Sermoni sul Cantico dei Cantici Bernardo di Chiaravalle Sermone I I. Il Cantico, terzo pane dopo l’Ecclesiastico e le Parabole. 1. A voi, fratelli, si devono dire cose diverse da quelle che si dicono agli altri ( comuni cristiani ), o per lo meno in modo diverso. A quelli, infatti, chi, nell’insegnamento segue il metodo dell’Apostolo, porge latte, e non cibo solido. Che poi agli uomini spirituali debbano somministrarsi cose più solide, lo indica ancora san Paolo con il suo esempio, dove dice: « Parliamo, non con parole dotte secondo l’umana sapienza, ma con un linguaggio suggerito dallo spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali ». E altrove: « Parliamo di sapienza tra i perfetti », e ho fiducia che voi siate tali, a meno che invano vi siate a lungo occupati nello studio delle cose celesti, invano abbiate lavorato a purificare i vostri sensi, meditando giorno e notte la legge del Signore. Pertanto, preparate la vostra bocca non al latte, ma al pane. E secondo Salomone è pane, il libro intitolato Cantico dei cantici, un pane splendido e saporito: venga servito, se vi piace, e sia spezzato per voi. 2. Dalle parole, infatti, dell’Ecclesiaste siete stati già istruiti, se non erro, a conoscere e disprezzare, con la grazia di Dio, le vanità di questo mondo. E che cosa dire delle Parabole? Non sono forse la vostra vita e i vostri costumi sufficientemente emendati e informati secondo la dottrina che esse contengono? Ora dunque, dopo aver gustato questi due pani che avete ricevuto in prestito dalla madia dell’amico, accostatevi a questo terzo pane, che troverete migliore. Due, infatti, sono i mali che da soli o massimamente militano contro l’anima: l’amore delle vanità del mondo, e l’amore smodato di se stesso. Quei due libri offrono un rimedio a questa duplice peste: il primo troncando con il falcetto della disciplina tutti i superflui germogli della mala concupiscenza; l’altro scoprendo sagacemente con il lume della ragione in ogni gloria mondana il trucco ( fuco ) della vanità, e distinguendolo chiaramente dalla solida verità. Infine, a tutti gli umani studi e mondani desideri insegna a preferire il timore di Dio e l’osservanza dei suoi comandamenti. E giustamente. Poiché quello è veramente l’inizio della sapienza, l’altra ne è la consumazione, se veramente ci consta essere vera e consumata sapienza l’allontanarsi dal male senza il timore di Dio, né esservi affatto opera buona fuori dell’osservanza dei comandamenti. 3. Cacciati dunque i due mali con la lettura dei due libri ( sopra citati ), si è pronti ad accostarsi a questo sacro mistico sermone, che, essendo frutto di entrambi, non deve essere presentato se non a menti e orecchie pure. II. Chi può gustare la santa lettura Diversamente sarebbe un’indegna presunzione accingersi a questa lettura prima di aver domato la carne con un tirocinio ascetico e averla assoggettata allo spirito, prima di aver disprezzato e rigettato la pompa è la corruzione del secolo. A quel modo infatti che la luce splende invano davanti agli occhi ciechi o chiusi, così l’uomo carnale non percepisce le cose dello Spirito di Dio. Lo Spirito Santo, infatti, che insegna, rifugge dalla finzione, e tale è la vita incontinente; e neppure avrà mai parte con la vanità del mondo, essendo Spirito di verità. E che c’è di comune tra la sapienza che viene dall’alto e la sapienza del mondo, che è stoltezza presso Dio, o la sapienza della carne che è anch’essa nemica di Dio? Ma penso che quell’amico che ci è capitato in casa da un viaggio, non avrà da mormorare contro di noi quando si ciberà di questo terzo pane. 4. Ma chi lo spezzerà? C’è il padre di famiglia: riconoscete il Signore nell’atto di spezzare il pane. Chi altro ne sarebbe capace? Io, certamente, non sarei tanto temerario da arrogarmi tale compito. Guardate a me per non aspettare da me. Poiché anch’io sono uno di quelli che aspettano mendicando con voi il cibo per l’anima mia, il nutrimento dello spirito. In realtà, povero e bisognoso, busso alla porta di colui che apre, e nessuno chiude, ( per chiedere lume ) sul profondissimo mistero di questo scritto. Gli occhi di tutti sperano in Te, o Signore. I pargoli hanno chiesto pane: non c’è chi loro lo spezzi; lo chiediamo alla tua benignità. O piissimo, spezza agli affamati il tuo pane, spezzalo con le mie mani, se ti degni, ma con le tue forze. III. L’inizio del Cantico dei Cantici 5. Spiegaci, di grazia, da chi, di chi e a chi viene detto: Mi baci con i baci della sua bocca ( Ct 1,1 ). E che cosa vuol dire l’entrare così repentino e di colpo nel discorso. Prorompe infatti in quelle parole, come se la persona, chiunque sia, che implora il bacio rispondesse a un altro che aveva parlato prima. E poi, se chiede di essere baciata da non so chi, lo esige, perché specifica: con la bocca, e con la bocca sua, di lui, come se quelli che si baciano presentino qualche altra cosa e non la bocca, o una bocca altrui e non piuttosto la propria? Ma non dice neppure: mi baci con la sua bocca, ma insinua qualche cosa di più: Mi baci, dice, con il bacio della sua bocca. Dolce discorso questo che comincia con un bacio, e allettante la forma di questa Scrittura che colpisce e invita alla lettura, sicché diventa piacevole investigare, anche se con fatica, mentre la soavità del discorso non lascia sentire l’eventuale difficoltà della ricerca. E veramente, chi non sarebbe reso attento da questo inizio senza inizio e dalla novità dell’espressione nel libro antico? Di qui si vede come questo non sia frutto di umano ingegno, ma composto dall’arte dello Spirito in modo tale che, sebbene difficile a capirsi, ne sia dilettevole l’investigazione. IV. Titolo del libro e varietà di cantici nella Scrittura 6. Ma che? Tralasciamo il titolo? Non dobbiamo trascurare neppure un iota, dal momento che ci viene comandato di raccogliere le briciole di frammenti, perché non vadano perduti. Il titolo è questo: Cominciano i Cantici dei cantici di Salomone. Osserva in primo luogo il nome di Salomone che significa Pacifico. Esso si adatta bene all’inizio del libro, che comincia con il segno di pace, cioè dal bacio. E avverti con ciò che all’intelligenza di questa scrittura sono invitate solo le menti pacifiche che riescono a rendersi superiori alle perturbazioni dei vizi e al tumulto delle umane faccende. 7. Inoltre, non pensare che a caso il titolo porti, non semplicemente « Cantici », ma Cantico dei cantici. Ho letto infatti molti cantici nelle Scritture, e non mi sovviene che alcuno di essi sia stato chiamato così. Cantò Israele un canto al Signore dopo che era sfuggito alla spada e insieme al giogo del Faraone, nel medesimo tempo liberato e vendicato dal Mar Rosso. Il suo, però, non è stato detto Cantico dei cantici, ma dice la Scrittura, se ben ricordo: Cantò Israele questo carme al Signore ( Es 15,1 ). Cantò anche Debora, cantò Giuditta, cantò pure la madre di Samuele e anche alcuni Profeti hanno cantato; e non si legge che alcuno di essi abbia chiamato il suo Cantico dei cantici. In verità, se non erro, troverai che tutti hanno composto un cantico in occasione di un beneficio ricevuto: per esempio, per una vittoria ottenuta, per uno scampato pericolo o per aver ottenuto una qualsiasi cosa desiderata. Così dunque parecchi hanno cantato, ognuno per i suoi motivi particolari, per non essere trovati ingrati ai benefici divini, secondo quel detto del salmo: Ti darò gloria quando lo avrai beneficato ( Sal 49,19 ). Invece Salomone, dotato di singolare sapienza, ornato di sublime gloria, ricchissimo di beni d’ogni specie, che godeva di una sicura pace, non sembra avesse bisogno di alcuna cosa, per aver ottenuto la quale fosse spinto a comporre questo cantico. Né in questo si trova allusione a cosa di questo genere. 8. Pertanto, divinamente ispirato, intese cantare le lodi di Cristo e della Chiesa, e la grazia dell’amore sacro, e i sacramenti dell’eterno connubio; e volle insieme esprimere il desiderio dell’anima santa, e compose, esultando nello spirito, con gioconde, ma figurate espressioni, un carme nuziale. Difatti, velava anch’egli, come Mosè la sua faccia, non meno forse in questa parte splendente, perché in quel tempo nessuno o rari erano coloro che potessero contemplare questa gloria a faccia scoperta. Penso dunque che questo carme nuziale, a motivo della sua eccellenza, sia stato, esso solo, chiamato Cantico dei cantici, a quel modo che colui al quale viene cantato, è detto singolarmente Re dei re, e Dominatore dei dominatori ( 1 Tm 6,15 ). V. Cantici di quanti si convertono a Dio 9. Del resto, se voi considerate la vostra esperienza personale, non avete anche voi cantato un cantico nuovo al Signore che opera meraviglie, nella vittoria con cui la vostra fede ha vinto il mondo, e nella vostra uscita dalla fossa della miseria e dal fango del pantano? E ancora, allorché il Signore si è degnato di stabilire sulla roccia i vostri piedi e dirigere i vostri passi, penso che anche allora, a motivo del beneficio della nuova vita concessavi, sia risuonato sulla vostra bocca un canto nuovo, un carme al nostro Dio. Il quale, a voi penitenti, non solo ha rimesso i peccati, ma ha promesso il premio; e allora molto di più, pieni di gaudio, per la speranza dei beni futuri, avete cantato le vie del Signore, perché grande è la gloria del Signore. E se talvolta un passo della Scrittura che fino ad allora a qualcuno era chiuso o oscuro, d’un tratto è divenuto chiaro, allora si è reso necessario che per il ricevuto alimento del pane celeste salisse gradito alle orecchie di Dio dalle anime rifocillate il canto dell’esultanza e della lode. Ma anche nei quotidiani esercizi e nelle lotte che non mancano di provenirci in ogni ora dalla carne, dal mondo, dal demonio, poiché, come sperimentate continuamente in voi stessi, la vita dell’uomo sulla terra è una milizia, ogni giorno dovete innalzare nuovi canti per le riportate vittorie. Ogni qual volta viene superata una tentazione o soggiogato un vizio, o evitato un imminente pericolo, o si scopre un laccio che il nemico tende, o una qualsiasi annosa e inveterata passione viene una buona volta perfettamente guarita, o una virtù molto e lungamente desiderata e spesso implorata, finalmente, con la grazia di Dio viene ottenuta, non risuona, forse, come dice il Profeta, l’azione di grazie e la voce di lode, e a ogni beneficio si benedice Dio nei suoi doni? Diversamente sarà giudicato come ingrato chi nel finale rendiconto non potrà dire a Dio: Sono canti per me i tuoi precetti nel luogo del mio pellegrinaggio ( Sal 119,54 ). 10. Penso che voi già riconoscete in voi stessi quelli che nel Salterio sono chiamati « Salmi graduali », per il fatto che ogni volta che realizzate un progresso, secondo i propositi che ognuno ha concepito nel suo cuore, sentite il bisogno di cantare la lode e la gloria di chi opera in voi. Non vedo come possa, adempiersi quell’altro versetto: Voce di esultanza e di salvezza nelle tende dei giusti ( Sal 118,15 ); o quella bellissima e saluberrima esortazione dell’Apostolo: Cantate e salmeggiate a Dio nei vostri cuori con salmi, inni e cantici spirituali ( Ef 5,19 ). VI. Un singolare cantico nuziale 11. Ma vi è un cantico che sorpassa per la sua singolare dignità e soavità tutti quelli di cui abbiamo parlato e quanti altri vi potessero essere: e meritamente questo chiameremo « Cantico dei cantici », perché esso è frutto di tutti gli altri. Questo cantico solo l’unzione ( dello Spirito ) lo insegna, solo s’impara con l’esperienza. Lo riconoscano quelli che hanno fatto questa esperienza; chi non ha questa esperienza arda dal desiderio, non, tanto di conoscerlo, quanto di sperimentarlo. Non consiste in un suono che esce dalla bocca, ma in un giubilo del cuore; non espressione delle labbra, ma tripudio di gioia intima, non armonia di voci, ma di volontà. Non si sente di fuori, non risuona in pubblico: sola lo sente colei che lo canta e colui al quale è cantato, cioè lo Sposo e la sposa. È infatti un carme nuziale, che esprime i casti e giocondi amplessi degli animi, la concordia dei costumi e la mutua carità degli affetti. 12. Del resto, non è in grado di cantare tale cantico o di udirlo l’anima ancora puerile e neofita, di recente convertita dal secolo, ma conviene a una mente già provetta ed erudita, la quale cioè, mediante il progresso nella virtù, è già talmente cresciuta con l’aiuto di Dio, da raggiungere l’età perfetta e in un certo modo nubile, fatta idonea alle nozze con il celeste Sposo, quale, insomma, più dettagliatamente si descriverà a suo luogo. Tale età provetta viene calcolata in base ai meriti, non agli anni. Ma il tempo passa, e la povertà e la regola ci comandano di uscire al lavoro manuale. Domani, nel nome del Signore continueremo quel che avevamo cominciato a dire del bacio perché il discorso di oggi sul titolo ci ha fatto deviare dall’argomento iniziato. Sermone II I. Primo bacio: il desiderio con cui i padri sospiravano il Cristo 1. Molto spesso, pensando all’ardente desiderio dei padri che sospiravano la presenza di Cristo nella carne, mi compungo e mi confondo in me stesso. E ora stento a trattenere le lacrime, tanto ho vergogna della tiepidezza e del torpore di questi miserevoli tempi. Chi di noi prova tanto gaudio per il tempo di grazia in cui ci è dato di vivere quanto è stato il loro desiderio acceso dalla promessa di questo dono? Ecco, pensate un po’ quanti godranno in occasione del Natale che tra poco celebreremo. Ma magari godessero per la natività del Salvatore! Dunque, queste parole: Mi baci con il bacio della sua bocca ( Ct 1,1 ) esprimono per me l’ardente desiderio e l’affetto della pia attesa di quegli antichi giusti. Presentivano infatti nel loro spirito tutti quelli che allora potevano essere spirituali quanta sarebbe stata la grazia diffusa sulle sue labbra. Per questo, esprimendo il profondo desiderio dell’anima, ognuno di essi diceva: Mi baci con il bacio della sua bocca, bramando con tutto il cuore di non venire escluso dal partecipare a tanta dolcezza. 2. Diceva infatti ogni perfetto: Non mi bastano le belle parole dei Profeti … Egli piuttosto, il più bello tra i figli dell’uomo, mi baci con il bacio della sua bocca. Non mi interessa più Mosè: egli è divenuto per me impacciato nel parlare. Le labbra di Isaia sono immonde, Geremia non sa parlare, perché è un bambino, e tutti i Profeti sono senza eloquenza. Parli Colui stesso di cui essi parlano, egli mi baci con il bacio della sua bocca. Non mi parli ormai più in essi e per essi, perché il loro linguaggio è come acqua oscura e nube tenebrosa; ma egli stesso mi baci con il bacio della sua bocca, egli, la cui graziosa presenza è la ammirabile dottrina che scorre dalla sua bocca diventi in me fonte di acqua che sale alla vita eterna. Non mi verrà infusa più abbondante grazia se Colui che il Padre unse con l’olio di esultanza a preferenza dei suoi compagni, egli stesso si degnerà di baciarmi con il bacio della sua bocca? La sua parola viva ed efficace è davvero un bacio per me, non una congiunzione delle labbra, che talora è una bugiarda espressione di pace degli animi, ma vera infusione di gaudio, rivelazione di segreti, una certa e in qualche modo indiscreta mescolanza del lume supremo e della mente illuminata. Aderendo infatti a Dio, l’anima forma con lui un solo spirito. Giustamente perciò ricuso i sogni e le visioni, non voglio figure ed enigmi, non apprezzo neppure le apparizioni degli angeli. Perché il mio Gesù li supera di molto per la sua bellezza e il suo splendore. Non altri dunque, sia angelo, sia domo, ma lui prego di baciarmi con il baciò della sua bocca. II. Secondo bacio: unico e singolare il bacio dell’uomo Cristo Gesù In verità non presumo di venire baciato dalla bocca di lui: è questa unica felicità e singolare prerogativa dell’umanità assunta; ma più umilmente chiedo di essere baciato con il bacio della sua bocca, la quale cosa è comune a molti, che possono dire: Anche noi tutti abbiamo ricevuto dalla sua pienezza ( Gv 1,16 ). 3. Comprendete. La bocca che bacia è, per noi, il Verbo che assume la natura umana; quella che riceve il bacio è la carne che viene assunta; il bacio poi che risulta da chi bacia e da chi è baciato è la persona stessa che riunisce in sé l’uno e l’altra, il Mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù. Per questa ragione nessuno, dei Santi aveva la presunzione di dire: « Mi baci con la sua bocca », ma soltanto: con il bacio della sua bocca; riservando quella prerogativa all’umanità di Cristo a cui singolarmente e una volta per sempre la bocca del Verbo si impresse quando le si unì corporalmente tutta la pienezza della Divinità. Felice bacio e stupenda e ammirabile degnazione in cui, non una bocca si imprime a un’altra bocca, ma Dio si unisce all’uomo. E mentre nel bacio umano la congiunzione delle labbra significa l’unione degli animi, qui l’unione delle due, nature associa l’umano al divino, pacificando le cose della terra con quelle del cielo. Egli infatti è la nostra pace che fa di entrambe una cosa sola ( Ef 2,14 ). A questo santo bacio, pertanto, erano rivolti i sospiri dei santi del tempo antico, i quali riponevano in esso la loro giocondità e la loro esultanza e presentivano essere in lui nascosti i tesori tutti della sapienza e della scienza, e bramavano di ricevere anch’essi dalla pienezza di lui. 4. Sento che vi piace quello che sto dicendo; ma sentite anche un altro senso. III. Terzo bacio: il mistero di Cristo rivelato agli antichi Non fu ignorato dai santi dell’Antico Testamento che Dio, anche prima della venuta del Salvatore nutriva a riguardo del genere umano pensieri di pace. Infatti non faceva nulla sulla terra che non lo rivelasse ai suoi servi, i Profeti. Questa parola, tuttavia, era cosa nascosta per molti. Poiché in quel tempo era rara la fede sulla terra, e molto tenue la speranza, anche in parecchi di coloro che aspettavano la redenzione di Israele. Quelli poi che prevedevano la venuta di Cristo nella carne, la annunciavano insieme con la pace che essa avrebbe portato. Perciò diceva uno di loro: E vi sarà pace nella nostra terra quando verrà ( Mi 5,5 ). Anzi, annunciavano con ferma fiducia che per Lui gli uomini avrebbero ricuperato la grazia di Dio, come era stato loro rivelato. Questo riconobbe adempiuto ai suoi tempi il precursore del Signore, Giovanni, e ne rese testimonianza: La grazia e la verità ci sono venute per Gesù Cristo ( Gv 1,17); e che questo sia vero lo sperimenta oggi tutto il popolo cristiano. 5. Del resto, mentre essi preannunciavano la pace, e tardando a venire l’autore della pace, tentennava la fede del popolo, mancando chi redimesse e salvasse. Pertanto si lagnavano gli uomini per il ritardo, perché colui che tante volte era stato annunziato come Principe della pace non venisse ancora, come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo, sospiravano il segno della promessa riconciliazione, che è il bacio, come se agli annunziatori della pace uno qualsiasi del popolo rispondesse: « Fino, a quando ci terrete sospesi? Da tempo predicate la pace, e la pace non viene; promettete i beni, ed ecco i guai. Ecco, già molte volte e in molte maniere gli angeli lo hanno annunziato ai padri, e i nostri padri lo hanno annunziato a noi dicendo: Pace, e non c’è pace ( Ger 6,14 ). Se Dio mi vuole persuadere del benevolo disegno della sua volontà che tanto sovente mi ha promesso attraverso i suoi portavoce, ma non ha ancora mostrato, mi baci con il bacio della sua bocca, e così, con questo segno di pace mi faccia sicuro che ormai la pace c’è. Come infatti credere alle parole? Bisogna che esse siano confermate dai fatti. Dia prove Iddio della veridicità dei suoi profeti, se pure hanno parlato in nome suo, e venga egli stesso dietro di loro, come spesso ha promesso, perché senza di lui non possono fare nulla. Ha mandato il servo, ha preso il suo bastone, ma non c’era ancora né voce, né vita. Non sorgo, non risuscito, non mi scuoto dalla polvere, non respiro nella speranza, se non viene il profeta stesso e mi baci col bacio della sua bocca. 6. Qui bisogna considerare che colui che si presenta come mediatore presso Dio è il Figlio di Dio, è Dio stesso. E che cosa è l’uomo perché si manifesti a lui, o il figlio dell’uomo perché venga da lui considerato? Quale fiducia in me, perché io osi affidarmi a tanta maestà? Come posso, dico, io terra e cenere, presumere che Dio abbia cura di me? Egli, inoltre, ama suo Padre, ma di me non ha bisogno, non gli occorrono i miei beni. Di dove dunque mi risulterà che egli non sia nei miei riguardi un mediatore parziale? Ma se è vero, come dite, che Dio ha decretato di usare misericordia, e nutre ancora pensieri di compiacenza per me, stabilisca il testamento di pace, e faccia con me un patto sempiterno nel bacio della sua bocca. Per non rendere vane le parole della sua bocca, si annichilisca, umili se stesso, si chini e mi baci con il bacio della sua bocca. Affinché il mediatore non sia sospetto a nessuna delle parti, come conviene, il Figlio di Dio e Dio egli stesso si faccia uomo, si faccia figlio dell’uomo, e me ne dia la certezza con il bacio della sua bocca. Ricevo sicuro come mediatore di Dio il Figlio suo, che riconosco anche come mediatore mio. Ormai non mi sarà più affatto sospetto: è infatti mio fratello e mia carne. Penso che non potrà disprezzarmi, lui che ormai è osso delle mie ossa e carne della mia carne. 7. Così dunque l’antica inimicizia esigeva il bacio sacrosanto, vale a dire, il mistero dell’incarnazione del Verbo, dal momento che cominciava a venir meno la fede, stanca per la lunga e faticosa aspettativa, e il popolo infedele, vinto dal tedio, mormorava contro le promesse di Dio. Non è un’invenzione mia, anche voi ritrovate questo leggendo la Scrittura. Questo significavano quelle lamentevoli voci piene di mormorazione: Ordina, riordina, aspetta e riaspetta: un poco qui, un poco qui ( Is 28,10). Di qui quelle suppliche piene di ansietà: ricompensa, Signore, coloro che sperano in Te, affinché i tuoi profeti siano trovati veritieri ( Sir 36,18 ); e ancora: Adempi le profezie fatte nel tuo nome ( Sir 36,17 ). Di qui quelle dolci e consolanti promesse: Ecco apparirà il Signore e non mentirà; se tarda a venire aspettalo, perché verrà e non tarderà ( Ab 2,3 ). E ancora: Prossimo è il tempo della sua venuta; ancora: Vicino a venire è il suo tempo e i suoi giorni non sono remoti ( Is 14,1 ), e nella persona del promesso: Ecco io faccio scorrere verso di voi come un fiume la pace, e come un torrente in piena la ricchezza dei popoli ( Is 66,12 ). Da queste parole appare chiaramente sia l’istanza di coloro che a nome di Dio predicevano, sia la diffidenza dei popoli. E così la gente mormorava, e la fede tentennava e, secondo il vaticinio di Isaia gli annunciatori della pace amaramente piangevano ( Is 33,7 ). Perché dunque tutto il genere umano, tardando a venire Cristo, non perisse per la disperazione, nel sospetto che l’inferma mortalità venisse tenuta in dispregio, e diffidasse ormai della grazia della sua riconciliazione con Dio, tante volte promessa, i santi, che erano certi dello spirito, bramavano la certezza che doveva venire dalla presenza della carne, e per i pusillanimi e gli increduli sollecitavano istantissimamente il segno del ristabilimento della pace. 8. O radice di Jesse, che stai come segno dei popoli, quanti re e profeti ti hanno voluto vedere e non ti videro! IV. Quarto bacio: la presenza di Cristo rivelata nella carne. Il segno di Achaz Ma felice tra tutti Simeone, che nella sua vecchiaia vide la grande misericordia! Egli invero bramava di vedere il segno tanto desiderato: lo vide, e ne fu pieno di gaudio; e, avendo ricevuto il bacio di pace, fu lasciato andare in pace, profetando tuttavia prima apertamente che Gesù era nato come segno a cui si sarebbe contraddetto … E fu così davvero. Fu segno di contraddizione, ma da parte di coloro che odiano la pace: poiché pace è per gli uomini di buona volontà, ai malvagi è pietra di scandalo e di inciampo; Erode ( dice il Vangelo ), si turbò, e tutta Gerusalemme insieme con lui: in realtà Egli venne tra la sua gente, ma i suoi non lo ricevettero ( Gv 1,11 ). Felici quei pastori che vegliavano e che furono giudicati degni di vedere questo segno. Già allora ( Gesù ) si nascondeva ai sapienti e ai prudenti, e si manifestava ai piccoli. Anche Erode volle vederlo, ma non lo meritò, perché la sua volontà non era buona. Infatti, il segno della pace veniva dato solo agli uomini di buona volontà; a Erode, invece, e ai suoi pari non sarà dato se non il segno del profeta Giona. E poi l’angelo soggiunge ai pastori: Questo sarà per voi il segno ( Lc 2,12), per voi umili, per voi obbedienti, per voi che non pretendete di saperla lunga, per voi che vigilate e meditate giorno e notte nella legge del Signore, per voi questo sarà il segno. Quale? Quello che gli angeli promettevano, quello che i popoli cercavano, quello che i profeti avevano predetto, questo ha fatto ora il Signore Gesù, e lo ha mostrato a voi. In questo segno ricevano la fede gli increduli, la speranza i pusillanimi, i perfetti la sicurezza. Questo dunque per voi il segno. Segno di che cosa? Di indulgenza, di grazia, di pace, e di una pace che non avrà fine. Questo dunque il segno: Troverete un bambino avvolto in fasce e posto in una mangiatoia ( Lc 2,12 ). Ma in quel bambino c’è Dio che riconcilia a sé il mondo. Morirà per i vostri peccati e risorgerà per la vostra santificazione, affinché, giustificati mediante la fede, siate in pace con Dio. Questo segno di pace era quello che il profeta proponeva al re Achaz di chiedere al Signore Dio suo, sia al di sopra nel cielo, sia nel profondo degli inferi. Ma l’empio re ricusò, non credendo, il misero, che in questo segno si sarebbero associate nella pace le cose infime alle superne, in quanto gli inferi avrebbero ricevuto anch’essi il segno di pace, salutati nel bacio santo allorché il Signore sarebbe disceso da loro, mentre gli spiriti superni avrebbero partecipato al medesimo, al ritorno di Cristo nel cielo. 9. Il discorso deve finire; per riassumere brevemente quanto abbiamo detto, appare chiaro che questo santo bacio è stato dato necessariamente al mondo per due ragioni: per sostenere la fede dei deboli, e soddisfare al desiderio dei perfetti; pertanto, questo bacio altro non è che il mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna Dio per tutti i secoli dei secoli. Sermone III I. Il primo bacio, dato ai piedi 1. Oggi leggiamo nel libro dell’esperienza. Entrate in voi stessi, e ognuno di voi esamini la sua coscienza sulle cose che stiamo per dire. Vorrei sapere se a qualcuno di voi, come si crede, sia dato di dire: Mi baci con il bacio della sua bocca ( Ct 1,1 ). Infatti, non uno qualsiasi può sinceramente dire questo, ma colui solo che almeno una volta ha ricevuto questo bacio spirituale dalla bocca di Cristo, questi sollecita e ripete volentieri questa sua esperienza. Io penso che nessuno possa sapere che cosa sia questo bacio se non colui che lo riceve. È infatti una manna nascosta, e solo chi ne mangia ne avrà ancora fame. È una fonte sigillata, a cui non comunica un estraneo; ma solamente chi ne beve ne avrà ancora sete. Senti uno che è esperto, come ricerca: Rendimi, dice, la gioia della tua salvezza ( Sal 51,14 ). Non pretenda questo un’anima carica, come la mia, di peccati, ancora soggetta alla passione della sua carne, che non sente ancora la soavità dello spirito, ancora ignara e del tutto inesperta dei gaudi interiori. 2. A una tal anima tuttavia io indico un posto conveniente per la sua salvezza. Non si accosti temerariamente alla bocca del serenissimo Sposo, ma si prostri con me con timore ai piedi del severissimo Signore, e con il pubblicano, non al cielo, ma alla terra, volga tremebonda gli occhi, onde evitare che la sua faccia, abituata alle tenebre, confusa tra i luminari dei cieli e abbagliata da insoliti splendori, sia oppressa dalla gloria e venga nuovamente avvolta dalla caligine di tenebre dense. Non ti sembri, o anima che ti trovi in questa condizione, chiunque tu sia, vile e dispregevole quel posto, dove la santa peccatrice depose i suoi peccati e si rivestì della santità. Ivi l’Etiope mutò la pelle e restituita a nuovo candore, rispondeva ormai con fiducia e con verità a coloro che la rimproveravano: Sono scura, ma bella, figlie di Gerusalemme. ( Ct 1,4 ). Ti stupisci pensando con quale arte e con quali mezzi abbia potuto ottenere questo? Ecco in poche parole: pianse amaramente, e traendo dal profondo del cuore profondi sospiri, scossi da salutari singulti, vomitò il fiele interno. Il celeste Medico subito venne in soccorso, perché velocemente corre la sua parola ( Sal 147,15 ). Non è forse una medicina la parola di Dio? Certamente, e forte e potente, tale che scruta i cuori e le reni. E infine la Parola di Dio è viva, efficace, e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore ( Eb 4,12 ). Sull’esempio dunque di questa beata penitente, prostrati anche tu, o misera, e cesserai di essere misera: prostrati anche tu per terra, abbraccia i piedi ( di Gesù ), placalo con baci, bagnali con lacrime, con le quali non laverai lui, ma te stessa, e sarai come una del gregge delle pecore tosate che ascendono dal bagno, in modo che tu non ardisca levare lo sguardo soffuso di vergogna e di dolore prima di aver udito anche tu: Ti sono rimessi i tuoi peccati ( Lc 7,48 ), e Sorgi, sorgi, prigioniera figlia di Sion, alzati e scuoti da te la polvere ( Is 52,1-2 ). II. Il secondo, alle mani 3. Dopo, pertanto, il primo bacio ai piedi, non presumere ancora di alzarti al bacio della bocca. Ma ti farà come da gradino per salire a quello un altro bacio, che riceverai in secondo luogo. E sentine adesso la ragione. Se Gesù mi avrà detto: Ti sono rimessi i tuoi peccati, che mi gioverà se io non cesserò di peccare? Mi sono tolto la tunica; se me la rimetto che progresso ho fatto? Se di nuovo sporcherò i miei piedi che avevo lavato, che mi gioverà averli lavati? Lordo di ogni genere di vizi, sono stato immerso a lungo nel fango della palude; ma senza dubbio sarà peggio il ricadervi che l’esservi giaciuto. In ultimo, colui che mi ha reso sano, ricordo che mi ha detto: Ecco, sei stato fatto sano, va e non peccare più, perché non ti succeda qualche cosa di peggio ( Gv 5,14). Ma è necessario che colui che ha dato la volontà di convertirsi, aggiunga anche la virtù della perseveranza nel bene, perché non torni a fare le cose di cui mi sono pentito, e la nuova condizione diventi peggiore della prima. Guai a me, anche quando sono pentito, se subito toglierà da me la sua mano colui senza del quale io non posso far nulla. Nulla, dico, neppure pentirmi ed evitare il male. Ascolto pertanto ciò che mi consiglia il Sapiente: Nell’orazione, dice, non usare molte parole ( Sir 7,15 ). Mi spaventa anche la minaccia che il Giudice fa alla pianta che non fa frutti buoni. Lo confesso, per tutte queste cose non sono del tutto contento della prima grazia per cui mi sono pentito dei miei peccati, se non ne riceverò una seconda, che faccia cioè degni frutti di penitenza, e d’ora in poi non torni più al vomito. 4. Dunque, prima di presumere cose più alte e sante, devo prima chiedere e ottenere questo. Non voglio diventare sommo troppo in fretta: voglio progredire poco alla volta. Quanto dispiace a Dio l’impudenza del peccatore, altrettanto gli è grata la verecondia del penitente. Lo placherai più presto, se starai nei tuoi limiti, e non cercherai cose più alte di te. È un lungo e ardito salto dai piedi alla bocca, e neanche conveniente. E che? Di fresco ancora sporco di polvere, ti accosterai alla sacra bocca? Ieri tratto dal fango, oggi ti presenti al volto della gloria? Passa prima per la mano. Essa prima ti purifichi, essa ti sollevi. Come ti solleverà? Dandoti quelle cose per cui tu ardisca aspirare a tanto; e queste cose sono l’ornamento della continenza, e degni frutti di penitenza, che sono opere della pietà. Queste ti innalzeranno dall’immondizia ( sterco ) e ti daranno la speranza di udire cose più sublimi. E ricevendo il dono, bacia la mano, vale a dire, non a te, ma al suo nome dà gloria. Fallo, e rifallo ancora, sia per i peccati perdonati, sia per le virtù elargite. E così mettiti al sicuro da questo rimprovero: Che cosa hai che tu non abbia ricevuto? E se hai ricevuto, perché ti glorii come se non avessi ricevuto? ( 1 Cor 4,7 ). III. Il terzo, della bocca 5. Ormai finalmente hai nei due baci una doppia esperienza della divina degnazione, e non sarà forse più per te presunzione aspirare a cose più sante. Quanto più, infatti, cresci in grazia, tanto più ti dilati per la fiducia. E così avviene che tu ami con più ardore, e bussi con più fiducia per chiedere quello che senti che ti manca ancora. Ora, a chi bussa viene aperto ( Lc 11,10 ). Ormai quel supremo bacio di somma degnazione e di meravigliosa soavità, credo che non sarà più negato a un’anima cosi disposta. Questa è la via, questo l’ordine. Prima di tutto ci prostriamo ai piedi e versiamo lacrime, davanti a Dio che ci ha fatti, per i nostri trascorsi. In secondo luogo cerchiamo la mano che ci sollevi e che dia forza alle nostre ginocchia infiacchite. In ultimo, dopo aver ottenuto questo con molte preghiere e lacrime, avremo forse l’ardire di alzare il capo alla stessa bocca della gloria, avidi e tremanti, dico, non solo per contemplarla, ma per baciarla; poiché lo Spirito Cristo Signore è davanti alla nostra faccia ( Lam 4,20 ), e aderendo a lui nel bacio santo, per sua degnazione formeremo con lui un solo spirito. 6. A Te, o Signore Gesù, a Te giustamente ha detto il mio cuore: Ha cercato te il mio volto, il tuo volto, o Signore, io cercherò ( Sal 27,8 ). Veramente al mattino mi hai fatto udire la tua misericordia, allorché a me che giacevo prima nella polvere e baciavo i tuoi venerabili piedi, hai rimesso i peccati della mia vita. E poi in seguito hai rallegrato l’anima del tuo servo allorché nel bacio della mano mi hai concesso la grazia di praticare il bene. E ora, che rimane, o Signore buono, se non che, ormai nella pienezza della luce, nel fervore dello spirito, ammettendomi anche al bacio della bocca con tua grande degnazione, tu mi dia la gioia piena della tua presenza? Indicami, o soavissimo, o serenissimo, indicami dove tu pascoli, dove riposi nel meriggio ( Ct 1,6 ). Fratelli, è buono per noi stare qui, ma ecco che ci viene a distogliere la malizia del giorno. Quelli infatti che, ci si dice, sono arrivati, ci costringono a interrompere, più che a finire un grato discorso. Io andrò a ricevere gli ospiti, perché nulla manchi ai doveri di quella carità di cui parliamo, perché non ci tocchi sentirci dire: Dicono infatti e non fanno ( Mt 23,3 ). Voi nel frattempo pregate perché il Signore gradisca le offerte delle mie labbra, per la vostra stessa edificazione e per la lode e gloria del suo nome. Sermone IV I. Che cosa significa il bacio dato ai piedi 1. Nel sermone di ieri si è trattato di un certo triplice progresso sotto il nome dei tre baci. Vi ricordate? Nel discorso di oggi continuerò quell’argomento, con le parole che il Signore, nella sua dolcezza, si degnerà di mettere sulla bocca a me poverello. Abbiamo detto, se ben vi ricordate, che quei baci si ricevono ai piedi, alla mano e alla bocca, e abbiamo parlato di quanto riguarda ognuno di essi. Il primo, riassumendo, si riferisce agli inizi della nostra conversione, il secondo viene concesso ai proficienti, il terzo viene sperimentato solo, e raramente, dai perfetti. Da questo ultimo solo prende inizio questa Scrittura che abbiamo preso a trattare. Gli altri due li abbiamo aggiunti noi, se con giusta ragione lo giudicherete voi. Penso, infatti, che la stessa forma del discorso ci inviti chiaramente a farlo. Mi meraviglierei se anche voi non avvertiste che ci dev’essere altro, cioè altri baci dai quali volle distinguere quello della bocca colei che disse: Mi baci con il baciò della sua bocca ( Ct 1,1 ). Difatti, perché, mentre bastava dire: Mi baci, fuori dell’usanza e del modo comune di parlare, distintamente e di proposito aggiunge: Con il bacio della sua bocca, se non per mostrare che quello stesso bacio che chiedeva era il sommo, non il solo? Non usiamo forse noi dire: « Baciami », ovvero: « Dammi un bacio »? E nessuno è solito aggiungere: « con la tua bocca », o « con il bacio della tua bocca ». E quando ci disponiamo a baciarci scambievolmente, non accostiamo forse la bocca l’uno a quella dell’altro, senza bisogno di nominarla? Per esempio, l’evangelista che racconta il bacio con cui fu tradito il Signore, dice: E lo baciò; e non aggiunge: « con la sua bocca », ovvero: « con il bacio della sua bocca ». Così si usa quando si scrive o si parla. Sono pertanto questi tre affetti o gradi delle anime abbastanza noti a coloro che li hanno sperimentati, sia che ottengano il perdono dei loro falli, sia che ricevano la grazia di esercitarsi nelle buone opere, sia che venga loro dato, per quanto è possibile in questo fragile corpo, di contemplare la presenza di colui che li ha perdonati e beneficati. 2. Ora vi spiego più chiaramente la ragione per cui ho parlato del primo e del secondo bacio. Sappiamo tutti che il bacio è un segno di pace. Se dunque, come dice la Scrittura, i nostri peccati mettono una divisione tra noi e Dio ( Is 59,2 ), una volta tolto l’ostacolo che c’è di mezzo, c’è la pace. Quando dunque facciamo penitenza affinché, tolto il peccato che ci separa da Dio, siamo riconciliati con lui, il perdono che noi riceviamo io lo chiamerei un bacio di pace. E questo va ricevuto ai piedi e non altrove, perché vereconda dev’essere la soddisfazione con cui si emenda un peccato di superbia. II. Che cosa quello dato alle mani 3. Quando poi, per vivere con maggiore purezza e meno indegnamente rivolgerci a Dio, ci viene elargita una certa familiarità, frutto di una grazia più grande, allora finalmente leviamo il capo dalla polvere per baciare, come si usa, la mano del nostro benefattore, se tuttavia non cerchiamo la nostra gloria, a causa del dono ricevuto, ma quella di colui che ce lo ha dato, e a lui riferiamo i suoi doni, non a noi. Diversamente, se ti glorii in te stesso e non piuttosto nel Signore, dai prova di baciare la tua mano, e non quella del Signore, e questo, secondo la sentenza del beato Giobbe, è massima iniquità, e negazione di Dio. Se dunque, secondo la Scrittura, cercare la propria gloria è baciare la propria mano, chi dà gloria a Dio non a torto è stimato baciare la mano del Signore. Vediamo che si usa così anche tra gli uomini; infatti i servi sogliono baciare i piedi dei padroni offesi, quando chiedono loro perdono, e i poveri baciano le mani dei ricchi quando da essi ricevono qualche dono. III. Dio ha piedi, mani, bocca, « per effetto », non per natura; Dio è l’essere di tutte le cose 4. Tuttavia, poiché Dio è spirito ( Gv 4,24 ) e la sua semplice sostanza non è divisa in membra corporee, vi sarà forse qualcuno che non accetti quanto abbiamo detto, e mi chieda di dimostrargli l’esistenza della mano e dei piedi di Dio, e così provargli quanto ho detto del bacio dei piedi e della mano. Ma che cosa risponderebbe questo obiettore se io gli chiedessi a mia volta di provarmi l’esistenza della bocca di Dio, dato che ciò che la Scrittura dice del bacio della bocca lo riferisce chiaramente a Dio? Dunque, o Dio ha questa e quelli, o è privo di quelli e di questa. Ma Dio ha la bocca con cui insegna agli uomini la scienza, e la mano che dà il cibo a ogni vivente, ed ha i piedi ai quali fa da sgabello la terra, ai quali si prostrano i peccatori della terra, convertiti e umiliati per chiedere perdono. Tutte queste cose le possiede Dio per effetto, non per natura. Trova pertanto in Dio sia la vereconda confessione dove prostrarsi umiliata, sia la pronta devozione dove fortificarsi rinnovandosi, e la gioconda contemplazione dove riposare rapita. È tutto a tutti colui che tutto elargisce, ma non è nulla di tutte queste cose in senso proprio. Poiché per quello che è in sé, Egli abita una luce inaccessibile; e la sua pace supera ogni intendimento, e la sua sapienza non ha confini, e la sua grandezza non ha limiti ( 1 Tm 6,16; Fil 4,7 ), né può un uomo vederlo e vivere. Non che sia lontano da ciascuno egli che dà a tutti l’essere, senza del quale tutte le cose sono nulla, ma, ciò che è più meraviglioso, nulla è più di lui presente, e nulla più incomprensibile. Che cosa infatti è più presente a ognuno che il suo essere? E tuttavia, che cosa è più incomprensibile a ognuno che l’essere di tutti? Direi pertanto che Dio è l’essere di tutte le cose, non perché esse sono ciò che Egli è, ma perché da Lui e per Lui e in Lui sono tutte le cose ( Rm 11,36 ). L’essere dunque di tutte le cose che furono fatte è il loro fattore, non materiale, ma causale. E in tale modo poi si degna quella maestà di essere l’essere di tutte le sue creature, dando a tutte l’essere, agli animali la vita, ai dotati di ragione facendosi luce, per chi ne usa rettamente virtù, per chi vince gloria. 5. Nel creare tutte queste cose, nel governarle, amministrarne, muoverle, promuoverle, rinnovarle, stabilirle, non ha bisogno di alcun materiale strumento, egli che con una sola parola ha creato i corpi e gli spiriti. Le anime hanno bisogno dei corpi e dei sensi corporei per conoscersi a vicenda e operare. Non così l’Onnipotente, il quale con un solo atto di volontà può celermente, sia creare le cose, sia ordinarie come gli piace. Egli può agire nei riguardi di chi vuole, quanto vuole, senza l’aiuto di membra corporee. Perché pensi che per scrutare le cose che Egli stesso ha fatto debba servirsi dei sensi corporei? Egli è luce presente in ogni luogo, a cui nulla affatto sfugge di tutte le cose, senza bisogno dell’apporto dei sensi per conoscere alcunché. Né solo senza corpo conosce tutte le cose, ma senza corpo si fa conoscere ai mondi di cuore. Ho insistito su questo a lungo, perché fosse ben chiaro. Ma forse è meglio, dato che la ristrettezza dell’ora non consente di terminare l’argomento, che lo rimandiamo a domani. Sermone V I. I quattro generi di spiriti. Lo spirito dell’essere vivente irrazionale, umano e angelico hanno bisogno del corpo 1. Vi sono quattro generi di spiriti; voi li conoscete; dell’animale non ragionevole, il nostro, l’angelico, e lo Spirito dal quale questi sono stati creati. Tutti questi hanno bisogno di un corpo, sia per sé, sia per gli altri, sia per l’uno e l’altro, sia di un corpo vero, sia di un corpo apparente, eccetto tuttavia, quello Spirito al quale ogni creatura, corporale o spirituale giustamente confessa dicendo: Dio mio sei tu. Tu non hai bisogno dei miei beni ( Sal 16,2 ). Per quanto riguarda lo spirito dell’animale irrazionale, gli è talmente necessario il corpo, che senza di esso non può assolutamente sussistere. Quando infatti muore la bestia, il suo spirito cessa simultaneamente e di vivificarla, e di esistere. Noi invece viviamo sì dopo la morte del corpo, ma non possiamo innalzarci o accostarci a quelle cose per cui ci si rende partecipi della vita beata se non mediante il corpo. Aveva compreso questo colui che diceva: Le cose invisibili di Dio si comprendono e si vedono per mezzo delle cose create ( Rm 1,20 ). Le stesse creature, infatti, cioè queste cose corporali e visibili, non vengono da noi conosciute se non tramite i sensi del nostro corpo. Ha dunque bisogno del corpo la creatura spirituale che siamo noi; senza di esso non può in alcun modo acquisire quella scienza che sola può farla salire a quelle cose la cui cognizione la rende beata. Se qui mi si fa l’obiezione dei bambini battezzati che, morendo senza scienza delle cose corporee, raggiungono tuttavia, come si crede, la vita beata, rispondo brevemente che questo viene loro conferito dalla grazia, non dalla natura. Non mi interessano i miracoli di Dio quando discuto di cose naturali. 2. Che poi anche gli spiriti celesti abbiano bisogno dei corpi, ce lo dice la vera e veramente divina sentenza: Non sono forse essi tutti, dice, spiriti incarnati di un ministero, inviati per servire coloro che devono ereditare la salvezza? ( Eb 1,14 ). E in qual modo adempiranno il loro ministero senza un corpo, tanto più che lo devono fare in favore di chi vive in un corpo? E infine, non appartiene se non ai corpi correre qua e là e passare da un luogo all’altro, come è ben noto e provato che facciano gli angeli. Difatti essi apparvero ai padri, entrarono in casa loro, mangiarono, lavarono i piedi. Così lo spirito inferiore e quello superiore hanno bisogno di corpi propri, ma solo per essere di giovamento per mezzo di essi, non per essere aiutati. 3. L’animale pertanto, creato per servire, giova nell’uso delle necessità temporali e corporali; per questo il suo spirito passa con il tempo, e viene meno con il corpo. Come servo, infatti, non resta in casa in eterno, anche se, coloro che usano bene di esso, fanno servire questo aiuto temporale per l’acquisto dei beni eterni. L’angelo invece si prende premurosa cura di esercitare, in libertà di spirito, il suo pietoso ufficio, mostrandosi ai mortali come pronto e alacre ministro dei beni futuri, considerando gli uomini, suoi concittadini per l’eternità e coeredi con lui dell’eterno gaudio. Quello pertanto perché serva, come è giusto, questi per fornire il suo amorevole aiuto, entrambi certamente hanno bisogno per questo dei loro corpi, sempre per giovare ad altri. Non vedo infatti quale utile possano ritrarne essi stessi in merito alla vita eterna. Lo spirito irrazionale, infatti, sebbene anch’esso usufruisca, tramite il corpo, dei beni corporali, forse ne ritrae giovamento a tal punto da salire dalle cose temporali e sensibili, che percepisce mediante il corpo, alle cose intelligibili e spirituali? Ma, attraverso il suo aiuto materiale e temporale contribuisce a far raggiungere queste cose a coloro che, usando di questo mondo come se non ne usassero, fanno servire ogni uso delle cose temporali all’acquisto dei beni eterni. 4. Invece lo spirito superceleste è capace di apprendere le cose più alte e penetrare le cose intime senza l’aiuto del corpo e senza l’intuito delle cose che si sentono per mezzo del corpo, soltanto con la vicinanza e la vivacità della sua natura. Questo intese l’Apostolo quando diceva: Le cose invisibili di Dio si comprendono e si vedono per mezzo delle cose che furono fatte ( Rm 1,20 ), e subito aggiungeva: dalla creatura del mondo. Giacché non è così da parte della creatura celeste. Dove infatti lo spirito rivestito di carne e abitatore della terra si sforza di pervenire come per gradi, elevandosi dalla considerazione delle cose sensibili, là l’abitatore del cielo, per la sua naturale sottigliezza e sublimità, arriva con tutta velocità e facilità, non basandosi su alcun dato del senso corporeo, senza aiuto di alcun membro corporeo, senza bisogno di venire informato dalla considerazione delle cose corporali. Per quale ragione infatti dovrebbe cercare tra i corpi i sensi spirituali, dal momento che li legge, e senza contraddizione, nel libro della vita? Perché dovrebbe faticare sudando a separare il grano dalla paglia, il vino dall’uva, l’olio dalla morchia colui che ha sotto mano di tutto e in abbondanza? Chi andrebbe a mendicare il suo pane alle case altrui, mentre nella sua c’è vitto in abbondanza? Chi si metterebbe a scavare un pozzo, cercando con fatica le vene dell’acqua nelle viscere della terra, mentre una fonte viva, gli offre da sé in abbondanza acque limpide? Dunque, né il bruto, né lo spirito angelico, sono aiutati dal loro corpo per raggiungere quelle cose che fanno beata la spirituale creatura: il bruto, perché, privo d’intelletto, non capisce, il secondo invece perché, a causa della prerogativa di una più eccelsa gloria, non ne ha bisogno. 5. Lo spirito dell’uomo poi, che tiene il posto tra il supremo e l’infimo, ha bisogno, come si sa, del corpo, senza del quale non può giovare, né a sé, né agli altri. Infatti, per non parlare delle altre membra e dei diversi loro uffici, come potresti istruire chi ti ascolta senza la lingua, o sentire, senza orecchie, colui che ti istruisce? 6. Pertanto, poiché senza il contributo del corpo, né lo spirito del bruto può compiere il servizio dovuto per la sua condizione, né la spirituale e celeste creatura adempiere il ministero di pietà, né l’anima razionale è capace di provvedere alla salvezza, sia nei riguardi del prossimo, sia per se stessa, risulta chiaramente che ogni spirito creato, sia per giovare, sia per giovarsi e per giovare, ha assolutamente bisogno dell’aiuto del corpo. E che dire di certi animali che, in quanto al loro uso, sembrano scomodi e non adatti ad alcun uso per le umane necessità? Sono pertanto utili a chi li vede, anche se non servono ad alcun uso, più utili ai cuori di chi li guarda che non ai corpi di chi potesse servirsene. Anche se nocivi, anche se consta che sono perniciosi alla salute temporale degli uomini, non lasciano tuttavia di cooperare al bene di coloro che secondo il disegno di Dio sono stati chiamati santi, e, pur non servendo di alimento, né prestando alcun aiuto, sono oggetto di studio e di riflessione, secondo il principio sempre a portata di mano di chi usa bene della ragione, cioè che le cose create fanno conoscere le perfezioni invisibili di Dio. Perfino il diavolo e i suoi satelliti, sempre malignamente intenzionati, sono bensì bramosi di nuocere, ma non possono farlo a coloro che operano il bene, come dice la Scrittura: Chi vi potrà nuocere se gareggerete nel fare il bene? ( 1 Pt 3,13 ). Invece i diavoli, anche contro voglia, giovano ai buoni, e cooperano al loro bene. II. Problema del corpo degli angeli 7. Non voglio poi che pretendiate che io vi dica se gli angeli abbiano per natura dei corpi angelici propri, e siano animali come gli uomini: questi corpi poi li mutino e cambino nella forma e apparenza che vogliono, quando vogliono apparire, condensandoli e solidificandoli a piacimento, mentre, a motivo della loro vera natura e sostanza sottile sono impalpabili e sfuggono ai nostri sguardi; oppure, consistendo essi in una sostanza spirituale semplice, assumano, quando occorre, dei corpi e, nuovamente, compiuta la loro missione, li depongano, lasciando che si dissolvano nella materia dalla quale sono stati tratti. Sembra che i Padri abbiano avuto pareri diversi su questa questione, e non vedo chiaro quale delle due sentenze tenere. Confesso di non saperlo. Ma penso che per il vostro profitto spirituale non sia molto importante il sapere queste cose. 8. Sappiate tuttavia questo, che nessuno degli spiriti creati può di per sé congiungersi con le nostre menti in modo tale che, senza servirsi del nostro o del loro corpo, possa mescolarsi o infondersi in noi e renderci, con la partecipazione di sé, dotti o più dotti, buoni o migliori. Nessun angelo o nessun’anima può operare questo in me, a nessuno di loro posso farlo io. E neppure gli angeli possono farlo tra di loro. III. Solo lo Spirito che è Dio non ha bisogno del corpo né per sé né per gli altri Sia pertanto questa prerogativa riservata al sommo e incircoscritto Spirito, il quale, solo, quando insegna la scienza all’angelo e all’uomo, non cerca lo strumento del nostro orecchio ( per essere uditi ), come egli non ha bisogno ( per esprimersi ) di una bocca. Per sé viene infuso, per sé viene conosciuto, puro viene compreso dai puri. Egli solo non ha bisogno di nessuno, bastando da solo per sé e per tutti con la sola onnipotente volontà. 9. Egli opera tuttavia cose immense e innumerevoli tramite la creatura, sia corporale che spirituale a lui soggetta, ma come uno che comanda, non che chiede un servizio. Ecco, per esempio, adesso si serve della mia lingua corporale per compiere il suo lavoro, vale a dire, per insegnare a voi ciò che egli stesso potrebbe certamente fare più facilmente e più soavemente, il che non è indigenza, ma indulgenza da parte sua. Infatti, nel provvedere al vostro profitto, egli cerca il mio merito, non un sollievo per sé. Così deve pensare ogni uomo che opera il bene, perché non gli succeda di gloriarsi in se stesso per i beni del Signore, e non nel Signore solo. Tuttavia c’è chi opera il bene contro voglia, sia l’uomo malvagio, sia l’angelo cattivo, e sappiamo che non viene fatto per lui ciò che è fatto da lui, dato che nessun bene può giovare a chi non lo vuole. A lui pertanto ne è affidata la dispensazione, ma non so come sentiamo più gradito e giocondo il bene che ci viene procurato attraverso un individuo cattivo. Questa è dunque la causa per cui Dio fa del bene ai buoni per mezzo dei cattivi, non perché, nel fare il bene, Egli abbia bisogno del loro concorso. 10. Quanto poi a quelli che sono privi di ragione o di sensi, è chiaro che Dio ha molto meno bisogno di essi. Ma quando anch’essi concorrono in un’opera buona, appare chiaro che essi servono a colui che a buon diritto dice: Mia è tutta la terra ( Sal 50,12 ). O anche perché egli sa la convenienza con cui le cose si devono fare, nel servirsi delle creature corporee, non cerca tanto l’efficacia quanto la congruenza. È vero poi che nelle operazioni divine spesso rendono opportuno servizio i corpi, come, per esempio, le piogge per fare germogliare le sementi, moltiplicare le biade, maturare i frutti; ma, dico, che cosa serve avere un corpo proprio a colui al cui cenno obbediscono tutti i corpi, sia celesti che terrestri? Sarebbe per lui superfluo avere un corpo suo, dal momento che nessun corpo gli è estraneo. Ma se volessimo trattare in questo sermone tutte le cose che ci sarebbero da dire a questo riguardo, il sermone oltrepasserebbe i limiti, e forse le forze di qualcuno; perciò, quello che resta ci riserviamo di esporlo all’inizio del prossimo ( sermone ). Sermone VI I. Tutto Dio opera con il solo cenno della sua volontà. Raffronto fra le opere della Maestà e della redenzione 1. Perché questo sermone si ricolleghi con quello precedente, vi ricordo quanto abbiamo detto, che cioè solamente il sommo e incircoscritto Spirito, per tutte le cose che vuol fare e vuole che siano fatte, non ha bisogno di alcun corpo, sia come strumento, sia come aiuto. Attribuiamo dunque con sicurezza a Dio solo, come l’immortalità, così anche l’incorporeità: Egli solo infatti tra tutti gli spiriti, trascende ogni natura corporea, talmente che non ha bisogno di qualsiasi corpo in qualsivoglia operazione, bastandogli, quando vuole agire o compiere qualsivoglia opera, un solo cenno spirituale. Solo, pertanto, non ha bisogno dell’aiuto di uno strumento corporeo né per sé, né per altri, quella Maestà al cui onnipotente arbitrio è continuamente a disposizione ogni opera, davanti alla quale ogni altezza si curva, ogni cosa avversa cede, ogni cosa creata si mostra favorevole. Insegna o ammonisce senza lingua, offre o tiene senza mani, senza piedi corre e soccorre quelli che stanno per cadere ( perire ). 2. Dio agiva così anche con i padri dei primi secoli; sperimentavano gli uomini i suoi solleciti benefici. Egli appariva da un’estremità all’altra con fortezza, ma disponendo tutto con soavità, non veniva avvertito dagli uomini. E godevano dei beni del Signore, e non conoscevano il Signore della potenza per il fatto che giudicava tutto con mitezza. Erano da lui, ma non con lui; da lui avevano la vita, ma non vivevano per lui; da lui avevano la sapienza, ma non avevano il gusto di lui, quasi stranieri, ingrati, insensati. Di qui derivò che non attribuissero al loro Autore la loro esistenza, la loro vita, la loro sapienza, ma alla natura, ovvero, più insipientemente, alla fortuna; molti poi ascrivevano molte cose alla loro industria e alla propria virtù. Quante cose si usurpavano gli spiriti seduttori, quante cose attribuite al sole e alla luna, quante alla terra e alle acque, e quante ancora opere fatte e forgiate dalle mani dei mortali. Erbe, arbusti, e minutissimi e vilissimi semi venivano onorati come dei. 3. Ahimè! così gli uomini buttarono la loro gloria e la scambiarono con l’immagine di un vitello che mangia fieno! Dio, avendo pietà dei loro errori, degnandosi di uscire dal monte ombroso e fitto, pose nel sole la sua tenda. Offrì carne a chi non sapeva gustare che la carne, affinché imparassero a gustare anche lo spirito. Poiché, mentre nella carne e per mezzo della carne compie opere non della carne, ma di Dio, comandando alla natura e superando la condizione ( delle creature ), rendendo stolta la sapienza degli uomini e debellando la tirannide dei demoni, chiaramente dimostra di essere colui per il quale le medesime cose venivano fatte anche prima, quando venivano fatte. Nella carne, dico, e per mezzo della carne con potenza e palesemente operò cose meravigliose, pronunciò parole salutari, patì cose indegne, e mostrò all’evidenza che è lui che, con potenza, ma invisibilmente, creò il mondo, che lo regge con sapienza, e lo protegge con benignità. Infine, mentre annunzia il vangelo agli ingrati, fa miracoli davanti agli increduli, prega per i suoi crocifissori, non dimostra chiaramente di essere il medesimo che con il Padre suo ogni giorno fa nascere il sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere per i giusti e gli ingiusti? E questo è quello che egli stesso diceva: Se non faccio le opere del Padre mio, non credetemi ( Gv 10,37 ). 4. Ecco, apre la bocca nella sua carne istruendo sul monte i discepoli colui che nel silenzio istruisce gli angeli in cielo. Ecco, al contatto della sua mano viene curata la lebbra, guarita la cecità, ridonato l’udito, la lingua muta si discioglie, il discepolo che sta per essere sommerso dalle onde viene sollevato, e in lui che opera tutte queste cose viene chiaramente riconosciuto colui del quale Davide, molto tempo prima, aveva detto: Tu apri la tua mano e sazi di cibo ogni vivente ( Sal 145,16 ); e ancora: Apri la tua mano e tutti sono ricolmi di beni ( Sal 104,28 ). Ecco la peccatrice pentita, prostrata ai suoi piedi corporali, si sente dire: Ti sono rimessi i tuoi peccati ( Lc 7,48 ); e riconosce colui dei quale molto tempo innanzi era stato scritto: Uscirà il diavolo davanti ai suoi piedi ( Ab 3,5 ). Dove infatti il peccato viene perdonato, ivi, senza dubbio, il diavolo viene espulso dal cuore del peccatore. Perciò è detto in generale di tutti i penitenti: Ora viene il giudizio del mondo, ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori ( Gv 12,31 ); in quanto, cioè, Dio rimette il peccato a chi umilmente lo confessa, e il demonio perde il principato che esercitava sul cuore dell’uomo. 5. Infine, camminava con i piedi carnali sulle onde del mare colui del quale, non ancora rivestito di umana carne, il salmista aveva cantato: Nel mare la tua via, e i tuoi sentieri nelle molte acque ( Sal 77,20 ); che vuol dire: Tu conculchi i cuori gonfi dei superbi, e comprimi i desideri fluttuanti degli uomini carnali, giustificando gli empi e umiliando i superbi. Questo tuttavia, siccome si compie invisibilmente, non viene percepito dall’uomo carnale da chi venga operato. Perciò segue: E le tue orme rimasero invisibili ( Sal 77,20 ). Di qui ancora il Padre al Figlio: Siedi, dice, alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi ( Sal 110,1 ), vale a dire, fino a che tutti coloro che ti disprezzano io li sottometta alla tua volontà, sia che lo facciano di buon grado, e siano beati, sia loro malgrado, e siano infelici. Pertanto, poiché la carne non percepiva questa operazione dello spirito,( l’animale infatti non percepisce le cose dello spirito di Dio ) ( 1 Cor 2,14 ) fu necessario che, prostrata ai piedi corporei, e baciando con le labbra corporali quegli stessi piedi, la peccatrice ottenesse il perdono dei peccati, e cosi quella mutazione operata dalla destra dell’Altissimo per la quale mirabilmente, ma invisibilmente viene giustificato l’empio, fosse manifesta anche agli uomini carnali. II. Che cosa stanno a indicare i due piedi di Dio 6. Ma non devo tralasciare quei piedi spirituali di Dio, che in primo luogo il penitente deve baciare spiritualmente. Conosco la vostra curiosità, per la quale desiderate che, per quanto dipende da voi, nulla passi senza che venga scrutato. D’altronde non è cosa da disprezzare il sapere con quali piedi spesso la Scrittura dice che Dio ora sta, come quando dice: Adoreremo nel luogo dove stettero i suoi piedi ( Sal 132,7 ), ora cammina, come nella frase: E abiterò in essi, e camminerò tra di loro ( Es 25,8 ), ovvero anche corre, come è scritto: Esultò come un gigante che percorre la via ( Sal 19,6 ). Se rettamente all’Apostolo è sembrato che il capo di Cristo si riferisca alla divinità, penso che noi, non senza ragione, possiamo pensare che i piedi esprimano l’umanità, e li chiameremo misericordia l’uno, e l’altro giustizia. Voi conoscete questi due vocaboli, e in parecchi passi della Scrittura vengono nominati insieme, come sapete. Perché poi Dio abbia assunto nella carne a cui si è unito il piede della misericordia, lo spiega l’epistola agli Ebrei, dove dice che Cristo fu tentato in tutto come noi, eccetto il peccato, al fine di essere misericordioso. E l’altro piede che abbiamo chiamato giudizio? Non lo dice appartenere anch’esso all’uomo assunto, lo stesso uomo Dio, dove dice apertamente che gli è stata data dal Padre la potestà di fare il giudizio perché è Figlio dell’uomo? 7. Con questi due piedi che si muovono con armonia sotto l’unico capo della divinità, nato dalla donna, fatto sotto la legge, l’invisibile Emmanuele apparve sulla terra e abitò fra gli uomini. Con questi certamente anche ora passa, beneficando e sanando tutti gli oppressi dal diavolo, ma spiritualmente, ma invisibilmente. Con questi piedi, dico, percorre le menti devote, continuamente rischiarando e scrutando i cuori e le reni dei fedeli. Vedi se per caso non siano questi quelle gambe che la sposa loda così magnificamente in seguito, paragonandole, se non erro, a colonne marmoree, fondate su basi d’oro. Molto a proposito ( questo paragone ), perché nell’incarnata sapienza di Dio, che è designata dall’oro, la misericordia e la verità si sono venute incontro. E infine tutte le vie del Signore sono misericordia e verità ( Sal 25,10 ). III. I doni di grazia che si ricevono da questi due piedi 8. Felice la mente sulla quale il Signore ha poggiato una volta entrambi questi piedi! Da due segni potete conoscere una tale anima, che ne porta necessariamente impresse in sé le divine vestigia. Esse sono il timore e la speranza, il primo presenta l’immagine del giudizio, la seconda della misericordia. Giustamente Dio si compiace in coloro che lo temono, e in coloro che sperano nella sua misericordia ( Sal 147,11 ), essendo il timore inizio della sapienza, la speranza un progresso; poiché la perfezione è riservata alla carità. Stando così le cose, non piccolo frutto c’è in questo primo bacio che si riceve ai piedi. Solamente non trascurare questo, e non sarai privato di nessuno degli altri due. Se, pertanto, con il dolore del peccato e il timore del giudizio ti mantieni in sentimenti di compunzione, hai impresso le labbra al piede della verità e del giudizio. Che se temperi il timore e il dolore con la speranza di ottenere il perdono, in vista della divina bontà, sappi che hai abbracciato anche il piede della misericordia. Diversamente non conviene baciare un piede sì e uno no, perché il ricordo del solo giudizio fa precipitare nel baratro della disperazione, e la fallace adulazione della misericordia genera una pessima sicurezza. 9. È stato concesso anche a me, misero, di sedere talvolta presso i piedi del Signore Gesù, e di abbracciare con tutta devozione or questo or quello, secondo che la sua benignità si degnava di concedermi. Ma se talvolta, dimentico della misericordia, stimolato dalla coscienza, mi trattenevo un po’ troppo sul giudizio, subito, abbattuto da incredibile paura e da profonda confusione, sprofondato in un tenebroso orrore, non facevo che gridare gemendo dal profondo: Chi conosce l’impeto della tua ira, e il tuo sdegno con il timore a te dovuto? ( Sal 90,11 ). Che se, lasciato quello, mi capitava di tenermi troppo stretto al piede della misericordia venivo preso al contrario da tanta trascuratezza e negligenza che subito l’orazione diventava più tiepida, più pigra l’azione, più pronto il riso, più incauto il discorso, in una parola, tutto lo stato dell’uomo interiore ed esteriore risultava più incostante. Perciò, edotto dall’esperienza che è maestra, canterò ormai a te, o Signore, non il solo giudizio, o la sola misericordia, ma insieme la misericordia e il giudizio. In eterno non dimenticherò i tuoi precetti: saranno oggetto del mio canto entrambi nel luogo del mio pellegrinaggio, fino a che, prevalendo la misericordia sul giudizio, taccia la miseria, e sola ormai canti a te la mia gloria, essendo passato il tempo della compunzione. Sermone VII I. Le due mani di Dio 1. Spronando voi spontaneamente a chiedere, io procuro a me stesso un non indifferente lavoro. Avendo cercato, in occasione del primo bacio, di spiegarvi, e in un modo prolisso, il significato e i nomi dei piedi spirituali di Dio, voi continuate a chiedermi di parlare della mano, che, in secondo luogo siamo invitati a baciare. Accetto, faccio come volete, e per di più vi mostro non la mano, ma le mani, e le distinguo con nomi appropriati. Chiameremo una di esse larghezza, l’altra fortezza, perché dona con abbondanza, e difende con potenza quello che ha donato. Bacerà l’una e l’altra chi non vuol essere ingrato, riconoscendo e confessando Dio come largitore e conservatore. II. Lo sposo e la sposa, cioè il Verbo e l’anima Penso che si è detto abbastanza dei due ( primi ) baci. Ora parliamo del terzo. 2. Mi baci, dice, con il bacio della sua bocca ( Ct 1,1 ). Chi è che lo dice? La sposa. Chi è costei? L’anima che ha sete di Dio. Ma enumero diversi affetti, affinché risalti più chiaramente quello che conviene alla sposa. Se si tratta di uno schiavo, questi teme alla presenza del padrone; se è un mercenario, spera dalla mano del suo signore; se un discepolo, tende l’orecchio al maestro; se un figlio, onora suo padre: colei che chiede, invece, il bacio, ama. Tra i doni della natura eccelle questo sentimento dell’amore, specialmente allorché si riferisce al suo principio, che è Dio. Né si trovano nomi così dolci con cui si esprimano i vicendevoli affetti del Verbo e dell’anima, come quelli di sposo e di sposa. Tra di essi infatti tutte le cose sono comuni, non avendo nulla di proprio, nulla a sé estraneo. Un’unica eredità per entrambi, un’unica mensa, unica casa, unico letto, una sola carne. Infine, per questa ( sposa ) lascerà quegli ( lo sposo ) il padre e la madre, e si unirà alla sua sposa, e saranno due in una sola carne. A questa ( la sposa ) viene tuttavia ordinato di dimenticare il proprio popolo e la casa di suo padre perché lo sposo s’innamori della sua bellezza. Se dunque agli sposi conviene specialmente e principalmente di amare, giustamente viene chiamata sposa l’anima che ama. E ama colei che chiede un bacio. Non chiede la libertà, non la mercede, non l’eredità, e nemmeno la dottrina, ma un bacio, a guisa di castissima sposa accesa da sacro amore, che non sa affatto dissimulare la fiamma che la divora. Vedi infatti con quale arditezza inizi il discorso. Per chiedere a un grande una grande cosa, non fa uso, come si usa, di vane blandizie, non cerca di ottenere con varie arti quello che desidera. Non fa un’introduzione, non cerca di cattivarsi la benevolenza, ma prorompendo improvvisamente per l’abbondanza del cuore, chiaramente e arditamente dice: Mi baci con il bacio della sua bocca. 3. Non ti sembra dire quasi apertamente: Che cosa ho io in cielo e da te che cosa desidero sulla terra? ( Sal 73,25 ). III. L’amore casto, santo e ardente della sposa. La presenza degli angeli durante le preghiere e la recita dei salmi Ama pertanto castamente colei che cerca colui che ama, non le cose di lui. Ama santamente, perché non nella concupiscenza della carne, ma nella purità dello spirito. Ama ardentemente colei che è cosi inebriata dal suo amore, che non pensa alla maestà ( dell’amato ). E che? questi guarda la terra e la fa tremare ( Sal 104,32 ), e costei chiede di essere baciata da lui? È forse ubriaca? Davvero ubriaca per bene. E forse allora, quando prorompeva in queste parole, stava uscendo dalla cella vinaria, dove si gloria in seguito di essere stata introdotta. Anche Davide diceva di qualcuno: Saranno inebriati dall’abbondanza della tua casa, e li disseterai al torrente delle tue delizie ( Sal 36,9 ). Oh quanto grande la forza dell’amore! Quanta fiducia nello spirito di libertà! Quale prova più chiara che la perfetta carità scaccia via il timore? 4. Con verecondia, però, non rivolge il discorso allo sposo stesso, ma ad altri, come se egli fosse assente. Mi baci, dice, con il bacio della sua bocca. Si chiede infatti una grande cosa, ed è necessario che la verecondia accompagni la preghiera e raccomandi colei che chiede. Per questo, per mezzo degli amici e degli intimi viene cercato l’accesso alle cose intime, e si prepara la via a quanto è desiderato. Chi sono questi intimi? Crediamo che siano gli angeli santi che assistono quelli che pregano, offrono a Dio le preghiere e i desideri degli uomini, là dove vedono elevarsi ( a Dio ) mani pure, senza collera e discussione. Ne è prova l’angelo che così parla a Tobia: Allorché pregavi con lacrime, e seppellivi i morti, lasciando il pranzo, e nascondevi i morti in casa durante il giorno per seppellirli di notte, io offrii la tua orazione al Signore( Tb 12,12-13 ). Penso che siate persuasi di questo, anche da altri passi della Sacra Scrittura. Che, per esempio, i santi angeli si degnino di unirsi a coloro che salmeggiano, appare manifesto da quello che dice il salmista: Precedettero i principi uniti a quelli che cantavano salmi, in mezzo alle fanciulle che battevano cembali ( Sal 68,26 ). Perciò diceva: Ti canterò alla presenza degli angeli ( Sal 138,1 ). IV. Esortazione alla devozione nella recita dei salmi Mi fa pena perciò che alcuni di voi, durante le vigilie, siano oppressi da grave sonno, né abbiano rispetto per i cittadini del cielo, ma in presenza dei principi appariscano come morti, mentre, mossi dalla vostra alacrità, essi si compiacciono di partecipare alle vostre solennità. Temo che qualche volta, disgustati della nostra negligenza, se ne vadano indignati, e ognuno di noi troppo tardi sia costretto a dire con gemiti a Dio: Hai mandato lontano da me i miei compagni, mi hai reso per loro un orrore ( Sal 88,9 ); e quelle altre parole: Hai allontanato da me amici e conoscenti ( Sal 88,19 ); e ancora: I miei amici si scostavano da me e mi tendevano lacci quelli che cercavano la mia rovina ( Sal 38,12-13 ). Certamente, infatti, se si allontanano da noi gli spiriti buoni, chi potrà sostenere l’assalto degli spiriti maligni? Dico dunque a questi tali: Maledetto colui che compie l’opus Dei con negligenza ( Ger 47,10 ). Dice anche, non io, ma il Signore: Ti avessi piuttosto trovato, caldo o freddo! Ma poiché ti ho trovato tiepido, comincerò a vomitarti dalla mia bocca ( Ap 3,15-16 ). Per questo, badate ai vostri principi quando state pregando o salmeggiando, e state con riverenza e compostezza, e gloriatevi perché i vostri angeli ogni giorno vedono la faccia del Padre. Essi vengono mandati come ministri per noi che possediamo l’eredità della salvezza, portano in cielo la nostra devozione e ce ne riportano la grazia. Imitiamone l’ufficio noi ai quali è dato di averli compagni, onde nella bocca dei bambini e dei lattanti si compia la lode. Diciamo loro: Cantate al nostro Dio, cantate ( Sal 47,7 ); e sentiamoli a nostra volta risponderci: Cantate al nostro Re, cantate ( Sal 47,7 ). 5. Innalzando dunque a Dio la lode insieme con i celesti cantori, cantate sapientemente, essendo anche voi concittadini dei santi e familiari di Dio. Il cibo si gusta con la bocca, il salmo con il cuore. L’anima fedele e prudente non trascuri di masticarlo con i denti della sua intelligenza, perché non succeda che, inghiottendolo intero, e non bene masticato, il palato non senta il desiderato sapore, che è più dolce di un favo di miele. Offriamo al Signore con gli Apostoli nel celeste convito e nella mensa del Signore, un favo di miele. Il miele nella cera è la devozione nella lettera. Altrimenti la lettera uccide, se la mandi giù senza il condimento dello spirito. Ma se, con l’Apostolo, salmeggi con lo spirito, salmeggi con la mente, conoscerai anche tu come siano vere quelle parole che disse Gesù: Le parole che ho detto a voi sono spirito e vita ( Gv 6,64 ); e così pure leggiamo nel libro della Sapienza: Il mio spirito è più dolce che il miele ( Sir 24,27 ). 6. Così si diletterà nell’abbondanza l’anima tua, così il tuo olocausto sarà gradito. Così placherai il Re, così piacerai ai principi, così ti renderai benevola tutta la curia celeste, e, sentendo il tuo profumo, gli abitatori del cielo diranno anche di te: Chi è costei che ascende dal deserto come una colonnina di fumo che si sprigiona dalla mirra e dall’incenso e da tutti i profumi? ( Ct 3,6 ). V. Le qualità di coloro che desiderano salmodiare in ispirito I principi di Giuda, dice, i loro capi, i principi di Zabulon, i principi di Neftali ( Sal 68,28 ), vale a dire, coloro che lodano, quelli che sono continenti, quelli che contemplano. Sanno infatti i nostri principi che al loro Re piace la confessione di coloro che lodano, la fortezza dei continenti, la purezza dei contemplanti; ed esigono con sollecitudine da noi queste primizie dello spirito, che poi non sono altro che i primi e purissimi frutti della sapienza. Voi infatti non ignorate che Giuda si interpreta uno che loda o confessa, Zabulon abitacolo della fortezza, Neftali cervo lanciato, il quale, nella sua agilità, esprime con i suoi salti le altezze della sua speculazione e la sua capacità di penetrare le fitte foreste, quali sono quelle dei sensi. Sappiamo poi chi è che ha detto: Il sacrificio di lode mi onorerà ( Sal 50,23 ). 7. Ma se non è bella la lode nella bocca del peccatore ( Sir 15,9 ), voi comprendete che vi è sommamente necessaria la virtù della continenza, per la quale fate in modo che non regni il peccato nel vostro corpo mortale. Tuttavia, la continenza che cerca la gloria umana, non ha merito presso Dio. Per questo è massimamente necessario che vi sia la purità d’intenzione, per la quale la vostra mente cerchi di piacere a Dio solo, e possa aderire a Lui. Aderire a Dio, infatti, non è altro che vedere Dio, la qual cosa viene concessa ai soli puri di cuore, ed è per loro sorgente di somma felicità. Aveva un cuore mondo Davide, il quale diceva a Dio: A te si stringe l’anima mia ( Sal 63,9 ); e ancora: Il mio bene è stare vicino a Dio ( Sal 73,28 ). Vedendo aderiva, e aderendo vedeva. A un’anima pertanto esercitata in queste cose, i nunzi celesti si mostrano familiari, specialmente se la trovano di frequente applicata nell’orazione. Chi mi darà, o benigni principi, che le mie petizioni siano per il vostro ministero rese note presso Dio? Non a Dio, al quale anche la mente dell’uomo si rivolge per pregarlo, ma presso Dio, vale a dire, a quelli stessi che sono con Dio, sia le beate Virtù, sia le anime separate dai corpi. Chi solleverà me poverello dalla terra e dal fango per farmi sedere tra i principi e occupare un trono di gloria? Non dubito che accoglieranno volentieri nel palazzo colui che si degnano di visitare nel letamaio. E poi, se sono rallegrati dalla mia conversione, non mi riconosceranno nella mia assunzione? VI. A essi si rivolge la sposa dicendo: « Mi baci con il bacio della sua bocca » 8. Penso dunque che a costoro nell’orazione parli la sposa come a familiari e compagni e apra loro il desiderio del suo cuore quando dice: Mi baci con il bacio della sua bocca. E considera come sia familiare e amichevole il colloquio dell’anima che sospira, ancora nella carne, con le celesti potestà. Sospira i baci, chiede ciò che brama; ma non nomina colui che ama, perché non dubita che essi sanno chi è, in quanto spesso con loro è solita parlare di lui. Per questo non dice: « Mi baci il tale o il tal altro »; ma: Mi baci, solamente; come Maria Maddalena, anche lei non esprimeva il nome di colui che cercava, ma solo diceva a quello che credeva l’ortolano: Signore, se tu lo hai portato via ( Gv 20,15 ). Chi è « Lui »? Non lo dice, perché crede che tutti sappiano quello che neanche per un momento le poteva uscire dal cuore. Così dunque anche questa, parlando ai compagni dello sposo suo che lei conosce e dai quali sa di essere conosciuta, tacendo il nome, prorompe di colpo in queste parole riferendosi al diletto: Mi baci con il bacio della sua bocca. Su questo bacio non voglio ormai trattenervi più a lungo oggi, ma nel sermone di domani sentirete ciò che, per le vostre preghiere si degnerà di suggerirmi quell’unzione che insegna tutte le cose. Questo non è infatti un segreto che può rivelare la carne o il sangue, ma colui che scruta le profondità di Dio, lo Spirito Santo, il quale, procedendo dal Padre e dal Figlio, insieme con essi vive e regna per i secoli dei secoli. Amen. Sermone VIII I. Il bacio eccelso, lo Spirito Santo 1. Oggi, come vi ricordate che abbiamo promesso ieri, ci proponiamo di trattare del bacio sommo, cioè della bocca. Ascoltate con più attenzione ciò che ha più soave sapore, che si gusta più raramente e che più difficilmente si comprende. Mi sembra, per cominciare un po’ più alto, che abbia inteso designare un certo ineffabile bacio, non sperimentato da alcuna creatura, colui che disse: Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare ( Mt 11,27 ). Il Padre infatti ama il Figlio, e lo abbraccia con una singolare dilezione, il sommo l’eguale, l’eterno il coeterno, il solo l’unico. Ma anche egli stesso è oggetto di non minore affetto da parte del Figlio, il quale per amore di Lui si sottomette alla morte, come egli medesimo attesta: Perché sappiano tutti che amo il Padre, alzatevi, andiamo ( Gv 14,31 ), cioè alla passione. Quella conoscenza pertanto vicendevole e mutuo amore del Padre che genera e del Figlio che è generato che altro sono se non un soavissimo, ma segretissimo bacio? 2. Io ritengo per certo che a così grande santo arcano del divino amore non sia ammessa neppure l’angelica creatura. Difatti, anche san Paolo pensa che quella pace supera ogni sentimento, anche angelico. Per cui neppure costei ( la sposa ), sebbene molto audace, osa tuttavia dire: « Mi baci con la sua bocca », riservando cioè questo al solo Padre; ma, chiedendo qualcosa di meno. Mi baci, dice, con il bacio della sua bocca. Vedete la novella sposa che riceve il nuovo bacio, non dalla bocca, ma dal bacio della bocca. Soffiò, dice, su di loro, cioè Gesù sugli Apostoli, vale a dire sulla primitiva Chiesa, e disse: Ricevete lo Spirito Santo ( Gv 20,22 ). Fu per certo un bacio. Che cosa? Quel soffio corporeo? No, ma l’invisibile Spirito venne dato appunto con quel soffio del Signore, per significare che procedeva parimenti da lui e dal Padre, come un vero bacio, che è comune a chi bacia e a chi è baciato. Basta pertanto alla sposa che sia baciata dal bacio dello Sposo, anche se non viene baciata dalla bocca. Non ritiene infatti poca cosa o vile essere baciata dal bacio, il che non è altro che venire ripiena di Spirito Santo. Infatti, se veramente si riceve il Padre che bacia e il Figlio che è baciato, non sarà fuori luogo intendere per bacio lo Spirito Santo, che è del Padre e del Figlio l’imperturbabile pace, il forte cemento, l’indiviso amore, l’indivisibile unità. II. Per questo bacio il Padre e il Figlio si rivelano, e inseparabile è la loro conoscenza 3. Questo è quello che pretende la sposa, questo, sotto il nome di bacio, chiede con fiducia che le venga infuso. Possiede invero qualche cosa che le fornisce motivo di sperare. Dicendo, infatti, il Figlio: Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, aggiunse: o colui al quale il Figlio lo abbia voluto rivelare ( Mt 11,27 ). Ora, la sposa non dubita che, se lo vorrà a qualcuno, lo voglia rivelare a lei. Chiede dunque con audacia che le venga dato il bacio, cioè, quello Spirito nel quale le sia rivelato anche il Figlio e il Padre. Non si conosce infatti l’uno senza l’altro. Perciò è detto: Chi vede me, vede anche il Padre ( Gv 14,9 ) e le parole di Giovanni: Chiunque nega il Figlio, non ha neppure il Padre. Ma chi confessa il Figlio, ha anche il Padre ( 1 Gv 2,23 ). Dalle quali parole risulta chiaro che non si conosce il Padre senza il Figlio, né il Figlio senza il Padre. Giustamente perciò pone la somma beatitudine nella conoscenza, non di uno solo, ma dei due colui che dice: Questa è la vita eterna, che conoscano Te vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo ( Gv 17,3 ). Infine anche di coloro che seguono l’Agnello si dice che hanno il nome di lui e il nome del Padre suo scritto sulle loro fronti, il che vuol dire gloriarsi della conoscenza di entrambi. 4. Ma dirà qualcuno: « Dunque la conoscenza dello Spirito Santo non è necessaria, dal momento che ha detto che la vita eterna consiste nel conoscere il Padre e il Figlio; e dello Spirito Santo non ha detto nulla? ». È vero; ma dove si conosce perfettamente il Padre e il Figlio, come si può ignorare la bontà dell’uno e dell’altro, che è appunto lo Spirito Santo? Non si conosce infatti integralmente un uomo da parte di un altro uomo fino a che non si sa con chiarezza se sia di buona o di cattiva volontà. E poi quando viene detto: Questa è la vita eterna, che conoscano te vero Dio, e colui che hai mandato Gesù Cristo ( Gv 17,3 ), se quella missione, dimostra da una parte il beneplacito del Padre che benignamente manda, e dall’altra quello del Figlio che volontariamente obbedisce, non del tutto si tace dello Spirito Santo dove si fa menzione di tanta grazia da parte di entrambi. L’amore, infatti, e la benignità dell’uno e dell’altro è lo Spirito Santo. 5. La sposa dunque chiede che le venga infusa la triplice grazia di questa conoscenza, per quanto è possibile comprendere nella carne mortale, allorquando chiede un bacio. Lo chiede poi al Figlio, perché spetta al Figlio rivelarlo a chi vuole. Rivela dunque il Figlio se stesso a chi vuole, rivela anche il Padre. Lo rivela certamente per mezzo del bacio, cioè per mezzo dello Spirito Santo, come testimonia san Paolo che dice: Dio ha rivelato a noi per mezzo del suo Spirito ( 1 Cor 2,10 ). Ma, dando lo Spirito, per il quale rivela, rivela anche il medesimo: dando rivela, e rivelando dà. La rivelazione che si compie per mezzo dello Spirito Santo, non solo dà luce per la conoscenza, ma anche accende l’amore, come dice l’Apostolo: La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato ( Rm 5,5 ). III. Ai filosofi non sono stati rivelati mediante questo bacio gli arcani di Dio È forse per questo che di alcuni di coloro che, avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato come Dio, non si legge che lo abbiano conosciuto per rivelazione dello Spirito Santo, perché, conoscendolo, non lo amarono. Così infatti sta scritto: Poiché Dio lo rivelò a essi ( Rm 1,19 ). E non vi è aggiunto: per mezzo dello Spirito Santo, perché non si attribuissero le menti degli empi il bacio della sposa, ma, contente della scienza che gonfia, non conobbero quella che edifica. Infine, lo stesso Apostolo ci dica per mezzo di chi essi ( i pagani ) hanno conosciuto: Per mezzo delle cose, dice, che sono state fatte, ( le cose invisibili di Dio ) sono rese visibili all’intelligenza ( Rm 1,20 ). Donde si vede che non conobbero perfettamente colui che non amarono affatto. Se infatti lo avessero conosciuto integralmente, non avrebbero ignorato la bontà con la quale volle nella carne nascere e morire per la loro redenzione. Senti infine ciò che di Dio fu loro rivelato: La sempiterna, dice ( san Paolo ), potenza di lui e la sua divinità ( Rm 1,20 ). Vedi che essi hanno investigato, servendosi del loro spirito, non di quello di Dio, quel che riguardava la sublimità, la maestà. Ma non hanno compreso come egli sia mite e umile di cuore. E non fa meraviglia, perché il loro capo Behemoth ( Leviatan ) non è affatto umile, ma come si legge di esso, lo teme ogni essere più altero ( Gb 41,25 ). Al contrario Davide non andava in cerca di cose grandi, superiori alle sue forze, perché volendo scrutare la maestà non venisse oppresso dalla gloria. IV. Con quale cautela vada interpretato il significato del piede 6. Anche voi, per porre con cautela il piede nei sensi arcani, ricordate sempre l’ammonizione del sapiente: Non cercare le cose più alte, e non voler indagare quelle cose che sorpassano le tue forze ( Sir 3,22 ). Camminate in esse secondo lo spirito e non secondo il proprio senso. La dottrina dello Spirito non acuisce la curiosità, ma accende la carità. Perciò giustamente la sposa, cercando colui che l’anima sua ama, non si affida ai sensi della sua carne, non accetta i vani ragionamenti dell’umana curiosità; ma chiede il bacio, cioè, invoca lo Spirito Santo, per mezzo del quale riceverà insieme e il gusto della scienza, e il condimento della grazia. E la scienza che viene data dal bacio si riceve veramente con l’amore, perché il bacio è segno di amore. La scienza invece che gonfia, essendo senza carità, non procede dal bacio. Ma neppure coloro che hanno lo zelo di Dio, ma non secondo scienza, si arroghino quello ( bacio ). Poiché la grazia del bacio porta con sé i due doni, la luce della scienza, e l’abbondanza della devozione. È infatti lo Spirito di sapienza e di intelligenza che, a guisa di ape che porta la cera e il miele, ha di che accendere il lume della scienza e infondere il sapore della grazia. Non pensi di aver ricevuto l’uno o l’altro, sia chi percepisce la verità, ma non l’ama, sia chi ama senza comprendere. In questo bacio davvero non vi è posto né per l’errore, né per la tiepidezza. V. Le due labbra della sposa Pertanto, a ricevere la duplice grazia del sacrosanto bacio, prepari dal canto suo colei che è sposa le sue due labbra, la ragione dell’intelligenza e la volontà della sapienza, onde, gloriandosi del pieno bacio, meriti di sentirsi dire: Sulle tue labbra è diffusa la grazia, perciò ti ha benedetto Dio per sempre ( Sal 45,3 ). VI. Il bacio del Padre e del Figlio Così dunque il Padre, baciando il Figlio, effonde pienamente in lui gli arcani della sua divinità e spira soave amore. Significa questo la Scrittura quando dice: Iliorno al giorno trasmette la parola ( Sal 19,3 ). A questo sempiterno e singolarmente beato amplesso, come si è detto, a nessuna creatura affatto è dato di venire ammessa, solo restando lo Spirito di entrambi testimonio e consapevole della mutua conoscenza e dilezione. Chi infatti ha mai conosciuto il pensiero del Signore, o chi è stato suo consigliere? ( Rm 11,34 ). 7. Ma mi dirà forse qualcuno: « Allora, come è pervenuto a te ciò che dici non essere concesso a nessuna creatura? ». In verità l’Unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato ( Gv 1,18 ). Rivelato, dirò, non a me, misero e indegno, ma a Giovanni, amico dello Sposo, del quale sono queste parole; e non solo a lui, ma anche a Giovanni Evangelista, il discepolo che Gesù amava. Piacque infatti a Dio anche l’anima di lui, del tutto degna del nome e della dote di sposa, degna di amplessi dello Sposo, degna infine di riposare sul petto del Signore. Attinse Giovanni dal petto dell’Unigenito ciò che questi aveva attinto dal seno paterno. Ma non solo lui, anche tutti quelli ai quali diceva l’angelo del gran consiglio: Vi ho chiamati amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi ( Gv 15,15 ). Attinse anche Paolo, il cui vangelo non è da uomo, né lo ha ricevuto per mezzo di uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo. VII. Il bacio della bocca offerto ai santi Veramente tutti costoro possono tanto felicemente quanto veracemente dire: L’Unigenito che era nel seno del Padre, egli stesso ce lo ha rivelato ( Gv 1,18 ). E tale rivelazione che altro fu per essi se non un bacio? Ma un bacio del bacio, non della bocca. Senti invece il bacio della bocca: Io e il Padre siamo una cosa sola ( Gv 10,30 ). E ancora: Io sono nel Padre, e il Padre è in me ( Gv 14,10 ). È un bacio dato da bocca a bocca; ma nessuno si avvicini. È davvero un bacio di amore e di pace, ma quella dilezione sorpassa ogni scienza, e quella pace sorpassa ogni sentimento. Tuttavia, ciò che occhio non vide, né orecchio udì, né cuore di uomo poté capire, Dio lo ha rivelato a Paolo per mezzo del suo Spirito, vale a dire, per mezzo del bacio della sua bocca. Pertanto l’essere il Figlio nel Padre e il Padre nel Figlio, è bacio della bocca. Quello poi che si legge: Non abbiamo infatti ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che è da Dio, perché conosciamo le cose che da Dio ci sono state donate ( 1 Cor 2,12 ), questo è bacio del bacio. 8. E per distinguere più nettamente uno dall’altro, chi riceve la pienezza, riceve il bacio della bocca, chi invece riceve dalla pienezza, riceve il bacio dal bacio. Grande è san Paolo; ma per quanto porga in alto la bocca, anche se si spinge fino al terzo cielo, rimane necessariamente al di sotto della bocca dell’Altissimo, e deve accontentarsi della sua misura e restarsene al posto suo, e non potendo arrivare al volto della gloria, chieda umilmente che, per condiscendenza verso di lui, gli venga trasmesso un bacio dall’alto. Colui invece che non considerò come una rapina l’essere egli uguale a Dio, di modo che possa dire: Io e il Padre siamo una cosa sola ( Gv 10,30 ), perché da pari a pari si unisce, da pari a pari gode l’amplesso, non mendica il bacio da un luogo inferiore, ma da pari altezza accosta la bocca alla bocca, e con singolare prerogativa, riceve il bacio dalla bocca. Per Cristo dunque il bacio è la pienezza, per Paolo è partecipazione, e mentre il primo si gloria del bacio dalla bocca, questi si glori di essere baciato soltanto dal bacio. 9. Felice bacio tuttavia, per il quale non solo si conosce Dio, ma si ama il Padre, il quale non si conosce pienamente se non quando perfettamente si ama. Quale anima tra di voi senti talvolta nel segreto dell’anima sua lo Spirito del Figlio esclamare: Abbà, Padre? ( Gal 4,6 ) Essa comprenda di essere amata con paterno affetto, dal momento che è animata dallo stesso Spirito del Figlio. Confida, chiunque tu sia, confida senza alcuna esitazione. Nello Spirito del Figlio riconosciti figlia del Padre, sposa del Figlio e sorella. Troverai che a una tale anima vengono dati questi due nomi. Mi è facile provarlo. Lo Sposo si rivolge a lei dicendo: Vieni nel mio orto, sorella mia sposa ( Ct 5,1 ). È sorella, perché figlia dello stesso Padre; sposa perché nel medesimo Spirito. Poiché, se il matrimonio carnale stabilisce due in una sola carne, perché l’unione spirituale a più forte ragione non congiungerà due in un solo spirito? Infine, chi aderisce a Dio forma con lui un solo spirito ( 1 Cor 6,17 ). Ma senti anche il Padre con quanto amore e quanta degnazione la chiama figlia, e, come propria nuora, la invita ai teneri amplessi del Figlio: Ascolta, o figlia, guarda. Porgi l’orecchio, e dimentica il tuo popolo e la casa di tuo Padre. E al re piacerà la tua bellezza ( Sal 45,11-12 ). Ecco da chi costei implora un bacio. O anima santa, abbi riverenza, perché egli è il Signore Dio tuo, forse non da baciarsi, ma da adorarsi con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen. Sermone IX I. Discorso degli amici dello sposo e della sposa 1. Veniamo ora al libro, e diamo ragione delle parole della sposa e di quanto ne consegue. Sono campate là come in aria, e pendono come staccate, senza principio. E perciò bisogna premettere qualche cosa a cui si riallaccino. Supponiamo dunque che coloro che abbiamo chiamato compagni dello Sposo siano venuti, come di solito, a visitare e salutare anche oggi la sposa, e l’abbiano trovata che brontolava ed era triste. Meravigliati di ciò, le abbiano detto: « Che c’è di nuovo? Perché ti vediamo più malinconica del solito? Quale la causa di questo inaspettato lamento? Certamente, allorché distolta e traviata te ne andavi dietro i tuoi amanti, con i quali operavi il male, sospinta alla fine a tornare al tuo primo Sposo, non hai insistito con molte preghiere e lacrime per meritare di toccare almeno i piedi? ». « Lo ricordo », risponde. « E poi, ottenuto questo, e avendo ricevuto insieme con il bacio dei piedi il perdono dei peccati, ora, di nuovo fatta impaziente, e non contenta di tanta degnazione, ma avida di una maggiore familiarità, hai nuovamente chiesto e, ottenuto una seconda grazia con la stessa istanza con cui avevi impetrato la prima, di modo che, nel bacio della mano hai conseguito non poche e non piccole virtù ». « Lo ammetto », dice. Ed essi « Ma non sei tu che eri solita giurare e protestare che se ti fosse stato concesso di pervenire al bacio della mano, ti sarebbe bastato, e non avresti più chiesto altro? ». « Sono io ». « E dunque? Forse ti è stato tolto qualcosa di quello che avevi ricevuto? ». « Nulla ». « O temi che ti verrà rinfacciato alcunché della tua disordinata vita anteriore, che tu credevi tutto perdonato? ». « No ». 2. « Su, dunque, dicci che cosa possiamo fare per te ». II. Risposta della sposa sul suo amore « Non ho riposo, – dice – se non mi bacia con il bacio della sua bocca. Grazie, per il bacio dei piedi e della mano; ma se egli si cura di me, mi baci con il bacio della sua bocca. Non sono ingrata, ma amo. Ho ricevuto, lo confesso, più di quanto meritavo, ma bramo ancora di più. Sono trasportata dal desiderio, non dalla ragione. Non vi stupisca la mia presunzione, mentre è l’affetto che mi spinge. Il pudore ha le sue esigenze, ma l’amore ancora di più. Non ignoro che l’onore del re ama la giustizia ( Sal 99,4 ); ma l’amore impetuoso non sa aspettare il giudizio, né si lascia moderare dal consiglio, né frenare dal pudore, né sottomettersi alla ragione. Prego, supplico, imploro: Mi baci con il bacio della sua bocca. Ecco, già da molti anni con la sua grazia, mi studio di vivere castamente e sobriamente mi applico alla lettura divina, resisto ai vizi, mi applico di frequente all’orazione, veglio contro le tentazioni, ripenso gli anni passati nell’amarezza del mio cuore. Mi pare, per quanto dipende da me, di vivere in concordia con i miei fratelli, mi tengo soggetta all’autorità dei superiori, docile al comando dei seniori. Non desidero le cose mie e me stessa. Mangio il mio pane nel sudore della mia fronte. Del resto, per quanto riguarda tutte queste cose, si tratta di consuetudine, per nulla di dolcezze. Che altro sono, secondo quanto dice il profeta, se non una vitella di Efraim avvezza a fare la trebbiatura? ( Os 10,11 ). Infine, secondo il Vangelo, chi fa solo quello che deve fare, è ritenuto servo inutile. Osservo forse alla meglio i comandamenti; ma la mia anima, in questa osservanza è come una terra arida, senza acqua. Affinché dunque il mio olocausto sia pingue, « Mi baci con il bacio della sua, bocca ». 3. Parecchi di voi, mi ricordo, sono soliti lamentarsi anche con me nelle private aperture di coscienza, di un tale languore e aridità di spirito, e dell’ottusità della, loro mente, così stolta da essere incapace di penetrare le cose alte e sottili di Dio, e di non gustare affatto o poco la soavità dello spirito. Che cosa sospirano questi tali se non il bacio? Sospirano in verità e anelano verso lo spirito di sapienza e di intelligenza; dell’intelligenza, onde arrivare ( a comprendere ), della sapienza, per gustare ciò che avranno appreso. Io penso che con questi santi sentimenti pregasse il Profeta quando diceva: Mi sazierò come a lauto convito e con voci di gioia ti loderà la mia bocca ( Sal 63,6 ). Chiedeva proprio un bacio, e quel bacio nel cui contatto le labbra fossero ricolme di grazia spirituale, donde scaturisse quello che egli implorava: Della tua lode sia piena la mia bocca per cantare la tua gloria, tutto il giorno la tua grandezza ( Sal 71,8 ). E quando ebbe gustato lo proclamò: Quanto è grande la tua bontà, Signore! La riservi per coloro che ti temono ( Sal 31,20 ). Questo bacio ci ha trattenuto abbastanza, e io, a dire il vero, temo di non averlo spiegato abbastanza degnamente. Ma passiamo al resto, perché quello si comprende meglio quando si riceve che a sentirne parlare. III. Presenza dello sposo e verecondo schermirsi della sposa 4. Segue: Perché migliori del vino sono le tue mammelle, che spirano fragranza di ottimi unguenti( Ct 1,1-2 ). Anche queste parole, di chi siano, l’autore non lo dice, lasciando a noi di interpretare liberamente a chi convengano. A me non mancano ragioni per attribuirle sia alla sposa, sia allo Sposo, sia anche agli amici dello Sposo. E dirò dapprima come convengano alla sposa. Mentre essa parlava con essi ( i compagni dello Sposo ), apparve lui stesso del quale si stava parlando. Egli si avvicina volentieri a coloro che parlano di lui. È la sua abitudine. Così ai discepoli che andavano a Emmaus si mostrò come giocondo ed eloquente compagno di viaggio. E questo è quello che viene promesso nel Vangelo: Dove due o tre saranno radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro ( Mt 18,20 ); e per mezzo del Profeta: Prima che gridino ( a me ), io li esaudirò; mentre ancora parleranno, dirò: Eccomi ( Is 65,24 ). Così dunque ora, non chiamato, si mostrò presente, e contento del loro discorso, ne prevenne la preghiera. Penso che talvolta non aspetta neanche le parole, viene richiamato dai soli pensieri. Dice infatti l’uomo che fu trovato secondo il cuore di Dio: Il Signore ha esaudito il desiderio dei poveri, il tuo orecchio ha ascoltato la preparazione del loro cuore ( Sal 9,38 ). Anche voi badate a voi medesimi in ogni luogo, ben sapendo che Dio, che scruta i cuori e le reni, conosce tutte le cose vostre, lui che ha plasmato uno per uno i vostri cuori, e comprende tutte le vostre opere. La sposa dunque, sentendo presente lo Sposo si ferma; capisce di essere stata sorpresa in sentimenti di presunzione e se ne vergogna, perché pensava che fosse meno da sfacciata riferire le cose dette, tramite messaggeri. E subito, rivolta allo Sposo si sforza di scusare come può la sua temerità: Perché migliori del vino sono le tue mammelle, pii fragranti di ottimi unguenti ( Ct 1,1-2 ). Come se dicesse: « Se sembro spingere ( troppo ) in alto i miei sentimenti, dipende da te, o Sposo, che con tanta degnazione mi hai allattato alle dolci tue mammelle, di modo che, sparito ogni timore, non per mia temerità, ma per il tuo amore, ardisco di più, forse, che non convenga. Oso tuttavia, memore della tua pietà, non badando alla maestà ». Questo sia detto per spiegare il filo del discorso. 5. Ora vediamo cosa significhino queste mammelle del Signore. IV. Le due mammelle dello sposo Due sono le mammelle dello Sposo, due le sorgenti dell’innata mansuetudine di lui, che aspetta cioè con pazienza il peccatore, e accoglie con clemenza il penitente. Una doppia, dico, dolce soavità sgorga dal petto del Signore Gesù, cioè la longanimità nell’aspettare e la facilità nel perdonare. E senti come questa non sia una mia invenzione. Leggi infatti circa la longanimità: O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza? E ancora: O ignori che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? ( Rm 2,4 ). Per questo appunto rimanda a lungo la sentenza di condanna, nella speranza di offrire un giorno la grazia del perdono al penitente. Non vuole infatti la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Portiamo degli esempi, anche riguardo all’altra mammella, che si è detto essere la facilità nel perdonare. Leggi anche questa: In qualsiasi momento il peccatore manderà un gemito ( di pentimento ) il suo peccato gli verrà rimesso ( Ez 33,12 ). E ancora: Abbandoni l’empio la sua strada e l’uomo iniquo i suoi pensieri, e faccia ritorno al Signore e avrà pietà di lui; torni al nostro Dio, perché è molto incline al perdono ( Is 55,7 ). Bellamente Davide ha espresso insieme le due cose dicendo: Longanime e molto misericordioso ( è il Signore ) ( Sal 103,8 ). La sposa confessa di aver sperimentato questa doppia bontà, la qual cosa le ha dato fiducia tanto da osare di chiedere il bacio, dicendo: « Che c’è da meravigliarsi, o Sposo, se sono così presuntuosa a tuo riguardo, io che ho sperimentato quanta abbondanza di dolcezza nelle tue mammelle? Io infatti sono portata a osare, non dalla fiducia nei miei meriti, ma dalla soavità delle tue mammelle ». 6. In quanto a quelle che dice: Le tue mammelle sono migliori del vino, significa: « L’abbondanza della grazia che fluisce dalle tue mammelle è più efficace per il mio profitto spirituale che non la dura ammonizione dei prelati ( superiori ). Né solamente sono migliori del vino, ma più profumati di ottimi unguenti, perché non solo tu nutri i presenti con il latte dell’interiore dolcezza, ma cospargi anche gli assenti con il grato odore della buona reputazione, ricevendo buona testimonianza da quelli che sono dentro e da quelli che sono fuori. Hai, dico, dentro latte e fuori unguenti: perché non vi sarebbero coloro che ristori con il latte, se prima non li avessi attratti con il profumo ». Ma di questi unguenti, se hanno qualche significato degno di considerazione, si vedrà in seguito, quando giungeremo dove è detto: Correremo all’odore dei tuoi unguenti ( Ct 1,3 ). V. Le stesse parole si addicono alla sposa e a coloro che pregano con assiduità Ora, come avevamo promesso, vediamo se le sopradette parole che abbiamo messo in bocca alla sposa, convengano allo Sposo. 7. Mentre la sposa parlava dello Sposo, avevo detto, ecco che egli appare, annuisce al suo desiderio, le dà il bacio, e adempie in lei la parola della Scrittura: Hai soddisfatto il desiderio del suo cuore, e non hai respinto il voto delle sue labbra ( Sal 21,3 ). E lo prova dal turgore delle sue mammelle. Di tanta efficacia, infatti, è il bacio santo, che da esso, appena ricevuto, la sposa concepisce, e le mammelle ne forniscono una prova gonfiandosi quasi ripiene di latte. Quelli che si applicano di frequente all’orazione hanno sperimentato quello che dico. Spesso ci accostiamo all’altare con cuore tiepido e arido, e insistiamo nell’orazione. Perseverando in essa, improvvisamente viene infusa la grazia, il petto si gonfia, un’ondata di devozione riempie le viscere; e se uno preme, ( le mammelle ) non tarderanno a far rifluire abbondantemente il latte della dolcezza concepita. Dica dunque ( lo Sposo ): « Hai, o sposa, quanto hai chiesto; ne è il segno che le tue mammelle sono diventate migliori del vino: da questo conoscerai di aver ricevuto il bacio, dal sentire cioè di aver concepito. Per questo anche le tue mammelle ti si sono inturgidite, divenendo per l’abbondanza del latte migliori del vino della scienza secolare, la quale inebria, ma per la curiosità, non per la carità: riempie, non nutre: gonfia, non edifica: ingolfa, non ristora ». VI. Anche si addicono agli amici dello sposo 8. Ma concediamo anche ai compagni ( dello Sposo ) di ragionare così: « A torto, dicono, tu mormori contro lo Sposo, perché quello che già ti ha dato vale di più di ciò che tu chiedi. Quello infatti che tu domandi fa piacere a te: ma le mammelle con le quali tu nutri i piccoli che partorisci, sono migliori; cioè, più necessarie del vino della contemplazione. Altro è infatti ciò che rallegra il cuore di un sol uomo, altro quello che edifica molti. Poiché, se Rachele è più bella, Lia è più feconda. Non voler dunque insistere troppo nei baci della contemplazione, perché sono migliori le mammelle della predicazione ». VII. Anche ai fanciulli 9. Mi viene in mente anche un altro senso che non avevo proposto e che voglio ricordare ora. Perché non potrebbero queste parole convenire maggiormente a quelli stessi ai quali ( la sposa ) presiede con sollecitudine, quasi madre e nutrice per i propri piccoli? Difatti le anime ancora giovanette e tenere non tollerano con pace che essa se ne stia nella quiete, mentre desiderano di venire da lei istruiti più a fondo nella dottrina e formati dai suoi esempi. Non sono queste quelle delle quali, in seguito, si reprime l’inquietudine, dove con severa ammonizione si comanda loro di non svegliare la diletta fino a che essa non lo voglia? Queste, dunque, sentendo la sposa bramare i baci, cercarsi un luogo solitario, fuggire il pubblico, evitare le turbe e preferire la propria quiete alla cura di loro stesse: « Non far così, dicono, non così, perché c’è più frutto nelle mammelle che negli amplessi. Per mezzo di esse infatti ( le mammelle ) tu ci strappi dai desideri carnali che militano contro l’anima; ci strappi dal mondo e ci acquisti a Dio ». Questo dunque significano le parole: Perché sono migliori del vino le tue mammelle. « Le spirituali delizie, dicono, le tue mammelle stillano per noi, vincono la voluttà della carne che, a guisa di vino, ci teneva ubriacate ». 10. E bene paragonano gli effetti carnali al vino. Come infatti l’uva, una volta spremuta, non ha più nulla da dare, ma è destinata a perpetua aridità, così la carne, nel torchio della morte viene prosciugata di ogni suo diletto, e non rinverdisce più ad altri piaceri. Onde il Profeta: Ogni carne è fieno, e ogni sua gloria è come fiore di fieno. Si seccò il fieno, e il fiore cadde ( Is 40,6-7 ); e l’Apostolo: Chi semina nella carne, dalla carne anche mieterà corruzione. Il cibo è per il ventre e il ventre per i cibi; ma Dio distruggerà questo e quelli ( Gal 6,8; 1 Cor 6,13 ). Osserva poi che non solo alla carne, ma anche al mondo si adatti questo raffronto. Difatti, anch’esso passa con la sua concupiscenza; e avendo fine tutte le cose che sono nel mondo, della loro fine non vi sarà fine. Non così delle mammelle. Queste infatti allorché sono svuotate, tornano a riempirsi dalla fonte del petto materno, e così porgono nuovo alimento. Giustamente perciò si dicono migliori dell’amore della carne o del secolo le mammelle della sposa, le quali non inaridiscono mai per il numero dei lattanti, ma sempre traggono in abbondanza dalle viscere della carità nuovo alimento da far fluire ancora. Scorrono infatti fiumi dal suo ventre, e c’è in essa una fonte di acqua che sale alla vita eterna. Alla lode delle mammelle si aggiunge la fragranza degli unguenti, perché non solo saziano il palato, ma spandono una buona reputazione dei frutti. In un altro sermone mostreremo quali siano le mammelle, di quale latte turgide, di quali unguenti cosparse, con l’aiuto di Cristo, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna Dio per tutti i secoli dei secoli. Amen. Sermone X I. Le due mammelle della sposa 1. Non sono un uomo di profondo intendimento né di ingegno così perspicace da poter da me solo trovare qualche cosa di nuovo. Ma si apre a noi la bocca di Paolo come una fonte grande e inesauribile. Da essa attingo anche ora per me nella spiegazione delle mammelle della sposa, come anche faccio spesso. Godere, dice egli, con quelli che godono, piangere con quelli che piangono ( Rm 12,15 ). Sono qui espressi brevemente i materni affetti, poiché né soffrire, né fare alcunché possono i pargoli, senza colei che li ha generati; in tutti i casi è inevitabile che essa si conformi alle sue viscere. Pertanto, assegnerò quei due affetti alle due mammelle della sposa, la compassione all’una, all’altra la congratulazione. Diversamente è piccola e non ancora nubile e non ha ancora messo le mammelle se non si sente pronta a condividere la gioia né disposta a partecipare alle pene. Una tale persona, nel caso che venisse incaricata dell’ufficio della predicazione, non gioverebbe agli altri, e causerebbe molto danno a se stessa. Sarebbe pertanto per essa una grave imprudenza ingerirsi in una tale incombenza. II. Il duplice latte delle due mammelle. Bene si applica alle guide. Le guide indegne 2. Ma torniamo alle mammelle della sposa, e proponiamo diverse specie di latte secondo le diverse mammelle. La congratulazione invero produce il latte dell’esortazione, mentre la compassione dà quello della consolazione. Ora, la madre spirituale si sente abbondantemente irrorare il suo petto dal cielo di queste due specie di latte ogni qual volta riceve il bacio. Eccola che con turgidi seni si china ad allattare i suoi piccoli, e dispensa a uno parole di consolazione, ad altri di esortazione, secondo che vede convenire ai singoli. Per esempio, se vede uno di quelli che ha generato nel Vangelo scosso da qualche forte tentazione, e, divenuto turbato e triste e pusillanime, per cui non gli riesce di superare la violenza della tentazione, come lo commisera, come lo accarezza, come piange; quante parole trova, dettate dalla pietà, con le quali sollevare il povero afflitto; e invece come esulta, come gli porge salutari ammonimenti, come lo sprona, lo istruisce come può e lo esorta a perseverare e a progredire sempre in meglio, se lo trova pronto, alacre e bene avviato nella via del bene! A tutti si conforma, fa propri i sentimenti di tutti, insomma si dimostra madre, non meno ai deboli che vengono meno che a quelli che progrediscono. 3. Quanti oggi dimostrano diverse disposizioni, dico tra coloro che hanno assunto l’impegno di governare le anime! Cosa che non si può dire senza gemere, costoro rendono vani gli obbrobri di Cristo, gli sputi, i flagelli, i chiodi, la lancia, la croce e la morte e li rigettano, li barattano in cambio di un turpe guadagno, e si studiano di raccogliere nelle loro borse il prezzo di tutti, differendo da Giuda Iscariota solo in questo, che egli ottenne come compenso un determinato numero di denari, questi invece con più vorace bramosia di guadagni esigono denaro senza fine. A questo denaro aspirano con insaziabile desiderio, temono di perderlo ( quando lo posseggono ), e quando lo perdono si rammaricano; nell’amore di esso riposano, per quanto lo permette la preoccupazione di conservarlo o di aumentarlo. Non badano né alla caduta, né alla salvezza delle anime. Non sono pertanto costoro madri, in quanto, essendosi con il patrimonio del Crocifisso troppo ingrassati, impinguati, non sentono compassione delle disgrazie di Giuseppe. Colei che è madre non dissimula; ha le mammelle, e non vuote. Sa godere con chi gode e piangere con chi piange, e non cessa di spremere dal seno della congratulazione il latte dell’esortazione, e dal seno della compassione il latte della consolazione. E basti per quello che riguarda le mammelle della sposa e del loro latte. III. Distinzione del triplice unguento 4. Ora indicherò ancora di quali unguenti queste mammelle esalino il profumo, se tuttavia voi mi aiutate con le vostre preghiere, affinché quanto è stato dato a me di sentire, mi sia anche concesso di esporlo degnamente a utilità di quanti ascoltano. Altri sono gli unguenti dello Sposo, e altri quelli della sposa, come ognuno di essi ha le sue mammelle. Ma avendo stabilito sopra dove si tratterà degli unguenti dello Sposo, ora studiamo quelli della sposa; e facciamolo con molta attenzione, in quanto la Scrittura ce li ha raccomandati non solo come buoni, ma come ottimi. Ed enumero diverse specie di unguenti, onde poi scegliere tra essi quelli che particolarmente convengano alle mammelle della sposa. C’è l’unguento della contrizione, c’è l’unguento della devozione e quello della pietà. Il primo unguento causa dolore; il secondo lenitivo attenua il dolore; il terzo curativo espelle la malattia. Ora parliamo più diffusamente dei singoli. IV. Prima specie di unguento, diretto ai principianti 5. C’è dunque un unguento che si confeziona l’anima irretita da molti peccati, se, quando comincia a riflettere sulla sua condotta, raccoglie e riunisce e pesta nel mortaio della coscienza le molte e varie specie dei suoi peccati, e nella bollente pentola del suo petto tutti insieme li cuoce con un certo fuoco della penitenza e del dolore, onde poter dire con il Profeta: Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco ( Sal 39,4 ). Ecco, questo è un unguento con il quale l’anima peccatrice deve condire gli inizi della sua conversione, e applicare alle sue piaghe ancora fresche; poiché il primo sacrificio da offrire a Dio è uno spirito contrito. Fino a quando, dunque, non ha, come povero e indigente, di che comporsi un unguento migliore e più prezioso, non trascuri nel frattempo di prepararsi questo, anche se fatto con vili ingredienti, poiché Dio non disprezzerà un cuore contrito e umiliato. E tanto meno vile apparirà una tale anima agli occhi di Dio, quanto più si sarà resa vile a se stessa nel ricordo dei suoi peccati. 6. Tuttavia se questo invisibile unguento diciamo essere stato raffigurato da quello visibile con il quale dalla peccatrice si riferisce siano stati unti i piedi del Signore, potremo stimano non del tutto vile. Che leggiamo infatti di quello? E la casa, dice, fu ripiena dell’odore dell’unguento ( Gv 12,3 ). Veniva versato dalle mani della peccatrice, e spalmato sulle estremità delle membra del corpo, cioè sui piedi; e tuttavia non fu talmente disprezzabile o vile, in quanto la forza e la soavità dell’aroma riempì tutta la casa di profumo. Che, se pensiamo di quanta fragranza olezza la Chiesa per la conversione di un solo peccatore e a quanti ciascun penitente sia come odore di vita che conduce alla vita, se pubblicamente e perfettamente si pente, diremo senza dubbio anche di queste che la casa è stata ripiena del profumo dell’unguento … Infine, il profumo della penitenza arriva anche alle superne mansioni dei beati, così che, come attesta la stessa Verità, c’è grande allegrezza tra gli angeli di Dio per ogni peccatore che fa penitenza. Godete, penitenti, confortatevi o pusillanimi. Dico a voi che, convertiti di recente dal secolo, e avendo lasciato le vostre vie pessime, avete sentito il vostro animo pentito venire invaso dall’amarezza e dalla confusione, turbato e crucciato da acuto dolore, come da ferite ancora fresche. Le vostre mani distillino sicure l’amarezza della mirra in questa salutare unzione, perché Dio non disprezzerà un cuore pentito e umiliato. Questa unzione non è affatto da disprezzare, né da ritenersi vile, dato che il suo odore sprona gli uomini alla correzione e invita a esultare gli angeli. V. Seconda specie di unguento 7. Ma c’è un unguento tanto più prezioso di questo in quanto composto da migliori specie di ingredienti. Quelli del primo non andiamoli a cercare lontano, sono a nostra portata di mano, e li possiamo trovare senza difficoltà; dai nostri orticelli ne possiamo raccogliere in abbondanza ogni volta che occorre. Chi, infatti, se è sincero, non trova abbastanza nella sua coscienza, di iniquità e peccati? Questi sono, come riconoscete, gli ingredienti del primo unguento che abbiamo descritto … La nostra terra però non produce gli aromi del secondo unguento, ma dobbiamo andarli a cercare lontano e dagli estremi confini. Infatti, ogni dono ottimo e ogni dono perfetto viene dall’alto, discendendo dal Padre dei cieli ( Gc 1,17 ). Quest’unguento si confeziona con i benefici divini accordati al genere umano. Felice colui che si studia di raccoglierli con cura, e riprodurli davanti agli occhi della sua mente con una degna azione di grazie! Certamente, quando saranno pestati e frantumati nel vaso del cuore con il pestello di un’assidua meditazione, e poi messi tutti a cuocere sul fuoco del santo desiderio, e, infine, conditi con l’olio della letizia, ne risulterà un unguento molto più prezioso ed eccellente del primo. Basta a dimostrarlo la testimonianza di colui che dice: Il sacrificio di lode mi onorerà ( Sal 50,23 ). E non c’è dubbio che il ricordo dei benefizi spinge alla lode. 8. Pertanto, testimoniando la Scrittura circa il primo, soltanto che, non sia da disprezzare, è chiaro che il secondo viene maggiormente lodato e onorato. Il primo, infatti, si cosparge sui piedi, l’altro sul capo. E se in Cristo il capo si riferisce alla divinità, come dice san Paolo: Il capo di Cristo è Dio ( 1 Cor 11,3 ), è fuori dubbio che unge il capo chi ringrazia, perché tocca Dio, non l’uomo. Non che non sia uomo colui che è Dio, in quanto Dio e uomo formano un solo Cristo; ma perché ogni bene viene da Dio, non dall’uomo, anche quello che viene somministrato per mezzo dell’uomo. In verità è lo spirito che vivifica, la carne non giova a nulla. Per questo è maledetto colui che pone la sua speranza nell’uomo, poiché, anche se tutta la nostra speranza dipende giustamente dall’uomo Dio, questo non perché è uomo, ma perché è Dio. Il primo unguento dunque si mette, sui piedi, il secondo sul capo, perché l’umiliazione di un cuore contrito si confà all’umiliazione della carne, mentre la glorificazione conviene alla maestà. Ecco quale unguento vi ho proposto, con il quale quel Capo terribile ai Principati non ritiene cosa indegna di essere unto, anzi lo considera grande onore, dicendo: Il sacrificio di lode mi onorerà ( Sal 50,23 ). VI. Perché non tutti sono capaci di tale unguento 9. Per la qual cosa, il preparare un tale unguento non è indizio di un povero e misero, ovvero di un pusillanime, per il fatto che questo ha come ingredienti la sola confidenza, che tuttavia deriva dalla libertà di spirito e dalla purezza di cuore. L’anima pusillanime e di poca fede è preoccupata dalla scarsità della sostanza familiare, e non trova tempo, a causa della povertà, per dedicarsi alla lode divina, né a considerare i benefici che derivano da questa lode. E se talvolta si sforza di elevarsi, subito viene richiamata alle sue cose dalle cure urgenti delle domestiche necessità. Se mi si chiede la causa di questa miseria, dirò quello che voi stessi riconoscete, se non erro, essere o essere stato in voi. Mi sembra che questa tristezza e diffidenza dipenda da due cause, cioè, o dalla recente conversione, o, più sicuramente, da una vita tiepida, anche se la conversione sia avvenuta da molto tempo. L’una cosa e l’altra umilia e abbatte la coscienza, rendendola inquieta, mentre, sia a causa della tiepidezza, sia perché convertita di recente, sente che le antiche passioni dell’animo non sono ancora morte in lei, ed essendo costretta a lavorare a tagliare dall’orticello del suo cuore le spine dell’iniquità e le ortiche della cupidità, non ha la possibilità di uscire da se stessa. E che? Chi lavora con fatica e gemendo, potrà forse nello stesso tempo esultare nella lode di Dio? In che modo dalla bocca di uno che si lamenta e piange risuonerà, come dice Isaia, il ringraziamento e la voce di chi loda? ( Is 51,3 ). Poiché, come ci dice il Sapiente: Musica in lutto è un discorso importuno ( Sir 22,6 ). Infine, il ringraziamento segue il beneficio, non lo precede. Ora l’anima che è immersa nella tristezza non gode del beneficio, ma ne ha bisogno. Ha dunque motivo di pregare non di ringraziare. Come infatti ricordi un beneficio che non hai ricevuto? Giustamente perciò ho detto appartenere a questa povera anima preparare quest’unguento che si deve confezionare dal ricordo dei benefici divini, poiché non può vedere la luce fino a che guarda le tenebre. È infatti nell’amarezza, e la sua memoria è piena del triste ricordo dei peccati, né le piace pensare contemporaneamente a qualche cosa di lieto. Perciò a tali persone si rivolge lo spirito profetico dicendo: Invano vi alzate di mattino ( Sal 127,2 ). Come dicesse: Invano vi alzate prima della luce per contemplare i benefici che dilettano, se prima non ricevete la luce che vi consoli dalle colpe che vi conturbano. Non è questo, dunque, l’unguento dei poveri. 10. Ma vedete chi siano coloro che, non senza ragione, si gloriano di averne in abbondanza. Se ne andavano pieni di gioia dal cospetto del consiglio per essere stati fatti degni di patir contumelia per il nome di Gesù ( At 5,41 ). Veramente essi avevano ricevuto in abbondanza l’unguento dello spirito, tanto che la loro mitezza non venne meno, non dico sotto le ingiurie, ma neppure sotto le percosse. Erano infatti ricchi in carità che non si esaurisce per nessuna spesa, e con essa erano in grado di offrire facilmente pingui olocausti. I loro petti ardenti spandevano qua e là un liquore santo, del quale erano strapieni quando proclamavano in varie lingue le meraviglie di Dio, secondo che lo Spirito dava loro di parlare. Non c’è dubbio che anch’essi abbondassero degli stessi unguenti, per i quali l’Apostolo rendeva testimonianza dicendo: Rendo grazie al mio Dio continuamente per voi per la grazia di Dio che è stata data a voi in Cristo Gesù, perché in tutte le cose siete diventati ricchi in Lui, di ogni ( dono di ) parola e di ogni scienza. Per le quali cose è stata confermata tra di voi la testimonianza resa a Cristo, di modo che nulla manchi di grazia alcuna a voi ( 1 Cor 1,4-7 ). Dio voglia che anche per voi io possa rendere le medesime grazie, che possa vedervi ricchi in virtù, ferventi nelle lodi di Dio, ridondanti sempre più abbondantemente di questo spirituale unguento, in Cristo Gesù nostro Signore. Sermone XI I. Esortazione all’azione di grazie 1. Ho detto alla fine del precedente sermone, e non mi dispiace ripeterlo, che vorrei che tutti voi foste partecipi della sacra unzione, nella quale con santa devozione si ricordano con letizia e azione di grazie i benefici di Dio. È questa infatti un’ottima cosa, sia per risollevarsi dai travagli della vita presente, che ci divengono più tollerabili quando noi esultiamo nella lode di Dio, sia perché nulla rappresenta alla terra in qualche modo lo stato della celeste abitazione, quanto l’alacrità di coloro che odono Dio, come dice la Scrittura: Beati coloro che abitano nella tua casa, o Signore; nei secoli dei secoli ti loderanno ( Sal 84,5 ). Penso che parlasse di questo unguento il Profeta quando diceva: Ecco quanto è buono e soave che i fratelli vivano insieme! È come olio profumato sul capo ( Sal 133,1-2 ). E non penso che queste parole si possano applicare al primo unguento. Esso, infatti, anche se buono, non è però giocondo, perché il ricordo dei peccati genera amarezza, e non gioia. E neppure coloro che compongono il primo abitano insieme, mentre ognuno piange e deplora i propri peccati. Coloro invece che si dedicano al ringraziamento, guardano solo a Dio e hanno in mente lui solo, e per questo essi veramente abitano insieme. Quello che essi fanno è cosa buona, perché riservano giustissimamente la gloria a colui al quale spetta, ed è cosa anche soave, perché reca diletto. 