 ). Accanto a Dionigi è soprattutto Crisostomo ( De sacerdotio ) a influire sulla speculazione. Egli si era spaventato davanti alla sovrastante grandezza della dignità sacerdotale e si era nascosto, per non venire eletto vescovo. Nella sua giustificazione nei confronti del suo amico Basilio, egli innalza talmente dignità e responsabilità dello stato sacerdotale, che lo pone chiaramente al di sopra dell'ideale monastico. Senza dubbio gioca un considerevole ruolo il sopracitato momento nel fatto che l'ideale monastico nei suoi inizi venne visto non di rado ( anche se non esclusivamente ) come una via privata, intrapresa di propria iniziativa e soprattutto in vista della salvezza propria, che poi contrastava tanto più fortemente in confronto con la « preoccupazione per le Chiese tutte » che incombeva al vescovo e al sacerdote. Tommaso vorrà piuttosto distanziarsi da questa maniera di vedere di Crisostomo. Egli cercherà di circoscrivere espressamente al solo ministero episcopale ciò che Crisostomo sembra dire sul sacerdozio in generale ( il II q 184 a 8 ad 1 ). Già per Crisostomo si trattava in effetti anche dell'episcopato. La cosa più importante è che Tommaso respinge come non pertinenti tutte le prove della superiorità di questo stato prese dalla dignità oggettiva della funzione sacerdotale. « Auctoritas illa non pertinet ad perfectionem vitae, sed ad differentiam dignitatis ( … ) Hoc autem in quaestione non vertitur, an sit maior dignitate praelationis quicumque habens curam animarum religioso curam animarum non habente » ( Quodl. 3,17 ad 4 ). Da questa frase diventa ora chiaro che per Tommaso, nella considerazione della perfezione di stato del vescovo, non si tratta affatto soltanto della dignità, ma dell'esistenza del criterio ultimo della perfezione evangelica: l'offerta soggettiva di tutto ciò che è proprio in favore della , salvezza delle anime. Ne in lui ne nei Padri poteva venir detto seriamente che il trasferimento nello stato episcopale fa raggiungere al candidato ( per così dire « ex opere operato » ) una perfezione personale, quella di cui c'è bisogno per amministrare adeguatamente questo ufficio. « Animam ponere prò ovibus » è un'esigenza che risiede nello stato, la quale anche col voto di entrata non viene soddisfatta una volta per tutte, ma deve venire ogni giorno adempiuta nuovamente. La perfezione episcopale rimane in base a ciò intimamente costituita di due lati: essa è perfezione del ministero, il munus episcopale è « locus sanctitatis ( Gregorio, Hom. in Ev. 17 ), « ordo sacratior » ( Dionigi, Eccl. Hier., c. 5 ) - ed è in questo ministero richiesta corrispondente di santità personale: « Ne sit honor sublimis et vita deformis, ne sit deifica professio et illicita actio » ( Ambrogio. De dign. sue., c. 2 ). E l'esigenza personale non è tanto racchiusa nel conferimento della dignità sacra, ma è piuttosto presupposta da questa, allo stesso modo in cui il conferimento di un incarico di insegnamento non rende il candidato più sapiente, ma presuppone la sua sapienza ( « Munus doctoris dici potest quasi status doctrinae, non quia facit doctum hominem, sed quod in ilio talem perfectionem supponit ac requirit. Ad hunc ergo modum status Episcopi status perfectionis seu viri perfecti merito appellantur », Suarez, loc. cit., lib. i e 15 n 11 ). Se i primi secoli della Chiesa, corrispondentemente alla loro generale rappresentazione della vita ecclesiale, vedono intenzionalmente essere e dover essere in questa insolubile unità e osano considerare la caduta dall'ideale come ciò che semplicemente non deve esistere ( Nichtseinsollende ), anzi da un punto di vista escatologico addirittura come ciò che non esiste ( Nicht-seiende ), non è tuttavia sfuggita ad essi l'intima doppiezza della santità episcopale. Nascondi Non a caso si cercavano allora così assiduamente ecclesiastici che possedessero un carisma personale, per impartire ad essi la consacrazione episcopale, affinché in forza di questa essi diventassero poi realmente « forma cleri » ( 1 Pt 5,3), rappresentazione del sacrificio perfetto del Buon Pastore, che deve continuarsi nella Chiesa. In questa maniera la perfezione episcopale è in tanto parallela a quella monastica, in quanto entrambi offrono tutta la loro vita: gli uni per santificarsi nella personale tensione a Dio, gli altri per vivere totalmente a servizio della Chiesa. Ciò che è comune a entrambe le forme di vita prevale però talmente che i Padri non li distinguono come due stati, ma li intendono come un unico stato di perfezione: « Patres non accurate distinguere monasticum ordinem et clericalem, sed religiosum statum in genere ea voce appellare » ( Suarez, loc. cit. lib. 3, e 3 n 10, Opp. xv 240 ). Si vede però già che quanto più i voti si completavano l'un l'altro, l'ordine delle vergini si integrava all'interno dell'ordine religioso e la dimensione privata dell'eremitismo si mutava in quella pubblica e organizzata del cenobitismo, tanto più anche la dimensione dell'analogia nel concetto di perfezione cristiana, che dapprima appariva impersonata altrettanto bene nello stato dei chierici come in quello dei monaci, svanì e i chierici furono posti davanti ad una difficile scelta. Dovevano vedere anche in futuro l'unità di misura della perfezione soggettivo-personale corrispondente al loro ministero oggettivo nel canone della « perfezione evangelica » sinora comune ad essi e ai monaci insieme, o dovevano distaccarsi da questo ideale e prendere l'unità di misura da un diverso ideale del loro ministero ( che per verità i monaci non avevano )? Contro una simile spaccatura dello stato della perfezione i grandi Padri si erano opposti. Anche se il clero dipendente dal vescovo non visse mai nella sua totalità espressamente secondo i tre consigli evangelici, tuttavia la tensione era sempre quella di farlo partecipare il più pienamente possibile, nella maniera corrispondente al suo ufficio, all'unica perfezione evangelica. Suarez ha perciò del tutto ragione, se guardiamo le cose dal punto di vista storico - e le ricerche di Hertiing hanno confermato le sue cognizioni -, quando sottolinea che nella sua riforma del clero Agostino non introdusse alcuna innovazione ( op. cit; lib 5 e 3 n 8 ), ma mise semplicemente di nuovo in piedi una disciplina che stava vacillando, diventando così anello di congiunzione tra il clero del la comunità delle origini e il clero regolare e canonico del Medioevo. La fissazione della perfezione evangelica sullo schema monastico ebbe per conseguenza nel clero una crescente divisione in due gruppi: alcuni che vivevano secondo il canone della perfezione evangelica come i membri degli ordini religiosi, e altri che non lo facevano. Così si approfondì la scissione, che inizialmente non esisteva, fra il pieno ideale sacerdotale, come lo realizza il vescovo, e il clero secolare più basso, che secondo Tommaso non rientra più nello stato di perfezione. Ciò è tanto più sorprendente in quanto a dire il vero il vescovo è obbligato non da ultimo in forza del suo ufficio sacerdotale a quell'ideale dell' « animam prò ovibus ponere », e appare innaturale separare l'uno all'altro l'ufficio episcopale e quello presbiterale al punto da assegnarli a due diversi stati. In questo vi è senza dubbio una degradazione dell'ideale presbiterale che si può comprendere solo a partire dalle più amare esperienze dell'undicesimo secolo, allorché si comprese anche definitivamente che non era possibile guadagnare all'ideale della vita evangelica il clero regolare nella sua totalità. Tanto più fortemente ci si attiene allora all'idea che il vero e perfetto tipo del Cristo sacerdote, il vescovo, che ha offerto la sua vita per le sue pecore, deve rappresentare in una qualche forma la piena perfezione evangelica. È una significativa immagine speculare di questa circostanza il fatto che all'incirca nel medesimo tempo viene fissato nella Chiesa Orientale che il basso clero deve appartenere allo stato secolare - ed essere sposato, mentre i vescovi non solo non possono esserlo, ma corrispondentemente alla prassi vengono scelti dall'ordine religioso. Questa decisione del Sinodo russo del 1274 verrà mantenuta anche per la Chiesa greco-uniate. Ma lo sviluppo spingeva in avanti. Lo stato della perfezione evangelica aveva acquisito attraverso Benedetto, Francesco, Domenico, un siffatto volto che ora si poneva anche per i vescovi la questione se essi dovessero adeguare a questa forma di vita anche quella parte della loro perfezione sacerdotale che è fondata non sull'essere ma sul dover essere. In Tommaso stesso si parla ancora senza aggiunta di stato di perfezione per il religioso Come per il vescovo. Ma poiché il vescovo non necessariamente, anzi solo in rari casi pronunciava i voti religiosi, premeva sempre più urgentemente la distinzione. Gerson ( De consiliis evangelici!, Glorieux in, 10-26, v ), Dionigi i l Certosino ( De regulis vitae Christi, c. 1 ), distinguono ora, appoggiandosi alla teoria circa il vescovo dell'Areopagita, uno « status perfectionis acquirendae » per i religiosi e uno « status perfectionis exercendae » per i vescovi. Anzi, si giunge, in maniera quasi provocante, ad una contrapposizione di uno « status perfectionis acquirendae » ad uno di « perfectionis acquisitae » o « adaptae » ( es. Bellarmino, De Monach., 1 1 e 2 ); l'ideale episcopale diventa ampiamente esagerato, poiché il vescovo, secondo questa concezione, possiede già ciò che il religioso cerca ancora di raggiungere. Caetano poi certamente sfuma la distinzione altrimenti e da ad essa il suo vero volto, distinguendo tra uno « status perfectionis propriae » e « alienae » ( II II q 189 a 3). Il religioso tende alla perfezione propria; il vescovo, come « perfector » della Chiesa, deve promuovere e produrre in forza del suo ministero la perfezione degli altri. Per questo però egli deve possederla. Non si potrà infatti interpretare il discorso sullo status perfectionis per il vescovo in una maniera così sbiadita da intenderlo come niente di più che una specie di « grazia di stato », che gli sarebbe comunicata con la ordinazione episcopale o col conferimento dell'ufficio. Ancor meno ci si accontenterà di dire che la Grazia che egli deve distribuire è efficace « ex opere operato ». Certamente «qualcuno può praticare le opere di perfezione senza essere egli stesso perfetto, può raccomandare ad altri la castità senza essere casto, e la povertà senza essere egli stesso povero. Il motivo è che il principio adeguato di azioni perfette non è la perfezione propria, tanto più allorquando queste sono indirizzate a rendere perfetti altri. Così uno può essere perfector, senza essere egli stesso perfectus, e per essere nello stato della perfezione è sufficiente che egli sia nello « status perficientis », anche se egli stesso non è perfectus. Poiché però una simile maniera di operare ciò che è perfetto è altamente imperfetta e inefficace, ed è per così dire impossibile che da ciò crescano frutti ( per questo il Signore dice: Se il sale diviene scipito, con che cosa lo si potrà salare? ), bisogna allora ammettere che questo stato della perfezione da esercitare esige, per essere assunto rettamente, una personale perfezione in colui che vuole vivere in esso. La cosa migliore sarà perciò che la perfezione sia già esistente ( ut perfectio antecedat ), come disposizione, che per l'assunzione di questo stato è ragionevole e altamente necessaria. Infatti il Signore, prima di insediare Pietro come suo vicario, gli pose la domanda: Mi ami tu? Non è però nemmeno così, che questa perfezione personale sia stata necessariamente conquistata in un qualche stato di perfezione: ci se la può procurare anche al di fuori di uno stato di perfezione. Ed anche se lo stato richiede la perfezione della persona, come buona disposizione ad esso, non per questo esso è però stato di perfezione da acquistare ( status perfectionis acquirendae ), e non la comunicherà a partire da sé, « ma la richiederà in quanto perfezione acquisita altrove » ( Suarez, op. cit., lib 1 e 14 n 8 ). Lo sviluppo dei due momenti l'uno dall'altro nella concezione dello stato della perfezione episcopale è qui dunque maturato talmente che la perfezione personale appare come il presupposto già richiesto per la trasmissione della perfezione ad altri attraverso il ministero. Da dove il portatore del ministero prenda questa perfezione corrispondente al suo ufficio non viene detto; importante è solo che non gliela dà il ministero: « nec per se eam praestabit, sed aliunde illam petit ». Una simile visione, che ha minato dall'interno e ha scalzato il concetto originario dello status perfectionis del vescovo, non poteva infiltrarsi di notte. Prima doveva esser stato predisposto tutto per salvare l'antico concetto di perfezione episcopale, anche di fronte alla precisazione del concetto di perfezione personale ad opera dei nuovi ordini religiosi. Si tentò di farlo concependo il « votum episcopale » in maniera quasi sacramentale come il perfetto, indissolubile e sacro vincolo matrimoniale tra il sommo sacerdote e la sua comunità ( venisse questa intesa più come la singola diocesi o come l'intera Chiesa ), un vincolo matrimoniale che era pensato perlomeno altrettanto esigente, altrettanto impegnativo quanto il vincolo di un naturale matrimonio. Come i coniugi non vivono più per se stessi, ma nella forma di vita dello stato matrimoniale hanno il mezzo di darsi perfettamente l'uno all'altro, secondo la parola del Signore « dare la propria anima per guadagnarla », così il vescovo in questo, « matrimonium spirituale » da la sua anima per la sua chiesa, la sua diocesi, le sue pecore. Una tale dedizione totale era veramente, nell'esclusività in cui il Vangelo la richiede, nella definitività del legame, un atto fondante uno stato, che poteva venir affiancato al voto dei monaci. Innocenzo III ha sostenuto nei suoi Decretali questa concezione del voto episcopale, e tracciato ad essa, che già prima provvisoriamente era presente nella Chiesa, la via per una più ampia espansione. Persino quegli autori che non usano l'immagine del matrimonio spirituale assumono però da ciò l'idea che il vescovo si leghi per sempre con un voto solenne, e che soltanto un simile voto possa essere fondante uno stato, « quia existimant, non posse statum perfectionis sine voto solemni consistere » ( Suarez, op. cit., lib 1 e 16 n 24 ). Ma questa idea, che Tommaso ha condiviso con molti altri, nella sua artificiosità e quasi violenza non poteva costituire alcun definitivo baluardo contro la disgregazione. C'era da una parte la realtà storica, che tutto sommato nulla sapeva di una tale definitività di legame del vescovo alla sua diocesi o anche solo al suo ufficio, ma conosceva invece una assai più grande facilità di dispense che quella usuale nel caso del matrimonio. D'altra parte era tutto sommato dubitabile l'esistenza di un votum in occasione dell'assunzione della dignità episcopale, e Suarez aveva ultimamente gioco facile nel dimostrare che un tale votum non c'era affatto, o non c'era più. Una volta che nel Medioevo si furono chiariti i voti riferentisi alla vita evangelica precisandoli nei voti di povertà, castità e obbedienza, e non si poté più far valere come tale un implicito, generale voto di totale dedizione, anzi non poteva nemmeno più esser riconosciuto come tale, non era difficile mostrare che il vescovo non emetteva alcun voto, ma semplicemente contraeva con la sua diocesi un « certo patto » ( pactum quoddam ), che in ogni tempo rimaneva solubile ( Suarez, ibid., e 16 ). Caetano, che di per sé sosteneva l'opinione di S. Tommaso, la ha da parte sua talmente ammorbidila che i passi in cui Tommaso parla di « votum » li interpreta nel senso di un « votum lato modo vocatum », cioè nel senso del « pactum » di Suarez. Non a caso, del resto, i preti secolari fra gli scolastici, un Enrico di Gand ( Quodi 12 q 29 ad 1 ), un Gerson, avevano attaccato alla base l'idea tomista di stato di vita, volendo eliminare nel concetto di stato « immutabilitas ». Come un uomo può essere in stato di grazia e di nuovo perderla, come un membro del basso clero può essere nello stato dei chierici e con un matrimonio di nuovo perderlo, così anche il concetto di stato potrebbe fare a meno di questa particolare determinazione. Con questo era però ultimamente posto in questione il concetto di stato nel senso neotestamentario, in quanto esso, nelle diverse forme e gradi di dedizione cristiana di sé, mira rispettivamente alla definitività. Quando il concetto di voto nella dedizione sacerdotale ideale, che si voleva scorgere nel vescovo, diventò al termine della Scolastica così secolarizzato, fu tempo di guardarsi attorno alla ricerca di un nuovo parametro per la perfezione personale del sacerdote. Lo stato della « perfectio exercenda » a prima vista non l'offriva più, poiché era diventato uno « status perfectionis alienae ». Marcatamente non si voleva però trovarlo nel sacerdozio come tale: infatti ancora Suarez ripete l'antica sentenza che l'ordinazione sacerdotale non fonda per questo nessuno stato di perfezione, « quia non obligat ad aliqua opera perfectionis, sed tantum prae-bet quandam capacitatem et potestatem ( … ), nec per se habet annexum votum castitatis ( … ) sed ad summum propter quandam personae dignitatem tenebitur talis persona maius exemplum virtutis et honestatis praebere intra latitudinem praeceptorum, quae obligatio communis est omnibus personis in aliqua dignitatis constitutis, servata proportione » ( lib 1 e 15 n 3 ). Il parametro per il clero secolare viene qui dunque cercato in una certa universale « virtuosità e onorabilità », che supera sì gli altri, corrispondentemente alla dignità, ma non ha in sé più niente dell'assoluto parametro della vita evangelica secondo i consigli. E poiché d'altra parte Caetano e Suarez, negandogli il votum, non avevano lasciato più niente alla perfezione da distribuire dello stato episcopale, all'infuori di un titolo esteriore senza fondamento interno, tutto l'insieme del clero, quello che non rientrava nel clero degli ordini religiosi, venne a spostarsi dalla parte della generale perfezione cristiana, e l'originaria missione sacerdotale ed esigenza di sequela totale, come Cristo l'aveva creata nello stato d'elezione, apparve come una perfezione che non riguardava ulteriormente il clero secolare, una unione personale di perfezione oggettiva e soggettiva da comprendere in maniera puramente storica. Dev'essere ancora menzionato un ultimo sintomo della disgregazione dei concetto cristiano di stato di vita. Stato di vita equivaleva prima, in base ad una determinata elezione, ad una forma di vita che distinguendosi dallo stato cristiano generale e dai suoi comuni voti battesimali ( Suarez, op. cit; lib 1 c2 n8 ), inserisce l'uomo in un definitivo ordine di obblighi in cui egli può esercitare in maniera speciale la sua dedizione a Dio e al prossimo. Così Agostino di Ancona distingueva ( nella sua Stimma de Potestate Ecclesiae, q 76 a 1 ) quattro stati: quello degli sposati, dei chierici, dei religiosi e dei vescovi, e a ciascuno assegnava il suo compito speciale, che impegnava e riempiva la vita. Mentre il primo di questi quattro stati contiene il legame speciale per la gente che vive nel mondo all'interno dell'universale stato cristiano di vita, le altre tre forme di vita formano insieme in qualche modo lo stato di coloro che sono consacrati a Dio in maniera speciale, cosicché nella Chiesa risultano due grandi stati, duo genera Christianorum. Allorché però il concetto di stato perde la sua ratio formalis e diviene solamente un mezzo di classificazione materiale, deve emergere il pensiero che questa divisione non è adeguata, che piuttosto anche i laici non sposati dovrebbero venir compresi in un quinto stato ( secondo Agostino di Ancona ) o terzo stato, nello « status solutorum », di quelli cioè il cui speciale stato consiste nel fatto che essi non possiedono alcuna speciale forma di vita che leghi, e nel Corpo di Cristo rappresentano per così dire niente di più che la « libertà dei cristiani ». Su questo si esprime Suarez: « Cum enim non solum detur status obligationis seu servitutis, sed etiam libertatis, ( … ) non solum ii, qui alieni obligationi vel numeri addicti sunt, sed etiam qui ab ea sunt liberi, quos solutos vocamus, in suo proprio statu constitui debent » ( op. cit., lib 1 e 2 n 11 ). Con questa richiesta di uno « stato dei senza stato » ( nel senso dell'antico concetto di stato ) la Scolastica barocca si avvicina in maniera pericolosa - anche se del tutto inconsapevole - alla Chiesa priva di stati di vita del Protestantesimo. Non poteva perciò non accadere che preti che guardavano più a fondo, che scorgevano nel loro stato sacerdotale molto più che una semplice capacità di compiere certe azioni di culto e una certa cura pastorale loro conferita o più propriamente prestata dal vescovo, ma vedevano brillare piuttosto dall'antica immagine di sacerdote della Chiesa delle origini e dei Padri un ideale che non solo merita la più alta e completa dedizione, ma persino la esige - non poteva non accadere che simili preti scoprissero nuovamente l'unità della vita evangelica determinata dalla missione ( Sendungsieben ). Non solo lo sviluppo storico della parrocchia, che imponeva sempre più chiaramente al parroco la responsabilità autonoma, che prima sembrava riservata al vescovo, doveva spingere in questa direzione, ma parimenti il crollo dell'antica teologia dello stato episcopale. Chi se non il prete doveva dare l'esempio della perfezione evangelica, che non può venir costruita secondo il canone di una morale puramente naturale, ma può unicamente venir letta dal comportamento di Gesù? Egli, che celebra il sacrificio oggettivo, non può confermare la sua vita al suo ministero altrimenti che col sacrificio soggettivo di se stesso. « Era prescritto » dice Gregorio di Nazianzo nel suo 2° discorso « che solo i perfetti potevano sacrificare ( … ) Poiché ciò mi era noto ed io sapevo che nessuno è degno del grande Dio e Sacrificatore e Sommo Sacerdote se prima non ha offerto se stesso a Dio, come sacrificio vivo e santo ( l'unico sacrificio che Dio, che ha dato a noi tutto, esige da noi ), come avrei potuto trovare il coraggio di presentargli il sacrificio oggettivo ( éxothen thusìa ) ( … ), di accettare dignità e nome di sacerdote, senza prima ( … ) aver fatto di quel membro uno strumento di giustizia? » ( n 94-95 ). Così pure richiede Ambrogio ( De Abel, c. 6 ) che il sacerdote, se vuole sacrificare in maniera degna, offra prima se stesso completamente a Dio in sacrificio. Ma il sacrificio soggettivo, col quale siamo equiparati al sacrificio di Cristo, è stato delimitato da Cristo stesso in maniera sufficientemente chiara. Esso significa: lasciare tutto, famiglia, possedimenti e ultimamente se stessi, per seguirlo prendendo su di sé la croce. n quale maniera questo passo possa venir compiuto nella sua interezza e assolutezza, se con un voto, una promessa, un giuramento, se in questa o in quella forma riconosciuta dalla Chiesa, è secondario; la cosa fondamentale è che il passo sia veramente compiuto. Chi formalmente lo compie, entra nello stato dei consigli; chi ha e conserva la disponibilità fondamentale a seguire ogni chiamata di Dio, ma non ottiene una chiamata speciale, appartiene allo stato cristiano di vita nel mondo. « Obicies: status clericalis non est status perfectionis, nec status vitae communis, ergo adacquata non est praemissa divisio. Respondeo ( … ) controverti revera apud doctores, utrum clericatus stricte sumptus, id est quatenus ab Episcopatu distinguitur, sit necne status perfectionis. Sed quaecumque opinio hac de rè anteponatur, certum est, statum illum sub tradita divisione comprehendi. Nam si dici nequeat status perfectionis, necesse est, eum inter status vitae communis censeri, quia idem est, aliquem statum vitae christianae non esse statum perfectionis et esse statum vitae communis » ( D. Bouix, Tractatus de lure Regularium 1/1867, p. 24 ). Così si era espresso già Suarez: « De statu clericorum ( … ) controversia esse solet ( … ) In omni vero opinione certum est sub altero ex dictis contineri » ( op. cit., lib 1 e 2 n 13 ). Non dirà molto al prete che Suarez alla fine lo inserisca « aliquo modo in statum perfectionis saltem inchoatum » ( ibid., e 17 n 4 ) ( in maniera simile a S. Antonino, Summa 3, prol. 4 f ). Egli non si acquieterà finché non avrà ritrovato l'originaria corrispondenza evangelica tra missione oggettiva e dedizione soggettiva, per quanto essa è possibile all'uomo. Nascondi Recenti prese di posizione Le encicliche sul sacerdozio degli ultimi papi tracciano decisamente un sentiero nella fitta boscaglia di concetti, accennando semplicemente alla necessità di una corrispondenza tra funzione oggettiva del prete e la sua forma di vita, riallacciandosi a Tommaso, che malgrado la sua tendenza a ricacciare il basso clero nello stato laicale doveva ammettere: « Se uno con l'ordinazione sacra è stato prescelto per il sommo servizio, che ha da servire Cristo persino nel sacramento dell'altare, ciò esige un'interiore santità, più alta persino di quella dello stato religioso ( status religionis ) » ( S Th II II q 184 8 e ). Pio X esorta il clero cattolico ( Haerent animo, 1908, Acta Pii X, vol. TX, 237ss. ) a ciò che egli stesso coltivava eccellentemente: il legame con Cristo nella preghiera, la contemplazione, la lettura spirituale, per essere così uno specchio per il popolo, al quale esso possa guardare per imitarlo. Carlo Borromeo, Giovanni Maria Vianney furono esempi tali, da cui brillava ciò che per la Chiesa la funzione presbiterale può essere e deve essere. Pio XI nella sua enciclica sul sacerdozio ( Ad catholici sacerdotii, 20 dicembre 1935 ) diventa molto più chiaro dove si tratta della figura della santità sacerdotale. « Malgrado ciò ( cioè malgrado l'opus operatum ) proprio la dignità del sacerdote richiede nel suo portatore un senso elevato, una purezza di cuore e santità di vita quale corrisponde all'elevatezza e santità del ministero sacerdotale ( … ) Per questo Dio comandò già nell'Antico Testamento ai suoi sacerdoti e leviti: « Siate santi, come anch'io, il Signore, sono santo » ». Infatti per una degna pratica dell'Ordine Sacro non è sufficiente, come insegna S. Tommaso, un grado di perfezione qualsiasi, bensì viene richiesto un eccellente grado di virtù; come infatti col grado dell'Ordine colui che lo riceve viene posto al di sopra del popolo, così egli deve stare al di sopra di esso anche col merito della sua santità ( … ) « Insegnate ciò che credete, e mettete in pratica ciò che insegnate » dice la Chiesa tramite il vescovo ai diaconi che devono venir consacrati presbiteri. E nel Codex luris Canonici sta scritto ( C. 124 ): « I chierici hanno il dovere di configurare la loro vita interiore e il loro comportamento esteriore più santamente che i laici e in virtù e retto agire illuminare ad essi la strada col loro esempio ». Questa santità viene chiarita in cinque direzioni. Come prima cosa essa esige pietà, quel legame con Dio che è il fine e l'essenza di ogni santità. La seconda, terza e quarta cosa sono però nient'altro che verginità, povertà e obbedienza. Il papa descrive dapprima la tendenza, nei primi secoli sempre crescente, al consiglio evangelico della verginità: « Tutto ciò doveva avere l'effetto quasi necessario che i preti del Nuovo Testamento sentissero il celeste incanto di questa elevata virtù, che essi si preoccupassero anche di appartenere al numero di coloro « ai quali è dato di comprendere queste parole », che essi si autoimponessero liberamente l'osservanza della verginità, la quale poi presto fu resa un obbligo in tutta la Chiesa latina anche con una precisa legge canonica: « Anche noi dobbiamo praticare » come chiariva il 2° Concilio di Cartagine alla fine del quarto secolo « ciò che già gli Apostoli insegnavano e che già l'epoca antica osservava ». S. Epifanie attesta verso la fine del medesimo secolo che il celibato si estendeva già fino al suddiaconato: « Nessuno che viva nel matrimonio e che abbia figli viene ammesso dalla Chiesa all'Ordine di diacono, presbitero, vescovo o di suddiacono, anche se il matrimonio era solo il primo; la Chiesa è disposta a consacrare solo colui che ha rinunciato alla comunione di vita con la sua prima e unica moglie, oppure la ha già persa con la morte di lei. Questo accade soprattutto nei luoghi dove i canoni ecclesiastici vengono osservati con precisione ». ( … ) Uno spettacolo degno di essere ammirato, che i giovani leviti ( … ) liberamente rinuncino alle gioie e piacevolezze che potrebbero permettersi in maniera onorabile in un altro stato di vita! Dopo l'ordinazione, però, essi non sono più liberi di contrarre un matrimonio terreno. Tuttavia usiamo la parola « libero », poiché essi non sono costretti a entrare nell'Ordine Sacro da una qualche legge o persona, ma lo fanno per propria libera volontà ». La terza cosa che viene esigila dal prete è la povertà. A dire il vero, non la povertà evangelica, ma lo spirito che corrisponde a questa: « In mezzo alla corruzione del mondo, in cui tutto è comprabile e vendibile, egli deve camminare libero da ogni egoismo, in santo disprezzo per ogni bassa brama di guadagno terreno, alla ricerca di anime e non di denaro ( … ) « Chiamato a far parte col Signore » come il suo nome « chierico » accenna, egli non si aspetta alcun altro guadagno all'infuori di quello che Cristo promise ai suoi Apostoli: « La vostra ricompensa è grande nei cieli » ( … ) Se si pensa che Giuda, un Apostolo di Cristo, « uno dei dodici », come gli evangelisti tristemente notano, proprio per lo spirito di avidità di beni terreni fu precipitato nell'abisso della sua malvagità, si comprende allora come lo stesso spirito nel corso dei secoli abbia potuto portare tante disgrazie sulla Chiesa ( … ) Al contrario un autentico altruismo guadagna al prete i cuori di tutti. Ciò vale tanto più allorché a questa rinuncia ai beni terreni, che scaturisce dall'intima forza della fede, è collegata anche quella tenera condivisione con gli infelici di ogni sorta, che fa del prete un vero padre dei poveri ( … ) Questo zelo deve consumarlo, deve spingerlo a dimenticare se stesso e tutti gli interessi terreni, ed essere per lui un potente incitamento a consacrarsi interamente alla sua alta missione ». Se nella povertà si tratta più dello spirito interiore, nell'obbedienza sarà richiesta invece una tale forma di realizzazione che non si distingue quasi per niente da quella dei religiosi. Il papa parla della sua « necessità ». « L'obbedienza dovrà sempre unire l'uno all'altro i diversi membri della gerarchia ecclesiastica, e collegarli col Capo, ( … ) Indicare a ciascuno il suo posto e il suo compito, e ognuno dovrà seguire senza resistenza, ( … ) Ognuno dovrà vedere nelle istruzioni dei superiori ecclesiastici quelle del vero e unico Capo al quale tutti obbediamo, Gesù Cristo, nostro Signore, che per noi fu obbediente fino alla morte, anzi fino alla morte in croce. In effetti il divino Sommo Sacerdote volle che la sua completamente perfetta obbedienza nei confronti del Padre celeste divenisse a noi manifesta in modo del tutto speciale, e per questo le testimonianze dei profeti e degli evangelisti su questa integrale e perfetta sottomissione del Figlio di Dio al volere del Padre sono così numerose ( … ) Persino anche sulla croce egli non volle consegnare la sua anima nelle mani del Padre, prima di aver chiarito che tutto era compiuto di ciò che la Scrittura di lui aveva predetto: tutta la missione che gli era stata affidata dal Padre, fino all'ultimo, profondamente misterioso « Ho sete ». Egli volle con ciò mostrare quanto anche il più ardente zelo dovesse essere sempre perfettamente subordinato al volere del Padre, vale a dire sempre regolato dall'obbedienza verso chi rappresenta per noi il posto del Padre celeste e ci comunica la sua volontà: il superiore ecclesiastico conforme al diritto canonico»". Come quinto contrassegno dell'atteggiamento sacerdotale viene nominato e raccomandato l'essere navigati nella dottrina. Il prete è infatti, secondo Dionigi, purificatore, illuminatore e perfezionatore, ed ha perciò ancor più del monaco l'obbligo, commisurato allo stato, dello studio. Nascondi Pio XII, che frequentemente intervenne sul tema, parte nella sua esortazione apostolica « Menti nostrae » dalle sue encicliche sul Corpo Mistico e sul Redentore: il sacerdozio è inserito nel luogo in cui la Chiesa viene assunta nel sacrificio del Capo, la qual cosa richiede al prete, che celebra l'Eucaristia per il popolo e insieme con lui, che egli « diventi per così dire un'immagine vivente del nostro Redentore ». Di nuovo si preme sull'obbedienza ecclesiale: « Cristo ha istituito nella comunità da lui fondata una autorità legittima; chi perciò obbedisce alle guide della Chiesa, obbedisce al divino Redentore ». Corrispondentemente viene sottolineato che i preti « devono allontanare sempre più il loro spirito dalle ricchezze e dai piaceri terreni »; anche se essi non pronunciano alcun voto di povertà « devono lasciarsi guidare dall'amore per questa povertà ». Solo così è possibile conformarsi ai sentimenti del Capo della Chiesa, che donò se stesso. È questo l'auspicio fondamentale del Papa. Nascondi Giovanni XXIII esordisce con decisione nella sua prima enciclica « Sacerdotii nostri primordia » ( 1959, in occasione del 100° anniversario della morte di S. Giovanni Maria Vianney ) riprendendo certe espressioni del suo predecessore, secondo cui il chierico non è legato per diritto divino ai consigli evangelici della povertà, della castità e dell'obbedienza: « Misconoscerebbe però indubbiamente il vero spirito di questo papa, che fu così preoccupato della santità dei preti, e contraddirebbe il magistero ecclesiale, che in questo rimase sempre uguale a se stesso, colui che osasse concludere da ciò che i preti, in base al loro ufficio, sono meno obbligati dei religiosi a tendere alla perfezione evangelica. Le cose stanno invece in tutt'altro modo. Infatti per il dovuto giusto adempimento delle funzioni sacerdotali « viene richiesta una santità interiore più grande persino di quella che viene richiesta nello stato religioso » ( S. Tommaso ). Se il prete per il conseguimento di tale santità non è obbligato in base al suo stato ad abbracciare i consigli evangelici, tuttavia la strada di questi consigli è aperta a lui, come a tutti i cristiani, come la più sicura per raggiungere la meta della perfezione cristiana. È per noi una grande consolazione il fatto che oggi così tanti sacerdoti generosi sono di questa medesima opinione, nella misura in cui essi, come chierici diocesani, cercano assistenza e aiuto in comunità presbiterali ecclesiasticamente riconosciute! sulla qual cosa Giovanni XXIII sviluppa un'affascinante immagine dell'estrema povertà, della « castità che brillava dal suo volto » e della completa obbedienza ecclesiale del Curato d'Ars. Verso la fine egli acclude una frase del Santo al suo vescovo: « Se Lei vuole convertire tutta la diocesi a Dio, si preoccupi che tutti i parroci divengano santi ». Nascondi È importante che il Vaticano Secondo nel suo decreto sulla vita ministeriale del sacerdote ( Presbyterorum ordinis, 7 ) va avanti sulla pista di queste istruzioni. Se adesso la particolare funzione presbiterale viene fatta derivare più dal sacerdozio universale della Chiesa ( PO 2 ) o più dall'alto, dall' « ufficio di Cristo unico Mediatore » ( Lumen Gentium 28 ), è importante tuttavia che ambedue conducano al fatto ( con la consacrazione ) e all'esigenza di una « conformità » ( PO 12 ) a Cristo, la quale sola permette al prete di rappresentare efficacemente Cristo fra gli uomini. « La santità del sacerdote contribuisce in alta misura alla maggior fecondità del suo speciale servizio ». Nascondi Essa viene abbozzata, laddove vengono descritte le virtù specialmente necessarie ai preti, ancora una volta in base ai consigli evangelici: come « intima prontezza a non cercare la volontà propria », ma « accettare ed eseguire con spirito di fede ciò che il Papa e il proprio vescovo » prescrivono ( PO 15 ), come celibato, che è « sotto molteplici aspetti adeguato per il sacerdozio » ( PO 16 ), come povertà, dapprima nello spirito, ma oltre a questo i preti vengono « incoraggiati alla povertà volontaria, nella quale essi divengono simili a Cristo e disponibili per il servizio sacro ». « Anche un certo uso comunitario dei beni ( … ) può spianare la strada in maniera eccellente all'amore pastorale … » ( PO 17 ). Nascondi Paolo VI sottolinea nella sua enciclica « Sacerdotalis Caelibatus » ( 24 giugno 1967 ) il punto in cui funzione sacerdotale e vita secondo i consigli sono annodati in modo particolarmente visibile, la distinzione di funzione e consiglio ( C. 15,42 ), ma anche l'unità della chiamata originaria di Gesù al ministero e alla sequela esistenziale ( C. 22-23 ), l'intima necessità di « venir conformati alla figura dell'amore e del sacrificio del nostro Redentore » ( C. 25 ), tanto più nella celebrazione dell'Eucaristia ( C. 29 ). Il Sinodo Episcopale del 1971 si è occupato del ministero sacerdotale. Importante è qui la determinazione teologica del « carattere » incancellabile conferito con l'ordinazione sacerdotale. « Esso esprime il fatto che Cristo si è unito alla Chiesa per la salvezza del mondo in maniera irrevocabile, e che la Chiesa da parte sua si è consegnata definitivamente a Cristo, per compiere insieme a lui la sua opera di salvezza. Nascondi Il prete, la cui esistenza è stata sigillata dal dono ricevuto con l'ordinazione sacramentale, richiama alla memoria della Chiesa che l'autodedizione di Dio è definitiva » ( C. 13 ). Di conseguenza il prete sta con la sua esistenza nel preciso punto d'incrocio delle due definitività e le simbolizza entrambe, cosa che ancora una volta sottolinea l'esigenza di passare dall'essere al dover essere e al fare. Per quanto riguarda la vita spirituale del prete, essa verrà compresa a partire dal Vangelo ( Mc 3,14 ) come chiamata a stare vicino al Signore e come promozione nell'esser consacrati ( Gv 17,19 ) ( C. 19 ). Nascondi Viene motivata dettagliatamente la conservazione del celibato nella Chiesa latina e sottolineata la sua libertà; si parla non solo di « piena concordantia », ma di « intima cohaerentia » tra ministero e celibato, cosa che esclude che nella verginità sacerdotale si scorga un « carisma » determinato, limitato, offerto solo a pochi, che di conseguenza sarebbe facilmente « stralciabile » dalla vocazione presbiterale ( C. 20 ). La posizione della domanda oggi Rifacendosi alla dottrina sugli stati di vita di S. Tommaso, il cardinal D. Morder, filosofo e primate del Belgio ( La vie intérieure, 1918 ), caldeggia una chiara sovraordinazione del sacerdozio secolare sullo stato religioso. Al suo seguito si sviluppò una nuova « teologia del sacerdozio secolare », sostenuta specialmente dal clero del Belgio e della Francia settentrionale. Mercier considera un « ostinato pregiudizio » ( p. 185 ) porre l'ideale degli ordini religiosi sopra quello del sacerdozio secolare. Questo pregiudizio sarebbe anche la causa di un certo malessere ( « malaise », p. 211, p. 161 ), proprio in zelanti preti secolari; essi si sentivano insoddisfatti, e cercavano di indirizzarsi nel loro tendere alla perfezione prevalentemente verso l'ideale degli ordini religiosi. I giovani più dotati nei seminari entrerebbero di preferenza negli ordini religiosi, cosa che facilmente condurrebbe il clero secolare in odore di istituzione subordinata, anzi imperfetta. Per questo egli vorrebbe in primo luogo abolire « l'odiosa parola "clero secolare" » ( p. 161 ), e in sostituzione propone « clero diocesano, clergé diocésain » ( p. 198 ), cosa che ha trovato un entusiastico seguito. Mercier comincia così, sulle tracce di S. Tommaso, a distinguere nettamente fra stato di perfezione e perfezione stessa. Il primo sta a significare uno stato esteriore, sociale, regolato dal diritto canonico, mentre la perfezione stessa ( état parfaif ) è una condizione interiore del soggetto, che vale davanti a Dio ( pp. 165-7 ). Nel primo si trovano i vescovi e i religiosi, ma in modo tale che per il vescovo la perfezione viene presupposta con l'ordinazione, mentre i religiosi, invece, sono solamente obbligati a tendere verso la perfezione. « L'evéque est suppose parfait » ( pp. 166-7 ). « È sufficiente per un religioso che la perfezione sia un programma di vita, una speranza, mentre è indispensabile per il vescovo che essa sia una realtà adempiuta » ( p. 192 ). Ciò è così perché il vescovo impegna solennemente e irrevocabilmente la sua vita come sponsus Ecclesiae per le sue pecore ( p. 195 ). Ora però il clero diocesano forma per così dire in stretta partecipazione al ministero episcopale - sebbene esso non sia nello stato esteriore della perfezione - il suo organo prolungato. Mercier conclude da ciò che esso partecipa per questo in egual misura alla perfezione episcopale. E ciò essenzialmente a motivo dell'ufficio, della funzione, che come tale esige la santità, e precisamente, secondo Tommaso, una santità maggiore di quella stessa dello stato religioso. Mentre gli opposti testi della Summa non vengono mai citati, Mercier cita sempre di nuovo quest'unico testo ( II II q 184 a 8 ). Si potrebbe obiettare che esigere e presupporre non sono la stessa cosa. Ma Mercier è solo all'inizio della sua adduzione di prove. In primo luogo questa esigenza di massima santità viene ancorata il più a fondo possibile nell'ufficio stesso del presbitero ( p. 169 ); « Voi siete obbligati in base al vostro sacerdozio ad una santità più alta che i religiosi! » ( p. 198 ). Persino se un prete entrasse in un ordine religioso « dovrebbe cercare, adesso come prima della sua entrata, il motivo più profondo, il motivo decisivo della sua vocazione alla "religio" e alla santità, nel suo essere prete » ( p. 200 ). « In effetti, se il religioso si consacra irrevocabilmente a Dio, a maggior titolo il prete è già consacrato a Dio per il sacramento dell'Ordine Sacro » ( p. 216 ). Se però una simile obligatio intrinseca, inalienabilis alla santità esiste per il prete, allora devono esserci nella sua consacrazione i mezzi richiesti per la perfezione ( p. 174 ), e cioè espressamente come mezzi per la perfezione evangelica: « Voi siete chiamati non meno dei monaci, anzi più strettamente di essi, alla perfezione evangelica! » ( p. 184 ). Tommaso aveva menzionato tre vantaggi dei consigli evangelici: liberazione dalla dipendenza dal mondo, quiete in Dio e pieno sacrificio dell'amore. La liberazione può però compiersi anche in altra maniera, la quiete della contemplazione di Dio non è il massimo atteggiamento, poiché secondo Tommaso stesso la rinuncia alla contemplazione per salvare un'anima sta più in alto, e il pieno sacrificio sta ultimamente nell'amore stesso, che proprio nel servizio offerto, divenuto completamente altruista in favore delle anime, raggiunge la sua massima pienezza. « Ciò che da allo stato religioso la sua superiorità sullo stato laicale è non propriamente castità, povertà, obbedienza, ma l'amore più disinteressato, che suggerisce i consigli e fa di essi la più pura offerta alla maestà del Signore. Ora però ci sono altre offerte di puro amore, e cioè tali che stanno più in alto di quelle che risiedono nella vocazione religiosa » ( p. 180 ); vale a dire il servizio alle anime. Del resto i consigli aggiungono alla virtù teologale della carità solo il merito della virtù morale di religione ( p. 177 ). « Chi dunque ha realmente l'amore, possiede anche, immanenti in esso, le essenziali virtù del religioso, è non ha bisogno di imitare servilmente la sua forma di vita. La lettera uccide, lo spirito da vita! » ( p. 183 ). L'esecuzione esteriore dei consigli presuppone certamente una « speciale vocazione a ciò », però offre solo certi « mezzi di aiuto », un « punto di partenza » per tendere all'amore perfetto ( p. 176 ). Questi mezzi di aiuto possono essere per certuni adeguati, non lo sono però per tutti ( p. 177 ). Essi non sono né gli unici, poiché nel Vangelo c'è un numero considerevole di consigli, e questi a loro volta si possono realizzare in maniere infinitamente diverse ( p. 177 ), né sono i migliori: « Prova di ciò è il fatto che il vescovo, che non si vota né alla povertà né all'obbedienza del religioso, è per la Chiesa in uno stato di perfezione che è più alto dello stato di perfezione del religioso, ed è in possesso di mezzi di perfezione che stanno più in alto dei mezzi del religioso » ( p. 178 ). « Qualunque cosa possa pensare di ciò un pubblico superficiale, è però vero che lo stato del vescovo, il quale abita in un palazzo, possiede forse personalmente un certo patrimonio, amministra beni e sbriga affari, da ordini ai suoi subalterni, è superiore a quello del religioso che si è legato coi voti ai tre consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza » ( p. 200 ). Infatti secondo Tommaso è sufficiente il disfarsi dei possedimenti nel senso dell'indifferenza, come in effetti anche l'Apostolo ammette: « Io posso entrambe le cose: avere in sovrabbondanza e languire » ( pp. 202-3 ). Infine il cardinale richiama l'attenzione sui limiti dello stato religioso. Molto spesso l'anelito al convento è una fuga egoistica dalla povertà e dalle responsabilità ( pp. 213-4 ). Soprattutto è preoccupato il religioso solo della sua salvezza personale, anzi « privata » ( p. 157 ), mentre il prete, quasi dimenticando questa, si consacra interamente alla salvezza degli altri nel perfetto amore del Signore e degli Apostoli ( p. 181, p. 206 ). Il religioso che pronuncia i tre voti, in fondo compie con ciò solo quello che il cristiano normale ha promesso nel voto battesimale; entrambi i voti sono « essenzialmente della medesima natura » ( p. 187 ). Il vero e proprio salto che separa i due stati è il chiericato; esso soltanto è vera « chiamata » ad uscir fuori dallo stato cristiano generale al quale appartengono laici e religiosi, e questa chiamata avviene per mezzo dei vescovi ( p. 188 ). Poiché dunque il prete è obbligato con la sua ordinazione ad una santità più alta che i religiosi coi loro voti, « un prete che si faccia religioso non raggiunge un gradino più alto sulla scala delle obbligazioni morali e religiose » ( p. 199 ). Piuttosto i preti secolari devono essere coscienti che essi sono in fondo i veri religiosi ( p. 159 ). « Sì, cari confratelli, voi appartenete al primo ordine fondato nella Chiesa; il vostro fondatore è Gesù Cristo stesso; i primi religiosi del suo ordine furono gli Apostoli, i loro successori sono i vescovi e in unità con essi i preti ( … ) tutti quelli che fanno pubblica « professio » di voler avere solo Dio come loro parte di eredità, di considerare solo il servizio di Dio come contenuto della loro vita » ( p. 197 ). « Il clero, che è nella Chiesa l'organo essenziale della « religio », è quindi realmente il religioso ufficiale, primario. Dappertutto il coro della Chiesa è riservato a lui, e se lo si chiama « clero secolare », questo è solo perché egli non conservò visibilmente la forma esteriore di vita dei monaci, che vivono in comunità. Egli è perciò nondimeno il clero regolare nel senso vero e proprio del termine. Di fronte ad esso, quello così chiamato è solo un accessorio, una funzione di aiuto » ( p. 192 ). Mentre gli altri ordini perseguono sempre più o meno scopi particolari, il clero forma l'ordine veramente universale ( p. 207 ), il fondamento di tutto lo stato d'elezione. I primi membri di questo ordine; gli Apostoli che hanno lasciato tutto e hanno seguito Cristo, sono i suoi modelli; infatti anch'essi, a dire il vero, non conoscevano altra formula di voto che questa promessa, questo spirito di sequela ( pp. 208-9 ). Così la posizione superiore del presbiterato rispetto allo stato religioso perdura sino in fondo; « Anche i religiosi, gli attivi come i contemplativi ( … ) devono tenere occhi e cuore indirizzati verso il vescovo, per imparare da lui, ognuno in maniera corrispondente al suo speciale stato, a conoscere e imitare il perfetto modello dell'amore e in conseguenza di ciò il modello della perfezione cristiana, religiosa e presbiterale » ( p. 217 ). Pure Paolo, nella medesima funzione, ha sempre orientale gli occhi di tutti su di sé: « Rogo vos, imitatores mei estote, sicut et ego Christi ». Mercier ha formulato la sua teoria così chiaramente e senza mezzi termini, che ai suoi seguaci non restava molto più che dettagliare ulteriormente le sue indicazioni, documentarle e fondarle. E Masure ( De l'eminente dignité du Sacerdoce diocésain, 1938 ) insiste soprattutto sulla pienezza della perfezione ecclesiale, che risiede nel vescovo e alla quale partecipano direttamente i suoi « preti diocesani ». G. Thiis ( Le dergé diocésain, 1942, ampliato e arricchito di documentazioni in: Nature et spirituali fé du dergé diocésain, 1946 ) sottolinea specialmente l'apostolicità di questo « primo ordine », il clero, e cerca la norma della perfezione presbiterale nel concetto di servizio ( ministerium ), che è allo stesso tempo « magisterium » e « regimen » ( Nature, p. 35 ). L'entrata in questo servizio è « pienezza di un impegno universale e assoluto » ( p. 57 ) alla forma di vita del « contemplativus in actione » ( p. 270 ), nell' « ordine » universale che esisteva prima di tutte le fondazioni di ordini particolari e che ha conservato anche come sua « spiritualité » il carattere universale dell'opera della redenzione di Cristo ( p. 295ss. ) Thils ripete e amplia perciò le affermazioni di Mercier sul senso e valore relativo dei voti ( p. 371ss. ). D'altra parte tutti coloro che vogliono seguire il Signore sino alla fine devono far propri i consigli, almeno secondo lo spirito. Il « Chi può capire, capisca » è indirizzato non solo ai religiosi; anche i chierici credenti hanno compreso e fatto proprio l'intero messaggio del Signore » ( p. 374 ). La situazione e con essa lo stato del clero secolare è mutato dal tempo di Tommaso. Ciò che Tommaso riferiva solo al vescovo ( la dedizione totale al gregge a lui affidato ) è divenuto praticamente proprio dell'atteggiamento di ogni prete secolare. Egli vive della stessa dedizione che colloca il vescovo nello stato di perfezione ( p. 393s. ). Attorno a tutto il movimento che si pose sotto la guida di Mgr. Guerrys, arcivescovo di Cambrai, divampò un animato dibattito ( cfr. i diversi pareri nella raccolta: Pour un clergé diocésain. Une enquéte sur sa spirituali fé particulière. Problèmes du clergé diocésain I, Paris 1947 ). Si cerca soprattutto di tener lontane dal clero diocesano le spiritualità singole degli ordini religiosi, che sarebbero, a quanto si dice, limitanti, ristrette, per collocarlo nel mezzo dell'onnicomprensiva spiritualità di Cristo e del suo triplice ufficio. Per questo si richiede - e spesso con ragione - che il vescovo entri in più stretto contatto col suo presbiterio, in un contatto analogo a quello che hanno i superiori degli ordini religiosi nei confronti dei loro subalterni, o meglio: a quello che ebbero Cristo nei confronti degli Apostoli e i vescovi della Chiesa delle origini nei confronti delle loro comunità. Una critica a tutta la teoria fu presto messa in atto. Ovviamente in base alla dignità del suo ministero il prete è più di ogni altro invitato a servirsi dei mezzi migliori che Gesù ha dato alla sua Chiesa per il raggiungimento dell'amore perfetto. Ma ora questi mezzi sono proprio soprattutto i consigli, che si devono abbracciare non per egoismo, ma per meglio servire alla causa di Cristo. Se c'è però una « spiritualità dello stato clericale », allora essa concerne nella medesima maniera il clero secolare e quello regolare, i quali debbono entrambi, per amore della loro missione ecclesiale, essere pronti a servire pienamente ( così P. Carpentier ). Inoltre la partecipazione del prete alla cura pastorale del vescovo è possibile solo per il legame di obbedienza che egli prende su di sé con l'ordinazione, e la sua disponibilità al servizio si esprime nel celibato: egli viene dunque fondato nel suo stato attraverso cose che sono prese a prestito dallo stato religioso ( così P. Nicolas ). Oltre a queste critiche si dovrà però mostrate tutta una grande dimenticanza: denunciare il fatto che si è dimenticato che nella Chiesa ci sono anche donne; donne che certamente sono chiamate allo « stato della perfezione » non meno che i chierici spesso così presuntuosi; donne che sotto il patronato della Madre del Signore e a motivo della loro femminilità possono bene accampare il diritto, ancor più che gli uomini che detengono un ufficio, a rappresentare, anzi coadempiere il perfetto atteggiamento della Chiesa che concepisce, porta in sé e genera. Ma dopo che sono state portate queste critiche ( e potrebbero anche venirne aggiunte altre ), fra le deformazioni della scuola di Mercier si potrà tuttavia trovare nascosto un desiderio che ci ha occupato sin dall'inizio di questo libro: riguadagnare l'originaria unità evangelica ( cristo-logico-mariana ) degli stati ecclesiali prima della loro differenziazione. Se noi prescindiamo per una volta dalla preordinazione di Maria allo stato mondano e allo stato dei consigli ( poiché essa è vergine per diventare madre ) e dalla connessa verginità della donna ( caratteristica della Chiesa delle origini ), che come sposa di Cristo cerca di realizzare il perfetto atteggiamento della Chiesa, vediamo che l'unità personale tra stato dei consigli e missione sacerdotale nei discepoli che vivono sotto la guida di Gesù rimane un'unità che potrebbe venir definita da Suarez e dagli autori da lui citati come l' « ordine » più originario, e che così viene vista anche nel nostro tempo da Heinz Schùrmann. E posto che il clero primitivo abbia in tutta serietà considerato come sua forma di vita la « regula » o il « canone » di questo primo « ordine » evangelico, esso dovrebbe allora ( almeno fino alla differenziazione in clero « secolare » e clero « regolare ») insieme alle vergini, ma anche insieme ai monaci, venir considerato come una continuazione di questi inizi. L'intenzione di Mercier di porre chiaramente davanti agli occhi al suo clero diocesano questa continuità è assolutamente da riconoscere, anche se il suo atteggiamento polemico contro le forme istituzionalizzate dello stato dei consigli, così come la sua fissazione su alcuni testi di S. Tommaso, lo conduce in errore. Anche nella visione comune di voto battesimale e voto « religioso » egli vede giusto, in un primo momento, nella misura in cui fa passare il monaco dallo « stato laicale » allo « stato dei consigli » come radicalizzazione del primo, che in base alla storia della Chiesa può venir definito come « stato fondamentale ». Nascondi Un'operazione simile la compie anche il Vaticano Secondo ( Lum. Gent. 41-42 ), che poi però distingue