Unione/Catechisti/Fonti/Fonti.txt Fonti Francesco Presentazione Francesco Fonti laico consacrato dell'Unione Catechisti ed ex Presidente della Casa di Carità è un personaggio chiave nella storia dell'Istituto fondato da Fr. Teodoreto Garberoglio. Nella sua doppia veste di imprenditore e cristiano militante rappresenta un punto di riferimento essenziale per chiunque voglia verificare coi fatti la praticabilità del Vangelo "integrale" nella quotidiana modernità. Tuttavia l'ampiezza e la lunghezza della sua avventura terrena, nonché la discrezione del personaggio, poco propenso a parlare di sé, ci hanno spinto ad allargare la visuale oltre la stretta fisionomia biografica, per comprendere anche le vicende della ditta Fonti che spesso e nei modi più diversi si sono intrecciate con la Casa di Carità, la massima opera sociale eretta dall'Unione Catechisti. Si tratta di notizie e frammenti di vita che vogliono essere solo lo spunto per cercare di capire come ancora oggi, nel terzo millennio, crollate le false ideologie e le illusioni di impossibili paradisi terrestri, possa essere costruita una civiltà cristiana, nonostante le chimere che i materialismi e i modernismi, più o meno dissimulati, cercano di propinare alle nuove generazioni nel tentativo di trasformarle in masse di individui senza morale, senza ideali, senza fini che non siano quelli del benessere e del piacere. La vera alternativa non è il compromesso con questa svuotante visione del mondo, bensì la via tracciata da persone che, spesso in solitudine, hanno affrontato a testa alta - senza fuggire, ma anzi vivendo in pieno quella grande tempesta che fu il XX secolo - le sfide e i disprezzi del mondo contemporaneo: tra queste figure spicca Francesco Fonti. Anni decisivi Francesco Fonti iniziò la sua avventura terrena in un momento storico molto travagliato. Al principio del XX secolo, in un clima di calma apparente, stavano maturando le premesse di catastrofi immani: il primo conflitto mondiale, la rivoluzione bolscevica, il trionfo delle ideologie totalitarie. In seguito a questi eventi, la vecchia Europa continentale, onusta di gloria e di allori, ma sfinita da secoli di conflitti sanguinari, avrebbe dovuto cedere definitivamente lo scettro agli USA, la nascente potenza americana, dove centinaia dì migliala di Italiani emigravano da tempo; gli europei, almeno fino al 1914, non ebbero alcun sentore del crollo imminente. Si era al culmine della cosiddetta Belle Epoque: l'Impero Austroungarico era ancora considerato una grande potenza; quello Russo, nonostante la sconfitta subita dal Giappone, restava saldamente nelle mani degli Zar; quello Ottomano, minato da una corruzione e da una povertà spaventose, dominava un territorio che si estendeva dai Balcani meridionali all'odierna Palestina ( nel 1912 la Libia ed il Dodecanneso saranno ceduti all'Italia ). Eppure il vecchio mondo degli Imperi di origine medievale, nel quale Stato e religione si trovavano spesso intrecciati, era alla vigilia del tramonto. Al contrario, negli stessi anni, la Chiesa, seguendo la via tracciata da Leone XIII, ma evitando accuratamente le scorciatoie moderniste, andava rinnovandosi. Iniziavano a maturare i primi seri tentativi di conciliare le nuove realtà della società industriale ( inurbamento, proletariato, nuove professioni ) col messaggio evangelico. In Italia non erano solo i cosiddetti "santi sociali" - sacerdoti come Giovanni Bosco, Leonardo Murialdo, Giuseppe Cottolengo - ad indicare la strada maestra, ma anche i mèmbri attivi ed integrati del mondo del lavoro. Il Beato Paolo Pio Perazzo, morendo ( 1911 ), lasciava ai cattolici l'ideale di un nuovo stato di vita, quello del laico consacrato, ma non riusciva a presentare in tempo le Costituzioni del suo nuovo sodalizio al Pontefice. Contemporaneamente, un ex-collaboratore del santo ferroviere. Fra Leopoldo Maria Musso, il cuoco di Terruggia entrato in convento alla bella età di 50 anni, iniziava un percorso spirituale che lo avrebbe portato ad innescare l'ideale del Crocifisso in quello della laicità consacrata. In questa temperie di crepuscoli ed aurore, di cadute e insperati rinnovamenti, il 14 novembre 1909, a Torino, la città che vide l'opera e la presenza di Perazzo e Musso ( per non parlare di altri cristiani militanti come Frassati e Gedda ), nasceva un bimbo che avrebbe incarnato una nuova figura di imprenditore e laico consacrato: Francesco Fonti. Un'infanzia serena La famiglia di Francesco era numerosa, come quelle dei bei tempi andati, e moralmente parlando era anche piuttosto "conservatrice"; apparteneva a quel "vecchio Piemonte" duro e spartano che entrava a testa alta nell'era industriale senza mai perdere di vista i valori della tradizione. Solo alle novità tecniche venivano riservate le attenzioni degli spiriti moderni e innovatori: per il resto niente "grilli per la testa", ma "andare avanti e lavorare duro". Luigi Fonti e Domenica Ferino si sposarono nel 1907 ed ebbero quattro figli: Giuseppina ( 1908 ), Francesco ( 1909 ), Giovanni ( 1911 ) e Pietro ( 1913 ). La loro era una famiglia molto riservata, perfino un po' chiusa nei confronti del vicinato, ma questa era una condizione comune a gran parte della piccola borghesia torinese. Le relazioni sociali, i rapporti interpersonali … tutto era improntato ad una rigida etichetta. Il padre di Francesco era un "self made man", come si direbbe oggi, dotato di un grande fiuto per gli affari, ma anche un piemontese di saldi principi al quale Torino, la grande città appena uscita dalla rivoluzione industriale di fine '800, appariva da un lato piena di promesse e dall'altro gravida di oscure "minacce", specie per le nuove generazioni ( massoni e positivisti da anni andavano diffondendo una cultura fortemente laicista ). La madre Domenica proveniva da Ciriè e anche lei, essendo abituata alla gente schietta di campagna, non sempre si trovava in sintonia con le abitudini della grande metropoli. I due coniugi erano molto uniti ( il marito, disegnatore e calligrafo provetto fece numerosi ritratti alla moglie, che ancora oggi colpiscono per bellezza e finezza esecutiva ), ma un destino crudele li avrebbe presto separati. Mio padre era del 1880 e mia madre del 1881: lei è morta praticamente centenaria nel 1981, mancava qualche mese al compimento del secolo. Mio padre, al contrario, è scomparso in età relativamente giovane, a 56 anni. Correva l'anno 1936. ( P. Fonti ) Nella casa di corso San Maurizio 75, vicino al Po, vivevano anche i nonni patemi; dunque in tutto si contavano ben 8 persone sotto lo stesso tetto, proprio come accadeva nelle "famiglie patriarcali" dei paesi di campagna. Giovanni Fonti, il padre di Luigi, veniva dalla Svizzera, era un abile modellatore meccanico e si era guadagnato da vivere lavorando nelle officine del Regio Esercito. La nonna Adele, colonna spirituale della famiglia, era di origine astigiana e possedeva una solida preparazione religiosa, acquisita in gioventù, quando aveva svolto la mansione di domestica presso un prete anziano. La sua forte devozione - nutriva una venerazione particolare per il Beato Cafasso - la portava quasi ogni mattina a percorrere, ovviamente a piedi, il tragitto che separava l'appartamento di Corso Maurizio ( a due passi dal Po ) dalla Consolata, dove prendeva Messa chiedendo a Dio di proteggere i cari congiunti, ma in particolare il figlio Luigi sul quale gravava la responsabilità di mantenere l'intera famiglia. . L'atteggiamento di forte riservatezza rispetto alla città, era compensato dall'intesa affettiva: i rapporti tra i genitori ed i nonni patemi erano pervasi da un grande calore umano che veniva alimentato dal fervore religioso. Fu la nonna ad insegnare ai nipoti a pregare; tuttavia non era la sola a coltivare la fede. Secondo quanto la madre avrebbe più tardi riferito ai figli. Luigi Fonti, nei primi anni del fidanzamento, vedendo la futura moglie accostarsi con regolarità alla comunione domenicale la elogiava con queste parole: "Brava, fai bene … più vogliamo bene al Signore e più ci vorremo bene fra di noi". In quel tempo, essendoci molti più scrupoli di oggi, la Comunione non era praticata con grande frequenza. Chi si accostava al Sacramento in modo assiduo, non poteva che provenire da un ambiente moralmente sano. I valori che si respiravano in famiglia erano genuini, spontanei, privi di qualsiasi innaturale forzatura, anche se esteriormente si palesavano con atteggiamenti di prudenza perfino eccessiva nei confronti dei bambini che avvicinavano i fratelli Fonti. In questo clima i ragazzi pativano un certo isolamento dai loro coetanei, eppure vivevano un'infanzia assolutamente serena proprio perché in casa regnava l'autentico amore cristiano. Una situazione opposta a quella di certe famiglie moderne, dalle quali i ragazzi si allontanano per cercare nel "branco" o nella "banda", la comprensione e l'affetto che litigi, separazioni e divorzi sottraggono alla famiglia d'origine. Noi potevamo osservare i ragazzi, fuori, nel cortile, giocare e ridere in compagnia, ma i nostri genitori non ci permettevano di condividere la loro amicizia. Però stavamo bene, proprio perché l'ambiente domestico era molto accogliente. I "quattro scoiattoli" allevati nell'alloggio di corso S. Maurizio si aiutavano a vicenda: in particolare si era creato una specie di "tandem" Giuseppina-Francesco. Tra loro due e 'era solo un anno di differenza, ma com'è noto, nell'infanzia, le bambine maturano prima e Giuseppina divenne, in un certo senso, la confidente di Francesco. Io invece andavo molto d'accordo con Giovanni e, malgrado la differenza d'età, quando la gente ci vedeva camminare insieme, ci scambiava per gemelli. ( P. Fonti ) Mamma Domenica, tuttavia, covava in cuore un grave cruccio: la salute di Francesco. Il bambino, infatti, a differenza di Pietro e Giovanni pieni di forza e vitalità, cresceva gracile, pallido e magro. Inoltre parlava assai di rado, rasentando il mutismo. Anche in questa circostanza più della psicologia poté l'affetto. La sorella Giuseppina, dotata fin dalla più tenera età di un raro equilibrio interiore, aveva intuito la natura del problema ( come solo fratelli e sorelle possono fare ), instaurando con Francesco un saldo legame affettivo che durerà tutta la vita e permetterà al bimbo di uscire con successo dal dedalo delle sue paure. Il padre, un imprenditore coraggioso: le origini dell'azienda familiare Fare la storia della ditta Fonti significa abbozzare, in scala minore, la grande epopea dei piccoli imprenditori piemontesi che, tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, passo dopo passo, costruirono il più grande polmone industriale d'Italia. Ma è una storia esemplare anche per capire come questa imprenditoria avesse spesso e volentieri delle solidissime radici nella fede cristiana. L'abbiamo detto in altre sedi e lo ripetiamo: cosa rese forti, costanti e virtuosi questi piccoli e coraggiosissimi pionieri dell'industria, sempre esposti a rischi e debiti di ogni sorta, se non un ambiente familiare sorretto da una gagliarda fede nell'aiuto della Provvidenza? L'idea di fondare una ditta a conduzione familiare risale al nonno Giovanni, uomo energico e risoluto, che spinse il figlio Luigi a tralasciare il lavoro dipendente per concentrarsi sulla libera impresa. Giovanni Fonti aveva acquisito una discreta preparazione professionale frequentando la Scuola d'Artiglieria di Torino ( il nipote Pietro Fonti lo deduce dall'intestazione dell'album sul quale, intorno al 1880, il nonno era solito tracciare i bozzetti a china per la soluzione dei "problemi grafici di geometria" ), per poi lavorare nell'Arsenale di Borgo Dora, in quello di San Carlo Canavese ( poligono di tiro per cannoni ), nelle officine del campo militare di Lombardore: la sua specialità, poi trasmessa al figlio, erano i modelli di fusione realizzati in legno, che servivano appunto per costruire gli stampi in cui versare il metallo fuso. Avevo solo 11 anni quando è morto mio nonno ( 1924 ), ma ero già in grado di capire che nei lunghi decenni di lavoro trascorsi come modellatore meccanico, aveva dovuto sopportare non pochi dispiaceri. Questo fatto lo stimolava fortemente ad avviare il figlio verso quella carriera da libero imprenditore che per sé aveva solo potuto sognare. ( P. Fonti ) Anche altri fattori incideranno sulla maturazione di Luigi Fonti. Il giovane, dopo aver frequentato l'Istituto Commerciale "Valperga di Caluso", aveva iniziato la sua carriera professionale come apprendista in una segheria di Ciriè. Poi, per un certo periodo, aveva lavorato come cameriere e scrivano al servizio di Luigi Cantù, un ricco e affermato notaio che divideva il suo tempo tra la villa di San Carlo Canavese e l'appartamento-studio di Piazza Solferino, a Torino. Nel 1899 Cantù si era fatto un nome stilando l'atto di fondazione della Fabbrica Italiana Automobìli Torino ( FIAT ), che sarebbe presto divenuta la principale industria nazionale. Questo la dice lunga sui contatti che questo signore poteva vantare negli ambienti della grande impresa; è ovvio che Luigi Fonti, un artigiano privo di titoli altisonanti, ma pure dotato di una grande abilità manuale e di un certo spirito d'avventura, non potesse restare indifferente all'atmosfera da "capitani d'industria" che sì respirava nei salotti della "Torino bene". Forse fu proprio allora che concepì l'idea di creare un'azienda tutta sua. Mio padre non recepiva alcuno stipendio da Cantù, ma aveva il vitto assicurato. Inoltre gli veniva offerta l'occasione di assimilare molte notizie su codici e leggi, confrontandosi con un mondo signorile e benestante, a lui assolutamente sconosciuto. Presenziava a cene "importanti", incontrava le persone che frequentavano l'ufficio del notaio e così si apriva a nuove prospettive di lavoro. ( P. Fonti ) In seguito, il giovane si fece un buon nome nel campo dei "modelli in legno", tanto che arrivarono ad offrirgli un posto nell'azienda oggi nota come "Alenia", che già allora sorgeva in Corso Marche. I dirigenti cercavano una figura professionale piuttosto qualificata, poiché incontravano molte difficoltà a trovare il personale ( competente anche nel disegno ) necessario alla realizzazione delle eliche richieste dalla neonata aviazione. Chiunque, al suo posto, avrebbe accettato quella proposta di lavoro, considerando anche il fatto che lo stipendio dei dipendenti di Corso Marche era per i tempi ( 1907, circa ) davvero molto alto. Luigi Fonti, al contrario, rifiutò l'invito: aveva deciso, con grande determinazione, di fondare un'azienda familiare e non voleva desistere dall'obiettivo. Di lì a poco, insieme ad un socio di nome Perette, aprì un laboratorio per la costruzione di barche presso i "Murazzi". Il colloquio di lavoro avuto con i responsabili delle Officine Aviazione di Corso Marche ( oggi Alenia ), gli aveva dato la misura delle sue capacità. In quell'occasione rinunciò ad uno stipendio molto sostanzioso, proprio perché vedeva il futuro dei suoi figli legato a quella piccola impresa che aveva in animo di creare con le sue sole forze. Mio padre aveva l'istinto dell'imprenditore ed una grande forza di volontà, ma non possedeva alle spalle alcuna sicurezza economica: perciò cominciò col mettersi in società con questo signor Peretta. Conservo ancora da qualche parte le carte intestate a suo nome. Mio nonno, da parte sua, insisteva sulla convenienza di una ditta a conduzione familiare e, d'accordo con nonna Adele, spronava mio padre a superare i momenti di crisi. Dopo la chiusura del laboratorio dei Murazzi, Peretta si ritirò dagli affari, ma mio padre non si diede per vinto. ( P. Fonti ) Il primo tentativo fallì per la cronica mancanza di clienti; evidentemente già allora il trasporto su fiume, a differenza di quanto succedeva in Germania, non riscuoteva grande successo; ma Luigi Fonti non era certo persona da scoraggiarsi tanto facilmente. Cosi, lasciato il socio, affittò in via Barolo 20 un negozio che ospitava nel retrobottega una modesta officina artigianale. Luigi Fonti la trasformò nel "Laboratorio Elettrico per lavori in legno di qualsiasi genere" ed il 5 giugno 1911 fondò una ditta intestata a suo nome. Il figlio Pietro conserva ancora un biglietto da visita dell'epoca, scritto con gli inconfondibili caratteri liberty del primo '900, che riporta le seguenti diciture: "Modelli per fonderie, Lavori al tornio, Celle ed Armadi frigoriferi, Stipetteria, Disegni e Preventivi a richiesta". Come si vede, in cima alla lista dei prodotti, appaiono quei modelli per fonderie che sicuramente avevano costituito l'oggetto principale della professione praticata dal nonno Giovanni. La tradizione artigianale di famiglia proseguiva arricchendosi di nuove competenze. Luigi Fonti non poteva investire grandi capitali nella tecnologia, eppure anche lì, nella sua piccola bottega, era all'avanguardia, in quanto disponeva di un motore elettrico. Dunque, oltre ai "banchi" da lavoro, poteva permettersi anche le "macchine", cosa per nulla scontata in quegli anni. Quando mio nonno mi accompagnava nel laboratorio, mi mostrava con orgoglio questo motore e io, che ero solo un "pulcino" di tre anni, restavo incantato a guardare le "stelline", cioè le scintille rilasciate dal circuito a corrente continua, la prima forma di alimentazione elettrica. Il motore a corrente alternata di Galileo Ferraris era già stato messo a punto, ma la sua diffusione era appena agli inizi. Certo, i nostri erano motori d'occasione importati dall'estero - poiché mio padre, che non era un magnate, doveva limitare le spese - però denotavano lo sforzo di pensare "avanti" e zona Valdocco ( un'area ancora poco edificata, ma disseminata di orti e poderi ) dove costruì un edificio a due piani comprendente, tra le altre cose, la nuova casa ( piano superiore ), l'officina ( piano inferiore ) e la tettoia per ospitare il legname. C'era anche un vasto cortile, parte del quale fungeva da orto. Dal 1925 al 1950 la famiglia Fonti venne a risiedere nel nuovo complesso, situato in via Pesaro 20. In questi stessi anni la ditta Fonti cominciò a rinnovare radicalmente la sua produzione, accostandosi ad un "segmento di mercato" ancora inesplorato: l'attrezzatura ginnica. Il campo dell'educazione fisica in Italia era poco battuto: quella di mio padre assomigliava molto ad una scommessa. All'epoca frequentavo la seconda elementare e spesso lo sorprendevo mentre esaminava dei grossi volumi e mi chiedevo: "ma cosa fa? Alla sua età si rimette a studiare? ". In verità, cercava lumi per un 'attività che affrontava da pioniere. In tutta Torino c'erano appena due professori di ginnastica, gli altri istruttori erano dei dilettanti; per definire modelli e dimensioni degli attrezzi bisognava rivolgersi all'estero. Così dalla Svizzera fece pervenire alcuni testi utili alla bisogna, mentre da New York, grazie alla mediazione del fratello sacerdote che assisteva gli emigranti in viaggio per le Americhe,1 ottenne il catalogo di una grossa fabbrica di attrezzi ginnici. ( P. Fonti ) Negli anni trenta pertiche, cavalli ed assi d'equilibrio cominciarono ad essere rafforzati con staffe e supporti in metallo. Ciò richiese, accanto all'officina meccanica ( tornio, trapano ecc. ) posta sotto l'appartamento, la costruzione, nel cortile, di una nuova ala per la lavorazione dei metalli ( 1° piano ) e per la verniciatura ( 2° piano ). A questa si aggiunse un montacarichi per portare il materiale al 2° piano, dove si verniciavano gli attrezzi. Fu anche edificata una piccola rimessa che ospitava il trasformatore, mentre la fonderia ( per bronzo e alluminio ) venne allestita nell'area del vecchio orto. In genere si forgiavano solo pezzi sussidiari, quali mensole e staffe in bronzo. I forni erano due: uno per fucinare ( scaldare il pezzo per modellarlo col martello ), l'altro per fondere ( sciogliere il metallo per versarlo negli stampi ). Luigi Fonti aveva una concezione autarchica della produzione: voleva evitare le commesse a fornitori esterni per concentrare tutto il ciclo della lavorazione in loco. I tempi sono cambiati: basti pensare che oggi la ditta Fonti svolge appena un decimo del vecchio processo di lavorazione, il resto è commissionato a terzi. Gli anni della scuola Tutti e quattro i fratelli frequentarono regolarmente i sei anni di scuola elementare pubblica, prima presso la "Ferrante Aporti" e quindi alla "Fontana" ( sesto anno ). Poi, Giuseppina venne iscritta ai corsi economia domestica tenuti nell'Istituto delle Rosine; queste educatrici non hanno i voti, sono una comunità particolare di laiche impegnate nei servizi sociali. La bambina incarnava bene le qualità migliori ereditate dalla mamma e dalla nonna: discrezione, serenità, forza interiore. Diversamente, almeno in questo periodo, Francesco era fortemente limitato da una condizione fisica non brillante che lo spingeva a stare in disparte, quasi volesse nascondere la sua presenza. La sorella, come accennato, svolse un ruolo essenziale nell'aiutare il bambino a superare questo periodo di isolamento. In seguito, i tre maschietti furono iscritti all'Istituto Romi, diretto dai Fratelli delle Scuole Cristiane in via delle Resine. In quel