Evangelizzare nel terzo millennio

G. Tanzella-Nitti - Ateneo Romano della Santa Croce - Facoltà di Teologia

Con stile schietto, e come di consueto provocante, André Frossard osservava in un’occasione che il vero problema del rapporto fra Vangelo e cultura non sta nel fatto che il messaggio evangelico debba rincorrere la rapida evoluzione della società e della cultura, ma nella constatazione che queste ultime, in realtà, il Vangelo non lo hanno ancora raggiunto: in qualche modo, il contenuto e l’esigenza di quel messaggio continua sempre a precederle.1

Pur restando valida nella sua sostanza, questa constatazione, peraltro non dissimile da varie affermazioni rintracciabili nel Concilio Vaticano II,2 va compaginata con la crescente attenzione che il Magistero della Chiesa ha dedicato al tema dell’aggiornamento dei rapporti fra fede, mondo e cultura, proprio a partire da quel Concilio.

Uno dei fini principali del Vaticano II, come è noto, fu quello di cercare nuove vie di dialogo e di annuncio della fede nelle mutate condizioni culturali e sociali dell’epoca contemporanea.

Gli elementi più significativi di quell’insegnamento, raccolti essenzialmente nella costituzione Gaudium et Spes e nel decreto Ad Gentes, furono riproposti ed approfonditi, prima da Paolo VI e poi da Giovanni Paolo II, in importanti interventi magisteriali: l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi e l’enciclica Redemptoris Missio, pubblicate rispettivamente nel 10° e 25° anniversario dalla promulgazione dei citati documenti conciliari.

Alla vigilia del loro trentesimo anniversario, la lettera apostolica di Giovanni Paolo II Tertio millennio adveniente 3 ripropone il tema della missione apostolica della Chiesa sullo sfondo epocale del prossimo cambio di millennio.

La finalità del documento è principalmente quella di fornire gli orientamenti pastorali che guideranno la Chiesa verso la preparazione del Giubileo del 2000, sviluppandone le linee attorno ad un rilancio della trilogia sacramentale Battesimo-Confermazione-Riconciliazione come riscoperta di una progressiva ascesa che dalla conoscenza del mistero del Figlio conduce nello Spirito a sperimentare una autentica filiazione verso il Padre.

Nella sua parte iniziale, la lettera Tertio millennio adveniente si occupa tuttavia di inquadrare il mistero pasquale del Cristo crocifisso e risorto come centro dei tempi e della storia.

Questa Parola, nella quale Dio ci ha già detto tutto perché in Essa ha detto Se stesso4, è divenuta storia ed stata consegnata alla storia.

Ma ciò non obbliga il Vangelo a rincorrere lo scorrere dei tempi, quanto piuttosto pone ogni epoca ed ogni uomo nelle condizioni di aprirsi a questa pienezza di senso e di riconoscerne in modo significativo l’appello.

Proprio perché il Cristo è il compimento non solo qualitativo, ma anche cronologico della storia, « Egli avvolge nel suo dominio salvifico tutto il passato del genere umano ed a Lui appartiene anche il futuro »5; pertanto, nell’eterno presente dell’economia salvifica già instaurata nella sua Chiesa, ogni uomo potrà sempre guardare al Cristo come ad un suo contemporaneo,

Egli che « è lo stesso ieri, oggi e sempre ( Eb 13,8 ) ».

Ma qual è il panorama che i cristiani hanno dinanzi quando si apprestano ad annunciare il mistero del Cristo ad una umanità che vedrà fra breve cambiare di ben quattro cifre la data dei suoi orologi?

I tratti di un tale panorama sono certamente quelli di una nuova evangelizzazione.

Sebbene si ripeta nel mondo la situazione in cui parlò san Paolo all’Areopago di Atene, osserva il Pontefice, « oggi sono molti gli “areopaghi”, e assai diversi: sono i vasti campi della civiltà contemporanea e della cultura, della politica e dell’economia.

Più l’Occidente si stacca dalle sue radici cristiane, più diventa terreno di missione, nella forma di svariati “areopaghi” »6.

Questa situazione è senza dubbio sperimentata e condivisa da ogni coscienza cristiana sensibile ad una testimonianza apostolica nel proprio ambiente di vita.

Il mondo delle professioni e della cultura hanno ormai il carattere di un terreno di missione, mentre si avverte sempre più l’esigenza di riuscire a parlare di Dio in modo credibile ed attraente, anche quando ci si rivolge ad un uomo, come quello contemporaneo, modellato dal materialismo, dallo scetticismo e dall’inquietudine, frutti di quella mentalità efficientista e di quel relativismo morale tipici del nostro tempo.

Sorge allora la domanda su come i cristiani possano parlare di Dio oggi, su quali siano le sfide che l’evangelizzazione nell’imminente terzo millennio affronterà con sempre maggior frequenza.

Le riflessioni che seguono, più che commentare la citata Lettera Apostolica del Pontefice ( la cui lettura è vivamente consigliata a tutti ), si propongono solo di offrire qualche spunto per rispondere a questo interrogativo di fondo, o almeno di aiutare a coglierne le implicazioni nel contesto culturale odierno.

Perché evangelizzare?

Non è infrequente che venga oggi richiesto alla Chiesa di dover fondare o giustificare la sua attività evangelizzatrice.

Così si esprimeva Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio: « Eppure, anche a causa dei cambiamenti moderni, e del diffondersi di nuove idee teologiche, alcuni si chiedono: è ancora attuale la missione tra i non cristiani?

Non è forse sostituita dal dialogo inter-religioso? Non è un suo obiettivo sufficiente la promozione umana?

