La passione e la gioia della salvezza

B307-A5

Riflessione sulla Sindone

Una lettura teologica del mistero che si cela in questo evento ( parte seconda )

- Mons. Giuseppe Pollano -

Testo tratto dalla registrazione di una conferenza tenuta l'8 Aprile 2000 presso la sezione di Torino dell'AMCI ( Ass. Medici Cattolici Italiani ), non rivista dall'Autore.

La prima parte è stata pubblicata nel precedente numero.

3. Implicazioni di questo percorso

Gesù ha patito moltissimo, dunque è entrato dentro il mistero del male e del dolore.

Va notato che l'esperienza del dolore - cioè del male inteso come dolore, sotto tutti i profili: il dolore fisico, ma anche il dolore psichico, il dolore etico ( l'ingiustizia, ad esempio, è un grande dolore, anche se non la patisco io ), questo disordine profondo che ci fa patire e che ci dissuade dal vivere, fino al suicidio che è proprio il contrario dell'amore - è un'esperienza per noi scandalosa.

L'esperienza del male sotto qualsiasi profilo, vissuta o vista attorno a noi provoca un'interrogazione di rivolta critica fondamentale: "perché esiste il male?".

O ancora più a fondo: "perché si esiste se c'è il male?", come teorizzato da non pochi pensatori: "perché il mondo invece che niente?".

Questa è una rivolta critica non di carattere metafisico, cioè non si accontenta di soluzioni filosofiche; in realtà il dolore ha una sola soluzione, lo sappiamo: che si possa toglierlo, che si possa eliminarlo, tutte le altre sono non-soluzioni.

Noi esigiamo nativamente una condizione felice, infatti mai nessuno si pone questa domanda: ma perché sono felice?

É chiaro che la felicità non ha bisogno di spiegazioni, si autogiustifica; quando ci è tolta, sprigiona in noi la rivolta critica che abbiamo ragione di fare.

Attenzione, la rivolta critica non è un peccato, la rivolta critica è una protesta, precisamente la protesta che Cristo farà sua; ecco perché è arrivato su quella croce, in quel modo.

Può essere peccato il fatto che io costruisca sulla mia rivolta critica un sistema di permanente opposizione a Dio: in effetti questo, che si chiama ateismo di protesta, ha caratterizzato moltissimo il secolo XX, soprattutto nell'area culturale europea, dove si è poi ampiamente diffuso.

Ma non possiamo dimenticare che la soluzione del dolore come eliminazione concreta del dolore era stata già pensata ben prima di Cristo, con la soluzione buddistica della vita: se la vita è dolore, non c'è che da eliminare il dolore; se il dolore nasce dal desiderio, non c'è che da eliminare il desiderio; bisogna estinguere la vita e la soluzione è trovata.

La soluzione non è propriamente trovata, perché è una soluzione distruttiva, però è una soluzione totalmente radicale.

La filosofia indiana - il buddismo non è una religione, è una filosofia indiana - è andata alla radice e in maniera molto coerente è arrivata al nichilismo totale: occorre estinguere tutto, allora non ci sarà più sofferenza.

Il che dice la rivolta dell'uomo e anche l'impotenza disperata dell'uomo di fronte al fatto che invece il male c'è.

Ecco le implicazioni presenti nel percorso di Gesù Cristo che ci riguardano.

a) Gesù Cristo è entrato in questa situazione

e col suo modo di essere, Dio fatto uomo, ha cominciato a salvarci dall'idea che ci scandalizza di un Dio felice, che è là e noi siamo qua: questo non ci basta per soffrire.

Oggi, scaltriti dalla nostra riflessione e dalle nostre terribili sofferenze, non ci basta più pensare che Dio guida un po' le cose, comunque è là e noi siamo qui; siamo tutti un po' in stato di rivolta, che dice "no".

Già nei "Fratelli Karamazov" Ivan diceva: "Io restituisco il biglietto di entrata".

Non basta il teismo ottimistico e un po' semplificatorio che ci lascia nei guai, non basta a Dio e non a noi, perché Dio è venuto dentro il calderone, facendosi uomo sapeva benissimo che entrava nella condizione del dolore, tipica del limite umano, fisico, organico, psichico, cognitivo, progettuale.

Il male, comunque sia, è frutto del limite, è inscindibile dal limite.

