CEI/NoteP/2007_11_04/2007_11_04.txt Per un umanesimo del terzo millennio Prefazione Il rischio di perdersi di Marcello Pera L'argomento del piano inclinato Questo libro dice tutto da sé rispetto al tema che gli dà il titolo e a quelli in cui si articola. E lo dice bene, in modo chiaro, diretto, appassionato, e molto ben documentato. Se uno ha la fortuna di conoscere personalmente l'autore vi sentirà anche la sua voce nitida e vibrante e vi troverà persino i suoi gesti, dallo sguardo dritto e penetrante al volto che si colora quando l'argomento arriva al cuore e gli tocca il cuore. E allora che altro aggiungere in un'introduzione? Direi: una serie di preoccupazioni. Siccome monsignor Negri le conosce bene, perché sono anche le sue, non le nasconde e anzi si adopera per toglierle, è facile indicarle e utile rifletterci sopra. Sono almeno tre. Prima: quanto c'è nel Vangelo di rilevante per la questione sociale? Seconda: che cosa c'è nel Vangelo di contenuto positivo per la soluzione della questione sociale? Terza: quel tanto o poco che c'è nel Vangelo giustifica la elaborazione di una dottrina sociale? Possiamo mettere assieme queste preoccupazioni e svolgerle con un argomento del piano inclinato o dello scivolo. Questo: una dottrina sociale è inevitabilmente una dottrina politica, perché raccomanda un dato ordine della società, una certa organizzazione, una determinata forma. Ma una dottrina politica diventa facilmente un programma politico, perché quell'ordine di società, per realizzarsi, ha bisogno che gli siano indicati e fomiti gli strumenti istituzionali e politici. Non c'è allora il rischio - così comincia lo scivolo - che si parta col predicare il Vangelo e poi ci si trovi a parlare di movimenti politici o addirittura di partiti cattolici o, come si dice, di partiti di ispirazione cristiana? E poi - ecco un'accelerazione dello scivolo - non c'è il rischio che si trascini il Vangelo su terreni infidi come quello delle sue interpretazioni, traduzioni e applicazioni politiche, e - di scivolo in scivolo - lo si trasformi, come peraltro è già stato fatto più volte, in un messaggio prevalentemente o solo mondano? Sì che - giunti alla fine dello scivolo, che però a quel punto sarebbe diventato un precipizio - ci si troverebbe a chiedersi: non sarebbe meglio lasciare il Vangelo alla sua dimensione salvifica e liberarlo il più possibile da quella terrena, dove inevitabilmente si trasforma da "buona novella" in novella politica, forse giusta ma non facilmente distinguibile dalle molte altre, anch'esse giuste secondo i loro autori? A rafforzare le preoccupazioni dello scivolo, si potrebbe ricordare che Cristo non predicava la salvezza dell'uomo su questa terra, ma nell'altra vita. E neppure parlava di giustizia sociale. Oppure si potrebbe ricordare quella meravigliosa Lettera a Diogneto che qui monsignor Negri cita, la quale dice che i cristiani stanno bene dappertutto, perché non sono interessati ai regimi politici dei Paesi in cui a essi capita, o in cui essi decidono, di vivere: " Vivendo in città greche o barbare, come a ciascun è toccato, e uniformandosi alle abitudini del luogo nel vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno l'esempio di una vita sociale mirabile o meglio paradossale ". Dove "uniformarsi" alle abitudini del luogo, non significa impegnarsi per cambiarle, e il "paradosso" è naturalmente quello di essere cittadini di due città, quella di Cesare e quella di Dio. Del resto, calando dalla teoria alla pratica, che le preoccupazioni dello scivolo non siano infondate lo sa bene chi abbia vissuto in Italia a sufficienza per ricordare che spesso, anche col consenso della gerarchia e della sua, di volta in volta, "dottrina", cattolicesimo sociale ha significato cattolicesimo della sinistra politica, che cattolicesimo di sinistra ha significato socialismo o anche marxismo ( addirittura definito "apostasia del cristianesimo"! ), e che, per questa via, giustizia sociale è diventata sinonimo di uguaglianza sociale, di distribuzione politica della ricchezza, di interventismo, statalismo, assistenzialismo, e perciò clientelismo politico. E non solo in Italia. Oggi tutta l'Europa continentale è diventata una sorta di Kindergarten sociale. Qualunque cosa qui ti venga in mente di fare - da un lavoro a una professione, da educarti a istruirti - oppure qualunque cosa semplicemente ti accada - da un mal di denti a una disgrazia seria - ha bisogno di una licenza dello Stato o è imputato alla buona o cattiva azione dello Stato. Sì che non c'è da meravigliarsi se, alla fine, le assistenti, infermiere, maestre, collaboratrici, operatrici, accompagnatrici, intrattenitrici, che il bravo Stato sociale ha fatto assumere al Kindergarten per curare i nostri corpi si siano trasformate in badanti della nostra anima. Oggi sta allo Stato decidere se e come nascere, morire, educarsi, curarsi, divertirsi, salvarsi o dannarsi ( che altro sono le legislazioni europee su aborto, eutanasia, eugenetica, eccetera, se non licenze di uccidere con tanto di sinecura e assoluzione statale contro la perdita dell'anima? ). Di tutto questo la dottrina sociale cristiana non ha colpa, ma non ne è neppure estranea. Il "modello sociale europeo", la "economia sociale di mercato", le conquiste dei "diritti sociali" e tutta la variopinta socialità che ci avvolge e soffoca dalla culla alla bara si sono affermati sì a causa del marxismo, del comunismo, del socialismo, della crisi dello Stato liberale e la nascita e sviluppo di quello democratico, ma non senza il favore o l'accondiscendenza o la simpatia o la benevolenza di tanti politici cattolici nutriti da una dottrina, appunto "sociale", la quale è caduta nella trappola o ha fornito l'esca o comunque non si è opposta abbastanza alla identificazione strisciante e poi dilagante di sociale con pubblico e di pubblico con statale. Che c'entra il Vangelo con tutto ciò? Il Vangelo, la persona, i principi fondamentali Proprio qui viene prezioso il libro di monsignor Negri, perché egli questo scivolo verso il Kindergarten lo ha presente, non lo condivide e cerca di arrestarlo. Alla fine della lettura, il lettore simpatetico o semplicemente attento trova modo di capire che il piano è stato inclinato ma non è esso stesso inclinato, che è la storia, la quale è andata come è andata, che deve essere corretta non la fonte della dottrina, che invece deve essere riaffermata. E però capirà anche che la dottrina deve essere presa e compresa con attenzione e cura. Cominciamo dalla prima preoccupazione: c'è nel Vangelo qualcosa di rilevante per la questione sociale? Monsignor Negri ricorda, a buon titolo, che c'è. Non perché Cristo dica come deve essere un ordine sociale cristiano, ma perché dice chi è un cristiano. E siccome un cristiano è un uomo e un uomo è un figlio di Dio e un figlio di Dio è una persona, perché fatto "a sua immagine e somiglianza", ecco che il Vangelo contiene un nucleo di diritti dell'uomo, fors'anche di diritti sociali. Come scrive monsignor Negri, " gli esempi non mancano: la sacralità di ogni persona creata a immagine e somiglianza di Dio, la sua natura sociale, la carità come legge nuova del discepolo che perfeziona la giustizia; l'esigenza di spazi adeguati per vivere liberamente la propria sequela di Cristo con tutti i fratelli della comunità ecclesiale; la dignità e i significati del lavoro, la destinazione universale dei beni e il diritto di proprietà; il primato del Regno di Dio nei confronti di ogni realtà o istituzione terrena, la reale possibilità della Chiesa di svolgere la sua missione dando a Dio quel che è di Dio ". La preoccupazione del primo passo dello scivolo può dunque essere tolta. E però occorrono precauzione e precisazioni. Perché i diritti sociali del Vangelo, se proprio vogliamo chiamarli così, sono propriamente e primariamente diritti della persona, non della società. Perciò il messaggio sociale del Vangelo è più di tipo difensivo che costruttivo. Nel senso che quel messaggio richiede che l'ordine sociale sia non ostativo alla sua predicazione, cioè che sia libero, aperto, accogliente, anziché propositivo, cioè configurato in un regime particolare, con istituzioni particolari. Insomma, vale la Lettera a Diogneto, anche se in una lettura meno indifferente alla situazione in cui i cristiani vivono: essi si trovano bene non in tutti i regimi sociali e politici, ma solo in quelli che a essi consentono la professione di fede e la testimonianza. Perciò i cristiani non sono chiamati solo a tollerare e rispettare l'ordine costituito di Cesare, ma anche a chiedere a Cesare che siano concesse almeno le condizioni sufficienti alla predicazione del loro messaggio e al tipo di vita che ne consegue. Con ciò siamo sulla strada per togliere o alleviare anche la seconda preoccupazione: che cosa, in positivo, c'è nel messaggio cristiano di utile a risolvere la questione sociale e che impegna i cristiani ad affrontarla? Qui monsignor Negri si distacca non poco dal modo consueto di affrontare la questione e sfugge alle insidie delle traduzioni politiche del cristianesimo, sempre fonte di equivoci, frizioni, dispute. Il contenuto positivo dell'impegno politico e sociale dei cristiani non mette capo ad alcun prontuario o ricettario che si trovi bell'e pronto nelle Scritture. Esso non deriva da un programma, ma da una tavola di valori e principi fondamentali. " All'inizio non c'è la società, c'è la persona ", scrive monsignor Negri, parlando di questa tavola. L'uomo diventa uomo non quando assume la posizione eretta o quando entra in società o quando diventa cittadino di uno Stato. Piuttosto, l'uomo diventa uomo quando egli riconosce a sé la sua persona. Ciò segna la sua socialità: il primo "tu" dell'uomo, la sua prima manifestazione di comunità è un rapporto interno di comunione con il suo creatore, non è una relazione esterna con un altro uomo o il gruppo o la collettività. La persona è e viene prima di tutto, e la sua priorità è ontologica e assiologica. Ontologica, perché la persona è creata per prima, assiologica perché essa vale di più delle varie sedi sociali in cui si trova ad agire. Si può dire che l'educazione, la relazione familiare, l'esperienza sociale "fanno l'uomo", perché effettivamente esse contribuiscono alla sua identità culturale, alla qualità del sua vita, ma non si può dire che relazioni e esperienze sociali "fanno la persona". Solo il creatore, per chi è credente, o un'attribuzione originaria di valore, per chi non ha quella fede, fanno la persona. A partire da questo valore primo, monsignor Negri deriva coerentemente alcuni principi propri di una dottrina politica e sociale cristiana: quelli della priorità della persona sulla società, della priorità della società sullo Stato, del bene comune, della solidarietà, della sussidiarietà. E qui si vede come questa dottrina illustrata da monsignor Negri sia non poco diversa da quelle consuete. Perché questi principi sono assai meno congruenti con lo Stato sociale a cui la maggior parte dei cattolici si sono votati che con quello liberale, almeno fino a che la teoria liberale dello Stato si è ricordata che il primato dell'individuo su società e Stato che essa professa, e il conseguente riconoscimento dei diritti fondamentali della persona che essa tutela, sono sana e classica dottrina cristiana, indissolubilmente legata com'è al principio cristiano della sacralità della persona. Non solo. Il primato dell'individuo porta assai meno, anzi non porta affatto, allo Stato assistenziale, pesante, invadente, occhiuto. Piuttosto, porta allo Stato delle libertà di tutte le iniziative dei corpi intermedi fra esso e l'individuo - famiglie, associazioni, leghe, scuole, banche, eccetera. Il principio di sussidiartela non può essere inteso assistenzialmente e ancor meno clientelarmente. La sua espressione corretta è: solo se tu individuo, singolo o associato in un corpo sociale intermedio, con i tuoi sforzi non ce la fai e solo se il tuo obiettivo non è egoistico, cioè il piacere, la felicità, il benessere, allora io, corpo sociale superiore o Stato, ho il diritto di interferire con i tuoi progetti di vita e il dovere di aiutarti a realizzarlo. Proprio il contrario del rendere tutti uguali per legge. E non è un caso, anzi è una felice, deliberata, intenzione, che monsignor Negri mai indichi fra i principi della dottrina cristiana, quello dell'uguaglianza sociale. L'umanesimo cristiano e lo Stato A questo punto sta per cadere anche la terza preoccupazione, perché si può dire che una dottrina sociale cristiana c'è e si può giustificarla con solidi fondamenti. Essendo basata sulla centralità della persona, essa è tipicamente una dottrina umanistica. Su questo punto - sull'umanesimo integrale e solidale - monsignor Negri scrive pagine davvero mirabili che il lettore è invitato a gustare da solo. Qui possiamo dire che l'umanesimo è legato al Rinascimento e all'Illuminismo. Sono due legami storicamente successivi ma concettualmente divergenti. Il Rinascimento scopre la classicità e orienta la centralità dell'uomo verso Dio. L'Illuminismo scopre il primato dell'uomo ma ne orienta l'autonomia fuori da Dio. Quello dell'Illuminismo è un esperimento prometeico: costruire la società della ragione, della scienza, della tecnica, del progresso, affidando alle sole risorse umane il destino dell'uomo. Come qui scrive monsignor Negri, " la modernità ha cercato di realizzare un umanesimo senza Dio … [ L' ] opzione fondamentale che la modernità ha radicalmente posto [ è ]: o si è moderni o si è cristiani ". Questo esperimento ha funzionato - e quanto e come ha funzionato! - perché ha reso l'uomo ricco, potente, sapiente, dominatore, conquistatore, legislatore. Ma, alla fine della corsa, lo ha reso anche solo, angosciato, smarrito, incerto, confuso, disperato. Padrone e servo, al tempo stesso, con una serie di dubbi che irrompono nella sua coscienza. Era davvero quello il suo posto nel mondo? Era davvero la ragione l'unica fonte della liberazione? Era davvero la protesi della tecnica l'unico mezzo per sfuggire alla fatica e al dolore? Era davvero lo Stato lo strumento più efficiente per la felicità? O c'è dell'altro? Il senso della vita. La consolazione. La pace dello spirito. Il dono della grazia. La speranza. Tutti beni perduti se, come scrive monsignor Negri, è accaduto che " per affermare una società perfetta, uno Stato perfetto, è stato necessario privare l'uomo della sua costitutiva libertà ". I più sensibili e lungimiranti degli Illuministi classici che ci fossero altri beni lo avevano capito, e anche quelli che, coerentemente al loro progetto, volevano ricondurre " la religione nei limiti della sola ragione ", quando si trovarono a dettare le norme morali e a identificarne i valori supremi si votarono consapevolemente a scrivere i loro imperativi come repliche laiche o duplicati razionali di comandamenti cristiani. " Agisci in modo da rispettare la tua e l'altrui persona sempre anche come fine in sé e mai solo come mezzo " è la formula con cui Kant traduceva il primo corollario del principio cristiano della persona. Onde la società senza Dio quale concepita dall'Illuminismo migliore non era una propriamente una società contro Dio, atea, piuttosto una società basata su una finzione, un "anche se", Vetsi Deus non daretur. E però, sempre per i migliori Illuministi, questo "anche se" era pronto a convertirsi in "come se", velut si Deus daretur. Dio, per la ragione, non c'è, ma, come scrisse ancora Kant, per la morale è necessario agire come se ci fosse, anzi "è moralmente necessario ammettere l'esistenza di Dio". Dunque, il cristianesimo sotto la maschera del razionalismo. Oggi questa maschera è caduta. Il "nuovo Illuminismo" non crede neppure alla replica laica di Dio. Non crede agli imperativi categorici. Non alla ragion pratica. E neppure crede alla ragione universale. Tanto si è perduta la fede nel Logos che esso si è frammentato in tanti logoi di tanti demoi, cioè tante forme di vita - ciascuna razionale o buona come qualunque altra - quante sono le tradizioni, le civiltà, le comunità. Sicché quell'universalismo etico a cui, anche senza porgli a base il Dio cristiano, la ragione del vecchio Illuminismo comunque mirava, oggi si è rovesciato nel suo opposto, il relativismo, del vero, del bello, del buono, del giusto. In questa caduta, almeno in Europa, e non, per esempio, in America, solo un Dio ha resistito: lo Stato. Il dispensatore di benefici, il regolatore, il gestore, il consolatore, si è sostituito agli dèi caduti. Contro questo mostro, monsignor Negri ha parole di fuoco e coraggiose. Anche storiograficamente. C'è qualcuno oggi che si senta di rivalutare Pio IX? Eppure la sua condanna della proposizione XXXIX del Sillabo annesso alla Quanta cura - "lo Stato, come origine e fonte di tutti i diritti, gode di un diritto tale che non ammette confini" - ha un valore profetico, come oggi si vede dalla dismisura perversa delle competenze affidate allo Stato, anche sulle tradizionali "questioni di coscienza". Scrive monsignor Negri: " Il diritto di un tale Stato non conosce confini, né quelli posti da Dio e dalle sua legge, né quelli posti dalla coscienza personale. Ciò significa che esso acquisisce un potere assoluto; i diritti fondamentali dell'uomo, tanto proclamati dalla modernità, finiscono per derivare dall'essere cittadini dello Stato che non avrebbe limiti nell'intervento sulla persona … Lo Stato si presenta, dunque, come una forma totalizzante: non è funzione della totalità, ma coincide con essa. È l'abolizione della libertà, cioè l'abolizione dell'uomo ". Eppure, le costituzioni dei nostri Stati liberali e democratici, parlano ancora un linguaggio diverso. Esse non dicono che lo Stato crea i diritti o conferisce la dignità della persona, dicono che lo Stato "riconosce'' questi diritti e "tutela" quella dignità. Questo linguaggio non è casuale, e neppure è "moderno" nel senso dell'esperimento illuministico. Al contrario, è un richiamo trasparente alla priorità e al primato cristiano della persona, un riferimento esplicito, a cui i moderni e ottusi laicisti non sanno prestare attenzione, alla fondazione religiosa dello Stato. Monsignor Negri lo sa. Chiede che questa consapevolezza si diffonda, che se ne traggano le conseguenze, che si inverta la rotta. Il pericolo non è quello di tornare "pre-modemi"; il pericolo è quello di perdersi. Tutti. Marcello Pera Premessa dell'autore A Giovanni Paolo II e a don Giussani, maestri di vita e di dottrina Ringrazio sentitamente gli amici dell'Ares, Cesare Cavalieri e Riccardo Carnato, che hanno accolto il mio volume fra i testi in pubblicazione presso la prestigiosa Casa Editrice Ares. Come è evidente ho raccolto qui alcuni dei contributi che propongono le riflessioni sul Magistero sociale di Giovanni Paolo II. Grande Magistero che ha simultaneamente fatto scoprire alla Chiesa la propria vocazione alla presenza nella società come parte della missione e ha, contemporaneamente, svelato agli uomini della fine del secondo millennio e dell'inizio del terzo, la singolare chiamata che proprio questo tempo rivolgeva al singolo uomo, come alla realtà dei popoli, a ritrovare e a rivivere in forma nuova gli immortali e imprescrittibili diritti che l'uomo ha per natura, cioè in quanto dono del mistero di Dio. Percorrere e ripercorrere questo Magistero, aiutato in molti casi, com'è evidente, dal dialogo con i miei studenti dell'Università Cattolica, è stato per me una delle esperienze intellettuali più significative e decisivamente formative di quella mentalità cristiana; che ora sono chiamato a verificare quotidianamente nella responsabilità di guida di questa Chiesa particolare cui, proprio Giovanni Paolo II, mi pose prima del suo passaggio al Cielo. È un itinerario di approfondimento del Magistero di Giovanni Paolo II che mi sento di proporre a tutti, soprattutto a quelli che hanno a cuore la presenza cristiana nella società. Questo è un tempo in cui è necessario che i cristiani impegnati nel sociale abbiano una coscienza forte della propria identità e del messaggio di cui sono portatori, siano soprattutto capaci, in forza di questa visione culturale cristiana della società, di accogliere le sfide che questa società drammaticamente laica, giorno dopo giorno, e che si sintetizzano efficacemente nell'immagine dell'uomo e nella sua possibilità di vivere autenticamente i suoi diritti, primo fra tutti quella libertà fondamentale che lo fa immagine e somiglianza di Dio. Il volume, com'è evidente, comprende il Magistero di Giovanni Paolo II e non affronta il Magistero dell'attuale Pontefice Benedetto XVI, cui va tutta la mia affezione e tutta la mia incondizionata adesione. Il Magistero sociale di Benedetto XVI si sta componendo, vorrei dire giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi con una forza e una pertinenza, una capacità di persuasione realmente eccezionale; basterebbe ricordare il grande discorso alla Chiesa italiana di Verona, l'intervento sulla legge naturale alla Commissione teologica internazionale e altro ancora. Spero che il Signore mi dia la possibilità, fra qualche anno, di raccogliere le mie riflessioni sul Magistero di Benedetto XVI, in modo da offrire anche a lui il mio contributo, umile ma certo, di servizio e di collaborazione. + Luigi Negri Dottrina sociale e missione La dottrina sociale costituisce indubbiamente un punto di riferimento fondamentale per una presenza reale ed evangelizzatrice della Chiesa. Il Magistero sociale si è configurato da sempre come strumento di autentica e rinnovata evangelizzazione di fronte a un mondo che si è modificato e che è tuttora in continuo mutamento. L'insegnamento sociale della Chiesa, come ha ricordato Paolo VI, infatti, " si sviluppa attraverso una riflessione condotta a contatto delle situazioni mutevoli di questo mondo, sotto l'impulso dell'evangelo come fonte di rinnovamento, allorché si accetta il suo messaggio nella sua totalità e nelle sue esigenze. Si sviluppa altresì mediante la sensibilità propria della Chiesa [ … ] Attinge infine a una ricca esperienza secolare che gli permette di assumere, nella continuità delle sue preoccupazioni permanenti, l'innovazione ardita e creatrice, richiesta dalla presente situazione del mondo ". La dottrina sociale: un problema di evangelizzazione e di missione Affrontare e cercare di capire a fondo il significato e il valore della dottrina sociale non è qualcosa che possa essere lasciato agli specialisti, interessa piuttosto il cristiano in quanto tale. Non si tratta, dunque, di un aggiornamento di tipo settoriale, ma innanzitutto di un problema relativo all'evangelizzazione e alla missione, come ha ribadito Giovanni Paolo II: " L'insegnamento e la diffusione della dottrina sociale fanno parte della missione evangelizzatrice della Chiesa ". Ciò risulta ancora più chiaro se si tiene presente quanto affermato nella Redemptor hominis a riguardo della responsabilità che la Chiesa deve avere nel conoscere e incontrare l'uomo nella sua integralità, con tutti i suoi problemi, compresi ovviamente anche quelli di natura sociale: " Essendo quindi quest'uomo la via della Chiesa, via della quotidiana sua vita ed esperienza, della sua missione e fatica, la Chiesa del nostro tempo deve essere, in modo sempre nuovo, consapevole della di lui "situazione". Deve cioè essere consapevole delle sue possibilità, che prendono sempre nuovo orientamento e così si manifestano: la Chiesa deve, nello stesso tempo, essere consapevole delle minacce che si presentano all'uomo. Deve essere consapevole, altresì, di tutto ciò che sembra essere contrario allo sforzo perché la vita umana divenga sempre più umana, perché tutto ciò che compone questa vita risponda alla vera dignità dell'uomo. In una parola, deve essere consapevole di tutto ciò che è contrario a quel processo ". La dottrina sociale porta la fede a misurarsi con l'uomo storico, concreto, con i suoi problemi vitali. Essa illumina tali problemi a partire dalla fede, individuandone le soluzioni dentro quell'orizzonte nuovo di coscienza e di azione che la fede stessa fa accadere nel mondo. Si può pertanto dire che la dottrina sociale nasce dall'incontro della fede con l'uomo, con le sue problematiche reali, personali e sociali. Infatti, " la fede non è un'evasione ma al contrario, se vissuta, è esigenza di azione sul piano della regolazione della società temporale e comporta, per il laico cristiano, un'esigenza di efficacia temporale affinché regni la giustizia e siano garantite alle persone umane le condizioni di esistenza cui hanno diritto ". Non può essere considerata autentica presenza cristiana e quindi adeguata missione della Chiesa, quella presenza cristiana che non faccia riferimento alla dottrina sociale. La storia della Chiesa insegna che quando la fede non ha più nulla da dire sui problemi della vita umana, perde la sua caratteristica fondamentale di essere la risposta che Dio ha dato all'uomo e, quindi, la possibilità per l'uomo stesso di sperimentare e di incontrare tutta la verità su di sé e di potervi, in qualche modo, corrispondere. In altri termini non si deve dimenticare il nesso profondo esistente tra evangelizzazione e promozione umana: " Tra evangelizzazione e promozione umana - sviluppo, liberazione - ci sono infatti dei legami profondi. Legami di ordine antropologico, perché l'uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma è condizionato dalle questioni sociali ed economiche. Legami di ordine teologico, poiché non si può dissociare il piano della creazione da quello della Redenzione che arriva fino alle situazioni molto concrete dell'ingiustizia da combattere e della giustizia da restaurare. Legami dell'ordine eminentemente evangelico, quale è quello della carità: come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e nella pace la vera, l'autentica crescita dell'uomo? ". Grazie al Magistero sociale si può comprendere come la fede, nella prospettiva cattolica, non sia da intendere come un'appendice preziosa e inutile della vita, ma come criterio di lettura dell'intera esistenza: " per la Chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del messaggio cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società ed inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo Salvatore ". La dottrina sociale non nasce da una prospettiva ideologica Non si può comprendere adeguatamente il Magistero sociale della Chiesa senza tenere presente che il problema della Chiesa è innanzitutto di presenza e di missione. La sua radicale ed essenziale preoccupazione è, infatti, quella di mantenere viva la presenza di Cristo e di comunicare questa presenza. Come hanno detto i Padri sinodali, riflettendo insieme a Giovanni Paolo II sul Concilio Vaticano II nel Sinodo celebrato in occasione dei vent'anni dalla fine dello stesso Concilio, la Chiesa è "una comunione per la missione". La Chiesa, dai primi decenni fino ad ora, è una realtà di comunione, una realtà di popolo che non si chiude in sé per contrastare i nemici, ma che tende ad uscire da sé per comunicare agli uomini la verità sull'uomo; verità che non ha creato con la propria intelligenza, ma che ha ricevuto in dono. Dal momento che vive nel tempo, la Chiesa non può non interessarsi di quegli aspetti sociali, politici e culturali che segnano l'epoca in cui è chiamata a vivere. La Chiesa non può prescindere da questi aspetti sia per evitare di essere assoggettata o cancellata dal potere politico, difendendo in questo modo la propria libertà, sia per annunciare in modo efficace la verità di Cristo all'uomo del suo tempo. È a partire da questa "comunione per la missione" che sorge nel cristiano un modo nuovo di vivere le dimensioni sociali. Lo testimonia in modo mirabile la Lettera a Diogneto, uno dei documenti, risalenti al II secolo, tra i più belli che si possono leggere sulla vita della prima comunità cristiana: " I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per costumi. Non abitano in città proprie, né usano un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non è la scoperta del pensiero di qualche genio umano né aderiscono a correnti fìlosofiche. Vivendo in città greche o barbare, come a ciascuno è toccato, e uniformandosi alle abitudini del luogo nel vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno l'esempio di una vita sociale mirabile, o meglio paradossale ". Paradossale perché irriducibile alla dimensione sociale, ma capace di giudicare e trasformare la dimensione sociale rendendola più umana, più corrispondente alle attese dell'uomo. Uno dei primi grandi Padri della Chiesa, Ireneo di Lione, riflettendo sulla novità cristiana, per sottolineare che il Cristianesimo è entrato nel mondo con la consapevolezza di essere un fatto irriducibile, completamente nuovo rispetto ai valori e alle normali dinamiche di carattere culturale, sociale e politico, affermava che "Gesù Cristo non si è definito consuetudine, ma novità". Allo stesso tempo però il cristianesimo lungo i secoli ha dimostrato di favorire lo sviluppo di una dimensione sociale più autentica come ci testimonia appunto la Lettera a Diogneto, e oltre ad essa l'intero Magistero sociale. La dottrina sociale appartiene, pertanto, all'ambito della teologia morale, ricevendo la sua originale identità dalla Rivelazione stessa e assumendo da questa peculiare disciplina teologica fonti e metodo. I principi di riflessione, le direttive d'azione, i criteri di giudizi contenuti nella dottrina sociale non appartengono dunque al campo ideologico delle elaborazioni teoriche o dei sistemi socio-politici. Essa non fornisce innanzitutto soluzioni tecniche ai problemi sociali di ogni tempo e luogo. Consiste, piuttosto, nella " accurata formulazione dei risultati di una attenta riflessione sulle complesse realtà dell'esistenza dell'uomo e della società e del contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell'insegnamento del Vangelo sull'uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il suo comportamento cristiano ". Il Magistero sociale ha attinto, perciò, innanzitutto dalla Sacra Scrittura i contenuti fondamentali della propria riflessione. La tradizione vivente della Chiesa ha trovato e trova nella Parola scritta insegnamenti fondamentali che riguardano la persona umana e la sua irrinunciabile dimensione sociale. Pur tenendo conto dei diversi contesti socio-culturali nei quali si sono venuti a trovare il popolo dell'Antica Alleanza, Gesù e la Comunità primitiva, il teologo morale può trovare nella Legge, nella Profezia e nella Sapienza, contenute nella Parola rivelata e nella Tradizione ecclesiale, molti punti acquisiti e qualificanti il Magistero sociale della Chiesa. Gli esempi non mancano: la sacralità di ogni persona creata ad immagine e somiglianza di Dio, la sua natura sociale, la carità come legge nuova del discepolo che perfeziona la giustizia; l'esigenza di spazi adeguati per vivere liberamente la propria sequela di Cristo con tutti i fratelli della comunità ecclesiale; la dignità e i significati del lavoro, la destinazione universale dei beni e il diritto di proprietà; il primato del Regno di Dio nei confronti di ogni realtà o istituzione terrena, la reale possibilità della Chiesa di svolgere la sua missione dando a Dio quel che è di Dio. Si può capire facilmente, allora, come la dottrina sociale, già contenuta nell'insegnamento apostolico e senz'altro in quello dei Padri della Chiesa e dei teologi medioevali, si è sviluppata con il susseguirsi degli avvenimenti storici. Per sua natura, essa realizza la sua efficacia storica nella misura in cui tutta la comunità ecclesiale diviene responsabile testimone della rilevanza sociale del Vangelo: " Tale insegnamento diventa tanto più accettabile per gli uomini di buona volontà quanto più profondamente ispira la condotta dei fedeli ". Anche in questo campo, infatti, è convinzione certa della Chiesa che la "natura" e la "grazia", la "ragione" e la "fede" non si contrappongano, ma si esigano, si illuminino e si rafforzino a vicenda. Un umanesimo integrale e solidale L'importanza e l'attualità della dottrina sociale ci è testimoniata anche dalla pubblicazione del Compendio della dottrina sociale della Chiesa, dove viene affermato: " La Chiesa [ … ] anche con questo documento sulla sua dottrina sociale intende proporre a tutti gli uomini un umanesimo all'altezza del disegno d'amore di Dio sulla storia, un umanesimo integrale e solidale, capace di animare un nuovo ordine sociale, economico e politico, fondato sulla dignità e sulla libertà di ogni persona umana, da attuare nella pace, nella giustizia e nella solidarietà ". Che cosa allora offre all'uomo di oggi la Chiesa attraverso il compendio, ma più in generale attraverso l'intero Magistero sociale di cui questo importante documento rappresenta appunto una sintesi? La possibilità di guadagnare un " umanesimo integrale e solidale ". La Chiesa ha, infatti, la certezza di proporre con la sua presenza viva, all'interno di un'esperienza di cammino, segnata da una precisa cultura e da un continuo slancio missionario, un umanesimo nel quale si possono ritrovare pienamente esaudite le esigenze fondamentali dell'uomo; quelle esigenze di verità, di bellezza, di giustizia e di fede che, secondo l'insegnamento di S. Agostino, costituiscono la struttura fondamentale dell'uomo e quindi il suo movimento di intelligenza e di amore. Il carattere anticristiano dell'umanesimo moderno Il termine umanesimo non è tuttavia esente da ambiguità e richiede pertanto ulteriori chiarimenti. L'umanesimo di cui si parla è in contrasto, infatti, con il modo di intendere e di realizzare l'umanesimo proprio dell'epoca moderna e per certi versi anche della post-modemità. Non bisogna scordare che la modernità ha cercato di realizzare un umanesimo senza Dio. È possibile distinguere all'interno della modernità, che deve sicuramente essere considerata nella sua complessità un processo variegato, generoso e tragico insieme, una linea di pensiero prevalente, che ha voluto percorrere una nuova strada per la costruzione dell'umanesimo. Nuova perché ha voluto staccarsi completamente da quella della tradizione, da quella cioè che si è sviluppata intorno alle domande di senso, alla ricerca di significato e alla risposta della fede. Strada, quest'ultima, invece continuamente ribadita come irrinunciabile per l'uomo dal Magistero della Chiesa e riaffermata con grande chiarezza dall'intero pontificato di Giovanni Paolo II, in particolar modo attraverso la Fides et ratio. La modernità ha voluto percorrere una strada che poggiava totalmente sull'uomo, sul suo potere, sulla sua capacità di conoscere la realtà, di organizzarla scientificamente e di manipolarla tecnologicamente. Abbiamo assistito per più di due secoli al tentativo di creare un umanesimo senza riferimento religioso, non necessariamente contro Dio, ma certamente senza Dio. Lo stesso Giovanni Paolo II ha descritto con estrema chiarezza il costituirsi di una tale dinamica: " Che cos'è la vita, che cos'è l'amore, che cos'è la morte? Da quando vi sono uomini che pensano, queste questioni fondamentali non hanno cessato di impegnare il loro spirito; da millenni le grandi religioni si sono sforzate di fornire le risposte; ed è a quest'uomo che la Chiesa di Gesù Cristo propone la Buona Novella della salvezza [ … ] ma ecco in una gigantesca sfida l'uomo moderno dopo il Rinascimento si è eretto contro questo messaggio di salvezza e si è messo a rifiutare Dio nel nome della sua dignità di uomo; dapprima riservato ad un piccolo gruppo di spiriti, l''intellighenzia che si considerava come un'elite, l'ateismo è diventato oggi un fenomeno di massa [ … ] Si tratta di un vero secolarismo, secondo l'espressione di Paolo VI nella sua esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi, una concezione del mondo per la quale quest'ultimo si spiega da solo senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio. Un tale secolarismo per riconoscere il potere dell'uomo finisce dunque per sorpassare Dio e per negare Dio ". Questo tipo di umanesimo si è pertanto sviluppato in aperto contrasto con quello generato dalla tradizione cattolica vissuta nella vita di fede delle famiglie, delle comunità parrocchiali, delle congregazioni, degli ordini, delle opere sociali. Esperienza di fede che ha trovato un approfondimento culturale ed una formulazione dottrinale, da un certo momento in poi, proprio nella dottrina sociale. Contro l'idea di umanesimo cristiano la modernità ha adottato due atteggiamenti. Il primo è stato l'atteggiamento del rifiuto, quello della negazione violenta, il cui apice è sicuramente rappresentato dall'enorme numero di cristiani martirizzati nel corso dell'epoca moderna, con l'ultimo immenso tributo pagato nel XX secolo: " Secondo la Word Christian Enciclopedia, compilata dallo studioso protestante David Barret ( esperto di statistiche ), nel XX secolo vi sono stati oltre 45 milioni di martiri, cioè di cristiani che hanno perduto la vita prematuramente in una situazione di ostilità verso il cristianesimo. La cifra è pari a più di 2/3 della somma totale dei martiri dagli inizi del cristianesimo [ … ] Il '900 iniziato con la rivoluzione dei Boxers in Cina, è proseguito con il genocidio degli armeni a opera dei turchi, le persecuzioni anticlericali ( massoniche e social-comuniste ) in Brasile, Messico, Spagna, la persecuzione nazista in buona parte dell'Europa; il comunismo in URSS e nell'Europa dell'Est ". La distruzione delle chiese, dei conventi, la soppressione delle persone fisiche, dei vescovi, dei sacerdoti, dei laici e il rifiuto del cristianesimo sono conseguenza dell'opzione fondamentale che la modernità ha radicalmente posto: o si è moderni o si è cristiani; o si è per il progresso, per una piena e definitiva realizzazione dell'uomo che rifiuta totalmente il piano trascendente, o si è per una visione retrograda e reazionaria, superstiziosa e nociva che si fonda sulla religione, sulle chiese e su Dio. Secondo una tale prospettiva, come ha bene evidenziato Augusto Del Noce, " la storia del XX secolo non potrebbe essere intesa che come un processo verso il culmine della modernità coincidente con la piena secolarizzazione, tale da escludere ogni richiamo alla trascendenza religiosa ". Le parole di Lenin, nonché la sua azione politica, ce lo confermano a pieno: " Tutte le religioni contemporanee, tutte le chiese e ogni organizzazione religiosa sono considerate dal marxismo come organi della reazione borghese che servono a difendere lo sfruttamento e l'istupidimento della classe operaia [ … ] è necessario conoscere il modo in cui combattere contro la religione [ … ] Questa battaglia va concepita in connessione con la pratica concreta del movimento di classe diretto all'eliminazione delle radici sociali della religione ". Non molto diversa era la concezione di Hitler il quale, commentando il concordato con la Chiesa e l'apparente politica di non aggressione nei confronti delle chiese, così si esprimeva: " Ciò non mi impedirà di sradicare totalmente il cristianesimo dalla Germania, di eliminarlo in maniera completa, radicale e definitiva. È una questione decisiva se il nostro popolo ha una fede ebraico cristiana con la sua morale molle e compassionevole, oppure una forte ed eroica fede in dio nella natura, in dio nel proprio popolo, in dio nel proprio destino in dio nel proprio sangue [ … ] Non è possibile essere cristiani e tedeschi insieme: o si è l'uno o si è l'altro ". L'atro atteggiamento molto più subdolo e pervasivo ha cercato di subordinare la Chiesa al progetto secolaristico della modernità. Ciò è avvenuto innanzitutto tentando, attraverso la rivendicazione della separazione tra Stato e Chiesa, di subordinare la Chiesa allo Stato. Fin dalla Costituzione civile del Clero del 1790 il tema della separazione della Chiesa dallo Stato è stato l'occasione per ribadire la tendenza ad assimilare la vita e la struttura religiosa nell'ambito dello Stato, sviluppando quell'interpretazione rinascimentale e, successivamente, protestante, della politica come strumento del regno. Il tema della separazione è stato affrontato dalla modernità con l'intenzione non tanto di affermare la totale separazione dei due ordini, bensì la priorità dell'ordine politico su quello religioso. Secondo una tale prospettiva la vita e la dimensione religiosa, nel momento in cui si esprimono pubblicamente, devono essere ricondotte e inglobate nella vita dello Stato. Ciò significa che l'agire dei cristiani all'interno della vita sociale, per evitare che mostri un umanesimo dal volto differente, deve essere ricondotto alle norme determinate dalle istituzioni. La Chiesa può agire solo nella misura in cui lo faccia secondo i dettami del potere politico. La pace di Augusta del 1555, con l'affermazione del cuius regio, eius religio, in un certo senso può essere vista come l'evento che sancisce questo rovesciamento dell'ethos europeo: non più un potere politico subordinato a quello religioso, ma al contrario un potere politico assoluto che si serve di quello religioso per rafforzarsi. La religione è interpretata come struttura fondamentale dello Stato. Alla religione nel suo esprimersi pubblico pensa lo Stato e chi non si conforma alla legge del principe ha soltanto un diritto: quello di andare in esilio alla ricerca di una situazione diversa. La guerra dei Trent'anni che ne scaturisce è forse il primo tragico tentativo di realizzare una società "moderna" dove il potere religioso è strumento del potere politico: " quella guerra portò a compimento il rovesciamento dell'ethos originario europeo, segnò davvero la nascita dell'Europa moderna, [ … ] l'Europa dei principi e dei re, degli stati e delle frontiere, degli eserciti e delle guerre civili ". La Costituzione Civile del Clero rappresenta forse il tentativo più esplicito di un processo di secolarizzazione della società e di assimilazione della Chiesa allo stato, iniziato molto prima e certo non terminato con la Rivoluzione francese. Il Concordato con la Chiesa Cattolica voluto da Napoleone, come traspare dalle sue stesse parole, è anch'esso inscrivibile in una logica puramente strumentale di subordinazione della religione alla politica: " Si dichiara che, siccome la religione cattolica è la religione della maggioranza dei francesi, bisogna organizzarne l'esercizio. Il Primo Console nomina cinquanta vescovi, il papa li insedia. I vescovi nominano i curati, lo Stato li stipendia. Prestano giuramento. I preti che non vi si sottomettono vengono deportati. Quelli che predicano contro il governo vengono deferiti ai loro superiori perché siano puniti [ … ] Si dirà che io sono papista; io non sono niente. In Egitto ero maomettano; qui, per il bene del popolo, sarò cattolico ". La stessa formula "Libera Chiesa in libero Stato" è espressione di questo tentativo di distinguere e separare la Chiesa e lo Stato nel senso di un assorbimento della Chiesa nello Stato. Prima ancora dello stato totalitario, lo stato liberale ha preteso di essere lui a concedere il diritto ad esistere e a normare ogni espressione ed opera sociale del popolo cristiano. Si è cercato di ridurre la Chiesa ad una funzione pedagogica e morale, sempre all'interno dello Stato, come parte integrante di esso, come strumento del regno appunto. L'esito inumano dell'umanesimo moderno Esito comune ad entrambi gli atteggiamenti, quello che ha generato un attacco frontale alla religione, quello che ha cercato di subordinarla alla sfera politica, è comunque una concezione totalitaria del potere che ha trovato la propria realizzazione storica nei regimi totalitari del XX secolo. È quindi una concezione totalitaria ed ideologica ciò che ha sviluppato l'umanesimo moderno. È, infatti, proprio con la modernità che nasce il pensiero ideologico, quello che cerca di dedurre la realtà dall'idea, di ricondurre la realtà all'interno dello sviluppo logico dell'idea. Illuminante a questo riguardo sono le parole della Arendt sull'ideologia: " Un'ideologia è letteralmente quel che il suo nome sta a indicare: è la logica di un'idea [ … ] L'ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa "legge" dell'esposizione logica della sua idea. Essa pretende di conoscere i misteri dell'intero processo storico - i segreti del passato, l'intrico del presente, le certezze del futuro - in virtù della logica inerente alla sua idea. Si suppone che il movimento della storia e il processo logico del concetto corrispondano l'uno all'altro, di modo che quanto avviene, avviene secondo la logica di un'idea. [ .. .] Le ideologie ritengono che una sola idea basti a spiegare ogni cosa dallo svolgimento della premessa, e che nessuna esperienza possa insegnare alcunché dato che tutto è compreso in questo processo coerente di deduzione logica ". Il primo fattore determinante dell'ideologia è la scienza: il nucleo delle sue convinzioni fondamentali è scientifico ed è considerato di conseguenza indiscutibile. La scienza è stata intesa, infatti, come ciò che per sua natura è indiscutibile, perché procede con un rigore tale che mettersi contro la scienza significherebbe avversare la ragione e la realtà. Questo non deve, comunque, farci dimenticare che si tratta di una pseudoscienza. Le ideologie, infatti, che nascono tutte come scientifiche, si diffondono facendo appello ad una fede, ad una fiducia incondizionata e irrazionale nei confronti di chi promuove la stessa ideologia. L'aspetto del coinvolgimento emotivo deve quindi essere considerato determinante nello svilupparsi, nel diffondersi di una ideologia. Essa si diffonde, cioè, come una religione. Non solo si diffonde come una religione, chiedendo, senza ammetterlo, di credere, ma diventa in un certo senso essa stessa una religione secolarizzata. Finisce sempre per assolutizzare un aspetto della realtà, come se fosse l'aspetto decisivo per comprendere l'intera realtà, come se costituisse la totalità. Nella varietà di fenomeni, di vicende, di problemi connessi all'esperienza umana, individua un livello considerato determinante. Ad esempio nella visione marxiana, che è una visone economicistica, l'uomo è interamente identificato con i rapporti economici, i quali spiegano l'intera esistenza senza lasciare fuori nulla, o meglio eliminando tutto ciò che non può essere ricondotto ad essi. L'ideologia quindi nasce dall'individuazione di un aspetto problematico e dall'individuazione della legge che regola tale aspetto. A tale legge viene poi conferito un valore assoluto tanto che da esso dipende la spiegazione di tutti gli altri aspetti. La visione ideologica implica perciò la funzionalizzazione di tutti gli aspetti della realtà ad uno di essi. L'ideologia si fonda sempre su di un'idea forte, assolutizzata: le altre idee acquistano valore se possono essere dedotte rigorosamente da essa, se possono essere ricondotte ad essa. Questo è anche il principio della violenza ideologica: l'idea è posta come esclusiva e totalizzante e tutto ciò che non è riconducibile ad essa deve essere piegato ad essa o eliminato. Le ideologie moderne, non bisogna inoltre dimenticare, hanno la pretesa di essere insieme scientifiche e sociali. L'uomo moderno ha creduto, attraverso l'impiego della sua ragione tecnico-scientifica, di essere in grado di modificare la propria vita materiale e la situazione sociale. In tal modo si passa, senza soluzione di continuità, dalla conoscenza dell'uomo alla trasformazione della vita sociale. Anzi l'efficacia e il valore del pensiero ideologico sono definiti innanzitutto dalla sua applicazione sociale; l'idea ha valore solo nella misura in cui riesce a cambiare la vita nella sua dimensione sociale. Non c'è vera conoscenza della realtà, non c'è vera conoscenza scientifica dell'uomo se non si arriva a creare una società scientificamente organizzata. Per la realizzazione di un tale progetto è, tuttavia, necessario che una porzione di umanità, vasta o piccola che sia, venga trattata come oggetto da parte di coloro che, essendo gli ideologi, sono i responsabili del formularsi e della verifica sociale della stessa ideologia. L'uomo trattato come oggetto, per tutto il tempo necessario per preparare ed imporre il progetto ideologico, viene considerato privo di libertà perché la libertà esprime un'assoluta imprevedibilità e non è quindi riconducibile ad alcuna legge scientifica. Paradossalmente la modernità che nasce per difendere la libertà dell'uomo finisce per considerarlo, come si evince da un'attenta analisi del fenomeno ideologico, privo di libertà, totalmente funzionale al progetto sociale. La modernità che può essere vista forse come il più grande tentativo compiuto dall'uomo di salvarsi da sé, senza dipendere da nessun altro, conduce ad una concezione tale per cui, nella maggior parte dei casi, l'uomo deve essere individualmente sacrificato per la realizzazione di un progetto sociale. Per affermare una società perfetta, uno Stato perfetto è stato necessario privare l'uomo della sua costitutiva libertà. L'ideologia è stata, quindi, applicata alla storia e alla società con il fine di costruire una società in cui la perfezione ed il rigore del pensiero ideologico sfociassero nella costruzione dello Stato totalitario. Se non tutta la modernità, una componente decisiva di essa ha condotto al totalitarismo, nel senso che ha tematizzato la dimensione politica come la categoria omnicomprensiva. Il soggetto sociale è divenuto il vero soggetto della storia e l'espressione massima di questa soggettività sociale è stata vista nella creazione dello stato totalitario. In esso si è sintetizzata il massimo di conoscenza scientifica e il massimo di capacità tecnologica, che hanno finito per rappresentare il criterio ultimo di definizione dell'uomo. L'uomo moderno è, infatti, un uomo politico, un uomo che si esaurisce nella sua appartenenza sociale, perché nella sua appartenenza sociale, e non religiosa, vive la massima espressione della cultura e della razionalità. Negando la dimensione religiosa, non riconoscendo più come costitutivo il rapporto con l'assoluto, l'umanesimo moderno finisce quindi per subordinare l'uomo allo Stato, finisce inevitabilmente per sacrificare la dignità assoluta dell'essere umano. Alla fine del processo innescato dalla modernità l'uomo non realizza a pieno il proprio umanesimo, bensì si perde. Non a caso Solzenicyn, che ha sperimentato sulla sua pelle gli effetti disumani del totalitarismo, nel discorso tenuto ad Harward nel giugno del 1978, così si è espresso: " il cammino che noi abbiamo percorso dopo il Rinascimento ha arricchito la nostra esperienza, ma noi abbiamo perduto il Tutto, il Più Alto, che fissava in altro tempo il limite alle nostre passioni e alle nostre responsabilità. Noi avevamo riposto troppe speranze nelle trasformazioni politico-sociali e ci si manifesta che ci si toglie quel che avevamo di più prezioso: la nostra vita inferiore ". La modernità non ha fallito soltanto come realtà sociale e politica a causa dell'esito totalitario, ma ha fallito anche e soprattutto nel suo tentativo di costruire un autentico umanesimo, finendo per generare " un umanesimo inumano ", secondo la celebre espressione di De Lubac. Come ha evidenziato Giovanni Paolo II la storia del XX secolo ha, infatti, pienamente confermato l'intuizione, che può essere considerata quasi profetica, di De Lubac: " Non è poi vero, come pare si voglia dire qualche volta, che l'uomo sia incapace di organizzare la terra senza Dio. Ma ciò che è vero è che, senza Dio, egli non può, alla fine dei conti che organizzarla