Catechismo dei giovani: Venite e vedrete Conferenza Episcopale Italiana Prot. n. 297/97 Questo testo “Catechismo della Conferenza Episcopale Italiana per la vita cristiana - 3.2. Venite e vedrete” , è stato approvato dall’Episcopato italiano secondo la procedura stabilita dalla deliberazione della XXXII Assemblea Generale. Successivamente è stato presentato alla Sede Apostolica per l’approvazione prevista dal can. 775 § 2. La Congregazione per il Clero, dopo aver esaminato il testo e ottenuto il consenso della Congregazione per la Dottrina della fede per la parte di sua competenza, ha concesso con lettera n. 97000635 del 1° marzo 1997 l’approvazione prescritta. I Vescovi della Conferenza Episcopale Italiana lo pubblicano come catechismo dei giovani dai 18 ai 25 anni. Camillo Card. Ruini Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Roma, 30 marzo 1997  Domenica di Pasqua nella Risurrezione del Signore Presentazione Ai giovani del nostro paese, ai loro catechisti ed educatori e alle comunità ecclesiali, i Vescovi italiani consegnano questo libro della fede, il catechismo Venite e vedrete, in questo tempo in cui ci Sentiamo più che mai “impegnati a offrire alle nuove generazioni la possibilità di un incontro personale con Cristo, nell’ambito di una comunità fraterna, dove ciascuno sia aiutato a sviluppare la propria identità, a scoprire e seguire la propria vocazione” ( Conferenza Episcopale Italiana, Con il dono della carità dentro la storia. La Chiesa in Italia dopo il Convegno di Palermo, 38). Si arricchisce così, con un secondo volume, l’itinerario di fede proposto al mondo giovanile e viene portata a compimento l’opera del “Catechismo per la vita cristiana”. Il catechismo Venite e vedrete si rivolge ai giovani e alle giovani dai 18 ai 25 anni, che iniziano ad essere esposti alle sfide riguardanti il lavoro, gli affetti, la famiglia, le scelte sociali e politiche, l’uso del tempo libero sono sfide impegnative per un progetto di vita cristiana, perché riguardano aspetti fondamentali dell’esistenza, nella fase in cui i sogni e i desideri urgono di trasformarsi in realtà concrete. Non sempre il bagaglio a disposizione è ricco di fede solida, capace di verità e di consolazione. Spesso il cammino è segnato da crisi religiosa e morale, che per certuni produce lontananza, per altri apparente indifferenza, per molti ricerca e bisogno di ricominciare un nuovo cammino, verso una esistenza di fede più consapevole e adulta. Questo secondo volume del catechismo dei giovani, in stretta continuità con la prospettiva vocazionale del primo volume Io ho scelto voi, vuole guidare i giovani a maturare un convinto cammino di discepolato di Cristo, al fine di aiutarli a compiere le loro scelte alla luce di quel progetto di vita che è il Vangelo. Il titolo Venite e vedrete, preso dalle stesse parole di Gesù ai suoi primi discepoli e letto nel contesto del quarto Vangelo ( Gv 1,35-39 ), esprime bene l’identità del catechismo, diventandone preziosa chiave di lettura: ai giovani di oggi, che cercano il significato pieno della vita, Gesù rivolge l’invito a seguirlo, per scoprire in lui il mistero della vita che non ha fine. Si tratta di un cammino di fede che, prendendo il via dall’appassionata sete di verità e di valori, diventa incontro con la persona stessa di Gesù Cristo, decisione di farsi suoi discepoli e di radicare le proprie scelte esistenziali nel progetto di vita rivelato in lui dal Padre. Pur nella continuità dei capitoli, la proposta del catechismo è articolata in tre fasi che, alla luce del brano giovanneo a cui si ispira il titolo del catechismo, possiamo riassumere attorno ai verbi cercare, incontrare, dimorare. Cercare L’itinerario si apre con i due discepoli del Battista che, dopo aver sentito parlare di Gesù come il Messia, si mettono a cercarlo e, trovatolo, decidono di seguirlo, ancora inconsapevoli di aver raggiunto la meta della loro ricerca. La domanda di Gesù - “Che cercate?” - fa emergere una situazione di “credenti inquieti, vicina a quella di molti giovani a cui si rivolge il catechismo. Il passaggio da una fede ricevuta per tradizione familiare e culturale ad una fede professata per convinzione personale - appuntamento tipico dell’età giovanile - fa esplodere le dinamiche di ricerca di senso, di spinta alla decisione, di attesa e di speranza ( cap. 1 ). Incontrare La ricerca dei discepoli approda all’incontro con Gesù. Affascinati dalle sue parole e stupiti dai suoi gesti, essi decidono di seguirlo, per conoscerlo da vicino, per rintracciare nella sua vita il suo modo di vedere e di vivere il rapporto con Dio e con il prossimo. In tal modo scoprono che il regno di Dio è presente e operante in lui e si offre a chiunque accoglie l’invito a convertirsi e a credere al Vangelo, iniziando il cammino del discepolo, sul modello di Maria di Nazareth ( cap. 2 ). Ma non basta accostarsi al “mondo di Gesù”: occorre procedere verso una decisione ancora più grande e riconoscere la vera identità di colui che si propone a noi come fratello e unico Maestro: Gesù è colui che intrattiene con Dio una relazione personalissima, tanto da chiamarlo “Padre”. Gesù è davvero il Figlio di Dio ( cap. 3 ). La pienezza dell’identità di Gesù è svelata dagli avvenimenti della Pasqua, centrali nei Vangeli e nell’esperienza cristiana. In essi si rivela il mistero di Dio, come dono di vita che vince la morte, come mistero di amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ( cap. 4 ). Dimorare L’incontro non si esaurisce in una esperienza di un momento, ma sfocia in amicizia, in un “rimanere” con Gesù per vivere l’avventura del Vangelo. È descritta in tal modo anche l’identità del discepolo e la sua vita: il lasciarsi plasmare dalla novità del Vangelo e la partecipazione convinta alla Chiesa, comunità dei discepoli di Gesù ( cap. 5 ); l’esperienza dell’incontro con Cristo attraverso la memoria viva della sua Pasqua nei sacramenti e nelle altre celebrazioni liturgiche ( cap. 6 ); la conformazione a Cristo nella fede, speranza e carità, per una piena adesione alla sua parola di verità, fondamento di autentica libertà ( cap. 7 ); la chiamata a vivere l’amore e la dedizione fedele a Dio nella persona di cui ci si scopre innamorati o in una testimonianza diretta del Regno futuro ( cap. 8 ); l’impegno di coltivare e custodire il mondo attraverso il lavoro e l’azione politica e sociale ( cap. 9 ); l’attesa vigilante ed attiva verso l’incontro definitivo con il Signore Gesù, principio e fine della storia ( cap. 10 ). È importante cogliere la pedagogia della fede che anima il catechismo e lo caratterizza. Centrale è l’ispirazione cristocentrica e trinitaria, per cui Dio viene colto nella rivelazione di Gesù e Gesù viene accostato per conoscere ed entrare nel mistero di Dio. Ma insieme dominante è l’ispirazione antropologica, che collega il testo alla vita dei giovani. Di fronte ai tanti approcci a Cristo che sono possibili per i giovani, e mai compiutamente soddisfacenti, si è pensato di proporre quello più diretto, lasciandoci guidare da come Gesù stesso accoglieva le persone che lo cercavano. Non partiamo dunque da noi, dalle nostre domande per trovare lui, ma partiamo da lui, dalla sua “causa” - il regno di Dio -, per trovare noi stessi. Egli ha pensato a noi, prima ancora che noi pensassimo a lui! Tra Gesù, Signore risorto ed oggi vivente, e noi, viandanti nel tempo e suoi commensali, Dio propone la Chiesa come luogo dell’incontro. Essa è il sacramento dell’incontro, a sua volta rifratto nei sacramenti e nello stile di vita della comunità. Ne deriva uno sviluppo integrato delle dimensioni biblica, ecclesiale e liturgica. Tutto si realizza tramite una narrazione evangelica della vita di Gesù, quasi una “lectio divina” continuata per illuminare la vita e la scelta dei giovani. Il linguaggio evangelico è certamente primario e centrale. L’espressione è volutamente semplice, sobria, comprensibile ai giovani, al di là dei diversi livelli culturali ed anche - lo sottolineiamo - intenzionalmente rispettosa di chi è ancora in ricerca. Il testo può essere accostato da ogni persona di buona volontà. Si chiede solo la lealtà del cuore e della ragione. Come disse Gesù, l’itinerario proposto si compendia in “vieni e vedi”. Poi verrà la decisione. Per questo il catechismo cerca un rapporto permanente tra fede e vita, tramite l’attenzione ad alcune domande profonde ed interiori, che caratterizzano l’esperienza dei giovani: dal senso dell’esperienza stessa, così gravata da incertezze eppur così stimolata alla ricerca, agli oggettivi impegni che interpellano la vita di un giovane nel lavoro, negli affetti, nell’impegno nel sociale, nell’assunzione di responsabilità anche nella politica. I riferimenti culturali specifici - personaggi, avvenimenti del nostro tempo, linguaggi e comportamenti di moda … - sono per quanto possibile evitati perché, se danno concretezza al cammino, altrettanto invecchiano e spariscono di scena. Sarà compito della catechesi viva trovare Spazi di ulteriore attualizzazione. Conviene ricordare inoltre che questo volume si inserisce nel disegno del “catechismo dei giovani” e dunque è in stretto rapporto con Io ho scelto voi di cui è il prolungamento approfondito, senza esserne una ripetizione. Si connette pure con il catechismo degli adulti La verità vi farà liberi, che rappresenta in certo modo lo sbocco maturo del cammino di fede qui proposto. Non mancano i riferimenti al Catechismo della Chiesa Cattolica, punto di riferimento per ogni testo catechistico. Lo dimostrano i continui rimandi ai due catechismi per un ulteriore sviluppo degli argomenti trattati. Compreso nella sua pedagogia, il catechismo stimola il catechista ad una comunicazione adeguata, a elaborare cioè le pagine del testo in un itinerario di fede. Vanno rispettati due criteri, uno che esprime l’anima dell’itinerario, l’altro il materiale che lo rende visibile. Il catechismo Venite e vedrete richiede un itinerario di fede in cui la figura del giovane appare interpellata direttamente: egli non è soltanto informato, ma coinvolto nella sequela di Gesù perché possa incontrare il Dio di Gesù e riceverne l’amore che salva e rende responsabile della propria vita. Tipico del catechismo è il dinamismo della vita cristiana, che è “chiamata e risposta”, “traditio” e “redditio”: iniziativa di Dio e risposta dell’uomo, dono gratuito e accoglienza libera e responsabile. In questo si manifesta il filo vocazionale che regge la proposta: al seguito del progetto di Gesù, scoprire il proprio posto in esso. Diverse sono le risorse pedagogico-didattiche per tradurre in concreto quest’anima dell’itinerario. - Anzitutto vanno valorizzate le introduzioni ai capitoli che, arricchite da espressive immagini fotografiche, offrono un primo materiale di aggancio al mondo dei giovani in relazione all’argomento trattato. - La riflessione catechistica si snoda in dieci capitoli, ciascuno dei quali è suddiviso in più unità tematiche e ognuna di esse è presentata in una successione di paragrafi. La narrazione, come già ricordato, utilizza un linguaggio semplice, ricco di tutti i riferimenti alle fonti catechistiche: la Bibbia, la Tradizione, il Magistero, la riflessione teologica. - Sparsi all’interno dei vari capitoli sono posti i “fuori testo” che aiutano a focalizzare un particolare problema enunciato nel corso della narrazione catechistica. - Prima della conclusione dei capitoli ( tranne che nel primo e nell’ultimo ) le “schede” aiutano ad approfondire alcuni testi o elementi fondamentali della fede: il Magnificat, il Padre Nostro, il Credo, i sacramenti dell’Ordine, dell’Unzione e del Matrimonio, i Comandamenti e le Beatitudini, la dottrina sociale della Chiesa. - Ogni capitolo termina con una sintesi che riassume i passaggi fondamentali dell’esposizione catechistica. - A chiusura dei capitoli, è proposta una rubrica “Per camminare nella fede” che costituisce non solo il momento contemplativo-celebrativo riferito alla tematica sviluppata, ma anche il possibile itinerario attorno al quale costruire il concreto cammino catechistico. Se ne indicano infatti gli elementi ineliminabili: un atteggiamento di contemplazione, le provocazioni che nascono a partire dalla vita dei giovani, l’ascolto della parola di Dio, la risonanza che essa ha avuto e ha nella vita della Chiesa, la risposta realizzata dalla preghiera, l’incontro con testimoni esemplari di vita cristiana, il convergere attorno ad un’unica fede professata. - È ben evidente anche il linguaggio delle immagini, con fotografie di particolare intensità, opere d’arte della scuola italiana di tutte le epoche e disegni che accompagnano e arricchiscono la narrazione con il richiamo alla dimensione simbolica. Il contributo offerto alla catechesi dei giovani da Venite e vedrete non risolve da solo i problemi connessi all’educazione cristiana della gioventù. Abbiamo ben presente la imprescindibile necessità di lavorare sempre di più per realizzare un contesto nuovo di pastorale giovanile, unico ambito entro cui realizzare vitalmente la proposta catechistica qui avanzata. “Le comunità cristiane di fronte alla carenza di relazioni educative, che provoca disagio ed emarginazione, avvertono l’urgenza di ripensare la pastorale giovanile, conferendole organicità e coerenza in un progetto globale, che sappia esaltare la genialità dei giovani e riconoscere in essa un’opportunità di grazia. Sono consapevoli che potranno mediare l’incontro vivo con il Signore Gesù, solo se sapranno essere luoghi di carità vissuta, laboratori di dedizione e condivisione” ( Conferenza Episcopale Italiana, Con il dono della carità dentro la storia, 39 ). “Le nuove generazioni, volto umano della speranza, sono per la Chiesa invito a volgere lo sguardo al Signore che fa “nuove tutte le cose” ( Ap 21,5 ); sono per tutti richiamo alle responsabilità verso il futuro” ( Ivi, 38 ). Cercare, incontrare e dimorare con Gesù significa realizzare nel modo migliore il cammino che d porta al Grande Giubileo del 2000. Non è facile promuovere e sostenere il servizio alla fede dei giovani, e per questo esortiamo fraternamente i catechisti dei giovani, gli animatori e chiunque opera con loro, a non aver paura, a non scoraggiarsi, a dare fiducia ai giovani, a educare la loro domanda, a camminare insieme da amici alla ricerca della dimora di Cristo, proponendo il Vangelo con un cuore grande, capace dì amare, di annunciare, di attendere, di provare ancora e di sperare sempre. Camillo Card. Ruini Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Roma, 30 marzo 1997 Domenica di Pasqua nella Risurrezione del Signore Introduzione La giovinezza ci pone davanti alla vita, con tutto il carico di promesse e di responsabilità che essa porta con sé. I sogni dell’adolescenza o diventano ideali capaci di sostenere le nostre azioni, o si infrangono nel confronto con la concretezza. Si avverte la necessità di fare delle scelte, di dare alle proprie mete, quelle di un anno come quelle di un giorno, contorni più stabili e definiti. Questo non significa abbassare il tiro o volare basso, ma piuttosto allargare l’orizzonte. E l’orizzonte è il punto in cui il cielo e la terra si toccano. Si scopre che non bastiamo a noi stessi, non ci bastano le nostre piccole abitudini e nemmeno i riti settimanali e quasi doverosi del divertimento. La vita che si apre davanti provoca desideri, ma sveglia anche la consapevolezza che tocca a noi trovare la strada per realizzarli e poi mettersi in cammino. La vita è avventura affascinante ma anche progetto serio, da gestire personalmente. E mentre nasce la voglia di girare il mondo per conoscerlo, cresce anche la necessità di imparare a fermarsi per riflettere e comprendere. Infatti nei momenti e nelle circostanze in cui bisogna operare scelte decisive per tutta l’esistenza, spesso diventa arduo distinguere il bene dal male, i veri dai falsi maestri. Questa voglia di cercare, questa passione che si rigenera dopo ogni tentativo di dissetarla, ricorrendo a volte a miscugli più o meno sofisticati, ci dice quanto sia “capace”, spazioso lo spirito dell’uomo e quanto debba essere grande ciò che può riempirlo. Questa grandezza non ci scoraggia: ci spinge invece a trovare concretamente qualche percorso. Scopriremo allora che voglia di cercare e passione di trovare non girano a vuoto. È Dio stesso che le suscita in noi; sono una promessa, non un miraggio. Possiamo scoprire che egli ha preceduto la nostra stessa ricerca. Dio cammina con gli uomini, è già al nostro fianco per garantire una meta al nostro cammino, per essere lui stesso la meta, la risposta al bisogno di incontrare qualcuno che con la sua amicizia riempia il nostro cuore. Cercare la verità CCC nn. 27-30; 37 CdA nn. 3-16; 470-480 CdG1 pp. 10-18 “Che cercate?”, chiede Gesù a due giovani. Si sono incamminati dietro di lui, ma non sanno ancora di aver raggiunto la meta della loro ricerca. Appassionati della vita e credenti ancora inquieti, si erano fatti discepoli del Battista. Ed egli ha appena indicato loro Gesù che passa, dicendo: “Ecco l’agnello di Dio!”. I due giovani, a queste parole, si mettono a seguire Gesù. Egli si volta verso di loro, vede che lo seguono e allora chiede: “Che cercate?”. Gli rispondono: “Maestro, dove abiti?”. E Gesù dice loro: “Venite e vedrete” ( Gv 1,36-39 ). Uno dei due è Andrea, fratello di Simon Pietro; l’altro, probabilmente, è lo stesso evangelista Giovanni. I Vangeli non ci danno una descrizione dettagliata della loro vita, della loro formazione e delle loro esperienze. Quanto ci dicono è però sufficiente a immaginarne il cammino, intessuto di attrazione verso Gesù, ma anche di timori. Ogni giovane può riconoscersi nella loro vicenda. La narrazione ha un valore esemplare, una validità per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Nel colloquio con questi due discepoli Gesù parla con noi; della sua verità noi, come i due discepoli, ci mettiamo in ascolto. Una domanda, tante domande “Che cercate?”: Con questa domanda Gesù si rivolge ai due giovani e fa emergere il senso della loro ricerca. Cercano il Messia, colui che solo può dare forza alle loro speranze. Vogliono una vita piena, al di là di ogni limite. Cercano la salvezza. Prima di loro, molti altri, pregando con i Salmi, avevano levato a Dio la loro preghiera appassionata: “Non nascondermi il tuo volto!” ( Sal 27,9 ). Avevano cercato risposte ai perché della vita, per soddisfare la loro sete di verità, portando all’altare del tempio la loro offerta. Ora, questi due giovani si rivolgono direttamente alla fonte stessa della vita: Gesù. Non cercano infatti una qualsiasi verità, ma qualcuno che li metta in grado di riconoscere ciò che ha senso per la vita. Come allora anche oggi Anche oggi, pur con qualche illusione di saperci dare da soli le risposte alle domande di vita, la ricerca di significato continua. È una ricerca fatta tutta in prima persona. Ciascuno di noi vuole e deve riconoscere dove sta il senso della propria esistenza. Non ci lasciamo più incantare da soluzioni già fatte o imposte per tutti, dalle ideologie e dai miti. È insufficiente fare come fanno tutti, prendendo in prestito risposte che non si attagliano alle nostre domande personali. Siamo consegnati alla nostra libertà, che è al tempo stesso solitudine e spazio di creatività. Tutta la vita è costellata di domande di significato. Si fanno esplicite nel mondo ampio dei rapporti umani, quando chiediamo e doniamo fiducia intessendo rapporti amichevoli. Affiorano prepotenti quando si fa esperienza dell’amore e magari ci si orienta a dedicare la vita alla persona amata; quando ci viene chiesto di spendere energie per un lavoro ora gratificante, ora troppo ripetitivo, ma sempre necessario. Si fanno acute quando siamo davanti a sconfitte o a delusioni inevitabili, di fronte alla malattia o alla morte. A ben guardare, le tante domande ne contengono una sola: come spendere la vita, perché sia piena? È il progetto globale della nostra vita che è in questione quando ci interroghiamo sul significato profondo dell’esistenza. Nel momento in cui si cerca felicità, amore, speranza, pace, giustizia, si chiede significato pieno per la propria vita. Privi di questo orizzonte sperimentiamo - come accade oggi a tanti uomini - l’incertezza, il vuoto, l’angoscia. Solo nella certezza di un significato la, vita si illumina e noi riusciamo ad accettare noi stessi, gli altri, il mondo. I due giovani alla ricerca del Messia sono immagine della nostra ricerca, anche se non siamo ancora approdati a lui, o nessuno ancora ce lo ha fatto incontrare. Tante risposte, una risposta La domanda di significato non si zittisce facilmente. Forse può venire accantonata per qualche tempo. Le risposte sofisticate della tecnica o quelle raffinate della produzione dei beni non riescono a surrogarla. La domanda di significato cerca una risposta religiosa, al di là dei limiti di durata delle cose, più in là dell’esplodere e del raffreddarsi delle nostre emozioni. Essa è proiettata a una risposta trascendente e non dà pace, finché non ci orientiamo verso quella direzione. Purtroppo la ricerca si disperde sovente in tanti rivoli; soprattutto, non sempre incontra persone capaci di risposte autentiche. Non di rado spuntano imbonitori di ogni tipo, venditori di speranze a poco prezzo, santoni e maghi che sfruttano la sete inestinguibile di assoluto. Ma la magia, il fascino dello straordinario, il culto della natura, le promesse di un oroscopo non sono in grado di rispondere adeguatamente alle richieste della vita. I due giovani del Vangelo hanno la fortuna di incontrare una persona che, invece di accontentarli a buon mercato, li coinvolge in una ricerca di vita senz’altro ardua, ma decisiva. Non è certo facile orientarsi nel mondo delle risposte religiose, soprattutto in questi nostri giorni caratterizzati dalla facilità di scambio delle esperienze e delle conoscenze. I grandi movimenti migratori e lo sviluppo vertiginoso dei mezzi della comunicazione hanno favorito la compresenza di più culture nello stesso territorio, cosa inimmaginabile solo qualche decennio fa. Le stesse grandi religioni storiche, che hanno dato e danno prospettiva di salvezza a molti popoli, ieri isolate nel loro alveo geografico, abitano oggi le nostre contrade. Nel nostro paese, oltre alla presenza millenaria degli ebrei, ci sono immigrati che professano religioni come il buddismo, l’islam e l’induismo. Inoltre, a dispetto di chi negli anni passati aveva predicato la scomparsa del sacro e del sentimento religioso, profetizzando la “morte di Dio”, hanno fatto la loro comparsa nuovi movimenti religiosi. Si tratta di sette religiose di origine cristiana o orientale o di carattere gnostico. La compattezza ideologica e di gruppo che esse offrono rappresenta un richiamo fascinoso soprattutto per chi vive momenti traumatici della vita. Ma accanto alle sette si diffonde anche un movimento dai contorni sfumati che mescola insieme tecniche psicologiche e dietetiche, astrologia e pratiche esoteriche, veicolato da una specifica letteratura e da accattivanti produzioni musicali. È la cosiddetta “new age”, una “filosofia” dello spirito che con la sua proposta di fiducia incondizionata nella vita e di ricerca dell’armonia interiore e cosmica non manca di attirare la curiosità del mondo giovanile, offrendo la proposta di un’unica grande religione universale che porta a Compimento l’aspirazione antica del superamento di ogni barriera religiosa nella ricerca dell’unico Dio. La sincera ricerca religiosa dei giovani è ulteriormente resa complessa, se non addirittura ostacolata dalla tendenza presente nelle culture occidentali a declassare ogni verità in opinione, scavalcando il richiamo all’assolutezza e planando sul campo della relatività. Così viene facile accogliere tutto quello che si scopre utile e positivo nelle religioni e nelle filosofie per costruire in modo autonomo una propria religione, una propria visione della vita. Si tratta di un processo mentale non sempre cosciente, che spinge verso il soddisfacimento dei bisogni religiosi attraverso la scelta di ideali, valori, dottrine, comportamenti e riti alla portata delle proprie aspirazioni e capacità, così come si farebbe entrando in un ipotetico supermercato che offre, magari a prezzi scontati, i migliori “prodotti” religiosi. È un “fai-da-te” stimolante, perché dà l’impressione di costruire qualcosa in modo molto personale e, insieme, molto libero. Ci sono anche tentativi di risposta al significato dell’esistenza che risultano fuorvianti a causa della loro parzialità. È il caso di quelle “fedi” che sfociano in forme di fanatismo religioso o, all’opposto, nell’indifferenza e nell’agnosticismo. In un caso o nell’altro si è davanti all’incapacità di dialogare con le domande profonde dell’uomo e della storia. Da un lato l’intolleranza maschera una tipologia di fede soggettiva non fondata criticamente e quindi esposta alla paura del confronto e della perdita della propria identità. Dall’altro lato l’esasperazione dell’autonomia della ragione, appellandosi al disincanto della maturità, propone di affidare alla sua sola forza il compito di elaborare risposte alle domande sull’uomo, sul suo destino, sull’orientamento della sue scelte, sul significato di giustizia, libertà, pace. Il pluralismo tuttavia non è solo al di là o prima dell’incontro con l’esperienza della fede cristiana. Esso vive anche all’interno delle comunità che dicono di professare un’unica fede in Cristo, generando esperienze diversificate che possono arricchire i credenti oppure disorientarli. Per questo è necessario una ricerca che sappia unire la passione alla capacità critica, in modo da discernere ciò che è frutto del doveroso compito di dialogare con le tante culture dalle accentuazioni che portano ad enfatizzare alcuni tratti di verità a scapito di altri. Ci vuole coraggio per aprire il proprio cammino alla verità, in quanto essa libera la vita dalle catene di ogni schiavitù e la orienta verso basi solide, poggiando su criteri che resistono alle mode e alle soluzioni di comodo. Interrogare la persona di Gesù, ascoltare la proposta del suo Vangelo è un tutt’uno con la ricerca di verità che stiamo compiendo. I due giovani del Vangelo hanno percepito che l’insegnamento di Giovanni li spingeva a qualcosa di ancor più grande e definitivo. Per questo si rivolgono a Gesù. Iniziano così un cammino, che lentamente, ma decisamente, cambia la loro vita e li rende partecipi di una verità della quale diventeranno testimoni operosi. In Gesù ritroviamo Dio L’uomo non può fare a meno di desiderare Dio. Nessuna creatura può fare a meno del Creatore, ma l’uomo è l’unico essere al mondo che sente questo desiderio e sa di sentirlo. Anche quando si nega Dio, non si può negare la sete d’infinito che ci portiamo dentro. Facciamo l’esperienza di qualche scintilla d’amore e desideriamo un amore sempre più grande. Ci incanta la bellezza di un tramonto, di un fiore, di un volto e vorremmo che quell’incontro non finisse mai. I frammenti di verità che a fatica riusciamo a trovare, ci si presentano spesso frammisti ad errori, incertezze e a parzialità esasperate, e ci rinviano sempre ad una verità incontaminata, senza l’ombra di alcun dubbio. Quando ci capita di fare un po’ di bene e sentiamo la spinta a donarci, sperimentiamo spesso l’insufficienza della nostra generosità e vorremmo intraprendere la strada di un amore totale, gratuito, irreversibile. Il cuore di ogni uomo e di ogni donna è piccolo, ma si porta dentro il desiderio di assoluto, di eterno, di infinito. Questo desiderio ha un nome: Dio. Perché l’uomo è stato creato da Dio e solo in Dio può trovare la verità e soddisfare la sete di quella felicità che cerca senza posa. In questa ricerca incontriamo Gesù. Egli ci attrae perché lo vediamo sincero fino a pagare il prezzo più alto per la verità che annuncia; lo vediamo umile, totalmente disinteressato, sempre disponibile fino a donare la vita. Eppure ci si presenta con una pretesa inaudita: non è un profeta che parla in nome di Dio, non si comporta come un fondatore di una grande religione che chiede l’adesione ad un nobile e alto ideale. Gesù chiede di aderire alla sua persona perché sa di essere Dio. Di fronte a lui l’uomo è come un ammalato nel suo letto: i biglietti di auguri e i mazzi di fiori non possono sostituire il conforto che può venire solo se l’amico o il parente si rende presente di persona. Per quanto santo possa essere un uomo o una donna, per quanto vere e decisive possano risultare le sue parole o puri ed eroici i suoi gesti, noi desideriamo incontrare non semplicemente un santo, sia pure inviato da Dio, ma la santità in assoluto. Solo Dio può spegnere il desiderio di Dio. “Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” ( Sal 27,8-9 ); ognuno di noi può sottoscrivere questa preghiera. In Gesù il volto del Dio invisibile si rende visibilmente presente: incontrare Gesù è incontrare Dio. In lui ritroviamo noi stessi Alle nostre domande non bastano le risposte di una dottrina, di una scuola di vita. Come i due giovani del Vangelo, noi cerchiamo un Messia, cioè un Salvatore: qualcuno che, rivelando la sua identità, riveli insieme chi siamo noi; parlando della sua vita, dia significato alla nostra; spiegando le sue scelte, orienti le nostre. Noi cerchiamo qualcuno che sia Messia-Salvatore, una persona nella cui vita Dio stesso ci raggiunga, ci risponda, ci metta in cammino. Andiamo da Gesù con le nostre domande ed egli risponde ravvivando ancor più la nostra ricerca. Si rivolge anche a noi dicendo: “Che cosa cercate?”, e così ci spinge a una risposta complessa, che ci obbliga ad approfondire la nostra stessa domanda, fino a scoprirne un senso più profondo: “Chi cercate?”. È lui Che Ci introduce all’incontro con Dio stesso, indispensabile a ogni vita che voglia essere piena. Alla luce delle sue parole leggiamo la nostra vita. Chiedendo di lui, scopriremo che la sua vita è donarsi, e proporrà a noi di essere, come lui, dono per gli altri. Chi vorrà salvare la propria vita, accumulando e tenendo per sé, la perderà: chi, come lui, scoprendosi amato da Dio, farà di se stesso e della propria vita un dono, avrà trovato il segreto che dà senso al vivere, anche quando fosse fatica o dolore. L’incontro con Cristo non censura i progetti e i frutti della ricerca umana, ma li discerne, li assume in un quadro più grande, li conduce a quella pienezza cui l’uomo anela. Colui che ha detto: “Io sono la verità”, non ci offre verità astratte, ma ci introduce nella vita. Egli è anche “la vita” e “la via” per raggiungerla ( Gv 14,6 ). Quel giorno si fermarono presso di lui CCC nn. 36; 38; 65; 166-169 ( vedi pure nn. 50-64 ) CdA nn. 36-38; 41-53 CdG1 pp. 19-20; 253-255 I due giovani del Vangelo accettano la proposta di Gesù: “Venite e vedrete”. Vanno e si fermano presso di lui ( Gv 1,39 ). La fede nasce da un’esperienza, la risposta approda a un incontro. Gesù, infatti, non è una verità astratta di cui impadronirsi, ma una persona. Il ritmo della vita di oggi ci ha insinuato l’idea che tutto si giochi in decisioni immediate, azioni rapide: tutto subito. Non è così per lo sviluppo di abilità agonistiche e sportive, non così per l’apprendimento di un’arte, per la formazione del carattere, per l’esperienza dell’amore. Anche le più belle esperienze di servizio o di volontariato non sono il diario di qualche sporadica buona azione, ma una esperienza consolidata di vita, di ascolto, di dono, di sentirsi a disposizione dell’urgenza dell’altro. Chi decide di offrire la propria vita a Dio nella verginità o nel matrimonio, vive un lento, gioioso, tirocinio di amore, in cui impara a stabilire con l’altro o l’altra una reciprocità costruttiva. Una novità di vita non si improvvisa; il dono di sé esige di sapersi fermare, prendere in mano la vita, abbandonare la pigrizia della conformità, ritrovare se stessi, permettere a una nuova presenza di dispiegarsi e di trasformarci. Così è stato per i discepoli di Gesù. Questa esperienza, decisiva adesso come allora, rimane possibile anche per noi, grazie allo Spirito, che ci guida alla verità tutta intera e ci annuncia pienamente il mistero del Salvatore ( Gv 16,13-15 ). Questa progressiva scoperta è la vita spirituale: non è solo uno stato di coscienza interiore, ma è una viva presenza di Dio che impegna tutta la nostra persona e i nostri rapporti con gli altri. La certezza che non siamo soli determina dall’interno l’orizzonte dell’esistenza. Discepoli Una piccola esperienza di amore, di libertà o di pace ci allarga gli orizzonti e ci fa intuire che ci sono un amore, una libertà, una pace più profondi di quelli vissuti e assaporati. Il senso della vita e del mondo è un mistero che abbraccia la nostra esistenza; talora ci illumina e ci riscalda il cuore; a volte, non riuscendo a percepirlo, camminiamo nella fiducia di poterlo raggiungere in esperienze più profonde. E non potrebbe essere questo il mistero del “Dio vivente” ( Dt 5,26 ), che da sempre sostiene il cammino della nostra vita? Non può essere questo il volto del “Dio ignoto” ( At 17,23 ), che invita a muoverci con coraggio, anche in mezzo alle difficoltà, per cogliere nel profondo i segni della sua presenza? Non è forse Dio quella Pace che rende possibili le nostre realizzazioni di pace, quella Libertà che sorregge e fortifica i nostri cammini di libertà, quell’Amore che ci rende possibili le nostre più vere esperienze di amore? E non è forse, infine, il mistero di Dio quella Vita che dà speranza gioiosa anche al compimento della nostra vita terrena? All’inizio e alla fine della ricerca si affaccia il mistero di Dio, come il Principio che tutto sorregge e come il Compimento che tutto illumina e tutto porta a pienezza. Il nostro cuore inquieto cerca lui e nella fiducia in lui trova la sua pace. Restare con Gesù e ascoltare quanto egli dice su Dio, Padre suo e Padre nostro, è introdursi in questa esperienza. La vita spirituale è, così, scoprirsi discepoli di un Dio che d viene incontro e d parla. L’incontro di amore con Dio Padre, rivela chi noi siamo: figli, amati da sempre e per sempre. Confessare questa attiva presenza di Dio è il compito della fede e della preghiera. Esse ci fanno riconoscere che noi siamo viventi in Dio, perché lui è Padre e noi siamo figli suoi. Se facciamo nostra questa esperienza di fede, essa opera un discernimento sulla nostra vita, fa decadere come inconsistente la nostra presunzione e fa crescere in noi il credente e il discepolo. Fratelli Nel cercare risposte alle nostre numerose domande, spesso pensiamo di doverci muovere da soli. Ci sono certo gli amici, ci sono i compagni di studi o di lavoro, di squadra o di avventura, c’è anche qualche esperienza di gruppo formativo o associativo, ma alla fine sentiamo che tocca a noi decidere. Da soli pensiamo anche di godere delle nostre conquiste. Eppure sentiamo che la nostra vita non è salvata, la nostra ricerca non è appagata, se non modifichiamo i nostri rapporti con gli altri. Sappiamo che star bene non basta, se non è uno star bene insieme. L’esperienza di fede matura sempre dentro una comunità e conduce a vivere inseriti in una comunità rinnovata nei suoi rapporti. I due giovani del Vangelo cercano insieme e insieme vengono introdotti all’incontro con Gesù: “Venite e vedrete”. La fraternità nella ricerca li porta alla fraternità nell’esperienza dello stare con Gesù. Egli li conduce, poco a poco, a una duplice comunione: quella con gli altri discepoli, pur così diversi per estrazione e temperamento, e, più oltre, alla comunione stessa con Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. Scoprono che la comunione con Dio fonda la possibilità di vivere da fratelli. Questa fraternità si sviluppa nella Chiesa. In essa ogni persona giunge a Cristo, lo incontra e rivive l’esperienza di comunione con Dio e con i fratelli. Questa è la risposta alla domanda di vita piena dei due giovani del Vangelo. Incontrare Gesù è possibile anche oggi: “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!” ( Eb 13,8 ). È possibile vivere con lui e con lui percorrere il cammino della vita. L’incontro con Gesù nasce nella Chiesa e conduce alla Chiesa. Apostoli Dopo essersi fermati “presso” Gesù, i due giovani del Vangelo incontrano Simone, fratello di Andrea, e gli dicono: “Abbiamo trovato il Messia”. Il Messia era atteso come salvatore, capace di rispondere alle domande più profonde di ogni uomo e di appagarne il desiderio di vita piena. Ma egli era atteso anche come salvatore di un intero popolo, Israele, di persone legate tra loro inscindibilmente da una storia comune. Ed è questa stessa storia, l’intero popolo che domanda un salvatore. Diverse erano le attese sulla figura del Messia, tanto da risultare difficile descriverlo in un’unica forma compiuta. L’Antico Testamento ne parla da angolature diverse, secondo le molteplici accentuazioni delle attese del popolo. Giovanni il Battezzatore aveva guidato i due giovani discepoli a riconoscere in Gesù il Messia, come “Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Gesù Cristo è Messia-Salvatore, non perché si mette a capo di un esercito di liberazione, ma perché toglie il peccato del mondo e rende possibile agli uomini vivere nella carità, unica via per la pienezza di vita. Gesù è Messia perché vince il male con il bene, l’arroganza con la mitezza, la prepotenza con il servizio. Nel “discorso della montagna”, considerato lo statuto del nuovo popolo di Dio, chiede a chi vuol essere suo discepolo una carità che può venire solo da Dio: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste” ( Mt 5,44-45 ). È il programma dell’intera vita di Gesù che, anche sulla croce, invoca il perdono per quanti lo hanno condannato ( Lc 23,34 ). Donandoci lo Spirito, l’Amore stesso che è in Dio, Gesù va oltre un insegnamento puramente dottrinale, rendendoci realmente capaci di amare come Dio ama. Qui sta la salvezza per ciascuno di noi e per l’intera famiglia umana, perché soltanto rapporti di carità possono rendere questo mondo luogo di vita. “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” aveva detto Dio consegnando la Legge al suo popolo ( Dt 30,15 ). Gesù rende perfetta questa Legge nel comandamento dell’amore, consegnandolo al definitivo popolo di Dio, la Chiesa. La carità, nel comandamento dell’amore, regola ogni progetto di convivenza tra i cristiani, converte ogni politica e fonda ogni modello di società, aperta al rispetto e al dialogo. Così Gesù è Messia-Salvatore di un intero popolo, non soltanto di singole persone. Tu sei il Figlio di Dio CCC nn. 142-143; 150; 153-158; 160-165; 166-184 CdA nn. 86-93 L’incontro dei due giovani del Vangelo con Gesù, lo stare con lui, matura in loro la decisione di seguirlo. Giovanni il Battezzatore li ha condotti fin sulla soglia dell’incontro e li ha invitati a riconoscere in Gesù il Messia che vanno cercando: “Ecco l’Agnello di Dio. Ecco colui che toglie i peccati del mondo”. Da quell’incontro ne scaturiscono altri: quelli con Simone, il fratello di Andrea, che Gesù chiamerà Pietro, e poi con Filippo e, attraverso di lui, con Natanaèle. Quest’ultimo è un altro giovane in ricerca, forse appesantito da pregiudizi. “Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?”, obietta a Filippo che lo invita a incontrare Gesù. Ma anche per Natanaèle l’incontro con Gesù si rivela decisivo. Si sente conosciuto profondamente da lui nella sua ricerca e anch’egli si decide per la fede: “Tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re di Israele” ( Gv 1,40-51 ). Decidersi Ci sono momenti nella vita nei quali urge prendere decisioni: se e come continuare un’esperienza affettiva con un’altra persona; verso quale lavoro orientarsi, conciliando le aspirazioni personali con le esigenze di fatto; come spendere il periodo di leva a servizio della collettività; a quale progetto politico aderire con il proprio voto o con una collaborazione più attiva; se fare nella vita un anno di volontariato, se proseguire gli studi, se continuare l’appartenenza a un’esperienza formativa ecclesiale … Non è facile decidersi. Talvolta vorremmo che altri decidessero per noi, come quando eravamo bambini; oppure ci illudiamo che, lasciando tempo al tempo, le scelte si producano da sole, senza il nostro impegno. Altre volte una sorta di timore di fronte a scelte definitive ci porta a operare in modo da precostituirci sempre una via di uscita, quasi si abbia il sospetto che la definitività comporti una diminuzione della personalità e della libertà. Alla fine, senza aver deciso, ci troviamo incamminati su una via non scelta da noi, ma che altri con furbizia, talora con inganno, sempre con la nostra acquiescenza, hanno operato al posto nostro.  Una decisione intelligente Come per il giovane Natanaèle, anche per noi la decisione di fede esige il superamento di pregiudizi. Vuole essere una decisione intelligente e critica. Anche se il mistero divino trascende l’indagine umana, la fede interroga ugualmente l’intelligenza e ne chiede il sostegno. L’atto di fede è un atto intellettualmente onesto e umanamente sensato. Esprime l’amore con cui la persona si sente attratta da Dio e, contemporaneamente, trasforma e migliora la realtà quotidiana, dove il credente vive e opera. Certo, una comprensione matura della vita di fede è possibile solo al termine di un cammino, ma fin dall’inizio è offerto a chi crede il significato e le motivazioni su cui costruire la sua vita personale. L’intelligenza credente legge il presente non solo alla luce del passato, delle leggi sociologiche o comportamentali, economiche o fisiche, ma come realtà che ricerca il suo fine ultimo, quell’assoluto che trascende ogni tempo e ogni costrizione. La ragione umana non contrappone fede e scienza, né viene umiliata dall’esperienza religiosa, anzi fa fecondamente interagire scoperta scientifica e mistero divino, ricerca e intuizione, argomentazione e rivelazione. Tutta la persona ne è coinvolta La decisione di fede impegna la persona in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue dinamiche. È sempre faticosa e non priva di conflitti. Si deve infatti fare i conti non solo con le proprie caratteristiche, con la storia passata, con le possibilità e i limiti, ma anche con situazioni non sempre ideali. La decisione di fede ha il suo percorso, non nasce a caso. Sono necessari criteri di valore, ma anche allenamento a formulare giudizi che permettano di intravedere come i valori possano prendere corpo nelle situazioni concrete. Il confronto con gli altri e il consiglio di persone sagge sono importanti in questo allenamento a valutare e a discernere. Anche se l’incontro con Cristo, come evento divino di grazia, ha un carattere perentorio e definitivo, la decisione di fede si distende lungo un cammino, che progressivamente integra tutti gli aspetti della nostra persona nella volontà di vivere per Dio, alla sequela di Gesù. In questo cammino intelligenza e affettività, relazioni e aspirazioni, dolori e gioie vengono orientati verso un orizzonte che è Dio stesso, ma insieme maturano la nostra identità. Nelle decisioni prese, ciascuno definisce chi vuole essere e costruisce la propria personalità, chiudendosi o aprendosi agli altri. Quando si percepisce e si accoglie l’altro come un dono, ci si apre a lui con rispetto e con fiducia, con sincerità e amore. Se, invece, l’altro è visto come una minaccia o come un estraneo, allora ci si chiude facilmente nell’indifferenza o, peggio, si reagisce con aggressività e con violenza. Se poi lo si vede come un mezzo di cui servirsi, si ricorre anche alla manipolazione per ottenere ciò che è nel proprio interesse. Il messaggio evangelico e l’esperienza di fede insegnano che la chiusura condanna alla povertà e allo spreco della vita, mentre nel dono di sé, espresso nelle innumerevoli forme dell’amore, l’uomo raggiunge la piena maturità. Si rende in questo modo capace di accogliere lo straordinario dono di Dio, che è presente in ogni persona e porta l’impronta del mistero di Dio: “Facciamo l’uomo ( tutti gli uomini ) a nostra immagine e somiglianza” ( Gen 1,26 ). Ogni fatto della vita e ogni dinamica dell’esistenza chiama in causa il nostro credere in Dio; ogni momento esige l’esercizio responsabile della fede. Tutta la vita del credente diventa dono e compito. Fede e responsabilità si saldano insieme, si esigono e si rafforzano a vicenda. Una decisione impegnativa Intelligente e totalizzante, la decisione di fede è anche impegnativa. Legarsi al mistero di Cristo non è un fatto pacifico e spontaneo, ma esigente e perfino drammatico: chiede di prendere su di sé la croce ( Mc 8,34 ), di vivere quella “stoltezza di Dio” ( 1 Cor 1,25 ), per la quale Gesù si è donato completamente, fino a morire; di respingere la “sapienza di questo mondo” ( 1 Cor 1,20 ), che si esaurisce nell’affermazione di sé, nell’autoesaltazione dell’uomo e della sua storia. Credere è passare sempre attraverso la porta stretta della conversione, del cambiamento del cuore. Questo scontro fra la carne e lo spirito, fra la verità e la menzogna non può essere passato sotto silenzio, né può essere evitato da alcun discepolo. La decisione di fede esige il coraggio di camminare controcorrente, di sottoporre a giudizio critico i modelli di vita che ci vengono proposti come scontati. In questo rifiuto della pura immediatezza si risente l’eco del confronto e della scelta fra JHWH e gli idoli, fra il Dio vero e le divinità apparenti. Anche oggi, come a Sichem, è venuta l’ora di scegliere tra il servire il Signore o gli idoli ( Gs 24,1-28 ), perché osi crede osi cade nell’idolatria con le sue manifestazioni antiche e moderne. La decisione di fede appare cosi una decisione sofferta, segnata da tanti momenti di gioia, ma anche da fatica e da fragilità. Appare però l’impegno permanente e indispensabile per orientare la vita alla verità e per aderire a quella verità riconosciuta in Cristo. Senza decisione la vita si svela come un vagabondaggio spirituale, dove l’assommarsi delle esperienze non insegna nulla e non conduce da nessuna parte. La decisione di fede, invece, sviluppa quella fiducia che abbiamo incontrato nei discepoli, fino a renderla terreno fertile per l’incontro impegnativo e risolutivo con Gesù. Attorno a questa decisione nasce il discepolo, nasce colui che, mentre sceglie Cristo, giunge alla scoperta del proprio io, alla maturità della propria personalità. Solo nell’incontro con Cristo trova piena realizzazione il dinamismo dell’esistenza: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” ( Gaudium et spes, 22 ). Vedrai cose più grandi CCC nn. 27; 30; 163-165 CdA nn. 10-16 CdG1 pp. 21-24 Gesù si rivolge ai due giovani che lo seguono dicendo loro: “Venite e vedrete”. Di fronte all’atto di fede di Natanaèle Gesù promette: “Vedrai cose più grandi”. L’esperienza dell’incontro con Dio è l’esperienza di una promessa che non si esaurisce nel presente. La fede in Gesù lega la nostra persona alla sua persona; la nostra vita alla sua, così che il suo futuro è anche il nostro. E quel futuro, promesso da Dio, già realizzato in Gesù, supera ogni nostro desiderio ( 1 Cor 2,9 ). Sperare è poter vivere, soprattutto lungo la giovinezza, mentre si attendono i frutti di una vita matura. Senza speranza nel futuro, anche il presente diventa inaffrontabile.  Attesa e desiderio Chi vuole tutto subito, è incapace di attesa e di speranza: rischia di diventare violento manipolatore delle persone e delle cose, in vista di ottenere a qualsiasi costo ciò che vuole. L’attesa, invece, si arma di pazienza e costanza, perché ciò che speriamo tarda a venirci incontro e noi siamo sottoposti alla prova. Pazienza e costanza devono essere ancora più forti quando i beni sperati sono grandi e decisivi per la realizzazione della vita. Un amore profondo e stabile, relazioni sincere e pacifiche, l’attesa di un mondo più giusto: non tutto dipende solo da noi, ma chiede costanza nell’operare per quanto speriamo. La preghiera mantiene vivo il desiderio e colloca la speranza nella sua giusta dimensione, perché riconosce che, alla fine, tutto è dono. Oltre ogni nostro potere e ogni nostra delusione Sono tante le speranze che fioriscono, soprattutto lungo la giovinezza. Da quelle più normali - della salute, di un progetto realizzato, della gioia di un amore dato e ricevuto - a quelle più grandi, tutte hanno un denominatore comune: non sono completamente in nostro potere. Ognuna, però, prima ancora di venire realizzata, è già in se stessa un dono, perché ci rende vivi. Le speranze realizzate rinnovano la forza di continuare a sperare. Non tutto si compie secondo le modalità attese. Ne hanno fatto esperienza anche i discepoli di Gesù, sospinti più di una volta a superare le loro aspettative umane. Le delusioni, sia quelle che riguardano la propria persona sia quelle che si riferiscono alla costruzione di una convivenza umana più giusta, costituiscono certamente una prova e possono determinare momenti di crisi, ma possono anche essere una salutare medicina, che libera dal pericolo delle illusioni e delle ingenuità. La delusione, faticosamente accettata, collocata nel dialogo-lotta della preghiera e dell’incontro con Gesù, permette di vedere più chiaro dove sta il vero bene e apre alla speranza di un bene più grande. I discepoli di Gesù anche nei momenti più dolorosi, quando si affacciano al loro cuore la delusione e la tristezza o quando constatano la loro infedeltà, non cadono nella disperazione. L’esperienza del Risorto, il vedere adempiute - e ben oltre le aspettative - le promesse di Gesù, matura in loro la confidenza in Dio e nel compiersi del suo regno. Verso un pieno e definitivo compimento Nelle giornate di fatica e di gioia ci sostiene la certezza che un giorno tutte le nostre cadute e i nostri piccoli fallimenti potranno essere vinti e recuperati e che i nostri buoni risultati saranno confermati per sempre. Noi speriamo che anche la morte possa essere vinta e diventi il luogo della nostra pienezza di vita. E non è forse proprio lo Spirito del Dio della speranza a sorreggere e alimentare questa tensione, che non cede mai di fronte a nessuna delusione e a nessuna sconfitta? Allora acquista un senso affidarsi a Dio come a colui che è più grande dell’uomo, che supera ogni realtà sotto il sole, ma che ha lasciato una traccia di sé dentro di noi. La speranza inspiegabile di cui l’uomo vive, attraverso i suoi molti volti, manifesta questa nostalgia dell’Assoluto ed è sostenuta e nutrita dall’incontro con una persona e il suo mistero: “Cristo Gesù, nostra speranza” ( 1 Tm 1,1 ). La nostra ricerca ci conduce all’incontro con Gesù e diventa speranza di vita piena. Non si esaurisce nella tranquillità di una vita comoda, chiusa nel perimetro angusto dei nostri interessi, ma esige il coraggio della missione, senza altra garanzia che Dio e la sua fedeltà, per spendere la nostra vita nell’amore. Cercare, dimorare, decidersi, sperare: sono le quattro dinamiche fondamentali del cammino dei due discepoli, di cui parla l’evangelista Giovanni. Lo sono anche del nostro cammino: appaiono momenti basilari, prospettive decisive, a cui sempre occorre tornare. All’inizio di questo percorso catechistico, questi atteggiamenti ci ricordano quanto sia impegnativo incontrare veramente il Signore. Ci è naturale, allora, affidare a lui questo cammino con le parole di Sant’Agostino: “Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te” ( Sant’Agostino, Confessioni, I, 1, 1 ). Unicità di Cristo Salvatore e dialogo con le altre religioni ( fuori testo ) CCC nn. 839-848 CdA nn. 581-605 Nel suo desiderio di rispondere alla domanda di significato e di pienezza che si agita nel cuore dell’uomo, la Chiesa incontra altre esperienze religiose, altre fedi che a loro volta hanno cercato e cercano – per vie diverse e con differenti percezioni – di scrutare il disegno di salvezza di Dio. Con bella espressione, il Concilio Vaticano II ha parlato, a proposito ditale ricerca, di “semi del Verbo”. Ogni dimensione religiosa, esprime questa tensione all’assoluto e a Dio. La Chiesa non può rimanere indifferente o peggio ancora ostile davanti a tali ricerche, ma deve trovare con passione le vie del dialogo e dell’incontro. I cristiani devono scoprire “con gioia e rispetto i semi del Verbo” ( Ad gentes 11 ) nascosti nelle diverse tradizioni religiose. Accettare e ricercare il dialogo non vuol dire infatti perdere la propria identità; al contrario “le altre religioni costituiscono una sfida positiva per la Chiesa: la stimolano, infatti, sia a scoprire e a riconoscere i segni della presenza del Cristo e dell’azione dello Spirito, sia ad approfondire la propria identità e a testimoniare l’integrità della rivelazione, di cui è depositaria per il bene di tutti” ( Redemptoris missio 56 ). Così, la missione che Gesù ha affidato ai suoi parte spesso proprio da questa dimensione di dialogo. “Che cercate?”: è da una domanda, da un dialogo, che inizia l’incontro con Gesù. È l’incontro aperto con ogni uomo, così come fece il Signore con quei due giovani. È il dialogo con esponenti di altre religioni, per testimoniare una fede che non si rafforza nella chiusura e nell’esclusione, ma nell’apertura generosa verso tutto e tutti. Tale atteggiamento è agli antipodi da qualsiasi fanatismo desideroso di imporre la propria fede e di condannare senza appello chi non vi aderisca, ma è anche lontano dal desiderio di accostarsi alla dimensione religiosa utilizzando, secondo la propria sensibilità o tornaconto, aspetti scomposti di diverse fedi. La buona notizia di Gesù è che la vita piena, la salvezza, la gioia che non passa, sono possibili solo seguendo lui. “Risalendo alle origini della Chiesa, troviamo chiaramente affermato che Cristo è l’unico salvatore di tutti, colui che solo è in grado di rivelare Dio e di condurre a Dio. [ … ] Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini [ … ]. Questa sua mediazione unica e universale, lungi dall’essere di ostacolo al cammino verso Dio, è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza. Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari” ( Redemptoris missio, 5 ). Ma seguire Gesù è imparare ad amarlo e ad amare ogni uomo. Amare il Signore e amare ogni uomo libera il discepolo da ogni paura e Io rende disponibile alla testimonianza così come al dialogo. La Chiesa infatti si trova a vivere nel mondo e, fatto ancor più decisivo, è chiamata a testimoniare con generosità di essere stata inviata al mondo per testimoniare che il motivo ultimo della sua esistenza è annunciare il Regno che viene ed offrirsi come dono d’amore a tutti. La sua intima vocazione la chiama infatti ad un atteggiamento di servizio verso il genere umano: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” ( Mc 16,15 ). La buona notizia che i cristiani sono chiamati a testimoniare è un annuncio ed una proposta, ma anche apertura al dialogo e all’incontro. La Chiesa si sente impegnata al dialogo soprattutto a motivo della sua fede. L’incontro e il dialogo non nascono quindi da considerazioni di opportunismo o di tattica, ma manifestano uno dei tratti fondamentali dell’annuncio cristiano: “Il dialogo interreligioso la parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. Inteso come metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco, esso non è in contrapposizione con la missione ad gentes, anzi ha speciali legami con essa e ne è un’espressione. Tale missione, infatti, ha per destinatari gli uomini che non conoscono Cristo e il suo Vangelo, ed in gran maggioranza appartengono ad altre religioni” ( Redemptoris missio, 55 ). Fede, scienza, magia ( fuori testo ) CCC nn. 159; 2115-2117 CdA nn. 358; 362 Quando si tocca il tema del rapporto tra scienza e fede non pochi avvertono un profondo disagio: alla precisa competenza culturale e scientifica non sempre corrisponde un bagaglio consistente di conoscenze religiose arricchito da una fede consolidata e matura. Questo squilibrio porta a tacitare ora le domande dello “scienziato”, ora quelle del “credente”. A seconda dei casi viene invocato, per le zone d’ombra dell’esistenza, il “Dio tappabuchi” oppure il “Dio del cuore”, rinunciando ad una onesta e responsabile ricerca sulle verità della fede. Si tratta di soluzioni insoddisfacenti, che non possono eliminare la specifica identità della conoscenza scientifica e di quella dell’adesione di fede. Il mondo in cui viviamo, rispetto al passato, è radicalmente mutato grazie alla scienza e alle sue applicazioni tecnologiche. La nostra cultura sembra affascinata dal pensiero scientifico caratterizzato da una particolare evidenza e affidabilità grazie al ricorso ai metodi sperimentali, al fare riferimento a eventi sempre verificabili empiricamente. In realtà la ricerca scientifica solo apparentemente è neutrale e immune da scopi e presupposti che la orientano e la influenzano. Chi pensa che la scienza da sola basta a capire l’uomo e il cosmo, cade nello “scientismo”: assume una particolare prospettiva di conoscenza della realtà e l’assolutizza. In effetti l’approccio “scientifico” alla realtà intende descriverla da un’angolatura particolare, solitamente con il linguaggio formale della matematica, formulando teorie e controllandone capacità e precisione con strumenti adeguati. Ma questo non è l’unico modo di accostare la realtà e talvolta nemmeno il più adeguato. Ci sono oggetti che sfuggono a questo metodo di indagine. E proprio le questioni più decisive per la vita dell’uomo non sono affrontabili in questi termini. La scienza, oggi come ieri, non può dare la risposta ultima sul mistero della vita. Anche la fede cristiana ha un oggetto proprio. Essa si pone nella prospettiva dell’apertura all’amore incondizionato di Dio, resosi manifesto e disponibile nel suo Figlio Gesù Cristo e comunicato agli uomini di ogni tempo nello Spirito del Signore risorto. Nella fraternità ecclesiale è testimoniata l’efficacia salvifica della storia di Dio in Gesù, fino al suo compimento definitivo. La fede cristiana ha pertanto essa pure il suo presupposto: è quell’avvenimento di salvezza che la rende possibile e senza il quale resterebbe semplice e disperata proiezione del desiderio umano. In corrispondenza ad esso la fede sviluppa i suoi criteri di verità, il più possibile adeguati al suo oggetto, cioè Dio stesso che la suscita. La fede non può rinunciare a quel libero e amoroso affidamento che è l’unico mezzo per raggiungere il senso dell’esistenza umana e l’identità personale di Dio. L’amore non è “cieco”: rintraccia l’apertura verso l’altro solo se si scoprono i segni rivelatori della sua presenza e se ne verifica la credibilità. Similmente l’apertura fiduciosa della fede non rinuncia alla necessità di una verifica razionale, anzi la esige. Questa deve garantirne la plausibilità e l’autenticità, senza però snaturarla. Ma se la fede ha i suoi segni di credibilità, non può tuttavia ridurre se stessa al livello dei segni e ancor meno delle metodologie scientifiche utilizzate per esaminarli. Scienza e fede non si escludono a vicenda: essendo mosse da istanze diverse e guardando al proprio oggetto di conoscenza in prospettive differenti, ciascuna sollecita l’altra ad una maggiore trasparenza ed autenticità. All’opposto della fede, la magia persegue una linea deresponsabilizzante. Con essa la persona, mentre assume un atteggiamento di autoaffermazione e di dominio, affida in realtà la propria libertà al surrogato sostitutivo degli automatismi magici e rassicuranti, delle formule, degli amuleti … A questo livello è inevitabile la collisione sia con la scienza sia con la fede. La conoscenza scientifica combatte infatti la credulità, basata su impulsi e bisogni non orientati da convinzioni motivate e sostenibili, contribuendo a smascherare la magia come fonte di raggiro, sfruttamento e sofferenza. Dal canto suo, la fede presuppone l’apertura dell’uomo alla trascendenza personale e non manipolabile di Dio, radicalmente diversa da un generico potere occulto da accaparrarsi. La fede non è pertanto assimilabile alla superstizione e si impegna nella lotta serrata contro ogni strumentalizzazione di Dio, dell’uomo e del creato. A differenza di ogni forma di credulità, la fede cristiana procede con accorta prudenza persino nel discernimento dei fenomeni soprannaturali ( miracoli, rivelazioni … ), nel presupposto che quanto è essenziale alla nostra fede e alla salvezza si è manifestato, una volta per sempre, in Gesù Cristo, morto e risorto per noi, ma anche che a Dio nulla è impossibile. In sintesi Cercare Che cercate? È la domanda decisiva che Gesù rivolge ai due discepoli del Battista ed è la domanda che ci accompagna in questo cammino. Fra tante offerte è importante individuare la proposta capace di illuminare in modo decisivo la ricerca umana: - per scoprire il senso della propria vita; - per ritrovare la propria identità; - per far emergere il desiderio di cose vere e impegnative. Dimorare Ogni decisione richiede di fermarsi, perché niente si raggiunge subito. Dimorare in Cristo vuol dire: - entrare in intimità con Dio; - stare dentro la fraternità ecclesiale e umana. Dimorare è l’esperienza di un amore che dà un nome alla ricerca, alla scoperta e conduce a piccoli passi verso la maturazione della fede. Decidere La ricerca conduce necessariamente alla decisione, impegnando tutta la persona. Ogni scelta richiede: - intelligenza per discernere; - totalità per orientare le energie dell’uomo; - impegno per realizzare il cambiamento del cuore. In questo spazio libero e personale di decisione Dio viene incontro all’uomo e da questa incontro comincia a snodarsi il cammino del discepolo. Sperare La speranza è una dimensione fondamentale dell’esistenza. Per vivere c’è bisogno di un futuro attraente, che sia fonte di energie. Sperare significa: - attendere con l’animo colmo di desiderio; - rivolgersi a qualcosa che è più grande di ogni realizzazione; - credere che la vita cammina verso il compimento. Nel cammino di ricerca la proposta evangelica si pone come criterio di verità, perché poggia sulla persona di Gesù, che illumina la vita, la orienta, la sostiene e la conduce a pienezza definitiva. Per l’approfondimento La via della ragione: CCC nn. 31-35; CdA nn. 26-34 La via delle religioni: CCC nn. 28; CdA nn. 18-24 Rivelazione, Tradizione, S. Scrittura: CCC nn. 50-141; CdA nn. 40-84 Per camminare nella fede Le domande della vita La ricerca avviene sempre in situazioni di vita e di relazioni concrete. Le domande importanti a cui siamo chiamati a dare una risposta, spesso decisiva, non appaiono sempre evidenti. Neppure la risposta è sempre scontata e facile. Nella vita di tutti i giorni si aprono nuove prospettive, si fanno incontri importanti, ci si imbatte in risposte contraddittorie e talvolta frustranti. Ma si può incontrare in modo nuovo e sorprendente Gesù Cristo, un incontro in cui la decisione personale e tutta la realtà della nostra vita vengono coinvolte. - Quali interrogativi si impongono con maggior frequenza nella tua vita? - Quali domande ritieni più importanti? - Nell’ambiente in cui vivi quali sono gli stimoli culturali che ti aiutano nella ricerca e le pesantezze che ti stordiscono? - Quali sono le fatiche e le incertezze di chi si mette in ricerca? - Ciascuno di noi avverte attese e speranze. - Quali ritieni più importanti per una piena realizzazione? - Quali cammini e quali mete ritieni possibili per la tua ricerca? - In quale misura intravedi e sperimenti nella comunità cristiana uno spazio per trovare risposta alle tue domande? - In quale modo, a tua volta, ti lasci interpellare dal suo cammino? L’ascolto della Parola “Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: “Che cercate?”. Gli risposero: “Rabbì ( che significa maestro ), dove abiti?”. Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio”. ( Gv 1,35-39 ) La voce della Chiesa “L’uomo vuole lodarti, particella del tuo creato, che porta con sé la prova del suo destino mortale, che porta con sé la prova del peccato, e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l’uomo, particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatto per te, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si debba prima invocarti o lodarti, prima conoscerti o invocarti. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? O tu devi essere invocato perché ti si conosca? Che io ti cerchi, Signore, invocandoti e t’invochi, credendo in te, perché sei stato annunciato a noi. T’invoca, Signore, la mia fede, quella che tu mi hai dato, quella che mi hai ispirato, mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l’opera di lui che ti ha annunciato a noi”. ( Sant’Agostino, Confessioni, I, 1, 1 ) Il dialogo della preghiera “O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua. Così nel santuario ti ho cercato, per contemplare la tua potenza e la tua gloria. Poiché la tua grazia vale più della vita, le mie labbra diranno la tua lode. Così ti benedirà finché io viva, nel tuo nome alzerà le mie mani. Mi sazierà come a lauto convito, e con voci di gioia ti loderà la mia bocca. Quando nel mio giaciglio di te mi ricordo e penso a te nelle veglie notturne, a te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all’ombra delle tue ali. A te si stringe l’anima mia e la forza della tua destra mi sostiene”. ( Sal 63,2-9 ) “Io aspetto. Dammi un segno, siamo così vicini. Tra noi soltanto un muro sottile ha messo il caso: basterebbe ad abbatterlo della tua voce e della mia un richiamo. Cadrebbe senza suono”. ( Rainer Maria Rilke, Dio, mio vicino ) L’incontro con i testimoni Agostino d’Ippona Diremmo oggi che le aveva provate tutte il trentaduenne Agostino, che nel sabato santo del 387 il santo vescovo Ambrogio battezzava nel battistero di Milano. Veniva da Tagaste ( oggi Souk Ahras in Algeria ), dove era nato nel 354, e portava con sé una formazione classica di tutto rispetto, che lo aveva posto a confronto con le correnti culturali più vive del tempo, passando anche attraverso un periodo di adesione alla setta eretica dei manichei. Lasciava dietro di sé una vita ricca di amicizie, ma anche di amori disordinati, da cui era nato un figlio, Adeodato. Aveva vegliato su di lui la madre Monica, con molte preghiere e nella fiduciosa certezza che Dio avrebbe fatto sentire con forza la sua voce a questo figlio di grandi doti e di grandi eccessi. L’insegnamento di retorica a coi era stato chiamato nella prestigiosa sede di Milano poteva essere un punto di arrivo per un intellettuale di successo. Ma per chi era alla ricerca della verità non poteva certo bastare. Il contemporaneo approfondimento dette sacre Scrittore e della filosofia neoplatonica lo conduce ad accogliere la pienezza della fede cristiana nella Chiesa cattolica. Tornato in Africa, la sua vita si fa subito ascetica e, su sollecitazione del vescovo e del popolo di Ippona, viene ordinato sacerdote e poi vescovo dalla stessa piccola città portuale. Da allora la predicazione e la cura delle anime diventano il suo primo dovere, cui affianca però un impegno straordinario nella lotta contro i nemici esterni ed interni delta Chiesa e della verità del vangelo. Nasce così una produzione enorme di opere esegetiche, teologiche, filosofiche, catechetiche, apologetiche. ecc., che costituiscono una profonda rielaborazione del pensiero cristiano dei secoli precedenti. il vertice della riflessione di fede della Chiesa antica e il riferimento ancora non esaurito di tanto successivo cammino della teologia. Ma il grande teologo è anche colui che nelle Confessioni apre il suo animo e la della sua vicenda di ricerca di Dio un esemplare termine di confronto per ogni ricercatore autentico della Verità. Agostino muore ad Ippona il 28 agosto 430. “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo. E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. Eri con me ed io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature, che, se non fossero in te, neppure esisterebbero. Mi hai chiamato, hai gridato, hai infranto la mia sordità. Mi hai abbagliato, mi hai folgorato, e hai finalmente guarito la mia cecità. Hai alitato su dì me il tuo profumo ed io l’ho respirato, e ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace”. ( Confessioni, X, 27,38 ) La professione della fede “Maestro che cosa devo fare?” “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” ( Gv 1,18 ). “Cristo, per tutti morto e risorto, dà all’uomo, mediante Il suo Spirito, luce e forza, perché l’uomo possa rispondere alla suprema sua vocazione; né è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possano salvarsi” ( Gaudium et spes, 10 ). - A Dio, che ci chiama a incontrarlo e ad accoglierlo in Gesù Cristo, noi rispondiamo con la fede. La fede è dono dell’amore di Dio e, insieme, atto personale, intelligente e libero. - La fede è sempre atto ecclesiale. Nessuno si dà la fede da se stesso, come non si dà la vita da sé, ma la riceve da altri. Nessuno tiene la fede per se stesso, ma la comunica agli altri. Introduzione L’incontro con Gesù non chiede di mettere da parte i nostri desideri, anzi li provoca: “Che cercate?”. Abbiamo più volte sperimentato delusione per come vanno le cose a questo mondo. Qualche volta siamo stati tentati sdegnosamente di volerlo fermare per scendere, di chiamarci fuori dal gioco. Altre volte ci ha preso la voglia di cambiarlo: “Se comandassi io … ”. Altre ancora ci siamo adattati, perché ci pareva troppo alto il prezzo da pagare. Gesù annuncia un mondo nuovo, il suo regno: egli annuncia, oggi, che il regno di Dio è presente, inaugura un nuovo rapporto tra Dio e gli uomini, manifesta da parte di Dio un’inaudita volontà di perdono e di riconciliazione, propone un’alleanza di amicizia e di vita con lui. Probabilmente non è la prima volta che ne sentiamo parlare. Il suo vangelo può esserci sembrato un’utopia o invece l’abbiamo percepito come un vestito troppo stretto, una tabella di marcia troppo rigida ed esigente: “Abbiamo già tanti doveri da adempiere, e il vangelo vuole aggiungerne altri?”. Può averci lasciati indifferenti perché non ci è stato presentato nel modo giusto; può averci affascinato, ma averci fatto esclamare: “Troppo bello per essere vero”. L’invito è ora a conoscere più a fondo la proposta di Gesù, a conoscere più da vicino lui stesso come persona. Scopriremo così che si può cambiare questo mondo e che vivere come Gesù non solo è possibile, ma riempie di senso. Ma il suo messaggio e la sua vita sono qualcosa che possono ancora interessarci? Ha detto parole per gente d’altri tempi; ha fatto miracoli per qualche fortunato, è stato osannato e poi ripudiato. Ma in che misura tutto ciò ci riguarda? “Venite e vedrete”, ha detto Gesù ai due discepoli e ripete oggi a noi. Fare esperienza di lui significa poter scoprire che i nostri desideri non sono pretese, ma possibilità, alle quali è già promessa, in lui, realizzazione. In quei giorni CCC nn. 423; 574-575 ( vedi pure nn. 576-591; 595-596 ) CdA nn. 112-117; 225-226 CdG1 p. 192 “Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” ( Lc 3,1-2 ). Precisando il tempo e il luogo in cui ha inizio la vicenda che si accinge a raccontare, l’evangelista Luca ci dice che questa è una storia reale, accaduta in un luogo preciso e in un tempo determinato. Gesù non è un’idea o un mito. Prendendo poi come punto di riferimento non soltanto la Palestina ma l’impero romano, ci suggerisce che la storia di Gesù, quantunque geograficamente circoscritta e cronologicamente breve, ha in realtà un significato universale. È perciò una storia da leggere con intelligenza. Da un lato va collocata nel suo tempo e nel suo ambiente culturale e spirituale, come si fa per ogni altra vicenda e ogni altro personaggio, pena l’incomprensione; dall’altro, occorre saper scorgere in essa un significato che va ben oltre il suo tempo e il suo ambiente e che ancora oggi è in grado di provocarci. Sotto il dominio romano La Palestina al tempo di Gesù era percorsa da fremiti di rivolta, vissuti prevalentemente in chiave religiosa. L’esigenza di liberazione dal dominio romano nasceva anzitutto non da motivi politici o economici, ma piuttosto da un disagio religioso: l’ebreo sentiva il dominio romano come uno scandalo per la fede. In questa situazione c’era chi praticava la resistenza rivoluzionaria armata, chi l’adattamento opportunistico al sistema dominante e chi la passiva e sofferta rassegnazione. La terza posizione era quella della gente comune del popolo e dei farisei, la prima quella degli zeloti e la seconda quella dei ceti aristocratici e sacerdotali. Gesù vive fra queste tensioni, ma non si identifica con nessuna delle posizioni esistenti. Egli predica il regno di Dio e la conversione, non un esteriore rovesciamento della situazione politica e sociale. Eppure, la società del tempo, politica e religiosa, si sentì minacciata alla radice dal suo annuncio e dalla sua vita. Perché? È un primo importante interrogativo al quale dovremo rispondere. Diciamo subito che Gesù non si lascia catalogare negli schieramenti politici esistenti. Egli si interessa dei problemi e li affronta da un’altra prospettiva, con una logica differente. Gli zeloti: la tentazione della violenza Non meno complessa della situazione politica era la situazione religiosa, frazionata in gruppi e tendenze spesso in tensione fra loro. Questa frammentazione religiosa, oltre che politica, era il segno di uno smarrimento, provocato dal crollo di ideali attorno ai quali Israele aveva a lungo trovato slancio e unità. Ma era anche il segno di una profonda inquietudine, di un’appassionata ricerca di verità, di un modo nuovo di vivere la fede. Gli zeloti formavano un gruppo di minoranza, ma erano uomini decisi, combattivi, pieni di zelo appunto. Predicavano la riforma radicale del tempio e del sacerdozio; progettavano di espellere i romani dal paese e di ristabilire il regno di Dio. Erano persuasi della necessità della lotta armata. Di fronte al tribunale romano Gesù sarà accusato di essere uno zelota, un sostenitore della ribellione aperta ( Lc 23,2 ). Ma è un’evidente falsità. Gesù ha costantemente rifiutato la tentazione zelota, dal deserto alla croce. Non ha mai predicato il sovvertimento violento della situazione. Alla forza ha sempre opposto l’amore. Il suo rifiuto della violenza scaturisce da un’esperienza di Dio. Egli sa che Dio è amore, e non altro. In lui si attinge una forza alternativa e costruttrice; a lui l’uomo è chiamato ad abbandonarsi totalmente. Gli esseni il rifiuto del mondo Gli esseni erano un gruppo piuttosto ristretto, non privo di attrattiva. La loro radicalità nel rifiuto del mondo e nell’attesa del giudizio imminente esercitava un grande fascino su molti spiriti. Ritenevano il mondo ormai irrimediabilmente perduto e si ritiravano a far vita comune nel deserto. Cercavano Dio nello studio appassionato della legge di Mosè, nelle osservanze rituali, nelle rinunce ascetiche e nella preghiera. Gesù si distingue profondamente anche da loro. Di fronte al rifiuto ostinato della società, Gesù non si è ritirato dal mondo, abbandonandolo al suo destino, né ha invitato i discepoli a farlo. È rimasto nel mondo e ha dato la sua vita anche per coloro che rifiutavano il suo messaggio. Gesù sa che Dio continua ad amare questo mondo, benché rovinato dagli uomini e sfigurato dal peccato. Perciò, al rifiuto del mondo, Gesù oppone la sua ostinata solidarietà. E non suggerisce di estraniarsi dal mondo, bensì di opporsi alla sua idolatria. I sadducei: per la libertà del tempio Il gruppo dei sadducei era costituito dai membri dell’aristocrazia sacerdotale. Da loro uscirono quasi tutti i sommi sacerdoti al tempo degli inizi del cristianesimo. L’abilità politica permise loro di occupare posti chiave sotto Erode e sotto i governatori romani. Si sforzavano di moderare l’ostilità contro Roma – gli zeloti erano perciò i loro principali avversari – e di dimostrare ai romani la loro lealtà. Il loro scopo era di salvare la libertà di espressione religiosa organizzata attorno al tempio. Dal punto di vista religioso si differenziavano dal farisei, con i quali erano spesso in polemica, soprattutto su due punti. Respingevano le tradizioni a cui, invece, i farisei erano molto attaccati: per i sadducei solo la Legge scritta obbligava, mentre le tradizioni non avevano alcun potere vincolante. E poi respingevano la fede nella risurrezione, negando la possibilità di una vera forma di vita ultraterrena. La religione, che essi proponevano, era esclusivamente legata alla ricerca di una benedizione divina per questa vita terrena e si esprimeva soprattutto attraverso la pratica dei riti, in particolare dei sacrifici al tempio. Contro di loro Gesù oserà sfidare l’ordine del tempio ( Mc 11,15-18 ), suscitando un’opposizione aperta e decisa, firmando, in tal modo, la propria condanna a morte. Durante la passione, i sadducei saranno i suoi più autorevoli e accaniti accusatori. A una loro domanda sulla risurrezione, che tende a porlo in difficoltà, Gesù risponderà affermando la realtà della risurrezione e accusandoli di non comprendere né le Scritture né la potenza di Dio ( Mc 12,18-27 ). I farisei: la fiducia nella propria giustizia I farisei erano il gruppo più numeroso e popolare, e i Vangeli ne parlano continuamente, come ad esempio nella parabola del fariseo e del pubblicano ( Lc 18,9-14 ). Qui il fariseo incarna un modo di porsi di fronte a Dio e di fronte al prossimo. E difatti Gesù racconta la parabola per “alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri”. È bene fare subito una precisazione. Il movimento fariseo del tempo di Gesù era un fenomeno complesso e articolato, e sarebbe ingiusto identificarlo in blocco con la descrizione che sembra emergere dai Vangeli. Morti farisei non meritavano gli aspri rimproveri che Gesù rivolgeva ad alcuni di loro. I Vangeli hanno poi semplificato la figura del fariseo e ne hanno persino esasperato alcuni tratti negativi. Si può dire, forse un po’ esagerando, che gli evangelisti abbiano trasformato il fariseo in un simbolo, in cui sono venute ad assommarsi le molte e svariate storture in cui la vita religiosa di ogni tempo, anche quella cristiana, può cadere. Che i Vangeli abbiano compiuta questa operazione non deve sorprendere: il loro scopo è infatti di far sì che il lettore colga nel fariseo un personaggio attuale, che gli assomiglia. Il fariseismo è anche dentro di noi. Il fariseo della parabola osserva scrupolosamente le pratiche della sua religione e ha molto spirito di sacrificio. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescrive la legge, ma due. Il suo torto non sta nell’ipocrisia: quanto egli dice è la verità. La sua osservanza della Legge è attenta e scrupolosa. Il suo torto sta nel porre fiducia nella propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la sua misericordia, non attende la salvezza come un dono, ma piuttosto come un premio dovuto per il dovere compiuto. Dice: “O Dio, ti ringrazio … ” ( Lc 18,11 ). Fa dunque risalire a Dio, in qualche modo, la propria giustizia. Ma la consapevolezza di un’originaria dipendenza da Dio si perde lungo la strada: non è per lui l’asse attorno a cui ruotano tutti i suoi sentimenti; non è da lì che egli deriva la ragione della sua preghiera né i criteri per giudicare il suo prossimo. Tanto è vero che egli – a parte quel “ti ringrazio” detto all’inizio – non guarda a Dio, non si confronta con lui, non attende nulla da lui, né gli chiede nulla. Si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo suo atteggiamento non c’è preghiera autentica. Non chiede nulla; e Dio non gli dà nulla. Raccontando la parabola, Gesù ricorda al fariseo, e a noi, che l’unico modo corretto di porsi di fronte a Dio, nella preghiera come nella vita, è sentirsi costantemente peccatori e bisognosi del suo perdono. La salvezza è dono, non conquista. Le opere buone si debbono fare, ma non è il caso di vantarle, né di fronte a Dio né di fronte agli uomini. Il fariseo che attribuisce a se stesso la propria giustizia e ne fa la pietra di misura per valutare e giudicare gli altri rappresenta, in un certo senso, la faccia “religiosa” di un modo di pensare anche oggi diffuso, secondo cui l’uomo è ciò che fa, l’uomo è ciò che ha. Gesù invece non guarda l’uomo per ciò che ha o per ciò che fa, ma per come è amato da Dio. Condotto dallo Spirito CCC nn. 522-523; 535-540; 550 CdA nn. 179-185 CdG1 p. 189 I racconti del battesimo presso il fiume Giordano e della tentazione nel deserto aprono il cammino pubblico di Gesù e ci offrono la chiave giusta per comprenderlo. Sono episodi rivelatori, che ci lasciano intravedere l’identità di Gesù, la direzione del suo cammino e la logica profonda che lo ha guidato. Proprio perché rivelatori del cammino di Gesù, questi episodi sono al tempo stesso rivelatori del cammino del discepolo. Il battesimo di Gesù e le sue tentazioni nel deserto sono come uno specchio in cui il discepolo di ogni tempo deve guardarsi, se vuole mantenere nella giusta direzione il proprio cammino. Solidale con i peccatori “In quei giorni Gesù venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni” ( Mc 1,9 ): all’evangelista Marco basta questa breve annotazione biografica per evocare la piena umanità del Messia e le sue umili origini. Nessuno si aspettava un Messia proveniente da uno sconosciuto paese della Galilea. E nessuno si aspettava un Messia che si sottoponesse a un battesimo di penitenza, partecipando al movimento di conversione del suo popolo. Eppure, è proprio in questo figlio di Galilea che si fa presente Dio stesso, con la sua azione salvifica e definitiva; ed è nel suo atteggiamento di profonda solidarietà con il popolo peccatore che l’azione di Dio rivela il tratto inconfondibile della misericordia. “Uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba” ( Mc 1,10 ): il dono dello Spirito significa che, con la presenza di Gesù, inizia la storia del mondo nuovo, rinnovato e purificato dallo Spirito di Dio. E l’aprirsi dei cieli è la risposta a un ’invocazione del libro di Isaia, che sembra esprimere tutta l’attesa degli uomini: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti” ( Is 63,19 ). Il profeta chiede a Dio di riaprire il cielo, di manifestarsi e discendere in mezzo al popolo, così da attuare un nuovo esodo e ricondurre il popolo verso la libertà. Questo è il significato della venuta di Gesù: dopo un lungo periodo di silenzio da parte di Dio e da parte del suo Spirito, ora con lui, il Cristo, inizia il tempo atteso, il tempo della salvezza, nel quale Dio di nuovo si dona agli uomini e torna a parlare. Il Figlio amato e sofferente “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto” ( Mc 1,11 ): queste parole della voce celeste - che richiamano il Sal 2,7 e Is 42,1 - affermano che Gesù è il Figlio amato e al tempo stesso indicano il cammino che egli è chiamato a percorrere. Il passo di Isaia parla del servo amato da Dio, a cui è affidata la missione di portare la volontà divina alle nazioni pagane e di proclamare che il Signore è l’unico Dio. Figlio amato e tuttavia perseguitato e non sottratto alla sofferenza. La sua fedeltà è nei confronti di Dio, fino alla morte di croce, e nei confronti del popolo, con il quale è solidale al punto di caricarsi sulle proprie spalle i suoi peccati. È in questo senso che Gesù è proclamato Figlio amato: la filiazione divina non lo sottrarrà alla sofferenza, bensì lo impegnerà in una missione salvifica a vantaggio di tutti, da compiere nella solidarietà più radicale. Di questa filiazione, che si esprime nella solidarietà, il battesimo al Giordano è già un segno chiaro. Venendo al Giordano, confuso tra la folla dei peccatori, Gesù mostra di non volersi estraniare dalla condizione degli uomini peccatori, bensì di volersi far carico dei loro peccati. Egli non ha peccati per cui chiedere perdono e per i quali fare penitenza. Ma i peccati degli altri sono sulle sue spalle. Chiedendo il battesimo, Gesù indica la logica che guiderà tutta la sua esistenza e che troverà il punto di massima espressività nella sua Pasqua: una vita e una morte per gli altri. Nel battesimo di Gesù ogni cristiano può leggere il proprio battesimo: la filiazione divina, il dono dello Spirito Santo, una missione da compiere, una vita da spendere nel dono di sé. Tentazioni di Gesù e della comunità Dopo il battesimo, ecco la tentazione: i due episodi sono strettamente congiunti. Il battesimo inaugura una vita sottoposta alla prova. Più che un episodio chiuso e circoscritto, la tentazione di Gesù nel deserto appare come l’indicazione di una costante che ha accompagnato tutta la sua vita. Marco si accontenta di darne una breve notizia; Matteo e Luca la raccontano invece per esteso, trasformandola in una catechesi e in un avvertimento ( Mc 1,12-13; Mt 4,1-11; Lc 4,1-13 ). Diversi indizi mostrano che l’episodio è raccontato per la comunità, per avvertirla che quella sarà la tentazione che essa stessa, come già il Cristo, continuamente incontrerà. Satana cerca di distogliere Gesù dall’obbedienza alla parola di Dio, ma non lo fa attaccando direttamente il suo compito messianico. Anzi, moltiplicare i pani, gettarsi dal pinnacolo del tempio e dominare il mondo vengono suggeriti, appunto, come una strada convincente per affermare la propria messianicità. Le tentazioni di Gesù rinnovano quelle di Israele: la tentazione di far coincidere la salvezza messianica con un progetto terrestre; la tentazione del messianismo miracoloso, spettacolare - Israele ha spesso preteso interventi di Dio chiari e risolutori –; infine, la tentazione del messianismo politico, nella linea del dominio anziché del servizio. Per due volte ( Mt 4,3.6 ) satana si rivolge a Gesù dicendogli: “Se sei Figlio di Dio …”.  er Gesù essere Figlio si esprime nell’obbedienza radicale e nella dedizione totale al Padre. Per satana, invece, essere Figlio significa poter disporre della potenza divina a piacimento e per la propria gloria. Più tardi Gesù moltiplicherà i pani, ma non per sé. Sarà glorioso, ma attraverso la via della croce. Compirà segni, ma non per mettere Dio alla prova. La pericolosità della tentazione sta nel fatto che satana non parla a nome proprio, non oppone alla parola di Dio la propria saggezza, ma si sforza di partire dalle Scritture e pretende di presentarsi con il sostegno della stessa parola di Dio.  