Il limite vuol dire che ogni soluzione di cose può ammettere il contrario - se non avessimo la forza di gravità non potremmo esistere, però è anche vero che se mi sporgo dal settimo piano, la stessa forza di gravità mi uccide -, c'è l'ambiguità intrinseca di un essere che non è Dio, un bene che è relativo, che consente il contrario con mille possibilità di contraddizioni.

In questo mondo, che in fondo è una lotta contro il dolore, viene Gesù Cristo, in tutto simile a noi fuorché nel peccato, sottoposto a questo statuto nostro, ma incapace di trovar spunto dalla nostra condizione umana per romperla con Dio.

Gesù non lo fa perché è il Figlio che sa chi è il Padre, che dà al Padre il credito che si dà quando lo si conosce, e lì si svolge la sua vicenda.

Questo male intrinseco, proprio della finitezza dell'essere che non è Dio, è assunto da Gesù, e Gesù diventa l' "assurdo" e "irreligioso" Dio crocifisso.

Noi siamo abituati al termine Dio crocifisso, ma, a pensarci bene, esprimiamo una cosa assolutamente insostenibile, secondo la teodicea di tutti i tempi, perché Dio è immutabile, felice, intoccabile.

E siccome le religioni si costruiscono su questa base, non si costruisce una religione su un Dio crocifisso, è assurdo: si costruisce su un Dio trionfante come aspettavano gli ebrei, si costruisce su un Dio mitico, elevato, come pensavano i greci, ma non su un Dio crocifisso.

Infatti i primi cristiani erano definiti atei.

b) Dio prende l'umano dal di dentro,

ma non solo in senso solidale; non aggiunge un grande Sofferente a noi sofferenti.

A nessuno basterebbe che anche Dio abbia sofferto, perché il nostro io dice sì, ma sono io che soffro adesso, al più se ne è aggiunto uno, ma non è risolto nulla sul piano escatologico, del senso totale della vita.

Ma in realtà Gesù, dentro la nostra finitezza, dentro il nostro dolore, depone, fa vivere, dice forte a suo Padre il nostro diritto ad essere felici, in altre parole, protesta contro il dolore.

Lo vive, perché sarebbe molto facile protestare restando sul monte della trasfigurazione, sarebbe retorico; lo vive, ma non da rassegnato, da passivo, da vinto: lo vive protestandoci dentro.

È mortale? Morirà perché noi moriamo?

Morirà perché deve dare questa prova d'amore al Padre?

Sì, ma non muore contento col sorriso sulle labbra.

Muore, dice la lettera agli Ebrei, chiedendo al Padre di essere liberato dalla morte, con forti suppliche e lacrime, e sarà liberato dalla Risurrezione; muore da mortale.

c) Il dolore grida a Dio;

il male, comunque sofferto, e tanto più quando è subito, ci rende creditori nei riguardi del Creatore: "La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!" ( Gen 4,10; Sal 9,13 ).

È una protesta, perché l'uomo non è fatto né per uccidere né per essere ucciso; e ancora: "Fino a quando, Tu che sei santo e veritiero, non vendicherai il nostro sangue?" ( Ap 6,10 ).

Dunque, Dio lascia salire la protesta dell'uomo a lui, giusto e amorevole, attraverso il cuore di suo Figlio che è totalmente con noi riguardo alla protesta contro la morte.

Ricordate il fatto che Gesù, stranamente, piange poco tempo prima di far risorgere Lazzaro?

Noi non avremmo fatto così perché avevamo già la gioia in mano.

Gesù ha profondamente pianto perché sì, faceva risorgere Lazzaro, ma comunque Lazzaro sarebbe morto di nuovo, era la condizione mortale che lo addolorava: ha pianto non di fronte ai Giudei, ma di fronte al Padre, come a far nascere dentro il cuore di Dio fatto uomo la protesta contro la condizione umana pura e semplice.

Insomma, Dio si prende totalmente il carico di quello che ha fatto, si rende veramente responsabile del fatto che ci ha creati, fino a quel punto.

Sa che nella finitudine c'è dolore.

Avrà fatto i suoi conti: vale la pena crearli perché soffriranno anche, o no?

I conti di Dio sono: vale la pena crearli, ma ci entrerò io e vivrò la verifica che vale la pena morire se si risorge.