Il rispetto della coscienza e della libertà non esclude ogni proposta di conversione? »7

Paolo VI, quindici anni prima, poneva la medesima domanda, formulandola con parole analoghe: « Avviene così che si sente dire troppo spesso, sotto diverse forme: imporre una verità, sia pure quella del Vangelo, imporre una via, sia pure quella della salvezza, non può essere che una violenza alla libertà religiosa.

Del resto, aggiungono, perché annunciare il Vangelo dal momento che tutti sono salvati dalla rettitudine del cuore?

Se d’altra parte, il mondo e la storia sono pieni dei “germi del Verbo”, non è una illusione pretendere di portare il Vangelo là dove esso già si trova nei semi che il Signore stesso vi ha sparsi? »8.

Un primo elemento di riflessione è dunque osservare che l’annuncio del messaggio cristiano pare implicare non solo uno sguardo verso l’esterno, ma anche uno verso l’interno della Chiesa.

Il punto nodale lo si tocca forse quando, con parole dell’attuale Pontefice, si afferma che si tratta di un « problema di fede »: l’evangelizzazione « è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi »9.

Questo sguardo rivolto verso l’interno della comunità evangelizzatrice tocca due tematiche importanti: quella del valore della testimonianza e quella di come rafforzare gli stessi battezzati, poiché la stabilità e la profondità della loro fede e della loro formazione paiono essere la condizione di una evangelizzazione capace di guardare all’esterno, al mondo, ai non credenti.

Sono ben note in proposito le parole del Concilio, quando considerava che « nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale o sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione »10.

Non è superfluo notare che la teologia, dal canto suo, viene coinvolta dal tema dell’evangelizzazione sotto un duplice aspetto.

Dal punto di vista dogmatico, le si chiede con quale linguaggio parlare oggi di Dio, come rendere comprensibile l’annuncio evangelico di fronte alla razionalità scientifica del nostro tempo, o in rapporto a fonti di conoscenza diverse dalla Rivelazione ( come le scienze, la medicina, la storia, ecc. ), o anche in relazione al contenuto di altre religioni.

Dal punto di vista pastorale, alla teologia si chiede su quali temi centrare l’annuncio e con quale ordine espositivo.

Se cominciare ad esempio dal discorso su Dio oppure da un incontro vitale con la persona del Cristo; se accomunare più facilmente gli uomini nel riconoscimento di un creatore o nell’attesa di un redentore; inoltre, occorrerà conoscere quali siano le caratteristiche del soggetto destinatario dell’annuncio, le sue domande irrisolte, o i temi verso i quali mostri una particolare sensibilità.

Se prendiamo come riferimento la prima evangelizzazione diretta nei primi tre secoli al mondo greco-romano, troveremo vari elementi di rassomiglianza con la situazione odierna, ma anche alcune importanti diversità.

Oggi come allora i cristiani hanno nella società in cui vivono un ruolo di fermento, sono un segno di contraddizione.

Prassi di vita estese in larghe fasce della società negavano e negano la dignità della persona umana, l’indissolubilità del matrimonio, l’autentico valore della sessualità, mentre la logica del profitto economico e la ricerca di sicurezza e di benessere - si pensi a Zaccheo o ad Erode il grande - costituivano e costituiscono il principale elemento trainante che condiziona i rapporti fra i singoli e fra i popoli.

Ma anche oggigiorno, ai cristiani coerenti si continua a guardare con un certo senso di rispetto, e sebbene non si approvi ciò che dicono, li si ascolta volentieri; proprio come faceva Erode Antipa col Battista, nonostante questi gli rinfacciasse l’unione illecita con la moglie di suo fratello ( Mc 6,20 ), o come faceva il governatore romano Felice con Paolo, durante la prigionia dell’Apostolo a Cesarea ( At 24,23-25 ).

Eppure, fra la prima e la nuova evangelizzazione vi è una differenza determinante: i cristiani si rivolgono oggi ad un mondo che ha già ricevuto l’annuncio del Cristo e che non ha dato prove, almeno di fronte all’opinione pubblica, di poter vivere quel messaggio, o per lo meno di restarne condizionato negli orientamenti e nelle tappe decisive della sua storia.

Il filosofo Hans Jonas esprimeva questa drammatica perplessità chiedendosi come si potesse parlare ancora di Dio dopo Auschwitz11.

Ma qual è l’effettivo valore di questo argomento? Si tratta - come ritengono alcuni - di una constatazione tale da imporre cambi o ripensamenti decisivi circa la credibilità o la modalità dell’annuncio?

Su questo interrogativo e sul come giustificare un’azione evangelizzatrice in un contesto pluralista torneremo più avanti.

Desideriamo prima concentrarci su alcuni aspetti della società contemporanea che, sebbene condizionino severamente l’annuncio del Vangelo, contengono allo stesso tempo interessanti prospettive e potenzialità che ci proponiamo di mettere in luce.

L’attuale crisi di senso e il senso del discorso su Dio

Molte analisi odierne presentano come elemento caratterizzante della cultura contemporanea proprio la vanificazione del problema di Dio, la sua assoluta perdita di significato12.

L'uomo, che nella cristianità medievale si coglieva in costante dipendenza da Dio, e che nell'ateismo moderno vi si era sostituito come necessaria conseguenza della sua emancipazione, ora, nell'indifferenza religiosa denominata postmoderna, rinuncerebbe tanto alla negazione di Dio come alla sua affermazione.

Svuotato di ogni significato universale, il discorso su Dio è declassato al livello di un debole mito che viene creato e consumato secondo le regole della soggettività e del mercato.

Dio non è più oggetto della fede, né della filosofia, ma del gioco.

In questo contesto culturale si fa spazio anche un nuovo politeismo: al dogmatismo di chi affermava Dio esiste o Dio non esiste, si può ora solo rispondere che esistono molti dèi13.

In questa situazione, però, la ricerca di valori non appare totalmente narcotizzata e persiste una certa insoddisfazione.