tempo il direttore della scuola rispondeva al nome di Fratel Teodoreto Garberoglio, ma le attenzioni del religioso, che già andava selezionando alcuni alunni da avvicinare all'Unione Catechisti non si erano ancora appuntate sui tre fratellini che tanto incideranno sulle opere dell'Unione. La scuola Romi era articolata in questo modo: c'era una sezione professionale-industriale ( corsi serali di 5 anni ) e una sezione commerciale ( corsi serali di 4 anni ). Luigi Fonti, in casa, era l'unico a lavorare, e non poteva permettersi di mantenere agli studi ginnasiali tre figli maschi. Questi avrebbero dovuto aiutarlo in fabbrica nel più breve tempo possibile. Non potendo farli studiare di giorno, aveva pensato di iscriverli all'Istituto tecnico-industriale di Corso Regina, oggi noto come "Avogadro", che aveva avviato dei corsi serali. Così, non appena Francesco ebbe terminato le elementari, Luigi Fonti si recò personalmente negli uffici della scuola per firmare le pratiche, ma, con sua grande sorpresa, il direttore gli comunicò che le classi erano ormai al completo. Quel giorno è tornato a casa piuttosto alterato: "Com'è possibile che una scuola così grande, non abbia neanche più un posto disponibile ?!". Fu così costretto a ripiegare sui Fratelli delle Scuole Cristiane. I corsi professionali della ROMI ricalcavano quelli diurni della Casa di Carità, che comparivano proprio in quegli anni ( 1920-21 ). Sennonché i primi erano "inferiori" per qualità ai secondi, dove lavoravano anche insegnanti provenienti degli Istituti tecnici superiori. Anche i nostri corsi prevedevano l'insegnamento delle materie fondamentali: tecnologia, meccanica, disegno, geometria, matematica, algebra … però rispetto ad altri corsi analoghi era fortemente presente la religione. Tutte le sere, dalle 20.30 alle 21.00, veniva insegnato il catechismo: il resto delle materie era distribuito tra le 21.00 e le 22.30. Prima della nascita della Casa di Carità i corsi per operai specializzati erano molto rari: la "San Carlo" istruiva idraulici, decoratori, tappezzieri ecc., ma solo la Romi aveva un indirizzo spiccatamente industriale. I docenti a nostra disposizione, nonostante i tempi ristretti, erano di buona qualità. Un mio insegnante, Gribaudi, che allora era solo uno studente universitario, sarebbe presto diventato Preside della facoltà di Magistero. Passò alla Romi anche il futuro sindaco di Torino, Anselmetti. Figure, insomma, piuttosto eminenti che lavorarono molto bene. ( P. Fonti ) La cosa davvero insolita, per i tempi, era questa: l'insegnante di religione era quasi sempre un docente di materie tecniche che, nella mezz'ora a disposizione, spiegava il Catechismo di San Pio X, basato su una serie di quesiti e risposte che per la chiarezza e la concisione si confaceva ad un insegnamento veloce e mnemonico ( come usava in quel tempo ). Dapprima c'era la spiegazione del paragrafo ( quesito e risposta ) e poi l'invito ad impararlo a memoria. In cinque anni gli alunni memorizzavano tutte le parti essenziali del Catechismo Romano. Certo questi docenti "profani" erano assistiti da un cappellano ( che seguiva gli allievi nell'ultimo anno ) e da un Fratello delle Scuole Cristiane, tuttavia l'attitudine all'insegnamento catechistico di questi tecnici lasciò negli alunni un'ottima impressione, ovvero l'idea che fede e tecnica fossero facilmente conciliabili. La strada intrapresa dai fratelli Fonti era molto originale: essi si trovavano a metà tra la condizione dell'operaio ( comune a molti loro compagni di corso ) e quella dell'imprenditore ( questo era lo status sociale che Luigi Fonti si prefiggeva di trasmettere ai figli ). Può sembrare strano, ma nei primi anni '20 le scuole di disegno meccanico per operai specializzati erano davvero un fatto singolare: le sezioni, le tolleranze, le quote erano cose misteriose per la maggiorparte della manodapera industriale. Invece, mio padre, volendo affidarci al più presto la conduzione della fabbrichetta di famiglia, non aveva esitato ad indirizzarci a quel genere di formazione, senza perdere di vista l'apprendistato manuale. ( P. Fonti ) Francesco, terminato in modo brillante il corso industriale, frequentò anche i tre anni del corso commerciale. Stessa sorte toccherà ai fratelli Pietro e Giovanni. Italiano, Francese, Ragioneria, Contabilità erano le materie principali. Al momento dell'iscrizione, a tutti e tre venne scontato il primo anno ( sui quattro previsti ), proprio perché provenivano dal corso industriale. Studiavano "in cordata", dopo uno arrivava l'altro e la cosa non dispiaceva affatto agli insegnanti che sapevano di poter contare sulla qualità del "marchio Fonti". Francesco diede ottima prova di sé al corso commerciale che probabilmente rispondeva meglio alle sue reali attitudini lavorative; inoltre, in quel periodo, superò completamente quella specie di debolezza psicologica che aveva caratterizzato la sua infanzia. Certo, continuava ad avere un fisico piuttosto gracile, ma per tutto il resto si era completamente liberato da quelle ritrosie che potevano farlo apparire eccessivamente introverso. Mentre i due fratelli maggiori affrontarono 8 anni anni di studio ( cinque + tre ), a Pietro ne toccarono solo sette ( cinque + due ), perché venne richiamato per il servizio militare. In seguito, su pressione di Carlo Tessitore, Presidente dell'Unione Catechisti, alcuni membri consacrati ripresero la scuola per conseguire titoli di studio superiori: i fratelli Fonti erano tra questi, ma solo Pietro approdò all'Università, laureandosi presso la facoltà di Magistero. Per risparmiare sulle spese vennero assunti degli insegnanti-sacerdoti e organizzate delle lezioni private estese ad un gruppo di sei/sette persone circa. Francesco Fonti studiava anche a Pinerolo, dove si diplomò geometra frequentando i corsi dell'Istituto Tecnico Statale "M. Buniva". Da allora prese l'abitudine di visitare, con una certa assiduità, il vicino santuario di San Maurizio. Un duro apprendistato Luigi Fonti pretendeva che i figli si avvicinassero alle responsabilità dell'azienda familiare dopo un'adeguata "gavetta" in officina. Non ci vedeva bene nel ruolo di operai dipendenti, così come non pensava che i nostri studi sarebbero stati tali da permetterci di sfondare in qualche libera professione. Questo spiega l'apprendistato ed i corsi serali alla Romi: aldilà della fabbrichetta suddetta, non e 'erano altre prospettive per noi. ( P. Fonti ) Così, al compimento del dodicesimo anno d'età, impose a ciascuno dei tre pargoli un anno di "bassa manovalanza": dovevano trasportare il legname di scarto, aiutare il segantino alla macchina ecc. L'operaio addetto alla sega a nastro aveva ovviamente il compito di tagliare le tavole, ma da queste, a motivo della lunghezza, sporgeva una "coda" che andava trattenuta e spostata a seconda delle esigenze. In ciò consisteva il mestiere del "tirapiedi" che, posto alle spalle dell'operaio, a seconda dei segni fatti con la mano dal medesimo, direzionava ora a destra ora sinistra la tavola: quando si era arrivati a metà del taglio, l'aiutante passava dalla parte opposta a ricevere la sezione già lavorata. I giovani d'oggi non possono capire, ma allora certi lavori erano davvero faticosi. Fu un anno di apprendistato molto duro: tuttavia questi operai, con cui fummo messi a stretto contatto, non erano così grossolani come si potrebbe credere. Ci sono certi impiegati assai più intrattabili. Ogni tanto, nelle pause di lavoro, ci mandavano a comprare i sigari o il prosciutto. Essendo una ditta a conduzione familiare non si facevano tante questioni. Dopo il periodo da "tirapiedi" passammo direttamente a manovrare la sega a nastro. ( P. Fonti ) Curiosamente Francesco, dopo l'apprendistato, fu assegnato alla profilatrice, il macchinario più pericoloso, quello che, nell'ambito della carpenteria, contava il maggior numero di feriti sul lavoro. Poi, le leggi sull'infortunistica disciplinarono l'utilizzo di questo genere di attrezzature, ma allora non si badava ancora alla sicurezza e alle protezioni. Si trattava di un albero meccanico che usciva dal piano di lavoro roteando a 3000 giri: ad esso era fissata una lama. Adattando il pezzo di legno, questa lama poteva sagomare cornici e profili di vario genere. Francesco dette ottima prova di sé e non riportò alcun danno: era sempre molto concentrato sul lavoro. Di lì a poco, la produzione del laboratorio passò dalla semplice falegnameria alla carpenteria metallica, in quanto molti attrezzi ginnici andavano acquisendo alcune parti in metallo ( gambe, sostegni, telai in alluminio o bronzo ) e le competenze dei giovani eredi furono adattate di conseguenza. Ma Luigi Fonti già intravedeva nel secondogenito una particolare attitudine al "comando". Perciò Francesco abbandonò l'apprendistato in fabbrica proprio mentre avveniva il passaggio alla carpenteria metallica e quindi non condivise con Pietro e Giovanni questa nuova esperienza di lavoro. Delle faccende metallurgiche ci occupavamo io e Giovanni, Francesco badava ai clienti. Il nostro era un lavoro massacrante: dopo 4 ore di fonderia uscivamo dall'officina distrutti dalla fatica e dalle vampate di calore provenienti sia dai forni che dalle "conchiglie", gli stampi nei quali veniva versato il bronzo. Questo, a differenza dell'alluminio che fonde a soli 600 gradi, creava grandi difficoltà, considerati i circa 1000 gradi richiesti per la fusione. Francesco aveva ormai abbandonato i lavori manuali, pur essendo molto versato in alcuni settori tecnici: tutta la parte elettrotecnica del nuovo laboratorio, infatti, l'aveva seguita lui. ( P. Fonti ) Mentre i due fratelli minori venivano "iniziati" ai segreti della saldatura, della fusione ecc., Francesco cominciò ad essere edotto nella parte amministrativa e a trattare coi direttori di banca. Questo fu un bene, perché quando il padre morì nel '36, la responsabilità finanziaria dell'azienda ricadde sulle sue spalle. Per dare un'idea dell'educazione al lavoro impartita dal capofamiglia, bisogna tenere a mente che i fratelli Fonti, nella settimana lavorativa ( che allora comprendeva anche il sabato ), univano all'apprendistato diurno i corsi serali seguiti alla Romi. La fabbrica e la scuola occupavano quasi interamente le loro giornate. Il "gioco", quando c'era, era basato su esperimenti di chimica ed elettrotecnica che papa Luigi favoriva in ogni modo: Giovanni, il "genio" della famiglia, possedeva un piccolo laboratorio chimico dove praticava la alluminotermia e l'arte saponaria, Francesco armeggiava con radio e trasmittenti, Pietro con le pile di Grenet ed i trasformatori Tesla. Il materiale scartato dagli operai veniva riciclato per costruire trampoli e monopanini. In quest'ottica, anche i momenti di svago assumevano una valenza formativa, quasi che il padre, prevedendo i grossi pesi che presto sarebbero gravati sui tre giovani, volesse in qualche modo "indurirli" nel carattere. Ciò non toglie che, a costo di grandi sacrifici, egli esigesse per i figli uno "stile" ed un'eleganza in linea con quel mondo imprenditoriale di cui avrebbero dovuto far parte. Per certe cose non badava a spese. Basti pensare che nel 1927, durante la costruzione del transatlantico Rex, ci portò a visitare i cantieri navali e volendo "dare un tono " alla cosa, affittò una berlina con tanto di autista per gli spostamenti tra Genova e Sestri Levante. Non fu un viaggio di piacere, ma d'istruzione: abbiamo avuto modo di osservare da vicino le maestranze al lavoro. Nonostante l'incipiente crisi del '29, mio padre teneva moltissimo al nostro modo di presentarci in pubblico e perciò, congedato uno zio di Ciriè che per anni ci aveva confezionato degli abiti piuttosto modesti, decise di affidarsi ad una sartoria di Piazza Castello. Questa ci confezionava un abito a testa ogni due anni: erano di ottima fattura. ( P. Fonti ) Il passaggio delle consegne Gli anni '35-'36 furono molto difficili sia dal punto di vista economico ( l'Italia era soggetta alle sanzioni ), sia dal punto di vista familiare. In quel periodo Pietro era stato richiamato per il servizio militare, a seguito della guerra d'Etiopia, anche se poi, fortunatamente, non era stato imbarcato. Il padre Luigi, intanto, veniva colpito da un tumore alla ghiandola surrenale e si vedeva costretto a diminuire drasticamente i suoi impegni di lavoro: un medico di rara competenza, conoscente della famiglia, gli aveva diagnosticato con certezza l'esito infausto del male dandogli non più di 8 mesi di vita. I figli erano stati messi sull'avviso per tempo. In quei mesi drammatici, Luigi Fonti abituò il figlio Francesco a trattare con le banche, anche perché, ormai, si sentiva completamente inabile a svolgere tale mansione. Quando, nel 1936, a soli 56 anni, il capofamiglia venne a mancare, i Fonti non ebbero alternative: uno dei tre fratelli doveva prendere il posto del padre e dimostrare di esserne il degno successore. In questa situazione, per molti aspetti drammatica e concitata ( il grave lutto, la guerra, la crisi economica, il richiamo di Pietro ) Francesco Fonti, compiuti i 27 anni, iniziò la sua carriera di imprenditore. Con grande soddisfazione di dipendenti e familiari, il giovane neo-titolare rivelò una buona predisposizione per le questioni amministrative, denotando uno stile e una abilità "diplomatica", nel trattare con le autorità e i creditori, che Giovanni, dotato di un carattere più "geniale" e operativo, possedeva in minor misura. Anche in questa fase critica la sorella Giuseppina fece sentire la sua presenza rassicurante, assumendo la responsabilità delle lettere commerciali e della contabilità corrente, proprio per dare modo al fratello di agire con più speditezza. Francesco, dal '36 al secondo dopoguerra, affrontò 15 anni di magra ( dovuti all'autarchia, all'economia di guerra, alla distruzione delle infrastrutture ), caratterizzati spesso da debiti e da spese impreviste; in tutti questi frangenti, la solidità del suo carattere - che pure, nell'infanzia, sembrava tanto fragile - fu tale da garantirgli la stima e la considerazione delle persone "che contavano": ma il segreto di questo successo risiedeva anche altrove. Mio fratello ha avuto la fortuna di incontrare ed assumere degli uomini molto validi - sia sul piano umano che su quello professionale - che l'avrebbero accompagnato e validamente sostenuto per tutta l'esistenza. Sono arrivati in ditta quando avevano dodici, tredici anni e frequentavano ancora l'oratorio, ma si sono congedati solo al momento della pensione, dopo almeno 40 anni di onorata professione. Hanno attraversato tutte le fasi del lavoro: sono stati apprendisti, operai, impiegati, dirigenti. Uno di questi è Giovanni Obialero, subentrato in qualità di titolare dopo il tentativo, poco felice, di trasformare la ditta in una cooperativa ( cosa assai difficile da attuare con operai abituati allo stipendio sicuro, perché c'era da rischiare di tasca propria ); Obialero ha iniziato come apprendista, appena terminata la scuola media, poi è diventato capo dell'officina meccanica. Nel secondo dopoguerra entrarono in azienda molti "giovanissimi" che nel volgere di qualche anno diventarono capireparto ( si tenga presente che allora la scuola dell'obbligo terminava con la quinta elementare ). Fu anche il caso di Bruno Malan, capo dei verniciatori, e di Amilcare Ostellino per la falegnameria. Aldo Gravino, l'addetto alle spedizioni, è stato assunto all'età di 12 anni. ( Pietro Fonti ) Gli eventi del 1936, avendo portato Francesco ai vertici dell'azienda, spinsero anche gli altri due fratelli ad assumere nuovi ruoli direttivi. Giovanni si occupò dell'innovazione meccanica ( inventava e brevettava nuovi macchinari e procedimenti tecnici ) e dei rapporti con la clientela, quindi cominciò a viaggiare molto. Pietro Fonti, invece, ultimato il servizio militare, prese in consegna la gestione del personale d'officina. Con il resto della famiglia c'era un rapporto di contiguità: abitando nell'appartamento sovrastante, la sorella Giuseppina e la madre scendevano spesso in ditta, non se ne stavano in disparte. Durante il secondo conflitto mondiale la ditta Fonti arrivò a contare 60 dipendenti ( una cosa incredibile per dei locali di appena 500 metri quadrati ), a causa di una commessa di guerra ottenuta dall'aviazione militare. Bisognava costruire 240 cassoni da trasporto per il motore Alfa Romeo di un nuovo aereo da ricognizione ( probabilmente l'idrovolante Cant. Z 506 B "Airone" dotato di un motore Alfa Romeo 126 R. C. 30 ). Erano cassoni enormi: lunghi tre metri e alti un metro e venti, contenenti all'interno un telaio in legno fatto apposta per accogliere le varie parti del motore. Una cosa concepita in maniera geniale per ridurre al minimo l'uso del metallo che in Italia scarseggiava. Questi enormi "scatoloni" venivano poi caricati sul treno diretto a Castellamare di Stabia ( uno per ciascun vagone! ): destinazione gli stabilimenti Avio. Quella commessa è stata davvero un'avventura al limite delle nostre possibilità: abbiamo saldato, fucinato, fatto di tutto. Lavoravamo giorno e notte. Ha qualcosa di prodigioso l'essere riusciti a soddisfare nei tempi previsti questa "fornitura sussidiaria", come si chiamava allora, dell'Aeronautica. I problemi, infatti, non mancavano. L'improvviso aumento degli ingombri ci costrinse ad affittare nuovi locali per immagazzinare il materiale necessario alla lavorazione: tra affitto, tempi di trasporto e inconvenienti di vario genere questo magazzino improvvisato fu un vero strazio sia sotto il profilo economico, che in ordine ai disagi procurati dalla sua lontananza. ( P. Fonti ) Dopo gli anni eroici della guerra, la situazione economica finalmente si sbloccò quando la famiglia Fonti decise il trasferimento della ditta nella nuova sede di via Lorenzini. Tutti i parziali ampliamenti eseguiti in via Pesare si erano rivelati dispendiosi e poco funzionali. Una cosa banale come l'uso del montacarichi per portare gli attrezzi nel reparto di verniciatura, dava già l'idea delle ristrettezze in cui si era obbligati a lavorare. Probabilmente la maggiore ampiezza dei nuovi locali e la più agile organizzazione logistica permisero di gestire al meglio l'azienda che, grazie alle nuove commesse della ricostruzione, giungerà a contare fino a 80 dipendenti. Mio fratello, nelle foto giovanili, appare molto esile, quasi insignificante. Eppure, alla morte di papa, diede prova di energia e coraggio davvero notevoli. Lo stesso coraggio che, vinte le iniziali perplessità, seppe dimostrare quando decidemmo di trasferire la sede dell'azienda in via Lorenzini. In breve siamo passati da 500 a 5000 metri quadrati e non è cosa da poco. Nel dopoguerra, come molti, eravamo praticamente senza soldi, nondimeno il trasferimento è avvenuto proprio negli anni 1949-50. ( P. Fonti ) Dopo la morte del padre, il giovane Francesco, per più di cinquant'anni ( 1936-1991 ) affrontò e superò con un'olimpica serenità tempeste e crisi di ogni genere. Anche quando venne il momento di cedere l'azienda a Giovanni Obialero ( 1991 ), suo ex dipendente e fidatissimo consigliere, non mostrò mai segni di contrarietà: il commercialista che seguiva le transazioni diceva: "questi non bisticciano mai!". Le origini di questo equilibrio interiore affondano nell'educazione spirituale ricevuta da Fratel Teodoreto Garberoglio, fondatore dell'Unione Catechisti. L'intervento di Fr. Teodoreto e l'ingresso nell'Unione Catechisti Francesco conobbe personalmente Fr. Teodoreto già prima di assumere la guida dell'azienda paterna. Un primo approccio indiretto si era avuto nel 1922, quando il giovane iniziò a frequentare le scuole Romi, allora dirette, come accennato, dal religioso di Vinchio. La conoscenza reciproca, però, si ebbe solo successivamente, in ambito extrascolastico, quando il futuro imprenditore attraversò uno dei momenti più decisivi della sua maturazione umana. A metà degli anni '20, Francesco aveva manifestato l'intenzione di impegnarsi seriamente in qualche settore dell'apostolato cristiano: pensava probabilmente di entrare nei ranghi dell'Azione Cattolica che, in quel periodo, poco prima della firma dei Patti Lateranensi, mostrava segni di grande vitalità, ma allo stesso tempo subiva la dura concorrenza delle organizzazioni giovanili fasciste. In quel momento, l'allievo della Romi non aveva le idee chiare sul futuro. Sentiva l'attrazione per l'ideale religioso, ma non sapeva come conciliarlo col lavoro; forse aveva maturato il proposito di lasciare l'azienda. Era ad un bivio cruciale ( 1926 ). Fu allora che mia sorella, sua devota e apprezzata confidente, gli disse: "parlane con Fr. Teodoreto". La cosa fu testimoniata pubblicamente da Francesco in occasione dei suoi sessantenni di permanenza nell'Unione e conferma la profonda intesa spirituale che intercorreva tra lui e Giuseppina. È da notare che mia sorella aveva una conoscenza indiretta e superficiale del religioso. Eppure anche lei era rimasta colpita dal suo particolare carisma, dalla sua profonda "sapienza". ( P. Fonti ) Anche il percorso spirituale del fratello Pietro condizionò non poco le scelte di Francesco. Ad un certo punto, dopo il