chiaramente il secondo dal primo ( Lum. Gent. 43 ). Ma la distinzione e differenziazione non significa separazione, come fondamentalmente abbiamo visto considerando lo stato di Cristo e come mostra anche esternamente la forma di vita degli ordini attivi e degli istituti secolari. In nessun caso si possono definire le diverse « spiritualità », che spesso si differenziano in base ai carismi dell'ordine, come « delimitazioni » della spiritualità evangelica fondamentale ( impersonata dal clero ). Nascondi È piuttosto l'unico Spirito che dispiega la sua pienezza e quella di Cristo nella ricca varietà dei suoi doni ( 1 Cor 12,4 ), e che produce così l'intima vitalità dell'organismo ecclesiale. E mentre egli opera questo, conferma anche che la forma di vita istituzionalizzata negli ordini religiosi è coperta veramente dallo Spirito Santo, e che « la risposta dei monaci », che spesso ha parlato piuttosto paradossalmente all'interno della storia del mondo, è nell'essenziale parola dello Spirito Santo. Nascondi E così pure il seguire i consigli di Cristo non si lascia scacciare nel terreno delle « virtù morali », poiché essi « sono fondati nella parola e nell'esempio del Signore, e raccomandate dagli Apostoli e dai Padri della Chiesa, come pure dai dottori e dai pastori della Chiesa. Sono un dono divino che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore » ( Lum. Gent. 43 ). La tradizione ecclesiale ha sempre tenuto fermo che i consigli, come espressione d'amore e in questo come mezzo per un amore più grande, sono pieni di senso. Solo così li intendono Gesù e Paolo. Perciò non sarebbero affatto conciliabili con la privata preoccupazione per la propria salvezza. Se essi promuovessero una simile preoccupazione, sarebbero più un ostacolo che un incoraggiamento sulla via di Cristo. Dovessero in relazione a ciò incrostarsi sullo stato dei consigli delle scorie lungo il cammino della storia, allora dovrebbe anch'esso, come il clero di Mercier, venir rinviato allo stato evangelico originario: « Vendi tutto, poi vieni e seguimi! »; « Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù, che divenne obbediente fino alla morte in croce! ». Si rimane perciò, anche dopo questa discussione, all'unità duplice ( Zwei-Einheit ) mostrata all'inizio tra stato presbiterale e stato religioso. Entrambi sono forme dell'unico stato d'elezione, forme diverse a seconda che l'elezione avvenga primariamente per una funzione oggettiva ( e di conseguenza per la vita che corrisponde a questa funzione ) o primariamente per una sequela personale ( e di conseguenza per una forma di vita oggettiva nel canone di una regola ). Le due forme sono dunque diverse e tuttavia molto più strettamente legate l'una all'altra di quanto di solito si ritiene. Questa unità si fonda in primo luogo nell'unità della radicalità evangelica, che solo secondariamente si può sfumare in base alle diverse elezioni, e poi più profondamente nell'unità del sacerdozio di Cristo, che è allo stesso tempo ministeriale e personale. Lo stato laicale nel mondo I membri della Chiesa che non sono né nello stato dei consigli, né nello stato sacerdotale, si trovano nello stato laicale nel mondo. Non è semplicemente come se il polo opposto allo stato sacerdotale formasse uno stato diverso dal polo opposto allo stato religioso, malgrado ci siano preti che non sono nello stato dei consigli e uomini nello stato dei consigli che non sono preti. Lo stato secolare, che non è stato presbiterale, e lo stato laicale, che non è stato dei consigli, non formano due stati diversi. Da ciò si vede ancora una volta che lo stato laicale nel mondo si rapporta ( teologicamente ) allo stato presbiterale e allo stato dei consigli non come un terzo elemento specifico, ma bensì come il generale si rapporta a ciò che è stato reso speciale da contrassegni differenzianti. Così non c'è infatti nessuna speciale consacrazione allo stato laicale, quale c'è invece per il sacerdozio o per lo stato religioso: la consacrazione del laico è quella del cristiano in generale, il Battesimo, che garantisce l'accesso a tutti gli altri Sacramenti e a tutta la perfezione dell'amore, il quale è però comune a tutti i cristiani, anche ai preti e alle persone che sono nello stato dei consigli. Certo il matrimonio sarà correlato in maniera speciale allo stato laicale e gli darà un nuovo carattere soprannaturale, una forma che non è accessibile agli altri stati. Il matrimonio soltanto fonda infatti lo « stato matrimoniale » come una possibilità per eccellenza dello stato laicale, ma non fonda lo stato laicale come tale. Non è in contrasto con ciò il fatto che nella sua dottrina dei ministeri ecclesiali Paolo enumera molti ministeri in più di quelli che spettano agli stati di vita qualificati. Questi « ministeri » sono in quanto doni di grazia ( charismata ) certo più che un puro e semplice impegno provvisorio. Nascondi Essi sono stati distribuiti dallo Spirito Santo ( 1 Cor 12,11 ) e donano al cristiano una funzione vera e propria nell'economia complessiva del Corpo Mistico. Ma già le differenze nella descrizione e classificazione dei doni mostrano che questi conservano nella loro maggioranza qualcosa di mobile, che non può fondare uno stato di vita. La prima Lettera ai Corinti enumera i doni della sapienza, della conoscenza, della fede, delle guarigioni, dell'operar miracoli, della profezia, del discernimento degli spiriti, del parlare in lingue diverse, dell'interpretazione di queste lingue ( 1 Cor 12,8-10 ). Nascondi E poco dopo: « in primo luogo l'apostolato, in secondo luogo la profezia, in terzo l'insegnamento, poi i doni di operar miracoli, di far guarigioni, di assistere, di parlare in lingue » ( 1 Cor 12,28 ). La lettera ai Romani distingue i doni della profezia, dell'assistenza, dell'insegnare, dell'ammonire, del donare in elemosina, del presiedere, del fare opere di misericordia ( Rm 12,6-8 ). Ma poi la lista prosegue con attività ecclesiali generali, alle quali un cristiano può essere in speciali circostanze, ma provvisoriamente, spinto dallo Spirito Santo: questo è già il caso dell'ammonire, del donare in elemosina o del fare opere di misericordia, ma anche delle prescrizioni che vengono subito dopo, che a modo loro sono tutte in relazione a doni dello Spirito, senza però che questi fondino una durevole funzione differenziata, o addirittura un ufficio. Nascondi Paolo può anche ammonire insieme un'intera comunità: « Correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti » ( 1 Ts 5,14 ), d'altra parte può dare istruzioni a Timoteo di dedicarsi all'esortazione e all'insegnamento ( 1 Tm 4,13 ). La dottrina di questi ministeri carismaticamente fondati mostra chiaramente due cose: che lo stato laicale nella Chiesa non consiste affatto di una massa inarticolata, senza forma, che riceve passivamente le grazie di Dio trasmesse dalla Gerarchia, ma che la Grazia contiene piuttosto sempre anche una missione, un compito ecclesialmente determinato, impone una responsabilità per tutto l'insieme del Corpo di Cristo, del quale noi, "ciascuno per la sua parte" ( 1 Cor 12,27 ), siamo membra. Corrisponde sicuramente al modo di pensare di Paolo l'attribuire un simile carisma ad ogni cristiano nella Chiesa, poiché risiede nell'essenza stessa della Grazia l'essere tanto ecclesiale quanto missionaria. Questa missione personale conferita dallo Spirito è connessa al sacramento della Cresima, col quale il cristiano viene elevato da una vita prevalentemente passiva e ancora infantile, disimpegnata, ad un'esistenza condeterminante, poiché corresponsabile, nella comunità ecclesiale. Non diventa soltanto, come il cittadino maggiorenne idoneo a votare, ma gli viene assegnato un compito ininterscambiabile nella cura per la comunità ecclesiale. La Grazia, infatti, guida ognuno in maniera differenziata e personale, e richiede una risposta personale. La coscienza di questa funzione personale, che anche il laico non si sceglie da sé, ma gli viene conferita dall'alto in divina sovranità, e che egli deve ricoprire con la medesima cura e coscienziosità come per una funzione civile, nella maggior parte dei laici è presto andata smarrita e anche oggi, nell'epoca dei movimenti ecclesiali laicali, non è ancora sbocciata in essi in tutta la sua piena portata. Nascondi Le liste di S. Paolo mostrano addirittura che sotto il punto di vista dei « ministeri carismatici » la distanza tra gli stati non viene sottolineata: l'apostolato e il ministero ecclesiastico ( diakonìa, Rm 12,7 ) vengono menzionati coralmente insieme ad altri ministeri accessibili ai laici o riservati ad essi. Paolo rimprovera piuttosto la comunità perché essa per colpa propria sopporta soltanto o addirittura non compie nemmeno il passaggio dalla condizione del ricevere passivamente a quella del contribuire attivamente, rimane intanata in un « cristianesimo infantile » ( os nepìous en Christó ), che vuol sempre il latte e non intende ricevere un cibo più solido ( 1 Cor 3,1-2 ). « Voi che dovreste essere ormai maestri per ragioni di anzianità, avete di nuovo bisogno che qualcuno v'insegni i primi elementi della dottrina divina, e siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido. Ora, chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina della giustizia, perché è ancora bambino. Nascondi Il nutrimento solido, invece, è per gli uomini fatti, quelli che hanno le facoltà esercitate a distinguere il buono dal cattivo » ( Eb 5,12-14 ). Col suo colpevole infantilismo questa comunità si è giocata perlomeno tre missioni dello Spirito Santo: il dono dell'insegnamento, quello del riconoscimento della Parola divina e quello del discernimento degli spiriti, che, quantunque siano grazie carismatiche ( 1 Cor 12,10 ), presuppongono però la cooperazione del cristiano spiritualmente adulto e cosciente della sua responsabilità, e perciò il suo impegno personalmente esercitato. Di fronte a ciò sta il secondo aspetto: se le grazie, i ministeri, le funzioni conferite dallo Spirito non sono semplicemente grazie private, ma privilegi intesi in dimensione ecclesiale, conferiti in favore della comunità, essi non sono tuttavia in grado di fondare uno stato di vita. Ne nella Scrittura stessa - ad esempio nella descrizione della comunità di Corinto con la sua proliferante vita carismatica, i cui eccessi personalistici Paolo reintegra in una salda dottrina dei ministeri e delle funzioni che sono oggettivamente ecclesiali - né nella cristianità delle origini, né nell'insieme della storia della Chiesa questi ministeri - a prescindere da poche eccezioni, come quelle dei « confessores »1 - innalzano la pretesa di entrare in concorrenza con la gerarchia ecclesiale o con lo stato dei consigli. Essi sono stati forse piuttosto troppo poco messi in rilievo, che non fortemente accentuati. Essi sono infine per lo più tramontati, perché la comunità dei laici poté sempre di nuovo riferire a se stessa i mordenti rimproveri di Paolo: sedersi ancora sui banchi di scuola, dove essa doveva invece già da lungo tempo essere maestra. È un'antica esperienza della Chiesa, che molto spesso il laico non voglia affatto nella Chiesa essere adulto nel senso spirituale, poiché maturità cristiana non significa semplicemente il più serio impegno in tutti i servizi suggeriti dallo Spirito Santo e donati come compito, ma presuppone una maturità soprannaturale raggiungibile soltanto attraverso molta preghiera e rinuncia, maturità che però proprio in tanti laici che a tutta voce si proclamano adulti risulta mancante. Una volta che i credenti sono stati dotati di speciali doni di grazia, istruzioni e richieste dello Spirito risulta, dove non abbia luogo una elezione qualitativa, la condizione distintiva dello stato laicale. Abbiamo visto prima che considerato a partire dalla strumentalità dell'ufficio ecclesiale e della vita secondo i consigli ( S Th II II q 184 a 3 ) esso può venir indicato come lo stato principale, per così dire, lo stato basilare della Chiesa. Nella misura in cui esso è tale ( mentre gli altri due stati sono stabiliti da specifiche differenze ), questi ultimi possono venir visti anche come esplicitazioni, sottolineature, concretizzazioni del primo, verso il quale essi stanno in rapporto di servizio. Questo vale per lo stato sacerdotale, che in effetti è essenzialmente funzione ( quella di rappresentare Cristo ), ed è quindi ordinato al tutto. Vale in misura ancora maggiore per lo stato dei consigli, che non vuole realizzare altro ideale « più alto » che quello universalmente cristiano e deve perciò, sulla sua via particolare, rappresentare per tutti la perfezione evangelica alla quale tutti dovrebbero aspirare. Esso è come l'elevazione a potenza di un numero di base nel quale tutti sono compresi, il prendere sul serio una richiesta che è rivolta a tutti, l'erezione di un modello che tutti dovrebbero imitare, il dar forma a un tipo d'umanità al quale tutti dovrebbero partecipare. Così gli stati qualificati stanno a servizio dell'insieme e non hanno alcuna giustificazione del proprio esserci all'infuori di questo servizio. Essi devono sempre nuovamente comunicare allo stato fondamentale della Chiesa la pienezza della Grazia divina, chiarirgliela, fargliela arrivare in ogni maniera possibile. La ricchezza che sembra essere peculiare di essi, la possiedono solo in favore dell'universalità della Chiesa, la quale la possiede quando essa si trova in possesso a Cristo. Essi sono un tesoro dal quale può prendere la Chiesa dei laici, un tesoro che essa a ragione può definire proprietà sua in Cristo. Il sacerdozio le mostra e le dà a nome di Cristo ciò a cui essa ha diritto; lo stato dei consigli le mostra quello che la sua propria vita cristiana contiene quanto a possibilità di dispiegamento, e glielo pone a disposizione tanto col suo essere quanto col suo esempio. Tutto ciò che a quelli accade, anche le cose più interiori, personali, rivolte verso Dio, accade a loro in favore della comunità. Nascondi « Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è parimenti per la vostra consolazione, ( … ) così la nostra speranza nei vostri riguardi è ben salda, convinti che come siete partecipi delle sofferenze così lo siete anche della consolazione » ( 2 Cor 1,6-7 ). Tutto il drammatico accadere che fa degli Apostoli « uno spettacolo per il mondo, gli angeli e gli uomini » ( 1 Cor 4,9 ) non rimane sospeso in se stesso: « Tutto questo accade in vostro favore, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l'inno di lode alla gloria di Dio » ( 2 Cor 4,15 ). Nascondi I vistosi doni di grazia degli stati speciali ci sono affinché i cristiani « abbiano di che rispondere a coloro il cui vanto è esteriore e non nel cuore » ( 2 Cor 5,12 ); anzi l'intera economia particolare, che ripresenta sacramentalmente o personalmente la storia della salvezza, è in possesso dell'insieme della Chiesa: « Tutto è vostro. Paolo, Apollo e Cefa, il mondo, la vita e la morte, il presente e il futuro: tutto è vostro! » ( 1 Cor 3,21-22 ). Colui che è stato collocato a servizio di questa ricchezza della Chiesa sopporta perciò « tutto in favore degli eletti, affinché essi pervengano alla salvezza che è in Cristo Gesù e alla gloria eterna » ( 2 Tm 2,10 ), egli si inserisce nel mistero di Cristo, che ha scelto per sé il niente e la povertà affinché la sua sposa, la Chiesa, sia ricca: « Voi conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà » ( 2 Cor 8,9 ). Nascondi Così anche l'eletto: « Noi siamo stolti a causa di Cristo, voi siete sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati, ( … ) siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi » ( 1 Cor 4,10-13 ). Egli « si abbassa, per esaltare voi » ( 2 Cor 11,7 ), egli si rallegra quando è « debole, mentre voi siete forti » ( 2 Cor 13,9 ). Infatti come il Signore « che non aveva conosciuto peccato, fu reso per noi peccato, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio » ( 2 Cor 5,21 ), così anche l'Apostolo può dire di sé: « Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero » ( 1 Cor 9,19 ). Nascondi Egli si mette ai piedi della comunità con tutta la sua esistenza: « Cos'è Apollo? Cos'è Paolo? Solo servitori » ( 1 Cor 3,5 ), « ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio » ( 1 Cor 4,1 ). « Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù » ( 2 Cor 4,5 ). « Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita » ( 2 Cor 4,12 ). Ma mostrando questo contrasto fra sé e la comunità, l'Apostolo vuoi solo annodare tanto più saldamente l'unità. La contrapposizione ha per presupposto l'unità dell'amore e per fine il suo aumento. Gli eletti, riversando sulla comunità tutta la pienezza della vita cristiana - oggettivamente nei sacramenti e nella dottrina trasmessa, soggettivamente col loro esempio, la ricchezza delle loro esperienze cristiane in gioia e dolore, estasi e persecuzione -, mirano solo sempre a che la comunità possa partecipare a questa ricchezza. Con la parola e con l'esempio essi comunicano ad essa ciò che le appartiene in base alla grazia, che però essa non ha mai sufficientemente realizzato e riconosciuto come suo proprio. Così per un momento la comunità laicale appare nei confronti del ministero sacerdotale come colei che passivamente riceve i doni, come ricolmata dell'intera pienezza di Dio, quale la portano e rappresentano gli eletti, al di là di ogni possibilità d'immaginazione. Nascondi « Noi siamo i collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio » ( 1 Cor 3,9 ). « Non siete voi forse mia opera nel Signore? » ( 1 Cor 9,1 ). In ogni maniera possibile le viene detto quanto essa valga agli occhi di Dio, quanto il Padre, il Figlio, lo Spirito, gli eletti hanno fatto per lei, quanto tutto ciò che essa possiede superi le sue aspettative e la sua capacità di comprendere. E ciò che alla comunità viene detto e comunicato dagli incaricati di questo è il massimo che nella fede può ancora venir reso intuibile: « Non siete coscienti che Gesù Cristo abita in voi? » ( 2 Cor 13,5 ). Nascondi « Cristo in voi: speranza della gloria! » ( Col 1,27 ). Questo in - essere di Cristo nei credenti è un essenziale essere inseriti nella sua morte e resurrezione: « essere morti con Cristo, risorgere con Cristo » ( Rm 6,8 ), « con-risuscitati con Cristo, e fatti sedere nel Regno dei Cieli » ( Ef 2,6 ), « vita in Cristo come nuova creatura » ( 2 Cor 5,17 ), e di conseguenza « vita per lui, che è morto e risorto per noi » ( 2 Cor 5,15 ), come coloro a cui Dio « ha impresso il sigillo e ha dato la caparra dello Spirito nei cuori » ( 2 Cor 1,22 ). Dà l'effetto di un vero e proprio profluvio di grazia la descrizione dell'elezione cristiana all'inizio della Lettera agli Efesini: partendo dalle remote origini dell'eternità divina, nelle quali già noi fummo amati e in Cristo predestinati ad essere santi e figli del Padre, passando attraverso la pienezza dei tempi, in cui grazie a Cristo diventammo partecipi dell'eredità « per la ricchezza della sua grazia, che egli ha riversato su di noi con ogni sapienza e intelligenza », fino alla sigillazione per opera dello Spirito Santo, l'ultimo mistero della Trinità. Nascondi Così l'Apostolo prorompe davanti alla comunità nella fervente preghiera: « Possa Dio illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi, e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti, secondo l'efficacia della sua forza, che egli manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli ( … ) e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose » ( Ef 1,18-23 ). Questo venir ricolmati con tutti i misteri di Cristo, anzi questa ammissione a partecipare alla stessa natura divina ( 2 Pt 1,4 ), questo ricevere in dono senza riserve tutte le ricchezze che Dio ha da distribuire - « lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio ( … ) i suoi intimi segreti ( … ) ora, noi possediamo lo Spirito di Cristo » ( 1 Cor 2,10-11-16 ) -, tutto questo la comunità non può però lasciarlo accadere su di sé in modo solamente passivo. Infatti la pura passività non riceve realmente. Per possedere, bisogna accettare; e quanto più spirituale è il dono, tanto più bisogna accettarlo con gratitudine e con gioia. Allora il ricevere la grazia si muta da sé in una azione attiva, nell'azione dell'accettare, prendere in mano, comprendere, eseguire e donare ad altri. Chi potrebbe lasciare accadere su di sé l'amore divino, affidarsi ad esso, senza divenire egli stesso un amante? Questo è già compreso nello stesso gesto del ricevere, e la risposta a Dio diventa di per sé un donare ulteriormente ai fratelli ciò che si è ricevuto. Anzi questo donare ulteriormente diventa proprio la pietra di paragone per vedere se l'accoglienza della Grazia ha veramente avuto luogo. A tal punto sono una sola cosa il ricevere la Grazia e l'essere inviati in missione! « Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Nascondi Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri » ( 1 Gv 4,7-11 ). Il vivere a partire dalla fede ( ciò che in senso più ampio si chiama missione e apostolato ) non è una realtà secondaria accanto alla prima, quella dell'essere in stato di grazia. L'esigenza di vivere cristianamente non è qualcosa che deve venir dedotto in un secondo tempo dal fatto di essere cristiani. In questo consiste il paradosso cristiano: che la grazia donata comprende essenzialmente in sé l'esigenza assoluta di vivere secondo la grazia, e che Dio ha il misterioso potere di infrangere ultimamente anche le resistenze dell'uomo. Nascondi La grazia di Dio ha una « preponderanza » ( Rm 5,15-21 ) che non può venir espressa altrimenti che nella formula paradossale: « Se noi lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso » ( 2 Tm 2,12-13 ). La grazia è quindi una richiesta rivolta ad ogni vita cristiana. E come la grazia non conosce alcuna superiore frontiera, così anche la richiesta rivolta ad ogni cristiano non conosce alcuna frontiera superiore. Nascondi I misteri dello stato sacerdotale e dello stato dei consigli non formano un piano superiore, esoterico, al di sopra dell'umile pianterreno della « vita cristiana normale »; essi piuttosto ci sono per promuovere e rivelare in ogni cristiano « le profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio » ( Rm 11,33 ). I Sacramenti hanno la loro « verità » non al di fuori della cristianità che li riceve: essi vogliono venir vissuti, in base al loro contenuto, nella vita dei cristiani. Nascondi Se Cristo nella Messa si offre in sacrificio per noi, allora questo esige e include « che anche noi offriamo la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ), che anche noi « offriamo la nostra esistenza come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio » ( Rm 12,1 ) e « offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio » ( Eb 13,15 ). E se Egli dimora sacramentalmente in mezzo a noi, questo è in favore dei credenti, affinché anch'essi possano attuare questa presenza fuori del sacramento: la comunione di due o tre nel suo nome è sufficiente perché egli sia in mezzo ad essi ( Mt 18,20 ). Nascondi Se c'è un sacerdozio ministeriale che deve amministrare le grazie di Dio, questo è solo perché l'intera comunità della Chiesa con tutti i laici sia « una stirpe eletta, un sacerdozio regale » ( 1 Pt 2,9 ). Se il Signore attraverso il ministero si distribuisce eucaristicamente a tutti, questo è perché « noi tutti siamo un solo corpo, noi che partecipiamo a un unico pane » ( 1 Cor 10,17 ) e perché siano « tutti, giudei e greci, schiavi e liberi, uniti in un solo corpo per mezzo di un solo Spirito » ( 1 Cor 12,13 ) e perché corrispondentemente vivano, muoiano, si prendano cura l'uno dell'altro. Nascondi Nel Battesimo siamo tutti essenzialmente morti al peccato e alla vita egoistica ( Rm 6,2 ), dove è già incluso che dobbiamo consegnare le nostre membra a Dio come strumenti di giustizia ( Rm 6,13 ). « Non sapete che non appartenete più a voi stessi? » ( 1 Cor 6,19 ). « Se uno è morto per tutti, allora tutti sono morti; egli è morto per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi » ( 2 Cor 5,15 ). « Nessuno di noi vive per se stesso, e nessuno di noi muore per se stesso. Nascondi Se viviamo, viviamo per il Signore; se muoriamo, muoriamo per il Signore » ( Rm 14,7-8 ). Essere battezzati significa dunque in modo assoluto rinuncia ad una conduzione di vita secondo il proprio arbitrio, poiché « vivo non più io, ma Cristo vive in me » ( Gal 2,20 ). Poiché però « Cristo non si è orientato a seconda del proprio piacimento, ( … ) anche noi non possiamo orientarci a nostro piacimento » ( Rm 15,3 ). La regola del nostro agire e subire non sarà più ciò che è permesso al singolo come persona privata, ciò di cui egli può assumere la responsabilità in base alla sua propria coscienza, ma bensì ciò che conviene per la comunità e in ogni caso ciò che non può suscitar scandalo presso i membri delle comunità più deboli. « Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare le mancanze dei più deboli, e non possiamo orientarci secondo il nostro arbitrio. Nascondi Diamoci dunque alle opere di pace e alla edificazione vicendevole » ( Rm 15,1; Rm 14,19 ). « Portate i pesi gli uni degli altri » ( Gal 6,2 ). Se il Battesimo acquista così la sua verità immediata nella vita dei cristiani, ciò accade nondimeno per la Confessione sacramentale. Se infatti gli Apostoli hanno ottenuto il potere di legare e di sciogliere, cioè di perdonare i peccati in nome di Cristo e con la sua divina autorità, questo ministero deve tuttavia ripercuotersi lungo tutta la Chiesa. Nascondi Non soltanto nel senso che « dobbiamo perdonarci l'un l'altro, come Dio ci ha perdonato in Cristo » ( Ef 4,32; « come il Signore vi ha perdonato, così perdonate anche voi ». Col 3,13 ), ma ancor più espressamente nel senso del tenere aperti i cuori e gli animi gli uni agli altri: « davanti a Dio gli siamo ben noti, e spero di esserlo anche davanti alle vostre coscienze » ( 2 Cor 5,11 ). « Confessate i vostri peccati perciò gli uni agli altri, e pregate gli uni per gli altri, per trovare guarigione » ( Gc 5,16 ), fino al punto che si deve anche strappare al fratello la confessione dei suoi errori: « Se egli ti ascolta, tu hai guadagnato tuo fratello » ( Mt 18,15 ). Nascondi « Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salva la sua anima e copre una moltitudine di peccati » ( Gc 5,20 ). Così anche l'obbligo ministeriale del prete di ammonire e riprendere ( 2 Tm 2,25 ) trapassa senza perdere di intensità ai laici: « Perciò ammonitevi a vicenda ed edificatevi l'un l'altro » ( 1 Ts 5,11 ), « chi non obbedisce non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello » ( 2 Ts 3,15 ). Infine l'immagine archetipa di Cristo viene tradotta in esperienza di vita nella comunità laicale così direttamente che il mistero centrale della sua dedizione sacrificale alla Chiesa diviene per i laici un sacramento vero e proprio, il sacramento laicale del matrimonio, che i coniugi davanti alla Chiesa ( rappresentata dal sacerdote ) si amministrano vicendevolmente ( Ef 5,21-33 ). Come i laici ricevono la parola sacramentale di Dio per tradurla immediatamente nella verità della loro vita e lasciarla operare in essa ulteriormente in modo autonomo, così essi accolgono anche il Vangelo annunciato ufficialmente nella predicazione non in modo passivo, ma assolutamente attivo, per farlo diventare in se stessi annuncio vissuto. Nascondi Poiché la comunità « ha accolto la parola della predicazione non come parola d'uomini, ma qual essa è in verità, come parola di Dio », per questo « essa si mostra in voi efficace » fino alla rappresentazione di questa parola nella persecuzione e nel martirio ( 1 Ts 2,13-14 ). Anzi, ogni parola di un cristiano deve essere « una parola buona, che possa servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che la ascoltano » ( Ef 4,29 ). Nascondi La predicazione ministeriale mira a che la Parola di Dio rimanga, abiti e operi in mezzo alla comunità laicale ( Laiengemeinde ): « La parola di Dio dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza » ( Col 3,16 ). Dai laici adulti nella Chiesa ci si aspetta che essi sappiano maneggiare senza far ricorso al prete « la spada dello Spirito, cioè la Parola di Dio » ( Ef 6,17 ). Nascondi La trasmissione ad altri della fede non può essere per essi qualcosa di lasciato al caso, ma deve derivare continuamente dalla stessa grazia della fede: « Come sta scritto: "Ho creduto, perciò ho parlato", anche noi crediamo e perciò parliamo » ( 2 Cor 4,13 ), e così vale per ogni cristiano quello che l'Apostolo dice di sé: « Guai a me, se non predicassi il Vangelo! » ( 1 Cor 9,16 ). Egli si aspetta che la comunità trasmetta ad altri la Parola seminata in essa, diventi una annunciatrice del Vangelo, non solo nel suo clero, ma come laicato in tutto il suo insieme. « Così voi siete diventati un modello per tutti i credenti che sono nella Macedonia e nell'Acaia. Nascondi Infatti la parola del Signore riecheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell'Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto » ( 1 Ts 1,7-8 ). Predicazione con la parola o con l'esempio: le due cose non si possono separare, poiché la testimonianza circa Cristo è sempre contemporaneamente una testimonianza con la parola e con le opere ( Gv 10,38; Gv25,36 ), al punto che la testimonianza della parola senza le opere non vale nulla; al contrario, soltanto la testimonianza della vita può parlare come testimonianza con parole: « Voi mogli obbedite ai vostri mariti, perché anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati, considerando la vostra condotta casta e rispettosa » ( 1 Pt 3,1s ). Come il laico deve non solo far diventare in se stesso fruttuose le funzioni sacerdotali, l'amministrazione di Sacramenti e Parola, ma anche tradurle nella verità del suo stato di vita, affinché esse possano raggiungere il loro scopo, allo stesso modo egli deve ora trasferire nella sua vita anche l'esempio e le vie particolari dello stato dei consigli. Già molte volte si è spiegato che complessivamente la luce dello stato dei consigli ha una finalità esterna a sé, deve illuminare la Chiesa intera. Nascondi E questo è così intimamente vero che lo stesso stato laicale diventa grazie a ciò « sale della terra », « luce del mondo », « città posta in cima al monte », « lucerna sopra il lucerniere »; « Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini! » ( Mt 5,13-16 ). Paolo non si stanca di presentare la sua propria eccezionale vita come « modello » per la Chiesa intera: « Fatevi miei imitatori, o fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l'esempio che avete in noi ». « Vi esorto, dunque, fatevi miei imitatori! » ( 1 Cor 4,16 ); « fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo » ( 1 Cor 11,1 ). Nascondi « Voi sapete infatti come dovete imitarci » ( 2 Ts 3,7 ). « Voi siete diventati imitatori nostri e del Signore » ( 1 Ts 1,6 ). « Io dovetti essere un modello per coloro che credono in Cristo e pervengono alla vita eterna » ( 1 Tm 1,16 ). « Prendi come modello ciò che hai ricevuto da me, come dottrina salvifica nella fede » ( 2 Tm 1,13 ). Nascondi E infine riassumendo tutta la sua esistenza: « Tu invece mi hai seguito da vicino nell'insegnamento, nella condotta, nei propositi, nella fede, nella magnanimità, nell'amore del prossimo, nella pazienza, nelle persecuzioni e nelle sofferenze » ( 2 Tm 3,10s ). Tutto nell'Apostolo è nutrimento per la comunità, tutto di lui viene usato per edificarla e rafforzarla. Lo stesso vale per tutti quelli che hanno il compito di essere « forma del gregge » ( 1 Pt 5,3 ). Paolo non sceglie dalla sua vita nessuna cosa in particolare da raccomandare alla imitazione della comunità in modo speciale; egli non può farlo, perché anche le sofferenze che sopporta per amore della comunità appartengono alla comunità e sono ultimamente la cosa più preziosa che egli le trasmette prendendola dal suo esempio. Addirittura anche la speciale sorte di vittima sacrificale che è riservata allo stato dei consigli viene presentata al laicato per essere imitata. Nascondi In primo luogo a coloro che stanno a capo della comunità: « In tutte le maniere vi ho mostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: vi è più gioia nel dare che nel ricevere » ( At 20,35 ). « Soffri anche tu, prendendo parte alle mie sofferenze per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio! » ( 2 Tm 1,8 ), « come un buon soldato di Cristo Gesù prendi parte alle mie sofferenze » ( 2 Tm 2,3 ). Poi però anche all'intera comunità: « Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù devono subire persecuzioni » ( 2 Tm 3,12 ). Nascondi « Dovete venir trovati degni del Regno di Dio, per il quale ora soffrite » ( 2 Ts 1,5 ). « Voi sapete che è per questo che noi siamo qui, per confortarvi nelle tribolazioni » ( 1 Ts 3,3 ). « A voi è conferita la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui » ( Fil 1,29 ). « Se facendo il bene sopportate con pazienza la sofferenza, ciò è gradito davanti a Dio. Nascondi A questo intatti siete chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme » ( 1 Pt 2,20-21 ). Così la comunità diventa partecipe non solo dei frutti della sofferenza degli uomini che vivono nello stato dei consigli, ma può partecipare attivamente alla loro vocazione al sacrificio. « Io vi porto nel mio cuore, voi tutti che siete partecipi della grazia che mi è stata concessa, sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del Vangelo » ( Fil 1,7 ). Nascondi Ambedue ( difesa e consolidamento ) sono una sola cosa nel loro lottare: « Voi avete infatti da sostenere la stessa lotta che mi avete veduto sostenere » ( Fil 1,30 ), la « lotta per il Vangelo » ( Fil 1,27 ), che Paolo, includendo tutti, può chiamare « la nostra battaglia » ( Ef 6,12 ). Siamo infatti tutti « santificati e chiamati ad essere santi » ( 1 Cor 1,2 ). Il Vangelo non conosce alcuna casistica su fino a che punto il laico deve tendere alla perfezione e sino a che punto egli si può considerare da ciò dispensato. Esso conosce solo la perfezione stessa: quella dell'essere, grazie alla partecipazione a Dio, e quella del dover essere, a motivo di questa stessa grazia. Nascondi Tutti i cattolici sono « eletti, santi e amati da Dio » ( Col 3,12 ), e l'Apostolo lotta nella preghiera per essi « perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio » ( Col 4,12 ). È vera perfezione ( « Noi tutti che siamo perfetti dobbiamo avere questi sentimenti », Fil 3,15 ), anche se è una perfezione in tensione, pellegrinante, aperta verso Dio ( « Non che io abbia già raggiunto la meta e sia già perfetto », Fil 3,12 ). « Irreprensibili e semplici, figli di Dio senza macchia » ( Fil 2,15 ), i cristiani camminano sulla loro strada, che è una « via di perfezione » mai conclusa, verso la perfezione, « un sovrabbondare sempre più » ( Fil 1,9 ), una « via che conduce sempre più in là » ( 1 Cor 12,31 ), un « venir trasformati di gloria in gloria » ( 2 Cor 3,18 ). Nascondi E però: « Chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto » ( 1 Gv 2,5 ). Si giunge così ad un reciproco darsi forma l'uno all'altro tra stato d'elezione e stato laicale: « Fratelli miei, diventate simili a me, ve ne prego; anch'io sono diventato simile a voi » ( Gal 4,12 ), e ambedue si vantano e si gloriano rispettivamente nell'altro: « Spero che comprenderete perfettamente: ( … ) che noi siamo il vostro vanto, come voi siete il nostro » ( 2 Cor 1,13s ). La reciprocità si compie nella scambievole inclusione nella preghiera. Nascondi Come infatti l'Apostolo « si ricorda incessantemente » della comunità e nelle sue « preghiere implora continuamente per essa » ( Rm 1,9-10 ) che è « legata a noi nel nostro cuore per la vita e per la morte » ( 2 Cor 7,3 ), così egli confida alla comunità tutte le sue pene e si aspetta che la sua missione venga resa possibile grazie alla preghiera della comunità: « Pregate per noi, perché Dio ci apra la porta della predicazione » ( Col 4,3 ). « Dio ci ha liberato da un grande pericolo di morte e ci libererà ancora, per la speranza che abbiamo riposto in lui che si libererà ancora grazie alla vostra cooperazione nella preghiera per noi » ( 2 Cor 1,10s ). Nascondi E come la preghiera dell'Apostolo si estende sempre su un raggio universale, giacché egli effettivamente porta nel cuore « la preoccupazione per tutte le comunità » ( 2 Cor 11,28 ), così anche la preghiera delle Chiese si estenderà sino a diventare una preghiera universale, cattolica, per il mondo intero: « Domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere » ( 1 Tm 2,1s ), cosicché l'universalità specifica che è propria dello stato dei consigli a motivo della promessa del centuplo si incontra con l'universalità specifica della Chiesa in generale, in cui sono uniti insieme tutti i laici, per crescere grazie ad essa dalla sua particolarità e maturare verso l'unità di Cristo che tutto abbraccia. Nascondi A rappresentare questa unità cooperano insieme tutti gli stati: « Voi siete un solo corpo e un solo spirito, come già nella vostra vocazione siete stati chiamati ad una sola speranza: un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo, un solo Dio e Padre di tutti » ( Ef 4,4-6 ). Gli « apostoli, profeti, messaggeri del Vangelo, pastori o dottori » ( Ef 4,11 ), perciò tutti coloro che ricoprono un ufficio qualificato, ci sono per « rendere idonei i fratelli a compiere il ( loro ) ministero, al fine di edificare il Corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo » ( Ef 4,12-15 ). Nascondi In questa reciprocità degli stati l'uno verso l'altro e l'uno nell'altro si adempie il « sacerdozio comune » della Chiesa tutta nel senso più pieno, dove essa viene inserita come corpo e sposa del Capo crocifisso nell'unico incessante sacrificio di lode dell'amore a Dio Padre ( Agostino, De civ. Dei X,6-7 ). Il particolare sacerdozio ministeriale dello stato clericale e il particolare sacerdozio esistenziale dello stato dei consigli non sono adesso più distinguibili dal complessivo sacerdozio di tutti nella Chiesa ( come in effetti il sacerdozio particolare degli stati d'elezione non li estrania o dispensa affatto dal sacerdozio comune ). Se il sacerdozio ministeriale come rappresentazione del capo per il corpo sottolinea all'interno dell'unità ecclesiale l'opposizione, lo stato dei consigli sta di per sé dalla parte dello stato dei laici ( come evidenziammo parlando di Dionigi l'Areopagita ), per dare col suo sacrificio della vita intera la sua piena misura al sacrificio del sacerdozio comune dei laici. Gli stati di vita e gli ordinamenti mondani Finora sono stati considerati gli stati di vita soprattutto nelle loro relazioni reciproche all'interno della Chiesa di Cristo. Ora però la Chiesa esiste non per se stessa, ma per la definitiva redenzione del mondo. Essa deve annunciare, impersonare e secondo le sue possibilità affermare in mezzo ai popoli con efficacia la signoria di Dio che ha fatto irruzione nel mondo in Gesù Cristo. Essa non può mettersi alla pari con questa signoria che è già venuta o che sta venendo; come istituzione essa sta al suo servizio, i suoi membri sono fondamentalmente - in quanto morti e risorti in Cristo - incorporati in essa, ma in quanto peccatori e imperfetti camminano ancora incontro ad essa. Come corpo e sposa di Cristo la Chiesa prende parte alle intenzioni del suo Capo; essa non cerca se stessa, ma il compimento di tutte le cose in Dio per mezzo di Cristo. « Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Nascondi Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti » ( 1 Tm 2,3-6 ). Gesù stesso era consapevole di aver ottenuto « potere sopra ogni essere umano » ( Gv 17,2 ), cosicché quando egli « sarà innalzato, attirerà tutto a sé » ( Gv 12,32 ). Con questa finalizzazione della Chiesa alla redenzione del mondo intero sboccia così anche per gli stati ecclesiali una nuova interrogazione: in che maniera sono essi singolarmente partecipi della missione mondiale della Chiesa? Poiché in ogni caso questa missione su scala mondiale concerne primariamente la Chiesa in tutto il suo insieme. Quindi non è che solo come singoli i membri della Chiesa debbano agire nel mondo, al di fuori della Chiesa, e nemmeno che questo compito spetti esclusivamente ( o quasi esclusivamente ) a un determinato stato, ad esempio lo stato laicale. Al massimo può essere che all'interno della missione nel mondo propria della Chiesa tutta alcuni posti e funzioni spettino a singoli stati di vita. Nascondi La Chiesa tutta è missionaria, poiché il Capo di cui essa è il corpo è interamente missio del Padre, e poiché la missione del « secondo Adamo » ( 1 Cor 15,45 ) non riguarda espressamente una schiera eletta dei discendenti del primo Adamo, ma lui stesso insieme con tutta la sua stirpe: « Come tutti morirono in Adamo, così tutti otterranno la vita in Cristo » ( 1 Cor 1,22 ). Perciò la missione terrena di Gesù ( radunare le pecore disperse della casa di Israele ) poteva essere soltanto provvisoria, una missione che con la sua morte per tutti e la sua resurrezione per tutti doveva ottenere l'abbattimento dei confini che corrisponde all'universale volontà di salvezza di Dio ( 2 Cor 5,19 ) e che diventerà poi anche esplicito con la missione dei discepoli in tutto il mondo, a tutte le nazioni e le epoche della storia ( Mt 28,18-20 ). Nascondi Conformemente a questo incarico la Chiesa dovrà preoccuparsi di « tutti i popoli », del loro bisogno di salvezza, così come il Buon Pastore della parabola ( che è la figura incarnata del Pastore divino: Ez 34 ) si è dato pena della pecora smarrita ( Lc 15,4ss ), dovrà impegnarsi per queste pecore che anche al di fuori degli ovili ecclesiastici appartengono al « Buon Pastore » ( Gv 10,16 ), così come Egli rischia la sua vita per le sue pecore ( Gv 10,11 ). Fra l'ambito della Chiesa e quello del mondo fuori di essa avrà luogo dunque non soltanto un inevitabile rapporto di relazioni politiche mondane, ma uno scambio radicato profondamente nelle stesse leggi della storia della salvezza: fra i due ambiti è in opera una osmosi, da parte del mondo verso l'interno della Chiesa, e dalla Chiesa fuori verso il mondo. E questo tanto più, quanto in un certo senso, incoativo e tuttavia reale, anche nel mondo al di fuori della Chiesa è già sempre presente l'opera riconciliante di Colui che per esso è stato crocifisso ed è risuscitato, che il mondo lo sappia oppure no, che sia aperto a ciò o che al contrario si chiuda nei suoi confronti. La Chiesa non incontra mai un mondo puramente naturale, ma dappertutto sempre un mondo polarizzato positivamente o negativamente dall'opera salvifica di Dio. L'osmosi fra Chiesa e mondo si compie in due movimenti opposti, che sono però solo due parti dello stesso processo: sistole e diastole. L'una parte è la progressiva ricezione trasformante del mondo nello spazio della Chiesa, l'altra è rappresentata dal sempre nuovo oltrepassare se stessa della Chiesa in direzione del mondo, all'interno di esso. Questo secondo movimento è così essenziale alla Chiesa in quanto inviata, che non può mai venire assorbito definitivamente dal primo, e tutto quello che dal mondo è passato all'interno della Chiesa viene subito nuovamente invitato a passare in quanto Chiesa nell'autotrascendenza dello spazio interno verso quello esterno. D'altra parte la Chiesa non può semplicemente venir definita teoricamente e vissuta praticamente in base alla sua autotrascendenza, altrimenti non ci sarebbe soggetto alcuno che possa compiere il passo della trascendenza. Ancor più concretamente: se la Chiesa si occupasse solo delle necessità e dei bisogni del mondo al di fuori di sé, non avrebbe niente da portargli, in ogni caso niente che il mondo stesso non possa già procurarsi da sé ( e forse anche meglio ) coi propri mezzi. La Chiesa deve in un primo movimento essere veramente se stessa e divenirlo sempre più anche nell'assimilazione del mondo, per poter in un secondo movimento annunciare e donare al mondo al di fuori di essa ciò che le è proprio. La qual cosa non impedisce che questi due movimenti non possano venir temporalmente distinti, poiché in effetti senza il movimento missionario la Chiesa non potrà nemmeno trovare la sua propria essenza. Nascondi Ma se il Signore chiama i suoi discepoli « luce del mondo » ( Mt 5,14 ) e Paolo estende quest'immagine all'intera comunità ( Fil 2,15 ), per illuminare deve allora esserci prima un corpo luminoso - un puro e semplice illuminare senza sostanza illuminante non esiste -, anche se il corpo luminoso illumina sempre solo proiettando la luce via da sé. Guadagnarne in tal modo già la legge più importante per tutto ciò che oramai è da sviluppare: e cioè che la sostanziale differenza è il presupposto per la compenetrazione resa così possibile, o che l'albero deve avere una rete di radici tanto più profonda, quanto più ampiamente si estende la sua chioma. E quindi che la diastole è tanto più efficace, quanto più radicale è stata e rimane la sistole. Ora però sistole non significa affatto ricezione del mondo nella Chiesa così come esso esiste al di fuori della Chiesa, bensì quella trasformazione cristiana del mondo che corrisponde alla sua idea ultima che giace presso Gesù Cristo e che egli stesso è. Questa legge deve brillare davanti alla Chiesa intera e a tutti i suoi stati di vita, e se ogni stato deve vivere alla sua maniera, si può tuttavia intuire già adesso che i singoli stati devono completarsi reciprocamente nella realizzazione che è propria della Chiesa nel suo insieme. Questo completamento appare diversamente a seconda che prendiamo in considerazione il primo movimento, in cui la Chiesa si rende conto dell'essenza sua propria, comprende la sua missione di essere luce del mondo, oppure il secondo movimento, nel quale essa fattivamente invia i suoi raggi verso ciò che è altro da se stessa. Possiamo anticipare che nel primo aspetto lo stato dei consigli e lo stato sacerdotale avranno la decisiva comune funzione attiva, nella quale lo stato laicale deve venir coinvolto, mentre nel secondo aspetto stato dei consigli ( che in effetti è di per sé uno stato non clericale ) e stato laicale di vita nel mondo avranno la comune funzione primaria, nella quale deve venir inserito anche lo stato presbiterale. 1. Per il primo aspetto, la formazione della Chiesa come sostanza illuminante per il mondo, sono naturalmente impegnati primariamente i due completantisi stati d'elezione. Nel mondo essi sono chiamati ad uscire dal mondo per stare presso Cristo e rappresentarlo come l'idea prima e ultima del mondo nella sua totalità. Essi hanno ricevuto la loro posizione presso Gesù Cristo per compiere insieme a lui il suo movimento dal Padre verso il mondo. Essi si sono liberati per questo dello « spirito del mondo », per essere completamente disponibili per la missione di Dio nel mondo nel suo Figlio. Tutte le grandi fondazioni del cristianesimo nel mondo, in qualunque modo possano essere avvenute, sono partite da uomini che per prima cosa si erano interamente votati alla causa di Gesù. Questo vale non soltanto per l'azione creativa fondatrice di cultura svolta dai monaci nel passaggio dall'Antichità al Medioevo, ma è rimasta una legge fondamentale fino ad oggi. Là dove la trascendenza, ciò che nell'essere e nel messaggio di Cristo è sovramondano, trasluce più nitidamente nella vita dei messaggeri, questo essere e questo messaggio può penetrare più profondamente nelle strutture mondane. Per questo all'inizio del Cristianesimo doveva essere predominante l'aspetto della separazione, allo stesso modo in cui un religioso nell'isolamento del noviziato riflette sulla sua missione, per poter più tardi svolgerla più conseguentemente. Nascondi Nonostante il grande comando della missione alla fine del Vangelo, deve risuonare dapprima l'esortazione alla distanza: « Non lasciatevi legare al giogo estraneo degli infedeli ( … ) Uscite di mezzo a loro! » ( 2 Cor 6,14-17 ). « Uscite, popolo mio, da Babilonia, per non associarvi ai suoi peccati e non ricevere parte dei suoi flagelli! » ( Ap 18,4 ). « Non conformatevi alla mentalità di questo mondo » ( Rm 12,2 ). Prima che la Chiesa si getti nell'azione dell'apostolato, deve subentrare la grande pausa di riflessione, in cui la Chiesa si lascia riempire nella contemplazione dal mistero di Dio, come aveva fatto esemplarmente Paolo ( Gal 1,17 ) e come faranno dopo di lui tutti i grandi apostoli. La Chiesa prende tempo, per divenire dapprima la comunità dei santi, prima di accingersi a essere fermento della società civile. Cultura cristiana e arte cristiana c'è solo dopo che ci sono stati martiri, vergini, confessori e anacoreti cristiani. Le chiese cristiane poterono venir costruite solo dopo che i loro basamenti ebbero assorbito in sé lo spirito delle catacombe. Politica cristiana solo dopo che grandi vescovi ebbero rifiutato ogni cedimento al compromesso coi poteri mondani e innalzato la richiesta di stabile riconoscimento della Chiesa. Azione cristiana ci poté essere solo dove era stata compresa la missione originaria del sì della contemplazione e dell'andare incontro alla Passione insieme con Cristo. Se si cerca di vedere da dove scaturiscano le sorgenti fecondanti della cultura cristiana nell'Antichità, nel Medioevo e sino all'epoca moderna, si verrà sempre nuovamente rinviati all'ambito dello stato d'elezione, soprattutto dello stato dei consigli. Solo allorché non si volle più bere a queste sorgenti, ma si cominciò a gettarsi subito sin da principio nell'azione nel mondo, si consumarono soltanto i capitali accumulati e li si dilapidò, allo stesso modo in cui anche le forze di una « Azione Cattolica », per esempio, si esaurirono presto. Non che si tratti oggi, come nel Medioevo, di innalzare duomi in mezzo alle città del mondo, o scrivere « Summe » all'interno dell'edificio della scienza moderna - l'epoca di una cultura sacrale non la si può più riportare dal passato all'oggi -, certo però si tratta, oggi come ieri, di operare nell'ambito delle pianure secolarizzate coi loro grandi fiumi, partendo dall'ambito delle montagne e delle sorgenti in cui gli stati d'elezione furono chiamati. Questo « operare » deve essere primariamente un dare sostanza alla Chiesa stessa, prima che la Chiesa come tale possa operare o essere di nuovo creatrice di cultura, dopo periodi di infecondità. Che in un'epoca storica ci sia oppure no una cultura cristiana, non è questo un parametro inequivocabile per l'intima vitalità della Chiesa. Il « sacro cuore delle nazioni » può doversi ritirare di nuovo all'interno, nell'Idea del mondo, e raccogliersi nella contemplazione e passione per un'eventuale nuova azione creatrice di cultura. La formula medievale ex plenitudine contemplationis activus era certamente una formula dell'età iniziale, ma la spiegazione che ne da Tommaso ( riassumendo Gregorio e il monachesimo antico ) è valida per sempre: « vita contemplativa est prior quam activa, inquantum prioribus et melioribus insistit, unde et acti-vam movet et dirigit » ( S Th II II q 182 a le ), e solo per « trasmettere ad altri ciò che si è contemplato » il maestro cristiano può interrompere esteriormente l'atto della contemplazione. O più profondamente, per dirla con i mistici tedeschi: solo perché egli volgendosi al fratello compie ciò che vede fare da Dio in Cristo, perché quindi nell'azione presta ulteriore attenzione all'agire di Dio, il suo agire sarà ulteriormente fonte della sua contemplazione. Così la posteriore formula gesuitica « in actione contemplativus » non lascerà quella tomana dietro di sé, ma non farà che mettere in risalto che la contemplazione della missione di Gesù può compiersi come contemplazione solo eseguendo insieme a lui la sua missione. La formula tomana rimane lo sfondo, come ammonimento che un più di azione non garantisce in nessun caso un più di contemplazione, ma semmai piuttosto lo minaccia. È tempo qui anche di domandarsi che cosa significhi cristianamente « azione ». Non solo non significa che la Chiesa debba sempre operare via da sé in direzione del mondo, prima ancora di essersi costituita in maniera credibile, ma primariamente significa che gli effetti più profondi dell'atto di dedizione non sono affatto misurabili in base ai criteri del mondo. Questo Tommaso nella sua formula non lo aveva ancora direttamente preso in considerazione. L'azione cristianamente più grande fu il sì della Vergine all'incarnazione del Verbo. E a sua volta l'azione più grande di questo Verbo incarnato fu la sua Passione che ribaltava lo status del mondo. Questa analogia dell'azione cristiana in quanto misurabile esternamente ma non internamente abbraccia dunque tutte le forme di vita cristiana, persino la forma dello stato dei consigli, che in quanto « vita contemplativa » opera prevalentemente in maniera invisibile, mentre la « vita mista contemplativo-attiva » ( « "una vita puramente attiva cristianamente non c'è! » ) ha in parte effetti constatabili nel mondo. Per entrambe vale però - e qui si associa in modo speciale l'operare sacerdotale - che la vita può operare nel mondo solo se prima ha contribuito all'opera interna di edificazione e ampliamento della Chiesa. Di essa si parla assai espressamente nel Nuovo Testamento. Nascondi L'edificazione della comunità cristiana come una comunione di persone che si amano l'un l'altra nello spirito di Cristo è la creazione di quel sole ecclesiale che meglio di ogni altra cosa può rischiarare, può rendere credibile al mondo il messaggio di Cristo: « Che siano perfetti nell'unità, affinché il mondo creda che Tu mi hai mandato » ( Gv 17,23 ). « Da questo tutti riconosceranno che siete miei discepoli: se vi amate l'un l'altro » ( Gv 13,35 ). La luce di questo amore è una luce definitiva, escatologica nei confronti di tutto l'agire mondano. Per questo la « riserva escatologica » della Chiesa nei confronti di ogni condizione raggiunta dalla cultura mondana ha una funzione critica non soltanto a motivo di una conoscenza migliore o di un messaggio più definitivo, ma sempre anche a motivo di una luce più chiara di amore vissuto. Altrimenti questa riserva dovrebbe venir valutata come presunzione e si spegnerebbe senza efficacia. Ogni agire cristiano nel mondo porta qui primariamente a ottenere la Chiesa. Questo vale in modo centrale per lo stato dei consigli, in quanto qui tutto il porsi nella posizione di Cristo costituisce immediatamente un « rivestire Cristo », un entrare nella sua forma, e con ciò già essenzialmente « Chiesa ». In questo rientra tutto ciò che è stato pensato e realizzato circa le comunità di vita secondo i consigli come « modello di Chiesa » ( ad esempio i monasteri benedettini ) o come « nucleo di comunità viva» ( nella concezione originaria di Basilio ) o come aiuto di preghiera per la Chiesa ( il carmelo secondo l'intenzione di Teresa ). Altrettanto centralmente questo vale, in un'altra maniera, per ogni operare dello stato presbiterale, giacché il prete nella sua partecipazione al triplice ufficio di Cristo ha da lavorare primariamente all'edificazione interna della comunità. Certamente egli deve, oltre alla comunità o chiesa locale affidatagli, evangelizzare anche l'ambiente non credente, ma non uscendo dalla sua comunità o chiesa locale per partire in missione, bensì introducendo ciò che rimane fuori in questa comunità per la quale egli ha potestà di consacrazione e di assoluzione. Egli è pastore del gregge di Cristo qui esistente a lui assegnato. Egli potrà perciò evangelizzare al massimo nel luogo della sua comunità; la missione al di fuori di questo luogo rimarrà affidata prevalentemente al prete regolare e ad altre persone, uomini e donne, dello stato dei consigli, unitamente a laici che vivono nel mondo. Nascondi Del contributo dei laici che vivono nel mondo all'edificazione di una Chiesa irraggiante, apostolicamente operante, si è già trattato in parte nel capitolo sullo stato laicale. Ad essi spetta qui di rendere visibile in pratica nello spazio della Chiesa come si possono mettere a servizio dell'altruistico amore cristiano i beni culturali e materiali di un ordinamento mondano che è caduto in preda al peccato. Dettagliatamente tratta Paolo della liberazione del denaro dalla sua contrapposizione a Cristo ( Mt 6,24 ), allorché fa di Mammona un segno efficace di amore che si dona. Nascondi Egli cita il caso delle comunità della Macedonia, le quali « hanno dato secondo i loro mezzi e anche al di là dei loro mezzi, spontaneamente, domandandoci con insistenza la grazia di prendere parte a questo servizio a favore dei santi » ( 2 Cor 8,3-4 ). Esse intendono questo servizio ( diakonìa ) come una forma di « offerta », in primo luogo a Dio e poi verso la Chiesa ( 2 Cor 9,13; Ef 4,12 ), e questo non sospirando, ma per « la pienezza della gioia » ( 2 Cor 8,2 ). Il denaro fa da mediatore fra amore e amore: « L'adempimento di questo servizio sacro non provvede soltanto alle necessità dei santi, ma ha anche maggior valore per l'abbondante ringraziamento a Dio, che si riversa immediatamente come una pioggia di grazia su colui che ha donato » ( 2 Cor 9,12s ). Nascondi Già all'inizio, anzi, dei laici vengono consacrati dagli Apostoli per tali servizi esprimenti l'amore e arricchenti ( At 6,1ss ). Di questo « Mammona » portato a diventare un servizio all'amore può vivere adesso anche l'Apostolo e con lui tutti quelli che nello stato dei consigli o nello stato presbiterale servono spiritualmente la comunità e stanno così nei confronti dello stato laicale « in un rapporto di dare e ricevere » ( Fil 4,15 ), grati per quello che si è ricevuto, ma ancor più grati per il fatto che « siete stati finalmente di nuovo nella felice condizione di darvi pena per me » ( Fil 4,10 ). Il secondo contributo dei laici consiste nel render trasparente l'eros e il sesso alla « caritas » cristiana. Nascondi Anche se l'integrazione perfetta dell'ordine sessuale nella sintesi paradisiaca non può più riuscire, c'è realmente un « matrimonio onorabile in tutto, un talamo immacolato » ( Eb 13,4 ), e quelli che vietano il matrimonio sono spiriti menzogneri e sostengono dottrine diaboliche ( 1 Tm 4,1-3 ). L'immagine originaria della Chiesa è il Verbo incarnato, la Vergine che diventa madre: così nella tensione all'incarnazione dell'amore matrimoniale non può esserci niente di impuro. Già il Cantico dei cantici aveva fatto diventare le forze dell'eros trasparenti all'amore tra Jahwé e Israele. Adesso che la Parola di Dio stessa si fa carne e ottiene potere su ogni carne ( e quindi potere anche sulle forze della carne ), anzi offre la sua carne a mangiare, per la vita del mondo, questo eros, anche se mortale e decaduto a causa del peccato, non è inaccessibile alla grazia della redenzione. Questo però soltanto se l'unione matrimoniale, che fa di uomo e donna una carne sola, diviene segno dell'unione definitiva e irrevocabile del Signore offrentesi sulla croce con la sua sposa, la Chiesa, e nella sua indissolubilità diventa un sacramento dell'amore divino e cristiano. Un matrimonio cristiano condotto santamente fa risplendere la Chiesa davanti al mondo. Il terzo contributo dei laici consiste nella prova che il cristiano non solo nell'offerta della sua libertà di decisione, ma anche nella permanente autonomia del poter scegliere può inserirsi nell'onnicomprensiva obbedienza della Chiesa al Signore. Il mondo non cristiano, anzi già il mondo non cattolico per lo più misconoscerà questo segno luminoso di un'obbedienza alla Chiesa del libero laico, si scandalizzerà di ciò o lo disprezzerà, spesso però lo guarderà anche con una segreta invidia, in questa obbedienza non frenato od ostacolato, ma addirittura perviene in questa obbedienza non frenato ed ostacolato, ma addirittura perviene proprio così alla sua più profonda liberazione. Nascondi Anche se egli ogni giorno può programmare la sua strada in modo nuovo, vive però sotto la legge dell' « una volta per tutte » di Cristo ( Eb 7,27 Eb 9,12 ), nella quale egli è stato sigillato col Battesimo. « Sempre nuovamente » ( Eb 9,25s ) il laico deve porre la sua libertà all'interno del sacrificio, senza poter rinunciare definitivamente ad essa come fa colui che vive nello stato dei consigli, altrettanto quanto egli non deve rinunciare neppure al matrimonio e al possesso dei beni. Questi contributi del laico, presi dagli ordinamenti mondani e consacrati nella Chiesa, non sono facili da prestare e ancora più difficili sono da mantenere, ragion per cui sono qui opportuni molteplici prospetti di avvertimenti. Nascondi In essi rientrano le quasi minacciose parole contro i ricchi, parole di Gesù ( Mc 10,23 ), invettive quasi veterotestamentarie della Lettera di Giacomo ( Gc 5,1-4 ), e inoltre i consigli di Paolo circa il retto uso del matrimonio, che egli ingiunge anche e soprattutto ai cristiani ( 1 Cor 7,1-16 ), e infine le ammonizioni sull'abuso di libertà del cristiano, pronunciate in una battaglia su due fronti contro il legalismo giudaico e la licenziosità pagana. Da una parte: « Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù » ( Gal 5,1 ). Dall'altra: « Voi, fratelli, siete stati chiamati alla libertà. Nascondi Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri » ( Gal 5,13 ). In tutti e tre gli ambiti il laico viene continuamente ammonito a superare il suo « esser diviso » attraverso un trascendimento degli ordinamenti mondani decaduti in preda al peccato, verso la vera idea di essi, contenuta in Cristo: « Avvicinatevi a Dio, ed egli si avvicinerà a voi, ( … ) a voi uomini così divisi in voi stessi » ( Gc 4,8 ). Tutto questo è detto in vista dell'edificazione di una Chiesa che sia poi in grado di operare come sole sul mondo, o per meglio dire: come universale sacramento di salvezza. Nascondi Il movimento, con il quale la Chiesa inserisce il mondo in sé per trasformarlo in se stessa, è fondamentalmente universale, in quanto solo la Chiesa, con la sua appartenenza a Cristo e a Dio, conserva la forza della trasformazione: « Tutto è vostro; voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio » ( 1 Cor 3,23 ). 