Allora il discorso ci implica e non ci lascia sulla sponda della disperazione, come Camus: "Tu o sei un Dio onnipotente ma non sei buono, o sei buono ma non sei onnipotente: quindi sei un Dio che non m'interessa"; noi arriveremmo fin lì, non possiamo fare di più.

Senza la Croce, credo che non avremmo nessuna soluzione di questo dilemma.

d) Dio risponde alla sua creazione "sottomessa alla caducità" ( Rm 8,20 ),

sottoposta alla morte per adesso: risponde nel senso che se ne rende responsabile, risponde di questa situazione, anzi, giunge fino a rinchiudere tutti nella disobbedienza, ci lascia peccare - perché noi pretendiamo di essere liberi e quindi vogliamo far peccati, non è che il peccato lo facciamo fatalmente - per usare a tutti misericordia ( Rm 11,32 ).

Questo è stupendo!

La tua vita ti farà venir voglia di far cose che non ti rendono felice, le farai, sei libero, te le lascio fare; però lo faccio solo perché poi ti userò misericordia, capirai di aver sbagliato e ritroverai il mio cuore alla fine, io sono lì per aspettarti.

Questo meriterebbe lunghe riflessioni perché è un affondo dei più impressionanti della teologia, su come la pensa Dio, sul cuore di Dio, sull'economia generale divina.

In ogni caso, Paolo rivela: il progetto di Dio lascerà soddisfatto il nostro cuore, che ora soffre, riguardo a tutte le situazioni umane, soprattutto dei dolori più terribili, più innocenti, più provocatori, perché "le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi" ( Rm 8,18 ).

È vero, tutto ci sembra sia qui e la vita ci sta stretta addosso quando soffriamo.

Se ci riabituassimo però al confronto tempo-eternità, ridimensioneremmo le cose.

Provate a pensare al "sempre", poi smettete perché vi pare troppo, non reggete il pensiero, vi viene da dire: ma poi finirà, non è possibile, non è nella nostra possibilità mentale, direi anche spirituale, però è vero.

Gesù che arriva al termine ha, nella Sindone, non la faccia mostruosa, stravolta di chi muore male, ma sembra un uomo che dorme; questo Gesù, che la morte la vive tutta, l'assapora fino all'ultima goccia, però risorge.

e) Gesù, in questa lettura teologica è per noi causa e anche oggetto di una speranza trascendente.

Noi non chiediamo di non soffrire, anche perché il dolore ci esilia dall'illusione del piacere; il dolore molto spesso ci fa capire che non è questa la patria e di queste lezioni pratiche ne abbiamo bisogno, perché non bastano i moralisti a dirci queste cose.

Allora abbiamo bisogno di una speranza che passa anche attraverso la croce, non che si ferma lì bloccata, terribilmente triste; una speranza assoluta alla quale l'uomo sindonico ci trasferisce.

La Sindone, come nessun altro segno religioso, ha sul credente un effetto simbolico: il simbolo è quella realtà guardando la quale ti senti mandato oltre.

La Sindone rimanda molto oltre, c'è qualcosa di più che un uomo morto, c'è qualcosa di ulteriore: è il mistero del senso teologico di fondo che supporta l'aspetto che si vede.

Io vedo la Sindone, ma so ciò che credo, ne so di più: il mio vedere è superato dal mio sapere perché credo, è un passaggio del credente.

La teologia presume la fede e tutto ciò che ne segue.

Un aiuto ci può venire ricordando, per concludere, che qui noi siamo di fronte all'Agnello innocente.

Di tutti i dolori possibili e immaginabili, quello che ci scandalizza di più è senza dubbio la sofferenza innocente.

Ebbene, Gesù Cristo Figlio di Dio ha voluto essere un Innocente che ha sofferto per garantirci che nessun aspetto della sofferenza umana sarà dimenticato, che essa è condizione "penultima", ma la condizione ultima è quella di un Innocente così trattato e posto nella sua gloria attraverso questa strada.

Allora Cristo raccoglie la morte innocente, la sofferenza innocente: quante ne abbiamo viste e ne vedremo ancora!

La mano di Dio si mostra più ampia della nostra, è capace di sollevare la storia che noi daremmo perduta, insostenibile, inaccettabile, anche se la viviamo giorno per giorno.

La Sindone in rilievo per non vedenti.

Piastra metallica realizzata con la collaborazione della Casa di Carità Arti e Mestieri