trasferimento in via Pesaro, Luigi Fonti chiamò un anziano salesiano coll'intento di far uscire i figli dal guscio domestico. Il sacerdote - molto avanzato nell'età, aveva circa 80 anni - appuntò le sue attenzioni sul giovane Pietro portandolo con sé a servir messa. Da quel momento il ragazzo prese l'abitudine di accostarsi alla Comunione tutti i giorni. Da cosa nacque cosa. Nel 1928, Pietro folgorò i genitori annunciando loro l'intenzione di entrare in Seminario. La novità suscitò nel padre un "grandissimo sgomento", ma un effetto analogo lo sortì anche nei fratelli, visto che erano tutti e quattro molto legati; ovviamente le apprensioni dei familiari non erano dovute alla natura della vocazione sacerdotale, ma all'eventuale separazione dal caro congiunto. Nello stesso anno, provvidenzialmente, si verificò l'incontro risolutore con Fratel Teodoreto che prospettò a Pietro l'ideale di Fra Leopoldo. Non ricordo bene i termini dell'incontro "decisivo "per il mio ingresso nell'Unione. So solo una cosa: ricevetti da subito un'impressione formidabile sul Crocifisso. Questa mia vicenda personale ha sicuramente influenzato anche i miei fratelli. In questo contesto avvenne il colloquio chiarificatore tra Francesco e Giuseppina. La mia famiglia ha ricevuto un sollievo grandissimo da Fratel Teodoreto che la liberò da un peso ( la mia partenza ) davvero gravoso: aveva reso felici i miei familiari che pensavano di avermi già perso. Intendiamoci: mi sarebbe rincresciuto moltissimo lasciare l'azienda paterna e la mia famiglia, tuttavia ero molto risoluto ad entrare in Seminario, perché mi sembrava l'unico modo per poter far del bene al prossimo. Solo uno come Fr. Teodoreto poteva farmi cambiare idea. A partire da questo episodio, i miei familiari presero l'abitudine di frequentare la chiesa tutte le mattine. Cosa in effetti piuttosto sorprendente, visto che nessuno li aveva costretti a questo passo. Ho fatto, in un certo senso, da apripista a Giovanni e a Francesco. Tutti e tre decidemmo di affrontare fianco a fianco la missione catechistica e nonostante le differenze anagrafiche percorremmo insieme le tappe del noviziato ( 1930-1931 ), fino alla comune consacrazione avvenuta il 15 agosto 1931, festa dell'Assunta, alla Casa della Pace dei Padri Vincenziani di Chieri. Bisogna ricordare anche un altro fatto: quando mio padre entrò in agonia aveva al suo fianco Fratel Teodoreto che lo assistette per più di due ore, fino alla morte. Il che è significativo, visto che noi avevamo preso i voti da più di cinque anni e l'Unione non aveva alcun obbligo nei confronti di mio padre. ( P. Fonti ) Già alla fine degli anni '20, i fratelli Fonti frequentavano con regolarità i Catechisti, partecipando alle adunanze settimanali che si svolgevano il sabato sera, in via delle Resine, presso i Fratelli delle Scuole Cristiane. Fratel Teodoreto si metteva all'ingresso della sala e salutava uno per uno tutti quelli che entravano. Seguiva l'Adorazione alle Cinque Piaghe e poi si commentava il Vangelo della Domenica successiva. Veniva esposto qualche avviso, ovvero qualche informazione sulle attività svolte dall'Unione e tutto finiva lì. L'intenzione del religioso, in quelle ore, non era affatto quella di coinvolgere gli intervenuti in qualche sterile forma di attivismo: semplicemente voleva creare un fervente gruppo di preghiera. Pregare, mediante l'Adorazione, per assimilarsi a Cristo. Punto e basta. A ruota doveva seguire l'impegno sempre più consapevole e fermo nella famiglia, nella scuola, nel lavoro … così da applicare alla vita nel mondo, i riflessi di quella ricca vita spirituale che veniva assimilata il sabato sera, estraniandosi dal mondo. Le informazioni associative riguardavano soprattutto le attività svolte in una ventina di chiese dai gruppi parrocchiali dell'Istituto; ma al di là dei catechismi e dell'attività di promozione per la Divozione al Crocifisso, le notizie trattate erano ben poche ( stiamo parlando della fine degli anni '20 ). Ogni mese, però, veniva riservata una domenica al consueto ritiro spirituale, mentre, in Via delle Resine aveva fatto da tempo la sua comparsa il Bollettino "L'Amore a Gesù Crocifisso" ( poi l'indirizzo della redazione venne trasferito in via Feletto, sede della Casa di Carità e della stessa Unione Catechisti ). La diffusione dell'Azione Cattolica è avvenuta in coincidenza coi primi passi dell'Unione, ma Fr. Teodoreto non ha mai impedito ad alcun Catechista di entrare in questa associazione. Tuttavia, non riteneva conciliabile l'incarico permanente di dirigente A.C. con la consacrazione. Ammetteva questo genere di cose per periodi di tempo limitati, ma in linea generale assecondava con favore la sola iscrizione all'A.C.. Chi aveva le qualità del comando, doveva metterle al servizio dell'Istituto secolare. Così Francesco, dopo la consacrazione, sarebbe entrato a far parte del Consiglio dell'Unione. Questo suo avanzamento era dovuto anche al fatto che già da qualche anno aveva assunto delle responsabilità nella Casa di Carità di via Feletto. Nella scuola si era inserito dapprima come Economo e Direttore dei corsi serali per disegnatori, poi, molti anni dopo, quando nel 1969 sorgerà l'Associazione della Casa di Carità, sarà nominato Presidente e manterrà tale incarico dal 9 febbraio 1970 all'8 marzo 1991. Tra il 1931 ed il 1957, inoltre, Fonti insegnò Religione, Matematica e Disegno ( solo nel primo anno ) nei corsi serali e festivi, ma per brevi periodi tra il 1951 ed il 1953 fu anche docente di Tecnologia ( 3 anni ) e Fisica-Chimica ( 1 anno ). Intanto, fin dal lontano 16 giugno 1929, presso l'apposita Commissione dell'Arcidiocesi di Torino, aveva conseguito un diploma per l'insegnamento della religione. Dopo la consacrazione ( 1931 ), ebbe così modo di avviare una proficua collaborazione con le parrocchie di San Lorenzo di Altessano e San Francesco di Venaria, dove insegnò catechismo per lunghi anni. In quelle località si andava insediando una folta comunità di "emigranti" veneti ( allora il Veneto ed il Friuli erano regioni economicamente depresse ) attirati dal trasferimento in zona della SNIA Viscosa, una grossa azienda chimica. Non per nulla, alcuni dei futuri dirigenti della ditta Fonti vennero selezionati tra i giovani della zona, dove Francesco era considerato come uno "di famiglia". È il caso di Mario Barletta, dipendente della Ditta Fonti per 37 anni ed ex istruttore presso la Casa di Carità, che ci ricorda un'altra collaborazione messa in atto dal Catechista a Venaria: quella con gli "Aspiranti" della locale Azione Cattolica. Lo conobbi alla fine del 1944. All'epoca avevo 14 anni ed ero iscritto all'Azione Cattolica come "Aspirante" presso l'Associazione "Pier Giorgio Frassatì" nella chiesa di San Francesco, a Venaria Reale. Fonti, che inizialmente divideva il suo tempo libero fra i giovani delle due Parrocchie, finì con lo stabilire più stretti rapporti con la nostra, tanto che spesso alla sera compariva in sella ad una bicicletta, una vera fuori serie per quei tempi ( era una bici a tre rapporti modificata dal fratello Giovanni ); altre volte, invece, arrivava a bordo di una Fiat "Topolino" ed era una festa per tutta la compagnia. Si istaurò un tale clima di amicizia che, nonostante la differenza di età, Fonti faceva ormai parte del gruppo. Nell'immediato dopoguerra il "Delegato Aspiranti" con un gruppetto dei più vicini venne invitato da Francesco, senza alcuna spesa, a trascorrere 8-10 giorni presso la Casa Alpina di Valprato Soana, gestita dall'Unione Catechisti. Andavamo e tornavamo in bicicletta e quelle gioiose fatiche guidate da Francesco, tempravano i nostri rapporti "( Mario Barletta ) Il modello della laicità consacrata non escludeva, ma anzi richiedeva un'applicazione costante nell'attività secolare, ragion per cui l'Unione non aveva dato a Francesco nuovi grattacapi e impicci, bensì la soluzione ad un problema di vita. L'incontro con i Catechisti ed i primi insegnanti di via Feletto, lungi dal rappresentare una perdita di tempo, ha costituito un sostegno, un indirizzo, un chiarimento indispensabile a Francesco per organizzare meglio la sua esistenza. L'Unione era insomma l'amplificazione ed il compimento di quello stile di vita intimamente cristiano che Luigi Fonti, pur nella veste di padre e marito, aveva incarnato per anni e che Francesco cercava di sviluppare e valorizzare nelle opere di tutti i giorni. Nel 1950 Carlo Tessitore, allora Presidente dell'Unione, propose ai fratelli Fonti di abbandonare il lavoro in ditta per entrare a pieno titolo nella Casa di Carità, perché giudicava la loro esperienza di vita assai vicina allo spirito di tale Opera. Come dirigente della C.R.T. li aveva più volte aiutati a superare le crisi di liquidità, ma, ciò nonostante, non impose alcuna forzatura e, del resto, i tre fratelli, dopo aver deciso di mantenere gli incarichi aziendali, furono pienamente soddisfatti della scelta fatta, in quanto, a loro giudizio, il lavoro compiuto in ambienti esterni all'associazionismo cattolico, testimoniava la vera vocazione del laico consacrato. Nonostante la decisione di restare in azienda - rivelatasi più conforme all'indirizzo dell'Unione - Francesco ricevette sempre il massimo sostegno da Tessitore nei rapporti con le banche, anche perché per trasferire la ditta in via Lorenzini la famiglia Fonti si era fortemente indebitata. L'intenso legame affettivo che univa la famiglia ruotava anche intorno alla faticosa costruzione della ditta: l'appoggio insistente di mio nonno al progetto, le preghiere di mia madre, il lavoro prestato in ufficio da mia sorella attestavano questo sentimento. I nostri familiari non hanno mai smesso di credere nelle potenzialità dell'impresa e noi tre non potevamo tradire queste aspettative. Anche di fronte alle più gravi crisi produttive, non avevamo mai pensato di volgerci ad un 'altra occupazione. ( P. Fonti ) Poi, quando nel '54 la situazione finanziaria cominciò a migliorare, Tessitore convinse Pietro Fonti al grande passo ( impiego a tempo pieno nella scuola ). Francesco reagì con la massima compostezza e comprensione alle dimissioni del fratello, rispettoso com'era delle scelte personali. L'intesa familiare sull'azienda era così forte che ben pochi avrebbero potuto ipotizzare per i Fonti una carriera da insegnante o da dirigente scolastico. Fu la Provvidenza a disporre diversamente. L'incarico di Presidente della Casa di Carità e le grandi ristrutturazioni Francesco Fonti, in qualità di Presidente della Casa di Carità, fu promotore e/o sostenitore delle grandi svolte che hanno segnato in modo determinante la storia e gli sviluppi positivi della scuola, facendola sopravvivere alle crisi epocali che segnarono l'esaurimento di altri istituti analoghi. Si tratta in sintesi di tre grandi iniziative: il sostegno economico all'introduzione del metodo simultaneo; la costruzione dei capannoni per i laboratori-officine di Torino e Grugliasco; l'avvio dei corsi di informatica. In questo ambito non vogliamo certo sminuire il ruolo degli altri Catechisti, ma solo focalizzare l'attenzione sulle mosse "vincenti" realizzate da Francesco Fonti nel corso della sua lunga presidenza. Intorno al 1960, i responsabili della scuola si resero conto che l'istruzione in officina giocava un ruolo fondamentale nella preparazione degli operai qualificati. Perciò, onde evitare brutte sorprese, cominciarono ad assumere come istruttori alcuni ex allievi che entravano nella scuola dopo un periodo di tirocinio in fabbrica. Nelle classi di Corso Brin un cattivo rendimento degli insegnanti teorici poteva creare grossi problemi, ma l'eventuale inattitudine degli istruttori di laboratorio mandava in crisi tutto il sistema d'apprendimento. Quando Pietro Fonti, in collaborazione con il prof. Gianfranco Fiandra, introdusse il metodo simultaneo ( col quale il progresso nell'apprendimento teorico-pratico avviene in maniera omogenea e costante per ogni studente, senza accumulare ritardi individuali ) fu necessario raddoppiare il numero degli istruttori: da 1 ogni 24 allievi, si passò ad 1 ogni 12. Allo stesso tempo, però, molti di questi, appartenendo alla vecchia generazione, non intendevano abbracciare il nuovo metodo che li avrebbe costretti a tempi e criteri di addestramento assai rigorosi. Così, la maggior parte dei vecchi istruttori rassegnò le dimissioni. Sostenere la scuola in questa fase critica di passaggio e spalleggiare i "riformatori" durante i confronti serrati che si accedevano nelle riunioni destinate a fissare la programmazione, non fu cosa facile; ma Francesco Fonti non si tirò mai indietro. Gli istruttori anziani applicavano ad ogni gruppo delle "malizie" ( competenze di lavoro ) diverse e ad ogni cambio di docente i ragazzi si trovavano spiazzati. Mancava l'uniformità del metodo. I fratelli Fonti, Fiandra ed altri si resero conto che senza il ricorso ai fondamenti del lavoro di Taylor ( da applicarsi non alla produzione, ma alla formazione ) non si sarebbe arrivati a capo di nulla. Il vecchio esperto meccanico o aggiustatore rifuggiva da questi discorsi e restava arroccato sulle sue "malizie"; mostrava il modo di procedere ( tecnica ), ma non spiegava le ragioni del suo operato ( teoria ). Inoltre, col metodo Carrar ( la metodologia d'insegnamento delle scuole aziendali Michelin che, grazie alla mediazione di Claudio Brusa, innescò la prima grande svolta didattica della Casa di Carità ) si migliorava sensibilmente l'efficacia e la chiarezza dell'addestramento in officina. L'istruttore realizzava il disegno del pezzo, passava al tornio, esponeva una e una sola sequenza della lavorazione; dopo di che diceva: "andate al tornio e fate altrettanto"; ciascuno dei 12 allievi, munito di un pezzo identico ( se ne rendevano necessari 12 uguali ), si metteva al lavoro su una macchina identica ( ce n'erano a disposizione 12 uguali ) e veniva seguito passo, passo nella ripetizione dell'operazione; quindi l'istruttore radunava nuovamente i dodici intorno a sé, mostrava una nuova sequenza e via di seguito. Nelle programmazioni decise in precedenti riunioni, ogni fase dell'addestramento veniva "cronometrata" e caratterizzata da direttive molto precise, che l'istruttore doveva rispettare punto per punto. Nei laboratori delle comuni scuole professionali non avveniva nulla di tutto questo. Non si seguiva un ritmo prestabilito: c'era l'allievo che progrediva, l'altro che si attardava. Chi stabiliva i tempi d'apprendimento era l'elemento più brillante che risolvendo da sé i problemi, si "trascinava" dietro il resto del gruppo. Ed è a lui che faceva riferimento il docente, assecondando una formazione dispersiva e poco produttiva. Per portare avanti la rivoluzione del metodo simultaneo, Francesco e Pietro Fonti hanno dovuto selezionare un nuovo corpo di istruttori; non di rado, però, alcuni dei nuovi assunti, anche se giovani, rifiutavano di attenersi alla programmazione definita dal prof. Fiandra ( 5 minuti per questo, 3 minuti per quello, 2 ripetizioni per l'operazione semplice, 3 per quella complessa ecc. ), proprio perché faticavano ad entrare nell'ordine di idee preteso dai dirigenti della scuola. In tutta questa vicenda, il ruolo di Francesco Fonti riguardò, in particolare, la gestione economica della riforma: 1) l'acquisto di nuove macchinari da laboratorio ( onde uniformare tempi e modi di addestramento ); 2) l'acquisto di quantità maggiori di materiale ferroso ( lamiere, cilindri ecc. ) dovuto all'aumento del lavoro ( 35% in più ) e all'aumento degli orari d'istruzione ( del 25% ) 3) l'aumento delle spese per il personale ( raddoppio degli istruttori e aggiunta di una segreteria destinata a fissare i cicli dei piani di lavoro, con relativo "collaudo" delle nuove programmazioni ). Ognuna delle 12 squadre del primo anno ( composta di 12 allievi su un totale di 144 ) doveva avere a disposizione 12 trapani, 12 mole, 12 saldatrici tutte uguali, nonché una giacenza per l'eventuale sostituzione. Fiandra, poi, si preoccupò di estendere questi criteri a tutti gli altri corsi. Furono pure impiegati due addetti che approntavano i "pezzi" per il laboratorio, in modo che i ragazzi non perdessero tempo in lavorazioni di preparazione ( venivano forniti dei tubi, ad esempio, già predisposti per l'incisione ). Francesco Fonti aveva apprezzato la "genialità" dell'idea: trasferire le tecniche di produzione dalla fabbrica alla scuola. In questo modo gli allievi della Casa di Carità passavano con una facilità estrema dai corsi diurni o serali alla professione di operaio qualificato, proprio perché conoscevano i principi base della produzione. Come Presidente della Casa di Carità, Francesco Fonti assunse anche la lodevolissima iniziativa di costruire i capannoni laboratorio di Torino ( 1 edificio ) e Grugliasco ( 2 edifìci ); per avviare i lavori, chiese ed ottenne il sostegno finanziario del Cavalier Tanzi, il noto proprietario della Parmalat, che era stato a suo tempo un ex allievo dei Fratelli S.C. ed in particolare di Fratel Gustavo Furfaro, da sempre molto vicino agli ambienti dell'Unione Catechisti. A Grugliasco, Pininfarina senior ( carrozziere di fama mondiale ) già negli anni '60, per onorare un debito di gratitudine assunto coi Fratelli delle S. C., aveva comprato un terreno, posto a fianco di una villa storica in possesso della famiglia lasalliana, da adibire a centro culturale formativo: vi erano compresi un edificio scolastico, un capannone ed un campo da basket. A questo punto i Fratelli della S. C., ai quali venne affidato il complesso, interpellarono Domenico Conti, allora Presidente dell'U. C., per avere dei dati più precisi sull'allestimento di un laboratorio ( il consulto fu fornito da Pietro Fonti ). Dopo qualche tempo cedettero quei locali in comodato alla Casa di Carità. Di lì a poco, col sostegno di Francesco, vennero eretti, a distanza di qualche anno uno dall'altro, due nuovi capannoni. Il Presidente seguì i lavori molto da vicino, facendo la spola Torino-Grugliasco e mantenendo dei rapporti molto stretti con gli architetti responsabili. Inoltre si impegnò in lunghe trattative coi Fratelli delle Scuole Cristiane, al fine di ottenere la proprietà degli immobili. Il comodato era revocabile da un momento all'altro e la Casa di Carità non poteva proseguire dei lavori senza avere garanzie sulla loro destinazione finale. La costruzione dei capannoni di Torino venne affidata all'arch. Bardelli, che a suo tempo aveva progettato la nuova sede di Corso Brin. Da quel momento gli appuntamenti con gli architetti ed i vari responsabili si moltiplicarono. Avendo, tra tutti i componenti della scuola, una maggiore esperienza dei rapporti tra spazi di lavoro e macchinari, Francesco doveva spesso intervenire sui vari dirigenti della Casa di Carità per far capire dove e come correggere i progetti di costruzione e gli eventuali ampliamenti delle scuole. Spesso Pietro Fonti mediava per far comprendere le esigenze tecniche espresse dal fratello: è stato un lavoro pesante, ma, alla fine, sulle cose essenziali hanno dovuto dargli ragione. L'idea, ad esempio, di separare le officine dalle aule si è rivelata vincente. Un altro impegno che vide in prima linea il Presidente fu l'istruzione dei disegnatori Autocad ( grafica computerizzata ): l'idea inizialmente non fu apprezzata. Allora intervenne Pietro Fonti, prospettando l'avvio di un corso serale. Si iniziò con l'acquisto di una serie di computer Olivelli M 19, 20 e 24, un'operazione questa che venne seguita in prima persona da Francesco Fonti. Il corso serale riscosse un grande successo, anche perché in quel periodo la nuova figura del disegnatore Autocad si andava lentamente sovrapponendo a quella del disegnatore tradizionale ( munito di tecnigrafo ecc. ) e nelle aziende stava crescendo la richiesta di questi nuovi elementi. Il calcolatore richiamava sul video delle forme geometriche "pre-disegnate" e con quelle bisognava comporre il profilo del manufatto. In questo settore dell'informatica, Pininfarina e Giugiaro intravidero dei formidabili sbocchi per lo studio delle carrozzerie e selezionarono molti giovani usciti dai corsi della Casa di Carità. Questi imprenditori erano all'avanguardia nelle applicazioni dei nuovi metodi di progettazione: l'idea dal computer passava direttamente al modello in resina, per verificarne la fattibilità. Tali tecniche si affinarono nel corso degli anni '80, fino a quando un gruppo di aziende impegnate nel ramo fece pressioni sulla Casa di Carità affinché avviasse dei nuovi corsi: così Francesco Fonti decise di organizzare un corso diurno per l'uso di una nuova generazione di computer, gli Apollo, impostati, per l'appunto, in funzione dei modelli in resina. Ma non disponeva di insegnanti adeguati ad un simile impegno formativo. Di conseguenza furono richiesti ed ottenuti dalle stesse ditte "committenti" un certo numero di tecnici che, per 50.000 lire all'ora, avessero la predisposizione e le competenze necessario a gestire le lezioni di informatica. Poi, in breve tempo anche gli insegnanti di ruolo assimilarono la preparazione necessaria. Si tenga conto di un fatto, che rende bene l'idea del livello dei corsi: essi erano diretti