contro l'uomo. L'umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano ". Di fatto l'uomo dell'età modemo-contemporanea ha affidato a sé e alle sue capacità intellettuali, morali, tecnologiche, scientifiche il compito di produrre il senso della realtà, di determinare una visione dell'uomo e della società in cui l'istanza fondamentale della persona, la libertà e l'autorealizzazione fossero possibili. Ma, come Giovanni Paolo II ha richiamato più volte, l'esito di questa parabola è stato inevitabilmente la negazione dell'uomo, la sua inconsistenza ultima come soggetto dentro la storia. Un'inconsistenza che ha avuto sia il volto dell'annullamento dell'uomo come individuo di una specie biologica su cui la scienza pretende di dare l'ultimo giudizio, sia il volto dell'annullamento dell'essere umano nel potere sociale. Il grande progetto di autoliberazione, di realizzazione del potere dell'uomo, si è sostanzialmente realizzato come potere sull'uomo e negazione dell'uomo. Una negazione che è stata così radicale che ha comportato l'eliminazione fisica di milioni di persone non omologabili al potere dominante e al di là di essa, in un modo non meno tragico, l'eliminazione del gusto della vita. Nonostante oggi si possa dire conclusa l'epoca delle grandi ideologie totalitarie, non sono tuttavia completamente superate le conseguenze negative, gli atteggiamenti culturali e sociali propri della concezione antropologica che ha sotteso l'intero sviluppo del pensiero moderno. In fondo siamo gli eredi di un mondo che pensa che l'uomo non abbia bisogno che di se stesso per esistere, come ha individuato con chiarezza Romano Guardini leggendo in profondità la modernità in quello straordinario volume che diventa sempre più attuale, ovvero La fine dell'epoca moderna. La profonda crisi della modernità ha aperto un periodo particolarmente delicato e drammatico. Il crollo delle ideologie non ha significato la fine di quell'atteggiamento secolaristico profondamente avverso al cristianesimo perché l'ateo vede nella fede " una minaccia alla propria volontà di appartenenza, alla propria autonomia di giudizio, alla libertà di disporre di sé ". Il contesto entro cui ci muoviamo, a causa dell'eredità del passato, è ancora fortemente segnato dalla polemica nei confronti della Chiesa e da una volontà di emarginarla, quanto meno di funzionalizzarla alla mentalità dominante, a quella che oggi va di moda chiamare "politicamente corretto". Si inseriscono in questo contesto le recenti polemiche nei confronti delle prese di posizioni pubbliche della Chiesa a riguardo della difesa della vita fin dal suo concepimento o a riguardo della difesa della famiglia. Inoltre, le conseguenze più negative dell'umanesimo moderno sono oggi riscontrabili nella disgregazione antropologica che ha investito in modo particolare i giovani. I giovani di oggi vivono in partenza una situazione patologica di inconsapevolezza delle proprie questioni fondamentali, e soprattutto di indisponibilità a rischiare liberamente nella vita. I giovani, infatti, avvertono drammaticamente su di sé tutto il peso di un nichilismo teorico-culturale che trova il suo principale alleato nel consumismo, che afferma, come unico approccio possibile alla realtà, la ricerca del benessere in tutte le dimensioni e gli aspetti della vita: da quello economico, a quello psicologico, a quello affettivo. Ma è un benessere nel quale il soggetto, l'individuo cerca il massimo della sua immediata gratificazione finendo per dimenticare ed ignorare totalmente le proprie esigenze costitutive, il proprio desiderio di realizzazione più profondo. Nel mondo contemporaneo si è verificato lo svuotamento del valore dell'io, la sua riduzione alla pura istintività. L'uomo è disintegrato nel suo gusto di conoscere, come se l'amore al vero, al bene, al bello, al giusto, non essendo più concretamente sperimentati, non fossero più reali. Prima conseguenza di tutto ciò è la mancanza assoluta di consistenza dell'io. Un'inconsistenza che porta, soprattutto le giovani generazioni, a un'incapacità di accogliere la vita e perciò di crescere. Una visione alternativa La dottrina sociale della Chiesa si è sviluppata a partire dalla consapevolezza di rappresentare una concezione cristiana e cattolica "tradizionale" dell'uomo e della società, in aperto contrasto con quella laicista "moderna" e "contemporanea". Con la dottrina sociale la Chiesa ha inteso affermare che esiste un modo diverso, ma non meno legittimo, di considerare la persona umana, la ragione, la famiglia, la società, lo Stato da quello che si è andato affermando con la modernità. Il Magistero sociale della Chiesa è nato allora in aperta dialettica con il progetto culturale, sociale e politico dell'età moderno-contemporanea. Con esso la Chiesa ha cercato e tenta ancora oggi di difendere la possibilità della propria esistenza, la propria libertà di missione e di evangelizzazione e con essa la libertà dell'uomo in quanto tale. Indubbiamente la lunga resistenza che la Chiesa ha opposto nei confronti di ogni totalitarismo ha avuto proprio nella testimonianza dei cristiani martiri una delle espressioni più significative: " Laddove l'odio sembrava inquinare tutta la vita senza la possibilità di sfuggire alla sua logica, essi hanno manifestato come l'amore sia più forte della morte ". Questa testimonianza storica di martirio costituisce un esplicito giudizio sulla storia mondana e su tutti i tentativi che sono stati compiuti per estirpare Dio dal cuore dell'uomo, per creare una società senza Dio. Non si può negare Dio senza contemporaneamente negare l'uomo, la sua libertà personale, la sua dignità, la sua capacità di amare intensamente se stesso e gli altri uomini, di collaborare con essi a una società più umana. Il martirio ha rivelato in modo definitivo che non esiste una adeguata alternativa alla fede che non porti, poco o tanto, alla costruzione dell'Inferno su questa terra: " All'interno di terribili sistemi oppressivi che sfigurano l'uomo, nei luoghi di dolore, fra privazioni durissime, lungo marce insensate, esposti al freddo, alla fame, torturati, sofferenti in tanti modi, essi hanno fatto risuonare alta la loro adesione a Cristo morto e risorto [ … ] tanti hanno rifiutato di piegarsi al culto degli idoli del ventesimo secolo, e sono stati sacrificati dal comunismo, dal nazismo, dall'idolatria dello Stato e della razza. Molti altri sono caduti nel corso di guerre etniche e tribali perché avevano rifiutato una logica estranea al Vangelo di Cristo. Alcuni hanno conosciuto la morte, perché, sul modello del Buon Pastore, hanno voluto restare con i loro fedeli, nonostante le minacce. In ogni continente e lungo l'intero Novecento, c'è stato chi ha preferito farsi uccidere, piuttosto che venir meno alla propria missione. Religiosi e religiose hanno vissuto la loro consacrazione fino alla effusione del sangue. Uomini e donne credenti sono morti offrendo la loro esistenza per amore dei fratelli, specie dei più poveri e deboli. Non poche donne hanno perso la vita per difendere la loro dignità e la loro purezza ". Nei martiri e nella loro testimonianza Dio ha gridato la sua presenza in tutte le situazioni, in tutti i dolori, in tutte le ingiustizie. La testimonianza pubblica si è sempre rivelata come un seme di personalità nuova. E la personalità nuova è sempre all'origine, anche mentre muore, di una socialità nuova. Cosi la memoria dei martiri diventa oggi il fondamento per una nuova stagione di missione della Chiesa; per una nuova capacità di annuncio; per una nuova disponibilità a vivere una compassione per l'uomo, per i dolori e le sofferenze da cui è afflitto in un momento così grave e tragico come quello in cui viviamo. Così può nascere nel cuore dei credenti e di tutti gli uomini di buona volontà una nuova speranza, una nuova certezza, radice di una nuova civiltà. " Resti viva, nel secolo e nel millennio appena avviati, la memoria di questi nostri fratelli e sorelle. Anzi, cresca! Sia trasmessa di generazione in generazione, perché da essa germini un profondo rinnovamento cristiano! Sia custodita come un tesoro di eccelso valore per i cristiani del nuovo millennio e costituisca il lievito per il raggiungimento della piena comunione di tutti i discepoli di Cristo! ". Accanto a questa forma di resistenza al progetto totalitario di società, che si è andato imponendosi nel corso dell'epoca moderna, va collocato il Magistero sociale della Chiesa. Quest'ultimo ha condannato fin dalla sua origine ogni pretesa di potere totalitario. È lo Stato fonte di ogni diritto, quello che Pio IX denunciava nella proposizione XXXIX del Sillabo: la Chiesa non potrà mai riconoscere che lo stato, come fonte autonoma, goda di un diritto che non conosce confine. Nella sua lunga storia, la Chiesa ha sempre affermato, ovviamente secondo differenti modalità storiche, che la vita politica e l'istituzione devono rispettare alcuni limiti strutturali: la legge di Dio, la presenza di Dio nella storia e la coscienza del popolo. In altri termini si può dire che il disegno laicista di mettere al bando dalla società la componente religiosa non è riuscito fino in fondo, o comunque non è riuscito ad azzerare completamente il riferimento all'assoluto che la tradizione cristiana ha mantenuto vivo nella storia. Ciò è avvenuto, sia perché la Chiesa ha, attraverso la formulazione del suo Magistero sociale, combattuto e difeso la propria libertà di esistere e con essa la libertà di ciascun uomo, sia perché all'ideologia laicista si è opposta quella che potremmo definire una cultura naturale e popolare. Quest'ultima, sebbene non particolarmente appariscente, permanendo legata alla tradizione, ha resistito agli attacchi sferrati dalla modernità laicista. Non si è trattato di un puro fenomeno di conservazione. Essa ha, infatti, saputo fare proprie le esigenze e i diritti fondamentali dell'uomo, così come lo stesso spirito moderno ha indicato, valorizzando al massimo soggettività ed individuo, senza tuttavia rinunciare a tentare di collocarli all'interno di quella concezione etica ed antropologica che colloca in Dio il fondamento ultimo dell'uomo. Mentre il disegno laicista è risultato a tutti gli effetti un tentativo ideologico, sviluppatesi lungo i secoli secondo modalità storiche differenti, più o meno totalitarie, questa componente della modernità è stata capace di autentica cultura. " La vera cultura - come ha insegnato Giovanni Paolo II - è umanizzazione, mentre la non cultura e le false culture sono disumanizzanti ". Il termine cultura viene così innanzitutto ad indicare una categoria antropologica, non un insieme di conoscenze relative ad un aspetto della realtà piuttosto che ad un altro. Nella sua accezione più tradizionale e popolare la cultura si identifica con il tentativo critico ed organico di affrontare il problema dell'uomo in quanto uomo. Esso è riscontrabile in ogni tipo di cultura a forte ispirazione antropologica e religiosa e coincide con il tema della sapienza. Essendo caratterizzato innanzitutto dalla tensione alla conoscenza della verità, cioè della natura ultima del reale, si presenta come tentativo di spiegazione dell'uomo e della modalità attraverso cui lo stesso uomo può realizzare pienamente la propria natura. Nella cultura tradizionale, l'uomo viene considerato razionale proprio a motivo della constatazione che la natura profonda dell'uomo consiste nella tensione a conoscere la verità e a conoscere se stesso alla luce della verità. Seguendo sempre l'insegnamento di Giovanni Paolo II si può dire in questo senso che " la cultura è un modo specifico dell'essere e dell'esistere dell'uomo ". Del resto, come ha evidenziato Del Noce, all'interno del Magistero di Giovanni Paolo II, " l'idea dominante, tante volte ripetuta, ma sino ad oggi insufficientemente compresa, è che la vera radice profonda della crisi contemporanea non deve essere cercata nella sfera dell'economia, ma in quella della cultura. Che se sfruttamento e offesa alla dignità devono venir considerati come legati, è tuttavia l'offesa alla dignità che precede e condiziona lo sfruttamento ". Si capisce pertanto perché la cultura sia da considerarsi un'espressione eminentemente personale e non si può concedere in alcun modo che sia trattata come un problema inerente alle istituzioni. Quest'ultime ( scuola, stato ) sono state percepite sempre dalla cultura tradizionale come mezzi per consentire l'espressione della cultura. Con l'affermarsi di un certo pensiero moderno, invece, ad alcune istituzioni è stato attribuito un valore etico assoluto. Lo Stato, ad esempio, diventando riferimento etico assoluto è diventato anche il depositario della cultura, o meglio dell'ideologia. Si è ritenuto cioè che avesse il diritto di monopolizzare la cultura di coloro che fanno parte della realtà sociale che è sottoposta al suo governo. La necessità di un nuovo umanesimo È comunque ravvisabile nella fine della modernità un risveglio della domanda religiosa, della ricerca di senso. Il Concilio Vaticano II prima, il Magistero di Giovanni Paolo II poi, hanno saputo ascoltare tale grido, avvertendo la necessità di un nuovo umanesimo. L'uomo ricomincia a sentire il bisogno di percorrere un'altra strada per sviluppare l'umanesimo, di un'altra strada che riesca a costruire un umanesimo vero. La crisi della modernità ha riaperto la questione del senso, del vero, del bene, del giusto, del bello. Viene in questo modo recuperato il valore della dimensione religiosa. Infatti, " quando il perché delle cose viene indagato con integralità alla ricerca della risposta ultima e più esauriente, allora la ragione umana tocca il suo vertice e si apre alla religiosità. In effetti, la religiosità rappresenta l'espressione più elevata della persona umana, perché è il culmine della sua natura razionale. Essa sgorga dall'aspirazione profonda dell'uomo alla verità ed è alla base della ricerca libera e personale che egli compie del divino ". Di fronte a questo risveglio della domanda religiosa la Chiesa deve essere più che mai in grado di riportare Cristo a contatto con il cuore dell'uomo. A dispetto delle loro differenze d'origine e di orientamento, le ideologie moderne si incontrano al crocevia dell'autosufficienza dell'uomo, senza che alcuna di esse riesca a colmare la sete di assoluto che lo attanaglia, perché l'uomo supera infinitamente l'uomo, come diceva Pascal. La Chiesa ha dunque la grande responsabilità di ribadire all'uomo di oggi l'esistenza di un'alternativa all'insuccesso dell'umanesimo ateo: " siamo dunque, in spirito e verità, dei testimoni del Dio vivente, portatori della sua tenerezza di Padre al vuoto di un universo rinchiuso su se stesso e oscillante dall'orgoglio luciferino alla disperazione disingannata ". La Chiesa, con il suo essere presente e sicuramente anche attraverso la dottrina sociale, mostra all'uomo una prospettiva di realizzazione in cui non esiste contrapposizione tra Dio e l'uomo: " Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del Magistero dell'ultimo Concilio ". La Chiesa porta nel mondo un'antropologia adeguata, in cui l'uomo è considerato secondo tutti i suoi aspetti, secondo la sua profondità ultima, quella di essere immagine e somiglianza di Dio. È ciò che lo rende portatore di diritti che, derivando dalla sua dipendenza da Dio, non vengono mutuati da nessuna istanza umana e hanno perciò valore assoluto. La dottrina sociale si fonda appunto su questa antropologia che vuole difendere e comunicare: " La Chiesa possiede, grazie al Vangelo, la verità sull'uomo. Questa si incontra in un'antropologia, che la Chiesa non cessa di approfondire e comunicare. L'affermazione primordiale di tale antropologia è quella dell'uomo come immagine di Dio, irriducibile ad una semplice particella della natura o ad elemento anonimo della città umana [ … ] Questa verità completa sull'essere umano costituisce il fondamento della dottrina sociale della Chiesa, così come è la base della vera liberazione. Alla luce di tale verità l'uomo non è un essere sottomesso ai processi economici e politici, ma questi stessi processi sono ordinati all'uomo e sottoposti a lui ". È l'annuncio della verità di Cristo che svela all'uomo pienamente se stesso. La Chiesa, che ha ritrovato in maniera profonda e radicale con il Concilio e con il Magistero di Paolo VI e Giovanni Paolo II la sua identità, ha pienamente preso coscienza di essere un soggetto totalmente relativo a Cristo e di essere mandata. È nella nuova evangelizzazione, è in questo rinnovato incontro fra Cristo e il cuore dell'uomo, che si fonda il nuovo umanesimo. Dunque, l'azione della Chiesa coincide innanzitutto con l'annunzio che il Cristo è il Redentore dell'uomo, il centro del cosmo e della storia, la possibilità di una realizzazione piena dell'umanità, che non esclude il cammino che l'umanità ha fatto per andare verso Cristo. La verità cristiana, infatti, non è una verità esclusiva, è una verità inclusiva come ci ha insegnato S. Tommaso. È la verità ideologica, al contrario, ad essere una verità esclusiva, perché se l'ideologia contiene la totalità della verità, fuori dall'ideologia non è possibile che esista nulla se non l'errore, che deve essere condannato ed eliminato. La violenza ideologica è innanzitutto una violenza teorica, che trova sicuramente nella formulazione della dialettica hegeliana una formulazione estremamente significativa. Nei sistemi dei regimi totalitari tale violenza trova poi una sua concretizzazione pratica. La Chiesa, invece, non ritiene che la sua verità sia esclusiva perché è una verità che non è in suo possesso, dal momento che è portata pienamente solo da Gesù Cristo. Tuttavia, partecipando a questa verità grazie alla sua intima comunione con Cristo, la Chiesa diventa capace di leggere i segni del Verbo, i segni dello Spirito, i segni della verità che sono diffusi in ogni formazione culturale. Per questo la Chiesa riesce a valorizzare anche ciò che nasce mori di essa dal sincero tentativo dell'uomo di comprendere più a fondo se stesso e la realtà intera. Un esempio sorprendente di ciò è indubbiamente rappresentato dal proficuo dialogo sviluppato con la filosofia classica. Non è, infatti, frutto del caso che i Padri della Chiesa abbiamo valorizzato e assimilato il pensiero dei grandi filosofi greci, rifiutando e condannando la tradizione religiosa propria dei culti pagani, in quanto concepita e di fatto vissuta al servizio del potere politico totalizzante del mondo greco-romano. La Chiesa è portatrice di un nuovo umanesimo che a differenza di quello tragico della modernità è integrale, si fonda, cioè, sul rapporto costitutivo dell'uomo con Dio e sa abbracciare ogni forma autenticamente umana di ricerca di senso. Tale umanesimo non si sviluppa solo come teoria all'interno della riflessione dottrinale sulla Rivelazione cristiana, ma anche e soprattutto come prassi all'interno dell'esperienza ecclesiale. La missione è, infatti, la comunicazione al mondo di questa esperienza di umanità nuova, che nella vita della Chiesa, nell'obbedienza ecclesiale, nell'appartenenza al mistero di Cristo diventa esperienza traboccante, evidente per tutti. La vita della comunità cristiana è allora il primo luogo di esperienza di questo umanesimo integrale e solidale. Stralciare la dottrina sociale della Chiesa dall'esperienza viva del popolo cristiano significa irrigidirla, farla diventare un'ideologia; un'ideologia analoga a quelle che hanno contrassegnato la modernità, di cui ne condividerebbe la radicale prospettiva astratta e soprattutto l'incapacità di stare al passo coi tempi. Al contrario la dottrina sociale della Chiesa è stata sempre singolarmente al passo con i tempi, perché ha sempre vissuto una forte circolarità tra teoria e pratica: il Magistero ha sempre illuminato l'agire cristiano, ma la pratica del popolo cristiano ha sempre contribuito ad approfondire e concretizzare l'insegnamento nella vita quotidiana, non smettendo mai di stimolare il Magistero ad aprire nuovi ambiti di riflessione. Dunque l'umanesimo integrale e solidale è un'esperienza ecclesiale ed umana perché Cristo rivela all'uomo tutta la verità su di lui: " Cristo Redentore rivela pienamente l'uomo all'uomo stesso [ … ]. L'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo ". Chi vive la fede e l'appartenenza ecclesiale come assimilazione di Cristo alla fine arriva allo stupore di una vita rinnovata. Il cristianesimo, dice Giovanni Paolo II nella Redemptor hominis, è lo stupore di una vita rinnovata. Questo umanesimo integrale e solidale, che costituisce l'elemento fondamentale, il contenuto del vissuto cristiano, diventa parola, giudizio. In questo modo nasce e si sviluppa la dottrina sociale, che pertanto risulta essenziale per la nuova evangelizzazione del Terzo millennio. Non può esistere una missione cristiana nel mondo del Terzo Millennio che non si faccia carico della novità di vita umana, anche sul piano sociale, che l'esperienza cristiana genera. La sua formulazione è essenziale perché la verità sperimentata, custodita, amata, la novità della vita cristiana che nasce in noi dalla fede in Cristo e dalla sequela della Chiesa, possa trovare una via di comunicazione ragionevole e persuasiva. Non bisogna, infatti, dimenticare che la Chiesa entra in contatto con il mondo attraverso la testimonianza di esperienze, ma anche attraverso la comunicazione e la parola, esattamente come il Signore Gesù arrivava agli uomini del suo tempo, come dice l'apostolo prediletto, con parole e fatti. La Chiesa non può comunicare in altro modo con l'uomo che con le parole e i fatti. La dottrina sociale è parola che illumina ed aiuta a chiarire la novità cristiana in modo più intenso e persuasivo, perché è nella società che si consumano le grandi attese, le grandi illusioni, le grandi delusioni. È nella vita della società che si rinnova permanentemente il desiderio operativo della verità, della bellezza e della giustizia; così come è sempre nella vita sociale che prendono forma le tentazioni più turpi: l'affermazione ad oltranza del proprio potere su tutto e su tutti; il consumismo che diventa l'unica ragione della vita di singoli e di gruppi; l'estraneità di un mondo all'altro; la subordinazione violenta dei diritti della persona o dei gruppi o dei popoli alla formazione di un progetto sociale attraverso l'uso indiscriminato dei mezzi della comunicazione sociale. La questione della dottrina sociale nel Terzo Millennio è la questione della persona e del suo destino. Aiutare l'uomo ad affrontare i problemi di natura sociale a partire dal grande progetto d'amore che si compie in Gesù Cristo e si attua nella vita della Chiesa può far comprendere a tutti gli uomini che la radice della persona non è un'autonomia, che il piano di realizzazione non è l'immanenza e che al contrario il cuore dell'uomo è costitutivamente caratterizzato da un'apertura religiosa. Significato e valore della dottrina sociale La dottrina sociale della Chiesa, proclamata adeguatamente, aiuta gli uomini di buona volontà a recuperare il senso del trascendente. Recuperando il senso del trascendente si recupera anche il senso dei diritti fondamentali della persona e della società. La dottrina sociale della Chiesa pone, infatti, la persona al centro della società considerandola il fattore genetico e propulsivo della società stessa. Se è fondamentale tenere presente che la dottrina sociale indica nella persona l'elemento su cui fondare la costruzione della società, allo stesso modo non bisogna dimenticare che essa non vuole essere una teoria della società perfetta. Si tratta piuttosto di un contributo, molto essenziale nei contenuti, a partire dal quale il popolo è chiamato a costruire una società, non necessariamente cristiana, che sia per tutti gli uomini e che sia di tutti gli uomini. Per questo motivo " è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell'essere umano ". L'ultima parola spetta al laico, ovvero il grande protagonista della vita della Chiesa che è il battezzato, colui che appartiene al popolo cristiano, colui che appartiene a quel popolo che mangia e beve, veglia e dorme, vive e muore non più per se stesso ma per il Signore che è risorto. Se la dottrina sociale ha una valenza innanzitutto missionaria, è, infatti, il popolo cristiano il soggetto di questa inesorabile missione, di questa testimonianza che pertanto è segnata dai limiti personali, e può essere segnata anche dai limiti di una determinata società, perché i testimoni non vivono fuori dal mondo. In altri termini la dottrina sociale favorisce e promuove la costruzione di opere, rende la vita cristiana un pullulare di opere, quelle opere cristiane che a distanza di secoli segnano ancora la vita del nostro paese e ci rendono pieni di nostalgia nei confronti di una tradizione che è desiderabile non si ripeta semplicemente, ma si rinnovi all'interno della situazione attuale. La dottrina sociale non si comprende fino in fondo se non si tiene presente il popolo cristiano nella sua forza di appartenenza, nella sua chiarezza culturale, nel suo impeto di missione, nella sua capacità di carità. L'insegnamento del Magistero sociale dice l'amore della Chiesa per il popolo, l'interesse della Chiesa perché il popolo esista e viva, perché il popolo sia educato a vivere la fede secondo una prospettiva matura e autentica. Seminare la fede senza educarla è infatti quasi più dannoso di non seminarla. D'altra parte è lo stesso popolo cristiano che attende, magari anche inconsapevolmente, che la Chiesa lo porti a prendere coscienza della propria identità, del proprio compito; ovvero il compito di testimoniare al mondo il senso dell'esistenza; il compito di trasformare il mondo secondo l'annunzio evangelico, perché illuminato dalla grazia di Cristo, come ha ricordato Papa Giovanni Paolo II nella Novo millenio ineunte. All'interno di un contesto sociale e culturale, come quello di oggi, ancora fortemente problematizzato, ma non senza segni di ripresa, dal momento che sembra che l'uomo cominci a risentire il fascino del mestiere di essere uomo, il contributo della Chiesa è fondamentale. Per questo motivo oggi più che mai la Chiesa deve prendere coscienza, alla luce del grande insegnamento che è stato il Concilio, della propria identità e del proprio inesorabile compito. Come già precedentemente sottolineato la missione, infatti, non è qualche cosa che viene ad aggiungersi estrinsecamente alla vita della Chiesa; essa è, piuttosto, il grande movimento percorrendo il quale la Chiesa si autorealizza e quindi diventa credente e credibile. Se la Chiesa è tanto più credibile quanto più è credente, non bisogna però dimenticare che la Chiesa diventa autenticamente credente nella misura in cui sa dare ragione della speranza che è in essa. Da questo punto di vista la dottrina sociale risulta un contributo decisivo perché aiuta a chiarire le ragioni della speranza e della certezza cristiana, portando nel mondo un umanesimo integrale e solidale. Allora, ogni singolo cristiano, nelle sue responsabilità quotidiane, grandi o piccole che siano, vive questa impresa straordinaria di missione, mostrando un umanesimo diverso. Si verifica così quell'esperienza straordinaria secondo la quale le grandi prospettive universali della Chiesa diventano le dimensioni normali della vita del cristiano: "la carità si farà allora necessariamente servizio alla cultura, alla politica, all'economia, alla famiglia, perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino dell'essere umano e il futuro della civiltà ". Il cristiano è chiamato a vivere l'avvenimento di Cristo come forma della sua personalità, quindi come vocazione totalmente gratuita e totalmente responsabile. Gratuita perché la grazia è totalmente altro da sé; responsabile perché la grazia lo lancia nella responsabilità più grande della vita: testimoniare la verità incontrata. A questo riguardo forse l'immagine più illuminante è quella contenuta in uno dei testi di letteratura più intensi del secolo scorso, L'annuncio a Maria di Paul Claudel. In esso, infatti, il costruttore di cattedrali Pietro di Craon, a proposito della costruzione della cattedrale, che per analogia rappresenta la vita del cristiano, la vita del popolo, l'espressione della varietà e della grandezza della vita del popolo cristiano, afferma: " Possa io presto sentire sotto di me l'opera mia vasta che si alza, metter la mano su questa cosa indistruttibile fatta da me, ben proporzionata in tutte le sue parti, quest'opera compatta costruita con pietra dura, l'opera mia che Dio abita ". Esprimendo così perfettamente lo stretto rapporto tra grazia e responsabilità. La dottrina sociale è un invito per il cristiano a diventare il protagonista della costruzione di una società umana, e allo stesso tempo un documento che testimonia il contributo fondamentale dato dai cristiani a tale fine, perché si tratta di una teoria che viene continuamente verificata in un'esperienza, a sua volta continuamente illuminata dalla teoria. Le società mutano in continuazione, ma la Chiesa non può rinunciare ad essere presente ed esercitare la sua missione. In tal senso, il Magistero sociale altro non è che uno strumento della sempre "nuova evangelizzazione", che mira a far si che ogni uomo possa trovare in Cristo la propria verità e salvezza. Alla "nuova creatura", nata dall'incontro con Cristo, è dato anche un nuovo orizzonte di conoscenze e di azione, entro il quale cercare di dare soluzione anche ai suoi problemi sociali; non senza una seria elaborazione culturale e in costante corretto dialogo con ogni uomo di buona volontà. Si capisce allora perché è necessario che la dottrina sociale venga insegnata e diffusa a tutti i livelli, ed entri quindi in maniera organica a far parte della pastorale ordinaria della comunità cristiana. È, infatti, compito della catechesi mettere in luce le conseguenze sociali del Vangelo e in tale compito essa trova un necessario riferimento alla dottrina sociale della Chiesa. Nel suo sforzo di educazione alla fede, la catechesi non deve omettere, ma chiarire " l'azione dell'uomo per la sua liberazione integrale, la ricerca di una società più solidale e fraterna, le lotte per la giustizia e per la costruzione della pace ". La dottrina sociale della Chiesa di fronte alla modernità La dottrina sociale della Chiesa, come si è precedentemente accennato, nasce in dialettica con quel progetto culturale, sociale e politico dell'età moderna e contemporanea, che ha inteso costruire una società a misura di un uomo privato della sua dimensione religiosa. In senso radicale si è trattato di un progetto alla cui base è ravvisabile una concezione errata della persona umana, della sua natura profonda, della sua libertà, della sua capacità di costruzione culturale e sociale. La denuncia dell'errore antropologico caratteristico della modernità Il Magistero sociale della Chiesa, a partire dal Sillabo di Pio IX, dalla straordinaria e lucidissima Enciclica Libertas praestantissimum di Leone XIII a cui ha fatto seguito la celebre Rerum novarum, per giungere fino alla Centesimus annus di Giovanni Paolo II, ha individuato e chiarito le forme di questo errore antropologico riscontrabile nell'epoca modemo-contemporanea. Tale errore consiste in un irrealismo antropologico che ha condizionato tutta la riflessione culturale, sociale e moderna, fino a determinarne le conseguenze drammatiche di carattere politico verificatesi nel corso del XX secolo. Giovanni Paolo II ha ribadito come tale errore abbia la propria origine nella visione ateistica che si è imposta con la modernità: " se ci si domanda poi da dove nasca questa errata concezione della natura e della persona e della società, bisogna rispondere che la prima causa è l'ateismo ". Si tratta di un ateismo che, nella flessione moderna, non è identificabile solo con la negazione formale di Dio, ma più radicalmente con la negazione del senso religioso. Giovanni XXIII ha indicato in tale atteggiamento l'errore peculiare della modernità: " l'errore più radicale nell'epoca moderna è quello di ritenere l'esigenza religiosa dello spirito umano come espressione del sentimento o della fantasia, oppure un prodotto di una contingenza storica da eliminare quale elemento anacronistico e quale ostacolo al progresso umano; mentre in quell'esigenza gli esseri umani si rivelano per quello che veramente sono: esseri creati da Dio e per Dio, come esclama sant'Agostino: "ci hai creati per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te" ( S. Agostino, Confessioni, I, I ) ". La principale conseguenza della negazione della dimensione religiosa dell'uomo consiste, pertanto, nella privazione del carattere assoluto dell'esistenza personale. Come, infatti, ha sottolineato Guardini rifacendosi a Kierkegaard, " soltanto colui che sta ritto in se stesso, ma davanti a Dio, può esistere come persona ". E nella risposta all'appello di Dio contenuto nell'essere delle cose che l'uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo è chiamato a rispondere e nella risposta a tale chiamata trova un fondamento ultimo la sua umanità. Tale fondamento trascendente impedisce che alcun meccanismo sociale o soggetto collettivo possa sostituirlo. L'uomo non è a disposizione di nessuno perché è figlio del Mistero e quindi figlio di Dio. La radice dell'uomo è salvata soltanto perché sta di fronte ad un Altro che lo ha voluto per sé: l'uomo è l'unico essere che Dio ha voluto per se stesso, come ha detto Giovanni Paolo II nella Redemptor hominis. Se si parte dalla verità che l'uomo è, dalla verità che l'uomo desidera, dalla verità che l'uomo esige, dal suo costitutivo rapporto con il Mistero di Dio, in nessun momento della sua vita e in nessuna dimensione del suo esistere, né nella dimensione fisica, né in quella psicologica, né in quella sessuale, né in quella affettiva, né in quella etica, né in quella politica, in nessun momento e in nessuna parte della sua vita, l'uomo è di un altro. L'uomo è di Dio e questo gli fa guardare la vita con un'enorme capacità di apertura, di benevolenza; anche se forse è meglio usare la parola rispetto, come scriveva l'ignoto autore della Lettera a Diogneto quando ricordava che i cristiani hanno " una capacità di rispetto ignota a tutti ". La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e di conseguenza induce a organizzare l'ordine sociale prescindendo dalla dignità e dalla responsabilità della persona. Negare la dimensione religiosa vuol dire negare la dignità della persona e ciò porta a sostituire la persona con un soggetto collettivo. È questa sostituzione a cui ha teso tutto il processo di cultura e di costruzione sociale proprio dell'età moderno contemporanea, come è stato sopra rilevato. Giovanni Paolo II aveva già formulato il nucleo essenziale del problema con molta chiarezza nel discorso tenuto all'inizio del suo pontificato di fronte agli studenti dell'Università Cattolica: " Se è vero che "l'homme passe infìnnitament l'homme", come ha intuito Pascal, allora bisogna dire che la persona non trova una piena realizzazione di se stessa che in riferimento a Colui che costituisce la ragione fondante di tutti i nostri giudizi sull'essere, sul bene, sulla verità, sulla bellezza ". Solo se si tiene presente ciò si può capire come l'uomo sia più dei condizionamenti fisici e psicologici che lo determinano o delle strutture sociali in cui è coinvolto perché il fondo della sua esistenza appartiene al mistero delle cose, al mistero dell'essere, al mistero di Dio. Tagliare questa radice, che lega il cuore dell'uomo al Mistero, equivale a rendere l'uomo schiavo della materia o schiavo della società umana come complesso, come agglomerato di individui. Nella stessa circostanza Giovanni Paolo II ha altresì sottolineato come, grazie all'assoluta originalità della Rivelazione, i cristiani sono facilitati nel riconoscere e interpretare il valore assoluto della persona umana: " Siccome l'infinita trascendenza di questo Dio, che qualcuno ha indicato come il "totalmente altro", si è avvicinata a noi in Gesù Cristo fattosi carne per essere totalmente partecipe della nostra storia, bisogna allora concludere che la fede cristiana abilita noi credenti ad interpretare, meglio di qualsiasi altro, le istanze più profonde dell'essere umano e ad indicare con serena e tranquilla sicurezza le vie ed i mezzi di un pieno appagamento ". La denuncia della falsa idea di progresso Si è già in precedenza notato che il soggetto del progetto culturale e sociale moderno è, invece, stato concepito come individuo capace di conoscere scientificamente tutti i problemi della vita personale e sociale e di costruire una società che garantisca il massimo di potere, cioè di libertà. La libertà è stata pensata semplicemente come una forma di espressione del potere dell'uomo. L'esercizio del potere sociale è dunque stato pensato in vista della realizzazione di un immenso processo di autoliberazione che in nome delle capacità razionali e tecnologiche ha progettato la costruzione di un uomo e di una società nuovi. Costruire un uomo scientifico, costruire una società scientifica: in questo è stata vista l'autoliberazione dell'uomo. Il Magistero da Leone XIII a Giovanni Paolo II ha indicato in modo drammaticamente articolato gli equivoci di tale antropologia senza domanda religiosa. L'età moderna è l'età dell'enorme progresso scientifico e tecnologico, ma questo, che aveva come obiettivo quello di cambiare, secondo un processo necessario, quasi automatico, in meglio la situazione dell'uomo sulla terra, non ha meccanicamente prodotto la maturazione dell'uomo nella sua umanità. Lo ha dotato di strumenti assolutamente sofisticati per la conoscenza e il dominio della natura, ma a questo enorme processo dell'avere, ha sottolineato Giovanni Paolo II, non è corrisposto un incremento dell'essere: " Si tratta dello sviluppo delle persone e non soltanto della moltiplicazione delle cose, delle quali le persone possono servirsi. Si tratta - come ha detto un filosofo contemporaneo e come ha affermato il Concilio - non tanto di "avere di più", quanto di "essere di più". Infatti, esiste già un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell'uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l'organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale ". L'uomo, che vive indubbiamente in una situazione di grande progresso tecnologico e scientifico, allo stesso tempo rischia di essere condannato ad un imbarbarimento spirituale, come ha denunciato anche Benedetto XVI: " È vero, nel corso del millennio da poco concluso e specialmente negli ultimi secoli, tanti sono stati i progressi compiuti in campo tecnico e scientifico; vaste sono le risorse materiali di cui oggi possiamo disporre. L'uomo dell'era tecnologica rischia però di essere vittima degli stessi successi della sua intelligenza e dei risultati delle sue capacità operative, se va incontro ad un'atrofia spirituale, ad un vuoto del cuore ". L'uomo non diventa migliore grazie a questo progresso, né più cosciente della dignità della sua umanità, né tanto meno più responsabile, più aperto agli altri. Non è né meccanico né automatico che al maggior progresso corrisponda una maggiore umanizzazione. Anzi assistiamo ad una dinamica opposta: lo sviluppo tecnologico-scientifico tende a diventare un obiettivo totalizzante al punto tale che la stessa vita umana rischia di diventare funzionale a tale sviluppo, come si può chiaramente vedere a proposito della manipolazione genetica dell'essere umano. Come, infatti, ha sottolineato Giovanni XXIII, " qualunque sia il progresso tecnico ed economico, nel mondo non vi sarà né giustizia né pace finché gli uomini non ritornino al senso della dignità di creature e di figli di Dio, prima ed ultima ragione d'essere di tutta la realtà da lui creata. L'uomo staccato da Dio diventa disumano con sé stesso e con i suoi simili, perché l'ordinato rapporto di convivenza presuppone l'ordinato rapporto della coscienza personale con Dio, fonte di verità, di giustizia e di amore ". Alla fine di questi ultimi due secoli di grande sviluppo scientifico, ma anche di radicale negazione della dimensione religiosa l'uomo è molto più l'oggetto su cui si rovesciano bombe estremamente sofisticate, è molto più l'oggetto di un'analisi di tipo scientifico, tecnologico, psicanalitico, che non il soggetto che esprime se stesso attraverso il progresso tecnico-scientifico. La stessa attività lavorativa diventa per l'uomo condizione di alienazione: " Nel costume prevalente nel mondo occidentale odierno si è raggiunto il disconoscimento completo dell'aspetto soggettivo del lavoro, portando alla sua logica conclusione il processo dell'economismo e del materialismo. Il rapporto di coesistenza-alterità è infatti completamente deformato, nel senso che l'altro è visto soltanto come un insieme di bisogni sensibili da accrescere, e per converso io mi riduco a strumento che può accrescere questi bisogni sensibili, senza alcuna altra realtà che sia al di fuori di questa strumentalità. L'interiorità, lo spirito diventano in questa prospettiva una malattia ". Gli ultimi due secoli hanno dimostrato che se non c'è Dio l'uomo diventa oggetto ed è a disposizione di chiunque voglia prenderselo in carico e manipolarlo. Lo hanno preso in carico le ideologie totalitarie e gli Stati totalitari e lo hanno trattato come oggetto per la costruzione di una società perfetta. Se lo prendono in carico la scienza e la tecnica, legate a visioni ideologiche che le precedono ed a cui servono, e lo manipolano come un qualsiasi oggetto. Come ha denunciato chiaramente già negli anni Cinquanta del secolo scorso Romano Guardini " chi guarda attentamente, scopre nella vita delle democrazie, così apparentemente libera, i sintomi più preoccupanti di una coercizione indiretta che si esercita attraverso l'apparato della cultura tecnologica ". La paura dell'uomo moderno-contemporaneo La paura che attanaglia l'umanità, e di cui la terza parte della Redemptor hominis ha fornito una precisa documentazione, è la paura dell'uomo che si perde, che non sa più chi è, che è ridotto ad un fatto analizzabile scientificamente e manipolabile socialmente. " L'uomo contemporaneo ha paura che con i mezzi inventati da questo tipo di civiltà, i singoli individui e anche gli ambenti e le comunità, le società e le nazioni, possano rimanere vittime del sopruso di altri individui, ambienti e società; malgrado tutte le dichiarazioni sui diritti dell'uomo nella sua dimensione integrale non possiamo dire che questi esempi appartengano solo al passato. L'uomo ha giustamente paura di restare vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire ". I mezzi tecnici a disposizione della società odierna celano non soltanto la possibilità di un'autodistruzione, ma la possibilità di un soggiogamento politico degli individui. L'olocausto che minaccia l'umanità non è innanzitutto di tipo nucleare, ma è un olocausto delle coscienze degli individui, attraverso i mezzi della comunicazione sociale. L'uomo ha paura proprio perché si sente ridotto a "pezzo di materia", perché questo enorme progresso, non solo non lo ha fatto necessariamente maturare come uomo, ma lo ha ridotto in una posizione tale di minorità che in qualsiasi momento egli può essere semplicemente utilizzato come un dato manipolabile. Il Magistero della Chiesa ha individuato profeticamente il movimento di costruzione sociale che si è andato sviluppando in questi due secoli e che ha trovato la formulazione più rigorosa nelle grandi ideologie totalitarie. In una delle forme più drammatiche di espressione della dottrina sociale, ovvero quella dei radiomessaggi che Pio XII ha formulato nel corso della Seconda Guerra Mondiale, quando la Chiesa sembrava vinta e il totalitarismo sembrava assolutamente invincibile, il carattere di tale totalitarismo è stato indicato con molta chiarezza: " L'assolutismo di stato - diceva Pio XII - consiste infatti nell'erroneo principio che l'autorità dello Stato è illimitata e che di fronte ad essa, anche quando da libero corso alle sue misure dispotiche oltrepassando i confini del bene e del male, non è ammesso alcun appello a una legge superiore e moralmente obbligante ". Giovanni Paolo II ha ulteriormente chiarito i termini di questo totalitarismo: " La radice del moderno totalitarismo dunque è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile, e proprio per questo, per sua natura soggetto di diritti che nessuno può violare: né l'individuo, né il gruppo, né la classe, né la nazione, né lo stato. E non può farlo neppure la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza, emarginandola, opprimendola, sfruttandola o tentando di annientarla ". La persona, privata della sua dimensione religiosa, finisce per essere semplicemente assorbita dentro un soggetto totalitario, il soggetto sociale da cui dipende, da cui gli derivano i diritti, mentre secondo la concezione cristiana della dottrina sociale i diritti dell'uomo derivano immediatamente da Dio e sono il segno della sua appartenenza a Dio. Fino alla Centesimus annus la dottrina sociale si è assunta la responsabilità di correggere l'impostazione antropologica e sociale dominante. Ne ha discusso i fondamenti e ne ha indicato con lucidità le conseguenze di carattere sociale: il disconoscimento radicale della persona umana e dei suoi diritti, la creazione di strutture sociopolitiche in cui si consumava la tragedia della privazione della libertà, la mostruosa creazione di quelli che con un vocabolo indimenticabile Pio XI ha chiamato i nuovi "idoli". La condanna della cultura di morte Il disconoscimento radicale della persona umana e dei suoi diritti, se, almeno per il mondo occidentale, non ha più il carattere del totalitarismo politico dei regimi totalitari, ha tuttavia trovato una nuova espressione nella cultura di morte promossa dall'ideologia tecnocratica, nuova minaccia contro l'umanità: " In realtà, se molti e gravi aspetti dell'odierna problematica sociale possono in qualche modo spiegare il clima di diffusa incertezza morale e talvolta attenuare nei singoli la responsabilità soggettiva, non è meno vero che siamo di fronte a una realtà più vasta, che si può considerare come una vera e propria struttura di peccato, caratterizzata dall'imporsi di una cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi come vera "cultura di morte" ". Questa "cultura di morte", che è caratterizzata da una straordinaria ricchezza di mezzi scientifici e tecnologici e da strumenti di pressione sulla coscienza delle nazioni e dei popoli, è l'esito di quel processo culturale, in parte precedentemente richiamato, per il quale l'uomo si è considerato al centro della realtà e ha considerato la realtà come un "dato" a sua totale disposizione. L'uomo moderno si è considerato al centro della realtà, dotato di un potere assoluto, intellettuale, morale, scientifico e politico, finendo per considerare la persona dell'altro semplicemente come un "dato" da conoscere, da organizzare ed eventualmente da manipolare. È per questo motivo che per secoli la persona dell'altro è stata ridotta alle caratteristiche socio-politiche ed economiche. L'individuo ( perché questo termine è stato largamente preferito al termine persona ) valeva come dato da manipolare per la creazione dei grandi sistemi politici, in cui si è espressa negli ultimi due secoli l'ideologia sociologica. L'individuo aveva solo il valore della sua funzionalità al processo ideologico politico destinato a creare un nuovo potere o a conservare un potere già acquisito. Non a caso il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Gaudium et spes ha parlato della riduzione dell'uomo a " elemento anonimo della città umana ". Oggi, nell'orizzonte della grande ideologia tecnocratica che domina il mondo la persona umana è considerata semplicemente un dato di carattere biologico, su cui la scienza è abilitata a operare tutti i possibili esperimenti in vista della creazione di livelli di vita fisica sempre più rispondenti agli ideali di comodità. La vita umana ha perso qualsiasi dimensione di mistero: non è un dato originariamente gratuito da accogliere e da amare, è una situazione che deve essere razionalizzata e dominata. Quando la vita fisica mostra i suoi limiti, al suo sorgere, al suo declinare, per la presenza di condizionamenti che ne aggravano la procedura o anche quando soltanto ostacola un benessere economico e fisico considerato irrinunciabile, allora la vita umana può essere variamente manipolata o addirittura negata. Tale cultura di morte " è attivamente promossa da forti correnti culturali, economiche e politiche, portatrici di una concezione efficientistica della società ", in quanto " la vita che richiederebbe più accoglienza, amore e cura è ritenuta inutile, o è considerata come un peso insopportabile e, quindi, è rifiutata in molte maniere. Chi, con la sua malattia, con il suo handicap o, molto più semplicemente, con la stessa sua presenza mette in discussione il benessere o le abitudini di vita di quanti sono più avvantaggiati, tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o da eliminare. Si scatena così una specie di "congiura contro la vita" ". Le manipolazioni genetiche, l'aborto, la contraccezione, le varie forme di eutanasia costituiscono, secondo l'insegnamento della Chiesa ed in particolare il Magistero di Giovanni Paolo II, una immensa congiura dei nuovi potenti contro i nuovi deboli, in cui domina un concetto di libertà assolutamente falso. È una libertà che trova esclusivamente in sé, come pura reazione istintiva, le proprie ragioni ed il proprio dinamismo, non più nell'essenziale riferimento alla verità: " Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la libertà dei "più forti" contro i deboli destinati a soccombere ". La dottrina sociale ha sempre affermato che una libertà senza verità non è umanamente pensabile, in quanto conduce all'arbitrio dei potenti contro i deboli. Quando le strutture sociali e politiche assecondano questa congiura, conferendo alle violenze contro la vita il valore di leggi, proprio allora inizia il cammino verso il totalitarismo. In troppi paesi del mondo il totalitarismo tecnocratico scrive ogni giorno infiniti episodi di violenza contro il mistero della vita come dono gratuito ospitato nel cuore di ogni persona che Dio chiama alla vita. Di fronte a questa situazione, che Giovanni Paolo II ha molte volte descritto in modo lucido penetrante ed impegnativo, il Magistero della Chiesa ha affermato il grande Vangelo della vita come fondamento ed energia alimentante una autentica cultura della vita: " Il Vangelo della vita sta al cuore del messaggio di Gesù. Accolto dalla Chiesa ogni giorno con amore, esso va annunciato con coraggiosa fedeltà come buona novella agli uomini di ogni epoca e cultura. All'aurora della salvezza, è la nascita di un bambino che viene proclamata come lieta notizia: "Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore" ( Lc 2,10-11 ). A sprigionare questa "grande gioia" è certamente la nascita del Salvatore; ma nel Natale è svelato anche il senso pieno di ogni nascita umana, e la gioia messianica appare così fondamento e compimento della gioia per ogni bimbo che nasce ( Gv 16,21 ). Presentando il nucleo centrale della sua missione redentrice. Gesù dice: "Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" ( Gv 10,10 ). In verità, Egli si riferisce a quella vita "nuova" ed "eterna", che consiste nella comunione con il Padre, a cui ogni uomo è gratuitamente chiamato nel