2 Ottobre 1968

« Lo spirito di povertà segno e gloria di Cristo »

La prima beatitudine

Diletti Figli e Figlie!

Se vogliamo continuare nella ricerca delle espressioni peculiari che il Concilio ha messo in circolazione, e che per noi, fedeli ai suoi insegnamenti, formano motivo di considerazione e di impegno, ne troviamo una molto semplice nel concetto, ma difficile nell'applicazione, ed è questa: la Chiesa dei Poveri.

È una bella espressione.

Ci riporta l'eco del Vangelo; Gesù attribuisce a Sé il vaticinio di Isaia: « Lo Spirito del Signore … mi ha inviato ad evangelizzare i Poveri » ( Is 61,1; Lc 4,18 ); e la sua prima beatitudine, come tutti ricordiamo, suona così: « Beati i Poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli » ( Mt 5,3 ).

E poi, chi non ricorda la povertà di Gesù e la sua amabilità per l'umile gente, e le raccomandazioni fatte ai suoi apostoli affinché fossero staccati dalle cose terrene e senza pretese di essere forniti d'ingombranti beni temporali?

L'esempio del Signore è riassunto in una sentenza lapidaria di San Paolo: Gesù Cristo « si è fatto misero per noi essendo lui ricco, affinché per la sua povertà voi diventaste ricchi » ( 2 Cor 8,9 ).

Si delinea da tutto il messaggio della salvezza una esortazione alla povertà, che ci mostra un'intenzione divina penetrante in tutto il sistema dei rapporti soprannaturali instaurati dalla rivelazione fra Dio e l'uomo: il disegno salvifico di Dio si rivolge agli uomini staccati dai beni della terra; la povertà di spirito entra come una componente costituzionale nel piano della religione cristiana.

Apposta si è parlato d'una teologia della povertà, la quale non ha mancato di far sentire la sua voce in pieno Concilio, specialmente mediante un ampio ed esplicito intervento del Cardinale Lercaro ( Congr. Gen. 35, 6 dicembre 1962 ), da lui ripreso in altri termini nella terza Sessione ( Congr. Gen. 114, 4 novembre 1964 ), e seguito da altre voci e da particolari proposte ( cfr. il progetto alla fine del Concilio dell'Arcivescovo di Vitória ).

Un'apologia orientatrice

I documenti del Concilio, pur senza dedicare al tema una trattazione speciale, hanno raccolto qualche eco di queste voci e molto ne hanno riportato dello spirito; basti una citazione: « Lo spirito di Povertà … è la gloria e il segno della Chiesa di Cristo » ( Gaudium et spes, n. 88; e Lumen gentium, n. 8 ); e basti ricordare la diffusa esortazione al Clero nel Decreto sulla vita sacerdotale ( Presbyterorum ordinis, n. 17 ).

L'idea della povertà della Chiesa diventa feconda.

Molti ne parlano, libri interi la illustrano, talvolta con qualche intenzione polemica che ne dimostra le difficoltà e la necessità.

Comincia una letteratura canonica al riguardo, specialmente nelle norme rinnovate dei Sinodi episcopali e dei Capitoli religiosi.

Recentemente l'Assemblea dei Vescovi dell'America Latina a Medellin dedica a questo tema uno dei suoi documenti finali, concludendo con l'apologia della povertà, dando orientazioni pastorali che fanno di essa una prova di solidarietà con le categorie sociali più umili, una testimonianza esemplare dello stile proprio della vita ecclesiastica ed infine attestato dello spirito di servizio che deve caratterizzare l'attività della Chiesa.

Il lavoro corrisponde ai precetti di Dio

Palpita in questa coraggiosa revisione, che la Chiesa fa di se stessa, il rinnovamento spirituale e pratico, auspicato dal Concilio, e che tutti, secondo le proprie condizioni, devono per se stessi ed intorno a sé favorire.

Si presenterà a questo punto una grande e complessa difficoltà, oggi più che mai ricorrente, quella dell'atteggiamento da tenere nei confronti con i problemi economici; difficoltà, che diventa più grave dal fatto che proprio il Concilio, ripetendo una nota ottimistica, che si distingue nel concerto dei suoi insegnamenti, ci insegna « ad avere stima per i valori umani e ad apprezzare i beni creati come doni di Dio » ( Presbyterorum ordinis, n. 17 );

c'insegna a far progredire i beni creati mediante il lavoro umano, mediante la tecnica e la cultura civile ( cfr. Lumen gentium, n. 3 );

c'insegna che il lavoro, e in genere tutta « l'attività individuale e collettiva, ossia, quell'ingente sforzo con cui gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio » ( Gaudium et spes, n. 34 );

così che « i cristiani, i quali hanno parte attiva nello sviluppo economico-sociale contemporaneo … sappiano di contribuire molto alla prosperità del genere umano e alla pace del mondo » ( Gaudium et spes, n. 72 ); tanto che Noi stessi abbiamo patrocinato lo sviluppo dei Popoli come indispensabile coefficiente della pace ( cf. Enc. Populorum progressio ).

