Padri/Agostino/ContrDueL/ContrDueL.txt Contro le due lettere dei Pelagiani Libro I 1.1 - Ossequio al papa Bonifacio È vero che senz'altro ti conoscevo già per la risonanza della tua fama celebratissima e avevo già appreso da testimoni molto numerosi e molto attendibili di quanta grazia divina tu fossi ricolmo, o beatissimo e venerando papa Bonifacio. Ma ora, dopo che ti ha visto anche fisicamente di persona il mio fratello Alipio; dopo che, accolto da te con estrema gentilezza e cordialità, ha scambiato con te conversazioni dettate da reciproca direzione; dopo che, convivendo con te in comunione di grande affetto, anche se per piccolo tratto di tempo, ha versato nel tuo animo sé e me insieme e ha riportato te e me nell'animo suo, tanto maggiore si è fatta in me la conoscenza della tua Santità quanto più certa l'amicizia. Tu infatti, rifuggendo dal pensare altamente di te, ( Rm 12,16 ) per quanto più alto sia il posto da cui presiedi, non disdegni d'essere amico degli umili e di rendere amore a coloro che ti danno amore. Cos'altro è appunto l'amicizia, che non trae il nome se non dall'amore e non è fedele se non nel Cristo, nel quale soltanto può essere anche eterna e felice? Per questo e altresì per la maggiore fiducia suscitata in me da quel fratello che mi ti ha reso più familiare, ho ardito di scrivere alla tua Beatitudine qualcosa sui problemi che in questo tempo sollecitano con uno stimolo più vivo la mia cura episcopale, per quanta ne ho, a vigilare per il gregge del Signore. 1.2 - Il pericolo della nuova eresia Infatti i nuovi eretici, nemici della grazia di Dio, che per Gesù Cristo nostro Signore è data ai piccoli e ai grandi, benché una più aperta condanna li mostri già con maggiore evidenza come gente da tenere alla larga, non cessano tuttavia di tentare con i loro scritti i cuori dei meno cauti o dei meno istruiti. Ai quali eretici bisognerebbe senz'altro rispondere perché non confermino se stessi o i loro seguaci in quel nefando errore, anche se non temessimo che con il loro specioso discorrere riescano ad ingannare qualcuno dei cattolici. Ma poiché essi non finiscono di gridare attorno ai recinti del gregge del Signore e di forzarne gli accessi da ogni parte per strappare le pecore, redente a così caro prezzo, e poiché è comune a tutti noi che esercitiamo l'ufficio dell'episcopato la vigilanza pastorale, sebbene tu primeggi in essa per la sede più alta, io faccio quello che posso, secondo la piccolezza del mio ufficio e secondo quanto il Signore si degna donarmi con l'aiuto delle tue orazioni, al fine di opporre ai loro scritti pestilenziali e fraudolenti altri scritti curativi e protettivi, che o guariscano anche la loro rabbia furiosa o le impediscano di mordere altri. 1.3 - Dedica dell'opera a Bonifacio Ecco cosa rispondo alle loro due lettere, ossia ad una prima che si dice mandata da Giuliano a Roma con lo scopo, credo, che gli servisse a trovare o a far più seguaci possibili, e ad una seconda che in diciotto hanno osato scrivere a Tessalonica come vescovi che condividono quell'errore, per tentare con la loro astuzia non cristiani comuni, ma lo stesso vescovo locale e trarlo, se possibile, dalla loro parte. Le risposte dunque che io, come ho detto, do in quest'opera alle loro due lettere, ho decisamente preferito di mandarle alla tua Santità, non tanto per fartele conoscere quanto per fartele esaminare ed emendare dove ci fosse eventualmente qualcosa che ti dispiaccia. Mi ha confidato infatti il mio fratello [ Alipio ] che sei stato tu stesso a degnarti di dare a lui quelle lettere, le quali non sarebbero potute capitare nelle tue mani se non per la diligenza vigilantissima di tuoi figli e nostri fratelli. Da parte mia poi ringrazio la tua benevolenza tanto sincera verso di noi di non avermi voluto tener nascoste quelle lettere dei nemici della grazia di Dio, nelle quali hai trovato il mio nome, espresso in modo evidente e calunnioso. Ma spero dal Signore Dio nostro che non senza ricompensa celeste mi lacerino con dente maledico coloro ai quali io mi oppongo in difesa dei bambini, perché non siano lasciati per loro rovina al falso lodatore Pelagio, ma siano offerti al vero salvatore Cristo per la loro liberazione. 2.4 - Accusa pelagiana sul libero arbitrio Rispondiamo ordunque alla lettera di Giuliano. Egli scrive: Quei manichei con i quali non siamo attualmente in comunione, ossia tutti costoro dai quali dissentiamo, affermano che per il peccato del primo uomo, cioè di Adamo, andò perduto il nostro libero arbitrio e che nessuno possiede più il potere di vivere bene, ma tutti sono costretti al peccato dal potere vincolante della loro carne. Manichei chiama i cattolici, alla maniera di quel Gioviniano che, novello eretico di qualche anno fa, negava la verginità di Maria santa e metteva alla pari della sacra verginità le nozze dei fedeli. Né per altra ragione moveva ai cattolici questo addebito se non perché voleva farli apparire accusatori o condannatori delle nozze. 2.5 - Il libero arbitrio non è andato perduto, ma ha bisogno di essere liberato Nel difendere però il libero arbitrio precipitano fino a confidare in esso piuttosto che nell'aiuto del Signore per poter osservare la giustizia e fino a spingere ciascuno a vantarsi di sé e non nel Signore. ( 1 Cor 1,31 ) Chi di noi poi direbbe che per il peccato del primo uomo sia sparito dal genere umano il libero arbitrio? Certo per il peccato sparì la libertà, ma la libertà che esisteva nel paradiso di possedere la piena giustizia insieme all'immortalità. Per tale perdita la natura umana ha bisogno della grazia divina, secondo le parole del Signore: Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero; ( Gv 8,36 ) liberi, s'intende, per poter vivere in modo buono e giusto. Infatti è tanto vero che non è sparito nel peccatore il libero arbitrio che proprio per mezzo di esso peccano gli uomini, specialmente tutti coloro che peccano con piacere e amore del peccato, acconsentendo a ciò che fa loro piacere. Per cui anche l'Apostolo scrive: Quando eravate sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. ( Rm 6,20 ) Ecco, si dichiara che non avrebbero potuto sottostare in nessun modo nemmeno alla schiavitù del peccato se non in forza di un'altra libertà. Liberi nei riguardi della giustizia non lo sono dunque se non in forza dell'arbitrio della volontà, ma liberi dal peccato non lo diventano se non in forza della grazia del Salvatore. Per questo appunto l'ammirabile Dottore ha differenziato anche gli stessi vocaboli, scrivendo: Quando infatti eravate sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. Ma quale frutto raccoglieste allora da cose di cui ora vi vergognate? Infatti il loro destino è la morte. Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. ( Rm 6,20-22 ) Dice liberi nei riguardi della giustizia, non liberati; dal peccato invece non dice liberi, perché non l'attribuissero a sé, ma con grande accorgimento preferisce dire: liberati, riferendosi così alla famosa sentenza del Signore: Se il Figlio vi avrà liberati, allora sarete liberi davvero. Poiché dunque i figli degli uomini non vivono bene se non dopo esser diventati figli di Dio, che pretesa è quella di costui ( Giuliano ) d'attribuire al libero arbitrio il potere di vivere bene, quando tale potere non è dato se non dalla grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, come dice il Vangelo: A quanti però l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio? ( Gv 1,12 ) 3.6 - Anche la fede è dono di Dio Ma forse diranno d'essere stati aiutati proprio per avere il potere di diventare figli di Dio e che invece per meritare d'avere tale potere hanno precedentemente accolto Gesù con il libero arbitrio senza l'aiuto di nessuna grazia. Questa è appunto la loro tattica per cercar di distruggere la grazia: sostenere che essa viene data secondo i nostri meriti. Ma perché non dividano questa sentenza evangelica riconoscendo affermato il merito nelle parole: A quanti però l'hanno accolto, e poi non riconoscendo affermata nelle altre: Ha dato il potere di diventare figli di Dio la grazia data gratuitamente ma corrisposta in forza di cotesto merito, se domandassimo cosa significhino le parole: L'hanno accolto, avranno forse pronta un'altra risposta che non sia: "Hanno creduto in lui"? Orbene, perché sappiano che anche il credere dipende dalla grazia, leggano quello che dice l'Apostolo: Senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo è per loro un presagio di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio, perché a voi è stata concessa a motivo di Cristo la grazia non solo di credere in lui ma anche di soffrire per lui. ( Fil 1,28-29 ) Riconosce evidentemente che ambedue, il credere e il soffrire, sono stati doni concessi. Così pure quando augura: Pace ai fratelli, e carità e fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo. ( Ef 6,23 ) Leggano inoltre quello che dice il Signore stesso: Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato. ( Gv 6,44 ) Nel qual testo, perché nessuno pensi che le parole: Venire a me abbiano un senso diverso dal: "Credere in me", poco dopo parlando del suo corpo e del suo sangue ed essendosi scandalizzati moltissimi del suo modo d'esprimersi, dichiarò: Le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Ma vi sono alcuni tra voi che non credono. Poi l'Evangelista soggiunge: Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E continuò Gesù: Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio. ( Gv 6,64-66 ) Ha ripetuto dunque la sentenza con la quale aveva affermato: Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato. E mostrò d'averlo detto per i credenti e per i non credenti, spiegando il senso delle sue precedenti parole: Se non lo attira il Padre che mi ha mandato e ripetendo con parole diverse lo stesso pensiero espresso nella frase: Se non gli è concesso dal Padre mio. Viene appunto attirato al Cristo chi riceve il dono di credere nel Cristo. Il potere dunque di diventare figli di Dio è dato a coloro che credono in Gesù nel momento stesso in cui è fatto ad essi il dono di credere in lui. Il qual potere se non è dato da Dio, non si può avere in nessun modo dal libero arbitrio, perché nel bene non sarà nemmeno libero l'arbitrio che non sia stato liberato dal Liberatore, nel male invece ha libero l'arbitrio l'uomo che porta dentro di sé il piacere della malizia, seminata in lui da un impostore occulto o manifesto, oppure assorbita per autosuggestione. 3.7 - Libertà nel peccato Non è dunque vero, come alcuni dicono che noi diciamo e come costui osa per giunta scrivere, che "tutti sono costretti al peccato dalla necessità della loro carne", quasi che pecchino contro la propria volontà. È vero invece che quanti sono già in età di disporre dell'arbitrio della propria mente, e rimangono nel peccato per volontà loro, e da un peccato precipitano in un altro per volontà loro. Perché, anche chi li corrompe e inganna, non fa altro che portarli a commettere il peccato di loro volontà, o per ignoranza della verità o per piacere d'iniquità o per ambedue i mali: e di cecità e di debilità. Ma la ragione per cui questa volontà, libera nel male perché si diletta del male, non è libera nel bene, sta nel fatto che non è stata liberata. Né può l'uomo volere qualcosa di buono se non è aiutato da colui che non può volere il male, cioè dalla grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore. Tutto quello infatti che non viene dalla fede è peccato. ( Rm 14,23 ) E quindi la buona volontà che si strappa al peccato viene dalla fede, perché il giusto vive di fede. ( Rm 1,17; Ab 2,4 ) Ma alla fede spetta credere nel Cristo. E nessuno può credere in lui, cioè andare da lui, se non gli è stato concesso. Nessuno dunque può avere la giusta volontà se non ha ricevuto dall'alto la vera grazia, cioè la grazia gratuita senza meriti precedenti di nessun genere. 4.8 - Ambiguità pelagiane Ciò non vogliono costoro, esaltati e superbi, né difensori del libero arbitrio correggendolo, ma distruttori gonfiandolo. I quali non per altro s'indignano contro di noi che facciamo queste affermazioni se non perché disdegnano di vantarsi nel Signore. ( 1 Cor 1,31 ) Pelagio tuttavia paventò il giudizio dei vescovi palestinesi ed essendo stato accusato di dire che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti, negò di dirlo e condannò con anatema coloro che lo dicevano. Né altra dottrina che questa è tuttavia quella che Pelagio si trova a difendere nei libri scritti da lui dopo di allora, persuaso d'aver giocato i suoi giudici o mentendo o nascondendo non so in che modo il proprio pensiero con ambigue parole. 5.9 - Accusa pelagiana sul matrimonio Ma vediamo già quello che viene appresso. Egli scrive: Dicono pure che le nozze attualmente in uso non sono state istituite da Dio. Ciò si legge nel libro di Agostino contro il quale io ho risposto recentemente con quattro libri. E le affermazioni di Agostino sono state fatte proprie in odio alla verità dai nostri nemici. A tali sue calunniosissime parole mi sembra di dover rispondere brevemente per ora, perché dopo le ripete, quando egli stesso vuole insinuare, come per opporsi alle nostre tesi, che cosa insegnino costoro. A quel punto sarà il caso di combattere con l'aiuto del Signore contro di lui tanto quanto lo esige l'importanza della questione. Per il momento rispondo che le nozze sono state istituite da Dio: e allora quando fu detto: Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne; ( Gen 2,24 ) e allora quando fu scritto: L'unione della moglie col marito è dono del Signore. ( Pr 19,14 ) Né altro infatti avviene anche ora se non quello che allora: l'unirsi dell'uomo con la moglie e il farsi dei due una sola carne. Delle stesse nozze appunto come si praticano adesso il Signore fu consultato dai Giudei se fosse lecito rimandare la moglie per un qualsiasi motivo. E, ricordata questa testimonianza della legge, egli soggiunse: Quello dunque che Dio ha congiunto l'uomo non lo separi. ( Mt 19,6 ) Di questa testimonianza della legge si valse anche l'apostolo Paolo per esortare i mariti ad amare le proprie mogli. ( Ef 5,25 ) Mi guardi dunque Dio che nel mio libro abbia potuto costui leggere qualcosa di contrario a questi testi divini. Egli invece, o non intendendo o piuttosto calunniando, tenta di storcere in altro senso quello che legge. Quanto poi al mio libro, contro il quale egli ricorda d'aver risposto con quattro libri, esso fu scritto da me dopo la condanna di Pelagio e di Celestio. Ciò ho creduto doverlo dire, perché costui dice che le mie affermazioni sono state fatte proprie in odio alla verità dai suoi nemici, e non vorrei che da ciò qualcuno sia indotto a pensare che i nemici della grazia del Cristo siano stati condannati come nuovi eretici per questo mio libro. Comunque in quel mio libro le nozze sono difese invece che riprovate. 5.10 - Accusa sulla sessualità e la procreazione Scrive costui: Dicono altresì che il movimento dei genitali e il mescolamento dei coniugi sono invenzioni del diavolo e per questo coloro che nascono sono rei, benché innocenti, e che essi nascano da questo mescolamento diabolico viene dal diavolo e non da Dio. Ora questo senza nessun dubbio è manicheo. Noi al contrario, come diciamo che le nozze sono state istituite da Dio per l'ordinata generazione dei figli, così diciamo che la seminagione dei figli da generare non poteva essere nemmeno nel paradiso, se si generassero dei figli, senza il movimento dei genitali e il mescolamento dei coniugi. Ma se tale sarebbe stato il movimento e tale il mescolamento dei coniugi, nel caso che nessuno avesse peccato, quale è adesso in compagnia della vergognosa libidine, qui sta la questione, e di essa discuteremo più diligentemente in seguito, se Dio lo vorrà. 6.11 - Né l'unione coniugale né i figli sono opera diabolica Che cosa tuttavia costoro vogliano, a cosa mirino, dove tentino di arrivare lo dichiarano le parole che costui aggiunge e con le quali ci attribuisce di dire: "Per questo coloro che nascono sono rei, benché innocenti, e che essi nascono da questo mescolamento diabolico viene dal diavolo e non da Dio". Ora, invece, noi né diciamo diabolico il mescolamento dei coniugi, specialmente dei credenti, che si fa allo scopo di generare figli da rigenerare successivamente. Neppure diciamo che gli uomini vengono fatti dal diavolo, ma sempre da Dio in quanto sono uomini, e che tuttavia nascono rei anche da coniugi credenti, come un oleastro da un olivo, a causa del peccato originale, e che per questo sono sotto il diavolo finché non rinascano nel Cristo, essendo il diavolo autore della colpa e non della natura. Poiché costoro dicono all'opposto che i bambini non contraggono nessun peccato originale e quindi non sono sotto il diavolo, che cosa s'ingegnano d'ottenere se non l'esclusione dei bambini da quella grazia di Dio con la quale egli, come dice l'Apostolo, ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto? ( Col 1,13 ) Tanto da negare che i bambini siano in potere delle tenebre, anche prima dell'aiuto liberante del Signore, lodano nei bambini l'opera del Creatore in modo così esagerato da distruggere la misericordia del Redentore. E poiché noi riconosciamo la misericordia sia nei grandi che nei piccoli, egli sentenzia che questo senza nessun dubbio è manicheo, quando invece è l'antichissimo dogma cattolico che serve a sbaragliare il nuovo dogma eretico di costoro. 7.12 - Accusa pelagiana sui giusti dell'Antico Testamento Scrive: Dicono che i santi nell'Antico Testamento non furono senza peccati, cioè non furono liberati dalle colpe neppure per via d'espiazione, ma la morte li colse in stato di reato. Invece noi diciamo che furono liberati dalle loro colpe tanto prima della Legge quanto al tempo dell'Antico Testamento, non per virtù propria, perché è maledetto l'uomo che confida nell'uomo, ( Ger 17,5 ) e questa maledizione abbraccia certamente coloro ai quali il Salmo divino rimprovera di confidare nella loro forza; ( Sal 49,7 ) né in virtù dell'Antico Testamento che generava nella schiavitù, ( Gal 4,24 ) benché dato da Dio per grazia di una precisa disposizione; né in virtù della stessa Legge e santa e giusta e buona ( Rm 7,12 ) che prescriveva: Non desiderare, ( Es 20,17; Rm 7,7 ) perché non fu data per essere capace di conferire la vita, ma per le trasgressioni, finché non venisse la discendenza promessa; ( Gal 3,19-21 ) ma furono liberati per il sangue del Redentore stesso, che è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù. ( 1 Tm 2,5 ) Ma cotesti nemici della grazia di Dio, che è stata data a piccoli e grandi per Gesù Cristo nostro Signore, proprio per questo dicono che quegli antichi uomini di Dio erano di una giustizia perfetta perché non si creda che abbiano avuto bisogno dell'incarnazione, passione, risurrezione del Cristo, per la cui fede furono salvati. 8.13 - Accusa sulla santità degli Apostoli Scrive: Dicono che anche l'apostolo Paolo e tutti gli Apostoli ebbero sempre la macchia della libidine disordinata. Chi oserebbe dirlo, per quanto empio? Ma la calunnia di costui si spiega per il fatto che le parole dell'Apostolo: Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo, ( Rm 7,18 ) e le altre simili, non credono che Paolo le abbia dette di se stesso, ma che abbia preso le parti di non so chi altro che patisse tale situazione. Per cui dobbiamo considerare ed esaminare diligentemente questo passo della Lettera di Paolo, perché una qualche sua oscurità non faccia da copertura all'errore di costoro. A quel proposito, sebbene l'Apostolo discuta l'argomento abbastanza diffusamente, difendendo con grande e lunga insistenza la grazia contro quelli che si vantavano nella legge, noi tuttavia tocchiamo pochi punti pertinenti al tema. Dice S. Paolo: Nessuno sarà giustificato davanti a Dio dalle opere della legge. Per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e tutti sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata dal Cristo Gesù. ( Rm 3,20-24 ) E ancora: Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. ( Rm 3,27-28 ) Ancora: Non infatti in virtù della legge fu data ad Abramo o alla sua discendenza la promessa di diventare erede del mondo, ma in virtù della giustizia che viene dalla fede; poiché se diventassero eredi coloro che provengono dalla legge, sarebbe resa vana la fede e nulla la promessa. La legge infatti provoca l'ira; al contrario, dove non c'è legge, non c'è nemmeno trasgressione. ( Rm 4,13-15 ) In un altro passo: La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia. ( Rm 5,20 ) Similmente in un altro luogo: Il peccato infatti non dominerà più su di voi, poiché non siete più sotto la legge, ma sotto la grazia. ( Rm 6,14 ) E in un altro luogo ugualmente: O forse ignorate, fratelli, - parlo a gente esperta di legge - che la legge ha potere sull'uomo solo per il tempo in cui egli vive? La donna sposata, infatti, è legata dalla legge al marito finché egli vive, ma se il marito muore, è libera dalla legge. ( Rm 7,1-2 ) E poco più sotto: Alla stessa maniera, fratelli miei, anche voi mediante il corpo del Cristo siete stati messi a morte quanto alla legge, per appartenere ad un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio. Quando infatti eravamo nella carne, le passioni peccaminose stimolate dalla legge si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte. Ora però siamo stati liberati dalla legge, essendo morti a ciò che ci teneva prigionieri, per servire nel regime nuovo dello Spirito e non più nel regime vecchio della lettera. ( Rm 7,4-6 ) Con queste e simili prove il famoso Dottore delle genti dimostra con sufficiente evidenza che la legge non poté togliere il peccato, ma piuttosto lo accrebbe per lasciarlo togliere dalla grazia, perché la legge, alla quale soccombe l'infermità, sa comandare, e la grazia, per la quale s'infonde la carità, sa aiutare. Infatti, perché nessuno fosse indotto da queste testimonianze a vituperare la legge e a sostenere che è cattiva, avvertì l'Apostolo la difficoltà che poteva pararsi davanti a quanti fraintendessero e si fece da se stesso la medesima obiezione: Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge. ( Rm 7,7 ) L'aveva già detto precedentemente: Per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. ( Rm 3,20 ) Non dunque abolizione, ma cognizione. 8.14 - Esegesi di Rm 7,7-27 Ma da qui comincia già quello che ci ha spinti a fare queste nostre considerazioni: introduce la sua persona e sembra parlare di se stesso. Nella qual persona i pelagiani non vogliono che s'intenda l'Apostolo stesso, ma che egli abbia trasferito in sé un altro, cioè l'uomo sottoposto ancora alla legge e non ancora liberato per mezzo della grazia. Qui però costoro devono ormai ammettere che nessuno può giustificarsi per la legge, ( Gal 3,11 ) come dice altrove il medesimo Apostolo; ma che la legge vale per conoscere il peccato e per la trasgressione della legge stessa, perché, conosciuto e cresciuto il peccato, si cerchi la grazia per mezzo della fede. Ma le parole che temono di riferire all'Apostolo non sono queste, che egli potrebbe dire anche parlando delle sue vicende passate, bensì quelle che seguono. Infatti a questo punto dice: Io non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha ripreso vita e io sono morto. La legge, che doveva servire per la vita, è diventata per me motivo di morte. Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento. Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero! È invece il peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte, servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento. ( Rm 7,7-13 ) Tutte queste possono, come ho detto, sembrare reminiscenze dell'Apostolo sulla sua vita passata, cosicché con la sua affermazione: E io un tempo vivevo senza la legge abbia voluto far intendere la sua prima età dall'infanzia fino agli anni della ragione, e con l'affermazione che segue: Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha ripreso vita e io sono morto descriva se stesso come già capace di ricevere la legge, ma incapace d'osservarla e quindi come trasgressore della legge. 9.15 - Una cosa è amare la giustizia, un'altra il timore della pena Né sorprenda ciò che ha scritto ai Filippesi: Quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge, sono stato irreprensibile. ( Fil 3,6 ) Avrebbe infatti potuto essere trasgressore della legge interiormente nelle sue cattive passioni e osservare tuttavia le opere esterne della legge o per timore degli uomini o anche per timore di Dio, ma per paura della pena, non per amore e piacere della giustizia. Perché, altro è fare il bene per volontà di fare il bene, altro è invece essere così incline per volontà a fare il male da farlo anche realmente, se si potesse permettere di farlo impunemente. Così mal disposto pecca certamente all'interno della stessa volontà chi si astiene dal peccare non per volontà, ma per paura. Nel quale stato interiore sapendo l'Apostolo d'essersi trovato così mal disposto prima della grazia di Dio che viene per Gesù Cristo nostro Signore, lo confessa altrove con tutta esplicitezza. Scrivendo agli Efesini dice appunto: Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle potenze dell'aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli. Nel numero di quei ribelli, del resto, siamo vissuti anche tutti noi, un tempo, con i desideri della nostra carne, seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi; ed eravamo per natura meritevoli d'ira, come gli altri. Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia di lui infatti siamo stati salvati. ( Ef 2,1-5 ) E lo ripete nella Lettera a Tito: Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell'invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda. ( Tt 3,3 ) Tale fu Saulo nel tempo in cui dice d'essere stato irreprensibile secondo la giustizia che viene dalla legge. Infatti nelle righe successive riconosce con evidenza che non aveva progredito nella legge e non aveva mutato la sua condotta morale per essere irreprensibile dopo quella sua vita abominevole: tanto è vero che dice di non essere stato mutato rispetto a quei mali se non per mezzo della grazia del Salvatore. Infatti, aggiungendo anche qui, come nella Lettera agli Efesini, questa precisazione, dice: Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna. ( Tt 3,4-7 ) 9.16 - Il peccato del primo uomo rivive nell'uomo che nasce Quello poi che dice in questo passo della Lettera ai Romani scrivendo: Il peccato per rivelarsi peccato mi ha dato la morte, servendosi di ciò che è bene, corrisponde alla sua precedente affermazione dove ha detto: Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. E il concetto di sopra: Per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato lo ripete anche qui dicendo: Il peccato per rivelarsi peccato, cosicché l'affermazione: Senza la legge infatti il peccato è morto non l'intendiamo se non nel senso che non esiste, è nascosto, non apparisce, s'ignora assolutamente, come se fosse stato sepolto in non so quali tenebre d'ignoranza. Le parole poi: E io un tempo vivevo senza la legge cosa significano se non: Mi sembrava di vivere? E le seguenti: Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha ripreso vita cosa significano se non: È risaltato ed è apparso? Né dice tuttavia che ha preso vita, ma che ha ripreso vita. ( Rm 3,20; Rm 7, 7-9.13 ) Perché aveva già preso vita una volta nel paradiso dove appariva evidentemente commesso contro il precetto che era stato intimato. Quando invece lo contraggono coloro che nascono, rimane nascosto come se fosse morto, finché la sua malizia che fa guerra alla giustizia non si senta nella proibizione, dove altro è ciò che è comandato e approvato, altro ciò che diletta e domina: è allora che in qualche modo nella conoscenza dell'uomo generato riprende vita il peccato che aveva già preso vita una volta nella conoscenza dell'uomo che fu all'inizio creato. 10.17 - Difficoltà esegetiche: la legge spirituale e l'uomo di carne Ma non è altrettanto semplice come si possa intendere di Paolo quello che segue. Dice: Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne. ( Rm 7,14 ) Non dice: Sono stato, ma: Sono. Era dunque forse carnale l'Apostolo quando scriveva così? O lo dice quanto al suo corpo? Era infatti ancora nel corpo di questa morte, non essendosi ancora avverato quello che dice altrove: Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale. ( 1 Cor 15,44 ) Allora infatti sarà spirituale l'uomo in tutto se stesso, cioè nell'una e nell'altra parte di cui è composto, quando sarà spirituale anche il suo corpo. Né infatti è assurdo che in quella vita sia spirituale anche la carne, se in questa vita in coloro che hanno ancora la "sapienza della carne" ha potuto essere carnale anche lo stesso spirito. Ha detto dunque: Mentre io sono di carne, proprio perché l'Apostolo non aveva ancora il corpo spirituale. Nello stesso modo in cui poteva dire: Mentre io sono mortale; e certo non s'intenderebbe detto da lui se non secondo il suo corpo che non si era ancora vestito d'immortalità. Similmente quello che ivi aggiunge: Venduto come schiavo del peccato, perché nessuno lo pensi non ancora redento dal sangue del Cristo, si può intendere anche questo secondo quanto dice successivamente: Anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. ( Rm 8,23 ) Se infatti si dice venduto come schiavo del peccato, in quanto il suo corpo non è stato ancora redento dalla corruzione, o si dice venduto una volta nella prima trasgressione del precetto divino così da avere un corpo corruttibile che appesantisce l'anima, ( Sap 9,15 ) che cosa impedisce d'intendere che qui l'Apostolo dica di se stesso quello che dice in tal modo da poterlo riferire pure a lui, anche se nella sua persona voglia che non si prenda lui soltanto, ma tutti coloro che sanno di dover combattere senza acconsentire per mezzo dell'amore dello spirito contro lo stato attuale della carne? 10.18 - Non ciò che voglio, io faccio, ma ciò che detesto Ci mettono forse paura le parole che seguono: Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto; ( Rm 7,15 ) che eventualmente qualcuno sospetti da queste parole che l'Apostolo consentisse alla concupiscenza della carne per fare azioni cattive? Ma si deve considerare ciò che soggiunge: Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona. ( Rm 7,16 ) Confessa infatti di acconsentire alla legge più che alla concupiscenza della carne. È a questa infatti che dà il nome di peccato. Il fare dunque e l'operare che egli si è riconosciuto non è l'acconsentire passionalmente al male e farlo, ma è lo stesso movimento istintivo della concupiscenza. Dice dunque: Io riconosco che la legge è buona, appunto perché io non voglio ciò che la legge non vuole. Poi afferma: Ora non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. ( Rm 7,17 ) Che significa: Ora se non: "Ora che ormai sono sotto la grazia, la quale ha liberato il piacere della volontà dall'adesione della cupidigia"? L'affermazione infatti: Non sono più io a farlo non si potrebbe intendere meglio che in questo senso: non acconsente di offrire al peccato le sue membra come strumenti d'ingiustizia. ( Rm 6,13 ) Perché, se è lui che e desidera e acconsente e agisce, come non è lui stesso a farlo, benché gli dolga di farlo e si rammarichi fortemente d'essere vinto? 10.19 - Il desiderio del bene e la capacità di attuarlo In quello poi che viene subito di seguito non c'è tutta la chiave che rende apertissimo il senso in cui parla? Dichiara: Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene. ( Rm 7,18 ) Se non aggiungesse la spiegazione: Cioè nella mia carne, forse intenderemmo diversamente quell'in me. E perciò rigira lo stesso concetto ripetendo e insistendo: C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di farlo perfettamente. Questo infatti significa fare perfettamente il bene: che l'uomo non abbia nemmeno la concupiscenza. Imperfetto è invece il bene quando l'uomo sente la concupiscenza, anche se non si acconsente nel male. Infatti, dice, io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. ( Rm 7,19-20 ) Lo ripete insistendo e quasi volendo svegliare dal sonno la gente più tarda: Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. ( Rm 7,21 ) Chi dunque vuol fare il bene, ne ha la volontà; ma gli è accanto il male a causa della concupiscenza, alla quale non acconsente colui che dice: Ora, non sono più io a farlo. 10.20 - La legge di Dio e la legge della carne Ma ciò che segue spiega ancora più esplicitamente l'uno e l'altro concetto: Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. ( Rm 7,22-23 ) Ma la frase: Mi rende schiavo può fare difficoltà, se non c'è nessun consenso. Perciò tre sono le affermazioni dell'Apostolo per cui si potrebbe pensare che egli descriva chi vive ancora sotto la legge e non ancora sotto la grazia: le due già discusse: Mentre io sono di carne, e: Venduto come schiavo del peccato, più questa terza: Mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Ma, come abbiamo spiegato le prime due per la carne ancora corruttibile, così allo stesso modo si può intendere anche questa terza nel senso che abbia detto: Mi rende schiavo, ma nella carne, non nella mente; nel movimento istintivo, non nel consentimento, e in tanto mi rende schiavo in quanto anche nella carne stessa non c'è una natura diversa, ma la nostra. Come dunque spiega egli stesso che cosa abbia inteso con le parole: Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene, così è dalla sua stessa spiegazione che dobbiamo interpretare questa frase: Mi rende schiavo, come se avesse detto: Rende la mia carne schiava della legge del peccato che è nelle mie membra. 10.21 - La liberazione dell'uomo per mezzo di Gesù Cristo Poi soggiunge la ragione che giustifica tutte le affermazioni fatte da lui precedentemente: Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? La grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore. ( Rm 7,24-25 ) E conclude: Io dunque, con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato, ( Rm 7,25 ) ossia con la carne la legge del peccato a causa della concupiscenza, con la ragione la legge di Dio perché non acconsento alla medesima concupiscenza. Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono nel Cristo Gesù. ( Rm 8,1 ) Non è infatti condannato se non chi consente alla concupiscenza della carne nel male. Poiché la legge dello Spirito che dà vita nel Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte, ( Rm 8,2 ) appunto al fine che la concupiscenza della carne non si accaparri il tuo consenso. E il seguito della lettera evidenzia sempre e sempre più la medesima dottrina. Ma ci dobbiamo limitare. 