Permane irrisolta la domanda sul significato della vita e sul senso del dolore.

Crescono le incertezze soggettive e sociali, il timore per l’applicazione incontrollata della tecnica, per l’assenza di ogni principio stabile nel rapporto tra i singoli e tra i popoli; si avverte la mancanza di regole che vadano al di là di un cangiante convenzionalismo etico.

In altre parole, alla post-modernità viene associato un giudizio di crisi di senso, crisi che alcuni riconoscono implicitamente quando parlano di nostalgia di Dio, o vedono la sua esistenza come “qualcosa di troppo bello per essere vero”14.

Ma se la post-modernità è avvertita come crisi di senso, allora, nel fondo dell’animo umano, persiste inalterato un desiderio di senso, la cui assenza è sofferta come disagio, come noia, e richiede l’oneroso sforzo di non pensarci per non cadere nell’angoscia.

Anche in questo difficile contesto culturale, dunque, l’annuncio del mistero del Cristo non perde attualità.

Egli si rivela come pienezza di senso della vita umana, risposta ultima alla domanda sulla dignità della persona e sul significato della sua vita, sul senso del dolore e della morte.

Nella misura in cui la persona umana è ancora capace di percepire la sua vita come un enigma, non rinnega la possibilità di riconoscervi la soluzione nel mistero del Cristo, quello della sua incarnazione, della sua morte e resurrezione.

È il cammino che Pascal amava far percorrere ai suoi contemporanei, e che ha accompagnato in larga parte tutto il personalismo cristiano, dai tempi di Agostino fino alle vibranti note della Redemptor hominis.

Le opportunità dunque non mancano, ma si richiede anche una speciale attenzione.

Vi è infatti il pericolo di proporre un Dio a misura d’uomo, il cui fine primario sia quello di appagare le ansie umane e ridare speranza alle sue inquietudini.

Molti movimenti religiosi orientali, divenuti ora religioni metropolitane, hanno scelto con successo questo cammino, proponendo un naturalismo o un misticismo garanzia di tranquillità psicologica, espressioni di una salvezza totalmente immanente.

Quando si misura Dio solo sulla scorta delle richieste umane, nel pensare di avvicinarlo all’uomo, si corre il rischio di confinarne l’immagine nell’orizzonte chiuso del nostro linguaggio e delle nostre aspettative.

Come è noto, la teologia di questo secolo non è stata esente da questa tentazione: è il caso dell’esegesi esistenziale di Rudolph Bultmann, della cristologia di Karl Barth, o di alcuni modi di intendere la cosiddetta svolta antropologica, come furono ad esempio quelli di Dietrich Bonhöffer e di Paul Tillich.

Questi ultimi due autori, pur seguendo percorsi opposti, sono poi confluiti - è interessante notarlo - nel medesimo sbocco.

Bonhöffer, scosso dall’esperienza dei campi di concentramento nazisti di cui fu vittima, invitava a cercare Dio nel centro della realtà e non nel suo limite, in ciò che conosciamo e di cui possiamo parlare, non nel bisogno di ciò che la vita non ci spiega o il mondo ci nega, come si trattasse di una sorta di tappabuchi15.

Tillich, invece, preoccupato della sempre minore comprensibilità della nozione di Dio, invitava a parlarne solo all’interno di correlazioni fra le risposte della Rivelazione e le domande dell’uomo: si può capire ciò che Dio dice solo se ho fatto la previa esperienza della domanda esistenziale alla quale la Rivelazione offre una corrispondente risposta16.

Ambedue le proposte, mosse da validi intenti, terminano col confinare la parola di Dio all’interno di un orizzonte antropologico, di tipo ermeneutico oppure esistenziale; nel primo caso limitato a ciò che l’uomo comprende, nel secondo a ciò che l’uomo chiede.

La buona novella di Gesù di Nazareth, l’annuncio che « solo nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo »17, implica invece l’umiltà di lasciarsi condizionare e interpretare da Lui.

È la disponibilità a riconoscere la sapienza della croce, a perdere la vita per ritrovarla, ad accettare ciò che non si comprende, ma che si riconosce proveniente da Colui che mi ha amato e ha dato la sua vita per me ( Gal 2,20 ).

L’uomo al centro della crisi di senso della società contemporanea, visto da Sartre come una « passione inutile » o da Heidegger come un « un essere-per-la-morte » - in definitiva come un enigma che resterebbe insolubile in un orizzonte chiuso alla trascendenza - può ancora riconoscere come altamente significativa per la ragione e per il cuore la rivelazione di un « Dio che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio perché chiunque crede in lui non muoia » ( Gv 3,16 ).

La garanzia che questa risposta non sia frutto delle proiezioni e delle aspettative umane - come riteneva Feuerbach - sta proprio nel fatto che la Rivelazione si presenta con una logica sovrabbondante in rapporto alle attese dei suoi destinatari.

Da un lato, il Vangelo risponde alle nostre istanze più profonde, fornendo le risposte puntuali agli interrogativi della ragione sul mondo e sull’uomo.

Dall’altro, le supera in modo eccedente, offrendo un’antropologia, una salvezza ed una visione dei rapporti con Dio che vanno aldilà di ogni previsione umana.

Parlare di Dio nel contesto scientifico odierno

Un secondo elemento di sfida per l’evangelizzazione è costituito dal fatto che la cultura odierna possiede una mentalità modellata essenzialmente dalla razionalità scientifica.

Un discorso come quello su Dio che deve necessariamente astrarre dalle categorie dell’analisi empirica, tipica delle scienze naturali, per collocarsi invece nella sfera dei valori, dei significati, delle cause ultime o dei fini, ne risulterebbe pertanto indebolito.