solo ed esclusivamente ad allievi già diplomati ( ragionieri, periti, geometri distribuiti in classi miste, di ragazzi e ragazze ). La cosa ovviamente non interessò solo la sede di Torino, difatti, un buon numero di calcolatori fu trasferito a Bassano, dove venne avviato un corso analogo. Anche questa iniziativa riscosse un grande successo, proporzionato alla mole degli investimenti. Tutto il peso della gestione economica ricadde sul Presidente: gli Olivetti costavano relativamente poco, ma le prime spese per gli Apollo si aggirarono subito intorno ai duecento milioni ( escludendo le stampanti, molto grandi e molto costose ). Gli insegnanti presi in prestito dalle ditte, poi, richiesero compensi per decine e decine di milioni. I ragazzi della Casa di Carità nel dopoguerra: la vita difficile di studenti e apprendisti Nel dopoguerra si era creato un fruttuoso rapporto di collaborazione tra la Casa di Carità e la ditta Fonti: una folta schiera di operai e tecnici è passata direttamente dalla scuola di Corso Brin alla fabbrica di via Lorenzini, risolvendo situazioni familiari ed economiche non sempre facili ( la guerra aveva lasciato un Paese in rovina ). Francesco Fonti era il cuore di un ingranaggio che permetteva ai ragazzi meno fortunati di accedere al mondo del lavoro. Più in generale ( come si deduce anche da alcune lettere di presentazione ), egli non si preoccupava soltanto di sostenere la scuola, ma di assicurare un posto agli allievi appena qualificati, verificando personalmente il numero degli assunti. Era una carità compiuta a 360 gradi; non si offriva dunque solo un pezzo di carta bollata e poi "fuori dai piedi", ma anche un "accompagnamento" nel mondo della professione. Ora, però, è meglio dare la parola a chi ha vissuto in prima persona queste esperienze di vita. Sono un ex allievo della Casa di Carità, uno di quelli "storici". La mia iscrizione risale al 1949, quando la scuola aveva ancora sede in via Feletto. L'anno scolastico cominciò il 1° ottobre 1949. Giusto una settimana fa ( febbraio 2003 ) sono passato davanti al vecchio edificio e l'ho trovato ancora intatto; la cosa mi ha fatto una certa impressione. Proprio in quelle aule il Dott. Conti mi sottopose alla prima interrogazione: "chi era Giovanni Boccaccio, quali opere ha scritto?". Io, omonimo dell'autore del Decamerone, non lo sapevo. Allora avevo 11 anni. Sono stato uno degli ultimi a frequentare i due anni della cosiddetta scuola di avviamento professionale, che allora sostituiva, per coloro che non avevano modo di frequentare il Liceo, l'attuale scuola media. In quel periodo ho conosciuto Domenico Conti, Leonardo Rollino, Claudio Brusa ( mio insegnante di disegno e religione ) e l'Ing. Cocco, un docente di matematica davvero superlativo. Frequentavo i corsi diurni, abitavo a Volpiano e per arrivare a Torino dovevo sopportare non poche tribolazioni perché, nel 1949, viaggiare in treno era davvero un 'avventura. Il mio primo contatto coi Fonti fu inizialmente limitato al loro nome, stampato sui banchi della scuola: per motivi d'orario non avevo modo di incontrare personalmente i tre frateili. Per quanto ne so, infatti, a quel tempo si occupavano solo dei corsi serali e festivi. I primi due anni di avviamento li ho seguiti in via Feletto, mentre i tre anni delle superiori li ho frequentati presso la nuova sede che avviò i corsi a partire dal 1950. La svolta si verifica il 2 luglio 1954, quando andai a ritirare la pagella che sanciva il mio congedo dalla scuola. Il Dott. Conti, che era stato mio insegnante di letteratura e di storia, allora era direttore della nuova sede e quindi la sua presenza al momento della consegna era giustificata; mi meravigliò invece di vederlo affiancato dal prof. Pietro Fonti che aveva presenziato, qualche giorno prima, al mio esame teorico e pratico di elettrotecnica, sebbene non fosse tra i membri della commissione. Lo rivedevo ora, al momento della consegna della pagella, e mi domandavo quale potesse essere la causa di tanto interesse. ( Boccaccio ) Il mistero fu svelato dal Dott. Conti che, chiamato il ragazzo da parte, lo presentò a Pietro Fonti dicendogli: "se hai intenzione di lavorare presso la ditta Fonti, puoi visitarla e farti un'idea dell'ambiente". L'alunno era assolutamente impreparato ad una simile offerta, ma ben presto capì la motivazione di tanta generosità: egli apparteneva al ristretto gruppo dei diplomati orfani ( il padre era morto nel 1946 ) e i dirigenti della scuola, sempre attenti agli sbocchi professionali dei propri ragazzi, non potevano certo trascurare le esigenze di queste persone meno fortunate ( in tutto tre ). Boccaccio naturalmente accettò l'invito alla "visita guidata", pur non avendo la minima idea di cosa lo aspettasse. Appena giunti in fabbrica, Pietro Fonti ( responsabile dell'officina ) gli presentò lo schizzo di una nuova ala dell'edificio in via costruzione, sottoponendo il giovane neo-diplomato ad un nuovo esame attitudinale: "Qui c'è da terminare il tale lavoro per la tale officina, tu dove installeresti i punti luce?" Figuriamoci, portavo ancora i pantaloni corti … eppure, nonostante la mia inesperienza non mi feci impressionare. Ho sempre avuto un 'indole tecnica - mentre aborrivo le materie umanistiche - e gli feci subito capire che questa specie di problemi suscitava il mio interesse. I Fonti, infatti, dopo la partenza del sig. Gaidano, il disegnatore aziendale che era stato chiamato alla Fiat, cercavano un giovane in grado di sostituirlo. Io facevo al caso loro: possedevo una discreta competenza sia nel disegno che nell'elettrotecnica e la cosa risultava molto comoda, visto che non potevano mantenere un elettricista aziendale a tempo pieno. Fu allora che cominciò il mio rapporto con la famiglia Fonti: dico famiglia e non ditta, a ragion veduta. Per quanto potessero essere seri e rigorosi, i fratelli Fonti hanno sempre mantenuto in azienda un clima familiare che ha certamente favorito il mio inserimento - sebbene io fossi un sedicenne alle prime armi e loro professionisti affermati di quarant'anni - e, ancora oggi, gliene sono grato. Ho lavorato in ditta fino al '98, dunque per quasi mezzo secolo, il che dice molto sulla qualità del mio impiego. ( Boccaccio ) Il sig. Giovanni Obialero, oggi titolare della ditta Fonti, è un altro "allievo storico" della Casa di Carità. La sua vicenda scolastica e professionale che lo portò, dopo anni di duro lavoro, ad ottenere sul campo quei riconoscimenti che le pressanti esigenze familiari gli avevano impedito di ottenere a scuola, descrive in maniera nitida la "situazione tipo" di quella generazione che pur tra mille traversie ha vissuto in prima linea l'età eroica della ricostruzione. Una generazione duramente provata dalle conseguenze disastrose della guerra, ma mai abbandonata dalla speranza in un futuro migliore: temperamenti che a nostro avviso, aldilà delle polemiche ideologiche, furono descritti in modo efficace da Giovanni Guareschi nel suo "Don Camillo", piuttosto che dal piagnucoloso e disperante cinema "realista" di De Sica e compagni. Io ho conosciuto Francesco Fonti nel 1948, quando ultimata la scuola media, su consiglio degli amici di Castelrosso, dove abitavo, sono venuto ad iscrivermi alla Casa di Carità di via Feletto. Avevo presentato a Francesco Fonti, che allora dirigeva i corsi festivi, la mia pagella dove, pur non essendo contemplate le materie tecniche, erano riportati dei voti discreti, specie in latino che all'epoca veniva studiato con grande zelo. Fonti ne ha preso atto e mi ha detto: "Va bene. Vorrà dire che comincerai dal secondo anno ". Era presente anche mia madre che rimase molto impressionata dalla pacatezza, dalla serietà, dalla distinzione del direttore. Così ho frequentato tutti i corsi festivi dalla seconda alla quinta, per poi iscrivermi al corso di perfezionamento. Il mio insegnante di Italiano, Pietro Fonti, aveva evidenziato, come altri, la mia attitudine per le materie umanistiche: "scrivi molto bene ", mi diceva. Il fatto è che la maggior parte dei frequentanti arrivava dalla scuola di avviamento professionale; eravamo solo in due a poter "vantare " la licenza di scuola media. Successivamente, io ed altri compagni, ci siamo presentati come privatisti all'Istituto Tecnico Plana per ottenere il diploma. Ma le equazioni di "macchine " che ci avevano insegnato prima, non corrispondevano a quelle richieste dagli esaminatori, così ho dovuto rinunciare al titolo. Non eravamo sintonizzati col programma dell'ultimo anno, ci mancavano dei "pezzi " e l'abbiamo pagata cara. Terminati gli studi, ho fatto l' istruttore presso il laboratorio festivo di Aggiustaggio, sotto la direzione di Giovanni Fonti. Io che alle medie ( allora riservate a chi intendeva proseguire gli studi superiori ) passavo le traduzioni di latino e le equazioni ai figli di sindaci ed avvocati, sono stato "costretto" a mettermi subito a lavorare e ad essere surclassato da questi "crapun", poi diventati dottori e professori, che, come diceva mio padre, "non sapevano fare una O con l'imbuto ". Per capire le scelte di vita che spesso toccavano agli allievi della Casa di Carità, bisogna comprendere queste cose. ( Obialero ) L'avventura umana e professionale di Giovanni Obialero conobbe una svolta decisiva con l'ingresso nell'azienda di via Pesaro. Qui il ragazzo di Castelrosso percorrerà tutte le fasi del "mestiere", vivendo in prima persona il travaglio economico del secondo dopoguerra che certo comportò fatiche e condizioni di lavoro oggi impensabili ( specie per dei minorenni ). Tuttavia lo spirito di questi giovani - spalleggiati da imprenditori cristiani che, come i fratelli Fonti, conoscevano molto bene le asprezze del lavoro manuale - non si lasciò mai avvelenare dal rancore ideologico, ma anzi trasformò quelle esperienze di vita in un patrimonio di ricordi ed "exempla" ( come dicevano gli antichi Romani ) da trasmettere con orgoglio alle nuove generazioni. Sono entrato nella ditta Fonti il 21 giugno del 1949, quando ancora l'azienda aveva sede in via Pesaro. Appena terminato il secondo anno presso la Casa di Carità, Giovanni Fonti mi invitò a lavorare nell'officina meccanica ed io, ovviamente, accettai. A quel tempo la ditta contava 15 dipendenti. Dopo il trasferimento in via Lorenzini si toccarono le 80 unità. L'officina meccanica, che era il mio reparto, arrivò a comprenderne 24. Il periodo del trasloco da via Pesaro a via Lorenzini è stato molto travagliato. Ricordo un episodio in particolare, che mise a dura prova le mie capacità. Gli operai avevano caricato sul motocarro un tornio davvero imponente ( che ancora oggi conserviamo in ditta, sotto una tettoia ), comprato anni prima dall'azienda tranviaria, ma il conducente, dopo qualche chilometro, era finito in una buca della salita Dora. Il peso del tornio aveva fatto inclinare il veicolo, spezzando alcuni ingranaggi. Pietro Fonti mi aveva insegnato ad aggiustare la catena di trasmissione usando un fil di ferro e così, quando l'autista ci ha telefonato per dirci del motocarro con le ruote a mezz'aria e la catena rotta, mi hanno mandato in bicicletta sul posto col borsone degli attrezzi. Intanto, si era formata una lunga fila di tram dietro al motocarro; il passaggio era bloccato proprio in corrispondenza delle rotaie. Era estate, c'era un caldo infernale su quella strada, tutti i tranvieri mi stavano attorno fremendo d'impazienza: "ma non hai ancora finito? Sbrigati … stai bloccando il traffico ". Io dicevo: "datemi il tempo di legare la catena! ", ma quelli non sentivano ragioni. Ero sottoposto ad una tensione quasi insostenibile, ma poi tutto finì per il meglio. Quel tornio lo usiamo ancora oggi per modellare i cerchi metallici degli attaccapanni. Erano tempi difficili quelli del dopoguerra. Oggi i tecnici girano sul furgone della ditta, allora io mi muovevo in bicicletta col carretto legato alla spalla da una bandoliera, e con quest'arnese andavo fino al magazzino Moscheni a ritirare i tubi per la ditta Fonti. Qui trovavo il geometra Gili, di qualche anno più anziano, che simpaticamente, forte del suo diploma, prendeva in giro noi giovani tira-carretti. Questo Gili dopo la chiusura di Moscheni ha fondato un 'impresa, la Generai Tubi, dalla quale ci riforniamo ancora adesso. Ricordando quei giorni, qualche tempo fa, durante una telefonata di lavoro, ho chiesto di lui e mi hanno detto che è morto il Natale scorso, nel sonno. Lo conoscevo dal 1949 … sono cose che fanno pensare. ( Obialero ) Obialero condusse un periodo di apprendistato alle dirette dipendenze di Claudio Brusa, il noto Catechista del Crocifisso. Questi espose al ragazzo una serie di accorgimenti tecnici che la scuola non poteva certo insegnare. Con lo stile che lo contraddistingueva Brusa non si limitò all'addestramento, ma invitò l'apprendista a prendere parte alle sue escursioni in montagna e si preoccupò di conoscere mamma e papa Obialero, visitando Castelrosso in bicicletta. Ben presto il ragazzo riscosse la fiducia e l'apprezzamento dei fratelli Fonti che, già nel 1950, lo posero alla guida del reparto di meccanica, dopo l'ingresso di Brusa nel corpo docenti della Casa di Carità. Breve storia della ditta dal dopoguerra ai giorni nostri II reparto di Obialero si occupava di carpenteria leggera; nell'immediato dopoguerra il 90% della produzione era costituita da banchi scolastici e arredo affine ( cattedre, lavagne, armadi ), il restante 10% da attrezzi ginnici. Si arrivarono a produrre ben 16.000 posti banco in un anno ( il modello monoblocco fu poi sostituito da sedia e banco separati ). Un tempo questi elementi erano interamente in legno. Dal '49 cominciarono ad essere inseriti i supporti metallici, cosicché venne acquistata una speciale saldatrice per aumentare il ritmo di produzione. I fratelli Fonti dovettero ottenere una precisa autorizzazione dai miei genitori per abilitarmi alla saldatura elettrica a resistenza ( Pietro Fonti mi aveva insegnato a saldare ) e vincolarmi all'osservanza di tutte le normative di sicurezza. Da quel momento ( era il 1950 ) i miei rapporti professionali con Francesco Fonti si fecero più intensi. ( Obialero ) Il lavoro non mancava, ma l'insolita produttività poteva creare degli imprevisti: un camion rimorchio diretto a Potenza, ad esempio, venne riempito di banchi fino a 4 metri d'altezza, ma una volta giunto nei pressi di Asti, rimase bloccato dall'arcata di un viadotto. Anche il reperimento dei materiali ferrosi assorbiva molte energie. Francesco Fonti mandava Obialero a Milano ( al principio in compagnia di Giovanni Fonti, responsabile delle relazioni esterne ), presso la Ferro Tubi, a selezionare le cosiddette "barre Mannesmann" da mezzo metro; da Milano il materiale arrivava in camion. Il tecnico, invece, tornava in treno e rientrando in ditta presentava a Francesco Fonti l'elenco delle le spese sostenute. Nonostante i tempi grami del dopoguerra, Francesco si lasciava andare a "grandi" concessioni. Ad un certo punto mi disse: "la prossima volta vai pure al ristorante ". Così presi a frequentare un locale in via Garibaldi a Milano, dove si mangiava con 150 lire; dopo la fame che avevamo patito durante la guerra, quello mi appariva come il "paradiso" ( Obialero ). A Torino, invece, in zona Martinetto, il capo-officina prelevava i residuati bellici che un certo Waltingeuer aveva comprato dall'Esercito ed accatastato nei locali del vecchio rifugio antiaereo. Il materiale una volta selezionato veniva portato nella trafileria di un ex allievo della Casa di Carità, conoscente di Obialero, che si era installato nelle vicinanze del deposito. Quando veniva il momento di ritirare i tubi lavorati, Obialero inforcava un "triciclo" con le gomme piene e macinava chilometri di strada. Cosa non sempre piacevole. Una volta, in pieno inverno, dopo aver caricato 70 chili di ferro, sono rimasto bloccato nella neve che arrivava oltre il ginocchio; così ho dovuto scaricare una parte dei tubi, nasconderla sotto la neve per tornare a riprenderla in seguito. ( Obialero ) Dopo il trasferimento in via Lorenzini gli ambienti di lavoro diventarono più agibili ( ampi capannoni, vasti cortili, uffici centralizzati ) e così anche i rapporti di lavoro che Francesco Fonti intratteneva con gli addetti alla carpenteria metallica si fecero più stretti; ogni giorno passava a verificare il "rendimento produttivo" degli operai: "quante sedie, quanti banchi abbiamo fabbricato oggi? Siete riusciti ad evadere quell'ordinativo?". Nei periodi di maggiore domanda l'azienda veniva letteralmente sommersa dalle forniture e Obialero si vedeva costretto ad obiettare che il reparto verniciatura era intasato da quintali di lavoro arretrato. In quelle occasioni, quando cioè si rischiava il collasso produttivo, il capo-officina si rendeva conto di quanto fosse fondata la prima impressione ricevuta dalla madre, il giorno della sua iscrizione alla Casa di Carità: il ferreo autodominio unito ad uno spirito d'efficienza prodigioso consentivano a Francesco Fonti di cadenzare e rimettere in carreggiata tutte le varie forniture, impedendo che si affastellassero nel caos più totale. Per evitare di incorrere in spiacevoli penalità, era essenziale che le consegne avvenissero nei tempi previsti; in questo senso, la mano ferma dell'amministratore era una garanzia per clienti ed operai. Tenere in pugno la situazione, rispettare le scadenze, infondere un forte senso di sicurezza nei collaboratori, erano le qualità professionali che meglio denotavano il carattere del Fonti imprenditore. Dalla produzione di banchi all'esclusiva Reuther Dal 1950 al 1963-64 la Ditta Fonti lavorò grazie alle commesse derivanti dalla ricostruzione delle scuole distrutte dai bombardamenti, che andavano completamente arredate. Dopo il trasferimento dell'azienda, un'altra felice intuizione di Francesco Fonti riguardò il passaggio dalla produzione di banchi e sedie ( che ormai erano prodotti in serie, su una catena di montaggio ) a quella delle nuove attrezzature per l'atletica. Con avvedutezza, si accorse per tempo che il segmento degli arredi scolastici era troppo combattuto. Sorgevano un po' ovunque fabbricanti di ogni genere che in cantina o sotto una tettoia, con una modesta attrezzatura, fornivano gli stessi prodotti a prezzi stracciati. In particolare, in Brianza c'erano dei veri avventurieri ( penso alla ditta Ars ) che non pagavano i fornitori e rovinavano tutta la piazza con prezzi da fame. Questi signori ci facevano perdere la gare d'appalto, costringendoci a trovare nuovi sbocchi. ( Obialero ) Fu il Prof. Bracco, l'allora Presidente del Comitato Regionale Piemontese della Federazione di Ginnastica, già conoscente del padre Luigi, a indirizzare Francesco verso la nuova produzione ( erano gli anni 1966-67 ). Così Giovanni Fonti, assiduo frequentatore della Fiera di Monaco, prese contatti con Gander ( capo della Federazione Internazionale di Ginnastica ) e poi con l'Ing. Reuther, un tedesco che aveva progettato i nuovi attrezzi adottati in Olanda e Germania. L'intento suggerito da Bracco era quello di assicurare alla ditta l'esclusiva per l'Italia di questi brevetti. Prima di cedere il diritto di fabbricazione, l'Ing. Reuther richiese la realizzazione di un prototipo per ogni nuovo attrezzo, in modo da collaudarlo personalmente. I fratelli Fonti, rivolgendosi ai responsabili del reparto meccanica, e quindi in primis al capoofficina Obialero, furono molto chiari: "dobbiamo fabbricare un prototipo perfetto che rispetti in modo assolutamente fedele i disegni dell'Ing. Reuther. È questo che si aspettano da noi. Quando torneranno, al momento della verifica, non dovranno esserci obiezioni da parte loro". Obialero curò personalmente tutti i particolari del progetto ( tracciatura, fusione ecc. ) in modo che ogni pezzo fosse intercambiabile con quelli già commerciati in Olanda, Germania ecc. I tecnici tedeschi erano molto esigenti da questo punto di vista. Prima del collaudo abbiamo montato il castello anelli nel cortile, la parallela asimmetrica nel reparto e via dicendo … finalmente è arrivata la delegazione composta dall'Ing. Reuther, dal Prof. Dane, dal Presidente della Federazione Internazionale di Ginnastica Gander e da un interprete. Abbiamo ancora le foto dell'evento. È stato forse il più importante esame della mia vita. L'esito fu molto positivo. Da quel momento, la produzione di arredi scolastici si è ridotta al minimo ( anche perché il Comune di Ragusa non aveva pagato una grossa commessa, causandoci gravi perdite ) e siamo passati senza mezzi termini alla produzione sportiva. ( Obialero ) Anche l'esercito italiano contribuì con le sue commesse a rilanciare la produzione. La ditta Fonti allestì una serie di percorsi di guerra presso alcuni centri di addestramento militari ( CAR di Avellino e Piazza d'Armi a Torino ), dotandoli di molte attrezzature: castelli da sei metri d'altezza, funi, pertiche, tavole oscillanti, muri da scavalcamento, percorsi di travi, cavalletti puntamento fucile. Le grandi commesse statali degli anni "70 Quando crollarono le richieste per i banchi di scuola ( metà degli anni '60 ), la ditta attraversò un periodo davvero critico. Gli operai