10.22 - Ag. confessa di aver cambiato opinione Era sembrato però anche a me un tempo che cotesto discorso dell'Apostolo descrivesse l'uomo sotto la legge. Ma in seguito mi forzarono a cambiare parere queste sue parole: Non sono più io a farlo. A ciò infatti si riferisce anche la sua dichiarazione successiva: Non c'è più nessuna condanna per quelli che sono nel Cristo Gesù. Ho cambiato parere anche perché non vedo come un uomo sotto la legge avrebbe potuto dire: Acconsento con gioia nel mio intimo alla legge di Dio, dal momento che non si deve attribuire se non alla grazia la stessa gioia di fare il bene, per la quale l'uomo rifiuta anche di consentire al male, non per timore del castigo, ma per amore della giustizia: e questo infatti è gioire del bene. 11.23 - Ragioni della diversa esegesi Anche dove l'Apostolo esclama: Chi mi libererà dal corpo votato alla morte? ( Rm 7,24 ) come negare che quando lo diceva fosse ancora in questo corpo mortale? E certo non ne vengono liberati gli empi, ai quali si restituiscono gli stessi corpi per gli eterni tormenti. Essere liberati dal corpo di questa morte significa dunque ricevere di nuovo il corpo non per la pena, ma per la gloria, guarito che sia ogni languore della concupiscenza della carne. Con questo testo si accorda bene l'altro: Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. ( Rm 8,23 ) Con questo gemito gemiamo appunto come quando diciamo: Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? E anche quando dice: Io non riesco a capire neppure ciò che faccio, che valore hanno queste sue parole all'infuori di questo: "Non voglio, non approvo, non acconsento, non faccio"? Altrimenti sarebbe in contrasto con quanto ha detto sopra: Per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato; ( Rm 7,15 ) e: Io non ho conosciuto il peccato se non per la legge; ( Rm 3,20 ) e: Il peccato per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene. ( Rm 7,7.13 ) In che modo infatti avrebbe conosciuto per mezzo della legge il peccato che ignora? In che modo si rivelerebbe il peccato che s'ignora? La sua dichiarazione dunque: Io non riesco a capire vale: "Non faccio", perché non metto nessun consenso in ciò che commetto io stesso, nel medesimo modo in cui dirà agli empi: Non vi ho mai conosciuti ( Mt 7,23 ) il Signore al quale senza dubbio nulla può rimanere nascosto, e nel medesimo modo in cui è detto: Colui che non aveva conosciuto peccato, ( 2 Cor 5,21 ) ossia non l'aveva mai fatto, perché certamente non ignorava ciò di cui convinceva il mondo. 11.24 - Anche gli Apostoli soffrirono per la concupiscenza, che però dominarono Fatte diligentemente queste e simili considerazioni sul complesso dei testi di cotesta Scrittura apostolica, si ha ragione d'intendere che l'Apostolo certamente non ha indicato nella propria persona soltanto se stesso, ma anche gli altri viventi sotto la grazia e con lui non ancora viventi in quella pace perfetta dove la morte sarà ingoiata per la vittoria. ( 1 Cor 15,54 ) Della quale pace scrive dopo: E se il Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato il Cristo Gesù dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. ( Rm 8,10-11 ) Dopo dunque che i nostri corpi mortali saranno stati fatti rivivere, non solo verrà meno al peccato qualsiasi consenso, ma non rimarrà neppure la stessa concupiscenza della carne a cui non consentire. La qual concupiscenza che resiste allo spirito non averla nella carne mortale l'ha potuto solo quell'Uomo che venne tra gli uomini indipendentemente da essa. E perciò riguardo agli Apostoli, poiché erano uomini e portavano in questa vita mortale un corpo che si corrompe e appesantisce l'anima, sia ben lungi da noi il dire, come costui ci calunnia, che essi ebbero sempre la macchia della libidine disordinata, ma diciamo che essi, liberati dal consentire alle depravate passioni, gemevano con tanta umiltà e pietà a causa della concupiscenza della carne, che frenavano tenendola nei giusti confini, da desiderare di non averla affatto piuttosto che domarla. 12.25 - Accusa sulla santità di Cristo Perciò quanto all'ulteriore addebito che costui fa a noi di dire che "il Cristo non fu senza peccati, ma per necessità della carne mentì e si macchiò di altre colpe", veda costui da chi l'abbia sentito o in quali scritti l'abbia letto: certamente si tratta di affermazioni che forse non ha capite e con malizia ingannatrice ha pervertite a sensi calunniosi. 13.26 - Accusa sulla purificazione battesimale Scrive: Dicono pure che il battesimo non indulge completamente i peccati e non toglie i crimini, ma li rade, cosicché nella carne cattiva rimangono le radici di tutti i peccati. Chi all'infuori di un infedele lo potrebbe affermare contro i pelagiani? Noi dunque diciamo che il battesimo indulge tutti i peccati e toglie i crimini, non li rade; né diciamo che nella carne cattiva rimangono le radici di tutti i peccati, come sulla testa le radici dei capelli rasati, dalle quali crescano di nuovo altri peccati da dover radere di nuovo. Ho saputo infatti che si valgono anche di questa similitudine per la loro calunnia, come se questo fosse quello che sentiamo e diciamo noi. 13.27 - La permanenza della concupiscenza nell'uomo battezzato Ma credo che costoro s'ingannino o ingannino sul conto di questa concupiscenza della carne contro la quale anche al battezzato, che pur metta tutta la sua diligenza nel progredire e si lasci guidare dallo Spirito di Dio, ( Rm 8,14 ) è necessario combattere con animo pio. Ma la concupiscenza, sebbene sia chiamata peccato, ( Rm 6,14 ) non si chiama certamente così perché è peccato, bensì perché è stata suscitata dal peccato, come una scrittura si dice mano di chicchessia perché l'ha tracciata una mano. Peccati sono invece le azioni che si fanno, le parole che si dicono, i pensieri che si pensano illecitamente secondo la concupiscenza della carne o secondo l'ignoranza, e questi peccati, se non sono rimessi, ci tengono in stato di reato anche dopo che sono trascorsi. E cotesta stessa concupiscenza della carne è così rimessa nel battesimo che, sebbene l'abbiano contratta i nascenti, non nuoce per nulla ai rinascenti. Dai quali la contraggono tuttavia di nuovo i figli che sono generati carnalmente, e nuocerà di nuovo ai nascenti finché, rinascendo nel medesimo modo, non venga rimessa. In costoro dopo il battesimo rimane presente senza nessun danno per la vita futura, perché il suo reato contratto per generazione è stato rimesso per rigenerazione. Ed è per questo che la concupiscenza non è più peccato, ma si chiama peccato sia perché l'ha prodotta il peccato, sia perché la mette in movimento il piacere di peccare, anche quando non le si acconsente in forza del piacere vincente della giustizia. Né è a causa della concupiscenza, il cui reato è già stato cancellato dal lavacro della rigenerazione, che i battezzati dicono nell'orazione: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori, ( Mt 6,12 ) bensì a causa dei peccati che si fanno sia consentendo alla concupiscenza quando ciò che è libidinoso prevale su ciò che è gioioso per lo spirito, sia quando per ignoranza ci piace il male come se fosse bene. I peccati poi si fanno e operando e parlando e pensando: pensare è il peccato più facile e più svelto. Da tutti i quali peccati chi anche tra i fedeli si vanterà d'avere puro il cuore, o chi si vanterà d'essere mondo da peccato? ( Pr 20,9 ) A causa della concupiscenza si dice, sì, ciò che segue nell'orazione: Non c'indurre in tentazione, ma liberaci dal male. ( Mt 6,13 ) Perché, come sta scritto, ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza, che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato. ( Gc 1,14-15 ) 14.28 - Differenza tra i crimina e i peccata Tutti questi parti della concupiscenza e lo stesso suo antico reato sono stati rimessi dall'abluzione del battesimo, e i parti d'ogni genere che partorisce adesso cotesta concupiscenza, se non sono quei parti che non si chiamano soltanto peccati, ma anche crimini, vengono mondati da quel patto dell'orazione quotidiana dove diciamo: Rimetti, come noi rimettiamo, e dalla sincerità delle elemosine. E nessuno infatti è così stolto da dire che non si riferisce ai battezzati quel precetto del Signore: Perdonate e vi sarà perdonato, date e vi sarà dato. ( Lc 6,37-38; Mt 6,12; Lc 11,41 ) Nessuno poi nella Chiesa potrebbe essere legittimamente ordinato ministro qualora l'Apostolo avesse detto: "Se qualcuno è senza peccato", dove dice: Se qualcuno è senza crimine; ( Tt 1,6 ) o se avesse detto: "Senza nessun peccato", dove dice: Senza nessun crimine. ( 1 Tm 3,10 ) Molti battezzati infatti sono fedeli senza crimine, ma nessuno oserei dire che sia senza peccato in questa vita, per quanto i pelagiani si gonfino e scoppino di furore contro di noi perché lo diciamo: non perché rimane qualcosa del peccato che non sia rimesso nel battesimo, ma perché, rimanendo noi nella debolezza di questa vita, non smettono d'essere fatti quotidianamente certi peccati da rimettersi quotidianamente a coloro che pregano con fiducia e operano con misericordia. Questa è sanità della fede cattolica che lo Spirito Santo semina dappertutto, non vanità e vento presuntuoso di prava eresia. 15.29 - Tesi pelagiana sul libero arbitrio È dunque già l'ora che cominciamo a vedere in qual modo egli stesso, dopo aver creduto di doverci obiettare le verità che crediamo e inventare gli errori che non crediamo, professi la fede sua propria o dei pelagiani. Egli scrive: Contro queste dottrine noi ci battiamo quotidianamente ed è per questo che non vogliamo prestar consenso agli erranti, perché noi diciamo che il libero arbitrio esiste in tutti per natura, né ha potuto perire a causa del peccato di Adamo: il che è confermato dall'autorità di tutte le Scritture. Se queste affermazioni fossero fatte da voi nel modo giusto e non contro la grazia di Dio, non prestereste consenso agli erranti, ma correggereste il senso delle vostre dottrine. Su questo però abbiamo già discusso più sopra, quanto abbiamo potuto e quanto ci è sembrato sufficiente. 15.30 - Tesi pelagiana sul matrimonio Scrive: Noi diciamo istituite da Dio le nozze che si celebrano adesso sulla terra, né sono rei i coniugi, ma sono da condannarsi i fornicatori e gli adùlteri. Questo è un insegnamento vero e cattolico, ma la conclusione che volete trarre da qui, che dall'unione dell'uomo e della donna i figli non contraggano nulla del peccato da dover essere espiato mediante il lavacro della rigenerazione, è insegnamento falso ed eretico. 15.31 - Tesi pelagiana sulla sessualità Scrive: Noi diciamo istituito da Dio il movimento dei genitali, ossia la stessa virilità, senza la quale è impossibile la copula. A ciò rispondiamo che Dio ha istituito il movimento dei genitali e, per usare la sua parola, la virilità, senza la quale è impossibile la copula, ma in tal modo che non avesse nulla di vergognoso. Non sarebbe stato decente infatti che la creatura si vergognasse dell'opera del suo Creatore; ma la disobbedienza di quelle membra fu giustamente ripagata alla disobbedienza dei primi uomini, e di quella disobbedienza delle membra arrossirono quando si coprirono con foglie di fico le parti vergognose che prima non erano vergognose. 16.32 - La vergogna della nudità sorta dopo il peccato Né infatti si fecero tuniche per coprire tutto il corpo dopo il peccato, ma intrecciarono cinture, ( Gen 3,7 ) che alcuni nostri interpreti meno attenti hanno interpretato per "rivestimenti". Il che è certamente vero, ma "rivestimento" è un termine generico con il quale si può intendere ogni indumento e coprimento. Doveva perciò essere evitata ogni ambiguità, e come il testo greco usa pe????µata che non servono a coprire se non le parti impudiche del corpo, così anche il testo latino o doveva mettere lo stesso vocabolo greco, che è già entrato nell'uso al posto del latino, o doveva mettere "succinture", come le chiamano alcuni, o meglio "campestri", come altri. Questo nome deriva appunto dal fatto che secondo l'antico uso romano i giovani si coprivano le parti vergognose quando si esercitavano nudi nell'accampamento, e perciò anche oggi si dicono "campestrati" coloro che coprono con fasce le medesime membra. A dire il vero, se dopo il peccato avessero dovuto coprire le membra con le quali avevano peccato, non avrebbero dovuto rivestirsi nemmeno di tuniche, ma si sarebbero dovute tappare le mani e la bocca, perché peccarono prendendo e mangiando. Che vuol dunque significare il fatto che, preso il cibo proibito e trasgredito il divieto, lo sguardo si appunta su quelle membra? Quale ignota novità vi si sente e vi si fa forzatamente avvertire? Questo è il senso dell'aprirsi dei loro occhi. Né infatti avevano gli occhi chiusi, o quando lui impose i nomi agli animali e agli uccelli, ( Gen 3,6-7; Gen 2,20 ) o quando lei vide l'albero bello e buono; ( Gen 3,6 ) ma si aprirono i loro occhi, ( Gen 3,7 ) ossia si fecero attenti a guardare, come di Agar, ancella di Sara, è scritto che Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo; ( Gen 21,19 ) non li aveva certamente chiusi prima di allora. Che dunque della loro nudità, che vedevano senza dubbio quotidianamente né se ne confondevano, si siano vergognati all'improvviso e tanto da non poter più sopportare la nudità di quelle membra, ma da cercare subito di coprirle, non dipese forse dal fatto che, lui in un movimento palese e lei in un movimento occulto, sentirono disobbedienti contro l'arbitrio della loro volontà quelle membra alle quali avrebbero dovuto senza fallo comandare con un sol cenno di volontà, come a tutte le altre? Il che fu per loro una giusta punizione, perché non avevano obbedito nemmeno essi stessi al loro Signore. La ragione dunque per cui arrossirono fu che l'aver rifiutato il proprio servizio al loro Creatore ebbe la conseguenza così grave di far perdere meritatamente a loro il comando di quelle membra con le quali i figli avrebbero dovuto essere procreati. 16.33 - La vergogna nella presente condizione umana Questa forma di pudore, questa necessità d'arrossire, nasce certamente con ogni uomo e in qualche modo è imposta dalle stesse leggi di natura, tanto che in questo campo si vergognano anche le stesse nozze pudiche. E nessuno, prendendo a pretesto il fatto di sapere che Dio è il creatore della natura e l'istitutore delle nozze, si spinge a tal punto di malizia e di turpitudine che, anche quando ha da unirsi con la sua moglie, se qualcuno lo vede, non arrossisca di quei movimenti e non cerchi un luogo segreto dove possa evitare lo sguardo non soltanto degli estranei, ma anche di tutti i suoi. Si lasci dunque alla natura umana di riconoscere il male che le è caduto addosso per sua colpa, perché non sia costretta o a non arrossire di questi suoi movimenti: il che sarebbe il comportamento più sfacciato, o ad arrossire delle opere del suo Creatore: il che sarebbe il comportamento più ingrato. Del qual male tuttavia si servono bene le nozze pudiche per il bene della generazione dei figli. Invece consentire alla libidine per la sola causa della voluttà carnale è peccato, sebbene ciò sia concesso per venia ai coniugati. ( 1 Cor 7,6 ) 17.34 - Ipotesi sulla concupiscenza prima del peccato Ma, ferma restando l'onestà e la fecondità delle nozze, prendete posizione, o pelagiani, su che tipo di vita vogliate pensare possibile da parte di quegli uomini nel paradiso, se nessuno avesse peccato, e scegliete una di queste quattro risposte. Senza dubbio infatti o avrebbero praticato la copula ogni volta che fosse piaciuto alla libidine, o avrebbero represso la libidine quando la copula non fosse stata necessaria, o la libidine si sarebbe svegliata allora ad un sol cenno della volontà quando una casta prudenza avesse presentito la necessità della copula; o, non esistendo nel paradiso assolutamente nessuna libidine, come tutte le altre membra servono ai compiti propri di ciascun membro, così anche i genitali avrebbero servito senza nessuna difficoltà al loro compito stando agli ordini delle persone secondo la loro volontà. Di queste quattro risposte scegliete quella che volete. Ma credo che respingerete le prime due, dove la libidine o è servita o è soffocata. Infatti quel primo comportamento non lo vuole l'onestà così splendida di allora, mentre il secondo comportamento non lo vuole la felicità così grande di allora. Lungi da noi infatti il pensare che il decoro di quella illimitata beatitudine o praticasse un'umiliatissima servitù seguendo sempre l'iniziativa della libidine, o non avesse pace pienissima dovendo resistere alla libidine. Lungi da noi, dico, il pensare che o alla mente di allora piacesse di saziare la concupiscenza della carne con il consenso, insorgendo essa non in modo opportuno per generare, ma per un sommovimento disordinato, o alla quiete di allora fosse necessario soffocarla con il dissenso. 17.35 - Nessuna concupiscenza è soggetta alla volontà Quanto alle altre due risposte, qualunque scegliate, non c'è da faticare contro di voi per nessuna ragione. Sebbene infatti non vogliate scegliere la quarta dove c'è l'assoluta tranquillità di tutte le membra che obbediscono senza nessuna libidine, perché vi ha già resi nemici di tale risposta l'impeto delle vostre discussioni, vi piacerà almeno la risposta che abbiamo messa al terzo posto: la concupiscenza della carne, il cui movimento giunge fino all'estrema voluttà che vi diletta tanto, non insorgerebbe mai nel paradiso se non dietro il comando della volontà quando fosse necessaria a generare. Se una concupiscenza siffatta vi piace collocare nel paradiso e se vi pare che per mezzo d'una tale concupiscenza della carne, che né previene né ritarda né sorpassa il comando della volontà, si sarebbero potuti generare figli in quella felicità, noi non ci opponiamo. Per la questione infatti che stiamo trattando basta che la concupiscenza non sia adesso negli uomini tale e quale voi concedete che avrebbe potuto essere nel luogo di quella felicità. Quale appunto essa sia adesso lo riconosce certamente, pur con vergogna, il senso di tutti i mortali, perché essa e tenta con irrequietezza disordinata e importuna le persone caste, anche quando non la vogliono e la reprimono per temperanza, e spesso si sottrae alle persone che la vogliono e si fa sentire a quelle che non la vogliono, cosicché con la sua disobbedienza attesta di non essere altro che pena della prima famosa disobbedienza. Perciò meritamente si sentirono confusi di essa i primi uomini di allora, quando si coprirono le parti vergognose, e se ne sente confuso adesso chiunque si considera uomo, pudico e impudico che sia: e non sia mai che si sentano confusi dell'opera di Dio, ma si sentono confusi della pena del primo e antico peccato. Voi però, non per ragione religiosa, ma per discussione litigiosa, non in difesa del pudore umano, ma in difesa del vostro furore settario, perché non si creda che sia stata viziata almeno la concupiscenza della carne e che da essa si contragga il peccato originale, con le vostre discussioni vi sforzate di far rimontare la concupiscenza al paradiso assolutamente tale e quale è adesso e di sostenere che le sarebbe potuto accadere d'esservi o sempre assecondata da un disonesto consenso o frenata talvolta da un afflitto dissenso. Noi però non ci curiamo granché di cosa vi piaccia pensare su di essa. Il fatto è che ogni uomo che nasce per mezzo di essa, se non rinasce, è condannato senza dubbio e rimane necessariamente sotto il diavolo, se non lo libera il Cristo. 18.36 - Tesi pelagiana sulla bontà e sulla libertà naturale dell'uomo: la grazia adiuvante Egli scrive: Noi difendiamo che gli uomini sono opera di Dio, che il potere di Dio non costringe nessuno contro la sua volontà al bene o al male, ma ciascuno fa il bene o il male di sua volontà; nel fare il bene ciascuno è aiutato sempre dalla grazia di Dio, al male invece è incitato dalle suggestioni del diavolo. A tutto questo noi rispondiamo: Gli uomini sono opera di Dio in quanto uomini, ma stanno sotto il diavolo in quanto peccatori, a meno che non ne siano liberati per mezzo di colui che non fu fatto mediatore tra Dio e gli uomini se non perché non poté essere peccatore tra gli uomini. Nessuno è costretto dal potere di Dio o al male o al bene contro la sua volontà, ma, abbandonato da Dio, va a finire nel male perché se lo merita e, aiutato da Dio, si converte al bene senza che se lo meriti. L'uomo infatti non è buono senza volerlo essere, ma la grazia di Dio lo aiuta proprio anche a volerlo essere, poiché non è stato scritto invano: È Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo i suoi benevoli disegni, ( Fil 2,13 ) e ancora: Dal Signore è preparata la volontà. ( Pr 8, 35 sec. LXX ) 19.37 - Ag. insiste sulla necessità della grazia preveniente Voi però ritenete che l'uomo sia aiutato dalla grazia di Dio nell'opera buona in modo da credere che la grazia non faccia nulla per eccitare la sua volontà alla stessa opera buona. Lo dichiarano sufficientemente le tue stesse parole. Perché infatti non hai detto che l'uomo è eccitato dalla grazia di Dio all'opera buona, come hai detto invece che è incitato al male dalle suggestioni del diavolo, ma hai detto che nel fare il bene è aiutato sempre dalla grazia di Dio? Come se l'uomo prenda l'iniziativa di un'opera buona per sua volontà senza nessuna grazia di Dio e sia poi aiutato divinamente quando è già in corso la stessa opera buona, evidentemente secondo i meriti della buona volontà, cosicché sia pagata una grazia debita e non donata una grazia indebita, e la grazia allora non sia più grazia, ( Rm 11,6 ) ma sia vero ciò che Pelagio condannò con cuore finto nel processo palestinese: La grazia di Dio è data secondo i meriti nostri. Dimmi, ti prego, qual bene voleva Paolo, ancora Saulo a quel tempo, o non voleva piuttosto grandi mali, quando fremente di stragi si recava a sterminare i cristiani con furore e mostruosa cecità di mente? ( At 9,1-3 ) Per quali meriti di buona volontà Dio lo convertì da quei mali al bene con mirabile e repentina vocazione? ( At 9,15 ) Perché mai dico meriti, se egli stesso grida: Ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia? ( Tt 3,5 ) Che vuol dire l'affermazione del Signore che ho già ricordata: Nessuno può venire a me, e ciò s'intende "credere in me", se non gli è concesso dal Padre mio? ( Gv 6,66 ) Forse a chi già vuol credere si dà di credere secondo i meriti della buona volontà, o non piuttosto la volontà stessa viene eccitata dall'atto perché creda, come quella di Saulo, benché così avverso alla fede da perseguitare pure i seguaci della fede? A che scopo infatti il Signore ci ha comandato di pregare per coloro che ci perseguitano? ( Mt 5,44 ) Preghiamo forse che la grazia di Dio sia retribuita ad essi secondo la loro buona volontà o non piuttosto che la loro stessa cattiva volontà venga mutata al bene? Proprio come crediamo che allora non abbiano pregato invano per Saulo i santi da lui perseguitati: la sua volontà fosse convertita alla fede che sterminava. ( At 9,3ss ) E in verità l'origine dall'alto della sua conversione apparve anche con un miracolo manifesto. ( At 9,18 ) Quanto sono numerosi i nemici del Cristo che ogni giorno all'improvviso per occulta grazia di Dio sono "attirati" al Cristo! Il qual verbo, se io non l'avessi preso dal Vangelo, quante ne avrebbe dette di me costui a causa di esso, dal momento che anche adesso protesta, non contro di me, ma contro colui che grida: Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato! ( Gv 6,44 ) Non dice infatti: "Se non lo guida", cosicché intendiamo che lì in qualche modo la prima iniziativa è della volontà. Chi è attirato se voleva già? E tuttavia nessuno viene se non vuole. È dunque attirato in modo misterioso a volere da colui che sa operare all'interno degli stessi cuori degli uomini, non perché gli uomini credano senza voler credere, il che è impossibile, ma perché da non volenti diventino volenti. 20.38 - Testimonianze scritturistiche sull'efficacia della grazia Che ciò sia vero non lo sospettiamo per congettura umana, ma lo riconosciamo per evidentissima testimonianza delle divine Scritture. Si legge nei libri dei Paralipomeni: In Giuda invece si manifestò la mano di Dio e generò in essi un cuore solo per eseguire il comando del re e degli ufficiali secondo la parola del Signore. ( 2 Cr 30,12 ) Similmente per mezzo del profeta Ezechiele dice il Signore: Darò ad essi un altro cuore, metterò dentro di essi uno spirito nuovo, toglierò dalla loro carne il loro cuore di pietra e darò ad essi un cuore di carne, perché vivano secondo i miei statuti, osservino e mettano in pratica le mie leggi. ( Ez 36,26-27 ) Che è poi quello che prega e dice la famosa regina Ester: Metti nella mia bocca una parola ben misurata e glorifica le mie parole di fronte al leone, volgi il suo cuore all'odio contro colui che ci combatte? ( Est 4,13 ) Come mai dice questo a Dio nella sua orazione, se Dio non suscita la volontà nei cuori umani? Ma forse quella donna pregò insipientemente pregando così! Vediamo dunque se l'orante abbia premesso invano il suo affetto senza che sia seguito l'effetto da parte dell'esaudiente. Ecco che entra al cospetto del re. Non mi voglio dilungare. E poiché, costretta da grave necessità, non entrava secondo il suo turno, il re, è scritto, la guardò come un toro nell'impeto del suo furore. La regina n'ebbe paura, cambiò colore e si abbandonò molle sulla testa dell'ancella che l'accompagnava. Ma Dio trasformò lo sdegno del re e lo volse a mitezza. ( Est 5,9-11 ) Che bisogno c'è ormai di ricordare il seguito, dove la divina Scrittura attesta che Dio compì quanto aveva domandato la donna, suscitando nel cuore del re nient'altro che la volontà, con la quale comandò e fu fatto ciò che la regina gli aveva chiesto? La quale regina, perché ciò si compisse, era già stata esaudita da Dio, che con potenza oculatissima ed efficacissima, prima che avesse ascoltato la supplica della donna, convertì il cuore del re e lo volse dalla stizza alla mitezza, cioè dalla volontà di nuocere alla volontà di giovare, conformemente alle parole dell'Apostolo: È Dio che suscita in voi anche il volere. ( Fil 2,13 ) Forse gli uomini di Dio che scrissero questo racconto, anzi lo stesso Spirito di Dio che suggerì ad essi di scriverlo ha impugnato il libero arbitrio dell'uomo? Non sia mai, ma ha sottolineato in tutto e il giustissimo giudizio dell'Onnipotente e il suo misericordiosissimo aiuto. All'uomo infatti basta sapere che non c'è ingiustizia da parte di Dio. ( Rm 9,14 ) Quanto poi al modo in cui Dio dispensa i suoi doni, facendo degli uni secondo il loro merito dei vasi di collera e di altri secondo la sua grazia dei vasi di misericordia, ( Rm 9,22-23 ) chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore o chi mai è stato suo consigliere? ( Rm 11,34 ) Se noi dunque abbiamo l'onore di appartenere alla nobiltà della grazia, vediamo di non essere ingrati attribuendo a noi quello che abbiamo ricevuto. Che cosa infatti possediamo senza averlo ricevuto? ( 1 Cor 4,7 ) 21.39 - Tesi pelagiana sulla perfetta giustizia dei Patriarchi Scrive costui: Noi diciamo che i santi dell'Antico Testamento passarono da qui alla vita eterna con perfetta giustizia, cioè si distaccarono da tutti i peccati con l'amore della virtù, perché anche di coloro di cui leggiamo qualche peccato sappiamo tuttavia che poi se ne emendarono. Per quanto sia stata grande la virtù che predichi degli antichi giusti, non valse a salvarli se non la fede nel Mediatore, che versò il sangue per la remissione dei peccati. Di essi infatti è la voce: Ho creduto, perciò ho parlato. ( Sal 116,10 ) Un testo di cui l'apostolo Paolo fa la seguente applicazione: Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede, di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo. ( 2 Cor 4,13 ) Che cos'é quello stesso spirito se non lo spirito che avevano anche quei giusti che dicevano così? Dichiara pure l'apostolo Pietro: Perché volete imporre ai gentili un giogo che non siamo stati capaci di portare né noi, né i nostri padri? Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati e nello stesso modo anch'essi. ( At 15,10-11 ) Ciò non volete voi, nemici di questa grazia: che dalla medesima grazia di Gesù Cristo si credano salvati gli antichi, ma distribuite i tempi secondo Pelagio, com'è scritto nei suoi libri, e dite che prima della Legge furono salvati mediante la natura, successivamente mediante la Legge e da ultimo mediante il Cristo, quasi che agli uomini delle prime due epoche, cioè prima della Legge e nella Legge, non sia stato necessario il sangue di Cristo: e così vanificate quello che è scritto: Uno solo infatti è Dio e uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù. ( 1 Tm 2,5 ) 22.40 - Tesi pelagiana sulla universale necessità del battesimo Dicono: Noi confessiamo che la grazia del Cristo è necessaria a tutti, e ai grandi e ai piccoli, e anatematizziamo coloro che dicono non doversi battezzare chi nasce da due battezzati. Sappiamo come voi dite questo, non nel senso dell'apostolo Paolo, ma nel senso dell'eretico Pelagio: cioè il battesimo è necessario ai piccoli non per la remissione dei peccati, ma solamente per il regno dei cieli. Date infatti ai bambini fuori dal regno di Dio un luogo di salvezza e di vita eterna, anche se non sono stati battezzati. Né prestate attenzione a quello che è scritto: Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo, ma chi non crederà, sarà condannato. ( Mc 16,16 ) A causa di ciò nella Chiesa del Salvatore i piccoli credono per mezzo degli adulti, come dagli adulti hanno contratto i peccati che si rimettono a loro nel battesimo. Né riflettete ad un'altra verità: non possono avere la vita coloro che sono rimasti privi del corpo e del sangue del Cristo, dicendo egli stesso: Se non mangiate la mia carne e non bevete il mio sangue, non avrete in voi la vita. ( Gv 6,54 ) Oppure, se da voci evangeliche siete costretti a confessare che non possono avere né vita né salvezza i bambini che escono dal corpo senza essere stati battezzati, cercate quale sia la ragione per cui questi bambini non battezzati siano buttati a subire il supplizio della morte seconda per giudizio di colui che non condanna nessuno immeritamente e troverete quello che non volete: il peccato originale. 23.41 - Tesi pelagiana sulla perfetta purificazione operata dal battesimo Anche coloro che dicono scrive costui che il battesimo non distrugge tutti i peccati noi li condanniamo, perché sappiamo che per mezzo degli stessi misteri si dona piena purgazione. Questo lo diciamo anche noi, ma che per mezzo degli stessi misteri anche i bambini sono sciolti dai vincoli della prima natività e dell'ereditaria successione inquinata voi non lo dite. Perciò è necessario che anche voi alla pari degli altri eretici siate segregati dalla Chiesa del Cristo, la quale ritiene questa verità fino dai tempi antichi. 24.42 - La conclusione della lettera pelagiana Più degna però d'essere disprezzata che confutata è la conclusione della lettera dove dice: Nessuno dunque vi seduca, né neghino gli empi che questo è il loro modo di sentire. Ma se dicono la verità, o sia concessa un'udienza, o per lo meno gli stessi vescovi che sono ora in dissidio con noi condannino quanto sopra ho detto che essi ritengono in combutta con i manichei, come noi condanniamo quanto essi vanno diffondendo sul nostro conto, e si fa piena concordia. Se non lo vogliono, sappiate che sono manichei e tenetevi lontani dall'avere comunione con loro. Chi dei nostri infatti esita ad anatematizzare i manichei, i quali dicono che né gli uomini, né il matrimonio sono stati creati dal Dio buono, né da lui fu data la legge somministrata al popolo ebraico per mezzo di Mosè? Noi però non senza ragione anatematizziamo anche i pelagiani, i quali della grazia di Dio, venuta per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, ( Rm 7,25 ) sono talmente nemici da dire che essa è non data gratuitamente, ma secondo i nostri meriti, cosicché la grazia non è più grazia. ( Rm 11,6 ) E fanno tanto affidamento sul libero arbitrio, che ha sprofondato l'uomo nell'abisso, da dire che gli uomini meritano la grazia usando bene del libero arbitrio, quando nessuno può usare bene del libero arbitrio se non per mezzo della grazia, la quale non è pagata da Dio per debito, ma è donata gratuitamente da Dio per sua misericordia. Riguardo poi ai bambini, sostengono tanto che essi sono già salvi da osar di negare che debbano essere salvati dal Salvatore. E ritenendo e seminando questi esecrabili dogmi, reclamano ancora per giunta un'udienza, mentre i condannati devono fare penitenza. Libro II 1.1 - Le dottrine manichee e pelagiane a confronto È già tempo ora che esaminiamo l'altra lettera, non di Giuliano soltanto, ma comune a lui con molti altri vescovi pelagiani, spedita da loro a Tessalonica, ed è tempo che rispondiamo ad essa, come possiamo, con l'aiuto del Signore. Ma questo nostro lavoro non deve prolungarsi più di quanto richiede la stessa necessità della causa. Che bisogno c'è infatti di confutare anche quelle parti che non contengono gli insidiosi veleni del loro dogma, ma hanno la sola apparenza di elemosinare il consenso dei vescovi orientali in appoggio a loro o in difesa della fede cattolica contro "la profanità dei manichei", com'essi la chiamano? Unico loro intento è quello di nascondersi come nemici della grazia a lode della natura dietro il paravento dell'orribile eresia, di cui si atteggiano ad avversari. Ma chi mai ha mosso questione contro di loro su questo argomento? O a chi dei cattolici costoro dispiacciono appunto perché condannano quelli di cui l'Apostolo predisse ( 1 Tm 4,1-4 ) che si sarebbero allontanati dalla fede, bollati a fuoco nelle loro coscienze, proibizionisti del matrimonio, astensionisti dai cibi che credono immondi e negatori che tutto sia stato creato da Dio? Chi li ha mai forzati a negare che sia buona ogni creatura di Dio e che non esista nessuna sostanza che non sia stata fatta dal sommo Dio, all'infuori dello stesso Dio, il quale non è stato fatto da nessuno? Non sono queste le tesi che si riprendono e si condannano in costoro, tesi che risultano cattoliche. L'empietà dei manichei, fin troppo stolta e dannosa, non è detestata solo dalla fede cattolica, ma anche da tutti gli eretici che non sono manichei. Perciò anche cotesti pelagiani fanno bene ad anatematizzare i manichei e ad opporsi ai loro errori. Ma fanno due mali, per cui anch'essi sono da anatematizzare: l'uno d'incriminare i cattolici con l'imputazione di manichei, il secondo d'introdurre anch'essi l'eresia di un nuovo errore. Né infatti la mancanza in loro del morbo manicheo basta a renderli possessori della sanità della fede. Come per i corpi, così anche per le menti non esiste una malattia soltanto. Come dunque un medico del corpo non avrebbe dichiarato subito fuori pericolo, perché non idropico, chi gli fosse risultato affetto da un'altra malattia mortale, così alla verità per congratularsi con costoro non basta che non siano manichei, se hanno addosso la malattia di un altro errore. Pertanto una cosa è ciò che anatematizziamo con loro, un'altra è ciò che anatematizziamo in loro. Con loro infatti detestiamo ciò che dispiace giustamente anche a loro, in loro tuttavia detestiamo ciò per cui essi dispiacciono giustamente a noi. 2.2 - I pelagiani si oppongono ai manichei, i cattolici agli uni e agli altri I manichei negano che il Dio buono sia creatore di tutte le nature; i pelagiani negano che Dio sia negli uomini purificatore, salvatore, liberatore di tutte le età. La Cattolica redarguisce gli uni e gli altri difendendo la creatura di Dio, sia contro i manichei perché nessuna creatura sia sottratta alla creazione di lui, sia contro i pelagiani, perché la natura umana che si è smarrita sia ricercata in tutte le sue età. I manichei vituperano la concupiscenza della carne, non come vizio accidentale, ma come natura cattiva esistente dall'eternità; i pelagiani non considerano vizio la concupiscenza della carne, ma per giunta la lodano come un bene naturale. La Cattolica redarguisce gli uni e gli altri dicendo ai manichei: Non è natura, ma vizio, e dicendo ai pelagiani: Non viene dal Padre, ma dal mondo, perché gli uni e gli altri permettano la cura di questa sorta di malattia, smettendo i manichei di credere inguaribile la natura e i pelagiani di celebrarne le lodi. I manichei negano che il male abbia avuto inizio per l'uomo buono dal libero arbitrio, i pelagiani dicono che l'uomo anche cattivo possiede a sufficienza il libero arbitrio per osservare un buon precetto. La Cattolica redarguisce gli uni e gli altri dicendo ai manichei: Dio ha fatto l'uomo retto, ( Qo 7,30 ) e dicendo ai pelagiani: Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. ( Gv 8,36 ) I manichei dicono che l'anima, particella di Dio, ha il peccato per commistione di una natura cattiva; i pelagiani dicono che l'anima giusta, certamente non particella di Dio, ma sua creatura, è senza peccato anche in questa vita corruttibile. La Cattolica redarguisce gli uni e gli altri dicendo ai manichei: O voi fate buono l'albero e sarà buono anche il suo frutto, o voi fate cattivo l'albero e sarà cattivo anche il suo frutto: ( Mt 12,33 ) e questo non si direbbe all'uomo, incapace di fare la natura, se non perché il peccato non è una natura, ma un vizio, e dicendo ai pelagiani: Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. ( 1 Gv 1,8 ) Per questi morbi tra loro contrari si combattono manichei e pelagiani con dissimile volontà e con simile vanità, separati da diversità d'opinione, ma vicini per perversità d'intenzione. 