Figlio per opera dello Spirito Santificatore. Ma proprio in tale "vita" acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita dell'uomo ". Alcune linee guida fondamentali della dottrina sociale Si tratta a questo punto di indicare, seppure solo brevemente le linee fondamentali di questa azione correttiva esercitata dalla dottrina sociale su quella prospettiva moderna che si è sviluppata a partire dal rifiuto e dalla negazione della dimensione religiosa. Così facendo si riescono anche a definire le linee guida dell'insegnamento sociale della Chiesa. La difesa della priorità della persona sulla società Innanzitutto, in opposizione all'idea, sostenuta secondo diverse modalità e prospettive ideologiche, della subordinazione del singolo al soggetto collettivo, la Chiesa ha sempre ribadito la priorità della persona. All'inizio non c'è la società, c'è la persona. La società è il frutto della capacità culturale e sociale della persona; la prima soggettività sociale non è quella della società, ma è quella della persona e di ciò in cui la persona si esprime: innanzitutto, la famiglia. L'uomo non è il prodotto della vita sociale " deve esserne e rimanerne il soggetto, il fondamento e il fine ". La Chiesa con il suo insegnamento sociale ha voluto sostenere, contro le ideologie che si sono sviluppate e rafforzate lungo i secoli in epoca moderno-contemporanea, che è impossibile ridurre l'uomo a fenomeno biologico o politico, perché esso è fatto a immagine e somiglianza di Dio, è costitutivamente in rapporto con Dio e vive nella comunione con Lui. La visione della società che nasce dalla fede cristiana " si pone al di sopra e talvolta all'opposto delle ideologie in quanto riconosce Dio, trascendente e Creatore, che interpella, a tutti i livelli della creazione, l'uomo quale essere responsabilmente libero ". Merito fondamentale del Magistero è stato allora innanzitutto quello di avere riconosciuto e garantito la libertà, la dignità e il valore assoluto della persona umana. È, infatti, solo il fondamento ontologico della persona in Dio che le impedisce di diventare un'anonima parte di un sistema, una qualsiasi molecola della vita sociale, un'insignificante particella di materia. La Chiesa, riaffermando tale fondamento ontologico, ha voluto ribadire nel modo più energico possibile la dignità assoluta della persona, da cui deriva che sono i sistemi economici e politici che devono essere subordinati all'uomo e non l'uomo ad essi: " In nessun caso la persona può essere strumentalizzata per fini estranei al suo stesso sviluppo, che può trovare compimento pieno e definitivo soltanto in Dio e nel suo progetto salvifico […]. La persona non può essere finalizzata a progetti di carattere economico, sociale e politico imposti da qualsivoglia autorità, sia pure in nome di presunti progressi della comunità civile nel suo insieme o di altre persone, nel presente o nel futuro ". Ciò che il Magistero sociale ha voluto evidenziare è pertanto la centralità della persona. Al contrario di quanto ha cercato di fare il pensiero laicista, la persona è stata sempre concepita dal Magistero come sostanziale rapporto con Dio che la costituisce. Solo nel rispetto di questo originario rapporto è possibile pensare adeguatamente il rapporto della persona con la realtà. L'uomo, infatti, è soggetto di relazione in quanto traduce all'esterno di sé quel dialogo con Dio che da significato al suo stesso essere. La radice della persona è la sua appartenenza a Dio e da questa deriva, come sua caratteristica ontologica ed etica fondamentale, la sua irriducibilità al mondo. La persona umana consiste ed è ben definita solo a partire dal suo rapporto con Dio, al quale è naturalmente aperta e del quale è creata immagine e somiglianza. Creata per se stessa, non può mai essere ridotta a mezzo; ha dignità infinita, è soggetto di diritti inalienabili; deve restare alla radice, al centro e al vertice di ogni forma di socialità. Inoltre dall'incontro con Cristo, la persona riceve una novità ontologica e un nuovo principio di conoscenza e di azione. Tutto ciò evita che sia ridotta a frammento della materia fisica o a numero anonimo di qualsiasi collettivismo. Le situazioni culturali, socio-eco-nomiche e politiche, dei diversi tempi e luoghi, poco o tanto la condizionano; ma non la determinano mai del tutto. Con la sua libertà creativa intrattiene relazioni e costruisce una società al suo servizio. In altri termini, per affrontare adeguatamente dal punto di vista antropologico il problema sociale, occorre partire dalla questione fondamentale del senso della vita, della ricerca della verità e dell'apertura al Mistero. L'inevitabile domanda di senso ultimo rende presente in ogni uomo un'originaria tensione verso l'Assoluto. Ciò gli conferisce un valore che non può essere negato da alcun condizionamento estrinseco. Poiché la struttura dell'uomo è domanda inesauribile, se non si ammettesse l'esistenza di una risposta ad essa, si sopprimerebbe la domanda e si rinnegherebbe la stessa natura umana. Dunque, soltanto l'affermazione del Mistero come realtà esistente oltre le capacità dell'uomo corrisponde pienamente alla struttura originale della persona. Un impegno dell'uomo con il senso della vita, quindi un impegno teso a comprendere tutti i fattori di essa, proietta l'uomo oltre sé. È, infatti, inevitabile che egli si trovi oltre i suoi confini temporali e spaziali, che cioè percepisca in sé un principio che trascende gli stessi fattori di cui è composto. Soltanto se lo sguardo profondo della sua coscienza e del suo spirito si spinge oltre la temporalità, egli può comprendersi unitariamente. In questo senso si può dire che la persona vive in sé il principio della trascendenza. Ogni cultura, per quanto tenti di comprendere realisticamente l'uomo, di impegnarsi con il senso della vita abbracciando tutte le sue componenti esistenziali, configura già un rapporto con qualcosa d'Altro che va oltre l'uomo, con un Mistero che lo caratterizza profondamente. La trascendenza, pertanto, è un'inevitabile connotazione religiosa della cultura: " Al centro di ogni cultura sta l'atteggiamento che l'uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio. Le culture delle diverse Nazioni sono, in fondo, altrettanti modi di affrontare la domanda circa il senso dell'esistenza personale: quando tale domanda viene eliminata, si corrompono la cultura e la vita morale delle Nazioni ". Il cristianesimo ha quindi contribuito in modo decisivo, nel corso della storia dell'occidente, ad edificare una civiltà capace di valorizzare la ragione come domanda di verità e la libertà come responsabilità dell'uomo di fronte alla verità. Responsabilità che può essere vissuta positivamente o negativamente, ma che comunque è inderogabile per la singola persona e che non può essere delegata a nessun altro uomo o a nessun'altra istituzione. Questa valorizzazione della libertà e della ragione si esprime nella vita sociale con la capacità di rispetto. La civiltà promossa dalla Chiesa è caratterizzata da un profondo rispetto delle diversità. La dottrina sociale cerca quindi di difendere e promuovere l'uomo come persona, sia a partire dal contenuto della Rivelazione che lo definisce fatto ad immagine e somiglianza di Dio, sia a partire dalla strutturale dinamica trascendente che contraddistingue l'essere umano. Il recupero di tale dimensione costitutiva dell'uomo permette non solo di difendere la dignità dell'uomo, ma anche di rendere più facile l'annuncio della verità di Cristo. Per questo motivo nella Fides et ratio Giovanni Paolo II ha sottolineato l'importanza per la Chiesa di promuovere e favorire una filosofìa autentica, capace di indagare il senso ultimo della realtà: " Insistendo in tal modo sull'importanza e sulle vere dimensioni del pensiero filosofico, la Chiesa promuove insieme sia la difesa della dignità dell'uomo sia l'annuncio del messaggio evangelico. Per tali compiti non vi è oggi, infatti, preparazione più urgente di questa: portare gli uomini alla scoperta della loro capacità di conoscere il vero e del loro anelito verso un senso ultimo e definitivo dell'esistenza. Nella prospettiva di queste esigenze profonde, iscritte da Dio nella natura umana, appare anche più chiaro il significato umano e umanizzante della parola di Dio. Grazie alla mediazione di una filosofia divenuta anche vera saggezza, l'uomo contemporaneo giungerà cosi a riconoscere che egli sarà tanto più uomo quanto più, affidandosi al Vangelo, aprirà se stesso a Cristo ". La Chiesa è quindi impegnata in prima persona in una battaglia per l'uomo. Una battaglia perché l'uomo possa recuperare ogni giorno la grande domanda di senso e possa vivere la grande libertà, che è il mettersi in rapporto con se stesso e con Dio, e, accanto a questo, possa sentire la testimonianza di chi ha incontrato il senso ultimo della vita nel mistero di Cristo. La battaglia deve essere fatta contro la barbarie in cui l'uomo modemo-contemporaneo si è venuto a trovare. Una barbarie raffinata, ma pur sempre una barbarie, esercitata da coloro che dispongono oggi di enormi apparati tecnologici e scientifici, che Bemanos nei suoi scritti politici chiamava, con una formula estremamente efficace, " barbari vestiti da galantuomini ". È la barbarie delle manipolazioni, delle clonazioni, è la barbarie dell'uomo ridotto a solo oggetto del potere scientifico e tecnologico. Tale barbarie si vince con la ragione e con la fede e la Chiesa non può cessare di sostenerlo. La barbarie può essere arrestata solo se esiste "un popolo della fede" e se esiste "un popolo della ragione" che dialogano, entrano in contatto fra di loro, si sostengono, e si confrontano. Con "popolo della ragione" intendo un popolo fatto da coloro che non accettano che la vita sia quella che Shakespeare ha definito una " tavoletta senza senso recitata da un idiota ". Un popolo in cui vibra la ragione come apertura al senso ultimo della vita; come tensione e come volontà di comprendere la realtà, anche quella complessa e variegata, della vita personale e sociale, secondo tutti gli aspetti di cui è fatta. Il "popolo della fede" è il popolo di coloro che riconoscono che soltanto in Cristo c'è la salvezza per l'uomo e per il mondo. Dal dialogo proficuo tra il popolo della ragione e quello della fede può scaturire il riconoscimento e l'affermazione del valore assoluto dell'uomo come persona. L'uomo, proprio perché è persona, possiede se stesso ed è essenzialmente unico ed irripetibile, e, in quanto egli è coscienza, libertà, volontà e azione, si afferma come un mondo spirituale proprio. Il Compendio della dottrina sociale lo ha affermato in modo chiaro: " L'uomo esiste come essere unico e irripetibile, esiste come un "io", capace di auto comprendersi, di autopossedersi, di autodeterminarsi. [ … ] Non sono, tuttavia, l'intelligenza, la coscienza e la libertà a definire la persona, ma è la persona che sta alla base degli atti di intelligenza, di coscienza, di libertà. Tali atti possono anche mancare, senza che per questo l'uomo cessi di essere persona ". Tale unicità e irripetibilità dell'essere persona è naturalmente da intendersi secondo quella prospettiva di profonda unità tra anima e corpo che rifiuta egualmente spiritualismo e materialismo: " La persona, incluso il corpo è affidata interamente a se stessa, ed è nell'unità dell'anima e del corpo che essa è il soggetto dei propri atti morali ". Benedetto XVI nella sua Enciclica sull'amore lo ha ribadito: " L'uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità [ … ] Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e vuoi rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde ugualmente la sua grandezza ". Per questo i singoli uomini non possono essere omologati, e se l'ordine biologico ammette la possibilità di considerare gli esseri umani come viventi che si equivalgono, secondo l'ordine personale tale ipotesi non è nemmeno teoreticamente pensabile. Il Magistero sociale, dunque, ha indicato e indica tuttora come fattore irrinunciabile la persona con i suoi caratteri di trascendenza, di unicità, irriducibilità e di unità, da cui ne deriva la difesa della libertà e dei suoi diritti fondamentali. Intende, inoltre, promuovere una società creata da tale libertà. Il criterio di valutazione di una società diventa, perciò, la difesa della libertà della persona, che non solo deve essere riconosciuta, ma attuata. In tal senso è di fondamentale importanza l'insegnamento conciliare sulla libertà religiosa, perché oltre a richiamare l'essenziale libertà dell'atto di fede, ha un valore culturale e sociale: dichiara la libertà religiosa un diritto insopprimibile della persona e dei popoli. Così, dal Concilio in avanti, il criterio per stabilire la democraticità di uno Stato può essere considerato il suo rispetto della libertà religiosa. I cristiani di oggi hanno una assoluta responsabilità in ordine alla difesa della dignità della persona umana, proprio attraverso la fedeltà a Cristo. Tuttavia, in questa difesa non sono soli: hanno accanto a loro quelli che la tradizione cristiana chiama gli " uomini di buona volontà ". La società civile è costituita da tanti cristiani e da tantissimi laici, da un popolo che è unito nel desiderio di vivere la vita in modo autentico e di trasfondere questa autenticità nella vita concreta e addirittura nelle istituzioni e nelle strutture regolatrici della vita sociale. La Chiesa è perciò impegnata a proseguire quello che Papa Paolo VI definì nella Ecclesiam suam " il dialogo della salvezza " e a dare concretezza e visibilità, anche sociale, alla grande intuizione di Giovanni Paolo II, secondo la quale la Chiesa vive per mantenere aperto il dialogo fra Cristo e il cuore dell'uomo. Per questo alla Chiesa interessa essere presente alla vita di ogni uomo, nel fermento concreto della società, senza perdere tempo con l'interloquire con gli epigoni intolleranti di quel laicismo anticlericale, ormai definitivamente superato dall'evoluzione della storia e della società. La Chiesa, attraverso la dottrina sociale pensa ai suoi figli credenti e pensa, insieme e con la medesima affezione, a tutto quel grande "popolo della ragione" che intende vivere la propria vita personale e sociale non secondo la meschinità dei suoi interessi privati, ma secondo la profondità e l'ampiezza di quella domanda di senso che rende l'uomo, secondo l'acutissima intuizione di Mons. Luigi Giussani " l'autocoscienza del cosmo ". L'uomo del nostro tempo ha più che mai bisogno di essere introdotto alla religione del Dio che si è fatto uomo perché l'uomo, secondo la straordinaria formula dei Padri greci, possa diventare come Dio. La difesa della priorità della società sullo Stato La Chiesa non si è posta contro il formarsi degli stati moderni in quanto tale. Tuttavia, non ha mai mancato di denunciare la componente ideologica presente all'interno del processo che ha portato alla formazione dello Stato moderno. L'esito di tale processo ha coinciso, infatti, non con un effettivo esercizio del potere democratico, ma con una concezione totalitaria della vita sociale e dello Stato, tragicamente sperimentata sotto i regimi del XX secolo. La Chiesa ha, più precisamente, condannato la realizzazione di quel progetto che, tramite la costruzione di una realtà culturale e sociale anticristiana, ha assolutizzato la dimensione politica e la struttura regolativa della vita politica, svincolandole obiettivamente da qualsiasi riferimento che le trascendesse. Come è stato descritto precedentemente, questo progetto, che contraddistingue la componente laicista della modernità, si è fondato sulla negazione della domanda religiosa propria dell'uomo. Ad una concezione metafìsico-religiosa che vede l'uomo come inesauribile ricercatore della verità e del senso ultimo della propria esistenza, proiettato verso un quid che lo supera infinitamente, si è sostituita un'antropologia che aveva come punto di partenza l'affermazione che l'uomo può tutto. La visione antropologica dell'uomo autosuffìciente, che conosce definitivamente la realtà e la manipola fino alle sue conseguenze sociali, è una visione formulata astrattamente sull'immagine del potere. L'uomo, definito come potere dall'età moderna, ha finito per trovare la sua ultima organizzazione in una struttura di potere: lo Stato. L'età moderna nella sua concezione dello stato ha introdotto un presupposto ideologico: lo Stato viene ad identificarsi con la società, pretende di assorbire in sé la società, come aveva del resto ben evidenziato già Rosmini, indicando con il nome di società civile quello che noi oggi chiamiamo Stato: " Si suol dire la società senza più indicare la società civile. Questa maniera di parlare annunzia già l'errore introdottosi nelle menti; ella suppone che la società civile assorba nel suo seno tutte le altre società: ella confonde la società civile colla società del genere umano [ … ] questa maniera di concepire e di esprimersi dà necessariamente alla società civile ogni potere, non lascia sussistere altra società al suo fianco ". Hegel ha forse fornito la formulazione più chiara di questo processo di assorbimento della società nello Stato, affermando che solo nello Stato si realizza un'esistenza pienamente razionale. Secondo una tale prospettiva, la società non è altro che uno stadio di imperfezione, di irrazionalità e di istintività, che deve essere appunto trasceso nello Stato: " Lo stato è la sostanza etica consapevole di sé, la riunione del principio della famiglia e della società civile. [ … ] Lo stato è il centro degli altri aspetti concreti della vita, cioè del diritto, dell'arte, dei costumi, delle comodità. Nello stato la libertà è realizzata oggettivamente e positivamente. [ … ] Sono piuttosto il diritto, la morale, lo stato, e solo essi, la positiva realtà e soddisfazione della libertà. L'arbitrio del singolo non è, infatti, libertà. [ … ] Solo nello stato l'uomo ha esistenza razionale ". Lo Stato moderno è nato dunque con la pretesa assolutistica di esaurire la vita della società e del singolo. La sua formulazione culturale è ideologica, poiché tende ad occupare tutti i campi della società e a porsi come soggetto etico. Non a caso lo Stato ha preteso di organizzare anche la vita ecclesiale e le stesse strutture ecclesiastiche. Ciò è stato possibile perché, se non si riconosce la consistenza propria dell'uomo nel suo essere libero e responsabile di fronte a Dio, si finisce per farlo dipendere totalmente dal suo essere parte dello stato: " Certo l'individuo può farsi dello stato un mezzo, per conseguire questo o quell'altro. Ma la verità, consiste nel fatto che ognuno voglia la cosa in se stessa, e abbia eliminato ciò che non è essenziale. Tutto quello che l'uomo è, egli lo deve allo stato: solo in esso egli ha la sua essenza. Ogni valore, ogni realtà spirituale, l'uomo l'ha solo per mezzo dello stato. [ … ] La volontà soggettiva, la passione, è quel che mette in moto, che realizza. L'idea è il momento interiore; lo stato è la vita esistente, effettivamente morale. Esso è infatti l'unità della volontà universale, essenziale, e di quella soggettiva. [ … ] Che questa totalità morale sussista, è l'assoluto interesse della ragione. [ … ] Lo stato non esiste per i cittadini: si potrebbe dire che esso è il fine, e quelli sono i suoi strumenti. [ … ] Lo stato non è infatti una realtà astratta, che si contrapponga ai cittadini: ben sì essi sono momenti come nella vita organica, in cui nessun membro è fine e nessuno è mezzo. L'elemento divino dello stato è l'idea, com'è presente sulla terra ". Una tale prospettiva porta a non riconoscere il valore positivo della società, a non vedere o a leggere negativamente il carattere originario della socievolezza umana, a vedere una contrapposizione originaria tra l'individuo e la società. Il cristiano, invece, non avverte opposizione con la società, perché fa esperienza di una forma di società che non lo inganna: la Chiesa. Quest'ultima, partendo da questa esperienza positiva e dal riconoscimento della natura sociale dell'uomo, attraverso la dottrina sociale, ha cercato da sempre di affermare che lo Stato non esaurisce il complesso sociale. La società precede naturalmente lo Stato. Come ha ricordato il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes " l'uomo, infatti, per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti ". La persona umana per sua natura è un essere sociale, data la sua innata indigenza e la sua connaturale tendenza a comunicare con gli altri. Ne consegue che per la crescita integrale della persona è necessaria la partecipazione e l'integrazione sociale; ma qualsiasi forma di società civile deve restare sempre al servizio della persona. Per questo motivo lo Stato non può e non deve sostituirsi alla società. Deve piuttosto servire la società, deve essere a servizio del bene comune, cioè della libertà delle persone e dei gruppi. Le persone si esprimono e crescono, dando liberamente origine a diverse forme di società dette "organismi intermedi": famiglia, associazioni e forme di cooperazione educative e lavorative, enti locali, ecc. Il potere politico, il diritto e le strutture economiche devono essere al loro servizio e integrarne le insufficienze in vista del bene comune. Il potere politico non deve ostacolare, ma promuovere la creatività dell'uomo. Egli deve essere in grado di esprimere la sua personalità attraverso le conoscenze che acquisisce, le imprese che compie con il lavoro e l'organizzazione sociale, i rapporti affettivi che stabilisce, in primo luogo con la famiglia, che genera ed educa i figli, aprendosi ad altre famiglie. La dottrina sociale della Chiesa ha cercato di richiamare l'uomo moderno contemporaneo al fatto che la società è l'insieme delle esperienze di libertà, ovvero delle strutture, delle istituzioni create dalla liberà dei singoli e dei gruppi, mentre lo Stato deve avere solo un principio regolativo: la preoccupazione del bene comune. Essendo lo Stato una struttura umana, possiede un valore etico, ma non una soggettività etica, come hanno invece preteso tutte le ideologie totalitarie. Le parole di Pio XII pronunciate nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, nell'epoca dei grandi totalitarismi, risultano a questo riguardo particolarmente significative: " tutta l'attività dello Stato, politica ed economica, serve per l'attuazione duratura del bene comune; cioè, di quelle esterne condizioni, le quali sono necessarie all'insieme dei cittadini per lo sviluppo delle loro qualità e dei loro uffici, della loro vita materiale, intellettuale e religiosa, in quanto, [ … ] le forze e le energie della famiglia e degli altri organismi, a cui spetta una naturale precedenza, non bastano ". Tali parole non sono però da considerarsi superate, relegate ad un'altra epoca. Anche Benedetto XVI nella sua prima enciclica ha voluto ribadire che uno Stato che si sostituisce alla società non risponde veramente ai bisogni dell'uomo: " Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente - ogni uomo - ha bisogno: l'amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell'amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale ". Quindi non solo la Chiesa non si è posta e non si pone contro la democrazia, ma essa difendendo la natura metafìsica dell'uomo, quindi la sua irriducibilità al mondo socio politico, insieme alla sua naturale dinamica sociale, ha contribuito in maniera decisiva alla costruzione di un'autentica democrazia. Essa ha promosso e continua a difendere un ethos, un modo di concepire l'uomo in cui sono difese la centralità e la priorità della persona e della società sullo Stato. Al di fuori di questa posizione, l'uomo risulta permanentemente vulnerabile di fronte al contesto materiale socio-politico. Attraverso la missione, cioè la presenza viva e solidale del popolo cristiano, caratterizzato da una precisa identità culturale, che non può non denunciare tutti gli ostacoli che si intendessero porre al riconoscimento della dignità e della libertà dell'uomo e dei suoi irrinunciabili diritti, la Chiesa contribuisce a costruire, con la sua stessa presenza, una socialità ampia, articolata, solidale e rispettosa di ogni differenza, animata da una volontà di carità rivolta ad ogni persona, in qualsiasi situazione si trovi. Il dolore, fisico o morale, ed i vari disagi che accompagnano in un modo che può sembrare ossessivo questa società dell'opulenza, sono un campo singolare di missione, di amore alla persona, di difesa e di promozione della sua libertà. La dottrina sociale non è, infatti, riducibile a mero discorso sulla società; essa, come già anche in precedenza richiamato, è da considerarsi teoria che nasce da una reale azione sociale e caritatevole che fin dal suo sorgere ha sempre contraddistinto la vita della Chiesa. Giovanni Paolo II ha definito l'esperienza della presenza cristiana nel mondo, scaturita dal carisma di San Benedetto, con questa espressione: "Era necessario che l'eroico diventasse quotidiano e il quotidiano eroico". Con questa formula ha inteso indicare che la strada della missione è la quotidianità, la quale però risulta investita da una gratuità, da una misura che non è più quella dell'uomo, che assume tratti eroici, non per i meriti di chi ne è protagonista, ma perché vive nella certezza dell'appartenenza a Cristo. Per il cristiano l'unica cosa che da significato e valore e dignità a tutto, all'istante, come al pensiero più sublime, come all'esperienza più vergognosa del limite, è solo la presenza di Cristo. Per questo nell'azione caritativa della Chiesa la prima parola da tenere presente è la missione. Le opere nascono per la missione di Cristo nel mondo, nella quotidianità e nella normalità della vita. Il cristiano esercita la carità perché vive la gratitudine di essere stato accolto ed amato egli stesso per primo. Chi come me ha vissuto per decine d'anni in una casa sostenuta dalla fede e dalla carità di una madre e di un padre, sa quanto questa sia una cosa vera, che acquista un significato tutto particolare per l'uomo di oggi sballottato, distrutto, massificato, espropriato. E l'amore di cui si sente investito, nella sua partecipazione all'Avvenimento di Cristo, ciò che spinge il cristiano a creare strutture d'aiuto, di sostegno reciproco, che cambiano il modo con cui guardare i problemi. È attraverso la condivisone del bisogno che il cristiano è chiamato a testimoniare la verità di Cristo. Per il cristiano tutto quello che fa e crea, tutti i limiti che lo hanno segnato e tutta la gioia che ha vissuto, tutto il dolore che ha sopportato, tutto questo è chiamato a dare spessore e consistenza all'unica cosa che da più di 2000 anni la Chiesa grida: vieni, Signore Gesù. L'esperienza di accoglienza, di carità esercitata nella normalità e nella quotidianità della vita, deve sapere rendere ogni giorno più vero questo grido, deve incrementare questo grido che la Chiesa rivolge ogni giorno al Signore. Vieni Signore Gesù: questa è la dimensione esistenziale più profonda da conquistare ogni giorno, ma anche la dimensione che da verità ad ogni istante della vita del cristiano. In altri termini l'impegno sociale del cristiano non è teso alla costruzione della società perfetta, all'eliminazione radicale dei problemi che angustiano l'uomo, siano essi la povertà, l'ingiustizia o altro, quanto all'affermazione del bisogno radicale della salvezza di Cristo. La difficoltà odierna e la difesa della famiglia Le profonde trasformazioni avvenute negli ultimi decenni del XX secolo del resto hanno accentuato il profondo divario tra la vita delle singole persone e il funzionamento delle strutture sociali, creando una situazione di grave disagio. L'immagine stessa dell'uomo contemporaneo, formatasi ormai da alcuni secoli sulla base dell'ideale di autonomia, è stata messa fortemente in crisi dalla condizione di debolezza e di impotenza in cui la persona umana si è venuta a trovare. In generale, si è creata una forte sfiducia nelle varie istituzioni statali a tutti i livelli, venendo a mancare quel principio di autorità laica, e spesso laicista, che aveva contraddistinto il mondo moderno in contrapposizione alla cristianità medievale, che proponeva il riferimento costante all'autorità religiosa. Lo Stato moderno, fonte di ogni diritto e potere, oggi è fortemente criticato e proprio il fenomeno della globalizzazione non fa che accentuare questa crisi. La gente comune fatica a riconoscere l'importanza delle istituzioni civili, spesso dominate dalla corruzione e dalla conflittualità per il potere. La partecipazione alla vita politica attraverso i meccanismi della democrazia soffre di una crisi acutissima. La rinascita di forme estreme di nazionalismo e localismo è da intendersi come una reazione a volte addirittura isterica alla debolezza delle istituzioni pubbliche, spesso in nome di tradizioni passate che hanno ormai poco significato reale nel presente. L'amore alla patria diventa spirito di conflittualità aggressiva, che cerca nella contrapposizione al nemico vero o presunto i termini di un'identità da tempo perduta. Oggi la Chiesa è chiamata a rimodellare la coscienza sociale, indicando nell'evento di Cristo il punto da cui partire, per riscoprire le fondamenta reali del potere e del servizio, il senso dell'autorità vera e dell'unità dei popoli per il bene comune. Proprio la dimensione mondiale dello sviluppo sociale favorisce questo compito: la cattolicità, cioè l'universalità della Chiesa, è l'unica fonte di autorità spirituale che non è messa in crisi dal crollo dello stato moderno e ha quindi la responsabilità di riscoprire e riproporre la propria natura in modo credibile, senza farsi strumentalizzare dai movimenti radicali apocalittici, che vedono nella globalizzazione un evento demoniaco distruttivo, o dai movimenti sciovinisti che difendono un astratto particolare etnico o nazionale. L'ecclesiologia del Concilio Vaticano II ha riproposto un'ideale patristico di Chiesa come comunione spirituale: oggi questo ideale deve essere nuovamente saldato alla realtà della Chiesa come istituzione sociale, non "perfetta" e chiusa in se stessa, ma aperta e dialogante con un mondo alla ricerca dell'identità. Del resto, il problema dell'identità non ha solo una dimensione sociale e pubblica, ma anche e soprattutto personale e spirituale. L'illusione dell'autonomia rende l'uomo non soltanto impotente di fronte all'oppressione delle varie forme di potere, ma lo fa sentire anche profondamente solo e disperato di fronte al proprio destino. La disperazione è forse la malattia più grave dell'uomo contemporaneo ed è resa evidente dalla spaventosa crisi della famiglia, l'istituzione più naturalmente legata alla persona. La famiglia è in crisi ovunque e sembra quasi si voglia sradicarla dalla coscienza delle persone. I rapporti interpersonali fondamentali, tra genitori e figli, tra fratelli e parenti, e di conseguenza tutta la catena dei rapporti sociali, sono ridotti a forme di strumentalizzazione reciproca, non di unità umana profonda e feconda. Si sta insieme per convenienza e la convenienza finisce sempre per avere dei termini molto limitati. La legge che regola i rapporti è quella dell'indifferenza etica, dell'insignificanza per la persona, e quindi della precarietà più assoluta, che porta anche a una notevole aridità. La famiglia, per quel poco che resiste nel suo insieme, non è più luogo di comunicazione umana e di comunicazione della verità, non accompagna nelle grandi questioni della vita ed è perfino ormai poco capace di generare: le società occidentali sono ormai incapaci di rigenerarsi e sono davanti allo spettro della depopolazione e della immigrazione incontrollata, con tutti gli sconvolgimenti sociali che questo comporta. L'attacco alla famiglia e alla sua stessa costituzione naturale risulta essere una minaccia profonda alla dignità stessa dell'uomo: " Le varie forme odierne di dissoluzione del matrimonio, come le unioni libere e il "matrimonio di prova", fino allo pseudo-matrimonio tra persone dello stesso sesso, sono invece espressioni di una libertà anarchica, che si fa passare a torto per vera liberazione dell'uomo. Una tale pseudo-libertà si fonda su una banalizzazione del corpo, che inevitabilmente include la banalizzazione dell'uomo. Il suo presupposto è che l'uomo può fare di sé ciò che vuole: il suo corpo diventa così una cosa secondaria dal punto di vista umano, da utilizzare come si vuole. Il libertarismo, che si fa passare per scoperta del corpo e del suo valore, è in realtà un dualismo che rende spregevole il corpo, collocandolo per così dire fuori dall'autentico essere e dignità della persona ". Si tratta di una banalizzazione dell'uomo perché tale posizione dimentica, se non addirittura nega esplicitamente, l'autentico significato e valore del matrimonio e della famiglia, ribadito con chiarezza dalle parole di Benedetto XVI: " matrimonio e famiglia non sono in realtà una costruzione sociologica casuale, frutto di particolari situazioni storiche ed economiche. Al contrario, la questione del giusto rapporto tra l'uomo e la donna affonda le sue radici dentro l'essenza più profonda dell'essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da qui. Non può essere separata cioè dalla domanda antica e sempre nuova dell'uomo su se stesso: chi sono? cosa è l'uomo? E questa domanda, a sua volta, non può essere separata dall'interrogativo su Dio: esiste Dio? e chi è Dio? qual è veramente il suo volto? ". Il vincolo familiare si radica quindi nella naturale dinamica ontologica costitutiva della persona umana e ogni costruzione sociale nel legiferare sulla famiglia non può non tenerne conto. Di fronte a questo attacco alla famiglia " la Chiesa non può cedere alle pressioni di una certa cultura, anche se diffusa e talvolta militante ". La Chiesa non si è stancata di ribadire che " la prima e fondamentale struttura a favore dell'"ecologia umana" è la famiglia, in seno alla quale l'uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuoi dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuoi dire in concreto essere una persona ". La Chiesa ha sempre difeso il primato della famiglia, il suo essere " la prima società umana ", perché è sempre stata consapevole che ridurre la famiglia " ad un ruolo subalterno e secondario, escludendola dalla posizione che le spetta nella società, significa recare un grave danno all'autentica crescita dell'intero corpo sociale ". La pastorale della famiglia, così fortemente sostenuta dal Magistero di Giovanni Paolo II, è uno degli esempi più evidenti del grande compito missionario della Chiesa nel terzo millennio: riscoprire il significato della famiglia significa dare una concreta possibilità all'uomo di ritrovare se stesso in quel deserto che è il mondo contemporaneo. Come più volte ha richiamato lo stesso Giovanni Paolo II, è infatti l'uomo la via tracciata alla Chiesa da Cristo con il mistero della sua incarnazione e redenzione. Per questo la Chiesa deve prendersi cura e avere responsabilità per l'uomo reale, concreto e storico, inserito nella complessa rete delle relazioni che sono proprie delle società moderne. La Chiesa si è impegnata e si impegna, attraverso la dottrina sociale, affinché il diritto di natura sia affermato come precedente la norma positiva e la famiglia sia riconosciuta come il fondamento stesso della vita associata: " La famiglia, fondata sul matrimonio contratto liberamente, unitario e indissolubile, è e deve essere considerata il nucleo naturale ed essenziale della società. Verso di essa vanno usati i riguardi di natura economica, sociale, culturale e morale che ne consolidano la stabilità e facilitano l'adempimento della sua specifica missione ". L'uomo, infatti, nel suo sviluppo naturale origina un popolo, la cui cellula primaria è la famiglia. Il popolo, che nasce dalla tradizione cristiana, ha un origine ed una vita propria che si sviluppa in primo luogo attraverso l'educazione familiare; origine e vita propria che precedono lo Stato. Quest'ultimo, secondo tale prospettiva, deve avere come compito quello di garantire lo svolgersi della vita del popolo e non quello di imporsi su di essa, o in alcuni casi addirittura contro di essa. Leone XIII nella celebre Rerum novarum afferma chiaramente che " se l'uomo, se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero nello Stato non un aiuto, ma offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti la civile convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare ". Proprio perché la famiglia non è solo il cuore della vita cristiana ma è anche il fondamento della vita sociale e civile, essa costituisce un capitolo centrale nell'insegnamento sociale cristiano. Pio XII di fronte alla distruzione della guerra, all'immane tragedia vissuta dalle popolazioni nel corso della Seconda Guerra Mondiale, ha indicato nella difesa e nella promozione della famiglia una delle condizioni fondamentali per la costruzione della pace e per il rinnovamento della società: " Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società [ … ] dia alla famiglia, insostituibile cellula del popolo, spazio, luce, respiro, affinché possa attendere alla missione di perpetuare nuova vita e di educare i figli in uno spirito, corrispondente alle proprie vere convinzioni religiose ". Molto più recentemente in un contesto storico ben diverso anche Giovanni Paolo II ha voluto ribadire che la famiglia è fondamentale per il bene della Chiesa e della società e che risulta perciò di primaria importanza difenderla: " In un momento storico nel quale la famiglia è oggetto di numerose forze che cercano di distruggerla o comunque di deformarla, la Chiesa, consapevole che il bene della società e di se stessa è profondamente legato al bene della famiglia ( Gaudium et spes 47 ), sente in modo più vivo e stringente la sua missione di proclamare a tutti il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia, assicurandone la piena vitalità e promozione umana e cristiana, e contribuendo così al rinnovamento della società e dello stesso Popolo di Dio ". Quali sono più specificamente la missione e i compiti della famiglia secondo l'insegnamento sociale della Chiesa? " La famiglia ha la missione di diventare sempre più quello che è, ossia comunità di vita e di amore, in una tensione che, come per ogni realtà creata e redenta troverà il suo componimento nel Regno di Dio [ … ] la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l'amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell'amore di Dio per l'umanità e dell'amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa ". Seguendo sempre l'insegnamento di Giovanni Paolo II, si può dire che tale missione si articola secondo quattro compiti generali: la formazione di una comunità di persone; il servizio alla vita; la partecipazione allo sviluppo della società; la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa. Pertanto la famiglia, oltre a essere " il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta e può svilupparsi secondo le esigenze di un'autentica crescita umana ", risulta anche essere luogo fondamentale per la vita della Chiesa e per la vita della società civile. Per quanto concerne la vita della Chiesa la famiglia può testimoniare una vita vissuta cristianamente, una vita di condivisione e di missione. La Chiesa, guardando la famiglia, diventa maggiormente se stessa. Il modo, per contribuire allo sviluppo della Chiesa da parte della famiglia, non è necessariamente l'impegno concreto, che si esprime nell'assumere cariche o rivestire ruoli all'interno della vita parrocchiale, ma innanzitutto quello di essere Chiesa. Il primo contributo importante è la propria testimonianza di esser Chiesa: " la stessa vita di famiglia diventa itinerario di fede e in qualche modo iniziazione cristiana e scuola della sequela di Cristo ". Perché ciò accada è necessario che la famiglia sia chiamata a una continua conversione dell'intelligenza per fare proprio l'orizzonte della missione, dilatando la propria mentalità, che a volte rischia di essere scambiata con la verità. Quanto più vive così, tanto più la famiglia costruisce la Chiesa. L'elevazione a sacramento del matrimonio è ciò che trasforma la natura dell'unione familiare, conferendogli un senso non solo economico e sociale, he è presente naturalmente in tutte le civiltà. Il sacramento, quindi la Chiesa, sono, infatti, la possibilità concreta che l'amore non degeneri nella riduzione dell'altro familiare ad un oggetto di possesso " sia che si tratti dei figli, sia che si tratti della persona che si sposa. A sua volta la Chiesa impara dalla famiglia la prossimità e la familiarità, non riducendosi, così, a pietismo religioso o a moralismo. La fede o è familiarità, e quindi determina una compagnia umana e storica, oppure non è, non esiste. In altri termini la Chiesa insegna alla famiglia che non è un'isola e la famiglia insegna alla Chiesa che è un popolo. Proprio perché la fede stessa è una familiarità, una comunità adulta dovrebbe essere un insieme di famiglie, che mostrano al mondo che la Chiesa è una famiglia. È per questo che la grande battaglia contro la Chiesa è stata anche la battaglia contro la famiglia. La comunità familiare basata sul matrimonio è stata, infatti, negata, marginalizzata e le sono stati tolti i suoi diritti, primo fra tutti quello all'educazione. Nella storia della Chiesa il più grande soggetto missionario sono sempre state le famiglie, innanzitutto con la loro missione nel quotidiano, che è diventata opera nel mondo. Per quanto concerne invece la vita della società l'influenza della famiglia su di essa è il risultato dell'impegno con la vita. La vita della famiglia, se è il continuo rinnovarsi di un soggetto ecclesiale, sviluppa una cultura che nasce dalla fede. Il primo contributo alla costruzione della società è da individuare allora nel giudizio, dal momento che il primo servizio che si può offrire all'uomo è quello della verità. Il primo contributo che una famiglia può dare alla società è lo sviluppo di una coscienza capace di giudicare quello che accade al fine di offrire soluzioni creative e originali, cioè derivanti dalla fede. La famiglia deve, perciò, essere intesa come un soggetto ecclesiale e allo stesso tempo come un soggetto capace di cultura, dunque in grado di porre criteri di giudizio e di comportamento originali, mostrandosi capace anche di valorizzare gli altri apporti che emergono nel dialogo, secondo quello che si definisce realmente "spirito ecumenico". La famiglia può influire sulla realtà che la circonda anche attraverso una seconda modalità, ovvero attraverso la realizzazione di opere, in cui sia affermata la centralità della persona e la sua libertà, create attraverso forme di condivisione di bisogni, ispirate dalla fede e caratterizzate dalla carità. Questa seconda modalità è in realtà strettamente legata alla precedente, dal momento che l'opera è sempre espressione di una cultura e la cultura per sua natura esige di arrivare alla costruzione di un'opera. La famiglia è, così, chiamata dal Magistero della Chiesa a diventare protagonista della realtà sociale e politica: " Le famiglie, sia singole che associate, possono e devono pertanto dedicarsi a molteplici opere di servizio sociale, specialmente a vantaggio dei poveri, e comunque di tutte quelle persone e situazioni che l'organizzazione previdenziale ed assistenziale delle pubbliche autorità non riesce a raggiungere. Il compito sociale delle famiglie è chiamato ad esprimersi anche in forma di intervento politico: le famiglie, cioè, devono per prime adoperarsi affinché le leggi e le istituzioni dello Stato non solo non offendano, ma sostengano e difendano positivamente i diritti e i doveri della famiglia. In tal senso le famiglie devono crescere, nella coscienza di essere "protagoniste" della cosiddetta "politica familiare" ed assumersi la responsabilità di trasformare la società: diversamente le famiglie saranno le prime vittime di quei mali, che si sono limitate ad osservare con indifferenza ". Infine, non bisogna dimenticare, il ruolo fondamentale che la dottrina sociale riconosce alle famiglie per quanto riguarda l'educazione: " I genitori posseggono un diritto di priorità nel mantenimento dei figli e nella loro educazione ". Ciò significa che " il diritto-dovere educativo dei genitori si qualifica come essenziale, connesso com'è con la trasmissione della vita umana; come originale e primario, rispetto al compito educativo di altri, per l'unicità del rapporto d'amore che sussiste tra genitori e figli; come insostituibile ed inalienabile, e che pertanto non può essere totalmente delegato ad altri, ne da altri usurpato ". La dottrina sociale ha sempre condannato posizioni che sopprimano la libertà di educazione, perché una tale soppressione minaccia alla radice la naturale dinamica educativa. Spetta innanzitutto ai genitori provvedere all'educazione dei figli; certamente non in modo esclusivo ma in modo prioritario. È naturale per una famiglia potere affidare la formazione dei figli a qualcuno che venga stimato come valido, che trasmetta un senso della vita condiviso, non semplicemente ad un apparato burocratico. Rifiutando di delegare l'educazione esclusivamente allo stato, il Magistero riconosce alla natura dell'uomo, pur segnata dal peccato, la possibilità di costruire liberamente qualcosa di buono. La tendenza invece a fare decidere il metodo e i valori di base della formazione scolastica dallo Stato sottintende una disistima nei confronti dell'uomo, il quale deve essere appunto sostituito nel definire il senso dell'esperienza educativa dal potere statale. La difesa della famiglia, ovvero del primo nucleo sociale che si sviluppa naturalmente e liberamente, è un'ulteriore conferma al fatto che l'indicazione fondamentale e programmatica della dottrina sociale nel terzo millennio cristiano sia la difesa della centralità dell'uomo. La difesa della libertà religiosa Mentre lo Stato moderno tende a considerare la religione come parte di sé, secondo quel processo che tende a fare della religione uno strumentum regni, la dottrina sociale ha difeso la distinzione radicale fra la dimensione religiosa e la vita politica in quanto la religione non è problema della società e dello Stato, ma della persona, della sua libertà ultima di coscienza. Lo Stato moderno, come si è brevemente accennato sopra, mentre afferma che occorre separare Chiesa e Stato, ha invece sostanzialmente perseguito l'assorbimento della Chiesa nello Stato. Si è sviluppata la tendenza, dunque, a considerare la religione come qualcosa che deve essere socialmente e politicamente controllato dallo Stato. Il potere politico ha, infatti, spesso preteso che per espletare funzioni religiose fosse necessario il permesso statale o che la nomina e la elezione delle autorità religiose dipendesse anche dall'intervento dello Stato. Ha cercato cioè di subordinare totalmente a sé la vita religiosa dei propri cittadini, inglobando la Chiesa. Tale operazione ideologica propria dell'epoca moderna è stata realizzata rinnegando la tradizione cattolica, la quale ha sempre insistito sulla distinzione tra la dimensione politica e quella religiosa. Si tratta di una distinzione fatta propria dalla posizione cattolica fin dalle origini, che ha trovato la sua espressione esplicita nel Magistero del Vescovo di Roma intorno alla fine del V secolo, assumendo il nome " distinzione gelasiana ", dal nome del Papa che l'ha formulata. Secondo tale distinzione esistono una sfera religiosa ed una sfera politica, che non possono essere assimilabili. " Per Gelasio si trattava di una questione di diritto: la religione cristiana non poteva adattarsi all'impero romano come già quella pagana. Di fronte alla Chiesa l'imperatore non poteva rivendicare quello stesso potere assoluto di cui prima disponeva nei confronti della religione ". Esiste, pertanto, una priorità ontologica ed una priorità etica della dimensione religiosa su quella politica, ma non nel senso che la prima intervenga nella sfera politica direttamente, bensì solo in quanto chiama quest'ultima a confrontarsi continuamente con ciò che la precede ontologicamente: Dio e la sua legge e, storicamente, la persona e la sua coscienza". La distinzione gelasiana ha salvaguardato, dal 500 circa fino all'epoca moderna, sia la libertà della Chiesa, sia quella della persona. " La difesa della libertà della Chiesa - ha affermato, infatti, Giovanni Paolo II - da indebite ingerenze dello Stato è allo stesso tempo difesa, in nome del primato della coscienza, della libertà della persona nei confronti del potere politico. In ciò sta il principio basilare di ogni ordine civile conforme alla natura dell'uomo ". Questa distinzione rimane fondamentalmente operante al di là di tutte le tensioni pratiche e politiche, e al di là anche delle differenze di sottolineatura teorica. Benedetto XVI l'ha ribadita nella sua Enciclica Deus caritas est: " Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio ( Mt 22,21 ), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano II, l'autonomia delle realtà temporali. Lo Stato non può imporre la religione, ma deve garantire la sua libertà e la pace tra gli aderenti alle diverse religioni; la Chiesa come espressione sociale della fede cristiana, da parte sua, ha la sua indipendenza e vive sulla base della fede la sua forma comunitaria, che lo Stato deve rispettare. Le due sfere sono distinte, ma sempre in relazione reciproca ". Una distinzione quindi che non è da intendersi, come erroneamente ha fatto la modernità, nel senso della separazione. È, infatti, necessario tenere presente che lo Stato non è altro che una fragile e contingente forma di convivenza che nasce dal popolo, il quale esiste nella misura in cui è costituito da una certa identità. Questo significa che senza l'origine del vivere comune, senza una condivisione di senso, non si può parlare né di popolo, né di Stato. È allora scorretto cercare di separare ciò che alimenta la speranza dei soggetti concreti, che liberamente si associano proprio a partire da quella speranza, dal modo concreto di costruire la società politica. Ecco allora che la dottrina sociale non è da considerarsi come indebita ingerenza, ma al contrario come un contributo importante alla costruzione di una società più giusta. Nel corso dei secoli, se da un lato si è formata una componente che ha tentato di assimilare la dimensione religiosa a quella politica, dall'altro si è sviluppata una corrente opposta, sostanziata da un pessimo agostinismo, che ha cercato di inglobare la politica all'interbo della religione e di considerare la prima semplicemente come il braccio secolare della seconda. Contro queste due visioni unificanti la Chiesa però ha sempre proposto la distinzione come salvaguardia non soltanto della libertà della Chiesa stessa, ma anche della libertà della coscienza personale e popolare. Difendendo la libertà della Chiesa la dottrina sociale ha in questi cento anni difeso anche la libertà della persona e della coscienza, fino al punto che il Concilio Vaticano II e Giovanni Paolo II hanno indicato nel rispetto e nella promozione della libertà religiosa il criterio fondamentale che definisce la democraticità di uno Stato. Il rispetto della libertà religiosa è indice, infatti, " dell'autentico progresso dell'uomo in ogni regime, in ogni società, sistema o ambiente ". Giovanni Paolo II nella Redemptor hominis, rifacendosi esplicitamente alla Dichiarazione Dignitatis humanae, ha voluto sottolineare