ad un certo punto "si misero a tagliare dei pezzi giusto per continuare a far qualcosa" ( Boccaccio ). La ripresa, come detto cominciò con l'esclusiva del brevetto Reuther, ma si consolidò solo tra il 1970 ed il 1975, grazie al Ministero della Pubblica Istruzione che aveva stanziato molti fondi per il riassetto delle palestre scolastiche. Perfino i concorrenti dei Fonti erano subissati dagli ordinativi. È cosa nota che gli affari migliori venivano assicurati dall'amministrazione statale. Gli anni '90 segnarono il definitivo indebolimento finanziario dei centri istituzionali ( ministeri, provveditorati, comuni ) e la gestione aziendale "si trasformò gradualmente in una caccia al lavoro" ( Obialero ). Gli anni '80 ed il boom delle esportazion Dopo la crisi petrolifera del '73, l'economia italiana, negli anni '80, si riprese vigorosamente conquistando nuovi spazi nei cosiddetti paesi emergenti e non solo. L'Olivetti vendeva con successo i suoi personal computer negli Stati Uniti d'America, la Fiat si apprestava a diventare il primo produttore europeo ( sembrano cose accadute secoli fa, visti gli attuali disastri economici ). Anche la ditta Fonti, sotto la guida ferma di Francesco e grazie alla fervida attività internazionale del fratello Giovanni, osava di più, spingendo le sue esportazioni nell'Europa orientale e finanche nei paesi di lingua araba. Col tempo ho acquisito una buona padronanza del mio mestiere, perciò negli anni '80, quando sono arrivate le commesse dall'estero ( Arabia Saudita, Albania, Libia ecc. ) e le procedure di consegna si sono complicate a tutti i livelli, il mio rapporto professionale con Francesco Fonti si è fatto più intenso ( oltre che dell'ufficio tecnico mi occupavo anche della definizione dei costi di lavorazione, del listino prezzi e della stampa dei cataloghi ). Quando arrivavano le richieste dall'Arabia Saudita, con capitolati di venti pagine, non bastava tradurre il testo ( il nostro punto di riferimento in quel campo era il dott. Invernizzi ), ma bisognava anche incasellare i vari termini tecnici, nel quadro generale del progetto, per capire come esattamente andava svolto il lavoro. Così, vocabolario alla mano, io e Francesco Fonti ci mettevamo a studiare i dettagli delle richieste, per capire meglio le esigenze del cliente. Volenti o nolenti siamo diventati esperti del gergo tecnico inglese e francese e ciò ha favorito molto il nostro spirito di collaborazione. ( Boccaccio ) Tre episodi illuminanti Nel 1981, quando la ditta Fonti fu trasformata in Spa, Obialero, che già nel lontano 1950 aveva sostituito Claudio Brusa alla direzione dell'officina meccanica, riprese la collaborazione con Francesco Fonti, dopo avere lavorato per qualche tempo ( 1980 ) presso un'industria dolciaria di nome SPES. Nel 1984, l'ex apprendista di Castelrosso, venne nominato Consigliere: Francesco, infatti, congiuntamente al fratello Giovanni, intendeva ritirarsi dagli affari delegando al suo fidato collaboratore gli incarichi di maggiore responsabilità. In termini economici fu un buon periodo: vennero stipulati contratti con l'Arabia Saudita, con la Libia, con l'Albania. I fratelli Fonti indicavano le direttive generali e Obialero, in base alle istruzioni ricevute, si recava a trattare direttamente con gli addetti commerciali delle Ambasciate per ottenere la firma del contratto. A proposito di questi clienti "esotici" mi sono rimasti impressi nella memoria dei ricordi curiosi. Una volta ho avuto l'onere e l'onore di incontrare, a Milano, l'addetto commerciale dell'ambasciata dell'Albania, giunto appositamente da Roma per discutere i termini di una commessa di attrezzature da pallacanestro. Dopo le prime trattative mi chiese uno sconto sulle forniture. Tornai di volata a Torino dove lavorai tutta la notte con Francesco Fonti alla stesura del nuovo contratto. Il mattino seguente, accompagnato da mia moglie, ripresi il treno per Milano dove l'addetto mi fece fare un po' d'anticamera, perché sulla lista d'attesa c'erano prima di me altri fornitori. Avevo intravisto che al momento di concludere l'affare saltavano fuori bicchieri e bottiglie, e che il padrone di casa era "su di giri", ma non immaginavo tanto … Comunque sia, dopo aver firmato il contratto senza muovere obiezioni, l'addetto mi disse: "adesso per festeggiare l'accordo bisogna bere la nostra grappa". Ho tentato di fare resistenza, ma i suoi collaboratori sono stati perentori; un rifiuto avrebbe costituito una grave offesa. Il fatto è che hanno utilizzato dei normali bicchieri da pranzo, riempiendoli fino a metà. Mia moglie, che mi attendeva nel bar sottostante all'ufficio, vedendomi arrivare tutto paonazzo in volto ha chiesto delle spiegazioni ed io ci ho messo un po' a farle capire che mi ero adattato agli usi del popolo albanese. Ho dovuto scolarmi una bottiglia d'acqua da un litro per diluire l'alcool che avevo in corpo; diversamente non sarei arrivato a casa. Al mio ritorno Francesco mi ha fatto i complimenti: era un buon affare da 70-80 milioni di lire ( 1981 ). ( Obialero ) Un'altra occasione di stretta collaborazione tra Obialero e Francesco Fonti era fornita dagli incontri organizzati dalla Federazione Internazionale di Ginnastica. Fonti si presentava a lavoro ultimato, mentre Obialero arrivava a Roma con una settimana di anticipo per scaricare il materiale e seguire i lavori di montaggio. I campionati assoluti europei del 1981 organizzati nel PaIaEur, costrinsero il collaboratore di Fonti a lavorare nella capitale per 12 giorni. Fu allestito un palco da 1000 metri quadri, alto un metro e venti da terra, sul quale vennero montati gli attrezzi: operazione delicata, che richiedeva un controllo metodico per evitare di fare brutte figure in Eurovisione. Francesco Fonti, seduto accanto ai "pezzi grossi" dell'atletica internazionale, era presente al momento delle gare e doveva rispondere di eventuali problemi. La cronaca aziendale e la grande storia si intrecciavano. Correva l'anno 1981: Obialero era giunto a Roma per iniziare il lavoro una domenica mattina. Il mercoledì precedente ( 13 maggio ), il Papa era stato ferito dal terrorista turco Ali Agcà. Il tragico evento ovviamente non fermò i lavori. Nel PaIaEur si potevano incrociare i grandi nomi dello sport mondiale, che, col pretesto di saggiare le attrezzature, mostravano spesso i lati più sorprendenti del loro carattere. Persone un po' eccentriche, provenienti da Paesi lontani, con le quali Francesco Fonti e i suoi più stretti collaboratori dovevano fare i conti. Questo per dire che l'imprenditore-Catechista non viveva certo fuori dal mondo. In quell'occasione Titov, il presidente russo della Federazione Internazionale, era salito sul palco durante il mio allestimento. Era furente perché gli avevano rubato tutti i bagagli all'aeroporto. Dava l'impressione di essere uno spauracchio. Ad un certo punto, avvicinatesi al nostro settore, ha posato una mano sulla parallela che stavo controllando, quasi volesse verificarla di persona. Intuivo chiaramente che desiderava parlare, sfogarsi con qualcuno, ma conosceva pochissimi vocaboli italiani. E qui accadde l'imprevisto. Abbandonata l'aria truce e minacciosa, mi disse "Ciao" e indicando la sua pancia piuttosto prominente, e poi la mia, mi fece capire a gesti qualcosa come "anche tu sei grasso". Cosa strana, perché io non sono mai stato in sovrappeso. Poi, in un impeto d'affetto incomprensibile mi ha abbracciato e baciato alla russa. Potete immaginare il mio imbarazzo! In un modo o nell'altro le nostre parallele lo avevano lasciato soddisfatto e gli avevano fatto passare il cattivo umore. ( Obialero ) A Roma i fratelli Fonti avevano coltivato delle amicizie di "alto livello". Mantenevano dei contatti al Viminale con la Protezione Civile, perché da anni la loro ditta riforniva di attrezzature la Scuola Nazionale dei Vigili del Fuoco. Anche dopo la cessione dell'azienda, Francesco tornava sovente nella capitale, per sollecitare i finanziamenti a favore della Casa di Carità. Sempre affiancato dal buon Obialero, di giorno frequentava gli uffici del Ministero e poi, alla sera, si incontrava col rag. Prosperi, un revisore dei conti del Ministero del Lavoro, col quale aveva stretto un ottimo rapporto. Si davano appuntamento al ristorante "Il Nazareno". Queste escursioni romane, diedero modo ad Obialero, di conoscere meglio le convinzioni semplici ma profonde che, in materia di religione, sostenevano l'animo forte e sereno del Catechista. Questa semplicità può scandalizzare i coltissimi fautori della teologia fenomenologica, ma, in verità, a ben guardare - specie per quanto concerne problemi "scottanti", come l'azione del demonio - la ritroviamo in molti santi, a cominciare dal poverello d'Assisi. Durante le nostre permanenze a Roma ( che in genere duravano dal giovedì al sabato ), alla sera, dopo cena, amava fare una passeggiata dalle parti del Castro Pretorio. Così, una volta, mentre tornavamo all'albergo mi ha raccontato del demonio. Francesco era convinto che il diavolo operasse in molte situazioni - in me questa convinzione è meno radicata - e per dimostrarmelo mi raccontò un fatto realmente avvenuto. Paolo Pio Perazzo, il pioniere dei laici consacrati torinesi, era giunto a Roma per far approvare le Costituzioni del suo sodalizio. Era convinto che il demonio avrebbe duramente contrastato la sua particolare missione e, difatti, una sera, mentre era intento a pregare lungo una strada, venne morso da un cagnolino. Al che, senza esitare, proferì una frase lapidaria: "Ciapin stavolta l'ha faila" ( il diavolo stavolta me l'ha fatta ). Il cane era rabbioso e Perazzo, rimasto vittima a Roma e poi a Torino di diagnosi errate (!), morì nel giro di qualche settimana. Francesco aveva le lacrime agli occhi mentre mi raccontava questa storia. L'episodio la dice lunga sulla sensibilità del suo animo. ( Obialero ) Cessione dell'azienda e impiego a tempo pieno alla Casa di Carità Nel 1991, dopo 55 anni di onorata professione, Francesco Fonti si dimise da tutti gli incarichi aziendali e cedette la società ad Obialero che divenne il nuovo titolare della ditta. Fu un momento che il Catechista-imprenditore affrontò con la massima serenità, avendolo preparato con anni di anticipo. Dopo il fallimentare tentativo di trasformare l'azienda in una cooperativa ed il congedo di alcuni vecchi impiegati che, al termine della carriera, non intendevano rischiare di tasca propria in un' "avventura" imprenditoriale dai contorni confusi, si procedette alla fondazione dell'attuale S.P.A. che coincise col ritorno in azienda di Obialero. L' "affìancamento " di Francesco è durato una decina d'anni: dal 1981 ( quando nacque la nuova S.P.A. ) al 1991. Poi mi ha lasciato in mano l'azienda. Nel frattempo mi aveva nominato dapprima Consigliere ( 1984 ) e poi amministratore delegato ( 1986 ). Dal 1991 in avanti la collaborazione è proseguita solo in ordine alla Casa di Carità. Io lo accompagnavo nei vari uffici dove si rendeva necessaria la sua apprezzata opera di "diplomazia " finanziaria. A questo fine siamo stati varie volte a Roma. . . -, Per quanto concerneva la mia attività, lo mettevo al corrente di tutte le novità che capitavano in ditta; lui mi dava preziosi consigli, ma ormai tutte le sue attenzioni erano rivolte alla Casa di Carità. ( Obialero ) La scuola attraversava dei momenti di grossa difficoltà per i ritardi dei finanziamenti regionali che, a loro volta, costringevano Francesco a sostenere gli interessi crescenti dei prestiti, concessi dalle banche proprio per colmare i suddetti ritardi. L'assegnazione dei fondi da parte della Regione si aggirava sul miliardo e duecento milioni, dunque era sufficiente a coprire le spese dei nuovi corsi, ma, a parte un 30% della somma anticipato per l'acquisto dei materiali - anticipo ottenuto a prezzo di continue e sfiancanti trattative con la Regione - il resto del denaro veniva sborsato dopo lungaggini interminabili. Talvolta si arrivava ai limiti del tollerabile. Per fortuna, ma i fratelli Fonti direbbero "grazie alla Provvidenza", i direttori di banca nutrivano la massima stima di Francesco e non esitavano a fargli credito; si rendevano perfettamente conto che quest'uomo si esponeva in prima persona per diversi miliardi, non spinto da qualche oscuro interesse personale, ma per il bene della scuola. Rivolgendosi a quanti lo accompagnavano in banca, era solito ripetere: "se lavoriamo per le finalità indicate da Fratel Teodoreto, puoi stare sicuro che la Provvidenza ci aiuterà" ( Obialero ). In sostanza, Francesco si prendeva tutti questi fastidi solo per poter pagare nei tempi previsti gli insegnanti della Casa di Carità. Considerava la regolarità dei versamenti un suo dovere inderogabile. Per spiegare agli amici questa sua sana abitudine citava un episodio: sua madre negli anni '20, pur di pagare gli operai di via Pesare entro la scadenza del sabato, si presentò al banco dei pegni impegnando una collana d'oro e la fede nuziale. Ai responsabili della Cassa di Risparmio, Francesco esponeva i problemi della Casa di Carità per giustificare la richiesta di nuovi finanziamenti. Non esitava a porre come garanzia la sua parola e il patrimonio della famiglia. I fidi dovevano essere rimborsati nel giro di 4 mesi: le cifre si aggiravano sui sette-ottocento milioni di lire. A detta dei suoi accompagnatori ( Obialero ), la partecipazione a quegli incontri è stata una "scuola" di pubbliche relazioni davvero istruttiva, paragonabile ai moderni stage aziendali dei laureati in economia. Francesco presentava con pacatezza i problemi della scuola, cifre alla mano valorizzava in modo efficace il ruolo svolto dalla stessa verso i giovani e la società, non deviava mai dal binario delle finalità prescritte alla scuola, mantenendo una serietà professionale costante. I direttori della CRT cambiavano ogni 3 o 4 anni e quindi ogni volta bisognava tornare alla carica per evidenziare al nuovo venuto le esigenze della scuola, concentrando l'attenzione dell'interlocutore sulla natura particolare dell'Istituto. Con i parenti più stretti, invece, Francesco era molto più sbrigativo. Già in gioventù mi mandava in bicicletta da Tessitore ( che tra i Catechisti era il più benestante ) per ottenere dei prestiti a favore dei padri dei ragazzi della Casa di Carità rimasti disoccupati. In seguito, quando la situazione stipendi della scuola si faceva critica, passava direttamente alle vie di fatto. Un giorno mi disse: "firma qua" e io di rimando "che cos'è?", "è un fido per la Casa di Carità" mi rispose. Lessi la cifra riportata: "un miliardo e duecento milioni ". In un 'altra occasione Bandone, l'attuale Direttore Generale della Casa di Carità, gli presentò una scadenza improrogabile: "Guardi Geometra che io, per settembre, ho bisogno di 730 milioni". E così Francesco è partito alla ricerca di un nuovo fido. In pieno agosto vedevo che si aggirava per banche ed uffici, ma non osavo chiedere nulla. Poi ad un certo punto, spinto dalla preoccupazione, gli ho domandato che cosa stesse succedendo. La sua risposta è stata molto chiara: "Ho chiesto un fido di 730 milioni ed ho messo come avvallo tutto il nostro patrimonio. Il direttore della banca voleva dissuadermi dal compiere un tale passo, ma io gli ho detto che sulla Casa di Carità i Fonti non hanno nulla da temere". Dopo le ferie, il 1° di settembre arrivò una telefonata dalla Regione che ci comunicava la lieta notizia: "Quella pendenza di 730 milioni è stata risolta a vostro favore". Finalmente si erano decisi a sbloccare la parte mancante del finanziamento regionale. ( P. Fonti ) L'ambiente di lavoro e la psicologia di un imprenditore cristiano Molte testimonianze convergono su due fatti: Francesco Fonti si era sforzato di selezionare un personale non solo tecnicamente, ma anche "moralmente" qualificato ed inoltre si era preoccupato di mettere i neo-assunti, che spesso nel dopoguerra erano ragazzini tra i 12 ed i 16 anni, nelle condizioni ideali per esprimere al meglio le proprie attitudini. Questo atteggiamento favoriva lo spirito di collaborazione tra dirigenti e tecnici e permetteva l'affermazione di uno stile di lavoro "creativo" ( nei limite del possibile, ovviamente ) che, stimolando il coinvolgimento attivo nella realizzazione dei progetti, favoriva l'attaccamento dei lavoratori all'azienda. Nei primissimi tempi il manager dell'ufficio tecnico ( che contava 7-8 persone ) era Pietro Fonti. Poi quando la Casa di Carità lo ha assorbito completamente ( 1955 ) è subentrato Giovanni Fonti col quale ho intrecciato una lunga e fruttuosa "collaborazione" professionale. Quando sono arrivato si contavano 4 capireparto, l'addetto agli acquisti ed il disegnatore. Ma per disegnatore non bisogna pensare all'impiegato Fiat seduto 8 ore al giorno davanti al tecnigrafo: si trattava, ora di affiancare il titolare ( nella messa a punto del progetto ), ora di congegnare nuove soluzioni per la riuscita di un'idea. Il mio ruolo dunque non era solamente passivo, ma lasciava ampi spazi alla mia creatività tecnica e questo fatto mi gratificava molto. Chiaramente i miei primi anni di affiancamento, costituirono un apprendistato assai prezioso, che mi permise di assorbire dai fratelli Fonti un insieme di nozioni ed esperienze che a scuola ovviamente non potevamo neanche immaginare. Se avessi deciso di fare l'elettricista per conto mio, avrei certamente accumulato una vasta gamma di conoscenze, ma molto settoriali. In ditta, invece, mi è stata data la possibilità di sviluppare una cultura tecnica più ampia e di allargare i miei orizzonti professionali. Nella dinamica del lavoro non subivo passivamente degli ordini: "fai questo, fai quello". C'era un rapporto di collaborazione coi titolari, non di subordinazione, indice questo di una mentalità fuori dal comune. Al mio spirito di iniziativa era stato concesso un grande spazio di manovra e per un giovanotto come me, questa fiducia nelle capacità personali era una cosa impensabile, così come era impensabile trovare un lavoro stabile a soli 16 anni. Questi furono i primi, importantissimi, "regali " che mi fecero i Fonti e non posso certo dimenticarli. ( Boccaccio ) L'azienda medio-piccola a conduzione familiare ( fenomeno tipicamente italiano, che attualmente, nonostante le critiche feroci dei "progressisti" fa la fortuna del cosiddetto Nord-Est ) è una realtà che si presta meglio di altre alla promozione dello spirito cristiano, ma soprattutto al contenimento di quell' "anonimato spersonalizzante" che spesso deprime il lavoratore, facendo le fortune di psicanalisti e psicologi del lavoro. La crescita professionale degli operai della ditta Fonti è esemplare non solo per i "tempi lunghi" e la "completezza" che l'hanno caratterizzata ( diversamente dal lavoro precario oggi tanto di moda che costringe il verniciatore quarantenne a trasformarsi nel giro di qualche mese in consulente finanziario e viceversa ), ma anche per l'ambiente umano in cui si è realizzata. Se in quegli anni sono maturato professionalmente e anche, perché no, umanamente lo devo in buona parte al clima costruttivo che i fratelli Fonti, in modi e con stili differenti, avevano creato in ditta. La mia istruzione, grazie a loro, è proseguita ancora per molti anni. L'atmosfera sul posto di lavoro era positiva per varie ragioni, tutte riconducibili alla guida illuminata della famiglia Fonti: in ogni ufficio ciascuno aveva la sua competenza e non si creavano sovrapposizioni di ruoli, ne contrasti o competizioni per spartirsi gli incarichi; inoltre, con grande acume, erano state scelte persone di animo "buono e semplice", poco propense a strafare o a mettersi in mostra. C'era rispetto, non tensione, collaborazione, non competizione diversamente da quanto succede in tanti moderni luoghi di lavoro. Essendoci le persone giuste al posto giusto, nessuno cercava di far le scarpe al collega. Questo è un grande merito dei fratelli Fonti che evitavano favoritismi o preferenze di qualsiasi genere, proprio per mantenere una situazione di pacifica laboriosità. Un altro aspetto gratificante del mio rapporto coi Fonti è stato questo: hanno sempre riconosciuto, non solo in termini materiali, il contributo che nel mio piccolo ho potuto dare ali 'azienda. Cosa per nulla scontata in altri ambienti di lavoro, dove tutto è dovuto. ( Boccaccio ) Bisogna però evitare di cadere nello sdolcinato e fuorviante equivoco di chi riduce la "cristianità" dell'imprenditore alla debolezza di carattere o, peggio ancora, al familismo vecchia maniera. Francesco Fonti dal 1936 competeva su un mercato combattuto, sentiva il peso di questa responsabilità ed il suo carattere si era forgiato di conseguenza. Smancerie e tenere indulgenze erano agli antipodi del suo modo di fare conciso, schietto, a tratti severo. Francesco Fonti nei primi anni aveva lasciato su di me l'impressione di una persona un po' burbera e distaccata. Viceversa quando la nostra collaborazione si è intensificata, ho avuto modo di scoprire una persona diversa. Del resto, nel valutare le persone, le cose dette e le conversazioni contano fino ad un certo punto. Quando si tratta di lavorare insieme, di condividere fianco a fianco un "avventura", un'impresa professionale, hai modo di cogliere qualcosa di più profondo: l'anima vera della persona. Un'amicizia nasce in modi diversi a seconda dei temperamenti: la mia amicizia con Francesco Fonti si è sviluppata durante quel periodo di collaborazione, in modo singolare, in mezzo agli ordinativi ed ai listini prezzi. Avendolo avvicinato ho avuto modo di comprendere le ragioni della sua riservatezza che poteva essere scambiata per scontrosità. Egli semplicemente si sforzava di conferire una grande serietà ad ogni sua iniziativa. Ed è comprensibile visti gli incarichi che ricopriva in ditta ed alla Casa di Carità. In sua presenza si poteva parlare con la massima libertà, però la sua risposta poteva essere altrettanto "dura". Non era mai mosso da sentimenti o rancori personali; semplicemente rimaneva fedele alle sue idee e questa coerenza certo non lo rendeva tenero. Ma il risvolto positivo della cosa era questo: sapevi sempre cosa potevi aspettarti da lui. Quello che diceva, lo manteneva e ciò gli procurava la fama ( meritata ) di uomo integerrimo e affidabile. Questi aspetti del suo carattere nei rapporti con le banche e con i clienti ebbero riflessi molto positivi per la vita dell'azienda. Io stesso ho avuto modo di trattare con fornitori e clienti; ebbene, non sempre ci si trova davanti a persone oneste. Spesso ti raccontano favole. E a quel punto, se manca la serietà, il rigore … è finita, perdi ogni credito. Del resto, Francesco Fonti doveva anche darsi un contegno adeguato, perché in un modo o nell'altro trattava con i presidenti delle federazioni sportive internazionali, i dirigenti dei Ministeri, i direttori di banca e, a quei livelli, doveva dare l'impressione della massima affidabilità, altrimenti potevamo dire addio agli ordinativi: "alle spalle di questo signore c'è un'azienda che funziona", ecco che cosa pensavano i suoi interlocutori. ( Boccaccio ) Con gli anni, una volta smessi i panni del "capitano d'industria", Francesco si liberò dal peso di tante angosce e responsabilità ( verso clienti e dipendenti ) riuscendo a smussare e ad addolcire i tratti più formali e rigidi della sua personalità. Chi lo aveva osservato con attenzione, nei lunghi anni che seguirono il trasferimento della ditta in via Lorenzini, notava una certa differenza di atteggiamento tra l'imprenditore laconico ed esigente degli anni '40, che assumeva in ditta i ragazzini orfani, e il "nonno" conosciuto negli anni '90, sempre interessato alle vicende familiari dei dipendenti. Tutte le volte che torno in azienda mi sento a casa e questo è certamente il sintomo di un modo di lavorare non comune, di una solidarietà che raramente si trova negli ambienti di lavoro. La mia collaborazione con Obialero, l'attuale titolare della ditta e degno continuatore dello spirito dei Fonti, continua ancora oggi che sono in pensione. Francesco Fonti dopo il passaggio delle consegne a Obialero aveva tralasciato la riservatezza di un tempo, diventando, grazie anche alla sua età avanzata, una sorta di patriarca. Ha cominciato ad interessarsi della mia famiglia, agli studi dei miei figli, manifestando i sentimenti e le attenzioni che può avere un nonno per i nipoti. Perciò posso proprio dire che negli ultimi anni Francesco Fonti mi ha finalmente rivelato una profondità e una nobiltà d'animo che, appena assunto, soggiogato com'ero dal suo distacco professionale, non potevo immaginare, ( Boccaccio ) Per quanto i sindacati e l'evoluzione dei costumi non gli permettessero di manifestare in modo esplicito l'aspetto più squisitamente religioso della sua formazione, Francesco Fonti favorì, nei limiti del possibile, una serie di iniziative che testimoniassero, anche se in maniera episodica, il solco cristiano nel quale aveva avviato la sua attività economica. In una società fortemente secolarizzata come la nostra, questi fatti, in apparenza poco significativi, non sono il residuo di una civiltà cristiana ormai al tramonto, al contrario affermano una fedeltà che non muore, a prescindere da quelle che l'attuale Pontefice, celebrando la memoria di Restituta Kafka, martire del Crocifisso, chiama "mode del momento" ( Osservatore Romano, 22-23 giugno 1998 ) Dal '54 in poi, per circa sette-otto anni, celebrammo la Pasqua in fabbrica. I Fonti chiamavano un frate cappuccino, Padre Benigno ( mancato un mese fa ), del santuario della Madonna di Campagna, che veniva a predicare due o tre volte nella settimana precedente Pasqua. Qui in ditta, nei locali dello spogliatoio, si svolgevano le confessioni. Alla fine, dopo ogni messa, veniva organizzato un rinfresco. Poi, i mutamenti sociali, l'ingresso dei sindacati e tutto il resto han fatto venir meno questa usanza; tuttavia, ancora oggi, il Gruppo Famiglie della parrocchia San Vincenzo de Paoli organizza degli incontri di preghiera serali nei cortili delle case e, in questa zona ( via Lorenzini ), il punto di riferimento è, manco a dirlo, la ditta Fonti. In tali occasioni ciascuno pronuncia le proprie intenzioni …( Boccaccio ) La libertà d'azione concessa da un'azienda umanamente e professionalmente solida Francesco Fonti possedeva in misura straordinaria una dote intellettuale che gli permetteva di condurre parallelamente e senza intoppi il doppio impegno Casa di Carità / azienda: potremmo parlare di una spiccata attitudine al distacco e alla concentrazione "settoriale". Per quanto fossero urgenti gli affari in corso, riusciva a sospenderli di colpo con la massima naturalezza, per buttarsi a capofitto nelle pratiche della Casa di Carità. Mentre in fabbrica procedeva il via-vai di tecnici ed operai in tutt'altre faccende affaccendati, Fonti afferrava l'apposita cartellina, ne tirava fuori i documenti e i rendiconti intestati col caratteristico sigillo dell'incudine e della croce e, come d'incanto, si trasformava da amministratore aziendale in Presidente dell'Opera. Poteva estraniarsi completamente da tutte le altre occupazioni ( scadenze, contratti ecc. ) per concentrarsi solo sui problemi dei ragazzi e degli insegnanti di Corso Brin. Spesso portava il lavoro di scuola nell'ufficio di via Lorenzini e chi lavorava accanto alla sua scrivania, gli invidiava questo distacco professionale. Se infatti sono preso da qualche problema, non riesco a togliermelo dalla testa finché non l'ho risolto. Ho enormi difficoltà a lasciare a metà un lavoro per affrontare serenamente altre faccende; il solo pensiero mi angustia. Francesco, invece, passava senza esitazioni dai problemi inerenti a spedizioni od ordinativi, alle riunioni del corpo docenti. ( Obialero ) Il Catechista dedicava tre ore della mattinata alla scuola - dove si recava di solito per firmare pile di circolari e … assegni - ed il resto della giornata all'azienda. Talvolta il fratello Giovanni si lagnava un po', perché in alcuni momenti critici ( telefonate importanti, contratti da definire ) l'ufficio amministrativo rimaneva "scoperto". Tuttavia, la conduzione parallela delle due attività, procedeva speditamente e, pur essendo un Presidente "dimezzato", Francesco Fonti fece un ottimo lavoro. La sua capacità di conciliare il lavoro in fabbrica con quello della scuola era favorita da una situazione aziendale molto solida: fin dagli anni '40 aveva selezionato un gruppo di tecnici ed operai dotati di un forte senso di responsabilità. Funzionando bene la ditta, Fonti poteva dedicarsi alla Casa di Carità con metodo e continuità. In caso contrario avrebbe dovuto sacrificare ogni minuto del suo tempo prezioso all'amministrazione dell'azienda e agli eventuali interventi di risanamento. Ma quello messo in piedi nel 1951 in via Lorenzini era un meccanismo ben oliato che funzionava in buona parte "da sé" ( grazie all'affidabilità dei dipendenti e al loro attaccamento al "marchio Fonti" ) e non necessitava di una costante e poliziesca vigilanza. In situazioni di questo genere - a giudizio del fratello Pietro - è relativamente facile tenere il polso della situazione, basta verificare i profitti. Se questi iniziano progressivamente a decrescere significa che qualcosa non funziona a dovere: può essere colpa del cliente che ritarda il pagamento, oppure, e qui la cosa si complica, può dipendere da qualche reparto che non lavora nei termini previsti. In questi casi il titolare deve studiare attentamente i consuntivi ed intervenire con energia razionalizzando le spese, snellendo le procedure, riassettando quei settori ( spedizioni, officine, relazioni esterne ) dove gli ingranaggi girano a vuoto. Una volta messo al riparo dalle crisi aziendali ( la più grave venne superata con successo a metà degli anni '60, quella degli anni '90 non lo interessò in quanto fu di poco successiva alla cessione dell'azienda ), Fonti dovette risolvere alcune "questioni di coscienza" che toccavano da vicino la natura ed i fini della Casa di Carità, sulla quale, come Presidente e Catechista avrebbe dovuto rispondere … al "Principale" del Creato. Nel corso delle assemblee degli anni '90 mio fratello ha lanciato una serie di moniti contro l'ipotesi di fondare la principale Opera dell'Unione Catechisti sulla mera rendita finanziaria, cosa che avrebbe snaturato lo spirito della Casa di Carità. Più in generale, temeva che sulla lunga distanza si potesse verificare un disorientamento ideale della scuola, che, cioè, si perdessero di vista quelli che erano stati gli intendimenti di Fr. Teodoreto. ( P. Fonti ) Francesco Fonti, pur essendo poco portato ai panegirici roboanti, ha sempre nutrito una grande venerazione per Fr. Teodoreto ed un fervido zelo per il suo carisma fondativo, che ha cercato di difendere in tutti i modi, specie quando gli appariva minacciato da un malinteso senso della modernità. Negli anni '90, gli interventi scritti e verbali a favore di una "restaurazione" ideale dell'Unione e di una maggiore attenzione alle finalità ultime delle sue Opere ( senza le quali, a suo giudizio, sarebbe immancabilmente svanito l'aiuto della Provvidenza ) si fecero insistenti e preoccupati. L'ex Presidente della Casa di Carità, animato com'era da una grande fiducia nel futuro, pensava alle nuove generazioni, a coloro che avrebbero ricevuto la sua pesante eredità. Anche questa è carità … ma per i posteri. Inoltre, alcune soluzioni strategiche, prospettate in seno all'Unione e miranti ad accorpare l'Istituto in realtà più grandi, quasi si trattasse di attuare una joint-venture aziendale, erano da lui giudicate esiziali per l'identità stessa dei Catechisti e della Casa di Carità. Nel complesso, il disegno di assimilare l'Unione alle finalità di altre grandi famiglie religiose non lo convinceva affatto, perché comportava la rinuncia ad una forma originale di apostolato che solo i Catechisti potevano intraprendere. Gli ultimi anni: le ansie per la Casa di Carità e il congedo finale I Fonti hanno impresso alla Casa di Carità un carattere profondamente umano. Francesco era una figura patriarcale. I vecchi allievi, specie quelli passati alle dipendenze della ditta, hanno sempre considerato la scuola come una grande famiglia. Tuttavia, la recente modernizzazione delle strutture ed il loro ampliamento hanno un po' snaturato l'aria di casa che si respirava in Corso Brin. A mio avviso, c'è il pericolo di disperdere questo patrimonio affettivo nei meandri della burocrazia scolastica. Forse è un processo inevitabile: qualcosa del genere su scala diversa è capitato ai salesiani. "Salesiano" oggi evoca un'organizzazione solida e moderna diffusa in tutto il mondo, ma senza dubbio la "famiglia" salesiana impressa nella mia mente è un 'altra cosa. ( Boccaccio ) I problemi economici, che resero necessaria la trasformazione in chiave manageriale della scuola, hanno certamente influito sul modo di gestire alunni ed insegnanti. È da vedere fino a che punto possano continuare a coesistere educazione cristiana e "alta finanza". Su questo punto si giocava, a giudizio di Fonti, la credibilità della missione affidata ai discepoli di Fratel Teodoreto. Una volta mi ha invitato a visitare il capannone che ospita le macchine a controllo numerico ( uno dei suoi grandi successi ) e, visitando passo a passo tutta la scuola mi ha fatto notare due cose contraddittorie: da una parte macchinari modernissimi e sicuramente molto costosi ( ma coperti dai finanziamenti della Regione ) e dall'altra un edificio che avrebbe bisogno urgente di un radicale restauro ( che però non rientra nei finanziamenti ). Gli infissi delle finestre hanno l'aria di non essere stati riverniciati dal lontano 1952. Il divario fa capire come gli spazi di manovra siano limitati: ma in queste condizioni si finisce con l'indirizzare gli sforzi solo dove arrivano i soldi. ( Boccaccio ) Un altro problema rilevato da Fonti era costituito dalla selezione degli insegnant. Nei primi tempi il gruppo di riferimento era costituito dai Catechisti, oggi non è più così, anche perché la complessità e la varietà delle nuove professioni ha complicato e di molto il quadro della situazione. Era Pietro Fonti a selezionare il personale docente. Le sue indagini erano accurate, ma non rivolgeva mai domande troppo dirette. Lasciava che fossero i candidati a parlare. Francesco si riservava il discorso di presentazione. Non aveva alcuna soggezione a dire che l'Opera era ispirata dal Crocifisso. Pronunciata dal Presidente in persona, questa dichiarazione assumeva una grande autorevolezza. Francesco non faceva dei lunghi discorsi, ma, contrariamente a quello che si potrebbe credere, la sua asciuttezza conferiva un taglio più solenne alle parole, che restavano scolpite nella mente degli uditori. Nella vicenda dei computer Apollo, però, il personale fu scelto dalle ditte interessate: era un segno dei tempi. In genere, la posizione del Catechista consacrato, specie di figure come Francesco Fonti, è più difficile rispetto a quella di un religioso o di un prete. Si è costretti, infatti, a mantenere salde le proprie posizioni ideali, pur non potendo fare a meno della collaborazione ( specie con le rivoluzioni tecnologiche del recente passato ) di persone che spesso sono molto lontane dalla spiritualità cristiana. È questa la dura realtà con la quale devono fare i conti i laici consacrati impegnati nella formazione professionale. ( Boccaccio ) Aldilà dei problemi economici e didattici sopra accennati, l'assillo che più tormentava Francesco Fonti riguardava la formazione "umana e cristiana" degli alunni. Un Catechista "d'assalto" come Brusa, grazie all'esperienza condotta nel "Centro spirituale" di Baldissero, dov'era rimasto a stretto contatto con i giovani, aveva seguito la cosiddetta crisi dei valori più da vicino, mentre il Presidente aveva mantenuto le distanze. I due personaggi hanno reagito in maniera differente alle nuove sfide, ma entrambi, anche se in diversa misura, hanno conosciuto le lunghe notti insonni provocate da questo genere di problemi, indizio questo di una reale difficoltà di soluzione. Erano in atto mutamenti sociali di portata epocale, fuori da ogni controllo, ma non per questo accettabili. Una o due volte mi ha detto: "Questi ragazzi … stanotte non ho dormito pensando ai problemi che mi danno". Credo ne abbia viste di tutti i colori, anche se non posso riferire episodi precisi. Si rendeva perfettamente conto che la prima causa delle loro malefatte era da ricercare in un contesto familiare assolutamente disastroso. La famiglia tradizionale, un tempo, faceva opera di formazione. Oggi invece questi ragazzi sono abbandonati a se stessi: i genitori latitano. Poi, diciamoci la verità, gli alunni che vengono alla Casa di Carità hanno grossi problemi scolastici, o addirittura personalità "distorte". Quindi non è facile gestirli. ( Bavero ) Sino a due mesi dal decesso, alla veneranda età di 90 anni, Francesco Fonti si recò regolarmente in ufficio ogni giorno, alle 8.30 di mattina. Ceduta la Presidenza dell'Ente a Vito Moccia ( 1991 ) si era trasferito in un piccolo ufficio attiguo a quello del fratello, dove per risparmiare sui costi (!), pur essendo abituato a vagliare bilanci miliardari, decise di utilizzare un telefono in due. Pietro tuttavia, dopo il ricovero al Cottolengo, seguito ad una grave infezione, si muoveva a fatica e perciò il sig. Bovero, un ex dipendente della ditta Fonti, si offrì di fissare un altro apparecchio in parallelo. In quel periodo lo stile di vita dell'ex Presidente, spartano e regolare come sempre, era caratterizzato da un'attenzione maggiore ai problemi spirituali dell'Unione ( e alle relative conseguenze sulla gestione della Casa di Carità ). In tutte le cose esteriori era sobrio; da questo punto di vista si dimostrò assai ligio al voto di povertà. Aveva un'espressione caratteristica per definire questo suo approccio ai beni materiali: "il soldo deve essere un mezzo e non un fine". Infarto di vestiario non ha mai "folleggiato "', l'ho sempre visto con un vestito invernale ed uno estivo. Ogni settimana preparava dei "commenti alle letture bibliche " che il sottoscritto, occasionalmente autista-factotum di Fonti, faceva avere alla segretaria della Casa di Carità perché fossero battuti a macchina. All'epoca del rinnovo delle Costituzioni lo vedevo passare spesso con in mano un libretto che conteneva i suoi appunti personali. Ci ha lavorato molto sopra, ma io, non essendo Catechista, non posso esprimere giudizi di merito. Mi limito a ripetere le sue parole: "non bisogna perdere di vista le finalità per cui è sorta la Casa di Carità, se vengono meno queste, cessa l'aiuto della Provvidenza ". ( Bovero ) Nell'ultimo anno di vita, Francesco Fonti avvertiva con maggiore frequenza una serie di gravi scompensi cardiaci che, con cadenze sempre più ravvicinate, lo sorprendevano mentre camminava per strada obbligandolo a fermarsi per riprendere fiato. Nell'autunno 1999, arrivò puntuale un infarto che per due settimane lo bloccò in un letto dell'ospedale Gradenigo. Chi gli fece visita in quei giorni lo trovò presto rinfrancato; i medici parlavano addirittura di dimetterlo. Sennonché Francesco, istintivamente, sentiva che la sua ora era ormai prossima. Nel salutarlo si aveva l'impressione di assistere ad un congedo definitivo. Quando sono andato a trovarlo al Gradenigo, mi disse in tono confidenziale "sun tanto strac" ( "sono molto stanco" ), pregandomi di invitare Obialero a pagare subito tutti i conti in sospeso con l'ospedale. Quell'espressione in dialetto piemontese mi diede da pensare. Era sereno per la morte imminente, ma allo stesso tempo preoccupato per delle banali spesucce …e questo a due giorni dal decesso! Era fatto così. ( Bavero ) Il 16 ottobre 1999, un nuovo infarto pose fine al suo pellegrinaggio terreno. Il presentimento di morte, come spesso capita ai giusti, non era infondato. La notizia colse parenti e collaboratori in modo inaspettato, tanto che ancora oggi qualcuno si rammarica di non avergli potuto esprimere in modo adeguato il proprio sentimento di gratitudine. Gli ultimi anni: le ansie per la Casa di Carità e il congedo finale I Fonti hanno impresso alla Casa di Carità un carattere profondamente umano. Francesco era una figura patriarcale. I vecchi allievi, specie quelli passati alle dipendenze della ditta, hanno sempre considerato la scuola come una grande famiglia. Tuttavia, la recente modernizzazione delle strutture ed il loro ampliamento hanno un po' snaturato l'aria di casa che si respirava in Corso Brin. A mio avviso, c'è il pericolo di disperdere questo patrimonio affettivo nei meandri della burocrazia scolastica. Forse è un processo inevitabile: qualcosa del genere su scala diversa è capitato ai salesiani. "Salesiano" oggi evoca un'organizzazione solida e moderna diffusa in tutto il mondo, ma senza dubbio la "famiglia" salesiana impressa nella mia mente è un 'altra cosa. ( Boccaccio ) I problemi economici, che resero necessaria la trasformazione in chiave manageriale della scuola, hanno certamente influito sul modo di gestire alunni ed insegnanti. È da vedere fino a che punto possano continuare a coesistere educazione cristiana e "alta finanza". Su questo punto si giocava, a giudizio di Fonti, la credibilità della missione affidata ai discepoli di Fratel Teodoreto. Una volta mi ha invitato a visitare il capannone che ospita le macchine a controllo numerico ( uno dei suoi grandi successi ) e, visitando passo a passo tutta la scuola mi ha fatto notare due cose contraddittorie: da una parte macchinari modernissimi e sicuramente molto costosi ( ma coperti dai finanziamenti della Regione ) e dall'altra un edificio che avrebbe bisogno urgente di un radicale restauro ( che però non rientra nei finanziamenti ). Gli infissi delle finestre hanno l'aria di non essere stati riverniciati dal lontano 1952. Il divario fa capire come gli spazi di manovra siano limitati: ma in queste condizioni si finisce con l'indirizzare gli sforzi solo dove arrivano i soldi. ( Boccaccio ) Un altro problema rilevato da Fonti era costituito dalla selezione degli insegnant.6 Nei primi tempi il gruppo di riferimento era costituito dai Catechisti, oggi non è più così, anche perché la complessità e la varietà delle nuove professioni ha complicato e di molto il quadro della situazione. Era Pietro Fonti a selezionare il