2.3 - I manichei e i pelagiani sono divisi, ma in qualche modo sono anche uniti Tant'è vero che impugnano insieme la grazia del Cristo, vanificano insieme il suo battesimo, avviliscono insieme la sua carne, ma anche tutto questo con modi e motivi diversi. I manichei infatti propongono che l'aiuto divino sia propiziato dai meriti della natura buona, i pelagiani invece dai meriti della volontà buona. I manichei dicono: "Dio lo deve alle fatiche delle sue membra"; i pelagiani dicono: "Dio lo deve alle virtù dei suoi servi". Alle membra dunque e ai servi il salario non viene calcolato come dono, ma come debito. ( Rm 4,4 ) I manichei dicono che è superfluo il lavacro della rigenerazione, cioè l'acqua stessa, e con cuore sacrilego sostengono che non giova a nulla; i pelagiani invece asseriscono che quanto nel battesimo si dice per rimettere i peccati non giova affatto ai bambini che non hanno nessun peccato. Pertanto nel battesimo dei bambini, per ciò che concerne la remissione dei peccati, i manichei eliminano l'elemento visibile, i pelagiani invece anche il sacramento invisibile. I manichei avviliscono la carne del Cristo bestemmiando contro il parto della Vergine, i pelagiani invece uguagliando la carne dei redenti alla carne del Redentore. Per questa ragione appunto il Cristo è nato, non certo nella carne del peccato, ma in una carne simile a quella del peccato: ( Rm 8,3 ) perché la carne di tutti gli altri uomini nasce come carne del peccato. I manichei detestando dunque ogni carne senza eccezione tolgono alla carne del Cristo l'evidenza esterna della sua verità, i pelagiani invece affermando che nessuna carne nasce come carne del peccato tolgono alla carne del Cristo la sua propria dignità. 2.4 - Due errori opposti, entrambi detestabili La smettano dunque i pelagiani di rinfacciare ai cattolici d'essere quello che non sono, ma essi stessi piuttosto si affrettino ad emendare quello che sono, né vogliano passare per amabili con l'avversare l'odioso errore dei manichei, ma riconoscano d'essere meritamente odiosi per non rivoltarsi contro il proprio errore. Possono infatti i due errori essere contrari tra loro, ma sono da detestare ambedue, perché sono ambedue contrari alla verità. Infatti, se la ragione di dover amare i pelagiani fosse che costoro odiano i manichei, anche i manichei sarebbero da amare perché odiano i pelagiani. Ma non sia mai che la Cattolica, la quale è madre, scelga di amare gli uni perché odiano gli altri, poiché per volontà del Signore e con il suo aiuto deve evitare gli uni e gli altri e desiderare di guarire gli uni e gli altri. 3.5 - L'accusa di prevaricazione lanciata contro il clero romano dai pelagiani Costoro attaccano per giunta i chierici romani scrivendo: "Per paura di un editto non si vergognarono di commettere un crimine di tradimento, così da dichiarare successivamente che la natura umana è cattiva, contro la propria precedente sentenza con la quale avevano sostenuto in giudizio il dogma cattolico". La verità è piuttosto un'altra: i pelagiani si erano illusi con la falsa speranza di poter far accettare alla coscienza cattolica di alcuni romani il nuovo ed esecrabile dogma pelagiano o celestiano in un momento in cui, sembrando che quelle teste, benché pervertite da un nefando errore e non tuttavia disprezzabili, si dovessero correggere amorevolmente piuttosto che condannare sbrigativamente, furono trattate un po' più blandamente di quanto domandava la disciplina della Chiesa un po' più severa. Nel correre infatti e nel ricorrere di tanti e così importanti scritti ecclesiastici tra la Sede Apostolica e i vescovi africani, nella celebrazione anche di un processo su questa causa presso quella Sede dov'era presente e replicava Celestio, quale lettera mai si trova da parte del Papa Zosimo di veneranda memoria, quale mai sentenza interlocutoria, dove abbia comandato di dover credere che l'uomo nasce senza nessun vizio di peccato originale? Non l'ha mai detto assolutamente in nessuna occasione, non l'ha mai scritto assolutamente in nessun documento. Ma, avendolo posto Celestio nel suo libello, tra i punti soltanto sui quali confessava di dubitare ancora e di voler essere istruito, in un uomo d'ingegno molto acuto, che senza dubbio avrebbe giovato a tantissime persone se si fosse corretto, fu approvata la volontà dell'emendazione, non la falsità del dogma. Ed è questa la ragione per cui il suo libello fu detto cattolico: è proprio di mente cattolica anche il non definire con assoluta certezza, ma respingere, appena se ne scopre e se ne dimostra l'errore, quelle opinioni che accade eventualmente d'avere diverse da come esige la verità. Non infatti ad eretici, ma a cattolici parlava l'Apostolo dove ha detto: Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illumini anche su questo. ( Fil 3,15 ) Ciò si credeva che fosse avvenuto in Celestio, quando rispose d'essere d'accordo con la lettera del papa Innocenzo di beata memoria, con la quale ogni dubbio sulla questione era stato spento. E ci si aspettava che questa sua risposta si sarebbe completata e resa più manifesta con il prossimo arrivo della lettera dall'Africa, la provincia dove la furberia di Celestio si era fatta conoscere con un po' più di evidenza. Arrivò la lettera a Roma. Vi si diceva che era insufficiente per le persone più tarde e più preoccupate che Celestio confessasse genericamente d'essere d'accordo con la lettera del vescovo Innocenzo, ma doveva anatematizzare apertamente gli errori da lui messi nel suo libello. Altrimenti, se non l'avesse fatto, molti, poco intelligenti, avrebbero creduto che quei veleni presenti nel libello erano approvati dalla Sede Apostolica, per il fatto che aveva qualificato come cattolico quel libello, e non già ritrattati da Celestio per il fatto che aveva risposto d'essere d'accordo con la lettera del papa Innocenzo. Ed allora, quando si chiedeva la sua presenza, perché da risposte certe e chiare venisse alla luce o l'astuzia o la ritrattazione di Celestio e non rimanesse ambigua per nessuno, costui si sottrasse e si negò all'esame. Né si sarebbe dovuta rimandare ancora, come si fece, una decisione che giovava ad altri, se non poteva giovare alla cocciutaggine e alla follia di gente troppo perversa. Se invece allora, e lo dico per assurdo, nella Chiesa romana si fosse giudicato di Celestio o di Pelagio in modo che i loro dogmi, già condannati in loro e con loro dal papa Innocenzo, si fossero dichiarati da approvare e da ritenere, allora, sì, proprio per questo ci sarebbe da imprimere a fuoco il marchio di tradimento sui chierici di Roma. Ora però, atteso che per prima la lettera del beatissimo papa Innocenzo, in risposta alla lettera dei vescovi africani, ha condannato alla pari di essi questo errore che costoro tentano di far accogliere; atteso che anche il successore d'Innocenzo, il santo papa Zosimo, non ha mai detto e non ha mai scritto doversi ritenere ciò che costoro pensano nei riguardi dei bambini; atteso inoltre che Celestio, affannato nel giustificarsi, fu costretto da Zosimo con ripetute sentenze interlocutorie a sottomettersi alla suddetta lettera della Sede Apostolica, certamente tutto ciò che nel corso delle vicende fu fatto nei riguardi di Celestio con troppa indulgenza, salva restando unicamente la fermezza dell'antichissima e robustissima fede, fu un mitissimo tentativo di suasione a correggersi, non una funestissima approvazione dell'errore. E la condanna con la quale Celestio e Pelagio furono colpiti successivamente dal medesimo sacerdote con il ripristino della sua autorità, fu un provvedimento di quella severità che, allentatasi per poco, era necessario dimostrare, e non il rinnegamento di un precedente giudizio sulla verità o un suo nuovo giudizio. 4.6 - Lettera del papa Innocenzo a l sinodo di Cartagine Ma che bisogno c'è che ci fermiamo più a lungo a parlare su questo argomento, quando esistono alla fonte da una parte e dall'altra gli atti processuali e i documenti scritti, dove si possono conoscere o riconoscere tutti quei fatti esattamente come si sono svolti? Infatti dalle interrogazioni del tuo santo predecessore e dalle risposte con le quali Celestio dichiarò d'esser d'accordo con la lettera del beato papa Innocenzo, chi non vede come Celestio sia stato ridotto alle strette e messo con un vincolo salutarissimo nell'impossibilità d'avere il coraggio di sostenere ulteriormente che nel battesimo dei bambini non si rimette il peccato originale? Del venerabile vescovo Innocenzo sono appunto su questo tema le seguenti parole al concilio di Cartagine: L'uomo, danneggiato alle sue origini dal libero arbitrio, quando volle usare imprudentemente dei suoi beni, caduto e sommerso nell'abisso della prevaricazione, non trovò nulla per poter risorgere da quella caduta, e ingannato per sempre dalla sua libertà sarebbe rimasto schiacciato da quella rovina, se poi non l'avesse liberato per sua grazia la venuta del Cristo, che mediante la purificazione d'una nuova rigenerazione ha mondato ogni vizio di prima con il lavacro del suo battesimo. Che cosa più chiaro e più esplicito di questa sentenza della Sede Apostolica? D'accordo con essa si dichiarò Celestio quando, avendogli chiesto il tuo predecessore: Condanni tutti gli errori che sono stati diffusi sotto il tuo nome? egli rispose: Li condanno secondo la sentenza del tuo predecessore Innocenzo di beata memoria. Ora, tra tutti gli errori che erano stati diffusi sotto il suo nome, il diacono Paolino aveva accusato Celestio di dire che "il peccato di Adamo aveva nociuto solamente a lui stesso e non al genere umano, e che i bambini al momento della nascita sono nel medesimo stato in cui era Adamo prima del peccato". Perciò, se condannava con la sincerità del cuore e della bocca, secondo la sentenza del beato papa Innocenzo, gli errori che gli addebitava Paolino, cosa gli rimaneva per sostenere in seguito che dalla passata trasgressione del primo uomo non deriva nei bambini nessun vizio da cancellare nel sacro battesimo per mezzo della purificazione di una nuova rigenerazione? Ma d'aver risposto in modo falso lo dimostrò con la sua ultima uscita, quando si sottrasse all'esame, per non essere costretto a ripetere e anatematizzare secondo i rescritti africani proprio le medesime parole usate da lui sulla medesima questione nel suo libello. 4.7 - La lettera dei papa Innocenzo ai vescovi della Numidia E che, la risposta data dal medesimo Papa su questa stessa causa anche ai vescovi della Numidia, perché aveva ricevuto scritti da ambedue i concili, e di Cartagine e di Milevi, non parla nella maniera più aperta dei bambini? Queste sono infatti le sue parole: Quello poi che la vostra fraternità asserisce predicato da lui che i bambini possono ricevere i premi della vita eterna anche senza la grazia del battesimo, è assurdo. Perché, se non avranno mangiato la carne del Figlio dell'uomo e non avranno bevuto il suo sangue, non avranno la vita in se stessi. ( Gv 6,54 ) Coloro che la rivendicano ad essi senza la rigenerazione mi sembra che vogliano annullare il battesimo stesso, predicando che i bambini hanno già quello che noi crediamo non doversi conferire a loro se non per mezzo del battesimo. Che cosa replica a queste parole quell'ingrato, che la Sede Apostolica aveva perdonato con benevolissima mitezza, quasi si fosse già corretto per mezzo della sua professione? Che cosa replica a queste parole? I bambini, dopo la fine di questa vita, anche se durante la loro vita non sono stati battezzati nel Cristo, saranno o non saranno nella vita eterna? Se dice: "Saranno", perché allora rispose che condannava secondo la sentenza d'Innocenzo di beata memoria gli errori che sono stati diffusi sotto il suo nome? Ecco, il papa Innocenzo di beata memoria dice che senza il battesimo del Cristo e senza la partecipazione del corpo e del sangue del Cristo i bambini non hanno la vita. Se dice: "Non saranno", per quale ragione, se non contraggono nessun peccato originale, essi, non ricevendo la vita eterna, sono certamente e conseguentemente condannati con la morte eterna? 4.8 - Nelle due lettere risplende la fede cattolica Di fronte a tali documenti che dicono costoro, capaci anche di scrivere le proprie calunnie e capaci d'inviarle anche ai vescovi orientali? Si ritiene che Celestio abbia prestato il suo assenso alla lettera del venerabile Innocenzo e nella stessa lettera del suddetto antistite si legge che i bambini non battezzati non possono avere la vita. Ebbene, chi negherà la conseguenza che abbiano la morte coloro che non hanno la vita? Da dove dunque nei bambini questa miserevole pena, se non esiste nessuna colpa originale? Per quale ragione allora questi disertori della fede e oppositori della grazia accusano di tradimento i chierici romani sotto il vescovo Zosimo, quasi che nella condanna susseguente di Celestio e di Pelagio avessero pensato diversamente da quello che avevano pensato nella condanna precedente sotto Innocenzo? Poiché appunto, splendendo l'antichità della fede cattolica con la lettera del venerabile Innocenzo riguardo ai bambini destinati a rimanere nella morte eterna, se non sono battezzati nel Cristo, sarebbe traditore della Chiesa romana piuttosto chiunque avesse deviato da quella sentenza, e poiché ciò non è avvenuto per benevola disposizione di Dio, ma la stessa sentenza si è conservata costantemente nella ripetuta condanna di Celestio e di Pelagio, capiscano costoro d'essere ciò che rinfacciano agli altri e una buona volta guariscano dal tradire la fede. Che appunto è cattiva la natura umana non lo dice la fede cattolica in quanto l'uomo ebbe la sua prima origine dal Creatore, né è un male della natura umana ciò che Dio crea attualmente in essa quando fa gli uomini dagli uomini, ma è un male della natura umana ciò che essa contrae dal famoso vizio del primo uomo. 5.9 - Il libero arbitrio, aiutato dalla grazia, è capace di vivere bene È già ora il momento di vedere le accuse che ci hanno fatto brevemente nella loro lettera e alle quali la nostra risposta è la seguente. Che per il peccato di Adamo sia sparito dalla natura umana il libero arbitrio non lo diciamo, ma esso negli uomini soggetti al diavolo vale a peccare, non vale invece a vivere bene e piamente, se la stessa volontà dell'uomo non è stata liberata per grazia di Dio e aiutata a fare ogni bene nell'agire, nel parlare, nel pensare. Nessun altro che il Signore Dio riteniamo creatore degli uomini che nascono, né dal diavolo ma da Dio stesso istituite le nozze: tutti però nascono sotto il peccato a causa del vizio della propaggine e sono per esso sotto il diavolo, finché non rinascano nel Cristo. Né asseriamo il fato sotto il nome di grazia dicendo che la grazia di Dio non è preceduta in nessun modo dai meriti degli uomini. Se poi a certuni piace chiamare fato la volontà dell'onnipotente Dio, noi certo evitiamo le chiacchiere profane, ( 1 Tm 6,20 ) ma non amiamo bisticciare sulle parole. 5.10 - Secondo i pelagiani la dottrina della grazia è fatalistica Quale poi sia la ragione per cui è parso a costoro d'accusarci di asserire il fato sotto il nome di grazia, essendomi dato io a riflettere con un po' più d'attenzione, ho notato per prime le loro parole che vengono subito appresso. Così infatti hanno creduto di muovere a noi quest'accusa: Sotto il nome di grazia dicono costoro asseriscono il fato tanto da dire che, se Dio non ispira all'uomo svogliato e riluttante il desiderio del bene, anche dello stesso bene imperfetto, egli non può né stare lontano dal male né arrivare a fare il bene. Poi alquanto dopo, dove ricordano le tesi difese da loro stessi, ho rivolto la mia attenzione a quello che dicono su questo argomento. Scrivono: Noi confessiamo che il battesimo è necessario a tutte le età e altresì che la grazia aiuta il buon proposito di ognuno, ma essa tuttavia non infonde la sollecitudine della virtù in chi è riluttante, perché non c'è parzialità per nessuno presso Dio ( Col 3,25 ) - Da queste loro parole ho capito che ritengono o vogliono far ritenere che noi asseriamo il fato sotto il nome di grazia, perché diciamo che la grazia di Dio non è data secondo i nostri meriti, ma secondo la volontà misericordiosissima di colui che ha dichiarato: Userò misericordia con chi vorrò e avrò pietà di chi vorrò averla. ( Rm 9,15 ) Dove logicamente si aggiunge: Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia. ( Rm 9,16 ) Anche da qui potrebbe qualcuno altrettanto stolto ritenere o dire l'Apostolo assertore del fato. Ma in questo caso costoro si tradiscono a sufficienza. Poiché infatti ci calunniano d'asserire il fato perché diciamo che la grazia di Dio non è data secondo i nostri meriti, senza dubbio costoro confessano di dire che la grazia è data secondo i nostri meriti: così la loro cecità non ha potuto occultare o dissimulare che essi intendono e sentono esattamente ciò che, contestato a Pelagio nel giudizio episcopale palestinese, egli condannò con subdolo timore. Fu appunto obiettato a lui, dalle parole del suo discepolo Celestio per la verità, di dire anche lui: "La grazia di Dio è data secondo i nostri meriti". Il che egli detestandolo o facendo finta di detestarlo non indugiò ad anatematizzare con la bocca soltanto; ma, come indicano i suoi libri posteriori e come lo mette a nudo l'asserzione di cotesti suoi seguaci, serbò nella finzione del cuore l'errore fino a quando in seguito la sua sfrontatezza pubblicò anche per scritto ciò che allora l'astuzia nel negare aveva coperto per paura. E non temono ancora né si vergognano almeno i vescovi pelagiani di mandare ai vescovi cattolici orientali una loro lettera, dove ci accusano d'essere assertori del fato perché non diciamo che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti; ciò che Pelagio per timore dei vescovi orientali e non osò affermare e fu indotto a condannare. 6.11 - Ag. ritorce l'accusa di fatalismo Non sta dunque proprio così, o novelli eretici pelagiani, figli della superbia, nemici della grazia di Dio: chiunque dica che la grazia di Dio precede tutti i buoni meriti dell'uomo e che la grazia di Dio non è data ai meriti, perché non sia grazia ( Rm 11,6 ) se non è data gratuitamente ma è pagata per debito a coloro che la meritano, a voi sembra che asserisca il fato? Non è vero che anche voi, quale che sia la vostra intenzione, dite necessario il battesimo per tutte le età? Non è vero che in questa stessa vostra lettera avete posto cotesta sentenza sul battesimo e subito accanto ad essa la sentenza sulla grazia? Perché il battesimo che si dà ai piccoli non vi ha suggerito con la stessa sua vicinanza che cosa dovete pensare della grazia? Queste sono infatti le vostre parole: Noi confessiamo che il battesimo è necessario a tutte le età e altresì che la grazia aiuta il buon proposito di ognuno, ma essa tuttavia non infonde il desiderio della virtù in chi è riluttante, perché non c'è parzialità per nessuno presso Dio. ( Col 3,25 ) Di quello che avete detto della grazia in tutte queste vostre parole taccio per il momento. Del battesimo rendete conto. Dite, perché lo diciate necessario a tutte le età, per quale ragione sia necessario ai bambini. Certamente perché procura a loro qualcosa di buono, e ciò non è qualcosa né di piccolo né di mediocre, ma qualcosa di grande. Sebbene infatti neghiate che contraggano il peccato originale da rimettersi nel battesimo, tuttavia che in forza di quel lavacro di rigenerazione essi da figli degli uomini siano adottati in figli di Dio non lo negate e anzi lo predicate pure. Diteci dunque: tutti i battezzati nel Cristo che sono usciti dal corpo quand'erano bambini, questo dono tanto sublime per quali meriti precedenti l'hanno ricevuto? Se direte che l'hanno meritato per la pietà dei loro genitori, vi si chiederà: Perché talvolta si nega questo beneficio a figli di genitori pii ed è concesso a figli di genitori empi? A volte infatti prole nata da persone religiose è prevenuta dalla morte in tenera età e appena uscita dall'utero, prima d'essere lavata con il lavacro della rigenerazione, e un bambino nato da nemici del Cristo è battezzato nel Cristo per pietà di cristiani: piange una mamma battezzata per il proprio bambino non battezzato e una donna casta raccoglie per farlo battezzare un feto altrui, esposto da una mamma disonesta. Qui mancano certamente i meriti dei genitori, mancano per vostra confessione i meriti anche degli stessi bambini. Sappiamo infatti che dell'anima umana voi non credete che prima di prendere il corpo terreno sia vissuta in qualche altro luogo e abbia fatto qualcosa o di bene o di male per cui meritare questa differenza nella carne. Quale causa dunque a questo bambino ha procurato il battesimo e a quello l'ha negato? Hanno forse essi il fato perché non hanno il merito? O c'è forse in essi parzialità personale da parte di Dio? Voi infatti avete detto l'una e l'altra cosa: prima il fato e poi la parzialità personale, perché, essendo ambedue da scartare, rimanga il merito che volete introdurre contro la grazia. Sui meriti dunque dei bambini rispondete perché gli uni escano dai corpi con il battesimo e gli altri senza il battesimo, perché indipendentemente dai meriti dei genitori siano o gratificati o privati di un bene tanto eccellente da diventare figli di Dio da figli degli uomini, escluso ogni merito dei genitori, escluso ogni merito proprio dei figli. Naturalmente voi tacete e vi trovate piuttosto rovesciati da voi stessi nell'errore che rovesciate su di noi. Se infatti dove non c'è il merito dite che c'è logicamente il fato, e proprio per non essere costretti ad ammettere il fato volete che nella grazia di Dio si ravvisi il merito dell'uomo, ecco siete piuttosto voi ad asserire il fato nel battesimo dei piccoli dai quali escludete qualsiasi merito. Se poi nel battezzare i bambini concedete che non interviene assolutamente nessun merito precedente e che tuttavia non interviene il fato, per quale ragione quando noi diciamo che la grazia di Dio è data gratuitamente, proprio perché non cessi d'essere grazia e non sia pagata come un debito a meriti precedenti, voi andate dicendo che noi siamo assertori del fato? Voi non capite che nella giustificazione degli empi come proprio per questo che è grazia di Dio non intervengono i meriti, così proprio per questo che è grazia di Dio non interviene il fato, e proprio per questo che è grazia di Dio non interviene nessuna parzialità di persone. 6.12 - Definizione del fato e confutazione dell'accusa Coloro che appunto affermano il fato, dalla posizione delle stelle che chiamano costellazioni, nel tempo in cui ciascuno è concepito o nasce, fanno dipendere non solo i comportamenti e gli eventi, ma anche le stesse nostre volontà. Al contrario la grazia di Dio trascende non solo tutte le stelle e tutti i cieli, ma anche tutti gli angeli. Inoltre gli assertori del fato attribuiscono al fato e i beni e i mali degli uomini. Al contrario Dio nei mali degli uomini insegue i loro demeriti con il dovuto contraccambio, ma quanto ai beni li elargisce per grazia non dovuta con misericordiosa volontà. Ambedue le cose Dio le fa non in dipendenza del congiungimento temporaneo delle stelle, ma secondo l'eterno e profondo disegno della sua severità e bontà. Nessuna delle due cose dunque la vediamo appartenere al fato. Se qui rispondete che fato è da dirsi piuttosto questa stessa benevolenza di Dio con la quale non segue i meriti, ma per gratuita bontà elargisce beni non dovuti, mentre l'Apostolo la chiama grazia dicendo: Per questa grazia siete salvi mediante la fede, e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio, né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene, ( Ef 2,8-9 ) non avvertite, non capite che non siamo noi a dare al fato il nome di grazia divina, ma voi piuttosto a dare alla grazia divina il nome di fato? 7.13 - Definizione dell'acceptio personarum e rigetto dell'accusa Così pure preferenza di persone si dice giustamente esserci dove un giudice, trascurando il merito della causa che ha in esame, favorisce una parte contro l'altra, perché nella persona trova qualcosa che è degno d'onore o di compassione. Chi invece ha due debitori, se ad uno vuole condonare il debito ed esigerlo dall'altro, regala a chi vuole, ma non defrauda nessuno; né si deve dire preferenza di persone quando non c'è nessuna ingiustizia. Altrimenti a critici poco intelligenti può sembrare preferenza di persone quando il padrone della vigna agli operai che vi lavorarono un'ora sola diede quanto a quelli che sopportarono il peso della giornata e il caldo, uguagliando nella paga operai tanto distanti tra loro nella fatica. Ma che rispose il padrone a coloro che mormoravano contro di lui per questa apparente parzialità di persone? Disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? ( Mt 20,13-15 ) Naturalmente qui tutta la giustizia è in quel: "Voglio così". "A te - dice - ho reso, a lui ho regalato, né per regalare a lui ho tolto qualcosa a te, o ho diminuito o negato quanto ti dovevo. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?". Come dunque non c'è qui parzialità di persone, perché uno viene gratuitamente gratificato senza che l'altro sia defraudato del suo diritto, così pure, quando secondo il disegno di Dio uno è chiamato e un altro no, ( Rm 8,28 ) a chi è chiamato è dato un bene gratuito del quale è principio la chiamata stessa, a chi non è chiamato è reso il male perché tutti sono rei da quando il peccato è entrato nel mondo a causa di un solo uomo. ( Rm 5,12 ) Veramente in quella parabola degli operai, nella quale ricevettero un solo denaro quelli che lavorarono un'ora sola e quelli che lavorarono dodici volte tanto, e questi certamente secondo i calcoli umani ma vani in proporzione del loro lavoro avrebbero dovuto ricevere dodici denari, gli uni e gli altri furono uguagliati nel bene, non liberati gli uni e condannati gli altri, perché anche quelli che lavorarono di più ebbero dallo stesso padre di famiglia e il favore d'esser chiamati così da accogliere la chiamata e il favore d'essere nutriti così da non venire meno nelle loro forze. Nel testo invece dove si legge: Usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole, colui che fa un vaso per uso nobile e uno per uso volgare, ( Rm 9,18.21 ) il bene è dato, sì, immeritamente e gratuitamente, perché appartiene alla medesima massa colui che riceve il bene; il male viceversa è reso meritamente e debitamente, perché nella massa di perdizione non è male rendere male al male, ed è male per colui a cui è reso, essendo il suo castigo, ma per colui che lo rende è bene, essendo un suo giusto operare. Né c'è nessuna parzialità di persone se di due debitori ugualmente rei ad uno si condona e dall'altro si esige ciò che è dovuto ugualmente da ambedue. 7.14 - L'esempio dei due gemelli morti prematuramente, l'uno battezzato, l'altro no Ma per rendere chiaro con un esempio ciò che stiamo dicendo prendiamo due gemelli, nati da una meretrice ed esposti perché altri li raccogliessero: di questi due uno è spirato senza il battesimo e l'altro con il battesimo. Qual fato o quale fortuna, che sono assolutamente inesistenti, possiamo ammettere qui? Quale preferenza di persone, anche se ne fosse stata possibile un poco in tali bambini, quando non c'è per nulla in Dio? Essi certo non avevano nulla che facesse preferire l'uno all'altro e non avevano meriti personali, né buoni per meritare l'uno d'esser battezzato, né cattivi per meritare l'altro di morire senza il battesimo. Ci sono stati meriti da parte dei genitori, essendo fornicatore il padre e meretrice la madre? Ma, quali che siano stati quei meriti, certamente per cotesti che muoiono in condizione tanto diversa non erano affatto diversi, bensì comuni all'uno e all'altro. Se questo dunque non è dipeso né dal fato perché le stelle non decidono di tali eventi, né dalla fortuna perché i casi fortuiti non compiono questi fatti, né dalla diversità delle persone o dei meriti, che cosa resta quanto al bambino battezzato se non la grazia di Dio, la quale è data gratuitamente ai vasi fatti per uso nobile, e quanto al bambino non battezzato se non l'ira di Dio, la quale ai vasi fatti per uso volgare è resa secondo i demeriti della stessa massa? Ma noi nel bambino battezzato vi costringiamo a confessare la grazia di Dio e vi dimostriamo che da parte sua non c'è stato nessun merito precedente; quanto poi al bambino morto senza il battesimo, per quale ragione gli sia mancato il sacramento che anche voi confessate necessario a tutte le età e che cosa in questo modo sia stato punito in lui vedetelo voi che non volete l'esistenza del delitto originale. 7.15 - La soluzione della questione da parte dell'Apostolo Per noi in cotesti due gemelli che hanno indubbiamente una condizione unica, la difficoltà della questione, perché l'uno sia morto in maniera diversa dall'altro, la scioglie quasi senza scioglierla l'Apostolo. ( Rm 9,11-12 ) Il quale, avendo proposto anch'egli un caso simile riguardo a due gemelli, per il fatto che non in base alle loro opere, perché essi non avevano ancora operato alcunché di bene o di male, ma in base alla scelta divina fu detto: Il maggiore servirà il più piccolo, ( Rm 9,12 ) e: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù, ( Rm 9,13 ) e avendo condotto l'orrore di questo abisso fino a dire: Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole, ( Rm 9,18 ) avvertì subito quale difficoltà nascesse e rivolse a sé le parole di un contraddittore da ribattere con apostolica autorità. Scrive infatti: Mi potrai però dire: - Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere? -. E a chi parla così risponde: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: - Perché mi hai fatto così? -. Forse il vasaio non è padrone dell'argilla per fare con la medesima massa di pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? ( Rm 9,19-21 ) Poi seguitando svelò, per quanto giudicò di doverlo svelare agli uomini, un così alto e fitto mistero dicendo: Che potremmo dire, se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria? ( Rm 9,22-23 ) Ecco la grazia di Dio non solo nella funzione di aiutare, ma anche in quella di testimoniare: aiuta cioè nei vasi di misericordia, ma testimonia nei vasi di collera. In questi infatti indica la collera e mostra la sua potenza, essendo tanto potente la sua bontà da far buon uso anche dei mali, e fa conoscere nei vasi di collera la ricchezza della sua gloria verso i vasi di misericordia, perché quello che dai vasi d'ira esige la sua giustizia punitrice lo condona ai vasi di misericordia la sua grazia liberatrice. Né apparirebbe il beneficio che è concesso gratuitamente ad alcuni, se Dio condannando con giusto castigo gli altri della stessa massa di pasta ugualmente rei non mostrasse che cosa fosse dovuto agli uni e agli altri. Chi infatti ti distingue? domanda il medesimo Apostolo all'uomo, come se si vantasse di se stesso e del suo proprio bene. Chi infatti ti distingue? naturalmente dai vasi di collera, dalla massa della perdizione, la quale a causa di uno solo ha mandato tutti alla condanna. Chi infatti ti distingue? E come se l'interpellato avesse risposto: - Mi distingue la mia fede, il mio proponimento, il mio merito -, incalza: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti, come se non l'avessi ricevuto, ( 1 Cor 4,7 ) cioè come se venisse da te il privilegio che ti distingue? A distinguerti dunque è chi ti dona il privilegio della distinzione, rimovendo la pena dovuta ed elargendo la grazia non dovuta. Ti distingue colui che comandò quando le tenebre ricoprivano l'abisso: Sia la luce! e la luce fu. E separò, cioè distinse, la luce dalle tenebre. ( Gen 1,3-4 ) Non trovò infatti che cosa distinguere quando esistevano soltanto le tenebre, ma le distinse facendo la luce, perché si possa dire agli empi giustificati: Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore, ( Ef 5,8 ) e così, chi si vanta si vanti nel Signore ( 1 Cor 1,31 ) e non in se stesso. A distinguere è colui che riguardo ai due bambini non ancora nati e non ancora responsabili né di bene né di male, perché rimanesse fermo il suo disegno fondato sull'elezione, disse, non in base alle opere, ma alla volontà di lui stesso che chiamava: Il maggiore servirà il più piccolo, ( Rm 9,12; Gen 25,23 ) e in seguito dichiarò lo stesso per bocca del Profeta: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù. ( Ml 1,2-3; Rm 9,13 ) Precisamente elezione dice ( Rm 9,11 ) dove Dio non trova qualcosa da scegliere fatto da altri, ma per trovarlo lo fa egli stesso, come riguardo al resto di Israele è scritto: Così anche al presente c'è un resto, conforme a una elezione per grazia. E se lo è per grazia, non lo è dunque per le opere, altrimenti la grazia non sarebbe più grazia. ( Rm 11,5-6 ) Perciò vaneggiate sicuramente voi che, dicendo la Verità: Non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama, dite: "Giacobbe fu amato in base alle opere future che Dio prevedeva fatte da lui", e così contraddite l'Apostolo che dice: Non in base alle opere, come se egli non potesse dire: "Non in base alle opere presenti, ma a quelle future". Egli dice però: Non in base alle opere per sottolineare la grazia. E se lo è per grazia, non lo è per le opere, altrimenti la grazia non sarebbe più grazia. Infatti viene prima la grazia non dovuta ma gratuita, perché per mezzo di essa si compiano le opere buone; altrimenti, se venissero prima le opere buone, la grazia sarebbe come resa alle opere e allora la grazia non sarebbe più grazia. 7.16 - Conclusione dell'argomentazione Ma per togliervi completamente alle vostre tenebre, ho appositamente scelto l'esempio di gemelli che non potessero contare sui meriti dei genitori e morissero ambedue sulla prima soglia dell'infanzia, uno battezzato e l'altro non battezzato, perché non affermaste, come dite di Giacobbe e di Esaù contro l'Apostolo, che Dio preconobbe le loro opere future. In che modo infatti le preconobbe future, se piuttosto con la sua infallibile prescienza le preconobbe non future prevedendo che sarebbero morti nell'infanzia? Oppure, che vantaggio c'è per coloro che sono rapiti da questa vita perché la malizia non muti i loro sentimenti o l'inganno non travii il loro animo, ( Sap 4,11 ) se anche il peccato che non è stato commesso con opere, con parole, con pensieri è punito come se fosse stato commesso? Che se è estremamente assurdo, insulso, pazzesco che gli uomini in genere siano da condannare a causa di peccati dei quali né hanno potuto contrarre il reato dai genitori, come dite, né hanno potuto non solo commettere ma nemmeno pensare, allora torna a voi il fratellino non battezzato del gemello battezzato e tacito vi chiede per quale ragione sia stato separato dalla felicità del fratello, per quale motivo sia stato colpito dall'infelicità di non ricevere il sacramento necessario a tutte le età, come voi riconoscete, mentre il suo fratello è stato adottato in figlio di Dio, se, come non esiste né la fortuna né il fato né la parzialità di persone presso Dio, così non esiste nessun dono di grazia senza meriti e nessun peccato originale. Davanti a questo bimbo, incapace assolutamente di parlare, voi fate tacere la vostra lingua e la vostra voce, a lui che non sa parlare non trovate voi che parole parlare. 