2. Per la qual cosa, amici miei, io vi consiglio di distogliere ogni tanto il piede dal molesto e ansioso ricordo dei vostri trascorsi, e di uscire sulle vie più pianeggianti di un più sereno ricordo dei benefici di Dio, affinché voi che vi confondete in voi stessi, guardando a Lui, possiate respirare. Voglio che voi sperimentiate ciò che il santo profeta consigliava dicendo: Cerca la gioia nel Signore, ed Egli esaudirà i desideri del tuo cuore ( Sal 37,4 ). È bensì necessario il dolore dei peccati, ma non deve essere continuo. Lo si alterni con il ricordo più lieto della divina benignità, onde evitare che si indurisca il cuore a causa della tristezza, e per la disperazione vada maggiormente in perdizione. Mescoliamo all’assenzio il miele, affinché una salutare amarezza possa allora portare alla salvezza, quando sarà possibile berla, perché temperata dalla dolcezza che vi si è mescolata. Ascolta infine Iddio, come Egli stesso tempera l’amarezza del cuore contrito, come consola chi è triste con il miele della soave e fedele promessa, e risolleva il diffidente. Dice per mezzo del profeta: Con la mia lode imbriglierò la tua bocca perché tu non perisca ( Is 48,9 ). Vale a dire: « Affinché alla vista dei tuoi peccati tu non diventi troppo triste, e, a guisa di cavallo sfrenato, ti butti disperato nel precipizio e perisca; io, dice, ti tratterà con il freno della mia indulgenza, e ti solleverà perché tu mi dia lode, e respirerai nei miei beni, tu che ti senti confuso per i tuoi mali, mentre troverai che io sono più benigno di quanto tu sia colpevole ». Se Caino fosse stato tenuto da questo freno, non avrebbe detto nella sua disperazione: « È troppo grande il mio peccato perché io possa meritare perdono » ( Gen 4,13 ). Non sia, non sia mai! Più grande è la sua pietà di qualsiasi iniquità. Perciò il giusto non sempre, ma all’inizio del discorso è accusatore di sé; e invece è solito concludere il discorso lodando Dio. Vedete come il giusto procede con questo ordine: Ho scrutato le mie vie, e ho rivolto i miei passi verso i tuoi comandamenti ( Sal 119,59 ), affinché cioè Egli, che aveva sperimentato la contrizione e l’infelicità nelle proprie vie, avesse a rallegrarsi nelle vie dei comandamenti di Dio più che in ogni altro bene. Anche voi pertanto, se nutrite per voi stessi sentimenti di umiltà, pensate del Signore che è buono. Così infatti leggete nella Sapienza: Pensate bene del Signore, e cercatelo nella semplicità del cuore ( Sap 1,1 ). A ciò è facilmente indotta là mente che ricorda con frequenza, anzi continuamente la divina munificenza. Diversamente, come si adempirebbe quella parola dell’Apostolo: Rendete grazie in tutte le cose ( 1 Ts 5,18 ), se venissero dimenticate le cose per le quali si deve ringraziare? Non voglio che voi siate tacciati di quella vergogna che la Scrittura attribuisce al popolo giudaico, che cioè non furono memori dei benefici di Dio e delle meraviglie che aveva loro mostrato. II. Materia precipua dell’azione di grazie è il modo e il frutto della redenzione 3. Tuttavia, giacché è impossibile all’uomo ricordare e ricercare tutti i beni che il pietoso e misericordioso Signore non cessa di largire ai mortali – Chi, infatti, può narrare i prodigi del Signore, far risuonare tutta la sua lode? ( Sal 106,2 ) –, almeno quello che è il principale e massimo, l’opera della nostra redenzione, non si allontani neanche, per poco dalla memoria dei rendenti. A questo scopo proporrò alla vostra considerazione due cose, soprattutto, che mi vengono alla mente, e lo farò il più brevemente possibile compendiando, memore di quella sentenza: Da’ occasione al saggio, e sarà più sapiente ( Pr 9,9 ). Queste due cose, dunque, sono il modo ( con cui Dio operò la nostra redenzione ), e il frutto. Il modo è l’annichilamento di Dio, i frutti per noi sono il poterci riempire di Lui. Meditare questa cosa è sorgente di santa speranza, il pensare al suo annichilamento è incentivo al sommo amore. Entrambe le cose sono necessarie al nostro profitto, per cui né la speranza sia mercenaria, se non è accompagnata dall’amore, o l’amore si illanguidisca qualora venga ritenuto infruttuoso. 4. Aspettiamoci pertanto un tale frutto del nostro amore, quale ce lo ha promesso colui che amiamo, dicendo: Vi verseranno in grembo una misura buona, pigiata, scossa e colma ( Lc 6,38). Questa misura, come sento, sarà senza misura. III. Il triplice frutto della redenzione Ma vorrei sapere di qual cosa sarà quella misura, o piuttosto, quella immensità che ci viene promessa. L’occhio non vide, o Dio, senza di Te, le cose che hai preparato a coloro che ti amano ( Is 64,4 ). Dillo a noi, tu che prepari, che cosa prepari? Crediamo, confidiamo veramente nelle tue promesse: « Ci, sazieremo dei beni della tua casa » ( Sal 65,5 ). Ma quali beni, di grazia, quali? Forse di frumento, vino e olio, di oro, argento o pietre preziose? Ma queste cose le conosciamo, le abbiamo viste, le vediamo e ci danno fastidio. Noi cerchiamo quello che occhio non vide, né orecchio udì, né cuore d’uomo poté immaginare. Questo ci piace, questo gustiamo, questo ci è dolce cercare, qualunque cosa sia. Saranno tutti, dice,ammaestrati da Dio ( Gv 6,45), ed Egli sarà tutto in tutti. Come sento, la pienezza che aspettiamo da Dio non sarà altro che pienezza di Dio. 5. Ma chi comprenderà l’immensa dolcezza che è espressa in queste brevi parole: Dio sarà tutto in tutti ( 1 Cor 15,28 )? Senza parlare del corpo, nell’anima scorgo tre cose: la ragione, la volontà, la memoria, e queste tre cose sono la stessa anima. Chiunque cammina secondo lo spirito si accorge quanto, nel secolo presente, manchi a ciascuna di queste tre cose di integrità e di perfezione. E questo perché, se non perché Dio non è ancora tutto in tutti? Da questo proviene che la ragione nei suoi giudizi molto spesso sbaglia, la volontà è sballottata da una quadruplice perturbazione, e la memoria si confonde con molte dimenticanze. A questa triplice vanità è soggetta la nobile creatura, pur non volendo, con una speranza tuttavia. Poiché colui che colma di beni il desiderio dell’anima, sarà egli stesso perla ragione pienezza di luce, per la volontà immensa pace, per la memoria un seguito senza fine. O verità, carità, eternità! O beata e beatificante Trinità. A te la mia misera trinità miseramente sospira perché è infelicemente esule da te. Allontanandosi da te, in quanti errori si è intricata, in quanti dolori, in quanti timori! Ahimè! Quale trinità abbiamo scambiato con te! Il mio cuore si è conturbato ( Sal 38,11 ), e di qui il dolore; la forza mi abbandona; di qui la paura; si spegne la luce dei miei occhi, di qui l’errore. Ecco, o trinità dell’anima mia, come andandotene lontano ( da Di o), hai offeso una Trinità ben dissimile da te. IV. Il modo della redenzione è ugualmente triplice 6. Tuttavia, perché ti rattristi, anima mia, perché su di me gemi? Spera in Dio, ancora potrà lodarlo, quando cioè l’errore si allontanerà dalla ragione, il dolore dalla volontà e ogni timore dalla memoria, e succederà quella meravigliosa serenità che aspettiamo, la dolcezza piena, la sicurezza eterna. La prima cosa sarà operata da Dio verità, la seconda da Dio carità, e la terza da Dio somma potenza, perché Dio sia tutto in tutti, quando la ragione riceverà la luce inestinguibile, la volontà la pace imperturbabile, e la memoria aderirà eternamente alla fonte inesauribile. Vedete voi se si possa rettamente assegnare la prima cosa al Figlio, la seconda allo Spirito Santo, onde la distinzione ( che facciamo ) non sminuisca la pienezza delle singole persone, o la proprietà ( che loro attribuiamo ) porti pregiudizio alla loro perfezione. Contemporaneamente riflettete se i figli di questo secolo sperimentino alcunché di simile quando si danno ai piaceri della carne, agli spettacoli del mondo, alle pompe di satana, che è poi tutto quello con cui la presente vita inganna i suoi amatori, come dice Giovanni: Tutto ciò che è in questo mondo è concupiscenza della carne, e concupiscenza degli occhi, e superbia della vita ( 1 Gv 2,16 ). Questo riguardo ai frutti della redenzione. 7. Anche nel modo che, se ricordate, abbiamo detto consistere nell’annichilamento di Dio, vi propongo di considerare principalmente tre cose. Poiché quello non fu una semplice e piccola umiliazione; ma si umiliò fino a farsi uomo, fino alla morte, alla morte di croce … Chi può rendersi degnamente conto dell’abisso di tale umiliazione, di tale mansuetudine e degnazione sia stato per il Signore il rivestirsi di umana carne, il venire condannato a morte, subire l’obbrobrio della croce? Ma qualcuno dirà: « Non poteva il Creatore restaurare la sua opera senza tutto questo strazio? ». Sì che lo poteva, ma preferì farlo soffrendo personalmente, perché nell’uomo non vi fosse occasione per il pessimo e odioso vizio della ingratitudine. In verità, le molte sofferenze a cui egli si sottomise dovevano rendere l’uomo debitore di molto amore, e la difficoltà della redenzione dovevano spingerlo al ringraziamento, mentre la sua prima condizione lo aveva reso meno devoto. Che cosa diceva infatti l’uomo creato e ingrato? « Gratuitamente sono stato creato, ma questo non ha costato nessun gravame o fatica al Creatore: infatti egli disse e io fui fatto, come tutte le altre cose. Che c’è di straordinario, se anche mi ha dato cose grandi con la facilità di una parola? ». Così l’umana empietà, attenuando il beneficio della creazione ne prendeva materia di ingratitudine mentre avrebbe dovuto trovarvi motivo di amore, e questo per trovarvi scuse ai suoi peccati. Ma venne chiusa la bocca di chi diceva cose inique. Appare ora più chiaro della luce quanto per te, o uomo, Dio abbia pagato di persona: egli non ha disdegnato di farsi da Signore servo ( schiavo ), da ricco povero, da verbo carne, e da Figlio di Dio figlio dell’uomo. Ricordati ora anche tu, anche se creato dal nulla, non dal nulla sei stato redento. In sei giorni egli ha fatto tutte le cose, e te fra esse. Ma per tre anni continui ha operato sulla terra la tua salvezza. Quante sofferenze sostenne! Alle necessità della carne, alle tentazioni del nemico aggiunse l’ignominia della croce e l’orrore della morte. Era necessario. Così, così, o Signore, hai salvato uomini e giumenti, tanto si stende la tua misericordia, o Dio. 8. Meditate queste cose, in queste cose trattenetevi. Con tali profumi ristorate le vostre viscere che per tanto tempo furono nauseate dal lezzo dei peccati, onde abbondiate anche di questi unguenti, non meno soavi che salutari. Non pensate tuttavia di possedere già quegli ottimi che vengono detti profumare le mammelle della sposa. Non possiamo cominciare ora a parlare di quelli, essendo già tempo di finire il presente sermone. Tenete bene a mente quanto è stato detto degli altri, dimostratelo nella vostra vita; e per questi altri aiutatemi con le vostre preghiere, affinché possa parlare come si conviene a così grandi delizie della sposa, e in maniera da incitare le vostre anime all’amore dello Sposo, Gesù Cristo nostro Signore. Sermone XII I. Il terzo unguento, quello della pietà 1. Ricordo di avervi parlato di due unguenti: uno della contrizione, che suppone molte trasgressioni, l’altro della devozione, che richiama molti benefici; l’uno e l’altro sono salutari, ma non entrambi soavi. Il primo infatti si sente pungere, perché l’amaro ricordo dei peccati spinge alla compunzione e provoca dolore, mentre l’altro è lenitivo in quanto il pensiero della divina bontà dona conforto e mitiga il dolore. Ma c’è un unguento che sorpassa di gran lunga questi due, lo chiamerei pietà, perché viene ricavato dalle necessità dei poveri, dalle ansietà degli oppressi, dal turbamento dei tristi, dalle colpe dei peccatori, insomma da tutte le sofferenze dei miseri di ogni specie, fossero anche nemici. Spregevoli sembrano questi ingredienti; ma l’unguento che se ne ricava supera tutti gli altri aromi. È salutare: Beati infatti i misericordiosi, perché anch’essi otterranno misericordia ( Mt 5,7 ). Dunque, molte miserie messe insieme e riguardate con occhio di pietà, sono questi gli ingredienti con i quali si compongono ottimi unguenti, degni delle mammelle della sposa, gradevoli ai sensi dello Sposo. Felice quella mente che ha posto cura nell’arricchirsi e impinguarsi raccogliendo tali aromi, infondendoli con l’olio della misericordia e cuocendoli con l’ardore della carità! Chi è quell’uomo pietoso che dà in prestito, incline alla compassione, pronto a venire in soccorso, stimando cosa più felice il dare che il ricevere, facile al perdono, difficilmente soggetto all’ira, affatto dimentico della vendetta, e che considera in tutto le necessità del prossimo come se fossero le sue? O anima, chiunque tu sia, che nutri tali sentimenti, così imbevuta della rugiada della misericordia, così piena di viscere di pietà che in tal modo ti fai tutta a tutti, divenuta un rifiuto a te stessa per essere sempre e dovunque a disposizione degli altri per soccorrere dove c’è bisogno, così, insomma, morta a te stessa onde vivere per tutti: tu veramente possiedi felice il terzo ottimo unguento, e le tue mani hanno spillato un liquore che spande ogni soave odore. Non si seccherà nel tempo cattivo, né la furia della persecuzione lo farà sparire; ma sempre sarà memore il Signore del tuo sacrificio, e il tuo olocausto sarà pingue. 2. Nella città del Signore degli eserciti vi sono uomini ricchi: chiedo se presso alcuni di loro si trovino tali unguenti. II. Diversi esempi di coloro che olezzavano di tale unguento E per primo incontro Paolo, come capita dappertutto, vaso di elezione, veramente vaso aromatico, vaso odorifero e ricolmo di ogni sorta di aromi. Era infatti il buon odore di Cristo in ogni luogo. E veramente spandeva, in lungo e in largo, una dolcissima fragranza quel cuore così pieno di sollecitudine per tutte le chiese. Osserva quali aromi e quali profumi vi erano riposti: Io muoio ogni giorno per la vostra gloria ( 1 Cor 15,31 ); e di nuovo: Chi è infermo che non sia infermo anch’io? Chi è scandalizzato che io non arda? ( 2 Cor 11,29 ). E di molti altri ingredienti, che voi bene conoscete, abbonda questo ricco per comporre ottimi unguenti. Era infatti conveniente che le mammelle della sposa spandessero odore di unguenti purissimi e di prima qualità, in quanto esse dovevano allattare le membra di Cristo, delle quali Paolo era per certo la madre, partorendole una volta e una seconda volta fino a che Cristo fosse formato in loro, e le membra si adattassero al loro capo. 3. Senti di un altro ricco che aveva tra mano spezie scelte, con le quali confezionava ottimi unguenti: All’aperto non passava la notte lo straniero, e al viandante aprivo le mie porte ( Gb 31,32 ); e similmente: Io ero gli occhi per il cieco, ero il piede per lo zoppo. Padre io ero per i poveri, rompevo la mascella al perverso, e dai suoi denti strappavo la preda ( Gb 29,15-17 ). Mai ho rifiutato quanto brama il povero; né ho lasciato languire gli occhi della vedova; mai da solo mangiai il mio tozzo di pane, senza che, ne mangiasse l’orfano. Non ho mai visto un misero privo di vesti o un povero che non aveva di che coprirsi senza che abbiano dovuto benedirmi i suoi fianchi e con la lana dei miei agnelli si sia riscaldato ( Gb 31,16-17.19-20 ). Quanto pensiamo che un simile uomo abbia profumato la terra con tali opere? Ogni opera era un aroma. Di questi aveva riempito la sua coscienza, e gli servivano poi a temperare con l’olezzo della interiore soavità il fetore della carne imputridita. 4. Giuseppe, dopo aver fatto correre tutto l’Egitto dietro l’odore dei suoi unguenti, fece infine sentire la medesima fragranza anche ai fratelli che l’avevano venduto. E mentre cercava di rivolgere loro parole di biasimo con volto adirato, dal cuore gonfio erompevano le lacrime, non indizio di ira, ma segno di grazia. Samuele piangeva Saul, il quale cercava di ucciderlo, e il suo cuore, riscaldato dalla carità, interiormente si scioglieva, e l’abbondanza della pietà si traduceva in lacrime che sgorgavano dagli occhi. Per questa sua bontà, il cui profumo ovunque diffuso lo aveva reso famoso, la Scrittura riferisce di lui che tutti riconobbero, da Dan fino a Bersabea che Samuele era il fedele Profeta del Signore … ( 1 Sam 3,20 ). Che dirò di Mosè? Di quanta abbondanza e ricchezza di pietà sovrabbondava il suo cuore! Né quel popolo ribelle, tra il quale viveva, poté mai con tutte le sue mormorazioni e il suo furore distruggere quell’unzione dello spirito di cui era stato ripieno, e impedirgli di perdurare nella sua mansuetudine pur tra gli assidui litigi e le quotidiane contese. Giustamente lo Spirito Santo ha reso di lui testimonianza dicendo che era il più mite degli uomini che vivevano sulla terra. Difatti, con coloro che odiavano la pace era pacifico, tanto che non solo non si adirava contro un popolo ingrato e ribelle, ma mitigava lo sdegno del Signore con il suo intervento, come sta scritto: Aveva già deciso di sterminarli, se Mosè suo eletto non fosse stato sulla breccia di fronte a lui, per stornare la sua collera dallo sterminio ( Sal 106,23 ); e infine: Se vuoi perdonare, dice, perdona; se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto ( Es 32,32 ). O uomo veramente unto con l’unzione della misericordia! Parla davvero con l’affetto di una madre, la quale non può godere di nessuna felicità se ne sono esclusi i frutti delle sue viscere. Per esempio, se un ricco dicesse a una poveretta: « Entra tu a pranzare con me, ma lascia fuori il bambino che porti in braccio, perché piange e dà disturbo », lo farebbe? Non sceglierebbe forse di digiunare piuttosto che lasciare il suo caro pegno e pranzare da sola con il ricco? Così neanche Mosè sopporta di venire introdotto solo nel gaudio del suo Signore, fuori restando il suo popolo, sia pure inquieto e ingrato, ma verso il quale è legato da affetto materno. Gli dolgono le viscere, ma stima più tollerabile il dolore che lo strappo. 5. Chi più mansueto di Davide, il quale piangeva la morte di colui che cercava la sua? Chi più benigno di lui, che mai sopportava la morte di colui al quale succedeva nel trono? Ma anche con quanta difficoltà si rassegnò alla morte del figlio parricida! E pregava con sicurezza dicendo: Ricordati, Signore, di David e di tutta la sua mansuetudine ( Sal 132,1 ). Tutti costoro ebbero dunque ottimi unguenti, per i quali anche oggi spandono per tutte le chiese soavissimi odori. E non solo essi, ma anche tutti coloro che in questa vita si dimostrarono così benevoli e benefici, che cercarono di vivere in modo così umano tra gli uomini da mettere in comune con gli altri i propri beni, senza tenerli solo per se stessi, considerandosi debitori verso gli amici e i nemici, verso i sapienti e gli insipienti. Ed essendo utili a tutti, furono anche umili in tutto e tra tutti, cari a Dio e agli uomini, e la loro memoria, quale soave profumo, rimane benedetta. Quanti si comportarono in tale maniera, sparsero odori di ottimi unguenti durante la loro vita e continuano a farlo ancora oggi. III. Chiunque di noi può olezzare di tale profumo Anche tu, se farai parte del dono ricevuto dall’alto a noi tuoi commilitoni, se ti mostri tra noi servizievole, affettuoso, grato, affabile, umile, avrai da tutti testimonianza che anche tu spandi fragranza di ottimi unguenti. Ognuno di voi che, non solo sopporta con pazienza le infermità dei fratelli, sia corporali che morali, ma inoltre, se gli è lecito, se gli è possibile, li aiuta con i suoi servizi, li conforta con le parole, li indirizza con i consigli, e se non può far questo a causa della disciplina, per lo meno non cessa di venire incontro ai deboli con la preghiera: chiunque, dico, tra di voi opera tali cose, spande veramente un buon odore tra i fratelli, e un odore di ottimi unguenti. È un balsamo nella bocca tale fratello nella comunità: viene mostrato a dito, e di lui dicono tutti: Costui è uno che ama i fratelli e il popolo d’Israele; questi è colui che molto prega per il popolo e per tutta intera la santa città ( 2 Mac 15,14 ). IV. L’unguento del corpo del Signore 6. Ma facciamo ricorso al Vangelo, e cerchiamo se vi sia per caso qualche cosa che riguardi questi unguenti. Maria Maddalena e Maria di Giacomo, e Salome comprarono aromi, e vennero a imbalsamare Gesù ( Mc 16,1 ). Quali sono questi unguenti così preziosi che si preparano e si comprano per il corpo di Cristo, e così abbondanti per bastare per ungere tutto il corpo? Di nessuno dei due precedenti unguenti invero si legge che sia stato comprato o fatto per essere usato in modo speciale per il Signore o che sia stato sparso per tutto il suo corpo. Ma si parla di una donna che entra improvvisamente, e in un luogo bacia e unge i piedi con unguento, in un altro lei stessa o un’altra porta un vaso d’alabastro pieno d’unguento che versa sul capo. Qui, al contrario: Comprarono, dice, degli aromi per venire a ungere Gesù. Comprano non unguenti, ma aromi, e l’unguento per il corpo di Gesù non viene comprato già confezionato, ma viene fatto lì per lì; non serve solo per qualche parte del corpo, per esempio per i piedi o la testa, ma, come è scritto: Per venire a ungere Gesù, è destinato a ungere tutto l’insieme del corpo non una parte destinata. 7. Anche, tu, se ti rivesti di viscere di misericordia, e ti mostri liberale e benigno non soltanto verso i genitori e i parenti o verso coloro che consideri come benefattori o speri che saranno tali nei tuoi riguardi – poiché anche i pagani agiscono così –, ma, secondo il consiglio di Paolo, cerchi di far del bene a tutti, tanto da non sottrarre neanche a un nemico un aiuto spirituale o corporale per amore di Dio, è chiaro che anche tu possiedi in abbondanza ottimi unguenti, con i quali ungere non solo i piedi o il capo del Signore una volta tanto, ma, per quanto dipende da te, tutto il corpo, che è la Chiesa. E forse non a caso il Signore non volle che per il suo corpo morto non venisse acquistato un unguento già pronto, onde riservarlo al suo corpo vivo. Vive infatti la Chiesa che mangia il pane vivo disceso dal cielo. Essa è il più caro corpo di Cristo, per liberare il quale dalla morte, Cristo volle morire, come nessun cristiano ignora. Essa ( la Chiesa ) egli desidera che venga unta, ristorata, e le sue membra curate con appositi impacchi. Per lei dunque ha riservato i preziosi unguenti quando, anticipando l’ora e accelerando la gloria ( della risurrezione ), non eluse la devozione delle donne, ma diede loro un insegnamento. Non volle essere unto, ma per pietà, non per dispregio; non ricusò l’omaggio, ma ne riservava il beneficio. Il beneficio, dico, non di quel materiale e corporale unguento, ma il beneficio spirituale da quello figurato. Risparmiò dunque il Maestro della pietà gli unguenti ottimi della pietà che desiderava fossero impiegati a favore delle sue membra indigenti, sia corporalmente, sia spiritualmente. Tuttavia, poco prima, mentre gli veniva versato l’unguento, assai prezioso, sul capo e sui piedi, lo proibì forse? Anzi, rimproverò chi avrebbe voluto impedirlo. Infatti, a Simone che se ne scandalizzava, disse in tono di rimprovero una lunga parabola, e agli altri che obiettavano lo spreco dell’unguento, rispose dicendo: Perché molestate questa donna? ( Mt 26,10 ). V. Conforme al tipo della donna del Vangelo 8. Talvolta io, per fare una piccola digressione, sedendo per conto mio ai piedi di Gesù e offrendo nella mestizia un sacrificio di spirito amareggiato al ricordo dei miei peccati, ovvero stando vicino al capo se mi era dato, sia pur raramente, ed esultando nel ricordo dei suoi benefici, ho sentito dirmi: Perché questo spreco? Mi si rimproverava cioè che me ne vivessi solo per me stesso, mentre, mi si diceva, avrei potuto essere utile a molti. E dicevano costoro: Questo unguento poteva vendersi a caro prezzo e darne il ricavato ai poveri ( Mt 26,8-9 ). Ma non sarebbe un buon affare per me, anche guadagnare tutto il mondo, se poi perdessi l’anima mia o ne riportassi danno per me stesso. Onde, comprendendo che queste parole erano quelle mosche di cui parla la Scrittura, le quali, venendo a morire nell’unguento ne guastano la soavità, mi sono ricordato di quella divina sentenza: Popolo mio, coloro che ti lodano, ti inducono in errore ( Is 3,12 ). Ma ascoltino il Signore che mi scusa e risponde per me, coloro che mi accusano di ozio: Perché, dice, date fastidio a questa donna? Quasi dicesse: « Voi vedete l’apparenza, e perciò giudicate secondo la faccia … Non è l’uomo, come credete, che possa mettere mano a cose forti, ma la donna. Perché tentate di imporre a lui un giogo che io considero troppo gravoso per lui? Ha fatto una cosa buona verso di me. Resti nel bene, fino a che non sia in grado di operare il meglio. Se un giorno crescerà da donna in uomo e diventerà uomo perfetto, potrà anch’egli essere adoperato in opere di perfezione ». VI. La duplice tentazione, l’ambizione e il giudicare 9. Fratelli, portiamo riverenza ai vescovi, ma abbiamo timore per i loro impegni: se pensiamo alle fatiche, non aspiriamo agli onori. Riconosciamo le nostre impari forze, né abbiamo l’ambizione di sottoporre le nostre fragili spalle di donne ai pesanti carichi degli uomini, né curiosiamo sulla loro condotta, ma onoriamoli. Non è umano condannare le loro opere, mentre ne eviti gli oneri. È temeraria la donna che rimprovera il marito, che rimprovera la battaglia mentre lei se ne sta in casa a filare. Dico infatti: se uno che vive nel chiostro si accorge che un altro che vive tra il popolo agisce talvolta con minore austerità, con minor circospezione nelle parole, nel cibo, nel sonno, nel ridere, nell’ira, nel giudicare, non si affretti a condannarlo, ma ricordi quanto è scritto: È meglio la cattiveria di un uomo che una donna che fa bene ( Sir 42,14 ). Poiché tu, vigilando a tuo vantaggio, fai bene; ma chi giova a molti fa meglio e agisce più virilmente. E se non riesce a far questo senza qualche pecca, cioè senza qualche incoerenza della vita e della condotta, ricordati che la carità copre una moltitudine di peccati. Ciò sia detto contro una doppia tentazione per la quale i religiosi si sentono incitati, o ad ambire l’onore dei vescovi, ovvero, per diabolica istigazione, a condannarne temerariamente gli sbagli. VII. Il profumo di cui olezzano le mammelle della Sposa cioè della Chiesa 10. Ma torniamo agli unguenti della sposa. Vedi come sia da preferirsi agli altri questo unguento della pietà, del quale solo non è consentito lo spreco. È tanto vero che di esso nulla va sprecato, in quanto neanche un bicchiere di acqua fresca resta senza ricompensa. Buono è tuttavia l’unguento della contrizione che si confeziona con il ricordo dei peccati, e si applica ai piedi del Signore, perché, o Dio, non disprezzerai un cuore contrito e umiliato ( Sal 51,19 ). Ma è molto migliore quello che si dice della devozione, fatto con il ricordo dei benefici di Dio, in quanto si addice al capo, e di esso dica Dio: Il sacrificio di lode mi onorerà ( Sal 50,23 ). Superiore all’uno e all’altro è l’unguento della pietà, che consiste nel venire incontro ai miseri, e questo viene sparso per tutto il corpo di Cristo. Il corpo, dico, non quello crocifisso, ma quello acquistato mediante la passione di lui. Unguento davvero ottimo, in paragone del quale sembra non badare neppure agli altri colui che disse: Misericordia voglio, e non sacrificio ( Mt 9,13 ). Penso pertanto che le mammelle della sposa spandano tra tutte le altre, principalmente il profumo di questa virtù, e la sposa cerca in tutto di agire in conformità alla volontà dello sposo. Non odorava forse di misericordia Thabita, perfino da morta? E perciò presto tornò in vita, perché ( sulla morte ) prevalse il profumo della vita. 11. Ma ora sentite un riassunto di questo capitolo. Chiunque entusiasma con le parole e spande profumo con i benefici, consideri come rivolte a sé le parole: Le tue mammelle sono migliori del vino, più olezzanti di ottimi unguenti ( Ct 1,1-2 ). E chi è capace di questo? Chi di noi possiede integralmente e perfettamente almeno una di queste cose, in modo tale da non essere ogni tanto vuoto nel parlare e tiepido nell’operare? Ma c’è una che giustamente merita questa lode, la Chiesa, alla quale non manca mai, nel suo insieme di che inebriare o di che olezzare. Quello infatti che le manca in uno, lo ha in un altro senso, secondo la misura del dono di Cristo e dell’economia dello Spirito, il quale distribuisce ( i suoi doni ) ai singoli come vuole. Olezza la Chiesa in coloro che si fanno amici con le inique ricchezze; inebria nei ministri della parola, che irrorano la terra con il vino della spirituale letizia, e la inebriano, e portano frutto con la pazienza. Essa arditamente e sicuramente si nomina sposa, come colei che ha veramente mammelle migliori del vino e olezzanti ottimi unguenti. E anche se nessuno di noi può tanto pretendere di chiamare la sua anima sposa del Signore, tuttavia, poiché apparteniamo alla Chiesa, la quale si gloria di chiamarsi ed essere veramente tale, non senza ragione ci attribuiamo una partecipazione a questo onore. Siamo infatti singolarmente partecipi, senza dubbio, di ciò che tutti insieme pienamente e integralmente possediamo. Grazie a te, Signore Gesù, che ti sei degnato di aggregarci alla tua carissima Chiesa, non solo affinché fossimo fedeli, ma anche perché ci potessimo, come sposa, unire a te, in giocondi, casti, ed eterni amplessi, contemplando anche noi a faccia scoperta la tua gloria, che ti è comune insieme con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen. Sermone XIII I. Come i fiumi dal mare, così le virtù provengono da Cristo 1. In Cristo Signore c’è la sorgente di tutte le virtù e di tutte le scienze, come dal mare hanno origine tutte le fonti e i fiumi. E chi è il Signore delle virtù se non lo stesso Re della gloria? Ma secondo il cantico di Anna, lo stesso Dio è il Signore delle scienze ( 1 Sam 2,3 ). La continenza della carne, la solerzia del cuore, la rettitudine della volontà sgorgano da quella fonte. Non solo, ma anche se uno è di perspicace ingegno, di forbita eloquenza, di piacevole carattere, tutto ciò deriva di là. Di là la scienza, di là la sapienza. Infatti, i tesori della sapienza e della scienza sono tutti là nascosti. I casti consigli ( propositi ), i giusti giudizi, i santi desideri non sono forse rigagnoli di quella fonte? Che se abbondanti acque, attraverso canali segreti e sotterranei scorrono incessantemente verso i mari, e di là tornano allo scoperto per i nostri usi con perenne e instancabile flusso, perché non anche i ruscelli spirituali, onde non cessare di irrigare i campi delle menti, faranno ritorno senza inganno e senza interruzione alla propria fonte? Al luogo donde escono ritornino i fiumi delle grazie, per scorrere nuovamente. Ritorni al suo principio la pioggia celeste, per ridiscendere con più frutto sulla terra. « In che modo? », domandi. Come dice l’Apostolo: In tutte le cose rendete grazie a Dio ( 1 Ts 5,18 ). Tutto quel poco di sapienza e di virtù che credi di avere, attribuiscilo a Cristo, virtù e sapienza di Dio. II. L’azione di grazie del Fariseo o di altri che di solito rendono grazie soltanto 2. « E chi è talmente sciocco » dici, « da presumere di avere queste cose da altri? Nessuno, certamente tanto che lo stesso fariseo ringrazia ( Dio ), sebbene la sua giustizia non venga lodata da Dio. Non è infatti quel ringraziamento, se ben ricordi il Vangelo, che lo rende più grato. Perché? Perché tutto quello che nella bocca suona devozione, non è sufficiente a scusare il marcio del cuore agli occhi di colui che conosce da lontano i superbi ». « Dio, o Fariseo, non si lascia canzonare. Credi tu di avere qualche cosa che non abbia ricevuto? – « Nulla », risponde, « e perciò rendo grazie al donatore ». – « Se davvero nulla, dunque neanche è preceduto in te alcun merito per ricevere quelle cose di cui ti glori. Se lo ammetti, prima di tutto a torto ti gonfi contro il Pubblicano, il quale non ha quello che hai tu, perché non lo ha ricevuto come lo hai ricevuto tu. E poi vedi se per caso non attribuisca a Dio integralmente i suoi doni, e, riservando per te alcunché della gloria e dell’onore di lui, giustamente meriti la taccia di frode, e di frode ai danni di Dio. Se infatti ti arrogassi come cosa tua qualcuna delle cose di cui ti vanti, potrei credere che tu sia in errore, più che voler frodare, e cercherei di correggere il tuo sbaglio. Ma per il fatto che tu ringrazi, dai prova di non attribuire nulla a te, e di conoscere prudentemente che i tuoi meriti sono doni di Dio; ora, disprezzando gli altri, tu ti tradisci, facendo vedere che hai parlato con cuore doppio, prestando da una parte la lingua alla menzogna, e dall’altra usurpando la gloria della verità. Non giudicheresti, infatti, il Pubblicano come spregevole di fronte a te, se non pensassi che tu, a differenza di lui, sei degno di onore. Ma che cosa rispondi all’Apostolo che prescrive dicendo: A Dio solo onore e gloria? ( 1 Tm 1,17 ). Che dirai all’Angelo che distingue e insegna quello che Dio vuole ritenere per sé e quello che si degna partecipare agli uomini? Poiché dice: Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace agli uomini di buona volontà ( Lc 2,14 ). Vedete che il Fariseo, ringraziando con le labbra onora Dio, ma con il sentimento del cuore onora se stesso? Così si può notare come molti sono soliti ringraziare più per abitudine e con la sola bocca più che con sentimento e affetto, fino al punto che anche uomini scelleratissimi sono soliti ringraziare Dio per la buona riuscita delle loro infamie e dei loro misfatti, in quanto pensano che Dio sia venuto loro incontro nell’esecuzione delle loro perverse volontà. Capita, per esempio, quando un ladro vede riuscire il suo piano e tiene finalmente il malloppo desiderato nelle mani, di sentirlo dire: « Deo gratias! Non ho vegliato invano, non ho sprecato il mio lavoro di notte ». Similmente chi ha ucciso un uomo, anch’egli se ne gloria e rende grazie per aver trionfato contro un emulo o essersi vendicato di un nemico. Allo stesso modo un adultero esulta e loda Dio, perché alla fine ha ottenuto la soddisfazione a lungo desiderata. III. Il rendimento di grazie deve essere pudico e puro 3. Non è dunque accetto a Dio ogni ringraziamento, ma solo quello che procede da pudica e pura semplicità di cuore. Pudica, direi, in riferimento a coloro che, gloriandosi delle loro cattive azioni, sono soliti ringraziare Dio, quasi che Dio, come essi, si rallegri quando operano il male, ed esulti per le loro pessime azioni. Chi la pensa così senta la parola della Scrittura: Forse credevi che io fossi come te! Ti rimprovero, ti pongo innanzi i tuoi peccati ( Sal 50,21 ). Ho aggiunto: ( semplicità ) pura in riferimento agli ipocriti, i quali glorificando sì Iddio per i suoi beni lo fanno solo a parole, ritengono con il cuore ciò che avevano dato con la bocca, e, operando con inganno al suo cospetto, la loro iniquità risulta degna di odio. I primi attribuiscono empiamente il loro male a Dio, questi ultimi invece frodano Dio, attribuendo a se stessi i suoi beni. Il primo modo di agire, poi, è così stolto, mondano e in qualche maniera bestiale, che non ho bisogno di mettervi in guardia a questo proposito. L’altro difetto, invece, costituisce un’insidia per i religiosi specialmente e gli uomini spirituali. È davvero grande e rara virtù quando tu, anche se compi grandi cose, non ti reputi grande, e quando la tua santità, nota a tutti, a te solo è nascosta. Apparire mirabile e ritenersi spregevole, questo giudico più mirabile delle stesse virtù. Sei davvero un servo fedele, se, della molta gloria del tuo Signore che, anche se non proviene da te, passa tuttavia per te, nulla resterà attaccato alle tue mani. Allora, secondo il Profeta, rigetti un guadagno ingiusto, e scuoti le mani per non accettare regali. Allora, secondo il precetto del Signore, la tua luce brillerà davanti agli uomini, non per dare gloria a te, ma al Padre che è nei cieli. E anche tu, a imitazione di san Paolo e dei fedeli predicatori che non predicano se stessi, non cercherai i tuoi interessi, ma quelli di Gesù Cristo. Per questo sentirai anche tu l’elogio del Signore: Bravo, servo buono e fedele, perché fosti fedele nel poco, ti farò padrone del molto ( Mt 25,21 ). 4. Giuseppe, pur sapendo che il suo padrone egiziano gli aveva affidato tutti i suoi beni, non ignorava che da questi era esclusa la padrona, e per questo non acconsentì a toccarla. Tutti i beni del mio Signore, disse, sono in mio potere, tutto egli mi ha affidato, eccetto te che sei sua moglie ( Gen 39,9 ). Sapeva che la donna è gloria dell’uomo, e giudicò cosa iniqua rispondere al bene con il male, e disonorare il padrone che aveva onorato lui. Riconobbe il prudente uomo di Dio con la sua sapienza che l’uomo è fortemente geloso della propria moglie come della sua gloria, e che la riteneva per sé, non affidandola ad altri, e non ebbe la presunzione di stendere la mano a ciò che non gli era concesso. IV. Che cosa piace a Dio trattenere, a noi dare Che dunque? L’uomo è geloso della sua gloria, e oserà poi rubare quella di Dio, quasi egli non fosse geloso della sua? Ma senti che cosa dice: « Non darò ad altri la mia gloria » ( Is 48,11 ). « Che cosa dunque ci darai, Signore, che cosa darai a noi? ». La pace, risponde, io vi do, vi lascio la pace ( Gv 14,27 ). « Mi basta, accetto con gratitudine ciò che mi lasci, e lascio quello che ritieni. Così piace a te, così, non ne dubito, conviene a me. Rinunzio del tutto alla gloria, perché non mi accada che, usurpando ciò che non mi è concesso, giustamente perda quello che mi è offerto. La pace io voglio, desidero la pace e niente più. A chi non basta la pace, non basti tu. Tu sei infatti la nostra pace, che facesti dei due una cosa sola. Questo mi è necessario, questo mi basta, che io sia riconciliato con te, che tu sia riconciliato con me. Poiché, da quando mi hai considerato come tuo avversario, sono diventato insopportabile a me stesso. Sto attento per non diventare ingrato per il beneficio della pace concessa, né ladro sacrilego della tua gloria. A te, o Signore, per te resti intatta la tua gloria; per me sta bene se avrò la pace ». 5. Abbattuto Golia, il popolo si rallegrò per la pace ottenuta, ma a Davide personalmente ne venne gloria. Giosuè, Jefte, Gedeone, Sansone, Giuditta, sebbene donna, trionfarono gloriosamente ai loro giorni dei nemici, ma mentre gli altri fruivano con gioia della pace, nessuno fu partecipe con essi della loro gloria. Anche Giuda Maccabeo, avendo procurato al popolo esultante la pace combattendo da forte e distinguendosi per le vittorie, ha forse mai condiviso con alcuno la sua gloria? Così la Scrittura: E si fece, dice, non la gloria, ma grande letizia tra il popolo ( 1 Mac 4,58 ). Ora, il Creatore di tutte le cose ha forse fatto cose meno grandi di tutti costoro perché non debba anch’egli singolarmente gloriarsi? Solo ha creato tutte le cose, solo ha liberato i prigionieri, trionfando da solo sul nemico, e avrà uno che condivida la sua gloria? E il mio braccio mi prestò soccorso; e ancora: Nel tino ho pigiato da solo, e del mio popolo con me non vi era nessuno ( Is 63,3 ). Che parte ho dunque io nella vittoria, se non ero presente nella battaglia? È somma impudenza il volersi arrogare, o la gloria senza vittoria, o la vittoria senza la battaglia. Ma ricevete, o monti, la pace per il popolo, ricevete la pace per noi, non la gloria, riservando questa a lui che solo ha combattuto e vinto. Così prego, così sia: Gloria a Dio nell’alto dei cieli, e in terra pace agli uomini di buona volontà ( Lc 2,14 ). Ma non è di buona, bensì di malvagia volontà chi, non contento della pace, con superbo occhio e cuore insaziabile, aspira inquieto alla gloria di Dio, perdendo perciò la pace, né raggiungendo la gloria. V. Ciò che da Dio viene operato per mezzo dei santi, ma proviene da lui Chi crederebbe alla parete che asserisse di generare essa stessa il raggio che si posa su di lei entrando per la finestra? O le nubi, se si gloriassero per la pioggia che lasciano cadere, non farebbero ridere? Per me è chiaro che, dai canali nascono i ruscelli delle acque, né dalle labbra o dai denti le parole prudenti, anche se il senso corporeo non arriva oltre. 6. Se nei santi scorgo delle cose degne di lode o di ammirazione, esaminandole alla chiara luce della divinità; vedo che uno appare, e un altro è veramente lodevole e mirabile, e lodo Dio nei suoi santi. Che sia Eliseo o il grande Elia, risuscitatori di morti, essi non agiscono per loro iniziativa o comando, ma per il loro ministero ci fanno vedere all’esterno cose nuove e insolite; ma Dio che è in loro, è Lui che compie l’opera. Invisibile e inaccessibile in sé, appare mirabile nei suoi ( servi ), Lui solo ammirabile, che solo compie cose mirabili. Non è lodevole la penna per la pittura o la scrittura, né meritano gloria le labbra o la lingua per un buon sermone. È anche tempo che parli il Profeta: Forse che la scure si glorierà contro colui che taglia, o la sega contro colui che la adopera? Come se la verga si insuperbisse contro colui che l’alza, o si insuperbisse il bastone, che poi è un pezzo di legno ( Is 10,15 ), così agisce contro il Signore chiunque si gloria, se non si gloria nel Signore. Se c’è da gloriarsi, Paolo mi insegna per qual motivo e in che cosa: La nostra gloria, dice, è questa, la testimonianza della nostra coscienza ( 2 Cor 1,12 ). VI. In che cosa gloriarsi, in che cosa no Mi glorio sicuro se, mi dice la coscienza, non mi usurpo nulla della gloria del Creatore: davvero sicuro, perché non contro il Signore, ma nel Signore. Gloriarsi così, non ci è proibito, ma consigliato, dove si dice: Cercate la gloria gli uni dagli altri, e non volete quella che è dal solo Dio ( Gv 5,44 ). In realtà, gloriarci in Dio solo ci viene solo da Dio. E non è mediocre questa gloria, tanto vera in quanto viene dalla verità, e in verità tanto rara che appena pochi perfetti si gloriano in essa. Vadano dunque i vani figli degli uomini, i bugiardi figli degli uomini, vadano e tutti ugualmente ingannino nella vanità. Chi sapientemente si gloria proverà l’opera sua e la esaminerà diligentemente al lume della verità; e così avrà gloria in se stesso, non nella bocca altrui. Sono sciocco se affido la mia gloria alle tue labbra, e quando la vorrò, dovrò venirla a mendicare da te. Non sei tu sempre libero di lodarmi o biasimarmi a tuo piacimento? Ma la tengo con me, io stesso me la conservo più fedelmente per me. Anzi, non l’affido neanche a me stesso; la faccio conservare piuttosto da colui che è potente a conservare il mio deposito fino a quel giorno, cauto nel custodirlo, fedele nel restituirlo. Allora vi sarà una lode sicura a ciascuno da parte di Dio, solamente a coloro che avranno disprezzato le umane lodi. Poiché la gloria, a coloro che gustano le cose terrene si muterà in confusione, come dice anche Davide: Quelli che cercano di piacere agli uomini sono confusi, perché Dio li ha respinti ( Sal 53,6 ). VII. In che senso ciò si riferisce alle conseguenze della lettera 7. Fratelli, sapendo queste cose, nessuno di voi cerchi di essere lodato in questa vita, perché qualsiasi favore tu ricevi quaggiù e non lo riferisci a Dio, tu rubi a lui. Di che cosa ti puoi gloriare tu, polvere puzzolente, di che? Della santità della vita? Ma è lo Spirito che santifica: lo Spirito, dico, non tuo, ma di Dio. Anche se fai miracoli e prodigi, si compiono per le tue mani, ma per virtù di Dio. O ti accarezza l’aura popolare per i tuoi buoni e bei discorsi. Ma è Cristo che ti ha donato la bocca e la sapienza. Poiché la tua lingua che altro è se non la penna di uno scriba? E anche questa l’hai avuta in prestito. Ti è stato affidato un talento, lo dovrai restituire con l’interesse. Se sarai trovato solerte al lavoro, fedele nel riportare il frutto, riceverai la ricompensa per il tuo lavoro. Altrimenti verrà tolto da te il tuo talento; e si esigerà da te il tuo guadagno, e sarai chiamato servo cattivo e pigro … Sia resa pertanto ogni lode a Dio, per, i beni della multiforme grazia che si manifesta in voi, perché egli è l’autore e il largitore di tutte le cose degne di lode, e questo si faccia non per finta, come da ipocriti, non per sola consuetudine, come si fa dai secolari, non per una certa necessità, come giumenti sui quali si caricano fardelli da portare, ma come conviene ai santi, con fida sincerità, sollecita devozione, grata ilarità, non sregolata però … Immolando dunque ostie di lode e offrendo i nostri voti di giorno in giorno, sforziamoci con ogni attenzione di unire all’usanza il sentimento, al sentimento l’affetto, all’affetto l’esultanza, la gravità all’esultazione, l’umiltà alla gravità, la libertà all’umiltà, onde poter procedere ogni tanto con mente purificata e libera dalle passioni, a certe e più elevate affezioni e spirituali letizie in soavi giubilei, nella luce di Dio, nella dolcezza, nello Spirito Santo, dimostrando di essere anche noi compresi tra quelli che il Profeta indicava dicendo: Signore, cammineranno alla luce del tuo volto, e nel tuo nome esulteranno tutto il giorno, e nella tua giustizia saranno esaltati ( Sal 89,16-17 ). Ma forse qualcuno mi dirà: 8. « Tu parli bene, ma se dicessi che convengono al tuo argomento ». Aspettate un poco; non mi sono dimenticato. Non siamo arrivati a spiegare le parole: Olio sparso è il tuo nome? ( Ct 1,2 ). Questa è l’impresa, qui c’è da lavorare0 E se quanto abbiamo premesso sia stato necessario lo vedrete voi; ora, per quanto riguarda me, sentite brevemente come non mi sembri estraneo. Non vi ricordate come, parlando delle mammelle della sposa, ultima a essere lodata è stata la fragranza degli unguenti? Che c’è ora di più logico che la stessa sposa, per non attribuire a sé tale profumo, lo riconosca come un beneficio dello Sposo? Vedete ora che quanto abbiamo prima spiegato corrisponde a questo senso. « Che le mie mammelle, dice, siano così olezzanti e piacevoli, non lo attribuisco alla mia diligenza, né ai miei meriti, ma alla tua generosità, o Sposo, per l’olio appunto sparso in nome tuo ». Questo per rimetterci al testo. 9. Del resto la spiegazione di questo stesso capitolo ( sermone ), in occasione del quale abbiamo parlato così a lungo sul pessimo vizio dell’ingratitudine, richiede altro tempo e occuperà l’inizio di un altro sermone. Questa sola ammonizione vi basti per ora: se la sposa non osa minimamente attribuirsi nulla di tutta la sua virtù e grazia, quanto meno le giovinette, che siamo noi? Diciamo pertanto anche noi, seguendo le vestigia della sposa, diciamo: Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria ( Sal 115,1 ). Diciamolo non solo a parole, ma in opere e verità, onde non si dica di noi, cosa che temo grandemente: Lo hanno amato con la bocca, e con la lingua gli hanno mentito; il loro cuore non era sincero con lui, e non erano fedeli alla sua alleanza ( Sal 78,36-37 ). Diciamo dunque, diciamo, gridando più con l’intimo dei cuori che con le labbra della bocca: Salvaci, o Signore nostro Dio, e raccoglici di mezzo ai popoli, perché proclamiamo il tuo santo nome ( Sal 106,47 ), non il nostro, e ci gloriamo, non della nostra, ma della tua lode, nei secoli dei secoli. Amen. Sermone XIV I. Il giudizio della Chiesa o della Sinagoga 1. Dio è conosciuto in Giuda, in Israele è grande il suo nome ( Sal 76,2 ). Il popolo dei gentili che camminava nelle tenebre vide una grande luce che era in Giudea e in Israele, e volle avvicinarsi ed essere illuminato, affinché esso, che una volta non era popolo, ora fosse popolo, e l’unica pietra angolare riunisse in sé le due pareti convergenti dai due lati, e fosse così ormai nella pace il suo luogo. Ora, gli conferiva fiducia la voce che invitava dicendo: Rallegratevi o nazioni con il suo popolo ( Rm 15,10 ). Volle dunque accostarsi, ma la vecchia Sinagoga glielo vietò, chiamando immonda la Chiesa costituita da Gentili e rimproverandole l’immondezza dell’idolatria e la cieca ignoranza, e dicendo: « Con qual merito pretendi di entrare tu? Non toccarmi ». « Perché? », dicevano i pagani. « Forse che Dio è solo dei Giudei? non è forse anche dei Gentili? E se è certo che a me manca il merito, non manca però a lui la misericordia. È forse solamente giusto? È anche misericordioso … O Signore, venga su di me la tua misericordia e avrò vita ( Sal 119,77 ); e di nuovo: Le tue misericordie sono grandi, Signore, secondo i tuoi giudizi fammi vivere ( Sal 119,156 ), perché essi sono temperati dalla misericordia ». Che farà il Signore, giusto e misericordioso, mentre la Sinagoga, che si gloria nella legge, chiede per sé giustizia, né ha bisogno della misericordia, ma disprezza i gentili che ne hanno bisogno; questi, per contro, che conoscono i propri delitti, confessano la propria indegnità, non si appellano alla giustizia, e chiedono misericordia? Che farà, dico, il Giudice, e quel Giudice, al quale è familiare sia applicare la giustizia come usare misericordia e nessuna delle due cose gli è più facile dell’altra? Che cosa c’è di più conveniente che dare a ciascuna delle due parti ciò che domanda, vale a dire la giustizia alla Sinagoga e la misericordia alla Gentilità? Il giudeo cerca giustizia, l’abbia. E i Gentili lodino Dio per la sua misericordia. Ed è per un giusto giudizio, che coloro disprezzano la misericordiosa giustizia di Dio, e vogliono imporre la loro, la quale davvero non giustifica, ma accusa, siano abbandonati a quella loro stessa giustizia, più per essere oppressi che giustificati. 2. Il giudeo è dalla legge, che non ha mai portato nessuno alla perfezione. Essa è un giogo che neppure i suoi padri hanno mai potuto portare. Ma la Sinagoga è forte, non si cura di un peso leggero, né di un giogo soave. È sana, non sente bisogno del medico, né dell’unzione dello Spirito. Ha confidato nella legge: la liberi se ne è capace. Ma non è stata data una legge, tale che possa dare la vita; anzi, uccide: La lettera infatti uccide ( 2 Cor 3,6 ). Perciò, prosegue, dico a voi: morirete nei vostri peccati ( Gv 8,24 ). Questo, o Sinagoga, è il giudizio che tu invochi. Sarai abbandonata al tuo errore, cieca e litigiosa, fino a che la pienezza dei Gentili, che tu superba disprezzi, e invidiosa discacci, entri a conoscere anch’essa quello stesso Dio che è conosciuto in Giuda e il cui nome è grande in Israele. E questo è il giudizio che è venuto a fare nel mondo, che quelli che non vedono vedano, e quelli che vedono diventino ciechi. In parte, tuttavia, perché il Signore non rigetterà totalmente il suo popolo, riservandosi come seme gli Apostoli e la moltitudine dei credenti, i quali formavano un cuore e un’anima sola. Né lo rigetterà alla fine, quando salverà le reliquie. Di nuovo, infatti, accoglierà il suo figlio Israele, e si ricorderà della sua misericordia, perché neanche là la misericordia cessi di accompagnare la giustizia dove non le era stato riservato alcun posto. Altrimenti, a trattarla come si meritava, giustizia senza misericordia sarebbe toccata a colei che non aveva usato misericordia. II. La Chiesa ha in sorte il posto occupato dalla Sinagoga La Giudea ha invero molto olio della divina conoscenza e, avara, lo tiene come rinchiuso in un vaso. Lo chiedo e, senza compassione, non me ne dà. Sola vuole possedere il culto di Dio, sola la conoscenza di lui e il suo grande nome, né lo fa perché è gelosa di sé, ma perché è invidiosa verso di me. 3. Perciò tu, o Signore, fammi giustizia, e il tuo nome grande sarà ancora maggiormente magnificato, e l’olio, che è molto, si moltiplicherà ancora. Cresca, bollisca, si effonda, arrivi ai Gentili, e ogni uomo senta la salvezza di Dio. Per quale ragione, come vuole il giudeo ingrato, l’unzione salutare deve rimanere tutta nella barba di Aronne? Non conviene alla barba, ma al capo. E il capo non è solo della barba, ma di tutto il corpo. Lo riceva pure per prima, ma non essa sola. Faccia rifluire nelle membra inferiori quello che essa ha ricevuto dall’alto. Scenda, scenda anche sulle mammelle della Chiesa il liquore superno. Avidissima come ne è, non fa caso che questo scenda a lei dalla barba e, tutta irrorata di grazia, dica, per non dimostrarsi ingrata: Olio sparso è il tuo nome ( Ct 1,2 ). Ma, di grazia, trabocchi ancora, e scenda fino all’orlo della veste, fino a me ultimo di tutti e il più indegno, ma che appartengo al vestito, tuttavia, poiché io pure lo richiedo, per diritto di pietà, quale figliolino in Cristo dal seno materno. Che se un uomo mormora, perché guarda con occhio cattivo che tu sei buono, rispondi per me, o Signore: Dal tuo volto venga la mia sentenza ( Sal 17,2 ), e non dal cipiglio d’Israele. Anzi, rispondi per te, e di’ al calunniatore – dice infatti calunnia contro di te, per il fatto che dai a me gratis – digli dunque: Voglio dare anche a quest’ultimo come a te ( Mt 20,14 ). Dispiace al Fariseo. Che cosa borbotti? Il mio diritto è la volontà del giudice. Che cosa più giusta per il merito, o più ricca per il premio? E non può egli fare ciò che non vuole? Con me si usa misericordia, ma a te non si fa torto. Prendi quello che è tuo e vattene ( Mt 20,14 ). Se ha deciso di salvare me, perché tu mi vuoi perduto? 4. Aumenta quanto vuoi i meriti, moltiplica i sudori: la misericordia del Signore vale più della vita. Lo ammetto, non ho portato il peso del giorno e del caldo; ma per il beneplacito del padre di famiglia, porto un giogo soave e un peso leggero. Il mio lavoro è appena di un’ora; e se è di più per l’amore non lo sento. Il Giudeo eserciti le sue forze; a me piace sperimentare quale sia la volontà di Dio, buona, gradevole, perfetta. Per essa mi risarcisco per quanto mi manca, riguardo al lavoro e al tempo. Il Giudeo si appoggia al patto stipulato, io conto sulla benevolenza della volontà; credo, e non mi verrà imputato a insipienza, poiché nella sua volontà è la vita. Essa mi riconcilia con il Padre, essa mi restituisce l’eredità, e con una grazia più abbondante, mi fa provare le ben note gioie della sinfonia, del canto e del banchetto, e dell’esultanza di tutta la famiglia. Se ne rimane indignato quel mio fratello maggiore, che preferisce mangiare fuori il capretto con gli amici, piuttosto che il vitello grasso con me nella casa paterna, gli si risponderà: È giusto banchettare e far festa, perché questo mio figlio era morto ed è risuscitato; si era perduto, ed è stato ritrovato ( Lc 15,32 ). La Sinagoga banchetta ancora fuori con i demoni suoi amici, ai quali piace assai che l’insipiente divori il capretto del peccato, trangugiandolo e riponendolo in qualche modo nascosto nel ventre della sua infingardaggine e insipienza, mentre disprezzando la giustizia di Dio, e volendo imporre la sua, dice di non avere peccato, né di aver bisogno dell’uccisione del vitello grasso, reputandosi monda e giustificata dalle opere della legge. Invece la Chiesa, strappatosi il velo della lettera che uccide alla morte del Verbo crocifisso arditamente irrompe, guidata dallo spirito di libertà, nei suoi penetrali, è riconosciuta, amata, prende il posto dell’emula, diviene sposa, gode dei bramati amplessi, e, stringendosi al Cristo Signore nell’ardore dello spirito, aderisce a lui che stilla ed effonde da ogni parte l’olio di esultanza a preferenza dei suoi eguali ed esclama: Olio effuso è il tuo nome ( Ct 1,2 ). Che c’è da meravigliarsi se si unge lei che abbraccia l’unto? III. La distinzione fra la sposa e le vergini, anche le più vicine 5. La Chiesa dunque riposa dentro, ma la Chiesa, per il momento, dei perfetti. C’è tuttavia una speranza anche per noi. Vegliamo alle porte, noi che siamo meno perfetti, godendo nella speranza. Intanto lo Sposo e la sposa stiano dentro soli, godano dei mutui intimi amplessi, senza alcuno strepito di desideri carnali, senza essere turbati dal tumulto di corporei fantasmi. La turba invece delle giovinette, che non possono ancora essere esenti da tali disturbi, aspetti fuori. E aspettino sicure, ben sapendo che è loro riservato quello che è scritto: A te saranno condotte con lei le vergini e le compagne ( Sal 45,15 ). E perché ciascuna sappia di che spirito sia, chiamo vergini quelle che datesi a Cristo prima di essere macchiate da contatti con il mondo, sono restate a lui fedeli, tanto più felici quanto più per tempo si votarono a lui; compagne invece chiamo quelle che, vissute per qualche tempo in conformità alle massime del mondo, dopo essersi prostituite turpemente ai principi di esso, cioè agli spiriti immondi in ogni specie di carnale concupiscenza, un bel giorno finalmente, vergognandosi della propria deformità, se ne spogliano, e, quanto più tardi, tanto più sinceramente, si affrettano a ripristinare in sé la forma dell’uomo nuovo. Le une e le altre cerchino di progredire effettivamente, non vengano meno, né si stanchino, anche se non si sentono ancora pienamente di dire anch’esse: Olio sparso è il tuo nome. Non osano infatti le giovanette rivolgere direttamente la parola allo Sposo. Tuttavia, se si studieranno di seguire più da vicino le orme della maestra saranno rallegrate almeno dall’odore dell’olio effuso, e saranno incitati anche dall’odore a desiderare e a cercare cose più alte. IV. Il suo amore quale è agli inizi e come ciò avvenga in noi 6. Spesso anch’io non mi vergogno di confessarlo, specialmente all’inizio della mia conversione, duro e freddo di cuore, cercando colui che voleva amare l’anima mia – né poteva infatti amare colui che non aveva ancora trovato, o per lo meno, lo amava meno di quanto volesse, e perciò chiedeva di poter amare maggiormente colui che non avrebbe affatto cercato, se già non lo avesse in qualche modo amato – mentre dunque cercavo lui, nel quale si riscaldasse e trovasse riposo il mio spirito, intorpidito e languido, e non c’era da nessuna parte chi mi venisse incontro e mi aiutasse, per il quale, cioè, si risolvesse la rigida bruma che mi intirizziva i sensi interni, e tornasse il tepore primaverile e la dolcezza dello spirito, l’anima mia languiva sempre più e si annoiava, e sonnecchiava per tedio, triste e quasi disperata, mormorando tra sé quelle parole: Davanti a questo freddo chi potrà resistere? ( Sal 147,17 ). Ed ecco all’improvviso, a una parola, o alla sola presenza di un qualche uomo spirituale o perfetto, o al solo ricordo di un defunto o di una persona assente, soffiare lo spirito e scorrere le acque, e quelle lacrime erano per me come pane di giorno e di notte. Che era questo se non l’ardore che esalava l’unzione di cui quello era perfuso? Non era un’unzione quella che a me non giungeva se non tramite un altro uomo. E per questo, anche se godevo del dono, mi confondevo e umiliavo, perché giungesse a me la leggera esalazione e non un’abbondante aspersione. Soddisfatto, invero, nell’odorato, ma non nel tatto, mi riconoscevo perciò indegno che Dio mi facesse sentire direttamente la sua dolcezza. Anche adesso, se mi succede questo, ricevo sì con avidità il dono concesso, e ne sono grato, ma mi dolgo grandemente per non averlo meritato da me stesso, e non averlo ricevuto, come si dice, da mano a mano quando lo chiedevo con tanta insistenza. Mi vergogno perché abbia più effetto in me il pensiero di un uomo che non quello di Dio. E allora grido gemendo: Quando verrò e vedrò il volto di Dio? ( Sal 42,3 ). Penso che alcuni di voi abbiano sperimentato la medesima cosa e che la sperimentino ancora ogni tanto. Riguardo a questo, che cosa pensare se non che questo succeda per convincere la nostra superbia, o per mantenerci nell’umiltà, o per nutrire la fraterna carità, o per accendere maggiormente il desiderio? Un medesimo cibo è medicina per i malati, e dieta per i cagionevoli; rinforza pertanto i deboli e diletta i sani. Un medesimo identico cibo risana la languidezza e conserva la salute, nutre il corpo e dà salute al palato. V. La Sinagoga ha il profumo ma non effuso. Perché il nome dello Sposo è paragonato al profumo 7. Ma ritorniamo alle parole della sposa, e cerchiamo di ascoltare le cose che dice, onde sperimentare quello che essa sente. La sposa, come ho detto, è la Chiesa. Essa è colei alla quale è stato più perdonato e che più ama. Ciò che la sua emula le rimprovera ingiuriandola, essa lo fa servire a suo vantaggio. Ne consegue che è più mansueta nel correggere, più paziente nei travagli; ne profitta per essere più ardente nell’amore, più sagace nel mostrarsi cauta, più umile a causa della sua coscienza, e più accetta per la sua verecondia; da qui impara anche a essere più pronta nell’obbedienza, più devota e sollecita nel rendere grazie; infine, mentre la sua emula brontola e mette avanti i suoi meriti, le sue fatiche, il peso del giorno e del calore, la Chiesa ricorda il beneficio dicendo: Olio sparso il tuo nome ( Mt 20,12 ). 8. Questa è davvero la testimonianza di Israele per lodare il nome del Signore: non tuttavia dell’Israele secondo la carne, ma di quello che è secondo lo Spirito. Ma come potrebbe dire questo il carnale Israele? Non che non abbia l’olio, ma non lo ha sparso. Lo ha, ma nascosto, lo ha nei codici, non nei cuori. Aderisce fuori alla lettera, palpa con le mani un vaso pieno e chiuso, e non apre per ungersi. Dentro vi è l’unzione dello Spirito: apri e ungiti, e non sarai più una casa ribelle. Che fa l’olio nei vasi, se non lo senti anche nelle membra? Che ti giova leggere qua e là nei libri il pio nome del Salvatore, e non avere poi la pietà dei costumi? È un olio: spandilo e sentirai la sua virtù, che è triplice. Ma al Giudeo queste cose danno fastidio; sentite voi. Voglio dire perché il nome dello Sposo è paragonato all’olio, quel che non avevo ancora detto. E di questo mi si presentano tre ragioni. Ma, poiché viene chiamato con diversi nomi, per il fatto che nessuno lo esprima propriamente – è infatti ineffabile – dobbiamo prima invocare lo Spirito Santo perché si degni, con la sua ispirazione, giacché non lo ha fatto per mezzo della Scrittura, di indicarcene uno fra i tanti, quello che egli vuole intendere in questo luogo. Ma anche di questo parleremo in altro tempo. Poiché, anche se avessimo tutto pronto, e voi non foste già pieni e io stanco, l’ora ci dice che è tempo di finire. Tenete a mente quello che vi ho raccomandato, perché non ci sia bisogno di ripeterlo domani. Ora dobbiamo affrontare questo argomento che già ci si è delineato, sapere cioè perché il nome dello Sposo sia paragonato all’olio, e quello che riguarda i nomi. E poiché da me non posso spiegare nessuna cosa, vi invito a pregare perché, per mezzo del suo Spirito, ci illumini il medesimo Sposo, Gesù Cristo Nostro Signore, al quale è onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. Sermone XV I. Tutti i nomi dello Sposo indicano il suo amore e la sua potenza 1. Benigno è infatti lo Spirito di Sapienza, e non è solito mostrarsi difficile a coloro che lo invocano, anzi spesso, prima ancora che venga invocato, dice: Eccomi ( Is 58,9 ). Ora ascoltate ciò che, per la vostra preghiera, egli si degna di indicarvi per mio mezzo circa l’argomento che ieri abbiamo per questo rimandato a oggi, e ricevete a tempo il frutto delle vostre orazioni. Eccomi a mostrarvi il nome che giustamente viene paragonato all’olio, e per merito di chi ora vi parlerò. Potete leggere sparsi qua e là molti nomi attribuiti allo Sposo, ma io ve li riduco tutti a due. Penso che non ne troverete nessuno che non esprima o la grazia della pietà, o la potenza della maestà. Così dice anche lo Spirito attraverso l’organo che gli è più familiare: Ho udito queste due cose il potere appartiene a Dio, e tua, o Signore, è la misericordia ( Sal 62,12 ). Dunque secondo la maestà: Santo e terribile è il suo nome ( Sal 111,9 ); secondo la pietà: Non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini per il quale noi abbiamo da essere salvati ( At 4,12 ). Ma riuscirà più chiaro con degli esempi: Questo è il nome con cui lo chiameranno, il giusto Dio nostro ( Ger 23,6 ): è il nome di potenza; ancora: E il suo nome sarà chiamato Emmanuele ( Is 7,14 ): che insinua la pietà. Egli dice ancora di sé: Voi mi chiamate maestro e Signore ( Gv 13,13 ): il primo è nome di grazia, il secondo di maestà. Non è infatti cosa meno pia insegnare agli animi la scienza che somministrare cibo al corpo. Di nuovo il Profeta: Il suo nome sarà chiamato ammirabile, consigliere, Dio forte, Padre del secolo futuro, principe della pace ( Is 9,6 ). Il primo, il terzo e il quarto manifestano la maestà, gli altri la pietà. Quale dunque di questi viene sparso? Pertanto, il nome di potenza e di maestà si trasfonde in certo qual modo in quello di pietà e grazia, e viene effuso abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo nostro Salvatore. Per esempio, il nome « Dio » non si ammollisce e svanisce forse in quello di « Dio con noi », cioè in « Emmanuele »; così l’« Ammirabile » in quello di « Consigliere »; « Dio » e « Forte » nell’appellativo « Padre del secolo futuro » e « Principe della pace »; e « Signore nostro giusto » in « Signore misericordioso e clemente »? Non dico nulla di nuovo: anche « Abram » una volta si mutò in « Abraham » e « Sarai » in « Sara »; e già allora veniva annunciato, prefigurato e celebrato il mistero della salutare effusione. 2. Dove è ormai quell’affermazione che presso gli antichi risuonava terribile e frequente: Io, il Signore, io il Signore? ( Es 20,2.5 ). Mi è stata data una preghiera all’inizio della quale il dolce nome di Padre dona fiducia di ottenere le petizioni che seguono. I servi sono chiamati amici, e quelli ai quali viene annunziata la risurrezione non sono chiamati solo discepoli, ma fratelli … II. L’effusione del nome dello Sposo, Gesù Cristo E non mi meraviglio se, quando venne la pienezza dei tempi, si compì l’effusione del nome, mentre Dio adempiva ciò che aveva promesso per mezzo del profeta Gioele, ed effondeva lo Spirito suo sull’umanità, essendo già avvenuto qualche cosa di simile nell’antichità presso gli Ebrei. Penso che voi precorriate e sappiate già quel che voglio dire. Quale era la risposta che fu data alla domanda di Mosè: Io sono colui che sono, e: Colui che è mi ha mandato a voi? ( Es 3,14 ). Non so se lo stesso Mosè comprendesse così, se cioè non fosse stato espresso. Ma fu pronunciato e capito; e non solo pronunciato, ma anche effuso, poiché era già infuso. Già lo avevano i cieli, già era noto agli angeli. Fu rivelato fuori; e quello che era così infuso agli angeli da essere anche loro familiare fu manifestato anche agli uomini, di modo che ormai giustamente si gridasse dalla terra: Olio sparso è il suo nome ( Ct 1,2 ), se non avesse messo ostacolo l’odiosa pervicacia del popolo ingrato. Dice infatti: Io sono il Dio di Abramo, e il Dio di Isacco, e il Dio di Giacobbe ( Es 3,6 ). 3. Correte, Gentili, la salvezza è a portata di mano, è stato manifestato il nome, invocando il quale chiunque sarà salvo. Il Dio degli Angeli si nomina Dio anche degli uomini. Ha mandato un olio in Giacobbe ed è caduto in Israele. Dite ai vostri fratelli: Date a noi del vostro olio ( Mt 25,6 ). Se non vogliono, pregate il Signore dell’olio che lo mandi anche a voi. Dite: Togli il nostro obbrobrio ( Is 4,1 ). Che il malevolo non insulti la tua diletta che ti sei degnato di chiamare dall’estremità della terra, con tanta maggior degnazione da parte tua, quanto meno essa era degna. È forse conveniente che un servo cattivo allontani quelli che il benigno padre di famiglia ha invitati? Io sono, dici, il Dio di Abramo, e il Dio di Isacco, e il Dio di Giacobbe ( Es 3,6 ). E non di più? Effondi, effondi, apri ancora la tua mano, e riempi ogni uomo di benedizione. Vengano dall’Oriente e dall’Occidente, e siedano con Abramo e Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli. Vengano, vengano le tribù, le tribù del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore. Vengano, e prendano posto a mensa, e banchettino in allegria, e dappertutto risuoni un unico canto di esultanza e di lode dei convitati: Olio sparso è il tuo nome. Una cosa so: se avessimo come portinai Andrea e Filippo, non avremmo un rifiuto noi tutti che chiediamo l’olio, noi tutti che vogliamo vedere Gesù. E Gesù che dice? Ecco cosa dice Gesù: Se il grano di frumento, cadendo in terra, non muore, resta solo; se invece muore, porterà molto frutto ( Gv 12,24 ). Muoia dunque il grano, e sorga la messe delle genti. È necessario che il Cristo subisca la passione; e risorga da morte, e venga predicata in suo nome la penitenza e la remissione dei peccati, non solo nella Giudea, ma anche fra tutte le nazioni, onde da un solo nome, che è Cristo, milioni di credenti vengano chiamati cristiani, e dicano: Olio sparso è il tuo nome ( Ct 1,2 ). 4. Conosco infatti un nome che ho letto in Isaia: Chiamerà, dice, i suoi servi con un altro nome, nel quale chi ha da essere benedetto sulla terra, sarà benedetto nel Signore ( Is 65,15-16 ). O nome benedetto, olio sparso dappertutto! Fin dove? Dal cielo in Giudea, e di là ha percorso tutta la terra e da tutta la terra la Chiesa esclama: Olio sparso è il tuo nome. Sparso davvero, in modo che, non solo ha riempito i cieli e la terra, ma è penetrato anche agli inferi, di modo che nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, in terra, e nell’inferno, e ogni lingua confessi e dica: Olio sparso è il tuo nome. Ecco Cristo, ecco Gesù, due nomi infusi agli Angeli, effusi, manifestati agli uomini per salvare uomini e giumenti, quegli uomini che si erano insozzati nel loro sterco come giumenti, tanto è grande la misericordia di Dio. Come è caro quel nome, come è umile! Umile, ma salutare. Se non fosse umile non sarebbe stato manifestato a me; se non fosse salutare, non mi avrebbe riscattato. Partecipe del nome, lo sono anche dell’eredità. Sono Cristiano, fratello di Cristo. Se sono veramente quello che sono detto, sono erede di Dio, coerede di Cristo. E che meraviglia se è stato sparso il nome dello Sposo, dal momento che egli stesso si è effuso? Annientò infatti se stesso, prendendo la forma di schiavo. Egli dice poi: Come acqua sono stato versato ( Sal 22,15 ). Si è riversata la pienezza della Divinità ( Col 2,9 ), abitando corporalmente sulla terra, onde potessimo tutti noi, che portiamo un corpo di morte, partecipare a quella pienezza, e ripieni, dell’odore vitale dicessimo: Olio sparso è il tuo nome. Ecco per quanto riguarda il nome sparso, e in che modo, e fino a qual punto. III. Triplice rapporto di similitudine fra il profumo e il nome dello Sposo, Gesù 5. E perché questo nome è olio? Questo non l’ho ancora detto. Avevo cominciato a parlarne nel sermone precedente; ma intervenne improvvisamente qualche cosa che sembrava dovessi dire prima, e poi la parentesi è stata più lunga di quanto credessi. Penso che la ragione non sia altra, se non che la donna forte, la Sapienza, mise mano alla conocchia, e le sue dita hanno preso il fuso. Essa, infatti, è capace di produrre un lungo filo da poca lana o lino, e farne una lunga tela, con la quale fornire la doppia veste a tutti i suoi familiari. C’è senza dubbio una somiglianza tra l’olio e il nome dello Sposo, e non a caso lo Spirito Santo ha paragonato l’uno all’altro. Questa somiglianza, secondo me, sta in una certa triplice qualità dell’olio, il quale dà luce, nutre e unge, se voi non avete alcunché di meglio. Alimenta la fiamma, nutre la carne, lenisce il dolore: luce, cibo, medicina. Guarda ora le stesse cose nel nome dello Sposo. Splende quando è predicato, nutre quando è pensato, invocato lenisce e unge. Ed esaminiamo una per una queste cose. 6. Donde pensi sia derivata in tutta la terra una così grande e improvvisa luce di fede, se non dalla predicazione del nome di Gesù? Non è forse nel fulgore di questo nome che Dio ci ha chiamati nell’ammirabile sua luce, e a coloro che in questo lume vedono la luce dice giustamente Paolo: Foste un tempo tenebre, ma ora luce nel Signore? ( Ef 5,8 ). E lo stesso Apostolo ebbe ordine di portare questo nome davanti ai re, ai gentili, e ai figli di Israele; e portava questo nome come una fiaccola, e illuminava la patria, e gridava ovunque: La notte è trascorsa si è avvicinato il giorno. Rigettiamo dunque le opere delle tenebre e rivestiamo le armi della luce: camminiamo con onestà come di giorno ( Rm 13,12-13 ). E mostrava a tutti la lucerna sopra il candelabro, annunziando dappertutto Gesù, e Gesù Crocifisso. Come questa luce brillò, e abbagliò gli occhi di tutti quelli che guardavano, quando, uscendo come una folgore dalla bocca di Pietro, rinsaldò le piante e le basi corporali di un solo zoppo, e illuminò molti spiritualmente ciechi! Non sparse forse fuoco quando disse: In nome di Gesù Cristo Nazareno, alzati e cammina? ( At 3,6 ). E non è solo luce il nome di Gesù, è anche cibo. Non ti senti forse riconfortato ogni volta che ti ricordi di lui? Che cosa nutre maggiormente la mente che lo pensa? Che cosa ristora in ugual misura i sensi affaticati, rinforza le virtù, fa fiorire costumi buoni e onesti, favorisce i casti affetti? È arido ogni cibo dell’anima, se non è intriso di quest’olio; è insipido se non è condito con questo sale. Se scrivi, non mi sa di niente se non leggerò ivi Gesù. Se discuti o ragioni, non mi sa di niente se non risuonerà ivi Gesù. Gesù miele nella bocca, melodia nelle orecchie, giubilo nel cuore. IV. Il nome di Gesù è medicina Ma è anche medicina. Qualcuno dei nostri è triste? Venga nel suo cuore Gesù, e di là salga alla bocca: ed ecco che, sorgendo la luce di questo nome, si dissipa ogni nube, torna il sereno. Cade qualcuno in grave colpa? Corre per di più al laccio di morte con la disperazione? Non è vero che, se invocherà il nome della vita, subito respirerà per la vita? Quando mai ha resistito, davanti a questo salutare nome, la durezza di cuore, il torpore dell’ignavia, il languore dell’accidia? E a chi, per caso, fosse seccata la fonte delle lacrime, non tornò subito a scorrere più abbondante e più soave appena invocato Gesù? A chi, palpitante e trepidante nei pericoli, l’invocazione del nome della fortezza non arrecò di colpo la fiducia, scacciando ogni paura? A chi, dico, fluttuante e agitato da dubbi, invocato questo nome luminoso, improvvisa non rifulse la certezza? A chi, ormai sfiduciato e sul punto di venir meno, se gli risuonò all’orecchio il nome del soccorritore, mancò la forza? Tutte queste cose, infatti, sono malattie dell’anima, e quel nome ne è la medicina. E si può anche provare: Invocami, dice, nel giorno della sventura: ti salverò e tu mi darai gloria ( Sal 50,15 ). Nulla contiene tanto l’impeto dell’ira, nulla seda così il tumulto della superbia, sana le ferite del livore, impedisce l’impeto della lussuria, spegne la fiamma della libidine, tempera la sete dell’avarizia, e allontana ogni voglia di cosa indecente. Quando, infatti, nomino Gesù, mi pongo davanti un uomo mite e umile di cuore, benigno, sobrio, casto, misericordioso, modello insomma, di ogni cosa modesta e santa, e nel medesimo tempo Dio Onnipotente, il quale mi guarisce con il suo esempio, e mi rafforza con il suo aiuto. Tutte queste cose mi dice il nome di Gesù. Prendo dunque da lui gli esempi in quanto uomo, e l’aiuto in quanto potente: i primi come ingredienti, il secondo come, mezzo per tritarli ( spremerli ); e così faccio un unguento tale, che nessun medico è capace di prepararne uno simile. 7. Hai questo unguento, o anima mia, racchiuso nel vaso di questo vocabolo che è Gesù, unguento salutare che non resterà senza effetto in nessuna delle tue malattie. Tienilo sempre in cuore, abbilo sempre in mano, onde tutti i tuoi sentimenti e le tue azioni si ispirino a Gesù. Così infatti, sei invitata a fare: Ponimi, dice, come sigillo sopra il tuo cuore, come sigillo sopra il tuo braccio ( Ct 8,6 ). Ma di questo parleremo più tardi. Ora intanto hai una medicina per il braccio e per il cuore. La possiedi, dico, nel nome di Gesù, con cui puoi correggere i tuoi atti cattivi, o supplire a quelli meno perfetti; così pure, sia per preservare i tuoi sentimenti, perché non siano guastati, sia per sanarli qualora fossero corrotti. V. Taluni portano invano il nome di Gesù 8. Vi furono in Giudea alcuni che portarono il nome di Gesù, ma in essi questo glorioso nome era vuoto di significato. Quei nomi, infatti, né splendono, né nutrono, né risanano. E per questo la Sinagoga è fino a ora nelle tenebre, sofferente per fame e malattia, e non sarà sanata, né saziata fino a che si riconosca che il mio Gesù domina in Giacobbe e fino all’estremità della terra, e ritorni alla sera, ringhiando come cani, e si aggiri per la città. Essi pertanto furono mandati innanzi come bastone al morto prima della venuta del Profeta, e furono incapaci di dare un senso al loro nome, che effettivamente era vuoto, il bastone fu posto sopra il morto, ma il morto non parlava e non dava segno di vita, perché quello era un bastone. Discese colui che aveva mandato il bastone e, subito salvò il suo popolo dai suoi peccati, dimostrando di essere colui del quale si diceva: Chi è costui che perdona anche i peccati? ( Lc 7,49 ). Colui cioè che dice: Io sono la salvezza del popolo ( Sal 35,3 ). Ormai c’è la voce, ormai chi era morto sente, ed è chiaro che questo Gesù non porta un nome vuoto come quelli che lo hanno preceduto. Si sente infusa la salvezza, e non si tace il beneficio. Dentro si sente, di fuori risuona la voce. Mi compungo, e confesso. La confessione è indizio della vita: Il morto, infatti, non essendo più, è incapace di confessione ( Sir 17,27 ). Ecco la vita, ecco i sensi. Risuscitato, esisto perfettamente, è intera la risurrezione. Non è forse altro la morte che essere privo di sensi e di vita? Il peccato, che è morte dell’anima, non mi aveva lasciato, né il senso della compunzione, né la voce della confessione, ed ero morto. Venne colui che rimette i peccati, e mi ha restituito l’una e l’altra, e dice alla mia anima: Sono io la tua salvezza ( Sal 35,3 ). Quale meraviglia se cede la morte dove discende la vita? Ormai con il cuore si crede per la giustificazione, e con la bocca si fa confessione a salute ( Rm 10,10 ). Già sbadiglia il fanciullo, e sbadiglia sette volte, e dice: Sette volte al giorno io ti lodo, o Signore ( Sal 119,164 ). Considerate questo settenario. È un numero sacro, non è senza significato. Ma è meglio che riserviamo questo a un altro sermone, onde accostarci affamati e non stanchi a così delizioso convito, al quale ci invita lo Sposo della Chiesa, il Signore nostro Gesù Cristo, che è sopra tutti Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XVI I. La similitudine di chi guarda dall’alto o del cacciatore che insegue un’altra fiera 1. Che cosa significa questo numero sette? Non so, infatti, se tra noi ci sia qualcuno così semplice da pensare che non abbia una ragione questo ripetersi ( degli sbadigli ), e che quel numero sia stato messo a caso. Io penso che non sia privo di fondamento neppure il fatto che il Profeta, stendendosi sopra il morto, si contrasse alla misura del corpicciolo del fanciullo, in modo da far combaciare la bocca con la bocca, gli occhi con gli occhi, e le mani con le mani. Lo Spirito Santo dispose che tutte queste cose venissero fatte e scritte, certamente, per l’erudizione di quegli spiriti che sono stati ingannati dalla compagnia di un corpo corrotto, e che la stolta sapienza del mondo ha reso insipienti: perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima, e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri ( Sap 9,15 ). Perciò nessuno si meravigli o se l’abbia a male se io sono curioso nell’investigare queste cose, quasi tirandole fuori dalla dispensa dello Spirito Santo, sapendo che così si vive, e in tali cose c’è la vita del mio spirito. Dico tuttavia a coloro che precorrono con l’acutezza del loro ingegno, e in ogni sermone non hanno ancora inteso il principio che già aspettano la fine, che io sono debitore anche, e massimamente, ai più tardi; né mi preoccupo tanto di esporre delle parole, quanto di imbeverne i cuori. E devo attingere e poi mescere, e questo non si può fare scorrendo velocemente, ma trattando con diligenza ed esortando frequentemente. Tuttavia la discussione sui sensi reconditi ( della Scrittura ) ci ha occupati a lungo, e più che non pensassi. Credevo che per il presente argomento fosse sufficiente un solo sermone e che avremmo potuto presto attraversare questa selva ombrosa e intricata delle allegorie, e pervenire presto, quasi con il cammino di un giorno, alla pianura dei sensi morali; ma è andata diversamente. Abbiamo già speso due giorni, e c’è ancora da camminare. Dall’alto, con un colpo d’occhio, si abbracciava la sommità degli alberi e le cime dei monti, ma la vastità delle valli sottostanti e la densità della vegetazione ingannava la vista. Potevo, per esempio, prevedere il miracolo di Eliseo, che capitò lì improvviso, mentre parlavamo della vocazione dei Gentili e del rigetto dei Giudei? E ora, dato che vi siamo capitati, non ci rincresca trattenervici un poco, e poi faremo ritorno all’argomento che abbiamo lasciato; del resto, anche questo è cibo delle anime. Capita spesso anche ai cani e ai cacciatori di cessare d’inseguire una selvaggina e mettersi a inseguirne un’altra che, per caso, senza che se l’aspettassero, si è trovata sulla loro strada. II. Significato del miracolo di Eliseo: a che scopo pose la bocca, gli occhi, le mani sul morto 2. È per me motivo di grande fiducia il fatto che quel grande Profeta, potente in opere e in parole, discendendo dall’alto monte del cielo, si sia degnato di venire a visitare me, che sono polvere e cenere, abbia avuto pietà di me morto, si sia inchinato sopra di me che giacevo ( privo di vita ), si sia contratto e adattato a me piccolo, abbia fatto parte a me, cieco, della luce dei suoi occhi, e abbia sciolto la mia bocca muta con il bacio della sua bocca, e abbia rinvigorito le mie deboli mani con il contatto delle sue mani. Rumino dolcemente queste cose: e le mie viscere si riempiono, e il mio cuore si gonfia, e la lode scaturisce da tutte le mie ossa. Questo è accaduto una volta per tutti; oggi ognuno di noi lo sente verificarsi in sé, e cioè, noi sentiamo che viene dato al nostro cuore il lume dell’intelligenza, alla bocca la parola di edificazione, e alle mani le opere di giustizia. Dà di sentire fedelmente, di proferire utilmente, di adempiere efficacemente. Ed è una cordicella a tre capi, che difficilmente si rompe, e serve a estrarre le anime dalla prigione del demonio, e a innalzarle dietro di lui ai regni celesti, se senti rettamente, se degnamente parli, se rendi conforme anche la tua vita a questi sentimenti e a queste parole. Con i suoi occhi toccò i miei, ornando la fronte dell’uomo interiore con due occhi luminosi, la fede e l’intelligenza. Unì la sua alla mia bocca, e su questa bocca morta impresse il seguo della pace, perché, quando eravamo peccatori, riconciliò noi a Dio, noi morti alla giustizia. Applicò la bocca alla bocca, inspirando di nuovo nella mia faccia lo spirito di vita, ma di una vita più santa della prima; poiché, con il primo soffio mi creò uomo vivente, con il secondo mi riformò nello spirito vivificante. Ha messo le sue mani sopra le mie, dandomi l’esempio delle buone opere, facendosi modello di obbedienza. O certamente egli applicò le mani a cose forti per educare le mie alla battaglia e le mie dita alla guerra. III. Il significato dei sette baci 3. E sbadigliò, dice, il fanciullo sette volte ( 2 Re 4,35 ). Bastava alla manifestazione del glorioso miracolo che sbadigliasse una volta; ma la molteplicità e il numero misterioso contengono un ammonimento. Se pensi a quell’immenso corpo esanime di tutto il genere umano, vedi che dappertutto la Chiesa, da quando ricevette la vita perché il Profeta si chinò su di lei, sbadigliò, in certo qual modo, sette volte, ed è solita sette volte al giorno innalzare le lodi a Dio. Se guardi a te stesso, riconoscerai che vivi della vita spirituale e realizzi questo mistico numero tanto quanto sottometti i tuoi cinque sensi ai due precetti della carità, e, secondo il precetto dell’Apostolo, offri le tue membra a servizio della giustizia per la santificazione, quelle membra che prima avevi fatto servire al peccato per l’iniquità; ovvero, in quanto, impiegando i tuoi cinque sensi per la salute del prossimo, vi aggiungerai, per arrivare al numero sette, queste due cose, cantare cioè a Dio, lodandolo per la sua misericordia e la sua giustizia. 4. Ho un’altra interpretazione di questi sette sbadigli, che significherebbero sette prove, con cui si dimostra la vera e certa salute dello spirito redivivo: quattro appartengono al senso di compunzione, tre all’espressione della confessione. Se vivi, se senti, se parli, anche tu riconosci queste cose in te. Pertanto saprai di aver ricuperato per intero il senso, se sentirai la tua coscienza morderti per una quadruplice compunzione, un doppio pudore, e una doppia paura: e la presenza della vita è attestata, e così si riottiene il numero sette, da una triplice specie di confessione, di cui si vedrà in seguito. Anche Geremia, nelle sue lamentazioni, osserva questo numero. IV. Il duplice pudore Anche tu, dunque, nella lamentazione che fai per te, seguendo la forma del profeta, pensa a Dio tuo creatore, pensalo come benefattore, pensalo padre, pensalo signore. Tutte queste considerazioni ti fanno vedere colpevole. Piangi per ognuna di queste colpe. Al pensiero di Dio creatore e di Dio signore, si ecciti il timore, la considerazione di Dio Padre e benefattore susciti in te la vergogna. In verità il padre non si teme, perché è padre, ed è proprio del padre avere sempre pietà e perdonare. E se percuote, lo fa con la verga, non con il bastone, e percuotendo, sana. Ecco, la voce paterna: percuoterò, e io risanerò ( Dt 32,39 ). Non c’è dunque ragione di temere dal padre, il quale, anche quando ferisce, lo fa per emendare, non per vendicare. Perciò, quando penso che ho offeso il padre, ho motivo di vergogna, più che di terrore. Egli mi ha volontariamente generato con la parola di verità, non per stimolo di concupiscenza carnale, come succede con i nostri genitori carnali. Poi, non ha risparmiato neppure il suo Unigenito per uno generato così. Egli pertanto si è dimostrato Padre per me, mentre io, a mia volta, non mi sono dimostrato suo figlio. Con quale faccia oso ora alzare gli occhi al volto di un padre così buono, io che sono un figlio così cattivo? Mi vergogno di aver fatto cose indegne della mia condizione, mi vergogno di aver vissuto come figlio degenere di tanto padre. Scioglietevi in lacrime, occhi miei: la mia faccia si copra di vergogna, il mio volto si oscuri, pieno di confusione. Venga meno per il dolore la mia vita, i miei anni passino nel gemito. Oh, vergogna! Quale frutto ho raccolto da quelle cose per le quali ora arrossisco? Se ho seminato nella carne, dalla carne non mieterò se non corruzione; se nel mondo, anch’esso passa con la sua concupiscenza. Guarda! Infelice e stolto, non mi sono vergognato di proferire cose caduche, vane, quasi nulle, la cui fine è la morte, all’amore e all’onore dell’eterno Padre … Mi confondo, mi confondo nell’udire: Se io sono Padre, dov’è il mio onore? ( Mal 1,6 ). 5. Ma anche se non fosse padre, sta il fatto che mi ha ricolmato di benefici. Me lo dimostrano, oltre altre innumerevoli cose, il nutrimento di questo corpo, e l’uso di questo tempo, e soprattutto il sangue del suo diletto Figlio che grida dalla terra. Mi vergogno di essere ingrato. Per di più, ad accrescere la mia confusione, sento anche il rimprovero di aver reso male per bene, e odio in cambio di amore. È vero che non ho nulla da temere da parte del mio benefattore, come neanche dal Padre. È infatti un vero benefattore, che dà in abbondanza, e non lo rinfaccia. Non rinfaccia i doni; e i suoi benefici me li ha dati, non venduti. In una parola, i suoi doni sono senza pentimento. Ma quanto più sono costretto a pensarlo benigno, tanto maggiormente mi sento indegno. Arrossisci e rammaricati tuttavia, o anima mia, perché, anche se a lui non conviene ritoglierti o rinfacciarti i suoi doni, per noi tuttavia è sommamente disdicevole l’essere ingrati e immemori. Ahimè! Che cosa, almeno adesso, gli renderò per tutto quello che mi ha elargito? 6. Che se, per caso, il pudore compie troppo debolmente la sua parte, gli si faccia venire in aiuto il timore. Si ecciti il timore, affinché, a sua volta, stimoli. V. Il duplice timore Metti da parte per un poco i nomi di benefattore e di padre, e poni mente a vocaboli più austeri. Colui infatti che la Scrittura chiama Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, chiama pure Dio Signore delle vendette, Dio giusto giudice e forte, lo chiama terribile nel suo agire sugli uomini, lo chiama Dio geloso ( 2 Cor 1,3; Sal 7,12; Sal 66,5; Es 20,5 ). Che sia Padre, che sia benefico, è per te; che sia Signore e Creatore, è per sé: infatti, Egli ha fatto tutte le cose per se stesso ( Pr 16,4 ), come dice la Scrittura. Ora dunque, colui che ti mantiene e conserva quello che è tuo, pensi che presto o tardi non prenderà cura dei suoi interessi? Pensi che non richiederà l’onore dovuto al suo principato? Per questo l’empio ha irritato Iddio, perché ha detto in cuor suo: non chiederà conto ( Sal 9,34 ). E che è dire nel proprio cuore: non chiederà conto, se non che si teme che lo chieda? Ma lo richiederà fino all’ultimo spicciolo, lo richiederà, e castigherà duramente coloro che agiscono con superbia. Richiederà al redento il servizio, l’onore e la gloria a colui che egli ha creato. 7. Il Padre può anche dissimulare, il benefattore perdonare, ma non il Signore e il Creatore; chi perdona al figlio, non perdona alla creta, non perdona il servo malvagio. Rifletti quale motivo di paura e di terrore sia l’aver disprezzato colui che ha creato te e tutte le cose, l’aver offeso il Signore della maestà. Appartiene alla Maestà l’essere temuta, al Signore l’essere temuto, e massimamente a una tale maestà, a un tale Signore. Poiché, se è sancito dalle leggi umane che il reo di lesa regia maestà, anche se umana, venga punito di morte, quale sarà la sorte riservata a coloro che disprezzano la divina onnipotenza? Tocca i monti, e fumano: e vile pulviscolo che un lieve soffio disperde e non si può più raccogliere ardisce irritare una così tremenda maestà? Quegli è da temere, quegli che, dopo aver ucciso il corpo, ha il potere di mandare nella geenna. Ho paura della geenna, ho paura del volto irritato del giudice, tremendo alle stesse potestà angeliche. Tremo per l’ira del potente, per il furore del suo sguardo, per il fragore del mondo che si dissolve, per la conflagrazione degli elementi, per la sciagura immane, per la voce dell’arcangelo e per la dura sentenza. Tremo per i denti della bestia infernale, per il baratro dell’inferno, per il ruggito dei demoni pronti a divorare. Inorridisco al pensiero del verme che rode, del fuoco che brucia, del vapore di zolfo, del vento di bufera, ho orrore delle tenebre esteriori. Chi darà: acqua al mio capo, e ai miei occhi una fonte di lacrime, onde prevenire con i pianti il pianto, e lo stridore di denti, e le dure catene alle mani e ai piedi, peso di catene che premono, stringono, bruciano e non consumano? Ahimè! Madre mia! Perché mi hai generato, figlio di dolore, figlio di amarezza e di indignazione, e di eterno pianto? Perché sono stato ricevuto sulle ginocchia, allattato al seno, io, nato per bruciare e alimentare il fuoco? 8. Chi ha tali sentimenti, certamente si è ripreso e in questo duplice timore, e nella parimenti duplice vergogna di cui sopra ha quattro sbadigli. VI. La triplice confessione. La prima, l’umile Aggiungerà i tre rimanenti con la voce della confessione e ormai non si potrà più dire di lui che non parla e non sente: a condizione che quella confessione proceda da un cuore umile, semplice e fiducioso. Confessa dunque umilmente, puramente e fedelmente tutto ciò che rimorde la tua coscienza e così hai realizzato questo numero simbolico. Vi sono di quelli che si gloriano del male fatto, e godono di cose pessime; di essi dice il Profeta: ostentano il peccato come Sodoma ( Is 3,9 ). Ma io, in questo discorso, escludo quei tali: che cosa importano a noi quelli che sono fuori? 9. Tuttavia, anche riguardo a coloro che vestono da religiosi ed hanno professato la religione, sentiamo che taluni ricordano e si vantano con estrema impudenza delle loro passate malefatte che hanno compiuto, per esempio, dimostrandosi forti in conflitti armati, ovvero arguti in gare letterarie, o altre cose, stimabili secondo la vanità del mondo, ma nocive rispetto alla salute dell’anima, perniciose, dannose; questo è indizio di animo ancora mondano, e l’umile abito che questi tali portano, non è merito di santa novità, ma copertura della primitiva vetustà. Taluni quasi dolenti e pentiti ricordano simili cose, ma con l’intento di ricercarne gloria, e così non cancellano le colpe commesse, ma illudono se stessi: Dio, infatti, non si canzona. Non hanno deposto l’uomo vecchio, ma fanno mostra di essere vestiti di quello nuovo. Con quella specie di confessione non si depone o si butta via il vecchio fermento, ma si stabilisce, secondo quel detto: si logoravano le mie ossa, mentre gemevo tutto il giorno ( Sal 32,3 ). Fa vergogna ricordare come certuni siano così sfacciati da vantarsi di cose per le quali dovrebbero piangere, come di aver, anche dopo rivestito il santo abito, soppiantato con astuzia qualcuno, di aver imbrogliato un fratello in un affare, o di aver applicato la legge del taglione, rendendo audacemente male per male e maledizione per maledizione. 10. Ma vi è una confessione tanto più pericolosa e dannosa quanto più sottilmente vana, quando cioè non temiamo di manifestare le nostre cose, anche disoneste e turpi, non perché siamo umili, ma affinché siamo stimati tali. Ora, bramare la lode che proviene dall’umiltà, non è la virtù dell’umiltà, ma il rovescio. Il vero umile vuol essere reputato vile, non stimato umile. Gode del disprezzo di sé, veramente superbo solo in questo, che disprezza le lodi. Che c’è di più perverso, di più indegno, che la confessione, custode dell’umiltà, serva alla superbia e tu voglia apparire migliore là dove ti mostri peggiore? Strana specie di millanteria, che tu non possa apparire santo, se non ti mostri scellerato. Ma tale specie di confessione che ha l’apparenza dell’umiltà, ma non la virtù, non solo non merita il perdono, ma provoca l’ira. Giovò forse a Saul quando, al rimprovero di Samuele, confessò di aver peccato? Fu certamente colpevole quella confessione, che non cancellò la colpa. Quando infatti avrebbe disprezzato l’umile confessione il maestro d’umiltà, e al quale è certamente innato di dare la grazia agli umili? Non poteva assolutamente non venire placato, se quella umiltà che fu espressa dalle labbra fosse rifulsa anche nel cuore. Ecco perché ho detto che la confessione deve essere umile. VII. La semplice confessione 11. Dev’essere anche semplice. Non voler scusare l’intenzione, se è cattiva, per il fatto che forse gli altri non la conoscono, né diminuire la colpa che è grave, né far intendere di essere stati spinti da altri, poiché nessuno può costringere chi non vuole. La prima cosa non è una confessione, ma una difesa; né placa, ma provoca. La seguente è segno di ingratitudine e più si attenua la colpa, più si sminuisce la gloria di Dio che perdona. E si concede meno volentieri un beneficio, quando viene ricevuto con minor gratitudine, o che si reputa meno necessario. Rinuncia dunque al perdono chi attenua il beneficio del donatore, ed è ciò che fa chiunque si sforza con le parole di addurre attenuanti al suo reato. Per evitare questo siamo ammoniti dall’esempio del primo uomo, il quale non negò la sua colpa, e tuttavia non conseguì il perdono, certamente perché volle addurre anche la colpa della donna. Strano modo di scusarsi, quando tu sei rimproverato, l’accusare un altro. Ora, chiedi al santo Davide come sia, non solo poco fruttuoso, ma pericoloso volerti scusare quando vieni sgridato. Egli chiama infatti parole di malizia le scuse nel peccato, pregando e supplicando perché il suo cuore non si lasci andare a esse. E giustamente. Quale infatti maggior malizia che armare la propria ( malizia ) contro la propria salvezza, e uccidere te stesso con la spada della tua lingua? E infine, chi è cattivo con sé, per chi sarà buono? VIII. La confessione fedele e i sette vasetti che portò il Signore Gesù, cinque pieni di olio, due di vino 12. Sia però anche fiduciosa la confessione, di modo che tu confessi nella speranza, non diffidando affatto del perdono, perché tu non abbia a condannarti con la tua bocca, anziché giustificarti. Giuda, certamente, traditore del Signore, e Caino, fratricida, hanno confessato e hanno diffidato. Uno: Ho peccato, disse, tradendo il sangue giusto ( Mt 27,4 ); l’altro: La mia iniquità è troppo grande, perché io meriti perdono ( Gen 4,13 ); e la loro confessione, anche se verace, ma senza fiducia, non giovò loro nulla. Queste tre condizioni, dunque, della confessione, unite alle quattro della compunzione, di cui abbiamo detto sopra, formano il simbolico settenario. 13. Ormai, così compunto e confessato, e pertanto certo della propria vita, sei anche certo, credo, che colui che in te ha saputo ed ha voluto operare tali cose, non porta invano il nome di Gesù, né invano è venuto dopo il bastone che aveva mandato innanzi. Non è venuto invano, perché non è venuto vuoto. Poiché come poteva essere vuoto lui, nel quale abitò la pienezza? Infatti, a lui lo Spirito non è stato dato con misura. Infine, è venuto nella pienezza dei tempi, indicando con ciò che veniva pieno. Veramente pieno, lui che il Padre unse con l’olio della letizia a preferenza dei suoi eguali, lo unse, e lo mandò pieno di grazia e di verità. Unse perché ungesse. Tutti sono stati unti da lui, coloro che meritarono di ricevere dalla sua pienezza. Perciò dice: Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai mansueti, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a promulgare l’anno di misericordia del Signore ( Is 61,1-2 ). Veniva, come senti, a ungere le nostre piaghe e a lenire i nostri dolori; perciò venne unto, venne mansueto, mite e ricco di misericordia per tutti quelli che lo invocano. Sapeva che scendeva a uomini infermi e si mostrò quale richiedeva la necessità. E poiché molte erano le infermità, da provvido medico ebbe cura di portare anche molte medicine. Portò lo spirito di sapienza e di intelligenza, lo spirito di consiglio e di fortezza, lo spirito di scienza e di pietà e lo spirito del timore del Signore. 14. Vedi quante fiale piene di profumi ha preparato il medico celeste per sanare le ferite di quel poveraccio che incappò nei ladroni. Sono in numero di sette, sette forse per eccitare i sette sbadigli di cui abbiamo parlato. Nelle fiale, infatti, c’era lo Spirito di vita. Da queste infuse l’olio sulle mie piaghe, perché la misericordia sovrabbondasse sulla giustizia, come l’olio in un vaso galleggia sopra il vino. Portò quindi cinque misure di olio, due sole di vino. Il vino esprime infatti solo il timore e la fortezza. Gli altri cinque designano, per la loro soavità, l’olio. Infine, nello spirito di fortezza, come un forte ebbro di vino, discese agli inferi, spezzò le porte di bronzo e ruppe i paletti di ferro, legò il forte e gli strappò i prigionieri. Discese tuttavia nello spirito di timore, non come timido, ma come uno che incute timore. 15. O Sapienza! Con quanta arte medica tu mi ridai la salute dell’anima con il vino e l’olio, fortemente soave e soavemente forte! Forte per me e soave a me. Tu, insomma, arrivi da un capo all’altro con fortezza e tutto disponi con soavità, scacciando il nemico e curando l’infermo. Risanami, o Signore, e sarò sanato, canterò e loderò il tuo nome e dirò: Olio sparso è il tuo Nome ( Ct 1,2 ). Non vino effuso – perché non voglio che tu entri in giudizio con il tuo servo – ma olio, perché mi coroni di grazia e di misericordia. Olio cioè che, mentre galleggia sopra tutti i liquidi con i quali viene mescolato, designa chiaramente il nome che è sopra ogni altro nome. O nome soavissimo e dolcissimo! O nome splendido, nobilissimo, altissimo e sopraesaltato nei secoli! O vero olio che fa brillare la faccia dell’uomo, che profuma il capo di colui che digiuna, perché non spanda l’odore dell’olio del peccatore. Questo nome nuovo, che la bocca del Signore ha nominato, che è stato chiamato dall’angelo prima che venisse concepito nell’utero. Non solo il Giudeo, ma sarà salvo chiunque avrà invocato questo nome, perché è stato sparso dappertutto. Questo nome l’ha dato il Padre al figlio, sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è benedetto nei secoli. Amen. Sermone XVII I. Presenza o assenza dello Spirito 1. Pensiamo di aver camminato abbastanza nel santuario di Dio, mentre scrutiamo il mirabile sacramento ( del nome di Gesù ), oppure vogliamo osare seguire lo Spirito per scrutare se resta qualcosa nell’interno? Questo Spirito, infatti, scruta, non solo i cuori e i reni degli uomini, ma anche le profondità di Dio; e sia per le cose nostre, sia per le cose più alte, lo seguo sicuro dovunque vada. Purché egli custodisca i nostri cuori e la nostra intelligenza, perché non succeda di crederlo presente quando non c’è, e invece di lui seguiamo la nostra sensibilità, andando fuori strada. Viene, infatti, e se ne va, come vuole; e nessuno conosce facilmente di dove venga o dove vada. Ma questo forse si può ignorare senza danno per la salute dell’anima; invece è assai pericoloso ignorare quando venga e quando se ne vada. Quando, infatti, non si bada con grande attenzione a questo alternarsi di presenze e assenze in noi dello Spirito Santo, capita che non lo desideri quando è assente, né gli dai gloria quando è presente. Per questo infatti si allontana, per essere richiamato con più fervore; ma se non sai che è assente, come lo cerchi? E quando ritorna per consolare, come viene ricevuto in modo degno della sua maestà, se non si avverte la sua presenza? La mente, dunque, che non si accorge della sua partenza, è aperta alla seduzione; e quella che non si accorge del suo ritorno, sarà ingrata al suo visitatore. 2. Una volta Eliseo chiese una cosa al suo maestro, quando capì che era imminente la sua dipartita; la ottenne soltanto a condizione che lo vedesse allorché sarebbe stato tolto da lui. Questo che capitò a loro era una figura ed è stato scritto per noi. L’esempio del Profeta ci istruisce e ammonisce a essere vigilanti e solleciti circa l’opera della nostra salvezza, che lo Spirito opera incessantemente in noi con mirabile finezza e soavità. L’unzione maestra, che ci istruisce su tutte le cose, non ci venga mai tolta senza che noi cene accorgiamo, se vogliamo ( come Eliseo ) non essere privati del duplice dono. Non ci trovi mai impreparati quando viene, ma sempre con i volti protesi e i cuori aperti per ricevere l’abbondante benedizione del Signore. Con quali disposizioni vuole trovarci? Simili agli uomini che aspettano il loro padrone, quando torna da nozze ( Lc 12,36 ), il quale, certamente, non torna mai a mani vuote da quelle copiose delizie della mensa celeste. Occorre dunque vegliare e vegliare in continuazione, perché non sappiamo l’ora in cui verrà lo Spirito, o di nuovo se ne andrà. Va e torna lo Spirito, e chi sta in piedi sorretto da lui, quando lo lascia, è inevitabile che cada; ma non si farà male, perché nuovamente il Signore lo sostiene con la sua mano. E non cessa di far passare per queste vicende alterne coloro che sono spirituali, o piuttosto, coloro che egli intende fare tali, visitandoli al mattino e subito mettendoli alla prova. Sette volte cade il giusto, e sette volte si rialza: se però cade di giorno, in modo da accorgersi che cade, e, sapendo di essere caduto, desideri rialzarsi e cerchi una mano che lo aiuti, dicendo: Nella tua bontà, o Signore, mi hai posto su un monte sicuro; ma quando hai nascosto il tuo volto, io sono stato turbato ( Sal 30,8 ). II. Dubbio e falsità si allontanano con la presenza dello Spirito 3. Altro è dubitare della verità, ed è inevitabile che ti succeda, quando lo Spirito non spira affatto, e altro è sentire falsamente, e questo lo eviterai facilmente, se tu non ignori la tua ignoranza, dicendo anche tu: Se qualche cosa ho ignorato, la mia ignoranza è con me ( Gb 19,4 ). È sentenza del santo Giobbe. Riconoscetelo. L’ignoranza è una pessima madre che ha due pessimi figli: la falsità e il dubbio, la prima più misera, il secondo più miserabile; più perniciosa la prima, l’altro più molesto. Quando parla lo Spirito, scompaiono l’una e l’altro, e c’è allora non solo la verità, ma la certezza della verità. Quello è infatti lo Spirito di verità, al quale è contraria la falsità; ed è anche lo Spirito di sapienza, la quale, essendo candore della vita eterna, che arriva ovunque per il suo splendore, è incompatibile con l’oscuro dell’ambiguità. Quando questo non parla, però, c’è da temere, se non il dubbio molesto, certo la falsità esecranda. Altro è, infatti, avere una opinione incerta su questa o quella cosa, altro è affermare temerariamente quello che non sai. Dunque, o parli sempre lo Spirito, il che non dipende da noi; ovvero, quando gli piace di tacere, faccia saper questo, e parli almeno il suo silenzio, affinché noi, credendo falsamente di seguire lui, non andiamo invece sicuri dietro il nostro errore; e se ci rende sospesi nell’ambiguità, non ci abbandoni alla menzogna. C’è chi proferisce, dubitando, una menzogna e non mente, e c’è chi afferma la verità che ignora e mentisce. Il primo, infatti, non dice che sia quello che non è, ma dice di credere quel che crede e dice il vero, anche se non è vero quello che crede; e l’altro, dicendo di essere certo, mentre non lo è, non dice il vero, anche se è vero ciò di cui parla. 4. Premesse queste cose, perché gli inesperti agiscano con cautela, seguirò ora lo Spirito che, come confido, ci va innanzi, usando, per quanto potrò, la medesima cautela di cui ho parlato prima; e tenterò di fare io stesso quello che insegno, perché non mi si dica: Tu che insegni agli altri, non insegni a te stesso ( Rm 2,21 ). Bisogna bene distinguere tra le cose chiare e quelle dubbie, né revocare in dubbio le prime, né affermare con temerità le seconde. Questo lo speriamo dall’insegnamento dello Spirito: poiché la nostra industria per questo è del tutto insufficiente. III. Il giudizio sul diavolo dato in cielo Quale uomo sa se il giudizio compiuto da Dio riguardo agli uomini, di cui si è trattato nel sermone precedente, si sia anche svolto in precedenza nei cieli? 5. Cioè, se Lucifero, che sorgeva al mattino, ma troppo presto si elevava, prima di venire mutato in tenebre, sia stato preso da invidia anche lui per l’infusione dell’olio sul genere umano, e tra sé, già allora brontolasse con indignazione, dicendo su per giù: Perché questo spreco? ( Mt 26,8 ). Non affermo che lo Spirito dica questo, ma non dice neanche il contrario; non lo so. Poté capitare, a meno che si creda incredibile che egli, pieno di sapienza e perfetto in bellezza, abbia potuto prevedere che gli uomini sarebbero stati creati e sarebbero saliti a una gloria pari alla sua. Ma se lo previde, lo vide certamente nel Verbo di Dio, e nel suo livore arse d’invidia, e si diede da fare per avere come sudditi coloro che disdegnava di avere come compagni. Sono più deboli, diceva, per natura inferiori: non conviene che siano miei concittadini, né uguali nella gloria. O forse, questa empia macchinazione fa intravedere quel presumere di salire e di porre in alto il suo seggio, che significa il magistero? Ascenderò, dice, in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, onde ottenere così una somiglianza con l’Altissimo e, come questi, sedendo sopra i cherubini, governa ogni creatura angelica, così anch’egli, sedendo in alto, reggesse tutto il genere umano? Ma questo non sia mai! Ha tramato l’iniquità sul suo giaciglio, mentisca l’iniquità a se stessa. Noi non riconosciamo altro giudice che il Creatore. Non il diavolo, ma il Signore giudicherà il mondo; egli è il nostro Dio nei secoli dei secoli, egli ci governerà sempre. 6. Dunque, la superbia, prima madre della morte e di tutte le calamità, concepì in cielo il dolore e partorì l’iniquità, figlia della malizia. Poiché, anche se la morte è apparsa sulla terra per invidia del diavolo, l’inizio tuttavia di ogni peccato è la superbia. Ma questo quale giovamento portò al diavolo? Però tu sei fra di noi, o Signore, e il tuo nome è invocato sopra di noi, e il tuo popolo d’acquisto dice, dice la Chiesa dei redenti: Olio sparso è il tuo nome ( Ct 1,2 ). Quando io sono cacciato, tu lo effondi dietro di me e in me, perché, dopo esserti adirato, ti ricorderai della misericordia. Tuttavia, Satana ha ricevuto un regno su tutti i figli, della superbia, divenendo principe di queste tenebre, perché la superbia lotti contro il regno dell’umiltà. Così, in questo suo principato temporale, che è solo temporale, lottando contro molti umili, li ha resi re grandi ed eterni. Felice giudizio, che quel superbo, persecutore degli umili, fabbrichi per essi, senza saperlo, corone perpetue, lottando contro tutti e soccombendo a tutti. Poiché, dovunque e sempre il Signore giudicherà i popoli, e salverà i figli dei poveri, e umilierà il calunniatore. Dovunque e sempre difenderà i suoi, respingerà i nemici e impedirà che la verga dei peccatori pesi sulla sorte dei giusti, perché questi non stendano le mani a compiere il male; e tutto questo avverrà quando romperà totalmente l’arco, e spezzerà le armi e brucerà con il fuoco gli scudi. Tu, miserabile, poni il tuo trono nell’aquilone, zona nebbiosa e fredda; ed ecco che i miseri sono sollevati dalla polvere e i poveri dall’immondizia, e vengono fatti sedere con i principi su troni di gloria, e tu vedrai con dolore adempiersi quel detto: Il povero e il bisognoso loderanno il Nome. 7. Grazie a te, padre degli orfani e giudice dei fanciulli: il monte fertile, il monte pingue ha irradiato su di noi il suo calore; i cieli stillarono davanti al Dio del Sinai, fu effuso l’olio, dilatato il nome che l’iniquo invidiava a noi e per il quale ci portava invidia; dilatato, dico; fino ai cuori e alla bocca dei pargoli, per cui nella bocca dei bambini e dei lattanti si forma una perfetta lode. L’empio pertanto vede e si adira, e vi sarà per lui, al pari dell’ira, il fuoco inestinguibile, che è già stato preparato per lui è per i suoi angeli. Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti. IV. In questi due giudizi l’umile è consolato. Si passa al senso morale Come mi ami, Dio mio, amore mio! Come mi ami, ricordandoti ovunque di me, zelando ovunque la salvezza del misero e del povero, non solo contro gli uomini superbi, ma anche contro angeli sublimi. Tu giudichi in cielo e in terra coloro che mi nuocciono, sconfiggi chi mi combatte; ovunque vieni in aiuto, ovunque assisti, ovunque stai alla mia destra, perché io non sia smosso. Queste cose canterò al Signore nella mia vita, canterò al mio Dio finché esisto. Queste sono le sue imprese, queste le meraviglie che egli ha fatto. Questo è il primo e più grande giudizio che mi ha fatto capire la vergine Maria, così addentro ai segreti divini: Ha rovesciato, dice, i potenti dai troni, ed ha innalzato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati, e ha rimandato a mani vuote i ricchi ( Lc 1,52-53 ). Il secondo giudizio, simile a questo, già lo avete udito: perché coloro che non vedono, vedano, e coloro che vedono diventino ciechi ( Gv 9,39 ). In questi due giudizi si consoli il povero e dica: Ricordo i tuoi giudizi di un tempo, Signore, e ne sono consolato ( Sal 119,52 ). 8. Ma ritorniamo a noi stessi e scrutiamo la nostra condotta; e perché possiamo farlo in verità, invochiamo lo Spirito di verità, richiamiamolo dall’alto, dove ci aveva condotti, perché ci guidi verso noi stessi, poiché senza di lui non possiamo far nulla. E non c’è da temere che non voglia ascoltarci, anzi, egli si offende se tentiamo di fare alcunché, anche minimo, senza di lui. Non è, infatti, uno che va e non ritorna, ma ci conduce e riconduce di chiarezza in chiarezza, come Spirito del Signore, talora attirandoci a sé nella sua luce, talora temperando e illuminando le nostre tenebre, perché, o sia sopra di noi, o presso di noi, camminiamo sempre nella luce, come figli della luce. Siamo passati per le ombre delle allegorie; siamo pervenuti all’esame dei precetti morali. È stata edificata la fede, ora dobbiamo conformarvi la vita; si è esercitato l’intelletto, si prescrivano gli atti. Infatti: Buon intelletto hanno coloro che lo fanno seguire dalle azioni ( Sal 111,10 ), a condizione che e le azioni, e l’intelligenza siano dirette alla lode e gloria del Signore nostro Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli. Sermone XVIII I. La duplice operazione dello Spirito, infusione ed effusione 1. Olio effuso è il tuo Nome ( Ct 1,2 ). Che cosa di certo dimostra lo Spirito Santo in noi, in occasione di questo capitolo? Certamente un’esperienza, che ci viene nel frattempo, di una certa sua duplice operazione: con una, dapprima, ci fortifica interiormente con le virtù, a vantaggio della nostra anima, con l’altra invece, ci arricchisce al di fuori di doni per il vantaggio altrui. Le prime le riceviamo per noi, le altre per i nostri. Per esempio, la fede, la speranza, la carità vengono date a noi per noi; senza di queste infatti non possiamo salvarci. Invece il dono della parola di scienza e di sapienza, la grazia delle guarigioni, la profezia e altri simili, dei quali possiamo anche essere privi senza danno per la nostra salvezza, ci vengono dati senza dubbio per servircene per il bene spirituale del prossimo. E queste operazioni dello Spirito Santo, che sperimentiamo in noi o negli altri, perché abbiano un nome dalla realtà, le chiameremo, se volete, infusione ed effusione. A quale di queste due conviene la frase: Olio effuso è il tuo Nome? Non conviene forse all’effusione? Per l’infusione, infatti, avrebbe piuttosto detto « infuso » invece che « effuso ». Ed è per il buon odore delle mammelle cosparse all’esterno che la sposa dice: olio effuso è il tuo Nome, attribuendo questo profumo al nome dello sposo, che come olio si spande sulle mammelle. E chiunque si sente ripieno del dono della grazia esteriore che egli può rifondere sopra gli altri, anche a costui si può dire: Olio sparso è il tuo nome. 2. Ma in queste cose dobbiamo stare attenti a non dare ad altri ciò che abbiamo ricevuto per noi, o a trattenere quello che abbiamo ricevuto per dare ad altri. Tieni pertanto per te la cosa che appartiene al prossimo se, per esempio, essendo ricco di virtù, adorno al di fuori dei doni della scienza e dell’eloquenza, per timore forse, o per pigrizia, o per una falsa umiltà, privi il prossimo di una parola buona, che potrebbe giovare a molti, anzi ti chiudi in un inutile e riprovevole silenzio, certamente maledetto perché nascondi il frumento ai popoli. Al contrario, spandi e perdi quello che è tuo se, prima di essere tu stesso pienamente infuso, quando sei ancora mezzo pieno, ti affretti a effondere, arando contro la legge, con il primogenito del bue e tosando il primogenito della pecora. In questo modo tu ti privi della vita e della salute che dai a un altro, mentre, senza una buona intenzione, ti lasci gonfiare dal vento della vana gloria, ovvero vieni infettato dal veleno della cupidigia e, gonfiando il bubbone maligno ti dà la morte. 3. Per questo, se sei saggio, cercherai di essere non un canale, ma una vasca. Il canale, infatti, quasi contemporaneamente, riceve e riversa; la vasca, invece, aspetta di essere piena e così comunica dalla sua sovrabbondanza, senza suo danno, sapendo che è maledetto colui che deteriora la sua parte. E perché tu non abbia a pensare che il mio consiglio non vale nulla, ascolta che cosa dice uno più sapiente di me: Lo stolto, dice Salomone, manifesta tutto insieme il suo spirito, il sapiente ne riserva per il tempo successivo ( Pr 29,11 ). Purtroppo oggi abbiamo nella Chiesa molti canali, e pochissime vasche. Hanno tanta carità quelli per i quali fluiscono a noi i doni celesti, che vogliono trasmetterli prima ancora di averli ricevuti pronti più a parlare che ad ascoltare, disposti a insegnare quello che non hanno imparato, bramosi di presiedere agli altri, essi che non sono capaci di governare se stessi. II. Su quelli che cercano di effondere lo Spirito prima che sia loro infuso Io penso che nessun grado di pietà, in ordine alla salute dell’anima, sia da anteporre a quello stabilito dal Sapiente dove dice: Abbi pietà dell’anima tua, cercando di piacere a Dio ( Sir 30,24 ). E se non ho che un pochettino di olio tanto da ungermi, pensi che lo devo dare a te, e io restarne privo? Lo conservo per me e non lo darò via se non per ordine del Profeta. Se insisteranno nel pregarmi alcuni di quelli che mi stimano forse più di quello che vedono in me, o sentono parlare di me, si risponderà loro: Perché non abbia a mancare a noi e a voi, andate piuttosto dai venditori, e comperatene per voi ( Mt 25,9 ). Ma tu dici: La carità non cerca il proprio interesse ( 1 Cor 13,5 ). E tu sai perché? Non cerca le sue cose, perché non le mancano. Chi mai cerca quello che ha? La carità ha sempre le sue cose, cioè, le cose necessarie alla propria salvezza; e non solo le ha, ma le ha in abbondanza. Vuole abbondare per sé, per abbondare con tutti; tiene per sé quanto le è sufficiente per non mancare a nessuno. Altrimenti, se non è piena, non è carità perfetta. 4. Ma tu, fratello, la cui salute personale è ancora malferma, la cui carità è ancora o nulla, o tenera e fragile, talmente che cede a ogni soffio, crede a ogni spirito, è trasportata da ogni vento di dottrina, anzi, tu che hai tanta carità, che oltre il comandamento, ami il prossimo tuo più di te stesso, e poi essa è così piccola che, contro il comandamento, nel favore è tutta euforica, nella paura viene meno, si turba nella tristezza, si contrae per l’avarizia, si distende per l’ambizione, si inquieta nei sospetti, si agita per gli, insulti, si sviscera per le faccende, si gonfia per gli onori, si strugge per l’invidia: tu, dico, che ti senti così nelle tue cose, per quale pazzia, ti prego, ambisci o accetti di curare le cose altrui? Ma ecco, ascolta che cosa ti consiglia una cauta e vigile carità: Non si tratta di mettere in strettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza ( 2 Cor 8,13 ). Non voler essere troppo giusto. È sufficiente che tu ami il tuo prossimo come te stesso: questo significa fare uguaglianza. Davide dice così: Mi sazierà come a lauto convito, e con voci di gioia ti loderà la mia bocca ( Sal 64,6 ), volendo; cioè, prima essere riempito, e poi spandere al di fuori, né solo ricevere, ma venire riempito in modo da traboccare dalla propria pienezza e non sbadigliare per lo stomaco vuoto: con cautela, sì, perché quello che donava agli altri non portasse pregiudizio a se stesso; e castamente, tuttavia, imitando colui dalla pienezza del quale tutti noi abbiamo ricevuto. Impara anche tu a non dare se non dalla tua sovrabbondanza, né voler essere più liberale di Dio stesso. La vasca imiti la sorgente. Infatti, la stessa Fonte di vita, piena in se stessa e piena di se stessa, erompendo e salendo prima nei vicini segreti dei cieli, tutto riempì di beni; e finalmente, dopo aver riempito le parti superiori e segrete, sfociò sulla terra e con la sua sovrabbondanza salvò uomini e giumenti, moltiplicando, la sua misericordia. Prima riempì dentro e poi, traboccando nelle innumerevoli manifestazioni della sua misericordia, ha visitato la terra, l’ha inebriata, rendendola oltremodo feconda. Dunque, anche tu fa’ lo stesso. Riempi te stesso dapprima e poi cercherai di effondere al di fuori. La carità benigna e prudente scorre con abbondanza, non si esaurisce. Figlio, non effonderti tutto al di fuori ( Pr 3,21 ), dice Salomone; e l’Apostolo: Per questo dobbiamo applicarci con maggior impegno alle cose udite, per non esaurirci fuori strada ( Eb 2,1 ). Pensi dunque di essere più santo di Paolo, più sapiente di Salomone? E allora neanch’io penso di poter essere arricchito da te che sei vuoto. Se, infatti, tu sei cattivo con te stesso, per chi sarai buono? Se puoi, aiutami con la tua abbondanza; altrimenti pensa a te stesso. III. Come è necessario essere ripieni dello Spirito prima di effonderlo 5. Ma ora sentite quali e quante cose siano necessarie alla nostra salute, quali e quante cose debbano essere infuse in noi, prima che noi possiamo trasmettere ad altri; cercherò di riassumerle brevemente. L’ora infatti è già tarda e il sermone deve terminare. Si accosta il medico a un ferito, lo Spirito all’anima. Quale anima, infatti, non troverà ferita con la spada del diavolo, anche dopo che è stata risanata la ferita dell’antico peccato con la medicina del Battesimo? Dunque, che cosa occorre, quando viene lo Spirito, all’anima che dice: Putride e fetide sono le mie piaghe a causa della mia stoltezza ( Sal 38,6 )? Che venga amputato il tumore o l’ulcera che forse si è formata nella piaga e può compromettere la salute. L’ulcera di un’abitudine inveterata venga tagliata via con il ferro della compunzione. Ma il dolore è straziante: si lenisca pertanto con l’unguento della devozione, che altro non è se non l’esultanza che nasce dalla speranza del perdono. Questa proviene dalla capacità della continenza e dalla vittoria sui peccato. Già rende grazie, dicendo: Hai spezzato le mie catene, a te offrirò sacrifici di lode ( Sal 116,16.17 ). In seguito viene applicata la medicina della penitenza, l’unguento dei digiuni, delle veglie, delle orazioni e altri esercizi dei penitenti. Perché non venga meno, si nutre con il cibo delle buone opere, anche se questo costa fatica. Che l’opera buona sia cibo, lo vedi da queste parole: Mio cibo è fare la volontà del Padre mio ( Gv 4,34 ). E intanto alle fatiche della penitenza si accompagnino gli esercizi di pietà che diano conforto. L’elemosina è motivo di grande fiducia presso l’Altissimo( Tb 4,11 ). Il cibo eccita la sete, bisogna bere. Si aggiunga al cibo delle buone opere la bevanda dell’orazione, che rimescola nello stomaco della coscienza quello che si è compiuto di bene e lo presenta a Dio. Pregando si beve il vino che rallegra il cuore dell’uomo, il vino dello Spirito che inebria e fa dimenticare le voluttà carnali. Inumidisce l’interno della coscienza arida, favorisce la digestione delle buone azioni, e ne trae per via di certe membra dell’anima, una fede che irrobustisce, una speranza che dà conforto, facendo rivivere e ordinando la carità e alimentando i buoni costumi. 