Inoltre, la nozione di un Dio creatore onnipotente e provvidente reclama anche un dominio sul mondo e sui suoi effetti visibili, proprio quegli effetti, cioè, sui quali la scienza ci ha abituato a riconoscere il suo progressivo e sempre più sofisticato controllo.

Per rispondere a questa sfida, l’evangelizzazione può muoversi su due piani successivi: il primo consiste nel porre su un retto binario epistemologico il rapporto fra Dio e la natura, fra la teologia della creazione e l’analisi delle scienze; il secondo è porre l’attenzione sulla natura antropologica dell’impresa scientifica per mostrare come essa non neghi senso al discorso su Dio.

Le fondamenta di questo chiarimento epistemologico si trovano nella lunga tradizione della filosofia e della teologia medioevali, e chiunque si accosti ad essa libero da pregiudizi anacronostici vi troverà ancora risposte utili, capaci di offrire ancor oggi punti di appoggio al discorso su Dio ed alla spiegazione dei suoi rapporti col mondo.

Molte risposte di Tommaso d’Aquino sulla teologia della creazione, ad esempio, continuano ad essere pienamente attuali di fronte a parecchie domande filosofiche poste dalla cosmologia contemporanea.

Lo sforzo interdisciplinare compiuto in questo terreno negli ultimi decenni permette oggi alle scienze fisiche di non guardare più alla teologia con diffidenza ed alla teologia di non temere le conclusioni delle ricerche scientifiche, quando sono realizzate nel rispetto del proprio metodo e della verità delle cose18.

Il secondo piano in cui il discorso su Dio può muoversi è mostrare che la scienza contemporanea, ancor prima delle applicazioni della tecnica, sussiste sempre come ricerca della verità, capace di appassionare e di stupire.

Nonostante una certa immagine della scienza dataci da alcuni filosofi, l’impresa scientifica non è né fallibilista - come vorrebbe Popper - né idealista - come sostenuto dalla tradizione neopositivista - bensì profondamente realista.

Per lo scienziato, la natura e le sue leggi sono qualcosa di ricevuto, qualcosa che egli non crea ma scopre.

L’esperienza con cui egli si pone in rapporto con il cosmo è tale da fargli percepire l’esistenza di un fondamento, di un logos che merita rispetto.

La natura viene riconosciuta dall'uomo di scienza come meritevole di essere studiata, capace di motivarne il corrispondente sforzo intellettuale, perché capace di legare con una verità ed una bellezza indipendenti dal soggetto conoscente.

L'atteggiamento del ricercatore diviene allora quello di una religiosa riverenza e la sua attività lo pone di fronte alla percezione di un Assoluto.

Per questo non mancano scienziati che hanno paragonato l'esperienza scientifica ad una esperienza del sacro, capace di legare ( re-ligo ) e di condurre fino alle porte del mistero19.

Ritenere che la diretta conseguenza della cultura scientifica sia l'aver tolto spazio al discorso su Dio mediante il progressivo controllo della natura, non darebbe ragione né del significato né dell’essenza della vera mentalità scientifica.

Essa è un’attività di tutta la persona, capace di suscitare interrogativi di carattere filosofico, anche se non ha gli strumenti per rispondervi dall’interno del proprio metodo.

Nel contesto della razionalità scientifica del nostro tempo, il mondo continua a manifestarsi come paradosso e mistero, e continua pertanto ad essere ragionevole chiedersi se il mondo abbia una spiegazione.

L'eventuale ricerca di questa spiegazione rimanda ad un'area di significato che non è considerata un non-senso ed apre pertanto la possibilità ad un discorso su Dio.

L’interesse manifestato da molti ambiti delle scienze naturali verso l’interdisciplinarietà con le scienze umane e la filosofia, testimonia il clima di questa apertura e stimola la teologia ad essere presente nel dibattito con il ruolo che le è proprio.

Essa non deve svalutare, ma guardare con interesse quelle domande ultime che paiono riemergere nella descrizione scientifica della natura: la domanda sull'origine dell'universo e sul tutto, sul motivo della sua razionalità, specificità e bellezza,

la domanda sul posto che l'uomo vi occupa e sul significato della sua presenza.

Allo stesso tempo, la teologia deve andare più in là: proclamare che il senso del mondo e dell’uomo non stanno in un fondamento filosofico impersonale, ma nella persona del Cristo, centro del mondo e della storia.

È questo il Logos verso cui ogni ricerca della verità - provenga essa dalle scienze, dalla filosofia o dalla teologia - si sente attratta20.

È l’annuncio evangelico che la verità è una Persona, che il Verbo si è fatto carne, il solo annuncio capace di svelarci perché si può parlare di amore per la verità e perché la verità, per essere conosciuta, deve essere anche accolta.

Verità, intolleranza e dialogo

I cristiani si trovano oggi all’interno di una società pluralista, restia a riconoscere l’esistenza di una verità assoluta, refrattaria ad accettare risposte definitive, perché la difesa delle proprie libere scelte e la libertà da ogni condizionamento sono assunte a paradigma fondamentale sia per la vita pubblica che per quella privata.

La pretesa di possedere la verità o l’impegno per difendere dei valori considerati irreformabili vengono visti come fonte di intolleranza, quando non di potenziale violenza.

La rinuncia ad idee forti costituirebbe la garanzia necessaria per assicurare la convivenza ed il dialogo.

L’opinione che la costruzione di uno Stato capace di riunire stabilmente gli interessi di diversi cittadini sia possibile solo relegando i valori in una sfera puramente privata risale, come è noto, a Thomas Hobbes.

La libera e pacifica convivenza in uno Stato organizzato può realizzarsi solo sulle basi di un patto sociale, un contratto convenzionale che sappia prescindere da ogni convinzione morale di carattere universale: la ricerca o la difesa della verità sono la vittima sacrificale che deve essere immolata sull’altare della pace sociale.