8.17 - Differenze dottrinali tra i pelagiani sulla grazia Vediamo ora, come possiamo, il merito stesso che costoro vogliono far precedere nell'uomo, perché egli sia ritenuto degno dell'aiuto della grazia e perché al suo merito la grazia non sia data come non dovuta, ma sia pagata come dovuta, e così la grazia non sia più grazia: vediamo comunque che cosa sia questo merito. Scrivono: Sotto il nome di grazia asseriscono il fato, tanto da dire che se Dio non ispira all'uomo svogliato e riluttante il desiderio del bene, anche dello stesso bene imperfetto, egli non può né star lontano dal male, né arrivare a fare il bene. Del fato e della grazia abbiamo già mostrato come parlino a vanvera: il problema al quale dobbiamo volgere ora l'attenzione è se sia Dio ad ispirare all'uomo svogliato e riluttante il desiderio del bene, così da farlo cessare d'essere riluttante e d'essere svogliato, ma farlo volgere al bene e fargli volere il bene. Costoro infatti vogliono che il desiderio del bene nell'uomo cominci dall'uomo stesso e che al merito di questo inizio segua la grazia di fare il bene perfettamente: se tuttavia vogliono almeno questo. Infatti Pelagio dice che con l'aiuto della grazia il bene si compie più facilmente. Con la quale aggiunta, cioè aggiungendo "più facilmente", fa capire che la sua convinzione è questa: anche se manca l'aiuto della grazia, si può, sebbene con più difficoltà, fare il bene per mezzo del libero arbitrio. Ma quale sia la loro dottrina su questo argomento non lo prescriviamo dal fondatore di tale eresia: concediamo che essi sono con il loro libero arbitrio liberi anche dallo stesso Pelagio e attendiamo piuttosto a coteste loro parole poste in questa lettera, alla quale stiamo rispondendo. 8.18 - Quali meriti precedono la grazia? Questo infatti hanno creduto di doverci contestare: Diciamo che Dio ispira all'uomo svogliato e riluttante il desiderio del bene, non di un bene grande quanto si voglia, ma anche del bene imperfetto. Forse dunque costoro lasciano in tal modo qualche spazio alla grazia almeno in questa misura: reputando che senza di essa l'uomo possa avere il desiderio del bene, ma del bene imperfetto; del bene invece perfetto non è che l'uomo possa avere il desiderio "più facilmente" con la grazia, ma non lo può avere in nessun modo se non per mezzo della grazia. Tuttavia anche così dicono che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti: ciò che in Oriente Pelagio nel processo ecclesiastico condannò per timore d'essere condannato. Se infatti il desiderio del bene comincia da noi senza la grazia di Dio, questo stesso inizio sarà un merito a cui arrivi come per debito l'aiuto della grazia, e così la grazia di Dio non sarà donata gratuitamente, ma sarà data secondo il nostro merito. Ora il Signore per rispondere in anticipo al futuro Pelagio non ha detto: Senza di me potete fare qualcosa con difficoltà, ma ha detto: Senza di me non potete far nulla. ( Gv 15,5 ) E per rispondere in anticipo anche a costoro non ha detto nella medesima sentenza evangelica: Senza di me non potete fare perfettamente, ma ha detto semplicemente: Fare. Perché se avesse detto: Fare perfettamente, costoro potrebbero dire che l'aiuto di Dio non è necessario per cominciare il bene, ciò che dipende da noi, ma per fare perfettamente il bene. Ascoltino però anche l'Apostolo. Il Signore infatti quando disse: Senza di me non potete far nulla, con questo unico verbo fare comprese l'inizio e la fine. L'Apostolo poi, come se facesse il commento della sentenza del Signore, ha distinto più esplicitamente l'inizio e la fine dicendo: Colui che ha iniziato in voi quest'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno del Cristo Gesù. ( Fil 1,6 ) Ma nelle Scritture sante presso il medesimo Apostolo troviamo più di questo di cui stiamo parlando. Stiamo infatti parlando adesso del desiderio del bene. Se vogliono che questo desiderio del bene cominci da noi e il bene sia portato alla perfezione dal Signore, vedano che cosa abbiano da rispondere all'Apostolo quando dice: Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio. ( 2 Cor 3,5 ) Dice: Pensare qualcosa, naturalmente di buono. Ora, pensare è meno di desiderare. Pensiamo appunto tutto quello che desideriamo, ma non desideriamo tutto quello che pensiamo: tant'è vero che pensiamo a volte anche quello che non desideriamo. Poiché dunque pensare è meno che desiderare - uno può infatti pensare un bene che non desidera ancora e progredendo può in seguito desiderare un bene a cui prima pensava senza desiderarlo -, in che modo di quello che è meno, ossia di pensare qualcosa di buono, non siamo capaci come se provenisse da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, e di quello che è di più, ossia di desiderare qualcosa di buono, siamo capaci senza l'aiuto divino in forza del libero arbitrio? Anche qui infatti l'Apostolo non dice: Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa di perfetto, ma dice: Di pensare qualcosa, il cui contrario è il nulla. E gli corrisponde l'affermazione del Signore: Senza di me non potete far nulla. 9.19 - Testi scritturistici sui quali i pelagiani poggiano la loro dottrina Ma evidentemente non intendendo bene ciò che è scritto: All'uomo appartiene preparare il cuore e dal Signore viene la risposta della lingua, ( Pr 16,1 ) s'ingannano nello stimare che all'uomo senza la grazia di Dio appartenga preparare il cuore, ossia iniziare il bene. Ben si guardino dall'intendere così i figli della promessa, come se udendo il Signore che dice: Senza di me non potete far nulla, lo possano contraddire replicando: Ecco, senza di te possiamo preparare il nostro cuore; oppure udendo dire dall'apostolo Paolo: Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, ( 2 Cor 3,5 ) possano contraddire anche lui dicendo: Ecco, siamo capaci da noi stessi di preparare il nostro cuore e quindi di pensare qualcosa di buono. Chi può infatti preparare il proprio cuore al bene senza pensare al bene? Non sia mai che intendano così se non i superbi difensori del proprio arbitrio e i disertori della fede cattolica. La ragione appunto per cui sta scritto: All'uomo appartiene preparare il cuore e dal Signore viene la risposta della lingua, è che l'uomo prepara il suo cuore, non tuttavia senza l'aiuto di Dio, il quale tocca così il cuore da indurre l'uomo a preparare il suo cuore. Nella risposta poi della lingua, cioè nel fatto che al cuore preparato risponde la lingua divina, non ha nessun posto l'opera dell'uomo, ma tutto viene dal Signore Dio. 9.20 - Aiuto divino e opera dell'uomo Perché, come è stato detto: All'uomo appartiene preparare il cuore e dal Signore viene la risposta della lingua, ( Pr 16,1 ) così pure è stato detto: Apri la tua bocca, la voglio riempire. ( Sal 81,11 ) Benché infatti non possiamo aprir la bocca se non con l'aiuto di colui senza il quale non possiamo far nulla, tuttavia siamo noi che l'apriamo, con l'aiuto di Dio e con l'attività nostra; è il Signore invece che la riempie senza attività nostra. Che cos'è infatti preparare il cuore e aprir la bocca se non disporre la volontà? E tuttavia nelle stesse Scritture si legge: Dal Signore è preparata la Volontà, ( Pr 8, 35 sec. LXX ) e: Apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode. ( Sal 51,17 ) Ecco, Dio ci esorta a preparare la nostra volontà nel testo dove leggiamo: All'uomo appartiene preparare il cuore, e tuttavia è Dio che aiuta a prepararlo perché dal Signore è preparata la volontà. E apri la tua bocca lo dice comandando, ma in tal modo che nessuno la possa aprire se non ce la fa aprire, aiutandoci, Dio stesso al quale diciamo: Apri le mie labbra. Potranno mai taluni di loro vaneggiare tanto da voler distinguere tra la bocca e le labbra per dire con strana stupidità che è l'uomo ad aprire la propria bocca ed è Dio ad aprire le labbra dell'uomo? Comunque Dio impedisce ad essi anche questa assurdità quando al suo servo Mosè dice: Io aprirò la tua bocca e t'insegnerò quello che dovrai dire. ( Es 4,12 ) Nella sentenza dunque dove si legge: Apri la tua bocca, la voglio riempire, sembra quasi che la prima azione spetti all'uomo e la seconda a Dio; nella sentenza invece dove si legge: Io aprirò la tua bocca e t'insegnerò, tutte e due le azioni spettano a Dio. Per quale ragione se non perché nel primo dei due casi Dio coopera con l'uomo che apre la bocca e nell'altro fa tutto da solo? 9.21 - Il desiderio del bene è carità e la carità viene da Dio In conclusione, Dio fa nell'uomo molte buone operazioni senza che le faccia l'uomo, ma l'uomo non fa nessuna buona operazione senza che Dio gliela faccia fare. Perciò il desiderio del bene non l'avrebbe l'uomo dal Signore se non fosse un bene, ma se è un bene non viene a noi se non da colui che è sommamente e immutabilmente buono. Cos'è infatti il desiderio del bene se non la carità, di cui l'apostolo Giovanni parla senza ambiguità dicendo: L'amore è da Dio? ( 1 Gv 4,7 ) Né è vero che il suo inizio venga da noi e la sua perfezione venga da Dio; ma se l'amore è da Dio, viene a noi tutto intero da Dio. A tal proposito Dio ci guardi dalla pazzia di mettere noi per primi nei suoi doni e lui per secondo, poiché sta scritto: Con la sua misericordia mi previene, ( Sal 59,11 ) ed è a lui che si canta con fede e veracità: L'hai prevenuto con la benedizione della tua dolcezza. ( Sal 21,4 ) E cosa s'intende più convenientemente dello stesso desiderio del bene di cui stiamo parlando? È proprio allora infatti che comincia il desiderio del bene quando si comincia a gustare la dolcezza del bene. Al contrario quando si fa il bene per timore della pena e non per amore della giustizia, il bene non si fa ancora bene, né si fa nel cuore il bene che si vede fare nell'operazione quando si preferirebbe non farlo, se lo si potesse impunemente. La benedizione della dolcezza è dunque la grazia di Dio, la quale in noi fa sì che gustiamo e desideriamo, ossia amiamo, quanto Dio ci comanda: con la quale dolcezza se Dio non ci previene, l'amore del bene non solo non arriva alla perfezione in noi, ma non incomincia nemmeno da parte nostra. Se infatti non possiamo fare nulla senza di lui, certamente non possiamo né cominciare né fare perfettamente, perché riguardo al cominciare è stato detto: Con la sua misericordia mi previene, e riguardo al fare perfettamente è stato detto: La sua misericordia mi accompagnerà 49. ( Sal 23,6 ) 10.22 - Vocazione ed elezione dell'uomo da parte di Dio Che è dunque quello che nel seguito, dove ricordano le proprie convinzioni, dicono di confessare: "Altresì che la grazia di Dio aiuta il buon proposito di ognuno, ma essa tuttavia non infonde la sollecitudine della virtù in chi è riluttante"? Lo dicono appunto come se l'uomo abbia da se stesso, senza l'aiuto di Dio, il proposito buono e la sollecitudine della virtù, e questo merito precedente lo renda degno d'essere aiutato dalla grazia divina susseguente. Reputando infatti che forse l'Apostolo nello scrivere: Sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il proposito, ( Rm 8,28 ) volesse intendere il proposito dell'uomo, al quale proposito come a merito buono seguisse la misericordia di Dio che chiama, ignorando che il senso in cui è stato detto: Sono stati chiamati secondo il proposito si deve riferire al proposito di Dio e non al proposito dell'uomo: al disegno con il quale Dio ha scelto prima della creazione del mondo ( Rm 8,28-29 ) quelli che da sempre ha conosciuti e predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo. ( Ef 1,4 ) Non tutti i chiamati infatti sono chiamati secondo il proposito, poiché molti sono chiamati, ma pochi eletti. ( Mt 20,16 ) Chiamati dunque secondo il proposito sono gli stessi eletti da prima della creazione del mondo. Di questo proposito di Dio è stato detto anche ciò che ho già ricordato sui gemelli Esaù e Giacobbe: Perché rimanesse fermo il proposito divino fondato sull'elezione non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama, le fu dichiarato: Il maggiore sarà sottomesso al minore. ( Rm 9,11-12 ) Questo proposito di Dio è ricordato pure nel passo dove Paolo scrivendo a Timoteo dice: Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia: grazia che ci è stata data nel Cristo Gesù fino dall'eternità, ma è stata manifestata solo ora con l'apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù. ( 2 Tm 1,8-10 ) Questo è dunque il proposito di Dio, per cui dice: Tutto concorre al bene di coloro che sono stati chiamati secondo il proposito. ( Rm 8,28 ) Quanto poi al buon proposito dell'uomo, certamente l'aiuta la grazia susseguente, ma esso non esisterebbe nemmeno senza la grazia precedente. Anche quella che si dice sollecitudine buona dell'uomo, benché sia aiutata dalla grazia dopo che è cominciata, tuttavia non comincia senza la grazia, ma è ispirata da Dio, del quale l'Apostolo dice: Siano pertanto rese grazie a Dio che infonde la medesima sollecitudine per voi nel cuore di Tito. ( 2 Cor 8,16 ) Se è Dio a dare a ciascuno la sollecitudine per gli altri, chi altri se non Dio la darà a ciascuno per se stesso? 10.23 - Comandamenti e grazia Stando così le cose, non vedo comandato dal Signore nelle Scritture sante a prova del libero arbitrio nulla che non si trovi ad essere o dato dalla sua bontà o chiesto a lui perché mostri l'aiuto della sua grazia. Né l'uomo comincia in nessun modo a mutarsi dal male al bene per mezzo dell'inizio della fede, se questo mutamento non l'opera in lui la misericordia di Dio, non dovuta e gratuita. Sulla quale riportando un tale il suo pensiero dice, come leggiamo nei Salmi: Può Dio aver dimenticato la misericordia, aver chiuso nell'ira il suo cuore? E ho detto: Ora comincio. Questo è il mutamento della destra dell'Altissimo. ( Sal 77,10-11 ) Dopo dunque aver detto: Ora comincio non soggiunge: Questo è il mutamento del mio arbitrio, ma: della destra dell'Altissimo. Si pensi dunque alla grazia di Dio in modo che chi si vanta si vanti nel Signore ( 1 Cor 1,31 ) dall'inizio del suo buon mutamento fino alla fine del suo perfezionamento. Perché come nessuno può fare il bene perfettamente senza il Signore, così nessuno può cominciare a fare il bene senza il Signore. Ma sia qui il termine di questo volume, perché l'attenzione di chi legge si sollevi e si rafforzi per quanto seguirà. Libro III 1.1 - Breve introduzione Qui continuano ancora le calunnie che costoro scagliano contro di noi e non cominciano ancora a tessere le tesi della loro stessa dottrina. Ma per evitare che la prolissità dei volumi offendesse i lettori, abbiamo distribuito le loro obiezioni in due libri, dei quali, finito il precedente che è il secondo di tutta quest'opera, ne impostiamo da qui un altro e lo congiungiamo come terzo al primo e al secondo. 2.2 - Accusa pelagiana sulla legge mosaica Ci accusano di dire: "La legge dell'Antico Testamento non fu data per giustificare coloro che le obbedivano, ma per diventare causa di più grave peccato". Assolutamente non capiscono cosa diciamo noi della legge, perché diciamo quello che dice l'Apostolo che essi non capiscono. Chi dirà infatti che non sono giustificati coloro che obbediscono alla legge, quando non potrebbero obbedire alla legge se non fossero già giustificati? Ma noi diciamo: la legge fa udire cosa Dio vuole che sia fatto, la grazia invece fa obbedire alla legge. Poiché, dice l'Apostolo, non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati. ( Rm 2,13 ) La legge dunque fa uditori della giustizia, la grazia esecutori. Dice il medesimo Apostolo: Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio l'ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito. ( Rm 8,3-4 ) Ecco quello che diciamo noi. Preghino di capire finalmente e non litighino con il pericolo di non capire perpetuamente. È impossibile infatti che la legge si possa osservare per mezzo della carne, cioè della presunzione carnale dei superbi che, ignorando la giustizia di Dio, ossia quella che viene da Dio all'uomo per essere giusto, e cercando di stabilire la propria, come se la legge si possa osservare con il loro arbitrio senza l'aiuto divino, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. ( Rm 10,3 ) Perciò la giustizia della legge si adempie in coloro che non camminano secondo la carne, cioè secondo l'uomo che ignora la giustizia di Dio e cerca di stabilire la propria, ma camminano secondo lo spirito. Ora, chi altri cammina secondo lo spirito se non chi è guidato dallo Spirito di Dio? Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. ( Rm 8,14 ) Dunque la lettera uccide, lo Spirito dà vita. ( 2 Cor 3,6 ) Né la lettera è un male perché uccide, ma convince di trasgressione i cattivi. Infatti la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento. ( Rm 7,12 ) Ciò che è bene è allora diventato morte per me?, chiede l'Apostolo. E risponde: No davvero! È invece il peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento. ( Rm 7,13 ) Ecco che vuol dire: La lettera uccide. Infatti il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. ( 1 Cor 15,56 ) Acuisce appunto i desideri del peccato proibendo, ed è per questo che dà morte, se la grazia soccorrendo non dà vita. 2.3 - La legge senza la grazia genera schiavitù Ecco quello che diciamo, ecco perché ci rinfacciano di dire: "La legge è stata data perché sia causa di più grave peccato", non prestando essi orecchio all'Apostolo che dice: La legge infatti provoca l'ira; al contrario dove non c'è legge, non c'è nemmeno trasgressione, ( Rm 4,15 ) e ancora: La legge fu aggiunta per le trasgressioni fino alla venuta della discendenza per la quale era stata fatta la promessa, ( Gal 3,19 ) e: Se fosse stata data una legge capace di conferire la vita, la giustificazione scaturirebbe davvero dalla legge; la Scrittura invece ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo. ( Gal 3,21-22 ) Questa è la ragione per cui il Vecchio Testamento del monte Sinai dove fu data la legge genera nella schiavitù, rappresentata da Agar. ( Gal 4,24 ) Noi invece, afferma, non siamo figli di una schiava, ma di una donna libera. ( Gal 4,31 ) Non sono pertanto figli della donna libera coloro che hanno ricevuto la legge della lettera, che li possa mostrare non solo peccatori, ma per giunta anche trasgressori, bensì coloro che hanno ricevuto lo spirito della grazia, con il quale si possa adempiere la stessa legge, santa, giusta e buona. Ecco quello che noi diciamo: intendano costoro e non contendano, s'illuminino e non calunnino. 3.4 - Accusa pelagiana sulla perfetta purificazione battesimale Scrivono di noi: Asseriscono pure che il battesimo non fa gli uomini veramente nuovi, cioè non dà la piena remissione dei peccati, ma sostengono che i battezzati diventano figli di Dio sotto un aspetto e rimangono figli del secolo, ossia del diavolo, sotto un altro. Costoro mentiscono, insidiano, cavillano. Non è questo che noi diciamo. Infatti tutti gli uomini che sono figli del diavolo li diciamo pure figli del secolo, ma non tutti i figli del secolo li diciamo pure figli del diavolo. Lungi da noi infatti il dire che sono stati figli del diavolo i santi patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe e gli altri simili a loro, quando generavano per mezzo delle nozze, e quei fedeli che generano finora e genereranno in seguito. Eppure non possiamo contraddire il Signore che dichiara: Sono i figli di questo secolo che prendono moglie e maritano le figlie. ( Lc 20,34 ) Certuni dunque sono figli di questo secolo senza essere figli del diavolo. Benché infatti il diavolo sia l'ispiratore e il principe di tutti i peccatori, non tutti i peccati però fanno figli del diavolo i peccatori. Peccano infatti anche i figli di Dio, perché, se dicono che sono senza peccato, ingannano se stessi e la verità non è in loro. ( 1 Gv 1,8 ) Ma peccano per la condizione che li fa essere ancora figli di questo secolo, in forza invece della grazia che li fa essere figli di Dio non peccano certamente, perché chiunque è nato da Dio non commette peccato. ( 1 Gv 3,9 ) Ora, a fare figli del diavolo è la mancanza di fede: un peccato questo che, quando non si specifica la qualità del peccato, si chiama peccato in senso così proprio come se fosse l'unico peccato. Come quando si dice l'Apostolo senza precisare quale apostolo, non s'intende se non Paolo, perché è più noto per il maggior numero di Lettere e perché ha faticato più di tutti gli altri. ( 1 Cor 15,10 ) Perciò in quello che il Signore disse dello Spirito Santo: Egli convincerà il mondo quanto al peccato, volle che s'intendesse la mancanza di fede. E infatti spiegandolo disse: Quanto al peccato, perché non credono in me. ( Gv 16,8-9 ) Così pure nel testo: Se non fossi venuto e non avessi parlato a loro, non avrebbero alcun peccato. ( Gv 15,22 ) Non che prima non avessero il peccato, ma volle che s'intendesse il peccato della "diffidenza", a causa della quale non credettero a lui, benché fosse presente e parlasse, dimostrando così di appartenere al diavolo, del quale l'Apostolo dice: Seguendo il principe delle potenze dell'aria, che ora opera nei figli della diffidenza. ( Ef 2,2 ) Figli del diavolo sono dunque coloro che non hanno fede, perché nel loro intimo non c'è nulla per cui si rimettano ad essi tutti quei peccati che l'uomo commette o per debolezza o per ignoranza o addirittura per una qualche cattiva volontà umana. Verso i figli di Dio invece, i quali, se dicono d'esser senza peccato, certo ingannano se stessi e non hanno la verità dentro di sé, sicuramente, come seguita a dire Giovanni, "se riconoscono i propri peccati - e i figli del diavolo non lo fanno o lo fanno ma non con la fede che è propria dei figli di Dio -, il Signore è così fedele e giusto da rimettere a loro i peccati e purificarli da ogni colpa". ( 1 Gv 1,9 ) Ma perché si capisca più appieno quello che diciamo, si ascolti lo stesso Gesù che parlava certamente a figli di Dio quando diceva: Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano! ( Mt 7,11 ) Se infatti non fossero figli di Dio, non direbbe ad essi: Il Padre vostro che è nei cieli. E tuttavia dice che sono cattivi e che sanno dare cose buone ai loro figli. Cattivi forse e figli di Dio sotto il medesimo aspetto? Non sia mai! ma cattivi sotto l'aspetto per cui sono figli ancora del secolo, e tuttavia già fatti figli di Dio per il pegno dello Spirito Santo. 3.5 - Il battesimo purifica da tutti i peccati originali o aggiunti Il battesimo dunque lava, sì, da tutti i peccati, assolutamente da tutti: dai peccati delle opere, delle parole, dei pensieri; siano peccati originali, siano peccati aggiunti, siano peccati commessi per ignoranza, siano peccati commessi scientemente, ma non toglie la debolezza, alla quale il rigenerato non cede quando combatte la sua buona battaglia e viceversa cede quando come uomo è sorpreso da qualche colpa, ( 2 Tm 4,7 ) godendo nel rendere grazie per non aver ceduto, gemendo nell'allegare orazioni per aver ceduto. Nel primo caso dice: Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? ( Sal 116,12 ) Nel secondo caso dice: Rimetti a noi i nostri debiti. ( Mt 6,12 ) Per il beneficio dice: Ti amo, Signore, mia forza. ( Sal 18,2 ) Per la colpa: Pietà di me, Signore: vengo meno. ( Sal 6,3 ) Per la vittoria dice: Tengo i miei occhi rivolti al Signore, perché libera dal laccio il mio piede. ( Sal 25,15 ) Per la sconfitta dice: Per l'ira è turbato il mio occhio. ( Sal 31,10 ) E altre innumerevoli espressioni che riempiono le Scritture divine e che, nelle alterne vicende, o esultando dei beni dati da Dio o dolendoci dei mali fatti da noi, sono dette per ispirazione di fede dai figli di Dio finché continuano ad essere figli anche di questo secolo secondo la debolezza di questa vita. I quali tuttavia Dio li separa dai figli del diavolo ( Tt 3,5 ) non solo con il lavacro della rigenerazione, ma anche con la probità della stessa fede che opera per mezzo della carità, ( Gal 5,6 ) poiché il giusto vive mediante la fede. ( Rm 1,17 ) Tale debolezza però, con la quale fino alla morte corporale combattiamo nell'alternanza di mancamenti e di avanzamenti - e conta parecchio che cosa vinca in noi -, sarà fatta finire dall'altra rigenerazione, della quale il Signore dice: Nella rigenerazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, sederete anche voi su dodici troni, ecc. ( Mt 19,28 ) Rigenerazione appunto in questo luogo chiama - e nessuno ne dubita - la risurrezione finale, che l'apostolo Paolo denomina pure adozione e redenzione scrivendo: Ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. ( Rm 8,23 ) Che forse non siamo stati rigenerati, adottati, redenti, per mezzo del santo lavacro? E tuttavia resta la rigenerazione, l'adozione e la redenzione che è ancora da venire al momento della fine e che adesso dobbiamo aspettare pazientemente per non essere più allora sotto nessun aspetto figli di questo secolo. Chiunque perciò detrae dal battesimo quello che riceviamo attualmente per mezzo di esso, corrompe la fede; chiunque poi attribuisce al battesimo già fin d'ora quello che riceveremo, sì, per mezzo di esso, ma alla fine, mutila la speranza. Se qualcuno infatti mi chiederà se siamo stati salvati per mezzo del battesimo, non lo potrò negare, dicendo l'Apostolo: Ci ha salvati mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo. ( Tt 3,5 ) Ma se mi domanderà se per mezzo del medesimo lavacro ci ha già salvati assolutamente sotto tutti gli aspetti, risponderò: Non è così. Lo stesso dice appunto il medesimo Apostolo: Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza: infatti ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. ( Rm 8,24-25 ) La salvezza dunque dell'uomo è stata fatta nel battesimo, perché è stato rimesso quello che di peccato ha contratto dai genitori o anche qualsiasi peccato che egli stesso abbia commesso personalmente prima del battesimo; ma alla fine la sua salvezza sarà tanta da non poter più peccare in nessun modo. 4.6 - L'Antico Testamento figura del Nuovo Poiché queste sono le nostre posizioni, da esse si confutano anche le obiezioni che ci muovono nel seguito. Chi tra i cattolici infatti potrà dire quello che costoro spargono come detto da noi: "Lo Spirito Santo nel Vecchio Testamento non ha prestato aiuto alla virtù" se non quando intendiamo il Vecchio Testamento nel senso in cui l'Apostolo ha detto: Quello del monte Sinai che genera nella schiavitù? ( Gal 4,24 ) Poiché però nel Vecchio Testamento era prefigurato il Nuovo, gli uomini di Dio che allora capivano questa verità, sebbene secondo la distribuzione dei tempi fossero senz'altro dispensatori e portatori del Vecchio Testamento, si mostrano tuttavia eredi del Nuovo. O forse negheremo l'appartenenza al Nuovo Testamento di colui che prega così: Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo? ( Sal 51,12 ) O di colui che dice: I miei piedi ha stabiliti sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi; mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, lode al nostro Dio? ( Sal 40,3-4 ) O del famoso padre dei credenti, che è anteriore al Vecchio Testamento del monte Sinai e del quale l'Apostolo scrive: Fratelli, ecco, vi faccio un esempio comune: un testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa. Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: - ai tuoi discendenti -, come se si trattasse di molti, ma: - e alla tua discendenza -, come a uno solo, cioè il Cristo. Poi dichiara: Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso non può dichiararlo nullo una legge che è venuta quattrocentotrent'anni dopo, annullando così la promessa. Se infatti l'eredità si ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece concesse il suo favore ad Abramo mediante la promessa. ( Gal 3,15-18 ) 4.7 - Il Nuovo Testamento occultato nell'Antico Certamente se qui cerchiamo di sapere se in questo Testamento che, stabilito da Dio, l'Apostolo dice non annullato dalla legge, emanata quattrocentotrent'anni dopo, sia da intendersi quello Nuovo o quello Vecchio, chi dubiterà di rispondere: Quello Nuovo, ma occultato nelle oscurità profetiche, finché non arrivasse il tempo della sua rivelazione nel Cristo? Se infatti diremo: Quello Vecchio, che cosa sarà il Testamento del monte Sinai che genera nella schiavitù? ( Gal 4,24 ) Lassù infatti dopo quattrocentotrent'anni fu emanata la legge che l'Apostolo dichiara incapace d'annullare questo Testamento della promessa fatta ad Abramo; e la promessa fatta ad Abramo l'Apostolo vuole che sia riferita piuttosto a noi che vuole figli della donna libera e non della schiava, eredi per la promessa e non per la legge, quando dice: Se infatti l'eredità si ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece concesse il suo favore ad Abramo mediante la promessa. ( Gal 3,18 ) Che dopo quattrocentotrent'anni sia stata fatta la legge vuol dire che essa sopraggiunse perché abbondasse la colpa, dal momento che attraverso il peccato della trasgressione si smaschera la superbia dell'uomo presuntuoso della propria giustizia: ma laddove è abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia ( Rm 5,20 ) attraverso la fede dell'uomo già umile che, mancando nella legge, si rifugia nella misericordia di Dio. Perciò dopo aver detto: Se infatti l'eredità si ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece concesse il suo favore ad Abramo mediante la promessa, come se gli si chiedesse: Perché mai dunque è stata fatta successivamente la legge? ha soggiunto domandandosi: Perché allora la legge? Al quale interrogativo dà immediatamente la risposta: Essa fu aggiunta per le trasgressioni, fino alla venuta della discendenza per la quale era stata fatta la promessa. ( Gal 3,19 ) Lo dice ugualmente così: Poiché se diventassero eredi coloro che provengono dalla legge, sarebbe resa vana la fede e nulla la promessa. La legge infatti provoca l'ira; al contrario dove non c'è legge, non c'è nemmeno trasgressione. ( Rm 4,14-15 ) Quello che dice nel passo: Se infatti l'eredità si ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece concesse il suo favore ad Abramo mediante la promessa, ( Gal 3,18 ) lo ripete in questo passo: Poiché se diventassero eredi coloro che provengono dalla legge, sarebbe resa vana la fede e nulla la promessa, ( Rm 4,14 ) facendo sufficientemente capire che alla nostra fede, la quale è certo del Nuovo Testamento, si riferisce il favore che Dio concesse ad Abramo mediante la promessa. E quello che ha detto nella domanda: Perché allora la legge? e nella risposta: Essa fu aggiunta per le trasgressioni, ( Gal 3,19 ) lo ripete similmente in questo luogo: La legge infatti provoca l'ira, al contrario dove non c'è legge, non c'è nemmeno trasgressione. ( Rm 4,15 ) 4.8 - I giusti prima e dopo Abramo sono i figli della promessa E Abramo dunque e i giusti prima di lui e i giusti dopo di lui fino allo stesso Mosè, per mezzo del quale fu dato il Testamento del monte Sinai che genera nella schiavitù, e tutti gli altri profeti dopo di lui e i santi uomini di Dio fino a Giovanni Battista sono figli della promessa e della grazia a somiglianza d'Isacco, figlio della donna libera, e non in base alla legge, ma in base alla promessa sono eredi di Dio e coeredi del Cristo. Lungi da noi infatti il negare che il giusto Noè e i giusti delle epoche precedenti e tutti i giusti che poterono esserci da lui fino ad Abramo, o manifesti o occulti, appartengano alla Gerusalemme di lassù che è la nostra madre, ( Gal 4,26 ) benché si trovino ad essere anteriori a Sara, la quale portava in sé la profezia e l'immagine della stessa nostra libera madre. Quanto più evidentemente sono dunque da ritenersi figli della promessa tutti coloro che piacquero a Dio dopo Abramo, al quale Dio fece la stessa promessa così da chiamarlo padre di una moltitudine di popoli! ( Gen 17,4; Rm 9,8 ) Non è infatti che da Abramo in poi si trovi più vera la generazione dei giusti, ma si trova più manifesta la profezia. 4.9 - Nei giusti dell'Ant. Test. operava la fede per mezzo della carità Appartengono invece al Vecchio Testamento, che è del monte Sinai e genera nella schiavitù, rappresentata da Agar, ( Gal 4,24 ) coloro che, avendo ricevuto una legge santa e giusta e buona, credono che possa bastare ad essi per la vita la lettera della legge e quindi non ricercano la misericordia divina che li faccia diventare esecutori della legge, ma, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. ( Rm 10,3 ) A questa categoria appartenne quella moltitudine che nel deserto mormorò contro Dio e si costruì un idolo, e quella moltitudine che già in possesso della stessa terra promessa si prostituì agli dèi stranieri. Ma questa moltitudine fu fortemente riprovata anche nello stesso Vecchio Testamento. Inoltre costoro, tutti quelli che appartenevano a tale categoria in qualsiasi modo, andando dietro ai soli beni terreni promessi allora da Dio e ignorando che cosa essi significassero in ordine al Nuovo Testamento, osservavano i comandamenti di Dio per l'amore dell'acquisizione di quei beni e per il timore della loro perdita; anzi non li osservavano, ma sembrava ad essi d'osservarli. In loro infatti non operava la fede mediante la carità, ( Gal 5,6 ) ma la cupidità terrena e la timidità carnale. Ora, chi osserva i comandamenti in tale maniera, li osserva certamente contro voglia e quindi non li osserva nell'animo, perché stando alle sue brame e alle sue paure vorrebbe piuttosto non osservarli affatto, se fosse permesso impunemente. E per questo è reo nell'intimo della sua volontà, dove lo stesso Dio che comanda ben figge lo sguardo. Tali erano i figli della Gerusalemme terrena, della quale l'Apostolo scrive: È schiava insieme ai suoi figli, appartenendo essi al Vecchio Testamento del monte Sinai che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar. ( Gal 4,25.24 ) Alla stessa categoria appartennero coloro che crocifissero il Signore e rimasero nella medesima incredulità. Da quella parte stanno attualmente anche i loro figli, nella grandissima moltitudine dei Giudei, benché ormai, come fu profetato, il Nuovo Testamento sia stato manifestato e ratificato con il sangue del Cristo e il suo Vangelo sia stato fatto conoscere fino agli estremi paesi della terra, a partire dal fiume dove Gesù fu battezzato ed esercitò il suo magistero. ( Sal 72,8; Mt 3,16-17; At 1,8 ) I quali Giudei, secondo le profezie che hanno l'abitudine di leggere, sono dispersi dovunque in ogni parte della terra, perché non manchi alla verità cristiana una testimonianza anche dai loro codici. 