6. Preso il cibo e la bevanda, che resta da fare al malato se non di riposare e applicarsi alla quiete della contemplazione, dopo i sudori dell’azione? Dormendo nella contemplazione, sogna Dio; lo vede, cioè, non faccia a faccia, ma come in uno specchio e in figura. Tuttavia, benché Dio non sia tanto veduto quanto congetturato, e ancora come per un rapimento, quasi al balenare di una scintilla che passa, e appena debolmente raggiunto, l’anima si sente accendere d’amore per Lui; ed esclama: Di notte anela a Te l’anima mia, al mattino cerca Te il mio spirito ( Is 26,9 ). Un tale amore è zelante; questo conviene all’amico dello sposo, di questo deve ardere necessariamente il servitore fedele e prudente che il Signore ha posto a capo della sua famiglia. Questo riempie, questo è fervido, questo ribolle, questo ormai sicuramente trabocca ed erompe, e dice: Chi è debole che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? ( 2 Cor 11,29 ). Predichi, fruttifichi, rinnovi miracoli e compia nuove meraviglie: non c’è posto per la vanità dove tutto è occupato dalla carità. Infatti, la pienezza della legge e del cuore è la carità, a patto che essa sia piena. Infine, Dio è carità e non c’è nulla nelle cose che possa riempire una creatura fatta a immagine di Dio, se non Dio carità, che solo è più grande di essa. Con grande pericolo viene promosso ( a una qualche dignità ) chi non l’ha ancora acquistata, per quanto altre virtù sembri possedere. Se avesse tutta la scienza, se donasse tutte le sue sostanze ai poveri, se consegnasse alle fiamme il suo corpo, senza carità un tale rimane vuoto. Ecco quante cose si devono prima infondere in noi, perché possiamo osare di effonderle, donando dalla nostra pienezza e non dalla nostra penuria: prima di tutto la compunzione, poi la devozione, in terzo luogo il lavoro della penitenza, in quarto luogo le opere di pietà, in quinto luogo l’applicazione all’orazione, sesto il riposo della contemplazione, settimo la pienezza dell’amore. Tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, secondo l’operazione che si chiama infusione e che permette che quella chiamata effusione si effettui puramente e, per questo, sicuramente, a lode e gloria del Signore nostro Gesù Cristo, che con il Padre e lo stesso Spirito Santo vive e regna Dio per tutti i secoli dei secoli. Amen. Sermone XIX I. Perché è detto: le giovinette ti hanno amato molto 1. La sposa parla ancora con parole d’amore e continua ancora a tessere le lodi dello sposo e si attira altra grazia, mentre fa vedere che quella che aveva già ricevuta non è rimasta in sé senza effetto. Senti, infatti, che cosa dice ancora: Per questo le giovinette ti amano con ardore ( Ct 1,2 ). Quasi dicesse: « Non invano e senza effetto il tuo nome si è annichilito, o sposo, e si è effuso sulle mie mammelle; poiché appunto per questo le giovinette ti amano con ardore ». Perché? Per il tuo nome effuso e per le mie mammelle cosparse di esso. Questo ha eccitato in esse l’amore per lo sposo, da qui esse traggono motivo per amare. Ricevendo la sposa l’infusione del dono, esse ne hanno sentito subito la fragranza, dato che non potevano essere lontane dalla madre e, ripiene di quella soavità, dicono: La carità di Dio si è diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato ( Rm 5,5 ). Perciò la sposa, lodando la loro devozione, dice: « Questo, o sposo, è il frutto del tuo nome effuso, per questo le giovinette ti amano. Infatti sentono partecipato quel nome che non potevano comprendere nella sua integrità; per questo ti amano ». L’effusione, infatti, rende il nome comprensibile, compreso diventa amabile, ma solo alle giovinette. Coloro che sono più capaci possono godere del nome integro, non hanno bisogno che venga effuso. II. Il modo in cui i singoli ordini di spiriti beati amano Cristo Signore 2. La creatura angelica, mediante l’acutezza naturale della mente, intuisce il profondo abisso dei giudizi divini e, resa beata dall’ineffabile diletto che prova per la loro somma equità, si gloria anche di eseguirli con il suo ministero e di renderli palesi; e per questo ama giustamente Cristo Signore. Non sono essi tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza? ( Eb 1,14 ). Pertanto, gli Arcangeli – per attribuire loro qualche cosa di differente da quelli che sono semplicemente Angeli – provano, penso io, un meraviglioso diletto nell’essere ammessi più familiarmente agli stessi consigli della sapienza eterna e di trasmetterli nei luoghi e tempi assegnati dalla sovrana disposizione divina. E questa è la ragione per cui anch’essi amano Cristo Signore. Anche quelle beatitudini, – che forse sono state chiamate Virtù per il fatto che, ordinate da Dio a scrutare con felice curiosità e contemplare le cause occulte e perpetue delle virtù e dei prodigi, fanno vedere i miracoli che vogliono e quando vogliono, realizzati in tutti gli elementi –, anch’esse, per questo, ardono giustamente dal desiderio di amare il Signore degli eserciti e la forza di Dio, Cristo. Infatti, contemplare le profondità nascoste della sapienza nella stessa sapienza è cosa piena di soavità e di grazia, ed è un grande onore e una grande gloria il fatto che, per mezzo loro, vengano esposti al mondo, per essere guardati e ammirati gli effetti delle cause nascoste nel Verbo di Dio. 3. Ma anche quegli spiriti che si chiamano Potestà, mentre godono nel contemplare e magnificare l’onnipotenza del nostro Crocifisso, che arriva con forza dappertutto, hanno il potere di combattere e vincere le potestà contrarie dei demoni e degli uomini, in favore di coloro che ricevono in eredità la salvezza. Non hanno anche questi un giustissimo motivo per amare il Signore Gesù? Sopra questi vi sono i Principati, i quali, facendolo oggetto di una più sublime contemplazione, e apparendo loro evidentissimo che egli è il principio di ogni cosa e il primogenito di ogni creatura, sono per questo rivestiti di tanta dignità, da poter, come dalla sommità di un cardine delle cose, mutare e ordinare a loro arbitrio le dignità, fare dei primi gli ultimi e degli ultimi i primi, a seconda del merito, deporre dai loro seggi i potenti ed esaltare gli umili. Anche per essi è questa la ragione del loro amore. Ma anche le Dominazioni amano. Perché? Esse sono portate, con lodevole ardimento, a indagare sull’interminabile e irrefrangibile dominio di Cristo, cosa di cui non so se vi sia altra più sottile e sublime, come egli, cioè, non solo con la potenza, ma anche con la sua presenza tenga soggetti alla sua rettissima volontà, con un ordine davvero ammirabile, le cose superne e quelle inferiori, il succedersi dei tempi, il movimento dei corpi e le inclinazioni delle menti; e tutto questo con una cura così vigile da non permettere che nessuna di queste creature defletta neppure di un iota, come si dice, dal debito del suo servizio, e con un lavoro così facile, che il governatore di tutte queste cose non sente affatto alcun turbamento o ansietà. Scorgendo dunque il Signore degli eserciti giudicare tutte le cose con tanta tranquillità, stupite all’eccesso, ma giustamente, nell’intensissima e soavissima contemplazione di lui, rapite in quel mare immenso della luce divina, si raccolgono in un certo recesso di meravigliosa tranquillità dove fruiscono di tanta pace e sicurezza, di modo che, mentre esse riposano, le rimanenti moltitudini di spiriti celesti sembrano stare ai loro ordini e servirle, per la riverenza che portano alla loro prerogativa. 4. Dio siede nei Troni. E penso che questi spiriti, più che tutti gli altri che abbiamo ricordati, abbiano giusto motivo e abbondante materia per amare. Infatti, se entri nel palazzo di un re qualsiasi, trovi tutto pieno di sedie, di scanni, di cattedre, ma il trono regale si vede posto in un luogo eminente. E non è il caso di chiedere dove sia solito sedere il re: l’occhio scorge subito il suo seggio, posto più in alto e più ricco degli altri che gli stanno intorno. Così pure questi spiriti emergono tra gli altri per la bellezza di cui sono adorni, perché in essi stabilì di risiedere la maestà divina per un dono speciale di stupenda degnazione. E se il fatto di sedere significa il magistero, penso che Cristo, sapienza di Dio, che è unico nostro maestro in cielo e in terra, pur essendo presente dappertutto per la sua eccellenza, voglia nobilitare con la sua presenza in modo speciale questi spiriti, principalmente come propria sede, e di là, come da una solenne cattedra, insegni la scienza agli angeli e agli uomini. Di là ricevono gli Angeli la conoscenza dei divini giudizi, di là gli Arcangeli vengono messi a parte dei consigli divini. Ivi le Virtù ascoltano quando e dove e quali miracoli debbano manifestare. Ivi, insomma, tutti, sia Potestà, sia Principati, sia Dominazioni imparano che cosa debbano fare per il loro ufficio, quello che conviene alla loro dignità e, soprattutto, a non abusare del potere che è loro conferito per fare la propria volontà o cercare la propria gloria. 5. Tuttavia quelle schiere che si chiamano Cherubini, se si tiene conto del significato del loro nome, penso che non abbiano nulla che ricevono da essi o per essi, potendo attingere pienamente dalla stessa fonte, per il fatto che lo stesso Signore Gesù si degna di per sé di introdurli in tutta la pienezza della verità e di rivelare loro largamente i tesori della sapienza e della scienza che in lui sono nascosti. E neppure quelli chiamati Serafini, in quanto la stessa carità, Dio, li ha talmente attratti e assorbiti a sé e li ha talmente rapiti in un medesimo ardore di santa affezione, da apparire un solo spirito con Dio, come il fuoco, infiammando il bronzo, mentre gli trasmette tutto il suo calore e gli dà lo stesso calore, non sembra solo renderlo infuocato, ma fuoco esso stesso. I Cherubini amano principalmente contemplare in Dio la scienza, che è infinita, i Serafini invece la carità, che non viene mai meno. E hanno avuto appunto il nome da quello in cui si distinguono: Cherubim, infatti, significa la pienezza della scienza, Serafini vuol dire ardenti e che comunicano l’amore. 6. Dio è dunque amato dagli Angeli per la somma equità dei suoi giudizi; dagli Arcangeli per la somma moderazione dei suoi consigli; dalle Virtù per la benignissima dimostrazione dei miracoli, per mezzo dei quali, con somma degnazione, attira gli increduli alla fede; dalle Potestà per quella forza di giustissima potenza con la quale è solito vincere e tener lontana dai buoni la crudeltà dei maligni; dai Principati poi per quella eterna e originale virtù, con la quale dà l’essere e il principio dell’essere a ogni creatura superiore e inferiore, spirituale e corporea, stendendo, il suo influsso da un estremo all’altro con fortezza; anche dalle Dominazioni, per la placidissima volontà con la quale, benché domini ovunque mediante la fortezza del suo braccio, tuttavia, per una virtù più potente, dispone tutto con soavità, in ragione della sua ingenita e imperturbabile tranquillità. È amato anche dai Troni per la benevolenza della sapienza maestra che si comunica senza invidia e per la unzione che gratuitamente istruisce su tutte le cose. Dai Cherubini poi è amato per il fatto che il Signore è il Dio che sa tutto, e, sapendo quanto sia necessario alla salvezza di ciascuno, distribuisce con discernimento e con provvidenza i suoi doni a chi li domanda come si deve, secondo che sa essere conveniente; dai Serafini infine è stato amato perché è carità, e non odia nulla di ciò che ha fatto, e vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità ( Gv 4,8; Sap 11,25; 1 Tim 2,4 ). III. In che modo le giovinette lo amano. Correzione dei novizi nel caso non vogliano uniformarsi alla vita di comunità 7. Tutti questi, dunque, secondo la loro comprensione, amano. Ma le giovinette, poiché sono meno sapienti, capiscono anche di meno e non sono affatto capaci di cose così sublimi: sono infatti piccole in Cristo, bisognose di essere nutrite con latte e olio. Devono dunque prendere motivo di amare dalle mammelle della sposa. La sposa ha l’olio sparso, all’odore del quale esse vengono eccitate a gustare e sentire quanto sia soave il Signore. E quando le vede ardenti di amore, rivolta allo sposo, dice la sposa: Olio sparso è il tuo nome, per questo le giovinette ti amano troppo ( Ct 1,2 ). Che significa « troppo »? Molto, con veemenza, con ardore. Oppure si riferisce piuttosto indirettamente a voi, che siete venuti di recente, come rimprovero per la vostra veemenza indiscreta, anzi proprio troppo ostinata intemperanza, che anche noi abbiamo tentato spesso di reprimere. Non volete contentarvi della vita comune. Non vi basta il digiuno regolare, non le solenni vigilie, non vi basta la disciplina regolare, non la misura che vi passiamo negli abiti e negli alimenti: preferite le cose private alle comuni. Voi che ci avete affidato la cura di voi stessi, perché tornate a occuparvi di voi? Ecco che riprendete come maestra, scartando me, quella vostra volontà, per la quale, sono testimoni le vostre coscienze, tante volte avete offeso Dio. Essa vi insegna a non tener conto della debolezza della natura, a non agire secondo ragione, a non obbedire ai consigli degli anziani e ai loro esempi, a non obbedire a noi. O non sapete che è migliore delle vittime l’Obbedienza ( 1 Sam 15,22 )? Non avete letto nella vostra Regola che qualunque cosa si fa senza il volere o il consenso del padre spirituale viene ascritto a vanagloria, non a premio? Non avete letto nel Vangelo quale esempio di obbedienza Gesù ha dato ai santi fanciulli? Essendo infatti rimasto in Gerusalemme e avendo detto che egli doveva occuparsi delle cose che riguardavano il Padre suo, assecondando la volontà dei suoi genitori, li seguì senza opporsi a Nazaret, lui Maestro seguì i discepoli, lui Dio obbedì agli uomini, lui Verbo e Sapienza si assoggettò a un fabbro e a una donna. Che altro aggiunge la sacra storia? Era obbediente a loro ( Lc 2,51 ). Fino a quando sarete sapienti ai vostri occhi? Dio si affida e assoggetta a esseri mortali, e voi camminate ancora nelle vostre vie? Avevate ricevuto uno spirito buono, ma non ne usate bene. Temo che ne riceviate un altro in cambio di questo, che vi inganni sotto le apparenze di bene, e voi che avete cominciato con lo spirito, andiate a finire con la carne. O non sapete che l’angelo di Satana molte volte si trasfigura in angelo di luce? Dio è sapienza e vuole essere amato, non solo con dolcezza, ma anche con sapienza. Onde l’Apostolo: razionale, dice, il vostro culto ( Rm 12,1 ). Diversamente, lo spirito di errore con molta facilità approfitterà del tuo zelo per trarti in inganno, se tu trascuri la scienza; l’astuto nemico non ha strategia più efficace che togliere l’amore del tuo cuore, che farti camminare in esso, se è possibile, incautamente e non ragionevolmente. Per la qual cosa io penso di darvi certe regole, che hanno tutto l’interesse di osservare coloro che vogliono amare Dio. Ma poiché è ormai tempo di finire questo sermone, cercherò di spiegarle domani, se Dio, mi darà vita e tempo per discorrere su questo argomento. Allora, dopo aver dato riposo ai sensi con la quiete della notte e principalmente, dopo aver pregato, ci ritroveremo più alacri, come è giusto, per parlare dell’amore, con l’aiuto del Signore Gesù Cristo, al quale onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. Sermone XX I. In che cosa soprattutto si accende l’amore verso il Signore Gesù 1. Cominciamo il sermone con le parole del Maestro: Chi non ama il Signore Gesù, sia anatema ( 1 Cor 16,22 ). Devo veramente amare molto colui per il quale esisto, vivo e ragiono. Se sono ingrato, sono anche indegno. È veramente degno di morte, o Signore Gesù, chi ricusa di vivere per te, ed è morto; e chi non piace a te è un insensato, e chi cerca di essere senza di te, non è per niente ed è niente. Infine, che cosa è l’uomo, se non perché ti sei manifestato a lui? Per te stesso, o Dio, hai fatto tutte le cose, e chi vuol essere per sé e non per te, comincia a essere nulla tra tutte le cose. Temi Dio e osserva i suoi comandamenti; questo è tutto l’uomo ( Pr 16,4 ). Se dunque questo è tutto l’uomo, senza di questo non c’è uomo. Orienta verso di te, o Dio, quel poco che ti sei degnato concedermi di essere. E da questa misera vita ricevi, ti prego, il resto dei miei anni; per quelli che, vivendo, ho sprecato, perché ho vissuto da uomo perduto, non disprezzare un cuore contrito e umiliato, o Dio. I miei giorni sono passati come ombra e sono trascorsi senza frutto. Mi è impossibile richiamarli indietro; ti piaccia che io li ripensi davanti a te nell’amarezza dell’anima mia. In quanto poi alla sapienza, – davanti a te è ogni mio desiderio e proposito del mio cuore – se ve ne fosse in me, la riserverei per te. Ma, o Dio, tu conosci la mia insipienza, a meno che sia sapienza questo stesso riconoscere la mia insipienza, sia pure per grazia tua. Aumenta questa grazia in me, che non sono affatto ingrato per il piccolo dono, ma sollecito per quello che manca ancora. Per queste cose, dunque, io amo te quanto posso. 2. Ma c’è qualche cosa che mi spinge maggiormente, che mi sprona di più, che di più mi accende. Sopra ogni cosa, dico, ti rende amabile a me, o Gesù buono, il calice che hai bevuto, l’opera della nostra redenzione. Questo richiede facilmente il nostro amore per te. Questo, dico, è quello che è più adatto a eccitare la, nostra devozione, che esige con più giustizia e sprona più fortemente, che spinge più efficacemente. Molto, infatti, in essa ha penato il Salvatore, né ha faticato tanto nel costruire tutto il mondo. Per creare le cose gli fu sufficiente proferire una parola, un comando, e furono fatte. Ma nella redenzione dovette sopportare nei detti la contraddizione, nei fatti quelli che lo spiavano per accusano, nei tormenti coloro che lo beffeggiavano e nella morte coloro che lo disprezzavano. Ecco come ha amato. Aggiungi che questo amore non fu una risposta al nostro amore, ma un’aggiunta agli altri benefici. Poiché, chi per primo ha dato a lui, sicché i doni di Dio fossero da ritenere un ricambio? Ma l’evangelista san Giovanni dice: Non che noi abbiamo amato lui, ma egli per primo ha amato noi ( 1 Gv 4,10 ). Infine, ci ha amati quando ancora non esistevamo; è giunto anche al punto di amare chi gli resisteva, secondo la testimonianza di Paolo che dice: Quando eravamo ancora nemici, siamo stati riconciliati con Dio mediante il sangue del Figlio suo ( Rm 5,10 ). Diversamente, se non ci avesse amato da nemici, non ci avrebbe avuti come amici, come non amerebbe coloro che sono, se non li avesse amati quando ancora non erano. II. Il triplice modo in cui il Signore Gesù ci dimostro il Suo amore 3. Amò con dolcezza, con sapienza, con fortezza. Dolce direi il suo amore, perché si rivestì di carne; accorto, perché evitò la colpa; forte, perché sostenne la morte. Poiché non amò affatto carnalmente coloro che visitò nella carne, ma nella prudenza dello spirito. Spirito, infatti, è davanti a noi Cristo Signore ( Lam 4,20 ), geloso di noi della gelosia di Dio, non di un uomo, e certamente più sana che non quella di Adamo per la sua Eva. Ci ha pertanto cercati nella carne e ci ha amati nello spirito, redimendoci con la sua forza. È cosa dolcissima e soavissima considerare il Creatore dell’uomo fatto uomo. E come con prudenza, prendendo la natura umana, ne evitò la colpa, con potenza allontanò pure la morte dalla natura. Nell’assumere la carne fu condiscendente verso di me, evitando la colpa provvide a sé, accettando la morte sodisfece al Padre; amico dolce, consigliere prudente, aiuto forte. A lui mi affido sicuro, perché vuole salvarmi, lo sa fare e lo può. Quello che egli ha cercato, lo ha anche chiamato mediante la sua grazia: se questi viene, lo butterà forse fuori? Ma io non temo che alcuna forza o inganno possa strapparmi dalla mano di lui che ha vinto la morte, vincitrice di tutte le cose, e che ha, con arte più santa, ingannato il serpente, seduttore universale, più prudente di questo, più forte di quella. Assunse in verità la carne, ma del peccato solo la somiglianza, porgendo in essa una dolcissima consolazione all’uomo infermo e nascondendo prudentemente in essa un laccio ingannatore al diavolo. Ora, per riconciliarci con il Padre, fortemente subisce e assoggetta la morte, spargendo il suo sangue come prezzo della nostra redenzione. Dunque, se non mi avesse amato dolcemente, la sua maestà non sarebbe venuta a cercarmi nel carcere dove languivo; ma unì all’affetto la sapienza, onde ingannare il tiranno, vi unì la pazienza per placare con essa Dio Padre offeso. III. I tre modi in cui dobbiamo elevarci all’amore verso il Signore Gesù Questi sono i modi che vi avevo promesso; ma ve li avevo promessi in Cristo perché li teniate maggiormente in considerazione. 4. Impara, o cristiano, da Cristo come tu debba amare Cristo. Impara ad amare con dolcezza, ad amare con prudenza, ad amare con fortezza; dolcemente, affinché non allettati, con prudenza, affinché non ingannati, con fortezza, affinché non oppressi dalle cose del mondo siamo stornati dall’amore del Signore. Per non essere trascinato dalla gloria o dai piaceri della carne, ti diventi dolce più di tutte queste cose Cristo sapienza; per non essere sedotto dallo spirito di menzogna e di errore, splenda ai tuoi occhi Cristo verità; per non venir meno nelle avversità, ti conforti Cristo, forza di Dio. Il tuo zelo sia infiammato dalla carità, informato dalla scienza, reso stabile dalla costanza. Sia fervido, sia circospetto, sia invitto. Non sia tiepido, non manchi di discrezione, né sia timido. E vedi se, per caso, queste tre cose siano già state inculcate nella legge, dove dice: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, e con tutte le forze ( Dt 6,5 ). A me sembra, se non vi è un altro senso più conveniente, che in questa trina distinzione, l’amore del cuore stia a indicare lo zelo dell’affezione, l’amore invece dell’anima si riferisca al lavoro, ossia al giudizio della ragione, la dilezione infine con tutte le forze mi pare possa riferirsi alla costanza o al vigore; Ama dunque il Signore Dio tuo con tutto e pieno l’affetto del cuore, amalo con tutta la vigilanza e circospezione della ragione, amalo anche con tutte le forze, tanto da non temere neppure di morire per amor suo, come sta scritto nelle parole seguenti: Perché come la morte è l’amore, lo zelo è tenace come l’inferno ( Ct 8,6 ). Sia dolce e soave al tuo cuore il Signore Gesù, contro i piaceri carnali malamente dolci, e la dolcezza vinca la dolcezza, a quel modo che un chiodo scaccia un altro chiodo. Ma tuttavia prima l’intelletto sia illuminato e guidi la ragione, non solo per evitare le sottili astuzie della frode eretica e per custodire la purità della fede contro tali astuzie, ma anche perché tu sia attento a evitare nella tua vita ogni ardore eccessivo e indiscreto. Il tuo amore sia anche forte e costante, senza cedere alla paura, né soccombere alla fatica. Amiamo dunque affettuosamente, con circospezione e con forza, ricordandoci che l’amore del cuore, che diciamo affettuoso, senza quello che si dice dell’anima, è certamente dolce, ma esposto a seduzione; quello dell’anima invece, senza quello che è caratterizzato dalla forza, è ragionevole, ma fragile. IV. Esempio degli Apostoli per la manifestazione dell’amore 5. Ed ecco dei chiari esempi che dimostrano che le cose stanno come abbiamo detto. I Discepoli essendo tristi per quello che avevano sentito dal Maestro, che stava per salire al cielo, circa la sua dipartita, si sentirono rispondere: Se voi mi amaste, sareste davvero contenti che io vado al Padre ( Gv 14,28 ). Come dunque? Non amavano colui per la partenza del quale si affliggevano? Ma amavano in un certo modo, e non amavano veramente. Amavano dolcemente, ma meno prudentemente; amavano carnalmente, ma non ragionevolmente; amavano con tutto il cuore, ma non con tutta l’anima. Questo loro amore era contro il loro vero interesse, e perciò aggiunse il Signore: È bene per voi che io me ne vada ( Gv 16,7 ), rimproverando non il loro affetto, ma il loro ragionamento. Così, quando parlava della sua futura morte e interruppe con aspro rimprovero Pietro che lo amava teneramente e che era intervenuto per dissuaderlo, come ricordate che altro volle disapprovare in lui se non l’imprudenza? Infine, che cosa vuol dire: Tu non pensi secondo Dio ( Mc 8,33 ), se non che: Tu non ami sapientemente, seguendo l’affetto umano, contro il disegno di Dio? E lo chiamò Satana, perché, non volendo che il Salvatore morisse, anche se inconsciamente, si metteva contro la salvezza. Perciò, corretto, quando più tardi Gesù ripeté la triste parola, non si oppose più alla sua morte, ma promise di voler morire con lui. Non lo fece in realtà, perché non era ancora pervenuto al terzo grado, nel quale si ama con tutte le forze. Aveva imparato ad amare con tutta l’anima, ma era ancora debole, bene istruito, ma poco sorretto, – non ignaro del mistero, ma pauroso del martirio. Non fu davvero forte come la morte quell’amore che soccombette alla morte; ma lo fu in seguito, quando, secondo la promessa di Cristo, rivestito di forza dall’alto, cominciò finalmente ad amare con tale fortezza, da rispondere con fermezza a coloro che nel sinedrio gli vietavano di predicare il santo nome: Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini ( At 5,29 ). Amò con tutte le forze quando, per amore non risparmiò neppure la vita. Poiché nessuno ha maggior amore di colui che dà la vita per i suoi amici ( Gv 15,13 ); e se neanche allora diede la vita, tuttavia già si espose alla morte. V. L’amore del cuore è in qualche modo « carnale »; sua intensità Dunque: non lasciarsi attrarre dalle lusinghe, non lasciarsi sedurre dalle cose fallaci, non lasciarsi scuotere dalle ingiurie, questo è amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. 6. E osserva che l’amore del cuore è in qualche modo carnale, perché il cuore umano si volge maggiormente alla carne di Cristo e a quelle cose che Cristo operò e ordinò nella carne. Chi è pieno di questo amore, facilmente si commuove a ogni discorso che si tiene su questo argomento. Niente ascolta così volentieri, nulla medita con maggiore soavità. Da qui, l’olocausto delle sue orazioni trae abbondante alimento come dall’adipe di un vitello grasso. L’uomo di Dio in preghiera ha davanti a sé una sacra immagine, o della natività di Gesù, o di Gesù che viene allattato, o che insegna, o che muore, o che risorge, o che sale al cielo; é qualunque di queste cose venga presa in considerazione, necessariamente accende nell’animo l’amore per le virtù, disorienta i vizi della carne, schiaccia le turpi lusinghe, calma gli appetiti smodati. Io penso che questa sia stata la causa per cui l’invisibile Dio volle farsi vedere nella carne e vivere uomo con gli uomini, affinché, cioè, coloro che non erano capaci di amare se non carnalmente fossero portati a dirigere tutte le loro affezioni al salutare amore della sua carne, e così a poco a poco venissero portati all’amore spirituale. Stavano ancora in questo grado coloro che dicevano: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito ( Mt 19,27 ). Avevano lasciato tutto solo per amore della presenza corporale, fino al punto che non riuscivano a sopportare, senza allarmarsi, nessuna parola sulla futura passione e morte, da cui pure dipendeva la salvezza, e in seguito, neppure sentire parlare, senza grande tristezza, della gloria dell’ascensione di Cristo. Questo significano le parole che egli diceva loro: Perché vi ho detto queste cose, il vostro cuore si è riempito di tristezza ( Gv 16,6 ). Pertanto, la sola grazia della presenza della sua carne, aveva sospeso, per il momento, ogni altro amore carnale. 7. Mostrava poi loro un grado più elevato di amore quando diceva: È lo Spirito che vivifica, la carne non giova a nulla ( Gv 6,64 ). Penso che fosse arrivato a quest’altezza colui che diceva: Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora però non lo conosciamo più così ( 2 Cor 5,16 ). Forse anche il Profeta stava a questo punto quando diceva: Spirito davanti a noi l’Unto del Signore ( Lam 4,20 ). Poiché quello che dice in seguito: Sotto la sua ombra vivremo tra le nazioni, mi sembra lo abbia aggiunto per i principianti, perché riposino almeno all’ombra, dato che si sentono meno validi a sopportare i raggi del sole infuocato e siano nutriti con la dolcezza della carne, fino a che diventino capaci di comprendere le cose che sono dello Spirito di Dio. Penso infatti che ombra di Cristo sia la sua carne, con la quale fu adombrata anche Maria, perché temperasse in lei l’ardore folgorante dello Spirito. Si consoli frattanto con la devozione della carne, chi non ha ancora lo Spirito vivificante, come lo hanno quelli che dicono: Spirito davanti a noi l’Unto del Signore ( Lam 4,20 ); e anche: Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così ( 2 Cor 5,16 ). Del resto, neanche nella carne si ama Cristo senza lo Spirito Santo, anche se non con quella pienezza. Tuttavia, la misura di questa devozione è che quella soavità occupi tutto il cuore, nulla lasciando all’amore delle creature e ai piaceri carnali. Questo significa amare con tutto il cuore. Se, invece, alla carne del mio Signore io preferisco un consanguineo della mia carne o qualche altro piacere, per cui mi avvenga di adempiere meno perfettamente quelle cose che egli, vivendo nella carne, m’insegnò con la parola e con l’esempio, è chiaro che non lo amo con tutto il cuore avendolo diviso, e che ne do una parte alla carne di lui, e una parte la riservo per la mia. Infine, egli dice: Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; e chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me ( Mt 10,37 ). Dunque, per dirla in breve, amare con tutto il cuore vuol dire posporre tutto ciò che lusinga la propria o l’altrui carne, e in questo comprendo anche la gloria del mondo, perché la gloria del mondo è gloria della carne, e non c’è dubbio che chi in essa si compiace è uomo carnale. VI. L’amore dell’anima o della virtù è razionale e spirituale 8. Benché questa devozione verso la carne di Cristo sia un dono, e un dono grande dello Spirito, tuttavia io chiamerei carnale anche questo amore, rispetto a quell’altro amore con il quale si gusta, non tanto il Verbo carne, ma il Verbo sapienza, il Verbo giustizia, il Verbo verità, il Verbo santità, pietà, virtù e altro che si possa dire di questo genere. E tutto questo è Cristo, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione ( 1 Cor 1,30 ). Pensi tu che siano medesimi o della stessa qualità gli effetti che si manifestano in colui che compatisce Cristo sofferente, si compunge e facilmente si commuove al ricordo delle pene che ha sofferto, e dalla soavità di questa devozione si sente nutrito e confortato nel compiere tutto ciò che è salutare, onesto, pio; e in colui che è sempre acceso da zelo per la giustizia, che difende ovunque la verità, che si infervora nell’amore della sapienza, a cui è amica la santità della vita e la disciplina dei costumi, colui che, nella sua condotta, ha rossore della iattanza, aborrisce la detrazione, non conosce invidia, detesta la superbia, e non solo fugge ogni gloria umana, ma ne ha fastidio e la disprezza, ha in abominazione e combatte con grande energia in sé ogni impurità del cuore e della carne, in una parola, respinge come naturalmente ogni male, e abbraccia ciò che è buono? 9. Tuttavia è buono quest’amore carnale per il quale viene esclusa la vita carnale, si disprezza e si vince il mondo. Si progredisce in esso quando è anche razionale, e diventa perfetto quando diventa spirituale. Ora, è razionale allorché, in tutte le cose che bisogna credere di Cristo, la ragione della fede si mantiene così ferma, da non lasciarsi deviare da quello che insegna la Chiesa per nessuna apparenza di verità, per nessun tranello degli eretici o del diavolo. Così pure, quando nella propria condotta si osserva quella cautela, che non si sorpassino i limiti segnati dalla discrezione per nessuna superstizione o leggerezza, o per la veemenza di uno spirito apparentemente più fervente. E questo è, come abbiamo detto sopra, amare Dio con tutta l’anima. Che se interviene inoltre un così grande vigore da parte dello Spirito che aiuta, da far sì che la giustizia non sia abbandonata malgrado tutte le pene e i tormenti, e lo stesso timore della morte, in questo consiste l’amare Dio con tutte le forze, ed è amore spirituale. Penso che questo nome convenga a quest’ultima specie di amore a causa della pienezza dello spirito che in esso risalta. E questo basti a commento delle parole della sposa: Perciò le giovinette ti amano ardentemente ( Ct 1,2 ). Nelle cose che seguono, si degni di aprirci i tesori della sua misericordia lo stesso loro custode, Gesù Cristo nostro Signore, che vive e regna nell’unità dello Spirito Santo, Dio, per tutti i secoli dei secoli. Amen. Sermone XXI I. Perché la Sposa dice: « Attraimi dietro a te » 1. Attirami dietro a te, correremo all’odore dei tuoi profumi ( Ct 1,3 ). Come? La sposa ha bisogno di essere trascinata, e dietro lo sposo, poi, quasi che non lo segua volentieri, ma suo malgrado? Ma non chiunque è attirato, lo è contro voglia. Se il colpevole è trascinato suo malgrado al giudizio o alla pena, non così però l’infermo o il debole si lascia tirare al bagno o al pranzo. E poi, colei che, dice queste parole, vuole essere attirata: non pregherebbe, se potesse da sé seguire il diletto, come vorrebbe. E perché non lo può? Diremo che la sposa è inferma? Se una delle giovinette si dichiarasse inferma e chiedesse di essere trascinata, non ci meraviglieremmo affatto. Ma ci pare strano che la sposa, la quale sembrava dover trascinare anche gli altri, in quanto forte e perfetta, debba’essa stessa essere trascinata, come inferma o debole. Di quale anima potremo confidare che sia sana e valida, se ammetteremo che sia inferma colei che, per la sua singolare perfezione e più eccellente virtù è chiamata sposa del Signore? O la Chiesa ha detto questo vedendo ascendere il diletto, e bramando seguirlo ed essere assunta con lui nella gloria? Per quanto sia perfetta un’anima, fino a che geme sotto il corpo di questa morte, e viene trattenuta nel carcere di questo mondo cattivo, legata da varie necessità, tormentata dalle malvagità, è inevitabile che si elevi con più lentezza e debolezza alla contemplazione delle cose sublimi, né possa liberamente seguire lo sposo dovunque egli va. Di qui quel gemito espresso tra le lacrime: Me uomo infelice, chi mi libererà da questo corpo di morte? ( Rm 7,24 ). Di qui quella supplica: Strappa dal carcere la mia vita ( Sal 142,8 ). Dica perciò, dica anche gemendo la sposa: Attirami dietro a te, perché il corpo corruttibile appesantisce l’anima, e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri ( Sap 9,15 ). O dice questo desiderando di morire ed essere con Cristo, dato anche che vede quelle, per le quali sembrava necessario che essa restasse in vita, bene incamminate sulla via del progresso nel bene e dell’amore verso lo sposo e sicure nella carità? Aveva infatti premesso: Per questo le giovinette ti amano molto ( Ct 1,2 ). Ora dunque, quasi dicesse: « Ecco, le giovinette ti amano, e amando aderiscono fortemente a te, non hanno più bisogno di me, non ho più motivo di restare ulteriormente in questa vita », perciò dice: Attirami dietro a te. 2. Penserei così se avesse detto: « Attirami a te ». II. Che cosa significa l’essere attratti dietro il Cristo; chi lo desidera e chi no E invece, poiché dice dietro a te, mi sembra piuttosto che voglia chiedere di poter seguire gli esempi della sua vita, emularne la virtù, che sia in grado di osservarne la norma di vita e apprenderne la disciplina dei costumi. In queste cose ha massimamente bisogno di aiuto, onde poter rinnegare se stessa, abbracciare la sua croce e seguire Cristo. Qui ha veramente bisogno di essere tirata la sposa, né può essere trascinata da altri che da colui stesso che dice: Senza di me non potete fare nulla ( Gv 15,5 ). « So », dice, « che io non posso pervenire a te, se non salendo dietro a te ». Beato, infatti, chi trova in te la sua forza, e decide nel suo cuore il santo viaggio ( Sal 84,6 ); egli perverrà a te un bel giorno nei monti del gaudio. Quanto pochi sono, o Signore, coloro che vogliono venire dietro a te: eppure tutti vogliono pervenire a te, ben sapendo che vi è dolcezza senza fine alla tua destra ( Sal 16,11 ). E perciò tutti vogliono godere di te, ma non così se si tratta di imitarti: desiderano regnare con te, ma non soffrire con te. Era di questi tali colui che diceva: Possa io morire della morte dei giusti, e sia la mia fine come la loro ( Nm 23,10 ). Desiderava la fine dei giusti, ma non i principi. Anche gli uomini carnali desiderano la morte degli uomini spirituali, dei quali però aborriscono la vita, sapendo che è preziosa la morte dei santi: poiché quando avrà dato ai suoi amici il sonno, ecco l’eredità del Signore ( Ap 14,13 ). Al contrario, secondo la sentenza del Profeta, la morte dei peccatori è pessima ( Sal 34,22 ). Non si curano questi di cercare ciò che tuttavia desiderano trovare, desiderosi di conseguire, ma non di seguire. Non così coloro ai quali Gesù diceva: Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove ( Lc 22,28 ). Beati coloro che sono stati trovati degni della tua testimonianza, o benigno Gesù! Essi andavano in verità dietro a te, con i piedi e con gli affetti. Facesti conoscere loro le vie della vita, chiamandoli al tuo seguito tu che sei via e vita, dicendo: Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini ( Gv 14,6 ); e ancora: Se uno mi vuol servire, mi segua; e dove sono io, là sarà anche il mio servo ( Gv 12,26 ). Dicevano pertanto, gloriandosene: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto, e ti abbiamo seguito ( Mt 19,27 ). 3. Così dunque anche la tua diletta, lasciate tutte le cose per te, brama sempre di venire dietro a te, sempre calcare le tue orme, seguire te dovunque andrai: ben sapendo che le tue vie sono vie belle e tutti i tuoi sentieri sono sentieri di pace, e che chi segue te non cammina nelle tenebre. Essa prega di venire attirata, perché la tua giustizia è come i monti più alti, né è capace con le sole sue forze di raggiungerla. Prega di essere attirata perché nessuno viene a te se il Padre non lo avrà attirato. Ora, quelli che il Padre attira, li attiri anche tu. Infatti le opere che fa il Padre, le fa similmente il Figlio. Ma chiede con maggiore familiarità al Figlio di essere attirata, in quanto suo proprio sposo, che il Padre le mandò incontro come guida e maestro, perché camminasse davanti a lei nella via dei costumi, e preparasse il cammino delle virtù, e la istruisse comunicandole la sua scienza, e le insegnasse la via della prudenza, le consegnasse la legge della vita e della disciplina, e così a ragione fosse innamorata della sua bellezza. 4. Attirami dietro a te, correremo all’odore dei tuoi unguenti ( Ct 1,3 ). Per questo ho bisogno di essere attirata, perché si è un poco raffreddato il fuoco del tuo amore in noi, né possiamo, a causa di questo freddo, correre adesso come ieri e l’altro ieri. Ma correremo dopo, quando ci avrai ridato la letizia della tua salvezza, quando sarà tornato il tempo più mite della grazia, quando il sole di giustizia sarà più caldo e sarà passata la nube della tentazione che ogni tanto adesso lo oscura, e al soffio di un venticello più tiepido del solito, cominceranno a sciogliersi gli unguenti e a scorrere gli aromi e a far sentire la loro fragranza. Allora, a quell’odore correremo, perché sparirà il presente torpore e tornerà la devozione, e allora non ci sarà più bisogno che siamo trascinate, in quanto che, eccitate dall’odore, correremo spontaneamente. Ma nel frattempo attirami dietro a te. III. Anche nella condizione spirituale è frequente il mutamento: in che cosa possiamo imitare lo stato dell’eternità Vedi come colui che cammina nello Spirito non resta sempre in un medesimo stato, né cammina sempre con la stessa facilità, per il motivo che non è in suo potere tracciarsi il cammino, ma come lo Spirito, sua guida, vuole e dispone, ora più adagio, ora con più alacrità, dimenticando le cose che sono indietro, e protendendosi verso le future. Penso che, se guardate bene, la vostra esperienza interiore risponda a quello che io dico al di fuori. 5. Pertanto, quando ti senti preso dal torpore, dall’accidia o dal tedio, non perdere la fiducia, né desistere dall’applicarti alle cose spirituali; va in cerca di una mano che ti aiuti, supplicando di venire attirato, sull’esempio della sposa, fino a che, con l’aiuto della grazia, fatto più pronto e fervoroso, nuovamente possa correre e dire: Corro per la via dei tuoi comandi, perché hai dilatato il mio cuore ( Sal 119,32 ). Così dunque, quando è presente la grazia, godine, in modo tale però da non crederti di possedere il dono di Dio per diritto di eredità, cioè, in modo da esserne talmente sicuro, come se non dovessi perderlo mai: onde non ti capiti che egli ritiri la mano improvvisamente e ti sottragga il dono, e tu ti avvilisca e diventi triste, più che non sia il caso. Infine, non dire quando sei nell’abbondanza: Nulla mi farà vacillare, affinché tu non sia più costretto a dire con gemito anche quel che segue: Hai nascosto il tuo volto, e sono stato turbato ( Sal 30,7.8 ). Cercherai piuttosto, se sei accorto, di non dimenticarti del bene nei giorni del male, secondo il consiglio del Saggio, e nei giorni dei beni, ti ricorderai dei mali. 6. Dunque, nei giorni in cui ti senti forte non startene sicuro, ma grida a Dio, con il Profeta, dicendo: Quando declineranno le mie forze, non abbandonarmi ( Sal 71,9 ). Nel tempo poi della tentazione, consolati, e di’ con la sposa: Attirami dietro a te, correremo all’odore dei tuoi unguenti. Così la speranza non ti abbandonerà nel tempo cattivo, né la provvidenza verrà meno nel buono, e nel mutar dei tempi, tra le cose prospere e le avverse, esprimerai in certo modo un’immagine dell’eternità con quella, inviolabile e inuguaglianza di un animo costante, benedicendo il Signore in ogni tempo, procurandoti in qualche modo uno stato di perenne immutabilità, pur in mezzo agli incerti eventi di questo secolo mutabile e alle sue inevitabili deficienze, cominciando a rinnovarti e a riformarti secondo l’antica meravigliosa somiglianza dell’eterno Iddio, nel quale non è né variazione, né ombra di cambiamento. Infatti, come egli è, così sarai tu, in questo mondo: non timido nelle avversità, non troppo euforico nella prosperità. In questo, dico, la nobile creatura, fatta a immagine e somiglianza del suo creatore, fa vedere di riprendere e già quasi recuperare la dignità dell’antico onore, quando considera cosa per sé indegna il conformarsi a questo mondo che passa, cercando piuttosto, secondo la dottrina di Paolo, di trasformarsi rinnovando la propria mente in quella somiglianza nella quale sa di essere stata creata; e per questo anche costringendo, come è giusto, lo stesso mondo, che è stato fatto per lei, a conformarsi invece a lei, dal momento che tutte le cose cominciano a cooperare al suo bene, come se avessero ripreso la propria forma naturale, rigettando quella decaduta, e riconoscendo il loro Signore, per servire il quale sono state create. IV. Quanti imitano il Cristo tutto attraggono a sé 7. Perciò penso che possa applicarsi anche a tutti i suoi fratelli quella parola che disse di sé l’Unigenito, cioè, che quando sarebbe stato innalzato da terra, avrebbe attirato a sé tutte le cose: a quei suoi fratelli, che il Padre da sempre ha conosciuto e predestinato a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché questi sia il primogenito tra molti fratelli. E anch’io, se sarò esaltato da terra, lo dico con ardire, tutto trarrò a me. Non mi usurpo temerariamente la voce del mio fratello, del quale rivesto la somiglianza. Che se è così, non pensino i ricchi del secolo che i fratelli di Cristo possiedono solo le cose celesti, perché lo sentono dire: Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli ( Mt 5,3 ). Non pensino che essi, dico, possiedono solo i beni celesti, perché di questi soli si parla nella promessa. Essi possiedono anche le cose terrene, anche non avendo nulla; ma possiedono ogni cosa, non mendicando come i miserabili, ma possedendo come padroni, e certamente tanto più padroni, quanto meno dominati dalla cupidigia. Insomma, tutto il mondo è ricchezza per l’uomo fedele. Tutto davvero, perché, sia le cose avverse, sia le prospere sono a lui di giovamento e concorrono al suo bene. 8. Dunque, l’avaro ha fame delle cose terrene come un mendico, l’uomo di fede le disprezza come un signore. Il primo, possedendo, mendica, il secondo, non facendone conto, le mette in serbo. Chiedi a uno qualsiasi di quelli che, con brama insaziabile, anelano ai guadagni temporali, che cosa pensi di coloro i quali, vendendo le proprie sostanze o dandole ai poveri, si acquistano i regni dei cieli in cambio delle cose terrene, se agiscano con sapienza o no. Senza dubbio risponderà: « Agiscono sapientemente ». Chiedigli di nuovo perché non fa egli stesso quello che approva. « Non posso », risponderà. Perché? Certamente perché la padrona avarizia non lo permette, perché non è libero, perché non sono sue quelle cose che sembra possedere, e neppure in suo potere. « Se sono veramente tue, usane per guadagnare, scambiando le terrene con le celesti. Se non lo puoi fare, ammetti di essere non il padrone, ma lo schiavo del tuo denaro, il custode, non il possessore. Tu ti rendi infine conforme alla tua borsa come il servo alla sua padrona quando, come quello gode quando questa gode e soffre quando essa soffre, così anche tu, con il crescere del tuo portafoglio, cresci anche di animo, e quando quello diminuisce, anche tu ti fai piccino. Ti restringi infatti per la tristezza quando esso si assottiglia e ti gonfi dalla gioia o dalla superbia quando esso si riempie ». Così si comporta uno di quelli. V. Perché « attraimi » è al singolare e « corriamo » al plurale Ma noi cerchiamo di emulare la libertà e la costanza della sposa, la quale, bene istruita in tutte le cose e piena interiormente di sapienza, sa vivere nell’abbondanza e sa vivere nella penuria. Quando prega viene attirata, fa vedere che cosa le manchi non di denaro, ma di forza. E al contrario, quando si consola per la speranza del ritorno della grazia, dimostra che se è debole, non è però diffidente. 9. Dice dunque: Attirami dietro a te, correremo all’odore dei tuoi unguenti. E quale meraviglia che debba essere trascinata colei che corre dietro un gigante, colei che tenta di raggiungere lui che sale sui monti, che passa, saltando, le colline? Corre veloce la sua parola. Non può correre essa al pari di lui, non può gareggiare in velocità con lui che esulta come un prode che percorre la via: non lo può con le sole sue forze, e perciò chiede di venire trascinata. « Sono stanca – dice – vengo menò; non abbandonarmi, ma tirami dietro di te, affinché non cominci a sbandarmi dietro amanti stranieri, perché non corra come senza una meta. Trascinami dietro a te, perché basta che tu mi trascini, usami pure qualsivoglia costrizione, o con eccessivi terrori, o provandomi con flagelli, piuttosto che, risparmiandomi, lasciarmi nella mia tiepidezza e mal sicura. Trascinami, anche se sembra che io non voglia, per far sì che io voglia; trascina me intorpidita, per far sì che io corra. Quando non avrò più bisogno di uno che mi trascini, allora spontaneamente e con ogni alacrità correremo. Non correrò io sola, anche se ho chiesto di essere tirata sola: correranno anche le giovinette con me. Correremo contemporaneamente, correremo insieme, io all’odore dei tuoi unguenti, esse eccitate dal mio esempio e dalla mia esortazione, e perciò tutte correremo dietro l’odore dei tuoi unguenti ». Ci sono degli imitatori della sposa come lei lo è di Cristo e perciò non dice al singolare: « Correrò », ma: « Correremo ». 10. Ma nasce una questione, perché mai, chiedendo di essere trascinata insieme alle giovinette, non dice: « Attiraci », ma: « Attirami »? Forse la sposa ha bisogno di essere attirata e le giovinette no? « O bella, o felice, o beata, spiegaci la ragione di questa distinzione ». « Attirami », dice. « Perché me e non noi »? Sei forse gelosa con noi del tuo bene? Affatto. Altrimenti non avresti detto subito dopo che le giovinette correranno con te, se avessi voluto andare da sola allo sposo. Perché dunque hai chiesto di essere attirata al singolare, dicendo poi subito dopo « correremo » al plurale? « La carità, – risponde – lo richiedeva ». VI. Il duplice aiuto della correzione e della consolazione « Queste parole ti facciano capire come io, nell’esercizio spirituale, faccia affidamento sopra un duplice aiuto dall’alto, la correzione e la consolazione. Una esercita al di fuori, l’altra visita al di dentro: la prima reprime l’insolenza, la seconda solleva l’animo con la fiducia, la prima produce l’umiltà, la seconda consola la pusillanimità; la prima rende cauti, la seconda devoti. La prima insegna il timore del Signore, la seconda tempra lo stesso timore, infondendo il gaudio salutare, come sta scritto: Si rallegri il mio cuore perché tema il tuo nome ( Sal 86,11 ); e ancora: Servite al Signore nel timore e con tremore esultate ( Sal 2,11 ). 11. « Siamo trascinate con le tentazioni e siamo esercitate con le tribolazioni, corriamo quando siamo visitate dalle ispirazioni e consolazioni interiori, quasi investite da soavi profumi di unguenti. Dunque, quello che sembra austero e duro, lo ritengo per me, in quanto forte, in quanto sana, in quanto perfetta, e dico al singolare: Attirami. Quello che è soave e dolce lo comunico a te che sei infermo, e dico: Correremo. So che le giovinette sono delicate e tenere e poco idonee a sopportare le tentazioni; perciò le voglio con me affinché corrano, ma non per essere trascinate con me; le voglio compagne nella consolazione, non nella fatica. Perché? Perché sono inferme e ho paura che vengano meno e soccombano. Correggi me, o Sposo, metti me alla prova, addestrami, trascinami dietro a te, perché io sono preparata ai castighi e forte nel sopportare. E poi correremo insieme: sola sarò trascinata, ma insieme correremo. Correremo, correremo, ma dietro i profumi dei tuoi unguenti, non fidando nei nostri meriti; e neppure confidiamo di correre per la grandezza delle nostre forze, ma per l’immensità della tua misericordia. Poiché anche se talvolta abbiamo corso, e lo abbiamo fatto volontariamente, non fu perché noi lo volevamo, né per merito della nostra corsa, ma per la misericordia di Dio. Torni la tua compassione, e correremo. Tu certamente, nella tua forza, corri come gigante e potente; noi non correremo, se non all’olezzo dei tuoi unguenti. Tu, unto dal Padre con olio di letizia a preferenza dei tuoi eguali, corri nella stessa unzione; noi nell’odore di essa: tu nella pienezza, noi nel profumo ». Sarebbe il tempo di terminare la trattazione degli unguenti dello sposo, che avevo promesso già da tempo, ma me lo impedisce la lunghezza ormai di questo sermone. Lo differisco pertanto, poiché la dignità della materia esige di non essere costretta da brevi termini. Pregate il Signore dell’unzione che si degni di rendere a lui gradite le parole della mia bocca, onde possano insinuare nei vostri desideri il ricordo dell’abbondante soavità che è nello sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore. Sermone XXII I. Lo Sposo ha molti profumi e permette che col suo aiuto si attenda a ciò che è più elevato 1. Se gli unguenti della sposa sono stati trovati così preziosi, così magnifici, come avete sentito quando ne parlavamo, che sarà di quelli dello Sposo? E se non siamo in grado di spiegarli degnamente come sono, non v’è dubbio tuttavia che la loro virtù e grazia sia molto efficace, in quanto il solo loro odore eccita alla corsa, non solo le giovinette, ma anche la stessa sposa. Se fai attenzione, essa non ha osato promettere nulla di simile circa i propri unguenti. Eppure se ne gloria come di unguenti ottimi; ma non dice che per essi sarebbe corsa o correrebbe, ciò che invece asserisce riguardo al solo odore di questi. Che cosa direbbe se sentisse infusa in sé la stessa unzione, mentre, rallegrata da una sì tenue fragranza, ne viene spinta a correre? C’è da meravigliarsi se non vola. Ma dirà qualcuno: « Smetti ormai di lodare questi unguenti; si vedrà abbastanza che cosa siano quando avrai cominciato a enumerarli ». No. Io non prometto affatto questo. In verità, se questi siano quelli stessi che mi vengono in mente di dirti, credimi, non lo so ancora. Penso infatti che lo Sposo abbia varie specie di aromi e di unguenti, e non poche; e altri siano quelli nei quali si diletta singolarmente la sposa, in quanto più vicina e familiare; altri quelli che pervengono anche fino alle giovinette; altri arrivano anche agli estranei posti più lontano, in modo che non ci sia nessuno che resti privo del suo calore. Ma, sebbene il Signore sia soave verso tutti lo è soprattutto per i suoi domestici: e quanto più uno gli è familiare per i meriti della vita e gli si avvicina mediante la purità della mente, tanto più, penso, gli è dato di sentire fresca e soave la fragranza degli aromi e degli unguenti. 2. L’intelligenza umana non comprende più oltre in queste cose, se non quanto apprende attraverso l’esperienza. Ma io penso di non essere temerario arrogandomi la prerogativa della sposa. Lo Sposo sa di quali letizie lo Spirito inondi la diletta, di quali ispirazioni nutra singolarmente i suoi sensi e di quali profumi la inebri. Sia per lei una fontana riservata, a cui non comunichi nessun estraneo, né alcun indegno beva da essa: è infatti unorto chiuso, una fonte sigillata ( Ct 4,1.2 ). Del resto, di qui esse fluiscono nelle piazze. Io confesso di averle a portata di mano, e quindi nessuno mi sia molesto o ingrato se attingo da un luogo pubblico e le servo. E per parlare un poco di questo mio servizio, dirò che esso comporta parecchia fatica e lavoro, il dover uscire, cioè, ogni giorno, e attingere anche dai ruscelli aperti delle Scritture, e da essi trarre quanto serve per le necessità di ciascuno, onde ognuno di voi, senza suo lavoro, abbia a disposizione le acque spirituali che servono a ogni scopo, per esempio, per lavare, per bere, per cuocere i cibi. Ora, l’acqua della sapienza salutare è la Parola di Dio, che non solo serve come bevanda, ma lava anche, come dice il Signore: E voi siete mondi per le parole che vi ho detto ( Gv 15,3 ). La parola, divina, accompagnata dal fuoco dello Spirito Santo, cuoce i crudi pensieri della carne e converte i cibi della mente in sensi spirituali, sicché si può dire: Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci divampato il fuoco ( Sal 39,4 ). 3. A coloro che con mente più pura sono in grado di apprendere da se stessi cose più sublimi di quelle che espongo io, non solo non lo vieto, ma molto, anzi, me ne congratulo, purché anche essi permettano che noi esponiamo cose più semplici ai più semplici. Magari tutti profetassero! E volesse il cielo che io non dovessi occuparmi di queste cose! Come vorrei che questo compito spettasse a un altro, ovvero, cosa che preferirei, nessuno di voi ne avesse bisogno, e fossero tutti istruiti da Dio, e io potessi starmene in quiete e contemplare come è bello Dio! Ora invece, non mi è lecito, non dico contemplare, ma neanche investigare, non lo posso dire senza lacrime, il Re, che siede nella sua bellezza, che siede sopra i Cherubini, seduto sopra un trono, eccelso ed elevato, in quella forma in cui è uguale al Padre, generato tra santi splendori dal seno dell’aurora, nel quale gli Angeli bramano di fissare lo sguardo senza posa, Dio presso Dio, e mi contento di parlare di lui almeno come uomo, io uomo ad altri uomini, secondo quella forma nella quale, disceso per manifestarsi, per sua grande degnazione e amore, alquanto al di sotto degli Angeli, pose nel sole la sua tenda, come uno sposo che esce dal suo talamo. Lo considero soave, più che sublime, e unto, non eccelso, quale insomma lo Spirito del Signore lo unse e lo mandò a evangelizzare i poveri, a sanare i contriti di cuore, a predicare ai prigionieri la liberazione e ai rinchiusi la facoltà di uscir fuori, e a predicare l’anno del perdono del Signore. II. I quattro profumi dello Sposo 4. Salvo dunque quello che a ognuno è stato forse dato di sperimentare di più sublime o di più sottile, per un dono speciale, riguardo agli unguenti dello Sposo, io espongo quel che ho preso dal comune. Egli stesso, dal momento che è fonte della vita, fonte sigillata, che erompe dall’interno dell’orto chiuso, per ( mezzo della ) bocca di Paolo, proprio come quella sapienza che, secondo la sentenza di Giobbe, si estrae da luoghi occulti ( Gb 28,18 ), egli, dunque, divide la sua vena in quattro ruscelli, e sbocca nelle piazze, dove ripartisce la vena creata da Dio in sapienza, giustizia, santificazione e redenzione. Da questi quattro ruscelli, come da unguenti preziosissimi – nulla impedisce che si intendano significati nell’acqua, perché lavano, e nell’unzione perché profumano – da queste quattro cose predette, dico, come da preziosissimi unguenti, confezionati sopra i monti degli aromi da ingredienti celesti, tanta soavità ha inondato le narici della Chiesa che subito, eccitata da quella dolcezza, dalle quattro parti del mondo si affretta dai confini della terra ad andare a sentire la sapienza di Salomone, provocata dall’odore della sua fama. 5. Veramente, la Chiesa non ha voluto correre verso il suo Salomone, attratta dai suoi profumi, fino a che questi, che dall’eternità era sapienza procedente dal Padre, si fece per lei sapienza nel tempo dal Padre, onde potesse percepire il profumo di lui. Così si fece per lei giustizia, santificazione e redenzione, perché potesse correre all’odore di queste cose, pur essendo ugualmente queste cose in se stesso prima di tutte le cose. Poiché in principio era il Verbo; ma i pastori vennero frettolosi a vederlo solamente quando fu annunziata la sua nascita. Essi poi dicono tra di loro: Andiamo fino a Betlemme, e vediamo questa Parola che è stata fatta, che il Signore fece e ci ha manifestato ( Lc 2,16 ). E seguita dicendo che vennero in fretta ( Lc 2,16 ). Prima non si muovevano, fino a che il Verbo era soltanto presso Dio; ma quando il Verbo che era fu fatto, quando il Signore lo fece e lo mostrò, allora vennero frettolosi, allora corsero. Come dunque in principio era il Verbo, ma il Verbo era presso Dio, e fu fatto in quanto cominciasse a essere presso gli uomini, così in principio era la sapienza, era la giustizia, era la santificazione e la redenzione, ma per gli Angeli; perché fosse anche per gli uomini, il Padre lo fece tutte queste cose, e lo fece perché Padre: che è stato fatto, dice, per noi sapienza da Dio ( 1 Cor 1,30 ). E non semplicemente « che fu fatto sapienza », ma: per noi sapienza da Dio, perché fu fatto per noi quello che era per gli Angeli. 6. « Ma per gli Angeli », dirai, « non vedo come sia stato redenzione ». Non viene infatti mai detto dalla Sacra Scrittura che gli Angeli siano stati mai schiavi del peccato, o soggetti alla morte, in modo da aver bisogno di redenzione, eccetto soltanto quelli che, cadendo per un irrimediabile peccato di superbia, non meritano più di venire in seguito redenti. Se dunque gli Angeli non sono stati mai redenti, gli uni perché non ne hanno bisogno, gli altri perché non meritevoli, gli uni perché non caduti, gli altri perché irrevocabilmente dannati, in che senso tu dici che Cristo Signore fu per essi redenzione? Ascolta brevemente. Colui che eresse l’uomo caduto, diede all’Angelo che stava in piedi la grazia di non cadere, liberando il primo dalla cattività, e da questa difendendo il secondo. E in questo senso fu ugualmente per l’uno e per l’altro redenzione, liberando l’uno e preservando l’altro. È dunque chiaro che Cristo Signore fu per i santi Angeli redenzione, e così giustizia, sapienza e santificazione; e ciò nondimeno egli fu fatto queste quattro cose per gli uomini, i quali non possono comprendere le cose invisibili di Dio se non per le cose che sono state fatte. Così dunque, tutto quello che era per gli Angeli, fu fatto per noi sapienza, giustizia, santificazione, redenzione: sapienza nella predicazione, giustizia nell’assoluzione dei peccati, santificazione nella vita che trascorse tra i peccatori, redenzione nella passione che sopportò per i peccatori. Quando dunque da Dio fu fatto queste cose, allora la Chiesa sentì il profumo, allora corse. III. Come Cristo ci ha mostrato questi quattro profumi 7. Vedi dunque la quadruplice unzione, vedi l’abbondantissima e inestimabile soavità di colui che il Padre unse con olio di letizia a preferenza dei suoi eguali. Sedevi, o uomo, nelle tenebre e nell’ombra di morte per l’ignoranza della verità, sedevi stretto dalle catene dei peccati. Discese a te il Signore nel carcere, non per torturarti, ma per liberarti dal potere delle tenebre. E in primo luogo il dottore della verità scacciò l’ombra della tua ignoranza con la luce della sua sapienza. Per mezzo poi della giustizia, che viene dalla fede, sciolse le funi dei peccati, giustificando gratuitamente il peccatore. Con questo doppio beneficio adempì quelle parole del santo David: Il Signore libera i prigionieri, il Signore ridona la vista ai ciechi ( Sal 146,7.8 ). Volle poi anche vivere santamente in mezzo ai peccatori, in modo da mostrare un modello di vita come via per tornare alla patria. Da ultimo al colmo della sua pietà, consegnò se stesso alla morte, e dal proprio fianco versò il prezzo della soddisfazione con cui placare il Padre; per cui realizzò veramente in se stesso quel versetto del salmo: Presso il Signore è la misericordia, e grande presso di Lui la redenzione ( Sal 130,7 ). Veramente grande, perché non una goccia, ma un fiume di sangue sparse dalle cinque piaghe del suo corpo. 8. Che poteva fare per te che non abbia fatto? Ti ha dato la vista quando eri cieco, ti ha liberato quando eri carcerato, ti ha ricondotto sulla retta via quando eri traviato, ti ha riconciliato quando eri colpevole. Chi, non correrà volentieri e con alacrità dietro colui che libera dall’errore e dissimula gli sbagli, che poi vivendo dà i suoi meriti e morendo assicura il premio? Quale scusa ha chi, all’odore di questi unguenti, non corre, a meno che non sia forse giunto fino a lui tale profumo? Ma ecco, in tutta la terra si è diffuso l’odore della vita, perché la terra è piena della misericordia del Signore, e le sue misericordie superano tutte le sue opere. Pertanto, chi non sente questa fragranza vitale sparsa dappertutto, e per questo non corre, o è morto, o cancrenoso. La fragranza è la fama. Viene prima l’odore della fama, spinge a correre, porta a sperimentare l’unzione, al premio della visione. Tutti quelli che pervengono esclamano a una voce: Come abbiamo udito, così abbiamo visto nella città del Signore degli eserciti ( Sal 48,9 ). Per la grande mansuetudine che si loda in te, noi corriamo dietro di te, o Signore Gesù, sentendo dire che non disprezzi il povero, non hai orrore del peccatore. Non hai disprezzato il ladrone che confessava, non la peccatrice in lacrime, non la cananea che supplicava, non la donna sorpresa in adulterio, non Matteo che sedeva al banco, non il pubblicano supplicante, non il discepolo che ti aveva rinnegato, non il persecutore dei discepoli, non gli stessi tuoi crocifissori. All’odore di queste cose noi corriamo. Percepiamo l’odore della tua sapienza, per aver udito che se qualcuno ha bisogno della sapienza, la chieda a te, e gliela darai. Dicono infatti che dai a tutti in abbondanza, e non rinfacci il dono. Della tua giustizia poi si spande ovunque tale fragranza, che non solo sei chiamato giusto, ma la stessa giustizia, e giustizia che giustifica. E sei talmente in grado di giustificare, quanto generoso nel perdonare. E quindi, chiunque pentito dei suoi peccati ha fame e sete di giustizia, creda in te che giustifichi l’empio, e giustificato per la sola fede, avrà pace con Dio. Spande anche abbondantissimo e soavissimo profumo di santità, non solo la tua vita, ma anche la tua concezione. Infatti, non hai né commesso, né contratto peccato. Quelli pertanto che, giustificati dai peccati, desiderano vivere in santità, senza la quale nessuno vedrà Dio,ascoltino te che dici: Siate santi, perché io sono santo ( Lv 19,2 ). Considerino le tue vie e imparino che tu sei giusto in tutte le tue vie e santo in tutte le tue opere. E l’odore della redenzione, quanti induce a correre! Quando sei innalzato da terra, allora veramente attrai tutte le cose. La tua passione è l’ultimo rifugio, un singolare rimedio. Mancando la sapienza, quando la giustizia non è sufficiente, venendo meno i meriti della santità, viene in aiuto la tua passione. Chi infatti sarà così presuntuoso da pensare di avere sufficiente sapienza, giustizia o santità per la sua salvezza? Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio ( 2 Cor 3,5 ). Pertanto, quando viene meno la mia virtù, non mi turbo, non diffido. So che cosa so fare: Prenderò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore ( Sal 116,13 ). Illumina i miei occhi, o Signore, affinché sappia che cosa è gradito davanti a te in ogni tempo e sarò sapiente. Non ricordarti dei peccati della mia gioventù e delle mie ignoranze, e sarò giusto. Conducimi nella tua vita, e sarò santo. Per tutte queste cose noi corriamo dietro di te: congedaci, perché gridiamo dietro di te. IV. Sulla diversità con cui si corre in questi quattro profumi 9. Non corriamo tutti ugualmente all’odore di tutti gli unguenti: ma potrai notare che alcuni sono più ardenti per lo studio della sapienza, altri si sentono maggiormente spinti alla penitenza dalla speranza del perdono, altri sono spronati all’esercizio delle virtù dall’esempio della vita e dalle massime di lui, altri sono più portati alla pietà dalla memoria della sua passione. Possiamo trovare esempi per ognuna di queste cose. Correvano all’odore della sapienza coloro che erano stati mandati dai farisei e tornavano dicendo: Mai un uomo ha parlato così ( Gv 7,46 ), ammirando la sua dottrina e confessandone la sapienza. Correva a questo medesimo odore Nicodemo, il quale, venendo di notte da Gesù, se ne tornò istruito ed edotto su molte cose nel vivo splendore della sapienza. Ma Maria Maddalena corse all’odore della giustizia e a lei furono rimessi molti peccati, perché amò molto. Giusta pertanto e santa, e ormai non più peccatrice, come la riteneva con disprezzo il Fariseo, che non sapeva che la giustizia, ovvero la santità è un dono di Dio, non opera di uomo, e che non solo è giusto, ma beato colui al quale il Signore non imputa il peccato. Si era forse dimenticato come aveva sanato con il contatto la sua lebbra, o quella di un altro senza contrarre quel male? Così, il giusto, toccato dalla peccatrice, conferì la giustizia, non la perse, né si macchiò del peccato, dal quale mondò la peccatrice. Corse anche il Pubblicano, il quale, implorando umilmente la propiziazione per i suoi peccati, discese giustificato, come attesta la stessa Giustizia. Corse Pietro, il quale caduto, pianse amaramente per cancellare la colpa e ricuperare la giustizia. Corse David, che, riconoscendo il suo reato e confessandolo, meritò di sentirsi dire: Anche il Signore ha cancellato il tuo peccato ( 2 Sam 12,13 ). L’apostolo Paolo attesta di sé di correre all’odore della santificazione quando si gloria di essere imitatore di Cristo, dicendo ai suoi discepoli: Siate miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo ( 1 Cor 11,1 ). Correvano anche tutti quelli che dicevano: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito ( Mt 19,27 ). Avevano effettivamente lasciato tutto appunto per seguire Cristo. Sono poi tutti in generale esortati ad andare dietro questo odore da quella frase: Chi dice di rimanere in Cristo, deve camminare come Egli ha camminato ( 1 Gv 2,6 ). Se poi vuoi sentire quali sono quelli che corsero all’odore della passione, prendi tutti i martiri. Ecco, avete descritti i quattro unguenti: il primo della sapienza, il secondo della giustizia, il terzo della santificazione, il quarto della redenzione. V. Queste specie di profumi non sono da ricercarsi. Gli infedeli non possiedono le virtù Ricordate i nomi, traetene il frutto e non andate in cerca della loro composizione o del numero degli ingredienti dei quali si compongono. Non è facile infatti avere facilmente una tale spiegazione, trattandosi degli unguenti dello sposo, come lo è stato più sopra per quelli della sposa. In Cristo infatti, la pienezza delle cose è senza numero e senza misura. Poiché la sua sapienza non ha confini e la sua giustizia come i monti più alti, come i monti eterni, la sua santità è singolare e la sua redenzione inesplicabile. 10. Dobbiamo dire anche questo: che i sapienti di questo mondo hanno molto discusso sulle quattro virtù, che però non sono riusciti a comprendere interamente, non avendo conosciuto colui che si è fatto per noi sapienza da Dio, che insegna la prudenza, che opera la giustizia e perdona i peccati, colui che si è fatto santificazione; vivendo nella continenza per darci esempio di temperanza, e si è fatto redenzione, morendo con fortezza per darci esempio di pazienza. Qualcuno dirà: « Le altre cose concordano esattamente, ma la santificazione sembra riferirsi meno propriamente alla temperanza ». A questo si risponde dapprima che la continenza è lo stesso che la temperanza, poiché nella Scrittura la santificazione è posta in luogo della continenza, ossia purezza. Infine, che cosa erano quelle frequenti santificazioni prescritte da Mosè, se non certe purificazioni, per cui gli uomini si dovevano mostrare temperanti nel cibo, nella bevanda, nelle relazioni coniugali e altre cose del genere? Ma ascolta soprattutto l’Apostolo, come usi facilmente in questo senso la parola santificazione: Questa è, dice, la volontà di Dio, la vostra santificazione, perché ognuno di voi sappia mantenere il suo corpo nella santificazione, non come oggetto di passione e di libidine ( 1 Ts 4,3 ). E, ancora: Dio infatti non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione ( 1 Ts 4,7 ). È chiaro che santificazione è posta per temperanza. 11. Messo dunque in luce quello che sembrava alquanto oscuro, torno all’argomento da cui mi ero allontanato. Che ne potete sapere voi di virtù, voi che ignorate Cristo, virtù di Dio? Dov’è, di grazia, la vera prudenza, se non nella dottrina di Cristo? Donde viene la vera giustizia, se non dalla misericordia di Cristo? Dove la vera temperanza, se non nella vita di Cristo? Dove la vera fortezza se non nella passione di Cristo? Pertanto, solamente quelli che sono imbevuti della sua dottrina sono veramente prudenti; solo quelli che dalla sua misericordia hanno conseguito il perdono dei peccati sono da chiamarsi giusti; solo coloro che si studiano di imitare la sua vita sono temperanti, forti soltanto quelli che nelle avversità lo imitano con fortezza nella sua passione. Inutilmente dunque uno lavora all’acquisto delle virtù, se spera di ottenerle al di fuori del Signore delle virtù, la cui dottrina è origine di prudenza, la cui misericordia è opera di giustizia, la cui vita è specchio di temperanza, la cui morte è mirabile esempio di fortezza. A lui onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. Sermone XXIII I. Conseguenza della lettera: « Mi introdusse nella sua cella; esulteremo e ci rallegreremo in te, memori dei tuoi amori migliori del vino ». Ammonizione dei prelati: si ricordino di essere padri 1. Mi introduca il re nelle sue stanze ( Ct 1,3 ). Ecco donde proviene l’odore, ecco il luogo verso il quale si corre. Aveva detto che bisognava correre, e perché correre, ma non aveva detto in quale direzione. Dunque, si corre verso le stanze, e si corre attratti dal profumo che da esse promana; la sposa è la prima a sentirlo, data la solita finezza del suo odorato, e brama di essere introdotta nella pienezza di esso. Ma che cosa pensiamo che si possa dire di queste stanze? Immaginiamocele intanto come degli ambienti profumati nelle vicinanze dello Sposo, pieni di sostanze odorose e di ogni sorta di cose deliziose. Le cose migliori che provengono dall’orto o dai campi vengono riposte in questa specie di magazzino, per esservi conservate. Verso quel luogo, dunque, tutti ugualmente corrono. Chi? Le anime rese ferventi dallo Spirito. Corre la sposa, corrono le giovinette; ma colei che ama con più ardore corre più veloce, e arriva prima. Arrivando, non solo non riceve un rifiuto, ma neppure la si fa aspettare. Senza indugio le viene aperto, come a una della famiglia, come a una carissima, come a colei che è particolarmente diletta e singolarmente cara. E le giovinette? Seguono da lontano, poiché, essendo ancora inferme, non possono correre con devozione pari alla sposa, né imitare il fervore e il desiderio di lei: e perciò, arrivando più tardi, restano fuori. Ma la carità della sposa non la lascia stare tranquilla, né la rende insolente, come succede d’ordinario, per i suoi successi, in modo da dimenticarsi di esse, ma piuttosto le consola, esortandole alla pazienza, onde sopportino più facilmente sia il rifiuto al loro ingresso, sia l’assenza di lei. Infine, comunica loro la gioia che essa ha provato, perché anch’esse godano, persuase che non è a loro estranea qualsiasi grazia che venga conferita alla madre. La sposa, infatti, non si preoccupa di progredire in modo da trascurare le sue figlie, né crede che questi suoi progressi si debbano realizzare a loro danno. Per quanto, perciò, la differenza dei meriti sembri distanziarla da esse, certamente per la carità e l’amorosa sollecitudine essa rimane sempre con loro. Bisogna poi, che essa imiti lo Sposo, il quale, pur salendo al cielo, promise tuttavia di restare sulla terra con i suoi figli fino alla fine del mondo. Così anche questa, per quanto progredisca, per quanto s’innalzi, non cesserà mai di curarsi di provvedere con affetto a coloro che ha generato nel Vangelo, né potrà staccarsi da loro o dimenticare il frutto delle sue viscere. 2. Dica dunque a esse: « Godete, abbiate fiducia: Il re mi ha introdotta nella sua stanza ( Ct 1,3 ); consideratevi introdotte anche voi con me. Sembra che io sia stata introdotta sola, ma non gioverà a me sola. Il mio profitto appartiene anche a tutte voi: per voi io progredisco; quanto potrò maggiormente meritare, lo dividerò con voi ». Vuoi sapere con certezza che abbia parlato in questo senso e con questo affetto? Senti la risposta delle giovinette: Gioiremo e ci rallegreremo per te ( Ct 1,3 ). « Per te », dicono, « gioiremo e ci rallegreremo, perché per noi non ne siamo ancora meritevoli ». E aggiungono: memori delle tue mammelle, vale a dire: « Aspettiamo con pazienza che tu venga, sapendo che tornerai da noi con le mammelle piene. Siamo convinte che allora noi esulteremo e ci rallegreremo, e intanto ci consoliamo in quel pensiero ». Quello che aggiungono: più del vino, significa che esse sono ancora agitate, data la loro imperfezione, dal ricordo dei desideri carnali, che vengono significati dal vino, desideri, tuttavia, che vengono vinti dal pensiero dell’abbondante soavità che hanno già sperimentato, proveniente dalle mammelle. Parlerei di queste, se non ricordassi di averne parlato abbastanza più sopra. Ora, pertanto, tu vedi che cosa si attendono dalla madre, come desiderano come propri i suoi profitti e le sue gioie, consolandosi con questo per non essere ancora esse stesse ammesse nelle stanze dello Sposo. Non avrebbero tale fiducia se non conoscessero bene la loro madre. Imparino da questo quei prelati, i quali vogliono sempre incutere timore ai loro sudditi e raramente si preoccupano di cercare il loro utile. Imparate voi che giudicate la terra. Imparate che voi dovete essere madri, non padroni dei vostri sudditi; studiatevi di essere più amati che temuti; e se talora c’è bisogno di una certa severità, sia questa paterna, non tirannica. Mostratevi madri con la tenerezza, padri nella correzione. Diventate mansueti, deponete la durezza, sospendete l’uso della verga, porgete le mammelle: i vostri petti si gonfino di latte, non di orgoglio. Perché fate gravare il vostro giogo su coloro dei quali dovete piuttosto portare i pesi? Perché il bambino, morso dal serpente, rifugge dal ricorso al sacerdote, al quale doveva piuttosto correre come al seno della madre? Se siete spirituali, istruite i fedeli che sono in questa condizione in spirito di bontà, considerando ciascuno che anch’egli può essere tentato. Diversamente quel tale morirà nel suo peccato: ma, dice il Signore,richiederò dalle tue mani il suo sangue ( Ez 3,18 ). Ma queste cose vanno trattate altrove. II. Il giardino, la cella, l’alcova della divina scrittura, e innanzitutto il giardino che è la storia « trifaria » 3. Ora, poiché il senso della lettera, da quanto abbiamo detto sopra, è chiaro, passiamo a vedere quale possa essere il senso spirituale delle « stanze ». Nel seguito del testo si fa parola del giardino e della camera da letto; li aggiungo entrambi alle stanze di cui ora parliamo per trattarne insieme a esse, poiché in tal modo si chiariscono a vicenda. E cerchiamo, se vi piace, queste tre cose nelle Sacre Scritture: il giardino, la dispensa, la camera da letto. In essi, infatti, l’anima che ha sete di Dio volentieri viene e si trattiene, sapendo che certamente quivi troverà colui che brama. Sia, dunque, inteso per giardino la pura e semplice storia, per dispensa si intenda il senso morale, e la camera da letto significhi l’arcano dell’alta contemplazione. 4. E anzitutto, ho paragonato la storia a un orto, e con ragione, perché in essa si trovano uomini virtuosi, quasi alberi da frutta nel giardino dello Sposo e nel paradiso di Dio, dai quali, per modo di dire, raccogli tanti frutti, quanti sono gli esempi che ricevi dalle loro buone azioni e dai loro costumi. Qualcuno forse esiterà a considerare l’uomo come una buona pianta di Dio. Senti che cosa dice il santo Davide dell’uomo buono: Sarà, dice, come albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai ( Sal 1,3 ). Ascolta come Geremia, animato dallo stesso Spirito, dica, usando quasi le stesse parole: Sarà come un albero che è piantato lungo corsi d’acqua, verso la corrente stende le radici, non teme quando viene il caldo ( Ger 17,8 ). Così ancora il Profeta: Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano ( Sal 92,13 ). E parlando di se stesso: Io invece come olivo verdeggiante nella casa di Dio ( Sal 52,10 ). L’orto è dunque la storia, la quale consiste di tre parti. Abbraccia, infatti, la creazione del cielo e della terra, la riconciliazione e la riparazione: la creazione che fu come la semina o la piantagione dell’orto, la riconciliazione corrisponderebbe alla germinazione di quanto fu seminato o piantato. A suo tempo, infatti, i cieli lasciarono cadere la rugiada e le nubi piovvero il giusto, la terra si aprì e germogliò il Salvatore, per mezzo del quale avvenne la riconciliazione tra il cielo e la terra. Egli è, infatti, la nostra pace, colui che fece dei due una sola cosa, pacificando nel suo sangue le cose della terra e quelle del cielo. La restaurazione, poi, si farà alla fine del mondo. Vi sarà, infatti, un cielo nuovo e una terra nuova, e verranno raccolti i buoni di mezzo ai cattivi, come i frutti dell’orto, per essere riposti nei magazzini di Dio. In quel giorno, come sta scritto, il germoglio del Signore crescerà in onore e gloria e il frutto della terra sarà sublime ( Is 4,2 ). Hai, pertanto, tre tempi nell’orto del senso storico. III. Le tre celle della dottrina morale che sono quelle della disciplina, della natura, della grazia 5. Riguardo al senso morale sono da notare tre cose, come tre stanze in una sola dispensa. Per questo forse l’autore ha usato il plurale stanze, e non « dispensa », pensando cioè a queste tre stanze. La sposa si vanta di essere stata introdotta nella cella vinaria. Noi dunque, avendo letto: Da’ occasione al sapiente e diventerà ancora più sapiente ( Pr 9,9 ), prendendo occasione dal vocabolo che lo Spirito Santo volle imporre a quella stanza, diamo anche un nome alle altre due, chiamando Aromatica una, e l’altra Unguentaria. Vedremo poi la ragione di questi nomi. Ora osserva che presso lo Sposo si trovano tutte le cose salutari, tutte cose soavi: il vino, gli unguenti, gli aromi. Il vino, attesta la Scrittura, rallegra il cuore dell’uomo ( Sal 104,15 ). Tuttavia leggi anche che l’olio fa brillare il suo volto, e in esso si stempera la polvere dei vari ingredienti per ottenere gli unguenti. Gli aromi non sono soltanto gradevoli per il soave profumo, ma sono anche utili come medicina. Giustamente pertanto la sposa esulta per essere stata introdotta là dove c’è tanta abbondanza e ricchezza di grazia. 6. Ma ho altri nomi che penso convengano ancora meglio. E li dico nel loro ordine: chiamerei, dunque, la prima la stanza della Disciplina, la seconda della Natura, la terza della Grazia. Nella prima impari, secondo l’ordine morale, a essere inferiore, nella seguente a essere pari, nell’ultima a essere superiore; cioè, sotto un altro, con un altro e sopra un altro; ovvero: sottostare, stare insieme e presiedere. Con il primo impari a essere discepolo, con il secondo a essere compagno, con il terzo a essere maestro. In verità, tutti gli uomini per natura sono eguali. Ma poiché gli uomini, essendosi guastato nei costumi il bene della natura a causa della superbia, sopportano a malincuore l’uguaglianza, lottando a vicenda per essere costituiti superiori e sorpassarsi gli uni gli altri per bramosia di vanagloria, invidiosi gli uni degli altri, provocandosi a vicenda, prima di ogni altra cosa, nella prima stanza, si deve domare con il giogo della disciplina l’insolenza dei costumi, fino a che, vinta dalle dure e insistenti leggi degli anziani, sia umiliata e sanata la pervicace volontà, e riceva in sé, obbedendo, il bene della natura che aveva perduto con la superbia; e allora, non più per timore della disciplina, ma per il solo affetto naturale, imparando a vivere in società con tutti i compagni della sua natura, cioè con tutti gli uomini, e a vivere con loro in pace, per quanto le è possibile, potrà passare nella stanza, della Natura, e ivi sperimentare quello che sta scritto: Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme! È come olio profumato sul capo ( Sal 133,1-2 ). Viene infatti aggiunto ai costumi disciplinati, come a spezie tritate, l’olio della letizia, il bene della natura; e si forma un unguento buono e giocondo. L’uomo, quasi fosse unto da questo unguento, diventa soave e mite, nemico delle brighe, non inganna nessuno, non reca turbamento, né danno a nessuno, non si innalza sopra gli altri, né si preferisce a essi, e inoltre, volentieri comunica con gli altri dando e ricevendo. 7. Penso che, se hai ben compreso le proprietà di queste due stanze, riconoscerai che, non a torto, le ho chiamate, una la stanza degli unguenti, l’altra la stanza degli aromi. Nella prima, come la violenta frangitura del pestello spreme e cava fuori le sostanze e la fragranza delle spezie, così la forza del magistero e il rigore della disciplina estrae e fa uscire in qualche modo il vigore dei buoni costumi. Nella seconda, una gradevole mansuetudine che procede da un volontario, e quasi innato affetto, corre spontanea e servizievole, come un unguento che, dal capo, al minimo tepore discende e si diffonde dappertutto. Dunque, nella stanza della Disciplina vi sono grezzi e semplici ingredienti aromatici; e per questo l’ho chiamata cella aromatica. L’altra, invece, che è stata detta della Natura, poiché in essa si conservano gli unguenti già preparati, ha ricevuto il nome di unguentaria. Infatti, anche la cella Vinaria non è stata così chiamata, se non perché in essa si conserva il vino dello zelo fervente nella carità. E non deve assolutamente essere preposto agli altri chi non ha ancora meritato di essere introdotto in essa. Occorre che arda di questo vino colui che presiede agli altri, come era infiammato il Dottore delle genti allorché diceva: Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? ( 2 Cor 11,29 ). Diversamente, abbastanza impudentemente aspiri a comandare a coloro che non ti preoccupi di aiutare e dei quali non zeli la salvezza, pretendendo con troppa ambizione che ti siano sottomessi. Questa stanza l’ho anche chiamata cella della Grazia: non perché senza grazia si possano avere le altre due, ma per la pienezza di essa che in questa singolarmente si riceve. E poi la carità è la pienezza della legge; e chi ama il fratello ha adempiuto pienamente la legge ( Rm 13,10; Rm 13,8 ). 8. Hai visto la ragione dei nomi; vedi ora la differenza delle celle. Non è infatti ugualmente facile o in potere della medesima persona il comprimere con il timore del maestro i sensi petulanti e irrequieti, tenerli a freno con una severa disciplina, e vivere in buon accordo con i compagni con affetto spontaneo; mantenere costumi corretti sotto il bastone, e piacere con una buona condotta ai propri simili con la sola forza della volontà. E neppure si può dire che ci sia ugual merito o uguale virtù nel vivere bene in società e nel presiedere degnamente. Quanti vivono quieti sotto un precettore, che poi, se togli il giogo, ti accorgi che non sanno starsene quieti, né trattenersi dal molestare i loro simili! Cosi vi sono moltissimi che vivono tra i fratelli con semplicità e senza discordia, ma che, non solo presiederebbero inutilmente, ma sarebbero insipienti e cattivi superiori. Questi tali si contentano di una certa qual buona mediocrità, secondo la misura di grazia che il Signore ha dato loro; non hanno bisogno di maestro, tuttavia non sono atti a far da maestri. Questi secondi sono migliori dei primi nella condotta; ma sono superiori a entrambi coloro che sono capaci di presiedere. E questi tali che hanno bene amministrato, hanno la promessa di essere stabiliti sopra tutti i beni del loro Signore. Ma sono pochi coloro che presiedono utilmente e ancor meno quelli che presiedono umilmente. Tuttavia, adempie l’una e l’altra cosa colui che, avendo acquistato una perfetta discrezione, che è madre delle virtù, si inebria con il vino della carità fino al disprezzo della propria gloria, fino alla dimenticanza di sé, non cercando i propri interessi, cosa che si può ottenere solamente per il mirabile magistero dello Spirito Santo, dentro la cella Vinaria. La virtù della discrezione, senza il fervore della carità, resta inerte, e il fervore veemente, non temperato dalla discrezione, corre al precipizio. Perciò è da lodare colui al quale non manca nessuno dei due, in quanto cioè il fervore anima la discrezione, e la discrezione guida il fervore. Di tali virtù deve pertanto essere adorno colui che presiede. Direi, tuttavia, che è ottimo nella condotta, e che ha appreso alla perfezione l’insieme di questa disciplina colui al quale è stato concesso di percorrere e di visitare senza ostacolo tutte queste stanze: colui che in nessuna circostanza resiste ai superiori, o porta invidia agli eguali, o ha poca cura dei sudditi, o si insuperbisce per la carica di superiore; invece, obbediente ai prelati, in buona armonia con i compagni, utilmente condiscendente con i sudditi: questo contrassegno di perfezione lo attribuirei senz’alcun dubbio alla sposa. Alludono a questo anche le parole del testo: il re mi ha introdotta nelle sue stanze ( Ct 1,3 ), dove mostra di essere stata introdotta non in una qualche stanza, ma nelle stanze al plurale. IV. La necessità delle alcove e prima l’alcova della « cognitio » 9. E ora veniamo alla camera da letto. Che cosa è questa? E io ho la presunzione di sapere che cosa sia? Non mi arrogo minimamente l’esperienza di una cosa così grande, né mi glorio di una prerogativa che è riservata alla beata sposa, limitandomi prudentemente a conoscere me stesso, secondo la sentenza dei Greci, affinché sappia, anche con il Profeta, quello che mi manca ( Sal 39,5 ). Tuttavia, se non sapessi nulla affatto, non potrei dire nulla. Di quello che so non sono geloso, né lo sottraggo a voi; quello che non so, ve lo insegni colui che insegna all’uomo il sapere. Ho detto, ricordate, che bisogna cercare la camera nuziale del Re nel segreto della contemplazione speculativa. Ma, come ricordo di aver detto degli unguenti, che cioè ve ne sono molti e diversi presso lo Sposo, né tutti a disposizione di ognuno, ma riservati a ciascuno secondo la diversità dei meriti, così penso che non vi sia una sola camera da letto, ma parecchie. Poiché non vi è neppure una sola regina, ma molte; e molte sono le concubine, e innumerevoli le giovinette. E ognuna di esse trova per sé e per lo Sposo un luogo segreto, e dice: Il mio segreto è per me, il mio segreto è per me ( Is 24,16 ). Non a tutti è dato di godere in un solo luogo della piacevole e segreta presenza dello Sposo, ma a ciascuno nella maniera che gli è stata preparata dal Padre. Non siamo noi, infatti, che abbiamo scelto lui, ma egli ha scelto noi e ci ha costituiti; e dove ciascuno è stato posto da lui, ivi egli è. Una donna pentita, per esempio, ha trovato il suo posto ai piedi del Signore Gesù, mentre un’altra, se è un’altra, ha trovato il frutto della sua devozione, presso il capo di lui. Tommaso al fianco, Giovanni sul petto, Pietro nel seno del Padre, Paolo al terzo cielo, hanno trovato la grazia di questo segreto. 10. Chi di noi sarebbe capace di distinguere degnamente queste varietà di meriti, o piuttosto, di premi? Ma per non sembrare di aver tralasciato del tutto ciò che noi stessi conosciamo, diremo che la prima donna si è preparata il posto al sicuro nell’umiltà, l’altra sul soglio della speranza, Tommaso nella solidità della fede, Giovanni nel fianco della carità, Paolo nell’intimità della sapienza, Pietro nella luce della verità. Così, presso lo Sposo vi sono molti posti; e sia la regina, sia la concubina, sia anche qualsiasi del numero delle giovinette, ha un posto stabilito in ragione dei suoi meriti, e un termine fin dove procedere con la contemplazione, ed entrare nel gaudio del suo Signore, e indagare i dolci segreti dello Sposo. Mi sforzerò, a suo luogo, di mostrare più distintamente, questo; per quanto egli stesso si degnerà di suggerirmi. Per il momento intanto, basti sapere questo, che a nessuna delle giovinette, a nessuna concubina e anche a nessuna regina è del tutto libero l’accesso a quel segrete, della stanza nuziale, che lo Sposo riserva unicamente alla sua colomba, bella perfetta. Per questo neanch’io l’ho a male se non vi sono ammesso, specialmente anche perché mi consta che, neppure la sposa, per il momento, perviene a tutti i segreti, che vorrebbe. E per questo prega che le venga indicato dove pascoli il gregge, dove riposi nel meriggio. 11. Ma sentite fin dove io sia arrivato, o creda di essere arrivato. Penso che non sia da ascriversi a vana ostentazione ciò che vi confido per il vostro profitto. Vi è un posto presso lo sposo, dal quale egli decreta i suoi diritti e dispone i suoi piani, egli che governa l’universo, stabilendo leggi a ogni creatura nel peso, misura e numero. Questo luogo è alto e segreto, ma non è affatto un luogo di riposo. Poiché, sebbene per quanto è in lui, disponga tutto con soavità, tuttavia dispone; e non permette al contemplativo che per caso sia arrivato a quel luogo di stare in riposo, ma lo stanca in modo mirabile, quantunque con suo diletto, mentre scruta e ammira, e lo rende inquieto. Bene esprime l’una e l’altra cosa la sposa in quel che segue, il diletto, cioè, della contemplazione sopraddetta, e l’inquietudine, dove dice che lei dorme, ma che il suo cuore veglia. Con il sonno, infatti, del soavissimo stupore e della placida ammirazione vuol significare la quiete che sente, e nella veglia invece esprime la curiosità che la rende inquieta, e la fatica del laborioso esercizio. Per questo dice il beato Giobbe: Se mi addormento, dico: quando mi alzerò? E di nuovo sospirerò la sera ( Gb 7,4 ). Senti in queste parole come l’anima santa vuole ogni tanto lasciare la soavità che le è diventata molesta, e poi di nuovo sospira alla stessa molesta soavità? Non avrebbe detto Quando mi alzerò? se quel riposo della sua contemplazione le fosse piaciuto in modo assoluto; ma anche se ne fosse stata totalmente scontenta, non aspetterebbe nuovamente l’ora del riposo, cioè la sera. Non è dunque questo luogo la camera da letto, dato che non vi si può completamente riposare. V. L’alcova del timore. Si parla anche ai chierici 12. Vi è poi un luogo dal quale, sulla creatura razionale ma reproba, veglia immobile il segretissimo e severissimo occhio attento di Dio giusto giudice, terribile nei suoi consigli riguardo ai figli dell’uomo. Il contemplativo timorato scorge in questo luogo Dio che, con il suo giudizio giusto, ma occulto, non perdona i peccati dei reprobi, né gradisce le loro opere buone, e inoltre indurisce i cuori, sicché non si pentano e si correggano, né così li risani. E questo non senza una certa ed eterna ragione: ciò appare tanto più temibile, in quanto resta in modo immobile stabilito per l’eternità. Fa molto spavento ciò che leggiamo a questo riguardo nel Profeta, dove Dio, parlando ai suoi angeli, dice: Si usi pure clemenza all’empio. E a essi che si spaventano, e chiedono: Non imparerà dunque la giustizia? No, risponde; e ne indica la ragione: Nella terra dei santi ha operato cose inique, e non vedrà la gloria del Signore ( Is 26,10 ). Temano i chierici, temano i ministri della Chiesa, i quali, nelle terre dei santi che possiedono, agiscono con tanta iniquità che, per nulla contenti degli stipendi sufficienti, si ritengono empiamente e sacrilegamente il superfluo, con il quale si dovrebbero sostentare i bisognosi, e non si vergognano di usare il vitto dei poveri per alimentare la loro superbia e lussuria: essi peccano con una duplice iniquità, in quanto rubano le cose altrui, e abusano delle cose sacre per le loro turpitudini e vanità. 13. Chi potrebbe cercare in questo posto il riposo, mentre vede che Dio, i cui giudizi sono un profondo abisso, sembra usare sopportazione e compassione a tali persone, per non perdonare loro in eterno? Questa visione produce il tremore del giudizio, non la sicurezza della camera da letto. È un luogo terribile, che non conosce quiete. Mi sono sentito inorridito, quando mi capitò di trovarmi rapito in esso, mentre mi ripetevo con terrore la sentenza: Chi sa se è degno di amore o di odio? ( Sir 9,1 ). Non fa meraviglia se io là sono titubante, io, foglia portata dal vento e paglia secca, dove anche il massimo contemplativo confessa che quasi traballarono i suoi piedi e vacillarono i suoi passi; e diceva: Ho invidiato i prepotenti, vedendo la prosperità dei malvagi ( Sal 73,3 ). Perché? Non c’è sofferenza per essi, dice, e non sono colpiti come gli altri uomini; per questo sono presi da superbia ( Sal 73,5-6 ), onde non si umilino e si pentano, ma siano dannati per la loro superbia con il superbo diavolo e i suoi compagni. Poiché essi che non conoscono l’affanno degli uomini, subiranno il tormento del demonio e dei suoi angeli, come dirà il Giudice: Andate maledetti nel fuoco eterno, che è stato preparato per il diavolo e per i suoi angeli ( Mt 25,31 ). E tuttavia, questo è il luogo di Dio, in verità non altro che la casa di Dio e la porta del cielo. Qui si dice che Dio è temuto; qui il suo nome è santo e terribile, è come l’ingresso alla gloria: davvero l’inizio della sapienza è il timore del Signore ( Sal 111,10 ). 14. E non meravigliarti che io abbia assegnato all’inizio della sapienza quest’ultimo posto, e non il primo. Là, infatti, ascoltiamo la Sapienza come una maestra che insegna su tutti gli argomenti come nella sua scuola, qui la riceviamo anche; là siamo istruiti, qui ne siamo informati. L’istruzione rende dotti, possedere la sapienza fa sapienti. Anche il sole non riscalda tutti coloro per i quali risplende: così la Sapienza insegna a molti che cosa debbano fare, senza che per lo stesso fatto li spinga a fare. Altro è conoscere molte ricchezze, e altro possederle, né la notizia rende uno ricco, ma il possesso. Così ugualmente: altro è conoscere Dio, e altro è temerlo; la conoscenza non rende uno sapiente, ma lo rende tale il timore quando lo investe. Chiameresti forse sapiente uno che è gonfio per la sua scienza? Sarebbe proprio del tutto insipiente chi dicesse sapienti coloro che, avendo conosciuto Dio, non lo glorificarono come Dio, né gli resero grazie. Io penso piuttosto come l’Apostolo, il quale chiaramente definisce insipiente il loro cuore ( Rm 1,21 ). E davvero il timore del Signore è l’inizio della sapienza ( Sal 111,10 ), perché l’anima comincia a gustare Dio quando questi la spinge al timore, non quando la istruisce semplicemente. Temi la giustizia di Dio, temi la sua potenza, e tu gusti Dio giusto e potente, perché il timore è sapore. Ora il sapore fa sapiente, come la scienza rende scienziato, come le ricchezze fanno il ricco. Che dire, dunque, del primo luogo? Esso dispone alla sapienza. Là tu vieni preparato, per essere poi qui iniziato. La preparazione equivale alla scienza delle cose. Però a questa tiene dietro molto facilmente il gonfiore della superbia, se non intervenga il timore a reprimerlo, e questo timore viene perciò giustamente detto inizio della sapienza, perché per primo si oppone alla peste dell’insipienza. Nel primo, dunque, vi è un certo accesso alla sapienza, nell’ultimo vi è anche l’ingresso. Ma né nell’uno, né nell’altro si trova per il contemplante perfetta quiete, perciò nel primo Dio vi appare come sollecito, nell’altro come turbato. Non cercare, dunque, una camera da letto in tali luoghi, dei quali uno appare piuttosto come l’aula di un maestro, l’altro come il tribunale di un giudice. VI. L’alcova della remissione e della predestinazione 15. Ma vi è un luogo dove veramente si scorge Dio tranquillo e riposante: luogo non del giudice, non del maestro, ma dello Sposo, che per me, per gli altri non so, è davvero una camera da letto, se talvolta mi capita di esservi introdotto. Ma, ahimè! rara ora e breve tempo! Ivi si conosce chiaramente che la misericordia del Signore è da sempre e dura in eterno per quanti lo temono ( Sal 103,17 ). E felice chi può dire: Faccio parte di coloro che ti temono e custodiscono i tuoi comandamenti ( Sal 119,63 ). È stabile il disegno di Dio, stabile la sentenza di pace su quelli che lo temono, per cui egli dissimula i loro peccati e ne ricompensa il bene, sicché, in modo meraviglioso, non solo le loro opere buone, ma anche quelle cattive cooperino al loro vantaggio. O solo veramente beato l’uomo al quale Dio non imputerà il peccato! ( Rm 4,8 ). Non ci sarà, infatti, nessuno che non abbia peccato. Tutti infatti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio ( Rm 3,23 ). Tuttavia, chi accuserà gli eletti di Dio? ( Rm 8,33 ). A me basta per una completa giustificazione avere propizio colui contro il quale solo ho peccato. Tutto quello che egli avrà decretato di non imputarmi, è come se non fosse stato. Non peccare è giustizia di Dio: per l’uomo, la sua giustizia è l’indulgenza di Dio. Ho visto queste cose e ho compreso la verità di quella sentenza: Chiunque è nato da Dio non pecca, perché la generazione celeste lo preserva ( 1 Gv 5,18 ). La generazione celeste è la predestinazione eterna, con la quale Dio ha amato i suoi eletti e li ha benedetti nel suo Figlio diletto prima della creazione del mondo; così egli li ha visti nel Santo a contemplare la sua potenza e la sua gloria, per cui divenissero partecipi dell’eredità di colui, all’immagine del quale fossero trovati conformi. Non ho notato in costoro alcun segno di peccato, come non avessero peccato mai: poiché, anche se hanno mancato nel tempo, ciò non appare nell’eternità, perché la carità del Padre copre la moltitudine dei loro peccati. E li chiamai beati, perché le loro iniquità sono state perdonate e rimessi i loro peccati ( Sal 32,1 ); e d’un tratto sopravvenne anche in me tanta fiducia e fui inondato da tanta letizia quanto era stato il timore che mi aveva preso nel luogo dell’orrore, cioè, nel luogo della seconda visione, di modo che mi parve di essere come uno di quei beati. O se fosse durato! Di nuovo, di nuovo visitami, o Signore, con la tua salvezza, perché veda la felicità dei tuoi eletti, goda della gioia del tuo popolo ( Sal 106,4-5 ). 16. O luogo veramente quieto e al quale con ragione darei il nome di camera da letto, nella quale Dio non viene contemplato come se fosse turbato dall’ira, o sovraccarico di occupazioni, ma si sperimenta la sua volontà buona, gradita e perfetta. Questa visione non spaventa, ma reca piacere; non eccita una curiosità inquieta, ma la placa; non affatica i sensi, ma li rende tranquilli. Qui si riposa veramente. Dio tranquillo rende tranquille tutte le cose, e vederlo quieto è riposare; vi si può vedere il Re che, dopo le liti, per così dire, delle diurne cause forensi, congedate le turbe, lascia la cura molesta degli affari, e cerca un luogo per la notte, entra nella camera da letto con pochi che si degna di onorare con tale segreto e familiarità, e ivi si riposa, tanto più ai sicuro, quanto più in un luogo segreto e tanto più serenamente, in quanto contemplato placidamente da quelli soli che ama. Se a qualcuno di voi capitasse di venire in qualche momento così rapito e così nascosto in questo arcano e in questo santuario di Dio, che non sia per nulla disturbato o dal bisogno dei sensi, o dal pungolo degli affari, o dal rimorso delle colpe, o dagli irruenti fantasmi delle immagini corporee, che sono i più difficili a tener lontano, costui potrà veramente, quando sarà tornato a noi, gloriarsi dicendo: Il Re mi ha introdotto nella sua camera da letto ( Ct 1,3 ). Che poi questa sia la medesima per la quale esulta la sposa, non oserei affermarlo senza essere temerario. È tuttavia una camera da letto, e camera da letto del Re, perché tra i tre che abbiamo assegnato alla triplice visione, solo questo è un luogo di pace. Come infatti si è chiaramente dimostrato, nella prima stanza si vede poca quiete, nella seconda non se ne vede affatto, poiché in quella Dio, apparendo ammirabile, stimola lo studio e la curiosità dell’indagine, mentre in questa, mostrandosi terribile, rende trepida la debolezza. In quest’ultima invece, Dio si degna di mostrarsi non tanto terribile e ammirabile quanto amabile, sereno e placido, soave e mite, e ricco di misericordia per tutti quelli che lo contemplano. 17. E ora, di queste cose che abbiamo spiegate in questo sermone piuttosto lungo, la vostra memoria ritenga un riassunto, ricordate tre tempi, tre meriti, tre premi: nel giardino considerate i tempi, i meriti nelle stanze, i premi in quella triplice contemplazione di chi cerca la stanza da letto. Riguardo alle stanze, basti quanto abbiamo detto. Riguardo poi all’orto o alla camera da letto, se vi sarà da aggiungere qualche cosa, o si presenteranno cose diverse da quelle che abbiamo or ora dette, non lasceremo di farlo a suo luogo. Diversamente, bastino le cose dette, senza che dobbiamo ripeterle, affinché non generino noia le cose che si dicono per eccitarci alla lode e alla gloria dello Sposo della Chiesa, il Signore nostro Gesù Cristo, che è sopra tutte le cose benedetto nei secoli dei secoli. Amen. Sermone XXIV I. La pace restituita, conseguenza del capitolo in cui si dice: « I giusti ti amano ». Si tratta anche dei detrattori 1. È la terza volta, fratelli, che torno da Roma. Quest’ultimo ritorno è stato guardato dal cielo con occhio più clemente, e di lassù ci ha arriso un volto più sereno. Si è acquietata la furia Leonina, ha avuto fine la malvagità, la Chiesa ha ritrovato la pace. È stato ridotto al nulla al suo cospetto il maligno che in questi ultimi otto anni l’aveva sconvolta con un funesto scisma. Ma ora io, da tanti pericoli sarò restituito a voi per nulla? Sono stato donato ai vostri desideri; mi preparo a lavorare per il vostro profitto: sono vivo per i vostri meriti, voglio dedicare la mia vita ai vostri desideri e al bene delle vostre anime. Volentieri accetto di continuare, come chiedete, il commento sui Cantico dei Cantici, e penso valga la pena di proseguire nel discorso interrotto, piuttosto che affrontare un nuovo argomento. Temo tuttavia che il mio animo, non più abituato, e per lungo tempo occupato in molte cose, non solo tanto diverse, ma anche tanto indegne, non sia adatto, come si conviene, alla dignità della materia. Ma vi darò quello che ho; potrà anche Dio, venendo in aiuto al mio fedele servizio, darmi ciò che non ho, perché possa darlo a voi. Se non riuscirò nell’intento, si dia colpa alla mia incapacità, non alla mia volontà. 2. Il luogo da cui dobbiamo cominciare, se non erro, è questo: I retti ti amano ( Ct 1,3 ). Ma prima di cominciare a spiegare che cosa significhi questo, vediamo di chi si tratti, vale a dire, chi sia che dice queste parole. Poiché si esige da noi quello che l’autore non dice. E forse è meglio che attribuiamo queste parole alle giovinette; aggiungerebbero queste alle altre parole. Infatti avendo detto: Esulteremo e ci rallegreremo in Te, ricordando le tue mammelle migliori del vino ( Ct 1,3 ) e parlavano certamente alla madre, continuando il discorso, aggiungono: I retti ti amano. Penso che dicano questo a causa di alcune del loro numero, le quali, anche se sembravano correre insieme a esse, non avevano però gli stessi sentimenti, ma cercavano il loro interesse e non camminavano con sincerità e semplicità, ma, invidiose della gloria speciale della madre, prendevano occasione di mormorare contro di essa dal fatto che fosse entrata sola nelle stanze del Re; il che non è altro se non quello di cui parla l’Apostolo dove dice: Pericolo nei falsi fratelli ( 2 Cor 11,26 ). E sono queste a cui risponde in seguito la sposa per difendersi contro le amare critiche: Sono scura, ma bella, figlie di Gerusalemme ( Ct 1,4 ). Dunque, per quelle che mormorano e bestemmiano, si dice da parte di quelle che sono buone, che sono semplici, umili e mansuete, per consolare la sposa: I retti ti amano. « Non t’importi », dicono, « dell’iniqua e blasfema risposta di costoro, mentre risulta che i retti ti amano ». Buona consolazione davvero, quando, facendo del bene, siamo ingiuriati dai cattivi, se le persone rette ci amino. La stima dei buoni, con la testimonianza della buona coscienza è un buon rimedio contro le bocche maligne. Nel Signore si glorierà l’anima mia; ascoltino gli umili e si rallegrino ( Sal 34,3 ). Gli umili, dice, si rallegrino: purché piaccia agli umili, e sopporterò con serenità tutto quanto vorrà lanciare contro di me il livore delle persone perverse. 3. Penso dunque che in questo senso siano state aggiunte le parole: I retti ti amano. La cosa non è assurda, io penso, perché trovo quasi dovunque gruppi di tali giovinette, le quali osservano curiosamente le azioni della sposa, non per imitarle, ma per criticarle. Sono tormentate dal bene che vedono negli anziani, si pascono dei loro mali. Le puoi vedere camminare in disparte, unirsi tra di loro, sedersi insieme, e subito sciogliere le lingue procaci alla detestabile mormorazione. Una critica si aggiunge all’altra, senza lasciare spazio per respirare, tanta è la libidine della detrazione e di udire chi detrae. Contraggono amicizia per dir male, concordi nel causare discordia. Conciliano tra di loro inimicissime amicizie, e con mutui sentimenti di malignità si celebra l’odiosa riunione. Non diversamente agirono un tempo Erode e Pilato, di cui racconta il Vangelo che diventarono amici in quel giorno ( Lc 23,12 ), cioè, nel giorno della passione del Signore. Quelli che così si riuniscono insieme, non mangiano certamente la cena del Signore, ma piuttosto mescono e bevono il calice dei demoni, mentre gli uni portano con le loro lingue il veleno, e gli altri, aprendo a esso di buon grado le loro orecchie, lasciano entrare in se stessi la morte. Così dunque, secondo il Profeta la morte entra per le nostre finestre ( Ger 9,21 ) quando andiamo a gara nel somministrarci il veleno mortale della detrazione, assecondando il prurito delle nostre orecchie e delle nostre bocche. Non entri la mia anima nel circolo di coloro che parlano male del prossimo, perché Dio li odia, come dice l’Apostolo: I detrattori sono oggetto di odio da parte di Dio ( Rm 1,30 ). E senti come Dio conferma questa sentenza parlando nel salmo: Chi parla male del suo prossimo, io lo farò perire ( Sal 101,5 ). 4. E non fa meraviglia, perché questo vizio, come è chiaro, è principalmente contrario e combatte la carità, che è Dio, più degli altri, come voi stessi potete rilevare. Chiunque detrae, anzitutto si manifesta vuoto di carità. E poi parlando male, che altro intende, se non che colui del quale sparla venga odiato e disprezzato da coloro ai quali ne parla male? Dunque la lingua maldicente ferisce la carità in tutti quelli che l’ascoltano e, per quando dipende da lei, la uccide fin dalla radice e la spegne; non solo, ma porta danno anche a tutti quelli ai quali arriveranno quelle parole malediche attraverso coloro che le hanno udite. Vedi con quanta facilità e in breve tempo può venire infettata, da una parola maliziosa, una grande moltitudine di anime. Perciò dice di questi tali lo spirito profetico: La loro bocca è piena di maledizione e di amarezza, i loro piedi corrono veloci a spargere sangue ( Sal 14,5 ). Davvero tanto veloci quanto corre la parola. Uno solo è quello che parla, e proferisce una sola parola, e tuttavia, quella sola parola in un solo momento infetta le orecchie e uccide le anime di una moltitudine di ascoltatori. Da un cuore, infatti, reso amaro dal fiele del livore, non possono spandersi, attraverso lo strumento della lingua, che parole amare, come dice il Signore: La bocca parla dall’abbondanza del cuore ( Lc 6,45 ). E vi sono varie specie di questa peste: alcuni vomitano il veleno della detrazione apertamente e senza riguardo, come viene loro in bocca, altri si sforzano di coprire la malizia che hanno nel cuore con un velo di verecondia, dato che non possono tenerla dentro. Li potresti vedere premettere lunghi sospiri, e così, con una certa gravità e lentezza, con volto mesto, sopracciglia abbassate e voce lamentevole far uscire la maldicenza, che è allora tanto più credibile, quanto più si crede, da parte di coloro che ascoltano, proferita contro cuore, e più con dispiacere che con malizia. « Mi dispiace molto – dice un tale – perché gli voglio bene, e non sono mai riuscito a correggerlo da questo difetto ». E un altro: « Io sapevo bene questa cosa, ma non ne avrei mai parlato con nessuno. Dato però che si è saputa da altri, non posso negare la verità: lo dico con dispiacere, le cose stanno così ». E aggiunge: « Peccato! Perché in molte altre cose è bravo; ma in questa cosa, per dire il vero, non si può scusare ». II. Rettitudine o tortuosità dell’anima 5. Ricordate queste poche cose contro il malignissimo vizio della detrazione, ritorniamo alla spiegazione del testo, e dimostriamo chi siano da intendere in questo luogo i retti. Non penso infatti che vi sia alcuno che ragiona rettamente, il quale intenda retti secondo il corpo quelli che amano la sposa. Dobbiamo perciò mostrare quale sia la rettitudine spirituale, ossia dell’anima. È lo Spirito che parla, paragonando cose spirituali ad altre spirituali. Dunque, Dio ha fatto l’uomo retto secondo l’anima, non secondo la materia corruttibile. Lo ha infatti creato a sua immagine e somiglianza. Ed egli, come canta nei Salmi, Retto è il Signore nostro Dio e in lui non c’è iniquità ( Sal 92,16 ). Dunque, Iddio retto ha fatto l’uomo retto, simile a lui, cioè, senza iniquità, come non c’è iniquità in lui. Ora, l’iniquità è un vizio del cuore, non della carne, e perciò tu devi custodire e rinnovare la somiglianza di Dio nella parte spirituale di te, non nella sostanza materiale e terrena. Poiché Dio è spirito, e coloro che vogliono perseverare o diventare simili a lui, devono rientrare in se stessi, e realizzare questo nello spirito, con il quale contemplando la gloria di Dio a faccia svelata, vengano trasformati nella stessa immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore. 6. Ma Dio ha dato anche all’uomo un corpo eretto, forse perché questa rettitudine del corpo fatto di vile fango, gli ricordasse il dovere di conservare la rettitudine spirituale dell’uomo interiore che è stato fatto a immagine di Dio, e il decoro del corpo fosse ( all’occorrenza ) un rimprovero per la deformità dell’anima. Che cosa vi è infatti di più indecente che avere, sotto un corpo eretto, un animo curvo? È cosa perversa e turpe che un vaso di creta, qual è un corpo fatto di terra, abbia in alto gli occhi, con i quali possa liberamente guardare il cielo e rallegrarsi alla vista degli astri celesti, mentre la celeste spirituale creatura al contrario abbia i suoi occhi, cioè i sensi interni e gli affetti rivolti alla terra, e lei che doveva essere allevata nella porpora guazzi nel fango, come una scrofa, e affondi nello sterco. « Vergognati, anima mia dice il corpo – considerando me. Arrossisci, anima mia, per aver mutato la tua somiglianza divina con quella degli animali, vergognati di rivoltarti nella melma, tu che vieni dal cielo. Creata retta a somiglianza del Creatore, hai ricevuto in aiuto me, simile a te, secondo la forma eretta delle membra. Dovunque ti volti, sia in alto a Dio, sia in basso a me, – poiché nessuno ha in odio la propria carne – dappertutto trovi una bella immagine di te, dappertutto trovi, dall’insegnamento della sapienza, una familiare ammonizione che ti ricorda la tua dignità. Mentre dunque io mantengo la mia prerogativa che ho ricevuto in grazia di te; come tu non ti confondi per aver perso la tua? Perché mai il Creatore vede in te cancellata la sua somiglianza, mentre in me si conserva la tua, e continuamente sta davanti a te? Ormai, ogni aiuto che ti era dovuto da me, l’hai cambiato in confusione: abusi del mio servizio, indegnamente abiti un corpo umano, bruto e bestiale spirito ». 7. Anime così piegate verso il basso non possono amare lo Sposo, non sono amiche dello Sposo, essendo amiche del mondo. Chi vuole essere amico del mondo, si rende nemico di Dio ( Gc 4,4 ). Dunque, cercare e aver gusto per le cose terrene, è una gobba dell’anima e, al contrario, meditare e desiderare le cose di lassù è rettitudine. III. Senso o consenso, fede e azione E perché questa rettitudine sia perfetta, deve estendersi sia ai sentimenti interni, sia agli atti esterni the devono concordare con essi. Dirò dunque retto colui che in tutte le cose sente rettamente, e non lo contraddice nei suoi atti. Lo stato dell’animo invisibile dev’essere dimostrato dalla fede e dall’azione. Retto è colui che si dimostra cattolico nella fede e giusto nelle opere. Diversamente non è retto, ma gobbo. Così infatti sta scritto: Se offri rettamente e non dividi rettamente, pecchi ( Gen 4,7 secondo i LXX ). Offri pertanto rettamente qualsiasi delle due cose, ma non puoi rettamente dividere l’una dall’altra. Non essere un retto offerente e un cattivo divisore. Perché dividi l’azione dalla fede? Dividi iniquamente, uccidendo la tua fede: poiché la fede senza le opere è morta ( Gc 2,20 ). Offri dunque in dono a Dio una cosa morta. Se infatti la devozione è in certo qual modo l’anima della fede, che cos’è la fede che non produce opere per amore, se non un cadavere senz’anima? Onori forse Dio come si deve offrendogli un dono puzzolente? Sei tu in grado di placare, tu, uccisore della tua fede? Come vi sarà ostia pacifica dove si trova, così furiosa discordia? Non c’è da meravigliarsi se Caino insorse contro il fratello, avendo già prima ucciso la sua fede. Che meraviglia, o Caino, se non guarda le tue offerte colui che non guarda te? E non è strano che non guardi a te, che sei così diviso in te stesso. Se applichi la mano alla devozione, perché rivolgi l’animo al livore? Non puoi conciliarti Dio fino a che sei in discordia con te stesso; non plachi, ma pecchi, non ancora ferendo empiamente, ma dividendo non rettamente. Anche se non ancora fratricida, sei già ritenuto fideicida. Sei forse retto, anche quando alzi le mani verso Dio, mentre il livore e l’odio fraterno trascinano il tuo cuore verso la terra? Come saresti retto, mentre, la tua fede è morta, le opere morte, nulla la devozione, e molta l’amarezza? C’era sì la fede in te mentre offrivi doni a Dio, ma nella fede non vi era la dilezione: retta l’oblazione, ma crudele la divisione. 8. La morte della fede è la separazione della carità. Credi in Cristo? Compi le opere di Cristo, affinché la tua fede sia viva: la dilezione animi la tua fede, gli atti ne siano la prova. Non renda curvo un agire terreno colui che la fede celeste rende eretto. Tu che dici di rimanere in Cristo, devi comportarti come egli si è comportato. Che se cerchi la tua gloria, se porti invidia a chi è nella prosperità, se mormori contro chi è assente, se restituisci il male a chi ti fa del male, sappi che Cristo non ha fatto questo. Fai professione di conoscere Dio, ma con i fatti lo neghi. Certo non rettamente, ma empiamente hai dato la lingua a Cristo e l’anima al diavolo. Ascolta dunque quello che dice: Quest’uomo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me ( Mt 15,8 ). Non sei dunque retto, tu che non dividi rettamente. Non puoi innalzare la testa schiacciata dal giogo del diavolo. Non riesci a raddrizzarti finché sei dominato dall’iniquità. Le tue iniquità hanno superato il tuo capo, e come carico pesante ti hanno oppresso. L’iniquità poi siede sopra un talento di piombo ( Zc 5,7-8 ). Vedi come non basta per fare l’uomo retto una fede anche retta, ma che non opera per amore. Ma chi è senza amore, non può amare la sposa. E neppure le opere, per quanto rette, possono rendere retto il cuore, senza la fede. Chi infatti può chiamare retto uno che non piace a Dio? Ora, senza fede è impossibile piacere a Dio ( Gal 5,6 ). Chi non piace a Dio, non può Dio piacere a lui. Perché colui a cui piace Dio, non può dispiacere a Dio. Invece, a chi non piace Dio, non piace neppure la sua sposa. Come dunque può essere retto chi non ama Dio, né la Chiesa di Dio, alla quale vien detto: I retti ti amano? Se dunque, né la fede senza le opere, né le opere senza la fede sono sufficienti a rendere l’animo retto, noi, che crediamo in Cristo, o fratelli, cerchiamo di fare rette le nostre vie e i nostri sentimenti. Eleviamo a Dio i nostri cuori con le nostre mani, onde essere trovati totalmente retti, dimostrando con azioni rette la rettitudine della nostra fede, mostrandoci amanti della sposa, amati dallo Sposo, Gesù Cristo nostro Signore, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXV I. Chi chiama la Sposa figlia di Gerusalemme e perché 1. Avevo già detto che la sposa è costretta a rispondere alle provocazioni delle emule, le quali, anche se esternamente figurano nel numero delle giovinette, sono pero lontane con il cuore. Dice dunque: Sono bruna, ma bella, figlie di Gerusalemme ( Ct 1,4 ). È chiaro che mormoravano contro di lei, rimproverandole di essere scura. Ma bada alla pazienza e alla benignità della sposa. Non solo non risponde malamente a chi parla male di lei, anzi ne dice bene, chiamandole figlie di Gerusalemme, mentre avrebbero meritato di essere chiamate piuttosto, a causa della loro cattiveria, figlie di Babilonia, figlie di Baal o qualcosa di simile che suonasse rimprovero. In verità la sposa aveva imparato dal Profeta, anzi dalla stessa Unzione che insegna la soavità, a non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo fumigante. Per questo ha creduto bene di non irritarle maggiormente, essendo già abbastanza scosse, né di aggiungere qualche cosa agli stimoli dell’invidia che le tormentava. Ma cerco piuttosto di essere pacifica con quelle che odiavano la pace, sapendo di essere debitrice anche agli insipienti. Preferì, dunque, addolcirle con parole benevole, perché le interessava maggiormente adoperarsi per la salvezza delle inferme che non cercare il loro castigo. 2. È desiderabile che tutti posseggano questa perfezione, ma essa è in modo particolare la forma dei migliori prelati. Sanno infatti i buoni e fedeli superiori che il loro compito non è di sfoggiare pompa, ma di aver cura delle anime inferme loro affidate. E quando talora ne sorprendono qualcuna a mormorare, anche se tali lamentele giungessero agli insulti e alle ingiurie contro di essi, riconoscendosi medici, e non padroni, preparano prontamente per quelle anime agitate, non la vendetta, ma la medicina. Questa è pertanto la ragione per cui la sposa chiami figlie di Gerusalemme quelle giovinette malevole e maldicenti, sperando con dolci parole, di lenire le mormoratrici, calmare il loro turbamento, sanare il loro livore. Sta scritto infatti: La lingua pacifica mette fine alle liti ( Pr 25,15 ). Del resto, queste tali sono realmente figlie di Gerusalemme, né la sposa le chiama falsamente così. Infatti, sia a causa dei sacramenti della Chiesa che esse, senza distinzione, ricevono insieme con i buoni, sia per la professione della fede, parimente comune, sia per l’appartenenza per lo meno al corpo della stessa Chiesa, o anche per la speranza della salvezza futura, della quale, finché sono in questa vita, non devono affatto disperare, anche se vivono da disperate, non senza ragione vengono chiamate figlie di Gerusalemme. II. Perché la sposa sia stata bruna e perché sia bella 3. Ma vediamo che cosa si intenda con quelle parole: Sono bruna, ma bella. Non c’è forse contraddizione in queste parole? Affatto. Lo dico per i semplici, i quali non sanno discernere tra il colore e la forma, riferendosi questa alla composizione e l’essere bruna soltanto al colore. Non tutto quello che è scuro è per lo stesso fatto deforme. Il neo, per esempio, nella pupilla non disdice, e certi sassolini neri fanno bella figura nelle decorazioni, e i capelli neri che adornano facce candide conferiscono loro decoro e grazia. E non vi è difficile trovare innumerevoli esempi del genere. E si possono trovare numerosissime cose che, all’esterno sono scolorite, mentre sono belle quanto alla loro forma. È forse possibile che la sposa, alla bellezza che le viene dall’armonia delle membra, unisca in tal modo il neo del colore oscuro: questo, però, nel luogo del suo pellegrinaggio. Diversa sarà nella patria, quando lo Sposo della gloria la presenterà gloriosa, senza macchia, né ruga, o altro difetto. Ma adesso, se dicesse di non essere scura, ingannerebbe se stessa, e non vi sarebbe in lei la verità. Perciò non stupirti che abbia detto: Sono bruna, soggiungendo tuttavia, con vanto, di essere bella. E come non sarebbe tale colei alla quale viene detto: Vieni, mia bella? ( Ct 2,10 ). Colei a cui è detto Vieni, non è ancora pervenuta, perché non si creda che questo non è stato detto a questa bruna che ancora soffre venendo nella via, ma a quella già beata, la quale ormai, senza alcuna oscurità regna nella patria 4. Ma ascolta per quale ragione la sposa si dice bruna e perché si dice bella. Forse bruna a causa della cattiva condotta tenuta in antecedenza; sotto il principe di questo mondo, portando ancora la forma dell’uomo terrestre, bella invece per la celeste somiglianza che in seguito ha realizzato in sé, camminando in una vita nuova? Se così fosse, avrebbe dovuto dire: « Sono stata bruna », e non: Sono bruna. Se tuttavia a qualcuno piacesse questa interpretazione, le parole che seguono: come le tende di Cedar, come i padiglioni di Salomone, dovrebbero intendersi così: che Cedar significhi la vecchia condotta, e i tabernacoli di Salomone si riferiscano alla nuova. Prima dunque scura, come le vilissime tende di Cedar, dopo bella come i tabernacoli del glorioso Re. III. Come intendere la sposa bruna e insieme bella 5. Ma vediamo come « bruna e bella » si riferiscano piuttosto entrambe a uno stato di vita più eccellente. Se consideriamo la forma esterna della vita dei santi, come il loro abito appaia umile e abietto e trascurato, mentre invece nell’intimo sovente, a faccia scoperta contemplando la gloria del Signore, vengono trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore ( 2 Cor 3,18 ), non è vero che ci sembrerà che una simile anima possa giustamente rispondere a coloro che le rimproverano l’oscurità del suo esterno: Sono scura, ma bella? Vuoi che ti porti l’esempio di un’anima nello stesso tempo scura e bella? Le lettere, dicono, sono dure e forti, ma la presenza corporale è debole e la parola dimessa ( 2 Cor 10,10 ). Così era Paolo. Forse che, o figlie di Gerusalemme, giudicate Paolo dalla presenza corporale, e lo disprezzate perché scolorito e deforme, per il fatto che lo scorgete come un pover’uomo afflitto dalla fame e dalla sete, dal freddo e dalla nudità, dalle innumerevoli fatiche, percosso crudelmente, spesso in pericolo di morte? ( 2 Cor 11,27.23 ). Sono queste cose che rendono scuro Paolo; per tali cose il Dottore delle genti viene stimato senza gloria, ignobile, nero, oscuro, insomma, come la spazzatura di questo mondo. È veramente quel medesimo che è rapito in paradiso, che, per la sua purezza, oltrepassa il primo e il secondo e arriva al terzo cielo? O davvero bellissima anima, che, sebbene abitasse in un corpo debole e infermo, fu accolta dalla bellezza celeste, non venne rigettata dalla sublimità angelica, né fu respinta dal divino splendore! Questa voi chiamate bruna? È bruna, ma bella, figlie di Gerusalemme. Bruna secondo il vostro giudizio, bella secondo quello di Dio e degli angeli. E se è scura, lo è al di fuori. Quanto a lui, non gl’importa nulla di essere giudicato da voi, o da coloro che giudicano secondo le apparenze. L’uomo infatti vede la faccia, ma Dio scruta il cuore ( 1 Sam 16,7 ). Perciò, anche se bruna al di fuori, è però bella al di dentro, onde piacere a colui che la giudica; non cerca infatti di piacere a voi; se lo facesse, non sarebbe servo di Cristo. Felice colore oscuro, che genera il candore della mente, la luce della scienza, la purezza della coscienza. 