Evangelium vitae

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« Sono io che do la morte e faccio vivere »

( Dt 32,39 ): il dramma dell'eutanasia

64 All'altro capo dell'esistenza, l'uomo si trova posto di fronte al mistero della morte.

Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l'esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove.

Infatti, quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo.

La morte, considerata « assurda » se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una « liberazione rivendicata » quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più acuta sofferenza.

Inoltre, rifiutando o dimenticando il suo fondamentale rapporto con Dio, l'uomo pensa di essere criterio e norma a se stesso e ritiene di avere il diritto di chiedere anche alla società di garantirgli possibilità e modi di decidere della propria vita in piena e totale autonomia.

È, in particolare, l'uomo che vive nei Paesi sviluppati a comportarsi così: egli si sente spinto a ciò anche dai continui progressi della medicina e dalle sue tecniche sempre più avanzate.

Mediante sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati, la scienza e la pratica medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi precedentemente insolubili e di lenire o eliminare il dolore, ma anche di sostenere e protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, di rianimare artificialmente persone le cui funzioni biologiche elementari hanno subito tracolli improvvisi, di intervenire per rendere disponibili organi da trapiantare.

In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine « dolcemente » alla vita propria o altrui.

In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano.

Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della « cultura di morte », che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate.

Esse vengono molto spesso isolate dalla famiglia e dalla società, organizzate quasi esclusivamente sulla base di criteri di efficienza produttiva, secondo i quali una vita irrimediabilmente inabile non ha più alcun valore.

65 Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla.

Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore.

« L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati ».76

Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto « accanimento terapeutico », ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia.

In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza « rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi ».77

Si dà certamente l'obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento.

La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte.78

Nella medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette « cure palliative », destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano.

In questo contesto sorge, tra gli altri, il problema della liceità del ricorso ai diversi tipi di analgesici e sedativi per sollevare il malato dal dolore, quando ciò comporta il rischio di abbreviargli la vita.

Se, infatti, può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per conservare la piena lucidità e partecipare, se credente, in maniera consapevole alla passione del Signore, tale comportamento « eroico » non può essere ritenuto doveroso per tutti.

Già Pio XII aveva affermato che è lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la vita, « se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l'adempimento di altri doveri religiosi e morali ».79

In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata, nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio: semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina.

Tuttavia, « non si deve privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo »:80 avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza all'incontro definitivo con Dio.

Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori81 e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana.

Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.82

Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell'omicidio.

66 Ora, il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l'omicidio.

La tradizione della Chiesa l'ha sempre respinto come scelta gravemente cattiva.83

Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente l'innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell'amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme.84

Nel suo nucleo più profondo, esso costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte, così proclamata nella preghiera dell'antico saggio di Israele: « Tu hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire » ( Sap 16,13; Tb 13,2 ).

Condividere l'intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto « suicidio assistito » significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un'ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta.

« Non è mai lecito - scrive con sorprendente attualità sant'Agostino - uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l'anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere ».85

Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell'esistenza di chi soffre, l'eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante « perversione » di essa: la vera « compassione », infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza.

E tanto più perverso appare il gesto dell'eutanasia se viene compiuto da coloro che - come i parenti - dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti - come i medici -, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.

La scelta dell'eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l'ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso.

Si raggiunge poi il colmo dell'arbitrio e dell'ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire.

Si ripropone così la tentazione dell'Eden: diventare come Dio « conoscendo il bene e il male » ( Gen 3,5 ).

Ma Dio solo ha il potere di far morire e di far vivere: « Sono io che do la morte e faccio vivere » ( Dt 32,39; 2 Re 5,7; 1 Sam 2,6 ).

Egli attua il suo potere sempre e solo secondo un disegno di sapienza e di amore.

Quando l'uomo usurpa tale potere, soggiogato da una logica di stoltezza e di egoismo, inevitabilmente lo usa per l'ingiustizia e per la morte.

Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.

67 Ben diversa, invece, è la via dell'amore e della vera pietà, che la nostra comune umanità impone e che la fede in Cristo Redentore, morto e risorto, illumina con nuove ragioni.

La domanda che sgorga dal cuore dell'uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova.

È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno.

Come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, « in faccia alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo » per l'uomo; e tuttavia « l'istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l'idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona.

Il germe dell'eternità che porta in sé, irriducibile com'è alla sola materia, insorge contro la morte ».86

Questa naturale ripugnanza per la morte e questa germinale speranza di immortalità sono illuminate e portate a compimento dalla fede cristiana, che promette e offre la partecipazione alla vittoria del Cristo Risorto: è la vittoria di Colui che, mediante la sua morte redentrice, ha liberato l'uomo dalla morte, « salario del peccato » ( Rm 6,23 ), e gli ha donato lo Spirito, pegno di risurrezione e di vita ( Rm 8,11 ).

La certezza dell'immortalità futura e la speranza nella risurrezione promessa proiettano una luce nuova sul mistero del soffrire e del morire e infondono nel credente una forza straordinaria per affidarsi al disegno di Dio.

L'apostolo Paolo ha espresso questa novità nei termini di un'appartenenza totale al Signore che abbraccia qualsiasi condizione umana: « Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore » ( Rm 14,7-8 ).

Morire per il Signore significa vivere la propria morte come atto supremo di obbedienza al Padre ( Fil 2,8 ), accettando di incontrarla nell'« ora » voluta e scelta da lui ( Gv 13,1 ), che solo può dire quando il cammino terreno è compiuto.

Vivere per il Signore significa anche riconoscere che la sofferenza, pur restando in se stessa un male e una prova, può sempre diventare sorgente di bene.

Lo diventa se viene vissuta per amore e con amore, nella partecipazione, per dono gratuito di Dio e per libera scelta personale, alla sofferenza stessa di Cristo crocifisso.

In tal modo, chi vive la sua sofferenza nel Signore viene più pienamente conformato a lui ( Fil 3,10; 1 Pt 2,21 ) e intimamente associato alla sua opera redentrice a favore della Chiesa e dell'umanità.87

È questa l'esperienza dell'Apostolo, che anche ogni persona che soffre è chiamata a rivivere: « Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa » ( Col 1,24 ).

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76 Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. sull'eutanasia Iura et bona, II ( 5 maggio 1980 )
77 Ibid., IV
78 Ibid.
79 Discorso ad un gruppo internazionale di medici, III ( 24 febbraio 1957 ): AAS 49 ( 1957 ), 147;
Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. sull'eutanasia Iura et bona, III
80 Pio XII, Discorso ad un gruppo internazionale di medici, III ( 24 febbraio 1957 ): AAS 49 ( 1957 ), 145
81 Pio XII, Discorso ad un gruppo internazionale di medici ( 24 febbraio 1957 ): AAS 49 ( 1957 ), 129-147;
Congregazione Del Sant'Uffizio, Decretum de directa insontium occisione ( 2 dicembre 1940 ): AAS 32 ( 1940 ), 553-554;
Paolo VI, Messaggio alla televisione francese: "Ogni vita è sacra" ( 27 gennaio 1971 ): Insegnamenti IX ( 1971 ), 57-58;
Discorso all'International College of Surgeons ( 1 giugno 1972 ): AAS 64 ( 1972 ), 432-436;
Gaudium et spes 27
82 Lumen gentium 25
83 S. Agostino, De civitate Dei I, 20;
S. Tommaso D'Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 6, a. 5
84 Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. sull'eutanasia Iura et bona, I ( 5 maggio 1980 );
Cat. Chiesa Cat. 2281-2283
85 Epistula 204, 5
86 Gaudium et spes 18
87 Giovanni Paolo II, Salvifici doloris 14-24