4.10 - Anche i cristiani sono tenuti a osservare il decalogo Anche il Vecchio Testamento fu dunque istituito da Dio, perché piacque a Dio di velare fino alla pienezza del tempo con promesse di beni terreni, posti come in premio, le promesse celesti, e di dare una legge spirituale, sì, ma tuttavia in tavole di pietra, ad un popolo che smaniava per i beni della terra e aveva perciò un cuore duro. ( Es 24,12 ) Eccettuati appunto nei Libri antichi i sacramenti, che furono comandati per sola ragione simbolica - sebbene la legge giustamente si dica spirituale anche in tali sacramenti, poiché devono intendersi in modo spirituale -, è certo che tutte le altre prescrizioni concernenti la pietà e la morale non sono da ridursi per nessuna interpretazione a un qualche senso simbolico, ma sono assolutamente da osservarsi così come sono state espresse. Che quella legge di Dio non solo al popolo di allora, ma anche a noi di ora sia necessaria per governare in modo utile la vita, nessuno sicuramente ne dubiterà. Infatti il Cristo ci ha tolto il gravissimo giogo di molte osservanze: di non essere circoncisi nella carne, di non immolare vittime di animali, di non astenerci dalle opere anche necessarie ogni sabato che torna ogni settimana sulla ruota dei giorni, e di altre simili, ma le conserviamo intendendole spiritualmente e, rimosse le ombre dei simboli, stiamo attenti a cogliere la luce delle stesse realtà che sono significate. Ma ci autorizza forse per questo a dire che non ci riguarda la norma scritta che ciascuno, se trova una qualsiasi cosa perduta da altri, la restituisca a chi l'ha perduta, ( Lv 6,3-4 ) e molte altre norme simili dalle quali s'impara a vivere piamente e onestamente, e soprattutto lo stesso Decalogo, contenuto in quelle due tavole di pietra, fuorché l'osservanza materiale del sabato, che significa la santificazione e la quiete spirituale? ( Es 20,11 ) Chi infatti dirà che i cristiani non sono tenuti a servire con l'ossequio della religione a Dio soltanto, a non adorare gli idoli, a non nominare invano il nome di Dio, a onorare i genitori, a non commettere adultèri, omicidi, furti, false testimonianze, a non desiderare la moglie e assolutamente nessuna cosa altrui? ( Es 20,11 ) Chi è tanto empio da dire che questi precetti della legge non li osserva precisamente per il fatto che è cristiano né si trova a vivere sotto la legge, ma sotto la grazia? ( Rm 6,14 ) 4.11 - Chi si fa asservire dal timore carnale e dalla cupidigia terrena appartiene all'Antico Testamento Ma qui c'è palesemente una grande differenza: coloro che vivono sotto la legge e che la lettera uccide, ( 2 Cor 3,6 ) osservano tali comandamenti per la bramosia di raggiungere la felicità terrena o per la paura di perderla, e in tanto non li osservano veramente in quanto la cupidità carnale, che fa piuttosto variare e aumentare il peccato, non è risanata dall'altra cupidità. Costoro appartengono al Vecchio Testamento che genera nella schiavitù, perché li rende schiavi la paura e la cupidità carnale, e non li rende liberi la fede, la speranza, la carità evangelica. ( Gal 4,24 ) Coloro invece che vivono sotto la grazia e ai quali dà vita lo Spirito, ( Gal 5,6 ) osservano i comandamenti in forza della fede che opera mediante la carità, con la speranza di beni non carnali ma spirituali, non terreni ma celesti, non temporali ma eterni, e soprattutto credendo nel Mediatore, per mezzo del quale non dubitano e che si somministri ad essi lo spirito della grazia per osservare bene i comandamenti e possa perdonarsi ad essi se peccano. Costoro appartengono al Nuovo Testamento, figli della promessa, rigenerati da un padre che è Dio e da una madre che è libera. A questa categoria appartennero tutti i giusti dell'antichità e lo stesso Mosè, ministro del Vecchio Testamento ed erede del Nuovo, perché vissero mediante l'unica e medesima fede mediante la quale viviamo noi, credendo venture l'incarnazione, la passione e la risurrezione del Cristo, come noi le crediamo venute. Tale categoria giunge fino allo stesso Giovanni Battista, limite per così dire della provvidenza del passato, il quale non ha indicato l'avvento dello stesso Mediatore con qualche adombrazione dell'avvenire o con qualche significazione allegorica o con qualche predizione profetica, ma l'ha mostrato a dito dicendo: Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo, ( Gv 1,29 ) quasi per dire: "Colui che molti giusti ebbero il desiderio di vedere, ( Mt 13,17 ) colui che fino dall'inizio del genere umano credettero venturo, colui che fu promesso ad Abramo, colui del quale scrisse Mosè, ( Gal 3,16 ) colui del quale sono testimoni la Legge e i Profeti, ( Rm 3,21 ) eccolo: Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo". Da questo Giovanni in poi cominciarono a farsi passati o presenti gli avvenimenti riguardanti il Cristo che da tutti quei giusti del tempo antico si credevano, si speravano, si desideravano futuri. C'è dunque la medesima fede e in coloro che già furono cristiani antecedentemente, non ancora di nome ma di fatto, e in questi di oggi che non lo sono soltanto ma anche si chiamano cristiani, e in tutti, di un tempo e dell'altro, c'è la medesima grazia per mezzo dello Spirito Santo. L'Apostolo scrive per questo: Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: - Ho creduto, perciò ho parlato -, anche noi crediamo e perciò parliamo. ( 2 Cor 4,13 ) 4.12 - Le diverse denominazioni dell'Ant. Testamento In un senso dunque si dice Antico Testamento, per l'abitudine del linguaggio che ormai si tiene, l'insieme della Legge e dei Profeti che profetarono fino a Giovanni - e questo insieme sarebbe più appropriato chiamarlo Vecchio Insegnamento che Vecchio Testamento -; in un altro senso poi si dice Vecchio Testamento nel modo in cui lo chiama così l'autorità dell'Apostolo, sia adoperando esplicitamente questo vocabolo, sia alludendo implicitamente al Vecchio Testamento. L'adopera esplicitamente infatti dove dice: Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore nella lettura del Vecchio Testamento, non essendo ancora rimosso, poiché è solo nel Cristo che il velo viene eliminato. ( 2 Cor 3,14-15 ) In questo modo infatti mette molto evidentemente il Vecchio Testamento in relazione al ministero di Mosè. Implicitamente nello stesso senso dice: Per servire nel regime nuovo dello Spirito e non nel vecchio regime della lettera, ( Rm 7,6 ) alludendo al medesimo Vecchio Testamento con il nome di lettera. ( Rm 7,6 ) Lo stesso quando altrove scrive: Dio ci ha resi ministri adatti di un Nuovo Testamento, non della lettera, ma dello Spirito, perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita. ( 2 Cor 3,6 ) Anche qui nel nominare il Nuovo Testamento ha voluto certamente che si pensasse al Vecchio Testamento. Ma molto più evidentemente, pur senza dire né Vecchio né Nuovo, ha distinto gli stessi due Testamenti nei due figli di Abramo, l'uno nato da una donna schiava e l'altro da una donna libera: è un fatto che abbiamo già ricordato più sopra. Che cosa infatti di più esplicito di questo suo modo di parlare? Scrive: Ditemi. Voi che volete essere sotto la legge, non sentiste forse cosa dice la legge? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello dalla donna libera, in virtù della promessa. Ora, tali cose sono state dette per allegoria: le due donne infatti rappresentano i due Testamenti; uno, quello del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar - il Sinai è un monte dell'Arabia -; esso corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava insieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre. ( Gal 4,21-26 ) Che cosa di più chiaro, di più certo, di più lontano da ogni oscurità e ambiguità? E poco dopo dice: Ora noi, fratelli, siamo i figli della promessa alla maniera di Isacco. ( Gal 4,28 ) Lo stesso ancora un poco dopo: Fratelli, noi non siamo figli di una schiava, ma di una donna libera. Il Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi. ( Gal 4,31; Gal 5,1 ) Scegliamo dunque: se dire gli antichi giusti figli della donna schiava oppure della donna libera. Non sia mai che diciamo della donna schiava. Se dunque della donna libera, essi appartengono al Nuovo Testamento nello Spirito Santo, che l'Apostolo oppone come datore di vita alla lettera datrice di morte. Per quale ragione infatti non apparterrebbero alla grazia del Nuovo Testamento costoro le cui parole e libri ci servono a confutare e convincere i più dementi e ingrati nemici della medesima grazia? 4.13 - Anche per i giusti dell'Ant. Test. la virtù fu un dono dello Spirito Santo Ma domanderà qualcuno: Perché si chiama Vecchio il Testamento che fu fatto per mezzo di Mosè quattrocentotrent'anni dopo Abramo e si dice Nuovo il Testamento che fu dato con Abramo tanti anni prima? Chi è mosso da questa difficoltà, non per litigare ma per indagare, comprenda prima di tutto che nel dire Vecchio Testamento quello che viene da un tempo anteriore e Nuovo Testamento quello che viene da un tempo posteriore, si considerano in queste denominazioni le rivelazioni e non le istituzioni dei due Testamenti. Il Vecchio Testamento fu rivelato appunto per mezzo di Mosè, mediante il quale fu data la legge, santa e giusta e buona, ( Rm 7,12 ) destinata non all'abolizione del peccato, ma alla sua cognizione, destinata a disingannare i superbi, che cercavano di stabilire la propria giustizia, come se non avessero bisogno dell'aiuto di Dio, e farli ricorrere, divenuti rei della lettera, allo spirito della grazia, per essere giustificati non dalla giustizia propria, ma dalla giustizia di Dio, cioè da quella che veniva a loro da Dio. Lo dice l'Apostolo: Per mezzo della legge si ha solo la cognizione del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti. ( Rm 3,20-21 ) La legge appunto, per il fatto stesso che nessuno in essa viene giustificato, testimonia la giustizia di Dio. Infatti che nessuno possa giustificarsi davanti a Dio per la legge risulta dal.fatto che il giusto vive in virtù della fede. ( Gal 3,11 ) Così dunque la legge, non giustificando l'empio, convinto di trasgressione, lo rimanda a Dio che giustifica, e in tal modo rende testimonianza alla giustizia di Dio. Quanto poi ai Profeti, essi rendono testimonianza alla giustizia di Dio preannunziando il Cristo, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto: Chi si vanta si vanti nel Signore. ( 1 Cor 1,30-31; Ger 9,23 ) Questa legge però era occulta all'inizio, quando la natura stessa convinceva di peccato gli uomini malvagi, che facevano agli altri ciò che non avrebbero voluto per sé. La rivelazione poi del Nuovo Testamento è stata fatta nel Cristo, quando egli si manifestò nella carne (1 Tm 3,16 ) e in lui apparve la giustizia di Dio, cioè quella che viene agli uomini da Dio. È infatti per questo che dice: Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio ( Rm 3,21 ) Ecco per quale ragione l'uno si chiama Vecchio Testamento: perché fu rivelato anteriormente; e l'altro si chiama Nuovo Testamento: perché fu rivelato posteriormente. Un'altra ragione è che il Vecchio Testamento spetta all'uomo vecchio, dal quale deve necessariamente cominciare l'uomo, e il Nuovo Testamento spetta invece all'uomo nuovo al quale l'uomo deve passare dal suo vecchio regime. Perciò nel primo ci sono promesse terrene, nel secondo promesse celesti, perché anche questo rientra nella misericordia di Dio: che la stessa felicità terrena, qualunque essa sia, non si ritenga che possa essere conferita a chicchessia da nessuno tranne che da Dio, creatore dell'universo. Ma se è per questa felicità che si onora Dio, allora il culto è servile e proprio dei figli della donna schiava; se invece Dio si onora per lui stesso, perché nella vita eterna Dio sia tutto in tutti, ( 1 Cor 15,28 ) allora il culto di Dio è servitù liberale, propria dei figli della donna libera, che è la nostra madre eterna nei cieli. La quale appariva prima come se fosse sterile, quando non aveva figli visibili; ma ora vediamo la realtà di ciò che fu profetato di lei: Esulta, o sterile che non hai mai partorito, prorompi in grida di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori, perché più sono i figli dell'abbandonata che i figli della maritata, ( Is 54,1 ) cioè più numerosi dei figli di quella Gerusalemme che fu maritata per modo di dire sotto il vincolo della legge ed è schiava insieme ai suoi figli. Noi dunque diciamo che lo Spirito Santo al tempo del Vecchio Testamento in coloro che anche allora erano figli della promessa a somiglianza d'Isacco fu non solo il collaboratore della virtù, come costoro ritengono sufficiente al proprio dogma, ma fu anche il donatore della virtù; e ciò essi negano, perché attribuiscono la virtù piuttosto al libero arbitrio, contraddetti dai padri, che a Dio sapevano gridare con sincera pietà: Ti amo, Signore, mia virtù! ( Sal 18,2 ) 5.14 - Accusa pelagiana sulla santità dei Profeti e degli Apostoli Un'altra accusa è che "tutti gli Apostoli o Profeti non sono ritenuti da noi pienamente santi, ma meno cattivi a confronto di persone peggiori, e questa è la giustizia alla quale rende testimonianza Dio: come il Profeta ( Ez 16,46ss ) dichiara giustificata Sodoma a confronto dei Giudei, così anche noi a confronto degli scellerati diciamo che i santi hanno esercitato una qualche virtù". Lungi da noi il dirlo, ma costoro o non arrivano a capire o non vogliono avvertire e per amore di calunnia dissimulano di sapere ciò che diciamo noi. Ascoltino dunque o essi stessi o piuttosto coloro che essi tramano d'ingannare, perché semplici e non istruiti. La nostra fede, cioè la fede cattolica, distingue i giusti dagli ingiusti non in base alla legge delle opere, ma in base alla legge della stessa fede, perché il giusto vive mediante la fede. ( Rm 1,17; Gal 3,11 ) A cosa porta questo criterio distintivo? Ecco un uomo che conduce una vita senza omicidio, senza furto, senza falsa testimonianza, senza desiderio di nessuna cosa altrui; che rende ai genitori l'onore dovuto, che è così casto da contenersi assolutamente da ogni unione anche nel matrimonio, che è generosissimo nelle elemosine, pazientissimo delle offese, che non solo non prende quello che è degli altri ma non richiede nemmeno il suo se gli è stato preso o che, dopo aver venduto tutte le sue sostanze e averle distribuite ai poveri, non possiede più nulla di suo; ebbene, se costui con sì lodevoli costumi non ha la fede retta e cattolica in Dio, parte da questa vita per essere condannato. Viceversa un altro pratica, sì, le buone opere in forza della fede retta, la quale agisce mediante la carità, ma tuttavia non è al medesimo livello morale del primo, affida la sua incontinenza all'onestà delle nozze concedendo ed esigendo il debito del coniugie carnale, né si unisce soltanto per la procreazione ma anche per il piacere, benché unicamente con la propria moglie, come l'Apostolo concede per venia ai coniugati; ( 1 Cor 7,3.6 ) non subisce le offese con tanta pazienza, ma nell'ira si lascia trasportare dal desiderio di vendicarsi e tuttavia perdona se lo pregano per poter dire: Come noi li rimettiamo ai nostri debitori; ( Mt 6,12 ) ha un suo patrimonio e ne usa, sì, per fare delle elemosine, benché non così larghe come l'altro; non si appropria di cose altrui ma rivendica le proprie, anche se presso un tribunale ecclesiastico e non civile: ebbene, costui che moralmente sembra inferiore al primo, per la retta fede che ha in Dio e mediante la quale vive e secondo la quale in tutte le sue mancanze accusa se stesso e in tutte le sue opere buone loda Dio, attribuendo a sé l'ignominia e a Dio la gloria, ricevendo da Dio sia l'indulgenza dei peccati, sia l'amore delle rette azioni, costui, dico, emigrerà da questa vita per essere liberato e per essere accolto nella società di coloro che regneranno con il Cristo. Per quale ragione se non per la fede? Sebbene questa non salvi nessuno senza le opere - fede non reproba è una fede che opera mediante la carità -, tuttavia per mezzo di essa si sciolgono anche i peccati, perché il giusto vive mediante la fede; ( Rm 1,17 ) senza la fede invece si cambiano in peccati anche le opere che sembrano buone: tutto quello infatti che non viene dalla fede è peccato. ( Rm 14,23 ) E a causa di questa grandissima differenza avviene che, pur essendo per consenso di tutti l'integrità verginale perseverante migliore della castità coniugale, tuttavia una donna cattolica, anche sposata per la seconda volta, si preferisce ad una vergine professa eretica; né si preferisce così da essere migliore di lei nel regno di Dio, ma così che l'altra non sia affatto nel regno di Dio. Infatti anche quel cristiano che abbiamo descritto come di moralità più alta, supera l'altro se possiede la retta fede, ma ambedue si troveranno nel regno di Dio; se invece gli manca la fede, è così superato dall'altro da non essere nel regno di Dio. 5.15 - La perfezione possibile in questa vita Poiché dunque tutti i giusti, siano quelli più antichi o siano gli Apostoli, vissero mediante la retta fede che si ha nel Cristo Gesù, nostro Signore, e poiché insieme alla fede ebbero una condotta morale tanto santa che, sebbene non abbiano potuto essere in questa vita di una virtù così perfetta come quella che ci sarà dopo questa vita, tuttavia ogni infiltrazione peccaminosa dovuta alla debolezza umana veniva subito eliminata mediante la pietà della fede stessa, com'è possibile che li dobbiamo dire giusti a confronto dei cattivi che Dio condannerà, quando per la pietà della loro fede, in direzione opposta a quella degli empi, sono così lontani da loro che l'Apostolo grida: Che ha di comune il fedele con l'infedele? ( 2 Cor 6,15 ) Ma evidentemente ai nuovi eretici pelagiani sembra di amare e di lodare scrupolosamente i santi se non si azzardano a dire che furono imperfetti nella virtù, mentre lo riconosce il Vaso di elezione, ( At 9,15 ) il quale, considerando dove stesse ancora e come il corpo corruttibile appesantisce l'anima, ( Sap 9,15 ) afferma: Non che io abbia già conquistato il premio o sia arrivato alla perfezione. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto. ( Fil 3,12-13 ) E tuttavia, poco dopo che ha dichiarato di non esser perfetto, dice: Quanti dunque siamo perfetti dobbiamo avere questi sentimenti, ( Fil 3,15 ) per dimostrare che una qualche perfezione esiste secondo lo stato di questa vita e che a tale perfezione si fa appartenere anche la consapevolezza di ciascuno di non essere ancora perfetto. Che cosa infatti di più perfetto, che cosa di più eccellente dei santi sacerdoti nel popolo antico? E tuttavia Dio comandò ad essi d'offrire prima d'ogni altro sacrificio il sacrificio per i propri peccati. ( Lv 9,7; Lv 16,6 ) E che cosa di più santo degli Apostoli nel popolo nuovo? E tuttavia il Signore comandò ad essi di dire nell'orazione: Rimetti a noi i nostri debiti. ( Mt 6,12 ) Di tutte le persone pie dunque che gemono sotto il peso di questa carne corruttibile e nella debolezza della vita presente una sola è la speranza: Abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto, ed egli è la vittima di espiazione per i nostri peccati. ( 1 Gv 2,1-2 ) 6.16 - La perfetta santità di Cristo Non hanno questo avvocato ( 1 Gv 2,1 ) coloro che sono distanti dai giusti in lungo e in largo - fosse anche questa sola la differenza -. Il quale giusto avvocato lungi da noi l'affermare, come costoro ci accusano di dire: "per necessità della carne ha mentito". Ma noi diciamo che in una carne simile a quella del peccato e con il peccato egli ha condannato il peccato nella carne. ( Rm 8,3 ) Il che forse non intendendo costoro e accecati dalla smania di calunniare, ignorando in quanti sensi diversi compaia il nome di peccato nelle Scritture sante, spargono che noi affermiamo nel Cristo il peccato. A tal proposito noi diciamo che il Cristo e non ebbe nessun peccato né nell'anima né nella carne e che, assumendo una carne simile a quella del peccato, con il peccato, condannò il peccato. Il termine peccato, usato dall'Apostolo con una certa oscurità, si spiega in due modi: o perché si è soliti denominare le immagini con i nomi delle realtà che rappresentano, così da intendere che l'Apostolo abbia voluto chiamare peccato la stessa carne somigliante alla carne del peccato; o perché i sacrifici per i peccati si chiamavano peccati nella Legge. Tutti i sacrifici per i peccati furono figure della carne del Cristo, la quale è il vero ed unico sacrificio per i peccati, non solo per quelli che sono distrutti universalmente nel battesimo, ma anche per quelli che successivamente si insinuano per la debolezza di questa vita. Per essi ogni giorno la Chiesa universalmente grida a Dio nell'orazione: Rimetti a noi i nostri debiti; e ci vengono rimessi mediante il singolare sacrificio per i peccati che l'Apostolo parlando secondo la Legge non ha esitato a chiamare peccato. Dal che viene anche quest'altro suo passo, molto più evidente, né incerto per la presenza di un qualsiasi bivio di qualsiasi ambiguità: Vi supplico in nome del Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio. ( 2 Cor 5,20-21 ) Infatti la frase che ho ricordato più sopra: Con il peccato ha condannato il peccato, non essendo stato detto: Con il suo peccato, qualcuno la può intendere nel senso che Paolo dica: Ha condannato il peccato con il peccato dei Giudei, perché a causa del peccato di coloro che crocifissero Gesù avvenne che egli versò il suo sangue per la remissione dei peccati; la frase invece dove si dice che Dio trattò da peccato lo stesso Cristo che non aveva conosciuto peccato, non mi sembra più conveniente intenderla in nessun modo che in questo: Il Cristo fu fatto sacrificio per i peccati, e questa è la ragione per cui fu chiamato peccato. 7.17 - La perfezione nella vita presente e in quella futura Chi poi sopporterà che costoro ci rinfaccino di dire che "dopo la risurrezione ci saranno tali progressi che allora gli uomini cominceranno ad osservare i comandamenti di Dio che non hanno voluto osservare in questa vita", poiché diciamo che là non vi sarà più nessun peccato, né conflitto con una qualche cupidigia di peccato, quasi che essi osassero negarlo? Che anche la sapienza e la conoscenza di Dio saranno allora perfette in noi e che nel Signore avremo tale carica di esultanza che essa sarà la nostra vera e piena sicurezza, chi lo negherà all'infuori di chi sia così avverso alla verità da non poter giungere per questo a tale carica d'esultanza? Ma la sapienza e la conoscenza di Dio non saranno allora dei comandamenti per noi, bensì il premio dei comandamenti che dobbiamo adesso osservare. Certo il disprezzo di questi comandamenti non conduce al premio dell'aldilà, ma qui la grazia di Dio dona la sollecitudine d'osservare i comandamenti. La qual grazia anche ci perdona, se qualcosa in questi precetti è osservato un po' meno del dovuto, e per questo nell'orazione diciamo: Sia fatta la tua volontà, e: Rimetti a noi i nostri debiti. ( Mt 6,10.12 ) Qui dunque c'è il precetto di non peccare, là ci sarà il premio di non poter più peccare. Qui c'è il precetto di non obbedire ai desideri del peccato, ( Rm 6,12 ) là ci sarà il premio di non avere desideri di peccato. Qui c'è il comandamento: Comprendete, dunque, insensati tra il popolo e voi, stolti, imparate una volta! ( Sal 94,8 ) Là ci sarà per premio la sapienza piena e la conoscenza perfetta. Perché, dice l'Apostolo, ora vediamo come in uno specchio, in una maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente come anch'io sono conosciuto. ( 1 Cor 13,12 ) Qui c'è il comandamento: Esultate in Dio, nostra forza, ( Sal 81,2 ) e ancora: Esultate, giusti, nel Signore, ( Sal 33,1 ) là ci sarà il premio d'esultare di un gaudio perfetto e ineffabile. ( 1 Pt 1,8 ) Infine nel comandamento è stabilito: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, ma nel premio è stabilito: Perché saranno saziati. ( Mt 5,6 ) Di che, domando, saranno saziati, se non della giustizia della quale hanno fame e sete? Chi dunque si opporrà non solo al sentimento divino, ma anche a quello umano così da dire che nell'uomo può esserci tanta giustizia ora che ne ha fame e sete quanta ne avrà allora quando ne sarà saziato? Quando però abbiamo fame e sete della giustizia, di che dobbiamo credere d'aver fame e sete se non del Cristo, se la fede del Cristo è vigile in noi? Il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto: Chi si vanta si vanti nel Signore. ( 1 Cor 5,30-31 ) E poiché adesso crediamo in lui senza vederlo, proprio per questo abbiamo fame e sete della giustizia. Infatti finché abitiamo nel corpo, siamo in esilio lontani dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora nella visione. ( 2 Cor 5,6-7 ) Quando lo vedremo, nel raggiungimento della visione, esulteremo d'inenarrabile gaudio, ( 1 Pt 1,8 ) e allora saremo saziati della giustizia, poiché ora diciamo al Signore con pio desiderio: Sarò saziato, quando si manifesterà la tua gloria. ( Sal 17,15 ) 7.18 - La perfezione raggiunta dall'apostolo Paolo Quanto è poi non dico superbia sfacciata, ma pazzesca, non essere ancora pari agli angeli di Dio e credere di poter avere già una giustizia pari a quella degli angeli di Dio, né guardare ad un uomo tanto grande e santo, che aveva certamente fame e sete della perfezione della giustizia, quando non voleva insuperbirsi della grandezza delle rivelazioni, e che tuttavia, perché non si inorgoglisse, non fu lasciato al suo arbitrio e alla sua volontà, ma ricevé una spina nella carne, un messo di satana che lo schiaffeggiasse, e per questo pregò tre volte il Signore che l'allontanasse da lui e il Signore gli rispose. Ti basta la mia grazia: la virtù infatti si manifesta pienamente nella debolezza. ( 2 Cor 12,9 ) Quale virtù se non quella cui spetta di non insuperbirsi? E chi dubita che questo spetti alla giustizia? Della perfezione dunque di questa giustizia sono dotati gli angeli di Dio che vedono sempre il volto del Padre ( Mt 18,10 ) e quindi di tutta la Trinità, perché vedono per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. Ora, non c'è nulla di più sublime di questa rivelazione e tuttavia nessuno degli angeli festanti di quella contemplazione ha bisogno d'un messo di satana che lo schiaffeggi, perché non lo faccia montare in superbia tanta grandezza di rivelazione. Questa perfezione di virtù mancava evidentemente all'apostolo Paolo, non ancora pari agli angeli, ma c'era in lui la debolezza di montare in superbia, da reprimersi anche per mezzo di un messo di satana, perché egli non s'insuperbisse per la grandezza delle rivelazioni. Sebbene dunque ad abbattere lo stesso satana sia stato il primo colpo di orgoglio, ( 2 Cor 12,7 ) tuttavia quel sommo Medico che sa servirsi bene anche dei mali fu per mezzo di un messo di satana che apprestò contro il vizio dell'orgoglio un medicamento salutare, benché molesto, come anche l'antidoto contro il veleno dei serpenti si suole estrarre dai serpenti. Qual è dunque il senso della frase: Ti basta la mia grazia, se non questo: Perché tu non soccomba per debolezza sotto lo schiaffo del messo di satana? E quale il senso della frase: La virtù si manifesta pienamente nella debolezza, se non questo: Nel presente mondo di debolezza ci può esser tanta poca perfezione di virtù che la superbia debba essere repressa dalla stessa presenza della debolezza? La quale debolezza sarà sicuramente risanata dall'immortalità futura. Come infatti deve dirsi piena qui la sanità dove è ancora necessario prendere la medicina anche dallo schiaffo d'un messo di satana? 7.19 - Paolo fu un perfetto viator Da questo è sorta l'abitudine che la virtù in possesso dell'uomo giusto in questa vita in tanto si dica perfetta in quanto nella sua perfezione rientri anche e la conoscenza verace e la confessione umile della sua imperfezione. Allora infatti, secondo la debolezza attuale, è a suo modo perfetta questa nostra piccola giustizia quando riesce anche a capire quello che le manca. Perciò l'Apostolo dice se stesso e imperfetto e perfetto: ( Fil 3,12.15 ) cioè imperfetto pensando a quanto gli manca per la giustizia, della cui pienezza ha fame e sete ancora; perfetto invece, e perché non arrossisce di confessare la sua imperfezione e perché avanza di buon passo per raggiungere la perfezione. Alla stessa maniera possiamo dire che è perfetto un viandante il cui procedere è buono, sebbene il suo intendimento non si realizzi appieno se non nel raggiungimento della meta. Per questo, dopo aver detto: Irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge, ( Fil 3,6 ) Paolo continua subito: Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo del Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza del Cristo Gesù nostro Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose, e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare il Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede nel Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. ( Fil 3,7-9 ) Ecco, l'Apostolo dice certamente senza mentire d'essere stato inappuntabile secondo la giustizia legale, e tuttavia rifiuta per il Cristo quanto per lui era stato un guadagno, e stima danno, perdita, sterco non solo queste cose, ma anche tutte le altre cose che ha rammentate sopra, non di fronte ad una conoscenza qualsiasi, bensì di fronte alla sublimità della conoscenza del Cristo Gesù nostro Signore, com'egli si esprime, conoscenza che senza dubbio aveva ancora in fede e non ancora in visione. Allora infatti sarà sublime la conoscenza del Cristo quando egli sarà così svelato che sia veduto quello che è creduto. Per questo in un altro passo dice così: Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con il Cristo in Dio. Quando si manifesterà il Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria. ( Col 3,3-4 ) E lo stesso Signore dice in proposito: Chi mi ama, sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui. ( Gv 14,21 ) L'evangelista Giovanni scrive nello stesso senso: Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. ( 1 Gv 3,2 ) Allora sarà sublime la conoscenza del Cristo. Per ora infatti c'è essa certamente nascosta nella fede, ma non apparisce ancora sublime nella visione. 7.20 - La giustizia secondo lo spirito viene da Dio Il beato Paolo dunque butta via la ricchezza della sua giustizia di prima come danno e sterco al fine di guadagnarsi il Cristo e d'esser trovato in lui, non con una sua giustizia che deriva dalla legge. Perché sua, se deriva dalla legge? Non è vero infatti che quella legge non derivi da Dio: chi l'ha detto all'infuori di Marcione, di Manicheo e di altre simili pesti? Pur derivando dunque da Dio quella legge, dice sua la giustizia che deriva dalla legge, e non vuole avere questa sua giustizia, ma la butta via come sterco. Perché così se non in base alla verità che abbiamo mostrata anche più sopra: sono sotto la legge coloro che, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio? ( Fil 3,7-9; Rm 10,3 ) Credono infatti di osservare con le forze del loro arbitrio la legge che comanda e, legati da questa superbia, non si convertono alla grazia che aiuta. Così li uccide la lettera: ( 2 Cor 3,6 ) o perché, consapevolmente rei anche di fronte a se stessi, non fanno ciò che comanda; o perché credono di farlo, ma non lo fanno con la carità spirituale che viene da Dio. Così restano o consapevolmente ingiusti o illusoriamente giusti, evidentemente sfrontati nell'ingiustizia cosciente, insipientemente esaltati nella giustizia fallace. E per questo, in modo certamente paradossale ma vero, la giustizia della legge non si adempie con la giustizia che sta nella legge o che deriva dalla legge, bensì con la giustizia che sta nello spirito della grazia. La giustizia della legge si adempie appunto in coloro che, com'è scritto, non camminano secondo la carne, ma secondo lo Spirito. ( Rm 8,4 ) Ora, secondo la giustizia che sta nella legge, l'Apostolo dice d'essere stato irreprensibile nella carne, non nello spirito, e la giustizia che deriva dalla legge la dice sua e non di Dio. ( Fil 3,6-9 ) Si deve dunque intendere che la giustizia della legge non si adempie secondo la giustizia che sta nella legge o che deriva dalla legge, ossia secondo la giustizia dell'uomo, ma secondo la giustizia che sta nello spirito della grazia, dunque secondo la giustizia di Dio, ossia secondo quella giustizia che viene all'uomo da Dio. Lo si può dire in maniera più piana e più breve così: La giustizia della legge non si adempie quando la legge comanda e l'uomo, quasi lo facesse con le proprie forze, la manda in esecuzione, bensì quando lo Spirito aiuta e la volontà dell'uomo, non libera ma liberata dalla grazia di Dio, manda in esecuzione quello che comanda la legge. Giustizia della legge è dunque comandare ciò che piace a Dio e vietare ciò che gli dispiace; giustizia che sta nella legge è invece servire la lettera della legge e non cercare fuori di essa nessun aiuto di Dio per vivere rettamente. Infatti, dopo aver detto: Non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede nel Cristo, aggiunge: Cioè con la giustizia che deriva da Dio. ( Fil 3,9 ) Questa stessa è dunque la giustizia di Dio che i superbi, ignorandola, vogliono sostituire con la propria. ( Rm 10,3 ) La ragione infatti per cui si dice giustizia di Dio non è perché di essa è giusto Dio, ma perché viene all'uomo da Dio. 7.21 - L'Apostolo finché visse tendeva alla pienezza della carità Ma secondo questa giustizia di Dio, cioè quella che viene a noi da Dio, la fede di ora opera mediante la carità. ( Gal 5,6 ) Opera poi perché l'uomo arrivi a colui nel quale per ora crede senza vederlo, e quando lo vedrà allora ciò che era nella fede come in uno specchio e in maniera confusa sarà già nella visione faccia a faccia; ( 1 Cor 13,12 ) allora toccherà la sua perfezione anche lo stesso amore. Sarebbe appunto troppo sciocco dire che Dio tanto si ami adesso che non si vede quanto si amerà quando si vedrà. Ebbene, se in questa vita, come non ne dubita nessuna persona pia, quanto più amiamo Dio tanto più siamo giusti, chi potrebbe contestare che la giustizia pia e vera raggiungerà allora la sua perfezione quando sarà nella sua perfezione l'amore di Dio? Allora dunque si adempirà così che non le manchi assolutamente nulla la legge, il cui pieno compimento, secondo l'Apostolo, è l'amore. ( Rm 13,10 ) Perciò, dopo aver detto: Non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede nel Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio basata sulla fede, aggiunge: E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione e la partecipazione alle sue sofferenze. ( Fil 3,9-10 ) Tutte queste realtà non erano ancora nell'Apostolo piene e perfette, ma egli correva come un corridore sulla buona strada verso la loro pienezza e perfezione. In che modo infatti conosceva già perfettamente il Cristo lui che in un altro luogo dice: Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto? ( 1 Cor 13,12 ) E in che modo conosceva già perfettamente la potenza della sua risurrezione lui al quale restava di conoscerla più appieno sperimentandola al tempo della risurrezione della carne? E in che modo conosceva già perfettamente la partecipazione alle sue sofferenze lui che non aveva ancora sperimentato la passione della morte per il Signore? Poi aggiunge e dice: Con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. ( Fil 3,11 ) E dopo dice: Non però che io abbia già conquistato il premio o che sia ormai arrivato alla perfezione. ( Fil 3,12 ) Che è dunque ciò che confessa di non avere ancora conquistato e ciò dove non si sente ancora perfetto se non quella giustizia che deriva da Dio, desiderando la quale non voleva avere la sua derivante dalla legge? Di questo infatti parlava e questo fu per lui il motivo di dire tali verità, resistendo ai nemici della grazia di Dio, per la cui elargizione il Cristo è stato crocifisso. Alla risma di quelli appartengono anche questi. 