Un’esistenza nella prova I Vangeli sanno molto bene che la tentazione di satana nel deserto ha trovato altri portavoce. Per esempio, gli avversari, che, “per metterlo alla prova”, chiedono a Gesù “un segno dal cielo” ( Mc 8,11 ), cioè una convincente affermazione di potenza. Oppure la folla, che lo circonda e pretende di strumentalizzarlo, piegandolo alle proprie attese ( Gv 6,14-15 ). O anche, e soprattutto, gli stessi discepoli: Gesù, “voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: “Lungi da me, satana! Perché non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini”” ( Mc 8,33 ). Pietro, volendo distogliere Gesù dalla via della croce – ancora una volta non si tratta di distogliere Cristo dal suo compito messianico, bensì di indicargli una via più facile per svolgerlo! – ripropone esattamente la tentazione di satana nel deserto. Una tentazione definita “satanica”, ma che poi, in realtà, non è altro che un “ragionare da uomini”. Ciò che viene da satana e colpisce al cuore la via di Gesù può apparire ragionevole, al punto che il discepolo se ne fa portavoce senza accorgersene, se non addirittura pensando di servire il Signore. Come per Gesù, anche per il cristiano il battesimo non è l’inizio di una vita al riparo, ma l’inizio di un’esistenza sottoposta alla prova. E come per Gesù, anche per il discepolo la filiazione divina si esprime nella solidarietà e nell’obbedienza. Credete al Vangelo CCC nn. 541 543; 1427; 2816-2831 CdA nn. 106-124; 141-143 vedi pure nn. 145-163; 200-206 ) CdG1 pp. 191; 315-317 Gesù ha fatto dell’annuncio del regno di Dio il centro della sua missione. Secondo l’evangelista Marco le prime parole che egli pronuncia sono: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” ( Mc 1,15 ). La costruzione di questo annuncio di Gesù, che possiamo considerare come un riassunto dell’intero Vangelo, è molto accurata. L’accento cade sull’evento, che precede la conversione e la fede e costituisce il nucleo dell’originalità cristiana. Ma che cosa significa di preciso che il regno di Dio si è fatto vicino? Per rispondere occorre tener conto di tutto il Vangelo: non solo delle parole di Gesù, ma anche della sua persona e della sua vita di Gesù  Il Regno giunge nella persona di Gesù L’espressione regno di Dio affonda le sue radici nell’Antico Testamento e nella religiosità ebraica dei secoli più vicini: indica l’azione regale di Dio, la sua giustizia e il suo amore, il suo intervento salvifico, definitivo e risolutore. In questo senso “regno di Dio” esprime l’attesa dei profeti e del popolo di Israele. L’annuncio di Gesù si colloca sullo sfondo di queste attese, ma contemporaneamente se ne distacca. A differenza della speranza ebraica che parlava al futuro, Gesù dice che l’ora messianica è arrivata, è qui nelle sue parole e nella sua azione. Per questo l’annuncio di Gesù ha un tono di gioia e insieme di urgenza. E poi, l’annuncio di Gesù, come mostra l’intero Vangelo, è rivolto a tutti e accentua la misericordia. Gesù annuncia il Regno anche per tutti coloro che erano comunemente ritenuti ai margini della gioia messianica: i poveri, i peccatori, i piccoli, gli stranieri. Anche nella concezione ebraica l’avvento di Dio non era privo di misericordia, tuttavia era più accentuato il giudizio, e in ogni caso il perdono era per i giusti. La predicazione e il comportamento di Gesù, che egli stesso indica come espressione o specchio dell’azione di Dio ( Lc 15 ), sono caratterizzati dalla ricerca degli esclusi, a cominciare dai peccatori. Tutto questo ha suscitato conflitto e opposizione. Rivela, infatti, un volto nuovo di Dio. Comprendiamo, a questo punto, che l’annuncio del Regno da parte di Gesù è profondamente ancorato alle attese dell’ebraismo, ma la nota di urgenza, di universalità e di misericordia lo rendono originale. Soprattutto è sorprendente il fatto che Gesù non si presenta come un semplice profeta che annuncia l’avvento di Dio, bensì lo annuncia arrivato nella sua persona, nella sua parola e nella sua attività. Realtà presente e futura Il Regno annunciato e inaugurato da Gesù è una realtà al tempo stesso presente e futura. Interrogato dai farisei: “Quando verrà il regno di Dio?”, Gesù risponde: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!” ( Lc 17,20-21 ). Il Regno è presente nel nostro mondo e nella nostra storia, ma è presente come un seme. La sua pienezza è nel futuro, tanto che la Chiesa prega sempre: “Venga il tuo regno” ( Mt 6,10 ). Il Regno è reale e operante, ma non è appariscente come le realtà mondane, né localizzabile. Non possiamo disporne come se fosse nostro, né possiamo costruirlo con le nostre forze. Lo possiamo soltanto accogliere come un dono di Dio. La lieta notizia dell’evento dell’amore di Dio Marco definisce l’annuncio del Regno un vangelo, cioè una lieta notizia. E difatti lo è, perché si tratta essenzialmente della manifestazione dell’amore di Dio per l’uomo, un amore inaspettato, al di là delle attese. L’essenza del vangelo è una rivelazione di chi è Dio per l’uomo e di chi è l’uomo per Dio. Di qui un duplice stupore: che Dio ami così tanto l’uomo e che l’uomo sia così tanto importante per Dio. La prima reazione di chi ascolta l’annuncio di Gesù, o lo vede incarnato nella vita della Chiesa, è normalmente lo stupore. Gli evangelisti lo annotano frequentemente. E la prima domanda che dovrebbe spontaneamente porsi chi è raggiunto dalla notizia del Regno non è: che cosa devo fare? quali sono le sue esigenze? Bensì: ma è proprio vero? Ma lo stupore scompare, se il vangelo viene ridotto a una serie di idee su Dio, su Cristo, sull’uomo, lasciando in ombra che, invece, è in primo luogo un avvenimento. Tutte le religioni insegnano che Dio ama l’uomo. Ma solo il cristianesimo annuncia che il Figlio di Dio si è fatto uomo. Il centro della fede è un evento. Lo stupore viene meno anche quando il vangelo è ridotto a morale. Staccata dal gesto salvifico di Dio che la suscita e la giustifica, la morale si trasforma fatalmente in una serie di precetti, il cui scopo è solo di indicare come eseguire la volontà di Dio; quasi un prezzo da pagare alla sua sovranità e non invece una legge a favore dell’uomo, e quindi un dono. È questa la mentalità degli operai della prima ora, che non accettano che gli ultimi siano pagati come loro ( Mt 20,1-16 ), o la mentalità del figlio maggiore, che non comprende la festa del padre per il ritorno del figlio minore ( Lc 15,11-32 ). Ed è la mentalità di molti cristiani, che ritengono un peso, anziché una gioia, il lavoro nella vigna e lo stare nella casa del padre. Per loro il cristianesimo non è più lieta notizia, ma un semplice dovere. In quest’ottica la salvezza non è più un dono, ma una conquista. Infine, si priva il vangelo del suo carattere lieto, anche quando lo si appiattisce sul buon senso dell’uomo ( Mt 19,16-22 ), indebolendo la sua nativa paradossalità e la sua carica di rinnovamento. Convertirsi per essere liberi Proprio perché la venuta del Regno rivela un volto sorprendente di Dio e dell’uomo, ne segue la necessità - da parte di chi lo accoglie - di un radicale cambiamento, che è insieme un capovolgimento della propria mentalità e del proprio agire, una conversione; un credere vero l’annuncio dell’evento e un affidarsi a quello stesso evento. La conversione è la risposta a un annuncio che allarga il cuore dell’uomo: in Gesù è apparso in tutta la sua profondità l’incredibile e sorprendente amore di Dio verso di noi, verso l’uomo, ogni uomo. E questo l’annuncio da accettare, del quale fidarsi e sul quale modellarsi. Convertirsi è sempre prendere coscienza della situazione di infedeltà nei confronti di Dio e, quindi, di una situazione di peccato, insuperabile con le sole forze umane. Convertirsi significa volgersi verso Dio anziché verso noi stessi, accogliere e vivere la sua Parola, vendere la propria sapienza per scegliere e fidarci della sapienza di Dio; scambiare ciò che si possiede, che è ben poco, con una ricchezza alternativa, con un tesoro prezioso, anche se nascosto ( Mt 13,44-46 ). È un tesoro che non è possibile accumulare con le sole nostre forze, ma che può venire concesso dalla misericordia e dal perdono di Dio. Tutto questo è la conversione, come mostra il racconto della chiamata dei primi discepoli ( Mc 1,16-20 ). Conversione e fede qui non significano un parziale cambiamento, ma un vero e proprio passaggio, senza calcolarne le conseguenze, dall’egoismo all’amore, dalla difesa di sé al dono di sé. Tutto questo esige un duro distacco, tanto che il Vangelo racconta che i primi discepoli hanno lasciato la famiglia e il lavoro. Abbandonare il mestiere e la famiglia è come sradicarsi. Tuttavia, anche questo distacco è una lieta notizia, perché si tratta di un distacco per una concentrazione, cioè per una libertà. Il discepolo lascia perché ha trovato, come l’uomo della parabola che con gioia vende tutti i suoi averi per entrare in possesso di un tesoro ( Mt 13,44 ). Fondamento di una comunità L’accoglienza del Regno converte le persone e le aggrega, generando una comunità. Questa si incammina - insieme a Gesù - su una strada che la porta a capire in profondità l’evento che ha accolto e che l’ha generata; inoltre, la conduce a diventare, a sua volta, annunciatrice di quell’evento: “Vi farò diventare pescatori di uomini” ( Mc 1,17 ). Questa è la logica intima della venuta del Regno: il suo incontro attraverso l’annuncio converte e crea una comunità che a sua volta l’annuncia. È il percorso della missione. Parlava loro in parabole CCC n. 546 CdA n. 125 Le parabole sono, fra gli insegnamenti di Gesù, quelli che oggi più facilmente ricordiamo e magari consideriamo più facili. In realtà, non è sempre così ed è possibile illuderci di aver capito una parabola, mentre invece ce ne sfugge il messaggio profondo. Per parlare del mistero Del regno di Dio possiamo parlare solo mediante paragoni presi dalla nostra vita. La forma della parabola consente di proporre indirettamente una verità senza enunciarla a chiare lettere. Proprio per questo essa è particolarmente indicata per parlare di quell’avvenimento misterioso che Gesù annuncia - l’avvento del regno di Dio -, che per natura sua non consente una descrizione chiara ed esaustiva e sfugge a ogni tentativo di delinearne con precisione i contorni. Le immagini capaci di suggerire cosa sia o, meglio, come accade il regno di Dio sono offerte da avvenimenti quotidiani, appartenenti all’esperienza comune: un amministratore che falsifica le fatture, un samaritano che si ferma a curare un giudeo, un padrone che paga lo stesso salario sia per una giornata di lavoro sia per un’ora sola, un padre che accoglie il figlio che ritorna a casa. Le parabole sono uno strumento di dialogo. Gesù vi ricorre per provocare un cambiamento di posizione: condurre cioè gli ascoltatori da un modo di vedere a un altro, dal loro modo di pensare al suo. Il carattere solo allusivo della parabola costringe l’ascoltatore a una riflessione personale, perché ne possa comprendere il senso; costringe l’ascoltatore, quanto meno, a interrogare ancora Gesù, perché egli stesso illumini il cammino ulteriore. E in rapporto a questo cammino ulteriore gli ascoltatori di Gesù si dividono e lo fanno in base alla disponibilità o meno a procedere oltre. Per comprendere le parabole occorre essere disposti a convertirsi. Una risposta alle obiezioni Il linguaggio della parabola ha un’intrinseca congenialità con il messaggio che Gesù vuole trasmettere. Per questo egli propone parabole nelle occasioni più diverse e per esprimere molteplici aspetti del suo unico messaggio. Tuttavia ci fu un periodo nella predicazione di Gesù in cui la parabola divenne, in un certo senso, la forma quasi obbligata del suo discorso pubblico: “Senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa” ( Mc 4,34 ). E soprattutto in questo periodo che vanno collocate le cosiddette “parabole del Regno”, che propongono tutte, ma da aspetti differenti, la stessa verità: è ora che ciascuno scelga se vuole essere con Gesù o contro di lui. È l’ora in cui Gesù si sottrae alle attese sbagliate, suscitate dalla notizia che egli compie miracoli. E già sotto questo profilo Gesù delude le folle. È anche l’ora in cui la classe dirigente di Gerusalemme comincia a interessarsi a lui, preoccupata di questo maestro di Galilea, e manda degli inquisitori per interrogarlo. Alla gente comune la disapprovazione dell’autorità pare quasi una smentita alle pretese di Gesù. Molti restano perplessi: è mai possibile - si chiedono - che il regno di Dio stia per giungere e che si realizzi ora la lunga speranza di Israele e proprio per mezzo di questo rabbi, figlio del falegname che tutti conoscono e di cui si conosce la parentela? come può pretendere di essere riconosciuto Messia chi sfugge alle attese del popolo ed è addirittura sconfessato dall’autorità religiosa? quando il regno di Dio verrà, non dovrà imporsi in maniera travolgente anche ai suoi nemici? Le parabole del Regno intendono rispondere a queste obiezioni, latenti o espresse. Un Dio diverso dai nostri schemi Gesù racconta che il regno di Dio è come il seme che, sparso per la campagna, è preda di uccelli, è calpestato dai passanti, è impedito di crescere da pietre e rovi selvatici. Ma tutto questo non impedisce che la piccola parte di seme caduto nel terreno buono dia frutto, un frutto tale da compensare abbondantemente il molto seme perduto ( Mc 4,1-20 ). La presenza del regno di Dio deve essere paragonata a un seme, piccolo e trascurabile, quasi dimenticato nel seno della terra, eppure attivo e destinato a produrre frutto, secondo tempi fissati da Dio, al di là dello zelo dell’uomo e delle sue possibilità di accelerarne o ritardarne lo sviluppo: “Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce” ( Mc 4,27 ). Il regno di Dio è paragonabile a un granello di senape ( Mc 4,30-32 ): un seme talmente piccolo da sembrare trascurabile, come appunto sembra trascurabile il ministero di Gesù, un ministero che suscita sconcerto vista la modestia delle sue apparenze e la grandiosità delle sue pretese. E tuttavia il Regno, che è davvero realtà grandiosa, è presente in questo piccolo seme, cioè nella vita e nella predicazione di Gesù, come lo sarà poi nella predicazione e nella vita della comunità cristiana. La presenza del Regno in mezzo agli uomini - che si identifica con la presenza di Gesù - è per il momento come un pizzico di lievito nell’impasto, prima che esso fermenti: nulla è cambiato apparentemente, tutto sembra continuare come prima, e tuttavia occorre credere che tutto cambierà. Quando e come, solo Dio lo sa ( Mt 13,33 ). La parabola del grano e della zizzania ( Mt 13,24-30.36-43 ) è rivolta a tutti coloro che si scandalizzano della pazienza di Dio, del suo modo di agire stranamente tollerante. Dio non dovrebbe governare il mondo e instaurare il suo regno con criteri più netti? Al tempo di Gesù c’era il movimento fariseo, che pretendeva essere il popolo santo, separato dalla moltitudine dei peccatori. E c’erano gruppi di uomini, simili a monaci, che si ritiravano nella solitudine del deserto a vivere in rigida santità, rifiutando tutti coloro che erano ritenuti impuri. E c’era lo stesso Giovanni Battista, che annunciava il Messia come colui che avrebbe - finalmente! - separato il grano e la pula ( Mt 3,12 ). Gesù viene e sembra fare il contrario. Non si separa dai peccatori ma cerca la loro compagnia, non li abbandona ma li perdona. Si comprende a questo punto tutta la forza polemica della parabola. C’è un netto contrasto fra la politica di Dio - paziente e tollerante - e l’intollerante rigidezza dei molti suoi servi. Con il suo agire di tolleranza e di perdono Gesù, vuole mostrare a tutti come Dio costruisce il suo regno. Compiva segni e miracoli CCC nn. 156; 515; 547-550 CdA nn. 186-195 CdG1 pp. 194-195 Tutti e quattro i Vangeli raccontano con compiacenza i molti miracoli di Gesù. Le folle della Palestina accorrevano attorno a Gesù non solo per ascoltare le sue parole, ma anche per i suoi miracoli, le sue guarigioni e i suoi esorcismi. Perché Gesù ha compiuto miracoli? Qual è il loro significato rispetto al suo annuncio del regno di Dio?  Segni per la fede I miracoli di Gesù hanno certamente lo scopo di garantire che egli è l’inviato di Dio e che le sue parole sono veritiere. Ma questo scopo non esaurisce il loro significato. Comunque non toglie all’atto di fede il suo aspetto di libera decisione e non sottrae la missione di Cristo alla debolezza della croce. I miracoli sono al servizio della fede e non intendono offrire in alcun modo una certezza diversa dalla fede. Parlando della visita di Gesù a Nazareth, un evangelista annota: “Non vi poté operare nessun prodigio” ( Mc 6,5 ). Gesù non può fare miracoli là dove c’è l’incredulità ostinata. I miracoli di Cristo sono la risposta alla sincerità dell’uomo che cerca la verità: non sono il tentativo di forzare, in ogni modo, il cuore dell’uomo. Diversamente dagli uomini, Dio non usa la violenza per imporre la sua verità. E neppure fa miracoli là dove gli uomini pretendono segni che permettano loro di sottrarsi al rischio della fede. I segni di Dio non sono così evidenti da togliere ogni dubbio possibile. E neppure fa miracoli là dove gli uomini vorrebbero sfruttarli per sé, a sostegno delle loro pretese.  Segni della venuta del Regno I miracoli di Gesù sono il segno della venuta del regno di Dio. Così Gesù stesso li presenta nel rispondere al Battista ( Mt 11,2-6 ) e ai farisei che chiedono: “Quando verrà il regno di Dio?” ( Lc 17,20-21 ). Non si limita ad affermare che il regno di Dio è vicino: ne indica le caratteristiche. Il Regno è presente e operante nelle parole e nell’azione di Gesù. Egli stesso sottolinea questa prima caratteristica del Regno: “Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio” ( Mt 12,28 ). L’annuncio del Regno fatto da Gesù è in continuità con le attese dei profeti, i quali avevano predetto che Dio avrebbe compiuto opere straordinarie nel tempo della salvezza. I miracoli di Gesù sono, appunto, il compimento di queste attese ( Lc 4,16-22 ). Ma il Regno, pur essendo arrivato nella persona e nell’azione di Gesù, è anche da attendere. Per questo i miracoli sono una “promessa”; indicano, inizialmente e simbolicamente, la direzione di salvezza in cui il mondo è incamminato: un mondo di uomini finalmente liberati dal peccato, dalla schiavitù e dalla divisione, radunati alla mensa di Dio, senza più esclusi. Per questo i miracoli di Gesù sono particolarmente in direzione degli infelici. Ed è una salvezza che interessa tutto l’uomo in tutte le sue dimensioni: spirituali, fisiche e sociali. I miracoli testimoniano che il Regno porta tutto l’uomo alla completezza. Già si vede come nell’intenzione di Gesù i miracoli sono importanti, ma non debbono incoraggiare facili illusioni. Essi restano segni del Regno, che è vicino, ma non è ancora realizzato. Sono segni del Regno perché manifestano, quasi a modo di fuggitivi barlumi, quale sia il destino ultimo dell’uomo e di questo mondo. Un destino che, se rimane sempre incompiuto nella storia dell’umanità, pure è promesso come “un nuovo cielo e una nuova terra” ( Ap 21,1 ). Un dono che fonda la speranza Il grande miracolo è la risurrezione, ma questa - come tutti gli altri miracoli di Gesù, che la precedono e la prefigurano - non significa che la croce è tolta, o che Dio abbia abbandonato il rischio e la debolezza dell’amore, per sostituirvi la sicurezza della potenza. Significa, al contrario, che la potenza vittoriosa di Dio è nascosta nella debolezza della croce, la cui accoglienza è il passaggio obbligato della speranza. Infine, i miracoli evangelici sottolineano il principio della grazia, che è una caratteristica costante dell’azione salvifica di Dio. Significano che, in definitiva, soltanto Dio può aiutare il mondo nel bisogno e nella caducità derivati dal peccato. I miracoli di Gesù sono uno scandalo per chi si affida esclusivamente al lavoro delle proprie mani per costruire il proprio futuro. Ma per chi è disposto a credere sono una ragione di speranza. Risanando ciechi, storpi e muti, risuscitando i morti, cacciando i demoni, Gesù rivela che la potenza di Dio è già all’opera per compiere ciò che all’uomo non è possibile. I miracoli dicono che il regno di Dio, promesso e vicino, sarà anche la liberazione dell’uomo da tutti i limiti inerenti alla sua condizione umana. Segni del mistero di Gesù I Vangeli sinottici preferiscono parlare dei miracoli in rapporto al regno di Dio. Il Vangelo di Giovanni, invece, preferisce parlarne in rapporto alla persona di Gesù. Nella storia di Gesù, fino alla sua passione, un ruolo decisivo è svolto da quelle che Gesù stesso chiama le sue “opere”: accolte dagli altri come “segni”, esse svelano progressivamente, in forma simbolica, la gloria del Figlio unigenito ( Gv 1,14 ). I miracoli, i “segni” sono i momenti anticipatori, luminosi, in cui il velo viene sollevato per mostrare più chiaramente la gloria nascosta nell’umanità di Gesù ( Gv 2,11 ). Per indicare questa gloria, il quarto Vangelo usa molte espressioni: luce, vita, grazia e verità, essere inviato dal Padre, e altre ancora. Sono tutte parole che si riferiscono al mistero di Gesù, alla sua figliolanza divina e all’incredibile dono d’amore per noi che essa nasconde. Ma i segni lasciano il posto alla realtà, alla manifestazione piena della gloria, quando giunge l’“ora” di Gesù. Nella croce-risurrezione sono apparsi, da un lato, l’amore di Gesù per il Padre, la sua totale obbedienza e la sua completa sottomissione ( Gv 8,28-29 ); dall’altro, l’incondizionata disponibilità di Gesù a divenire il luogo in cui l’amore del Padre per gli uomini ha potuto manifestarsi in tutta la sua sorprendente profondità ( Gv 3,16-17 ). È in questa duplice donazione che Gesù appare come il Figlio, nel quale percepiamo la perfetta presenza del Padre: questa è la “gloria” dell’Unigenito. Lo scopo dei miracoli è di aiutare i credenti a intuire qualcosa di questo profondo mistero dell’amore di Dio ( Gv 14,11 ). I miracoli non bastano Tracce del Regno e appelli alla fede, i miracoli possono, però, essere compresi in modo scorretto. È un rischio abbastanza facile. Se ne sono preoccupati gli stessi evangelisti, che pure parlano con entusiasmo dei miracoli di Gesù e dei futuri miracoli dei discepoli. L’evangelista Marco è convinto che i miracoli possono avviare il processo della fede, ma è altrettanto convinto che per giungere alla fede piena occorre passare attraverso il silenzio della croce, dove i miracoli scompaiono: “Ha salvato altri, non può salvare se stesso!” ( Mc 15,31 ). Alla richiesta dei farisei di “un segno dal cielo”, Gesù oppone un rifiuto categorico e irritato: “E lasciatili, risali sulla barca” ( Mc 8,11-13 ). I farisei chiedevano un miracolo più grandioso, convincente, in grado di provare in modo irrefutabile l’origine di Gesù. Ma Gesù non intende provare la sua messianicità per tale via e in tale modo. E, nel discorso escatologico, si legge con qualche sorpresa: “Sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e portenti per ingannare” ( Mc 13,22 ). Nel riportare queste parole, probabilmente, Marco vuole rimproverare certuni che troppo ingenuamente si affidavano a segni e prodigi: come credenziali, da soli non bastano. Anche l’evangelista Giovanni riconosce che i miracoli di Gesù sono i segni che ne rivelano la gloria: “Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” ( Gv 2,11 ). Tuttavia conclude il suo Vangelo con una beatitudine sorprendente: “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” ( Gv 20,29 ). Ricorda, inoltre, che Gesù non si fidava di una fede che poggiava esclusivamente, o troppo, sui miracoli: “Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome. Gesù però non si confidava con loro” ( Gv 2,23-24 ). Infine, unico fra gli evangelisti, riporta un esplicito rimprovero di Gesù: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete!” ( Gv 4,48 ). Il miracolo evangelico non è sempre ciò che noi intendiamo per miracolo. È un fatto religioso, che non privilegia la straordinarietà, ma la capacità di significare. E il cuore della fede non è la sete dei miracoli, ma il desiderio di conoscere Gesù Cristo. Realtà storica dei miracoli Ci resta una domanda: i miracoli di Gesù sono storici? La questione è importante per la stessa fede. Essi sono troppo al centro della vicenda di Gesù per non minarne la credibilità se dovessero essere riconosciuti come un’invenzione della comunità cristiana. Prima però di entrare nel confronto con la storicità dei miracoli, occorre liberarsi da ogni pregiudizio antistorico, che può nascere in chi ha già deciso in cuor suo di rispondere di no a Gesù. Accadeva anche al suo tempo; fra i testimoni oculari non mancavano coloro che per negare la fede in lui interpretavano i suoi gesti nel modo più arbitrario: “Costui scaccia i demoni in nome di Beelzebùl, principe dei demoni!” ( Mt 12,24 ). Occorre dunque un atteggiamento di lealtà. Chi lo assume non può non condividere quanto pensano comunemente gli studiosi: è inverosimile l’ipotesi che i miracoli evangelici siano semplicemente il prodotto della fantasia devota della comunità delle origini, preoccupata di accrescere la gloria di Gesù. Un primo dato favorevole alla sostanziale storicità dei racconti evangelici di miracoli è l’antichità e l’universalità della loro tradizione. I miracoli appartengono alla prima predicazione e sono presenti in tutti i filoni del Nuovo Testamento. Un secondo dato è il fatto che i miracoli di Gesù sono ammessi sia dalla testimonianza cristiana sia dalle testimonianze ebraiche. Nessuna polemica sull’esistenza dei prodigi di Gesù, ma solo sulla loro interpretazione: opera di Dio o di satana ( Mc 3,22-27 )? La polemica ebraica avrebbe avuto tutto l’interesse a negare i fatti. Invece leggiamo nel Talmud: “Nel giorno precedente la Pasqua è stato giustiziato Gesù di Nazareth. Quaranta giorni prima passò un nunzio ad annunciare: egli va lapidato perché ha operato magia, corrompendo e facendo deviare Israele; chi ha una giustificazione in suo favore si presenti e la esponga; ma non si trovò nessuna giustificazione e così lo si giustiziò il giorno precedente la Pasqua” ( Talmud babilonese, Sanhedrin, 43a ). Un terzo dato, infine, ci è offerto dalle caratteristiche stesse dei miracoli di Gesù, che acquistano tutto il loro valore se confrontati con le raccolte di prodigi dei santuari pagani, con i racconti dei rabbini o con quelli dei vangeli apocrifi. I miracoli evangelici colpiscono per la loro verosimiglianza, per la loro semplicità e sobrietà: nessun cedimento al gusto del meraviglioso e alla curiosità. Non sono mai fine a se stessi, ma sempre compiuti per un fine religioso e a servizio di un messaggio. Tralasciano gli aspetti spettacolari per attirare l’attenzione sul senso religioso. Gesù ha sempre rifiutato di fare miracoli allorché potevano servire alla sua sicurezza personale o a far colpo. La certezza complessiva sul fatto che Gesù fece dei miracoli lascia però aperti problemi storici a proposito di singoli episodi. Infatti, la preoccupazione che sta alla base del racconto dei Vangeli non è di descrivere a modo di cronaca come sono andate le cose, ma è piuttosto di riproporre i gesti di Gesù con la preoccupazione di farne emergere il significato, il messaggio che portano con sé. La forma letteraria, l’ambientazione e singoli particolari dei racconti possono essere alle volte suggeriti dall’annuncio evangelico e dalla catechesi. Il Regno è in mezzo a voi CCC nn. 543-545; 588-589; 1439; 1443; 2443 CdA nn. 127-135; 196-199 CdG1 pp. 59-60; 126-133 Gesù non soltanto ha annunciato il Regno con la sua predicazione, con le sue parole e con i suoi miracoli, ma anche e soprattutto con i suoi comportamenti, le sue scelte, le sue relazioni; in una parola, con la sua vita. Chi ha frequentato Gesù? Chi ha privilegiato? Come si è posto di fronte alle persone che ha incontrato? Rispondere a queste domande è importante, perché i comportamenti di Gesù sono il riflesso del regno di Dio.  Dalla parte dei poveri Luca racconta che Gesù, giunto al suo paese ed entrato nella sinagoga, lesse un passo del libro del profeta Isaia ( Is 61,1-2 ), dichiarando di essere venuto per i prigionieri, i ciechi, gli oppressi, i poveri, i peccatori ( Lc 4,16-30 ). È un episodio importante e programmatico: da una parte, mostra il Messia che annuncia l’oggi di Dio e offre il suo amore ai poveri e ai peccatori, e dall’altra mostra che gli uomini ne provano spesso irritazione. Difatti, dopo un’iniziale meraviglia, gli abitanti di Nazareth gli opposero un netto rifiuto: “Lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio”. A molti, un Dio che abolisce le differenze non piace. Preferiscono un Dio che divide: da una parte i giusti e dall’altra i peccatori, da una parte i ricchi e dall’altra i poveri, da una parte i vicini e dall’altra i lontani. Gesù, invece, ha frequentato gli esclusi di ogni genere – gente del popolo, malati, stranieri e peccatori - e a loro ha annunciato il Regno. In un certo senso li ha privilegiati, non certo per assecondare l’ingiustizia e giustificare il peccato, ma per chiamare alla conversione del cuore e delle opere. Gesù sa che Dio non fa differenza di persone, non segue le valutazioni e le emarginazioni che gli uomini costruiscono, magari anche in suo nome. Al contrario: Dio è dalla parte dei poveri e degli esclusi, per difenderli. Ecco perché Gesù privilegia costoro, per rivelare il vero volto di Dio e del suo regno ( Lc 5,29-32 ). Gesù ha certamente frequentato anche uomini ricchi, gente che possedeva cultura e autorità, e anche a costoro ha annunciato il Regno. Ha accettato l’invito a pranzo di Simone il fariseo ( Lc 7,36 ) e di un altro capo dei farisei ( Lc 14,1 ); ha guardato con simpatia l’uomo ricco che gli chiedeva cosa doveva fare per ottenere la vita ( Mc 10,21 ); è entrato nella casa di Zaccheo “capo dei pubblicani e ricco” ( Lc 19,1 ). Gesù ha dunque accolto anche i ricchi, ma sempre per aprire loro il cuore e le mani. Li ha incontrati in quanto uomini e come tali amati da Dio e invitati al Regno. In nessun modo ha considerato la loro posizione un luogo privilegiato per l’annuncio del Regno. Non ha mai preso in considerazione né la loro potenza né la loro forza di influenza. Gesù non ha mai considerato il denaro, coloro che lo possiedono e le molte cose che con il denaro si possono fare, come una via favorevole all’instaurazione del Regno.  L’accoglienza dei bambini Il racconto di Gesù che accoglie i bambini, mentre i discepoli vorrebbero impedirglielo, è collocato dai tre Vangeli sinottici nel viaggio verso Gerusalemme. Gesù è risolutamente incamminato verso la croce. E proprio qui, in questo contesto solenne e impegnativo, Gesù si ferma e accoglie i bambini ( Mt 19,13-15; Mc 10,36-16; Lc 18,15-17 ). Non mancano testi dell’epoca che affermano che i bambini sono una benedizione di Dio ( Sal 127,3 ). Tuttavia nel mondo antico, in generale e anche in Palestina, i bambini non avevano alcun peso nella società; erano praticamente senza diritti. Potevano solo ricevere ed essere accolti, così come, nella società di allora, accadeva per i poveri, gli stranieri, i peccatori. Nei suoi discorsi Gesù presenta i bambini come la figura di tutti coloro che non contano, ma che Dio privilegia. In netta antitesi con la mentalità del tempo, Gesù afferma che “a chi è come loro appartiene il regno di Dio” ( Mc 10,14 ). Con questo atteggiamento verso i bambini, Gesù non si oppone soltanto alla mentalità del tempo, ma anche a quella dei suoi discepoli. L’episodio, come abbiamo accennato, mostra il conflitto tra Gesù e coloro che lo attorniano: “I discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s’indignò” ( Mc 10,13-14 ). Con grande meraviglia dei discepoli, Gesù si ferma e accoglie i bambini, perde tempo con loro. Egli non ha cose più importanti da fare né persone più importanti da incontrare. Anche in un’altra occasione Gesù parla ai suoi discepoli dei bambini, invitando ad accoglierli: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” ( Mc 9,37 ). Come Gesù, lungo la via della croce, ha accolto i bambini, così devono fare i discepoli. Accogliere i bambini fa parte dell’annuncio del Regno. Nessuno è escluso L’evangelista Matteo così descrive le folle che accorrevano a Gesù: “La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guariva. E grandi folle cominciarono a seguirlo” ( Mt 4,24-25 ). Per capire il senso di ciò che Gesù fa, può bastare un solo esempio: “Allora venne a lui un lebbroso, lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi!”. Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”. Subito la lebbra scomparve ed egli guarì” ( Mc 1,40-42 ). Per comprendere la novità di questo gesto di Gesù si può leggere un passo del libro del Levitico: “Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” ( Lv 13,45-46 ). Il lebbroso è dunque un impuro, colpito da Dio, ed è causa di impurità: egli è un intoccabile e deve vivere al bando della società. È su questo sfondo che il gesto di Gesù acquista un significato preciso: Gesù tocca un intoccabile. Avrebbe potuto guarire il lebbroso senza toccarlo; invece, di proposito, lo tocca. Gesù non tiene conto delle barriere del puro e dell’impuro; le supera. Per lui non esistono uomini da accogliere e uomini da evitare, uomini con diritti e uomini senza diritti: tutti sono amati da Dio, e il gesto di Gesù vuole essere il segno di questo amore divino che non fa differenze. Una considerazione nuova della donna Al tempo di Gesù la condizione della donna era fortemente inferiore a quella dell’uomo, sia sul piano sociale sia su quello religioso. Possiamo chiederci: come si comporta Gesù nei confronti delle donne? che cosa pensa di loro? Nel suo ministero itinerante Gesù ha incontrato diverse figure di donne: una donna malata di emorragie ( Mc 5,25-34 ), una donna straniera ( Mc 7,24-30 ), una vedova povera e generosa ( Mc 12,41-44 ), una vedova che accompagnava l’unico figlio alla sepoltura ( Lc 7,11-17 ), una peccatrice nota in tutta la città ( Lc 7,36-50 ), le due sorelle Marta e Maria ( Lc 10,36-42 ), una donna samaritana ( Gv 4,4-30 ), un’adultera ( Gv 8,1-11 ). Per intravedere la novità del modo con cui Gesù considera la donna, possono bastarci pochi esempi. Quando la donna pubblicamente conosciuta come una peccatrice cosparge i suoi piedi di profumo versando lacrime, Gesù intuisce che il fariseo che lo ospita non sa capire. Gesù sa che è una peccatrice, ma questo non gli impedisce di comprendere che il gesto della donna esprime amore. Libero da pregiudizi e condizionamenti culturali, Gesù vede quella donna nella sua verità: peccatrice sì, ma anche capace di molto amore ( Lc 7,36-50 ). Un giorno una donna che soffriva di perdite di sangue si nasconde tra la folla, tocca senza farsi vedere il mantello di Gesù e viene guarita dal suo male. La donna ha cercato di toccare Gesù di nascosto. Questo perché la legge dichiarava impura una donna che aveva perdite di sangue e impuro diventava tutto ciò che lei toccava ( Lc 15,25-28 ): ecco perché la donna tocca la veste di Gesù di nascosto, approfittando della calca della folla; ed ecco perché si sente tanto colpevole, paurosa e tremante, quando si vede scoperta. Ma è per lo stesso motivo che Gesù dà pubblicità al suo gesto: vuol dichiarare di fronte a tutti che non si sente impuro perché una donna lo ha toccato e che egli interpreta diversamente le categorie del puro e dell’impuro. Gesù vede la donna nella sua malattia e nella sua fede, non attraverso lo schema culturale delle leggi di purità ( Mc 5,25-34 ). Al pozzo di Sicar Gesù si intrattiene con una donna che avrebbe dovuto evitare, perché samaritana e perché peccatrice; conversa invece con lei del regno di Dio, come se parlasse con un discepolo. Il comportamento accogliente di Gesù suscita una doppia meraviglia: quella della donna, del tutto sorpresa di fronte a quel giudeo così diverso dagli altri, e quella dei discepoli, stupiti che il loro maestro si intrattenga con una donna. Sentendosi accolta, la donna si apre all’ascolto e alla fine dimentica ciò che prima le interessava: venuta a prendere l’acqua, dimentica la brocca. Ha trovato di meglio ( Gv 4,1-42 ). Un giorno gli scribi portano davanti a Gesù una donna sorpresa in adulterio. All’insistenza degli scribi, che vogliono da Gesù un giudizio chiaro sul suo comportamento, egli risponde ponendo il problema in termini inattesi. Coinvolge nel giudizio gli stessi accusatori: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Gesù riconosce che quella donna è una peccatrice e le dice: “D’ora in poi non peccare più”; ma nel contempo, diversamente dagli altri, egli riconosce due cose: che l’adulterio di una donna non è diverso dall’adulterio di un uomo e che il perdono è disponibile anche per lei, come per gli altri ( Gv 8,1-11 ). In tutti i casi in cui si è trovato di fronte una donna, Gesù ha infranto un divieto, rotto uno schema. Il suo modo di vedere la donna è del tutto libero dai molti pregiudizi religiosi e culturali che impedivano di vedere la donna quale realmente è, nel bene e nel male, nella dignità e nei limiti di ogni persona umana. Gli occhi di Gesù sono privi di filtri. Riconosce il peccato e ordina di non commetterlo più, che si tratti di un uomo o di una donna. E allo stesso modo concede il perdono. Venuto a chiamare i peccatori Soprattutto nell’accoglienza dei peccatori, i più emarginati nella società del tempo, Gesù lascia trasparire la novità del regno di Dio. Gesù ha dato una sorprendente definizione di se stesso: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori” ( Mc 2,17 ). Si noti la contrapposizione: Gesù agisce diversamente da come ci si aspetterebbe. L’accoglienza dei peccatori rappresenta uno dei tratti fondamentali che oppongono il vangelo al mondo. Proprio su questo punto Gesù ha messo in gioco la sua credibilità, disposto a suscitare e ad affrontare qualsiasi opposizione. La stessa croce - una morte “per i peccatori” - non sarebbe comprensibile senza la precedente accoglienza dei peccatori. Sorprendono le modalità di questa accoglienza. I Vangeli ricordano che Gesù sedeva a mensa e mangiava con i peccatori ( Mc 2,15-17 ), accettandone l’ospitalità ( Lc 19,7 ). Doveva trattarsi di una prassi abituale se lo accusarono di essere “un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” ( Lc 7,34 ). Accettando di sedere a mensa con i peccatori, Gesù supera d’un balzo le leggi della purità, che sono sempre all’origine delle divisioni di casta. Gesù, in altre parole, toglie la separazione: non offre solo perdono, ma prossimità. Per questo, non solo perdona i peccati, ma siede a mensa coi peccatori. E non solo ha guarito il lebbroso, ma gli si è avvicinato. Dicendo: “Sono venuto a chiamare i peccatori”, Gesù mostra che la sua accoglienza è attiva; un tratto questo illustrato molto vivacemente dalla parabola del pastore che va in cerca della pecora perduta ( Lc 15,4-7 ). Il significato del verbo “chiamare”, inoltre, non si esaurisce nel semplice invito al ravvedimento, ma, nell’uso evangelico, esprime l’invito a partecipare attivamente alla missione. Gesù, dunque, non soltanto accoglie i peccatori né soltanto li cerca, ma li invita a condividere la sua responsabilità nell’annuncio del Regno. Siamo di fronte a un’accoglienza veramente totale. Questa solidarietà di Gesù nei confronti dei peccatori trova la sua sorgente in una precisa esperienza di Dio, come appare dalle tre parabole della misericordia ( Lc 15 ). Per giustificarsi di fronte a chi si scandalizza di lui, Gesù parla di come la misericordia di Dio sia capace di accogliere. L’accoglienza di Gesù verso i peccatori è la trascrizione storica e visibile di come Dio stesso accoglie; non soltanto un gesto di salvezza in favore dei peccatori, ma, ancor prima e più profondamente, un gesto di rivelazione. L’accoglienza di Gesù è lo specchio del volto di Dio. Gesù sa che “ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” ( Lc 15,7 ). Dio gioisce per la conversione del peccatore e vuole che la sua gioia sia condivisa. Il contrasto fra Gesù e i suoi avversari non è soltanto morale, non riguarda semplicemente la legge, ma investe la concezione di Dio. Seguitemi CCC nn. 512-521; 542-543; 1701-1715 CdA nn. 136-139; 507-509; 800-804; 816-820 CdG1 pp. 56-58 L’accoglienza del Regno esige fede e conversione: “Convertitevi e credete al vangelo” ( Mc 1,15 ). E, come mostra la chiamata dei primi discepoli ( Mc 1,16-20 ), la conversione per il Regno praticamente si identifica con la sequela di Gesù. Il racconto della chiamata dei discepoli è costituito da due scene parallele, che si possono quasi sovrapporre. Servendosi delle stesse parole e degli stessi tratti, Marco ha l’opportunità di ribadire due volte alcune cose che ritiene essenziali: la gratuità della chiamata, l’urgenza della risposta, il distacco, la sequela, la missione.  La gratuità della chiamata Alla radice del seguire Gesù c’è la sua libera e gratuita iniziativa. I verbi più importanti dell’intera narrazione di Marco sono: “vide … disse … li chiamò”. L’iniziativa è di Gesù e il suo appello è del tutto gratuito. Come allora, anche oggi all’origine della sequela c’è sempre una chiamata. Allora è stato direttamente Gesù a chiamare Pietro, Giovanni, Giacomo e Andrea. Ora l’appello di Gesù continua a risuonare per ciascuno nella voce della Chiesa e dei suoi testimoni. Ma perché Gesù chiama questi quattro uomini e non altri? Sta qui la gioia e il tormento di ogni chiamata: perché io e non altri? Gioia, perché la chiamata è il segno di un amore gratuito. Sarebbe angosciante un amore condizionato. Sappiamo invece di essere amati senza condizione, amati comunque. Da qui la gioia e la serenità. Ma anche il tormento. Come è possibile che Dio chiami qualcuno e non tutti? Non c’è che una risposta: chi è chiamato deve porsi al servizio di tutti. Non è pensabile una chiamata a vantaggio proprio. La prima radice della missionarietà è la consapevolezza della gratuità. Il merito blocca la missione, la gratuità la fonda.  L’urgenza della risposta Gesù è portatore di una notizia e di un appello che non concedono dilazioni. È la grande occasione e occorre affrettarsi. Così l’urgenza della risposta è una nota essenziale della sequela: “E subito, lasciate le reti, lo seguirono” ( Mc 1,18 ). Oggi si tende spesso a rimandare la risposta, forse perché c’è paura a impegnarsi definitivamente, o forse, anche, per un’eccessiva pretesa di chiarezza. Invece, di fronte alla chiamata di Gesù, occorre sempre una grande disponibilità responsabile, ricca di coraggio e di fiducia. Soprattutto fiducia. Certo, occorre chiarire fin dall’inizio le motivazioni della propria scelta, ma occorre anche sapere che le motivazioni si chiariscono e si approfondiscono solo cammin facendo. È all’interno della sequela che si comprende, non stando di fuori a guardare, da semplici spettatori.  Un profondo distacco L’appello di Gesù ha un carattere di assoluta novità e perciò non può essere accolto senza passare attraverso un profondo distacco. Non c’è sequela senza esodo. Che il distacco debba essere totale e definitivo è detto subito: i primi discepoli lasciano il lavoro, il padre e la proprietà. Tuttavia il distacco ha un suo itinerario, non soltanto nel senso che è da rinnovare ogni giorno – si può sempre riprendere ciò che si è lasciato –, ma nel senso, ben più profondo, che lo si comprende giorno dopo giorno, nelle concrete circostanze della vita. Nel Vangelo di Marco questa comprensione progressiva si sviluppa lungo almeno due direttrici. La prima ( Mc 10,17-22 ) riguarda le motivazioni del distacco, che via via si purificano per concentrarsi sulle due vere ragioni: la condivisione con i fratelli e la libertà per il vangelo. Lo spazio del distacco, che poi è spazio di libertà, si allarga a misura che il vangelo diventa il nuovo orizzonte. Ci si stacca da tutto, per concentrarsi su ciò che più importa. Il cammino del discepolo va di pari passo con una progressiva liberazione, che è nel contempo distacco e concentrazione. In proposito c’è un detto di Gesù che sorprende per la sua durezza: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” ( Mc 8,34 ). Il verbo “rinnegare” nella Bibbia indica l’abbandono totale, senza tentennamenti, di tutte le idolatrie, per appartenere soltanto al Signore. Gesù ci fa capire che l’idolatria da abbandonare siamo noi stessi. L’idolatria da rinnegare è l’esaltazione di sé a valore ultimo e, quindi, a criterio di ogni scelta. Il discepolo deve risolutamente cambiare il centro della vita: non più se stesso, ma Gesù. Questo rinnegamento di sé non comporta una mortificazione della persona né della gioia di vivere né della simpatia verso il mondo, nel quale, anzi, l’uomo del vangelo sa scorgere, con occhio limpido, i doni di Dio. Da rinnegare è l’appartenenza idolatrica a se stessi, che preclude ogni altro orizzonte, sia verso Dio sia verso gli uomini e il mondo. L’appartenenza idolatrica è antiumanesimo, perché non libera l’uomo, ma lo schiavizza, impedendogli ogni slancio al di là di se stesso. Non una perdita, ma un guadagno La seconda direttrice dell’itinerario del distacco è la comprensione progressiva, esperienziale, che il distacco per seguire Gesù non è una perdita, ma un guadagno. Si legga in proposito la risposta di Gesù a Pietro ( Mc 10,28-30 ). Il distacco per Cristo non è una perdita, ma ricevere il centuplo. Il distacco per Cristo rende possibile la gioia della comunione con Dio e ci dà, al tempo stesso, un modo diverso di rapportarci al mondo. Chi punta verso Dio e si libera dall’ansia dell’accumulo e della paura di perdere ciò che ha accumulato, vede nel mondo e nelle cose un dono di Dio, un dono per tutti, e vi si accosta con animo libero, aperto alla gioia. L’accoglienza di un dono La gioia è importante, ma richiede un profondo rinnovamento che solo la fede può dare. C’è chi trova il coraggio di rinunciare a molto per Dio, senza però trovare il coraggio di rinnovarsi. Questa figura di credente, più frequente di quanto si pensi, lascia molto per Dio, ma come un prezzo che è giusto pagare alla sua sovranità. L’ideale che lo guida è l’obbedienza servile, non la libertà né la gratitudine. Non ha capito che il vangelo è tale non perché chiede – anche se chiede molto! – ma perché dona. Un tale uomo serve, ma non ha una visione nuova di sé, del mondo e di Dio, e perciò il suo lasciare è solo fatica, non una scoperta di nuovi orizzonti, di nuovi significati e di doni insospettati. Il cammino della sequela richiede fatica, disciplina, allenamento e una consuetudine conquistata giorno dopo giorno. Ma se questo cammino è autentico, porta a una scoperta che tutto capovolge: non è il discepolo che dona se stesso al Maestro, ma è il Maestro che dona se stesso al discepolo; non è il discepolo che dona a Dio le cose che lascia, ma è Dio che insegna al discepolo un modo nuovo di godere delle cose. Tutto questo, però, a una condizione, che è l’esigenza forse più profonda e coraggiosa della sequela: il coraggio di lasciare che sia Cristo a suggerirci come guardare Dio, l’uomo, il mondo. Seguire Gesù In questo quadro spicca il verbo “seguire”. Anziché dire che il discepolo è chiamato a imparare qualcosa, il vangelo dice che è chiamato a seguire qualcuno. Al primo posto non c’è una dottrina, ma una persona da seguire. E seguire significa non solo camminare, ma esprime un progetto consapevole: un andar dietro a qualcuno, a cui si vuole restare vicini, facendo la sua stessa strada e condividendo le sue scelte. Ma chi è questo Gesù che si è deciso di seguire? Dove conduce veramente il suo cammino? Due domande importanti, che però si approfondiscono dentro il cammino stesso, non all’esterno. Non all’inizio, ma lungo il cammino della sequela Gesù svela compiutamente il suo volto di Messia sofferente e, contemporaneamente, di conseguenza, il vero volto del discepolo ( Mc 8,31-38 ). La reazione di Pietro, che tenta di allontanare Gesù dalla croce, mostra che la sua scelta iniziale, pur così decisa da indurlo ad abbandonare subito la barca e le reti, era però ancora imprecisa. Pietro si era immaginato il Messia e la sua strada al modo di tutti. Ora Pietro si accorge che Gesù è diverso. Ed è a questo punto, nel vivo del cammino intrapreso, che Pietro è chiamato a rischiare la vita. La scelta più profonda non è solo quando ci si decide per Dio, ma quando, camminando con lui, ci si accorge che egli è diverso dall’idea che ce ne eravamo fatti. Più grande e più ricco, certo, ma anche misterioso. E stato questo il momento decisivo per Abramo, per Mosè, per Giobbe e per Geremia. Ed è questo il momento decisivo di ogni credente, nella misura che intraprende un cammino in cui mette in gioco tutto se stesso. Ma è anche il momento della luce e della verità, in definitiva del vero incontro. Sono commoventi le parole di Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” ( Gb 42,5 ). Questo è possibile a una condizione, che costituisce forse il vertice della maturità umana e cristiana. La scelta umana di Pietro era imprecisa e parziale perché non accettava Gesù come servo di Dio incamminato verso la croce. Era però una scelta forte e matura, capace di legami definitivi con la persona di Gesù. Per questo Pietro era rimasto con Gesù, a differenza delle folle e di altri discepoli. La scelta evangelica è davvero la scelta di una persona ( Gv 6,66-69 ). Comunione e missione Nel quadro della sequela si inserisce, poi, una prospettiva sul futuro: “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini” ( Mc 1,17 ). La sequela non è una chiamata a star fermi, ma a camminare. Non conclude un itinerario, ma lo apre. Ed è una chiamata ad uscire, a camminare verso gli altri. Il verbo è al futuro: “vi farò”. Non è un caso: “seguitemi” è al presente; “vi farò” è al futuro. Prima seguire poi andare, prima la comunione e poi la missione. Ma è anche vero che il seguire è già, fin dall’inizio, orientato all’andare, e la comunione deve essere, già all’inizio, proiettata verso la missione. Se il seguire non si conclude in un andare, significa che si è intrapreso un itinerario sbagliato. Non si è seguito Gesù, ma se stessi. Perché la sequela evangelica è diversa da tutte quelle sequele che invitano invece a separarsi o a rinchiudersi. Un cammino personale Infine, un’ultima annotazione: per ogni uomo c’è un cammino personale dentro un cammino comune. Certo, la parola di Dio traccia un cammino comune, in un’unica direzione, per tutti gli uomini. Si pensi al decalogo per l’Antico Testamento e alle beatitudini per il Nuovo. Tuttavia questo non impedisce che la Bibbia sia disseminata di vocazioni e di itinerari personali. Gli stessi racconti di chiamata appaiono come un intreccio di tratti fissi, comuni a tutti, e di tratti individuali e personalizzati. Dentro l’unico progetto prendono corpo i molti progetti, dentro l’unica chiamata la propria personale chiamata. Nel quadro dei comandamenti e nella comune giustizia, per fare un solo esempio, all’uomo ricco è rivolto un invito personale ( Mc 10,17-22 ). Ogni persona è chiamata a percorrere, sia pure dentro un cammino comune, un proprio cammino originale e personale. Beati voi CCC nn. 1716-1729 CdA nn. 127-135; 852-865 CdG1 pp. 128-130 Non si può riflettere sul regno di Dio e sulle sue esigenze senza leggere la pagina evangelica delle beatitudini ( Mt 5,1-12 ). Non c’è pagina più affascinante, ma anche più sconcertante di questa. Non capiremmo nulla di Gesù né del regno di Dio né dell’esistenza cristiana, se non ci confrontassimo con questo testo. E neppure capiremmo molto di noi stessi. Un’immagine di Gesù e dei suoi discepoli Le beatitudini riportate dal Vangelo di Matteo sono otto, ma descrivono un’unica personalità: Gesù, che non soltanto ha proclamato le beatitudini, ma le ha vissute. Al tempo stesso, le beatitudini descrivono il cristiano. Le beatitudini sono la fotografia dell’uomo che ha accolto il regno di Dio; di Gesù e del suo discepolo. È facile leggere le beatitudini in una prospettiva sbagliata. C’è chi pensa abbiano un valore reale non per il cristiano comune, costretto a vivere nel mondo in situazioni che le rendono impraticabili, ma per vocazioni speciali, chiamate a esemplificare la paradossalità evangelica. E invece no: le beatitudini sono un ideale proposto a ogni cristiano, qualsiasi vocazione abbia e in qualsiasi situazione si trovi. La gioia di obbedire e di donare C’è una sfida nelle beatitudini, evocata dalla parola stessa. È la nota della gioia: “Beati!”. Ma quale gioia? La gioia delle beatitudini è diversa dalla gioia comune, che pone il proprio fondamento nel possesso dei beni o nel successo o in altre cose simili. Le beatitudini del Regno proclamano invece la gioia della fiducia in Dio e insieme la gioia del dono di sé. Le beatitudini esprimono la convinzione che l’uomo è fatto per donarsi, non per chiudersi in se stesso. La gioia che le beatitudini promettono è la medesima gioia di Gesù: una gioia cercata e trovata nell’obbedienza al Padre e nel dono di sé ai fratelli. In ciascuna beatitudine è visibile una tensione fra la situazione presente e il futuro. Il presente è caratterizzato da situazioni negative: povertà, sofferenza, persecuzione; il futuro da situazioni positive: possesso del Regno, consolazione, visione di Dio. Questa tensione fra il presente e il futuro mostra che le beatitudini non sono la promessa di interventi miracolosi allo scopo di cambiare le situazioni. Le situazioni restano nell’immediato quelle che sono. Le beatitudini offrono piuttosto un significato nuovo, suggeriscono criteri diversi di valutazione e di lettura. La reazione di fronte alle situazioni è radicalmente diversa. La certezza di un futuro positivo già trasforma il presente: nuovo e diverso è il modo di affrontare la povertà, la sofferenza e la persecuzione. La ricerca di Dio sopra ogni cosa La prima beatitudine è quella dei “poveri in spirito”, ma preferiamo iniziare da quella dei “puri di cuore”, ai quali è promessa la visione di Dio. La purezza di cuore è la totalità della ricerca di Dio. Il puro di cuore è un uomo che cerca Dio con tutto se stesso, con cuore indiviso, tutto orientato in una sola direzione. Gesù è tutto proteso nella ricerca del Padre. Certamente egli è impegnato per gli uomini: i Vangeli ricordano che tanta era la gente che non aveva neppure il tempo per mangiare ( Mc 6,31 ). E tuttavia è inamovibile, fisso in Dio. Il contrario è l’uomo diviso: qualcosa a Dio, qualcosa a se stesso. Il contrario del puro di cuore è l’uomo distratto, frantumato e disperso. Come l’uomo che cerca di servire due padroni: Dio e il denaro ( Mt 6,24 ). Ma la totalità della ricerca di Dio, dicono le altre beatitudini, deve avvenire dentro il circuito della solidarietà. Non c’è altro luogo in cui cercare totalmente Dio, se non nella solidarietà con l’uomo: la misericordia, la passione per la giustizia, l’impegno per la pace. Gesù, proprio perché totalmente aperto a Dio, è totalmente aperto agli uomini. La forza dell’amore e lo spirito della gratuità Le beatitudini indicano anche uno stile, non soltanto un percorso. È uno stile inconfondibile: rifiuta la violenza ( “beati i miti” ) e sa pagare il prezzo della persecuzione ( “beati i perseguitati” ). Gesù è coraggioso, si compromette, suscita problemi e anche disagi, ma non ricorre alla violenza, perché crede nella forza dell’amore e della verità, crede nell’avvento del regno di Dio. La nota più caratterizzante dello stile dell’uomo delle beatitudini è, forse, quella espressa nella beatitudine dei “poveri in spirito”. Povero in spirito è chi ha unicamente fiducia in Dio, conta su di lui e non su altro. Povero in spirito è chi vive sobrio ed essenziale. Per due motivi: per essere libero per il vangelo e per condividere la vita dei fratelli. Povero in spirito, infine, è chi concepisce tutto se stesso in termini di gratuità e non di possesso: una gratuità che, essendo dono nella sua origine, continua a farsi dono nel servizio. La gratuità è la nota emergente dell’uomo che ha accolto il regno di Dio. Beata sei tu che hai creduto CCC nn. 148-149; 484-511; 2617-2619 CdA nn. 760-784 CdG1 pp. 312-314 I Vangeli sono avari di notizie a riguardo di Maria. Ma la sobrietà è spesso una virtù. Proprio perché tralasciano i particolari, i Vangeli ci costringono a soffermarci sull’essenziale: Maria è madre di Gesù, Maria è discepola di Gesù. Discepola del suo Figlio Un tratto essenziale che i Vangeli sottolineano è che Maria ha camminato con Gesù, come una discepola. L’episodio di Cana di Galilea ( Gv 2,1-12 ) si apre con l’annotazione “e c’era la madre di Gesù”. Questo ci assicura che Maria, almeno in certi momenti, ha seguito il Figlio nella sua missione itinerante. Giovanni ci ricorda pure che la madre era presente ai piedi della croce insieme ad altre donne: “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala” ( Gv 19,25 ). Questo significa che durante i giorni della passione la madre era accanto al Figlio. Anche il Vangelo di Marco ci offre una notizia: “Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare” ( Mc 3,31 ). Dunque, la madre ha seguito il Figlio, di tanto in tanto, se non sempre, nella sua missione itinerante. Ma a noi interessa sapere come Maria ha seguito il Figlio nel suo cammino. L’iniziativa dell’amore gratuito di Dio In proposito sono illuminanti alcuni testi. Il primo è il racconto dell’annunciazione ( Lc 1,26-38 ), uno dei più belli dell’intero Vangelo di Luca. Vi si scorgono i tratti essenziali della chiamata di Dio e della risposta dell’uomo. Maria è una fanciulla ebrea, ancora molto giovane, che conduce una vita normale nella più semplice quotidianità, una vita che ad occhi superficiali in nulla si distingue da quella di tutte le altre ragazze povere della sua età. Ascolta la lettura della Scrittura, che racconta le meraviglie di Dio, e attende il Messia. Vive a Nazareth, un paese sconosciuto e senza importanza, al punto che l’Antico Testamento non lo nomina neppure una volta. È proprio questa fanciulla, semplice e sconosciuta, che Dio sceglie per farne la madre del Messia. Evidentemente Dio non segue le valutazioni degli uomini. Gli uomini giudicano secondo le apparenze, Dio vede nel profondo. “L’angelo Gabriele fu mandato da Dio …” ( Lc 1,26 ): Dio prende l’iniziativa. È lui che sceglie Maria fra tutte le fanciulle di Israele. È lui che invia il suo messaggero. Ogni chiamata è sempre frutto dell’amore libero, gratuito e preveniente di Dio. Così fu la chiamata di Abramo, di Mosè, di tutti i profeti, dei discepoli e di Maria. Alle volte possiamo avere l’impressione di essere noi a metterci in ricerca di Dio. Ma non è mai così: è sempre Dio che fa il primo passo. Se noi lo cerchiamo è perché egli, per primo, suscita in noi il desiderio di incontrarlo. Di fronte a un Dio che si comporta così, che mantiene l’iniziativa sempre nelle sue mani, c’è posto soltanto per la disponibilità, l’accoglienza e il ringraziamento. Sono queste le qualità di Maria, le qualità del vero discepolo. Piena di grazia e serva del Signore “Rallegrati, Maria, gratuitamente amata da Dio, il Signore è con te” ( Lc 1,28 ). Secondo il testo greco la prima parola dell’angelo non è un semplice saluto, ma un invito alla gioia: “Rallegrati!”. È la gioia per il Signore vicino, per il compimento delle antiche promesse. Dio sceglie Maria per un compito, ma prima la invita alla gioia. Le chiamate di Dio sono sempre per una missione, ma ancor prima sono una chiamata alla gioia. Il cammino che Maria è chiamata a intraprendere accanto al Figlio Gesù è un cammino difficile, ma c’è una sicurezza: “Il Signore è con te”. Dio non toglie le difficoltà, ma si fa presente per aiutarci a superarle. Maria è indicata con tre nomi. L’evangelista la chiama Maria: “La vergine si chiamava Maria” ( Lc 1,27 ). È il suo nome umano, il nome che le avevano dato i genitori. Ma l’angelo la chiama “piena di grazia” ( Lc 1,28 ), cioè amata gratuitamente e per sempre da Dio. E questo il suo nome profetico, il nome che le assegna Dio stesso e che manifesta il senso profondo della missione che le viene affidata: essere nel mondo il segno dell’amore generoso, gratuito e fedele di Dio. Maria è il luogo in cui l’amore di Dio verso l’uomo si è come concentrato in tutta la sua pienezza. Maria è la prova che Dio ci ama. L’angelo la chiama “piena di grazia”, Maria chiama se stessa “serva”: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” ( Lc 1,38 ). “Piena di grazia” e “serva”: in questi due nomi è racchiuso tutto il progetto di Dio, tutta l’esistenza del discepolo. Tutto ciò che si è e si ha è dono di Dio, grazia; di conseguenza, tutto ciò che si è e si ha deve farsi dono, servizio. La chiamata di Dio è stata da Maria accolta e vissuta dentro questo dinamismo essenziale: grazia e servizio. In ascolto della Parola Concludendo il racconto della nascita di Gesù e della visita dei pastori, Luca annota “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore” ( Lc 2,19 ). Con due semplici verbi, custodire e meditare, Luca fotografa Maria nella sua realtà più profonda: è la perfetta discepola del Signore, in ascolto della sua parola. Custodire significa ricordare scrupolosamente, gelosamente, con amore, senza nulla dimenticare. Meditare significa assimilare, lasciarsi coinvolgere nell’intimo – il “cuore”, appunto –, comparare una verità con l’altra, scorgendone sempre meglio la logica profonda, la direzione di marcia, componendo pian piano l’intero disegno. Maria ha seguito Gesù annotando ogni sua parola e ogni suo gesto, cercando di comprendere il senso di ogni avvenimento. Non si sa in anticipo dove va il Signore. È solo seguendolo passo passo che alla fine si comprende il suo disegno: un disegno che nella vita e nella storia si presenta, per lo più, frammentario, persino senza una logica apparente; ma poi, se nulla si dimentica e si perde, se ne scopre la meravigliosa coerenza. Vigilanza, fede e docilità Nell’episodio di Cana in Galilea ( Gv 2,1-12 ) cogliamo almeno tre atteggiamenti di Maria, e tutti e tre questi atteggiamenti definiscono il vero discepolo. Il primo è una discreta, umile e vigile attenzione a quanto succede. Maria non è ripiegata su se stessa, ma attenta alle persone. Si accorge e previene: “Non hanno più vino”. Coglie il disagio e ne parla con Gesù. L’attenzione diventa preghiera. Il secondo atteggiamento è la fede, una fede umile: “Non hanno più vino”, infatti, è una domanda umile e discreta. Ma è anche una fede sicura e coraggiosa. Nonostante la risposta di Gesù che pare un rifiuto – “Non è ancora giunta la mia ora” –, Maria non esita a rivolgersi ai servi come se il Figlio l’avesse ascoltata. Il discepolo ha fede anche quando Dio sembra non ascoltare. Il terzo atteggiamento è, forse, il più importante: “Fate quello che vi dirà”. Maria indirizza verso Gesù, e il suo compito è di condurre all’obbedienza e all’accoglienza. Il vero discepolo è colui che fa qualsiasi cosa Gesù dica. E condurre a questa docilità è il compito fondamentale di Maria, della Chiesa e di ogni discepolo. La condivisione della croce Anche ai piedi del Crocifisso ( Gv 19,25-27 ), Maria è la figura perfetta del discepolo, che ha percorso fino in fondo il cammino della fede. Non solo perché ha saputo vedere nel Crocifisso il Figlio di Dio, ma soprattutto perché ne ha condiviso il dolore. Per essere discepolo occorre condividere il dolore di Cristo e degli uomini. E tutto questo è come scolpito al vivo nella figura della madre ai piedi del Figlio crocifisso. Ma neppure questo basta. C’è un ultimo passo da fare: servire Gesù negli uomini, amandolo negli uomini, condividere la sua croce condividendo il dolore degli uomini. Quest’ultimo passo è spesso il più difficile. Gesù ha invitato sua madre a compierlo: “Donna, ecco il tuo figlio”. Come dire: l’amore che nutri per me, le tue attenzioni, dirigile verso Giovanni, verso i discepoli, verso gli uomini. Madre di Dio La perfetta discepola del Signore è anche la sua Madre. È questo il messaggio al centro del vangelo dell’annunciazione: “Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo” ( Lc 1,31-32 ). Il secondo messaggio di Gabriele precisa che il concepimento di Gesù avverrà per opera dello Spirito Santo: “Lo Spirito Santo scenderà su dite, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio” ( Lc 1,35 ). Attraverso il simbolo della nube luminosa, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, a Maria viene indicato il mistero divino che si compie in lei. La riflessione della Chiesa fin dalle origini esplicita il significato di questo mistero, proclamando la fede nella divina maternità di Maria. A lei viene riconosciuto il titolo di “Theotokos”, “Madre di Dio”, come la definisce nel 431 il Concilio di Efeso. Questa definizione tocca il mistero stesso di Cristo. Affermando infatti che Maria è Madre di Dio, si afferma l’unione intrinseca della natura umana e della natura divina nell’unica persona del Verbo incarnato: “Nel solo nome della Theotokos è contenuto tutto il mistero dell’economia ( dell’incarnazione )” ( Giovanni Damasceno, Esposizione sulla fede ortodossa, 3, 12 ). Maria, discepola e Madre, è intimamente legata al mistero di Cristo, redentore dell’uomo. In questo senso nella Tradizione della Chiesa si è sempre affermato che ciò che non è stato assunto non è stato redento. Come si sono formati i Vangeli ( fuori testo CCC nn. 76; 125-127; 514-515 CdA nn. 76-77 CdG1 pp. 44-46 La parola “vangelo” non indica prima di tutto un libro, ma un messaggio che annuncia in forma di racconto la “bella notizia”: in Gesù di Nazareth Dio ci viene incontro, per liberarci dal male e offrirci la sua vita in pienezza. Solo verso la metà del secondo secolo d.C. il termine “vangelo” cominciò ad essere applicato ai quattro libretti di Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Questi libretti si sono formati attraverso un processo che lo studio letterario dei testi ha ricostruito in tre tappe. La prima tappa è costituita dall’attività pubblica di Gesù, culminata nella sua morte e risurrezione. Durante questo periodo Gesù ha formato i discepoli, in particolare i Dodici e ha impartito loro un insegnamento, sullo stile dei maestri religiosi del tempo, cioè ripetendo i suoi insegnamenti frase per frase, che i discepoli dovevano imparare a memoria. Ma, a differenza dei vari “rabbì”, Gesù proponeva “una dottrina nuova insegnata con autorità” ( Mc 1,28 ): si trattava di un messaggio dal contenuto assolutamente originale, proposto con un’autorità superiore a quella di Mosè e dei profeti, formulato con un linguaggio talmente vivace e incisivo da imprimersi facilmente nella mente e nel cuore dei discepoli. Inoltre, se si tiene presente che si trattava di un messaggio non astratto e cattedratico, ma sempre legato a circostanze concrete, e che i discepoli sono stati testimoni diretti difatti prodigiosi e di eventi drammatici quali la passione, o del tutto inattesi, come le apparizioni del Risorto, allora si può ragionevolmente concludere che tutta la vicenda del Nazareno deve essersi necessariamente fissata in modo indelebile nella memoria di coloro che avevano vissuto in intima familiarità con il Maestro. La seconda tappa è rappresentata dalla predicazione degli apostoli. Dopo la Pentecoste la prima comunità cristiana comincia a proclamare la novità formidabile: Gesù di Nazareth è risorto. Attorno a questo annuncio si coagula un materiale di racconti che costituiscono un primo canovaccio della sua vicenda: citazioni di sentenze, narrazioni di miracoli, racconto dell’evento centrale di passione - morte - risurrezione. Questo materiale viene utilizzato per predicare a ebrei e pagani, per istruire in modo più approfondito i convertiti e per celebrare la memoria del Signore nelle assemblee liturgiche. Due sono i fattori determinanti che permettono una comprensione più, piena della “storia di Gesù”: la fede nella sua risurrezione gloriosa e la luce dello Spirito Santo donato dal Risorto ai suoi. “Gli apostoli, dopo l’ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dalla luce dello Spirito di verità, godevano” ( Dei Verbum, 19 ). La terza tappa è costituita dalla redazione dei Vangeli. Per le esigenze delle prime comunità erano già state messe per iscritto delle piccole collezioni di detti e fatti di Gesù, ma ad un certo punto nacque l’esigenza distendere tali racconti in forma di narrazione organica. Per questo si richiedeva un’accurata opera di ricerca attraverso le fonti disponibili, sia orali sia scritte, e un’attenzione particolare alle situazioni delle varie comunità. Ecco, ad esempio, come Luca descrive l’itinerario seguito per la redazione del suo Vangelo: “Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto” ( Lc 1,1-4 ). La breve prefazione dell’evangelista testimonia le tre fasi su indicate: all’inizio gli eventi della storia di Gesù ( “gli avvenimenti successi tra di noi” ), poi la predicazione degli apostoli ( “testimoni fin da principio” ), quindi, in seguito a vari tentativi parziali, l’opera di ricerca e di redazione dell’evangelista, tenendo presente la situazione e le esigenze dei lettori ( “perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto ”). I primi tre Vangeli sono chiamati “sinottici”: essi infatti impiegano uno schema sostanzialmente identico così che si possono leggere “con uno sguardo d’insieme” su colonne parallele. La coincidenza giunge ai contenuti e persino alla formulazione delle frasi. Questo si può spiegare solo con una dipendenza tra loro e da fonti comuni. Gli studiosi hanno avanzato diverse ipotesi al riguardo. La più condivisa ritiene che Matteo e Luca dipendano essenzialmente da Marco e da una raccolta di “parole di Gesù”. Alcuni parlano anche di un primo Vangelo di Matteo in aramaico. Il Vangelo di Giovanni, l’ultimo in ordine di tempo, presenta un’impostazione autonoma della vicenda di Gesù e del mistero della sua persona. Il Magnificat ( scheda ) CCC n. 2619 CdA nn. 794 CdG1 pp. 258-261 Il Magnificat ( Lc 1,46-55 ) è la preghiera delle beatitudini. È la preghiera di Maria povera in spirito pura di cuore, mite, ricca di misericordia e affamata di giustizia. Lo scopo immediato della preghiera di Maria è di rispondere all’elogio di Elisabetta: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” ( Lc 1,45 ). Maria non rifiuta questo elogio, ma lo colloca nella giusta prospettiva. Ciò che sta avvenendo in lei è puro dono della bontà di Dio: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva” ( Lc 1,46-48 ). Con queste parole Maria apre la sua preghiera sottolineando il motivo della grazia che è tema costante di tutta la storia della salvezza la caratteristica più rilevante dell’agire di Dio. La preghiera di Maria passa dal singolare al plurale, dal caso personale alla comunità e all’intera storia di salvezza. Anche questo è importante: in ciò che Dio compie in lei, Maria scorge la traccia di ciò che egli compie in tutti. Il caso personale assurge a tipo e diventa il luogo in cui si può percepire lo schema costante del disegno di Dio. Il Magnificat è un mosaico di testi tratti dall’Antico Testamento. Si può quasi dire che nessuna espressione sia del tutto originale. Lo è però l’insieme che ne risulta. Le pietre sono antiche, ma la costruzione è nuova. Le allusioni più frequenti riguardano il cantico di Anna ( 1 Sam 2,1-10 ), e questo lo si spiega per l’analogia delle due situazioni. Ma il Magnificat non sceglie i testi anticotestamentari a caso bensì secondo due precise opzioni. La prima è che la salvezza è tutta sospesa alla gratuita iniziativa di Dio. Il Signore è sempre il protagonista, e i suoi interventi nascono tutti dalla sua fedeltà misericordiosa, che secondo la Bibbia è l’attributo fondamentale di Dio: “Ha soccorso Israele, suo servo ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri … per sempre” ( Lc 1,54-55 ). La seconda opzione è che la salvezza si attua nella storia degli umili: a loro è rivolta e loro sono accanto a Dio i protagonisti. E Dio conduce la storia rovesciando le logiche umane: ha confuso i sapienti con tutte le loro macchinazioni, ha rovesciato i potenti, riempie di beni gli affamati e manda i ricchi a mani vuote. Le due prospettive con le quali Maria ha letto l’Antico Testamento e la sua esperienza costituiscono quella “logica di Dio” che rende intelligibile la vicenda di Gesù, l’annuncio del Regno e la stessa esistenza cristiana. In sintesi Cristo Gesù è la parola che porta luce e salvezza alla ricerca dell’uomo. Conoscerlo per accoglierlo e seguirlo è il cammino della vita cristiana. La buona notizia si inserisce in una storia L’avvenimento storico della persona e del messaggio di Gesù si colloca in un tempo, in un ambiente e in una cultura, ma ancora oggi non cessa di stupirci e interrogarci. Battesimo e tentazioni di Gesù sono porta d’ingresso per comprenderlo All’inizio della missione, questi due episodi anticipano la piena solidarietà con l’uomo peccatore e la vittoria su ogni male. Il regno di Dio è la persona e la vita di Gesù Il Regno è chiamata e dono per tutti, per entrarvi è necessario: riconoscersi peccatori, accogliere la Parola, lasciarsi convertire. Con le parabole Cristo annuncia il Regno Ciò che il Padre sta oggi costruendo nel mondo è simile a un seme, a una lampada, al lievito … Con i miracoli Cristo rende presente il Regno Nello storpio che cammina, nel cieco che vede, negli indemoniati liberati …, il regno di Dio è presente all’opera. Le sue scelte dicono che il Regno è in mezzo a noi In Gesù Dio viene in cerca dei peccatori e dà nuova dignità ad ogni persona; per ogni peccatore che si converte gioisce e vuole che la sua gioia sia condivisa. L’annuncio del Regno invita a diventare discepoli Chi incontra Gesù è chiamato a seguirlo: in lui diventa realizzazione autentica e piena la ricerca, la decisione, il dimorare e lo stare. Le beatitudini indicano la via dei discepoli Le beatitudini indicano in modo concreto le vie di un amore che non si accontenta di parole; dimostrano fino a che punto la morale cristiana non è una regola di buona condotta, ma una strada di vita e di vera felicità. Maria è per noi modello Ogni cristiano guarda a Maria discepola del Figlio e dai suoi atteggiamenti impara l’obbedienza della fede. Per l’approfondimento Maria, in cammino con la Chiesa CCC nn. 721-726; 963-970 CdA nn. 757-759; 785-794 Per camminare nella fede Le domande della vita Viviamo oggi in un contesto pluralistico. Vari messaggi religiosi e culturali affollano il nostro tempo. Tentano di rispondere al problema di Dio e del male, propongono un significato alla vita e al futuro dell’uomo e del mondo. Dinanzi al pluralismo religioso ai cristiani è richiesto un discernimento di fede. Se camminiamo con Gesù, conosciamo meglio noi stessi, perché tocchiamo con mano chi è veramente Dio per noi. Siamo chiamati, però, a scegliere personalmente e a trovare motivazioni giuste e convincenti al nostro cammino. - Che cosa suscita in te l’incontro con la persona di Gesù, con il suo messaggio? - Che cosa aggiunge di nuovo nella tua vita oggi la persona di Cristo? - Quali sentimenti e quali immagini evoca in te l’annuncio del regno di Dio? - Le tensioni religiose del nostro tempo esigono di essere purificate, superando gli aspetti riduttivi delle ideologie: quale ruolo può esercitare al riguardo il messaggio cristiano? - Quali segni e quali linguaggi utilizzati da Gesù nell’annuncio del regno di Dio trovi ancora presenti nella tua Chiesa oggi? L’ascolto della Parola “Avendo saputo che Giovanni era stato arrestato, Gesù si ritirò nella Galilea e, lasciata Nazareth, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zàbulon e di Néftali, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Il paese di Zàbulon e il paese di Nèftali, sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti; il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata. Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”… Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo”. ( Mt 4,12-17.23 ) La voce della Chiesa “A quale maestro, dissi, si può ricorrere o dove si può trovare aiuto, se nemmeno in uomini come Platone e Pitagora si trova la verità? Molto tempo fa, mi disse l’anziano, prima di tutti costoro che sono ritenuti filosofi, vissero uomini beati, giusti e graditi a Dio, che parlarono mossi dallo Spirito divino e predicevano le cose future che ora si sono avverate. Li chiamano profeti e sono i soli che hanno visto la verità e l’hanno annunciata agli uomini senza rumore o riguardo per nessuno e senza farsi dominare dall’ambizione, ma proclamando solo ciò che, ripieni di Spirito Santo, avevano visto e udito. I loro scritti sono giunti fino a noi e chi li legge prestandovi fede ne ricava sommo giovamento, sia riguardo alla dottrina dei principi che a quella dei fini, su tutto ciò che il filosofo deve sapere. Essi infatti non hanno parlato procedendo per dimostrazione; al di sopra di ogni dimostrazione essi rendono alla verità una testimonianza degna di fede. Gli avvenimenti passati e presenti conducono a credere alle loro parole. Essi inoltre si sono mostrati degni di fede in forza dei prodigi che hanno compiuto; questo sia perché hanno glorificato Dio Padre, creatore di tutte le cose, sia perché hanno annunciato il Figlio suo, il Cristo da Lui inviato, cosa che i falsi profeti, pervasi dallo spirito impuro e ingannatore, non hanno fatto né fanno, avendo piuttosto l’ardire di compiere dei prodigi per sbalordire gli uomini e dando gloria agli spiriti e ai demoni dell’errore. E tu innanzitutto prega, perché ti siano aperte le porte della luce, perché nessuno può vedere né comprendere queste cose se Dio e il suo Cristo non lo concedono”. ( San Giustino, Dialogo con Trifone, VII, 1-3 ) Il dialogo della preghiera “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. lo mi glorio nel Signore, ascoltino gli umili e si rallegrino. Celebrate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome. Ho cercato il Signore e mi ha risposto e da ogni timore mi ha liberato. Guardate a lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri volti. Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce. L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva. Gustate e vedete quanto è buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia. Temete il Signore, suoi santi, nulla manca a coloro che lo temono. I ricchi impoveriscono e hanno fame, ma chi cerca il Signore non manca di nulla” ( Sal 34,2-11 ) L’incontro con i testimoni Daniele Comboni Daniele Comboni nasce il 15 marzo 1831, da una famiglia di contadini, in una piccola cittadina sulle rive del lago di Garda. Trasferitosi a Verona, matura la decisione di diventare sacerdote e, avvinto dalla testimonianza dei missionari, a 18 anni consacra la sua vita all’evangelizzazione dell’Africa. Ordinato sacerdote nel 1854, parte con alcuni compagni per un primo viaggio missionario. L’impatto con l’Africa è drammatico, ma non lo fermano il clima insalubre, le fatiche e i problemi, la povertà dei luoghi, la malattia e la morte dei compagni. Sfinito dalle febbri, è costretto a rientrare in Italia nel 1859 Si Fa allora portavoce in Europa delle esigenze dell’Africa: fonda una rivista missionaria, raccoglie persone, ritorna più volte sul suolo africano, progetta nuove iniziative di evangelizzazione. Consacrato vescovo per l’Africa centrale nel 1877, è di nuovo direttamente sulle strade della missione, annunziando il vangelo, condividendo gioie e sofferenze con le popolazioni africane, levando la sua voce contro la schiavitù, organizzando l’azione missionaria verso la regione dei Grandi Laghi. Il 10 ottobre 1881, esaustO per le fatiche e in un crescendo di prove interiori ed esterne, muore a Khartoum, consumato dalla passione per il vangelo “Era la mezzanotte quando la nostra barca si incagliò in un bassofondo. Sulla riva destra si scorgevano i falò dei Denka e, al loro bagliore, si vedevano quei giganti appoggiati a grandi scudi, con la lancia in mano. [ … ]. Non ci possiamo muovere. Abbiamo si dieci fucili, ma il missionario si lascia trucidare cento volte piuttosto che difendersi con grave pericolo per il nemico. Gesù Cristo non avrebbe fatto così? Decidemmo che, se fossero arrivati, noi con al petto l’invulnerabile crocifisso avremmo ceduto loro ogni cosa e barca e tutto. Essi d avrebbero certo menati schiavi dinanzi al loro re, forse per subire la pena, ma con la grazia di Dio e con l’esercizio della carità, qui avremmo forse piantato la croce e la missione”. ( Lorenzo Gaiga, Daniele Comboni. La missione continua ) La professione della fede “Maestro che cosa devo fare?” “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” ( Mc 1,15 ) “Il regno di Dio da secoli promesso nelle Scritture … si manifesta chiaramente agli uomini, nelle parole, nelle opere, nella persona di Cristo” ( Lumen gentium, 5 ). - Il Regno sì manifesta nella persona di Cristo, Figlio di Dio e figlio dell’uomo, il quale è venuto “a servire e a dare la sua vita in riscatto per molti” ( Mc 10,45 ). - Gesù, “l’uomo perfetto” ( Gaudium et spes, 38 ), ci chiama a diventare suoi discepoli. Seguire lui è percorrere un cammino di realizzazione piena: “Egli dà all’uomo mediante il suo Spirito luce e forza perché possa rispondere alla suprema sua vocazione” ( Gaudium et spes, 10 ). - Il Regno appartiene ai poveri e ai piccoli, a quanti cioè lo accolgono con cuore umile: Gesù li proclama beati. - Maria è Madre di Gesù e, insieme, sua discepola: nell’obbedienza della fede è modello per ciascuno di noi e per la Chiesa intera. Introduzione Abbiamo la fortuna di vivere in un ambiente ricco di informazioni e di proposte. I confini sono sempre più sottili e il mondo intero è diventato un villaggio. Abbiamo l’opportunità di conoscere tante culture, tanti modi diversi di pensare e di organizzare la vita, tante opinioni. Sono molte le cose che ci affascinano, anche se parlano lingue diverse dalla nostra. Spesso siamo tentati di pensare che un’opinione valga l’altra e tutte abbiano il medesimo valore. Ci sorprendiamo ad esclamare: “A me va bene tutto”, sottovalutando il sospetto che dietro a questa indifferenza sonnecchi la pigrizia di non esporsi, di non prendere posizione, di non fare scelte. Quando però è una persona a interpellarci, non possiamo sottrarci: “Per te, chi sono io? Che cosa conto io per te?”. Se poi questa persona si presenta a noi affermando di essere la via, la verità e la vita, è importante e urgente assumere una posizione, prendere una decisione. Voler andare dappertutto nello stesso tempo è impossibile. Partire senza saper dove si vuole andare è sterile. Rispondere all’interrogativo che Gesù ci pone sulla sua persona e di conseguenza sulla nostra vita, permette di sperimentare la libertà di chi sa cosa vuole e si applica a cercarlo. L’indifferenza ci lascia fermi. Non decidere ci lascia in balia del fatalismo. Scegliere una strada e percorrerla ci conduce a maturità. Sei tu colui che deve venire? CCC nn. 439-440 CdA nn. 213-217 Più che parlare di se stesso, Gesù ha parlato del regno di Dio, ma ha anche posto tutte le premesse per identificarlo con la sua persona. Il Vangelo di Marco si apre con queste parole: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” ( Mc 1,1 ). Potremmo riesprimerle così: la lieta notizia consiste nel fatto che Gesù di Nazareth è il Messia, è il Figlio di Dio. È chiaro che per l’evangelista la lieta notizia non è soltanto l’annuncio del Regno fatto da Gesù, bensì Gesù stesso. Ma chi è Gesù? Una risposta personale Non è facile rispondere a questa domanda, perché nella persona, nelle azioni e nelle parole di Gesù c’è come una tensione: da una parte, la sua pretesa di essere il Figlio di Dio e le opere potenti che la manifestano; dall’altra, la sua realtà così fragile, quotidiana, che sembra smentirla. Da una parte i miracoli, dall’altra la croce. Ma è proprio in questa tensione che sta la verità di Gesù. Rispondere alla domanda su chi è Gesù non è facile anche per un secondo motivo. Nel racconto del processo, Pilato domanda a Gesù: “Di dove sei?” ( Gv 19,9 ). Ma a questa domanda Gesù non risponde; non collabora, lasciando Pilato solo di fronte all’interrogativo che lo turba: o perché è inutile dire, dal momento che tutto è già stato detto; o perché la risposta va cercata nei fatti, che Pilato può constatare, e non nelle parole soltanto. Di fronte al mistero di Gesù, che interpella e inquieta, ogni uomo deve trovare personalmente la risposta. È una decisione personale, che non si può delegare a nessuno. Nella stessa direzione va l’episodio, riportato da Matteo e da Luca ( Mt 11,2-6; Lc 7,18-23 ), in cui Giovanni Battista, dal carcere, invia messaggeri a Gesù, per domandargli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”. A questa domanda Gesù non dà una esplicita risposta. Offre gli argomenti per rispondere, in particolare i suoi miracoli e la sua accoglienza dei diseredati, ma anche lo “scandalo” che tutto questo suscita; lascia però la conclusione a chi gli ha posto la domanda. Il dibattito su Gesù L’interrogativo “Chi è Gesù?” è il filo conduttore dei Vangeli. Essi si presentano come racconti, all’interno dei quali si svolge un dibattito: personaggi differenti, scorgendo ciò che accade, dicono il loro parere intorno a Gesù e prendono posizione, chi in un modo chi nell’altro. Nel Vangelo di Marco, ad esempio, il dibattito intorno a Gesù si allarga progressivamente man mano che la vicenda procede. Alcuni abbandonano tutto e si decidono a seguirlo ( Mc 1,16-20; Mc 2,14; Mc 3,13-14 ). La gente lo attornia da ogni parte – al punto che Gesù ordina di tenergli a disposizione una barca, per non essere oppresso dalla folla ( Mc 3,9 ) –, lo ascolta con simpatia e resta affascinata dalla novità e dall’autorevolezza del suo insegnamento ( Mc 1,27 ); soprattutto è attratta dai miracoli che egli compie e ne resta ammirata. Tuttavia non comprende a fondo e non si decide: rimane a guardare. Tra gli scribi e i farisei, invece, c’è chi prende subito posizione e oppone un netto rifiuto: non può accettare il modo in cui Gesù intende la Legge ( Mc 3,6 ) e interpreta i suoi gesti non come opera di Dio, ma come inganno di Satana ( Mc 3,22 ). Gli stessi abitanti di Nazareth passano da un iniziale stupore allo scandalo e al rifiuto ( Mc 6,1-6 ). Il Messia crocifisso In una pagina molto densa, collocata proprio al centro del suo Vangelo, Marco sembra voler riassumere l’intero dibattito; raccogliendo i diversi pareri su Gesù ( Mc 8,27-9,13 ). Gesù stesso pone la domanda: “Chi dice la gente che io sia?”. E poi ai discepoli: “E voi chi dite che io sia?”. La gente pensa che egli sia un profeta. Per i discepoli, invece, egli è il Messia. Interviene Gesù stesso, precisando di essere il Figlio dell’uomo incamminato verso la croce. Infine, nell’episodio della trasfigurazione, si ode la voce celeste: egli è il Figlio unigenito, che occorre ascoltare. Fra i due estremi del dibattito – il parere della gente e la rivelazione della voce celeste – c’è un contrasto fra Pietro e Gesù. Oggetto del contrasto sono la messianicità e la croce, appunto i due aspetti che a prima vista sembrano elidersi e che invece occorre collegare se si vuole cogliere la vera identità di Gesù. Pietro vorrebbe una messianicità senza croce: la sua immagine di Dio non lascia spazio alla croce. Gesù invece svela la sua identità proprio attraverso la croce. Un analogo contrasto lo si ritrova ai piedi del Crocifisso ( Mc 15,29-39 ). Di fronte a Gesù, se si guarda la scena dal punto di vista dei presenti, si notano due atteggiamenti. Da una parte stanno coloro che pretendono che il Messia abbandoni la croce e compia miracoli: “Scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo”. Dall’altra il centurione pagano, che coglie la divinità di Gesù proprio sulla croce: “Vistolo spirare in quel modo, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio””. L’autentico credente è per Marco questo centurione, che accoglie e riconosce Gesù come Figlio di Dio e lo riconosce proprio perché Gesù non accetta di salvare se stesso. La discriminante per accogliere o rifiutare Gesù, per dare di lui una risposta o un’altra, è la croce, evento che continua anche oggi a interpellarci con la stessa forza di allora ( 1 Cor 1,18 ). Chi vede me vede il Padre CCC nn 432, 516; 539 CdA nn. 78-85 ( vedi pure nn. 145-164 ) CdG1 pp. 192-199 L’errore oggi più diffuso è affermare l’umanità di Gesù e negarne invece la divinità. Ma anche l’errore contrario non è meno grave. La divinità di Gesù si è manifestata a noi proprio attraverso la sua umanità. “Chi ha visto me ha visto il Padre”, dice Gesù a Filippo ( Gv 14,9 ). Filippo vede un uomo in carne ed ossa che parla in aramaico, con l’accento della Galilea: ma è proprio in quell’uomo che egli deve scorgere la presenza del Padre. Non si può rispondere alla domanda su chi è Gesù, se non si incontra anzitutto il suo modo concreto di essere uomo. A rivelarlo come inviato da Dio potevano bastare i miracoli; ma per rivelare la novità inaspettata del suo essere Figlio di Dio occorreva la precisa vicenda umana che egli ha vissuto. Senza dire che conoscere Gesù nella sua umanità significa conoscere un progetto di umanità: cioè come l’uomo deve essere per corrispondere al piano di Dio, come deve vivere per essere in mezzo ai propri fratelli la trasparenza di Dio. Gesù è la verità di Dio e dell’uomo. Molti sono gli aspetti dell’umanità di Gesù meritevoli di attenzione e di alcuni abbiamo già parlato: il suo modo di ragionare, di rapportarsi alle folle, ai discepoli, ai peccatori, all’ambiente in cui viveva. Se ora riprendiamo il discorso è per sottolinearne tre, che ci appaiono fondamentali: la libertà, l’obbedienza e la dedizione. Gesù, uomo libero Non è facile definire Gesù, non solo nella sua divinità, ma anche nei suoi aspetti umani. Già all’inizio del suo ministero ( Mc 1,21-28 ), di fronte ai suoi primi discorsi e ai primi gesti, la folla si pone l’interrogativo: “Che è mai questo?”. La risposta è che Gesù insegna con autorità, non come gli scribi, e che il suo insegnamento è nuovo. Nuovo non significa semplicemente qualcosa di non mai detto prima o di non mai sentito altrove. La novità di Gesù non è semplicemente cronologica, ma qualitativa: qualcosa che ti rigenera, ti rinnova e ringiovanisce. Gesù non è come gli altri: ecco la prima impressione della folla. In ciò che egli fa e annuncia c’è come una rottura, anche se poi, sorprendentemente, ciò che egli dice è ciò di cui l’uomo ha realmente bisogno. Più avanti, sul finire del ministero in Galilea, la folla definirà Gesù ricorrendo a note figure del passato: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta ( Mc 8,27-28 ). Con questo la gente coglie in qualche modo la grandezza di Gesù, ma non ne coglie la profonda originalità. Specialmente nei dibattiti con i suoi avversari, Gesù mostra di saper andare con grande lucidità al fondo delle cose; è uomo libero, che non si lascia condizionare dai luoghi comuni, né sociali né religiosi. Interrogato sulla questione del riposo nel giorno di sabato ( Mc 2,23-28 ), non si lascia distrarre dalla casistica consueta, ma taglia corto con una battuta che esprime un punto di vista completamente nuovo: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!”. Così Gesù fa comprendere che è un’altra l’immagine di Dio e di comportamento morale che bisogna avere in mente, al di là della casistica. Negli ultimi giorni che precedono la sua passione, Gesù a Gerusalemme si scontra con i rappresentanti di tutti i gruppi sociali e viene coinvolto nei loro più accesi dibattiti ( Mc 12,13-40 ): erodiani, farisei e zeloti questionavano sulla liceità di pagare le tasse agli invasori romani; i sadducei polemizzavano con i farisei sul tema della risurrezione; i rabbini si preoccupavano di quale fosse il centro della Legge. Di fronte a ogni questione, Gesù cerca di condurre chi lo interroga a una visione nuova del problema. Non si lascia rinchiudere nei termini stretti in cui gli altri ponevano la questione. Egli si mostra sempre convinto che c’è qualcosa di più profondo da recuperare, qualcosa che rinnova i problemi dalle fondamenta. Di questa sapienza e libertà di Gesù la folla si accorgeva: come annota Marco, rimaneva ammirata di lui: “Nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo”, “la folla lo ascoltava volentieri” e “Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!” ( Gv 7,46 ). Libero per appartenere al Padre Gesù è libero non solo dagli schemi consolidati e dai luoghi comuni, ma anche dal fascino del denaro e da quello del potere, dalla sua stessa famiglia e dagli amici, persino da se stesso, come esigerà anche dai suoi discepoli. A un tale che gli dice: “Ti seguirò dovunque tu vada”, Gesù risponde: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” ( Lc 9,57-58 ). La vita di Gesù è povera e nomade. Non c’è dubbio che le ragioni di questa scelta vadano cercate in un atteggiamento di incondizionata fiducia nel Padre e nella volontà di possedere la maggior libertà possibile per dedicarsi completamente alla propria missione. Gesù assume un certo distacco di fronte alle persone che detengono il potere ( Mt 11,8; Lc 13,32; Lc 22,25 ). Non si lascia incantare dalla loro potenza. Né confida in loro né li teme. Soprattutto, Gesù non imbocca la via del potere: la respinge come una tentazione ( Mt 4,1-11 ). Quando molti discepoli lo abbandonano perché il suo discorso è duro, Gesù non cambia il suo discorso né lo attenua, ma si rivolge ai Dodici dicendo: “Forse anche voi volete andarvene?” ( Gv 6,67 ). I dodici sono il gruppo dei discepoli a lui più cari, i più amati, sono la sua nuova famiglia; ma per Gesù, la verità della propria missione viene prima. Gesù ha avuto una famiglia e una cerchia di parenti. Anche nei loro confronti ha affermato la propria libertà. In proposito, sono significativi due episodi. Il primo è riportato da Luca nei racconti dell’infanzia: Gesù smarrito è ritrovato nel tempio ( Lc 2,41-52 ). La madre dice al figlio: “Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Ed ecco la risposta inattesa di Gesù: “Perché mi cercavate? Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Dicendo: “Tuo padre”, Maria intendeva riferirsi a Giuseppe. Ma dicendo: “Padre mio”, Gesù si riferisce a Dio. Gesù afferma dunque con molta forza il primato della sua appartenenza a Dio e la priorità della propria vocazione su ogni altro legame. Il secondo episodio è riportato dal Vangelo di Marco ( Mc 3,31-35 ). Gesù sta parlando alla folla, che è seduta in cerchio. Arrivano la madre e i parenti e qualcuno lo avverte: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano”. Gesù non interrompe il discorso né saluta i parenti. Gira lo sguardo su quelli che gli stanno attorno ed esclama: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre”. Gesù afferma così che la sua famiglia è più ampia della parentela e che per quanto riguarda la sua missione non è disposto a concedere privilegi a nessuno, neppure ai parenti. La sua famiglia è ampia come l’intero cerchio della folla che lo circonda. La radicalità del Maestro fa scuola. Chi lo segue, non può stare a lungo a tentennare, a soppesare cosa perde e cosa guadagna. Guardando a lui trova la forza di scegliere, di liberarsi da tutte le appartenenze di comodo che lo legano. Gesù, uomo religioso e obbediente La radice della libertà di Gesù va cercata nella sua profonda religiosità. Gesù è anzitutto un uomo costantemente “davanti a Dio”. Egli parla di Dio e soltanto di Dio. E trae dalla propria profonda esperienza religiosa i criteri per agire e per giudicare. Gesù intuisce in profondità la realtà, perché vede le cose e le valuta a partire da Dio. In tutto ciò che fa - anche, e si direbbe soprattutto, in quelle cose che sconcertano - Gesù intende unicamente rivelare il vero volto del Padre, il suo atteggiamento verso l’uomo, il suo amore per tutti. Gesù è libero e al tempo stesso è totalmente obbediente a Dio. Gesù ha vissuto la sua intera esistenza nella più totale obbedienza al Padre. Strano modo di intendere e di vivere la libertà! Ma per Gesù questo è il solo modo di essere veramente liberi. Libero non è chi trasgredisce, né chi si riserva la possibilità di fare di volta in volta ciò che più gli piace, ma chi ha il coraggio di scegliere per la verità e quindi di legarsi, di appartenere, di vivere una fedeltà. Dice Gesù nel Vangelo di Giovanni: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” ( Gv 4,34 ). È una delle affermazioni più importanti per comprendere la coscienza che Gesù ha di sé, il suo rapporto con Dio, il suo modo di intendere l’esistenza. Egli è proteso nello sforzo continuo di una totale obbedienza. Non è venuto a dire parole proprie, tali da mettere in mostra se stesso. E venuto a dire unicamente le parole del Padre. A differenza degli uomini che cercano la gloria gli uni dagli altri, Gesù cerca la gloria che viene dal Padre ( Gv 5,41-44 ). È l’obbedienza che ci permette di intravedere l’identità di Gesù, non solo nel suo essere uomo, ma Figlio. L’obbedienza è la categoria che forse più di ogni altra ci fa vedere la natura, la profondità e la direzione della libertà del Figlio di Dio. Nell’esperienza di Gesù scorgiamo al vivo la tensione fra obbedienza e libertà. Tensione, ma non lacerazione. Gesù non contrappone i due valori, ma li unifica nella categoria della verità e dell’amore ( Gv 8,32 ). Proprio obbedendo, Gesù manifesta la sua identità, manifesta chi è, vive la realtà che gli è propria: la sua verità di uomo e di Figlio in ascolto, di immagine perfetta del Padre. Gesù, uomo per gli altri Senza verità non c’è libertà, e neppure senza l’amore. La vera libertà è estroversa, la sua misura non è il proprio interesse ma il dono di sé. Lo spazio della libertà è il servizio. Volendo rendere visibile la sua verità, cioè la sua identità di Figlio, Gesù ha scelto di vivere un’esistenza in dono, un’esistenza aperta, costantemente proiettata al di là di sé. La verità che fa liberi è l’amore. Gesù ha vissuto per primo l’ideale proposto ai discepoli: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” ( Mc 8,35 ). La donazione di Gesù trova il suo vertice nella morte in croce, ma è stata la legge di tutta la sua esistenza, sin dall’inizio. Egli dice che “non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per le moltitudini” ( Mc 10,45 ). La parola “riscatto” evoca la solidarietà più radicale: è l’atteggiamento dell’uomo che, di fronte al parente che cade in schiavitù, non si rifugia nel disinteresse, non prende le distanze, ma si sente coinvolto e solidale, al punto di sostituirsi a lui. È questa la logica profonda che ha guidato tutta l’esistenza di Gesù. Gesù, dunque, è un uomo libero da tutto e da tutti, anche se profondamente solidale con tutti; è uomo totalmente per gli altri, fino al completo dono di sé. Un modo, questo, certamente esaltante di essere uomo, ma anche difficile. Gesù ha trovato il coraggio di esserlo nella comunione con il Padre. È Gesù stesso che ci svela questo lato profondo, intimo, della sua persona. Alla fine dei discorsi dell’ultima cena, i discepoli pieni di entusiasmo dicono a Gesù: “Ora conosciamo che sai tutto … Per questo crediamo che sei uscito da Dio” ( Gv 16,30 ). Ma Gesù ribatte: “Adesso credete? Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete, ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me” ( Gv 16,31-32 ). Se Gesù trova la forza di donarsi totalmente a Dio e ai fratelli, sino al punto da rimanere solo, è perché sa di non essere solo: il Padre è con lui. Abbà, Padre CCC nn. 2598-2606 ( vedi pure nn. 238-242; 441-445; 2746-2751 ) CdA nn. 165-172; 293-294; 960 CdG1 pp. 62-64 La preghiera rivela sempre con molta chiarezza la concezione che un uomo ha di se stesso, della vita, delle sue relazioni con gli altri uomini, del mondo, soprattutto del suo rapporto con Dio. Il rapporto fra Gesù e il Padre è il nucleo più profondo dell’identità di Gesù. E la preghiera è senza dubbio uno dei luoghi privilegiati che manifestano il rapporto di Gesù con il Padre. La preghiera di Gesù ci riguarda, perché è lo specchio della nostra preghiera, e il rapporto con Dio che essa manifesta è lo specchio del nostro. Ma se ora parliamo della preghiera di Gesù è perché vogliamo conoscere la sua identità. La preghiera del Figlio e del Servo I Vangeli ricordano che, nel ritmo incalzante della sua giornata piena di lavoro, Gesù trova posto per la preghiera: prega al mattino presto o alla sera tardi, dopo aver congedato la folla ( Mc 1,35; Lc 5,16 ). E prega in tutti i momenti più importanti e decisivi della sua missione: così accade al battesimo ( Lc 3,21 ) e alla trasfigurazione ( Lc 9,28-29 ), nel Getsèmani ( Lc 22,39-46 ) e sulla croce ( Mt 27,46; Lc 23,34.46 ). Un primo tratto, confermato da tutte le testimonianze, è che Gesù si rivolge sempre a Dio con il nome di Padre. La preghiera di Gesù è una preghiera filiale. Egli chiama Dio: “Abbà, Padre!” ( Mc 14,36 ). Gesù svela così tutta la sua confidenza di Figlio di fronte a Dio. La preghiera di Gesù scaturisce dalla sua coscienza di essere Figlio e si traduce in colloquio. I Vangeli ricordano un secondo tratto: Gesù si ritira a pregare da solo ( Mc 1,35; Lc 6,12 ). A lui non basta parlare con le folle o con i discepoli, né gli basta servire i fratelli. Avverte una solitudine che solo il Padre può colmare, una ricchezza che solo il Padre può capire e condividere. La preghiera di Gesù esprime la nostalgia del Padre. La preghiera di Gesù è filiale e al tempo stesso obbediente. È insieme la preghiera del Figlio e del Servo del Signore. Già nel termine Padre sono incluse le due dimensioni della familiarità e della sottomissione. Nella preghiera del Getsèmani, dove più chiaramente esprime la sua confidenza di Figlio, Gesù esprime con altrettanta forza la sua obbedienza: “Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” ( Mc 14,36 ). Coscienza della propria filiazione e totale dipendenza dal Padre sono i due poli della preghiera di Gesù. Una vita davanti al Padre Gesù, nel colloquio con il Padre, cerca la direzione del proprio cammino e la chiarezza delle proprie scelte. E gli si sottrae alla folla, che lo cerca per trattenerlo, mentre la sua missione gli impone di andare altrove ( Lc 4,42-44 ). Dopo la moltiplicazione dei pani costringe i discepoli ad allontanarsi dalla folla entusiasta e si ritira nella solitudine a pregare, sottraendosi al tentativo di farlo re ( Mt 14,22-23; Gv 6,15 ). Nel Getsèmani supera con la preghiera l’angoscia e la paura, consegnandosi totalmente alla volontà del Padre ( Mt 26,39 ). Specialmente l’evangelista Luca mostra che la preghiera non è un atteggiamento tra gli altri nella vita di Gesù, ma una dimensione costante ed essenziale di tutta la sua esistenza. Vivere davanti al Padre è la condizione per avere una giusta visione di sé, del mondo e degli uomini. Di sé, non più come centro a cui tutto deve servire, ma come un dono che si apre all’obbedienza e alla gioia del Padre e al servizio nei confronti degli uomini. Del mondo, come una realtà di cui godere, ma anche da rispettare, perché non appartiene del tutto all’uomo; il suo proprietario infatti è Dio. Degli altri, non più visti come stranieri, o peggio come concorrenti, ma come fratelli della stessa famiglia, degni di essere sempre rispettati, aiutati e perdonati ( Lc 11,5-13 ). La meditazione delle Scritture Ma la preghiera di Gesù rivela anche un’altra caratteristica: la sua costante meditazione delle Scritture. Essa è una preghiera di ascolto e di ricerca. Non raramente le parole di Gesù che prega contengono reminiscenze delle Scritture e si rifanno alle grandi esperienze della storia di Israele. Sulla croce Gesù fa sua la domanda del giusto sofferente del Salmo 22: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” ( Mc 15,34 ). Sempre sulla croce fa proprio anche il fiducioso abbandono di cui parla il Salmo 31: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” ( Lc 23,46 ). Nell’esperienza dei giusti del passato Gesù legge la propria esperienza e la comprende. Benedizione, lode e contemplazione Al primo posto, nell’esperienza di Gesù c’è la preghiera di benedizione, di lode e di contemplazione. Sui cinque pani e i due pesci, che poi vengono moltiplicati e distribuiti, Gesù pronuncia la benedizione ( Mc 6,41 ) e così fa anche nell’istituzione dell’Eucaristia ( Mc 14,22 ). La benedizione, nell’ebraismo del tempo di Gesù, è la preghiera per eccellenza. In essa sta il senso e il contesto di ogni altra preghiera. Qui si manifesta la concezione che l’ebreo credente ha del mondo e degli uomini. La benedizione è una preghiera che esprime riconoscimento, ringraziamento e ammirazione. Scaturisce da un sentimento acuto del dono di Dio e si conclude nella fraternità. Pronunciando la benedizione, l’ebreo rinuncia a considerarsi proprietario dei beni che lo circondano e rinuncia a farsene un possesso esclusivo. Il vero proprietario è Dio che ne fa dono a tutti i suoi figli. Così la benedizione è, allo stesso tempo, riconoscimento di Dio, visione del mondo, accolto e goduto nella gioia in quanto dono dell’amore del Padre, e impegno di fraternità. La preghiera di Gesù ha respirato questa atmosfera, assai viva nella pietà del suo tempo, e i Vangeli ne hanno conservato le tracce: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” ( Mt 11,25 ). La domanda di Gesù al Padre Accanto alla lode e al ringraziamento, nella preghiera di Gesù c’è anche la domanda. Si tratta, per lo più, di una domanda ecclesiale e apostolica: Gesù prega perché la fede di Pietro non venga meno ( Lc 22,32 ); prega perché il Padre invii lo Spirito a riunire le genti nella Chiesa ( Gv 14,16 ); prega perché i suoi crocifissori siano perdonati ( Lc 23,34 ). Ma nel Getsèmani Gesù prega per sé. È questa la più umana e la più drammatica delle preghiere di Gesù: una vera preghiera di supplica, come ne troviamo tante nei Salmi. È tipico del Vangelo di Marco presentare Gesù in tutto lo spessore della sua umanità. E qui, al Getsèmani, presenta Gesù come un uomo sgomento, angosciato, triste, quasi disorientato. Gesù sembra rivivere nella sua esperienza umana lo sconcerto di chi si sente abbandonato da Dio - nel quale, tuttavia, continua a confidare -, di chi urta contro un piano di salvezza che sembra smentirsi. In questa situazione, analoga a quella di Giobbe, di Geremia e di tanti altri, nasce in Gesù la preghiera della supplica. Una supplica che esprime, al di là di tutto e nonostante tutto, confidenza, consapevolezza del proprio rapporto filiale, fiducia. Proprio in questa preghiera Gesù si rivolge a Dio chiamandolo: “Abbà” ( Mc 14,36 ). L’invocazione: “Padre! Tutto è possibile a te”, è un pieno riconoscimento dell’amore e della potenza di Dio. Ma proprio da questo riconoscimento sgorga l’implorazione: “Allontana da me questo calice!”. Se Dio è buono e onnipotente, perché non interviene? Ma dopo la domanda e la lacerazione dell’anima, ecco la fiducia rinnovata, l’abbandono senza riserve, l’accettazione incondizionata: “Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”. La supplica di Gesù nasce dall’angoscia, ma si conclude nella fiducia. Gesù ha utilizzato le diverse forme della preghiera biblica, cioè le diverse forme della preghiera umana: la lode e il ringraziamento, la ricerca della volontà di Dio, la domanda e la supplica, ma non troviamo mai sulle sue labbra la preghiera della colpa e del perdono: Gesù prega come uno che non conosce peccato. Quando pregate CCC nn. 240; 441-445; 2779-2785 ( vedi pure nn. 2786-2854 ) CdA nn. 172-175; 821-825 ( vedi pure nn. 953-1013 ) CdG1 pp. 25-26 Proclamando la venuta del regno di Dio e rendendolo già presente nella sua parola, nei suoi gesti e nella sua persona, Gesù lascia intravedere il volto del Dio che prende l’iniziativa sovrana di farsi vicino alla vita umana, di salvarla, di aprirla alla libertà, di farle dono della pace e della giustizia. La novità del suo annuncio, l’autorità e la potenza dei segni che compie, l’apertura e il dono di sé che traspare dai suoi incontri con ogni genere di persone, danno visibilità umana al Dio che viene a instaurare il suo regno. Il Dio delle parabole Gesù ha delineato i tratti salienti del volto di questo Dio nella vivacità del linguaggio delle parabole, con cui si è rivolto alle folle e agli oppositori, per convincerli ad accogliere la sua straordinaria iniziativa e a rispondervi con nuovi atteggiamenti di vita. Dio è per Gesù come quel padre dallo sconfinato amore che accoglie e restituisce dignità al figlio allontanatosi da casa ( Lc 15,11-32 ); è come quel padrone che rimette un enorme debito, esigendo però che venga condonato il piccolo debito del fratello ( Mt 18,23-35 ); è come quel padrone di una vigna che fa della gratuità il criterio di ricompensa degli operai presi a giornata ( Mt 20,1-16 ). Questo Dio è paziente e attende fino all’ultimo la conversione dell’uomo, come quel padrone del campo che lascia crescere insieme grano e zizzania fino al momento decisivo della mietitura ( Mt 13,24-30 ); egli è attento agli ultimi e ai lontani, come quell’uomo benestante che ha invitato alla sua mensa i poveri che stanno ai crocicchi delle strade ( Lc 14,16-24 ); è condiscendente verso chi lo supplica, come quell’amico importunato nel bel mezzo della notte ( Lc 11,5-8 ). Nelle parabole di Gesù emerge un nuovo volto di Dio, che continua a sconvolgere e nello stesso tempo a rasserenare l’ambigua coscienza religiosa dell’uomo, spesso legata ad immagini fin troppo umane del divino. Padre di Israele e di ogni credente Per parlare ai discepoli del Dio del Regno e per esprimere la coscienza del suo rapporto unico con lui, Gesù mostra di preferire il simbolo della paternità. Questo simbolo era già stato ampiamente utilizzato nell’Antico Testamento. A partire dall’epoca dei profeti, Dio è visto come il “Padre” di tutto Israele, il popolo che egli ha legato a sé con le grandi gesta salvifiche ( Dt 32,6 ) e che ha amato e cresciuto come un “figlio” ( Os 11,1 ). Liberato da ogni equivoco richiamo all’idea di generazione, il simbolo della paternità viene a evocare in modo incisivo la profonda intimità e il legame unico che connette il popolo d’Israele al suo Dio. A questo legame d’amore, espresso nei termini di paternità-filiazione, i profeti si richiamano per sollecitare il popolo alla fedeltà ( Ger 3,19 ) e per coltivare in esso la speranza di essere nuovamente liberato e salvato ( Is 63,15-16; Is 64,7 ). In epoca più tarda, come testimoniano i libri sapienziali, è il singolo fedele a sentire Dio come Padre della sua vita, in quanto Creatore e Signore della sua esistenza, e a vivere una esperienza individuale di filiazione ( Sir 23,1.4; Sir 51,10 ). Di questa paternità divina il giusto va orgoglioso ( Sap 2,13.16 ), perché essa gli assicura protezione ed assistenza ( Sap 2,18 ) ed in essa trova la sorgente della sua forza e della sua fiducia. Su questo sfondo di una paternità divina, simbolo di un amore unico, tenero, compassionevole e al contempo esigente, va compreso il significato della paternità del Dio del Regno annunciata da Gesù. Il “Padre vostro” Nelle istruzioni riservate ai discepoli, Gesù parla loro di Dio come il “Padre vostro”. È un Padre di cui i discepoli devono fidarsi perché egli sa di cosa hanno bisogno ed è disposto a concederlo ( Mt 6,32 ). È un Padre benevolo verso gli ingrati e i malvagi, che nella sua misericordia deve diventare esemplare per la condotta dei discepoli ( Lc 6,36 ). È un Padre disposto al perdono, a condizione che anche i discepoli si aprano al perdono dei fratelli ( Mc 11,25 ). Alla piccola schiera dei discepoli, timorosa e oppressa, egli mostra la sua paternità facendo dono del regno di Dio ( Lc 12,32 ). Questa paternità è talmente singolare che i discepoli non possono dare ad altri il titolo di “padre” sulla terra, senza rischiare di profanare l’immagine paterna di Dio ( Mt 23,9 ). Da questo insegnamento di Gesù i discepoli vedono svelarsi un volto paterno di Dio, carico di tenerezza e di amore, che diventa la fonte e la misura della loro condotta di vita. Il “Padre mio” Se Dio è il Padre dei discepoli, lo è in modo del tutto unico per Gesù. Egli esprime la coscienza di questo rapporto unico con il Dio che gli è Padre: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” ( Mt 11,27 ). Sotto questa densa e significativa parola di Gesù si può cogliere tutta l’intimità esistente tra lui e Dio suo Padre. Questi ha trasmesso a Gesù la rivelazione di se stesso, così che egli lo conosce nel modo unico con cui un figlio conosce pienamente il proprio padre. In forza di questa relazione profonda di conoscenza e di amore Gesù può rivelare Dio agli uomini. Ma l’intimità che Gesù vive con Dio suo Padre si esprime in pienezza nella preghiera. La molteplice attestazione dei Vangeli sembra concorde nell’indicare che Gesù, a eccezione del grido sulla croce ( Mc 15,34 ), ha sempre invocato Dio con l’espressione “Padre mio”. Ancor più notevole è il fatto che Gesù usasse l’appellativo “Abbà” per rivolgersi a Dio nella sua preghiera: Gesù si rivolge a Dio con la semplicità, l’intimità e la fiducia con cui un bambino si rivolgeva al proprio padre. Da questa consuetudine unica di Gesù nel rivolgersi a Dio ci viene svelata la natura del suo rapporto e della sua comunione profonda con lui. Pregare il Padre Su questo sfondo della relazione unica tra Gesù e il Padre, comprendiamo anche il valore della preghiera che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli. Costoro gli avevano chiesto di insegnare loro a pregare ( Lc 11,1 ) con una preghiera che fosse come il contrassegno e il simbolo dei suoi seguaci. Gesù, esaudendo la loro richiesta, li autorizza a seguirlo nell’invocazione a Dio come Padre e in tal modo li fa partecipi della sua stessa comunione con Dio. Tutti i credenti dunque, per l’azione interiore dello Spirito, possono invocare Dio con l’appellativo “Abbà”, “Padre”. Lo ricorda Paolo ai suoi cristiani: “Avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!” ( Rm 8,15 ). Gesù, che ci ha rivelato il volto di un Padre pieno di amore e di misericordia e che ci ha testimoniato il suo rapporto unico con questo Padre suo, per il dono del suo Spirito, ha aperto anche per noi una nuova relazione con Dio e una nuova possibilità di rivolgerci a Dio nella nostra preghiera. Liberi da ogni sentimento di paurosa sottomissione e di schiavitù, possiamo aprirci a Dio come Padre nostro, con la stessa confidenza e fiducia che ha caratterizzato la vita e la preghiera di Gesù. Insegnava come uno che ha autorità CCC nn. 430-455 ( vedi pure nn. 514-518 ) CdA nn. 208-212; 285-299 CdG1 pp. 192-193 Con l’annuncio del Regno, con l’accoglienza dei poveri e dei peccatori, con le sue scelte di vita, soprattutto con la sua preghiera, Gesù ci ha lasciato intravedere chi egli sia. E già abbiamo compreso che il nucleo più profondo della sua persona è il suo modo di stare davanti a Dio, che egli invoca sempre col nome di Padre. Nei confronti di questa paternità divina, Gesù non si presenta soltanto come colui che l’annuncia, ma come uno che in un modo del tutto particolare la conosce, la sperimenta e la vive. Ora però vogliamo osservare, se possibile, l’identità di Gesù più da vicino. Gesù ha parlato di se stesso? Che coscienza di sé ha manifestato? Una rivelazione graduale Prima di rispondere vanno ricordate due cose, che i Vangeli testimoniano ampiamente. Gesù anzitutto non ha scelto di rivelare subito e a tutti la propria identità. Egli si è svelato gradualmente, lasciandosi scoprire più che dichiarandosi apertamente, tanto che gli stessi discepoli hanno pienamente Capito chi egli era solo alla fine del cammino con lui. E poi Gesù è vissuto con lo sguardo costantemente rivolto a Dio più che a se stesso e ha parlato molto meno di sé che di Dio. Ma proprio parlando di Dio ha rivelato se stesso: ci ha fatto capire di essere Figlio parlando di Dio come Padre. Questa discrezione nel parlare di sé, ponendosi all’ombra di Dio, non nasconde l’identità di Gesù, ma la pone in piena luce: Gesù è la trasparenza del Padre, questa è la sua identità. Essa non offusca neppure la coscienza che egli ha di sé, ma ne indica, al contrario, la profondità e la direzione. Una rivelazione indiretta: l’autorità dell’insegnamento Anche il modo di insegnare è manifestazione indiretta dell’identità di Gesù. Non solo per i contenuti, ma già per come li propone, il suo insegnamento assume carattere di sorprendente novità e di insolita autorevolezza. La gente se ne accorge: “Erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi” ( Mc 1,22 ). Per ogni loro affermazione gli scribi cercavano una giustificazione nelle Scritture o nelle tradizioni dei padri. Gesù, invece, parla a nome proprio, senza rimandare ad altre autorità. La forza delle sue parole sta in lui che le dice e nel modo con cui le dice. Addirittura, esige per le sue parole un’adesione che i maestri del tempo ritenevano dovuta soltanto alla parola di Mosè, e quindi a Dio. Questa pretesa appare provocatoriamente sottolineata in alcune affermazioni che si leggono nel discorso della montagna, in cui Gesù sovrappone la sua parola alla legge mosaica, non per abolirla ma per portarla a compimento: “Avete sentito che fu detto … ma io vi dico” ( Mt 5,21-48 ). Gesù si propone con un’autorità più grande di quella di Mosè. La coscienza di un legame unico con Dio Non mancano esempi al riguardo nei Vangeli. A un paralitico, che gli chiede la guarigione, Gesù osa dire: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati” ( Mc 2,5 ). I farisei hanno ragione di indignarsi: “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?” ( Mc 2,7 ). Una pretesa sconcertante, questa di Gesù, che più che alla verità delle sue parole rimanda all’identità della sua persona. Solo uno che ha coscienza di condividere in modo del tutto singolare l’autorità di Dio, può affermare con tanta sicurezza: “Ti sono rimessi i peccati”. Anche altre affermazioni di Gesù ci portano alla stessa conclusione. Per esempio: “Chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” ( Mc 9,37 ). O anche: “Chi si vergognerà di me è delle mie parole davanti a questa generazione adultera è peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi” ( Mc 8,38 ). La scelta che gli uomini fanno nei suoi confronti è insieme una scelta nei confronti di Dio. Messia Gesù si è considerato Messia? “Messia”, in greco “Cristo”, è un titolo a cui la comunità primitiva è ricorsa ampiamente per esprimere la propria fede in Gesù, al punto da farlo diventare quasi il secondo nome di Gesù: Gesù Cristo. E certamente il titolo che, fra tutti quelli anticipati nell’Antico Testamento, avrebbe potuto meglio suggerire la dignità e la missione di Gesù. Messia è, però, anche un nome abusato è diventato ormai equivoco all’epoca in cui Gesù vive. La maggior parte degli ebrei del tempo pensa al Messia come a colui che dovrà promuovere il riscatto nazionale di Israele contro i dominatori pagani. Più in generale, l’opera attesa del Messia è per molti una trasformazione materiale, sociale e politica delle condizioni di vita. C’è anche chi pensa al Messia come a un sacerdote che dovrà ristabilire il culto mosaico nella sua purezza. In nessuna di queste attese Gesù si riconosce. Per questo egli ha molte riserve nei confronti di questo titolo. Ad esempio, quando Pietro a nome dei Dodici afferma la sua messianicità, Gesù non rifiuta questo riconoscimento, ma non vuole che se ne faccia pubblicità ( Mc 8,29-30 ). Egli è sì Messia, ma non come la gente si aspetta. Se però a Pietro è agli altri discepoli proibisce energicamente di parlare in pubblico della sua messianicità, davanti al sommo sacerdote e al Sinedrio egli stesso la proclama apertamente ( Mc 14,61-64 ). Sono profondamente mutate le circostanze: a Cesarea di Filippo la messianicità di Gesù correva il pericolo di essere fraintesa, ora non più. Umiliato e accusato, il Messia Gesù non corre più il rischio di essere separato dalla croce. Ormai è chiaro a tutti che la sua messianicità è diversa, è che va letta a partire dalla croce, per riconoscerla come per rifiutarla ( Mc 15,29-32.39 ). Figlio dell’uomo Nei Vangeli si incontra con una certa frequenza il titolo “Figlio dell’uomo”. Gesù usa questa formula solenne ed enigmatica per parlare di sé: nel Nuovo Testamento essa si trova sempre e solo sulla sua bocca e ciò fa pensare che risalga proprio a lui. Gesù la usa per parlare della povertà che egli vive ( Mt 8,20 ), delle derisioni di cui è oggetto ( Mt 11,19 ), del suo destino di umiliazione è sofferenza, del suo cammino verso la croce ( Mc 8,31 ). Ma la usa anche per affermare la sua signoria sul sabato ( Mc 2,28 ), il suo potere di rimettere i peccati ( Mc 2,10 ) e per annunciare il suo ritorno in potenza e gloria ( Mc 13,26 ). Gesù vede rispecchiata pienamente la propria identità in questa espressione e la usa per parlare di sé, anche perché, diversamente dal titolo Messia, non correva rischi di essere fraintesa. Era infatti un’espressione poco usata, in grado al tempo stesso di svelare e di nascondere la sua messianicità, sottraendola agli schemi consueti. Il titolo Figlio dell’uomo non si prestava a confusioni nazionalistiche e politiche, perché il suo significato era esclusivamente religioso. Un passo del profeta Daniele parlava di un misterioso Figlio dell’uomo, che “sulle nubi del cielo” sarebbe giunto fino a Dio, è avrebbe da lui ricevuto “potere, gloria e regno” ( Dn 7,13-14 ). Chiamandosi Figlio dell’uomo, Gesù intende affermare che quella misteriosa profezia trova in lui la realizzazione. Figlio di Dio Il fatto che Gesù abbia avanzato pretese inaccettabili per un semplice uomo, sia pure profeta, ponendosi al di sopra di Mosè, della sua legge e del tempio; l’aver identificato la decisione nei suoi confronti con la decisione nei confronti di Dio stesso; anche l’aver riconosciuto, sia pure con riserve per evitare fraintendimenti, di essere il Messia atteso: tutto questo non ci porta ancora al nucleo più profondo dell’identità di Gesù, che, come già sappiamo, sta nel suo rapporto col Padre. È qui che va cercato il chiarimento ultimo del suo mistero. Gesù ha parlato del suo rapporto con il Padre? In quali termini? Ha manifestato la coscienza di essere in modo unico Figlio di Dio? Anche su questo punto, il più delicato e al tempo stesso il più affascinante, non possiamo, per lo più, che raccogliere una serie di indizi, che però convergono tutti nella stessa direzione: il rapporto di Gesù con Dio è unico, diverso e misterioso. Gesù usa l’espressione “il Padre vostro”, affermando in tal modo con chiarezza l’universalità della paternità di Dio. Ma egli non dice mai, come sarebbe logico aspettarsi, “il Padre nostro”, bensì “il Padre mio”. Gesù è Figlio in modo singolare, non semplicemente come ogni altro uomo. La sua filiazione è altra da quella del discepolo. Abbiamo già visto come, raccontando la preghiera di Gesù nel Getsèmani ( Mc 14,36 ), Marco ci ha conservato una traccia importante del modo in cui Gesù si rivolgeva a Dio, cioè con il nome inconsueto di “Abbà”, che non deve tradursi con “padre”, ma piuttosto con “babbo, papà”. Solo i bambini, o comunque i figli, usavano questo termine per rivolgersi al loro padre. In nessun luogo della letteratura ebraica si trova documentato l’uso di questa forma riferita a Dio. Era troppo confidenziale e quasi irriverente per la mentalità comune. Ma accanto a questi indizi, quasi semplici cenni, ci sono anche indicazioni più rare ma più esplicite. Per esempio, la parabola dei cattivi vignaioli ( Mc 12,1-12 ). Alla domanda di alcuni farisei e anziani: “Con quale autorità fai queste cose?” ( Mc 11,28 ), Gesù non risponde direttamente. Chi lo interroga non cerca sinceramente la verità ed è inutile rispondergli. Risponde però con una parabola, velatamente, raccontando la storia di un padrone che possiede una vigna, la dà in affitto a dei vignaioli e al tempo opportuno manda i suoi servi a ritirare i frutti. Ma i vignaioli bastonano i servi, uno dopo l’altro, li coprono di insulti e li uccidono. Allora il padrone invia il proprio figlio, pensando: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma anziché rispettarlo, i vignaioli si accaniscono contro di lui, proprio perché è il figlio: lo afferrano, lo uccidono e lo gettano fuori dalla vigna. I servi sono i profeti inviati da Dio e il figlio è Gesù. La storia è per tutti la stessa: il rifiuto, le percosse e il martirio. E anche la missione è la stessa: ritirare i frutti dovuti al padrone. Ma diversa è l’identità degli inviati: i profeti sono “servi”, Gesù è “il figlio prediletto”; è l’erede, come riconoscono gli stessi vignaioli; e la sua missione è l’ultima, quella definitiva. Inserito nella linea dei profeti, Gesù è diverso dai profeti: è il Figlio. È già stata ricordata un’affermazione di Gesù di particolare densità: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio: nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” ( Mt 11,27 ). Queste parole dicono, anzitutto, chi è Gesù per noi: è l’unico ed esclusivo rivelatore del Padre; nessuno conosce il Padre tranne lui e nessuno può accedere al Padre se non attraverso la sua rivelazione. Ma Gesù non è solo questo: egli è il Figlio a cui il Padre ha dato tutto, senza tenersi nulla. Nel tutto è indicato il livello divino, che dà pienezza e spessore al termine “Figlio”. Tanto che l’identità di Gesù è talmente insondabile che solo il Padre riesce ad abbracciarla: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre”. “ Io sono … ” Sin qui abbiamo tentato di aprire qualche spiraglio sull’identità di Gesù: chi è? qual è il suo rapporto con Dio? Ma l’identità di Gesù ha anche un altro risvolto: chi è Gesù per noi? quale il suo significato per la ricerca dell’uomo? Il Vangelo di Giovanni, il più meditato fra i Vangeli, risponde alla nostra domanda. Riassume l’insegnamento di Cristo su se stesso e sul suo rapporto con il Padre affermando all’inizio che Gesù di Nazareth, protagonista della narrazione evangelica, è il “Verbo” incarnato, che fin dal principio era “presso Dio” ed “era Dio” ( Gv 1,1 ), e ponendo a traguardo di tutto l’itinerario di fede la dichiarazione di Tommaso che, rivolto al Risorto, dice: “Mio Signore e mio Dio!” ( Gv 20,28 ). Nel quarto Vangelo Gesù fa lunghi discorsi: alla folla, agli ebrei e ai discepoli; discorsi che culminano costantemente in parole come “Io sono la luce del mondo” ( Gv 8,12 ), “Io sono il pane della vita” ( Gv 6,48 ), “Io sono la risurrezione e la vita” ( Gv 11,25 ), “Io sono la via, la verità e la vita” ( Gv 14,6 ), “Io sono la vera vite” ( Gv 15,1 ). Luce, pane, vita sono simboli presenti nel mondo ebraico, ma anche in quello greco: sono simboli universali, che esprimono la ricerca dell’uomo, la sua ansia di salvezza, le sue domande sul senso dell’esistenza. Applicando questi simboli a se stesso, Gesù afferma di essere l’oggetto vero, ultimo, della ricerca dell’uomo. Nelle espressioni in cui Gesù utilizza la formula “Io sono”, c’è una affermazione: Gesù è la salvezza dell’uomo; è una precisazione: solo Gesù lo è. Solo Gesù è la vera luce. Dovunque si diradano le tenebre, si affaccia la sua presenza. Le ricerche dell’uomo non possono essere la conclusione, non sono la parola ultima, possono essere però avvio e preparazione, parola penultima. Così l’ebraismo nei confronti di Cristo ( Gv 1,17 ). Così Giovanni Battista: non era la luce vera, ma il testimone della luce ( Gv 1,8 ). Ma Gesù non si pone soltanto come l’oggetto vero della ricerca dell’uomo: egli è, infatti, la manifestazione storica, accessibile, di quel Dio che l’uomo va cercando a tentoni. Sempre nel Vangelo di Giovanni, Gesù applica a se stesso, in forma assoluta, l’espressione “Io sono” ( Gv 8,28.58 ), il nome proprio di Dio rivelato a Mosè ( Es 3,14 ). In tal modo egli ci manifesta il nucleo più profondo e misterioso della sua realtà: la sua connaturalità con il Dio d’Israele. Egli pretende, ancor prima, di essere la luce che svela all’uomo il senso vero della sua ricerca. Gesù svela l’uomo a se stesso. L’uomo cerca il pane, la luce, la vita: in realtà cerca Gesù. Nato Gesù a Betlemme CCC nn. 522-526 ( vedi pure nn. 527-534 ) CdA nn. 301-305 Chi legge le pagine dei Vangeli di Matteo e di Luca, che raccontano l’infanzia di Gesù, è favorevolmente colpito dalla loro semplicità e dalla loro poesia. Chi poi si addentra in un’analisi più dettagliata, resta sorpreso dalla loro ricchezza spirituale e teologica. Ma non mancano anche aspetti che invece possono sorprendere il lettore moderno meno favorevolmente: le apparizioni angeliche, il segno della stella, i sogni di Giuseppe … Il significato della persona di Gesù Questo vale anche per la indeterminatezza circa l’anno della nascita del Messia. “Al tempo di Erode, re della Giudea”, scrive Luca, iniziando il suo racconto con l’annuncio della nascita di Giovanni Battista, il precursore ( Lc 1,5 ); e Matteo scrive: “Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode” ( Mt 2,1 ). Si tratta di Erode il Grande, che regnò poco meno di quarant’anni e morì nel 4 a.C. E perciò, sia detto qui per inciso, l’anno zero della nostra era cristiana non coincide con la nascita di Gesù, che invece va collocata, anno più anno meno, verso il 5 o il 6 a.C. I due evangelisti non ci forniscono una data più accurata ma sono pienamente consapevoli di raccontarci un fatto reale, storico, che, come ogni altro fatto reale, si colloca in un tempo, “al tempo di Erode”, e in un luogo, “Betlemme”. I “racconti dell’infanzia” costituiscono un complesso ben distinto rispetto al resto dei Vangeli. Sono di un genere letterario a sé. Essi non appartengono alla predicazione apostolica originaria. Non bisogna meravigliarsene: non è l’infanzia degli eroi ad attrarre, in un primo tempo e direttamente, l’attenzione dei biografi, ma la loro vita di adulti, le imprese che li imposero all’ammirazione di tutti. Se, in un secondo tempo, lo sguardo si spinge sino all’infanzia, è quasi sempre per il desiderio di trovarvi i segni prefiguratori del loro destino. Questo è appunto il caso dei testi di Matteo e di Luca, i quali raccontano gli episodi dell’infanzia di Gesù scorgendo in essi le linee maestre della futura vicenda messianica. Certo, gli evangelisti si sono serviti di ricordi antichi, probabilmente risalenti alla cerchia dei parenti di Gesù e in particolare di sua madre, Maria. Ma, raccontandoli, si mostrano più interessati al significato degli avvenimenti che alle modalità precise con cui sono accaduti. Il loro interesse si concentra sull’identità di Gesù e sulla logica di fondo che guiderà la sua vicenda. I racconti dell’infanzia devono essere perciò letti soprattutto come una grande testimonianza di fede in Gesù. Nel Vangelo di Matteo L’evangelista Matteo ha raccolto i ricordi dell’infanzia di Gesù in cinque episodi: la nascita, la visita dei Magi, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti, il ritorno a Nazareth. In ciascun episodio c’è un riferimento esplicito alle Scritture che si sono adempiute in Gesù. Il senso è chiaro: è Gesù il Messia atteso da Israele. In lui Dio realizza per il suo popolo la sua definitiva presenza e alleanza, perché egli è l’Emmanuele, “Dio con noi” ( Mt 1,22-23 ): egli dunque pascerà il suo popolo ( Mt 2,5 ) e lo salverà dai suoi peccati ( Mt 2,21 ). L’amore paterno di Dio, che si era manifestato per Israele come per un figlio nell’evento dell’esodo, ora si manifesta pienamente per Gesù “Figlio” messianico nella sua permanenza e nella sua uscita dall’Egitto ( Mt 2,15 ). Il titolo stesso di “Nazoreo” che richiama l’umile provenienza di Gesù dalla sconosciuta cittadina di Nazareth è, alla luce della parola profetica, la conferma della sua identità di Messia. Proprio questa sua umile origine costituirà per l’Israele storico una difficoltà al riconoscimento della sua messianicità. In proposito sarà emblematico l’episodio di Nazareth ( Mt 13,53-58 ). La sapienza delle sue parole e i suoi gesti suscitano meraviglia: “Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli?”. Ma la meraviglia non si apre all’accoglienza, non si fa comprensione; si ferma allo sconcerto e, alla fine, si chiude nel rifiuto: “Non è egli forse il figlio del carpentiere?”. L’umiltà delle origini e la normalità del suo essere uomo – due tratti che non corrispondono allo schema comune del Messia – impediscono di riconoscere il Figlio nel Nazareno. Un tale misconoscimento che si risolverà in tragico rifiuto, da parte di Israele come popolo, si profila, già nei racconti dell’infanzia, attraverso l'atteggiamento degli abitanti di Gerusalemme ( Mt 2,3 ), che rimangono turbati dalla nascita di Gesù, e nella figura di Frode, che perseguita il bambino ( Mt 2,16-18 ). Al contrario i popoli pagani, rappresentati dai Magi, vengono a cercare il Messia, re dei giudei, per adorarlo ( Mt 2,1-12 ). La storia di Matteo sarà la storia del progressivo rifiuto del Messia da parte di Israele e della sua accoglienza da parte delle nazioni pagane. La genealogia di Gesù Abbiamo lasciato per ultimo un dato importante che invece Matteo pone per primo: la genealogia. In apparenza si tratta di un arido elenco di nomi, nella realtà è una forte testimonianza di fede in Gesù Cristo. Gesù è figlio di Abramo ed è figlio di Davide. Il nome Abramo evoca l’elezione e l’apertura universale di Dio ( Gen 12,1-3 ), cioè un progetto di salvezza che non è legato al sangue e che si estende a tutti. E Davide, il re, evoca lo splendore del regno e le speranze messianiche ad esso legate ( 2 Sam 7,11-14; Sal 2 ). Ciò che il nome Abramo e l’espressione “il re Davide” racchiudevano in sé, si compie ora in Gesù. Ma il passaggio fra Davide e Gesù non è immediato: c’è l’esilio che segna la fine della casa di Davide come grandezza politica. Gesù è un re senza corona. Nessun cedimento a un progetto messianico politico e restauratore. Certo, Gesù è figlio di Davide, e Matteo lo sottolinea per rispondere a un’obiezione che gli ebrei rivolgevano ai cristiani: “Alcuni fra la gente dicevano: “Questi è davvero il profeta!”. Altri dicevano: “Questi è il Cristo!”. Altri invece dicevano: “Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?”” ( Gv 7,40-43 ). Ma affermando che Gesù è figlio di Davide, tramite Giuseppe che lo adotta legalmente, Matteo contemporaneamente mostra che Gesù è molto di più. Non corrisponde certamente allo schema messianico che la gente si era costruita intorno alle speranze del regno di Davide. La novità di Gesù è ancora più sorprendente e Matteo la esprime così: “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale fu generato Gesù, chiamato il Cristo” ( Mt 1,16 ). La generazione di Gesù introduce una rottura nella genealogia. La sua generazione è sottratta a Giuseppe, e il verbo non è più all’attivo, “generò”, ma al passivo, “fu generato”. Chi è allora colui che genera? La risposta viene data più avanti, nel racconto della nascita: Gesù è generato dallo Spirito ( Mt 1,20 ). Dunque, non è solo figlio di Davide, ma Figlio di Dio. La linea orizzontale, pur affermando la profonda solidarietà di Gesù con gli uomini, non è in grado di spiegarne l’origine e la fisionomia: occorre la linea verticale. La conclusione si impone: sia pure con un linguaggio che non ci è più abituale, la genealogia di Gesù raccontata da Matteo ci svela – naturalmente in modo ancora germinale – il mistero di Gesù, quel mistero che contiene la sorpresa e per molti lo scandalo. Gesù è inserito nella storia del popolo ebraico, ma la supera. È solidale con l’umanità, ma la sua origine viene dall’alto. Compie le attese, ma il suo modo di compierle è sorprendente. Nel Vangelo di Luca Anche Luca afferma che Gesù fu concepito per opera dello Spirito Santo e che Giuseppe, sposo di Maria, ne assunse la paternità legale. La sua narrazione è però differente: “L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in un città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria” ( Lc 1,26-27 ). Anche Luca pone in collegamento i primi avvenimenti di Gesù con episodi e testi dell’Antico Testamento. Gesù è il Messia atteso. Su questo punto, anzi, la tecnica narrativa di Luca è particolarmente ricca, suggestiva e insistita. Più che le citazioni esplicite, come in Matteo, egli preferisce le allusioni e le evocazioni, e non raramente si riferisce a più passi dell’Antico Testamento simultaneamente. Si tratta di tecniche letterarie ed esegetiche già in uso in quel tempo e che Luca impiega con rara abilità, a servizio di un messaggio: le diverse linee dell’attesa trovano in Gesù la loro unità. Il racconto della nascita di Gesù Ma la risposta alla domanda su chi è Gesù, Luca sembra concentrarla nel racconto della nascita ( Lc 2,1-20 ). Qui il mistero di Gesù appare in tutta la sua luce. “In quei giorni – scrive Luca – un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio”. Seguendo l’uso ebraico, Giuseppe prende con sé “Maria, sua sposa, che era incinta” e va a iscriversi nel luogo d’origine del suo casato, Betlemme. Giunti a Betlemme, “si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”. Così nasce Gesù, che l’angelo annuncia ai pastori come “un salvatore, che è il Cristo Signore”. C’è molta solennità nel racconto di Luca, si parla di luce e di cori angelici, tuttavia il punto centrale, su cui l’evangelista fissa l’attenzione, è la povertà del bambino: “Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia”. Questa annotazione viene ripetuta tre volte, come a scandire l’intero racconto. In questo contrasto fra gloria e povertà è racchiuso il mistero di Gesù. Senza la gloria non capiremmo che quel bambino povero è il Signore. Senza il bambino povero non capiremmo che la gloria del vero Dio è diversa dalla gloria che l’uomo immagina. La meraviglia è che ad essere proclamato Salvatore, Messia e Signore – i tre titoli fondamentali che esprimono la fede cristiana in Gesù – è un bambino povero, avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. Nel prologo del Vangelo di Giovanni Se i racconti dell’infanzia illuminano il mistero e l’identità di Gesù già a partire dalla sua generazione e dalla sua nascita, il Vangelo di Giovanni, particolarmente nel prologo ( Gv 1,1-18 ), spinge in profondità lo sguardo fino a contemplare il fondamento ultimo dell’esperienza fatta con Gesù, quale Figlio Unigenito e Rivelatore unico e definitivo del Padre. Quel “Verbo della vita” che i discepoli, nella condivisione di vita con Gesù, avevano con meraviglia contemplato e visibilmente toccato e udito ( 1 Gv 1-2 ), era il Verbo che fin dall’eternità era rivolto a Dio, in una relazione unica con Lui, ed era egli stesso Dio ( Gv 1,1 ). Questo Verbo, increato ed eterno, è il mediatore grazie al quale tutta la realtà creata viene all’esistenza: tutto da lui riceve vita e gli uomini hanno da lui quella “luce” che permette loro di comprendersi ( Gv 1,3-4 ). Questo Verbo è divenuto “carne”, umanità fragile: colui che esisteva dall’eternità è entrato nel tempo e nella storia umana divenendo la presenza di Dio fra noi. Per questo nella sua umanità i discepoli hanno potuto contemplare la gloria di colui che da sempre è in una relazione unica di amore con il Padre ed è fonte quindi della sua autentica e piena rivelazione ( Gv 1,14.18 ). Per questo a quanti lo hanno accolto e permangono nella fede in lui è data la grazia di partecipare a quella pienezza di vita filiale che da sempre è in lui e che egli può comunicare agli uomini ( Gv 1,12 ). Il Vangelo di Giovanni sarà una continua riflessione su Gesù, Figlio unigenito, Rivelatore del Padre e datore agli uomini della vita divina. Egli è venuto dall’alto ( Gv 8,23 ), è uscito dal Padre ( Gv 16,28 ) ed è stato mandato nel mondo per rivelare agli uomini la parola che ha ascoltato dal Padre ( Gv 8,26 ) e per compiere le opere che Egli gli ha dato da fare ( Gv 5,36 ). “Come il Padre ha la vita in sé, così Egli ha dato al Figlio di avere la vita in sé” ( Gv 5,26 ), così che il Figlio Gesù, venendo nel mondo, può comunicare a tutti quanti credono in lui la vita eterna ( Gv 10,10 ). L’attendibilità storica dei Vangeli ( fuori testo ) CCC nn. 125-127 CdA nn. 75-77 Per verificare l’attendibilità storica dei Vangeli, bisogna tenere presente il processo della loro formazione, che, come abbiamo visto, si è sviluppato in tre tappe: l’esperienza comunitaria di Gesù con i suoi discepoli; la predicazione degli apostoli e la vita delle prime comunità cristiane; la redazione scritta da parte degli evangelisti. Proviamo a ripercorrere questo itinerario incominciando dalla terza tappa, per verificare come, in base a un esame rigorosamente storiografico, attraverso i Vangeli noi possiamo avere un sicuro accesso alla storia di Gesù. Gli evangelisti si dimostrano ben informati sui fatti e fedeli alle fonti da cui dipendono. I loro scritti “sono di origine apostolica”: con questa espressione il Concilio Vaticano II intende affermare che i Vangeli furono scritti da apostoli e da “uomini della loro cerchia” ( Dei Verbum, 18 ), quindi da persone che potevano attingere sia ai propri ricordi sia alle testimonianze dirette dei testimoni oculari. Da un’accurata analisi di critica letteraria si ricava la conclusione che gli evangelisti hanno fatto ricorso a vari procedimenti redazionali ( come trasposizioni di brani, inquadrature di episodi, cuciture o raggruppamenti di vari detti di Gesù ), ma sempre per interpretare meglio e attualizzare il messaggio evangelico o per sottolinearne aspetti particolari, mai per inventare o falsificare. Un riscontro si ha nel fatto che i vari profili di Gesù, tracciati dai singoli evangelisti, risultano distinti, ma non contrastanti tra loro. Abbiamo diversi argomenti per documentare come anche nella fase precedente la tradizione su Gesù sia stata fedele, in quanto trasmessa da persone ben informate e credibili. È da ricordare anzitutto che la predicazione orale avviene per opera degli apostoli o sotto il loro controllo. Cosi, ad esempio, quando bisogna reintegrare il gruppo dei Dodici per la sostituzione di Giuda, Pietro propone all’assemblea dei primi credenti di scegliere uno “tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi” ( At 1,21 ). E Paolo testimonia che, dopo la conversione, salì a Gerusalemme per consultare Pietro e che rimase presso di lui quindici giorni ( Gal 1,18 ); quattordici anni dopo si recò di nuovo a Gerusalemme per confrontare il suo vangelo con le “persone più ragguardevoli” di quella comunità ( Gal 2,2 ). Il pericolo di una deformazione dell’unico vangelo era dunque chiaramente avvertito e accuratamente evitato dagli incaricati ufficiali per la trasmissione del messaggio di Gesù. Una solida garanzia a favore della credibilità del materiale tramandato si ricava anche dalla sua non inventabilità: vengono infatti trasmessi dati relativi alla vita di Gesù che non possono essere stati inventati. Ad esempio, nessun gruppo religioso del tempo si aspettava che il Messia venisse da Nazareth, si facesse battezzare da Giovanni mescolandosi tra i peccatori, frequentasse le ambigue compagnie dei pubblicani e accogliesse donne adultere e prostitute; soprattutto era inimmaginabile che colui il quale doveva portare il perdono di Dio, andasse a finire sulla croce, come un maledetto e uno scomunicato, e che poi risorgesse al terzo giorno. Tutti i Vangeli stanno a dire lo sconcerto degli stessi discepoli davanti a questi eventi; nonostante che Gesù li avesse preparati, i fatti di Pasqua li colgono del tutto di sorpresa. L’assoluta sincerità dei predicatori è dimostrata inoltre dal fatto che essi trasmettono anche quei dati che potevano offrire il destro agli attacchi degli avversari o costituire una seria difficoltà per l’adesione alla nuova fede: predicano un Gesù Figlio di Dio, ma non ne nascondono i tratti umilianti, come la sua paura di fronte alla morte o l’ignoranza del giorno del giudizio di Dio; presiedono a una Chiesa che credono fondata sulla fede degli apostoli, ma non tacciono mai che uno di loro ha tradito il Maestro, che Pietro, la “roccia”, lo ha rinnegato, che gli altri hanno spesso dimostrato di essere persone grette, paurose e del tutto inadeguate alla futura missione. Una volta ricostruita la storia di Gesù nelle sue linee fondamentali, è possibile accogliere come autentici tutti i dati che si integrano in modo armonico in quel nucleo di base: così, ad esempio, i miracoli operati da Gesù chiariscono ulteriormente elementi del tutto certi, come l’esaltazione delle folle, il fascino esercitato sui discepoli, l’avversione degli scribi e dei farisei fino alla condanna a morte. Una riprova della veridicità della tradizione evangelica si ottiene confrontando i quattro libretti riconosciuti dalla Chiesa come ispirati da Dio e canonici , cioè facenti parte della Bibbia, con i Vangeli cosiddetti “apocrifi”, quelli che la Chiesa non ha inserito nell’elenco dei libri ispirati. A differenza dei primi, gli apocrifi tradiscono spesso l’intenzione di diffondere eresie e il desiderio di soddisfare la curiosità dei lettori: così, mentre i miracoli che vengono narrati nei quattro Vangeli canonici sono descritti con grande sobrietà e vengono operati da Gesù in modo del tutto disinteressato e con estrema modestia, secondo i Vangeli apocrifi i miracoli verrebbero operati dal Signore più per esibire la sua potenza o per punire gli avversari, che non per testimoniare ai poveri e ai perduti la misericordia del Padre. Il cristiano oggi, nel leggere i Vangeli, non si affida soltanto alla tradizione della fede o al discernimento spirituale, che la sua personale esperienza religiosa gli consente, ma fa anche ricorso ai criteri delle scienze storiche e della critica letteraria. Tali criteri scientifici non condannano in alcun modo Gesù a svanire nelle nebbie di un lontano mondo, fatto di primitive fantasie popolari. Al contrario, avvicinano a noi il Gesù della storia e ci consentono di rivivere lo stupore, gli interrogativi, le scelte compromettenti, che già duemila anni fa la sua presenza provocò presso coloro che si incontrarono con lui. “La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e costanza che i quattro su indicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù, Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro salvezza eterna, fino al giorno in cui fu assunto in cielo” ( Dei Verbum, 19 ). Il Padre Nostro ( scheda ) CCC nn. 2762-2865 CdA nn. 173-174; 1001-1013 Il Padre Nostro è la preghiera del cristiano, insegnata da Gesù. I Vangeli non dicono che Gesù l’abbia recitata insieme ai suoi discepoli. Il rapporto di Gesù col Padre è unico e unica perciò anche la sua preghiera. Secondo Luca i discepoli intuiscono il rapporto esistente tra Gesù e Dio e desiderano entrare anche loro in questo circuito d’amore. E gli chiedono: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” ( Lc 11,1 ). Il Padre Nostro, che in questa occasione Gesù insegna ai discepoli è una preghiera che sgorga dalla sua personale preghiera. Il Padre Nostro è lo specchio del nostro nuovo rapporto con Dio e al tempo stesso indica i tratti essenziali di un modo nuovo di vivere. La preghiera che Gesù ci ha insegnato ci è giunta nella redazione di Matteo e in quella di Luca: più ampia e strutturata la prima ( Mt 6,9-13 ), più breve e informe la seconda ( Lc 11,2-4 ). Privilegiamo qui la formulazione di Matteo, che è quella abitualmente recitata. Il Padre Nastro si apre con un’invocazione e si snoda poi in sette domande, che hanno molti paralleli nelle preghiere bibliche dell’Antico Testamento e dell’ebraismo del tempo di Gesù. La preghiera insegnata da Gesù è profondamente radicata nelle tradizioni del suo popolo e tuttavia originale. Le singole domande si possono rintracciare in questa tradizione, ma non radunate tutte insieme né formulate con tale essenzialità. “Padre” è il nome di Dio. L’uomo può rivolgersi a Dio come un figlio, chiamandolo familiarmente Padre, come ha fatto Gesù. La familiarità del rapporto con Dio, che nasce nei cristiani dalla consapevolezza di essere figli nel Figlio, è sempre ricordata nel Nuovo Testamento con stupore, come una nota nuova e liberante, dono dello Spirito ( Rm 8,15; Gal 4,6 ). La paternità di Dio si esprime al plurale: “Padre nostro”. Il suo amore è rivolto a tutti ed è insofferente di qualsiasi discriminazione: fa sorgere il sole sopra i buoni e sopra i cattivi ( Mt 5,45 ). Si noti l’uso del plurale anche nella domanda del pane, del perdono e della prova. In ogni sua richiesta il discepolo deve pensare all’intera comunità. La preghiera cristiana è sempre una preghiera aperta. Ma il nome “Padre” o Matteo non basta. Aggiunge: “che sei nei cieli”, richiamando in tal modo la trascendenza e la alterità di Dio.  io è vicino e lontano, Padre e Signore. Ogni autentico rapporto religioso risulta di confidenza e timore, familiarità e obbedienza. Caratteristico è l’aggettivo possessivo delle prime tre richieste: “il tuo nome”, “il tuo regno”, “la tua volontà”. Nella sua preghiera il discepolo chiede qualcosa che appartiene anzitutto a Dio. “Sia santificato il tuo nome”: alla luce dell’Antico Testamento, in particolare di Ez 36,22-29, “santificare” non dice anzitutto una lode fatta di culto e di parole, quanto piuttosto permettere a Dio dimostrare, nella vita del singolo e della comunità, la sua potenza salvifica. Con questa domanda il discepolo chiede che la comunità diventi trasparente, capace dimostrare, di fronte al mondo, la presenza liberante del Signore. “Venga il tuo regno”: sappiamo che il Regno è stato l’oggetto principale della predicazione di Gesù. Il Regno è già presente qui e ora, ma è al tempo stesso futuro. La richiesta che il Regno venga ha principalmente di mira il Regno nel suo stadio ultimo: non una sua venuta lenta e progressiva nella storia, quanto piuttosto una sua irruzione definitiva. Era questo il desiderio delle prime comunità cristiane: “Vieni, Signore Gesù” ( Ap 22,20 ). “Sia fatta la tua volontà”: e un’invocazione che ripete le prime due, sottolineandone maggiormente l’aspetto morale. Per “volontà di Dio” non si intende semplicemente l’insieme dei comandamenti, ma piuttosto il disegno di salvezza. “Come in cielo così in terra”: l’espressione non va probabilmente riferita soltanto alla terza domanda, ma anche alle prime due. Può significare semplicemente “dappertutto”. Ma può anche avere un senso più pregnante: come in cielo il nome di Dio è santificato, il suo regno perfettamente compiuto e la sua volontà obbedita, così avvenga sulla terra. Si chiede che la terra diventi il risvolto del cielo. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”: la richiesta del pane è la più umile, ma è posta al centro e questo ne indica l’importanza. In questa domanda c’è anzitutto un vivo senso di dipendenza: il pane è nostro, frutto del nostro lavoro, e tuttavia lo si chiede come un dono. E c’è un senso di solidarietà: si prega per il pane comune. C’è, soprattutto, una nota di sobrietà: si chiede per oggi il pane sufficiente, nulla di più. Il Regno è al primo posto, il resto è in funzione di esso. “Perdona a noi i nostri debiti come noi li perdoniamo ai nostri debitori”: debiti indica i peccati, non visti in se stessi però, ma in relazione a Dio, al quale si deve prestare adeguata riparazione. Questa quinta domanda è tanto importante che l’evangelista Matteo sente il bisogno di commentarlo: “Se voi, infatti, perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre celeste perdonerà anche a voi” ( Mt 6,14 ). Dio lo si sperimenta come Padre nel perdono. E lo si riconosce come Padre perdonando ai fratelli; un perdono senza limiti, perché unicamente il perdono senza limiti – “non fino a sette, ma fino a settanta volte sette” ( Mt 18,22 ) – assomiglia al perdono di Dio. La parabola del servo perdonato ma incapace di perdonare ( Mt 18,23-35 ) insegna che il perdono del Padre è il motivo e la misura del perdono fraterno. La sesta e settima domanda mostrano che il Padre non sottrae l’uomo alla drammaticità dell’esistenza. “Liberaci dal male” va probabilmente tradotto con: “liberaci dal Maligno”. E “non ci indurre in tentazione” va inteso come: “non lasciarci soccombere nella prova”. Così la preghiera si apre col Padre e si conclude ricordando la presenza del Maligno. L’amore del Padre è più forte del Maligno. Ma il dramma rimane. Dio è Padre, ma non sottrae alla prova. In sintesi Chi è Gesù? L’identità di Gesù è svelata in modo progressivo nei Vangeli. Gesù provoca un dinamismo di ricerca, che culmina nel riconoscerlo come Signore e Messia, a partire dalla sua morte e risurrezione. Gesù è il volto umano del Padre Non si può rispondere alla domanda: “Chi è Gesù?”, se non si conosce anzitutto il suo modo di essere uomo. Egli ci appare: - uomo libero da tutti i condizionamenti per essere dedito al Padre; - uomo obbediente per essere libero e fedele; - uomo dedito agli altri fino al dono della vita. Gesù rivela nella preghiera il suo rapporto con il Padre e ci fa partecipi della sua stessa comunione I Vangeli ci presentano la preghiera del Figlio e del Seno, che nella meditazione delle Scritture, nella lode, nella benedizione e nella supplica mostra il suo rapporto con il Padre. Gesù ci presenta il volto di un Dio paziente e misericordioso, attento agli ultimi, Padre del popolo d’Israele, ma anche di ogni credente; un Padre che merita fiducia. Gesù manifesta gradualmente la sua identità L’identità di Gesù nei Vangeli non si manifesta improvvisamente: egli si lascia scoprire gradualmente. Il comportamento di Gesù ci rivela la sua divinità, la sua realtà umana e la sua missionarietà. All’uomo in ricerca Gesù svela il senso di questa ricerca e svela anche l’uomo a se stesso. Nei racconti dell’infanzia c’è tutta la ricchezza della vicenda di Gesù I racconti evangelici dell’infanzia sono una grande testimonianza di fede in Gesù. Nella loro semplicità e ricchezza spirituale ci annunciano il mistero di Cristo: egli è inserito nella storia dell’umanità, ma ne è il Salvatore, il Messia e il Signore. Per l’approfondimento CCC nn. 436-483 CdA nn. 306-314 Per camminare nella fede Le domande della vita Una persona della statura di Gesù non può essere ridotto al ruolo di un personaggio storico del passato e neppure può essere considerato con pregiudizi miopi. La sua è una presenza che si inserisce nella storia, si propone agli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, interpella e affascina, si impone al nostro desiderio di realizzazione. L’ascolto e l’attenzione verso quanto Gesù ha detto e ha fatto, dona una luce decisiva sull'identità della sua persona e sulla verità della nostra vita. - Tra le caratteristiche della persona di Gesù, così come emergono dai Vangeli, quali ti colpiscono di più? - Quali aspetti, a tuo avviso, costituiscono sorpresa e novità? - Come la lettura e l’ascolto del Vangelo possono favorire un accostamento corretto alla persona di Gesù? - Quali condizionamenti incontri nella tua vita e nell’ambiente per approfondire e vivere una relazione di fede e di amicizia con Cristo? - La comunità cristiana in cui vivi, attraverso quali modi può favorire il tuo incontro con Cristo? L’ascolto della Parola “Dopo sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù. Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: “Maestro è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!”. Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento. Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e usci una voce dalla nube: “Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!”. E subito, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro”. ( Mc 9,2-8 ) La voce della Chiesa “Stese le braccia sulla croce per abbracciare i confini del mondo, perché il Golgota è proprio il centro della terra. [ … ] Stese le sue mani d’uomo colui che ha reso stabile il cielo con quelle spirituali. [ … ] Dei ladroni che furono crocifissi con lui è detto questo: Fu annoverato tra i malfattori. Tutti e due infatti prima erano dei malfattori, ma uno di essi cessò di esserlo. [ … ] Così la fine della sua vita fu per lui l’inizio del suo emendamento; il rendere l’anima fu l’anticipo della salvezza. Dopo aver rimproverato il compagno, dice: “Ricordati di me, Signore. A te rivolgo la mia preghiera, [ … ] ricordati di me. Non dico: Ricordati delle mie opere, perché mi fanno paura. Ogni uomo simpatizza con il suo compagno di strada. Ti accompagno sul cammino della morte. Ricordati del compagno di strada. [ … ] Quale forza ti illuminò, o ladrone? Chi ti ha insegnato ad adorare chi è schernito e crocifisso con te? O luce eterna che illumini coloro che giacciono nelle tenebre! [ … ] Per fare la richiesta, ci volle molto tempo, ma velocissima fu la grazia: “In verità ti dico: oggi sarai con me nel paradiso. Oggi infatti hai ascoltato la mia voce e non hai indurito il tuo cuore. [ … ] Oggi sarai con me. Abbi fiducia, non sarai rigettato [ … ]”. Non vergogniamoci dunque di confessare il Crocifisso. Sulla fronte la mano segni con piena fiducia il sigillo, e su tutti si faccia il segno della croce, quando mangiamo pane e prendiamo bevande, entrando e uscendo, quando ci corichiamo e quando ci alziamo, mentre camminiamo e ci riposiamo. È una grande difesa, gratuita per i poveri, che non costa fatica per i deboli giacché è concesso da Dio come una grazia”. ( San Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali, XIII, 28.30.36 ) Il dialogo della preghiera “O Cristo, nostro unico mediatore, tu ci sei necessario: per venire in comunione con Dio Padre; per diventare con te, che sei Figlio unico e Signore nostro, suoi figli adottivi; per essere rigenerati nello Spirito Santo. Tu ci sei necessario, o solo vero maestro delle verità recondite e indispensabili della vita, per conoscere il nostro essere e il nostro destino, la via per conseguirlo. Tu ci sei necessario, o redentore nostro, per scoprire la nostra miseria e per guarirla; per avere il concetto del bene e del male e la speranza della santità; per deplorare i nostri peccati e per averne il perdono. Tu ci sei necessario, o fratello primogenito del genere umano, per ritrovare le ragioni vere della fraternità tra gli uomini, i fondamenti della giustizia, i tesori della carità, il bene sommo della pace. Tu ci sei necessario, o grande paziente dei nostri dolori, per conoscere il senso della sofferenza e per dare ad essa un valore di espiazione e di redenzione. Tu ci sei necessario, o vincitore della morte, per liberarci dalla disperazione e dalla negazione e per avere certezze che non tradiscono in eterno. Tu ci sei necessario, o Cristo, o Signore, o Dio - con - noi, per imparare l’amore vero e per camminare nella gioia e nella forza della tua carità, lungo il cammino della nostra via faticosa, fino all’incontro finale con te amato, con te atteso, con te benedetto nel secoli”. ( Giovanni Battista Montini, Lettera pastorale, Quaresima 1995 ) L’incontro con i testimoni Antonio Rosmini Antonio Rosmini - Serbati ( 1797-1855 ) è una delle figure più rappresentative dell’ottocento italiano, in un periodo di grandi trasformazioni culturali, politiche e religiose. Le sue numerose opere ne testimoniano gli interessi culturali vastissimi, la mente creativa, la fede appassionata. La sua azione ha segnato fortemente il cammino delta società civile e della comunità ecclesiale. Filosofo e teologo, educatore e politico, uomo della fede e della carità. L’intuizione filosofica del Rosmini fu quella di voler “ripensare”, con lucidità e libertà, le acquisizioni del suo tempo in un coerente impegno di “carità intellettuale”. Sul versante politico ebbe la stima degli innovatori risorgimentali e fu interlocutore – prima accolto e poi rifiutato – con lo Stato pontificio. Si impegnò per un nuovo volto della Chiesa ( Le cinque piaghe della santa Chiesa ) e sostenne incomprensioni e ostilità durissime. I suoi scritti ascetici ci dicono la profondità della sua vita spirituale. Rosmini fu il fondatore dell’istituto della carità. La carità è al centro dell’esperienza cristiana e a fondamento della convivenza umana. Si tratta della carità “teologale” perché viene da Dio e nel credente si esprime in dimensioni molteplici: materiale, intellettuale, morale. La esemplarità di vita e l’obbedienza alla Chiesa pongono Rosmini tra gli alti modelli di un cristianesimo autentico, coerente e libero. “ … Innumerabili sono le maniere di dire nelle quali ricorre nel favellare degli apostoli e dei loro discepoli l’espressione “in Cristo”, perocché tutto ciò che è o che fa l’uomo cristiano, è in Cristo, lo fa in Cristo … In questa solenne parola IN CHRISTO si contiene compendiato tutto il Cristianesimo, perché esprime la reale mistica unione dell’uomo con Cristo, nella quale unione e incorporazione consiste il Cristianesimo in atto … … Dal sentimento in questa incorporazione procede tutta la dottrina morale ed ascetica dell’uomo cristiano: questo sentimento è luce che lo illumina perocché è il sentimento di Cristo”. ( Antonio Rosmini, Scritti ascetici ) La professione della fede “Maestro che cosa devo fare?” “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” ( Mt 11,28 ). “Gesù Cristo, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini” ( A Diogneto, 7, 4 ), “parla le parole di Dio” ( Gv 3,34 ) e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre” ( Dei Verbum, 4 ). - La vita di Gesù si immerge in Dio: egli è uscito da Dio, il Padre l’ha mandato e ritorna a Dio. - La risposta di Gesù agli interrogativi sulla sua identità e origine invita sempre a guardare più lontano: “Chi vede me vede il Padre” ( Gv 14,9 ). - Gesù Cristo è Dio che salva; è il consacrato in Spirito Santo e potenza; è il Figlio unigenito del Padre; è il Signore dell’uomo e della storia. - Il Figlio di Dio ha percorso la via di una reale incarnazione per rendere gli uomini partecipi della natura divina. Introduzione “Tutto e subito” è la pretesa del bambino che ancora non ha imparato a rapportarsi con la realtà. Chi si è messo in cammino verso una meta sa di dover sudare parecchio lungo il sentiero. Se la meta è ambita, se l’orizzonte è una vita più piena, vale la pena affrontare con realismo il cammino. Il percorso della vita si distende lungo terreni diversi: disillusione, pesi eccessivi accumulati nella pretesa di voler possedere molto e sogni di onnipotenza, incomprensione e ingratitudine. E su tutto incombe l’enigma della morte. La nostra cultura rifiuta il confronto con la morte. Ha paura di parlarne e nasconde dietro a strati di cerone ogni segno che l’annuncia. Liquida come “poco scientifiche” le speranze di eternità e poi si accanisce nelle forme illusorie di sopravvivenza. A giudicare dai modelli continuamente riproposti, la vita è solo per i giovani sani, belli, dotati. La vita di Gesù non ha evitato il confronto con la morte. Il suo vangelo è un messaggio di gioia, non di spensieratezza. Egli ha annunciato che la meta è la pienezza di vita; che la morte non ha l’ultima parola: né nelle sue espressioni quotidiane, come la malattia, il limite, la sconfitta, l’ingiustizia, il giudizio che “mortifica”, né nella sua espressione più perentoria, quella che toglie il respiro e sembra smentire ogni desiderio di eternità. Gesù ha annunciato la vita piena oltre la morte. Ha affrontato egli stesso l’abbandono di tutti, la condanna ingiusta e una morte violenta e vergognosa, ma risorgendo ha annunciato e anticipato la vita eterna. Con la sua Pasqua egli “è la vita”, anche per noi. Non è risorto per sé soltanto; egli offre anche a noi la Pasqua. I volti della morte continueranno a sfidarci; la fede non ci esenta dall’incontrarli, ma ci libera dalla paura e ci dà la forza, nello Spirito di Gesù, di affrontarli. La croce: stoltezza e follia CCC nn. 599-630; 1337-1341 CdA nn. 208-209 CdG1 pp. 198-200; 256-257 I Vangeli hanno dato una sottolineatura particolare agli eventi della passione, crocifissione e risurrezione di Gesù. In tutti e quattro i Vangeli, infatti, il racconto degli ultimi giorni della vita del Signore occupa uno spazio quasi sproporzionato rispetto al resto della narrazione. Perché questa attenzione e una stesura così ampia degli avvenimenti? Lo scandalo e la stoltezza della croce Anzitutto, la croce fu vista come la manifestazione suprema dell’amore del Padre e del dono di Gesù, il gesto che fa toccare con mano l’inesauribile amore di Dio verso di noi. Leggendo i racconti della passione, i primi cristiani provavano stupore, quasi incredulità: Dio ci ha amati fino a questo punto ( Rm 5,6-8 )! C’è poi un secondo motivo: la passione è uno scandalo da superare. Scandalo teologico, perché non si tratta soltanto di accettare la croce come un momento qualsiasi della vicenda del Messia, ma come il luogo privilegiato in cui Dio si è rivelato nella sua realtà profonda e nella sua forza vittoriosa. La croce pone in questione il modo di concepire la salvezza e il modo di concepire Dio. Infine, la passione non riguarda soltanto Gesù, ma coinvolge l’esperienza della comunità cristiana. La passione di Gesù continua in quella dei discepoli: la persecuzione, la calunnia, la derisione, l’emarginazione. I primi cristiani riflettevano sulla passione del loro Signore per comprendere la propria. I racconti evangelici della passione sono il cuore di una più ampia riflessione, che ha occupato a lungo tutte le prime comunità cristiane. La domanda cruciale, che sottostà alle molte testimonianze, è una sola, anche se può essere formulata in diversi modi: perché Dio ha indirizzato il suo Messia sulla strada della croce? è questa una scelta conforme alle antiche Scritture? ha un significato per l’uomo e il mondo? Un’ottima introduzione alla lettura dei racconti della passione di Gesù è una pagina densa, appassionata e di sorprendente attualità, che si trova nella prima lettera di Paolo ai cristiani di Corinto: per greci ed ebrei la croce è stoltezza e follia, per i credenti invece è potenza e sapienza di Dio ( 1 Cor 1,17-2,5 ). Tra gli ebrei, abituati a pensare le manifestazioni di Dio sullo schema dei prodigi dell’esodo dall’Egitto, era comune l’attesa di un Dio vittorioso e potente, risolutore, a cui nessuno avrebbe potuto opporsi. I Vangeli ricordano che più volte furono chiesti a Gesù segni convincenti ( Mc 8,11; Mt 16,1; Gv 2,18; Gv 6,30 ). In questa prospettiva la debolezza della croce appariva una via completamente estranea al piano di Dio: uno scandalo. I greci erano abituati a valutare in termini di genialità, di originalità e di affermazione di sé. Per la loro cultura, lo spendersi del Cristo in croce e il suo ostinato amore apparivano mortificazione di ogni originalità, mancanza di genialità e stoltezza: il contrario dei contrassegni dell’epifania di Dio. Ancor oggi la croce è scandalo e stoltezza, e il motivo è sempre il medesimo. Ma se per chi non crede la croce è scandalo e follia, per chi crede essa è sapienza e potenza. Potenza, perché proprio nell’apparente debolezza dell’amore e del dono di sé Dio ha salvato il mondo. E sapienza, perché il volto di Dio è fatto di amore: fare il segno di croce o portare una croce al collo deve essere testimonianza che, nella nostra povertà e fragilità, ci dichiariamo anche noi dalla parte di quell’amore capace di sacrificare la propria vita. Come Gesù ha previsto e inteso la sua morte? Nei Vangeli non mancano passi in cui Gesù manifesta, in modo velato e allusivo, la consapevolezza del suo destino, cosa comporti la sua missione e la dedizione radicale al regno di Dio. Così, nel Vangelo di Marco, Gesù dice di essere lo “sposo” che sarà “tolto” ( Mc 2,19-20 ); oppure, in una parabola, racconta come i vignaioli non esitarono a uccidere anche il “figlio” del padrone della vigna ( Mc 12,1-12 ). Ma ci sono anche affermazioni esplicite, come le tre predizioni della passione, che scandiscono la seconda parte del Vangelo, quasi pietre miliari che segnano il cammino di Gesù verso Gerusalemme ( Mc 8,31; Mc 9,31; Mc 10,33-34 ). La loro attuale formulazione si deve alla redazione del Vangelo, ma queste predizioni presentano un nucleo storico, probabilmente formulato in termini più semplici: “Il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini” ( Mc 8,31 ). Tutti questi testi, sia quelli che parlano implicitamente della morte di Gesù sia quelli che lo fanno esplicitamente, concordano nel testimoniare che Gesù non soltanto ha previsto la propria morte, ma ne ha anche colto il significato. Per Gesù, la morte non è semplicemente lo sbocco logico, inevitabile e prevedibile di ciò che egli dice e fa, l’esito ultimo delle reazioni violente che egli suscita. Egli vede in essa l’espressione di una fedeltà totale al disegno dell’amore di Dio, il quale vuole essere sempre e totalmente disponibile all’uomo, anche di fronte alla sua malvagità. Il rendimento di grazie nella cena della Pasqua Per rispondere alla domanda se Gesù ha previsto la propria morte e come l’ha interpretata, è decisivo il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia. Tanta è la sua importanza, che non solo la ricordano i Vangeli ( Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,19-23 ), ma anche Paolo ( 1 Cor 11,23-26 ). È un episodio da meditare con molta cura. Istituendo l’Eucaristia, nell’imminenza della sofferenza e della croce, Gesù manifesta la sua verità e offre una chiave per interpretare gli eventi dolorosi che incombono. In questo racconto colpisce anzitutto il contesto solenne e festoso. La sala ben preparata, il banchetto, il vino caratterizzano la cena di Gesù in compagnia dei discepoli come un convito di gioia. È la Pasqua del Signore, la festa della salvezza e della liberazione. Al tempo di Gesù la Pasqua aveva un doppio significato. Il pio israelita ricordava come un tempo fosse stato liberato dall’Egitto e come le case, segnate dal sangue dell’agnello, fossero state risparmiate dalla grazia di Dio. Ma questo è solo un aspetto: il convito pasquale aveva anche contemporaneamente uno sguardo rivolto alla liberazione futura, di cui quella dalla schiavitù d’Egitto era una figura. Dunque: passato e futuro, ricordo e speranza, gioia per la liberazione ottenuta e per la certezza di una liberazione ancora più grande. Gesù ha compiuto il suo gesto in questa cornice, proprio perché voleva che esso si caricasse di tutti questi significati. La cena di Gesù è una cena di addio, ma egli va incontro alla sua morte nella certezza di un nuovo convito nel regno di Dio. Gesù ha istituito l’Eucaristia durante un banchetto, scegliendo dunque un contesto umano, che è nel contempo fra i più semplici e quotidiani e fra i più ricchi di valori simbolici: intimità, fraternità, amicizia. La gioia della cena di Gesù non trova unicamente la sua radice nel dono della libertà che Dio ci ha fatto e neppure soltanto nella promessa della salvezza futura, ma anche nella fraternità che già ora, attorno a lui, gli uomini possono costruire e gustare. Non a caso Luca, raccontando la cena dei primi cristiani, dice: “Spezzavano il pane nelle case prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore” ( At 2,46 ). In questo banchetto fraterno Gesù, “preso un pane, rese grazie” ( Lc 22,19 ): da questo particolare, in apparenza secondario ma in realtà essenziale, il gesto di Gesù mutuò il suo nome di “Eucaristia”, che significa, appunto, “ringraziamento”. Gesù ringrazia – e con lui continua a farlo la Chiesa e ogni discepolo – per le grandi opere che Dio ha compiuto a nostro favore: dalla creazione alla redenzione, dal dono del cibo, il pane e il vino, al dono della sua alleanza, la “nuova alleanza”, dall’amicizia fra noi all’amicizia con lui. Fare Eucaristia significa riconoscere i doni di Dio, sempre e dovunque, e saper ringraziare. Il mio corpo dato per voi Il tratto centrale della cena è costituito dai gesti di Gesù sul pane e sul vino: il pane spezzato e offerto, il vino versato e le parole che ne commentano il significato: “Questo è il mio corpo che è dato per voi … Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi” ( Lc 22,19-20 ). Il pane spezzato e offerto e il vino versato sono simboli già di per sé molto chiari e si riferiscono senza dubbio alla passione e alla croce. Ma non si limitano a predire la passione e la croce, bensì ne svelano il significato. Se vista in superficie la passione di Gesù sembra essere semplicemente il frutto della malvagità degli uomini, letta in profondità, alla luce del gesto eucaristico, mostra di essere un preciso e consapevole dono che Gesù fa di se stesso. Il corpo e il sangue stanno per tutta la persona, nella sua identità e nella sua azione. Il dono di Gesù non è soltanto la passione, ma la sua persona e la sua intera esistenza. Donare la vita è la verità di Gesù. La sua morte per noi è stata la conclusione di un’intera vita per noi. Gesù muore come ha vissuto: “per le moltitudini” ( Mc 14,24 ). Se i primi cristiani hanno capito che la morte di Gesù fu un dono per tutta l’umanità, è perché avevano già visto prima Gesù vivere per tutti. Il significato di questo dono è illuminato da due riferimenti all’Antico Testamento. Anzitutto al libro dell’Esodo, dove si legge che “Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza …”” ( Es 24,8 ). E poi al libro di Isaia, in cui si racconta di un misterioso “Servo” del Signore, il quale, oltraggiato e perseguitato, dona la sua vita per i molti che lo rifiutano ( Is 52,13-53,12 ). Questi due riferimenti fanno comprendere che la passione e la croce, l’intera vita di Gesù sono un gesto di alleanza, un gesto di solidarietà di Dio nei confronti di ogni uomo. Ma hanno anche un valore di redenzione, come il sacrificio del Servo del Signore, fedele a Dio, perché obbedisce alla sua volontà fino a dare la vita, e fedele al popolo, al quale dona se stesso. L'Eucaristia è istituita fra la constatazione del tradimento di Giuda e la profezia dell’abbandono dei discepoli. Il dono di Gesù avviene nella consapevolezza dell’abbandono e del tradimento: “Nella notte in cui veniva tradito”, cioè consegnato ( 1 Cor 11,23 ). È dunque un dono che scaturisce dal perdono. Gesù si è donato mentre veniva consegnato. Le prime comunità cristiane non celebravano l’Eucaristia senza ricordare il contesto di tradimento e di incomprensione che ha accompagnato i momenti più importanti della vita di Gesù. Nello stridente contrasto fra il gesto di Gesù che si dona e il tradimento degli uomini, la Chiesa ha colto la grandezza dell’amore di Gesù, la sua gratuità, la sua solidità. Ma tutto questo racchiude anche un duplice avvertimento. La comunità è invitata a non scandalizzarsi allorché scoprirà nel proprio seno il tradimento e il peccato. Viene così tolto alla radice ogni motivo per dire: questa non è più la Chiesa amata da Dio! Contemporaneamente emerge l’invito a non cullarsi in false sicurezze e a non presumere di sé. Il peccato è sempre possibile ed è male fidarsi unicamente delle proprie forze. La comunità è invitata a vigilare. Nella memoria del Signore Nei racconti eucaristici sono presenti alcuni imperativi rivolti ai discepoli: “Prendete, mangiate, bevete, fate questo in memoria di me”. Questi imperativi mostrano che la croce ci parla non solo di Dio e di Gesù, ma anche dell’uomo e della Chiesa. Guardando la croce e facendone memoria nel gesto del pane e del vino, il discepolo scorge la verità di Dio, che è amore, la verità di Gesù, che è dono, ma anche la verità di se stesso, la via che deve a sua volta percorrere. Prendere, mangiare, bere, fare memoria esprimono la sequela, cioè la profonda condivisione dello stesso destino di Gesù. I due gesti eucaristici, il gesto del pane e quello del vino, si inseriscono inoltre in un quadro rituale ebraico già esistente: la benedizione prima del pasto, con il pane, e quella alla fine di esso, con la coppa del vino. Il gesto di Gesù è in continuità con la fede e le attese del suo popolo. E tuttavia i suoi gesti sono nuovi, come è nuovo il volto di Dio e del suo amore, che egli ha rivelato in tutta la propria esistenza. Perché Gesù ha voluto raccogliere la sua intera esistenza in gesti simbolici, rituali e ripetibili? Non solo per spiegarci il senso della sua vita, ma perché la sua comunità potesse farne sempre memoria. Una memoria, però, che non solo ricorda, ma rende presente ciò che ricorda. Nel pane e nel vino dell’Eucaristia Gesù rimane sempre e realmente presente fra i suoi discepoli, in ogni luogo e in ogni tempo. L’obbedienza dolorosa al Padre Nel lungo racconto evangelico della passione si intrecciano due linee: una scorre in superficie e registra gli avvenimenti, raccontando ciò che gli uomini infliggono a Gesù; l’altra scende in profondità e svela ciò che Gesù vive nel suo intimo. La scena del Getsèmani appartiene alla seconda linea ( Mc 14,32-52 ). Nel racconto compaiono diversi personaggi: Gesù, anzitutto, e con lui tutti i discepoli, poi i tre prediletti, Giuda che si avvicina per consegnare Gesù, la folla che si impossessa di lui. Nell’ombra, invisibile ma presente, c’è il Padre, a cui Gesù si rivolge. La scena è animata da numerosi personaggi, ma è molto significativo che il soggetto di tutto il racconto resta sempre Gesù. I discepoli sono fermi e muti, e anche il Padre, nell’ombra, è silenzioso. Solo Gesù agisce e parla. Non c’è dubbio che il protagonista sia lui. Nel Getsèmani Gesù è impaurito, angosciato e triste. I termini che Marco utilizza sembrano addirittura dire che Gesù è disorientato. Alcune tensioni del racconto lo rivelano: all’inizio un Gesù angosciato e impaurito, alla fine un Gesù sereno e padrone di sé; da una parte Gesù che veglia e prega, dall’altra i discepoli assonnati; all’interno dell’animo di Gesù un dibattito fra il desiderio di mutare la sua sorte e la piena accettazione della volontà del Padre. L’insistenza di Marco è su quest’ultima tensione, come è provato dal fatto che egli riporta tre volte la preghiera rivolta al Padre. L’angoscia di Gesù, però, non è l’angoscia del dubbio, ma il dolore che accompagna l’obbedienza consapevole del male che si abbatte su di lui. Il dibattito, quasi una lacerazione che avviene nel suo animo, non è fra obbedienza o disubbidienza. Gesù è costantemente in un atteggiamento di fondamentale obbedienza. Non lo sfiora il pensiero che l’uomo possa fare la propria volontà anziché quella di Dio. Nell’imminenza della passione, però, chiede che la volontà di Dio sia, se possibile, diversa. L’angoscia di Gesù è profonda, ma deve essere letta a partire dall’invocazione: “Padre mio”; questa regge l’intera preghiera e illumina l’agonia di Gesù. L’angoscia non mette in crisi la sua fiducia. Anche nell’angoscia egli non cessa di rivolgersi a Dio con l’appellativo “Abbà” ( Mc 14,36 ). Con la stessa forza e dolcezza Gesù aveva rivelato Dio ai discepoli. C’è un’altra tensione da osservare: negli avvenimenti esterni, Gesù è passivo, consegnato, abbandonato, crocifisso. I verbi dominanti sono “lo condussero” ( Mc 14,53; Mc 15,1.16.22 ) e “lo consegnarono” ( Mc 14,10.11.44; Mc 15,1.10.15 ). Ma interiormente, in profondità, Gesù è attivissimo, fino ad ergersi a protagonista. E lui che spiega la ragione della sua passione ( Mc 14,24 ), obbedisce al Padre ( Mc 14,36 ) e alle Scritture ( Mc 14,49 ), confessa coraggiosamente la sua identità ( Mc 14,62 ), manifesta il suo disagio interiore ( Mc 14,34; Mc 15,34 ). “Consegnato” nelle mani dei peccatori Chi ha messo in croce Gesù? La conclusione dell’episodio del Getsèmani è in proposito molto illuminante: “Ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi consegna è vicino” ( Mc 14,41-42 ). Compare qui due volte il verbo “consegnare”, già utilizzato da Marco nelle predizioni della passione ( Mc 9,31; Mc 10,33 ) nel racconto del tradimento di Giuda ( Mc 14,10.18.21 ) e che, come abbiamo visto, attraversa la strada della passione come un motivo dominante. La forma passiva ( “viene consegnato” ) lascia intendere che il protagonista nascosto è Dio. La successiva forma attiva ( “colui che mi consegna” ) dice che protagonisti sono anche gli uomini. La duplice forma segnala i diversi piani su cui si svolge e può essere letta la passione. Dio, Giuda, i peccatori: a un livello di superficie la passione è opera di uomini, ma a un livello profondo, nascosto, essa sta in un disegno di Dio. Gesù a lui si rivolge e a lui si consegna. A un livello storico ristretto, circoscritto, la responsabilità della consegna appartiene agli attori del momento – Giuda e le autorità ebraiche e romane –, ma a un livello più vero e profondo, la responsabilità della passione appartiene a tutti gli uomini, “i peccatori”. La condanna del Messia innocente Nel confronto tra Gesù e le autorità ebraiche i Vangeli riconoscono il momento della manifestazione messianica di Gesù. Di fronte al Sinedrio, tribunale supremo dell’ebraismo del tempo, diventa esplicito e chiaro quanto Gesù nel suo insegnamento e con i suoi miracoli aveva misteriosamente indicato ( Mc 14,53-15,1 ). Quel che viene presentato è un processo, anche se le diverse versioni degli evangelisti – in particolare il riferimento a un’azione presso l’influente grande sacerdote Anna ( Gv 18,12-24 ) e ad una fase processuale davanti ad Erode ( Lc 23,6-12 ) – non aiutano a ricostruirne con precisione lo svolgimento. Non è facile quindi valutare la natura e le responsabilità della decisione di portare Gesù di fronte al governatore romano. È tuttavia certo che la condanna, e quindi la conseguente morte di Gesù, non possono essere imputate all’intero popolo ebraico del tempo e, tanto meno a quello dei secoli successivi. In queste azioni entra invece la responsabilità di una parte dei ceti direttivi di Gerusalemme, una responsabilità che condividono con le autorità romane in Palestina. È un processo ben strano, in cui i testimoni non riescono a esibire prove decisive per la condanna. In esso emerge di continuo l’innocenza dell’imputato, così che, soprattutto nel Vangelo di Giovanni, sembra quasi che le parti si invertano e Gesù appare come il giudice dei suoi accusatori. C’è una dignità nel suo comportamento, una linearità nella confessione della sua identità e della sua opera che contrasta decisamente con il comportamento dei discepoli, di Pietro in particolare che tutti li rappresenta. Al tradimento, alla confusa negazione della propria sequela, non manca però la prospettiva del pentimento e quella del perdono. Al centro della vicenda sta l’affermazione di Gesù circa il suo legame tutto particolare con il Padre e il suo riferirsi esplicitamente alla figura gloriosa del Figlio dell’uomo. Gesù è il Messia atteso, ma la sua messianicità è ancora una volta lontana dalle attese e dalle convinzioni del tempo. È lui il Messia della nostra vita, colui che il Padre invia come salvatore della nostra esistenza e che apre una storia nuova, che si contrappone a un mondo segnato dal peccato. Di fronte a lui non possiamo rimanere neutrali. La regalità del servizio Un crocevia del racconto della passione è senza dubbio il processo di fronte a Pilato, dove viene affermata la regalità di Gesù ( Mc 15,1-20 ). Il titolo “re dei giudei” attribuito a Gesù, già anticipato da Matteo nei racconti della nascita ( Mt 2,2 ), ricompare nei Vangeli solo nel racconto della passione. È già un dato molto indicativo. Quella di Gesù è una regalità che soltanto in un contesto di passione appare in tutto il suo senso e il suo splendore. Soltanto all’ombra della croce si può cogliere la regalità di Gesù senza cadere in equivoci. La scena degli oltraggi, nella quale Gesù è vestito da re per burla e viene deriso, mette in luce il suo abbassamento nella umiliazione, ma dimostra anche quanto la sua regalità sia diversa dalle attese comuni di prestigio e di forza. C’è una radicale differenza fra la regalità del mondo e la regalità di Gesù, tra le manifestazioni della prima e le manifestazioni della seconda. Nulla in comune fra le due: la regalità del mondo si manifesta nella potenza, nella imposizione, nell’affermazione di sé; la regalità di Gesù si manifesta, invece, nel servizio, nell’amore, nel dono di sé. La morte di croce: compimento e salvezza La prima impressione che il racconto della crocifissione suscita, nel racconto di Marco ( Mc 15,21-41 ), come pure in quello di Matteo ( Mt 27,32-56 ), è quella della solitudine di Gesù: egli muore nel più totale abbandono. È insultato dai passanti, i quali rilanciano contro di lui l’accusa dei falsi testimoni al processo: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!” ( Mc 15,29 ). Lo insultano gli scribi, i farisei e gli anziani: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso!”