2. Ma questa forza di assimilazione, che dal combustibile del mondo accende il fuoco della Chiesa, è solo una parte dell'avvenimento della missione. L'altra è l'uscita da se stessa della Chiesa inviata per entrare all'interno degli ordinamenti del mondo. Sarebbe unilaterale ritenere che questa penetrazione sia esclusivamente o anche solo primariamente questione dello stato laicale di vita nel mondo. C'è prima un altro criterio: quello del formato della missione, e le missioni grandi e qualitative spettano primariamente allo stato dei consigli. Questo viene posto nello stato di Cristo, per poter partecipare all'ampiezza della sua missione mondiale complessiva. È primariamente lo stato dei consigli il sale della terra, la luce del mondo, la città posta in cima al monte, visibile da lontano e operante come punto di orientamento. Ma le dimensioni della missione nello stato dei consigli, come abbiamo già visto nel primo punto, possono essere fissate in maniera assai diversa. C'è in primo luogo l'intima fecondità di una grande missione, e questa fecondità può essere altrettanto effettiva se essa rimane invisibile - come la preghiera e il sacrificio di una carmelitana - come se invece si fa visibile - come l'apostolato di un S. Francesco Saverio. Importante è in primo luogo solamente che il « più che mai » ( Je-Mehr ) della rinuncia e dello stare presso Cristo solo garantisca anche il « più che mai » dell'efficacia, così come la tensione all'indietro della corda dell'arco garantisce la lunga gittata della freccia. E questa rimane la legge fondamentale, che nessuna assimilazione alla moda del mondo per essere, come si dice, più vicino ad esso, può soppiantare. Nascondi Questa ansia di assimilazione al mondo riposa per lo più su di un « arrossire per il Vangelo » ( Rm 1,16 ) e su una timidezza davanti allo scandalo cristiano, poiché il cristiano che vive la missione può essere « profumo di Cristo » e « un odore di vita, che porta la vita » solo se egli non ha timore di essere per altri « un odore di morte, che porta morte » ( 2 Cor 2,15s ). Solo una volta detto questo si può parlare di una cooperazione tra stato dei consigli e stato laicale di vita nel mondo, e di conseguenza anche fra stato presbiterale e stato laicale ( ambedue le coppie sono tanto più vicinamente dappresso, quanto più i preti in questione sono ripieni dello spirito del Vangelo ). Si tratta poi di far sì che dallo stato dei consigli o dallo stato d'elezione nel suo complesso partano impulsi che a partire dallo spirito del Vangelo devono richiedere cambiamenti decisivi nel mondo, ma in mancanza di una potestà o competenza propria devono lasciarne l'esecuzione ai laici. Ingiuste strutture sociali, rapporti sociali che gridano vendetta verso il cielo vengono stigmatizzati da vescovi, preti e religiosi, ai quali incombe la formazione delle coscienze, ma assai spesso bisogna ammonire i religiosi come i chierici dall'assumere solamente analisi sociologiche già correnti come condizione previa per i cambiamenti pratici: già questi è meglio che li lascino a specialisti ben formati, e più che mai il giudizio su quali siano i mezzi cristianamente sostenibili con cui poter affermare o almeno avvicinare le esigenze del Vangelo. Per questo giudizio non sono sufficienti diagnosi dilettantistiche, ma solo indagini specialistiche nell'insieme dei nessi dell'economia mondiale. Come nel Medioevo avrebbe solo condotto ad un dilettantismo se i monaci contemplativi stessi avessero preso in mano compasso e filo a piombo, mentre loro missione era solo di comunicare ai costruttori delle cattedrali l'ispirazione spirituale, così sarebbe oggi dilettantismo se religiosi e chierici volessero presumere di poter offrire la soluzione delle concrete questioni economiche e sociali, invece di impegnarsi a far sì che ai laici adatti si aprano gli occhi e i cuori, e comincino a lavorare alla costruzione di un ordine sociale cristiano. Altrimenti si ricadrebbe nei corti circuiti medievali, in cui papi e religiosi bandirono crociate mondane che nonostante tutta la loro generosità erano cristianamente solo un equivoco. Certo la situazione non è del tutto paragonabile, poiché tutta la cristianità spirituale-mondana viveva allora in una visione del mondo ( Weltsichf ) sacrale-simbolica, mentre nel mondo secolarizzato di oggi la distinzione delle sfere di competenza è molto più facile. Mentre allora i capi spirituali pensavano di doversi comportare anche da capi politici, e i capi politici anche da capi spirituali, dall'inizio dell'epoca moderna molte dolorose esperienze hanno condotto la Chiesa alla comprensione che l'autentica unificazione è da trovare nell'autentica distinzione delle competenze di stato. Ne l'autorità spirituale con la sua rinuncia al potere mondano ha perso di considerazione - al contrario - ne la penetrazione cristiana del mondo ha perso di forza d'urto per il fatto che non brandisce più la spada del crociato. Oggi il decisivo atteggiamento di fiducia degli stati d'elezione nei confronti dello stato laicale nel mondo sta nel porgere e tenere aperta la verità evangelica, il cui impiego per la rispettiva situazione mondana non può essere ridotto ad alcuna formula atemporale. A sua volta il laicato non può aspettarsi dalla « Chiesa » delle soluzioni belle pronte, se egli stesso non vuole privarsi del privilegio della sua libertà e maturità cristiana. Nascondi Si costringerebbe in tal modo la « Chiesa » a diventare una Chiesa della casistica, che impone la « legge come pedagogo » ai laici che ritornano ad essere sottoposti a « tutori e amministratori » ( Gal 4,1s; Gal 3,24 ). L'una e l'altra cosa si devono realizzare soltanto insieme: l'assunzione di autonomia dei laici competenti e la loro piena ricezione dello spirito cristiano. Laddove essi, sotto la guida degli stati d'elezione, nell'autentica contemplazione si appropriano dello spirito della Chiesa e sono posti così in grado di tradurre nella loro opera i frutti della loro contemplazione, la tutela clericale diventa di per sé superflua. Quanto più dunque i laici sono riempiti internamente dello spirito degli stati d'elezione, tanto più essi si liberano della dipendenza esteriore da essi. Se essi fossero in questa maniera rimasti consapevoli della loro piena responsabilità cristiana, presumibilmente non sarebbe diventato necessario che il ministero ecclesiastico emanasse encicliche così dettagliate circa l'ordinamento sociale, la questione operaia, il matrimonio, l'educazione. Naturalmente il ministero ha la facoltà di dire una parola su questioni di importanza vitale, ma che nell'epoca moderna questa parola dovesse diventare così concreta e particolareggiata mostra bene che i laici non erano sufficientemente consapevoli delle competenze loro incombenti, per cui la Santa Sede dovette circondarsi di uno staff di esperti di sociologia religiosa e di altri specialisti, per portare la sua parola spirituale all'interno di ambiti in cui solo il laico che vive nel mondo può prendere decisioni con la dovuta cognizione di causa. E tuttavia, se ripensiamo a ciò che abbiamo detto all'inizio di questa seconda considerazione, l'esigenza di questa divisione di competenze non può significare che la parte di Chiesa rivolta al mondo sia riservata ai laici, mentre gli stati d'elezione dovrebbero limitarsi alla rappresentazione della parte di Chiesa che trascende il mondo. Ogni grazia cristiana contiene sempre anche la sua missione nel mondo. Ma se, come detto, le grandi missioni qualitative esigono lo stato dei consigli, affinché l'inviato sia sotto tutti gli aspetti libero e disponibile per il suo compito che spetta a lui solo, questo non impedisce che proprio a partire dallo stato dei consigli l'intero arco venga tirato fino a raggiungere anche il - competente! - dominio degli ordinamenti mondani. Questa sintesi la vogliono realizzare permanentemente i membri delle comunità di vita nel mondo ( instituta saecularia ), mentre un tentativo analogo nello stato clericale, l'esperimento dei preti operai, ultimamente può essere solo un « segno », qualcosa di provvisorio, poiché mentre il prete lavora in fabbrica non può esercitare le sue normali funzioni presbiterali. Nella forma di vita degli istituti secolari, invece, non c'è alcun compromesso fra « Chiesa » e « mondo », né fra « stato dei consigli » e « stato laicale »; si cerca solamente di mantenere l'intera tensione dell'arco della missione. Che questo è possibile senza compromessi lo ha mostrato con la sua vita tanto ai preti operai quanto agli istituti secolari la figura certamente più pura di questa forma di vita: Madeleine Deibrél. ( Spazziamo via qui innanzitutto un malinteso che sembra sviare molti spiriti. I membri degli istituti secolari insistono nel voler esser registrati negli schedari ecclesiastici non come « religiosi » - cioè come membri di un ordine religioso o di una congregazione -, ma come laici. Gioca qui semplicemente la molteplice ambiguità del concetto di laico, di cui parlammo all'inizio. Da una parte fanno parte del « làos », del popolo di Dio, tutti i cristiani, in qualunque stato essi vivano. D'altra parte - e questo è più importante - lo stato dei consigli ha assunto lungo la storia della Chiesa forme forgiate e condizionate storicamente, che vennero anche codificate canonicamente, di fronte alle quali nuove forme dello stesso stato di vita possono a ragione distaccarsi, nel caso che per esse basti soltanto l'osservanza delle esigenze fondamentali di questo stato, cioè vivere secondo i consigli evangelici. Questo vivere secondo i consigli è però per gli istituti secolari fondamentale e vincolante. Essi possono perciò, denominandosi laici, distanziarsi dalle altre forme dello stato dei consigli, ma devono però essere coscienti che con questo non giungono a stare al di fuori dello stato dei consigli. Se essi, per sottolineare il loro essere laici, considerano i consigli evangelici come potenzialmente già promessi solennemente nel voto battesimale, questo può venire accettato, nel caso che si ponga l'accento sul « potenzialmente » - giacché ogni cristiano è in effetti obbligato a seguire lo spirito dei consigli -, ma il passaggio all'obbligo di una « attuale » vita secondo i consigli sarà però sempre, teologicamente, l'elemento che qualitativamente fonda Io stato. Come l'ambiente cristiano e non cristiano consideri o debba considerare i membri di tali comunità è teologicamente irrilevante. Ma negli istituti secolari si può anche vedere chiaramente che il punto che collega la vita secondo i consigli e la vita nel mondo è la verginità, la quale è qui nuovamente, come nei primi tempi della Chiesa, il germe da cui scaturisce l'intera vita secondo i consigli, d'altra parte però anche la possibilità di vivere in mezzo al mondo, nel proprio posto di lavoro, non separati dalla famiglia, dalla comunità, dai colleghi. La verginità, considerata dal punto di vista fisico e sociologico, è una sola, ma ha due volti: uno naturale e l'altro soprannaturale. In tal modo la persona che vive in un istituto secolare ( o in un gruppo analogo, che coltivi la vita secondo i consigli ) può realizzare interamente la vita secondo i consigli senza abbandonare il proprio posto nel mondo. Certamente la sua obbedienza ai consigli sarà « adeguata » a questa sua posizione nel mondo, ma senza che per questo essa venga ammorbidita e limitata: sempre deve poter venir richiesta piena prontezza e disponibilità come concretizzazione di quell'atteggiamento che la Chiesa fondamentalmente dovrebbe poter presupporre presente in ogni credente. Le tensioni che la nuova forma dello stato dei consigli deve sopportare e dominare diventano pienamente visibili allorché si tratta non più soltanto di lavoro in mezzo agli strati sociali del proletariato, ma in tutte le professioni mondane, anche e proprio in quelle che forniscono il responsabile di forme diverse di potere, culturale o materiale. La richiesta rivolta a tutti i cristiani di « possedere come se non si possedesse » diventa in simili missioni assunte a partire dalla vita secondo i consigli tanto difficile quanto, se adempiuta, feconda. Qui infatti può riuscire un'infiltrazione nella mondanità lontana da Dio o a lui contraria, a partire dallo stato di vita presso Cristo, che è il libero, personale e trascendente Signore di tutte le cose mondane e di tutte le potenze e le forze che operano in esse. Forse però simili missioni di amministrare per il bene dell'umanità un grande potere a partire dall'impotenza cristiana della Croce sono tanto rare quanto lo sono autentiche missioni di piena e assoluta contemplazione. 3. Nella sua essenza la Chiesa è inviata, è apostolica. Tale essa rimane in quanto « non di questo mondo », procedente da Cristo verso il mondo, senza mai essere definitivamente arrivata in esso. Di questo non c'è pericolo, poiché difatti la resistenza del mondo è troppo forte, è forse addirittura in continua crescita, quanto più alla libertà portata da Cristo si contrappongono forme di libertà autonoma illuministica nate dalla disgregazione e dalla opposizione interna di quella originaria libertà. Nascondi La sorte di Cristo - « e i suoi non lo ricevettero » - rimane per la Chiesa insuperabile: « È sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro, e per il servo essere come il suo padrone » ( Mt 10,25 ). « Come hanno perseguitato me, così perseguiteranno anche voi » ( Gv 15,20 ). Il non essere accolta e venir perseguitata apparterrà addirittura al destino della Chiesa nel mondo altrettanto quanto la Croce appartiene al destino di Gesù sulla terra. Egli ha vinto fallendo; la Chiesa nel fallimento si ricorderà che la sua fecondità non la si può leggere dai successi terreni, dalle statistiche circa il numero e il comportamento dei credenti. Come in Israele il piccolo resto diventò l' « Israele di Dio » inteso in senso definitivo, così nei grandi assembramenti ecclesiali vale rispettivamente il « piccolo gregge ». Di esso soltanto vale che i cristiani sono, come dice la Lettera a Diogneto, l'anima del mondo. « L'anima abita infatti nel corpo, ma non ha origine da esso; anche i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo ». L'inabitare non è qualcosa di casuale, eliminabile: « L'anima è racchiusa nel corpo, ma è essa che tiene insieme il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma sono essi che tengono in piedi il mondo ». Dunque un legame di ciò che è superiore, più alto, in ciò che è inferiore, che riceve la sua forma da questo legame, ma che ciononostante si rivolta contro la legge che gli ha dato forma: « La carne odia l'anima e combatte contro di essa, senza che le sia stato fatto alcun torto, poiché essa le impedisce di indulgere ai piaceri; parimenti anche il mondo odia i cristiani, che non gli hanno fatto torto alcuno, poiché essi offrono resistenza ai piaceri. L'anima ama la carne e le membra, nonostante il loro odio, e anche i cristiani amano coloro che li odiano ( … ) Nutrita scarsamente di cibo e bevanda, l'anima guadagna in perfezione, ed anche i cristiani guadagnano di giorno in giorno, mentre vengono perseguitati. In una posizione così eccellente li ha collocati Dio! Essi non hanno perciò alcun diritto di abbandonarla ». Solo se la carne, il mondo, si lascia condurre in alto dall'anima, dalla Chiesa, al di sopra delle proprie leggi e dei propri fini, rimane carne vivente, mondo pieno di senso: solo a partire dalla legge dell'amore cristiano si possono realmente organizzare gli ordinamenti sociali, politici, economici. Ma invece di vedere la via alla propria liberazione in questo obbligo di superare se stesso, il mondo si sbarra contro la libertà in Cristo, e l'odio col quale esso perseguita la Chiesa la purifica sempre nuovamente dal pericolo di decadere a essere sottomessa al mondo e la restituisce alla sua autentica missione, togliendole l'illusione di potersi esprimere completamente in ciò che è mondano ( così come l'anima vorrebbe esprimersi completamente nel corpo, ma non lo può ), di trasformare la redenzione escatologica in liberazione intratemporale, l'amore crocifisso in umanitarismo. Dio, che rimane sempre mistero, in realtà finalmente pienamente svelata, mondanità che possiede se stessa. Quanto più fortemente la superiore legge configurante della Chiesa si imprime nel mondo, tanto più questo cerca di impossessarsi di questa legge è di svuotarla con mezzi mondani di tutto il suo contenuto, finché della Chiesa non resti più che un vuoto velo ( « istituzione », « establishment » ). Allora sarebbe fornita la prova che corpo, mondo, materia, bastano a se stessi. Così alle forme di vita ecclesiali non rimane altro da fare che differenziarsi sempre più coscientemente, per amore della missione universale della Chiesa, dal mondo-corpo, compiendo un passo deciso incontro a Colui che come origine e capo della Chiesa è allo stesso tempo Arké e Télos, Alfa e Omega dell'intera creazione. Stato dei consigli, stato sacerdotale, stato laicale Al termine di queste considerazioni si possono ora riassumere con uno sguardo complessivo le molteplici relazioni fra gli stati ecclesiali. Non è possibile ridurre queste relazioni ad una formula unica, già per il fatto che nel Vangelo ogni preferenza rimane sempre attuata in favore degli altri che non sono stati preferiti, i quali ultimamente godono del vantaggio ricevuto grazie alla preferenza ottenuta da altri. « Quelle membra del corpo che sembrano le più deboli sono le più necessarie. Quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli, le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Nascondi Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte » ( 1 Cor 12,22-27 ). Questo distingue l'ordinamento ecclesiale degli stati di vita da ogni altro, mondano o religioso che sia. E il momento della distinzione ha origine esclusivamente dal Capo della Chiesa, il quale proprio nel suo più profondo abbassamento trova la sua massima elevazione: « Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose » ( Ef 4,10 ). « I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi, però, non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve ( … ) Nascondi Io sono in mezzo a voi come colui che serve » ( Lc 22,23-27 ). « Io vi ho dato l'esempio, affinché facciate anche voi come io ho fatto » ( Gv 13,15 ). In questo modo l'ordine viene in maniera non del tutto semplice rovesciato; infatti « voi mi chiamate maestro e signore, e fate bene, perché lo sono » ( Gv 13,13 ), ed egli lo è non da ultimo anche perché ( Fil 2,9 ) lui che era in forma divina si è abbassato al di sotto di tutti. Perciò anche nella gloria egli non si comporterà semplicemente come il dominatore superiore. Nascondi Forgiato da questo modello, anche colui che nella Chiesa è stato in qualche modo preferito non farà mai valere questa sua distinzione come una proprietà personale o una « perfezione » di contro agli altri, ma la intenderà unicamente come un servizio con la sua responsabilità: « A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto » ( Lc 12,48 ). Ciò che può apparire come un ordinamento gerarchico degli stati di vita viene come dissolto dalla comune grazia ecclesiale alla quale tutti i ministeri e le missioni devono servire: la grazia della comunione e dell'amore personali. « Ma voi non fatevi chiamare "rabbì", perché uno solo è il vostro maestro, e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello che sta nel cielo. E non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo. Nascondi Infatti chi si innalza sarà abbassato, mentre chi si abbassa sarà innalzato » ( Mt 23,8-12 ). Solo guardando a queste parole del Signore potremo parlare, in quello che seguirà, di una sovra - e subordinazione degli stati ecclesiali. 1. La prima relazione tra gli stati emerge dall'analogia della chiamata alla sequela di Cristo, dal prender parte attivamente alla realtà ed efficacia ( Wirkiichkeit una Wirkung ) della missione redentrice del Signore: Stato sacerdotale e stato dei consigli rappresentano di fronte allo stato laicale di vita nel mondo una vocazione speciale, differenziata; nei confronti di questo essi sono le uniche vocazioni nella Chiesa che fondano uno stato di vita. Se all'interno dello stato laicale avesse luogo una chiamata qualitativa a speciale sequela, essa condurrebbe di per sé il chiamato ad una partecipazione allo stato d'elezione. La differenza fra stato sacerdotale e stato dei consigli deriva però dal fatto che il primo esige una sequela più stretta di Cristo indirettamente, a motivo dell'ufficio conferito, mentre il secondo la esige in maniera diretta, a motivo della forma di vita conferita personalmente. La differenza è già stata presentata: il rappresentante del ministero, Pietro, non viene degnato della grazia di vivere la croce insieme a Cristo come il rappresentante dello stato dei consigli, Giovanni; la prospettiva della croce viene fatta apparire a Pietro solo in un secondo tempo, a motivo dell'ufficio conferitegli. A ciò corrisponde il fatto che il momento ministeriale appare sotto un certo aspetto nel Nuovo Testamento come una continuazione dell'ordinamento dell'Antico Testamento, mentre per lo stato dei consigli ci sono nell'Antico Testamento solo lontane immagini prefigurative, ma nessun vero e proprio presupposto. Esso è scaturito nel suo insieme dalla croce, e costituisce la vera e propria nuova fondazione operata da Cristo: essa infatti diventa possibile come forma di vita solo quando Cristo, sua immagine archetipa, ha percorso la via della Redenzione. L'aspetto ministeriale appare anzi anche nell'Antico Testamento, a dire il vero, solo in parte come derivante dall'ordine della salvezza poiché in parte esso è fondato anche nell'ordine della creazione. Rientra infatti nell'essenza sociale dell'uomo religioso che il suo servizio divino sia pubblico, e per questo alcuni singoli vengono rivestiti dell'ufficio di questo servizio. Il fatto che in Israele questa funzione viene trasmessa ad una intera tribù e considerata come ereditaria mostra la parentela del suo sacerdozio con quello dei popoli confinanti. La chiamata di Dio al servizio sacerdotale è perciò là una chiamata per così dire impersonale, in brusco contrasto con la chiamata che è del tutto unica e personale rivolta ai profeti, i quali divengono così prefigurazioni delle vocazioni personali neotestamentarie. Una traccia di questa distinzione rimane anche nel Nuovo Testamento, non solo nella differenza fra impersonalità dell'ufficio e sequela personale come contenuto di entrambe le vocazioni, ma anche nella possibile diversità della forma di chiamata stessa, come più avanti mostreremo. La posizione intermedia dello stato presbiterale, fra stato laicale e stato dei consigli, risulta evidente anche dalla concreta configurazione che questo stato acquista nella Chiesa e che lo fa partecipare ad ambedue le altre forme di stato di vita: allo stato dei consigli attraverso il celibato e l'obbedienza al vescovo, senza essere obbligato alla povertà, allo stato di vita nel mondo, per il fatto che conserva un possesso terreno e una relativa autonomia personale, giustificata dalla vocazione di pastore d'anime. Visto dallo stato laicale di vita nel mondo, lo stato sacerdotale prende parte alla condizione di trovarsi estromesso dagli ordinamenti del mondo per essere a puro servizio della causa di Cristo; visto dallo stato religioso esso sembra formare una certa unità organica con lo stato laicale di vita nel mondo, per la sua relativa sicurezza nella parrocchia e il suo essere ordinato ai bisogni delle famiglie, alla configurazione cristiana della vita laicale ( Battesimo, catechismo, celebrazione di matrimoni, visita delle case, estrema unzione e funerali ). Questa collocazione mediana dello stato sacerdotale ha i suoi pregi, ma anche i suoi pericoli: il pregio del contatto pastorale diretto con la comunità dei laici, e quello ancora più grande di una partecipazione ai privilegi della sequela personale quale la possono offrire i consigli; infatti il prete può uniformare quanto vuole la sua vita personale allo spirito, anzi alla realtà dello stato dei consigli. I pericoli risultano dalla posizione intermedia: il prete può cadere in una mediocrità e mancanza di colore, o anche, nella sua debolezza umana, prendersi da ogni stato quelle cose che più sono piacevoli, aggirando la radicalità del « perdere la propria anima » ( nel matrimonio o nella vita secondo i consigli ). Non che egli debba necessariamente soggiacere a questi pericoli; fu pure il Signore stesso a conferire al presbiterato questa posizione, instaurando una differenza fra l'ufficio e la sequela personale. Rimane affidato alla libertà del prete, fino a che punto egli voglia conformare la sua vita all'ufficio ricevuto e far diventare così il sacerdozio un vero tramite fra stato dei consigli e stato di vita nel mondo. È ora il momento di porre propriamente in luce questo vero punto centrale. 2. La seconda relazione tra gli stati consiste di conseguenza in una sovraordinazione dello stato presbiterale allo stato dei consigli e a quello laicale. Questa sovraordinazione ha il suo motivo nel fatto che il ministero presbiterale rappresenta per la Chiesa intera Gesù Cristo nel suo triplice ufficio di maestro, guida e pastore, e garantisce così la permanente presenza di Cristo nella sua Chiesa. In forza di questa rappresentazione e per esplicito incarico del Fondatore il ministero come tale ( e non come forma di vita ) può e deve esigere l'obbedienza di fede e d'amore di tutti i cristiani. Esso può e deve richiedere questa obbedienza a motivo della evidenziata distinzione di ufficio e persona, dell'evidenziata intangibilità dell'ufficio anche nel caso della più grande indegnità della persona. E la cristianità cattolica si rivelerà sempre nuovamente come quella che veramente vive dello Spirito di Cristo per il fatto che essa nelle situazioni di importanza decisiva presta sottomissione al ministero altrettanto incondizionatamente quanto Cristo si è sottomesso al volere del Padre per la redenzione del mondo. Un volere che all'inizio della sua vita gli fu presentato nel « formalismo » legale della Legge veterotestamentaria, a cui egli si inchinò senza proferir motto, e alla fine della sua vita in una ferrea volontà di passione del Padre, volontà divenuta completamente anonima, dietro la cui feconda inesorabilità la sua amata persona scompare nella notte dell'invisibilità. Davvero nella « separazione » di Padre e Figlio durante la Passione è sottratto a questi tutto ciò che avrebbe potuto facilitargli l'obbedienza puramente ministeriale e formale che egli come redentore doveva prestare, grazie alla relazione personale tra lui e il Padre: della paternità del Padre non è rimasto più niente altro che l'incondizionatezza dell'esigenza d'obbedienza, e delle personali forze del Figlio niente più che l'assoluta coscienza - in angoscia, vergogna e abbandono, nel sentirsi richiedere più di quanto sostenibile e di conseguenza sentirsi impotente -, l'assoluta coscienza, tuttavia, che la missione deve essere adempiuta. Questo avvenimento centrale del cristianesimo rimane riprodotto nella Chiesa nell'incontrovertibile sovraordinazione del ministero ecclesiale ad ogni grazia personale e carismatica, la quale per lo meno deve dimostrarsi autentica anche attraverso l'obbedienza ecclesiale. Ma poiché nella sua obbedienza il Figlio ha portato via tutta la giustizia dell'ira di Dio per il peccato e ha così apportato la riconciliazione, la partecipazione della Chiesa al ministero dell'obbedienza ministeriale è per essa già un segno di sovrabbondante misericordia. Proprio qui scaturisce per essa la salvezza in forma di EucarIstia e degli altri Sacramenti, forma della presenza garantita della parola di Dio nella figura della parola ecclesiale e nella grazia del legare e sciogliere ecclesiale, che lega e scioglie in cielo, dunque nell'assoluta grazia della redenzione. Il ministero sacerdotale diventa in tal modo eminente luogo ecclesiale della presenza di Cristo, così come Cristo stesso con la ministerialità della sua obbedienza è diventato luogo eminente della presenza del Padre nel mondo. Nascondi Così come d'ora in poi il Padre non è accessibile a prescindere da Cristo, sebbene Cristo sia apparso all'interno dei limiti di spazio e tempo ( « Nessuno giunge al Padre se non attraverso di me », Gv 14,6 ), altrettanto la salvezza d'ora in poi non può essere cercata aggirando il ministero ecclesiastico, sebbene Cristo sia « salvatore di tutti gli uomini » ( 1 Tm 4,10 ) e si riservi il « potere su ogni carne » ( Gv 17,2 ) e di conseguenza « tutto il giudizio » ( Gv 5,22 ). « A te che importa questo? Tu seguimi! » ( Gv 21,22 ). Nascondi Come in base a ciò proprio il discepolo dell'amore, Giovanni, si caratterizza con la sua indubitabile sottomissione e la sua tacita rinuncia, nei confronti del ministero di Pietro, come colui che nell'amore ha conoscenza del Signore, così all'interno della Chiesa colui che è particolarmente vivo e maturo nella fede si caratterizza con la sua tanto maggiore attenzione per il ministero ecclesiastico, sino a « imprigionare tutti i propri pensieri per renderli obbedienti a Cristo » ( 2 Cor 10,5 ). E come Cristo nel fuoco dell'anonimità della sua obbedienza alla missione di fronte alla volontà del Padre divenuta anonima dispiega l'intera pienezza delle sue energie personali, così nella Chiesa il passare attraverso il fuoco dell'obbedienza ministeriale diventa sicura garanzia della salvezza della personalità umana. Nascondi « Perché ognuno sarà salato con il fuoco, così come avviene per ogni offerta sacrificale » ( Mc 9,49 ). L'apparente perdita delle personali forze religiose e carismatiche nel cattolicesimo diventa esattamente il luogo in cui queste forze vengono regolate, purificate, sviluppate, rese idonee per il regno dei cieli. La ministerialità del sacerdozio non è un corpo estraneo contro il quale le forze propriamente cristiane di fede, speranza e carità devono per così dire andare a sfracellarsi; il ministero è piuttosto la forma inferiore di questo dono celeste. Fede, speranza e carità come vita di Dio riversata in noi ( Rm 5,1-5 ) non significano anzi nient'altro che lo spostamento del fulcro dell'esistenza cristiana dall'io terreno nell'invisibile centro di Dio, e quindi un morire alla propria personalità per risorgere invisibilmente come uomo nuovo in Dio. Il proprio piano di vita personale viene sostituito dal piano della grazia, dalla missione, che diventa d'ora in poi il punto centrale della personalità cristiana. In tal modo nel cristiano stesso tutto viene relativizzato in funzione di questa missione, e di conseguenza ufficializzato e spersonalizzato. Nascondi Vita cristiana è « ministero della giustizia » ( 2 Cor 3,9 ). Così a partire dal ministero ecclesiastico la forma ministeriale si pone al di sopra di ogni vita cristiana, e la tacita sottomissione della persona all'oggettiva ( non necessariamente « sperimentata » ) volontà di Dio, che vive in essa come viva missione, diventa la nota caratteristica che contraddistingue se uno è cristiano oppure no. « Non colui che grida: Signore! Signore! entrerà nel regno dei ciEli, ma unicamente colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli » ( Mt 7,21 ). Questa ministerializzazione della persona è rappresentata nel sacerdote cattolico in un procedimento pure ministeriale, ma in modo tale che la grazia del ministero, che egli ottiene nel sacramento della ordinazione sacerdotale, gli offre allo stesso tempo la personale corrispondenza a questa esigenza. Attraverso questa grazia sacramentale tutta la sua persona viene assorbita dal servizio alla grazia di Cristo, per divenire, insieme col Figlio sacrificato, fecondo per la Chiesa. In ogni assoluzione impartita, ogni comunione distribuita, ogni predica, in tutto ciò che il prete fa in forza del suo ministero, egli è non semplicemente canale passivo della grazia, ma, se egli non si chiude alla grazia del ministero, attivo dispensatore insieme al Cristo dispensante, anzi attivo dispensato insieme col Cristo dispensato, distribuito. Egli ha parte attiva alla distribuzione eucaristica di Cristo, poiché ha parte alla sua volontà d'amore che rinuncia a sé e sprofonda nell'anonimo. E in questo senso la sua ministerialità è archetipo e modello ( Urbild und Vorbild ) per tutti gli stati di vita cristiani, in particolare per lo stato dei consigli, che deve prendere a prestito da esso il prolungamento dell'ufficio episcopale in quello dell'abate o del provinciale ecc., per poter partecipare ecclesialmente alla forma dell'obbedienza di croce di Cristo. Nascondi A partire da quest'ultima osservazione diventa visibile un nuovo ordinamento vicendevole degli stati di vita, in quanto i due stati d'elezione nella loro unità diventano « forma del gregge » ( 1 Pt 5,3 ). 3. Stato sacerdotale e stato dei consigli, come prima abbiamo mostrato, vanno assieme, non soltanto storicamente a partire dal Vangelo ( in quanto allora entrambi erano contenuti l'uno nell'altro senza differenziazione ), ma anche obiettivamente, e quindi in maniera duratura. Essi si completano come l'aspetto oggettivo e quello soggettivo della grazia cristiana della missione. Nascondi Visti così, stato sacerdotale e stato dei consigli si comportano soltanto come sottolineature diverse dell'unica chiamata di Cristo, che ultimamente deve anche di necessità essere unica, poiché è chiamata all'unica sequela dell' « unico mediatore fra Dio e gli uomini » ( 1 Tm 2,5 ). La differenziazione ha luogo solamente per motivare e assicurare definitivamente l'interezza dell'unica sequela. Se Gesù non avesse per niente distinto l'aspetto ministeriale e quello personale, ci sarebbe stato il pericolo che col conferimento del ministero i credenti vedessero già conferito e garantito anche l'aspetto personale, perdendo di vista che oltre all'assolutezza dell'essere c'è anche quella altrettanto urgente del dover essere. Se d'altra parte il Signore avesse trattato la chiamata al ministero e quella alla sequela personale come due chiamate separate, che non stanno in nessuna connessione essenziale, sarebbe allora sembrato che nella tensione della sequela personale vi sia solo una « tensione morale alla perfezione », e non anche un'essenziale partecipazione all'atto ministeriale redentivo di Cristo. Poiché però Gesù instaura una specie di unione personale fra le due forme di sequela, in quanto egli dapprima chiama i suoi apostoli ad entrambe senza distinzione e presenta ad essi sempre di nuovo l'esigenza dell'unità di queste due parti e vie, mentre egli d'altra parte rende evidente però la separabilità dei due aspetti, chiamando certuni ( ad esempio le donne o anche il giovane ricco ) alla sequela personale senza conferire od offrire ad essi il ministero, e distinguendo inoltre Pietro nei confronti di Giovanni, viene allora posta in luce teoricamente e praticamente la reciproca immanenza di essere e dover essere. L'assoluta garanzia dell'essere non esime colui che l'ha ricevuta dall'obbligo e dalla necessità di tendervi con tutte le sue forze, n colui che vi aspira è privo della consolazione che la sua tensione è accompagnata dalla garanzia dell'essere. Il fatto che noi siamo redenti non può attutire in noi la coscienza che noi dobbiamo ogni giorno nuovamente venir redenti. Nascondi A sua volta questa inquietudine non può offuscare la « pace che sorpassa ogni immaginazione » ( Fil 4,7 ) insita nella certezza che noi siamo redenti. Entrambi i lati della chiamata di Cristo tendono perciò insieme verso un'unità. Colui che è chiamato a esser prete ottiene primariamente il ministero, il quale di conseguenza richiede l'adeguazione di tutta la sua persona al ministero; colui che è stato eletto alla vita secondo i consigli viene chiamato primariamente alla sequela personale del Figlio di Dio, il quale adempie la sua opera ponendo la sua persona a disposizione del suo ministero di missione, lasciando che essa vi scompaia totalmente, e richiedendo a chi lo segue che faccia lo stesso. Entrambi, il prete e colui che segue i consigli, devono ministerializzare la loro persona, il primo a partire dall'ufficio, il secondo dalla persona. Poiché però questa ministerializzazione può avvenire solo attraverso Cristo, in Cristo e per Cristo, colui che segue i consigli è dipendente dal ministero ecclesiale, il quale gli rende presente Cristo qui e ora nella Chiesa. Ma poiché d'altra parte la ministerializzazione è un'opera di amore estremo, che si lascia consumare come vittima sacrificale per il mondo, il prete è dipendente dallo stato dei consigli, che gli pone sempre davanti agli occhi e gli richiama alla memoria questo lato del ministero. Se i cristiani seguissero perfettamente il Signore, non ci sarebbe bisogno di questa sottolineatura distintiva: essi comprenderebbero da sé l'unità di amore personale e obbedienza impersonale. Nascondi Poiché però essi sono sempre « stolti e tardi a capire » ( Lc 24,25 ), il Signore, per educarli, ha posto i due rappresentanti della vocazione l'uno di fronte all'altro, affinché ognuno veda nello specchio dell'altro ciò che gli manca. Questa tensione non viene eliminata nemmeno nel caso del prete regolare, il quale sembra riunire in sé i privilegi di entrambi gli stati. Nella sua vocazione di solito ha avuto la precedenza la chiamata allo stato dei consigli; il sacerdozio gli viene conferito come massimo adempimento del personale bisogno di sequela. Qualcuno che si sente chiamato allo stato dei consigli sta forse dapprima di fronte alle funzioni sacerdotali senza interiore rapporto e comprensione; l'accesso a ciò gli viene dischiuso solo nel corso della sua vita secondo i consigli, a motivo di un interiore comprensione personale dell'aspetto sacerdotale del sacrificio di Cristo. È anche possibile che il religioso che ha rinunciato all'autoconfigurazione della sua vita attenda dai suoi superiori, nell'indifferenza, se essi lo destineranno ad essere prete o « laico » e consideri questa decisione come espressione della volontà di Dio. Il sacerdozio sta di conseguenza nello stato dei consigli in dipendenza molto più stretta dal sacrificio personale di quanto non avvenga nel caso del prete secolare. E anche se l'abate di un monastero esente può esercitare funzioni episcopali, e il ministero appare quindi preso nella sua interezza all'interno della forma dell'ordine religioso, questo non significa tuttavia che con ciò la dimensione funzionale sia diventata completamente una funzione della dimensione personale: infatti egli rimane dipendente dalla più alta delle funzioni nella Chiesa, la Santa Sede. A ciò si aggiunge il fatto che la vita secondo i consigli racchiude in sé la forma piena dell'ufficio sacerdotale soggettivo di Cristo, il quale non si trova in alcuna tensione nei confronti del suo ufficio sacerdotale oggettivo. Così si chiarisce che un religioso che non venga ordinato prete, oppure il membro di un istituto secolare, che per amore della sua vocazione rimane laico, nella sua vita cristiana non è privo oggettiva-mente di niente, che egli soggettivamente senta il suo esser laico come una rinuncia o meno. Il conferimento dell'ordinazione sacerdotale, ad esempio, ad uno psichiatra in un istituto secolare, il quale poi possa non semplicemente analizzare i suoi pazienti, ma anche assolverli, mostra chiaramente che il conferimento di un ministero all'interno dello stato dei consigli non avviene per amore di una più alta « perfezione », ma per l'esecuzione di una funzione. Così, ad esempio, anche in un'abbazia benedettina non c'è bisogno che vengano ordinati preti più monaci di quanto lo richieda il servizio liturgico interno ed esterno dell'abbazia. Esattamente a questo punto diventa anche evidente che la donna chiamata alla vita secondo i consigli non viene privata di nulla per il fatto che essa non ottiene l'ufficio sacerdotale. Certamente perlomeno altrettanto che l'uomo, se non di più, essa ha parte al sacerdozio esistenziale di Cristo, del quale nessuno fu così profondamente partecipe come la Madre del Signore sotto la croce. La forma della sua indifferenza all'interno del volere del Dio trinitario è in quanto femminile così perfetta che supera ampiamente la speciale indifferenza di un uomo nello stato dei consigli, per quanto concerne l'ordinazione o meno ad esser sacerdote. E se la donna rimane in una dipendenza nei confronti del ministero ecclesiastico, tale dipendenza è insita essenzialmente ad ogni esistenza cristiana, ad ogni laico, uomo o donna, e addirittura ad ogni prete o religioso, il quale non può impartirsi da sé l'assoluzione ( nemmeno il Papa lo può ) e deve obbedienza in maniera accentuata ai superiori ecclesiastici ( come il Papa in maniera speciale rimane in obbedienza nei confronti dell'intera tradizione ecclesiale ). Che la tensione possa essere eliminata a partire dall'altra parte, dalla dimensione ministeriale, è altrettanto poco da temere, poiché infatti qui il personale non può mai in ogni caso adeguarsi pienamente al ministeriale. Il più grande sforzo di dover essere non porterà mai fino alla coincidenza con l'essere che è personificato nel ministero. Nascondi Il prete secolare che per attuare una maggior dedizione assuma una parte o l'intera forma della vita secondo i consigli non giungerà mai alla tentazione di credere che con questo egli abbia « fatto tutto » ( Lc 17,10 ). Egli scorgerà sempre nello specchio della « vita perfetta » dei Santi che hanno seguito il Signore in povertà, verginità e obbedienza il modello irraggiungibile del suo tendere. Anche posto che egli stesso sia santo e non lo sappia, vedrebbe piuttosto la santità tanto maggiormente personificata nei suoi fratelli. Ancora una volta è il rapporto reciproco di stato sacerdotale e stato religioso che rimane esemplare per lo stato laicale. Non come se i laici dovessero imitare esteriormente le altre due forme di stato di vita, ma certo però nel senso che lo spirito di questa unità di ufficio e persona deve determinare la loro vita di cristiani nel mondo. Essendo però l'unità di essere e dover essere un'esigenza innalzata nei confronti di ogni cristiano, lo stato dei consigli, che personifica l'aspetto dell'esigenza di dover essere, ottiene ora ancora una volta una priorità nei confronti degli altri due stati di vita. 4. Lo stato dei consigli appare, in quanto stato dell'offerta di tutta la persona a servizio della redenzione, in una speciale unità con lo stato di Cristo, e acquista così una funzione normativa nei confronti dello stato sacerdotale come dello stato laicale. Infatti sebbene Cristo ( e con lui Maria ) stia al di sopra degli stati di vita e li fondi tutti, questo egli lo fa prevalentemente per il fatto che anche nello stato mondano della sua gioventù porta già in sé la forma nascosta dello stato dei consigli, come un germe che più tardi si svilupperà. Anche lo stato sacerdotale egli lo fonda non altrimenti che raccogliendo dapprima insieme tutta la dimensione ministeriale veterotestamentaria nel suo personale atteggiamento di sacrificio, per poi solo a partire da ciò lasciarla dispiegarsi di nuovo in una ministerialità ecclesiale. Nascondi Anche se in Cristo la dimensione personale non può mai venir considerata a prescindere dalla sua missione, poiché egli dall'eternità è persona in quanto Verbo proveniente dal Padre, che poi si pone a disposizione per la missione nel mondo, il suo ministero di redenzione ha però la sua origine solamente nel suo amore personale al Padre e al mondo, e anche l'anonimità della sua passione sulla croce è sempre solo espressione di questo amore personale che giunge « sino all'estremo » ( Gv 13,1 ). Unicamente in vista di questo amore l'intero sacerdozio ufficiale dell'Antico Testamento ha avuto senso, e unicamente a partire da questo amore il sacerdozio ministeriale del Nuovo Testamento ha il valore di una ripresentazione efficace della redenzione compiuta. In tal modo lo stato dei consigli avanza a stato di vita che propriamente da forma ad ogni vita nella sequela del Signore.1 Infatti ciò che motiva questo stato, vale a dire la forma di vita di povertà, verginità e obbedienza, nel Nuovo Testamento non è nient'altro che l'espressione della volontà di prender parte all'atteggiamento sacrificale di Cristo. Nascondi In questa partecipazione, coesecuzione, e in nient'altro consiste però ciò che nel Nuovo Testamento si può chiamare « santità »: essa è « consacrazione sacrificale » nella volontà del Padre attuante il sacrificio ( Gv 17,19 ). Lo stato dei consigli è perciò non soltanto « tendere alla perfezione » o alla « santità »; esso è anche esser collocati in quella forma di vita il cui reale adempimento è l'essenza della santità stessa. Infatti il contenuto dei tre voti e la forma dell'esprimere il voto contengono la santità stessa. Certo, qualcuno esprime il voto e non lo mantiene, qualcuno riveste questa forma di vita senza però lasciare che essa diventi sua legge di vita. Se però la persona che vive nello stato dei consigli lascia diventare esistenziale per sé il contenuto del suo atto solenne di professare i voti, allora questa persona ha in essi la pura sostanza della santità cristiana. Non c'è infatti nessun'altra forma di sequela di Cristo, nessun altro compiere la volontà del Padre insieme con Cristo, che l'amore che offre tutto. Questo amore, che l'essenza della santità, nell'ordine del mondo decaduto nel peccato e della redenzione cristiana non può presentarsi altrimenti che nella forma della rinuncia a tutto ciò che è proprio. Ma più che beni materiali, corpo e spirito nessun amore può offrire. Il suo rinnegamento di sé rimane il presupposto fondamentale anche per ogni atto d'amore da compiere nelle opere di misericordia corporale e spirituale. Non conta solo l'opera esteriore, ma la dedizione interiore; l'opera esteriore ha valore cristiano davanti a Dio solo nella misura in cui è una derivazione dell'inferiore « opera » dell'amore. La santità coincide talmente con ciò che dà la sua forma alla vita secondo i consigli, che ogni vocazione alla santità è una vocazione alla vita secondo lo spirito ( anche se non necessariamente alla forma esterna ) dei consigli. Questo si vede anche dal fatto che ogni modello esemplare di santità nella Chiesa partecipa allo spirito, se non anche alla forma, della vita secondo i consigli. Di gran lunga la maggior parte dei santi canonizzati sono religiosi o persone che attraverso un voto presero parte alla forma della vita secondo i consigli. Solo in alcune eccezioni ( Tommaso Moro, Anna Maria Taigi ) furono canonizzate persone sposate, a meno che esse non fossero - dopo la morte del coniuge o d'accordo con lui - passate in uno stato di perfetta unione con Dio. In questo esse non abbisognano espressamente, come una S. Brigida o Francesca Chantal, di passare dallo stato matrimoniale al convento; possono anche, come una Giovanna d'Arco, facendo saltare tutti i legami naturali a famiglia e patria, entrare nella nuda obbedienza a Dio, in cui inevitabilmente devono essere anche povere e vergini. Infatti ognuno che riceve una missione qualitativa può seguirla solo se allontana da sé senza ritegno ogni altro legame, per vivere solo del compito assegnategli. Ciò che vale per i chiamati nello stato laicale vale non di meno per i preti che ricevono la chiamata ad una missione eccezionalmente personale. Anch'essi dovranno necessariamente camminare al di là di ogni convenzione nella solitudine di una piena povertà e verginità e di una perfetta rinuncia ad una propria configurazione della vita, come mostra l'esempio del Curato d'Ars, che senza entrare in un ordine religioso - sebbene questa idea, così come la tentazione di alleggerire il suo compito sovrumano, gli balenasse sempre davanti - ha tuttavia vissuto nel perfetto spirito dello stato dei consigli. Non è certamente che questo orientamento di ogni santità secondo l'ideale dello stato dei consigli sia in qualche modo determinato dall'epoca storica. Lo stato dei consigli resta ciò che crea per il cristiano di ambedue gli altri stati il passaggio fra il loro stato e ideale di stato forgiato e chiuso in sé e l'infinito, irraggiungibile stato di Cristo. Lo stato dei consigli è infatti caratterizzato nel più profondo dall'interminabilità della sua esigenza, dal « più che mai » ( Je-Mehr ). Tanto il matrimonio quanto il sacerdozio hanno la tendenza a mostrare uno sterminato campo di diritti e doveri, che il cristiano conosce bene, che può soddisfarlo e col dominio del quale egli può soddisfare Dio. L'uomo che vive nello stato dei consigli non conosce tale infinità. La sua funzione nella Chiesa è quella di far scoppiare sempre nuovamente ogni chiuso ideale e traguardo pastorale all'interno della sempre più grande esigenza di Cristo. Egli è nella parrocchia e nella diocesi l'elemento della cristiana inquietudine; egli rimane, allorché tutti gli incarichi sono stati accuratamente lottizzati, l'inquieta « gonna senza cucitura », il perturbatore della pace laddove i conti sembravano tornare. Egli prende parte d'ufficio in maniera speciale all' « al di fuori » ( Aus-serhalb ) di Cristo e alla Sua solitudine, che non raramente gli è resa percepibile; all'interno della Chiesa egli detiene in qualche modo la posizione che la Chiesa nel suo complesso occupa all'interno del mondo: quella dello straniero, che non può mai divenire del tutto di casa nel mondo. Stato laicale e presbiterato secolare hanno questo in comune, che entrambi per la loro vocazione sono in qualche modo radicati nell'ordine della creazione; lo stato dei consigli invece non possiede, visto a partire da essi, alcun fondamento: esso è sospeso in aria, anche visto dal « mondo ecclesiale » - come il Signore in croce è sospeso tra cielo e terra senza posizione propria. Dalla terra, che lo scaccia, egli è espatriato; nel cielo non ritrova la sua patria, poiché il Padre si vela, ed egli stesso non può ancora seguire lo Spirito che per così dire manda avanti restituendolo nelle mani del Padre. Egli sta sospeso nell'apertura di una glorificazione di Dio più grande che mai, nell'oscura notte della Passione, senza che questa apertura possa venir indicata come un luogo in cui si sta ( Stand-Ort ). Nascondi Nessuno è disposto ad accostarsi a lui in questo stato inescogitabile per il mondo e a preoccuparsi della sua esistenza e del suo futuro e impegnarsi per questo: « Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuoi bene » ( Mt 27,43 ). Sempre viene fatto di più da Dio che dalla Chiesa per il mantenimento dello stato dei consigli; infatti anche nuove comunità di vita secondo i consigli devono venir richieste direttamente da Dio e imporsi per lo più contro forti resistenze ecclesiastiche, anzi normalmente devono addirittura dimostrarsi come volute da Dio proprio attraverso tali resistenze. Se una ha la forza di far esplodere ciò che nella Chiesa resta chiuso e portarlo all'aperto - così come un tenero seme di grano, una piccola radice, può fendere un sasso -, allora la Chiesa riconosce in un secondo momento il dito di Dio in quest'opera, la permette ufficialmente, la elogia e da ultimo la raccomanda. In questa sorte lo stato dei consigli condivide la sorte di ogni missione qualitativa nella Chiesa, che deve affermarsi combattendo soltanto con la forza di Dio e forse morendo, e che, se alla fine tuttavia diviene visibile, viene riconosciuta come « santità », la quale, come l'intero stato dei consigli, è un dono di grazia di Dio istituito interamente a favore della Chiesa e dei due « stati di vita nel mondo ». La santità infatti non è un privilegio di coloro ai quali viene partecipata, ma un carisma fecondo per l'intero Corpo di Cristo, un carisma che a modo suo deve svolgere nell'economia globale del Corpo una funzione altrettanto ministeriale quanto l'ufficio ministeriale del sacerdote. Nascondi « Ci sono infatti diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore »; e a queste prestazioni di servizio appartengono anche le « guarigioni », il « potere di far miracoli », le « profezie », il « discernimento degli spiriti » ( 1 Cor 12,4ss ), quindi puramente gratiae gratis datae, quali le speciali vocazioni di Dio si curano di contrassegnarle e renderle credibili, e le vie dei « santi » di orlarle. Questa ordinazione al bene comune della Chiesa distingue la vera mistica cattolica da ogni altra forma di « soprannaturale » e può, laddove si tratta dell'esaminazione di simili fenomeni, valere come pietra di paragone decisiva. Una mistica che nella sua autocomprensione si esaurisce in semplici « circostanzialità » fra Dio e l'anima eletta, senza avere una qualche dimensione sociale ed ecclesiale ( anche se questa non diventa afferrabile esternamente ), sarebbe con ciò già smascherata come illusione. Nascondi « Se veniamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; se veniamo consolati, è parimenti per la vostra consolazione » ( 2 Cor 1,6 ). « Le prove della mia missione apostolica si sono davvero compiute in mezzo a voi, in una pazienza a tutta prova, con segni, prodigi e miracoli » ( 2 Cor 12,12 ). E se questa specie di operare carismatico nell'Antico Testamento poteva rimanere in qualche modo esterno a coloro che lo esercitavano, cosicché non era necessariamente espressione di santità interiore, nel Nuovo Testamento, allorché l'incarico è affidato all'inviato personalmente, in maniera nuova, e diventa contenuto della sua vita, per poter venir portato a termine, visto nel suo insieme esso prende parte al suo sacrificio interiore. Nascondi « Per conto mio mi sacrificherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime » ( 2 Cor 12,15 ). Come nessuno quindi diventa santo per se stesso, ma questo significherebbe addirittura una contraddizione in sé, poiché « l'amore non cerca il suo interesse » ( 1 Cor 13,5 ), così nessuno diventa solo per se stesso monaco o religioso o qualcos'altro nello stato dei consigli, ma ultimamente per divenire nella sequela più stretta di Cristo un servitore di tutti, che non offre solo il proprio corpo, ma ancor più la sua anima come strumento di santificazione della Chiesa. « Da questo conosciamo l'amore, che Egli ha dato la sua anima per noi; perciò anche noi dobbiamo dare le nostre anime per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ). L'esuberanza insita in una simile dedizione può apparire agli altri così incresciosa come apparve ai discepoli il gesto di Maria di Betania. Nascondi « Perché questo spreco? Lo si poteva vendere a caro prezzo e dare il ricavato ai poveri » ( Mt 26,8s ). Nell'amministrazione della pastorale ordinaria si ha cura di misurare l'offerta sacrificale in base al suo utile sociale e caritativo. Ma il Signore, che pure è un amico dei poveri, interviene a favore dello spreco senza calcolo, il cui profumo si spanderà per sempre in tutta la casa ( Gv 12,3 ) della Chiesa: « In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei » ( Mt 26,13 ). Nascondi In questo modo il sacrificio dello stato dei consigli rimane quel sacrificio invisibile come « profumo di Cristo a onore di Dio » ( 2 Cor 2,15 ) dall'efficacia penetrante in ogni cosa, che conferisce alla vita cristiana nella Chiesa la sua massima forza e più alta bellezza. 