7.22 - Sono nemici della croce di Cristo coloro che pretendono stabilire una propria giustizia Nel capitolo infatti dove ha preso a fare queste affermazioni ha esordito: Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio, o, come hanno alcuni codici: serviamo allo Spirito che è Dio, oppure: serviamo allo spirito di Dio e ci gloriamo nel Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne. ( Fil 3,2-3 ) Di qui si fa chiaro che egli parla contro i Giudei, i quali, osservando carnalmente la legge e volendo stabilire la propria giustizia, rimanevano uccisi dalla lettera, non ricevevano la vita dallo Spirito e si vantavano di sé, mentre gli Apostoli e tutti i figli della promessa si vantano nel Cristo. Poi soggiunge: Sebbene io possa vantarmi anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui. ( Fil 3,4; Rm 10,3; 2 Cor 3,6 ) E nella enumerazione di tutte le cose che hanno merito secondo la carne termina con il dire: Irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge. ( Fil 3,6 ) E avendo poi detto che per guadagnarsi il Cristo tutte queste cose erano diventate per lui assolutamente danno, perdita e sterco, aggiunge l'argomento di cui trattiamo: Essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede nel Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio. ( Fil 3,9 ) Di questa giustizia dunque ha confessato di non aver raggiunto ancora la perfezione, che non ci sarà se non in quella sublime conoscenza del Cristo, per la quale ha detto che tutto era un danno per lui, e quindi confessa di non essere ancora perfetto. Solo mi sforzo, dice, di correre per conquistare Gesù Cristo, perché anch'io sono stato conquistato da lui. ( Fil 3,12 ) Le parole: Conquistare, perché anch'io sono stato conquistato equivalgono alle altre: Conoscerò perfettamente come anch'io sono stato conosciuto. Scrive: Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, nel Cristo Gesù. ( Fil 3,13-14; 1 Cor 13,12 ) La logica delle parole è tutta qui: Ad una meta sola io corro dietro. Della quale unica meta ben s'intende che anche il Signore ammonì Marta dove disse: Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. ( Lc 10,41-42 ) Quest'unica meta volendo raggiungere Paolo come viandante in marcia, dice di tendere al premio a cui dall'alto lo chiamava Dio nel Cristo Gesù. Ora, chi esiterà a credere che quando avrà conseguito ciò che afferma d'inseguire avrà allora una giustizia pari a quella degli angeli santi, nessuno dei quali sicuramente è schiaffeggiato da un messo di satana perché non si insuperbisca per la grandezza delle rivelazioni? ( 2 Cor 12,7 ) Ammonendo poi coloro che potevano credersi già perfetti della pienezza di tale giustizia, dice: Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti, ( Fil 3,15 ) quasi dicesse: "Se siamo perfetti secondo la capacità dell'uomo mortale nei limiti della vita presente, dobbiamo capire che la stessa perfezione importa anche la saggezza di non ritenerci ancora perfetti di quella giustizia angelica che noi avremo nella manifestazione del Cristo". E assicura: Se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. ( Fil 3,15 ) A quale condizione se non di camminare e di progredire sulla via della retta fede finché non finisca questo pellegrinaggio e non si arrivi alla visione? Conseguentemente aggiunge: Intanto dal punto a cui siamo arrivati, continuiamo ad avanzare sulla stessa linea. ( Fil 3,16 ) Poi conclude con l'avvertimento a guardarsi da coloro dai quali ha preso l'avvio questo capitolo della sua Lettera: Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti, ve l'ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce del Cristo: la perdizione però sarà la loro fine, ( Fil 3,17-19 ) eccetera. Sono quelli dei quali cominciando aveva detto: Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai. ( Fil 3,2 ) Sono pertanto nemici della croce del Cristo tutti coloro che, cercando di stabilire la propria giustizia derivante dalla legge, ossia dalla lettera che comanda soltanto e non dallo Spirito che fa osservare il comando, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. ( Rm 10,3 ) Poiché se diventassero eredi coloro che provengono dalla legge, sarebbe resa vana la fede. ( Rm 4,14 ) Se la giustificazione viene dalla legge, il Cristo è morto invano, ( Gal 2,21 ) è dunque annullato lo scandalo della croce. ( Gal 5,11 ) E per questo nemici della croce del Cristo sono coloro che dicono che la giustificazione viene tramite la legge, alla quale spetta di comandare e non di aiutare. La grazia di Dio invece tramite il Signore Gesù Cristo nello Spirito Santo aiuta la nostra debolezza. 7.23 - La perfetta giustizia sarà il premio della vita Perciò chi seguendo la giustizia che si ha nella legge vive senza la fede della grazia del Cristo, come l'Apostolo ricorda d'esser vissuto egli stesso irreprensibilmente, ( Fil 3,6 ) è da ritenersi privo assolutamente di vera giustizia, non perché la legge non sia vera e santa, ma perché voler obbedire alla lettera che comanda senza lo Spirito di Dio che dà vita, come se tale obbedienza provenisse dalle forze del libero arbitrio, non è vera giustizia. La giustizia invece della quale chi è giusto vive mediante la fede, ( Rm 1,17 ) poiché proviene all'uomo da Dio tramite lo Spirito di grazia, è vera giustizia. La quale, benché non senza ragione si dica perfetta in alcuni giusti secondo la capacità di questa vita, è tuttavia una piccola giustizia rispetto a quella grande giustizia di cui ci dà la capacità la parità con gli angeli. La quale parità non avendola ancora l'Apostolo, diceva sia di esser perfetto per la giustizia che era già in lui, sia di essere imperfetto per la giustizia che non era ancora in lui. Ma è chiaro: questa giustizia minore fa merito, quella giustizia maggiore si fa premio. Pertanto chi non persegue la giustizia minore non consegue la giustizia maggiore. Perciò negare che dopo la risurrezione dell'uomo ci sarà la pienezza della giustizia e pensare che nel corpo di quella vita ci sarà tanta giustizia quanta ce ne può essere nel corpo di questa morte è una singolare follia. Che invece non comincino di là gli uomini ad osservare i comandamenti di Dio che non hanno voluto osservare di qua è verissimo. Ci sarà infatti la pienezza della più perfetta giustizia, non tuttavia di uomini che seguano i comandamenti e si adoperino di progredire per raggiungere quella pienezza; ma in un batter d'occhio, nel modo stesso in cui avverrà la stessa risurrezione dei morti, ( 1 Cor 15,52 ) poiché quella grandezza di giustizia perfetta sarà data in premio a coloro che hanno osservato di qua i comandamenti e non sarà comandata essa stessa come un comandamento da osservare. Ma hanno osservato i comandamenti in tal modo, vorrei dire, da ricordarci che appartiene agli stessi comandamenti l'orazione nella quale quotidianamente i figli santi della promessa dicono con sincerità e la petizione: Sia fatta la tua volontà; e la petizione: Rimetti a noi i nostri debiti. ( Mt 6,10.12 ) 8.24 - I principali punti dell'eresia pelagiana e i tentativi di mascherarli Ordunque i pelagiani con queste e simili testimonianze o voci della verità sono incalzati perché non neghino il peccato originale, perché non dicano che la grazia di Dio con la quale siamo giustificati ( Rm 3,24 ) non è data gratuitamente ma secondo i nostri meriti, perché non dicano che in un uomo mortale, per quanto santo e ben operante, si può trovare tanta giustizia da non essergli necessaria la remissione dei peccati anche dopo il lavacro della rigenerazione fino a quando non cessi di vivere questa vita. Ma quando sono incalzati a non dire questi tre spropositi e a non allontanare per mezzo di essi dalla grazia del Salvatore quelli che credono a loro e a non farli precipitare nella condanna del diavolo dopo averli sollevati in superbia, ( 1 Tm 3,6 ) essi spargono le nebbie di altre questioni dove possa andare a nascondersi la loro empietà agli occhi delle persone un po' semplici o un po' dure di mente o meno erudite nelle Lettere sante. Queste sono le nebbie: la dignità della creatura, la dignità delle nozze, la dignità della legge, la dignità del libero arbitrio, la dignità dei santi; quasi che qualcuno di noi vituperi questi valori e non li esalti piuttosto tutti con le dovute lodi ad onore del Creatore e del Salvatore. Ma né la creatura vuol essere lodata così da non voler essere risanata, e le nozze quanto più sono da lodare, tanto meno è da imputare ad esse la vergognosa concupiscenza della carne, che non viene dal Padre, ma dal mondo, ( 1 Gv 2,16 ) e che le nozze hanno certamente trovata e non provocata negli uomini, perché essa ed esiste in moltissimi anche senza le nozze e, se nessuno avesse peccato, le nozze avrebbero potuto esistere anche senza la concupiscenza. E la legge santa e giusta e buona ( Rm 7,12 ) né è grazia per se stessa, né per mezzo di essa si fa rettamente alcunché senza la grazia. Perché la legge non fu data con la capacità di vivificare ma in vista della trasgressione, affinché rinchiudesse sotto il peccato coloro che avesse convinti di trasgressione, e ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo. ( Gal 3,19-22 ) E il libero arbitrio, diventato schiavo, non vale che a peccare; per la giustizia invece non vale, se non è liberato e aiutato da Dio. E per questo anche tutti i santi, sia dall'antico Abele fino a Giovanni Battista, sia dagli stessi Apostoli fino ad oggi e in seguito fino al termine del secolo, sono da lodarsi nel Signore e non in se stessi. Perché dei primi è voce l'esclamazione: L'anima mia si gloria nel Signore, ( Sal 34,3 ) dei secondi è voce la dichiarazione: Per grazia di Dio sono quello che sono. ( 1 Cor 15,10 ) A tutti poi si riferisce l'avvertimento: Chi si vanta si vanti nel Signore, ( 1 Cor 1,31 ) e comune a tutti è la confessione: Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. ( 1 Gv 1,8 ) 9.25 - I cattolici contrari al manicheismo e al pelagianesimo Ma poiché in questi cinque problemi da me accennati, nei quali cercano costoro di nascondersi e con i quali intessono le loro calunnie, sono smascherati e confutati in forza degli insegnamenti divini, essi hanno escogitato d'atterrire con il detestabile nome di manichei quanti più potessero tra i fedeli non istruiti, perché non prestassero orecchio alla verità contro i loro perversissimi dogmi; ciò evidentemente per la ragione che i manichei condannano in modo blasfemo i primi tre di questi cinque valori, dicendo che non è stato il sommo e vero Dio a fare né la creatura, né le nozze, né la legge. Non accettano poi i manichei ciò che dice la verità: dal libero arbitrio ebbe inizio il peccato e dal peccato deriva ogni male o dell'angelo o dell'uomo, perché, troppo esorbitando da Dio, hanno preferito credere che il male sia una natura cattiva da sempre e coeterna a Dio. Anche i santi Patriarchi e Profeti li ricoprono, i manichei, d'insulti quanto più possono. Ecco per quale via i nuovi eretici, buttandoci in faccia il nome di manichei, pensano di sfuggire alla forza della verità, ma non le sfuggono. È la verità appunto che li insegue e insieme sbaraglia manichei e pelagiani. L'uomo infatti quando nasce, poiché è qualcosa di buono in quanto uomo, redarguisce il manicheo e loda il Creatore; in quanto però contrae il peccato originale, redarguisce Pelagio e ha necessità del Salvatore. L'affermazione infatti che questa natura è da sanare colpisce l'uno e l'altro errore, perché né avrebbe bisogno di medicina se fosse sana - e questo è contro Pelagio -, né potrebbe in nessun modo esser sanata se fosse un male eterno e immutabile - e questo è contro Manicheo -. Similmente il nostro non imputare la concupiscenza della carne alle nozze che lodiamo come istituite dal Signore va sia contro i pelagiani che ne celebrano le lodi, sia contro i manichei che l'attribuiscono ad una natura cattiva diversa da Dio, mentre la concupiscenza, essendo un male accidentale della nostra natura, non va separata inventando un Dio diverso, ma risanata dalla misericordia di Dio. Ugualmente l'asserire come facciamo noi che la legge santa e giusta e buona ( Rm 7,12 ) non è stata data per la giustificazione degli empi ma in vista della trasgressione per disingannare i superbi, ( Gal 3,19 ) va contro i manichei per un verso, perché si loda la legge seguendo l'Apostolo, e va per un altro verso contro i pelagiani, perché secondo l'Apostolo nessuno è giustificato dalla legge. ( Gal 3,11 ) Per dare quindi la vita a coloro che la lettera uccide, ossia a coloro che la legge buona comandando rende rei di trasgressione, viene gratuitamente in aiuto lo Spirito di grazia. ( 2 Cor 3,6 ) Così pure la nostra affermazione che l'arbitrio umano, libero nel male, dev'essere liberato dalla grazia di Dio a fare il bene, è contro i pelagiani; ma la nostra affermazione che dal libero arbitrio è sorto il male che prima non esisteva, è contro i manichei. Parimenti che onoriamo in Dio con debite lodi i santi Patriarchi e Profeti è contro i manichei, ma che anche a loro, sebbene giusti e piacenti a Dio, diciamo che è stata necessaria la propiziazione del Signore, è contro i pelagiani. Entrambi dunque la fede cattolica trova suoi avversari, come anche tutti gli altri eretici, ed entrambi confuta con l'autorità delle testimonianze divine e con la luce della verità. 10.26 - La dottrina dei peccato originale e il traducianismo Alle nebbie dei loro nascondigli aggiungono i pelagiani la questione non affatto necessaria dell'origine dell'anima, per tentare di costruirsi un riparo, turbando le verità manifeste con l'oscurità di altri problemi. Dicono infatti "che noi confondiamo la trasmissione delle anime con la trasmissione del peccato". Il che dove e quando l'abbiano udito nei discorsi o letto negli scritti di coloro che difendono la fede cattolica contro i pelagiani non lo so. Perché, sebbene io trovi che qualcosa è stato scritto dai cattolici su questo problema, tuttavia non si era a quei tempi intrapresa ancora la difesa della verità contro i pelagiani, né si pensava a rispondere ad essi. Ma questo io dico: è tanto manifesto secondo le Scritture sante il peccato originale ed è confermata da tanta antichità e autorità della fede cattolica ed è notissima per così chiara prassi della Chiesa la sua remissione nei bambini con il lavacro della rigenerazione che nella discussione sull'origine dell'anima qualsiasi ricerca ed affermazione si faccia da parte di chiunque, se è contro tale dottrina, non può essere vera. Perciò chiunque o riguardo all'anima o riguardo a qualsiasi problema oscuro costruisce un'ipotesi che distrugga questo insegnamento, che è verissimo, fondatissimo, notissimo, sia egli figlio della Chiesa o suo nemico, costui è da correggere o da espellere. Ma qui sia la fine di questo volume per poter dare inizio al successivo. Libro IV 1.1 - Introduzione alla seconda parte della lettera pelagiana Dopo le accuse che abbiamo viste e alle quali abbiamo risposto, costoro ripetono, ma in modo diverso, le medesime dottrine che hanno sollevato le nostre rimostranze contro la lettera. Prima infatti le hanno esposte come argomenti per accusarci di falsa dottrina, successivamente le ribadiscono nel senso contrario per esporre quale sia la loro dottrina. Aggiungono due affermazioni nuove che non avevano fatte prima: cioè dicono che "il battesimo è necessario a tutte le età" e che "da Adamo è passata a noi la morte e non il peccato". Quando verrà il loro turno, tratteremo anche di queste affermazioni. Poiché nel libro precedente appena terminato abbiamo detto che i pelagiani erigono cinque ripari per nascondere dietro ad essi le loro opinioni contrarie alla grazia di Dio e alla fede cattolica, cioè la dignità della creatura, la dignità delle nozze, la dignità della legge, la dignità del libero arbitrio, la dignità dei santi, credo più comodo tenere distinte in modo generico tutte le opinioni che difendono e di cui contestano a noi l'opposto, e mostrare di volta in volta a quale dei loro cinque schemi si riferisca ciascuna loro opinione, perché dalla distinzione stessa la nostra risposta possa risultare più lucida e più rapida. 2.2 - La raccolta dei testi pelagiani in lode della creazione, del matrimonio, del libero arbitrio, della legge e dei santi La dignità della creatura, per quanto concerne il genere umano, che è al centro ora della nostra questione, l'esaltano con le seguenti sentenze: "Dio è il creatore di coloro che nascono e i figli degli uomini sono opera di Dio. Non dalla natura, ma dalla volontà discende ogni peccato". A questa lode della creatura accoppiano il seguente insegnamento: "Il battesimo è necessario a tutte le età, perché il battezzato sia adottato tra i figli di Dio, non perché contrae dai genitori qualcosa da cui si debba purificare con il lavacro della rigenerazione". Alla medesima lode aggiungono anche un altro insegnamento: "Il Cristo Signore non ebbe nessuna macchia di peccato, per quanto riguarda la sua infanzia", perché asseriscono essere la sua carne purissima da ogni contagio di peccato, non per una sua propria eccellenza e per una grazia singolare, ma per la condizione di quella natura che si trova in tutti i bambini. A questo punto inseriscono anche la questione "dell'origine dell'anima", cercando così d'uguagliare all'anima del Cristo le anime di tutti i bambini, che essi vogliono ugualmente immuni da qualsiasi macchia di peccato. Per questo dicono pure: Da Adamo nessun male passò negli altri all'infuori della morte, la quale non è sempre un male, sia perché per i martiri è causa di premi, sia perché a farla dire buona o cattiva non è la decomposizione dei corpi, che saranno risvegliati in ogni categoria di persone, ma la diversità dei meriti che dipende dalla libertà umana. Questo scrivono in questa lettera sulla dignità della creatura. Quanto alle nozze, le lodano secondo le Scritture, "perché il Signore dice nel Vangelo: Il Creatore da principio li creò maschio e femmina, ( Mt 19,4 ) e disse: Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite la terra". ( Gen 1,28 ) Benché queste ultime parole non siano nel Vangelo, sono tuttavia nella Legge. Aggiungono anche: Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi. ( Mt 19,6 ) E queste parole riconosciamo che sono evangeliche. In lode della legge dicono: "La legge antica, che secondo l'Apostolo era giusta e santa e buona, ( Rm 7,12 ) a coloro che ne osservavano i comandamenti e mediante la fede vivevano nella giustizia, come ai Profeti, ai Patriarchi e a tutti i santi, poté conferire la vita eterna". In lode del libero arbitrio dicono: "Il libero arbitrio non è sparito, perché il Signore dice per bocca del Profeta: Se sarete docili e ascolterete me, mangerete i frutti della terra. Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada. ( Is 1,19-20 ) E quindi è anche vero che la grazia aiuta il buon proposito di ciascuno e tuttavia non infonde in chi è riluttante la sollecitudine della virtù, perché presso Dio non c'è parzialità". ( Rm 2,11 ) Dietro la lode dei santi si coprono dicendo: "Il battesimo rinnova completamente gli uomini, poiché ne è testimone l'Apostolo il quale attesta che per mezzo del lavacro dell'acqua si fa dalle genti una Chiesa santa e immacolata. ( Ef 5,26-27 ) Anche nei tempi antichi lo Spirito Santo aiutava le buone disposizioni, dicendo il Profeta a Dio: Il tuo spirito buono mi guidi in terra piana. ( Sal 143,10 ) Anche tutti i Profeti, gli Apostoli o i santi, sia del Nuovo come del Vecchio Testamento, ai quali rende testimonianza Dio, furono giusti, non a paragone degli scellerati, bensì secondo la regola delle virtù; ma in un tempo futuro ci sarà la ricompensa tanto delle opere buone quanto delle cattive. Comunque nessuno potrà osservare di là i comandamenti che avrà trascurati di qua, perché l'Apostolo ha detto: Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale del Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male". ( 2 Cor 5,10 ) In tutti questi testi ogni lode che fanno della creatura e delle nozze tentano di riferirla alla negazione del peccato originale, ogni lode che fanno della legge e del libero arbitrio tentano di riferirla alla tesi che la grazia non aiuta se non il merito e così la grazia non è più grazia, ( Rm 11,6 ) ogni lode che fanno dei santi tentano di riferirla a far apparire che la vita mortale sia nei santi esente da peccato, né ai santi sia necessario pregare Dio per la remissione dei loro debiti. 3.3 - I pelagiani combattono i manichei, ma sono eretici Chiunque con mente cattolica aborrisce da cotesti errori empi e riprovevoli, che abbiamo distinti in questa divisione a tre, cerchi di evitare i nascondigli di quella divisione a cinque e sia così cauto tra un pericolo e l'altro da scostarsi da Manicheo senza accostarsi a Pelagio, e per un altro verso da dissociarsi dai pelagiani senza associarsi ai manichei; oppure, se è già intricato con una delle due parti, da non svincolarsi dagli uni per vincolarsi con gli altri. Sembrano appunto contrari tra loro, poiché i manichei si manifestano vituperando quelle cinque dignità e i pelagiani si occultano lodandole. Perciò entrambi condanna e sfugge chiunque, secondo la regola della fede cattolica, in tutti gli uomini che nascono; da una parte glorifica il Creatore a motivo della bontà creata della carne e dell'anima - ciò che non vuole Manicheo -, e dall'altra confessa che, per il vizio passato in loro a causa del peccato del primo uomo, è necessario anche ai bambini il Salvatore - ciò che non vuole Pelagio -. Il cattolico distingue il male della vergognosa concupiscenza dalla bontà delle nozze così da non farsi simile né ai manichei nell'incolpare la natura da cui nasciamo, né ai pelagiani nel lodare la concupiscenza di cui ci vergognamo. Sostiene poi che per mezzo di Mosè fu data dal Dio santo e giusto e buono una legge santa e giusta e buona ( Rm 7,12 ) - ciò che Manicheo nega contro l'Apostolo -, ma afferma che essa manifesta il peccato senza tuttavia toglierlo e comanda la giustizia senza tuttavia donarla - ciò che a sua volta Pelagio nega contro l'Apostolo -. Ammette inoltre il libero arbitrio così da dire che non da una non so quale natura cattiva ed eterna, la quale non esiste, ma dallo stesso arbitrio è cominciato il male e dell'angelo e dell'uomo - ciò che smantella l'eresia manichea -; né per questo tuttavia la volontà caduta in schiavitù può riaversi alla libertà della salvezza se non con la grazia di Dio - e ciò smantella l'eresia pelagiana -. Loda infine in Dio i santi uomini di Dio, non solo da quando si è manifestato il Cristo nella carne e poi in seguito, ma anche i santi dei tempi antecedenti che i manichei osano oltraggiare, così tuttavia da credere sul loro conto più alla loro stessa confessione che alla menzogna dei pelagiani. Voce infatti di santi è questa: Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. ( 1 Gv 1,8 ) 4.4 - Lodano la creazione rinnegando la grazia Stando così le cose, che giova ai novelli eretici, nemici della croce del Cristo ed oppositori della grazia divina, apparire sani dall'errore dei manichei e morire di un'altra pestilenza ad essi propria? Che giova ad essi dire in lode della creatura: "Creatore di coloro che nascono è il Dio buono dal quale sono state fatte tutte le cose, e opera sua sono i figli degli uomini", che i manichei dicono opera del principe delle tenebre, se la creatura di Dio che è nei bambini perisce in mezzo agli uni e agli altri o presso gli uni e gli altri? Entrambi infatti vogliono che essa non sia liberata per mezzo della carne e del sangue del Cristo: i manichei, perché eliminano la stessa carne e il sangue di Cristo, quasi che non li abbia assunti affatto nell'uomo o dall'uomo; i pelagiani invece, perché asseriscono che nei bambini non esiste nessun male da cui debbano essere liberati mediante il sacramento della carne e del sangue del Cristo. In mezzo a loro giace nei bambini la creatura umana, buona nella sua creazione, viziata nella sua propagazione, confessante con i suoi beni l'ottimo Creatore, ricercante per i suoi mali il misericordiosissimo Redentore, avente nei manichei i vituperatori dei suoi beni, avente nei pelagiani i negatori dei suoi mali, e in entrambi i suoi persecutori. E, sebbene non possa parlare per l'infanzia, tuttavia con la sua tacita bellezza e con la sua latente debolezza apostrofa l'empia vanità di entrambi, sia dicendo agli uni: - Da colui che crea le cose buone credetemi creata -, sia dicendo agli altri: - Da colui che mi ha creata lasciate che sia sanata -. Manicheo risponde: - Nulla di questo bambino è da liberare tranne che l'anima buona; tutte le altre parti sono da buttare, perché non appartengono al Dio buono, ma al principe delle tenebre -. Pelagio risponde: - Anzi nulla di questo bambino è da liberare, perché tutto ci risulta in lui sano e salvo -. Entrambi mentiscono, ma più blando ormai è l'accusatore della carne soltanto che il suo lodatore, il quale si mostra crudele contro tutto il bambino. Ma né il manicheo viene in soccorso dell'anima umana, bestemmiando che Dio non è il creatore di tutto l'uomo; né il pelagiano permette alla medicina divina di venire in soccorso dell'infanzia umana, negando il peccato originale. Dio dunque esercita la sua misericordia per mezzo della fede cattolica, che redarguendo l'uno e l'altro malanno viene in soccorso del bambino per la sua salvezza. Dice infatti ai manichei: "Ascoltate l'Apostolo che grida: O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi? ( 1 Cor 6,19 ) e sentitevi obbligati a credere che è il Dio buono creatore anche dei corpi, perché non può essere tempio dello Spirito Santo l'opera del principe delle tenebre. Dice poi ai pelagiani: È stato generato nella colpa, l'ha concepito sua madre nel peccato il bambino che vedete. ( Sal 51,7 ) Perché mai, difendendolo come se fosse libero da ogni colpa, non permettete che sia liberato per un atto di indulgenza? Nessuno è senza macchia, nemmeno l'infante la cui vita sulla terra sia di un giorno soltanto. ( Gb 14, 4-5 sec. LXX ) Lasciate al misero ricevere la remissione dei peccati per mezzo dell'Unico che non ha potuto avere il peccato né da piccolo né da grande". 4.5 - I vani argomenti pelagiani Ad essi dunque che giova dire: "Non dalla natura, ma dalla volontà discende ogni peccato", e con la verità di questa sentenza resistere ai manichei che dicono causa del peccato una natura cattiva, se poi, non volendo ammettere il peccato originale, che discende certamente anch'esso dalla volontà del primo uomo, fanno uscire i bambini dal corpo in stato di reato? Ad essi che giova "riconoscere necessario a tutte le età il battesimo", che i manichei dicono superfluo ad ogni età, quando poi sostengono che il battesimo è falso nei bambini per quanto concerne la remissione dei peccati? Ad essi che giova difendere contro i manichei non solo la verità della carne del Cristo, che i manichei sostengono nulla o finta, ma difendere anche che "la stessa anima del Cristo fu immune da ogni macchia di peccato", quando poi uguagliano all'infanzia del Cristo tutti gli altri bambini senza disparità di purità in modo che da una parte sembri che la carne del Cristo non preservi la propria santità a confronto degli altri bambini e dall'altra parte questi non ricevano nessuna salvezza dalla carne del Cristo? 4.6 - Non solo la morte ma anche il peccato si trasmette da Adamo Certamente i pelagiani non hanno come avversari i manichei nel dire: "Attraverso Adamo è passata a noi la morte e non sono passati i peccati", perché nemmeno i manichei sostengono l'esistenza del peccato originale come un peccato che sia passato e passi in tutti gli uomini insieme con la morte dal primo uomo, puro e retto all'inizio nel corpo e nello spirito e poi depravato a causa del libero arbitrio. Quanto alla carne i manichei dicono che fu tratta per creazione all'inizio da un corpo cattivo per opera di uno spirito cattivo e unita con uno spirito cattivo; l'anima invece, buona perché particella di Dio, dicono che viene nell'uomo secondo i meriti del suo inquinamento contratto attraverso le vivande e le bevande alle quali è stata avvinta antecedentemente, e così mediante la copula è avvinta ancora dal vincolo della carne. E per questo i manichei concordano con i pelagiani nel dire che il peccato del primo uomo non è passato nel genere umano, né per mezzo della carne che secondo loro non è mai stata buona, né per mezzo dell'anima che fanno venire nella carne dell'uomo con i meriti dei suoi inquinamenti già contratti da lei prima che fosse nella carne. Ma i pelagiani come fanno a dire: "Soltanto la morte è passata a noi attraverso Adamo"? Se per questo infatti noi moriamo perché egli morì, e se egli morì perché peccò, allora vengono a dire che passa la pena senza la colpa e che gli innocenti bambini sono puniti con un castigo ingiusto, contraendo la morte senza i meriti della morte. Il che la fede cattolica lo sa dell'unico e solo Mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, ( 1 Tm 2,5 ) il quale si è degnato di subire la morte per noi, cioè la pena del peccato, senza il peccato. Come infatti egli solo fu fatto figlio dell'uomo proprio perché noi fossimo fatti per mezzo di lui figli di Dio, così egli solo prese per noi la pena senza meriti cattivi, perché noi senza meriti buoni conseguissimo per mezzo di lui la grazia. Come a noi infatti non era dovuto nessun bene, così a lui non era dovuto nessun male. Per mostrare dunque il suo amore verso coloro ai quali era disposto a dare una vita non dovuta ha voluto patire per loro una morte non dovuta. Questa singolare prerogativa del Mediatore tentano di svuotarla i pelagiani, di modo che essa non sia più un'eccezione unica nel Signore, atteso che Adamo patì a causa della colpa una morte dovuta, ma i bambini patiscono una morte non dovuta, non contraendo essi da lui nessuna colpa. Benché infatti ai buoni si conferisca attraverso la morte moltissimo bene, tanto che alcuni hanno opportunamente disquisito pure sulla bontà della morte, tuttavia anche per il fatto che la pena del peccato viene convertita a buoni risultati che altro si deve esaltare se non la misericordia di Dio? 4.7 - Esegesi di Rm 5,12 Ma costoro lo dicono con la volontà precisa di deviare gli uomini dalle parole dell'Apostolo verso il loro modo di sentire. Infatti dove l'Apostolo afferma: A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, e così è passato in tutti gli uomini, ( Rm 5,12 ) il passaggio non lo vogliono intendere del peccato, bensì della morte. E allora che significano le parole seguenti: Nel quale tutti hanno peccato? L'Apostolo infatti o dice che tutti hanno peccato in quell'unico uomo di cui aveva dichiarato: A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, o dice che tutti hanno peccato in quel peccato, o certamente dice che tutti hanno peccato nella morte. Non deve infatti far difficoltà che non abbia detto: "Nella quale", ma abbia detto: Nel quale tutti hanno peccato; la morte è appunto di genere maschile nella lingua greca. Scelgano dunque quello che vogliono: o infatti "tutti hanno peccato in quell'uomo", e ciò è stato detto proprio perché, quando egli peccò, in lui c'erano tutti; o tutti hanno peccato in quel peccato, perché è diventato universalmente di tutti il peccato che tutti i nascenti erano destinati a contrarre, o resta che dicano che tutti hanno peccato in quella morte. Ma in che modo questo lo si possa intendere non lo vedo davvero. Nel peccato infatti muoiono gli uomini; non è nella morte che tutti peccano, perché al peccato che la precede segue la morte, non alla morte che lo precede segue il peccato. Appunto il pungiglione della morte è il peccato, ( 1 Cor 15,56 ) ossia è il pungiglione che pungendo provoca la morte, non il pungiglione con il quale la morte punge. Come un veleno, se si beve, si chiama pozione di morte perché da quella pozione è stata causata la morte, non perché la pozione sia stata causata o somministrata dalla morte. Che se la ragione decisiva per non poter intendere dalle parole dell'Apostolo che tutti abbiano peccato in quel peccato è che nel greco, dal quale la lettera è stata tradotta, il peccato è posto in genere femminile, resta da intendere che tutti hanno peccato in quel primo uomo, perché in lui c'erano tutti quando egli peccò e da lui nascendo si contrae il peccato che non si scioglie se non rinascendo. Infatti anche S. Ilario intende così le parole: Nel quale tutti hanno peccato. Dice appunto: "Nel quale tutti hanno peccato, ossia in Adamo". Poi soggiunge: "È manifesto che tutti hanno peccato in Adamo come in massa. Tutti quelli infatti che egli generò corrotto dal peccato, sono nati sotto il peccato". Ciò scrivendo Ilario insegnò senza ambiguità in che modo dovesse intendersi il testo: Nel quale tutti hanno peccato. 4.8 - La necessità della redenzione di Cristo è prova dell'universalità del peccato Perché poi il medesimo Apostolo dice che noi veniamo riconciliati con Dio per mezzo del Cristo, se non perché eravamo diventati nemici? E questo che altro è se non peccato? Tanto che anche il Profeta dice: Le vostre iniquità hanno scavato un abisso tra voi e Dio. ( Is 59,2 ) Per questa separazione dunque è stato mandato il Mediatore, perché togliesse il peccato del mondo che ci separava da Dio come nemici e, riconciliatici con lui, da nemici diventassimo figli. Su tale sfondo parlava appunto l'Apostolo e su tale sfondo ha fatto l'inserimento delle parole: A causa di un solo uomo il peccato è entrato. Ecco infatti le sue parole antecedenti: Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, il Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall'ira per mezzo di lui. Se, infatti, quand'eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione. ( Rm 5,8-11 ) Poi soggiunge: Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, e così ha raggiunto tutti gli uomini, nel quale tutti hanno peccato. ( Rm 5,12 ) Che nicchiano i pelagiani? Se a tutti è necessaria la riconciliazione mediante il Cristo, in tutti dunque è passato il peccato per cui fummo nemici bisognosi d'essere riconciliati. Questa riconciliazione avviene nel lavacro della rigenerazione e nella carne e nel sangue del Cristo, senza di che non possono avere la vita in se stessi nemmeno i bambini. Come infatti uno solo valse alla morte per il suo peccato, così uno solo vale alla vita per la sua giustizia. Perché, come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita nel Cristo; ( 1 Cor 15,22 ) e: Come per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così pure per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustizia che dà vita. ( Rm 5,18 ) Chi mai contro queste parole apostoliche ha fatto il sordo con tanta durezza d'empietà nefanda da sostenere dopo averle udite che a passare in noi attraverso Adamo è stata la morte senza il peccato all'infuori di questi oppositori della grazia di Dio, nemici della croce del Cristo? La perdizione sarà la loro fine, ( Fil 3,19 ) se persisteranno in questa cocciutaggine. Ma basti quello che abbiamo detto a causa della loro astuzia serpentina con la quale vogliono corrompere le menti semplici e distaccarle dalla castità della fede cattolica con il pretesto di lodare la creatura. 5.9 - I pelagiani lodano il matrimonio per negare il peccato originale Quanto poi alla lode delle nozze che giova a costoro di fronte ai manichei, che non le attribuiscono al Dio vero e buono, ma al principe delle tenebre, opporsi ad essi con queste parole di vera pietà: "Il Signore parla così nel Vangelo: Il Creatore da principio li creò maschio e femmina ( Mt 19,4 ) e disse: Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite la terra. ( Gen 1,28 ) Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi"? ( Mt 19,6 ) Che giova a loro questo tentativo di sedurre alla falsità per mezzo della verità? Lo dicono infatti perché si creda che i bambini nascono liberi da ogni colpa e quindi non hanno bisogno d'essere riconciliati con Dio mediante il Cristo non avendo nessun peccato originale, che rende necessaria a tutti la riconciliazione per mezzo di quel solo che è venuto nel mondo senza peccato, come l'inimicizia di tutti con Dio è stata causata da quel solo per cui il peccato è entrato nel mondo. Il che si crede cattolicamente per salvare la natura degli uomini, salva la dignità delle nozze: perché lode delle nozze è la giusta copula dei sessi e non l'iniqua difesa dei vizi. E per questo costoro, quando lodano le nozze, vogliono trasferire le persone dai manichei alla loro stessa parte, desiderano cambiare ad esse malattia, non sanarle dalla malattia. 