. Se fosse davvero il Messia, Dio lo farebbe scendere dalla croce. Se davvero fosse amico di Dio, Dio lo libererebbe. Nell’insulto viene negata l’identità più profonda di Gesù: negati i suoi miracoli, la sua pretesa messianica, la sua comunione con il Padre. Nella voce dei passanti, dei sacerdoti e degli scribi risuona la medesima voce di satana, che abbiamo sentito nel deserto ( Mt 4,1-11 ): “Se sei il Figlio di Dio…”; se sei davvero il Figlio di Dio, devi poter disporre di una forza che ti rende credibile, devi poter disporre di un aiuto di Dio che mostri la tua ragione! Non è forse vero che Dio interviene sempre a salvare i giusti? Così è detto, ad esempio, nei Salmi ( Sal 11; Sal 12; Sal 34,5-8 ). Gli avversari hanno, dunque, la prova della verità del loro verdetto ( si direbbe una prova desunta dalle Scritture! ): se non può salvarsi, se Dio non lo salva, questo significa che Gesù è nel torto. Grava pure su di lui il dramma di sentirsi quasi sommerso dal peccato del mondo. Comprendiamo così la solitudine di Gesù, e comprendiamo il grido della sua preghiera: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” ( Mc 15,34 ). Finisce così quel Maestro che all’inizio ci ha provocato chiedendoci: “Che cercate?”, che ci ha detto con sicurezza: “Venite e vedrete”? Ma i Vangeli, alla luce delle Scritture, ci offrono subito una chiave di interpretazione. La spartizione delle vesti, la sete, il grido di abbandono, gli scherni rimandano ai Salmi 22 e Sal 68. Con il riferimento alla Scrittura viene detto che la croce non è una smentita, una sconfitta, ma un compimento. È un passaggio obbligato per ogni discepolo, fa parte a pieno titolo della chiamata: “Venite e vedrete”. Ci viene pure detto che, al di là delle apparenze, Gesù non è solo: fa parte di una storia ed è in compagnia dei profeti e dei giusti. Anche noi siamo interessati e coinvolti. C’è infine un’altra chiave di lettura, certamente la più importante: nel cuore stesso dello scandalo si fa strada la vittoria sul peccato. Prima della sua morte tutto è contro Gesù, ma appena egli è morto tutto si volge a suo favore. Due segni, soprattutto, testimoniano che la sua morte è salvezza: il velo del tempio che si lacera e il riconoscimento da parte del centurione pagano: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” ( Mc 15,39 ) Gesù, dunque, aveva ragione. La conclusione degli evangelisti è che ci sono due modi di guardare alla croce: l’incredulo vede in essa uno scandalo insuperabile, uno scandalo teologico, e quindi trova in essa la giustificazione del proprio rifiuto; il credente, al contrario, trova in essa la rivelazione più alta e insospettata del volto misericordioso di Dio e ne fa la ragione della propria fede. Morto per i nostri peccati Giunti al termine della nostra lettura della passione e della croce, occorre guardare indietro, allargando lo sguardo alla fede di tutto il Nuovo Testamento. Solo così possiamo comprendere la croce in tutta la sua profondità. Tra le formule più brevi, ma anche più dense di significato, che la comunità apostolica usò per esprimere la propria comprensione della morte di Gesù, c’è la seguente: “Morì per i nostri peccati”. Così scrive Paolo ai cristiani di Corinto, riportando un’antica formula della tradizione: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo mori per i nostri peccati secondo le Scritture” ( 1 Cor 15,3; si veda anche Rm 4,25; Rm 5,6 ). La formula indica che Gesù è morto a motivo dei nostri peccati. Non tanto a motivo dell’ipocrisia delle autorità di Gerusalemme o della ignavia di Pilato, ma in realtà a motivo dei nostri peccati. Siamo tutti responsabili della morte di Gesù. I peccati “crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio” ( Eb 6,6 ). L’espressione “per i nostri peccati” non significa soltanto che Gesù fu messo a morte “a motivo” dei nostri peccati, ma soprattutto, per noi, che siamo peccatori. È questo il dato che ci importa comprendere. Gesù, andando incontro alla sua morte, non ha cercato il patire, ma l’obbedienza a Dio, la verità e l’amore per l’uomo. Per Gesù la croce è il prezzo della fedeltà e dell’amore a Dio e agli uomini. La solidarietà di Dio con noi: la vittoria dell’amore Nel primo capitolo della sua prima lettera ai cristiani di Corinto, Paolo non esita ad accostare “la parola della croce” al verbo “evangelizzare” ( 1 Cor 1,17-18 ), che significa portare una notizia lieta e gradita. Questo sorprendente legame fra croce e lieta notizia appare in altri due passi della stessa lettera ( 1 Cor 11,26; 1 Cor 15,1-3 ). Croce e lieta notizia sembrano apparentemente due realtà del tutto opposte; invece, sono unite. Come la croce può dirsi vangelo, cioè lieta notizia? Questo interrogativo mette in gioco tutta la verità cristiana. Certo, se la croce viene ridotta al “prezzo” che il Figlio di Dio deve pagare al Padre per riparare i peccati dell’uomo, finendo di conseguenza con l’insinuare l’idea di un Dio “giusto” al modo degli uomini, la cui giustizia è rigidamente regolata dal “tanto quanto”, allora la croce non può dirsi lieta notizia. La croce, nel suo aspetto di amore fino al dono della vita ( Gv 13,1; Gv 15,13 ), evidenzia invece la solidarietà di Dio nei nostri confronti. Con noi il Figlio di Dio si è comportato come il parente che si prende personalmente a carico la sorte del fratello ( Mc 10,45 ). Il punto di vista corretto per osservare la croce di Gesù non è quello di una collera divina che deve essere placata, ma quello di un Dio disponibile a ricostituire per l’uomo la pienezza di vita compromessa dal peccato. Perché Dio è disposto ad accogliere la morte del suo Figlio per vincere il peccato? Non perché egli ne sia toccato nella sua intima perfezione, ma perché il peccato è contro l’uomo e Dio ama l’uomo, tanto da non poter rimanere indifferente al male che l’uomo si fa. La croce è la rivelazione massima, oltre ogni attesa, della solidarietà di Dio nei confronti dell’uomo. Una solidarietà così forte che non si lascia vincere dallo stesso rifiuto dell’uomo. Rifiutato da noi, Gesù muore per noi. La croce è la rivelazione di chi è veramente Dio: un amore infinito superiore a ogni immaginazione. Il gesto del Padre che dona il Figlio e del Figlio che dona se stesso non è misurato sul bisogno dell’uomo, ma sulla ricchezza dell’amore di Dio. Per tutto questo non solo la croce è lieta notizia, ma in un certo senso è il centro della lieta notizia. C’è poi anche un secondo aspetto che fa della croce una lieta notizia. Essa mostra che la via dell’amore è vittoriosa: sembra perdente, ma è vittoriosa. La croce è una lieta notizia per tutti i martiri, per tutti coloro che spendono la loro vita al servizio di Dio, della giustizia e della verità. Sbaglieremmo se pensassimo all’evento della croce come a un disguido, prontamente riparato dalla risurrezione. La risurrezione è invece l’altra faccia della croce: non la riparazione di una sconfitta, ma il segno che la croce non era una sconfitta. La risurrezione è il segno che la via della fedeltà a Dio e del dono di sé fino alla croce è vincente. Una grande lieta notizia. Dio lo ha risuscitato CCC nn. 638-658 ( vedi pure nn. 632-637; 659-667 ) CdA nn. 261-282 CdG1 pp. 318-323 Leggendo i testi del Nuovo Testamento si resta meravigliati dalla ricchezza e dalla varietà dei modi con cui si parla della risurrezione di Gesù e della nostra. Una tale varietà mostra che la risurrezione penetrava e modellava tutte le manifestazioni della vita dei primi cristiani: la predicazione, il culto, la vita comunitaria, le scelte morali. Le comunità cristiane dei primi tempi hanno capito Gesù e se stesse partendo dall’evento della risurrezione e, credendo in essa, hanno trovato il criterio per leggere le loro vicende e per operare le loro scelte. Al centro della fede Il giorno di Pasqua, di buon mattino, alcune donne si recano al sepolcro ( Mc 16,1-8 ). Qui incontrano tre sorprese, una più importante dell’altra. Lungo la strada si erano chieste come avrebbero potuto far rotolare la pietra del sepolcro che era molto grande. Appena giunte, si accorgono che la pietra è stata già rimossa. Entrate poi nel sepolcro, non vedono il corpo di Gesù. Un giovane è seduto sulla destra, vestito di una veste bianca. Questa visione le impaurisce. La sorpresa decisiva è data dalle parole che questo misterioso personaggio rivolge loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”. “Andate a dire”: è l’imperativo della missione. Di fronte al fatto della risurrezione di Gesù, la prima reazione, superato il momento dello stupore, che rende muti e quasi increduli, è di raccontare l’accaduto. Che il Crocifisso sia risorto è una notizia troppo importante per essere taciuta. Anche al centurione Cornelio, rappresentante di tutto il mondo pagano, il missionario Pietro non avrà altro da dire: “Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno” ( At 10,39-41 ). Nessuna notizia è più importante della risurrezione di Gesù, perché nessun fatto della storia dell’umanità è più importante di essa. A un gruppo di cristiani di Corinto, che sminuivano la centralità della risurrezione per la fede cristiana, Paolo ribatte polemicamente: “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” ( 1 Cor 15,14 ). Ma Gesù è veramente risorto, perciò la predicazione non è senza senso, la fede non è senza fondamento e la vita dell’uomo non è più incamminata verso la morte. C’è da domandarsi se, anche oggi, la risurrezione di Gesù e la nostra occupino un posto centrale nella nostra fede. I cristiani di Corinto respiravano una cultura che li facilitava nel credere nell’immortalità dello spirito dell’uomo, ma la medesima cultura, tendenzialmente spiritualista e incline a sottovalutare tutto ciò che ha attinenza alla materia, rendeva loro molto difficile la fede nella risurrezione dei corpi. Oggi i motivi per negare la risurrezione possono essere altri, per esempio la sopravvalutazione dell’impegno storico per un mondo più umano, quasi fosse questo il tutto dell’uomo. Né mancano coloro che guardano con favore ai messaggi di quelle credenze religiose che parlano di reincarnazione, riducendo la visione del futuro alla reiterazione del presente. A rendere poi secondaria, se non inutile, la fede nella risurrezione è per lo più quel vivere distratto, che, affannandosi dietro mille cose, non lascia più spazio per ciò che più importa. Il pensiero della morte è però ineludibile, e nessun genere di vita, per quanto possa essere superficiale e dispersivo, riesce a tacitarlo del tutto. In ogni caso, qualunque siano le ragioni, una vita cristiana senza fede e speranza nella risurrezione non è più conforme alla fede delle origini: la fede di Paolo, dei Dodici, dei primi cristiani. E non è più la fede che Gesù ha chiesto per la sua persona. Tutt’al più è una idealizzazione dell’uomo Gesù, come un eroe, o un saggio, non il nostro Salvatore e Signore. Chi si illude di poter fare a meno della risurrezione di Gesù non è più fedele al suo messaggio, perché rifiuta di prendere sul serio la speranza più grande che esso apre all’esistenza dell’uomo. La risurrezione: il trionfo della croce L’angelo della risurrezione non si limita ad annunciare alle donne che Gesù è risorto, ma attira volutamente l’attenzione sul Crocifisso: “Gesù, il crocifisso, è risorto”. Mantenere ferma l’identità fra il Crocifisso e il Risorto è essenziale. La croce non è semplicemente l’icona di un martire qualsiasi, che è rimasto fedele a Dio sino a dare la vita per lui, ma è l’icona di un martire con un volto preciso: quello di Gesù di Nazareth. Egli ha predicato un Dio diverso e lo ha onorato con una prassi di vita diversa, per molti scandalosa. Questa diversità è stata la ragione della sua condanna a morte; ma egli ha sostenuto che, al contrario, solo così rimaneva fedele a Dio e alla sua volontà. La risurrezione è la prova che in quella diversità Dio si è riconosciuto. Il Crocifisso ha sostenuto di avere un rapporto filiale con il Padre, un rapporto diverso da quello di ogni altro uomo. La risurrezione di Gesù è la prova che Dio è con Lui. Da qualsiasi lato si osservino, croce e risurrezione si richiamano, illuminandosi vicendevolmente. La croce dice il volto “nuovo” di amore e di vita del Dio di Gesù, e la risurrezione che Dio in quel volto si è pienamente identificato. Il giudizio degli uomini e il giudizio di Dio L’identità fra il Crocifisso e il Risorto è anche la manifestazione di una netta opposizione fra il giudizio degli uomini e il giudizio di Dio. Gli uomini hanno condannato Gesù, appendendolo alla croce, ritenendolo un falso Messia, incapace di dare salvezza. Dio invece lo ha risuscitato costituendolo Signore e Cristo per tutti. Veramente le valutazioni degli uomini spesso sono capovolte rispetto a quelle di Dio! La pietra che noi abbiamo scartata, Dio l’ha scelta come “pietra angolare” ( Sal 118,22 ), su cui poggia tutta la costruzione della storia. Contrariamente al nostro comune giudizio, la via dell’obbedienza e dell’amore al Padre percorsa da Gesù non è vana. Questo significa che c’è modo e modo di leggere le vicende della storia e di valutarle: c’è il modo di Dio e il modo degli uomini. Per leggere le vicende nella dimensione cristiana, alla luce della Pasqua, occorre prendere come chiave di lettura la morte e risurrezione di Gesù. Occorre far nostro il criterio di Dio. È quanto suggerisce, ad esempio, il libro dell’Apocalisse, nella grande visione del libro sigillato e dell’Agnello: “Vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli. Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: “Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?””. Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo. Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo. Uno dei vegliardi mi disse: “Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli”” ( Ap 5,1-5 ). Nessuno è in grado di aprire il libro sigillato, cioè di cogliere il senso profondo delle cose nella confusione delle vicende umane. Di qui l’angoscia e lo smarrimento dell’uomo. Ma ora non è più così: con la sua morte e risurrezione, Gesù ha rotto i sigilli e il libro si è aperto. Gesù è al centro della storia e ne costituisce la chiave di lettura. Osservando l’evento della sua croce e risurrezione puoi comprendere le cose nella loro profondità. Il disegno di Dio in noi e attorno a noi è sempre combattuto: c’è un tempo in cui le forze del male sembrano prevalere, ma l’ultima parola è sempre la risurrezione. Realtà, concretezza e novità della risurrezione L’angelo della risurrezione invita le donne a entrare nel sepolcro per constatare che esso è vuoto: “E risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto” ( Mc 16,6 ). Questo particolare, apparentemente secondario, dice che Gesù è veramente risorto, anche con il suo corpo. La risurrezione è molto di più della semplice immortalità dello spirito. Di questa realtà e novità di vita Gesù dà un segno mediante le apparizioni ai discepoli. Dapprima alle donne e poi a Pietro e agli altri discepoli Gesù appare, offre i segni della realtà e della novità della sua nuova esistenza di risorto. Le esitazioni dei discepoli a riconoscerlo esprimono la difficoltà a rapportarsi a questo evento del tutto nuovo; i gesti compiuti da Gesù sottolineano, a loro volta, la realtà, la concretezza della sua umanità gloriosa. Sulla testimonianza di queste apparizioni si fonda la fede della Chiesa. L’evento della risurrezione è un evento reale, obiettivo, accaduto e testimoniato nella storia. Non è un simbolo o una semplice speranza. Gesù non è vivo come è vivo un messaggio, o come vive un maestro nel cuore dei discepoli. Gesù è realmente entrato nella vita risorta con tutta la sua realtà umana, spirito e corpo. Evento reale, concreto, la risurrezione di Gesù è però diversa dai miracoli di risurrezione di cui parlano i Vangeli. Diversa al punto che il termine miracolo non è molto adatto a esprimerla: non solo e tanto perché qui l’intervento di Dio è più grandioso o più sorprendente, ma perché nuovo e definitivo. La risurrezione di Lazzaro è stata un ritorno alla vita precedente, quasi un cammino all’indietro. La risurrezione di Gesù è, invece, un cammino in avanti, verso la pienezza di vita. Gesù entra nella pienezza della vita di Dio, in una dimensione del tutto nuova, nella gloria del Padre: “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” ( Rm 6,9 ). Gesù è andato al di là di tutto quello che noi possiamo vedere e toccare. Giustamente Paolo dirà che anche la nostra risurrezione non può essere ridotta a una rianimazione dalla morte. Tutto l’uomo entrerà trasformato nella vita di Dio: “Si semina un corpo corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso; si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale” ( 1 Cor 15,42-44 ). Un identico concetto lo aveva già espresso Gesù ribattendo la domanda maligna dei sadducei: se una donna ha avuto sette mariti, nella risurrezione di chi sarà moglie? Gesù aveva risposto: “Quando risusciteranno dai morti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli. A riguardo poi dei morti che devono risorgere, non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti, ma dei viventi!” ( Mc 12,25-27 ). Fondamento della speranza Per la sua realtà e concretezza la risurrezione di Gesù apre a una speranza totale che abbraccia tutto l’uomo, spirito e corpo, e il suo mondo. Anche il mondo, come lascia intravedere un passo denso e misterioso di Paolo, è proiettato alla pienezza di vita: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” ( Rm 8,19.21 ). In forza della sua assoluta novità, la risurrezione di Gesù trascende ogni immaginazione che pretenda assimilare il mondo futuro al mondo presente. Non si può definire il mondo nuovo nel quale Gesù è entrato e al quale noi pure siamo chiamati. Il nostro linguaggio è del tutto inadeguato; possiamo ricorrere ad allusioni ed espressioni evocative, come fa il Nuovo Testamento. Proprio per la grandezza del mistero, la speranza che la risurrezione di Gesù inaugura è umile ma efficace. Essa garantisce che tutta la realtà umana sarà salvata, senza dire come. Il credente è invitato a non lasciarsi distrarre da inutili interrogativi. La speranza che la risurrezione di Gesù dischiude all’uomo è del tutto religiosa. Dio è fedele ed è il Vivente: ha creato tutto per la vita, non per la morte. Dio è fedele: non è pensabile che egli abbia creato l’uomo per poi abbandonarlo; non è pensabile che abbia creato l’uomo con una sete di vita per poi deluderla. Di questa fedeltà di Dio la risurrezione di Gesù è il segno sicuro. Discepoli verso Emmaus Per dire che cosa significhi la fede nel Risorto per la vita dei credenti, Luca ci presenta un racconto esemplare, costruito attorno all’immagine del cammino ( Lc 24,13-35 ). Dapprima un cammino che allontana da Gerusalemme, dagli avvenimenti della passione e dal ricordo di Gesù. Potremmo dire un cammino dalla speranza alla delusione ( “speravamo …” ), un cammino carico di tristezza, come sempre accade quando si smarrisce il senso della vita: “Si fermarono col volto triste”. Ma poi – dopo l’incontro con lo sconosciuto compagno di viaggio che alla luce della parola di Dio ha spiegato il senso della croce – il cammino diventa un cammino di ritorno, dalla delusione alla speranza: “Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme”. L’inversione di marcia è dovuta a una nuova lettura degli eventi, che il misterioso pellegrino ha loro suggerito. Gli eventi sono rimasti quelli di prima, ma ora sono letti con occhi nuovi. Sono finalmente in grado di vedere la nuova e definitiva verità: ciò che agli uomini pare stoltezza e debolezza – Gesù morto per amore – è sapienza e potenza di Dio. Egli libera i suoi figli dalla paura che morte e tristezza, sempre misteriosamente legate al peccato, rappresentino le ultime parole sulla vita e sulla storia. Si può smarrire per diversi motivi il senso di vivere o la speranza perché spesso la vita promette e non mantiene, delude e in ogni caso è segnata dalla morte, oppure se ne constata che lo sforzo di liberazione è costantemente contraddetto dal peccato. Si direbbe che il male riesca ad annullare lo stesso disegno di Dio e vanifichi ogni sforzo di liberazione dell’uomo. In più, veniamo a contatto con una storia dominata da falsi valori e da idolatrie. Comprendere il significato pasquale della croce vuol dire leggere con occhi nuovi e pieni di speranza tutte le esperienze umane che costituiscono, lo si voglia o no, la trama della nostra vita. Gesù risorto apre l’intera umanità ad una vita nuova, che è vittoria sul peccato e partecipazione alla vita di lui, il Figlio unigenito. Cristo risuscitato è principio e sorgente della nostra risurrezione futura. La vita dei credenti è dentro la complessità e povertà della storia, come per ogni uomo, ma cambia completamente il modo di viverla e osservarla. Se incontri il dolore, ti ricordi delle parole di Gesù: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” ( Gv 12,24 ). Se sei perseguitato, sai che il discepolo non può essere trattato diversamente dal Maestro, e sai che attraverso la croce si giunge alla risurrezione. Se il tuo sforzo fallisce e sembra inutile, ti viene in mente la parabola del seminatore: il seme, gettato con abbondanza, sembra sprecato, ma non lo è, perché è certo che in qualche modo e da qualche parte, già ora e non solo in un lontano futuro, frutta abbondantemente ( Mc 4,3-9 ). Quando si ha l’impressione che il male, la prepotenza e la stupidità soffochino la verità, l’amore e la giustizia, si sa che qualcosa di simile è già accaduto nei confronti di Gesù. La malvagità degli uomini lo ha inchiodato alla croce, pensando in tal modo di toglierlo di mezzo; ma Dio lo ha risuscitato e la storia di Gesù continua a salvare l’uomo. Ricevete lo Spirito Santo CCC nn. 717-747; 767-768 ( vedi pure nn. 683-716 ) CdA nn. 410-429 CdG1 pp. 324-325 Lo Spirito Santo è il protagonista che mantiene aperta la storia di Gesù, rendendola sempre attuale e salvifica. Senza lo Spirito, la storia di Gesù, compresa la sua risurrezione, sarebbe rimasta chiusa nel passato, non un evento perennemente contemporaneo. Lo Spirito assicura la continuità fra il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa. Certamente ci sono anche altri fattori di continuità: le Scritture, il ricordo delle parole di Gesù, la testimonianza degli apostoli. Tuttavia, ciò che sostiene e anima la continuità è lo Spirito. Se il tempo della Chiesa rappresenta per tutte le generazioni l’oggi della salvezza, lo è, appunto, perché è presente lo Spirito. È lui che fa risuonare oggi nella Chiesa la parola di Dio come parola viva di Gesù, alla quale non è lecito sottrarsi. Lo spirito nella vita di Gesù La risurrezione non conclude la missione di Gesù, ma dà inizio al tempo nuovo e definitivo della storia di salvezza, nel quale il Signore Gesù continua ad essere presente e protagonista. Non più presente in forma terrena e visibile, ma presente nella Chiesa; qui lo si incontra, in una comunità storica, fatta di uomini deboli e peccatori, ma forte dello Spirito che le è stato donato. L’angelo della risurrezione ha ricordato alle donne che Gesù, il Vivente, non va cercato fra i morti: non è lì. Anche noi non possiamo cercare Gesù nella nostalgia del ricordo o nella galleria dei grandi uomini del passato. Lo incontriamo nei credenti e nelle comunità, che il suo Spirito va suscitando per il compimento della missione. Prima di raccontare come lo Spirito continua la missione di Gesù, dobbiamo ricordare che lo stesso Spirito ha accompagnato tutta la vita e l’opera di Gesù. Lo Spirito Santo può infatti continuare la missione di Gesù perché era già presente nella sua vita. Così le due storie, quella di Gesù e quella della Chiesa, si saldano insieme, formando un’unica storia di salvezza. Secondo le testimonianze evangeliche tutta la vita di Gesù è stata permeata dalla presenza dello Spirito Santo. Gli stessi Vangeli evidenziano alcuni momenti come particolarmente significativi di questa presenza: il concepimento verginale ( Mt 1,18; Lc 1,25 ), il battesimo e la tentazione ( Mt 3,16; Mt 4,1 ), il discorso inaugurale nella sinagoga di Nazareth ( Lc 4,18 ), la preghiera di lode al Padre ( Lc 10,21 ). Con queste annotazioni i Vangeli sinottici intendono presentarci Gesù non soltanto come il portatore dello Spirito, ma come colui che è vissuto nell’obbedienza al Padre e nella docilità allo Spirito. Diversamente dai Vangeli sinottici, il Vangelo di Giovanni non dice che Gesù fu guidato dallo Spirito. Inserisce però profondamente il tema dello Spirito Santo in tutta la trama dell’opera di Gesù, sottolineando che lo Spirito è legato a Gesù ed è suo dono. All’inizio del Vangelo si legge che Giovanni Battista vide lo Spirito scendere e posarsi su Gesù ( Gv 1,32-34 ), e alla fine si legge che il Signore risorto donò lo Spirito ai discepoli: “Alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”” ( Gv 20,22 ). Gesù non tiene per sé lo Spirito, ma lo dona senza misura ( Gv 3,34 ). Sempre, per ribadire questo stretto legame, l’evangelista Giovanni, terminando il racconto della crocifissione, annota con molta cura che “uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia, e subito ne uscì sangue e acqua” ( Gv 19,34 ). L’acqua che esce dal fianco di Gesù è lo Spirito Santo. Con una finezza di immagine, non rara nel quarto Vangelo, si insinua forse che il gesto stesso di Gesù morente ha realizzato il dono dello Spirito. “E, chinato il Capo, spirò”, o “consegnò lo Spirito” dicono le traduzioni correnti; ma, altrettanto fedelmente, si può tradurre: “E, chinato il capo, donò lo Spirito” ( Gv 19,30 ). Avrete forza dallo Spirito Santo Luca racconta la piena effusione dello Spirito sulla comunità nell’episodio della Pentecoste ( At 2,1-13 ). Prima della discesa dello Spirito, nonostante avessero accompagnato Gesù nel suo ministero e l’avessero ascoltato e veduto, i discepoli non avevano ancora capito la natura del Regno, che egli era venuto a realizzare, né avevano capito i modi della sua attuazione. I due discepoli di Emmaus, che li rappresentano, rimangono ciechi, incapaci di riconoscere Gesù risorto nel viandante che li accompagna, e rivelano di aver perso ogni speranza, di fronte allo scandalo della croce: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele” ( Lc 24,21 ). Avevano sperato in una liberazione terrena, immediata, legata a Israele. Anche dopo la risurrezione i discepoli pongono a Gesù una domanda sbagliata, che svela tutta la loro incomprensione: “E questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. E Gesù risponde: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” ( At 1,6-8 ). I discepoli pensano a un regno particolaristico, chiuso nei confini di Israele ( “il regno di Israele” ), invece Gesù risponde allargando le loro preoccupazioni al mondo intero ( “fino agli estremi confini della terra” ). I discepoli pensano che la costruzione del Regno sia opera del solo Gesù ( “ricostituirai” ), mentre Gesù risponde che l’attuazione del Regno passa anche attraverso la loro testimonianza ( “mi sarete testimoni” ). I discepoli pensano a una restaurazione vicina ( “è questo il tempo” ), Gesù invece risponde che il tempo è un segreto di Dio ( “il Padre ha riservato alla sua scelta …” ). Gesù, infine, sa che la luce, che trasforma la mente dei discepoli, e la forza, che li rende attivi nell’annuncio del suo regno, è unicamente lo Spirito: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi”. La grande svolta avviene il giorno di Pentecoste. Lo Spirito trasforma un gruppo di persone impaurite in testimoni coraggiosi. Nasce in questi uomini una duplice consapevolezza: che il Signore risorto è in mezzo a loro e che Dio affida loro una responsabilità nei confronti del mondo. Sono le due consapevolezze che trasformano un gruppo di uomini in una comunità di salvezza. Lo Spirito Santo non è donato solo ad alcuni, ma a tutti i membri della comunità, come Pietro esplicita nel suo discorso, citando il profeta Gioele: “Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona” ( At 2,17; Gl 3,1 ). Lo Spirito apre i discepoli sul mondo, dà loro il coraggio di proporsi in pubblico, di raccontare davanti a tutti “le grandi opere di Dio” ( At 2,11 ). Il primo segno dello Spirito è l’annuncio di Gesù Signore e Cristo, come fa Pietro di fronte alla folla accorsa: “Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazareth …” ( At 2,22 ). L’annuncio di Pietro incontra il consenso e il dissenso, suscita reazioni opposte. Lo Spirito Santo rende efficace l’annuncio, ma non lo sottrae alla discussione: “Erano stupiti e perplessi … Altri invece li deridevano …” ( At 2,12-13 ). I miracoli dello Spirito esigono, per essere accolti, l’apertura alla fede. Lo Spirito dell’universalità e della comunione Per Luca il segno che maggiormente caratterizza la presenza dello Spirito è l’universalità. Egli descrive la venuta dello Spirito non soltanto utilizzando i simboli classici che nella Bibbia accompagnano l’azione di Dio – il vento, il terremoto e il fuoco –, ma aggiungendo un simbolo in più: “Cominciarono a parlare in altre lingue” ( At 2,4 ). Già la tradizione ebraica suggeriva che sul Sinai la voce di Dio si era divisa in più lingue, perché tutte le nazioni potessero comprendere. Luca sottolinea così il compito di unità e di universalità, a cui lo Spirito chiama i discepoli e la Chiesa. Per suggerire la stessa idea, Luca precisa che la folla accorsa era composta di persone di varie nazionalità, uomini “di ogni nazione che è sotto il cielo”, e annota che “ciascuno li sentiva parlare la propria lingua” ( At 2,5.6 ). Lo Spirito non ha una sua lingua né si lega a una lingua o a una cultura particolare, ma le accetta tutte. Gli uomini, per farsi cristiani, non devono abbandonare le loro lingue né le loro tradizioni in ciò che esprimono di vero e di valido: l’unità dello Spirito è più profonda e non costringe l’uomo ad abbandonare il mondo in cui è cresciuto. Con la venuta dello Spirito Santo e la nascita della comunità prende avvio, in seno all’umanità, una storia nuova, rovesciata rispetto alla storia iniziata a Babele, dove gli uomini hanno voluto, come conquista propria, salire fino a Dio: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” ( Gen 11,4 ). È l’eterna tentazione dell’uomo che vuol costruire una città senza Dio e cerca salvezza in se stesso, dal basso, con forze proprie, anziché nell’accoglienza di un dono dall’alto. È un rapporto stravolto, che conduce alla divisione. E difatti il racconto biblico non parla solo di confusione delle lingue, ma più profondamente di dispersione dei popoli: “Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città” ( Gen 11,8 ). Dietro la differenza delle lingue si intravede lo sfascio dell’unità della famiglia umana, la disgregazione: ciascun popolo con un proprio cammino, un popolo contro l’altro. Ma se a Babele uomini di una stessa lingua non si intendono più, a Pentecoste uomini di lingue diverse si incontrano e si intendono: “Com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?” ( At 1,8 ). La comunione torna ad essere possibile, perché il protagonista è lo Spirito Santo. Lo Spirito di Gesù affida ai discepoli e alla comunità il Compito di imprimere alla storia umana un movimento di riunificazione. Deve però trattarsi di riunificazione nello Spirito, perché protagonista ne è lo Spirito – e, dunque, essa è un dono –, ma anche perché la riunificazione deve attuarsi nella libertà dei figli di Dio e attorno a Dio. Lo Spirito per la missione Lo Spirito della Pentecoste ha trasformato un gruppo di uomini ripiegati su se stessi, in missionari coraggiosi e convincenti, aperti al mondo intero. Il Nuovo Testamento è unanime nel testimoniare che solo lo Spirito è capace di trasformare un uomo in un missionario. Senza lo Spirito Santo non c’è missione. E proprio perché generata dallo Spirito e sempre accompagnata dalla sua presenza, la missione non è un comando che si impone all’uomo dall’esterno, ma una passione Che prorompe dall’interno. “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” ( Gv 20,21 ), dice Gesù. E ancora: “Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo” ( Gv 17,18 ). La missione ha la sua sorgente e il suo modello nella missione del Figlio. “Come il Padre ha mandato me”: a prima vista, il verbo “mandare” sembra suggerire che l’origine della missione sia un comando; in realtà l’origine della missione è una comunione d’amore. L’invio del Figlio nel mondo scaturisce da una circolarità di amore tra il Padre e il Figlio: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” ( Gv 15,9 ). La missione, quella di Gesù come quella dei discepoli, non è solo un gesto di amore, ma scaturisce da una comunione d’amore. La sorgente della missione è la comunione trinitaria: tre Persone divine che si amano e reciprocamente si donano e non soltanto gioiscono del reciproco dono, ma si fanno dono. Il farsi dono è appunto la missione. La missione nasce da una comunione e tende a una comunione. Senza dimenticare che la comunione è anche la forza che rende credibile la missione stessa: “Perché il mondo creda che tu mi hai mandato” ( Gv 17,21 ). Lo Spirito cambia il cuore degli uomini Il giorno di Pentecoste, “Pietro, levatosi in piedi con gli altri Undici” ( At 2,14 ), non fa che ripetere alla folla la grande lieta notizia: “Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!” ( At 2,36 ). Pietro è convinto che si tratta di una notizia certa, fondata, di eccezionale importanza per tutti: “Sappia con certezza tutta la casa di Israele”. Ponendo davanti agli occhi dei suoi uditori “quel Gesù” che essi hanno crocifisso, l’apostolo intende far prendere coscienza del mistero della malvagità umana: “questa generazione perversa” ( At 2,40 ). È la malvagità per cui gli uomini non hanno esitato a condannare alla morte più infame il più giusto degli uomini. È storia di sempre, è la nostra storia. Nell’affermazione di Pietro è però racchiuso anche un altro aspetto della storia: quel Gesù che abbiamo crocifisso è morto per noi. Alla nostra cattiveria ha contrapposto il suo amore, al nostro rifiuto la sua solidarietà e da questo confronto è uscito vincitore: il Padre lo ha costituito Signore e Messia. La risurrezione non è soltanto vittoria sulla morte, ma vittoria sul peccato del mondo. Non è pensabile una notizia più lieta di questa. Giustamente Pietro l’annuncia ad alta voce, pubblicamente: la malvagità esiste ed è grande; tentare di negarla, anche solo sminuirla, sarebbe menzogna; ma è possibile vincerla e Dio l’ha già vinta. Il racconto dice che al sentire queste parole gli ascoltatori “si sentirono trafiggere il cuore” ( At 2,37 ). Nel linguaggio biblico il cuore non è la sede dei sentimenti e degli affetti, ma piuttosto il nucleo più profondo della persona, il luogo segreto dove avvengono le riflessioni più intime, dove si prendono le decisioni più importanti, dove nasce l’odio o l’amore, la scelta della verità o della menzogna. Le parole di Pietro raggiungono questo nucleo segreto e profondo degli ascoltatori, sconvolgendolo. Quando la verità ti raggiunge nell’intimo, ti accorgi che spesso il tuo modo di pensare e di vivere è sbagliato; allora te ne dispiaci sinceramente e desideri cambiare. Essere toccati nel cuore significa tutto questo. Di qui la domanda: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. La risposta invita a cambiare mentalità, pensieri e ragionamenti; questo vuol dire il primo imperativo: “Pentitevi, e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati” ( At 2,38 ). Farsi battezzare nel nome di Gesù, credere nella morte e risurrezione del Signore, è percorrere, a nostra volta, la via della croce. Non si può più convivere con la mentalità mondana: “Salvatevi da questa generazione perversa” ( At 2,40 ). La risposta di Pietro non è soltanto una serie di imperativi. E anche una promessa: “Riceverete il dono dello Spirito Santo” ( At 2,38 ). Senza il dono dello Spirito, il programma di rinnovamento resterebbe lettera morta e la nostra debolezza continuerebbe ad avere il sopravvento. Alle sorgenti della comunità A conclusione di questa narrazione, il libro degli Atti annota: “Si unirono a loro circa tremila persone” ( At 2,41 ). Convertirsi, concretamente, significa entrare a far parte di una comunità di fede e di vita. Gesù non ha indicato semplicemente una serie di principi, non si è accontentato di invitare a una generica conversione, ma ha chiamato i discepoli a condividere la strada che egli stesso stava percorrendo. Allo stesso modo i primi missionari non si limitano ad annunciare le esigenze del cambiamento né offrono semplicemente una nuova serie di criteri orientativi; più concretamente ed efficacemente invitano gli ascoltatori a entrare a far parte del cammino della comunità, che negli Atti degli Apostoli è chiamata, appunto, “la via” ( At 9,2 ). Il racconto di Luca mostra con grande chiarezza che l’annuncio di Gesù non è un semplice parlare di Gesù, né semplicemente l’offerta di una dottrina, neppure semplicemente una nuova proposta di vita, ma un evento che crea una comunione con il Signore nella comunità della Chiesa. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo CCC nn. 232-267 ( vedi pure nn. 199-227; 268-274; 441-445; 683-701 ) CdA nn. 315-350 CdG1 pp. 335-338 Gli avvenimenti di Pasqua e Pentecoste, gli incontri con il Risorto, vivente in una condizione del tutto nuova dopo la sua morte, e l’esperienza della forza del suo Spirito abilitano i primi discepoli a fare dell’opera e della persona di Gesù il centro della propria esistenza. Gesù è la perla su cui fare l’investimento della propria vita ( Mt 13,45-46 ), il grande e inesauribile suggeritore capace di valorizzare tutte le risorse e le esperienze umane. In lui la storia ha trovato il suo perno e la sua profezia compiuta. Nella sua risurrezione il velo dell’intera vicenda umana si è squarciato e ha lasciato intravedere l’esito ultimo verso il quale viaggia la storia di ogni uomo. Nella storia di Gesù il volto dell’uomo e il volto di Dio si legano così strettamente da manifestarsi insieme in tutta la loro verità. Lungo tutta la sua esistenza Gesù ha realizzato un modo d’essere uomo che ha attirato e meravigliato, ha suscitato contestazione e rifiuto. Nella sua capacità di accoglienza e verità, di misericordia e resistenza, di fraternità e appello autorevole al cambiamento, Gesù si è posto come presenza discriminante. Nel duplice invito alla convivialità e al deserto, ha rivelato quale volto debba assumere l’uomo per essere all’altezza della sua dignità e quale sia la strada per raggiungerla. In tutto questo Gesù ha coinvolto pienamente il volto di Dio. Se gli uomini sono i destinatari del suo messaggio, del suo modo di pensare e di agire, Dio ne è la sorgente e la ragione ultima e permanente. Ogni uomo va accolto fraternamente, perché Dio è il Padre che non fa discriminazione; ogni uomo è interpellato dalla verità, perché Dio lo ha chiamato a libertà; ogni uomo è invitato a sollevare il capo dinanzi a ciò che lo opprime e viene contestato nei privilegi che pretende per sé, perché Dio vuole la salvezza di tutti. In tutta la vita di Gesù risalta questo intrecciarsi inscindibile del volto dell’uomo con quello di Dio; per questo essa sorprende, al tempo stesso sconcerta e consola. La Pasqua di Gesù è la prova ultima, di fedeltà totale, senza riserve e pentimenti, a questo disegno. Il dono dello Spirito guida a sperimentarne l’efficacia. La Pasqua e la Pentecoste invitano i discepoli a inoltrarsi nella sequela, scoprendo nella propria vita la novità del Dio di Gesù e il volto nuovo dell’uomo che da lui si lascia ispirare. Il primo annuncio del vangelo e la conseguente professione di fede, la celebrazione liturgica e la catechesi dicono al vivo questo inesauribile intreccio di comunione tra Dio e l’uomo. Gesù Messia, Signore e Figlio di Dio Per chi aderiva a Gesù dall’interno dell’ebraismo, dall’interno di quel popolo e di quell’esperienza di fede dentro la quale Gesù stesso si era riconosciuto, divenne fondamentale riconoscerlo come Messia. In tal modo lo si accoglieva come il compimento di tutte le promesse con le quali Dio aveva sostenuto la storia di Israele. “In realtà, tutte le promesse di Dio in lui sono divenute “sì”” ( 2 Cor 1,20 ). La sua Pasqua ne è il sigillo: ““Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” ( Lc 24,26-27 ). In quanto compimento di tutte le promesse, Gesù viene a collocarsi in una posizione nuova e unica rispetto agli uomini, destinatari delle promesse, e a Dio, autore delle promesse e della loro attuazione. La fede della comunità dei discepoli, nata dalla Pasqua, lo dice indicando in Gesù il Signore e il Figlio di Dio. Proclamandolo Signore ( At 2,36; Rm 10,9; 1 Cor 12,3; Fil 2,11 ), la fede cristiana riconosce a Gesù il titolo che la fede ebraica riconosceva come esclusivo di Dio. In Gesù, dunque, l’azione con la quale Dio guida la storia e la mantiene tenacemente aperta verso il suo compimento ha trovato la sua espressione definitiva. In lui Dio si riconosce totalmente espresso. In tal modo la signoria di Dio, l’amore di Dio si precisa definitivamente come l’inesauribilità dell’amore. Nella Pasqua, Dio si rivela come l’amore che è in grado di dare la vita oltre la morte e di sostenere nella storia la testimonianza degli uomini all’amore. Tutto questo pone Gesù in una condizione unica in relazione a Dio stesso. Tra Gesù e Dio c’è totale corrispondenza, pienezza di condivisione. Gesù appartiene alla realtà stessa di Dio, alla sua intima vita: è il Figlio unigenito da sempre nel seno del Padre ( Gv 1,18 ). In modo particolare il Vangelo di Giovanni condensa in formule di autopresentazione questa identità di Gesù: il Figlio fa le opere del Padre ( Gv 5,36 ); dice le parole che il Padre gli ha date ( Gv 12,50 ); è una cosa sola con il Padre ( Gv 10,30 ). Con Gesù, proprio perché è la piena apertura di Dio a noi, l’offerta della pienezza della vita è anche la via al Padre, l’accesso al mistero di Dio. Egli è davvero “la via, la verità e la vita” ( Gv 14,6 ). Dio, il Padre di Gesù “Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto” ( Gv 14,7 ). È la risposta che Gesù, nel quadro della cena che prelude e anticipa la sua Pasqua, dà a Filippo che lo interroga su come superare lo sbigottimento provocato dall’annuncio della sua immediata partenza. Nell’interrogativo di Filippo è l’intera comunità dei discepoli che si riconosce. Anzi, sono le domande che la vita stessa solleva rispetto a Dio. Come si “giustifica” Dio rispetto al nostro mondo e alla nostra storia, così profondamente segnati dall’ingiustizia, dal male, da ciò che spesso appare destino cieco, disgrazia o fortuna senza ragione? La storia degli uomini nella sua irritante concretezza non dà forse scacco a Dio? Non lo rende una domanda lontana, comunque troppo difficile, fuori della nostra portata? Gesù non risponde con uno sforzo di ragionamento, ma indicando la sua persona, il cammino della sua esistenza e ciò che essa manifesta. La comunità dei credenti, attraverso di lui, è messa in grado di intuire come due segreti inesauribili – quello dell’amore, della libertà sovrana e inaccessibile di Dio che si offre e quello della libertà dell’uomo che nella storia si cerca e prende forma – si incontrano, talora si scontrano, senza eliminarsi. La libertà di Dio rimane senza pentimenti e appassionatamente disponibile; quella dell’uomo è capace di scoperta, di apertura e fioritura, ma anche esposta al rischio della chiusura, dell’indifferenza, dello “scandalo” per la libertà stessa degli uomini, sempre rispettata da Dio. Il nostro mondo non riposa in un equilibrio precario su un abisso indefinibile o su un’energia senza forma, ma è sorretto dalla mano buona del Padre di Gesù, da colui al quale Gesù permanentemente fa riferimento e che costituisce il segreto del suo dare la vita e del suo riproporsi come vivente oltre la morte ( Gv 10,17-18 ). Di tutto questo la nostra libertà umana, pur tra molti condizionamenti, porta il segno e riceve continuo apprezzamento e alimento nel dono dello Spirito di Gesù risorto e del Padre suo. Lo Spirito del Padre in noi La fecondità della risurrezione del Signore, il segno del suo rimanere con noi, la permanente disponibilità di Dio Padre per noi: tutto ciò è nel dono dello Spirito. Fin dall’inizio del ministero di Gesù, lo Spirito emerge come la forza interiore, che gli consente di dire le parole del Padre e di farne le opere. Lo Spirito che viene dal Padre gli consente di rimanere teso al suo obiettivo: dare forma filiale e fraterna alla sua umanità. Dentro ogni circostanza, Gesù è in grado, per lo Spirito che è in lui, di agire e reagire in modo da dare a tutte le sue risorse umane, energie fisiche, intelligenza, volontà, cuore, il modo della libertà di figlio e fratello. Lo Spirito è il “respiro” di Gesù, ciò che lo mantiene sempre e totalmente aperto a Dio e disponibile agli uomini. Poiché dello spirito filiale Gesù innerva tutta la sua comunità, risorgendo egli lo può donare a noi, realizzando così tutta la sua disponibilità nei nostri confronti e sostenendo la nostra verso di lui. Facendone progressivamente l’esperienza, i cristiani comprendono allora che anche lo Spirito di Gesù e di Dio, del Figlio e del Padre, appartiene alla realtà stessa di Dio, è costitutivo della fisionomia originaria di Dio. Poiché consente alla nostra libertà di valorizzare ogni nostra energia sullo stile di Gesù, secondo la modalità filiale e fraterna, lo Spirito è, con il Figlio e il Padre, Dio. Così l’adesione dei cristiani a Gesù avviene “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” ( Mt 28,19 ). È il dono dello Spirito che ci consente di formare un solo corpo con Gesù ( 1 Cor 12,13 ) e ci permette di gridare con lui la fiducia nel Padre, che valica ogni peso e ogni tentazione ( Gal 4,7 ). Dio è comunione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo La vicenda di Gesù “racconta” i tre nomi dell’unico Dio: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo. Non come termine di una speculazione della nostra mente, ma come i protagonisti del pieno manifestarsi e comunicarsi a noi della ricchezza ultima della realtà, che sorregge il nostro mondo e la nostra storia. Si tratta dell’unico Dio: il mondo non è teatro di tensioni e conflitti che avrebbero all’origine due principi, due divinità opposte. Nessuna delle nostre lacerazioni e divisioni sale fino al cielo. Ma l’unico Dio non è un solitario, chiuso nel suo splendido isolamento. È invece pienissima e trascendente comunicazione e comunione, secondo un’inesauribile e sovrana libertà. Il fondo della realtà, la culla della vita e di ogni sua manifestazione, non è energia senza volto, non è destino cieco, ma piena comunione, senza alcuna estraneità, del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Così ogni singolarità storica, ogni brillare di vita, ogni differenza trova in Dio il suo fondamento di valore e insieme fa appello a compiersi nell’incontro, nella comunicazione, nel proporsi come dono che suscita accoglienza. Di fronte a ogni riflessione umana, il volto di Dio rivelato da Gesù si presenta come l’inimmaginabile e l’attraente, come la sorpresa che sconvolge e la risposta ad attese profonde. È il Dio vicinissimo e Altro, il non appropriabile e il disponibile. È il Dio che mai ci sostituisce o ci esonera dalle nostre responsabilità, il Dio che mai ci abbandona alle nostre solitudini. È il Dio sempre nuovamente riconoscibile nelle ultime parole di Gesù sulla croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” ( Lc 23,46 ) e insieme nel dono che egli ci fa da risorto: “Ricevete lo Spirito Santo” ( Gv 20,19 ). Ogni volta che la nostra esistenza ci apre alle esperienze più ricche della libertà, dell’impegno, della giustizia e dell’amore ci fa intuire lo splendore della vita divina. Ogni volta che siamo esposti alle prove più dure, è alla Pasqua del Signore Gesù che siamo sollecitati a tornare. La Pasqua ci fa comprendere che, quando la vita risplende, non siamo in preda a illusione e, quando c’è la prova, non siamo sull’orlo della distruzione. Quando la nostra intelligenza vuole comprendere ciò che la fede professa, deve anzitutto ancorarsi alla consistenza degli avvenimenti di Pasqua e Pentecoste, all’intera vicenda di Gesù. Per questo ora è possibile anche liberare il nostro linguaggio umano fino a parlare di questo Dio che si è rivelato a noi. Non certo fino a definirlo o chiuderlo nelle nostre formule e nei nostri concetti, ma formando dei segni indicativi, delle frecce che dicono all’intelligenza credente la direzione per custodire e approfondire la comprensione, sempre limitata, di Dio. È la via percorsa dalla ricerca e dal linguaggio teologico e dal magistero della Chiesa, specialmente nei grandi concili dell’antichità, trinitari ( Nicea [ 325 ] e Costantinopoli [ 381 ] ) e cristologici ( Efeso [ 431 ] e Calcedonia [ 451 ] ). Di fronte al rischio che la novità cristiana venisse assorbita nei confini della ricerca filosofica o del sincretismo religioso la riflessione di fede e il magistero hanno precisato che Gesù, il Figlio, e lo Spirito da lui donatoci sono veramente Dio come il Padre e che, nella loro pienezza di comunione, sono l’unico essere di Dio, l’unica sostanza divina. E così anche l’unico essere di Dio non è anonimo, ma volto personale: il volto del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. La formula “una natura, tre persone”, che oggi a noi può sembrare un poco astratta, nel secolo IV fu per la Chiesa l’autorevole garanzia della fede. Il linguaggio della fede volle così proteggere la novità profonda del Dio rivelato da Gesù. Questo impegno della riflessione di fede non poteva non coinvolgere subito dopo anche la concretezza singolare di Gesù. Come può Dio comunicarsi veramente attraverso un uomo? E che ne è di questa umanità concreta, così investita dalla ricchezza infinita di Dio? La teologia e il magistero del secolo V vollero precisare che in Gesù umanità e divinità non risultano concorrenti: Dio non sottrae spazio all’uomo. E, d’altra parte, Dio per comunicarsi non ha bisogno di vie privilegiate; gli basta veramente l’umanità, un’umanità come la nostra, solamente libera dalla nostra disumanità, cioè dal peccato. Così si giunge alla ricca formula del concilio di Calcedonia che sottolinea la straordinaria novità di Gesù, “perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, veramente Dio e veramente uomo, consustanziale al Padre secondo la divinità, consustanziale a noi secondo l’umanità, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e per noi e la nostra salvezza nato da Maria vergine Madre di Dio secondo l’umanità”. Nella persona di Cristo confluiscono, dunque, senza confusione e senza separazione, sia la natura divina sia la natura umana. Ed ecco allora una seconda formula importante, protettiva dell’identità di Gesù: egli è “un’unica e identica persona – quella del Figlio di Dio – in due nature distinte, non separate e non confuse”. Queste formulazioni autorevoli, raccolte nei simboli di fede della Chiesa antica e nelle spiegazioni con le quali i Padri le accompagnarono, fanno da guida alla riflessione della Chiesa in tutti i tempi. La rinviano permanentemente ai racconti e alle testimonianze evangeliche, di cui vollero proteggere il significato, e sollecitano d’altra parte l’impegno a personalizzare la fede dentro i diversi orizzonti culturali che la storia propone. Sono formulazioni la cui intenzionalità e il cui significato non possono essere abbandonati, perché espressioni della fede della Chiesa nella sua istanza di garanzia. Esse non intendono però esaurire il mistero di Dio che ci supera da ogni parte ( Rm 11,33 ). Come amano dire i nostri fratelli d’Oriente, sono simboli che guidano il cuore e lo sguardo ad accogliere sempre di nuovo nella vita il mistero della paternità di Dio, l’umanità del Figlio Gesù nel dono a noi del suo Spirito. Perché Gesù fu condannato a morte? ( fuori testo ) CCC nn. 595-598 ( vedi pure nn. 574-593 ) Le ragioni storiche della condanna di Gesù sono problema assai dibattuto. Alcuni vorrebbero vedere dietro ad essa motivazioni puramente politico-sociali: Gesù sarebbe stato condannato perché ritenuto pericoloso per l’ordine pubblico, un sovvertitore della società e un istigatore alla ribellione contro il potere romano. La proclamazione della messianicità di Gesù, nell’interrogatorio di fronte alle autorità ebraiche di Gerusalemme, sarebbe quindi una forzatura degli evangelisti, preoccupati di dare una lettura religiosa della morte di Gesù e di attenuare la responsabilità del potere romano. C’è però da osservare che, se altri si sono proclamati Messia senza per questo venire condannati a morte dal Sinedrio, Gesù non si è proposto come Messia in un modo qualunque. Questa sua proclamazione è infatti collegata a una presa di posizione nei confronti della Legge che, pur rispettosa della tradizione, rivendica alla sua parola una posizione preminente rispetto alla Legge stessa: egli ne propone un’interpretazione che comporta anche la decadenza di alcune sue parti, come quelle concernenti i cibi puri e impuri o quelle che regolano l’osservanza del sabato. Soprattutto egli si pone al di sopra del tempio e quindi dell’intero ordinamento religioso del tempo. Sta proprio nel suo atteggiamento verso il tempio il motivo ultimo che spinge gruppi sacerdotali legati all’ambiente sadduceo a prendere l’iniziativa di perseguitarlo. Il pericolo che questi ambienti legati al tempio vedono nella pretesa messianica di Gesù viene poi tradotto in termini sociali e politici, per proporlo in modo accettabile al tribunale romano, il solo competente per una condanna a morte, obiettivo della loro azione. A una lettura attenta dei Vangeli è difficile dire se ci fu una vera e propria condanna formale da parte del Sinedrio, ovvero se, dopo un interrogatorio informale e un coinvolgimento anche di altri esponenti del potere ebraico del tempo, tutto fu trasferito di fronte al tribunale romano, in cui si svolse il vero processo che si concluse con una condanna. Che essa implicasse un risvolto al tempo stesso religioso e politico lo dice anche la sua formulazione: Gesù viene condannato come “Re dei giudei” ( Mc 15,26 ), titolo messianico e al tempo stesso politico. Il suo proclamarsi Cristo e Figlio di Dio viene giudicato bestemmia e perciò meritevole di condanna ( Mc 14,61-62 ). Questa ricostruzione degli eventi lascia capire quanto infondato sia, non solo sul piano teologico ma anche sul piano storico, attribuire al popolo ebraico la responsabilità della condanna di Gesù: all’origine dell’opposizione a lui c’è si il suo proclamarsi Messia, ma chi lo condanna è l’autorità romana; coinvolti nel promuovere l’azione contro Gesù sono alcuni gruppi religiosi del tempo, che strumentalizzano la piazza; l’intero popolo non può come tale ritenersi colpevole; tanto meno le responsabilità possono attribuirsi al popolo ebraico in quanto tale. Come si sono formati i racconti della Passione? ( fuori testo ) CdG1 pp. 201-205 Il dibattito su come si siano formati i racconti della passione, e quindi il perché delle loro somiglianze e delle loro differenze, è tuttora aperto. L’ipotesi che oggi sembra prevalere ritiene che un primo racconto della passione si sia formato molto presto. Questo spiegherebbe l’accordo fra i quattro evangelisti. Si trattava, probabilmente, di un racconto più breve degli attuali e iniziava con l’arresto di Gesù: è infatti da questo punto che incomincia l’accordo tra i Vangeli sinottici e il Vangelo di Giovanni. Successivamente questo racconto breve sI trasformò in un racconto più lungo, dilatandosi sino a comprendere gli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme, in particolare il complotto delle autorità ebraiche, l’ultima cena e la preghiera nel Getsèmani. I racconti evangelici attuali dipendono dai due racconti precedenti, il Vangelo di Giovanni dal racconto breve e i Vangeli sinottici dal racconto lungo, ma nessuno li riproduce. Ogni evangelista, infatti, li ha riletti nella propria particolare prospettiva teologica. Marco ci offre un racconto di forte vivacità, che esalta il contrasto fra la realtà scandalosa della croce e il manifestarsi in essa del Figlio di Dio. Mentre vengono proclamati i fatti dell’evento nella loro concretezza, emerge il mistero che chiede un atto di fede. Matteo si pone invece in una prospettiva più ecclesiale e al tempo stesso dottrinale. La fede della Chiesa, che rilegge la Scrittura e ascolta l’insegnamento del Maestro, rende intelligibili gli eventi. Gesù vi appare in tutta la sua autorità, mentre lo smarrimento di Israele crea lo spazio alla comunità di fede aperta a tutte le nazioni. Il racconto di Luca è quello di un discepolo che rivive la storia del suo Maestro, ne sottolinea l’innocenza e tace i particolari più offensivi o crudeli. Ancora più singolare è la presentazione che Giovanni fa del racconto della passione. Quanto di tragico, umiliante e doloroso si trova nei Vangeli sinottici, scompare, per lasciare il posto alla maestà e alla sovranità di Gesù dinanzi agli eventi. La morte è il luogo della glorificazione di Cristo, la vera esaltazione del Figlio dell’uomo, il compimento dell’opera della salvezza, l’“ora” della vittoria sul male, l’anticipazione del giudizio escatologico. Le riflessioni teologiche dei singoli evangelisti intendono mostrare il senso vero dell’evento storico che raccontano. Naturalmente gli evangelisti vedono la storia con gli occhi della fede, non semplicemente con gli occhi curiosi e superficiali di un cronista unicamente interessato all’esattezza di particolari esteriori. La risurrezione di Gesù è un fatto storicamente verificabile? ( fuori testo ) CCC nn. 639-647 CdA nn. 264-271 L’annuncio della risurrezione di Gesù da parte dei Dodici provoca una domanda cruciale: all’origine di quell’annuncio stanno avvenimenti obiettivi, accessibili in qualche modo anche alla nostra indagine storica di oggi? Oppure è stata semplicemente un’esperienza religiosa soggettiva, un’esperienza “mistica”? O addirittura una semplice illusione dei discepoli che non hanno saputo accettare il fallimento del loro Maestro? Anche oggi, nel linguaggio della meditazione devota o della predicazione, si dice talora: “Gesù deve risorgere nei nostri cuori”; e si vuole forse dire semplicemente che il ricordo di lui deve risorgere nella nostra memoria, le sue parole devono tornare ad illuminare la nostra vita, e il suo esempio deve diventare stella polare che orienta il nostro cammino. E semplicemente in questo senso che dobbiamo intendere l’annuncio di Pietro e degli altri, che “Dio l’ha risuscitato … e ( l’ ) ha costituito Signore e Cristo” ( At 2,32.36 )? Il dubbio si affaccia subito abbastanza naturale nella mente di ogni ascoltatore, come si affacciò nella mente di Tommaso l’apostolo, quando gli altri dieci gli annunciarono: “Abbiamo visto il Signore!”. Tommaso obiettò: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi … non crederò” ( Gv 20,25 ). Chiedeva una evidenza obiettiva e dubitava che l’annuncio degli altri potesse dipendere da un’illusione ( Gv 20,24-25 ). La domanda sembra, poi, diventare ancora più forte, quando si osserva che i racconti evangelici della risurrezione divergono fra loro su molti particolari narrativi, al punto che non è facile concordarli. Per rispondere alla domanda, occorre, anzitutto, ricordare quanto abbiamo già detto: la risurrezione di Gesù non è un evento come gli altri e di conseguenza non si deve pretendere di verificano storicamente allo stesso modo degli altri. Questo però non significa che sia un evento meno reale degli altri: al contrario, è un evento realissimo, accaduto, obiettivo. Semplicemente non e tutto verificabile con gli strumenti storici in nostro possesso, perché è un evento che esce dal nostro mondo verificabile. Gesù è entrato nel mondo di Dio, questa è la verità della sua risurrezione, molto diversa dalla risurrezione di Lazzaro, che non è uscito dal nostro mondo, ma vi è ritornato! Non ci deve sorprendere più di tanto che le fonti, che parlano della risurrezione di Gesù, si diversifichino fra di loro nei particolari narrativi. Il carattere “speciale” dell’evento della risurrezione e, di conseguenza, il carattere misterioso e assolutamente unico degli incontri con il Risorto, ci permettono di comprendere la difficoltà dei protagonisti a esprimere in termini di descrizione obiettiva e materialmente precisa ciò che essi videro e vissero. La difficoltà era innanzitutto intrinseca alla natura della loro esperienza. A questa difficoltà si aggiungeva quella costituita dai diversi interlocutori e dal diverso loro rapporto con la storia di Gesù: una cosa era annunciare il Risorto a chi aveva conosciuto Gesù prima della sua morte, altra cosa annunciano a chi non ne sapeva niente; una cosa annunciarlo all’ebreo, altra cosa annunciarlo al pagano. Tutte queste difficoltà rendono ragione di come la testimonianza apostolica si sia meno preoccupata di una ricostruzione esatta degli avvenimenti pasquali e assai più – magari attraverso il ricorso a strumenti espressivi tratti dalla liturgia o dai testi dell’Antico Testamento – di riprodurre il lieto messaggio che mediante quegli avvenimenti era stato rivelato. È da sottolineare allora la grande convergenza sugli aspetti storici più importanti: una convergenza tanto più significativa in quanto non intenzionalmente cercata. Evento diverso da ogni altro, la risurrezione di Gesù lascia però “tracce” storicamente verificabili: il sepolcro vuoto, le apparizioni, l’esperienza di Paolo di Tarso, la trasformazione dei discepoli, la nascita della Chiesa. Prendiamo, ad esempio, la fede dei discepoli nel Signore risorto. Come è nata questa fede? I testi parlano di due segni: il sepolcro vuoto e le apparizioni. È la spiegazione storicamente più accettabile. Solo qualcosa di insolito e di convincente può avere indotto un gruppo di uomini a ritenere risorto un crocifisso! Del resto, tutte le testimonianze in nostro possesso ci dicono che i discepoli non erano dei visionari. Costoro dapprima sono certi e poi, sotto la spinta della ragione o di altro, giungono al dubbio. I discepoli, invece, partirono dal dubbio e non senza resistenze approdarono alla certezza. Questo è il cammino di uomini sanamente critici, non di visionari. È la risurrezione di Gesù che fa sorgere e maturare la fede dei discepoli. Ma tutte queste tracce, storicamente certe e documentate, restano soltanto “segni”: rinviano a una realtà nascosta, che si dischiude soltanto alla fede. Per noi, oggi, il segno esteriore non è quello dell’incontro visibile con Gesù risorto. Il segno, anzi i segni sono quelli offerti dalla testimonianza degli apostoli, che ci raggiunge attraverso le Scritture, la liturgia, la testimonianza dei santi di ieri e di oggi, la continuità della fede viva della Chiesa e del magistero dei vescovi. Per noi, come per gli apostoli, il segno esteriore è accompagnato dal dono interiore dello Spirito Santo, che conferma e illumina la Parola letta e ascoltata. Il Credo ( scheda ) CCC nn. 170-171; 185-197 CdA nn. 95-100 Il cristianesimo non è una teoria, una filosofia, una concezione del mondo e della vita umana. Il cristianesimo è originariamente un avvenimento, una persona. Essere cristiani non vuole dire innanzi tutto avere questa o quest’altra idea, agire in questo o quell’altro modo, ma vuol dire confessare che Gesù è Signore: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti sarai salvo” ( Rm 10,9 ). Questa formula sintetica della fede risulterebbe del tutto insignificante a chi nulla sapesse di Gesù, della sua storia e del suo insegnamento, di tutta la storia del popolo d’Israele e della Chiesa stessa di oggi. Gesù infatti è chiamato dalla fede il Cristo proprio in rapporto a questa storia, di cui è il compimento. Per questo già nel Nuovo Testamento si trovano altre formule della fede, che, pur senza pretendere di riassumere in poche parole tutta la storia di Gesù e d’Israele, ne richiamano i momenti salienti. Così, all’inizio della lettera che scrive ai cristiani di Roma, Paolo definisce il vangelo di cui egli è apostolo: “Vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti Gesù Cristo, nostro Signore” ( Rm 1,1-4 ). Gesù è Signore: ma chi può essere chiamato Signore, se non Dio solo? Gesù è Dio, è “di natura divina”, uguale a Dio ( Fil 2,6 ). È insieme Figlio di Dio. La confessione di fede in Gesù comporta la confessione di una nuova e sorprendente immagine di Dio: un Dio che è Padre di un Figlio unigenito, in cui risplende ogni sua perfezione; un Dio che è creatore di tutte le cose ed è insieme Padre di tutti gli uomini, perché tutti li ha voluti e destinati, in Cristo, ad essere suoi figli. Ecco, allora, come sviluppo della fede in Gesù Signore, la formula di fede a due termini: “C’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui” ( 1 Cor 8,6 ). Ma già nel Nuovo Testamento incontriamo anche la formula destinata ad affermarsi come “simbolo” per eccellenza della fede cristiana, e cioè quella trinitaria. È formula che ebbe origine, con tutta probabilità nel contesto della liturgia battesimale; come testimoniano le parole che esprimono la missione affidata dal Risorto agli apostoli, secondo il Vangelo di Matteo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” ( Mt 28,19-20 ). L’ordine del Risorto, come riferito dal Vangelo di Matteo, suggerì già in epoca apostolica di battezzare mediante una triplice immersione nell’acqua, accompagnata dalla professione della fede nelle tre Persone divine. La Tradizione apostolica di Ippolito, agli inizi del III secolo, descrive questo rito battesimale e riferisce la triplice interrogazione che era rivolta al candidato: “Credi in Dio Padre onnipotente? Credi in Gesù Cristo, Figlio di Dio, che è nato per opera dello Spirito Santo da Maria vergine; fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, ed è risuscitato nel terzo giorno vivo dai morti, e salì al cielo e sedette alla destra del Padre; e verrà a giudicare i vivi e i morti? Credi nello Spirito Santo, e la santa Chiesa e la risurrezione della carne?”. Questa formula interrogativa della professione di fede la ritroviamo ancora proposta a chi chiede di ricevere il Battesimo, o ai genitori che chiedono il Battesimo per il proprio figlio; a tutti viene richiesto di rinnovare l’assenso ad essa nella notte di Pasqua. Il simbolo in forma di triplice domanda, in uso a Roma verso il 200, è già molto vicino al simbolo di fede più diffuso nelle Chiese d’occidente; il “simbolo apostolico”, che è la formula di fede insegnata in occidente a tutti i cristiani ancora bambini fino ad oggi. Il nome di “simbolo apostolico” deriva dal fatto che una tradizione antica, riferita da Rufino di Aquileia ( inizi V secolo ), lo attribuiva agli apostoli stessi, i quali Io avrebbero redatto a Gerusalemme; prima di dividersi per le vie del mondo. Al di là degli aspetti leggendari di questa spiegazione, rimane la verità che esso è composto tutto di affermazioni appartenenti alla più originaria tradizione apostolica. Questo simbolo, anch’esso di origine battesimale; realizza una suggestiva sintesi della duplice preoccupazione: rispettare lo schema trinitario ed esprimere però insieme i momenti salienti dell’opera di salvezza: “Io credo in Dio, Padre onnipotente; creatore del cielo e della terra; e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore; il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria vergine; patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi, il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente; di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen”. Nei secoli successivi della storia della Chiesa, altri simboli e formule brevi della fede furono elaborati, sotto la pressione di diverse necessità, proposte dalla concreta esperienza cristiana. Non si trattava certo di simboli alternativi rispetto a quello “apostolico” ma di dilatazioni o modulazioni diverse di esso, secondo le necessità via via emergenti. Il cosiddetto “ simbolo niceno - costantinopolitano”, che prende nome da due concili ecumenici del IV secolo, fu composto, ad esempio, con prevalente preoccupazione di difesa della fede autentica nei confronti dell’eresia trinitaria. È il simbolo che ancora oggi si recita abitualmente nella liturgia eucaristica domenicale. La formula breve della fede non è una specie di riassunto a modo di slogan; non è un concentrato a uso delle persone che hanno fretta. Proprio perché la fede nella verità cristiana impegna tutta l’esistenza, l’unica concentrazione possibile, anzi necessaria, è la riduzione di ogni espressione alla radice permanente che è Gesù Signore. La formula breve della fede è solo un criterio, una chiave per entrare nel mistero della persona di Gesù come ci è testimoniato nelle Scritture e nella viva Tradizione della Chiesa. In sintesi Gli avvenimenti della Pasqua sono centrali nei Vangeli e nell’esperienza cristiana, e aiutano a comprendere in pienezza l’identità di Gesù. La passione e morte di Gesù è al centro della lieta notizia dell’amore di Dio per l’uomo Dio Padre si manifesta totalmente nella fine ingloriosa del Figlio. La croce è: - assurdità e stoltezza per chi non crede, ma gloria e gioia per i credenti; - offerta di vita, alleanza eterna; - riconciliazione dell’uomo con Dio; - salvezza definitiva; - vittoria dell’amore su ogni realtà di morte. Il Cristo risorto è fondamento della fede cristiana La croce non è una sconfitta, ma possibilità di vita nuova; per questo la fede cristiana si illumina con il giorno di Pasqua. La risurrezione è: - criterio e giudizio per leggere la storia; - certezza che nel volto misericordioso del Padre, presentato da Gesù, Dio si riconosce; - novità di vita; - speranza di salvezza per tutte le realtà umane. Lo Spirito donato è il protagonista che rende attuale la storia di Gesù Lo Spirito ha guidato tutto la vita di Gesù. Il dono dello Spirito è: - forza per lo comunità; - sorgente di rinnovata comunione; - apertura verso l’universalità; - sostegno per la missione; - dono per la conversione del cuore. Nella vita di Gesù e nell’evento della sua Pasqua si rivela il mistero di Dio, come mistero di amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Per l’approfondimento La dottrina trinitaria CCC nn. 198-324; 422-483; 683-747 Per camminare nella fede Le domande della vita Più le situazioni sono complesse e oscure, più avvertiamo il bisogno di luce per interpretarle e vivere. Nella vicenda di Gesù e nella fede della Chiesa rimane centrale e decisivo l’evento della Pasqua di morte e risurrezione. Da questo mistero siamo raggiunti e salvati. La risurrezione del Signore illumina il mistero dell’uomo. La storia umana è abitata dalla luce pasquale. - In quali situazioni hai sperimentato che per vivere veramente è necessario morire a se stessi? - Come il credere in Cristo morto e risorto rende possibile il passaggio dalla morte del peccato alla riconciliazione con Dio e con i fratelli? - Come riusciamo a leggere nelle tante vicende della nostra storia i segni di speranza e di vita già presenti in essa? - Con quali segni e con quali azioni la tua comunità cristiana manifesta la vittoria pasquale della vita sulla morte? L’ascolto della Parola “Gesù di Nazareth – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete –, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere … Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire … Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!”. ( At 2,22-24.32-33.36 ) La voce della Chiesa “Ieri si immolava l’agnello e le porte venivano dipinte col sangue e tutto l’Egitto pianse i suoi primogeniti, ma noi restammo immuni, il sangue sulle porte ci salvò. Oggi lasciamo l’Egitto e il suo Faraone e i suoi feroci prefetti; lasciamo la fabbrica dei mattoni e nessuno ci può impedire di celebrare la festa della nostra liberazione; e celebriamo non nel vecchio fermento della malizia, ma negli azzimi della sincerità e della verità, poiché non portiamo con noi niente dell’empietà dell’Egitto. Ieri ero levato in croce con Cristo, oggi sono glorificato con lui; ieri morivo con lui, oggi rivivo; ieri venivo seppellito con lui, oggi risorgo. Offriamo, dunque, qualcosa a colui che per noi morì ed è risorto. Forse voi pensate a oro, argento, tessuti, pietre lucide e preziose, tutta roba fragile e mutevole della terra, la maggior parte della quale è in possesso di un qualche schiavo delle cose terrene e di un qualche principe del mondo. Offriamo, invece, noi stessi; questo è il possesso più prezioso per Dio e il più degno di lui. Diamo all’immagine ciò che conviene all’immagine, riconosciamo la nostra dignità, onoriamo il modello, comprendiamo la forza del mistero e il motivo per cui Cristo è morto. Siamo come Cristo, perché Cristo s’è fatto come noi. Facciamoci dèi per lui, perché lui per noi s’è fatto uomo. Prese qualche cosa d’inferiore, per darci qualche cosa di superiore. Si fece povero, perché diventassimo ricchi della sua povertà. Prese la condizione di schiavo, perché noi fossimo liberati. Scese, perché noi salissimo. Fu tentato, perché noi vincessimo. Fu vilipeso, per coprirci di gloria. Morì per dar salute a noi. Salì al cielo, per trarre con sé quelli che giacevano nella caduta del peccato. Ciascuno dia tutto; tutto a colui che diede tutto se stesso come prezzo del nostro riscatto; ma nessuno darà mai tanto, quanto darebbe se desse se stesso con l’esatta comprensione di questo mistero: farsi tutto per colui che s’è fatto tutto per noi”. ( Gregorio di Nazianzo, Discorso I, Sulla Pasqua, 3-5 ) Il dialogo della preghiera “Onnipotente, eterno, giusto e misericordioso Iddio, concedi a noi miseri di fare, per la forza del tuo amore, ciò che sappiamo che tu vuoi, e di volere sempre ciò che a te piace, affinché, interiormente purificati, interiormente illuminati e accesi dal fuoco dello Spirito Santo, possiamo seguire le orme del tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, e, con l’aiuto della tua sola grazia, giungere a te, o Altissimo, che nella Trinità perfetta e nella Unità semplice vivi e regni glorioso, Dio onnipotente, per tutti i secoli dei secoli. Amen”. ( San Francesco d’Assisi, Lettera a tutto l’Ordine ) L’incontro con i testimoni Angela da Foligno Angela da Foligno ( 1248 ca. - 1309 ), toccata dalla grazia di Dio nel mezzo di una vita che oggi diremmo borghese, prende coscienza dei propri peccati e, attraverso un cammino di purificazione, giunge alla più alta visione di Dio, fino a poter dire: “Mi sembrava di navigare nel seno stesso della Trinità”. È un cammino segnato da penitenza, distacco da cose ed affetti, immedesimazione nelle sofferenze di Cristo, esperienza della dolcezza di Dio, percezione della presenza in sé della Trinità, conoscenza di Dio nelle creature. Ci sono anche sofferenze, tentazioni e aridità, ma al vertice del cammino raggiunge una cognizione oscura ma certissima di Dio ( “nella tenebra”, poiché viene a mancare ogni conoscenza razionale e lo stesso amore umano ), e poi l’amore divino l’attrae a sé, nella cella dell’anima dove nulla può turbarla, in una esperienza di cui nulla si può dire. Il memoriale dettato da Angela, insieme ad altri testi, forma il “Libro dell’esperienza dei veri fedeli”. Donna e laica, raccolse attorno a sé un vero cenacolo dello spirito. La sua penetrazione del mistero di Dio ne fa la più teologica ma anche la più ardita e appassionata fra le mistiche. “All’improvviso l’anima fu rapita e mi trovai in uno stato di felicità che nulla di essa saprei dire. In essa, tutto ciò che volevo conoscere, conoscevo appieno; tutto ciò che volevo avere, tutto già possedevo; e vedevo ogni Bene. [ … ] Ora la mia speranza non riposa in alcun bene che possa essere descritto o rappresentato con la mente; la mia speranza sta tutta in un bene segreto, certissimo e nascosto, che comprendo in mezzo ad una grande tenebra. [ … ] In questo stato non so se sono fuori di me o rimango in me, ma vedo il Dio-Uomo che trae a sé l’anima mia con tanta tenerezza che a volte sento la sua parola: “Tu sei me, ed io sono te”. [ … ] Ed allora sono presa dal desiderio di lodare e cantare: “Ti lodo Dio, mio diletto, nella tua croce ho posto il mio letto””. ( Il libro della beata Angela da Foligno, Memoriale, IX, 28-31, 34-36, 91-93, 104-105 ) La professione della fede “Maestro che cosa devo fare?” “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo la salverà” ( Mc 8,34-35 ). “L’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio … è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione, mistero col quale “morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ci ha ridonato la vita” ( Messale romano, Prefazio pasquale )” ( Sacrosanctum Concilium, 5 ). - “Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture” ( 1 Cor 15,3-4 ). - Gesù che va verso la morte non la subisce come una fatalità, ma l’accetta in piena libertà e le dà un senso: ne fa il dono della sua vita. - Il dolore della creazione e della storia è assunto dal Crocifisso, che offre la sua vita in sacrificio per tutti: egli è il sommo sacerdote che può condividere le nostre fragilità, vittima pasquale che ci redime dai nostri peccati. - Il Padre risuscita il Figlio dai morti, lo eleva alla sua destra, lo colma della forza dello Spirito, lo pone come capo del suo corpo che è la Chiesa, lo costituisce Signore del mondo e della storia: per lui e in lui il Padre ha voluto ricreare ciò che aveva creato. - Gesù ha mandato a tutti i suoi discepoli lo Spirito Santo, “che li muovesse dall’interno ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze, e ad amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro” ( Lumen gentium, 40 ). Introduzione Ci sono esperienze che creano uno stacco nella vita; ci sentiamo cambiati. Un’amicizia profonda, l’ingresso nel mondo del lavoro, un lutto, una prova, un’esperienza intensa di amore che ci ha sorpresi: dopo ci sembra che tutto sia diverso. È perché siamo cambiati noi. L’esperienza di fede, l’incontro personale con Dio in Gesù è evento che ci segna e ci dispone al cambiamento. La fede non è soltanto conoscenza di alcune verità o proposta di un ideale di vita: è un incontro che ci cambia, perché nell’esperienza di fede incontriamo l’azione dello Spirito stesso di Dio. Egli ci rende nuovi dentro, ci dischiude nuove potenzialità, ci rende capaci di comunione nel Figlio con il Padre e con i fratelli. Da giovani si ha desiderio di novità e insieme se ne ha paura, perché le cose nuove chiamano fuori dalle nicchie di abitudine che siamo sempre tentati di costruirci, e spingono a camminare verso ciò che è inesplorato. Come chi ha conosciuto l’amore è capace di lasciar perdere tanti altri interessi per coltivarlo, così chi ha conosciuto da vicino Gesù nella fede è disposto a vendere ciò che ha per acquistare la “perla preziosa”. Come chi ha vissuto un’esperienza arricchente vuol farla conoscere anche agli amici, così chi ha sperimentato la novità di vita che viene dalla fede diventa “missionario”. Non siamo da soli a fare l’esperienza di fede: è un invito e un’opportunità che Dio vuole offrire a tutti i suoi figli. Ci raggiunge attraverso persone che ci hanno comunicato una testimonianza e ci hanno fatto conoscere un modo nuovo di stare insieme: “Guarda come si amano”. Ci conduce agli altri per stabilire con loro rapporti nuovi di fraternità. La Chiesa è anche questo: la comunità di quanti credono possibile essere nuove creature e tentano insieme il cammino, collaborano insieme perché si compia la volontà di Dio; perché il suo regno venga e il mondo intero sia nuovo; perché anche altri possano sperimentare la ricchezza di vita che viene dalla comunione con Dio e con i fratelli. Spogliàti dell’uomo vecchio CCC nn. 733-741; 1830-1832; 1987-2029 CdA nn. 800-815; 821-844 CdG1 pp. 81-82; 326-328 L’incontro con Gesù cambia la vita, la rende nuova. Può accadere Che una persona, incontrando Gesù, non abbia il coraggio di fidarsi totalmente di lui e se ne vada via triste ( Lc 18,18-23 ), oppure riconosca in lui quella novità che dà un significato profondo alla vita ( Lc 19,1-10 ). Il Nuovo Testamento è unanime nel sottolineare che un tratto fondamentale dell’uomo convertito, animato dallo Spirito, è l’esperienza della novità. La comunione con Cristo e l’accoglienza dello Spirito conducono ad una vita nuova. Scrive san Paolo ai cristiani di Corinto: “Se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” ( 2 Cor 5,17 ). E ai cristiani di Colossi: “Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore” ( Col 3,9-10 ). La novità dello Spirito raggiunge il nucleo più profondo della persona, ristrutturandolo e rinnovandolo dall’interno ( Rm 6,4 ). I primi cristiani sentivano la novità di questo nuovo orientamento in modo così vivace da esprimerlo con le immagini della risurrezione, della creazione, della rinascita, del risveglio. Queste immagini sottolineano una sorta di passaggio dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla libertà, dal chiuso dell’egoismo e dell’indifferenza agli spazi aperti della carità. La novità dello Spirito è la novità della vita di Dio, che irrompe nell’uomo vecchio, rigenerandolo. Siamo sempre in ansiosa ricerca di cose nuove; spesso, però, appena si fanno realtà e le tocchiamo con mano, ci deludono, appaiono subito vecchie. Lo Spirito, invece, dischiude all’uomo un mondo sempre nuovo e rinnovante, pieno di sorprese; nuovo a tal punto da prefigurare “un nuovo cielo e una nuova terra” ( Ap 21,1 ). Abbandonare l’uomo vecchio Non è però possibile essere uomini e donne nuovi senza un coraggioso abbandono dell’uomo vecchio, l’uomo inautentico, ripiegato su se stesso. La novità dello Spirito è insieme dono e compito: “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” ( Ef 4,22-24 ). Uomini e donne nuovi si diventa quando si ha il coraggio di una conversione profonda, di una scelta netta e definitiva. L’azione trasformante dello Spirito non rinnega nulla di quanto nell’uomo è autentico, né trascura alcuna delle sue profonde aspirazioni, ma tutte porta a insospettata pienezza. Richiede però che ci si lasci alle spalle le opere dell’egoismo, per gustare i frutti dello Spirito. Uomo “vecchio” è il giovane che cerca la novità per se stessa e si affanna a inventare il cambiamento per il cambiamento, immergendosi così in una vita sradicata, ridotta a continua esplorazione senza meta in una sorta di soggettività “senza dimora”. Una vita così sradicata affonda poi nel rincorrere impressioni e sensazioni sempre nuove, bloccata nelle secche dell’effimero. Uomo “vecchio” è il giovane che affida la sua fame di novità a desideri senza limite, come se in essi ci sia una promessa di eternità. Nasce allora l’illusione di possedere certezze e soluzioni per un mondo nuovo, solo perché lo si sa immaginare in termini astratti. Ma la vera novità della pace, della giustizia, della libertà rimane lontana. L’utopia si rivela illusoria; rimane la novità dei piccoli appagamenti, dei bisogni soddisfatti; il sogno ricade su una quotidianità divorata dalla noia. Uomo “vecchio” è il giovane che si lascia imbrigliare dalle opere dell’egoismo: “fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere” ( Gal 5,19-21 ). L’elenco che Paolo offre trova purtroppo facili attualizzazioni: avidità di denaro e conseguenti atti delinquenziali per ottenerlo, disprezzo della propria e altrui vita, tempo libero vissuto nella noia, uso di droghe, violenza e libertinaggio sessuale, fragilità e suicidio, sfruttamento dei genitori, sincretismo religioso, satanismo e magia, rigurgiti razzisti e disprezzo degli immigrati, cecità di fronte alle tragedie umane … “Vecchio” e “nuovo”, “carne” e “Spirito”, sono fra loro in antitesi: “La carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne” ( Gal 5,17 ). Non sono possibili patteggiamenti, né illusioni. Si impone una scelta chiara e coraggiosa: “Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito” ( Rm 8,5 ). La radice della novità è l’esperienza profonda, viva e attuale dello Spirito di Gesù. La novità per l’uomo non consiste nelle cose che egli può inventare, produrre, mettere sul mercato, godere … Consiste nella novità che è la persona stessa di Gesù: in lui e solo in lui è possibile inventare una storia nuova, una vicenda umana inedita, segnata dalla grazia. È lo Spirito di Gesù che rende nuove tutte le cose e dona ai credenti “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” ( Gal 5,22 ). I giovani che vivono secondo lo Spirito ne esprimono i frutti in volontariato, servizio ai poveri, servizio educativo, slancio e impegno per la pace, preparazione alla vita di famiglia, generosa risposta a una vocazione di speciale consacrazione, impegno missionario, apertura alla vita anche dopo esperienze di fallimento, slancio per i valori della giustizia, generosità di offrirsi gratuitamente, entusiasmo per le mete più alte … Lo Spirito di Gesù in noi Gesù, il risorto e il vivente, è presente nella Chiesa e nel mondo; lo Spirito ci mette in comunione con lui, delinea in noi i suoi lineamenti. Il Vangelo di Giovanni sottolinea l’insostituibile funzione dello Spirito: “Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” ( Gv 14,26 ); “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che ha udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà” ( Gv 16,12-14 ). Lo Spirito non dice parole proprie, ma ripete quelle già dette da Gesù: “Non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che ha udito”. Lo Spirito non si distacca dalla storia di Gesù e dalla tradizione vivente della Chiesa. C’è una perfetta comunione tra lo Spirito e Gesù, tanto che l’insegnamento dello Spirito è il medesimo insegnamento di Gesù; meglio, il suo insegnamento è Gesù. Lo Spirito svela la persona di Gesù e la sua comunione con il Padre. L’insegnamento dello Spirito non è ricordo ripetitivo, non è semplice memoria. Non aggiunge nulla alla rivelazione di Gesù, però la interiorizza e la rende presente in tutta la sua pienezza; ristruttura la nostra personalità offrendole un nuovo centro e un solido fondamento, la vita stessa di Gesù. Lo Spirito fa incontrare Gesù: l’orientamento di vita che ne scaturisce diventa punto di unificazione della personalità e criterio per ogni scelta e decisione. Uomini e donne nuovi sono allora giovani vivi, ricchi di umanità, piegati fino in fondo al servizio e all’amore, alle prese con i problemi, le difficoltà, gli entusiasmi e le incertezze di ogni giorno, che si affidano e fanno riferimento esplicito a Gesù di Nazareth e al suo progetto di vita, radicati dal suo stesso Spirito su di lui, roccia indistruttibile. Per questo Gesù precisa: lo Spirito “v’insegnerà ogni cosa” e “vi guiderà alla verità tutta intera” ( Gv 14,26; Gv 16,13 ). Questa è la fede dei primi cristiani e della Chiesa di ogni tempo: soltanto lo Spirito consente di comprendere le parole e ricordare i gesti di Gesù come realtà presenti e operanti, come inesauribile “sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” ( Gv4,14 ): “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita” ( Gv 6,63 ). Lo Spirito ci fa figli del Padre Comunicandoci la conoscenza e l’amore di Gesù, il Figlio amato, lo Spirito ci inserisce nel dialogo di conoscenza e amore che corre tra il Padre e il Figlio, aprendoci a un nuovo e inaspettato rapporto con Dio: “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio” ( Gal 4,6-7 ). L’uomo animato dallo Spirito non sta più davanti a Dio nel timore e nella paura, ma nella libertà. Sa di stare a cuore a Dio, di potersi consegnare alla sua affidabile cura e di affidarsi a lui anche oltre la morte. L’obbedienza a Dio non è più vissuta come legge, ma come libertà; non più come mortificazione, ma come dono. La preghiera rivolta a Dio è segnata dalla coraggiosa confidenza dei figli. La preghiera, infatti, è un punto nodale e rivelatore dell’esistenza. Manifesta il modo con cui l’uomo si pone davanti a Dio, a se stesso, al mondo. Lo Spirito crea in noi quella segreta familiarità che ci consente di riconoscere nella voce di Dio la voce amica di un Padre: “Abbà, Padre! Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” ( Rm 8,15-16 ). Questa confidenza di fronte a Dio, una confidenza che è obbedienza e libertà, è il segno dell’autenticità della preghiera, non più fatta di molte parole, ma di sereno abbandono: “Voi dunque pregate così: Padre nostro …” ( Mt 6,9 ). Questa libertà di fronte a Dio, che si manifesta nella preghiera e si esprime nella vita, è la libertà più alta donata all’uomo. Testimoni liberi di fronte al mondo: il coraggio della missione Un altro importante tratto dell’uomo nuovo è la testimonianza. Nei discorsi di addio, narrati nel Vangelo di Giovanni, Gesù avverte i discepoli che saranno odiati dal mondo e perseguitati, ma insieme li assicura che, dinanzi all’odio del mondo e alla persecuzione, saranno sorretti dalla testimonianza dello Spirito: “Lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio” ( Gv 15,26-27 ). Il cristiano spesso deve compiere scelte contro corrente, trovandosi di fronte a chi non riesce a capire, perché bloccato dall’accomodante: “Fanno tutti così!” e dai sondaggi d’opinione. Nel grande processo tra Cristo e il mondo, che si svolge entro la storia, lo Spirito depone in favore di Gesù. Davanti all’ostilità che incontrano, anche i discepoli sono esposti al dubbio, allo scandalo, allo scoraggiamento ( Gv 16,1-4 ). Ma lo Spirito custodirà la loro fede, li renderà sicuri nel loro opporsi alla logica del mondo. Quando i discepoli avranno bisogno di certezza, lo Spirito gliela offrirà. Lo Spirito è il testimone intimo e segreto che crea nei discepoli la sicurezza di essere con Dio e dona il coraggio della libertà. “Dove c’è lo Spirito del Signore c’è la libertà”, scrive Paolo con molta convinzione ( 2 Cor 3,17 ). Di questa libertà il Nuovo Testamento offre ampie testimonianze. La parola greca che preferibilmente la esprime è “parresìa”; un termine che indica la libertà di parola e di coscienza, il coraggio di esprimere, di fronte a chiunque, la propria convinzione e il proprio dissenso. Questa “franchezza” permette il superamento della paura, uno dei segni rivelatori dell’uomo vecchio, l’uomo ricattabile, perché prigioniero della stima del mondo ed eccessivamente preoccupato di sé, incapace di affrontare la solitudine in cui spesso il cristiano deve vivere i propri ideali. L’incontro con il Signore risorto libera il cuore dell’uomo dal timore del mondo e da tutti i suoi ricatti. Trasforma un cuore ricattabile in un cuore libero. I discepoli di Gesù sono liberi dentro, orgogliosi di appartenere a Cristo, incapaci di tenere per sé il dono e l’esperienza della fede. Sono appassionati per la grande causa del vangelo, come lo è Gesù per il regno di Dio. Questo miracolo lo può compiere soltanto Gesù risorto. Di questa vittoria sulla paura parla spesso il libro degli Atti. Qui il cristiano è presentato nel vivo degli avvenimenti, non chiuso nella tranquillità della sua casa, separato in piccoli gruppi, ma presente sulle piazze, sulle strade, nelle sinagoghe, nei tribunali, in tutti i luoghi dove gli uomini vivono, dialogano, si incontrano e si confrontano. Sono uomini e donne pieni di fede, convinti di essere sorretti dalla presenza dello Spirito e di possedere un messaggio di salvezza di cui il mondo intero ha bisogno, lieti anche di subire persecuzioni “per amore del nome di Gesù” pur di non venir meno al compito “di insegnare e di portare il lieto annunzio che Gesù è il Cristo” ( At 5,41-42 ). I cristiani sono pieni di slancio e in perenne cammino missionario: testimoni di Cristo “a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” ( At 1,8 ). È sempre grande il numero di giovani che hanno sete di Dio e non trovano fontane a cui estinguere la loro sete; a volte hanno una domanda religiosa, ma non incrociano le proposte della comunità cristiana e disperdono l’intensità della ricerca nei rivoli delle sètte, della superstizione e della magia. Ancora più grande è il numero di coloro che ancora non conoscono il Signore; abitano in terre lontane o sono venuti ad abitare nella casa accanto. Cristiano è colui che senza stancarsi sa annunciare a tutte le genti la gioia sperimentata in Gesù. Nel libro degli Atti, Luca tratteggia questa figura di cristiano, moltiplicando gli esempi, per mostrare ai suoi lettori che la risurrezione di Gesù ha introdotto nel mondo un radicale cambiamento. Non quello, certo, di far cessare le persecuzioni, che anzi sembrano insorgere più di prima, ma quello di suscitare, in ogni tempo e in ogni luogo, uomini liberi e coraggiosi, obbedienti a Dio piuttosto che agli uomini ( At 4,19 ). I doni dello Spirito I cristiani possono contare sulla potenza dello Spirito che si comunica loro mediante i suoi doni. La tradizione della Chiesa ne enumera sette, ispirandosi a Is 11,2: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timore di Dio. Con la ricchezza e la novità dei suoi doni, lo Spirito offre a ciascuno lo spazio per seguire la propria vocazione, esprimere la propria originalità ed esercitare il proprio servizio. Ai cristiani di Corinto Paolo scrive che “a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” ( 1 Cor 12,7 ). L’uomo nuovo non si appiattisce nell’anonimato, ma riconosce e difende la propria originalità. Al tempo stesso, però, sente la passione della comunione e non fa della sua originalità un motivo per dividere, per contrapporsi o per elevarsi sopra gli altri, ma ne fa un dono per tutti, un servizio per la crescita comune. L’uomo nuovo non è senza volto, non è anonimo: è una persona creativa e originale. E tuttavia non cammina da solo, ma con gli altri. L’uomo nuovo, contemplando la croce di Gesù, non vive per se stesso, nella difesa egoistica della propria vita, ma nel dono di sé. E questo il “perdersi per ritrovarsi” di cui parla Gesù nel Vangelo ( Mc 8,35 ). Erano un cuore solo CCC nn. 767-768; 787-798; 857-862; 874-879; 2623-2664 CdA nn. 422-431; 511-523; 741-745; 797-798 CdG1 pp. 73-74 L’uomo nuovo in Cristo non è mai solitario. L’esistenza Cristiana ha sempre una Connaturale dimensione Comunitaria. La persona e la Comunità sono inseparabili: “Noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo Corpo” ( 1 Cor 12,13 ). La Comunità non si aggiunge come un di più alla nostra personale vita cristiana, ma vi si intreccia profondamente, tanto che “non può avere Dio per Padre chi non ha la Chiesa per madre” ( San Cipriano di Cartagine, L’unità della Chiesa cattolica, 6 ). Un cristiano da solo non è in alcun modo cristiano. Bisogna veramente ringraziare il Signore per la crescente attenzione e sensibilità ecclesiale oggi. Anche se non mancano diffidenze e problemi, sono sempre di più coloro che non vedono nella Chiesa un’istituzione che mortifica, ma lo svelarsi del mistero di Cristo nella storia. La Chiesa delle origini - nella sua vita e nella sua fede, ma anche nelle sue difficoltà e nei suoi problemi - rappresenta lo specchio nel quale la comunità cristiana di ogni epoca è invitata a specchiarsi. Nel libro degli Atti degli Apostoli Luca traccia il cammino delle prime comunità per ricordare ai cristiani che il Signore, non più presente in forma terrena e visibile, continua però a essere presente nella Chiesa. Qui lo si incontra: in questa Chiesa storica, fatta di uomini deboli e peccatori, ma forte dello Spirito che le è donato. Fra il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa non c’è rottura, ma continuità La Chiesa di Gerusalemme: Parola, comunione, preghiera ed Eucaristia Luca ci ha raccontato che a Pentecoste, dopo il discorso di Pietro, si convertirono circa tremila persone. È il primo nucleo della Chiesa, che si struttura attorno a una triplice perseveranza ( At 2,42-48 ). La prima è l’ascolto della Parola: “Brano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli” ( At 2,42 ). Non c’è crescita cristiana né alcun rinnovamento senza un costante ascolto della parola del Signore. L’annotazione di Luca ce ne indica le condizioni principali, pena l’inutilità. I cristiani di Gerusalemme erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli: dunque non un ascolto episodico e frammentario, ma costante e sistematico. E si trattava, inoltre, di un ascolto comunitario: non, quindi, una ricerca individuale o lasciata allo spirito dei singoli o dei gruppi, ma una ricerca condotta insieme, corale, sottomessa all’autorità degli apostoli. È la presenza degli apostoli che garantisce la continuità fra Gesù e la comunità. La fedeltà alla tradizione è una struttura fondamentale della vita della comunità fin dall’inizio. La frammentarietà nell’ascolto della Parola non porta a nulla, come non porta a nulla, ma addirittura disperde anziché edificare, un ascolto che privilegia l’interpretazione personale a scapito dell’interpretazione della Chiesa. La seconda perseveranza è la “comunione fraterna”. Il termine greco che Luca utilizza, “koinonìa”, non indica semplicemente una unità in Cristo, una comunione interiore, nella fede, bensì anche i comportamenti concreti, cioè il modo di agire e di pensare, che da quell’unità scaturiscono. La fraternità dei primi cristiani non si riduceva ai momenti assembleari o cultuali, ma si estendeva a tutta la vita e coinvolgeva i rapporti quotidiani. È appunto su questo che Luca sembra insistere, ripetendo che “ogni cosa era fra loro comune” ( At 2,43 ), “chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti” ( At 4,34 ), ed erano “un cuore solo e un’anima sola” ( At 4,32 ). Queste espressioni non vanno intese nel senso di un’abolizione della proprietà privata, e nemmeno nel senso di una spoliazione dei beni come condizione necessaria per far parte della comunità, come è ad esempio oggi il voto di povertà nelle comunità religiose. L’episodio di Anania e Saffira ( At 5,1-11 ) testimonia che si trattava di un gesto libero; nasceva spontaneamente dal sentirsi figli dell’unico Padre e salvati dallo stesso Gesù. Luca precisa poi che i beni messi in comune venivano distribuiti “a ciascuno secondo il bisogno” ( At 4,35 ). L’ideale perseguito non è precisamente la povertà, la rinuncia ai beni terreni, ma piuttosto la carità: non si può tollerare che vi siano fratelli nell’indigenza. E l’espressione “un cuore solo e un’anima sola” dice l’interiorità e la totalità della persona. Tutta la persona, a partire dal suo centro e dalle sue radici, deve protendersi nella fraternità. L’attenzione ai fratelli bisognosi, sia pure in forme diverse, è una struttura essenziale per la Chiesa di ogni tempo. La terza perseveranza che Luca ci propone è l’assiduità nelle preghiere e nella frazione del pane: “Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa” ( At 2,46 ). Anche qui il tratto che Luca sottolinea è la costanza: ogni giorno. I primi cristiani di Gerusalemme si sentivano ancora legati al popolo d’Israele, alla sua liturgia e alle sue feste, e per questo frequentavano il tempio. Ma contemporaneamente si sentivano diversi, e celebravano l’Eucaristia nelle loro case. Luca non si dilunga nel descrivere queste celebrazioni, ne sottolinea però la semplicità e la gioia, e questo ci fa capire che si trattava di celebrazioni ricche non soltanto di fede, ma anche di fraternità e di calore umano: “Spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore” ( At 2,46 ). È la gioia di aver trovato il Signore e di aver trovato una comunità. È l’attuazione delle due profonde vocazioni dell’uomo: la comunione con Dio e con i fratelli. Tensioni e unità nella comunità Anche la comunità di Gerusalemme ha avuto problemi e tentazioni. È facile illudersi di fare comunione in Cristo, mentre in realtà si è uniti perché si appartiene alla stessa razza, si proviene dalla stessa educazione, si ha la stessa mentalità. Questo accade anche alla comunità di Gerusalemme. Quando entrano a far parte della comunità gli “ellenisti”, sorgono i primi attriti: “Sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana” ( At 6,1 ). Gli ellenisti erano ebrei provenienti dalla diaspora e la loro lingua abituale era il greco. Rispettavano la legge di Mosè, ma la osservavano in maniera meno rigida degli ebrei di Gerusalemme. La provenienza dal mondo ellenistico li rendeva aperti alle suggestioni religiose proprie di ambienti periferici dell’ebraismo. Fra loro e gli ebrei di Gerusalemme non c'era sempre accordo. Così è anche nella comunità cristiana. In superficie il malcontento degli ellenisti è motivato dal trattamento riservato alle loro vedove nel quadro dell’assistenza comunitaria. Ma, probabilmente, la ragione del dissidio era più profonda: gli ellenisti avrebbero preferito una presa di distanza più decisa nei riguardi della legge di Mosè e del tempio. Sono appunto queste le due accuse che gli ebrei rivolgeranno a Stefano. Di fronte al malcontento serpeggiante, gli apostoli affidano l’organizzazione caritativa a persone di fiducia, il gruppo dei “sette”, ma riservano a sé il compito prioritario della preghiera e della Parola. Questa decisione di riservarsi la Parola e la preghiera è molto significativa. E una scelta che non si pone a lato del problema, ma va diritta al suo centro. Inventare un’organizzazione adatta per risolvere un conflitto è importante, ma il vero problema è più in profondità. Gli apostoli hanno capito che il superamento della divisione va cercato nella fede e nella preghiera. L’unità si realizza attorno alla Parola ed è dono di Dio. Resta inoltre esemplare un fatto: i cristiani di Gerusalemme non hanno cercato l’unità nel prevalere di un gruppo sull’altro, ma in un confronto comune e con la Parola. In Samaria: l’annuncio del vangelo in cammino nel mondo La Chiesa non può fermarsi a Gerusalemme. Il Signore le ha indicato un compito: “Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” ( At 1,8 ). Gesù ha tracciato alla sua Chiesa un cammino, non una città in cui sistemarsi. I primi missionari furono appunto gli ellenisti. Cacciati da Gerusalemme, dopo il martirio di Stefano, si trasformano in missionari, predicano in Samaria ( At 8,1-25 ), si spingono lungo le coste della Fenicia, a Cipro e ad Antiochia ( At 11,19 ). Protagonista della missione in Samaria è Filippo. È lui che per la prima volta porta il vangelo a gente ritenuta esclusa e diversa, i samaritani appunto; i giudei li disprezzavano e li consideravano alla stregua degli infedeli. Ma il vangelo non ha confini e supera d’un balzo gli steccati, fatto com’è per i bisogni profondi di ogni uomo, a qualsiasi razza o religione appartenga. E là dove si pensa di trovare ostilità e opposizione, incapacità a capire, non raramente si incontrano invece disponibilità e accoglienza: “Le folle prestavano ascolto unanimi alle parole di Filippo … E vi fu grande gioia in quella città” ( At 8,6.8 ). La Chiesa di Gerusalemme si sente responsabile delle comunità cristiane di Samaria fondate da Filippo e vi invia Giovanni e Pietro: un invio ufficiale, che manifesta nuovamente il ruolo insostituibile degli apostoli. Senza di loro la comunità è incompleta, non è ancora Chiesa. La Chiesa di Antiochia: una sola salvezza in molte culture I predicatori del vangelo giungono ben presto anche in Siria, nella grande città di Antiochia, dove i discepoli di Gesù per la prima volta sono chiamati “cristiani” ( At 11,26 ). Fra la Chiesa di Gerusalemme e quella di Antiochia si stabiliscono subito rapporti di comunione: “La notizia giunse agli orecchi della Chiesa di Gerusalemme, la quale mandò Barnaba ad Antiochia” ( At 11,22 ). Dovunque si trovino, le comunità cristiane stabiliscono relazioni con la Chiesa madre di Gerusalemme e questa vigila sulla correttezza della loro fede. L’aiuto fraterno non rimane chiuso all’interno delle singole comunità, ma si estende anche tra comunità e comunità ( At 11,29 ). Il legame con Gerusalemme e lo scambio fra le varie Chiese non è un fatto sentimentale né un generico bisogno di reciproco sostegno, ma è un fatto teologico: le molte Chiese costituiscono l’unica Chiesa, l’unico popolo di Dio. E tuttavia l’unità è sempre minacciata, a Gerusalemme come ad Antiochia, dove si costituisce ben presto una comunità mista, formata da convertiti provenienti dal giudaismo e dal paganesimo: due culture profondamente diverse, popoli da sempre considerati divisi, ora trovano, nella comune fede in Cristo, una vera e fraterna comunione. Così, fin dall’inizio, ai pagani viene predicato un vangelo senza la circoncisione e i giudeo-cristiani siedono a mensa con i cristiani provenienti dal paganesimo. Uomini diversi per razza e cultura si riconoscono fratelli nella stessa Chiesa, dove “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c e più uomo né donna”: tutti sono “uno in Gesù Cristo” ( Gal 3,28 ). Un gruppo di cristiani di Gerusalemme non la pensa allo stesso modo, ritenendo che la legge di Mosè debba mantenere intatto il suo ruolo. Alcuni di loro vengono dalla Giudea fino ad Antiochia e si mettono a insegnare ai fratelli: “Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non potete esser salvi”. La reazione di Paolo e Barnaba è netta e risoluta, suscitando animose discussioni ( At 15,1-2 ). La controversia viene risolta nella grande assemblea di Gerusalemme ( At 15,1-35 ), nella quale, attraverso un dibattito franco e animato, si conclude che ciò che salva è la fede in Cristo, non le pratiche giudaiche. Con questo la Chiesa ha compreso il vero senso della sua cattolicità: la fede in Cristo è via di salvezza, non le tradizioni degli uomini, non il tipo particolare di cultura o di civiltà, patrimonio di questo o quel popolo. Il vangelo è capace di incarnarsi in culture diverse, animandole tutte, ma senza identificarsi con nessuna. Questa splendida conclusione, alla quale approda l’assemblea di Gerusalemme, è attribuita allo Spirito Santo: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi” ( At 15,28 ). Ma lo Spirito si è fatto presente attraverso il confronto e il dialogo: lo Spirito guida la sua Chiesa attraverso gli uomini, non senza di essi. La Chiesa di Corinto: il dono della comunione e la fedeltà alla tradizione Dall’Asia Minore il vangelo passa nel mondo greco, soprattutto per opera di Paolo. Nell’impossibilità di prendere in considerazione tutte le comunità da lui fondate, scegliamo - come esempio particolarmente significativo - la comunità di Corinto. Le due lettere, che Paolo invia da Efeso, lasciano intravedere una comunità vivace, ricca di doni dello Spirito, ma anche minacciata nel mistero che la costituisce e la esprime: la comunione. Le analogie con le nostre comunità non sono poche. Paolo inizia la sua prima lettera riconoscendo con gioia che la comunità è tanto ricca di doni da poter dire che non le manca “nessun dono di grazia” ( 1 Cor 1,7 ). Questo però non le impedisce di essere attraversata da tensioni, che la minacciano profondamente. C’è ad esempio una divisione in partiti e correnti, che si riferiscono chi a un apostolo chi ad un altro. C’è chi ha compreso che si può mangiare la carne immolata agli idoli e chi, invece, è ancora prigioniero di vecchie superstizioni e ne resta scandalizzato. Ci sono i ricchi e ci sono i poveri. E ci sono i molti doni dello Spirito i quali, anziché convergere verso l’edificazione comune, come sarebbe nella loro natura, finiscono col rivaleggiare fra loro. Non mancano poi incertezze, per non dire vere e proprie deviazioni, in campo morale, liturgico e pastorale. Un gruppo di cristiani nega addirittura la realtà della nostra risurrezione. Siamo così posti di fronte a un panorama complesso e inquietante, che giustamente preoccupa l’apostolo. Ma ne resteremmo alla superficie, se non ricordassimo che tutte queste tensioni si sviluppano su un terreno culturale favorevole. Per i cristiani di formazione greca è facile la tendenza a ridurre il vangelo a sapienza umana e, quindi, a un’opinione intorno alla quale è lecito discutere e differenziarsi. Per questo i cristiani di Corinto danno più peso alla genialità dell’uno o dell’altro dei predicatori, anziché al vangelo in sé, da tutti predicato. La riduzione del vangelo a opinione intorno alla quale è possibile discutere comporta, poi, l’indifferenza al dato tradizionale. Si privilegia la contemporaneità rispetto alla tradizione. E questo porta non solo a una perdita d’identità, ma anche alle divisioni. Se Paolo richiama fortemente alla tradizione non è soltanto per mantenere la purezza del vangelo, ma anche per ritrovare l’unità, il denominatore comune della fede. Va infine notato che lo spirito greco esalta la ricerca di sé, la difesa della propria personale originalità; tale tendenza si traduce fatalmente in discussioni, contrapposizioni e divisioni. A questa tendenza Paolo contrappone la logica della croce e il dono totale che essa esige ( 1 Cor 1,18-25 ). In questo clima culturale ed ecclesiale Paolo interviene con il peso della propria autorità, richiamando la fedeltà alla tradizione apostolica e ricordando il dono della comunione e il dovere di tradurla nei rapporti concreti. Paolo precisa che la Chiesa è una comunione articolata, come un corpo vivente; la legge fondamentale è la complementarità fra le varie membra e la loro convergenza verso la crescita comune ( 1 Cor 12 ). Origine e manifestazione suprema di questa comunione è l’Eucaristia: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo” ( 1 Cor 10,17 ). La comunione non si traduce in un semplice sforzo di reciproco arricchimento e sostegno; essa si realizza in un comune cammino in avanti, in uno slancio missionario, in una crescita verso la pienezza. Successione apostolica, deposito della fede e perseveranza nelle persecuzioni In questa fotografia della Chiesa delle origini, occorre dar spazio anche ad alcuni problemi che, sebbene presenti fin dall’inizio, travagliano maggiormente le comunità della fine del primo secolo. L’età apostolica si allontana e i grandi testimoni scompaiono. Questo pone in primo piano il problema della successione apostolica. Si affacciano le prime eresie, che falsi dottori e falsi profeti diffondono da ogni parte. Di fronte al dilagare di queste idee, molti sono disorientati: come distinguere fra vero aggiornamento, doveroso e inevitabile, e falso aggiornamento? Le persecuzioni dello Stato romano contro i cristiani si fanno più diffuse e minacciose: molti si scoraggiano, altri scendono a compromessi col mondo. La risposta a questi problemi viene cercata in una più approfondita lettura del patrimonio della fede tradizionale. Di fronte al venir meno delle figure apostoliche, l’autorità continua ad essere presente nei loro successori. Le lettere pastorali di Paolo riflettono su questo tema e danno indicazioni precise. Di fronte al dilagare delle eresie, viene fortemente ribadito il principio di tradizione: la fedeltà alla tradizione delle origini deve prevalere sulle speculazioni degli uomini, sulle novità, anche se queste possono apparire intelligenti. E di fronte alla persecuzione si invita la comunità alla testimonianza, coltivando atteggiamenti di coraggio e di pazienza. Quello che abbiamo visto e udito CCC nn.721-726; 746-870; 963-975 ( vedi pure nn. 871-933 ) CdA nn. 425-426; 432-438; 450-455; 757-759 ( vedi pure nn. 760-795 ) CdG1 pp. 70-72; 75-76; 262-266 Dopo questa lettura di alcuni momenti significativi delle origini della Chiesa, è opportuno fissare l’attenzione su alcuni aspetti Che ne formano l’ossatura perenne. La Chiesa, segno e strumento della salvezza Nessuno può vivere pienamente la Comunione con Cristo senza inserirsi nella Chiesa. Scrive Giovanni nella sua prima lettera: “Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” ( 1 Gv 1,3 ). La comunione con la comunità e la comunione con il Padre e con il Figlio sono inseparabili. Non si raggiunge il Cristo da soli né direttamente. La comunione con lui passa e si realizza attraverso la comunione di fede con la comunità e attraverso la continuità di tradizione con le origini. L’incontro vero con Cristo non è abbandonato alla libera iniziativa o all’entusiasmo di ciascuno. Del resto, ognuno può facilmente riconoscere nella sua concreta esperienza che il suo incontro con Cristo è stato reso possibile soltanto dalla mediazione della Chiesa: la sua predicazione, la sua liturgia, i suoi molti ministeri, la sua tradizione. Come nessun uomo, così nessun cristiano è un’isola. Ma perché la Chiesa? La risposta è nell’evento stesso dell’incarnazione del Figlio di Dio. Facendosi carne, la parola di Dio ha accettato di inscriversi nei limiti del tempo, della cultura, del linguaggio umano. Per questa sua scelta la Parola si è fatta come bisognosa: il Figlio di Dio incarnato ha bisogno di discepoli che continuino la sua opera, che annuncino la sua vita e la sua morte e proclamino la sua risurrezione; il Signore, il Figlio dell’uomo, ha bisogno di uomini che suscitino l’attesa della sua venuta definitiva, sino alla fine dei tempi. La Chiesa è la continuazione di questa missione, che iniziò con gli apostoli. Come la loro fede continuò a dipendere dalla presenza di Gesù, prima fisicamente presente poi risorto, così la nostra fede ha bisogno, per trovare giorno dopo giorno la sua strada, della permanente presenza dello stesso Signore, reso visibile e raggiungibile nella Chiesa. Qui lui è presente, qui agisce indefettibilmente il dono del suo Spirito. “Fin dall’inizio la Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” ( Lumen gentium, 1 ). Lasciandosi conformare dallo Spirito alla persona di Gesù - il Figlio di Dio che amorosamente fa spazio nella sua persona alla nostra debole condizione umana -, la Chiesa è nella storia manifestazione e promessa di quella pace che Dio ha voluto stringere con gli uomini, perché gli uomini siano in pace tra loro e con la creazione. Attraverso di lei Cristo svela e realizza il progetto di amore che Dio ha per l’umanità: fare di tutto il genere umano l’unico popolo di Dio. Il mistero della Chiesa: santa e sempre bisognosa di purificazione Luogo della presenza e dell’incontro con Cristo, la Chiesa non è una società come le altre, per conoscere le quali basta osservarne la struttura organizzativa, gli scopi prefissi, i mezzi per raggiungerli. La Chiesa è, invece, un mistero, una realtà di rivelazione e di salvezza, una realtà che va ben al di là dei suoi aspetti visibili. Per comprendere la Chiesa, occorre andare in profondità, al di là delle sue strutture organizzative e, persino, al di là degli uomini che la formano. La Chiesa è, infatti, costituita dalla presenza del Signore, dalla sua parola che viene costantemente predicata e dalla fede che l’accoglie. Le strutture organizzative sono la parte visibile, necessaria, del mistero della Chiesa; anche per questo in essa si esprime il mistero dell’incarnazione; ma le strutture e le istituzioni non sono il suo centro o la sua radice. E nemmeno bisogna arrestarsi agli uomini che la formano e la guidano. Leggendo la storia delle comunità primitive ci è apparso con chiarezza che fra la loro vita concreta e la Parola che annunciavano c’era come una distanza. La Chiesa, allora come oggi, è fatta anche di peccatori. Anche questo fa parte del suo mistero. Dice il Concilio Vaticano II: “La Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento” ( Lumen gentium, 8 ). Anche se composta di peccatori e sempre bisognosa di riforma, la Chiesa però è pur sempre amata da Dio, luogo della sua presenza, depositaria della sua parola. Dio è sempre fedele alla sua Chiesa. Tutto questo è al tempo stesso consolante e impegnativo: consolante perché è il segno che la fedeltà di Dio non viene mai meno; impegnativo perché costituisce un invito a non scandalizzarsi mai della debolezza dei cristiani. Una chiamata per tutti nella varietà delle vocazioni La storia della Chiesa delle origini evidenzia la ricerca della comunione, in rapporti nuovi e creativi, in atteggiamenti di solidarietà e condivisione fra le varie comunità cristiane e all’interno di ciascuna di esse. Diverse sono le membra, ma tutte sono tese alla comune edificazione della Chiesa, corpo di Cristo. “Negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno” ( At 2,17; Gl 3,1 ): le parole di Gioele, con cui Pietro apre il suo discorso a Pentecoste, ci assicurano che nella comunità cristiana non c’è distinzione tra uomini “spirituali”, capaci di un rapporto personale con Dio, e uomini “carnali”, che ne sarebbero incapaci. Tutti possono e devono conoscere Dio personalmente. Tutti possono rivolgersi a lui come Padre, con la stessa familiarità che fu propria di Gesù. Tutti nella comunità sono protagonisti. Ciascuno nella Chiesa deve vivere da collaboratore attivo e non da cliente occasionale, deve parlare e comunicare e non soltanto ascoltare, deve partecipare alla costruzione della casa comune e non assistervi da spettatore. Tutto questo in modo originalissimo e personale. Se è vero, infatti, che l’unico Spirito distribuisce a tutti i suoi doni, è altrettanto vero che i doni dello Spirito sono differenti. Uno solo è il corpo, ma molte le membra, ci dice san Paolo ( 1 Cor 12,12 ). Nessuno, perciò, nella Chiesa svolge in modo ripetitivo e spersonalizzato il compito di un altro. Ciascuno deve cercare e riconoscere, giorno dopo giorno, la propria vocazione. Per molti significa seguire Gesù nella condizione del matrimonio; per altri vuol dire consacrarsi totalmente a lui per un servizio originale al regno di Dio. Molte e diverse sono, dunque, le vocazioni. Tra queste è singolare e privilegiata la vocazione a professare le virtù evangeliche e le beatitudini nella forma radicale della povertà, della verginità e dell’obbedienza. E la vocazione di quanti si incamminano verso la “vita religiosa”: i monaci, i frati, le suore. E una vocazione che, con modalità proprie, chiama altri a un impegno autenticamente consacrato ed evangelico, ma all’interno delle attività comuni e professionali, per un servizio laico tra i laici: è la condizione degli “istituti secolari”. Se le vie e i modi possono essere diversi, tutti però sono chiamati a vivere la radicalità evangelica. A tutti sono proposte le virtù evangeliche e le beatitudini: la virtù della fede e dell’obbedienza al Padre, la povertà e la castità, la franchezza dell’annuncio e della testimonianza del vangelo. Chiese particolari e Chiesa universale Le comunità cristiane dei primi tempi sono unite nella comune fede e nella consapevolezza di formare tutte insieme l’unico popolo di Dio, l’unica Chiesa. Ma, dentro questo spazio di unità, c’è anche uno spazio per l’originalità di ciascuna. Ogni comunità ha le sue accentuazioni teologiche e spirituali e anche i suoi problemi: tali differenze non rompono la comunione, bensì la esprimono. Scrive il papa Paolo VI: “Secondo il pensiero del Signore, è la stessa Chiesa che, essendo universale per vocazione e per missione, quando getta le sue radici nella varietà dei terreni culturali, sociali, umani, assume in ogni parte del mondo fisionomie ed espressioni esteriori diverse” ( Evangelii nuntiandi, 62 ). Giustamente le Chiese del Nuovo Testamento vivono in comunione fra loro, in specie con la Chiesa madre di Gerusalemme, ma resistono alla tentazione di appiattirsi in una uniformità senza specificità locali e culturali. In ogni Chiesa particolare si fa presente e prende forma visibile l’unica Chiesa di Dio, ma in ciascuna con una sua forma propria, non priva di originalità. Nel Nuovo Testamento la parola “Chiesa” non è usata soltanto per la Chiesa universale, ma anche e più frequentemente per le singole Chiese locali. Tale uso è continuato per molti secoli e ora viene giustamente ripreso. Questa ambivalenza nell’uso del termine “Chiesa” suggerisce un altro dato teologico importante, essenziale per comprendere il mistero della Chiesa. Come la Chiesa particolare - in concreto la diocesi e, nella diocesi, le parrocchie - non è semplicemente la somma dei suoi gruppi, delle sue associazioni, delle sue circoscrizioni organizzative, così la Chiesa universale non è semplicemente la somma delle Chiese particolari sparse nel mondo. Inoltre, la Chiesa particolare non è semplicemente una parte della Chiesa universale. Da un punto di vista superficiale, non sembra altro che una porzione della Chiesa intera. Ma in realtà essa è l’intero mistero della Chiesa che prende forma e si rende presente in un determinato territorio. Ne derivano due conseguenze importanti. La prima è che la Chiesa particolare, quantunque possa essere piccola e povera, non deve estraniarsi dalla vita della Chiesa nella sua totalità, ma deve, al contrario, esserne la figura. La seconda è che ciascun cristiano, ciascun gruppo, se vuole inserirsi nella Chiesa di Dio, nella Chiesa universale, deve di fatto inserirsi nella sua Chiesa particolare: è qui infatti che ciascun cristiano incontra concretamente la presenza del Signore, lo Spirito che distribuisce i suoi doni, la parola di Dio, i sacramenti, i fratelli, l’autorità apostolica. Lo Spirito e il ministero apostolico Nelle Chiese delle origini lo Spirito del Signore è presente e attivo, distribuisce i suoi doni ed è fattore di fedeltà e comunione; ma, per mantenere salda la fedeltà e la comunione nello Spirito, occorre anche la presenza dell’apostolo, con tutto il peso della sua autorità. L’immagine semplicistica di una Chiesa dei primi tempi senza ministeri e senza leggi, condotta soltanto dal magico agire dei doni che lo Spirito elargisce a ciascuno, è del tutto falsa. Anche oggi una tale comunità sarebbe sempre esposta al rischio di seguire impulsi e scelte che in realtà non vengono dallo Spirito, che non creano comunione e fraternità, ma complicità di interessi, gusto della compagnia e del consenso, fanatismo collettivo e altre contraffazioni della vera comunione. Eredi del servizio apostolico sono in primo luogo i vescovi. Il vescovo è nella diocesi il custode fedele del vangelo, il primo promotore della carità di Cristo, segno e costruttore di unità e di universalità. I vescovi possono contare, nel loro ministero, sull’assistenza del Signore, che non verrà mai meno: “Chi ascolta voi ascolta me” ( Lc 10,16 ). Al magistero concorde di tutti i vescovi insieme con il papa, è assicurata l’infallibilità. Tutto questo non poggia sulla santità personale, ma sulla fedeltà del Signore che li assiste. Per questo l’obbedienza alle direttive dei vescovi è obbedienza al Signore Gesù. Nel collegio episcopale, e nell’intera Chiesa, il papa occupa un posto del tutto particolare, in quanto successore di Pietro in Roma. Il suo ruolo è descritto in un passo del Vangelo di Matteo: “E io ti dico: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” ( Mt 16,18-19 ). Pietro è la roccia che tiene salda la Chiesa, il punto attorno al quale si forma l’unità di tutte le comunità. Dare le chiavi significa affidare una vera e piena autorità. Legare e sciogliere significa proibire e permettere, giudicare e perdonare. A Pietro il Signore risorto affida il compito di pascere le pecore del suo gregge in suo nome ( Gv 21,15-19 ). L’autorità di Pietro si fonda su un dono del Signore per l’autenticità della Chiesa. Nel ministero del papa permane questo dono e rimanda a Cristo, che è il vero Signore della Chiesa. Il vescovo di Roma, successore di Pietro, è dunque “perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli” ( Lumen gentium, 23 ). In forza ditale servizio, egli “ha sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale, che può esercitare liberamente” ( Lumen gentium, 22 ). Quando definisce la dottrina della fede lo fa infallibilmente, in quanto in lui si concentra il carisma della verità che Dio dona alla Chiesa e al collegio dei suoi pastori. I grandi santi della Chiesa italiana, a cominciare dai suoi protettori san Francesco d’Assisi e santa Caterina da Siena, hanno lasciato una tradizione di obbedienza e venerazione al ministero e alla persona del Papa e lo hanno accompagnato con l’affetto e la preghiera. Maria, primizia e madre della Chiesa A Pietro e agli apostoli è riconosciuta da tutta la tradizione cristiana la dignità di colonna e fondamento della Chiesa; per questo la Chiesa si definisce apostolica. Solo Maria però, la Madre del Signore, è presentata come “immagine ed eccellentissimo modello” della Chiesa ( Lumen gentium, 53 ). Pur non avendo avuto alcun ministero pubblico nella prima comunità cristiana, Maria è figura centrale di tutta la comunità ecclesiale. La riconosciamo come prima e perfetta realizzazione della Chiesa, perché “ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” ( Lc 1,45 ) e, per la fede, è diventata Madre di Dio, anticipando nella sua esistenza quell’intima unione con Cristo su cui riposa il cammino di tutti i credenti verso la comunione perfetta con Dio. Al ministero apostolico si affianca così il segno della divina maternità di Maria, dono di fecondità e di grazia per la santità di ogni figlio di Dio, nella Chiesa. La maternità divina di Maria, come servizio a Cristo e alla sua esistenza nel tempo, si prolunga nella sua maternità ecclesiale, come servizio al suo corpo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nella comunità dei credenti. Giovanni, nel suo Vangelo, ha dato una testimonianza particolarmente suggestiva di questo misterioso rapporto tra la Madre del Signore e ogni credente in Cristo. La consegna di Gesù a Giovanni: “Ecco la tua madre”, è un pegno dell’unità non interrotta tra il Maestro e i discepoli nella Chiesa; è anche la certezza di un ininterrotto amore con cui Maria abbraccia la vita dei suoi discepoli: “Donna, ecco il tuo figlio” ( Gv 19,26-27 ). La Madre di Gesù, contemplata nel mistero dell’assunzione in cielo, glorificata nel corpo e nell’anima, è infine immagine e primizia della Chiesa anche nel suo essere in cammino verso il pieno compimento del Regno futuro. La Chiesa è missionaria La Chiesa, nel cammino verso il Regno, è aperta a ogni uomo e a ogni cultura. Essa esiste per portare a tutti gli uomini in tutto il mondo l’annuncio della salvezza. La Chiesa, con la parola della predicazione e con i sacramenti, rende presente Cristo, autore della salvezza. Il mandato missionario, affidato alla Chiesa, ha una dimensione universale: “tutte le nazioni” ( Mt 28,19 ); “a tutte le genti” ( Lc 24,47 ); “fino agli estremi confini della terra” ( At 1,8 ). Esso “trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito santo, secondo il disegno di Dio Padre ( e ) scaturisce dall’“amore fontale”, cioè dalla carità di Dio Padre” ( Ad gentes, 2 ). Il Battesimo ha reso ciascuno di noi un missionario, partecipe della missione di tutta la Chiesa, chiamato a testimoniare il vangelo, non cercando gloria e successo, mettendo a frutto le proprie capacità per il servizio dei più poveri, a imitazione della carità di Cristo, anche assumendo posizioni coraggiose e profetiche di fronte alla corruzione del potere politico o economico. Alla testimonianza è intimamente unito l’annuncio del vangelo, della “buona novella” che cambia l’uomo e la storia. La proclamazione dell’amore di Dio nei confronti di ogni persona e di ogni popolo si esprime nel rispetto e nella stima, diventa espressione dell’intera comunità ecclesiale, mai un fatto puramente individuale. L’annunciatore, animato dalla fede, è consapevole che la verità proclamata non è puramente umana, ma parola di Dio, dotata di una sua intrinseca e misteriosa potenza. L’attività missionaria, perciò, tende alla realizzazione del piano di Dio, secondo i tempi e i modi che il Padre ha fissato. Nella missione della Chiesa cresce il popolo di Dio. Chi annuncia il vangelo sa raggiungere e accogliere tutti, con il cuore grande della Chiesa, che fa suo l’invito: “Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio” ( Is 54,2 ). Responsabili dell’annuncio Al cuore dell’esperienza cristiana di un giovane sta la consapevolezza di essere amato senza condizioni da Dio in Gesù, da non poter tacere e tenere per sé il dono della salvezza. Essere discepoli di Cristo non è un fatto privato. Questa consapevolezza non è legata a un momentaneo entusiasmo, ma è una forza incoercibile presente nella vita cristiana, il cui protagonista è lo Spirito. Ed è talmente chiaro questo imperativo nella coscienza credente, che comunicare agli altri il dono della fede è rafforzare e far crescere la propria. Se si vuol rafforzare la fede e la si vuol aiutare a uscire dalle secche dell’intimismo, del dubbio, dell’incostanza, della perdita di significato, i giovani non possono chiudersi nei problemi personali o nell’isolamento di gruppi protettivi, ma devono aprirsi all’annuncio. “Io sarò con te” ( Es 3,12 ): la parola del Signore non assicura una compagnia contro la solitudine, ma dà certezza nella comunicazione della fede agli altri. La vocazione cristiana, il suo scopo, la sua consistenza è l’apostolato, l’evangelizzazione, la missione. Tutto il mondo è terra di missione. È terra di missione tutta la condizione umana e la terra di missione è distribuita geograficamente ovunque. Ne è motivo il degrado e la scomparsa della fede anche nei paesi di antica cristianità o la problematicità di essa in alcune condizioni di vita. Non c’è più distinzione tra i giovani che abitano in paesi cristiani e quelli che abitano in paesi di missione: tutti contemporaneamente in tutto il mondo vivono a contatto di situazioni di missione. La giovinezza in particolare è terra di missione: Gesù spesso vi è sconosciuto, ma spesso vi è anche cercato. Il mondo giovanile è terra di una sete nascosta: una grande sete di Dio, anche se a volte nascosta dietro un atteggiamento di indifferenza o addirittura di ostilità. Sono tanti i giovani che cercano Dio, ma pochi quelli che lo annunciano. Tutta la comunità cristiana ne è responsabile, ma l’educazione alla fede non è pedagogicamente corretta se i giovani non si fanno apostoli dei loro coetanei. In missione nel mondo In questo loro compito, è chiesto anzitutto ai giovani di essere testimoni credibili. La coerenza con il Vangelo in ogni scelta concreta, la limpidezza, la sincerità, l’autenticità sono qualità in cui i giovani si riconoscono e sono la prima strada attraverso cui passa la missionarietà. E Dio che opera la salvezza, ma la credibilità dei testimoni manifesta all’uomo la presenza visibile di Cristo che li abita. Occorre poi anche farsi responsabili della trasformazione del mondo, della realtà sociale, politica, economica e culturale. Il discepolo di Cristo, non è mai osservatore passivo degli eventi. Infine occorre essere portatori della Parola di salvezza. La fede nasce dall’ascolto e i giovani potranno ascoltare, se ci sarà qualcuno che parla loro esplicitamente di Dio e di Cristo. C’è però una condizione previa a questa missionarietà, una sorta di convinzione di partenza: avere il coraggio culturale, relazionale, intellettuale di vedere in Cristo la vera risposta, la più completa a tutte le domande che riguardano l’uomo e il suo destino. E una certezza che viene dal dono di Dio e riluce dalla propria vita di fede, quando la ricerca sofferta diventa capace di abbandonarsi a Dio. Questa convinzione si corrobora ad una lettura attenta della storia dell’evangelizzazione delle nostre comunità cristiane. Ogni diocesi, ogni regione ha i suoi padri della fede: martiri, vescovi, laici, donne e uomini coraggiosi, soldati, re o imperatori, semplici schiavi o gente del popolo hanno piantato per primi la croce nelle nostre contrade e hanno lasciato esempi di vita e indicazioni di itinerari coraggiosi. La croce che essi hanno piantato è eredità e impegno. La missionarietà di una comunità è però autentica solo se sa esprimere anche qualcuno che lascia la sua terra, i suoi amici, il suo futuro stabile e certo, la sua cultura per accorrere là dove scarseggiano gli operai della vigna di Cristo, come prete, come religioso, come laico. È una prospettiva che va coltivata nei contatti con i paesi di missione, soprattutto con le esperienze di giovani che trascorrono alcuni mesi in altre terre e che accolgono giovani di altri continenti nei propri gruppi. L’unità della Chiesa e le divisioni dei cristiani ( fuori testo ) CCC nn. 817-822 CdA nn. 460-469 CdG1 pp. 215-217 Il Signore Gesù ha fondato la sua Chiesa una ed unica, ma numerose divisioni tra i cristiani contraddicono apertamente la volontà di Cristo e sono di scandalo per il mondo. La vita della Chiesa è purtroppo segnata, fin dalle sue origini, da tensioni, eresie, scismi ( separazioni ). Una divisione profonda ha inizio nel 1054 e separa dalla comunione con la Chiesa cattolica le Chiese ortodosse in Oriente. Diversi tentativi fatti in passato per sanare le ferite, non hanno portato risultati positivi: così è accaduto ai Concili di Lione nel sec. XIII e soprattutto al Concilio di Firenze nel sec. XV. Anche la costituzione di Chiese cattoliche orientali ( conosciute anche col nome di “uniate” ), fra il XVI e il XVIII secolo, in territori slavi e nel Medio Oriente, non ha raggiunto lo scopo. La divisione è ancora una eredità pesante, in cui non è facile distinguere tra motivazioni teologiche, differenze dottrinali, identità nazionali. Le Chiese ortodosse in particolare non riconoscono il primato del vescovo di Roma nei termini definiti dalla Chiesa cattolica. Il dialogo promosso a partire dal Concilio Vaticano II ha portato però ad un’epoca nuova nei rapporti e ha segnato alcuni punti di non ritorno: la revoca delle reciproche scomuniche, il riconoscimento reciproco tra le Chiese locali cattoliche ed ortodosse come “Chiese sorelle”, l’abbraccio fra il papa Paolo VI e il patriarca di Costantinopoli Atenagora. Nel sec. XVI molte popolazioni dell’Europa centro-settentrionale aderirono alla Riforma predicata da Lutero in Germania, da Calvino e Zwingli in Svizzera. Sono nate così le Chiese e le comunità ecclesiali della Riforma che, a differenza della Chiesa cattolica, non riconoscono un’autorità centrale e si diversificano da essa su altre verità essenziali. Alloro interno si sono date organismi di dialogo e comunione, come, per le Chiese ispirate a Lutero, la Federazione luterana mondiale e, per le Chiese ispirate a Calvino, l’Alleanza riformata mondiale. Al movimento delle chiese protestanti ( o “evangeliche” ) ha aderito anche la comunità valdese, che tra le Chiese riformate è la più significativa storicamente in Italia. La riforma valdese precede di circa 350 anni quella luterana, ma ha molti aspetti in comune con essa, fra cui il desiderio d’un recupero della purezza evangelica, un atteggiamento critico verso la dimensione istituzionale della Chiesa, la volontà di mantenere la Chiesa in uno stato di perenne riforma. Sempre nel XVI secolo si interrompe la comunione dottrinale e disciplinare con la Chiesa d’Inghilterra ( anglicana ), la quale, avvicinandosi alle tesi protestanti, finisce per non riconoscere più il ministero di unità del papa e dichiara la propria autonomia. Sono però numerosi e consistenti i punti di contatto con la Chiesa cattolica, anche nella celebrazione sacramentale della fede. Oggi le Chiese anglicane sono raccolte nella Comunione anglicana. La loro collegialità trova espressione nella Conferenza di Lambeth, presieduta dal vescovo di Canterbury, che è sempre stata considerata una interprete autorevole della stessa comunione. Agli inizi del XX secolo, dopo secoli di conflittualità si sente l’esigenza di un cammino di incontro e di riconoscimento e prendono vita le prime forme organizzate del movimento ecumenico. L’organismo più consistente al servizio ditale movimento tra le Chiese non cattoliche è il Consiglio ecumenico delle chiese ( KEK ), al quale aderiscono a pieno titolo le Chiese ortodosse, anglicane e protestanti, nonché molte altre confessioni cristiane. La Chiesa cattolica è presente solo negli organismi di dialogo teologico. Il cammino ecumenico della Chiesa cattolica romana ha conosciuto grande impulso dal Concilio Vaticano II. Il decreto Unitatis redintegratio ne traccia le coordinate. Ad animare questo cammino è stato costituito il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Nel 1995 il papa Giovanni Paolo II ha pubblicato la lettera enciclica Ut unum sint, con la quale impegna fortemente la Chiesa cattolica a proseguire il cammino ecumenico e sollecita il contributo delle altre chiese cristiane al dialogo attorno ai temi dai quali sono nate divisioni, ivi compresa l’interpretazione del ministero del successore di Pietro. Il dialogo bilaterale tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese e comunità cristiane continua nella carità e nella verità, pur tra non poche difficoltà. Le convergenze teologiche sulla Chiesa intesa come comunione, sulla professione comune della fede, così come gli accordi per la collaborazione a favore della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato animano la speranza che, superando le divisioni che ancora rimangono, con la grazia dello Spirito possa realizzarsi presto, anche visibilmente, l’unità di tutti i cristiani. “L’unità è dono dello Spirito e per questo va invocata con la preghiera, per ottenere il rinnovamento permanente della Chiesa e la conversione del cuore. È frutto della carità e per questo si esprime nella conoscenza e nel rispetto reciproco, nell’accoglienza e nel dialogo, nel servizio comune all’umanità. E cammino verso la verità tutta intera e per questo è ricerca, maturazione, crescita nella fede. Questo cammino ha “due punti di riferimento essenziali: la Sacra Scrittura e la grande Tradizione della Chiesa. Ai cattolici viene in aiuto il Magistero sempre vitale della Chiesa” ( Giovanni Paolo II, Ut unum sint 39 ). Il sacramento dell’Ordine ( scheda ) CCC nn. 1536-1600 CdA nn. 719-728 ( vedi pure nn. 511-525 ) CdG1 pp. 273-277 Il Signore Gesù ha istituito nella sua Chiesa dei pastori, per il bene di tutto il corpo ecclesiale. A questi è affidato il ministero pastorale, a cui vengono abilitati con il sacramento dell’Ordine, un dono di Cristo partecipato ai candidati in tre gradi diversi: l’episcopato, il presbiterato, il diaconato. I vescovi ricevono “la pienezza del sacramento dell’Ordine” ( Lumen gentium, 21 ), ed entrano a far parte del collegio episcopale che succede al collegio apostolico. I presbiteri, costituiti mediante l’ordinazione collaboratori dei vescovi, sono anch’essi configurati a Cristo sacerdote “in modo da poter agire in nome e nella persona di Cristo capo” ( Presbyterorum ordinis, 2 ). I diaconi, “in comunione col vescovo e il suo presbiterio”, sono ordinati per “il servizio della liturgia della parola e della carità” ( Lumen gentium, 29 ). Nell’Antico Testamento i sacerdoti offrivano a Dio sacrifici di lode e ringraziamento o di espiazione per i peccati. Venivano scelti tra la discendenza di Aronne, dalla tribù di Levi e il loro ufficio era ereditario. Gesù invece non discendeva dalla famiglia sacerdotale di Aronne, non aveva quindi né la condizione né il ruolo di sacerdote. Egli ha offerto un solo e unico sacrificio, completamente nuovo: il sacrifico della propria vita. In questo modo ha portato a compimento e superato tutti i sacrifici dell’antica alleanza ( Eb 8-10 ). Unico mediatore della nuova alleanza, Cristo ne è anche l’unico sacerdote. In lui tutta la comunità della nuova alleanza ormai è chiamata “sacerdotale”. Essa prende il posto della discendenza di Aronne, ma in senso radicalmente trasformato. Grazie a Cristo e in lui, tutti i fedeli della nuova alleanza diventano tempio di Dio, luogo in cui egli abita e viene celebrato. Vescovi e presbiteri non prendono il posto di Cristo sacerdote unico e non tolgono alla comunità il suo carattere sacerdotale, profetico e regale, ma con la potestà sacra di cui sono investiti con l’ordinazione, formano e reggono il popolo sacerdotale, compiono il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offrono a Dio a nome di tutto il popolo. Concretamente, il sacerdozio ministeriale è il segno visibile e sacramentale di ciò che il Signore Gesù opera per la salvezza degli uomini. Per questo esso si distingue essenzialmente dal sacerdozio comune di tutti i battezzati. IlI ministro è segno e strumento di Cristo, rinvia a lui, ma non lo può sostituire. Tra Cristo e il ministro permane una differenza profonda, per cui solo nella fede è possibile riconoscere la presenza del Signore nella povertà e debolezza dell’azione ministeriale. E tuttavia è attraverso la povertà e debolezza dell’azione del ministro ordinato che si rende possibile per i credenti l’incontro con Dio. Il ministro ordinato non è solo ministro di Cristo ma anche inseparabilmente, ministro della Chiesa; non agisce solo in nome di Cristo, ma anche in nome della Chiesa. Perciò entrambi i riferimenti, a Cristo e alla Chiesa, sono necessari per definire l’identità del ministero ordinato. Ogni attività ministeriale ha senso solo se collocata in una comunità ecclesiale. Il sacerdote si impegna a non avere bene più prezioso che la Chiesa. Questa è la sostanza della vocazione e della consegna di sé. Vescovo, presbitero e diacono hanno il compito di governare, cioè di essere guide e pastori del popolo di Dio loro affidato, il compito di santificare il popolo di Dio, il compito di annunciare il mistero della fede. L’identità dei ministri trova inoltre fondamento nell’azione dello Spirito Santo, considerato come il principio che unifica e santifica. Il dono dello Spirito è il dono per eccellenza che i ministri ricevono nell’ordinazione. È lo Spirito Santo che custodisce il ministro ordinato nella fedeltà lo illumina nel discernimento, lo sostiene nel servizio pastorale. Santificati e abilitati dallo Spirito i ministri ordinati diventano strumenti dell’effusione dello Spirito ai credenti e alla comunità. Il dono di sé a Cristo e alla Chiesa, nella forza dello Spirito, trova espressione, per la Chiesa latina, nella richiesta che i ministri ordinati ad eccezione dei diaconi permanenti siano scelti fra uomini credenti che vivono da celibi e intendono conservare il celibato per il regno dei cieli. Consacrati con cuore indiviso al Signore, fanno di tutta la propria esistenza un’offerta a Dio e agli uomini nel servizio che la Chiesa affida loro. A tutti i preti e diaconi la Chiesa chiede poi assiduità nella preghiera, per divenire imitatori di ciò che celebrano, e obbedienza al vescovo, come strumento di comunione nel servizio pastorale. Il significato di tutto questo è correttamente presentato nei riti di ordinazione di vescovi preti e diaconi che hanno una struttura identica. I riti di introduzione evidenziano la partecipazione dell’intera comunità ecclesiale, in tutte le sue componenti e dimensioni terrena e celeste, al dono di Dio che è il ministero ordinato. La presentazione dei candidati, la domanda che essi siano ordinati e l’attestazione della loro idoneità cui segue da parte del vescovo la loro elezione che ratifica la vocazione, esprimono bene il coinvolgimento della comunità ecclesiale locale nella scelta dei candidati al ministero ordinato. Il rito centrale è il momento più propriamente sacramentale e, per tutti i gradi dell’Ordine, consiste nel gesto dell’imposizione delle mani accompagnato dalla preghiera di ordinazione. Preghiera e imposizione delle mani stanno o significare che il ministero è dono che viene da Dio e non dalla comunità; è dono che la Chiesa deve invocare e poi accogliere con riconoscenza. L’invocazione dei santi a favore dei candidati esprime la partecipazione della Chiesa celeste nell’azione sacramentale. I riti esplicativi sono gesti che hanno soprattutto la funzione di illuminare ulteriormente la nuova realtà prodotta dall’effusione dello Spirito sugli ordinati al ministero. Assieme al Battesimo e alla Confermazione, l’Ordine è uno dei tre sacramenti che imprimono un carattere in chi lo riceve. Questo carattere configura a Cristo, l’inviato del Padre per la salvezza degli uomini. In sintesi La progressiva conoscenza di Cristo conduce anche alla scoperta dell’identità del discepolo. Il cristiano è uomo aperto alla novità dello Spirito ( l’uomo nuovo ) L’esperienza della novità orienta la vita del cristiano, che diventa creatura rigenerata, rinata, aperta, luminosa. A ciò ognuno di noi tende, meta di un cammino che è fatto di passi graduali. I tratti caratteristici dell’uomo nuovo sono: - conversione, nel suo aspetto di abbandono di tutto ciò che impedisce l’apertura alla vita piena; - accoglienza del dono della vita di Dio, che è lo Spirito Santo, il quale ci rende contemporanei a Gesù e familiari con il Padre; - testimonianza in ogni situazione, perché lo Spirito ci dona la certezza di essere con Dio; - franchezza ( parresia ), che è la caratteristica dell’uomo reso libero interiormente; - originalità di doni offerti ad ognuno per il bene di tutti. Il cristiano è uomo che intesse relazioni nuove ( la nuova comunità ) L’esperienza cristiana presenta una nuova qualità di relazioni, che si manifestano già nella prima Chiesa: - persevera nell’ascolto della Parola, nella comunione fraterna e nella frazione del pane, come la Chiesa di Gerusalemme; - sa affrontare le inevitabili tensioni interne, ma si spinge ad annunciare il vangelo oltre i confini delle sue origini; - incarna il vangelo in culture diverse e dialoga con il mondo, come la Chiesa di Antiochia; - fedele alla tradizione apostolica, accoglie il dono della comunione e sa superare divisioni e contrasti, come la Chiesa di Corinto. La realtà della Chiesa presenta alcuni aspetti costitutivi: - è mediazione di salvezza e rende possibile e concreto l’incontro vero con il Cristo; - è santa e bisognosa di purificazione, perché partecipa della santità stessa di Dio ed è composta di peccatori; - è aperta a tutti, nella varietà di doni e vocazioni; - è universale, ma affonda le sue radici in ogni realtà locale; - è apostolica, guidata dal papa e dai vescovi, successori di Pietro e degli apostoli. Per l’approfondimento La creazione e il problema del male CCC nn. 279-421 CdA nn. 351-408 La Chiesa CCC nn. 748-962 CdA nn. 410-606 Per camminare nella fede Le domande della vita La vita di ciascun uomo e la storia dell’umanità sono attraversate da interrogativi profondi, che toccano il significato stesso dell’esistenza personale e sociale. La fede in Gesù Cristo; morto e risorto per noi, dà una risposta alle tante ricerche umane. Se costruiamo su di lui la nostra vita, nell’ascolto e nella pratica della sua parola, siamo come una casa fondata sulla roccia, solida contro l’imperversare delle intemperie, lo straripamento dei fiumi e la violenza dei venti ( Mt 7,24-27 ). - Quali esperienze hanno modificato il tuo stile di vita? - Quali esigenze di cambiamento avverti oggi? - Come la fede può favorire la scoperta e la crescita dei valori fondamentali della vita? - Confrontandoti con la prima Chiesa di Gerusalemme, Antiochia e Corinto, in quali modelli di comunione ecclesiale maggiormente ti riconosci? - Quali sono i compiti richiesti ai cristiani, per favorire oggi una cultura di vita, di accoglienza e di amore reciproco? - Nella tua comunità cristiana quale ruolo di servizio e di comunione sei chiamato ad assumere e a svolgere? L’ascolto della Parola “Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti … Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità … Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”. ( Ef 4,4-6.15-16; Ef 5,1-2 ) La voce della Chiesa “La carità ci congiunge intimamente a Dio, “la carità copre una moltitudine di peccati” ( 1 Pt 4,8 ), la carità tutto sopporta, tutto prende in santa pace. Nulla di volgare nella carità, nulla di superbo. La carità non suscita scismi, la carità opera tutto nella concordia. Nella carità tutti gli eletti di Dio sono perfetti, mentre senza la carità niente è gradito a Dio. Con la carità Dio ci ha attirati a sé. Per la carità che ebbe verso di noi, il Signore nostro Gesù Cristo, secondo il divino volere, ha versato per noi il suo sangue e ha dato la sua carne per la nostra carne, la sua vita per la nostra vita. Vedete, o carissimi, quanto è grande e meravigliosa la carità e come non si possa esprimere adeguatamente la sua perfezione. Chi è meritevole di trovarsi in essa, se non coloro che Dio ha voluto rendere degni? Preghiamo dunque e chiediamo dalla sua misericordia di essere trovati nella carità, liberi da ogni spirito di parte, irreprensibili”. ( San Clemente di Roma, Lettera ai Corinzi, XLIX, 5-6; L, 1-2 ) Il dialogo della preghiera “Signore che governi tutto, Padre di Gesù Cristo, principe eterno e liberatore degli schiavi, fa’ che non esista più niente di vecchio in noi che siamo stati cambiati e ci siamo volti a te nella verità; tu che vuoi da noi un’anima pura e ci hai chiamati a una seconda nascita, nel tuo grande amore, imprimi in noi l’immagine viva del tuo unico Figlio. Rendi forte la nostra fede, perché niente possa separarci da te; e siamo sempre uniti al tuo Verbo, nel quale è gloria e potenza a te e allo Spirito ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen”. ( Tradizione Apostolica ) L’incontro con i testimoni Caterina da Siena In un tempo in coi la donna era di norma relegata nell’ambito familiare, Caterina da Siena ( 1347-1380 ) svolse ruoli da protagonista. Intervenne ovunque per pacificare famiglie, città e governi in lotta tra loro; per la riforma e la difesa della Chiesa; per il ritorno del papa da Avignone a Roma; per promuovere una nuova crociata; per la fine dello scisma. Non era mai accaduto che una donna illetterata; di umile origine e laica ( apparteneva al Terz’Ordine di S. Domenico, le “Mantellate” ) potesse tanto influire su vicende di guerre e di pace, su papi e sovrani, su cardinali e capitani di ventura; su religiosi e laici e perfino su condannati a morte e prostitute. La lettura dei suoi scritti - il “Dialogo”, le 381 “Lettere” e le 26 “Orazioni” - cattura tanto l’attenzione che difficilmente si possono dimenticare. Alcune delle sue pagine, scritte in pittoresco stile senese, sono tra le più belle della letteratura del Trecento. Il 4 ottobre 1970 fa proclamata da Paolo VI dottore della Chiesa. “Io Catarina, serva e schiava dei servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo ( … ) acciocché per voi e per gli altri servi di Dio sia sovvenuto alla dolce Sposa sua. La quale vediamo posta in tanta amaritudine, che da ogni lato è percossa da molti venti contrari; e singolarmente la vedete percossa dagli iniqui uomini amatori di loro medesimi col pericoloso e malvagio vento dell’eresia e scisma che ha a contaminare la fede nostra. ( … ) Traete fuore il capo e uscite a campo a combattere realmente per la verità. ( … ) Venite, venite, e non tardate aspettando il tempo, ché il tempo non aspetta noi”. ( Lettera 327, a frate Andrea da Lucca, a frate Baldo e a frate Lando, servi di Dio in Spoleto, essendo richiesti dal santo padre ) La professione della fede “Maestro che cosa devo fare?” “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” ( Gv 15,4 ). “Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, come un organismo visibile; la sostenta incessantemente, e per essa diffonde su tutti la verità e la grazia” ( Lumen gentium, 8 ). - Il Padre “ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce: È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati” ( Col 1,12-14 ). - Il cristiano, uomo nuovo, riceve il dono della vita, che ha le caratteristiche del Regno annunciato da Gesù: una vita nell’amore, nella giustizia e nella pace. - La novità è caratteristica della comunità dei cristiani, che nella Chiesa vivono l’adesione di fede al Signore Gesù e la esprimono nella varietà di doni, per il comune servizio all’uomo e per l’edificazione del Regno. Introduzione I giovani non hanno smesso di pregare, ma non tutti pregano ogni giorno e non tutti lo fanno nello stesso modo. E non sempre chi prega giunge a pregare insieme, nella comunità ecclesiale, partecipando alle celebrazioni liturgiche e sacramentali, alla messa domenicale. Ecco alcune delle ragioni portate per giustificare tale comportamento: “Sono battezzato, credo in Dio e non ho bisogno di andare in chiesa per pregare: quando voglio parlare con Dio, lo faccio per conto mio; mi ritaglio uno spazio di tempo, mi cerco un luogo adatto e poi prego. Che bisogno c’è di ritrovarsi tutti assieme, a ripetere parole sempre uguali? E non parliamo poi della confessione! Perché dovrei andare a dire le mie cose ad un altro uomo? Quando capisco di aver fatto qualcosa di sbagliato, chiedo perdono a Dio dentro di me e mi sento a posto”. Spesso nella giovinezza si verifica a riguardo della preghiera una frattura rispetto al comportamento abituale nell’età della fanciullezza e della preadolescenza, caratterizzato per lo più dalla frequenza alla messa domenicale e dalla confessione periodica. Non si rifiuta il rapporto con Dio, ma esso appare relegato ad esperienze tendenzialmente intimistiche e privato di ogni espressione esterna e rituale. È possibile riscoprire, al di là di tante difficoltà o luoghi comuni, la via per “celebrare” le meraviglie di Dio? La scoperta del dono della salvezza e la sua accoglienza, il desiderio di potervi corrispondere e la decisione di farsi dono per gli altri offrendo tutta la vita, è quanto la Chiesa ci propone attraverso l’esperienza liturgica. Grandi cose ha fatto il Signore per noi CCC nn. 1066-1134; 2031; 2096-2097; 2626-2628 CdA nn. 633-651; 653-662 CdG1 pp. 98-99 “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto” ( Ef 1,3-6 ). Così l’apostolo Paolo esprime stupore e gioiosa gratitudine contemplando il disegno di Dio. La Chiesa continua questa “benedizione”, ricevendola e donandola nel tempo. Per non dimenticare le “grandi cose” compiute dal Signore dalle quali ha avuto origine, non smette di annunciare con la parola e di celebrare con segni visibili l’evento di passione, morte, risurrezione e glorificazione di Gesù Cristo, centro del disegno di Dio e della storia. Parola e sacramento tracciano l’itinerario della sequela e offrono al discepolo di ogni tempo l’esperienza reale del “venire, vedere e dimorare” presso Gesù. L’annuncio della Parola fa risplendere in ogni cuore l’immagine di Dio e attira verso di lui. I sacramenti ristrutturano l’esistenza del discepolo secondo quell’immagine e la uniscono al Maestro.  Il dono della Parola Chiesa vuol dire “assemblea”, “convocazione”. La Chiesa si ritrova in assemblea perché Dio l’ha convocata per rivelare se stesso e farsi conoscere. Egli lo ha fatto nel corso di tutta la storia della salvezza: già attraverso la creazione Dio dà testimonianza di sé ( Rm 1,19-20 ), ma lo fa in modo particolare rivolgendosi agli uomini – come singoli e come popolo –, fino a comunicarsi personalmente in Gesù di Nazareth, il Figlio che “proferisce le parole di Dio e dà lo Spirito senza misura” ( Gv 3,34 ). “I suoi silenzi, i suoi miracoli, i suoi gesti, la sua preghiera, il suo amore per l’uomo, la sua predilezione per i piccoli e per i poveri, l’accettazione del suo sacrificio totale sulla croce per la redenzione del mondo, la sua risurrezione sono l’attuazione della sua parola e il compimento della rivelazione” ( Giovanni Paolo II, Catechesi tradendae 9 ). La Chiesa riconosce da sempre il dono della Parola. Per questo si reca all’appuntamento ogni ottavo giorno, il giorno della risurrezione del suo Signore, per ascoltare ciò che il Risorto ha da dirle, per nutrirsi dei doni che egli vorrà farle e per rispondere a quella Parola e a quei doni con il suo canto di grazie. Di questo vitale scambio vive la liturgia, dialogo permanente tra Dio e il suo popolo. I santi segni Il dono della salvezza annunciato dalla Parola si realizza mediante il segno sacramentale. Al cuore del sacramento stanno lo Spirito e la Parola, e in esso lo Spirito e la Parola diventano azione efficace di salvezza e di vita. Parola e gesto insieme costituiscono l’intima struttura di ogni sacramento, in conformità all’intera economia della rivelazione e della salvezza che “avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro” ( Dei Verbum, 2 ). I sacramenti sono gesti di Gesù: è sempre lui che li compie. Per questo sono efficaci. Non sono soltanto un ricordo di ciò che egli ha fatto per noi, ma una ripresentazione dei suoi gesti salvifici. I sacramenti sono attualizzazione di una presenza, non una evocazione nostalgica. I sacramenti sono gesti della Chiesa: da essa e per essa. A lei Gesù ha affidato la sua parola e i suoi gesti, non ai singoli credenti. Ed è sempre la Chiesa che li ripete e li celebra. Per questo nessun sacramento è gesto privato, ma pubblico, comunitario e festoso, celebrato davanti alla comunità e nella comunità, all’interno di una liturgia e di una ritualità che esprimono la fede, la memoria e la preghiera della Chiesa. La tradizione della Chiesa ha precisato in sette il numero dei sacramenti. E facile riconoscervi un’idea di pienezza: come sette sono stati i giorni della creazione, così sette sono anche i doni attraverso cui Dio ricrea e vivifica i credenti. I sacramenti investono l’intera esistenza del credente. Grazie ad essi la vita di fede nasce e cresce, riceve sempre nuove energie e la forza per la missione. L’unico dono della salvezza assume tonalità diverse: nel Battesimo è liberazione dal peccato, rigenerazione e passaggio dalla morte alla vita; nella Confermazione è crescita e forza per la testimonianza, la diffusione e la difesa del vangelo; nell’Eucaristia è comunione con il Signore risorto e dono di sé; nella Penitenza è riconciliazione con Dio e con la Chiesa; nell’Unzione degli infermi è purificazione, guarigione e conforto; nell’Ordine e dono per il servizio autorevole di pastore, maestro e sacerdote del popolo di Dio; nel Matrimonio è alleanza coniugale fondata sull’amore di Cristo per la sua Chiesa. Dire grazie Il dono ricevuto suscita nel cuore dei credenti una risposta che è anche un cammino: è anzitutto una professione di fede capace di riconoscere e confessare apertamente gli eventi prodigiosi compiuti dal Signore per la salvezza del suo popolo; è un atto di conversione, perché l’incontro con la salvezza giudica, rimprovera e stimola la vita e insieme la perdona, la conforta, la rincuora, la riapre alla fiducia e alla speranza; è un atto d’amore, poiché fiorisce nel cuore il desiderio di riamare Dio e tutti coloro che lui ci ha fatto riconoscere come nostri fratelli; è preghiera che si tramuta in ringraziamento, spontaneo e gioioso, della creatura al Creatore, del figlio al Padre. Riprendendo la preghiera di lode e di ringraziamento di Gesù al Padre, la Chiesa la prolunga nei secoli: “È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre Santo … ” ( Messale Romano, Preghiera eucaristica II ). Inviati per la missione Il dialogo tra Dio e l’uomo porta con sé un passo ulteriore: la missione. Tutti i vangeli, esplicitamente o implicitamente, terminano con la consegna di Cristo ai suoi discepoli: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” ( Mc 16,15 ). Chi ha conosciuto “il dono di Dio” ( Gv 4,10 ) è inviato a comunicarlo anche agli altri. Per realizzare questa missione, Gesù inviò lo Spirito di santità e di verità, vincolo di unione tra il Maestro e i discepoli, garanzia di sintonia tra la Parola rivelata e il destinatario dell’annuncio. Il cristiano potrà essere testimone del Risorto solo se ne avrà fatto l’esperienza, se cioè l’avrà incontrato, vivente tra i suoi. Il mandato di Gesù trova corrispondenza nel discepolo quando questi decide di mettersi completamente in gioco per il vangelo e accetta di conformare il proprio pensiero al pensiero di Cristo per poter vedere la storia come lui, giudicare la vita come lui, scegliere ed amare come lui, sperare come insegna lui, vivere in lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo. Il culto e la vita Il culto e la vita sono necessariamente legati. Per loro natura i riti liturgici tendono alla vita, suscitandola e orientandola, aprendola in direzione di Dio e del prossimo. Un rito che concretamente non si apra alla carità è come un gesto di Dio impedito, rifiutato. Separare il culto dalla carità, la liturgia dalla vita è menzogna, come ha scritto Paolo ai cristiani di Roma: il culto vero, cioè il culto conforme a Dio e all’uomo, è “offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio” ( Rm 12,1 ). “Corpo” sta per tutta la persona nella sua concretezza, nella sua esistenza nel mondo, nelle sue relazioni visibili, anche sociali e politiche. E che cosa significhi “offrire”, termine eminentemente cultuale, è detto da Paolo subito dopo: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la mente” ( Rm 12,2 ). Il vero culto non si esaurisce nel momento della preghiera e nel rito liturgico, ma investe di sé tutta la vita: una vita vissuta nel dono di sé, come l’esistenza di Gesù. In Spirito e verità Parlando con la donna di Samaria, Gesù afferma che il luogo della vera adorazione non è più il tempio, né quello in Gerusalemme né quello sul Garizim, perché è giunto il momento “in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità” ( Gv 4,23 ). “Adorare” è più del semplice pregare, perché dice un modo di porsi davanti a Dio, nella preghiera come nella vita. L’adorazione è il modo di vivere di chi riconosce in tutto il primato di Dio. È menzogna, dunque, separare il culto dalla vita ( Is 1,10-20; Mt 7,21-23 ). Ma non meno grave, è pretendere di entrare in comunione con Dio autonomamente, con le proprie forze, senza la mediazione dei gesti di Cristo, cioè del suo corpo che è la Chiesa. E difatti alla donna di Samaria Gesù precisa che lo spazio della vera adorazione è lo Spirito e la verità. La verità è Gesù: la sua persona, la sua vita, la comunione con il Padre. È questo il vero luogo dell’incontro con il Padre. Lo spazio dell’adorazione è l’esistenza di Gesù, non la nostra; la sua carità, non la nostra; la nostra vita soltanto nella misura in cui si inserisce nella sua vita; la nostra carità soltanto se si inserisce nella sua carità. Ma nessun uomo può fare questo da solo. Soltanto lo Spirito può sollevarci e inserire la nostra vita in quella del Figlio, il nostro amore nel suo, mediante il suo corpo, la Chiesa, che ne prolunga la presenza visibile nel tempo. Il linguaggio simbolico per esprimere la fede Gli eventi e le parole che hanno originato la fede della comunità ecclesiale sono espressi mediante un linguaggio simbolico e su di esso sono strutturali anche i riti. Nel simbolo, l’uomo esprime se stesso e la propria comprensione di sé e del mondo che lo circonda. L’uomo cresce con i suoi simboli e i simboli lo aiutano a crescere, lo plasmano, lo formano, gli comunicano cultura e ne condizionano lo sviluppo. Già nell’esperienza religiosa del popolo ebraico attestata dalla Bibbia, ritroviamo simboli e riti. Gesù ha frequentemente valorizzato la dimensione simbolica, sia nel linguaggio – le parabole ne sono un esempio evidente – sia nelle azioni: il fango imposto sugli occhi del cieco, il toccare le orecchie e la bocca del sordomuto, l’imposizione delle mani benedicenti sui bambini, i pasti condivisi con i poveri, l’ultima cena consumata con i discepoli, il lavare i loro piedi, l’umile silenzio di fronte ai suoi accusatori. La Chiesa ha seguito l’esempio del Maestro sin dalle origini, ripetendo le sue azioni, le sue parole e i suoi gesti, nella certezza che, grazie alla presenza dello Spirito, il Risorto continua ad operare prodigi proprio attraverso quelle realtà. Nella liturgia la presenza di Cristo risorto e della sua Pasqua I riti cristiani, e i sacramenti in particolare, collegano il loro simbolismo a situazioni e gesti tipici della vita: un’acqua che lava, un pane condiviso, un’unzione … Ma il senso e il fondamento di questa simbologia e della stessa azione liturgica in cui si inserisce non vanno ricondotti al semplice bisogno umano di rendere culto a Dio. La celebrazione dei riti cristiani ha la sua motivazione originaria nella Pasqua di Cristo, cioè nella sua risurrezione che vince la morte e comunica il dono dello Spirito. Se Gesù non fosse risorto, oggi non ci sarebbe una liturgia cristiana, e senza la presenza dello Spirito, il culto cristiano sarebbe simile a qualunque altro culto. Il mistero pasquale è un momento decisivo e riassuntivo: dà significato a tutto quanto è accaduto prima e a quanto accadrà dopo nella storia della salvezza. E un evento reale, accaduto nella nostra storia, ma non rimane ancorato al passato, perché, in forza del suo legame con la realtà divina di Cristo abbraccia tutti i tempi. Questo evento viene ripresentato nell’Eucaristia e dispiega la sua efficacia in vari modi negli altri sacramenti e in tutta la liturgia. “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” ( Mt 28,20 ): il dono dello Spirito agli Apostoli assicura la presenza del Risorto per sempre e conferisce loro il potere di santificazione. Le azione liturgiche si configurano come azioni in cui Cristo è presente: “È presente nel sacrificio della Messa sia nella persona del ministro … sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza … È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura … E presente, infine, quando la Chiesa prega e loda” ( Sacrosanctum Concilium 7 ). In forza di questa presenza la celebrazione cristiana non si risolve in un semplice ricordo, come nel caso di una rievocazione o di un anniversario. Essa rende attuale ed efficace ai fini della salvezza l’evento pasquale di Cristo. Fatti simili a Lui CCC nn. 1212-1321 CdA nn. 663-683 CdG1 pp. 224-227; 283-287 Seguire Gesù significa crescere a sua immagine e diventare in tutto simili a lui. Far nostri i suoi pensieri, le sue scelte e il suo modo di vivere comporta partecipare realmente al suo destino, far nostra la sua morte e la sua risurrezione. Agire come lui comporta diventare, nel profondo del nostro essere, come lui. Il mondo interiore e la natura profonda della personalità di ciascuno devono essere trasformati a immagine di Gesù. Tutto ciò, prima di essere oggetto dei nostri sforzi, è frutto di un dono: la vita nuova nello Spirito, trasmessaci dal Signore Risorto mediante il Battesimo e portato a pienezza nella Cresima. Essere cristiani significa perciò consentire a Cristo di rivestirci della sua stessa vita. Della celebrazione del Battesimo, però, la maggior parte dei giovani italiani non conserva un ricordo diretto. La sua collocazione nei primi mesi di vita non rende possibile recuperare le memoria di quel giorno. Solo qualche foto o, nei casi più fortunati, la testimonianza di chi prese parte al rito ci possono regalare scorci di un evento che ha aperto la nostra vita all’incontro con Dio e con la comunità dei cristiani. Quanto alla Confermazione la situazione è variegata: per molti essa fa parte dei ricordi della fanciullezza; per altri costituisce un’esperienza dell’adolescenza; per altri è solo una prospettiva futura, non avendola ancora ricevuta. È doveroso, dunque, ripercorrere i significati profondi dei due sacramenti, strettamente uniti tra di loro, per ravvivare il dono ricevuto o per renderlo più vicino a chi non lo possiede ancora. Il Battesimo come morte e risurrezione Lo Spirito Santo mediante il seme della Parola e la predicazione del vangelo, chiama tutti gli uomini a Cristo e suscita nei cuori l’adesione della fede e “nel seno del fonte battesimale genera a nuova vita i credenti in Cristo” ( Ad gentes, 15 ). Uniti e conformati a lui, formiamo la Chiesa, suo mistico corpo. L’inserimento in Cristo e nella Chiesa richiede un profondo rinnovamento interiore, reso possibile dal dono della grazia, un rinnovamento che assume il significato di un passaggio dalla morte alla vita. Il rito di immersione nell’acqua battesimale, forma originaria del Battesimo, esprime la volontà di immergersi con Cristo nella morte, per risuscitare con lui a vita nuova. In forza del Battesimo ogni cristiano può affermare, in modo misterioso, sacramentale, ma reale, di essere morto e risorto con il Signore. Sant’Ambrogio ha in proposito parole molto espressive: “Affinché il legame del diavolo fosse spezzato anche in questo mondo, è stato trovato il modo di far morire l’uomo, pur lasciandolo vivo, di farlo risorgere, ancora da vivo” ( I sacramenti, 2,19 ). Il mistero di morte - risurrezione contenuto nel rito battesimale viene così esposto dall’apostolo Paolo nella lettera ai cristiani di Roma: “Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua” – cioè nel rito battesimale – “lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato … Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù” ( Rm 6,3-7.11 ). In questa catechesi battesimale Paolo mette anzitutto in rilievo che il Battesimo ci unisce talmente alla croce di Cristo, da poter dire che siamo stati sepolti con lui e crocifissi con lui. Giustamente, però, Paolo non parla soltanto di sepoltura e di crocifissione, ma anche di risurrezione. Anzi, è proprio questa la cosa che più importa: il Battesimo ci fa partecipi della vita nuova di Cristo risorto, e quindi realmente partecipi della vita divina perché “chiamati figli di Dio” ( 1 Gv 3,1 ), “eredi” dei beni eterni ( Rm 8,17 ). Un dono e un compito Il Battesimo, come ogni altro sacramento, non sta ai margini della vita concreta e quotidiana, ma dentro, per animarla e trasformarla. Non è un fatto concluso in se stesso, bensì un gesto che impegna la vita e in essa si svolge: da tutta la vita dovrà essere confermato o potrà essere anche tragicamente smentito. Dal modo con cui Paolo usa il vocabolario del Battesimo – ad esempio i verbi “morire” e “risorgere” –, si comprende che il Battesimo è al tempo stesso un dono e un compito. Per questo i medesimi verbi sono a volte all’indicativo ( “siete morti e risorti con Cristo” ) e allora significano il Battesimo, il gesto col quale il Signore Gesù ci ha, per puro dono, associati alla sua morte e risurrezione; a volte, invece, gli stessi verbi ricorrono all’imperativo ( “dovete morire e risorgere” ) e allora significano l’impegno morale richiesto al credente, la lotta quotidiana al peccato resa possibile dalla presenza dello Spirito del Risorto in noi. Sempre dal modo con cui Paolo usa i verbi battesimali, si comprende, inoltre, che il Battesimo è l’inizio di una storia, un germe, che via via cresce fino a raggiungere la sua piena maturazione. I verbi battesimali usati al passato alludono al Battesimo ricevuto; al presente indicano la nuova condizione iniziata col Battesimo, che ogni giorno si manifesta e nella quale ogni giorno viviamo; al futuro significano l’attesa dell’ultima Pasqua, nella quale definitivamente e pienamente entreremo nella vita di Dio. Il Battesimo inizia una storia comunitaria e nuova. Comunitaria perché inserisce il credente nella vita e nel cammino di un popolo, il popolo di Dio. Il Battesimo è il sacramento che introduce il credente nella Chiesa e misteriosamente lo innesta come tralcio nell’unica vite ( Gv 15,1-8 ). L’innesto si manifesta in una triplice condizione e missione: il battezzato è re, cioè liberato dalla dipendenza dalle cose per essere, come Cristo, Signore della sua vita e del creato; è sacerdote della nuova alleanza e per questo capace di ricomprendere e vivere la sua esistenza e quella del mondo come continuo atto di amore a Dio; è profeta, per poter leggere in ogni momento di vita la traccia del regno di Dio che viene e il disegno del Padre nella storia. Dal Battesimo inizia una storia nuova perché vissuta da uomini nuovi, morti al peccato, alla vecchia logica del mondo, e risorti a una vita nuova, che si attua nell’orizzonte che ha guidato l’intera esistenza di Gesù. Dal Battesimo inizia una storia nuova, che si costruisce in dipendenza da Dio e non nell’autonomia della ribellione, come fu il peccato di Adamo, che pretese di liberarsi dal dominio di Dio per fare di se stesso il criterio del bene e del male. La Confermazione come compimento del dono Il sacramento della Confermazione, assieme al Battesimo e all’Eucaristia, fa parte dei “sacramenti dell’iniziazione cristiana”, e come tale costituisce uno dei fondamenti della vita del credente. Se nel Battesimo rinasce alla vita nuova, nella Confermazione il cristiano riceve il dono dello Spirito per confermare e sostenere questa novità e rendere sempre più saldo il legame con la Chiesa. Così come è vissuto e celebrato oggi nella tradizione latina che lo conferisce nell’età della discrezione, il sacramento della Confermazione conduce alla consapevolezza della fede e abilita a viverne le responsabilità. Per questo è chiamato anche sacramento della maturità cristiana. Lo Spirito Santo risveglia e conferma una novità di vita – quella battesimale –, che non invecchia mai e che mai dobbiamo considerare esaurita. La Confermazione rende “perpetua”, in un certo senso, l’opera del Battesimo. In che modo siano collegati i due doni dello Spirito – prima nel Battesimo e poi nella Confermazione – lo intuiamo guardando alla storia di Gesù. Lo Spirito interviene due volte nella missione di Cristo: nel concepimento verginale lo costituisce nel suo essere Messia e Figlio di Dio; nel battesimo al Giordano, in cui il Padre attesta pubblicamente Gesù come Messia, gli conferisce la missione di Salvatore, secondo la figura del Servo. Nel Battesimo si diventa dunque figli di Dio e della Chiesa, si è chiamati per nome. Con la Confermazione lo Spirito, che sempre agisce attraverso la Chiesa, affida un compito e una missione personali; aiuta a tradurre la costante novità di vita in impegno concreto in una comunità. Il “figlio” è chiamato a diventare il “testimone”; colui che è stato perdonato e reso nuova creatura è chiamato ad annunciarlo a tutti con la vita; colui che è stato aggregato al nuovo popolo di Dio dovrà farne parte in modo responsabile e attivo. Vivere da battezzati e confermati La novità, che Battesimo e Confermazione introducono nella vita del credente, non è mai senza una rottura con il passato. Vivere da uomini nuovi, implica deporre l’uomo vecchio. Qui vecchio e nuovo non sono in senso cronologico, ma teologico: vecchio è ciò che è del peccato, nuovo è ciò che è di Dio. Il Battesimo inserisce la storia personale di ciascuno nella storia di Gesù; nasce così l’uomo nuovo in Cristo. Il Battesimo ci rende figli di Dio innestandoci nella sua vita per mezzo dello Spirito. Ma la vita battesimale, proprio perché nuova, non e mai senza lotta, in quanto è sempre minacciata dalla tentazione, come è stata la stessa esistenza di Gesù, il quale, subito dopo il Battesimo, fu condotto nel deserto per essere tentato dal diavolo ( Mc 1,12-13 ). Morire al peccato è una lotta quotidiana: un continuo sforzo di liberarsi da un’esistenza rivolta a sé per un’esistenza aperta a Dio e ai fratelli. Fate questo in memoria di me CCC nn. 1322-1419 CdA nn. 684-699 CdG1 pp. 148-149; 150-155 L’Eucaristia è il centro dell'esistenza della Chiesa, perché nel segno del pane e del vino si fa realmente presente il Signore. Essa è il luogo per eccellenza della comunione con Dio e fonte e culmine di tutta la vita cristiana. Ciò nonostante attorno alla celebrazione eucaristica spesso si fa il vuoto. Il “precetto domenicale” che comporta l’impegno alla partecipazione alla Messa nel giorno festivo, rende maggiormente visibile, più che negli altri sacramenti, il livello di maturità raggiunto dalla nostra fede. Pigrizie, incomprensioni, storture e resistenze rendono difficoltosa e altalenante la partecipazione, specialmente tra i giovani, grandi assenti alla Messa domenicale. Sono tanti i motivi che raffreddano gli entusiasmi attorno alla mensa eucaristica: chi la giudica ripetitiva, si annoia e la evita; chi la sente estranea alla vita la ritiene superflua e si affida al rapporto diretto con Dio nella preghiera privata; chi la ricerca per trovare il calore di una comunità, rimane spesso deluso da certi stili formali e burocratici … Per una Messa che può apparire insignificante e poco espressiva occorre trovare un rimedio, anche se non siamo noi che dobbiamo cambiare la Messa e prestarle l’anima, ma è la Messa che deve cambiare noi. Le difficoltà tendono a sciogliersi quando si arriva a capire che la celebrazione eucaristica non è qualcosa che facciamo noi, ma qualcosa che Cristo ha fatto per noi: il dono della sua vita. Da qui scaturisce lo stupore, la lode e la gioia: il terreno buono su cui è possibile coltivare il rendimento di grazie, cioè l’Eucaristia. Memoria che rende presente la morte e risurrezione del Signore “Fate questo in memoria di me” ( Lc 22,19; 1 Cor 11,24 ): il comando di Gesù, che leggiamo nei racconti neotestamentari dell’ultima cena, è ripetuto ancora oggi al centro di ogni liturgia eucaristica. In tal modo la Chiesa dichiara di agire in obbedienza a quanto il Signore stesso ha voluto. Quel comando, come ogni altro che Gesù ha dato, era insieme una promessa: ogni volta che voi farete questo in memoria di me, io sarò in mezzo a voi e voi sarete in comunione con me. Non è un semplice ricordo né una semplice promessa, ma una realtà. La parola “memoria” qui ha un significato molto diverso di quello che le viene comunemente attribuito nel linguaggio ordinario. La Messa celebra e ripresenta il sacrificio di Gesù, consentendoci in tal modo di parteciparvi, presenti anche noi, sebbene la croce sia stata e resti un evento passato e personale di Gesù. Nella Messa avviene ciò che è avvenuto nell’ultima cena di Gesù: lì i suoi gesti e le sue parole non sono stati semplicemente una prefigurazione del Calvario, né semplicemente una spiegazione del suo significato salvifico. Oggi la Messa non è semplicemente un ricordo del sacrificio del Calvario o una spiegazione del suo significato. Essa è molto di più: la parola di Gesù è parola efficace; ciò che egli annuncia si realizza nel momento stesso e per il fatto stesso che egli lo annuncia. In forza di questa efficacia, i discepoli nell’ultima cena non sono semplicemente davanti alla notizia degli eventi che avverranno al Calvario. Quegli eventi sono già in atto, realmente presenti nella cena: i discepoli li stanno vivendo. Non solo è predetto il futuro, ma, addirittura, è offerto ai discepoli come dono il futuro profetizzato. E così è oggi in ogni Messa. I gesti e le parole di Gesù – quelli dell’ultima cena come, oggi, quelli che il sacerdote compie in suo nome nella Messa – sono efficaci, compiono ciò che dicono, realizzano ciò che significano. Con la cena eucaristica i discepoli di allora e di oggi hanno così veramente accesso a un evento altrimenti inaccessibile: la morte e risurrezione di Cristo. È in questo senso forte che la Chiesa, celebrando l’Eucaristia, “fa memoria” della vita di Gesù, una vita in dono, e in questa memoria trova la forza e la direzione per entrare a sua volta, con tutta se stessa, nella logica del dono. Fare comunione col Signore e tra noi La comunione con Gesù non è un mistero che si celebra semplicemente nella liturgia, con gesti e parole. Il comandamento ( “fate questo in memoria di me” ha un duplice spessore: fare memoria nel sacramento e fare memoria nella vita, rendere presente Gesù nel sacramento e renderlo presente nella carità. In questo senso è particolarmente eloquente il racconto del Vangelo di Giovanni, che non riferisce lo spezzare del pane, ma la lavanda dei piedi, un gesto simbolico con il quale Gesù mostra che l’intera sua vita, come la morte ormai imminente, altro non sono che gesto di donazione, di servizio e di condivisione ( Gv 13,1-20 ). “Beati gli invitati alla cena del Signore”: è questo un invito che ci viene rivolto in ogni Messa. È un invito a fare comunione con il Signore e anche fra noi. La fraternità non è il senso ultimo dell’Eucaristia, che resta sempre il dono e la presenza di Gesù. Questo è vero: la fraternità, la solidarietà, gli stessi ideali di giustizia e di pace sono realtà precarie, se poggiano su se stesse. Ma sono solide se poggiano sul dono e sulla presenza di Gesù, se da quel dono e da quella presenza mutuano la forza e la direzione, se di quel dono e di quella presenza sono la manifestazione visibile, la pregustazione oggi di una pienezza che ci è promessa nel futuro. L’Eucaristia è il sacramento con il quale tutta la nostra vita è chiamata a concentrarsi nel gesto di suprema donazione di Gesù, in quel gesto unificarsi e trasfigurarsi, acquistando così un valore e un significato che altrimenti non avrebbe. L’Eucaristia dà senso alla vita: non solo alla vita di ciascuno, ma anche alla storia umana nella sua totalità. Questa insistenza sull’importanza della vita non deve però essere fraintesa. E vero che se la celebrazione eucaristica non trova la sua espressione nella vita, appare certamente come un segno vuoto: ogni sacramento è sempre orientato alla vita. Ma la non corrispondenza con la vita, non basta per rendere falso e vuoto il segno. La verità e l’efficacia del segno sacramentale, infatti, riposano sulle parole di Gesù e sulla sua promessa di essere presente fra noi sino alla fine dei secoli. La verità del sacramento non poggia sulla nostra carità. Presenza reale del Signore Gesù Nei segni del pane e del vino è realmente presente il Signore. È questa la certezza più consolante, anche se per molti è proprio questo il punto più difficile da accettare. La fede ci dice che i gesti e le parole trasformano la sostanza stessa del pane e del vino, ne toccano misteriosamente la natura profonda, fanno di queste cose materiali una realtà nuova. E presente la persona di Cristo nella sua pienezza e nella sua totalità. Questa presenza rimane disponibile nei segni del pane e del vino anche oltre la celebrazione della Messa. La devozione, l’adorazione dei fedeli e la visita al santissimo Sacramento, proprio perché hanno in se stesse un ineliminabile orientamento al sacrificio e al rendimento di grazie che nella Messa si celebra, consentono di attingere ulteriormente alla ricchezza di quel mistero. Parola di vita eterna La Messa per molti cristiani è insignificante, si osservava all’inizio. Ma il rimedio – lo abbiamo compreso – non può esaurirsi nella ricerca di forme espressive, capaci di rendere la celebrazione più vivace, più spontanea, più idonea a suscitare simpatia e affiatamento reciproco. Il rimedio deve essere trovato più in profondità, là dove la riflessione sul gesto di Gesù ci ha condotto. Il Vangelo racconta che molti discepoli, al sentire Gesù parlare della sua carne da mangiare e del suo sangue da bere, gli voltarono le spalle dicendo: “Questo linguaggio è duro: chi può intenderlo?”