La posizione del messaggio cristiano circa il rapporto fra verità e libertà, così come fra legge divina e legge positiva, è stata oggetto di molteplici riflessioni del Magistero della Chiesa, dalla dichiarazione conciliare Dignitatis humanae, alla enciclica Veritatis Splendor, fino alla recente Evangelium vitae. 21.

Vi è però un aspetto, che proprio a motivo della sua importanza per l’evangelizzazione e per le sue possibili strategie, merita di essere qui evidenziato.

Mi riferisco alla radicale convinzione che la prima e fondamentale verità della persona umana, di tutte le persone umane, sia l’essere stata creata ad immagine e somiglianza di Dio.

La consapevolezza di questa comune origine rende il cristiano perfettamente convinto che ogni essere umano, indipendentemente dalla sua razza, condizione o cultura, quando si raccoglie in se stesso e si colloca senza pregiudizi di fronte al mistero del mondo, alla percezione della propria coscienza morale; quando si pone in definitiva di fronte alle domande che contano davvero, come quelle sul senso della realtà e della propria esperienza esistenziale, allora vi troverà necessariamente il segno di un’apertura verso l’Assoluto.

Essere stato creato ad immagine e somiglianza di Dio vuol dire, per ogni uomo, avere scritta nella propria natura la capacità di essere interlocutore di Dio, il potere di riconoscerne la voce, sia nella bellezza della creazione che nell’intimo della propria coscienza.

Prova indiretta che questa capacità non sia del tutto estinta è che, nonostante evidenti contraddizioni, si continui a guardare la natura con un senso di gratitudine e di stupore, si colga la solidarietà umana come un valore da promuovere, si sperimenti disagio di fronte all’ingiustizia.

Per il cristiano, difendere la dignità della persona umana o affermare l’esistenza di Dio quale fondamento trascendente della giustizia, ma anche della carità, non diviene mai fonte di intolleranza.

Nessuno meglio di lui sa che il riconoscimento di questi valori può nascere solo dal sereno dialogo con le coscienze, manifestazione di un autentico servizio che egli vuole rendere in nome di Cristo all’uomo e alla sua verità integrale.

Non vi è persona più aperta di lui al dialogo, perché egli è pienamente convinto, come lo era sette secoli or sono san Tommaso d’Aquino, che la ragione sia ancora in grado di legare tutti gli uomini.

All'inizio della sua Contra Gentiles affermerà infatti che dovendo rivolgersi a dei non cristiani occorre potersi riferire a ciò che accomuna ogni essere umano, cioè la loro razionalità22.

Colui che punta al dialogo con le coscienze non può essere tacciato di intolleranza, perché sostiene appunto che la forza di questa intima voce, immagine di una comune origine da Dio, sia maggiore della forza del potere economico, politico, o perfino delle armi.

È invece chi manca di questa consapevolezza, proclamando la debolezza della ragione e la sua incapacità di raggiungere una verità stabile ed oggettiva, a ritenere più facilmente che il valore delle idee dipenda dalla forza con cui si gridano23.

La strategia dell’evangelizzazione non può dunque prescindere dal promuovere nell’interlocutore tutto ciò che può favorirne la riflessione: il sereno esame della storia e delle situazioni, la liberazione o almeno la difesa dai condizionamenti e dalle mode, il silenzio: in definitiva ciò che conduce sulla strada dell’autentica preghiera, del dialogo con la propria coscienza, nella quale Dio abita come in un santuario24.

Questo ottimismo di fondo sulla possibilità di ciascuno di porsi in relazione con la verità non si limita ad un impersonale piano teocentrico, né può paragonarsi ad una fede deista di stampo illuminista, ma possiede invece dei necessari riflessi tipicamente cristologici.

La consapevolezza che la verità di quell’immagine di Dio stia nel volto di Cristo spinge il cristiano ancora più là.

Egli ha la certezza che le risposte del Cristo troveranno eco sicura nel cuore di ogni uomo perché « solo Cristo svela pienamente l’uomo a se stesso » e « chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo »25.

Le enormi potenzialità contenute nella teologia dell’immagine di Dio, nella sua valenza cristologica, e l’importanza che essa è destinata a svolgere nell’evangelizzazione del terzo millennio paiono particolarmente evidenti nelle riflessioni offerti dall’attuale Pontefice nella sua enciclica programmatica Redemptor hominis.

Infine, l’idea pragmatista che la convivenza pacifica e l’edificazione della città degli uomini debba costitutivamente prescindere dal dare ogni fondamento trascendente alla giustizia ed alla moralità, non pare affatto un’idea vincente.

Nella loro azione evangelizzatrice, i cristiani devono affermare senza timori che non soltantoil collettivismo marxista rispondeva ad una erronea e fallimentare concezione antropologica; ma anche un capitalismo puramente individualista, fondato su un relativismo etico, non è ugualmente capace di costruire uno stato ed una società veramente umane26.

L’assenza di valori trascendenti, valori universalmente riconosciuti ed universalmente riconoscibili, non offre motivi validi nemmeno per adempiere alle leggi e servire lo Stato.

Se l’etica cui una società si fonda è sganciata da un’autentica vita morale riconoscibile da una retta coscienza, se resta un’etica senza Dio in definitiva, in quella società cessa de facto la capacità di reclamare lealtà ed obbedienza alle sue stesse leggi.

Al cittadino risulterà normale prescindere dalla legalità ove questa entri in conflitto con i suoi interessi individuali, e non avvertirà più come un problema l’arrangiarsi a spese dello Stato.

È proprio in una simile situazione, e non in una prospettiva antropologica cristiana, ove diviene paradossalmente più facile il rischio dell’intolleranza e della violenza.