5.10 - Lodano la legge per negare la grazia di Cristo Di nuovo che giova ad essi dire il vero contro i manichei a lode della legge, quando da qui vogliono condurre a ciò che di falso sentono contro i cattolici? Dicono infatti: Confessiamo secondo l'Apostolo che anche l'antica legge era giusta e santa e buona. ( Rm 7,12 ) A coloro che ne osservavano i comandamenti e mediante la fede vivevano nella giustizia, come ai Profeti, ai Patriarchi e a tutti i santi ha potuto conferire la vita eterna. Con le quali parole, scelte con somma astuzia, lodano la legge contro la grazia. Perché non era la legge, benché giusta e santa e buona, che a tutti quegli uomini di Dio poteva conferire la vita eterna, ma la fede che si fonda nel Cristo. Questa fede infatti opera mediante la carità, ( Gal 3,5-6 ) non secondo la lettera che uccide, ma secondo lo Spirito che dà vita. ( 2 Cor 3,6 ) A tale grazia di Dio la legge conduce dalla trasgressione, incutendo paura come un pedagogo, ( Gal 3,24 ) perché si conferisca così all'uomo ciò che essa non ha potuto conferirgli. Infatti a coteste loro parole: "La legge ha potuto conferire la vita eterna ai Profeti, ai Patriarchi e a tutti i santi che ne osservavano i comandamenti" l'Apostolo risponde: Se la giustificazione viene dalla legge, il Cristo è morto invano. ( Gal 2,21 ) Se l'eredità si ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa. ( Gal 3,18 ) Se diventassero eredi coloro che provengono dalla legge, sarebbe resa vana la fede e nulla la promessa. ( Rm 4,14 ) E che nessuno possa giustificarsi davanti a Dio per la legge risulta dal fatto che il giusto vivrà in virtù della fede. ( Gal 3,11 ) Ora la legge non si basa sulla fede; al contrario dice che chi praticherà queste cose, vivrà per esse. ( Gal 3,12 ) Quest'ultima testimonianza della legge, ricordata dall'Apostolo, ( Gal 3,12 ) si intende in riferimento alla vita temporale, per paura della cui perdita e non per la fede gli uomini osservavano le opere della legge, perché dalla medesima legge si comandava che fossero uccisi dal popolo i trasgressori della legge. Oppure, se con più profondità si deve intendere che la frase: Chi praticherà queste cose, vivrà per esse ( Lv 18,5 ) sia stata scritta in riferimento alla vita eterna, allora l'intenzione della legge nell'esprimere così il suo imperio è che la debolezza dell'uomo, incapace in se stessa d'osservare i comandamenti della legge, cercasse piuttosto mediante la fede l'aiuto della grazia di Dio, della cui misericordia è dono anche la fede stessa. Così appunto si riceve la fede: Ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha data. ( Rm 12,3 ) Se infatti lo spirito della fortezza, della carità e della continenza non viene agli uomini da loro stessi, ma lo ricevono, tanto che il medesimo Dottore delle genti dice: Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza e d'amore e di continenza, ( 2 Tm 1,7 ) certamente si riceve anche lo spirito di fede, di cui dice: Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede. ( 2 Cor 4,13 ) La legge dunque dice la verità nella frase: Chi praticherà queste cose, vivrà per esse. ( Lv 18,5 ) Ma perché le pratichi e viva per esse non basta la legge che impera, bensì è necessaria la fede che l'impetra. La quale stessa fede tuttavia, perché meriti di ricevere questi doni, è data a sua volta gratuitamente. 5.11 - La grazia è il dono della carità Ma in nessun altro caso cotesti nemici della grazia, per opporsi più aspramente alla medesima grazia, tramano insidie più camuffate di quando lodano la legge, che è senza dubbio da lodare. La legge appunto in tutte le loro discussioni, con giri diversi di locuzioni e con varietà di parole, vogliono far passare per grazia, nel senso cioè che riceviamo dal Signore Dio l'aiuto della cognizione perché conosciamo le opere da fare, non l'ispirazione dell'amore perché facciamo con santo amore le opere conosciute: e questo amore è propriamente grazia. Infatti la conoscenza della legge senza la carità gonfia e non edifica, come dice apertissimamente lo stesso Apostolo: La scienza gonfia, mentre la carità edifica. ( 1 Cor 8,1 ) La quale sentenza assomiglia all'altra: La lettera uccide, lo spirito dà vita, ( 2 Cor 3,6 ) corrispondendosi rispettivamente tra loro: La scienza gonfia e la lettera uccide, la carità edifica e lo spirito dà vita, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. ( Rm 5,5 ) Pertanto la conoscenza della legge fa dell'uomo un superbo trasgressore, invece per il dono della carità l'uomo si diletta d'essere osservatore della legge. Non è dunque che a causa della fede noi togliamo ogni valore alla legge, ma confermiamo la legge, ( Rm 3,31 ) che impaurendo conduce alla fede. A questo scopo infatti la legge provoca l'ira: ( Rm 4,15 ) perché a chi è preso dal terrore e si converte ad adempiere la giustizia della legge, elargisca la misericordia di Dio la grazia per Gesù Cristo nostro Signore, che è la sapienza di Dio, ( 1 Cor 1,30 ) della quale sta scritto: Porta sulla sua lingua la legge e la misericordia. ( Pr 3,16 ) La legge per atterrire, la misericordia per sovvenire, la legge mediante il suo servo, la misericordia da se stesso, la legge come nel bastone che Eliseo mandò per risuscitare il figlio della vedova che non risorse: Se infatti fosse stata data una legge capace di conferire la vita, la giustizia scaturirebbe davvero dalla legge, ( Gal 3,21 ) la misericordia come nello stesso Eliseo che in figura del Cristo si abbracciò al morto da risuscitare quasi per significare il grande mistero del Nuovo Testamento. 6.12 - La lode del libero arbitrio Similmente che giova a costoro lodare contro i manichei il libero arbitrio usando la testimonianza del Profeta: Se sarete docili e ascolterete, mangerete i frutti della terra. Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada, ( Is 1,19-20 ) dal momento che non difendono tanto il libero arbitrio contro i manichei quanto lo esaltano contro i cattolici? Così infatti vogliono che s'intendano le parole: Se sarete docili e ascolterete come se nella volontà precedente ci sia il merito della grazia conseguente, con il risultato che la grazia non sia più grazia, ( Rm 11,6 ) perché non sarebbe gratuita quando fosse resa come dovuta. Se invece intendessero le parole: Se sarete docili così da riconoscere che la stessa buona volontà la prepara colui del quale è scritto: La volontà è preparata dal Signore, ( Pr 8,35 sec. LXX ) allora userebbero da cattolici tale testimonianza e non solo vincerebbero la vecchia eresia dei manichei, ma non fonderebbero la nuova eresia dei pelagiani. 6.13 - La grazia accende l'amore per la virtù Che giova a costoro dire in lode dello stesso libero arbitrio: "La grazia aiuta il buon proposito di ciascuno"? Lo si prenderebbe senza scrupolo come detto in senso cattolico, se costoro non riponessero nel buon proposito un merito, al quale la ricompensa sia resa già secondo un debito e non secondo la grazia, ma intendessero e confessassero che anche lo stesso buon proposito, a cui viene in aiuto la grazia conseguente, non sarebbe potuto esistere nell'uomo se la grazia non gli fosse stata data antecedente. In che modo infatti c'è il buon proposito dell'uomo senza che ci sia prima il Signore ad usare misericordia, dal momento che la stessa buona volontà è quella che è preparata dal Signore? Ciò che poi, dopo aver detto: "La grazia aiuta pure il buon proposito di ciascuno" aggiungono subito: "Tuttavia non infonde la sollecitudine della virtù in chi è riluttante", si potrebbe intendere correttamente se non fosse detto da costoro dei quali è noto il senso. A chi è riluttante infatti la stessa grazia di Dio procura prima l'ascolto della vocazione divina e accende poi in lui non più riluttante la sollecitudine della virtù. La verità è che in tutte le azioni che ciascuno compie secondo Dio la sua misericordia lo previene. ( Sal 59,11 ) Il che non vogliono costoro, perché non vogliono essere cattolici, ma pelagiani. Molto infatti si compiace la superba empietà che non le sembri donato ma reso anche ciò che si è costretti a confessare dato dal Signore; si deve credere cioè che essi, figli della perdizione e non della promessa, si siano fatti buoni da sé, e che a tal gente, già fatta buona da se stessa, Dio abbia reso per cotesta sua buona opera il debito premio. 6.14 - L'insegnamento della Scrittura sulla grazia Lo stesso tumore dell'orgoglio ha infatti ostruito talmente ad essi gli orecchi del cuore da non udire: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? ( 1 Cor 4,7 ) da non udire: Senza di me non potete far nulla, ( Gv 15,5 ) da non udire: L'amore viene da Dio, ( 1 Gv 4,7 ) da non udire: Dio dà la misura della fede, ( Rm 12,3 ) da non udire: Lo Spirito spira dove vuole, ( Gv 3,8 ) e: Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio costoro sono figli di Dio, ( Rm 8,14 ) da non udire: Nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio, ( Gv 6,66 ) da non udire quello che scrive Esdra: Benedetto il Signore dei nostri padri, che ha messo nel cuore del re il proposito di abbellire la sua casa in Gerusalemme, ( Esd 7,27 ) da non udire ciò che per bocca di Geremia dice il Signore: Metterò nei loro cuori il mio timore, perché non si distacchino da me, e li visiterò per farli buoni, ( Ger 32,40-41 ) e da non udire soprattutto quello che dice per bocca del profeta Ezechiele, dove Dio in modo assoluto mostra di non lasciarsi influenzare da nessun merito buono degli uomini per farli buoni, ossia obbedienti ai suoi comandamenti; ma egli rende piuttosto questi beni per i mali, facendo per se stesso e non per loro. Dice infatti: Così dice il Signore Dio: Io agisco non per riguardo a voi, gente d'Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete disonorato fra le genti presso le quali siete andati. Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore - parola del Signore Dio -, quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi. Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati da tutte le vostre sozzure; io vi purificherò e vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. ( Ez 36,22-27 ) E poco dopo per mezzo del medesimo Profeta dice: Non per riguardo a voi io agisco - dice il Signore Dio -: sappiatelo bene. Vergognatevi e arrossite della vostra condotta, o Israeliti. Così dice il Signore Dio: Nel giorno in cui vi purificherò da tutte le vostre iniquità, ripopolerò le città, che risorgeranno dalle loro rovine. Quella terra desolata, che agli occhi di ogni viandante appariva un deserto, sarà ricoltivata e si dirà: La terra che era desolata è diventata ora come un giardino di delizie; le città, già rovinate, desolate e sconvolte, ora sono fortificate e abitate. I popoli che saranno rimasti attorno a voi sapranno che io, il Signore, ho ricostruito ciò che era distrutto e ricoltivato la terra che era un deserto. Io, il Signore, l'ho detto e l'ho fatto. Dice il Signore: Permetterò ancora che la gente d'Israele mi preghi d'intervenire in suo favore. Io moltiplicherò gli uomini come greggi, come greggi consacrati, come un gregge di Gerusalemme nelle sue solennità. Allora le città rovinate saranno ripiene di greggi di uomini e sapranno che io sono il Signore. ( Ez 36,32-38 ) 6.15 - La cooperazione dell'uomo e di Dio nel fare il bene Cos'è rimasto alla loro pelle cadaverica da gonfiarsi e disdegnare di vantarsi nel Signore, quando si vanta? ( 1 Cor 1,31 ) Che l'è rimasto, quando, qualunque cosa dica d'aver fatto per attribuire all'uomo un merito precedente nato dall'uomo dietro al quale corra Dio per fare ciò di cui l'uomo è degno, si risponderà, si reclamerà, si controbatterà: Io agisco non per riguardo a voi, ma per amore del mio nome santo, dice il Signore Dio? ( Ez 36,22 ) Niente demolisce così bene i pelagiani che dicono "la grazia di Dio data secondo i nostri meriti". Il che lo stesso Pelagio, pur non correggendosi, tuttavia condannò temendo i giudici orientali. Niente demolisce così bene la presunzione di costoro che dicono: "Siamo noi a fare in modo da meritare che Dio faccia con noi". Non Pelagio, ma il Signore stesso vi risponde: Io agisco non per riguardo a voi, ma per amore del mio nome santo. ( Ez 36,22 ) Che potete infatti ricavare di buono da un cuore non buono? Ma perché abbiate un cuore buono, Dio dice: Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo. ( Ez 36,26 ) Potete forse voi dire: Prima abbiamo vissuto secondo i suoi statuti, prima abbiamo osservato le sue leggi e ci siamo fatti degni che ci desse la sua grazia? Che potreste fare di buono voi uomini cattivi e in che modo fareste queste buone azioni, se non foste già buoni? Ma chi fa che gli uomini siano buoni all'infuori di colui che dice: Li visiterò per farli buoni, ( Ez 32,40 ) all'infuori di colui che dice: Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare le mie leggi? ( Ger 36,27 ) È proprio vero che non vi siete ancora svegliati? Non udite ancora: Io vi farò camminare, io vi farò osservare, e infine: Io vi farò fare? Perché continuate a gonfiarvi? Certamente siamo noi a camminare, è vero; siamo noi ad osservare, siamo noi a fare; ma Dio fa che camminiamo, fa che osserviamo, fa che facciamo. Questa è la grazia divina che ci fa buoni, questa è la misericordia divina che ci previene. ( Sal 59,11 ) Che meritano i luoghi deserti e devastati e rovinati, i quali tuttavia saranno ricostruiti, ricoltivati e fortificati? ( Ez 36,32-38 ) Avverranno forse questi lieti eventi per i meriti della loro desolazione, della loro devastazione, della loro rovina? Non sia mai detto! Cotesti sono infatti meriti cattivi e questi sono doni buoni. Si rendono dunque beni ai mali: beni perciò gratuiti, non dovuti, e quindi grazie. ( Rm 3,24 ) Io, dice il Signore, io il Signore. Questa voce del Signore non ti tappa la bocca, o superbia umana, che vai dicendo: Io faccio, per meritare d'essere riedificato e ripiantato dal Signore? È mai possibile che tu non oda: Non per riguardo a voi io agisco. ( Ez 36,32 ) Io, il Signore, ho ricostruito ciò che era distrutto e ricoltivato la terra che era un deserto. Io, il Signore, l'ho detto e l'ho fatto. Tuttavia non per riguardo a voi, ma per amore del mio nome santo? ( Ez 36,36.22 ) Chi moltiplica gli uomini come greggi, come greggi consacrati, come un gregge di Gerusalemme; chi fa sì che quelle città rovinate si riempiano di greggi umani, se non colui che dice: E sapranno che io sono il Signore? ( Ez 36,38 ) Ma di quali greggi umani riempie le città, come ha promesso: di greggi che trova o di greggi che fa? Interroghiamo il Salmo. Ecco risponde, ascoltiamo: Venite, prostrati adoriamo, in ginocchio davanti al Signore, piangiamo al cospetto del Signore che ci ha fatti. Poiché egli è il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce. ( Sal 95,6-7 ) È lui dunque che fa le pecore delle quali riempie le città spopolate. Che c'è di strano? È appunto a quell'unica pecora, ossia alla Chiesa, di cui sono membra tutti gli uomini come pecore di un gregge, che è detto: Io sono il Signore che ti faccio. Perché mi mostri il libero arbitrio, che non sarà libero per poter fare la giustizia, se tu non sarai pecora del Signore? Colui dunque che fa sue pecore gli uomini, egli stesso libera le volontà umane per l'obbedienza della pietà. 6.16 - Il mistero della predestinazione Ma perché colui presso il quale non c'è parzialità, ( Rm 2,11 ) fa sue pecore alcuni uomini e altri no? Rispetto a questa medesima questione, che alcuni proponevano con più curiosità che perspicacia, il beato Apostolo risponde: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: Perché mi hai fatto così? ( Rm 9,20 ) È questa una questione che appartiene a quella profondità che, a volerci guardare dentro, il medesimo Apostolo si è spaventato in certo qual modo ed ha esclamato: O profondità della ricchezza, della sapienza, della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio? Poiché da lui, per mezzo di lui e in lui sono tutte le cose. A lui sia gloria nei secoli dei secoli. ( Rm 11,33-36 ) Non presumano dunque di scrutare cotesta imperscrutabile questione coloro che difendendo il merito prima della grazia e quindi già contro la grazia vogliono dare a Dio per primi così da riceverne il contraccambio; dare qualsiasi azione per primi certamente in forza del libero arbitrio, cosicché la grazia sia da esser resa in premio. Sapientemente intendano o fedelmente credano che anche ciò che pensano d'aver dato per primi l'hanno ricevuto da colui dal quale sono tutte le cose, per mezzo del quale sono tutte le cose, nel quale sono tutte le cose. ( Rm 11,36 ) Quanto poi al problema della ragione per cui questo riceve e quello non riceve, mentre ambedue sono immeritevoli di ricevere e, chiunque di essi riceva, riceve indebitamente, misurino le loro forze e non cerchino quello che li sorpassa. ( Sir 3,22 ) Basti a loro sapere che in Dio non c'è ingiustizia. ( Rm 9,14 ) L'Apostolo infatti, non avendo trovato nessun merito per cui Giacobbe dovesse precedere presso Dio il suo gemello, esclama: Che diremo dunque? C'è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò e avrò pietà di chi vorrò averla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia. ( Rm 9,14-16 ) Grata ci sia dunque la sua gratuita compassione, benché rimanga insoluta questa profonda questione. La quale si scioglie tuttavia solo nei limiti in cui la scioglie il medesimo Apostolo dicendo: Pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria. ( Rm 9,22-23 ) La punizione divina non si paga appunto se non dovuta, perché non ci sia ingiustizia da parte di Dio; la misericordia divina invece anche quando si offre senza esser dovuta non è un'ingiustizia da parte di Dio. E proprio da questo fatto intendono i vasi di misericordia quanto gratuita misericordia si presti ad essi: dal fatto che ai vasi di collera, con i quali hanno in comune la causa della perdizione e la massa della perdizione, si paga una punizione dovuta e giusta. ( Rm 9,22-23 ) Queste considerazioni bastino ormai contro coloro che a causa della libertà dell'arbitrio vogliono distruggere la liberalità della grazia. 7.17 - La lode dei Santi Che poi, a lode dei santi, non vogliano i pelagiani che noi abbiamo fame e sete di giustizia con l'umiltà di quel pubblicano, ma ruttiamo con la vanità di quel fariseo, come se fossimo pieni zeppi di giustizia; ( Lc 18,10-14 ) che contro i manichei, distruttori del battesimo, i pelagiani dicano: "Dal battesimo gli uomini sono rinnovati perfettamente" e adoperino per questo la testimonianza dell'Apostolo, il quale attesta che per mezzo del lavacro dell'acqua si fa dalle genti una Chiesa santa e immacolata, ( Ef 5,26 ) che giova a costoro, quando con senso superbo e corrotto sollevano le loro discussioni contro le orazioni della Chiesa stessa? Lo dicono infatti con questo scopo: far credere che la Chiesa dopo il santo battesimo, dove si fa remissione di tutti i peccati, non ha più in seguito nessun peccato; mentre contro di essi la Chiesa dal sorgere del sole fino al suo tramonto grida con tutte le sue membra a Dio: Rimetti a noi i nostri debiti. ( Mt 6,12 ) E che è mai questo: interrogati in tale causa, anche su se stessi, non trovano che cosa rispondere? Se infatti diranno d'essere senza peccato, Giovanni risponde a costoro che ingannano se stessi e la verità non è in essi. ( 1 Gv 1,8 ) Se al contrario confessano i loro peccati, volendo essere membra del corpo del Cristo, in che modo nel corso ancora di questo tempo sarà perfettamente senza macchia e ruga, com'essi ritengono, quel corpo, ossia la Chiesa, le cui membra confessano non insinceramente d'aver peccati? Ecco dunque la verità: e nel battesimo si rimettono tutti i peccati, e per mezzo dello stesso lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola si fa comparire davanti al Cristo la sua Chiesa senza macchia né ruga. ( Ef 5,27 ) Perché se non fosse stata battezzata, direbbe infruttuosamente: Rimetti a noi i nostri debiti, fino a quando non sarà condotta alla gloria, dove ancora più perfettamente non vi sarà in essa nessuna macchia né ruga. 7.18 - Lo Spirito Santo e i giusti dell'Ant. Testamento Si deve confessare che "anche nei tempi antichi lo Spirito Santo" non solo "aiutava le buone disposizioni", come vogliono pure costoro, ma faceva altresì buone le disposizioni: ciò che i pelagiani non vogliono. Che "anche tutti i Profeti e gli Apostoli o i santi, evangelici o antichi, ai quali rende testimonianza Dio, siano stati giusti non a paragone degli scellerati, ma secondo la regola delle virtù" non c'è dubbio, e questo è contro i manichei che bestemmiano Patriarchi e Profeti; ma è contro anche i pelagiani il fatto che tutti quei personaggi, interrogati su se stessi mentre vivevano in questo corpo, avrebbero risposto ad una sola voce con la più assoluta unanimità: Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. ( 1 Gv 1,8 ) "Ma che in un tempo futuro ci sarà la ricompensa tanto delle opere buone quanto delle cattive" non si deve negare, "e che a nessuno sarà comandato di là d'osservare i comandamenti che avrà disprezzato di qua". Ma la sazietà della piena giustizia, nella quale il peccato non possa esistere più, e della quale i santi hanno fame e sete di qua, ora nel precetto si spera, allora nel premio si riceve, impetrando le elemosine e le orazioni che quanto dei comandamenti è rimasto al di sotto del pieno adempimento non sia punito in forza dell'indulgenza dei peccati. 7.19 - I veri scopi delle lodi pelagiane Stando così le cose, smettano i pelagiani con le lodi più insidiose di coteste cinque realtà, ossia con la lode della natura, con la lode delle nozze, con la lode della legge, con la lode del libero arbitrio, con la lode dei santi, di fingere quasi di voler liberare gli uomini dalle trappole dei manichei per poterli prendere nelle proprie reti. Cioè smettano di negare il peccato originale e di escludere i bambini dall'aiuto medicinale del Cristo, e di dire che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti, cosicché la grazia non sia più grazia; ( Rm 11,6 ) e di dire che i santi in questa vita non avevano peccati, cosicché si svuoti di senso l'orazione insegnata da colui che fu senza peccato ( 2 Cor 5,21 ) e in virtù del quale ogni peccato è rimesso ai santi che pregano. A questi tre mali con la lode ingannevole di quei cinque beni seducono costoro i fedeli incauti e incolti. E su tutti questi punti credo d'aver già sufficientemente risposto alla loro vanità, estremamente crudele, empia e superba. 8.20 - Le Chiese Occidentali e Orientali contrarie ai pelagiani Ma poiché vanno dicendo: "I nostri nemici hanno accolto le nostre parole in odio alla verità e da quasi tutto l'Occidente è stato accettato un dogma non meno stupido che empio", poiché vanno lamentandosi che "a conferma dell'errore è stata estorta una sottoscrizione ad alcuni vescovi ignari, nei loro luoghi di residenza, senza riunirli in concilio", mentre è vero al contrario che la Chiesa tanto dell'Occidente quanto dell'Oriente ha sentito orrore delle novità profane delle loro chiacchiere, ( 1 Tm 6,20 ) stimo che rientri nella nostra cura non solo adoperare come testimoni contro di essi le sante Scritture canoniche, come abbiamo già fatto a sufficienza, ma riportare anche alcuni insegnamenti dagli scritti dei santi che hanno commentato prima di noi le Scritture con fama celebratissima e ingente gloria. Non eguaglio l'autorità di un qualche commentatore ai Libri canonici, né dico che la sentenza di un cattolico non possa in modo assoluto essere più buona o più vera di quella di un altro ugualmente cattolico. Ma a coloro che prestano un qualche credito ai pelagiani vogliamo mostrare come sui medesimi argomenti prima dei vaniloqui dei pelagiani i vescovi cattolici abbiano seguito la parola di Dio, e far sapere a costoro che si difende da noi la fede cattolica, retta e fondata fin dall'antichità, contro la nuova presunzione e perversione degli eretici pelagiani. 8.21 - Testimonianze di Cipriano sul peccato originale Il beatissimo Cipriano, molto glorioso anche per la corona del martirio, notissimo non solo alle Chiese d'Africa e d'Occidente, ma altresì a quelle d'Oriente per la fama che in lungo e in largo esalta e diffonde i suoi scritti, è citato pure con l'onore che gli spetta dallo stesso eresiarca di costoro, Pelagio, dove scrivendo il libro delle Testimonianze asserisce di imitarlo, cioè "di fare con Romano quello che Cipriano aveva fatto con Quirino". Vediamo dunque quale sia stata la sentenza di Cipriano sul peccato originale, che a causa di un solo uomo è entrato nel mondo. ( Rm 5,12 ) Nella sua lettera Il lavoro e l'elemosina parla così: Il Signore, dopo aver risanato con la sua venuta quelle ferite che ci aveva inferte Adamo e dopo aver curato gli antichi veleni del serpente, diede all'uomo risanato la sua legge e gli comandò di non peccare più per l'avvenire, perché peccando non gli avesse ad accadere qualcosa di peggio. ( Gv 5,14 ) Questa prescrizione d'innocenza ci coartava e ci chiudeva senza via di scampo, né l'infermità e la debolezza della fragilità umana avrebbe che fare, se la pietà divina venendole ancora una volta in soccorso non le aprisse una qualche via per assicurarle la salvezza indicando le opere della giustizia e della misericordia, così da lavare con le elemosine tutte le sozzure contratte da noi successivamente al battesimo. ( Lc 11,41 ) Con tale testimonianza questo teste colpisce due falsità dei pelagiani: la prima, di dire che il genere umano non contrae da Adamo nessun vizio che abbia bisogno d'essere curato e sanato per mezzo del Cristo; la seconda, di dire che dopo il battesimo i santi non hanno più nessun peccato. In un altro passo della medesima lettera dice: Immagini ciascuno di vedere con i propri occhi il diavolo insieme con i suoi servitori, cioè con il popolo della perdizione e della morte, farsi in mezzo a provocare la plebe del Cristo, presente e giudicante il Cristo stesso, e a dire facendo un esame comparativo: Io per questi che vedi con me né ho preso schiaffi, né ho subìto flagelli, né ho sofferto la croce, né ho versato il sangue, né ho redento questa mia famiglia a prezzo di passione e di sangue, ma né prometto ad essi il regno celeste, né li richiamo di nuovo al paradiso restituendo ad essi l'immortalità. Rispondano i pelagiani quando siamo stati noi nell'immortalità del paradiso e in che modo ne siamo stati espulsi per esservi richiamati in virtù della grazia del Cristo. E non potendo trovare che cosa rispondere qui secondo la loro perversità, avvertano in che senso Cipriano abbia inteso le parole dell'Apostolo: Nel quale tutti hanno peccato, ( Rm 5,12 ) e i nuovi eretici pelagiani non osino rovesciare la calunnia di vecchi eretici manichei su nessun cattolico per non essere convinti di fare un'ingiuria tanto scellerata anche all'antico martire Cipriano. 8.22 - Le lettere Sulla mortalità e Sulla pazienza Egli infatti anche nella lettera che porta il titolo L'Epidemia lo ripete in questo modo: Il regno di Dio, fratelli dilettissimi, è prossimo a cominciare, e il premio della vita e il gaudio dell'eterna salvezza e l'eterna letizia e il possesso del paradiso perduto da poco, stanno già per arrivare con il passare del mondo. Di nuovo nella medesima lettera dice: Abbracciamo il giorno che assegna ciascuno alla sua casa, il giorno che, strappati da qui e sciolti dai lacci del secolo, ci restituisce al paradiso e al regno. Similmente nella lettera La pazienza dice: Si pensi alla sentenza di Dio che appena alle origini del mondo e del genere umano Adamo, dimentico del precetto e trasgressore della legge intimatagli, sentì comminarsi. Impareremo allora quanto abbiamo da soffrire in questo mondo noi che nasciamo così da essere quaggiù afflitti da angustie e da lotte. La sentenza dice: "Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero di cui ti avevo proibito di mangiare, maledetto sia il suolo in tutti i tuoi lavori. Con tristezza e pianto ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il tuo pane, finché ritornerai nella terra dalla quale sei stato preso, poiché sei polvere e in polvere tornerai". ( Gen 3,17-19 ) Dal nodo di questa sentenza siamo legati e stretti tutti noi, finché subendo la morte partiamo da questo secolo. E ancora nella medesima lettera dice: Infatti, poiché per quella prima trasgressione del precetto se n'è andata la forza del corpo con l'immortalità ed è sopraggiunta la debolezza del corpo con la morte, e poiché non possiamo ricuperare la forza del corpo se non quando sia stata ricuperata anche l'immortalità, siamo costretti a lottare sempre e a soffrire in questa fragilità e debolezza corporale. Lotta e sofferenza che non può essere sostenuta se non con le forze della pazienza. 8.23 - La lettera A Fido Nella lettera poi che scrisse al vescovo Fido insieme a sessantasei suoi coepiscopi, consultato da lui se, stante la legge della circoncisione, si potesse battezzare un bambino prima dell'ottavo giorno, la nostra causa è trattata in tal maniera da sembrare che la Chiesa cattolica confutasse già allora per previsione divina gli eretici pelagiani tanto lontani ancora nel tempo. Colui infatti che l'aveva consultato non dubitava che i figli contraessero nel nascere il peccato originale da lavare rinascendo: non sia mai detto che la fede cristiana abbia in qualche tempo dubitato di questa verità. Fido invece dubitava se il lavacro della rigenerazione, con il quale non dubitava doversi rimettere il peccato originale, fosse da darsi prima dell'ottavo giorno. Alla quale consultazione rispondendo il beatissimo Cipriano dice: Per quanto concerne la causa dei bambini che tu hai detto non essere opportuno battezzare dentro il secondo o il terzo giorno dalla nascita, e che si deve prendere in considerazione la legge dell'antica circoncisione, ( Gen 17,12 ) così da credere che un neonato non sia da battezzarsi e da santificarsi prima dell'ottavo giorno, ben diversamente è parso a tutti nel nostro concilio. Nessuno infatti ha condiviso quello che tu credevi doversi fare, ma tutti abbiamo giudicato piuttosto che a nessun bambino si debba negare la grazia del misericordioso Dio. Dicendo infatti il Signore nel suo Vangelo: "Il Figlio dell'uomo non è venuto a perdere le anime, ma a salvarle", ( Lc 9,56 ) nessun'anima dev'essere perduta per quanto dipende da noi nei limiti del possibile. E poco dopo: Nessuno di noi deve vergognarsi di ciò che il Signore si è degnato di plasmare. Per quanto un bambino sia nuovo di parto, non è tuttavia il caso che qualcuno debba avere orrore di baciarlo nel dare la grazia e nel fare la pace, poiché nel baciare un infante ciascuno di noi deve pensare nella sua pietà alle mani ancora fresche di Dio, che in qualche modo noi baciamo in un bambino appena plasmato e nato da poco, quando abbracciamo quello che Dio ha fatto. Similmente dice poco dopo: Del resto, se qualcosa potesse impedire agli uomini di conseguire la grazia, più di tutto dovrebbero impedirlo agli uomini adulti e attempati i peccati più gravi. Ora però, se si concede la remissione dei peccati anche ai peggiori delinquenti e a coloro che hanno commesso antecedentemente una moltitudine di peccati e successivamente si sono convertiti alla fede, e se a nessuno si rifiuta il battesimo e la grazia, quanto meno se ne deve allontanare un bambino che, appena nato, non ha commesso nessun peccato personale, ma ha solamente contratto con la prima nascita il contagio dell'antica morte, essendo nato carnalmente secondo Adamo! Egli accede a ricevere la remissione dei peccati tanto più facilmente, perché non gli vengono rimessi peccati propri, ma peccati altrui. 8.24 - Commento di Ag. alle affermazioni di Cipriano Che cosa risponderanno a queste testimonianze coloro che della grazia di Dio sono non soltanto disertori, ma anche persecutori? Che cosa risponderanno? Che senso ha la restituzione a noi del possesso del paradiso? Come veniamo restituiti al paradiso, se non vi siamo mai stati? O come vi siamo stati, se non perché siamo stati in Adamo? E come possiamo esser compresi nella sentenza pronunziata contro il trasgressore, se dal trasgressore non contraiamo la colpa? Infine, Cipriano giudica che i bambini si debbano battezzare anche prima dell'ottavo giorno, perché le anime dei bambini non periscano a causa del contagio dell'antica morte contratto con la loro prima nascita. In che modo periscono, se coloro che nascono, anche da genitori credenti, non sono tenuti dal diavolo finché non rinascano nel Cristo e, liberati dal potere delle tenebre, non siano trasferiti nel suo regno? ( Col 1,13 ) E chi dice che periranno le anime di coloro che nascono, se non rinascono? Lo dice colui appunto che loda così il Creatore e la creatura, l'Artista e l'opera, da riprendere e da correggere, interponendo la venerazione dovuta allo stesso Creatore, l'orrore della sensibilità umana che disdegni di baciare i bambini partoriti da poco, dicendo che nel bacio di quell'età bisogna pensare alle mani di Dio ancora fresche di lavoro. Confessando dunque il peccato originale, condanna forse o la natura o le nozze? Applicando a chi nasce reo da Adamo la purificazione della rigenerazione, ha negato forse per questo che Dio è il Creatore di coloro che nascono? Giudicando con il concilio dei suoi colleghi, nel timore della perdita di anime di qualsiasi età, che esse si devono liberare con il sacramento del battesimo anche prima dell'ottavo giorno, ha forse per questo accusato le nozze, quando nel bambino nato dal matrimonio o dall'adulterio, perché è tuttavia un uomo, addita le fresche mani di Dio degne pure del bacio di pace? Se dunque il santo vescovo e gloriosissimo martire Cipriano ha potuto giudicare che il peccato originale si deve risanare nei bambini con la medicina del Cristo, salva la dignità della creazione, salva la dignità delle nozze, perché mai una pestilenza novizia, mentre non osa dichiarare manicheo Cipriano, ai cattolici che difendono queste verità crede di dover rinfacciare un crimine altrui per coprire il crimine proprio? Ecco che un celebratissimo commentatore delle Scritture divine, prima che le nostre terre fossero sfiorate anche dal più lieve sentore della pestilenza manichea, senza nessuna offesa dell'opera divina e delle nozze, confessa il peccato originale, non dicendo spruzzato il Cristo da qualche macchia di peccato, né tuttavia equiparando a lui la carne di tutti gli altri nascenti, ai quali apprestare l'aiuto della purificazione mediante la sua carne somigliante a quella del peccato; né si lascia atterrire dall'oscura questione dell'origine delle anime per confessare il ritorno in paradiso di coloro che fa liberi la grazia del Cristo. Dice forse che è passata da Adamo negli uomini la condizione della morte senza che ci sia passata la contaminazione del peccato? Non infatti per evitare la morte corporale, ma per il peccato entrato nel mondo a causa di un solo uomo, ( Rm 5,12 ) dice che con il battesimo si soccorrono i bambini, per quanto freschissimi di nascita. 