come nell'epoca contemporanea la Chiesa nello svolgimento della sua missione, quindi senza invadere campi che non le appartengono, è diventata custode della libertà umana: " La Dichiarazione sulla Libertà Religiosa ci manifesta, in modo convincente, come Cristo e, in seguito, i suoi Apostoli, nell'annunciare la verità che non proviene dagli uomini, ma da Dio ( " la mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato ", cioè del Padre ), pur agendo con tutta la forza dello spirito, conservino una profonda stima per l'uomo, per il suo intelletto, la sua volontà, la sua coscienza e la sua libertà. In tal modo, la stessa dignità della persona umana diventa contenuto di quell'annuncio, anche se privo di parole, mediante il comportamento nei suoi riguardi. Tale comportamento sembra corrispondere ai bisogni particolari dei nostri tempi. Siccome non in tutto quello che i vari sistemi ed anche singoli uomini vedono e propagano come libertà è la vera libertà dell'uomo, tanto più la Chiesa, in forza della sua divina missione, diventa custode di questa libertà, la quale è condizione e base della vera dignità della persona umana ". Del resto si può dire che Giovanni Paolo II ha incarnato questa difesa della libertà. Il suo pontificato è stato sicuramente decisivo dal punto di vista storico per la liberazione dei popoli sottomessi dal totalitarismo sovietico. Particolarmente significativo a questo riguardo rimane il primo viaggio di Giovanni Paolo II nella sua Polonia, ancora comunista, in cui la sua semplice presenza, il suo pellegrinaggio, perché di questo si è trattato, non certo di un viaggio con finalità di carattere socio-politico, è stato sufficiente per risvegliare nei cuori di milioni di polacchi il desiderio di Dio e con esso della libertà: " E tutto questo, a detta dei testimoni oculari e degli studiosi, sarebbe stato inimmaginabile senza il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II [ … ]. Il pellegrinaggio del Papa aveva dato a credenti e non credenti un nuovo senso del proprio valore, una nuova esperienza della dignità personale e una nuova determinazione a non lasciarsi più intimidire dal "potere" ". Giovanni Paolo II ha spesso anche richiamato esplicitamente l'importanza del rispetto della libertà di coscienza per la promozione di una società veramente umana: " I molti popoli che formano l'unica famiglia umana cercano oggi, sempre più frequentemente, l'effettivo riconoscimento e la tutela giuridica della libertà di coscienza, la quale è essenziale per la libertà di ogni essere umano [ … ] Negare a una persona la piena libertà di coscienza e in particolare la libertà di cercare la verità, o tentare di imporle un particolare modo di comprendere la verità, va contro il suo diritto più intimo ". C'è chi sostiene però che l'idea della libertà religiosa e della libertà di coscienza sia un guadagno della modernità e che la Chiesa l'abbia riconosciuta ed accettata solo in tempi recenti, in modo chiaro e distinto solo con il Concilio Vaticano II. Nei secoli precedenti la Chiesa avrebbe assunto una posizione ostile alla libertà religiosa e alla libertà di coscienza, come risulterebbe ad esempio da numerose affermazioni del pensiero moderno condannate dal Sillabo di Pio IX. Tale interpretazione non tiene conto della reale posizione della Chiesa circa la libertà religiosa. Il Sillabo, infatti, condanna non la libertà di coscienza in quanto tale, come spesso è stato denunciato, quanto la mentalità relativistica che incominciava a diffondersi, negando la possibilità di una verità assoluta e affermando l'equivalenza di tutte le religioni. Il Magistero della Chiesa allora come oggi se da un lato ha sempre sostenuto che l'atto di fede è un atto libero e personale, a cui nessuno può essere obbligato contro la propria coscienza, difendendone l'assoluta libertà, dall'altro ha sempre sostenuto il fondamentale legame della libertà con la verità e anche l'unicità e definitività della salvezza in Gesù Cristo. Il valore della libertà religiosa, così come è proclamato all'interno del Concilio Vaticano II nella Dignitatis humanae, risulta, infatti, fondato, non sull'impossibilità di giungere al vero, sull'indifferentismo, condannati da Pio IX, ma sulla dignità dell'uomo inteso come essere che cerca la verità. Le parole di Paolo VI a riguardo non lasciano alcun dubbio: " Il Concilio, in nessun modo, fonda questo diritto sul fatto che tutte le religioni, e tutte le dottrine, anche erronee, che riguardano questo campo, avrebbero un valore più o meno uguale; lo fonda invece sulla dignità della persona umana, la quale esige di non essere sottoposta a costrizioni esteriori che tendono a opprimere la coscienza nella ricerca della vera religione e nell'adesione ad essa ". Chi si ferma ad una lettura superficiale del Magistero normalmente contrappone Sillabo e Dignitatis humanae, non cogliendo il loro accordo di fondo e non capendo che l'apparente contraddittorietà deriva dalla diversa prospettiva che le caratterizza: " Il Sillabo non colpì né condannò [ … ] la libertà, ma la sua dissociazione dall'ordine oggettivo. [ … ] Se ne deduce non la contraddittorietà, ma la diversità formale fra la Dignitatis humanae e il Sillabo: questo spaziava sull'orizzonte oggettivo dei rapporti sociali, quella entra nel sacrario della coscienza individuale per tutelarlo da qualunque aggressione. Non diversamente dal pensiero e dalla prassi di Pio IX, anzi della Chiesa stessa, come dimostra la costante proibizione delle conversioni forzate e del Battesimo contro volontà ". La libertà religiosa che oggi la Chiesa proclama e difende è in continuità con quanto in passato il suo Magistero ha affermato, ad esempio attraverso il Sillabo, perché il valore promosso con l'affermazione di tale diritto è innanzitutto la difesa della concreta possibilità di scelta del popolo. La costitutiva vocazione dell'uomo alla verità non si attua in astratto, ma sempre dentro la particolare situazione storica in cui l'uomo è posto. Se si tiene conto di ciò, il Sillabo, inteso talora come un ostacolo al cammino della libertà e del progresso, si rivela invece come un'appassionata difesa della libertà concreta. Difesa, cioè, di quella libertà del popolo che, di fronte ad un evidente tentativo da parte di un élite minoritaria di manipolare per scopi politici la mentalità comune, ha trovato nella Chiesa un sostegno ed un appoggio per affrontare la realtà culturale, sociale e quotidiana, senza chiudersi in una posizione nostalgica di semplice riproposizione del passato. La lotta alla Chiesa, che ha caratterizzato gran parte del movimento liberale ottocentesco, è stata realizzata anche attraverso il sostenere la possibilità di coltivare come ragionevole qualsiasi culto religioso o politico. La Chiesa vi si è opposta, non solo per difendere la ricchezza del patrimonio culturale e religioso della tradizione cattolica, ma anche per impedire le conseguenze negative di una libertà indifferente alla verità. La condanna contenuta nel Sillabo non è alla libertà di culto, ma al sostenere contro la tradizione cattolica una libertà indiscriminata di culto, dove ad uguale titolo possa essere considerata legittima ogni forma di setta religiosa, comprese quelle che risultano nocive per la stessa umanità. In sintesi, l'insegnamento di Pio IX non condanna " la libertà di pensiero, di parola, di stampa, di coscienza e di culto sic et simpliciter, ma respinge la sfrenata libertà di pensiero, quella, cioè, che non riconosce nemmeno la destinazione essenziale del pensiero alla verità, che per un cattolico è, non esclusivamente bensì fondamentalmente, la verità divina rivelata; non la libertà di parola in astratto, ma la libertà di parola che non tenga conto della suggestionabilità dei deboli, degli ignoranti o meno provveduti, e del pericolo di trarli in errore e far perdere loro il beneficio della fede; non la libertà di coscienza e di culto in astratto, cioè di chi non conosca o non sia riuscito, in buona fede, a convincersi della trascendente ed unica verità del Cristianesimo, ma quelle libertà in quanto rivendicate in nome di un totale indifferentismo religioso e d'un intransigente agnosticismo ". Non si può trascurare il fatto che l'esaltazione della libertà come conseguenza dell'indifferenza nei confronti della verità ha fatto della possibilità di scelta il cardine della libertà, ma allo stesso tempo ha finito per paralizzare l'uomo nel suo esercizio di scelta. Se tutto è indifferente, se nulla è più o meno vero, più o meno buono, in base a cosa scegliere? Non c'è più un criterio insito nell'uomo: l'anelito alla verità, alla giustizia, al bene non sono più i criteri comuni ed universali insiti nel cuore dell'uomo in base ai quali giudicare della realtà. Rimane solo il criterio che è imposto dal potere, da chi cioè detiene i mezzi per imporre del tutto arbitrariamente una propria visione della realtà. Svincolato il problema della libertà dal problema della verità, l'uomo, senza che se ne accorga, finisce così per dipendere da una visione della realtà imposta, che non lascia spazio ad altro, assumendo sempre più i caratteri dell'idolo, perché non in grado di spiegare veramente la realtà. Con le parole di Del Noce possiamo dire che " il male dell'occidentalismo presente sta nell'aver scisso il tema della libertà da quello dell'immagine di Dio ", ovvero della verità ultima. Quello che la Chiesa ha sempre sostenuto, sia prima che dopo il Concilio Vaticano II, è che non esiste libertà senza verità. Non esiste libertà se non come responsabilità di fronte al vero. L'avere sciolto il nesso verità-libertà ha significato trasformare la libertà semplicemente in istintività, rendendo così l'uomo più facilmente manipolabile dal potere. La libertà è, infatti, da considerarsi come quell'impeto, assolutamente personale, con cui ogni uomo risponde alla grande domanda sul senso ultimo della vita, al grande problema della verità. Se si elimina la domanda sul senso, la domanda su Dio, il naturale movimento dell'uomo verso Dio, l'uomo è ridotto ultimamente a qualcosa di inconsistente, alla mercé di chi domina, di chi grida di più, di chi ha più forza per imporre i propri interessi, di chi è più capace di manipolare il consenso. Senza questa tensione al vero, al bene, al bello, al giusto, senza questo "oltre" che dice la struttura profonda della vita e il dinamismo dell'intelligenza e del cuore, l'uomo non ha radici, è sradicato e diventa un pezzo di materia che la scienza pretende di normare in maniera definitiva, o addirittura di manipolare. Il Magistero a partire quindi dalla condanna del materialismo insita nel Sillabo, fino ad arrivare all'insegnamento di Giovanni Paolo II, non ha mai smesso di ricordare che il vero protagonista della storia è l'uomo, che, sebbene condizionato dalle circostanze, è libero. Una libertà che appunto non è assoluta, e quindi sempre limitata, ma che rende capace l'uomo di sperare, di cercare, di incontrare, di amare e dilatare la presenza del vero, del bene, del giusto. Le due parole verità e libertà, solo se sono tenute insieme, esprimono in modo adeguato l'esperienza umana. L'uomo è tutto nel suo cuore, cioè in questa tensione a conoscere il vero, in questo andare oltre i limiti della propria esperienza umana, perché l'esperienza umana non è sufficiente, non ha in sé la sua ragione. L'uomo non può vivere di istinto e non può vivere neanche di conoscenze particolari, o di situazioni particolari. L'uomo è percorso da un'inquietudine che lo porta verso qualche cosa di diverso che pure è radice di ciò che vede tutti i giorni. Quando un uomo dice "io" apre nella sua vita il mistero del suo cammino verso Dio, ma apre questo cammino perché è libero, radicalmente può dire "voglio" o "non voglio", può assecondare questo intendimento o negarlo, ma quando lo asseconda capisce che la radice del suo muoversi è la fonte della libertà. La libertà non può essere astrattamente separata dal riconoscimento della verità, intendendo con libertà l'assoluta indifferenza di fronte alla verità. L'uomo è libero perché cerca Dio. L'uomo non è libero perché fa quello che gli pare e piace. La libertà non può consistere innanzitutto nel fare ciò che si vuole, perché se non si deve costringere nessuno ad aderire alla verità non si può neanche rimanere indifferenti di fronte alla verità. Diceva Kierkegaard che l'uomo non è né un esteta, né un produttore, ma un religioso. L'uomo non è né un esteta ( esteta nel senso del sensibile, cioè che reagisce e ordina le sue reazioni ) e non è neanche un produttore, quello che manipola la realtà in modo da creare situazioni sempre più adeguate. Questi sono aspetti importanti, ma secondari. L'uomo è la ricerca di Dio, del senso ultimo, ed in questo l'uomo gioca integralmente la sua responsabilità, la sua libertà. La radice misteriosa della sua libertà è questo "oltre" verso cui egli si muove. Se togliamo l'oltre, si perde la libertà, non a livello teorico, ma soprattutto e drammaticamente come concreta esperienza. Non solo la libertà nella tensione a conoscere il senso ultimo implica un'apertura al reale, un legame fondamentale e inscindibile con la verità; la libertà implica da sempre anche un'apertura all'altro, perché la realtà non è costituita soltanto da cose, dalla natura, dagli eventi; la realtà a cui la vita si apre, con cui la mia libertà si gioca, è anche l'altro accanto a me. Allora la libertà è sfidata dall'altro. Chi è l'altro per me? L'oggetto di una manipolazione, il punto di una reazione affettiva, sentimentale, psicologica, sessuale? L'altro è qualcuno che mi accorgo essere misteriosamente come me all'interno del grande mistero delle cose. La libertà che si gioca con l'altro capisce che confusamente l'altro è accanto a me come una realtà simile a me, quasi come me. L'apertura che è la libertà verso l'altro si declina allora come amore. La natura umana nulla sente più vicino a sé della dedizione. La libertà si coniuga come ricerca del vero, come grande tensione al mistero, cioè come amore. È per questo che un uomo che dice Tu alla sua donna dice sì al Mistero. Come dice Shakespeare: " Mostrami un'amante che sia pur bellissima. Ma che servirà la sua bellezza, se non come un segno dove io legga il nome di colei che di quella bellissima è più bella ". Il vero grande antidoto alla falsa idea di libertà, che è affermata a prescindere dalla verità, è correre fino in fondo il rischio della libertà come impegno con la realtà, come tensione a comprendere la realtà. Un tale impegno porta l'uomo ad amare l'altro, a vedere nell'amore per l'altro la legge fondamentale della propria esistenza, ovvero il modo attraverso il quale realizzarsi pienamente. La libertà non può pertanto essere scissa dal problema della verità e dalla dinamica di amore che contraddistingue l'esistenza dell'uomo riassunta nella formula evangelica " ama il prossimo tuo come te stesso ". La libertà è ragione ed amore: quando un uomo dice "Io" e si rapporta alla realtà e sente dentro di sé quella che Agostino ha chiamato in modo indimenticabile e insuperabile "inquietudine", fa esperienza autentica della libertà. La libertà è ragione e amore, ma la ragione e l'amore di cui è fatto il cuore dell'uomo convivono misteriosamente con un'originale debolezza e negatività. Per questo la libertà ha bisogno di essere guarita, ha bisogno dell'immagine della redenzione, che per secoli è stata la più cara alla tradizione cattolica, soprattutto per la testimonianza fornita dalla patristica orientale, cioè quella del Cristo Guaritore. Secondo tale immagine l'uomo ferito, deluso, ingannato dai ladroni, che attualizzando la parabola evangelica possiamo dire che oggi rappresentano le grandi illusioni ideologiche socio-politiche, filosofiche o scientifiche della modernità, trova nel Cristo il suo guaritore. Nella parabola evangelica del buon samaritano l'uomo, lasciato per strada mezzo morto dai briganti, trova improvvisamente accanto il buon samaritano, colui che si piega su di lui, ne compartecipa e ne condivide le sofferenze, ne cura le ferite e lo guarisce, prendendolo sulle spalle e portandolo in albergo. Il Cristo guaritore allo stesso modo allora è colui che fa entrare l'uomo ferito in una casa nuova e diversa, quella in cui la grande potenzialità umana, ragione e amore, vengono custodite ed educate. La libertà, che è una grande potenzialità che l'uomo ha nel suo cuore dall'inizio del mondo, avendolo Dio fatto a sua immagine e somiglianza, è stata pienamente riscattata da Cristo. Quella possibilità di corruzione, quella debolezza comune, che tende a controvertere in negativo questa potenzialità, ha incontrato il mistero dell'uomo Dio, di Dio che si è fatto uomo perché l'uomo potesse diventare Dio. Occorre, allora, che tutto il grande movimento della ragione, senza perdere il fascino del compiersi come ragione, si apra a questo incontro inedito, inaspettato, imprevedibile, non previsto, non deducibile dai suoi antecedenti. Occorre che la ragione si compia nella fede e la fede, accogliendo la ragione, si compia anch'essa in qualche modo nella ragione, perché la fede che si incontra nella ragione dimostra la sua verità, diventa capace di dare le proprie ragioni e quindi diventa capace di comunicarsi. La fede cristiana si comunica, infatti, attraverso la vita di coloro che credendo mangiano, bevono, vivono e muoiono con una ragione diversa da quella di tutti gli altri. La parola è dentro il cuore di ciascuno uomo che vive la battaglia di tutti i giorni. Il cuore dell'uomo è un campo di battaglia tra l'essere e il nulla; battaglia che può volgere verso la sconfitta, verso il prevalere della tentazione ideologica, oppure verso il sopravvento della verità. Tuttavia, nel groviglio delle contraddizioni e dei limiti, in quell'ultima e insondabile complicazione che risulta essere il cuore dell'uomo, per grazia è venuto Cristo nel vivo della storia. E qui, nel vivo della storia, c'è la Chiesa, c'è il popolo dove il Signore è presente, c'è il popolo dove la nostra guarigione può accadere continuamente, il luogo dove la maternità e la paternità di Dio - perché Dio è padre e madre, quindi è l'estrema e ultima tenerezza, da cui nasciamo e da cui torniamo - ci fanno compagnia educativa. Un cammino, il nostro, segnato da tanti errori e da tanti limiti, ma anche un cammino sicuro verso la pienezza della verità, perché la pienezza della gloria di Dio coincide storicamente con una umanità nuova. Un uomo nuovo che vive nel mondo, questa è la gloria di Dio. La difesa dei diritti Il Magistero sociale della Chiesa ha sempre denunciato il pericolo dell'assolutismo: la concezione assolutistica della vita politica e dello Stato riduce tutti i diritti dell'uomo a mera sopravvivenza fisica, negando l'insieme delle esigenze primarie che la dottrina sociale ha da sempre collegato alla persona. La Chiesa, inoltre, ha voluto, innanzitutto, evidenziare come l'assolutismo si sia presentato nella storia della modernità con una connotazione culturale, teorica, prima ancora che pratica e politica. Da qui l'esigenza di elaborare un Magistero che evidenziasse l'origine del dramma sociale e politico dell'uomo moderno-contemporaneo, ovvero l'impoverimento sostanziale dell'uomo, che ha finito per perdere sia la sua eticità, sia la sua responsabilità ultima di fronte al destino, essendo venuta a mancare la drammaticità dell'esistenza umana come esperienza di rapporto con la verità della vita. Tale forma di meccanicismo ha finito paradossalmente, contro quelle che erano le sue intenzioni iniziali, per celebrare non certo il potere dell'uomo, bensì il potere dello Stato sull'uomo stesso. Di fronte a ciò la Chiesa ha, con sempre maggiore energia, affermato l'esistenza di diritti inalienabili della persona che devono essere riconosciuti e difesi all'interno della società: " In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili ". Diritti che hanno perciò il loro fondamento ultimo in Dio: " l'uomo è creatura di Dio, e per questo i diritti dell'uomo hanno in Dio la loro origine, riposano nel disegno della creazione e rientrano nel piano della redenzione. Si potrebbe quasi dire, con espressione audace, che i diritti dell'uomo sono anche i diritti di Dio ". Nella Centesimus annus non solo troviamo un elenco dettagliato di tali diritti, ma troviamo anche ribadito il concetto che a fondamento di essi vi è il diritto alla libertà religiosa: " Tra i principali sono da ricordare: il diritto alla vita, di cui è parte integrante il diritto a crescere sotto il cuore della madre dopo essere stati generati; il diritto a vivere in una famiglia unita e in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria personalità; il diritto a maturare la propria intelligenza e la propria libertà nella ricerca e nella conoscenza della verità; il diritto a partecipare al lavoro per valorizzare i beni della terra ed a ricavare da esso il sostentamento proprio e dei propri cari; il diritto a fondare liberamente una famiglia ed a accogliere e educare i figli, esercitando responsabilmente la propria sessualità. Fonte e sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la libertà religiosa, intesa come diritto a vivere nella verità della propria fede ed in conformità alla trascendente dignità della propria persona ". Dunque, la libertà è principio fondamentale di coscienza e di vita, riconoscerlo significa che l'uomo non può mai essere ridotto a nessuna struttura biofisiologica o a nessun intreccio di carattere socio-politico. L'uomo è saldamente radicato sulla terra ma le sue radici sono altrove, nel cuore segreto e potente del Mistero. Per questo motivo la libertà di coscienza è difesa con estrema chiarezza dalla Chiesa, senza rinunciare però ad indicare l'essenziale nesso che la lega alla verità: " Nessuna autorità umana ha il diritto di intervenire nella coscienza di alcun uomo. Questa è il testimone della trascendenza della persona anche nei confronti della società e, come tale, è inviolabile. Essa, però, non è un assoluto, posto al di sopra della verità e dell'errore; anzi, la sua intima natura implica il rapporto con la verità obiettiva, universale e uguale per tutti, che tutti possono e devono cercare. In questo rapporto con la verità obiettiva la libertà di coscienza trova la sua giustificazione, in quanto condizione necessaria per la ricerca della verità degna dell'uomo e per l'adesione ad essa, quando è stata adeguatamente conosciuta. Ciò implica, a sua volta, che tutti devono rispettare la coscienza di ognuno e non cercare di imporre ad alcuno la propria "verità", restando integro il diritto di professarla, senza per questo disprezzare chi la pensa diversamente. La verità non si impone che in virtù di se stessa ". La stessa vita, oggi di fronte a quella che abbiamo indicato prima come "cultura di morte", secondo le parole di Giovanni Paolo II, è minacciata. È come se il valore della vita subisse " una specie di "eclissi", per quanto la coscienza non cessi di additarlo quale valore sacro e intangibile, come dimostra il fatto stesso che si tende a coprire alcuni delitti contro la vita nascente o terminale con locuzioni di tipo sanitario, che distolgono lo sguardo dal fatto che è in gioco il diritto all'esistenza di una concreta persona umana ". Ecco allora il forte impegno della dottrina sociale nella difesa del diritto alla vita e nell'affermazione della sacralità della stessa. È lo sguardo rivolto al fondamento ultimo e trascendente dell'esistenza che consente alla Chiesa nel suo insegnamento sociale, come si è del resto già evidenziato più volte nel corso di questo lavoro, di valorizzare in tutta la sua pienezza la vita umana, conferendogli un valore assoluto. È proprio questo sguardo che è all'origine della lotta che la Chiesa sostiene per difendere la vita dell'uomo dal suo concepimento fino alla sua morte naturale: " L'uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio. L'altezza di questa vocazione soprannaturale rivela la grandezza e la preziosità della vita umana anche nella sua fase temporale. La vita nel tempo, infatti, è condizione basilare, momento iniziale e parte integrante dell'intero e unitario processo dell'esistenza umana. Un processo che, inaspettatamente e immeritatamente, viene illuminato dalla promessa e rinnovato dal dono della vita divina, che raggiungerà il suo pieno compimento nell'eternità ( 1 Gv 3,1-2 ). Nello stesso tempo, proprio questa chiamata soprannaturale sottolinea la relatività della vita terrena dell'uomo e della donna. Essa, in verità, non è realtà "ultima", ma "penultima"; è comunque realtà sacra che ci viene affidata perché la custodiamo con senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell'amore e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli ". Proclamare il Vangelo di Gesù Cristo è proclamare coerentemente e conseguentemente il Vangelo della vita. La vita della persona è sacra, perché la persona appartiene integralmente al mistero di Cristo e di Dio e, in questo mistero e per questo mistero, la persona umana è "per sempre". La vita fisica è la condizione inevitabile perché la persona umana viva sulla terra e viva quindi il suo cammino di responsabilità verso Cristo nelle varie circostanze della sua esistenza; poiché è condizione dell'esistenza storica della persona umana, la vita fisica affonda le sue radici dove affonda le sue radici la persona, cioè nel mistero di Dio. Per questo la vita fisica non è a disposizione di nessuno, né dei genitori, né dello Stato, né della scienza, né della tecnica, perché è dono di Dio concesso misteriosamente ad una libertà umana perché potesse vivere la sua avventura terrena come cammino verso Dio o contro Dio. La fine della vita fisica, mediante la morte fisica, non annulla la persona come avvenimento di perennità in Dio, muta solo le condizioni entro le quali la persona vive il dramma del suo amore o del suo odio al mistero di Dio. L'appello della Chiesa in difesa del diritto della vita è di fondamentale importanza, perché " sul riconoscimento di tale diritto si fonda l'umana convivenza e la stessa comunità politica ". Inoltre, è da considerarsi rivolto a tutti gli uomini, non solo ai cristiani. Infatti, " la Chiesa sa che questo Vangelo della vita, consegnatele dal suo Signore, ha un'eco profonda e persuasiva nel cuore di ogni persona, credente e anche non credente, perché esso, mentre ne supera infinitamente le attese, vi corrisponde in modo sorprendente ". Questo perché " pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore ( Rm 2,14-15 ) il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario ". La proclamazione della cultura della vita, attraverso la testimonianza impegnata di tanti cristiani, che fanno dell'amore alla vita, anche nei suoi aspetti più gravi o più deboli o dei suoi condizionamenti più penosi, occasione di testimonianza quotidiana di fronte al mondo e alla sua violenza, è la grande responsabilità che incombe su tutta la Chiesa e su ogni cristiano. Si tratta cioè di aprire ogni giorno con la parola e con le opere quella via nuova che va dal cuore di Dio al mondo e che rende il mondo un luogo di positività, contro ogni tentazione di violenza, di sopraffazione o di meschinità: " Nell'accoglienza amorosa e generosa di ogni vita umana, soprattutto se debole o malata, la Chiesa vive oggi un momento fondamentale della sua missione, tanto più necessaria quanto più dominante si è fatta una "cultura di morte". Infatti la Chiesa fermamente crede che la vita umana, anche se debole e sofferente, è sempre uno splendido dono del Dio della bontà. Contro il pessimismo e l'egoismo, che oscurano il mondo, la Chiesa sta dalla parte della vita: e in ciascuna vita umana sa scoprire lo splendore di quel "Sì", di quell'Amen", che è Cristo stesso ( 2 Cor 1,19; Ap 3,14 ). Al "no" che invade e affligge il mondo, contrappone questo vivente "Sì", difendendo in tal modo l'uomo e il mondo da quanti insidiano e mortificano la vita ( Familiaris consortio, 30 ). Tocca ai fedeli laici, che più direttamente o per vocazione o per professione sono coinvolti nell'accoglienza della vita, rendere concreto ed efficace il "sì" della Chiesa alla vita umana ". I principi fondamentali della dottrina sociale Chiarite le linee fondamentali dell'azione correttiva esercitata dalla Chiesa, nei confronti di quella prospettiva moderna che ha cercato di costruire la società rifiutando e negando Dio, si sono voluti qui brevemente indicare i princìpi fondamentali del Magistero sociale. Si tratta del principio del bene comune, del principio della sussidiarietà, del principio della solidarietà e del principio della dignità della persona. È in quest'ultimo che trovano il loro fondamento gli altri tre. Questi princìpi " costituiscono i veri e propri cardini dell'insegnamento sociale cattolico ". Essi devono essere considerati insieme, nella loro costitutiva connessione e articolazione: " L'attenzione verso ogni singolo principio nella sua specificità non deve condurre ad un utilizzo parziale ed errato, che avviene qualora lo si invochi come fosse disarticolato e sconnesso rispetto a tutti gli altri ". In realtà all'interno di questo lavoro essi sono già emersi nel considerare la posizione critica assunta dalla Chiesa nei confronti della modernità. Si vuole, cioè, qui esplicitare del tutto ciò che era già presente implicitamente nei precedenti capitoli. In particolare, visto che della dignità della persona si è già ampiamente trattato, si intende compiere alcune precisazioni circa gli altri tre. Il principio del bene comune Che cos'è il bene comune? " Per bene comune s'intende l'insieme di quelle condizioni di vita sociale che permettono ai gruppi e ai singoli di realizzare la propria perfezione ". Si tratta di condizioni di natura materiale e spirituale perché riguardano l'uomo nella sua integrità: " il bene comune ha attinenza a tutto l'uomo: tanto ai bisogni del suo corpo che alle esigenze del suo spirito ". Esso ha un importanza fondamentale in quanto l'uomo non può vivere da solo e naturalmente è portato a costruire la società. Quest'ultima può realizzarsi adeguatamente solo nella misura in cui risulta organizzata secondo il bene comune: " Nessuna forma espressiva della socialità - dalla famiglia, al gruppo sociale intermedio, all'associazione, all'impresa di carattere economico, alla città, alla regione, allo Stato, fino alla comunità dei popoli e delle Nazioni - può eludere l'interrogativo circa il proprio bene comune, che è costitutivo del suo significato e autentica ragion d'essere della sua stessa sussistenza ". Il bene comune, quindi, si riferisce essenzialmente alla dimensione sociale della vita umana, non può essere considerato semplicemente come la somma dei beni particolari di ciascun individuo. Il perseguimento del bene comune non può comunque mai richiedere il sacrificio del valore assoluto della persona. Anzi, esso comporta " il rispetto e la promozione dei diritti fondamentali della persona; lo sviluppo dei beni spirituali e temporali delle persone e della società; la pace di tutti ". Tutti gli uomini sono chiamati a fornire, secondo le proprie capacità e secondo le circostanze particolari che vivono, il proprio contributo alla realizzazione del bene comune. È, infatti, dalla dignità della persona che " scaturisce il diritto di prender parte attiva alla vita pubblica e addurre un apporto personale all'attuazione del bene comune ". Il principio del bene comune si regge sul principio della destinazione universale dei beni: " Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all'uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità ". Esso non è in opposizione con il diritto alla proprietà privata, spesso difeso dalla Chiesa contro prospettive di tipo collettivistiche. Infatti, la Chiesa ne ha mai affermato il valore assoluto della proprietà privata, ne ha mai visto in essa qualcosa di necessariamente negativo. La Chiesa ha sempre ritenuto legittimo il diritto alla proprietà privata, ma allo stesso tempo ha sempre affermato la necessità di regolamentarlo in base al principio della destinazione universale dei beni. Lo stesso Stato e le stesse istituzioni devono essere concepite e organizzate in funzione del bene comune, la cui attuazione " costituisce la stessa ragione di essere dei poteri pubblici; i quali sono tenuti ad attuarlo nel riconoscimento e nel rispetto dei suoi elementi essenziali e secondo contenuti postulati dalle situazioni storiche ". Lo Stato, come ha insegnato il cristianesimo fin dai primi secoli, non deve essere il punto di riferimento ultimo della vita sociale, ma solo il suo punto normativo. Lo Stato ha il compito di servire il bene comune che è il risultato della varietà delle espressioni della libertà e della responsabilità dell'uomo. Lo Stato è concepito adeguatamente nella misura in cui si arresta di fronte alla dimensione della coscienza personale, che è sempre una dimensione religiosa e inviolabile. È per questo motivo che " il bene comune della società non è un fine a sé stante ", ma " ha valore solo in riferimento al raggiungimento dei fini ultimi della persona ". Sulla base dell'insegnamento sociale della Chiesa e dell'apporto concreto delle comunità ecclesiali è possibile pensare di realizzare uno Stato al servizio del bene comune. La presenza del popolo cristiano come popolo che vive la missione, può generare nella vita della intera società un movimento positivo. La Chiesa chiede a tutte le realtà religiose, laiche, culturali e sociali di essere presenti nella vita sociale in modo creativo e coerentemente con la propria identità. Così, la società può diventare una realtà viva, organica, vivace, diversificata e lo Stato può vivere in maniera assolutamente irrinunciabile quel servizio alla vita sociale che è la caratteristica fondamentale del suo compito: promuovere il bene comune. Il principio di sussidiarietà Il principio di sussidiarietà è considerato dal Magistero sociale della Chiesa un principio fondamentale che è necessario tenere presente per un corretto modo di intendere le istituzioni. Le istituzioni devono, infatti, esistere per sussidiare i diritti fondamentali della vita sociale, per favorire il libero processo di costruzione sociale promosso dalle persone singole o associate. Secondo quanto affermato da Giovanni Paolo II, infatti, " una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune ". Si può dire che, secondo tale prospettiva, lo Stato stesso, in qualche modo, nasca dall'esercizio del principio di sussidiarietà. La dottrina sociale della Chiesa ha sempre difeso i diritti della società, chiedendo allo Stato di servire la società e non di "imporsi" ad essa. Uno dei contributi più significativi della dottrina sociale al dibattito sulla natura e il valore dello stato, nel corso degli ultimi due secoli, è proprio quello di avere favorito l'idea che lo Stato non coincide con la società. Stato e società sono stati invece fatti coincidere secondo il grande dogma della concezione totalitaria del potere. Lo Stato è concepito dalla dottrina sociale al servizio della società. Lo Stato è considerato da essa sempre in funzione della promozione del bene comune, che, già S. Tommaso d'Aquino, indicava come il risultato della libertà delle persone e della vita sociale. La sussidiartela, indubbiamente, favorisce una prassi autenticamente democratica. La democrazia può considerarsi piena solo se esiste il riconoscimento e l'effettiva attuazione del principio di sussidiarietà. Il non rispetto di questo principio fondamentale ha delle conseguenze deleterie sia per la persona in quanto tale, perché viene in qualche modo privata della propria responsabilità, sia per la società stessa, che risulta organizzata secondo logiche non umane. Giovanni Paolo II ha così descritto alcune delle conseguenze negative del mancato riconoscimento del principio di sussidiarietà per quanto concerne i servizi socio-assistenziali: " Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso. Si aggiunga che spesso un certo tipo di bisogni richiede una risposta che non sia solo materiale, ma che ne sappia cogliere la domanda umana più profonda. Si pensi anche alla condizione dei profughi, degli immigrati, degli anziani o dei malati ed a tutte le svariate forme che richiedono assistenza, come nel caso dei tossico-dipendenti: persone tutte che possono essere efficacemente aiutate solo da chi offre loro, oltre alle necessarie cure, un sostegno sinceramente fraterno ". La non applicazione del principio di sussidiarietà ha delle conseguenze gravissime anche dal punto di vista dell'educazione. Così facendo non si favorisce il diritto naturale delle famiglie di educare i propri figli, non si favorisce la possibilità che le scuole nascano dalla libera iniziativa di persone, di gruppi sociali, e si finisce invece per imporre un modello di scuola unica, statale, con conseguenze negative per la stessa scuola. L'assenza di concorrenza genera un abbassamento progressivo del livello dell'istruzione, si impone un modello educativo senza che i genitori possano scegliere, viene negato un reale pluralismo e si favorisce l'imporsi di un sistema educativo ideologico. Appartiene essenzialmente alla dottrina sociale della Chiesa la difesa e la promozione dei diritti della famiglia e dell'educazione: quindi il superamento del monopolio "statale". Il principio di solidarietà Il principio di solidarietà è ugualmente un principio fondamentale nella dottrina sociale della Chiesa: " il principio, che oggi chiamiamo di solidarietà, [ … ] si dimostra come uno dei princìpi basilari della concezione cristiana dell'organizzazione sociale e politica. Esso è più volte enunciato da Leone XIII col nome di "amicizia", che troviamo già nella filosofia greca; da Pio XI è designato col nome non meno significativo di "carità sociale", mentre Paolo VI, ampliando il concetto secondo le moderne e molteplici dimensioni della questione sociale, parlava di "civiltà dell'amore" ". Il principio di solidarietà richiede che nella costruzione della società avvenga una giusta ripartizione dei beni, un'equa remunerazione del lavoro, un impegno per un ordine sociale più giusto. L'uomo è naturalmente portato ad interessarsi all'altro, è spinto a interessarsi del bisogno dell'altro. Il principio di solidarietà si radica su questa naturale propensione dell'uomo ed è strettamente legato al problema del bene comune. Quando si parla di solidarietà non si parla quindi di " un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti ". Tuttavia, l'uomo in quanto peccatore tende ad affermare egoisticamente sé. È necessario allora operare perché dal punto di vista sociale ciò non diventi un problema: " La solidarietà deve essere colta, innanzitutto, nel suo valore di principio sociale ordinatore delle istituzioni, in base al quale le "strutture di peccato", che dominano i rapporti tra le persone e i popoli, devono essere superate e trasformate in strutture di solidarietà, mediante la creazione o l'opportuna modifica di leggi, regole del mercato, ordinamenti ". Pertanto, la dottrina sociale della Chiesa, se da un lato condanna e rifiuta le eccessive ingerenze dello Stato, secondo la logica dello statalismo, dall'altro condanna anche uno Stato completamente assente. Quest'ultimo, nel pieno e totale rispetto della persona e dei suoi diritti fondamentali, deve intervenire per sanare situazioni difficili e sostenere i più deboli. Ad esempio, per quanto riguarda le attività economiche risulta chiaro, da quanto fin qui detto, che lo Stato è chiamato ad intervenire secondo due modalità: " Indirettamente secondo il principio di sussidiarietà, creando le condizioni favorevoli al libero esercizio dell'attività economica, che porti ad una offerta abbondante di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza. Direttamente secondo il principio di solidarietà, ponendo a difesa del più debole alcuni limiti all'autonomia delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed assicurando in ogni caso un minimo vitale al lavoratore disoccupato ". Indubbiamente il principio di solidarietà richiede anche un impegno del cristiano per lo sviluppo delle condizioni sociali di quella parte di mondo ancora oggi sottosviluppato. Si tratta allora di una solidarietà a raggio universale, esercitata non solo all'interno delle particolari società, ma anche a livello di relazioni internazionali: " L'interdipendenza deve trasformarsi in solidarietà, fondata sul principio che i beni della creazione sono destinati a tutti [ … ] Superando gli imperialismi di ogni tipo e i propositi di conservare la propria egemonia, le Nazioni più forti e più dotate debbono sentirsi moralmente responsabili delle altre, affinché sia instaurato un vero sistema internazionale, che si regga sul fondamento dell'eguaglianza di tutti i popoli e sul necessario rispetto delle loro legittime differenze ". La solidarietà, nella prospettiva cristiana, ha un'origine teologica, la carità, la quale ha il suo fondamento ultimo nell'amore di Dio. Tuttavia, diffondendosi nella società diventa partecipabile anche da chi non ne condivide la radice. Lo sviluppo non è incrementato solo dai cristiani, ma non è pensabile senza i cristiani, perché essi possiedono, per grazia, il quadro definitivo dello sviluppo umano da testimoniare nelle circostanze della vita: l'umanità di Cristo. Per questo motivo essi sono chiamati a mettersi insieme per far fronte ai problemi personali e mondiali. È sbagliato pensare ad una egemonia cattolica nell'azione a favore dello sviluppo sociale, ma non si può non riconoscere ai cristiani e alla Chiesa un'autorità fondamentale a questo riguardo, derivatagli dal fatto che il soggetto ecclesiale è in grado, più di chiunque altro, di distinguere che cosa sia autentico sviluppo. Rimane, comunque, lo spazio per il coinvolgimento di tutti coloro i quali guardano innanzitutto allo sviluppo dell'uomo e non del sistema socio-politico. Anche per questo motivo Giovanni Paolo II non ha mai mancato di promuovere il dialogo con i non cristiani, senza però rinunciare alla propria identità. Giovanni Paolo II ha, infatti, mostrato come dialogare non significhi rinunciare alla propria identità. Anzi, quanto più si è coscienti della propria identità tanto più si diventa capaci di dialogo; si riconosce ciò che di autentico è stato realizzato per l'uomo e lo si assume, mentre non si rinuncia a condannare ciò che si rivela contrario all'uomo. La dottrina sociale come strumento fondamentale per l'educazione dell'uomo La novità del tempo presente Un cambiamento radicale si è verificato negli ultimi anni del XX secolo: la crisi delle ideologie totalitarie e dei sistemi socio-politici fondati su di esse è un risultato assolutamente evidente e irreversibile. È stato ed è questo il momento di un risveglio del senso religioso. Si è tornati a porre al centro dell'esperienza personale, e quindi di conseguenza anche al centro della vita sociale, l'uomo come domanda di senso sulla vita, come domanda di valore, cioè come domanda su ciò per cui vale la pena vivere. Si è assistito alla riscoperta di una delle categorie fondamentali dell'uomo, definita da don Giussani nel Senso religioso, esperienza elementare; ovvero si è riscoperto quel " complesso di esigenze e di evidenze con cui l'uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste ". L'esperienza elementare è, infatti, identificabile con quel nucleo di esigenze, bontà, giustizia, verità, felicità, le quali " costituiscono il volto ultimo, l'energia profonda con cui gli uomini di tutti i tempi e di tutte le razze accostano tutto ". Si è reso sempre più manifesto che è necessario che l'uomo riparta dalla sua esperienza elementare e la viva fino in fondo. Come ha ricordato Giovanni Paolo II, nel discorso Ai partecipanti al Meeting per l'amicizia fra i popoli, è l'uomo innanzitutto la grande risorsa che l'uomo ha a disposizione nell'impostazione e nella soluzione del grande problema della vita. È una risorsa quella dell'uomo a se stesso che è insufficiente certo, ma inevitabile. Non si può non partire dall'uomo e dal suo bisogno di verità, di bellezza e di giustizia. " L'uomo è grande per la sua intelligenza, mediante la quale conosce se stesso, gli altri, il mondo e Dio; l'uomo è grande per la sua volontà, per cui si dona nell'amore, fino a raggiungere vertici di eroismo. Su tali risorse trova fondamento l'anelito insopprimibile dell'uomo: quello che tende alla verità - ecco la vita dell'intelligenza - e quello che tende alla libertà - ecco il respiro della volontà. Qui l'uomo acquista la sua grande, incomparabile statura, che nessuno può calpestare, che nessuno può irridere, che nessuno può togliergli: quella dell'essere"". È proprio nell'impostazione della vita come ricerca del senso ultimo di essa, come si è sottolineato in precedenza, che l'uomo si scopre persona, cioè appartenente ad un mistero più grande di lui, desideroso di penetrarlo adeguatamente, eppure consapevole dei limiti che accompagnano questo cammino. Si può dire che il senso religioso, nuovamente protagonista della storia dell'umanità, viva oggi una stagione di ripresa reale, caratterizzata da tante possibilità positive, ma insieme minacciata da tanti equivoci, e addirittura aperta alle più diverse contraddizioni. In particolare, è come ravvisabile quello che potremmo definire un certo disagio all'interno del mondo cattolico e dentro la stessa esperienza ecclesiale, manifesto soprattutto nel mondo intellettuale, là dove l'esperienza di fede dovrebbe divenire cultura. Tale disagio nasce dal mancato riconoscimento del fatto che soltanto nell'avvenimento della presenza di Cristo nella storia, nel mistero della sua Chiesa, l'uomo trova il compimento della sua attesa religiosa e della sua intrapresa umana e storica. A volte, infatti, manca nel modo cattolico una piena consapevolezza del fatto che solo nel permanente dialogo fra Cristo e il cuore dell'uomo si pongono le condizioni obiettive per un'antropologia che può essere pienamente attuata. Giovanni Paolo II, commentando i fatti del 1989, dopo avere riconosciuto che la lotta per la libertà " ha richiesto lucidità, moderazione, sofferenza e sacrifici ", ha subito precisato che è solo " unendo la propria sofferenza per la verità e per la libertà a quella di Cristo sulla croce che l'uomo può compiere il miracolo della pace ed è in grado di scorgere il sentiero spesso angusto fra la viltà che cede al male e la violenza che illudendosi di combatterlo, lo aggrava ". Soltanto in Cristo l'uomo trova il pieno appagamento alla sua sete di verità, giustizia, bontà e libertà: " La più grande risorsa dell'uomo è Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, in Lui si scoprono i lineamenti dell'uomo nuovo, realizzato in tutta la sua pienezza. In Cristo, Crocifìsso e Risorto, si svela all'uomo la possibilità e il modo secondo cui assumere in profonda unità tutta quanta la sua natura " Questa essenziale verità non sempre in ambito cattolico è riconosciuta e affermata, anche a causa di un clima culturale di stampo relativistico. Questo clima culturale costituisce indubbiamente un ostacolo alla missione della Chiesa come viene denunciato nella Dominus Jesus: " Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo defacto ma anche de iure ( o di principio ) ". Secondo una tale prospettiva relativistica non solo esistono tante religioni, che è un fatto, un dato storico, ma è giusto che sia così perché non esiste una religione vera. Vengono in questo modo rifiutate verità fondamentali della dottrina cristiana, quali ad esempio il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale fra il Verbo Eterno e Gesù di Nazareth. Soprattutto, si finisce per non riconoscere più il carattere assolutamente originario del cristianesimo, secondo il quale il cristianesimo non è la religione degli uomini che cercano Dio, ma di Dio che ha cercato l'uomo. Giovanni Paolo II lo ha ricordato chiaramente nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente: " Cristo infatti non si limita a parlare "a nome di Dio" come i profeti, ma è Dio stesso che parla nel suo Verbo eterno fatto carne. Tocchiamo qui il punto essenziale per cui il cristianesimo si differenzia dalle altre religioni, nelle quali s'è espressa sin dall'inizio la ricerca di Dio da parte dell'uomo. Nel cristianesimo l'avvio è dato dall'Incarnazione del Verbo. Qui non è soltanto l'uomo a cercare Dio, ma è Dio che viene in Persona a parlare di sé all'uomo ed a mostrargli la via sulla quale è possibile raggiungerlo [ … ] Il Verbo Incarnato è dunque il compimento dell'anelito presente in tutte le religioni dell'umanità: questo compimento è opera di Dio e va al di là di ogni attesa umana ". Di questa specificità del cristianesimo spesso non si è più coscienti. Anche per i cristiani praticanti risulta quanto mai difficile pensare che la loro funzione nel mondo sia quella di annunziare Cristo a tutti. Il pensiero più comune, più istintivamente condiviso dalla maggior parte anche dei cattolici, porta a ritenere che ognuno abbia la sua religione, determinata dalle circostanze storiche e sociali in cui vive. Pertanto, se nasce e vive in occidente è facile che sia cristiano, così come se nasce e vive in medio oriente è facile che sia islamico. E facile e inevitabile che sia così, tanto che risulta quasi del tutto inutile, o comunque impensabile un'azione missionaria tesa ad annunciare Cristo anche a coloro che non sono nati cristiani. La religione diventa così un fatto totalmente determinato dalla situazione contingente. Viene a dipendere dalla storia, dalla cultura, dalla razza. Secondo una tale impostazione l'affermare il valore di verità della propria religione, e non una sostanziale uguaglianza tra religioni, è identificabile con una posizione fondamentalista che minaccia la possibilità di una convivenza pacifica. Una tale mentalità riguarda anche i cattolici praticanti in cui la coscienza della propria identità si è così alterata da non avere più chiaro la responsabilità missionaria che hanno di fronte al mondo. Per comprendere questa difficoltà, questo disagio che vive il mondo cattolico, occorre tenere presente che l'uomo contemporaneo è allo stesso tempo figlio della tradizione cristiana, che lo porta appunto dopo il grande crollo delle ideologie a riscoprire la dimensione religiosa come dimensione più profonda dell'essere umano, ma anche figlio dell'età moderna. È vero che le grandi ideologie del XX secolo possono dirsi vinte e superate, ma è anche vero che non può dirsi completamente superata la tentazione ideologica. Non è vinta e superata la mentalità laicista secondo la quale tra fede e ragione esiste un'inimicizia di fondo, secondo la quale non è necessario il riferimento alla Rivelazione di Dio perché l'uomo conosca adeguatamente se stesso, perché l'uomo ritrovi le leggi fondamentali del suo vivere, del suo esistere e determini quei criteri fondamentali che fanno nascere i rapporti sociali, dando così vita alla società. Soprattutto, se possiamo dire conclusa la lotta aperta e radicale alla religione, al cristianesimo, alla Chiesa, per quanto riguarda il mondo occidentale, ciò non esclude che tale lotta continui secondo nuove forme. Nuove forme meno violente, che però hanno lo stesso obiettivo: indebolire, rendere inutile, eliminare il cristianesimo. L'uomo contemporaneo prende coscienza che la ragione intesa razionalisticamente non è sufficiente. I risultati degli ultimi secoli dimostrano come con la ragione si possano fare grandi cose, ma non si risolvano tutti