5. Se così si chiarisce non solo l'aspetto ministeriale del sacerdozio, ma anche e precisamente l'aspetto personale dello stato dei consigli nella sua funzionalità e finalità aliena, le relazioni tra gli stati si capovolgono ancora una volta. Le due forme di vita speciali appaiono ora chiaramente come strumentali allo stato principale ( Hauptsfand ) nella Chiesa, lo stato laicale: Nascondi Questo, come abbiamo detto prima, non è da intendere in un livellante senso populistico, come se l'uomo più differenziato dovesse scomparire nella massa degli indifferenziati, poiché ogni missione speciale conferita da Dio, elargita per il bene comune della Chiesa, è « irrevocabile » ( Rm 11,29 ) e contrassegna il chiamato non solo per il tempo presente, ma anche per l'eternità. Nella Chiesa il principio di radicale « aristocrazia » non solo è compatibile con quello di radicale comunione dei beni, ma ne è addirittura il presupposto. Nascondi Così come sole, luna e stelle « furono poste da Dio nel firmamento del cielo per illuminare la terra » ( Gen 1,17 ), allo stesso modo « coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre » ( Dn 12,3 ), e il fatto che « altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle » ( 1 Cor 15,41 ) non impedirà tuttavia che tutti i giusti insieme « splenderanno come il sole nel Regno del Padre loro » ( Mt 13,43 ). Perciò nella Chiesa la coscienza del servizio alla comunità non paralizza affatto la coscienza della missione personale dell'eletto, come si può vedere espressamente nel caso di Paolo; ne viceversa la certezza dell'elezione personale può paralizzare l'impeto di « sacrificarsi e consumarsi » fino all'ultimo per i fratelli. Nascondi Non è un amore simulato, se l'Apostolo sa la sua esistenza interamente espropriata e posta a disposizione dei fratelli della comunità che non vede, nemmeno però è un amore che si getta via e che non conosce il valore dell'offerta: « Spero che comprenderete perfettamente che noi siamo il vostro vanto » ( 2 Cor 1,14 ); « nutriamo la speranza, col crescere della vostra fede, di crescere ancora nella vostra considerazione, secondo la nostra misura » ( 2 Cor 10,15 ). Sono realmente « i grandi nel Regno dei Cieli » - Paolo può su questo « parlare in una certa misura come da stolto » ( 2 Cor 11,17-18 ) -, i « più grandi tra i nati di donna » ( Lc 7,28 ), che nella sequela del Signore « si espongono alla potenza della morte », affinché nella comunità si manifesti la vita di Gesù ( 2 Cor 4,11-12 ), si lasciano « mettere all'ultimo posto, come condannati a morte » ( 1 Cor 4,9 ), affinché la Chiesa sia sag già, onorata e purificata. In essi Dio mette ai piedi della Chiesa, sua sposa, i tesori più preziosi e raduna carboni accesi sul suo capo. Nascondi « Tutto io sopporto in favore degli eletti, affinché anch'essi giungano alla salvezza » ( 2 Tm 2,10 ). « Non cerco infatti i vostri beni, ma voi » ( 2 Cor 12,14 ). Così tutta la posizione strumentale di stato sacerdotale e stato dei consigli appare insieme a quella del Figlio di Dio come un mezzo per rendere perfetti personalmente i laici, visto che anche ciò, come è stato mostrato, può adempiersi in fin dei conti solo in un divenir a propria volta strumenti da parte di coloro che lasciano che gli strumenti di Dio agiscano su di loro. Certo la vita dei laici conserverà sempre una certa qual finalità propria, e il tentativo di dotarli tutti insieme di un ufficio ecclesiale, di farli entrare per forza in un « apostolato dei laici », una « Azione Cattolica », modellato in base a quella degli eletti, si rivelerà presto, per le difficoltà pratiche e i limiti realistici, impraticabile. I laici devono rappresentare nella maniera più perfetta possibile l'amore cristiano a Dio e al prossimo nella loro quotidianità e irradiare così nel loro ambiente una luce calda, profonda, fruttuosa; essi non verranno però destinati a esercitare, in forza della loro comune missione ecclesiale, anche un apostolato speciale, visibile da lontano. Qualche giovane laico che negli anni della sua formazione, in giovanile idealismo, aveva sperato di poter conciliare un simile apostolato con la sua professione nel mondo, con la sua entrata nella professione e con la fondazione di una famiglia farà da sé l'esperienza che il cerchio della sua missione viene per forza circoscritto ad un più modesto, più inapparente operare e illuminare in quel posto nel mondo nel quale egli è collocato. Il termine divenuto abituale di « apostolo laicale » ( Laien-apostel ) non dovrebbe suonare diversamente da quello rimasto inusato di « prete laicale » ( Laien-priester ): entrambi i termini significano in fondo la stessa cosa, e cioè che il laico, all'interno del suo personale cerchio esistenziale, deve secondo le sue possibilità rispecchiare e trasmettere qualcosa degli uffici ecclesiali, sacerdozio e vita secondo i consigli. Ciò avverrà però adeguatamente nel modo migliore se i laici tradurranno negli ambiti del mondo gli impulsi spirituali provenienti dalla « Chiesa » ( nel senso più ristretto del ministero e dello stato dei consigli ) e li condurranno avanti competentemente proprio nel punto in cui cessa la competenza degli stati d'elezione - come abbiamo notato nell'ultimo capitolo a proposito della teologia della liberazione. Con tale assunzione delle iniziative ecclesiali suggerite dallo Spirito Santo, che spesso sono della massima urgenza, i laici verranno spinti ad un grado di impegno personale - e per questo di abnegazione personale e di purezza - che giunge assai vicino a quello degli stati d'elezione. D'altra parte il laico deve rimanere consapevole, tanto più quello sposato, che egli rimane legato, pieno di responsabilità, ad un posto nel mondo. Come privilegio e vanto del prete e dell'apostolo è che la loro esistenza viene resa uno strumento per Dio, così dev'essere vanto e privilegio del laico che la costruzione della sua vita cristiana nella Chiesa è finalizzata a se stessa. In modo speciale la famiglia deve comprendere la sua chiusura in sé come una rappresentazione dell'amore cristiano nel mondo bastante a se stessa e non invece minacciare con un'artificiosa « apertura » o una falsa laboriosità, ad esempio nelle associazioni cristiane, con un esagerato apostolato dei suoi singoli membri, il più importante bene dell'amore familiare stesso. E in qualche modo vale la stessa cosa per la famiglia più grande che è la comunità cristiana: anch'essa non deve lasciarsi portare, in tutta la sua interna vitalità nell'amore, dal gran daffare e iperorganizzazione dei suoi membri fino ad una alienazione di finalità che non corrisponde alla sua essenza di comunità e può soltanto danneggiare la sua vera vita. A questo punto è da ricordare l'assioma così fortemente sottolineato da S. Tommaso, che cioè i mezzi fossero anche i migliori, come ad esempio i consigli evangelici, non possono mettersi al posto del fine, il quale è per ogni stato di vita il puro amore a Dio e al prossimo. Per la comunità però la giusta misura della strumentalità rimane sempre ( nelle associazioni e organizzazioni ) la vitalità nell'amore personale stesso: nella misura in cui quei mezzi lo arricchiscono sono augurabili e da promuovere, nella misura in cui invece minacciano di soffocare l'amore vivo con un impersonale schema fisso sono di danno e devono venir soppressi. Tutto può essere strumentale, perfino la vita eterna e il proprio io; l'amore soltanto è il fine di tutti i fini e la misura di tutte le cose. Questa finalità dell'amore a se stesso la deve rappresentare nella Chiesa la finalità a se stesso dello stato laicale. 6. A partire da questa sovraordinazione dell'amore a tutto il resto si compie un'ultima relativizzazione di tutte le distinzioni fondanti uno stato di vita. In forza dell'amore tutte le forme di stato di vita ottengono il loro senso ultimo solo nel puro esser l'un per l'altro e in una specie di reciproca inabitazione ( circumincessio ), attraverso cui l'amore diventa la forma ultima della vita ecclesiale: Ogni stato di vita è tale in quanto rappresentazione di qualcosa che è presente anche negli altri stati di vita. Lo stato sacerdotale è la rappresentazione della assolutezza della redenzione di Cristo, la garanzia della sua presenza e dell'essere sacramentale della Grazia in tutta la vita della Chiesa. Esso è il custode e per volere di Dio la condizione che rende sempre nuovamente possibile questo essere, la cofondazione dell'esser sacrificati e consacrifìcare di ogni membro di Cristo insieme col Capo in base al Battesimo. L'ordine religioso è la rappresentazione dell'assolutezza del cristiano « dover essere » in base all'essere, dell'incondizionatezza della divina esigenza di coincidenza di essere e dover essere, quale viene presentata ad ogni cristiano: al prete per primo, ma così pure anche al laico. Lo stato laicale è lo stato della Chiesa stessa, la quale, collocata fuori del mondo dal fatto della redenzione e chiamata fuori da Cristo stesso, è autorizzata e chiamata dallo Spirito Santo ad essere uno stato di vita con il Figlio presso il Padre. E se lo stato sacerdotale sta più dalla parte del Capo e opera verso il Corpo, mentre lo stato laicale sta dalla parte del Corpo, riceve efficacia dal Capo e vive rivolto verso il Capo, lo stato dei consigli media fra i due, giacché stando fondamentalmente dalla parte del Corpo cerca di vivere in obbedienza la vita del Capo. Le differenti posizioni degli stati rimangono però relative, poiché anche il prete e la persona che vive nello stato dei consigli fanno parte del Corpo di Cristo, la Chiesa, e il Capo che è Cristo agisce sovranamente all'interno di tutti gli stati ecclesiali. Entrambe le operazioni, quella dal Capo verso il Corpo e quella dal Corpo verso il Capo, non si allontanano da sé per andare in un campo estraneo, ma sono azioni immanenti dell'unico Cristo, che è allo stesso tempo Capo e Corpo: « Un solo Cristo, che ama se stesso » ( S. Agostino ). Questo unico amore - che non è un amore di sé, ma una rappresentazione dell'amore trinitario - acquista nella reciprocità di Capo e Corpo la rappresentazione di quella sua pienezza che già anticipatamente è racchiusa nel Capo. Esso deve essere vissuto e rappresentato nella cristianità, e visto a partire da esso rimane secondario se esso viene presentato come l'amore originario del Capo che tutto crea ( nell'operare dell'ufficio sacerdotale ), o come il tentativo di una risposta del Corpo, tentativo che in risposta all'uomo Cristo è raffigurato in forma femminile ( nello stato laicale ), oppure infine come il nodo dell'indissolubile amore fra i due ( nello stato dei voti ). Nascondi Tutti gli stati sono implicati nell'intreccio definitivo di questo nastro, che fu reso possibile dal fatto che « Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per essa, ( … ) al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata » ( Ef 5,27 ), e ricondurla così, attraverso il sacrificio della Croce, là dove in origine l'amore era perfetto: fondato nel paradiso terrestre, apparso una volta nella pienezza dei tempi nella maternità verginale di Maria e previsto per tutti nel mondo definitivo, dove la totalità dei voti sarà nuovamente una sola cosa con la pienezza di ogni ricchezza, di ogni fecondità e libertà. Nascondi Ma fino a quel giorno, in cui non ci sarà più bisogno di alcuna rinuncia, non ci sarà più « né lutto, né lamento, né affanno » ( Ap 21,4 ), ma anche nessun « prender moglie e marito » ( Mt 22,30 ), nessun « comprare e vendere » ( Lc 17,28 ), la Chiesa coi suoi stati di vita in mezzo al mondo mondano deve essere un Sacramento che rappresenta nel segno l'amore vero e definitivo, ma anche lo contiene internamente e lo riversa sul mondo, cosicché esso nel suo insieme, amando, sia tanto finalizzato a sé quanto strumentale. Terza parte: La chiamata L'essenza della chiamata La chiamata è non solo ciò che sta alla base dello stato di vita cristiano come un presupposto, essa è la quintessenza dello stato e della vita cristiana in quanto tali. L'ubi consistam di Cristo era il volere del Padre, l'ubi consistam del cristiano è lo stare nella volontà del Padre rivelata sempre nuovamente nella chiamata ad opera della parola di verità del Figlio. Questo ubi consistam fonda allo stesso tempo lo stato e la vita, tanto per Cristo come per il cristiano; stare nella volontà del Padre significa vita. Nascondi « Io so che il suo comandamento è vita eterna » ( Gv 12,50 ). Il comandamento che di volta in volta giunge al singolo e che per lui diventa udibile è la norma ultima del suo essere e dover essere. Poiché però esso è chiamata del Dio vivo, il quale in quanto persona è sempre più che una legge astratta e una regola universalmente valida, la chiamata proferita qui ed ora soltanto qui ed ora la si può udire e di conseguenza seguire. Con ciò è detto che non c'è alcuna dottrina dello stato e della via cristiana che prescinda dalla concreta chiamata, che la dimentichi o addirittura la escluda. Questa verità per lungo tempo non è stata sufficientemente presa in considerazione. Si partiva tranquillamente dal presupposto che indipendente da questa chiamata c'è uno schema universalmente valido di progresso cristiano verso la perfezione, una specie di scala del giusto comportamento, una lezione da studiare che già in anticipo sarebbe dominabile con lo sguardo, anche se apprendibile solo un poco per volta. Di questa schematica della « salita verso Dio » vive quasi tutta la dottrina cristiana della perfezione della tarda antichità e del Medioevo, ed è propriamente solo il libro degli Esercizi di S. Ignazio di Loyola che nel ritorno al Vangelo porta alla luce una nuova ma decisiva dimensione, opera una rivoluzione la cui piena portata non è stata del tutto riconosciuta in ogni suo aspetto. Superando la vecchia schematica della vita spirituale, Ignazio ha posto la considerazione della vita di Gesù sotto il segno di una presa in considerazione della sua chiamata ( el Llamamiento del Rey, Nr. 91 ), che determina il contenuto della sua immagine di Cristo. Egli ha poi coerentemente sollecitato quelli che contemplano la vita di Gesù a farlo non in una contemplazione teoretica, ma in modo che la concreta parola del Padre venga percepita in ogni nuova situazione in maniera rispettivamente nuova; la grazia da implorare ovunque è quella di « non essere sordi alla sua chiamata, ma pronti e diligenti a compiere la sua santissima volontà » ( ibid., 91 ). Il contemplante deve di conseguenza « contemplando contemporaneamente la sua vita cominciare a investigare e chiedere nella preghiera in quale vita o stato ( vida o estado ) sua divina Maestà vuole servirsi di noi » ( Nr. 135 ), « affinché possiamo raggiungere la perfezione in qualsiasi stato o vita Dio nostro Signore ci proporrà di eleggere » ( ibid. ). La chiamata risuonante personalmente e individualmente nella contemplazione in silenzioso ascolto della parola di Dio sta poi alla base non solo della giusta direzione del cammino cristiano, ma espressamente del suo « stato », che viene visto come identico a « vita », dove « stato » si concretizza, a partire dall'universale stato cristiano all'interno della « santa Madre, la Chiesa gerarchica » ( 170 ), in differenziato stato di vita come stato sacerdotale, stato dei consigli, stato matrimoniale ( 171 ) e ancora più strettamente come il concreto stare qui o là all'interno di questo stato ( 172ss ). In questa triplice graduazione della chiamata allo stato nella Chiesa, allo stato intraecclesiale e infine ad una concreta posizione all'interno di questo stato di vita scelto si mostra qualcosa come una analogia della chiamata, che chiamando dapprima il cristiano a uscire dal mondo fa di lui un cristiano, poi in una nuova chiamata singolare, seconda e posteriore, lo trasferisce in un determinato stato di vita, per donargli infine durevolmente col concreto qui ed ora della chiamata una vita cristiana in questo stato. La dottrina della chiamata diventa così indispensabile completamento di una dottrina degli stati di vita cristiani. Potrebbe sembrare in un primo momento che essa si contrapponga alla dottrina dello stato di vita come la parte soggettiva a quella oggettiva. Ma quanto appena detto mostra che questa demarcazione non è tracciabile, giacché la chiamata di Dio crea già il rispettivo « stare » del cristiano ed è la sostanza di questo stare stesso. Essendo così lo stato di vita da prendere in considerazione in maniera ancora una volta nuova a partire dalla chiamata, si delineano innumerevoli nuove domande e aspetti finora poco presi in considerazione, che devono esser approfonditi con cura, poiché sono di natura complessa ma anche gravida di conseguenze. 1 - La chiamata divina La rivelazione cristiana non concerne in primo luogo il vedere, bensì l'udire. Nascondi Sebbene non venga escluso il paragone del senso della vista, giacché noi ora « vediamo come in uno specchio, in maniera confusa » ( 1 Cor 13,12 ), la sapienza che appare è « specchio e immagine » dei belli divini ( Sap 7,26 ) e Cristo è « immagine del Dio invisibile » ( Col 1,15 ), vale a dire che quando vediamo lui, vediamo il Padre ( Gv 14,9 ), tuttavia prevale di gran lunga nella Rivelazione il paragone del senso dell'udito, poiché la seconda persona della Trinità è soprattutto una « parola » ( Gv 1,1 ) che risuona, e la fede in Lui ha origine dall'udire ( Rm 10,17 ). L'udire la Parola non è affatto semplicemente un surrogato provvisorio della visione ancora mancante quaggiù sulla terra - come tutta la teologia spirituale e mistica fino ad Ignazio, premendo sulla visione, più o meno fortemente insinua -, ma piuttosto la permanente espressione del fatto che Dio non è e non sarà mai semplice « oggetto » Alla conoscenza, bensì l'infinitamente sovrana maestà personale una e trina, che si rivela come vuole e a chi vuole. Il fatto che Dio parla a noi nella sua personale Parola è più di quanto noi avremmo potuto vedere di Lui: il fatto che noi veniamo degnati della sua Parola è la grazia delle grazie, che ci eleva a partner di un dialogo divino, ultimamente trinitario. Nascondi Il fatto che la Parola di Dio viene indirizzata a noi è la più alta consacrazione e il più grande onore che il Dio personale poteva dimostrarci, poiché presuppone che Dio ci ritiene capaci, a motivo della sua Grazia, di comprendere la sua Parola, di possedere lo Spirito, « che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio », « lo Spirito che viene da Dio, per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato » ( 1 Cor 2,10-12 ). Così enorme è questo avvenimento, che la creatura interpellata da Dio dovrebbe dimenticare tutti i propri desideri e le proprie aspirazioni, anche quelli di « felicità » e di « vedere Dio », per chiedere oramai soltanto, « dopo essere stata gettata a terra all'udire la voce », sul duro suolo del suo essere, tremante: « Signore, che vuoi che io faccia? » ( At 9,4; At 22,10 ). Ma colui che è stato buttato a terra dal peso di questa voce impetuosa viene da essa rimesso in piedi. Dio, quando parla, vuole un partner. Lo vuole capace di stare in piedi dinnanzi alla sua voce e di rispondere. « Io caddi con la faccia a terra, e udii la voce di uno che parlava. Mi disse: Figlio dell'uomo, alzati, ti voglio parlare. Nascondi Ciò detto, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava » ( Ez 1,28-2,2 ). Dio desidera, se parla personalmente, essere anche personalmente ascoltato; egli desidera, se pronuncia nel mondo la sua Parola personale, riascoltarla non come una morta eco, ma personalmente dalla sua creatura, in uno scambio che è un autentico dialogo, un dialogo che certo può venir condotto solo in base all'unità del Verbo divino, che media fra il Padre e noi. Ma come la Parola personale proviene dal Padre e tuttavia non è il Padre, ma soltanto lo rivela, così la creatura non può restituire al Padre questa Parola che ha ricevuto, se non pronunciandosi in essa, o meglio lasciandosi pronunciare da essa. Una prima volta il Padre ha parlato allorché creò il mondo. Nascondi Egli infatti lo ha creato senza eccezioni « per mezzo del Verbo » ( Gv 1,3 ), in esso e per esso ( Col 1,16 ). Egli lo creò con una settuplice parola, che sei volte risuonò e il cui settimo suono è il tacere ( Gen 1-2,4 ). All'interno di questa « chiamata ad esistere delle cose che ancora non esistono » ( Rm 4,17 ) ogni essere, ricevendo il proprio nome, diventa ciò che è. Così Dio chiama il cielo ( Is 48,13 ), chiama la terra ( Sal 50,1 ), chiama l'acqua ( Am 5,8 ), chiama le stelle ( Sal 147,4 ), chiama la luce, « che gli obbedisce con tremore » ( Bar 3,33 ). La creazione è la prima ekkiesìa, la prima chiamata all'essere dal nulla e dal caos. Nascondi « Egli sostiene tutto con la potenza della sua parola » ( Eb 1,3 ). « Perché Dio non ha creato la morte, e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza, e le creature del mondo esistono per la salvezza » ( Sap 1,13-14 ). Essere e salvezza esse possiedono, però, solo nel Verbo della sapienza, « che si estende con forza da un capo all'altro e governa il tutto nel migliore dei modi » ( Sap 8,1 ). « A Te servono tutte le creature, poiché Tu dicesti e tutte le cose furono fatte, mandasti il tuo spirito e furono costruite. Nascondi Nessuno può resistere alla tua voce » ( Gdt 16,14 ). E tuttavia questa voce è solo la voce della creazione, effetto della quale sono l'essere e le leggi del mondo naturale. « Le opere del Signore sono state formate dalla sua parola » ( Sir 42,15 ). Questa Parola non abbisogna ancora di separarsi da Dio, per far divenire il mondo. Nascondi Essa « rimanendo in se stessa crea tutto » ( Sap 7,27 ), e basta una conclusione per salire dall'opera al creatore. « Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce il loro creatore » ( Sap 13,5 ). Nel volgersi personale di Dio alla sua creatura spirituale, l'uomo, la Parola di Dio è emanata una seconda volta e diviene con ciò intima autoespressione di Dio. In un nuovo atto di gratuito amore Dio elegge la sua creatura alla partecipazione ai suoi personali beni divini. Questa volta si tratta di un'entrata della Parola divina nella creatura stessa, per grazia soprannaturale; si tratta di un divino scambio, al di là di ogni perfezione della creazione. Nascondi « Se anche uno fosse il più perfetto tra gli uomini, mancandogli la Tua sapienza, sarebbe stimato un nulla » ( Sap 9,6 ). Solo offrendosi nella preghiera l'uomo può riceverla: « Dammi la sapienza, che siede in trono accanto a Te! Non mi escludere dal numero dei tuoi figli! » ( Sap 9,4 ). « Attraverso le età, entrando nelle anime sante, essa forma amici di Dio e profeti » ( Sap 7,27 ). Questo nuovo venir interpellati da Dio è libera elezione, grazia dell'amicizia e allo stesso tempo missione profetica. È talmente libera elezione, che questo nuovo atto di Dio rimane fondamentalmente indipendente da quello naturale, che cioè dai presupposti puramente naturali non si può leggere o prevedere ne l'esistenza ne il carattere di questa nuova chiamata. Talmente poco la natura tutta della creatura è da considerare come il punto di origine della chiamata della grazia, che essa è per così dire soltanto materiale indifferente per questo scopo. Quanto alla natura due uomini potrebbero essere della stessa essenza, e tuttavia l'uno viene scelto e l'altro no. Nascondi « Due uomini saranno nel campo: l'uno sarà preso, e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà presa e l'altra lasciata » ( Mt 24,40-41 ). « Quindi non dipende dalla volontà ne dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia » ( Rm 9,16 ): « Come sta scritto: ho amato Giacobbe e ho rifiutato Esaù » ( Rm 9,13 ). Nell'udire e seguire una chiamata divina i test degli psicologi non hanno voce in capitolo. Pietro era per natura una canna sbattuta dal vento; nessuno avrebbe potuto indovinare dall'analisi del suo carattere che la sua vocazione fosse quella di costituire la roccia della Chiesa. Nascondi Ma Gesù gli comunica la nuova chiamata e gli dà un nome nuovo, un nuovo essere e un nuovo poter fare: « Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa, che significa roccia » ( Gv 1,42 ). La domanda retrospettiva sulle attitudini e le inclinazioni naturali non è per nessun cristiano, anzi per nessun uomo in generale, ciò che è ultimamente determinante per conoscere la personale volontà d'amore di Dio e la sua missione. Ultimamente ciò che decide circa il proprio destino è la « santa chiamata » ( 2 Tm 1,9 ) che Dio dalla sua insondabile libertà fa giungere ad ognuno e alla quale, non appena viene percepita, tutta la natura del chiamato deve servire. Talvolta, come per caso, la chiamata può corrispondere alle inclinazioni e aspettative naturali dell'uomo. Parimenti può però essere che essa appaia in parte o anche totalmente contrapposta a queste inclinazioni e aspettative, che essa costituisca uno stato di traverso nei confronti della natura, che l'uomo, come accadde per la maggior parte dei profeti, si spaventi davanti alla missione, poiché riconosce la completa inadeguatezza delle sue forze per il nuovo compito. Chi mai potrebbe avere già inclinazione naturale alla croce? Mosè viene chiamato dal cespuglio rovente e risponde: « Eccomi ». Con questa risposta egli resta impegnato, entra all'interno del sacro cerchio della missione. « Ora va'! Io ti mando dal Faraone. Fa' uscire il mio popolo Israele dall'Egitto! » Subito allora la domanda stupita: « Chi sono io per andare dal Faraone e per fare uscire dall'Egitto gli Israeliti? » E il Signore: « Io sarò con te ». Ed Egli rafforza questo con la promessa di segni miracolosi e con la rivelazione del Suo nome divino. Poiché Mosè richiede più assicurazioni, ottiene tre segni ulteriori: il bastone che si muta in serpente, la mano infetta dalla lebbra e l'acqua che diventa sangue. Ma convinto della sua non idoneità, egli continua a rifiutare la missione: « Ma no, Signore! Io non sono un uomo che sa parlare bene; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua ». Il Signore replica: « Chi ha dato una bocca all'uomo? Chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora va'! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire ». Ma quello si oppone: « No, Signore, manda chi vuoi ». Nascondi Per questo ostinato rifiuto « il Signore si accese d'ira » e stabilì Aronne al posto di Mosè come parlatore davanti al popolo ( Es 3-4 ). Così col suo riflettere sul suo essere in grado e non essere in grado Mosè ha perso una parte della sua missione cedendola al suo fratello, allo stesso modo in cui più tardi col suo riflettere sui confini della misericordia di Dio nella sua missione vide questa sua missione ulteriormente accorciata, e non poté introdurre il popolo nella terra promessa. Se egli tuttavia divenne un condottiero nato, questo perché « la sapienza entrò nell'anima di un servo del Signore » e « sciolse la lingua dei muti e degli infanti » ( Sap 10,16-21 ), come il libro della Sapienza racconta espressamente di Mosè. La stessa incongruenza tra natura e missione si ripete per le vocazioni dei profeti. Geremia di fronte alla chiamata alla missione comincia a balbettare come un bambino: « A, a, a, vedi. Signore, io non so parlare, sono ancora così giovane! » Il Signore replica: « Non dire: sono ancora giovane. Va' dove io ti mando. Nascondi Annuncia ciò che io ti dico. Non temerli, perché io sono con te per proteggerti » ( Ger 1,6-8 ). E allorché il sacerdote Amasia mette in dubbio l'idoneità di Amos al ministero profetico, questi gli da ragione per quanto concerne le sue attitudini naturali: « Io non sono né profeta, né figlio di profeti, ma sono un pastore e raccoglitore di sicomori. Ma il Signore mi ha preso da dietro il gregge, e il Signore mi ha ordinato: Va', profetizza al mio popolo Israele » ( Am 7,14-15 ). Le chiamate e le elezioni da parte di Dio arrivano come un fulmine a ciel sereno. Nascondi Samuele impiega lungo tempo per capire che è realmente Dio che lo chiama ( 1 Sam 3 ), Saul trova l'elezione a re mentre è alla ricerca delle sue asine ( 1 Sam 9 ), Davide viene portato via dalle sue pecore per ricevere l'unzione regale ( 1 Sam 16,11 ). Mentre ara senza pensare a nulla, a Eliseo viene gettato sopra un mantello ( 1 Re 19,19 ). Nelle sue vocazioni più importanti Dio ci tiene a che venga chiaramente posta in luce non solo la comune indegnità, ma la inadeguatezza per natura del chiamato. Egli sceglie chi vuole, e colui che viene scelto, se assume su di sé la missione, è come una nuova creazione dal nulla operata dal Signore. Quanto più un chiamato è contrassegnato dalla vocazione divina, tanto più necessario è il suo assenso alla vocazione. Per il sì della sua elezione Dio ha bisogno del sì di risposta dell'uomo scelto dall'elezione di Dio. Si tratta infatti della trasmissione all'uomo della parola personale di Dio stesso, ed essa può venir ricevuta solo nella piena responsabilità. Nascondi Che la risposta sia così recalcitrante come nel caso di Mosè, che essa avvenga in maniera aperta e generosa come per Isaia ( « Io udii la voce dell'Onnipotente che diceva: Chi manderò? Chi andrà per noi? Ed io risposi: Eccomi, manda me! », Is 6,8 ) o in maniera travolgente come per Geremia, sempre deve venir raggiunto il sì dell'uomo, prima che l'ufficio venga caricato sulle spalle dell'uomo eletto, come « peso divino ». C'è anche la fuga davanti alla chiamata del Signore: « La parola del Signore fu rivolta a Giona, figlio di Amittai: Alzati, va', a Ninive, la grande città, e là predica ( … ) Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Nascondi Pagato il prezzo del trasporto, s'imbarcò con loro per Tarsis, per fuggire lontano dal Signore » ( Gn 1,1-3 ). E solo dopo che la chiamata del Signore lo raggiunge negli inferi del ventre della balena e l'ineludibilità della scelta affiora al cuore del fuggiasco, egli dà il suo assenso e ottiene in una seconda chiamata la conferma della prima: « Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: Alzati, va' a Ninive, la grande città, e annunzia loro quanto ti ho detto. Giona si alzò e andò a Ninive, secondo la parola del Signore » ( Gn 3,1-3 ). L'assunzione della missione può giungere fino alla responsabilità garante in rappresentanza per coloro a cui viene rivolto l'annuncio: ?4 Figlio dell'uomo, ti ho posto come sentinella per la casa d'Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia. Nascondi Se io dico al malvagio: Tu morirai! e tu non lo avverti e non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta perversa e viva, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io chiederò conto a te » ( Ez 3,17-18 ). Così pesa anche su Paolo la pesante mano del Signore: « Guai a me se non annunciassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa! ho diritto al compenso; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato » ( 1 Cor 9,16-18 ). La missione esige il sì dell'uomo; un atto non meno importante dell'atto di Dio che chiama l'eletto. Un sì che richiede un'altrettanto incondizionata dedizione alla chiamata, quanto incondizionata e vincolante è la chiamata indirizzata all'eletto. Ma le due parole, quella di Dio e quella dell'uomo, non devono stare l'una di fronte all'altra ad uguale titolo; piuttosto si richiede all'uomo soltanto che accetti la chiamata e la missione, e quindi che si unisca umilmente al compimento dell'eterno sì di Dio nei suoi confronti. La risposta deve sorgere e tramontare nella parola della vocazione e formare insieme con essa un'unità indissolubile. L'atto umano della scelta della professione non deve esser altro che il riconoscimento della scelta che Dio ha già disposto. In questo senso parla Ignazio di elezione ( elecciòn ), in modo che non è nemmeno né cessano distinguere quest'atto unitario in un atto divino e un atto umano. L'unica preoccupazione è per l'uomo quella di scegliere quello che Dio ha scelto per lui, e che egli sia messo in grado di poter riconoscere la scelta divina e in quanto conosciuta ratificarla. Umana « perfezione » non viene di conseguenza propriamente tematizzata, ma si esaurisce per Ignazio nei due concetti di « disposizione » ( Eserc. Nr 1,20 ecc. ) e di « indifferenza » ( Nr 23,179 ecc. ), che insieme esprimono l'imperturbabile disponibilità dell'anima ad abbracciare la volontà divina, in qualunque forma si possa manifestare. La consegna della volontà umana alla divina volontà di scelta è l'offerta della libertà personale e la rinuncia ad essa, in quanto questa viene presentata o è presente come una grandezza speciale esistente accanto a quella divina: « Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà » ( Eserc. Nr 234 ), affinché questa viva soltanto di quella divina, affinché non abbia più altro oggetto che la stessa divina libertà di scelta. Nel non voler attuare la possibilità umana di libertà come una possibilità autonoma, separata rispetto a Dio, nel perfetto legame d'obbedienza a chiamata, grazia e missione viene vista la più alta possibilità ( Chance ) di ottenere in Dio parte alla libertà assoluta. Nascondi L'identificazione dell'io con la missione ottenuta da Dio è l'atto del credere perfetto e quindi l'unità della nostra opera e dell'opera di Dio in noi ( Gv 6,28-29 ). È allo stesso tempo ciò che il Signore chiama « la Verità » e ciò che egli equipara alla vera libertà: « Se custodirete la mia parola, sarete veramente miei discepoli; allora conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi » ( Gv 8,31-32 ). Come la verità di Cristo consiste in questo, che egli non cerca se stesso, ma la gloria di colui che lo ha mandato ( « Chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero, e in lui non c'è ingiustizia », Gv 7,18 ), così anche la libertà di Cristo consiste in questo, che egli con la sua obbedienza partecipa all'onnipotenza e libertà del Padre. « Ciò che questi fa, lo fa in ugual maniera anche il Figlio » ( Gv 5,19 ). E chi con la sua obbedienza. alla missione partecipa a questa verità e libertà di Dio, ha parte alla scelta, alla disposizione e provvidenza di Dio stesso. Egli non sta più davanti a Dio come uno che gli presenta preghiere pensate da lui, ma il suo pregare e domandare è inserito nel piano ( Ratschiuss ) di Dio. Nascondi Domandare nella preghiera e venir esauditi non stanno più l'uno di fronte all'altro come una parola del mondo e una parola di Dio, ma nella preghiera stessa è già racchiuso il venire esauditi, poiché essa è presa all'interno dell'unica volontà di Dio ( Mc 11,24; Gv 5,15 ). La parola umana è inclusa dalla scelta della volontà di Dio in Cristo all'interno del dialogo trinitario tra Padre e Figlio nello Spirito Santo: « Padre, ti ringrazio che Tu mi hai esaudito. Io sapevo certamente che Tu sempre mi esaudisci » ( Gv 11,41 ). « Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Nascondi Tutto quello che mi chiederete nel mio nome, io lo farò » ( Gv 14,13-14 ). Ma proprio qui diventa chiaro che la consegna della scelta umana alla chiamata divina non significa affatto l'estinzione della funzione creaturale in favore di quella divina. L'atto dell'obbedienza non è una quietistica rinuncia al proprio essere di creatura, e l'atto dell'amore di Dio non è una sopraffazione dell'indipendenza del suo amato. Se è vero che « Dio è tutto » ( Sir 43,27 ), che Dio deve diventare « tutto in tutti » ( 1 Cor 15,28 ), che quindi ogni libertà deve entrare all'interno della libertà divina, ogni scelta deve essere coesecuzione della scelta divina, non c'è però d'altra parte più profonda libertà umana che questa scelta, non c'è indipendenza più grande che la partecipazione all'autonomia divina. Niente rende l'uomo più autonomo che la missione divina, che egli assume su di sé in libera obbedienza e con piena responsabilità. « Infatti quanto più un ente sta vicino a Dio, tanto più similmente si rispecchia in esso la dignità divina. Rientra però nella dignità divina il fatto che egli tutto muove, inclina e sostiene, mentre egli stesso però non è da nessun altro mosso, inclinato e sostenuto. Vale allora che quanto più un ente sta vicino a Dio, tanto meno viene da lui inclinato, ma è invece tanto più capace di inclinarsi da sé » ( S. Tommaso, De Ver., q 22 a 4c ). Il paradosso di questa autosufficienza all'interno della scelta divina si risolve ultimamente solo nel mistero dell'amore trinitario fra Padre e Figlio, che fa sorgere e consistere, nell'unità dello Spirito Santo, l'unità della volontà divina nella vera reciprocità dello scambio, una reciprocità che non sopraffa la libertà personale del Figlio ( sebbene il Padre sia l'immagine originaria e il Figlio la copia ). Nascondi Infatti come il Figlio si lascia determinare dalla scelta del Padre e « può fare solo ciò che vede fare dal Padre » ( Gv 5,19 ), così il Padre viene però colpito talmente da questa obbedienza d'amore, che egli da parte sua si lascia determinare dalla volontà del Figlio e « ascolta sempre » ( Gv 11,42 ) il suo « Io voglio » ( Gv 17,24 ). Il mistero della reciproca determinazione di Padre e Figlio nello Spirito è accessibile soltanto nell'amore; non ha niente a che vedere con la teoria neoplatonica dell'adeguazione della volontà contingente e finita al decreto immutabile dell' « essere assoluto ». Questa soluzione filosofica pre-cristiana può soddisfare solo finché il finito viene pensato come qualcosa che sta di fronte ad un assoluto immutabile, e indifferenza non può essere nient'altro che rassegnato lasciarsi attuare ad opera di ciò che dall'eternità è stato immutabilmente stabilito. Su questo piano l'unica via d'uscita potrebbe essere quella di una mistica panteizzante in cui il finito rinuncia alla sua volontà propria per sprofondare nell'abisso della « divinità priva di essere e di volontà ». Qualcosa di questo rapporto filosofico verso Dio è inconsapevolmente rimasto vivo nella storia della spiritualità cristiana. Esso viene superato solo laddove a motivo della missione trinitaria del Figlio l'unità d'essenza della volontà divina viene riconosciuta come conciliabile con l'autonomia ( Selbstàndigkeit ) dei personali portatori. Scelta, chiamata e missione da parte del Padre, obbedienza e assunzione dell'incarico da parte del Figlio sono in Dio un avvenimento eterno, che parte dall'unità del loro conoscere e volere, si compie all'interno di questa unità e in questa unità fa ritorno. Ma l'unità non impedisce che l'adempimento di questa missione d'amore rimanga un avvenimento eternamente attuale. A questo avvenimento prende parte chiunque nel mondo viene eletto, chiamato e inviato da Dio in Cristo. Per questo l'obbedienza di fede cristiana rimane sempre, anche sulle « vette della mistica », nella massima unione della volontà divina con quella creaturale, un dialogo vivo, drammatico: chiamata d'amore di Dio e risposta d'amore della creatura a partire dall'energia d'amore della chiamata stessa, ma non senza vera e permanente partecipazione di tutta la libertà creaturale alla risposta e all'esecuzione del compito della vocazione. Solo così la creatura perviene alla sua intera verità cristiana. Poiché la chiamata come manifestazione della scelta di Dio per la creatura rimane qualcosa di attuale, un avvenimento, essa mantiene nella vita cristiana anche il suo posto storicamente constatabile. Essa non è un tono universalmente diffuso, una musica delle sfere celesti, che non potrebbe affatto esser compresa dall'uomo come un avvenimento ben preciso, ma si manifesta invece con tutte le caratteristiche di un evento storico. Essa incontra i profeti mentre pascolano il bestiame, gli apostoli mentre rassettano le reti. Levi mentre siede al banco delle imposte. Essa è precisamente delimitabile nello spazio e nel tempo, anche se è la manifestazione di una scelta divina avvenuta dall'eternità e per l'eternità. E questa unica chiamata storica può di nuovo dispiegarsi in una serie di atti storici che in connessione tra loro rappresentano la storia di una vocazione: nell'atto della elezione oggettiva di colui che più tardi sarà chiamato, al momento dell'entrata in questo mondo, forse nell'atto di una « pre-chiamata », di una ancora indeterminata intuizione di un'elezione, nell'atto della chiamata che prende a parte, attraverso la quale il chiamato viene messo a disposizione per la missione, nell'atto della missione stessa, in cui la chiamata ( Ruf ) diventa vocazione ( Be-ruf ) assunta, e infine nelle chiamate che sempre nuovamente giungono all'interno di questa missione e che conducono a determinate svolte e articolazioni della vita di missione. Nascondi Il chiamato è dall'eternità, « da prima della fondazione del mondo », predestinato alla sua chiamata dalla scelta di Dio ( Ef 1,4-5 ), e « quelli che egli ha predestinato, li ha anche chiamati » ( Rm 8,30 ). Questa eterna predestinazione si presenta nel tempo come elezione e selezione ( segregatio ) sin dal seno materno. Può essere un atto puramente divino che rimane invisibile, come quello avvenuto per Geremia, che lo ha « consacrato nel seno materno e posto come profeta per le nazioni » ( Ger 1,5 ), per Paolo, « scelto sin dal seno materno e chiamato con la Sua grazia » ( Gal 1,15 ); può essere un atto manifestato sin dall'inizio con segni, come nella storia della nascita di Giacobbe ( Gen 25 ) e in quella di Giovanni Battista, che « fu ripieno di Spirito Santo fin dal seno materno » ( Lc 1,15 ) con un segno sperimentabile per la madre. Nascondi Così anche Cristo stesso è « chiamato sin dal seno materno » ( Is 49,1-5 ) ed eletto in anticipo come Messia nel segno della nascita verginale: « Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio » ( Lc 1,55 ). Può essere infine una segregazione che avviene con la messa da parte di uomini che in una profetica unità della loro scelta con l'eterna scelta di Dio consacrano alla vocazione il bambino che sta per venire, così come Sansone è « un nazireo sin dal seno materno » ( Gdc 16,17 ) e come Anna offre in anticipo il suo futuro figlio « al Signore, consacrato per tutti i giorni della sua vita » ( 1 Sam 1,11 ). Questa assunzione della scelta umana all'interno del primo atto di scelta divina continuerà nella Chiesa non soltanto per il fatto che genitori credenti talvolta destineranno in anticipo il Figlio atteso al servizio divino, ma ancor più per il fatto che la preghiera e il sacrificio di genitori, avi e parenti spirituali stanno all'origine e cooperano essi stessi al sorgere di una vocazione, in maniera invisibile per gli occhi del mondo, ma spesso sufficientemente visibile per gli occhi della fede. E questo mistero semirivelato apre lo sguardo più a fondo nel mistero velato che la Chiesa come tale con la sua offerta, la sua preghiera e il suo sacrificio, diventa causa concomitante della chiamata che ha luogo in essa. Nascondi La comunione di coloro che dipendono da Dio e che hanno unito la loro volontà alla volontà di Dio, viene inafferrabilmente trasferita nel punto di origine delle vie e scelte di Dio, per partecipare alla sapienza che Dio « creò prima dei secoli, fin da principio, e che ha consistenza per tutta l'eternità » ( Sir 24,9 ), alla Parola che « è uscita dalla bocca dell'Altissimo » ( Sir 24,3 ). Il primo arrivo della chiamata non è necessariamente identico con il momento della definitiva missione. Può essere che un giovane venga più volte svegliato dal « sonno », come il giovane Samuele, e solo a poco a poco impari, forse grazie agli insegnamenti di uno che già è stato chiamato, come rispondere al Signore. Nascondi Così Elia dice a Samuele: « Torna a dormire, e se ti si chiamerà ancora rispondi: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta » ( 1 Sam 3,9 ). Così anche l'unzione del primo re d'Israele non coincide con la sua entrata in carica nell'ufficio. Così gli Apostoli vengono dapprima introdotti in una comunità di vita col Signore, per crescere poi a poco a poco incontro alla loro missione. Così in maniera esemplare Paolo viene colpito dalla chiamata di Dio sulla via di Damasco, ma ottiene solo la promessa della futura missione, non già essa stessa. Nascondi Paolo, colpito dalla chiamata del tutto personale di Dio, alla sua domanda: « Signore, che vuoi che io faccia? » viene dapprima rinviato alla Chiesa: « Alzati e va' in città. Là ti verrà detto quello che devi fare » ( At 9,6 ). Dal sì di Paolo alla chiamata fino al suo sì alla missione c'è ancora una lunga strada, riempita dalla preoccupazione di riflettere su quanto accaduto, di ricollegarsi alla tradizione ecclesiale ( At 9,26 ), di ottenere un'approvazione ecclesiale alla sua missione ( Gal 2,2 ), soprattutto però una strada di silenzio e di raccoglimento, allorché egli se ne va « in Arabia, e solo dopo » ritorna « di nuovo a Damasco, per tre anni » ( Gal 1,17 ). Nascondi L'ora della missione scocca solo allorché nella comunità di Antiochia profeti e dottori « celebrano il servizio divino e digiunano », e oramai parla lo Spirito Santo: « Riservate per me Barnaba e Paolo per la missione alla quale io li ho chiamati » ( At 13,1-2 ). In tal modo la missione ai gentili di Paolo diventa allo stesso tempo una missione divina e una missione ecclesiale. L'incontro sulla via di Damasco è un incontro col Figlio di Dio, che gli permette di recuperare il rapporto di vita col Signore che hanno avuto gli altri apostoli: « Da ultimo apparve anche a me, come a un aborto » ( 1 Cor 15,8 ). La missione di Antiochia è invece il conferimento dello Spirito Santo, nel quale solo avvengono le missioni. Nascondi Qui diventa chiaro che anche il Signore, che fu eletto dall'eternità e dall'eternità ha anche pronunciato il suo sì alla missione, solo in un'ora storica della sua esistenza terrena fu incaricato della missione: non già all'età di dodici anni, allorché si manifestò la sua coscienza dell'elezione, bensì al momento del battesimo nel Giordano, allorché lo Spirito discende dal Padre su di lui, affinché egli d'ora in poi « ripieno di Spirito Santo » ( Lc 4,1 ) percorra le vie della sua missione. Nascondi E solo dopo che egli ha subito la Passione e lo Spirito Santo comincia ad essere inviato dal Risorto ( « ma se io vado, lo manderò a voi », Gv 16,17 ), ottengono anche i discepoli la loro missione definitiva: « Come il Padre mi ha mandato, così io mando voi ( … ) Ricevete lo Spirito Santo » ( Gv 20,21-22 ). Ogni missione, ogni insediamento in uno stato e una forma di vita ecclesiale prenderà le mosse d'ora in avanti da questo stesso Spirito ( 1 Cor 12,4-11; 2 Tm 1,6s ). Ma l'atto della missione, che all'interno della vita del chiamato è un determinato momento storico, è solo il punto di partenza della conduzione ad opera dello Spirito Santo che ora continua. Tutto ciò che il chiamato intraprende nella sua missione dev'essere espressione di questa missione e perciò avvenire sotto la conduzione e dietro consiglio dello Spirito Santo. Nascondi Così è già nell'Antico Testamento: « Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall'alto? » ( Sap 9,17 ). Così è nel Nuovo Testamento, allorché Paolo riceve dallo Spirito Santo l'indicazione di quali vie deve percorrere: « Inviati dallo Spirito Santo, essi discesero a Seleucia e di qui salparono verso Cipro » ( At 13,4 ). « Attraversarono quindi la Frigia e la regione della Galazia, avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia » ( At 16,6 ). È questo Spirito che conduce Paolo alla Passione, senza lasciargli intravvedere di ciò che avverrà niente più che uno sfumato abbozzo: « Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà. Nascondi So solo che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni » ( At 20,22-23 ). E sebbene alcuni discepoli « mossi dallo Spirito, lo consigliavano di non andare a Gerusalemme » ( At 21,4 ), Paolo non si lascia sviare dalla pista tracciatagli personalmente dallo Spirito, la quale lo conduce al sacrificio insieme col Signore, che sigillerà la sua missione. Chi è entrato una volta nella vocazione con un pieno « sì » non verrà più mollato dallo Spirito. È come se Dio assumesse la garanzia per il chiamato. Non ci sarà praticamente nessuna missione che in qualche momento, forse per lunghi tratti, non venga sentita come troppo pesante per spalle umane, come semplice richiesta esagerata. Nascondi Può essere la missione di Giobbe, che nella sua notte di passione giunge sino ai confini della bestemmia: « Egli mi ha gettato nel fango! ( … ) Ti sei mutato in Satana nei miei confronti! » ( Gb 30,19-21 ). Poiché, però, all'inizio della notte ha dato il suo assenso, proprio nella notte non può decadere dalla missione e ottiene alla fine la lode di Dio: « Il mio servo Giobbe pregherà per voi ( … ) perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe » ( Gb 42,8 ). Nascondi Può essere la missione di Geremia, che nella notte dell'amarezza e dell'abbandono si adira con Dio: « Mi hai riempito di sdegno! Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti » ( Ger 15,17-18 ), e che con un delicato rimprovero viene ricondotto da Dio nel giusto servizio: « Se tu ritornerai di nuovo ad un'altra mentalità, potrai di nuovo servirmi » ( Ger 15,19 ). Può essere la stanchezza e la sazietà di Elia, che nel deserto si siede sotto un ginepro e « non gli resta che il desiderio di morire » - « Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri! » -, ma con il cibo inviato dal Signore già il mattino dopo « cammina per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb » ( 1 Re 19,4-8 ). Nascondi Può essere anche il dubbio dell' « amico dello sposo », allorché nella notte del carcere non vede più la sua propria missione: « Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro? » ( Mt 11,3 ), e che il Signore per questa domanda elogia davanti alle folle come colui che è ancor più che un profeta. Tutti questi sono racchiusi nel mistero della notte della missione, nella quale anche il Figlio di Dio è stato inviato dal Padre - « Padre, se è possibile, fa' che questo calice passi da me! » ( Mt 26,39 ) -, quella notte che è solo la profondità della missione, quel tremante « no » che è solo la conseguenza dell'intrepido « sì » che il Dio che chiama ha udito e ha racchiuso nel suo possesso, affinché alla missione, anche nello spezzarsi dell'umano vaso contenitore, non accada alcun male. Una volta realmente pronunciato il sì alla missione, colui che l'ha scelta entra nella sua missione come, per così dire, in uno stato definitivo, dal quale Dio - se egli stesso non vuole uscirvi - non lo lascerà più evadere. « Io dono loro la vita eterna; per l'eternità non andranno mai perdute, e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Nascondi Io e il Padre siamo una cosa sola » ( Gv 10,28-29 ). In questa unità tra Padre e Figlio entra l'eletto che accetta la sua missione. In questo diventa chiaro che il Figlio « chiama per nome le sue pecore », per poi come « la via » ( Gv 14,6 ) « camminare davanti a loro » ( Gv 10,4 ), cosicché « nessuno viene al Padre se non attraverso di me » ( Gv 14,6 ). Ma le pecore che egli chiama sono però rispettivamente pecore del Padre; è lui che le ha donate al Figlio ( Gv 10,28 ). Nascondi Le missioni, tanto più le vocazioni qualitative nella Chiesa, provengono dal Padre: « Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre » ( Gv 6,44 ). « Nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio » ( Gv 6,65 ). Il Figlio è cioè, come sempre, la mediazione della chiamata del Padre, quando egli convoca a sé gli Apostoli; ed egli è, « quando chiama a sé quelli che egli stesso ha voluto » ( Mc 3,13 ), la rivelazione della libera volontà di scelta del Padre. Il volere del Figlio non è il volere del condottiero che secondo il proprio arbitrio arruola soldati per le sue campagne militari, ma è invece una volontà obbediente, che si accontenta di quello che il Padre ha trovato per lui e si preoccupa di quelli che gli sono stati affidati: « Essi erano tuoi e tu li hai dati a me; essi hanno osservato la tua parola ( … ) Nascondi Non prego per il mondo, ma prego per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi » ( Gv 17,6.9 ). La protezione che il Figlio come buon pastore esercita su di essi, è per rappresentanza: « Finché ero con loro, li ho conservati e custoditi nel tuo nome » ( Gv 17,12 ). Entrando nella Passione, il Figlio li riconsegna al Padre, affinché Egli assuma la loro protezione durante il tempo della Passione: « Ora io vengo a Te ( … ) Non chiedo che Tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno » ( Gv 17,13-15 ). Nascondi E solo a motivo della Redenzione, che pure è volontà e incarico del Padre ( 2 Cor 5,19 ), il Figlio può prendere con sé nella gloria quelli che gli sono stati affidati: « Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me là dove sono io, affinché vedano la mia gloria » ( Gv 17,24 ). E come non è affare del Figlio assegnare « i posti alla mia destra e alla mia sinistra », che appartengono a coloro « per i quali sono stati destinati dal Padre mio » ( Mt 20,23 ), così pure non è affare suo acquistarsi più operai di quanti il Padre gli ha dato. Nascondi Di fronte alla scarsità di operai chiamati egli rinvia piuttosto alla preghiera al Padre suo: « La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate perciò il padrone della messe, affinché mandi operai nella sua messe » ( Mt 9,37-38 ). Questa preghiera va incontro alle preoccupazioni del Padre stesso, poiché « il Padre cerca tali adoratori », che « adorino in Spirito e verità » ( Gv 4,23 ), egli li cerca apertamente, per condurli all'unico adoratore vero, il suo Figlio. La chiamata proviene dal Padre e conduce il chiamato al figlio, il quale è dall'eternità il Chiamato dal Padre. Quando il Figlio nel mondo chiama gli eletti, lo fa nella sua funzione di rivelatore della chiamata del Padre. Il Padre pone i chiamati all'interno dell'unità dell'unica ed eterna chiamata, in base all'unica scelta d'amore del Padre, con la quale egli sceglie il Figlio. Questa scelta viene confermata sul Figlio dal Padre, dall'alto, con la missione al momento del battesimo. In questa conferma proveniente dall'alto ogni inviato riceve la sua missione. Nascondi E se il chiamato cerca nello stesso Spirito di contribuire a dar forma all'opera del Figlio nel mondo e su questa via ottiene ora anche lo Spirito spirato dal Figlio e parte come inviato ( " Ecco, io mando voi ", Mt 10,16 ), ecco allora che questa missione filiale nello Spirito Santo è partecipazione al mistero del filioque, nel quale il Figlio spira il suo Spirito al Padre di ritorno: « Padre, nelle tue mani rimetto il mio Spirito » ( Lc 23,46 ); « ed egli rese il suo Spirito » ( Gv 19,30 ). Per quanto la via sulla quale il Figlio « dal mondo ritorna al Padre » ( Gv 16,28 ) possa condurre anche in mezzo ai « lupi » ( Mt 10,16 ), anzi « attraverso le profondità dell'abisso » ( Sir 24,5 ) e l'estremo abbandono da parte del Padre ( Mt 27,46 ), essa è però sempre la via del Figlio verso il Padre, che dal Padre solo viene determinata e dal Figlio viene percorsa sotto la conduzione dello Spirito: « Nessuno mi strappa la mia vita, ma io la offro da me stesso volontariamente ( … ) Nascondi Questo è l'incarico che ho ricevuto dal Padre mio » ( Gv 10,18 ), e sulla quale i chiamati nello Spirito del Padre che lo seguono possono essere senza timore: « Quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di che cosa dovrete dire, poiché vi sarà suggerito in quell'ora ciò che dovrete dire. Non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi » ( Mt 10,19-20 ). Ma una volta che il Figlio è tornato al Padre si può parimenti dire che il Figlio distribuisce le missioni ecclesiali ( Ef 4,11 ), come pure che è il Padre che lo fa ( Rm 12,3ss ), rispettivamente sempre nel libero spirare dello Spirito Santo ( 1 Cor 12,4 ). La chiamata è una chiamata trinitaria, che non solo chiama l'eletto, ma chiama anche ( altri ) a partire dalla sua chiamata. I gradi della chiamata In quanto abbiamo sin qui visto si è manifestata già, accanto all'analogia verticale di scelta e chiamata, nella quale la scelta di risposta umana viene assunta nell'assoluta parola della scelta di Dio, anche un'analogia della chiamata estesa in senso orizzontale, poiché Dio non chiama e sceglie tutti gli uomini in maniera uguale, ma fa giungere la sua chiamata con diversa intensità e urgenza. Nascondi Nella misura in cui ogni chiamata è una chiamata personale, essa separa sempre il chiamato e lo tira fuori da un ambiente che non rimane colpito da questa chiamata, come i compagni di Daniele che « non vedevano la visione, ma furono presi da un tale terrore che fuggirono a nascondersi » ( Dn 10,7 ), o come i compagni di Paolo, che vivono insieme a lui quanto sta accadendo, « odono la voce, ma non vedono nessuno » ( At 9,7 ), o « vedono la luce, ma non comprendono la voce » ( At 22,9 ), o addirittura « cadono anch'essi a terra » ( At 26,14 ) senza però che la chiamata sia rivolta a loro e li interpelli; un ambiente che, come il popolo che sta attorno al Signore, percepisce anch'esso la voce del Padre, ma in modo tale che crede che sia stato un tuono o che un angelo abbia parlato con lui ( Gv 12,29 ), cosicché esso ottiene sì un'indiretta conoscenza dell'oggettività della chiamata e senza volerlo deve diventarne testimone, ma non acquista però alcuna intima comprensione della voce udita. Questo processo può ripetersi in una cerchia di eletti che si restringe sempre più, allorché dapprima un intero popolo viene preso a parte e separato dagli altri popoli non chiamati, poi però all'interno di questo popolo comunità più piccole possono a loro volta udire una chiamata più ristretta, e all'interno di queste possono giungere chiamate ancora più intime e personali. In questo processo, uno che nel primo senso è un chiamato sarà di nuovo per colui che è un chiamato nel secondo senso relativamente un non chiamato e quindi incapace di comprensione; forse crederà addirittura in buona fede di dover protestare, in base alla sua prima chiamata comune, contro la chiamata speciale di qualche singolo. Nascondi L'analogia o gerarchia delle chiamate che così sorge verrà garantita contro il disordine solo dal fatto che Signore di tutte le chiamate rimane l'unico Dio « che opera tutto in tutti » ( 1 Cor 12,6 ). La chiamata che elegge è certo fondamentalmente segno di una grazia e quindi di una preferenza. Ma Dio vieta sin dall'inizio di vedere la preferenza accordata ad uno come uno svantaggiare gli altri. La scelta che prende a parte significa immediatamente, come grazia, missione: e cioè essenzialmente missione verso coloro che non sono stati colpiti dalla chiamata in modo altrettanto diretto e ricco di grazia. Di conseguenza nessuno ha perciò il diritto di interpretare un non essere scelti nel senso di un esser stati rigettati. La parabola dei lavoratori nella vigna mostra chiaramente che il provvisoriamente non chiamato può sempre venir chiamato in un'ora successiva, senza che questo ritardo gli rechi scapito: « Prendi ciò che è tuo e va'. Io però voglio dare anche a quest'ultimo altrettanto quanto a te. Nascondi Non posso io fare di ciò che è mio quello che voglio? O forse sei invidioso perché io sono buono? » ( Mt 20,14-15 ). Anzi, se si prende sul serio l'idea della missione e quindi della rappresentanza, che cioè i chiamati vengono chiamati in favore degli altri e sbrigano il loro lavoro per quelli a cui giungerà il frutto, allora vale anche l'ultima affermazione della parabola: « Così gli ultimi saranno i primi, e i primi gli ultimi ( … ) Poiché infatti molti ( oppure, se si vuole: i molti, cioè: tutti ) sono i chiamati, ma pochi gli eletti » ( Mt 22,14 ). Con questo impiego degli eletti si sciolgono gli enigmi delle scelte di Dio. « Perché un giorno è più importante di un altro? Eppure la luce di ogni giorno dell'anno viene dallo stesso sole. Essi sono distinti secondo il pensiero del Signore, che ha variato le stagioni e le feste. Alcuni giorni li ha nobilitati e santificati, altri li ha lasciati nel numero dei giorni ordinari. Anche gli uomini provengono tutti dalla polvere ( … ) Nascondi Ma il Signore li ha distinti nella sua grande sapienza, ha assegnato loro destini diversi » ( Sir 33,7-11 ). L'elezione è sapienza in relazione al tutto; per il fatto che egli « pone le sue opere a due a due l'una di fronte all'altra » ( Sir 33,15 ) è il Dio che fa tutte le cose molto buone. Nell'Antico Testamento la chiamata giunge ad Abramo, « trovandolo » di mezzo alle genti ( Sap 10,5 ): « Parti dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre » ( Gen 12,1 ) e con l'obbedienza a questa chiamata viene chiamata anche tutta la sua discendenza. Nascondi Dapprima la sua discendenza secondo la carne, il popolo giudaico, ma poiché questa elezione è di nuovo in rappresentanza e simbolica, anche « tutte le stirpi della terra » ( Gen 12,3 ). Così è allora Israele il popolo eletto: « Il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato tra tutti i popoli che sono sulla terra, il popolo che appartiene solo a Lui. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri » ( Dt 7,6-8 ). Nascondi « Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico, sei tu che io ho preso dalle estremità della terra e ho chiamato dalle regioni più lontane; io ti dico: Tu sei mio servo, io ti ho scelto e non ti ho mai rigettato » ( Is 41,8-9 ). Grazie a questa scelta Israele diventa « popolo santo », anzi popolo « di santi » ( Sap 10,15 ). Questo popolo è stato chiamato « per raccontare le meraviglie operate da Dio e proclamare la sua grandezza » ( Tb 13,4 ) in mezzo ai non chiamati. Nascondi Il santuario di Dio viene innalzato affinché come « città sulla montagna » ( Mt 5,14 ) attiri su di sé gli sguardi di tutti i popoli non chiamati: « Allora affluiranno verso di esso tutti i popoli e diranno: Venite, saliamo al monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe! Egli ci indicherà le sue vie! Vogliamo camminare per i suoi sentieri » ( Is 2,3 ). Anzi, poiché le vocazioni di Dio sono senza pentimento e non possono venire ritrattate ( Sal 89,31-38; Rm 11,29 ), questa finalizzazione della vocazione di Israele rimane ancora in vigore anche quando esso, per la sua disobbedienza alla sua missione, viene rigettato per un certo tempo, poiché proprio « per la sua caduta la salvezza è giunta ai gentili, per suscitare la gelosia di Israele » ( Rm 11,11 ). E Paolo conclude da questa efficacia di Israele operante attraverso la colpa che la sua vera e diretta missione per l'elezione e la santificazione del mondo intero si imporrà in misura ancora più forte: « Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza per i pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale! ( … ) Se il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti? Nascondi Se le primizie sono sante, lo sarà anche tutta la pasta; se è santa la radice, lo saranno anche i rami » ( Rm 11,12-16 ). Attraverso Israele quindi, che nella sua interezza dovrà venir salvato ( Rm 11,26 ), è santificata anche l'intera massa dei gentili; nell'elezione di Israele sono pensati e invisibilmente preeletti « tutti i popoli della terra » ( Gen 12,3 ). Ma l'elezione di Israele, sebbene reale e definitiva, rimane terrena e prefigurativa: « Tutte queste cose accaddero a loro come esempio ( … ) per noi, che viviamo il compimento dei tempi » ( 1 Cor 10,11 ), affinché da ultimo possa venir abbattuto « il muro di separazione che teneva divisi » ( Ef 2,14 ) e anche i pagani possano venir inseriti nell'elezione comune. Ma Israele stesso è a sua volta l'universale che nei confronti delle vocazioni particolari in esso si comporta come il non chiamato. Così dalle dodici tribù ne viene chiamata una, la tribù di Levi, per un servizio sacro particolare. Nascondi « Di tra gli Israeliti fa' venire a te Aronne tuo fratello coi suoi figli, affinché siano miei sacerdoti » ( Es 28,1 ). Un dettagliato cerimoniale di consacrazione ( Lv 8 ) introduce il loro servizio, che viene così separato da ogni attività profana del popolo. Nascondi Ma anche questa elezione dei Leviti è un'elezione in rappresentanza: « Ecco, io ho scelto i Leviti tra gli Israeliti al posto di ogni primogenito che nasce per primo dal seno materno tra gli Israeliti; i Leviti saranno miei, perché ogni primogenito è mio » ( Nm 3,12 ). La rappresentanza è così qui doppia: una tribù sta a rappresentare le dodici tribù, e il singolo levita sta a rappresentare i singoli primogeniti di tutte le tribù, al punto che per ogni primogenito in soprannumero devono venir offerti « cinque sicli » ( Nm 3,47 ). L'elezione in rappresentanza degli stati sacerdotali è dunque tanto generica quanto individuale. E se il popolo nel suo insieme è stato chiamato fuori dalle nazioni pagane e solo perché la sua è una vocazione simbolica viene pensato come una nazione accanto alle altre, così la simbolica della chiamata diventa più stretta e profetica nella più ristretta elezione al sacerdozio, giacché la tribù di Levi non può « ricevere parte alcuna ne possesso ereditario nella nazione ». Nascondi « Io sono la tua parte e il tuo possesso in mezzo agli Israeliti » ( Nm 18,20 ). Se così la vocazione dei sacerdoti e dei leviti sta a metà tra una vocazione generale e una personale, prevalendo però ancora l'aspetto generale, in quanto essi fanno parte dei chiamati a motivo di una appartenenza alla tribù, è vero invece che per quanto riguarda i giudici, i re e i profeti è una chiamata del tutto personale quella che giunge ad essi. Essi vengono cioè scelti, per rendere visibile la totale libertà della chiamata di Dio, non solo, ad esempio, dalla tribù di Levi, come « i più eletti » di tra quelli che erano « maggiormente eletti », bensì vengono presi apparentemente a caso da ogni tribù, classe, professione ed età. In questo Dio fa divenir consapevole a Israele anche la relatività della sua stessa vocazione, giacché Egli può suscitare profeti e sapienti persino di tra i pagani, come Balaam e Giobbe. Le vocazioni speciali sono quelle più rappresentative. Di per se stesse esse hanno ancor meno senso che l'esistenza del popolo di Israele, esse sono, secondo tutto il loro essere, nient'altro che missione al popolo. Nascondi « Va' dove io ti mando e annuncia ciò che io ti dico! » ( Ger 1,7 ). Le loro azioni e passioni sono simboliche; esse sono sciarade viventi date da decifrare al popolo, vive rappresentazioni delle promesse di Dio, buone e cattive, su di lui. E non è colpa loro se la loro predicazione resta inascoltata, se « Gerusalemme uccide i profeti e lapida quelli che le sono stati inviati » ( Mt 23,37 ), se le loro predizioni riecheggiano inascoltate e le loro ammonizioni battono l'aria. Nascondi Così infatti essi divengono prefigurazione dell'eletto Figlio di Dio, la cui missione naufraga nell'inutilità e nel fallimento: « Io dissi: Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze » ( Is 49,4 ). Ma proprio attraverso questo spreco delle più preziose energie divine, questo spargere il sangue più puro, la missione si adempie al di là di ogni aspettativa: « È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni, affinché tu porti la mia salvezza fino all'estremità della terra! » ( Is 49,6 ). Così nel chiamato da Dio il Vecchio Testamento trapassa tout court nel Nuovo, e le vecchie forme della chiamata vengono trasferite in quelle nuove. Nascondi L'aspetto formale dell'edificio rimane: il popolo eletto, chiamato a uscire dal peccato, diventa la Chiesa, quale esser chiamati alla santità, alla comunione con Cristo, alla gloria della Redenzione ( 1 Pt 1,15; 2 Pt 1,3; Gal 5,8; 1 Ts 2,12 ecc. ). Il sacerdozio levitico, al quale si doveva « esser chiamati da Dio come Aronne » ( Eb 5,4 ), dopo essersi concentrato nell'unità del sacerdozio di Cristo si dispiega nuovamente nella gerarchia ecclesiastica, che conserva la stessa collocazione intermedia fra la forma di vocazione più generale e quella più personale; la vocazione profetica finisce col passare agli Apostoli e alle vocazioni personali ( che seguono gli Apostoli ) di sequela personale nello stato dei consigli. Nascondi E anche se la funzione di immagine prefigurativa di Israele si adempie nella « verità » della Chiesa, così anche la Chiesa rimane tuttavia sulla terra il corpo di Cristo che soffre insieme al Capo in rappresentanza per il Regno compiuto, il « Vangelo eterno » ( Ap 14,6 ), che viene atteso solo per « quando avrà luogo il compimento, allorché Egli consegnerà il Regno a Dio Padre » ( 1 Cor 15,24 ). Così come « Israele è cosa sacra al Signore, la primizia del suo raccolto » ( Ger 2,3 ), nel concetto di primizia essendo però inclusa la pienezza del raccolto che seguirà, così Cristo, il Redentore di tutti, è « risorto come il primogenito di coloro che risuscitano dai morti » ( 1 Cor 15,20 ) e inaugura la schiera delle missioni e rappresentanze definitive. Nascondi I redenti nella Chiesa sono « primogeniti fra le sue creature » ( Gc 1,18 ), devono rappresentarle e attirarle alla salvezza col loro sacrificio e la loro preghiera. E in modo speciale i vergini sono « acquistati di tra gli uomini come primogeniti per Dio e per l'Agnello » ( Ap 14,4 ), cosicché riconducendo a casa la creazione al Padre sorge questa triplice graduazione: « Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, ( … ) quando tutto gli sarà stato sottomesso » ( 1 Cor 15,23-24.28 ). Ma « il dono delle primizie » è lo Spirito Santo ( Rm 8,23 ), che viene distribuito nelle missioni, e che nei cuori dei figli di Dio sospira con gemiti inesprimibili aspettando la piena redenzione, assumendo il gemito della creazione nei già redenti figli di Dio e portandolo in rappresentanza davanti a Dio ( Rm 8,21-23-26 ). Come dunque la Chiesa rappresenta il mondo, così il prete rappresenta la comunità ministerialmente, e l' « Apostolo » la rappresenta personalmente. Nascondi Il prete deve offrire il sacrificio del Signore in rappresentanza per tutti, l' « Apostolo » deve prestare « ciò che ancora manca alle sofferenze di Cristo nella sua carne, in rappresentanza per il Corpo di Cristo che è la Chiesa » ( Col 1,24 ), deve persino nel suo spirito prestare in rappresentanza ciò che gli può venir partecipato delle sofferenze spirituali del Signore: « Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne da testimonianza nello Spirito Santo: ( … ) Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo al posto dei miei fratelli! » ( Rm 9,1-3 ). In questo, dunque, la chiamata alla santità non è mutata nel passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento: essa è chiamata nella grazia della compartecipazione della grazia, e perciò è chiamata a portare le colpe in rappresentanza. È un esser chiamati fuori dal mondo per un più efficace invio nel mondo. Tuttavia il carattere della chiamata in tutti i suoi gradi è mutato in una maniera rimarchevole nel passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento, poiché con l'apparire del Figlio nella carne la chiamata divenne non tanto ancor più personale, quanto piuttosto ancor più legata alla comunità. La chiamata rivolta ai Giudei, in quanto chiamata in un popolo visibile - che con una rigorosa separazione dai popoli pagani confinanti ( fino alla guerra senza pietà contro di loro ) doveva raffigurare la sua santità di popolo messo a parte -, sottolineava molto più fortemente il momento negativo della missione, mentre l'aspetto positivo rimaneva riservato al tempo messianico promesso: solo allora il grande compito del popolo nei confronti del mondo dei pagani sarebbe stato da adempiere e il senso ultimo dell'elezione si sarebbe svelato. In corrispondenza a ciò anche il compito di rappresentanza dei sacerdoti e dei leviti restava fermo quasi del tutto, in base al suo carattere visibile, nel legale adempimento del servizio cultuale, mentre il senso più intimo dei sacrifici presentati rimaneva ancora velato nel nascondimento del sacrificio di Cristo che era ancora soltanto promesso. La chiamata e la missione dei profeti si esauriva completamente in un incarico determinato, esattamente delimitato: le parole che il profeta doveva proclamare, le azioni che doveva eseguire, erano materialmente circoscritte, e la missione acquistava così una ristretta finitezza, quale corrispondeva al rapporto fra il Signore Dio e gli uomini suoi servitori nell'Antico Testamento. Poiché ancora mancava il Mediatore, entrambi stavano ancora l'uno di fronte all'altro senza mediazione, il Signore che impartiva gli incarichi e il servo che li eseguiva. Non c'era ancora l'inserimento dell'eletto nella partecipazione a dar forma alla missione, la personale educazione all'interno dell'incarico, la possibilità dell'inviato di conferire espressione a questo incarico con una propria adulta responsabilità nello Spirito Santo. Mancava ancora l'Eucaristia, che fa inabitare nell'inviato la stessa missione del Figlio. Mancava la possibilità di riconoscere nel prossimo lo stesso Figlio di Dio e di equiparare così la dedizione alla missione divina con la dedizione al tu umano. Nascondi Mancava l'effusione nei cuori dell'Amore di Dio, che rende vivibile la chiamata stessa come inaudito arruolamento nell'opera dell'amore che si riversa « fino all'ultimo » ( Gv 13,1 ) e rende vivibile il seguire la chiamata come un venir inseriti nel flusso del servizio al medesimo amore e venir sparsi e diffusi insieme ad esso. Tutto era ancora come trattenuto, come lasciato intravvdere per abbozzi e da dietro i veli, sebbene tutto era già presente e quindi l'obbedienza nei confronti della chiamata divina nel popolo, per i sacerdoti e per i profeti, poteva essere altrettanto radicale quanto per i cristiani e i santi del Nuovo Testamento. Nascondi Perciò in definitiva i due Testamenti si trovano insieme senza graduazioni: come i ventiquattro anziani dell'Apocalisse ( Ap 4,4 ), i quali sono eletti nello stesso numero dall'Antico e dal Nuovo Testamento, per cantare tanto il canto antico che ha udito Isaia ( Ap 4,8 ) quanto il « canto nuovo » ( Ap 5,9 ) all'agnello immolato. Tutta la sequenza di gradi della chiamata sinora descritta si muove espressamente all'interno dell'ordine della grazia. Sono rispettivamente chiamate del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che è allo stesso tempo il Dio di Gesù Cristo, non invece chiamate del Dio creatore come tale, in quanto egli si manifesterebbe in maniera mediata nei suoi ordinamenti creaturali. La selezione delle vie umane all'interno degli ordinamenti puramente naturali e delle « professioni », come ad esempio la scelta della carriera di medico o di architetto, ma anche la scelta dello stato matrimoniale o di un determinato partner per il matrimonio non può valere come oggetto di una scelta divina e di una chiamata divina nello stesso senso delle forme di elezione sinora descritte. La chiamata ad una missione di grazia è un atto dell'amore di Dio che sceglie personalmente, un atto di preferenza unica e speciale, che non si lascia ordinare in nessuna categoria mondana, sebbene osservato dall'esterno abbia questo in comune con la selezione naturale, che anch'esso, in gradi analoghi, fonda uno stato di vita. Certo gli eventi della sfera naturale sottostanno alla provvidenza divina, e ciò che il cristiano ed ogni uomo aperto in qualche modo alla Grazia in essi vive può fargli riconoscere ad ogni passo la cura amorosa del Padre divino. Se egli nella preghiera è in consonanza di sentimenti con Dio e riceve con obbedienza e gratitudine ciò che questi gli dona, accetterà anche la sua professione nel mondo e il suo partner del matrimonio come speciale dimostrazione d'amore di Dio. Facendo questa o quella scelta, adempirà il volere di Dio nella sua vita e potrà vivere ogni giorno sotto la conduzione della sua grazia. Ciò che però si deve chiamare in senso vero e proprio « chiamata di Dio » si distacca sempre da una sfera nella quale questa chiamata non risuona; e la sfera da cui la più generale chiamata di Dio, che colloca nello stato della Chiesa in generale, si distacca è costituita esattamente dagli ordinamenti della natura. Certo ci sono all'interno di questi ordinamenti fenomeni che recano in sé un'analogia con la chiamata divina. Ci sono per esempio forme di ispirazione poetica, di « entusiasmo », che non sono senza somiglianza con forme di ispirazione soprannaturale o di esperienza mistica di Dio all'interno di una missione vera e propria. Nascondi Ma questi fenomeni sorgono in virtù di forze e combinazioni di circostanze della « comune madre » natura ( Sir 40,1 ). Ci sono casi in cui l'incontro con una donna appare così carico di destino da recare in sé il carattere di una eterna predestinazione e da avvicinarsi alla spiegazione quasi di una comune preesistenza. Ma le disposizioni scritte nelle stelle, le ore leggibili dagli astri, sono però nell'insieme solo un'immagine del piano provvidenziale di Dio che non è afferrabile da alcun oroscopo e da alcuna conoscenza dei nessi cosmici o intuizione di procedimenti parapsicologici. Questo piano provvidenziale Dio lo rivela in una trascendenza impossibile a calcolarsi, nella sua rivelazione in Cristo. Nascondi Questo soltanto è il « mistero del suo volere, che egli ci ha manifestato, il disegno che egli ha deciso di realizzare » ( Ef 1,9 ) e la cui rivelazione è toccata a Paolo ( Ef 3,3 ). Per questo, prima che Tommaso d'Aquino ammettesse come possibile in certi limiti la possibilità dell'oroscopia e con ciò della conoscenza di determinanti cosmiche del nostro destino, i Padri della Chiesa si sono difesi così risolutamente contro la commistione di queste cose con la Rivelazione eterna e non vollero considerare la stella di Betlemme come un fenomeno oroscopico. La scelta e la chiamata di Dio dovevano prima esser riconosciute in tutta la loro libertà dagli influssi sul destino propri degli ordinamenti naturali, prima di giungere alla secondaria idea che la libera scelta di Dio può servirsi anche delle determinanti naturali, per così dire incarnarsi in esse, senza inferiore legame, ma per sovrana discrezione. Se si vuol giungere sino in fondo a quest'idea, allora bisogna dire che nulla impedisce di mettere a servizio della vera e propria scelta di Dio tutta quanta la previsione naturale, come Dio lascia che essa manifesti il suo influsso anche per via di cause seconde, di influssi planetari, storico-tradizionali ed ereditari. Nascondi Poiché infatti come Dio è uno solo, Creatore e redentore, e come l'Antico Testamento del Padre e il Nuovo del Figlio sono insieme soltanto un unico eterno Patto del Dio trinitario con l'umanità, così anche la previsione naturale e quella soprannaturale formano un'unità, nella quale « tutto concorre al bene per quelli che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno » ( Rm 8,28 ). Tutta la previsione naturale diventa per essi trasparente alla chiamata di Dio, la quale si ripercuote attraverso tutto, fin dentro alle piccolezze di cui è fatta la vita quotidiana. E tuttavia questa chiamata non viene per questo mutata nella sua essenza. Essa rimane chiamata ad uscire dal mondo per entrare nella Chiesa, ad uscire dalla comunità per entrare nel sacerdozio o nello stato dei consigli. Come chiamata alla Chiesa in generale essa è chiamata ad una vita cristiana, e questa chiamata si ripercuote su tutta la configurazione che un cristiano darà alla sua vita matrimoniale e professionale nel mondo. Essa sarà il magnete che da agli ordinamenti mondani nella sua vita la polarizzazione cristiana. Sarà l'idea cristiana della missione a tenergli davanti agli occhi il senso e il criterio della scelta allorché si tratterà di scegliere i mezzi e le vie mondane. Essa non sarà però di per sé chiamata in un ordinamento mondano. La scelta cristiana dello stato di vita non può quindi, a rigor di termini, venir rappresentata così come se colui che compie la scelta dovesse accertarsi se la chiamata di Dio lo destina allo stato matrimoniale o allo stato sacerdotale o allo stato dei consigli. Nella sua scelta egli non si trova davanti a due chiamate di ugual valore. Visto cristianamente, egli si trova soltanto davanti all'aut-aut tra chiamata comune alla vita cristiana ( alla quale normalmente farà seguito la decisione per lo stato matrimoniale ) e chiamata speciale allo stato sacerdotale o dei consigli. Ed egli sarà chiamato alla vita nel matrimonio, quando non gli sarà partecipata una chiamata speciale. Nelle sue « Regole circa gli atteggiamenti ecclesiali » Ignazio mette in risalto questa chiara graduazione: « Bisogna lodare espressamente gli ordini religiosi, la verginità e la continenza, e il matrimonio non tanto come uno di questi. Lodare i voti religiosi di obbedienza, di povertà e castità, e di altre perfezioni di supererogazioni. Ed è da notare che, siccome il voto riguarda le cose che tendono alla perfezione evangelica, nelle cose che da essa si allontanano non si deve fare voto, come ad esempio di diventare mercante o di sposarsi » ( Eserc. Nr 356-357 ). Ciò che in questa formulazione teoretica può forse sembrare duro diventa semplice e chiaro se si guarda alla prassi della vita cristiana. Nessun cristiano sano, non stravagante per i suoi pregiudizi, dirà mai di sé che egli ha scelto lo stato matrimoniale a motivo di una scelta divina, una scelta che sarebbe paragonabile alla scelta e alla chiamata che riconosce in sé o sente colui che è chiamato a esser prete o alla sequela personale nello stato dei consigli. Colui che sceglie il matrimonio avrà semplicemente non trovato nella sua anima quella elezione speciale, e sceglierà lo stato matrimoniale con la miglior buona coscienza di questo mondo, senza sentirsi per questo imperfetto, ma anche senza vantarsi perciò di aver scelto una via divina speciale. Nascondi Egli obbedirà semplicemente all'universale volontà di Dio verso la sua creatura: « Figlio mio, ( … ) cerca in tutto il paese un campo fecondo e semina fiducioso il tuo seme » ( Sir 26,20 ). Piuttosto un artista che sente in sé una vocazione veramente « divina » potrebbe rinviare all'esempio di Bezalel, del quale Dio dice a Mosè: « Vedi, io ho chiamato per nome Bezalel ( … ) l'ho riempito di spirito divino, perché abbia sapienza, intelligenza e senso artistico in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro, argento e rame, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro. Nascondi Allo stesso tempo gli ho dato per compagno Oholiab ( … ) e nel cuore di ogni altro artista ho infuso saggezza, perché possano eseguire quanto ti ho comandato » ( Es 31,1-6 ). Si può qui certamente dire che si tratta di una singolare assunzione in servizio da parte di Dio di professioni mondane per la costruzione della tenda sacra, che inoltre questa elezione di professioni mondane per un santuario terreno è specificamente veterotestamentaria, poiché in effetti la tenda antica non è « quella vera », ma solo una « immagine adombrante » ( Eb 8,2-5 ), che è destinata a passare quando giunge la vera adorazione in spirito e verità ( Gv 4,23 ). Ma questa risposta non soddisfa del tutto. A partire dalla vocazione di Bezalel diventa senza dubbio chiaro qualcosa che all'interno del popolo eletto e quindi anche della Chiesa non si lascia afferrare altrimenti che come una rappresentazione analoga della vera e propria chiamata che fonda uno stato di vita. Non abbiamo forse visto che tutto ciò che accade a chi è stato scelto per diventar prete e a chi vive nello stato dei consigli è finalizzato al di fuori di sé ed è rappresentativo per la comunità e per i credenti singoli al suo interno? Così la stessa cosa vale anche per la chiamata. Il dono di intelligenza e senso artistico nello spirito divino corrisponde nell'Antico Testamento a quella realtà cristiana che Paolo chiama i carismi, e che può essere un compimento per grazia, donato da Dio, e un'assunzione in servizio delle capacità e abilità naturali. Fra gli ordinamenti mondani e la grazia della Redenzione non si apre un abisso, ma ognuna di queste possibilità mondane può ricevere il suo compimento che discende dall'alto, donato da Dio, per il bene della Chiesa e del mondo redento. Nascondi Così per esempio la sapienza di Salomone non è puramente trascendente, ma una sapienza che « passa di generazione in generazione nelle anime sante » ( Sap 7,27 ), anzi è immanente all'intera creazione ( Sap 7,24 ) e adatta tutte le leggi della natura ai suoi relativi bisogni come un materiale flessibile ( Sap 16,20-26; Sap 19,18-19 ), una sapienza che si incarna non solo nella del tutto quotidiana saggezza dei detti della vita terrena, bensì persino nella vera e propria scienza naturale: « Dio infatti mi ha concesso la conoscenza infallibile delle cose, per comprender la struttura del mondo e la forza degli elementi, il principio, la fine e il mezzo dei tempi, l'alternarsi dei solstizi e il susseguirsi delle stagioni, il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la natura degli animali e l'istinto delle fiere, i poteri degli spiriti e i ragionamenti degli uomini, la varietà delle piante e le proprietà delle radici. Nascondi Tutto ciò che è nascosto e ciò che è palese io lo so, poiché mi ha istruito la sapienza, artefice di tutte le cose » ( Sap 7,17-21 ). La Rivelazione conosce dunque una penetrazione soprannaturale, teologica, di tutte le scienze terrene senza eccezione: cosmologia e astronomia, fisica, biologia e farmacologia, botanica e zoologia, storia, psicologia e altre scienze dello spirito. Tutte queste scienze, in quanto naturali, non sono chiuse in sé, ma governate dalla sapienza divina, la quale « per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa. Nascondi È un'emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell'Onnipotente, ( … ) un riflesso della luce perenne, uno specchio della bontà di Dio » ( Sap 7,24-26 ); uno spirito che si comunica solo all'umile, all'orante, e che è l'ombra anticipatrice del Figlio di Dio che si avvicina, « nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza » ( Col 2,3 ). « Poiché in Lui tutto è stato fatto, le cose nei cieli e quelle sulla terra, le cose visibili e quelle invisibili » ( Col 1,16 ). Per questo non è strano, bensì prevedibile, che ogni arte e scienza terrena che si chiude in se stessa e rifiuta ogni apertura alla sapienza soprannaturale, la quale come « ogni buon regalo e ogni dono perfetto » discende dall'alto ( Gc 1,17 ), ultimamente può diventare soltanto stoltezza, poiché ad ogni dono naturale che Dio da a un uomo corrisponde come compimento un carisma di grazia. Questo appartiene in una specie di naturalezza ( poiché oramai Dio ha deciso di fondare la creazione in vista della riconciliazione in Cristo ) all'impianto naturale, che senza questo compimento rimane un'opera incompiuta. Nascondi E a nessuno che chieda nella preghiera questo compimento della sua opera terrena Dio lo negherà: « Pregai, e mi fu data l'intelligenza; implorai, ed entrò in me lo spirito della sapienza » ( Sap 7,7 ). Ed ebrei e cristiani pregano insieme: « Rafforza l'opera delle nostre mani, sì, dona vigore all'opera delle nostre mani! » ( Sal 90,17 ). Questo compimento per grazia e questa assunzione in servizio da parte di Dio della professione mondana può di nuovo avere forme e gradi diversi. Può essere un'irradiazione moderata, per così dire indiretta, di una benedizione della Grazia su di un'opera esistenziale terrena, come ad esempio nell'operare di uno scienziato; può essere la esteriore presa a servizio di una professione mondana ai fini del Regno di Dio, come nel caso della professione di un medico, di un giurista o di un giornalista; può essere però anche una assai intima richiesta dell'insieme delle capacità naturali di un uomo, come nel caso di Bezalel, che diventa qui prefigurazione delle grandi vocazioni cristiane creative d'arte. Simili prese a servizio, che colgono di sorpresa l'uomo come una sacra possessione e gli fanno consumare la sua vita e i suoi sentimenti per un'arte esercitata realmente come servizio divino - dove egli forse rimane celibe e la sua vita personale diventa una catena di situazioni impossibili e di sofferenza -, a simili « vocazioni », che hanno certo la loro origine in un talento naturale, ma dispiegano manifestamente la loro necessaria tendenza ad un rapporto con la « sapienza divina », non si vorrà negare un'autentica analogia con le vocazioni ecclesiali al sacerdozio e allo stato dei consigli. Questo vale tanto più in quanto, come abbiamo visto, anche il sacerdozio possiede un naturale ancoramento nella vita comunitaria umana, per cui non è fuor di via pensare che ci possa essere qualcosa come una predisposizione naturale e tipica attitudine al sacerdozio. Lo stato sacerdotale si rivelerebbe allora ancora una volta come una specie di centro e di punto d'incrocio tra un talento puramente o prevalentemente naturale, come quello delle vocazioni mondane, e una vocazione che è puro dono di grazia, senza alcun punto di riallacciamento naturale, come nel caso della chiamata alla sequela di Cristo nella vita secondo i consigli. Il sacerdozio potrebbe allora venir visto come il caso più alto a partire dalla natura: idoneità e inclinazione naturale insieme ad una pietà comunemente cristiana ed ecclesiale potrebbero bastare - a partire dal soggetto - per un'esistenza sacerdotale. Tuttavia questo caso, considerato a partire dal caso normale di vocazione sacerdotale, sarebbe soltanto il limite più basso permesso, poiché alla predisposizione naturale verrà di norma ad aggiungersi la chiamata di grazia di Dio chiaramente intesa, come corrisponde al tipico carattere di grazia intrinseco allo stato sacerdotale tanto nel Vecchio quanto nel Nuovo Testamento. Certamente questa chiamata può assumere, come vedremo, le forme e i gradi di intensità più svariati, e non si lascia fissare in nessun tipo normativo. In virtù di questa ampiezza di tensione il sacerdozio acquista una collocazione che rimane sospesa nel centro e impersona così l'analogia della chiamata e la sua costituzione suddivisa in gradi. Così la chiamata può apparire complessa sotto un duplice punto di vista. Da una parte una vocazione può realizzarsi a motivo del confluire di diversi elementi: alcune componenti naturali, come la predisposizione, l'inclinazione, l'impulso al dispiegamento delle energie e dei germi naturali, e alcune componenti puramente soprannaturali, tipiche dell'immediato esser chiamati da Dio. Tra queste due schiere di componenti se ne possono infiltrare ancora altre: aiuto oppure ostacolo da parte dell'ambiente e delle circostanze esterne, valutazione e, nel caso del sacerdozio o della vita secondo i consigli, accettazione o rifiuto da parte dell'autorità ecclesiastica. Questo complesso intreccio di diversi elementi non contraddice la possibilità che dall'insieme di una combinazione di circostanze possa e debba manifestarsi la semplice e chiara volontà di Dio su di una vita; in effetti questa volontà non ha bisogno di apparire di per sé come astratta, ma come concretizzata e incarnata in una molteplicità di dati mondani. Tuttavia è già in anticipo visibile da questa tensione tra la chiamata di Dio « pura » e quella « mediata » e incarnata nel mondo che qui può esserci un focolaio di difficili questioni e conflitti. Comunque questi possano esser risolti, è certo che ogni chiamata di Dio che decide di una vita ( che sia più o meno incarnata o pura ) si deve sempre chiarire nel senso di una inequivocabile certezza nel cuore di colui che sceglie, quando questi si avvia a compiere la sua scelta. Ignazio formula a questo riguardo un'inequivocabile regola: ogni scelta che fonda uno stato di vita, « la quale viene da Dio, deve essere sempre pura e trasparente, senza commistione della "carne" o di qualche altra inclinazione disordinata. Molti si ingannano su questo aspetto, facendo di una scelta storta o cattiva una vocazione divina » ( Eserc. Nr 172 ). La somma delle componenti determinanti per la scelta ( carattere, ambiente, Chiesa, Dio ) deve nel suo insieme dare a riconoscere la chiara e trasparente volontà di Dio. D'altra parte può questa volontà stessa nella sua chiarezza e trasparenza assumere ancora le forme più diverse, che sono del tutto indipendenti dalla complessità di cui si parlava prima. Le vie di Dio con gli uomini sono così infinitamente varie e così uniche e personali che anche le forme della chiamata di Dio possono essere sempre nuove e diverse. Se la prima molteplicità era paragonabile ad un cerchio composto di settori disuguali, ma in modo tale che l'intero cerchio rende l'intera volontà di Dio, la seconda molteplicità della chiamata la si potrebbe rappresentare figurativamente immaginando l'intero cerchio ogni volta colorato in modo diverso. Di questa seconda differenziazione della rispettivamente intera chiamata dobbiamo ora parlare per prima, poiché essa si conserva in qualsiasi combinazione degli elementi. Nascondi Le forme della chiamata Ogni chiamata di Dio è la manifestazione di una eterna elezione, che è sempre una « elezione in Cristo prima della fondazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità », e dunque una « predestinazione nell'amore a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo » ( Ef 1,4-5 ). Essa è un'azione dell'amore e ha per fine la santità, che è sempre una forma dell'amore. Così la chiamata riceve la sua forma dalle leggi dell'amore ed è guidata da esse. Essa non può affatto venir compresa senza la speciale maniera di pensare tipica dell'amore. Già allorché riflettemmo sui presupposti del concetto di stato di vista risultò evidente che non si può tracciare un rigoroso confine tra comandamento e consiglio, tra ciò che un cristiano deve fare e ciò che egli può fare. Il comandamento dell'amore va senza demarcazione di frontiera dal divieto di peccare gravemente, passando attraverso l'impegno ad evitare le leggerezze e le imperfezioni, fino alle più alte forme di perfezione, irraggiungibili da un punto di vista puramente umano, allorché esso richiede di amare Dio con tutto il cuore, tutta l'anima, tutto il temperamento e con tutte le forze. Questo comandamento è rivolto a tutti i cristiani, ma è rivolto in forma qualitativamente speciale a quelli che sono eletti ad una speciale sequela del Signore in uno speciale stato di vita. Infatti l'oggetto verso cui la chiamata guida colui che è eletto alla vita secondo i consigli non è rappresentato tanto dai consigli nella loro materialità e strumentalità, quanto piuttosto dall'amore più grande che essa esige, grazie al quale soltanto egli diviene attento alla possibilità dell'offrirsi nei voti. Il comandamento dell'amore, contenuto essenziale di ogni vera chiamata, può così venir presentato da Dio con diversa urgenza e chiarezza. Per alcuni il comandamento suona come qualcosa di ovvio, che essi ascoltano in maniera distratta, e a cui è superfluo dedicare una speciale attenzione. È naturale che Dio richieda amore, è naturale che ci sia qualcosa come un comandamento principale ed è naturale che il cristiano cerchi di ottemperarvi, bene o male che possa. E Dio può venire in aiuto alla nostra debolezza e, come speriamo, scusare ciò che non è proprio diritto. Il comandamento dell'amore risuona chiaro quanto al suo contenuto, ma non acquista in colui che lo ode alcun rilievo plastico. Non lo0 spinge a nessuna conseguenza che lo possa scagliar fuori centrifugamente dal binario che egli si è tracciato. Egli se ne sta lì come una colonna, di cui la base e le parti più basse sono illuminate e attirano su di sé l'attenzione, mentre la cima e il capitello restano in ombra e trasmettono di sé solo una conoscenza assai poco chiara. Si sa che ci sono, ma non viene in mente di osservarli, non ci si sente in obbligo, non ci si sente « chiamati » ad approfondire i loro segreti, che sono tuttavia connessi con ciò che si vede bene, come attraverso il fusto della colonna. Questa posizione, che certo è quella di moltissimi cristiani, conserva un duplice volto. Da un lato essa è espressione di una certa indifferenza nei confronti dell'amore di Dio, di un bisogno di « essere lasciati in pace », che è proprio in un certo grado di tutti coloro che sono sottoposti al « peccato originale » e che infine fece dormire nell'Orto degli Ulivi anche i discepoli eletti. E sotto questo aspetto ognuno avrà, di fronte all'esigenza sempre più grande del comandamento dell'amore, qualcosa come un'abituale cattiva coscienza. Ma mentre questa si traduce per quelli propriamente chiamati in un mettersi in marcia, in un movimento di dedizione e di sequela, per tutti gli altri rimane come un intangibile sfondo statico. Qualcuno si rende conto che « dovrebbe accadere qualcosa », ma « non adopera i mezzi per questo sino all'ora della morte » ( Eserc. Nr 153 ). E un simile restar fermi può anche infine scusarsi sempre col fatto di non aver ricevuto la chiamata speciale. Poiché alcuni sono chiamati a qualcosa di più che gli altri, questi possono sentirsi meno chiamati di quelli. Nascondi Mentre per Dio l'orientamento verso il « di più » corrisponde al suo essere, che è esso pure il « sempre di più » ( Sir 43,30 ), e a questo orientamento non si contrappone alcun guardare indietro verso un « di meno » e prendere le misure da esso, per l'uomo invece il « di più » assume il carattere di una misura, alla quale si contrappone un « di meno ». Mentre quindi Dio con la sua chiamata al « di più » fa saltare queste misure umane, l'uomo, che solo grazie a questa apertura diventa esattamente cosciente dei limiti, le calcola invece più che mai. La chiamata al « di più » dell'amore di Dio apre tanto lo sguardo quanto l'accesso a questo « di più ». La luce penetra in alto e si proietta sull'intero orizzonte dell'amore aperto all'infinito, sulla sua distintiva « forma divina. L'amore non appare più come un dato di fatto chiuso in sé, l'inadempibilità della sua richiesta non appare più come un fatto triste ma purtroppo immutabile, bensì come una fiamma che si immerge nel cuore del chiamato e lo induce a gettar via a cuor leggero tutto ciò che è finito, per alimentare il fuoco inestinguibile e accenderlo in tal modo più che mai. Dall'illimitatezza dell'interpellazione divina che si dà a riconoscere l'interpellato viene introdotto in una illimitatezza della possibile risposta, in cui scompaiono i confini tra dovere e potere, comandamento e consiglio. Tutto quello che l'amore può esprimere non appare più come « opera supererogatoria », ma come rientrante nell' « unica cosa necessaria ». Ma il mondo appare nel segno della contraddizione: che l'amore assoluto, che deve essere amato, non viene amato. E colui che è toccato dall'amore non avrà più pace finché non ha compiuto fino all'ultimo tutto ciò che egli può fare per aiutare l'amore a vincere. Tutta l'etica di un tale uomo si sposta e viene a mettersi sotto il segno di quest'ultimo comandamento: buono e permesso è per lui ciò che di fronte alla chiamata di Dio ad amare di più può reggersi; cattivo è ciò che misurato in base ad essa non resiste, sia anche mille volte considerato dal mondo e persino dai cristiani come ragionevole e moralmente permesso. Lo sguardo penetra attraverso tutti i parametri consolidati e giunge sin dentro alla spalancata apertura dell'amore infinito; e questo sguardo non può dimenticare ciò che là dentro gli venne mostrato. Colui che ha osato ciò può forse fare come se non avesse visto niente, non avesse udito niente, può trincerarsi dietro i paragrafi di una morale ufficiale, dietro i quali egli è al sicuro in mezzo agli uomini e si crede forse inattaccabile per Dio stesso. Questo non impedirà che egli è uno di quelli che hanno detto no e ai quali Gesù volge tristemente lo sguardo. La chiamata all'amore aperto è rispettivamente un'offerta di sé dell'amore di Dio al chiamato e come tale reca in sé la possibilità non solo di comprendere questo amore, ma anche di rispondervi. E cioè ogni forma speciale di interpellazione divina contiene anche la forma e grazia speciale della risposta. Solo così diviene afferrabile la graduazione, altrimenti solo difficilmente comprensibile, dei « tre modi di umiliazione - negli Esercizi ignaziani. Mentre il primo modo esige dall'uomo che egli si abbassi talmente da obbedire in tutto all'indicazione divina, nella misura in cui essa obbliga sotto pena di peccato mortale, il secondo modo purifica la prontezza a rispondere, cosicché uno aspetta tutto, nella piena indifferenza, da ciò che Dio dispone e non viene più ostacolato da alcun disordine interiore, al punto che anche a costo di perder la propria vita non prenderebbe in considerazione l'ipotesi di compiere un peccato veniale. Al di là di questa pura disponibilità non sembra esser più possibile alcun grado ulteriore, in base ai presupposti propri del Santo. Ciononostante egli accenna ad un « terzo, del tutto perfetto modo di umiliazione, che includendo il primo e il secondo, ed essendo uguali lode e gloria della divina Maestà, per più imitare e assomigliare effettivamente a Cristo nostro Signore, desidera e sceglie piuttosto povertà con Cristo povero che ricchezza, obbrobri con Cristo pieno di essi piuttosto che onori, e desidera più di esser stimato stolto e pazzo per Cristo, che primo fu ritenuto tale, piuttosto che savio e intelligente in questo mondo » ( Eserc. Nr 167 ). Una simile scelta dell'uomo al di là della pura indifferenza sarebbe un voler precorrere la scelta divina e inoltre eliminerebbe in tal modo tutto il fondamento degli Esercizi, nel caso che essa non fosse risposta ad una espressa o implicita scelta di Dio, manifestata ad alta voce o sottovoce a colui che è stato messo in grado di vedere questo terzo modo di umiliazione come qualcosa da prendere in considerazione. Già il fatto che il proprio sguardo venga guidato verso questa via, che è una via dei prediletti di Dio, è una grazia che viene conferita a seguito di una speciale offerta di Dio in vista di questa via. Nascondi Certo nessuna vita cristiana può passare accanto a questo mistero della partecipazione alla Passione e lasciarselo dietro le spalle senza prestarvi alcuna attenzione, poiché anzi « tutti quelli che vogliono vivere pienamente in Cristo Gesù devono patir persecuzione » ( 2 Tm 3,12 ); a solo a pochi è dato di afferrare questo mistero come ciò che è decisivo per la loro vita. Questo spiega poi anche il fatto che molti di coloro ai quali era offerta da Dio questa grazia di proposito fecero finta di non sentire la chiamata o sin da principio con la loro