9.25 - Testimonianze di Cipriano sulla grazia Quanto poi alla grazia di Dio, come Cipriano la predichi contro costoro apparisce evidente dove tratta dell'Orazione domenicale. Scrive infatti: Diciamo: "Sia santificato il tuo nome", ( Mt 6,9 ) non per augurare a Dio d'esser santificato dalle nostre orazioni, ma per chiedergli che il suo nome sia santificato in noi. Del resto, da chi è santificato Dio, che è colui stesso che santifica? Ma poiché egli ha detto: "Siate santi, perché io sono santo" ( Lv 19,2 ), questo chiediamo e supplichiamo: che dopo esser stati santificati nel battesimo perseveriamo nell'essere quello che abbiamo cominciato ad essere allora. In un altro passo della medesima lettera scrive: Aggiungiamo anche e diciamo: "Sia fatta la tua volontà in cielo e in terra", ( Mt 6,10 ) non nel senso che Dio faccia quello che vuole, ma che noi possiamo fare quello che Dio vuole. Chi infatti può ostacolare Dio dal fare quello che vuole? Ma, siccome il diavolo ostacola noi, perché il nostro animo e le nostre attività non siano ossequienti in tutto a Dio, preghiamo e chiediamo che la volontà di Dio si compia in noi. La quale perché si compia in noi c'è bisogno della volontà di Dio, ossia del suo aiuto e della sua protezione: infatti nessuno è forte delle proprie forze, ma è al sicuro per l'indulgenza e la misericordia di Dio. Ugualmente dice in un'altra parte della medesima lettera: Domandiamo poi che si faccia la volontà di Dio in cielo e in terra, e ambedue le petizioni contribuiscono al compimento della nostra incolumità e salvezza. Avendo infatti avuto in possesso il corpo dalla terra e lo spirito dal cielo, noi stessi siamo terra e cielo, e in entrambi, cioè nel corpo e nello spirito, preghiamo che si faccia la volontà di Dio. C'è infatti guerra tra la carne e lo spirito e quotidiano scontro per la loro reciproca discordia, cosicché non facciamo le azioni stesse che vogliamo, cercando lo spirito i beni celesti e divini e bramando la carne i piaceri terreni e secolari. Perciò imploriamo che tra queste due parti si instauri la concordia con l'intervento e l'aiuto di Dio, perché attuandosi nella carne e nello spirito la sua volontà sia salva l'anima che egli ha fatto rinascere. Il che dichiara apertamente e manifestamente con la sua voce l'apostolo Paolo: "La carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito ha desideri contrari alla carne: queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste". E poco dopo scrive: Può intendersi pure in quest'altro senso, fratelli dilettissimi. Poiché il Signore comanda e insegna di amare anche i nemici e di pregare pure per coloro che ci perseguitano, ( Mt 5,44 ) noi dobbiamo chiedere che anche a beneficio di coloro che sono ancora terra e non hanno cominciato ancora ad essere celesti si faccia anche nei loro riguardi la volontà di Dio, che il Cristo fece perfettamente salvando e reintegrando l'uomo0. Ancora in un altro passo: Chiediamo che ci sia dato quotidianamente questo pane, perché noi che siamo nel Cristo e quotidianamente riceviamo l'Eucaristia in cibo di salvezza, accadendoci qualche più grave delitto che ci proibisca il pane celeste, mentre ce ne asteniamo e non comunichiamo con esso, non rimaniamo separati dal corpo del Cristo. Poco dopo nella medesima opera scrive: Quando poi domandiamo di non cadere in tentazione, siamo avvertiti della nostra infermità e debolezza, mentre così imploriamo che nessuno si esalti insolentemente, che nessuno si attribuisca qualcosa con superbia e arroganza, che nessuno stimi sua la gloria o della confessione o della passione, avendo detto il Signore stesso per insegnare l'umiltà: "Vegliate e pregate per non cadere in tentazione. ( Mt 6,13 ) Lo spirito è pronto ma la carne è debole". ( Mt 26,41 ) Quando precede un'umile e sottomessa confessione e si dà tutto a Dio, allora, qualunque beneficio si chieda con il timore e l'onore di Dio, è concesso dalla sua pietà. Altrettanto nel terzo libro della lettera A Quirino, rispetto alla quale Pelagio vuol passare per suo imitatore, dice: In nulla dobbiamo gloriarci, perché nulla è nostro. Alla quale massima facendo seguire testimonianze divine pone tra le altre quel passo dell'Apostolo con il quale soprattutto si deve tappar la bocca a costoro: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti, come se non l'avessi ricevuto? ( 1 Cor 4,7 ) Così pure nella lettera La pazienza scrive: Questa virtù infatti ci è comune con Dio. Da lui comincia la pazienza, da lui parte il suo splendore e la sua dignità: l'origine e la grandezza della pazienza procede da Dio come da sua fonte. 9.26 - Commento agostiniano Questo santo maestro delle Chiese nella parola della verità, così degno d'essere ricordato, nega forse l'esistenza negli uomini del libero arbitrio per il fatto che attribuisce a Dio tutta la rettitudine del nostro vivere? Incolpa forse la legge di Dio, perché fa capire che l'uomo non è giustificato dalla legge, dichiarando che si deve impetrare con la preghiera dal Signore Dio ciò che essa comanda? Sotto il nome di grazia asserisce forse il fato facendo la riserva che non ci si deve vantare di nulla, perché nulla è nostro? Crede forse a parità di costoro nell'aiuto dato dallo Spirito Santo alla virtù dell'uomo, come se la stessa virtù che è aiutata da lui venga da noi, mentre asserendo che nulla è nostro ricorda che per questo l'Apostolo ha detto: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? ( 1 Cor 4,7 ) E dell'eccellentissima virtù della pazienza non dice che comincia da noi e poi è aiutata dallo Spirito di Dio, ma dice che da Dio stesso prende avvio, che da Dio stesso prende origine. Infine, confessa che né il buon proposito, né la sollecitudine della virtù, né le buone disposizioni cominciano ad essere presenti negli uomini senza la grazia di Dio, quando dice che non ci si deve vantare di nulla, perché nulla è nostro. Che cosa si basa sul libero arbitrio altrettanto quanto ciò che prescrive la legge: non adorare idoli, non commettere adultèri, non uccidere? Ora, questi e simili sono i delitti che fanno rimuovere dalla comunione del corpo del Cristo chiunque li abbia commessi. E tuttavia, se il beatissimo Cipriano stimasse che a non commetterli basta la nostra volontà, non intenderebbe quello che diciamo nell'orazione domenicale: Dacci oggi il nostro pane quotidiano ( Mt 6,11 ) così da asserire che noi chiediamo di non essere separati dal corpo del Cristo, accadendoci un qualche delitto più grave che ci proibisca il pane celeste, mentre ce ne asteniamo e non comunichiamo con esso. Rispondano in modo certo i nuovi eretici quali meriti buoni precedano in uomini che sono nemici del nome cristiano. Non solo infatti non hanno nessun merito buono, ma hanno pure un merito pessimo. E tuttavia Cipriano prende la petizione: Sia fatta la tua volontà in cielo e in terra, ( Mt 6,10 ) anche in questo senso: che preghiamo pure per coloro che secondo tale interpretazione si intendono come terra. Noi dunque preghiamo non solo per coloro che non vogliono, ma anche per coloro che resistono e si oppongono. Che cosa chiediamo allora se non che da nolenti diventino volenti, da dissenzienti diventino consenzienti, da nemici diventino amici? A chi lo chiediamo se non a colui del quale è scritto: Dal Signore è preparata la volontà? ( Pr 8,35 sec. LXX ) Imparino dunque ad essere cattolici coloro che se qualcosa non fanno di male e se qualcosa fanno di bene disdegnano di vantarsi nel Signore invece che in se stessi. ( 1 Cor 1,31 ) 10.27 - Testimonianze di Cipriano sulla imperfetta giustizia dell'uomo nella vita presente Vediamo subito quel terzo punto dal quale ogni membro del Cristo e tutto il corpo del Cristo non aborrisce di meno nei pelagiani, perché dicono che in questa vita ci sono o ci sono stati uomini giusti immuni assolutamente da ogni peccato. Per la qual presunzione sono in apertissima contraddizione con l'orazione domenicale, nella quale tutte le membra del Cristo gridano con cuore sincero e con voci quotidiane: Rimetti a noi i nostri debiti. ( Mt 6,12 ) Vediamo dunque che cosa anche su questo tema abbia ritenuto Cipriano, gloriosissimo nel Signore; che cosa per istruire le Chiese, non certo dei manichei, ma dei cattolici, abbia non solo detto, ma anche consegnato ai libri e alla memoria. Nella lettera Il lavoro e l'elemosina scrive: Riconosciamo pertanto, fratelli dilettissimi, il dono salutare dell'indulgenza divina e per mondarci e purificarci dai nostri peccati, poiché non possiamo vivere senza qualche ferita di coscienza, curiamo le nostre ferite con rimedi spirituali. Né alcuno confidando nella sua innocenza si illuda così della purezza e immacolatezza del suo cuore da credere di non aver ferite da medicare, poiché è scritto: "Chi può vantarsi d'avere un cuore puro? O chi può vantarsi d'essere senza peccati?", ( Pr 20,9 ) e per suo conto Giovanni in una sua lettera dichiara: "Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi". ( 1 Gv 1,8 ) Ma se nessuno può essere senza peccato e se chiunque si dice senza colpa o è superbo o è stolto, quanto è necessaria, quanto è buona la clemenza divina, la quale, sapendo che dopo la purificazione non mancano nuove ferite, ha provveduto rimedi salutari per curarci di nuovo e per risanarci dalle ferite! Ancora nella medesima lettera scrive: E poiché è impossibile che non si pecchi ogni giorno al cospetto di Dio, non mancavano sacrifici quotidiani che potessero espiare i peccati. Lo stesso dice nella lettera Sulla Epidemia: Dobbiamo combattere contro l'avarizia, l'impudicizia, l'ira, l'ambizione. Siamo in lotta assidua e molesta contro i vizi carnali, contro gli allettamenti secolari. La mente umana, assediata e serrata da ogni parte dalle vessazioni del diavolo, ce la fa appena a tener testa a tutto, ce la fa appena a resistere. Se è stata prostrata l'avarizia insorge la libidine, se è stata repressa la libidine incalza l'ambizione, se è stata disprezzata l'ambizione si inasprisce l'ira, scoppia il vento della superbia, ci invita l'ubriachezza, l'invidia rompe la concordia, la gelosia scinde l'amicizia, ti senti portato a maledire i divieti della legge divina e spinto a giurare quello che non è lecito. Tante persecuzioni soffre ogni giorno l'animo nostro, tanti pericoli ci prendono di petto: eppure ci fa piacere rimanere a lungo in questa vita tra le spade del diavolo, mentre sarebbe da bramare piuttosto e da augurarci d'incontrare presto il Cristo, soccorrendoci più velocemente la morte. Ancora nella medesima lettera scrive: Il beato apostolo Paolo in una sua epistola dice: "Per me il vivere è il Cristo e il morire un guadagno", ( Fil 1,21 ) computando come il più grande guadagno quello di non essere più trattenuto dai legami secolari, di non essere più soggetto in nessun modo ai peccati e ai vizi della carne. Similmente nell'opera L'orazione domenicale spiega la petizione: Sia santificato il tuo nome ( Mt 6,9 ) scrivendo tra l'altro: Abbiamo bisogno infatti di una santificazione quotidiana per poterci purificare assiduamente dalle colpe che commettiamo quotidianamente. Ancora nella stessa opera, spiegando la petizione: Rimetti a noi i nostri debiti, ( Mt 6,12 ) dice: Quanto necessariamente, quanto provvidenzialmente e salutarmente ci si avvisa che siamo peccatori spingendoci a supplicare per i nostri peccati, perché mentre se ne chiede a Dio l'indulgenza l'animo nostro si ricordi della sua coscienza. Ognuno, perché non piaccia a se stesso come se fosse innocente e insuperbendosi non si rovini ancora di più, con l'ingiunzione di pregare quotidianamente per i suoi peccati, è istruito ed edotto che pecca quotidianamente. Così infine ammonisce anche Giovanni in una sua epistola dicendo: "Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati". Giustamente anche nella sua lettera a Quirino ha espresso sul nostro argomento la sua sentenza più assoluta corredandola di testimonianze divine: Nessuno è senza macchia e senza peccato. E qui cita anche quei testi che confermano il peccato originale e che i pelagiani tentano di volgere a non so quali altri sensi nuovi e perversi: sia l'affermazione del santo Giobbe: Nessuno è senza macchia, neppure se la sua vita sulla terra è di un solo giorno, ( Gb 14,4-5 ) sia l'affermazione del Salmo: Nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre dentro il suo seno. ( Sal 51,7 ) Alle quali testimonianze, per coloro che sono santi in un'età ormai matura, poiché nemmeno essi sono senza macchia e senza colpa, aggiunge anche il testo del beatissimo Giovanni, che ha citato spesso in molti altri luoghi: Se diciamo che siamo senza peccato, ( 1 Gv 1,8 ) con tutte le altre parole che tutti i cattolici non tacciono contro i pelagiani, i quali ingannano se stessi e nei quali non c'è la verità. 10.28 - Commento agostiniano Dicano i pelagiani, se ne hanno il coraggio, che quest'uomo di Dio è stato travolto dall'errore dei manichei, perché loda i santi con la riserva tuttavia che nessuno in questa vita arriva a tanta perfezione di giustizia da essere assolutamente senza peccato, confermando la sua sentenza con la chiara verità e con la divina autorità di testimonianze canoniche. Nega forse infatti che "nel battesimo si rimettono tutti i peccati", perché confessa che rimane la fragilità e l'infermità, per le quali dice che pecchiamo dopo il battesimo e abbiamo incessanti conflitti con i vizi carnali fino alla fine di questa vita? O forse non ricordava più che cosa avesse detto l'Apostolo sulla Chiesa immacolata, ( Ef 5,27 ) quando ordinava che nessuno doveva illudersi della purezza e immacolatezza del suo cuore così da credere, confidando nella propria innocenza, di non aver ferite da medicare? Credo che i nuovi eretici concedano a questo personaggio cattolico di sapere che "anche nei tempi antichi lo Spirito Santo aiutava le buone disposizioni", anzi - e questo non lo vogliono costoro - che non potevano avere nemmeno buone disposizioni se non per mezzo dello Spirito Santo. Credo che Cipriano sapesse che "tutti i Profeti, gli Apostoli e i santi che piacquero a Dio in qualunque epoca, non sono stati giusti a paragone degli scellerati", come ci accusano di dire, "ma secondo la regola delle virtù", com'essi si vantano di dire; e tuttavia Cipriano afferma: Nessuno può essere senza peccato e chiunque si dice senza colpa o è superbo o è stolto. Né in altro senso interpreta le parole bibliche: Chi può vantarsi d'avere un cuore puro? O chi può vantarsi d'essere senza peccati? ( Pr 20,9 ) Credo che Cipriano non avesse bisogno d'imparare da costoro ciò che sapeva benissimo: In un tempo futuro ci sarà la ricompensa delle opere buone e il castigo delle opere cattive, e che comunque nessuno potrà osservare di là i precetti che avrà disprezzati di qua. E tuttavia, quando lo stesso apostolo Paolo, non spregiatore certamente dei comandamenti divini, dice: Per me il vivere è il Cristo e il morire un guadagno, ( Fil 1,21 ) Cipriano non lo intende se non nel senso che considerava come massimo vantaggio quello di non essere più trattenuto dopo questa vita dai lacci del mondo e di non essere più soggetto in nessun modo ai peccati e ai vizi della carne. Il beatissimo Cipriano ha dunque sentito e percepito nella verità delle Scritture divine che anche la vita degli stessi Apostoli, per quanto buona, santa e giusta, aveva sofferto gli incagli dei lacci secolari, era soggetta ai peccati e ai vizi della carne, e che la ragione per essi di desiderare la morte era d'esser privi di questi mali e d'arrivare a quella perfetta giustizia che non li dovesse più soffrire, ed essa non fosse più da adempiere per comando, ma da ricevere in premio. E infatti quando verrà ciò che preghiamo dicendo: Venga il tuo regno, ( Mt 6,10 ) non è che in quel regno di Dio non ci sarà nessuna giustizia, dal momento che l'Apostolo afferma: Il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo. ( Rm 14,17 ) Precisamente questi tre comandamenti ci vengono dati tra gli altri da Dio. Il comandamento della giustizia ci viene dato con le parole: Praticate la giustizia. ( Is 56,1 ) Il comandamento della pace con le parole: Siate in pace gli uni con gli altri. ( Mc 9,49 ) Il comandamento della gioia con le parole: Rallegratevi nel Signore sempre. ( Fil 4,4 ) Neghino dunque i pelagiani che abbiano da essere presenti queste tre virtù nel regno di Dio dove vivremo senza fine, o se a loro pare sballino così fino al punto di sostenere che la giustizia, la pace e la gioia saranno anche di là tali e quali i giusti le hanno di qua. Che se e ci saranno e non saranno tali e quali, certamente di qua ne dobbiamo curare l'azione per comando e sperarne la perfezione in premio di là dove, non trattenuti in nessun modo da lacci secolari, non soggetti più in nessun modo ai peccati e ai vizi della carne - e per questo l'Apostolo, come Cipriano ha inteso cotesto testo, dichiarava che la morte era per lui un guadagno ( Fil 1,21 ) -, potremo amare perfettamente Dio, di cui ci sarà la contemplazione faccia a faccia, ( 1 Cor 13,12 ) e amare perfettamente anche il prossimo, poiché, resi manifesti i pensieri del cuore, nessun sospetto di nessun male potrà turbare nessuno nei riguardi di nessun altro. 11.29 - Testimonianza di Ambrogio sul peccato originale Ma ormai per rintuzzare costoro con maggiore concorso di prove aggiungiamo al gloriosissimo martire Cipriano anche il beatissimo Ambrogio, poiché Pelagio ha lodato anche lui così tanto da dire che nemmeno i suoi nemici trovano qualcosa da riprendere nei suoi libri. Atteso dunque che i pelagiani negano l'esistenza del peccato originale con il quale nascano i bambini e tacciano del crimine di eresia manichea i cattolici che si oppongono ad essi in difesa dell'antichissima e saldissima fede della Chiesa, risponda a costoro su questo argomento Ambrogio, cattolico uomo di Dio, elogiato dallo stesso Pelagio nella verità della fede, il quale nel Commento al profeta Isaia dice: Per questo il Cristo è immacolato: perché non è stato macchiato nemmeno dal modo solito di nascere. E in un altro passo della medesima opera parlando dell'apostolo Pietro dice: Egli si offrì spontaneamente a ciò che prima reputava peccato, chiedendo che non soltanto i piedi gli fossero lavati, ma anche il capo, ( Gv 13,9 ) perché comprese immediatamente che con il lavaggio dei piedi caduti nel primo uomo si distrugge la macchia della discendenza viziata. Dice ancora nella medesima opera: Resta dunque che dall'uomo e dalla donna, cioè dall'unione dei loro corpi, nessuno risulti immune dal peccato: chi poi è immune dal peccato è pure immune da tale concepimento. Ugualmente dice scrivendo contro i novaziani: Nasciamo tutti sotto il peccato noi uomini dei quali è viziata l'origine stessa, come hai letto, dicendo Davide: "Nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre". Altrettanto scrive nell'Apologia del profeta Davide: Prima di nascere siamo macchiati dal contagio e prima del dono della luce riceviamo il danno dell'origine, essendo generati nella colpa. Parlando del Signore dice ancora: Era conveniente che, non dovendo avere il peccato della carne decaduta, non sentisse nessuna contaminazione naturale della generazione. A buon diritto dunque Davide ha deplorato lamentosamente in sé gli stessi inquinamenti di natura e nell'uomo la precedenza della macchia sulla vita. Nell'opera L'arca di Noè scrive similmente: Si dichiara dunque che la salvezza sarebbe venuta alle nazioni solamente dal Signore Gesù, l'unico che, mentre ogni generazione era sviata, ha potuto essere giusto, non per altro se non perché, nato dalla Vergine, non era minimamente tenuto dalla legge della generazione macchiata. "Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre", ( Sal 51,7 ) dice uno che era reputato più giusto degli altri. Chi dunque potrò chiamare giusto all'infuori di colui che è libero da questi vincoli, all'infuori di colui che non è tenuto dai vincoli della natura comune? Ecco, un personaggio santo, attendibilissimo nella fede cattolica per riconoscimento anche di Pelagio, condanna con tanta manifestazione di chiarezza i pelagiani che negano il peccato originale, né tuttavia o nega con i manichei che Dio è il creatore degli uomini che nascono o accusa le nozze che Dio ha istituite e benedette. 11.30 - Testimonianza di Ambrogio sulla grazia I pelagiani dicono che il merito comincia dall'uomo per mezzo del libero arbitrio, al quale Dio rende l'aiuto susseguente della grazia. Li confuti anche su questo punto il venerando Ambrogio, il quale nel Commento al profeta Isaia dice: Poiché la cura umana senza l'aiuto divino è inefficace a guarirci da sola, essa ricerca il soccorso di Dio. Lo stesso scrive nel libro La fuga del secolo: Discorriamo spesso sul dovere di sfuggire questo secolo e magari ne fosse tanto attenta e pronta la determinazione quanto ne è facile il discorso! Ma il peggio è che ci invade spesso il gusto delle brame terrene e un rigurgito di vanità occupa la tua mente portandoti a volgere e a rivolgere nel tuo animo proprio quello che ti studi d'evitare. Difendersene è difficile per l'uomo, liberarsene del tutto è impossibile. Che sia un voto più che un fatto l'attesta il Profeta dicendo: "Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti e non verso la sete del guadagno". ( Sal 119,36 ) Perché non sono in nostro potere il nostro cuore e i nostri pensieri, che sollevandosi all'improvviso offuscano la mente e l'animo e ti traggono dove non volevi; ti richiamano ad interessi secolari, introducono dentro di te miraggi mondani, ti istigano ai piaceri, costruiscono allettamenti e nel momento stesso che ci prepariamo ad elevare la mente il più delle volte ruzzoliamo per terra sotto la spinta di vani pensieri infiltratisi in noi. Chi poi è tanto beato da ascendere sempre con il suo cuore? Ma questo come potrebbe avvenire senza l'aiuto di Dio? In nessun modo certamente. La medesima Scrittura dice più avanti: "Beato chi trova in te la sua forza, o Signore, per le ascensioni del suo cuore". Che cosa si potrebbe dire di più aperto ed efficace? Ma perché i pelagiani non replichino per caso che la stessa invocazione dell'aiuto di Dio dà la precedenza al merito dell'uomo, riponendo il merito stesso nella preghiera che fa degno l'uomo d'essere soccorso dalla grazia divina, avvertano quello che il medesimo santo personaggio dice nel Commento al profeta Isaia: Anche pregare Dio è grazia spirituale. Infatti nessuno può dire: "Gesù è Signore se non sotto l'azione dello Spirito Santo". Perciò anche nell'Esposizione del Vangelo secondo Luca dice: Vedi bene che con le premure dell'uomo coopera dovunque la potenza del Signore, cosicché nessuno può edificare senza il Signore, nessuno custodire senza il Signore, nessuno iniziare nulla senza il Signore. Forse, poiché un uomo così grande come Ambrogio fa queste affermazioni ed esalta con grata pietà la grazia di Dio, come si conviene ad un figlio della promessa, distrugge per questo il libero arbitrio? O intende per grazia quella che i pelagiani in modi diversi non vogliono far apparire se non come legge, perché si creda cioè che Dio non ci aiuta a fare quello che conosciamo di dover fare, ma ci aiuta solo a conoscere quello che dobbiamo fare? Se stimano che questo sia il parere dell'uomo di Dio, sentano che cosa ha detto sulla stessa legge. Scrive nel libro La fuga del secolo: La legge ha potuto tappare ogni bocca, non ha potuto convertire la mente. Lo stesso dice in un altro passo del medesimo libro: La legge condanna il fatto, non toglie la malizia. Osservino com'egli da uomo fedele e cattolico sia d'accordo con l'Apostolo, il quale dice: Ora, noi sappiamo che tutto ciò che dice la legge lo dice per quelli che sono sotto la legge, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui. ( Rm 3,19-20 ) È appunto da questa sentenza apostolica che Ambrogio ha preso e scritto quelle sue dichiarazioni. 11.31 - Testimonianza di Ambrogio sulla giustizia nella vita presente Ma poiché i pelagiani dicono che in questa vita ci sono o ci sono stati dei giusti viventi senza nessun peccato, tanto che la vita futura da sperarsi in premio non potrà essere più progredita e più perfetta, Ambrogio risponda a costoro e li confuti anche su questo. Egli nel Commento al profeta Isaia a proposito delle parole: Ho sollevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me, ( Is 1,2 ) prende a trattare delle generazioni che vengono da Dio e nella stessa trattazione ricorda il passo dove Giovanni dice: Chiunque è nato da Dio, non commette peccato. ( 1 Gv 3,9 ) Ed esaminando la medesima difficilissima questione scrive: In questo mondo non c'è nessuno che sia immune dal peccato, dicendo lo stesso Giovanni: "Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo". ( 1 Gv 1,10 ) Ora, se coloro che sono nati da Dio non peccano più, e lo intendiamo di coloro che vivono in questo mondo, bisogna che ci riferiamo agli innumerevoli uomini che hanno conseguito la grazia di Dio con la rigenerazione battesimale. Ma tuttavia, poiché il Profeta dice: "Tutti da te aspettano che tu dia loro il cibo in tempo opportuno. Tu lo provvedi, essi lo raccolgono, tu apri la mano, si saziano di beni. Se nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra", ( Sal 104,27-30 ) può sembrare che queste parole non siano state dette per qualsiasi tempo, bensì per il tempo avvenire, quando ci sarà una nuova terra e un nuovo cielo. "Vengono meno" dunque "per ricominciare, e se tu apri la mano si saziano di beni": ciò che non è facilmente di questo secolo. Che cosa dice infatti la Scrittura di questo secolo? "Nessuno più agisce bene, dice, nemmeno uno". ( Sal 14,1 ) Se dunque ci sono diverse generazioni, se l'entrata ora in questa vita eredita peccati fino a disprezzare colui stesso che ha generato, se l'altra generazione invece non ammette peccati, vediamo se dopo il corso di questa vita non ci sia una qualche nostra rigenerazione, quella di cui è detto: "nella rigenerazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria". ( Mt 19,28 ) Come infatti si chiama rigenerazione quella del battesimo, la quale ci rinnova dopo aver deterso la melma dei peccati, così sembra che sia chiamata rigenerazione quella in cui, purificati da ogni macchia della materialità corporale, siamo rigenerati alla vita eterna con la purezza dei sentimenti dell'anima, perché è una rigenerazione di qualità più pura del battesimo, cosicché non solo nelle sue azioni, ma nemmeno nei nostri pensieri cada nessun'ombra di peccato. Ugualmente in un altro luogo della medesima opera scrive: Noi vediamo che è impossibile essere perfettamente immacolati nella vita corporale, dal momento che anche Paolo si dichiara imperfetto. Ha infatti queste parole: "Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione". ( Fil 3,12 ) E tuttavia poco dopo dice: "Quanti dunque siamo perfetti". ( Fil 3,15 ) La spiegazione non è forse se non questa: altra è la perfezione in questo mondo e altra dopo che sarà arrivato ciò che è perfetto e di cui Paolo scrive ai Corinzi: "Quando verrà ciò che è perfetto", e agli Efesini: "Finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità del Cristo". ( Ef 4,13 ) Come dunque l'Apostolo dice perfetti molti che con lui vivevano in questo mondo e non potevano essere perfetti se guardi alla perfezione vera, scrivendo egli stesso: "Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto", ( 1 Cor 13,12 ) altrettanto ci sono immacolati in questo mondo e ci saranno immacolati nel regno di Dio, mentre evidentemente, se discuti sulle minuzie, nessuno può essere immacolato adesso, perché nessuno è senza peccato. Ancora nella stessa opera: Vedi che durante tutta la vita presente dobbiamo mondarci e cercare Dio e cominciare dalla purificazione della nostra anima e quasi gettare le fondamenta della virtù per poter conseguire dopo questa vita la perfezione della purezza. Ancora nella stessa opera: Ma chi, oppresso e costretto al pianto, non parlerebbe con le parole di Paolo: "Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?". ( Rm 7,24 ) Così alla scuola di questo medesimo maestro abbiamo esaurito tutte le varietà d'interpretazione. Se infatti è infelice chi si riconosce implicato nelle molestie corporali, ogni corpo è certamente infelice, perché non direi felice chi, confuso da certe tenebre della sua mente, ignora la propria condizione. C'è anche un'altra considerazione da non ritenere assurda: se infatti è infelice l'uomo che conosce se stesso, sono infelici senza dubbio tutti gli uomini; sia chi con la sua sapienza riconosce la propria debolezza, sia chi per sua insipienza non la conosce. Altrettanto dice nel libro Il bene della morte: Operi dunque in noi la morte, perché operi anche la vita, la buona vita dopo la morte, cioè la buona vita dopo la vittoria, la buona vita al termine della battaglia, quando la legge della carne non potrà più contrastare la legge dello spirito, ( Rm 7,23 ) quando non avremo più da combattere con questo corpo di morte. Ancora nello stesso libro: Poiché i giusti avranno in premio di vedere il volto di Dio e la luce che illumina ogni uomo, ( Gv 1,9 ) rivestiamoci fin d'ora della sollecitudine che la nostra anima si avvicini a Dio, si avvicini a lui la nostra preghiera, aderisca a Dio il nostro desiderio e non siamo separati da lui. E finché rimaniamo qui, uniamoci a Dio meditando, leggendo, cercando; conosciamolo quanto possiamo. Qui infatti lo conosciamo in parte, perché qui tutto è imperfetto e là tutto è perfetto, qui siamo bambini e là uomini robusti. "Ora - dice - vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia". ( 1 Cor 13,12 ) Allora sarà consentito di contemplare la gloria del Signore svelatamente, mentre adesso le anime, avviluppate dalle membra materiali di questo corpo e offuscate da certe macchie e passioni di questa carne, non possono vedere nitidamente. Si legge infatti: Chi potrà vedere il mio volto e restare vivo?" ( Es 33,20 ) E lo si capisce: se infatti i nostri occhi non possono sostenere i raggi del sole e si dice che a fissare troppo a lungo la zona solare spesso ci si acceca; se una creatura non può contemplare un'altra creatura senza qualche rischio e danno di sé, in che modo può senza pericolo vedere il volto dardeggiante dell'eterno Creatore chi è coperto dalle spoglie di questo corpo? Chi è giusto infatti davanti a Dio, ( Sal 143,2 ) se non può essere mondo dal peccato nemmeno un bambino di un giorno ( Gb 14,4-5 ) e se nessuno può vantarsi dell'integrità e della purezza dei proprio cuore? 12.32 - Cipriano e Ambrogio autentici testimoni della fede cristiana Sarò troppo lungo se voglio ricordare tutto quello che contro questa eresia dei pelagiani, che sarebbe sorta tanto tempo dopo, ha detto e scritto sant'Ambrogio, non certo per rispondere ad essi, ma per predicare la fede cattolica e per edificare in essa la gente. Ma nemmeno potevo o dovevo ricordare tutte le testimonianze che Cipriano, gloriosissimo nel Signore, pose nelle sue lettere e che valgono a dimostrare che questa fede posseduta da noi è la fede vera e veramente cristiana e cattolica, come tramandata dall'antichità per mezzo delle sante Scritture così nello stesso modo ritenuta e conservata dai nostri padri e da noi fino a questo tempo in cui i pelagiani hanno tentato di svellerla, e da ritenere e conservare in avvenire per la misericordia di Dio. Infatti che a Cipriano e da Cipriano la fede sia stata trasmessa così lo attestano queste ed altre simili testimonianze che ho riferite dalle sue lettere. Che così la fede sia stata conservata fino ai nostri giorni lo mostrano le riflessioni che su questi argomenti scrisse Ambrogio prima che cominciassero a bollire i pelagiani, e lo mostra l'orrore con il quale dappertutto le orecchie cattoliche hanno accolto le novità profane di costoro. ( 1 Tm 6,20 ) Che per l'avvenire si debba conservare la medesima fede l'ha fatto capire abbastanza salutarmente in parte la condanna dei pelagiani e in parte la loro ritrattazione. Qualunque accusa infatti osino costoro borbottare contro la sana fede di Cipriano e d'Ambrogio, non penso che romperanno verso tanta follia da chiamare manichei questi due uomini di Dio, indimenticati e indimenticabili. 12.33 - Essi non furono né manichei né pelagiani Cos'è dunque quello che con rabbiosa cecità mentale vanno ora gridando: "In quasi tutto l'Occidente è stato accettato un dogma non meno stupido che empio", se la verità è che, avendo misericordia il Signore e governando con misericordia la sua Chiesa, la fede cattolica ha saputo vigilare così da non far accogliere il dogma non meno stupido che empio come dei manichei così pure dei pelagiani? Ecco, personaggi dotti e santi, cattolici, come l'attesta la fama di tutta la Chiesa, lodano nei modi debiti e convenienti e la creatura di Dio e le nozze da lui istituite e la legge da lui data per mezzo del santo Mosè e il libero arbitrio insito nella natura dell'uomo e i santi Patriarchi e i Profeti: realtà tutte e cinque che i manichei condannano, in parte negandole e in parte anche detestandole. Da ciò apparisce che questi maestri cattolici sono lontani dalle sentenze dei manichei, e tuttavia asseriscono il peccato originale, asseriscono che la grazia di Dio al di sopra del libero arbitrio precede ogni merito per prestare un aiuto divino veramente gratuito, asseriscono che i santi sono vissuti in questa carne con tanta giustizia ma hanno avuto bisogno dell'aiuto della preghiera per la remissione dei peccati quotidiani, e asseriscono che una giustizia perfetta incapace d'avere il peccato l'avranno in premio nell'altra vita coloro che saranno vissuti nella giustizia in questa vita. 12.34 - I pelagiani chiedono invano la convocazione di un sinodo Che cos'è dunque quello che dicono: È stata estorta una sottoscrizione a vescovi ignari, nei luoghi della loro residenza, senza riunirli in concilio? Forse prima dei pelagiani fu estorta una sottoscrizione contro i pelagiani a uomini beatissimi ed eccellentissimi nella fede cattolica come Cipriano e Ambrogio, i quali sbaragliano gli empi dogmi dei pelagiani con tanta manifestazione di chiarezza che noi a mala pena possiamo trovare che cosa dire di più manifesto contro di loro? Oppure c'era bisogno che si riunisse un concilio per condannare un aperto flagello? Come se nessuna eresia sia mai stata condannata fuori dalle riunioni di un concilio, mentre al contrario sono rarissime quelle per la cui condanna sia sorta tale necessità, e molto e incomparabilmente più numerose le eresie che si meritarono la riprovazione e la condanna sul luogo stesso in cui nacquero e che poi di lì poterono esser conosciute in tutte le altre terre come errori da evitare. Ma si capisce come la superbia dei pelagiani, che tanto s'inalbera contro Dio da non volersi vantare in lui, bensì piuttosto nel libero arbitrio, ambisca di catturare anche questa gloria: che l'Oriente e l'Occidente si riuniscano per loro in un concilio! Appunto perché, resistendo a loro il Signore, non riescono a trascinare nell'errore l'orbe cattolico, si sforzano di smuoverlo almeno. Mentre piuttosto la vigilanza e la diligenza pastorale, dopo il giudizio competente e sufficiente già pronunziato su di loro, deve sterminare questi lupi, dovunque siano comparsi, sia perché guariscano e si convertano, sia perché gli altri, ancora sani ed integri, li possano evitare con l'aiuto del Pastore dei pastori. Egli anche nei bambini cerca la pecora smarrita, fa gratuitamente pecore sante e giuste e alle sue pecore, benché santificate e giustificate, tuttavia previdentemente insegna a chiedere e benevolmente concede in questa fragilità e debolezza la quotidiana remissione dei quotidiani peccati, senza i quali non si vive qui, nemmeno quando si vive bene.