Quest’ultima diviene allora l’ultimo ricorso per reclamare l’obbedienza a quelle leggi giuste che la coscienza non è stata più educata a riconoscere sulla base del loro vero fondamento, quello di un bene comune trascendente.

Non è per nulla casuale che i primi cristiani, oltre all’esempio del loro amore reciproco, fossero modello per i loro contemporanei anche nella fedele ottemperanza delle leggi ( 1 Pt 2,11-20 )27.

Religione & religioni

Il problema del rapporto fra il cristianesimo e le altre religioni costituisce un ulteriore aspetto destinato ad accompagnare sempre più le future sorti dell’evangelizzazione.

Una prima questione è posta dalla stessa natura antropologicoculturale del fenomeno religioso: se l’uomo è naturaliter religioso e la cultura è espressione di tutto ciò che porta a pienezza i beni ed i valori della natura umana, allora ad una pluralità di culture dovrebbe corrispondere una legittima pluralità di religioni.

Ma per collocarsi in modo corretto di fronte alla fenomenologia della religione, i cristiani devono innanzitutto prendere atto di quei caratteri di condiscendenza e di sovrabbondanza manifestati dalla Rivelazione.

L’eccedenza dell’offerta divina manifestataci dalla storia della salvezza, quando è comparata con l'orizzonte delle nostre domande religiose, fa sì che il cristianesimo non possa essere considerato, alla stregua delle altre religioni, come un fatto totalmente culturale: esso non è una religione fra le altre.

Se la religione è un moto ascendente dell'uomo a Dio, la rivelazione cristiana irrompe nella storia come un moto con-discendente di Dio verso l'uomo.

Il cristianesimo non è solo ricerca di Dio, ma è soprattutto la rivelazione e l’autocomunicazione di Dio stesso nel Verbo fatto carne, secondo una logica totalmente donata.

« Tocchiamo qui il punto essenziale - afferma Giovanni Paolo II nella Tertio millennio adveniente - per cui il cristianesimo si differenzia dalle altre religioni, nelle quali si è espressa sin dall’inizio la ricerca di Dio da parte dell’uomo, nel cristianesimo l’avvio è dato dall’Incarnazione del Verbo.

Qui non è soltanto l’uomo a cercare Dio, ma è Dio che viene in Persona a parlare di sé all’uomo ed a mostrargli la via sulla quale è possibile raggiungerlo»28.

Orbene, proprio per questo, il cristianesimo si trova nella condizione di poter riconoscere e valorizzare le istanze di verità contenute in tutte le altre religioni.

Così lo esprimeva la dichiarazione conciliare Nostra Aetate: « La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni.

Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.

Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è “via, verità e vita” in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa ed in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose ( 2 Cor 5,18-19 ) »29.

La presenza dei riflessi o dei semi del Verbo divino nelle religioni non cristiane, nella filosofia e nella cultura, in quanto espressioni sincere della umana ricerca della verità, sia sul piano cosmologico che su quello antropologico, fu messa in luce fin dalle origini del cristianesimo.

San Giustino, esponendo la sua dottrina sul Verbo divino, affermava già nel II secolo che « quello che di buono è stato detto da tutti, appartiene a noi cristiani ».

In tal modo, aggiunge ancora Giovanni Paolo II, « Cristo è il compimento dell’anelito di tutte le religioni del mondo e, per ciò stesso, ne è l’unico e definitivo approdo.

Se da una parte Dio in Cristo parla di sé all’umanità, dall’altra, nello stesso Cristo, l’umanità intera e tutta la creazione parlano di sé a Dio - anzi, si donano a Dio »30

Parlare del Dio di Gesù Cristo in un contesto inter-religioso come quello contemporaneo vuol dire certamente riconoscere l’implicita presenza di tali semi di verità, ma sottolineare nel contempo, e con chiarezza, ciò che appartiene alla specificità del cristianesimo.

Il cuore di questa specificità è che la fede cristiana non si presenta come l’adesione ad un contenuto o ad una dottrina, ma è l’adesione ad una persona, alla persona del Cristo, fino a farsi una sola cosa con lui e permettergli di vivere in noi.

Mentre il ruolo di altri mediatori, come lo furono Budda o Maometto, fu quello di consegnare una regola di vita, di mostrare la direzione di un cammino di salvezza, nessuno di essi si propose mai come fine cui i suoi seguaci dovessero intimamente conformarsi.

Il loro compito è condurre fino alle porte della vita e poi dissolversi, non lasciando traccia.

Il Cristo, invece, non solo indica la direzione ove trovare la via, la verità e la vita, ma è lui stesso la fonte cui la verità e la vita attingono31.

Infine, la persona del Cristo si colloca non solo al centro dell’attesa messianica, come altri fondatori di religioni o portatori di messaggi di salvezza.

Egli si presenta anche al centro dei piani di Dio sull’intero cosmo.

Egli non solo interpreta il mondo, come fecero redentori e profeti prima e dopo di Lui, ma del mondo ne ha presieduto la stessa creazione, come Verbo del Padre per mezzo del quale e in vista del quale ogni cosa fu fatta: le sue parole non conoscono tramonto.

Conclusione: evangelizzare è annunciare il mistero pasquale del Cristo

La breve analisi precedentemente schizzata ci ha mostrato come i vari contesti che l’evangelizzazione incontra alle soglie del terzo millennio costituiscono certamente una sfida, ma offrono anche delle prospettive di grande interesse.

Tutte quelle prospettive - è importante notarlo - giungono prima o poi a intersecarsi col mistero del Cristo.

L’evangelizzazione, dunque, non può fermarsi a metà strada, limitandosi ad una sorta di teocentrismo, magari garante di valori universali; non può tacere il mistero della redenzione o sorvolare sui frutti di salvezza affidati da Cristo al suo mistico Corpo che è la Chiesa.