6. Senti infine quello che Dio, per mezzo del Profeta, promette a queste anime brune, che, o l’umiltà della penitenza, o lo zelo della carità, quasi ardore di sole, sembra aver abbronzato. Se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve; se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana ( Is 1,18 ). Non è veramente da disprezzare nei santi questa esterna apparenza oscura, che produce un interno candore, e con questo prepara la sede della sapienza. La sapienza è infatti candore della vita eterna ( Sap 7,26 ), come la definisce il Saggio; e candida deve essere l’anima nella quale essa sceglie la sua dimora. Che se l’anima del giusto è sede della sapienza, a ragione diremo che l’anima del giusto è candida. E forse la stessa giustizia è candore. Giusto era Paolo, al quale era riservata la corona della giustizia. Candida perciò era l’anima di Paolo, e la sapienza dimorava in essa, sicché esprimeva la sapienza parlando tra i perfetti, la sapienza nascosta nel mistero, che nessuno dei principi di questo mondo conobbe. Pertanto, in lui quel colore oscuro che gli veniva all’esterno dall’aspetto di un corpo infermo, dalle molte fatiche, dai prolungati digiuni, operava o meritava questo candore della sapienza e della giustizia. E per questo, anche quello che in Paolo è oscuro, è più bello di qualsiasi ornamento esteriore, di ogni eleganza regale. Non si potrà paragonare a esso la bellezza, per quanto grande, della carne, non la pelle nitida, che dovrà essere bruciata con il fuoco, non la faccia truccata, prossima a diventare putredine, non la veste preziosa, soggetta al tarlo, non la bellezza dell’oro o lo splendore delle gemme, o qualsiasi altra cosa, tutte soggette alla corruzione. IV. Tutta l’attenzione dei santi rivolta alla bellezza interiore 7. A ragione, pertanto, i santi, disprezzando l’ornamento e il culto superfluo del corpo, che è soggetto alla corruzione, mettono ogni cura e diligenza nel coltivare e ornare l’uomo interiore che di giorno in giorno si rinnova a immagine di Dio. Sono infatti sicuri che nulla è più accetto a Dio che la sua immagine, quando essa è restituita alla sua propria bellezza. Perciò ripongono ogni loro gloria all’interno, non al di fuori: vale a dire, non nel fiore del fieno, o nella bocca della gente, ma nel Signore. Per questo dicono: Questa è la nostra gloria, la testimonianza della nostra coscienza ( 2 Cor 1,12 ), perché Dio solo è arbitro della coscienza, e a lui solo desiderano piacere, e piacere a lui è la sola, vera e somma gloria. Non è invero mediocre quella gloria interiore, nella quale si degna di gloriarsi anche il Signore della gloria, come dice Davide: La gloria della figlia dei Re è tutta interiore ( Sal 45,14 ). E la gloria di ciascuno è più al sicuro quando si ha dentro se stessi e non in altri. Ma forse non c’è solo da gloriarsi del candore interno, ma anche del colore oscuro esteriore, onde nulla sia invano nei santi, ma tutte le cose cooperino per il loro bene. Non si gloriano, infatti, solamente nella speranza, ma anche nelle tribolazioni. Volentieri, dice Paolo, mi glorierò nelle mie infermità, perché dimori in me la potenza del Cristo ( 2 Cor 12,9 ). Desiderabile infermità, che viene compensata dalla forza di Cristo! Chi mi darà, non solo di essere infermo, ma divenir meno del tutto ed essere privato di tutto ciò che viene da me stesso, perché io possa venire sorretto dalla virtù del Signore degli eserciti? La mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella mia debolezza ( 2 Cor 12,9 ). E infine: Quando sono debole, è allora che sono forte ( 2 Cor 12,10 ). 8. Stando così le cose, la sposa si attribuisce molto a proposito a sua gloria quello che dalle emule le viene imputato come motivo di, vergogna, vantandosi di essere, non solo bella, ma anche scura. Non arrossisce per la pelle scura, pensando che, prima di lei, anche lo Sposo è apparso con tale deformità, ed è cosa sommamente gloriosa essere simile a lui. Stima dunque che nulla sia più onorifico che portare l’obbrobrio di Cristo. Di qui quelle parole veramente piene di esultanza e di salvezza: Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore mio Gesù Cristo ( Gal 6,14 ): grata ignominia della croce per colui che non è ingrato al Crocifisso. È colore oscuro, ma forma e immagine del Signore. Va dal santo Isaia, e ti descriverà come ha visto il Signore in spirito. Lo chiama Uomo dei dolori, che ben conosce il patire, e dice che non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi. E aggiunge: Noi l’abbiamo stimato come un lebbroso, percosso da Dio e umiliato. Eppure egli è stato percosso per le nostre iniquità, schiacciato per i nostri delitti; per le sue piaghe noi siamo stati guariti ( Is 53,2ss ). Ecco il colore oscuro. Aggiungi a questo ciò che ha detto il santo Davide: Il più bello tra i figli dell’uomo ( Sal 45,3 ), e hai nello Sposo quello che la sposa in questo passo attribuisce a se stessa. 9. Non ti sembra che anche Cristo, secondo quello che è stato detto, potrebbe rispondere agli emuli giudei: « Sono scuro, ma bello, figli di Gerusalemme? ». Davvero scuro, lui che non aveva bellezza, né splendore; scuro, perché verme e non uomo, obbrobrio degli uomini e abiezione della plebe. E poi fece se stesso peccato: e non oserò chiamarlo scuro? Guardalo in panni sordidi, livido di piaghe, coperto di sputi e di un pallore mortale: almeno adesso riconoscilo scuro. Domanda poi agli Apostoli quale lo hanno contemplato sul monte, o agli Angeli chi sia colui nel quale bramano fissare lo sguardo e vedrai con stupore quanto è bello. Bello dunque in sé, scuro per te. Come ti riconosco bello, anche nella mia forma, o Signore Gesù! Non solo per i miracoli divini per i quali risplendi, ma anche per la verità, la mansuetudine e la giustizia. Beato chi, osservando con diligenza queste cose nella vita che hai condotto, uomo tra gli uomini, si sforza, per quanto glielo permettono le sue capacità, di mostrarsi imitatore di te! Questa beatitudine l’ha ricevuta in dono, come primizia della sua dote, la tua bella, sollecita nell’imitare ciò che in te è bello, né vergognosa di sopportare ciò che in te è oscuro. Perciò diceva: Sono scura, ma bella, figlie di Gerusalemme. E aggiunge una similitudine: come i tabernacoli di Cedar, come le pelli di Salomone ( Ct 1,4 ). Ma questo è oscuro, né stancatevi per riuscire a capirlo. Avete tempo per bussare. Se non cesserete di farlo, vi sarà chi rivela i misteri; né tarderà ad aprire colui che invita a bussare. È lui che apre, e nessuno chiude, lo Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXVI I. In che senso si è detta bruna come le tende di Cedar 1. Come le tende di Cedar, come le pelli di Salomone ( Ct 1,4 ). Dobbiamo cominciare da qui, perché qui ebbe fine il sermone precedente. Voi aspettate di sentire che cosa significhino queste parole e come si adattino al capitolo che abbiamo trattato poco fa, poiché esprimono un paragone. Può darsi che questa frase sia stata aggiunta in modo che entrambe le parti della similitudine rispondano alle parole precedenti: Sono bruna. Può anche darsi che le due parti del paragone si riferiscano rispettivamente alle due affermazioni precedenti. Il primo senso è più semplice, il secondo più oscuro. Ma esaminiamoli entrambi, e per primo quello che sembra più difficile. La difficoltà non sta nelle prime due parole ma nelle due ultime. Infatti Cedar, che viene interpretato come tenebre, chiaramente si vede come convenga al colore oscuro; ma non così delle pelli di Salomone rispetto alla bellezza. In quanto alle parole: tende, pelli, è facile vedere come siano appropriate entrambe. Che cosa sono, infatti, le tende se non i corpi nei quali compiamo il nostro pellegrinaggio? Non abbiamo infatti quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura ( Eb 13,14 ). Ma militiamo in essi, come sotto le tende, come per conquistare con la violenza il regno. E infatti la vita dell’uomo sulla terra è una milizia ( Gb 7,1 ), e fino a quando militiamo in questo corpo, siamo in esilio, lontani dal Signore, cioè dalla luce. Perché il Signore è luce, e in quanto uno non è con lui, in tanto è nelle tenebre, vale a dire in Cedar. Riconosca pertanto la sua in quella flebile voce: Me infelice! Abito straniero in Mosoch, dimoro fra le tende di Cedar! Troppo io ho dimorato ( con chi detesta la pace ) ( Sal 120,5-6 ). L’abitacolo del nostro corpo è dunque non un’abitazione di un cittadino o la casa di un indigeno, ma o la tenda di un militare, o la capanna di un viaggiatore. È, dico, questo corpo una tenda, e una tenda di Cedar che, quasi come uno schermo, impedisce per ora all’anima la visione della luce incircoscritta e non le permette di contemplarla se non come attraverso uno specchio e nel mistero, ma non faccia a faccia. 2. Vedi donde proviene il colore oscuro della Chiesa, donde quella certa ruggine che aderisce anche ad anime bellissime? Deriva certamente dalla tenda di Cedar, dall’esercizio di una milizia faticosa, dal protrarsi della misera vita presente, dalle angustie e dai travagli dell’esilio, e infine, dal corpo fragile e pesante: perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima, e la tenda d’argilla grava l’anima dai molti pensieri ( Sap 9,15 ). Per questo bramano di essere sciolte dal corpo, onde, libere dai suo peso, possano volarsene agli amplessi di Cristo. Per questo anche una di queste anime gridava dalla sua miseria: Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? ( Rm 7,24 ). Quella che parla così sa infatti che nella tenda di Cedar non potrà andare esente del tutto da macchia o ruga o da un certo colore oscuro, e desidera uscire per potersene spogliare. E questa è la ragione per cui la sposa si è detta scura come le tende di Cedar. Ma come mai si dice poi bella come le pelli di Salomone? Sento che in queste pelli è nascosto un non so che di sublime e sacro, che non oserei affatto toccare, se non al cenno di colui che ve lo ha riposto e sigillato. Ho letto infatti: Chi si fa scrutatore della maestà di Dio, sarà oppresso dalla sua gloria ( Pr 25,27 ). Mi fermo qui pertanto e rimando questo argomento a più tardi. Sarà intanto vostra cura, come al solito, impetrare con le vostre preghiere il favore celeste, affinché torniamo tanto più fervorosi, quanto più fiduciosi a un argomento che richiede animi molto attenti. E forse l’anima pia che bussa troverà quello che uno scrutatore temerario non riuscirebbe a trovare. Ma è il dolore che mi costringe a mettere fine, e la sventura che si è abbattuta su di me. II. Lamento per la morte del fratello Gerardo 3. Fino a quando, infatti, dissimulo e il fuoco che nascondo dentro me stesso brucia il mio cuore immerso nella tristezza e mi divora le viscere? Rinchiuso esso divampa maggiormente e incrudelisce più atrocemente. Come posso intrattenermi in questo cantico, io che sono nell’amarezza? La veemenza del dolore mi toglie la capacità di applicarmi, e lo sdegno del Signore assorbe il mio spirito. Mi è stato tolto colui per il quale mi era consentito di applicarmi liberamente ai miei studi sulle cose di Dio, e il mio cuore è venuto meno. Ma ho fatto forza al mio animo e ho dissimulato fino a ora, onde non sembrasse che l’affetto avesse il sopravvento sopra la fede. Gli altri piangevano; io, come avete potuto notare, ho seguito con occhi asciutti la triste sepoltura, con occhi asciutti stetti davanti alla fossa, fino al termine delle esequie. Vestito degli abiti sacerdotali, ho recitato con la mia bocca le solite orazioni, con le mie mani ho gettato, come è usanza, una manciata di terra sul corpo dell’amato fratello, che diventerà presto anch’esso terra. Quelli che mi guardavano piangevano e si meravigliavano che non piangessi anch’io; non avevano infatti pietà di lui, ma piuttosto di me che lo avevo perduto. Anche un cuore di ferro si sarebbe commosso vedendomi là, superstite a Gerardo. La sua morte è stato un danno per tutti; ma di fronte al mio, quello degli altri sembrava trascurabile. Tuttavia, io, con tutte le forze della fede resistevo all’affetto, come potevo, sforzandomi, sia pure contro voglia, di non mostrarmi commosso per quella morte che, invano, cercavo di rappresentarmi come condizione della natura, debito universale, esigenza della condizione umana, ordinata dal potente, dal giusto giudice, castigo del terribile, come volontà di Dio. Per queste ragioni sempre, da allora e in seguito, ho imposto a me stesso di non indulgere a molto pianto, pur sentendomi molto turbato e afflitto. Non potevo comandare alla tristezza come facevo alle lacrime, ma, come sta scritto: Sono stato turbato e senza parole ( Sal 77,5 ). Ma il dolore compresso si è radicato più profondamente al di dentro, diventando tanto più atroce, lo sento, quanto meno aveva potuto sfogarsi al di fuori. Sono vinto, lo confesso. Deve per forza uscire, uscire fuori quel che soffro dentro. Trovi sfogo agli occhi dei figli, i quali, conoscendo le mie angustie, stimino più umanamente le mie lacrime e più dolcemente le consolino. 4. Sapete, o figli, quanto profondo sia il mio dolore, quanto dolorosa la mia piaga. Vedete, infatti, quale fido compagno di viaggio mi ha lasciato solo nella via che percorrevo, quanto vigilante nella cura, come solerte al lavoro, quanto dolce nei costumi. Chi mi era come lui strettamente necessario? A chi io ero ugualmente caro? Mi era fratello per sangue, ma più fratello ancora per religione. Rimpiangete, vi prego, la mia sorte, voi che conoscete queste cose. Ero infermo di corpo, ed egli mi portava; ero pusillanime di cuore, e mi confortava; pigro e negligente, ed egli mi scuoteva; trascurato e smemorato, ed egli mi avvertiva. Perché mi sei stato tolto? Perché sei stato strappato dalle mie mani o uomo unanime, uomo secondo il mio cuore? Ci siamo amati durante la vita: come mai siamo separati nella morte? Amarissima separazione, e che solo la morte è capace di effettuare! Quando mai, infatti, tu vivo avresti abbandonato me vivo? Veramente opera questa della morte, orrendo divorzio. Chi non avrebbe risparmiato il così dolce vincolo del nostro amore, se non la morte, nemica di ogni dolcezza? Morte veramente, che, cogliendo uno, ha ucciso rabbiosamente due. Non è stata forse morte anche per me? Anzi, più per me, al quale è riservata una vita più infelice che ogni morte. Vivo per morire vivendo: e questa chiamerò vita? Saresti più mite, o morte, nel privarmi dell’uso della vita che del suo frutto! Poiché è più gravosa morte una vita senza frutto. Un duplice male è riservato all’albero infruttuoso: la scure e il fuoco. Tu dunque, invidiosa dei miei lavori, hai allontanato da me l’amico e il conoscente, per opera del quale soprattutto essi erano fruttuosi, se lo erano. Avrei dunque preferito mettere in pericolo la mia vita, o Gerardo, piuttosto che essere privato della tua presenza, tu che eri sollecito nell’incoraggiarmi nei miei studi sacri, fedele nel prestarmi aiuto riguardo a essi, cauto nel valutarli. Perché, dico, ci siamo amati, o perché ci siamo lasciati? Dura condizione, ma miseranda la mia, non la sua morte! III. Si addolora con se stesso per aver non perduto ma cambiato i suoi cari Tu infatti, caro fratello, se hai perso persone care, ne hai trovate altre più care. Ma a me misero, quale consolazione rimane ormai dopo di te, unico mio conforto? Lo stare corporalmente insieme era cosa gradita a entrambi, poiché vi era la concordia dei costumi; ma la divisione ha ferito soltanto me. Quello che piaceva era comune; resta unicamente mio quello che è triste e lugubre: su di me si è abbattuta l’ira, contro di me si è sfogato il furore. Era dolce all’uno la presenza dell’altro, soave il nostro colloquio; ora quelle grandi delizie sono perdute per me, mentre invece tu le hai mutate con altre, e in questo scambio c’è stato per te un grande guadagno. 5. Con quale soprappiù di gioia e cumulo di benedizioni hai ora in cambio di me la presenza di Cristo, e associato ai cori degli angeli, non senti il distacco da noi. Non hai perciò motivo di lamentarti perché ti sia stata sottratta la nostra presenza, dal momento che il Signore della maestà ti ha concesso di godere della sua e di quella dei suoi. Ma io che cosa ho in cambio di te? Come vorrei sapere che cosa tu pensi ora di me, immerso nelle preoccupazioni e nelle pene, privo di te che eri il bastone della mia debolezza! Se tuttavia è ancora possibile pensare ai miseri per te che sei entrato nell’abisso della luce e sei assorto nell’oceano dell’eterna felicità. Forse, infatti, anche se ci hai conosciuti secondo la carne, oggi non ci conosci più così, e poiché sei entrato nel possesso di Dio, ti ricordi soltanto più della sua giustizia scordandoti di noi. Del resto, chi si unisce a Dio forma con lui un solo spirito e viene trasformato in un certo qual divino affetto; né ormai può più sentire o gustare altro che Dio e ciò che Dio sente e a lui piace, essendo pieno di Dio. Ora, Dio è amore, e quanto più uno è unito a Dio, tanto più è pieno di carità. Dio è anche impassibile, ma non privo di compassione, essendo proprio di lui aver sempre pietà e perdonare. Perciò anche tu sei necessariamente misericordioso, essendo unito con Dio misericordioso, anche se ormai non sei più affatto misero e, pur se non patisci, tuttavia compatisci. Così il tuo affetto non è diminuito, ma mutato; né per il fatto che ti sei rivestito di Dio, hai deposto il pensiero di noi: anche lui, infatti, ha cura di noi. Hai rigettato le infermità, non la pietà. E poi, la carità non viene mai meno: non ti dimenticare mai di me. 6. Mi sembra quasi di sentire il mio fratello dire: Può forse una madre dimenticare il frutto delle sue viscere? E anche se quella se ne dimenticasse, io però non mi dimenticherò di te ( Is 49,15 ). Non occorre affatto ( che me lo dica ). Sai in quale stato mi trovo, dove giaccio, dove mi hai lasciato: non c’è chi mi dia una mano. IV. Come Gerardo si offriva in ogni necessità per la tranquillità dell’abate A ogni cosa che mi capita, cerco con gli occhi Gerardo, come era mia abitudine, e Gerardo non c’è. Ahimè! Allora gemo miseramente, come un uomo privo di sostegno. Chi consulterò nelle cose dubbie? Di chi mi fiderò nelle avversità? Chi porterà i miei pesi? Chi terrà lontani i pericoli? Non erano sempre gli occhi di Gerardo che precorrevano i miei passi? Non è forse vero che il tuo cuore, più che il mio, conosceva le mie sollecitudini, e tu con maggiore facilità te le assumevi, portandone più di me il peso? Non era forse la tua lingua, arrendevole e forte, che mi dispensava spessissimo dal parlare delle cose di questo mondo, e mi permetteva di starmene nell’amato silenzio? Il Signore gli aveva dato una lingua erudita, perché sapesse quando doveva parlare. E così, con la prudenza delle sue risposte e con la grazia che gli era data dall’alto dava soddisfazione alle persone dell’interno e a quelle di fuori, di modo che quasi nessuno che avesse per caso incontrato Gerardo aveva ancora bisogno di cercare me. Ed egli andava incontro a chi veniva, impedendo che disturbassero direttamente la mia quiete. Se non poteva da sé dare ad alcuni soddisfazione, li conduceva da me, mandando via gli altri. O uomo saggio! O amico fedele! Da una parte cercava di compiacere all’amico, e dall’altra badava a non venir meno al dovere della carità. Chi andò via da lui con le mani vuote? Se si trattava di un ricco, ne riportava un buon consiglio, se era un povero, un aiuto. Non cercava il suo interesse lui che si accollava il lavoro perché io ne fossi sollevato. Sperava infatti, poiché era umilissimo, di trarre maggior vantaggio dalla mia quiete che dal suo riposo. Ogni tanto, tuttavia, chiedeva di essere dispensato da qualche compito perché ne fosse incaricato un altro che facesse meglio di lui. Ma dove trovarlo? Né restava in quell’ufficio per un certo qual affetto disordinato, come capita spesso, ma solo per motivo di carità, in realtà egli lavorava più di tutti e riceveva meno di tutti, fino al punto che spesso, procurando agli altri il necessario, in molte cose egli ne restava privo, come, per esempio, quanto al cibo e al vestito. E quando sentì avvicinarsi, la morte, « Dio – disse – tu sai che per quanto è dipeso da me, ho sempre desiderato cercare la quiete e occuparmi di te. Ma ero costretto dal tuo timore, dalla volontà dei fratelli, dalla preoccupazione di obbedire e soprattutto dall’amore del mio abate e fratello ». È così. Grazie a te, fratello, per tutto il frutto, se ce n’è stato, dei miei studi nel Signore! A te devo il mio profitto, se ho profittato. Tu ti sobbarcavi gli affari esterni, e io, reso libero per il tuo servizio, sedevo per pensare alle cose mie, o mi occupavo più liberamente nella lode divina, ovvero mi occupavo con maggiore utilità a preparare le istruzioni per i figli. Come non sarei stato interiormente tranquillo, sapendo che tu badavi all’esterno, tu, mio braccio destro, luce dei miei occhi, mio cuore e mia lingua? E il tuo era un braccio instancabile, il tuo occhio semplice, il tuo petto capace di consiglio, e la tua lingua proferiva la giustizia, come è scritto: La bocca del giusto esprime la sapienza e la sua lingua proclama la giustizia ( Sal 37,30 ). V. Fervente nello spirito, industrioso nella vita pratica ha condiviso il peso dell’abate 7. Ma che ho detto circa l’attività esterna di Gerardo, quasi che egli ignorasse le cose interne e fosse privo dei doni spirituali? Lo sanno le persone spirituali che lo conobbero quanto le sue parole sapessero di spirito. Lo sanno i confratelli come la sua condotta e i suoi sentimenti non fossero secondo la carne, ma ferventi di spirito. Chi più rigido di lui nell’osservanza della disciplina? Chi più duro nel castigare il corpo, più elevato nella contemplazione, più sottile nella discussione? Quante volte, ragionando con lui, ho imparato quello che non conoscevo, e io che ero venuto per insegnare, me ne tornavo maggiormente istruito! E non fa meraviglia che ciò sia capitato a me, mentre uomini grandi e sapienti attestano che la stessa cosa hanno sperimentato con lui. Non conosceva la letteratura, ma ebbe il senso che ha inventato le lettere, ebbe anche lo Spirito illuminante. E non solo nelle grandi cose, ma anche nelle minime egli era massimo. La sua perizia, per esempio, si estendeva dagli edifici ai campi, agli orti, alle acque, insomma a tutte le arti od opere agresti. Era facilmente maestro ai muratori, ai fabbri, agli agricoltori, agli ortolani, ai calzolai, ai tessitori. E mentre a giudizio di tutti era il più sapiente, egli solo ai suoi occhi non era sapiente. Dio volesse che a molti, anche meno sapienti, non convenisse quella maledizione: Guai a voi che siete sapienti ai vostri occhi ( Is 5,21 )! Parlo a voi che conoscete queste cose, e ne sapete di lui anche molte di maggiori. Ma non vado oltre, perché è mia carne e mio fratello. Aggiungo tuttavia questo con sicurezza: mi fu utile in tutto e più di tutti: utile nelle piccole cose e nelle grandi, nelle private e nelle pubbliche, al di fuori e dentro. Giustamente dipendevo tutto da lui che era per me tutto. A me lasciava quasi solo il nome e l’onore di provveditore, poiché tutto il lavoro lo faceva lui. Io ero chiamato abate, ma egli presiedeva con sollecitudine. A ragione riposava in lui il mio spirito, poiché, grazie a lui, mi era consentito di gustare le dolcezze del Signore, predicare più liberamente, pregare più sicuramente. Grazie a te, dico, caro fratello; avevo la mente libera e una gradita tranquillità, era più efficace il mio discorso, più intensa la mia orazione, più frequente la lettura, più fervido l’affetto. 8. Ahimè! Tu mi sei stato tolto, e con te ho perduto tutte queste cose. Con te sono sparite le mie delizie e la mia letizia. Già irrompono le preoccupazioni, le molestie degli affari premono di qua e di là, e le angustie da ogni parte mi trovano solo, sono rimaste solo per me con la tua dipartita; e solo gemo sotto il grave peso. Tu hai sottratto le tue spalle, non resta che ritirarmi, o essere oppresso. Chi mi darà di morire presto dopo di te? Non dico: invece di te, perché non vorrei privarti della tua gloria. Ma sopravvivere a te è fatica e dolore. Vivrò, finché vivrò, nell’amarezza, vivrò nella tristezza: e questa sia la mia consolazione, che sia afflitto nel dolore. Non mi risparmierò, aiuterò la mano del Signore, perché la mano del Signore mi ha percosso ( Gb 19,21 ). Ha toccato e percosso me, non lui che ha chiamato al riposo: ha ucciso me portando via lui. Si potrebbe chiamare forse ucciso lui che è stato trapiantato nella vita? Ma quella che per lui è stata la porta della vita, per me è davvero morte, e di questa morte direi morto me stesso, non lui che si è addormentato nel Signore. Piangete, occhi miei, uscite, lacrime già da tempo desiderose di sgorgare; uscite, perché colui che ve lo aveva impedito è andato via. Si aprano le cateratte del misero mio capo ed erompano le fonti delle acque, perché lavino, se bastano, le macchie delle colpe, per cui ho meritato l’ira ( divina ). Quando il Signore si sarà consolato per me, allora forse anch’io meriterò di essere consolato, se tuttavia non cesserò di affliggermi: poiché sono quelli che piangono che saranno consolati. VI. Come sia da giudicare questo suo lamento sul fratello Per questo mi scusino i santi, e in spirito di compassione, quelli che sono spirituali sopportino il mio lamento. Il mio lutto venga valutato, di grazia, non come espressione di un’usanza, ma di affetto umano. Vediamo infatti ogni giorno dei morti, che piangono i morti: molte lacrime e nessun frutto. Non rimproveriamo l’affetto, tranne quando eccede la misura, ma la causa. L’affetto infatti è della natura e il suo turbamento è pena del peccato. La causa invece sovente è vanità e peccato, quando cioè si piangono solamente i danni della gloria della carne e gli incomodi della vita presente. Quelli che piangono così sono veramente da compiangere. Piango anch’io così? Simile è il mio affetto, ma diversa e dissimile l’intenzione. Non mi lamento affatto di tutte le cose del mondo. Ma riguardo alle cose di Dio, soffro perché mi fu tolto un fedele aiutante, un saggio consigliere. Piango Gerardo: si tratta di Gerardo, mio fratello per la carne, ma legato a me per lo spirito, compagno di ideali. 9. L’anima mia aderiva all’anima di lui e di due ne aveva fatta una sola, non la consanguineità, ma la concordia. Non mancò il legame della carne, ma ci unì maggiormente la società dello spirito, il consenso degli animi, la conformità dei sentimenti. Mentre eravamo un cuor solo e un’anima sola, una spada trapassò la mia e la sua anima, e dividendo il tutto in due parti, ne collocò una metà in cielo, e abbandonò l’altra parte nel pantano. Io, sono io quella misera parte che giace nel fango, troncata della parte di sé, la parte migliore, e mi si dice: « Non piangere »? Mi sono state strappate le viscere, e mi si dice: « Sii insensibile »? Sento, sento, anche se non voglio, perché il mio cuore non è duro come la pietra, né la mia carne è di bronzo; sento e soffro grandemente e il mio dolore mi sta sempre davanti. Non mi potrà rimproverare di durezza e di insensibilità colui che mi percuote, come coloro di cui è detto: Li ho percossi, e non hanno sentito dolore ( Ger 5,3 ). Ho confessato il mio affetto e non l’ho negato. Si dirà che è carnale? Io non nego di essere umano, né di essere uomo. Se non basta, non negherò neppure di essere carnale. Anch’io sono tale, venduto sotto il peccato, destinato alla morte, soggetto alle sofferenze e alle pene. Non sono insensibile, lo confesso, al dolore: ho orrore della mia morte e di quella dei miei. E il mio Gerardo era veramente mio. Non era forse mio fratello per il sangue, figlio per la professione, padre per la sua sollecitudine, consorte per lo spirito, amico intimo per l’affetto? Egli è partito da me, lo sento, ne sono ferito e gravemente. 10. Perdonate, o figli, anzi, se siete figli compatite la sorte del vostro padre. Abbiate pietà di me, almeno voi, miei amici, che considerate quale grave punizione ho ricevuto dalla mano del Signore per i miei peccati. Mi ha percosso con la verga del suo sdegno, degnamente, secondo come meritavo, ma duramente per le mie forze. Chi potrà dire che non è gran cosa per me vivere senza Gerardo se non chi ignora che cosa era per me Gerardo? Tuttavia non contraddico alle parole del Santo, né critico il giudizio per il quale ognuno di noi due ha ricevuto quello di cui era degno: egli la corona che ha meritato, e io la debita pena. Forse per il fatto che sento la pena non approvo la sentenza? Umano è il sentire, criticare sarebbe empio. È umano, dico, essere sensibili rispetto alle persone care e godere quando sono presenti e soffrire per la loro assenza. Non lascia indifferenti il vivere familiarmente insieme, specialmente tra amici, e come fosse forte il mutuo affetto quando si era insieme, lo indica lo strazio della separazione e il dolore che, una volta separati, si sente vicendevolmente. VII. La sua morte Piango su di te, o carissimo Gerardo, non perché sei da rimpiangere, ma perché mi sei stato tolto. E perciò dovrei piuttosto piangere su di me che bevo il calice dell’amarezza: tu invece no. Solo io soffro quello che sogliono patire parimente quelli che si amano quando si lasciano. 11. Dio voglia che non ti abbia perduto, ma che ti abbia mandato innanzi. Dio voglia che, anche se tardi, un giorno ti segua dovunque sarai andato! Non vi è dubbio infatti che tu sei andato tra coloro che, verso la metà dell’ultima notte, tu invitavi alla lode, quando, con il volto e la voce esultanti, hai intonato quel versetto di Davide tra lo stupore degli astanti: Lodate il Signore dai cieli, lodatelo dall’alto dei cieli ( Sal 148,1 ). Già per te, fratello mio, pur essendo ancora mezzanotte, si faceva giorno, e la notte si rischiarava come giorno. Davvero quella notte ti illuminava nelle tue delizie. Fui chiamato per vedere questo miracolo: un uomo che, stando per morire, esultava e insultava la morte. Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è o morte il tuo pungiglione? ( 1 Cor 15,55 ). Non più pungiglione, ma giubilo. Ormai l’uomo muore cantando, e morendo canta. Servi ora a dare gioia, o madre della tristezza, servi alla gloria, o nemica della gloria; servi all’ingresso nel regno, o porta degli inferi, e fai trovare la salvezza o fossa di perdizione, e questo a un uomo peccatore. Ed è giusto, perché tu hai temerariamente usurpato il potere su di un uomo innocente e giusto. Sei morta, o morte, e perforata dall’amo che incauta hai abboccato, del quale sono riferite nel Profeta queste parole: O morte, io sarò la tua morte, sarò il tuo sterminio o inferno ( Os 13,14 ). Perforata, dicevo, da quell’amo, offri un largo e lieto passaggio alla vita ai fedeli che passano attraverso di te. Gerardo non ha paura di te, figura spettrale. Gerardo attraverso le tue fauci passa alla vita, non solo sicuro, ma lieto e con il canto di lode sulle labbra. Quando arrivai, lo udii che terminava con chiara voce le ultime parole del salmo, sospirando verso il cielo, e disse: « Padre, nelle tue mani affido il mio spirito » ( Lc 23,46 ). E ripetendo le stesse parole e dicendo frequentemente: « Padre, Padre », rivolto a me con faccia sorridente: « Quanta degnazione da parte di Dio », disse, « di essere Padre degli uomini! Quanta gloria per gli uomini essere figli di Dio, essere eredi di Dio! Poiché, se figli si è anche eredi ». Così cantava colui che noi piangiamo: e in questo, lo confesso, poco è mancato che mutasse in canto anche il mio lutto, mentre, intento alla sua gloria, quasi dimentico la mia miseria. 12. Ma mi richiama a me stesso il dolore pungente e la stringente ansietà mi scuote facilmente da quel sereno sguardo, come se mi risvegliasse da un sonno leggero. Piangerò pertanto su di me, perché la ragione vieta di piangere su di lui. Penso che se ne avesse il modo, ci direbbe adesso: Non piangete su di me, ma su di voi stessi ( Lc 23,28 ). VIII. Sull’esempio di Davide, di Samuele, di Cristo Signore scusa il suo affetto Pianse giustamente Davide sul figlio parricida, al quale, per l’enorme delitto sapeva essere preclusa in eterno l’uscita dal ventre della morte. Giustamente pianse su Saul e sopra Gionata, per i quali, una volta assorbiti dalla morte, non si sperava più in un ritorno. Risorgeranno, ma non per la vita, anzi, alla vita, ma per morire più infelicemente, vivi nella morte, sebbene per Gionata ci possano essere dubbi. Io non ho un tale motivo di piangere, quantunque un motivo ci sia anche per me. Piango prima per la mia ferita e per la perdita della nostra casa; piango poi sulle necessità dei poveri, per i quali Gerardo era un padre; piango anche su tutto lo stato del nostro Ordine e della nostra professione che dal tuo zelo, o Gerardo, dal tuo consiglio ed esempio prendeva notevole forza; piango infine, anche se non su di te, ma tuttavia per te. La causa profonda del mio grande dolore è perché grande è il mio amore per te. E nessuno mi molesti col dire che non bisogna affliggersi tanto, mentre il benigno Samuele e il pio Davide hanno pagato il tributo del loro affetto, per il re riprovato e per il figlio parricida senza far torto alla fede, né recare insulto al superno giudizio. Assalonne figlio mio, mio figlio Assalonne, diceva Davide; ed ecco qui uno più grande di Assalonne. Anche il Salvatore, vedendo la città di Gerusalemme e prevedendone la rovina, pianse su di essa. E io sarò insensibile alla mia desolazione che soffro al presente? Non dovrei soffrire per una piaga recente e grave? Egli pianse, per la compassione, e io che patisco non oso farlo? E certamente al sepolcro di Lazzaro non vietò di piangere, anzi, pianse anche lui con quelli che piangevano: E Gesù pianse, dice il Vangelo ( Gv 11,35 ). Quelle lacrime indicavano la natura, non la mancanza di fede. E poi, alla sua voce, subito venne fuori colui che era morto, onde tu non pensassi l’affetto di chi lo piangeva come mancanza di fede. 13. Così neanche il nostro pianto è segno di poca fede, ma indice della nostra condizione; né, perché percosso, piango, accuso chi mi ferisce, ma ne provoco la pietà, cerco di piegarne la severità. Perciò le mie parole sono piene di dolore, non di mormorazione. Non ho forse reso pieno omaggio, alla giustizia, dicendo che con l’esecuzione di un’unica sentenza è stato punito chi era colpevole e coronato chi lo meritava? E lo dico ancora. Ha fatto bene l’una e l’altra cosa il dolce e retto Signore. Misericordia e giustizia canterò a te, o Signore ( Sal 101,1 ). Canti a te la misericordia che hai usato con il tuo servo Gerardo, ti canti anche la giustizia che noi sopportiamo. In una cosa sarai lodato come buono, nell’altra come giusto. Merita forse lode la sola bontà? La merita anche la giustizia. Giusto sei, o Signore, e retto è il tuo giudizio ( Sal 119,137 ). Tu ci avevi dato Gerardo, tu ce lo hai tolto: e se siamo dolenti perché ce lo hai tolto, non dimentichiamo tuttavia che ce lo avevi dato, e ti ringraziamo perché abbiamo meritato di averlo, e se non ci rassegniamo a essere senza di lui, è perché ne sentiamo il danno. 14. Ricorderò, o Signore, il mio patto e la tua misericordia, affinché tu appaia maggiormente giusto quando parli e retto nel tuo giudizio. Quando l’anno scorso eravamo a Viterbo a motivo della Chiesa, Gerardo si ammalò, e aggravandosi il male, sembrando egli ormai vicino alla fine, rincrescendomi grandemente di perdere in terra straniera il mio compagno, e un tale compagno, senza poterlo riconsegnare a coloro che me lo avevano affidato, poiché era amato da tutti, siccome era molto degno di essere amato, rivoltomi al Signore con pianto e gemito nella preghiera, dissi: « Aspetta, o Signore, fino al ritorno. Una volta restituito ai confratelli, prendilo, se vuoi, e non mi lamenterò ». Tu mi hai esaudito, o Dio: egli guarì, portammo a termine quanto ci avevi ordinato, e tornammo esultanti, portando i nostri manipoli di pace. Ora mi ero quasi dimenticato del mio patto, ma tu no. Mi vergogno di questi singulti che mi rimproverano di prevaricazione. Che più? Hai richiesto colui che ti avevo rimesso, hai ricevuto il tuo. Le lacrime pongono fine al sermone; tu, o Signore, poni a esse un fine e una misura. Sermone XXVII I. Alle pelli di quale Salomone è paragonata la bellezza della sposa 1. Dopo aver accompagnato con i dovuti uffici di umanità l’amico che torna alla patria, ritorno, fratelli, al mio compito di edificazione che avevo interrotto. È fuori luogo infatti piangere a lungo uno che è nella gioia, e inopportuno per chi siede a tavola mandare giù molte lacrime. E anche se noi piangiamo per il nostro dolore, non dobbiamo però esagerare, perché non sembri che più che lui amiamo i comodi che ci venivano da lui. Temperi dunque il gaudio del nostro caro la mestizia dei desolati, e ci renda più tollerabile il dolore della sua assenza il pensiero che egli è con Dio. Con l’aiuto delle vostre preghiere intendo ora far vedere quello che, a mio parere, sta sotto quelle tende che sono state addotte come esempio di bellezza per la sposa. Abbiamo toccato questo argomento, come ben ricordate, ma non abbiamo discusso e dichiarato come mai la sposa sia detta scura come i tabernacoli di Cedar. E come è detta bella come le tende di Salomone, quasi che Salomone, in tutta la sua gloria abbia avuto qualcosa di degno della bellezza della sposa e del suo glorioso ornamento. Se dicessimo che queste tende, come anche i tabernacoli di Cedar, non stanno a indicare la bellezza della sposa ma piuttosto la sua oscurità, questo senso potrebbe andare, né mancherebbero ragioni per provarne la congruenza, come del resto abbiamo fatto. Ma se paragoniamo lo splendore della sposa alla bellezza di queste tende, allora ci occorre l’aiuto di colui alla porta del quale voi bussate nella preghiera, perché possa aprirci come si deve il senso di questo mistero. Non vi è infatti cosa alcuna tra quelle che splendono agli occhi del corpo che, paragonata alla bellezza interiore di un’anima santa, non sembri vile e brutta. Che cosa può offrire la figura di questo mondo che passa, che possa uguagliare la bellezza di quell’anima che, spoglia del vecchio uomo terreno si è rivestita dello splendore di quello che è del cielo, adorna di ottimi costumi come di monili, più pura ed eccellente dell’etere, più splendida del sole? Non guardare, dunque, questo Salomone terreno, quando vuoi indagare di chi siano le tende alle quali la sposa si vanta di essere simile nella sua bellezza. 2. Dunque, che cosa vuol dire quando si esprime così: Sono bella come le tende di Salomone? ( Ct 1,4 ). Qualche cosa di grande e di mirabile, come io penso, se noi andiamo con la mente non a questo Salomone, ma a colui del quale è detto: Ecco, qui c’è uno più grande di Salomone ( Mt 12,42 ). Poiché questo pio Salomone è talmente Salomone che non solo è chiamato Pacifico, come significa il nome Salomone, ma è la stessa Pace, come dice san Paolo: Egli è la nostra pace ( Ef 2,4 ). Presso questo Salomone non dubito affatto che si possa trovare qualche cosa a cui possa essere paragonata la bellezza della sposa. Senti quello che il salmo dice in particolare delle sue tende: Tu stendi il cielo come una tenda ( Sal 104,2 ). Non certamente il primo Salomone, figlio di Davide, per quanto molto sapiente e potente, ha disteso il cielo come una tenda, ma piuttosto colui che non solo è sapiente, ma è la stessa Sapienza, questi lo ha disteso e lo ha creato. Di questo, infatti, e non di quell’altro è quella voce che dice: Quando ( l’eterno Padre ) fissava i cieli io ero là ( Pr 8,27 ). Era presente senza dubbio con la sua virtù e con la sua sapienza. E non pensare che assistesse ozioso come semplice spettatore, per il fatto che dice: « Io ero là » e non « preparavo ». Guarda un poco più in là e troverai che soggiunge che era con lui come architetto ( Pr 8,30 ). E infine dice: Tutto quello che il Padre fa, anche il figlio lo fa ( Gv 5,19 ). Anch’egli, dunque, stende il cielo come una tenda. Bellissima tenda che, coprendo tutta la terra come un immenso padiglione, rallegra gli occhi degli uomini con lo spettacolo del sole, della luna e della mirabile varietà degli astri. Che vi è di più bello di questa tenda? Che vi è di più splendido che il cielo? E tuttavia neppure esso è da paragonare minimamente alla gloria e alla bellezza della sposa, per il fatto che anch’esso passa con la sua figura, che è corporea e soggetta ai sensi del corpo. Le cose infatti che si vedono sono temporali, quelle invece che non si vedono sono eterne ( 2 Cor 4,18 ). II. Chi sia il decoro della sposa al quale non è paragonabile neanche la bellezza del cielo 3. Ma vi è anche una certa bellezza razionale della sposa e una sua immagine spirituale, e questa è eterna, perché immagine dell’eternità. È suo decoro, per esempio, la carità, e la carità, come avete letto, non viene mai meno ( 1 Cor 13,8 ). È anche sua bellezza la giustizia: E la sua giustizia, è detto, rimane per sempre ( Sal 112,3 ). È anche la pazienza, della quale leggi che la pazienza dei poveri non sarà delusa per sempre ( Sal 9,19 ). Che cosa dire della povertà volontaria? E dell’umiltà? Non è forse promesso alla prima il regno eterno, e all’altra un’esaltazione ugualmente eterna? E lo stesso si dica del timore santo di Dio che dura nei secoli dei secoli. Così la prudenza, la temperanza, così la fortezza e tutte le altre virtù sono tutte perle nell’ornamento della sposa, fulgenti di eterno splendore. Eterno dico, perché essa è sede e fondamento dell’eternità. L’anima, infatti, non è luogo della vita eterna e beata se non mediante e attraverso le virtù. Onde il profeta dice a Dio che davvero è la vita beata: La giustizia e il diritto sono la base del suo trono ( Sal 89,15 ). E l’Apostolo dice che Cristo abita per la fede nei nostri cuori ( Ef 3,17 ). E i discepoli distesero le vesti sull’asinello sul quale doveva sedere il Signore, significando con ciò che il Salvatore non siede sulla nuda anima, che cioè non trovi rivestita della dottrina e dei costumi degli Apostoli. E per questo la Chiesa, che ha la promessa della felicità futura, ha cura nel frattempo di prepararsi e di ornarsi con un vestito dorato, circondandosi con la varietà delle grazie e delle virtù, per essere trovata degna e capace di ornarsi della pienezza della grazia. 4. Del resto a questa così bella varietà spirituale che, come primo indumento, fin da ora la Chiesa ha ricevuto nell’abito della sua santificazione, non trovo paragonabile in alcun modo per bellezza questo cielo visibile e corporeo, pur così splendido nel suo genere per la varietà, degli astri. Ma vi è un cielo dei cieli, del quale dice il Profeta: Cantate al Signore che ascende sopra il cielo del cielo a oriente ( Sal 68,33.34 ). E questo è il cielo intellettuale e spirituale; e colui che ha creato i cieli con sapienza, lo ha fatto e stabilito in eterno e abita in esso. E non pensare che la devozione della sposa resti al di qua di quel cielo nel quale sa che abita il diletto, perché dove è il suo tesoro, ivi è anche il suo cuore. Invidia coloro che sono presenti al volto verso il quale essa sospira, e si studia di conformarsi con la vita a coloro con i quali, per il momento, non può associarsi nella visione, esclamando con la condotta più che con le parole: Signore, amo la casa dove dimori e il luogo dove abita la tua gloria ( Sal 26,8 ). III. Il cielo del cielo: è la pelle di Salomone e in esso sono le pelli di Salomone 5. Questo è il cielo che non ritiene indegno di addurre come paragone. Un cielo disteso come una tenda, non attraverso spazi materiali ma per affetti del cuore; un cielo adorno di meravigliose e svariate opere del divino artefice. Vi sono poi divisioni, non di colori, ma di beatitudini. Poiché vi pose alcuni come Angeli, altri come Arcangeli, Virtù, Dominazioni, Principati, Potestà, altri Troni, Cherubini e Serafini. Così è composto questo cielo, così dipinta questa tenda. Questa è una delle tende del mio Salomone, e la principale in tutto l’ornamento della sua gloria. Questa grandiosa tenda contiene in sé molte altre tende, pure di Salomone, poiché ogni beato e santo che là si trova è una tenda di Salomone. Sono infatti benigni, distesi nella carità, e arrivano fino a noi, desiderosi di condividere senza gelosia la gloria che possiedono con noi, talmente che alcuni di essi non ricusano per questo di abitare fra noi, prendendosi premurosamente cura di noi, tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza. Per la qual cosa come si chiama cielo tutta quella moltitudine insieme raccolta di beati, e ai singoli appartiene quello che è detto: Distende il cielo come una tenda ( Sal 104,2 ). Credo che vediate ora quali e di quale Salomone siano quelle tende alle quali la sposa si gloria di essere paragonata. IV. La gloria della sposa, per la quale si paragona alla sommità del cielo e donde le derivi 6. Vedete ora la gloria di colei che si paragona al cielo, e a quel cielo che è tanto più glorioso quanto più divino. Né a torto prende per sé un paragone di là dove trae origine. Infatti se quanto al corpo che ha dalla terra si dice simile al tabernacolo di Cedar, perché non dovrebbe gloriarsi quanto all’anima che è dal cielo, di essere simile al cielo, soprattutto dal momento che la sua vita ne testimonia l’origine, la dignità della natura e della patria? A somiglianza degli angeli adora e rende culto a un solo Dio; ama Cristo sopra ogni cosa, al pari degli angeli, e questo in una carne di peccato e in un fragile corpo, cosa che non hanno gli angeli, infine anche gusta le cose che sono presso di loro, e non le cose terrene. Quale prova più evidente della sua origine celeste che mantenere l’innata somiglianza anche nella regione della dissomiglianza, potersi gloriare di una vita pura anche nell’esilio, e vivere una vita angelica in un corpo simile a quello delle bestie? Sono queste cose effetto della celeste potenza, non di quella terrena, e indicano, chiaramente che è di origine celeste l’anima, capace di queste cose. Sentilo ancora più chiaro: Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo Sposo ( Ap 21,2-3 ). E ancora: E udii una voce potente che usciva dal trono che diceva: ecco la dimora di Dio con gli uomini, Egli dimorerà tra di loro ( Ap 21,3 ). E perché? Credo che agisca così per scegliersi una sposa tra gli uomini. Grande cosa! Veniva alla sposa, e non veniva senza la sposa. Cercava una sposa, e la sposa era con lui. Erano forse due? Niente affatto. Una sola infatti, dice, è la mia colomba ( Ct 6,8 ). Ma come da diversi greggi di pecore vuile farne uno solo, perché vi sia un solo ovile e un solo pastore, così, avendo unita a sé come sposa fin dal principio la moltitudine degli angeli, piacque a lui di adunare dagli uomini una chiesa e unirla a quella che è dal cielo, perché vi sia una sola sposa e un solo Sposo. Dunque, unendosi con la terrena quella celeste diventa perfetta, non duplice, e riconosce come detto a sé: Una sola è la mia perfetta ( Ct 6,8 ). Unica pertanto la rende la conformità, essendo ora simili nella devozione, e poi pari nella gloria. 7. Abbiamo dunque entrambi dal cielo, lo Sposo Gesù e la sposa Gerusalemme. Ora di Gesù sappiamo che egli per mostrarsi, annientò se stesso, prendendo la forma di servo e apparendo come uomo. Ma la Chiesa in quale forma o figura, o in quale abito la vide scendere colui che la vide? Forse nella frequenza degli Angeli che vide scendere e salire sopra il Figlio dell’uomo? Ma diciamo meglio che abbia visto la sposa quando vide il Verbo incarnato, riconoscendo l’uno e l’altra in una sola carne. Quando infatti quel santo Emmanuele portò sulla terra il magistero della celeste disciplina, quando per mezzo di lui ci apparve una certa quale immagine visibile di quella superna Gerusalemme che è madre nostra e forma della sua bellezza espressa in Cristo, noi abbiamo intravisto nello Sposo la sposa, e ammirando un solo e medesimo Signore della gloria abbiamo visto in lui, lo Sposo decorato di corona, e la sposa adorna dei suoi monili. Egli stesso, pertanto, che è disceso è il medesimo che è asceso, sicché nessuno ascende in cielo se non chi è disceso dal cielo, il solo e medesimo Signore e Sposo nel capo, e la sposa nel corpo. Né invano fu visto sulla terra l’uomo, celeste che fece simili a sé e celesti moltissimi della terra, perché si avveri quanto si legge: Quale il celeste, tali anche i celesti ( 1 Cor 15,48 ). Da allora pertanto sulla terra si vive secondo il costume dei celesti, mentre a somiglianza di quella superna e beata creatura, anche questa, che è venuta dall’estremità della terra per udire la sapienza di Salomone, si unisce a lui; suo celeste Sposo, con casto amore, sebbene non ancora nella visione; come la prima, ma sposata per la fede, secondo che Dio aveva promesso per bocca del profeta: Ti farò mia sposa nella benevolenza e nell’amore, e ti fidanzerò con me nella fede ( Os 2,21-22 ). Perciò si sforza di conformarsi sempre maggiormente alla forma che è venuta dal cielo, imparando da essa a essere vereconda e sobria, pudica e santa, paziente e compassionevole, mite e umile di cuore. E perciò con tali costumi cerca in ogni modo di piacere, pur non vedendolo, a colui nel quale gli Angeli ambiscono di fissare lo sguardo, e mentre è animata da fervore evangelico, si dimostra con ciò concittadina dei santi e familiare di Dio, si mostra diletta, si mostra sposa. V. Essa, la sposa, è anche un cielo bellissimo nel quale inabita Dio 8. Io penso che ogni anima simile non sia soltanto celeste per l’origine, ma che si possa chiamare non senza ragione, per imitazione, cielo stesso. E allora dimostra chiaramente che trae origine dal cielo, quando al cielo è rivolta tutta la condotta della sua vita. È dunque un cielo una tale anima, ed ha per sole l’intelligenza, per luna la fede, per astri le virtù. O, in altro senso; è per lei sole lo zelo per la giustizia, o il fervore della carità, e luna la continenza. Come infatti il chiarore della luna, come si dice, proviene dal sole, così senza la giustizia e la carità non ha alcun merito la continenza. Perciò dice il Saggio: O quanto è bella una casta generazione con gloria! ( Sap 4,1 ). Non mi dispiace, poi, di aver chiamato stelle le virtù, considerando quanto si addice la similitudine. Come infatti nella notte le stelle splendono e durante il giorno non si vedono, così la vera virtù non apparisce nella prosperità, e risplende invece nell’avversità. La prima cosa è richiesta dalla cautela, la seconda imposta dalla necessità. Dunque, la virtù è una stella, l’uomo adorno di virtù è un cielo. A meno che qualcuno, leggendo quello che Dio ha detto per bocca del Profeta: Il cielo è la mia sede ( Is 66,1 ), pensi che si tratti di questo cielo rotante e visibile, e non piuttosto quello che più apertamente intende la Scrittura dove dice: L’anima del giusto è sede della sapienza ( Pr 12,23 ). Ma chi dalla dottrina del Salvatore ha imparato che Dio è spirito, e che si deve adorare in spirito, non dubita che gli si debba assegnare anche una sede spirituale. E io lo faccio volentieri, non meno riguardo all’anima dell’uomo giusto che allo spirito angelico. Mi conferma in questo senso soprattutto quella fedele promessa: Io e il Padre, dice il Figlio, verremo a lui ( cioè all’uomo santo ), e faremo dimora presso di lui ( Gv 14,23 ). Penso che il Profeta non abbia voluto anche lui parlare di un cielo diverso: Ma tu abiti nel Santo, lode d’Israele ( Sal 22,4 ). E l’Apostolo dice chiaramente che Cristo abita per la fede nei nostri cuori ( Ef 3,17 ). 9. Né fa meraviglia se il Signore Gesù abita volentieri in questo cielo che non solo creò con una sola parola, ma si acquistò combattendo e redense con la sua morte. E perciò, anche dopo tanta fatica, dice, esprimendo piuttosto il suo vivo desiderio: Questo è il mio riposo per sempre, qui abiterò perché l’ho desiderato ( Sal 132,14 ). E beata colei alla quale viene detto: Vieni, o mia eletta, e porrò in te il mio trono ( resp. Uff. Nott. delle sante Vergini ). Perché ora sei triste, o anima mia, perché su di me gemi? Pensi che troverai anche tu in te un luogo per il Signore? E quale luogo vi è mai in noi adatto a questa gloria, capace di questa maestà? Oh, potessi adorare almeno nel luogo dove si posarono i suoi piedi! Chi mi darà di poter baciare almeno le impronte di qualche anima che il Signore abbia scelto a sua eredità? Tuttavia se egli si degna di infondere anche nella mia anima l’unzione della sua misericordia, e così stenderla come una tenda, la quale appunto quando viene unta si dilata, perché anch’io possa dire: Ho corso nella via dei tuoi comandamenti, poiché hai dilatato il mio cuore ( Sal 119,32 ), potrò forse anch’io indicare in me stesso, anche se non un cenacolo grande e tappezzato dove egli possa mettersi a tavola con i suoi discepoli, almeno un posticino dove possa reclinare il capo. Guardo da lontano quelli veramente beati dei quali è detto: Abiterà in loro e con loro camminerò ( 2 Cor 6,16 ). VI. Di che cosa deve essere priva la sposa, di che cosa abbondare per diventare cielo di Dio 10. O quanta larghezza possiede quell’anima, quale prerogativa di meriti, quale divina presenza in se stessa è trovata degna di ricevere e capace di comprendere! Quale anima è quella che possiede spaziosi ambulacri degni della maestà di Dio? Non certamente quella che è intricata in cause giudiziarie o in affari secolari, o tanto meno quella dedita al ventre o alla lussuria, o avida di spettacoli, bramosa di dominio o tronfia per il potere. Bisogna infatti che l’anima, per diventare cielo e abitazione di Dio, sia innanzitutto vuota di tutte queste cose. Diversamente, come potrebbe stare attenta a Dio presente? E bisogna eliminare in modo assoluto anche l’odio, l’invidia e il rancore, perché la sapienza non entra in un’anima che opera il male ( Sap 1,4 ). È poi necessario che essa cresca e si dilati affinché possa contenere Dio. Ora la sua larghezza è in proporzione della sua dilezione, come dice l’Apostolo: Dilatatevi nella carità ( 2 Cor 6,13 ). Infatti, per quanto l’anima in quanto spirito non abbia affatto quantità, tuttavia la grazia le conferisce ciò che non le dà la natura. Cresce infatti e si estende, ma spiritualmente; cresce non nella sostanza, ma nella virtù; cresce anche nella gloria; cresce, infine, e progredisce fino a formare l’uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo; cresce anche come tempio santo del Signore. La quantità, dunque, di ciascuna anima si valuta dal grado di carità che possiede, in maniera tale, per esempio, che è grande quando ha una grande carità, piccola quando ne ha poca e se non ne ha affatto è nulla, come dice san Paolo: Se non ho la carità non sono niente ( 1 Cor 13,12 ). Se poi avrà cominciato ad averne un pochino, tanto da cercare di amare quelli che l’amano e salutare almeno i propri fratelli e coloro che la salutano, non dirò più che quell’anima sia nulla, dal momento che possiede per lo meno la carità sociale in ragione del dare e del ricevere. Tuttavia, secondo la parola del Signore, che cosa una tale anima fa di più dei pagani? E perciò la considererei né ampia, né grande ma del tutto angusta e povera un’anima che possieda una carità così scarsa. 11. Ma se cresce e progredisce in modo che, oltrepassando i limiti di questo amore angusto e interessato, con tutta libertà di spirito arriverà ai vasti confini di una gratuita bontà, in quanto cerchi di estendersi, mediante un certo grembo di buona volontà, a tutto il prossimo, amando tutti e ciascuno come se stessa, si potrà forse ancora dire di lei: che fai di più? Si fa infatti così ampia perché ha un grembo di carità così ampio da abbracciare tutti, anche quelli che non sa essere a lei uniti da alcun legame carnale, senza essere mossa dalla speranza di venir ricambiata da alcun beneficio, da nessun contraccambio, senza essere costretta da nessun debito, tranne quello di cui è detto: Non abbiate debito verso alcuno, se non quello della mutua dilezione ( Rm 13,8 ). Ma se riuscirai a sottomettere tutto al regno della carità, e a far occupare tutto fino agli estremi confini da questo pio invasore, in modo che non pensi di chiudere le viscere della pietà neppure ai nemici, ma farai del bene anche a coloro che ti odiano e pregherai per quelli che ti perseguitano e ti calunniano e studierai di essere in pace con coloro che odiano la pace, allora veramente l’ampiezza dell’anima tua sarà come l’ampiezza del cielo, la sua altezza pari alla sua larghezza, e la sua bellezza simile alla sua bellezza, e si adempirà in essa quanto è detto: Distende il cielo come una tenda ( Sal 104,2 ); e in questo cielo di meravigliosa larghezza, altezza e bellezza, non solo si degna di abitare, ma ampiamente passeggia il Sommo e Immenso e Glorioso. VII. In questo cielo ci sono i cieli; quali sono. Piccolezza e grandezza della sposa 12. Vedi quali cieli ha in sé la Chiesa, essendo essa stessa, nella sua universalità, un immenso cielo, disteso da mare a mare e dal fiume fino ai confini della terra. Vedi anche per conseguenza a che cosa, in questo, la puoi paragonare, se ricordi quanto è stato poco fa menzionato come esemplare, cioè il cielo del cielo e i cieli dei cieli. Dunque, sull’esempio di quella che lassù è madre nostra, anche questa, che è ancora pellegrina sulla terra, ha i suoi cieli, vale a dire uomini spirituali, celebri per vita e fama, puri nella fede, fermi nella speranza, grandi nella carità, attenti alla contemplazione. Costoro, diffondendo come salutare pioggia la parola, tuonano con le ammonizioni, risplendono con i miracoli. Questi narrano la gloria di Dio, e distesi come tende sopra tutta la terra mostrano la legge della vita e della disciplina scritta in se stessi dal dito di Dio per dare al suo popolo la scienza della salvezza. Mostrano anche il Vangelo della pace, perché sono tende di Salomone. 13. Riconosci ormai in queste tende l’immagine di quelle cose superne che sono state descritte poco fa a proposito dell’ornamento dello Sposo. Riconosci similmente la regina che sta alla sua destra adorna di simili ornamenti, non però uguali. Poiché se questa fruisce fin dal luogo del suo pellegrinaggio e poi nel giorno della sua potenza negli splendori dei santi, di una non piccola porzione di splendore e bellezza, lo Sposo è coronato in modo differente di integrità e di consumata gloria dei beati. Anche se diciamo che la sposa è perfetta e beata, lo è solo in parte. È infatti in parte anche tabernacolo di Cedar; bella tuttavia, sia per quella parte di lei che regna già beata, sia anche a motivo degli uomini illustri che, anche in questa sua notte, con la loro sapienza e le loro virtù, formano il suo ornamento, come un cielo adorno di stelle. Perciò il Profeta: I saggi, dice, risplenderanno come lo splendore del firmamento, e coloro che avranno indotto molti alla giustizia, saranno come stelle per sempre ( Dn 12,3 ). 14. O umiltà! O sublimità! Tenda di Cedar e santuario di Dio; abitazione terrena e palazzo celeste; casa di fango e aula regale; corpo di morte e tempio della luce; oggetto infine di disprezzo da parte dei superbi e sposa di Cristo. È scura ma bella, o figlie di Gerusalemme: e sebbene scolorita dalla fatica e dal dolore del lungo esilio, è tuttavia adorna di celeste bellezza, ornata dalle tende di Salomone. Se non vi piace perché scura, ammirate la sua bellezza; se disprezzate la sua umiltà, contemplate la sua sublimità. Questo è stato disposto con tanta prudenza e sapienza, con discrezione e convenienza, che cioè nella sposa fossero associate questa bassezza e questa sublimità, secondo il tempo e con disposizione tale che, tra le vicissitudini di questo mondo, la sublimità sostenesse l’umile, perché non venisse meno nelle avversità, e l’umiltà tenesse a freno il sublime, perché evitasse la vanità nella prosperità. Belle veramente entrambe le cose, che pur essendo contrarie, servono ugualmente al bene della sposa e contribuiscono alla sua salvezza. 15. Questo per quanto riguarda la somiglianza che sembra intercorrere tra la sposa e le tende di Salomone. Resta da spiegare quell’altro senso che si può dare alle medesime parole e che ho accennato in principio, che cioè tutta la similitudine sia da riferirsi al fatto di essere chiamata scura, e non voglio venir meno alla promessa di spiegarvi anche questo. Ma lo rimettiamo all’inizio di un altro sermone, sia perché questo è già abbastanza lungo, sia anche perché voi abbiate il tempo, come al solito, di pregare perché la grazia ci accompagni nell’investigare le cose che tornano a lode e gloria dello Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXVII I. Alle pelli di quale Salomone è paragonata la bellezza della sposa 1. Dopo aver accompagnato con i dovuti uffici di umanità l’amico che torna alla patria, ritorno, fratelli, al mio compito di edificazione che avevo interrotto. È fuori luogo infatti piangere a lungo uno che è nella gioia, e inopportuno per chi siede a tavola mandare giù molte lacrime. E anche se noi piangiamo per il nostro dolore, non dobbiamo però esagerare, perché non sembri che più che lui amiamo i comodi che ci venivano da lui. Temperi dunque il gaudio del nostro caro la mestizia dei desolati, e ci renda più tollerabile il dolore della sua assenza il pensiero che egli è con Dio. Con l’aiuto delle vostre preghiere intendo ora far vedere quello che, a mio parere, sta sotto quelle tende che sono state addotte come esempio di bellezza per la sposa. Abbiamo toccato questo argomento, come ben ricordate, ma non abbiamo discusso e dichiarato come mai la sposa sia detta scura come i tabernacoli di Cedar. E come è detta bella come le tende di Salomone, quasi che Salomone, in tutta la sua gloria abbia avuto qualcosa di degno della bellezza della sposa e del suo glorioso ornamento. Se dicessimo che queste tende, come anche i tabernacoli di Cedar, non stanno a indicare la bellezza della sposa ma piuttosto la sua oscurità, questo senso potrebbe andare, né mancherebbero ragioni per provarne la congruenza, come del resto abbiamo fatto. Ma se paragoniamo lo splendore della sposa alla bellezza di queste tende, allora ci occorre l’aiuto di colui alla porta del quale voi bussate nella preghiera, perché possa aprirci come si deve il senso di questo mistero. Non vi è infatti cosa alcuna tra quelle che splendono agli occhi del corpo che, paragonata alla bellezza interiore di un’anima santa, non sembri vile e brutta. Che cosa può offrire la figura di questo mondo che passa, che possa uguagliare la bellezza di quell’anima che, spoglia del vecchio uomo terreno si è rivestita dello splendore di quello che è del cielo, adorna di ottimi costumi come di monili, più pura ed eccellente dell’etere, più splendida del sole? Non guardare, dunque, questo Salomone terreno, quando vuoi indagare di chi siano le tende alle quali la sposa si vanta di essere simile nella sua bellezza. 2. Dunque, che cosa vuol dire quando si esprime così: Sono bella come le tende di Salomone? ( Ct 1,4 ). Qualche cosa di grande e di mirabile, come io penso, se noi andiamo con la mente non a questo Salomone, ma a colui del quale è detto: Ecco, qui c’è uno più grande di Salomone ( Mt 12,42 ). Poiché questo pio Salomone è talmente Salomone che non solo è chiamato Pacifico, come significa il nome Salomone, ma è la stessa Pace, come dice san Paolo: Egli è la nostra pace ( Ef 2,4 ). Presso questo Salomone non dubito affatto che si possa trovare qualche cosa a cui possa essere paragonata la bellezza della sposa. Senti quello che il salmo dice in particolare delle sue tende: Tu stendi il cielo come una tenda ( Sal 104,2 ). Non certamente il primo Salomone, figlio di Davide, per quanto molto sapiente e potente, ha disteso il cielo come una tenda, ma piuttosto colui che non solo è sapiente, ma è la stessa Sapienza, questi lo ha disteso e lo ha creato. Di questo, infatti, e non di quell’altro è quella voce che dice: Quando ( l’eterno Padre ) fissava i cieli io ero là ( Pr 8,27 ). Era presente senza dubbio con la sua virtù e con la sua sapienza. E non pensare che assistesse ozioso come semplice spettatore, per il fatto che dice: « Io ero là » e non « preparavo ». Guarda un poco più in là e troverai che soggiunge che era con lui come architetto ( Pr 8,30 ). E infine dice: Tutto quello che il Padre fa, anche il figlio lo fa ( Gv 5,19 ). Anch’egli, dunque, stende il cielo come una tenda. Bellissima tenda che, coprendo tutta la terra come un immenso padiglione, rallegra gli occhi degli uomini con lo spettacolo del sole, della luna e della mirabile varietà degli astri. Che vi è di più bello di questa tenda? Che vi è di più splendido che il cielo? E tuttavia neppure esso è da paragonare minimamente alla gloria e alla bellezza della sposa, per il fatto che anch’esso passa con la sua figura, che è corporea e soggetta ai sensi del corpo. Le cose infatti che si vedono sono temporali, quelle invece che non si vedono sono eterne ( 2 Cor 4,18 ). II. Chi sia il decoro della sposa al quale non è paragonabile neanche la bellezza del cielo 3. Ma vi è anche una certa bellezza razionale della sposa e una sua immagine spirituale, e questa è eterna, perché immagine dell’eternità. È suo decoro, per esempio, la carità, e la carità, come avete letto, non viene mai meno ( 1 Cor 13,8 ). È anche sua bellezza la giustizia: E la sua giustizia, è detto, rimane per sempre ( Sal 112,3 ). È anche la pazienza, della quale leggi che la pazienza dei poveri non sarà delusa per sempre ( Sal 9,19 ). Che cosa dire della povertà volontaria? E dell’umiltà? Non è forse promesso alla prima il regno eterno, e all’altra un’esaltazione ugualmente eterna? E lo stesso si dica del timore santo di Dio che dura nei secoli dei secoli. Così la prudenza, la temperanza, così la fortezza e tutte le altre virtù sono tutte perle nell’ornamento della sposa, fulgenti di eterno splendore. Eterno dico, perché essa è sede e fondamento dell’eternità. L’anima, infatti, non è luogo della vita eterna e beata se non mediante e attraverso le virtù. Onde il profeta dice a Dio che davvero è la vita beata: La giustizia e il diritto sono la base del suo trono ( Sal 89,15 ). E l’Apostolo dice che Cristo abita per la fede nei nostri cuori ( Ef 3,17 ). E i discepoli distesero le vesti sull’asinello sul quale doveva sedere il Signore, significando con ciò che il Salvatore non siede sulla nuda anima, che cioè non trovi rivestita della dottrina e dei costumi degli Apostoli. E per questo la Chiesa, che ha la promessa della felicità futura, ha cura nel frattempo di prepararsi e di ornarsi con un vestito dorato, circondandosi con la varietà delle grazie e delle virtù, per essere trovata degna e capace di ornarsi della pienezza della grazia. 4. Del resto a questa così bella varietà spirituale che, come primo indumento, fin da ora la Chiesa ha ricevuto nell’abito della sua santificazione, non trovo paragonabile in alcun modo per bellezza questo cielo visibile e corporeo, pur così splendido nel suo genere per la varietà, degli astri. Ma vi è un cielo dei cieli, del quale dice il Profeta: Cantate al Signore che ascende sopra il cielo del cielo a oriente ( Sal 68,33.34 ). E questo è il cielo intellettuale e spirituale; e colui che ha creato i cieli con sapienza, lo ha fatto e stabilito in eterno e abita in esso. E non pensare che la devozione della sposa resti al di qua di quel cielo nel quale sa che abita il diletto, perché dove è il suo tesoro, ivi è anche il suo cuore. Invidia coloro che sono presenti al volto verso il quale essa sospira, e si studia di conformarsi con la vita a coloro con i quali, per il momento, non può associarsi nella visione, esclamando con la condotta più che con le parole: Signore, amo la casa dove dimori e il luogo dove abita la tua gloria ( Sal 26,8 ). III. Il cielo del cielo: è la pelle di Salomone e in esso sono le pelli di Salomone 5. Questo è il cielo che non ritiene indegno di addurre come paragone. Un cielo disteso come una tenda, non attraverso spazi materiali ma per affetti del cuore; un cielo adorno di meravigliose e svariate opere del divino artefice. Vi sono poi divisioni, non di colori, ma di beatitudini. Poiché vi pose alcuni come Angeli, altri come Arcangeli, Virtù, Dominazioni, Principati, Potestà, altri Troni, Cherubini e Serafini. Così è composto questo cielo, così dipinta questa tenda. Questa è una delle tende del mio Salomone, e la principale in tutto l’ornamento della sua gloria. Questa grandiosa tenda contiene in sé molte altre tende, pure di Salomone, poiché ogni beato e santo che là si trova è una tenda di Salomone. Sono infatti benigni, distesi nella carità, e arrivano fino a noi, desiderosi di condividere senza gelosia la gloria che possiedono con noi, talmente che alcuni di essi non ricusano per questo di abitare fra noi, prendendosi premurosamente cura di noi, tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza. Per la qual cosa come si chiama cielo tutta quella moltitudine insieme raccolta di beati, e ai singoli appartiene quello che è detto: Distende il cielo come una tenda ( Sal 104,2 ). Credo che vediate ora quali e di quale Salomone siano quelle tende alle quali la sposa si gloria di essere paragonata. IV. La gloria della sposa, per la quale si paragona alla sommità del cielo e donde le derivi 6. Vedete ora la gloria di colei che si paragona al cielo, e a quel cielo che è tanto più glorioso quanto più divino. Né a torto prende per sé un paragone di là dove trae origine. Infatti se quanto al corpo che ha dalla terra si dice simile al tabernacolo di Cedar, perché non dovrebbe gloriarsi quanto all’anima che è dal cielo, di essere simile al cielo, soprattutto dal momento che la sua vita ne testimonia l’origine, la dignità della natura e della patria? A somiglianza degli angeli adora e rende culto a un solo Dio; ama Cristo sopra ogni cosa, al pari degli angeli, e questo in una carne di peccato e in un fragile corpo, cosa che non hanno gli angeli, infine anche gusta le cose che sono presso di loro, e non le cose terrene. Quale prova più evidente della sua origine celeste che mantenere l’innata somiglianza anche nella regione della dissomiglianza, potersi gloriare di una vita pura anche nell’esilio, e vivere una vita angelica in un corpo simile a quello delle bestie? Sono queste cose effetto della celeste potenza, non di quella terrena, e indicano, chiaramente che è di origine celeste l’anima, capace di queste cose. Sentilo ancora più chiaro: Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo Sposo ( Ap 21,2-3 ). E ancora: E udii una voce potente che usciva dal trono che diceva: ecco la dimora di Dio con gli uomini, Egli dimorerà tra di loro ( Ap 21,3 ). E perché? Credo che agisca così per scegliersi una sposa tra gli uomini. Grande cosa! Veniva alla sposa, e non veniva senza la sposa. Cercava una sposa, e la sposa era con lui. Erano forse due? Niente affatto. Una sola infatti, dice, è la mia colomba ( Ct 6,8 ). Ma come da diversi greggi di pecore vuile farne uno solo, perché vi sia un solo ovile e un solo pastore, così, avendo unita a sé come sposa fin dal principio la moltitudine degli angeli, piacque a lui di adunare dagli uomini una chiesa e unirla a quella che è dal cielo, perché vi sia una sola sposa e un solo Sposo. Dunque, unendosi con la terrena quella celeste diventa perfetta, non duplice, e riconosce come detto a sé: Una sola è la mia perfetta ( Ct 6,8 ). Unica pertanto la rende la conformità, essendo ora simili nella devozione, e poi pari nella gloria. 7. Abbiamo dunque entrambi dal cielo, lo Sposo Gesù e la sposa Gerusalemme. Ora di Gesù sappiamo che egli per mostrarsi, annientò se stesso, prendendo la forma di servo e apparendo come uomo. Ma la Chiesa in quale forma o figura, o in quale abito la vide scendere colui che la vide? Forse nella frequenza degli Angeli che vide scendere e salire sopra il Figlio dell’uomo? Ma diciamo meglio che abbia visto la sposa quando vide il Verbo incarnato, riconoscendo l’uno e l’altra in una sola carne. Quando infatti quel santo Emmanuele portò sulla terra il magistero della celeste disciplina, quando per mezzo di lui ci apparve una certa quale immagine visibile di quella superna Gerusalemme che è madre nostra e forma della sua bellezza espressa in Cristo, noi abbiamo intravisto nello Sposo la sposa, e ammirando un solo e medesimo Signore della gloria abbiamo visto in lui, lo Sposo decorato di corona, e la sposa adorna dei suoi monili. Egli stesso, pertanto, che è disceso è il medesimo che è asceso, sicché nessuno ascende in cielo se non chi è disceso dal cielo, il solo e medesimo Signore e Sposo nel capo, e la sposa nel corpo. Né invano fu visto sulla terra l’uomo, celeste che fece simili a sé e celesti moltissimi della terra, perché si avveri quanto si legge: Quale il celeste, tali anche i celesti ( 1 Cor 15,48 ). Da allora pertanto sulla terra si vive secondo il costume dei celesti, mentre a somiglianza di quella superna e beata creatura, anche questa, che è venuta dall’estremità della terra per udire la sapienza di Salomone, si unisce a lui; suo celeste Sposo, con casto amore, sebbene non ancora nella visione; come la prima, ma sposata per la fede, secondo che Dio aveva promesso per bocca del profeta: Ti farò mia sposa nella benevolenza e nell’amore, e ti fidanzerò con me nella fede ( Os 2,21-22 ). Perciò si sforza di conformarsi sempre maggiormente alla forma che è venuta dal cielo, imparando da essa a essere vereconda e sobria, pudica e santa, paziente e compassionevole, mite e umile di cuore. E perciò con tali costumi cerca in ogni modo di piacere, pur non vedendolo, a colui nel quale gli Angeli ambiscono di fissare lo sguardo, e mentre è animata da fervore evangelico, si dimostra con ciò concittadina dei santi e familiare di Dio, si mostra diletta, si mostra sposa. V. Essa, la sposa, è anche un cielo bellissimo nel quale inabita Dio 8. Io penso che ogni anima simile non sia soltanto celeste per l’origine, ma che si possa chiamare non senza ragione, per imitazione, cielo stesso. E allora dimostra chiaramente che trae origine dal cielo, quando al cielo è rivolta tutta la condotta della sua vita. È dunque un cielo una tale anima, ed ha per sole l’intelligenza, per luna la fede, per astri le virtù. O, in altro senso; è per lei sole lo zelo per la giustizia, o il fervore della carità, e luna la continenza. Come infatti il chiarore della luna, come si dice, proviene dal sole, così senza la giustizia e la carità non ha alcun merito la continenza. Perciò dice il Saggio: O quanto è bella una casta generazione con gloria! ( Sap 4,1 ). Non mi dispiace, poi, di aver chiamato stelle le virtù, considerando quanto si addice la similitudine. Come infatti nella notte le stelle splendono e durante il giorno non si vedono, così la vera virtù non apparisce nella prosperità, e risplende invece nell’avversità. La prima cosa è richiesta dalla cautela, la seconda imposta dalla necessità. Dunque, la virtù è una stella, l’uomo adorno di virtù è un cielo. A meno che qualcuno, leggendo quello che Dio ha detto per bocca del Profeta: Il cielo è la mia sede ( Is 66,1 ), pensi che si tratti di questo cielo rotante e visibile, e non piuttosto quello che più apertamente intende la Scrittura dove dice: L’anima del giusto è sede della sapienza ( Pr 12,23 ). Ma chi dalla dottrina del Salvatore ha imparato che Dio è spirito, e che si deve adorare in spirito, non dubita che gli si debba assegnare anche una sede spirituale. E io lo faccio volentieri, non meno riguardo all’anima dell’uomo giusto che allo spirito angelico. Mi conferma in questo senso soprattutto quella fedele promessa: Io e il Padre, dice il Figlio, verremo a lui ( cioè all’uomo santo ), e faremo dimora presso di lui ( Gv 14,23 ). Penso che il Profeta non abbia voluto anche lui parlare di un cielo diverso: Ma tu abiti nel Santo, lode d’Israele ( Sal 22,4 ). E l’Apostolo dice chiaramente che Cristo abita per la fede nei nostri cuori ( Ef 3,17 ). 9. Né fa meraviglia se il Signore Gesù abita volentieri in questo cielo che non solo creò con una sola parola, ma si acquistò combattendo e redense con la sua morte. E perciò, anche dopo tanta fatica, dice, esprimendo piuttosto il suo vivo desiderio: Questo è il mio riposo per sempre, qui abiterò perché l’ho desiderato ( Sal 132,14 ). E beata colei alla quale viene detto: Vieni, o mia eletta, e porrò in te il mio trono ( resp. Uff. Nott. delle sante Vergini ). Perché ora sei triste, o anima mia, perché su di me gemi? Pensi che troverai anche tu in te un luogo per il Signore? E quale luogo vi è mai in noi adatto a questa gloria, capace di questa maestà? Oh, potessi adorare almeno nel luogo dove si posarono i suoi piedi! Chi mi darà di poter baciare almeno le impronte di qualche anima che il Signore abbia scelto a sua eredità? Tuttavia se egli si degna di infondere anche nella mia anima l’unzione della sua misericordia, e così stenderla come una tenda, la quale appunto quando viene unta si dilata, perché anch’io possa dire: Ho corso nella via dei tuoi comandamenti, poiché hai dilatato il mio cuore ( Sal 119,32 ), potrò forse anch’io indicare in me stesso, anche se non un cenacolo grande e tappezzato dove egli possa mettersi a tavola con i suoi discepoli, almeno un posticino dove possa reclinare il capo. Guardo da lontano quelli veramente beati dei quali è detto: Abiterà in loro e con loro camminerò ( 2 Cor 6,16 ). VI. Di che cosa deve essere priva la sposa, di che cosa abbondare per diventare cielo di Dio 10. O quanta larghezza possiede quell’anima, quale prerogativa di meriti, quale divina presenza in se stessa è trovata degna di ricevere e capace di comprendere! Quale anima è quella che possiede spaziosi ambulacri degni della maestà di Dio? Non certamente quella che è intricata in cause giudiziarie o in affari secolari, o tanto meno quella dedita al ventre o alla lussuria, o avida di spettacoli, bramosa di dominio o tronfia per il potere. Bisogna infatti che l’anima, per diventare cielo e abitazione di Dio, sia innanzitutto vuota di tutte queste cose. Diversamente, come potrebbe stare attenta a Dio presente? E bisogna eliminare in modo assoluto anche l’odio, l’invidia e il rancore, perché la sapienza non entra in un’anima che opera il male ( Sap 1,4 ). È poi necessario che essa cresca e si dilati affinché possa contenere Dio. Ora la sua larghezza è in proporzione della sua dilezione, come dice l’Apostolo: Dilatatevi nella carità ( 2 Cor 6,13 ). Infatti, per quanto l’anima in quanto spirito non abbia affatto quantità, tuttavia la grazia le conferisce ciò che non le dà la natura. Cresce infatti e si estende, ma spiritualmente; cresce non nella sostanza, ma nella virtù; cresce anche nella gloria; cresce, infine, e progredisce fino a formare l’uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo; cresce anche come tempio santo del Signore. La quantità, dunque, di ciascuna anima si valuta dal grado di carità che possiede, in maniera tale, per esempio, che è grande quando ha una grande carità, piccola quando ne ha poca e se non ne ha affatto è nulla, come dice san Paolo: Se non ho la carità non sono niente ( 1 Cor 13,12 ). Se poi avrà cominciato ad averne un pochino, tanto da cercare di amare quelli che l’amano e salutare almeno i propri fratelli e coloro che la salutano, non dirò più che quell’anima sia nulla, dal momento che possiede per lo meno la carità sociale in ragione del dare e del ricevere. Tuttavia, secondo la parola del Signore, che cosa una tale anima fa di più dei pagani? E perciò la considererei né ampia, né grande ma del tutto angusta e povera un’anima che possieda una carità così scarsa. 11. Ma se cresce e progredisce in modo che, oltrepassando i limiti di questo amore angusto e interessato, con tutta libertà di spirito arriverà ai vasti confini di una gratuita bontà, in quanto cerchi di estendersi, mediante un certo grembo di buona volontà, a tutto il prossimo, amando tutti e ciascuno come se stessa, si potrà forse ancora dire di lei: che fai di più? Si fa infatti così ampia perché ha un grembo di carità così ampio da abbracciare tutti, anche quelli che non sa essere a lei uniti da alcun legame carnale, senza essere mossa dalla speranza di venir ricambiata da alcun beneficio, da nessun contraccambio, senza essere costretta da nessun debito, tranne quello di cui è detto: Non abbiate debito verso alcuno, se non quello della mutua dilezione ( Rm 13,8 ). Ma se riuscirai a sottomettere tutto al regno della carità, e a far occupare tutto fino agli estremi confini da questo pio invasore, in modo che non pensi di chiudere le viscere della pietà neppure ai nemici, ma farai del bene anche a coloro che ti odiano e pregherai per quelli che ti perseguitano e ti calunniano e studierai di essere in pace con coloro che odiano la pace, allora veramente l’ampiezza dell’anima tua sarà come l’ampiezza del cielo, la sua altezza pari alla sua larghezza, e la sua bellezza simile alla sua bellezza, e si adempirà in essa quanto è detto: Distende il cielo come una tenda ( Sal 104,2 ); e in questo cielo di meravigliosa larghezza, altezza e bellezza, non solo si degna di abitare, ma ampiamente passeggia il Sommo e Immenso e Glorioso. VII. In questo cielo ci sono i cieli; quali sono. Piccolezza e grandezza della sposa 12. Vedi quali cieli ha in sé la Chiesa, essendo essa stessa, nella sua universalità, un immenso cielo, disteso da mare a mare e dal fiume fino ai confini della terra. Vedi anche per conseguenza a che cosa, in questo, la puoi paragonare, se ricordi quanto è stato poco fa menzionato come esemplare, cioè il cielo del cielo e i cieli dei cieli. Dunque, sull’esempio di quella che lassù è madre nostra, anche questa, che è ancora pellegrina sulla terra, ha i suoi cieli, vale a dire uomini spirituali, celebri per vita e fama, puri nella fede, fermi nella speranza, grandi nella carità, attenti alla contemplazione. Costoro, diffondendo come salutare pioggia la parola, tuonano con le ammonizioni, risplendono con i miracoli. Questi narrano la gloria di Dio, e distesi come tende sopra tutta la terra mostrano la legge della vita e della disciplina scritta in se stessi dal dito di Dio per dare al suo popolo la scienza della salvezza. Mostrano anche il Vangelo della pace, perché sono tende di Salomone. 13. Riconosci ormai in queste tende l’immagine di quelle cose superne che sono state descritte poco fa a proposito dell’ornamento dello Sposo. Riconosci similmente la regina che sta alla sua destra adorna di simili ornamenti, non però uguali. Poiché se questa fruisce fin dal luogo del suo pellegrinaggio e poi nel giorno della sua potenza negli splendori dei santi, di una non piccola porzione di splendore e bellezza, lo Sposo è coronato in modo differente di integrità e di consumata gloria dei beati. Anche se diciamo che la sposa è perfetta e beata, lo è solo in parte. È infatti in parte anche tabernacolo di Cedar; bella tuttavia, sia per quella parte di lei che regna già beata, sia anche a motivo degli uomini illustri che, anche in questa sua notte, con la loro sapienza e le loro virtù, formano il suo ornamento, come un cielo adorno di stelle. Perciò il Profeta: I saggi, dice, risplenderanno come lo splendore del firmamento, e coloro che avranno indotto molti alla giustizia, saranno come stelle per sempre ( Dn 12,3 ). 14. O umiltà! O sublimità! Tenda di Cedar e santuario di Dio; abitazione terrena e palazzo celeste; casa di fango e aula regale; corpo di morte e tempio della luce; oggetto infine di disprezzo da parte dei superbi e sposa di Cristo. È scura ma bella, o figlie di Gerusalemme: e sebbene scolorita dalla fatica e dal dolore del lungo esilio, è tuttavia adorna di celeste bellezza, ornata dalle tende di Salomone. Se non vi piace perché scura, ammirate la sua bellezza; se disprezzate la sua umiltà, contemplate la sua sublimità. Questo è stato disposto con tanta prudenza e sapienza, con discrezione e convenienza, che cioè nella sposa fossero associate questa bassezza e questa sublimità, secondo il tempo e con disposizione tale che, tra le vicissitudini di questo mondo, la sublimità sostenesse l’umile, perché non venisse meno nelle avversità, e l’umiltà tenesse a freno il sublime, perché evitasse la vanità nella prosperità. Belle veramente entrambe le cose, che pur essendo contrarie, servono ugualmente al bene della sposa e contribuiscono alla sua salvezza. 15. Questo per quanto riguarda la somiglianza che sembra intercorrere tra la sposa e le tende di Salomone. Resta da spiegare quell’altro senso che si può dare alle medesime parole e che ho accennato in principio, che cioè tutta la similitudine sia da riferirsi al fatto di essere chiamata scura, e non voglio venir meno alla promessa di spiegarvi anche questo. Ma lo rimettiamo all’inizio di un altro sermone, sia perché questo è già abbastanza lungo, sia anche perché voi abbiate il tempo, come al solito, di pregare perché la grazia ci accompagni nell’investigare le cose che tornano a lode e gloria dello Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXVIII I. Che cosa significa che la Sposa è brezza e che cosa significa l’oscurità di questa pelle 1. Credo che ricordiate a quali tende e di quale Salomone venga, secondo me, paragonata la sposa, se tuttavia questa similitudine viene addotta come una dimostrazione e una lode della sua bellezza. Ma se si pensa che questa somiglianza si riferisca piuttosto al fatto di essere scura, si devono allora ricordare quelle tende con le quali Salomone anticamente ricoperse il tabernacolo. Erano senza dubbio nere, essendo tutto il giorno esposte al sole e alle intemperie. E questo non per nulla, ma affinché gli ornamenti che erano riposti all’interno, fossero mantenuti più belli. Con questo esempio la sposa non nega di essere scura, ma se ne scusa; né si vergogna di presentarsi con un abito dimesso quando sia informato dalla carità, approvato dalla verità. Infine, chi è infermo, che essa non lo sia con lui? Chi è scandalizzato, senza che essa bruci? Si è rivestita del neo della compassione per alleviare e sanare negli altri il morbo della sofferenza; si fa scura per zelo di candore, per lucro di bellezza. 2. Dona a molti il candore il fatto che uno solo sia scuro, non in quanto diventi, tale per la colpa, ma perché applica la cura. Conviene, è detto, che muoia un solo uomo per il popolo, e non perisca la nazione intera ( Gv 11,50 ): conviene che uno per tutti diventi scuro per la somiglianza della carne del peccato, e non venga condannato tutto il popolo a causa dell’oscurità del peccato, che lo splendore e l’immagine della sostanza di Dio venga obnubilata nella forma dello schiavo, il candore della vita eterna si oscuri nella carne per purgare la carne, colui che è il più bello tra i figli degli uomini, per illuminare questi figli degli uomini si oscuri nella passione, subisca la vergogna della croce e il pallore della morte: in tutto non vi sia in lui né bellezza, né splendore al fine di acquistarsi come sposa la Chiesa bella e leggiadra, senza macchia né ruga. Riconosco la tenda di Salomone, anzi abbraccio lo stesso Salomone nella sua pelle scura. Anche Salomone è scuro, ma nella pelle, nero al di fuori, nella pelle, non al di dentro. Del resto tutta la sua gloria è al di dentro ( Sal 45,15 ). Al di dentro il candore della divinità, l’ornamento delle virtù, lo splendore della grazia, la purità dell’innocenza; ma queste cose sono ricoperte dallo spregevole colore dell’infermità, e il suo volto è come nascosto e disprezzato mentre egli viene provato in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Riconosco la forma della debole natura, riconosco quelle tuniche di pelle date come abito ai nostri progenitori dopo il peccato. In una parola, oscurò se stesso prendendo la forma di schiavo e facendosi simile agli uomini, e apparendo in forma umana. Riconosco sotto la pelle di capretto, che significa il peccato, e la mano che non fece peccato, e il collo per il quale non passò pensiero di male; perciò non fu trovato inganno nella sua bocca. So che è per natura mansueto, mite e umile di cuore, piacevole all’aspetto, soave di spirito: e davvero unto con olio di letizia tra i suoi eguali. Donde gli vengono gli ispidi peli che lo fanno somigliare a Esaù? Di chi è questa rugosa e tetra immagine e questi peli? Sono miei: le mani pelose infatti esprimono la similitudine del peccatore. Riconosco questi miei peli: e nella mia pelle vedrò il Dio mio Salvatore. 3. Non è stata tuttavia Rebecca, ma Maria che lo ha rivestito così, e tanto più santa fu colei che lo partorì, tanto fu più degno di ricevere la benedizione, e bene nel mio abito, perché è la mia benedizione che viene chiesta, e la mia eredità. Aveva difatti udito: Chiedi a me e ti darò in possesso le genti, e in dominio i confini della terra ( Sal 2,6 ). Ti darò, dice, la tua eredità e il tuo dominio. Come gliela darai se è sua? E come lo inviti a chiedere una cosa che è sua? E come è sua se è necessario che la chieda? Chiede dunque per me colui che per questo ha rivestito la mia forma, per ricevere quanto mi spetta. Perché il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui ( Is 53,5 ) e il Signore ha posto su di lui l’iniquità di noi tutti ( Is 53,6 ), come, dice il Profeta: Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, come dice l’Apostolo, per diventare misericordioso ( Eb 2,17 ). II. Alla vista e all’aspetto Cristo è ritenuto scuro, ma all’udito e alla voce bellissimo; l’udito e la vista Per questo la voce è sì di Giacobbe, ma le mani sono di Esaù ( Gen 27,22 ). Suo è quello che si sente da lui; quello che in lui si vede è nostro. Quello che dice è spirito e vita; quel che appare è mortale e morte. Altro è quello che si vede, altro quello che si crede. Il senso lo apprende nero, la fede lo dimostra candido, e bello. È scuro agli occhi degli insipienti, mentre per le menti dei fedeli è molto bello. Scuro, ma bello; scuro nel pensiero di Erode, bello nella confessione del ladrone, per la fede del centurione. 4. Come lo aveva trovato bello colui che esclamava: Veramente quest’uomo era figlio di Dio! ( Mc 15,39 ). Ma è da notare in che cosa lo abbia visto così. Se infatti avesse badato all’apparenza, come gli sarebbe apparso bello, come avrebbe visto in lui il Figlio di Dio? Come appariva agli occhi di chi lo guardava se non deforme e scuro, quando, stese le mani sulla croce, muoveva al riso i maligni e al pianto i fedeli? E muoveva solo al riso, lui che solo poteva suscitare il terrore, solo meritava di essere onorato. Da che cosa capì dunque la bellezza del crocifisso, da che cosa dedusse che era Figlio di Dio, mentre era considerato come un malfattore? A questa nostra domanda non è possibile rispondere; né necessario: il diligente evangelista, infatti, non ha tralasciato di notarlo. Dice pertanto: Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo disse: « Veramente quest’uomo era Figlio di Dio » ( Mc 15,39 ). Credette dunque sentendo la voce, dalla voce credette al Figlio di Dio, non dalla faccia. Era forse infatti una delle sue pecore, delle quali dice: Le mie pecore ascoltano la mia voce ( Gv 10,27 ). 5. Toccò all’udito riconoscere ciò che non riconobbe la vista. All’occhio appariva infermo, ripugnante, miserabile, condannato a una morte ignominiosa: all’orecchio si rivelava Figlio di Dio, bello, ma non agli orecchi dei Giudei, perché essi erano incirconcisi di orecchi. Giustamente Pietro tagliò l’orecchio al servo per aprire la, via alla verità, e così la verità lo liberasse, cioè lo facesse liberto. Quel centurione era incirconciso, ma non di orecchi, egli che al solo udire il grido di Gesù morente riconobbe il Signore della maestà, pur tra tanti indizi di debolezza. E perciò non disprezzò ciò che vide, perché credette in ciò che non vide. E non credette per ciò che vide, ma sicuramente per quello che udì, perché la fede viene dall’ascolto ( Rm 10,17 ). Veramente sarebbe stata cosa degna che la verità entrasse nell’anima attraverso la finestra degli occhi superiori; ma questo, o anima, ci viene riservato per quando, in seguito, vedremo faccia a faccia. Ma ora entri il rimedio di dove è entrata la malattia, e la vita segua la medesima via che ha percorso la morte, la luce segua le tracce delle tenebre, e l’antidoto venga di dove è venuto il veleno del serpente, e risani l’occhio che è rimasto turbato, affinché, sereno, possa vedere colui che, turbato, non può vedere. L’orecchio, prima porta della morte, si apra per primo alla vita; l’udito che aveva impedito la vista la risani, poiché non comprenderemo se non crederemo. L’udito pertanto si riferisce al merito, la vista al premio. Perciò dice il Profeta: Fammi sentire gioia e letizia ( Sal 51,10 ), perché la ricompensa dell’ascolto è la beata visione, e merito della beata visione è il fedele ascolto. Ma Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio ( Mt 5,8 ). Bisogna pertanto purificare con la fede l’occhio perché possa vedere Dio, come sta scritto: purificandone i cuori con la fede ( At 15,9 ). 6. Frattanto dunque, fino a che l’Occhio non sia preparato si ecciti l’udito, si eserciti l’udito, accolga l’udito la verità. Felice colui del quale la Verità può attestare: All’udirmi subito mi ha obbedito ( Sal 18,45 ) Sarò degno di vedere se prima sarò trovato obbediente; vedrò con sicurezza colui al quale avrò prestato in precedenza l’ossequio della mia obbedienza. Beato chi può dire: Il Signore mi ha aperto l’orecchio, e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro ( Is 50,5 )! Qui hai l’espressione di una spontanea obbedienza e di un esempio di longanimità. Dove infatti non si contraddice si ha spontaneità; e chi non si tira indietro è perseverante. Due cose necessarie, perché Dio ama chi dona con gioia ( 2 Cor 9,7 ), e chi persevererà fino alla fine sarà salvo ( Mt 10,22 ). Si degni il Signore di aprire anche a me l’orecchio, sicché entri nel mio cuore la parola di verità che mi purifichi l’occhio e mi prepari alla beata visione, e possa dire anch’io a Dio: Tu porgi l’orecchio alla supplica del mio cuore preparato ( Sal 9,38 )! Possa udire anche io da Dio con tutti quelli che gli obbediscono: Anche voi siete mondi per la parola che vi ho annunziato ( Gv 15,3 ). Non tutti quelli che ascoltano sono mondati, ma quelli che obbediscono. Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica. Richiede un tale ascolto colui che dice: Parla, o Signore, perché il tuo servo ti ascolta ( 1 Re 3,10 ); e promette di ascoltare così colui che dice: Ascolterò che cosa mi dice Dio, il Signore ( Sal 85,9 ). III. Nel progresso dell’anima l’udito precede la vista 7. E puoi costatare che anche lo Spirito Santo, nel progresso spirituale dell’anima, tiene quest’ordine, cioè forma l’udito prima di alleviare la vista. Ascolta, dice, o figlia e vedi ( Sal 45,11 ). Perché fissi l’occhio? Prepara l’orecchio. Desideri vedere Cristo? Bisogna prima che tu ascolti lui, che senta parlare di lui, onde poter dire quando lo avrai veduto: Come abbiamo sentito, così abbiamo visto ( Sal 48,9 ). Lo splendore è immenso, e la tua vista angusta è impotente di fronte a esso. Riesci a percepirlo più con l’udito che con lo sguardo. Quando Dio gridava: Adamo, dove sei? ( Gen 3,9 ) io, ormai peccatore, non lo vedevo più, ma lo sentivo. Ma l’udito ridarà la vista se precederà con pietà, con vigilanza e con fede. La fede purificherà l’occhio che l’empietà aveva turbato, l’obbedienza riaprirà l’occhio che la disobbedienza aveva reso cieco. Infine: Dai tuoi decreti ricevo intelligenza ( Sal 119,104 ), perché l’osservanza dei comandamenti restituisce l’intelligenza che era stata tolta dalla trasgressione. Nota ancora come nel santo vecchio Isacco, tra tutti i sensi gli era rimasto in vecchiaia sano l’udito. Si oscurano gli occhi del Patriarca, il palato non distingue più, la mano s’inganna, ma non s’inganna l’udito. Che, meraviglia se l’orecchio percepisce la verità, dal momento che la fede viene dall’ascolto della parola di Dio, e la parola di Dio è la verità? La voce, dice Isacco, è quella di Giacobbe: nulla, di più vero; ma le mani sono quelle di Esaù ( Gen 27,22 ): nulla di più falso. Ti inganni: la somiglianza delle mani ti ha trattò in inganno. E neppure nel gusto c’è la verità, anche se ha trovato il cibo delizioso; ha infatti creduto cacciagione quella che era invece la carne di domestici capretti. E molto meno ancora la verità viene dall’occhio che era cieco. Non c’è verità nell’occhio, non c’è sapienza. Guai a voi che siete sapienti ai vostri occhi ( Is 5,21 ), dice la Scrittura. È forse buona la sapienza che viene maledetta? Quella è sapienza del mondo, che è stoltezza presso Dio. 8. La buona e vera sapienza ha origine da luoghi occulti, come dice bene il santo Giobbe ( Gb 28,13 ). Perché la cerchi fuori nei sensi del corpo? Nel palato c’è il sapore, la sapienza è nel cuore. E non cercare la sapienza con l’occhio carnale, perché la carne e il sangue non la rivelano, ma lo spirito. Non è nel gusto della bocca: non si trova infatti nella terra di coloro che vivono nelle delizie. Non nel tatto della mano, perché dice il santo: Non ho baciato con la bocca la mia mano, il che sarebbe grandissima iniquità e come rinnegare Dio ( Gb 31,27-28 ). Questo avviene, penso io, quando il dono di Dio che è la sapienza, viene attribuito non a Dio, ma ai meriti delle proprie azioni. Isacco fu sapiente, tuttavia sbagliò nei sensi. Solo nell’udito, che percepisce la parola, c’è la verità. Giustamente viene vietato alla donna che pensa secondo la carne di toccare la carne, risorta del Verbo, in quanto dava più importanza all’occhio che alla profezia, cioè più al senso che non alla parola di Dio. Non aveva infatti creduto che sarebbe risorto colui che aveva veduto morto, pur avendolo egli stesso promesso. E infine il suo occhio non riposò fino a che non fu soddisfatto dalla vista di lui, perché non c’era consolazione della fede, né fiducia nella promessa di Dio. Non è forse vero che il cielo e la terra, e tutto quello che di carnale l’occhio può scorgere, passeranno e periranno prima che passi un solo iota o un solo apice di tutto quello che ha detto Dio? Eppure la Maddalena cessò di piangere solo quando vide Gesù con gli occhi e non aveva voluto consolarsi nella parola del Signore, facendo più conto dell’esperienza che non della fede. Ma l’esperienza può ingannare. 9. Viene dunque rimandata alla conoscenza più sicura che viene dalla fede; poiché colei che apprende ciò che il senso ignora, fa una esperienza fallace. Non toccarmi ( Gv 20,17 ) le dice, vale a dire: non fidarti di questo ingannevole senso; appoggiati sulla parola, abituati alla fede. IV. La fede trascende la ragione, il senso e l’esperienza; come « toccare » il Cristo La fede non può sbagliare, la fede che abbraccia le cose invisibili non sente la povertà del senso e va oltre anche i confini dell’umana ragione, il corso della natura ei termini dell’esperienza. Perché interrogare l’occhio per una realtà a cui esso non arriva? E perché cercare dalla mano ciò che è al di sopra di essa? È troppo scarsa l’informazione che l’uno e l’altra ti possono dare. La fede ti parli di me, essa che può farlo senza sminuire la mia maestà. Impara a cercare la certezza, e a seguire la sicurezza in quello che essa ti suggerisce. Non mi toccare, perché non sono ancora salito al Padre mio ( Gv 20,17 ). Quasi che una volta asceso al Padre voglia o possa essere toccato da lei. E lo potrà veramente, ma con l’affetto, non con la mano; con il desiderio, non con gli occhi; con la fede, non con i sensi. Perché, dice, cerchi tu adesso di toccarmi, tu che pensi di comprendere la gloria della risurrezione tramite i sensi del corpo? Non sai che ancora durante la mia vita mortale, gli occhi dei discepoli non furono capaci di sostenere per un momento la gloria del mio corpo trasfigurato, che pure avrebbe dovuto morire? Io mi adatto, è vero, ai tuoi sensi, mostrandomi in forma servile, per farmi riconoscere, come d’abitudine. Ma la mia gloria è divenuta stupenda per te, troppo alta e non la puoi comprendere. Differisci dunque il giudizio, sospendi la sentenza, e non affidare la definizione di una cosa così grande ai sensi, ma riservala alla fede. Questa darà una definizione più degna, più certa, avendo una cognizione più piena. Questa comprende, con il suo mistico e profondo seno quale sia la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità. Ciò che occhio non vide, né orecchio udì, né cuore umano comprese, questa lo porta in sé quasi racchiuso in un involucro, e lo conserva sigillato. 10. Sarà pertanto degna di toccarmi colei che mi considererà seduto alla destra del Padre, non più ormai in umili sembianze, sempre nella medesima carne, ma in altro splendore. Perché vuoi toccare me deforme? Aspetta a toccarmi glorioso. Poiché io che sono ora deforme, sarò allora bello: deforme al tatto, deforme all’aspetto, deforme infine, per te che sei deforme, che aderisci più ai sensi che alla fede. Sii bella, e allora toccami pure, sii animata dalla fede e sarai bella, e bella tu toccherai più degnamente colui che è bello e lo farai con maggiore gaudio. Mi toccherai con la mano della fede, con il dito del desiderio, con l’abbraccio della devozione, mi toccherai con l’occhio della mente. Ma sarò ancora scuro? Affatto. Il tuo diletto è candido e rubicondo. Bello in verità circondato da fiori di rose e da gigli delle valli cioè dai cori dei Martiri e delle Vergini; e stando in mezzo a essi, sono simile a entrambi, essendo anch’io vergine e martire. E come non sarei candido come i candidi cori delle Vergini io vergine, figlio della Vergine, sposo della Vergine? Come non sarei simile ai rosei cori dei Martiri, io che sono la causa, la forza, il frutto e la forma del martirio? Tale e in tal modo toccami, e dì pure: Il mio diletto è candido e vermiglio, riconoscibile tra mille ( Ct 5,10 ). Migliaia e migliaia con il diletto, e milioni intorno al diletto, ma nessuno simile al diletto. C’è forse da temere che cercando colui che ami tra tanti, ti sbagli confondendolo con un altro? Non avrai affatto da esitare nella scelta. Facilmente scorgerai lui che è riconoscibile tra mille, superiore a tutti. Dirai: È questo, splendido nella sua veste, che avanza nella pienezza della sua forza ( Is 63,1 ). Non dunque in pelle oscura, come si presentò fino a ora agli occhi di quanti lo perseguitavano, per cui era da loro disprezzato, o anche agli occhi degli amici, perché lo riconoscessero redivivo. Non ti verrà ormai più incontro in pelle oscura, ma in veste candida, il più bello, non solo tra i figli degli uomini, ma anche tra gli stessi angeli. Perché mi vuoi ungere nel mio umile abito, nella forma di schiavo nell’apparenza spregevole? Toccami bello di aspetto, coronato di gloria e di onore, tremendo per la divina maestà, ma grazioso e placido per la mia innata serenità. V. La prudenza con cui la sposa intuisce la bellezza di Salomone sotto le pelli oscure; la triplice oscurità 11. È pertanto da notare la prudenza della sposa e la profondità delle sue espressioni, mentre sotto la figura delle tende di Salomone, cioè nella carne, ella scopre Dio, nella morte la vita, il sommo della gloria e dell’onore tra gli obbrobri, e sotto lo scuro abito del crocifisso intravede il candore dell’innocenza e lo splendore delle virtù: come quelle tende di Salomone, che pur essendo scure e spregevoli, conservano in sé gli ornamenti più preziosi e splendidi tra le ricchezze del re. A ragione non disprezza l’oscurità delle tende colui che ha scoperto la bellezza sotto di esse. E se alcuni l’hanno disprezzata, fu perché non conobbero questa bellezza. Se infatti l’avessero riconosciuta, non avrebbero mai crocifisso il Signore della gloria ( 1 Cor 2,8 ). Non la conobbe Erode, e perciò disprezzò Cristo; non lo conobbe la Sinagoga, la quale rinfacciando a lui l’oscurità della passione e dell’infermità disse: Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. Cristo, Re d’Israele, discenda dalla croce, e gli crederemo ( Mt 27,42 ). Ma lo conobbe il ladro dalla croce, pur vedendolo crocifisso, e ne confessò la purità dell’innocenza: Ma questi, disse, che male ha fatto? ( Lc 23,41 ). Nello stesso tempo ne proclamò pure la gloria della regale maestà dicendo: Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno ( Lc 23,42 ). Lo conobbe il centurione, che lo proclamò Figlio di Dio. Lo conosce la Chiesa che ne imita l’oscurità, per parteciparne la bellezza. Non si vergogna di apparire scura, per poter dire al suo diletto: Ricadono su di me gli oltraggi di chi ti insulta ( Sal 69,10 ). Ma scura, però, al di fuori, come le tende di Salomone, non al di dentro, perché questo mio Salomone non ha dentro nulla di oscuro. Del resto non dice: Sono scura come Salomone, ma come le tende di Salomone, perché solo superficiale è l’oscurità del vero Pacifico. L’oscurità del peccato è dentro, e prima che appaia allo sguardo macchia l’interno. Dal cuore, infatti, escono i cattivi pensieri, i furti, gli omicidi, gli adulteri, le bestemmie, e sono queste le cose che macchiano l’uomo ( Mt 15,19 ); ma non certamente il nostro Salomone. Queste cose, infatti, non si possono trovare affatto presso il vero Pacifico. Poiché deve essere senza peccato colui che toglie i peccati del mondo, colui che è stato trovato idoneo a riconciliare i peccatori, e per questo giustamente si attribuisce il nome di Salomone. 12. Ma c’è un’oscurità che proviene dal lamento della penitenza, quando si piangono i peccati. Questa forse non disdegna in me Salomone, se spontaneamente mi rivesto di tali, sentimenti, perché Dio non disprezza un cuore contrito e umiliato ( Sal 51,19 ). C’è anche l’oscurità della compassione, se condividi il dolore e la pena dei fratelli. Anche questa non viene rigettata dal nostro Pacifico, in quanto egli stesso l’ha rivestita con somma degnazione per noi, avendo, preso i nostri peccati nel suo corpo sulla croce. Vi è anche quella della persecuzione, che è anzi considerata come sommo ornamento, a condizione che sia sopportata per la giustizia e la verità. Perciò è detto: I discepoli se ne andavano dal Sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù ( At 5,41 ). E ancora: Beati coloro che soffrono persecuzione per giustizia ( Mt 5,10 ). Di questa penso che si glori soprattutto la Chiesa, felice di imitare in questo le tende del suo Sposo. Del resto le era stato promesso: Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi ( Gv 15,20 ). VI. Il sole l’ha abbronzata in quattro modi 13. Per questo aggiunge anche la sposa: Non state a guardare che sono bruna, poiché mi ha abbronzato il sole ( Ct 1,6 ). Vale a dire: Non meravigliatevi, quasi io fossi deforme per il fatto che, a causa dell’imperversare della persecuzione, mi vedete meno florida, meno brillante di gloria secondo il mondo. Perché mi rinfacciate la faccia scura, effetto della dura persecuzione, non di una cattiva condotta? Oppure chiama sole lo zelo per la giustizia di cui arde e del quale si arma contro i maligni, dicendo a Dio: Lo zelo della tua casa mi ha divorato ( Sal 69,10 ); e altrove: Mi divora lo zelo della tua casa, perché i miei nemici dimenticano le tue parole ( Sal 119,139 ); e ancora: M’ha preso lo sdegno contro gli empi che abbandonano la tua legge ( Sal 119,53 ); e di nuovo: Non odio forse, Signore, quelli che ti odiano e non detesto i tuoi nemici? ( Sal 139,21 ). Essa osserva anche con cautela quel detto del saggio: Hai figlie? non mostrare loro un volto troppo indulgente ( Sir 7,24 ), non mostri cioè il candore della serenità, ma la faccia scura della severità ai rilassati e ai fiacchi che fuggono la disciplina. Oppure, essere abbronzata dal sole sta a significare l’ardore della carità fraterna, piangere con chi piange e godere con chi gode, mostrarsi infermo con chi è infermo, bruciare di fronte agli scandali dei singoli. Ovvero ancora: sono stata abbronzata da Cristo, sole di giustizia, per amore del quale languisco. Questo languore in qualche modo toglie il colore, e fa venire meno l’anima presa dal desiderio; per questo dice: Mi ricordo di Dio e gemo, medito e viene meno il mio spirito ( Sal 77,4 ). Dunque l’ardore del desiderio, come un sole bruciante, rende scuro il corpo di colei che è pellegrina, mentre, sentendosi respinta nella sua brama di contemplare il volto glorioso dello Sposo, diventa impaziente, e la dilazione per lei che ama, un tormento. Chi di noi è così ardente di santo amore che il desiderio di vedere Cristo gli faccia venire a noia ogni colore della gloria e letizia presente, e glielo faccia deporre rivolgendosi a lui con quelle parole del Profeta: Non ho desiderato il giorno dell’uomo, tu lo sai ( Ger 17,16 ). Oppure con il santo Davide: Io rifiuto ogni conforto ( Sal 77,3 ), cioè rifiuto di colorirmi con la vana gioia dei beni presenti. Ovvero ancora, mi ha scolorito il sole con il paragone del suo splendore, in quanto avvicinandomi a esso mi vedo scura, nera e disprezzo la mia bruttezza. Del resto però sono bella. Perché mi chiamate scura perché sono tale, solo di fronte alla bellezza del Sole? Ma al primo senso sembrano convenire maggiormente le cose che seguono. Aggiungendo infatti: I figli di mia madre hanno lottato contro di me ( Ct 1,6 ), viene a dire che ha sofferto persecuzione. Ma di qui prenderemo lo spunto per un altro sermone; per questa volta possono bastare le cose che abbiamo imparato per grazia sua, circa la gloria dello Sposo della Chiesa, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXIX I. Di chi dice la sposa: « Figli di mia madre » e come c’è da guardarsi dai mali della propria casa 1. I figli di mia madre hanno lottato contro di me ( Ct 1,5 ). Anna e Caifa e Giuda Iscariota furono i figli della Sinagoga; e costoro combatterono aspramente contro la Chiesa, che è pure figlia della Sinagoga, fin dal suo nascere, appendendo alla croce il suo fondatore Gesù. Già da allora Dio aveva adempiuto quanto aveva predetto per mezzo del Profeta dicendo Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge ( Mt 26,31; Zc 13,7 ). E forse è sua quella voce che dice, nel cantico di Ezechia: Come un tessitore hai arrotolato la mia vita, mi recidi dall’ordito ( Is 38,12 ). Si può dunque pensare che intenda parlare di questi tali e di altri, della stessa nazione che, come sappiamo, si sono mostrati nemici del nome cristiano, quando la sposa dice: I figli di mia madre hanno lottato contro di me. E giustamente li chiama figli di sua madre, e non figli di suo padre, non avendo essi Dio per Padre, ma essendo figli del diavolo, omicidi anch’essi, come quello era omicida dall’iniziò. Perciò non dice: « I miei fratelli » o « i figli di mio padre », ma i figli di mia madre hanno lottato contro di me. Diversamente, senza questa distinzione, anche l’Apostolo Paolo potrebbe sembrare compreso nel numero di coloro dei quali si lamenta, perché anch’egli un tempo perseguitò la Chiesa di Dio. Ma ottenne misericordia perché, nella sua incredulità, aveva agito per ignoranza, e diede prova di avere Dio per Padre, e di essere fratello della Chiesa, sia da parte del Padre, sia da parte della madre. 2. E bada come la sposa accusa nominatamente i figli di sua madre, ed essi soli, quasi fossero i soli colpevoli. Eppure, quanto ebbe a soffrire anche dagli stranieri, secondo il detto del Profeta: Dalla giovinezza molto mi hanno perseguitato, e Sul mio dorso hanno arato gli aratori ( Sal 129,1.3 ). Perché dunque ti lamenti singolarmente dei figli di tua madre, mentre non ignori di essere stata molto spesso combattuta da parecchie altre nazioni? Invitato alla mensa di un ricco, risponde, considera diligentemente quanto ti viene posto dinanzi ( Pr 23,1 ). Fratelli, siamo seduti alla mensa di Salomone. Chi più ricco di Salomone? Non dico delle ricchezze terrene, sebbene anche di queste abbondasse Salomone; ma considerate la mensa presente, come sia ricolma di superni cibi deliziosi. Sono cose spirituali e divine quelle che ci vengono servite. Considera dunque diligentemente, dice, le cose che ti vengono poste dinanzi, pensando che tali cose tu devi preparare. Io, in verità, per quanto dipende da me, rifletto a quanto mi viene presentato in queste parole della sposa, e penso che serva a istruirmi e a rendermi cauto il fatto che in esse viene espressamente nominata la persecuzione che essa ha subito da parte dei domestici, mentre si tacciono le molte e gravissime vessazioni subite da lei in tutto il mondo da parte di ogni nazione che è sotto il cielo, dagli infedeli, dagli eretici e dagli scismatici. Conosco la prudenza della sposa, e non penso che abbia tralasciato queste ultime per dimenticanza. Ma di proposito essa piange più particolarmente il male da cui ammonisce noi di guardarci con più attenzione. Questo male è quello interno e domestico. Questo male viene indicato apertamente nel Vangelo per bocca dello stesso Salvatore quando dice: E i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa ( Mt 10,36 ). Così pure il Profeta: Anche l’amico in cui confidavo, anche lui che mangiava il mio pane alza contro di me il suo calcagno ( Sal 41,10 ); e ancora: Se mi avesse insultato un nemico l’avrei sopportato; ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente, che prendevi con me il dolce cibo ( Sal 55,13.15 ), vale a dire, sento con maggior pena e sopporto con più vivo dolore quello che provo da parte tua, o mio commensale e compagno. Conoscete questo lamento, e a chi si riferisca. 3. Riconoscete dunque anche la sposa che si lamenta dei figli di sua madre con i medesimi sentimenti, perché nel medesimo Spirito, quando, dice: I figli di mia madre hanno lottato contro di me. E altrove viene detto: Amici e compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza ( Sal 38,12 ). II. Come sia da abbracciare la pace e da evitare lo scandalo, anche nella più piccola cosa da quanti vivono in comunità Ve ne prego, tenete sempre lontano da voi questo abominevole e detestabile male, voi che avete sperimentato e sperimentate ogni giorno quanto buona cosa sia l’abitare insieme tra fratelli, se tuttavia si vive uniti e non in modo da essere di scandalo gli uni agli altri. Se no non è più cosa gioconda né buona, ma davvero pessima e oltremodo molesta. Ma guai a quell’uomo per il quale viene turbata la giocondità dell’unione. Sarà oggetto di condanna chiunque egli sia. Possa io morire prima di udire qualcuno di voi gridare con ragione: I figli di mia madre hanno lottato contro di me. Non siete forse voi tutti che appartenete a questa comunità come figli di un’unica madre e tra di voi tutti fratelli? Che cosa mai dall’esterno potrà conturbarvi e contristarvi, se all’interno state bene e godete della pace fraterna? E chi vi potrà fare del male, se farete a gara nell’operare bene? ( 1 Pt 3,13 ). Aspirate pertanto ai carismi più grandi, onde dimostrarvi buoni emuli nel bene. Il carisma di gran lunga migliore è la carità, al quale nessun altro si può paragonare, e che il celeste Sposo aveva cura di inculcare così spesso alla nuova sposa, dicendo: In questo tutti riconosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri ( Gv 13,35 ); e: Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati ( Gv 15,12 ); così pure pregando che essi fossero una cosa sola, come egli e il Padre sono una cosa sola. E vedi come lo stesso Paolo, il quale ti invita ai carismi migliori, insinui tra gli altri la carità, sia quando parlando della fede e della speranza afferma che la carità è più importante e superiore alla scienza, sia dove, avendo enumerati parecchi e meravigliosi doni della grazia divina, ci rimanda infine a una via sovraeccellente, chiamando così appunto la carità. Che cosa infine paragoneremo a questa carità che viene preferita allo stesso martirio e alla fede che trasporta le montagne? Questo è dunque quello che dico: la vostra pace derivi da voi stessi, e allora tutto quello che la può minacciare dal di fuori non fa più paura, perché è incapace di procurare danno. E al contrario, tutto ciò che può consolarvi dal di fuori non val nulla, se all’interno, che Dio non voglia, germoglierà la discordia. 4. Pertanto, dilettissimi, siate in pace tra di voi, né vogliate farvi torto a vicenda con azioni, parole o qualsivoglia segno, perché non avvenga che qualcuno, esacerbato e sconvolto dalla furia dell’uragano, a causa della sua pusillanimità, si senta costretto a rivolgersi a Dio contro coloro che lo hanno offeso e contristato con quel duro lamento: I figli di mia madre hanno lottato contro di me. Così, peccando contro il fratello, pecchereste contro Cristo, il quale dice: Quanto avete fatto a uno solo di questi miei più piccoli, l’avete fatto a me ( Mt 25,40 ). E non è necessario astenersi soltanto dalle offese più grandi, come insulti e imprecazioni, proferiti in faccia, ma anche dalla velenosa nascosta detrazione. Non basta, dico, preservare la bocca da queste e simili cose; bisogna guardarsi anche da cose leggere, se leggero si può dire quello che fai contro un fratello con l’intenzione di recargli danno, mentre, come dice il Signore, il solo fatto di adirarti contro di lui ti fa reo di giudizio. E giustamente, poiché ciò che tu reputi leggero, e che per questo con più leggerezza tu, fai, molte volte un altro lo subisce giudicandolo diversamente, in quanto è un uomo che vede l’apparenza, e secondo quella giudica, sospettando forse una trave dove non c’è che una pagliuzza, e prendendo una scintilla come una fornace. Non tutti, infatti, hanno quella carità che tutto crede. I sensi invece e i pensieri dell’uomo sono inclini a sospettare piuttosto il male che a credere il bene, specialmente dove la regola del silenzio non permette a te, che sei in causa, di scusarti, né all’altro di manifestare la ferita del sospetto, di cui soffre, per esserne guarito. Brucia pertanto costui, e muore per la ferita mortale che non trova sfogo, gemendo in se stesso, mentre tutto preso dall’ira e dall’interna reazione, non è capace nel suo silenzio di pensare ad altro che all’ingiuria che ha ricevuto. Non può pregare, non può applicarsi alla lettura o alla meditazione di alcunché di santo o spirituale; e così mentre, priva dello spirito vitale per mancanza di alimenti, se ne va alla morte un’anima per la quale Cristo è morto, tu che cosa fai? Quale sapore ha la tua orazione o qualsiasi cosa tu farai in questo tempo, mentre Cristo grida contro di te dal petto del fratello che hai contristato, dicendo: Il figlio di mia madre lotta contro di me, e colui che prendeva con me dolci vivande mi ha riempito di amarezza? 5. E se dirai che per una cosa cosi leggera non era il caso che si turbasse tanto, rispondo: quanto più si tratta di cose leggere, tanto era più facile per te non farle. Quantunque non riesca a capire come tu chiami cosa leggera quello che è di più: che il semplice adirarsi, come ho già detto, dal momento che anche questo solo sia, come dice lo stesso Giudice, sottoposto a giudizio. Tu dunque dirai leggero quello per cui viene offeso Cristo, per cui dovrai essere trascinato al giudizio di Dio, e sai che è cosa orrenda il cadere nelle mani del Dio vivente? Tu dunque, quando ti capita di ricevere un torto, cosa che è difficile che non capiti talvolta in queste comunità, non affrettarti, come fanno i secolari, a colpire a tua volta il fratello con una risposta dura; e non osare, sia pure sotto pretesto di correzione, di usare parole pungenti o offensive, per non ferire in qualche modo un’anima per la quale Cristo si è degnato di farsi crocifiggere; non sia come un grugnito il tuo rimprovero, non borbottare con le labbra, come se stessi mormorando, non storcere il naso o sghignazzare come se te ne facessi beffe, non corrugare la fronte come per inveire o minacciare. La tua reazione muoia dove nasce, né si permetta di uscire a quella che è portatrice di morte, perché non uccida, e tu possa dire con il Profeta: Sono stato turbato e non ho parlato ( Sal 77,5 ). III. L’opinione di taluni sul diavolo e sui suoi angeli. L’utilità del rimprovero 6. Ho sentito alcuni dare di queste parole un’interpretazione più sottile. Secondo questi si tratterebbe del diavolo e dei suoi angeli, i quali sono anch’essi figli di quella Gerusalemme celeste, che è madre nostra, e da quando sono decaduti, non cessano di combattere la Chiesa loro sorella. Ma non avrei neanche nulla in contrario se uno volesse interpretarle in senso buono, intendendo la lotta che gli spirituali che sono nella Chiesa conducono con la spada dello spirito, cioè la Parola di Dio, contro i fratelli carnali, ferendoli salutarmente e spronandoli, con tale lotta, a divenire spirituali. Voglia Dio che il giusto mi corregga, mosso da carità, e mi sgridi, percuotendo al fine di sanare, uccidendo per vivificare, affinché io pure possa dire: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me ( Gal 2,20 ). Mettiti d’accordo, dice Gesù, con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice, e il giudice al carceriere ( Mt 5,25 ). Buono quell’avversario, mettendomi d’accordo con il quale potrò evitare la sentenza del giudice e il carceriere. A me pertanto non dispiace se, talvolta, vi ho in questo modo contristato. È stato infatti per il vostro bene. A dir vero, non mi ricordo di averlo mai fatto senza sentirne anche io una grande tristezza, secondo quel detto: La donna quando partorisce è afflitta ( Gv 16,21 ). Ma non ricordo certamente più l’afflizione ora che constato il frutto del mio dolore, vedendo Cristo formato nei figli. Anzi, non so come, mi sento maggiormente stretti da tenero affetto quelli che dopo i rimproveri e per mezzo di questi sono guariti dalle loro infermità, che non quelli che dall’inizio si sono dimostrati forti, non bisognosi di tale medicina. 7. Dunque, in questo senso potrà la Chiesa, o l’anima che ama Dio, dire che il sole l’ha scolorita mandando cioè e armando qualcuno dei figli di sua madre per contrariarla salutarmente e ricondurla alla fede e all’amore di lui, con tante saette confitte, delle quali è scritto: Frecce acute di un prode ( Sal 120,4 ) e: Le tue frecce mi hanno trafitta ( Sal 38,3 ). E perciò continua dicendo: Non c’è sanità nella mia carne ( Sal 38,4 ), per dire poi, una volta fatto più sano, e quindi più forte secondo l’anima: Lo spirito veramente è pronto, ma la carne è debole ( Mt 26,41 ), e con l’Apostolo: Quando sono debole, è allora che sono forte ( 2 Cor 12,10 ). Vedi come l’infermità della carne accresce la forza dello spirito e procura forze? Così, al contrario, sappi che la forza della carne ha come effetto l’indebolimento dello spirito. E non fa meraviglia se, divenuto più debole il nemico, tu vieni reso più forte, a meno che, comportandoti da pazzo, tu ti prenda come amica quella carne che non cessa di avere desideri contrari allo spirito. Considera dunque la prudenza del santo, che chiede di venire salutarmente combattuto e ostacolato, quando dice nell’orazione: Trafiggi con il tuo timore la mia carne ( Sal 119,120 ). Ottima saetta questo timore, che trafigge e uccide i desideri carnali perché lo spirito sia salvo. Ma anche chi castiga il suo corpo e lo riduce in schiavitù, non ti sembra che aiuti la mano di chi combatte contro di lui? IV. La freccia d’amore che trapassò l’anima della beata Maria e come ciò si addica alla Chiesa o all’anima desiderosa di rendere grazie 8. Saetta anche la Parola di Dio, viva ed efficace, più penetrante di ogni spada a doppio taglio, di cui parla il Salvatore: Non sono venuto, dice, a portare la pace, ma la spada ( Mt 10,34 ). È anche una saetta scelta l’amore di Cristo che non solo ferì, ma trapassò l’anima di Maria, perché nel petto verginale non lasciasse vuota nessuna particella, ma amasse con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, e fosse piena di grazia. Ovvero la trapassò per venire fino a noi, e da quella pienezza noi tutti ricevessimo, e divenisse madre della carità, il cui padre è Dio carità, partorendo e ponendo nel sole il suo tabernacolo perché si adempisse la Scrittura che dice: Ti ho reso luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra ( Is 49,6 ). Questo si è adempiuto per mezzo di Maria, la quale partorì visibile colui che aveva ricevuto invisibile, non dalla carne, né con la carne. Ed essa ricevette in tutta se stessa una grande e soave ferita d’amore; io poi mi reputerò felice se ogni tanto mi sentirò almeno pungere dalla punta di questa spada, affinché, ricevuta una sia pur piccola ferita d’amore, l’anima mia possa dire: Sono ferita d’amore ( Ct 2,5 ). Chi mi darà di essere in tal modo non solo ferito, ma sconfitto del tutto, fino alla distruzione del colore e del calore di quella che combatte contro l’anima? 