. E alla domanda di Gesù se anche i Dodici volessero andarsene, Pietro rispose professando la propria fede e quella degli apostoli: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” ( Gv 6,60.69 ). Parola di vita eterna è stata l’ultima cena; parola di vita eterna è la celebrazione eucaristica. Consegnandosi a noi come cibo, Gesù per primo realizza nella sua persona il programma proposto ai discepoli, secondo il quale nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i fratelli ( Gv 15,13 ). La comunità fa l’Eucaristia per vivere a sua volta del dono che le viene dall’Eucaristia, dono di comunione con il Signore e con tutti i fratelli. Lasciatevi riconciliare CCC nn. 1422-1498 ( vedi pure 1845-1876 ) CdA nn. 701-711 CdG1 pp. 92-97; 288-289 Il cammino battesimale, pur animato e sostenuto dall’Eucaristia, resta sempre fragile. Il credente ha sempre la possibilità di scandalizzarsi del vangelo e di allontanarsi dal Signore. In questo contesto di peccato, il sacramento della Riconciliazione ha lo scopo di riaccendere in noi l’amore di Dio e di riportarci pienamente a lui. Per questo riorientamento non basta ammettere di aver sbagliato e chiedere perdono: è necessaria una trasformazione profonda, che solo Dio può compiere in noi. Al cuore del sacramento della Riconciliazione non sta l’uomo e il suo tentativo, a volte amaro, di un bilancio della vita; sta, invece, l’amore di quel Dio che ci chiama e ci conduce lungo un cammino di santità. Anche nella celebrazione di questo sacramento i credenti sperimentano difficoltà e incertezze. Non pochi di coloro che vivono normalmente l’incontro con Cristo nell’Eucaristia hanno perso il riferimento alla Riconciliazione. E anche qui i motivi sono tanti: dalla pigrizia che porta a rimandare continuamente la confessione alla difficoltà di esprimersi con sincerità ad un sacerdote, dalla perdita del senso del peccato alla mancanza di fede e di speranza nella possibilità di cambiare vita. Eppure sappiamo bene cosa vuol dire essere perdonati, o poter ristabilire un rapporto di amore, o ricominciare da capo senza perdere la stima degli altri … Tutto questo ci chiede di uscire dal nostro isolamento, dal nostro ripiegamento ed aprirci al dono che ci viene dall’alto, per mezzo della Chiesa. Gesù, il volto della misericordia di Dio Gesù con la sua parola, i suoi gesti, tutta la sua vita ha manifestato la misericordia e il perdono di Dio verso i peccatori. Egli è venuto per liberarci dalla schiavitù del peccato ( Gv 8,34-36 ) e per condurci “dalle tenebre alla sua ammirabile luce” ( 1 Pt 2,9 ) L’evangelista Marco sottolinea come Gesù abbia iniziato la sua missione invitando alla penitenza e alla conversione, nell’accoglienza della buona notizia della misericordia di Dio: “Convertitevi e credete al vangelo” ( Mc 1,15 ). Gesù, tuttavia, non chiama solo alla conversione: accoglie i peccatori, li riconcilia con il Padre, compie gesti di perdono e di salvezza, dona la sua vita e risorge per la nostra riconciliazione. Agli apostoli e alla comunità dei discepoli – essi stessi, per primi, peccatori perdonati – egli affida la missione di portare a tutti i segni della misericordia e del perdono: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi” ( Gv 20,22-23 ). Come Gesù, anche la Chiesa continua a chiamare gli uomini alla conversione dal peccato, a manifestare la misericordia di Dio e a celebrarla nei sacramenti. Essa stessa è consapevole di essere chiamata a percorrere un costante cammino di conversione e penitenza, illuminata dalla parola di Dio e sorretta dalla grazia dei sacramenti, con il dono dello Spirito. La celebrazione del Battesimo e dell’Eucaristia già fa risplendere, in modo proprio e fondamentale, la vittoria di Cristo sul peccato e il dono della riconciliazione, che la Chiesa, per mandato di Cristo, celebra nel sacramento della Penitenza o Riconciliazione. Questo sacramento – nelle differenti forme liturgiche in cui la Chiesa lo ha celebrato nella storia e oggi lo celebra – è l’espressione più efficace di quel processo o cammino di conversione e di riconciliazione a cui tutti nella Chiesa siamo chiamati: celebrazione e confessione, sempre e anzitutto, della misericordia e del perdono di Dio, capace di trasformare e guarire il nostro cuore, le nostre relazioni, le nostre situazioni segnate dal peccato. Dopo il Battesimo, il sacramento della Penitenza è il segno e lo strumento perché il dono della grazia e della riconciliazione della Pasqua di Cristo vincano il nostro peccato. “Acqua e lacrime non mancano alla Chiesa: l’acqua del Battesimo e le lacrime della Penitenza” ( Sant’Ambrogio, Lettere, 41,12 ). Il perdono nella comunità e mediante essa Il sacramento della Riconciliazione non ha nulla di sorprendente, se si fa attenzione alle modalità costanti dell’azione salvifica di Dio e alla concezione cristiana del peccato e del perdono. Il peccato ha sempre una direzione verticale, raggiunge Dio, e al tempo stesso comunitaria, coinvolge la comunità. La Bibbia sa molto bene che il peccatore non può colpire Dio direttamente: “Se pecchi, che gli fai?”, viene chiesto a Giobbe a riguardo di Dio ( Gb 35,6 ). Ciononostante è ugualmente vero che il peccato raggiunge Dio, perché Dio è divenuto vulnerabile in forza del suo amore per l’uomo. Davide ha commesso una grave ingiustizia contro un uomo, eppure esclama: “Contro dite, contro te solo ho peccato” ( Sal 51,6 ). La vulnerabilità di Dio ha raggiunto il suo vertice nell’incarnazione: il Figlio di Dio si è fatto uomo, ha dato se stesso per gli uomini e si è identificato con ogni uomo. Di fronte alla Croce di Gesù il “contro te solo ho peccato” del salmista assume un significato molto concreto. Nella concezione cristiana il peccato – qualunque peccato – va oltre l’individuo e raggiunge la comunità, mortificandola, impedendole di essere quale dovrebbe essere. Il peccato ferisce la Chiesa all’interno e all’esterno: all’interno, perché costituisce un motivo di scandalo per i fratelli, e soprattutto perché mortifica la vita della stessa comunità, impedendole di produrre quei frutti di santità ai quali è chiamata; all’esterno, perché oscura la visibilità della Chiesa, impedendole di essere “un segno innalzato fra le nazioni” ( Ad gentes, 36; si veda Is 11,12 ), mortificandola nel suo compito di essere la “trasparenza” di Dio. E come il peccato ha una dimensione ecclesiale, così anche il perdono di Dio. Dio ci perdona singolarmente, uno ad uno, ma sempre nella Chiesa e tramite la Chiesa. Questo non soltanto perché il perdono è un ritorno alla Chiesa oltre che a Dio, ma perché la misericordia di Dio, come ogni altra sua azione di salvezza, raggiunge i singoli uomini nella comunità e attraverso la comunità. Si comprende, a questo punto, che il sacerdote è ministro del perdono in nome di Cristo proprio nella sua qualità di ministro della comunione ecclesiale. Perciò egli non è mai solo: in lui è Cristo che perdona, mentre è rappresentata, e impegnata, l’intera comunità ecclesiale. Si comprende anche perché la celebrazione del sacramento della Riconciliazione non sia mai esclusivamente individuale, ma sempre comunitaria. Questo aspetto viene messo particolarmente in luce nella forma di celebrazione comunitaria del sacramento proposta dal rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione individuale. Coscienza del peccato e attesa della misericordia Se il sacramento della Penitenza o Riconciliazione ha un significato così ricco e importante per l’esperienza cristiana, come mai esso viene da tanti trascurato oppure celebrato in modo inadeguato? Abbiamo già visto che le cause possono essere numerose, ma alla base si avverte la necessità, alla luce della fede, di un’educazione a una più corretta coscienza del peccato e di una formazione ai diversi momenti e atteggiamenti che costituiscono un autentico cammino di riconciliazione. C’è chi considera peccato solo gli atti contro il prossimo, e allora si domanda: perché devo chiedere perdono a Dio? Chi pensa così, non ha compreso la dimensione più profonda del peccato, cioè il suo riferimento a Dio. Anche se direttamente contro il prossimo, il peccato ha sempre una direzione verticale. E c’è chi coglie la direzione verticale del peccato, ma proprio per questo considera il perdono un fatto privato, fra lui e Dio: non basta chiedere perdono a Dio con sincerità? perché confessare i propri peccati a un uomo? Chi ragiona così, non ha compreso la dimensione ecclesiale del peccato, di ogni peccato. Dietro le due ragioni indicate, certo importanti, c’è un fattore ancor più grave: in molti si è attenuato il senso stesso del peccato. Le cause sono più d’una. La prima è che ci sentiamo meno facilmente peccatori, perché ci sentiamo meno facilmente liberi. Psicologi, psicanalisti e sociologi parlano spesso dei condizionamenti ambientali e dei complessi psicologici che incidono sulla responsabilità dei nostri atti e pensieri. Tutti siamo allora inclini a sentirci vittime più che colpevoli: vittime degli altri e della società, di carenze educative, di genitori che non ci comprendono, di amici che ci deludono, del sistema nervoso, della stanchezza e così via. Proprio perché vittime, ci sentiamo in diritto di esigere cure e sollievi, più che sentirci debitori di un’umile confessione. Così ci si allontana dalla confessione; o si cerca in essa conforto e umana comprensione da parte di un prete, non il perdono di Dio. Una seconda causa per cui ci sentiamo meno facilmente peccatori, è il secolarismo, che è entrato nel tessuto della nostra mentalità e della nostra vita. Ci si chiede come possa interessare a Dio questo o quel gesto della nostra vita quotidiana. Tutto diventa lieve o addirittura innocente: gli interessi sono interessi, gli affari sono affari, la vita ha le sue esigenze; per quanto poi riguarda il sesso, si dice che occorre sbarazzarsi di antichi complessi e tabù frustranti. Un’ulteriore possibile causa di allontanamento dal sacramento della Penitenza, specialmente da una sua celebrazione frequente, è la diffusa convinzione che il peccato mortale sia cosa rara. Ma è proprio così? C’è il rischio di non cogliere in noi una certa condizione complessiva, che, al di là dei singoli peccati, si configura come condizione di incredulità pratica. Se sapessimo sinceramente pentirci e avvertire il bisogno del perdono di Dio per le nostre colpe quotidiane, scorgendo in esse la manifestazione obiettiva di una reale incredulità che sempre ci minaccia, probabilmente ritroveremmo più ovvio e naturale il ricorso alla confessione sacramentale pure quando essa non è rigorosamente indispensabile. Una più avvertita coscienza di peccato e la consapevolezza della misericordia di Dio e della gratuità del suo perdono sono certamente alla base di un cammino penitenziale e della stessa celebrazione del sacramento della Riconciliazione. Il cammino della riconciliazione Il rito della Penitenza presenta gli elementi richiesti per la celebrazione del sacramento: l’ascolto della Parola che apre alla fiducia nella misericordia di Dio e al riconoscersi peccatori bisognosi di perdono; la contrizione, ovvero il dolore del peccato e il proposito di una vita nuova; la confessione delle colpe, nella sua componente di esame della coscienza e di accusa dei peccati; la soddisfazione, come emendamento della vita e riparazione dei danni arrecati; l’assoluzione, con cui Dio comunica mediante la Chiesa il suo perdono. Da questi elementi possiamo ricostruire le condizioni per fare una buona confessione, ossia un vero e proprio itinerario penitenziale, che la tradizione catechistica, a sua volta, è solita indicare pedagogicamente in cinque tappe: l’esame di coscienza, il dolore dei peccati, il proposito di non più commetterne, l’accusa dei peccati e la soddisfazione o penitenza. L’esame di coscienza non è un confronto con se stessi né con gli altri, ma con la parola di Dio. Confrontandosi con se stesso e con i propri ideali l’uomo può certo scoprire le proprie incoerenze, ma questo non è ancora la piena consapevolezza del peccato come offesa di Dio. La coscienza di essere peccatori è dono di Dio. Tra senso di colpa e senso del peccato vi è una grande differenza. Il senso del peccato si fa chiaro nell’ascolto della Parola, all’interno di una autentica esperienza di fede. Adamo diviene consapevole del suo peccato all’avvicinarsi dei passi di Dio ( Gen 3,8 ). Il profeta Isaia prende coscienza della sua impurità nella visione del Signore ( Is 6,5 ). È quando intuisce la verità di Gesù, che Pietro si scopre peccatore ( Lc 5,8 ); e così accade pure a Zaccheo ( Lc 19,8 ). Quando è folgorato da Cristo, Paolo percepisce il suo stato di tenebre ( At 9,1-9 ). Solo alla luce della Parola l’esame di coscienza conduce alla vera comprensione di sé e di Dio o, meglio, alla vera comprensione di sé davanti a Dio. Il dolore dei peccati e il proposito di non più commetterne, come sottolinea il rito della Penitenza, sono strettamente congiunti: il secondo è la sincerità del primo. Possiamo dire che formano un unico atto, che, tra quanto è chiesto al penitente, occupa il primo posto. Il pentimento per i propri peccati non è la semplice delusione o il rammarico di avere sbagliato, ma il dispiacere di aver offeso il Signore, rifiutando il suo amore. Di qui nasce la domanda del perdono e il proposito di cambiare vita. Domanda e proposito che, però, non fanno soprattutto affidamento sulla sincerità della nostra volontà – che pure deve essere piena e totale – ma sulla bontà e sulla forza del Signore. La confessione dei peccati davanti alla comunità, ossia al ministro che agisce in nome di Cristo e rappresenta la comunità, è un gesto con cui il peccatore esce da sé, dal suo rapporto individuale con Dio, e sottopone il proprio caso alla Chiesa. È un gesto con il quale riconosce che il peccato e la misericordia hanno un legame con la Chiesa. Ed è un gesto che al tempo stesso dice dipendenza e fiducia: prima che confessione dei peccati è confessione gioiosa dell’amore di Dio che perdona. Con l’assoluzione del sacerdote il cammino della riconciliazione raggiunge il suo punto più alto. È la risposta della Chiesa al peccatore che manifesta il suo desiderio di conversione, una risposta che è il segno visibile del perdono di Dio. Il perdono di Dio ci restituisce a noi stessi e alla nostra libertà. È molto più di un semplice perdono fra uomini: il perdono di Dio rinnova e ricrea. Giustamente, nella sua domanda di perdono, il salmista dice al Signore: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo” ( Sal 51,12 ). Il peccato è profondamente radicato nel cuore dell’uomo. Non basta che Dio lo dimentichi: l’uomo ritornerebbe immediatamente al suo peccato. Occorre un perdono che operi una trasformazione, una nuova creazione. Non basta la bontà di Dio: occorre la sua potenza creatrice, la sua grazia. C’è poi l’attuazione della soddisfazione o penitenza, un gesto che contribuisca a purificare la nostra esistenza e che in qualche modo sia ricerca di riparare il danno arrecato ai fratelli con il nostro peccato. Accettandola dal sacerdote, manifestiamo la nostra adesione alla comunità e la coscienza di averla offesa. Essa è un segno, ma già nella sua semplicità si propone come primo passo di un impegno a entrare sempre più nel mistero della salvezza. Non è pagare un debito, ma l’espressione concreta della volontà di rimediare al peccato e di entrare in un dinamismo di vita nuova. La celebrazione della Riconciliazione è esperienza forte di accoglienza: di Dio nella sua misericordia senza limiti, della Chiesa come comunità di fratelli e sorelle riconciliati in Cristo, di noi stessi e degli altri. È una esperienza che trova fondamento ed espressione nelle parole della preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, con la quale chiediamo al Padre che sia perdonato a noi come noi perdoniamo ( Mt 6,12 ). La celebrazione della Riconciliazione è un momento di libertà e di festa: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” ( Lc 15,7 ). Tempio di Dio e dell’uomo CCC nn. 1163-1178 CdA nn. 653-661 CdG1 pp. 99; 156-157; 228-229 La Bibbia si apre e si chiude con due riferimenti temporali: “In principio Dio creò il cielo e la terra” ( Gen 1,1 ), “Sì, vengo presto” ( Ap 22,20 ). In essa la rivelazione di Dio è vista in stretta connessione con la storia degli uomini, una storia contrassegnata dall’irrompere della salvezza nel tempo. San Paolo ricorda ai credenti della Galazia che “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio” ( Gal 4,4 ); ugualmente gli evangelisti narrano la vicenda di Gesù riferendola al compiersi di un tempo particolare in cui la salvezza è annunciata e si va realizzando. Dio fa della storia dell’uomo una storia sacra, in cui la salvezza è in un primo tempo prefigurata, preparata e avviata, poi attuata in Cristo, successivamente continuata dalla Chiesa e interamente compiuta alla fine dei tempi, al ritorno di Cristo. Anche la nostra esperienza di vita è contrassegnata dalla percezione di un tempo che assume intensità diverse: la festa ha un sapore diverso dal periodo dedicato al lavoro, così come un evento significativo ci fa vibrare maggiormente rispetto alle cose di tutti i giorni. Sembra necessario, a livello personale o sociale, saper ritmare il tempo per far emergere in alcuni momenti forti le realtà più importanti della vita. Il giorno del Signore Nel ritmo evangelico della vita, scandito da lavoro e festa, da preghiera e operosità, la domenica ricopre un significato particolare: è il giorno in cui la Chiesa celebra la Pasqua settimanale, è il “giorno del Signore” e il “signore dei giorni”. “Tutto ciò che Dio ha creato di più grande e di più sacro”, ricordava Leone Magno, “è stato da lui compiuto nella dignità di questo giorno” ( Lettera, 9,1 ): l’inizio della creazione, la resurrezione del suo Figlio, l’effusione dello Spirito Santo. La ricchezza di significati impressi alla domenica spesso svanisce all’interno dello stile di vita diffuso nella nostra cultura: la fuga del “fine-settimana” dalle città, il lavoro domenicale, la noia e il vuoto di valori, minano il terreno su cui costruire un vero giorno per l’uomo e per Dio. La Chiesa, attraverso i secoli, ha inteso la domenica come un tempo forte ben caratterizzato: è “giorno del Signore” da dedicare a Dio nel riposo e nel culto; è “giorno della Chiesa” in cui manifestare l’unità di “un cuore solo e un’anima sola”; è “giorno dell’eucaristia” per perpetuare la presenza del Signore risorto e per fare della propria vita un dono; è “giorno della missione”, scuola di vita e impegno di testimonianza; è “giorno della carità” per vivere l’attenzione ai più poveri, agli ammalati, agli infelici, a chi è nella solitudine; è “giorno della festa” in cui deporre la tristezza degli affanni quotidiani per partecipare alla gioia comune; è “l’ottavo giorno” in cui Cristo, dopo il suo “riposo” del grande Sabato, inaugura il Giorno “che il Signore ha fatto”, il “giorno che non conosce tramonto”. L’anno di grazia del Signore A partire dalla domenica si è sviluppato il ciclo dell’anno liturgico che ha come centro il ricordo della Pasqua annuale, la più grande delle solennità. Il mistero di Cristo, troppo ricco e profondo per essere esaurito in un unico ricordo, viene in un certo senso frazionato perché sia possibile appropriarsi anche degli aspetti particolari. E così gli eventi e le parole della vita di Cristo sono stati ripercorsi uno a uno, per attingere da essi luce e forza. La Pasqua si è allargata al Triduo pasquale e si è poi dilatata in due direzioni: in avanti fino alla Pentecoste, per un periodo di cinquanta giorni; indietro con il periodo quaresimale, come tempo di preparazione. Similmente al ciclo pasquale, si è formato anche un ciclo natalizio attorno alla festa del Natale. Inoltre, lungo l’anno sono comparse le feste della Vergine Maria e dei santi. “Ricordando in tal modo i misteri della redenzione, ( la Chiesa ) apre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti del suo Signore, così che siano resi in qualche modo presenti in ogni tempo, perché i fedeli possano venirne a contatto ed essere ripieni della grazia della salvezza” ( Sacrosanctum Concilium, 102 ). Il canto della lode dal mattino alla sera La testimonianza della Chiesa delle origini attesta che la comunità si riuniva per pregare e anche i singoli fedeli, in ore determinate, lasciavano il loro lavoro per dedicarsi alla lode del Signore. Con l’andar del tempo si cominciò a destinare tempi particolari della giornata alla preghiera comune, come, per esempio, la prima ora del giorno o quando si fa sera. Si è così formata la preghiera della Chiesa denominata “liturgia delle ore”, per la santificazione di tutto il giorno. In stretto legame con la celebrazione eucaristica, questa preghiera dilata alle singole ore della giornata la memoria dei misteri di Cristo, ponendo sulle labbra e nel cuore la parola del Signore. La liturgia delle ore è infatti costituita essenzialmente di testi biblici: i salmi, anzitutto, e poi gli altri cantici dell’Antico e del Nuovo Testamento, con i quali rispondiamo alla proclamazione di testi biblici, alla cui comprensione siamo guidati dalla voce della Tradizione della Chiesa. Attraverso la liturgia delle ore la Chiesa continua la preghiera di Cristo: “Quando il Corpo del Figlio prega non separa da sé il proprio Capo, ma è lui stesso unico salvatore del suo Corpo, il Signore nostro Gesù Cristo Figlio di Dio, che prega per noi, prega in noi ed è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui tutte le nostre voci e le sue voci in noi” ( Sant’Agostino, Commento al Salmo 86,1 ). Il sacramento dell’Unzione degli infermi ( scheda ) CCC nn. 1499-1532 CdA nn. 712-717 L’Unzione degli infermi, come gli altri sacramenti, è un intervento del Risorto a favore dell’uomo e della vita. La Chiesa innesta la sua missione evangelica nella lotta dell’uomo contro la malattia, rivelandogli la potenza di Dio per il dominio sul male. L’Unzione, infatti è sacramento della fede, incontro con Cristo nel segno sacramentale, dono di grazia per superare le difficoltà della situazione di malattia, sostegno nello prova, forza per proseguire il cammino di salvezza nell’ambito della missione della Chiesa. È un sacramento di guarigione: anzitutto guarigione interiore dalle angosce, dai dubbi e dalle lacerazioni prodotte da ogni grave malattia; qualche volta anche guarigione fisica, per la potenza dell’azione di Cristo nella Chiesa. Gesù annuncia quest’azione sacramentale fin dalla costituzione del gruppo dei Dodici, quando li invia in missione: “Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni” ( Mt 10,7-8 ). “E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano” ( Mc 6,12-13 ). Gesù stesso era passato “beneficando e sanando” ( At 10,38 ), compiendo numerosi miracoli: guarigioni di lebbrosi, storpi, ciechi, sordi, restituzione della vita a persone morte ( Lc 7,18-23 ). Sulla croce era diventato il farmaco di Dio che risana tutti coloro che soffrono per il morso del serpente ( Gv 3,14-15; vedi Nm 21,4-9 ). La Chiesa ha vissuto l’Unzione degli infermi in modi molto vari nelle diverse epoche e culture. Nella sua struttura essenziale essa è già presente in una direttiva della lettera di Giacomo, dove sono descritti gli elementi del rito, cioè la preghiera, l’imposizione delle mani e l’unzione con olio da parte del presbitero, come pure gli effetti del sacramento ( Gc 5,13-16 ). L’Unzione dà al malato, insieme alla purificazione interiore, sollievo e conforto. Nella fede invoca anche la guarigione fisica. Santifica lo stato del malato e rende la malattia un evento redentivo. Il cristiano riuscirà a dire con l’apostolo Paolo: “sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” ( Col 1,24 ). La conformità a Cristo implica una comunione più forte con lui e con la sua Chiesa. Il cristiano che riceve l’Unzione sacramentale acquista un particolare stato di appartenenza alla Chiesa. Nella sua situazione di sofferenza il cristiano non è un isolato: è membro di Cristo, fratello nella famiglia dei figli di Dio. Tutta lo comunità soffre per il suo male e invoca la sua salute. Il momento opportuno per celebrare l’unzione è quando c’è una malattia grave o nel caso di una persona anziana, che non soffre di particolari malattie, ma la cui condizione generale è debilitata. Nella sua forma ordinaria il rito del sacramento ha tre momenti essenziali: la benedizione dell’olio, l’imposizione delle mani e l’unzione. L’olio viene normalmente benedetto dal vescovo nella messa crismale, ma in caso di necessità lo stesso sacerdote può benedirla durante il rito dell’Unzione. Al di fuori di questa caso, prima di fare le unzioni, una preghiera d’azione di grazie sull’olio benedetto ne esprime il simbolismo sacramentale. L’imposizione delle mani è un momento significativo del sacramento ed è un gesto silenzioso. Ci sono altre imposizioni delle mani nella liturgia che sono accompagnate dalla recita di una formula; in questo caso invece l’imposizione delle mani stessa è preghiera, gesto d’invocazione dello Spirito, in cui non si chiede nulla. Di fronte alla prova suprema della vita, si fa valere quel criterio massimo stabilito da san Paolo che noi non sappiamo neanche cosa dobbiamo chiedere, ma è lo Spirito che dà contenuto alla nostra preghiera ( Rm 8,26 ). Poi c’è l’unzione: il sacerdote unge la fronte e le mani, mentre pronuncia queste parole: “Per questa santa unzione e la sua piissima misericordia, ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo e liberandoti dai peccati ti salvi e nella sua bontà ti sollevi”. Di fronte alla morte rischia di vacillare la fede nel Signore della vita. Il segno dell’unzione diventa messaggio di fede nella potenza di Dio. Parola e sacramento costituiscono un tutto inseparabile. La liturgia della parola, preceduta da un atto penitenziale, apre la celebrazione; le parole di Cristo e la testimonianza degli apostoli ravvivano la fede del malato e della comunità per chiedere al Signore la forza del suo Spirito. L’Unzione non è solo ricorso al Dio che salva, “fa sorgere”, ma è anche grazia fatta ai credenti perché si stimolino vicendevolmente alla conversione e alla preghiera nei momenti della malattia. L’Unzione degli infermi può trasformare lo realtà negativa di chi soffre e di chi condivide la sofferenza in comunione più profonda con il Signore e manifestazione della sua salvezza. In sintesi La vita cristiana, personale e comunitaria, è dono e grazia, che viene dall’amore stesso di Dio, offerto nei segni di salvezza: i sacramenti. La Chiesa che celebra La Chiesa si ritrova in assemblea perché convocata da Dio. Mediante la parola e i segni sacramentali giunge a noi il dono della salvezza, che nel cuore dei credenti suscita la lode e il rendimento di grazie. La celebrazione della Chiesa è efficace perché in essa è presente il Risorto. Nel Battesimo e nella Confermazione siamo fatti simili a Cristo Il cristiano è trasformato da Gesù in uomo nuovo. Il sacramento del Battesimo ci fa morti e risorti con Cristo, ci rende figli di Dio, ci impegna a vivere in novità di vita e ci inserisce nel cammino di un popolo. Il sacramento della Confermazione conferma e sostiene la novità di vita, rende più saldo il legame con la Chiesa e abilita a vivere la fede con responsabilità. L’Eucaristia, centro della vita battesimale L’Eucaristia è evento centrale della vita cristiana, luogo della comunione con Dio. Nella sua realtà più profonda essa ci appare dono di Cristo per noi e forza per condividere la stessa logica d’amore. È un gesto di suprema donazione, che dà senso alla vita del singolo e all’intera storia umana. Nel segno del pane e del vino consacrati il Signore Gesù si rende realmente presente in mezzo a noi per sempre. La riconciliazione, celebrazione della misericordia di Dio Solo Dio può trasformare la nostra realtà umana di peccato e di limite. Il sacramento della Riconciliazione, dentro questo mistero d’amore, è un gesto voluto da Gesù che ci comunica il perdono di Dia singolarmente, ma sempre nella Chiesa e tramite la Chiesa. È un itinerario penitenziale, in cui il cristiano con l’esame di coscienza riconosce il proprio peccato e si impegna a non peccare più, esprime con fiducia davanti alla comunità le sue colpe, accoglie il dono gratuito della misericordia e vive gesti di impegno per una vita nuova. Tempo di Dio e dell’uomo Dio fa della storia umana una storia sacra in cui il fluire del tempo è segnata dagli eventi di salvezza. La Chiesa riconosce che Dio cammina con lei nel tempo e lo rende evidente nel susseguirsi delle feste, che hanno come centro la pasqua settimanale e quella annuale. Per l’approfondimento Parola di Dio CCC nn. 101-104; 1100-1103; 1153-1155 CdA nn. 609-632 Liturgia CCC nn. 1135-1209 CdA nn. 653-662 Preghiera CCC nn. 2558-2865 CdA nn. 953-1013 Per camminare nella fede Le domande della vita Le grandi decisioni, nella vita di ciascuno, fanno leva su punti forza, su convinzioni maturate accanto a persone che ci hanno permesso di costruire una personalità serena e coerente. È così anche per la nostra personalità cristiana: essa germoglia, cresce e agisce, non solo per le nostre forze, ma per le energie di salvezza che Dio ci comunica nel suo Spirito, attraverso le celebrazioni sacramentali nella Chiesa. - Le celebrazioni liturgiche della Chiesa, i sacramenti della vita cristiana, costituiscono punti forza su cui costruisci la tua vita? - Come è possibile vivere in maniera più consapevole e attiva le celebrazioni liturgiche? - Quale serenità e gioia, personale e comunitaria, riesci a sperimentare e vivere nella festa cristiana della domenica? - Come la domenica, giorno del Signore, diventa forza e luce per la quotidianità dei giorni feriali? - Quale spazio occupa la preghiera all’interno delle tue giornate? - Ci sono momenti in cui condividi l’esperienza della preghiera assieme agli altri? L’ascolto della Parola  “Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. ( Rm 12,1-2 ) La voce della Chiesa  “Tutto quello che il Figlio di Dio ha fatto ed insegnato per la riconciliazione del mondo, non lo conosciamo soltanto dalla storia delle sue azioni passate, ma lo sentiamo anche nell’efficacia di ciò che egli compie al presente. È lui che, come è nato per opera dello Spirito Santo da una vergine madre, così rende feconda la chiesa, sua sposa illibata, con il soffio vitale dello stesso Spirito, perché mediante la rinascita del battesimo, venga generata una moltitudine innumerevole di figli di Dio. Di costoro è scritto: “Non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” ( Gv 1,3 ). È in Lui che, eliminando ogni discriminazione di popoli, e radunando tutti da ogni nazione, forma di tante pecorelle un solo gregge santo … Partecipi della sua passione sono non solo i martiri forti e gloriosi, ma anche i fedeli che rinascono, e già nell’atto stesso della loro rigenerazione. È questo il motivo per cui la Pasqua viene celebrata, secondo la legge, negli azzimi della purezza e della verità: la nuova creatura, getta via il fermento della sua malvagità e si inebria e si nutre del Signore stesso. La nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo, a farci rivestire in tutto, nel corpo e nello spirito, di colui nel quale siamo morti, siamo stati sepolti e siamo risuscitati”. ( S. Leone Magno, Discorsi sulla passione, 12 ) Il dialogo della preghiera  “O Dio, potenza immutabile e luce che non tramonta, volgi lo sguardo alla tua Chiesa, ammirabile sacramento di salvezza, e compi l’opera predisposta nella tua misericordia: tutto il mondo veda e riconosca che ciò che è distrutto si ricostruisce, ciò che è invecchiato si rinnova e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo del Cristo, che è principio di tutte le cose. Egli vive e regna nei secoli dei secoli. Amen”. ( Messale Romano, Veglia pasquale, Orazione dopo la settima lettura ) L’incontro con i testimoni Francesco di Paola Nacque a Paola in Calabria il 27 marzo 1416. Giovanissimo si ritirò a vita eremitica. La sua esperienza, segnata dalla solitudine, dal lavoro manuale, dalla preghiera e dall’ascesi, divenne subito un polo di attrazione per tante persone. Iniziò così da parte del giovane eremita un apostolato di accoglienza, che gli meritò la fiducia della gente. Divenne depositario dei loro problemi e, soprattutto, interprete del desiderio di giustizia e di liberazione di tanti oppressi. Per questo apostolato di accoglienza arrivarono a Paola i primi seguaci, che diedero inizio con lui all’Ordine dei Minimi. Arricchito da Dio del dono dei miracoli, nel 1483 venne chiamato in Francia dal re Luigi XI, il quale, gravemente ammalato, desiderava da lui la guarigione. La permanenza oltralpe lo rese protagonista delle vicende politiche, sociali e religiose del tempo. Si impegnò in prima persona, su mandato del Papa, per i problemi della pace in Europa, mentre il suo stile di vita lo pose al centro del movimento riformatore del tempo. Morì a Tours il 2 aprile 1507. Il suo Ordine, che si compone di frati, monache e laici secolari, vive nella Chiesa il carisma della penitenza quaresimale. La sua Regola è stata definita da Giulio II: “Luce che illumina i penitenti” “Fratelli, amate Dio con tutto il cuore e, col gusto proprio delle cose celesti, sciogliete a lui canti di lode per tutti i benefici che vi ha elargiti. Vi esorto e vi prego di essere prudenti e diligenti circa la salvezza dell’anima vostra. Correggetevi e pentitevi dei vostri peccati passati, poiché Dio vi aspetta a braccia aperte. Convertitevi sinceramente, modificando le vostre abitudini di vita. Vivete in modo di ricevere la benedizione del Signore. Fate frutti degni di conversione e progredite sempre di bene in meglio. Tenete sempre il cuore in alto e non cercate le vanità della terra, che passano fugaci come l’ombra. Felici, infatti, sono coloro che si studiano di avere una vita virtuosa piuttosto che longeva e la coscienza monda piuttosto che la cassa piena di quattrini. Pensate e agite sempre mettendovi dal punto di vista di Dio, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Amate la verità, che confonde ogni cattiveria, e fuggite il troppo parlare, che non può mai essere esente da colpa. Praticate la giustizia e non calpestate mai nessuno. Siate benigni, modesti ed esemplari. Perdonatevi scambievolmente fino al punto da dimenticare il torto ricevuto. Fate tutto in carità! Non stancatevi di applicarvi alla preghiera, perché grande è la forza della pura e assidua orazione dei giusti. Essa è come un fedele messaggero che compie il suo mandato, giungendo là dove non può arrivare la carne. Siate sempre perseveranti nel bene, perché la corona viene data in premio solo al perseveranti”. ( Dalle Lettere e dalla Regola ) La professione della fede  “Maestro che cosa devo fare?” “È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità” ( Gv 4,23 ). “La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù” ( Sacrosanctum Concilium, 10 ). - La comunità cristiana mediante la liturgia continua ad esercitare la missione sacerdotale di Gesù Cristo, rende ogni uomo partecipe di questa missione e lo inserisce pienamente nel mistero stesso di Dio. - I sacramenti sono gesti di Gesù, che rinnovano oggi nella Chiesa la realtà della salvezza come pienezza di vita. - Per mezzo del Battesimo gli uomini, ottengono la remissione di tutti i peccati e sono liberati dal potere delle tenebre; rinascendo dall’acqua e dallo Spirito Santo diventano nuova creatura e vengono chiamati figli di Dio; incorporati a Cristo, sono costituiti in popolo di Dio. - La Confermazione perfeziona la grazia battesimale: il dono dello Spirito santo ci radica più profondamente nella filiazione divina, ci incorpora più saldamente a Cristo, ci lega maggiormente alla Chiesa, ci dona la forza per essere testimoni con la parole e le opere. - La parola di Gesù ci svela il senso profondo dell’Eucaristia: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno … Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna … dimora in me e io in lui” ( Gv 6,51.54.56 ). - “Con il sacramento della Riconciliazione otteniamo dalla misericordia di Dio il perdono: Dio ci perdona singolarmente, ma sempre nella Chiesa e tramite la carità, l’esempio e la preghiera della Chiesa stessa” ( Lumen gentium, 11 ). - “Ricordando ( … ) i misteri della redenzione, ( la Chiesa ) apre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti del suo Signore, così che siano resi in qualche modo presenti in ogni tempo, perché i fedeli possano venirne a contatto ed essere ripieni della grazia della salvezza” ( Sacrosanctum Concilium, 102 ). Introduzione Non si può restare prigionieri dei sogni. Da giovani diventiamo consapevoli che dipende anche da noi raggiungere certi obiettivi, tradurre in concreto gli ideali. Il desiderio può diventare progetto, e progettare vuol dire “mettere davanti”, “buttarsi in avanti”, muovere un passo dopo l’altro verso la meta. Progettare realisticamente comporta delle scelte. Acquisire un titolo di studio, sviluppare una capacità professionale, dar vita a un rapporto profondo con l’altro/l’altra oppure decidere di donare la propria esistenza a tutti: sono progetti consegnati alle nostre mani; possiamo farli diventare realtà. È altrettanto vero però che la realtà può diventare un ostacolo. L’esperienza del limite, del fallimento, dell’errore può ricacciarci nel fatalismo rassegnato. Credere in Gesù e decidere di seguirlo è darsi un progetto forte, che non esonera tuttavia dalla fatica né dalla possibilità del fallimento. Ma la fede suscita in noi una sostanziale fiducia nel futuro nostro e del mondo, alimenta in noi la convinzione che il futuro è nelle nostre mani, ma che non siamo lasciati soli: Dio stesso coopera al bene di quanti confidano in lui. Il nostro futuro, personale e del mondo intero, grazie a Cristo è aperto a una promessa di bene. Così la nostra fede diventa speranza, una speranza concreta di dare realtà ai nostri desideri. La parola del vangelo ci disegna un progetto e il dono dello Spirito ci abilita a perseguirlo. Così la nostra speranza diventa concreta carità, scelte grandi e piccole che conducono a gesti di amore, di fraternità solidale. Lo Spirito di Dio illumina le nostre scelte e sostiene le nostre decisioni, liberandoci dal disorientamento e dal fatalismo. L’amore che Dio ha per noi diventa progetto; ci rende capaci di imitarlo traducendolo in pratica verso il nostro prossimo. Così il suo amore diventa il nostro e la carità diventa vita. L’esperienza morale prende forma nella crescita graduale della persona: attraverso azioni, intenzioni, atteggiamenti interiori, l’uomo costruisce se stesso, si dà un’originale fisionomia morale. Attraverso l’impegno di fare il bene, egli si rende buono. Quanto più si fa il bene, tanto più si diventa liberi. Le nostre scelte non cambiano soltanto il mondo intorno a noi, ma plasmano il nostro carattere, danno un orientamento unitario e coerente alla vita. Per me vivere è Cristo CCC nn. 1804-1829 ( vedi pure nn. 91-93; 2087-2094; 2656-2658 ) CdA nn. 827-832; 897-901 CdG1 pp. 281-282 Il credente vive la sua adesione a Cristo e al vangelo all’interno dell’avventura, esaltante e faticosa, di diventare pienamente uomo in questo mondo. Ciascuno di noi vive in una realtà, che trova già disegnata senza che gli venga chiesto come, e con questa realtà deve interagire. Trova altre persone con le quali non potrà fare a meno di stabilire dei rapporti, a volte arricchenti a volte difficili, comunque carichi di responsabilità. Ciascuno cresce respirando modi di pensare, gusti e cultura che già plasmano il carattere prima di ogni scelta. Ciascuno riceve in eredità un mondo e una cultura dalle generazioni che l’hanno preceduto, rielabora questa eredità per trasmetterla, rinnovata ed arricchita, alle generazioni future. Progetta e produce trasformazioni del mondo: quello della natura e quello della società e della cultura. In una parola fa storia. Libertà e responsabilità Strumento di questo fare storia è l’azione consapevole e libera dell’uomo. Nell’agire, egli impegna tutto lo spessore della sua personalità: intelligenza, cuore, libertà. Nell’azione del presente confluiscono il suo passato e i suoi progetti per il futuro. L’azione umana rompe il determinismo che regna nell’universo materiale e introduce nel mondo la possibilità della novità, la creazione di qualcosa che prima non esisteva e che senza di essa non sarebbe esistito. In una parola, l’azione umana introduce nel mondo la libertà. Ma, proprio perché nasce dalla libertà, ogni azione comporta una scelta. Le scelte libere dell’uomo non sono mai indifferenti; esse sono cariche di efficacia costruttiva o distruttiva. Attraverso di esse egli trasforma il mondo, costruisce felicità o infelicità per sé e per gli altri, realizza o distrugge la sua umanità: le sue azioni lo rendono responsabile. Sorgono allora interrogativi ineludibili: in quale direzione camminare e quale progetto realizzare? quali obiettivi proporsi? che cosa e come fare? che cosa è il bene, il bene assolutamente dovuto come bene morale? qual è la sua traduzione in questa situazione? Dietro questi interrogativi, che esprimono la misura della responsabilità morale della persona umana verso il mondo e verso gli altri, se ne nascondono altri ancora più decisivi: chi essere? che modello di uomo e di donna realizzare? Attraverso le sue azioni, infatti, la persona non costruisce soltanto la storia intorno a sé: costruisce se stesso. Ogni uomo è un progetto aperto; egli è affidato a se stesso, alla sua libertà. Decidendo liberamente cosa fare, l’uomo decide chi essere. D’altra parte la risposta che ciascuno liberamente dà a questi interrogativi si situa dentro una visione globale della realtà del mondo: qual è il senso di questo mondo? che posto vi occupo io? verso dove è incamminata la mia personale avventura e la storia umana nel suo insieme? vale la pena di lottare per il bene? avrà il bene, alla fine, l’ultima parola? Dietro queste domande già vediamo in filigrana che l’orizzonte dell’uomo non si chiude su se stesso. La sua libertà è, anzitutto e al fondo di tutto, interpellata dal rapporto a cui ci invita Dio stesso, origine, fine e centro della storia. Solo in lui essa raggiunge la sua perfezione; solo il bene rende liberi. È il problema morale, in tutto il suo spessore e in tutta la sua forza: la sfida rivolta alla libertà umana, per quanto sceglie di fare e, prima ancora, per accogliere o rifiutare il dialogo con Dio. La fede, un ascolto che trasforma la vita Il credente trova in Cristo, suo maestro di vita, la risposta piena agli interrogativi morali. Cristo è colui che ci rivela il Padre e il suo progetto d’amore nei confronti dell’uomo. La sua parola conferisce senso e garantisce speranza a tutta l’impresa umana, illumina il cammino di ogni singolo uomo e il destino dell’intera storia. Cristo irrompe nella vita del credente e domanda un’adesione totale alla sua parola e un abbandono confidente all’azione del suo Spirito. Questa adesione e questo affidamento costituiscono la fede. La Scrittura descrive la fede come una forma forte di ascolto. Già nell’Antico Testamento i modelli della fede sono persone che prestano ascolto alla parola di Dio e fondano su questo ascolto tutta la loro vita: così Abramo, Mosè, i profeti ( Eb 11 ). Un esempio affascinante è quello del giovane Samuele. In piedi davanti alla tenda dell’Alleanza, egli risponde a Dio che lo ha chiamato: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”. E la Bibbia aggiunge che, da quel momento, Samuele “non lasciò andare a vuoto” una sola parola del Signore e, per mezzo suo, tutto Israele ricevette questa parola ( 1 Sam 3,1-21 ). “Ascolta, Israele…” ( Dt 6,4 ) è l’inizio della professione di fede, che l’ebreo osservante ripete più volte al giorno. Il termine “ascolto” e ricco di contenuti. Chi parla vuole trasmettere verità che aiutano a vivere; e ascoltare significa diventare discepoli, affidarsi a un maestro, lasciarsi insegnare. Chi parla domanda un ascolto che diventi collaborazione libera e intelligente per la realizzazione di un progetto. Dio chiede all’uomo un inserimento responsabile nel suo progetto di salvezza. Ascoltare nella fede significa andare oltre la semplice udienza data a un’opinione fra le altre e dedicare alla parola ricevuta tutta la propria mente e tutte le proprie forze ( Dt 6,5 ). Ascoltare nella fede diventa obbedire ( Rm 16,26 ). “A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede, per la quale l’uomo si abbandona tutto a Dio liberamente” ( Dei Verbum, 5 ). Colui che parla alla nostra obbedienza di fede non comunica solo verità o indicazioni operative. Chi parla comunica se stesso, dice qualcosa di sé, vuole fare dell’ascoltatore un amico, renderlo partecipe della propria vita; credere significa appunto diventare suoi amici. Lo afferma Gesù: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” ( Gv 15,15 ). “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” ( Mt 12,50 ). La fede è dono e libertà L’iniziativa è di Dio e la fede è risposta a una sua chiamata. Lo ascoltiamo perché egli ci ha raggiunti con la sua parola. Ci affidiamo a lui con un atto di amore riconoscente perché egli ci ha amati per primo. Possiamo accogliere la parola di Dio soltanto perché egli ci ha aperto il cuore all’ascolto: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” ( Gv 6,44 ). È un dono di Dio la sua parola ed è un dono di Dio anche la possibilità di accoglierla in noi. “Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio, che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio” ( Dei Verbum, 5 ). Tuttavia la fede non è un meccanismo deterministico, prodotto nell’uomo alla maniera di un riflesso condizionato: è un atto di libertà. Anzi, è l’atto di libertà più profondo che l’uomo possa compiere, perché con esso sceglie di orientare tutta la propria vita secondo quella Parola a cui liberamente aderisce. Ci sono due diversi livelli di esercizio della libertà: le decisioni anzitutto che riguardano le singole azioni, le cose da fare; ma in queste decisioni ne è in gioco una più profonda, intorno al senso da riconoscere alla nostra esistenza, una decisione che impegna tutta la vita. La fede è un aspetto di questa scelta: una scelta che sta dentro tutte le altre e le qualifica, dando loro significato e orientamento. La nostra fede non è riducibile a nessun atto particolare di fede, ma vive nel concreto di tutta la nostra esistenza, nelle singole scelte della nostra vita, ne costituisce il senso, la direzione e il punto unificante. Cristo maestro di vita nuova Grazie alla fede il discepolo vede in Gesù una guida per il proprio agire: le sue parole, il suo esempio, il mistero della sua morte e risurrezione hanno in sé la luce di un preciso orientamento e la forza di un imperativo morale per l’obbedienza del discepolo. Questo è il cammino dell’esperienza morale. Poiché Dio è Creatore e Padre di tutti, Gesù è Maestro e Signore di ogni uomo e lo Spirito illumina il cuore di tutti i credenti, chi crede trova tracce della volontà di Dio e della sua parola anche attraverso i percorsi della propria retta intelligenza, che umilmente cerca il bene. Il bene a cui Dio ci chiama, non è solo quello esplicitamente proposto alla nostra obbedienza nella Bibbia – i comandamenti, le beatitudini, gli insegnamenti di Cristo e quelli degli apostoli alle prime comunità –, ma anche il bene che si mostra con evidenza ai nostri ragionamenti e alle nostre scelte. L’obbedienza del discepolo al Signore non riduce il cristiano a un automa né gli risparmia interrogativi a volte drammatici, la faticosa ricerca, le difficoltà e l’esperienza della fragilità umana, propria di ogni cammino morale. Lo Spirito, donato a ciascuno nel Battesimo e poi negli altri sacramenti, rende però possibile questo cammino, poiché ci suggerisce la volontà di Dio e suscita in noi la forza per poterla attuare. La legge di Dio non è più scritta su tavole di pietra, ma è scritta nei nostri cuori ( Ger 31,33 ), nel profondo della nostra vita, a somiglianza della vita di Gesù, Figlio di Dio, nel quale anche noi siamo figli ( Ef 1,5 ). Credere è conoscere nello Spirito Tutto il popolo di Dio è dotato dallo Spirito Santo del “senso della fede”, cioè di quell’intuito superiore o istinto soprannaturale per poter aderire indefettibilmente alla verità trasmessa nella Chiesa, penetrarla più profondamente e viverla più pienamente. Dall’inizio alla fine, la fede è tutta opera dello Spirito Santo. Anzi, non solo l’inizio della fede, ma la stessa disposizione a credere è un dono della grazia, cioè dell’ispirazione dello Spirito Santo, è infatti lo Spirito Santo – ribadisce il Concilio Vaticano I – che “dà a tutti la docilità nel consentire e nel credere alla verità” ( Dei Filius, 3 ). Gesù aveva già dichiarato ai suoi discepoli: “Egli ( lo Spirito di verità ) vi guiderà alla verità tutta intera” ( Gv 16,13 ). Il Paraclito infatti non insegna una nuova verità ( Gv 14,26 ), ma assicura una penetrazione più profonda della verità che è Gesù stesso. Mentre il “mondo” non riesce a cogliere l’intima identità di Gesù e il significato più vero della sua missione, la luce dello Spirito agisce nel cuore dei credenti come maestro e memoria vivente, come messaggero e guida, come avvocato e compagno perché i discepoli difendano la causa di Gesù nel grande processo che devono sostenere contro il “mondo”. La fede pertanto non è una vaga emozione né una sorta di conoscenza interiore; è anzi la conoscenza più vera, perché permette di guardare a Gesù dalla prospettiva più giusta e di vederlo per quello che egli veramente è: il Cristo. Infatti solo per mezzo dello Spirito si può credere nel Signore Gesù ( 1 Cor 12,3 ) e si può riconoscere che egli “è da Dio” ( 1 Gv 4,2 ). Ma la fede permette anche di conoscere il corso sotterraneo della storia, vedendola non come il campo dominato da un destino cieco e capriccioso, ma come una “storia sacra”, che lo Spirito del Cristo risorto continuamente vivifica e feconda con l’energia della Pasqua, facendola passare dal del peccato e della morte al regno della vita e dell’amore. Il mio vivere è Cristo Cristo, accolto nella fede, è ben più che un maestro di vita nuova. Egli ha chiesto ai suoi discepoli quello che né Buddha né Maometto, né Socrate né Epitteto hanno mai chiesto ai loro discepoli: fondare la loro vita non solo sul suo insegnamento, ma sulla sua persona. Cristo non ha solo insegnato la via, la verità e la vita; egli ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita” ( Gv 14,6 ). Ha chiesto ai discepoli di restare nel suo amore ( Gv 15,9 ). Ha promesso di restare con loro fino alla fine dei secoli ( Mt 28,20 ). La fede comporta un rapporto personale con Gesù, molto più profondo di un semplice discepolato intellettuale. Credere significa mettere la persona di Gesù al centro della propria vita, identificarsi con lui, vivere come lui, anzi vivere di lui, lasciare che sia lui a vivere in noi. San Paolo non trova parole sufficienti per esprimere questa centralità di Gesù: in Cristo siamo stati predestinati a essere figli di Dio, siamo graditi a Dio, e in Cristo abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue ( Ef 1,3-14 ). In lui è la nostra speranza, in lui siamo stati vivificati e salvati. Nella lettera ai cristiani di Filippi, con lapidaria concisione, Paolo afferma: “Per me il vivere è Cristo” ( Fil 1,21 ). Un nome alla speranza In questa fede trova il suo alimento la speranza cristiana, che dà pienezza di senso alla tensione umana verso il futuro e la rende possibile. La vicenda terrena di Gesù Cristo dà un volto riconoscibile alla speranza che sorregge la vita di ogni uomo. Nella risurrezione, vittoria sul potere del peccato e della morte, partecipiamo alla condizione gloriosa del Figlio che siede alla destra del Padre e viviamo la vita divina comunicata a noi dallo Spirito. La speranza cristiana è anche certezza di riconciliazione con tutte le creature ( Rm 8,19-25 ); è speranza di nuovi cieli e terra nuova ( 2 Pt 3,13 ). “Là noi riposeremo e vedremo; vedremo e ameremo; ameremo e loderemo. Ecco ciò che alla fine sarà, senza fine” ( Sant’Agostino, La città di Dio, 22,30 ). Di questa speranza ascoltiamo la trionfale affermazione di san Paolo nella lettera ai Romani: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” ( Rm 8,35.37-39 ). La speranza, virtù teologale La speranza è una virtù teologale: come la fede e la carità, essa abbraccia Dio stesso. Per il credente, infatti, Dio è l’approdo ultimo del desiderio umano di felicità: l’unico capace di saziare veramente l’insaziabilità del cuore umano. Le preghiere dell’antico Israele e tutta la tradizione biblica testimoniano questo desiderio intenso di Dio sopra ogni cosa e l’impazienza del credente che ne sospira il possesso: “Quando verrò e vedrò il volto di Dio?” ( Sal 42,3 ). Nel Vangelo la beatitudine è descritta da Gesù in termini che promettono la visione diretta di Dio: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” ( Mt 5,8 ). Proprio perché ha Dio come termine ultimo, della speranza cristiana si può parlare solo per immagini. Un futuro ancora assente, ma progettato dall’uomo, può essere descritto dall’immaginazione; la vita futura dell’uomo in Dio, invece, può essere soltanto suggerita e accennata mediante figure. “Ora – dice san Paolo – vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo a faccia a faccia” ( 1 Cor 13,12 ). La speranza cristiana non è un sentimento spontaneo e naturale, non è semplice ottimismo, ma un dono di Dio. E virtù teologale, perché ha in Dio non solo il suo punto di arrivo, ma anche la sua sorgente. Noi possiamo aprirci al futuro promesso da Dio perché, in Cristo, questo futuro ha già raggiunto il nostro presente. La speranza è anche un frutto della nostra libertà e costituisce, insieme con la fede e la carità, la decisione che sta a fondamento di tutta la vita morale. Il credente pone liberamente in Dio tutte le sue attese di vita e di felicità. La speranza comporta la decisione di abbandonarsi senza riserve alla logica esigente della croce, del seme che muore per portare frutto ( Gv 12,24 ), affidando unicamente a Dio la propria realizzazione e la propria felicità. La speranza, fondamento di impegno nella storia A volte si insiste sulla denuncia del carattere illusorio e falso dei beni terreni, erigendo quasi un muro tra cielo e terra, tra divino e umano, tra definitivo e provvisorio, tra Chiesa e mondo, quasi si dovesse scegliere, con sofferenza, tra l’uno e l’altra. La meditazione sulla speranza cristiana matura nella Chiesa la convinzione che la speranza non si edifica sulle rovine dei beni di questo mondo, sulle sue macerie. Essa non distrae dalle realtà e dagli impegni terreni, ma ne costituisce il fondamento e la giusta misura. Di fronte alla tentazione che il mondo diventi la parola ultima e definitiva dell’uomo, la speranza dei beni futuri aiuta a prendere le misure, ma non sollecita il disimpegno. Anzi, essa rende capaci di scorgere nei beni presenti il segno e l’anticipo dei beni ultimi. E così non svuota il presente, ma lo riempie di senso. “L’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo” ( Gaudium et spes, 39 ). L’uomo della speranza sa che ogni singola avventura umana e il grande fiume della storia sono incamminati verso la manifestazione piena del regno di Dio, quando Dio sarà “tutto in tutti” ( 1 Cor 15,28 ). L’impegno profuso dagli uomini nella realizzazione della giustizia, della fraternità, di una maggiore libertà e dignità non sarà mai perduto. Ritroveremo tutto il bene compiuto dall’uomo, trasfigurato, portato a compimento e liberato da ogni ambiguità, quando Cristo consegnerà il Regno al Padre. Questa speranza sostiene il credente nelle lotte e nelle rinunce connesse con l’impegno morale: chi vive la propria vita come partecipazione alla morte di Cristo, partecipa anche alla sua risurrezione ( Rm 6,5-7 ). La fine senza fine La speranza che ci spinge in avanti verso il futuro di Dio non è affidata alle nostre fragili forze: è il dono dello Spirito Santo, ed è “per la ( sua ) virtù” che ci è dato di “abbondare nella speranza” ( Rm 15,3 ). Se questa speranza non rischia il naufragio come tanti nostri poveri sogni e non conosce l’amarezza della delusione, è solo perché “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” ( Rm 5,5 ). Con il battesimo abbiamo già “la caparra dello Spirito Santo nei nostri cuori” ( 2 Cor 1,21 ); questa caparra ci assicura che il nostro futuro ultimo sarà lo stesso di Cristo Gesù. Infatti, la storia passata ha già conosciuto la rivelazione dello Spirito come “di colui che ha risuscitato Gesù dai morti”, ma anche il presente è sotto il segno della sua azione incessante, poiché egli “abita” in noi e nel futuro ultimo “darà la vita” anche ai nostri corpi mortali ( Rm 8,11 ). Grazie dunque allo Spirito Santo l’evento del passato si rende presente nell’oggi per realizzarsi pienamente nel compimento definitivo. Lo Spirito è stato “effuso da lui ( dal Padre ) su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna” ( Tt 2,6-7 ). L’ultima parola della storia sarà il grido ardente dello Spirito che unisce la sua voce a quella della Chiesa - sposa e invoca: “Vieni, Signore Gesù!”. Il lento fluire dei giorni, il succedersi drammatico degli eventi, le pagine più luminose degli uomini e dei popoli come quelle più faticose e più buie sono destinate a riassumersi in quel grido, a cui non può mancare l’eco della risposta fedele del Signore che assicura: “Sì, vengo presto” ( Ap 22,20 ). Alla radice dell’amore La fede e la speranza diventano vive e operanti attraverso la carità, l’amore divino che anima l’agire dell’uomo. Gesù ha riassunto tutta la legge e i profeti nel duplice comandamento di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente, e di amare il prossimo come se stessi ( Mt 22,37-40 ). A sua volta san Paolo ha elencato la carità fra “le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità, ma di tutte più grande è la carità!” ( 1 Cor 13,13 ). Nei vari elenchi dei “frutti” dello Spirito, l’amore non manca mai, anzi occupa sempre una posizione chiave: o apre la serie, come nella lettera ai Galati ( Gal 5,22 ) oppure la chiude, come nella seconda lettera ai Corinzi ( 2 Cor 6,6 ). Paolo vuole farci capire che il frutto più importante prodotto dallo Spirito Santo è appunto l’amore. L’amore infatti rappresenta la pienezza della legge, è “il vincolo di perfezione” ( Col 3,14 ) e racchiude tutti gli altri frutti dello Spirito, perché “la carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia…” ( 1 Cor 13,4-7 ). Nella lettera ai cristiani di Efeso San Paolo collega la raccomandazione di “non rattristare lo Spirito Santo di Dio” al comando di far scomparire ogni mancanza contro la carità ( asprezza, sdegno, ira, clamore, maldicenza, malignità ) ed esorta la comunità a un esercizio positivo degli atteggiamenti della carità ( Ef 4,30-32 ). Essendo la carità fraterna virtù eminentemente ecclesiale, lo Spirito Santo la dona anzitutto all’interno della comunità cristiana: “Lo Spirito, unificando egli stesso il corpo ( di Cristo ) con la sua forza e con l’intima connessione dei membri, produce e stimola la carità tra i fedeli” ( Lumen gentium, 7 ), e così la Chiesa diventa segno e strumento “dell’unità di tutto il genere umano” ( Lumen gentium, 1 ). Leggiamo in Sant’Agostino: “Interroga il tuo cuore e se lo trovi pieno d’amore, tu hai lo Spirito di Dio” ( Trattato sulla prima Lettera di Giovanni, 6,3,10 ). La presenza dello Spirito Santo crea nell’uomo un vero principio divino di vita e di attività: “L’uomo spirituale tende ad agire non principalmente secondo la sua volontà, ma per l’istinto dello Spirito Santo. Così risulta dal testo di Isaia: “Come fiume violento è l’azione che sorge dallo Spirito” ( Is 59,19 ); e da quello di Luca: “Fu portato dallo Spirito nel deserto” ( Lc 4,2 ). Questo non esclude che gli uomini spirituali agiscano liberamente, poiché lo stesso movimento della volontà viene causato in loro dallo Spirito Santo, come insegna l’apostolo: “È Dio che suscita in voi il volere e l’operare” ( Fil 2,13 )” ( San Tommaso d’Aquino, Commento alla Lettera di Romani, 8, 3 ). Giudicati sull’amore Amare Dio significa riconoscere il suo amore per noi, vivere nella fede e nella speranza di questo amore, rendendo sempre grazie a colui la cui fedeltà nell’amarci non viene mai meno, neanche di fronte al nostro peccato o rifiuto. Ma come è possibile voler bene a Dio attraverso le nostre azioni? Possiamo fare qualche bene a Dio? Parrebbe addirittura irriverente e assurdo porre una tale domanda! Eppure, il Dio in cui credono i cristiani è un Dio che dialoga con l’uomo, che si è reso accessibile al nostro amore attraverso l’incarnazione del Figlio, divenuto in tutto partecipe della nostra condizione umana. In forza dell’incarnazione del Figlio, Dio si è fatto vulnerabile nella persona di ogni uomo, perché ha voluto che ogni uomo fosse per lui come un figlio. Per ogni uomo Dio piange o fa festa, come piange o fa festa un padre per il figlio smarrito e ritrovato ( Lc 15,11-32 ). Fattosi uomo, povero e bisognoso, il Figlio di Dio è presente in tutti i suoi “piccoli fratelli”; qui lo possiamo veramente amare e aiutare: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare … Signore, quando …? Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” ( Mt 25,31-46 ). Partendo dall’immagine del giudizio lasciataci da Gesù, la meditazione della Chiesa ha proposto alla vita dei credenti le cosiddette “opere di misericordia corporale”: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire chi è nudo, ospitare i pellegrini, visitare gli ammalati e i carcerati, cui ha aggiunto la pietà per la sepoltura dei morti. La tradizione catechistica ha poi affiancato a queste altrettante “opere di misericordia spirituale”: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti. Sono atteggiamenti molto semplici, che possono apparire persino deboli dinanzi al nostro entusiasmo per i grandi gesti di carità. Ma, nella pratica quotidiana di questa carità concreta, matura in noi un costante atteggiamento evangelico. “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore” ( San Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 1, 57 ). In questa luce dobbiamo intendere la stretta parentela tra il secondo comandamento e il primo: “Il secondo è simile al primo”, ha detto Gesù ( Mt 22,39 ). I gesti concreti dell’amore del prossimo sono talmente importanti, che Dio dà loro la precedenza persino sulle manifestazioni dell’amore per lui: “Se presenti la tua offerta sull’altare e liti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro dite, lascia li il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” ( Mt 5,23-24 ). L’amore verità di Dio e dell’uomo L’amore verso i fratelli in Cristo non è un comandamento come gli altri e neppure una sintesi di tutti i nostri doveri. E una virtù teologale, che si alimenta all’amore di Dio per noi e che traduce in pratica il nostro amore verso di lui. Il credente trova nell’amore di Dio la forza e il perché ultimo del suo amore verso il prossimo: un perché valido anche quando le motivazioni umane decadono, come accade nel caso dell’amore verso i nemici. Giovanni nel suo Vangelo sottolinea con particolare insistenza il legame tra il dono di Gesù nell’ultima sua ora e il comandamento della carità. La sera dell’ultima cena, Gesù, “dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” ( Gv 13,1 ); in questo contesto egli dice: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri” ( Gv 13,34 ). Anche nella sua prima lettera Giovanni torna sull’argomento, descrivendo l’amore cristiano per i fratelli come risposta riconoscente del credente all’amore di Dio e come partecipazione alla vita stessa di Dio che in Gesù si è rivelato come amore: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore … In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati … Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” ( 1 Gv 4,7-8.10.16 ). La conclusione è semplice quanto profonda: l’amore è la verità di Dio e dell’uomo. Dio è amore e nell’amore si manifesta; l’uomo è fatto per essere amato e per amare. Amatevi come io vi ho amato C’è modo e modo di intendere la parola amore. Anche l’amore può essere frainteso. Nella presentazione che ne fa certa letteratura, preoccupata più di piacere che di essere fedele alla integralità del vangelo, il primato dell’amore rischia di dissolvere la fede cristiana nell’attivismo delle opere buone, in un fare che sostituisce del tutto il dialogo con colui che abita nei cieli. Tale riduzione semplificatrice del vangelo compromette il dialogo con Dio e lo stesso esercizio autentico della carità cristiana. Non è infatti possibile l’amore cristiano per il fratello, se non è generato continuamente dalla fede e dal riconoscimento dell’amore di Dio. L’amore per il fratello può trasformarsi facilmente in desiderio egoista di piacere agli altri per non rimanere soli, in servilismo tutto preoccupato di non inquietare nessuno, in complicità succube e perfino in zelo violento. Per sfuggire a questi rischi occorre risalire al modello insuperabile che è Gesù. Egli ha preso le distanze, non si è adeguato, ha accusato e inquietato coloro che non hanno accolto il suo amore. Per questo fu estromesso dalla città e ucciso. Il suo amore non corrisponde a quello che in genere gli uomini chiamano amore! Per questo Gesù ha detto: “Amatevi … come io vi ho amato” ( Gv 13,34 ). Non è dunque a partire da noi, dalla nostra esperienza, che si comprende che cosa sia l’amore, ma dalla croce di Gesù. Originario non è il nostro amore, ma quello di Dio manifestato nella vita di Gesù. Conformàti a Cristo CCC nn. 512-521; 1965-1985; 2012-2016; 2030-2046 CdA nn. 816-819; 902-903; 937-942; 950-952 CdG1 pp. 218-220 La vita in Cristo è per sua natura esperienza di crescita progressiva verso una maturità mai pienamente raggiunta. Si è Cristiani solo per diventarlo. Questo è vero per tutte le età della vita, ma lo è in maniera particolare per l’età giovanile, quando l’esperienza di fede si colloca in un momento contrassegnato da un intenso, prepotente dinamismo di scoperta e di crescita. Conformarsi a Cristo Partendo dal cuore della persona, la fede, la speranza e la carità plasmano la personalità del credente, attraverso un impegno morale coerente e continuato, conformandola a Cristo, sotto la guida e la forza dello Spirito. È una lenta maturazione della persona, che interessa l’intelligenza, la volontà e l’affettività e le conferisce il carattere morale; forma una mentalità cristiana capace di vedere, giudicare, progettare con gli occhi di Dio; forma una coscienza morale alimentata dal vangelo, capace di discernere “la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” ( Rm 12,2 ) nelle diverse situazioni della vita e di progettare in modo creativo la propria fedeltà a Cristo, secondo la propria vocazione. Questa maturazione della persona apre la volontà e l’affettività all’amore di Dio e dei fratelli. Le rende capaci non soltanto di fare il bene perché comandato e doveroso, ma perché desiderato; di compierlo con l’interiore spontaneità dell’amore, suscitato in noi dallo Spirito. Dà, infine, unità e coerenza interna a tutta la personalità, assimilandola sempre di più a Cristo, legge interiore del credente. La nostra legge è Cristo, che viene a vivere in noi il suo stesso amore. L’esempio dei santi Nello sviluppo della personalità umana svolge un ruolo significativo il dinamismo psicologico dell’identificazione: abbiamo bisogno di poterci rispecchiare in modelli riusciti di umanità. Nel plasmare la sua personalità per conformarla a Cristo, uomo perfetto e modello ideale di ogni pienezza umana, il credente è sorretto e orientato da figure riuscite di umanità credente: sono i santi, i grandi della fede, modelli originali di un’umanità tanto più piena quanto più illuminata da Cristo e animata dallo Spirito. È un’identificazione che non ha nulla della imitazione pedissequa ed esteriore. Dai santi il credente impara a fare della sua vita quel capolavoro originale e unico di umanità e di fede che Dio vuole da lui. Dalla grande varietà dei santi e delle condizioni in cui hanno testimoniato la propria fede accoglie anche una provocazione: tutti possiamo e siamo chiamati a diventare santi ( 1 Pt 1,15-16 ), e non ci sono condizioni di vita o situazioni storiche che possano da sole impedirlo. Un cammino nella comunità L’esempio di questi modelli di vita è solo un elemento di quella grande fraternità che avvolge ed accompagna il credente nella sua crescita umana e cristiana e che è costituita dalla Chiesa. La Chiesa, presenza viva di Cristo nel tempo e luogo privilegiato dell’azione dello Spirito nella storia, è l’ambito concreto della vita cristiana. Non siamo santi per noi stessi né lo diventiamo da soli. Siamo invece chiamati a vivere da santi creando comunione, mettendo i nostri doni a servizio gli uni degli altri: in una parola, siamo chiamati a fare Chiesa. È la Chiesa l’ambito più immediato di quell’amore dei fratelli, che è il comandamento nuovo di Gesù. Nella celebrazione eucaristica, la comunità cristiana fonda la sua solidarietà fraterna sulla presenza di Cristo e sulla proclamazione della sua parola. La Chiesa sorregge i credenti nella loro lotta contro il peccato e, attraverso il sacramento della Riconciliazione, sigilla il loro itinerario di conversione con la parola del perdono, che essa pronuncia a nome e per incarico di Cristo. La fedeltà a Cristo e l’interiore docilità allo Spirito impegnano il credente a vivere con coerenza la sua appartenenza ecclesiale, non parziale e selettiva, ma totale. Una legge viva, scritta nel cuore La volontà di vivere il vangelo nel quotidiano dell’esistenza, cioè di conformarci a Cristo attraverso l’impegno morale risponde, da un lato, alle nostre aspirazioni più profonde, ma urta, dall’altro, contro la spontaneità immediata di molti nostri desideri e trova resistenza in alcune tendenze radicate in noi. Così ciascuno sperimenta in se stesso una certa divisione interiore. È la tensione che percorre tutto il messaggio morale del vangelo: esso promette la pienezza di vita, ma non la vita facile: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” ( Lc 9,23-24 ). Di fronte a questa esperienza di divisione interiore, la parola di Dio si presenta alla nostra libera obbedienza non con il carattere costrittivo di una legge che irrompe dall’esterno nella vita e resta fondamentalmente estranea ai dinamismi della nostra realizzazione umana, ma come una legge viva, scritta nel cuore. Questa legge è il dono dello Spirito. Egli infonde in noi quell’amore che è sorgente di un impegno morale non più vissuto nella sottomissione servile, ma nell’obbedienza di figli che sanno di essere amati. La pedagogia della legge Nell’uomo, salvato da Cristo, restano però ancora le tracce di un’oscura solidarietà con il peccato presente in tutta là storia umana, nelle strutture della società e nelle espressioni di ogni cultura. Queste tracce sono profondamente radicate nelle stesse fibre della nostra personalità, fino a rendere quasi istintivo il male, l’egoismo, là rivalità con l’altro. Tutto ciò dà alla nostra vita il carattere di una lotta ( Rm 7,14-25 ). Siamo costretti a combattere contro qualcosa che è dentro di noi: il vecchio Adamo solo faticosamente e lentamente cede il posto all’uomo nuovo secondo lo Spirito, capace di frutti di “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” ( Gal 5,22 ). In questa lotta abbiamo bisogno della “pedagogia della legge”, di indicazioni e norme che ci permettono di mantenere la nostra vita orientata sulla strada della carità. La legge ci ricorda, da una parte, che non siamo ancora pienamente configurati a Cristo, non ancora pienamente partecipi della sua vittoria sul peccato, non compiutamente trasfigurati dal suo amore; dall’altra, ci aiuta positivamente a individuare la volontà del Signore. È saggia amministrazione della propria vita, intelligente maturazione della propria personalità accogliere con docilità le indicazioni che vengono dalla legge scritta nella parola di Dio, proposta dalle norme dettate dai pastori della Chiesa, suggerite dall’antica sapienza della Chiesa e consigliate da chi si prende cura della nostra vita di fede. Per giungere alla piena maturità di Cristo, è necessario percorrere un cammino, lasciandosi educare, per imparare a discernere il bene dal male. La verità vi farà liberi CCC nn. 1730-1748; 1776-1802 CdA nn. 846-851; 892-901 CdG1 pp. 206-214 Nella tradizione d’Israele, del Nuovo Testamento e della Chiesa la vita teologale del Cristiano si è Concretizzata in proposte e leggi, in precisi quadri di riferimento: i dieci Comandamenti, le beatitudini, le opere di misericordia, le virtù, le varie forme di vita spirituale. Ma tutte queste indicazioni, anche quelle chiare e precise, non eliminano la fatica del discernimento. Discernere il bene dal male Certo, Cristo è la norma vivente, il modello concreto di vita a cui dobbiamo ispirare tutto il nostro impegno. Ma questo non significa che dalle parole e dagli eventi della sua vita si possano dedurre, in modo immediato e diretto, le concrete risposte per le situazioni sempre diverse e irripetibili, nelle quali siamo chiamati a scegliere e ad agire. Qual è il discrimine preciso tra il bene e il male nella situazione particolare in cui mi trovo? Che cosa vuole Dio da me qui e ora? Quali atteggiamenti interiori, comportamenti, scelte e azioni particolari esprimono oppure rinnegano, in concreto, la necessaria coerenza tra la mia vita e la mia fede? Tutto si riassume certamente nel comandamento dell’amore, il primo e il più grande di tutti ( Mt 22,38 ), ma qual è la migliore traduzione dell’amore evangelico nella mia particolare situazione? Domande come queste risuonano spesso dentro ciascuno di noi. E la risposta non è sempre facile. La fede non ci mette al riparo dall’incertezza e dal dubbio, dalla fatica di cercare dentro il groviglio delle circostanze mutevoli della vita il bene concreto da compiere e il male da evitare; ci dà però la fiducia che è possibile conoscere e compiere il bene, poiché non siamo soli, soltanto con le nostre capacità umane. Quest’opera di discernimento sul bene e sul male, l’interrogativo circa ciò che dobbiamo fare e la valutazione di ciò che abbiamo fatto, si svolge nell’intimo di noi stessi, in un luogo che non è soltanto una facoltà psicologica, ma lo spazio sacro dell’incontro personale con la parola e la grazia di Dio: la coscienza. Per coscienza morale si intende sia la percezione interiore della verità del bene e delle sue esigenze pratiche, sia la capacità di discernere nel concreto della situazione la soluzione più giusta delle possibili alternative morali che essa presenta, sia l’appello interiore al bene che risuona dentro di noi e dà al discernimento morale un carattere particolare e misterioso di imperatività. Troviamo un’autorevole descrizione della coscienza in un testo del Concilio Vaticano II: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria. Tramite la coscienza, si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo” ( Gaudium et spes, 16 ). Ascolto e creatività La verità morale non si offre sempre al primo sguardo. Spesso è necessaria una ricerca che comporta riflessione, confronto, calcolo. Alcune scelte, particolarmente decisive, chiedono all’intelligenza umana di impegnarsi con tutte le sue risorse nella ricerca, leale e disinteressata, della volontà di Dio, in una particolare situazione. Attingiamo anche alle nostre capacità di amare e alla buona volontà di mettere in pratica ciò che abbiamo scelto. Deve trattarsi di un’intelligenza piena di amore, perché la verità morale si lascia trovare solo se amata e spesso domanda di essere realizzata anche con coraggio e sacrificio. Di fronte alla verità morale la coscienza non è legislatrice né padrona. Non inventa la verità, ma la ricerca con diligenza e, quando la trova, la riconosce con umiltà e la serve con rettitudine. La coscienza è anzitutto luogo di ascolto di Dio. Egli, che è “più intimo a noi di noi stessi” ( Sant’Agostino, Confessioni, III, 6, 11 ), vuole il nostro bene e ci conosce più di quanto noi ci conosciamo. Questo atteggiamento umile di ascolto non esclude che la coscienza, nella ricerca di ciò che è bene, assuma anche compiti creativi. Fare il bene non si limita mai a una semplice applicazione della legge generale al caso particolare. Al credente non basta aver soltanto evitato il male o aver fatto il minimo necessario di bene. Adempiere la legge dell’amore è ben più che osservare un precetto. Per questo il credente attinge, nella propria coscienza, anche a una sorta di creatività simile a quella dell’artista, che fa della sua opera qualcosa di unico e di originale. La coscienza non è infallibile nel discernimento morale. Ciononostante quando in essa si esprime la sincera, disinteressata ricerca del bene e una coerente disponibilità alla verità, obbedire all’imperativo della coscienza è obbedire a Dio. Educare la coscienza Nessuno può sostituire la mia coscienza. Nessuno può vivere e decidere per me. Tuttavia la coscienza non va abbandonata a se stessa. Proprio perché essa è chiamata a riconoscere la verità, non a piegarla ai propri interessi, ha bisogno di lasciarsi guidare dalla parola di Dio, dall’insegnamento vivo della Chiesa e anche dalle norme più autentiche di saggezza morale umana. “Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale” ( Gaudium et spes, 16 ). Se è vero che alla coscienza spetta comunque l’ultima parola, della quale risponderà davanti a Dio, resta anche vero che nulla la potrà esimere da un confronto, umanamente onesto e pieno di fede, con tutte le forme del magistero morale. La retta coscienza si lascia sempre interpellare. Come l’intelligenza, come la volontà, come il corpo stesso, anche la coscienza, perché maturi nella rettitudine e affini le proprie capacità di discernimento, è necessario che sia educata e allenata. Cristiani maturi non si diventa per anzianità, ma per fedeltà operosa a se stessi e alla parola di Dio. Come un artista ascolta spesso della buona musica se vuol essere musicista, studia le opere dei grandi maestri del pennello se vuol essere pittore, così il credente si confronta frequentemente con la parola di Dio, con l’insegnamento della Chiesa e con i fratelli nella comunità se vuol crescere come discepolo di Gesù. Può farsi aiutare da una guida spirituale, che lo accompagni nel discernere e nell’affinare le proprie capacità di giudizio. Infine, ma non da meno, non perderà occasione per praticare il bene intuito. Ogni volta che ci comportiamo secondo carità, secondo il vangelo, rendiamo più facile e più spontaneo comportarci secondo carità la volta successiva. La tradizione cristiana parla di “virtù”, cioè di un orientamento costante, uno stile nell’agire che diventa perfino un tratto della personalità. Le virtù sono forze vivaci della nostra coscienza. La libertà evangelica C’è modo e modo di intendere la libertà. La coscienza cristiana è libera di quella libertà per la quale “Cristo ci ha liberati” ( Gal 5,1 ). La libertà evangelica conduce ben oltre una libertà intesa come esaltazione dell’istinto, dell’immediato, proprio perché fa appello all’uomo intero, che vive di emozioni, ma anche di intelligenza e volontà, capace di orientare se stesso. Per il vangelo, la libertà non si realizza abbandonandosi a ciò che è istintivo, ma nemmeno pretendendo di essere completamente padroni di sé e della propria vita. Il vangelo ci insegna il paradosso per il quale l’uomo trova la propria libertà “consegnandosi”, non lasciandosi andare; facendo della propria vita un dono, non un possesso. Gesù dice: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” ( Gv 8,32 ). Nel linguaggio biblico “conoscere e molto più del semplice sapere. Conoscere la verità significa accoglierla dentro di sé, radicarla nella propria persona, sperimentarla e farla. La verità non è solo da conoscere ma da fare ( Gv 3,21 ). La libertà è il frutto o, meglio, il dono di un’appassionata accoglienza della verità: un’accoglienza nella vita, non nelle sole idee o nelle sole parole. La verità di Dio su di noi libera da tutte le idolatrie; da quanti vorrebbero essere signori della nostra vita, mentre uno solo è il Signore e Maestro, il Cristo ( Mt 23,10 ); dai falsi: “Tu devi…”, che le mode o le opinioni comuni tentano di imporre. Nell’esperienza stessa di Gesù scorgiamo al vivo la tensione fra obbedienza e libertà ( Mt 26,39 ). Facendo la volontà del Padre, Gesù manifesta di essere il Figlio. In lui anche noi siamo stati resi figli ( Ef 1,5 ) e saremo pienamente noi stessi solo vivendo da figli. Questa è la verità sull’uomo che Gesù ha rivelato. Noi siamo stati creati a immagine del Figlio di Dio. Ogni vita diversa dalla vita di figlio di Dio sfugge a questa verità e perde la propria libertà: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” ( Gaudium et spes, 22 ). L’apostolo Paolo spiega alla comunità di Roma che l’uomo non è al di sopra del bene e del male. La vita è comunque obbedienza: o al bene, per crescere nella libertà dell’amore, oppure al male, per restarne imprigionati; o è obbedienza di figli, oppure è obbedienza di schiavi ( Rm 6,15-23 ). Camminare nello Spirito CCC nn. 2683-2691; 2697-2699 CdA nn. 729-795; 810-819; 833; 932-951; 955-1013 CdG1 pp. 288-289 Come costruire oggi una figura di giovane credente? Un certo tipo di spiritualità, presente anche ai nostri giorni, vorrebbe far ruotare tutto attorno al desiderio umano di Dio. La vera spiritualità mette al centro l’amore di Dio per l’uomo. La spiritualità è la vita di Gesù in noi, dono dello Spirito: è lo Spirito che, mettendoci a contatto con l’amore di Dio, delinea l’immagine di Gesù in noi e ci dona forza e riferimenti per costruire una nuova umanità, che ha come elemento fondante e determinante la persona di Gesù, il suo pensiero, i suoi atteggiamenti, le sue scelte, il suo modo di vivere. Non possiamo affidare a una religiosità occasionale o abitudinaria il compito di offrire ragioni di vita e motivi di speranza, né accontentarci di una religiosità indefinita, di comodo, tanto per sopravvivere. Occorre fissare con coraggio e con umiltà alcuni passaggi obbligati per edificare un’autentica spiritualità cristiana. La preghiera La preghiera non è il tutto della spiritualità, ma ne è l’indice di consistenza. Essere cristiani non è solo pregare, ma un cristiano non può essere tale se non prega. La preghiera cristiana non è un pregare qualunque, una qualsiasi invocazione del cuore, ma fa riferimento alla storia di Dio con gli uomini, il cui centro è Gesù. Il riferimento a Gesù è discriminante, perché da questo dipende sia la corretta visione dell’uomo che prega sia la corretta visione di Dio, origine e termine ultimo della preghiera. In questa prospettiva si collocano tutte le espressioni della preghiera cristiana: la fedele partecipazione domenicale ( se possibile più frequente, quotidiana ) alla celebrazione eucaristica, sorgente e vertice di una vita accolta da Dio e donata a lui; la preghiera personale nei vari momenti della giornata, quella che si esprime nella liturgia delle ore e quella che attinge alla ricca tradizione popolare; la meditazione quotidiana della parola di Dio, da curare soprattutto in Avvento e Quaresima; la recita del rosario, spazio di riflessione sui misteri della fede, ritmato dalla lode, dall’invocazione e dall’intercessione della Vergine Maria; la “via crucis”, cammino sulle orme di Cristo che si offre fino alla morte; la “preghiera del cuore”, mediante la ripetizione al ritmo del respiro di una parola del Signore, di una lode o invocazione. Per educarsi alla preghiera quotidiana sono utili esperienze più intense: spazi di “deserto”, esercizi spirituali, momenti prolungati di silenzio e di contemplazione, ricerca della volontà di Dio a riguardo delle scelte e dei progetti in una revisione di vita. Sono occasioni con cui i giovani, guidati da uomini e donne di Dio, imparano a dialogare con Lui, ad abituare il loro orecchio alla consapevolezza di sé e all’ascolto della sua Parola. Una guida La vita di fede non ammette controfigure: nessuno può sostituirci nel cammino personale di comunione con Dio. Ma per vivere in modo coerente ed ordinato non si può essere da soli: non si può sapere di essere amati fino allo spasimo da Dio senza vederne il volto concreto in qualcuno che ci accoglie. La solitudine, che sembra oggi caratterizzare il mondo giovanile, non la si supera nel chiasso o nelle “lettere al direttore” o lanciando messaggi nell’anonimato delle onde telematiche, ma cercando un incontro personale, una guida che possieda insieme l’amore e la forza dell’amico, capace di aiutarci a capire il progetto originale e libero di ciascuno e di raggiungere la massima accoglienza della volontà di Dio. La direzione spirituale, illuminata dalle scienze dell’educazione e riportata alla sua funzione di esercizio del discernimento alla luce della Parola, è importante per educare i giovani alla maturità della fede. Lo Spirito Santo dà ad alcune persone ( sacerdoti, religiosi, laici ) doni di saggezza e di fede particolari e li rende capaci di offrire un aiuto al cammino spirituale, tenendo sempre alta l’esigenza radicale della parola di Dio. Uno stile La ricerca di facili regole può ingannare. E necessario assumere uno stile nuovo, quello di Gesù, dentro il quale provare a riscrivere nella concreta individualità della propria vita i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza, che trovano in lui la loro ragione d’essere e il loro valore decisivo. È perché vogliamo imitare, amare Gesù, unirci strettamente a lui che scegliamo di essere poveri, casti e obbedienti. I consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza indirizzano i dinamismi della persona a Dio e al suo regno con una intensità particolare, poiché rigenerano il rapporto positivo con Dio, con se stessi, con gli altri e con le cose. Non c’è cristiano che non debba trovare equilibrio in queste relazioni e i consigli evangelici gli si offrono come segni e strumenti di educazione: la castità educa al vero senso dell’amore; la scelta volontaria della povertà all’uso giusto dei beni; l’obbedienza all’uso della libertà personale. Per plasmare gli atteggiamenti del proprio cuore occorre raggiungere la concretezza, aprendo la vita quotidiana ad alcune esperienze forti in maniera non saltuaria: la ricerca di spazi per la preghiera, l’offerta della propria disponibilità, il distacco dai luoghi delle proprie sicurezze, l’impegno nel servizio verso i poveri e gli ammalati, la condivisione dell’esperienza missionaria per portare a tutti il vangelo anche oltre i confini del proprio mondo immediato … Soprattutto, a nessun giovane credente deve mancare la possibilità di partecipare a percorsi formativi, che aiutano a sviluppare e consolidare una coscienza retta, capace di riscrivere la vita cristiana con originalità, dentro ogni nuova situazione. Una comunità non solo un gruppo Esiste un tempo in cui si deve camminare con le proprie gambe, in cui la vita ci butta nelle strade del mondo a causa del lavoro, dello studio o di altre scelte. Allora occorre affrontare la solitudine della diaspora, vivendo la fede non necessariamente sostenuti da un gruppo o dal calore di un riconoscimento reciproco tra credenti. In quei momenti ci accorgiamo di quanto è bello poter condividere con altri la nostra vita di fede, ma non è sempre possibile. Oggi si sviluppano forme di vita comune, in cui i giovani si mettono assieme per sperimentare la condivisione della fede e per attrezzarsi in vista delle grandi scelte per il futuro. Vengono vissute dentro gli abituali ambienti associativi, di movimento o parrocchiali, oppure fuori da essi, come nelle esperienze di servizio caritativo continuato, anche lontano da casa. Dobbiamo imparare però ad allargare sempre di più l’orizzonte e a sentirci parte di una comunione, quella ecclesiale, che è viva e pulsante in ogni angolo della terra. Si tratta di un riferimento, visibile o meno, che rimane sempre attivo, anche quando non arriviamo a sperimentarlo immediatamente. Professione e dono di sé Vivere una professione ricercata e apprezzata, giustamente remunerata e personalmente gratificante è il sogno di ogni giovane. Oggi succede a pochi di poter scegliere il lavoro che