condotta di vita resero impossibile a Dio di far loro giungere quella chiamata che egli aveva tenuto in serbo per essi. Le forme della chiamata speciale - poiché è soprattutto di queste che ora si tratta - sono nel loro insieme forme di amore che si distinguono perciò dal puro e semplice comando che il padrone impartisce al servo. Tuttavia può essere che il modo, per così dire il suono della voce di Dio sia diverso, a seconda che si tratti di una chiamata allo stato sacerdotale o allo stato dei consigli. Il sacerdozio è primariamente una funzione ecclesiale, per cui anche la chiamata ad esso recherà in sé come qualcosa di ministeriale e gli conferirà così qualcosa di simile ad un comando. Nascondi È piuttosto il categorico « Seguimi » rivolto ai discepoli, che li toglie semplicemente dal loro ambiente terreno per collocarli in un nuovo ufficio; una chiamata che è quasi simile ad un appello militare, poiché i singoli vengono chiamati per nome e si fanno avanti ( Mc 3,13 ). Pietro viene colto di sorpresa dall'improvviso cambiamento di nome e sequestrato per il ministero, le obiezioni di Natanaele vengono sconfitte dalla sorprendente rivelazione dell'onniscienza di colui che gli rivolge la richiesta ( Gv 1,42-48 ). La chiamata allo stato dei consigli è in qualche modo diversa. Essa è una chiamata alla sequela personale e per questo abbisogna assai più fortemente della volontaria risposta personale, reca di più il carattere di un invito. Al giovane ricco, che sente in sé l'impulso alla totalità, il Signore apre una porta e gli mostra la possibilità di entrare: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti ». Nascondi E inoltre: « Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto ciò che hai ( … ), poi vieni e seguimi » ( Mt 19,17-21 ). Così si differenzia pure, come già vedemmo, la vocazione del discepolo dell'amore da quella ministeriale di Pietro. Giovanni viene attirato dall'amore del Signore ed è già in movimento verso di lui. Quando il Signore si volta e domanda: « Cosa cercate? » alla controdomanda: « Maestro, dove abiti? » fa seguito l'acconsenziente invito: « Venite e vedete » ( Gv 1,38-39 ). Il non voler udire il « comando » al ministero è perciò piuttosto simile al trascurare un comandamento, mentre il non voler udire l' « invito » alla sequela personale tocca qualcosa di più delicato, che cioè non può propriamente esser valutato come trasgressione di un comandamento ( giacché si tratta in effetti « soltanto » di un consiglio ), ma che colpisce l'amore del Signore in un punto più intimo, più vulnerabile. Nascondi Infatti per la passione del giovane ricco per qualcosa di migliore « Gesù lo amò » ( Mc 10,21 ), e allorché il giovane ricco « divenne triste e rattristato se ne andò, poiché possedeva molti beni » ( Mc 10,22 ), questa tristezza è però poca se confrontata con quella del Signore che segue con gli occhi colui che si allontana. Per questo personale amore di Dio contenuto nell'invito alla sequela personale il termine « consiglio » non è pienamente adeguato. Un consiglio è pur sempre, anche se è un « buon consiglio », qualcosa che proviene da un'istanza che in qualche modo resta impartecipe, dove in caso di rifiuto a colui che ha dato il consiglio non ne deriva svantaggio alcuno. L'invitante amore preveniente di Dio, che offre ad un uomo la grazia di poter gettar lo sguardo nei più profondi misteri dell'amore divino e di partecipare ad essi, viene colpita dalla scortesia di un rifiuto in modo diverso che quando viene trasgredita una « legge » reputata come formale. Questo significa però allo stesso tempo che il passaggio della chiamata da un tono prevalentemente di comando ad un tono prevalentemente di invito non può affatto venir scambiato con un affievolimento della sua urgenza. Al contrario, quanto più l'amore si rivela nella chiamata, tanto meno perciò questa chiamata può armarsi di sanzioni vere e proprie; quanto più essa è l'espressione dell'indifeso ( anzi implorante aiuto ) amore di Dio che non può addurre nessun altro argomento in favore della sequela che la speranza che le esigenze dell'amore vengano comprese, tanto più urgente diventa la risposta esigila da colui che viene interpellato, se questi è uno che ama. Questa urgenza diviene così forte che ogni ordine, ogni comandamento o legge, appare come una semplice eco di tale necessità: che Dio deve venir riamato anche senza motivo, per amore del suo amore, che è un amore senza motivo. Nascondi A partire di qui Giovanni comprende tutto il cristianesimo: « Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come Lui si è comportato » ( 1 Gv 2,6 ); « da questo conosciamo l'amore, che Egli ha dato la sua vita per noi; anche noi perciò dobbiamo dare la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ). « Carissimi, se Dio ci ha dimostrato così grande amore, dobbiamo anche noi amarci gli uni gli altri » ( 1 Gv 4,11 ). Nascondi Questa necessità è nel Nuovo Testamento alla base di ogni altra necessità di leggi, le quali d'ora innanzi non « stanno » più fondate su di sé, ma « dipendono » ( Mt 22,40 ) oramai soltanto dalla legge dell'amore, « nella quale si adempie tutta la Legge » ( Gal 5,14 ) e inoltre persino « ogni profezia », mentre la legge considerata non come espressione dell'amore « non esiste per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi ( … ) » ( 1 Tm 1,9 ). Sarebbe ora di nuovo errato pensare che le due forme di chiamata stiano bruscamente l'una di fronte all'altra. Ci sono fra di esse dei passaggi scorrevoli. Già per il fatto che, come abbiamo visto, lo stato d'elezione forma un'unità analoga, poiché una chiamata può prender le mosse dal sacerdozio per condurre il chiamato ad una sempre maggiore sequela personale, ad un adempimento dei consigli spirituale o attuale, e poiché d'altra parte la chiamata può condurre primariamente allo stato dei consigli, per far sbocciare da questo il sacerdozio come un frutto interiore che all'inizio rimaneva ancora nascosto. Perlomeno è vero che ogni chiamata speciale, che nella forma somiglia a un comando, ha nello stesso tempo la forma dell'invito, mentre non ogni forma di invito ha anche forma di comando. C'è piuttosto all'interno degli inviti di Dio ancora una volta tutta una serie di graduazioni fra un desiderio espresso chiaramente, che per chi ama può equivalere ad un comando, e l'offerta di una possibilità, la cui realizzazione rimane affidata quasi del tutto alla discrezione dell'uomo. Qualche giovane, riflettendo sullo stato di vita da scegliere, giunge nelle vicinanze della zona della chiamata speciale; la chiamata stessa non ha luogo, ma egli sa che non gli viene impedito di avvicinarsi ancor di più a quella zona nella quale forse ( o anche probabilmente ) la chiamata diviene udibile. Ma egli devia anzitempo, e così non la potrà mai udire. Oppure quando uno si lascia condurre nella sua vita da Dio è previsto che se egli crescendo nel tempo a questo o quel punto di svolta della sua vita cammina con Dio, si dirige in virtù di ciò, senza ancora saperlo, in quel binario sul quale la chiamata gli verrà incontro. Ma egli si impelaga, magari già da bambino, in una boscaglia, e la strada prevista non viene percorsa. Ma può essere anche che egli perviene nella zona della chiamata qualitativa, si avvicina a Dio « a portata di voce », la quale voce gli lascia però, per la sua forma oggettiva e non semplicemente per la maniera imperfetta in cui viene udita, la scelta di seguire o di non seguire. Egli vede del tutto obiettivamente: c'è la via normale, e non mi è interdetto di percorrerla. Tuttavia a questa forma di chiamata manca l'attrazione magnetica con cui altre forme attirano a sé irresistibilmente. Poiché nell'elezione il mistero della divina libertà della Grazia ha così tanto spazio, questa Grazia divina lascia anche all'umana libertà di risposta il medesimo spazio per decidere. Le relazioni d'amore fra Dio e uomo, che si intessono inafferrabilmente in entrambe le direzioni, sono non meno delicate e molteplici che quelle fra due amanti prima che si chiudano le porte dello stato matrimoniale. Parecchie considerazioni, parecchi riguardi trovano posto, e se in un caso i cuori amanti battono così irresistibilmente l'uno verso l'altro che non viene in mente null'altro che il matrimonio, in un altro caso l'amore può esigere, proprio per amore, forse lunghi anni di estrema discrezione, in cui il partner è lasciato libero di decidere. Così ogni chiamata da parte di Dio ha anche, come ogni rapporto d'amore umano, la sua storia e il suo sviluppo. Raramente uno che è realmente chiamato non è posto sin dalla prima giovinezza sulla via della chiamata. Egli ascolta da bambino la voce di Dio, che ritorna penetrante a intermittenza, o come una continua esortazione e invito che non è ancora precisato più da vicino e che non è ancora affatto necessario che il bambino interpreti nel senso di una vocazione allo stato di vita. Per lo più solo in un secondo tempo, a partire dalla chiamata udita e ricevuta, tutta la via della fanciullezza è interpretabile come una via in cui si è stati guidati, tutelati e preparati secondo i piani al futuro incarico. Ne qui ne nella vocazione stessa ci sono norme universalmente valide: ogni via è una nuova, irripetibile storia d'amore; solo una cosa è certa: che ognuno che segue la luce della chiamata e rimane fedele alla guida divina non viene abbandonato da Dio, ma viene condotto alla chiarezza di una scelta perfetta. Incerto rimane invece quanto a lungo la pazienza di Dio continua a seguire uno che fa resistenza e che si chiude. Nascondi Certamente ci sono casi come quello di Giona, in cui Dio raggiunge colui che lo fugge, e con superiorità lo colloca nella sua missione, casi anche nei quali Dio apparentemente per decenni esaudisce uno senza nemmeno bisogno che questi gli esprima a voce la sua richiesta, per poi all'ultimo, allorché egli giace a terra sopraffatto, dirgli con l'ironia dell'amore divino: « Ti è duro recalcitrare contro il pungolo! » ( At 26,14 ). E tuttavia dovrebbe essere più frequente l'altro caso, quello del giovane ricco: che Dio chiede una volta, forse un paio di volte, ma alla fine lascia andare l'anima che rifiuta l'amicizia di Dio. Con ciò l'episodio del reclutamento di questa vita da parte di Dio è essenzialmente terminato; non come se si dovesse disperare della salvezza di quest'uomo, giacché gli rimane sempre offerta la grazia sufficiente per salvarsi, ma è certo nel senso che è per sempre svanita la possibilità di divenire un amico prediletto di Dio. Dio non conferisce due volte una missione speciale, qualitativa; egli può cioè aspettare che l'uomo si degni infine di compiere la scelta decisiva, ma una volta che essa è stata negativa non giova più nessun pentimento. Le vie della chiamata restano uniche, irripetibili. Nessuna casistica le può formulare in leggi bell'e pronte. E tuttavia queste vie della chiamata sono le vie di ogni vita cristiana, ed ogni casistica si riferisce alla legge della rispettivamente nuova, personale conduzione ad opera di Dio. Ogni « sistema » della spiritualità, della « ascetica e mistica » tenta di afferrare e descrivere queste vie della chiamata, che esse conducano alla chiamata di grazia nella Chiesa o a speciali vocazioni in essa. Ma la cosa ultimamente importante nella vita cristiana rimane il personale poter udire e interpretare la mia rispettiva chiamata; nessun altro può udire la mia chiamata al mio posto, nessuna scienza di Dio e delle sue vie può sostituire l'orecchio che ascolta e obbedisce. Quintessenza dell'esser cristiani è essere aperti alla chiamata ogni giorno e ogni ora, e lasciarsi da essa colpire e guidare. « Guardate perciò, fratelli, che non si trovi in nessuno di voi un cuore perverso e senza fede che si allontani dal Dio vivente. Esortatevi piuttosto a vicenda ogni giorno, finché dura questo « oggi », perché nessuno di voi si indurisca sedotto dal peccato ( … ) Nascondi Udite oggi la sua voce, non indurite i vostri cuori » ( Eb 3,12-15 ). Le diversità delle forme di chiamata riguardano non solo la preistoria della scelta, ma forgiano anche dopo la scelta, nell'assunzione della missione, tipi diversi di chiamati. Colui che in virtù della chiamata è diventato prete conserva nella caratterizzazione della sua missione qualcosa della forma di questa vocazione. Il suo rapporto verso Dio e il prossimo, il suo modo di vedere la vita cristiana, di giudicare vizi e virtù, anche di impartire i Sacramenti e di provvedere al servizio della comunità conserveranno certi tratti che lo distinguono da una tipica vocazione religiosa. Egli sarà « più vicino alla natura », nonostante tutta la soprannaturalità dei suoi motivi non trascurerà mai i punti di vista naturali, prenderà il peccatore o il figlio spirituale da educare più dal lato caratteriale, morale, per condurlo avanti, manterrà un'intima relazione coi rapporti familiari, statali, sociali. Il religioso, che grazie all'invito del Crocifisso è entrato nello stato della croce, vedrà e giudicherà ogni cosa a partire dalla croce, si dimostrerà talvolta nelle cose concernenti l'ordine naturale maldestro ed estraneo al mondo, risolverà i casi di coscienza dal punto di vista soprannaturale dell'amore di Dio e di Cristo, guarderà sempre agli uomini in vista del loro compito affidato loro dalla grazia divina e a partire di là li guiderà. Ma anche all'interno delle esplicite vocazioni personali alla sequela rimangono fino all'ultimo tensioni considerevoli nella forma di vocazione: fra coloro ai quali è stata imposta da Dio una grande missione personale con una certa violenza e coloro invece che sono stati attratti nel loro stato dal delicato ardore del Signore. Paolo fa parte dei primi, Giovanni dei secondi. Paolo, che si dirige verso Damasco « fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore », viene gettato giù di sella dalla chiamata come da una folgore. Nascondi Tutto in ciò è duro: la luce che lo inonda e letteralmente lo acceca; la quasi beffarda vittoria del Kyrios su quello spirito violento che « scosso e tremante » giace a terra davanti a Lui; la brusca istruzione: « Alzati e va' in città; là ti sarà detto ciò che devi fare »; l'impietosa profezia della durezza della missione: « Egli è per me uno strumento eletto ( … ), io voglio mostrargli quanto dovrà soffrire per il mio nome » ( At 9 ). Il cavallo scosso viene marchiato col timbro della vocazione. Non gli si chiede il suo parere: il sì dell'assenso sembra perduto nell'enormità della rivelazione del mistero che gli viene affidato ( Ef 3,1-4 ). Non si discute. E così rimane al chiamato qualcosa della violenza della grazia che lo ha sopraffatto, al punto che egli sente il suo apostolato come una corvée impostagli, a cui egli certo acconsente ardentemente e che porta avanti: « Non è per me un vanto predicare il Vangelo, è un dovere: guai a me se non predicassi il Vangelo! Se lo facessi di mia iniziativa, avrei diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Nascondi Qual è dunque la mia ricompensa? » ( 1 Cor 9,16-18 ). Questa consapevolezza di essere « un bue che trebbia » ( « Non lo dice Dio forse proprio per noi? », 1 Cor 9,9-10 ) egli la mantiene anche quando riceve le più elevate rivelazioni e canta i più estasianti inni all'amore di Dio. Egli deve sentire il pungolo per buoi, contro cui recalcitra, anche più tardi: « Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi fu messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di colpirmi, affinché io non mi insuperbisca » ( 2 Cor 12,7 ). Nascondi Se Paolo appare così forgiato dal piede del Signore « ardente nel crogiuolo », altrettanto è per Giovanni in virtù dei Suoi « occhi fiammeggianti come fuoco » ( Ap 1,15; Ap 2,18 ). Lui non ha bisogno di essere sopraffatto dal Signore per essere preso nel suo incantesimo; sin dal primo istante in cui Lo ha guardato e ha udito la Sua voce, egli è stato strappato fuori da sé e inserito nel puro guardare, udire, toccare l'Amore: che si rivela: « Ciò che era sin da principio, ciò che noi abbiamo udito e visto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo guardato e che le nostre mani hanno toccato del Verbo della vita ( … ) noi lo annunciamo a voi, affinché anche voi siate in comunione con noi » ( 1 Gv 1,1-2 ). Provenendo da questa esperienza, per annunciarla come colando dai torrenti della Grazia, Giovanni non sa annunciare altro che i miracoli dell'amore del Signore. Nascondi Mentre la personalità di Paolo si innalza, per amore della sua missione, alta come una torre e attira tutti gli sguardi su di sé ( « Prendete come modello me, o miei fratelli! » Fil 3,17 ), la persona di Giovanni è come dissolta, i suoi contorni come cancellati, tutto il suo essere è reso come trasparente per la sola luce della vita del Signore. Così le forme della chiamata forgiano quelle delle vocazioni, delle quali non si può dire che le une siano migliori delle altre, ma che piuttosto sono tutte la cosa migliore quando corrispondono esattamente alla chiamata giunta loro, poiché « c'è diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; c'è diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; c'è diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti » ( 1 Cor 12,4-6 ). Gli elementi della chiamata Finora la chiamata di Dio è stata considerata come una realtà indivisibile, come l'unità della volontà di Dio presentata al chiamato, la quale può avere un'impronta diversa a seconda della forma e del colore che essa assume. Ma abbiamo già visto che questa unità della chiamata e della volontà di Dio può comporsi anche di più elementi, che sono tutti da prendere in considerazione, se si vuole raggiungere e rendere comprensibile la chiarezza della chiamata. Finché siamo in questo mondo non vediamo Dio in volto, nemmeno nella più alta contemplazione mistica. Così pure non udiamo la voce di Dio altrimenti che mediata attraverso i veli della creaturalità. Cristo stesso, che è Dio, ci lascia vedere la sua divinità solo attraverso i veli della sua umanità, e anche i più intimi suggerimenti e impulsi dello Spirito Santo nella nostra anima, che psicologicamente sembrano possedere un'assoluta immediatezza, considerati quanto all'essere sono trasmessi attraverso il medium della creaturalità. Ciò vale anche per la chiamata divina. Questo non significa però che da questa mediazione essa debba venir indebolita, o diventi meno chiara e comprensibile. Così come per il credente la parola di Cristo ricevuta dal Padre, sebbene mediata creaturalmente, conserva integrale chiarezza e perciò uguale forza di richiesta, anche la sua chiamata mediata dai mezzi mondani è inequivocabile. Nascondi Solo "l'orecchio incirconciso non è in grado di udirla" ( Ger 6,10 ). All'interno di questa mediazione della voce di Dio ci sono ora due serie di componenti: soggettive, che ci fanno conoscere la chiamata in esperienza, avvenimenti e visioni interiori e personali, e aggettive, che ce la manifestano dall'esterno, soprattutto attraverso gli esponenti e gli elementi dell'oggettivo ordine della salvezza divino ecclesiale. "Deus vocat exterius et interius" ( S. Tommaso ). In quanto però ogni chiamata di Dio è un'interpellazione personale di uno spirito umano, della quale il cristiano è destinato dalla Chiesa e dalla sua missione a fare uso all'interno della Chiesa come un ministero ecclesiale oppure come un carisma, ogni chiamata deve in qualche modo aver parte tanto alla mediazione soggettiva quanto a quella oggettiva. È impossibile che una chiamata divina giunga su di un uomo soltanto dall'esterno, cosicché la Chiesa potrebbe ad esempio ordinare sacerdote uno che non si sente in alcun modo intimamente chiamato a diventar prete, e solo attraverso questa consacrazione ( che certo sarebbe valida, qualora il consacrato dia il suo assenso ) egli diverrebbe realmente un chiamato. Così pure la chiamata di Dio non può avvenire nemmeno soltanto dall'interno, al modo da poter o dover compiersi al di fuori della Chiesa o contro la Chiesa. Possibile è soltanto che una chiamata personale non venga subito riconosciuta dalla Chiesa e che un chiamato debba condurre avanti la sua missione anche contro forti opposizioni, per quanto egli possa farlo bene all'interno della Chiesa e del suo spirito. Questa missione sarà, malgrado queste opposizioni, una missione ecclesiale. Così pure, infatti, in quasi tutte le grandi missioni di riforma all'interno della Chiesa i chiamati ebbero da superare dure resistenze, per trovare infine, con la grazia di Dio che combatteva per essi, anche il riconoscimento ecclesiale ( durante la loro vita o dopo la morte ). Il rapporto tra soggettivo e oggettivo si sposta nella crescente analogia della chiamata. Nella comune chiamata del cristiano ad uscire dal mondo ed entrare nella Chiesa la chiamata oggettiva, presupposto il caso normale del battesimo dei bambini, va talmente davanti che la risposta soggettiva dell'uomo rimane qualcosa che viene dopo, una conferma della grazia battesimale già oggettivamente ricevuta per mezzo della Chiesa. Nascondi A motivo di questa grazia sacramentale nell'anima del battezzato vive lo Spirito Santo e là grida il suo "Abba, Padre!" ( Rm 8,15 ), al quale egli invita lo spirito di colui che ha ricevuto la Grazia. "Questo Spirito attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio" ( Rm 8,16 ). L'oggettiva attestazione della chiamata di Dio da parte della Chiesa ha qui tale preponderanza su quella soggettiva, che sembra dapprima che ci sia solo essa, e il consenso soggettivo alla chiamata di Dio ha luogo per il momento solo per rappresentanza dei padrini. In una conversione e nel caso di una vocazione sacerdotale le componenti si trovano in una specie di equilibrio. Nella conversione precede una soggettiva chiamata di Dio, la quale conduce lentamente il chiamato, che deve dapprima affidarsi con tutta la sua anima alla "tiepida luce che lo guida" ( Newman ), incontro alla Chiesa. A poco a poco egli riconosce come a tastoni le componenti oggettive e i criteri della chiamata, l'ordine salvifico di Dio concretizzato nella Chiesa, e la Chiesa riconosce da parte sua in colui che attende il Battesimo la vera chiamata di Dio. È un reciproco riconoscere l'autenticità dei segni di Dio: nel convertito, poiché egli impara che l'aspetto soggettivo da lui vissuto ha la sua prova di autenticità nella sottomissione ad un'autorità oggettiva e ad un ordinamento sacramentale, e nella Chiesa, poiché essa pone la sua funzione ministeriale a servizio della via soggettiva che la grazia di Dio ha percorso con questa anima. Qualcosa di simile avviene in una vocazione sacerdotale. Anche qui si incontrano una certezza soggettiva di esser chiamato e un'oggettiva accettazione e riconoscimento da parte della Chiesa. Gli accenti dell'evidenza da entrambe le parti possono esser ripartiti in modo diverso: una forte luce interiore e coscienza della missione può dover lottare lungo tempo per un riconoscimento ecclesiale, ma può anche essere che lo sguardo della Chiesa penetri la vocazione e le attitudini di colui che è in questione più rapidamente di quanto egli stesso faccia, e con la sua accettazione gli doni il pezzetto che ancora manca alla sua intima fiducia e alla sua certezza. Poiché nel caso della vocazione sacerdotale la Chiesa ministeriale è così fortemente implicata più fortemente che nel caso dell'accoglimento di un uomo nella Chiesa, ma anche più fortemente che nel caso di una vocazione allo stato dei consigli, in questo caso l'attestazione oggettiva, ministeriale, della chiamata e quindi l'ammissione fondamentale al ministero è di un'importanza speciale. L'equilibrio si sposta chiaramente dalla parte dell'aspetto soggettivo nel caso della vocazione all'esplicita sequela personale nella vita secondo i consigli o ad un'esplicita missione personale in generale, come ad esempio nel caso di Giovanna d'Arco o del Curato d'Ars. Qui il riconoscimento da parte del superiore non può semplicemente completare o rimpiazzare la carente sicurezza della vocazione, e la missione sussiste anche qualora essa temporaneamente non venga riconosciuta dall'autorità oggettiva nell'ordine religioso o dalla gerarchla ecclesiastica. Infatti per quanto la Chiesa è competente come oggettiva istituzione ministeriale in tutto ciò che riguarda la mediazione sacramentale della Grazia, le decisioni dottrinali, la predicazione, il governo e la guida dei credenti, altrettanto Dio si conserva però il suo accesso personale alle anime, per agire in esse e insegnar loro quello che egli crede bene. Che tutte le grazie vengono comunicate per mezzo della comunione dei santi non vuol dire che esse devono venir comunicate anche espressamente dalla Chiesa in quanto istituzione esteriore. E che nella valutazione dei soggettivi suggerimenti interiori e persino delle missioni ecclesiali la Chiesa opera con la massima accuratezza, questo dato di fatto non contraddice quell'altro che tutte le chiamate alla sequela personale del Signore e tanto più tutte le grandi missioni ecclesiali singolari hanno origine in primo luogo puramente da Dio e psicologicamente giungono al chiamato direttamente. Lo stesso Ignazio, che nelle sue "Regole circa gli atteggiamenti ecclesiali" preme tanto sul fatto che noi "deposto ogni privato giudizio, teniamo l'animo apparecchiato e pronto a obbedire in tutto alla vera Sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra santa Madre, la Chiesa gerarchica" ( Eserc. Nr 353 ), insiste nondimeno sul fatto che "unicamente Dio nostro Signore può dare consolazione all'anima senza precedente causa ( cioè senza nessuna mediazione creaturale che lo freni ), poiché è proprio del Creatore entrare, uscire, provocare mozioni in essa, attirandola tutta nell'amore della sua Maestà divina" ( ibid. Nr 330 ). In corrispondenza a ciò colui che da gli Esercizi ottiene per il tempo degli Esercizi, nei quali si tratta proprio di percepire una chiamata a personale sequela, l'istruzione di "restare in equilibrio come l'ago di una bilancia, lasciando che il Creatore agisca direttamente con la sua creatura, e la creatura col suo Creatore e Signore" ( ibid. Nr 15 ). Mentre dunque nella vocazione del prete secolare il ministero ecclesiastico condiziona molto più fortemente la chiamata, il superiore religioso che accoglie un candidato è meno centralmente implicato nella costituzione dell'unità della chiamata. Egli è autorizzato e obbligato ad esaminare se la chiamata interiore è autentica; ma se essa lo è, e nessun ostacolo o obiezione sono di impedimento a che vi si dia seguito, allora egli commetterebbe una mancanza non solo contro l'amore, ma contro lo Spirito Santo, se respingesse colui che chiede di essere accolto. Non si deduca da ciò che il postulante abbia un vero e proprio diritto a venir accettato da un determinato ordine religioso o monastero; un simile diritto dovrebbe, per esistere, essere anche fissato dal diritto canonico. Certo però ha lo Spirito Santo il diritto, di fronte alla Chiesa nel suo insieme, che le sue sollecitazioni e i suoi impulsi vengano da essa accolti e seguiti. Se Dio "chiama dall'esterno e dall'interno", come dice S. Tommaso, è sua volontà che entrambi gli elementi si riuniscano in un'unità di vocazione e di missione. Questo caso è simile ad altre erogazioni di una grazia unitaria che avvengono allo scopo di una unificazione fruttuosa, come per esempio la grazia della confessione giunge all'unità se si incontrano pentimento soggettivo e assoluzione oggettiva da parte del prete. Un breve sguardo alla storia recente del concetto di vocazione può qui chiarire quanto detto. Una controversia circa il concetto di vocazione scoppiò in occasione delle tesi del sulpiziano L. Brancherau ( La vocation sacerdotale, 1896 ), che dava il massimo peso all'attrazione interiore, alla forte inclinazione soggettiva al sacerdozio come criterio di autenticità, e di quelle del canonico J. Lahitton ( La vocation sacerdotale, 1909 ) che in parecchie opere, nelle quali il suo pensiero si muta leggermente, evidenzia soprattutto che la vocazione sacerdotale avviene per mezzo della Chiesa ministeriale, del vescovo, mentre da parte del soggetto non viene richiesto altro che la "chiamabilità", che consiste essenzialmente nella idoneità per il servizio sacerdotale nella diocesi. Mentre nella prima edizione Lahitton rappresenta la scelta come se la chiamata esteriore da parte del vescovo fosse la manifestazione dell'eterna scelta divina, più tardi trasferisce tutto il potere d'elezione da Dio alla Chiesa, al punto che Dio si sarebbe addirittura privato del suo potere di scegliere, per lasciarlo alla Chiesa altrettanto come per la consacrazione sacerdotale ( Lahitton, Deux conceptions divergente! de la vocation sacerdotale, 1910, p. 237 ). Nascondi Il vescovo crea ( crée ) la vocazione, cosa che Lahitton cerca di sostenere con la teologia circa il vescovo di S. Tommaso, secondo la quale il vescovo elegge i suoi aiutanti come un rè i suoi ministri ( Suppl. q 38 a 1 ), per cui egli consacra i suoi preti sempre "valide", anche se non sempre "licite", poiché si richiede pur sempre una certa "vocabilité" ( l'attitudine del candidato ). Incontriamo qui in un tutt'altro punto della dottrina dello stato di vita il medesimo clericalismo che vedemmo in Mercier e nei suoi discepoli. Brandenburger fa notare non a torto, nella sua sarcastica presentazione della controversia, che si è trattato essenzialmente di una polemica fra clero secolare e clero regolare. Serviti, domenicani, cappuccini afferrarono la penna per respingere le esagerazioni di Lahitton, in modo particolarmente esauriente F.J. Hurteaud O.P. ( La vocation au sacerdoce, 1911 ). Tuttavia una commissione insediata da Pio X si decise nei punti essenziali a favore della tesi di Lahitton ( AAS 1912, 15 luglio ), dichiarando: 1. Nessuno ha un diritto all'ordinazione sacerdotale precedente alla libera scelta del vescovo. 2. La condizione da trovare nel candidato, chiamata "vocatio sacerdotalis", non consiste, perlomeno non necessariamente a "de lege ordinaria", in un impulso interiore del soggetto, cioè in un invito dello Spirito Santo all'ufficio sacerdotale. 3. Piuttosto si richiede, affinchè il candidato possa in maniera conforme al diritto canonico venir chiamato dal vescovo, niente di più che la retta intenzione, unita all'attitudine, che è fondata dai doni della grazia e della natura ed è dimostrata da una vita onesta e da sufficiente scienza, cosicché c'è fondata speranza che egli eseguirà bene i compiti del sacerdote e potrà adempiere santamente ai suoi obblighi. Da questa decisione, che si riferisce primariamente ai candidati al sacerdozio e concerne solo del tutto indirettamente i postulanti allo stato dei consigli, diventa molto chiara l'importanza, prevalente nella vocazione sacerdotale, della chiamata esterna. Brandenburger fa notare con ragione che il sacerdozio è primariamente una funzione sociale ( p. 71 ) e che per l'accettazione decide in parte anche il posto che il prete assumerà all'interno della diocesi. Il vescovo non è assolutamente obbligato a consacrare un candidato solo perché questi si sente chiamato al sacerdozio, anzi ci si può persino chiedere di fronte a questa decisione romana se tutto sommato esiste propriamente una diretta vocazione interiore al sacerdozio come tale, cioè alla semplice funzione, indipendentemente dalla soggettiva sequela del Cristo, come lo stato dei consigli l'impersona allo stato puro; o se piuttosto la "interna aspiratio", gli "invitamenta Spiritus Sancti" non tendono completamente a questa sequela personale, la quale poi viene interpretata da molti di coloro che la avvertono come un intimo invito al sacerdozio ( secolare ). Che però non ci può essere una vocazione semplicemente esterna, e quindi nemmeno alcuna semplice funzione presbiterale senza un accenno di assenso interiore e disponibilità a corrispondere alle esigenze della funzione, era troppo ovvio e dovette venir ammesso anche da Lahitton, che ultimamente interpreta la vocabilité come una "vocation intérieure dispositive", e d'altra parte deve riconoscere che la validità dell'ordinazione dipende tuttavia ultimamente dal libero assenso del candidato: "L'Egli se rejette en definitive sur le sujet la responsabilité dernière de la vocation recue ( … ) Cette vocation ( par l'Evéque ) elle-méme est condition-nelle et subordonnée a la libre acceptation de Ferdinand" ( II ed., pp. 93-94 ). Così oggi è chiaro che la sentenza romana non voleva mettere in questione l'esistenza della vocazione interiore ( come certo fa Lahitton nelle sue formule estreme ), ma soltanto chiarire che il "sentire" di essere chiamati non crea nei confronti della Chiesa alcun diritto alla consacrazione, e che questo sentire soggettivo non è nemmeno richiesto ai fini di una consacrazione valida e lecita. "Sarebbe anche strano che Roma avesse condannato in così breve tempo il linguaggio durato per secoli e adoperato da asceti, teologi, congregazioni romane, persino da papi, compresi Leone XIII e Pio X" ( Brandenburger, p. 72 ), i quali tutti parlarono di un elemento interiore, soggettivo, della vocazione. "Eos rectores recipit Ecclesia, quos Spiritus Sanctus praeparavit" ( S. Leone Magno ). Quindi ciò che ultimamente la linea clericale di Lahitton poteva fissare è in fondo il limite più basso nel concetto di vocazione, quale deve essere giusto raggiunto per una vocazione sacerdotale affinchè l'ordinazione sia valida e possa venir conferita "licite". Questo limite è contrassegnato dal fatto che la vocazione interiore non è rappresentata da niente di più che dalla "vocabilitas", cioè da una attitudine e inclinazione naturale e soprannaturale talmente comune che le funzioni presbiterali possano venir giustamente e degnamente eseguite. Se questo vale per la vocazione sacerdotale, nella misura in cui essa è una funzione ecclesiastica, non è detto con ciò che valga anche per la vocazione allo stato dei consigli. Una semplice applicazione delle decisioni romane del 1912 a questo stato è inammissibile, poiché qui non si tratta assolutamente di una chiamata della Chiesa a partecipare ad una funzione ecclesiastica. La proporzione tra l'elemento interno e quello esterno si è qui assolutamente spostata. Se nella discussione circa la sentenza romana si avesse tenuto questo davanti agli occhi, tutto sarebbe stato molto più semplice. J.B. Raus CSSR tratta nella sua stimolante opera "La doctrine de S. Alphonse sur la vocation et la gràce en regard de l'enseignement de S. Thomas et des prescription du Code" ( 1926 ) soprattutto della vocazione all'ordine religioso. Egli non ha difficoltà a dimostrare che tanto Alfonso quanto Tommaso mettono l'accento sulla vocazione interiore. Tommaso parla chiaramente di un "instinctus" o "impetus Spiritus Sancti", di un "auditus consiliorum Christi" ( "Contra retrahentes" ). Hùrth, che voleva applicare la sentenza romana anche alla vocazione religiosa, non contesta nella sua recensione dell'opera di Raus questo fatto, ma tenta una duplice limitazione delle affermazioni. In primo luogo non gli sembra evidente che la vocazione ed elezione che Raus richiede tanto per il prete quanto per il religioso debba essere realmente una vocazione speciale e non si possa ridurre alle grazie generali della divina Provvidenza, come sono date anche ai cristiani che vivono nel mondo. Non ci sono forse anche per lo stato matrimoniale grazie speciali, che però come tali "sono da subordinare alla stessa universale legge della Grazia"? Si deve realmente supporre, come fa Raus insieme con Vermeersch, che quelli che non sono chiamati nello stato d'elezione "in statu communi potius relinquuntur quam ad illum eligantur"? Non si può forse anche nello stato dei consigli - è questo l'altro lato dell'obiezione di Hurth-limitare la vocazione interiore da parte di Dio semplicemente al fatto che Egli da all'uomo doni e inclinazioni tali che certo rendono possibile la scelta dello stato dei consigli, ma non necessaria? Una "praeelectio" da parte di Dio può certo per molti casi venir supposta, ma non deve necessariamente esser presupposta in tutti, perché una persona possa compiere validamente la scelta dello stato dei consigli. Dio può piuttosto dare all'uomo "o almeno a parecchi uomini" un'attitudine che è sufficiente per diverse vocazioni, e per il resto lasciare alla sua libera valutazione la decisione di quale di queste vocazioni scegliere. Non si potrà negare che qui Hùrth costruisce un possibile caso che noi abbiamo già preso in considerazione, quando dicemmo che Dio invita alcuni uomini in modo tale da lasciare ad essi la scelta dello stato di vita. La vocazione soggettiva si limiterebbe in questo caso ancora una volta al minimum della "recta intentio" e della "idoneitas" richieste. Sarebbe ancora una volta il caso-Umile più basso di una vocazione alla vita secondo i consigli. Così infatti interpreta Hùrth la sentenza romana nel senso che essa non contesta in alcuna maniera che "ci possa essere e di fatto spesso ci sia ( … ) un invito interiore dello Spirito Santo"; viene piuttosto "rifiutata l'opinione che coloro nei quali questo invito interiore non si trova non abbiano alcuna " vocazione " ( loc. cit. 102 ). Nella misura in cui dunque in ogni caso è necessario nella vocazione un momento soggettivo, esso deve essere contenuto anche nelle condizioni del soggetto richieste dalla sentenza romana ( e dal cee, soprattutto can. 1353 ). Paul Vigne ( in: Le Camus, La vocation religieuse, Paris 1913 ) ha ricondotto la questione che era originariamente in discussione a due sistemi, dei quali il primo è caratterizzato da una vocazione diretta, il secondo da una vocazione mediata. Per Lahitton la via della vocazione è: Dio, Chiesa, soggetto. Per gli altri: Dio, soggetto, Chiesa. Là la Chiesa comunica o crea la vocazione, qui essa la constata. Là solo la vocazione presbiterale è intimabile dalla Chiesa, qui essa si differenzia dalle altre vocazioni solo per il suo oggetto. Là c'è nel soggetto solo la disposizione della chiamabilità, qui veri segni di vocazione avvenuta tramite Dio. In questi due sistemi non vedremo niente di più che forme di prevalenza di una forma-base di vocazione, e cioè in modo che la prima forma è propria prevalentemente della vocazione presbiterale, la seconda prevalentemente della vocazione allo stato dei consigli. Sono possibili però forme di passaggio, e quanto più una vocazione interiore ( autentica e provata ) è spiccata, tanto più la Chiesa dovrà avervi riguardo nella sua chiamata e accettazione. L'affermazione che nessuno ha un diritto ad essere ordinato o accolto in un convento contiene in base a ciò anche una certa analogia interna. Per l'ordinazione sacerdotale essa vale sempre, per le vocazioni personali in maniera più tenue, poiché ci sono vocazioni che esigono un'obbedienza assoluta e cioè, qualora esse siano provate e dimostrate come autentiche, obbedienza anche da tutti coloro senza i quali la vocazione non può essere condotta a termine. La sentenza romana, che per la vocazione presbiterale creò una norma oggettiva sicura, favorì indirettamente anche un certo minimalismo, in maniera del tutto contraria alla tendenza clericale della linea di Mercier. L'esagerata accentuazione dell'aspetto ontologico-sacramentale, che condusse ad una chiara sovraordinazione del sacerdozio rispetto allo stato dei consigli, finisce qui, portata avanti conseguentemente, con l'esteriorizzare il concetto di vocazione e di conseguenza anche la santità sacerdotale. Proprio se si vuole comprendere questa in maniera non individualistica, ma ecclesiale-carismatica e perciò ministeriale, bisogna arrivare a prestare attenzione per quanto è possibile, anche nel caso del prete, alla elezione personale alla sequela particolare. Ciò che vale per la vita secondo i consigli vale in misura ancor maggiore per ogni spiccata missione qualitativa nella Chiesa. Essa ha diritto, se è autentica, ad esser esaminata dalla Chiesa; se è riconosciuta come autentica, allora la Chiesa ha l'obbligo di riconoscerla ufficialmente. Infatti è certo vero che il singolo cristiano sta sotto il pastorale della Chiesa, ma la Chiesa stessa nel suo insieme sta sotto il pastorale del divin Pastore, il quale insieme con la gerarchia può pascerla a suo piacimento. Missioni straordinarie che Dio può far giungere alla Chiesa per mezzo di un qualsiasi uomo al suo interno richiedono a tutta la Chiesa un'obbedienza che non è lasciata al suo arbitrio. In tutte le grandi fondazioni di ordini religiosi essa ha riconosciuto il "dito di Dio" - per prendere solo un esempio fra altri - e si è lasciata formare e fermentare da questo nuovo spirito, che era una grazia immediata dello Spirito Santo. Essa ha dunque riconosciuto ufficialmente, dopo una dovuta analisi, la quale deve avvenire pure nello spirito dell'obbedienza, l'esistenza e la legittimità di una vocazione soggettiva che non proveniva da essa, ma che traeva origine da Dio stesso. Il portatore di una simile missione rimane fino al riconoscimento di essa, e anche dopo, un normale cristiano, che come tale deve obbedienza alla Chiesa. Egli dimostrerà l'autenticità della sua vocazione cattolica - a differenza di vocazioni presunte - anche in questo, che egli rappresenta quello spirito di obbedienza d'amore, che egli è chiamato a rinnovare nella Chiesa, in primo luogo con la sua propria obbedienza ecclesiale. Egli sopporterà i conflitti che necessariamente sorgono nell'incontro fra queste due esigenze d'obbedienza - tanto più in mezzo a peccatori, quali noi tutti siamo - con la pazienza di chi è certo pronto a impegnare la sua vita per la sua missione, ma ne lascia però la conduzione allo Spirito divino. Una contraddizione insolubile tra Chiesa e missione personale non può permetterla Dio, "poiché noi crediamo infatti che tra Cristo nostro Signore, Sposo, e la Chiesa, sua Sposa, è lo stesso Spirito che governa e guida le nostre anime, giacché la nostra madre Chiesa è retta e guidata dallo stesso Spirito e Signor nostro che diede i dieci comandamenti" ( Eserc. Nr 365 ). Certamente una missione può talvolta svilupparsi solo dopo la morte dell'inviato, forse solo molto tempo dopo ( Angela Merici, Mary Ward ). Da ciò diventa chiaro che il conflitto esiste solo come caso limite, mentre il caso normale è rappresentato dal cooperare delle componenti soggettive e di quelle oggettive. Questa congiunzione può essere sfumata in toni diversi: può andare da una piena preponderanza dell'elemento oggettivo ( come nel caso del Battesimo dei bambini ), passando attraverso una specie di equilibrio - quando la chiamata risuona contemporaneamente tanto all'interno del chiamato quanto da parte dell'autorità ecclesiastica che media ed elegge - fino a una preponderanza dell'elemento soggettivo, dove certamente non può mai mancare del tutto l'appoggio all'elemento oggettivo come incoraggiamento e conferma. Infatti anche vocazioni alla vita secondo i consigli vengono in caso normale stimolate da un qualche prete o persona che vive nello stato dei consigli, condotte dallo stato latente a quello attuale e guidate col consiglio e l'assistenza durante il tempo della lotta per la vocazione. Dio guida gli uomini per mezzo di uomini; non solo nella "pastorale ordinaria", ma proprio anche là dove si tratta di vocazioni straordinarie. Non è che quanto più una chiamata è interiore e comunicata soggettivamente senza mediazioni, tanto più autonomamente possa venir ricevuta, compresa ed eseguita dal chiamato. Proprio le forme più sottili di vocazioni abbisognano maggiormente di interpretazione e guida oggettiva; anzi la forma della chiamata divina interiore viene in simili casi riconosciuta come giusta in senso cattolico solo se questa chiamata tende da se stessa all'interpretazione e alla conduzione oggettiva del sacerdote, che la completa, e se la volontà d'obbedienza a Dio si esprime senza conflitto interiore anche in un'umile obbedienza ecclesiale. Così facendo, il chiamato non cerca affatto di allontanare da sé la responsabilità. Soltanto egli obbedisce alla voce divina stessa, la quale non può mai essere una voce isolata, senza comunità, non ecclesiale. Dio distribuisce i doni della sua chiamata in ambedue le componenti, quella interiore e quella esteriore, poiché la sua opera di creazione e redenzione presenta questa figura doppia. Se già l'etica naturale colloca la norma della volontà di Dio nella tensione fra coscienza personale e legge oggettiva, e la coscienza, che certo rimane la norma ultima del comportamento pratico, è obbligata a orientarsi secondo norme oggettive e se si da il caso a mutare se stessa, questa viva operazione di scambio si adempie nell'ambito della Grazia, dove la "volontà di Dio" può concentrarsi in una chiamata personale, in una rivelazione percepibile. Praticamente la pietra di paragone di una autentica vocazione soggettiva rimane, in base a ciò, la prontezza a sottomettersi all'interpretazione oggettiva e alla conduzione ad opera di una guida ecclesialmente "chiamata". Solo così la missione soggettiva viene anche efficacemente legata davvero all'ambito della missione oggettiva in cui più tardi essa deve operare. Se questo non avviene, allora si può star certi che la missione traligna, giacché il chiamato non può far altro, nella sua soggettività liberamente sospesa in se stessa, che tematizzare e prendere come importante se stesso e il fatto che è stato chiamato. Con ciò è già posto l'inizio di ogni eresia. Dove si tratta di espressi incarichi soggettivi, come nella mistica, che tuttavia è da considerare come autentica ed essenzialmente cattolica solo se le esperienze e le "situazioni" donate divengono feconde all'interno della comunione ecclesiale e non si esauriscono in se stesse, provvede Dio stesso a mettere il contemplativo in relazione con uno che possa oggettivamente interpretare; non di rado egli guida i chiamati insieme a due a due, in modo tale che essi non sono più due chiamati distinti l'uno dall'altro, ma sono "due in una chiamata sola". Nascondi Simili legami possono possedere la stessa necessità e urgenza della chiamata stessa, e può valere per essi ciò che sta scritto del legame naturale ad opera di Dio: "Non separi l'uomo ciò che Dio ha unito" ( Mt 19,6 ). Modello di tale conduzione comune, corrispondente al sacramento della carne a livello dei consigli e dei voti, rimane il legame, disposto e per così dire benedetto dal Signore, di Maria e Giovanni. Questo gioco d'assieme fra gli elementi soggettivi e quelli oggettivi della chiamata è stato però finora descritto solo nell'ambito propriamente soprannaturale, ecclesiale. Poiché però si tratta di una continua mediazione della voce di Dio attraverso i mezzi della creaturalità, devono ora esser presi in considerazione anche i fattori mondani. Di essi fa parte tutto quello che, nel soggetto, ne costituisce la natura: il suo essere spirituale, volontà, intelletto e indole, carattere, talenti e inclinazioni, tutto ciò che è connesso coi substrati corporali, sanità, energie fisiche e capacità, subconscio, elementi ereditari latenti o appariscenti ecc. Dal lato og-gettivo sopraggiunge alla Chiesa tutto l'ambiente naturale, i molteplici rapporti della famiglia, le richieste dello Stato, tutta la costellazione storica dell'epoca coi compiti particolari che essa pone ai contemporanei, ecc. Tutti questi momenti possono essere mezzi attraverso i quali la chiamata di Dio si fa comprensibile; tutti quanti possono - forse devono - venir presi in considerazione nell'esaminazione di una chiamata, nella scelta di una vocazione. Tutti possono contribuire più o meno ad arrotondare la somma, la cui totalità esprime l'unità del volere di Dio. Questo volere può ora incarnarsi nei mezzi mondani in diversa specie. La sua divinità può brillare così chiara e "immediata" attraverso il tramite mondano, che esso supera in splendore tutto ciò che è nel mondo e lo fa scivolare in disparte per manifestarsi inequivocabilmente. Il chiamato viene colpito da tale evidenza, cosicché non gli passa affatto per la testa di serbare dei dubbi o di effettuare un'esaminazione adesso oramai superflua. Egli ha udito e compreso, gli rimane soltanto da obbedire. Può anche essere però che la chiamata soprannaturale, che c'è sempre, si rivesta di più o meno spessi e cangianti veli, parli attraverso di essi, e debba venir letta, con accurata ponderazione della loro portata religiosa, da diverse componenti mondane. Il passaggio dalla prima forma di chiamata psicologicamente immediata alla seconda, comunicata ( non solo quanto all'essere, ma anche quanto alla coscienza ) attraverso gli ordinamenti mondani, può essere un passaggio graduale. Di questo tiene conto Ignazio, allorché nella sua dottrina dei "Tre tempi nei quali può esser compiuta una giusta e buona scelta" inserisce un secondo tempo che costituisce il passaggio tra il primo e il terzo. "Il primo tempo è quando Dio nostro Signore muove e attrae la volontà in modo che, senza dubitare ne poter dubitare, l'anima devota segue quello che le è mostrato, come fecero S. Paolo e S. Matteo nel seguire Cristo nostro Signore. Il secondo, quando l'anima acquista sufficiente chiarezza e conoscenza per l'esperienza di consolazioni e desolazioni, e per l'esperienza del discernimento dei vari spiriti. Il terzo tempo è tranquillo, ( … ) quando l'anima non è agitata da vari spiriti e usa liberamente e tranquillamente delle sue facoltà naturali. Se l'elezione non si compie nel primo o nel secondo tempo, allora [ deve venir intrapresa ] nel terzo tempo" ( Eserc. Nr 175-178 ). Nel primo tempo il volere di Dio si manifesta così elementarmente che riflessione e dubbio non sono assolutamente possibili. Nel secondo esso preme, più rapidamente o più lentamente, come il sole attraverso la nebbia, come il risultato maturato da esperienze interiori, disposizioni di spirito, visioni, suggerimenti, certezze. La sfera in cui in questo secondo tempo si svolge la chiarificazione è quella del "discernimento degli spiriti", la sfera cioè in cui le forze personali e soprannaturali del bene e del male si manifestano nelle forze naturali dell'anima, poiché in effetti fede, speranza e carità anche come "virtù infuse" rimangono atti personali, e quindi la grazia soprannaturale non può non rispecchiarsi e ripercuotersi nella vita della coscienza. La sfera del "discernimento degli spiriti", che Ignazio ricollegandosi alla tradizione ecclesiale tratta dettagliatamente nelle sue regole per il discernimento ( Eserc. Nr 313-336 ), sta così nel soggetto al confine fra natura e grazia: nella sfera dove la luce della grazia, senza ancora essere mistica vera e propria, brilla attraverso i fenomeni della coscienza nella normale vita di coscienza del cristiano, e dove la vita della sua anima si lascia distinguere anche a livello di coscienza da ogni coscienza puramente naturale. In questa fluidità di passaggi si irradia attraverso le forze naturali dello spirito la personale chiamata divina per grazia; soprattutto ciò che viene chiamato "coscienza" naturale diventa il giudizio della ragione su ciò che nel caso presente dev'essere fatto, restando in ascolto della personale voce e conduzione dello Spirito Santo. Ma come questo "secondo tempo" nella sua frontiera superiore può passare senza soluzione di continuità nella raggiante evidenza del "primo tempo", così nella sua frontiera interiore esso trapassa senza soluzione di continuità nella velatezza del "terzo tempo", dove il carattere indiretto della chiamata è divenuto tale anche a livello psicologico. Il chiamato sa adesso che c'è una chiamata di Dio; bisogna però capirla dai dati naturali. Mentre nel primo caso la luce pura della certezza si presenta davanti agli occhi come un bianco abbagliante, nel secondo essa si riunisce da sé a poco a poco dallo spettro scomposto fino a formare un semplice bianco. Nel terzo caso stanno dapprima davanti agli occhi di colui che guarda solo i colori isolati del prisma, ed egli deve unirli con la propria azione fino a che non risulti ugualmente la semplicità del bianco. Sarà bene considerare la velatezza della chiamata, che esige un più intenso impegno dell'attività della ragione nel senso del "terzo tempo", non come ( o perlomeno non necessariamente come ) un indebolimento della chiamata, come sembra fare Franz Hùrth ( loc. cif., pp. 98-99 ). Raus ( loc. cif., p. 32 ) rende il pensiero di S. Alfonso con le seguenti parole: " Volere entrare in un ordine religioso presuppone una scelta, un'elezione; questa ponderata e sincera scelta dello stato di perfezione spirituale a servizio di Dio può però essere solo il risultato di una grazia che proviene dall'alto, di un aiuto divino, di un invito o di un'azione interiore di Cristo sulla volontà umana". Hùrth vorrebbe interpretare il senso di questo passo in questo modo, che "se qualcuno ha l'onesta convinzione di avere le predisposizioni e i doni necessari per la vocazione religiosa o sacerdotale ( … ) e se egli si decide allora con retta intenzione per questa vocazione, ( … ) il semplice fatto di una simile considerazione e di una tale decisione [ è ] il segno di tutta una mozione interiore, di una vocatione divina; e questo anche qualora alla soggettiva coscienza di colui che è in questione manchi ogni ( non semplicemente una straordinaria ) inclinazione spontanea della volontà per una delle vocazioni, e considerazione della vocazione come pure decisione riposino semplicemente su un pacato esercizio dell'intelletto e su motivi puramente obiettivi e vengano compiute con la chiara consapevolezza che ci si potrebbe decidere altrettanto bene e con altrettanti motivi. L'apparente scomposizione della chiamata di Dio nelle diverse sfaccettature che gli aspetti naturali mostrano, non può mai indurre a credere che la volontà di Dio non sia una o che non sia trovabile nella sua unità. Ignazio indica i mezzi e le vie per arrivare a udire la semplice chiamata attraverso la molteplicità di questo "terzo tempo". L'uomo non può in nessun caso considerare le componenti naturali nel loro naturale smembramento, per lasciarsi determinare da esse; egli seguirebbe allora soltanto una qualche inclinazione disordinata. E risulta disordinato tutto ciò che fa apparire un motivo parziale o una decisione parziale già come espressione della totale volontà di Dio. Colui che è in atto di vagliare deve quindi dapprima guardare tutti gli aspetti naturali come pura trasparenza e semplice strumento di espressione del volere di Dio, deve prendere distanza da ciò, in modo da non lasciarsi determinare da essi, se non in quanto sono manifestazione della chiamata di Dio. Questa posizione Ignazio la chiama "indifferenza". Essa è soltanto espressione della volontà di tendere l'orecchio, attraverso tutti i motivi e le "chiamate" naturali, verso l'unica volontà di Dio discendente dall'alto come dono di grazia. "La prima regola è