personale docente. Le sue indagini erano accurate, ma non rivolgeva mai domande troppo dirette. Lasciava che fossero i candidati a parlare. Francesco si riservava il discorso di presentazione. Non aveva alcuna soggezione a dire che l'Opera era ispirata dal Crocifisso. Pronunciata dal Presidente in persona, questa dichiarazione assumeva una grande autorevolezza. Francesco non faceva dei lunghi discorsi, ma, contrariamente a quello che si potrebbe credere, la sua asciuttezza conferiva un taglio più solenne alle parole, che restavano scolpite nella mente degli uditori. Nella vicenda dei computer Apollo, però, il personale fu scelto dalle ditte interessate: era un segno dei tempi. In genere, la posizione del Catechista consacrato, specie di figure come Francesco Fonti, è più difficile rispetto a quella di un religioso o di un prete. Si è costretti, infatti, a mantenere salde le proprie posizioni ideali, pur non potendo fare a meno della collaborazione ( specie con le rivoluzioni tecnologiche del recente passato ) di persone che spesso sono molto lontane dalla spiritualità cristiana. È questa la dura realtà con la quale devono fare i conti i laici consacrati impegnati nella formazione professionale. ( Boccaccio ) Aldilà dei problemi economici e didattici sopra accennati, l'assillo che più tormentava Francesco Fonti riguardava la formazione "umana e cristiana" degli alunni. Un Catechista "d'assalto" come Brusa, grazie all'esperienza condotta nel "Centro spirituale" di Baldissero, dov'era rimasto a stretto contatto con i giovani, aveva seguito la cosiddetta crisi dei valori più da vicino, mentre il Presidente aveva mantenuto le distanze. I due personaggi hanno reagito in maniera differente alle nuove sfide, ma entrambi, anche se in diversa misura, hanno conosciuto le lunghe notti insonni provocate da questo genere di problemi, indizio questo di una reale difficoltà di soluzione. Erano in atto mutamenti sociali di portata epocale, fuori da ogni controllo, ma non per questo accettabili. Una o due volte mi ha detto: "Questi ragazzi … stanotte non ho dormito pensando ai problemi che mi danno". Credo ne abbia viste di tutti i colori, anche se non posso riferire episodi precisi. Si rendeva perfettamente conto che la prima causa delle loro malefatte era da ricercare in un contesto familiare assolutamente disastroso. La famiglia tradizionale, un tempo, faceva opera di formazione. Oggi invece questi ragazzi sono abbandonati a se stessi: i genitori latitano. Poi, diciamoci la verità, gli alunni che vengono alla Casa di Carità hanno grossi problemi scolastici, o addirittura personalità "distorte". Quindi non è facile gestirli. ( Bavero ) Sino a due mesi dal decesso, alla veneranda età di 90 anni, Francesco Fonti si recò regolarmente in ufficio ogni giorno, alle 8.30 di mattina. Ceduta la Presidenza dell'Ente a Vito Moccia ( 1991 ) si era trasferito in un piccolo ufficio attiguo a quello del fratello, dove per risparmiare sui costi (!), pur essendo abituato a vagliare bilanci miliardari, decise di utilizzare un telefono in due. Pietro tuttavia, dopo il ricovero al Cottolengo, seguito ad una grave infezione, si muoveva a fatica e perciò il sig. Bovero, un ex dipendente della ditta Fonti, si offrì di fissare un altro apparecchio in parallelo. In quel periodo lo stile di vita dell'ex Presidente, spartano e regolare come sempre, era caratterizzato da un'attenzione maggiore ai problemi spirituali dell'Unione ( e alle relative conseguenze sulla gestione della Casa di Carità ). In tutte le cose esteriori era sobrio; da questo punto di vista si dimostrò assai ligio al voto di povertà. Aveva un'espressione caratteristica per definire questo suo approccio ai beni materiali: "il soldo deve essere un mezzo e non un fine". Infarto di vestiario non ha mai "folleggiato "', l'ho sempre visto con un vestito invernale ed uno estivo. Ogni settimana preparava dei "commenti alle letture bibliche " che il sottoscritto, occasionalmente autista-factotum di Fonti, faceva avere alla segretaria della Casa di Carità perché fossero battuti a macchina. All'epoca del rinnovo delle Costituzioni lo vedevo passare spesso con in mano un libretto che conteneva i suoi appunti personali. Ci ha lavorato molto sopra, ma io, non essendo Catechista, non posso esprimere giudizi di merito. Mi limito a ripetere le sue parole: "non bisogna perdere di vista le finalità per cui è sorta la Casa di Carità, se vengono meno queste, cessa l'aiuto della Provvidenza ". ( Bovero ) Nell'ultimo anno di vita, Francesco Fonti avvertiva con maggiore frequenza una serie di gravi scompensi cardiaci che, con cadenze sempre più ravvicinate, lo sorprendevano mentre camminava per strada obbligandolo a fermarsi per riprendere fiato. Nell'autunno 1999, arrivò puntuale un infarto che per due settimane lo bloccò in un letto dell'ospedale Gradenigo. Chi gli fece visita in quei giorni lo trovò presto rinfrancato; i medici parlavano addirittura di dimetterlo. Sennonché Francesco, istintivamente, sentiva che la sua ora era ormai prossima. Nel salutarlo si aveva l'impressione di assistere ad un congedo definitivo. Quando sono andato a trovarlo al Gradenigo, mi disse in tono confidenziale "sun tanto strac" ( "sono molto stanco" ), pregandomi di invitare Obialero a pagare subito tutti i conti in sospeso con l'ospedale. Quell'espressione in dialetto piemontese mi diede da pensare. Era sereno per la morte imminente, ma allo stesso tempo preoccupato per delle banali spesucce …e questo a due giorni dal decesso! Era fatto così. ( Bavero ) Il 16 ottobre 1999, un nuovo infarto pose fine al suo pellegrinaggio terreno. Il presentimento di morte, come spesso capita ai giusti, non era infondato. La notizia colse parenti e collaboratori in modo inaspettato, tanto che ancora oggi qualcuno si rammarica di non avergli potuto esprimere in modo adeguato il proprio sentimento di gratitudine. La vocazione del Catechista consacrato Francesco Fonti si è sempre preoccupato di mettere in evidenza i forti legami che univano e uniscono la radice spirituale della missione affidata a Fr. Teodoreto con i progetti concretamente realizzati dai Catechisti e dagli insegnanti della Casa di Carità. In più di un'occasione, specie nei momenti di crisi, egli si è fatto portavoce delle esigenze manifestate dai Catechisti più sensibili al carisma del Fondatore, mobilitando i Fratelli delle Scuole Cristiane ed autorevoli mèmbri della gerarchia cattolica al fine di conservare la forza vitale di questo fecondo intreccio tra fede e prassi. Nel mondo laicista, infatti, le buone opere spesso si riducono alla loro semplice esecuzione tecnica, ma nell'ottica del laico consacrato, un tale approccio comporta gravi danni al senso ultimo della missione intrapresa e quindi al senso stesso della vita. Così, ad esempio, nel 1996, in seguito al dibattito suscitato dal rinnovo delle Regole e Costituzioni, F. Fonti si preoccupò di inviare a don Giuseppe Tuninetti ( stretto collaboratore dell'Arcivescovo di Torino ) un articolo pubblicato nel 1977 da Fr. Gustavo Furfaro sulla "Rivista lasalliana", nel quale appariva chiaramente esposto il nesso che permetteva all'Adorazione a Gesù Crocifisso di vivificare l'Unione Catechisti e la Casa di Carità, attirando su di esse le grazie del Signore. Su un foglio significativamente intestato "Casa di Carità Arti e Mestieri", recante lo stemma con l'incudine e la Croce, Francesco Fonti, rivolgendosi al noto esponente della Curia ( Don Tuninetti, per l'appunto ), scrisse queste righe di presentazione: "Mi permetto di allegare … un articolo comparso sulla "Rivista Lasalliana" del 1977, di Fr. Gustavo Furfaro … Vice postulatore Generale detta Causa di beatificazione di Fr. Teodoreto ed allora assessore dei Fratelli presso l'Unione Catechisti. In detto scritto Fr. Gustavo fa rilevare l'importanza fondamentale della Adorazione a Gesù Crocifisso e come Fr. Teodoreto l'abbia accettata, in spirito di umiltà, come ispirazione ed animazione delle Opere dell'Unione Catechisti e della Casa di Carità … Mi permetto di sottolineare questo riconoscimento di essenzialità dell'Adorazione, che quindi non può essere limitata alla pratica quotidiana, onde ne sia tenuto conto nella redazione delle nuove Regole e Costituzioni" ( F. Fonti a Don Giuseppe Tuninetti, 29 febbraio 1996 ). L'articolo in questione non contiene solo una precisa analisi della funzione fondante e vivificante svolta, in seno all'Unione Catechisti, dall'Adorazione a Gesù Crocifisso, ma anche un riferimento esplicito al suo promotore, Fra Leopoldo Musso. "Ma è soprattutto essenziale accettare, con semplicità di spirito, l'anima che di tutte queste realizzazioni è il fondamento: l'Adorazione a Gesù Crocifisso e risorto che egli accettò dal Servo di Dio Fra Leopoldo Musso. Da questa Adorazione, che in lui divenne forza e luce, Fr. Teodoreto trasse l'ispirazione e l'animazione per le Opere che realizzò. Questa Adorazione consegnò ai suoi Confratelli, ai Catechisti e a quanti avvicinò. Talvolta non fu compreso, talvolta ostacolato, talvolta abbandonato, come è la sorte di quanti Dio invia nella sua Chiesa ad aprire vie nuove. Era ed è preghiera semplice, umile. Fr. Teodoreto non si fermò alle apparenze, ma ne penetrò tutta la vitalità interiore … l'intimità di partecipazione all'opera Redentrice di Gesù Crocifisso, sull'esempio della Vergine Immacolata. Comprese e constatò che chi ci giungeva o si sforzava di giungere a questi sentimenti di partecipazione poteva dare garanzie di generosità ed impegno: su questo puntò tutta la sua vita, la sua opera, sempre memore di quanto aveva confidato a Fra Leopoldo il giorno 23 aprile 1913, alle ore 17: "abbia la bontà di pregare il Signore perché si degni di far conoscere se un'opera di tal genere può sussistere …" Sono parole sue citate nel libro "Il Segretario del Crocifisso ": vi ha notato il giorno e l'ora. Voleva essere sicuro di costruire sulla roccia, di fare qualcosa di serio e duraturo, non all'insegna dell'improvvisazione. … Dio gli rivelò quale era la Roccia: l'Adorazione a Gesù Crocifisso, compresa, assimilata, vissuta. A Fr. Teodoreto … parve la vera roccia su cui costruire. E il tempo continua a dargli ragione". ( Fr. Gustavo Luigi Furfaro, "Rivista Lasalliana ", 1977, citato da F. Fonti ). Questo ovviamente era un discorso di indirizzo generale; la realtà delle cose è molto complessa e spesso obbliga a cercare delle soluzioni intermedie per evitare ostinazioni inutili, se non dannose. Tuttavia, resta invariato un fatto: Francesco Fonti come Fr. Teodoreto attribuiva allo strumento dell'Adorazione le grazie migliori piovute sull'Unione, nuove vocazioni comprese. In effetti, come previsto da Claudio Brusa, le difficoltà sorte intorno alla selezione di nuovi Catechisti si erano fatte via, via sempre più gravi, ma Fonti fece ancora in tempo a cogliere nuovi segnali di speranza. Francesco ha seguito molto da vicino l'ingresso nell'Unione di Marco Bilewski, il giovane Catechista consacrato nel 1998. Inoltre ha favorito il lavoro di ricerca sull'Istituto, che coinvolse parecchi giovani a partire dal 1994. Io dirigevo i lavori, ma era Francesco a finanziare la cosa. Partecipava molto volentieri a queste attività. Si sedeva accanto a questi ragazzi e stava ad ascoltare i risultati delle varie relazioni. Chiaramente vedeva in tutto ciò una prospettiva per il futuro. La presenza di Marco lo rinfrancava: era il segno che tanti anni di attesa e di preghiere non erano stati spesi invano. Ancora una volta la fede nella Provvidenza aveva dato i suoi frutti. ( P. Fonti ) Questo evento ha confermato una vecchia convinzione dei fratelli Fonti che hanno sempre guardato con sospetto gli approcci ordinari al problema delle nuove vocazioni, riconoscendo all'Unione carismi molto particolari. Carlo Tessitore voleva assimilare il percorso d'ingresso nell'Unione a quello degli Istituti religiosi; ma la vocazione dei Catechisti è differente. Questi sono laici consacrati, non confratelli viventi in comunità. L'idea di partire da un vivaio di giovani aspiranti è inadeguata, anche perché nei fatti, molti Catechisti hanno aderito in età matura. Non basta allestire dei "campeggi" per instillare nelle menti dei giovani un orientamento di vita: è una pretesa quantomeno sviante. Solitamente il potenziale Catechista ha una visione chiara di ciò che cerca, prima ancora di avvicinare l'Istituto: l'Unione ha semmai l'obbligo di presentarsi come la soluzione ad hoc per l'uomo laico che ha già alle spalle un preciso cammino spirituale, ma non sa come qualificarlo in maniera radicale e decisiva. Il rapporto con la Casa di Carità: il ruolo della Provvidenza e la finalità soprannaturale della scuola Fin dall'inizio della sua duplice carriera di imprenditore e direttore della Casa di Carità, Francesco Fonti dimostrò una grande attenzione ai problemi di natura finanziaria e alla soluzione tecnica delle questioni amministrative, ma, per quanto riguarda in particolare la scuola professionale di Corso Brin, si preoccupò di insistere su alcuni punti essenziali a quello spirito genuinamente cristiano che avrebbe dovuto caratterizzarla. "Fare" una scuola cristiana, in sintesi, significava per Francesco Fonti "fare" affidamento sulla Provvidenza che, più di ogni altra cosa, dovrebbe rappresentare l'autentica garanzia di tutte le iniziative realmente ispirate dalla grazia divina ( Diario di Fra Leopoldo ). A maggior ragione questo va detto per chi ha la missione - ed i Catechisti sono fra questi - di favorire la santificazione delle anime. Le conversioni per decreto, infatti, non hanno mai avuto successo. Ragion per cui Francesco Fonti annoverava tra le sue letture preferite le vite dei santi più propensi a lasciarsi condurre dalla mano di Dio. Tra questi gli erano carissimi due nomi: San Giuseppe Cottolengo ed il Servo di Dio Don Giovanni Calabria, fondatori rispettivamente della Piccola Casa della Divina Provvidenza e della Congregazione Poveri Servi della Divina Provvidenza. Sono realtà dai "titoli" programmatici che spinsero Francesco a studiare con passione le biografie dei due personaggi, sottolineandone con spessi tratti di lapis i passaggi più significativi. Ne riportiamo alcuni: "La virtù caratteristica del fondatore della Piccola Casa, più ancora della carità, è proprio questa fede eroica, questa fiducia smisurata nella Divina Provvidenza ".7 "Nel suo pensiero la Piccola Casa, poiché opera della Divina Provvidenza, non deve appoggiarsi su capitali o rendite certe, altrimenti andrà presto in rovina". "Quest'Opera sia fondata sulla pratica dei Consigli evangelici, e viva interamente abbandonata alla Divina Provvidenza. Niente domandare, molto pregare; … sia assolutamente proibita ogni sorta di rodarne; non conferenze, non pesche di beneficenza; non ringraziamenti pubblici. Iddio non ha bisogno di queste cose, e in quest'Opera che è tutta Sua, Lui penserà: noi cerchiamo anime, anime! Se noi usassimo di mezzi umani, se facessimo conto sull'aiuto, sulla protezione degli uomini, l'Opera subito cesserebbe di essere di Dio". L'intento di questi studi era quello di verificare il nesso di causalità esistente tra l'affidamento alla Provvidenza e l'espansione delle Opere fondate dai Santi. Una volta appurata la fondatezza di questo convincimento ereditato da Fr. Teodoreto, Fonti lo applicò alla maggiore Opera dell'Unione Catechisti ( la Casa di Carità ), professandolo e sostenendolo in tutte le sedi appropriate. Così, ad esempio, in diverse occasioni il Presidente ravvisò e denunciò il pericolo di svalutare la missione profonda della scuola fondata da Fr. Teodoreto, riducendo la sua gestione alla pura convenienza contabile. Anche Tessitore, a suo tempo, aveva ricordato come nel Medioevo perfino le Corporazioni più ricche riservassero un seggio del Consiglio a Messer Dio, per rammentare ai membri più ricchi e benestanti che niente e nessuno poteva e doveva sfuggire alla Sua presenza. Prima dei rendiconti semestrali bisognava anche e soprattutto fare i conti con Lui, col Signore che "scruta i cuori" più dei registri. Analogamente, anche se con linguaggio e riferimenti meno dotti. Fonti approfittò proprio delle riunioni del Consiglio di Amministrazione per veicolare alcuni messaggi sul primato della Provvidenza. Ovviamente, quella espressa nelle righe seguenti è una considerazione personale del Presidente che riportiamo solo per rispetto della verità storica. "La Casa di Carità, come sappiamo, è sorta per un esplicito messaggio di Gesù Crocifisso rivolto il 24.11.1919 a Fra Leopoldo: "per salvare le anime, per formare nuove generazioni, si devono aprire Case di Carità per far imparare ai giovani Arti e Mestieri". Oltre all'esplicita richiesta che ha dato origine all'Opera vi sono altre numerose indicazioni che precisano … lo spirito che deve animare e guidare l'Opera, indicazioni che i Catechisti hanno accettato sulla fiducia del loro fondatore Fr. Teodoreto: … 17.12.1921 "Concedo alla loro mano tutto ciò di cui abbisognano per portare avanti la scuola della Casa di Carità, ma si ricordino sempre di domandare la carità. Dì loro che l'ho detto tre volte di avere fede in Me …" Da queste indicazioni … risulta evidente la finalità dell'opera voluta da Dio: servizio gratuito ai poveri, sostentamento con affidamento alla carità, garanzia di assistenza: "concedo alla loro mano tutto ciò di cui abbisognano". … Fr. Teodoreto nel " Segretario del Crocifisso ", conclude così il capitolo sulla Casa di Carità: "Quest'opera di Carità Arti e Mestieri, voluta da Dio nella sua grande misericordia per la salvezza del mondo, appoggiata unicamente sulla bontà, sulla fede, sulla carità di Gesù Cristo, si estenderà nel corso degli anni a tutto il mondo ". Fr. Teodoreto ha creduto ai messaggi del Crocifisso avuti tramite Fra Leopoldo e li ha trasmessi ai Catechisti che … hanno a loro volta ulteriore motivo di accettarli. A conferma di quanto asserito si deve riconoscere che dal 1969 la Casa di Carità è stata gestita con i criteri sopra indicati ed ha superato non poche e non lievi difficoltà per cui si deve concludere che vi è un 'assistenza provvidenziale che la guida e la sostiene e anzi la sviluppa" ( Intervento di F. Fonti al Consiglio di Amministrazione della Casa di Carità, 2 giugno 1995 ). La limpidezza e la franca correttezza dell'intervento sopra riportato, che invero risale ad anni piuttosto recenti, sono davvero di una coerenza sorprendente rispetto al mandato divino intuito settanta anni prima da Fra Leopoldo. Questa lettura dovrebbe essere una gradevole sorpresa per quanti temono un mondo cosificato dai codici a barre, eppure alla maggior parte degli "uomini evoluti" fa storcere il naso, quasi si trattasse di una pia illusione. Ma come nel caso di Brusa, anche l'ottimismo cristiano di Fonti proviene dalla mente e dal cuore di un uomo estremamente pragmatico, abituato fin dalla più tenera età alla spietata concretezza di un mondo, quello industriale, diviso tra cose che funzionano e no, tra conti che tornano e no, senza quelle sfumature che permettono di trovare improbabili vie di fuga dalla realtà. Il fatto che per l'ennesima volta nella storia dell'Unione venga un monito tanto appassionato da un uomo così ricco di esperienze vere, fatte sul campo del lavoro manuale e contabile, è sicuramente un segno del Cielo. Un avviso che riappare con cadenze regolari negli scritti di grandi Catechisti e che rimanda costantemente al Diario di Fra Leopoldo. Il tempo trascorso ( il francescano muore nel 1922, Fonti scrive nel 1995 ! ) non ha scalfito, ne inflazionato il contenuto dell' "avviso" trasmesso. Si tratta semplicemente di accettarlo o rifiutarlo. In una riflessione di poco precedente all'intervento suddetto. Fonti esprimeva in maniera più estesa il suo pensiero: "La fede in Dio e la fiducia nella Divina Provvidenza devono essere virtù di ogni cristiano, tanto più quando si tratta di Opere finalizzate ai fini caritativi, e questo vale per tutto quello che riguarda l'attività dell'Opera, naturalmente anche per quanto si attiene ai mezzi economici necessari per svolgere la propria attività. Quanto sopra è confermato dai santi: Don Bosco, Cottolengo, Murialdo ecc. ". "La Casa di Carità Arti e Mestieri, sorta per volontà manifesta di Dio "per salvare anime e formare nuove generazioni", per mezzo della formazione professionale degli allievi, ha ulteriori e fondati motivi per affidarsi totalmente alla Provvidenza di Gesù Crocifisso che l'ha richiesta per mezzo del Servo di Dio Fra Leopoldo e che ne ha promosso la realizzazione per mezzo di Fr. Teodoreto e dei Catechisti del SS. Crocifisso da lui fondati. Vi sono chiare indicazioni relative alla conduzione di quest'Opera … tutte espresse nei detti di Fra Leopoldo. A quanti portano la responsabilità nella gestione di quest'Opera, ed in particolare agli amministratori, è richiesto un grande spirito di fede nel Signore e nella sua Provvidenza, trattandosi di un'opera chiaramente voluta da Dio e volta al servizio del ceto povero. … per ogni esercizio finanziario l'avvio delle attività avviene senza la garanzia di una copertura totale delle spese, in quanto i proventi sicuri sono solo