i problemi; si domini la materia, ma la materia possa ribellarsi; la realtà possa essere organizzata scientificamente, ma esistano dimensioni della vita umana che non possono essere risolte tecnicamente. Ci sono questioni della vita - la morte, la sofferenza, la malattia, l'ingiustizia - che sono dati di fronte ai quali nessuna ragione di tipo scientista riesce alla lunga a sopravvivere. Tuttavia, è come se riconosciuto ciò, riconosciuta anche la naturale esigenza religiosa, che porta a vedere nella religione un fattore decisivo dell'esistenza, si escluda a priori la possibilità che ciò che è cercato dalla ragione, ciò che è richiesto dal cuore dell'uomo, possa trovare risposta in Altro da sé. La modernità, se da un lato chiude con l'epoca della barbarie, della lotta a oltranza alla fede, del martirio dei religiosi e dei laici, dall'altro sviluppa questa nuova concezione antitetica al cristianesimo: la religione è una dimensione importante della vita, ma è una dimensione esclusivamente del soggetto. La religione è ridotta ad esigenza soggettiva. Il relativismo è inevitabile. I modi con cui l'uomo cerca Dio, i volti che da a questo Dio, il tipo di rappresentazione che si fa di questo Dio, le singole formulazioni storiche che vengono a delinearsi, hanno la loro importanza, ma sono del tutto secondari. Ciò che viene sottolineato non è l'idea di Dio, sia che essa venga formulata dal grande fondatore di religioni o che venga a realizzarsi in una determinata formulazione culturale, ma il fatto che la religione sia un contenuto dell'uomo, esclusivamente dell'uomo. Tutte le religioni allora sono importanti, ma nessuna è considerata più vera delle altre, nessuna è considerabile assoluta. Secondo questa prospettiva ciò che è assoluto non è Dio, ma l'uomo. Dio diventa l'espressione dell'assolutezza dell'uomo. Si è verificata una riduzione antropologica della fede, una riduzione della fede a dimensione umana. Si finisce così per identificare erroneamente senso religioso e fede. A questo si deve aggiungere che la tentazione prevalente in tanto mondo cattolico all'indomani del Concilio Vaticano II è stata quella di concepire il Concilio in rottura con la tradizione ecclesiale, teologica e pastorale precedente; di concepirlo come una sorta di nuovo cristianesimo sostanzialmente storicizzato, antropologizzato, in cui la preoccupazione fondamentale, invece della missione, è sembrata essere quella del dialogo, su basi di parità, con tutte le formulazioni religiose e addirittura filosofiche. Si è evidentemente trattato di una interpretazione erronea, contro la quale è intervenuto lo stesso Giovanni Paolo II con chiarezza: " è necessario che non vada persa la genuina intenzione dei Padri conciliari; essa, piuttosto, deve essere recuperata superando interpretazioni prevenute e parziali che hanno impedito di esprimere al meglio la novità del Magistero conciliare. La Chiesa da sempre conosce le regole per una retta ermeneutica dei contenuti del dogma. Sono regole che si pongono all'interno del tessuto di fede e non al di fuori di esso. Leggere il Concilio supponendo che esso comporti una rottura col passato, mentre in realtà esso si pone nella linea della fede di sempre, è decisamente fuorviante. Ciò che è stato creduto da "tutti, sempre e in ogni luogo" è l'autentica novità che permette a ogni epoca di sentirsi illuminata dalla parola della Rivelazione di Dio in Gesù Cristo ". Tuttavia, per quanto condannata e confutata tale erronea interpretazione del Concilio, ha contribuito anch'essa, insieme ai retaggi del laicismo moderno, a generare questo clima culturale che mette oggi in pericolo l'annuncio missionario. La Dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Dominus Jesus ha preso atto proprio di questa situazione in cui il cristiano vive, denunciando il rischio, che corrono in primo luogo gli stessi cristiani, di pensare che il cristianesimo sia semplicemente una formula delle infinite possibili della religiosità universale. Rischio reale, i cui effetti negativi concreti si riscontrano nel venire meno dell'impeto missionario. La stessa parola missione sembra a volte quasi disturbare. Si parla di dialogo interreligioso, ecumenico, di promozione di valori umani, ma sempre meno di missione. Si corre il rischio di slegare ciò che invece nella prospettiva cristiana è strettamente legato: non c'è dialogo senza missione, non c'è autentica promozione dell'uomo e dei suoi diritti fondamentali senza l'annuncio della verità di Cristo. Anche in questo caso le parole di Giovanni Paolo II risultano particolarmente significative a riguardo: " il dialogo non può essere fondato sull'indifferentismo religioso, e noi cristiani abbiamo il dovere di svilupparlo offrendo la testimonianza piena della speranza che è in noi ( 1 Pt 3,15 ). Non dobbiamo avere paura che possa costituire offesa all'altrui identità ciò che invece è annuncio gioioso di un dono che è per tutti, e che va a tutti proposto con il più grande rispetto della libertà di ciascuno: il dono della Rivelazione del Dio-Amore che "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" ( Gv 3,16 ) [ … ] La Chiesa, pertanto, non si può sottrarre all'attività missionaria verso i popoli, e resta compito prioritario della missio ad gentes l'annuncio che è nel Cristo "via, verità e vita" ( Gv 14,6 ), che gli uomini trovano la salvezza. La risposta della Chiesa Il problema della dottrina sociale sempre, ma più che mai oggi in questo contesto culturale definitivamente modificato, è quello di proporre una visione adeguata dell'uomo. Si tratta peraltro di dare compimento a un'intenzione profonda di Giovanni Paolo II, espressa già in uno dei primi discorsi del suo pontificato: " Se le nostre statistiche umane, le catalogazioni umane, gli umani sistemi politici, economici e sociali, le semplici umane possibilità non riescono ad assicurare all'uomo che egli possa nascere, esistere ed operare come unico ed irripetibile, allora tutto ciò glielo assicura Dio. Per Lui e di fronte a Lui, l'uomo è sempre unico ed irripetibile; qualcuno eternamente ideato ed eternamente prescelto, qualcuno chiamato e denominato con il proprio nome ". La dottrina sociale, quindi, deve nascere e svolgersi tutta a partire dall'affermazione fondamentale che solo in Cristo trova compimento l'autentica esigenza di umanità e che tale incontro tra Cristo e l'uomo avviene nel mistero della Chiesa, in cui l'avvenimento di Cristo morto e risorto, pienezza di umanità autentica e definitiva, permane e si comunica ad ogni generazione della storia. Non bisogna mai dimenticare che la Chiesa è il luogo dove emerge l'uomo; essa è rivelatrice ed educatrice della personalità umana, realtà unica ed irripetibile, soggetto creativo di società e di storia, irriducibile a qualsiasi condizionamento della sua esistenza personale e sociale. La grande intuizione pascaliana che l'uomo supera infinitamente l'uomo trova soltanto nella esperienza ecclesiale la sua adeguata e reale giustificazione. L'uomo e la sua libertà costituiscono il grande ed irrinunciabile a priori difeso dalla dottrina sociale, perché la Chiesa ha sempre difeso la libertà con cui l'uomo cerca Dio e la libertà con cui, incontrato Gesù Cristo, l'uomo è chiamato ad assumersi la responsabilità di riconoscerlo o di rifiutarlo. In questo senso la tematica della libertà all'interno del Magistero, come del resto è già stato sottolineato, si coniuga coerentemente con il tema della verità. Basta rileggere l'enciclica di Leone XIII intitolata Libertas praestantissimum: la libertà è l'energia con cui si cerca la verità, con cui ci si rapporta alla verità; se si taglia il rapporto fra verità e libertà, la libertà diventa una pura reazione istintiva e come tale diventa un fattore altamente manipolabile, proprio come in questa società, dove tutti credono di essere liberi e tutti sono ottusamente manipolati quasi senza accorgersene. La libertà è dunque il cuore dell'uomo che vive, spera, ama e lotta; espressione incoercibile della sua coscienza personale. La Chiesa è segno e salvaguardia del carattere trascendente e luogo di educazione dell'uomo che diventa capace di costruire la società; i diritti sociali sono l'espressione della dignità della persona umana, la quale trova la propria consistenza nell'appartenenza che l'uomo vive con Dio nel mistero di Cristo. Questo processo di fondazione della persona umana si attua nella presenza della Chiesa come soggetto missionario. E nella missione che si istituisce la dottrina sociale come strumento missionario fondamentale. Il Magistero di Giovanni Paolo II ci ha insegnato che la Chiesa è tutta nella sua missione. La Chiesa è chiamata ad autorealizzarsi nel mondo; nella missione la Chiesa incontra l'uomo reale, storico, gli comunica l'avvenimento imprevedibile, gratuito della presenza di Cristo. Lo chiama a partecipare a tale avvenimento, in modo reale e positivo; lo chiama a un rinnovamento totale della sua intelligenza e del suo cuore. La Chiesa lo educa ad esprimere nel mondo e nella storia tale novità di vita e di cultura; lo educa a confessare Cristo di fronte alla storia, a fare compagnia all'uomo nella storia, a lavorare per l'uomo e con l'uomo nella storia. La dottrina sociale è dunque totalmente inserita dentro il grande processo della nuova evangelizzazione. Essa nasce perché la fede in Cristo, salvatore dell'uomo e del mondo, incontra l'uomo e le sue problematiche reali, le illumina con criteri nuovi e pone in atto le condizioni e le possibilità di operazioni nuove. Non si deve scordare che " la risposta della fede richiede un coinvolgimento totale con la vita dell'altro nella sua interezza. Per questa ragione i missionari si sono occupati dei bisogni concreti dell'educazione, dell'assistenza medica e della preparazione al lavoro perché la conversione interna della fede potesse manifestarsi all'esterno, e in questo modo, divenire causa di fede profonda nell'intera comunità ". Non c'è vera evangelizzazione se il nome, l'insegnamento, la vita, le promesse, il regno, il mistero di Cristo non sono proclamati. Da questa fede in Cristo nascono opzioni, valori, attitudini e comportamenti capaci di orientare e definire la nostra vita cristiana e di creare uomini nuovi e quindi, mediante la conversione della coscienza individuale e sociale, una umanità nuova. Nel cammino umano e storico che la missione concreta della Chiesa attua è contenuta la possibilità di una educazione vera dell'uomo e di un incontro vero, stabile e solidale fra gli uomini. Un'educazione che investe innanzitutto due ambiti fondamentali per la vita dell'uomo: la cultura e il lavoro. La cultura ed il lavoro sono, infatti, fattori determinanti per una comprensione adeguata dell'uomo e della realtà sociale. Sono l'espressione più significativa di quella capacità dinamica propria dell'uomo che è la capacità di incontrare gli altri uomini e costruire, appunto, la società. Per quanto riguarda la cultura, la presenza della Chiesa si connota innanzitutto di una innegabile dimensione culturale: " Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta ". In molte circostanze Giovanni Paolo II ha formulato tale indicazione culturale e pastorale. La fede contiene dunque una concezione ultima dell'uomo e della realtà, che ha una sua irriducibile adeguatezza. L'uomo "fatto a immagine e somiglianza di Dio" è il soggetto unico e irripetibile della propria vita e della vita sociale; non può mai essere pensato come funzionale a un sistema che lo preceda e lo ecceda: l'uomo non può mai essere ridotto all'insieme delle sue condizioni fisiche o ai suoi condizionamenti sociali. Non può mai essere considerato, come del resto aveva ben indicato la Costituzione conciliare Gaudium et spes, " soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città umana ". Nella fede cattolica è contenuta da duemila anni una forza culturale che riconsegna all'uomo il senso della sua personalità, della sua dignità, della sua ultima responsabilità. Per questo, testimoniare in concreto la cultura che nasce dalla fede è, contestualmente e conseguentemente, imprimere nella società un movimento di autentica umanizzazione. E l'umanizzazione è sempre, pur nella varietà delle condizioni storiche, fattore di autentica civilizzazione. Ma la fede indica anche all'uomo un ethos, definitivamente nuovo. È l'ethos della carità come tensione a condividere tutte le necessità e i bisogni dell'uomo, per rendere la sua vita più dignitosa e prepararlo alla possibilità dell'incontro con Cristo. La carità è forma singolare e travolgente di evangelizzazione. Una autentica e reale umanizzazione della società non può avvenire, secondo una prospettiva cristiana, prescindendo dallo slancio missionario della Chiesa. Slancio missionario che consiste innanzitutto nell'annuncio della verità che salva l'uomo, cioè che corrisponde pienamente alle sue attese, alle sue esigenze. Slancio sempre più necessario anche nel mondo di tradizione cristiana, come Giovanni Paolo II, nel discorso rivolto alla Chiesa italiana nel 1985 a Loreto, ha chiaramente affermato: " La "coscienza di verità", la consapevolezza cioè di essere portatori della verità che salva, è fattore essenziale del dinamismo missionario dell'intera comunità ecclesiale, come testimonia l'esperienza fatta dalla Chiesa fin dalle sue origini. Oggi, in una situazione nella quale è urgente por mano quasi ad una nuova "implantatio evangelica" anche in un Paese come l'Italia, una forte e diffusa coscienza di verità appare particolarmente necessaria. Di qui l'urgenza di una sistematica, approfondita e capillare catechesi degli adulti, che renda i cristiani consapevoli del ricchissimo patrimonio di verità di cui sono portatori e della necessità di dare sempre fedele testimonianza alla propria identità cristiana". Per quanto riguarda il tema del lavoro, non si vuole certo in questo ambito analizzare l'intero insegnamento magisteriale a riguardo, ma solo indicarne alcune linee particolarmente suggestive rispetto a quanto detto. La dottrina sociale attraverso la Laborem exercens insegna che il lavoro è la caratteristica fondamentale dell'uomo, l'espressione sintetica della sua cultura, la sua capacità di lotta contro i condizionamenti della vita personale e sociale, una capacità di costruzione che imita l'eterna laboriosità di Dio nell'imitazione del sacrificio di Cristo che attraverso la croce giunge alla pienezza della resurrezione: " Nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l'accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce. Nel lavoro, grazie alla luce che dalla risurrezione di Cristo penetra dentro di noi, troviamo sempre un barlume della vita nuova, del nuovo bene, quasi come un annuncio dei "nuovi cieli e di una terra nuova" ( 2 Pt 3,13; Ap 21,1 ), i quali proprio mediante la fatica del lavoro vengono partecipati dall'uomo e dal mondo. Mediante la fatica - e mai senza di essa. Questo conferma, da una parte, l'indispensabilità della croce nella spiritualità del lavoro umano; d'altra parte, però, si svela in questa croce e fatica un bene nuovo, il quale prende inizio dal lavoro stesso: dal lavoro inteso in profondità e sotto tutti gli aspetti - e mai senza di esso ". Nella Centesimus annus inoltre è sottolineato come il lavoro, l'opera umana in cui si esprime la capacità costruttiva dell'uomo, a imitazione di Dio e di Cristo per l'uomo e con l'uomo, non può avere come unico scopo il profitto, in quanto: " scopo dell'impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell'azienda, ma non è l'unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell'impresa ". Il tema del lavoro è, quindi, sviluppato dalla dottrina sociale secondo una disamina profondamente umana che non vuole tralasciare nessuna dimensione: la dimensione personale, secondo la quale il soggetto del lavoro è l'uomo e prima di tutto il lavoro è per l'uomo; la dimensione sociale per la quale il lavoro è opera di solidarietà; infine, superando ogni lettura atea, la dimensione teologica, secondo la quale il lavoro, alla luce di Cristo morto e risorto, diventa cooperazione alla creazione e alla redenzione, fonte di benedizione e sostentamento. Una visione quindi integrale del lavoro che ha superato la riduzione che ne avevano fatto il liberalismo e il marxismo, come ha saputo rilevare acutamente il filosofo Augusto Del Noce: " così liberalismo come marxismo hanno portato la loro attenzione soltanto sull'aspetto oggettivo del lavoro trascurando quello soggettivo, cioè la realizzazione che in esso l'uomo fa di se stesso. Come conseguenza di ciò si spiega come il progresso tecnologico abbia coinciso col progresso nell'alienazione ". La fede attraverso la dottrina sociale è pertanto chiamata a illuminare e a dettare i criteri di azione nella vita sociale. La cultura e il lavoro sono due espressioni fondamentali di questa costruttività sociale della fede, a cui è sempre più importante che il cristiano, se vuole vivere fino in fondo la sua fede, sia educato. Raccogliendo in uno sguardo sintetico la dottrina sociale e la vita di questi oltre cento anni di presenza cristiana si può dire che essa ha costituito un grande movimento per la difesa della persona umana e ci si deve augurare che questo movimento possa continuare nel mondo, segnando in modo positivo il terzo millennio dell'era cristiana. Ciò dipende dalla volontà di missione di ciascun cristiano. Tale volontà di missione si deve innanzitutto chiedere a Dio con la preghiera e si deve confortarla giorno dopo giorno con una amicizia cristiana reale. Occorre, quindi chiedere al Signore Gesù Cristo, che è l'unico grande contenuto del sapere cristiano, quindi anche della dottrina sociale della Chiesa, un cuore capace di vivere ogni giorno la laboriosa fatica di una fede che investe il mondo e attraverso la cultura e il lavoro lo trasforma già nel presente, rendendolo segno e anticipazione della vita eterna, ovvero "il centuple quaggiù": " Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta ". ( Mt 6,33 ) Evangelizzazione ed educazione alla luce del Concilio Vaticano II Il valore e il significato fondamentale della dottrina sociale si possono meglio comprendere se si tengono presente i temi dell'evangelizzazione e dell'educazione secondo quanto definito dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Rileggere oggi l'avvenimento e l'insegnamento del Concilio consente di riprendere in maniera profonda ed articolata la linea di svolgimento della storia della cristianità occidentale di questi ultimi quarant'anni e di approfondire contemporaneamente le vicende culturali, sociali e politiche che hanno caratterizzato l'umanità in questo periodo. Senza ombra di dubbio uno dei punti centrali del Concilio Ecumenico Vaticano II può essere individuato nella riproposizione del tema centrale della fede in Cristo come unico Salvatore dell'uomo: unica possibilità di vita, di liberazione per l'uomo di ogni tempo; alternativa, definitiva e continuamente verificata alle varie ideologie e ai vari tentativi dell'uomo di comprendersi e realizzarsi in pienezza, esclusivamente in base alle proprie risorse di carattere intellettuale, morale, politico o scientifìco-tecnologico. In particolare, nell'interpretazione del Concilio sviluppata dal Magistero di Paolo VI e da quello di Giovanni Paolo II risulta particolarmente rilevante il tema dell'evangelizzazione, ovvero della missione, intesa come possibilità di incontro sempre attuale e continuamente rinnovato tra "Cristo e il cuore dell'uomo", per usare le parole di Giovanni Paolo II. Secondo tale prospettiva il problema dell'evangelizzazione si pone quindi non tanto a livello di definizione o di riformulazione di contenuti teologici, culturali, pastorali, quanto piuttosto a livello di sviluppo e maturazione della coscienza della Chiesa: " Illuminata e sorretta dallo Spirito Santo, la Chiesa ha una coscienza sempre più approfondita sia riguardo al suo ministero divino, sia riguardo alla sua missione umana, sia finalmente riguardo alle stesse sue debolezze umane ". Il Concilio ha invitato a recuperare in tutta la sua consapevolezza l'identità e la vera natura della Chiesa. In altri termini il Concilio ha consegnato alla Chiesa il compito di recuperare da un punto di vista esistenziale la propria identità, ovvero di farsi carico con una responsabilità rinnovata della proposta cristiana, rivolgendola all'uomo e alla società di questo tempo. " I Padri conciliari furono posti dinanzi a una vera sfida. Essa consisteva nell'impegno di comprendere più intimamente, in un periodo di rapidi cambiamenti, la natura della Chiesa e il suo rapporto con il mondo per provvedere all'opportuno "aggiornamento". Abbiamo raccolto quella sfida - c'ero anch'io tra i Padri conciliari - e vi abbiamo dato risposta cercando un'intelligenza più coerente della fede. Ciò che abbiamo compiuto al Concilio è stato di rendere manifesto che anche l'uomo contemporaneo, se vuole comprendere a fondo se stesso, ha bisogno di Gesù Cristo e della sua Chiesa, la quale permane nel mondo come segno di unità e di comunione ". Indubbiamente, accanto a questa linea interpretativa della riflessione conciliare, che può essere considerata ad ogni conto di fondamentale importanza all'interno del Magistero pontificio e sinodale, come evidenziato da Giovanni Paolo II nella prima parte della Redemptor hominis, si sono formulati, nella ecclesialità e nella ecclesiasticità, altri movimenti interpretativi del concilio e altre tendenze. Prendendo in considerazione il tema dell'evangelizzazione, non si vuole qui avere la pretesa quindi di esaurire il discorso sul Concilio e sulle problematiche emerse da esso, quanto piuttosto soffermarsi su uno degli aspetti dell'insegnamento del Concilio che, tuttavia, non può non essere considerato decisivo e fondamentale per la vita della Chiesa: " Ciò, infatti, che lo Spirito disse alla Chiesa mediante il Concilio del nostro tempo, ciò che in questa Chiesa dice a tutte le Chiese non può - nonostante inquietudini momentanee - servire a nient'altro che ad una ancor più matura compattezza di tutto il Popolo di Dio, consapevole della sua missione salvifica ". Inoltre, un'adeguata comprensione del movimento di evangelizzazione, in quanto si pone all'interno della società moderna e post-modema, comporta un'adeguata interpretazione della stessa. Anche in questo caso esistono diverse chiavi di lettura ed è naturale che le interpretazioni della modernità, che ne scaturiscono, abbiano sviluppato diverse posizioni, che si confrontano e qualche volta addirittura si scontrano all'interno della Chiesa, assumendo atteggiamenti e valutazioni differenti. Tuttavia, anche in questo caso non può non essere individuata una prospettiva principale secondo la quale muoversi per evitare letture riduttive del Concilio e cogliere invece lo spirito autentico dello stesso ed in particolare non equivocare a riguardo del rapporto con il mondo moderno. Già vent'anni fa l'alloera Cardinal Ratzinger all'interno del libro Rapporto sulla fede non ha mancato di osservare in proposito che l'apertura al mondo moderno non poteva intendersi come accettazione indiscriminata della modernità: " L'identità ferma è condizione dell'apertura. Così intendevano i Papi e i Padri conciliari, alcuni dei quali certamente indulsero a un ottimismo che noi, a partire dalla nostra prospettiva attuale, giudicheremmo come poco critico e poco realistico. Ma se hanno pensato di potersi aprire con fiducia a quanto c'è di positivo nel mondo moderno, è proprio perché erano sicuri della loro identità, della loro fede. Mentre da parte di molti cattolici c'è stato in questi anni uno spalancarsi senza filtri e freni al mondo, cioè alla mentalità moderna dominante, mettendo nello stesso tempo in discussione le basi stesse del depositimi fidei che per molti non erano più chiare ". È indubbio allora che tra i problemi principali da affrontare, per un'azione di evangelizzazione adeguata ai tempi che viviamo, deve essere annoverato sicuramente quello relativo al senso e al significato della modernità. Il concludersi della modernità, come è accaduto inesorabilmente fra il Concilio e il 1989, ha permesso di cogliere meglio il carattere di quella che può essere considerata la linea fondamentale di sviluppo della modernità. Ha cioè permesso di prendere atto del valore del movimento, insieme unitario e articolato, sotteso alla modernità e del suo principale intento: creare un uomo e una società che prescindessero totalmente da ogni riferimento religioso e quindi dalla tradizione cristiana, assumendo logicamente un carattere irreligioso, antiteistico e anticristiano. La fine della modernità può certamente considerarsi la fine di questo progetto; tuttavia, ne rimangono ancora oggi gli esiti e le conseguenze da affrontare. La fine storica di questo progetto ha reso, infatti, ogni giorno sempre più evidente il fallimento dello stesso e le tragiche conseguenze per l'uomo che ne sono scaturite: la fine delle grandi ideologie totalitarie ha condotto, infatti, a quel degrado antropologico e sociale che può essere considerato a tutti gli effetti un'autentica disgregazione antropologica. Niente meglio delle parole di de Lubac nel Dramma dell'umanesimo ateo esprimono meglio tale esito: " Che cosa è avvenuto dell'uomo di questo umanesimo ateo? Un essere che appena si osa ancora chiamare essere; una cosa che non ha più interiorità, una cellula interamente immersa in una massa in divenire; un uomo sociale e storico di cui altro non resta che una pura astrazione, al di fuori dei rapporti sociali e della situazione nella durata per cui si definisce [ … ] Niente impedisce perciò di utilizzarlo come un materiale o come uno strumento, sia che si tratti di preparare qualche società futura o di assicurare nel presente stesso la dominazione di un gruppo privilegiato. Nulla impedisce perfino di gettarlo via come inservibile [ … ] Ma sotto le sue diversità, si trova sempre lo stesso carattere fondamentale, o piuttosto si constata la stessa assenza. Questo uomo è letteralmente dissolto: che sia in nome del mito o della dialettica, l'uomo perdendo la verità, perde se stesso. In realtà non c'è più uomo, perché non c'è più nulla che trascenda l'uomo ". Una tale descrizione diventa singolarmente sempre più attuale man mano che il tempo passa e le conseguenze drammatiche della modernità emergono con sempre maggiore chiarezza, come ha tante volte sottolineato Giovanni Paolo II. L'intuizione di de Lubac secondo la quale sarebbe stato possibile all'uomo organizzare il mondo contro Dio, ma che una volta che lo avesse fatto, sarebbe apparso evidente che lo aveva realizzato contro di sé, risulta quindi pienamente verificata. Si deve, inoltre, tenere presente che tale disgregazione non ha investito solamente gli ambiti della modernità europea, ma anche gli ambiti culturali socio-politici con cui la modernità europea ha avuto a che fare rovinosamente. Anche quella parte di mondo che è stata soggetta al fenomeno della colonizzazione è, infatti, da inquadrare all'interno di questo progetto ateistico politico ed ideologico che ha segnato profondamente la modernità. Che cosa contraddistingue l'atteggiamento dell'uomo di oggi? Se è vero, come si è in precedenza evidenziato, che assistiamo ad una rinascita del senso religioso, non senza ambiguità e contraddizioni, non bisogna dimenticare comunque che predomina un clima culturale nichilistico. L'uomo risulta fondamentalmente segnato da un sostanziale nichilismo, per il quale la realtà non ha più nessuna consistenza propria; da un profondo scetticismo di carattere conoscitivo e da un'assenza pressoché assoluta di valori ideali e pratici; tratti questi che finiscono per confluire in un consumismo universale, che, paradossalmente, risulta ancora dominato da un'irrazionale fiducia verso il potere scientifico e tecnologico. Lo stesso Giovanni Paolo II ha denunciato tali caratteri come esito del processo immanentistico che ha contraddistinto la modernità: " l'epilogo fatale delle correnti fìlosofico-culturali e dei movimenti di liberazione chiusi alla trascendenza [ … ] ha finito per disincantare l'uomo europeo, spingendolo verso lo scetticismo, il relativismo, se non ancora facendolo piombare nel nichilismo, nella insignificanza, nell'angoscia esistenziale ". Se la Chiesa ritiene, come non può non ritenere, pena un'infedeltà al suo compito, che essa rappresenta ancora oggi l'annuncio dell'unica e definitiva liberazione per l'uomo, ne consegue che attraverso la sua opera di evangelizzazione passa anche la possibilità di rifondare un'antropologia adeguata, capace di superare la disgregazione antropologica, che è stata indicata come esito della modernità. Il compito dell'evangelizzazione risulta infatti quello di riaprire nel cuore della cultura e della società contemporanee la questione del senso della vita, presentando la fede cattolica in Cristo come risposta risolutiva ad essa. L'evangelizzazione ha quindi un'inevitabile dimensione culturale che consiste da un lato nella radicale messa in discussione di ogni pretesa immanentistica o scettica, dall'altro nel riaprire la via maestra della Redenzione che è legata all'incontro con Cristo, presente nel Mistero della Santa Chiesa. Se invece si ritiene che questo esito della modernità e della post-modemità sia da considerarsi qualcosa di assolutamente irreversibile anzi, come ha avvertito drammaticamente Giovanni Paolo II nei suoi interventi sulla questione delle radici cristiane dell'Europa, sia da identificarsi come un'irreversibile e silenziosa apostasia della fede, allora viene a mancare lo spazio per una vera e propria opera evangelizzatrice. Una certa interpretazione del Concilio sembra confermare questo tipo di impostazione. Infatti, per chi interpreta erroneamente il Concilio come rottura radicale con la tradizione ecclesiale, come una sorta di "nuovo e definitivo cristianesimo", finisce per archiviare l'impegno missionario e sostituirlo con un dialogo interreligioso, nel quale il cattolicesimo è ridotto ad essere una delle componenti in gioco, senza alcuna pretesa di verità definitiva per l'uomo e per il suo destino. Il contributo che può offrire il cristianesimo è allora limitato alla costruzione di un mondo culturale e sociale in cui le istanze religiose, tendenzialmente concepite individualmente, hanno il solo scopo di mantenere alti alcuni valori etici e di contestare le derive materialistiche e consumistiche della società. Una tale prospettiva emerge però da una lettura erronea del Concilio, come del resto sottolineato a suo tempo anche da Ratzinger: " Bisogna decisamente opporsi a questo schematismo di un prima e di un dopo nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo. Non c'è una Chiesa "pre" o "post", conciliare: c'è una sola e unica Chiesa che cammina verso il Signore, approfondendo sempre di più e capendo sempre meglio il bagaglio di fede che Egli stesso le ha affidato. In questa storia non ci sono salti, non ci sono fratture, non c'è soluzione di continuità. Il Concilio non intendeva affatto introdurre una divisione del tempo della Chiesa ". In altri termini, seguendo sempre le chiarificazioni di Ratzinger, " il Vaticano II non voleva di certo "cambiare" la fede, ma ripresentarla in modo efficace ". Non bisogna comunque dimenticare che si tratta solo di interpretazioni "tendenziose" del Concilio, come lo stesso Giovanni Paolo II ha denunciato, e che non possono inficiare il suo valore fondamentale per la storia della Chiesa e per la sua opera evangelizzatrice: " È difficile dire qualcosa di nuovo sul Vaticano II. Allo stesso tempo, c'è sempre il bisogno di richiamarsi a esso, che è divenuto un compito e una sfida per la Chiesa e per il mondo. Si avverte l'esigenza di parlare del Concilio, per interpretarlo in modo adeguato e difenderlo dalle interpretazioni tendenziose ". L'intento autentico del Concilio è stato, infatti, quello di promuovere una nuova evangelizzazione e anzi, richiamando ancora le parole di Giovanni Paolo II, si può dire che tale opera è nata con esso, con l'esperienza stessa del concilio: " Il fatto stesso che quegli uomini vengano convocati dallo Spirito Santo e costituiscano, durante il Concilio, una particolare comunità che insieme prega, insieme pensa e crea, ha un'importanza fondamentale per l'evangelizzazione, per quella nuova evangelizzazione che proprio con il Vaticano II ha avuto il suo inizio ". Questo non toglie che per riscoprire giorno per giorno l'identità missionaria della Chiesa occorra che si riveli Cristo all'uomo di oggi, soprattutto ai giovani, secondo una modalità ben precisa: quella di un incontro obbiettivo, storico sociale, che permetta di vivere la Chiesa come ambito di esperienza, in cui si declini ogni giorno la dialettica, risolta positivamente, tra la domanda di senso e la verità che è Cristo. L'evangelizzazione cristiana esige, infatti, l'incontro personale con Cristo, l'esperienza della sequela di Lui nel contesto ecclesiale, l'assimilazione profonda della sua umanità. Solo ciò consente al popolo cristiano di presentarsi come popolo nuovo, di essere nel mondo fattore di novità, di unità e di pace. Un'autentica esperienza di fede ecclesiale ha bisogno quindi del recupero di quella fondamentale tensione educativa che fin dall'origine ha caratterizzato la storia della Chiesa e che soprattutto oggi, nel contesto sopra brevemente richiamato, risulta particolarmente importante. Infatti, è necessario che gli uomini che si aggregano alla Chiesa siano educati come cristiani, in modo che possano sperimentare e personalizzare quella novità di intelligenza e di ethos che caratterizzano l'essere nuovo di Cristo, ovvero l'essere nuovo del cristiano, che è appunto l'esito di quel profondo processo di assimilazione a Cristo. Nella Redemptor hominis Giovanni Paolo II, lo ha sottolineato con particolare chiarezza: " L'uomo che vuoi comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve "appropriarsi" ed assimilare tutta la realtà dell'Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di sé stesso ". Al contrario il cristianesimo che non parte da un'autentica esperienza di fede, ma che è vissuto come ideologia religiosa, è determinato integralmente, nel suo ambito e nella sua modalità di intervento, dai criteri imposti dall'ideologia ancora oggi esistente, ovvero l'ideologia tecnocratica e consumistica, che sembra così debole ed è invece così singolarmente potente. Tanto potente da riuscire ad unificare secondo un medesimo modo di vivere il mondo intero, cercando di cancellare qualsiasi differenza e finendo per urtare tragicamente contro l'unica differenza che non accetta facilmente di essere eliminata: l'isiam. Una corretta interpretazione del Concilio permette di capire come un'autentica posizione di fede si radica invece sull'appartenenza al popolo cristiano, certo della sua novità ontologica, capace di maturare una coscienza irreversibile della salvezza, destinato ad investire di questa certezza la propria vita e la vita degli uomini, senza eccezione di lingua, cultura, razza, provenienza. Da quanto detto consegue quindi che, per reggere la sfida della nuova evangelizzazione lanciata dal Concilio Vaticano II, oggi più che mai attuale, la Chiesa deve essere in grado di presentarsi al mondo, per usare le parole di Giovanni XXIII, come vera maestra di vita. Alcune osservazioni di carattere storico decisive La Chiesa, con il sorgere dell'età moderna e quindi con il dispiegarsi del progetto ateistico, ha vissuto in un contesto radicalmente diverso da quello precedente, esprimendo la sua resistenza a tale progetto attraverso la missione. Essa ha compreso che il suo compito non era più, come nell'età medievale, di intervenire col suo influsso religioso e spirituale sulla forma della società, per determinare una struttura umanamente adeguata. I termini erano ormai radicalmente diversi: la Chiesa era chiamata alla missione in una situazione culturale e sociale di obiettiva ostilità che tendeva, in modo sempre più esplicito, all'ateismo e a costruire un progetto sociale anticristiano. Il compito assunto dalla Chiesa è stato allora quello di vivere una presenza simile a quella vissuta nei primissimi tempi del cristianesimo. Con un'aggravante: che la forma culturale della società in cui la Chiesa si trovava a vivere la sua missione non presentava, come la società precristiana, degli spazi di apertura, di attesa; nel suo complesso il mondo modemo-contemporaneo si è chiuso alla tradizione cristiana, anzi si è impegnato sempre più nel tentativo di eliminarla. Si è affermata progressivamente, cioè, una società post-cristiana. La missione della Chiesa, la sua resistenza al progetto ateistico, ha contemporaneamente reso possibile la ricostruzione dell'umano. Di fronte al dispiegarsi del progetto ateistico, che significava una progressiva perdita di libertà e di verità, la Chiesa ha resistito, impegnandosi in una presenza missionaria che, educando un popolo di cristiani, ha rimesso nel circolo della cultura e della società europea un principio diverso. Nella nuova situazione la Chiesa non ha potuto limitarsi a svolgere una serie di progetti parziali, nel tentativo di influire sulla forma culturale della società per renderla più coerentemente cristiana. La Chiesa è stata chiamata a realizzare una presenza "ex-novo", creando una soggettività umana nuova, capace di affrontare l'esistenza secondo una logica di appartenenza al mistero e non secondo la logica dell'autoimmanenza, per cui l'uomo si concepisce come criterio ultimo e definitivo della realtà. La missione della Chiesa si è svolta individuando le linee di una dottrina sociale cattolica. La Chiesa, cioè, impegnata come presenza ha generato una concezione globale dell'uomo, della realtà e della vita sociale; una concezione dinamica, che esprime la missione e la rende sempre più possibile. Tutto ciò è sintetizzato in una formula acutissima del Lortz: " La dottrina sociale della Chiesa come condizione della presenza della Chiesa ". La Chiesa per il semplice fatto della sua presenza è stata attaccata da parte di chi ha cercato di imporre un progetto totalmente estraneo alla tradizione cristiana, un progetto ateo che ha assolutizzato secondo diverse prospettive la sfera politica. Giovanni Paolo II lo ha ricordato chiarendone i motivi: " La cultura e la prassi del totalitarismo comportano [ … ] la negazione della Chiesa. Lo Stato, oppure il partito, che ritiene di poter realizzare nella storia il bene assoluto e si erge al di sopra di tutti i valori, non può tollerare che sia affermato un criterio aggettivo del bene e del male oltre la volontà dei governanti, il quale, in determinate circostanze, può servire a giudicare il loro comportamento. Ciò spiega perché il totalitarismo cerca di distruggere la Chiesa o, almeno, di assoggettarla, facendola strumento del proprio apparato ideologico ". Tuttavia, è compito della Chiesa affermare con chiarezza e sostenere con forza quella visione dell'uomo e della realtà, attestata da una tradizione di fede due volte millenaria e radicata addirittura nella Rivelazione divina in Cristo. Si è già sottolineato, come in tal senso, la dottrina sociale della Chiesa possa essere considerata uno dei fattori portanti della presenza missionaria della Chiesa: essa mira, infatti, a far incontrare con la fede l'uomo concreto, con le sue problematiche storiche, personali e sociali. Si è trattato quindi di un contributo fondamentale e non accidentale nella storia del cristianesimo. Se la Chiesa non si fosse impegnata nell'elaborazione della dottrina sociale, se non l'avesse fatto, avrebbe vanificato la fede e tradito l'uomo. Una premessa decisiva: il ruolo del cristianesimo nella formazione della civiltà occidentale Se il Magistero sociale della Chiesa trova una sua formulazione ufficiale a partire dal XIX secolo, tuttavia, possiamo affermare che esso è radicato nella tradizione cristiana, nella nuova cultura che la fede in Cristo fa nascere fin dalle origini. Per comprendere adeguatamente, da un punto di vista storico, l'insegnamento del Magistero sociale occorre perciò partire dal cogliere il contributo decisivo del cristianesimo nella formazione della civiltà occidentale lungo il corso dei secoli. A questo riguardo risulta sicuramente ancora oggi estremamente interessante il libro di Christopher Dawson "Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale". Esso ha il merito fondamentale di aiutare a comprendere, a partire da un analisi documentata storicamente, l'importanza del cristianesimo nella formazione della civiltà occidentale. Quest'ultima si è originata perché il cristianesimo ha generato un modo di porsi di fronte alla realtà, nei suoi più svariati aspetti, assolutamente creativo, capace di dare vita ad una bellezza ed a una grandezza le cui tracce e conseguenze sono giunte fino a noi, non solo come reperti archeologici, ma in un certo senso come un flusso che viviamo ancora, in cui siamo immersi più o meno consapevolmente. Quale è stato il metodo, la via attraverso la quale il cristianesimo è riuscito a generare una civiltà? Il cristianesimo è riuscito in ciò, senza del resto neanche esserselo prefissato, perché ha saputo provocare la libertà dell'io; non attraverso progetti di ricostruzione, nuove dottrine morali, ma chiamando la libertà dell'io a vivere un'esperienza, l'esperienza cristiana, ovvero l'esperienza del rapporto con Cristo. L'adesione dell'io a tale provocazione ha permesso lo sviluppo di un'intelligenza culturale, tecnica e sociale straordinaria, senza tenere presente la quale risulta difficile spiegare il diverso livello di sviluppo della civiltà occidentale rispetto alle altre. La domanda centrale da cui parte Dawson, infatti, è: " Quali furono nella civiltà europea i fattori che possono spiegare la peculiare evoluzione dell'uomo occidentale? [ … ] Perché tra le civiltà mondiali solo l'Europa è continuamente agitata e trasformata da un'energia d'inquietudine spirituale che non vuole accontentarsi della legge immutabile delle tradizioni sociali che regge le civiltà orientali? ". Non è certo nella biologia e quindi nella presunta superiorità della razza che Dawson ha trovato la risposta adeguata a tale quesito. " Fu il risultato di un lungo processo educativo che cambiò gradualmente l'orientazione del pensiero umano e allargò le possibilità dell'azione sociale ". Ma qual è stata l'origine di questo processo educativo che è riuscito a segnare così profondamente la mentalità dell'uomo occidentale? Secondo Dawson " il fattore religioso ha un'importanza primordiale in questo problema " ed è in ultima istanza lo spirito missionario, centrato sulla libera iniziativa, sulla testimonianza personale, che ha animato fin dalle origini la prima comunità cristiana, ad avere contribuito in modo fondamentale in tale compito educativo. Ma perché proprio il cristianesimo e non le altre grandi religioni del mondo antico? Per via di quell'originale attaccamento alla realtà sensibile, alla corporeità, alla materialità che deriva dal mistero dell'Incarnazione su cui si fonda il cristianesimo. Le parole dello stesso Dawson a questo riguardo sono chiarissime: " Perché il suo ideale religioso è quello di adorare non una perfezione senza età e senza mutamento, ma un valore spirituale che tende ad incorporarsi all'umanità per trasformare il mondo ". È per questo motivo che " nell'Occidente la forza spirituale non è stata immobilizzata in un ordine sociale sacro, quale il Confucianesimo in Cina e il sistema delle caste in India; essa ha conseguito libertà sociale ed autonomia e, per conseguenza, la sua attività non è stata confinata nella sfera religiosa, ma ha avuto effetti di grande portata su ogni aspetto della vita sociale e spirituale ". Abbiamo già sottolineato come al centro dell'insegnamento sociale della Chiesa ci sia il valore assoluto della persona. È proprio il cristianesimo che storicamente ha introdotto il concetto di persona. Si può dire, infatti, che soltanto con il cristianesimo ha fatto il suo ingresso nella vicenda dell'uomo "la persona" come protagonista della sua vita, quindi anche protagonista della storia. Per quanto la cultura greca si fosse interrogata sull'uomo già prima dell'annuncio cristiano, per quanto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi campeggiasse la scritta "uomo, conosci te stesso ", si era giunti a concepire l'uomo soltanto come una sintesi di due fattori contraddittori, di difficile spiegazione e fonte di tragica tensione. La concezione greca era inconciliabilmente dualista: da una parte il corpo, frammento di materia corruttibile, veicolo del male e della morte; dall'altra parte l'anima, scintilla del divino, tutta e sempre tesa a svincolarsi dal carcere del corpo, per raggiungere con la ragione la sfera dell'essere assoluto. È con il cristianesimo che la concezione della "persona" ha acquistato un equilibrio stabile. È diventata l'insieme unitario di corpo e anima; un essere unitario che ha trovato la propria consistenza nel rapporto con il Creatore, del quale è "immagine e somiglianza"; nel rapporto con Cristo, nel quale è stato progettato, dal quale è stato redento, nel quale è rinato "creatura nuova" e al quale va sempre più configurandosi. Nella prospettiva cristiana è grazie al Figlio Gesù che l'uomo acquista dignità di Figlio di Dio. Alla libertà dell'uomo viene responsabilmente affidato il compito di realizzare se stesso proprio trascendendo se stesso, per affidarsi nella fede all'amore del Padre, nella sequela di Cristo. Proprio scegliendo di appartenere al Cristo, Verbo creatore e Uomo nuovo morto e risorto, l'uomo diviene protagonista della sua vita e capace di generare una nuova socialità. Nella società romana il bambino apparteneva al padre, il quale era padrone della sua vita, tanto che lo poteva eliminare senza correre rischi; la donna era proprietà del marito; la storia era fatta, più che da singoli uomini, dal ruolo del quale erano investiti. Con il cristianesimo, invece, l'uomo, divenendo persona, ha acquistato un valore prioritario, è diventato il vero protagonista della storia. Se il cristianesimo ha esaltato il valore assoluto della persona, non bisogna dimenticare che esso ha avuto un ruolo decisivo anche per quanto riguarda l'idea di società. La personalità cristiana, consistente in Cristo, è contemporaneamente e profondamente partecipe della comunità cristiana. La Madre Chiesa, nuova Eva, è co-principio del Padre e del Figlio nel generare e nutrire la "creatura nuova" con la Parola e i Sacramenti, nell'educarla con lo stimolo e il sostegno della testimonianza autorevole dei fratelli, con la guida sicura e patema del ministero di Pietro. La tradizione cristiana ha sempre pertanto insegnato che senza popolo il singolo si perde. Il singolo membro non ha senso e utilità se vuol fare a meno dell'intero corpo. Tuttavia, la comunità ecclesiale non ha nulla del collettivismo che opprime, anzi è al servizio della persona. Con la comunione ecclesiale, vissuta nelle comunità, i cristiani hanno così originato un inedito avvenimento sociale, un embrione di nuova società, dove nessuno è escluso se non chi vuole escludersi. Si può pertanto dire anche che il protagonista della storia cristiana è la comunità, cioè la persona che gioca nella vita tutta la forza delle sue convinzioni, tutta la passione della sua intelligenza e tutta la passione del suo cuore, tutti i limiti della sua vita. La persona crea perché vive; il cristianesimo è un avvenimento di vita, un'avventura da cui scaturisce un nuovo modo di vivere e costruire la società. È una società che si costruisce dal basso lentamente e porta in ogni livello della sua costruzione il sigillo della libertà. Del resto la stessa idea di storia cambia grazie al diffondersi del cristianesimo. Per la cultura greco-romana la storia era il campo della necessità. Nel tentativo di darle un senso era concepita come l'eterno ritorno di avvenimenti che si ripetono. Tale sequenza meccanica lasciava impietosamente l'uomo nella totale irresponsabilità e in preda alla ruota del fato, che piegava anche gli eroi, come testimonia la tragedia greca. L'uomo greco appare come un essere privo di autentica responsabilità morale. L'uomo può essere coinvolto in una serie di azioni delittuose, tuttavia non risulta mai responsabile in ultima istanza. È la grande lezione della tragedia greca: l'uomo porta le conseguenze delle azioni che compie, ma, in ultima istanza, nella vicenda umana agisce una realtà che sovrasta l'uomo e lo rende più uno strumento passivo che un soggetto responsabile. La volontà degli dei, i loro vizi e soprattutto il fato cieco sono il rimedio con cui la coscienza greca ha tentato, senza riuscirvi, di spiegare il male dell'uomo, la sofferenza che l'accompagna, la morte che ne consegue. Rimane un punto obiettivamente incomprensibile, che solo la Rivelazione cristiana chiarisce nella sua drammatica profondità e nella inesorabile chiamata del cuore umano alla sua definitiva liberazione nella comunione con il Figlio di Dio fatto uomo, Gesù Cristo. Con il costituirsi della nuova personalità cristiana, la storia diviene il campo dell'intervento della Provvidenza di Dio Creatore, in dialogo con la libertà della creatura suo alleato e sua "immagine e somiglianza": ogni singola persona si prende la responsabilità di affermare se é contro Dio ( peccato ) o di realizzarsi nell'offerta di sé a Dio e a Cristo. E ciò anche al di là dei reali condizionamenti ( fisici e psicologici, ambientali e culturali ) che insidiano la libertà umana, che partecipa alla costruzione del suo destino, beatitudine o dannazione. Per questo alla fine del II secolo, Ireneo di Lione ha potuto esclamare "I vostri cicli sono esplosi". Questa fede, vissuta dal singolo e da un popolo, ha dato origine ad una nuova civiltà: ricca di protagonisti e di tentativi, con un loro patrimonio di idee e di costumi, di arte e di economia, un modo di far festa e di sopportare il dolore e la stessa morte. Non si può quindi non vedere come la vita della Chiesa sia risultata generatrice di una tradizione viva capace di sviluppare un principio di pluralizzazione e di creare una società sempre in rinnovamento, sempre in grado di valorizzare le differenze, una società in cui è risultata prioritaria l'iniziativa personale. Per usare le parole di Christopher Dawson si può dire ciò affermando che " la storia dell'Europa è la storia d'un susseguirsi di rinascite, di rinnovamenti spirituali e intellettuali che ebbero luogo indipendentemente gli uni dagli altri, il più sovente grazie agli influssi religiosi, e che si propagarono in forza d'un processo spontaneo di libera trasmissione ". La comunità cristiana primitiva non ha separato fede e vita, ma ha evangelizzato la cultura secondo quella modalità richiamata da Paolo VI nella Evangelii nuntìandi: " La Chiesa evangelizza allorquando, in virtù della sola potenza divina del Messaggio che essa proclama ( Rm 1,16; 1 Cor 1,8; 1 Cor 2,4 ) cerca di convenire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l'attività nella quale sono impegnati, la vita e l'ambiente concreto loro propri [ … ] per la Chiesa non si tratta di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell'umanità ". La costruzione delle culture e delle civiltà cristiane non viene attuata facendo calare un progetto dall'alto o forzandone la realizzazione in tempi prestabiliti. Per ricorrere ad un'immagine evangelica, è come il lievito che va fermentando tutta la massa