La necessità dei beni economici è imposta dalla natura umana stessa, bisognosa di pane ( cfr. Mt 6,11; Lc 11,3; Mt 6,32 ); e dal dovere di trafficare i talenti ( Mt 25,15 ); di procurare ad altri i mezzi per vivere e prosperare ( cfr. Mt 20,6 ).

Vi è chi lamenta « l'abitudine di mettere sotto accusa la tecnica, produttrice di ricchezza, come strumento di repressione della libertà umana, mentre si sollecitano i benefici della sua produttività » ( L. de Rosen ).

Tutta la vita moderna, dominata da finalità temporali, e specialmente da quelle economiche, rivolte alla produzione, alla distribuzione, al godimento dei beni terreni, sembra incentrarsi sulla ricchezza, sulla sociologia pro o contro il capitalismo, cioè sopra una concezione contraria alla povertà, alla quale oggi la nostra vocazione cristiana più fortemente ci sollecita.

Come si risponde a questa fondamentale difficoltà?

La condizione del cristiano

Figli carissimi!

Avvertire la difficoltà, cioè la condizione problematica del cristiano a causa del Vangelo della povertà è già una iniziale risposta, è già scoprire la situazione drammatica in cui l'uomo si trova precisamente per la vocazione, che gli è presentata da Cristo, ad una vita superiore e diversa da quella puramente naturale, limitata e vincolata alle leggi e alle necessità dell'ordine materiale e terreno.

Piaccia, o non piaccia, la povertà di Cristo, essa è essenzialmente una liberazione, un invito ad una vita nuova e superiore, dove i beni dello spirito, non quelli terrestri, hanno il primato, che per alcuni - i seguaci perfetti ( cfr. Mc 10,21 ) - diventa esclusivo, per altri gerarchico ( cfr. Mt 6,33: quaerite primum ); è la condizione migliore per entrare nel regno di Dio ( cfr. Mt 5,3 ); è l'iniziazione non all'ozio, non alla miseria, non all'incomprensione del mondo che suda e lavora, che edifica e progredisce, ma all'amore.

Per amare bisogna dare; per dare bisogna essere affrancati dall'egoismo, bisogna avere il coraggio della povertà.

Rinuncia e geneosa dedizione

Il possesso e la ricerca della ricchezza, come fine a se stessa, come unica garanzia di benessere presente e di pienezza umana, è la paralisi dell'amore.

I drammi della sociologia contemporanea lo dimostrano; e con quali prove tragiche ed oscure!

E dimostrano che l'educazione cristiana alla povertà sa distinguere innanzi tutto l'uso dal possesso delle cose materiali, e sa distinguere poi la libera e meritoria rinuncia ai beni temporali, in quanto impedimento allo spirito umano nella ricerca e nel conseguimento del suo ottimo fine supremo, ch'è Dio, e del suo ottimo fine prossimo, ch'è il fratello da amare e da servire, dalla carenza di quei beni temporali che sono indispensabili alla vita presente, cioè dalla miseria, dalla fame, a cui è dovere, è carità provvedere; come oggi saprà distinguersi dalla diffidenza verso il lavoro organizzato e produttivo, la quale non riconosce « il valore liberatore dello sviluppo economico », e quindi il valore morale dello sforzo orientato ad una produzione d'utilità umana e comune.

Il tema, come vedete, si fa ampio e complesso.

Noi ci fermeremo qui; all'elogio della povertà, che purifica la Chiesa da superflui e punto esemplari interessi temporali; che le insegna a rifuggire dal mettere il cuore e la fiducia nei beni di questo mondo ( cfr. Lc 12,20 ); che ritrae il cristiano da ogni ruberia e disonestà amministrativa, da ogni illegale e spesso ossessivo affarismo; che sensibilizza gli animi ai bisogni e alle ingiustizie che opprimono tanta umile gente; che abitua tutti a fraternizzare con persone di livello sociale inferiore ( cfr. Gc 2,1.16 ); che sgombra il cuore da tanti affanni d'interessi secondari e gli restituisce la pace e la gioia della preghiera e della poesia ( cfr. il cantico di San Francesco ).

È una grande, severa lezione quella che il Concilio ci dà sulla povertà: non sia recitata indarno per noi.

E con questo comune voto, tutti di cuore vi benediciamo.