Questa impostazione, anche se a prima vista parrebbe favorire un punto di incontro con molti popoli e culture, tradirebbe la verità del messaggio cristiano.

Nell’enciclica Redemptoris missio, Giovanni Paolo II segnalava in proposito due errori da evitare.

Il primo è la tentazione « di ridurre il cristianesimo a una sapienza meramente umana, quasi scienza del buon vivere.

In un mondo fortemente secolarizzato è avvenuta una graduale secolarizzazione della salvezza, per cui ci si batte sì per l’uomo, ma per un uomo dimezzato, ridotto alla sola dimensione orizzontale »32.

Il secondo è rappresentato da quelle concezioni che annunciano un Regno di tipo teocentrico « perché - dicono - Cristo non può essere compreso da chi non ha la fede cristiana, mentre popoli, culture e religioni diverse si possono ritrovare nell’unica realtà divina, quale che sia il suo nome.

Per lo stesso motivo [ queste concezioni ] privilegiano il mistero della creazione, che si riflette nella diversità delle culture e delle credenze, ma tacciono sul mistero della redenzione.

Inoltre, il Regno, quale essi lo intendono, finisce con l’emarginare o sottovalutare la Chiesa, per reazione a un supposto ecclesiocentrismo del passato e perché considerano la chiesa stessa solo un segno, non privo peraltro di ambiguità.

Ora, non è questo il Regno di Dio - conclude il Pontefice - quale conosciamo dalla rivelazione: esso non può essere disgiunto né da Cristo né dalla Chiesa »33.

Parlare di Dio oggi vuol dire ancora porre in contatto col mistero del Verbo incarnato e con la sua missione salvifica in favore del mondo.

Occorre confessare fino in fondo questa intensità della presenza di Dio nella storia, anche se ciò ha costituito e costituisce ancora un certo scandalo, perché l’uomo non è spesso in grado di sopportare tale vicinanza, e comincia facilmente a protestare34.

Non soltanto l’annuncio, ma la stessa credibilità del cristianesimo deve centrarsi sulla persona del Cristo e sul suo evento terreno.

La credibilità della fede è in primo luogo la credibilità della persona di Gesù, la credibilità delle sue virtù e del suo esempio, del suo sorriso con i piccoli, del suo amore misericordioso verso i deboli, del suo perdono illimitato verso i peccatori.

Solo una volta posto di fronte al Vangelo, l’uomo contemporaneo è nella condizione di poter riconoscere, come fecero le guardie dei sommi sacerdoti, « mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo » ( Gv 7,46 ).

In questa economia di credibilità, il segno del mistero pasquale del Figlio dell’Uomo costituisce il segno risolutivo.

« Allora, alcuni scribi lo interrogarono: “Maestro, vorremmo che tu ci facessi vedere un segno”.

Ed egli rispose: “Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona profeta » ( Mt 12,38-39 ).

È in forza di questo segno, quello del suo sacrificio innocente e della sua resurrezione gloriosa, che Egli ha la capacità di muovere i cuori e di attirare a Sé tutte le cose ( Mt 27,54; Gv 12,32 ).

È il segno dell’amore del Padre per il mondo e dell’amore del Figlio per ogni uomo.

L’amore come segno fontale e radicale, capace di suscitare fiducia e abbandono, si mostra sommamente conveniente per la stessa natura della persona umana.

La capacità di dare e di ricevere amore costituisce infatti la sua esperienza esistenziale fondamentale, qualcosa che condiziona in modo determinante la sua felicità e la sua piena realizzazione.

Non è senza significato che proprio il criterio risolutivo di credibilità dato da Dio all’uomo sia segnato dall’economia dell’amore, e che la credibilità della fede poggi sulla struttura antropologica della credibilità dell’amore.

Poiché è di questo amore che i cristiani sono testimoni, l’annuncio del Vangelo non può essere disgiunto dal segno della croce e della resurrezione.

La credibilità della fede diviene allora la credibilità con cui ciascun cristiano mostra di aver fatto sua la sapienza della croce e la gioia della resurrezione.

Il mondo deve poter ritrovare nel volto del discepolo di Cristo la fede con cui affronta la contraddizione ed incarna il travaglio esistenziale della sua epoca, ma anche la gioia con cui sa testimoniare che, nella resurrezione del Figlio, il Padre ci ha dato insieme a Lui ogni cosa.

La testimonianza si nutre dunque della fede e la fede si alimenta nell’incontro personale con Cristo.

Capiamo allora perché le incertezze dell’evangelizzazione di cui parlavamo all’inizio, più che dalle difficoltà esterne, dipendono facilmente dalla scarsa esperienza di quell’incontro e di quella frequentazione con il Cristo, pane di vita e parola di salvezza.

La centralità della categoria della testimonianza in tutto il panorama dell’annuncio - nei documenti del Concilio Vaticano II appare citata oltre 130 volte - condiziona anche le modalità dell’annuncio stesso.

Pur avvalendosi dei mezzi di comunicazione sociale e di massa, il cui impiego al servizio del Vangelo è stato non solo lodato ma anche incoraggiato dalla Chiesa in molteplici occasioni, l’attività apostolica poggerà sempre sul rapporto personale, l’unico capace di manifestare in modo credibile che l’incontro con Gesù ha segnato in profondità la vita dell’apostolo.

Qui radica, in definitiva, il motivo per il quale Gesù risorto non tornò in piazza a Gerusalemme, ma volle apparire a « testimoni prescelti da Dio, a noi - dirà Pietro al centurione Cornelio - che abbiamo mangiato e bevuto con lui » ( At 10,41 ).

Resta infine da rispondere all’interrogativo lasciato in sospeso circa i rapporti fra la prima e la nuova evangelizzazione.