piace. Chi lo può fare viene considerato un fortunato. I più sono costretti ad accontentarsi di quello che la società passa. Gli ideali vengono subito ritoccati e ridotti, e con essi spesso anche l’entusiasmo. Questo stato di cose fa dimenticare, agli uni e agli altri, che in ogni situazione, il lavoro deve essere vissuto come missione, va cioè compreso dentro l’orizzonte della fede: “Gli uomini e le donne … possono a buon diritto ritenere che col loro lavoro essi prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e danno un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia” ( Gaudium et spes, 34 ). La spiritualità cristiana non è relegata alla sfera dell’interiorità. Tutta la persona ne rimane coinvolta, in una prospettiva vocazionale della vita che è garanzia per salvarsi dalla frammentazione e, alla fine, dalla perdita di senso. Ci si allena alla ricerca dell’unità della vita non solo nella preghiera, ma anche nell’esercizio semplice, umile e concreto di esperienze di servizio sotto le diverse forme di volontariato, di compagnia alla sofferenza dei fratelli ammalati, di disponibilità all’educare i più piccoli, di partecipazione alla vita sociale e politica … Una consacrazione Maria, la madre di Gesù, indica la strada per giungere al suo Figlio: la docilità allo Spirito mostra come accogliere la volontà di Dio; la decisione di mettersi a disposizione del Signore mostra come scegliere consapevolmente nella vita. Maria è provvidenziale compagna di viaggio per i giovani chiamati a crescere in responsabilità, per non subire scelte di vita imposte dalla società o dalla consuetudine. La sua vicenda di giovane donna, capace di ascoltare e riflettere, ma anche di parlare e prendere decisioni coraggiose, attira i giovani, che nutrono per lei più che una devozione sentimentale, una vera ammirazione. Molti giovani ne hanno riscoperto il fascino mediante i pellegrinaggi religiosi, rivolti in larga parte a luoghi e a santuari mariani. In questi cammini di fede, come pure nei grandi raduni legati alle “giornate mondiali della gioventù” o ad altre esperienze forti di incontro si esprime l’impegno di percorrere le strade del mondo e i sentieri della storia per arrivare al cuore della vita, dove sarà possibile accogliere ciò che Gesù indica come meta essenziale di ogni ricerca umana: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” ( Mt 6,33 ). La ricerca della verità e del significato della vita, il desiderio dei beni veri, il bisogno di cambiare, solo in Gesù trovano la risposta e la proposta per una esistenza rinnovata. Maria ci rimanda sempre a lui. I dieci comandamenti ( scheda ) CCC nn. 1962; 2052-2082 ( vedi pure nn. 2083-2557 ) CdA nn. 867-891 I “dieci comandamenti”, o “decalogo”, condensano tutta la legge che Dio ha dato al popolo d’Israele, durante il viaggio verso la terra promessa. Essa è parte essenziale dell’alleanza di Dio con il suo popolo. Le “dieci parole” vengono rivelate tra la proposta dell’alleanza e la sua stipulazione, dopo che il popolo si è impegnato a fare tutto ciò che il Signore aveva detto ( Es 24,7 ). I comandamenti costituiscono così il cuore dell’alleanza, che l’ebreo osservante ripete ogni giorno e in alcune particolari occasioni. La Bibbia ne riporta due versioni molto simili: Es 20,2-17 e Dt 5,6-21. La tradizione catechistica, riassumendoli dove nel testo biblico sono più ampi e interpretandoli, ce li ha consegnati così: Io sono il Signore, Dio tuo; 1. Non avrai altro Dio fuori di me; 2. Non nominare il nome di Dio invano; 3. Ricordati di santificare le feste; 4. Onora il padre e la madre; 5. Non uccidere; 6. Non commettere atti impuri; 7. Non rubare; 8. Non dire falsa testimonianza; 9. Non desiderare la donna d’altri; 10. Non desiderare la roba d’altri. I comandamenti sono espressi prevalentemente in forma negativa ( “non fare …”, “non dire …” ) e per questo hanno dato adito a interpretazioni riduttive, minimaliste, quasi fosse sufficiente non uccidere, non rubare, ecc. per ritenersi a posto con la volontà di Dio. È proibito a ognuno e sempre infrangere i precetti che vincolano. Il fatto che solo i comandamenti negativi obbligano sempre e in ogni circostanza, sta ad indicare che “il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo non ha nella sua dinamica positiva nessun limite superiore”, anzi è un invito ad amare sempre di più: c’è invece “un limite inferiore, scendendo sotto il quale si viola il comandamento” ( Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 52 ). L’elenco dei comandamenti non va mai disgiunto dall’affermazione che li introduce: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù”. Essi sono, dunque, anzitutto un patto, un’alleanza con Dio che ha già tenuto fede ai suoi impegni dando con ciò garanzia di non venir mai meno alla sua fedeltà. Sono inoltre un atto con il quale Dio, il liberatore, ci situa nella condizione di liberati; non sono, pertanto, l’espressione di una volontà divina che vuole sottometterci, ma, al contrario, l’appello che fonda la nostro libertà, quasi Dio dicesse: “Se vuoi vivere la libertà che io ho mostrato di saperti dare, queste parole sono la via”. Infine, i comandamenti sono l’indicazione di un percorso, verso una terra promessa nella quale non si è ancora entrati; l’aiuto per una libertà da conservare e sempre da ritrovare. Gesù non ho abolito, bensì ho portato a “compimento”, la legge compendiata nei dieci comandamenti ( Mt 5,17 ). Egli stesso ha indicato, con la sua vita e con il suo insegnamento, quale sia tale compimento pieno: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente … Amerai il prossimo tuo come te stesso” ( Mt 22,37-39 ). I dieci comandamenti sono dunque la prima scuola dell’amore a cui Dio ci chiama e che definisce il rapporto nostro con lui e fra di noi. “Pieno compimento della legge è l’amore” ( Rm 13,10 ). Le beatitudini ( scheda ) CCC nn. 1716-1729 CdA nn. 127-135; 852-866 CdG1 pp. 128-133 Le “beatitudini” possono essere considerate nell’annuncio della Chiesa come le tavole della “nuova legge”, che portano a compimento l’antica. Esse sono pronunciate in positivo, come l’annuncio di un dono. L’espressione “Beati”, infatti, richiama, nel sapore biblico delle parole, l’essere destinatari dì un dono che solo Dio può dare, non le nostre forze. La nuova legge - lo richiamerà con insistenza l’apostolo Paolo - non è solo osservanza di norme, ma lasciar vivere in noi lo Spirito che Gesù ci ha donato ( Rm 4-8; Gal 2,20-21; Fil 3,1-14 ). I Vangeli riportano due versioni delle Beatitudini: Mt 5,1-12 e Lc 6,20-26. Matteo le colloca nel contesto del “discorso della montagna”, nel quale Gesù proclama il compimento della legge antica ( “Avete inteso che fu detto …” ) e le esigenze della nuova ( “Ma io vi dico …” ). Luca le colloca nel contesto di una serie di miracoli e azioni che mettono in risalto l’insufficienza di un’osservanza formale della legge, anzi l’incapacità dell’uomo a metterla in pratica, per annunciare il vangelo della misericordia e della mitezza; tanto da contrapporre alle quattro beatitudini i quattro “Guai” pronunciati contro coloro che hanno lo pretesa di salvarsi da soli. Entrambi premettono che tale annuncio è rivolto particolarmente ai discepoli. La liturgia privilegia la versione di Matteo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro dì voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi”. Risalta il particolare legame che viene stabilito tra la beatitudine e un certo stile di vita. Non viene detto “Beati quelli che si guadagnano il regno dei cieli, quelli che ottengono consolazione, sazietà, misericordia …”, quasi sia possibile a qualche persona ottenere tutto ciò con i propri sforzi. Vengono invece proclamati beati coloro che “sono” poveri, afflitti, miti …, perché tutto riceveranno in dono. Sembra che Gesù constati un fatto più che dettare un dovere: coloro che sono poveri, miti, misericordiosi … ottengono in dono la beatitudine che Dio solo può dare. Solo Gesù è stato fino in fondo uomo povero, affamato di giustizia, operatore di pace, puro di cuore, perseguitato … e solo lui, dunque, è il vero “Beato”. Ma a coloro che credono in lui e che, mediante la fede e la grazia dei sacramenti, vengono “innestati” in lui, a costoro è dato la Spirito che li rende simili a lui, capaci di seguirlo e vivere come lui, anzi “di” lui: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” è la descrizione che Paolo fa della vita nuova donata ai discepoli di Gesù ( Gal 2,20 ). Le Beatitudini così intese si presentano anche come appello, come “carta costituente” del discepolo di Gesù. Chi non si fa povero, lasciando ogni cosa per seguire Gesù ( Mc 8,34-35; Mt 13,44-46 ); chi non diventa mite come un bambino ( Mt 11,3 ); chi non cerca Dio con cuore puro e sincero, cioè con tutta la propria mente e tutte le proprie forze ( Mt 22,37 ), non può entrare nel Regno inaugurato da Cristo. Vivere le Beatitudini è dunque scegliere di assecondare non i desideri di potere, di ricchezza, di successo, ma piuttosto i desideri che lo Spirito di Dio suggerisce in noi ( Gal 5,18-23; Fil 4,8; Gc 3,17-18 ). In sintesi L’adempimento della volontà di Dio è vita di fede, di speranza e di carità. Servire Dio è anzitutto credere in lui, affidarsi alla sua parola. La vita teologale La vita teologale è al fondamento della moralità cristiana, che si sviluppa come dialogo con Dio nella storia: - la fede è risposta alla chiamata del Padre e riconoscimento di ciò che ha fatto per noi; - la speranza ci fa aderire a Dio per il conseguimento della beatitudine eterna e suscito in noi un fiduciosa risposta; - la carità alimenta il servizio e la donazione, che arriva fino al dono di sé. La personalità morale cristiana Chi vive in una relazione di dialogo con Dio e con il prossimo, costruisce una personalità veramente libera per amare, mediante: il riferimento a modelli riusciti di umanità; l’esperienza della vita ecclesiale; la fedeltà alla legge scritta nel cuore; la docilità alle norme contenute nella parola di Dio e proposte dall’insegnamento della Chiesa. La coscienza Gettato nel mondo e nella storia, il credente deve individuare in ogni singolo evento la scelta concreta che meglio realizzi la sua conformità a Cristo. È il discernimento, che ha luogo nella coscienza, per cui occorre: ascoltare la proposta di Dio; rispondere con creatività, traducendo nella vita la verità trovata; educare la coscienza per affinare le proprie capacità di giudizio; vivere la libertà dei figli di Dio come adesione al Padre. La vita spirituale Lo Spirito definisce i lineamenti di una nuova personalità fondata su Gesù Cristo, il suo modo di essere, di pensare, di sentire e di agire. Ciò comporta la ricerca di: una preghiera autenticamente cristiana; una guida per il cammino; uno stile di vita secondo il vangelo; una comunità a cui riferirsi; una scelta professionale che si opre al dono di sé; una compagna di viaggio fedele, Maria. Per l’approfondimento La condizione dell’uomo redento CdA nn. 799-844 La comunione dei santi CCC nn. 946-959; 1474-1479 CdA nn. 741-755 La legge CCC nn. 1987-2011 CdA nn. 845-904 Per camminare nella fede Le domande della vita Ciascuno di noi agisce impegnando tutta la propria persona e la propria libertà. Le azioni umane comportano scelte che permettono di costruire o di distruggere la persona e la storia. È importante avere questa consapevolezza, in un contesto storico in cui molti condizionamenti sminuiscono la responsabilità e la capacità di impegnarsi da protagonisti. La vita cristiana è apertura a Cristo che dona alle persone la possibilità di agire in piena libertà, da figli di Dio e da fratelli di tutti gli uomini. Confrontarsi con il dono grande della vita divina e della libertà cristiana permette di orientare la propria esistenza verso una piena realizzazione - Hai sperimentato o sperimenti il disorientamento di fronte alle scelte che sei chiamato a fare? - Che cosa fai di solito? - Come ti comporti nelle situazioni concrete? - Che valore attribuisci alla fede, alla speranza e alla carità? - Come le colleghi tra loro e nella tua vita? - La santità è la possibilità di un’umanità pienamente riuscita: vedi la realizzazione di questa possibilità nei cristiani che vivono intorno a te? - Come ti senti personalmente interpellato da questa prospettiva? - Di fronte alla realtà problematica di oggi hai punti di riferimento che ti aiutano nel discernimento? - Quali sono e come li utilizzi? L’ascolto della Parola “Voi fratelli siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri … Le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. ( Gal 5,13-14.19-22 ) La voce della Chiesa “È mio grande desiderio, fratelli carissimi, proporvi quelle perle preziose che sono le beatitudini del santo Vangelo. [ … ] Beati i poveri in spirito, perché è ad essi che appartiene il regno dei cieli. Un esordio straordinario fratelli, per una dottrina celeste! Il Signore non incomincia dalla paura, ma dalla beatitudine, senza suscitare terrore, ma piuttosto desiderio. [ … ] Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Non disse semplicemente beati i poveri, senza distinzione, ma precisò: i poveri in spirito. Infatti non ogni povertà è lieta, poiché spesso è dovuta alla forza delle circostanze, a volte è il risultato di comportamenti depravati. [ … ] Beata è la povertà spirituale, cioè di quegli uomini che per Dio si rendono poveri nello spirito e nella volontà, rinunciando ai beni del mondo e cedendo spontaneamente le proprie sostanze. Diamo pure quello che abbiamo: offriamo la povertà in spirito per ricevere, secondo la promessa, la ricchezza del regno celeste; offriamo la mitezza, per possedere la terra e il paradiso; piangiamo i peccati, i nostri come quelli altrui, per essere consolati dalla bontà del Signore; sentiamoci assetati e affamati di giustizia, se vogliamo esserne più abbondantemente saziati; accordiamo misericordia, per ottenere la misericordia vera; viviamo da operatori di pace, per essere chiamati figli di Dio; offriamo un cuore puro e un corpo casto, per poter vedere Dio con limpida coscienza; non temiamo le persecuzioni a causa della giustizia, se aspiriamo a diventare eredi del regno dei cieli. Se i mercanti si compiacciono dei guadagni terreni ed effimeri, quanto più dobbiamo compiacerci ed esultare tutti noi che abbiamo trovato le perle del Signore, così preziose che nessun valore di questo mondo può sostenere il paragone con esse. [ … ] Per meritarci di acquistarle, ottenerle, possederle, dobbiamo chiedere aiuto e grazia e forza direttamente al Signore. A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen”. ( San Cromazio di Aquileia, Discorso 41, Sulle otto beatitudini ) Il dialogo della preghiera “Vieni, o Santo Spirito, illumina con la luce della verità il nostro cammino. [ … ] Donaci di confessare, con fede ardente, Gesù Cristo, Signore e Redentore, morto e risorto per noi, Colui che sempre viene. Egli è il Vangelo della carità di Dio per l’uomo, della comunione fraterna e dell’amore senza confini. Egli è il germoglio nuovo, fiorito nei solchi della storia: da lui solo può maturare il vero rinnovamento della Chiesa e della società. Vieni, o Santo Spirito, e rinnova la faccia della terra! Vieni, o Santo Spirito, infiammaci con il fuoco del tuo amore, perché con umiltà e coraggio sappiamo discernere il bene e il male presenti tra i figli della Chiesa e nell’intera società. Fa’ che ascoltiamo le tue parole con la docilità dei discepoli, pronti come Maria, la Madre dell’ascolto, a metterle in pratica e a farle fruttificare in una vita di santità personale, familiare e sociale. Apri il nostro cuore a Cristo che sta alla porta e bussa e rendici dimora vivente di Dio. Vieni, o Santo Spirito, e rinnova la faccia della terra! [ … ]”. ( Giovanni Paolo II, Preghiera per il III Convegno ecclesiale, 1995 ) L’incontro con i testimoni Teresa di Lisieux Teresa Martin nasce in Francia, ad Alençon ( Normandia ) nel 1873. I genitori Luigi e Zelia - dei quali la Chiesa è prossima a riconoscere la santità - creano un ambiente familiare di grande laboriosità e di forte sensibilità di fede, che porterà tutte e cinque le figlie a consacrarsi al Signore nella vita religiosa. Teresa è la più giovane ed ottiene di poter raggiungere le sorelle nel Carmelo della città a soli 15 anni. In nove anni compie un cammino di intensità spirituale straordinaria. È un itinerario di fede ispirato a semplicità e a concretezza, senza esperienze mistiche straordinarie. Si abbandona all’amore di Cristo, scoprendo che “la santità consiste in una disposizione del cuore che rende umili e piccoli nelle mani di Dio, coscienti della nostra debolezza e fiduciosi fino all’audacia nella sua paterna bontà”. Il suo slancio apostolico trova risposta nelle pagine della Scrittura, che le svelano la centralità dell’amore nell’esperienza cristiana. In questo amore scopre la sua personale vocazione nella Chiesa e lo declina nella quotidianità della vita del monastero, tra gioie ed afflizioni, nella “piccola via dell’infanzia spirituale”. Muore giovanissima, a soli 24 anni, il 30 settembre 1897, lasciando preziose testimonianze del suo itinerario di comunione con Dio. “Siccome le mie immense aspirazioni erano per me un martirio, mi rivolsi alle lettere di san Paolo, per trovarvi finalmente una risposta. Gli occhi mi caddero per caso sui capitoli 12 e 13 della prima lettera dei Corinzi, e lessi nel primo che tutti non possono essere al tempo stesso apostoli, profeti e dottori e che la Chiesa si compone di varie membra e che l’occhio non può essere contemporaneamente la mano. Una risposta certo chiara, ma non tale da appagare i miei desideri e di darmi la pace. Continuai nella lettura [ … ]. Trovai così una frase che mi diede sollievo: “Aspirate ai carismi più grandi. E io vi mostrerò una via migliore di tutte” ( 1 Cor 12,31 ). L’apostolo infatti dichiara che anche i carismi migliori sono un nulla senza la carità [ … ]. Avevo trovato finalmente la pace. Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ritrovavo in nessuna delle membra che san Paolo aveva descritto, o meglio, volevo vedermi in tutte. La carità mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che tutta la Chiesa ha un corpo composto di varie membra [ … ]. Compresi che la Chiesa ha un cuore, un cuore bruciato dall’amore [ … ]. Compresi e conobbi che l’amore abbraccia in sé tutte le vocazioni, che l’amore è tutto, che si estende a tutti i tempi e a tutti i luoghi, in una parola, che l’amore è eterno. Allora con somma gioia ed estasi dell’animo gridai: o Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l’amore. Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo dai tu, o mio Dio. Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore ed in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà”. ( Santa Teresa di Lisieux, Manoscritti autobiografici, B3v ) La professione della fede “Maestro che cosa devo fare?” “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” ( Gv 13,34-35 ). “La vera libertà è nell’uomo segno altissimo dell’immagine divina … Perciò la dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere … Ma l’uomo ottiene tale dignità quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine con scelta libera del bene” ( Gaudium et spes, 17 ). - Tutta la vita di chi crede in Dio, Padre di Gesù Cristo, è trasformata dalla fede, resa dinamica dalla speranza e orientata alla carità: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” ( 1 Cor 13,13 ). - “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge, che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo” ( Gaudium et spes, 16 ). - Le virtù sono una disposizione abituale e ferma a compiere il bene. La persona virtuosa tende sempre verso il bene, lo ricerca e lo sceglie in azioni concrete e, in questo modo, vive l’esperienza della libertà. Introduzione Vera per ogni età, l’esclamazione biblica: “Non è bene che l’uomo sia solo” lo è particolarmente per l’età giovanile. Ci si scopre capaci di rapporti profondi, ai quali si vuol dare futuro. Cresce l’esigenza di autonomia dalla protezione familiare, il bisogno di mettersi alla prova e costruire qualcosa di proprio. Si afferma soprattutto il desiderio di amare, di spendersi; la ricerca di qualcuno a cui dedicare il proprio tempo, la propria vita. L’esperienza dell’amore, che riempie di significato e di calore le nostre giornate, va protetta e fatta maturare. L’amore di questa stagione della vita è come un torrente estivo, che vogliamo incanalare perché la sua forza non vada dispersa e le sue acque giungano a meta. Per far questo occorre scoprire che la sorgente dell’amore è Dio stesso, e che egli è anche la meta a cui rimanda ogni nostra esperienza d’amore. Qualcuno si sentirà sospinto a rivolgere direttamente a Dio e alla sua Chiesa l’amore di cui si sente capace. Altri si sentiranno chiamati a dedicare un amore fedele alla persona di cui ci si scopre innamorati, chiedendo che Dio ne faccia sacramento, trasparenza dell’amore che lui stesso nutre verso tutti. Siamo come l’artista davanti alla creta: tocca al nostro genio, alla nostra intelligenza e volontà ricavarne una personalissima opera d’arte. Siamo responsabili dei comportamenti che mettiamo o non mettiamo in pratica per far maturare e plasmare questo amore, perché cresca vivificando e non mortificando. L’amore si manifesta e cresce mediante le parole, i gesti, il linguaggio ricco e complesso dell’affettività e della sessualità. È un linguaggio da apprendere, perché le nostre parole e i nostri gesti esprimano genuinamente amore. Non è bene che l’uomo sia solo CCC nn. 355-373; 2331-2336 CdA nn. 366-367; 1043-1051 In principio Dio creò i cieli, la terra, il mare, le piante e ogni essere vivente: tutto era buono ( Gen 1 ). Creò l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché godesse di tutte le cose buone che aveva preparato per lui ( Gen 2 ). Alla vista dell’uomo, dalla bocca del Creatore esce un’esclamazione: “Non è bene che l’uomo sia solo” ( Gen 2,18 ). L’uomo non è creato per la solitudine, ma per l’incontro, il dialogo, la comunione. A immagine di Dio “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”, aveva detto Dio. E così è stato: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” ( Gen 1,26-27 ). Per questo non è bene che l’uomo sia solo: perché egli è immagine e somiglianza di Dio, che è comunione e amore. Dio non soffre di solitudine e non crea l’uomo per avere qualcuno che lo ami. Lo crea per effondere su di lui il suo amore. La solitudine dell’uomo non viene soltanto lenita da Dio, ma vinta, perché il Creatore soffia nel cuore dell’uomo il suo Spirito, la sua stessa capacità di amare: si esce dalla solitudine non chiedendo amore, ma donandolo. “Non è bene che l’uomo sia solo”: è bene che l’uomo sia comunione, capace di amore maturo da donare a qualcuno, nel quale riconoscersi, come Dio si riconosce nell’uomo. Raccontando la creazione dell’uomo, la parola di Dio ne annuncia la vocazione: l’uomo è nato come opera e immagine dell’amore divino, che chiama alla vita per potersi donare, per rendere altri partecipi della felicità che viene dalla comunione. Maschio e femmina li creò Il fatto stesso che si nasca o uomini o dorme dice il nostro limite: non bastiamo da soli, non bastiamo a noi stessi, ma siamo fatti per l’altro, per l’incontro, per il dialogo. Dice però anche la nostra grandezza: l’incontro è possibile, è possibile uscire dalla solitudine e amare. In questo incontro siamo anche portatori di un dono specifico: essere uomo e essere donna costituiscono due modalità di amare, di pensare, di agire, che chiedono complementarità e sono vicendevole ricchezza. Esistiamo con un corpo, nella condizione di maschi o femmine: non possiamo prescindere dalla sessualità. Essa dice per quale fine è stato creato l’uomo, ma non lo esaurisce. L’uomo e la donna non sono stati creati per riprodursi, senza orizzonti, ma per amare e donare la vita. Viviamo in una cultura che tende a un doppio eccesso. Da una parte esalta la sessualità per se stessa, quasi fosse capace da sola di colmare il vuoto e la solitudine che ci angosciano. Dall’altra relativizza la sessualità fino a banalizzarla, non riconoscendo in essa un appello a una comunione più profonda, valutando come indifferente questo o quel comportamento a suo riguardo. La Bibbia ci aiuta a dare un significato autentico alla sessualità umana: da essa non possiamo prescindere, ma non si esaurisce in se stessa e rimanda ad una comprensione più totale della persona, della vita e delle relazioni umane. Essa porta con sé una rivelazione e un appello. La narrazione della creazione dell’uomo e della donna nel capitolo 2 del libro della Genesi ricorre a un’immagine: “Il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo” ( Gen 2,21-22 ). Un fatto che avviene nel sonno allude, nel simbolismo biblico, a un mistero: non una realtà incomprensibile, ma qualcosa che va oltre i sensi e attinge alle profondità dell’uomo e al divino, mai del tutto traducibile e, soprattutto, che a nessuno è lecito banalizzare. In seguito al peccato, quando l’uomo e la donna vogliono appropriarsi del mistero - diventare “come Dio” ( Gen 3,5 ) -, il testo biblico afferma che si “aprirono gli occhi a tutti e due e si accorsero di essere nudi” ( Gen 3,7 ). Ad occhi aperti, cioè fuori dal contesto di mistero che le è proprio, la differenza sessuale diventa esperienza di limite, di minaccia, di nudità che suscita timore. Isolata dal suo rimando a Dio, dal suo significato “misterioso”, essa diventa il luogo primo in cui si manifesta la solitudine e la povertà dell’uomo lasciato a se stesso. Nella sessualità una rivelazione e una vocazione “A immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” ( Gen 1,27 ). Per i credenti, trovarsi nella condizione di uomini e donne è anzitutto rivelazione di Dio stesso: egli è comunione. È quindi anche rivelazione dell’uomo: non bastiamo a noi stessi, ma siamo fatti per un rapporto, per stabilire relazioni. Dio ha creato l’uomo a sua immagine non per abbandonarlo nel giardino di Eden, ma per stabilire un dialogo, un rapporto con lui. Anzi, ancor di più, per condurlo a partecipare alla stessa comunione che unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. “Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa”” ( Gen 2,22-23 ). L’uomo esulta al vedere la donna, perché in lei riconosce la possibilità dell’amore, che solo può riempire la vita, mentre non lo possono tutte le altre creature ( Gen 2,20 ). C’è in questa esperienza un mistero che si rivela. Tutto in noi invita a non chiuderci in noi stessi, a metterci in dialogo. Perfino i nostri corpi disegnano questo invito all’incontro, alla complementarità, alla comunione. Insieme scopriamo che questa rivelazione porta con sé un appello, una vocazione. “Dio è amore e vive in se stesso un mistero di comunione personale di amore. Creandola a sua immagine …, Dio inscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione” ( Giovanni Paolo Il, Familiaris consortio, 11 ). Creando l’uomo, Dio ha lasciato in lui traccia di un progetto e quindi un invito: vivere a somiglianza di Dio, cioè nel dialogo, costruendo comunione tra gli uomini, verso la comunione definitiva con lui. “Non è bene che l’uomo sia solo”, perché chi è chiuso in se stesso rinuncia a essere immagine di Dio che è Trinità. Chi ama ha conosciuto Dio CCC nn. 1929-1948; 2258-2262 CdA nn. 1014-1024 Creandoci a sua immagine e somiglianza Dio ci chiama ad amare, ma non in un qualsiasi modo. Non basta stabilire relazioni con gli altri, se esse non imitano la comunione che è in Dio stesso e quella relazione che Dio ha stabilito con noi. Creati per amare “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza … Amerai il prossimo tuo come te stesso” ( Mc 12,30-31 ): è il comandamento che ci deriva dalla nostra somiglianza con Dio. È perciò importante conoscere quale sia lo “stile” divino dell’amore, per poterne essere un’immagine fedele. Ne va della nostra felicità, della nostra vita. Davanti ai nostri occhi e ai nostri desideri passano tante proposte che ricorrono, non poche volte abusandone, alla parola “amore”. Se scrutiamo la parola di Dio, se proviamo a cogliere le tonalità dei gesti da lui compiuti per l’amore appassionato che nutre nei nostri confronti, possiamo riconoscere alcune caratteristiche di quell’amore che ha sospinto il Creatore a darci vita, il Salvatore a donare la sua vita perché la nostra sia piena, lo Spirito a rinnovarla incessantemente. Queste caratteristiche sono da accogliere e vivere tutte insieme, come il prisma dei colori nel bianco: se ne manca anche solo una, tutto l’insieme si impoverisce e non potremmo più riconoscere in un amore l’impronta divina da cui nasce. L’altro prima di me: la gratuità Dio mi ama senza secondi fini. Non ha bisogno di me. Mi ama gratuitamente. Nella pienezza della comunione che unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito, la gioia di Dio è piena e non manca di nulla. Dio ci ha chiamati alla vita senza altro fine che quello di rendere partecipi anche noi di questa intima gioia, per sempre, senza limiti. L’amore umano è genuino quando viene donato senza secondi fini, solo perché l’altro è amabile. Nell’esperienza dell’innamoramento è racchiuso questo appello: l’altro, l’altra risulta amabile per quello che è, al di là di quello che può dare a me. E si sperimenta il desiderio di poter dare amore “come Dio ha amato noi”. All’opposto della gratuità dell’amore divino sta l’atteggiamento di chi guarda all’altra persona solo per quello che può dare o, cosa ancora più umiliante, tratta l’altro soltanto come un’occasione per sentirsi appagato. Animati dall’amore di Dio, siamo chiamati anche noi a trattare gli altri mirando al loro bene, senza secondi fini. Quando abbiamo sperimentato di essere anche noi capaci di voler bene a qualcuno senza altri interessi, siamo in grado di intuire qualcosa dell’amore divino, per il quale “vi è più gioia nel dare che nel ricevere” ( At 20,35 ). In quei momenti scopriamo di poter superare l’infantile bisogno di cercare l’altro per avere da lui qualcosa. Scopriamo che l’amore non è conquista, non è dire a qualcuno: “Tu sei mio”. Al contrario, è dono, è gioia di poter dire a qualcuno: “Io sono tuo”. In questa natura gratuita dell’amore sta anche la fecondità della sofferenza, del dolore di una malattia, della stessa solitudine accolta e offerta. Là dove la vita si fa dono senza aspettative di ritorno, appare in tutta la sua verità e grandezza l’amore. Per sempre: la fedeltà Quando la Bibbia racconta dell’amore di Dio per il suo popolo ricorre spesso alle immagini forti di un amore tradito: Dio ha amato il suo popolo come uno sposo, ma esso continuamente lo ha tradito. Diversamente, però, da come solitamente finiscono le storie di amori umani traditi, Dio non ha mai smesso di amare il suo popolo e ogni volta, anzi, ha dichiarato la sua promessa di amarlo ancora di più. Così lo riconosciamo nella liturgia: “Molte volte gli uomini hanno infranto la tua alleanza, e tu invece di abbandonarli hai stretto con loro un vincolo nuovo per mezzo di Gesù, tuo Figlio e nostro Redentore: un vincolo così saldo che nulla potrà mai spezzare” ( Messale Romano, Preghiera eucaristica della riconciliazione I ). I profeti ricorrono al vocabolario della gelosia per descrivere l’amore di Dio tradito, ma anche al vocabolario nuziale per rinnovare la promessa divina che il suo amore non verrà mai meno: “Ti farò mia sposa per sempre, … ti fidanzerò con me nella fedeltà” ( Os 2,21.22 ). Quando scopriamo di voler bene a qualcuno, sgorgano spontanee espressioni che impegnano il futuro, come “sempre” o “mai”. L’amore genuino, quello che ha le sue radici in Dio e matura noi, ha in se stesso, come le più naturali, le parole della fedeltà. Nell’uomo segnato dal peccato è però sempre in agguato la tentazione di chiudersi in se stesso. Amare qualcuno ci impegna; può dare gioia, ma può anche farci sperimentare il ferimento. Dopo l’ebbrezza dell’innamoramento può rispuntare il calcolo di quanto si dà e quanto si riceve, ritornano le espressioni al condizionale: “Ti amerei ancora se …”. Dio ci ama, invece, senza condizioni e ci rivela che anche a noi è possibile farlo. E, rivelandocelo, ce ne rende capaci. Imitare l’amore di Dio significa amare anche quando non ci conviene più amare “per sempre”. Rivivere l’amore di Dio significa spesso perdonare. Senza capacità di perdonare e di rigenerare continuamente dentro di noi quel “per sempre”, l’amore non dura. Senza perdono non è possibile a una coppia, che pur si ama, restare insieme; ma non è possibile nemmeno al missionario restare fedele e solidale con la sua gente. Prendersi cura della vita: la fecondità Dio non è solo Creatore: è Padre. Egli non ha chiamato alla vita le cose e gli uomini per lasciarli al loro destino. Egli vuole che noi abbiamo la vita e l’abbiamo in pienezza ( Gv 10,10 ). Anche nell’amore umano si rivela questo profonda aspirazione: desideriamo che chi è raggiunto dal nostro amore viva e sperimenti la gioia della vita nella sua pienezza. Del resto, l’atto più intimo e più espressivo con il quale un uomo e una donna si dicono l’amore reciproco nel dono del corpo, porta in se stesso una potenzialità creatrice, si risolve nella possibilità di una nuova vita. L’amore è per natura sua fecondo. Chi restringe il proprio orizzonte al presente, chi sente la vita altrui come una minaccia alla propria, è ancora lontano dal conoscere l’amore genuino. Quando si vuol bene a qualcuno, si è disposti a dare la propria vita per quella altrui. L’amore fecondo è impegnativo, perché, come è stato per il Creatore, non si limita a suscitare vita, ma porta a prendersene cura. E fecondo l’amore di un uomo e una donna che concepiscono un figlio, ma è fecondo anche l’amore dei figli che si prendono cura della vita stanca dei genitori anziani e sofferenti. È fecondo l’affetto di un amico che porta luce in una vita minacciata dal buio, perché la salva e quasi la fa rinascere. E fecondo l’amore di un parroco per la sua gente, perché aiuta a conoscere e accogliere quell’Amore che solo può rendere la vita piena di significato e, nei sacramenti, fa rinascere alla vita di figli di Dio. Nessuno escluso: l’universalità L’amore che è in Dio si è dilatato, per accogliere tutti noi. La gioia che è nella divina Trinità non è stata considerata “un tesoro geloso” ( Fil 2,6 ) da custodire, nel timore che, condividendolo, sminuisca. L’amore, per natura sua, vuole raggiungere tutti. Esso segue una legge che è strana per chi non ha confidenza con il modo d’agire di Dio: si moltiplica dividendolo con altri ( Mc 6,34-44 ). Chi volesse tenerlo per sé soltanto, lo perderebbe. È così anche per l’amore umano. Quando si vuol bene a qualcuno, ci si sente aiutati a voler più bene a tutti. Chi vuole tutto per sé, tutto perde. E un amore ancora immaturo quello che vuole isolare due cuori sotto una capanna. È lontana dalla somiglianza divina quella coppia che considera il proprio amore un affare privato e chiude il mondo fuori dalle proprie attenzioni e dalle proprie cure. Anche il gesto più intimo di un amore è debitore verso tutti, verso il mondo intero. Per questo il matrimonio è anche un atto pubblico: perché un uomo e una donna riconoscono davanti a tutti che dall’amore che è loro donato nasce l’impegno a spendere questo dono a vantaggio dell’intera società. Nessun amore umano potrà mai essere un’immagine esauriente di quello divino. Così come tanti pittori, posti davanti a un qualunque paesaggio, lo riprodurrebbero in maniera diversa, così anche noi siamo chiamati al nostro personale capolavoro, concretizzando nella nostra vita un’imitazione personalissima di Dio. Quante saranno le persone che Dio chiama alla vita, tanti saranno i modi di interpretare l’invito che egli ha impresso in noi. La millenaria storia di questa arte interpretativa ha due strade maestre, lungo le quali i percorsi dell’amore umano si incamminano: l’amore sponsale e l’amore consacrato. Entrambi saranno genuini se, come quello divino, saranno gratuiti, fedeli, fecondi e universali. I due saranno una carne sola CCC nn. 1643-1654; 2333-2335; 2360-2400 CdA nn. 1052-1065 CdG1 pp. 77-82; 267-269 La Bibbia non dà molte indicazioni esplicite su come un uomo e una donna debbano vivere il loro amore, ma dice molto di come Dio ha amato l’umanità. Un uomo e una donna vivranno l’autenticità del loro amore e daranno vita a un’immagine della comunione che è in Dio, se nel costruire tra loro la comunione di “una carne sola” ( Mt 19,6 ) imiteranno l’amore divino nei suoi tratti irrinunciabili. La strada che viene qui indicata non è già tutta percorsa fin dall’inizio. Si tratta, appunto, di un cammino: dalla scoperta dell’altro o dell’altra come un bisogno di completezza per la propria vita, fino alla scoperta di lui o di lei come un dono che ci viene fatto dal Signore e, infine, all’esperienza che l’amore vero è sempre e soltanto un dono. Reciprocità e gratuità L’amore di un uomo e una donna sarà “gratuito”. Questo significa forse che non sarà reciproco? Nessuno accetterebbe di formare coppia, se non fosse certo di essere ricambiato nel proprio amore. La gratuità non esclude la reciprocità: significa però che, per un cristiano, l’amore genuino non misura quanto dà e cosa riceve. Se ti sentissi amato soltanto per ciò che dai, ti sentiresti umiliato. Così anche tu sei chiamato ad amare al di là di ciò che potresti ricevere e anche quando l’altra persona non fosse più in grado di darti niente. L’aprirsi totalmente all’altra o all’altro diventa così il modo più vero per ritrovare e stessi: è quanto Paolo lascia intendere quando dice all’uomo che “chi ama la propria moglie ama se stesso” ( Ef 5,28 ). Quando una persona sceglie l’altra per donarsi a lei, imita l’amore divino. Nessun rapporto di coppia reggerebbe, se entrambi si preoccupassero solo di ricevere. Non si dà per ricevere, anzi noi stessi sperimentiamo che il nostro amore è più forte quando è pago di aver donato, quando pensiamo di aver ricevuto abbastanza solo perché abbiamo potuto dimostrare a qualcuno il bene che gli vogliamo. Sempre e comunque Proprio perché gratuito, l’amore di un uomo e una donna sarà anche “fedele”. Esso non si limita nel tempo né ad alcune condizioni, ma progetta il “sempre” e il “comunque”, “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia” ( Rito del sacramento del Matrimonio, 28 ). Una coppia, una famiglia sono immagine della comunione trinitaria quando, al suo interno, ciascuno si sente impegnato a non ritirare il proprio affetto e la propria cura nemmeno quando l’altro sbaglia, tradisce o fa del male. La fedeltà si mostra nel perdono più forte dell’offesa, nel bene più forte del male, nell’amore davvero più vitale di tutto ciò che mortifica, a immagine dell’amore di Cristo, che è morto per noi “mentre eravamo ancora peccatori” ( Rm 5,8 ). Essere fedeli vuol dire anche sentirsi impegnati a coltivare l’amore e a educarlo, non solo perché sia forte nelle difficoltà, ma perché, crescendo, maturi in ciascuno dei due una vita più piena. Il Matrimonio, in questo senso, non è la “tomba dell’amore”, come va ripetendo un certo cinismo superficiale. Al contrario, esso è la culla di un amore che vuol crescere; la promessa che io ti starò sempre al fianco perché tu e io insieme sapremo attingere di volta in volta a una risorsa nuova del nostro amore, che oggi è amore di sposi, domani sarà amore di genitori, poi di nonni, sempre di amici. Fedeltà è quindi impegno quotidiano a modellare un progetto sempre in costruzione; è anche vigilanza e creatività, perché il rapporto fra i due non scada mai a sciatteria, non sia mai banalizzato né dato per scontato. San Giovanni Crisostomo suggerisce ai giovani sposi di fare questo discorso alla loro sposa: “Ti ho presa tra le mie braccia, ti amo, ti preferisco alla mia stessa vita. Infatti l’esistenza presente è un soffio, e il mio desiderio più vivo è di trascorrerla con te in modo tale da avere la certezza che non saremo separati in quella futura” ( Sulla lettera agli Efesini, 8 ). Per dare la vita L’amore di un uomo e una donna sarà “fecondo”. Esso è immagine e somiglianza dell’amore divino perché, come quello, ha in sé una capacità creatrice: suscita la vita e la cura. “Nel Compito di trasmettere la vita umana e di educarla, che deve essere considerato come la loro propria missione, i coniugi sanno di essere cooperatori dell’amore di Dio creatore e come suoi interpreti” ( Gaudium et spes, 50 ). È nella natura, nella spontaneità del rapporto fra un uomo e una donna che esso sia orientato a generare la vita. Sarà dunque autentico se non si chiude per egoismo a questa Capacità; la saprà invece amministrare con generosità e responsabilità. “Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”” ( Gen 1,28 ). Dio ha legato la sua volontà creatrice alla responsabilità dell’uomo e della donna come coppia.  i qui la motivazione profonda della responsabilità dell’uomo e della donna di fronte alla vita e la ragione per cui non se ne può essere padroni, ma solo collaboratori. Di qui l’assurdità inaccettabile del gesto che sopprime, con l’aborto, quella vita cui si è dato inizio. Essere fecondi non significa però soltanto generare figli alla vita, ma anche prendersene cura, amandoli, come Dio li ama, per il semplice fatto che esistono; perché sono quel che sono, non perché realizzano i nostri desideri. Anche ad essere fecondi ci si prepara, educandosi ad amare la vita in tutte le sue espressioni e cominciando ad amare da figli la vita dei genitori, da fratelli la vita di chi vive nella stessa casa, al di là dei caratteri, delle differenze di opinioni, prendendosi cura delle necessità di tutti, accettando che la vita degli altri possa chiedere qualcosa alla nostra. Non si è fecondi solo per una capacità biologica, se non si è disposti e non ci si prepara a donare la propria vita. In questo senso, anche a una coppia che non può avere figli è possibile realizzare una fecondità piena, nel prendersi cura, ad esempio con l’adozione o con l’affido, di una vita già nata. Insieme incontro agli altri L’amore sponsale sarà “accogliente” verso tutti. Esiste anche un egoismo a due, tipico della vita matrimoniale, quando gli sposi si chiudono in se stessi, ignorando il mondo attorno a loro. Ma un uomo e una donna, se vogliono che il loro amore sia immagine di quello divino e che la loro casa sia “quasi una Chiesa domestica” ( Lumen gentium, 11 ), non possono progettare un’esperienza di famiglia che li isoli dal mondo. Volersi bene non è un motivo per chiudersi agli altri, bensì una spinta ad aprirsi, ad accogliere tutti. L’amore che li tiene saldamente uniti tornerà a vantaggio di quanti ne sono in ricerca e di quanti ne hanno più bisogno. Il confronto con altri coniugi, inoltre, li aiuterà a discernere nelle inevitabili difficoltà della vita e a trovare sempre nuovi incentivi per conservare limpido e saldo il proprio rapporto. Due giovani che si scoprono innamorati sono portati a isolarsi per approfondire la loro intesa e per conoscersi in quella confidenza alla quale gli altri non sono ammessi. Si cercano reciprocamente come se l’uno fosse per l’altro la sola realtà che interessa. Ma quando l’amore matura, i due imparano a incontrarsi per andare insieme incontro agli altri. Si cercano, ma non per escludere gli altri, bensì per essere capaci di un’accoglienza più grande, sostenuti dal bene che si vogliono. Quando l’amore matura, conduce alla concretezza del sapersi inseriti in una società, verso la quale si hanno dei doveri e davanti alla quale si è responsabili delle proprie scelte. Ciascuno deve rendere conto alla società dei progetti di vita che fa: se vuole impegnarsi nel lavoro o no, se vuole costruire una famiglia o no. L’amore cristiano “che è il vincolo della perfezione” ( Col 3,14 ), da cui tutto, anche il vincolo sponsale, deve lasciarsi illuminare, non accetta esclusioni e confini. Il modo di pensare comune ci porta a confondere intimità con privatezza e a sentire entrambe come beni da difendere contro il resto della società. I cristiani che hanno scelto di formare una famiglia, ne fanno un motivo non per chiudersi dietro la porta di casa, ma per dare insieme il proprio contributo alla società e alla comunità ecclesiale; non per “realizzare se stessi”, ma per rendere il mondo intero più simile a quello che Dio lo chiama a essere: una famiglia dove si vive da fratelli. “La famiglia, nella quale le diverse generazioni si incontrano e si aiutano vicendevolmente a raggiungere una saggezza umana più completa e a comporre convenientemente i diritti della persona con le altre esigenze della vita sociale, è veramente il fondamento della società” ( Gaudium et spes, 52 ). Il linguaggio del corpo A questo punto è comprensibile perché, nel giudizio della Chiesa, fra un uomo e una donna non si dà amore maturo al di fuori del contesto matrimoniale. Si potrà dire fedele un amore che non impegna tutto se stesso, compreso il proprio futuro? Si potrà dire fecondo un rapporto di coppia che esclude di principio la nascita di un figlio? Si potrà dire aperto alla società un amore che da essa si difende e non vuole assumersi ruoli e responsabilità di coppia? È comprensibile l’impegno responsabile che la Chiesa chiede a un uomo e una donna nel dirsi l’amore reciproco con il linguaggio intimo del corpo e della sessualità. Se esso non è adeguato, nei tempi e nei modi, all’amore che vuol tradurre e agli impegni che di conseguenza dichiara di assumersi, può risolversi in un inganno reciproco. Non è secondo verità dirsi con il corpo: “Sono tuo”, “Sono tua”, nei rapporti cosiddetti prematrimoniali, finché non si è impegnati davvero con tutto se stessi, compreso il futuro, nel dono definitivo di sé all’altra persona. Questo impegno il cristiano lo assume pubblicamente nella celebrazione del sacramento del Matrimonio, dinanzi alla sua comunità. Non è secondo verità dar vita a gesti che possono concepire una nuova vita, se questa viene esclusa o non si è ancora in grado di prendersene cura. Come impariamo a trovare parole adeguate per dire ciò che vogliamo far sapere e non essere fraintesi, così occorre essere responsabili di quanto diciamo con i gesti del corpo e imparare quindi a soppesare le parole del linguaggio sessuale: “Ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto” ( 1 Ts 4,4 ). Nel sacramento del Matrimonio Il cammino lungo dell’amore trova consacrazione nel sacramento del Matrimonio. Amarsi per un cristiano e una cristiana è amarsi nel Signore. “Questo mistero è grande”, come ricorda san Paolo, e può essere compreso solo “in riferimento a Cristo e alla Chiesa” ( Ef 5,32 ). L’amore della coppia cristiana è manifestazione dell’amore stesso di Dio, rivelato nell’amore con cui “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” ( Ef 5,25 ) e a cui la Chiesa risponde nell’amore che è servizio o, come dice ancora san Paolo, sottomissione ( Ef 5,24 ). Chi ha questa fede non può che porre il proprio amore nel segno della presenza dello Spirito. Consacrare il proprio amore nel segno dell’amore di Cristo, significa riconoscere che esso è risposta a una vocazione, con cui il Padre invita a diventare suoi collaboratori per la comunione e la vita. Attraverso questa consacrazione, l’amore umano riceve il dono della novità della Pasqua di Cristo: la nuova vita, già comunicata nel Battesimo, viene resa capace di esplicitare tutte le potenzialità dell’amore nella dimensione della coppia e della famiglia, accogliendo e vivendo l’amore stesso di Dio. Per questo la coppia cristiana celebra il Matrimonio nella Chiesa, esprimendo di fronte a tutta la comunità la volontà di amore e di unità e l’impegno a divenire, per tutti i fratelli, segno dell’amore di Cristo e della Chiesa. A questa celebrazione si giunge dopo un cammino di confronto con la parola del Signore, in cui si matura la comprensione del mistero che si è chiamati a vivere e la consapevolezza degli impegni che si assumono. Il fidanzamento è il tempo prezioso di questa crescita, tempo di grazia nel quale più immediata e gioiosa è la scoperta dell’amore, che appare dono gratuito e sorprendente. Ma è anche tempo di impegno e di cammino, che va speso non solo per conoscersi reciprocamente, senza infingimenti e con autenticità, ma per approfondire la propria vocazione, per accogliere il disegno di Dio sulla propria vita insieme, diventando consapevoli delle responsabilità che si assumono, maturando il desiderio di mettersi a servizio l’uno dell’altro come pure dei figli che verranno e della comunità in cui si andrà a vivere. È il tempo in cui si costruisce quella progressiva compenetrazione di sentimenti e di interessi, che sola consente di giungere a pronunciare con verità le parole della donazione reciproca nel patto coniugale. Allora e soltanto allora la parola del corpo, la comunione intima propria degli sposi, sarà veicolo di grazia e segno di quella donazione incondizionata e indissolubile a cui ci si impegna. Consacràti per il Regno CCC nn. 914-933; 1618-1620 CdA nn. 1075-1079 CdG pp. 270-272 Unico grande comandamento e unica vocazione che accomuna tutti i cristiani è l’amore a Dio e ai propri fratelli. Si tratta per tutti di divenire santi, grandi nell’amore, come Dio lo è. È una chiamata rivolta a quanti vivono la vocazione al matrimonio e a quanti sono incamminati sulla via della castità consacrata o del celibato nel ministero presbiterale. Sull’esempio di Gesù Gesù ha incarnato l’amore che Dio ha per tutti e ha inaugurato un modo nuovo di rispondervi. Un modello rivoluzionario per i suoi contemporanei, per i quali il non sposarsi o il non avere discendenza era ritenuta una sventura se non una maledizione. Il vangelo e la vita di Gesù annunciano che l’amore non ha una sola realizzazione e che il matrimonio non è un destino senza alternativa. Nella grandezza e nella libertà dell’amore divino, di cui siamo imitatori sempre parziali, possiamo essere chiamati a percorsi diversi. La sessualità, l’essere uomini o donne, racchiude in sé un appello, non un destino; è un invito alla comunione gratuita, fedele, feconda, accogliente, non una legge biologica orientata alla conservazione della specie. Cercare l’amore di Dio come possibile e come l’unico amore necessario ed eterno; non dedicarsi a nessuno in modo esclusivo, ma lasciare che siano i percorsi della vita a proporti quel prossimo che ha bisogno di trovare in te una trasparenza della compassione divina; coinvolgere tutto te stesso, anche il tuo corpo, nell’attesa operosa di un altro Sposo, il Cristo, del quale tutti gli sposi della terra sono immagine: tutto ciò è possibile e può riempire una vita. “La castità “per il regno dei cieli” ( Mt 19,12 ) … libera in maniera speciale il cuore dell’uomo, così da accenderlo sempre più di carità verso Dio e verso tutti gli uomini” ( Perfectae caritatis, 12 ). La castità consacrata è una scelta coraggiosa e impegnativa: chiede di andare oltre il desiderio naturale immediato ( 1 Cor 7,32-35 ). Per questo si sostiene e si alimenta solo in Dio, nel dialogo con lui e con la forza che viene dai sacramenti, i segni del suo amore. Nella gratuità e nella fedeltà Come l’amore degli sposi, anche la castità consacrata sarà un amore “gratuito”. Non si resta celibi per non impegnarsi in una vita di coppia o per sottrarsi alle responsabilità di una famiglia. La verginità o il celibato si scelgono per amare più intensamente Dio e gli uomini; per dare un segno che, anche senza una persona che risponda al tuo amore, è possibile amare dando e trovando gioia; che si può riempire una vita prendendosi cura di chi semplicemente ha bisogno, anche se non ha legami né di sangue né di affetto con te; per dire con la vita che Dio è Persona e ci ama realmente, anche se i sensi non lo percepiscono e perfino l’animo talvolta si affatica ad attenderlo. Sarà un amore “fedele”. Non si resta celibi per non legarsi a nessuno, per chiudersi nella propria individualità, ma per lasciarsi afferrare dall’amore di Dio e legarsi a filo doppio con la storia degli uomini. Quanti, magari senza saperlo, sono alla ricerca di Dio in ogni amore, hanno bisogno di incontrare sulla loro strada qualcuno che sia annuncio vivente dell’amore incessante e assoluto di Dio, un segno della cura che Dio ha per ogni uomo, perché nessuno vada perduto ( Gv 6,39 ). Per questo, solitamente, anche la scelta di vita verginale o celibataria si esprime con una promessa che impegna tutta la vita, talvolta formulata aderendo alla regola di una comunità religiosa o monastica, talvolta irrevocabilmente pronunciata nell’intimo di se stessi. Per questo la vita religiosa, che dà forma a questa scelta, prevede solitamente l’impegno con voto alla ricerca obbediente della volontà di Dio, anche quando le sue vie fossero lontane dalle proprie. Nella fecondità e nell’accoglienza La castità consacrata sarà un amore “fecondo”. Sarà una fecondità diversa da quella del concepire un figlio, ma se l’amore di chi vive da celibe non suscita vita e non se ne prende cura, non è immagine dell’amore divino. Perché ci si rivolgerebbe al sacerdote chiamandolo talvolta “padre”, se non perché egli, con l’annuncio della parola di Dio, la celebrazione dei sacramenti, il dono della propria vita, genera figli alla Chiesa e si prende cura di ogni figlio di Dio, soprattutto di chi è il più piccolo e il più indifeso? La capacità generatrice della sessualità non è l’unica fecondità. E come la sessualità non traduce l’amore divino quando a priori esclude la fecondità e non si apre alla vita, così la castità consacrata senza fecondità spirituale, cura amorevole della vita altrui più che della propria, sarebbe esclusione egoista dell’appello a generare vita che il nostro stesso essere sessuati esprime. La castità consacrata sarà un amore “accogliente”, ancora più netto nell’esprimere il suo essere rivolto a tutti. Anche coloro che scelgono la vita monastica non si chiudono in una cella per pensare solo alla propria anima, ma, al contrario, per abbracciare tutto il mondo con la loro intercessione, chiudendo fuori ogni ringraziamento e ogni ricompensa da parte di alcuno per mantenersi aperti a tutti. Diversamente, il loro sarebbe un egoismo, per quanto ascetico, non un riflesso dell’amore divino. “Nel cuore della Chiesa io sarò l’amore”, diceva santa Teresa di Gesù Bambino, missionaria dalla propria clausura. Il celibato e la castità consacrata non sono modi di sottrarsi all’amore che chiede sempre di farsi concreto e personale, ma impegno ad accogliere ogni singola persona in ogni situazione concreta come se fosse “l’amato del mio cuore” ( Ct 3,1 ). Diventano così, per ciascuno, annuncio e anticipazione della comunione piena con Dio, per sempre. Come lui ha amato noi CCC nn. 2337-2359 ( vedi pure 2520-2527 ) CdA nn. 1050; 1080-1084 CdG1 pp. 83-86 Il progetto evangelico sull’amore ha un nome: castità. Esso riassume gratuità, fedeltà, fecondità, apertura universale. La castità non è qualcosa che riguarda soltanto chi ha scelto di vivere nella verginità o nel celibato: anche l’amore di due giovani sposi è chiamato a essere casto. Ogni battezzato è chiamato alla castità: è una virtù per tutti, da vivere nelle diverse vocazioni. Non una rinuncia Castità non è sinonimo di astinenza, né di sospetto verso tutto ciò che riguarda la nostra sessualità. Castità non è il contrario di amore concreto e gioioso, ma piuttosto il contrario di amore possessivo, che vuole appropriarsi dell’altro, che lo colonizza come un terreno da sfruttare perché fertile di piacere; il contrario di un rapporto che vuole ottenere dall’altro ancora qualcosa per sé; il contrario di una passione priva di intelligenza, calore, tenerezza. In questo senso la castità non è virtù difficile per pochi volonterosi, ma invito rivolto a tutti a imitare l’amore di Dio che crea, ama, salva, cura e conduce a pienezza la vita. Un amore così non è rinuncia alle proprie capacità, bensì intelligente, appassionata, continua crescita verso mete che solo lo Spirito di Dio può farci intuire e tentare, qualunque sia la strada sulla quale saremo chiamati a incamminarci. In cammino verso l’amore vero La castità è scelta di camminare verso l’amore vero, cioè verso una capacità profonda di dono totale di sé, senza divisioni interiori, senza compromissioni o diminuzioni. Per questo è necessaria una disciplina di vita. La castità si matura anche nella rinuncia che ogni scelta comporta. La capacità di amare va educata: alla sincerità, alla gratuità, alla definitività, al perdono, al dono di sé. In questa luce si comprende come il peccato sessuale in tutte le sue forme – pensieri, desideri, atti – sia prima di tutto un arresto libero e consapevole della crescita nell’amore, un rifiuto a restare fedeli alle sue esigenze di autenticità. Il desiderio di possedere l’altro e il ripiegamento su se stesso sono minacce sempre in agguato. Importante è dunque l’esercizio di una seria autodisciplina nelle espressioni del proprio affetto, per rendere il gesto del corpo sempre più trasparente alla verità della persona, alla comunicazione dei sentimenti. Troppo facile è il pericolo che, anche tra due persone che pure si vogliono un bene sincero, il rapporto sessuale decada al livello di un gesto comandato dall’istinto egoista anziché dall’amore. Altrettanta autodisciplina è richiesta perché lo scadimento nell’immaturità dell’autoerotismo o nelle forme devianti e commercializzate della prostituzione e della pornografia non falsifichi alla radice il significato di dialogo e di comunione proprio della sessualità, riducendo questa a puro strumento di piacere. La castità diventa anche la strada da percorrere per chi, in forza di meccanismi difficili da decifrare inscritti nella profondità della persona, trova difficile orientare la propria sessualità e si sente attratto da persone dello stesso sesso. La Chiesa non ignora il peso che devono sostenere questi nostri fratelli e, mentre espone con chiarezza la verità della sua dottrina, incoraggia a non desistere dalla lotta e a sperare. Dio solo sa valutare le lacrime di molte cadute e la gioia di ogni piccola vittoria. La castità richiede certamente vigilanza, ma non imprigiona la sessualità, bensì la libera, la fa essere vera. E un ideale alto e tuttavia possibile, affascinante, perseguibile attraverso la familiarità con Cristo, con la sua Parola, con la Chiesa, nella dedizione generosa di se stessi. Anche su questa strada è necessaria la penitenza, l’ininterrotto esercizio della conversione, la ripresa instancabile, pur sotto il peso delle molte infedeltà e delle molte debolezze che suggerirebbero il disarmo, la rassegnazione e il compromesso. Il cammino diventa più facile quando possiamo incontrare una guida, che ci aiuti a scoprire i modi più giusti per esprimere la nostra fedeltà all’Amore. Il sacramento del Matrimonio ( scheda ) CCC nn. 1601-1666 CdA nn. 729-738 Il Matrimonio rende l’uomo e la donna capaci di vivere la comunione tra loro e, insieme, con Dio. Suscita tra gli sposi una dimensione di comunione personale e reciproca, definitiva e aperta alle esigenze di una fecondità responsabile. Il Matrimonio ha tutte le caratteristiche del sacramento, e come ogni sacramento, è memoriale, attualizzazione e profezia dell’evento di salvezza. In quanto memoriale, il sacramento dà agli sposi la grazia e il dovere di fare memoria delle grandi opere di Dio e di darne testimonianza presso i figli; in quanto attualizzazione, dà loro la grazia e il dovere di mettere in opera nel presente, l’uno verso l’altra e verso i figli, le esigenze di un amore che perdona e che redime; in quanto profezia, dà loro la grazia e il dovere di vivere e di testimoniare la speranza del futuro incontro con Cristo. Le conseguenze di questa visione sacramentale del matrimonio sono grandissime. Lo sposalizio Cristo - Chiesa costituisce un modello a cui ogni Matrimonio cristiano deve ispirarsi. Nel Matrimonio si realizza contemporaneamente una pienezza di umanità e un mistero divino. Lo spazio coniugale diventa luogo dove il mistero di Cristo si riattualizza e si visibilizza: luogo, dunque, di salvezze, di profezia e di testimonianza. Il Matrimonio è vocazione e grazia che si radica nella fondamentale vocazione cristiana a costruire una comunità umana nuova e una storia nuova. L’amore coniugale aiuta il credente a leggere il proprio Matrimonio come realtà di comunione; il battezzato è chiamato a introdurre la vicenda salvifica nella storia facendo comunità. Il Matrimonio, infine, è comunità in tensione verso la pienezza; in questa prospettiva si afferma che anche la migliore delle relazioni matrimoniali rimane aperta su di una salvezza la cui pienezza sta davanti, su di un cammino che è da fare. È possibile, attraverso il fluire stesso del rito cogliere la realtà degli sposi come protagonisti della celebrazione. L’accoglienza: è importante aiutare non solo i fidanzati ma anche i genitori e gli amici a prendere coscienza dell’impegno del matrimonio; insieme, rappresentano la Chiesa. La condivisione della Parola: proponendo dei testi biblici per la celebrazione, la Chiesa invita i novelli sposi e l’assemblea a riflettere sul significato del Matrimonio alla luce della Scrittura; la varietà delle proposte aiuta a collocare il Matrimonio in un più ampio contesto di vita cristiana e di storia della salvezza. La preghiera: la Chiesa invita gli sposi e l’assemblea a pregare e a domandare di cogliere la sua grazia divina, di dare all’amore la sua piena dimensione. Il consenso: è l’elemento fondamentale della celebrazione; si fa in presenza di un sacerdote e di testimoni; il ministro della Chiesa che riceve il consenso si configura come espressione della Chiesa che è stata testimone della realtà avvenuta e che si associa poi al rito con la preghiera comune. I segni che esprimono l’unione: mani unite, scambio degli anelli simbolo di fedeltà. La Messa, che non fa direttamente parte del rito del Matrimonio ma in cui i credenti tengono a inserire il loro impegno, ricorda come quest’ultimo sia assunto nella prospettiva pasquale, facilitando così la lettura, la comprensione, l’annuncio della realtà celebrata, come realtà strettamente legata all’alleanza. Le nozze sono benedette perché in molti modi l’uomo e la donna sanno di non essere all’altezza di ciò che la loro relazione dischiude e, allora, la pongono fin dall’inizio sotto il segno di quel principio che riscatta l’amore dall’egoismo e dalla prevaricazione che lo minacciano quotidianamente. I discepoli del Signore consegnano il loro amore al vangelo, accettando con gioia che il Signore se ne serva per rendere visibile l’amore di Dio. In sintesi L’amore è la vocazione fondamentale della persona umana, la pienezza di significato dell’esistenza. Non è bene che l’uomo sia solo La sessualità distingue le persone, distingue i corpi: “maschio e femmina li creò”; distingue l’intimo di ciascuno. Essere uomo e essere donna costituiscono due modalità di amare, di pensare, di agire, che chiedono complementarità. Dio, creando l’uomo, ha lasciato in lui traccia di un progetto fatto di: - gratuità: l’altro, l’altra risulta amabile per quello che è; - fedeltà: l’amore impegna in un appello costante all’alleanza; - fecondità: l’amore suscita la vita e se ne prende cura; - universalità: l’amore si dilata nella condivisione. L’amore sponsale Ciò che è proprio dell’amore divino e diventa progetto per l’amore umano, lo è anche per quella forma altissima di amore che è il rapporto tra l’uomo e la donna nella relazione sponsale. Anch’esso vive di: - gratuità: ciò che costituisce l’amore è la volontà profonda della felicità dell’altro; - fedeltà: nell’amore dell’altro si assume il tempo, e la fiducia che gli si dà è per sempre; - fecondità: si esprime nelle opere dell’amore e nell’opera suprema che è il figlio: - apertura: l’amore di una persona diventa una scuola di apertura del cuore. L’amore consacrato Anche l’amore più profondo per una persona, come può essere quello sponsale, non può assorbire totalmente e chiudere il desiderio. La scelta della castità consacrata va oltre il desiderio naturale immediato e vive la: - gratuità, per amare più intensamente Dio e le persone; - fedeltà, per lasciarsi prendere dall’amore di Dio e legarsi alla storia degli uomini; - fecondità, per avere a cuore chi è più piccolo e indifeso; - accoglienza, perché non manchi a nessuno l’amore del Padre. Per l’approfondimento Rispetto della vita CCC nn. 2258-2330 CdA nn. 1015-1041 Sessualità CCC nn. 2337-2359 CCC nn. 2514-2533 Famiglia CCC nn. 2201-2211 CdA nn. 1066-1074 Per camminare nella fede Le domande della vita L’amore è al centro della vita umana, è la vocazione fondamentale ad essere veramente noi stessi. Nella nostra realtà di uomini e di donne ritroviamo le linee del progetto di Dio, che ci chiama a realizzarci. Ogni scelta di vita è risposta all’amore di Dio. In lui siamo pienamente capaci di amare e di lasciarci amare. - Quale rapporto vivi con le persone che ti stanno accanto? - Che significato hanno per te e per la maturazione della tua vita? - Quando pensi al tuo futuro e al tuo progetto di vita, quale spazio ha la presenza degli altri? - Quali condizionamenti e quali aiuti offre il tuo ambiente per rispondere alla vocazione cristiana dell’amore? - Nella mentalità attuale quali aspetti del rapporto uomo - donna vengono maggiormente sottolineati? - Quali ritieni più validi e positivi? - Come aiutare a far crescere in noi la visione cristiana dell’amore sponsale e quella della donazione di sé nella verginità e nel celibato per il Regno? - In che modo il tuo rapporto con Dio arricchisce la capacità di amare? L’ascolto della Parola “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? … O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!”. ( 1 Cor 6,15.19-20 ) La voce della Chiesa “Se qualcuno vuole venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” ( Mt 16,24 ). [ … ] Questo non lo devono ascoltare le vergini, e le maritate no; o le vedove, e le sposate no; o i monaci, e i coniugati no; o i chierici, e i laici no; ma tutta la Chiesa, tutto il corpo, tutte le membra, distinte e distribuite secondo i propri uffici, devono seguire Cristo. Lo segua tutta la Chiesa, essa che è l’unica, lo segua la colomba, lo segua la sposa, lo segua colei che è stata redenta e dotata del sangue dello Sposo. Qui ha il suo posto la castità verginale, qui ha il suo posto la continenza delle vedove, qui ha il suo posto la castità coniugale. Queste membra poi, parte integrante della Chiesa, seguano Cristo secondo la loro condizione, la loro posizione e la loro misura; rinneghino se stesse, cioè non presumano di sé; prendano la loro croce, cioè sopportino nel mondo, per amore di Cristo, qualunque cosa il mondo susciti contro di loro. Amino colui che, solo non delude, solo non sbaglia, solo non inganna; l’amino perché è vero ciò che promette. Ma poiché non lo dà subito, la fede vacilla. Tu però sii costante, perseverante, paziente, sopporta il rinvio e avrai portato la croce”. ( Sant’Agostino, Discorsi, 96,7.9 ) Il dialogo della preghiera “Rendimi, Signore mio Dio, obbediente senza ripugnanza, povero senza rammarico, casto senza presunzione, paziente senza mormorazione, umile senza finzione, giocondo senza dissipazione, austero senza tristezza, prudente senza fastidio, pronto senza vanità, timoroso senza sfiducia, veritiero senza doppiezza, benefico senza arroganza, così che io senza superbia corregga i miei fratelli e senza simulazione li edifichi con la parola e con l’esempio. Donami, o Signore, un cuore vigile che nessun pensiero facile allontani da te, un cuore nobile che nessun attaccamento ambiguo degradi, un cuore retto che nessuna intenzione equivoca possa sviare, un cuore fermo che resista ad ogni avversità, un cuore libero che nessuna violenza possa soggiogare. Concedimi, Signore mio Dio, un’intelligenza che ti conosca, una volontà che ti cerchi, una sapienza che ti trovi, una vita che ti piaccia, una perseveranza che ti attenda con fiducia, una fiducia che, alla fine, ti possegga”. ( San Tommaso d’Aquino ) L’incontro con i testimoni Gianna Beretta Molla Gianna Beretta Molla nasce a Magenta ( Milano ) nel 1922, da una famiglia profondamente unita, in cui impara presto a conoscere e amare il Signore. È una ragazza entusiasta della vita: frequenta la scuola con impegno, ama la natura e le escursioni in montagna, dipinge, suona il piano A sedici anni, durante un corso di esercizi spirituali, scrive: “Faccio il santo proposito di far tutto per Gesù. Ogni mia opera, ogni mio dispiacere, li offro tutti a Gesù … Prego il Signore perché mi faccia comprendere la sua grande misericordia”. Si iscrive a medicina e alterna lo studio all’impegno nell’Azione Cattolica. La sua straordinaria carica interiore, alimentata dalla preghiera e dall’Eucaristia, si traduce in chiara testimonianza di fede di fronte agli altri e in scelte operose di solidarietà. Dopo la laurea e la specializzazione in pediatria, mentre sta coltivando l’idea di diventare missionaria, Gianna conosce Pietro Molla, un giovane ingegnere di Mesero ( Milano ), direttore di una grande fabbrica. Comprende che la sua missione sarebbe stata la famiglia. Gianna e Pietro si sposano nel 1955. La serenità e la gioia si accrescono con la nascita di Pierluigi, di Mariolina e di Laura. Nel 1961 si annuncia una nuova maternità, ma un fibroma minaccia la vita del bambino e della mamma. Gianna sa cosa le si prospetta, ma senza esitazione ordina al marito e al medico di anteporre la vita della nuova creatura alla sua. Il 20 aprile 1962 nasce Gianna Emanuela. La bambina gode ottima salute; Gianna invece un po’ alla volta peggiora, finché si spegne il 28 aprile seguente, all’età di 39 anni. Il 24 aprile 1994 viene proclamata beata. “O Gesù, ti prometto di sottomettermi a tutto ciò che permetterai mi accada, fammi solo conoscere la tua volontà. Mio dolcissimo Gesù, Dio infinitamente misericordioso, Padre tenerissimo delle anime e in modo particolare delle più deboli, delle più miserabili, delle più inferme che porti con tenerezza speciale fra le tua braccia divine, vengo a te per chiederti, per amore e per i meriti del tuo Sacro Cuore, la grazia di comprendere e fare sempre la tua santa volontà, la grazia di confidare in te, la grazia di riposarmi sicuramente per il tempo e per l’eternità nelle tue amorose braccia divine”. ( Gianna Beretta Molla, Preghiera ) La professione della fede “Maestro che cosa devo fare?” “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” ( Mt 5,48 ). “Un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio … Ognuno secondo i propri doni e le proprie funzioni deve senza indugi avanzare per la via della fede viva, la quale accende la speranza e opera per mezzo della carità” ( Lumen gentium, 41 ). - La sessualità rappresenta una fondamentale energia umana da porre al servizio della comunione, un luogo per conoscere l’altro, per incontrarlo e amarlo. - “La rivelazione cristiana conosce due modi specifici di realizzare la vocazione della persona umana, nella sua interezza, all’amore: il matrimonio e la verginità. Sia l’uno che l’altra, nella forma loro propria, sono una concretizzazione della verità più profonda dell’uomo, del suo “essere immagine di Dio”” ( Familiaris consortio, 11 ). - Il matrimonio dei battezzati, che fa di due “una carne sola” ( Mt 19,6 ), rende partecipi all’alleanza di Dio con l’umanità, sancita nella carne di Cristo. - “La castità osservata “per il regno dei cieli” ( Mt 19,12 ) … rende libero in maniera speciale il cuore dell’uomo, così da accenderlo maggiormente di carità verso Dio e verso tutti gli uomini, e per conseguenza costituisce un segno particolare dei beni celesti” ( Perfectae caritatis, 12 ). Introduzione Nessuno può sottrarsi ai legami sociali. Ogni nostra azione ci unisce in una stretta solidarietà; nel bene e nel male. Il lavoro ci lega al futuro degli altri e del mondo, e ce ne rende responsabili. Nell’azione politica esercitiamo questa comune responsabilità, consapevoli che insieme facciamo del mondo una dimora più degna dell’uomo o a lui più ostile. L’inserimento nel lavoro è uno dei passaggi rilevanti della vita, che segna in modo decisivo la giovinezza. Non è solo questione di autonomia economica, perché trovare lavoro assume anche altri significati: esprimere capacità di cui ci si sente competenti, accrescere il proprio bagaglio di esperienze, provare a modificare la realtà attorno a sé. Affacciarsi al mondo del lavoro significa però anche confrontarsi con una realtà dura, protetta da leggi impersonali, da consuetudini persino umilianti o da meccanismi che spingono a rivalità con gli altri. Ci si può sentire perciò schiacciati o ricattati e si può essere tentati di reagire preoccupandosi di restare a galla e garantire soltanto a se stessi uno spazio vitale, trascurando solidarietà e collaborazione. Tutta la vita sociale ci interroga e ci chiede scelte che contribuiscano alla crescita del bene comune, nella ricerca della giustizia e nell’esercizio della libertà. C’è chi fugge dalla politica, come fosse una realtà deteriore. Ma anche il mettersi da parte è una scelta, la meno convincente e opportuna di fronte alla responsabilità che tutti abbiamo nella vita e nel governo della cosa pubblica. L’attività professionale e l’impegno politico non sono estranei all’esperienza di fede, perché questa illumina tutta la realtà. C’è un progetto di Dio sulla creazione di cui occorre farsi collaboratori. L’agire sociale va valutato alla luce del vangelo, perché il nostro lavoro e il nostro servizio al bene comune portino frutti di riconciliazione, di giustizia e di pace. Tutto è vostro, voi siete di Cristo CCC nn. 345-349; 2168-2195; 2426-2428 CdA nn. 1113-1119 CdG1 pp. 116-120; 141-144 Fino ad un tempo abbastanza recente, il lavoro era al centro degli interessi della persona, così che senza lavoro, sia pure faticoso, la vita perdeva di significato. Spesso l’uscire dal lavoro, anche nella forma normale del pensionamento, era sperimentato come un uscire dalla vita. La persona si organizzava nel circuito del lavorare, produrre e consumare. All’opposto, le giovani generazioni non pensano in genere al lavoro produttivo come a un luogo di realizzazione. A una cultura della centralità del lavoro e della professione, è subentrata una cultura dell’importanza del tempo cosiddetto di vita. Sarebbe però illusorio pensare di rimuovere il lavoro produttivo e professionale, per mirare soltanto ad attività “creative”. Si pone piuttosto l’obiettivo, personale e sociale, di pensare e di vivere un nuovo rapporto tra lavoro e non lavoro. F, poiché il lavoro cosiddetto produttivo diminuirà, occorre chiedersi quali contenuti dare e secondo quali criteri riempire il tempo libero o di non lavoro, perché l’uno e l’altro promuovano il bene personale e sociale. Nel giardino del mondo per coltivare e custodire Secondo il racconto del capitolo 2 della Genesi, l’uomo non è posto nel mondo come spettatore e il mondo non è stato creato come un tutto compiuto. La terra era inerte e sterile prima della creazione dell’uomo: “Nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo” ( Gen 2,4-6 ). Dio pone l’uomo nel “giardino” con il compito di coltivarlo e custodirlo. Qui la Bibbia esplicitamente si riferisce al lavoro dei contadini, ma il suo pensiero riguarda ogni altro tipo di lavoro. Il lavoro non è un castigo né il segno di una condizione di inferiorità. Nel mondo greco il lavoro manuale era per lo più disprezzato, lasciato agli schiavi e alle classi inferiori: degna dell’uomo libero era l’attività intellettuale e politica. Nella Bibbia, invece, il lavoro manuale riceve la sua dignità da un esplicito incarico di Dio ( Gen 2,15 ); per questo viene esaltato ed è condannata la pigrizia. La Bibbia non esita neppure ad attribuire a Dio immagini desunte dal lavoro manuale: egli è paragonato all’agricoltore, al vasaio, al pastore. “Coltivare” e “custodire” sono espressioni che indicano con molta chiarezza che il dominio dell’uomo sul mondo non è un potere arbitrario, dispotico, sfruttatore. Il contadino non soltanto lavora la terra, ma anche la custodisce, la protegge. Così l’uomo nel mondo. L’uomo e la donna sono al centro dell’universo e di quanto esiste, ma essi stessi sono parte del mondo creato, sono creature. Il comando di dominare la terra ( Gen 1,28 ) è per la tutela, la protezione della terra e di quanto contiene, non per usarla e sfruttarla a piacimento. I cristiani non si sono resi sufficientemente conto d’aver spesso interpretato o, peggio ancora, vissuto il dato biblico in modo strumentale al dominio incontrollato dell’uomo sul mondo. Occorre recuperare senso critico per comprendere che il “dominio” della terra non è riducibile alla logica del fare e del trasformare, tipica della cultura occidentale. L’uomo e la donna sono chiamati a rispondere a Dio. Il dominio dell’uomo e della donna sul creato non è privilegio, quasi che possano disporne incondizionatamente, ma servizio e responsabilità davanti al dominio assoluto di Dio. Collaboratori della creazione Soprattutto nel contesto del grande racconto della creazione che proviene dalla tradizione sacerdotale ( Gen 1,1-4 ), si esprime la concezione biblica del lavoro: il lavoro dell’uomo è imitazione del lavoro creativo di Dio, un concetto esplicitamente ripreso anche nel decalogo ( Es 20,8-11 ). Lavorando, l’uomo si inserisce nel gesto creatore, prolungandone lo slancio e conducendolo al suo fine. Inteso così il lavoro può essere per l’uomo fonte di gioia. Nasce infatti da un dinamismo interiore, soddisfa esigenze profonde e avvicina l’uomo al suo Signore. Il motivo della gioia nel lavoro ricorre più volte nella Bibbia: la gioia del lavoro fecondo, del raccolto, dei frutti, della benedizione di Dio che lo accompagna. Imitazione e prolungamento del gesto creatore, il lavoro umano deve muoversi nella linea del gesto di Dio: custodire e coltivare le opere del creato, non stravolgerle; ubbidire alle indicazioni racchiuse nelle cose, non soffocarle; essere a servizio dell’uomo, non contro di lui; costruire la libertà, non la schiavitù; promuovere l’uguaglianza fra gli uomini, non le disparità. Il dramma del peccato nella realtà del lavoro Nella realtà delle cose, come ora le viviamo, tutto è diventato più complesso. È quanto appare dalla lettura del racconto del capitolo terzo della Genesi. Il dramma del peccato si è installato nelle fibre profonde dell’uomo e nei suoi rapporti essenziali; fra questi c’è il rapporto tra l’uomo e la creazione, l’uomo e il lavoro ( Gen 3,17-19 ). Il lavoro si scontra con la pesantezza della natura e la debolezza delle nostre facoltà, e perciò diviene lotta, noia, fatica. È ancora gioia, ma solo a tratti. Non sempre il lavoro ha successo: non poche volte, anzi, è sterile. E se si maturano frutti, questi non sono mai conformi all’attesa e proporzionati alla fatica spesa. Soprattutto, il lavoro è diventato anche luogo di tentazione, possibilità di peccato. Eppure, era stato pensato da Dio come mezzo di edificazione personale e sociale. Lavoro, attività e progresso possono distrarre l’uomo, facendogli dimenticare Dio, illudendolo di essere l’artefice di se stesso. Il lavoro può divenire fine, anziché mezzo e servizio ( Dt 8,11-18 ). Il lavoro, l’ambiente di lavoro, i rapporti creati dal lavoro si prestano all’egoismo, alla violenza, alla ribellione, sia dal punto di vista individuale sia sociale. Per sua natura il lavoro crea legami e strutture che superano l’individuo e in essi l’individuo spesso si dibatte impotente e prigioniero. Il lavoro può divenire strumento di oppressione e di ingiustizia, come spesso annotano i profeti di Israele. Come l’uomo, anche la sua azione è decaduta. Tuttavia resta sempre vero che il lavoro non è originato dal peccato, ma da un progetto di Dio. Il lavoro redento da Cristo Cristo ha redento e salvato il lavoro. Anzitutto lo ha condiviso, passando gran parte della propria vita come un comune lavoratore, facendo il mestiere del carpentiere ( Mc 6,3 ). Non ha fatto discorsi sul lavoro, ma ne ha rinnovato l’esperienza all’interno della novità di vita donata all’uomo nel mistero della sua Pasqua. Anche per il lavoro, come per le altre dimensioni dell’esistenza umana, nulla è tolto alla nostra condizione, neppure la possibilità di peccato, ma tutto è trasformato dalla potenza di rigenerazione e di vita che viene dalla croce e dalla risurrezione di Gesù. Alla luce di Cristo gli aspetti negativi del lavoro, cioè la sofferenza, la sterilità, la tentazione, non sono più soltanto conseguenze del peccato, ma diventano richiamo, segno di un messaggio e occasioni di salvezza. Come sofferenza e noia, il lavoro fa toccare con mano che viviamo in un mondo che non corrisponde più al disegno di Dio, reso disarmonico dal peccato; questo ci induce ad aprirci al desiderio di una salvezza. Come tentazione, il lavoro è un continuo richiamo alla vigilanza ed è palestra di superamento. In quanto fatica, sofferenza, penitenza, il lavoro può essere imitazione e contributo alla redenzione di Cristo. È il modo comune, alla portata di tutti, di far propria la croce di Gesù. Importante è che l’uomo riempia il suo lavoro dei sentimenti di Cristo e ne faccia un atto di amore a Dio e al prossimo, come fu, appunto, il lavoro di Gesù. Nella luce del vangelo, il lavoro diventa espressione di carità, il modo concreto, alla portata di tutti, di mettere in pratica il grande comandamento dell’amore. Non soltanto perché per un cristiano il lavoro, come ogni cosa, si presta ad essere vivificato dall’amore, ma perché in se stesso ogni lavoro è aiuto, servizio a sé e agli altri; per sua natura è creatore di legami e di unità. Lavoro, contemplazione e festa L’uomo e la donna delle società occidentali sono cultori dei sei giorni della creazione: del lavorare, del fare, del trasformare. Rischiano però di dimenticare il “settimo giorno”, il giorno in cui Dio riposa e gode della creazione. Tra contemplare e agire non vi è alternativa o contrapposizione: queste due dimensioni vanno tra loro collegate così che l’una si armonizzi con l’altra. La spiritualità del settimo giorno va recuperata in un duplice senso: perché fa vedere che il creato non trova il fine ultimo nell’uomo, ma l’uomo e il creato fanno riferimento a Dio; perché indica che soltanto colui che è capace di contemplazione, può essere capace di agire costruttivamente nel e sul creato. L’uomo può essere costruttivamente creativo, solo se adora il Creatore di tutte le cose. Soltanto chi sa dire grazie per il mondo, può trasformare saggiamente il mondo: userà la natura in maniera benefica per sé e per gli altri, solo se imparerà ad ammirare le opere di Dio e a rendere grazie a lui. Il patrimonio spirituale di tutta la Chiesa, ma anche dell’intera cultura italiana ed europea, è erede del contributo di due grandi figure: san Benedetto da Norcia, fondatore del monachesimo occidentale, e san Francesco d’Assisi, iniziatore del ricco movimento spirituale fiorito attorno agli ordini mendicanti, non a caso venerati come patroni rispettivamente dell’Europa e dell’Italia. Della regola data da Benedetto ai suoi monaci è conosciuta da tutti, nella sua forma semplificata, l’indicazione “ora et labora”, “prega e lavora”. Il ritmo della giornata del monastero è scandito dalla preghiera, nella celebrazione della liturgia delle ore, e il tempo è riempito dal lavoro. Il lavoro è preghiera, partecipazione all’opera di Cristo che redime il mondo, obbedienza alla parola di Dio che questo mondo ha creato e salva. La preghiera è lavoro, non fuga dal mondo e dalla fatica della vita, ma opera a servizio del mondo intero, perché Dio, unico Signore della storia, voglia trasformarlo nel suo regno, come Gesù ha promesso e ci ha insegnato a chiedere; opera di chi sa di essere “servo inutile” ( Lc 17,7-10 ), di chi sa di non poter aggiungere, per quanto si affanni, neppure un giorno alla propria vita ( Lc 12,22-31 ), ma che tutto può ottenere in dono dal “padrone” della messe e della vigna che ci ha chiamati a lavorare ( Mt 9,37-38; Mt 20,1-16 ). La preghiera libera il lavoro dall’affanno e dalla presunzione; il lavoro è una prima risposta alla nostra stessa invocazione e converte la nostra preghiera da vuota ritualità a sollecitudine concreta e obbediente nella carità: “Perché mi chiamate: Signore, Signore, e poi non fate ciò che dico?” ( Lc 6,46 ). Proprio per questo i monasteri ispirati alla regola di Benedetto furono, nella storia europea, il centro propulsore di nuove forme di vita organizzata, anima di quella nuova cultura da cui maturerà la consapevolezza della dignità del lavoro e della sua irriducibilità a opera servile, da schiavi. Francesco d’Assisi, con la sua vita povera ma gioiosa, fra le tante intuizioni del suo genio spirituale, ha testimoniato la possibilità di un rapporto pacifico, non ostile, anzi colmo di gratitudine, con il creato: il conversare con gli uccelli sulla bontà di Dio; la mansuetudine che “converte” anche gli elementi ostili del creato, come può essere il lupo per l’uomo; l’esplosione, anche letteraria, di gratitudine ammirata nella lode al suo Signore “per tutte le sue creature”, proprio mentre era attraversato nel suo corpo dal dolore della malattia. Espressi in forma di “fioretti”, di parabole, o registrati in documenti storici, questi atteggiamenti sono traduzioni della conversione profonda che il vangelo può operare su un uomo, collocandolo in un rapporto amichevole, né da sfruttatore né da sfruttato, con le creature di Dio. La domenica, giorno primo e ultimo La domenica è il “giorno del Signore”, tempo donato a Dio e per questo sottratto all’affanno economico, che ci porterebbe a capitalizzare ogni minuto. Ma è giorno del Signore soprattutto perché ricorda quel primo giorno della nuova creazione inaugurata dalla risurrezione di Gesù, con la quale Dio Padre lo ha costituito Signore del tempo e del creato ( Ef 1,22-23; Ap 11,15 ). È il giorno che anticipa il fine ultimo della nostra vita: non il lavoro, ma il riposo gioioso ed eterno fra le braccia amichevoli di Dio, che risolleverà il nostro corpo affaticato, gli restituirà nella risurrezione la dignità conferitagli in quel giorno nel quale Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” ( Gen 1,26 ) e ci introdurrà a quella festa senza fine nella quale passerà egli stesso a servirci ( Lc 12,35-40 ). I cristiani celebrano questa fede e questa attesa nell’Eucaristia del giorno del Signore. In essa prendiamo il pane, frutto della terra e del nostro lavoro, benediciamo il Signore, Dio dell’universo, per avercelo donato, lo offriamo a lui perché, spezzandolo e condividendolo con noi, lo renda sacramento, segno vivo della sua presenza. L’Eucaristia è presenza di Cristo risorto laddove il frutto del lavoro dell’uomo e della benedizione di Dio è un pane spezzato e condiviso; non un guadagno avaro, tenuto per sé, ma un dono condiviso. Non c’è Eucaristia piena finché qualcuno fra noi vive nell’indigenza, mentre altri hanno il superfluo ( 1 Cor 11,17-21 ). La domenica ci chiama a convertire anche le nostre politiche del lavoro. La parola di Dio, mentre ci invita a valorizzare il lavoro e ad impegnarci in esso, ci avverte di non cadere nella tentazione opposta, quella del troppo lavoro che porta a dimenticare Dio. La necessità e l’importanza del lavoro non ci devono chiudere su un orizzonte terreno, come se la giornata lavorativa esaurisse il tempo dell’uomo; non devono sovvertire la gerarchia delle cose e trattenerci dal cercare “la parte migliore” ( Lc 10,38-42 ). Sono necessari tempi di riflessione e di riposo, giorni festivi. E questo non perché il lavoro sia marginale, estraneo all’uomo e al regno di Dio, ma proprio perché è importante: la festa e la contemplazione sono indispensabili per trovarne il vero senso, i suoi valori profondi, la sua giusta direzione. Da’ il tuo pane a chi ha fame CCC nn. 2402-2414; 2426-2442 CdA nn. 1120-1138 CdG1 pp. 121-125; 145-147 Il lavoro umano va compreso nel mutato contesto tecnico e culturale del nostro tempo. L’applicazione delle tecnologie nel lavoro, agricolo e industriale, accresce la produttività, ma diminuisce il tempo necessario per la produzione. Non è difficile prevedere nel prossimo futuro la difficoltà di assicurare lavoro a tempo pieno a tutti, a meno di aumentare indefinitamente la produzione, cosa né materialmente né socialmente desiderabile, a causa dello spreco e del culto della merce che ciò comporterebbe. Superato un certo limite, non è più vero che consumare di più permette di vivere meglio. Il progresso in termini di produttività riduce lo spazio lavorativo e questo si traduce spesso in disoccupazione. D’altra parte la disoccupazione non può essere in nessuna maniera giustificata: è un male sociale e morale. Il disoccupato, capace e desideroso di lavorare, si sente escluso e mortificato, tagliato fuori dal suo ambiente normale. Se è giovane, sperimenta l’impossibilità di entrare nella società e sarà facilmente tentato di orientarsi verso la marginalità. A fronte di questi cambiamenti strutturali nel mondo della produzione, anche il significato del lavoro sta rapidamente mutando nella cultura occidentale, soprattutto in mezzo alle nuove generazioni, che sovente si trovano sole e smarrite ad affrontare una questione così decisiva per la loro esistenza. Il lavoro umano, afferma Giovanni Paolo II, “è non solo un bene “utile” o “da fruire”, ma un bene “degno”, cioè corrispondente alla dignità dell’uomo [ … ] – è un bene della sua umanità –, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”” ( Laborem exercens, 9 ). Luogo di giustizia e di solidarietà Come ci ha indicato la parola di Dio e come è testimoniato dalla nostra stessa esperienza, il mondo del lavoro resta il luogo privilegiato per l’attuazione della giustizia e della solidarietà fraterna. “Il lavoro ha come sua caratteristica che, prima di tutto, esso unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di costruire una comunità” ( Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 20 ). Al credente si impone perciò anzitutto l’impegno di un comportamento personale improntato al rispetto della giustizia e alla carità, e