9. A un’anima di tal fatta, se le figlie di questo secolo dovessero rimproverare di essere pallida e senza colore, non ti sembra che potrebbe rispondere: Non state a guardare che io sono bruna, perché il sole mi ha abbronzata? ( Ct 1,6 ). E se ricordasse di essere così ridotta per le esortazioni e i rimproveri di alcuni servi di Dio, gelosi di lei della gelosia di Dio, non potrà dire anch’essa con verità: I figli di mia madre hanno lottato contro di me? Vorrà dunque significare, come è stato detto, che la Chiesa o qualsiasi altra anima innamorata di Dio, dica questo, non quasi gemendo o lamentandosene, ma con gioia e ringraziando, gloriandosi anzi di essere e di venir giudicata scura o senza colore, per il nome e l’amore di Cristo, e questo non lo attribuisca alla sua iniziativa, ma alla grazia e alla misericordia che l’hanno prevenuta e l’hanno ricondotta a se stessa. Infatti quando potrebbe credere senza chi le predicasse? E come uno le predicherebbe se non fosse inviato? Ricorda che i figli di sua madre hanno lottato contro di lei, non come se ne fosse adirata, ma per mostrarsi non ingrata. Perciò dice in seguito: Mi hanno messa a guardia delle vigne ( Ct 1,6 ). Queste parole, se si esaminano in senso spirituale, non hanno, penso, nulla che significhi lamento, o rancore, ma indicano qualcosa di favorevole. Ma prima di porre mano a capire questo, è infatti un luogo sacro, occorre renderci propizio con le solite preghiere, quello spirito che scruta le profondità di Dio, e così consultarlo, ovvero ricorrere all’aiuto dell’Unigenito che è nel seno del Padre, Sposo della Chiesa, Gesù Cristo. Signore che è benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXX I. Per quale motivo si dice: « Mi posero a custodire la vigna » e quali sono le vigne 1. Mi hanno messa a guardia delle vigne ( Ct 1,6 ). Chi? Coloro che combattevano contro di te, che or ora hai ricordato? Ascoltate e comprendete come la sposa ammetta di aver tratto giovamento da quelli stessi che l’hanno fatta soffrire. E non fa meraviglia, se pensiamo che il motivo per cui l’hanno combattuta era l’intenzione di correggerla. Chi non sa infatti che molti spesso sono perseguitati per amore e a loro vantaggio? Vediamo ogni giorno quanti per i duri rimproveri dei superiori migliorano la loro condotta, e vengono spinti più in alto! Dunque dimostriamo piuttosto come si sia combattuto contro la Chiesa da parte dei figli di sua madre, con animo ostile, ma con utile danno. Questo è meraviglioso, quando coloro che intendono recare danno giovano invece, anche contro voglia. L’interpretazione che abbiamo dato sopra considera l’uno e l’altro senso: non mancarono infatti di quelli che furono gelosi di lei in senso buono, e altri con animo cattivo, lottando gli uni e gli altri con diversa intenzione; ma sia gli uni che gli altri le portarono giovamento. Ed essa si gloria di aver guadagnato da quanto ha sofferto da parte dei suoi nemici, tanto che, in cambio di una vigna che essi sembravano averle tolto, essa gode di essere stata costituita su molte vigne. « Questo – dice – mi hanno procurato combattendo contro di me e contro la mia vigna coloro che dicono: Distruggete, distruggete anche le sue fondamenta ( Sal 137,7 ), che invece di una vigna ne ho parecchie ». Questo significa quanto dice in seguito: La mia vigna, la mia, non l’ho custodita ( Ct 1,6 ) aggiungendo come motivo per cui ha agito così, di non averne più una sola ma parecchie da custodire. Così è la lettera. 2. Ma se noi seguiamo semplicemente questa lettera, contentandoci solamente di ciò che appare superficialmente, possiamo pensare che la Sacra Scrittura ci parli di quelle vigne corporee e terrene che vediamo ogni giorno alimentate, dalla pioggia del cielo e dai concimi della terra, donde traggono il vino, nel quale c’è lussuria: e così ci sembrerà, di non aver ricavato dalla divina Scrittura nulla che sia degno, non dico della sposa del Signore, ma che convenga a qualsiasi altra. Come può essere conveniente per una sposa la custodia delle vigne? Ma, anche se vogliamo pensare, che ciò sia conveniente da che cosa potremmo dedurre che la Chiesa sia mai stata incaricata di quest’ufficio? Forse che il Signore si occupa delle vigne? Ma se in senso spirituale per vigne intendiamo le chiese, cioè i popoli fedeli, secondo il senso del Profeta che dice: La vigna del Signore, degli eserciti è la casa d’Israele ( Is 5,7 ), allora comincerà a divenire chiaro per noi come non sia affatto indegno per la sposa l’essere fatta custode delle vigne. 3. Penso che in questo stesso apparirà una non piccola prerogativa, se si osservi diligentemente quanto in queste vigne la Chiesa abbia dilatato per tutto il mondo i suoi confini, da quel giorno in cui a Gerusalemme era stata combattuta e sconvolta, insieme con quella novella piantagione, vale a dire la moltitudine dei credenti, dei quali è detto che erano un solo cuore e un’anima sola ( At 4,32 ). Ed è proprio quella la vigna che adesso dice di non aver custodito, non però per mancanza di sapienza. Se infatti questa venne sradicata di la per opera della persecuzione, fu perché venisse trapiantata altrove, e fosse affidata ad altri agricoltori che ne recassero i frutti a suo tempo. II. Qual è la vigna della sposa e com’è coltivata o qual è il suo vino, e fino a che punto è estesa Infatti non fu del tutto distrutta, ma si trasferì; anzi crebbe e si dilatò, essendo benedetta dal Signore. E ora alza i tuoi occhi, e vedi se non ha coperto i monti la sua ombra e i suoi rami i più alti cedri ( Sal 80,11 ), se non ha esteso i suoi tralci fino al mare, e non arrivano al fiume i suoi germogli ( Sal 80,12 ). Non fa meraviglia: È l’edificio di Dio, è il campo di Dio ( 1 Cor 3,9 ). Egli fonda quest’edificio, egli propaga questa vigna, la coltiva e la pota, perché porti più frutto ( Gv 15,2 ). E quando mai potrebbe privare della sua operosa cura quella che la sua destra ha piantato? Non può essere trascurata quella vigna nella quale gli Apostoli sono i tralci, il Signore la vite, e il Padre l’agricoltore. Piantata nella fede, mette radici nella carità, zappata con la vanga della disciplina, concimata con le lacrime dei penitenti, irrigata con le parole dei predicatori, porta così abbondanza di vino in cui c’è letizia, ma non lussuria, vino soavissimo, che non eccita affatto la libidine. Certamente questo vino rallegra il cuore dell’uomo, e sappiamo che anche gli Angeli lo bevono con gioia. Anche essi godono infatti per la conversione e la penitenza dei peccatori, assetati come sono della salvezza degli uomini. Le lacrime dei penitenti sono il loro vino, giacché il dolore della contrizione è per essi sapore di grazia, gusto d’indulgenza, giocondità della riconciliazione, sanità dell’innocenza riacquistata, soavità della coscienza tornata serena. 4. Dunque da quella sola vigna che sembrava ormai distrutta dalla tempesta di una crudele persecuzione, quante altre se ne propagarono e divennero fiorenti in tutta la terra! Sopra tutte queste è stata posta come custode la sposa, perché non si contristasse per non aver custodito la sua prima vigna. Consolati, figlia di Sion: se Israele fu colpito in parte da cecità, che cosa perdi tu? Ammira il mistero e non piangere per il danno; dilata il seno e accogli la pienezza delle genti. Dì alle città di Giuda: Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la Parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci rivolgiamo ai pagani ( At 13,46 ). A Mosè in verità venne offerto da Dio, se avesse voluto abbandonare ed esporre alla divina vendetta il popolo prevaricatore, di diventare lui stesso padre di una grande nazione. Ma egli non volle. Perché? Certamente a causa del grandissimo affetto che lo teneva legato al popolo ebreo, e perché non cercava l’utile proprio, ma l’onore di Dio, e non ciò che poteva giovare a sé solo ma a molti. Questo nei riguardi di Mosè. 5. Ma io penso che, per un disegno più occulto, questo compito sia stato da Dio, per la sua grandezza, riservato alla sposa, perché essa e non Mosè fosse costituita sopra un grande popolo. Non era infatti conveniente che l’amico dello Sposo portasse via alla sposa la benedizione. E perciò non Mosè, ma la novella sposa alla quale viene detto: Andate in tutto il mondo, e predicate il Vangelo ad ogni creatura ( Mc 16,15 ), viene effettivamente mandata a un grande popolo. Non ve ne poteva essere di più grande che tutto il mondo. E tutti si arresero a chi portava la pace, a chi offriva la grazia. Ma non come la grazia, così anche la legge. Che differenza tra la soavità con cui la grazia si presentava a ogni coscienza, e l’austerità invece della legge! Chi, infatti, accoglierebbe nello stesso modo uno che condanna e uno che consola, uno che esige e uno che condona, uno che percuote e uno che abbraccia? Non erano certamente accolte con uguali sentimenti l’ombra e la luce, l’ira e la pace, il giudizio e la misericordia, la figura e la verità, la verga e l’eredità, il morso e il bacio. Infine, le mani di Mosè sono pesanti, come dimostrano Aronne e Ur; pesante il giogo della legge, come ammettono gli stessi Apostoli, che lo dicono impossibile a portarsi da loro stessi e dai padri; giogo pesante e vile il premio: poiché di terra si parla nella promessa. Per questo Mosè non è stato mandato a un grande popolo. Tu invece, madre Chiesa, che hai le promesse della vita presente e di quella futura, facilmente ottieni di venire accolta da tutti a causa del doppio vantaggio, cioè per il giogo soave e per il regno sublime. Cacciata dalla città vieni ricevuta da tutti, che sono così allettati da quanto prometti, da non spaventarsi più per quanto loro imponi. Perché piangere ancora la perdita di una sola vigna, mentre ne hai in cambio un compenso così grande? Dopo essere stata derelitta, odiata, senza che alcuno passasse da te, io farò di te l’orgoglio dei secoli, la gioia di tutte le generazioni. Tu succhierai il latte dei popoli, succhierai le ricchezze dei re; e saprai che io sono il Signore tuo salvatore e tuo redentore, io il forte di Giacobbe ( Is 60,15.16 ). In tale senso la sposa dice di essere stata posta custode nelle vigne, e di non aver custodito la sua vigna. III. L’anima è la vigna: quali sono le sue viti, quali i grappoli, quale il vino; la lamentela della sua vigna 6. Io, leggendo questo passo, sono solito rimproverarmi di aver accettato la cura delle anime, mentre non sono capace di custodire la mia, intendendo per vigne le anime. E se anche tu accetti la nostra interpretazione, vedi se è anche giusto che per conseguenza, intendiamo per vite la fede, per tralci le virtù, per grappoli le opere e per vino la devozione. Infatti, come non c’è vino senza vite, così non c’è virtù senza fede. Senza fede, infatti, è impossibile piacere a Dio ( Eb 11,6 ) forse sarà inevitabile dispiacergli. E poi tutto quello che non viene dalla fede è peccato ( Rm 14,23 ). Hanno dunque dovuto considerare questo coloro che mi hanno affidato la custodia delle vigne, se cioè avessi custodito la mia. Ma per quanto tempo essa è rimasta incolta e deserta, ridotta in solitudine! Non produceva più affatto vino, essendo seccati i tralci delle virtù a causa della sterilità della fede. La fede c’era, ma morta era infatti senza opere. Questo nella vita secolare. Convertitomi al Signore ho cominciato a custodirla un po’ meglio, ma non come conveniva. E chi mai è capace di farlo come si deve? Neppure il santo Profeta, il quale dice: Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il suo custode ( Sal 127,1 ). Anche oggi so di essere esposto a molte insidie di colui che colpisce con le sue saette l’innocente. Quanto danno, o mia vigna, ci è stato arrecato dalle sue furtive macchinazioni, proprio in quel tempo in cui con maggior vigilanza abbiamo cominciato ad aver cura e custodia di noi! Quanti e quali grappoli di opere pie sono stati soffocati dall’ira, e portati via dalla iattanza, o insozzati dalla vanagloria! Quanto abbiamo sofferto da parte della passione della gola, dallo spirito di accidia; dalla furia del vento e della tempesta! Tale ero io; e tuttavia mi hanno posto come custode, nelle vigne, senza considerare che cosa facessi o avessi fatto per la mia, e senza por mente all’ammonimento del maestro che dice: Se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? ( 1 Tm 3,5 ). 7. Mi stupisce l’audacia di parecchi che vediamo non raccogliere dalle loro vigne se non triboli e spine, e tuttavia non hanno timore di ingerirsi anche nelle vigne del Signore. Sono ladri e briganti, non custodi, né vignaioli. Ma questo riguarda loro. Guai a me anche adesso per il pericolo che incombe alla mia vigna, anzi adesso specialmente, perché intento a più cose, sono costretto a essere meno diligente e sollecito alle singole. Non mi è impossibile circondarla di siepe, né scavare in essa un torchio. Ahimè! È stato distrutto il suo muro di cinta, e la vendemmiano tutti quelli che passano per la via. È esposta senza difesa alla tristezza, aperta all’iracondia e all’impazienza. La saccheggiano con avidità certe piccole volpi delle incombenti necessità; irrompono da ogni parte le, ansietà, i sospetti, le sollecitudini; raramente mancano la confusione dei discordanti e le molestie delle cause. Non ho possibilità di impedire tutto questo, non facilita di ritirarmi in disparte, non ho tempo per pregare. Quale pioggia di lacrime mi sarà sufficiente per innaffiare la sterile anima mia? Volevo dire: la mia vigna; mi sono capitate quelle parole del salmo che si usano citare, ma il senso è lo stesso; né mi rincresce dell’errore che è portato dalla similitudine, poiché parliamo non della vigna, ma dell’anima. Perciò si pensi all’anima quando si legge vigna, in quanto, sotto la figura della sterilità della vigna si deplora quella dell’anima. Con quali lacrime dunque irrigherò la sterile mia vigna? Tutti i suoi tralci si sono disseccati per la mancanza di umore; giacciono senza frutto, perché manca la linfa. O Gesù buono, quanti fasci di sarmenti da questi tralci vengono ogni giorno bruciati nel sacrificio del mio cuore contrito davanti a te! Sia, ti prego, per te sacrificio il mio spirito contrito, non disprezzare, o Dio, il mio cuore affranto e umiliato. IV. All’uomo spirituale si addicono le parole: « La mia vigna non ho custodito » e come si dice « perdere l’anima » 8. Anch’io sto applicando alle mie imperfezioni questo capitolo. Sarà però perfetto chiunque potrà dire diversamente: Non ho custodito la mia vigna in quel senso di cui parla il Signore nel Vangelo: Chi avrà perduto la sua anima per me, la troverà ( Mt 10,39 ). Veramente capace e degno di essere posto come custode delle vigne colui nel quale la cura della propria vigna non impedisce o rallenta la diligenza e sollecitudine per quelle che gli sono affidate, dal momento che non cerca il proprio interesse, né ciò che è utile a sé, ma quello che lo è a molti. E in verità, se a san Pietro fu affidata la cura di tante vigne che venivano dalla circoncisione, fu appunto perché era un uomo disposto ad andare anche in carcere e alla morte ( Lc 22,33 ); fino a tal punto non era trattenuto dal prodigarsi per le anime affidategli dall’amore della sua vigna, vale a dire, dell’anima sua. E giustamente anche a Paolo venne affidata tra i Gentili una tale selva di vigne, che anche lui non si preoccupò della custodia della sua propria, tanto che era pronto non solo a essere legato, ma anche a morire in Gerusalemme per il nome del Signore Gesù Cristo. E diceva: Non temo nessuna di queste cose, né ritengo la mia vita più preziosa di me ( At 20,24 ). Ottimo estimatore delle cose, che non stimava doversi preferire a sé nulla delle cose sue. 9. Quanti sono coloro che alla propria salvezza preferirono poco e vilissimo denaro! Paolo non vi preferì neppure la vita. Non la stimo, dice, più preziosa di me. Dunque, fai differenza tra te e la tua vita? Giudichi prudentemente se ritieni te stesso più importante di qualsiasi cosa tua. Ma come la tua anima non è lo stesso che te? Penso che, siccome Paolo camminava già allora secondo lo spirito, e con la mente consentiva alla legge di Dio perché è buona, ritenesse questa sua mente come la parte principale e suprema di sé e la designasse come se stesso piuttosto che una qualsivoglia cosa sua; del resto, ciò che si sa appartenere alla natura inferiore, è aderire alla inferiore e più vile essenza, cioè al corpo, con il compito di dargli vita e senso, calore e appetito, tutto questo dico, carnale e sensuale, l’uomo spirituale giudicandolo indegno di chiamarlo con il nome di sé, pensò di considerarlo come cosa sua piuttosto che espressione personale di sé. « Quando dico me » egli dice « intendo dire ciò che in me vi è di più eccellente, in cui sto per la grazia di Dio, vale a dire la mente e la ragione. Quando dico anima mia, ciò significa la parte inferiore, ordinata ad animare la carne e che ne risente la concupiscenza. Ammetto che io sono stato questo, ma ora non più, perché non cammino più secondo la carne, ma secondo lo spirito. Vivo io, non più io, ma vive in me Cristo ( Gal 2,20 ). Secondo la mente io, secondo la carne non io. Che cosa vuol dire se anche ora l’anima sperimenta concupiscenze carnali? Non sono più io che opero questo, ma il peccato che è in me ( Rm 7,17 ). E perciò non dico me, ma mio, ciò che in me sente carnalmente, e questo non è altro che la stessa anima ». In realtà è porzione dell’anima il suo affetto carnale, e la vita che essa dà al corpo. Quest’anima dunque Paolo teneva in minor conto di sé, pronto non solo a essere legato, ma anche a morire in Gerusalemme per il Signore, e così, secondo il consiglio di lui, perdere la propria anima. 10. Anche tu, se abbandoni la tua volontà, se rinunzi perfettamente alle voluttà del corpo, se crocifiggi la tua carne con i vizi e le concupiscenze, mortificando le tue membra che sono sulla terra, ti dimostri imitatore di Paolo, non stimando l’anima tua, come ha fatto lui, più preziosa di te stesso; ti dimostrerai anche discepolo di Cristo, sapendola anche perdere salutarmente. In verità con più prudenza la perdi per conservarla, che non perderla volendola conservare. Poiché chi vorrà salvare l’anima sua, la perderà ( Mt 16,25 ). V. La correzione è utile per coloro che attendono il cibo e l’abbraccio Che dite qui, voi che state attenti ai cibi e trascurate i costumi? Ippocrate e i suoi seguaci insegnano a salvare l’anima in questo mondo, Cristo e i suoi discepoli a perderla. Chi scegliete tra i due come maestro? Manifesta da che parte stia colui che così ragiona: « Questo fa male agli occhi, questo alla testa, quello al petto o allo stomaco ». È chiaro che ognuno adduce ciò che ha appreso dal suo maestro. Non avete letto nel Vangelo queste cose, e neanche nei Profeti o nelle lettere degli Apostoli. Questa è una sapienza che non ti ha rivelato lo Spirito del Padre, ma che ti viene dalla carne e dal sangue. Ma senti che cosa pensano di essa i nostri medici: La sapienza della carne, dicono, è morte ( Rm 8,6 ). Devo forse proporre a voi la dottrina di Ippocrate, di Galeno, di Epicuro? Sono discepolo di Cristo, parlo ai discepoli di Cristo. È peccato per me insegnarvi principi estranei alla dottrina di Cristo. Epicuro insegna il piacere, Ippocrate a star bene; il mio Maestro insegna a disprezzare l’una e l’altra cosa. Ippocrate si applica con cura a sostentare la vita dell’anima nel corpo, Epicuro studia come procurarle piacere, il Salvatore insegna a perderla. 11. Che cos’altro senti alla scuola di Cristo all’infuori di quanto è stato detto poc’anzi: Chi ama l’anima sua la perderà? La perderà, disse, sia dandola come martire, sia affliggendola come penitente. Sebbene sia anche una specie di martirio mortificare con l’aiuto dello spirito le opere della carne, un martirio più mite di quello in cui si colpiscono con il ferro le membra, ma più molesto per la sua durata. Vedi come, con queste parole il mio Maestro condanna la sapienza della carne, per la quale, o ci si immerge nei piaceri della lussuria, o si cura più di quanto sia necessario la stessa salute del corpo. Che poi la vera sapienza non cerchi sfogo nei piaceri lo hai udito dal saggio quando dice che essa non si trova nel paese di quelli che vivono nelle delizie ( Gb 28,13 ). Colui invece che l’ha trovata dice: Ho amato la sapienza più della salute e della bellezza ( Sap 7,10 ). Se l’ha amata più della salute e della bellezza, quanto maggiormente più della voluttà e della turpitudine? Ma che cosa giova astenersi dalla voluttà, e preoccuparsi poi ogni giorno nello studio delle diverse complessioni e nella ricercatezza e diversità dei cibi? « I legumi, dice uno, sono flatulenti, il formaggio appesantisce lo stomaco, il latte fa male alla testa, il petto non sopporta che si beva acqua, i cavoli fanno venire la malinconia, i porri accendono la collera, i pesci di stagno o di acqua melmosa non convengono affatto alla mia costituzione ». Che cosa si può trovare in tutti i fiumi, campi, orti o dispense che tu possa mangiare? 12. Pensa, ti prego, che tu sei monaco, non medico, e non devi giudicare della tua complessione, ma della tua professione. Provvedi, di grazia, prima alla tua pace, non gravare poi il lavoro di chi ti serve, non gravare la casa, non gravare la coscienza, non dico tua, ma altrui; di colui, cioè, che sedendo accanto a te e mangiando ciò che gli viene servito, è portato a mormorare vedendo, te che, solo, non mangi. Egli si scandalizza o per la tua irragionevole delicatezza, o supponendo durezza in chi ha il dovere di provvedere ai tuoi bisogni. Si scandalizza, dico, il fratello, per la tua singolarità, giudicandoti troppo ricercato, in quanto pretendi cose superflue, oppure giudicando me troppo duro, quasi non provvedessi a te il necessario nutrimento. A torto alcuni si fanno forti dell’esempio di san Paolo, il quale esorta il discepolo a non bere acqua, ma a far uso di un po’ di vino, a causa dello stomaco e delle sue frequenti indisposizioni ( 1 Tm 5,23 ). Costoro devono riflettere prima che l’Apostolo non consiglia una tal cosa a se stesso, e non è neppure il discepolo che la richiede. Poi pensino che Paolo non prescrive questo a un monaco, ma a un vescovo, la cui vita era oltremodo necessaria alla ancor tenera nascente Chiesa. Tale era Timoteo. Dammi un altro Timoteo, e io te lo nutro, se vuoi, anche con oro, e gli do balsamo da bere. Del resto tu pensi a te per compassione verso te stesso. Confesso che questo modo di agire mi è sospetto, e temo che tu ti lasci illudere, sotto il pretesto di discrezione, dalla prudenza della carne. Voglio soltanto raccomandarti questo: se proprio ti piace l’autorità dell’Apostolo circa il bere vino, non tralasciare quel « poco » che egli vi ha aggiunto. E basta su questo argomento. Ma torniamo alla sposa per imparare da lei a non custodire, con vantaggio, la nostra propria vigna, noi specialmente, ai quali è affidata la custodia delle vigne dello Sposo della Chiesa, Gesù Cristo Signore nostro, che è benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXXI I. La visione del Verbo sarà a somiglianza del sole 1. Dimmi, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare nel meriggio ( Ct 1,7 ). Alle anime amanti il Verbo Sposo appare di frequente, e non sempre sotto la stessa forma. Perché? Perché non si vede ancora come è. Infatti, quando si vede la forma che non muta, si ha una visione stabile. È infatti, e non subisce mutamenti per il fatto che è, fu e sarà. Togli il « fu » e il sarà, dove c’è più mutazione o ombra di vicissitudine? Ma tutto ciò che viene da quello che fu, e non cessa di tendere verso quello che sarà, passa per l’« è », ma non del tutto è. Perché, come si può dire che è quello che non è mai nello stesso stato? Perciò è veramente solo quello che né si stacca dal « fu », né viene cancellato dal « sarà », ma solo e immutabile gli resta « è », e rimane ciò che è. Né, in verità, il « fu » gli toglie l’essere dall’eterno, né il « sarà » l’essere in eterno, e perciò si attribuisce il vero essere, cioè l’increabile, l’indeterminabile, l’invariabile. Quando dunque colui che in tal modo è, o piuttosto, che non è in tale o in tal altro modo, si vede come è, allora è stabile quella visione, non soggetta ad alcuna vicissitudine. E allora quell’unico denaro di cui parla il Vangelo viene dato a tutti quelli che così vedono, nell’unica forma in cui si presenta. Poiché ciò che appare come è, invariabile in sé, si presenta invariabilmente a chi lo guarda, e quelli a cui appare non possono vedere nulla di più desiderabile, né di più dilettevole. E quando mai quella avidità si potrà mutare in fastidio, o verrà meno quella soavità, o ingannerà quella verità, o finirà quella eternità? E se per l’eternità si estende l’ampiezza della visione e la volontà di fruirne, come non vi sarà felicità piena? Nulla infatti manca ormai a coloro che sempre godono della visione, e nulla avanza a coloro che sempre bramano. 2. Tale visione, però, non è della vita presente, ma viene riservata alla fine di essa, a coloro soltanto che possono dire: Sappiamo che quando sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli ( 1 Gv 3,2 ). Per ora appare a chi vuole, ma come vuole, non come è. Né il sapiente, né il santo, né il profeta può o potè vederlo come è finché fu nel corpo mortale; lo potrà nel corpo immortale chi ne sarà degno. Si fa pertanto vedere anche qui, ma come pare a lui, non come egli è. Del resto neanche questo nostro sole che ogni giorno vedi, lo hai mai visto come è, ma soltanto in quanto illumina, per esempio, l’aria, il monte, la parete. E non lo potresti vedere neppure un poco se in certo modo lo stesso lume del tuo corpo, per la sua ingenita serenità e chiarezza, non fosse simile al lume del cielo. Un altro membro del corpo non è sensibile alla luce, a causa della troppo grande dissomiglianza. Ma neppure lo stesso occhio, quando è torbido, è capace di accostarsi alla luce, perché ha perduto la somiglianza. Chi pertanto, essendo turbato, non può vedere il sole sereno a causa della dissomiglianza, se diventa sereno anche lui lo può vedere un poco, in ragione della sua somiglianza. E se possedesse una purezza pari del tutto a quella del sole, lo vedrebbe proprio come è, senza veli, a motivo appunto della perfetta somiglianza. In tal modo, se sei illuminato, puoi vedere in questo mondo quel sole di giustizia che illumina ogni uomo che viene in questo mondo ( Gv 1,9 ) in quanto, in qualche modo, già simile a lui; ma non puoi affatto vederlo come è, perché non ancora perfettamente simile. Per questo dice: Accostatevi a lui e sarete illuminati, e i vostri occhi non saranno confusi ( Sal 34,6 ). Questo si verificherà se saremo abbastanza illuminati, di modo che, contemplando la gloria di Dio a faccia scoperta, veniamo trasformati in quella immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore. 3. Dunque dobbiamo accedere a lui senza precipitazione, perché lo scrutatore irriverente della maestà non venga oppresso dalla gloria. E accedere non a luoghi, ma a chiarezze, chiarezze non corporee ma spirituali, guidati dallo Spirito del Signore. Dallo Spirito del Signore, non dal nostro, sebbene nel nostro. Chi dunque sarà più luminoso, sarà anche più vicino; essere luminosissimo significa essere arrivato. Pertanto, per quelli che gli sono presenti, vederlo come è non è altro che essere come egli è, e non essere confuso da alcuna dissomiglianza. Ma questo potrà verificarsi allora, come ho detto. II. La triplice conoscenza di Dio che si percepisce in questa vita; la sollecitudine dell’angelo per l’anima Frattanto questa così grande varietà di forme e molteplicità di specie nelle cose create, che altro sono se non raggi della divinità, che mostrano che esiste veramente colui dal quale hanno avuto l’esistenza, ma non mostrano del tutto che cosa sia? Vedi dunque qualche cosa di lui, ma non lui. E quando di lui che non vedi, vedi altre cose, conosci senza dubbio che c’è uno che devi cercare perché non sia privato della grazia chi cerca, e il negligente non sia scusato dall’ignoranza. Questo modo di vedere però, è comune. È facile infatti, secondo l’Apostolo, a ogni uomo dotato di ragione, percepire con l’intelletto gli attributi invisibili di Dio attraverso le creature ( Rm 1,20 ). 4. In altra maniera fu un tempo concessa ai Padri una frequente e invidiabile familiarità della divina presenza, sebbene neppure a essi Dio si sia mostrato come è, ma come si degnò di apparire loro. E questo non avvenne in una sola maniera, ma come dice l’Apostolo, molte volte e in molti modi ( Eb 1,1 ) pur essendo egli in se stesso uno, come dice a Israele: Il Signore tuo Dio è uno solo ( Dt 6,4 ). E queste apparizioni, pur non essendo comuni, venivano effettuate al di fuori, con visioni e suono di voci. Ma la contemplazione di Dio è tanto più differente da queste, quanto più interiore, quando Dio si degna di visitare direttamente l’anima che lo cerca, e che si è proposta di cercarlo con tutto il desiderio e l’amore. E questo è il segno della sua venuta come sappiamo da uno che ne aveva l’esperienza: Il fuoco cammina davanti a lui, e brucia tutt’intorno i suoi nemici ( Sal 97,3 ). È necessario infatti che l’ardore del santo desiderio preceda l’apparizione della sua faccia a ogni anima presso la quale egli sta per venire, per consumare ogni ruggine dei vizi, e così preparare un posto per il Signore. E allora l’anima sa che il Signore è vicino, quando si sente accesa da quel fuoco, e dice con il Profeta: Dall’alto egli ha scagliato un fuoco, e nelle mie ossa lo ha fatto penetrare ( Lam 1,13 ); e ancora: Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco ( Sal 39,4 ). 5. Una tale anima che di frequente sospira, che prega incessantemente e si affligge per il desiderio, quando colui che è così desiderato, preso da compassione, viene, penso che possa dire per propria esperienza con il santo Geremia: Tu sei buono, Signore, con quelli che sperano in te, con l’anima che ti cerca ( Lam 3,25 ). Ma anche il suo Angelo, che è uno degli amici dello Sposo, mandato espressamente come ministro e arbitro dell’intimo, reciproco colloquio, come si rallegra anche lui, e condivide la gioia, e volgendosi al Signore dice: « Ti rendo grazie, Signore della maestà, perché hai soddisfatto il desiderio del suo cuore, e non hai deluso la preghiera delle sue labbra ». È lui che in ogni luogo, come compagno premuroso e fedele, dell’anima non cessa di sollecitarla con assidui suggerimenti, dicendo: Cerca la gioia nel Signore, egli esaudirà i desideri del tuo cuore ( Sal 37,4 ); e ancora Spera nel Signore, e segui la sua via ( Sal 37,4 ) se tarda aspettalo, perché verrà e non tarderà ( Ab 2,3 ). E rivolgendosi nuovamente al Signore: Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così quest’anima anela a te o Dio ( Sal 42,2 ). Ti ha desiderato nella notte, ma anche tutto il giorno nel suo cuore il tuo Spirito non ha cessato di sospirare verso di te ( Is 26,9 ). E ancora: Tutto il giorno ha teso le mani verso di te, congedalo, perché grida dietro di te; volgiti un poco e lasciati commuovere. Guarda dal cielo, e visita quest’anima desolata. Il fedele sensale che, conscio, del mutuo amore tra Dio e l’anima, ma non invidioso, non cerca il suo interesse, ma la gloria del Signore, passa dal diletto alla diletta, offrendone le preghiere e riportandone doni. Eccita questa, placa quello. Talvolta, sebbene raramente, li intrattiene entrambi davanti a sé, elevando l’anima e inclinando il Signore; è infatti familiare e conosciuto nel palazzo, e non teme la ripulsa, e vede continuamente la faccia del Padre. 6. Guarda bene però di non pensare a qualche cosa di corporeo o che si possa immaginare quando parliamo di questa unione dell’anima con il Verbo. Diciamo quello che l’Apostolo asserisce; che chi aderisce a Dio, forma con Lui un solo spirito ( 1 Cor 6,17 ). Noi esprimiamo come possiamo con parole nostre l’elevazione della mente pura a Dio, e la condiscendenza di Dio che scende nell’anima, parlando di cose spirituali a persone spirituali. Questa unione pertanto si compie nello spirito, perché Dio è spirito ( Gv 4,24 ), e s’invaghisce di quell’anima che vede camminare nello spirito e trascurare la cura della carne, specialmente se la vede ardere di amore per lui. III. La terza manifestazione dello Sposo che è interna diventa quadruplice: come di sposo, medico, guida, re Così trattata e così amata l’anima non sarà del tutto contenta di quella manifestazione che fu fatta a molti attraverso le cose che sono state create, o di quella che fu fatta a pochi per mezzo di visioni e di sogni, fino a che, per una speciale prerogativa, le sia dato di accoglierlo con intimi affetti, quasi scendesse dal cielo, in mezzo al suo cuore, e abbia a disposizione colui che desidera, non in figura, ma infuso, non in apparizione, ma unito a sé; e non v’è dubbio che più ciò avviene nell’intimo, e non al di fuori, e maggiore è il gaudio. È infatti il Verbo che non produce suono, ma penetra, e non è loquace, ma efficace, non colpisce l’orecchio, ma muove gli affetti. La faccia non ha forma, ma forma essa stessa, non splende agli occhi del corpo, ma rende beata la faccia del cuore; piace infatti, non per il colore, ma per il dono dell’amore. 7. Non direi tuttavia ancora che così lo Sposo apparisca come è, sebbene in questa maniera non faccia vedere cose del tutto diverse da quello che egli è. Poiché non sempre in queste manifestazioni egli è a disposizione, né lo è in modo uguale per tutti. È necessario infatti che il gusto della divina presenza vari secondo la varietà dei desideri dell’anima, e il sapore infuso della superna dolcezza soddisfi il palato dell’anima, che appetisce cose diverse, in modi svariati. Avete poi notato quante volte, in questo carme d’amore, il Verbo abbia cambiato volto, e in quanti modi si sia degnato di trasformarsi per dimostrare quanto sia grande la sua dolcezza davanti alla sua amata; e ora, quale casto Sposo dell’anima santa ne richiede gli intimi ampléssi e gode dei suoi baci, ora si presenta come medico con olio e unguenti per le anime ancora tenere e deboli, che hanno ancora bisogno di fomenti e di medicine, e vengono chiamate per questo con il delicato nome di giovinette. Se qualcuno trova da ridire, gli verrà risposto che non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati ( Mt 9,12 ). Ora di nuovo, associandosi come un viandante alla sposa e alle giovanette, con le sue dolcissime conversazioni solleva dalla fatica tutta la comitiva, tanto che, quando egli le lascia, esclamano: Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre ci parlava per la via? ( Lc 24,32 ). Facondo compagno di viaggio, che con la soavità dei suoi discorsi e dei suoi costumi, quasi fossero fragrante olezzo di unguenti odorosi, fa correre tutti dietro a sé, per cui dicono: Correremo all’odore dei tuoi unguenti ( Ct 1,3 ). Così pure viene talvolta incontro come un padre di famiglia molto ricco, che in casa ha abbondanza di pani, anzi, come un re magnifico e potente che sembra voglia incoraggiare la pusillanimità della povera sposa, provocarne il desiderio, mostrandole tutte le attrattive della sua gloria, l’abbondanza delle sue provviste e la ricchezza delle sue cantine, il frutto copioso degli orti e dei campi, e infine introducendola nel segreto della camera nuziale. Senza dubbio confida in lei il cuore del suo Sposo ( Pr 31,11 ), e non nasconde nulla a lei che ha riscattato quand’era povera, che ha trovato fedele nella prova, che ha abbracciato per la sua amabilità. Così non cessa, in un modo o nell’altro, di apparire continuamente allo sguardo interno di coloro che lo cercano, perché si adempia quanto egli ha detto: Ecco, io sono con voi fino alla fine del mondo. 8. In tutte queste cose egli si mostra soave e mite, e grandemente misericordioso. Così nei baci è affettuoso e carezzevole, l’olio e gli unguenti lo indicano clemente e pieno di viscere di pietà e di misericordia; nella via si presenta ilare, affabile, pieno di grazia e di conforto, nel mostrare i suoi tesori e i suoi domini munifico e largo rimuneratore. Così, attraverso tutto il testo di questo carme troverai il Verbo adombrato sotto queste similitudini. Perciò penso che questo intendesse significare il Profeta dove disse: Spirito è davanti a noi Cristo Signore; all’ombra di lui vivremo tra le genti ( Lam 4,20 ) perché cioè lo vediamo ora come in uno specchio, in maniera confusa ( 1 Cor 13,12 ) e non ancora faccia a faccia. Questo però fino a che viviamo tra le genti; quando saremo tra gli angeli sarà diverso; allora vedremo anche noi insieme con essi e con pari felicità lui come è, vale a dire nella forma di Dio e non più nell’ombra. IV. L’ombra della fede e il volto della verità; le sembianze di padrone sotto le quali appare lo Sposo Come infatti diciamo che presso gli antichi vi fu l’ombra e la figura, mentre a noi è apparsa la verità stessa per la grazia di Cristo presente nella carne; così noi rispetto al secolo futuro viviamo in una certa qual ombra della verità, a meno che, si voglia negare quanto dice l’Apostolo: Imperfetta è la nostra conoscenza e imperfetta la nostra profezia e altrove, Non ritengo di essere ancora arrivato ( 1 Cor 13,9 e Fil 3,13 ). E come non ci sarà distinzione tra colui che cammina nella fede, e colui che gode già la visione? Dunque, il giusto vive di fede, il beato esulta nella visione; e per questo l’uomo santo vive frattanto nell’ombra di Cristo, mentre l’angelo santo si gloria nello splendore del volto glorioso. 9. Buona è l’ombra della fede che tempera la luce per l’occhio annebbiato e lo prepara alla luce piena; sta scritto infatti: Con la fede purificava i loro cuori ( At 15,9 ). La fede pertanto non spegne la luce, ma la conserva. In verità, tutto quello che l’angelo vede, questo mi conserva l’ombra della fede, riposto nel cuore fedele, perché venga rivelato a suo tempo. Non ti conviene forse tenere, anche se avvolto, quello che non puoi comprendere svelato? Anche la Madre del Signore viveva nell’ombra della fede: le era stato detto infatti: Beata tu che hai creduto ( Lc 1,45 ). Ebbe anche l’ombra del corpo di Cristo ella che sentì dirsi: Su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo ( Lc 1,35 ). E non è un’ombra vile quella che è formata dalla potenza dell’Altissimo. E vi era veramente forza nella carne di Cristo che coprì la Vergine con la sua ombra, perché al riparo dell’involucro del vivificante corpo potesse sostenere la presenza della maestà, e sopportare la luce inaccessibile, cosa impossibile per una donna mortale. Forza veramente, per la quale venne debellata ogni potenza contraria. Forza e ombra che misero in fuga i demoni, proteggendo gli uomini; o sicuramente virtù fortificante, ombra refrigerante. 10. Viviamo perciò all’ombra di Cristo noi che camminiamo nella fede e ci nutriamo della sua carne, per avere in noi la vita. La carne di Cristo è infatti veramente cibo. E vedi se non sia per questo che anche qui è descritto sotto forma di pastore, e la sposa sembri rivolgersi a lui appunto come a uno dei pastori dicendo: Dimmi dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare nel meriggio ( Ct 1,6 ). Buono il Pastore che dà la vita per le sue pecorelle! La vita per esse, la carne a esse; quella come prezzo, questa come cibo. Mirabile cosa! Lo stesso pastore è egli stesso pascolo, egli stesso riscatto. Ma il sermone va per le lunghe perché la materia è vasta e contiene grandi cose, e non è possibile spiegarla in poche parole; e per questo mi vedo costretto a interromperlo, più che finirlo. Occorre però, dato che l’argomento è sospeso, che la memoria vigili, affinché dopo una pausa possiamo di qui riprendere il discorso e portarlo a termine, secondo che, ce lo concederà Gesù Cristo, Sposo della Chiesa, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXXII I. Come meritare la presenza dello Sposo; a quale anima si manifesta come Sposo 1. Dimmi dove vai a pascolare il gregge, dove riposi al meriggio ( Ct 1,7 ). Siamo rimasti qui. Ricominciamo da qui. Ma prima di cominciare la spiegazione di queste parole e del loro significato simbolico mi sembra opportuno ricapitolare quelle precedenti, per vedere come possano adattarsi spiritualmente a noi, a seconda dei sentimenti e dei meriti di ciascuno; e così, una volta dimostrato questo, se ci sarà possibile ci riuscirà più facile capire ciò che stiamo per discutere. Questo però comporta una grande difficoltà. Anche se quelle parole infatti, che esprimono tali concetti o similitudini, significano corpi o cose corporee, le cose che per esse ci vengono indicate sono spirituali, e quindi dobbiamo cercare anche nello spirito le loro cause e ragioni. E chi è in grado di investigare e comprendere le così molteplici disposizioni e i gradi di perfezione delle anime, alle quali viene dispensata una così multiforme grazia per la presenza dello Sposo? Tuttavia se entriamo in noi stessi, e lo Spirito Santo, con la sua luce, si degnerà di mostrarci quello che con la sua azione non cessa di operare in noi, penso che non resteremo senza una qualche intelligenza di queste cose. Credo infatti che noi abbiamo ricevuto non lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che è da Dio, per sapere le cose che da Dio ci sono state donate. 2. Dunque, se per qualcuno di noi è cosa buona, con il santo Profeta, aderire a Dio, e, per parlare più chiaro, se qualcuno di noi è talmente uomo di desiderio da bramare di morire ed essere con Cristo, e il suo desiderio è forte, la sua sete ardente, la sua meditazione assidua, costui non riceverà in forma diversa da quella di Sposo il Verbo, quando verrà a visitarlo, quando cioè si sentirà come stringere dalle braccia della sapienza e infondersi la soavità del santo amore. Perché soddisferai il desiderio del suo cuore ( Sal 21,3 ), anche se ancora pellegrino nel corpo, sia pure in modo imperfetto, e per breve tempo. Quando infatti, cercato con veglie e preghiere e molte lacrime, si sarà fatto sentire presente, improvvisamente, mentre si crede, di tenerlo scompare, e di nuovo, venendo incontro a chi lo insegue piangendo si lascia prendere, ma non trattenere, sfuggendo nuovamente d’improvviso, come dalle mani. E se l’anima devota insisterà con le preghiere e le lacrime, tornerà di nuovo, e non respingerà il voto delle sue labbra; ma nuovamente disparirà e non si farà rivedere, se non cercato con vivo desiderio. Così dunque, anche in questa vita vi può essere frequente letizia a causa della presenza dello Sposo, ma non abbondante, perché se la sua visita rallegra, riesce molesto quell’alternarsi di presenze e assenze. E la diletta dovrà necessariamente soffrire questo fino, a che, deposto il peso del corpo possa anch’essa volarsene, portata dalle ali dei suoi desideri, prendendo liberamente la via per i campi della contemplazione, seguendo senza impedimenti con la mente il diletto ovunque vada. 3. Tuttavia non capita a ogni anima di godere così, anche solo di passaggio delle visite dello Sposo, ma solo a quella che, mediante una grande devozione, un veemente desiderio e un dolcissimo affetto, si sarà mostrata una degna sposa; venendo a farle visita il Verbo si riveste di bellezza prendendo la forma di sposo. II. A chi si manifesta come medico e a chi si offre come compagno Chi non si trova ancora in queste disposizioni, ma è piuttosto compunto per il ricordo dei suoi trascorsi, parlando dell’amarezza della sua anima dice a Dio: Non volermi condannare ( Gb 10,2 ) o forse si trova ancora attualmente pericolosamente tentato, stornato e attratto dalla propria concupiscenza; costui non cerca lo Sposo, ma il medico, e per questo non riceverà i baci e gli amplessi, ma solo i rimedi per le sue ferite, consistenti in olio e unguenti. Non è forse vero che molto spesso questi sono i nostri sentimenti, e questo sperimentiamo nella preghiera, noi che ogni giorno siamo afflitti dai presenti mancamenti e sentiamo rimorso per quelli trascorsi? Da quanta amarezza, venendo, mi hai spesso liberato, o Gesù buono! Quante volte, dopo affannosi pianti, dopo inenarrabili gemiti e singulti hai unto la mia coscienza ferita con l’unzione della tua misericordia, e l’hai cosparsa con l’olio della letizia? Quante volte, entrando quasi disperato nell’orazione ne sono uscito esultante e pieno di fiducia nel perdono? Quelli che sperimentano queste cose sanno veramente come il Signore Gesù sia medico che risana i cuori affranti e fascia le loro ferite ( Sal 147,3 ). Coloro che non l’hanno provato credano a lui stesso che dice: Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati ( Is 61,1 ). Se ancora non sono persuasi, vengano e ne facciano la prova, e imparino in se stessi che cosa voglia dire: Misericordia io voglio e non sacrificio ( Mt 9,13 ). Ma vediamo anche il resto. 4. Vi sono di quelli che, stanchi di applicarsi alle cose spirituali e divenuti tiepidi e fiacchi di spirito, camminano tristi nelle vie del Signore, compiono le cose loro imposte con cuore arido, spesso mormorando, e lamentandosi che i loro giorni e le loro notti sono interminabili, dicendo con il santo Giobbe: Se mi corico dico: quando mi alzerò? E nuovamente aspetto la sera ( Gb 7,4 ). Dunque, quando capita che qualcuno soffre cose del genere, se il Signore avendone pietà si avvicinerà a noi nel nostro cammino e comincerà a parlarci del cielo colui che è dal cielo, o a cantarci qualche cosa adatta dei canti di Sion, o a raccontarci della città di Dio, della pace di quella città, dell’eternità di questa pace, dello stato dell’eternità, io vi dico che questi lieti racconti serviranno a eccitare l’anima che sonnecchia pigra, e scacceranno ogni tedio dall’animo di chi ascolta, e dal corpo ogni fatica. Non ti sembra che patisse e chiedesse proprio questo colui che disse: Sonnecchia per il tedio l’anima mia, dammi forza con le tue parole? ( Sal 119,28 ). E quando ha ottenuto quello che domandava esclama: Quanto ho amato la tua legge Signore, tutto il giorno la vado meditando ( Sal 119,97 ). Vi sono infatti alcune parole del Verbo Sposo rivolte a noi, che servono a farci meditare su di lui e la sua gloria, bellezza, potenza e maestà. Non solo, ma quando anche scrutiamo con avida mente la sua legge e i giudizi della sua bocca, e li meditiamo giorno e notte, siamo certi che lo Sposo è vicino a noi e ci parla, e con le sue parole ci rallegra perché non veniamo oppressi dalla fatica. 5. Quando dunque tu senti operarsi queste cose nel tuo intimo, non pensare che si tratti di pensieri tuoi, ma sappi che ti parla colui che per bocca del Profeta dice: Sono io che parlo con giustizia ( Is 63,1 ). III. Le parole del Verbo e il pensiero del cuore o l’insinuarsi del maligno Le parole infatti che la verità dice in noi sono molto simili a quelle che la nostra mente pensa, né è facile discernere ciò che nasce dal proprio cuore e ciò che uno ascolta. Questo con prudenza distingue chi bada alle parole del Signore nel Vangelo: Dal cuore escono i cattivi pensieri ( Mt 15,19 ) e quelle altre: Perché pensate cose cattive nei vostri cuori? ( Mt 9,4 ); e ancora: Chi dice il falso parla del suo ( Gv 8,44 ). L’Apostolo poi dice: Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi ( sottintendi: di buono ), ma la nostra capacità viene da Dio ( 2 Cor 3,5 ). Quando dunque abbiamo nel cuore cose cattive, sono pensieri nostri, se si tratta di cose buone parola di Dio. Quelle le dice il nostro cuore, queste le ascolta. Ascolterò, dice il salmista, che cosa dice in me Dio, il Signore ( Sal 85,9 ). Dio parla in noi, e queste cose non siamo noi a pensarle, ma in noi le sentiamo. Invece gli omicidi, gli adulteri, i furti, le bestemmie e cose simili, escono dal cuore, né le ascoltiamo, ma le diciamo. Riferisce ancora il salmo: Disse lo stolto nel suo cuore: Dio non c’è ( Sal 14,1 ). Per questo l’empio ha irritato Dio, perché ha detto nel suo cuore: non ne chiederà conto ( Sal 9,34 ). Ma c’è ancora qualcosa che viene sentita nel cuore, ma non è una parola del cuore. Non esce infatti dal cuore, come i nostri pensieri, e neanche è quella parola del Verbo che si fa sentire nel nostro cuore, essendo cosa cattiva. Essa viene immessa dalle potestà nemiche, come avvengono le suggestioni degli angeli cattivi, come per esempio accadde, come si legge, che il diavolo mise in cuore a Giuda Iscariota di tradire il Signore. 6. Ma chi sarà così attento e diligente osservatore dei suoi moti interni, sia che nascano da sé o siano prodotti in sé, da discernere tra le cose cattive del suo cuore, quali siano effetto di malattia e quali morso del serpente? Io penso che questo non sia possibile a nessuno, a meno che uno, illuminato dallo Spirito Santo, abbia ricevuto quel dono speciale che l’Apostolo enumera tra gli altri carismi e che chiama discrezione degli spiriti. Infatti, per quanto uno, come dice Salomone, custodisca con ogni cura il suo cuore, e osservi con grandissima attenzione tutti i movimenti che si avvicendano nel suo cuore, anche nel caso che si sia di frequente esercitato in questo esperimento, non potrà con sicurezza conoscere e discernere in sé il male innato e quello seminato. Poiché, le mancanze, chi le discerne? ( Sal 19,13 ). Né molto ci importa sapere donde ci viene questo male, purché ci rendiamo conto che c’è; piuttosto dobbiamo vigilare e pregare per non consentirvi, da qualsiasi parte provenga. Anche il Profeta prega contro l’uno e l’altro male, dicendo: Assolvimi, o Signore, dai miei peccati occulti, e perdona gli altrui al tuo servo ( Sal 19,13 ). E io non posso comunicare a voi quello che non ho ricevuto. Non ho ricevuto, lo confesso, il dono di distinguere tra ciò che è prodotto dal cuore, e ciò che è stato seminato dal nemico. Tutti e due sono male, tutti e due dal male, tutti e due nel cuore sebbene non tutti e due provenienti dal cuore. Questo è quello di cui sono certo, ma resta incerto quanto si debba attribuire al cuore e quanto al nemico. E questa incertezza, come ho detto, non comporta alcun pericolo. 7. Ma dove c’è veramente un pericolo, dove si può colpevolmente sbagliare, è nell’attribuire a noi ciò che è di Dio; e perciò noi stabiliamo una certa regola, per cui non ci avvenga di considerare un nostro pensiero come una visita del Verbo. Quanto dunque sono distanti tra loro il male e il bene, così queste due cose tra di loro; poiché né dal Verbo potrà provenire nulla di male, né dal cuore alcunché di bene che non abbia prima concepito dal Verbo, perché non può un albero buono far frutti cattivi, né un albero cattivo farne di buoni. Ma credo che abbiamo a sufficienza distinto quello che nel nostro cuore sia nostro e quello che sia di Dio. Non era cosa superflua, a mio avviso, perché sappiano i nemici della grazia che il cuore umano non è in grado, senza la grazia, neppure di pensare una cosa buona, ma la sua capacità a ciò gli viene da Dio, è voce di Dio il bene che viene pensato, non prodotto del cuore stesso. Tu dunque, se senti la sua voce, non è che non sai di dove venga e dove vada, tu sappi che viene da Dio, ed è diretta al tuo cuore. Ma bada che la parola che esce dalla bocca di Dio non torni a lui senza effetto, ma sia efficace, e operi tutto ciò per cui è stata mandata, perché possa dire anche tu: La grazia di Dio in me non è stata vana ( 1 Cor 15,10 ). Felice la mente alla quale il Verbo, divenuto suo indivisibile compagno, si mostra dappertutto affabile e, rallegrata dalla soavità delle sue parole, supera in ogni momento le molestie e i vizi della carne, profittando del tempo, perché i giorni sono cattivi. Non si stancherà, non verrà molestata perché, come dice la Scrittura, al giusto, non può capitare alcun danno ( Pr 12,21 ). IV. A quale affetto lo sposo si offre come re o come padre e perché dopo tutto si manifesta in sembianza di pastore 8. Ma ormai penso che appaia la figura del grande Padre di famiglia, ossia della regale maestà, a coloro che, penetrando nel profondo del cuore, resi più magnanimi da una maggiore libertà di spirito e purezza di coscienza, osano di solito aspirare a cose più grandi, a penetrare inquieti e curiosi nelle cose più segrete, a raggiungere vette più alte, e mettere mano a cose più perfette, non solo riguardo ai sensi, ma alle virtù. Questi tali, per la grandezza della loro fede sono trovati degni, divenire introdotti a ogni pienezza, e non vi è affatto apoteca della divina sapienza da cui il Signore Dio delle scienze pensi di escludere quelli che sono avidi di verità, non mossi da vanità. Tale era Mosé, che osava dire a Dio: Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, mostrami te stesso ( Es 33,13 ). Tale era Filippo, che domandava che venisse mostrato il Padre a sé e ai suoi condiscepoli. Tale anche Tommaso, che ricusava di credere se non avesse toccato con la mano le ferite e il fianco squarciato. Piccola fede, ma proveniente in modo mirabile da un animo grande. Tale fu pure Davide, che diceva anche lui a Dio: Di te ha detto il mio cuore: cercate il suo volto; il tuo volto, Signore, io cerco ( Sal 27,8 ). Uomini di tal fatta osano aspirare a cose grandi, perché grandi sono essi stessi; e ottengono quanto osano, secondo la promessa a essi fatta, che è questa: Ogni luogo che il vostro piede avrà calcato sarà vostro ( Dt 11,24 ). Una grande fede infatti, merita grandi cose; e tanto nei beni del Signore avanzerai il piede della fiducia, altrettanto possederai. 9. A Mosé poi Dio parla bocca a bocca, ed egli merita di vedere il Signore apertamente, non per enigmi, mentre Dio dice di apparire solo in visione agli altri Profeti, oppure in sogno. Anche a Filippo, secondo la richiesta del suo cuore, fu mostrato il Padre nel Figlio, come dimostrano senza dubbio le parole che subito si sentì dire: Filippo, chi vede me vede il Padre, … perché io sono nel Padre e il Padre è in me ( Gv 14,9.10 ). Ma anche da Tommaso, secondo il desiderio del suo cuore, si lasciò palpare, e non lasciò insoddisfatto il desiderio che le sue labbra avevano espresso. E che cosa dire di Davide? Non fa capire anche lui che il suo desiderio non sarebbe frustrato, d’ove dice che non avrebbe concesso sonno ai suoi occhi, né riposo alle sue palpebre fino a che non avesse trovato una sede per il Signore? Dunque, a questi grandi spiriti verrà incontro il grande Sposo, e farà grandi cose per loro, mandando la sua luce e la sua verità, e guidandoli e portandoli al suo monte santo e alle sue dimore, sicché questi possano dire: Grandi cose ha fatto a me l’Onnipotente ( Lc 1,49 ). I loro occhi vedranno il re nel loro splendore, lo seguiranno ai pascoli del deserto, ai roseti fioriti, ai gigli delle valli, agli ameni giardini irrigati dalle fonti, alle delizie delle dispense, al profumo degli aromi, e infine all’intimità della camera nuziale. 10. Questi sono i tesori della sapienza e della scienza nascosti presso lo Sposo, questi i pascoli della vita preparati per la refezione delle anime sante. Beato l’uomo il cui desiderio è pieno di queste cose ( Sal 127,5 ). Questo solo tenga presente, che cioè non pretenda possedere egli solo quello che può bastare per molti. Forse per questo, infatti, dopo tutte queste cose, si fa apparire lo Sposo come un pastore, affinché sia ammonito colui che ha conseguito così grandi doni, del dovere di pascere il gregge dei semplici, di quelli cioè che non sono capaci da soli di apprendere queste cose, in quanto non osano, senza pastore, uscire a pascolare. Infine la sposa, considerando prudentemente questa cosa, chiede che le venga indicato dove lo Sposo fa pascere il gregge e dove lo faccia riposare durante il calore del meriggio, pronta, come si può comprendere da questo passo, a essere pasciuta e a pascere, con lui e sotto di lui. Pensa infatti che non sia cosa sicura condurre il gregge lontano dal sommo Pastore, a causa dell’incursione dei lupi, massimamente di quelli che vengono a noi in veste di agnelli; e perciò si preoccupa di far pascolare il gregge insieme con lui negli stessi pascoli, e riposare alla stessa ombra. E ne spiega la ragione: Perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni ( Ct 1,6 ). Sono questi coloro che vogliono apparire come amici dello Sposo, ma non lo sono; e preoccupandosi di pascere non i greggi di lui, ma i loro, dicono tuttavia insidiosamente: Ecco, il Cristo è qui, eccolo! ( Mc 13,21 ), con l’intento di sedurre molti e, strappandoli ai greggi di Cristo, unirli ai loro. Questo per quanto riguarda la lettera del testo. Riguardo poi al senso spirituale che in essa si nasconde, aspettatelo al principio del prossimo sermone, quando vi esporrò tutto quello che, per le vostre orazioni, si degnerà di elargirmi al riguardo lo Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXXIII I. Le tre cose che indaga l’anima che desidera conoscere Dio 1. Indicami, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove riposi nel meriggio ( Ct 1,7 ). E un altro ha detto: Fammi sapere perché mi sei avversario ( Gb 10,2 ), con le quali parole non si lamenta della sentenza, ma ne ricerca la causa; chiedendo di poter trarre ammonimento dai flagelli, non di esserne liberato. E un altro ancora prega dicendo: Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri ( Sal 25,4 ). Quali siano questi sentieri lo spiega altrove: Mi guidi, dice, per i sentieri della giustizia ( Sal 23,3 ). Dunque, l’anima che brama conoscere Dio, non cessa di cercare queste tre cose: la giustizia, il giudizio e il luogo dove abita la gloria dello Sposo; in queste cose essa cerca la via per cui camminare, la cautela con cui camminare, e la dimora verso la quale dirigere i suoi passi. Di questa dimora così parla il Profeta: Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco, abitare nella casa del Signore ( Sal 27,4 ); e ancora: Signore, amo la casa dove dimori, e il luogo dove abita la tua gloria ( Sal 26,8 ). Delle altre due cose si dice: Giustizia e diritto sono la base del tuo trono ( Sal 89,15 ). Giustamente l’anima devota cerca queste tre cose in quanto sono la sede di Dio e la base del suo trono. E si confanno bene alla prerogativa della sposa, e servono alla perfezione delle sue virtù; così la forma della giustizia la rende bella, la conoscenza dei giudizi di Dio cauta, e il desiderio della presenza, ossia della gloria dello Sposo, la fa casta. Tale veramente conviene che sia la sposa del Signore, bella, erudita e casta. L’ultima delle petizioni che ho enumerato è quella che è espressa nel passo che stiamo commentando. Chiede difatti a colui che l’anima sua ama di indicarle dove pascoli il gregge, dove riposi nel meriggio. 2. E in primo luogo. osserva con quale grazia distingue l’amore carnale dall’affetto spirituale, mentre, volendo esprimere il diletto più con l’affetto che con il nome, non dice semplicemente: colui che amo, ma: O amore dell’anima mia, designando la dilezione spirituale. II. Qual è il luogo del pascolo e insieme del riposo, o quale la distanza di questo pascolo da quello Bada poi con cura a quello che tanto le aggrada nel luogo del pascolo. Tiene anche a mente l’ora meridiana, ed esamina in modo particolarissimo il luogo in cui colui che pasce il gregge riposa, nello stesso tempo, il che è indizio di grande sicurezza. Penso infatti che sia stato aggiunto « si riposa » per indicare che in quel luogo non c’è bisogno di stare in piedi e di vegliare, per custodire il gregge, e mentre il pastore si distende all’ombra e si riposa, il gregge è libero di pascolare. Felice regione, nella quale le pecore possono entrare e uscire a volontà, senza che alcuno le disturbi. Chi mi darà di vedere voi, e me con voi, condotte al pascolo sui monti, insieme con quelle novantanove che, come si legge, sono state lasciate là, mentre il Pastore è disceso con tanta degnazione a cercare quella che si era smarrita? Sicuro certamente riposa vicino, lui che non ha esitato ad andare lontano, perché le lasciava al sicuro. Con ragione la sposa sospira verso quel luogo, giustamente ambisce quel luogo di pascolo e di pace, di quiete, di sicurezza, luogo di esultanza, di ammirazione e di stupore. Anche per me, che sono, ahimè, povero e misero e vivo lontano da quel luogo, e da lontano lo saluto, il solo pensarvi mi spinge al pianto, proprio secondo i sentimenti e le parole di coloro che dicevano: Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo al ricordo di Sion ( Sal 137,1 ). Piace esclamare anche a me con la sposa e con il Profeta: Loda il tuo Dio, o Sion, perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte, in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli ( Sal 147,1.2 ). Chi è che non desideri ardentemente pascolare là, a motivo della pace, dell’abbondanza del nutrimento, della sazietà? Non vi è là alcun timore, alcun fastidio, nulla vi manca. Il paradiso offre una dimora sicura, il Verbo vi è dolce pascolo, ricchezza stragrande l’eternità. 3. Ho anch’io il Verbo, ma nella carne; e mi è somministrata la verità, ma nel sacramento. L’Angelo si pasce con abbondanza di fior di frumento e si sazia di puro grano; per il momento io devo contentarmi della corteccia, per così dire, del sacramento, della crusca della carne, della paglia della lettera, del velo della fede. E queste cose sono tali che, gustate, danno la morte, se non ricevono un certo condimento delle primizie dello Spirito. C’è davvero per me la morte nella pentola, se la vivanda non viene raddolcita dalla farina del Profeta. Così il sacramento, senza lo Spirito, viene ricevuto a condanna, e la carne non giova a nulla, la lettera uccide, e la fede è morta. Ma è lo Spirito che vivifica, perché io non muoia in esse. Ma per quanta abbondanza di Spirito abbiano queste cose, non si riceve mai con uguale giocondità la corteccia del sacramento e il fior di frumento, la fede e la visione, il ricordo e la presenza, l’eternità e il tempo, il volto e lo specchio, l’immagine di Dio e la forma di servo. In realtà in tutte queste cose la fede ha molto campo, l’intelligenza poco. Ora, è forse uguale il sapore che ha l’intelligenza e quello che ha la fede, essendo questa attribuita a merito, quella a premio? Vedi dunque che c’è distanza tra i pascoli come tra i luoghi, e come il cielo è più alto della terra, così chi abita in esso abbonda di beni più sublimi. 4. Affrettiamoci perciò, o figli, affrettiamoci verso il luogo più sicuro, verso il pasto più delizioso, verso il campo più ricco e fertile. Affrettiamoci per abitare senza paura, per abbondare senza che nulla manchi, per banchettare senza provare nausea. Tu infatti, o Signore degli eserciti, che con tranquillità giudichi tutte le cose, con uguale sicurezza ivi fornisci pascolo a tutti, tu che sei nello stesso tempo Signore degli eserciti e pastore delle pecore. III. Quale il giorno nel cui meriggio lo sposo riposa Dunque, tu pasci e riposi nello stesso tempo, ma non qui. Stavi in piedi quando dal cielo guardavi una delle tue pecorelle, Stefano, circondato da lupi sulla terra. E perciò ti prego, mostrami dove pasci il gregge, dove riposi nel meriggio, vale a dire, tutto il giorno; quel meriggio infatti è tutto il giorno che non conosce sera. E per questo è migliore quel giorno nei tuoi atri che mille altrove, perché è un giorno che non conosce tramonto. Ma forse ebbe un mattino, quando cioè spuntò per noi quel giorno santo, per le viscere davvero di misericordia del nostro Dio, per cui venne a visitarci dall’alto un sole che sorge. Veramente allora, abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia dentro il tuo tempio ( Sal 48,10 ), quando, in mezzo all’ombra di morte brillò per noi la luce dell’oriente mattutino e vedemmo la gloria del Signore. Quanti re e profeti vollero vedere e non videro! Per quale ragione, se non perché era notte, e non era ancora giunto quell’aspettato mattino a cui era stata promessa la misericordia? Per questo pregava un tale: Al mattino fammi sentire la tua misericordia, perché in te ho sperato ( Sal 143,8 ). 5. Un’aurora ha preceduto infatti questo giorno, da quando il Sole di giustizia fu annunziato alla terra per mezzo dell’arcangelo Gabriele, e la Vergine concepì nel suo utero per opera dello Spirito Santo, e partorì restando Vergine, e poi in seguito fino a che fu veduto sulla terra, e visse tra gli uomini. Poiché fino a questo tempo apparve una debole luce, come di aurora, tanto che quasi tutti tra gli uomini non si erano accorti che stava spuntando il giorno. Se l’avessero conosciuto, è detto, non avrebbero mai crocifisso il Re della gloria ( 1 Cor 2,8 ). E ai pochi discepoli veniva detto: Ancora per poco la luce è tra voi ( Gv 12,35 ), perché era l’aurora e l’inizio, o piuttosto l’indizio del giorno, mentre il Sole ancora nascondeva i suoi raggi, e non li spandeva sulla terra. Anche Paolo diceva: La notte è avanzata, il giorno è vicino ( Rm 13,12 ), significando che allora c’era ancora una luce così debole, che preferì dire che il giorno era vicino, piuttosto che era arrivato. E quando diceva questo? Quando in realtà il Sole, tornato dagli inferi, già si era levato in alto nel cielo. Quanto più quando ancora la somiglianza della carne del peccato, a guisa di densa nube, copriva l’aurora, come tutte le sofferenze del nostro corpo, tanto che non mancò né una dolorosa morte, né una croce obbrobriosa, quanto più, dico, vi fu allora una luce molto tenue e fioca, che sembrava provenire più da un’aurora che dalla presenza del Sole. 6. Era dunque un’aurora, e anche abbastanza oscura tutta quella vita di Cristo sulla terra, fino a che tramontato, e poi nuovamente risorto, con la luce più splendente della sua presenza, mise in fuga l’aurora, e, fattosi mattino, la notte fu assorbita nella vittoria. Così riferisce il Vangelo: Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole ( Mc 16,2 ). Era veramente mattino, quando si levava il sole. Risorgendo si rivestì di una nuova bellezza e di una luce più serena del solito, perché, anche se lo avevamo conosciuto secondo la carne, ora però non era più così. Sta scritto nel Profeta: Si ammanta di splendore, il Signore si riveste, si cinge di forza ( Sal 93,1 ), perché ha dissipato come una nuvola le infermità della carne, rivestendo il manto della gloria. Veramente, da allora il sole si è elevato, e facendo scendere pian piano i suoi raggi sulla terra, cominciò poco a poco ad apparire più splendido e a farsi sentire più caldo. IV. Quale quel meriggio o in quali pascoli la sposa pasce Ma per quanto diventi ardente, rinforzi, moltiplichi e dilati i suoi raggi per tutto il tempo della vita dei mortali – sarà infatti con noi fino alla fine del mondo – la sua luce non perverrà mai al pieno meriggio, né in questo tempo si potrà vedere in quella pienezza nella quale si vedrà poi, da quelli soltanto però che egli si degnerà di ammettere a tale visione. O vero meriggio, pienezza di calore e di luce, sole perenne, eliminazione delle ombre, prosciugamento delle paludi, venuta alla luce dei feti! O luce meridiana, o temperatura primaverile, o bellezza estiva, o ricchezza autunnale, e perché non sembri aver io dimenticato qualche cosa, o quiete e riposo invernale! Oppure, se ti sembra più esatto, solo l’inverno allora è passato e se n’è andato. Mostrami, dice, questo luogo di tanta chiarezza e di tanta pace, questo luogo dove c’è tanta pienezza di ogni bene, affinché, a quel modo che Giacobbe, fin da questa vita vide il Signore faccia a faccia senza morire, oppure come Mosè lo vide, non attraverso figure o enigmi o in sogno come gli altri Profeti, ma in modo sovraeccellente e non sperimentato dagli altri, noto a lui solo e a Dio, o come Isaia lo vide con gli occhi del cuore svelati su di un trono eccelso ed elevato, o anche come Paolo, rapito in paradiso udì parole ineffabili e vide il suo Signore Gesù Cristo così anch’io meriti di contemplare, rapito in estasi, te nella tua luce e nella tua bellezza, che pasci i tuoi in pingui pascoli, mentre riposi sicuro. 7. Anche quaggiù tu pasci, ma senza saziare; né è lecito sdraiarsi per riposare, ma occorre, stare in piedi e all’erta a causa dei timori notturni. Ahimè! non vi è né chiara luce, né piena refezione, né abitazione sicura; e perciò mostrami dove pasci, dove riposi nel meriggio. Tu dici che sono beata quando ho fame e sete della giustizia. Che è questo in paragone con la felicità di quelli che sono ripieni dei beni della tua casa, che banchettano ed esultano al cospetto del Signore e tripudiano nella gioia? Ma anche se sopporto qualche travaglio per la giustizia tu mi dici beata. Certamente anche il fatto di essere pasciuti da te, dove si ha il timore di patire, comporta una gioia, ma non sicurezza. Pertanto, essere pasciuti e patire nello stesso tempo non è forse un piacere molesto? Tutte le cose mie restano al di qua della perfezione, parecchie non sono affatto desiderate, e di sicuro non c’è nulla. Quando mi darai gioia piena alla tua presenza? Il tuo volto, Signore, io cerco. Il tuo volto è il meriggio. Mostrami dove pascoli, dove riposi nel meriggio. So abbastanza dove pasci senza coricarti: indicami dove pasci e solito pascere negli altri tempi; ma vorrei sapere dove pascoli nel meriggio. Poiché durante la mia vita mortale e nel luogo del mio pellegrinaggio sono stata solita pascolare e far pascolare sotto la tua custodia, nella Legge e nei Profeti, nonché nei pascoli evangelici, e similmente ho riposato presso gli Apostoli; di frequente anche ho mendicato come ho potuto, per me e per quelli affidati alle mie cure, il vitto dagli atti dei santi, dalle loro parole e dai loro scritti; ma più spesso, poiché ciò mi era più a portata di mano, ho mangiato il pane del dolore e ho bevuto il vino della compunzione e le lacrime sono state il mio pane giorno e notte, mentre mi dicono sempre: dov’è il tuo Dio? ( Sal 42,4 ). Se non che dalla tua mensa – poiché davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici ( Sal 23,5 ) – da essa, dico, grazie alla tua compassione, mi rifocillo, tanto da poter respirare un poco, ogni volta che l’anima mia è triste e geme su di me. Conosco e frequento questi pascoli, seguendo te mio pastore; ma, ti prego, mostrami anche quelli che non conosco. V. Eretici e filosofi che si fanno compagni dello sposo e in che modo cerca di ingannarci il diavolo meridiano 8. Vi sono anche altri pastori che si dicono tuoi compagni, e non lo sono, i quali hanno i loro greggi e i loro prati pieni di pascoli mortali, nei quali pascolano i loro greggi, né con te, né per te; nel loro territorio non sono entrata, né mi sono avvicinata a essi. Sono quelli che dicono: Ecco, il Cristo è qui, eccolo là ( Mc 13,21 ), promettendo pascoli più abbondanti di sapienza e di scienza; e sono creduti, e molti corrono da loro, e ne fanno dei figli della Geenna peggiori di sé. Perché questo, se non perché non è meriggio e luce chiara, di modo che la verità venga conosciuta con evidenza, mentre con facilità la falsità viene accettata in sua vece, per una certa somiglianza di verità che non si distingue bene dalla verità a causa dell’oscurità, specialmente perché le acque furtive sono più dolci, e il pane preso di nascosto è più gustoso ( Pr 9,17 ). E per questo ti prego, indicami dove pasci, dove riposi nel meriggio, cioè all’aperto, perché sedotta, non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni ( Ct 1,7 ), come vagabondi sono essi, mai stabili per la certezza della verità, sempre in cerca di imparare, senza pervenire mai alla scienza della verità. Queste cose dice la sposa, riferendosi alle varie e vane opinioni dei filosofi e degli eretici. 9. Ma a me sembra che non sia solo per esse, ma anche per gli inganni delle invisibili potestà, spiriti seduttori, esperti nel tendere insidie, che preparano le loro saette nella faretra, per colpire di nascosto l’innocente: per questi, e soprattutto per questi, io penso che noi dobbiamo desiderare quel meriggio, affinché alla chiara luce possiamo scoprire le astuzie del diavolo, e distinguere molto facilmente quell’angelo di Satana che si trasforma in angelo di luce, dal nostro angelo. Non possiamo infatti difenderci dall’assalto del demonio meridiano se non nella luce egualmente meridiana. E penso che sia stato denominato appunto demonio meridiano, perché vi sono alcuni del numero dei maligni, i quali, pur potendosi chiamare giustamente notte e notte perpetua a causa della loro volontà tenebrosa e ostinata, tuttavia sanno simulare e mostrarsi come giorno, e non solo giorno, ma meriggio: come il loro principe, non contento di essere uguale a Dio, si contrappone, e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto ( 2 Ts 2,4 ). Dunque, se qualcuno, tentato da un tale demonio meridiano, non verrà illuminato dal Sole che nasce, dall’alto come meriggio, e a questa luce si convinca e smascheri la falsità della diabolica suggestione, non riuscirà a guardarsene, ma il demonio lo tenterà e lo farà cadere sotto pretesto di bene, facendo credere all’incauto il male per bene. E allora il meriggio, ossia una luce più chiara, fa sospettare che sia una tentazione, quando fa vedere qualcosa come un bene maggiore. 10. Quante volte, per esempio, questo demonio ha suggerito a un monaco di anticipare le veglie, per poi canzonarlo mentre sonnecchiava durante l’ufficiatura dei fratelli! Quante volte ha suggerito digiuni per renderlo incapace di attendere al divino servizio perché troppo debole! Quante volte, invidioso verso i monaci che vivevano con profitto nei cenobi, li ha persuasi a farsi eremiti con il pretesto di raggiungere una purezza maggiore, e i miseri si accorsero troppo tardi quanto sia vera quella parola che inutilmente avevano letto: Guai a chi è solo, perché se cade, non ha chi lo rialzi! ( Qo 4,10 ). Quante volte ha incitato monaci al lavoro manuale più che non occorresse, e, venute loro meno le forze, si resero incapaci di seguire gli altri esercizi regolari! Quante volte è riuscito a spingere a un esagerato esercizio corporale, che secondo l’Apostolo non ha molto valore, a spese della pietà! Infine voi stessi avete veduto come taluni, lo dico a loro vergogna, che non si potevano frenare tanto era l’ardore con cui si buttavano a ogni cosa, in seguito si lasciarono prendere da tanta ignavia che, come dice l’Apostolo, dopo aver cominciato con lo spirito, ora finiscono con la carne ( Gal 3,3 ): che turpe patto hanno concluso con i loro corpi, ai quali avevano prima mosso una crudele guerra! Li potresti vedere, che vergogna! chiedere qua e là senza ritegno le cose superflue, essi che prima rifiutavano con grande ostinazione le necessarie. Se poi alcuni perdurano irremovibili nella loro ostinazione, facendo astinenza oltre i limiti della discrezione, e turbando con la loro notevole singolarità i confratelli con i quali devono abitare con identiche osservanze nella medesima casa, non so proprio se ritengano con ciò di alimentare la loro pietà. A me sembra che l’abbiano rigettata e anche molto lontano. Poiché costoro che hanno deciso di non accettare né il consiglio, né il comando altrui, ritenendosi sapienti ai loro propri occhi, vedano che cosa possono rispondere, non a me, ma alla Scrittura che dice: Perché la ribellione è come peccato di divinazione, e l’insubordinazione è come delitto di idolatria. E aveva premesso: L’obbedienza è migliore del sacrificio, e l’essere docili è più del grasso degli arieti (1 Re 15,22.23 ), cioè dell’astinenza degli uomini caparbi. Per questo dice il Signore per bocca del Profeta: Mangerò forse la carne dei tori, o berrò il sangue dei capri? ( Sal 50,13 ), volendo significare che non gli è affatto gradito il digiuno dei superbi o degli impuri. 11. Ma ho paura che condannando i superstiziosi, sembriamo allentare i freni ai golosi, e quello che è stato detto per rimedio dei primi costituisca un pericolo per questi ultimi. VI. Le quattro tentazioni da cui devono guardarsi quanti sono bene incamminati Per la qual cosa, udite, appartenenti alle due parti, come quattro sono le specie di tentazioni, e queste ci tengono così descritte dalle parole del Profeta: La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza, non temerai i terrori della notte, né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, l’assalto e il demonio meridiano ( Sal 91,5.6 ). Fate tuttavia attenzione anche voi che non appartenete a quelle due categorie; quanto sto per dire spero che gioverà a tutti. Noi tutti che ci siamo convertiti al Signore sentiamo e abbiamo sentito in noi quello che dice la Sacra Scrittura: Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione ( Sir 2,1 ). Pertanto i primi tempi della nostra conversione sono anzitutto agitati dal timore, che viene prodotto subito, in quelli che entrano, dalla paura di una vita assai austera e dalla strettezza di un’insolita disciplina. Questo timore viene detto notturno, sia perché la notte nelle Scritture viene presa per indicare di solito le cose avverse, sia perché non ci è ancora rivelato ciò per cui ci accingiamo a sopportare le cose avverse. Se infatti splendesse già quel giorno, alla luce del quale vedremo ugualmente e i travagli e il premio, non vi sarebbe più affatto timore di nulla a causa del desiderio del premio, perché apparirebbe, al fulgore di quella luce, come non vi è paragone tra le sofferenze di questo tempo e la gloria futura che si rivelerà in noi ( Rm 8,18 ). Ora invece, poiché queste cose sono nascoste ai nostri occhi, e a questo riguardo c’è per ora notte, noi siamo tentati dal timore notturno, e, non vedendo i beni futuri abbiamo paura di sopportare le cose avverse che sono del momento. Devono dunque vigilare e pregare quelli che sono appena entrati, per premunirsi contro questa prima tentazione, e non capiti che, a causa della loro pusillanimità di spirito e della violenza della tempesta, non si distolgano malauguratamente dal bene incominciato. 12. Superata questa tentazione, armiamoci però contro le lodi degli uomini, che prendono motivo soprattutto da una lodevole vita. Diversamente porgeremo il fianco alla saetta che vola nel giorno, che è la vanagloria. La fama infatti vola, e si dice « nel giorno » perché si tratta di opere della luce. Se a questa non si dà retta, appunto perché è un vano soffio, la tentazione presenta qualche cosa di più consistente, come le ricchezze e gli onori del secolo, sicché uno che forse non si cura delle lodi, aspiri alle dignità. E osserva come quest’ordine nelle tentazioni fu tenuto riguardo al Signore nostro, al quale venne proposto prima di precipitarsi dall’alto per vanità, poi vennero mostrati e offerti tutti i regni del mondo. Tu dunque, sull’esempio del Signore, scaccia anche questa tentazione. Diversamente sarà inevitabile che tu venga assalito dalla peste che vaga nelle tenebre, che è l’ipocrisia. Questa infatti discende dall’ambizione, e abita nelle tenebre, in quanto nasconde ciò che è, e si mostra, mentendo ciò che non è. E traffica continuamente, ritenendo all’esterno un’apparenza di pietà per nascondersi, vendendo virtù e comprando onori. 13. L’ultima tentazione è il demonio meridiano, che è solito tentare i perfetti, quelli cioè che, essendo uomini virtuosi, hanno già superato tutto, i piaceri, i favori, gli onori. Che cosa rimane ancora al tentatore per poter combattere apertamente contro costoro? Viene perciò nascosto, non osando presentarsi allo scoperto, e, cerca di far cadere così la prospettiva di un falso bene, colui che ha sperimentato abbastanza esperto nel respingere ogni male. Ma quelli che possono dire con l’Apostolo: Noi non ignoriamo le sue macchinazioni ( 2 Cor 2,11 ) man mano che progrediscono sono sempre, più attenti a guardarsi da questo laccio. Questa è la ragione per cui Maria, all’apparire dell’Angelo si turba, sospettando, se non erro, un inganno, e Giosuè non riceve l’Angelo amico prima di essersi accertato che è veramente amico. E cerca di sapere se sia dalla parte sua o da quella dei nemici, conoscendo per esperienza le insidie del demonio meridiano. Anche gli Apostoli, quando una volta faticavano nel remare, mentre il vento era contrario e la loro imbarcazione sballottata, vedendo il Signore camminare sul mare, e credendolo un fantasma, avevano gridato per lo spavento, dimostrando chiaramente il sospetto di avere di fronte il demonio meridiano. E ricordatevi come la Scrittura dice che venne a essi camminando sul mare ( Mc 6,48 ) alla quarta veglia della notte. Nel quarto, cioè supremo luogo è da temere questa tentazione, e più uno sa di stare in alto, tanto maggiormente deve vigilare per guardarsi, dall’assalto del demonio meridiano. Ora, ai discepoli si manifestò il vero Meriggio, quando essi si sentirono dire: Sono io, non temete ( Mc 6,50 ), e il sospetto dell’inganno si dissipò in loro. Oh, anche a noi ogni qual volta la falsità camuffata tenta di insinuarsi, mandi la sua luce e la sua verità il vero Meriggio nascente dall’alto, per smascherarla, e divida la luce dalle tenebre, affinché non veniamo tacciati dal Profeta come gente che chiama luce le tenebre, e tenebre la luce ( Is 5,20 ). VII. Come queste quattro tentazioni colpiscano la Chiesa che è il Corpo di Cristo 14. Se non riesce noiosa la lunghezza del sermone, cercherò ancora di assegnare queste quattro tentazioni nel loro ordine al corpo stesso di Cristo, che è la Chiesa. Ed ecco, lo faccio più brevemente che posso. Vedete la Chiesa primitiva, come da principio fu pervasa, e fortemente, dal timore notturno: era notte infatti, quando chiunque uccideva i santi, credeva di rendere ossequio a Dio. Superata questa tentazione e sedata la tempesta, divenne illustre, e, secondo la promessa a lei fatta, in breve tempo fu considerata come l’orgoglio dei popoli. Il nemico allora, soffrendo nel vedersi frustrato, dal timore notturno passò astutamente alla saetta che vola nel giorno, e con essa ferì alcuni della Chiesa. Sorsero così uomini vanitosi, avidi di gloria, e vollero farsi un nome. E usciti dalla Chiesa per lungo tempo afflissero la loro madre con diverse e perverse dottrine. Ma anche questa peste fu debellata con la sapienza dei santi, come la prima lo era stata dalle sofferenze dei martiri. 15. Ed eccoci ai nostri tempi, liberi sì, per la misericordia di Dio da quella doppia malizia, ma contaminati dalla peste che vaga nelle tenebre. Guai a questa generazione a causa del fermento dei farisei, che è l’ipocrisia, se pure si può chiamare ipocrisia quella che ormai non può più restare nascosta per la sua ampiezza, né lo cerca, tanto è impudente! Serpeggia oggi per il corpo della Chiesa questa fetida cancrena, e il male è tanto più disperato quanto più è vasto, e tanto più pericoloso quanto più interno. Se infatti venisse fuori all’aperto un eretico, verrebbe buttato fuori e si seccherebbe; se si presentasse un nemico violento ci si nasconderebbe da lui. Ma ora chi cacciare fuori, o da chi nascondersi? Tutti amici, e tutti nemici; tutti congiunti, e tutti avversari; tutti familiari e nessuno pacifico; tutti prossimi, e tutti che cercano i propri interessi. Sono ministri di Cristo, e servono all’Anticristo. Incedono rivestiti dei beni del Signore, e al Signore non rendono onore. Di qui ciò che ogni giorno si può vedere, l’eleganza da cortigiani, l’abito da istrioni, la pompa regale. Di qui l’oro nei freni, nelle selle, negli speroni: splendono di più gli speroni che gli altari. Di qui le mense splendide e per i cibi e per il vasellame; di qui le crapule e le ubriachezze, di qui la cetra, la lira e il flauto; di qui i torchi traboccanti e i magazzini pieni, ricolmi di questo e di quello. E poi le botti di vini aromatizzati, e le borse gonfie. Per queste cose vogliono essere, e sono, prepositi delle chiese, decani, arcidiaconi, vescovi, arcivescovi. Né queste mansioni vengono affidate secondo il merito, ma si ottengono con quella peste che vaga nelle tenebre. 16. Fu predetto una volta, e ora è venuto il tempo in cui queste cose si compiono: Ecco nella pace la mia amarezza amarissima ( Is 38,17 ). Amara prima nell’uccisione dei martiri, più amara poi nel conflitto con gli eretici, amarissima adesso nei costumi dei domestici. Non li può mettere in fuga, non può fuggirli: così hanno preso forza e si sono moltiplicati all’infinito. La piaga della Chiesa è interna e insanabile, e perciò in pace la sua amarezza è amarissima. Ma in quale pace? È pace e non è pace. Pace rispetto ai pagani, pace da parte degli eretici, ma non dai figli. La voce della Chiesa in questo tempo è di una che piange: Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me ( Is 1,2 ). Mi hanno disprezzata e macchiata con la loro turpe vita, il loro turpe guadagno, il loro turpe commercio, insomma con la peste che vaga nelle tenebre. Non resta che la venuta anche del demonio meridiano per sedurre, se ve ne sono ancora, i fedeli a Cristo, che sono rimasti ancora nella loro semplicità. Questo demonio ha infatti già assorbito i fiumi dei sapienti e i torrenti dei potenti, e confida di inghiottire tutta l’acqua del Giordano, vale a dire gli umili e i semplici che sono nella Chiesa. È infatti egli l’Anticristo, che non solo dirà di essere il giorno, ma sosterrà, mentendo, di essere anche il meriggio, e si eleverà su ogni essere che si dice Dio e a cui si rende culto come a Dio: costui il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta, in quanto vero ed eterno Meriggio, sposo e avvocato della Chiesa, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXXIV I. Coloro che ricercano le altezze sono richiamati al grado dell’umiltà 1. Se tu non conosci te stessa, o bellissima tra le donne, esci fuori, e va dietro le orme dei greggi dei tuoi compagni, e pasci i tuoi capretti presso le tende dei pastori ( Ct 1,8 ). Una volta il santo Mosè, fatto molto ardito dalla familiarità e grazia che aveva trovato presso Dio, aspirava a una qualche grande visione, in modo da dire a Dio: Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, mostrami te stesso ( Es 33,13 ). Ricevette invece al posto di essa una visione molto inferiore, dalla quale tuttavia potesse un giorno pervenire a quella che voleva. Anche i figli di Zebedeo, che camminavano nella semplicità del loro cuore, osarono chiedere anch’essi qualcosa di grande, ma furono ricondotti al gradino per il quale dovevano salire. Così ora anche la sposa, poiché sembra richiedere una grande cosa, viene frenata con una risposta alquanto austera, ma veramente utile e fedele. È necessario infatti che colui che tende a cose molto alte, nutra sentimenti di umiltà, affinché non gli succeda, mentre viene innalzato sopra di sé, di cadere più in basso di sé se non sarà reso ben saldo da una vera umiltà. E poiché le cose più grandi non si ottengono se non per merito dell’umiltà, per questo colui che deve essere portato in alto viene umiliato con la correzione, e con l’umiltà diventa meritevole. Tu dunque, quando ti sembra di essere umiliato, abbi questo come un buon segno, e una buona prova della grazia che si avvicina. Poiché, a quel modo che la superbia del cuore precede la rovina, così l’esaltazione viene dopo l’umiliazione. Trovi tutte e due le cose nella Sacra Scrittura, che cioè Dio resiste ai superbi, e dà grazia agli umili. Così, quando, dopo l’insigne trionfo di Giobbe, stabilì di premiarne con larga benedizione la tanto provata pazienza, prima con molte e stringenti domande lo volle umiliare, e così disporlo a ricevere la benedizione. II. Esempio di umiltà tratto da Davide, e triplice distinzione di persone che sono umiliate 2. Ma è ancora poco accettare volentieri quando Dio ci umilia direttamente; bisogna che ci comportiamo nello stesso modo quando si serve di altri per farlo. Prendi dunque come mirabile esempio in questo il santo re Davide. Un giorno egli fu maledetto da un suddito; egli non fece caso del cumulo di ingiurie, perché presentiva la grazia. Che ho io in comune con voi, figli di Servia? ( 2 Sam 16,10 ). O uomo veramente secondo il cuore di Dio, che stimò doversi incoraggiare chi lo puniva, più che malediva. Perciò con sicura coscienza diceva: Se ho reso male per male, cada io giustamente sotto i miei nemici ( Sal 7,5 ). Proibì dunque che venisse fatto tacere chi lo ingiuriava maledicendolo, stimando un guadagno quelle maledizioni. E aggiunse: Il Signore lo ha mandato a maledire Davide ( 2 Sam 16,10 ). Davvero secondo il cuore di Dio questo Davide, che accettava la sentenza come venisse dal cuore di Dio. Infieriva la lingua malefica, ed egli badava all’azione occulta di Dio. La voce di chi malediva risuonava nei suoi orecchi, mentre l’animo si piegava alla benedizione. C’era forse Dio nella bocca del blasfemo? Affatto, ma di essa si servi Dio per umiliare Davide. Né lo ignorò il Profeta, in quanto Dio gli aveva manifestato gli ignoti e occulti misteri della sua sapienza; e dice perciò: Bene per me se sono stato umiliato, perché impari le tue giustificazioni ( Sal 119,71 ). 3. Vedi come l’umiltà ci giustifica? L’umiltà, ho detto, non l’umiliazione. Quanti sono umiliati, e non sono umili! Alcuni, quando sono umiliati sentono rancore, altri sopportano con pazienza, altri accettano volentieri. I primi sono colpevoli, i secondi innocui, gli ultimi giusti. Anche l’innocenza è parte della giustizia, ma la sua perfezione si trova nell’umiltà; ma è veramente umile chi può dire: Bene per me che mi hai umiliato. Non lo può dire chi tollera contro voglia l’umiliazione, e meno ancora chi mormora. A nessuno di costoro promettiamo la grazia che segue l’umiliazione, anche se i due differiscano molto tra di loro, e uno con la pazienza possieda l’anima sua, l’altro per la sua mormorazione perisca. Uno solo merita ira, ma nessuno dei due merita la grazia, perché Dio dà la grazia, non agli umiliati, ma agli umili. Ora umile è colui che trasforma l’umiliazione in umiltà, ed è colui che dice a Dio: Bene per me che mi hai umiliato. Ora, per nessuno è bene ciò che sopporta con pazienza, ma è cosa molesta. Sappiamo invece che Dio ama chi dà con gioia ( 2 Cor 9,7 ). Perciò quando digiuniamo ci viene detto di ungere il nostro capo con olio e di lavarci la faccia, affinché la nostra opera sia come condita dal gaudio spirituale, e il nostro olocausto sia pingue. La sola umiltà infatti, ilare e completa, merita la grazia che la segue. Quella infatti che è subita o estorta, come quella che è nell’uomo paziente che possiede la sua anima, quest’umiltà, dico, anche se ottiene la vita a causa della pazienza, non avrà tuttavia la grazia a causa della tristezza che l’accompagna. A chi è in questa condizione infatti, non si confà quel detto della Scrittura: Si glori l’umile della sua esaltazione ( Gc 1,9 ), perché non si umilia spontaneamente e neppure di buon grado. III. L’umiliazione volontaria 4. Vuoi vedere un umile che si gloria giustamente, ed è veramente degno di gloria? Mi vanterò, dice, ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo ( 2 Cor 12,9 ). Non dice di sopportare con pazienza le sue infermità, ma di gloriarsene, e gloriarsene volentieri, mostrando di ritenere un bene per sé l’essere umiliato, e non si contenta di possedere la sua anima per il fatto che sopporta pazientemente l’umiliazione, ma vuole ricevere là grazia, in quanto spontaneamente umiliato. Ecco pertanto una regola generale: Chiunque si umilia sarà esaltato ( Lc 14,11 ). Significa pertanto che non ogni umiltà sarà esaltata, ma solo quella che viene dalla volontà, non dalla tristezza o dalla necessità. E neppure al contrario, ognuno che è esaltato dovrà essere umiliato, ma soltanto chi si esalta sarà umiliato, vale a dire, chi si esalta per volontaria vanità. Così dunque, non chi è umiliato, ma chi spontaneamente si umilia sarà esaltato, per merito della volontà. Sia pure che la materia dell’umiltà, come per esempio gli oltraggi, i danni, i supplizi, vengano prodotti da un altro e non da se stesso; non si dirà per questo giustamente che quel tale che ha cercato di subire tutte quelle cose con tranquilla e lieta coscienza in vista di Dio, sia stato umiliato da altri che da se stesso. 5. Ma dove andiamo? Sento che mi sopportate con pazienza mentre vi parlo di umiltà e pazienza; ma torniamo al passo dal quale ci siamo allontanati. Ce ne ha dato occasione la risposta con cui lo Sposo ha creduto bene di rimproverare la sposa che osava chiedere cose grandi, e questo, non perché fosse sciocca, ma per darle con ciò occasione di maggiore e più provata umiltà, per cui fosse resa più degna di cose migliori, e più capace di quelle stesse cose che domandava. Tuttavia, poiché stiamo ancora entrando in questo capitolo, rimandiamo, se vi piace, la discussione del suo inizio a un altro sermone, affinché le parole dello Sposo non vengano riferite, né ascoltate con noia. Il che tenga lontano dai suoi servi lo stesso Signore nostro Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXXV I. L’ingiunzione della parola « Esci » e come l’anima esiti a uscire dall’interna pace per la cura esteriore del mondo e della carne 1. Se non conosci te stessa, esci ( Ct 1,7 ). Duro e aspro rimprovero esprimono quelle parole: Esci. Sono soliti sentire questa parola i seri dai padroni fortemente adirati e indignati, o le serve dalle loro padrone, allorché le hanno gravemente offese: « Esci di qui, via da me, esci dalla mia presenza e da questa casa ». Lo Sposo usa queste parole assai aspre e amare, e che suonano grave rimprovero contro la diletta, a questa condizione tuttavia: che essa ignori se stessa. Non poteva davvero rivolgerle parole più forti ed efficaci per spaventarla, che minacciandola di farla uscire. E si potrà bene comprendere questo, se si riflette di dove dovrebbe uscire, e dove andare. Di dove, se non dallo spirito alla carne, dai beni dell’anima ai desideri secolari, dall’interiore pace della mente allo strepito del mondo e all’inquietudine delle cure esteriori? E in tutte queste cose non c’è se non travaglio e dolore e afflizione di spirito. Quando infatti un’anima ha una volta; imparato dal Signore, ed ha avuto la grazia di entrare in se stessa, e sospirare nel suo intimo verso la presenza di Dio cercare senza posa la sua faccia, poiché Dio è spirito é coloro che lo cercarlo devono camminare secondo lo spirito, e non secondo la carne, una tale anima, dico, non so se stimi più orribile e penoso sperimentare per un certo tempo la stessa geenna, che dopo aver gustato la soavità di queste applicazioni spirituali, debba uscire nuovamente alle attrattive, o piuttosto alle molestie della carne, e andar dietro alla insaziabile curiosità dei sensi, come dice l’Ecclesiaste: Non si sazia l’occhio di guardare, né mai l’orecchio è sazio di udire ( Qo 1,8 ). Senti che cosa dice un uomo che ha provato quello che diciamo: Tu sei buono, o Signore, per quelli che sperano in te, per l’anima che ti cerca ( Lam 3,25 ). Se uno cercasse di distaccare quella santa anima da questo bene, penso che questa ne risentirebbe come se si vedesse strappata dal paradiso e dallo stesso ingresso nella gloria. Sentiamone ancora uno simile a questo: Di te ha detto il mio cuore: cercate il suo volto; il tuo volto, Signore, io cerco ( Sal 27,8 ). E perciò diceva: Il mio bene è stare vicino a Dio ( Sal 73,28 ); e ancora, rivolgendosi all’anima sua: Ritorna, anima mia, alla tua pace, poiché il Signore ti ha beneficato ( Sal 115,7 ). Dico dunque a voi: non c’è nulla di cui abbia tanto paura chiunque ha ricevuto anche una sola volta questo beneficio, quanto di dover tornare, abbandonato dalla grazia alle consolazioni della carne, per non dire desolazioni, e a subire di nuovo disordini dei sensi carnali. 2. Terribile perciò e temibile minaccia: Esci, e pasci i tuoi capretti ( Ct 1,7 ). Che vuol dire: sappi che non sei degna di quella tua familiare e soave contemplazione delle cose celesti, spirituali, divine. Perciò esci dal mio santuario, dal tuo cuore, dove eri solita attingere con dolcezza gli intimi e sacri sensi della verità e della sapienza; sentiti per di più intricata come una secolare nel pascere e dar soddisfazione ai sensi carnali. Per capretti infatti, che significano il peccato, e che nel giudizio saranno collocati alla sinistra, vuole indicare i capricciosi e petulanti sensi del corpo, per i quali, come morte dalle finestre, il peccato è entrato nell’anima. E quel che segue corrisponde bene a questo senso: Presso le tende dei pastori. I capretti infatti non pascolano « sopra », come gli agnelli, ma presso le tende dei pastori. Poiché i pastori, che sono veramente pastori, sebbene abbiano tende terrene in terra, cioè dei corpi mentre militano in questa vita, sono soliti pascere i greggi del Signore non con pascoli terreni, ma celesti; predicano loro infatti non la loro propria volontà, ma quella del Signore. I capretti invece, che sono i sensi del corpo, non cercano le cose del cielo, ma cercano non tanto di soddisfare, ma di stuzzicare le loro brame presso le tende dei pastori, vale a dire in tutti i beni sensibili di questo mondo. 3. Turpe cambiamento di sentimenti! Uno si applicava prima a pascere la sua anima, esule e pellegrina, con sacre meditazioni, come di beni celesti, a scrutare il beneplacito di Dio e i misteri della sua volontà, a penetrare con la devozione i cieli, e con la mente a percorrere le superne mansioni, a salutare i padri e gli apostoli e i cori dei profeti, ad ammirare i trionfi dei martiri, a contemplare con stupore gli splendidi ordini angelici. Ora, lasciate tutte queste cose, si dedica vergognosamente a servire il corpo e a obbedire alla carne, a soddisfare il ventre e la gola, a mendicare in ogni luogo dalla figura di questo mondo che passa qualche cosa da dare in pasto in qualche modo alla sua famelica curiosità. Sgorghino torrenti di lacrime dai miei occhi sopra una tale anima, che già allevata sulla porpora ora ha abbracciato il letame. Ha pasciuto, secondo la sentenza del beato Giobbe, la sterile senza figli, e non ha fatto del bene alla vedova ( Gb 24,21 ). II. Come l’uomo se ne vada dietro il gregge delle pecore É nota che non dice semplicemente: Esci, ma: Va dietro i greggi dei tuoi compagni, e pasci i tuoi capretti. Con le quali parole ci dà un grave ammonimento.Quale? Ahi! Una nobile creatura, già appartenente al gregge, e ora miseramente caduta nella peggiore condizione, non è lasciata stare neppure nel gregge, ma le viene ordinato di venire dietro. In che modo? Come sta scritto: L’uomo nella prosperità non comprende, è diventato come gli animali senza ragione e si è fatto simile a essi ( Sal 49,13 ). Ecco come una nobile creatura è diventata parte del gregge. Penso che i giumenti, se potessero parlare direbbero: Ecco, Adamo è divenuto come uno di noi ( Gen 3,22 ), lui che era in onore, dice il salmo. « Quale onore? » domandi. Abitava nel Paradiso, e la sua esistenza si svolgeva in un luogo di delizie. Non sentiva alcuna molestia, alcun bisogno, era stipato da meli profumati, ornato di fiori, coronato di gloria e di onore, stabilito sopra le opere uscite dalla mano del Creatore; più ancora, si distingueva per il contrassegno della divina rassomiglianza, ed era ammesso alla società degli angeli e di tutta la milizia dell’esercito celeste. 4. Ma cambiò questa gloria di Dio con la somiglianza di un bue che mangia fieno. Di qui viene che il pane degli angeli si fece fieno, posto nella mangiatoia, servito a noi come a giumenti. Il Verbo, infatti, si è fatto carne ( Gv 1,14 ) e, secondo il Profeta, ogni carne è come erba ( Is 40,6.8 ). Ma quest’erba non si è seccata, né da essa è caduto il fiore, perché si posò su di essa lo Spirito de! Signore. L’erba, dice, si è disseccata ed è appassito il fiore; ma la Parola del Signore dura in eterno. Dunque, se l’erba è il Verbo, e il Verbo resta in eterno, anche l’erba deve rimanere in eterno. Diversamente, come darà la vita eterna, se essa non rimane in eterno? 5. Ma ricorda con me la parola del Figlio al Padre: Non lascerai che il tuo santo veda la corruzione ( Sal 16,10 ). Non v’è dubbio che parla del suo corpo che giaceva senza vita nel sepolcro. Lo ha infatti chiamato santo anche l’Angelo che portò l’annunzio alla Vergine, dicendo: E il Santo che nascerà da te, sarà chiamato Figlio di Dio ( Lc 1,35 ). Come dunque poteva il santo fieno vedere la corruzione, mentre nato dall’incorrotto utero, in pascoli sempre verdeggianti, attirava a sé anche gli avidi sguardi degli angeli, che vi avrebbero trovato un insaziabile godimento? Perda davvero l’erba la sua verde freschezza, se Maria ha perduto la sua verginità. Dunque il cibo dell’uomo si cambiò in pascolo di animali, poiché l’uomo si era mutato in giumento. Ahimè! triste e lacrimevole cambiamento! L’uomo che abitava vicino al Paradiso, padrone della terra, cittadino del cielo e familiare del Signore degli eserciti, fratello dei beati Spiriti e coerede delle celesti Virtù, con un repentino cambiamento si è trovato a giacere infermo in una stalla, bisognoso di fieno, perché fatto simile ai bruti, e a causa dell’indomita selvatichezza legato alla mangiatoia, come sta scritto: Si piega la loro fierezza con morso e briglie, se no a te non si avvicinano ( Sal 32,9 ). Riconosci tuttavia, o bue, il tuo padrone, e tu asino la stalla del tuo Signore, affinché i Profeti che hanno predetto queste meraviglie di Dio, siano trovati veritieri. Riconosci, o giumento, quello che non hai riconosciuto come uomo; adora nella stalla colui che fuggivi in paradiso; onora la mangiatoia di colui del quale hai disprezzato il dominio; mangia il fieno, tu che ti sei nauseato del pane, e del pane degli angeli. III. Motivo di così grande avvilimento Ma quale la causa, si domanderà, di questa degradazione? Certamente perché l’uomo nella prosperità non comprende. Che cosa, non comprende? Il salmista non lo dice; diciamolo noi. Posto in onore l’uomo non ha capito che è fango mentre si compiaceva del fastigio dell’onore, e subito ha sperimentato in se stesso quello che tanto tempo dopo un esiliato prudentemente avvertì e con verità disse: Chi crede di essere qualcosa, mentre non è nulla, inganna se stesso ( Gal 6,3 ). Guai a lui misero, perché non vi fu allora chi gli dicesse: Perché ti insuperbisci, terra e cenere? ( Sir 10,9 ). Per questo la nobile creatura fu mescolata al gregge, per questo l’immagine di Dio fu mutata in somiglianza di animali, per questo l’uomo invece del consorzio degli angeli fece società con i giumenti. Vedete come sia da fuggire questa ignoranza dalla quale vennero così innumerevoli mali a tutto il genere umano? Si dice infatti che l’uomo è stato assimilato agli animali senza ragione per il fatto che non ha capito. È dunque da evitare a tutti i costi l’ignoranza, affinché non ci accada che, se anche dopo il castigo saremo trovati senza intelletto, incontriamo mali molto più numerosi e gravi dei primi, e ci venga detto: Abbiamo curato Babilonia, e non è guarita ( Ger 51,9 ). E giustamente, non essendo servita neppure l’umiliazione per farci comprendere. 7. E vedete come, forse non a caso, lo Sposo, cercando di stornare con un rimprovero così forte l’amata dall’ignoranza, non ha detto semplicemente: « Esci con il gregge », oppure « vattene al gregge », ma esci dietro i greggi dei tuoi compagni. Perché questo? Certamente per dimostrare come la seconda ignoranza sia maggiormente da temere e sia più vergognosa della prima. Gli uomini infatti, colpevoli di questa ignoranza, cioè i riprovati dovranno subire quel tremendo giudizio ed essere condannati al fuoco eterno; non così gli animali. E non v’è dubbio che sarà peggiore la condizione di costoro che non di quelli che non saranno affatto. Sarebbe meglio per quell’uomo se mai non fosse nato ( Mt 26,24 ). Non se non fosse nato affatto, ma se non fosse nato uomo, ma per esempio, animale, o qualsiasi altra creatura. Questa infatti non avendo ragione non sarebbe soggetta al giudizio, né per questo condannata al supplizio. Sappia dunque l’anima ragionevole che si vergogna della prima ignoranza che sarà associata ai giumenti nell’uso dei beni della terra, ma non li avrà compagni nel subire i tormenti della geenna, e allora sarà scacciata anche dai greggi dei giumenti suoi compagni con vergogna, né sarà più unita a essi, ma andrà dietro a essi, in quanto essi non soffriranno alcun male, mentre essa sarà esposta a tutti i mali, dai quali non sarà liberata in eterno, se avrà continuato a starsene nell’ignoranza. Esce dunque l’uomo, e solitario se ne va dietro i greggi dei suoi compagni allorché solo viene cacciato nell’inferno inferiore. Non vi sembra che sia in luogo posteriore colui che, con mani e piedi legati viene gettato nelle tenebre esteriori? E saranno davvero le ultime condizioni di lui peggiori delle prime, quando colui che era equiparato alle bestie ora si trova in condizioni peggiori delle loro. IV. In che senso in questa vita l’uomo sta dietro il gregge; e questo per la sua duplice ignoranza 8. Penso che anche in questa vita, se si riflette bene, si possono trovare uomini al di sotto delle bestie. Non sembra forse più bestia delle bestie l’uomo provvisto di ragione, che non vive secondo ragione? La bestia infatti, se non si regola secondo ragione, ha una scusa dalla stessa natura, da cui non ha avuto questo dono; ma l’uomo non ha questa scusa, essendo, per una speciale prerogativa, dotato di ragione. A ragione pertanto l’uomo è considerato uscire e mettersi dietro i greggi degli animali per il solo fatto che egli, dotato di ragione ma trasgredendo i doveri di natura con una condotta degenere, imita con gli affetti e con i costumi gli animali irragionevoli. Dà dunque prova di andare dietro i greggi un tale uomo, e in questa vita per la depravazione della natura, nell’altra poi per il castigo a lui solo riservato. 9. Ecco, così sarà maledetto l’uomo che sarà trovato nell’ignoranza di Dio. Di Dio, dirò, o di sé? Certamente l’una cosa e l’altra. Ambedue queste ignoranze sono dannabili, sia l’una che l’altra, è sufficiente per la dannazione. Volete sapere che è così? Non c’è dubbio per quel che riguarda l’ignoranza di Dio, se pensate che altro non è la vita eterna se non che si conosca il Padre come Dio vero, e colui che egli ha mandato, Gesù Cristo. Senti poi come lo Sposo chiaramente e apertamente condanna nell’anima anche l’ignoranza dell’anima. Che cosa dice infatti? Non dice « Se ignori Dio », ma se ignori te stessa. È chiaro dunque che sarà ignorato chi ignora se stesso, come chi ignora Dio. Di questa duplice ignoranza, se Dio ci aiuta, dovremo fare una molto utile discussione. Ma non adesso, perché stanchi, e senza aver pregato come il solito, o io tratti con minor diligenza del dovuto la materia, o voi ascoltiate con minor attenzione cose che vanno ricevute con grande desiderio. Se infatti il cibo corporale, quando lo prendi sazio e senza appetito, non solo non giova, ma è molto nocivo, molto di più il pane dell’anima, preso con disgusto, produrrà non nutrimento alla scienza, ma tormento alla coscienza. E da questo ci preservi lo Sposo della Chiesa, Cristo Gesù che è benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXXVI I. Le due ignoranze; quale ignoranza non è colpevole 1. Eccomi a quanto avevo promesso; eccomi ai vostri desideri, eccomi anche a Dio, per rendergli il dovuto servizio. Come vedete, tre ragioni mi spingono a parlare: la fedeltà alla promessa, la carità fraterna e il timore del Signore. Se taccio la mia bocca mi condannerà. E se parlo? Veramente temo il medesimo giudizio se parlo e non taccio, e sarà ancora la mia bocca a condannarmi. Aiutatemi con le vostre preghiere, affinché possa sempre dire quel che si deve, e mettere in pratica le cose che dico. Voi sapete che oggi ci eravamo proposti di parlare dell’ignoranza, o piuttosto, delle ignoranze; poiché di due, se ben ricordate, si trattava: ignoranza di noi stessi e ignoranza di Dio; e abbiamo già avvertito che l’una e l’altra si devono evitare, perché entrambe sono degne di condanna. Rimane da spiegare questo con maggiore chiarezza, dandone una spiegazione più esauriente. Ma prima penso che ci si debba domandare se ogni ignoranza sia da condannare. A me veramente sembra di no, perché non ogni ignoranza è causa di dannazione, e vi sono invece molte e innumerevoli cose che si possono ignorare senza pregiudizio della salvezza. Per esempio, se ignori l’arte del fabbro, o del carpentiere, o del muratore, o altro del genere, che vengono esercitate dagli uomini a uso della vita presente, costituisce forse questo un impedimento alla salvezza? Anche senza tutte quelle arti che si chiamano liberali, sebbene si imparino e si esercitino con studi più onorevoli e più utili, quanti uomini si sono salvati, piacendo a Dio con i costumi e con le opere: quanti ne enumera l’Apostolo nella lettera agli Ebrei, resi amati non dalla scienza delle lettere, ma dalla coscienza pura e dalla fede sincera. Tutti piacquero a Dio nella loro vita, e per merito della condotta, non della scienza. Pietro e Andrea, e i figli di Zebedeo, e tutti gli altri discepoli non furono chiamati dalla scuola dei retori o dei filosofi; e tuttavia il Salvatore per mezzo loro ha salvato il mondo. Non per la sapienza, quasi che in essi ve ne fosse più che in tutti gli altri, come un Santo ha potuto dire di se stesso, ma nella fede e nella mansuetudine li ha fatti salvi, e anche santi, e anche maestri. Difatti fecero conoscere al mondo le vie della vita non con sublimi discorsi o con parole piene di sapienza umana, ma come piacque a Dio, che volle salvare i credenti con la stoltezza della loro predicazione, perché il mondo con la sua sapienza non lo conobbe. II. La duplice scienza e i tre modi del sapere, cioè l’ordine, l’attenzione, il fine 2. Sembrerà forse esagerato nel parlar male della scienza, quasi rimproverassi i dotti e proibissi gli studi letterari. Niente affatto. Non ignoro quanto siano stati e siano di giovamento alla Chiesa i suoi dotti, sia per confutare coloro che sono dall’altra parte, sia per istruire i semplici. E poi ho letto: Poiché tu rifiuti la scienza, rifiuterò te come mio sacerdote ( Os 4,6 ); e ancora: I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, e coloro che avranno insegnato a molti la giustizia risplenderanno come stelle per sempre ( Dn 12,3 ). Ma so anche dove ho detto: La Scienza gonfia ( 1 Cor 8,1 ) e di nuovo: Chi accresce il sapere, aumenta il dolore ( Qo 1,18 ). Vedete come differiscono le scienze, e come l’una gonfi mentre l’altra rattrista. Ma vorrei che voi mi diceste quale di queste vi sembra più utile o necessaria alla salvezza: quella che gonfia o quella che duole? Ma non dubito che preferiate quella che fa soffrire a quella che gonfia: il gonfiore infatti simula la sanità, mentre il dolore la richiede. E chi chiede si avvicina alla salvezza, perché chi chiede riceve ( Lc 11,10 ). Infine colui che risana i contriti di cuore ha in orrore i gonfi di superbia, come dice Paolo: Dio resiste ai superbi, ma dà la grazia agli umili ( Gc 4,6 ). E soggiunge: Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non vogliate essere saggi più di quel che conviene, ma siatelo con moderazione ( Rm 12,3 ). Non vieta di essere saggi, ma di esserlo più del conveniente. Che significa essere saggio con moderazione? Significa osservare molto attentamente che cosa convenga maggiormente e in primo luogo sapere. Il tempo infatti è breve. Pertanto ogni scienza di per sé è buona, purché sia appoggiata alla verità; ma tu che, data la brevità del tempo, ti affretti con timore e tremore a operare la tua salvezza, preoccupati di conoscere maggiormente e in primo luogo le cose, che avrai sentito più vicine alla salvezza. Non stabiliscono forse i medici del corpo la parte di medicina da prendere prima, che cosa dopo, e in che modo? Perché, anche se è vero che i cibi creati da Dio sono buoni, se nel prenderli tu non osservi il modo e l’ordine, te li rendi non buoni. Dunque, quello che dico dei cibi, sentitelo riguardo alle scienze. 3. Ma è meglio che vi rimetta al Maestro. Non sono infatti mie le parole che sto per citare, ma di lui; anzi, anche mie, perché della Verità: Se alcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere ( 1 Cor 8,2 ). Vedete come non importa sapere tante cose, se non si sa il modo di saperle. Vedete, dico, come l’Apostolo fa dipendere il frutto e l’utilità della scienza dal modo. Che cosa dice dunque circa questo modo di sapere? Egli spiega con quale ordine, con quali sentimenti, per quale fine bisogna imparare. Con quale ordine cioè si studi prima ciò che è più urgente per la salvezza; con quali sentimenti: si cerchi con più ardore ciò che spinge con più forza all’amore; con quale scopo: che non si cerchi la vanagloria o la curiosità, o nulla di simile, ma solo l’edificazione propria e del prossimo. III. I cinque aspetti della finalità del conoscere; similitudine del cibo e della scienza Vi sono infatti coloro che vogliono sapere soltanto per sapere: ed è una turpe curiosità. E vi sono di quelli che vogliono sapere per esser conosciuti: ed è turpe vanità. Questi tali non eviteranno le beffe del Satirico che canta loro: Il tuo sapere è nulla, se non che un altro sappia che tu sai ( Persio, Sat. I,27 ). Così vi sono coloro che vogliono sapere per vendere la loro scienza, o per procurarsi denaro od onori: ed è un turpe guadagno. Ma vi sono anche quelli che vogliono sapere per edificare: e questa è carità. E vi sono ancora altri che vogliono sapere per edificarsi: e questa è prudenza. 4. Di tutti questi, solo gli ultimi due non abusano della scienza, in quanto vogliono sapere per fare del bene. Hanno buon intelletto tutti quelli che fanno il bene ( Sal 111,10 ). Tutti gli altri ascoltino questo: Chi conosce il bene e non lo fa, commette peccato ( Gc 4,17 ), come se dicesse con un esempio: a chi prende cibo, fa male se non lo digerisce. Poiché il cibo indigesto e quello che non è ben cotto, produce cattivi umori e corrompe il corpo invece di nutrirlo. Così è la molta scienza ingerita dallo stomaco dell’anima, che è la memoria, se non è cotta con il fuoco della carità, e attraverso certe articolazioni dell’anima, cioè i costumi e gli atti, trasfusa e digerita, in quanto viene resa buona dai beni che conosce, come ne fa fede la vita e i costumi; non verrà forse quella scienza considerata come peccato, come un cibo che si trasforma in cattivi e nocivi umori? Non sono forse cattivi umori i costumi corrotti? Non soffrirà enfiagione e contorcimenti nella coscienza un uomo di tal fatta, cioè che conosce il bene e non lo fa? Non sentirà in se stesso una sentenza di morte e di dannazione ogni qual volta gli verranno in mente le parole del Signore, che il servo che conosceva la volontà del suo padrone e non ha agito secondo essa riceverà molte percosse? Forse in persona di tali anime il Profeta piangeva, dicendo: Mi duole il ventre, mi duole il ventre ( Ger 4,19 ). Se non che la frase ripetuta fa pensare a un doppio senso, perciò, oltre quello già detto, ne cerchiamo un altro. Penso che il Profeta ha potuto dire questo nella sua persona, che cioè pieno di scienza e ardente di carità, e oltremodo bramoso di sfogarsi, non trovasse qualcuno che si degnasse di ascoltarlo; e così la sua scienza gli era come di peso, non potendola comunicare. Piange pertanto il pio Dottore della Chiesa sia quelli che non si curano di sapere come debbano vivere, sia quelli che pur conoscendolo vivono però malamente, e per il fatto che il Profeta ripete due volte le stesse parole, 5. si può già capire come sia vero quello che ha detto l’Apostolo, che la scienza gonfia. IV. Che cosa è bene che l’anima sappia prima di tutto; in quante cose essa sia scarsa; esortazione ai pigri Voglio che prima di tutte le altre cose l’anima conosca se stessa, e questo per una ragione di utilità e di ordine. Di ordine, perché ciò che noi siamo è la prima cosa che ci interessa; di utilità, perché tale conoscenza non gonfia, ma umilia ed è una certa preparazione a edificare. L’edificio spirituale non può affatto reggere se non sullo stabile fondamento dell’umiltà. Ora, per umiliarsi, l’anima non può trovare nulla di più efficace o adatto che trovare se stessa in verità: soltanto non dissimuli, non ci sia nel suo spirito inganno alcuno, ponga se stessa davanti alla sua faccia, né si lasci stornare da questa visione. Guardandosi così alla luce della verità, si troverà senz’altro nella regione della dissomiglianza, e sospirando nella sua miseria, non potendole sfuggire ormai che sia misera veramente, griderà con il Profeta al Signore: Nella tua verità mi hai umiliato ( Sal 119,75 ). E come non si umilierà veramente in questa vera cognizione di sé, vedendosi carica di peccati, gravata dal peso di questo corpo mortale, implicata nelle faccende terrene, infetta dalla feccia dei desideri carnali, cieca, curva, inferma, implicata in molti errori, esposta a mille pericoli, trepidante per mille timori, ansiosa per mille difficoltà, aperta a mille sospetti, addolorata da mille bisogni, proclive ai vizi, inetta alle virtù? Come potrà ormai questa levare con arroganza gli occhi, alzare la testa? Non si ravvolgerà piuttosto nella sua miseria, mentre il dolore la trafigge come spina? Si convertirà, dico, alle lacrime, al pianto e al gemito, si convertirà al Signore, e nella, sua umiltà griderà: Risana l’anima mia, contro di te ho peccato ( Sal 41,5 ). Rivoltasi pertanto al Signore, riceverà la consolazione, perché egli è il Padre delle misericordie, e il Dio di ogni consolazione. 6. Quanto a me, fino a che guardo in me stesso i miei occhi sono pieni di amarezza ( Gb 27,2 ). Se poi guardo in alto e levo i miei occhi all’aiuto della divina misericordia, la lieta visione di Dio viene subito a temperare l’amara vista di me stesso, e dico a Dio: In me si abbatte l’anima mia, perciò di te mi ricordo dal paese del Giordano ( Sal 42,7 ). Non è piccola cosa la visione di Dio, sperimentare la sua pietà e condiscendenza alle nostre preghiere, come è davvero benigno e misericordioso, come la sua bontà è superiore alla nostra malizia; la sua natura, infatti è bontà, ed è proprio di lui aver sempre pietà e perdonare. Con tale esperienza e con tale ordine, Dio si fa salutarmente conoscere all’uomo che avrà prima conosciuto se stesso: riconoscendosi nella necessità alzerà il suo grido al Signore, ed egli lo esaudirà e gli dirà: Io ti salverò e tu mi darai gloria ( Sal 50,15 ). In questa maniera la cognizione di se stesso sarà come gradino alla conoscenza di Dio; e dalla sua immagine che in te si rinnova potrai vedere lui, mentre, contemplando a faccia scoperta la gloria del Signore con fiducia, vieni trasformato nella stessa immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore. 7. Ma ormai comprendiamo come l’una e l’altra conoscenza ci è necessaria alla salvezza, di modo che non puoi salvarti senza l’una o l’altra. Se infatti ignori te stesso non hai il timore di Dio in te, non hai l’umiltà. Si può forse presumere di salvarsi senza il timore di Dio e senza l’umiltà? Avete fatto bene a indicare con il vostro mormorio che lo capite, anzi, che non siete talmente insipienti da credere possibile questo, e così non perdiamo tempo a dimostrare una cosa così evidente. Ma aspettate il resto. O piuttosto dobbiamo arrestarci a causa dei sonnolenti? Speravo di finire con un sermone quanto avevo promesso riguardo alla duplice ignoranza, e l’avrei fatto se non sembrassi troppo lungo agli annoiati. Vedo infatti alcuni che sbadigliano e altri che sonnecchiano. Non fa meraviglia: la notte scorsa le vigilie sono state lunghissime, e questo serve loro di scusa. Ma che cosa devo dire a quelli che allora hanno dormito, e dormono anche ora? Ma non mi fermo di più a provocare la loro vergogna: basta avervi accennato. Spero che in avvenire staranno più svegli, per timore della scottatura delle nostre osservazioni. Con questa speranza ci mostriamo benevoli per questa volta; e dividiamo in due parti, per carità verso di loro, l’argomento che la ragione voleva venisse continuato, sospendendo la trattazione, e ponendo fine dove non era la fine. Coloro poi che furono l’oggetto di tale indulgenza, glorifichino con noi lo Sposo della Chiesa, nostro Signore, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXXVII I. La conoscenza di noi stessi e di Dio deve avere la preferenza sulla scienza di questo mondo; qual è il seme della giustizia 1. Penso che non ci sia ora bisogno di esortare a star svegli, perché certamente è ancora vivo in voi essendo recente, il discorso con cui abbiamo chiuso il sermone precedente, e che proferito da noi in spirito di carità, è servito a svegliare alcuni. Dunque vi ricordate che io ho notato il vostro assenso quando dicevo che nessuno si può salvare senza la conoscenza di se stesso, dalla quale nasce l’umiltà, madre della salvezza, e il timore di Dio che come è l’inizio della sapienza lo è anche della salvezza. Nessuno, dico, si salva senza quella conoscenza, a condizione che abbia l’età e la facoltà di conoscere. Lo dico per i bambini e quelli che non hanno l’uso della ragione, per i quali valgono altre considerazioni. E che cosa dire se uno non conosce Dio? Vi potrà essere speranza di salvezza con l’ignoranza di Dio? Neppure. Non è infatti possibile né amare quello che si ignora, né possedere colui che non si ama. Conosci dunque te stesso per temere Dio; conosci lui per amarlo. Nei primo vieni iniziato alla sapienza, nel secondo ne hai la perfezione, perché inizio della sapienza è il timore del Signore, e la pienezza della legge sta nella carità ( Sal 111,10; Rm 13,10 ). Bisogna guardarsi dall’una e dall’altra ignoranza, in quanto senza timore e amore non vi può essere salvezza. Tutte le altre cose sono indifferenti, né assicurano la salvezza se si conoscono, né sono causa di dannazione se si ignorano. 2. Non dico tuttavia che si debba disprezzare la scienza delle lettere, che serve a erudire e ornare l’anima, e la mette in grado di poter insegnare anche ad altri. Ma occorre che precedano sempre quelle altre due conoscenze, nelle quali come abbiamo detto è compendiata tutta la salvezza. E vedi se non intuiva e non insegnava quest’ordine colui che diceva: Seminate per voi secondo giustizia, e mieterete secondo bontà, e solamente dopo: Illuminatevi con il lume della scienza ( Os 10,12 ). Ha messo per ultimo la scienza, come una pittura che non si può reggere se non ha sotto qualche cosa che la sostenga ed ha premesso le altre due cose da mettervi sotto, come un solido sostegno sul quale distendere la pittura. Mi applicherò sicuro alla scienza, se avrò la sicurezza della speranza mediante la bontà della vita. Tu dunque hai seminato per te secondo giustizia, se dalla vera conoscenza di te hai imparato a temere Dio, ti sei umiliato, hai sparso lacrime, hai dato in elemosina i tuoi beni e ti sei applicato alle altre opere di pietà, se hai castigato il corpo con digiuni e veglie, ti sei battuto il petto e hai stancato il cielo con le tue insistenti preghiere. Questo vuol dire seminare secondo giustizia. I semi sono le buone opere, i buoni sentimenti, sono semi le lacrime. Nell’andare, dice il salmo, se ne va e piange, portando la semente da gettare. Ma che? Piangerà sempre? Oh, no! Ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni ( Sal 126,6 ). Davvero con giubilo, poiché riporta i covoni della gloria. « Ma questo, dici, avverrà nella resurrezione dell’ultimo giorno, ed è troppo lungo aspettare fino ad allora ». II. Il gaudio della speranza e donde esso si generi nell’animo Non perderti d’animo, non venir meno preso dallo scoraggiamento; nel frattempo hai da mietere nell’esultanza, anche fin da ora, dalle primizie dello Spirito. Seminate, dice, secondo giustizia, e mieterete la speranza della vita ( Os 10,12 ). Non ti rimanda all’ultimo giorno quando la ricompensa sarà nella realtà e non solo nella speranza, ma parla del presente. Certamente sarà una grande gioia, e un’esultanza immensa quando verrà la vita. 3. Ma sarà forse senza gioia la speranza di una così grande letizia? Lieti nella speranza ( Rm 12,12 ) dice l’Apostolo. E Davide dice che non si rallegrerà, ma che si è rallegrato perché sperava di andare nella casa del Signore. Non possedeva ancora la vita, ma aveva già mietuto la speranza della vita, e sperimentava in se stesso la verità della Scrittura, che afferma non solo nella ricompensa, ma anche nell’attesa dei giusti esservi letizia ( Pr 10,18 ). Questa viene generata nell’animo di colui che ha seminato per sé secondo giustizia, dalla fiducia nel perdono dei peccati, perdono però che deve avere una conferma dalla efficacia della grazia, per vivere poi più santamente. Chiunque di voi sente in sé operarsi queste cose, sa che cosa dica lo Spirito, la cui voce e la cui operazione non sono mai discordanti tra di loro. Perciò dunque comprende le cose che sente al di fuori, perché le sente al di dentro. Poiché l’unico e medesimo Spirito che parla in noi, opera in voi, dando ai singoli di parlare, agli altri di operare quello che è buono. 4. Pertanto chiunque di noi dopo i primi tempi passati nel chiostro in amarezza e lacrime, prova la gioia di respirare nella speranza della consolazione, e di volare, sollevato sulle ali della grazia, costui veramente già miete, ricevendo il frutto temporaneo delle sue lacrime; ed egli ha veduto Dio e ha udito la voce di lui che diceva: Dategli del frutto delle sue mani ( Pr 31,31 ). Infatti come non ha visto Dio colui che ha gustato e visto quanto è soave il Signore? Quanto dolce e soave ti sente, o Signore Gesù, colui al quale, non solo sono stati da te perdonati i peccati, ma al quale hai fatto dono della santità; e non questo soltanto, ma al cumulo di beni gli è stata anche aggiunta la promessa della vita eterna. Felice chi ha già mietuto tanto, ed ha fin d’ora il suo frutto nella santificazione, e come fine lo attende la vita eterna. A ragione chi, avendo trovato se stesso, ha pianto, si è riempito di gaudio alla vista del Signore, e grazie alla sua misericordia ha già raccolto tanti covoni, il perdono, la santificazione, la speranza della vita. O come è vera la parola che si legge nel Profeta: Coloro che seminano nelle lacrime, mieteranno con gaudio ( Sal 126,5 ). Ivi è in breve compresa l’una e l’altra conoscenza: quella di noi stessi che semina nelle lacrime, e quella di Dio, che miete nel gaudio. III. Dopo la conoscenza di Dio e di noi stessi la scienza che si aggiunge non ci gonfia, e come l’ignoranza di noi genera la superbia 5. Se in noi precede questa doppia conoscenza, la scienza che in caso venga ad aggiungersi non gonfia affatto, in quanto non è in grado di procurare che comodità e onori terreni, veramente inferiori alla speranza concepita e alla letizia che viene da questa speranza, già profondamente radicata nell’animo. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo, dello Spirito Santo che ci è stato dato ( Rm 5,5 ). Quella, la speranza, non delude, perché questa, la carità, infonde la certezza. Per questa infatti lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio. Che cosa pertanto può provenire a noi dalla nostra scienza, quale che possa essere, che non sia inferiore alla gloria di essere annoverati tra i figli di Dio? Ho detto poco: anche se ognuno di noi potesse possedere tutta la terra e quanto essa contiene, tutto questo non meriterebbe uno sguardo in paragone di essa. Del resto, se in noi c’è l’ignoranza di Dio, come possiamo sperare in lui che ignoriamo? Se poi ci manca la conoscenza di noi stessi, come potremo essere umili, credendo di essere qualche cosa, mentre non siamo nulla? Ora, sappiamo che né per i superbi, né per i disperati vi può esser parte nella comunità dei Santi. 6. Vedete dunque ora con me con quanta cura e quanta sollecitudine dobbiamo eliminare da noi queste due ignoranze, delle quali una genera l’inizio di ogni peccato, e l’altra ne porta la consumazione; come, all’opposto, delle due conoscenze, una genera l’inizio della sapienza, e dall’altra deriva la perfezione: la prima produce il timore del Signore, la seconda la carità. Ma questo che riguarda la conoscenza è stato già dimostrato sopra. Ora vediamo dell’ignoranza. Come pertanto il timore del Signore è l’inizio della sapienza ( Sal 111,10; Qo 1,16 ), così principio di ogni peccato è la superbia ( Qo 10,15 ); e come l’amor di Dio si attribuisce la perfezione della sapienza, così la disperazione è considerata come il colmo della malizia. E come dalla conoscenza di te ti viene il timore di Dio, e dalla conoscenza di Dio l’amore di lui così al contrario, dall’ignoranza di te viene la superbia, e dall’ignoranza di Dio la disperazione. Così poi l’ignoranza di te stesso genera in te la superbia, in quanto il tuo pensiero, ingannato e ingannatore, ti persuade falsamente di essere migliore di quello che in realtà sei. E questa è la superbia, questo l’inizio di ogni peccato, quando tu sei più grande ai tuoi occhi di quello che sei davanti a Dio, di quello che sei in verità. E per questo di colui che per primo ha commesso questo grande peccato, parlo del diavolo, è stato detto che non ha perseverato nella verità, ma è bugiardo dall’inizio ( Gv 8,44 ), perché non era in verità quello che nella sua mente pensava di essere. Che cosa sarebbe successo se egli si fosse scostato dalla verità, reputandosi minore o inferiore alla verità? La sua ignoranza l’avrebbe certamente scusato, e non sarebbe stato considerato superbo, né si sarebbe trovata in lui l’iniquità che lo rende odioso, quanto piuttosto l’umiltà che gli avrebbe forse attirato la grazia. Se infatti noi conoscessimo chiaramente in quale stato Dio vede ognuno di noi, non dovremmo passare né sopra né sotto, accomodandoci in tutto alla verità. Ma ora, poiché questo pensiero di Dio ci è nascosto, e come avvolto nelle tenebre, di modo che nessuno sa se sia degno di amore o di odio, è più giusto e certamente più sicuro, seconda il consiglio della stessa Verità, che scegliamo per noi l’ultimo posto, dal quale siamo poi invitati a salire più in su, piuttosto che metterci in alto, e dovere in seguito cedere il posto con vergogna. IV. Quale pericolo sia sollevarsi anche modicamente dalla similitudine della bocca e come l’uomo non debba paragonarsi ad alcuno 7. Per quanto dunque tu ti umili, per quanto ti reputi meno di quello che sei, vale a dire di quanto ti valuti la Verità, non corri rischio. È invece un grande male, e un tremendo pericolo se tu ti elevi, anche di poco, al di sopra del vero, se, per esempio, nel tuo pensiero ti preferisci anche a uno solo, che forse la Verità giudica uguale o superiore a te. Per portare un esempio, a quel modo che dovendo passare per una porta il cui stipite è troppo basso, non ti nuoce se ti inchini più del necessario, ma ti nuoce se ti alzi anche solo un dito più di quanto comporti la misura della porta, perché allora vieni a urtare contro lo stipite e resti con la testa rotta, così nell’anima non è affatto da temere una umiliazione anche grande, ma è da temere assai come cosa orrenda la presunzione di elevarsi, anche minimamente. Perciò, o uomo, non paragonarti ai più grandi di te, agli inferiori, ad alcuni, o anche a uno solo. Chi sa infatti, o uomo, se quell’uno che tu consideri come il più vile, il più misero di tutti, del quale hai singolarmente in orrore la vita scellerata e turpe, e perciò lo consideri degno di disprezzo, non solo rispetto a te che forse pensi di vivere con sobrietà agli altri scellerati tutti come il peggiore di tutti, chissà, dico, che non sia per diventare, per un cambiamento operato dalla destra dell’Altissimo, è migliore di te e degli altri, e davanti a Dio già non lo sia? E perciò il Signore ha voluto che scegliessimo non un posto mediocre, neanche il penultimo o uno tra gli ultimi, ma disse siediti all’ultimo posto ( Lc 14,10 ), in modo da sedere solo ultimo di tutti, senza che, non dico ti preferisca, ma neanche ti paragoni ad alcuno. Ecco quanto male ci viene dall’ignorare noi stessi, la superbia, cioè peccato del diavolo e radice di ogni peccato. Che cosa poi produca l’ignoranza di Dio lo vedremo un’altra volta; adesso infatti il tempo non lo permette, poiché siamo venuti tardi in capitolo. Per ora basti che ognuno sia ammonito a non ignorare se stesso, e non solo dalle parole nostre, ma anche da quelle che si è degnato lasciarci lo Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXXVIII I. L’ignoranza di Dio genera la disperazione 1. Che cosa dunque deriva dall’ignorare Dio? Dobbiamo cominciare di qui, dove avevamo terminato ieri, come ricordate. Che cosa dunque partorisce l’ignoranza di Dio? La disperazione, abbiamo detto; ma diciamo ora in che modo. Poniamo che uno, tornato in sé, pieno di rincrescimento per tutto il male fatto, sia deciso a ravvedersi e a ritirarsi dalla sua condotta cattiva e carnale: se non sa quanto Dio è buono, come è soave e mite, facile e generoso nel perdonare, la sua mente carnale gli porrà innanzi questi pensieri: « Che cosa vuoi fare? Perdere questa vita presente e quella futura? I tuoi peccati sono enormi e troppo numerosi; per tanti e così gravi trascorsi non potrai soddisfare, neanche se ti scorticassi. La tua complessione è fragile, la tua vita è stata delicata. Difficilmente riuscirai a vincere le abitudini ». Per questi e altri simili pensieri il misero, disperato, ritorna sul suo proposito, non conoscendo con quanta facilità l’onnipotente Bontà, che vuole che nessuno perisca, dissiperebbe tutte queste nubi; così ne segue l’impenitenza, che è il delitto più grande, e bestemmia irremissibile. E il poveretto viene inghiottito da una eccessiva tristezza e sommerso nel profondo, né tornerà più a galla per ricevere un po’ di consolazione, come sta scritto: L’empio, quando arriva in fondo ai mali, disprezza ( Pr 18,3 ); oppure, prendendo un pretesto qualunque, si decide a tornare per sempre nel mondo, per godere e deliziarsi di tutti i suoi beni, finché potrà. Quando poi gli sembrerà di poter dire: « Pace e sicurezza », allora piomberà su di lui la catastrofe, né potrà sfuggirla ( 1 Ts 5,3 ). Così dunque, dal non conoscere Dio deriva il sommo della malizia, che è la disperazione. II. Non conoscono Dio quanti non vogliono convertirsi a Lui; non di questa ignoranza è rimproverata la sposa 2. L’Apostolo dice che alcuni dimostrano di non conoscere Dio ( 1 Cor 15,34 ). Ma io dico che tutti quelli che non vogliono convertirsi a lui lo ignorano, e non vogliono convertirsi, senza alcun dubbio, perché immaginano arcigno e severo colui che è pio, duro e implacabile colui che è misericordioso, fiero e terribile colui che è invece amabile: e l’iniquità mentisce a se stessa, formandosene, un idolo che rappresenta ciò che non è. Che cosa temete, uomini di poca fede? Che non voglia rimettere i peccati? Ma egli li ha confitti alla croce con le sue mani. O perché siete teneri e delicati? Ma egli conosce il nostro fango. O perché siete male abituati e vincolati dalla consuetudine del peccato? Ma il Signore ci libera dai ceppi ( Sal 146,7 ). Avete forse paura che, irritato per la gravità e la moltitudine dei peccati, esiti a porgervi la mano soccorritrice? Ma è ormai un fatto consueto che, dove abbondò il peccato, sovrabbondi la grazia. Temete forse per il cibo, per il vestito e per le altre vostre necessità corporali, e per questo esitate ad abbandonare tutte le vostre cose? Ma Dio sa che avete bisogno di tutte queste cose, che cosa volete di più? Quale ostacolo c’è ancora per la vostra salvezza? Ma è come dico. Voi non conoscete Dio, però non credete alle mie parole. Vorrei che credeste almeno a chi ne ha fatto l’esperienza, perché se non crederete, non comprenderete ( Is 7,9 ). Ma non tutti hanno la fede. 3. Lungi pertanto da noi il pensare che la sposa sia stata rimproverata di questo, cioè di non conoscere Dio, lei che è stata favorita, non dico di una cosi grande conoscenza, ma di tanta amicizia e familiarità con lui che è nello stesso tempo suo Sposo e suo Dio, tanto da meritare frequenti colloqui e baci da lui, e ora con ardita dimestichezza gli dice: Mostrami dove pasci li gregge, dove riposi nel meriggio ( Ct 1,6 ). Chiede che le venga indicato non lui, ma il luogo dove abita la sua gloria, sebbene non ci sia differenza tra lui e il luogo di lui o la sua gloria; ma viene considerata degna di rimprovero per la sua presunzione, e ammonita riguardo alla conoscenza di se stessa, nella quale è sembrata difettare, stimandosi capace di una cose sublime visione, sia non badando, nel suo fervore, che era ancora in questo corpo mortale, sia sperando vanamente di poter arrivare a quella inaccessibile chiarezza fin da questa vita. Viene dunque richiamata subito a se stessa, e convinta di ignoranza, e castigata per la sua presunzione. Se ignori te stessa, le dice, esci. Lo Sposo tuona in modo terribile all’amata, non come Sposo, ma come maestro; e non perché sia adirato, ma affinché, spaventata, la sposa si purifichi, e purificata venga resa degna di quella stessa visione a cui anela. Quella visione infatti è riservata ai puri di cuore. III. Perché sia detta bella fra le donne e quali sono queste donne 4. Molto a proposito la sposa è detta bella non in modo assoluto, ma bella tra le donne, vale a dire con una distinzione, di modo che essa si senta maggiormente rimproverata, e si renda conto di quanto le manca. Io penso infatti che con il nome di donne si intendano qui le anime carnali e secolari, che non hanno in sé nulla di virile, che non dimostrano nel loro agire nulla di forte e di costante, ma tutto rilassato, tutto femmineo e molle. L’anima spirituale invece, sebbene già bella perché non cammina secondo la carne ma secondo lo spirito; per il fatto che vive ancora nel corpo pur progredendo non raggiunge la perfezione della bellezza, e pertanto non si può dire bella sotto ogni aspetto, ma bella tra le donne, cioè tra le anime terrene e quelle che non sono come lei spirituali, ma non tra le beatitudini angeliche, non tra le Virtù, le Potestà, le Dominazioni. Come uno dei Padri fu trovato e chiamato giusto nella sua generazione, cioè tra tutti gli uomini del suo tempo e della sua generazione, e Tamar viene presentata come giustificata da Giuda, cioè nel confronto di Giuda, e nel Vangelo si dice che il Pubblicano è disceso giustificato dal tempio, ma giustificato a confronto del Fariseo, e come il grande Giovanni viene grandemente lodato perché non vi era più grande di lui tra i nati di donna, non tra i cori dei beati e celesti spiriti; cose ora la sposa viene detta bella, ma per il momento, solo tra le donne, e non tra le beatitudini celesti. 5. Cessi pertanto, fino a che è sulla terra, di investigare con troppa curiosità le cose del cielo, affinché non le accada che, volendo scrutare la maestà, venga oppressa dalla gloria. Desista, dico, fino, a che sta tra le donne, di ricercare le cose che sono tra quelle sublimi Potestà, note a esse sole in quanto cose celesti, da vedersi dai celesti. « Questa visione che chiedi di contemplare è cosa troppo meravigliosa per te, o sposa, e per ora non sei in grado di fissare i tuoi occhi nella gloria meridiana e stupenda nella quale io abito; Hai chiesto infatti: Mostrami dove pasci il gregge, dove riposi nel meriggio. Essere difatti trasportati tra le nubi, penetrare nella pienezza della luce, irrompere negli abissi dello splendore e abitare nella luce inaccessibile non appartiene né a questo tempo, né a questo corpo. Questo ti è riservato alla fine, quando ti presenterò a me gloriosa, senza macchia né ruga o nulla di simile. Non sai che fino a quando vivi in questo corpo sei una pellegrina che va verso la luce? Come mai tu, che non sei ancora del tutto bella, ti reputi degna di contemplare colui che racchiude in sé ogni bellezza? E come cerchi di vedere me nel mio splendore, quando ancora non conosci te stessa? Poiché, se tu ti conoscessi meglio, sapresti bene che il corpo corruttibile ti appesantisce in modo che non puoi sollevare gli occhi e fissarli in quel fulgore nel quale gli Angeli bramano di fissare il loro sguardo. Quando io apparirò, tu sarai tutta bella, come io sono tutto bello; e molto simile a me, mi vedrai come io sono. Allora udrai: Sei tutta bella, amica mia, in te nessuna macchia ( Ct 4,7 ). Per il momento, anche se sei in parte simile a me e in parte dissimile, accontentati di conoscermi imperfettamente. Bada a te stessa, e non cercare cose più alte, né scrutare cose più forti di te. Diversamente, se ignori te stessa, tu che sei bella tra le donne, poiché io ti dico bella, ma tra le donne, vale a dire, in parte; quando poi verrà ciò che è perfetto allora sparirà ciò che è imperfetto ( 1 Cor 3,10 ). Se, dunque, ignori te stessa … Ma quello che segue è stato già spiegato. Avevo promesso di parlare della duplice ignoranza, credendo di far cosa utile. Scusatemi, ma non l’ho fatto come avrei voluto. Poiché ho si la volontà di fare, ma non riesco poi in pratica a realizzare se non quanto, nella sua benignità, si degna di concedermi per la vostra edificazione lo Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è benedetto nei secoli. Amen. Sermone XXXIX I. Per quale motivo è detto: « Alla mia cavalleria … » e con quale « ordine » la sposa avanza 1. Ai miei destrieri tra i cocchi del Faraone ti ho paragonata, o amica mia ( Ct 1,8 ). Prima di tutto, da queste parole veniamo a sapere con piacere che nei Padri antichi vi è stato un tipo della Chiesa, e i sacramenti della nostra salvezza sono stati presignificati nell’uscita di Israele dall’Egitto, e in quel duplice mirabile servizio reso dal mare, che forniva al popolo di Dio un passaggio e al nemico la vendetta, veniva evidentemente adombrata la grazia del battesimo che salva gli uomini e sommerge i crimini. Tutti, dice san Paolo, attraversarono il mare, e tutti, in rapporto a Mosè, furono battezzati nella nube e nel mare ( 1 Cor 10,1-2 ). Ma bisogna che seguiamo l’ordine del testo, come siamo soliti fare, e uniamo le parole che seguono a quelle che precedono, e così infine ne caviamo, se ci riesce, qualche cosa di buono, che ci aiuti a migliorare i nostri costumi. Pertanto, dopo che la presunzione della sposa è stata repressa da un duro e austero rimprovero, affinché non rimanesse troppo nella tristezza, le vengono ricordati alcuni benefici già ricevuti, e promessi altri che non ha ancora ricevuto, e di nuovo viene detta bella e chiamata amica. « Per il fatto che ti ho parlato con durezza, amica mia, non ti venga sospetto che io abbia per te odio o rancore: infatti quei doni stessi con cui ti ho onorata e ornata sono segni evidenti del mio amore per te. Né intendo affatto ritirarli, anzi, ve ne aggiungerò di maggiori ». Ovvero: « Non avere a male, amica mia, di non ricevere adesso quello che chiedi, tu che hai già ricevuto tanti favori da me: e ne riceverai ancora di più grandi se camminerai nei miei precetti, e persevererai nel mio amore ». Questo per il seguito della lettera. 2. E ora vediamo quali sono i doni che ricorda di averle fatto. Innanzi tutto l’ha paragonata alla sua cavalleria tra i cocchi del Faraone, liberandola dal giogo del peccato, mortificando tutte le opere della carne, come Israele fu liberata dalla schiavitù d’Egitto, mentre tutti i carri del Faraone vennero rovesciati e sommersi nel mare. E questo è un atto di grandissima misericordia, della quale anch’io, se volessi gloriarmi, non sarei insipiente, perché direi la verità. Confesso e confesserò: Se il Signore non fosse mio aiuto, in breve io abiterei nel regno del silenzio ( Sal 94,17 ). Non sono ingrato, non l’ho dimenticato: Canterò senza fine le grazie del Signore ( Sal 89,1 ). Fin qui quello che riguarda la sposa si adatta anche a me. Per il rimanente essa, dopo essere stata per singolare degnazione, liberata, viene scelta come amica, ornata come sposa del Signore, ma per il momento solo sulle guance e sul collo. Le vengono inoltre promessi come gioielli collane d’oro, perché preziose, ma filettate d’argento, per maggiore bellezza. A chi non piacerà assai quest’ordine dei doni? Prima viene, con grande misericordia, liberata, poi con pari degnazione amata, in terzo luogo viene benignamente lavata e purificata, e in ultimo le si promette un ottimo ornamento. 3. Non dubito che alcuni tra voi riconoscono in se stessi quello che stiamo dicendo, e, ammaestrati dalla propria esperienza, precorrono nel comprendere. Ma in verità, memore di quel versetto: La tua parola nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici ( Sal 119,130 ), per questi piccoli e semplici credo opportuno spiegare un po’ più ampiamente queste cose. Benigno è infatti lo spirito di sapienza, e a lui piace il dottore benigno e diligente, che si preoccupa di dare in tal modo soddisfazione ai capaci, da non ricusare di tener conto delle esigenze dei meno dotati. E poi coloro che mi illustrano, avranno la vita eterna ( Sir 24,31 ), dice la stessa Sapienza, e io non vorrei essere privato di questo premio. Però anche qui le cose che sembrano facili e piane, talora nascondono tali sensi, che non sarebbe inutile spiegare con maggior diligenza a coloro stessi che sembrano più perspicaci. II. Come l’anima è paragonata alla moltitudine della « cavalleria » 4. Ma vediamo ora il paragone preso dal Faraone e il suo esercito e la cavalleria del Signore. Il paragone non è tra i due eserciti, ma è preso da essi, quale rapporto infatti vi può essere tra la luce e le tenebre, e quale collaborazione tra un fedele e un infedele? ( 2 Cor 6,14-15 ). Ma tra l’anima santa e la cavalleria del Signore c’è la similitudine, come tra Faraone e il demonio e i loro rispettivi eserciti. Né ti stupirai che una sola anima è assimilata a una moltitudine di cavalieri, se rifletti che in una sola anima, che sia veramente santa, vi sono palestre, di innumerevoli virtù: quanto ordine negli affetti, quanta disciplina nei costumi, quale armatura nelle orazioni, quanta forza nelle azioni, quanto terrore nello zelo, quanta, infine, assiduità negli scontri con il nemico, e quale frequenza di trionfi! E poi andando avanti si legge: Terribile come schiere a vessilli spiegati ( Ct 6,3 ). E ancora: Che cosa vedrai, dice, nella Sulammita, se non cori militari? ( Ct 7,1 ). Ovvero, se non ti piace questo, sappi che una tale anima non è mai senza scorta di angeli che la custodiscono, che sono gelosi di lei di una gelosia divina, solleciti di custodirla e presentarla come vergine casta a Cristo suo Sposo. E non dire in cuor tuo: « Dove sono? Chi li ha visti? ». Li ha visti il Profeta Eliseo, il quale con la preghiera ha ottenuto che li vedesse anche Giezi. Tu non li vedi perché non sei Profeta, né servo di Profeta. Li vide il Patriarca Giacobbe e disse: Questi sono gli accampamenti di Dio ( Gen 32,2 ). Li vide anche il Dottore delle genti, il quale diceva: Non sono forse tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza? ( Eb 1,14 ). 5. Sorretta dunque dal ministero degli angeli e circondata dalle schiere celesti, la sposa avanza come la cavalleria del Signore, quella cavalleria che un giorno, con stupendo miracolo del divino aiuto, trionfò contro i cocchi del Faraone. Se infatti osservi bene, troverai che quelle meraviglie che furono allora compiute, si ripropongono qui alla tua ammirazione. Anzi, ora il miracolo è più stupendo, perché le cose che allora corporalmente precedettero come figure, si compiono qui spiritualmente. Non ti sembra infatti un’impresa molto più grande e gloriosa sconfiggere il diavolo che il Faraone e debellare le potestà dell’aria più che rovesciare i cocchi del Faraone? Là si è combattuto contro la carne e il sangue, qui contro i Principati e le Potestà, contro i reggitori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti celesti della nequizia ( Ef 6,12 ). E considera con me le singole parti del raffronto. Là il popolo fu fatto uscire dall’Egitto, qui l’uomo viene salvato dal secolo; là viene prostrato il Faraone, qui il demonio; là vengono rovesciati i cocchi del Faraone, qui vengono sommersi i desideri carnali che combattono contro l’anima; quelli nei flutti, questi nelle lacrime: marini quelli, amare queste. Penso che anche adesso se i demoni incontrassero un’anima tale griderebbero: Fuggiamo di fronte a, Israele, perché il Signore combatte per lui ( Es 14,25 ). III. Descrive i tre principi del faraone, i loro cani e i loro addobbi a mo’ di esempio Vuoi che ti indichi con i loro nomi alcuni dei principi del Faraone, e ti parli dei cocchi, di modo che da questi tu possa da te stesso trovare gli altri, se ve ne sono? Un grande principe spirituale, e pertanto invisibile, del re di Egitto è la Malizia, un altro grande è la Lussuria, un altro grande è l’Avarizia. E questi hanno i loro confini sotto il loro re, secondo che sono stati assegnati a ciascuno. Cosi la Malizia domina in tutta la regione dei malefici e dei delitti; la Lussuria presiede a tutte le immondizie e turpitudini della carne, l’Avarizia ha il principato nel campo della rapina e della frode. 6. Considera ora quali cocchi abbia fornito il Faraone a questi suoi principi per correre dietro al popolo di Dio. La Malizia ha un cocchio con quattro ruote: la Crudeltà, l’Impazienza, l’Audacia e l’Impudenza. Questo cocchio è infatti molto veloce e adatto a spargere sangue in quanto né si ferma davanti all’innocenza, né viene ritardato dalla pazienza, né frenato dal timore, né inibito dal pudore. Ed è trainato da due pericolosi cavalli, prontissimi a ogni strage: la terrena Potenza e la Pompa secolare. Questa quadriga della Malizia corre assai velocemente, mentre da una parte subisce gli effetti della Potenza che la spinge a mettere in opera i suoi maliziosi progetti, dall’altra ha l’approvazione della Pompa che plaude alle perpetrate scelleratezze, di modo che si adempie quello che sta scritto: Il peccatore viene lodato nei desideri del suo cuore, e l’iniquo è benedetto ( Gv 15,25; Sal 9,23 ). E altrove dice ancora la Scrittura: Questa è l’ora vostra, è l’impero delle tenebre ( Lc 22,53 ). Guidano poi i due cavalli due cocchieri, il Gonfiore e il Livore. Il Gonfiore guida la Pompa, il Livore la Potenza. Colui infatti che si gonfia nel suo cuore, rapidamente viene portato dall’amore delle diaboliche pompe. Chi invece sta fermamente compresso dal timore, modesto per la sua gravità, solido nell’umiltà, sano per la sua purità, non viene portato via facilmente da quest’aura di vanità. Cosi il giumento della terrena Potenza, non è forse guidato dall’invidia, e spinto di qua e di là da una specie di speroni del Livore che sono il sospetto di decadimento e la paura di soccombere? Una cosa infatti è sospettare un successore, e un’altra temere un invasore. Da questi stimoli la Potenza terrena è continuamente agitata. Questo per quanto riguarda il cocchio della Malizia. 7. Il cocchio invece della Lussuria scorre sulle quattro ruote dei seguenti vizi: l’Ingordigia del ventre, la Libidine sessuale, la Mollezza delle vesti e la Rilassatezza dell’ozio e del sonno. È trainato anch’esso da due cavalli, la Prosperità della vita e l’Abbondanza delle sostanze, e questi due cavalli sono guidati da due cocchieri, il Torpore dell’ignavia e l’infida Sicurezza, poiché l’Abbondanza scioglie l’ignavia, e secondo la Scritturala prosperità degli stolti è causa della loro rovina ( Pr 1,32 ), non per altro motivo certamente se non perché li rende malamente sicuri. E quando diranno: pace e sicurezza, allora li colpirà d’improvviso la rovina ( 1 Ts 5,3 ). Costoro non hanno speroni né fruste, ma in cambio hanno ombrelli per far ombra e ventagli per fare fresco. Pertanto l’ombrello è la Dissimulazione, che fa ombra e protegge dall’ardore delle preoccupazioni. È proprio infatti di un’anima molle e delicata dissimulare anche le preoccupazioni necessarie, e per non sentire il bruciore delle sollecitudini, nascondersi al riparo della Dissimulazione. Ventaglio invece è l’Effusione, che porta il vento dell’adulazione. Gonfi sono infatti i lussuriosi e comprano con oro il vento della bocca di chi li adula. E di questo basta. 8. Anche l’Avarizia corre sulle ruote di quattro vizi, che sono la Pusillanimità, la Disumanità, il Disprezzo di Dio, la Dimenticanza della morte. I giumenti che la tirano sono la Tenacia e la Rapacità, e a questi due presiede un solo cocchiere, la Brama di avere. La sola Avarizia infatti, non sopportando di avere parecchi servitori, si contenta di uno solo. Ma questi è molto pronto nel compito assegnatogli, e infaticabile nell’eseguirlo, e nello spronare i giumenti che tirano usa fruste asprissime, che sono la Cupidigia nell’acquistare e il Timore di perdere. IV. I nomi dei restanti principi del Faraone, e come da questi principi spirituali Israele sia liberato 9. Vi sono anche altri principi del re di Egitto, provvisti anch’essi dei loro cocchi nella spedizione del loro padrone, come la Superbia, che è uno dei principi maggiori, come l’Empietà, nemica della fede, che tiene anch’essa un posto importante nella casa e nel regno del Faraone, e molti altri ancora di ordine inferiore, satrapi e cavalieri innumerevoli nell’esercito del Faraone; lascio a voi di cercare i loro nomi e uffici, nonché le armi e l’apparecchio bellico, affinché vi esercitiate nei vostri studi. L’invisibile Faraone, scorazzando ovunque tramite questi forti principi e i loro cocchi con tutte le forze di cui dispone, infuria in tutta la famiglia del Signore con fare da tiranno, e con essi, anche ai nostri giorni, insegue Israele che esce dall’Egitto. Ma questa, né trasportata su cocchi, né protetta dalle armi, rafforzata dalla sola mano del Signore canta sicura: Voglio cantare in onore del Signore, perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere ( Es 15,1 ). E ancora: Chi si vanta dei carri e dei cavalli, noi siamo forti nel nome del Signore nostro Dio ( Sal 20,8 ). Tutto questo abbiamo detto per spiegare il paragone addotto della cavalleria del Signore e dei cocchi del Faraone. 10. Inoltre la sposa viene chiamata amica. Lo Sposo infatti, anche prima della liberazione, era amico: se no non avrebbe liberato colei che non amava; ma quella con il beneficio della liberazione, è stata presentata per essere sua amica. Senti come lo confessa: Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è stato Lui che per primo ci ha amati ( 1 Gv 4,10 ). Mi ricordo ora di Mosè e della donna Etiope, e riconosco prefigurato fin da allora in essi, lo sposalizio tra il Verbo e l’anima peccatrice, e cerco di discernere, nella considerazione di questo soavissimo sacramento, se sia più dolce l’estrema benignità della degnazione del Verbo, o l’inestimabile gloria dell’anima, o l’insperata fiducia donata al peccatore. Ma Mosè non ebbe il potere di mutare la pelle della donna etiope, Cristo poté farlo. Segue infatti: Belle sono le tue guance, come di tortora ( Ct 1,9 ). Ma riserviamo questo a un altro sermone, affinché prendendo sempre con avidità quelle cose che ci vengono servite dalla mensa dello Sposo, diventino sulla nostra bocca materia di lode e gloria per lui. Gesù Cristo nostro Signore, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XL I. Quale sia la faccia dell’anima, dalla quale promana la sua bellezza 1. Belle sono le tue guance come di tortora ( Ct 1,9 ). Delicata è la verecondia della sposa; e penso che al rimprovero dello Sposo la sua faccia si sia coperta di rossore, e apparendo per questo più bella, subito si sia sentita dire: Belle sono le tue guance come di tortora. Bada di non interpretare queste parole in senso carnale, immaginando una carne soggetta a putrefazione colorata all’esterno, a cui l’umore purulento giallo e sanguigno, misto a un rosso pallido diffuso in modo uniforme sulla superficie della pelle conferiscono, specialmente alle guance, un’apparenza di grazia, che dà risalto alla bellezza del corpo. Del resto la sostanza, incorporea e invisibile, dell’anima non si è distinta in membra corporee, né dipinta da visibili colori. Ma tu, se puoi, cerca di comprendere con spirituale intuito l’essenza spirituale e, per adattarla alla proposta similitudine immagina come faccia dell’anima l’intenzione della mente; da questa si giudica la bontà degli atti, come dalla faccia si stima la bellezza del corpo. Pensa alla verecondia come al colore della faccia, perché questa virtù principalmente conferisce bellezza e aumenta la grazia. Belle sono le tue guance come di tortora. Poteva, come si usa di preferenza, parlare di un bel volto; così si fa quando si vuole lodare la bellezza di qualcuno. Si dice infatti allora che ha un volto bello e grazioso; non so perché abbia preferito nominare al plurale le guance; è certo però che non l’ha fatto senza una ragione. È infatti lo Spirito di sapienza che parla, e a lui non si può attribuire alcunché, anche minimo, di inutile, o detto in modo diverso da quanto occorre. C’è dunque una ragione, qualunque possa essere, per cui ha voluto nominare le guance, piuttosto che dire al singolare « la faccia ». E se tu non hai di meglio, io ti spiego il significato che questo a me sembra avere. II. Nello sguardo dell’anima sono da considerare due elementi, l’oggetto e la causa, quasi fossero due guance 2. Due cose si richiedono necessariamente nell’intenzione, che abbiamo detto essere la faccia dell’anima: la cosa e la causa, vale a dire, ciò che viene inteso, e la ragione per cui viene inteso. Da queste due cose dipende la bellezza o la deformità dell’anima, di modo che, per esempio, all’anima che possiede queste due cose rette e oneste si può dire giustamente e in verità: Belle sono le tue guance come di tortora. Di quella invece a cui manca una di queste due cose non si potrà dire che le sue guance sono belle come quelle della tortora, a causa della deformità che vi è ancora in parte. E molto meno si potrà dire a quella che si trova non avere né l’una cosa né l’altra degne di lode. Questo si comprenderà meglio con esempi. Se uno si applica a cercare la verità, e lo fa solo per amore della verità, non ti sembra che costui si applichi a una cosa onesta e per un motivo onesto, e possa giustamente applicare a sé quello che è detto: Belle sono le tue guance come di tortora, in quanto in nessuna delle due guance appare neo alcuno che meriti riprensione? Ma se uno va in cerca della verità non tanto per amore della verità, ma in vista della vanagloria o per ottenere un qualsiasi vantaggio temporale, anche se sembrerà aver bella una delle due guance, non esiterai a dichiararlo parzialmente deforme, perché l’altra parte della faccia è macchiata dalla bruttezza della causa. Se poi vedi un uomo che non si applica affatto a cose oneste, ma è invischiato nelle attrattive della carne, dedito al ventre e alla lussuria, quali sono quelli che hanno per dio il ventre e si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra ( Fil 3,19 ), che cosa dire di costui? Non lo giudicherai forse bruttissimo da ogni lato, dato che in quello che cerca è riprovevole sia l’oggetto, sia il motivo? 3. Dunque tendere non a Dio, ma al mondo, è indizio di anima secolare, che non ha bella nessuna delle due guance. Tendere quasi a Dio, ma non per Dio, è segno piuttosto di anima ipocrita, perché, anche se per una parte della faccia sembra bella, la simulazione distrugge in essa ogni bellezza, e fa apparire il tutto piuttosto brutto. Se poi rivolgerà a Dio l’intenzione solo o massimamente per le cose necessarie alla vita, non la direi puzzare del vizio di ipocrisia, ma almeno semioscura, a causa del difetto della pusillanimità, e meno gradita a Dio. Al contrario, applicarsi a qualche cosa di diverso da Dio, ma per Dio, non è riposo di Maria, ma sollecitudine di Marta. Non direi tuttavia che una tale anima abbia qualcosa di deforme. Ma neanche oserei affermare che abbia raggiunto la perfetta bellezza: per il fatto che è ancora sollecita e si turba per troppe cose, non è possibile che resti esente da un po’ di polvere, sia pur tenue, degli atti terreni. Da questa tuttavia potrà presto e facilmente liberarla, almeno nell’ora della santa morte, una casta intenzione e la buona coscienza che esamina di fronte a Dio. Dunque, cercare Dio per lui solo, questo è veramente avere una faccia bellissima in entrambe le guance, e questo è propria e speciale prerogativa della sposa, alla quale a buon diritto, per singolare prerogativa, è concesso sentirsi dire: Belle sono le tue guance, come di tortora. III. In che modo la solitudine della tortora sia desiderabile e quando soprattutto; che cosa crea questa solitudine; sul non dover giudicare 4. E perché come di tortora? È un uccellino pudico, che si dice non abbia società con molti uccelli, ma vive solo con il suo compagno, di modo che, se perde quello, non ne cerca un altro, ma rimane in seguito solo. Tu dunque che ascolti, per non udire inutilmente queste cose che sono state scritte per te, e ora per te vengono esposte e commentate, tu, dico, se ti senti mosso da questi incitamenti dello Spirito Santo, e ti adoperi a fare della tua anima la sposa di Dio, studiati di avere belle queste tue due guance dell’intenzione, affinché a imitazione della castissima tortora ti sieda solitario, come dice il Profeta, perché ti sei elevato sopra di te. È cosa veramente superiore a te divenire sposa del Signore degli Angeli. Non è cosa superiore a te l’aderire a Dio e formare con lui un solo spirito? Siediti dunque solitario come la tortora. Non avere a che fare con le folle, nulla avere in comune con la moltitudine degli altri; dimentica lo stesso tuo popolo e la casa di tuo padre, e il Re guarderà con compiacenza la tua bellezza. O anima santa, resta sola, per riservare te stessa al solo di tutti che tra tutti ti sei eletta. Fuggi il pubblico, fuggi gli stessi parenti, separati dagli amici e dagli intimi, perfino da quello che ti serve. Non sai che hai uno Sposo verecondo, che non vuole farti dono della sua presenza davanti agli altri? Ritirati dunque, ma con la mente, non con il corpo, ma con l’intenzione, con la devozione, con lo spirito. Spirito è infatti davanti alla tua faccia Cristo Signore ( Lam 4,20 ), e richiede la solitudine dello spirito, non della carne, quantunque qualche volta giovi anche questa solitudine corporale, quando ne hai l’opportunità, specialmente nel tempo dell’orazione. Hai anche in questo il comando dello Sposo e il suo esempio. Tu, dice, quando pregherai, entra nella tua stanza e, chiusa la porta, prega ( Mt 6,6 ). E quello che disse lo fece. Solo passava la notte nell’orazione, non solo nascondendosi alle folle, ma non ammettendovi neanche uno dei discepoli, neanche uno dei suoi, intimi. Alla fine aveva preso con sé tre dei suoi più intimi, quando si incamminava spontaneamente verso la morte; ma si scostò anche da essi per pregare. Fa dunque anche tu lo stesso, quando vuoi pregare. 5. Del resto si richiede da te solo la solitudine della mente e dello spirito. Sei solo se non pensi alle cose comuni, se non badi alle cose presenti, se disprezzi ciò che molti desiderano, se non curi ciò che tutti bramano, se eviti le contese, se non sei sensibile ai danni, se non ti ricordi delle ingiurie. Diversamente, anche se fossi solo corporalmente, non saresti solo. Vedi come puoi essere solo anche tra molti, e tra molti anche se solo! Sei solo anche se ti trovi assiepato in una moltitudine di uomini: bada solamente di non essere giudice temerario o curioso investigatore della condotta altrui. Anche se ti trovi davanti a un’azione cattiva del tuo prossimo, non giudicarlo, ma piuttosto scusalo. Scusa l’intenzione, se non puoi scusare l’azione: pensa all’ignoranza, pensa a una cosa che è sfuggita, pensa al caso. Che se la certezza della colpa non ammette affatto scusa, cerca allora di persuaderti, dicendo a te stesso: « Si è trattato certo di una tentazione troppo forte; che sarebbe successo a me se quella mi fosse capitata addosso? ». E ricordati che io ora sto parlando alla sposa e non sto dando lezioni all’amico dello Sposo, il quale ha altri motivi per osservare diligentemente che nessuno pecchi, e di investigare se qualcuno lo faccia, per portare l’emendamento, se vi sarà stato peccato. Da questa necessità la sposa è libera, solo preoccupata di vivere per sé e per colui che ama, e che è nello stesso tempo suo Sposo e Signore, che è benedetto nei secoli. Amen. Sermone XLI I. Il collo dell’anima, che viene identificato nell’intelletto 1. Il tuo collo come i monili ( Ct 1,9 ). Si è soliti adornare il collo con monili, non paragonarlo a essi. Ma questo lo facciano quelle che, non avendo da natura un bel collo, sono costrette a ricorrere a mezzi esterni per apparire falsamente belle. Il collo, invece, della sposa è talmente bello in se stesso, è dotato da natura di tale grazia, da non aver bisogno di ricorrere a ornamenti esterni. Che bisogno ha infatti di ricorrere ai colori di peregrini belletti un collo a cui è sufficiente la propria naturale bellezza, tanto da farla paragonare allo splendore degli stessi monili che sono ricercati come ornamento? Questo ha voluto significare colui che ha detto, non che dal collo pendevano monili, ma piuttosto lo stesso collo essere come monili. Adesso dobbiamo invocare lo Spirito Santo affinché, come ci ha concesso di trovare, per sua degnazione, le guance spirituali della sposa, così si degni di mostrarci il suo collo spirituale. É alla mia intelligenza, giacché a me incombe il dovere di dire quello che penso, nulla sembra, per il momento, più chiaramente verisimile e probabile che con il nome di collo venga inteso lo stesso intelletto dell’anima. Anche tu, penso, sarai di questo avviso se rifletterai alla ragione di questa somiglianza. Non ti sembra che l’intelletto faccia le veci del collo, in quanto per esso l’anima fa passare in sé i vitali alimenti dello spirito, e li immette in una specie di visceri che sono i suoi costumi e affetti? Questo è dunque il collo della sposa, vale a dire il puro e semplice intelletto, che risplende abbastanza da se stesso per la nuda e aperta verità, senza aver bisogno di ornamento; anzi esso stesso, quale prezioso monile, orna decentemente l’anima, e per questo è presentato simile ai monili. Buon monile è la verità, buon ornamento la purità e semplicità, buon monile veramente la sapienza con sobrietà. L’intelletto dei filosofi e degli eretici non ha in sé questo splendore di purità e di verità; per questo costoro mettono molta cura nel verniciarlo e imbellettarlo con ornamenti di parole e sottigliezze di sillogismi, perché non appaia, se si mostra nudo, anche la turpitudine della falsità. II. A chi compete dire: « Collane d’oro » 2. Segue: Ti faremo degli orecchini d’oro, filettati d’argento ( Ct 1,10 ). Se avesse detto: « Farò », al singolare, e non al plurale: « Faremo », avrei senz’altro pensato che qui parli lo Sposo. Ma forse ci conviene più giustamente attribuire queste parole ai suoi compagni, i quali con questa promessa consolano la sposa, dicendo di farle dei pendenti belli e preziosi che sono ornamento degli orecchi, fino a che non pervenga alla visione di colui dal cui desiderio arde tutta. E questo perché, penso io, la fede viene attraverso l’udito: fino a che camminiamo nella fede, e non ancora nella visione, bisogna applicare piuttosto l’udito per istruirci che non la vista per la contemplazione. Invano infatti si fissa l’occhio che non è purificato dalla fede, perché solo ai puri di cuore è promessa un’ampia visione. Ora è scritto: Purificandone i cuori con la fede ( At 15,9 ). Poiché dunque la fede viene attraverso l’udito, e da essa dipende la purificazione della vista, giustamente quelli attendevano di ornare le orecchie, essendo l’udito, come abbiamo dimostrato, preparazione alla visione. « Tu », dicono alla sposa, brami contemplare la gloria dello Sposo; ma questo è riservato a un altro tempo. Per il momento diamo ornamenti ai tuoi orecchi; questo sarà per te una consolazione per ora e ti disporrà a quello stesso che tu chiedi. Come se le rivolgessero la parola del Profeta: Ascolta figlia, e vedi ( Sal 45,11 ). Brami vedere, ma prima ascolta. L’udito è scalino alla vista. Perciò ascolta, e inclina le tue orecchie agli ornamenti con cui le adorniamo, affinché per l’obbedienza dell’ascolto tu pervenga alla gloria della visione. Noi al tuo udito diamo gaudio e letizia. Non spetta a noi darti la gioia della visione, nella quale sta la pienezza del gaudio e il compimento del suo desiderio, ma a colui che l’anima tua ama. Egli, perché il tuo gaudio sia pieno, ti mostrerà se stesso, egli ti ricolmerà di letizia mostrandoti il suo volto. Tu frattanto ricevi per tua consolazione questi orecchini dalle nostre mani; dalla destra di lui avrai le gioie senza fine. III. Quali sono le « collane d’oro » e come filettate di argento; per il ministero degli angeli si formano interne visioni 3. Da notare di che cosa sono fatti questi orecchini che gli amici dello Sposo offrono alla sposa: d’oro, dice, filettati d’argento. L’oro è il fulgore della divinità, oro è la sapienza che viene dall’alto. In questo oro promettono di incastonare in qualche modo certi fulgidi segni della verità coloro che hanno il compito di superni orefici, e quello di inserire i preziosi pendenti alle interiori orecchie dell’anima. Io penso poi che questo non sia altro che comporre certe spirituali similitudini, e portare in esse, davanti agli sguardi dell’anima che contempla, le cose purissime della divina sapienza sperimentate, affinché veda, almeno come in uno specchio e in enigma, quello che non è ancora in grado di vedere faccia a faccia. Sono cose divine e del tutto sconosciute se non a chi ne ha esperienza quelle che diciamo, in che modo cioè, in questo corpo mortale, ancora nel dominio della fede, e quando ancora non brilla la sostanza della chiara luce interna, la contemplazione della pura verità ogni tanto tenti di realizzarsi in noi, almeno in parte; di modo che qualcuno di noi, al quale questo fu concesso dall’alto, possa applicarsi le parole dell’Apostolo: Ora conosco in modo imperfetto ( 1 Cor 13,12 ) e quelle altre: La nostra conoscenza è imperfetta, e imperfetta la nostra profezia ( 1 Cor 13,9 ). Quando perciò la luce divina quasi un rapido lampo brilla alla mente, mentre lo spirito viene rapito in estasi, subito, non so di dove, si presentano immagini di cose inferiori, sia per temperare l’eccessivo splendore, sia per dare spiegazioni della cosa, convenientemente adattate ai sentimenti divinamente infusi, mediante i quali quel purissimo e splendidissimo raggio di verità, in certo modo velato, è reso più tollerabile dall’anima, e più facilmente comprensibile a coloro cui essa lo vorrà comunicare. Penso tuttavia che queste immagini vengano formate in noi dalle suggestioni dei santi Angeli, come, al contrario, nutrirli. E questo non le capita solo ora; anche un’altra volta, come ricordo, quando sospirava gli amplessi e i baci dello Sposo, le venne risposto: Le tue mammelle sono migliori del vino ( Ct 1,1 ) perché da questo comprendesse che lei è madre, e fosse richiamata al dovere di fare il latte ai pargoli e di nutrire i figli. Forse anche negli altri passi di questo Cantico potrai vedere anche tu questa stessa cosa da te stesso, se non sarai troppo pigro nell’investigare. Non era forse questo prefigurato nel santo Patriarca Giacobbe quando, frustrato nei desiderati e a lungo aspettati amplessi di Rachele, ricevette, contro la sua volontà e senza saperlo in luogo della bella e sterile la feconda e cisposa? Così dunque adesso la sposa desiderosa di sapere e in cerca del luogo dove il diletto pasce il gregge e riposa nelle ore meridiane, ne riporta orecchini d’oro ornati d’argento, cioè la scienza con l’eloquenza, che le sono dati senza dubbio per il compito della predicazione. IV. La sposa chiede una cosa e ne riceve un’altra; invece della quiete della contemplazione l’azione della predicazione 4. Da questo dobbiamo imparare a sospendere il più delle volte i dolci baci per porgere il latte del petto, e che nessuno deve vivere per se stesso, ma tutti dobbiamo vivere per colui che per tutti è morto. Guai a coloro che hanno avuto il dono di bene sentire e di bene parlare di Dio se fanno servire al lucro la pietà, se usano per la vanagloria quello che avevano ricevuto per distribuirlo a gloria di Dio, se gustando le cose sublimi non si sanno abbassare alle umili. Temano questi tali quello che si legge nel Profeta, dove il Signore dice: Ho dato loro il mio oro e il mio argento, ed essi del mio oro e del mio argento si sono fatti un Baal ( Os 2,8 ). Tu invece ascolta quello che la sposa, dopo aver ricevuto prima un rimprovero e poi una promessa, risponde. Non si gonfia infatti per la promessa, né si adira per la ripulsa; ma come è scritto: Correggi il sapiente e ti amerà ( Pr 9,8 ) e altrove per quanto concerne i doni e le promesse: Quanto più sei grande tanto più umiliati in tutto ( Qo 3,20 ); queste due cose appariranno più chiare dalla sua risposta. Ma differiamo a un altro sermone questo argomento, e per quanto è stato detto glorifichiamo lo Sposo della Chiesa, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XLII I. Per quale motivo si dice: « Quando il re era nella sue stanze … » 1. Mentre il re stava nel suo recinto, il mio nardo esalò il suo profumo ( Ct 1,11 ). Queste sono le parole della sposa che abbiamo deciso di commentare in questo giorno, questa la risposta che essa ha dato quando è stata rimproverata dallo Sposo. Questa risposta tuttavia non l’ha data allo Sposo stesso, ma ai suoi compagni, come facilmente si ricava dalle medesime parole. Non dice infatti in seconda persona: « Quando tu, o Re, eri nel tuo recinto », ma quando il Re era nel suo recinto. Così si vede che non parla direttamente a lui, ma di lui. Si può pertanto immaginare che lo Sposo, dopo averla rimproverata e repressa come aveva creduto bene di fare, vista la sua vergogna dal rossore delle guance, sia passato altrove, affinché essa in sua assenza dicesse più liberamente quello che sentiva, e nel caso che fosse troppo pavida e abbattuta più del necessario, come è solito accadere, fosse sostenuta dalle consolazioni dei suoi compagni. Non trascurò però di fare questo personalmente quando lo giudicò opportuno, secondo le circostanze. Infatti, per dimostrare chiaramente quanto gli era piaciuto il comportamento della sposa in occasione di quella correzione, avendo constatato che l’aveva ricevuta in modo degno e come si doveva, prima di assentarsi aveva espresso, certamente dall’abbondanza del cuore, le sue lodi, proclamando la bellezza delle sue guance e del suo collo. Per questo quelli che restano con lei le parlano con dolcezza e le offrono doni, ben sapendo che questa è la volontà del Signore. A essi dunque è rivolta la sua risposta. Questa è la trama letterale del testo. 2. Ma prima di cominciare a estrarre da questa scorza il nucleo spirituale, voglio dire brevemente una cosa. II. Le correzioni accettate meno benignamente per disprezzo o impazienza o impudenza Felice colui che, quando viene rimproverato, si comporta secondo l’esempio che ci è proposto in questo passo. Oh, non ci fosse mai bisogno di fare dei rimproveri! Questo sarebbe il meglio. Ma poiché in molte cose manchiamo tutti ( Gc 3,2 ), non mi è lecito tacere, avendo per ufficio il dovere di correggere colui che manca; è più urgente la carità. Che se avrò fatto una riprensione, come è mio dovere, ma quel rimprovero non ottiene il suo effetto, né raggiunge lo scopo per cui l’ho fatto, e torna invece a me vuoto come un dardo che ferisce e rimbalza, che cosa pensate che vi sia nel mio cuore, o fratelli? Non sarò io in angustia? Non mi torcerò dal dolore? E per applicarmi le parole del Maestro, poiché non ho la sua sapienza, mi trovo in ansia davanti a queste due cose, non sapendo quale scegliere: compiacermi di quello che ho detto, perché ho fatto quello che dovevo, oppure pentirmi delle mie parole, perché non ho ottenuto l’effetto che volevo. Ho voluto sopprimere il nemico e liberare il fratello, e non ho ottenuto questo; è capitato piuttosto il contrario, perché ho ferito la sua anima e ne ho accresciuto la colpa, in quanto si è aggiunto il disprezzo. Non vogliono ascoltare te, dice, perché non vogliono ascoltare me ( Ez 3,7 ). Vedi che viene disprezzata la maestà. Non credere di disprezzare me solo. Il Signore ha parlato, e ciò che ha detto al Profeta lo ha detto anche agli Apostoli: Chi disprezza voi, disprezza me ( Lc 10,16 ). Non sono Profeta, non sono Apostolo, e tuttavia oso dirlo, tengo il posto del Profeta e dell’Apostolo; e se non sono uguale a loro in meriti, sono implicato nelle loro sollecitudini. Anche se a mia grande confusione, anche se con mio grande pericolo, siedo sulla cattedra di Mosè, del quale tuttavia non mi attribuisco la vita, né sperimento la grazia. E con ciò? Cessa forse di essere la cattedra di Mose per il fatto che è occupata da un indegno? Anche se su di essa siedono gli scribi e i farisei, dice il Signore, fate quello che dicono ( Mt 23,3 ). 3. Per lo più al disprezzo si unisce anche l’impazienza, sicché chi è rimproverato, non solo non cerca di correggersi, ma si indigna contro colui che gli ha fatto l’osservazione, come un frenetico che allontana la mano del medico. Strana perversità! Ci si adira contro il medico, e non lo si fa contro colui che scaglia le saette. Vi è infatti chi nell’oscurità scaglia saette contro i retti di cuore, ed è proprio costui che ti ha ora ferito a morte: e tu non ti adiri contro di lui? E ti mostri indignato con me che voglio guaristi? Adiratevi e non peccate ( Sal 4,5 ). Se ti adiri contro il peccato, non solo non pecchi affatto, ma distruggi l’effetto dei peccati passati. Ma ora, rifiutando la medicina, aggiungi peccato a peccato adirandoti senza ragione: ed è un peccato oltremodo grande. 4. Talvolta viene ad aggiungersi l’impudenza, di modo che non solo si sopporta malvolentieri la correzione, ma si arriva a difendere impudentemente la mancanza per cui si è ripresi. Qui c’è proprio da disperare. La tua fronte è divenuta come quella di una meretrice, non ha voluto arrossire ( Ger 3,3 ) e aggiunge: Se ne è andato il mio zelo da te, non mi adirerò più oltre con te ( Ez 16,42 ). Tremo al solo sentire queste parole. Senti quanto sia cosa pericolosa, orribile e da far tremare il difendere il proprio peccato? Dice ancora: Io sgrido e castigo quelli che amo ( Qo 9,1 ). Se dunque ti ha abbandonato lo zelo e l’amore, non sarai neppure degno di amore, essendoti stimato indegno del castigo. Vedi come Dio è maggiormente sdegnato quando non si adira. Si usi pure clemenza all’empio, dice, non imparerà la giustizia ( Is 26,10 ). Io non voglio questa misericordia. Questa clemenza è più terribile di ogni ira, perché mi preclude le vie della giustizia. Mi basta dunque, secondo il consiglio del Profeta, imparare la disciplina perché non si adiri un giorno il Signore e smarrisca la via giusta. Voglio che tu ti adiri con me, o Padre delle misericordie; ma con quella ira per cui correggi il traviato, non con quella per cui lo scacci fuori dalla via. Quello produce in noi la tua benigna correzione, questo è effetto della paurosa dissimulazione. Non quando ti ignoro, ma quando ti sento sdegnato, allora massimamente ti spero propizio. Infatti quando ti sarai sdegnato, ti ricorderai di avere clemenza ( Ab 3,2 ). Dio, dice, tu fosti loro propizio castigando tutti i loro peccati ( Sal 99,8 ). Si tratta di Mosè, Aronne e Samuele, dei quali aveva parlato prima; e chiama propiziazione il fatto che Dio non ha risparmiato le loro mancanze. Va tu adesso, e precludi a te stesso per l’eternità questa propiziazione, difendendo i tuoi errori e accusando chi ti corregge. Non è questo un chiamare bene il male e male il bene? Non scaturirà presto da questa odiosa impudenza l’impenitenza, madre della disperazione? Chi infatti si pentirà di quello che crede bene? Guai a costoro, dice. Questo « guai » è eterno. Altra cosa è essere tentato, frastornato, allettato dalla propria concupiscenza, e altra cosa il cercare il male come se fosse bene, e andare incontro alla morte malamente sicuro come se si andasse, verso la vita. III. Il vuoto della sua anima verso il fratello corretto e che disprezza la correzione Per questo dico, preferirei talvolta aver taciuto e finto di non vedere quando ho scoperto qualche cosa di meno retto, invece di aver fatto una riprensione con conseguenze così deleterie. 5. Mi dirai forse che il mio bene tornerà a me, che ho liberato la mia anima e che sono mondo dal sangue dell’uomo che ho ammonito perché si ritraesse dalla via cattiva e vivesse. Ma anche se aggiungessi tante altre simili ragioni non riusciranno a consolare me, che guardo alla morte del mio figlio come se fosse la morte mia, quasi che con quella riprensione io avessi cercato la mia liberazione e non piuttosto quella di lui. Quale madre infatti, anche dopo aver messo in opera ogni cura e diligenza per il figlio malato, se alla fine si vede frustrata nella sua speranza e vede vani del tutto i suoi sforzi mentre lui muore, potrà trovare un freno alle sue lacrime? E per lei si tratta della morte temporale del figlio; quanto più per me non resta che piangere e gemere per la morte eterna del figlio; anche se ho coscienza di aver fatto di tutto per ammonirlo? Vedi anche tu da quanti mali, al contrario, libera se stesso e noi colui che, corretto, risponde con mansuetudine, accetta con verecondia, e con modestia si arrende, confessando umilmente il suo torto. A una tale anima io mi proclamerei in tutto debitore, a lei mi professerei ministro e servitore come alla degnissima sposa del mio Signore, che in verità potrebbe dire: Mentre il Re era nel suo riposo, il mio nardo ha esalato il suo profumo. 6. È buono il profumo dell’umiltà che, salendo da questa valle di pianto dopo essersi sparso ovunque nelle vicine regioni, arriva anche a spandere il suo grato e soave odore nel luogo dove il Re riposa. IV. La duplice umiltà dell’affetto o della conoscenza, e con quale umiltà Cristo si sia umiliato Il nardo è un’umile erbetta che, al dire dei ricercatori delle virtù delle erbe, è di natura calda. Perciò non senza ragione mi sembra di vedervi significata la virtù dell’umiltà, che sia però ardente per i vapori del santo amore. E dico questo perché c’è un’umiltà che è informata e infiammata dalla carità, e vi è un’umiltà che è prodotta in noi dalla verità e non ha calore. Questa consiste nella cognizione, quella nell’affetto. Difatti se tu ti guardi interiormente alla luce della verità e senza far finta di non vedere, e giudicherai te stesso spassionatamente, certamente anche tu ti umilierai ai tuoi occhi, e in questa vera cognizione di te apparirai vile a te stesso, anche se forse non saprai ancora sopportare di apparire tale agli occhi altrui. Sarai dunque umile frattanto per opera della verità, ma non ancora per infusione di amore. Poiché se tu, come sei venuto a conoscere veracemente e salutarmente te stesso perché illuminato dallo splendore della verità, fossi anche stato preso da amore, avresti certamente anche voluto, per quanto dipendeva da te, che tutti avessero la medesima opinione di te che la verità ha prodotto in te. Ho detto: « Per quanto dipende da te », perché il più delle volte non conviene che a tutti siano note tutte le cose che sappiamo di noi stessi, e in forza della stessa carità della verità e della verità della carità ci è vietato esporre al pubblico quello che può nuocere a chi lo viene a sapere. Del resto, se trattenuto dal privato amore di te stesso, ritieni chiuso dentro di te il giudizio della verità, ognuno può pensare che tu non ami molto la verità, alla quale preferisci il tuo proprio comodo o il tuo proprio onore. 7. Vedi dunque come non sia la stessa cosa che un uomo non abbia un alto concetto di sé, costretto a ciò dalla luce della verità, o che invece spontaneamente nutra umili sentimenti con l’aiuto del dono della carità. La prima cosa è imposta dalla necessità, l’altra è accettata dalla volontà. Annientò se stesso, si dice di Cristo, prendendo la forma di schiavo ( Fil 2,7 ) e dando esempio di umiltà. Egli stesso si è annientato, egli stesso si è umiliato, non per l’inevitabilità del giudizio, ma per amore verso di noi. Poteva in realtà mostrarsi vile e spregevole, ma in verità non ritenersi tale, perché conosceva se stesso. Fu pertanto umile per volontà e non per giudizio, mostrandosi tale quale sapeva di non essere, ma preferì essere stimato l’ultimo, lui che non ignorava di essere il più grande. E poi disse: Imparate da me che sono mite e umile di cuore ( Mt 11,29 ). « Di cuore », disse, con l’affetto del cuore, cioè con la volontà. Infatti non come io e tu ci troviamo in verità degni di vergogna e di disprezzo, degni di ogni peggiore e vile trattamento, degni dei supplizi, degni delle percosse; non così, dico, per lui: sperimentò, è vero, tutte queste cose, ma perché volle, come uomo umile di cuore, umile cioè di quella umiltà suggerita dall’affetto del cuore, non estorta dal giudizio della verità. V. Come dall’umiltà della conoscenza saliamo all’umiltà dell’affetto 8. Ho detto che questa specie di umiltà viene prodotta in noi non dalla luce della verità, ma dall’infusione della carità, perché è del cuore, dell’affetto, della volontà. Se questo sia giusto, giudicalo tu. E lascio anche al tuo giudizio se sia giusto che io l’attribuisca al Signore, che sappiamo essersi annichilito, fatto inferiore agli Angeli per la carità; per essa si fece obbediente ai genitori, per la carità si chinò sotto le mani del Battista, per amore patì le infermità della carne, e infine per la carità si assoggettò alla morte, subendo l’obbrobrio della croce. Ma lascio ancora a te giudicare se sia giusto vedere significata questa umiltà, così riscaldata dalla carità, nell’umile e calda erba che è il nardo. E se sarai d’accordo su tutte queste cose, e lo farai cedendo all’evidenza della ragione, allora, se ti capiterà di sentirti umiliato in te stesso da quella umiltà necessaria che la verità, che scruta i reni e i cuori, insinua nei sensi di chi è vigilante, metti mano alla volontà, e fa di necessità virtù, perché non c’è virtù senza il concorso della volontà. Questo avverrà se non vorrai apparire fuori diverso da come ti trovi dentro. Diversamente temi che si applichi a te quello che leggi: Poiché ha agito con inganno al suo cospetto, la sua iniquità diventerà odiosa ( Sal 36,3 ). Doppio peso e doppia misura, dice ancora, sono due cose in abominio al Signore ( Pr 20,10 ). E che? Tu disprezzi te stesso nel tuo intimo, pesato sulla bilancia della verità, e all’esterno ti vendi a noi a un altro prezzo, fingendo un maggior peso di quello che la verità ti ha indicato? Temi Dio, e non voler fare tale pessima cosa, cioè che la volontà innalzi colui che la verità umilia; questo infatti è resistere alla verità, questo è combattere contro Dio. Rimettiti piuttosto a lui, e sia la volontà soggetta alla verità; né soggetta soltanto, ma anche devota. Non sarà forse soggetta a Dio, dice, l’anima mia? ( Sal 62,1 ). 9. Ma è poca cosa essere soggetto a Dio, se non lo si è anche a ogni umana creatura per Dio, sia all’abate, quale capo, sia ai priori da lui costituiti. Io dico di più: assoggettarsi agli eguali e agli inferiori: Così infatti conviene che noi adempiamo ogni giustizia ( Mt 3,15 ). Vai anche tu da chi ti è inferiore, se vuoi essere perfetto nella giustizia. Onora l’inferiore, inchinati davanti al più giovane. Facendo così potrai anche tu dire con la sposa: Il mio nardo ha sparso il suo profumo ( Ct 1,11 ). VI. Come e quale umiltà odori come il nardo Profumo è la devozione, profumo è la buona opinione che si estende a tutti. Non può far questo quell’umile che la verità costringe a essere tale perché costui ha l’umiltà solo per sé e non la lascia uscire in modo che, sparsa, mandi profumo al di fuori. Piuttosto non ha odore, perché non ha devozione, in quanto non si umilia spontaneamente e volentieri. L’umiltà invece della sposa spande come nardo il suo profumo caldo di amore, ricco di devozione, olezzante per il buon nome. L’umiltà della sposa è volontaria, è perpetua, è fruttuosa. Il suo profumo non viene eliminato per effetto di un rimprovero, né per una lode. Aveva udito: belle sono le tue guance come di tortora, e il tuo collo come monili. Aveva ricevuto la promessa di ornamenti d’oro, e tuttavia risponde con umiltà; e quanto più si sente grande, tanto più si umilia in tutto. Non si gloria per i suoi meriti, né tra le lodi si dimentica dell’umiltà che semplicemente confessa sotto il nome di nardo, come se dicesse con le parole della Vergine Maria: Non ho coscienza di nessun mio merito rispetto a una così grande dignità, se non che Dio ha guardato l’umiltà della sua serva. Che altro infatti significa l’espressione: Il mio nardo ha dato il suo profumo, se non: la mia umiltà è stata gradita? Non dice: la mia sapienza, la mia nobiltà, la mia bellezza, tutte cose che non avevo, ma la sola umiltà che possedevo ha effuso il suo profumo, cioè il solito. Di solito piace a Dio l’umiltà, di solito veramente, e di consueto il grande Dio guarda cose umili; e perciò mentre il Re era nel luogo del suo riposo, cioè nell’eccelsa sua abitazione, fin là è salito l’odore dell’umiltà. Siede nell’alto, è detto, e si china a guardare le cose umili in cielo e sulla terra ( Sal 113,5 ). 10. Dunque, mentre il Re era nel luogo del suo riposo, il mio nardo emanò il suo profumo. VII. Quale sia il luogo di riposo del re e in che senso questo luogo si addica alla Chiesa primitiva Il luogo del riposo del Re è il seno del Padre, perché il Figlio è sempre nel Padre. Non potrai dubitare che questo Re sia clemente, dal momento che la sua perenne dimora è nella stanza della paterna benignità. A ragione il grido degli umili sale fino a lui, la cui dimora è fonte di pietà, a cui è familiare la soavità, al quale è consustanziale la bontà. A lui dunque, che tutto quello che ha lo ha dal Padre, di modo che nulla vi è nella regia maestà che non sia paterno, si rivolga la trepidazione degli umili. Infine: Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri, ora mi alzerò dice il Signore ( Sal 12,6 ). La sposa, dunque, consapevole di queste cose, perché è familiare e carissima, non pensa di essere esclusa dalla grazia dello Sposo a causa della scarsità dei suoi meriti, fidandosi solo della sua umiltà. Poi lo chiama Re; per ora atterrita dal suo rimprovero non osa chiamarlo Sposo, e dice che abita in alto; tuttavia neppure l’umiltà è cosi diffidente. 11. Si può adattare molto bene questo discorso alla Chiesa primitiva, se ti ricordi di quei giorni quando, salito il Signore al cielo, dove era prima, e sedutosi alla destra del Padre, suo antico e glorioso luogo di riposo, i discepoli erano riuniti in un solo luogo, perseverando unanimi nell’adorazione con le donne e Maria, madre di Gesù e i suoi fratelli. Non ti sembra davvero che in quel tempo il nardo della piccola trepidante sposa esalasse il suo profumo? Alla fine, quando venne all’improvviso dal cielo un rombo come di un vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano ( At 2,2 ) non poté giustamente dire la poveretta: mentre il Re era nel luogo del suo riposo il mio nardo esalò il suo profumo? Fu certamente chiaro a tutti quelli che erano in quel luogo quanto fosse stato gradito e bene accetto quell’odore di umiltà che era salito in alto, dalla abbondante e gloriosa ricompensa con cui fu subito risposto a esso. E, del resto, la Chiesa non fu ingrata per tanto beneficio. Senti come subito, piena di devozione, si dispone ad affrontare ogni sorta di mali per il nome dello Sposo; dice infatti più innanzi: Il mio diletto è per me un fascetto di mirra, riposerà sul mio seno ( Ct 1,12 ). Il mio malessere non mi permette di andare più avanti. Dico solo questo, che la sposa si dice pronta, per amore del diletto; a subire l’amarezza delle tribolazioni. Vedremo il seguito un’altra volta, se tuttavia lo Spirito Santo da voi pregato ci assisterà … Egli ci fa comprendere le parole della sposa che ha dettato egli stesso con la sua ispirazione, come sa che convengono alla lode di colui del quale è lo Spirito, lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è benedetto nei secoli. Amen. Sermone XLIII I. A quale mazzetto di mirra il Cristo è da paragonare e perché la mirra 1.Il mio diletto è per me un fascetto di mirra, riposerà sul mio seno ( Ct 1,11 ). Prima l’ha chiamato « Re », ora « diletto »; prima « nella sua sede regale », ora « sul seno della sposa ». Grande è la virtù dell’umiltà alla quale anche la divina maestà si abbassa così facilmente. Facilmente il nome di riverenza si è mutato in quello di amicizia, e colui che era lontano in breve si è fatto vicino. Il mio diletto è per me un fascetto di mirra. La mirra è cosa amara, e significa le cose dure e aspre delle tribolazioni. Prevedendo che queste sono per lei imminenti a causa del diletto, dice così, quasi congratulandosi, fiduciosa di poter tutto sopportare virilmente. Se ne andarono, è scritto, ( i discepoli ) dal sinedrio, lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù ( At 5,41 ). Perciò non dice che il suo diletto è un fascio, ma un fascetto di mirra, perché stima leggero tutto quello che può accadere di penoso e doloroso, a causa dell’amore che ha per lui. Dice bene « fascetto », perché un Pargolo ci è nato ( Is 9,6 ). Bene « fascetto » perché non sono proporzionate le sofferenze di questo tempo alla futura gloria che si rivelerà ( Rm 8,18 ). Quello infatti, dice ancora, che al presente è momentaneo e leggero nella nostra tentazione ci procura lassù un peso eterno di gloria ( 2 Cor 4,17 ). Sarà dunque per noi un giorno un ingente cumulo di gloria quello che ora è un fascetto di mirra. Non è forse un fascetto colui il cui giogo è soave e il peso leggero? Non perché sia leggero in sé – non è infatti cosa leggera l’asprezza della sofferenza e l’amarezza della morte – ma tuttavia per chi ama sono cose leggere. E perciò non dice solamente: il mio diletto è un fascetto di mirra, ma dice: per me, che amo, è un fascetto. Perciò lo chiama anche diletto, mostrando che la forza dell’amore fa superare ogni molestia delle amarezze, e che l’amore è forte come la morte ( Ct 8,6 ). E perché tu sappia che non si gloria della propria virtù, ma nel Signore, e dalla grazia del Signore aspetta la forza necessaria, dice che egli riposerà sui suo seno, e a lui canta sicura: Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male perché tu sei con me ( Sal 23,4 ). II. Spiega col suo esempio come collochiamo questo mazzetto fra i seni, nell’alternarsi delle vicende liete e tristi 2. Mi ricordo di aver detto in uno dei precedenti sermoni che le due mammelle della sposa significano la congratulazione e la compassione, secondo la dottrina di san Paolo che dice: Godere con chi gode, piangere con chi piange ( Rm 12,15 ). Ma poiché stando tra le cose prospere e quelle avverse sa che tra le une e le altre non mancano pericoli, nel mezzo di queste sue mammelle vuole avere il diletto, sicché munita della continua protezione di lui contro entrambi questi pericoli non si esalti troppo nelle cose liete, e non si avvilisca nelle tristi. Anche tu, se sei sapiente, imita la prudenza della sposa, e non permettere che questo così caro fascetto di mirra venga tolto anche per una sola ora dal tuo cuore, ritenendo sempre con la memoria tutte le amarezze che per te egli ha sopportato, facendone oggetto della tua assidua meditazione, onde anche tu possa dire: Il mio diletto è per me un fascetto di mirra, che riposa costantemente sul mio seno. 3. Anch’io, fratelli miei, fin dall’inizio della mia conversione, ho cercato di raccogliere e legare insieme questo fascetto, e di collocarlo sul mio petto, raccogliendolo da tutte le ansietà e amarezze del mio Signore, cominciando dalle necessità della sua infanzia, poi dalle fatiche che sopportò nella predicazione, la stanchezza dei viaggi, le veglie trascorse nella preghiera, le tentazioni nel periodo del suo digiuno, le lacrime che versò per compassione, le insidie dei nemici tese a coglierlo in fallo quando parlava, e poi il pericolo dei falsi fratelli, gli oltraggi, gli sputi, gli schiaffi, le derisioni, gli obbrobri, i chiodi e altre cose del genere che egli subì per la nostra salvezza, come si può cogliere abbondantemente dalla selva del Vangelo. Tra tanti rametti di questa odorosa mirra, non ho trascurato quella che gli fu data da bere quando era sulla croce, né quella di cui fu unto nella sepoltura. Nella prima egli applicò a se stesso l’amarezza dei miei peccati, nella seconda figurò la futura incorruttibilità del mio corpo. Proclamerò il ricordo dell’abbondante soavità di queste cose fino a che avrò vita; in eterno non dimenticherò queste manifestazioni della sua misericordia; perché per esse ho ricevuto la vita. 4. Queste una volta cercava il santo Davide con le lacrime: Vengano a me le tue misericordie e avrò vita ( Sal 119,77 ), queste ricordava con gemiti un altro santo dicendo: Molte sono le misericordie del Signore ( Sal 119,156 ). Quanti re e profeti vollero vedere e non videro! Essi hanno lavorato e io sono entrato a raccogliere il frutto del loro lavoro: io ho mietuto la mirra che essi piantarono. A me fu riservato questo fascetto di mirra: nessuno me lo toglierà: riposerà sul mio cuore! III. Meditare i patimenti di Cristo è la sua più sottile filosofia; portiamo Cristo davanti a voi, non dietro Ho chiamato sapienza meditare queste cose, in esse ho fatto consistere per me la perfezione della giustizia, in esse la pienezza della scienza, le ricchezze della salvezza, in esse l’abbondanza dei meriti. Da queste cose ricavo ogni tanto una bevanda di salutare amarezza, e poi nuovamente da esse mi proviene l’unzione di una soave consolazione. Queste mi danno sollievo nelle avversità, mi tengono nell’umiltà, e quando cammino tra le cose liete e quelle tristi di questa vita, mi offrono una guida sicura per la via regia, tenendo lontani i mali che insidiano da una parte e dall’altra. Queste mi conciliano il Giudice del mondo, mentre mi rappresentano lui che è tremendo ai potenti, mite e umile, non solo placabile, ma anche imitabile, lui che è inaccessibile ai principati e terribile ai re della terra. Perciò io ho spesso queste cose sulla bocca, come voi sapete, e nel cuore sempre, come lo sa Iddio; queste cose sono familiari alla mia penna, come è risaputo, questa è la mia più sottile e interiore filosofia, conoscere Gesù, e Gesù crocifisso. Non cerco, come la sposa, dove egli riposi nel meriggio, mentre lo abbraccio stringendolo al cuore. Non cerco dove egli pascoli il gregge nel meriggio, mentre lo contemplo mio salvatore sulla croce. Là egli è più sublime, qui è più soave; quello è pane, questo è latte; questo rifocilla le viscere dei pargoli, questo riempie le mammelle della madri; e perciò riposerà sul mio cuore. 5. Anche voi, o dilettissimi, raccogliete per voi questo caro fascetto, conservatelo nell’intimo dei vostri cuori, adornatene l’ingresso del vostro petto, perché anche per voi dimori sul vostro cuore. Abbiatelo sempre non di dietro sulle spalle, ma davanti agli occhi, affinché portandolo e non odorandolo, il suo peso non vi sia gravoso senza il sollievo del suo profumo. Ricordatevi come Simeone lo ricevette nelle sue braccia, come Maria lo portò nel seno, lo accarezzò tenendolo in braccio, e la sposa lo ha collocato sul suo petto. E per non tralasciare nulla, come fu fatto il Verbo nella mano del Profeta Zaccaria e di alcuni altri. Penso che anche Giuseppe, sposo di Maria, lo abbia di frequente vezzeggiato tenendolo sulle ginocchia. Tutti questi lo tennero davanti, e nessuno di dietro. Siano dunque di esempio a voi, perché anche voi facciate così. Se infatti avete davanti agli occhi colui che portate, certamente vedendo le angustie del Signore, le vostre vi sembreranno più leggere, e più facilmente le sopporterete con l’aiuto del medesimo Sposo della Chiesa, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XLIV I. Perché lo sposo è grappolo e per chi e che cosa significhi Engaddi 1. Il mio diletto è per me un grappolo di Cipro nelle vigne di Engaddi ( Ct 1,13 ). Se il diletto è raffigurato nella mirra, a più forte ragione lo è nella soavità di un grappolo. Dunque il Signore mio Gesù è per me mirra nella morte, grappolo nella risurrezione; egli si è fatto per me saluberrima bevanda, temperata da lacrime. È morto per i nostri peccati, è risuscitato per la nostra giustificazione, affinché, morti al peccato viviamo per la giustizia. Dunque anche tu, se hai pianto i tuoi peccati hai bevuto l’amarezza; se poi hai già respirato alla speranza di una vita più santa, l’amarezza della mirra si è cambiata per te in vino che rallegra il cuore dell’uomo. E questo forse voleva significare il fatto che questo vino, mescolato con mirra, fu offerto al Salvatore in croce. E per questo non volle bere, perché aveva sete di quest’altro. Tu dunque dopo le amarezze della mirra, come ho detto, sperimentando il vino della giocondità, potrai dire anche tu senza essere temerario: Il mio diletto è per me un grappolo di Cipro nelle vigne di Engaddi. Engaddi ha un duplice significato, tutti e due servono a un’unica interpretazione. Significa infatti « fonte del capretto », e designa chiaramente il battesimo dei gentili e le lacrime dei penitenti. Significa anche « occhio della tentazione » che in pari tempo spande lacrime e bada alle tentazioni che non mancano mai nella vita dell’uomo sulla terra. Ma anche il popolo dei gentili che camminava nelle tenebre non poté mai da sé conoscere i lacci delle tentazioni e tanto meno evitarli, fino a che per grazia di colui che illumina i ciechi ricevette gli occhi della fede; finché venne alla Chiesa che ha l’occhio della tentazione; fino a che si affidò, per essere istruito, a uomini spirituali i quali, illuminati dallo Spirito di sapienza e ricchi della loro esperienza possono veramente dire: « Non ignoriamo le astuzie del diavolo e le sue macchinazioni ». II. Quali siano le vigne di Engaddi e quale il loro balsamo, quale il grappolo di Cipro e il suo vino 2. Dicono che in Engaddi crescono degli arbusti di balsamo che gli abitanti del posto coltivano a mo’ delle viti; per questo forse le ha chiamate « vigne ». Diversamente , che ci fa un grappolo di Cipro nelle vigne di Engaddi? Chi mai porta grappoli da una vigna all’altra? Si usa, è vero, dove mancano, portarne da altrove, ma non dove ci sono. Dunque chiama vigna di Engaddi i popoli della Chiesa che possiede un liquore balsamico, lo spirito di mansuetudine, con il quale lenisce blandamente quelli che sono ancora teneri pargoli in Cristo, e consola i dolori dei penitenti. Se poi qualche fratello è implicato in qualche delitto, un uomo ecclesiastico che ha ricevuto questo spirito cercherà di istruire questo tale nello stesso spirito di bontà, considerando se stesso, perché anche lui non cada in tentazione. In questo tipo, quanti debbono essere battezzati la Chiesa è solita ungerli anche corporalmente con olio materiale. 3. Ma poiché le ferite di quell’uomo che incappò nei ladroni e fu portato sul giumento del pio Samaritano all’albergo della Chiesa sono state sanate non solo ungendole con olio, ma insieme con olio e vino, il medico spirituale ha bisogno anche del vino dello zelo ardente, insieme con l’olio della mansuetudine, come colui al quale conviene non solo consolare i pusillanimi, ma anche correggere gli inquieti. Se infatti vedrà che colui che era stato ferito, vale a dire che aveva peccato, non si è affatto emendato con le dolci e amorevoli esortazioni usate nei suoi riguardi, ma piuttosto abusando della mansuetudine e pazienza del medico sarà divenuto ancora più negligente, dormendo più tranquillo nel suo peccato, visto inutile l’olio delle ammonizioni bisognerà che usi dei rimedi più forti, versando sulle piaghe il vino della compunzione, usando cioè con lui i rimproveri e le invettive, e se il caso lo richiede e la durezza è tanta, userà anche contro il disprezzatore il bastone della censura ecclesiastica. Ma dove prenderà questo vino? Nelle vigne di Engaddi non si trova vino, ma olio. Lo cerchi dunque in Cipro, perché quell’isola è ricca di vigne e produce ottimo vino, e prendendo di là un enorme grappolo che una volta gli esploratori venuti da Israele portarono appeso a una trave, figurando con un bell’esempio chi precedeva il coro dei Profeti, chi seguiva quello degli Apostoli, e il grappolo in mezzo Gesù, prendendo dunque questo grappolo dica a se stesso: Grappolo di Cipro è per me il mio diletto. III. Donde il fluido del balsamo, cioè la soavità della mansuetudine, o quali mosche la distruggono 4. Abbiamo visto il grappolo: vediamo ora come se ne spreme il vino dello zelo. Se contro un uomo che pecca un altro uomo peccatore non si sdegna, ma piuttosto quasi stillando verso di lui come una rugiada di soavissimo balsamo, gli dimostra un tenero sentimento di compassione, questo sappiamo da dove viene, e già l’avete udito, ma forse non ci avete badato. È stato detto infatti che dalla considerazione di se stesso deriva che uno si dimostra mansueto verso tutti, mentre l’uomo, per consiglio del sapientissimo Paolo, per essere condiscendente verso coloro che cadono in peccato considera se stesso, e la possibilità di essere anche egli tentato. Non trae forse di qui la sua radice l’amore del prossimo, del quale è ordinato nella legge: Amerai il prossimo tuo come te stesso ( Lv 19,18; Lc 10,27 ). L’amore fraterno in verità ha la sua prima origine nell’intimo del cuore umano, e da una certa dolcezza naturale insita nell’uomo verso se stesso, come da un umore terreno, prende vigore e forza, per cui con l’aiuto della grazia produce frutti di pietà; di modo che ciò che l’anima naturalmente appetisce per sé non pensa di doverlo negare, quando lo possa e convenga farlo, a un suo simile, in forza di un certo diritto di umanità, e anzi volentieri e spontaneamente lo offre. Vi è dunque nella natura, se non è guasta dal peccato, questo liquore di grazia ed esimia soavità, di modo che si sente piuttosto facile nel compatire i peccatori che non aspra nell’indignarsi contro di essi. 5. Tuttavia, poiché secondo la sentenza del Saggio le mosche che stanno per morire rovinano questo soave unguento ( Qo 10,1 ) e la natura una volta perso non ha in sé il modo di ripararlo, sente di cadere in quella lamentevole situazione che la Scrittura giustamente descrive così: L’istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza ( Gen 8,21 ). Non è una buona adolescenza quella in cui il figlio più giovane chiede che gli venga data la sua porzione della paterna eredità, e comincia a volere che gli sia diviso quello che più dolcemente si possiede in comune, e a voler avere da solo quello che non diminuisce facendone parte agli altri; dividendolo invece, si perde. Infatti: Dissipò tutti i suoi beni, vivendo da dissoluto con le meretrici ( Lc 15,13 ). Chi sono queste meretrici? Vedi se non siano quelle stesse che rovinano il soave unguento, cioè le concupiscenze carnali, delle quali la Scrittura, ammonendoti molto salutarmente ti dice: Non andare dietro le tue concupiscenze ( Sir 18,30 ). E il Saggio dice di esse che stanno per morire: Il mondo passa con le sue concupiscenze ( 1 Gv 2,17 ). Quando dunque noi vogliamo singolarmente soddisfarle, ci priviamo della singolare soavità del bene sociale e comune. Queste sono davvero quelle mosche schifose e noiose che deturpano in noi la grazia della natura, lacerando la mente con affanni e sollecitudini, e rovinando la soavità della grazia sociale. Perciò quell’uomo viene chiamato il più giovane, perché la sua natura, depravata dalla lubricità di una insensata adolescenza ha perso ogni sentimento di virile maturità e di sapienza, e venuta nei guai con animo inaridito disprezza tutti all’infuori di sé, divenuta priva di affezione. IV. Come la mansuetudine si recuperi attraverso la grazia, o come il vino dello zelo è spremuto dal grappolo di Cipro 6. Dunque, dall’inizio di una tale pessima e miserrima adolescenza, i sensi dell’uomo e i suoi pensieri sono inclini al male, e anche la natura è più pronta all’indignazione che alla compassione. Di qui l’uomo, quasi del tutto spoglio della sua umanità, mentre nel bisogno desidera che gli altri uomini gli vengano incontro con sentimenti umani, non vuole agire così con quelli che sono nello stesso bisogno, ma piuttosto giudica, disprezza, deride gli uomini, lui che è uomo, lui peccatore tratta male quelli che peccano, non considerando se stesso, come soggetto anch’egli a sbagliare. Da questo male la natura è incapace di risorgere da sé, come ho detto, né potrà recuperare l’olio della connaturale mansuetudine una volta perduto. Tuttavia quello che non può la natura lo può la grazia. Dunque, l’unzione dello Spirito avendo pietà di quest’uomo, si degnerà di irrorarlo nuovamente con la sua benignità, e questi subito ritornerà uomo, anzi, riceverà qualche cosa di meglio della grazia che ha dalla natura. Nella fede e nella mansuetudine lo fece santo, ( Sir 45,4 ) e gli darà non olio, ma balsamo delle vigne di Engaddi. 7. Non vi è dubbio che dalla fonte del capretto fluiscono i carismi migliori, e tinti da essi, i capretti si mutano in agnelli, e fanno passare i peccatori dalla sinistra alla destra, una volta che sono stati abbondantemente unti dell’unzione della misericordia, in modo che dove abbondò il peccato, sovrabbondi la grazia. Non ti sembra che sia in certo modo ritornato uomo quest’uomo che avendo deposta la selvatichezza di un animo secolare, e avendo recuperato con una grazia più abbondante l’unzione dell’umana mansuetudine che le mosche delle passioni carnali avevano in lui completamente distrutto, dall’uomo che porta in sé, anzi che è egli stesso, prende materia e forma per compatire gli altri uomini, di modo che giudica ormai come cosa degna di morte non solo il fare agli altri quello che non sopporterebbe fatto a sé, ma anche il non fare a tutti tutte quelle cose che vorrebbe venissero fatte a se stesso? 8. Ecco di dove proviene l’olio. E il vino di dove? Dal grappolo di Cipro. Se infatti ami il Signore Gesù con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, forse che, se lo vedrai ingiuriato e disprezzato, potrai sopportare questo con animo tranquillo? Certamente no; ma subito, preso dallo spirito di giudizio e di ardore, e come un forte ebbro di vino, pieno dello zelo di Finees, dirai con Davide: Mi divora lo zelo …, perché i miei nemici hanno dimenticato le tue parole ( Sal 119,139 ); e con il Signore: Lo zelo della tua casa mi ha divorato ( Sal 69,10 ). È dunque vino questo ferventissimo zelo, spremuto dal grappolo di Cipro, e l’amore di Cristo è un calice inebriante. E anche il nostro Dio è un fuoco che consuma ( Dt 4,24 ) e il Profeta diceva che un fuoco era stato mandato dal cielo nelle sue ossa, perché ardeva del divino amore. Avendo frattanto dall’amore fraterno l’olio della mansuetudine, e dall’amore divino il vino dello zelo, disponiti sicuro a curare le ferite di, colui che è incappato nei ladroni, imitando egregiamente il piissimo Samaritano. Di’ anche con sicurezza insieme con la sposa: Grappolo di Cipro è per me il mio diletto nelle vigne di Engaddi, vale a dire: lo zelo per la giustizia, l’amore del diletto mio io li tengo tra gli affetti della pietà. E di questo basta. La mia infermità mi costringe a una pausa, come capita spesso, e così il più delle volte mi costringe a lasciare incompiute le discussioni, e a rimandare il resto della materia a un altro giorno. Ma che? Io sono preparato ad essere flagellato ( Sal 38,18 ), sapendo che riceverei castighi inferiori a quanto merito. Che io sia flagellato davvero, che io sia flagellato per le mie cattive opere, e se mai le piaghe siano reputate a merito, forse avrà pietà del flagellato colui che non ha trovato in me un bene da poter rimunerare, lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XLV I. La duplice bellezza dell’anima, cioè l’innocenza e l’umiltà 1. Come sei bella, amica mia, come sei bella, i tuoi occhi sono come di colomba ( Ct 1,14 ). Bene, ottimamente; dall’amore ha origine la presunzione della sposa, dall’amore l’indignazione dello Sposo. Lo dimostra come va a finire la cosa. Difatti, alla presunzione segue la correzione, a questa tiene dietro l’emendazione, e questa è seguita dalla rimunerazione. È presente il Diletto, sparisce il Maestro e il Re, la dignità si spoglia, si mette da parte la riverenza. Cede il fasto dove prende piede l’affetto. E a quel modo che una volta Mosè parlava come amico a un amico e il Signore rispondeva, così ora tra il Verbo e l’anima, come tra due vicini, si instaura un discorso molto familiare. E non fa meraviglia. Da un’unica fonte d’amore confluisce per entrambi il vicendevole amore e il vicendevole ardore. Perciò da una parte e dall’altra volano parole più dolci del miele, vi sono sguardi vicendevoli pieni di soavità, santi indizi di amore. Infine lo Sposo chiama amica la sposa, la dice bella, la chiama ancora bella, ricevendo in cambio da lei le medesime espressioni affettuose. Non è superflua questa ripetizione, è conferma di vero amore, e forse indica qualche cosa di recondito da scoprire. 2. Cerchiamo la duplice bellezza dell’anima: questo mi sembra suggerire il testo. Ornamento dell’anima è l’umiltà. Non dico questo da me stesso, avendolo già detto prima il Profeta: Aspergimi con issopo e sarò mondato ( Sal 51,9 ) volendo significare con quell’umile erba che ha virtù purgative l’umiltà. Con questa il Re Profeta, dopo la grande caduta, confida di venire lavato, in modo da recuperare quasi un niveo candore d’innocenza. Tuttavia, in colui che ha gravemente peccato, l’umiltà, anche se è da amare, non è tuttavia da ammirare. Ma se uno conserva l’innocenza e vi unisce l’umiltà, non ti sembra che possieda un’anima veramente bella? Maria Santissima non cessò di essere santa e non le mancò l’umiltà; perciò il Re fu preso dalla sua bellezza, perché aveva associato l’umiltà con l’innocenza. Guardò, dice, l’umiltà della sua serva ( Lc 1,48 ). Beati dunque coloro che custodiscono monde le loro vesti, vale a dire della semplicità e dell’innocenza, a condizione però che vi aggiungano l’ornamento dell’umiltà. Questi tali si sentiranno dire: Come sei bella, amica mia, come sei bella! Oh! Se tu lo dicessi anche una sola volta all’anima mia, o Signore Gesù: ecco tu sei bella! Oh! Se custodissi in me l’umiltà. Poiché ho malamente conservato la prima veste. Sono tuo servo, non oso infatti dirmi amico, io che non mi sento ripetere la testimonianza della mia bellezza. Mi basta se la sento una volta sola. Ma anche questo è in questione? So che cosa fare: venererò come serva l’amica; io, deforme omiciattolo ammirerò la stragrande bellezza che è in lei. Chissà se almeno per questo troverò grazia agli occhi dell’amica, e in grazia di lei anch’io verrò annoverato tra gli amici? E poi c’è l’amico dello Sposo, e gode oltremodo per la voce dello Sposo ( Gv 3,29 ). Ecco, la sua voce risuona alle orecchie della diletta. Ascoltiamo e godiamo. Sono vicini, parlano insieme; stiamo vicini anche noi; non ci sottragga a questo colloquio nessuna preoccupazione secolare, nessuna lusinga di piaceri corporali. II. Il rimprovero rivolto alla sposa sull’umiltà è segno di compiacimento; i suoi occhi di colomba 3. Ecco, dice, tu sei bella, amica mia, ecco tu sei bella. « Ecco » è una parola che indica ammirazione, le altre sono parole di lode. È veramente da ammirare colei che non è divenuta umile dopo aver perso la santità, ma perché rimanendo santa, vi ha aggiunto l’umiltà. A ragione viene ripetutamente detta bella colei a cui non mancò l’una e l’altra bellezza. È un uccello raro sulla terra e il non perdere la santità, e nella santità rimanere umili. E perciò beata colei che realizzò entrambe queste cose. E poi è stato provato, non ha coscienza di colpa alcuna, eppure non rifiuta la correzione. Noi invece, quando siamo rei di grossi peccati, sopportiamo a mala pena di essere ripresi: costei invece, pur senza peccato, sente con animo tranquillo le cose amare che vengono dette contro di lei. Poiché se desidera vedere la gloria dello Sposo, che c’è di male? È piuttosto una cosa che merita lode. E tuttavia, sgridata, ne fa penitenza, e dice: Il mio diletto è per me un fascetto di mirra, riposerà sempre sul mio seno. Vale a dire: mi basta, non voglio più ormai conoscere se non Gesù e Gesù Crocifisso. Grande umiltà! Innocente nelle azioni, assume i sentimenti del penitente, e colei che non ha di che pentirsi ha tuttavia di che far penitenza. Perché dunque, dici, è stata sgridata se non ha fatto nulla di male? Ma ascolta ora il modo di fare e la prudenza dello Sposo. Come un giorno l’obbedienza di Abramo fu messa alla prova, così ora l’umiltà della sposa. E come quegli, adempiuta l’obbedienza, si sentì dire: Ora so che temi Dio ( Gen 22,1-18 ) così ora a questa, con parole un poco diverse, viene ora detto: ora conosco che sei umile. Questo significano le parole: Come sei bella. E per questo ripete la lode, per indicare che alla gloria della santità ha aggiunto l’ornamento dell’umiltà. Ecco tu sei bella, amica mia, ecco tu sei bella. Ora conosco che tu sei bella non solo per l’amore che hai per me, ma anche dalla tua umiltà. Non ti dico ora bella tra le donne, né bella nelle guance o nel collo, come dicevo prima, ma ti proclamo bella semplicemente: non bella in paragone di altri, non con distinzione, non in parte. 4. E aggiunge: I tuoi occhi come di colomba ( Ct 1,14 ). Viene ancora lodata apertamente l’umiltà. Considera il fatto che essa, rimproverata per il desiderio di cercare cose troppo alte, subito non ha indugiato a scendere a cose più semplici, tanto da dire: Il mio diletto è per me un fascetto di mirra. C’è veramente una grande distanza tra il volto della gloria e il fascetto di mirra, ed è perciò una bella prova di umiltà l’accettare di essere richiamata di là qui. Dunque: I tuoi occhi come di colomba. Ormai, dice, non cammini in cose grandi, né in cose meravigliose più alte di te; ma come una semplicissima colomba ti contenti di cose più semplici, nidificando nei fori della pietra, dimorando nelle mie piaghe, e guardando le cose che mi riguardano, la mia incarnazione e passione con occhi di colomba. III. Il suo intuito spirituale 5. Ma poiché lo Spirito. Santo è apparso sotto forma di colomba, l’occhio della colomba potrebbe piuttosto significare qui, più che la semplicità, l’intuito spirituale. E se vi piace si può confrontare questo testo con quello dove i compagni dello Sposo hanno promesso alla sposa di farle dei pendenti d’oro, non pensando certo alle orecchie corporali, come ho spiegato allora, ma intendendo informare l’udito del cuore. Per questo poté capitare che il cuore, maggiormente purificato dalla fede, che viene dall’udito, fosse reso più adatto a vedere ciò che prima non era in grado di contemplare. E poiché ricevendo gli orecchini la sposa parve, aver progredito per una visione più acuta nell’intelligenza spirituale, piacque allo Sposo, al quale piace sempre che sia veduto di preferenza nello spirito quello che vi è in lui. Ed elencando ciò che ha detto in sua lode dice: I tuoi occhi come di colomba, come per dire: « Ormai guardami in spirito, perché Spirito è davanti alla tua faccia Cristo Signore. Hai ora possibilità di farlo, perché i tuoi occhi sono come di colomba. Prima non l’avevi, e perciò fosti meritevole di rimprovero; ora avrai facilità di vedere perché i tuoi occhi sono di colomba, vale a dire spirituali. Non potrai vedere tutto quello che chiedevi, poiché sei ancora in questa vita, ma quanto ti potrà essere sufficiente per il momento. In realtà bisogna condurti di chiarezza in chiarezza; e perciò vedi come puoi adesso: man mano che potrai di più, vedrai anche di più ». 6. Non penso, fratelli, che sia mediocre questa visione, né che sia comune a tutti, anche se è inferiore a quella che si godrà in futuro. Deducetelo anche dalle cose che seguono. IV. La lode dello sposo per cui la sposa sente la sua bellezza Segue infatti il testo: Ecco tu sei bello, diletto mio, ecco tu sei bello ( Ct 1,15 ). Vedi come sta già in alto e come ha portato in su la punta della mente colei che per un certo diritto di proprietà acclama come suo diletto il Signore di tutte le cose. Bada infatti come non dica semplicemente « diletto », ma « diletto mio », per indicare che è suo. Visione davvero grande, dalla quale la sposa ha avuto un tale aumento di fiducia e di autorità, da non considerare più come Signore il Signore di tutte le cose, ma solo come diletto. Penso infatti che questa volta non siano state affatto immesse nei suoi sensi immagini carnali, o quella della croce o altre forme corporee qualsiasi. Sotto queste immagini infatti, come lo vide il Profeta, non vi era nello Sposo né bellezza, né decoro ( Is 53,2 ). Ora invece la sposa, avendolo veduto, lo dichiara bello e leggiadro, dando a vedere che le era apparso in una visione migliore. Il diletto infatti parla con la sposa bocca a bocca, come una volta con il santo Mosè, ed essa vede apertamente, Dio, e non solo per enigmi e figure. E tale lo pronuncia con la bocca quale lo contempla con la mente, mediante una visione davvero sublime e soave. I suoi occhi vedranno il Re nella sua bellezza, non tuttavia come Re, ma come diletto. Lo abbia pure visto altri sopra un trono eccelso ed elevato, e altri attesti che gli è apparso faccia a faccia: a me sembra che in questo l’eminenza sia nella sposa, perché là si dice che fu visto il Signore, qui invece il diletto. Dice infatti: Ho veduto il Signore seduto sopra un soglio eccelso ed elevato ( Is 6,1 ); e ancora: Ho visto il Signore faccia a faccia, ed rimasta salva la mia vita ( Gen 32,30 ). Ma: Se io sono il Signore, dice, dov’è il mio timore? ( Mal 1,6 ). Che se ad essi viene fatta la rivelazione con il timore, perché dov’è il Signore, ivi è il timore, io se avessi da scegliere, tanto più volentieri e più caramente sceglierei la visione della sposa, in quanto la vedo fatta in un sentimento migliore, quale è l’amore. Il timore infatti comporta la pena, ma la carità perfetta caccia via il timore. C’è in verità molta differenza tra l’apparire terribile nei consigli sugli uomini, e apparire bello tra i figli dell’uomo: Ecco tu sei bello, diletto mio, e leggiadro. Queste parole veramente suonano amore, non timore. V. Parola del Verbo all’anima o risposta dell’anima al Verbo 7. Ma forse nascono obiezioni nel tuo cuore, e ti chiedi dubbioso: « Come mai vengono riferite le parole del Verbo dette all’anima, e di riscontro quelle dell’anima al Verbo, di modo che essa ha udito la, voce di chi le parlava e le diceva che era bella, ed essa a sua volta subito loda con le stesse parole colui che l’aveva lodata? Come possono avvenire queste cose? Poiché noi parliamo con la parola, non parla la parola. Così’ l’anima non ha modo di parlare se la bocca del « corpo non le forma la parole per il discorso ». Fai bene a cercare una spiegazione. Ma bada che è lo Spirito che parla, e ciò che si dice va inteso in senso spirituale. Ogni volta perciò che senti o leggi che il Verbo e l’anima parlano tra di loro o a vicenda si guardano, non immaginare che passino tra l’uno e l’altra voci materiali, né che appariscano immagini corporee dei due interlocutori. Ascolta piuttosto ciò che tu debba pensare al riguardo. Spirito è il Verbo e spirito è l’anima, e hanno le loro lingue con cui parlano l’uno con l’altra e manifestano la loro presenza. Lingua del Verbo è il fervore della sua degnazione, lingua dell’anima è invece il fervore della devozione. L’anima che non ha questa è senza lingua, come un bambino che non ha l’uso della parola, e non può intavolare alcun discorso con il Verbo. Dunque, quando il Verbo muove questa sua lingua, volendo parlare all’anima questa non può non sentire. Viva infatti è la Parola di Dio, ed efficace, e più penetrante di ogni spada affilata, arrivando fino alla divisione dell’anima e dello spirito ( Eb 4,1-2 ). E dall’altra parte, quando l’anima muove la sua lingua, molto meno il Verbo la può ignorare, non solo perché è presente dappertutto, ma specialmente perché senza uno stimolo che viene da lui, la lingua della devozione non può muoversi per parlare. 8. Per il Verbo dunque dire all’anima: Sei bella, e chiamarla amica equivale a infondere in lei la spinta ad amare e il desiderio di essere amata; viceversa, chiamare « diletto » il Verbo e proclamarlo « bello » significa testimoniare senza finzione e frode che ama e che è amato, ammirare la sua degnazione ed essere piena di stupore di fronte alla sua grazia. La sua bellezza è invero il suo amore, e tanto più grande in quanto previene sempre. Perciò la sposa dall’intimo del cuore e con la voce del sentimento interno tanto maggiormente e ardentemente grida a se stesso di doverlo amare quanto più lo ha sentito prima amante che amato. Pertanto le parole del Verbo sono l’infusione del dono, la risposta dell’anima è l’ammirazione unita al ringraziamento. E perciò ama tanto maggiormente in quanto si sente nell’amare vinta; e tanto più presa da meraviglia in quanto si riconosce prevenuta. Per questo non contenta di dire una volta « bello », ripete « leggiadro », designando con questa ripetizione una bellezza singolare. VI. La duplice bellezza dello sposo 9. Oppure volle esprimere nelle due nature di Cristo una bellezza degna di ogni ammirazione, in una la bellezza della natura, nell’altra quella della grazia. Come sei bello, Signore Gesù, al cospetto dei tuoi Angeli, nella forma di Dio, nella tua eternità! Come sei bello per me, Signore mio, nello stesso spogliarti di questa tua bellezza! Infatti, per il fatto che ti sei annichilito, che ti sei spogliato tu, lume perenne, dei naturali raggi, maggiormente rifulse la tua pietà, risaltò maggiormente la tua carità, più splendida irradiò la grazia. Come sei bella per me nel tuo nascere, o Stella di Giacobbe, come esci splendido fiore dalla radice di Jesse, e hai visitato come luce di gioia me che giacevo nelle tenebre, nascendo dall’alto! Come fosti ammirabile e stupendo anche per le superne Virtù quando venivi concepito per opera dello Spirito, quando nascevi dalla Vergine, nell’innocenza della vita, nella ricchezza del tuo insegnamento, nello splendore dei miracoli, nella rivelazione di misteri! Come dopo il tramonto, splendido risorgesti, Sole di giustizia, dal cuore della terra! Come bello infine nel tuo vestito, o Re della gloria, te ne sei tornato nell’alto dei cieli! Come non diranno le mie ossa per tutte queste cose: chi è come te, Signore? 10. Pensa dunque che la sposa, contemplando il diletto, abbia mirato in lui tutte queste cose quando diceva: Come sei bello, diletto mio, come sei leggiadro! E non solo queste, ma inoltre certamente qualche cosa della bellezza della natura superiore, che sfugge totalmente al nostro intuito, ed eccede la nostra esperienza. Dunque la lode ripetuta richiama la bellezza dell’una e dell’altra sostanza. Ascolta poi come tripudia alla presenza e alla voce del diletto, e davanti a lui canta con un carme nuziale le cose che piacciono agli amanti. Segue infatti: Il talamo nostro fiorito, le travi delle nostre case sono di cedro, i soffitti di cipresso ( Ct 1,15-16 ). Ma riserviamo all’inizio di un altro sermone il canto della sposa, affinché anche noi fatti più alacri dopo il riposo, esultiamo e ci rallegriamo più liberamente in esso, a lode e gloria del suo Sposo, Gesù Cristo Signore nostro che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XLVI I. Quale il letto o la casa, quali le travi o il soffitto che la sposa descrive 1. Il talamo nostro è fiorito, le travi delle nostre case sono di cedro, i soffitti di cipresso ( Ct 1,15-16 ). Canta la sposa il carme nuziale, descrivendo con belle parole la camera da letto e i talami. Invita al riposo lo Sposo: questo è infatti il meglio, riposare ed essere con Cristo; ma è necessario uscire per guadagnare, per quelli che devono essere salvati. Tuttavia, pensando di aver trovato una buona occasione riferisce ora che il talamo è pronto, e, indicando il letto, invita come ho detto, il diletto al riposo, e come i discepoli che andavano ad Emmaus non reggendo più all’ardore del cuore, lo spinge ad entrare nell’ospizio della mente, costringendolo a passare la notte con sé e dicendo con San Pietro: « Signore, è bello per noi stare qui » ( Mt 17,4 ). 2. Ora investighiamo il contenuto spirituale di queste cose. Nella Chiesa il « letto » in cui ci si riposa penso che siano anche i monasteri, nei quali si vive in tranquillità fuori dalle cure e dalle sollecitudini della vita. E questo letto si dimostra fiorito quando la condotta e la vita dei fratelli, modellata sugli esempi e le istituzioni dei Padri, risplende come se fosse ornata di olezzanti fiori. Per « case » intendi le riunioni del popolo cristiano: le travi che legano fortemente le pareti sono figura dei principi dell’uno e dell’altro ordine, che con giuste leggi impediscono che ognuno viva a suo talento, e come pareti inclinate e muro che crolla, siano tra loro discordi, e così tutta la struttura dell’edificio vada in rovina. I soffitti poi che poggiano sulle travi e formano un bel cassettonato, penso che stiano a indicare i mansueti e disciplinati costumi del clero ben formato, e gli uffici amministrati come si deve. Come si potranno infatti reggere gli ordini dei chierici e le loro amministrazioni, se non saranno sostenuti dai principi come dalla forza e bellezza delle colonne che danno sicurezza per la loro robustezza? 3. Che per le travi siano dette di cedro e il cassettonato di cipresso, questo riguarda la natura di questa specie di legno che conviene assai bene ai predetti ordini. Il cedro infatti, essendo legno che non marcisce e per di più profumato e di notevole altezza, indica bene quali devono essere gli uomini ai quali viene affidato il compito di travi. Devono essere validi e costanti coloro che vengono costituiti a capo degli altri, nonché longanimi nella speranza, e che si innalzino con la punta della mente alle cose eccelse; i quali anche spandendo dappertutto il buon odore della loro fede e della loro vita esemplare, possano dire con l’Apostolo: Siamo infatti dinanzi a Dio il buon profumo di Cristo in ogni luogo ( 2 Cor 2,15 ). Cosi pure il cipresso, legno di buon odore e che non marcisce, dimostra che ogni membro del clero dev’essere di fede e di vita intemerata, di modo che sia con, ragione destinato a ornare i soffitti per il decoro della casa. Sta infatti scritto: Alla tua casa conviene la santità per la durata dei giorni, Signore ( Sal 93,5 ). Qui viene espresso il decoro della santità e la perseveranza di una indefettibile grazia. Occorre dunque che un uomo che viene scelto a ornamento e decoro della casa sia adorno di buoni costumi, e non solo lo sia sempre nell’intimo suo, ma abbia anche buona testimonianza dalla gente di fuori. Vi sono anche altri sensi indicati dalla natura di questi legni da intendersi spiritualmente; ma li ometto per essere breve. 4. È bello però notare ancora come tutto lo stato della Chiesa viene compreso in un breve versetto, vale a dire, l’autorità dei prelati, il decoro del clero, la disciplina del popolo e la quiete dei monaci. Nella considerazione di tutte queste cose si rallegra grandemente la santa madre Chiesa; essa le mostra tutte al diletto quando senza nulla attribuire a sé riferisce tutto alla bontà di lui, in quanto autore di tutto. Se usa infatti le parole « nostro » e « nostre » non é segno di usurpazione ma di affetto, in quanto per la fiducia che le ispira il grande amore, non sente estraneo tutto quello che appartiene a colui che tanto ama. Né pensa che le sarà impedito di partecipare alla familiarità e al riposo dello Sposo, avendo sempre avuto cura di cercare non il proprio interesse, ma quello di lui; e questa è la ragione per cui ha osato dichiarare comuni a sé e allo Sposo, insieme, sia il letto, sia le case. Ha detto infatti: « il nostro letto », e le « travi delle nostre case », e i « nostri soffitti », associando arditamente se stessa nel possesso di tali cose a colui al quale non dubita di essere unita nell’amore. Non così quella che non ha ancora rinunciato alla propria volontà; costei riposa da sola, da sola abita: o piuttosto non da sola ma con le meretrici abita, vivendo in modo dissoluto, voglio dire con le concupiscenze carnali, con le quali dà fondo ai suoi beni e alla parte della sostanza paterna che ha chiesto le venisse divisa. II. Quali fiori di esercizi è bene che precedano la quiete della contemplazione 5. Del resto tu che senti o leggi queste parole dello Spirito Santo, pensi di poter applicare a te stesso alcune delle cose che vengono dette, e di riconoscere in te qualcosa della felicità della sposa che dallo stesso Spirito è cantata in questo carme d’amore, perché non si dica anche di te Senti la sua voce, ma non sai donde venga o dove vada ( Gv 3,8 )? E forse aspiri anche tu alla quiete della contemplazione, e fai bene; solo non dimenticare i fiori dei quali leggi essere cosparso il letto della sposa. Abbi dunque cura anche tu di ornare il tuo con fiori di buone opere, facendo precedere il santo ozio della contemplazione dall’esercizio delle virtù, come fiore che precede il frutto. Diversamente vorresti goderti un riposo troppo delicato, senza desiderarlo dopo la fatica, e, trascurando la fecondità di Lia, brameresti goderti gli amplessi della sola Rachele. Ma questo è un ordine a rovescio, l’esigere cioè il premio prima del merito, e prendere il cibo prima di aver lavorato, mentre dice l’Apostolo: Chi non lavora non mangi ( 2 Ts 3,10 ). Dai tuoi decreti ricevo intelligenza ( Sal 119,104 ), dice, perché tu sappia che non sarà dato affatto di gustare la contemplazione se non all’obbedienza dei comandamenti. Non pensare dunque di poter in alcun modo per amore della tua quiete, portare pregiudizio agli atti della santa obbedienza o alle tradizioni degli anziani. Diversamente non dormirà con te lo Sposo in un solo letto, specialmente in quello che ti sarai cosparso, invece di fiori, di cicute e di ortiche. Per questo motivo non esaudirà le tue orazioni, e chiamato non verrà; né si darà con abbondanza al disobbediente, lui che tanto amò l’obbedienza da preferire di morire piuttosto che disobbedire. E neppure approva il vano ozio della tua contemplazione colui che dice per mezzo del Profeta: Ho faticato sopportando ( Is 1,14 ), indicando quel tempo in cui esule dal cielo e dalla patria di somma quiete, operò la salvezza su questa terra. Temo piuttosto che si debba applicare anche a te quella spaventosa affermazione che Dio pronunzia contro la perfidia dei Giudei: Non posso sopportare i vostri noviluni, sabati e assemblee sacre, io detesto i vostri noviluni e le vostre feste, sono per me un peso ( Is 1,13-14 ). E piangerà su di te il Profeta dicendo: La videro i suoi nemici, e derisero i suoi sabati ( Lam 1,7 ). Perché infatti il nemico non deriderebbe colui che è ripudiato dal diletto? 6. Mi meraviglia l’impudenza di taluni, che non sono tra noi, i quali dopo averci turbati tutti con la loro singolarità e irritati per la loro impazienza, dopo averci scandalizzati per la loro disobbedienza, ardiscono nonostante tutto invitare il Signore di ogni purità con istantissime preghiere al letto così immondo della loro coscienza. Ma quando stendete le mani, dice, io distolgo gli occhi da voi, e anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto ( Is 1,15 ). E che? Il letto non è fiorito, ma è piuttosto puzzolente; e tu vi inviti il Re della gloria? Lo fai per riposarvi o per discutervi? Il centurione non vuole che Gesù entri sotto il suo tetto perché se ne reputa indegno, eppure la sua fede è famosa in tutto Israele; e tu lo spingi ad entrare da te, macchiato da tanti sordidi vizi? Grida il Principe degli Apostoli: Allontanati da me che sono uomo peccatore ( Lc 5,8 ) e tu dici: Vieni da me Signore, perché sono santo? Siate, dice, tutti unanimi nell’orazione e nell’amore per i fratelli ( 1 Pt 3,8 ). E il Vaso di elezione: Alzando al cielo mani pure, senza ira e contese ( 1 Tm 2,8 ). Vedi come vanno d’accordo tra di loro e come parlano con lo stesso spirito della pace e della tranquillità d’animo che deve avere colui che prega il Principe degli Apostoli e il Dottore dei Gentili? Va’ ora tu, alza tutto il giorno le tue mani a Dio, tu che tutto il giorno rechi molestie ai fratelli, distruggi la concordia e ti separi dall’unità. 7. « E che cosa vuoi che io faccia? », dici. Per prima cosa che tu purifichi la tua coscienza da ogni inquinamento di ira, di disputa, di mormorazione, di livore o di qualsiasi altra cosa che si sa essere contraria alla pace con i fratelli o all’obbedienza degli anziani, cercando di eliminare tutte queste cose dall’abitazione del cuore. In secondo luogo devi circondarti dei fiori delle buone opere e dei lodevoli studi e dei profumi delle virtù, vale a dire di tutte le cose che sono vere, giuste, sante, amabili o che sono in buona reputazione, di tutto ciò che è virtù o lodevole disciplina: pensa a queste cose, procura di esercitarti in esse. Dopo tutto questo potrai con sicurezza chiamare lo Sposo perché, quando lo avrai introdotto, potrai dire con verità anche tu: Il nostro letto è cosparso di fiori, dal momento cioè che la tua coscienza manderà profumo di pietà, di pace, di mansuetudine, di giustizia, di obbedienza, di gioia, di umiltà. Così riguardo al letto. III. La casa spirituale, e con quali legni si edifichi o si adorni 8. Per casa poi, in senso spirituale, ognuno riconosca se stesso, a condizione tuttavia che non cammini più secondo la carne, ma secondo lo spirito, poiché santo è il tempio di Dio che siete voi ( 1 Cor 3,17 ). Badate dunque, o fratelli, a questo edificio spirituale che siete voi, perché non succeda che quando comincerà ad elevarsi in alto, vacilli e cada in rovina se non sarà sostenuto e legato da travi robuste; cercate, dico, di dargli dei soffitti che non marciscono e ben fermi, vale a dire quel timore di Dio che dura in eterno, la pazienza, di cui è scritto che la pazienza dei poveri non resterà mai delusa ( Sal 9,19 ), la longanimità pure, che reggendo inflessibile sotto il peso di qualsiasi struttura, non viene meno per i secoli eterni della vita beata, come dice il Salvatore nel Vangelo: Chi persevererà fino alla fine sarà salvo ( Mt 10,22 ); e soprattutto la carità che non viene mai meno, perché l’amore è forte come la morte, tenace come gli inferi la gelosia ( Ct 8,6 ). Cercate poi di disporre sotto questi soffitti e concatenare le travi e le altre cose preziose e belle, quelli almeno che avranno sotto mano queste cose, disponendo il cassettonato a decoro della casa. Si tratta del dono di una parola piena di sapienza e scienza, della profezia, della grazia delle guarigioni, del dono di interpretare i sermoni e altre simili che si conoscono più come utili e come ornamento che necessarie per la salvezza. Riguardo a queste cose non ho un comando da dare, ma do un consiglio: poiché è risaputo che tali legni con fatica si cercano e con difficoltà si trovano, e ancora con pericolo vengono lavorati, sono infatti rari quelli che la nostra terra, specialmente in questi tempi, produce, consiglio piuttosto e ammonisco di non mettere troppo impegno a cercare questi, ma a preparare i soffitti con altri legni che, anche se sembrano meno ricercati, non sono alla prova meno solidi, si trovano più facilmente e più sicuramente. 9. Voglia Iddio che io abbia abbondanza di tali legni che crescono fitti nel giardino dello Sposo della Chiesa: pace, bontà, benignità, gaudio nello Spirito Santo, il venire incontro ai miseri con volto ilare, il dare con semplicità, godere con chi gode, piangere con chi è nell’afflizione. Non ti sembra che una casa, per quanto riguarda i soffitti, sia abbastanza, anzi abbondantemente adorna quando i suoi cassettonati sono composti di tale varietà di legni? Signore, amo il decoro della casa dove dimori ( Sal 26,8 ). Dammi sempre di questi legni, ti prego, con i quali ti possa sempre offrire bene adorno il talamo della coscienza: della coscienza mia e altrui. Mi contenterò di questi. Vi saranno anche di quelli che vorranno aderire a questo mio consiglio, perché penso che anche tu sia contento; le altre cose le lascio ai santi Apostoli e agli uomini apostolici. Ma anche voi carissimi, anche se non possedete quegli altri legni ma avete questi ultimi, abbiate fiducia; accostatevi con fiducia alla pietra angolare, scelta, preziosa; venite tuttavia edificati sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti anche voi come pietre vive, cioè case, per offrire ostie spirituali accette a Dio, per Gesù Cristo Sposo della Chiesa e Signore nostro, che è benedetto nei secoli. Amen. Sermone XLVII I. Il fiore del campo, del giardino o del talamo 1. Io sono fiore del campo e giglio delle valli ( Ct 2,1 ). Penso che questo sia detto riguardo ai fiori di cui la sposa dice essere adorno il talamo. Affinché non attribuisca a sé quei fiori che adornano e rendono grazioso il letto, lo sposo viene a dire che lui è il fiore del campo, e i fiori non nascono dal talamo, ma nel campo, ed essere suo dono e sua partecipazione tutto quello che splende ed esala grato odore. Perché nessuno possa rimproverare la sposa dicendole: Che cosa hai tu che non abbia ricevuto? E se lo hai ricevuto, perché ti vanti quasi non l’avessi ricevuto? ( 1 Cor 4,7 ). Così il geloso amante e ugualmente benigno educatore dimostra con bontà e degnazione alla sua diletta a chi debba attribuire la bellezza e il soave profumo del letto di cui si gloriava. Io sono il fiore del campo, dice; da me proviene quello di cui ti vanti. Molto salutarmente siamo ammoniti da questo passo che non bisogna affatto gloriarsi o, se uno si gloria, si glorii nel Signore. Questo secondo la lettera; e ora scrutiamo, con l’aiuto di colui del quale parliamo, quale senso spirituale vi si nasconda. 2. E per prima cosa nota come un fiore possa trovarsi in tre posti: nel campo, nel giardino o sul talamo. Così ti sarà più facile capire perché lo Sposo abbia scelto di chiamarsi fiore del campo. Nel campo, come nel giardino, il fiore nasce, non così sul talamo. Manda profumo e fa bella figura su di esso, ma non sta diritto come sta nel campo o nel giardino, ma piuttosto giace, essendovi stato portato, non nato. E per questo occorre curarlo spesso, e mettere sempre nuovi fiori, perché non mantengono a lungo il profumo né la bellezza. E se, come ho detto nel precedente sermone, per letto fiorito si intende la coscienza adorna di buone opere, vedi chiaramente come, per mantenere la similitudine, non basta operare il bene una volta o l’altra, ma occorre sempre aggiungere nuove opere buone, affinché, seminando con abbondanza, tu abbia anche a mietere con abbondanza. Diversamente il fiore dell’opera buona appassisce e marcisce, e in breve tempo perde la bellezza e il vigore, se non venga seguito ripetutamente e continuamente da nuovi atti di pietà. Questo riguardo al fiore sul talamo. 3. Non così nel giardino, e neppure similmente nel campo. Una volta prodotti, infatti, i fiori provvedono da sé per mantenersi nella loro freschezza. Ma sono ancora differenti tra di loro quelli del giardino e quelli del campo: nel giardino c’è bisogno della mano e dell’arte: dell’uomo, il campo invece da se stesso produce i fiori naturalmente, senza l’aiuto e la cura dell’uomo. Hai già indovinato qual è quel campo non solcato da aratro, né scavato dalla zappa, né ingrassato da concime, né seminato da mano di uomo, e pure abbellito da quel nobile fiore sul quale sappiamo che ha riposato lo Spirito del Signore? Ecco, dice, il profumo del figlio mio è come odore di un campo pieno di frutti benedetto dal Signore ( Gen 27,27 ). Quel fiore di campo non aveva ancora rivestito la sua bellezza, e già esalava il suo profumo, quando lo presenti in spirito il santo vecchio Patriarca, cadente nel corpo e impedito nella vista, ma dall’odorato fino, quando pieno di gaudio, usci in quella esclamazione. Non volle pertanto lo Sposo chiamarsi fiore del talamo, essendo egli sempre fresco, e neanche fiore di giardino, perché non fosse creduto generato per operar di uomo. Giustamente invece e in modo convenientissimo: « Io sono fiore del campo », dice, lui che spuntò senza concorso di uomo, ed in seguito non fu guasto da alcuna corruzione, affinché si adempisse quanto era stato predetto: Non lascerai che il tuo santo veda la corruzione ( Sal 16,10 ). II. Ancora diversamente sullo stesso argomento, e perché in particolare si definisce fiore del campo 4. Ma se vi piace, ecco un’altra ragione da non disprezzare, come penso. Non è certo senza una ragione che dal Saggio viene descritto il molteplice spirito, perché sotto una unica corteccia della lettera molte volte sono nascoste molte intelligenze della sapienza. Cosi, secondo la divisione predetta dei vari fiori, si può intendere per un fiore la verginità, un fiore il martirio, un fiore la buona azione: nel giardino la verginità, nel campo il martirio, l’opera buona sul talamo. E bene si colloca nel giardino la verginità, alla quale è familiare la verecondia che rifugge dal pubblico, ama il nascondimento e sottostà alla disciplina. E poi nel giardino il fiore è al chiuso, mentre è esposto nel campo, ed è sparso sul talamo. Così hai l’orto chiuso, il fonte sigillato ( Ct 4,12 ). Questo significa la difesa del pudore nella vergine, e la custodia di una inviolata santità, a condizione che la vergine sia davvero santa di corpo e di spirito. Bene pure il martirio e significato nel fiore del campo, perché i martiri sono esposti al ludibrio di tutti, fatti spettacolo agli angeli e agli uomini. Non è forse di essi quella voce del salmo: Siamo divenuti l’obbrobrio dei nostri vicini, scherno e ludibrio di chi ci sta intorno ( Sal 79,4 ). Sta bene pure la buona azione come fiore sul talamo; essa infatti dona quiete e sicurezza alla coscienza. Dopo un’opera buona si riposa più sicuramente nella contemplazione, e con tanta maggior fiducia uno si appresta a intuire ed investigare le cose sublimi, quanto più è conscio di non aver mancato alle opere di carità per amore della propria quiete. 5. Il Signore Gesù è, in qualche modo, tutte queste cose. Egli è il fiore di giardino, generato vergine da un virgulto vergine. Egli è anche fiore di campo, martire, corona dei martiri, modello di martirio. Egli è stato condotto fuori della città, ha sofferto la sua passione fuori dell’accampamento, fu innalzato sulla croce, alla vista di tutti, disprezzato da tutti. Egli è ancora il fiore del talamo, specchio ed esempio di ogni beneficenza, come egli stesso dichiarò ai Giudei: Ho compiuto molte opere buone tra di voi ( Gv 10,32 ). Se dunque il Signore è tutte queste tre cose, per quale ragione dei tre ha preferito chiamare se stesso « Fiore del campo »? Certamente per incoraggiare la sposa a sopportare con pazienza la persecuzione che prevedeva essere per lei imminente, in quanto voleva piamente vivere in Cristo. Egli si professa più volentieri di essere quello in cui più desidera avere degli imitatori; ed è questo che ha detto altre volte: la sposa brama sempre la quiete, ed egli sprona alla fatica, dicendole chiaro che nel regno dei cieli è necessario entrare attraverso molte tribolazioni. Per questo quando, dopo essersi unita come sposa la novella Chiesa, si disponeva a tornare al Padre, le diceva: Viene l’ora in cui chiunque vi uccide crederà di rendere culto a Dio ( Gv 16,2 ); e ancora: Se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi ( Gv 15,20 ). Puoi anche tu trovare nel Vangelo molti passi simili che si riferiscono ai mali da soffrire. 