che quell'amore che mi muove a scegliere una determinata cosa discenda dall'alto, dall'amore di Dio, in modo che colui che sceglie senta prima in sé che quell'amore più o meno intenso che ha per la cosa che elegge, è unicamente per il suo Creatore e Signore" ( Nr 184 ). Una volta conseguita questa relativizzazione di tutti i punti di vista e le inclinazioni naturali e mondane e scelto l'unico punto assoluto nella pura volontà e chiamata di Dio, che è da cercare, allora non c'è più alcun pericolo che la scelta, anche se avviene con le energie apparentemente puramente naturali della ragione e della volontà, si lasci guidare per un altro stato di vita". Ma questa interpretazione del "terzo tempo" sembra però di fatto inserita troppo - o troppo poco - al suo interno. Raus ha descritto ( con ragione ) l'elezione interiore come uno stato di fatto essenzialmente soprannaturale e come tale ha cercato di distinguerlo accuratamente da "sentimenti" ed "entusiasmi" naturali. Essa è un'esperienza della fede, le cui leggi possono e devono andare al di là delle leggi della coscienza puramente naturale, senza essere per questo già esperienze mistiche. E se Ignazio anche per il "terzo tempo", che egli chiama tranquillo, non accetta alcuna consapevolezza attuale attraverso i diversi spiriti ( Nr. 177 ), la "riflessione raziocinante" assume tuttavia subito anche per lui di nuovo la forma di un "avvertire" ( Spuren ), che presupposta l'indifferenza decide la scelta nel senso della maggior gloria di Dio ( Nr. 179, 184 ). L'apparente "razionalità" del terzo tempo non giustifica ancora la supposizione che la scelta di Dio che viene compiuta durante questo tempo non si distingua intimamente dalla "abituale" conduzione della Grazia relativa ad ogni uomo da qualcosa d'altro che non dall'atto di scelta di Dio stesso. Le "incarnazioni" di questa volontà nelle situazioni mondane soggettive e oggettive non diventano obiezione alcuna contro la sua "purezza e limpidezza" (Nr 172 ). Adesso sarà permesso "osservare da quale parte la ragione inclini di più" e così pure "deliberare secondo la maggiore mozione della ragione, e non secondo alcuna mozione sentimentale" ( Nr 182 ). Nascondi La "ragione", che qui senza influssi della "sensibilità" compie la scelta, è ( in quanto indifferente alla maniera cristiana, non stoica! ), nonostante la carenza di suggerimenti percepibili coi sensi, "spirito che si lascia guidare dallo Spirito di Dio" ( Rm 8,14 ). La sensibilità che fa resistenza a questa ragione, sebbene essa sembri essere la sensibilità puramente psicologica, è invece in realtà "carne, che porta alla morte ed è ostile a Dio" ( Rm 8,6-7 ). Così infatti la scelta apparentemente naturale si traspone immediatamente nell'elezione divina: "Fatta tale elezione o deliberazione, chi l'ha fatta deve andare con molta diligenza a pregare davanti a Dio nostro Signore, ed offrirgli questa elezione affinchè la sua divina Maestà voglia riceverla e confermarla, se è di suo maggior servizio e lode" ( Eserc. Nr 183 ). La più o meno profonda velazione della chiamata all'interno dei veli delle componenti mondane non è così in nessun caso un allontanarsi, un divenir flebile o non chiaro, una dispersione che il chiamato non potrebbe più raccogliere di nuovo in unità. Questa velazione è piuttosto la condizione normale della chiamata nel mondo, anche nel mondo cristiano, e la prima e seconda forma dell'esser chiamati rimangono un'eccezione. Nascondi Per percepire chiaramente la chiamata di Dio nella quotidianità del mondo non si richiede niente di più che il puro, semplice atteggiamento della fede: "Per fede Abramo ubbidì alla chiamata di Dio" ( Eb 11,8 ). "Ad essi [ agli Ebrei nel deserto ] non giovò per nulla l'avere udito la Parola, poiché questa non si unì in essi alla fede" ( Eb 4,2 ). Ma la fede è "fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono" ( Eb 11,1 ). È la possibilità di far diventare ciò che è visibile nel mondo trasparente alla realtà divina, di percepire nella voce spesso troppo forte delle situazioni mondane la voce o l'eloquente tacere di Dio. La fede è dunque movimento, non è una quieta staticità. Nascondi Essa preme attraverso l'ambiente problematico e problematizzante per arrivare a interrogare la sempre più grande volontà di Dio che giace in esso e al di sopra di esso: "Eccomi, mi hai chiamato" ( 1 Sam 3,8 ). "Cosa vuoi che io faccia?" ( At 22,10 ). Essa non si accontenta di quello che corrisponde alle inclinazioni dell'uomo sensibile, essa non ha pace finché non sa cosa Dio vuole, anche se questa volontà corre esattamente in direzione opposta, alle sue inclinazioni. D'ora in avanti sarà così, che la chiamata al sacerdozio e allo stato dei consigli corrisponde più ( ma non esclusivamente ) al "primo e secondo -tempo", la chiamata comune allo stato laicale piuttosto al terzo tempo. Se non si verifica la chiamata speciale che colpisce l'eletto con immediata evidenza o si intensifica a poco a poco fino a diventare certezza, vengono in luce più fortemente le componenti naturali. Mentre per la vocazione del prete o di chi vive secondo i consigli queste costituiscono talvolta piuttosto un ostacolo e devono venir scavalcate con coraggio, per il cristiano laico il momento della situazione storica, come pure quello dell'inclinazione e attitudine personale, diventa decisivo per la scelta della sua via. Se egli non si sente chiamato allo stato sacerdotale o dei consigli, è autorizzato a cercare e trovare la volontà di Dio nelle sue circostanze di vita; la generalità della chiamata lascerà qui alla libertà del singolo un margine maggiore di autoconfigurazione della propria vita. Non come se la volontà di Dio fosse qui indeterminata e staccata e l'uomo si vedesse così costretto a guardare più a sé e ai suoi desideri personali che a Dio. È vero invece che Dio lo guida, per così dire, "a briglie più allentate", gli lascia più libera iniziativa all'interno della sequela del Suo volere. Questa ripartizione degli accenti or ora accennata rimane relativa, poiché può essere ugualmente che la situazione dell'ambiente circostante - ad esempio di una comunità spiritualmente mal curata - o di una nazione o del mondo intero prospetti ad un giovane l'urgenza di un impegno pieno, e in vista di ciò egli si decida per il sacerdozio o per una vita attiva o contemplativa nello stato dei consigli. Egli perviene a questo risultato nell'idea che tutte le altre forme di impegno per la necessità reale che egli vede sono insufficienti. Solo la vita intera è giusto buona a sufficienza per saltare con essa nella breccia. Troppo forte gli eventi gridano aiuto, perché egli tenga conto dei propri desideri e delle proprie comodità. Essi lo costringono all'indifferenza per se stesso, senza che egli da parte sua vi si sia da lungo tempo preparato. In guerra o nel caso di una catastrofe può diventare un eroe qualcuno che nella vita quotidiana non lo era; ma il mondo intero può apparire ad un giovane come in una continua situazione di guerra e di catastrofe, ed egli comprende allo stesso tempo che le vie d'uscita offerte nell'ambito del mondo non sono sufficienti per la profondità della necessità. Qui uno può andare a finire nella scelta di vivere in un convento carmelitano ( o una forma analoga di totale dedizione a Dio ) per offrire il suo impegno ad un livello così profondo che corrisponda a quello della necessità. Nascondi Nella assenza di vie d'uscita e di possibilità di rimuovere la necessità, il bisogno umano, diventa udibile la voce di Colui che divinamente patisce ed è abbandonato: "Ero nudo e non mi avete vestito, prigioniero e non mi avete visitato …" ( Mt 25,43 ). O se non è la contemplazione che si offre alla condivisione del dolore, sarà una azione, presumibilmente non come un immediato precipitarsi senza preparazione in un'impresa di rilievo, ma come un ben meditato prepararsi ( che richiede forse anni ) ad un competente intervento. A questo punto divengono oggi particolarmente attuali le nuove forme di vocazione nelle "comunità di vita nel mondo". La chiamata a ciò risuona incondizionatamente dalla situazione mondana, che grida aiuto, ma colui che grida è, attraverso il mondo, il Crocifisso stesso, il quale richiede una risposta corrispondente al radicalismo della croce. L'intensità e assolutezza di questa chiamata cancella addirittura le distinzioni tra i "tempi di scelta" ignaziani, essa risuona dal "terzo tempo" con la forza del "primo" e conferisce così anche a colui che è in atto di compiere la scelta la forza di superare l'arco di tensione tra vita secondo i consigli ed esistenza mondana, e di perseverare lungo la durata del tempo. Gli elementi della chiamata si riuniscono immancabilmente per colui che cerca solo la volontà di Dio in una unità. Chi da ad intendere di non trovare questa unità ha fatto difetto nel cercare, non volendo prendere su di sé la parte della rinuncia, che avrebbe condotto all'unità. In nessuna chiamata di Dio manca questa parte. Rinuncia è già un momento interno ad ogni dover scegliere, che indica sempre solo una strada e significa così rinunciare a tutte le altre egualmente possibili. Essa sarà ancor di più il segno dell'autenticità di ogni strada cristiana, che deve guadagnarsi la fecondità della propria vocazione portando sulle proprie spalle una parte della croce di Cristo. Rinuncia e sacrificio possono essere il contenuto principale di una vocazione, se a questo prezzo devono venir partecipati grazia, fecondità e persino successo visibile ad innumerevoli altri nella "comunione dei santi". Una tale vocazione deve essere pronta a rinunciare del tutto o in gran parte a vedere i frutti resi possibili grazie ad essa. La molteplicità degli elementi in cui la chiamata di Dio può mostrarsi e di fatto quasi sempre si mostra, può anche condurre ad occasionali conflitti di competenza e controversie. Quale obbligo ha la precedenza? In quale di due vie apparentemente necessarie sta la volontà di Dio? La perplessità si dissolve solo se colui che cerca tende nella fede e nella preghiera, passando attraverso tutto ciò che sta in primo piano, verso il raggiungimento della percezione della sommessa voce della volontà paterna. In un mondo caduto nel peccato originale e sempre nuovamente cadente in peccato nei confronti di Dio i conflitti sono inevitabili. Nascondi La redenzione di Dio non aggira questa "forma della carne peccatrice" ( Rm 8,3 ), ma si incarna intenzionalmente in essa. Anzi la perplessità può persino essere una forma della Passione di Cristo e della notte senza via d'uscita in cui il peccato lo conduce e in cui egli si reca volontariamente. La sua forma più acuta essa l'ottiene là dove una reale chiamata di grazia da parte di Dio viene incrociata da elementi estranei e impossibilitata alla sequela. Così una ragazza può avere un'autentica e pressante chiamata alla vita contemplativa, ma circostanze esterne e obblighi le impediscono di seguirla. Non le rimane nient'altro che tentare l'impossibile all'interno del mondo: adempiere tanto alla chiamata quanto agli obblighi esteriori. Oppure può esserci un'autentica chiamata al sacerdozio, ma le forze naturali del chiamato non sono sufficienti o vengono giudicate insufficienti dall'ufficio ecclesiastico competente. Sarebbe affrettato concludere da ciò che la chiamata era solo apparente e che la più profonda volontà di Dio colloca quest'uomo nell'ambito secolare. Ci sono indubitabilmente autentiche chiamate di Dio che restano inadempibili, e cioè senza colpa di colui che sarebbe stato chiamato. La chiamata come totalità immediata sembra qui non essere più identica con la chiamata come somma delle sue parti e dei suoi elementi, e nessuno dei due aspetti è ultimamente riducibile all'altro. La chiamata stessa acquista, entrando nella "forma della carne peccatrice", la forma dei legni incrociati della croce. Diventa chiamata alla croce, ed essa stessa chiamata crocifissa e sofferente. Che essa abbia questa forma non è necessariamente colpa, come abbiamo detto, di colui che è stato così chiamato; certo però vi è alla base una colpa estranea, collettiva, una colpa anonima o anche determinata, che può essere dimostrata. Le vie di Dio nel mondo sono non solamente intrecciate e oscure, esse rimangono spesso anche incomprensibili perché il Padre non ha avuto timore di condurre il Figlio nell'incomprensibilità della separazione da Lui, anzi nella situazione senza via d'uscita della morte, e precisamente di una morte che oscura tutto, senza che si possa intravvedere un'uscita. E tuttavia in una maniera per noi inafferrabile la missione del Padre, in questo spezzarsi, rimane salva. Nascondi Anzi, proprio attraverso un simile spezzarsi essa viene guarita in eterno; il Padre ha il potere di lasciare che la chiamata si sfracelli nel buio degli inferi e di creare una via d'uscita da ciò che era senza via d'uscita: "Tu conduci nel profondo degli inferi e fai di nuovo risalire" ( Dt 32,39; 1 Sam 2,6; Tb 13,2 ). "Infatti non li guarì ne un'erba ne un impiastro, ma la tua parola, o Signore, la quale tutto risana. Tu infatti hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire" ( Sap 16,12-13 ). Dalla figura spezzata e crocifissa di una chiamata non si può dunque tirare la conseguenza che questa non sia, considerata a partire da Dio, una chiamata reale ed unitaria. Questa unità viene fatta passare attraverso la forma della croce, per partecipare più profondamente in maniera incalcolabile alla totalità ( che risiede indenne nel Padre ) della chiamata di Cristo. Nascondi Possa anche una tale via di missione andare a finire apparentemente fra tutte le ruote da macina del mondo, in un "al di fuori" da ogni normale idea di stato di vita, possa uno essere costretto da speciali disposizioni, anzi intralci, a stare là dove secondo i concetti umani non c'è alcun punto su cui stare - se solo egli ha cercato con cuore puro di fare la volontà di Dio, il Signore, che venne a stare egli stesso nel completo "al di fuori" da ogni stato, comprenderà questo "non-stato" come una sequela ( Eb 13,11-13 ). "Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di esser chiamato figlio della figlia del Faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato. Questo perché stimava l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto; guardava infatti alla ricompensa ( … ) Rimase saldo, poiché aveva davanti agli occhi l'invisibile" ( Eb 11,24-27 ). L'unità della chiamata, che essa sia riconoscibile chiaramente o solo visibile per la fede cieca che crede più a Dio che a se stessa, richiede sempre l'unità della risposta. L'unità della chiamata è l'unica cosa che può dare unità ultima ad una vita umana. Questa è garantita allorché la risposta dell'uomo è indivisibile e senza riserve, allorché egli ha puntato tutto ( ma realmente tutto! ) sull'unica carta della fede nella chiamata di Dio. Credere alla chiamata significa rinunciare a voler configurare noi stessi piano, contenuto e svolgimento della nostra vita. Credere alla chiamata significa offrire e sacrificare tutto il proprio io coi suoi desideri e le sue aspirazioni, all'interno di una missione mai calcolabile con lo sguardo. Credere vieta ogni assicurazione nei confronti della chiamata, per il caso che questa venisse meno e l'uomo si trovasse così a dipendere dalla sua propria previdenza. Credere significa creare un vuoto nel centro più intimo di sé e conservarlo per la parola di Dio, che deve dominare in noi e configurare la via. "Nella fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti ( … ) Nascondi Per fede attraversarono il Mar Rosso come fosse terra asciutta" ( Eb 11,17ss.29 ). Infatti non appena "non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me, e la mia vita attuale nella carne è una vita nella fede al Figlio di Dio" ( Gal 2,20 ), "tutto posso in Colui che mi da forza" ( Fil 4,13 ). Si tratta di uno scambio, che deve concernere non solo la superficie, ma il nucleo stesso dell'essere: una sostituzione del proprio spirito, che viene posto nelle mani del Padre, con lo Spirito di Dio, che d'ora in avanti deve subentrare al posto della propria autodeterminazione. Con queste parole Ignazio conclude le sue considerazioni circa la scelta: "Pensi infatti ciascuno che in tutte le cose spirituali tanto progredirà, quanto si staccherà dal suo amor proprio, dalla sua volontà e dal suo interesse" ( Eserc. Nr 189 ) e da a questo scambio ( Nr 231 ) il nome di amore: "Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto e tutta la mia volontà, tutto ciò che ho e possiedo. Tutto è tuo, disponi secondo la tua volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia: questo mi basta" ( Nr 234 ). B. L'avvenimento della vocazione La comunicazione della chiamata 1. Finora è stata descritta la chiamata nella sua essenza, come essa procede da Dio e colpisce e provoca l'uomo. Adesso essa deve venir considerata come avvenimento, nella facciata storica della sua realtà: come chiamata in arrivo, compresa, accettata o rifiutata. Sarà di nuovo preferibile trattare della chiamata qualitativa allo stato sacerdotale o dei consigli, che come tale rimane però anche idea e modello di ogni altro esser chiamati all'interno della Chiesa. La chiamata come avvenimento è l'incontro col Dio vivo, nell'essere del Quale rientra l'essere avvenimento. Anche se sarebbe unilaterale appallottolare tutta la verità dell'Essere divino o di ogni essere in generale in questo carattere di avvenimento e dissolverla quindi nella pura dinamica della semplice storicità, in cui Dio e uomo si incontrano solo nel momento sempre attuale di chiamata e risposta-cosa che toglierebbe il terreno da sotto i piedi tanto all'eternità di Dio, come all'essere della Chiesa e dell'ordine sacramentale e dissolverebbe il carattere cattolico in pura dialettica, in un nervoso "pointillisme"-, è tuttavia vero che Dio, in quanto assolutamente libero, puro spirito, anzi in quanto spirito trinitario, rimane comunque sempre l'Evento assoluto, e che la creatura spirituale creata ad immagine di questo Dio fu chiamata all'esistenza per l'avvenimento dell'incontro con Lui. Il carattere di avvenimento dell'essere divino come di quello umano non si aggiunge a questo essere in un secondo tempo, come modale o accidentale; esso è proprio dell'essere spirituale in quanto tale. Che Dio è essere assoluto che sussiste dall'eternità, che nelle sue promesse egli è eternamente vero e fedele, l'uomo lo sperimenta e lo sa non al di fuori dell'incontro sempre nuovo col Dio vivente. L'eterno avvenimento che Dio è viene ora però reso presente all'uomo non in una continuità temporale, ma si traduce nel linguaggio della temporalità, cosicché la libertà sostanziale di Dio appare e si annuncia chiamando in momenti mai calcolabili. Nascondi Così gli uomini dell'Antico Testamento vengono visitati da Dio e sorpresi dalla sempre nuova "discesa" di Jahwè, così anche la luce che appare in Cristo è non una luce universalmente a portata di mano, lasciata all'arbitrio e all'inerzia dell'uomo, ma una luce sempre in atto di passare ( Lc 18,37 ), sempre in atto di illuminare, e da utilizzare: "Camminate nella luce, finché c'è, affinchè non vi sorprendano le tenebre!" ( Gv 12,35 ). "Ecco ora il tempo della grazia, ecco ora il giorno della salvezza!" ( 2 Cor 6,2 )-"finché dura quest'oggi" ( Eb 3,13 ). Questo "rispettivamente ora" dell'incontro con Dio non elimina la sua eternità e la sua fedeltà e longanimità, ma così pure la grazia promessa da Dio dall'eternità non elimina il suo "rispettivamente ora" ( e domani troppo tardi! ). Se questi due momenti non fossero contemporanei e irreducibili l'uno all'altro, Dio non sarebbe ne l'eterna Maestà ne l'eterno Amore. Nascondi Ne la sua signoria può permettersi di prendersi gioco di essi dicendo che tanto tutto più tardi si concluderà bene, ne il suo amore può manifestarsi come amore "fino all'ultimo" ( Gv 13,1 ) se esso non fosse l'amore offerto sempre adesso e altrimenti sciupato. Il fatto che Dio è "salvatore di tutti gli uomini" non relativizza il fatto inafferrabile che egli nella sua grazia è "in primo luogo salvatore dei credenti" ( 1 Tm 4,10 ). E il fatto che egli "ha chiamato tutti i credenti alla sua ammirabile luce" ( 1 Pt 2,9 ) contraddice ancor meno all'incomprensibilità della chiamata personalmente unica con la quale egli proprio me "ha scelto fin dal seno materno e ha chiamato con la sua grazia di rivelarmi il Figlio suo" ( Gal 1,15-16 ). Nascondi Dio non manca di chiarire agli uomini il volto di avvenimento della sua grazia, non solo per il fatto che egli "viene nell'ora in cui voi non pensate" ( Mt 24,44 ) e nessun calcolo può scovare il giorno "in cui il Signore viene" ( Mt 24,42 ), sicché non solo si raccomanda vigilanza, ma più drasticamente viene presentata la temibile possibilità di addormentarsi e perdere così la chiamata ( Mt 25,5 ) e di un definitivo "troppo tardi" della missione ( Mt 25,12 ). La perdita totale è tanto più tragica, quanto più la chiamata e l'offerta della grazia erano uniche. C'è nella vita normale dei cristiani una sovrabbondanza di pazienza divina, che per grazia si è impegnata a perdonare sempre finché un uomo fa appello ad essa. "Ognuno che invoca il nome del Signore verrà salvato" ( Gv 3,5 ). Ma il conferimento di una missione qualitativa, che concerne non solo la salvezza dell'uomo nell'aldilà, ma pretende tutto il tempo di una vita terrena, missione che deve venire udita, accettata, preparata ed eseguita, può sopraggiungere solo una volta, in un'ora decisiva. Se l'uomo la perde, ha perso la sua missione. Egli si ritrae in mezzo alla folla e scompare in essa. Egli non può commutare la sua missione unica con un'altra, forse la seconda migliore. In questa scelta si tratta del senso o non senso della sua esistenza. E Dio non mancherà di farlo presente a colui che rifiuta. Nascondi Chi viene chiamato? C'è solo una risposta: "Quelli che egli stesso vuole" ( Mc 3,13 ), "affinchè rimanga fermo il disegno divino fondato sull'elezione non in base alle opere, ma in base alla volontà di Colui che chiama" ( Rm 9,11 ). A partire dal mondo non si può innalzare criterio di legge per le vocazioni, all'infuori di quell'unico, non calcolabile, secondo cui Dio accoglie nella predestinazione preghiera e sacrifìci dei cristiani, per farli divenire fecondi così per moltiplicate vocazioni. Così è assai ragionevole pregare e offrire sacrifici per vocazioni sacerdotali e religiose, e per la moltiplicazione delle vocazioni si deve sicuramente ringraziare anche la Chiesa. Soltanto che questa partecipazione ecclesiale è talmente nascosta in Dio, che un calcolo rimane sempre impossibile. Quanti vengono chiamati? Anche qui la Rivelazione ci da solo una risposta: molti di più di quanti di fatto seguono la chiamata. Nascondi A ciò fa cenno la più volte ripetuta parola del Signore: "Infatti molti sono chiamati, ma pochi eletti" ( Mt 20,16; Mt 22,14 ), e le parabole che la chiariscono. La parabola del seminatore divide il seme gettato, che "è la Parola" Mc 4,14 ), in quattro categorie: - nel seme che cade sulla strada, e questo avviene per colui che "ascolta la parola di Dio, ma non la comprende, viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel suo cuore" - del seme che cade sul terreno sassoso; questo avviene per colui che "ascolta la parola e la accoglie con gioia, ma non ha radici in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione a causa della Parola subito si smarrisce" - nel seme che è seminato tra le spine; questo avviene per colui "che ascolta sì la parola, ma la preoccupazione del mondo e l'inganno della ricchezza soffocano la parola, cosicché essa rimane senza frutto" Nascondi - e infine nel seme che cade su terra buona; ed è il caso di colui che "ascolta la parola e la comprende; questi da frutto, e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta" ( Mt 13,4-9; Mt 13,18-23 ). La parabola lascia dunque crescere solo una quarta parte di ciò che è stato Seminato, e dal punto di vista del risultato resta indifferente se per le altre tre parti l'insuccesso è da registrare già subito all'inizio o solo nel corso della crescita: se colui che ascolta non comprende, oppure comprende sì ma non può custodire, o comprende e accetta ma in seguito si allontana di nuovo. La parabola del grande banchetto, che inizia con la chiamata del padrone di casa: "Venite, tutto è pronto!", lascia dapprima riecheggiare questa chiamata nel vuoto. "Allora cominciarono tutti all'unanimità a scusarsi. Il primo gli disse: ho comprato un campo ( … ) Un secondo disse: ho comprato cinque paia di buoi ( … ) Nascondi Un terzo disse: ho preso moglie e perciò non posso venire" ( Lc 14,17-20 ). Solo la chiamata rinnovata, che raggiunge oramai "mendicanti, storpi, ciechi e zoppi" e tutti questi "li spinge ad entrare, affinchè la mia casa si riempia", ha successo. Queste parabole si riferiscono certo in primo luogo a Israele ( e dopo Pasqua all'universalità della Chiesa ), ma il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, come quello tra mondo e Chiesa, si intensifica ancora una volta all'interno della Chiesa stessa, cosicché tutte le parole del Signore circa la chiamata possiedono ( come abbiamo già esposto ) un significato a più gradi: uno che riguarda i cristiani nei confronti dei non cristiani, un altro che concerne i discepoli chiamati e li separa dalla moltitudine delle folle. Non è perciò un'interpretazione allegorica delle parabole se le si applica alle vocazioni qualitative, bensì corrisponde al loro senso inteso immediatamente dalla parola di Dio che parla. La medesima parola chiama e colpisce i cristiani generalmente e l'eletto propriamente; questi sa che non può considerarsi scusato se rimane fermo al senso generale. Sarebbe ozioso voler calcolare, anche solo per approssimazione, il numero degli eletti da queste parabole. Nascondi Tuttavia non si potrà prendere mai sul serio abbastanza la quarta parte nella prima parabola, come il generale "non darsi cura e andare per la propria strada" ( Mt 22,5 ). Dove Dio incide e lavora di scalpello ci sono molte scorie; non perché la sua opera fallisca, ma perché così tanta parte del materiale a cui egli cerca di dar forma si sottrae alle Sue mani. "Quante volte avrei voluto ( … ), ma tu non hai voluto!" ( Mt 22,37 ). Senza dubbio queste "scorie" continuano a prodursi anche nella Chiesa, per quanto concerne le vocazioni speciali. Molti pii cristiani sarebbero chiamati alla sequela personale di Cristo nella vita secondo i consigli, e anche allo stato sacerdotale, di quanti di fatto la seguono ( dove per il momento può essere lasciata da parte la questione circa l'esistenza e la ripartizione della colpa insita in questo atteggiamento di strozzare la voce divina ). Il fatto è che anche nel suo popolo santo la chiamata di Dio incontra resistenza e rifiuto piuttosto che orecchie aperte e cuori disponibili. Nascondi "Perché non c'era nessuno quando io venni? Perché nessuno diede risposta quando io chiamai?" ( Is 50,2 ). "Perché tutti vanno per le proprie strade, ( … ) perché io avevo chiamato e nessuno ha risposto, avevo parlato e nessuno ha ascoltato" ( Is 66,3-4 ). "E benché io prima e dopo abbia parlato con voi, non mi avete udito, e benché io vi abbia chiamato non mi avete seguito" ( Ger 7,13 ). "Quanto più io chiamavo, tanto più lontano essi fuggivano da me" ( Os 11,2 ). E anche i profeti, che portano la parola di Dio, gridano nel vuoto: "Tu dirai loro tutte queste cose, ma loro non ti ascolteranno; li chiamerai, ma non ti daranno alcuna risposta" ( Ger 7,27 ). Nascondi La testarda Gerusalemme rimane solo l'immagine evidente e il simbolo di tutti quelli che in ogni epoca della storia si allontanano dalla chiamata di Dio: "Tutte queste cose accaddero loro come esempio, e sono state scritte come ammonimento per noi" ( 1 Cor 10,11 ). "A noi è stato annunciato il Vangelo, al pari di essi" ( Eb 4,2 ). "Io non ho nessuno ( all'infuori di Timoteo ), ( … ) tutti gli altri pensano solo a sé, non a Gesù Cristo" ( Fil 2,20-21 ). "Tutti mi hanno piantato in asso" ( 2 Tm 4,16 ). L'udire la vocazione che seleziona non è affare solo del singolo che viene chiamato, ma è altrettanto affare della Chiesa, che deve provvedere alla disponibilità nell'ascoltare tale chiamata. Dio infatti, come abbiamo visto, dà alla sua chiamata una componente soggettiva e una oggettiva; egli penetra cioè in silenzio nell'intimo dell'anima, ma aspetta che i guardiani da lui eletti si prendano cura di interpretare, chiarire, render cosciente e guidare il chiamato. Nascondi "Noi siamo collaboratori di Dio ( … ) io ho piantato, Apollo ha irrigato. Dio ha fatto crescere" ( 1 Cor 3,6-9 ). Certo i collaboratori sono "soltanto ministri, attraverso i quali siete venuti alla fede", certo "l'importante non è ne chi pianta, ne chi irriga, ma Dio che fa crescere" ( 1 Cor 3,5-7 ). Ciononostante: "Io sono divenuto vostro padre in Cristo Gesù, mediante il Vangelo" ( 1 Cor 4,15 ), "io soffro le doglie del parto per voi, finché Cristo non acquisti forma in voi" ( Gal 4,19 ). La parte dei "collaboratori", che sono ben più che semplici levatrici socratiche, sono autentiche "balie", "che si prendono cura dei propri bambini ( … ) e consacrano per essi le proprie energie vitali" ( 1 Ts 2,7-8 ), è così importante che, laddove essi vengono meno, la più gran parte delle vocazioni va persa. Rientra invece nella fecondità speciale promessa ai preti e alle persone che vivono nello stato dei consigli il fatto che essi possono cooperare in maniera particolare a destare e far crescere nuove generazioni di preti e di persone che vivono i consigli evangelici. Catechisti laici potranno ( e vorranno ) solo in via eccezionale sostituire i preti in questo compito. Questo mostra l'esperienza della Chiesa lungo tutti i secoli della sua esistenza. Senza l'esempio e la cosciente cura della sommessa chiamata di Dio nelle anime è impossibile che le vocazioni germinali si dispieghino. Certamente per l'impressionante diminuzione di vocazioni sacerdotali. e religiose rispetto al Medioevo e all'epoca barocca ci sono molti motivi sociologici, che sembrano indicare che non certo l'intera moltitudine di quelli che una volta intrapresero la carriera clericale o furono "cacciati in convento" avevano vocazioni autentiche nel senso del Vangelo. D'altra parte l'atmosfera in cui oggi i giovani crescono ci fa vedere chiaramente che solo con fatica una reale chiamata può qui essere udita. A ciò si aggiunge l'affievolirsi della comprensione della vocazione qualitativa negli stati d'elezione stessi, il timore umano laddove realmente si dovrebbe reclutare, la rassegnazione di fronte ai provvedimenti d'emergenza ecclesiali considerati come normali. L'immediato bisogno di parroci e cappellani per comunità fa inoltre perdere di vista quella che è un'istanza fondamentale di tutto questo libro: che il ministero sacerdotale può svilupparsi fruttuosamente solo in un'intima congiunzione con la vita secondo i consigli, e che perciò il destarsi della sensibilità per ogni specie di vita secondo i consigli - dai monasteri contemplativi passando attraverso gli ordini attivi e le congregazioni fino alle comunità di vita nel mondo - è indirettamente ma fondamentalmente il presupposto per un rinnovamento del clero. A ciò corrisponde l'esperienza oggi frequente che per i preti in posizione isolata è tutto più difficile, tanto più laddove non è quasi più possibile trovare delle perpetue, e che associazioni regionali di pastori d'anime, che rimangono iniziative esteriori e aggiunte in un secondo momento, raramente si rivelano molto efficaci. Le esperienze migliori sono quelle fatte con preti che vivono nello stato dei consigli, preti che sono tenuti insieme dal loro comune ideale, dalla loro comune educazione e forma di vita, tanto più se essi vivono in zone adiacenti e si possono incontrare più frequentemente. Da tali preti che vivono i consigli evangelici la vita secondo i consigli può anche venir spiegata al popolo in una predicazione e una catechesi senza forzature e venir presentata nella sua indispensabilità. Nascondi Il popolo cristiano ha però già da sé, se non è guastato dall'indottrinamento, un fiuto, una conoscenza intuitiva che il suo prosperare dipende dal fiorire della vita d'elezione ecclesiale, e che a ragione gli "angeli delle comunita" ( Ap 2-3 ) vengono chiamati a render conto della condizione spirituale di esse. Da tali preti soltanto può venir creato un vivo contrappeso al crescente influsso di stampa e mass-media, che non di rado perseguitano la vita secondo i consigli con il loro cinismo spregiudicato e bollano la Chiesa nel suo insieme come un fantasma istituzionale. Si fa ancora molto discorrere di apostolato dei laici, ma i movimenti specializzati di Azione Cattolica hanno fatto il loro tempo, e furono essi stessi vivi solo fintanto che dietro i singoli gruppi ci stavano uomini impegnati fino in fondo. Che di tali uomini c'è bisogno può essere reso comprensibile anche ai giovani d'oggi, che ritengono in primo luogo che sia possibile seguitare anche più tardi nella vita professionale con quell'impegno ideale che sono disposti a vivere durante il tempo dell'educazione. E i genitori che hanno intuito da lungo tempo questa illusione dovrebbero imparare nuovamente a vedere che la loro critica a Chiesa, preti e frati rimane sempre inopportuna finché non sono disposti a rendere attenti seriamente i loro figli - almeno uno di essi - alla chiamata alla sequela. Le proporzioni tra gli stati di vita ecclesiali dovrebbero essere mantenute o restaurate in modo tale che questi possano stare in un'autentica, vicendevole relazione di scambio e arricchimento reciproco, analogamente al rapporto tra i due sessi nello spazio di comunione naturale, cosicché ad esempio le famiglie cristiane stiano in contatto con la casa parrocchiale e con gli insediamenti religiosi, e questi stiano in contatto con le famiglie, per costruire l'uno con l'altro e l'uno per mezzo dell'altro il Corpo del Signore, che è formato di molte membra. Nascondi "Spero che comprenderete sino alla fine, come in parte avete già compreso, che noi siamo il vostro vanto, come voi sarete il nostro nel giorno del Signore nostro Gesù" ( 2 Cor 1,14 ). Come giunge la chiamata? Di ciò abbiamo già parlato nel capitolo precedente riguardante l'essenza della chiamata. Non solo il fatto della chiamata, ma anche il modo particolare in cui essa avviene è lasciato alla libertà di Dio, la cui voce non solo viene percepita soggettivamente in maniera sempre diversa, ma anche oggettivamente avviene in maniera sempre diversa. Essa può essere un invito sommesso o una richiesta imperiosa. Essa può dispiegarsi nell'arco di anni come un'aurora che cresce a poco a poco o piombare all'improvviso come un fulmine che incenerisce. Raramente la chiamata non spingerà le sue radici già sin nella prima infanzia, destando l'eletto dal sonno come Samuele o infondendogli, come certo accadde per la Madre del Signore, la consapevolezza dell'appartenenza a Dio, che fa tenersi pronti, prima ancora di conoscerla, per una missione che deve ancora giungere. L'eletto non ancora chiamato sa che deve aspettare, che non può amministrare e orientare la sua vita definitivamente, poiché Dio ha forse in mente di compiere con lui qualcosa di decisivo. Egli sa questo non in base alle sue capacità personali; non si tratta della coscienza d'essere un uomo eletto proprio del genio, la quale spesso con forza sovrumana avverte presagia in sé l'ora di entrare in azione. D'altra parte nessun senso d'indegnità e di non essere all'altezza può frenare colui che è stato eletto da Dio dal tenersi libero per la chiamata. Egli vive durante il tempo dell'attesa in una sorta di preesistenza soprannaturale, protetto dagli angeli di Dio. I sogni delle sue notti sono tutt'altro che quelli di un normale dormiente. In momenti decisivi, in determinate svolte della sua vita, quand'è ancora giovane, egli vive strani destini, incomprensibili preservazioni da cose che il suo orgoglio o la sua sensibilità avrebbero sufficientemente voglia di conoscere, incontri con persone la cui esistenza o le cui parole diventano casualmente per lui indicazione, esortazione o conferma di qualcosa che egli stesso non è in grado di formulare. Forse egli getta lo sguardo dall'alto sulla catena di tali disposizioni solo a partire dall'ora in cui la vocazione si è destata: questa diventa per lui la chiave di tutto il suo passato, che si ordina attorno al nuovo punto centrale come limatura di ferro attorno ad un magnete. A partire dall'ora della scelta egli comprende non solo l'oggettivo esser stato guidato, ma non di meno il suo proprio sentimento della vita, che lo ha animato come un inafferrabile fluido lungo tutti gli anni della maturazione. Quando arriva la chiamata? Normalmente essa dovrebbe venir compresa negli anni dello sviluppo, fra i quattordici e i vent'anni. Dove la formazione della coscienza cristiana non ha tenuto il passo con l'istruzione particolare la capacità di ricezione della chiamata può cadere anche nell'età fra i venti e i trent'anni, presupposto che rimanga sufficiente apertura e disponibilità per essere ancora realmente in ascolto. Certo Dio è libero di chiamare uomini anche più tardi. Egli può guidarli attraverso delusioni, ad esempio la morte di un coniuge o di una qualche altra persona amata, per far loro provare il vuoto della propria esistenza ed attirarli a sé. Oppure egli può lasciar loro ultimare il corso degli studi in vista di una professione mondana, per poi mostrare loro che questo non basta, che il ristretto ambito delle preoccupazioni e degli affari mondani in cui l'ideale dello studio va a sfociare li priverebbe di quanto di meglio essi hanno sognato. Tanto le esperienze belle quanto quelle amare saranno di aiuto a colui che adesso è stato chiamato, per un sacrificio più consapevole o anche per un apostolato più fruttuoso. Per alcuni ordini religiosi, tanto più per quelli attivi o per gli istituti secolari, che hanno da vivere l'esistenza del Signore nel vivo della mischia, un simile trattenersi nel mondo può essere di vantaggio. Se per di più questo tempo è stato un tempo di duro lavoro e di privazione, anche questo può ripercuotersi a vantaggio di colui che fa il suo ingresso nella vita religiosa, non solo in quanto egli è diventato più desideroso delle vere sorgenti della salvezza, ma perché egli ora accetta i sacrifici e le privazioni, che il sacerdozio o la comunità di vita secondo i consigli impongono, con più naturalezza e ovvietà di altri. La chiamata di Dio può aver luogo sempre, anche all'undicesima ora. Questo significa che tutti, anche quelli che vivono nello stato laicale, devono fino all'ultimo tendere l'orecchio con attenzione. Certo chiamate come quella di Frate Klaus non saranno frequenti Ma non è sempre necessario attendere di essere vedovi per prestare ascolto più attentamente ad una sempre più o meno chiaramente udita chiamata. Se i laici fossero in più attento ascolto, potrebbe certamente essere che spesso essi, dopo che i figli sono cresciuti e il primo stato di vita insieme coi suoi doveri è stato adempito, insieme con la Madre del Signore cambiassero stato passando all'altro, per trasformare la fecondità naturale in una soprannaturale. Nascondi "Il Figlio dell'uomo viene in un'ora in cui voi non ve l'aspettate" ( Mt 24,44 ). "Si mangiava e si beveva, si prendeva moglie e marito ( … ), si comprava e si vendeva, si piantava e si edificava" ( Lc 17,27-28 ); ma all'interno di tutto questo ha luogo "la venuta del Figlio dell'uomo come il lampo, che guizzando brilla da un capo del cielo all'altro" ( Lc 17,24 ). Se gli uomini, anziché immergersi fino alle orecchie nei loro affari, vivessero nella disponibilità a "pregare sempre, senza mai smettere", Gesù non avrebbe dovuto pronunciare le amare parole: "Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?" ( Lc 18,8 ). Non è mai troppo tardi per aspettarlo, a meno che non si abbia già chiuso bottega con un "no". Chi è giovane possiede un'intima capacità di mettersi in marcia incontro ad ogni ideale e perciò anche qualcosa come una naturale prontezza ad aprirsi generosamente alle chiamate di Dio che esigono generosità. Questa qualità naturale è conferita a lui come una grazia, per allenarsi alla disponibilità soprannaturale che deve durare lungo tutta la vita. Fra i venti e i trent'anni deve aver luogo questa spiritualizzazione dell'idealismo dell'età dello sviluppo; l'orecchio naturalmente aperto deve venir trasformato in un orecchio che sta in ascolto per la forza della fede. Se si trascura di far ciò, allora il tempo della giovinezza appare a colui che è diventato adulto come il tempo di una piacevole ma davvero folle illusione, la cui "verità" è il malinconico sorridere degli ex studenti universitari che si ritrovano assieme. L'ex-universitario saggio tornerà talvolta a bere nelle bettole insieme coi giovani studenti, per ricollocarsi nella svanita spensieratezza da ragazzo, ma riterrà suo dovere iniziare i giovani ai misteri della disillusione che verrà. Quale miracolo può di nuovo sfondare la porta di colui che ha deciso di chiudersi? Della grande partenza incontro a Dio egli non sa più nulla, e quando dei giovani si decidono per la totale offerta di sé, per il sacrificio completo, "allora essi vedono ciò ma lo disprezzano"! Nascondi "La gente vide ciò, ma non comprese, non pose mente a questo: che Dio dona favore e misericordia ai suoi eletti e aiuto a coloro che gli sono devoti" ( Sap 4,18.14-15 ). 2 Il riconoscimento della chiamata Prima che colui che è chiamato possa rispondere alla chiamata deve averla percepita e compresa come tale. Questa affermazione non significa che nella vocazione il momento intellettuale possa puramente venir separato dal momento della volontà. Ci possono essere cioè casi nei quali ad una del tutto chiara consapevolezza di essere chiamati viene contrapposto sin da principio da parte dell'uomo un altrettanto chiaro "no". Tuttavia sarà più frequente il caso in cui conoscenza e volontà cooperano nella chiarificazione della chiamata e il consapevole voler udire apre la strada sempre di nuovo ad una visione sempre più profonda. Tuttavia il decisivo sì dell'uomo, che in ogni caso è esigito in ogni vocazione speciale, deve essere preceduto dal chiaro riconoscimento che questo "sì" viene richiesto. Tanto il chiamato stesso quanto anche colui a cui è affidata la conduzione spirituale dei chiamati abbisognano perciò di una sufficiente cognizione dei contrassegni dell'elezione. Qualcosa di quello che rientra in questo tema è già stato da noi fatto oggetto di dibattito, soprattutto ad esempio la diversità della chiamata nelle vocazioni al sacerdozio e in quelle allo stato dei consigli. Nelle prime può bastare - come limite minimo - una generale devozione unita all'inclinazione e all'attitudine per le funzioni sacerdotali, criteri che vengono completati e definitivamente ancorati dal "sì" di accettazione da parte della Chiesa. Salendo da questo limite minimo troviamo passaggi fluidi fino alla più chiara vocazione personale alla sequela. I loro contrassegni distintivi possono essere più o meno chiaramente marcati, ma in nessuna vocazione allo stato sacerdotale o allo stato dei consigli possono essere del tutto assenti. Se si interrogano i candidati sui motivi per i quali essi vogliono decidersi a questo passo, si ottengono le risposte più diverse. Alcuni adducono motivazioni molto chiare: inclinazione alla cura d'anime, spesso a determinate forme di apostolato, ad esempio le missioni, l'educazione dei giovani ecc.; altri pongono l'accento sul sacrificio che vogliono offrire a Dio e che Dio, come essi ritengono, esige da loro; altri ancora cadono in imbarazzo e non riescono ad esprimersi altrimenti che con le parole: "Sento che devo farlo". Naturalmente la più o meno chiara e distinta formulazione del motivo non offre alcun parametro per la sicurezza della vocazione. Un sentore non formulabile può essere molto più decisivo che l'impulso verso una qualche attività religiosa delimitata, si dovrà anzi dire che un tale impulso reca i segni dell'autenticità solo se si eleva dallo sfondo di una generale e illimitata esperienza di sentirsi chiamati. Infatti il sì che Dio qui richiede è senza eccezioni in primo luogo un sì di "indifferenza", di dedizione fiduciosa, che per il momento non desidera e non sceglie nient'altro che la volontà di Dio "in ogni stato o vita". Questo sì, che è già quello di un eletto e si manifesta come tale con la sua illimitatezza, includerebbe in sé anche una ritrasposizione nello stato laicale nel caso che la chiara volontà di Dio esigesse successivamente questo. In modo speciale un sì allo stato dei consigli acconsentirà dapprima implicitamente ad ogni forma di questo stato, anche se assai presto può manifestarsi l'inclinazione a questa o quella forma di vita comunitaria. Ignazio richiederà però l'indifferenza dal candidato anche dopo che è avvenuta la specificazione della vocazione nel suo ordine religioso; l'indifferenza cioè ad essere inquadrato nello stato dei fratelli laici o in quello dei preti regolari. Poiché quindi nella vocazione qualitativa alla sequela personale si dà solo un sì senza condizioni, alla base di questo sì deve starci anche una incondizionatezza previa nella conoscenza, che si mantiene attraverso tutte le inclinazioni e i motivi specifici e conserva un'indipendenza ultima da essi. Dall'altra parte il medesimo "sì" deve essere consapevole che non può restare in un'astratta incondizionatezza, ma che l'indifferenza verrà specificata nel senso di una differente missione e compito: non dall'eletto stesso, ma da un rappresentante della Chiesa, nella quale egli vuole servire Dio. Questo da luogo ad un centro, al quale ci si può avvicinare da due diverse estremità. La prima via parte dall'esperienza di concrete situazioni o rapporti nel mondo che dovrebbero esser cambiati ad ogni prezzo. Nessuno sembra darsi pena di ciò, nessuno interviene ad un livello abbastanza profondo; così ci si decide ad entrare in azione. E soggettivamente si ha il sentore di porre tutto a servizio di questa cosa, che sembra essere un affare che riguarda il Regno di Dio e forse anche lo è davvero. Ma fintanto che non si intraprende alcun passo ulteriore, tutto questo potrebbe essere fondamentalmente ancora un impegno nello stato laicale. Determinate strutture sociali devono essere cambiate: ciò richiede scaltri sociologi; certi metodi di educazione dovrebbero venir migliorati: ciò richiede esperti pedagoghi. Ma non si diventa preti alla condizione di diventare parroci in un determinato paese. A Pietro non viene promesso che egli diventerà pescatore di uomini a Betesda. Fra l'impulso ad impegnarsi e il sì della Chiesa si pone un momento universalizzante. Nascondi Per prima cosa lasciare le reti e seguire, "senza sapere verso dove" ( Eb 11,8 ). E: "Ti si condurrà dove tu non vuoi" ( Gv 21,18 ). Il motivo speciale che spinge uno al "sì", il candidato lo può comunicare al suo superiore o al vescovo; esso può essere preso in considerazione nella determinazione del suo futuro lavoro, ma non è detto che lo debba. Se il sì non volesse sciogliersi dallo scopo particolare per il quale si è acceso, non sarebbe universale, non sarebbe cattolico, e non sarebbe indirizzato realmente a Gesù Cristo, bensì ad un affare del quale nessuno può dire con certezza che esso sia il lavoro a me assegnato da Dio per il suo Regno. Il carisma destinato al singolo non ce se lo prende da soli, ma viene distribuito dal Signore. E se la Chiesa agisce a Suo nome, il vescovo o il superiore ha certamente da fare attenzione alle disposizioni del Signore - e in questo egli esaminerà le motivazioni di colui a cui dev'essere assegnato un incarico -, ma entrambi, il vescovo o superiore e colui che dovrà essere inviato, devono esercitare la virtù dell'indifferenza tendendo alla volontà del Signore. E poi hanno ancora la precedenza sui desideri del dipendente i bisogni della diocesi o dell'ordine religioso. Se non viene raggiunta questa indifferenza, allora non viene imitato l'atteggiamento di Gesù Cristo di fronte alla volontà del Padre, il quale non decide da sé i rimedi che il Padre vuole impiegare per le malattie del mondo, ma lascia che si disponga di lui anche laddove la cosa si fa del tutto seria con questi mezzi di salvezza, anche fino alla croce. Nell'assenso alla sequela di Cristo ci sta sempre una morte, che attua l'essere "sepolti insieme con Cristo" nel Battesimo, e dalla quale il morente non resuscita da sé; lo farà la Chiesa nel nome di Dio. La seconda via proviene da un'esplicita presa di distanza nei confronti del mondo, da una distanziazione della quale non è ancora certo se essa è caratteristicamente cristiana e cattolica. Si comprende il predicatore: "Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole? ( … ) Ogni discorrere è fatica sprecata, nessuno è in grado di dare la spiegazione. L'occhio non è mai sazio di vedere, ne l'orecchio è sazio di ascoltare". E forse si sono fatte esperienze: "Allora ho detto in cuor mio: Bene, prova allora con il piacere! Goditela! Ma ecco, anche questo è vanità ( … ) Nascondi Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle: ecco, tutto mi è apparso vanità e un inseguire il vento" ( Qo 1-2 ). Questa distanza da tutto appare come indifferenza che abbraccia tutto: "C'è un tempo per nascere e un tempo per morire. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire. Un tempo per demolire e un tempo per costruire …" ( Qo 3,2-3 ). Ma con questo non è ancora certo se la direzione del cammino indica con Buddha la via per uscire dalla "ruota delle reincarnazioni", o se si vuole camminare nella direzione che Dio stesso traccia venendo incontro al mondo: "Vedere e considerare le tre Persone divine, nella loro sede regale, nel trono della loro Maestà divina, mentre osservano tutta la superficie della terra, e tutte le genti in tanta cecità, ( … ) in tutta la loro varietà sia di abiti che di gesti, alcuni bianchi e altri neri, chi in pace e chi in guerra, alcuni che piangono e altri che ridono; questi sani, quelli ammalati; alcuni che nascono e altri che muoiono" ( Eserc. Nr 106 ). Vedere il mondo così può quindi voler dire già vederlo con gli occhi di Dio. Il momento negativo della distanza e dell'indifferenza già predelineata in essa può - e deve, se la vocazione è autentica - avere per presupposto il momento positivo dello stato celeste. Nascondi Il chiamato è in maniera speciale, in una maniera che compenetra la sua coscienza, "non di questo mondo" ( Gv 17,14 ). Egli è "morto"; la sua "vita è nascosta con Cristo in Dio" ( Col 3,3 ); per questo egli "cerca le cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio" ( Col 3,1 ), egli è "conosciuto da Dio", ancor prima che egli stesso si conosca con consapevolezza ( Gal 4,9 ) e può ripetere a chiari toni le parole di Paolo, che per lui grazie a Cristo "il mondo è stato crocifìsso", come pure egli "per il mondo" ( Gal 6,14 ). Infatti l'elezione è un atto eterno, fondato nella Trinità "prima della fondazione del mondo" ( Ef 1,4 ), un atto che perciò inserisce anche l'eletto nell'eternità, ma solo affinchè egli là si adegui al piano di Dio e si lasci inviare insieme a Cristo nel mondo. Se egli sta in vita, anzi urge verso la vita, questo è in forza della sua vocazione e nel fuoco della sua missione, che ha la sua origine nella città del Dio vivente. Nascondi È possibile che egli si senta sempre come uno straniero nel mondo, poiché la sua "cittadinanza è nei cieli" ( Fil 3,20 ). Questo non impedisce che il suo incarico terreno - grazie ad un fuoco che origina dal cielo - lo faccia bruciare più intensamente degli altri uomini che sono di questo mondo. Questa tensione verso l'aldilà non ha niente a che fare con quelle motivazioni che per lo più la psicologia non credente ascrive ai chiamati: indifferenza ( Gleichgilltigkeit ) nei confronti del mondo e della società, complessi non superati nella sfera della sessualità, soprattutto angoscia davanti alla vita. Tali motivazioni, soprattutto i sensi di inferiorità che in effetti giocano il loro ruolo quasi in tutti i giovani prima di aver ottenuto la prova del proprio valore, possono entrare in ballo anche proprio per i chiamati, possono persino entrare in legami apparentemente inestricabili con la dimensione ultraterrena della loro vocazione. Allora sarà questione di un umile autoesame nella preghiera e di un'intelligente conduzione separare i complessi di motivazioni e vedere quale dei due ha il predominio. Se la vocazione è autentica, allora per lo più non è affatto consigliabile aspettare di dare il proprio assenso fino a che siano superate tutte le inibizioni naturali che ogni adolescente in qualche maniera sente e che per lo più suppone esistenti solo in sé e non negli altri. È sufficiente se nella scelta non sono esse la cosa decisiva, anche se provvisoriamente non fosse possibile eliminare questi rumori di disturbo collaterali. Vale qui la frase di S. Bernardo al demonio citata da Ignazio: "Non ho intrapreso questa strada per causa tua, perciò nemmeno per causa tua l'abbandonerò" ( Eserc. Nr 351 ). Una volta assicurato il riconoscimento del chiaro prevalere della chiamata, non c'è mezzo migliore per liberarsi dei disturbi che lo stesso coraggioso assenso a Dio, in suo fedele ascolto. Entrambe le due vie descritte convergono quindi verso un comune centro. Nella prima il chiamato vedeva per prima cosa una concreta missione possibile, ma doveva prima lasciarsi purificare nella piena indifferenza ( Indifferenz ). Nella seconda egli sperimentava dapprima un'indifferenza, di fronte alla quale però deve venir applicato il discernimento degli spiriti, e che poi si rivela come cristiana se è pronta a lasciarsi inviare. Là la missione si accendeva dal bisogno, dall'ingiustizia e dalla peccaminosità del mondo, ma doveva imparare che per questo c'è soltanto un rimedio ultimo: la croce. Non si da liberazione cristiana che non abbia una dimensione di redenzione. Qui invece l'inviato stava certo già nel luogo celeste delle missioni, solo che doveva però prima imparare a comprendere questo: che quanto più uno vuole essere vicino a Dio, tanto più profondamente egli deve lasciarsi usare e consumare nei piani di Dio sul mondo. Il riconoscimento della reale esistenza di una chiamata alla sequela speciale può venir minacciato e - almeno per il momento - reso impossibile dalla mancanza di un momento soggettivo o di uno oggettivo. Ostacolo soggettivo è il non voler udire o il non poter udire. Dovrebbe essere difficile constatare quanto sia possibile rendere completamente muta, col proprio peccato ( Sundigkeit ) nell'età giovanile, una vocazione speciale non ancora avvenuta, rimandata a più tardi. Qui entra in questione soprattutto il non voler udire, che ha luogo nei confronti di un autentico udire già cominciato. L'uomo si ritrae, e il seme della Parola cade a terra senza portare frutto. Quando poi la voce diventa muta e colui che la ha rifiutata è "in pace", solo apparentemente egli può scusarsi dicendo di non averla riconosciuta; ad un certo punto di svolta della sua strada egli ha troncato a Dio la possibilità di continuare ad esprimersi; il suo non udire è colpevole. Nascondi Tuttavia non è impossibile che ci sia anche un vero e proprio incolpevole non poter udire, presso certuni che percepiscono qualcosa come una chiamata, ma non sono in grado di interpretare ciò che hanno udito: "Se uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il maligno e strappa via ciò che è stato seminato nel suo cuore" ( Mt 13,19 ). Questa possibilità presuppone, se dev'essere davvero senza colpa, che la chiamata oggettiva è arrivata in maniera non ancora chiara. La chiamata può infatti oggettivamente, vista a partire da Dio, essere ancora inarticolata. Le chiamate di Dio non sono fatte rigidamente con lo stampino, ma sono vive e differenziate all'infinito, soprattutto perché Egli conta sulla cooperazione degli uomini, e anche su di una viva attenzione della Chiesa. Tanto colui che ascolta la chiamata, quanto colui che lo guida, devono contribuire personalmente a completarla, ad arrotondarla. Altre persone ancora devono contribuire con le proprie energie, pregando e sacrificandosi, affinchè la chiamata sia anche un prodotto della comunione dei santi. Così c'è per lo più uno stadio in cui la chiamata oggettivamente è ancora debole: un leggero bussare alla porta, un primo tentativo dell'amore di Dio nei confronti di un uomo. Dio può volere che questi si alleni a poco a poco a dare la risposta. Egli può lasciar apparire la sua chiamata come un raggio di sole attraverso la nebbia, visibile forse solo durante una schiarita nella nuvolaglia che non si apre del tutto. Egli può lasciare che la nebbia si addensi di nuovo, affinchè l'uomo si ricordi di quell'ora di chiarezza e a partire da essa continui a pregare e a cercare. In questo stadio è particolarmente importante il ruolo di colui che guida. È lui che adesso deve chiarire e far luce. Egli deve avere così tanto tatto da non turbare l'anima forse timida con richieste improvvise, e da descriverle provvisoriamente i pregi dello stato d'elezione solo in maniera oggettiva e come di straforo. Il dialogo può perseverare per anni in questo stadio. Per lo più sarà meglio se il chiamato stesso acquisisce il riconoscimento decisivo, piuttosto che qualcuno dal di fuori glielo ficchi in testa. Uno zelo privo di tatto produce più cocci che cose utili, e colui che una volta è stato ferito ritrova solo ben difficilmente la via verso una nuova considerazione della sua vocazione. Inoltre niente provvede maggiormente ad eccitare i giovani alla protesta del sospetto che li si voglia "reclutare" per qualcosa con astuzia e costrizione. Se Dio mira ad una speciale elezione, allora è certo impossibile che il primo vago intuire, il leggero bussare di Dio, non si chiarisca, per quanto riguarda Dio, in una chiamata chiaramente udibile. Se non si frappone nessuna disobbedienza da parte del chiamato o delle guide responsabili - genitori, maestri, preti -, Dio rischiarerà talmente la conoscenza, che una scelta esatta diventa inevitabile. Se invece la chiamata è la notificazione di un qualche volere o desiderio di Dio ad un laico, potrebbe bene essere che essa conservi sempre quel carattere discreto, recondito. Dio infatti richiede certe cose nella forma dei suoi comandamenti, ma altre le lascia aperte: che cosa si dovrebbe fare, che cosa farebbe avanzare l'uomo con un salto di un bei pezzo di strada, nel caso che egli oda l'invito di Dio, ma che la percettibilità di Dio mai lo forzerà categoricamente a fare. In simili chiamate non si tratta in effetti dell'essere o non essere di una missione, come è invece il caso nella scelta dello stato sacerdotale o dello stato dei consigli ( dove tutto deve divenire sottomesso alla missione da ricevere ), vale a dire di un sì che presuppone in ogni caso la piena chiarezza della richiesta di Dio. Lo stato sacerdotale e lo stato dei consigli contano, per così dire, grazie ad ogni singolo che si consacra ad essi. Chi al contrario sceglie lo stato matrimoniale non presuppone che questo stato venga arricchito grazie al suo ingresso in esso. Così tutto nella sua vita e nel suo rapporto con Dio può conservare un carattere molto più personale che nel caso della missione speciale, la quale subordina completamente la persona al ministero o al voto. Dove si tratta di una missione qualitativa, ma ostacoli insormontabili da parte del carattere del chiamato o anche da parte di circostanze esterne sono prevedibili, può essere più pietoso non spingere verso il pieno riconoscimento della vocazione. Ci possono pur sempre essere anche casi in cui, malgrado l'impossibilità di darvi seguito esteriormente, il chiaro riconoscimento di essere chiamati può essere da Dio voluto e perciò di utilità. Un uomo deve forse sapere che cosa era previsto per lui da Dio, e a partire da questo livello non raggiungibile picchettarsi un ideale come parametro per la sua vita. Oppure egli deve, per volere di Dio, camminare attraverso la vita con un "pungolo nella carne", che nella cerchia borghese in cui è condannato a vivere gli procura una benefica inquietudine. Quando la chiamata, che all'inizio era ancora sfumata, comincia a chiarirsi nel senso di una qualche forma di elezione, si pone spesso per un giovane la domanda angosciata: sacerdozio o stato dei consigli? È dalla stessa forma in cui avviene la chiamata che egli deve cercare di guadagnar chiarezza. In base a quanto detto prima la chiamata al sacerdozio è primariamente una chiamata al ministero, quella allo stato dei consigli primariamente una chiamata a sequela personale. Se i due momenti sono mischiati, sarà da esaminare quale dei due predomina. La vocazione al sacerdozio secolare si mostra normalmente nell'espressa inclinazione alle funzioni sacerdotali, alla predicazione e all'insegnamento, alla amministrazione dei sacramenti, all'aiuto pastorale nei confronti di chi ha bisogno. La chiamata allo stato dei consigli è presagita dal desiderio di offerta della vita a Dio; nelle espresse vocazioni al convento dal desiderio della persona di entrare con tutta se stessa nell'anonimità della vita sotto la Regola, dove l'uno o l'altro dei voti può stare maggiormente in primo piano. Ma questo desiderio di dedizione deve avere un carattere ecclesiale, apostolico, che forse dovrà prima venir spiegato al chiamato, ma che egli, nel caso che sia realmente chiamato, comprenderà molto presto e senza obiezioni. Egli deve capire che può scegliere questa forma di vita non per il suo personale vantaggio o progresso spirituale, ma piuttosto, se vuole attenersi al termine "perfezione di sé" ( Selbstvervoll-kommnung ), lo può intendere solo come un mezzo per il fine che è la gloria di Dio e il servizio al suo Regno. Spesso si tratta, tra stato sacerdotale e stato dei consigli, di forme di passaggio, che possono essere interpretate in un modo o in un altro a seconda della chiarificazione ad opera del direttore. Dio stesso può chiamare per il momento allo stato sacerdotale e più tardi, chiarendo, chiamare ad una sequela più stretta nei voti; egli può chiamare semplicemente allo stato dei consigli e solo più tardi far vedere il completamento nel sacerdozio; egli può anche, come vedemmo, richiamar l'attenzione su di un sacerdozio diocesano che realizza l'essenziale della vita secondo i consigli. Alla fine si impone per colui che è chiamato ai consigli la scelta più ristretta della comunità religiosa. Ancora una volta può qui la voce divina essere univoca sin da principio. Allora è come se in essa risuonasse in maniera udibile contemporaneamente anche la voce dello spirito dell'ordine, anzi del fondatore dell'ordine religioso stesso. Non ci si deve stupire di ciò, giacché in effetti ai fondatori spetta, nell'ambito della loro fondazione, un certo ruolo di mediazione per le grazie che devono venir donate ai loro figli spirituali. Come la Madre del Signore è mediatrice di ogni grazia, così i grandi santi che formano il fondamento di un ordine religioso e possono imprimere alla sua fondazione il loro spirito personale sono anche sempre all'opera nei più vivi punti di crescita di questa fondazione, per fare arrivare ad essa nuove energie e rappresentare l'idea originaria dal lato più profondo e attraente. Il candidato che sta di fronte alla scelta coltiverà quasi sempre nella preghiera una viva relazione col santo nella cui comunità religiosa egli vorrebbe entrare; nell'inclinazione che egli sente potrà leggere, come da un'impronta nella sua anima, quale santo ha impresso in lui il suo sigillo. Se egli non lo riconosce immediatamente, si adopererà per conoscere le singole comunità religiose, finché non trova la corrispondenza oggettiva alla sua vocazione. Il pericolo di cadere vittima di un'inclinazione disordinata è in ciò minimo; raramente a chi è già pronto ad offrire la sua vita verrà a mancare proprio al momento della scelta la generosità. Nella specificazione della vocazione verso una determinata comunità religiosa gioca certamente un ruolo considerevole anche l'influsso esterno. Studenti di una determinata scuola gestita da un ordine religioso entreranno nella maggioranza dei casi proprio in quest'ordine. Uno zelante rastrellamento di una contrada da parte di una società missionaria non rimarrà senza effetto. C'è infatti sempre un grande numero di vocazioni in qualche modo senza colore, che ottengono la loro conformazione solo attraverso un influsso ecclesiale esterno. In questo bisogna distinguere accuratamente il primo esempio dal secondo: l'essere stati forgiati per lunghi anni dallo spirito di un ordine religioso in una scuola monastica è in grado di imprimere alla giovane anima, senza la minima "pressione" dal di fuori, una durevole autentica comprensione della forma dell'ordine, mentre il puro e semplice raccattare candidati per un seminario in missione raramente può conferire a coloro che sono stati così reclutati un reale volto spirituale. Una personalità convincente, che si consuma interamente nel servizio della sua missione e nella quale non si percepisce vanità alcuna, che rappresenta armoniosamente in tutti i suoi aspetti lo spirito della sua comunità religiosa: questo è ciò che nel modo migliore desta nuove vocazioni. Incontrare una simile persona può rappresentare, per colui che è alla ricerca, di più di molti libri sullo stato di vita o l'ordine religioso in questione. Qui egli sperimenta in modo vivo quello che propriamente sta cercando, e allo stesso tempo si sa compreso nel suo cercare. Egli trova la rappresentazione vivente della Regola, uno specchio allo stesso tempo oggettivo e personale. Se questa personalità è un'autentica guida a Dio, essa non farà giocare - o al massimo in maniera del tutto provvisoria - il suo potere personale di forza d'attrazione, ma diventerà non appena possibile pura trasparenza del Signore che chiama, che è l'unico vero maestro. "Giovanni stava là con due dei suoi discepoli. Nascondi Quando vide venire Gesù, disse: Ecco l'agnello di Dio! Non appena i due discepoli ebbero udito ciò, seguirono Gesù" ( Gv 1,35-37 ). "Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: non sono io il messia. Chi possiede la sposa, è lo sposo. Egli deve crescere, e io invece diminuire" ( Gv 3,28-30 ). 3 L'accettazione della chiamata Al riconoscimento della chiamata fa seguito o l'atto di accettazione o l'atto di rigetto. Un terzo non si dà, perché anche la non accettazione nel senso di un semplice lasciar stare o di un continuo rimandare la scelta ad un certo punto viene ad equivalere ad un rifiuto. Così è perché la parola di Dio in generale, e specialmente la parola che si rivolge personalmente al singolo nell'atto d'elezione, possiede il carattere di richiamo, di interpellanza, che richiede essenzialmente una risposta e porta con sé la grazia e la forza della risposta stessa. L'accettazione della chiamata in uno stato di vita si inserisce perciò nella legge secondo cui ogni grazia divina deve venire accettata dalla libertà dell'uomo, così come la grazia della giustificazione deve ricevere l'assenso da parte dell'uomo per santificarlo intimamente. Anche qui l'atto centrale in cui l'uomo dona il suo assenso alla grazia di Dio che lo libera dal peccato e lo santifica deve essere preceduto da un processo preparatorio forse alquanto lungo, in cui Dio agisce nella conoscenza e nella volontà dell'uomo. Gradualmente Dio si fa strada nell'anima, la illumina, la rafforza con grazie ausiliatrici. La cooperazione dell'anima in questo tempo consiste soprattutto nel non contrapporre a questo agire di Dio alcun "no" di chiusura in sé. Nascondi Essa tende l'orecchio alla Parola, si lascia da essa rischiarare, riscaldare, "introdurre in tutta la verità" ( Gv 16,13 ), finché non è matura per proferire insieme col Dio generante l'unico indivisibile sì che esprime il suo attivo prender parte al sì della vita eterna. "Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi invece non vuole ascoltare il Figlio non vedrà la vita" ( Gv 3,36 ). "In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna" ( Gv 6,47 ). Così l'annuncio della verità della vita eterna trapassa immediatamente nell'esigenza di una fede che risponda col suo sì: "Chi crede in me vivrà ( … ) e non morrà in eterno. Credi tu questo?" ( Gv 11,26 ). L'atto della prima giustificazione, che dona la fede viva, rimane il modello per tutti gli atti del continuo dialogo fra Dio e l'uomo, che è solo la sempre più viva unione della parola di Dio che sceglie l'uomo e della risposta dell'uomo che sceglie Dio. Di conseguenza esso dà la sua intima forma anche a quell'estremo atto di scelta che si compie alla luce della grazia santificante: l'atto della scelta della vocazione, nel quale al cristiano viene mostrata e ( se egli vuole ) donata la forma speciale del suo stare con Cristo. E poiché ogni cristiano ha da stare in un determinato stato di vita, è logico che egli deve essere stato nella situazione della scelta, non solo in quella prima scelta della giustificazione, in cui egli si è deciso per lo stare nella Chiesa in generale, ma anche espressamente nella seconda scelta che specifica gli stati di vita cristiani, grazie alla quale gli viene assegnato un posto duraturo all'interno della Chiesa. Egli deve quindi esaminarsi coscientemente se gli giunge una speciale chiamata di Dio oppure no, deve perseverare nella "indifferenza" dell'ascolto, finché non cresce in lui una chiarezza su ciò. L'aver dimenticato questa esigenza riguardante tutti i cristiani è certo una delle cause principali per cui oggi una così minima parte delle chiamate di Dio viene udita e accolta. La maggior parte dei cristiani - non di rado rafforzata dall'opinione corrente - crede che una chiamata selezionante non entri per essi affatto in questione; se essa entrasse in questione, Dio si sarebbe già dato a riconoscere da lungo tempo in modo inequivocabile. A rigor di termini uno dovrebbe intraprendere la strada dello stato laicale solo se è stato, cosciente e pronto, davanti all'aut-aut delle forme di vita ecclesiali. Ed egli dovrebbe essere consapevole che la vita cristiana nel mondo per lo più e più difficile di una vita nei voti, al punto che Ignazio enuncia questa regola per colui che negli esercizi spirituali è posto davanti alla scelta: "Egli deve essere pienamente indifferente, pronto a percorrere tanto la via di consigli quanto quella dei comandamenti, anzi deve, per quanto lo riguarda, inclinare di più ai consigli, se questo è il servizio migliore a Dio. C'è infatti bisogno di segni più chiari per stabilire che uno in base alla volontà di Dio deve rimanere nello stato dei comandamenti, piuttosto che egli percorra la via dei consigli, poiché il Signore sprona così apertamente ai consigli, mentre per i comandamenti mette in luce i più grandi pericoli". Corrispondentemente all'atto della giustificazione si può distinguere nell'atto della scelta della vocazione fra il tempo fino all'atto, il tempo dell'atto stesso e il tempo dopo l'atto. Questo decorso non è da intendersi come "perfezionamento", quasi che l'uomo che non ha ancora compiuto la scelta fosse più imperfetto di colui che la sta compiendo o di uno che vive nella scelta già compiuta. Maria era perfetta anche prima dell'incontro con l'angelo, perché seguiva già allora la volontà di Dio con cuore altrettanto indiviso come più tardi. Le vie di Dio con l'uomo costituiscono una storia; in essa è impossibile misurare i periodi in base ad un attimo atemporale o sovratemporale. È sufficiente dare ad ogni attimo la pienezza del suo significato; il che significa qui: in ogni momento riconoscere e fare per quanto è possibile la volontà di Dio. Il tempo prima della scelta è, visto a partire da questa, preparazione. Nascondi Come tutto l'Antico Testamento era preparazione ed educazione in vista di Cristo ( Gal 3,24 ) e come tale è indispensabile per la figura di Cristo e la comprensione del Nuovo Testamento, così il tempo d'attesa della giovinezza è indispensabile, come allenamento del cristiano al suo decisivo incontro col Signore. E come la perfezione dei santi dell'Antico Testamento consisteva in questo, che essi andavano incontro ad una promessa di redenzione futura del tutto invisibile, afferrata solo nella fede, e non dettero alla loro vita nessun altro contenuto all'infuori di questa promessa ( Eb 11 ), così la vita fino al momento della scelta dovrebbe venir configurata nella fede nel futuro incontro di Dio. Ciò significa in primo luogo che fino ad allora non può venir posto nessuno stato di fatto che in qualche modo anticipi la libera decisione di Dio. Un simile stato di fatto sarebbe non soltanto il consapevole rifiuto anticipato di una possibile chiamata di Dio allo stato sacerdotale o dei consigli, ma anche la creazione di ostacoli, che renderebbe impossibile l'entrata in questi stati di vita. Tanto più quell'adolescente che intuisce oscuramente e come in sogno che egli fa parte forse degli eletti, e che quindi deve perseverare con raddoppiata vigilanza incontro alla chiamata, dovrebbe conformare e salvaguardare la sua vita in modo tale che Dio possa ogni momento disporre di essa. Egli deve soprattutto educare in sé e mantenere desta la capacità di osservazione spirituale, unita ad una brama di conoscere ogni cosa - tanto mondana quanto spirituale - che potrebbe divenire importante per il suo destino, e ad una generosità che si tiene pronta per ogni avventura della vita. Tutto ciò che si smussa prima del tempo, ciò che insegna ad accontentarsi di facili godimenti dei sensi, egli deve evitarlo e lo farà certo istintivamente, anche se forse egli deve combattere tenacemente con tentazioni sessuali. "La stupidità, nella misura in cui essa è peccato", dice Tommaso, "ha origine dal fatto che la sensibilità per ciò che è spirituale è smussata, e diviene di conseguenza inadatta a giudicare ciò che è spirituale. Nello spirito, però, la sensibilità terrena dell'uomo viene soffocata dall'incontinenza, che concerne quelle bramosie più forti, dalle quali l'anima viene per lo più fatta prigioniera" ( S Th li il, q 46 a 3c ). Questo è detto qui solo per la preparazione alla scelta della vocazione, e non in riguardo alla prassi della direzione spirituale all'interno di seminari e noviziati. Il tempo dell'attesa deve essere passato in quella pazienza descritta dal Vangelo: in una pazienza che è il contrario dell'inattività ( anche se l'attività esteriore è rinviata al futuro ), che significa piuttosto allenamento alla crescente disponibilità, all'attivo superamento di tutti gli ostacoli dell'indifferenza, all'attivo andare incontro alla venuta del Signore. Chi aspetta dormendo e spera in un miracolo che lo svegli, nella maggioranza dei casi persevererà invano. Nascondi Nella preghiera e nella continenza, con le fiaccole accese in mano e i fianchi cinti, si guarda incontro al giorno del Signore ( Lc 12,35 ). E come nell'atto della giustificazione vale qui lo stesso principio: quanto maggiormente precede un rischiaramento preparatorio e una purificazione dell'anima, tanto più l'io coi suoi fini e desideri passa in secondo piano e la sola attenzione per Dio riempie lo spirito. Sarebbe perciò sbagliato dare inizio alla scelta della vocazione come se si provassero possibili forme di vita come vestiti, per vedere quale "mi sta meglio", mi "soddisfa" di più e "mi va a genio". Dietro a questo ci sta spesso una vanità giovanile, che vorrebbe giocare un ruolo nella vita e mettersi dovutamente in luce. Alla volontà di Dio ci si avvicina il meglio possibile eliminando tutti i punti di vista egoistici. Questo avvicinamento rimane per lo più graduale: ogni piccola obbedienza a Dio, anche se apparentemente non è in connessione alcuna con la scelta della vocazione, è un passo verso il grande e decisivo atto che riesce solo se si ha già imparato a obbedire. Se colui che obbedisce è uno che sta andando incontro all'elezione speciale, Dio non mancherà di manifestarglisi: egli mostrerà sempre di nuovo che la sua corrispondenza viene premiata con una crescita di luce nel suo intimo. L'atto di scelta stesso può essere vissuto come l'attimo straordinario dell'identità tra scelta divina e umana, come un "kairòs" senza pari, la cui intensità di luce non viene mai raggiunta nuovamente ne prima ne dopo. Prima la vita era come quella dei discepoli, che provenivano dall'Antico Testamento, una vita di attesa priva di luce, di desiderio nostalgico e sotto molti aspetti anche di fallimento. Dopo sarà una vita di missione, dove di nuovo lo sforzo umano non corrisponderà mai pienamente all'assolutezza e ampiezza dell'esigenza, una vita di continuo tentativo di adempiere decentemente al compito ricevuto. Nascondi In mezzo a questi due ci sta l'indivisibile punto dell'irruzione dell'idea lampo, dove il cercare è diventato un trovare, e il trovare non è ancora diventato di nuovo "infinito cercare" nell'immensità dell'amore ( Agostino, Traci, in Joh. 63,1 ). "Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazareth" ( Gv 1,45 ). Questa grazia è riservata alla vocazione qualitativa; essa possiede però analogie nella vita normale dei cristiani: in quelle ore dell'incontro con Dio, che richiedono un assenso di fedeltà e caratterizzano e consacrano una vita per anni, se non per sempre. Ore ad esempio anche di conversione negli anni della maturità, che raccolgono in unità l'atto della giustificazione nel Battesimo e della scelta e vocazione personale. Ore della decisione, che aprono una prospettiva, che a tutto un passato di inutilità e di colpa possono imprimere, grazie alla forza dell'amore di Dio, un senso che si ripercuoterà nel futuro in un'insperata fecondità. Non è detto però che ogni storia di vocazione debba attendere un'ora così marcata. Può anche essere che il tempo della preparazione sfoci quasi senza che si noti in quello del compimento. Allora la luce del riconoscimento cresce sin dalla prima infanzia insieme con la luce dell'assenso; la certezza della vocazione, magari ad un determinato ordine religioso, era talmente già presente da sempre, che essa matura ( come per Teresa di Lisieux ) soltanto in corrispondenza allo sviluppo spirituale del fanciullo, ma non è che propriamente diventi più chiara. L'obbedienza del fanciullo si trasforma come da sé in quella di un adulto. Nascondi Una simile elezione è come racchiusa da sempre nell'eterno atto d'elezione di Dio, e il sì dell'uomo è come già pronunciato "da prima della fondazione del mondo" ( Ef 1,4 ), in modo tale che esso, quando con la grazia del Battesimo entra nell'anima, prende possesso di essa e comincia in essa a germinare. Tra questa e la prima forma di scelta ci sono ancora una volta delle forme di passaggio, che possono assumere ad esempio la forma di una scelta graduale o anche a scosse. Anche se il chiamato deve aspettare nell'indifferenza l'ora della chiamata decisiva, è tuttavia anche vero che con la sua risposta egli è sempre più lento e più tardo che non Dio con la sua parola e la sua domanda. È perciò possibile che da parte di Dio l'ora della scelta sia già scoccata, mentre l'uomo sta ancora ad aspettarla. Ma poi anche Dio si adegua alle forze ecclesiali che forniscono la loro cooperazione e il loro contributo, e così diventa spiegabile perché Ignazio possa considerare con tanta certezza il tempo degli Esercizi, il cui senso principale è la scelta dello stato di vita, come tempo della decisione. Egli aspetta addirittura che l'uomo, . se la sua scelta dello stato è in qualche modo già avvenuta ed egli viene trasferito grazie agli esercizi nella piena indifferenza e in essa diretto da una retta guida ecclesiale, aspetta sino a che egli non sia in grado di udire la voce divina che lo elegge e di corrispondere ad essa con una specie di infallibilità per grazia. Certo "l'esperienza mostra anche che coloro che negli Esercizi hanno subito conflitti, più tardi, al di fuori degli Esercizi, spesso riconobbero la verità con maggiore facilità, e cioè proprio a partire dalle basi che essi si erano fatti negli Esercizi stessi" ( Dir. in Eserc. ). Ma questa glossa tardiva si occupa, nel senso di Ignazio, del caso eccezionale. Nascondi Egli stesso è convinto che Dio non si nega a colui che bussa, perché già da molto tempo Egli sta bussando, prima ancora che l'uomo oda e gli apra la porta ( Ap 3,20 ). La mozione dei "diversi spiriti" che egli presuppone come una cosa che necessariamente deve verificarsi in ognuno che fa gli Esercizi con il giusto impegno ( Eserc. Nr 6-10 ), e l'infallibile preparazione della scelta che Dio opera, e per così dire l'intima esercitazione dell'anima al carattere di avvenimento dell'atto di scelta. Come il direttore spirituale debba in ciò comportarsi viene fissato con la più grande circospezione : se nel tempo precedente questi poteva, con la volontà di Dio che a poco a poco si chiariva, urgere incontro alla scelta che doveva aver luogo, durante la scelta stessa egli non può più giocare alcun ruolo decisivo, bensì deve in piena oggettività "restando in equilibrio come l'ago di una bilancia lasciare che il Creatore agisca liberamente con la sua creatura, e la creatura col suo Creatore e Signore" ( Eserc. Nr 15 ), deve persino espressamente "ammonire prevenendo a non fare alcuna promessa o voto in modo sconsiderato e precipitoso" ( ibid. 14 ). L'immediatezza fra Dio e l'anima nell'atto della scelta si distacca dal tempo della mediazione ecclesiale che sta prima e dopo; al mistero dell'unità immediata di parola e risposta le cause seconde assistono solamente. In questo divenir trasparente di tutta la dimensione ministeriale della Chiesa nell'immediatezza dell'atto di scelta gli Esercizi stanno faccia a faccia con la mistica, la cui immediatezza viene anche espressamente presa in considerazione ( Nr 329, 336 ), ma in maniera tale che della mistica immediatezza dell'incontro reciproco tra esperienza ( o visione ) divina e umana e tra volontà divina e umana solo il secondo momento viene presentato ad ogni cristiano chiamato come paradigma universalmente obbligante. Mentre l'immediatezza dell'esperienza o visione rientra nelle "gratiae gratis datae" e perciò ne deve venir cercata ne può esser praticata, esercitata, l'immediatezza riguardante la volontà è raggiungibile con la grazia di Dio da parte di ogni credente, in quanto in questa estasi della volontà non si richiede nient'altro che l'offerta in sacrificio della propria autodeterminazione, all'interno della volontà di Dio che chiama ed elegge ( Nr 234 ). D'altra parte questa immediatezza del singolo credente nei confronti della volontà di Dio non è una cosa che superi o addirittura abbandoni lo spazio ecclesiale. Il tirarsi da parte che viene raccomandato alla guida ecclesiastica non intende significare un lasciare andare l'anima sinora guidata, in direzione di un incontro con Dio puramente individualistico. Da ciò che abbiamo detto, in base al quale ogni scelta ecclesiale conduce ad una missione ecclesiale, risulta evidente esattamente il contrario. Se qui la Chiesa "petrina" ha prestato il suo servizio e si ritira in disparte, questo è solo per dar spazio alla più profonda sorgente della Chiesa, quella mariana, che la circonda del tutto. In nessun luogo, infatti, un credente viene più da vicino configurato a questo atto originario ecclesiale, al sì di Maria, che rende possibile l'incarnazione di "capo" e "corpo", che nella risposta ad una vocazione che richiede la vita intera. Dio osa concentrare nell'ora della scelta tutto il senso di una vita eletta. Non sarebbe degno di lui se egli volesse inculcare la sua scelta all'eletto o lanciargliela dietro dopo che questi già l'ha rifiutata. L'incontro, come quello tra due amanti che si scelgono per la vita intera, deve essere fino in fondo libero e trasparente. Questo è l'onore che egli tributa all'uomo: il fatto che egli lo prende pienamente come partner. Egli non si servirà dell'ora decisiva per sorprenderlo, così come le favorevoli o contrarie circostanze fortuite di un esame possono causare conseguenze incalcolabili per la vita e lo stato di un uomo. Nascondi Lo "scolaro di Dio" ( Gv 6,45 ) nel suo esame finale sarà piuttosto già noto al suo Maestro; il responso che Egli impartirà può essere determinato insieme da un rapporto che dura da anni. Dio non pone nessuno davanti ad una scelta di vita impreparato: se lo scolaro fallisce, questo è solo perché egli già da tempo stava rispondendo di no; se egli supera l'esame, questo è solo perché già da lungo tempo ha imparato a dire di sì. "Guardatevi perciò di non rifiutare Colui che parla; perché se già quelli non trovarono scampo per aver rifiutato colui che promulgava decreti sulla terra, molto meno lo troveremo noi, se volteremo le spalle a Colui che parla dai cieli". Una volta avvenuta l'accettazione della scelta, l'attimo del sì diventa punto di partenza per tutto ciò che segue. La missione qui ricevuta è per il futuro il contenuto dell'esistenza. D'ora in poi il cristiano è non solo l'eletto, ma anche il chiamato; da ciò egli deve attingere tutte le energie per l'adempimento del suo incarico. Nascondi Finché egli vive di ciò, è al riparo da ogni pusillanimità e timidezza come da ogni presunzione, poiché "da noi stessi, con le nostre forze, siamo incapaci anche solo di formulare un pensiero; tutte le nostre capacità derivano da Dio" ( 2 Cor 3,5 ). "Ma per la Sua grazia io sono quello che sono, e la Sua grazia in me non è stata vana. Io ho lavorato più di tutti gli altri, non io però, ma la grazia di Dio che è con me" ( 1 Cor 15,10 ). 4 Il rifiuto della chiamata Il rifiuto della chiamata non è da scambiare con l'impossibilità esteriore di darle seguito. Si dà, come già accennato, questa perplessa situazione, poiché la chiamata personale di Dio rimane in un'ultima libertà, indipendente da tutte le cause seconde favorevoli o contrarie; egli rimane anche libero di notificare ad un uomo che egli fondamentalmente sarebbe un eletto, anche se ostacoli mondani si accumulano e si sbarrano contro la vocazione. Tali ostacoli possono essere di natura esterna: il rifiuto ( forse ingiustificato, forse anche fondato ) di un candidato da parte di una comunità religiosa o di un ordinariato, l'esistenza di obblighi spirituali o materiali nella casa paterna, malattia ecc. Nascondi Possono risiedere interiormente nel carattere del chiamato: instabilità, che per una specie di debolezza naturale non riesce a trattenere il seme ricevuto da Dio ( Mt 13,21 ), insufficiente forza di spirito ( "De poco subjecto", Eserc. Nr 18 ), che non è in grado di sostenere il "carico di Dio" che per un attimo si è posato come per prova sulle spalle umane. Tali persone possono, anche dopo aver già iniziato il curriculum per diventar preti o religiosi, senza loro colpa venir congedati o uscir fuori, sebbene la loro vocazione era stata autentica. Il vero e proprio rifiuto della chiamata ha la sua radice nella mancanza di "indifferenza", di quell'intima, crescente "umiliazione" di sé davanti al volere di Dio che richiede tutto il proprio "io" ( Eserc. Nr 165s. ). Esso risiede in un punto magari molto nascosto dell'anima, che magari essa nasconde secondo le possibilità a se stessa e sospinge verso l'"inconscio", scegliendo il proprio "io" al posto di Dio. Invece che mettere completamente il senso e la configurazione della vita nel volere di Colui che invia, l'uomo si aggrappa alla sua volontà di dar forma da sé alla sua vita secondo il proprio arbitrio. Quanti più apparenti motivi egli trova per questo, tanto maggiore diventa la tentazione. Quanto più è presente del talento e della forza intellettuale che preme verso un naturale sviluppo, e quindi simula una missione naturale e alimenta una corrispondente coscienza di missione, quanto più quindi la personalità è forte, tanto più vicina si pone anche la tentazione di dire di no, e tanto più essa si perderà, con la perdita di questa missione. Risiede nell'essenza del peccato che esso faccia il male sempre sotto il pretesto di compiere il bene, e nell'essenza dell'errore morale che esso, sempre sotto il pretesto di un qualche bene secondario del quale anche si dovrebbe tener conto e che dovrebbe esser compiuto, lasci perdere l'unica cosa necessaria. Così colui che rifiuta la chiamata avrà sempre una scusa che davanti a se stesso o davanti all'ambiente sembra inattaccabile. Egli accennerà ad esempio alle grosse prestazioni che egli può realizzare "fuori, nel mondo", alla scarsità di laici cattolici dirigenti, a dichiarazioni della Gerarchia che auspicano la formazione di simili laici, alla più grande possibilità di operare all'interno di ambienti estranei ai quali altri non hanno più accesso; egli saprà anche esaltare la grandezza teologica dello stato matrimoniale e mettere in luce i corrispondenti testi della Scrittura, in breve: ripeterà praticamente tutte le scuse che gli ospiti invitati della parabola opposero alla chiamata del re. I loro impegni sono oltremodo lodevoli, e poiché essi sono quelli della maggior parte degli abitanti della terra, questi tributeranno il loro plauso al fatto che quelli possedettero così tanto "senso pratico" e intelligenza da non andarsi a impelagare in avventure poco chiare ( "relitti del Medioevo "), La Chiesa d'oggi ha bisogno di uomini sobri, obiettivi, che affrontino coraggiosamente i difficili compiti della società odierna: perciò appare un comandamento speciale dell'ora cristiana presente quello di dedicarsi al rafforzamento dello stato laicale nel mondo. Non è necessariamente sempre egoismo quello che porta gli eletti a simili ragionamenti. Può anche essere l'angoscia di essere consegnati a Dio, di dover rinunciare non soltanto ai beni esteriori - a questo la maggior parte dei giovani d'oggi sarebbe senza tante cerimonie già pronta -, ma soprattutto a quelli interiori dell'ideale personale" che ognuno si è formato da sé. Angoscia di fronte all'esistenza nella pura e semplice missione, che anche più tardi afferra ancora ulteriormente qualcuno nella vita sacerdotale e specialmente in quella secondo i consigli, allorché si tratta di uscir fuori dalla dimora protettiva dove si è stati istruiti, "come pecore in mezzo ai lupi", e che allora paralizza il passo dell'inviato, cosicché non pochi vanno qui a finire nella malattia o nella nevrosi. Angoscia di fronte ad una singola esigenza a cui si crede di non poter adempiere, di fronte al celibato ad esempio, o di fronte all'obbedienza, o di fronte alla possibilità di venir inviati in questo o quel posto, in questa o quella missione. Angoscia di fronte alla chiamata in generale: di fronte al trovarsi esposti nei confronti di questa voce imprevedibile che attraversando in diagonale tutte le rassicuranti leggi di Dio e della Chiesa richiede di più e altro che quello che si sarebbe disposti a dare. Angoscia infine di fronte a Dio, la cui nudità non si sopporta e che si cerca pudicamente di ricoprire con i veli di una religione convenzionale. A tutte queste forme di riflessione che cerca degli appigli soggiace fondamentalmente una mancanza di fede. La fede infatti consiste in quell'atteggiamento da bambino che si getta in braccio a Dio e da Lui aspetta ogni aiuto ed energia. Nascondi "In verità vi dico: chi non accoglie il Regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso" ( Mc 10,15 ). Il rifiuto può avere forme molto diverse, a seconda di come la chiamata stessa è configurata. Esso può sfumarsi a partire da un chiaro e cosciente "no" di fronte all'inequivocabile chiamata fino ad un "no" distratto che si perde nelle nebbie del parzialmente inconscio, là dove la chiamata ha luogo gradualmente e richiederebbe un perdurante cammino di accompagnamento da parte del chiamato. Certo vale il principio generale che quanto più una chiamata ha luogo debolmente, tanto più è facile soffocarla. Vale però anche l'altro principio secondo cui ogni vocazione veramente qualitativa ha la forza di farsi una qualche volta talmente chiara che il rifiuto di essa è un atto spiritualmente del tutto responsabile. Certo la colpa decisiva può essere anche di un altro che con la parola o l'azione soffoca il delicato seme della vocazione nell'anima di un bambino, traviandolo con una cinica parola che devasta la coltivazione di Dio come un temporale con grandine. "Ma chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina da mulino e che sprofondasse in fondo al mare" ( Mt 18,6 ). E quanti uomini crescono in un'atmosfera non credente o cattolicamente tiepida, liberale, distaccata, e non vengono praticamente mai a contatto con l'idea di una più stretta sequela di Cristo! Si pensi al caso di Kierkegaard, che vide come necessaria la via del superamento dello stato matrimoniale, ma non potè trovare nel Protestantesimo nessuno stato di vita che battesse questa via; e a così tanti cattolici, i quali all'interno della Chiesa si trovano praticamente nel medesimo caso. È impossibile fargliene una colpa. Ma quali perdite per il Regno di Dio! Se ogni rifiuto di una chiamata qualitativa porti con sé una colpa, su questo i teologi non sono di uno stesso parere. I più ritengono che il rifiuto di un "consiglio", che in effetti non obbliga sotto pena di peccato, in se stesso non può essere un peccato, mentre invece spesso le circostanze concomitanti, come indifferenza ( Gleichgiiltigkeit ) spirituale, leggerezza, attaccamento ai sensi o addirittura disprezzo della vocazione possono causare peccato. Sarà meglio qui richiamarsi alle diverse specie e ai diversi gradi della chiamata. Ci sono chiamate che non possono realmente venir comprese dal soggetto per la carenza di energia spirituale. Così questi rimane senza colpa. Ci sono forse chiamate che sono appena qualcosa di più di un permesso di percorrere l'una o l'altra via. Anche per simili chiamate - nel caso che esse ci siano - il non udirle non rappresenta una colpa. In prossimità di questi casi rientrano anche quelle vocazioni al sacerdozio secolare che vengono decise quasi completamente dall'esterno, dall'autorità ecclesiastica. Se fosse esatta la teoria di Lahitton, non ci sarebbe per nessuno di quelli che non arrivano alla consacrazione una colpa; essa risiederebbe altrove che non quella di un cristiano non chiamato. Però non appena si abbandona questo gradino più basso della forma di vocazione e si guarda a quei casi ( che tuttavia secondo la tradizione sono i più frequenti ) in cui Dio manifesta all'anima la sua personale scelta, cominciano ad entrare in gioco altre leggi, le leggi dell'amore. Si dovrà essere qui molto prudenti col principio che solo i "comandamenti" obbligano sotto pena di peccato, mentre i desideri, gli inviti, i suggerimenti dell'amore di Dio possono venir messi da parte senza scrupoli. Non vuole forse Dio offrire le sue cose migliori, più importanti, proprio supplicando più che esigendo? E rifiutare non significherebbe forse qui danneggiare i piani decisivi dell'amore di Dio, forse anche renderli impossibili? L'amore ha leggi sue proprie, le quali sono più delicate che quelle del timore e dell'etica minimalistica, leggi che esprimono però l'incandescente centro della vita, dove Dio e l'anima si incontrano nell'eternità. Nascondi "Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel Regno dei cieli" ( Mt 5,20 ). Un invito "personale" può risuonare molto più urgente che un comando "ufficiale". Anche la grandezza della violazione sarà proporzionale alla grandezza della missione offerta. Questa ha sempre carattere sociale: dall'accettazione di questa missione sarebbe forse stato aperto ad un assai grande numero di fratelli l'accesso al Signore. Molti avrebbero potuto confessarsi, e oramai conservano i loro peccati, molti udire la parola di Dio, e oramai perseverano privi di ammaestramento, molti avrebbero potuto essere infiammati di fede, speranza e amore, e oramai rimangono freddi. Un settore del campo di Dio rimane incoltivato. I pochi operai nella vigna del Signore saranno ancora più sovraccaricati di lavoro e lo sbrigheranno perciò con meno accuratezza e si ritroveranno esauriti in minor tempo. 'Colui che risponde di no si tira dietro un'incalcolabile sventura, perché egli non dice mai no solamente per se stesso, ma per tutti quelli che dipendono dalla sua missione. E un giorno egli verrà chiamato a render conto non di sé solo, ma di tutte le grazie di cui a causa del suo no il mondo è stato defraudato. Nascondi Ogni missione qualitativa reca in sé la promessa di una fecondità soprannaturale: trenta, sessanta, cento volte tanto ( Mt 13,8 ). Ma tutto questo frutto dipende dal sì dell'inviato: il diniego di un solo singolo può annientarlo. Se già nessun peccato in generale ha carattere puramente privato, poiché esso come peccato contro l'amore coinvolge sempre la comunione dei santi e perturba il circolo sanguigno nel corpo mistico del Signore, allora questo vale potenziato anche per il rifiuto di una missione. Abbiamo già detto che Dio, se uno rifiuta la missione assegnatagli, non gliene da nessun'altra in cambio. Le missioni, infatti, sono personali, e Dio non rivolge senza distinzione ad un altro la parola che egli aveva tenuto in serbo per quest'uomo qui. Le cose stanno piuttosto al contrario: l'assenso alla chiamata è fecondo e nel suo frutto può contenere anche il geme di nuove chiamate di Dio a nuovi inviati. Il "no" invece è l'infecondità stessa e non diviene occasione di fecondità aliena nella Chiesa e nel mondo. Le missioni sono insostituibili e secondo la loro essenza esse lo sono tanto più, quanto più esse sono personali e peculiari. Per questo il cristiano normalmente, quando perde la grazia, può riguadagnarla col pentimento e la conversione; una missione qualitativa perduta, invece, è irrecuperabile e nessuna lacrima può richiamarla indietro. "Guardate che nessuno perda la grazia di Dio, che non spunti e cresca alcuna radice velenosa in mezzo a voi e così molti ne siano infettati. Nessuno sia venale e disprezzi il sacro, come Esaù, che in cambio di una sola pietanza vendette la sua primogenitura. E voi ben sapete che in seguito, quando volle ottenere la benedizione, fu respinto. Nascondi Egli non trovò possibilità alcuna che il padre mutasse sentimento, sebbene glielo supplicasse con lacrime" ( Eb 12,15-17 ). Quanto più quindi la vocazione è grande, tanto più essa è unica. Per colui che è chiamato ad una cosa grande si tratta di tutto o niente. Se si rifiuta la sua missione, egli non può al posto di essa richiederne o aspettarne un'altra, di seconda qualità. Se egli è troppo indolente per offrire l'intero sacrificio, non può esigere che Dio gliene offra un altro, meno gravante. Ogni missione qualitativa è indivisibile, e l'affilata parola del Signore acquista proprio qui tutta la sua acutezza: "Chi non raccoglie con me, disperde" ( Mt 12,30 ). La colpa aumenta più si comprende ciò che si rifiuta. "Il servo che conosce la volontà del suo padrone, ma non si dispone ad agire secondo il suo volere, riceverà molte percosse ( … ) A chi viene dato molto, molto viene richiesto; a chi viene affidato molto, verrà richiesto molto di più" ( Lc 12,47-48 ). I Giudei, che conoscevano la volontà di Dio ma non vollero riconoscerla, rimangono perciò la permanente immagine ammonitrice per tutti i chiamati. Nascondi Tutte le parabole che abbozzano il rifiuto di Israele terminano con la revoca della missione alle nazioni: "Perciò io vi dico: il Regno di Dio vi sarà tolto" ( Mt 21,43 ). "Pieno d'ira il rè mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città" ( Mt 22,5-7 ). "Io vi dico: Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati assaggerà la mia cena!" ( Lc 14,24 ). E affinchè diventi chiaro il nesso tra questa revoca e la possibile perdita della missione anche nel Nuovo Testamento, il Signore parla in seguito di sequela, portare la croce, lasciar tutto, e pone i chiamati davanti alla aperta esigenza: "Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo ( … ) Se il sale diventa scipito, con che cosa lo si salerà? Non serve ne per la terra ne per il concime, e così lo si butta via. Nascondi Chi ha orecchi per intendere, intenda!" ( Lc 14,33-35 ). Uno che sarebbe stato chiamato a salare il Regno di Dio e non ha voluto, non ha più nessun diritto a venir salato dal Regno. Dio si sarebbe adoperato per lui, se egli si fosse adoperato per Dio. Egli fu però il fariseo avaro, calcolatore, al quale Dio "può perdonare solo poco", poiché egli "solo poco ama" ( Lc 7,47 ). Come un feto abortito non può venir di nuovo incorporato alla madre che avrebbe dovuto portarlo, così anche una missione che ci si è giocati non può venir restituita allo spirito che rifiutò di portarla. Giacché l'attimo dell'identità tra sì divino e umano dovrebbe essere il punto centrale che da senso alla vita del chiamato, questa vita, qualora quest'attimo non si verifichi, rimane necessariamente incompiuta, desiderio vuoto, che non attende più nulla, come la vita di una ragazza piantata, il cui futuro è tutto passato. La sorte di colui che rifiuta è dominata da questa inutilità. Essa può assumere forme diverse, a seconda se il rifiuto avvenne più o meno coscientemente, se fu più o meno colpevole. Se esso stette ai confini dell'inconscio e quindi della assenza di colpa, allora la sua può diventare una vita che rimane per lui stesso inspiegabilmente incompiuta. Egli viene perseguitato da una sfortuna. Vorrebbe forse sposarsi, ma il fidanzamento fallisce; la ragazza si nega a lui, senza che egli comprenda perché. Più tardi egli ritenta, ma fallisce di nuovo. Le sue intraprese non fioriscono. Egli non ha figli, oppure gli muoiono. Non gli riesce di farsi una solida posizione come fanno gli altri e di sistemarsi senza preoccupazioni. Un'irrequietezza lo riempie, più imposta dal destino che scaturente dal suo carattere. Egli rimane uno straniero in mezzo agli uomini del mondo e si sente tale. Non gli verrà chiarito il vero senso della sua inquietudine, non verrà privato della speranza. Forse Dio avrà pietà e gli donerà pace. Poi ci sono quelli che hanno rifiutato consapevolmente. Nascondi Per essi vale la parola: "Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco a bruciare" ( Gv 15,6 ). Questo seccarsi e bruciare può avere forme diverse. Ci sono certuni che per tutta la loro vita sono in fiamme. Essi sanno e sentono giorno per giorno come la loro vera vita rimane loro sottratta, la loro esistenza scorre senza frutto e senza utilità. Essi si sforzano di apparire superiori, come stoici, filosofi che sorridono nella loro sapienza mondana, o talvolta come cinici imperterriti, ma la maschera è sottile, e attraverso le fenditure della visiera guarda lo spirito bruciante, disperato. Forse, se hanno fortuna, tutta la loro anima è in rivolta; essi avvertono sempre nuovamente la spada dell'aver perso l'occasione, cento volte avrebbero gettato i denari nel tempio, ma il loro rimorso non può far sì che l'accaduto non sia accaduto. Essi sono stati "tagliati" come esempio per tutti gli altri, affinchè questi non si insuperbiscano ma rimangano nel timore ( Rm 11,19-20 ). Che essi siano tagliati e brucino non significa che vadano definitivamente perduti: solo, essi hanno sulla terra finito di giocare. La cosa migliore che resta loro da fare è sopportare il loro bruciare come fuoco purificante e porlo in espiazione a disposizione della Chiesa e dei nuovi eletti. Se la missione che era stata loro destinata era una grande missione, ciò vuol dire che essi sarebbero stati capaci di un grande sì. Abbastanza spesso la consapevolezza di ciò diventa per essi occasione di arrogarsi un "no" della stessa dimensione. Essi pongono la loro persona al posto della loro missione e cercano, gonfiando la loro importanza, di compensare la mole della missione perduta. Dal modo in cui accentuano il proprio io li si riconosce. Essi cercano di fare scuola, di incatenare discepoli alla loro persona, la quale diventa il punto centrale di una "lega". Essi si riconoscono anche l'un l'altro da lontano e intrecciano accordi per rafforzarsi nella loro deviazione. Conservano uno spasmodico impulso ad occuparsi sempre di nuovo di ciò a cui hanno detto di no. Non possono astenersi dal ficcare il naso nei segreti della Grazia in sé e negli altri, per riversare ogni volta di nuovo su ciò la soda caustica del loro rifiuto. Sono attratti da tutte le forme contrarie e i surrogati della missione autentica. Amano ciò che è interessante, anche la sensazione religiosa, che serve loro quale surrogato della schietta grandezza della vita dedicata alla missione. Scavano nel sedimento del recipiente che hanno svuotato, anziché bervi. In essi vanno a sbattere anche quelle figure particolarmente tragiche che hanno sì assunto la loro missione e forse l'hanno adempiuta fedelmente per lungo tempo, ma che poi lentamente, impercettibilmente, si sono sfasciati, hanno deformato la chiara figura che essi finora avevano rappresentato per la Chiesa e il mondo, fino a che non solo i loro amici notano ciò, ma anche i credenti di una cerchia più ampia rimangono confusi. Non era costui un faro dal quale si poteva trarre orientamento? Ma lo è poi ancora? Quasi è da non credere che uno che sembrava impersonare qualcosa dell'infallibilità della Chiesa va a scivolare così. Il formato della loro missione, che era un puro dono di Dio, è improvvisamente apparso loro - perché non hanno più pregato con sufficiente umiltà - come il formato del loro "io", e la sicurezza quasi da sonnambulo di aver ricevuto la missione, quella sicurezza in cui Pietro camminò sulle acque, e dalla quale essi stessi si sentivano fino ad ora portati, si trasforma in una grottesca sicurezza di sé, in cui essi non si accorgono più di quali grossi granchi prendono. Se sono teologi, costruiscono una super-dogmatica, una super-chiesa e concedono magnanimemente di avere una super-fede ad ognuno che non ha più bisogno di attenersi alle ristrettezze di vedute della Chiesa che rimane sempre indietro coi tempi. L'antica fede la trovano insipida, essi hanno bisogno di cibi più piccanti, con più pepe, e alla fine sembra che non possano più vivere di nient'altro che di pepe. Ed esso li brucia interiormente del tutto e inoltre - ciò che è la cosa più triste! - annienta anche quella che era stata la fecondità della loro opera sino a ieri. Poiché essi non hanno costruito più sul fondamento di Cristo, "per questo la loro opera finisce bruciata. Nascondi Così essi subiranno dei danni: essi stessi verranno sì salvati, ma come attraverso il fuoco" ( 1 Cor 3,15 ). Infine ci sono quelli - e sono per lo più le missioni più piccole - nei quali la parola della missione non brucia, ma si putrefa, o più precisamente provoca una putrefazione dello spirito a causa del rifiuto sperimentato. La loro fede sarebbe rimasta in vita solo se si fosse coraggiosamente messa a disposizione dell'opera di Dio come un corpo nei confronti dell'anima. Infatti "come il corpo senza l'anima è morto, così anche la fede senza le opere è morta" ( Gc 2,17 ). La loro vita cristiana e personale è priva di questa anima e diventa perciò un vuoto involucro che non serve a nulla. Essi, che ritengono magari di poter esercitare al posto della missione divina una missione importante nel mondo e di avere una corrispondente efficacia come apostoli laici, vedono a poco a poco come la loro vita si secca e - cosa che per essi è la peggiore delle punizioni - tramonta nella assenza di rilevanza. Essi si adoperano all'inizio di emergere fuori dalla massa, ma l'apostolato da loro sognato viene "soffocato dalle preoccupazioni mondane, dall'ingannevole ricchezza e da tutte le altre bramosie, cosicché esso rimane senza frutto" ( Mc 4,19 ). La professione, gli affari, la famiglia li prendono talmente prigionieri che essi non hanno quasi più tempo per ciò che una volta era per loro l'istanza fondamentale. Se Dio li avesse destinati allo stato laicale, certo essi nel loro posto porterebbero quel frutto, magari nascosto ma vivo, che Dio si aspettava da loro. Così invece la loro vita è sciupata, ed essi si consumano in una critica sterile, soprattutto alla Chiesa, senza contribuire al suo miglioramento. L'essenziale "no" che essi una volta hanno pronunciato nei confronti del loro incarico rimane, anche se esso come peccato fosse confessato e rimesso. Esso rimane, come un vuoto nella loro anima, e li induce a certe colpe che altrimenti non sarebbero state commesse. Non è da escludere che l'operare dei laici cattolici spesso rimane infecondo per questa ragione, che fra i molti autentici apostoli laici se ne trovano un sacco di falsi, vale a dire di tali che non ebbero il coraggio del sacrificio totale al quale essi sarebbero stati chiamati, e la cui semina, esteriormente fatta con buone intenzioni, non viene coadiuvata da nessuna feconda pioggia di grazia, che era stata tenuta in serbo per la loro vita nella missione. Essi intasano nella Chiesa le vene del vivo circolo sanguigno e la danneggiano più di quelli che la attaccano dall'esterno. Dalla persecuzione esterna la Chiesa viene rafforzata, dal rifiuto interno essa viene invece attaccata nell'intimo della sua vitalità. Questo non toglie che il pastore d'anime ha il compito di darsi cura nella sua comunità anche di quelli che hanno detto di no. Egli deve se guidi con attenzione, e nelle fiamme in cui essi bruciano consolarli e sostenerli. Nascondi Egli deve provvedere secondo le possibilità a far sì che ciò che li "raccoglie" ( Gv 15,6 ) sia non tanto la comunione nel "no", quanto la comunanza del pentimento circa ciò che è stato sciupato, pentimento che grazie alla sovrabbondanza della Grazia in una maniera per noi invisibile può diventare malgrado tutto inizio di una nuova fecondità.