quello di un’azione sociale volta a rendere giusta e fraterna la realtà economica e il mondo del lavoro. I beni della terra sono stati da Dio affidati all’intera famiglia umana a beneficio di tutti i suoi membri. Essi devono perciò restare al servizio di tutti gli uomini. L’attuale ordinamento sociale della realtà economica dà luogo a forme di sperequazioni intollerabili nella distribuzione di questi beni. L’economia largamente dominante nel nostro mondo, caratterizzata dalla ricerca esclusiva del profitto individuale senza preoccupazioni morali, è causa di gravi ingiustizie sociali, di sprechi delle risorse umane e naturali, di sfruttamento e di oppressione. Essa spesso si rivela quindi come un’economia contro l’uomo. Sul credente, come su ogni altro uomo di buona volontà, pesa in maniera ineludibile la responsabilità di rendere umana la realtà economica in cui vive. Economia e sviluppo dei popoli I problemi dell’economia e del lavoro hanno assunto una dimensione mondiale. La nuda applicazione dei principi della concorrenza e delle leggi del mercato in tutti i paesi del mondo ha creato e va sempre più aggravando condizioni di disparità drammatiche e profondamente ingiuste. Lasciata a se stessa, l’economia di mercato tende a trasferire sempre più potere e ricchezza presso i popoli ricchi, aumentando a dismisura la dipendenza e l’indigenza dei paesi economicamente più deboli. “Di fatto, oggi molti uomini, forse la grande maggioranza, non dispongono di strumenti che consentono di entrare in modo effettivo ed umanamente degno all’interno di un sistema d’impresa, nel quale il lavoro occupa una posizione davvero centrale” ( Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 33 ). L’insegnamento sociale della Chiesa fa appello agli sforzi di tutti i credenti e di tutti gli uomini di buona volontà perché si realizzino interventi a favore dei popoli in via di sviluppo. Esso proclama inoltre la necessità e il dovere collettivo di progettare e realizzare un diverso e più giusto ordine economico internazionale, che renda possibile lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini su tutta quanta la terra. Il presupposto etico di un simile ordinamento economico mondiale è costituito dalla formazione ad atteggiamenti di austerità, di semplicità di vita, di capacità di rinuncia e di disponibilità generosa al dono e al servizio verso tutti. In questo cammino di profondo cambiamento, di vera conversione, il cristiano non deve stare ai margini, ma porsi al centro. La dignità della persona e il lavoro Vi è una stretta connessione tra persona e lavoro: la dignità della persona qualifica la dignità del lavoro e viceversa. La dignità dell’essere umano, uomo e donna, esige anzitutto che sia riconosciuto il diritto al lavoro e a un lavoro degno della persona. La disoccupazione forzata costituisce un’ingiustizia, un dramma sociale, psicologico e morale. In modo particolare i giovani sono privati di un importante spazio di equilibrio e di gioia senza l’esperienza di sentirsi collaboratori nella costruzione della società e di mostrarsi soggetti responsabili. La prima forma di solidarietà è perciò tra chi lavora e chi non lavora. Ogni discriminazione tra uomo e donna in fatto di diritto al lavoro è ingiusta. La giustizia esige che si rimuova ogni forma di discriminazione nei confronti dei lavoratori stranieri. Ugualmente le persone disabili hanno diritto ad un lavoro proporzionato alle loro forze e capacità. Una società si misura nel suo grado di civiltà soprattutto dallo spazio che sa offrire ai più deboli e ai meno abili, integrando il loro prezioso apporto all’umanizzazione della convivenza. Ogni persona ha il diritto-dovere non soltanto di sopravvivere, ma di vivere in modo degno. Pertanto ha il diritto a un lavoro il più umanizzante possibile. Il lavoro è dimensione propria dell’esistenza, non una condanna né un’espiazione. Le condizioni in cui si svolge, queste sì sono talvolta una condanna. Può darsi che il dovere di sopravvivere talvolta prevalga sul dovere di vivere umanamente e quindi sia comprensibile l’accettazione di un qualsiasi lavoro; ma l’esigenza etica di un lavoro che sia umano per sé e per gli altri non può venire archiviata. A volte può verificarsi, per il singolo, il dovere di rifiutare un lavoro disumanizzante, anche se questo si traduce immediatamente in svantaggio economico. Al lavoro disumano e degradante si deve obiettare in coscienza. La persona al centro dell’economia L’impegno per la qualità del lavoro proprio e altrui non può prescindere dall’organizzazione dell’economia di cui il lavoro è parte integrante. Il collettivismo socialista ha già mostrato, nel fallimento storico, il suo limite radicale. Esso, infatti, non teneva in debito conto la centralità della persona e le sue esigenze inalienabili. Ma anche nel sistema liberista, viziato dalla supremazia del capitale sul lavoro, si va incontro alla alienazione e alla mercificazione dell’attività umana. Finché domina il criterio del profitto ad ogni costo e i rapporti di lavoro sono inseriti in una struttura rigidamente gerarchica dell’impresa, è difficile pensare che l’esigenza etica del primato del lavoro umano possa essere tradotta nella prassi. Non si tratta di mettere in discussione un’economia moderna, efficiente, produttiva di beni e servizi; si devono invece mettere in questione certi luoghi comuni, che fanno acriticamente appello all’assolutezza delle leggi economiche, all’efficienza e al profitto come se fossero idoli a cui sacrificare tutto. In teoria e in pratica bisogna riconoscere che il lavoratore, al pari del datore del lavoro, è soggetto e non oggetto, e quindi ha diritto, tra l’altro, di partecipare alle scelte della comune impresa. “Scopo dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in modo diverso, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società” ( Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 35 ). Il credente si sforza di superare quegli interessi puramente egoistici, che una società, ispirata a vantaggi corporativi, tende a privilegiare. Certamente la realizzazione di sé è uno dei significati della professione, ma il credente non può vedere la propria realizzazione unicamente in termini di reddito, prestigio sociale, esercizio del potere, e neppure nell’esercizio appagante della creatività, della responsabilità, del genio, nell’espansione armoniosa e quasi giocosa delle proprie qualità umane. Occorre vedere nel lavoro un servizio sociale e una forma di solidarietà. E occorre capire e proclamare che ogni lavoro ha la stessa dignità dell’altro, perché è l’uomo a conferirgliela. Questo non significa, naturalmente, l’esclusione dal lavoro di ogni aspetto positivo di appagamento, di creatività e di crescita personale; si tratta piuttosto di non erigere questi aspetti positivi a finalità da perseguire ad ogni costo, rifiutando sistematicamente di assumere su di sé una giusta parte della penosità del lavoro umano, per scaricarla unicamente sui più deboli. La professione come vocazione Ogni uomo dovrebbe avere la possibilità di scegliere la professione che più gli è congeniale, che meglio lo esprime e corrisponde alle sue capacità. Ciò, tuttavia, non è sempre possibile. È però possibile evitare di scegliere la professione unicamente, o quasi, in base alle possibilità di guadagno. Nella scelta della professione non deve essere assente il criterio del servizio e dei bisogni altrui. Fa parte dei doveri professionali la preparazione seria e specifica ad assumersi le proprie responsabilità nel campo del lavoro professionale. Questa preparazione, che generalmente si identifica col periodo giovanile dello studio, richiede lo stesso serio impegno di chi già esercita il lavoro. Essa costituisce, in un certo senso, il lavoro del giovane e il servizio che egli già presta alla società. In questa luce, trovano posto e senso nel progetto di vita del giovane anche esperienze di servizio al di fuori dello studio e della professione vera e propria, che lo avvicinano alla serietà dei drammi e dei problemi dell’esistenza. Sono quelle attività di volontariato, che rappresentano una tradizione costante dei cattolici, ma che sono aperte ai giovani di ogni ispirazione. Alla luce della fede, nelle possibilità positive che gli vengono offerte dalla professione e dal lavoro, come anche nelle inevitabili tentazioni connesse alla scelta e all’esercizio di una professione, il credente riconosce una chiamata personale di Dio. In questa luce il lavoro non è soltanto un impegno, ma una vocazione, una strada per realizzare il disegno di Dio su noi e su gli altri. Venga il tuo regno CCC nn. 1878-1896; 1905-1912; 1928-1948 CdA nn. 1095-1101 CdG pp. 145-147 La politica è terreno di non facile comprensione e interpretazione: a volte appare come un ambito specialistico riservato a pochi intenditori, altre volte ci sembra una realtà nella quale è possibile intervenire soltanto con grandi numeri; a volte ci sembra un dibattito su questioni astratte e ideologiche, altre volte invece tanto concreto da non sapersi mai alzare al di sopra degli interessi economici di parte. Ognuno di questi giudizi estremi può essere preso ad alibi da chi si illude di credersi esonerato dall’impegno civile e politico. Ma ogni nostra scelta, come ha un risvolto personale, così ha anche un risvolto sociale e politico, e rinunciare a scegliere è anch’essa una scelta: lasciare che siano altri a scegliere al posto nostro. Il credente non vive la propria fede come qualcosa che lo porta fuori da questo mondo, ma come un concreto e generoso impegno a far maturare in questo mondo i germi di quel regno di Dio che egli invoca ogni giorno nella preghiera che Gesù ha insegnato. Sarà un impegno che unisce insieme giustizia, carità e intelligenza. Il cristiano vive la carità nella dimensione sociale e politica, senza assolutizzazioni e disimpegni, nella prospettiva originale di un autentico e concreto servizio al prossimo, in un cammino di costante conversione e riconciliazione delle persone, oltre che delle strutture. Per interrogare la fede cristiana sul tema della politica, per verificare se il vangelo ha qualche cosa da dire in proposito ed eventualmente cosa, per decidere in che senso si dia un rapporto tra fede e politica e in che senso debba invece affermarsi una rigorosa distinzione, il primo passo da fare è quello di raggiungere qualche chiarezza a proposito di questo termine spesso abusato. La politica al servizio della società Quando parliamo di società noi pensiamo a un gruppo umano in cui esistono legami di interdipendenza tra gli individui. Non fanno società i passeggeri di un tram, solo occasionalmente raggruppati; fanno società, invece, i dipendenti di un complesso industriale, gli studenti di una scuola o gli abitanti di un paese. Gli uomini si legano reciprocamente in vista di scopi determinati: per lavorare, studiare, divertirsi, formare una famiglia, costruirsi una casa … Si associano o si organizzano per promuovere servizi di comune utilità: nel campo della scuola, delle attività sportive e culturali, dei problemi collegati al territorio … Si è ormai affermata nella nostra cultura l’espressione “società civile” per indicare questa complessa rete di legami tra gli uomini, che è la risultante delle decisioni private: non solo di quelle dei singoli, ma anche di quelle dei gruppi che si costituiscono per gli scopi più diversi. Appare subito evidente l’opportunità, anzi la necessità, che l’intricata rete di legami sociali che costituiscono nel loro complesso la società civile non sia abbandonata all’automatismo delle decisioni e delle reazioni di singoli e di gruppi, ma sia consapevolmente governata in vista del bene comune. In vista di questo obiettivo si costituisce la società politica. Ricorriamo a un testo del Concilio Vaticano II per una prima descrizione della società politica e dei suoi rapporti con la società civile, avvertendo che il testo usa il termine “comunità”, anziché quello più comune di “società”: “Gli uomini, le famiglie e i diversi gruppi, che formano la comunità civile, sono consapevoli di non essere in grado, da soli, di costruire una vita pienamente umana e avvertono la necessità di una comunità più ampia, nella quale tutti rechino quotidianamente il contributo delle proprie capacità, allo scopo di raggiungere sempre meglio il bene comune. Per questo essi costituiscono, secondo vari tipi istituzionali, una comunità politica. La comunità politica esiste proprio in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova piena giustificazione e significato e dal quale ricava il suo ordinamento giuridico, originario e proprio. Il bene comune si concreta nell’insieme di quelle condizioni della vita sociale, con le quali gli uomini singoli, le famiglie e le associazioni possono ottenere il conseguimento più pieno e più spedito della propria perfezione” ( Gaudium et spes, 74 ). Per il bene comune Le ultime affermazioni sottolineano un punto caratteristico dell’insegnamento sociale cristiano, che lo distingue da molte teorie politiche diffuse negli ultimi cent’anni: scopo della società politica non è sostituirsi alla società civile e alle sue molteplici espressioni ( famiglia, associazioni, movimenti, imprese … ), ma più semplicemente promuovere le condizioni che consentano a queste realtà di convivere in pace e di orientare il loro operato al bene più generale di tutti. Il “bene comune” costituisce una realtà variabile in rapporto ai tempi e ai luoghi, alle storie concrete d’ogni singola società, ma includerà sempre e comunque alcuni principi irrinunciabili: il rispetto della persona in quanto tale, dei suoi diritti fondamentali e inalienabili, dell’esercizio della sua libertà anche in campo religioso; lo sviluppo del benessere sociale, rendendo accessibile a ciascuno ciò di cui ha bisogno per vivere una vita veramente umana; la pace, cioè la stabilità e la sicurezza di un ordine giusto. Alla luce di tutto ciò possiamo dare un significato più preciso al termine “politica”. È politica ogni attività umana intesa a promuovere il bene comune. In senso primo e più specifico, è politica il complesso di quelle attività nelle quali si concreta l’iniziativa dell’istituzione politica: l’attività legislativa del parlamento, l’azione amministrativa del governo, l’opera giurisdizionale della magistratura e le corrispondenti attività degli organi politici minori. Poiché però l’istituzione nasce dalla società civile e deve sempre interpretarne e realizzarne la volontà, attività politica in senso più ampio è quella di ogni cittadino che nelle diverse forme concorra a determinare gli orientamenti e le decisioni degli organi politici. Uno solo è il vostro Signore CCC nn. 2030-2046; 2242-2246; 2443-2449 CdA nn. 1086-1094 Nella vita e nell’annuncio di Gesù ricopre un interesse centrale il regno di Dio. Nell’evangelista Marco esso costituisce il primo annuncio di Gesù ( Mc 1,15 ). Anche per il cristiano il Regno è al cuore degli interessi: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia” ( Mt 6,33 ). Ma se Gesù resta per il credente il modello anche di questo impegno, ci chiediamo anzitutto come Gesù si sia posto di fronte alla politica. Gesù e la politica Gesù non ha mai fatto un discorso politico, né ha compiuto azioni direttamente politiche. Tuttavia ha detto parole e fatto cose che gettano luce anche sulla politica. Ha messo a nudo le radici dell’oppressione e della violenza e ha smascherato il cuore dell’uomo. Ma tutto questo non lasciandosi imporre le regole dalle formazioni politiche che si contendevano il terreno. Con il suo messaggio è andato alla radice, ha toccato il centro più delicato e nevralgico di ogni politica. Alla domanda tendenziosa, rivoltagli dai farisei e dagli erodiani: “È lecito o no dare il tributo a Cesare?”, Gesù dà una risposta inattesa, apparentemente evasiva, ma in realtà molto pertinente: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” ( Mc 12,13-17 ). Risposta pertinente, che conduce il discorso là dove si trova il centro ispiratore, cioè la giusta concezione della dipendenza da Dio e, quindi, la giusta libertà di fronte allo stato. Con la sua risposta Gesù non mette Dio e Cesare sullo stesso piano. Nelle parole: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, l’accento cade sulla seconda parte. La preoccupazione di Gesù è di salvaguardare, in ogni situazione politica, i diritti di Dio. Gesù è totalmente preso dalla causa di Dio e dalla difesa dei suoi interessi nel mondo: ma la causa di Dio coincide con la causa dell’uomo, l’affermazione del primato di Dio è la radice della dignità dell’uomo e della libertà di coscienza. Ma è anche vero che, in un contesto religioso teocratico, come quello che volevano difendere gli zeloti in Palestina, la parola di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare” intende richiamare a responsabilità proprie della convivenza sociale e dell’ordinamento civile. In una società come quella romana, in cui l’invadenza dello stato rischiava di assorbire tutto lo spazio dell’uomo, l’accento cade sul: “Date a Dio ciò che è di Dio”. Sono parole che valgono anche per noi oggi: affermare il primato di Dio non può significare privare la società della sua giusta autonomia; al tempo stesso, riconoscere uno spazio proprio alla politica non deve sminuire il primato della libertà di coscienza e l’opposizione ad ogni esorbitante pretesa dello stato. Responsabilità della Chiesa in ordine alla politica Come Gesù, anche la Chiesa non fa politica direttamente, schierandosi con fazioni o partiti. Tuttavia le competono responsabilità che profondamente toccano anche l’azione politica. La responsabilità politica minima, alla quale in nessun caso potrà mai rinunciare, è quella dell’opposizione nei confronti di ogni evidente prevaricazione del potere politico. La storia, lontana e recente, mostra come l’esercizio di questo dovere di opposizione possa costituire in molti casi un compito di significato politico tutt’altro che marginale. La stessa esperienza storica dimostra anche come questo compito non sia sempre ovvio e facile: cecità politica, disinteresse o complicità d’interessi, inerzia colpevole nei confronti dell’autorità costituita hanno a volte impedito alle comunità cristiane di realizzare questa opposizione con la chiarezza e la decisione auspicabile. Le responsabilità politiche della Chiesa non si limitano a questo compito critico. Attraverso il magistero dei pastori, attraverso l’educazione etico - politica, che responsabilizza e illumina le coscienze dei cristiani sui principi fondamentali, attraverso soprattutto un dialogo e un confronto tra i cristiani stessi che consenta loro di verificare i rispettivi giudizi e le rispettive scelte in materia politica, la comunità cristiana svolge un’attività che, senza essere immediatamente operativa, pone le premesse per una partecipazione qualificata dei cristiani alla vicenda civile. La Chiesa interviene con il proprio giudizio “quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona o dalla salvezza delle anime” ( Gaudium et spes, 76 ). Profezia e servizio agli ultimi Le comunità cristiane possono e devono costituire un fatto di grande rilevanza politica. All’interno di una società civile dominata dalla lotta per prevalere e dall’estraneità reciproca dei singoli, la comunità cristiana vuole essere un segno profetico di quella convivenza fraterna e riconciliata che costituisce il termine ideale, mai adeguatamente realizzato, d’ogni società umana: il regno di Dio. L’agire politico di ogni singolo e di ogni comunità è una forma alta della carità. Nel Battesimo, essendo divenuti una cosa sola con Cristo, anche a noi è stata data la dignità e insieme il compito di essere nel mondo “profeti” e “re”. Sono responsabilità di grande significato anche politico. Essere profeti significa essere guidati dallo Spirito di Dio a intuire qual è il futuro che Dio sta preparando, verso quali sentieri sta chiamando la nostra storia perché venga il suo regno. Il titolo di re dato a ogni cristiano non è un residuo ridondante di altri tempi, ma significa essere rivestiti dell’autorità, che è di Cristo, di cambiare questo mondo, naturalmente secondo la logica del vangelo. “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere”, dice Gesù ai suoi discepoli. “Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” ( Mt 20,25-28 ). Atto politicamente rilevante, anche se non immediatamente politico, è poi il servizio cristiano prestato agli ultimi. Le comunità cristiane dovrebbero denunciare e, insieme, parzialmente correggere i limiti della presunta giustizia dell’ordine sociale, mediante l’opera del “buon samaritano”, cioè prendendosi carico di coloro che l’organizzazione sociale abbandona ai margini della strada, degli esclusi e degli emarginati di ogni genere. “Per rispondere alle esigenze della giustizia e dell’equità, occorre impegnarsi con ogni sforzo affinché nel rispetto delle persone e dell’indole propria di ciascun popolo, le ingenti disparità economiche che portano con sé discriminazione nei diritti individuali e nelle condizioni sociali, quali oggi si verificano e spesso si aggravano, quanto più rapidamente possibile vengano rimosse” ( Gaudium et spes, 66 ). Nessuna organizzazione politica potrà mai provvedere al bisogno singolo e di ogni singolo, così come può farlo l’attenzione personale, l’ascolto e la disponibilità nei confronti dell’uomo incontrato nel cammino. Talvolta i singoli, le comunità cristiane, le organizzazioni di cittadini, ispirate al vangelo o a un profondo rispetto per l’uomo, si prendono cura degli “ultimi”, quasi anticipando o sostituendosi alle carenze di una società politica che, se giusta, non dovrebbe trascurare nessuno. Tuttavia i singoli come le comunità sapranno ricorrere agli strumenti della partecipazione e della legalità, per far sì che il governo della cosa pubblica si assuma quegli impegni che ad esso competono. Chi vuol essere il primo sia il servo di tutti CCC nn. 1897-1917; 2234-2246; 2302-2317; 2415-2418; 2437-2442 CdA nn. 1100; 1102-1111; 1140-1143 È possibile, anzi talvolta è necessario delegare alcune forme dell’esercizio della politica, ma a nessuno è consentito abdicare all’impegno politico. A ogni cristiano, in quanto cittadino, compete dunque impegnarsi direttamente nell’azione politica. Ma come? Unità e pluralismo delle scelte nella vita pubblica Occorre subito riconoscere la legittimità di vari orientamenti politici tra i cristiani. La prassi politica, che è realtà storica, legata alle circostanze concrete e appartenente all’ordine del possibile, non è immediatamente deducibile dall’assoluto che è Dio, dall’unicità della sua parola, dal primato irrinunciabile della persona umana, pur essendo da queste certezze illuminata e orientata. L’unità dei cristiani nell’ambito politico non è dunque automatica; non è sempre possibile; anche quando sussista, deve essere rigorosamente distinta dall’unità della fede; deve essere motivata con considerazioni etico - politiche e perciò aperta al consenso anche di chi credente non è. Fatte queste precisazioni, una tensione verso l’unità, anche in ambito politico, può essere fattore di efficacia per la presenza della testimonianza evangelica nella storia. Di fronte a particolari situazioni o a problemi singoli, che investono più immediatamente la comune coscienza cristiana, una forma di unità dei cattolici nella vita politica può divenire un bene o anche un dovere. La norma resta, tuttavia, quella dell’autonomia di giudizio politico da parte dei cristiani e quindi della legittimità del pluralismo di scelte, sempre in coerenza con i valori fondamentali della persona umana e della società. Non ogni idea o visione del mondo è difatti compatibile con la fede cristiana e non si può giustificare l’adesione a forze politiche che si oppongono ai principi della dottrina morale e dell’insegnamento sociale della Chiesa. In ogni caso, non potrà mai mancare il convergere di tutti i credenti quando sono in gioco diritti fondamentali dell’uomo o valori irrinunciabili per la fede, come il diritto alla vita, le esigenze elementari della solidarietà, la pace, la libertà religiosa. L’impegno politico esige specifica competenza, conoscenza delle compatibilità reali che ne condizionano il successo. Ma il cristiano ispira la sua azione politica, oltre che a questa necessaria competenza, soprattutto alle indicazioni della sua fede e della sua coscienza morale. Il cristiano che si impegna in politica deve essere anzitutto un costruttore di giustizia. Le strutture della società possono essere dette giuste solo se assicurano a tutti in maniera imparziale il godimento dei diritti fondamentali della persona: il diritto alla vita, allo sviluppo economico-sociale, alla libertà di opinione e di partecipazione, all’espressione della propria fede. “Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli, così che i beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, avendo come guida la giustizia e compagna la carità” ( Gaudium et spes, 69 ). Il credente è quindi impegnato, anche in forza della propria fede, a promuovere le condizioni oggettive della giustizia sociale. La giustizia è fondata ultimamente sull’uguale dignità di ogni persona umana e si ispira alla “regola d’oro”: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” ( Mt 7,12 ). Il discepolo di Cristo non limita il suo impegno sociale all’attuazione delle esigenze minimali della giustizia; egli si apre a quelle ben più esigenti della carità. La carità assume in sé, ma insieme trascende, le esigenze della giustizia. Ispirate dalla carità, le opere della giustizia divengono una prova di amore ai fratelli e a Cristo che si fa presente in loro. La carità va oltre ogni forma puramente interessata di solidarietà e di collaborazione vicendevole e sfocia nella volontà di rispettare, aiutare, servire, amare il prossimo, al di là di ogni interesse personale e di ogni calcolo egoista. Soltanto il vangelo rende ultimamente sensato questo miracolo dello Spirito, portandoci a riconoscere vera la certezza, di significato anche politico, per la quale chi perde la propria vita la ritroverà ( Mt 10,39 ), certezza che ha trovato il suo inveramento definitivo nella risurrezione dai morti di Gesù di Nazareth e che sarà misura della nostra appartenenza al regno di Dio; infatti, “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco”, cioè colui che è preoccupato solo di avere per sé, di tenere, di accumulare, “entri nel regno dei cieli” ( Mt 19,24 ). La fede riconosce nell’amore “la legge fondamentale della umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo” ( Gaudium et spes, 38 ). Bene comune e principio di sussidiarietà Oggetto specifico della sollecitudine dello stato, e quindi dell’azione politica, è il bene comune, cioè la realizzazione di quell’insieme di condizioni strutturali della convivenza, che permettano a ogni cittadino la più ampia possibile esplicazione delle proprie qualità e attività umane. Fanno parte del bene comune non soltanto il rispetto dei diritti di libertà individuale e l’accesso equo di tutti i cittadini ai beni economici e culturali prodotti dalla comune collaborazione, ma anche la promozione dell’iniziativa autonoma dei singoli, delle famiglie e delle società intermedie, come vuole il “principio di sussidiarietà”, uno dei punti qualificanti dell’insegnamento sociale della Chiesa: la società di ordine superiore – in questo caso lo stato – non deve sottrarre agli individui e alle società intermedie, come sono anzitutto le famiglie e poi le istituzioni di grado inferiore e i gruppi sociali o culturali, quei compiti e quegli ambiti di autonomia che esse possono gestire con pari efficacia e beneficio sociale. Il bene comune è tale non solo perché ricade su tutti i membri della società, ma anche perché è il prodotto del loro impegno comunitario. La promozione di questo bene incombe quindi su ogni cittadino e su ogni corpo intermedio della società civile, come dovere in certo qual modo comprensivo di tutti gli altri doveri, legati alla loro appartenenza sociale. Promuovere il bene comune significa anzitutto rispettare le leggi, praticare la giustizia, pagare le tasse, assumere con onestà e gestire con sollecitudine tutte le eventuali responsabilità civiche affidate al singolo dalla situazione concreta in cui viene a trovarsi o dalla fiducia delle autorità e dei cittadini. Promuovere il bene comune può richiedere il superamento del proprio interesse immediato. Ma il bene comune, almeno come realizzazione di sé, ricade su coloro cui richiede sacrifici e rinunce. Giustizia e pace tra i popoli e le nazioni Per molti secoli lo stato ha rappresentato il vertice della socialità umana organizzata e perciò a lungo considerato sovrano nel suo ordine, tale cioè da non ammettere altro potere politico al di sopra del suo. Oggi i confini fra gli stati sono sempre più intensamente attraversati dalla circolazione di informazioni, influssi culturali, merci, capitali e uomini; l’interdipendenza economica e politica degli stati si fa ogni giorno più forte e i confini che li separano diventano sempre più labili e anacronistici. Molti uomini di buona volontà sognano per un futuro non troppo remoto una comunità politica di dimensione planetaria, dotata, come afferma il papa Giovanni Paolo Il, di “un grado superiore di ordinamento internazionale, a servizio delle società, delle economie e delle culture del mondo intero” ( Sollicitudo rei socialis, 43 ), dei popoli e delle nazioni. Forse questo futuro non è ancora così vicino, ma già fin d’ora si impone a tutti gli uomini di buona volontà il problema di una concertazione giusta e seria dei rapporti tra gli stati sovrani. Un problema reso acuto dai conflitti locali che insanguinano ancora l’umanità, dai rischi connessi alle tensioni tra le grandi potenze e dalle sperequazioni vistose e crescenti tra i diversi paesi nello sviluppo economico e nella fruizione dei beni della terra. Come esiste una giustizia tra le persone, all’interno delle singole comunità nazionali, così esiste e va considerato altrettanto urgente il problema di una giustizia e di una solidarietà tra i popoli e gli stati nell’ambito della famiglia umana. “Dati i crescenti e stretti legami di mutua dipendenza esistenti oggi tra tutti i cittadini e i popoli della terra, la ricerca e il raggiungimento più efficace del bene comune universale richiedono che la comunità delle nazioni si dia un ordine che risponda ai suoi compiti attuali, tenendo particolarmente conto di quelle numerose regioni che ancor oggi si trovano in uno stato di intollerabile miseria” ( Gaudium et spes, 84 ). La fede impegna il cristiano a vedere un suo fratello in ogni uomo, a qualsiasi popolo appartenga. Egli vive l’impegno politico con un’apertura di carità universale, che lo porta a superare ogni confine nazionale e a perseguire obiettivi di bene comune di dimensione universale. Egli sa che ogni scelta, politica o economica, anche se compiuta nel piccolo contesto di un villaggio, nel segreto di una banca, nel titolo di un giornale, ha un riflesso di carattere mondiale. Non si può ignorare l’effettiva solidarietà, nel bene e nel male, che unisce i destini dei singoli e delle nazioni al destino del mondo intero. E un aspetto tipico della società contemporanea, che non costituisce soltanto una responsabilità accresciuta, ma anche maggiori possibilità di dare efficacia alla nostra carità. Anche le nostre scelte personali e nazionali, piccola cosa nel concerto mondiale, incidono sulle sorti dell’umanità. Occorre rendersi responsabili, anche per riconoscere quando la coscienza ci impone di sottrarre il nostro consenso, in parole e azioni, a quelle che riteniamo consuetudini o politiche ingiuste. “Così fanno tutti” o “Non posso farci niente” sono alibi infondati. Per il cristiano è sempre possibile, e talvolta doverosa, l’obiezione maturata in coscienza e concretizzata in un effettivo ritiro della nostra adesione a certi comportamenti giudicati non conformi alla volontà di Dio e che dunque nemmeno la legge civile può imporci. Alla luce della solidarietà mondiale, nella quale siamo avvolti, e insieme della nostra irrinunciabile responsabilità personale, molte persone, anche giovani, hanno pagato di persona, in nome del vangelo, l’opposizione a leggi e comportamenti ingiusti. Responsabilità del futuro della terra La responsabilità morale del credente non riguarda soltanto i fratelli e le sorelle che vivono nel suo tempo; essa comprende ormai tutti gli uomini e le donne che abiteranno il nostro mondo nel futuro, più o meno lontano. Quel futuro, infatti, dipende in maniera decisiva e irreversibile dal nostro comportamento nel presente. Questa responsabilità riguarda soprattutto, ma non esclusivamente, il campo economico. Il tipo di sviluppo fin qui perseguito dai paesi industriali avanzati, fra i quali si pone il nostro, rischia di lasciare alle generazioni che ci seguiranno un mondo non più vivibile. Lo spreco delle risorse limitate e non rinnovabili del pianeta, l’accumulo progressivo e, in molti casi, irreversibile dell’inquinamento, il degrado dei delicati ecosistemi della terra, l’insieme di quei fenomeni di disgregazione sociale, cui si dà il nome di “entropia sociale” e che possono essere considerati come un sottoprodotto di questo modello di sviluppo, hanno già alterato in modo grave aspetti irrinunciabili della qualità della vita. Ma la cumulazione dei loro effetti potrebbe portare a catastrofi di portata imprevedibile. L’unica via di uscita è costituita dalla conversione a un modello di sviluppo diverso, centrato sull’uomo invece che sulle cose. Ma una simile conversione presuppone anche motivazioni adeguate, capaci di fare quanto finora la sola paura della catastrofe non è riuscita a fare. Per poter affrontare le rinunce richieste da questa difficile conversione, l’umanità avrà bisogno di una motivazione e di una speranza che le permettano di sentire che vale la pena di sacrificarsi per la sopravvivenza dell’uomo sulla terra. Nella sua fede, il credente può trovare per sé e offrire agli altri una simile motivazione e una simile speranza. Non solo perché riconosce il diritto delle generazioni future a godere dei beni della terra e di una vita degna dei figli di Dio, ma anche, e forse soprattutto, perché è consapevole del compito affidato da Dio all’uomo di essere non sfruttatore, ma custode e coltivatore del creato. La dottrina sociale della Chiesa ( scheda ) CCC nn. 2419-2425 CdA nn. 1090-1092 La dimensione sociale è proprio del messaggio cristiano. In tal senso l’insegnamento a riguardo dei problemi sociali è nato con il vangelo e da sempre fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. La “dottrina sociale” della Chiesa si è sviluppata o partire dal secolo scorso, in riferimento ai problemi posti dalla rivoluzione industriale. Con l’evolversi della situazione sociale e l’intrecciarsi delle correlazioni fra economia, politica e società la dottrina sociale della Chiesa si è dilatato fino a comprendere altri problemi come il rapporto nord-sud del mondo la guerra e la pace, lo sviluppo, la salvaguardia del creato. Essa comprende i testi del magistero sociale dei pontefici ( Rerum novarum - 1891, Quadragesimo anno - 1931, Mater et magistra - 1961, Pacem in terris - 1963, Populorum progressio - 1967, Octogesima adveniens - 1971, Laborem exercens - 1981, Sollicitudo rei socialis - 1988, Centesimus annus - 1991 ) e i documenti delle Chiese particolari che riguardano temi sociali. La dottrina sociale della Chiesa fa riferimento alla rivelazione di Dio e alle scienze umane. Dalle scienze umane trae elementi di conoscenza della realtà sociale, dalla rivelazione di Dio criteri prospettive, orientamenti valori che, in ultima istanza, si fondano su un concetto trascendente dello persona e sulla società inteso come comunità di persone. La dottrina sociale della Chiesa non propone alcun sistema particolare, ma, alla luce dei suoi principi fondamentali consente di vedere anzitutto in quale misura i sistemi esistenti sono conformi ameno alle esigenze dello dignità umana. Sono in particolare due i principi che traducono lo dimensione sociale della carità e ispirano l’azione e il giudizio dei singoli e dei gruppi sociali. Il bene comune è il valore al quale devono essere ordinate le leggi che regalano i dinamismi sociali e orientano l’agire dei singoli In vista del bene comune è talvolta richiesta la rinuncia a un bene individuale proprio immediata. Il fine buono del bene comune non giustifica la violazione dei diritti fondamentali e inalienabili dello persona ( allo vita alla libertà religiosa e di opinione, ecc. ); il bene personale - fatti salvi i diritti inalienabili - non può essere un alibi per trascurare il bene comune. La solidarietà è il criterio che giudica le modalità con cui si persegue il bene comune. E una virtù, ma anzitutto una realtà: tutto ciò che facciamo o trascuriamo di fare ha un riflesso sugli altri. Al di là delle intenzioni dei singoli ciascuno e tutti insieme siamo responsabili non solo del nostro destino personale, ma anche del futuro del mondo. Due contenuti maturati entro la dottrina sociale della Chiesa e divenuti patrimonio comune anche al di fuori del contesto ecclesiale, meritano di essere segnalati: - la destinazione universale dei beni che conduce o un atteggiamento di discernimento critico nei confronti del diritto alla proprietà privata, o una giustizia distributivo nelle politiche dei prezzi e retributivo nelle politiche dei salari non misurata esclusivamente sullo dinamica della domando e dell’offerta; è un principio interpretato spesso come correttivo del capitalismo; - il principio di sussidiarietà, per il quale si riconosce autonomia di scelto all’individuo o alle forme organizzate più piccole fin dove non è in gioco un interesse più generale regolato da forme organizzate più ampie: - il principio di sussidiarietà sancisce così ad esempio, che ogni famiglia ho diritto di scegliere autonomamente ciò che la riguarda direttamente - dove abitare, come spendere le proprie risorse, quale educazione impartire ai figli -, mentre lo stato, forma più organizzata che comprende più famiglie e custodisce un interesse più generale, non ha diritto di interferire: è un principio interpretato spesso come correttivo del collettivismo. La dottrina sociale dello Chiesa è parte dell’insegnamento morale e pastorale del Magistero. Non è dunque soltanto una riflessione storica o politico o sociologica, ma si propone alla coscienza dei singoli e all’impegno organizzato dei cristiani come orientamento che traduce nella complesso realtà di oggi la profezia biblica e lo missione evangelico per un mondo più giusto, pacifico e solidale. “Negli ultimi cento anni la Chiesa ha ripetutamente manifestato il suo pensiero, seguendo do vicino la continua evoluzione della questione sociale, e non ha certo fatto questo per recuperare privilegi del passato o per imporre uno suo concezione. Suo unico scopo è stato lo curo e responsabilità per l’uomo, a lei affidato da Cristo stesso, per questo uomo che come il Concilio Vaticano II ricorda, è la sola creatura che Dio abbia valuto per se stessa e per cui Dio ha il suo progetto, cioè la partecipazione all’eterna salvezza. Non si tratta dell’uomo “astratto” ma dell’uomo reale “concreto” e “storico” si tratta di ciascun uomo perché ciascuno è stato compreso nel mistero della redenzione e con ciascuno Cristo si è unito per sempre attraversa questo mistero” ( Giovanni Paolo II, Centesimus annus, 53 ). In sintesi La fede cristiana non è estranea o contraria al progresso economico e sociale; la novità che essa promuove consiste piuttosto nell’offrire precisi orientamenti etici alle finalità e alle modalità dello sviluppo economico e della convivenza civile. Responsabilità e gratitudine Ogni sforzo umano finalizzato allo sviluppo integrale e solidale dell’uomo, anche se si pone su un piano temporale e terreno, contribuisce alla crescita e all’unificazione definitiva degli uomini attorno a Cristo. Concretamente si tratta di: - custodire e coltivare il creato per farlo fruttificare: - confrontarsi con il male presente per avere chiarezza sui rischi dello sviluppo; - sviluppare le virtualità messe da Dio nell’uomo; - celebrare la festa per contemplare e dire grazie. Costruire solidarietà La crescita economica è un problema urgente che riguarda l’avvenire e la stessa sopravvivenza del genere umano. La missione di creare ricchezza, nella giustizia, deve essere messa in relazione a tre verità presenti nel pensiero sociale della Chiesa: - destinazione universale e comune dei bene economici; - primato della persona sul lavoro; - assunzione del lavoro come vocazione e servizio. Cristiani e politica Per promuovere una società autenticamente umana è indispensabile che i cristiani non desistano dal ricercare: - un cambiamento sociale ispirata all’amore; - una effettiva disponibilità al servizio dell’uomo. I cristiani devono essere capaci di discernimento profetico nei riguardi dell’ordinamento sociale: - riaffermando il primato di Dio, garanzia di dignità e libertà dell’uomo; - osteggiando le strutture totalitarie, disumanizzanti e spersonalizzanti; - promuovendo solidarietà in vista del bene comune; - aprendosi a una carità universale, per la giustizia e la pace tra i popoli; - difendendo la terra da un uso che non ne rispetti l’intenzione originaria di bene conferitagli dal Creatore. Per l’approfondimento Comunicazione CCC nn. 2464-2513 CdA nn. 1145-1151 Cultura CdA nn. 1152-1165 Per camminare nella fede Le domande della vita Il lavoro non è mai soltanto professione ma anche vocazione; mediante il lavoro l’uomo entra in relazione non soltanto con le cose, ma anche con gli altri e con Dio. Operare nel mondo significa assumere fondamentali atteggiamenti di gratuità, responsabilità e solidarietà. Anche per i cristiani impegnati nelle realtà sociali e politiche vale la possibilità di raggiungere la perfezione non nonostante la loro attività temporale, ma proprio grazie ad essa. - Quale rapporto vedi tra il lavoro e l’impegno sociale e la realizzazione della tua vita e quella degli altri? - Quale mentalità ti sembra prevalente al riguardo nel tuo ambiente e nella cultura odierna? - Termini come responsabilità, gratuità, solidarietà, collaborazione, che cosa dicono alla tua vita? - Quali sono le difficoltà più grandi che si incontrano nel lavoro per la trasformazione del mondo e in un corretto impegna sociale e politico? - Quali scelte e iniziative possono essere richieste alla tua comunità cristiana per promuovere un corretto impegno di servizio alla società nel rimuovere le situazioni disumanizzanti? L’ascolto della Parola “Chi cammina con giustizia e parla con lealtà, chi rigetta un guadagno frutto di angherie, scuote la mani per non accettare regali, si tura gli orecchi per non udire fatti di sangue e chiude gli occhi per non vedere il male: costui abiterà in alto, fortezze sulle rocce saranno il suo rifugio, gli sarà dato il pane, avrà l’acqua assicurata”. ( Is 33,15-16 ) La voce della Chiesa “Chiunque tu sia, perché uomo, abbi in odio i comportamenti disonesti. Ama le persone, non il denaro, resisti con tutte le tue forze al peccato. [ … ] Rinuncia ai guadagni illeciti e all’usura ed eccita in te l’amore dei poveri, e “a chi ti domanda un prestito non volgere le spalle” ( Mt 5,42 ). Egli ti supplica per la sua povertà e ti aspetta alla porta della tua casa; manca di ciò che è più necessario e cerca un rifugio nella tua ricchezza per rimediare alla sua povertà. Tu invece fai il contrario di quello che dovresti fare: da alleato divieni nemico, perché tu non fai nulla per togliere il povero dalla necessità che lo opprime e per fargli saldare il debito una volta per tutte; tu provochi male in chi sta già male e spogli chi non possiede vestiti e ferisci chi già è ferito; aggiungendo preoccupazioni a preoccupazioni e dolori a dolori. Chi infatti prende l’interesse sui prestiti, sfrutta quel poco che il povero possiede, con il pretesto di volerlo aiutare, mette la rovina nella sua casa. Tu fai come quello che, per affetto, dà da bere vino a chi ha la febbre alta e ha sete per disidratazione: procura un breve sollievo, mentre beve d’un fiato, ma poco dopo a quel disgraziato aumenta la febbre. Allo stesso modo, chi presta all’indigente denaro dietro interesse, non rimedia le sue difficoltà, ma vi aggiunge un’altra disgrazia”. ( San Gregorio Nisseno, Contro gli usurai ) Il dialogo della preghiera “Benedetto sei tu, Signore del cielo e della terra, per tuo dono è germogliata in Cristo la libertà dei tuoi figli nei solchi della pazienza e del sacrificio; tu vuoi che gli uomini del nostro tempo mettano al centro della vita familiare e sociale il comandamento dell’amore e doni loro il tuo Spirito perché liberi da ogni forma di oppressione, costruiscano per le generazioni presenti e future un modello nuovo, giusto e fraterno, di abitare la terra. A te gloria nei secoli. Per Cristo nostro Signore. Amen”. ( Benedizionale, Per la comunità nazionale, II, Preghiera di benedizione ) “Dio di provvidenza infinita, che hai mandato sulla terra il tuo Figlio a condividere le nostre fatiche e le nostre speranze, sii benedetto per tutti i benefici del tuo amore che ci sostengono nella nostra esistenza quotidiana; fa’ che ogni uomo possa godere di un pane gustoso, di un lavoro giustamente remunerato, di una casa accogliente e serena; il tuo Spirito illumini la strada del progresso umano in una continua ricerca della giustizia e della verità, nell’attesa dei cieli nuovi e della terra nuova. Per Cristo nostro Signore. Amen”. ( Benedizionale, Per il mondo del lavoro, Preghiera di benedizione ) L’incontro con i testimoni Giuseppe Lazzati Giuseppe Lazzati nasce a Milano il 22 giugno 1909. Dopo gli studi liceali, si iscrive all’Università Cattolica dove si laurea nel 1931 a pieni voti in letteratura cristiana antica materia di cui diverrà docente nello stesso ateneo. Nell’anno della laurea sceglie di vivere la propria esperienza cristiana come celibe e, nel 1939, fonda l’istituto secolare “Cristo Re”: un gruppo di laici consacrati inseriti nella vita sociale. Nel 1934 è Presidente diocesano dei giovani di Azione Cattolica e inizia ad approfondire sempre più una duplice intuizione: la responsabilità dei laici nella Chiesa e nel mondo e il valore cristiano della realtà secolare. Rinchiuso in un campo di concentramento nazista dal settembre 1943 all’agosto 1945, si fa evangelizzatore dei compagni di prigionia. Rientrato in Italia si impegna in politica, prima nella sua città e poi come membro dell’Assemblea Costituente e quindi della Camera dei Deputati, offrendo un originale contributo al “pensare politicamente” nella riconquistata democrazia. Nel 1953 torna all’impegno ecclesiale, alla direzione del quotidiano cattolico di Milano, all’insegnamento universitario, assumendo anche il ruolo di Rettore dell’Università nei difficili anni della contestazione studentesca e del terrorismo. Muore il 18 maggio 1985. “La ricerca del regno di Dio “trattando le realtà temporali e ordinandole secondo Dio” si attua concretamente nel cercare e trovare, per poi attuare, le soluzioni valide a risolvere i problemi propri di questo immenso campo d’azione che abbraccia tutte le attività intese a fare sempre più umano, cioè sempre più rispondente a misura di uomo, la vita personale, familiare, sociale. Perché questo avvenga, il momento creativo esige ( e cioè non può fare a meno di ): a) competenza scientifico-tecnica proporzionata alla funzione che il fedele laico esercita e al livello a cui la esercita. È falsa la posizione di chi pensa - e non che questo non sia avvenuto e non avvenga che al fine indicato sia sufficiente l’essere, come si dice, un buon cristiano [ … ]; b) competenza di giudizio storico, che vuoi dire: tener conto delle tendenze in atto nei vari campi nei quali si sviluppa l’azione dell’uomo in forza del movimento o dinamismo cui obbedisce la storia, con la capacità di cogliere quanto di positivo quelle tendenze recano con sé per lo sviluppo dell’uomo e cioè per un progresso a misura di uomo, ma anche di rifiutare quanto, da questo punto di vista, le medesime tendenze mostrano di negativo”. ( Giuseppe Lazzati, Per una nuova maturità del laicato ) La professione della fede “Maestro che cosa devo fare?” “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” ( Mt 6,33 ). “Chi segue fedelmente Cristo, cerca anzitutto il regno di Dio e assume così un più valido e puro amore per aiutare tutti i suoi fratelli e per realizzare, con l’ispirazione della carità, le opere della giustizia” ( Gaudium et spes, 72 ). - Il cristiano vede in tutte le creature un dono e un riflesso di Dio Creatore e ricerca perciò il bene comune dell’umanità. - Nella domenica, “giorno del Signore”, il cristiano ricorda il primo giorno della nuova creazione, inaugurata dalla risurrezione di Gesù, e anticipa il giorno ultimo della festa eterna. - L’uomo è l’autore, il centro e il fine della vita economica e sociale. - Egli deve operare affinché i beni che Dio ha creati per tutti, giungano in effetti a tutti, secondo giustizia e nella carità. - A ogni cristiano, in quanto cittadino, compete impegnarsi nell’azione politica. - Il bene comune comporta tre elementi essenziali: il rispetto e la promozione dei diritti fondamentali della persona; la prosperità o Lo sviluppo dei beni temporali della società; la pace e la sicurezza dei popoli. Introduzione Pessimisti o ottimisti a riguardo del futuro? C’è chi affronta la realtà preparandosi al peggio, per consolarsi più facilmente se le cose non vanno bene; c’è chi invece azzarda qualche rischio, nella convinzione che la fortuna premia gli audaci. Per il cristiano non ha senso parlare di fortuna o sfortuna; egli non guarda al futuro come a un fato indifferente alla sorte delle singole persone, non limita il suo orizzonte al calendario in corso né alle sole vicende materiali. L’orizzonte del cristiano è di grande respiro, poiché la sua speranza coglie il fine, il senso stesso del vivere. Cristo risorto è promessa di vita eterna. Nulla è insensato e inutile nella vita. Tutto quanto abbiamo seminato, anche se nel pianto, tutto raccoglieremo nella gioia. Questo infatti è il disegno di Dio Padre, che in Gesù ci è stato proposto e anticipato e che nello Spirito Santo ci ha coinvolti: che abbiamo la vita e l’abbiamo in pienezza. C’è una cosa più brutta della morte e di una eternità senza scopo: la solitudine, una solitudine eterna. Ma c’è una cosa più bella di ogni nostra attesa: una comunione infinita, perché infinito è l’Amore che la genera. Il nostro desiderio di felicità e la sete di amore non sono inganni, ma promesse già esaudite in Gesù risorto. Tante esperienze sembrano smentire la nostra fiducia, sembrano volerci convincere che il male è più forte del bene, che il giusto è destinato a subire sopraffazione, che l’amore non restituisce altro se non ingratitudine. Ma la morte e risurrezione di Gesù sono un fatto, l’evento che ha impresso alla nostra storia, personale e del mondo intero, un orizzonte di felicità, di amore, di vita per sempre. Il nostro progettare non è vano, la perseveranza nella carità non è ingenuità. Io sono il primo e l’ultimo, l’Alfa e l’Omega CCC nn. 410-412; 668-677; 1042-1050 CdA nn. 357-363; 401-407; 1167-1168; 1171-1183 Quando la vita viene messa alla prova e le speranze sembrano naufragare, quando siamo di fronte a interrogativi decisivi per il nostro futuro e per quello dell’umanità, è spontaneo chiederci su quale patrimonio possiamo far affidamento e verso quale direzione possiamo orientare il nostro cammino. Emergono così le domande circa l’inizio e la fine, intesi non come punti cronologici, ma come radici ultime della nostra esistenza e della nostra libertà. Certo, dell’inizio e della fine noi non abbiamo esperienza diretta: nessuno può raccontare la propria nascita né la propria morte. Così è per l’umanità intera: essa non può afferrare da sé il suo sorgere e il suo finire. La scienza ha sviluppato un grande interesse per le origini del cosmo e della vita; talora calcoli specialistici cercano di prevedere il futuro ancora a disposizione del mondo. Sono problemi che meritano attenzione e forse conducono a fare crescere l’atteggiamento della meraviglia e una utilizzazione più rispettosa delle risorse della natura. La scienza però, per suo statuto, si occupa del “come” possano essere descritti l’inizio e la fine, non del loro “perché”. La scienza intende descrivere il nascere e lo spegnersi del mondo, ma lascia ad altri, alla filosofia, all’esperienza religiosa, alla fede intuire il volto e il cuore del Creatore e dell’ultimo Custode del mondo. Il libro che raccoglie la testimonianza fondamentale e normativa della fede cristiana, la Bibbia, dedica proprio le pagine iniziali e finali, la Genesi e l’Apocalisse, all’inizio e alla fine della storia umana. Non sono racconti informativi, non hanno pretesa scientifica: sono invece l’interpretazione che la fede ebraico - cristiana dà al significato trascendente della vita e della storia e quindi al patrimonio che è in mano all’uomo per affrontare la corsa della storia e il suo esito finale. Al centro di tutto sta la Pasqua di Gesù, la sua solidarietà con noi fin dentro la morte, una morte ingiusta, e la sua solidarietà di Risorto attuata nel dono dello Spirito. È a partire da questa solidarietà di Cristo con noi, da ciò che essa ci rivela del volto del Padre, che la fede intuisce la ricchezza degli inizi, la fecondità e il dramma della storia, le possibilità di compimento custodite nella fine nostra e del mondo. Il principio Già la sapienza ebraica, sulla base dell’esperienza di Dio salvatore, del suo appassionato impegno per la libertà del suo popolo, era giunta a formulare in testi di grande efficacia letteraria il progetto di Dio nella creazione dell’uomo. Sono i racconti che costituiscono le prime pagine della Bibbia. Essi raccolgono varie tradizioni, maturate lungo i secoli, sollecitate da domande diverse: perché Israele è popolo singolare tra gli altri? ad animare la storia è la potenza degli imperi o la presenza fedele di Dio in essa? che senso ha il ritmo del lavoro e del riposo? perché la fatica e il dolore? perché il dramma della malvagità e della morte? nei problemi tragici della vita dov’è Dio e dove il suo disegno? quale efficacia ha la sua benevolenza per l’uomo? Sono domande su cui si misurano ancora oggi l’umanità e la Chiesa. I cristiani trovano ad esse risposta alla luce di Gesù Signore, che si presenta a noi come il compimento delle attese e della storia di Israele. Il racconto della creazione è contenuto in due quadri diversi nei primi capitoli della Genesi: Gen 1,1-2,4a e Gen 2,4b-25. Essi rispondono a preoccupazioni e sensibilità differenti e concordano su alcune affermazioni fondamentali. Il primo racconto ( Gen 1,1-2,4a ) mette al centro della sua narrazione la Parola. Tutto scaturisce dalla Parola creatrice. Il ritornello: “Dio disse … e così fu” regge tutto il racconto. Inoltre Dio accompagna ogni cosa creata con il suo sguardo: “Dio vide che era buono”. Dopo la creazione dell’uomo, questa esclamazione viene rafforzata: “Dio vide che era molto buono”. Lo schema settimanale, su cui è strutturato il testo, colloca la creazione divina dentro i tempi normali dell’uomo. È un modo per dire che l’offerta iniziale di Dio creatore rimane disponibile, presente per sempre nella storia dell’uomo. Il concludersi del racconto della creazione nel settimo giorno, nel riposo di Dio che l’uomo è chiamato a condividere, fa intendere che Dio si propone all’uomo non soltanto come origine di ogni dono, ma anche come compimento e fine. Nei suoi doni, è Dio stesso che si promette all’uomo. Ponendolo come sua immagine nel mondo, Dio rende l’uomo messaggero della sua presenza nella storia e gli si offre come interlocutore sempre appellabile, come sua perenne benedizione. Dio affida alla libertà dell’uomo il progetto della storia; all’uomo è chiesta la saggezza di affidare a Dio la buona riuscita del suo cammino nella storia. Il secondo racconto ( Gen 2,4b-24 ) è costruito attorno alla ricchezza e al dramma dell’essere uomini. L’uomo, fatto di corpo e di spirito, vi emerge come il fiduciario di Dio. A lui il mondo è affidato come un giardino da coltivare. Nell’uomo e nella donna, dotati di pari dignità, Dio suscita il dono della reciproca confidenza, fino alla fedeltà nel matrimonio, e la responsabilità della generazione della vita. Si tratta di un quadro solo apparentemente ingenuo. In realtà, attraverso immagini poetiche, secondo i canoni del tempo, il racconto suggerisce i significati di fondo dell’esperienza relazionale dell’uomo, che ha nella corporeità il suo registro espressivo e nel suo spirito il centro ispiratore. Tutto intero, nella sua globalità di corpo e spirito, l’uomo sta a cuore a Dio, che ne alimenta l’alito di vita, in una libertà responsabile. Entrambi i racconti convergono su alcune convinzioni fondamentali: nel suo inizio il mondo esce dalla mano di Dio integro e buono, e tale viene affidato all’uomo, alla sua libertà e responsabilità. Sviluppando la propria libertà nel mondo, l’uomo realizza se stesso, mentre si apre a tutta la realtà e investe in essa la vita, tenendo conto del diverso valore delle creature che lo circondano. Dio stesso è sempre disponibile come ricchezza ultima e inesauribile di quanto ha creato. Da lui l’uomo riceve la vita e la capacità di realizzarla creativamente. In Dio l’uomo vede anche il pieno compimento della vita. La libertà e l’intelligenza che l’uomo ha ricevuto da Dio gli permettono di riconoscere l’amore gratuito di Dio creatore. Il mondo non è creato come spazio di un dominio in cui l’uomo è chiamato a esistere per essere servo; al contrario, egli è invitato partecipare della stessa gioia di Dio, celebrandone la bontà. Il “principio” alla prova della storia L’autore biblico sa bene che la condizione storica dell’uomo e del mondo non riflette il quadro dell’inizio. Già i capitoli successivi del libro della Genesi documentano tensioni e lacerazioni che ritroviamo ancora oggi nella nostra esistenza. Nasce inevitabile la domanda: perché il quadro delle origini si è infranto? All’inizio della storia - afferma la Scrittura - sta un atteggiamento fuorviante che compromette il rapporto positivo con il mondo e con la vita. Ne è segno anzitutto il racconto del peccato dei progenitori Adamo ed Eva, che pretendono di realizzare la loro vita senza Dio. Il loro gesto di autosufficienza li spinge a non fidarsi del Creatore e nello stesso tempo a soccombere alle lusinghe del serpente tentatore. Abusano della loro libertà, disobbediscono al comandamento di Dio, spezzando l’amicizia con il Creatore e infrangendo l’armonia con se stessi e con il creato. È questa la realtà del primo peccato. Il ripiegamento dell’uomo su se stesso prende varie forme: ci sono fratture nell’ambito della famiglia tra l’uomo e la donna ( Gen 3 ), ma anche tra fratelli ( Gen 4 ); nell’ambito del clan si fa strada la vendetta ( Gen 4,23-24 ); anche il rapporto con il mondo è compromesso, come denunciano le diverse tradizioni del diluvio ( Gen 6-9 ); infine, è l’umanità intera, la sua capacità di essere famiglia umana che entra in difficoltà ( Gen 11 ). Il racconto delle origini non è cronaca della preistoria umana, ma è una riflessione sapienziale, che, alla luce del modo con cui Dio fa storia con noi - sempre dalla parte della libertà, del dialogo, del rispetto e della condivisione -, cerca di cogliere il perché del rovescio della storia e la scopre proprio in quell’atteggiamento, insieme di diffidenza e di orgoglio, che rifiuta di riconoscere la proposta di Dio. La Chiesa ha approfondito questa riflessione e, stimolata dal pensiero di Paolo, ha sempre insegnato che la grande miseria che opprime gli uomini e la loro inclinazione al male e alla morte non si possono comprendere al di fuori di un legame con la colpa di Adamo: “Per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna … Per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori” ( Rm 5,18-19 ). Questo legame per cui ogni uomo è in Adamo “come un unico corpo di un unico uomo” ( San Tommaso d’Aquino, Sul male, 4, 1 ) fa sì che il peccato delle origini si propaghi a tutta l’umanità, la cui natura rimane intaccata, privata della bontà originaria. La situazione dell’umanità diventa drammatica: “Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno” ( Gaudium et spes, 37 ). Il peccato dei progenitori, tuttavia, non costituisce una condanna definitiva dell’umanità, una sottomissione invincibile al potere del maligno. Dopo la caduta, l’uomo non è stato abbandonato da Dio, ma subito ha potuto ascoltare la buona notizia della misericordia e della salvezza. Infatti, già nel racconto del primo peccato è presente anche il primo annuncio del Messia redentore, della lotta tra il serpente e la Donna e della vittoria finale di un suo discendente ( Gen 3,14-15 ). La riflessione sugli “inizi”, fatta dal libro della Genesi, si propone di aiutare il cuore e l’intelligenza dell’uomo a ritrovare nella storia il tracciato delle promesse di Dio, poiché nella sua benevolenza egli ha voluto rivelarsi come il Salvatore. In tal modo la lettura credente dei grandi eventi della storia di Israele - liberazione dalla schiavitù, dono della terra, ritorno dall’esilio … – e la riflessione sapienziale tengono alto l’orizzonte del traguardo, della fine e del fine del mondo e della storia. Sarà insieme fine della prova del male e approdo al compimento e al coronamento della promessa di Dio per ogni uomo. La fine Come l’inizio anche la fine non può essere raccontata come frutto di esperienza umana. Il significato e la ricchezza del compimento si lasciano però intuire, anzi si manifestano nel modo in cui Dio reagisce ai nostri insuccessi e alla nostra sfiducia. Il Dio che Israele ha conosciuto, ha celebrato, specialmente nella Pasqua annuale, il Dio che in Gesù Signore ha svelato del tutto il suo volto, non è un Dio che si arrende. Dio non invade il campo dell’uomo e ne rispetta le scelte; ma neppure si eclissa o si nega. È sempre in grado di suscitare testimoni del suo amore e di provocare azioni che rilanciano il cammino della storia. Per Israele ciò costituisce il filo conduttore della speranza messianica; per la Chiesa quello della fecondità inesauribile dello Spirito del Signore risorto. Queste esperienze consentono di dire, mediante quadri a contrasto, il traguardo della storia. Esso sarà magnifico superamento di tutte le fratture e le disavventure della storia umana. Sarà pace ricchissima, che raccoglie tutto il bene perseguito nella vita, e sconfitta definitiva del male, catastrofe che trascina con sé ogni pretesa orgogliosa che ha segnato di lutti e di lacrime la vicenda umana. Si tratta dei cieli nuovi e della terra nuova annunciati dai profeti, come frutto ultimo dell’azione di Dio per l’uomo ( Is 11,1-9; Is 65,17-18 ). Nella piena luce di ogni promessa mantenuta in Gesù risorto, Giovanni scrive nell’Apocalisse: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il ‘Dio - con - loro’. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”. E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”” ( Ap 21,1-5 ). Il riconoscimento di Gesù, risorto da morte, come centro della storia, come luogo umano ove ci è dato di leggere ciò che Dio, il Padre suo e nostro, accorda e custodisce tenacemente per noi, ci consente di sollevare il velo sull’inizio e sulla fine. Non come operazione di curiosità o di sforzo scientifico, che pure ha il suo significato, ma come apertura al dono che abita la storia pur dentro la sua contraddizione. Questa lettura, a cui ci provoca la parola di Dio, ci domanda di non perdere il senso profondo della storia, di non accorciare la speranza, di contribuire ad annodare il filo prezioso della fecondità delle promesse di Dio e del soffio innovativo del suo Spirito. Essa consente di godere davvero di ogni passo positivo dell’uomo, senza invaghirsene come d’un privilegio, di invocare il perdono e la bontà nei fallimenti, di non scartare nessun uomo come indegno ad abitare la vita. Proprio in questa grazia, già oggi accolta e vissuta, proprio nel poter dire per essa grazie a Dio, noi già intuiamo in anticipo, ma realmente, l’accoglienza ultima di Dio e la sua inimmaginabile ricchezza, come misura dell’eternità. Eredi di Dio, coeredi di Cristo CCC nn. 678-679; 988-1050; 1061-1065 CdA nn. 1184-1235 CdG1 pp. 332-334 Se il sapore di ogni vita, di ogni giornata e di ogni impresa è legato alle speranze Che nutriamo, è ancora più vero Che ogni speranza è tesa al suo Compiersi. Possiamo ben Comprendere un’invocazione caratteristica delle prime generazioni cristiane: “Vieni, Signore Gesù” ( 1 Cor 16,22; Ap 22,20 ). Questa invocazione non suona come desiderio di fuga ed evasione dal mondo; al contrario, essa sostiene il valore dell’impegno storico nel mondo. Invocare il ritorno del Signore significa vivere il presente non come tempo che sfugge, inesorabilmente sottratto, ma come vita tesa a un più profondo significato, accolto attraverso la scelta libera di chi si affida totalmente al Signore Gesù. La memoria della sua umanità e la fedeltà della sua parola e del suo Spirito sono la ricchezza della nostra esistenza; la sua condizione di Risorto è certezza di compimento della vita e di riscatto dalla morte. Aspettiamo Aspettiamo la risurrezione dei morti La morte porta inequivocabilmente i tratti della fine. Con essa ogni vita umana viene sottratta alla storia. E tuttavia non si può concludere frettolosamente che essa segni la fine di tutto. La sapienza popolare, in varie forme, lascia trasparire la convinzione dell’esistenza di una vita oltre la morte. La libertà dell’uomo, specie nelle sue forme più alte, soprattutto nella sua capacità di amore e di dedizione totale di sé per gli altri, dice un’intuizione profonda, non facile da identificare ma insopprimibile: chi dà la vita per gli amici non può essere da costoro perduto nel nulla della morte! La fede biblica ha gradualmente svelato che proprio la fedeltà di cui Dio ci rende capaci, con tutto il cuore e con tutte le forze, anche a prezzo della nostra vita, ci attesta che la morte non può essere l’ultima parola dell’esistenza ( Sap 1,13-15 ). Dio non può abbandonare gli uomini che vivono, sperano, si impegnano perché il mondo prenda il volto della sua bontà e della sua gloria. Proprio nella morte, veniamo accolti dal Dio della vita. La morte si trasforma nel compimento della vita e ne raccoglie i frutti ( Sap 3,1-9 ). Nel volto del Signore risorto la comunità dei primi discepoli ha colto la piena conferma di questa intuizione di fede dei giusti e dei profeti di Israele. Paolo spiega ai cristiani di Corinto che la fede in Gesù risorto implica la speranza della risurrezione per tutti: “Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? … Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” ( 1 Cor 15,12.20 ). Certo, a noi sfugge il come e il quando della risurrezione. Possiamo parlarne solo come riflesso dell’esperienza di Gesù risorto: Dio ci darà un modo di esistenza, nel corpo e nello spirito, per permetterci una piena e gioiosa comunione con lui e con i fratelli, in un mondo che riflette senza ombra il suo disegno. Evidentemente questo trapasso della morte nel compimento della vita in Dio, non è automatico. Il volto drammatico e oscuro della morte ci fa Capire che essa è anche rischio di distruzione, di sconfitta. È il rischio al quale siamo esposti per il male che segna la storia e che fa presa su ciascuno di noi. È il rischio della nostra libertà, che può anche chiudersi alla bontà di Dio e arroccarsi nell’egoismo, fino ad escludere ogni apertura verso gli altri. Allora la morte si tramuta nell’inferno, in una vita che intuiamo insostenibile e insopportabile, proprio perché ha reciso alle radici la sua possibilità di realizzarsi nella comunione piena e gioiosa con Dio. La parola di Dio consegna questo quadro oscuro della morte non per incutere paura, per indurre ad atteggiamenti servili nei confronti di Dio, ma per avvertirci della serietà della nostra libertà. L’inferno, come triste possibilità della libertà dell’uomo, è paradossalmente l’eco dell’infinito rispetto di Dio per le nostre scelte. La croce di Gesù ci ricorda fino a che punto, fino a quale prezzo, Dio è capace di rispettare la nostra libertà. Verrà a giudicare i vivi e i morti Nella morte la consistenza della nostra vita viene totalmente allo scoperto, come luogo del giudizio secondo verità. Questa verità però non si presenta come giustizia fredda e inflessibile, senza appello. E la verità dell’amore, che accoglie e purifica chi in vita e in morte ha camminato nella ricerca della verità, pur nella fragilità della condizione umana. Il giudizio di Dio, che fa riferimento alla verità dell’amore semplice e quotidiano, come ricorda l’evangelista Matteo ( Mt 25,31-46 ), è buona notizia, appartiene alle beatitudini del vangelo. Ci rende liberi di fronte ai giudizi umani, quelli che assumono i criteri della convenienza, degli interessi di parte, della pretesa di disporre degli altri, dell’ingiustizia, spesso privi di amore e di perdono. Questo giudizio, proprio perché ultimo, vaglierà tutta la nostra vita, la profondità delle nostre intenzioni; comporterà forse l’esigenza di un’ulteriore purificazione, la nostra ultima “crisi”, che ci conduce a eliminare quanto resta delle nostre chiusure all’amore di Dio. Il vocabolario della Chiesa ha dato a questa possibile situazione il nome di purgatorio. Al di là dei linguaggi e delle immagini usati per esprimerlo, esso è segno dell’infinita disponibilità di Dio all’uomo, nel pieno rispetto della libertà di ciascuno e delle scelte operate. Resta alla fine decisivo ricordare che il Signore “verrà a giudicare i vivi e i morti” non da sconosciuto: è l’identico Signore della Pasqua, che si è inserito nella nostra storia con la sua parola, con gli impulsi del suo Spirito, con la compagnia dei testimoni che ha suscitato. Il giudizio ultimo del Signore è il fondamento di una sicura speranza per ogni causa di giustizia, di libertà, di rispetto, di fraternità e di amore, a cui l’uomo dedichi la propria vita. Chi cammina nella luce del giudizio del Signore, trova sempre energie insospettate di intelligenza e di purezza di cuore, come pure l’apertura all’invocazione del perdono per superare limiti e incoerenze. Crediamo la vita eterna La fedeltà del Signore non abbandona l’uomo nella morte, ma lo inserisce nella pienezza della vita. Di essa, cioè la vita eterna presso Dio, possiamo appena balbettare qualcosa, rifacendoci alle immagini della Scrittura. La difficoltà non nasce dall’oscurità, ma dall’eccedenza di luce, dalla sproporzione rispetto a ciò di cui abbiamo abitualmente esperienza. Le immagini del banchetto festivo ( Lc 12,35-37 ), della festa di nozze ( Mt 25,1-13 ), della condivisione della gioia del Signore ( Mt 25,14-30 ), dell’incontro faccia a faccia con lui ( 1 Cor 13,12; 1 Gv 3,2 ) indicano tutte una stessa direzione: quella della piena comunione con Dio e tra noi. Tutta la ricchezza della benedizione divina e del suo amore sarà fonte della nostra gioia, senza più ostacoli, in pienezza, per sempre. Potremo insieme rallegraci del bene che tale amore produce in ogni fratello. Come ricorda l’apostolo Paolo, il regno di Dio si svelerà, allora, come il regno della piena fioritura dell’uomo nella gloria di Dio ( 1 Cor 15,20-28 ). La gloria di Dio risplenderà come forza invincibile d’amore nel condurre l’umanità e il mondo, oltre ogni fragilità e ogni tristezza, alla loro piena realizzazione ( 1 Cor 15,54-58 ). La ricerca e il cammino della fede si nutrono dell’invocazione e della speranza. Nella sequela del suo Signore, il discepolo sa di avere un compito grande da svolgere: aprire nel mondo e nella storia uno spazio di gratitudine e di profezia. La nostra vita, alla luce della fede, diventa giorno dopo giorno un grazie sempre più vivo a Colui che, chiamandoci all’esistenza, ci ha donato un volto e un progetto. Da questa coscienza nasce in noi l’esigenza di essere per i fratelli segno credibile di un cammino possibile verso la pienezza della libertà. La vita diventa così un’eucaristia di comunione e di lode, mentre accogliamo l’invito dell’apostolo Pietro: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” ( 1 Pt 3,15 ). In sintesi Attese e promesse nutrono il nostro cuore e sostengono il nostro cammino. Ma su che cosa può far leva l’uomo per il futuro ultimo, suo e dell’umanità? Dove poggia la sua speranza? Da sempre le domande sono intorno all’inizio e alla fine - All’inizio del nostro esistere vi è la certezza, biblicamente fondata, di “stare a cuore o Dio”. Egli infatti rischia il suo “buon nome” nella storia dell’uomo. Il mondo uscito dalla mano di Dio come “buono” è affidato all’uomo, creato libero e responsabile. - La nostra condizione storica, però, non riflette il quadro dell’inizio e si scontra con il mistero del male. La riflessione sapienziale sul modo di agire di Dio, sempre rispettosa della libertà e fedele alle promesse, tiene alto lo sguardo sulla meta che ci attende alla fine della prova del male, coronata dalla promessa di bene per ogni uomo. - Alla fine della vicenda umana sta il compimento della speranza dei “cieli nuovi e terra nuova” che nel Risorto, centro della storia, è accordato anche a ciascuno di noi. Vieni Signore Gesù Il presente non è un tempo che fugge, ma vita che si affida al Signore Gesù: Nella morte la vita umana viene sottratta alla storia, ma la morte non è l’ultima parola sulla vita: Dio ci darà un modo di esistere che consentirà di godere pienamente di lui e dei fratelli, rispettando però le nostre scelte, fino alla triste possibilità di escluderci da soli do questo dono. - Nella nostra morte lo vita viene tutta scoperta. Il Signore “verrà a giudicare i vivi e i morti” non do sconosciuto, ma da compagno del nostro cammino. - La fedeltà del Signore ci abilita allo pienezza dello vita. Lo ricerco si apre allo speranza per un grazie do dire nella storia. Per l’approfondimento CCC nn. 998-1065 CdA nn. 1197-1232 Per camminare nella fede Le domande della vita Nessuno può vivere senza speranza: ogni azione presuppone un’attesa; attendiamo di realizzarci e di poter continuare a vivere. Nella vita di Gesù, in particolare nella sua Pasqua, si realizza il compimento delle antiche speranze di salvezza. Dio mantiene sempre le sue promesse. Nella risurrezione di Gesù, il regno di Dio esprime l’esperienza salvifica più alta e indica il compimento definitivo della storia nella vita del mondo che verrà, quando Dio sarà “tutto in tutti” ( 1 Cor 15,28 ). - Le vicende della tua vita sono un mista di timori e speranze: quali motivazioni più di altre ti aiutano a guardare con fiducia al futuro? - Quali sono le speranze che riempiono il cuore dei giovani di oggi? - Che risposte dai alla ricerca di significato sull’origine e sulla fine della vita terrena? - Quali messaggi ti attendi dalla Chiesa, perché renda credibile il nostro fidarci di Dio? L’ascolto della Parola “La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto”. ( 1 Cor 13,8-12 ) La voce della Chiesa “Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Cristo dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali” ( Rm 8,10-11 ). Ora infatti il nostro corpo è nella condizione terrestre, mentre allora sarà in quella celeste. O felice quell’alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell’ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta per alleviare le asprezze della marcia, ma cantando non indulgere alla pigrizia. Canta e cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Vi sono infatti, secondo l’Apostolo, alcuni che progrediscono sì, ma nel male. Se progredisci è segno che cammini, ma devi camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede, devi progredire nella santità. Canta e cammina”. ( S. Agostino, Discorsi, 350, 3 ) Il dialogo della preghiera “Padre mio, io mi abbandono a te: fa’ di me ciò che ti piace! Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto, purché la tua volontà si compia in me e in tutte le tue creature. Non desidero niente altro, mio Dio. Rimetto la mia anima nelle tue mani, te la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo. Ed è per me un’esigenza d’amore il donarmi, il rimettermi nelle tue mani, senza misura, con una confidenza infinita, poiché tu sei il Padre mio”. ( Charles de Foucauld ) “Non so quando spunterà l’alba non so quando potrò camminare per le vie del tuo paradiso non so quando i sensi finiranno di gemere e il cuore sopporterà la luce. E la mente ( oh, la mente! ) già ubriaca, sarà finalmente calma e lucida: e potrò vederti in volto senza arrossire”. ( Davide Maria Turoldo, Canti ultimi ) L’incontro con i testimoni Francesco d’Assisi È uno dei santi più conosciuti e più amati. La sua vita ha come scenario principale la piccola città di Assisi, dal 1182 al 1226. ma lo vede anche pellegrino per tutta l’Italia centrale e ben oltre, fino all’Oriente, in una missione tra i musulmani. Nel 1204, a soli 22 anni, la sua vita gaudente si trasforma radicalmente in una totale osservanza del Vangelo. Altri giovani lo seguono e con loro si dedica alla predicazione e alla testimonianza evangelica, richiamando la società e la Chiesa del tempo alla riscoperta della fraternità, della pace, della povertà, dell’umiltà, dell’amore per tutti e per tutte le creature di Dio, nella gioiosa accettazione della sua volontà. Al centro della sua esperienza sta una sempre più profonda immedesimazione a Cristo: conoscere lui, imitare lui, seguendolo nel cammino della croce, fino ad assumere su di sé le piaghe del Crocifisso. la sua scelta di totale apertura ad ogni uomo e di profonda fedeltà al Vangelo nella Chiesa i esemplare richiamo alle esigenze della conversione e alla gioia della fede in ogni tempo. Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad te solo. Altissimo, se konfano, et nullo homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual’è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione. Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle. Laudato si’, mi’ Signore. per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento. Laudato si’, mi’ Signore, per sor’acqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. Laudato si’. mi’ Signore. per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte: et ello è bello et iocundo et robustoso et forte. Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli ke ‘l sosterranno in pace, ka da te, Altissimo, sirano incoronati. Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a cquelli ke morranno ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male. Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate et serviateli cum grande humilitate”. ( San Francesco d’Assisi, Cantico di frate Sole ) “Maestro che cosa devo fare?” “Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese: siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa” ( Lc 12,35-36 ) “Sappiamo dalla rivelazione che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia, e la cui felicità sazierà e supererà tutti i desideri di pace che salgono nel cuore degli uomini” ( Gaudium et spes, 39 ). - Dice il Signore: “Ecco, io verrò presto e porterà con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. lo sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine” ( Ap 22,12-13 ). - Opera di Dio Creatore, l’uomo e il mondo sono manifestazione del suo amore e, ricercando felicità e vita, a lui tendono come loro unico fine. - Accogliendo la salvezza, che ci è data nella morte e risurrezione di Cristo, abbiamo accesso alla pienezza della comunione eterna con Dio; rifiutando definitivamente l’amore di Dio, ci separiamo eternamente da lui. - L’attesa del mondo nuovo non indebolisce, ma al contrario rafforza il nostro impegno nella storia, dove cresce la realtà del Regno, che si compirà, come dono di Dio, alla fine dei tempi. Io credo Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose, di quelle che vediamo e di quelle che non vediamo ancora. Nulla di tutto ciò che è o accade può sottrarsi alla sua volontà, infinitamente provvidente e misteriosa. Nulla può impedire che si realizzi anche per me la sua volontà: che io sia per lui come un figlio, che lo conosca in una luce senza ombra alcuna, che lo ami nella gioia eternamente nuova della sua presenza. Nulla può impedirlo se non la mia incredulità, il mio rifiuto, la mia meschina presunzione di figlio di Adamo che pretende di misurare i doni di Dio. Credo in lui, e rinuncia a farmi misura del bene e del male: a lui chiedo luce per la mia intelligenza incerta, forza per la mia volontà fragile, adempimento della mia illimitata speranza di vita. Credo in Gesù Cristo, Figlio unigenito immagine perfetta del Padre prima di tutti i tempi: in lui e per lui tutto è stato creato, per lui noi stessi siamo fatti a immagine di Dio, in lui siamo destinati ad essere figli. Il Figlio venne in mezzo a noi mandato dal Padre, assunse la nostra condizione umana, in tutto simile a noi tranne che nel peccato, perché fosse vinto il peccato dei figli di Adamo e a tutti si manifestassero la giustizia e la misericordia del Padre. Gesù fu concepito per opera dello Spirito Santo e nacque da Maria Vergine. Annunciò il vangelo della salvezza per ogni uomo: perdono per i peccatori, libertà per i prigionieri, gioia per gli afflitti, riscatto per i perseguitati, vita eterna per tutti. Confermò la sua parola con segni prodigiosi testimoniando la verità delle promesse di Dio e la potenza del suo amore di Padre. A Gerusalemme si consegnò volontariamente alla morte, ma promise ai suoi che mai li avrebbe abbandonati. Giudicato dal sinedrio e da Ponzio Pilato, fu condannato alla croce. Morì secondo le Scritture. Il terzo giorno per il dono del Padre e l’invincibile forza dello Spirito è risuscitato dai morti; nella sua umanità crocifissa e riscattata dalla schiavitù della morte è stato costituito Figlio di Dio in potenza, partecipe della signoria del Padre su tutto il creato. Il Risorto si manifestò a quelli che lo avevano seguito nelle sue prove, confermò in pienezza la loro fede nel Dio vivo e li costituì testimoni viventi dell’invincibile forza di Dio che libera dal potere del peccato e dal timore della morte. Ai discepoli e a tutti quelli che credono in lui confermò la promessa di essere con loro ogni giorno e in ogni tempo, finché i giorni e i tempi più non si succederanno. Allora verrà di nuovo nella gloria per il giudizio: quelli che gli avranno creduto e lo avranno accolto nella persona di ogni fratello regneranno con lui nella vita eterna; quelli che non gli avranno creduto e non lo avranno accolto conosceranno la seconda morte che non ha fine. Credo in Gesù, mio Signore e mio Dio, e voglio vivere la vita ad imitazione di lui, nella fedeltà alla sua parola e nel segno della sua dedizione. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, che dal Padre e dal Figlio procede prima di ogni tempo. In molti modi e in molti tempi egli ha parlato per mezzo dei profeti, e, infine, nel tempo decisivo, per bocca del Figlio. Da lui risorto egli è inviato ad ogni credente per condurlo alla conoscenza della verità tutta intera. Per opera dello Spirito da ogni nazione, lingua e cultura è convocata la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica; essa è nel mondo segno e strumento della riconciliazione di tutto il genere umano; essa è profezia e inizio della Gerusalemme celeste, della città impossibile all’opera umana, ma possibile a Dio. Dallo Spirito rinasce ogni credente, mediante il battesimo per la remissione dei peccati. Nello Spirito i credenti si radunano per annunciare la morte del Signore Gesù, per proclamare la sua risurrezione nell’attesa della sua venuta. Dallo Spirito viene la libertà: per essa i cristiani non vivono più sotto la schiavitù della legge, ma nella fede operante mediante la carità, nel servizio reciproco e nell’amore per tutti gli uomini. Dallo Spirito vengono i molti ministeri mediante i quali si edifica l’unica Chiesa di Cristo. Dono dello Spirito è il ministero dei vescovi, custodi con il successore di Pietro dell’eredità apostolica e garanti in questa terra della comunione ecclesiale nell’unica fede e nell’amore fraterno. Credo nello Spirito Santo e da lui invoco ogni giorno fede, carità e speranza, per vivere nella comunione del Padre e del Figlio, con tutti gli uomini miei fratelli, ora e sempre. Amen. Questa è la nostra fede Questa è la fede della Chiesa Il segno della croce Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Il segno della croce evoca e professa con le parole e con il gesto i due misteri principali della fede: 1° Unità e Trinità di Dio 2° Incarnazione, passione, morte e risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, per salvarci con il dono dello Spirito Santo. La professione della fede: Credo Il Simbolo detto “degli Apostoli” Io credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra; e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente; di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen. Il Simbolo niceno - costantinopolitano Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti. Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen. I Sacramenti Il Battesimo, la Confermazione, l’Eucaristia, la Penitenza, l’Unzione degli infermi, l’Ordine, il Matrimonio: sono i sette sacramenti della Chiesa, segni efficaci della grazia, istituiti da Gesù Cristo, per santificarci. Preghiamo Il comandamento di Gesù e il Decalogo Nell’ultima cena Gesù ci ha lasciato il suo comandamento: Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli. Il “comandamento nuovo” di Gesù porta a compimento l’antica alleanza, riassunta nelle dieci parole della Legge, il “decalogo”: Io sono il Signore, tuo Dio: 1° Non avrai altro dio fuori di me. 2° Non nominare il nome di Dio invano. 3° Ricordati di santificare le feste. 4° Onora tuo padre e tua madre. 5° Non uccidere. 6° Non commettere atti impuri. 7° Non rubare. 8° Non dire falsa testimonianza. 9° Non desiderare la donna d’altri. 10° Non desiderare la roba d’altri. I dieci comandamenti sono riassunti da Gesù nel comandamento della carità, il primo e più importante dei comandamenti: Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, e con tutta la tua forza. Ama il prossimo tuo come te stesso. I cinque precetti generali della Chiesa 1. Partecipa alla Messa la domenica e le altre feste comandate. 2. Confessa i tuoi peccati almeno una volta all’anno; ricevi il Signore Gesù nell’eucaristia almeno a Pasqua. 3. Osserva il digiuno e l’astinenza nei giorni penitenziali. 4. Celebra il matrimonio secondo la disciplina e il rito della Chiesa. 5. Ricordati di sovvenire alle necessità dei poveri e della comunità ecclesiale. Preghiamo Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. Come era nel principio, e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen. Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Amen. Signore Gesù Cristo Figlio del Dio vivo, che per volontà del Padre e con l’opera dello Spirito Santo morendo hai dato la vita al mondo, liberami da ogni colpa e da ogni male, fa’ che sia sempre fedele alla tua legge e non sia mai separato [ separata ] da te. Amen. Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce. Vieni, Spirito Santo, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore. Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen. Salve, Regina, madre di misericordia, vita, dolcezza e speranza nostra, salve. A te ricorriamo, esuli figli di Eva; a te sospiriamo, gementi e piangenti in questa valle di lacrime. Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi. E mostraci, dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo seno. O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria. Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me che ti fui affidato [ affidata ] dalla pietà celeste. Amen. L’eterno riposo dona loro [ donagli / donale ], o Signore, e splenda ad essi [ a lui / a lei ] la luce perpetua. Riposino [ Riposi ] in pace. Amen. Atto di fede Mio Dio, perché sei verità infallibile, credo tutto quello che tu hai rivelato e la santa Chiesa ci propone a credere. Credo in Te, unico vero Dio in tre Persone uguali e distinte, Padre, Figlio e Spirito Santo. Credo in Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, morto e risorto per noi, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio o la pena eterna. Conforme a questa fede voglio sempre vivere. Signore, accresci la mia fede. Atto di speranza Mio Dio, spero dalla tua bontà, per le tue promesse e per i meriti di Gesù Cristo, nostro Salvatore, la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere, che io debbo e voglio fare. Signore, che io possa goderti in eterno. Atto di carità Mio Dio, ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché sei bene infinito e nostra eterna felicità; e per amor tuo amo il prossimo come me stesso, e perdono le offese ricevute. Signore, che io ti ami sempre più. Atto di dolore Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Propongo con il tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato. Signore, misericordia, perdonami. Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato ( Sal 51,3 ). O Dio, abbi pietà di me peccatore [ peccatrice ] ( Lc 18,14 ). Preghiera del mattino Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato [ creata ], fatto cristiano [ fatta cristiana ] e conservato [ conservata ] in questa notte. Ti offro le azioni della giornata: fa’ che siano tutte secondo la tua santa volontà per la maggior tua gloria. Preservami dal peccato e da ogni male. La tua grazia sia sempre con me e con tutti i miei cari. Amen. Preghiera della sera Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato [ creata ], fatto cristiano [ fatta cristiana ] e conservato [ conservata ] in questo giorno. Perdonami il male oggi commesso, e se qualche bene ho compiuto, accettalo. Custodiscimi nel riposo e liberami dai pericoli. La tua grazia sia sempre con me e con tutti i miei cari. Amen.