6. Io sono il fiore del campo e il giglio delle valli. Mentre dunque la sposa mostra il letto, lo Sposo la richiama al campo, invitandola al lavoro. E non pensa che vi sia qualche cosa più adatta a persuaderla a ingaggiare la lotta, che di proporre se stesso come modello di combattimento o come premio di esso. Io sono fiore di campo. Da queste parole si comprende in verità l’una e l’altra cosa, quale sia cioè il modello del combattente e quale la gloria del trionfante. Signore Gesù, tu sei per me tutte e due queste cose, e specchio nella sofferenza e prezzo di colui che patisce. L’una cosa e l’altra sono di sprone e invitano con forza. Tu addestri le mie mani alla battaglia, con l’esempio della tua fortezza, tu incoroni il mio capo, dopo la vittoria, con la presenza della tua maestà; sia perché ti vedo lottare, sia perché ti attendo quando mi coronerai, quando sarai tu la mia corona, con entrambe le cose mi leghi a te come con doppia fune irresistibile. Trascinami dietro a te ( Ct 1,3 ): ti seguo volentieri, e più volentieri ancora godo di te. Se sei così buono, o Signore, per quelli che ti seguono, quale sarai per quelli che ti raggiungono? Io fiore del campo: chi mi ama venga al campo, non ricusi di ingaggiare la battaglia con me e per me, affinché possa dire: Ho combattuto la buona battaglia ( 2 Tm 4,7 ). III. Perché si dice fiore delle convalli, e a quale opera di Dio dobbiamo attendere 7. E poiché non i superbi o gli arroganti, ma piuttosto gli umili che non sanno presumere di se stessi, sono idonei al martirio, aggiunge di essere anche « giglio delle valli » cioè corona degli umili, designando con l’eminenza di questo fiore la speciale gloria della loro futura esaltazione. Questa avverrà quando ogni valle sarà ricolmata e ogni montagna e collina sarà spianata, e allora quel candore della vita eterna apparirà, giglio veramente non dei colli, ma delle valli. Il giusto germoglierà come giglio, dice ( Os 14,6 ). Quale giusto, se non l’umile? E poi quando il Signore si chinava sotto le mani del servo Giovanni Battista, e questi tremava davanti alla maestà, Lascia, disse, così conviene che noi adempiamo ogni giustizia ( Mt 3,15 ), facendo consistere la perfezione della giustizia nella perfezione dell’umiltà. Il giusto dunque è umile, il giusto è valle. E se saremo trovati umili germoglieremo anche noi come gigli, e fioriremo in eterno davanti al Signore. E non si manifesterà veramente « giglio delle valli » quando trasformerà il nostro umile corpo per conformarlo al suo corpo glorioso? Non dice « il nostro corpo », ma « il corpo della nostra umiltà », per significare che solo gli umili saranno illuminati dal meraviglioso ed eterno candore di questo giglio. Ciò sia detto per il fatto che lo Sposo si è chiamato « fiore » dei colli e « giglio delle valli ». 8. E ormai sarebbe anche buona cosa sentire che cosa lo Sposo dica, di conseguenza, della sua diletta; ma l’ora non lo permette. Secondo la nostra Regola infatti, non è lecito anteporre nulla all’opus Dei, con questo nome il nostro padre Benedetto volle indicare le solenni lodi che ogni giorno si rendono a Dio nell’oratorio, per indicarci chiaramente quanto egli ci voglia intenti a questa opera. Perciò vi esorto, dilettissimi, a perseverare sempre puramente e strenuamente alle divine lodi; strenuamente, vale a dire che stiate davanti al Signore con alacrità e insieme con, riverenza, non pigri, non sonnolenti, non sbadigliando, non risparmiando la voce, senza troncare a metà le parole, non saltandone delle intere, non con voci rotte o flebili, o biascicando con voce nasale, ma con voce e con affetto virile, come conviene a chi canta le parole dello Spirito Santo; con purezza poi, di modo che, mentre salmeggiate non pensiate ad altro che a ciò che cantate. E non dico solo di evitare i vani pensieri e quelli oziosi, ma anche quelli che i fratelli incaricati dei vari servizi sono costretti ad avere di frequenza per le comuni necessità. E non consiglierei neppure di fermarsi su quei pensieri che poco prima, seduti nel chiostro, e intenti alla lettura vi sono venuti alla mente, o quelli che: riportate freschi dalla mia viva voce in questo auditorio dello Spirito Santo. Sono cose salutari, ma non si ripensano salutarmente durante le salmodie. Lo Spirito Santo infatti non accetta come cosa gradita quanto gli puoi offrire di diverso da ciò che devi, trascurando quello che è tuo dovere di offrire. Possiamo noi fare sempre la sua volontà per sua ispirazione e per la grazia e misericordia dello sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è benedetto nei secoli. Amen. Sermone XLVIII I. Come giglio fra le spine, così l’anima fra le colpe 1. Come giglio tra le spine, così la mia diletta tra le fanciulle ( Ct 2,2 ). Non sono buone le fanciulle che pungono. Considera il pessimo germoglio di quella nostra terra che è stata maledetta. Quando, dice, la coltiverai, ti germoglierà triboli e spine ( Gen 3,18 ). Pertanto fino a che l’anima è nel corpo si trova tra le spine, e necessariamente è soggetta alle punture delle tentazioni e delle tribolazioni. E se essa è un giglio, come dice lo Sposo, veda quanto deve essere vigilante e sollecita nel custodire se stessa, circondata come è da ogni parte da spine che protendono tutto intorno i loro aculei. E il fiore è così tenero che non può resistere alla minima puntura di una spina, che non appena lievemente lo preme, lo perfora. Senti quanto sia giusta e necessaria l’esortazione che ci fa il Profeta di servire il Signore nel timore, e così l’Apostolo, dove dice che dobbiamo operare la nostra salvezza in timore e tremore? Conoscevano essi per propria esperienza la verità di questa sentenza in quanto amici dello Sposo, che non dubitavano minimamente che potesse applicarsi anche alla loro anima la frase: Come giglio tra le spine, così la mia diletta tra le fanciulle. E difatti uno di loro dice: Mi sono convertito nel mio dolore, mentre esso mi trafigge come una spina ( Sal 32,4 ). Bene trafitto colui che per questo si è ravveduto. Bene sei punto, se ne resti compunto. Molti, quando sentono la pena, correggono la colpa; uno così può dire: Mi sono ravveduto nel mio dolore, mentre esso mi trafigge come una spina. Spina è la colpa; spina è la pena, spina il falso fratello, spina il cattivo vicino. 2. Come giglio tra le spine, così la mia diletta tra le fanciulle. Oh, candido giglio! Oh, fiore tenero e delicato! Tu ti trovi tra gli increduli e i sovvertitori. Cammina con cautela tra le spine. Il mondo è pieno di spine; ce n’è in terra, ce n’è nell’aria, ve ne sono nella tua carne. Vivere tra queste e non restare offesi è effetto della divina potenza, non della tua forza. Ma abbiate fiducia, dice il Signore, io ho vinto il mondo! Dunque, anche se ti accorgi che da ogni lato sono rivolti verso di te gli aculei delle tribolazioni non si turbi né si spaventi il tuo cuore, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata, la virtù provata la speranza; la speranza poi non delude ( Rm 5,3-5 ). Considera i gigli del campo, come prosperano e splendono tra le spine. Se l’erba che oggi è verde e domani viene bruciata è così custodita da Dio, quanto maggiormente avrà cura della sua diletta e carissima sposa? Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano ( Sal 145,20 ). Come giglio tra le spine, così la mia diletta tra le fanciulle. Non è veramente una piccola prova di virtù conservarsi buono tra i cattivi, e mantenere il candore dell’innocenza e la soavità dei costumi tra i maligni, soprattutto se ti mostri pacifico con quelli che odiano la pace, e amico con i nemici. Questo in verità ti insinua specialmente l’addotta similitudine del giglio per una certa sua speciale proprietà, per cui non cessa di dar risalto e bellezza con il suo candore alle stesse spine che io pungono. Non ti sembra pertanto che il giglio realizzi in qualche modo la perfezione del Vangelo che ci comanda di pregare per quelli che ci calunniano e ci perseguitano e di fare del bene a coloro che ci odiano? Dunque, anche tu fa’ lo stesso ( Lc 10,37 ) e la tua anima sarà la diletta del Signore, e ti loderà per te dicendo: Come il giglio tra le spine, così la mia diletta tra le fanciulle. II. Encomio dello sposo che è paragonato al melo fra gli alberi della selva; che cosa significhi essere lodati dallo sposo o lodare lo sposo 3. Come il melo tra gli alberi delle foreste, così il mio diletto tra i figli ( Ct 2,3 ). La sposa ricambia la lode allo Sposo che l’ha lodata, dal quale essere lodato equivaleva diventare degno di lode, e lodare il quale corrisponde a conoscere e ammirare lui che è degno di lode. E come lo Sposo loda la sposa paragonandolo a uno splendido fiore, così a sua volta essa dimostra la sua singolare gloria e la sua eminenza paragonandola a un albero eccellente. Mi fa tuttavia meraviglia che sia stato preso come esempio un albero che non sembra avere nulla di straordinario, come ce ne sono altri, e pare pertanto non essere degno di essere adoperato come esempio in quanto non adatto ad esprimere la lode dello Sposo. Come il melo, tra gli alberi delle foreste, così il mio diletto tra i figli. Del resto non sembra ne avesse grande stima la stessa sposa, che lo ha scelto solamente tra gli alberi delle selve che sono sterili, né portano frutto adatto per l’alimento dell’uomo. Perché dunque, omesse altre piante migliori e più nobili, è stata presa questa pianta mediocre per tessere l’elogio dello Sposo? Ha dovuto forse essere lodato con misura colui che non ha ricevuto secondo misura lo Spirito? L’esempio preso da questa pianta lascia supporre che abbia di più grandi di lui; egli che non ha eguali. Che cosa dire a questo riguardo? Lo devo ammettere: piccola lode, perché lode di un piccolo. Non viene infatti qui proclamato: Grande il Signore e degno di ogni lode ( Sal 48,2 ), ma piccolo il Signore, e amabile fuori di misura, piccolo veramente colui che è nato per noi. 4. Dunque qui non si esalta la maestà, ma è lodata l’umiltà, e come è degno e giusto, ciò che è stoltezza e debolezza di Dio passa davanti alla fortezza e alla sapienza degli uomini. Questi sono infatti piante selvatiche e infruttuose perché, secondo il Profeta tutti hanno traviato, sono divenuti inutili, più nessuno fa il bene, neppure uno ( Sal 14,3 ). Come melo tra gli alberi delle foreste così il mio diletto tra i figli. Tra gli alberi delle foreste il Signore Gesù è l’unica pianta che fa frutto, che emerge come uomo tra gli uomini, ma di poco fatto meno degli angeli. Fattosi uomo infatti si assoggettò in modo meraviglioso agli angeli, e, restando Dio, come tale li conservò a soggetti. Vedrete, è detto, gli angeli salire e scendere sul figlio dell’uomo ( Gv 1,15 ) per il fatto che nel medesimo uomo Cristo Gesù servono la debolezza e ammirano la maestà. Poiché, dunque, alla sposa è cosa molto dolce il fatto che egli si è abbassato, più volentieri ne esalta la grazia, ne mette in evidenza la misericordia, ne ammira con stupore la degnazione. Le piacque perciò ammirare l’uomo tra gli uomini, non Dio tra gli angeli; come il melo eccelle tra gli alberi delle foreste, e non tra le piante dei giardini. Né pensa la sposa che ci sia una diminuzione delle lodi dove, dalla considerazione della debolezza, viene messa in risalto la pietà e la bontà. Mentre infatti sembra limitare, secondo un aspetto, le lodi, sotto un altro aspetto loda maggiormente, considerando meno la gloria della dignità, per dar più rilievo alla bellezza della degnazione. Come dunque l’Apostolo dice che ciò che è stoltezza e debolezza di Dio è più sapiente e più forte degli uomini, ma non degli angeli, e come il Profeta dichiara Cristo bello tra i figli dell’uomo, ma non tra gli angeli, così la sposa, parlando senza dubbio nel medesimo Spirito, sotto la figura di un albero fruttifero e di alberi selvatici intese, in questo passo, presentare l’uomo-Dio superiore in bellezza a tutti gli uomini, ma non agli angeli. 5. Come melo tra gli alberi delle foreste, così il mio diletto tra i figli. E bene tra i figli, perché essendo il Figlio unico del Padre cercò di acquistargli, senza invidia, molti figli che non si vergogna di chiamare fratelli, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli. A buon diritto egli viene anteposto a tutti quelli adottati per grazia, lui che è figlio per natura. Giustamente come melo, perché a guisa di albero fruttifero fornisce il refrigerio dell’ombra e ottimo frutto. Non è forse veramente un albero fruttifero colui i cui fiori sono frutto di onore e di onestà? Infine è un albero di vita per chi ne gusta ( Pr 3,18 ). Non potranno paragonarsi a questo tutti gli alberi della foresta, perché anche se fossero belli e grandi e sembrino portare vantaggio pregando, servendo, insegnando, aiutando con esempi, solo Cristo, tuttavia, sapienza di Dio è albero di vita, solo lui è il pane vivo che discende dal cielo e dà la vita al mondo. III. L’ombra del diletto e il suo dolce frutto, cioè la fede e la contemplazione 6. Perciò dice: Mi sono seduta all’ombra di colui che avevo desiderato e il suo frutto è dolce al mio palato ( Ct 2,3 ). Con ragione aveva desiderato l’ombra di lui, dal quale le veniva il refrigerio e l’alimento. Le altre piante invece, della foresta, anche se forniscono il sollievo dell’ombra, non danno però un alimento vitale, non frutti perenni di salvezza. Uno solo è infatti l’autore della vita, uno solo il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che dice alla sua sposa: Io sono la tua salvezza ( Sal 35,3 ). Non Mosè, dice, vi ha dato il vero pane dal cielo, ma il mio Padre vi dà dal cielo il pane vero ( Gv 6,32 ). Per questo dunque aveva principalmente desiderato l’ombra di Cristo, perché solo lui dà refrigerio contro l’ardore dei vizi, non solo, ma riempie anche con il diletto delle virtù. Mi sono seduta all’ombra di colui che avevo desiderato. La sua ombra e la sua carne; sua ombra e la fede. Maria fu adombrata dalla carne del proprio Figlio, io dalla fede del Signore. Ma anche a me in un certo modo fa ombra la sua carne della quale mi nutro nel mistero. E la santa Vergine ha sperimentato anche lei l’ombra della fede, come le fu detto: Beata te che hai creduto ( Lc 1,45 ). Mi sono seduta all’ombra di colui che avevo desiderato. E il Profeta: Spirito, dice, è davanti alla, nostra faccia Cristo Signore, alla sua ombra viviamo tra le nazioni ( Lam 4,20 ). All’ombra tra le nazioni, alla luce con gli angeli. Siamo nell’ombra fino a che camminiamo nella fede e non nella visione; e perciò è nell’ombra il giusto che vive di fede. Ma chi vive di intelligenza perché non più nell’ombra, ma nella luce. Giusto era Davide che viveva di fede quando diceva a Dio: Dammi intelligenza e avrò vita ( Sal 119,144 ), sapendo che alla fede sarebbe subentrata l’intelligenza, all’intelligenza si sarebbe rivelata la luce della vita, e questa avrebbe seguito la luce. Prima si viene all’ombra, poi si passa a ciò di cui è ombra, perché se non crederete, non comprenderete ( Is 7,9 ). 7. Vedi come la fede è vita e ombra della vita. All’opposto, la vita che trascorre nelle delizie, non essendo secondo la fede è morte e ombra di morte. Quella vedova, dice l’Apostolo, che vive nelle delizie, pur vivendo è morta ( 1 Tm 5,6 ). E infine: La sapienza della carne è morte ( Rm 8,6 ). Ma è anche ombra della morte, di quella morte cioè che strazia in eterno. Anche noi eravamo una volta seduti nelle tenebre e nell’ombra della morte, vivendo secondo la carne e non secondo la fede, morti ormai alla giustizia, in procinto di venire assorbiti dalla morte seconda. Quanto infatti l’ombra è vicina al corpo di cui è ombra, altrettanto la nostra vita di allora era vicina all’inferno. Se non fosse che il Signore mi ha aiutato, l’anima mia rischiava di abitare nell’inferno ( Sal 94,17 ). Ma ora dall’ombra della morte siamo passati all’ombra della vita, e più ancora siamo passati dalla morte alla vita, vivendo all’ombra di Cristo, se pure vivi e non morti. Non penso infatti che sia la stessa cosa essere alla sua ombra e vivere in essa, perché non tutti quelli che hanno la fede vivono effettivamente di fede. E la fede che è senza le opere è morta ( Gc 2,20 ) né può dare la vita che essa non ha. Perciò il Profeta avendo detto: Spirito è davanti alla nostra faccia Cristo Signore, non si contentò di aggiungere: « Siamo nella sua ombra », ma: Alla sua ombra viviamo tra le nazioni. Anche tu dunque, sull’esempio del Profeta cerca di vivere alla sua ombra, affinché anche tu un giorno possa regnare nella luce di lui. Non ha infatti solo l’ombra: ha anche la luce. Egli per la carne é ombra di fede, per lo spirito è luce di intelligenza. È infatti carne e spirito. Carne per chi vive nella carne, spirito davanti alla nostra faccia, vale a dire in futuro, se tuttavia dimentichi delle cose che sono dietro ci protendiamo a quelle che ci stanno davanti, e là giungendo possiamo sperimentare la verità della sua parola: La carne non giova a nulla; è lo spirito che vivifica ( Gv 6,64 ). E non ignoro che qualcuno, vivente ancora nella carne, ha detto: Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così ( 2 Cor 5,16). Questo per San Paolo. Ma noi che non abbiamo ancora meritato di essere rapiti in paradiso, non ancora al terzo cielo, cibiamoci frattanto della carne di Cristo, veneriamo i misteri, seguiamone gli esempi, conserviamo la fede, e così in verità viviamo alla sua ombra. 8. Mi sono seduta all’ombra di colui che avevo desiderato. Forse la sposa si gloria di aver sperimentato qualche cosa di più felice nello Sposo, per il fatto che dice non di vivere, come il Profeta, ma di essersi seduta all’ombra dello Sposo. Sedere, infatti, equivale a riposarsi. Ora, dice di più riposare all’ombra che vivere, come vivere è più che essere semplicemente all’ombra. Il Profeta applica dunque a sé ciò che è comune a molti dicendo: Viviamo alla sua ombra; la sposa, invece, si vanta della sua singolare prerogativa di sedersi a questa sua ombra. Così con fatica viviamo noi che, consci dei nostri peccati, serviamo il Signore con timore, mentre la sposa devota e amante soavemente riposa. Il timore ha con sé la pena ( 1 Gv 4,18 ), l’amore la soavità. Perciò dice: Il suo frutto è dolce al mio palato ( Ct 2,3 ), intendendo il gusto della contemplazione di lui, che aveva ottenuto soavemente innalzata per l’amore. Ma questo nell’ombra, perché attraverso uno specchio e in modo oscuro ( 1 Cor 13,12 ). E sarà, quando cadranno le ombre con il crescere della luce, anzi, saranno del tutto scomparse, e subentrerà la chiara e perpetua visione, e non solo vi sarà dolcezza al palato, ma sazietà del ventre, senza fastidio e nausea però: Mi siederò all’ombra di colui che avevo desiderato, e il suo frutto è dolce al mio palato. Anche noi mentre la sposa riposa, facciamo una pausa glorificando per il gusto ricevuto il Padre di famiglia che ci ha invitato a questo banchetto, lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore che e sopra ogni cosa Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone XLIX I. La cella vinaria, che è la chiesa primitiva o lo zelo della giustizia che arde nell’amore per la contemplazione di Dio 1. Il Re mi ha introdotto nella cella del vino e ha ordinato in me la carità ( Ct 2,3 ). Come sembra indicare il senso letterale di questa affermazione, dopo il desiderato, dolce e oltremodo familiare colloquio avuto con il diletto, partito questo, la sposa ritorna alle giovinette, così ripiena e accesa dalla vista e dal colloquio con lui da apparire simile a una ubriaca. E ad esse che si stupiscono per la novità della cosa e ne chiedono la ragione risponde che non fa meraviglia se sembri accesa di vino, dal momento che era stata introdotta nella cella vinaria. Questo secondo la lettera. Secondo lo spirito pure la sposa non nega di essere ebbra, ma di amore, non di vino, a meno che si dica che l’amore è vino. Il Re mi ha introdotto nella cella vinaria. Quando lo Sposo è presente e la sposa rivolge a lui il discorso, allora viene chiamato « Sposo » o « diletto », oppure « colui che l’anima mia ama »; parlando invece di lui alle giovinette lo chiama « Re ». Perché questo? Credo che la ragione sia perché alla sposa amante e diletta convenga di trattare più familiarmente, per quanto spetta a lei, con i nomi dell’amore, e alle giovinette, come a quelle che hanno bisogno di disciplina, sia necessario far ricorso a una parola che incuta la reverenza dovuta alla maestà. 2. Il Re mi ha introdotto nella cella vinaria. Quale sia questa cella vinaria tralascio qui di spiegarlo, perché mi ricordo di averlo già detto. Tuttavia se il discorso viene riferito alla Chiesa, quando i discepoli ripieni di Spirito Santo erano ritenuti dal popolo ubriachi di mosto, Pietro, quale amico dello Sposo, prendendo le difese della sposa alzatosi in mezzo ad essi disse: Costoro non sono ubriachi, come voi credete ( At 2,15 ). Bada che egli non negò che fossero ebbri, ma che fossero ebbri come quelli li stimavano. Erano infatti si ebbri, ma di Spirito Santo, non di mosto. E quasi per dimostrare al popolo che in verità erano stati introdotti nella cella vinaria, Pietro risponde di nuovo per tutti: Accade invece quello che predisse il Profeta Gioele: negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni. ( At 2,16-17 ). Non ti sembra che sia stata una cella vinaria quella casa in cui i discepoli erano radunati insieme quando venne all’improvviso dal cielo un rombo come di vento che si abbatte gagliardo e riempi tutta la casa dove si trovavano ( At 2,2 ) e adempì la profezia di Gioele? E ciascuno di loro non uscì forse ebbro dall’abbondanza di quella casa, avendo bevuto al torrente di tanta voluttà, e non poteva dire in verità: Mi ha introdotto nella cella vinaria? 3. Ma anche tu se con spirito raccolto, mente sobria e libera dalle vane sollecitudini, entri da solo nella casa dell’orazione, e stando davanti al Signore a uno degli altari, tocchi con la mano del santo desiderio la porta del cielo, e ammesso ai cori dei santi dalla tua penetrante devozione, poiché l’orazione del giusto penetra i cieli ( Sir 35,21 ), alla loro presenza deplori umilmente le miserie e le calamità a cui vai soggetto, con frequenti sospiri e gemiti inenarrabili esponi le tue necessità, implori pietà; se farai questo, dico, confido in colui che ha detto: Chiedete e riceverete ( Gv 16,24 ) perché se persevererai nel bussare non te ne andrai vuoto. Ma quando tornerai a noi pieno di grazia e di carità, non potrai, essendo fervente di spirito, dissimulare il dono ricevuto, che comunicherai senza invidia, e sarai a tutti, nella grazia che ti è stata data, non solo gradito, ma oggetto di ammirazione, e potrai anche tu dire con verità: Mi ha introdotto nella cella vinaria. Solamente cerca di stare attento a non gloriarti in te stesso, ma nel Signore. Non direi che ogni dono, sia pure spirituale, venga dalla cella vinaria, dato che presso lo Sposo vi sono altre celle e dispense, che contengono in sé diversi doni e carismi, secondo le ricchezze della sua gloria: di questo mi ricordo di aver altrove ampiamente discusso. Non sono forse queste cose nascoste presso di me, sigillate nei miei forzieri? ( Dt 32,34 ). Dunque, secondo le diversità delle celle vi sono diverse specie di grazie, e a ciascuno si manifesta lo Spirito per l’utilità comune. E sebbene a uno venga concesso il linguaggio della sapienza, a un altro il linguaggio della scienza, a un altro il dono della profezia, a un altro il dono di far guarigioni, a un altro la varietà delle lingue, ad altri l’interpretazione delle lingue, e ad altri simili doni non potrà tuttavia uno di costoro dire per queste cose che fu introdotto nella cella vinaria. Difatti questi doni provengono da altre celle e tesori. 4. Ma se uno pregando ottiene di essere rapito in estasi contemplando qualche divino arcano, e subito ritorni in sé acceso da veemente amore, ardente di zelo per la giustizia, nonché ferventissimo in tutti gli studi spirituali e nell’esercizio delle sue mansioni, di modo che possa dire: Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco ( Sal 39,4 ); costui veramente quando avrà cominciato, per l’abbondanza della carità, a dare segni di una ubriachezza buona e salutare del vino di delizia, dimostrerà in verità di essere entrato nella cella vinaria. Sono due infatti le estasi della beata contemplazione, una nell’intelletto e l’altra nell’affetto, una nella luce, l’altra nel fervore, una nella cognizione, l’altra nella devozione; perciò l’affetto della pietà e il petto acceso d’amore e l’infusione della santa devozione, e anche lo spirito ripieno di ardente zelo, non si riportano da altrove che dalla cella vinaria. E a chiunque è dato di alzarsi dall’orazione con l’abbondanza di questi doni, può con verità dire: Il Re mi ha introdotto nella cella vinaria. II. La discrezione è la carità ben ordinata 5. Segue: Ha ordinato in me la carità ( Ct 2,4 ). Cosa del tutto necessaria. Lo zelo, per esempio, diventa insopportabile senza la scienza. Dove dunque c’è una forte emulazione, là è massimamente necessaria la discrezione, che è l’ordine della carità. Lo zelo senza la scienza è sempre meno efficace e meno utile, molte volte anzi si rivela dannoso. Più dunque è fervente lo zelo e veemente lo spirito e più profusa è la carità, tanto maggiormente c’è bisogno di una scienza vigilante che contenga lo zelo, temperi lo spirito, ordini la santa. Perciò la sposa per non essere considerata eccessiva e insopportabile per l’impeto dello spirito che sembra aver riportato uscendo dalla cella vinaria, specialmente dalle giovanette, aggiunge di aver anche ricevuto il dono della discrezione, cioè l’ordine della carità. La discrezione infatti mette ordine in ogni virtù, l’ordine conferisce la misura e il decoro, e anche la perpetuità. Cosi è detto: Per il tuo ordine sussiste il giorno ( Sal 119,91 ), dove chiama « giorno » la virtù. È, dunque, la discrezione non tanto una virtù, quanto piuttosto una certa moderatrice e guida delle virtù, ordinatrice degli affetti e maestra dei costumi. Togli questa e la virtù diventerà vizio, e la stessa affezione naturale si cambierà piuttosto in perturbazione e sterminio della natura. Ordinò in me la carità. Questo si è compiuto quando nella Chiesa Dio ha stabilito alcuni come Apostoli, altri come Profeti, altri come Evangelisti, altri come pastori e maestri per la riunione di tutti i santi. Ma occorre che tutti questi siano legati e associati da un’unica carità nell’unità del corpo di Cristo: e questo non lo potrà fare questa carità se non sarà ordinata. Se infatti ognuno si lascia trasportare dal suo impulso secondo lo Spirito che ha ricevuto, e indifferentemente si orienta a tutto ciò che vuole, secondo il capriccio e non secondo il giudizio della ragione, mentre nessuno si contenterà dell’ufficio assegnatogli, ma tutti senza discrezione cercheranno di mettere mano a ogni cosa, non vi sarà più unità, ma piuttosto confusione. III. Come ciò che secondo la ragione è da anteporre, si debba talora posporre in base all’ordine della carità e come di ciò che torna a maggior gloria di Dio si debba maggiormente godere 6. Ha ordinato in me la carità. Oh, se il Signore Gesù ordinasse anche in me quel poco di carità che mi ha dato, di modo che cosi io mi preoccupi di tutte le cose che interessano lui, in modo però da curare anzitutto ciò che riguarda il mio dovere o il mio impegno; ma in realtà cosi prima questo che io sia maggiormente interessato a quelle altre molte cose che non mi riguardano in modo speciale. Non sempre infatti quello a cui prima si deve badare è quello che deve stare più a cuore, e spesso ciò che e prima oggetto di sollecitudine e meno utile e per questo deve avere meno importanza in ordine all’affetto. Spesso pertanto ciò che si mette al primo posto perché è comandato, viene giudicato meno importante dalla ragione, e quando la verità giudica che una cosa da preferirsi, l’ordine della carità impone di farla con più amore. Per esempio a me è comandato di aver cura di tutti voi. Ora, qualunque cosa io preferissi a questa incombenza che mi impedisca di vigilare nell’esecuzione di questo dovere e in modo tale da essere a voi utile secondo le mie forze, anche se per caso agissi per motivi di carità, ciò non mi sarebbe consentito dall’ordine della ragione. Ma se io mi applico a questo compito prima che a ogni altra cosa, come e mio dovere, e non godo dei maggiori interessi di Dio che sento per caso realizzati per mezzo di un altro, è chiaro che in parte osservo e in parte no l’ordine della carità. Se invece io mi applico in modo speciale a ciò che è mio compito, e riservo un maggiore affetto a quello che è più importante, mi trovo ad avere in ogni caso mantenuto l’ordine, e nulla mi impedisce di dire anch’io: Ha ordinato in me la carità. 7. Se poi dici che è difficile che uno goda più per un grande bene altrui che per uno proprio piccolo, osserva anche da questo l’eccellenza della grazia nella sposa, e come non tutte le anime possano dire: Ha ordinato in me la carità. Perché si sono fatte scure le facce di alcuni di voi a questo discorso? Lunghi sospiri indicano infatti la tristezza del vostro animo e l’abbattimento della vostra coscienza. In realtà se misuriamo noi stessi da noi, sentiamo come per alcuni di noi, come dimostra l’esperienza della nostra imperfezione, sia rara virtù non invidiare la virtù degli altri e invece piuttosto godere di essa, congratularsene più che non fosse propria, quando uno si vede superato nella virtù. Ancora poca luce abbiamo in noi, o fratelli, quanti abbiamo questi sentimenti. IV. Quale utilità traiamo in base all’ordine della carità Camminiamo finché abbiamo la luce, affinché non ci sorprendano le tenebre. Camminare equivale a progredire. Camminava l’Apostolo che diceva: Non penso di essere già arrivato alla perfezione ( Fil 3,13 ). E aggiunge: Questo soltanto so, dimentico del passato mi protendo verso il futuro. Questo soltanto so, come per indicare che gli è rimasta una cosa come rimedio, speranza, consolazione. Che cosa è questo? Dimentico del passato mi protendo verso il futuro. Grande fiducia, che il grande vaso di elezione non si ritiene perfetto e dice di progredire! Dunque il pericolo di essere sorpreso nelle tenebre della morte sta per chi è seduto, non per chi cammina. E chi è seduto se non colui che non si preoccupa di progredire? Guardati da questo, e se sarai sorpreso dalla morte sarai nel refrigerio. Dirai a Dio: Ancora imperfetto mi hanno visto i tuoi occhi ( Sal 139,16 ) e nel tuo libro, tuttavia, tutti saranno scritti. Chi tutti? Certamente coloro che sono trovati desiderosi di progredire. Segue infatti: Saranno formati i giorni, e nessuno di essi, sottintendi: perirà. Per giorni intendi i proficienti, che se saranno sorpresi dalla morte saranno perfezionati in quello che loro manca: Saranno formati e nessuno di essi sarà lasciato informe. 8. « E come, dirai, io posso progredire se sono invidioso del fratello che progredisce »? Se soffri del fatto di essere invidioso, senti, ma non acconsenti. È una passione che un giorno guarirà, non un’azione degna di condanna. Solamente non fermartici sopra, meditando l’iniquità sul tuo giaciglio, in modo cioè da favorire la malattia, soddisfare la peste, perseguitare l’innocente dicendo male del bene da lui compiuto, deprimendolo, stravolgendolo e impedendo che faccia altro bene. Del resto non nuoce a chi cammina proteso verso cose migliori il fatto che non sia lui che opera, ma il fatto che abita in lui il peccato. Non c’è dunque condanna per colui che non fa servire le sue membra all’iniquità; non la lingua alla detrazione, né altro membro del suo corpo a danneggiare o nuocere in qualsiasi maniera, ma piuttosto si confonde dei cattivi sentimenti che prova confessando e piangendo il vizio inveterato, e cercando con la preghiera di liberarsene; e quando non ci riesce diventa più mite verso tutti, e più umile di fronte a se stesso. Quale sapiente condannerebbe un uomo sano che ha imparato dal Signore ad esser mite ed umile di cuore? E non è certamente malato chi si è fatto imitatore del Salvatore, Sposo della Chiesa, Signore nostro che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone L I. La carità, qual'è nell’affetto e quale è nell’atto, e su quale è data la legge; perché Dio comanda cose impossibili 1. Voi forse vi aspettate che andiamo avanti nel commento del testo, pensando che sia finito quello sul versetto di cui abbiamo ultimamente parlato. Ma io penso ad altro; ho ancora da offrirvi dei frammenti del convito di ieri che avevo raccolto per me, affinché non andassero perduti. E andranno perduti se non li offrirò a nessuno. Perché, se vorrò tenerli per me solo, io perirò. Non voglio pertanto privare di essi il vostro appetito, che ben conosco, specialmente perché vengono dall’alimento della carità, tanto più gustosi quanto più fini, tanto più saporiti quanto più minuti. Diversamente sarebbe gravemente mancare alla carità il defraudare della stessa carità. Dunque sono qui: Ha ordinato in me la carità. 2. C’è la carità effettiva e quella affettiva. Circa la prima che consiste nelle opere penso sia stata data una legge agli uomini, e ci sia un preciso comandamento. Riguardo quella che è nell’affetto, chi ne possiede tanta quanto è comandata? La prima, dunque, è comandata per il merito, questa altra è data in premio. Non neghiamo che con la grazia di Dio si possa sperimentare l’inizio e il progresso nella presente vita, ma riserviamo la sua perfezione alla felicità futura. Come dunque potrebbe essere oggetto di comando quella che in nessun modo si può realizzare completamente? O se a te piace che sia stato dato un precetto per la carità affettiva, io non discuto, purché anche tu ammetta che questa da nessun uomo può essere praticata in questa vita nella sua perfezione. Chi infatti oserebbe arrogarsi quello che Paolo confessa di non aver raggiunto? Non sfuggì al Maestro che il peso del precetto eccedeva le forze degli uomini, ma giudicò utile ammonirli con il fatto stesso della sua insufficienza, affinché sapessero bene a quale perfezione della giustizia fosse necessario tendere, secondo le forze. Dunque, comandando cose impossibili non si rendono gli uomini prevaricatori, ma umili, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia soggetto a Dio, perché dalle opere della legge non sarà giustificato nessun uomo davanti a lui. Ricevendo dunque il comando, e sentendo la nostra deficienza, grideremo verso il cielo e Dio avrà misericordia di noi, e sapremo in quel giorno che egli ci ha salvato non per le opere di giustizia che noi avremo fatto, ma secondo la sua misericordia. 3. E questo direi nel caso che ammettiamo che sia stata data una legge circa la carità affettiva. Però questo sembra convenire piuttosto alla carità attiva, perché dopo aver detto: Amate i vostri nemici, il Signore ha aggiunto subito circa le opere: Fate del bene a quelli che vi odiano ( Lc 6,27 ). E così la Scrittura: Se il tuo nemico avrà fame dagli da mangiare, se avrà sete dagli da bere ( Rm 12,20 ). Qui si parla di atti, non, di affetto. Ma senti anche il Signore che comanda circa l’amore di Lui: Se mi amate, osservate i miei comandi ( Gv 14,15 ). Anche qui ci si rimanda alle opere con l’ingiunzione di osservare i comandamenti. Ora sarebbe stato superfluo ammonire di compiere le opere, se già ci fosse stata la dilezione dell’affetto. In questo senso devi pure prendere le parole con cui ti si comanda di amare il prossimo tuo come te stesso, sebbene non sia espresso così chiaramente. Non ti è forse sufficiente per adempiere questo comandamento dell’amore del prossimo osservare alla perfezione quello che è prescritto a ogni uomo secondo la legge di natura: Non fare ad altri quello che non vuoi sia fatto a te ( Tb 4,16 ). E così quell’altro: Fate agli altri tutte quelle cose che volete che gli uomini facciano a voi? ( Mt 7,12 ). 4. E non, dico questo perché siamo senza affezione, e con cuore arido muoviamo solo le mani per operare. Ho letto tra gli altri grandi e gravi mali degli uomini, descritti dall’Apostolo, anche questo: senza affetto ( Rm 1,31 ). II. Il triplice effetto della carne, della ragione e della sapienza; l’ordine trasposto della carità attuale Ma c’è un affetto che proviene dalla carne, e ve n’è uno che è guidato dalla ragione, e ce n’è uno che produce la sapienza. La prima affezione quella che l’Apostolo dice che non è soggetta alla legge di Dio, né lo può essere; la seconda all’opposto è quella che descrive consenziente alla legge di Dio, perché è buona; e non c’è dubbio che c’è di stanza tra l’essere consenziente e l’essere opposta. La terza è molto distante dall’una e dall’altra, e questa gusta e sperimenta quanto è dolce il Signore che elimina la prima e rimunera la seconda. La prima infatti è dolce, ma turpe; la seconda è secca, ma forte; l’ultima è pingue e soave. Per la seconda, pertanto, si compiono le opere, e in essa la carità siede: non quella carità affettiva la quale, crescendo con il condimento del sale della sapienza porta alla mente la grande moltitudine delle dolcezze del Signore; ma piuttosto una certa carità attiva, la quale, anche se non ristora ancora soavemente con quel dolce amore, accende tuttavia fortemente dell’amore di lui. Non vogliate, dice, amare con le parole e con la lingua, ma con opere e verità ( 1 Gv 3,18 ). 5. Vedi come passa cautamente tra l’amore vizioso e l’affettuoso, distinguendo dall’uno e dall’altro questa carità fattiva e salutare. Né in questa dilezione riceve la finzione della lingua bugiarda, né esige il gusto che sperimenta la sapienza. Con le opere, dice, amiamo e con verità ( 1 Gv 3,18 ): dobbiamo cioè muoverci a operare il bene più per impulso della viva verità che per affetto di quella saporosa carità. Ha ordinato in me la carità. Quale delle due? L’una e l’altra, ma con ordine opposto. Poiché l’attiva preferisce le cose inferiori, l’affettiva quelle superiori. Infatti: nella mente ben affezionata non vi è dubbio che l’amore di Dio sia da anteporre all’amore dell’uomo, e fra gli uomini i più perfetti siano da preferire ai più deboli, il cielo alla terra, l’eternità al tempo, l’anima al corpo. Tuttavia in una attività ben ordinata spesso, o anche sempre, si trova un ordine opposto. Così riguardo alla cura del prossimo, più ci sta vicino e più ce ne occupiamo, assistiamo con più diligente premura i fratelli più infermi; lavoriamo più per la pace in terra che per la gloria del cielo, per diritto di umanità e spinti dalla stessa necessità; la preoccupazione delle cure temporali a stento ci permette di pensare alle cose eterne; e ci occupiamo quasi di continuo delle infermità del nostro corpo, posponendo la cura dell’anima; e le stesse nostre membra più inferme, come dice l’Apostolo, circondiamo di più grande onore e rispetto, mettendo in atto con ciò in un certo modo il detto del Signore: Gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi ( Mt 20,16 ). Infine, chi dubita che parli con Dio un uomo che prega? E tuttavia quante volte da quel colloquio siamo distolti e strappati per ordine della carità, per andare da quelli che hanno bisogno della nostra opera o della nostra parola! Quante volte la pia quiete piamente cede ai tumulti degli affari! Quante volte con buona coscienza si mette da parte un libro per andare a faticare in un lavoro manuale! Quante volte per amministrare cose terrene, giustissimamente sospendiamo le stesse celebrazioni della S. Messa! Ordine a rovescio; ma la necessità non ha legge. La carità attiva dispone dunque il suo ordine secondo il comando del padre di famiglia, cominciando dagli ultimi, pia certamente e giusta, senza accettazione di persone, né considerando il valore delle cose, ma le necessità degli uomini. 6. Ma non così la canta affettiva: questa stabilisce il suo ordine cominciando dalle cose prime. È infatti sapienza, per la quale le cose hanno sapore secondo che sono, sicché per esempio quelle cose che la natura ha di più grandi anche la: stessa affezione sente maggiormente, di meno le minori, le minime minimamente. Nella carità attiva l’ordine è fatto dalla verità della carità; qui invece è riservato alla carità della verità. Infatti in questo sta la vera carità, che quelli che sono più bisognosi ricevano per primi; e di nuovo in questo appare rara la verità, se teniamo con l’affetto l’ordine che quella tiene con la ragione. III. L’ordine della carità dell’affetto in base al quale ogni cosa ha il suo valore secondo quello che è Ma tu se ami il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le tue forze, e con affetto più fervente sorpassi quell’amore di cui si contenta la carità attiva, e ti senti tutto acceso di quel divino amore, al quale questo fa da gradino, per aver ricevuto in pienezza lo Spirito, allora tu gusti veramente Dio, sebbene non del tutto come Egli è, il che è impossibile a ogni creatura, ma certamente per quanta è la tua capacità di gustarlo. In seguito gusterai anche tu stesso come sei, quando sentirai di non aver nulla in te che ti renda degno di amarti se non in quanto sei di Dio: in quanto tutto quello per cui tu ami lo hai effuso in lui. Ti gusterai come sei quando per la stessa esperienza dell’amore tuo e dell’affetto che avrai verso di te, troverai che tu non sei nulla che sia degno di essere amato da te se non per colui senza del quale tu sei niente. 7. E ora il prossimo che tu devi amare come te stesso, perché abbia per te sapore secondo quello che è, non avrà certo altro sapore che quello che tu senti per te. Se dunque tu non ti ami se non perché ami Dio, di conseguenza tutti quelli che similmente lo amano tu li ami, come te stesso. Pertanto un uomo nemico, che non è nulla per il fatto che non ama Dio, non puoi amarlo come te stesso che ami Dio. Non è la stessa cosa amare perché ami e amare perché ama. Pertanto affinché tu lo senta come è, lo gusterai non secondo quello che è, perché di fatto non è nulla, ma secondo quello che forse sarà in futuro, il che è vicino al nulla, in quanto è sospeso al dubbio. Che se fosse certo che non tornerà in seguito all’amore di Dio, allora necessariamente non ti saprà quasi di niente, ma niente affatto, perché in eterno non sarà nulla. Eccettuato questo che non solo non è più da amare, ma per di più è da odiare, secondo quel detto: Non odio forse, o Signore, quelli che ti odiano, e detesto i tuoi nemici ( Sal 139,21 )? Per il resto a nessun uomo, anche se inimicissimo, la carità ambiziosa permette che venga negato un qualche affetto. Chi è sapiente e comprenderà queste cose? 8. Dammi un uomo che con tutto se stesso ami Dio sopra tutte le cose; e ami se stesso e il prossimo in quanto amano Dio; ami il nemico in quanto forse un giorno lo amerà anche lui; che ami i consanguinei con pii familiarità, secondo la natura; i suo maestri spirituali con più profusione per la grazia, e in questa maniera ami con un amore ordinato tutte le altre cose di Dio, disprezzando la terra, sospirando il cielo, usando di questo mondo come se non ne usasse, e che fra le cose di cui si serve e di cui fruisce discerne con un certo intimo sapore della mente le transitorie dalle eterne, e alle transitorie dà relativa importanza, e cura solamente ciò che è necessario e in quanto è tale, abbracciando con eterno desiderio le cose eterne, dammi un tale uomo, dico, e io ardisco di dichiararlo sapiente in quanto per lui tutte le cose hanno veramente sapore secondo quello che sono, e in verità e con sicurezza egli può gloriarsi e dire: Ha ordinato in me la carità. Ma dov’è quest’uomo, o quando si trovano queste cose? Lo dico piangendo: fino a quando odoriamo e non gustiamo, vedendo davanti a noi la patria senza raggiungerla, sospirando e salutandola da lontano? O Verità, patria degli esuli, fine dell’esilio! Ti vedo ma non mi si lascia entrare, trattenuto dalla carne, ma neanche degno di esservi ammesso, lordo Come sono di peccati. O Sapienza che ti estendi da un confine all’altro forte nel costituire e contenere le cose, e disponi tutte le cose con soavità nel suscitare e ordinare gli affetti! Dirigi i nostri atti come lo richiede la nostra temporale necessità, e disponi i nostri affetti come richiede la tua eterna verità, perché ognuno di noi possa con sicurezza gloriarsi in te e dire: Ha ordinato in me la carità. Tu sei infatti la forza di Dio e la sapienza di Dio, o Cristo Sposo della Chiesa e Signore nostro, Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LI I. I fiori o i frutti di cui è ripiena la Chiesa e l’anima fedele 1. Circondatemi di fiori, stipatemi di frutti, perché languisco d’amore ( Ct 2,5 ). È cresciuto l’amore perché più numerosi del solito ne sono stati gli incentivi. Vedi infatti con quanta larghezza questa volta le sia stato concesso non solo di vedere ma anche di parlare con il diletto. Nella stessa visione che le è stata concessa egli le si è mostrato con volto più sereno, con parole più dolci, con discorsi più prolungati. Né solo ha goduto della sua conversazione, ma ha avuto motivo di gloriarsi delle sue lodi. Inoltre ha sperimentato il refrigerio della sua ombra, si è cibata del suo frutto, ha bevuto al suo calice. Non si può infatti pensare che sia uscita digiuna dalla cella vinaria, nella quale si vanta di essere stata ultimamente introdotta; ma assetata si, perché chi beve ne avrà ancora sete ( Sir 24,29 ). Dopo tutte queste cose, andatosene, come di solito, lo Sposo, essa si mostra languente di amore, cioè a causa dell’amore. Quanto più dolce aveva provato la sua presenza, tanto più sentiva molesta ora la sua assenza. La sottrazione della cosa che ami, infatti, ne fa crescere il desiderio, e più ardente è il desiderio, tanto più ne soffri la mancanza. Prega perciò la sposa di essere confortata dai profumi dei fiori e dei frutti, fino a che ritorni colui la cui assenza le è oltremodo molesta. Questo è il filo del racconto. 2. Ora tentiamo di cavarne il frutto spirituale che vi si nasconde, con la guida dello Spirito. E se è la comune Chiesa dei santi che qui si sente parlare, nei fiori e nei frutti siamo designati noi e tutti coloro che in tutto il mondo si sono convertiti dal mondo. Nei fiori viene mostrata la novella e ancora tenera vita degli incipienti, nei frutti la fortezza dei proficienti e la maturità dei perfetti. Da questi circondata la madre gravida e fruttificante, per la quale vivere è Cristo e morire un guadagno, sopporta con grande pazienza la pena del suo tardare, perché secondo la Scrittura le viene dato del frutto delle sue mani, come da primizie dello Spirito, e la lodano in pubblico le sue opere. Se invece, secondo il senso morale, vuoi applicare queste due cose a una singola anima, i fiori cioè e i frutti, puoi intendere per fiori la fede e per frutti le opere. E non senza ragione, penso io, pensi in questo modo se, come fiore che precede il frutto, così bisogna che la fede preceda le buone opere. Diversamente, senza fede è impossibile piacere a Dio, come dice San Paolo, il quale dice di più: Tutto quello che non viene dalla fede è peccato ( Rm 14,23 ). Pertanto, né c’è frutto senza fiore, né senza fede vi è opera buona. Ma anche la fede senza le opere è morta, come appare inutile il fiore a cui non tiene dietro il frutto. Circondatemi di fiori, stipatemi di frutti, perché languisco d’amore. Dunque, dalle buone opere radicate in una fede sincera, riceve conforto l’anima abituata alla quiete ogni volta che le viene sottratta, come suole accadere, la luce della contemplazione. Chi mai infatti, non dico di continuo, ma a lungo, fino a che è in questo corpo, può godere della luce della contemplazione? Ma ogni volta che cade, come ho detto, dalla contemplazione, sempre ritorna alla vita attiva, per ritornare di qui, come da vicino, più familiarmente, allo stesso punto, perché queste due cose sono compagne e abitano insieme: Marta cioè è sorella di Maria. E anche se scende dalla luce della contemplazione, non si lascia cadere nelle tenebre del peccato o nell’ignavia dell’ozio, ma si trattiene nella luce delle buone opere. E perché tu sappia che anche le opere buone sono luce, dice: Splenda la vostra luce davanti agli uomini ( Mt 5,16 ): il che senza dubbio è stato detto delle opere che gli uomini potevano vedere. II. La sposa cerca di sostentarsi con la fede e le opere delle giovinette, perché lo sposo è assente 3. Circondatemi di fiori, stipatemi di frutti, perché languisco d’amore. Quando è vicino colui che si ama l’amore vive, languisce quando chi si ama è lontano. E questo altro non è che un certo tedio del desiderio impaziente dal quale e necessariamente presa l’anima di chi ama fortemente quando l’oggetto del suo amore è assente; mentre, tutta protesa nell’aspettativa sente come un ritardo anche l’affrettarsi. E perciò chiede di essere circondata da un cumulo di frutti di buone opere con i profumi della fede, tra i quali, tardando lo Sposo, nel frattempo riposa. Dico a voi la mia esperienza. Se talvolta ho appreso che qualcuno di voi, da me esortato, aveva fatto dei progressi, allora non mi è rincresciuto di aver preferito, lo confesso, la fatica dei discorsi al mio riposo e alla mia quiete. Quando per esempio, dopo un sermone, un tipo iracondo si trova mutato in mite, un superbo in umile, un pusillanime in forte; e chi è mite, umile e forte è cresciuto, ognuno nella sua grazia, e si riconosce diventato migliore di prima; così chi forse si era intiepidito e languiva nella vita spirituale, e gli intorpiditi e i sonnolenti, se all’infuocata parola del Signore pare si siano infervorati e svegliati; e se coloro che, abbandonata la fonte della sapienza, si erano scavate le cisterne della volontà propria che sono incapaci di contenere acqua, per cui a ogni comando, come si sentissero schiacciati da un peso, con cuore arido mormoravano, non avendo in sé nessun umore di devozione: se tutti costoro, dico, ricevuta la rugiada della parola e la pioggia abbondante mandata da Dio al suo popolo, dimostrano di aver rifiorito nelle opere dell’obbedienza, divenuti in tutto ossequienti e devoti, allora vi dico, non ha più motivo di tristezza la mia mente per l’interrotta applicazione alla gioiosa contemplazione, dal momento che mi trovo circondato da tanti fiori e frutti di pietà. Sopporto con pazienza di venire strappato agli amplessi dell’infeconda Rachele, quando mi trovo tra l’abbondante frutto dei vostri profitti. Non rimpiangerò affatto di aver interrotto la quiete della contemplazione per preparare i miei sermoni quando vedrò germogliare in voi il mio seme e crescere i frutti della vostra giustizia. La carità, infatti, che non cerca l’interesse proprio, mi ha già da molto tempo facilmente persuaso di questo, cioè di non preferire nessuna delle cose che io desidero ai vostri interessi. Pregare, leggere, scrivere, meditare, e tutte le altre, cose che interessano la vita interiore, tutto ho considerato come una perdita per voi. 4. Circondatemi di fiori, stipatemi di frutti, perché languisco d’amore. Queste cose ha dunque dette la sposa alle giovanette in assenza dello Sposo, ammonendole a progredire nella fede e nelle opere buone, fino a che egli ritorni, comprendendo che in questo vi è e il beneplacito dello Sposo e la loro stessa salvezza e in più la sua propria consolazione. So di aver spiegato più a fondo questo passo nel libro dell’amore di Dio e sotto un altro aspetto, se migliore o peggiore lo giudichi il lettore, se qualcuno vorrà vederli tutti e due. Non sarò certamente giudicato da un uomo prudente riguardo ai diversi sensi, purché sia in nostro favore da una parte e dall’altra la verità, e la carità, alla quale le Scritture devono servire, porti edificazione a tante più persone quanti più saranno i sensi veri che da esse nel suo lavoro ricaverà. Perché poi dovrebbe dispiacere nei sensi della Sacra Scrittura ciò che sperimentiamo ogni giorno e continuamente nell’uso delle cose? A quanti usi del nostro corpo, per portare un esempio, viene impiegata la sola acqua? Così una sola frase della Parola di Dio non è strano che abbia diversi sensi, adattabili alle diverse necessità e usanze delle anime. III. Quale sia la sinistra, quale la destra dello sposo e quali le conseguenze di questi nomi 5. Segue: La sua sinistra è sotto il mio capo, e la sua destra mi abbraccerà ( Ct 2,6 ). Anche su questo passo nel predetto opuscolo  [De diligendo Deo ] ricordo di aver parlato diffusamente; ma manteniamo l’ordine del discorso. È chiaro che lo Sposo è di nuovo presente, penso per rinfrancare con la sua presenza la sposa languente. Come non si sentirà ristabilita alla sua presenza, lei che si era abbattuta per la sua assenza? Dunque, lo Sposo non può sopportare che la sua diletta sia in angustia; è già lì; non può infatti tardare quando è chiamato da così intensi desideri. E anche perché ha saputo che per tutto il tempo della sua assenza, la sposa è rimasta fedele nel compiere le buone opere e sollecita nel progredire, per il fatto cioè che aveva chiesto di ammassare attorno a sé fiori e frutti. Per questo è tornato questa volta con una più ricca ricompensa di grazia. Ecco, con un braccio sostiene il capo della diletta che giace, e prepara l’altro per abbracciarla e stringerla al cuore. Felice l’anima che si adagia sul petto di Cristo e riposa tra le braccia del Verbo! La sua sinistra sotto il mio capo, e la sua destra mi abbraccerà. Non dice: « Mi abbraccia », ma mi abbraccerà, perché tu sappia che, non ingrata per la prima grazia, previene la seconda con il ringraziamento. 6. Impara a non essere tardo o fiacco nel ringraziare, impara a mostrarti riconoscente a ogni singolo dono. Considera, dice, con diligenza le cose che ti vengono servite ( Pr 23,1 ) affinché nessuno dei doni di Dio sia privo del dovuto ringraziamento, sia che, si tratti di doni grandi, mediocri o anche piccolissimi. Ci viene comandato di raccogliere i frammenti perché non vadano perduti, vale a dire che non dobbiamo dimenticarci neppure dei minimi benefici. Non è forse perduto ciò che si dona a un ingrato? L’ingratitudine è nemica dell’anima, rende vani i meriti, disperde le virtù, fa perdere i benefici. L’ingratitudine è un vento bruciante, che dissecca per sé la fonte della pietà, la rugiada della misericordia, il flusso della grazia. Per questo la sposa, non appena ha sentito la grazia della mano sinistra dello Sposo, ha reso grazie, senza aspettare la pienezza che è nella destra. Né quando si è, ricordata che la sinistra già era sotto il suo capo si dichiarò similmente abbracciata dalla destra ma disse: Mi abbraccerà. 7. Del resto, che cosa pensiamo che sia per il Verbo la « sinistra » e la « destra »? Forse che ciò che si dice parola dell’uomo ha queste parti corporee divise tra sé e lineamenti distinti che distinguono tra destra e sinistra? Quanto più colui che è Dio e parola di Dio non ammette affatto tale varietà, ma è colui che è, cioè tanto semplice nella sua natura da non avere parti, così unico da non ammettere numeri. È infatti la Sapienza di Dio, della quale è scritto: E della sua sapienza non vi è numero ( Sal 147,5 ). Ma se una cosa è invariabile, questa è incomprensibile, e per ciò stesso ineffabile, necessariamente: dove, prego, troveresti parole per descrivere degnamente e descrivere propriamente quella maestà? E tuttavia diciamo in qualche modo di essa quello che in qualche modo sentiamo, per rivelazione dello Spirito Santo, di essa. Sappiamo dall’autorità dei Padri e dalla consuetudine delle Scritture che è lecito prendere delle similitudini; adatte dalle cose che conosciamo, e prendere a prestito parole conosciute, senza cercarne delle nuove, con le quali vengano rivestite congruamente e convenientemente le medesime similitudini. Diversamente sarebbe ridicola cosa insegnare cose ignote per mezzo di cose ignote. 8. Dunque, poiché si è soliti per destra e sinistra significare le cose avverse e quelle prospere, mi sembra che in questo luogo la « sinistra » stia a significare la minaccia del supplizio, e la « destra » invece la promessa del regno. IV. Quando la mente ha la sinistra sotto il suo capo, quando sopra; la speranza che è fra l’una e l’altra Ora, vi e un momento in cui la nostra mente e premuta servilmente dal timore della pena; e allora si deve dire che la sinistra non è affatto sotto il capo, ma sopra il capo, né può l’anima che è in tali disposizioni dire in alcun modo: La sua sinistra è sotto il mio capo. Ma se progredendo da questo spirito di servitù sarà passata a un sentimento più degno di spontaneo ossequio, in quanto cioè sia provocata più dai premi che non stimolata dai supplizi, e ancor più se sia condotta dall’amore dello stesso bene, allora senza dubbio potrà dire: La sua sinistra è sotto il mio capo; in quanto ha superato con una migliore e più eccellente disposizione dell’animo quel timore servile che è significato nella sinistra, e con degni desideri si è avvicinata anche alla stessa destra che rappresenta le promesse secondo quello che il Profeta dice al Signore: Dolcezza senza fine alla tua destra ( Sal 16,11 ). Per questo, concepita speranza, dice con fiducia: E la sua destra mi abbraccerà. 9. Tu vedi già ormai con me come a colei che ha bramato e ottenuto un posto tanto soave convenga anche applicarsi quel passo del Salmo che fa dire anche a lei: In pace con lui mi corico e mi addormento, ( Sal 4,9 ) specialmente perché ne dà il seguente motivo: Perché tu solo, Signore, mi hai stabilito nella speranza. Ed è proprio così. Fino a che uno è spinto dallo spirito di servitù, ha poca speranza, molto timore, non ha pace né requie e la sua coscienza si dibatte tra la speranza e il timore, e massimamente perché soffre maggiormente per il timore della sovraeccellenza, giacché il timore ha la pena ( 1 Gv 4,18 ). E perciò non compete a lui dire: In pace con lui mi corico e mi addormento, dal momento che non è neppure in grado di affermare di essere stato stabilito nella speranza. Del resto se, poco alla volta, aumentando la grazia comincerà a diminuire il timore e a progredire la speranza, quando si sarà giunti al punto che la perfetta carità caccia fuori il timore, allora non apparirà una tale anima singolarmente costituita nella speranza, e potrà quindi anche in pace con lui dormire e riposare? 10. Mentre voi dormite tra gli olivi, dice, splendono d’argento le ali della colomba ( Sal 68,14 ). Questo io penso sia stato detto perché c’è un luogo tra il timore e la sicurezza come tra la sinistra e la destra, cioè la speranza che sta nel mezzo, nella quale la mente e la coscienza, stesovi sotto il soffice strato della carità, soavissimamente riposa. E forse nel seguito di questo stesso cantico è designato questo passo dove, nella descrizione del cocchio di Salomone, tra le altre cose si dice: Nel mezzo ha steso la carità per le figlie di Gerusalemme ( Ct 3,9-10 ). Poiché chi si sente stabilito nella speranza non serve più ormai nel timore, ma riposa nella carità. Infine riposa e dorme la sposa, per la quale viene detto: Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle, e le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia ( Ct 2,7 ). Grande e stupenda degnazione che fa riposare l’anima in contemplazione sul suo petto, e inoltre la difende dalle preoccupazioni nocive, e la protegge dalle attività inquietanti e dalle molestie degli affari, né vuole che sia svegliata se non quando essa vuole. Ma questo tema è da affrontare non nelle strettezze di un sermone che sta per finire; piuttosto di qui se ne cominci un altro, perché non manchi la debita diligenza nell’esporre questo dolce passo. Non che, neppure allora, da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, specialmente in una materia così nobile ed eccellente e del tutto sovraeminente, ma la nostra capacità viene da Dio ( 2 Cor 3,5 ) dallo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LII I. Coerenza della espressione di cui si dice: « Vi giuro, ecc. », espressione della divina degnazione riguardo all’anima 1. Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e le cerve dei campi, non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché essa non lo voglia ( Ct 2,7 ). Si proibisce alle giovinette, queste infatti chiama figlie di Gerusalemme, perché anche se delicate e molli e quasi ancora inferme per gli affetti e le azioni femminile, aderiscono tuttavia alla sposa con la speranza di progredire e di andare a Gerusalemme. Si vieta loro dunque di disturbare la sposa che dorme, perché contro la sua volontà non osino affatto svegliarla. Per questo infatti il dolcissimo sposo ha posto la mano sinistra sotto il capo, secondo quanto è stato già detto, per farla riposare e dormire nel suo seno. E ora, come prosegue la Scrittura, egli stesso come suo custode, con somma degnazione e benevolenza veglia su di lei, perché non sia costretta a svegliarsi disturbata dalle frequenti e minute necessità delle giovinette. Questo è il decorso letterale del testo. Se non che quello scongiuro fatto per le gazzelle e le cerve dei campi non sembra affatto avere una ragione di stare lì secondo il filo letterale del discorso: perciò tutto il motivo di queste parole sta nel loro senso spirituale. Ma qualunque esso sia, intanto è cosa buona per noi stare qui ( Mt 17,4 ) e scrutare un poco la bontà della divina natura, la sua soavità, la sua degnazione. Che cosa mai infatti tu, uomo, hai sperimentato negli umani affetti di più dolce di quello che ora ti viene espresso del cuore dell’Altissimo? E ti viene espresso da colui che scruta le profondità di Dio, e non può ignorare ciò che vi è in lui, perché è il suo Spirito, né può affatto dire se non quello che ha visto presso di lui, perché è lo Spirito di verità. 2. E poi non mancano neanche tra di noi quei felici che hanno meritato di essere rallegrati di questo dono, e così in se stessi hanno fatto esperienza di questo soavissimo arcano; ma non screditiamo il passo della Scrittura che abbiamo tra le mani, dove apertamente viene descritto lo Sposo celeste oltremodo zelante per il riposo di una certa sua diletta, sollecito nel tenerla addormentata tra le sue braccia, perché non sia disturbata da qualche molestia o inquietudine nel suo dolcissimo sonno. Non sto in me stesso dalla gioia per il fatto che quella maestà non disdegna di chinarsi sulla nostra infermità con una unione così familiare e dolce, e la superna Deità non ha difficoltà a stabilire un connubio con un’anima ancora esule e a manifestarle l’affetto di uno Sposo preso da ardentissimo amore. Così, così non dubito sia in cielo, come leggo sulla terra, e sentirà certamente l’anima ciò che contiene la pagina, se non che questa non è in grado di esprimere totalmente quanto quella allora potrà comprendere e neppure ora può capire. Che cosa pensi che potrà allora ricevere quella che fin da quaggiù è favorita da tanta familiarità da sentirsi stretta dalle braccia di Dio, riscaldata dal seno di Dio, custodita dalla cura e dall’amore di Dio, perché nel sonno non sia disturbata da qualcuno, fino a che da sé si risvegli? II. Qual è il sonno della sposa, dal quale lo sposo non vuole che la si risvegli 3. Ma su, è tempo che diciamo, se possiamo, di che specie sia quel sonno di cui lo Sposo vuole che la sua delicata diletta dorma, e dal quale non sopporta che sia riscossa, se, non quando essa lo vuole; perché non accada che qualcuno, leggendo quanto scrive l’Apostolo: È ormai tempo di svegliarvi dal sonno ( Rm 13,11 ), la preghiera che fa il Profeta perché Dio illumini i suoi occhi perché non si addormenti mai nella morte ( Sal 13,4 ), resti turbato dall’equivoco dei nomi, e non sappia come pensare degnamente del sonno della sposa di cui si parla in questo passo. E non è simile a questo neppure quello di cui parla il Signore nel Vangelo a proposito di Lazzaro: Lazzaro, il nostro amico, dorme; andiamo a svegliarlo dal sonno ( Gv 11,11 ). Questo infatti diceva della sua morte corporale, mentre i discepoli lo intendevano del sonno naturale. Ora, questo della sposa non è un sonno consistente nel dormire, o placido, dove i sensi carnali restano soavemente assopiti per un certo tempo, oppure orrido, che distrugge totalmente la vita; e molto di più differisce il sonno della sposa da quel dormire per cui ci si addormenta nella morte, quando si persevera irrevocabilmente nel peccato mortale. Ma piuttosto il vitale e vigile sopore di costei illumina il senso interiore, e cacciata la morte, dona la vita sempiterna. È in realtà un sonno che tuttavia non assopisce i sensi, ma li rende assenti. È anche una morte e non esito a dirlo, perché l’Apostolo, lodando alcuni che ancora vivevano nella carne, così dice loro: Voi siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio ( Col 3,3 ). 4. Pertanto, anch’io chiamerei non a torto l’estasi della sposa una morte, che non strappa alla vita ma ai lacci della vita, perché possa dire: La nostra anima è stata liberata come un uccello dai lacci dei cacciatori ( Sal 124,7 ). In questa vita, infatti, si cammina in mezzo ai lacci, dei quali non si ha timore tutte le volte che l’anima viene come strappata a se stessa da qualche santo e forte pensiero, se tuttavia la mente talmente si assenti o si elevi da oltrepassare questo nostro comune e usuale modo di pensare; difatti: Invano si tende la rete sotto gli occhi di chi è fornito di ali ( Pr 1,17 ). Come si temerebbe la lussuria dove non si sente neppure la vita? Andando invero l’anima in estasi esce, se non dalla vita, dai sensi della vita, per cui è inevitabile che non senta neppure le tentazioni della vita. Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo? ( Sal 55,7 ). Voglia Iddio che io muoia spesso di questa morte perché io sfugga ai lacci di morte, perché io non senta gli allettamenti mortiferi di una vita lussuriosa, perché sia insensibile al senso della libidine, all’ardore dell’avarizia, alla pressione delle sollecitudini, alla molestia degli affari! Muoia l’anima mia della morte dei giusti, affinché non resti irretito da alcuna ingiustizia, affascinato da alcuna iniquità. Buona morte quella che non toglie la vita, ma la trasferisce in meglio: buona morte quella per cui non cade il corpo ma l’anima viene sollevata. 5. Ma questo riguarda gli uomini. Muoia anche l’anima mia, se così si può dire, della morte degli angeli, perché elevandosi sopra la memoria delle cose presenti, si spogli non solo della cupidigia delle cose inferiori a sé e corporee, ma anche delle loro immagini, e così si trattenga puramente con essi dei quali imita la purezza. III. Quale estasi soprattutto si chiama contemplazione Tale estasi, penso, sola o soprattutto si chiama contemplazione. Non sentirsi legato dalle cupidigie nella vita appartiene all’umana virtù; nel meditare il non essere avvolto da immagini corporali appartiene all’angelica purità. Ma è dono di Dio l’uno e l’altro. L’uno e l’altro essere rapito, trascendere te stesso, ma uno lontano, l’altro non molto. Beato chi può dire: Ecco mi sono allontanato fuggendo e mi fermai nella solitudine ( Sal 55,8 ). Non si contentò di uscire, ma volle fuggire lontano da sé per poter riposare. Hai oltrepassato le lusinghe, della carne per non obbedire più ormai alle sue concupiscenze, né essere impastoiato dalle lusinghe delle passioni; hai progredito, ti sei separato da te, ma non sei ancora andato lontano se non riesci a trasvolare con una mente pura i fantasmi delle immagini corporee che irrompono da ogni parte. Fino a qui non ti promettere il riposo. Sbagli se pensi di trovare al di qua un luogo di riposo, una solitudine segreta, una luce serena, una dimora di pace. Ma dammi uno che sia arrivato là: subito lo vedo riposare, tale da poter dire: Ritorna, anima mia alla tua pace, perché il Signore ti ha beneficato ( Sal 115,7 ). Qui veramente è il posto nella solitudine, e l’abitazione nella luce, davvero, secondo il Profeta, tabernacolo per il giorno che ripara il caldo, e ripara con sicurezza dal turbine e dalla pioggia, del quale anche il santo Davide dice: Mi ha nascosto nella sua tenda nel giorno della sventura, mi ha nascosto nel segreto della sua dimora ( Sal 27,5 ). 6. Pensa dunque che la sposa si sia ritirata in questa solitudine, e qui per l’amenità del posto, si sia addormentata dolcemente tra gli abbracci dello Sposo, in altre parole, sia andata in estasi. Perciò le giovinette hanno avuto l’ordine di non svegliarla fino a che essa non lo voglia. Ma questo come? IV. Chi siano le capre o i cervi dei campi, e l’esortazione delle fanciulle a non disturbare per un motivo futile la diletta Non hanno infatti avuto un comando o una leggera ammonizione, come si suole fare, ma con una proibizione affatto nuova e inconsueta, per le gazzelle e le cerve dei campi. Con questo genere di fiere mi sembrano abbastanza bene espresse le anime sante spoglie dei loro corpi, e insieme gli Angeli che sono con Dio, a causa dell’acutezza della vista e della celerità della corsa. Queste due cose competono sia alle anime che agli Angeli, come sappiamo; facilmente infatti raggiungono la sommità e penetrano nell’intimo. Anche la loro vita descritta nei campi li indica liberi e sciolti nella contemplazione. Che cosa significa dunque lo scongiuro per questi? Certamente perché le inquiete giovanette non ardiscano per cose da nulla distogliere la diletta da così venerando consesso, al quale senza dubbio viene associata ogni volta che nella contemplazione va in estasi. E bene vengono spaventate adducendo la loro autorità, perché sanno che la loro importunità le priva della loro società. Badino le giovinette a chi recano offesa quando disturbano la madre, e non contino affatto sulla carità della madre, in modo che temano far irruzione in quel celeste consesso senza una grande necessità. Sappiano che così fanno quando disturbano più di quanto sia giusto l’anima che riposa nella contemplazione. Ed è lasciato alla sua volontà sia il badare a sé, sia attendere alle loro faccende, secondo che avrà giudicato opportuno, poiché alle giovinette è vietato di svegliarla finché essa lo voglia. Conosce lo Sposo di quanta carità la sposa sia piena anche verso il prossimo, e che come madre è molto sollecita per il profitto delle figlie, e che, non si sottrarrà né si negherà loro per nessuna ragione quanto e tutte le volte che sarà necessario; e per questo ha affidato sicuro alla sua discrezione questi interventi. Non è infatti come quei molti che vediamo bollati dal Profeta, che prendendo per sé quello che è grasso rigettano ciò che è debole ( Ez 34,3 ). Forse il medico cerca quelli che stanno bene e non piuttosto i malati, e se capita si comporterà forse più da amico che da medico. A chi insegnerai, maestro buono, se scaccerai tutti gli ignoranti? Chi formerai, di grazia, all’amore della disciplina, se allontanerai tutti gli indisciplinati, o fuggirai da essi? In chi, ti prego, mostrerai la tua pazienza, se accetterai soltanto i mansueti, escludendo gli irrequieti? 7. Vi sono tuttavia tra quelli che siedono qui, di quelli che farebbero bene a osservare con più attenzione questo capitolo. Imparerebbero certamente quanta riverenza si debba ai superiori, inquietando temerariamente i quali si rendono contrari anche i cittadini del cielo, e comincerebbero forse ad essere un pochino più indulgenti del solito con noi, né reclamerebbero irriverentemente o con leggerezza quando ci dedichiamo alla contemplazione. È raro il tempo che mi è lasciato libero per la preghiera, come sanno bene, dalle cure esterne che premono, anche nel caso che essi mi sopportino con grande pazienza. Ma io mi sfogo con questo lamento con molto scrupolo, nel timore che vi sia qualche pusillanime che, oltre i limiti della propria pazienza, dissimuli le sue necessità, non osando disturbarmi. Mi fermo qui anche perché io non sembri dare piuttosto esempio di impazienza ai deboli. Sono i piccoli del Signore, che credono in lui; non voglio che patiscano scandalo per causa mia. Non userò di questo potere: essi piuttosto usino di me a loro piacimento; purché si salvino. Mi faranno cosa gradita se non mi risparmieranno, e in questo troverò il mio riposo se non avranno timore di disturbarmi per le loro necessità. Farò loro interesse finché potrò, e in essi servirò il mio Dio finché vivrò, in una carità sincera. Non cercherò il mio interesse, non ciò che è utile a me, ma quello che lo è a molti giudicherò utile anche a me. Questo solo chiedo, che il mio ministero sia ad essi accetto e fruttuoso, perché nel giorno cattivo trovi per questo misericordia agli occhi del loro Padre, e insieme dello Sposo della Chiesa Gesù, Cristo nostro: Signore, che con lui è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Sermone LIII I. In che senso si dice: « La voce del diletto »; l’udito precede la vista 1. Voce del mio diletto ( Ct 2,8 ). Vedendo la sposa la nuova verecondia e il timore delle giovanette, che cioè stranamente avessero cominciato a non osare intromettersi nel suo santo riposo, né come facevano di solito prima, osassero disturbarla mentre era nel riposo della contemplazione, riconosce che questo è l’effetto della cura sollecita dello Sposo; esultando nello spirito sia per il loro progresso, poiché le vede corrette dalla loro eccessiva e vana inquietudine, sia perché si sente più libera in futuro di godere del suo riposo, sia anche per la degnazione e favore del suo Sposo, così zelante per la sua quiete, e che con tanto amore ha preso le difese dei suoi soavissimi, anzi, ferventissimi ozi, dice che tutto questo è effetto della voce del diletto suo, che egli per questo appunto ha rivolto alle giovanette. Infatti colui che con sollecitudine sta al comando, mai o raramente attende con sicurezza a se stesso, mentre sempre sta con il timore di non darsi abbastanza ai sudditi, e di non piacere a Dio per il fatto di preferire la dolcezza della propria quieta contemplazione all’utilità comune. Talora a chi si trova in questo soave riposo arriva una non piccola gioia e sicurezza, quando cioè da un certo timore e riverenza verso di sé, immesso da Dio nel cuore dei sudditi, viene a capire che a Dio piace il suo riposo, perché fa in modo che i sudditi preferiscano sopportare le loro necessità con pace piuttosto che disturbare temerariamente i graditi ozi del padre spirituale. La giusta trepidazione infatti dei pargoli: indica chiaramente che essi hanno udito di dentro una voce quasi minacciosa che li sgridava, la voce, senza dubbio, di colui che dice per mezzo del Profeta: Sono io che parlo con giustizia ( Is 63,1 ). È voce di lui la sua ispirazione, l’infusione del suo timore. 2. Udita dunque questa voce, la sposa piena di gioia e di esultanza esclama: È la voce del mio diletto. Essa è l’amica e gioisce grandemente per la voce dello Sposo. E aggiunge: Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline ( Ct 2,8 ). Conosciuta, per averne udita la voce, la presenza dello Sposo, subito fissa bene gli occhi curiosi per vedere colui che aveva udito. L’udito conduce alla vista: la fede viene dall’udito, e per essa vengono mondati i cuori perché possa vedersi Dio; così infatti è scritto: Purificando con la fede i cuori ( At 15,9 ). Vede dunque venire colui che aveva udito parlare, osservando anche qui lo Spirito Santo quell’ordine che presso il profeta è così descritto: Ascolta, o figlia, e vedi ( Sal 45,11 ). E perché si noti con più certezza che non a caso né senza ragione, ma di proposito e con ragione ( quella ragione che prima abbiamo addotta ) in questo passo si pone l’udito prima della vista, guarda come questo stesso ordine si trova osservato da quel santo che dice a Dio: Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono ( Gb 42,5 ). Ma anche dove si racconta come lo Spirito Santo nel giorno della Pentecoste discese sugli Apostoli, non si dice forse che l’udito ha prevenuto la vista? Si dice infatti: Venne all’improvviso dal cielo un rombo come di vento che si abbatte gagliardo; e più sotto: Apparvero loro lingue come di fuoco ( At 2,2-3 ). Anche qui dunque si dice che prima l’udito ha percepito la venuta dello Spirito Santo; e poi la vista. E di questo basti, perché anche voi, se volete ricercare su questo argomento, potrete trovare in altri passi della Sacra Scrittura cose del genere. II. Quali sono i monti o i colli sui quali lo sposo sale o va saltando 3. Ma ora consideriamo quella cosa che richiede una più diligente ricerca, ed è assai difficile a comprendersi, per cui ho assolutamente bisogno, lo confesso, dell’aiuto dello Spirito Santo, perché possa mettere induce quali siano quei monti o quelle colline sulle quali la Chiesa ha contemplato con felice visione salire e saltare lo Sposo, credo quando veniva per operare la redenzione di colei della quale aveva anche desiderato la bellezza. Io penserei in questo modo, e senza incertezze perché trovo qualcosa di simile nel Profeta, dove questi evidentemente, sotto l’azione dello Spirito, prevede e descrive l’avvento del Salvatore. Nel sole ha posto la sua tenda, ed egli come Sposo che esce dalla stanza nuziale, esulta come un prode che percorre la via: egli sorge da un estremo del cielo, e la sua corsa raggiunge l’altro estremo ( Sal 19,6-7 ). Questa corsa e questa rincorsa è conosciutissima; ed è pure molto noto da chi fu iniziata e terminata. Che dunque? Ci dipingeremo, leggendo queste cose sia nel Salmo sia nel presente Cantico, un uomo gigante, di alta statura, preso d’amore per una certa donnetta assente, e mentre si affretta ai desiderati amplessi, sorpassa questi monti e queste colline che vediamo innalzarsi a tanta altezza con la loro mole materiale sopra le pianure della terra, e di cui alcuni innalzano le loro vette fin sopra le nubi! Ma non è cosa decente fermarsi su immaginazioni corporee del genere, specialmente trattandosi qui di un cantico spirituale; e questo non è neppure lecito a noi che ricordiamo di avere letto nel Vangelo che Dio è spirito e che coloro che lo adorano lo devono adorare nello spirito ( Gv 4,24 ). 4. Chi sono pertanto quei monti e colli spirituali, perché poi conseguentemente li conosciamo e quali salti lo Sposo, che è Dio, e perciò spirito, faceva in essi e sopra di essi, e di che specie? Se pensiamo che siano quei monti sui quali il Vangelo riferisce che una volta furono lasciate le novantanove pecore, mentre il loro Pastore è venuto sulla terra a cercare quella che si era perduta, la cosa rimane ancora oscura, e non si capacita l’intelletto, dato che non è facile trovare quelle spirituali e sopracelesti beatitudini, quali sono certamente le pecore che, là hanno dimorato, quali monti e quali colli similmente spirituali e di che natura abbiano per abitazione o per pascolare in essi. Tuttavia se non esistessero la Verità non ne avrebbe parlato. E neppure il Profeta, molto tempo prima avrebbe detto della suprema città Gerusalemme che le sue fondamenta sono sui monti santi ( Sal 87,1 ), se veramente là non vi fossero dei monti santi. Infine, che quella celeste abitazione abbia dei monti e dei colli spirituali non solo, ma vivi e ragionevoli, sentilo da Isaia: I monti e le colline canteranno lodi davanti a Dio ( Is 55,12 ). 5. Chi pertanto sono questi se non gli stessi spiriti che abitano nei cieli, che la voce del Signore abbiamo detto chiamare pecore, di modo che sono la stessa cosa i monti e le pecore, a meno che in modo assurdo si voglia significare che i monti pascolano sui monti e le pecore nelle pecore. III. Come i monti siano la stessa cosa che le pecore, cioè i cittadini del cielo E secondo la lettera il senso suona duro; secondo lo Spirito invece il senso suona dolce se avvertiamo sottilmente come il Pastore di entrambi i greggi, cioè Cristo Sapienza di Dio provvede un solo e medesimo pascolo di verità in modo diverso ai greggi celesti e a quelli della terra. Noi infatti uomini mortali, finché siamo nel luogo del nostro pellegrinaggio, dobbiamo mangiare il nostro pane con il sudore del nostro volto, mendicandolo fuori nella fatica e nel dolore, o dagli uomini dotti o dai libri sacri, o guardando gli attributi invisibili di Dio resi intelligibili attraverso le creature; gli Angeli, invece, vivono beati in ogni pienezza, sia pure non da se stessi, con tanta facilità quanta ne è loro donata. Sono infatti tutti istruiti da Dio: questo è promesso con verità certa, che conseguiranno un giorno gli eletti degli uomini, ma non è dato ancora di sperimentarlo con felicità sicura. 6. Pascolano pertanto i monti sui monti, o le pecore nelle pecore, quando quelle superiori sostanze spirituali ricevono abbondantemente dentro a se stesse, dal Verbo di vita, quanto è necessario per vivere senza fine la loro vita, la stessa cosa sia monti che pecore, monti per la pienezza e l’altezza, pecore per la mansuetudine. Pieni infatti di Dio, sublimi per i meriti, arricchiti di virtù, tuttavia essi sottomettono le alte cime con tutta e umile obbedienza e si inclinano con le loro vertiginose altezze al comando della maestà, come pecore mansuetissime che camminano in tutto al cenno del loro padrone, e lo seguono dovunque va. In questi monti, veramente santi, secondo il Profeta Davide, come la sapienza creata prima di tutte le cose, sono poste all’inizio le solite fondamenta della città del Signore; la quale è unica in cielo e sulla terra, sebbene in parte ancora pellegrinante, e in parte già regnante. E da questi, secondo Isaia, come da cembali, sonori, risuona di continuo il ringraziamento e la voce di lode, adempiendo così essi con soave ed incessante voce quello che abbiamo or ora ricordato del medesimo Profeta, che cioè i monti e le colline canteranno lodi davanti a Dio ( Is 55,12 ), essi pure ciò che quell’altro, parlando al Signore Dio disse: Beati coloro che abitano nella tua casa o Signore! Ti loderanno nei secoli dei secoli ( Sal 84,5 ). 7. Questi dunque per tornare a ciò da cui ci siamo un poco allontanati, ma penso fosse necessario sono quei monti e quei colli sui quali la Chiesa vide il celeste Sposo con mirabile agilità salire quando si affrettava verso i suoi amplessi: e non solo salire, ma valicarli. IV. Quali sono i salti dello sposo, con i quali sale o va saltando Vuoi che ti dimostri questi salti dagli scritti dei Profeti o degli Apostoli? Non comincerò a riportare qui tutte le testimonianze che si possono desumere da essi su questo argomento da parte di chi ne ha il tempo: questo infatti sarebbe lungo, e non è il caso di farlo. Ma riferisco soltanto quelle cose che brevemente e apertamente sembrano dimostrare ciò che viene detto dei salti dello Sposo. Dice di lui Davide che pose nel sole la sua tenda, ed egli come uno sposo che esce dalla stanza nuziale, esulta come un gigante che percorre la via, egli sorge da un estremo del cielo ( Sal 19,6-7 ). Ecco che grande salto ha fatto, dalla sommità del cielo fino alla terra. Non trovo in verità dove altro abbia posto nel sole la sua tenda, cioè nella luce e nella chiarezza si sia degnato di mostrare la sua presenza, lui che abita nella luce inaccessibile, se non sulla terra. Infine: Fu veduto sulla terra, e abitò tra gli uomini ( Bar 3,38 ) sulla terra, ho detto, palesemente; perché ha posto nel sole la sua tenda, vale a dire nel corpo che si è degnato di prendere dal corpo della Vergine a questo fine, di mostrarsi in esso visibile lui che per sé è invisibile; e così ogni uomo potesse vedere la salvezza di Dio venuta a noi nella carne. 8. Sali dunque sui monti, vale a dire in quei supremi spiriti quando discese fino ad essi, degnandosi di spiegare loro il sacramento nascosto da secoli e il mistero grande della pietà. Ma oltrepassando questi superiori e più eminenti monti, vale a dire, i Cherubini e Serafini, nonché le Dominazioni, i Principati e le Potestà e le Virtù, si è degnato di scendere fino all’ordine inferiore degli Angeli, rappresentati dalle colline. Ma non si è fermato neppure in essi, ha valicato anche i colli. Egli infatti non si prese cura degli Angeli, ma del seme di Abramo si prese cura ( Eb 2,16 ), che è inferiore agli Angeli, perché si adempisse la parola del ricordato Profeta, che così parla al Padre del Figlio: L’hai fatto poco meno degli Angeli ( Sal 8,6 ). Questo in verità si può capire come detto a lode dell’umana natura per il fatto che l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, e dotato di ragione come gli Angeli, di poco tuttavia è inferiore all’Angelo a causa del suo corpo che viene dalla terra. Ma ascolta l’Apostolo Paolo che parla apertamente di lui: il quale pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio: ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini ( Fil 2,6 ) e ancora: Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge ( Gal 4,4-5 ). Colui dunque che fu fatto da donna, che fu fatto anche sotto la legge, non solo scendendo travalicò i monti, cioè le maggiori e superiori beatitudini, ma anche i minori Angeli i quali, in paragone dei superiori, a ragione vengono designati con il nome di colline. Del resto chi è minimo nel regno dei cieli, è più grande di chiunque è composto di carne sulla terra, fosse pure quel grande Giovanni Battista. Poiché anche se in verità diciamo che il Dio uomo supera di gran lunga anche come uomo tutti i Principati e le Potestà, è tuttavia certo che se li sorpassa in maestà, è loro inferiore riguardo alla infermità della carne. Così dunque salì sui monti e valicò i colli quando si mostrò con somma degnazione inferiore non solo ai superiori, ma anche agli spiriti inferiori, e non solo a quegli spiriti superni, ma a quelli stessi che vivevano ancora nella carne, superando se stesso, e vincendo con la sua umiltà anche l’umiltà degli uomini. Era infatti soggetto a Maria e Giuseppe quand’era bambino a Nazareth, e già fatto giovane si chinò sotto le mani di Giovanni Battista. Ma il giorno è già avanzato, né d’altronde vogliamo scendere del tutto da questi monti. 9. Del resto se volessimo questa volta, come ci piace, esplorare tutte le cose amene, scrutare le oscure, c’è da temere che il sermone manchi della sua grata brevità, oppure che l’abbondante ed eccellente materia per la fretta non venga trattata con la dovuta diligenza. Fermiamoci qui per oggi, se vi piace, su questi monti, perché è cosa buona per noi lo stare qui, dove da Cristo pastore, collocati insieme ai santi Angeli in luogo di pascoli, ci nutriamo con maggior gaudio e abbondanza. Siamo infatti anche noi gregge del suo pascolo. Ruminiamo dunque come animali mondi le cose riguardanti il buon Pastore che abbiamo ingerito con avidità nell’odierno sermone, per ricevere con più attenzione in un altro sermone ciò che resta dello stesso capitolo, secondo che lo concederà lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LIV I. Altra spiegazione riguardo ai predetti monti; il salto dello sposo e stato verso coloro del cui ministero si è degnato di servirsi 1. Circa il versetto che è stato materia del sermone di ieri, voglio accennare a un altro senso che ho riservato per oggi; voi vedrete e sceglierete quello che meglio vi garba. Non è il caso di ripetere quanto abbiamo già detto, che penso non abbiate così presto dimenticato. A meno che non siano state scritte le cose come furono dette, senza tener conto dello stile, come in tutti gli altri sermoni, onde facilmente venga recuperato ciò che per caso sia stato omesso. Per la qual cosa sentite quest’altro: Eccolo che viene saltando sui monti, valicando le colline ( Ct 2,8 ). Parla dello Sposo, il quale veramente è salito sui monti quando fu mandato dal Padre ad evangelizzare i poveri, non ha disdegnato di servirsi degli Angeli, divenuto lui stesso Angelo del Gran Consiglio; lui che era il Signore. Discese personalmente sulla terra lui che era solito delegare degli altri; personalmente il Signore ha manifestato la sua salvezza, agli occhi dei popoli ha rivelato la sua giustizia ( Sal 98,2 ). Essendo dunque tutti, secondo il detto di San Paolo, spiriti mandati a servire quelli che conseguono l’eredità della salvezza, colui che era sopra di loro si fece uno di loro tra di essi, dissimulando l’ingiuria e accumulando la grazia. Ma ascolta lui stesso: Non sono venuto, dice, per essere servito, ma per servire e dare la mia vita per molti ( Mt 20,28 ). Questo, nessuno degli altri lo ha fatto, così che egli ha superato con fedeli e devoti ossequi quelli stessi che erano apparsi come servitori. Buon ministro lui che ha dato la sua carne in cibo, il sangue in bevanda, la vita come prezzo. Buono davvero lui che ardente di spirito, fervente di carità, devoto per la pietà, non solo sale sui monti, ma sorpassa le colline, vale a dire supera e vince per l’alacrità nel servire, come colui che Dio, il suo Dio, ha unto con olio di letizia tra i suoi compagni, per cui singolarmente esultò come gigante che percorre la strada. Così sorpassò Gabriele e lo prevenne alla Vergine, come attesta lo stesso Arcangelo quando dice: Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te! ( Lc 1,28 ). E che? Colui che hai lasciato in cielo lo trovi adesso nell’utero? In che modo? Volò e « prevolò » sulle ali del vento. Sei stato vinto, o Arcangelo, ti ha sorpassato colui che ti ha mandato innanzi. 2. Oppure saliva sui monti quando un tempo era solito apparire ai padri, il che sembra convenire maggiormente alla lettera del testo. Non dice infatti: « che sale sui monti », ma che sale nei monti affinché si comprenda che sale in essi lui stesso che fa e dà di salire; come parla nei Profeti opera nei giusti quando agli uni fornisce, le parole, agli altri le opere. Aggiungi che alcuni di loro rappresentavano la sua persona, di modo che ognuno di loro parlava non come un angelo, ma come il Signore. Per esempio quell’Angelo che parlava, con Mosè non diceva: « Io sono del Signore », ma Io sono il Signore ( Es 10,2; Es 31,13 ). E questo capitava spesso. Saliva dunque nei monti, vale a dire negli Angeli, nei quali parlava e mostrava la sua presenza tra gli uomini. Saliva agli uomini, ma negli Angeli, non in sé: non nella sua natura, ma in una creatura soggetta. Chi infatti sale, passa da luogo in luogo, il che non succede in Dio; dunque saliva nei monti, cioè negli Angeli lui che non poteva farlo in sé; e saliva fino ai colli, cioè ai Patriarchi e ai Profeti e agli altri uomini spirituali della terra. Ma valicava pure i colli quando non solo ai grandi e spirituali uomini, ma anche ad alcuni del popolo e anche ad alcune donne si degnò di parlare e di apparire sotto forma di Angeli. II. I colli che lo sposo sormonta sono gli spiriti aerei, designati col nome di Gelboe, monti sui quali salgono uomini e angeli Oppure per colli intende le potestà dell’aria che non figurano ormai più fra i monti perché a causa della superbia, sono decadute dall’altezza delle virtù, ma neppure si sgonfiano mediante la penitenza, fino all’umiltà delle valli, cioè alle valli degli umili. Di questo penso sia stato detto nel salmo: I monti fondono come cera davanti al Signore ( Sal 97,5 ). Questi colli dunque, gonfi e sterili, senza dubbio scavalca colui che sale nei monti, e lasciatili con disprezzo scende alle valli, affinché le valli abbondino di frumento. Al contrario quelli sono condannati a una eterna aridità e sterilità, secondo quell’imprecazione scagliata contro di essi dal Profeta: Né pioggia; né rugiada discendano su di voi ( 2 Re 1,21 ). E perché tu sappia che dice queste cose riferendosi agli Angeli decaduti, rappresentati dai monti di Gelboe, aggiunge: dove molti caddero di spada. Quanti dell’esercito di Israele fin dal principio caddero su questi maledetti monti, e ogni giorno cadono! Di questi scrive il medesimo Profeta dicendo a Dio: Come gli uccisi stesi nel sepolcro, dei quali tu non conservi il ricordo e che la sua mano ha abbandonato ( Sal 88,6 ). 3. Non fa dunque meraviglia se questi restano sterili e infruttuosi, non monti celesti, ma aerei colli, sui quali non scende né rugiada né pioggia, in quanto l’autore della grazia e largitore delle beatitudini li scavalca per scendere nelle valli, per irrorare con la celeste pioggia gli umili che sono sopra la terra, perché portino frutto con la pazienza, dove il trenta, dove il sessanta, e dove il cento per uno. E poi ha visitato la terra, l’ha inebriata, l’ha ricolmata delle sue ricchezze. Ha visitato la terra, non l’aria, perché della misericordia del Signore è piena la terra ( Sal 33,5 ). Infine: Ha operato la salvezza nella nostra terra ( Sal 74,12 ); lo ha fatto forse anche nell’aria? Questo contro Origene che sostiene con impudente menzogna che il Signore della gloria sarà, di nuovo crocifisso nell’aria per i demoni, mentre San Paolo ben conscio di questo mistero afferma che Cristo, risorgendo dai morti più non muore, la morte non ha più potere su di lui ( Rm 6,9 ). 4. Ma non solo ha visitato la terra colui che ha oltrepassato l’aria, ma anche il cielo, come dice la Scrittura: Signore, la tua grazia è nel cielo e la tua fedeltà fino alle nubi ( Sal 36,6 ). Fino alle nubi, infatti, è il cielo che abitano i santi Angeli, che non ha sorpassato lo Sposo, ma è salito in essi, per imprimere in essi le due impronte dei suoi piedi, la misericordia e la verità; delle quali impronte del Signore mi ricordo di aver trattato esaurientemente nei sermoni precedenti. Dalle nubi poi in c’è l’abitazione dei demoni in fondo a quest’aria, ed essi non ritengono nessuna impronta del passaggio di Dio. Come infatti non ci può essere nel diavolo la verità, quando nel Vangelo della verità è detto di lui che non stette nella verità ( Gv 8,44 ) ma fu bugiardo fin dall’inizio? E neppure si potrebbe dire che è misericordioso, mentre si dice di lui, sempre nello stesso Vangelo che fu omicida fin dall’inizio. Ora, quale il padre di famiglia, tali anche i suoi domestici. Ben a proposito dunque la Chiesa, cantando a riguardo dello Sposo che abita in alto e guardarle cose umili in cielo e sulla terra, non fa nessuna menzione di quegli spiriti superbi che si trovano nell’aria, perché Dio resiste ai superbi e dà la grazia agli umili ( Gc 4,6 ). 5. Lo vede dunque salire nei monti e valicare le colline, secondo l’imprecazione di Davide: Il Signore visiti tutti i monti che sono intorno, ma da Gelboe passi oltre ( 2 Re 1,21 ). Intorno al diavolo che è raffigurato in Gelboe, vi sono monti visitati dal Signore: sopra gli Angeli, e sotto gli uomini. III. Per scontare la sua pena il diavolo ebbe in sorte un luogo nell’aria, posto fra i monti superiori e inferiori Al diavolo è toccato in sorte, in pena del suo peccato, di cadere dal cielo in un luogo di questo cielo, a metà tra cielo e terra, perché veda e arda, d’invidia, e questa stessa invidia gli serva di tormento, come dice la Scrittura: L’empio vede e si adira, digrigna i denti e si consuma ( Sal 112,10 ). Come si deve sentire misero alla vista dei cieli, nei quali scorge innumerevoli monti fulgidi di divino splendore, che fanno risuonare le divine lodi, sublimi nella gloria e abbondanti nella grazia! Come più misero ancora si sente quando guarda la terra, che ha anch’essa parecchi monti tra il popolo dei redenti, solidi per la fede, eccelsi per la speranza, spaziosi per la carità, coltivati da virtù, pieni del frutto di opere buone, che ricevono come dai salti dello Sposo la quotidiana benedizione della celeste rugiada! Con quanto dolore e rancore pensiamo noi che questo empio, avidissimo di gloria guardi questi monti che gli stanno intorno, mentre all’opposto vede sé e suoi degni di disprezzo, perché incolti, tenebrosi, infecondi di ogni bene, così che si sente l’obbrobrio degli uomini e degli Angeli, lui che tutti disprezzava, secondo il detto del Salmo: Il Leviatan che hai creato per fartene gioco ( Sal 104,26 ). 6. E questo perché a causa della loro superbia li ha oltrepassati lo Sposo, salendo sui monti che stanno attorno, come una fonte che sale dal mezzo del Paradiso, irriga tutto e riempie ogni vivente di benedizioni. Beati coloro che meritano ogni tanto, o anche raramente, di essere saziati al torrente di questa voluttà, nei quali anche se non scorre di continuo, sgorga in certe ore l’acqua della sapienza e il fonte della vita, per essere anche in essi sorgente di acqua che zampilla alla vita eterna. Questo fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio, in modo perenne e abbondante. Voglia Iddio che anche nei nostri monti che sono in terra, provocando quasi una inondazione, non disdegni di fare alcuni salti, da cui sufficientemente irrigati anche a noi che siamo valli, possano stillare sia pur rare gocce, perché non restiamo del tutto aridi e sterili. Vi è miseria, penuria e grande fame in quelle regioni che non vengono mai bagnate da questi salti e istillazioni, mentre il fonte della sapienza passa oltre: E poiché non ebbero la sapienza, dice, perirono a causa della loro insipienza ( Pr 18,4 ). 7. Eccolo che viene salendo nei monti, valicando i colli. Sale per valicare non volendosi fermare da tutti. Non tutti infatti sono graditi a Dio. IV. Esortazione a guardarsi dalla superbia sull’esempio dell’angelo significato dal nome di Gelboe Fratelli, se come sapientemente dice San Paolo, queste cose sono state scritte per la nostra correzione, consideriamo i salti discreti e circospetti dello Sposo, come cioè sale sia presso gli Angeli che presso di noi e presso gli umili, scavalcando i superbi; perché eccelso è il Signore e guarda le cose umili, e conosce da lontano le cose alte ( Sal 138,6 ). Badiamo a questo dico, perché siamo attenti a prepararci ai salutari salti dello Sposo, affinché, nel caso che ci trovi indegni della sua visita, non passi oltre da noi come già fece con i monti di Gelboe. Che hai da insuperbirti, terra e cenere? Anche dagli Angeli è passato oltre il Signore, avendo in esecrazione la loro superbia. Serva dunque il rifiuto degli Angeli alla emendazione degli uomini; è stato scritto difatti per la loro correzione. Concorra al mio bene anche il male del demonio, e lavi le mie mani nel sangue del peccatore. « In che modo? », chiedi. Senti. Certamente al diavolo superbo risuonò come bruciante tortura quella orribile e spaventosa maledizione riferita da Davide che dice di lui, rappresentato da Gelboe, come abbiamo detto: Visiti il Signore i monti che sono all’intorno, ma da Gelboe passi oltre. 8. Veramente io, leggendo questo e rivolgendo gli occhi su me stesso, guardandomi bene, mi vedo infetto da quella peste che il Signore ha tanto aborrito nell’Angelo da costringerlo a passar oltre da lui mentre si degnava di concedere la grazia della sua visita ai monti circostanti, sia degli Angeli che degli uomini; e allora, pieno di timore e tremore dico a me stesso: « Se così è stato trattato l’Angelo, che sarà di me che sono terra e cenere? Quello si è insuperbito nel cielo, io nell’immondezzaio. Chi non troverà meno intollerabile la superbia nel ricco che nel povero? Guai a me! Se è stato trattato tanto duramente quel potente per essersi innalzato, che cosa si esigerà da me che sono misero e superbo? Del resto già sconto la pena, già soffro l’acerbo castigo. Non senza ragione da qualche tempo mi sento l’animo invaso da un certo quale languore, da una aridità della mente e da una insolita inerzia dello spirito. Correvo bene; ed ecco una pietra di inciampo nella via: vi ho urtato e sono caduto. È stata trovata in me la superbia, e il Signore, adirato, si è allontanato dal suo servo. Ecco la ragione di questa sterilità dell’anima mia, e della carenza di devozione di cui soffro. Come mai si è così disseccato il mio cuore, si è coagulato come latte, è diventato come terra senza acqua? Né riesco a spremere lacrime di compunzione tanta è la durezza di cuore. Non ha gusto per me il Salmo, non ho voglia di leggere, non provo piacere a pregare, non mi vengono, come di solito, pensieri nella meditazione. Dov’è quell’ebbrezza di spirito? Dov’è la serenità della mente e la pace, e il gaudio dello Spirito Santo? Perciò mi sento pigro nel lavoro manuale, sonnolento alle vigilie, irruente nell’ira, pertinace nell’odio, più indulgente alle chiacchiere e alla gola, meno ardente e più ottuso nella predicazione. Ahimè! Il Signore visita tutte le montagne che mi stanno intorno, ma non si avvicina a me. Sono forse per caso di quelle colline che lo Sposo ha scavalcato? Vedo infatti un altro che si distingue per astinenza, un altro di un’ammirabile pazienza, un altro profondamente umile e mansueto, un altro di molta misericordia e pietà, un altro che nella contemplazione va di frequente in estasi, quest’altro che con l’insistenza dell’orazione bussa e penetra i cieli e altri ancora che eccellono in altre virtù. Considero costoro, dico, tutti ferventi, tutti devoti, tutti unanimi in Cristo, tutti ricchi di doni celesti e di grazie, come davvero molti spirituali visitati dal Signore, e che ricevono frequentemente lo Sposo che sale in essi. Io, invece, che non trovo in me nessuna di queste cose, che altro posso considerarmi se non uno dei monti di Gelboe che oltrepassa nella sua ira e indignazione quel benignissimo visitatore di tutti gli altri? ». 9. Figlioli, questo pensiero toglie l’arroganza dello sguardo, concilia la grazia, prepara ai salti dello sposo. Vi ho portato il mio esempio perché anche voi facciate così. Siate miei imitatori. Non lo dico riguardo all’esercizio delle virtù, o la disciplina dei costumi, o la gloria della santità; non oserei infatti arrogarmi nessuna, di queste cose che sia degna di imitazione; ma voglio che voi non risparmiate voi stessi, e impariate ad accusare voi stessi ogni volta che sentite, anche per poco, intiepidirsi in voi la grazia e languire la virtù, come io per tali cose accuso me stesso. Questo fa l’uomo che è curioso investigatore di se stesso e scruta le sue vie e i suoi sentimenti, e in ogni cosa sospetta sempre il vizio dell’arroganza, perché non si infiltri nell’animo suo. In verità ho imparato che nulla è più efficace per meritare la grazia, per conservarla, per recuperarla, che essere trovato in ogni tempo davanti a Dio con umili sentimenti e pieno di timore. Beato l’uomo che è sempre pavido ( Pr 28,14 ). Temi dunque quando ti arriverà la grazia, quando se ne sarà andata, temi quando nuovamente ritornerà; e questo vuol dire essere sempre pavido. Si succedano a vicenda nell’animo questi tre timori, secondo che si sentirà che la grazia si degna di essere presente, o che, offesa, se ne va, o che, placata, torna di nuovo. Quando c’è temi di non corrispondervi degnamente; questo, infatti, ammonisce l’Apostolo dicendo: Vedete di non ricevere invano la grazia di Dio ( 2 Cor 6,1 ); e al discepolo: Non trascurare la grazia che è in te ( 1 Tm 4,14 ); e di se stesso diceva: La grazia di Dio in me non fu vana ( 1 Cor 15,10 ). Sapeva quest’uomo che aveva il consiglio di Dio, che si risolve in disprezzo del donatore il, non tener conto del dono, né impiegarlo allo scopo per cui è stato dato, e riteneva che questa fosse una intollerabile superbia, e per questo cercava con ogni cura di evitare questo male, e insegnava agli altri a guardarsene. Ma di nuovo qui c’è nascosta una fossa e non voglio che voi lo ignoriate, dalla quale questo medesimo spirito di superbia, tanto più pericolosamente quanto più occultamente tende insidie quasi leone dalla sua spelonca ( Sal 9,30 ), come dice il Salmo. Se infatti non riesce a impedire la buona azione, tenta il maligno nell’intenzione, suggerendo e cercando di persuadere l’uomo ad attribuire a sé l’effetto della grazia. E questo genere di superbia, sappi che è molto più intollerabile del primo. Che c’è infatti di più odioso che quelle parole che taluni hanno proferito: La nostra mano forte ha operato tutte queste cose, e non il Signore? ( Dt 32,27 ). V. Il triplice timore che dobbiamo nutrire sempre per guardarci dalla superbia 10. Così, dunque si deve temere quando la grazia è presente. Come comportarsi quando se ne va? Non c’è, forse, allora maggior motivo di temere? Molto di più veramente, perché dove ti viene meno la grazia, vieni meno anche tu. Ascolta che cosa dice il datore della grazia: Senza di me non potete far nulla ( Gv 15,5 ). Temi dunque che, sottratta la grazia, tu non abbia a cadere; temi e trema quando senti che Dio è adirato con te; temi perché ti ha abbandonato il tuo custode. E non dubitare che la causa ne sia la superbia, anche se non sembra, anche se non ti senti colpevole di nulla. Ciò, infatti, che tu non conosci, lo conosce Iddio, e chi ti giudica è Lui. Né è giustificato colui che raccomanda se stesso, ma colui che è giusto agli occhi di Dio ( 2 Cor 10,18 ). Ora, ti raccomanda, forse, Iddio quando ti priva della sua grazia? Oppure colui che agli umili dà la grazia, toglie all’umile la grazia che gli ha dato? È, dunque, prova di superbia la privazione della grazia. Tuttavia, talvolta, viene sottratta non a causa della superbia già esistente, ma che verrebbe se la grazia non venisse sottratta. Ne abbiamo una prova evidente nell’Apostolo Paolo che sentiva suo malgrado gli stimoli della carne, non perché si fosse insuperbito, ma affinché non si insuperbisse. Ma sia che già ci sia, sia che non ci sia ancora, la superbia è sempre la causa per cui viene sottratta la grazia. 11. Che se la grazia, riconciliata, tornerà, allora c’è ancor più da temere una ricaduta, secondo quell’avvertimento del Vangelo: Ecco che sei ridivenuto sano, va’ e non peccare più, perché non ti capiti qualcosa di peggio ( Gv 5,14 ). Senti come ricadere sia peggio che cadere. Perciò, crescendo il pericolo, cresca anche la paura. Beato te, se riempirai il tuo cuore di questo triplice timore, che tu tema, cioè, quando ricevi la grazia, tema maggiormente quando la perdi, e ancora molto di più quando l’hai recuperata. Fa’ così, e sarai nel convito di Cristo, un’idria ripiena fino all’orlo, contenente cioè non solo due misure, ma tre, perché tu meriti la benedizione di Cristo che converta la tua acqua in vino di letizia, e la perfetta carità cacci via il timore. 12. Le cose stanno veramente così. L’acqua è il timore, perché questo porta refrigerio nell’ardore dei desideri carnali. Il principio della sapienza, dice la Scrittura, è il timore del Signore ( Sal 111,10 ); e dice altrove: Gli ha dato da bere l’acqua della sapienza salutare ( Sir 15,3 ). Se il timore è sapienza, e la sapienza è acqua, anche il timore è acqua; e detto ancora: Il timore del Signore è fonte di vita ( Pr 14,27 ). Ora idria è la tua mente. Contenenti, dice, ciascuna due o tre misure ( Gv 2,6 ). Tre misure sono i tre timori. E le riempirono fino all’orlo ( Gv 2,7 ). Non un solo timore, non due, ma tutti e tre insieme riempirono l’idria fino all’orlo; in ogni tempo temi Dio, e con tutto il cuore, e hai riempito così l’idria fino all’orlo. Dio ama un dono completo, un affetto pieno, un sacrificio perfetto. Cerca pertanto di portare alle celesti nozze un’idria piena, perché si possa dire anche di te: Lo ha riempito lo spirito del timore del Signore ( Is 11,3 ). Chi teme così non trascura nulla. Come potrebbe entrare la negligenza dove c’è pienezza? Se non ciò che è capace di ricevere ancora, non è pieno. Per la stessa ragione non può uno temere così e nello stesso tempo nutrire pensieri di superbia. Se sei infatti pieno del timore del Signore, non c’è posto in te per la superbia. E così si deve dire degli altri vizi perché necessariamente tutti vengono esclusi dalla pienezza del timore. E allora, se temerai pienamente e perfettamente, la carità darà sapore alle tue acque alla benedizione del Signore. Senza la carità infatti il timore ha la pena ( 1 Gv 4,18 ). E la carità è il vino che rallegra il cuore dell’uomo. La carità perfetta caccia via il timore, e dove c’era acqua comincia ad esservi vino, a lode e gloria dello Sposo della Chiesa, il Signore nostro Gesù Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LV I. Per quale motivo lo sposo è paragonato alla capra e al cerbiatto 1. Il mio diletto è simile a un capriolo e a un cerbiatto ( Ct 2,9 ). Questo versetto dipende dal precedente. Colui che aveva descritto poco fa come uno che saliva e si avvicinava saltando, ora lo paragona a un capriolo e a un cerbiatto. Questo paragone è ben a proposito, perché questo genere di animali è veloce nella corsa e agile nel salto. Pertanto qui si parla dello Sposo, e lo Sposo stesso è la Parola. Ora il Profeta dice di Dio che velocemente corre la sua parola ( Sal 147,15 ) e quel passo conviene molto bene a questo, dove lo Sposo, che è la Parola di Dio, è descritto come uno che sale e valica i monti proprio come un capriolo e un cerbiatto. Questa è la ragione della similitudine. Aggiungi, inoltre, perché non venga trascurato alcun aspetto della similitudine, che il capriolo non solo si distingue per la velocità della corsa, ma anche per l’acutezza della vista. Questo riguarda quella parte del racconto in cui si dice che lo Sposo non solo sale, ma scavalca, perché senza un acuto e perspicace intuito, specialmente correndo, non potrebbe distinguere dove salire e dove oltrepassando scavalcare. Altrimenti, per designare solamente la sua velocità nel venire, poteva bastare il solo paragone del cerbiatto: si sa, infatti, che questi è rapidissimo nel correre. Ora invece, poiché questo Sposo, anche se preso da ardente amore sembri volare verso gli amplessi della sposa, sa tuttavia dirigere con prudente considerazione i suoi passi, o piuttosto i suoi salti ponendo con cautela il piede nel punto giusto; per questo, giustamente, fu assimilato pure al capriolo, affinché, mentre la velocità del cervo esprimeva il suo desiderio di salvare, l’acume del capriolo esprimeva il giudizio della sua elezione. Cristo, infatti, è giusto e misericordioso, salvatore e giudice; e poiché ama, vuole che tutti gli uomini siano salvi e arrivino alla conoscenza della verità; e poiché giudica, sa chi sono i suoi, e conosce quelli che ha eletti da principio. 2. Questi, pertanto, sono i due beni dello Sposo, la misericordia, cioè, e la giustizia, raffigurati in questi due animali a noi presentati dallo Spirito Santo, affinché in testimonianza dell’integrità e perfezione della nostra fede, anche noi, imitando il Profeta, cantiamo al Signore la sua misericordia e la sua giustizia. Io non dubito che si possano trovare altri sensi circa la natura di questi da coloro che se ne intendono e sono investigatori di queste cose, che possano adattarsi utilmente e congruamente allo Sposo. Ma quello che abbiamo detto penso che possa bastare a rendere ragione dell’addotta similitudine. Molto a proposito tuttavia lo Spirito Santo ha parlato non di cervo ma di cerbiatto, nel che fece menzione dei Padri, dai quali discende Cristo secondo la carne, e ricorda l’infanzia dei Salvatore. Come cerbiatto infatti apparve il pargolo che nacque per noi. Ma tu che desideri l’avvento del Salvatore temi lo scrutinio del Giudice, temi gli occhi del capriolo, temi colui che dice per mezzo del Profeta: In quel tempo perlustrerò Gerusalemme con lanterne ( Sof 1,12 ). È di vista acuta: nulla sfuggirà al suo occhio. Scruterà i reni e i cuori, e lo stesso pensiero dell’uomo gli sarà manifesto. Che vi sarà di sicuro in Babilonia se a Gerusalemme è riservato lo scrutinio? Penso che in questo passo dal Profeta siano indicati con il nome di Gerusalemme coloro che in questo modo conducono una vita religiosa e imitano per quanto possono con una condotta onesta e ordinata i costumi della celeste Gerusalemme, e non come quelli di Babilonia che menano una vita disordinata, turbata e confusa da vizi e scelleratezze. I peccati di costoro sono manifesti, pronti ad essere giudicati, e non hanno bisogno di essere scrutati, ma aspettano solo la condanna. I peccati, invece, di me che sembro monaco e abitante di Gerusalemme, sono occulti, coperti dall’ombra del nome e dall’abito del monaco; e perciò sarà necessario che siano investigati con sottile discussione e, con l’aiuto di lucerne, siano dalle tenebre portati alla luce. II. Dobbiamo giudicare noi stessi per non essere giudicati 3. Possiamo addurre anche qualche frase del Salmo per confermare quanto si è detto dello scrutinio di Gerusalemme. Dice infatti in persona del Signore: Nel tempo che avrò stabilito io giudicherò le giustizie ( Sal 75,3 ). Dice, se non erro, che discuterà, ed esaminerà le vie dei giusti e le loro azioni. C’è molto da temere che quando si verrà a questo giudizio, sotto un così sottile esame, molte delle nostre cosiddette giustizie appariscano peccati. Una cosa è certa: Se ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati ( 1 Cor 11,31 ). Buon giudizio quello che mi sottrae e nasconde a quello stretto giudizio di Dio. Ho davvero il terrore di cadere nelle mani del Dio vivente voglio presentarmi al volto adirato di Dio già giudicato, non per essere giudicato. L’uomo spirituale giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno ( 1 Cor 2,15 ). Giudicherò, pertanto, i miei mali, giudicherò anche il mio bene. Cercherò di correggere il male con azioni migliori, lavandolo con le lacrime, castigandolo con i digiuni e gli altri esercizi della santa disciplina. Nelle cose buone cercherò di avere umili sentimenti di me stesso, e secondo il precetto del Signore mi reputerò un servo inutile che ha semplicemente fatto quello che doveva fare. Starò attento a non offrire loglio invece del grano, né la paglia per il frumento. Scruterò la mia condotta e i miei sentimenti perché colui che deve scrutare Gerusalemme alla luce delle lampade non trovi nulla in me che non sia stato già scrutato e discusso. Non giudicherà, infatti, due volte la stessa cosa. 4. Chi mi darà di ricercare a fondo e dar la caccia a tutti i miei vizi, in modo tale da non aver per nulla a temere gli occhi del capriolo e non mi capiti di dover arrossire al lume delle lucerne? Anche ora sono veduto e non vedo. È presente l’occhio a cui tutto è manifesto, anche se esso non si vede. Vi sarà un tempo in cui conoscerò come anch’io sono conosciuto; ma ora conosco in modo imperfetto ( 1 Cor 13,12 ), non però imperfettamente sono conosciuto, bensì in modo perfetto. Temo l’aspetto di quell’esploratore che sta di là dalla parete. Questo infatti aggiunge di Lui la Scrittura, dopo averlo paragonato al capriolo per l’acume della vista: Ecco egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia attraverso i cancelli ( Ct 2,9 ). Di questo parleremo a suo luogo. Temo, dunque, l’occulto esploratore delle cose occulte. La sposa non teme nulla, perché non ha coscienza di alcuna colpa. E che cosa dovrebbe temere l’amica, la colomba, la bella? Infatti, più sotto dice: Ora il mio diletto parla con me ( Ct 2,10 ). Con me non parla, e perciò ne temo l’aspetto, perché non ho testimonianza in mio favore. Tu che cosa ti senti dire, o sposa? Che cosa ti dice il tuo diletto? Sorgi amica mia, mia colomba, mia bella ( Ct 2,10 ). Ma anche questo voglio riservare al principio di un altro sermone, né ridurrò con la brevità quelle cose che richiedono diligenza, perché non mi capiti di essere trovato colpevole anche di questo, se per caso sarete trovati meno edificati in questa parte per l’intelligenza e l’amore dello Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose benedetto nei secoli. Amen. Sermone LVI I. Qual è la parete, quale la finestra o le fessure attraverso le quali lo sposo spia 1. Eccolo, egli sta dietro il muro, guarda dalla finestra, spia attraverso i cancelli ( Ct 2,9 ). Secondo la lettera sembra dire che colui che si scorgeva avvicinarsi saltando sia venuto fino all’abitazione della sposa, e stando dietro il muro guardi curiosamente attraverso le finestre e le fessure, non osando, per verecondia, entrare. Secondo lo spirito, invece, si intende che egli si avvicina, ma in altro modo, cioè come era conveniente agisse il celeste Sposo, e come conveniva venisse espresso dallo Spirito Santo. Il vero e spirituale senso non può infatti comportare nulla che sia disdicevole sia all’autore, sia al narratore. Dunque, si accostò alla parete quando aderì alla carne. La carne è la parete, e l’accostarsi ad essa dello Sposo è l’incarnazione del Verbo. I cancelli e le finestre per le quali si dice che egli guarda, penso che siano i sensi corporei e i sentimenti umani, attraverso i quali fece l’esperienza di tutte le umane necessità. Egli ha preso su di se le nostre debolezze e si e caricato dei nostri dolori ( Is 33,4 ). Egli fece uso dei sentimenti umani e dei sensi corporei come di aperture e di finestre per conoscere per esperienza le miserie degli uomini, fattosi egli stesso uomo, per essere misericordioso. Egli le conosceva anche prima, ma in modo diverso. Conosceva la virtù dell’obbedienza, Lui, il Signore delle virtù, e tuttavia, secondo l’Apostolo, imparò da quelle cose che patì l’obbedienza ( Eb 2,17 ). In questo modo imparò anche la misericordia, sebbene la misericordia di Dio sia eterna ( Sal 103,17 ). Insegna anche lo stesso Dottore delle genti dove asserisce che Cristo è stato lui stesso provato in ogni cosa come noi, escluso il peccato ( Eb 4,15 ) perché fosse misericordioso. Vedi come egli fu fatto ciò che era, e imparò quello che sapeva, e presso di noi cercò delle fessure e finestre per esplorare più accuratamente le nostre miserie. E tanti fori trovò nel nostro muro cadente e pieno di fenditure quante furono le esperienze che nel suo corpo fece della nostra infermità e corruzione. 2. Così dunque lo Sposo, stando dietro il muro, guardava attraverso le finestre e i cancelli. E dice bene « stando », perché egli solo nella carne stette, egli che non sentì il peccato della carne. Possiamo anche giustamente intendere nel senso che stette per la potenza della divinità colui che soccombette per l’infermità della carne, come dice egli stesso: Lo Spirito in verità è pronto, ma la carne è debole ( Mt 26,41 ). Io penso che dimostri anche questo quanto il santo Davide diceva del Signore riguardo a questo mistero, profetando come profeta del Signore, parlando di Mosè, ma intendendo il Signore. Egli è infatti il vero Mosè che davvero è venuto con l’acqua, e non solo con l’acqua, ma con l’acqua e il Sangue ( 1 Gv 5,6 ). Dunque il citato Profeta: Disse di sterminarli, faceva dire al Padre, se Mosè suo eletto non fosse stato sulla breccia di fronte a lui, per stornare la sua collera dallo sterminio ( Sal 106,23 ). In quale maniera, chiedo io, Mosè poté stare sulla breccia? Come poté stare se fu abbattuto, o non fu abbattuto se stette? Ma io ti mostro, se vuoi, chi veramente stette sulla breccia. Non conosco nessun altro che abbia potuto far questo se non il mio Signore Gesù, il quale certamente nella morte era vivo, il quale fu abbattuto nel corpo sulla croce, mentre per la divinità stava con il Padre, per un lato supplicando per noi, per l’altro mostrandosi propizio insieme con il Padre. E stava dietro il muro mentre ciò che in Lui giaceva era manifesto nella carne, mentre ciò che in Lui stava, in certo qual modo si nascondeva dietro la carne; cioè un solo e medesimo, manifesto come uomo e nascosto come Dio. II. Egli è dietro la parete di ognuno di noi; sulla sua presenza o assenza 3. E per ognuno di noi che desideriamo l’avvento di Lui, penso che egli stia dietro la parete, mentre questo nostro corpo, che è certamente corpo di peccato, ci nasconde per ora il suo volto, e ci vela la sua presenza. Infatti, finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontani dal Signore ( 2 Cor 5,6 ). Non perché nel corpo, ma perché in questo corpo che viene dal peccato e non è senza peccato. E affinché tu sappia che sono impedimento non i corpi, ma i peccati, senti cosa dice la Scrittura: I nostri peccati hanno scavato un abisso tra noi e il nostro Dio ( Is 59,2 ). E magari mi sia di ostacolo soltanto il muro del corpo, e unico impedimento per me sia il peccato che è nella carne, e non si interpongano invece molte macerie dei vizi! Temo infatti, oltre il male che è nella natura, di avervi aggiunto per mia propria iniquità molti altri mali che costituiscono un ostacolo tra me e lo Sposo, di modo che per dire la verità dovrei dire che egli sta, non dietro il muro, ma piuttosto dietro le pareti. 4. Ma lo dico in modo più chiaro. Lo Sposo è egualmente e indifferentemente a disposizione ovunque, mediante la presenza della divina maestà e la grandezza della sua potenza. Per il fatto, tuttavia, dell’esibizione o del rifiuto della grazia si dice che per alcuni è lontano, per altri è vicino, questo tra gli Angeli soltanto e gli uomini, vale a dire tra le creature ragionevoli. Lontano dagli empi è la salvezza ( Sal 119,155 ). E tuttavia un Santo dice: Perché, Signore, stai lontano? ( Sal 9,22 ). Del resto egli, nella pia economia della sua grazia, si fa sentire lontano dai santi per un certo tempo, e mai in modo completo, ma solo in qualche maniera. Rispetto invece ai peccatori, dei quali è detto che Il tumulto dei tuoi avversari cresce senza fine ( Sal 74,23 ) e altrove: Le vie di lui in ogni tempo sono corrotte ( Sal 9,26 ), egli è sempre e molto lontano, e questo per effetto della sua ira e non della sua misericordia. Per questo prega il Santo il Signore dicendo: Non allontanarti con ira dal tuo servo ( Sal 27,9 ), ben sapendo che potrebbe anche allontanarsi per effetto della sua misericordia. È, dunque, vicino il Signore ai suoi santi ed eletti, anche quando sembra essere lontano, e non ugualmente a tutti, ma ad altri più, ad altri meno, secondo la diversità dei meriti. Poiché, anche se il Signore è vicino a quanti lo invocano con cuore sincero ( Sal 145,18 ) ed è: vicino a chi ha il cuore ferito ( Sal 34,19 ), non lo è forse per tutti in modo tale che possano dire che egli è dietro la parete. Quanto invece è vicino alla sposa che è divisa da lui solo da una parete! Per questo lei brama di morire, e, rotto il muro divisorio, di essere con lui, che sa essere oltre quella parete. 5. Ma io, essendo peccatore, non desidero la mia dissoluzione, ma la temo, ben sapendo che pessima è la morte dei peccatori ( Sal 34,22 ). Come non sarebbe pessima la morte, quando non viene incontro la Vita? Temo di uscire e nello stesso ingresso del porto io sono preso da tremore, mentre non ho fiducia che vi sia là chi mi riceve quando uscirò. Come potrei, infatti, uscire sicuro, se il Signore non custodisce la mia uscita? Ahimè! Sarò lo scherno di demoni, che mi arresteranno, se non mi assiste colui che mi redime e mi salva. Niente di ciò temeva l’anima di Paolo, che una sola parete impediva di vedere e abbracciare il diletto, vale a dire la legge del peccato che trovava nelle sue membra. Essa è la concupiscenza della carne, dalla quale non poté essere esente fino a che fu nella carne. Diviso da questa parete era pellegrino non molto lontano dal Signore; e perciò esprimeva il suo desiderio dicendo: Chi mi libererà da questo corpo di morte? ( Rm 7,24 ), sapendo che attraverso la morte sarebbe giunto subito alla meta. San Paolo dunque confessava di essere impedito da una sola legge, vale a dire la concupiscenza, che tollerava suo malgrado insita radicalmente nella sua carne; per il resto, diceva, non sono consapevole di alcuna colpa ( 1 Cor 4,4 ). III. Taluni costruiscono molte pareti per sé e lo sposo; quali sono le inferriate o le finestre secondo il senso morale 6. Ma chi può dire di essere simile a Paolo, che cioè ogni tanto non consenta a questa concupiscenza obbedendo al peccato? Sappia, pertanto, colui che avrà consentito al peccato, di aver interposto un altro muro, cioè lo stesso colpevole consenso al male; e un tale individuo non può gloriarsi che lo sposo stia dietro la parete, quando già ve ne sono più di una. Molto meno, poi, se al consenso sarà seguito l’effetto, perché allora vi sarà un terzo muro a tener distante e ,a impedire l’accesso dello Sposo, vale a dire l’atto stesso del peccato. Che cosa dire poi se la consuetudine avrà reso usuale il peccato, oppure anche l’abitudine sarà degenerata in disprezzo? Sta scritto infatti: L’empio quando viene nel profondo dei peccati, disprezza ( Pr 18,3 ). Se uno esce in questo stato, non troverà forse migliaia di belve ruggenti pronte a divorarlo? Il suo accesso allo Sposo è, infatti, impedito non più da uno solo, ma da un numero stragrande di muri! Primo, la concupiscenza; secondo, il consenso; terzo, l’atto; quarto, la consuetudine cattiva; quinto, il disprezzo. Cerca, dunque, di resistere con tutte le forze alla prima concupiscenza, perché non ti trascini al consenso, e in tal modo tutta la costruzione della malignità svanirà né vi sarà più ostacolo perché lo Sposo si avvicini a te, salvo l’unica parete del corpo, e cosa possa anche tu gloriarti dicendo di lui: Eccolo che sta dietro la parete. 