Il fatto che i cristiani si trovano nelle condizioni di dover rievangelizzare coloro che avevano già ricevuto il messaggio di Cristo non è un segno di debolezza, o peggio dell’inefficacia di tale messaggio?

A questa obiezione si dovrebbe rispondere mostrando che nelle società già evangelizzate, nella loro storia, nei loro principi sociali e culturali, e perfino nel loro sviluppo scientifico, vi sono molte più tracce di una coscienza cristiana di quanto non si ritenga a prima vista.

Si tratta di una coscienza alla quale non si presta forse più ascolto, ma che non cessa di parlare nel cuore e nelle ansie di quei popoli che entrarono una volta in contatto col mistero della croce di Gesù.

Tanto in queste terre, come in quelle dove la parola giunge per la prima volta, i discepoli del Maestro sanno inoltre di dover essere sempre un vivo fermento ed un segno di contraddizione.

Se la condizione dell’adesione alla fede è che ogni essere umano venga chiamato a fare l’esperienza di un incontro personale con Cristo, non deve neanche sorprendere che la logica di un continuo e rinnovato annuncio sia destinata ad accompagnare sempre l’azione apostolica della Chiesa, sia quando conferma nella fede i credenti, sia quando si dirige a chi ancora non crede.

Ogni uomo che viene alla vita è in fondo sempre una novità per il mondo, e dunque anche una novità sulla strada di chi evangelizza, tanto nel cammino che conduce alle culture e ai popoli che si aprono per la prima volta al Vangelo, quanto nel cammino storico che la Chiesa compie di generazione in generazione.

La Chiesa evangelizza nella misura in cui lo fanno i suoi membri.

« Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà - leggiamo nel Deuteronomio - “Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date? tu risponderai a tuo figlio: eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente ... per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri Padri di darci » ( Dt 6,20-21.23 ).

Nel popolo di Israele si faceva memoria della salvezza ricordandola di padre in figlio, nel rituale della pasqua ebraica.

Nel nuovo Israele, che è la Chiesa, la testimonianza della resurrezione salvifica di Cristo varcherà le soglie del terzo millennio ancora perché annunciata da padre in figlio, perché coloro che non hanno ancora conosciuto Gesù ne riceveranno il messaggio dalle labbra di chi lo ha già incontrato.


1 A. Frossard, Dio. Le domande dell’uomo, Piemme, Casale Monferrato 1990.

2 Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et Spes 41, n. 42, n. 58.

3 Giovanni Paolo II, Tertio millennio adveniente. Preparazione del giubileo dell’anno 2000.

4 Cat. Chiesa Cat. 102.

5 Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente 56.

6 Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente 57.

7 Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio 4. Lettera enciclica circa la permanente validità del mandato missionario

8 Paolo VI, Evangelii nuntiandi 80.

9 Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio 11.

10 Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et Spes 19.

11 H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Melangolo, Genova 1989.

12 Sul tema del discorso su Dio nella post-modernità si veda la lucida analisi offerta da G. Morra, Dio nella filosofia post-moderna, in «Studi Cattolici», n. 404, novembre 1994, pp. 620-626 e Idem, Il quarto uomo. postmodernità o crisi della modernità?, Armando, Roma 1992.

13 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981.

14 Ad un interlocutore che criticava l’esposizione del cristianesimo fatta da Simone Weil qualificando il Dio cristiano “troppo bello per essere vero”, l’autrice francese rispondeva serenamente “è così bello che deve essere vero”.
C. Chabanis, Obsession de Dieu, Desclée, Paris 1991, p. 163.

15 D. Bonhoffer, Resistenza e resa, Bompiani, Milano 1969.

16 P. Tillich, Systematic Theology, Univ. of Chicago Press, Chicago 1967.

17 Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et Spes 22.

18 Una testimonianza delle mutate condizioni culturali nel dialogo fra teologia e scienze può rilevarsi in Giovanni Paolo II, Lettera al Direttore dell’Osservatorio Vaticano, in «Osservatore Romano» 26.10.1988, p. 7. Si veda anche il recente volume Après Galilée. Science et foi: nouveau dialogue, a cura di P. Poupard, Desclée, Paris 1994.

19 Per una riflessione più approfondita su questo aspetto dell'attività scientifica si veda l'opera di E. Cantore, L'uomo scientifico. Il significato umanistico della scienza, Dehoniane, Bologna 1987;
anche G. Gismondi, Fede e cultura scientifica, Dehoniane, Bologna 1993;
T. Torrance, Senso del divino e scienza moderna, Lib. Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1992.

20 G. Tanzella-Nitti, Cultura scientifica e rivelazione cristiana, in «Annales Theologici» 8 (1994), pp. 133-168.

21 Giovanni Paolo II, Veritatis splendor 35-64 e Evangelium vitae 68-74.

22 « Unde necesse est ad naturalem rationem recurrere, cui omnes assentire coguntur » San Tommaso D'Aquino, Contra Gentiles, liber I, caput II, n. 12.

23 Sul rapporto fra verità e intolleranza si veda anche A. Bausola, Fini ultimi. Verità assoluta. Dialogicità., in «Acta Philosophica» 2 (1993), pp. 5-15.

24 Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et Spes 16.

25 Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et Spes 22 e n. 41.

26 Giovanni Paolo II, Centesimus Annus 10, n. 13, n. 44.

27 Anche Lettera a Diogneto, V-VI; Aristide, Apologia, XV, nn. 3-8.

28 Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente 6.

29 Conc. Ecum. Vat. II, Nostra Aetate 2.

30 Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente 6.

31 Sulla specificità del cristianesimo è sempre stimolante la lettura del noto saggio di Romano Guardini L’essenza del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1987.

32 Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio 11.

33 Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio 17, n. 18.

34 Giovanni Paolo II, Varcare le soglie della speranza, Mondadori, Milano 1994, p. 43.