parziali, tuttavia si deve avere piena fiducia nella divina Provvidenza che non lascerà mancare quanto necessita all'Opera. Tale fiducia si deve avere anche per affrontare spese ingenti e per le quali non si prevede la copertura finanziaria, ma che tuttavia sono ritenute necessario per il buon svolgimento dell'attività formativa. … La Casa di Carità deve restare fedele alle finalità formative per i giovani ed i lavoratori secondo quanto espresso nei "detti di Fra Leopoldo " e indicato nello Statuto dell'Ente. I dirigenti ed i collaboratori dell'Opera devono quindi tenere presente il fine per cui è stata istituita e viverlo nel loro compito, con l'aiuto di Dio, perché qualora mancasse questa finalità soprannaturale sarebbe vanificato il fine dell'Opera anche se umanamente perfetto ". ( F. Fonti, Riflessione sui criteri di gestione della Casa di Carità, 9 maggio 1995 ). "Finalità soprannaturale" è un'espressione che qualifica molto bene il sentire profondo dei grandi Catechisti. Nella storia dell'umanità tutte le grandi opere monumentali, dalle piramidi alle cattedrali, hanno avuto finalità soprannaturali. Poi l'uomo "uccise Dio", come scriveva Nietzsche, e tutto un modo di guardare al senso della vita e del lavoro crollò miseramente. Eppure, alla fine del XX secolo, in una città dell'Occidente industrializzato e secolarizzato, qualcuno poteva ancora scrivere di Opere materiali aventi un fine non puramente umano. Questa affermazione, oggigiorno, con l'avvenuta equiparazione della religione all'aberrazione psicologica, ha il sapore della bestemmia: fior di pedagoghi e studiosi della didattica insorgono al solo sentire mescolare le parole "educazione" e "spiritualità cristiana". Dio è più grande di questi meschini e Francesco Fonti, uomo di salde certezze, non si faceva scrupolo di ripetere in faccia al mondo, quello che Fra Leopoldo più di 70 anni prima scriveva nel chiuso di un convento. Pensieri simili venivano espressi da Francesco Fonti, all'inizio dell'anno scolastico, alla presenza dei vari insegnanti riuniti per il consueto discorso di benvenuto. Anche in queste occasioni, sfogliando le carte del Presidente, si può notare come venissero sottolineati con una vistosa riga rossa proprio quei passaggi chiave dai quali maggiormente dipendeva l'identità stessa della scuola. Era un momento vigoroso per coloro che, travolti dallo stress quotidiano, rischiavano di dimenticare la ragione di tutto: far amare Dio e salvare anime. "La Casa di Carità è sorta per un fine educativo dei giovani ( vedi detto istitutivo di Fra Leopoldo ). Per il raggiungimento di questo fine gli insegnanti hanno un compito essenziale per il tempo e la natura del loro rapporto con gli allievi. Pertanto l'azione formativa ed educativa della Casa di Carità è affidata in buona parte agli insegnanti di pratica e teoria. Questo richiede un impegno cosciente e responsabile. Ci è d'aiuto nello svolgimento del nostro impegno considerare il nome della nostra Opera, che è anche un programma. Casa = ossia comunità di persone legate da vincoli di fine … ambiente in cui si cresce di età, ma anche di consapevolezza. I suoi vari componenti formano una unità ordinata, fondamentale per la società. Tutti sono importanti pur avendo condizioni diverse. L'insegnante in questa comunità-casa deve esercitare la sua azione che sarà certamente una forma di paternità ( Dio ), che aiuta i figli a crescere a diventare adulti anche per l'acquisizione di capacità professionali. Questa funzione sarà svolta con autorevolezza, nell'ordine, un ordine non imposto con la forza, ma che nasce per esigenza di convenienza, per il raggiungimento del fine. Di Carità = L'insegnamento è gratuito. L'opera non ha alcun fine di lucro, ma solo una motivazione d'amore: "per salvare le anime, per formare nuove generazioni" ( 24 novembre 1919 ). Bisogna che anche noi entriamo in questo fine di misericordia perché il Crocifisso ha voluto la Casa di Carità e, quindi, la nostra attività deve collaborare a questo fine. Questo fine o messaggio di salvezza è espresso in sintesi nella Devozione- Adorazione che quindi è il fondamento della CCAM e motivo della sua istituzione. Questa devozione-adorazione, che quindi non è solo una semplice preghiera, sia raccomandata agli allievi affinché sia praticata, e naturalmente anche a noi stessi. Arti e Mestieri = non è una semplice aggiunta al titolo, ma è una specificazione delle ragioni e del modo secondo cui il lavoro può e deve considerarsi parte integrante del programma educativo dell'Opera. Dal detto di Fra Leopoldo circa "il salvare le anime" … si deduce che il lavoro degli artigiani, opportunamente … insegnato ai giovani, deve considerarsi come l'attività educatrice e santificatrice caratterizzante la nostra Opera. Ecco quindi che il titolo CCAM è il programma di attività della nostra Opera che in parte notevole è affidata agli insegnanti. Gli Insegnanti devono quindi operare fedelmente secondo questo programma certo che non ci mancherà sicuramente l'aiuto della Provvidenza. " ( F. Fonti, manoscritto, Riunione di inizio anno, senza data ). Questo scritto autografo è, per la sua concisione e per la parola "Dio" scritta in rosso accanto al termine "paternità", molto indicativo: sembra infatti che la scuola, come la famiglia guidata da un buon padre, debba trasformarsi in un riflesso di quella filiazione che ogni credente dovrebbe sperare da Dio. Questa è una concezione della formazione morale e umana assolutamente in linea con la più pura tradizione pedagogica cristiana. Qualcosa del genere lo troviamo anche in Sant'Agostino, quando dice che bisogna sforzarsi di far emergere nell'uomo inferiore il "vestigium Trinitatis", lo spaeculum di quella altissima realtà divina che ogni educatore cristiano dovrebbe portare a maturazione. Fonti, come visto sopra, promosse queste idee presso il Consiglio d'Amministrazione, davanti al Corpo Docenti riunito per l'inizio dell'anno scolastico, ma anche in seno all'Assemblea dell'Associazione Casa di Carità, i cui verbali conservano ampie tracce della sua opera di persuasione ( 15 ottobre 1970, 12 novembre 1974, 11 maggio 1975 ). Non erano parole gettate al vento, ma la premessa di iniziative di formazione cristiana rivolte agli allievi della scuola: "Segue un elenco delle attività … 1) Giornate di spiritualità: Sono tre giorni in cui gli allievi partendo dai fatti concreti della vita sociale e del mondo del lavoro analizzano, in un clima di serena amicizia e di proficua preghiera, le cause che condizionano in negativo la persona del lavoratore … così come quegli aspetti positivi che affermano la sua persona favorendo la testimonianza cristiana 2) Gruppi spontanei e Volontari del Vangelo: si radunano un giorno alla settimana dopo le lezioni della sera … per l'evangelizzazione del loro ambiente di famiglia 3) Campo scuola: … nel contatto con la natura alpina si offre una qualificazione dei nostri allievi che non sia soltanto e freddamente tecnica, ma anche cristoformante in Gesù Crocifisso " ( Verbale dell 'Assemblea dei soci dell'Associazione Casa di Carità Arti e Mestieri, 12 novembre 1974 ) Ma i frutti di questa paternità operante, ispirata da Fr. Teodoreto, concretamente dove sono? Qui ci giunge in soccorso la preziosa testimonianza di un ex allievo della Casa di Carità che, trasferitesi in Argentina, scriveva a Francesco Fonti per ringraziare gli insegnanti e gli amici lasciati a Torino, ma soprattutto per comunicare i risultati ottenuti camminando sulla retta via tracciata dai suoi maestri, non senza fare un fondamentale riferimento a Fra Leopoldo. "Caro Geometra Fonti, Le mando mie notizie dalla lontana Argentina dalla quale ricordo sempre la mia Patria e gli amici della Casa di Carità. La fabbrica dove lavoro si chiama Tristan Suarez e si occupa di falegnameria, fonderia, fabbricazione di punte ad elica, lavorazione dei marmi, riparazione di aerei, meccanica. Abbiamo un grande campo da volo di 160 ettari e per circa due mesi abbiamo ospitato "l'Angelo dei bimbi" ( ndr. Aereo della Croce Rossa? ) da noi completamente revisionato, messo a punto e dotato di radio prima di cominciare il suo nuovo raid sud americano. Abbiamo anche costruito un villaggio per operai, dormitori, refettori ecc. Io ho a mio carico il reparto marmi, graniti e pietre, ed il lavoro non mi manca … Tutta la mia famiglia è ora in Argentina e mio padre fa un viaggio in Italia ogni anno. In totale sta assente tra viaggio e soggiorno in Italia e Svizzera al massimo 20 giorni. Il 15 febbraio dello scorso anno ho avuto due gemelli, Giuseppe e Maria ed ora attendo di essere nuovamente padre in luglio. … Voglio fare una piccola offerta per la Casa di Carità in ringraziamento a Fra Leopoldo che ho invocato quando il mio bambino ha avuto un piccolo disturbo, guarito perfettamente senza bisogno di cure. Il lavoro è molto, le difficoltà non mancano, ma dopo quello che abbiamo passato in Italia sembrano piccole. Come vede sono soddisfatto del mio lavoro e la mia famiglia è una grande gioia per me e devo ringraziare il Signore. La prego di scrivermi quando ha tempo, informandomi dell'attività della scuola. Saluti da parte mia tutti gli insegnanti e in modo particolare I 'Ing. Gerini che spero in buona salute. A lei mando il mio saluto affettuoso che estendo volentieri alla sua famiglia. Alberto Poverelli, Buenos Aires, 5 giugno 1949". Chi l'avrebbe mai detto che dalla lontana Argentina già nel 1949 ( Fra Leopoldo muore nel '22 ) qualcuno avrebbe invocato il nome di Fra Leopoldo e ringraziato gli insegnanti della scuola da lui ispirata? Solo chi "non ha occhi per vedere" può dare per scontato questo genere di grazie; in verità, sono segni inequivocabili d'incoraggiamento che, come doni inaspettati, giungono dal Cielo a confortare chi lotta tutti i giorni per restare fedele ad un ideale di vita e di missione così alto, da risultare spesso scomodo. I profitti di questo affidamento totale alla Provvidenza, come visto sopra, non mancano, ma per capire la condizione di Francesco Fonti, bisogna anche considerare lo stato mentale di chi vive sotto la costante minaccia di imprevisti che non permettono, neanche al "giusto", di dormire sonni perfettamente tranquilli. "Ti scrivo per darti ulteriori notizie sui danni provocati dal temporale di ieri l'altro e di cui Rollino ti ha già informato. La grandine è caduta per circa una decina di minuti, con una violenza inconsueta e con una forte inclinazione. Un centinaio di tegole del tetto sono state rotte dalla violenza della grandine …. I vetri della facciata lungo via Orvieto sono rotti per la maggior parte … Perfino nella nuova costruzione, con i frangisole quasi chiusi, i chicchi di grandine hanno trovato il modo di passare come proiettili e di romperne parecchi! … Dopo la rimessa in ordine dei tetti, abbiamo sgombrato e pulito le aule dai rottami di vetro e dall'acqua. Spiacente doverti dare queste sgradevoli notizie. ( F. Fonti a Carlo Tessitore, 12 agosto 1959 ) Ma non ci sono solo incidenti e spese impreviste. A chi gliene chiede conto Fonti risponde con l'ottimismo della volontà che caratterizza ogni suo approccio ai nuovi problemi. "Ho ricevuto la tua lettera, ma credimi che tra il lavoro e le preoccupazioni non sono in condizione di fare tutto quello che dovrei. Ti assicuro del mio costante ricordo nella preghiera … affinché il Signore ti conceda, per l'intercessione della Beata Vergine, di realizzare e vivere pienamente la tua vocazione di sacerdote catechista. Da parte mia chiedo al Signore una fede più robusta e più viva che mi aiuti a vivere pienamente la mia vocazione nella fedeltà al Messaggio di amore e misericordia trasmessoci da Fra Leopoldo. Eccoti ora alcune notizie sulla Casa di Carità: In questi giorni sono terminati gli esami dei corsi diurni e pre-serali … Nonostante la grave crisi industriale sono stati avviati al lavoro quasi tutti gli allievi qualificati quest'anno e questo costituisce certamente un buon risultato, stante l'attuale congiuntura. Rimangono invece tutti i problemi e le difficoltà, interne ed esterne che riguardano l'attività della Casa di Carità e di cui alcuni sono così gravi da mettere in pericolo la sua stessa sopravvivenza. Si tratta di problemi didattici e formativi riguardanti gli allievi e gli insegnanti, di rapporti con la Regione Piemonte, con i Sindacati con il nostro personale; di problemi finanziari assillanti e di altre difficoltà che spesso sono superiori alle nostre stesse capacità. Tuttavia si tratta di un 'opera certamente voluta dal Signore, quindi confidiamo pienamente in Lui in tutto e per tutto raccomandandoci alla intercessione dei nostri santi Fondatori. " ( F. Fonti a D. Felix, 28.6.1977 ) Questa lettera più di mille altre supposizioni, può descriverci la mole di responsabilità e tensioni che pesava sulla croce di F. Fonti. Il suo tono non lascia adito alle amarezze, ma allarga uno squarcio sincero, privo di ogni complesso di superiorità, sulla situazione reale di una scuola che non ha mai goduto di raccomandazioni o protezioni "umane". Anche qui, come nella lettera dall'Argentina, torna il riferimento, quasi l'invocazione all'intercessione di Fra Leopoldo. È un caso? Non crediamo proprio: c'è semmai un continuo risalire alla fonte del carisma originario, quasi per attingere nuova linfa e contrapporre alla durezza dei fatti negativi, la forza vivificante dei santi. Conclusione Francesco Fonti è una figura chiave per capire lo spirito autentico della laicità consacrata. È il modello dell'imprenditore cristiano che, senza infingimenti, affronta giorno per giorno la sua scelta di vita, tralasciando le "sicurezze umane" per affidarsi a quella "legge divina", nemica di ambizioni ed arrivismo, che il più delle volte, per il sentire comune, sembra condurre alla rovina economica. Ciò nonostante, Francesco Fonti non è mai stato un romantico "perdente". Sostenuto e affiancato da una famiglia quasi interamente consacrata al lavoro e al Crocifisso, è sempre rimasto al passo coi tempi, ha tenuto saldamente in mano le redini di un'azienda immersa nella competizione economica, si è adattato in modo vincente ai cambiamenti strutturali che hanno sconvolto il mondo del lavoro e della scuola ( pensiamo alla rivoluzione informatica ). Ha investito profitti ed energie non solo nello sviluppo dell'azienda familiare, ma anche in quella realtà parallela che era la Casa di Carità: questo atteggiamento è da un punto di vista contabile "scarsamente remunerativo". Molto probabilmente il giudizio di qualche esperto di marketing, in merito ai criteri instillati da Fratel Teodoreto nella mente del giovane Francesco, sarebbe fortemente negativo. Non c'era neanche un ritorno d'immagine, in questi investimenti, poiché le Costituzioni dell'Unione imponevano umiltà e nascondimento. Discutendo casi analoghi ci si sente spesso dire che alcuni "santi sociali" torinesi, in termini pubblicitari, sono stati assai più lungimiranti, avendo usato tutti i mezzi a disposizione affinché gli interventi di recupero, compiuti a favore della gioventù indigente, avessero una risonanza nazionale. Ma è proprio qui che entra in gioco la differenza del carisma fondativo. Fr. Teodoreto trasmise ai suoi Catechisti una spiritualità ed una missione assolutamente originali, non certo per appagare un capriccio personale, bensì per rispettare la volontà divina espressa nei Diari di Fra Leopoldo. I grandi Catechisti impiegati in professioni esterne alle Opere dell'Unione - Tessitore, De Maria, Fonti - si regolarono di conseguenza, veicolando il loro apostolato nell'anonima routine del lavoro quotidiano e incarnando, nei fatti più che a parole ( le testimonianze dei dipendenti di Francesco Fonti sono molto preziose in questo senso ), un modus operandi in grado di conciliare le esigenze delle professioni moderne con la "verità tutta intera" difesa da Fr. Teodoreto e Fra Leopoldo. Come detto altrove, professionisti di razza quali Tessitore, Fonti e De Maria, rappresentano, senza clamore ma nel nascondimento confacente al loro stato, gli "esperimenti riusciti" della cristianità militante integrata nel mondo. Sono cioè la dimostrazione - provata sul campo spietato dei fatti, dei numeri, dei risultati - grazie alla quale può essere smentita la pretesa mancanza di realismo rinfacciata da un certo progressismo ai cristiani "tutti d'un pezzo". Paolo Pio Perazzo muore nel 1911, Francesco Fonti nasce nel 1909 … ma il progetto che germoglia e si dipana dal loro esempio non muore, a dispetto dei pareri contrari che accompagnarono per lunghi anni l'opera di Fr. Teodoreto. La "buona battaglia" può essere combattuta, rispettando tutte le "regole" ( è proprio il caso di usare questa parola ), restando saldamente ancorati alla realtà concreta del XXI secolo. Se vogliamo rispettare il dettato evangelico, al di là del "buonismo" tollerante oggi alla moda, e liberarci dalla crosta disgustosa dell'ipocrisia che tanto indignava nostro Signore ( anche i Catechisti sono esposti alla terribile colpa dei farisei ), è necessario recuperare quel coraggio della coerenza che marchia in modo indelebile la vita di Francesco Fonti. Oggi, al contrario, è la trasgressione ad essere segno di "virilità esistenziale", di coraggio interiore: proprio secondo quella diabolica dinamica descritta da Dostoiewskj in "Delitto e castigo". Il nichilista ripudia la morale per attestare in faccia ai "deboli" la propria superiorità. È il terribile equivoco sorto intorno alla "debolezza invincibile" descritta da San Paolo, un equivoco che, favorito dall' "ignoranza religiosa" combattuta dai Catechisti, diffonde tra i giovani comportamenti ambigui e svianti. Per un verso partecipano in massa ai cortei pacifisti, sostengono persino le opere di volontariato, ma poi, nei fine settimana, smessa la maschera umanitaria, danno sfogo al peggiore edonismo. È inutile fare gli struzzi, nascondendo la testa sotto la sabbia del perbenismo: la crisi progressiva della famiglia, le stragi familiari, le nevrosi giovanili sono la spia di questa schizofrenia interiore. Si ha quindi bisogno, a cominciare dal lavoro e dalla scuola, di figure "intimamente vere e coerenti" che incarnino fino in fondo ( anche per smuovere la tiepidezza dei meno giovani! ) modelli di vita integralmente cristiani. Altrimenti, di fronte alla convivenza col male, anche quanti continuano a perseverare nel cattolicesimo praticato, perderanno la speranza nella "nuova e santa generazione" promessa da Fra Leopoldo. Francesco Fonti ha posto sulla spietata bilancia della vita moderna ( fallimento - successo ) la sua solidissima ponderatezza cristiana, il suo modo di costruire le cose e le persone ragionando sul lungo periodo, la forza di un carattere insensibile ai capricci del secolo. Perché la vera debolezza nasce dall'impressione del momento, dal condizionamento delle mode passeggere, dai proclami degli istrioni di turno ( nichilisti o pensiero-debolisti che siano ). Al contrario, l'autentica fortezza appartiene a coloro che, come Francesco Fonti, hanno ignorato le lusinghe della popolarità proprio per poter fondare il loro progetto di vita sulla Roccia - come scriveva Fr. Gustavo Furfaro nel citato articolo - della charitas cristiana, che eleva quanto più "abbassa" agli occhi del mondo. Su quanti amici poteva contare un imprenditore così singolare? Ha mai dovuto rinunciare a riconoscimenti o a favori importanti a causa della sua testarda e a tratti severa coerenza ideale ( testimoniata da molti collaboratori e talvolta scambiata per durezza di carattere )? Non ci sentiamo di azzardare una risposta categorica, ma, in cuor nostro, specie dopo aver esaminato la vita del più "umile" dei Catechisti, Pietro Bagna, non pensiamo che Fonti riscuotesse ovunque plausi e consensi. La Croce implica alcune rinunce, che poi sono investimenti essenziali per l'eternità e tra queste spesso i laici consacrati devono mettere in conto il pedaggio da pagare alla "solitudine", all' "incomprensione", alla "mancanza di affetti" che non siano quelli della famiglia d'origine. Riflettendo sulla vicenda di Brusa, oseremmo dire di più, bisogna mettere in conto anche il "tradimento" ( involontario, per carità ) di antiche amicizie. Qualcuno, ripensando alle amarezze patite dai grandi Catechisti ( Brusa, Bagna, De Maria ), ci ha parlato di vicende "tristi". Allora non ha capito nulla … ne della Croce, ne della laicità consacrata. Sono lacrime "leggere" quelle versate da Fonti quando raccontava le traversie di Paolo Pio Perazzo ( che evidentemente riusciva a compatire meglio di altri, per affinità di vocazione ), così come sono lacrime "leggere" quelle versate da Bagna di fronte ai parenti che lo visitavano al Cottolengo: il tempo vola, la Croce è leggera, la beatitudine eterna. Chi ha il coraggio di patire oggi, domani esulterà nella gioia accanto a nostro Signore, il più grande degli amici. Il Catechista Fonti Francesco, con la sua fede sconfinata e quanto mai concreta ( visti i ruoli ricoperti ) nella Provvidenza, ha scelto di non "servire due padroni" e ha vinto la "buona battaglia". Ciò deve essere motivo di gioia per chiunque si riconosca negli ideali di Fr. Teodoreto.