della pasta. Il cristianesimo ha costruito a partire da quello che c'era. Nella prospettiva cristiana edificare il nuovo non implica mai un'eliminazione del passato, come ha sostenuto invece l'Illuminismo e tentato di attuare la Rivoluzione Francese. Il cristianesimo ha introdotto nelle normali condizioni di vita un soggetto portatore di una nuova concezione dell'uomo, vissuta con altri fratelli di fede. Il cristianesimo ha determinato nei secoli il formarsi di una mens, che ha saputo accogliere il dato della tradizione classica, senza però mancare di rileggerlo alla luce della novità di vita che rappresentava. Ad esempio è l'apporto decisivo del cristianesimo che ha permesso di guadagnare il concetto di creazione e rileggere il pensiero antico in modo totalmente originale. Dopo secoli di professione di fede nell'esistenza del Dio creatore è come se questo principio fosse passato per pressione osmotica dall'esperienza del vissuto e della fede ai criteri ultimi di lettura della realtà. Il cristianesimo si è rivelato come la condizione in cui si è venuta ad esercitare una ragione aperta alla trascendenza, che non ha preteso di ridurre il reale alla sua misura, a ciò che riusciva ad esaurire concettualmente. La costruzione cristiana è partita da condizioni obiettive, spesso diverse tra loro: la missione cristiana le ha assunte, le ha purificate da quanto non era conforme alla verità e alla grazia evangelica ed ha edificato faticosamente l'uomo e il cristiano nello stesso tempo. Così popolazioni di opposte culture - barbari compresi - furono educate a formare l'unica "communio" ecclesiale. Allo stesso modo i monaci del XII secolo evangelizzarono l'Europa, forgiandone l'unità civile e culturale. Tale trasfigurazione della realtà personale e sociale ha richiesto tempi lunghi e gradualità di procedimento. Solo le ideologie totalitarie di questi ultimi secoli si sono illuse di cambiare il mondo con un proclama o con una rivoluzione. La storia delle missioni cristiane - nell'Africa proconsolare, nelle grandi città greche e romane, e poi a contatto con i barbari o penetrando nella Germania, Inghilterra e Irlanda - è la storia di cristiani che hanno condiviso le circostanze che incontravano, comunicando la propria fede vivendola là dove il Signore li aveva posti. Ben sapendo che l'uomo è segnato da tanti limiti e che in questo mondo non si può dar vita a qualcosa di assolutamente perfetto, ma al contrario sempre bisognoso di continua riforma. Un esempio: la fede come elemento dinamico della società medievale La vita cristiana si è sviluppata ed è chiamata a svilupparsi tutt'oggi secondo quelle trE grandi dimensioni già precedentemente richiamate che sono la missione, la cultura e la carità. La prima dimensione, la missione, è ciò che ha spinto i cristiani in tutto il mondo, senza fermarsi di fronte a nulla. La missione è l'origine dell'evangelizzazione e del contributo che i cristiani hanno portato nello sviluppo della società. I cristiani hanno costruito perché sono andati in missione. Ma questa missione, ed è la seconda dimensione, è sempre stata caratterizzata, nella sua natura più autentica, da una chiarezza ideale, da una capacità di giudizio formidabile. Cosa sarebbe la missione senza cultura? Sarebbe propaganda. Ma la cultura senza carità sarebbe ideologia. Uno sguardo alla storia del Medioevo, l'epoca in cui si sono poste le basi della nostra civiltà, secondo quella straordinaria sintesi tra la cultura greco-romana e l'elemento barbarico, non può che confermarcelo. La fede è l'elemento dinamico che ha segnato profondamente il vivere degli uomini di quell'epoca, li ha immessi nella vita con una forza morale, con una capacità di costruzione e di rischio che ha permesso di generare una nuova civiltà. L'elemento dinamico della civiltà medievale era un popolo che amava la fede come il principio di identificazione della propria personalità, come il luogo genetico dei criteri fondamentali di giudizio, della formazione della coscienza. La fede era concepita come il punto stabile di educazione della libertà. La storia della civiltà medievale è una storia di uomini liberi: non è la storia di sistemi, né di confronti ideologici, è la storia di un popolo. Il medioevo nasce dall'esperienza della fede vissuta comunionalmente, all'interno cioè di comunità in cui la persona veniva educata alla fede. Di fronte alla profondissima crisi della civiltà greco-romana, alle invasioni dei barbari, lentamente la vita delle comunità cristiane ( le comunità benedettine e le comunità ecclesiali ) ha influito sulla vita sociale, ha reso benevoli i rapporti, consentito una convivenza più o meno pacificata, ricostruito il tessuto civile della società. Il medioevo può essere visto come il cammino di un popolo che, vivendo la vita secondo la fede, la speranza, la carità, ha trasformato e risignificato le condizioni della vita. La dinamica sottesa a tutto il medioevo è infatti la seguente: la fede crea il popolo, il popolo vive una cultura, la quale origina una civiltà perché le persone che vivono questa cultura si incontrano, affrontano la realtà e le necessità della propria vita per testimoniare la certezza che Cristo è il senso ultimo della vita e della storia. È, infatti, il divenire cultura della fede che, nel momento più alto della società medioevale, ha portato al sorgere delle università. L'università è nata perché la società medioevale ha colto l'unus versus, il verso unitario della realtà, e alla luce di questo senso profondo del tutto ha cercato di conoscere e spiegare tutto. L'università medioevale è la più straordinaria impresa di conoscenza della realtà storica, umana, artistica, sociale, naturale, fisica che esista, perché il principio ispiratore è semplicissimo: se Cristo è la verità, spiega tutto. Essa non è nata astrattamente, a partire da un progetto studiato a tavolino, è nata perché insegnanti e studenti hanno voluto condividere la loro certezza. Gli uni di possedere il verso unitario della realtà, gli altri il desiderio di impararlo. Perciò l'università medievale è l'impresa di singoli. Non è nata su iniziativa del Ministero dell'Università, come accade oggi per cui è il Ministero che stabilisce che in tutte le province italiane ci siano le università; è nata invece dalla passione, dall'amore alla verità, a Cristo e alla Chiesa di singoli, di gruppi. Tuttavia, proprio perché la cultura non può rimanere senza carità nell'esperienza vissuta della fede cristiana ecco che un altro luogo che la società medievale ha costruito è l'ospedale. I primi ospedali sono nati infatti dalla capacità delle comunità cristiane di stare di fronte alle malattie che il mondo antico non voleva neanche sentire nominare: la lebbra e la peste. Il Medioevo cristiano ha, infatti, capito che non c'era nessuna situazione che non potesse essere assunta nella fede e non potesse essere vissuta nella carità. Il malato non è più un maledetto, come lo era anche nell'Antico Testamento; il malato è uno che si può baciare sulla guancia, come San Francesco bacia i lebbrosi. È comunque uno che deve essere accolto nella comunità, a cui deve essere fatto spazio nella comunità, perché, segnato come è da questa misteriosa prova, possa fare anche egli l'esperienza che questo è per la gloria di Dio. Il malato appartiene al popolo come il sano, perché malattia o sanità, come vita e morte, sono aspetti secondari: è la partecipazione a Cristo il valore da cui scaturisce la certezza e la speranza che investe tutto il resto, compreso la sofferenza, la malattia e la morte. È quindi l'esperienza vissuta della fede delle comunità cristiane che ha contribuito lungo i secoli a modellare la nostra società secondo un determinato volto, i cui lineamenti sono ancor oggi riscontrabili. Tale esperienza si è articolata sempre secondo queste tre dimensioni: l'impeto della missione, la chiarezza della cultura ( di cui è esempio l'università ), la forza della carità, soprattutto verso i più miserabili ( di cui è esempio l'ospedale ). Guardare alla storia del medioevo è utile anche per comprendere il valore fondamentale della libertà per la tradizione cristiana. L'età medioevale è l'età che ha più significativamente vissuto la libertà come fattore costruttivo, la libertà nella sua grandezza, nella sua povertà, nella sua capacità di rischio e nel suo limite. La società medioevale non è l'esito dell'imposizione della Chiesa, dell'autorità del Papa, che secondo una certa storiografia avrebbe esercitato o voluto esercitare un potere assoluto su ogni aspetto della società attraverso la cosiddetta teocrazia. La società invece nel Medioevo è il frutto della Chiesa vissuta. La società nasceva dalla libertà, dalla creatività che la libertà assumeva di fronte alle circostanze. Certo una tale opera aveva bisogno di essere garantita, aveva bisogno di strutture istituzionali che la guidassero, aveva bisogno, ad esempio, dell'Impero. L'Impero rappresentava un punto di riferimento anche per la Chiesa perché garantiva l'ordine, la difesa della libertà della Chiesa e dei popoli. Per questo l'impero più che essere uno stato sovranazionale era l'istituzione che garantiva che la vita della società si muovesse secondo una capacità di libertà concreta. Per questo l'imperatore era un'autorità morale, più che politica. Non bisogna inoltre dimenticare che dal punto di vista politico il Medioevo conosceva una pluralità di soluzioni proprio perché si venivano a costituire a partire dalla esigenze emerse nel formarsi della società. In questo periodo troviamo il comune italiano, una forma particolarissima di convivenza e di socialità; la monarchia francese; il regno di Spagna; la lega anseatica che si costituisce originariamente come cooperativa di carattere economico e diventa di fatto una struttura di potere; la serenissima repubblica di Venezia che sorge come impresa commerciale e crea una situazione politica che giunge fino al 1797. Si tratta di una pluralità di forme nate da una pluralità di vita. Il vero grande principio di legittimità per la cultura medioevale è che il governo serva il bene del popolo. Nell'intreccio delle grandi dimensioni di missione, cultura e carità, con questo afflato di libertà, si è costruita la civiltà medioevale. Con questo non si vuole dire che i medioevali avevano realizzato la società perfetta, del resto, va precisato che l'intento non era quello. Solo il pensiero utopico moderno è stato successivamente tentato di costruire la società perfetta, vedendo nella politica la salvezza per l'uomo e finendo invece per ridurre l'uomo ad ingranaggio della macchina-società, a funzione del sistema-società. L'uomo medioevale, infatti, aveva ben presente che quello sociale era solo un aspetto, sicuramente importante, ma non quello decisivo per la propria realizzazione ed è per questo che aveva integrato il pensiero politico aristotelico con quello di san Tommaso: " come aveva insegnato san Tommaso, era perfettamente possibile accordare il materialismo organico della dottrina politica aristotelica con il misticismo organico del pensiero cristiano circa la società; a condizione però che lo stato stesso fosse riconosciuto come organo della comunità spirituale e non come il fine supremo della vita umana ". Non si vuole neanche indicare la società medievale come un modello di società esente da contraddizioni e incoerenze. Per non fraintendere quanto affermato circa il medioevo occorre tenere presente che in ogni avvenimento storico, in ogni vicenda personale o di popolo è possibile distinguere l'esistenza di due dimensioni: la coerenza ideale e la coerenza etica. La prima è indubbiamente una caratteristica essenziale dell'epoca medievale, dal momento che in essa si voleva vivere tutto nella fede. Allo stesso tempo anche l'incoerenza etica è parte della vita medievale, come è parte della vita di ogni uomo e di ogni età. La Chiesa rappresenta una minaccia alla laicità dello Stato? Un ulteriore aspetto da chiarire dal punto di vista storico, per comprendere la natura e il valore della dottrina sociale in termini più adeguati, è quello del rapporto tra Stato e Chiesa. Giovanni Paolo II, nel celebre discorso rivolto nel 2002 al parlamento italiano, parlando del rapporto tra Stato e Chiesa, riferendosi in particolare alla realtà nazionale italiana, ha affermato: " Ben sappiamo che esso è passato attraverso fasi e vicende tra loro assai diverse, non sfuggendo alle vicissitudini e alle contraddizioni della storia. Ma dobbiamo al tempo stesso riconoscere che, proprio nel susseguirsi a volte tumultuoso degli eventi, esso ha suscitato impulsi altamente positivi sia per la Chiesa di Roma, e quindi per la Chiesa Cattolica, sia per la diletta Nazione italiana ". Affermando ciò Giovanni Paolo II ha mostrato che si può guardare alla storia senza quei pregiudizi ideologici che, ancora oggi, vedono nel rapporto Stato-Chiesa una minaccia all'autonomia e alla laicità dello Stato. Un rapporto che certamente si è venuto a costituire nel tempo e a volte è stato vissuto anche in modo drammatico, ma d'altra parte quale rapporto umano, se vissuto autenticamente, non è suscettibile di momenti di contrasto, di incomprensione? Un rapporto implica sempre una relazione con l'altro, e poiché l'alterità non può e non deve essere ridotta a sé, implica un incontro, il quale può sempre assumere i toni drammatici dello scontro, ma, almeno finché non si cerca di sopraffare, annientare l'altro, anche lo scontro permette comunque sempre una crescita della propria identità. Non una minaccia all'autonomia e alla laicità dello Stato, ma al contrario un rapporto, che ha suscitato "impulsi altamente positivi", sia per la Chiesa, sia per lo Stato. La società, che oggi in modo riduttivo viene chiamata occidentale, e che si caratterizza tra le altre cose, per la distinzione tra il potere temporale e quello spirituale, garantendo in questo modo, a differenza di molte altre società, la laicità dello Stato, è il frutto di questo secolare rapporto tra Chiesa cattolica e potere politico. Sebbene soltanto una storia appunto secolare abbia permesso alle due realtà in causa di definirsi sempre più chiaramente e guadagnare la propria piena autonomia, tuttavia fin dall'inizio è presente una distinzione dei rispettivi ambiti. Si tratta pertanto dello sviluppo, di un approfondimento di qualcosa presente fin dall'origine e non di un'invenzione, o di una rivoluzione, come invece gran parte del pensiero laicista ha sostenuto, presentando la distinzione del potere spirituale da quello temporale come una recente acquisizione. Infatti, è già nell'esperienza originaria del cristianesimo, nella persona di Gesù, nel suo insegnamento, che si può ricavare l'origine di tale distinzione: l'esperienza che Cristo propone non è innanzitutto un'esperienza politica, ma un'esperienza religiosa, non una nuova organizzazione della società, ma la strada per realizzare la propria vita personale, il cammino per il proprio destino. Al tentativo dei farisei di metterLo contro l'impero romano Egli non ha esitato a distinguere i piani, quello religioso da quello politico, con il famoso " rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio ". ( Mc 12,17 ) La Chiesa fin dalle origini, non ha voluto occuparsi direttamente dell'aspetto sociale e politico; certamente la conversione ha avuto delle conseguenze non da poco anche sul modo di concepire la società e la politica, ma sono state appunto conseguenze. La stessa diffusione del cristianesimo originariamente è avvenuta in modo totalmente personale. Infatti, è stata la testimonianza personale dei convertiti che ha diffuso il cristianesimo: se è un incontro personale con Cristo, subito testimoniato ad amici e parenti, quello che ha fatto sorgere la prima comunità degli apostoli, " lo stesso procedimento di azione individuale si trova fin dalle origini della chiesa ed è forse in questo modo che, durante i primi due secoli all'incirca, il cristianesimo ha conquistato la maggior parte dei suoi fedeli ". Sicuramente l'apertura al cristianesimo, la conversione di Costantino e successivamente la trasformazione dell'impero in impero cristiano, da parte di Teodosio, hanno permesso una più rapida diffusione, ma questo non ha mai implicato un'assimilazione o una subordinazione totale della Chiesa all'Impero, soprattutto in Occidente. Chiesa e potere politico hanno continuato ad essere due realtà distinte. Dentro un contesto non facile, quello dell'impero romano, che cercava in qualche modo di subordinare a sé la sfera religiosa, tale distinzione, sebbene non sempre nettissima, ha permesso di limitare la sfera di ingerenza del potere politico relativamente alla fede, alla morale e alla disciplina ecclesiastica, come bene testimonia lo scontro tra s. Ambrogio e Teodosio nel 380, avvenuto in conseguenza del massacro di Tessalonica: " Ambrogio ingiunse all'imperatore di fare pubblica penitenza e subito lasciò Milano, recandosi a Bologna e Firenze, disposto a rimanervi finché l'imperatore non avesse scontato la penitenza canonica. Teodosio cedette: un imperatore cristiano non poteva essere sopra la Chiesa e con ciò sembrava assodato che fede, morale, disciplina ecclesiastica erano ambiti riservati alla competenza della Chiesa, che escludeva ogni ingerenza dello Stato ". La distinzione tra potere religioso e potere politico, ribadita esplicitamente da Papa Gelasio I ( 492-496 ), come è stato sopra ricordato, è ciò che da un lato ha garantito la libertà della Chiesa e dall'altro ha limitato il potere assoluto dello Stato. Il contrasto tra libertà cristiana e potere assoluto ha accompagnato tutta la storia della Chiesa, fin dai suoi inizi. Se il cristiano è figlio di Dio, fratello di Cristo, nessuna autorità umana può pretendere da lui dipendenza totale. Ciò che definisce il cristiano è il dono della partecipazione alla stessa vita di Dio, conferitagli in Cristo, unico Salvatore di tutti gli uomini. Da questo provengono e si radicano la sua dignità e i suoi diritti umani. Non sono concessione dello Stato, sia quello dell'imperatore romano, come quello del Fuhrer nazista o del Partito Comunista; e neppure sono prodotte dalle maggioranze democratiche, dalla scienza o dalla tecnologia. Il cristiano non è anarchico, riconosce la necessità del potere, ma soltanto come servizio, che regola la convivenza sociale. Lo scontro tra Impero e cristiani - fino al martirio - è avvenuto perché i cristiani rifiutarono non l'Impero, ma la divinizzazione del potere imperiale. Sarebbero stati tollerati, se avessero accettato di collocare Cristo tra le tante divinità del Pantheon, cioè di allinearsi tra le opinioni private o tra i culti ammessi da un impero unificato dal culto alla dea Roma o dell'Imperatore. A cominciare da Erode e da Pilato, tutti i tiranni hanno avvertito che il cristiano ricordava loro che la dignità di ogni uomo non è definita dal loro potere e che anche loro erano sottoposti a Cristo Giudice. Esemplare la condotta di s. Ambrogio che insegnava a coloro che appartenevano a Cristo Signore di non lasciarsi incantare da altri signori. E in polemica contro Aussenzio affermava: " noi paghiamo a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. Il tributo è di Cesare, non lo si nega. La Chiesa è di Dio, e non deve assolutamente essere aggiudicata a Cesare, perché il tempio di Dio non può essere diritto di Cesare. Nessuno può negare che ciò sia stato detto con deferenza verso l'imperatore [ … ] L'imperatore, infatti, è nella Chiesa, non è sopra la Chiesa ". La società, che è sorta sulle rovine dell'impero romano, si è venuta poi costituendosi come societas christiana. In essa l'elemento religioso era il fondamento della stessa società. Tuttavia, questo non ha impedito l'approfondirsi della distinzione vista all'origine della stessa esperienza cristiana e sebbene, a volte in modo drammatico, potere politico e Chiesa sono tornati a confrontarsi e a delimitare il proprio ambito in modo estremamente proficuo per entrambi. Per esempio, in epoca medievale, nel corso dell'XI secolo, si è assistito ad uno scontro, la cosidetta lotta per le investiture, che, se da un lato ha garantito un'autonomia e una maggiore autenticità alla vita della Chiesa ( la nomina imperiale dei vescovi minava sia l'una che l'altra ), dall'altro ha delimitato il potere imperiale impedendone un'assolutizzazione: " Il Papato [ … ] allorché cercò di definire il suo ruolo all'interno della Chiesa ponendosi come unico centro ( caput ) della stessa, diede l'esempio di una fattiva resistenza di fronte alla concezione teocratica del regnum: il giuramento non era più sacro in quanto tale, e quindi incondizionato, ma veniva delimitato da elementi legati alla libertà e alla coscienza del singolo [ … ] è forse possibile rintracciare nel primo chiarimento di due autonomi ambiti di influenza, rispettivamente per il regnum e per il sacerdotium, l'origine del costituzionalismo moderno: senza questo scontro di poteri si sarebbe forse mantenuto e consolidato quel carattere sacro ( o meglio sacerdotale ) del potere, oppure non si sarebbe evidenziata la distinzione ( e col tempo la divisione ) di due differenti sfere d'azione ". Contro l'assolutizzazione del potere politico, il suo presentarsi come autoreferenziale, e il tentativo di sottomettervi la Chiesa, va letto anche il pontificato di Bonifacio VIII e la sua celebre bolla Unam Sanctam. In essa, infatti, non è stata messa in discussione la distinzione dei due poteri, ribadita attraverso l'analogia delle due spade, quanto la pretesa superiorità del potere politico su quello religioso. Il merito di Bonifacio VIII, che è uscito tuttavia sconfitto dallo scontro con Filippo il Bello, è stato quello di avere cercato di impedire che la politica fosse assunta come l'ultimo criterio della vita, facendola dipendere da una dimensione più profonda, quella appunto religiosa. Soprattutto, però è nella modernità che lo scontro tra Stato e Chiesa si è acuito e con esso la distinzione, da sempre presente nella storia dell'Occidente, ha assunto sempre più la forma della divisione, della separazione, a volte della contrapposizione. Dopo la Rivoluzione Francese si è affermato un nuovo modo di concepire il potere politico: in esso " il riferimento della convivenza della società nelle sue varie espressioni è lo Stato in termini esclusivistici, perché è lo Stato che crea il diritto e legittima i soggetti sociali, ed è all'interno dell'amministrazione dello stato che si può agire ". La Chiesa, di fronte alla crescente pretesa che lo Stato fosse tutto, affermata spesso anche violentemente nella modernità, ma soprattutto nell'epoca contemporanea con i totalitarismi, ha reagito, ha cercato di resistere, prima ancora che da un punto di vista politico da un punto di vista culturale. Sarebbe al quanto riduttivo leggere la contrapposizione tra Pio IX e lo Stato liberale italiano semplicemente come uno scontro dettato solo dall'eccessivo attaccamento al potere temporale del Papa. Occorre cogliere il motivo di tale attaccamento nel problema fondamentale dell'indipendenza della Chiesa dallo Stato. Pertanto non si può liquidare Pio IX semplicemente come l'ultimo Papa re, in qualche modo un nostalgico, perché legato ad una concezione ancora teocratica del potere, dal momento che la soluzione proposta dai liberali, sintetizzata nella formula "libera Chiesa in libero Stato", risultava alquanto problematica, non solo perché l'Italia si appropriava unilateralmente di territori che da secoli appartenevano alla Chiesa, ma soprattutto in quanto faceva dipendere la stessa Chiesa dallo Stato. La contrapposizione rivela, cioè, una più profonda contrapposizione circa le concezioni dell'uomo e dello stato sottese. Uno Stato, quello liberale, che non voleva conoscere limiti al di fuori di sé; una Chiesa che, sviluppando la propria dottrina sociale Sillabo, Rerum novarum, Quadragesima anno, solo per citare alcuni documenti, ha inteso affermare il carattere assoluto della persona, la sua priorità sulla società, la priorità della società sullo stato, contro quelle tendenze stataliste o collettivistiche che si andavano formando. Se non si tiene presente questo livello della contrapposizione non si possono capire né il valore, né la portata storica della Conciliazione rappresentata dai Patti Lateranensi. Non si tratta infatti né di un riconoscimento nei confronti del regime fascista, né del tentativo di costituire uno stato confessionale. La Chiesa con i Patti ha ottenuto il riconoscimento ufficiale di quello spazio di libertà e di indipendenza necessari per la sua missione e per il ruolo educativo e culturale che da sempre si prefigge. Ottenendo tale spazio di libertà per sé la Chiesa è diventata allo stesso tempo garanzia e difesa della libertà dell'uomo nei confronti di uno Stato che voleva essere tutto. Non è un caso che nel corso del XX secolo l'opera dei Papi si è sempre più caratterizzata oltre che per la predicazione del Vangelo anche per la difesa dei diritti fondamentali dell'uomo, primi fra tutti quello alla vita e alla libertà religiosa. Se da un lato per la Chiesa la contrapposizione con lo Stato ha voluto dire la liberazione completa dal potere temporale, senza rinunciare all'autonomia e all'indipendenza, permettendogli così di assumere sempre più una rilevanza di natura morale e culturale a livello mondiale; dall'altro per lo Stato è significato un superamento di quell'atteggiamento totalitario ambiguamente presente insieme alle legittime istanze democratiche nella concezione politica moderna. Si può dire, infatti, che la Chiesa ha ridimensionato il potere politico. Essa ha contribuito in modo decisivo ad affermare una concezione della politica per la quale il potere non è tutto, è servizio. Il cristianesimo ha sviluppato una piena consapevolezza del fatto che il destino dell'uomo non dipende dal potere e dal successo mondano, dall'ordine politico, ma dalla carità, espressione vera della personalità dell'uomo. Un breve percorso storico: da Pio IX a Giovanni Paolo II Una volta chiariti il fine e le intenzioni proprie del Magistero si è voluto delineare brevemente alcune delle principali tappe storiche lungo le quali esso ha assunto la propria fisionomia. Fermarsi ad indicare i momenti storici e i passi del Magistero ad essi corrispondenti, senza avere qui la pretesa di esaurire il discorso da un punto di vista storico, risulta infatti imprescindibile se si vuole capire cosa sia la dottrina sociale della chiesa. Solitamente nell'affrontare la questione delle origini storiche della dottrina sociale si usa partire dalla Rerum novarum di Leone XIII. Si è in qualche modo individuato in questa celebre e fondamentale enciclica il documento fondamentale da cui prendere le mosse per considerare ed analizzare la presenza della Chiesa nella società moderno-contemporanea. Indubbiamente la Rerum novarum costituisce la prima espressione in positivo dell'insegnamento della Chiesa riguardo alle problematiche sociali che si sono venute a sviluppare in epoca moderno-contemporanea. Tuttavia, non si può comprendere adeguatamente l'insegnamento di Leone XIII, se non si parte da Pio IX ( 1846 - 1878 ). Infatti, la caratteristica peculiare del Magistero di Leone XIII è quella di specificare il Magistero del suo predecessore in senso positivo e costruttivo. Il ruolo decisivo di Pio IX Pio IX ( 1846 - 1878 ) è stato il pontefice che ha rappresentato la presa di coscienza definitiva di quel progetto culturale proprio della mentalità laicista che teorizzava apertamente la scristianizzazione della società. Egli ha percepito chiaramente che ciò che era in gioco era la stessa concezione di uomo. Pio IX ha, cioè, capito che si voleva trasformare l'uomo attraverso la costruzione di una società europea non più cristiana, ma liberal-borghese. È il pontefice che, preso atto di ciò, ha formulato in modo compiuto e organico, più completo di quanto non avessero fatto i suoi predecessori, un giudizio critico nei confronti della modernità. Così facendo, egli ha voluto, innanzitutto, difendere la possibilità per la Chiesa di andare in missione, di essere presente anche in un mondo in cui si teorizzava apertamente un progetto di esclusione della Chiesa dalla società. Pio IX ed in particolare all'interno del suo Magistero il Sillabo ( 1864 ), sono stati spesso erroneamente indicati, anche da parte di certa storiografia e teologia cattolica, come espressione di una Chiesa ormai superata, che, per la sua avversione alla modernità, al progresso, alla libertà, è bene condannare. Tale lettura non solo risulta erronea perché evita di inquadrare storicamente il Magistero di Pio IX, ma anche perché non ne coglie l'attualità e profezia riguardo a molti di quegli aspetti di natura antropologica, teologica e filosofica decisivi per un'autentica esperienza cristiana, non a caso ripresi e sviluppati dal Magistero successivo. Un'attenta lettura del Magistero di Pio IX rivela quanto sia erroneo giudicare la sua posizione come semplicemente reazionaria e come invece la si debba considerare per molti aspetti profetica, capace di esplicitare quelle ambiguità della modernità che il secolo successivo ha reso evidenti. È mia convinzione, infatti, che nell'esercizio del primato di Pietro, in particolare del Magistero ordinario del vescovo di Roma, ogni presa di posizione possa essere letta a due livelli: il livello della immediatezza, della contingenza, della storicità, dell'attualità; ed il livello della profezia. Esiste una capacità del Magistero di leggere quasi profeticamente le conseguenze ultime delle posizioni di cui discute; quindi mentre interviene sulle vicende del 1848 o del 1864, incredibilmente riesce in qualche modo a cogliere ciò che ne consegue e in qualche modo ne fornisce un'anticipazione: essendo tenuto presente in anticipo, viene quindi affermato o condannato in anticipo. Il Sillabo è indubbiamente una condanna della modernità, ma tale condanna può essere compresa nel suo vero significato solo se si percepisce il positivo che vuole preservare. Pio IX ha voluto evidenziare in un unico testo quelle minacce che incombevano sulla Chiesa e sull'umanità. All'origine del Sillabo esiste quindi un'immagine di Chiesa e di umanità che si vuole difendere al fine di rendere possibile la sua crescita, il suo sviluppo. Se si comprende ciò diventa più facile cogliere l'attualità del Sillabo e del Magistero di Pio IX; infatti, se il contesto storico è effettivamente mutato in modo rilevante, il nucleo che si intendeva salvaguardare, l'immagine della Chiesa e dell'umanità, è rimasto intatto. Una comprensione effettiva del Sillabo e del Magistero di Pio IX deve sforzarsi di capire che cosa il Sillabo abbia voluto difendere. Una lettura attenta del Sillabo e dell'intero Magistero di Pio IX risulta, pertanto, fondamentale per comprendere l'origine e le derive del pensiero moderno. Si può, infatti, parlare di attualità e profezia perché Pio IX ha saputo cogliere, indicandoli come problematici, quegli aspetti che, pienamente sviluppatisi nel successivo secolo e mezzo, si sono rivelati disastrosi per l'uomo: una visione laicista e quindi antireligiosa dell'uomo e della società; una certa concezione totalitaria del potere; una falsa idea di libertà e di tolleranza svincolata dal problema della verità. Condannando la visione laicista e antireligiosa dell'uomo e della società, Pio IX ha contestato l'ipotesi di fondo della modernità indicandola come negativa. L'ipotesi cioè secondo la quale l'uomo è autosufficiente e si realizza con le sue sole forze rifiutando ogni dipendenza. Anche in questo caso gli avvenimenti susseguitesi nei secoli sembrano confermare l'intuizione di Pio IX attraverso quello che De Lubac ha indicato come il dramma dell'umanesimo ateo, a cui si è esplicitamente fatto riferimento all'interno di questo lavoro parlando dell'esito inumano dell'umanesimo moderno. La preoccupazione principale di Pio IX era quindi di carattere antropologico. Si può dire che il Magistero di Pio IX risulti mosso dalla domanda: qual è il destino a cui va incontro l'uomo nella modernità? Che fine fa l'uomo - non l'uomo liberale che sta combattendo la sua battaglia per realizzare la sua egemonia o l'uomo cattolico che si sta difendendo giustamente - dentro questo terribile processo di secolarizzazione, di scristianizzazione, per cui l'uomo viene pensato non solo senza riferimento alla tradizione cristiana, ma senza riferimento alla religiosità? Pio IX ha compreso che l'uomo veniva sempre più concepito come una realtà che aveva valore in sé e per sé, chiusa a qualsiasi riferimento trascendente, padrone della sua ragione eminentemente analitico-scientifìca, padrone del suo sentimento-istinto. Pio IX ha avuto il coraggio di dire che si stava procedendo verso l'annientamento dell'uomo. Dunque chi legge con attenzione il Sillabo vede anticipatamente enucleato e denunciato l'esito fallimentare dell'antropologia irrealistica propria della modernità che oggi viene definito "nichilismo post-moderno". Pio IX ha denunciato, in un certo senso profeticamente, questa orribile dimenticanza dell'uomo come persona, come capacità di vivere la propria identità, la propria avventura umana, perché, come si è già avuto modo di sottolineare, se si tolgono le radici religiose, l'uomo sprofonda nella biosfera o nella politica. È per questo motivo che la posizione di Pio IX non è definibile innanzitutto come un tentativo di difesa della società tradizionale contro la rivoluzione sociale liberale; è piuttosto la difesa dell'uomo in quanto tale. Inoltre, secondo la prospettiva che è risultata prevalente nella modernità, la ragione è stata affermata contro il Mistero. Di fronte a ciò Pio IX ha quindi voluto, innanzitutto, difendere il fatto che il nesso tra coscienza umana e destino non può essere esaurito dalla ragione. La ragione non può essere autonomamente padrona della propria esistenza. La modernità e l'illuminismo si sono sviluppati anzitutto contro la Rivelazione, concepita come un affronto alla ragione; secondo una tale prospettiva la Rivelazione, infatti, " nuoce al perfezionamento dell'uomo ". Pio IX ha, invece, ribadito che la Rivelazione è una possibilità che non si può negare; anzi non c'è niente che la ragione umana desideri maggiormente. La Rivelazione, ha voluto ribadire Pio IX, non solo non nuoce ma è l'unica vera possibilità attraverso la quale l'uomo possa comprendere fino in fondo se stesso e realizzarsi. Del resto il Concilio Vaticano II lo ha riaffermato con decisione: Cristo ha rivelato l'uomo all'uomo, e la rivelazione non consiste solo in concetti astratti, ma nel dono ininterrotto e completo che Cristo fa della Sua persona, abbracciando la storia con la Sua presenza. Pertanto, dalla condanna del Sillabo all'ipotesi sottesa alla modernità, che la stessa storia ha del resto condannato, emerge un'ipotesi positiva: ovvero l'ipotesi cristiana di lettura della storia. Ipotesi che scaturisce da un avvenimento, il quale implicitamente ed esplicitamente pretende di svelare l'uomo all'uomo. Se è solo lungo il corso del XX secolo che si realizzano regimi di stampo totalitario, la concezione del potere totalitario si è affermata nella modernità ed è stato indubbiamente grande merito di Pio IX denunciarla come negativa per l'uomo. La proposizione XXXIX del Sillabo recita infatti: " Lo Stato, come origine e fonte di tutti i diritti, gode di un diritto tale che non ammette confini ". Pio IX, condannandola, si è opposto all'idea di uno Stato, che pretenda di essere sciolto da ogni riferimento a realtà o norme trascendenti. Il diritto di un tale Stato non conosce, infatti, confini, né quelli posti da Dio e dalla sua legge, né quelli posti dalla coscienza personale. Ciò significa che esso acquisisce un potere assoluto; i diritti fondamentali dell'uomo, tanto proclamati dalla modernità, finiscono per derivare dall'essere cittadino dello Stato che non ha limiti nell'intervento sulla persona. Secondo tale ipotesi il cittadino non è innanzitutto figlio di Dio e tanto meno il rapporto padre - fìglio può essere considerato primario. I diritti derivano dallo Stato e il rapporto unico e vero è quello tra cittadino e Stato. Lo Stato si presenta, dunque, come una forma totalizzante: non è in funzione della società, ma coincide con essa. E l'abolizione della libertà, cioè l'abolizione dell'uomo. Da questa concezione deriva il diritto dello Stato ad occuparsi di tutto, e ad intervenire in ogni ambito della vita sociale, soprattutto nell'educazione, cosicché la scuola diviene lo strumento fondamentale della diffusione dell'ideologia. La vera autorità religiosa finisce per essere l'autorità statale; ecco spiegato anche il tentativo dello Stato moderno di assorbire la Chiesa. Lo Stato, secondo questa ipotesi, dunque, diviene l'unico soggetto sociale e distribuisce diritti e doveri in base alla propria convenienza. Per Pio IX occorreva prendere coscienza di questo progetto culturale laicista per organizzare un confronto che evitasse l'assorbimento della Chiesa nello Stato, secondo quanto il laicismo liberale si proponeva attraverso la cosiddetta separazione dei poteri. Nell'enciclica Quanta cura evidenziava l'inconciliabilità radicale tra cattolicesimo e laicismo, denunciando il fatto che l'assolutizzazione della società politica, ovvero la costruzione della società prescindendo dalle fondamentali esigenze religiose dell'uomo e dalla presenza dell'avvenimento cristiano, avrebbe finito per ridurre la vita sociale ad un meccanismo violento di tipo materialistico. Per quanto riguarda la posizione di Pio IX riguardo alla libertà si è già detto in parte precedentemente, affrontando il tema della libertà religiosa. La sua posizione è stata tutta tesa a condannare una certa accezione della libertà, contraria allora come oggi all'esperienza della libertà vissuta nel cristianesimo. Pio IX ha condannato il liberalismo perché ha ritenuto che non fosse possibile scendere a compromessi con esso in quanto troppo profondamente segnato in senso ideologico. Nel liberalismo, almeno così come si impone nella tradizione occidentale ottocentesca, si assiste ad una corruzione della libertà. La corruzione della libertà che non si rapporta alla persona e al suo cammino verso il vero, il bene, il bello e il giusto. La libertà è stata, infatti, intesa come espressione di una soggettività assoluta: l'uomo è libero perché può fare quello che gli pare e piace; l'uomo è libero perché pensa quello che vuole e la verità è ridotta ad un aspetto della sua libera espressione. Non bisogna dimenticare che tale tendenza culturale non è qualcosa che riguarda solo il liberalismo dell'ottocento. Questa corruzione della libertà, che ha originato un certo modo di intendere il liberalismo, contende lo spazio alla libertà nel cuore di ciascuno uomo. La prima cosa dunque da capire è che nessuno di noi è immune da questa orrenda tentazione di concepire la libertà come espressione istintiva della nostra soggettività, la quale non è chiamata ad obbedire a nessuno e a niente. Agostino ha descritto ciò attraverso l'immagine della città di Dio e della città dell'uomo: l'uomo può organizzare la città, la dimensione sociale che è naturalmente chiamato a vivere, a partire della grande apertura al Mistero che sottende ogni cosa, oppure dalla grande tentazione dell'uomo di agire contro di Dio, di affermare se stesso e il proprio potere contro Dio. Pio IX ha denunciato il divenire cultura, progetto sistematico di questa tentazione all'interno della modernità. La libertà come espressione del proprio potere è ciò a cui porta tale prospettiva. La parola potere è una delle più tremende che hanno influito sulla vita dei singoli e della realtà sociale e politica negli ultimi secoli in maniera drammatica, tragica. Di fronte a questa corruzione della libertà, Pio IX ha cercato di difendere l'esperienza originale della libertà come adesione al vero. Pio IX ha difeso quindi non una libertà affermata astrattamente secondo una formulazione corrotta, ma una libertà concretamente vissuta all'interno dell'esperienza ecclesiale. Ecco perché il suo pontificato, la sua azione magisteriale ha avuto come obbiettivo fondamentale la difesa della Chiesa come popolo nella sua azione missionaria. Non bisogna dimenticare che Papa Pio IX ha creato centinaia di missioni, centinaia di diocesi in Paesi di missione; ha recuperato all'unità della Chiesa la Chiesa Inglese, restaurando l'episcopato in Inghilterra; è stato insonne nel dare alla Chiesa del suo tempo, per il tempo futuro, la coscienza della sua identità e della sua responsabilità. È da questo enorme impeto missionario di Pio IX, che discende dall'esperienza di vita e dalla cultura del popolo cristiano, che ha origine la dottrina sociale della Chiesa, come difesa della libertà della Chiesa, dell'uomo e dei popoli. Con il Magistero di Pio IX non si chiude il discorso sulle esigenze vere della modernità, ma si pongono le condizioni per un dialogo serio e paritetico con la modernità. L'insegnamento di Pio IX non ha voluto condannare la modernità in maniera assoluta, ma semplicemente dire che per essere realmente moderni, non si deve essere anti-cristiani. Il Magistero successivo ha avuto il compito di mostrare ed indicare come si possa essere cristiani e moderni, se la modernità, con la sua autentica esigenza di partecipazione, il suo forte desiderio di sviluppo integrale della personalità, rinuncia alla prospettiva laicista condannata da Pio IX. Non esiste quindi rottura nello sviluppo del Magistero, da Pio IX fino a Giovanni Paolo II, quanto un continuo e sistematico approfondimento. Per Pio IX, come per Giovanni Paolo II, come per tutti i Papi che si inseriscono in questa traiettoria, l'essenziale è il ritorno a Gesù Cristo redentore dell'uomo, centro del cosmo e della storia. Leone XIII e la " Rerum novarum " Il Magistero che più si è impegnato di fronte alla modernità e alle sue contraddizioni, sia nella fase del confronto, sia - soprattutto - nella fase propositiva, è stato quello di Leone XIII ( 1878 - 1903 ), il cui pontificato, immediatamente a ridosso della creazione dei grandi Stati liberal - borghesi in Europa, ebbe la possibilità di valorizzare, come materiale di riflessione, tutta la grande tradizione teologica raccolta per preparare la celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano I, bruscamente interrotto dalla presa di Roma da parte delle truppe italiane nel 1870. Il suo Magistero sociale risulta pertanto particolarmente ricco e articolato. Si tratta di una approfondita disamina delle dinamiche sociali che si fonda su di una riflessione filosofica e teologica di altissimo livello. Etiene Gilson, infatti, ha parlato di Leone XIII come del " più grande filosofo cristiano del secolo XIX, e uno dei più grandi di tutti i tempi ". L'eredità di Pio IX è passata integralmente nel Magistero di Leone XIII, il quale ha in qualche modo cercato di descrivere in senso compiuto l'alternativa cattolica alla modernità, inizialmente delineata da Pio IX. L'affermazione che il progetto ateistico è inassimilabile al cristianesimo non ha chiuso la Chiesa in una posizione di nostalgia del passato, di pura reazione. Con il Magistero di Leone XIII la Chiesa ha assunto una posizione propositiva. Non esiste, tuttavia, discontinuità tra Pio IX e Leone XIII, come certa storiografia ha sostenuto. Leone XIII non ha esitato " a riaffermare la sostanza dottrinale delle encicliche di Pio IX e anche, a più riprese, a fare esplicito riferimento al Sillabo ". Egli ha continuato "a reagire senza tregua, fin dalla sua prima enciclica, contro il liberalismo laicista e i crescenti tentativi di secolarizzare la società ". Tuttavia, in continuità con la linea già intrapresa da Pio IX, le istanze positive del liberalismo non solo non sono state rifiutate, ma in un certo senso sono state anche riformulate. Parlare di continuità non significa che egli ha semplicemente riproposto il Magistero del suo predecessore; egli lo ha approfondito. Ha, cioè, approfondito quella identità culturale propria della coscienza cristiana, antitetica al laicismo moderno, ma allo stesso tempo sempre più capace di accogliere e modulare le istanze positive implicate nella posizione moderna. Il movimento di pensiero e di azione che si riferisce alla tradizione liberale contiene senz'altro una istanza di libertà. Nell'orizzonte del recupero della soggettività moderna il liberalismo è senz'altro l'affermazione che il soggetto è tanto più se stesso quanto più è libero. Libertà allora significa autonomia: una morale che scaturisce dall'interno della coscienza e non è imposta dall'esterno; una capacità di conoscenza e organizzazione della realtà e, soprattutto, una nuova creatività etica e socio-politica. In questo senso il liberalismo ha messo in discussione l'ordine socio-politico preesistente, e in questa ridiscussione radicale ha riscoperto quei fondamentali diritti della persona e della vita sociale. In particolare ha insistito sull'esigenza di una piena e più autentica espressione della soggettività umana che dal punto di vista sociale equivaleva ad una richiesta di maggiore partecipazione alla vita della società e alla creazione di strut ture socio-politiche più adeguatamente al servizio della libertà personale e sociale. Non solo il Magistero sociale che si è sviluppato a partire da Leone XIII non ha negato tutto ciò, ma ha contribuito a definire sempre più una concezione autentica di democrazia. Sono state suggerite le linee fondamentali di una concezione e di una pratica culturale, sociale e politica che senza paura si può definire democratica perché ha contribuito ad evitare che la struttura statale si imponesse sulla vita sociale, e ha favorito il formarsi di uno stato a servizio della società. Si può dire che lo sviluppo della democrazia, tra i cui nemici troppo sbrigativamente è stata spesso indicata la Chiesa, senza cercare di capire storicamente a quale idea di liberalismo e democrazia essa si opponesse, deve molto al Magistero sociale di Leone XIII. Il liberalismo, che si è affermato in Europa negli ultimi decenni del XIX secolo, contrassegnato da un forte laicismo di fondo, è stato, infatti, caratterizzato dal predominio dello Stato sulla vita sociale. In Italia, come del resto anche in Germania, il Risorgimento è coinciso sostanzialmente con la nascita di un predominio dello Stato sulle realtà locali e sulla vita sociale della popolazione. Quindi si compierebbe un grosso errore dal punto di vista storico se si attribuisse al movimento liberale, segnato dal profondo spirito nazionalistico di fine 800, l'origine e lo sviluppo di tutte le istanze democratiche. Anzi, come viene messo bene in evidenza da Danilo Veneruso, parlando della situazione italiana, nella sua Storia d'Italia nel Novecento, il liberalismo di fine XIX e inizio XX secolo si è opposto alla democrazia, in quanto " prevalse nettamente, in Italia, la tesi che tra liberalismo e la democrazia vi fosse disomogeneità, non omogeneità, discontinuità, non continuità ". Ovvero il sistema liberale non è stato capace di superare la fase risorgimentale e, nonostante i tentativi di Giolitti di aprire alle masse popolari, è rimasto legato ad una forma politica elitaria e soprattutto statalista: " Il liberalismo, per i liberali di questa tendenza, era perciò riconoscibile ed attuabile nella libertà di una classe dirigente in generale e politica in particolare che intendesse conservare, rafforzare e promuovere lo Stato nazionale: a questo scopo, e a questo soltanto, dovevano essere coordinate o, per meglio dire, subordinate tutte le altre libertà, individuali, religiose, culturali, sociali, economiche ". La stessa origine del movimento nazionalista va cercata proprio in questa intrinseca opposizione di una parte del mondo liberale al processo di democratizzazione: " In Italia l'impianto e lo sviluppo del nazionalismo rispondevano alla scelta politica di fondo della classe dirigente: la permanenza della formula politica di un liberalismo nazionale che sempre più stava rivelandosi come statalismo nazionale, in cui la libertà fosse prerogativa non della società e dei suoi singoli elementi, bensì dello Stato, della classe dirigente al potere ". D'altra parte " tanto le forze in vario modo governative quanto le forze di opposizione, compresi i socialisti, erano contrassegnate dal "giacobinismo", con il relativo predominio dello Stato sulla società ". È stato proprio il prevalere di questa impostazione statalista a decretare il fallimento, almeno momentaneo, dell'apertura di Leone XIII alla democrazia, e con esso dello sviluppo stesso dell'ordinamento democratico, travolto poi dagli eventi del dopo guerra e dal formarsi dei grandi regimi totalitari. Fallimento a cui ha contribuito in modo determinante anche la prospettiva rivoluzionaria, antireligiosa e anticattolica assunta dai movimenti socialisti: " In questa lotta senza quartiere contro quello che essi chiamavano il "clericalismo", i socialisti europei contribuirono in modo determinante a togliere dall'agenda delle cose possibili l'affermazione di quell'ordinamento democratico nella sostanza, al di là del vocabolario politico scelto per definirlo, che era stato proposto da Leone XIII alla fine del secolo e quindi a lasciare via libera al trionfo del nazionalimperialismo, che in tante questioni era specularmene opposto al socialismo, ma non nella concezione giacobina del rapporto tra Stato e società ". Se l'idea di democrazia ha potuto affermarsi guadagnando come sua componente fondamentale il valore e il primato della società sullo stato, lo si deve pertanto in gran parte allo sviluppo della dottrina sociale della Chiesa, quindi alla riproposizione della priorità della persona sulla società, della società sullo Stato e alla riproposizione di un'idea di stato invalicabilmente distinto dalla dimensione religiosa, dalla struttura ecclesiastica. Leone XIII ha dedicato alla questione sociale tre importanti encicliche: la Immortale Dei ( 1885 ) sulla costituzione cristiana degli Stati; la Libertas praestantìssimum ( 1888 ) sulla libertà umana e infine, la più famosa, la Rerum novarum ( 1891 ) sulla condizione dei lavoratori. Nella Immortale Dei Leone XIII ha sostenuto, in modo estremamente documentato, che la dimensione religiosa debba fondare la vita di quelle strutture politiche che servono la libertà dell'uomo e sono espressione autentica delle persone e dei rapporti sociali: " Il vivere in una società civile è insito nella natura stessa dell'uomo: e poiché egli non può, nell'isolamento, procurarsi né il vitto né il vestiario necessario alla vita, né raggiungere la perfezione intellettuale e morale, per disposizione provvidenziale nasce atto a congiungersi e a riunirsi con gli altri uomini, tanto nella società domestica quanto nella società civile, la quale sola può fornirgli tutto quanto basta perfettamente alla vita. E poiché non può reggersi alcuna società, senza qualcuno che sia a capo di tutti e che spinga ciascuno, con efficace e coerente impulso, verso un fine comune, ne consegue che alla convivenza civile è necessaria un'autorità che la governi: e questa, non diversamente dalla società, proviene dalla natura e perciò da Dio stesso ". In questa enciclica egli ha, inoltre, chiarito come la Chiesa fosse sostanzialmente indifferente alle varie forme di governo, a condizione, però, che la struttura della vita politica, cioè lo Stato, avesse come preoccupazione l'affermazione della persona e dei suoi diritti fondamentali e quindi