Summa Teologica - I-II

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Articolo 2 - Se agire per un fine sia una proprietà esclusiva della natura razionale

Infra, q. 12, a. 5; C. G., II, c. 23; III, cc. 2, 16, 24; De Pot., q. 1, a. 5; q. 3, a. 15; In 5 Metaph., lect. 16

Pare che agire per un fine sia una proprietà esclusiva della natura razionale.

Infatti:

1. L'uomo, che certamente agisce per un fine, non agisce mai per un fine che non conosce.

Ma vi sono molti esseri che non conoscono il fine: o perché sono del tutto privi di conoscenza, come le creature insensibili, o perché non capiscono il rapporto di finalità, come gli animali bruti.

Quindi è proprietà esclusiva della natura razionale agire per un fine.

2. Agire per un fine significa indirizzare verso tale fine la propria azione.

Ma ciò è opera della ragione.

Quindi non compete a esseri privi di ragione.

3. Il fine, come il bene, è oggetto della volontà.

Ma al dire di Aristotele [ De anima 3,9 ] « la volontà ha sede nella ragione ».

Quindi agire per un fine spetta soltanto alla natura razionale.

In contrario:

Aristotele [ Phys. 2,5 ] insegna che « non solo l'intelletto, ma anche la natura agisce per un fine ».

Dimostrazione:

È necessario che tutti gli agenti agiscano per un fine.

Infatti in una serie di cause ordinate fra loro non si può eliminare la prima causa senza eliminare anche le altre.

Ora, la prima fra tutte le cause è la causa finale.

E lo dimostra il fatto che la materia non raggiunge la forma senza la mozione della causa agente: infatti nessuna cosa può passare da se stessa dalla potenza all'atto.

Ma la causa agente non muove senza mirare al fine.

Se infatti l'agente non fosse determinato a un dato effetto non verrebbe mai a compiere una cosa piuttosto che un'altra: quindi, perché produca un dato effetto, è necessario che venga determinato a qualcosa di definito, che acquista così la ragione di fine.

Ora questa determinazione, che nell'essere razionale è dovuta all'appetito intellettivo, detto volontà, negli altri esseri viene prodotta dall'inclinazione naturale, chiamata appunto appetito naturale.

Tuttavia dobbiamo ricordare che un essere può tendere verso il fine, con la propria operazione o moto, in due modi: primo, muovendo se stesso verso il fine, come fa l'uomo; secondo, facendosi muovere da altri verso il fine, come la freccia che tende a un fine determinato perché è mossa dall'arciere, il quale ne indirizza l'operazione verso il bersaglio.

Quindi gli esseri dotati di ragione muovono se stessi al raggiungimento del fine, poiché sono padroni dei loro atti mediante il libero arbitrio, che è « una facoltà della volontà e della ragione » [ cf. a. 1 ].

Gli esseri invece privi di ragione tendono al fine in forza di un'inclinazione naturale, come sospinti da altri e non da se stessi: e ciò perché non conoscono la finalità delle cose, per cui non possono ordinare nulla verso il fine, ma vengono ordinati da altri al suo raggiungimento.

Abbiamo infatti già spiegato [ I, q. 22, a. 2, ad 4; q. 103, a. 1, ad 3 ] che tutta la natura priva di ragione si rapporta a Dio come uno strumento all'agente principale.

E così è proprio della natura razionale tendere al fine muovendo e guidando se stessa al suo raggiungimento, mentre la natura priva di ragione è come guidata da altri o verso un fine conosciuto, come nel caso degli animali bruti, o verso un fine non conosciuto, come nel caso degli esseri assolutamente privi di conoscenza.

Analisi delle obiezioni:

1. Quando l'uomo agisce direttamente per un fine certamente conosce il fine, ma quando è mosso o guidato da altri, come quando agisce sotto il comando altrui, o perché spinto da un altro, non è necessario che conosca il fine.

E così avviene per gli esseri irrazionali.

2. Ordinare o indirizzare al fine spetta a chi può muovere se stesso verso il fine.

A chi invece è portato da altri al raggiungimento del fine spetta di essere ordinato al fine da altri.

E ciò può capitare anche alla natura priva di ragione, però sotto l'azione di un essere dotato di ragione.

3. Oggetto della volontà è il fine e il bene nella sua universalità.

Per cui non ci può essere volontà negli esseri privi di ragione e di intelligenza, non avendo essi la capacità di apprendere l'universale, ma in essi esiste l'appetito naturale o sensitivo, determinato a dei beni particolari.

Ora, è evidente che le cause particolari sono mosse da quelle universali: il capo di uno stato, p. es., che mira al bene comune, muove col suo comando tutti i funzionari particolari della città.

È necessario quindi che tutti gli esseri privi di ragione siano mossi al conseguimento dei fini particolari da una volontà intelligente che ha di mira il bene universale, cioè dalla volontà divina.

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