21 Agosto 1974

Il vero significato del superlativo titolo cristiano

Noi stiamo ancora cercando i segni della vita religiosa autentica dentro, all'interno, fuori del grande ed unico ovile di Cristo, che chiamiamo la Chiesa ( Lumen Gentium, 6 ), non certo per curiosità statistica, ma per affezione pastorale ed ecumenica circa la possibilità di attribuire a chi lo merita, a chi lo rivendica, a chi lo realizza il titolo, sempre superlativo, sempre misterioso, di « cristiano ».

Ricordiamo sempre con intima commozione le parole degli Atti degli Apostoli, al capo undecimo, là dove è narrato che Barnaba, mandato dalla chiesa di Gerusalemme ad Antiochia, vista la crescente moltitudine degli aderenti alla predicazione circa Gesù Signore, se ne andò a Tarso, dove Paolo, dopo la sua conversione si era ritirato ( era la sua patria ), e lo convinse a recarsi con lui ad Antiochia; e qui, per un anno intero, insieme istruirono quella comunità, in cui Giudei di varia origine, di Cipro e di Cirene, insieme con Greci, cioè pagani formavano una Chiesa locale di stirpe diversa, ma con fede omogenea, tanto che, scrive S. Luca autore degli Atti, là « in Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati Cristiani ».

Era probabilmente l'anno 43.

Cristiano, nome per noi comunissimo; nome disprezzato, compromettente, pericoloso ai primi tempi della Chiesa; ma nome per sempre acquisito ai fedeli, ai seguaci, ai « santi » della nuova religione ( Cfr. 1 Pt 4,16; cfr. Erik Peterson, Christianus, in « Miscell. G. Mercati », 1, 355 ss. ).

Noi ora saltiamo i secoli, e ci fermiamo al nostro tempo, per chiederci: che cosa significa oggi, per la mentalità del nostro mondo, questa gloriosa e combattuta qualifica di « cristiano »?

Chi è cristiano?

Lungi da noi la pretesa di fare una dissertazione adeguata su tale questione, in questa sede specialmente, dove la parola si fa estremamente semplice e sommaria.

Noi tuttavia non crediamo inutile soffermarci a due elementari osservazioni.

La prima è la facilità con cui questo benedetto titolo di « cristiano » è applicato nel linguaggio corrente: chi non vuol essere cristiano, quando questo titolo si può dire sinonimo di umano?

di umano nel senso buono, naturale e profondo della parola.

Cristiano è detto un uomo, un fatto, un sistema filosofico, che si riferisca a certi principii originali del Vangelo e del costume da esso ispirato, generato, imbevuto.

Cristiano si riferisce a certi valori che dànno alla vita una pienezza, una, dignità, una inviolabilità, degna di essere considerata sacra.

Cristiano è titolo così pieno di esigenze da costituire la fonte dell'evoluzione progressiva dei più ampli e incontestabili diritti; ed è insieme così grave e così interiore da giustificare l'impegno ai doveri maggiori della vita.

Cristiano è nome così personale da distinguere un essere per sé semplicemente umano assurto al livello di figlio di Dio.

Cristiano infatti è formula così misteriosa da includere un rapporto vitale con l'Essere primo, creatore e signore, presente sempre e ineffabile, tanto più misterioso quanto meglio reso a noi, in qualche misura, accessibile, così da poterlo chiamare, con termine dilatato all'infinito, - beati noi! -: Padre!

Padre nostro!; dove il mistero dell'Essere Infinito, Vivente su tutti e per tutti, si apre in mistero d'Amore per ciascuno di noi, per noi tutti insieme, senza confine.

« Cristiano » è definizione morale e religiosa per eccellenza.

Non finiremmo più se dovessimo esplorare le profondità teologiche di questo appellativo.

Ora ci basta osservare la sua irradiazione nella nostra cultura, nella nostra esperienza, per concludere con un tributo di riverenza e di simpatia verso ogni espressione, anche incompleta, ed anche inavvertita, che circonda questa, sia pur nominale, presenza di Cristo fra noi.

Tuttavia una seconda osservazione ci è suggerita proprio dalla densità di significato del nome cristiano.

Esso esige che gli sia riconosciuta, almeno potenzialmente, questa pienezza, questa fecondità, questa dignità di contenuto umano e religioso.

Applicabile a tutto ciò che riguarda i nostri destini presenti e trascendenti, esso non può essere volgarmente strumentalizzato.

Non può figurare come un'opinione, un'ideologia, un'ipotesi; la sua equazione è la vita, e quale vita!

Non può lasciare indifferente, o incoerente chi lo porta; esso è destinato a imprimere un sigillo, uno stile, una forma all'esistenza umana, e una qualche stupenda caratteristica anche alle cose e alle attività, insignite di tanto nome.

Certo, esso esige la fede, questo supplemento di conoscenza che ci viene dalla rivelazione; ma poi il nome cristiano, in virtù d'una sua stimolante coerenza, e d'un flusso d'energia divina, la grazia, che reca con sé, il nome cristiano educa alla fede, ne fa pregustare la trasparenza e la sapienza.

Vi sono fenomeni nella prassi e nella cultura moderna che rifuggono dall'accettare questo realismo, e preferiscono concedere ai loro clienti maniere di pensare e di vivere senza impegni di questo genere, senza problemi speculativi operativi; anzi li lasciano nella persuasione che si vive meglio limitando lo sforzo vitale alla pratica concreta dell'esperienza empirica.

Sapete che cosa è il pragmatismo?

È il sistema filosofico circa l'arte del riuscire.

È una concezione della vita, che ha avuto i suoi pensatori rinomati ( Cfr. C. S. Peirce, How to make ), anche nel campo religioso ( Cfr. W. James, The varieties of religious experience, con il suo principio: will to believe ), e che in Italia ha avuto un suo grande esponente, e poi suo critico vincitore in Giovanni Papini, come tutti ricordano ( … attendiamo sempre G. Prezzolini! ).

È un sistema, in fondo, che prescinde dalla verità oggettiva, razionalmente conquistata, e pone nella volontà e nell'esperienza il punto focale della psicologia umana.

A noi cristiani, ciò non può bastare.

Dovremo anche noi essere volontaristi e mettere la carità al primo posto ( non dice forse Gesù: non chi dirà … ma chi farà … ? ). ( Mt 7,21; 1 Cor 13,13 ) ma ciò dev'essere alla scuola della Parola di Dio, del Verbo, che a noi s'è comunicato, e dello Spirito di verità, che ci deve insegnare ogni cosa per la nostra salvezza ( Cfr. Gv 14,26; Gv 16,13 ).

Il cristiano non può prescindere dall'esercizio dell'intelligenza e del pensiero, e dal mettere la sua mente, la sua anima a disposizione della dottrina di Dio ( Gv 6,45 ).

Dicendo queste cose la nostra mente, il nostro cuore si rivolgono con amicizia pastorale alle folle dei giovani, che oggi si orientano verso una singolare aspirazione al nome cristiano, come questo sia felice traguardo d'una sofferta, delusa stanchezza, e come questo solo abbia virtù rigeneratrice di ideali e di forze, che la vita moderna, nella pompa e nell'autosufficienza della sua ostentata opulenza, non ha saputo né conservare, né infondere.

A questa gioventù, guidata da un misterioso istinto spirituale di salvezza e interiormente confortata da una qualche rinascente e dolcemente modulata preghiera, noi auguriamo di giungere alla meta: Cristiano, sii cristiano!

A voi tutti pure l'augurio, con la nostra Apostolica Benedizione.