promuovesse la massima libertà della vita sociale e il bene comune. Secondo Leone XIII, infatti, il potere " deve essere esercitato in vista dell'utilità dei cittadini, poiché chi detiene il potere governa con quest'unico compito, di tutelare il bene dei cittadini. Ne in alcun modo deve accadere che l'autorità civile serva l'interesse di uno o di pochi, una volta che è stata istituita per il bene comune ". Da quanto ha affermato da Leone XIII nella Immortale Dei risulta ugualmente evidente che la Chiesa non intendeva condannare né la libertà, né la democrazia in sé e che poste certe condizioni esse erano addirittura auspicabili. Ecco quanto viene detto: " non s'intende condannare in sé neppure il fatto che il popolo partecipi, in maggiore o minore misura, alla vita pubblica: il che può rappresentare in certe circostanze e con precise leggi, non solo un vantaggio ma anche un dovere civile. Ancora, non v'è neppure valido motivo per accusare la Chiesa di essere restia più del giusto ad una benevola tolleranza, o nemica di un'autentica e legittima libertà ". Fondamentale per Leone XIII, in piena continuità con Pio IX, nell'affrontare la questione politica, è stato il problema antropologico. Anch'egli era convinto che la prospettiva politica si dovesse sviluppare a partire dal modo in cui si concepisce l'uomo: che tipo di uomo è quello che il progetto ateistico persegue? Che tipo di uomo è quello che la realtà della vita ecclesiale determina? Quali sono le conseguenze dell'uno e dell'altro modello? Con l'enciclica Libertas praestantìssimum, egli è risalito alle radici della questione antropologica ed etica. Ha distinto due concezioni della libertà: quella propria del liberalismo e quella "cristiana". La cultura laicista dominante aveva un concetto di libertà intesa come mera capacità di scelta; così intesa la libertà, egli denunciava, non poteva che preparare una struttura della vita sociale e politica sostanzialmente negatrice della libertà stessa. Denunciava una concezione della libertà come supremo valore, funzionalizzata, tuttavia, alla sua negazione. Ribadiva che dal punto di vista cristiano invece la libertà è sottoposta alla verità. Il supremo valore è la verità, mentre la libertà risulta la modalità umana per affermare la verità. Leone XIII ha voluto rimarcare il fatto che l'uomo non dipende totalmente dallo Stato, perché il cristiano dipende innanzitutto da Dio e solo in parte e secondariamente dallo Stato: " dove il diritto di comandare è assente o dove si prescrive alcunché di contrario alla ragione, alla legge eterna, alla sovranità di Dio, è giusto non obbedire agli uomini per obbedire a Dio. Precluso in tal modo l'adito alla tirannide, lo Stato non dovrà avocare tutto a sé: sono salvi i diritti dei singoli cittadini, della famiglia, di tutti i componenti la società, concedendo ampiamente a tutti la vera libertà che consiste, come dimostrammo, nel poter vivere ciascuno secondo le leggi e la retta ragione ". Riconoscere il fondamento ultimo dell'uomo e quindi anche della dimensione sociale in Dio non significa però che Leone XIII abbia inteso creare uno stato confessionale, cercando di imporre la visione cattolica del mondo. Leone XIII nella Libertas praestantìssimum è arrivato ad ammettere, infatti, la possibilità di tollerare errori, pur senza approvarli, nella concezione e nella gestione del potere politico: " la Chiesa, con intelligenza materna, considera il grave peso della umana fragilità e non ignora quale sia il corso degli animi e delle vicende da cui è trascinata la nostra età. Per queste ragioni, senza attribuire diritti se non alla verità e alla rettitudine, la Chiesa non vieta che il pubblico potere tolleri qualcosa non conforme alla verità e alla giustizia, o per evitare un male maggiore o per conseguire e preservare un bene [ … ] non potendo l'umana autorità impedire ogni male, deve "concedere e lasciare impunite molte cose che invece sono punite giustamente dalla divina Provvidenza" ". Questa concezione dell'uomo ha permesso che si sviluppasse un giudizio del tutto originario sui gravi problemi sociali dell'epoca, che ha trovato la sua più chiara espressione nella Rerum novarum. Questa enciclica dimostra la positività del progetto cristiano nell'affrontare la questione sociale più spinosa del XIX e del XX secolo: la questione operaia. Si tratta del documento con cui Papa Leone XIII ha affermato con maggior forza e compiutezza un progetto sociale vero e proprio. Essa rappresenta la dimostrazione che a partire da una concezione religiosa dell'esistenza, il problema drammatico dello scontro capitale - lavoro può essere risolto senza ricorrere necessariamente ad una contrapposizione meccanica. L'ideologia liberale da un lato e quella collettivistica dall'altro impostavano la questione del rapporto capitale - lavoro secondo una visione sostanzialmente ideologica e meccanicistica, che considerava la struttura della vita socio - economica come inevitabile dialettica di ruoli. Esse proponevano soluzioni - il liberalismo selvaggio o il collettivismo - che erano false come è dimostrato anche dal fatto che i due sistemi, applicati fino in fondo, hanno creato gravissime disfunzioni, non solo dal punto di vista sociale, ma anche dal punto di vista economico. La posizione di Leone XIII non si deve considerare una terza via tra capitalismo e collettivismo, una sorta di compromesso tra i due. Essa rappresentava un'alternativa radicale di approccio, sia rispetto al liberalismo, sia rispetto al socialismo, perché considerava l'uomo in tutta la sua interezza e non solo come lavoratore o datore di lavoro. Per Leone XIII l'uomo non doveva essere concepito in opposizione alla società, a differenza sia di quanto sosteneva la prospettiva propria del liberalismo, per il quale l'uomo doveva dominare la società, sia di quanto sosteneva la prospettiva socialista per la quale ne era dominato. Il cristiano, in quanto è il soggetto che fa l'esperienza della vita ecclesiale e della sua formazione morale, vive la dimensione sociale senza avvertire come espressione di un odio incontenibile la divisione fra capitalista e lavoratore. L'esperienza di comunità sperimentata nella vita della Chiesa contribuisce ad infrangere quel meccanismo ideologico che considera l'uomo unicamente sotto il profilo economico e politico, riducendolo a capitalista o proletario, in perenne contrasto con l'avversario di classe, dominante la società o dominato da essa. Con questa enciclica Leone XIII ha voluto affermare il principio della priorità dell'etica sull'analisi socio-politica e la necessità di formare personalità che sapessero affrontare le problematiche del rapporto fra datore di lavoro e lavoratore non in termini di odio irriducibile e di competizione assoluta. Leone XIII ha indicato un approccio assolutamente originale al problema della società industriale. Un approccio non ideologico, in quanto fondato sulla responsabilità personale. Egli ha rifiutato l'ipotesi che individuava la soluzione del problema nella lotta di classe, in un sistema, che bloccava gli uomini in categorie, in classi, in situazioni da cui non si potevano liberare. Ha, invece, individuato nella personalità del singolo o del gruppo, chiamata in ogni situazione a leggere e ad affrontare i problemi, la via da percorrere. Egli ha, quindi, rivalutato la persona come essere dotato di libertà e di responsabilità. Ha inoltre ripetutamente invocato la carità, non intesa come elemosina, bensì come concezione globale della vita, come principio risolutivo delle questioni sociali. Egli ha proposto un modello di società ordinato ed armonico, secondo un'originale alternativa fondata sulla carità e sul rispetto dei principi di diritto naturale, il quale deriva da Dio e precede le leggi puramente economiche e statali. La proprietà privata è l'altra questione rispetto alla quale la Rerum novarum si è posta secondo una prospettiva radicalmente diversa sia da quella socialista, sia da quella liberista. La proprietà è indicata come una dimensione espressiva dell'uomo; quindi non si lavora solo per sopravvivere, ma innanzitutto per esprimersi. Il diritto di proprietà, affermava il Papa, doveva essere riportato alla persona ed alla sua libertà espressiva. Leone XIII che ha indicato come necessaria la difesa sia del diritto di proprietà, sia della destinazione sociale della proprietà, aveva capito che si trattava di un problema etico. La sua profonda convinzione era che non si poteva eliminare il possesso, ma si doveva esercitarlo bene. Invece, il meccanicismo liberale voleva la proclamazione assoluta del diritto di proprietà e la sua esclusiva destinazione privata, cioè il puro incremento del capitale. D'altro canto l'abolizione socialista del diritto di proprietà non solo generava una cultura del lavoro incapace di creatività e di responsabilità personali, ma risultava anche fortemente lesiva nei confronti della persona. Egli ha chiarito come il diritto di proprietà sia un elemento fondamentale del complesso dei diritti della persona umana e la sua abolizione sia immorale perché segna l'intervento dello Stato nella dimensione personale, con la conseguenza di alienare l'uomo, intervenendo sulla sua libera espressione: " la proprietà privata è diritto di natura [ … ] Il gran privilegio dell'uomo, ciò che lo costituisce tale o lo distingue essenzialmente dal bruto, è l'intelligenza, ossia la ragione. E appunto perché ragionevole, si deve concedere all'uomo qualche cosa di più che il semplice uso dei beni della terra, comune anche agli altri animali: e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile ". Per risolvere la situazione, Leone XIII non ha fornito uno schema prestabilito, ma ha indicato una tensione ideale da tenere presente, trattandosi di un problema di umanità e di coscienza morale. La difesa del diritto di proprietà non è coincisa, pertanto, con la difesa del capitalismo, bensì con la difesa della personalità umana. La proprietà è stata, infatti, presentata come un diritto fondamentale, in quanto espressivo della personalità singola e associata. La soluzione del problema è stata, perciò, individuata nell'educazione: occorre educare colui che deve fruire di questo diritto, affinché il suo uso sia anche per l'incremento del bene comune e non per un benessere egoisticamente stralciato dal contesto sociale. Rispetto al nodo della rivoluzione industriale la posizione di Leone XIII non era rivolta al passato nel rimpianto di un mondo perduto, ma intendeva piuttosto contribuire a generare un soggetto nuovo, un'esperienza originale di unità fra gli uomini, capace di socialità nuova. Per questo motivo Leone XIII ha indicato come motore della riforma sociale non lo Stato, ma le libere associazioni. Fondamentale nella prospettiva di Leone XIII e anche di tutto il Magistero successivo è la teoria per la quale di fronte allo Stato non esistono solo gli individui, ma corpi intermedi che vengono prima dello stesso Stato, il quale deve riconoscerli e non impedirli in alcun modo: " Ora, sebbene queste private associazioni esistano dentro lo Stato e ne siano come tante parti, tuttavia in generale, e assolutamente parlando, non può lo Stato proibirne la formazione. Poiché il diritto di unirsi in società l'uomo l'ha dalla natura, e i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, egli contraddirebbe se stesso, perché l'origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale società dell'uomo ". Non solo lo Stato non deve impedire le libere associazione, che non si prefiggano " un fine apertamente contrario all'onestà, alla giustizia, alla sicurezza del consorzio civile ", al contrario esso deve anche difenderle senza però mostrarsi eccessivamente invadente: " Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini; non si intrometta però nell'intimo della loro organizzazione e disciplina, perché il movimento vitale nasce da un principio intrinseco, e gli impulsi esterni facilmente lo soffocano ". Tutto ciò vale innanzitutto nei confronti della famiglia " società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società ". Pio XI e Pio XII davanti ai totalitarismi Si è visto come il Magistero sociale della Chiesa abbia denunciato, con una grande capacità profetica, il totalitarismo dell'età moderna contemporanea: cioè la dottrina secondo la quale lo Stato rappresenta la visione "scientifica" della vita sociale ed è, per questo, la realtà che detiene in atto il potere, tutto il potere etico e sociale nella storia. Secondo questa prospettiva lo Stato è il soggetto che detiene la somma di tutti i valori etici, personali e sociali. Lo Stato si rivela l'unico obiettivo reale della vita sociale e della storia; l'esito di quel grande processo di auto-liberazione dell'uomo da tutti i vincoli alienanti del passato; primo fra tutti l'alienazione religiosa. La religione è stata vista in quest'ottica come un fattore di alienazione, perché l'uomo non è più dominato dal problema della verità, non è più alle prese con il mistero, con quella realtà totalmente in atto da cui dipende. Si viene a sviluppare la tesi secondo la quale " fintantoché l'uomo era minorenne, doveva rimettere a un essere assoluto gli atti esistenziali decisivi: fondazione della verità e dei valori, ordinamento del mondo, governo del destino, ecc. Adesso che l'uomo è diventato maggiorenne, si assume lui questa competenza e determina lui stesso la propria esistenza ". Lo Stato è presentato in sostanza come luogo della piena e definitiva umanizzazione dell'uomo. Lo aveva già profeticamente formulato il grande teorico del totalitarismo Hobbes: " fuori dello Stato è il dominio delle passioni, la guerra, la paura, la povertà, la trascuratezza, l'isolamento, la barbarie, l'ignoranza, la bestialità; nello Stato è il dominio della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, la decenza, la socievolezza, la raffinatezza, la scienza, la benevolenza ". Ed aveva anche aggiunto: " Questa è la generazione di quel grande Leviatano, o piuttosto ( per parlare con più reverenza ) di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa; giacché per l'autorità conferitagli da ogni singolo uomo nella comunità, ha tanta forza e potere che può disciplinare con il terrore la volontà di tutti in vista della pace interna e dell'aiuto scambievole contro i nemici esterni ". Secondo questa prospettiva, l'uomo non è più se stesso nella verità e per la verità del suo rapporto con Dio; è se stesso in quanto vive la sua appartenenza sociale e statuale, in quanto ricopre il ruolo che gli è assegnato nella compagine statuale. Nelle affermazioni di Hobbes è già contenuta quella manipolazione cui l'uomo moderno è stato sottoposto nella storia più recente della società, quella manipolazione per cui il Concilio Ecumenico Vaticano II, come è già stato sottolineato altre volte, ha potuto dire che l'uomo è stato ridotto a " elemento anonimo della città umana ". Pio XI ( 1922 - 1939 ) ha avuto sicuramente il grande merito di indicare chiaramente il legame tra il laicismo e il totalitarismo ed è stato, infatti, l'unica autorità dell'epoca che ha denunciato esplicitamente questo legame. La cultura moderno - contemporanea non aveva più una base etico - morale, ma si fondava su un progetto puramente politico, impostato in chiave antireligiosa. L'enciclica Ubi Arcano ( 1922 ) sottolinea come questo attacco anticristiano e antireligioso sia stato portato al cuore della società civile, cioè alle "comunità intermedie" che ne costituiscono la struttura. Uno dei punti di forza dello statalismo è risultato essere infatti l'attribuzione allo Stato della funzione educativa. In questo modo la famiglia e la società civile sono state attaccate non solo dal punto di vista giuridico, non venendo sostenute con iniziative concrete, ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale. Il totalitarismo, avendo ridotto il tessuto culturale alla pura istituzione politica e all'occupazione del potere, ha cercato di non consentire alla società di sviluppare alcuna risorsa di carattere culturale ed educativa che non fosse puramente ideologica. La Chiesa, allora, ha capito che doveva incaricarsi di ricostruire il tessuto sociale dell'Europa. La missione storica della Chiesa è stata presentata da Pio XI come quella di favorire la fraternizzazione tra i popoli, tramite la rivalutazione del senso religioso. La ripresa del senso religioso è stata indicata come l'unica vera alternativa alla guerra. Egli ha cercato di mostrare come la pace non potesse essere una pace armata, ma una ricomposizione dell'unico fondamento culturale, sociale e personale possibile. Pio XI ha evidenziato in particolare il fatto che in una società che si trasformava in senso totalitario, il timore diventava una conseguenza inevitabile: esso caratterizzava la vita sociale a tutti i livelli. Nel generale ottimismo, la sola voce del Papa ha saputo denunciare lo stato effettivo delle cose prima ancora che degenerassero negli spettacoli atroci dei lager e dei gulag; la sua lettura, che vedeva nell'epoca un imbarbarimento della società, si è rivelata indubbiamente profetica. Al regno dell'uomo senza o contro Cristo, egli ha posto un'alternativa radicale: " il Regno di Dio ". Non ha cercato un riconoscimento solo teorico del cristianesimo, ma ha cercato di promuovere il più possibile il ruolo concreto della Chiesa nella storia e nella società. Il cristianesimo è, infatti, una presenza, il cui punto di verifica risulta appunto la verità dell'uomo, la piena affermazione della sua umanità. Solo se si tiene presente ciò si comprende allora come il rapporto Stato-Chiesa non sia stato, innanzitutto, un problema di rapporti tra istituzioni, ma un problema di confronto culturale. Nel corso del XX secolo la Chiesa ha dovuto opporsi al totalitarismo non più semplicemente come a una dottrina formulata in modo teorico ed astratto. Si è trovata di fronte a tentativi terribili di attuare il totalitarismo attraverso il dispiegamento di una potenza politica, scientifica e tecnologica di notevole portata. Il Papa Pio XI ha dovuto misurarsi con le grandi e tragiche esperienze del totalitarismo: il Fascismo italiano, il Nazionalsocialismo tedesco e il Comunismo sovietico. Nella enciclica Non abbiamo bisogno del 29 giugno 1931, Pio XI ha denunciato il totalitarismo fascista dal punto di vista della negazione della libertà di educazione e di associazione, combattendo una battaglia che non era innanzitutto politica, ma " morale e religiosa: squisitamente morale e religiosa ". Ha, cioè, denunciato il tentativo delle formazioni partitiche e statali di negare gli elementari diritti educativi della famiglia e la libertà di associazione, fattori fondamentali per una educazione autenticamente umana e cristiana. Di fronte al tentativo di " monopolizzare interamente la gioventù, dalla fanciullezza fino all'età adulta, a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di un'ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana ", Pio XI ha ribadito che " una concezione dello Stato che gli fa appartenere le giovani generazioni interamente e senza eccezione dalla prima età a quella adulta, non è conciliabile per un cattolico colla dottrina cattolica, e neanche conciliabile col diritto naturale della famiglia ". Aggiungendo subito dopo che " non è conciliabile con la cattolica dottrina pretendere che la Chiesa, il Papa, debbano limitarsi alle pratiche esterne di religione ( Messa e Sacramenti ), e che il resto della educazione appartenga totalmente allo Stato ". Il Papa ha, quindi, difeso il diritto della gioventù cattolica a vivere, secondo la propria confessione religiosa, il cammino personale verso la maturazione piena della propria personalità. Pertanto, di fronte alle vicende politiche italiane che hanno visto il formarsi, in un primo momento, dell'egemonia antidemocratica e antipopolare del liberalismo borghese e, successivamente, l'affermazione del regime dittatoriale fascista, la Chiesa ha custodito la tradizione cattolica del popolo, ha difeso ed educato tale libertà, contribuendo in modo decisivo a costituire una reale alternativa, culturale e sociale, a ogni forma di regime. Non si può comprendere certo la nascita della democrazia in Italia, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, se non si considera l'azione che, lungo tutti gli anni del regime fascista, la Chiesa cattolica, in forme e modi articolati, ma ultimamente convergenti, ha svolto per educare la coscienza del popolo italiano a non perdere mai il senso della propria personale libertà e della propria responsabilità storica. Nella enciclica Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937, Pio XI si è opposto in modo vigoroso alla dottrina teorica e alla struttura giuridica e politica del Reich tedesco, mostrando l'assoluta inconsistenza filosofica di una statolatria che avviliva l'uomo e la sua dignità e rinnegava in modo totale la tradizione cattolica della nazione tedesca. A questo mostruoso apparato teorico, propagandistico e politico il Papa ha opposto la difesa dell'ordine morale naturale e del diritto naturale: " Alla luce delle norme di questo diritto naturale, ogni diritto positivo, qualunque ne sia il legislatore, può essere valutato nel suo contenuto etico e conseguentemente nella legittimità del comando e nella obbligatorietà dell'adempimento. Quelle leggi umane, che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile né con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna. Secondo questo criterio va giudicato il principio: "diritto è ciò che è utile alla nazione". Certo a questo principio può darsi un senso giusto, se si intende che ciò che è moralmente illecito non può essere mai veramente vantaggioso al popolo. Persino l'antico paganesimo ha riconosciuto che, per essere giusta, questa frase dovrebbe essere capovolta e suonare: "Non vi è mai alcunché di vantaggioso, se in pari tempo non sia moralmente buono; e non perché è vantaggioso è moralmente buono, ma perché moralmente buono è anche vantaggioso" ( Cicerone, De offìciis. III, 30 ). Quel principio, staccato dalla legge etica, significherebbe, per quanto riguarda la vita internazionale, un eterno stato di guerra tra le nazioni; nella vita nazionale poi misconosce, confondendo interesse e diritto, il fatto fondamentale che l'uomo, in quanto persona, possiede diritti dati da Dio, che devono essere tutelati da ogni attentato delle comunità, che avesse per scopo di negarli, di abolirli e di impedirne l'esercizio. Disprezzando questa verità si perde di vista che il vero bene comune, in ultima analisi, viene determinato e conosciuto mediante la natura dell'uomo con il suo armonioso equilibrio fra diritto personale e legame sociale, come anche dal fine della società determinato dalla stessa natura umana. La società è voluta dal Creatore come mezzo per il pieno sviluppo delle facoltà individuali e sociali di cui l'uomo ha da valersi, ora dando, ora ricevendo per il bene suo e quello degli altri. Anche quei valori più universali e più alti che possono essere realizzati non dall'individuo, ma solo dalla società, hanno per volontà del Creatore come ultimo scopo l'uomo, il suo sviluppo e il suo perfezionamento naturale e soprannaturale. Chi si allontana da questo ordine scuote i pilastri sui quali riposa la società, e ne pone in pericolo la tranquillità, la sicurezza e l'esistenza ". Secondo Pio XI è proprio la dimenticanza di questi pilastri fondamentali del diritto naturale, insieme al rinnegamento della fede cristiana, la radice del disastro culturale e sociale della Germania nazista. Pio XI nella stessa enciclica non ha mancato di condannare esplicitamente i caratteri anticristiani dell'ideologia nazista. Innanzitutto ad essere denunciata come incompatibile con la fede cristiana è l'idolatria pagana della razza e dello Stato: " Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell'ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi, e divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica l'ordine da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme ". Viene poi condannato il nazionalismo esasperato e il razzismo che ne derivano: " Solamente spiriti superficiali possono cadere nell'errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio, Creatore del mondo, Re e Legislatore dei popoli, davanti alla grandezza del quale le nazioni sono piccole come gocce in un catino d'acqua ( Is 40,15 ) ". Non sfugge alla condanna di Pio XI nemmeno il culto della personalità del Fuhrer e la sua incompatibilità con l'unica vera e definitiva Rivelazione, quella in Gesù Cristo: " La rivelazione culminata nell'Evangelo di Gesù Cristo è definitiva e obbligatoria per sempre, non ammette appendici di origine umana e, ancora meno, succedanei o sostituzioni di "rivelazioni" arbitrarie, che alcuni banditori moderni vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue e della razza [ … ] Anche se un uomo identifichi in sé ogni sapere, ogni potere e tutta la possanza materiale della terra, non può gettare fondamento diverso, da quello che Cristo ha gettato ( 1 Cor 3,11 ) ". Quella di Pio XI risulta perciò una condanna del nazismo non solo netta, " una delle più severe condanne di un regime nazionale che il Vaticano avesse pronunciato ", ma anche radicale, perché ne ha condannato l'aspetto più profondo e perverso: il carattere di religione secolare, il carattere idolatri co. Secondo Romano Guardini proprio questo aspetto è da considerasi l'elemento fondamentale per spiegare il nazionalsocialismo. Riportare l'analisi di Romano Guardini risulta quindi particolarmente utile per comprendere l'intelligenza mostrata dal Magistero nella comprensione del fenomeno nazismo: " lo Stato doveva abbracciare l'intera vita del popolo e avere un assoluto potere su di essa [ … ] Per assicurarglielo, il popolo doveva essere conglobato da una grande organizzazione, che determinasse ogni sfera, ogni espressione della sua vita, ma che a sua volta fosse nelle mani dello Stato dominante. Questo era il partito [ … ] Ma l'uomo, è per poco che lo si voglia ammettere, un essere determinato in senso spirituale; quindi sarebbe stata possibile una tale presa di potere solo se una corrispondente ideologia le avesse spianato la strada. La si trovò nell'idea del sangue e della razza, per la quale ogni momento essenziale e importante viene dalla costituzione biologica dell'uomo [ … ] Ma l'ideologia della razza non bastava ancora. Nell'uomo risiede un che di più profondo, che parimenti dovette essere portato nel raggio del potere, cioè il suo nucleo religioso ". Non bisogna inoltre dimenticare che, a tale profonda penetrazione della visione teorica e pratica del Nazismo, Pio XI ha accompagnato una grande volontà di compassione nei confronti del popolo tedesco e il desiderio, sostanziato di preghiera, che il popolo tedesco potesse ritornare alla verità e alla grandezza della professione cattolica. Nella Divini Redemptoris, pubblicata cinque giorni dopo la Mit brennender Sorge, il Magistero del Papa ha compiuto invece una disanima teorica e critica di eccezionale profondità dei principi teorici del Marx - leninismo e delle inevitabili conseguenze di terrore e di violenza che hanno accompagnato la sua realizzazione. Egli ne ha, anche in questo caso, innanzitutto evidenziato il carattere idolatrico, di religione secolare: " Il comunismo [ … ] nasconde in sé un'idea di falsa redenzione ". Ha indicato inoltre l'origine più profonda delle tragiche conseguenze nella natura stessa del comunismo. Violenza e oppressione " sono frutti naturali del sistema " comunista e derivano ultimamente dall'ateismo su cui si fonda: " se si strappa dal cuore degli uomini l'idea stessa di Dio, essi necessariamente sono sospinti dalle loro passioni alle più efferate barbarie ". Pio XI ha mostrato inoltre come la prospettiva comunista implichi una totale subordinazione della persona alla collettività: " All'uomo individuo non è riconosciuto, di fronte alla collettività, alcun diritto naturale della personalità umana, essendo essa, nel comunismo, semplice ruota e ingranaggio del sistema ". Conseguentemente " alla collettività il comunismo riconosce il diritto, o piuttosto l'arbitrio illimitato, di aggiogare gli individui al lavoro collettivo, senza riguardo al loro benessere personale, anche contro la loro volontà e persino con la violenza ". Nel condannare il comunismo Pio XI ha inteso mostrare come lo stesso comunismo sia " un sistema, pieno di errori e sofismi, contrastante sia con la ragione sia con la rivelazione divina; sovvertitore dell'ordine sociale, perché equivale alla distruzione delle sue basi fondamentali, misconoscitore della vera origine della natura e del fine dello Stato, negatore dei diritti della personalità umana, della sua dignità e libertà ". Anche in questo caso sono l'ideologia e i responsabili del sistema ideologico ad essere condannati, non certo il popolo russo: " Con questo però non vogliamo in nessuna maniera condannare in massa i popoli dell'Unione Sovietica, per i quali nutriamo il più vivo affetto paterno. Sappiamo come non pochi di essi gemano sotto il duro giogo loro imposto con la forza da uomini in massima parte estranei ai veri interessi del paese, e riconosciamo che molti altri furono ingannati da fallaci speranze. Noi colpiamo il sistema e i suoi autori e fautori, i quali hanno considerato la Russia come terreno più atto per introdurre in pratica un sistema già elaborato da decenni, e di là continuano a propagarlo in tutto il mondo ". Accanto alla condanna dei tre grandi totalitarismi del XX secolo, Pio XI ha fatto sentire la sua voce condannando la persecuzione della Chiesa verificatasi nelle altre drammatiche vicende, ugualmente segnate da logiche totalitarie, che hanno investito i cristiani nel secolo scorso. La drammatica situazione di martirio, in cui si trovarono a vivere nel corso degli anni Venti e Trenta i cattolici messicani dopo l'instaurazione di un regime rivoluzionario profondamente anticristiano, fu denunciata apertamente da Pio XI nella enciclica Iniquis afflictisque: " se nei primi secoli della Chiesa e in altri tempi poi, si trattarono i cristiani in modo più atroce, non accadde forse mai e in nessun luogo che, conculcando e violando i diritti di Dio e della Chiesa, un ristretto numero di uomini, senz'alcun riguardo alle glorie avite, senza sentimento di pietà verso i loro concittadini, soffocassero in ogni guisa la libertà della maggioranza con arti così meditate, aggiungendovi una parvenza di legislazione per mascherare l'arbitrio ". Anche la difficile situazione in cui si trovò la Chiesa di Spagna dopo l'affermazione della Repubblica con i provvedimenti presi contro la libertà di culto, è stata denunciata: " non possiamo non levare nuovamente la voce contro la legge, testé approvata, "intorno alle confessioni e Congregazioni religiose", costituendo essa una nuova e più grave offesa non solo alla religione e alla Chiesa, ma anche a quegli asseriti principi di libertà civile sui quali dichiara basarsi il nuovo Regime Spagnolo ". È importante notare che questa enciclica è del 1933, di gran lunga antecedente allo scoppio della guerra civile spagnola. Ciò dimostra come non sia vero che l'ostilità nei confronti della Chiesa da parte dei repubblicani derivasse dal fatto che la Chiesa si fosse schierata apertamente contro la Repubblica e avesse appoggiato Franco. Nella stessa enciclica Pio XI aveva del resto ribadito che la Chiesa non rifiutava la forma repubblicana di governo a priori: " non si creda la Nostra parola sia ispirata da sentimenti di avversione alla nuova forma di governo o agli altri avvenimenti prettamente politici avvenuti recentemente in Spagna. E a tutti noto, infatti, che la Chiesa Cattolica, per nulla legata ad una forma di governo piuttosto che ad un'altra, purché restino salvi i diritti di Dio e della coscienza cristiana, non trova difficoltà ad accordarsi con le varie civili istituzioni, siano esse monarchiche o repubblicane, aristocratiche o democratiche ". Sono al contrario i provvedimenti fortemente restrittivi della libertà dei cristiani, prima, e soprattutto la vera e propria persecuzione religiosa che si è sviluppata nel corso della guerra civile, che hanno portato la Chiesa spagnola a prendere ufficialmente posizione contro il fronte repubblicano con la lettera pastorale collettiva del 1° luglio 1937, quando " il clero massacrato raggiungeva già la cifra di 6500 ecclesiastici ". Pio XII ha raccolto la grande tradizione magisteriale del suo predecessore e fin dalla sua enciclica programmatica Summi pontìfìcatus ne ha svolto con rigore e consequenzialità tutta la forza. Nella Summi pontìfìcatus, scritta appunto all'inizio del suo pontificato, nel 1939, oltre a mettere in guardia dalla deificazione dello Stato e dalle teorie che negavano l'unità della razza umana, sostenendo che avrebbero condotto all'" ora delle tenebre ", viene chiarito come il compito dello Stato sia quello di regolare la vita sociale per il bene della persona e non debba mai essere considerato come fine, a cui subordinare e indirizzare ogni cosa: " Considerare lo Stato come fine, a cui ogni cosa dovrebbe essere subordinata e indirizzata, non potrebbe che nuocere alla vera e durevole prosperità delle nazioni. E ciò avviene, sia che tale dominio illimitato venga attribuito allo Stato, quale mandatario della nazione, del popolo o anche di una classe sociale, sia che venga preteso dallo Stato, quale padrone assoluto, indipendente da qualsiasi mandato ". Bisogna inoltre ricordare i radio-messaggi natalizi degli anni della Seconda Guerra Mondiale, in cui alla presentazione della tragedia della guerra come inevitabile conseguenza della lotta tra le nazioni scatenata nel mondo dai sistemi totalitari, si aggiunge l'indicazione della possibilità di un nuovo mondo e di una nuova società, fondati sulla accoglienza della tradizione cristiana e sull'amore alla verità e alla libertà. La Seconda Guerra Mondiale ha rappresentato la dissoluzione del progetto laicista, del progetto dell'ateismo sociale e ha dimostrato come l'avvenimento cristiano sia l'unica alternativa possibile. L'autorità morale della Santa Sede ha dovuto reagire alla distruzione del tessuto culturale e sociale dell'Europa e del mondo; ha reagito ad una crisi antropologica di proporzioni gigantesche. Pio XII ha vissuto emblematicamente questa situazione indicando nel cristianesimo l'unica alternativa reale al fallimento del progetto ateistico. Egli, infatti, ha ribadito a più riprese che la dottrina sociale della Chiesa - che attinge dal diritto naturale e dalla rivelazione cristiana - contribuisce in modo determinante alla costruzione di una società solidarista, nella quale, cioè, l'apporto dei singoli, dei gruppi, dei ceti, costruisce il bene comune. In una democrazia di questo tipo la persona è inequivocabilmente riconosciuta come fine. Pio XII non ha mancato poi di cogliere un aspetto fondamentale per spiegare il consenso ottenuto dai regimi totalitari, differenziando il concetto di popolo da quello di massa: " Popolo e moltitudine, o, come si suol dirsi, "massa" sono due concetti diversi. Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, e non può essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo compongono, ciascuno dei quali - al proprio posto e nel proprio modo - è una persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, invece, aspetta l'impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gli istinti e le impressioni, pronta a seguire, a volta a volta, oggi questa domani quell'altra bandiera ". Pio XII non ha soltanto insegnato, ha vissuto in prima persona, in modo esemplare, la tragedia di milioni di uomini, dedicando gran parte delle sue iniziative e delle sue risorse a lenire, per quanto era possibile, le conseguenze disastrose del totalitarismo. Chiunque fossero le vittime: cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei, non credenti. Pio XI e Pio XII hanno scritto, pertanto, una pagina luminosa in difesa degli irrinunciabili diritti di libertà della Chiesa ed una pagina piena di passione umana per la libertà e la dignità dell'uomo, di ogni uomo, perché come ha ricordato lo stesso Pio XII: " Le lotte che, costretta dall'abuso della forza, [ la Chiesa ] ha dovuto sostenere per la difesa della libertà ricevuta da Dio, furono al tempo stesso lotte per la vera libertà dell'uomo ". Le successive riprese della " Rerum novarum " L'importanza della Rerum novarum si comprende pienamente se si considera il fatto che essa è stata ripresa lungo tutto il Magistero successivo. Come viene dichiarato nel Compendio della dottrina sociale essa " è diventata il documento ispirativo e di riferimento dell'attività cristiana in campo sociale ". Secondo quanto affermato da Giovanni Paolo II con la Rerum novarum Leone XIII " stabiliva un paradigma permanente per la Chiesa ". Il richiamo alla Rerum novarum, la costante ripresa e il continuo aggiornamento della stessa mostrano allo stesso tempo " il permanente valore di tale insegnamento " e " il vero senso della Tradizione della Chiesa, la quale, sempre viva e vitale, costruisce sopra il fondamento posto dai nostri padri nella fede e, segnatamente, sopra quel che gli Apostoli trasmisero alla Chiesa in nome di Gesù Cristo, il fondamento "che nessuno può sostituire" ( 1 Cor 3,11 ) ". A conferma di ciò, senza volere qui fornire una trattazione sistematica dell'argomento si è voluto evidenziare l'esplicito richiamo alla Rerum novarum di tre documenti fondamentali del Magistero successivo: la Quadragesima anno, la Mater et magistra, la Centesimus annus. Nel 1931, nel quarantesimo anniversario della Rerum novarum, Pio XI, emanando la Quadragesima anno, ha ripreso ed attualizzato l'enciclica di Leone XIII, dimostrando che era ancora valida e penetrante. Egli ha voluto ribadire che era possibile una alternativa positiva cristiana all'ideologismo dell'individualismo e del collettivismo. Ha presentato quindi la dottrina sociale cristiana come l'unico rimedio al capitalismo; al contrario il socialismo e le sue evoluzioni storiche come qualcosa da rifiutare. Ha spronato i cattolici, perché si impegnassero socialmente nell'attuazione dell'alternativa indicata dal Magistero. In modo particolare si deve a Pio XI la formulazione esplicita del principio di sussidiarietà che, come si è affermato precedentemente, rappresenta uno dei principi fondamentali della dottrina sociale: " È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno ed uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle [ … ] Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo che quanto più perfettamente sarà mantenuto l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva della attività sociale, tanto più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso ". Quello promosso da Pio XI, non dimentichiamoci in epoca di totalitarismi, quindi è uno Stato al servizio della società, sussidiario alle iniziative che sorgono e si sviluppano nella società stessa. Si tratta comunque di un approfondimento di quanto già dichiarato nella Rerum novarum a proposito del rapporto tra stato e corpi intermedi. Un secondo documento del Magistero di grande rilievo che si rifà alla Rerum novarum è la Mater et magistra. Scritta da Giovanni XXIII nel 1961, in occasione del settantesimo anniversario della Rerum novarum, ne ha ribadito la validità: " pur essendo passato un lungo periodo di tempo, è ancora operante l'efficacia di quel messaggio non solo nei documenti dei pontefici succeduti a Leone XIII, che nel loro insegnamento sociale continuamente si richiamano all'enciclica leoniana, ora per trarne ispirazione, ora per chiarirne la portata, sempre per fornire incitamento all'azione dei cattolici; ma anche negli ordinamenti stessi dei popoli. Segno è che i principi accuratamente approfonditi, le direttive storiche e i paterni richiami contenuti nella magistrale enciclica del nostro predecessore conservano tuttora il loro valore ed anzi suggeriscono nuovi e vitali criteri perché gli uomini siano in grado di giudicare il contenuto e le proporzioni della questione sociale, quale si presenta oggi, e si decidano ad assumere le relative responsabilità ". Come i suoi predecessori anche Giovanni XXIII non ha mancato di evidenziare come l'errore più grave dell'epoca moderna sia stato quello di ritenere l'esigenza religiosa un'" espressione del sentimento o della fantasia, oppure un prodotto di una contingenza storica da eliminare quale elemento anacronistico e quale ostacolo al progresso umano ". O ancora come il tragico esito della guerra sia stato provocato innanzitutto dalle ideologie che hanno negato la dimensione religiosa e vi hanno sostituito una dimensione di potere. La stessa questione sociale è stata affrontata in maniera ideologica e quindi con conseguenze negative per l'uomo: " La ragione è che sono ideologie che dell'uomo considerano soltanto alcuni aspetti e, spesso, i meno profondi. Giacché non tengono conto delle inevitabili imperfezioni umane, come la malattia e la sofferenza; imperfezioni che i sistemi economico-sociali anche più progrediti non possono eliminare ". Giovanni XXIII ha allora voluto fortemente sottolineare come anche l'affronto dei problemi sociali risulti equivoco, se non parte dal senso religioso dell'uomo: " Qualunque sia il progresso tecnico o economico nel mondo, non vi sarà né giustizia né pace, finché l'uomo non ritornerà alla dignità di figlio di Dio. L'uomo staccato da Dio diventa disumano, con se stesso e con i suoi simili, perché l'ordinato rapporto di convivenza presuppone l'ordinato rapporto della coscienza personale dell'uomo con Dio, fonte di giustizia e di amore ". Egli ha chiaramente invitato a partire da un fondamento realmente alternativo, cioè dall'avvenimento di Cristo e dalla presenza della Chiesa nel sociale, che è in grado di coinvolgere anche chi non è credente. È questo il messaggio del suo pontificato: occorre mettere decisamente al centro il fondamento antropologico, cioè l'immagine vera dell'uomo che è rivelata solo da Gesù Cristo. Su questo fondamento, che implica un rapporto giusto e vero con Dio, si può progettare un discorso di giustizia e amore. Anch'egli come i suoi predecessori ha cercato di promuovere e a contribuito a sviluppare una concezione di Stato in cui fosse prioritaria la garanzia dei diritti fondamentali e la difesa e il sostegno delle iniziative personali e sociali: " la presenza dello Stato [ … ] non va attuata per ridurre sempre più la sfera di libertà dell'iniziativa personale dei singoli cittadini, ma anzi per garantire a quella sfera la maggiore ampiezza possibile nell'effettiva tutela, per tutti e per ciascuno, dei diritti essenziali della persona ". Un terzo fondamentale documento della dottrina sociale che si riferisce esplicitamente alla Rerum novarum è la Centesimus annus di Giovanni Paolo II, pubblicata a cento anni dalla Rerum novarum nel 1991. Giovanni Paolo II non ha voluto semplicemente commemorare un documento del passato, quanto piuttosto riproporre il Magistero della Chiesa come punto di riferimento fondamentale per " un grande movimento in favore della difesa della persona umana ". Per comprendere il valore autentico di questa enciclica e dell'intera dottrina sociale della Chiesa rispetto alle problematiche del lavoro, come ha ricordato lo stesso papa polacco, " occorre tener presente che ciò che fa da trama e, in certo modo, da guida all'Enciclica ed a tutta la dottrina sociale della Chiesa, è la corretta concezione della persona umana e del suo valore unico [ .. .] In effetti, al di là dei diritti che l'uomo acquista col proprio lavoro, esistono diritti che non sono il corrispettivo di nessuna opera da lui prestata, ma che derivano dall'essenziale sua dignità di persona ". Giovanni Paolo II ha, innanzitutto, ribadito e chiarito quanto Leone XIII e il Magistero precedente avevano affermato circa i diritti del lavoratore, chiarendo come il loro fondamento vada cercato nella dignità del lavoratore e quindi del lavoro. " Il lavoro - egli ha scritto - appartiene così alla vocazione di ogni persona; l'uomo, anzi, si esprime e si realizza nella sua attività di lavoro ". Tuttavia, non bisogna dimenticare che " nello stesso tempo, il lavoro ha una dimensione sociale per la sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene comune ". Se la Rerum novarum ha rappresentato una prospettiva alternativa sia al liberalismo, sia al socialismo, la Centesimus annus ha ulteriormente definito questa posizione assolutamente originale e non assimilabile alle due prospettive ideologiche. Rispetto ad una prospettiva di liberalismo radicale, di liberismo economico assoluto, Giovanni Paolo II ha ricordato che " gli individui, quanto più sono indifesi in una società, tanto più necessitano dell'interessamento e della cura degli altri e, in particolare, dell'intervento dell'autorità pubblica " e ha indicato nel principio di solidarietà " uno dei principi basilari della concezione cristiana dell'organizzazione sociale e politica ". Accanto al principio di solidarietà, per evitare che si cada nell'errore opposto dello statalismo, ha riaffermato però il valore del principio di sussidiarietà: " una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune ". Più specificamente ha poi affrontato il tema del socialismo, alla luce anche degli eventi accaduti nel 1989, integrando così la critica già formulata da Leone XIII. Innanzitutto, ha evidenziato come l'errore principale del socialismo sia di " carattere antropologico ", dal momento che " considera il singolo uomo come un semplice elemento e una molecola dell'organismo sociale di modo che il bene dell'individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale, mentre ritiene, d'altro canto, che quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua autonoma scelta, dalla sua unica ed esclusiva assunzione di responsabilità davanti al bene o al male ". La conseguenza più grave di una tale prospettiva antropologica è quella di ridurre l'uomo " a una serie di relazioni sociali " e di eliminare " il concetto di persona come soggetto autonomo di decisione morale, il quale costruisce mediante tale decisione l'ordine sociale ". La radice di questa prospettiva che nel corso della storia si è rivelata profondamente negativa per l'uomo è l'ateismo, in quanto, come si è già rilevato in altri punti di questo lavoro, " la negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l'ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona ". Infatti, ha ricordato Giovanni Paolo II, sempre nella Centesimus annus, " non è possibile comprendere l'uomo partendo unilateralmente dal settore dell'economia, né è possibile definirlo semplicemente in base all'appartenenza di classe ". Perché l'uomo sia compreso in modo più esauriente, occorre che sia " inquadrato nella sfera della cultura attraverso il linguaggio, la storia e le posizioni che egli assume davanti agli eventi fondamentali dell'esistenza, come il nascere, l'amare, il lavorare, il morire ". E non bisogna dimenticare che " al centro di ogni cultura sta l'atteggiamento che l'uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio ". E per questo che anche oggi lo sviluppo che l'uomo deve perseguire " non deve essere inteso in un modo esclusivamente economico, ma in senso integralmente umano ". Di fronte alle difficili situazioni economiche e sociali di molti paesi, alle sofferenze dei loro popoli, Giovanni Paolo II ha precisato che " non si tratta solo di elevare tutti i popoli al livello di cui godono oggi i Paesi più ricchi, ma di costruire nel lavoro solidale una vita più degna, di far crescere effettivamente la dignità e la creatività di ogni singola persona, la sua capacità di rispondere alla propria vocazione e, dunque, all'appello di Dio, in essa contenuto ", perché " al culmine dello sviluppo sta l'esercizio del diritto-dovere di cercare Dio, di conoscerlo e di vivere secondo tale conoscenza ". Di fronte ad un'organizzazione della società rivelatasi fin dalle sue origini come negatrice dei diritti dell'uomo, sia da un punto di vista teorico, sia da un punto di vista storico-pratico, la Chiesa ha svolto un ruolo fondamentale " per la difesa e la promozione dei diritti dell'uomo ". La Chiesa, ha chiarito Giovanni Paolo II, ha contribuito a ciò offrendo " non solo la sua dottrina sociale e, in generale, il suo insegnamento circa la persona redenta in Cristo, ma anche il concreto suo impegno ed aiuto per combattere l'emarginazione e la sofferenza ". In particolare Giovanni Paolo II si è soffermato sui fatti che hanno portato nel 1989 alla crisi e al crollo dei regimi comunisti dell'est Europa. Innanzitutto, è risultato evidente, soprattutto nella sua Polonia, una piena sintonia tra l'insegnamento sociale della Chiesa e le esigenze del popolo: " Sono le folle dei lavoratori a delegittimare l'ideologia, che presume di parlare in loro nome, ed a ritrovare e quasi riscoprire, partendo dall'esperienza vissuta e difficile del lavoro e dell'oppressione, espressioni e principi della dottrina sociale della Chiesa ". La crisi di tali regimi oppressivi, oltre che per la lotta pacifica che il popolo, con il sostegno della Chiesa, è stato in grado di condurre e vincere, per Giovanni Paolo II, è stata determinata anche dall'inefficienza del sistema economico " che non va considerata come un problema soltanto tecnico, ma piuttosto come conseguenza della violazione dei diritti umani all'iniziativa, alla proprietà e alla libertà nel settore dell'economia ". Infatti, " dove la società si organizza riducendo arbitrariamente o, addirittura, sopprimendo la sfera in cui la libertà legittimamente si esercita, il risultato è che la vita sociale progressivamente si disorganizza e decade ". Infine, risulta estremamente interessante il giudizio circa il capitalismo. Dato che il comunismo è risultato sconfitto dalla storia, ciò significa che sia il capitalismo il modo migliore per organizzare l'economia di una società? La risposta di Giovanni Paolo II mostra ancora una volta l'assoluta originalità della prospettiva cristiana: " se con "capitalismo" si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di "economia d'impresa", o di "economia di mercato", o semplicemente di "economia libera". Ma se con "capitalismo" si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell'economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa ". Il contributo di Giovanni XXIII e del Concilio Ecumenico Vaticano II Il grande merito di Giovanni XXIII è stato quello di non avere abbandonato la radicalità della proposta alternativa rappresentata dal cattolicesimo e, allo stesso tempo, di avere mostrato come su tale proposta fosse possibile l'incontro di tutti gli uomini di buona volontà. Anche chi conosce poco la storia della Chiesa, sa che Giovanni XXIII è stato il primo Papa ad avere aperto le sue encicliche rivolgendosi non soltanto ai Vescovi e ai sacerdoti della Chiesa, non solo ai fedeli, ma a tutti gli uomini di buona volontà. L'Enciclica Mater et magistra, di cui si è già parlato, afferma a questo riguardo che a partire dalla proposta cristiana e in particolare dalla dottrina sociale si può e si deve intraprendere, coinvolgendo anche i non credenti, un'azione di ricostruzione della società: " Da quel principio fondamentale, che tutela la dignità sacra della persona, il Magistero della Chiesa ha enucleato [ … ] una dottrina sociale che indica con chiarezza le vie sicure per ricomporre i rapporti della convivenza secondo criteri universali rispondenti alla natura e agli ambiti diversi dell'ordine temporale e ai caratteri della società contemporanea, e perciò accettabili da tutti. È però indispensabile, oggi più che mai, che quella dottrina sia conosciuta, assimilata, tradotta nella realtà sociale in quelle forme e in quei gradi che le varie situazioni acconsentano o reclamino: compito arduo, ma nobilissimo, alla cui attuazione invitiamo con appello ardente non solo i nostri fratelli e figli sparsi in tutto il mondo, ma anche tutti gli uomini di buona volontà ". Giovanni XXIII con la sua ultima enciclica ha affrontato anche la grande questione della pace legandola, come del resto aveva già fatto Pio XII, proprio alle problematiche sociali. Per costruire la vera pace occorre innanzitutto favorire l'ordine interno. Il tema della pace è indubbiamente un aspetto centrale del Magistero sociale. A partire da Benedetto XV fino a Giovanni Paolo II, tutti i pontefici si sono pronunciati per la pace e si sono impegnati in prima persona a favore della pace. In primo luogo va ricordato sicuramente Benedetto XV ( 1914 - 1922 ), che fin dal primo messaggio, l'8 settembre 1914, ha condannato la Prima Guerra Mondiale, definendola "spettacolo mostruoso", "flagello dell'ira di Dio". Ha poi, nella prima enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis del 1914, ulteriormente denunciato la Grande Guerra come "spettacolo atroce e doloroso", come "tremendo fantasma". Nella nota del 1 agosto del 1917 ai capi dei popoli belligeranti, sempre per condannarla ha usato la formula, diventata celebre, di "inutile strage". Questi appelli e l'intensa attività diplomatica vennero però disattesi. Le forze laiciste lo esclusero perfino dalle trattative di pace e dalla società delle Nazioni, ma questo non ha impedito che ancora nella sua ultima enciclica, Pacem Dei munus ( 1920 ), continuasse a chiedere che " i popoli reintegrino tra loro l'unione e l'amicizia ". Giovanni XXIII ha inteso richiamare la verità, la giustizia, la carità e la libertà quali capisaldi su cui si può e si deve costruire l'ordine della società e di conseguenza un'autentica pace: " la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell'ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà ". Il testo della Pacem in terris risulta pertanto ancora attualissimo e utilissimo perché aiuta a distinguere la posizione della Chiesa riguardo alla pace dai movimenti pacifisti. La linea del papato, pur condannando di fatto tutte le guerre che si sono verificate nel XX secolo, non può essere definita pacifista. La sua azione è indubbiamente pacificatrice, ma non pacifista. Questa enciclica di Giovanni XIII, come molti degli interventi di Giovanni Paolo II nei confronti di conflitti più recenti, contribuiscono a chiarire come per la Chiesa la pace vera, " la Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da Dio ". Non c'è pace senza giustizia. In piena sintonia con questa formulazione Giovanni Paolo II in tempi molto più recenti, di fronte alla minaccia del terrorismo e della violenza, ha affermato: " La vera pace [ … ] è frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di diritti e doveri e sull'equa distribuzione di benefici e oneri. Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com'è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati [ … ] Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell'ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali ". Il Magistero di Giovanni XXIII ha avuto, pur essendo un breve Magistero, un altro grande merito fondamentale, quello di aver celebrato il Concilio Vaticano II. I documenti che riguardano la dottrina sociale, Gaudium et spes e Dignitatis humanae, consentono di capire che cosa il Concilio ha rappresentato. Il Concilio ha posto, innanzitutto, l'attenzione sul soggetto missionario che è la Chiesa. In tutto il periodo precedente erano apparsi documenti in cui si parlava del soggetto missionario in azione, ma non si era sufficientemente riflettuto sulle caratteristiche fondamentali della Chiesa come soggetto missionario presente nel mondo. Secondo la definizione che Giovanni Paolo II ha dato del Concilio stesso nei quattro numeri iniziali della Redemptor hominis, il Concilio ha operato un approfondimento dell'auto coscienza che la Chiesa ha di sé. La Chiesa nel Concilio ha maturato un'adeguata coscienza di sé come Sacramento di Cristo, quindi come identità irriducibile della storia, perché caratterizzata dalla presenza di Cristo, che la costituisce come popolo nuovo. La teologia del popolo di Dio, che è subalterna alla teologia del Corpo di Cristo, è stata riformulata dal Concilio, proprio per sottolineare la visibilità e la socialità della Chiesa e per togliere quindi dall'espressione " Corpo di Cristo ", qualsiasi tentazione di leggerla in senso intimistico, spiritualistico o emozionale, che ne riduce il significato. " Corpo di Cristo " significa un avvenimento, una realtà presente, identificata da una precisa coscienza di appartenere a Cristo e di doverlo portare nel mondo a tutti gli uomini. L'identità di appartenere a Cristo diventa responsabilità di approfondimento del soggetto ecclesiale. Il mondo, nel quale l'uomo è diventato incomprensibile a se stesso, non può salvarsi se non in riferimento all'avvenimento di Cristo. La lezione centrale contenuta nella Gaudium et spes è di carattere filosofico e culturale: l'uomo senza riferimento a Cristo è una realtà incomprensibile, perché Cristo, rivelando Dio all'uomo, rivela anche l'uomo all'uomo. Non è dunque possibile uno sforzo di comprensione e di liberazione che prescinda da Cristo; se invece ci si riferisce a Lui, è possibile entrare nelle vicende della storia, rispettando le caratteristiche della realtà che si affronta. La dipendenza da Cristo si realizza, pertanto, nel pieno riconoscimento dell'autonomia, perché Cristo non violenta la realtà naturale: l'ha creata e la redime nel rispetto della libertà della persona e della natura propria della realtà. Nella Dignitatis humanae viene tracciato invece il tema della dignità e dei diritti umani, mettendo alla base il diritto alla libertà religiosa. Si respinge inoltre l'accusa mossa alla Chiesa di aver sempre negato tale libertà poiché l'esigenza religiosa appartiene alla struttura naturale dell'uomo, sempre riconosciuta dall'antropologia di riferimento del Magistero. Il documento individua nell'uomo l'interlocutore della missione. Il Concilio non si rivolge all'ideologia; la Chiesa parla all'uomo che cerca Dio, parla al suo cuore. Ciò che esiste oltre l'ideologia è un'istanza religiosa che deve essere rispettata. La Dignitatis humanae è una richiesta esplicita che la Chiesa rivolge agli Stati: la persona deve essere rispettata per quello che è il cuore e il fulcro della persona, la tensione a Dio. Ciò che ostacola la Chiesa in questa sua azione è la permanenza di una impostazione ideologica che è tesa ad assorbire la dimensione religiosa come parte dello Stato. Individuato l'uomo con la sua dignità di interlocutore, segue la lotta per la sua difesa. Giovanni Paolo II ha svolto le conseguenze di questa nuova interpretazione del Concilio, sostenendo che il criterio con il quale giudicare il livello di democrazia di uno Stato è la libertà religiosa. Il coraggio di Paolo VI Il suo pontificato può essere letto come un'intensa testimonianza al fatto che la fedeltà all'identità della fede conduce al massimo di coraggio e di capacità di dialogo, soprattutto nella percezione e nella indicazione delle soluzioni ai problemi dell'uomo e della società. Egli ha mostrato come la fedeltà all'identità cristiana, non solo non rappresenti un ostacolo al dialogo, ma al contrario favorisca un atteggiamento di apertura verso tutti, di partecipazione alla vita sociale e di solidarietà nei confronti dei più deboli. Paolo VI ( 1963 - 1978 ), sulla scia di Giovanni XXIII, attraverso il Concilio Ecumenico Vaticano II, ha cercato, attingendo a pieno dalla tradizione, di superare la contrapposizione Chiesa - modemità, riproponendo, di fronte a quel filone della modernità laicista ormai sconfitto, una precisa identità cristiana, capace di incidere sulla società e di generare una cultura originale. Il Magistero di questo Papa si è svolto a partire dalla Ecclesiam suam ( 1964 ), ma dal punto di vista sociale, occorre far riferimento innanzitutto alla Populorum progressio ( 1967 ). In questa enciclica lo sviluppo dei popoli è individuato da Paolo VI come il fondamento della pace. La pace è intesa come una convivenza ordinata fra uomini, lasciati liberi di cercare e professare la verità. Tale disegno di pace è però realizzabile solo grazie alla presenza dei cattolici. Se essi, infatti, sono presenti come tali, sono capaci di autentica solidarietà. Non bisogna dimenticare che " la pace non si riduce a un'assenza di guerra, frutto dell'equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento d'un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini ". È un dato fondamentale proprio del Magistero di Paolo VI, e successivamente di quello di Giovanni Paolo II, inquadrare la problematica inerente alla società non solo secondo la prospettiva delle singole nazioni, ma nella sua prospettiva mondiale. Ciò è avvenuto non perché si è semplicemente preso atto dell'inarrestabile fenomeno della globalizzazione. La Chiesa e in particolare questi due pontefici, prospettando il problema sociale in termini mondiali, hanno inteso sottolineare che per risolverlo occorre un approccio universale. E quale categoria più universale esiste di quella pienezza di umanità che è resa possibile dal Signore Gesù ed è partecipabile da tutti? Quale categoria più adeguata esiste di vera unità del genere umano di quella della fede, che si esprime nella carità e nella solidarietà? La fine dell'internazionalismo proletario, di cui la seconda parte del XX secolo ha mostrato tutta la sua illogicità, smascherandolo come fondamentale strumento dell'espansione coloniale dell'URSS, ha lasciato il posto a nuovi meccanismi ideologici, politici e militari, ugualmente irrispettosi della libertà umana. Solo una forza universale, cioè morale, che riesca ad impostare i problemi non semplicemente da un punto di vista descrittivo, ma alla luce di valori che siano universali, risulta in grado di aprire una nuova prospettiva di speranza. Paolo VI, attraverso la dottrina sociale, ha voluto mostrare come il cattolicesimo sia in grado di fornire un punto di vista adeguato, capace di integrare le prospettive particolari in una prospettiva definitivamente universale. Paolo VI ha, quindi, sottolineato come il cristiano non debba accettare che si affermi un'idea di progresso che pretenda di risolvere i problemi sociali riducendoli alle sole dimensioni materiali, e implichi l'eliminazione di quella pluralità della vita sociale che scaturisce dalla naturale dinamica sociale. Paolo VI ha chiamato le comunità cristiane nella loro obiettività ad essere i soggetti della verifica della dottrina sociale. L'insegnamento sociale della Chiesa deve essere ascoltato e deve essere continuamente approfondito e riformulato dalle comunità cristiane vive. Il cristiano, se è presente come realtà nel mondo, non può non arrivare ad impostare i problemi sociali secondo le indicazioni del Magistero e quindi a verificarne l'attuabilità. L'avvenimento cristiano, vissuto consapevolmente, diventa azione solidale, capace di integrare tutte le posizioni positive. Nel Magistero di Paolo VI prende corpo così una soggettività concreta, una soggettività ecclesiale chiamata ad essere protagonista decisiva nella storia. Il campo per le varie trasformazioni mondiali è, innanzitutto, quello della propria comunità. L'enciclica Octogesima adveniens ( 1971 ) e l'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, evidenziano, ribadendo spesso quanto già osservato dai suoi predecessori, il fallimento del progetto dominante l'epoca moderna, fondato sull'antropologia dell'autoimmanenza, e insieme l'unica vera alternativa: l'uomo, cioè, non può rimanere senza fondamento, e può trovare solo nel riferimento a Dio e a Cristo la sua fondazione e la difesa di sé come soggetto creatore di storia. Una riflessione particolare merita la Lettera apostolica sulla regolazione della natività Humanae vitae. Rileggere l'Humanae vitae oggi, nell'esito estremo di quella mentalità laicista, consumistica ed edonistica, che era di fatto il riferimento polemico dell'intero documento, acquista, infatti, un valore significativo. L'intervento di Paolo VI fu come un preciso grido di allarme nei confronti di un degrado della sensibilità cristiana ed umana che si è poi attuato in modo rigoroso ed è arrivato alle più devastanti conseguenze. Conseguenze che, per altro, tendono ad assumere il carattere della "normalità" ed autorizzano, pertanto, l'utilizzo di quel termine che tante volte Giovanni Paolo II ha usato per definire la situazione etico - sociale del nostro tempo, ovvero il termine "barbarie". Quale era l'intendimento di Paolo VI all'atto della pubblicazione della Humanae vitae? Era quello di riproporre in termini ampi il messaggio del cristianesimo sul matrimonio come vocazione ecclesiale che nasce nel mistero di Cristo e che si attua come esperienza di autentica umanità, insieme dolorosa e lieta. Nel matrimonio cristiano non si può considerare accidentale la procreazione, né per altro si può considerarla come un progetto o un oggetto nei confronti del quale operare con qualsiasi mezzo per ridurne l'eventualità o addirittura per negarla. L'autentica realizzazione della vocazione matrimoniale esigeva di mettere al proprio centro la responsabilità della procreazione, nel rispetto rigoroso di quella procedura naturale in cui si è espressa la volontà del Creatore e che non può essere disponibile a nessuna manipolazione o tecnologizzazione. Ad un mondo avviato a celebrare i fasti - o meglio - i nefasti dell'individualismo egoistico, dell'autogratificazione ad ogni costo, della sessualità che si andava praticando al di fuori di qualsiasi autentico impegno umano e cristiano per ridursi ad un meccanismo gratificatorio, il Papa richiamava la grandezza e la umanità di un "altro mondo" che, comunque, per la fede e la carità dei cristiani entrava in questo mondo e si poneva come un avvenimento di piena umanità, conseguita certamente anche a prezzo di sacrifici e di fatiche. Paolo VI ha voluto ricordare che l'uomo e la donna attuano nella famiglia il progetto di Dio su di loro, sulla Chiesa e sul mondo e collaborano in modo attivo e responsabile alla generazione di vite nuove secondo quella procedura che Dio ha iscritto nella struttura profonda della realtà, nel momento del suo atto creatore. Egli ha quindi voluto ribadire che la natura non è un dato che possa essere esaurientemente analizzato dalla intelligenza scientifica e manipolato dalla capacità tecnologica dell'uomo; è un dato che porta nella vita il mistero stesso di Dio e deve, perciò, essere accolto ed obbedito. Ma anche l'obbedienza alla legge di Dio non è un meccanismo ( ed anche questo ha ricordato con estrema precisione Paolo VI ): è un'obbedienza che mette in primo piano la responsabilità del padre e della madre che assumono il compito loro affidato da Dio. Ciò che ha difeso Paolo VI, e che la Chiesa continua a difendere, è la legge della natura; legge che si è chiamati a vivere con responsabilità, quindi anche con il senso del proprio limite e la umiliazione del proprio peccato. Il peccato è sempre perdonato dalla Chiesa, ma l'errore non può mai avere il diritto della verità. Questa posizione, per affermare la quale il Papa è passato attraverso un lungo periodo di travaglio e di fatica, è stata allora contestata dalla mentalità scientifica. Ci si è accorti, in questi più di trent'anni, che si trattava in effetti di una mentalità presuntamente scientifica, agitata ideologicamente da una vera e propria tempesta mass - mediatica. Il Papa rimase solo di fronte al mondo laicistico che lo irrideva e rimase quasi solo anche nella Chiesa. Agli uni ed agli altri sembrò che la posizione papale negasse i diritti della persona umana e della sua libertà, ma il Papa denunciava invece i limiti di un individualismo in cui l'uomo si pone come padrone di se stesso e della libertà e che tende a considerare l'altro anziché come partner per una responsabilità oggettiva, piuttosto come oggetto di una gratificazione istintiva ed ultimamente irresponsabile. Molti settori ecclesiali ed ecclesiastici presero le distanze dal Papa, accusandolo di non comprendere le autentiche esigenze dell'uomo e del mondo moderno, e tentarono più di un accordo sul campo della morale sessuale per tenere aperta, come si diceva, una possibilità di dialogo. In effetti sembra assolutamente chiaro, ora, che amassero di più il mondo che la verità stessa della fede e non fossero disposti a testimoniare al mondo quella novità di vita, anche dolorosa, che comunque corrisponde al desiderio profondo dell'uomo di ogni tempo, quindi anche di questo tempo. Dopo l'Humanae vitae sono seguite la legge sul divorzio e poi quella sull'aborto e poi la pratica delle manipolazioni biologiche e genetiche, fino alle aberranti sperimentazioni sui feti e sugli embrioni giustificate come diritto alla ricerca scientifica e funzionali all'incremento delle condizioni di vita dell'uomo. Così è diventato definitivamente chiaro che a tutto il vasto campo della manipolazione biologica si lega ormai indissolubilmente l'estrema espressione dell'antiteismo moderno e contemporaneo che vuole cancellare la presenza stessa di Dio all'origine del mistero del nascere e del mistero del morire: si afferma la vita umana semplicemente come oggetto di una propria assoluta e autonoma capacità di progettazione e di programmazione. D'altra parte la stessa scienza, quella seria, cioè quella che non accetta strumentalizzazioni ideologiche, è andata recuperando in questi anni una sostanziale sintonia con le posizioni anche scientifiche implicate nella dichiarazione papale. Tuttavia, il problema trent'anni fa come oggi è uno solo: è necessario annunziare al mondo Gesù Cristo, "Redentore dell'uomo e centro del cosmo e della storia", e tale annunzio implica la testimonianza al mondo di un mondo nuovo, vivo, libero, capace di responsabilità profonda nei confronti di Dio e della realtà per un compito ampio e definitivo, in cui l'uomo e la donna si compiono integralmente nella loro umanità. Non c'è novità senza sacrificio: come tutti gli inviti cristiani l' Humanae vitae chiedeva anche il sacrificio. Ma l'Humanae vitae ha tenuto aperta quella strada di verità autentica verso Dio e verso gli uomini che è stata percorsa ed è percorsa da tanti cristiani e da essi offerta agli uomini come " la via, la verità e la vita ". ( Gv 14,6 ) Giovanni Paolo II e la dignità della persona umana Come si è fin qui delineato la Chiesa ha certamente combattuto l'egemonia laicista lungo tutta la modernità. La dottrina sociale da Pio IX a Giovanni Paolo II dimostra l'esistenza di una cultura cattolica cosciente della propria identità, tesa a proporre una propria " via " su tutti i problemi antropologici, etici, sociali e politici del mondo moderno e contemporaneo, antitetica a quella laicista dominante. Al totalitarismo laicista, come si è già evidenziato, la dottrina sociale cattolica ha contrapposto la priorità della persona umana sulla società; la priorità della società sullo Stato. A quest'ultimo è stata negata ogni soggettività "etica" e quindi ogni principio di assimilazione della vita personale e sociale, assegnandogli, invece, compiti di regolazione e promozione della libertà della società. È stata inoltre coerentemente ribadita la distinzione assolutamente necessaria fra struttura religiosa e struttura politica, a garanzia congiunta della libertà della Chiesa e del rispetto assoluto della coscienza personale. Tuttavia, è altrettanto vero che, paradossalmente, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, si è andata progressivamente riducendo la capacità della Chiesa, e al di là di essa dell'intero popolo cristiano, di realizzare una reale alternativa culturale all'egemonia del laicismo. Non bisogna, infatti, dimenticare che, se la Seconda Guerra Mondiale segna l'esito fallimentare del progetto laicista, solo la caduta dei regimi comunisti dell'est Europa alla fine del secolo ha sancito in qualche modo la definitiva sconfitta storica delle ideologie. Inoltre, dire che l'epoca storica delle ideologie si è conclusa con la caduta dei regimi comunisti non significa però affermare che il pericolo dell'ideologia in sé sia scomparso definitivamente. Sarebbe un gravissimo errore guardare l'ideologia come il retaggio di un recente passato, un tempo ormai trascorso, irreversibile, estraneo alla vita presente. Occorre sempre tenere presente che, al di là di una valutazione storica o puramente sociologica, l'ideologia è l'attacco più grave che possa essere inferto all'identità della persona, perché la vera natura dell'ideologia è la menzogna. Essa non è poi così lontana dall'uomo di sempre, perché la menzogna nasce nel cuore dell'uomo: l'uomo non è solo capace di bene, ma è anche capace di male. È la realtà, drammaticamente quotidiana, del peccato. La menzogna investe la storia assumendo la forma dell'ideologia, ossia di una costruzione teorica e pratica, accettata come vera, che pretende di dare un senso esclusivamente intramondano alla vicenda umana. Il presupposto dissimulato di tutte le ideologie è il sostenere che l'uomo non si comprenda in rapporto al Mistero, ma esclusivamente attraverso la ragione, o il sentimento, o l'inconscio, o l'istinto, o un progetto politico e sociale. Non è questa la sede per individuare ed analizzare in modo esauriente i fattori che hanno determinato questa debolezza intrinseca alla stessa Chiesa. Sicuramente l'orientamento " modernistico " della teologia post-conciliare, non previsto dal Concilio, può aiutare a spiegare il ripiegarsi di tanta teologia cattolica su una posizione subalterna alle istanze e alle visioni delle ideologie mondane. Invece di colpire in modo definitivo le stesse ideologie, i cristiani spesso hanno finito per cedere a loro e, più o meno consapevolmente, per servirle. La teologia è sembrata essere sempre meno utile alla fede del popolo cristiano. Spesso si ha avuto l'impressione che il mondo cattolico vivesse nell'orizzonte di un dualismo fra una fede popolare senza capacità di proporre una autentica visione culturale, e una fede "dotta" persa in sterili e datate querelles con le posizioni ideologiche di moda. Non bisogna dimenticare che la modernità, come secolarizzazione programmata ed attuata, ha contenuto e di fatto contiene una grandissima sfida nei confronti del cristianesimo: costringere il cristianesimo a non leggere criticamente la modernità a partire da una fede capace di essere criterio di giudizio, e al contrario costringerlo a ridimensionarsi sulla modernità, ad assumere come propri criteri non cristiani. Con la conseguenza inevitabile della perdita della vera identità cristiana. Non più soltanto un mentalità esterna, per quanto forte e minacciosa, comunque pur sempre esterna, quindi più facilmente identificabile, ma una mentalità interna alla vita stessa della Chiesa. Come tale più insidiosa, più pericolosa, tanto che le categorie del pensiero moderno sono state applicate all'ambito stesso della teologia. Ecco allora l'irrompere della tentazione di sottoporre la cultura della fede, che nasce dalla fede, che dovrebbe nascere dall'esperienza di una vita di fede, alla scienza, o meglio alle tentazioni scientiste, positiviste, socio-politiche. L'azione di resistenza da parte della chiesa alle ideologie scaturite dalla modernità ha, quindi, conosciuto una debolezza intrinseca, il cui punto più pericoloso si è espresso all'inizio del XX secolo con il fenomeno chiamato "modernismo", condannato nel 1907 dall'enciclica Pascendi dominici gregis di Pio X ( 1903 - 1914 ). Tuttavia, si tratta di una tendenza che ha continuato a indebolire l'identità del soggetto ecclesiale e risulta ancora presente, in modo abbastanza diffuso nel complesso del cattolicesimo di oggi, in quanto rappresenta una tentazione permanente dello spirito cattolico. Sicuramente questa tentazione di autoridimensionamento della chiesa sul mondo, cioè questa sorta di neomodernismo, di fatto ha prevalso in una certa interpretazione postconciliare. Con il Magistero di Giovanni Paolo II ( 1978 - 2005 ) ecco allora che è stata invece ribadita la proposta di un'autentica cultura sociale cristiana: una cultura ed una socialità originali che nascono dall'identità dell'esperienza popolare della fede e, quindi, dal suo dinamismo missionario. Tale proposta è sfociata nel dialogo con le più diverse forze culturali, sociali e politiche, dialogo teso ad una costruzione comune. Il Magistero di Giovanni Paolo II è stato senz'altro una grande provocazione per la mentalità contemporanea, per la capacità con la quale ha saputo riproporre in forme nuove l'unico evento che costituisce da duemila anni il centro della vita della Chiesa e rappresenta una concreta possibilità di vita per l'uomo che vuole prendere sul serio il problema del proprio destino. Il Papa polacco, inaugurando il pontificato e successivamente ripetutamente nello svolgimento del suo mandato, ha affermato che solo nell'imprevisto dell'Incarnazione e nel fatto della Redenzione si trova e si troverà sempre fino alla fine dei tempi il senso della storia. L'umanità ha percepito subito nell'evento dell'elezione e in quell'annuncio fatto al mondo un segno concreto di speranza per il proprio desiderio di libertà. In altri termini, questo Papa è stato capace di ridestare nel cuore dell'uomo il desiderio di Dio, di Assoluto che lo costituisce nel profondo. Ha percosso l'orgoglio occidentale, ribadendo che l'uomo è naturale mendicanza del Mistero che fa tutte le cose e che l'ontologia della creazione, fondamentale per spiegare l'essere umano, culmina in modo definitivo nell'evento di Redenzione operata da Gesù Cristo. Giovanni Paolo II ha presentato come fulcro del suo messaggio l'evangelizzazione, cioè il cristianesimo ripresentato nella sua integralità, nella sua struttura di evento irriducibile a qualsiasi forma ideologica, capace di intervenire creativamente sulla struttura dell'uomo, dandogli una cultura nuova. Si può dire che tutto il suo Magistero è documentato da due stupori: lo stupore dell'incarnazione e lo stupore dell'esito dell'incarnazione, ossia il cambiamento dell'uomo. L'enciclica Redemptor hominis del 1979 appare oggi come il documento programmatico del suo pontificato, il centro del suo insegnamento da cui si snodano e vengono sviluppate le linee fondamentali del suo Magistero. La natura e la vocazione dell'uomo del nostro tempo sono appunto rilette a partire dal Mistero della Redenzione. Leggendo l'enciclica appare in modo chiaro che l'identità dell'uomo è come tale la grande questione irrisolta della modernità. Giovanni Paolo II ha chiaramente indicato come segno del fallimento delle ideologie ateistiche proprie del pensiero moderno - contemporaneo la tragica situazione in cui l'uomo si trova a vivere oggi: " L'Europa è oggi attraversata da correnti, ideologie, ambizioni che si vorrebbero estranee alla fede, quand'anche non direttamente opposte al cristianesimo. Ma è interessante rilevare come, partendo da sistemi e da scelte che intendevano assolutizzare l'uomo e le sue conquiste terrene, si è arrivati oggi a mettere in discussione precisamente l'uomo stesso, la sua dignità ed i suoi valori intrinseci, le sue certezze eterne e la sua sete di assoluto. Dove sono oggi i solenni proclami di un certo scientismo che prometteva di dischiudere all'uomo spazi indefiniti di progresso e di benessere? Dove sono le speranze che l'uomo, proclamata la morte di Dio, si sarebbe finalmente collocato al posto di Dio nel mondo e nella storia, avviando un'era nuova in cui avrebbe vinto da solo tutti i propri mali? Le tragiche vicende di questo secolo, che hanno insanguinato il suolo d'Europa in spaventosi conflitti fratricidi; l'ascesa di regimi autoritari e totalitari, che hanno negato e negano la libertà e i diritti fondamentali dell'uomo; i dubbi e le riserve che pesano su un progresso che, mentre manipola i beni dell'universo per accrescere l'opulenza ed il benessere, non solo intacca l'"habitat" dell'uomo, ma costruisce anche tremendi ordigni di distruzione; l'epilogo fatale delle correnti filosofico - culturali e dei movimenti di liberazione chiusi alla trascendenza: tutto questo ha finito per disincantare l'uomo europeo, spingendolo verso lo scetticismo, il relativismo, se non anche facendolo piombare nel nichilismo, nella insignificatezza e nell'angoscia esistenziale ". Il Magistero di Giovanni Paolo II, fin dall'inizio, oltre a questa denuncia dei limiti e degli esisti tragici della modernità, ha voluto anche illuminare il dramma dell'uomo di questo secolo e rimetterlo di fronte alla verità del suo essere. Il Papa della Redemptor hominis ha voluto comunicare di nuovo all'uomo la verità del Vangelo sul senso dell'esistenza: il cuore umano è desiderio di una Persona; nessuna attesa è vana perché Dio si è rivelato all'uomo in Cristo e in questo evento definitivo sta l'unica possibilità di salvezza per l'uomo. Le ideologie hanno fallito non perché hanno cercato di costruire questo o quel sistema in quanto tale, ma perché non hanno corrisposto e hanno ingannato la domanda dell'uomo. Essa non è rimasta semplicemente inevasa, è stata tradita sull'altare dei falsi idoli. Invece Dio, rivelando se stesso all'uomo in Gesù Cristo, ha rivelato non solo la verità su di Sé, ma ha rivelato anche la verità sull'uomo. Il fondo dell'essere dell'uomo è il desiderio che l'Assoluto possa manifestarsi. Questo desiderio può essere ragionevolmente riconosciuto o, all'opposto, rifiutato nella sua portata, ma nulla cambia nell'ontologia della persona: l'uomo è questo desiderio. Questa è la natura dell'uomo, la sua identità: l'uomo è per natura apertura al Mistero. L'identità umana, se è per natura apertura al Mistero, cristianamente è partecipazione a quel Mistero che si è rivelato. Cristo, Redentore dell'uomo, diventa per l'uomo il miracolo di una nuova nascita: l'identità dell'uomo redento da Cristo è un uomo che è infinitamente più dell'uomo, perché il Mistero rivelato si è offerto come compagnia, nella storia, alla sua avventura umana. La fede è stata presentata e vissuta da Giovanni Paolo II come l'inizio di un'antropologia nuova, perché dall'esperienza della fede nasce un giudizio nuovo che investe la totalità dell'esistenza. Non è questa una pretesa di carattere confessionale, perché la realtà mondana conserva tutta la sua pienezza di significato e non viene svuotata di senso a favore di una visione clericale della vita; Cristo non ha chiesto all'uomo di sacrificare la sua esperienza d'uomo, si è offerto invece come possibilità di una vita nuova, più umana, dentro le cose del mondo. Lungi dall'essere un atto di presunzione, è il riconoscimento da parte del cristiano del fatto oggettivo che, avvenuto dentro l'orizzonte della sua vita, determina una mentalità nuova, un modo nuovo d'essere. Questo è il significato profondo della Redemptor hominis che " offriva al mondo una Chiesa innamorata dell'umanità e per la più valida delle ragioni: perché Dio ha "così amato il mondo" ( Gv 3,16 ) da inviare il suo unico Figlio come Redentore dell'uomo ". Quindi, il Papa di fronte alla concezione predominante della modernità, per la quale il soggetto umano è tutto, senza negarne gli aspetti positivi, ha proposto come soluzione dei drammi sociali del nostro secolo, rincontro con lo sguardo profondamente umano che nasce dalla fede in Cristo. L'Incarnazione e la Redenzione sono viste come l'avvenimento di una mens completamente nuova, irriducibile alla logica del potere che ha permeato la tarda modernità. Questo è uno dei punti capitali di tutto il suo Magistero e costituisce un autentico punto di svolta dentro la modernità: l'identità cristiana è autenticamente vissuta se diventa cultura. Cultura, infatti, nella nuova accezione pensata da Giovanni Paolo II è il compimento, la maturazione, lo sviluppo critico della coscienza personale che avviene nell'ambito dell'avvenimento cristiano e della vita della Chiesa: " La cultura è ciò per cui l'uomo in quanto uomo diventa più uomo, "è" di più, accede di più all'essere ". Il Papa, affermando la centralità del nesso fede - cultura per la vita del cristiano, ha reso il suo stesso Magistero l'applicazione consapevole di un nuovo approccio verso la realtà e la storia. Significative a tale riguardo sono sicuramente le pagine della Redemptor hominis dedicate alla " dimensione umana del Mistero della Redenzione ". Lo sviluppo di questo tema non ha un'importanza esclusivamente di carattere teologico o ecclesiale, ma risulta essenziale per comprendere la situazione dell'uomo redento nel mondo contemporaneo. L'uomo, " prima e fondamentale via della Chiesa ", è al centro delle preoccupazioni della Chiesa ed essa non cessa di interrogarsi sempre più a fondo, per quanto è possibile, sulle molteplici situazioni che condizionano la sua esistenza. Secondo Giovanni Paolo II la fede è in grado di rendere il popolo capace di cultura e di creatività sociale. Il cristianesimo si rivela allora come nuova forma culturale capace di influire sulla concezione dell'uomo e dei rapporti come fattore genetico. La migliore apologià che la Chiesa può fare di sé è il fatto che, dove essa è stata presente nella vita degli uomini e della società, l'uomo è stato più se stesso, ha vissuto maggiormente la sua libertà, la sua responsabilità e la sua capacità di creatività. Dove, al contrario, la Chiesa è stata emarginata o ha accettato di esserlo anche l'uomo è stato negato. Si può infatti costruire un mondo contro Dio, ma ciò significa costruire un mondo contro l'uomo. Pertanto Giovanni Paolo II, come risulta anche da quanto esplicitamente affermato nella prima parte della Redemptor hominis, ha assunto il compito di raccogliere l'eredità del Concilio vaticano II e di avviarne un'adeguata interpretazione, perché il Concilio potesse fermentare nella vita della Chiesa e diventare principio attivo di vita, di elaborazione culturale e di progettazione pastorale. In questo senso proprio la Redemptor hominis, da un lato, e la Novo millennio ineunte, dall'altro, rappresentano la fase iniziale e la fase matura di questo Magistero tutto preoccupato di operare una riforma nella tradizione. La riforma nella vita cattolica è, infatti, sempre la riproposizione della tradizione non la rottura con la tradizione. Il Magistero di Giovanni Paolo II in questo sforzo di rinnovamento dell'originaria identità della fede cristiana, rilanciando la Chiesa nella sua missione, ha sviluppato la grande responsabilità della difesa e promozione dei diritti umani e il compito della collaborazione alla pace. Il Magistero dei grandi Papi della prima metà del XX secolo, approfondendo la linea intrapresa da Pio IX, ha difeso la Chiesa, la libertà della Chiesa, la sua missione e di conseguenza l'uomo contro le ideologie totalitarie; Giovanni Paolo II ha sviluppato tale linea magisteriale. Anche per questo Papa difendere la libertà della missione e più in generale della Chiesa ha significato l'intransigente difesa e promozione della libertà e dei diritti della persona e dei popoli; ha significato la ricerca di un assetto della società, a tutti i livelli da quello nazionale a quello mondiale, in cui la persona sia irriducibilmente concepita al centro, sia il fattore definitivo non intercambiabile con nessun altro valore. A questo riguardo nella Centesimus annus, di cui si è già precedentemente detto, ha ribadito, infatti, che " difendendo la propria libertà, la Chiesa difende la persona, che deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini ( At 5,29), la famiglia, le diverse organizzazioni sociali e le Nazioni, realtà tutte che godono di una propria sfera di autonomia e di sovranità ". Oggi, più che mai, questa linea trova uno svolgimento, non tanto nel confronto con un'ideologia apertamente totalitaria, ma nella lotta contro un'ideologia apparentemente meno sanguinaria del passato, in cui però la persona umana e i diritti dei popoli e delle nazioni rischiano di essere sistematicamente sacrificati per l'attuarsi di un progetto di globalizzazione economicistica e scientifico tecnocratica. Nella piena continuità con la precedente tradizione del Magistero sociale, Giovanni Paolo II rappresenta, dunque, una novità: con il finire delle grandiideologie, ha capito che si trattava innanzitutto di incrementare fino in fondo la cura dell'uomo nella sua istanza religiosa anche laica, cioè naturale, insieme alla cura dei suoi diritti. Senza difficoltà, come afferma anche George Weigel, si può dire che questo è stato un Papa dei diritti, che ha voluto dialogare e ha cercato come suo interlocutore l'uomo concreto, non l'idea astratta di uomo sulla quale hanno costruito i propri sistemi le ideologie. Grazie a Giovanni Paolo II la dottrina sociale della Chiesa non è più da vedersi come la difesa dell'uomo e dei suoi diritti contro qualcosa, è innanzitutto l'incremento positivo e costruttivo dell'uomo e dei suoi diritti; senza però rinunciare a snidare e ad indicare tutti i nemici che sono rimasti, in particolare l'ideologia del potere di carattere tecnocratico e scientifico, che permane e nei confronti della quale l'uomo finisce per essere oggetto di manipolazione. Bisogna comunque non travisare, e cogliere fino in fondo l'origine di tale vigorosa e integra affermazione dei diritti dell'uomo. Non è l'affermazione di un generico umanesimo, quello che può essere indicato come l'origine del processo storico di formazione della mentalità laicista, quanto l'affermazione di un umanesimo cristiano, fondato cioè sulla Persona di Cristo, sulla possibilità di una reale sequela a Cristo: " In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell'uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, nel "mondo contemporaneo". Questo stupore, ed insieme persuasione e certezza, che nella sua profonda radice è la certezza della fede, ma che in modo nascosto e misterioso vivifica ogni aspetto dell'umanesimo autentico, è strettamente collegato a Cristo. Esso determina anche il suo posto, il suo - se così si può dire - particolare diritto di cittadinanza nella storia dell'uomo e dell'umanità. La Chiesa, che non cessa di contemplare l'insieme del mistero di Cristo, sa con tutta la certezza della fede, che la Redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all'uomo la dignità ed il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato ". Una volta recuperato l'uomo come domanda religiosa, riconosciuto il fondamento della libertà proprio nella libertà religiosa, individuata la radice del vero umanesimo in Cristo, se poniamo attenzione allo sviluppo del Magistero di Giovanni Paolo II, non può non colpire lo sguardo pienamente umano e carico di speranza che rivolge all'uomo. Soprattutto, se teniamo conto del contesto in cui ci si trova, dove il pensiero laico, anche quello meno ideologico, sembra non avere ancora superato il fallimento del proprio progetto, sembra non essere ancora capace di potere sperare in un avvenire diverso. Non c'è aspetto particolare della vita che non sia stato incluso in questo abbraccio all'uomo concreto che è l'insegnamento sociale di Giovanni Paolo II. Il diritto alla vita è difeso secondo un'integrità e radicalità sconosciuta a qualsiasi altra cultura sia essa laica o religiosa. Le pagine della Evangelium vitae ( 1995 ) sono in questo senso sicuramente un'importantissima testimonianza. La Chiesa insiste sul diritto alla vita perché è "il vangelo della vita", annunciato definitivamente e donato pienamente da Gesù, che le svela la sacralità di questa, tuttavia " nonostante i condizionamenti negativi del peccato, può essere conosciuto nei suoi tratti essenziali anche dalla ragione umana ". Ecco perché il tema della difesa del diritto alla vita è un primo ambito sul quale cattolici e laici, messe da parte i pregiudizi ideologici, possono trovare un terreno comune sul quale dialogare, tenendo conto che questo dialogo, visto le enormi potenzialità scientifico-tecnologiche che possono essere oggi sfruttate per manipolare l'essere umano, è sempre più urgente. Il tema del lavoro, affrontato direttamente nella Laborem exercens ( 1981 ), è ugualmente sviluppato secondo una disamina profondamente umana che non vuole tralasciare nessuna dimensione: quella personale; quella sociale; quella teologica. Per definire il lavoro e cercare di spiegarne le dinamiche e i rapporti sociali implicati, il Magistero di Giovanni Paolo II non si è rivolto alle posizioni ideologiche dominanti, ma è partito dall'uomo e da quella sua dimensione che abbiamo visto essere essenziale, ovvero la cultura, la ricerca del senso dell'esistenza. Non è partito dall'individuo concepito astrattamente e neanche dalle condizioni socio-economiche. La definizione di Giovanni Paolo II è incentrata sulla persona, la quale non può fare a meno, nella misura in cui viva coscientemente la sua esistenza, di affrontare il problema del senso della vita e quindi testimoniarlo nel lavoro stesso. Il lavoro in questo senso è il termine della creatività personale: " Fatto a immagine e somiglianza di Dio stesso nell'universo visibile, e in esso costituito perché dominasse la terra, l'uomo è perciò sin dall'inizio chiamato al lavoro. Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l'uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l'uomo ne è capace e solo l'uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell'uomo e dell'umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura ". Il lavoro deve quindi essere ricondotto alla dimensione etica e personale, deve cioè servire all'incremento della persona e della vita sociale in cui essa è inserita: " Ciò vuoi dire solamente che il primo fondamento del valore del lavoro è l'uomo stesso, il suo soggetto [ … ] per quanto sia una verità che l'uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è "per l'uomo", e non l'uomo "per il lavoro". Con questa conclusione si arriva giustamente a riconoscere la preminenza del significato soggettivo del lavoro su quello oggettivo ". Se le cose stanno in questi termini, allora per Giovanni Paolo II si perviene alla soluzione dei problemi economici solo affermando la priorità della persona e dei suoi diritti. Risulta altresì chiaro come la Laborem exercens si fondi sull'intera tradizione sociale della Chiesa, la quale, come si è visto, cerca di tenere insieme il diritto di proprietà e la destinazione sociale di essa. Anche Giovanni Paolo II ha voluto ribadire che se si cerca di risolvere i problemi sociali, ma non si guarda alla persona, si finisce inevitabilmente per inserirla in un meccanismo che, anziché liberarla, la distrugge. La questione sociale, la divisione fra nord e sud del mondo, nonché la divisione tra est ed ovest, sono state oggetto di attenzione nella Sollicitudo rei socialis ( 1987 ). In questa enciclica il Papa ha sottolineato fortemente la dimensione mondiale della questione sociale. Ha messo in guardia dalla falsa idea di sviluppo, di progresso sviluppatasi nella modernità e smentita dall'accadere degli eventi del XX secolo: " Lo sguardo che l'Enciclica ci invita a rivolgere al mondo contemporaneo ci fa costatare, anzitutto, che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere umano debba camminare spedito verso una specie di perfezione indefinita. Simile concezione, legata ad una nozione di "progresso" dalle connotazioni filosofiche di tipo illuministico, piuttosto che a quella di "sviluppo", adoperata in senso specificamente economico-sociale, sembra posta ora seriamente in dubbio, specie dopo la tragica esperienza delle due guerre mondiali, della distruzione pianificata e in parte attuata di intere popolazioni e dell'incombente pericolo atomico. Ad un ingenuo ottimismo meccanicistico è subentrata una fondata inquietudine per il destino dell'umanità ". Si può dire pertanto che, anche per quanto riguarda la nozione di sviluppo, Giovanni Paolo II ne ha dato una definizione di carattere antropologico, in aperto contrasto con l'idea di sviluppo affermata dalle ideologie moderne. Queste, infatti, hanno interpretato lo sviluppo come l'esito meccanico dell'applicazione di sistemi economici e tecnologici-scientifici. Lo sviluppo deve, allora, riferirsi alla dimensione antropologica. Esso è realmente tale solo nella misura in cui implica la verità completa della persona, conduce alla realizzazione della persona, costruisce una società al servizio della persona. Nella prospettiva di Giovanni Paolo II sono, quindi, stati capovolti i termini: lo sviluppo non è quello dei sistemi, ottenuto secondo processi necessari e meccanici, ma solo quello che implica la maturazione compiuta della personalità umana. Solo in quanto la persona è strettamente legata alla vita sociale, lo sviluppo dell'uomo è anche sviluppo sociale. Non si deve cioè partire dalla società per raggiungere l'uomo, come è proprio dell'impostazione ideologica, la quale inevitabilmente finisce per ridurre l'uomo a parte del sistema o ad oggetto di manipolazione; si deve partire dall'uomo per arrivare alla società. Ma come giudicare l'autenticità o meno dello sviluppo? Giovanni Paolo II ha individuato in un "parametro interiore", insito nella natura umana, il criterio di giudizio. È ponendosi la domanda " Chi è l'uomo? " che si può affrontare in termini critici il problema dello sviluppo. L'uomo non può non partire da sé. Occorre, pertanto, riprendere il dinamismo proprio del senso religioso, della strada che affronta il problema del senso della vita: " Uno sviluppo non soltanto economico si misura e si orienta secondo questa realtà e vocazione dell'uomo visto nella sua globalità, ossia secondo un suo parametro interiore. Egli ha senza dubbio bisogno dei beni creati e dei prodotti dell'industria, arricchita di continuo dal progresso scientifico e tecnologico. E la disponibilità sempre nuova dei beni materiali, mentre viene incontro alle necessità, apre nuovi orizzonti. Il pericolo dell'abuso consumistico e l'apparizione delle necessità artificiali non debbono affatto impedire la stima e l'utilizzazione dei nuovi beni e risorse posti a nostra disposizione; in ciò dobbiamo, anzi, vedere un dono di Dio e una risposta alla vocazione dell'uomo, che si realizza pienamente in Cristo. Ma per conseguire il vero sviluppo e necessario non perder mai di vista detto parametro, che è nella natura specifica dell'uomo, creato da Dio a sua immagine e somiglianza ( Gen 1,26 ) ". È solo però il rapporto tra l'uomo e Cristo che consente all'uomo di procedere verso uno sviluppo realmente autentico: " La fede in Cristo Redentore, mentre illumina dal di dentro la natura dello sviluppo, guida anche nel compito della collaborazione. Nella Lettera di san Paolo ai Colossesi leggiamo che Cristo è "il primogenito di tutta la creazione" e che "tutte le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui" ( Col 1,15 ). Infatti, ogni cosa "ha consistenza in lui", perché "piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose" ( Col 1,20 ). In questo piano divino, che comincia dall'eternità in Cristo, "immagine" perfetta del Padre, e che culmina in lui, "primogenito di coloro che risuscitano dai morti" ( Col 1,15 ), s'inserisce la nostra storia, segnata dal nostro sforzo personale e collettivo di elevare la condizione umana, superare gli ostacoli sempre risorgenti lungo il nostro cammino, disponendoci così a partecipare alla pienezza che "risiede nel Signore" e che egli comunica "al suo corpo, che è la Chiesa" ( Col 1,18; Ef 1,22 ), mentre il peccato, che sempre ci insidia e compromette le nostre realizzazioni umane è vinto e riscattato dalla "riconciliazione" operata da Cristo ( Col 1,20 )". Ciò significa che lo sviluppo integrale della persona è già presente, è un dato acquisito e ricevuto da Cristo. Occorre che il soggetto nuovo, rinnovato dall'opera redentrice di Cristo, dia testimonianza a questo "già" nel "non ancora" della storia. Una società, in cui la Chiesa non sia presente come soggetto vivo, è destinata ad essere meno influente sullo sviluppo, perché solo un soggetto ecclesiale cosciente della sua identità, è in grado di resistere alla nozione ideologica che vuole lo sviluppo costruibile a partire dalle sole forze dell'uomo. Cristo, crocifisso e risorto è allora stato indicato da Giovanni Paolo II come il criterio per valutare i problemi. L'azione a favore dello sviluppo sociale si inserisce pertanto a pieno diritto nella testimonianza ecclesiale. Il perseguimento dello sviluppo sociale fa parte della missione della Chiesa. Prescindere dalla valutazione della situazione in cui si vive e dal tentativo di rendere la società al servizio dell'uomo significa fermare il dinamismo della missione. Testimoniare che Cristo è la vita dell'uomo è la testimonianza missionaria per eccellenza. Inserire tale testimonianza nel mondo sociale, economico e politico attuale, è necessario perché la Chiesa non può rimanere inerte di fronte alla situazione tragica a cui le ideologie hanno condotto. Da quanto detto si capisce come nella prospettiva di Giovanni Paolo II la Chiesa possa favorire l'autentico sviluppo umano evangelizzando, anche attraverso l'insegnamento e la diffusione della dottrina sociale: " L'insegnamento e la diffusione della dottrina sociale fanno parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. E, trattandosi di una dottrina indirizzata a guidare la condotta delle persone, ne deriva di conseguenza "l'impegno per la giustizia" secondo il ruolo, la vocazione, le condizioni di ciascuno. All'esercizio del ministero dell'evangelizzazione in campo sociale, che è un aspetto della funzione profetica della Chiesa, appartiene pure la denuncia dei mali e delle ingiustizie. Ma conviene chiarire che l'annuncio è sempre più importante della denuncia, e questa non può prescindere da quello, che le offre la vera solidità e la forza della motivazione più alta ". Infine, sebbene non sia un documento che si occupi direttamente della questione sociale, l'enciclica Fides et ratio ( 1998 ) risulta ugualmente fondamentale per comprendere come l'insegnamento di Giovanni Paolo II permetta un effettivo superamento dei limiti della modernità. In essa infatti, oltre a sostenere un'idea di ragione strettamente legata alla fede, in armonia con la fede, descritta come modalità stessa di esercizio della ragione, se ne recupera tutto il suo valore e la sua portata contro le patologie della ragione ( relativismo, nichilismo, pensiero debole ), esito del fallimento del razionalismo moderno. Giovanni Paolo II ci ha insegnato che cosa è una fede forte, una fede capace di diventare giudizio, cioè cultura, capace di dilatare il cuore secondo il movimento della carità e della missione. Il suo lungo pontificato è stato una grande esperienza ecclesiale e culturale in cui la corrispondenza fra il Papa e l'umanità si è straordinariamente imposta, in alcuni momenti in modo eclatante, come ad esempio nel corso delle giornate per la gioventù o da ultimo in occasione della sua morte. Esperienza che certo continua, in modo singolare, nella amabilissima e certa testimonianza di Benedetto XVI.