7. Ma devi anche con ogni vigilanza, fare in modo che egli trovi sempre aperte le finestre e i cancelli delle tue confessioni, attraverso le quali benignamente ti guardi dentro, perché il suo sguardo equivale al tuo profitto. Dicono che i cancelli siano finestre più piccole quali sogliono farsi fare quelli che scrivono libri per dare luce alle pagine. E penso che per questo siano detti cancellieri coloro che sono deputati per ufficio a scrivere carte. Ora, essendo due le specie di compunzione, una consistente nella tristezza per le nostre colpe, l’altra nell’esultanza per i doni divini, ogni volta che faccio quella confessione dei miei peccati che non si fa senza angoscia del cuore, mi vedo aprire un cancello, vale a dire una piccola finestra. Non v’è dubbio che attraverso questa guardo volentieri colui che sta di là dal muro, pio esploratore, perché Dio non disprezza un cuore contrito e umiliato ( Sal 51,19 ). Ed esorta egli stesso a fare questo: Esponi tu le tue iniquità, perché tu sia giustificato ( Is 43,26 ). Che se di tanto in tanto con cuore dilatato nella carità, considerando la divina degnazione e misericordia, mi piacerà aprire l’animo alla voce di lode e al ringraziamento, penso che allora io apro allo Sposo che sta oltre la parete, non una piccola, ma una oltremodo ampia finestra, attraverso la quale, se non erro, guardo tanto più volentieri quanto più il sacrificio di lode gli rende onore. È facile trovare nelle Scritture le testimonianze per l’una o l’altra confessione; ma parlo a persone che conoscono queste cose, e voi non dovete essere sovraccarichi di cose superflue, essendo già, troppo il peso della ricerca delle cose necessarie: tanto grandi, infatti, sono i misteri di questo epitalamio e gli inni di lode che in esso vengono cantati alla Chiesa e al suo Sposo Gesù Cristo Signore nostro, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LVII I. I gradi della degnazione di Dio o il suo « intuito », secondo quale criterio ad alcuno incuta timore e ad altri sicurezza 1. É il mio diletto mi parla ( Ct 2,10 ). Vedete il procedimento della grazia, e badate ai gradi della divina degnazione. Considerate la devozione e la solerzia della sposa, con quale occhio vigile osservi la venuta dello Sposo, e in seguito nulla le sfugge delle cose di Lui. Egli viene, accelera il passo, si avvicina, è presente, guarda, parla, e nulla di questi vari momenti sfugge all’attenzione della sposa, nulla che non sia subito conosciuto da lei. Viene negli Angeli, si affretta nei Patriarchi, si avvicina nei Profeti, è presente nella carne, guarda nei miracoli, parla negli Apostoli. Oppure così: viene con l’affetto e la volontà di usare misericordia, si affretta con lo zelo nel portar soccorso, si avvicina umiliando se stesso, è presente ai presenti, guarda a quelli che saranno, parla insegnando e persuadendo circa il regno di Dio. Così dunque viene lo Sposo. Con lui sono le benedizioni e le ricchezze della salute, e tutte le cose che lo riguardano abbondano di delizie, piene certamente di giocondi e salutari misteri. Ora, colei che ama, veglia e osserva. E beata lei che il Signore avrà trovato vigilante. Non passerà oltre da lei, ma si fermerà e le parlerà, dirà parole d’amore: parlerà, infatti, come diletto. Così è infatti scritto: E il mio diletto mi parla. Giustamente diletto, che viene a parlare d’amore, non a rimproverare. 2. La sposa non è infatti di quelli che con ragione vengono rimproverati dal Signore, perché sapevano interpretare i segni del cielo, ma non avevano affatto conosciuto il tempo della sua venuta. Costei, infatti, tanto solerte e prudente e così bene vigilante, lo ha visto venire da lontano, e lo ha scorto saltante per la fretta, e, sorpassando i superbi, lo ha con acutezza notato, che con umiltà si avvicinava a lei umile; ed infine quando già stava presente nascondendosi dietro la parete, riconobbe tuttavia la sua presenza, e si accorse che guardava attraverso le finestre e i cancelli. E ora in ricompensa di tanta devozione e religiosa sollecitudine, le viene concesso di sentirlo parlare. In verità, se avesse guardato e non avesse per nulla parlato, quello sguardo sarebbe potuto sembrare sospetto, potendosi interpretare come segno di indignazione più che di dilezione. Cristo ha guardato Pietro senza dire parola; e forse per questo egli pianse, perché quando lo guardò non disse nulla. La sposa, invece, che dopo aver meritato di vederlo lo ha pure udito parlarle, non solo non piange, ma se ne gloria pure esclamando piena di gioia: E il mio diletto mi parla. Vedi come lo sguardo del Signore, pur essendo sempre lo stesso in sé, non ha però sempre la medesima efficacia, ma si adatta ai meriti di coloro che guarda, e ad alcuni incute timore, ad altri invece reca piuttosto consolazione e sicurezza. Guarda la terra, dice il Salmo, e la fa tremare ( Sal 104,32 ), mentre all’opposto, guarda Maria e le infonde la grazia. Guardò, dice, l’umiltà della sua serva; d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata ( Lc 1,48 ). Queste non sono parole di una che piange o trepida, ma di una che è nella gioia. Similmente in questo luogo guarda la sposa, ed essa non tremò né pianse come Pietro, perché non aveva sentimenti terreni come lui; con il suo sguardo invece portò la letizia nel suo cuore, testimoniando con le parole che il suo era stato uno sguardo d’amore. 3. E poi senti come le parole che dice sono non di uno che è sdegnato, ma di uno che ama. II. A chi in particolare si addice lo spiare la venuta dello sposo; le attestazioni divine Segue: Alzati, affrettati, amica mia, mia colomba, mia bella ( Ct 2,10 ). Felice la coscienza che merita di sentirsi dire queste cose di se stessa! Chi c’è tra noi così vigilante e che osservi il tempo della sua visita e che investighi con, tale diligenza lo Sposo che va e che viene in tutti i singoli suoi momenti, di modo che quando verrà e busserà prontamente gli apra? Queste cose infatti non vengono riferite della Chiesa in modo che noi singoli, che insieme formiamo la Chiesa, non dobbiamo partecipare di queste sue benedizioni. A questo, infatti, tutti generalmente e indifferentemente siamo chiamati, per possedere come eredità tali benedizioni. Perciò un tale osava dire al Signore: Mia eredità per sempre sono le tue testimonianze, sono esse la gioia del mio cuore ( Sal 119,111 ). Penso che parli di quella eredità che gli spettava come figlio del Padre suo che è nei cieli. Inoltre, se figlio, anche erede: erede di Dio, coerede di Cristo. Con questa eredità si gloria di aver acquistato una grande cosa, le testimonianze del Signore. Oh, se potessi anch’io possedere almeno una testimonianza del Signore a mio riguardo, poiché quegli esulta non per una sola, ma per molte testimonianze! E dice di nuovo: Nella via delle tue testimonianze mi sono rallegrato, come in ogni sorta di ricchezze ( Sal 119,14 ). E difatti, quali sono le ricchezze della salute, quali le delizie del cuore, quale la vera e cauta sicurezza dell’anima, se non le attestazioni del Signore? Poiché non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui che il Signore raccomanda ( 2 Cor 10,18 ). 4. Perché mai noi fino a oggi restiamo ancora privi di queste raccomandazioni o attestazioni divine, e rimaniamo defraudati della paterna eredità? Quasi che noi non siamo stati affatto generati volontariamente da lui mediante la parola di verità, così non ricordiamo di essere stati in alcuna cosa da lui raccomandati, né di aver conseguito tali sue testimonianze a nostro riguardo. Dove è quello che dice l’Apostolo, che cioè lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio? ( Rm 8,16 ). E come figli, se privi dell’eredità? La nostra stessa miseria ci accusa certamente di negligenza e di noncuranza. Poiché se qualcuno di noi in modo integro e perfetto, secondo la parola del Saggio, di buon mattino rivolge il cuore al Signore che lo ha creato e prega davanti all’Altissimo ( Sir 39,6 ) e nello stesso tempo con tutto il cuore cerca di preparare le vie del Signore, come dice il Profeta Isaia, e di raddrizzare i suoi sentieri, se può dire con il Profeta: I miei occhi sono sempre rivolti al Signore ( Sal 25,15 ) e: Io pongo sempre innanzi a me il Signore ( Sal 16,8 ) non è vero che costui otterrà benedizione dal Signore e misericordia da Dio sua salvezza? ( Sal 24,5 ). Sarà visitato di frequente, né mai ignorerà il tempo della sua visita, nonostante colui che visita in spirito venga di nascosto e furtivo, perché è un verecondo amante. L’anima sobria di mente e bene sveglia lo scorgerà quando ancora e lontano, e da allora si terrà: bene informata di tutte quelle cose, che la sposa con tanta solerzia , come abbiamo visto, ha intravisto ed ha notato, perché egli ha detto: Coloro che mi cercheranno fin dal mattino mi troveranno ( Pr 8,17 ). Conoscerà infatti il desiderio del diletto che si affretta, e quando è vicino, e quando sarà presente lo sentirà subito; guarderà con occhi beati l’occhio che la guarda, quasi raggio di sole che si insinua attraverso le finestre e le fenditure della parete, e infine udrà da lui parole di esultanza e di amore, con cui sarà chiamata amica, colomba, bella. III. Per quali gradi l’anima esamina l’avvicinarsi o il venire dello sposo 5. Chi è saggio e comprende queste cose ( Os 14,10 ) in modo da poterle anche distinguere tra di loro, e designarle una per una, e spiegarle perché gli altri le comprendano? Se si chiede questo a me, confesso che preferirei io stesso udire queste cose da un esperto e che sia abituato ed esercitato in tali cose. Ma poiché un tale individuo, chiunque esso sia, preferisce nascondere con verecondia nel silenzio quello che ha percepito nel silenzio, e conservare per se il suo segreto, ritenendo questo modo di agire più sicuro per sé, parlo io che per ufficio ho il dovere di parlare, né posso tacere, esprimendo quanto ne so, sia per esperienza mia sia di altri, e che facilmente molti altri possono sperimentare, lasciando le cose più sublimi alla capacità di quelli che sono in grado di comprenderle. Se dunque sarò ammonito, o all’esterno da qualche uomo, o nell’intimo dallo Spirito, di difendere la giustizia e di osservare l’equità, questo salutare ammonimento sarà per me un avviso dell’imminente venuta dello Sposo, e servirà come di preparazione a ricevere degnamente il superno visitatore. Me lo indica il Profeta dicendo: Davanti a lui camminerà la giustizia ( Sal 85,14 ) e, volgendosi al Signore: Giustizia e diritto sono la base del tuo trono ( Sal 89,15 ). Tuttavia arriderà la medesima speranza se il suggerimento riguarderà l’umiltà o la pazienza, o anche la carità fraterna e l’obbedienza dovuta ai prelati, e massimamente la santità e la pace, la ricerca della purezza di cuore, perché secondo le Scritture: Alla casa di Dio conviene la santità ( Sal 93,5 ) e la sua abitazione è nella pace ( Sal 76,3 ), e i puri di cuore vedranno Dio ( Mt 5,8 ). Tutto quello che mi verrà insinuato nell’animo di queste o qualsiasi altre virtù, sarà per me un segno che è imminente per l’anima mia la visita del Signore delle virtù. 6. Ma anche se un giusto, spinto dalla carità, mi avrà corretto e sgridato, avrò gli stessi sentimenti, sapendo che lo zelo e la benevolenza del giusto preparano la strada a colui che sale sopra il tramonto. Buon tramonto quando alla correzione del giusto resta in piedi l’uomo e cade il vizio, e il Signore sale sopra quello conculcandolo con i piedi e schiacciandolo perché non risorga. Non si deve dunque disprezzare l’ammonizione del giusto che è rovina del peccato e sanità del cuore, nonché via di Dio all’anima. E neppure si deve ascoltare con negligenza qualsiasi parola diretta ad accrescere la pietà, a nutrire le virtù e i buoni costumi, perché anche quella è una via per cui si fa vedere la salvezza di Dio. Se tali parole riescono piacevoli e gradite, in quanto senza noia e con avidità vengono ascoltate, allora si deve credere che non solo lo Sposo viene, ma si affretta, cioè viene con desiderio. Il suo desiderio, infatti, crea il tuo; e il fatto che tu ti affretti ad accettare la sua parola significa che egli si affretta ad entrare: non siamo infatti stati noi, ma Egli per primo ci ha amati ( 1 Gv 4,10 ). Se poi ti capita anche di sentire una parola di fuoco, e per essa ti senti scottare la coscienza al ricordo del peccato, ricordati allora di chi dice la Scrittura che il fuoco cammina davanti a lui ( Sal 97,3 ), e sta sicuro che egli è vicino. Infine, il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito ( Sal 34,19 ). 7. Se poi a quelle parole non solo ti compungi, ma ti rivolgerai tutto al Signore, giurando e stabilendo di custodire i suoi precetti di giustizia, sappi allora che egli é ormai presente, soprattutto se ti sentirai infiammare dall’amore di lui. Leggi infatti le due cose riguardo a lui, che cioè il fuoco cammina davanti a lui, e che egli stesso è fuoco. Mosè dice, infatti, che egli è un fuoco che consuma ( Dt 4,24 ). Le due cose differiscono tuttavia in quanto il fuoco che lo precede ha l’ardore, ma non l’amore: cuoce ma non brucia, muove, ma non promuove. Viene mandato innanzi per eccitare e preparare, e nello stesso tempo per farti riflettere a quello che sei da te stesso, perché ti sia più dolce la costatazione di quello che sarai tra poco per la grazia di Dio. Ma il fuoco che è Dio consuma sì, ma non affligge, arde soavemente, produce una felice desolazione. È, infatti, davvero un carbone distruggitore, ma che spiega talmente contro i vizi la forza del fuoco, lasciando invece nell’anima l’effetto di un unguento. Dunque, dalla forza da cui ti senti mutato, e dall’amore da cui ti senti infiammato comprendi che il Signore è presente, poiché la destra del Signore ha fatto meraviglie ( Sal 118,16 ). Ma non si effettua questa trasformazione della destra dell’Altissimo ( Sal 77,11 ) se non nel fervore dello Spirito e nella carità sincera, sicché possa un tale dire: Ardeva il cuore nel mio petto, al ripensarci è divampato il fuoco ( Sal 39,4 ). 8. Consumata perciò da questo fuoco ogni macchia di peccato e ogni ruggine di vizi, se nella coscienza ormai purificata e rasserenata si produrrà improvvisamente una certa insolita larghezza di mente, e un’infusione di luce che illumina l’intelletto o all’intelligenza delle Scritture o alla conoscenza dei misteri, due cose che penso ci vengano date una per la nostra soddisfazione, l’altra per l’edificazione del prossimo, questo è senza dubbio l’occhio di colui che guarda, che fa brillare come luce la tua giustizia e come il meriggio il tuo diritto ( Sal 37,6 ) secondo quanto dice il Profeta Isaia: Brillerà come sole la tua luce ( Is 58,10 ). Tuttavia questo raggio di tanta chiarezza non si infonderà quasi attraverso porte spalancate, ma attraverso strette fessure, stando ancora in piedi questa sola, sconnessa parete del corpo. Sbagli se speri di più, per quanto progresso tu abbia fatto nella purezza del cuore, mentre dice quel grande contemplativo: Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia ( 1 Cor 13,12 ). 9. Dopo questo sguardo di tanta degnazione e benevolenza, segue la voce che in modo blando e soave insinua la divina volontà; che non è altro che lo stesso amore, il quale non può restare ozioso, che sollecita e sprona alle cose che riguardano Dio. La sposa si sente dire di alzarsi e di affrettarsi, certamente verso gli interessi delle anime. IV. Vicissitudini della casta contemplazione; distinzione fra « amica », « colomba » e « bella » in Maria, Lazzaro e Marta La vera e genuina contemplazione comporta questo, che di tanto in tanto riempie di zelo e di desiderio di acquistare a Dio altri che come lei lo amino, quell’anima che ha fortemente acceso del fuoco divino, per cui molto volentieri sospende il riposo della contemplazione per applicarsi alla predicazione; e nuovamente, una volta raggiunto lo scopo, con tanto più ardore ritorni a questo suo ozio, quanto più fruttuosamente ricorda di averlo interrotto; e così, una volta saggiato il gusto della contemplazione, con più efficacia torni con alacrità a occuparsi del bene delle anime. Del resto tra queste vicissitudini il più delle volte l’anima è titubante e molto incerta, temendo, quando è contesa di qua e di là dai suoi affetti, di lasciarsi andare più del giusto da una parte o dall’altra, e di deviare così, sia pure per poco, dalla divina volontà. E forse voleva esprimere questo stato d’animo il santo Giobbe quando diceva: Se mi corico dico: quando mi alzerò? E di nuovo aspetto la sera ( Gb 7,4 ); vale a dire: quando sono nel riposo mi rimprovero di aver trascurato il lavoro, e se sono occupato rimpiango di aver perso la quiete. Vedi come il sant’uomo è esitante tra il frutto del lavoro e il sonno della contemplazione; e come, sebbene sempre intento a opere buone, facesse sempre penitenza come se agisse male, e tutti i momenti cercasse gemendo la divina volontà. Unico rimedio, infatti, in simili frangenti è cercar rifugio nell’orazione e nel frequente gemito a Dio, perché si degni di mostrarci continuamente che cosa, quando e in che modo egli vuole che noi facciamo. Queste tre cose penso io, cioè la predicazione, l’orazione e la contemplazione sono espresse e significate in tre parole. Giustamente viene detta amica l’anima che si applica a procurare gli interessi dello Sposo predicando, consigliando, servendo. Con ragione viene detta colomba quella che nell’orazione gemendo e supplicando per i suoi peccati non cessa di conciliarsi la divina misericordia. Giustamente è anche detta bella l’anima che ardente di celeste desiderio si riveste del decoro della superna contemplazione, nelle ore solamente in cui può farlo comodamente e opportunamente. 10. Ma vedi anche se possa adattarsi a questo triplice bene di un’unica anima quello che è detto di quelle tre persone conviventi in una sola casa, amici e familiari del Signore. Parlo di Marta che serviva, Maria che riposava, e Lazzaro che in un certo modo gemeva sotto la pietra del sepolcro, chiedendo la grazia della risurrezione. Queste cose sono state dette per il fatto che la sposa viene presentata così solerte e vigilante nell’osservare le vie dello Sposo, di modo che non le può essere nascosto quando e con quanta fretta verrà a lei, e non può essere sorpresa ignorando quando è lontano e quando è vicino, e che perciò ha meritato non solo di essere guardata con occhio di misericordia, ma è stata degnata della gioia di udire le sue parole d’amore e di godere grandemente per la voce dello Sposo. 11. Anche noi, sia pure arditamente, abbiamo aggiunto che qualsiasi delle nostre anime, se è similmente vigilante, verrà similmente salutata come amica, consolata come colomba, abbracciata come bella. Sarà reputato perfetto colui nell’anima del quale si noteranno queste tre cose unite convenientemente e opportunamente; che cioè sappia gemere per sé ed esultare in Dio, e nello stesso tempo sia in grado di venire in aiuto alle necessità del prossimo, cauto per sé, utile ai suoi. Ma chi sarà capace di questo? Voglia Iddio che queste qualità si conservino per lungo tempo in tutti noi, anche se non tutte nei singoli, ma le singole in diversi, come sembra che ci siano oggi. Abbiamo, infatti, Marta come amica del Salvatore in quelli che amministrano fedelmente le cose esterne. Abbiamo anche Lazzaro come colomba gemente: i novizi, che da poco morti ai peccati faticano per le ferite ancora fresche nel gemito, sotto il timore del giudizio, e come gli uccisi che dormono nei sepolcri, di cui nessuno più si ricorda, così essi non pensano alla stima, fino a che, al comando di Cristo, tolto il peso del timore che premeva su di loro come masso di pietra, possano respirare nella speranza del perdono. Abbiamo anche Maria contemplante in coloro che attraverso un lungo tirocinio, sono riusciti a ottenere qualche cosa di meglio e di più lieto, quando già fiduciosi del perdono si dilettano, senza saziarsi mai, non più di rievocare dentro di sé la triste immagine dei peccati, ma piuttosto di meditare giorno e notte nella legge del Signore, e ogni tanto, contemplando anche a viso aperto con ineffabile gaudio la gloria dello Sposo, vengono trasformati nella stessa immagine di chiarezza in chiarezza secondo l’azione dello Spirito del Signore. Vedremo in un altro sermone a quale scopo esorti la sposa ad alzarsi e affrettarsi colui che poco prima sembrava prenderne le difese perché non fosse disturbata nel sonno. Ci assista lui stesso per farci comprendere il significato di queste figure, lo Sposo cioè della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose benedetto nei secoli. Amen. Sermone LVIII I. Senso della parola in cui si dice alla sposa di affrettarsi e verso che cosa 1. Sorgi, affrettati amica mia, mia colomba, mia bella e vieni ( Ct 2,10 ). Chi dice questo? Lo Sposo, senza dubbio. E non è forse egli stesso che poco prima proibiva severamente di svegliare la diletta? Come mai, dunque, ora solo le comanda di sorgere, ma anche di far presto? Viene in mente qualcosa di simile nel Vangelo. Quella notte infatti in cui il Signore veniva tradito, avendo comandato ai discepoli che erano con lui, stanchi per la lunga veglia, di dormire ormai e riposarsi, nella stessa ora: Alzatevi, disse, andiamo, ecco è vicino chi mi tradirà ( Mt 26,45 ). Similmente anche adesso, quasi in uno stesso momento proibisce che si svegli la sposa, e la sveglia dicendo: Sorgi, e vieni. Che cosa significa questo improvviso cambiamento di volontà o di consiglio? Penseremo a una leggerezza dello Sposo che avrebbe voluto prima ciò che subito dopo non ha voluto più? Niente affatto. Ma riconoscete quanto sopra, se ben ricordate, vi ho spiegato, e non soltanto una volta, cioè l’alternarsi dell’ozio santo con la necessaria attività, e che non appartiene a questa vita l’abbondanza della contemplazione, né la continuità della quiete, mentre urge maggiormente il lavoro imposto dal dovere, e più costringente ne è l’utilità. Secondo il suo costume perciò lo Sposo, quando sente che la diletta ha riposato un poco sul suo seno, non esita a richiamarla nuovamente alle cose che sembrano più utili. Non che la forzi contro il suo volere: non farebbe infatti egli stesso ciò che ha proibito ad altri di fare. Ma essere trascinata dallo Sposo, è per la sposa ricevere da lui il desiderio di essere trascinata, il desiderio delle buone opere, il desiderio di portar frutto per lo Sposo, in quanto per lei vivere è lo Sposo e morire un guadagno. 2. C’è anche un desiderio veemente che non solo la spinge a sorgere, ma a farlo con premura. Così dice infatti il testo: Sorgi, affrettati e vieni. Non è di lieve conforto quello che sente, vieni, e non va’, con le quali parole comprende che non è tanto mandata, quanto condotta, e che lo Sposo verrà con lei. Che cosa riterrà difficile, con un tale compagno? Ponimi, dice altrove, accanto a te, e qualsiasi mano lotti pure contro di me ( Gb 17,3 ). E così: Se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male, perché tu sei con me ( Sal 23,4 ). Non viene dunque svegliata contro la sua volontà, poiché è indotta prima a volerlo: e questo non è altro che il desiderio che le viene infusa del santo lucro da procurare. Viene anche spronata all’opera prescritta e resa più sollecita dall’opportunità del tempo. È tempo di agire ( Sal 119,126 ), dice, o sposa, perché l’inverno è passato ( Ct 2,12 ) quando nessuno poteva operare. Anche la pioggia che aveva inondato la terra impedendo le colture, e, o soffocava i seminati o impediva le semine, è cessata, e l’acqua è scorsa via; sono apparsi i fiori nella nostra terra ( Ct 2,11 ) mostrando che è arrivato il tepore della primavera, tempo adatto al lavoro e che si avvicina il tempo delle messi e dei frutti. Poi aggiunge dove e quale sia il primo lavoro da fare: È venuto, dice, il tempo della potatura ( Ct 2,12 ). Viene dunque condotta alla coltura delle vigne, le quali, perché possano produrre frutti abbondanti per i coloni, è anzitutto necessario che siano liberate dai sarmenti sterili, tagliando via quelli nocivi, e potando la parte superflua. Questo secondo la lettera. II. Il tempo adatto alla potatura e che cosa sia l’inverno e che cosa la pioggia che la impedisce 3. Ora vediamo quello che spiritualmente ci viene suggerito attraverso questo schema quasi storico. Che le vigne siano le anime o le chiese, e quale sia la ragione di questo senso, già l’ho detto e voi lo avete compreso, e non avete bisogno di sentirvelo ripetere. Per revisionare queste anime o queste chiese, per correggerle, istruirle, salvarle, è invitata un’anima più santa, che tuttavia abbia ricevuto questo compito non spinta dalla sua ambizione, ma chiamata da Dio come Aronne. Ora questo invito che cosa altro è se non un certo stimolo di carità che piamente ci spinge a lavorare con zelo per la salute dei fratelli, per il decoro della casa del Signore, l’aumento dei frutti della sua giustizia, la lode e la gloria del suo nome? Così ogni volta che colui che per ufficio ha il compito di guidare le anime e di esercitare la predicazione, sente il suo uomo interiore mosso da religiosi sentimenti intorno a Dio, allora sappia per certo che lo Sposo è presente e lo invita alle vigne. Perchè fare se non per sradicare e distruggere, per edificare e piantare? 4. Ma siccome per questo lavoro, come per ogni altra cosa sotto il cielo, non ogni tempo è adatto e conveniente, aggiunge, colui che invita, che è venuto il tempo della potatura. Sapeva questo colui che esclamava: Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza; non diamo motivo di scandalo a nessuno perché non venga biasimato il nostro ministero ( 2 Cor 6,2-3 ). Egli ammoniva di amputare le cose viziose e superflue, e tutto quello che poteva essere motivo di scandalo e impedire i frutti della salute, sapendo che era venuto il tempo della potatura. E perciò diceva anche a un fedele coltivatore delle vigne: Ammonisci, rimprovera, esorta ( 2 Tm 4,2 ) indicando nella prima e seconda parola l’amputazione o l’estirpazione, nell’ultima la piantagione. Queste cose diceva lo Sposo per bocca di Paolo circa il tempo di operare. Ma senti quello che ha detto personalmente circa la considerazione del tempo alla nuova sposa, indicando con nuove figure nuove realtà: Non dite voi: ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura ( Gv 4,35 ), e inoltre: La messe è molta, ma gli operai sono pochi; pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe ( Mt 9,37-38 ). Come dunque là mostrava che era venuto il tempo di mietere le messi delle anime, così qui annunzia che è venuto il tempo di potare le vigne spirituali cioè le anime o le chiese; voleva forse farci intendere con la diversità dei vocaboli, per messi il popolo dei fedeli, e per vigne le congregazioni dei santi che fanno vita comune. 5. La stagione invernale, che qui dice è passata, mi sembra riferirsi a quel tempo in cui il Signore Gesù non si mostrava più in pubblico perché i Giudei cospiravano contro di lui, volendolo mettere a morte. E per questo diceva ad alcuni: Il mio tempo non è ancora venuto, ma il vostro tempo invece è sempre pronto ( Gv 7,6 ); e di nuovo: Andate voi a questa festa, io non ci vado. Vi andò tuttavia in seguito anche lui, però di nascosto ( Gv 7,10 ). Da allora fino alla venuta dello Spirito Santo, quando si riscaldarono i cuori intorpiditi dei fedeli, per opera del fuoco che il Signore mandò per questo sulla terra, fu inverno. Negherai forse che fosse inverno quando Pietro sedeva accanto al fuoco, non meno gelido nel cuore che nel corpo? Faceva freddo, è detto ( Gv 18,18 ). In realtà il grande freddo aveva stretto il cuore del rinnegatore. Né fa meraviglia, poiché da esso era stato tolto il fuoco. Fino a poco prima, infatti, era pieno di zelo, in quanto ancora vicino al fuoco, e sguainata la spada, per non perdere il fuoco, aveva tagliato l’orecchio del servo. Ma non era quello il tempo della potatura, e perciò si senti dire: Rimetti la spada al suo posto ( Mt 26,52 ). Era, infatti, l’ora e l’impero delle tenebre ( Lc 22,53 ), e chiunque dei discepoli avesse levato la spada, quella di ferro o quella della parola, o sarebbe perito di spada, e non avrebbe guadagnato nessuno, né portato alcun frutto, oppure sotto il timore della spada sarebbe costretto a negare, e così sarebbe egli stesso perito, secondo la parola del Signore, che aveva subito aggiunto: Tutti quelli che mettono mano alla spada, periranno di spada ( Mt 26,52 ). Chi infatti oserebbe stare impavido davanti alla spaventosa immagine della morte altrui, mentre trepida e cade lo stesso principe degli Apostoli, che pure era stato premunito dalla parola confortatrice del suo Signore, e invitato a confortare gli altri? 6. Del resto né lui né gli altri Apostoli avevano ancora rivestito la forza venuta dall’alto; e per questo non era cosa sicura per essi uscire a lavorare nelle vigne, manovrare la zappa della lingua e potare le viti con la spada dello Spirito, purgando i tralci perché portassero maggior frutto. E poi lo stesso Signore nella passione taceva, e interrogato su molte cose non rispondeva, divenuto, secondo il Profeta, come un sordo che non ascolta e come un uomo che non sente e non risponde ( Sal 38,15 ). Ma diceva: Se ve lo dirò non mi crederete; se poi vi interrogherò, non mi risponderete ( Lc 22,67 ) sapendo che, il tempo della potatura non era ancora venuto, né la sua vigna avrebbe risposto alle grandi fatiche, vale a dire, non avrebbe portato alcun frutto di fede o di opere buone. Perché? Perché era inverno nel cuore dei perfidi, e certe piogge invernali di malizia avevano allagato la terra, pronte a soffocare i semi gettati dalla parola più che a farli germogliare, o a rendere vana ogni opera per la coltivazione della vigna. 7. Di quali piogge pensate voi che io ora parli? Di quelle che vediamo sparse sulla terra dalle nubi, spinte da vento di tempesta? Non è così. Ma di quelle che dalla terra fanno salire in alto nell’aria gli uomini di spirito turbolento, che levano la bocca loro fino al cielo, e la loro lingua percorre la terra come pioggia amarissima, che rende la terra palustre e sterile, inutile sia ai seminati come alle piante, non quelle visibili e corporee, date per i nostri corporei usi, delle quali Dio non si prende cura, come neanche dei buoi. Ma a chi? Certamente a quelle colture e a quelle piante che la mano di Dio ha seminato e piantato e non quella dell’uomo, che potevano germogliare e mettere radici nella fede e nella carità, e produrre frutti salutari se fossero state irrigate da piogge buone cadute a suo tempo, sono insomma le anime per le quali Cristo è morto. Guai alle nubi che lasciano cadere su di esse piogge di tal genere che fanno fango e non portano frutto! III. Quali sono le nubi buone o cattive o le piogge, e quali i fiori che poi appassiscono Come infatti vi sono alberi buoni e alberi cattivi, che producono differenti frutti secondo la diversa natura, frutti buoni cioè gli alberi buoni e cattivi quelli cattivi, così vi sono nubi buone che lasciano cadere piogge buone, e nubi cattive che piovono piogge cattive. E vedi se per caso non volesse insinuare questa differenza di nubi e di piogge colui che diceva: Comanderò alle mie nubi di non mandarvi la pioggia ( Is 5,6 ). Certamente vuol dire: sulla vigna. Per quale ragione pensi tu che abbia aggiunto specificando: alle mie nubi, se non perché vi sono anche delle cattive nubi che non sono sue? Via, via, crocifiggilo! ( Gv 19,15 ). Oh, nubi violente e torbide! Oh, pioggia torrenziale, oh, torrente di iniquità, atto più a distruggere che a fecondare! Né meno cattiva e meno amara, anche se meno impetuosa, la pioggia che ne seguì: Ha salvato gli altri, non è capace di salvare se stesso. Cristo, Re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo ( Mt 27,42 ). La ventosa loquacità dei filosofi non è una buona pioggia: essa porta più la sterilità che non la fertilità, e molto più sono cattive piogge i cattivi dogmi degli eretici, che invece di frutti producono spine e triboli. Cattive piogge anche le tradizioni dei Farisei, che vengono redarguite dal Salvatore. Anche esse sono nubi cattive. E se non pensi che io faccia ingiustizia a Mosè, poiché egli è una buona nube, non direi tuttavia che tutta la pioggia che è scesa da essa sia buona, per non contraddire colui che dice: Io diedi loro statuti non buoni, certamente per mezzo di Mosè, e leggi per le quali non potevano vivere ( Ez 20,25 ). Per esempio quella letterale osservanza del sabato, che significava, ma non donava riposo, il rito prescritto dei sacrifici, la proibizione di mangiare carne porcina e alcune simili cose che da Mosè vengono considerate immonde, tutto questo è pioggia che scende da quella nube; ma non voglio che scenda nel mio campo o nel mio orto. Sarà stata buona a suo tempo, se verrà dopo il tempo non la ritengo più buona. Ogni pioggia, anche se leggera e che cada leggermente, se è fuori tempo diventa molesta. 8. Dunque, fino a che queste acque pestilenziali hanno occupato la terra e l’hanno dominata, non c’è stato tempo adatto per la coltura delle vigne, né la sposa si sentì invitare alla loro potatura. Ma prosciugandosi le acque apparve la terra asciutta, e comparvero in essa i fiori, indicando che il tempo della potatura era venuto. Quando accadde questo? Quando, pensi, se non quando rifiorì la carne di Cristo nella risurrezione? E questi è il primo e il massimo fiore che apparve sulla nostra terra: Cristo è infatti la primizia. Egli, dico, fiore del campo e giglio delle valli ( Ct 2,1 ). Gesù era creduto figlio di Giuseppe da Nazareth, che significa fiore. Questo è il fiore che apparve per primo, ma non fu il solo. Infatti molti corpi di santi, che erano morti, risorsero ugualmente, e questi come altrettanti splendidi fiori apparvero contemporaneamente nella nostra terra. Vennero nella città santa e apparvero a molti ( Mt 27,53 ). Furono anche fiori i primi che credettero del popolo, primizie dei santi. Fiori i loro miracoli, che come fiori producevano il frutto della fede. Poiché una volta passata un poco quella pioggia dell’infedeltà, e dopo che almeno in parte cessò la e l’acqua si fu ritirata, seguì una pioggia abbondante mandata da Dio alla sua eredità, e cominciarono a spuntare i fiori. Il Signore elargì il suo bene e la nostra terra produsse i suoi fiori, talmente che in un solo giorno tremila e in un altro cinquemila del popolo abbracciarono la fede; tanto crebbe celermente il numero dei fiori, cioè la moltitudine dei credenti. Né riuscì il gelo della malizia ad avere il sopravvento sui fiori che sbocciavano, né compromettere, come capita, il frutto della vita che promettevano. 9. Poiché, essendo tutti quelli che avevano creduto investiti di una forza dall’alto, sorsero tra di essi degli uomini che si dimostrarono forti nella fede, disprezzando le minacce dei malvagi. Ebbero a soffrire molte contraddizioni, ma non vennero meno, né cessarono di compiere e di annunziare le opere di Dio. Secondo, infatti, quanto è detto nel Salmo, in senso però spirituale: Seminarono campi e piantarono vigne, e ne raccolsero frutti abbondanti ( Sal 107,37 ). Con il passar del tempo la tempesta si calmò, e tornata la pace sulla terra crebbero le vigne, si propagarono e dilatarono e si moltiplicarono oltre misura. E allora la sposa viene invitata a recarsi alle vigne, non per piantare, ma per potare quello che era già piantato. Ed era opportuno che fosse così, perché questo lavoro richiedeva un tempo di pace. E quando mai si sarebbe potuto compiere in tempo di persecuzione? Del resto prendere in mano spade a due tagli, compiere la vendetta tra i popoli e punire le genti, stringere in catene i loro capi e i loro nobili in ceppi di ferro, per eseguire su di essi il giudizio già scritto questo infatti significa potare le vigne queste cose dico, si possono fare appena in tempo di pace. E di questo basta. IV. La potatura della vigna secondo il senso morale, cioè dell’anima e quando sia necessaria, cioè sempre 10. Il sermone poteva finire qui se avessi prima ammonito ognuno di voi, come sono solito fare, riguardo alla propria vigna. Chi infatti ha tagliato via da sé così radicalmente ogni cosa superflua che non ci sia più nulla in lui che abbia bisogno di potatura? Credetemi, anche le cose stroncate ripullulano, e quelle allontanate ritornano, si riaccendono le spente, e le sopite si risvegliano di nuovo. È poca cosa, dunque, l’aver potato una volta; bisogna potare spesso, anzi possibilmente sempre, perché sempre, se sei sincero, trovi qualche cosa da potare. Per quanto progresso tu abbia fatto fino a che resti in questo corpo, sbagli se pensi che i vizi siano morti, e non piuttosto mortificati. Che tu lo voglia o no, nei tuoi confini abita il Gebuseo: può essere soggiogato, ma non sterminato. So, dice l’Apostolo, che non abita in me il bene ( Rm 7,18 ). È poca cosa se non confessa che c’è anche in lui il male. Dice: Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me ( Rm 7,19-20 ). Dunque, o tu osi crederti migliore dell’Apostolo, perché è lui che parla così di sé, oppure devi ammettere con lui che anche tu non sei privo di vizi. La virtù tiene il mezzo tra i vizi, e quindi ha bisogno di una accurata potatura, non solo, ma di una circoncisione. Altrimenti c’è da temere che stretta tutt’intorno e rosa dai vizi, mentre tu non te ne accorgi essa languisca poco a poco, e se quelli aumentano venga soffocata. In tanto grande pericolo è necessario osservare diligentemente, e appena appariranno le teste dei vizi che rinascono, subito con pronta severità troncarle. Non può la virtù crescere di pari passo con i vizi. Dunque, perché essa prosperi non si permetta ad essi di ripullulare. Togli le cose superflue e nascono quelle salutari. Va ad aumentare l’utile quanto sottrai alla cupidigia. Applichiamoci alla potatura. Sia potata la cupidigia, e sarà rinforzata la virtù. 11. Per noi, fratelli, è sempre tempo adatto alla potatura, come sempre è tempo di lavoro. Sapete di quale inverno io parli, quel timore che non c’è nella carità, che pur essendo per tutti inizio della sapienza non perfeziona nessuno, perché sopravvenendo la carità lo scaccia come l’estate fuga l’inverno. Estate davvero è la carità, che se già è venuta, anzi perché è venuta come è giusto che io pensi di voi ha necessariamente prosciugato ogni pioggia invernale, vale a dire ogni lacrima di ansietà che prima spremeva l’amaro ricordo del peccato e il timore del giudizio. Dunque, lo dico senza esitare, e se non di tutti voi certamente di molti, questa pioggia è cessata e se n’è andata, già compaiono i fiori, segno di una pioggia più soave. Anche l’estate ha le sue piogge soavi e feconde. Che cosa più dolce delle lacrime della carità? Piange infatti la carità, ma per amore, non per tristezza: piange per il desiderio, piange con chi piange. Di tale pioggia non dubito vengano irrorati con abbondanza gli atti della vostra obbedienza, che lieto considero non resi tetri dalla mormorazione, non semioscuri dalla tristezza, ma giocondi e floridi per un certo spirituale gaudio. Essi appaiono come se sempre portaste fiori nelle mani. 12. Dunque, se l’inverno è passato, la pioggia è cessata e se n’è andata, se nuovamente sono apparsi i fiori nella nostra terra e un certo tepore primaverile di grazia spirituale indica venuto il tempo della potatura, che resta se non che ci applichiamo tutti a questo lavoro così santo, così necessario? Scrutiamo, secondo il Profeta, le nostre vie ( Lam 3,40 ) e i nostri sentimenti, e ognuno pensi di aver fatto progresso non per il fatto di non aver trovato nulla in sé di reprensibile, ma quando avrà disapprovato ciò che di male ha trovato. Allora non ti sei scrutato invano se hai avvertito che avevi ancora bisogno di esaminarti; e ogni volta che la tua ricerca non ti ha ingannato, sempre penserai di ripeterla. Se poi fai sempre questo quando occorre, lo fai sempre. Ricordati, dunque, che sempre ti sarà necessario il divino aiuto e la misericordia dello Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LIX I. Il motivo per cui lo Sposo dice: nella nostra terra 1. La voce della tortora si fa sentire nella nostra terra ( Ct 2,12 ). Non posso ormai più dissimularlo: ecco, colui che è dal cielo parla della terra, con tanta degnazione, tanto amichevolmente, come uno della terra. È questi lo Sposo, il quale avendo premesso che i fiori erano apparsi sopra la terra aggiunse: nostra; ed ora ancora dice: La voce della tortora si fa sentire nella nostra terra. Dunque, ci sarà una ragione per un modo di parlare così inconsueto, per non dire indegno di Dio? Mai, come penso, si è parlato così del cielo, in nessun altro luogo si è parlato così della terra. Considera, pertanto, quanta soavità ci sia nel fatto che il Dio del cielo dica: nella nostra terra. Abitanti del mondo e figli degli uomini ( Sal 49,3 ) udite: Grandi cose ha fatto il Signore per noi ( Sal 126,3 ). Molta relazione egli ha con la terra, molta con la sposa che si è compiaciuto scegliersi dalla terra. Nella terra, dice, nostra. Questa parola non sa di principato, ma di consorzio, di familiarità. Questo lo dice come Sposo, non come Signore. E che? È il creatore e si considera consorte? Parla l’amore, che non conosce padrone. È infatti questo un carme d’amore, e non era opportuno fosse composto da altre parole che da quelle d’amore. Ama anche Dio, e non ne ha il motivo fuori di sé, ma è egli stesso il motivo per cui ama. E tanto più fortemente in quanto non tanto ha amore, ma egli stesso è amore. Ora, quelli che ama li considera amici, non servi. Infine, da maestro si fa amico, né chiamerebbe i discepoli amici se non lo fossero in realtà. 2. Vedi come anche la maestà cede all’amore? È così fratelli. L’amore non sospetta nessuno, ma nemmeno lo disprezza. Guarda con uguale occhio tutti coloro che si amano perfettamente, e in se stesso contempera i grandi e i piccoli; e non solo li rende pari, ma ne fa una cosa sola. Tu forse pensi ancora che Dio faccia eccezione da questa regola dell’amore, ma chi aderisce a Dio forma con Lui un solo spirito. Perché ti stupisci di questo? Egli si è fatto come uno di noi. Ho detto poco: non come uno, ma uno di noi. Era poco essere pari agli uomini: è uomo. Perciò chiama sua la terra nostra, ma come patria, non come possedimento. E come non l’avrebbe rivendicata come sua? Di qui gli viene la sposa, di qui la sostanza del suo corpo: di qui lo Sposo stesso, di qui l’unione dei due in una sola carne. Se una sola è la carne, perché non una patria sola? Il cielo del cielo al Signore, dice, ma la terra l’ha data ai figli dell’uomo ( Sal 115,16 ). Dunque, come figlio dell’uomo eredita la terra, come Signore l’assoggetta, come creatore la governa, come Sposo la comunica. Dicendo infatti: Nella nostra terra non ne rivendica la proprietà, non ne respinge la società. E questo perché lo Sposo si è degnato di usare una parola tanto benevola dicendo: Nella nostra terra. Ora vediamo il resto. II. La voce o il gemito della tortora, quando probabilmente si è fatta sentire 3. La voce della tortora si fa sentire nella nostra terra. Anche questo è un segno che l’inverno è passato, ma che è ora tempo di potatura. Questo secondo la lettera, del resto la voce della tortora non è tanto dolce in sé, ma è segno di cose dolci. Questo stesso uccello se lo comperi non ha grande valore, se lo abbatti cacciando ha un altro prezzo. La sua voce somiglia più a un gemito che a un canto, e ci ricorda che il nostro è un pellegrinaggio. Ascolto volentieri la voce di quel dottore che non cerca l’applauso per sé, ma muove me al pianto. Ti mostri veramente tortora se insegni a gemere, e se vuoi essere persuasivo bisognerà che tu cerchi di ottenere questo, più che declamando, gemendo tu stesso. L’esempio, in verità, come in molte altre cose, soprattutto in questo è più efficace che la parola. Darai alla tua parola una grande forza se si vedrà che tu sei ben persuaso di ciò di cui vuoi convincere gli altri. È più valida la voce dei fatti che quella della bocca. Fà come parli, e non solo più facilmente ottieni la mia correzione, ma libererai te stesso da una non lieve vergogna. Non riguarderà più te se qualcuno dirà: Legano pesanti fardelli e impongono sulle spalle della gente; ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito ( Mt 23,4 ). Ma non bisogna neppure che faccia paura quell’altro detto: Tu che insegni agli altri, non insegni a te stesso? ( Rm 2,21 ). 4. La voce della tortora si fa sentire nella nostra terra. Fino a che gli uomini per il servizio di Dio ricevettero solamente una mercede sulla terra e solo terra, quella che scorreva latte e miele, non si riconobbero affatto pellegrini sulla terra, né come tortore gemettero al ricordo della patria; ma piuttosto, considerando come patria l’esilio, si diedero a mangiare carni grasse e a bere mosto. Per tutto quel tempo la voce della tortora non si udì sulla nostra terra. Quando poi venne fatta la promessa del Regno dei cieli, allora gli uomini compresero che non avevano quaggiù una città stabile, e cominciarono a cercare con ardore quella futura; e allora per la prima volta manifestamente risuonò nella nostra terra la voce della tortora. Quando infatti ogni anima santa cominciò a sospirare la presenza di Cristo, a sentire con molestia la dilazione del regno, e a salutare da lontano con gemiti e sospiri la patria desiderata, non ti sembra che qualunque anima sulla terra si comportasse in questo modo, imitasse la gemebonda e castissima tortora? Da allora in poi dunque la voce della tortora si fa sentire nella nostra terra. E perché l’assenza di Cristo non dovrebbe strapparmi frequenti lacrime e quotidiani gemiti? Signore, davanti a te è ogni mio desiderio, e il mio gemito non ti è nascosto ( Sal 38,10 ). Sono stremato dai lunghi lamenti, tu lo sai; ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio ( Sal 6,7 ). E non solo per me, ma per tutti quelli che attendono la sua manifestazione ( 2 Tm 4,8 ) sono questi gemiti. E questo è quello che Gesù diceva: Possono forse piangere i figli dello sposo finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando sarà loro tolto lo sposo, e allora piangeranno ( Mt 9,15 ). E allora si udrà la voce della tortora. 5. È così, Gesù buono: sono venuti quei giorni. Poiché la stessa creatura geme e soffre fino a oggi i dolori del parto, aspettando la rivelazione dei figli di Dio. E non solo essa, ma anche noi gemiamo in noi stessi, aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo; ben sapendo che fino a che siamo in questo corpo, siamo pellegrini lontani da te ( Rm 8,19.22-23 ). Né sono gemiti inutili, dal momento che dal cielo vi si risponde con tanta misericordia: Per la miseria dei bisognosi e il gemito dei poveri, ora mi alzerò, dice il Signore ( Sal 12,6 ). Vi fu anche al tempo dei Padri questa voce gemebonda, ma rara, e ciascuno aveva in sé il suo gemito. Per cui diceva un tale: Il mio segreto è per me, il mio segreto è per me ( Is 24,16 ). Ma anche chi diceva: Il mio gemito a te non è nascosto ( Sal 38,10 ), dimostrava che era nascosto, essendo noto a Dio solo. E perciò allora non si poté dire: La voce della tortora si fa sentire nella nostra terra perché il segreto di pochi non era ancora uscito a conoscenza di molti. Ma quando si gridò apertamente: Cercate le cose di lassù ( Col 3,1 ) dove Cristo sta seduto alla destra di Dio, cominciò ad appartenere a tutti questo gemito di tortora, e per tutti vi fu un’unica ragione di gemere, perché tutti conoscevano il Signore, secondo che si legge nel Profeta: E mi conosceranno tutti, dal più piccolo al più grande, dice il Signore ( Ger 31,34 ). III. Perché si parla di una tortora soltanto; la castità della tortora 6. Se poi molti sono quelli che gemono, perché se ne indica uno solo? Voce di tortora, dice; perché non « di tortore »? Forse l’Apostolo ha risolto questa difficoltà dove dice che lo Spirito Santo chiede per i santi con gemiti inesprimibili. È così: viene detto che egli geme, perché è lui che fa i gementi. E sebbene siano molti quelli che così senti gemere, parla la voce di uno solo per le labbra di tutti. Perché non sarebbe proprio la voce di colui che la forma sulla bocca dei singoli per le loro proprie necessità? A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune ( 1 Cor 3,6 ). La voce manifesta ognuno, e lo indica presente. E senti dal Vangelo come lo Spirito Santo ha una voce: Lo Spirito, dice, spira dove vuole, e senti la sua voce, e non sai donde venga e dove vada ( Gv 3,8 ). Anche se non lo sapeva quel maestro morto che insegnava ai morti la lettera che uccide, sappiamolo noi che, passati dalla morte alla vita per opera del vivificante Spirito, abbiamo la prova dalla nostra certa quotidiana esperienza, sotto l’influsso della sua luce, che i nostri voti e gemiti vengono da Lui e vanno a Dio, e là trovano misericordia agli occhi di Dio. Quando mai infatti Dio non ascolterebbe la voce del suo Spirito? Ora egli sa che cosa desideri lo Spirito, perché esso chiede per i santi secondo Dio. 7. Né la tortora ci fa pensare solo ai gemiti. Essa è simbolo anche di castità. Per questo fu degna di essere offerta come ostia per il parto verginale. Dice infatti così il Vangelo: Un paio di tortore o due colombini ( Lc 2,24 ). E sebbene altrove si sia soliti designare con la colomba lo Spirito Santo, tuttavia dato che essa è un uccello libidinoso, non fu conveniente che essa venisse offerta in sacrificio al Signore, se non in quell’età che non conosce libidine. Invece, della tortora non è indicata l’età, perché se ne conosce la castità in qualsiasi età. E poi si contenta di un solo compagno; perduto il quale non ne ammette più un altro, rimproverando la molteplicità delle nozze tra gli uomini. Poiché, anche se forse la colpa per l’incontinenza è veniale, la stessa così grande incontinenza è cosa turpe. È vergognoso che nel campo dell’onestà la ragione abbia meno forza nell’uomo che la natura nell’uccello. Si può vedere la tortora nel tempo della sua vedovanza tenersi fortemente e infaticabilmente all’osservanza della sua sacra vedovanza. La vedi ovunque sola, dappertutto la senti gemere; né la vedi mai fermarsi su di un ramo verde, perché tu impari da essa ad evitare come velenose le verdeggianti voluttà. Aggiungi che la tortora sta di preferenza sui gioghi dei monti e sulle sommità degli alberi, cosa che si confà molto bene con il proposito di mantenere la pudicizia, e così ci insegna a disprezzare le cose della terra e ad amare quelle celesti. 8. Da queste cose si deduce che sia voce di tortora anche la predicazione della castità. Da principio non fu udita questa voce sulla terra, ma piuttosto quell’altra: Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra ( Gen 9,1 ). Inutilmente del resto sarebbe risuonata quella voce della pudicizia, quando non si era ancora parlato della patria dei risorti, nella quale gli uomini sono molto più felici senza prendere moglie o marito, ma sono come gli angeli in cielo. Poteva forse risuonare questa voce in quel tempo, quando era considerato maledetto chi era sterile in Israele, quando gli stessi Patriarchi avevano parecchie mogli, quando un fratello era obbligato per legge a dare una discendenza al fratello morto senza figli? Ma quando risuonò dalla bocca della celeste tortora la lode degli eunuchi che si sono fatti tali per il regno di Dio, e il consiglio di un’altra castissima tortora circa la verginità prese piede, allora per la prima volta si poté dire con verità che la voce della tortora si fa sentire nella nostra terra. IV. Udendo la voce e vedendo il fiore, cioè attraverso i segni, la fede si rafforza 9. Dunque nella nostra terra apparvero i fiori e si udì la voce della tortora, e pertanto la verità si mostrò agli occhi e si fece sentire all’udito. La voce infatti si sente, il fiore si vede. Fiore è il miracolo che, come abbiamo sopra interpretato, unendosi alla voce partorisce il frutto della fede. Anche se la fede viene attraverso l’udito, dalla vista viene la conferma. Risuonò la voce, splendette il fiore, e la verità germogliò dalla terra per la confessione dei fedeli, concorrendo la parola e il miracolo insieme nella testimonianza della fede. Queste testimonianze divennero degnissime di fede, attestando il fiore alla voce e l’occhio all’orecchio. Le cose vedute confermano quelle udite, sicché la testimonianza di due, dell’orecchio dico, e dell’occhio, sia criterio di verità. Perciò il Signore diceva: Andate a dire a Giovanni parlava difatti ai suoi discepoli le cose che avete udito e visto ( Lc 7,22 ). Non poté dimostrare loro più brevemente, né più chiaramente la certezza della fede. E veramente questa certezza si diffuse in breve a tutta la terra, e mediante questo medesimo doppio argomento. Le cose che avete udito, dice, e visto. O parola breve, ma tuttavia viva ed efficace. Certamente affermo senza dubitare ciò che ho appreso per mezzo dell’orecchio e degli occhi. Suona la tromba della salvezza, rifulgono i miracoli e il mondo crede. Presto quello che viene detto è creduto, mentre si mostra il miracolo che stupisce. È detto poi che partiti, gli Apostoli predicarono dappertutto, mentre il Signore operava con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano ( Mc 16,20 ). Così Gesù sul monte è trasfigurato e avvolto da uno stupendo splendore, e a questo si aggiunge la testimonianza della voce venuta dall’alto. Così nel Giordano similmente c’è il segno della colomba e la voce che rende testimonianza. Così queste due cose ovunque insieme concorrono per la divina munificenza a introdurre la fede, affinché sia aperto un largo ingresso alla verità che può entrare nell’anima per le due finestre. 10. Segue: Il fico ha messo fuori i suoi primi frutti ( Ct 2,13 ). Non mangiamone, perché non sono maturi. Dei buoni fichi hanno l’apparenza, la somiglianza, ma non il sapore; forse ne avremo bisogno un’altra volta. Del resto facilmente cadono da sé prima del tempo, come l’erba dei tetti, la quale prima che venga strappata si dissecca, il che penso sia stato detto degli ipocriti. Non senza ragione tuttavia se n’è fatta menzione nel carme nuziale. Serviranno certamente tali fichi, anche se non per mangiare, per qualche altro uso. Nelle nozze, oltre alle vivande, si preparano necessariamente molte altre cose. Io penso che su questo non si debba passar affatto oltre, e di qualunque cosa si tratti non vorrei trattarne nella fretta della fine di questo sermone; ma ne rimando l’esposizione a un tempo meno obbligato, in un altro giorno. Se si tratti di cosa necessaria lo potrete sperimentare; solo le vostre preghiere mi ottengano l’opportunità e la facoltà di dire quello che penso per la vostra edificazione, a lode e gloria dello Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore che é sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LX I. Qual è il fico o quali sono i suoi frutti primaticci o quando li ha prodotti 1. Il fico ha messo fuori i suoi primi frutti ( Ct 2,13 ). Questo passo dipende dai precedenti. Aveva detto che era venuto il tempo della potatura, deducendolo sia dai fiori che erano comparsi sia dalla voce della tortora che si sentiva. Lo stesso afferma dal fatto che il fico ha messo fuori i frutti primaticci, perché non solo c’è una dimostrazione del tempo nei fiori e nella voce della tortora, ma anche nel fico. Non può essere infatti che non ci sia un clima più mite quando il fico produce i suoi frutti primaticci. Il fico non ha fiori, e invece dei fiori mette fuori dei frutti che non maturano nel tempo in cui gli altri alberi fioriscono. E come i fiori appaiono e scompaiono e non sono utili a nulla, se non che sono annunziatori dei frutti che verranno dopo, così questi primi frutti nascono, ma prima di maturare cadono, e lasciano il posto a quelli che devono maturare, essendo essi stessi inadatti ad essere mangiati. E qui dunque, come ho detto, ricava una prova del tempo e un argomento per persuadere la sposa a non essere pigra nel recarsi alle vigne, perché non rimane senza effetto il lavoro fatto per tempo. Così secondo il senso letterale. 2. E quale il senso spirituale? Per fico in questo passo intendiamo il popolo: Dio infatti si prende cura degli uomini, non delle piante. Veramente fico è il popolo, fragile nella carne, piccolo per i sentimenti, umile di animo, i cui primi frutti, per fare allusione al nome, sono grossolani e terreni. La preoccupazione del popolo non è infatti di cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, ma, come dice l’Apostolo, pensare alle cose del mondo, come piacere alle mogli, o, per le mogli, come piacere ai mariti. Costoro avranno tribolazioni nella carne ( 1 Cor 7,28 ). Ma alla fine non neghiamo che essi conseguiranno i frutti della fede, se avranno fatto una buona ultima confessione, e soprattutto se avranno riscattato le opere della carne con elemosine. Dunque, i primi frutti del popolo non sono frutti più che non lo siano i frutti primaticci dei fichi. Se poi in seguito avranno fatto degni frutti di penitenza infatti non viene prima ciò che è spirituale, ma ciò che è animale si dirà loro: Quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? ( Rm 6,21 ). 3. Io tuttavia penso che non si possa applicare questa parola a ogni popolo: ne è indicato precisamente uno. Non si dice infatti al plurale che i fichi « hanno messo fuori », ma al singolare, come di un solo fico che ha messo fuori i suoi primi frutti, e questo è il popolo dei Giudei, a mio parere. Quante cose dice il Salvatore contro questo popolo, attraverso le parabole del Vangelo! Per esempio: Un tale aveva un fico piantato nella vigna … ( Lc 13,6 ). E altrove: Guardate il fico e tutte le piante ( Lc 21,29 ); e a Natanaele fu detto: Quando eri sotto il fico, io ti ho visto ( Gv 1,48 ). E di nuovo il Signore maledice il fico perché non ha trovato frutto in esso. È detto bene fico, che, sebbene sia germogliato dalla buona radice dei Patriarchi, non volle mai crescere in altezza, mai alzarsi da terra, mai rispondere alla radice con ampiezza di rami, con generosità di fiori, con ricchezza di frutti. Male corrispondi con la tua radice, o albero piccolo, tortuoso, nodoso. Poiché la radice è santa. Che cosa degno di essa appare nei tuoi rami? Il fico, è detto, ha messo fuori i suoi primi frutti. Questi non li hai tratti da una nobile radice, o razza cattiva. Ciò che vi è in essa viene dallo Spirito Santo, e perciò tutto gentile e soave. Da dove vengono questi frutti grossolani? E veramente che cosa vi fu di non grossolano in quella nazione? Non certamente le azioni, non i sentimenti né l’intelligenza; ma neppure i riti che usò nel culto di Dio. Gli atti infatti erano tutti rivolti alle guerre, gli affetti al lucro, l’intelligenza alla materialità della lettera, il culto consisteva nel sangue degli animali e degli armenti. 4. Ma dirà qualcuno: non avendo mai cessato quella nazione di produrre questi frutti, vi fu sempre tempo di potatura, perché un unico tempo è adatto alle due cose. Non è così; diciamo che, le donne hanno partorito non quando partoriscono, ma quando hanno dato alla luce il figlio. Diciamo che già gli alberi hanno messo i fiori, non quando cominciano a fiorire, ma quando hanno finito. Così pure è stato detto che il fico ha messo fuori i suoi primi frutti, non quando ne ha prodotti alcuni, ma quando li ha messi fuori tutti, cioè alla fine della produzione di essi. Chiedi quando si è compiuto questo tempo per quel popolo? Quando uccise il Cristo, allora fu completa la sua malizia, secondo quello che egli stesso aveva predetto: Colmate la misura dei vostri padri ( Mt 23,32 ). E perciò sulla croce, stando per rendere lo spirito: Tutto è compiuto, disse ( Gv 19,30 ). O quale conclusione diede ai suoi primi frutti questo fico maledetto, e pertanto condannato ad essere seccato in eterno! O come sono le cose ultime peggiori delle prime! Cominciando dai frutti inutili, è giunto ai perniciosi e velenosi. O grossolano e velenoso sentimento quello di odiare un uomo che risana i corpi degli uomini e ne salva le anime! O grossolana intelligenza, proprio da buoi, da non comprendere Dio neanche nelle opere di Dio! 5. Si lamenterà forse il Giudeo, dicendo che io sono andato troppo in là nello schernirlo, perché ho chiamato bovina la sua intelligenza. Ma legga in Isaia, e sentirà che egli la dice peggio di bovina: Il bue, dice, conosce il suo padrone, e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non mi conosce, e il mio popolo non comprende ( Is 1,3 ). Vedi, o Giudeo, che io sono meno duro con te che il tuo profeta. Io ti ho paragonato ai giumenti, egli ti ha posto sotto di loro. Sebbene il Profeta non dicesse questo in sua persona, ma in nome di Dio, che si rivela Dio anche con le sue opere: Anche se non credete a me, credete alle opere; e se non faccio le opere del Padre mio, non credetemi ( Gv 10,37-38 ); ma neanche così riescono a comprendere. Non lo scacciare i demoni, non l’obbedienza degli elementi, non la risurrezione dei morti riuscì a convincere quell’animalesca, e peggio che animalesca, incapacità di ragionare; per cui da questa non meno strana che miserabile cecità, caddero in quell’orrendo ed enormemente grosso delitto di volgere le mani sacrileghe contro il Signore della maestà. Da allora si, si poté dire che il fico aveva messo fuori i suoi primi frutti, quando cioè le osservanze legali di quel popolo cominciarono ad essere in certo modo all’estremità superiore, in modo che arrivando le nuove, secondo la vecchia profezia, le antiche venissero buttate via, non diversamente da quanto accade con i frutti primaticci che cadono, cedendo il posto ai fichi buoni. Fino a che, dice lo Sposo, il fico non cessò di produrre i suoi primi frutti, io non ti ho chiamata, o sposa, sapendo che insieme non poteva produrre fichi buoni. Ma ora, passati quelli, è tempo che io ti chiami, poiché i prossimi saranno frutti salutari, che soppianteranno gli inutili. II. Quali sono le vigne, quale il fiore, quale il suo odore e in che modo o quando li abbia prodotti 6. Anche le vigne, aggiunge, in fiore hanno dato il loro profumo ( Ct 2,13 ), che è indizio dell’avvicinarsi dei frutti. Quest’odore mette in fuga le serpi. Si dice che quando fioriscono le vigne tutti i rettili velenosi se ne vanno non potendo sopportare l’odore dei nuovi fiori. Voglio che riflettano a questo i nostri novizi, e siano pieni di fiducia, pensando quale spirito hanno ricevuto, del quale i demoni non possono sopportare le primizie; se è così del fervore novizio, che sarà della perfezione assoluta? Dal fiore si stimi il frutto, e la virtù del sapore dalla forza del profumo. Le vigne in fiore hanno dato il loro profumo. In principio fu così: alla predicazione della nuova grazia segui una vita nuova in coloro che avevano creduto, i quali, tenendo una buona condotta in mezzo ai pagani, erano in ogni luogo il buon odore di Cristo. Odore buono è la buona testimonianza. Questa procede dalle opere buone come il profumo dal fiore. E poiché di tale fiore e di tale profumo le anime fedeli, nei primordi della fede nascente, apparvero cariche, come spirituali vigne, avendo buona testimonianza anche da quelli di fuori, non senza ragione penso, sentiamo detto di esse che le vigne in fiore diedero il loro profumo. A quale scopo? Affinché da esso provocati quelli che ancora non avevano aderito alla fede, considerando le buone opere dei credenti, anch’essi glorificassero Dio, e così l’odore della vita cominciasse a condurli alla vita. Perciò non senza ragione viene detto che hanno dato odore coloro che, col loro buon nome, hanno cercato non la loro, ma l’altrui salvezza. Diversamente potevano, come fanno alcuni, stimare la pietà come un lucro, per esempio di ostentazione o di mercede. Ma questo non era dare odore, ma venderlo. Ma siccome tutto facevano nella carità, in verità non vendettero il profumo, malo diedero. 7. Se poi le vigne significano le anime, i fiori le opere, l’odore la stima, i frutti che cosa significano? Il martirio. E veramente il frutto della vite è il sangue del martire. Quando avrà dato ai suoi amici il sonno, ecco dono del Signore i figli, sua grazia il frutto del grembo ( Sal 127,2-3 ). Quasi avrei detto frutto della vite. Perché non dire il sangue dell’uva sangue purissimo, sangue dell’innocente, sangue del giusto? Perché non il mosto rosseggiante, provato, prezioso, della vigna di Sorech, spremuto dal torchio della passione? Preziosa, infine, al cospetto del Signore la morte dei suoi santi ( Sal 116,15 ). Questo riguardo alle vigne di cui è detto che hanno dato il loro profumo. 8. Così se preferiamo riferire questo passo ai tempi della grazia, o, se si ama meglio ritenere che riguarda i Padri poiché la vigna del Signore degli eserciti è il popolo d’Israele ( Is 5,7 ) il senso sarà: i Profeti e i Patriarchi sentirono l’odore di Cristo che doveva nascere e morire, ma non diedero allora lo stesso odore suo, perché non esibirono nella carne colui che avevano presentito nello spirito. Non diedero il suo odore, né ne pubblicarono il segreto, aspettando che fosse rivelato a suo tempo. Chi in verità allora avrebbe capito la sapienza nascosta nel mistero, non esposta nella carne? Così le vigne allora non diedero il loro odore. Ma lo diedero in seguito, quando per successive generazioni diedero al mondo Cristo, che nasceva da loro secondo la carne, partorito da una vergine. Allora veramente dico, quelle vigne spirituali diedero il loro profumo, quando apparve la benignità e l’umanità del Salvatore nostro Dio, e cominciò ad essere presente nel mondo colui che pochi avevano presentito quando era ancora assente. Quell’uomo, per esempio, che toccando Giacobbe e sentendo il Cristo aveva detto: Ecco l’odore del mio figlio come l’odore di un campo pieno che il Signore ha benedetto ( Gen 27,27 ), dicendo questo aveva le sue delizie che riteneva per sé, senza comunicarle ad alcuno. Ma quando venne la pienezza del tempo nel quale Dio mandò il Figlio suo fatto da donna, fatto sotto la legge per redimere coloro che erano sotto la legge ( Gal 4,4-5 ), allora l’odore che era in lui si sparse ovunque, talmente che sentendolo dagli estremi confini della terra la Chiesa esclamò: Olio sparso è il tuo nome ( Ct 1,2-3 ), e le giovanette corsero all’odore di quell’olio. Così questa vigna sparse il suo profumo, e in quel tempo lo sparsero anche le altre nelle quali c’era stato questo stesso profumo. Come non lo avrebbero dato coloro dai quali proveniva Cristo secondo la carne? È stato detto pertanto che le vigne diedero il loro odore, sia perché le anime fedeli spandono dappertutto una buona fama di sé, sia perché sono stati rivelati al mondo gli oracoli e le rivelazioni dei Padri, e in tutta la terra si sparse il loro profumo, a detta dell’Apostolo: Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà: Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello spirito, apparve agli Angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria ( 1 Tm 3,16 ). III. Che cosa siano i fichi in senso morale, chi siano i frutti primaticci e chi le vigne 9. È strano però se né il fico, né queste vigne hanno qualche cosa che edifichi i costumi. Io penso che questo passo sia anche morale. Dico dunque per la grazia di Dio che è in noi, che noi abbiamo fichi e vigne. I fichi che nei costumi sono più dolci, le vigne poi che nello spirito sono più ferventi. Chiunque tra di noi si comporta con spirito comunitario e sociale, e non solo vive tra i fratelli senza discordie, ma si mette a disposizione di tutti con molta dolcezza, in ogni prestazione di carità, come non direi che egli è indicato molto convenientemente dal fico? Bisogna tuttavia che questo metta fuori prima i suoi primi frutti e lasci cadere, vale a dire il timore del giudizio che la perfetta carità caccia fuori, e l’amarezza dei peccati che deve anch’essa sparire mediante una vera confessione e l’infusione della grazia, e un frequente spargimento di lacrime e le altre cose, come frutti primaticci che precedono i frutti soavi, che voi potete da voi stessi immaginare. 10. Per aggiungere ancora qualche cosa del genere che mi viene in mente, vedete come anche la scienza, la profezia, le lingue e simili possano essere considerate come primi frutti. Queste cose infatti, come quelli, verranno meno per lasciare il posto a cose migliori, dicendo l’Apostolo che anche la scienza svanirà, e le profezie scompariranno e il dono delle lingue cesserà. La fede stessa sarà soppiantata dall’intelligenza, e la visione succederà alla speranza. Come può infatti uno sperare quello che vede? Sola non viene meno la carità, ma quella con cui si ama Dio con tutto il cuore, tutta l’anima, tutte le forze, questa non la potrei mettere con i primi frutti, né direi che appartiene al fico ma alle vigne. Coloro che sono vigne si presentano più severi che dolci, animati da uno spirito veemente, zelanti per la disciplina, austeri correttori dei vizi, ai quali si adattano molto bene quelle parole: Non odio forse, Signore, quelli che ti odiano, e non detesto i tuoi nemici? ( Sal 139,21 ). E ancora: Mi divora lo zelo della tua casa ( Sal 69,10 ). E a me quelli sembrano primeggiare nell’amore del prossimo, questi nell’amore di Dio. Ma fa piacere riposarsi sotto questa vite e questo fico, dove fa ombra l’amore di Dio e del prossimo. Tengo l’una e l’altro quando amo te, Signore Gesù, che sei mio prossimo perché sei uomo e hai usato con me misericordia, e nello stesso tempo sei sopra ogni cosa Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXI I. Applicazioni della espressione che dice: « La mia colomba nelle fessure della roccia »; e quali sono le fessure della roccia 1. Sorgi, amica mia, mia sposa, e vieni ( Ct 2,13 ). Dimostra lo Sposo il suo grande amore ripetendo parole d’amore. Questa ripetizione infatti è espressione d’affetto; e nuovamente sollecita la diletta al lavoro delle vigne, mostrando la sua sollecitudine per la salvezza delle anime. Poiché già abbiamo detto che per vigne si intendono le anime. Non è il caso di soffermarci inutilmente su ciò che è stato già detto. Andiamo avanti. In nessun luogo tuttavia, come ricordo, di tutto questo lavoro, aveva ancora nominato espressamente la sposa, se non adesso mentre si va alle vigne, quando ci si avvicina al vino della carità. Quando questa verrà e sarà perfetta compirà lo spirituale connubio; e saranno due, non in una sola carne, ma in un solo spirito, secondo il detto dell’Apostolo: Chi aderisce a Dio forma un solo spirito ( 1 Cor 6,17 ). 2. Segue: Mia colomba, nelle fessure della roccia, nelle aperture della maceria, mostrami il tuo volto, fammi sentire la tua voce ( Ct 2,14 ). Ama e continua con le espressioni amorose. La chiama nuovamente con fare carezzevole, la dice sua, affermando che gli appartiene; e quello che essa era solita chiedere con insistenza a lui, ora viceversa è lui a chiedere di vederla e di parlarle. Si comporta da Sposo, ma come Sposo verecondo ha vergogna del luogo pubblico, e stabilisce di godere delle sue delizie in luogo appartato, cioè nelle fenditure della roccia e nelle aperture della maceria. Pensa dunque che lo Sposo dica così: « Non temere, amica mia, quasi che questi lavori delle vigne ai quali ti esortiamo impediscano o interrompano l’esercizio dell’amore. Vi sarà qualche modo per cui poter realizzare quello che parimenti desideriamo. Ecco, le vigne hanno delle macerie, e queste degli angoli bene adatti per noi ». Questo secondo il gioco della lettera. Perché non chiamarlo gioco? Che cosa ha di serio questa stesura della lettera? Quello che suona all’esterno non è neppure degno del nostro ascolto, se al di dentro lo Spirito non aiuta la debolezza della nostra intelligenza. Non restiamo dunque fuori, perché non sembri che stiamo a descrivere i lenocini di turpi amori, che non sia mai, e offrite pudiche orecchie al discorso che stiamo facendo sull’amore; e quando pensate agli amanti stessi non vi immaginate un uomo e una donna, ma il Verbo e l’anima. E se dirò Cristo e la Chiesa è la stessa cosa, sennonché con il nome di Chiesa viene designata non una sola anima, ma l’unità, o piuttosto l’umanità di molte anime. E neppure per « fessure della roccia » o « aperture della maceria » intendete dei nascondigli simili a quelli degli operatori di iniquità, perché non vi sia alcun sospetto di opere delle tenebre. 3. Un altro ha così commentato questo passo, chiamando « fessure della pietra » le piaghe di Cristo. Giusto davvero. Cristo è infatti la pietra. Buone fessure, che provano la resurrezione di Cristo e la sua divinità. Signore mio, dice Tommaso, e Dio mio! ( Gv 20,28 ). Da dove riportiamo questo oracolo se non dalle fenditure della pietra? In queste il passero ha trovato per sé una casa, e la tortora il nido dove deporre i suoi piccoli ( Sal 84,4 ); in queste la colomba si trova al sicuro e guarda senza paura lo sparviero che vola all’intorno. E perciò dice: Mia colomba nelle fessure della roccia. Voce della colomba: Mi solleva sulla rupe ( Sal 27,6 ); e ancora: I miei piedi ha stabilito sulla roccia ( Sal 40,3 ). II. La casa dell’uomo sapiente ha le sue fondamenta su questa roccia; quanto è sicura questa abitazione L’uomo saggio costruisce la sua casa sopra la roccia, perché così non teme né la furia dei venti, né il pericolo delle inondazioni. Che cosa non c’è di buono nella roccia? Sulla roccia innalzato, sulla roccia sicuro, sulla roccia sto saldo. Sicuro dal nemico, forte dalla caduta, e questo perché innalzato da terra. Tutto ciò infatti che è terreno tentenna ed è caduco. La nostra vita sia in cielo, e non avremo più paura né di cadere, né di essere buttati giù. Nei cieli è la roccia, in essa stabilità e sicurezza. Le rocce sono rifugio per gli iraci ( Sal 104,18 ). E veramente dove vi può essere sicuro e stabile riposo per gli infermi se non nelle piaghe del Salvatore? Tanto più sicuro là abito, quanto più egli è potente nel salvare. Freme il mondo, preme il corpo, tende insidie al diavolo; non cado; sono infatti fondato sulla roccia. Ho commesso un grave peccato, si turberà la coscienza, ma non si abbatterà, perché mi ricorderò delle piaghe del Signore. Infatti Egli è stato trafitto per i nostri delitti ( Is 53,5 ). Chi è talmente affetto da male mortale che non possa essere salvato dalla morte di Cristo? Se dunque mi verrà alla mente una medicina così potente ed efficace, nessuna malattia, per quanto maligna, mi farà paura. 4. È perciò chiaro che ha sbagliato colui che ha detto: la mia iniquità è troppo grande perché io meriti il perdono ( Gen 4,13 ). Sennonché egli non era delle membra di Cristo, né lo riguardavano i meriti di Cristo, in modo da poter dire suo quello che era di lui, come membra del capo. Io invece con fiducia prendo per me dalle viscere del Signore quanto mi manca, perché abbondano in misericordia, né mancano le fenditure per cui possano scorrere fino a me. Hanno forato le sue mani e i suoi piedi, hanno squarciato il fianco con la lancia, e attraverso queste fessure io posso succhiare il miele della pietra e l’olio del durissimo sasso, cioè gustare e vedere com’è soave il Signore. Egli nutriva pensieri di pace e io non lo sapevo. Chi infatti conosce i sentimenti del Signore, o chi fu suo consigliere? ( Ger 29,11 ). Ma il chiodo penetrando, fu per me come una chiave che mi ha aperto perché io vedessi la volontà del Signore. Come non avrei potuto vedere, attraverso quella ferita? Grida il chiodo, grida la piaga che veramente in Cristo c’è Dio che riconcilia a sé il mondo. Il ferro trapassò la sua anima, e si avvicinò al suo cuore ( Sal 105,18 ) perché ormai non possa più non compatire alle mie debolezze. È aperto l’ingresso al segreto del cuore per le ferite del corpo, appare quel grande sacramento della pietà, appaiono le viscere di misericordia del nostro Dio, per cui ci visitò dall’alto un sole che sorge ( Lc 1,78 ). Che cosa appare attraverso le piaghe, se non le viscere? In che cosa poteva risplendere più chiaro che Tu, o Signore, sei soave e mite e di grande misericordia ( Sal 86,5 ) che nelle tue piaghe? Nessuno infatti ha una compassione più grande di colui che dà la sua vita per gli schiavi e i condannati. 5. Il mio merito, pertanto, è la misericordia del Signore. Non sono privo di meriti fino a che egli non lo è di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte, anche i miei meriti sono molti. Che importa se ho coscienza di molti delitti? Dove abbondarono i delitti, sovrabbondò anche la grazia ( Rm 5,20 ). E se la misericordia del Signore è da sempre e dura in eterno ( Sal 103,17 ), anch’io canterò in eterno le misericordie del Signore ( Sal 89,1 ). Si tratta di giustizie mie? Signore, ricorderò che tu solo sei giusto ( Sal 71,16 ). Ma la tua giustizia è anche mia in quanto tu ti sei fatte per me giustizia per opera di Dio. Ho forse da temere che una sola giustizia non basti per entrambi? Non é essa un mantello corto, che secondo il Profeta non sia sufficiente a coprire due. La tua giustizia dura in eterno ( Sal 119,142 ). Che cosa è più lungo dell’eternità? Coprirà abbondantemente te e me una giustizia larga ed eterna. E in me copre la moltitudine dei peccati; in te poi, o Signore, che cosa nasconde, se non tesori di pietà e ricchezze di bontà? Queste nelle fenditure della roccia sono riposte per me. Quanto è grande la moltitudine della tua dolcezza in esse ( 2 Cor 1,5 ) coperte tuttavia per quelli che periscono! Perché, infatti, dare le cose sante ai cani, e le perle ai porci? A noi invece le ha svelate Dio per mezzo del suo spirito ( 1 Cor 2,10 ) e per l’apertura delle piaghe ci ha introdotti nel santuario. Quale grande dolcezza in ciò, quale pienezza di grazia, quale perfezione di virtù! 6. Andrò per me a quella dispensa così ben fornita, e, ascoltando il monito del Profeta, lascerò la città e andrò ad abitare sulla roccia. Sarò come colomba che fa il nido in cima all’apertura della fenditura, affinché con Mosè posto nella spaccatura della roccia, passando il Signore, meriti almeno di vedere il suo dorso. Poiché chi potrà veder la sua faccia da fermo, cioè lo splendore dell’immutabile, se non colui che meritò di essere introdotto non solo nel santo, ma nel santo dei santi? III. Dorso del Signore sono le ferite di Cristo, cioè le fessure della roccia; in esse abita la colomba Del resto non è cosa da poco contemplare il dorso del Signore. Questo disdegni pure Erode; io tanto meno lo disdegno quanto più il Signore si mostrò a Erode degnò di disprezzo. Ha qualche cosa il dorso del Signore, che è bello a vedersi. Chi sa se si volti il Signore, e perdoni, e lasci dietro a sé una benedizione? Sarà quando mostrerà la sua faccia, e saremo salvi. Ma frattanto ci prevenga con dolci benedizioni, quelle che è solito lasciare dietro a sé. Per ora ci mostri il dorso della sua degnazione, riservandosi di mostrarci più tardi nella gloria la faccia della sua dignità. Sublime nel regno, ma soave sulla croce. In questa visione mi prevenga, in quell’ultima mi riempirà. Mi riempirai di gioia alla tua presenza ( Sal 16,11 ). Entrambe le visioni sono salutari, entrambe soavi; ma una nella sublimità, l’altra nell’umiltà, una nello splendore, l’altra nel pallore. 7. E il suo dorso nel pallore dell’oro ( Sal 77,14 ). Come non impallidisce nella morte? Ma è meglio l’oro pallido che l’ottone lucente e ciò che è stolto di Dio è più sapiente degli uomini ( 1 Cor 1,25 ). Oro è il Verbo, oro è la sapienza. Quest’oro ha scolorito se stesso nascondendo la forma di Dio e mostrandosi con la forma di schiavo. Ha scolorito anche la Chiesa che dice: Non badate al fatto che sono scura, perché mi ha scolorita il sole ( Ct 1,5 ). Dunque anche il suo dorso è di oro pallido, perché non si vergognò dell’oscurità della croce, non ebbe orrore dell’ustione della passione, non rifuggì dal livore delle piaghe. Anzi si compiace in esse e brama che le sue ultime siano simili a queste! Perciò in fine si sente dire: Mia colomba nelle fessure della roccia, perché medita con tutta devozione le piaghe di Cristo, e con costante contemplazione abita in esse. Di qui la pazienza nel martire, di qui la sua grande fiducia nell’Altissimo. Non ha nulla da temere il martire che leva il suo volto esangue e livido verso di lui, dalle cui lividure è stato sanato, imitandone la gloriosa morte, veramente nel pallore dell’oro. Che ha da temere, mentre gli viene detto dal Signore: Mostrami il tuo volto? Per quale ragione? A mio parere vuole piuttosto farsi vedere lui. È così: vuole essere veduto, non vedere. Che cosa infatti c’è che egli non veda? Non c’è bisogno che uno si mostri dal momento che egli vede tutto, anche se uno volesse nascondersi. Vuole dunque essere veduto, vuole il duce benigno, che il volto e gli occhi del devoto soldato si levino alle sue piaghe, per sollevare così l’animo suo e con il suo esempio renderlo più forte nel sopportare. 8. Poiché guardando le piaghe di lui non sentirà le sue. Ecco il martire tripudiante e trionfante, sebbene abbia tutto il corpo lacero, e mentre il ferro gli penetra i fianchi non solo con fortezza ma con ardore vede ribollire il sacro sangue dalla sua carne. Dov’è allora l’anima del martire? È al sicuro, cioè nella pietra, nelle viscere di Gesù, che con le ferite aperte invita ad entrarvi. Se l’anima del martire fosse nelle sue proprie viscere, certamente sentirebbe il ferro che le lacera, e non sopporterebbe il dolore e soccomberebbe rinnegando. Ma abitando nella pietra, che meraviglia c’è se è duro come la pietra? Ma non fa neppure meraviglia se, assente in qualche modo dal corpo, l’anima non sente i dolori del corpo. Questo è effetto non di insensibilità, ma di amore. Il senso viene sottomesso, non perso. Non manca il dolore, ma viene disprezzato. Dunque, dalla pietra deriva la fortezza del martire, da essa il martire ottiene di essere forte nel bere il calice del Signore. E come è splendido questo calice inebriante! Splendido dico, e giocondo, non meno a Cristo che guarda quanto al soldato trionfante. Il gaudio infatti del Signore è la nostra fortezza ( Esd 8,10 ). Come non godrà alla voce di una fortissima confessione? E la cerca anche con desiderio: Risuoni, dice, la tua voce alle mie orecchie ( Ct 2,14 ). Né tarderà a dare il contraccambio, secondo la sua promessa: non appena uno lo avrà confessato davanti agli uomini, lo riconoscerà anche lui davanti al Padre suo. Interrompiamo il sermone; non può finire ora perché non rispetteremmo i limiti se volessimo abbracciare in questo solo sermone quanto ci rimane da dire su questo capitolo. Quello che resta, dunque, lo riserviamo al principio del prossimo sermone, perché della nostra parola e della nostra misura goda lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXII I. Che cosa è la « maceria », o quali le sue aperture nelle quali dimora la colomba 1. Mia colomba nelle fenditure della roccia, nelle aperture della maceria. La colomba ha trovato rifugio non solo nelle fenditure della roccia, ma anche negli anfratti della maceria. Che se per « maceria » intendiamo non una congerie di pietre, ma la comunione dei santi, vediamo se per aperture della maceria abbia voluto intendere luoghi lasciati vuoti dagli angeli che sono decaduti a causa della superbia, e che devono essere occupati dagli uomini, come rovine da restaurarsi con pietre vive. Per questo dice l’Apostolo Paolo: Stringendovi a lui pietra viva, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale ( 1 Pt 2,4-5 ). Né penso sia fuori luogo se diciamo che la custodia degli angeli tiene il posto della maceria nella vigna del Signore, che è la Chiesa dei predestinati, dicendo san Paolo: Non sono essi tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza? ( Eb 1,14 ). E il Profeta: L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva ( Sal 34,8 ). E se è così starà bene quel senso, perché due cose consoleranno la Chiesa nel tempo del suo pellegrinaggio: riguardo al passato, la memoria della passione di Cristo, e riguardo al futuro il fatto che pensa e ha fiducia di essere ammessa nell’assemblea dei Santi. Essa considererà queste due cose quasi fosse dotata di occhi davanti e di dietro, con insaziabile desiderio; e la vista delle due cose, molto piacevole, le serve di rifugio nei mali e nel dolore. Piena consolazione quando non solo sa cosa debba aspettarsi, ma anche da chi lo aspetta. Attesa senza dubbi, che è garantita dalla morte di Cristo. Come può aver dubbi per la grandezza del premio, quando considera la dignità del prezzo? Con quale gioia guarda con la mente le fenditure per le quali è scaturito il prezzo del sangue sacrosanto! Con quale gioia passa per gli anfratti della maceria, vede le stanze e i posti che sono molti e diversi nella casa del Padre, nei quali deve collocare i suoi figli secondo la diversità dei loro meriti! E per ora, unica cosa che può fare, riposa in essi con la sola memoria, rivestendo già con l’animo il celeste abitacolo che viene di lassù. Avverrà poi che abiterà le rovine quando abiterà con il corpo e con la mente le aperture della maceria; quando illustrerà con la sua universale presenza quei domicili vuoti che gli antichi abitatori hanno abbandonato, né vi apparirà più anfratto alcuno nella celeste maceria, che godrà anch’essa di essere reintegrata e ritornata perfetta. II. L’anima si fa queste aperture nella « maceria » degli angeli e si scava la roccia, cioè Cristo, sull’esempio di Paolo e di Davide 2. Oppure, se meglio ti garba, diremo che queste caverne non vengono trovate, ma fatte dalle menti studiose e pie. In che modo? Chiedi. Con il pensiero e il desiderio. Cede infatti come una materia fragile la pia maceria al desiderio dell’anima, cede alla pura contemplazione, cede alla frequente orazione. L’orazione del giusto, infatti, penetra i cieli ( Sir 35,21 ). Non le altezze di questa aria materiale, non con l’aiuto delle ali, come gli uccelli che fendono l’aria volando, o perforerà come una acuta spada la volta solida ed eccelsa del firmamento; ma si tratta dei cieli santi, vivi, razionali, che narrano la gloria di Dio, i quali, mossi da pietà in nostro favore si inclinano volentieri ai nostri voti, e come aprendoci il seno al contatto dei sentimenti della nostra devozione, ci ricevono nelle loro viscere ogni volta che bussiamo con degna intenzione alla loro porta. A chi bussa, infatti, verrà aperto ( Mt 7,8 ). Ognuno di noi, pertanto, potrà, anche nel tempo della nostra vita mortale, scavarsi un’apertura in qualsiasi parte vorrà della celeste maceria: e ora visitare i Patriarchi, ora salutare i Profeti, ora mescolarsi al senato degli Apostoli, ora inserirsi ai cori dei Martiri; esaminare passando con tutto l’ardore della mente le condizioni e le mansioni delle beate Virtù, dal minimo degli Angeli fino ai Cherubini e Serafini, quanto comporterà la sua devozione. Da quelli che più lo colpiranno secondo l’azione dello Spirito che agisce come vuole, se si fermerà e busserà subito gli sarà aperto, e fattasi come una caverna nei monti, o piuttosto nelle menti sante, mentre esse si piegano per fargli posto mosse dalla pietà, potrà riposarsi un poco presso di loro. Ogni anima che fa in questo modo ha un volto e una voce che piace a Dio. Volto per la purità, voce per la confessione. La confessione infatti e la bellezza sono davanti a Lui ( Sal 96,6 ). Perciò viene detta colei che è così: Mostrami il tuo volto, risuoni nelle mie orecchie la tua voce. Voce è l’ammirazione nell’animo del contemplante, voce è pure il ringraziamento. Si compiace molto di queste caverne Iddio, dalle quali risuona la voce del ringraziamento, la voce di ammirazione e di lode. 3. Felice la mente che si applica a scavarsi un posto di frequente in questa maceria, ma più felice quella che lo scaverà nella pietra! Si può infatti scavare anche nella pietra, ma per questo ci vuole la punta di una mente più pura e una intenzione più forte, e anche dei meriti più grandi. E chi mai è all’altezza di questi compiti? ( 2 Cor 2,16 ). Certo colui che disse: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio; questo era in principio presso Dio ( Gv 1,1-2 ). Non ti sembra che si sia immerso negli stessi penetrali del Verbo, e dall’intimo del suo petto abbia scavato il midollo sacrosanto della intima sua sapienza? Che cosa dire di colui che parlava tra i perfetti la sapienza nascosta nel mistero che nessuno dei principi di questo mondo conobbe. E dopo aver con pia curiosità trapassato il primo e il secondo cielo, non ha forse questo pio scrutatore spinto questa sua curiosità fino al terzo? Ma questa sapienza non l’ha tenuta celata a noi, parlandone fedelmente ai fedeli con le parole che poté. Ma ascoltò parole ineffabili che non poté ripetere agli uomini, potendole usare solo nel colloquio tra sé e Dio. Pensa dunque che Dio consoli la sollecita carità di Paolo, e gli dica: perché ti preoccupi perché l’umana intelligenza non comprende i tuoi concetti? Risuoni la tua voce alle mie orecchie. Vale a dire: « Se quello che provi non riesci a rivelarlo ai mortali, consolati, perché la tua voce può essere gradita alle divine orecchie ». Vedi come la santa anima ora ha per noi una sobria carità, ora una carità estatica per Dio. Vedi anche a riguardo del santo Davide, che non sia lui stesso l’uomo che parla a Dio come se si trattasse di un altro: Poiché il pensiero dell’uomo ti darà gloria, e il resto del pensiero ti farà festa ( Sal 76,11 ). Dunque, poiché con la parola e l’esempio del Profeta il suo pensiero profetico poteva esser conosciuto, subito il Profeta ne faceva una pubblica confessione, e ne traeva materia per lodare il Signore tra il popolo, riservando il resto del pensiero a sé e a Dio, facendo festa con lui nella letizia e nell’esultanza ( Sal 45,16 ). Questo volle significarci con il citato versetto. Di tutto quello, cioè, che quel suo pensiero avido di scrutare riusciva a scavare dal segreto della sapienza, ne impartiva la parte che poteva per la salvezza dei popoli mediante una sollecita predicazione; il resto, che la gente non poteva comprendere, lo impiegava con festoso giubilo nelle divine lodi. Vedi come la santa contemplazione utilizza tutto, e tutto quello che non può essere impiegato per l’edificazione dei popoli può diventare molto bene gioconda e bella lode a Dio ( Sal 147,1 ). III. I due generi della contemplazione della maestà divina; chi è che viene schiacciato dalla visione della gloria e chi no 4. Stando così le cose, ne deriva che vi sono due generi di contemplazione: uno circa lo stato, la felicità e la gloria della città celeste, che cosa faccia o come sia il riposo di quella immensa moltitudine di celesti cittadini, l’altro circa la stessa maestà del Re, la sua eternità, la sua divinità. Il primo nella maceria, l’altro nella roccia. Ma quest’ultima specie di contemplazione, quanto è più difficile da scavarsi, altrettanto quello che scavi è più dolce e saporoso. Né temere la minaccia della Scrittura per coloro che scrutano la maestà. Porta solo un occhio puro e semplice; non sarai oppresso dalla gloria, ma vi sarai ammesso, a meno che non cerchi la gloria di Dio, ma la tua. Diversamente uno viene oppresso dalla sua propria gloria, non da quella di Dio, mentre tendendo a questa sua gloria non gli lascia alzare la testa a quella di Dio, in quanto resa pesante dalla cupidigia. Liberiamoci da questa e scaviamo nella Pietra nella quale sono nascosti i tesori della sapienza e della scienza. Se ancora dubiti, ascolta la stessa Pietra: Quelli che per me operano non peccheranno ( Sir 24,30 ). Chi mi darà ali come di colomba, perché possa volare e riposarmi? ( Sal 55,7 ). Là trova riposo il mansueto e il semplice, mentre invece chi ha l’inganno nel cuore viene schiacciato, come il superbo e colui che è avido di vanagloria. La Chiesa è colomba, e perciò riposa. Colomba perché innocente, perché geme. Colomba, dico, che nella mansuetudine accoglie la parola seminata in lei. E riposa nel Verbo, cioè nella Pietra, poiché la pietra è il Verbo. La Chiesa è, dunque, nelle fenditure della roccia, attraverso le quali guarda dentro e vede la gloria del suo Sposo; né tuttavia viene oppressa da questa gloria, perché non la usurpa per sé. Non viene schiacciata perché non è scrutatrice della maestà, ma della volontà. Poiché, per quanto riguarda la maestà, ogni tanto osa fissare in essa lo sguardo, ma come per ammirare, non per scrutare. E se talvolta capita di venire rapiti in estasi nella contemplazione di essa, è questo l’effetto del dito di Dio che eleva l’uomo, non temerità dell’uomo che cerca di invadere insolentemente i segreti di Dio. L’Apostolo, infatti, quando ricorda di essere stato rapito, quasi si scusa di aver osato tanto; chi altro mai dei mortali presumerebbe con propri sforzi di intricarsi con importuna contemplazione e orrenda investigazione della divina maestà e irrompere nei divini arcani? Gli scrutatori, pertanto, della maestà, penso si possano dire quelli che irrompono, non quelli che sono rapiti in essa, ma irrompono in essa. Costoro, si, vengono schiacciati dalla gloria. 5. È, dunque, cosa da temere lo scrutare la maestà; ma scrutare la volontà è cosa sicura e pia. Perchè non dovrei insistere con somma diligenza nello scrutare il mistero della gloria della volontà alla quale so di dovermi sottomettere in tutto? Soave gloria, che procede dalla contemplazione della soavità di lui, e dalla vista delle ricchezze della sua bontà e della sua grande misericordia. Infine abbiamo visto questa gloria, gloria come dell’Unigenito del Padre ( Gv 1,14 ). È, infatti, tutto benignità e veramente paterno quello che apparve della gloria in questa parte. Non mi opprimerà questa gloria, anche se fisso lo sguardo in essa con tutte le forze. Io piuttosto mi imprimerò in essa. Infatti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore ( 2 Cor 3,18 ). Siamo trasformati quando siamo conformati. Non certo nella gloria della maestà, ma presuma modestamente l’uomo la conformità con la volontà di Dio. La mia gloria è questa, se giungerò a udire di me: « Ho trovato un uomo secondo il mio cuore ». Cuore dello Sposo, cuore del Padre suo. Quale? Dice: Siate misericordiosi, come il vostro Padre è misericordioso ( Lc 6,36 ). Questa è la forma che desidera vedere mentre dice alla Chiesa: Mostrami il tuo volto, forma di pietà e di mansuetudine. Questo volto leva con tutta fiducia alla Pietra, alla quale assomiglia. Accostatevi a Lui e sarete raggianti, e i vostri volti non saranno confusi ( Sal 34,6 ). Come potrà l’umile essere confuso dall’umile, la santa dal pio, la modesta dal mansueto? Non avrà troppa paura della purità della Pietra il volto puro della sposa, non più che la virtù avrà da temere dalla virtù e la luce dalla luce. IV. La Chiesa abita nella roccia nei fedeli perfetti, nella « maceria » nei meno perfetti, in terra in una fossa a causa degli infermi. A chi dice: « Mostrami il tuo volto, risuoni la tua voce ecc. » 6. Ma siccome per il momento la Chiesa non è ancora in grado da ogni parte di accedere a forare la pietra non è infatti di tutti quelli che sono nella Chiesa esaminare i segni della divina volontà, o apprendere da se stessi le profondità di Dio perciò viene detto che abita non solo nelle fenditure della pietra, ma anche nelle buche della maceria. Dunque, nei perfetti che ardiscono scavare e penetrare con una coscienza pura e con l’acume dell’intelligenza gli arcani della sapienza, abita nelle fenditure della roccia. Per il rimanente abita negli anfratti della maceria, affinché coloro che, o non possono da se stessi scavare nella pietra, o non ardiscono farlo, scavino nella maceria, contenti di contemplare almeno la gloria dei santi. Se a qualcuno neppure questo è possibile, a questi propone Gesù crocifisso, perché anch’egli senza sua fatica abiti nelle fenditure della Pietra per scavare le quali non ha faticato. I Giudei hanno fatto questo lavoro, ed egli entrerà nel lavoro degli infedeli per essere fedele. Né vi è da temere che incontri una ripulsa, perché è stato chiamato per entrare: Entra tra le rocce, dice Isaia, nasconditi nella fossa di fronte al timore che desta il Signore, allo splendore della sua maestà ( Is 2,10 ). All’anima ancora inferma e inerte che, come confessa quel tale nel Vangelo, non ha la forza per scavare e si vergogna di mendicare, viene mostrata una fossa scavata nella terra dove stia nascosta, fino a che guarisca e progredisca, e possa poi anch’essa da sé scavarsi dei buchi nella pietra per i quali penetrare nell’intimo del Verbo, mediante il vigore e la purezza dell’anima. 7. E se per terra scavata intendiamo quella di cui è detto: Hanno forato le mie mani e i miei piedi ( Sal 22,17 ), non c’è da dubitare che l’anima ferita che dimorerà in essa, acquisterà presto la salute. Che cosa vi è infatti di più efficace per curare le ferite della coscienza e purificare la punta della mente, quanto l’accurata meditazione delle piaghe di Cristo? Tuttavia fino a che sia completamente purgata e risanata, non vedo come le possa convenire quello che è detto: Mostrami il tuo volto, risuoni nelle mie orecchie la tua voce. Come del resto oserebbe mostrare il suo volto e levare la sua voce colei alla quale si dice di starsene nascosta? Nasconditi in una buca della terra ( Is 2,10 ). Perché? Perché il tuo volto non è bello né degno di essere veduto. Non sarà degno di essere veduto fino a che non sarà in grado di vedere. Quando poi per il soggiorno nella fossa di terra avrà progredito nel sanare l’occhio interiore in modo da poter anch’essa contemplare a faccia scoperta la gloria di Dio, allora essa potrà ormai dire con fiducia quello che vedrà, divenuta gradita quanto alla voce e al volto. È necessariamente gradito il volto che può fissare lo splendore di Dio. Non sarebbe infatti in grado di farlo se non fosse esso stesso splendente e puro, trasformato cioè in quella stessa immagine di splendore che contempla. Diversamente con la stessa dissomiglianza si tirerebbe indietro come folgorato da insolito fulgore. Dunque, quando l’anima pura potrà intuire la pura verità, allora lo Sposo bramerà vedere il suo volto, e per conseguenza udire la sua voce. 8. Quanto infatti gli piaccia la predicazione della verità fatta con purezza di mente, lo mostra subito dopo dicendo: Perché la tua voce è soave. E dimostra che non gli piace la voce se gli dispiace la faccia, soggiungendo subito: E il tuo volto è leggiadro ( Ct 2,14 ). Qual è l’interno decoro del volto se non la purità? In molti questa piacque senza la voce della predicazione; in nessuno invece piacque la voce senza il volto leggiadro. Agli impuri la verità non si mostra, non si dona la sapienza. Che cosa dicono, dunque, se non videro? Noi parliamo di quel che sappiamo, e testimoniamo quello che abbiamo veduto, dice ( Gv 3,11 ). Va’ dunque tu, e testimonia, se lo sai, quello che non hai veduto, e parla di cose che ignori. Chiedi chi io chiamo impuro? Colui che va in cerca di lodi umane, che non predica gratuitamente il Vangelo, che evangelizza per mangiare, chi fa della pietà un mercato, chi non bada al frutto, ma a quello che gli si dà. Tali sono gli impuri. E quelli che non sono in grado dì vedere la verità a causa della loro impurità, hanno tuttavia modi di predicarla. Perché agite così in fretta, perché non aspettate la luce? Perché presumete di compiere l’opera della luce prima della luce? Invano vi alzate prima della luce ( Sal 127,2 ). Luce è la purità, luce è la carità, che non cerca il proprio interesse. Questa preceda, e il piede della lingua non si poserà sul mal sicuro. Con occhio superbo non si vede la verità, questa si manifesta a chi è schietto. La verità non trova difficoltà per manifestarsi al cuore mondo, né per essere predicata da esso. Ma al peccatore dice Dio: perché vai ripetendo i miei decreti, e hai sempre in bocca la mia alleanza? ( Sal 50,16 ). Molti, trascurando la purità, hanno cercato di parlare prima di vedere, e o errarono gravemente, non sapendo di che cosa parlassero o che cosa affermassero, o si resero vergognosamente vili, insegnando agli altri ciò che essi non avevano imparato. Da questo doppio male ci preservi sempre per le vostre preghiere lo Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXIII I. La vigna che le volpi distruggono 1. Prendeteci le volpi piccoline che guastano le vigne perché la nostra vigna è in fiore ( Ct 2,15 ). Si vede che non si è andati inutilmente alle vigne, poiché si sono trovate le volpi che le guastano. Questo dice la lettera. Che cosa ci fa intendere lo spirito? Anzitutto dobbiamo rifiutare assolutamente in questo commento il senso usuale e comune della lettera, come inadatto e insulso e assolutamente indegno di essere inteso nella Scrittura, così santa, così autentica. A meno che uno sia talmente insensato e stolto di animo da stimare gran cosa l’aver appreso da essa, come i figli di questo secolo, ad aver cura dei terreni possedimenti, a custodire e difendere le vigne dall’invasione di bestie, perché non si abbia a perdere il frutto del vino, nel quale è la lussuria, e vada nello stesso tempo sprecato il lavoro e la spesa. Grande danno, per cui leggiamo con tanto amore e venerazione il Sacro Libro, per essere edotti da esso a custodire le vigne dalle volpi, affinché nel coltivarle non si svuotino le nostre borse, se saremo stati pigri nella loro custodia. Voi non siete talmente rozzi, né talmente privi di grazia spirituale per avere tali carnali sentimenti. Dunque, cerchiamo per queste cose un senso spirituale. Ritroveremo saggiamente intese e in senso degno sia le vigne fiorite, sia le volpi che le saccheggiano, e un più degno lavoro e più fruttuoso nel catturarle o allontanarle. Dubitate forse voi che si debba essere molto più vigilanti nel preservare le menti che nel difendere i raccolti, e che si debba essere molto più attenti per tener lontane dalle anime le spirituali nequizie che non nel catturare le astute piccole volpi per difendere i raccolti? 2. Ma ora tocca a me dimostrare che cosa siano sia queste viti che queste volpi spirituali. Sarà vostro interesse che ciascuno provveda alla sua propria vigna, quando ascoltando le mie parole avvertirà in che cosa e da che cosa debba soprattutto guardarsi. Per l’uomo sapiente è una vigna la sua vita, la sua mente, la sua coscienza. Il sapiente, invero, non lascerà in sé nulla di incolto o di deserto. Non così lo stolto: tutte le cose troverai presso di lui trascurate, tutte abbandonate, incolte e sporche. Non c’è vigna per lo stolto. Come potrebbe essere tale dove nulla è piantato, nulla appare in qualche modo lavorato? La vita dello stolto è tutta una selva di triboli e spine; che razza di vigna sarebbe questa? Anche se lo è stata non lo è più ora, ridotta com’è in desolazione. Dov’è la vite della virtù? Dove il grappolo delle opere buone? Dove il vino della spirituale letizia? Sono passato per il campo dell’uomo pigro, dice, e per la vigna di un uomo insensato: ecco, ovunque erano cresciute le ortiche e il terreno era coperto di spine, e la maceria intorno era rovinata ( Pr 14,30-31 ). Senti come il sapiente canzona lo stolto perché ha ridotto, trascurandola, in non vigna la sua primitiva vigna, cioè i beni di natura e i doni di grazia che aveva forse ricevuto per il lavacro di rigenerazione, come appunto una vigna piantata da Dio, e non dall’uomo. Infine, non ci può essere vigna dove non c’è vita. Poiché quella che vive lo stolto la riterrei piuttosto morte che vita. Come infatti si può conciliare la vita con la sterilità? Una pianta secca e che non dà più frutto non viene forse giudicata morta? E anche i sarmenti sono morti. Uccise con la grandine le loro vigne ( Sal 78,47 ), dimostrando prive di vita quelle che erano condannate alla sterilità. Così lo stolto, per il fatto che vive inutilmente, pur vivendo è morto. II. Soltanto il sapiente ha la vigna, la vite, il palmizio, il vino; quali sono le volpi che la distruggono e come sono catturate 3. Solo, pertanto, il sapiente ha veramente, o piuttosto, è veramente vigna. Egli è una pianta che produce frutto nella casa di Dio, e per questo pianta vivente. Infatti, la sapienza stessa per la quale vien detto ed è sapiente è albero della vita per chi la possiede. Come non sarebbe vivo colui che la possiede? Vive, ma di fede. E se l’anima del giusto è sede della sapienza ( Rm 1,17 ), davvero è sapiente colui che è giusto. Costui, dunque, sia che lo chiami giusto, sia sapiente, non vive mai senza vigna, perché sempre vive. Per lui la vigna è come la vita. E buona è la vigna del giusto; anzi, buona vigna il giusto, per il quale la virtù è come vite, le sue azioni tralci, e per il quale il vino è la testimonianza della coscienza, a cui la lingua serve come torchio di espressione. La nostra gloria è questa, dice, la testimonianza della nostra coscienza ( 2 Cor 1,12 ). Vedi come nel sapiente nulla è trascurato? Le parole, il pensiero, la condotta e tutto quello che lo riguarda, non è tutto campo coltivato di Dio, casa di Dio e vigna del Signore degli eserciti? E che cosa per lui può andare a male di lui stesso, quando le sue foglie non cadranno mai? ( Sal 1,3 ). 4. Del resto, a una tale vigna non mancheranno mai infestazioni o insidie. Davvero dove sono molti beni, molti sono quelli che ne mangiano ( Sir 5,10 ). Il sapiente sarà sollecito nel preservare la sua vigna non meno che nel coltivarla, né permetterà che la divorino le volpi. Pessima volpe è l’occulto detrattore, ma non meno cattivo è il blando adulatore. Il sapiente si guarderà da costoro. Si adopererà per quanto è in lui a prendere quelli che così agiscono, ma a prenderli con i benefici e i servizi, con salutari ammonimenti e orazioni per loro a Dio. Non cesserà così di accumulare sul capo del maldicente carboni ardenti, e così sulla testa dell’adulatore, fino a che non riesca a togliere, se è possibile, dal cuore di quello l’invidia, e da questo la simulazione, mettendo così in pratica il comando dello Sposo che dice: Prendeteci le volpi piccoline che guastano le vigne. Non ti sembra forse preso colui che, soffuso di rossore, in quanto si vergogna del suo giudizio, è testimonio della confusione e pentimento propri, sia che odiasse un uomo degnissimo, sia che amasse solo con la lingua e a parole colui dal quale ha avuto prova di essere amato con le opere e in verità? Preso davvero, e preso per il Signore, secondo che ha detto chiaramente: Prendeteci. Oh! Potessi io prendere così tutti quelli che mi avversano senza motivo, per acquistarli, o restituirli a Cristo! Così, così siano confusi e coperti di ignominia quelli che attentano alla mia vita, retrocedano e siano umiliati quelli che tramano la mia sventura ( Sal 35,4 ), in quanto sia anch’io trovato obbediente allo sposo, e prenda anch’io le volpi, non per me, ma per lui. Ma ritorni il sermone al suo principio, perché la serie delle spiegazioni proceda secondo il suo ordine. 5. Prendeteci le volpi piccoline che guastano le vigne. III. I frutti della vigna; i novizi sono i fiori; che cosa questi fiori devono temere Questo è un passo morale, e secondo la disciplina morale abbiamo già mostrato che queste vigne spirituali non sono altro che gli uomini spirituali, dei quali essendo tutte le cose interiori coltivate, e tutte germoglino e facciano frutto, producendo spirito salutare, come fu detto del Regno di Dio, così di queste vigne ugualmente del Signore degli eserciti, possiamo dire che sono dentro di noi. Si dice poi nel Vangelo che il regno sarà dato a un popolo che gli farà produrre frutti. Questi sono quelli che Paolo enumera dicendo: Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, continenza, castità ( Gal 5,22-23 ). Questi frutti sono i nostri profitti. Questi sono accetti allo Sposo, perché di noi Egli ha cura. Ma degli arbusti si cura Iddio? Il Dio-Uomo ama gli uomini e non gli alberi, e i nostri profitti li considera frutti suoi. Osserva con diligenza il loro tempo; si rallegra quando appaiono, ed è sollecito perché non vadano perduti per noi una volta apparsi, anzi, perché non vadano perduti per lui: si considera, infatti, come uno di noi. Perciò provvede a che siano catturate per sé le piccole volpi che tendono insidie per portarsi via esse i novelli frutti. Prendeteci, dice, le volpi piccoline che guastano le vigne. E quasi uno gli dicesse: « Ti preoccupi troppo presto, non è ancora venuto il tempo dei frutti », « Non è così risponde già la nostra vigna è in fiore. Dopo i fiori non tardano i frutti: appena quelli cadono, spuntano questi e si fanno subito vedere ». 6. Questa parabola riguarda questo nostro tempo. Vedete questi novizi? Sono da poco venuti, da poco si sono convertiti. Non possiamo dire di essi che la nostra vigna ha fiorito; fiorisce infatti ora. Per il momento, quello che vedete apparire in essi è un fiore, il tempo dei frutti non è ancora venuto. È un fiore la nuova vita, fiore il tenore recente di una condotta più morigerata, hanno messo una faccia disciplinata e una compostezza in tutto il corpo. Fanno piacere, lo confesso, queste cose che colpiscono l’occhio; è più trascurato l’esterno culto del corpo e degli abiti, la parola è più rara, il volto più ilare, lo sguardo più modesto, l’incesso più grave. Ma poiché hanno cominciato ad essere così da poco, per la loro stessa novità sono da ritenersi fiori e speranza di frutti più che non già frutti. Per voi, figlioli, non abbiamo timore dell’astuzia delle volpi, che insidiano più i frutti che non i fiori. Il vostro pericolo viene da altrove. Non temo che mi vengano rubati i fiori, ma che vengano bruciati, bruciati dal freddo. La tramontana mi è sospetta, e i freddi del mattino che sono soliti rovinare i fiori venuti fuori anzitempo, compromettendo il frutto. Dunque, dalla tramontana verrà il vostro male. Di fronte al suo gelo chi resiste? ( Sal 147,17 ). Questo freddo, una volta che ha pervaso un’anima, per sua incuria, come capita, e perché lo spirito sonnecchia, e in seguito non impedendolo alcuno, è pervenuto al suo intimo, ed è disceso in fondo al cuore e alla mente, e scossi i sentimenti avrà occupato le vie del consiglio, perturbato il lume del giudizio, condizionando la libertà di spirito, allora subito, come suole accadere nei febbricitanti, interviene una certa rigidezza dell’anima, il vigore si allenta, le forze sembrano illanguidirsi, l’austerità comincia a incutere terrore, il timore della povertà reclama, l’animo si stringe, viene sottratta la grazia, la vita sembra interminabile, la ragione si assopisce, lo spirito si spegne, diminuisce il fervore novizio, si fa più grave una fastidiosa tiepidezza, si raffredda l’amore fraterno, le passioni fanno sentire le loro lusinghe, svanisce la sicurezza, richiama l’abitudine. Che più? Si dissimula la legge, si rinunzia al dovere, si abbandona quello che è lecito, si lascia il timore del Signore. Infine, si dà mano all’impudenza: si ardisce fare quel temerario, quel vergognoso, quel salto assai turpe e pieno di ignominia e confusione dall’alto nell’abisso, dal palazzo nel letamaio, dalla reggia nella cloaca, dal cielo nella fogna, dal chiostro al secolo, dal paradiso all’inferno. Non appartiene a questo tempo dimostrare quale sia il principio e l’origine di questa peste, con quale arte si possa evitare, con quale virtù superare. Ora continuiamo quello che abbiamo cominciato. 7. Il discorso si può ritorcere ai più provetti e forti, alla vigna che già è fiorita, e che, anche se non ha da temere per i fiori a causa del freddo, i suoi frutti però non sono al sicuro dalle volpi. Si deve dire ben chiaro che cosa siano in senso spirituale queste volpi, perché si dicono piccole, perché sia comandato soprattutto di prenderle e di non scacciarle o ucciderle; si deve anche accennare ai diversi generi di queste bestie per maggior conoscenza e cautela di chi ascolta, non certo in questo sermone, per non renderlo noioso, e l’alacrità della nostra devozione si mantenga sempre nella grazia e nella confessione della gloria del grande Sposo della Chiesa, il Signore nostro Gesù Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXIV I. I diversi tipi di volpi, cioè di sottili tentazioni; ne indica quattro 1. Eccomi alla mia promessa: Prendeteci le volpi piccoline che guastano le vigne; poiché la nostra vigna è in fiore ( Ct 2,15 ). Le volpi sono le tentazioni. E chi sarà coronato se non chi avrà bene combattuto? O come combatteranno se non c’è chi li contrasti? Tu dunque, accingendoti al servizio di Dio, sta in timore e prepara l’anima tua alla tentazione, certo che tutti quelli che vogliono piamente vivere in Cristo subiranno persecuzione. Ora, le tentazioni sono di diversa specie, secondo le diversità dei tempi. Quando noi siamo agli inizi, come a teneri fiori di novella piantagione incombe l’evidente pericolo delle brinate, di cui abbiamo parlato nel sermone precedente e abbiamo avvertito i principianti di stare in guardia da questa peste. Riguardo ai proficienti, le forze avversarie non ardiscono opporsi apertamente ai loro sentimenti e propositi più santi, ma di solito tendono insidie di nascosto, quasi piccole volpi astute, sotto le apparenze di virtù, ma in realtà vizi. Quanti, per esempio, ho visto che erano entrati nella via della vita, progredivano di bene in meglio, e poi, ahimè, mentre camminavano bene e con passo sicuro progredendo nei sentieri della giustizia, li ha veduti in malo modo soppiantati dall’inganno di queste volpi, e piangere troppo tardi per i frutti delle virtù in se stessi soffocati! 2. Ho visto un uomo che procedeva molto bene; ed ecco un pensiero; non fu forse una piccola volpe? « A quanti, fratelli, parenti e conoscenti, se fossi al mio paese potrei comunicare il bene di cui godo qui solo! Mi vogliono bene, e facilmente si lasceranno persuadere: Perché questo spreco? ( Mt 26,8 ). Vado là, salvo molti di loro, me con loro. Né ho da temere per il cambiamento di luogo. Infatti, mentre faccio del bene, che importa dove lo faccio, dal momento che comunque sarà più abbondante dove il mio soggiorno è più fruttuoso? ». In breve, se ne va, e il misero perisce, non come un esule tornato in patria, ma come un cane tornato al vomito. E l’infelice perdE se stesso, senza guadagnare nessuno dei suoi. Ecco una piccola volpe, vale a dire quella speranza ingannatrice che ebbe di guadagnare i suoi. Anche tu puoi da te stesso trovare in te stesso molte altre simili a questa, se stai bene attento. 3. Vuoi che te ne mostri ancora una? Te ne mostrerò anche una terza e una quarta, se ti troverò pronto a prenderle qualora le trovi nella vigna. Ogni tanto a un tale che fa buoni progressi, quando gli capita di sentirsi irrorato con maggior profusione dalla grazia celeste, viene il desiderio di predicare, non ai parenti e ai vicini, secondo ciò che è scritto: Subito, senza dar ascolto alla carne e al sangue ( Gal 1,16 ), ma quasi fosse cosa più pura, più fruttuosa e coraggio sa, qua e là ad estranei, e a tutti. Con cautela tuttavia; egli teme in verità di incorrere nella maledizione del Profeta se nasconde al popolo quel frumento che ha ricevuto in segreto, e di agire contro il Vangelo se ciò che ha udito nell’orecchio non lo va a predicare sopra i tetti. È una volpe, e più nociva di quella di prima, quanto più occultamente si presenta. Ma io te la prendo. Per primo Mosè dice: Non attaccherai all’aratro il primogenito del bue ( Dt 15,19 ). Paolo, interpretando questo passo dice: Non un neofito, perché non accada che gonfiatosi di superbia cada nella condanna del diavolo ( 1 Tm 3,6 ). E di nuovo: Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio come Aronne ( Eb 5,4 ); e ancora lui: Come predicheranno, se non sono mandati? ( Rm 10,15 ). E sappiamo che l’ufficio del monaco non è di insegnare, ma di piangere. Da questi passi messi insieme mi faccio una rete e catturo la volpe, perché non rovini la vigna. Da questo detto appare chiaro e certo che al monaco predicare pubblicamente né conviene, né è utile al novizio, né è lecito a chi non ne ha avuto il mandato. Ora, agire contrariamente a queste tre cose, quale danno porta alla coscienza! Dunque, qualsiasi cosa di questo genere venga suggerita all’animo, sia che si tratti di un tuo pensiero, sia che sia suggestione del maligno, riconosci in essa la piccola volpe, doè un male sotto le apparenze di bene. 4. Ma vedine un’altra. Quanti dai monasteri, dove vivevano fervorosamente, sono passati alla solitudine dell’eremo, e poi o l’eremo li ha vomitati perché divenuti tiepidi, o li ha conservati, contro la legge dell’eremo, non solo rilassati, ma dissoluti; e così ci si è accorti che c’era stata una piccola volpe a causare un così grave danno alla vigna, cioè alla vita e alla coscienza di quegli uomini. Pensava, uno di questi tali, che se si fosse appartato a vivere in solitudine, avrebbe ricavato frutti molto più abbondanti, lui che nella vita comune aveva sperimentato tanta grazia spirituale. E il suo pensiero gli parve buono; ma il risultato dimostrò che quel suo pensiero era stato una volpe distruttrice. 5. Che è quello che tante volte inquieta così gravemente anche noi in questa casa, parlo dell’astinenza clamorosa e superstiziosa di alcuni con la quale si rendono molesti a tutti e tutti a se stessi? Non è forse questa stessa così generale discordia e lo sconquasso della coscienza di quei tali una rovina di questa grande vigna piantata dalla destra del Signore, vale a dire dell’unione e unanimità di tutti voi? Guai all’uomo per il quale viene lo scandalo! ( Mt 18,7 ). Chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli … ( Mt 18,6 ). È duro quello che segue. Quanto merita cose assai dure chi scandalizza una così grave e santa moltitudine! Chiunque sia quel tale subirà un giudizio durissimo. Ma di questo tratteremo altrove. II. Perché si comanda di catturare le volpi piuttosto che scacciarle, e perché sono dette piccole 6. Adesso invece badiamo a quello che dice lo Sposo riguardo a quei piccoli e astuti animali che rovinano le vigne. Piccoli, dirai, non per la malizia, ma per la loro sottigliezza. È questo, infatti, un genere astuto di animali, molto pronto a recar danno di nascosto; e a me sembra adattissimo a designare certi vizi sottilissimi camuffati da virtù, come quelli di cui ho fatto qualche cenno in breve, a mo’ di esempi. Né possono nuocere diversamente se non in quanto si presentano bugiardamente come virtù, prendendone l’apparenza. Sono pertanto o vani pensieri degli uomini, o suggestioni prodotte dagli Angeli cattivi, angeli di Satana, che si trasfigurano in Angeli di luce, che preparano le loro saette nella faretra, cioè di nascosto, per colpire nel buio i retti di cuore ( Sal 11,2 ). Perciò penso che per questo siano dette volpi piccole, perché mentre gli altri vizi si presentano con una certa vistosa mole, questa specie non si può facilmente conoscere a causa della sua sottigliezza, e perciò difficilmente si può guardarsene, tranne dai perfetti ed esercitati, e coloro che hanno gli occhi del cuore illuminati per discernere il bene dal male, e massimamente per discernere gli spiriti, i quali possono dire con l’Apostolo: « Non ignoriamo le astuzie di Satana, né le sue macchinazioni ». E vedi se non sia per questo che lo Sposo comanda non di sterminarle, o scacciarle, o ucciderle, ma di catturarle: perché, cioè, bisogna tener d’occhio queste spirituali astute bestiole con ogni vigilanza e cautela, esaminarle, e così prenderle, cioè comprenderle nella loro astuzia. Perciò quando appare l’imbroglio, quando si scopre la frode, quando si convince la falsità, molto bene allora si può dire presa una piccola volpe che danneggia la vigna. Infine, diciamo che un uomo è preso in parola, come trovi nel Vangelo che: I Giudei si radunarono per decidere di prendere Gesù in parola ( Mt 22,15 ). 7. Così dunque lo Sposo ordina che siano prese le piccole volpi che devastano le vigne, che cioè siano sorprese, convinte, svelate. Solo questa specie di bestie maligne ha questo di proprio, che, una volta conosciute, non nuocciono più, così che essere conosciute per esse equivale ad essere vinte. Chi mai infatti, se non un pazzo, avendo scoperto il laccio, a occhi aperti vi mette il piede? È sufficiente perciò che siano prese, dato che sono così: cioè che siano scoperte ed esposte alla luce, perché per esse apparire è come perire. Non così gli altri vizi: vengono allo scoperto, allo scoperto danneggiano, irretiscono quelli che ben li conoscono, vincono chi oppone resistenza, in quanto agiscono con la forza, non con l’inganno. Perciò contro queste bestie che attaccano apertamente non occorre investigare, ma è necessario usare subito il freno. Soltanto queste piccole volpi, dissimulatrici al massimo e che svelate non nuocciono più, basta portarle alla luce e prenderle nella loro astuzia: poiché hanno le tane. Questa è la ragione per cui viene dato ordine di prenderle, e perché vengono dette piccole. Oppure sono dette piccole perché, osservando con occhio vigile, tu prenda subito al primo nascere i vizi che spuntano, fino a che sono piccoli, per timore che, cresciuti, portino maggior danno e più difficilmente si possano eliminare. III. Gli eretici sono le volpi, e che cosa significhi catturarli o con quali mezzi lo sposo ci comanda di catturarli 8. E se, secondo l’allegoria, intendiamo per vigne le chiese, per volpi le eresie o piuttosto gli eretici stessi, il senso è semplice: gli eretici vengano presi piuttosto che scacciati. Siano presi, dico, non con le armi, ma con gli argomenti, con i quali siano confutati i loro errori; essi poi, se possibile, si riconcilino alla Chiesa Cattolica, siano richiamati alla vera fede. Questa, infatti, è la volontà di colui che vuole che tutti gli uomini si salvino e pervengano alla conoscenza della verità ( 1 Tm 2,4 ). Questo, infine, dichiara di volere lo Sposo, che non solo ha detto: « Prendete », ma « Prendeteci le volpi ». Per sé, dunque, e per la sposa sua, la Cattolica Chiesa vuole si acquistino queste volpi quando dice: « Prendetele per noi ». Un uomo, pertanto, di chiesa, esercitato e dotto, se viene a disputare con un eretico, deve mirare a questo: convincere l’errante in modo da convertirlo, pensando a quanto dice l’Apostolo Giacomo: Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati ( Gc 5,20 ). Che se quello ricuserà di convertirsi, né è convinto dopo la prima e la seconda ammonizione, come uno che è totalmente sovvertito, secondo l’Apostolo è da evitarsi. Da questo momento è meglio, almeno come io penso, che sia scacciato o isolato, piuttosto che permettere che porti pregiudizio alle vigne. 9. E pertanto, colui che ha vinto e convinto un eretico, confutato le sue eresie, distinguendo quello che è chiaramente e palesemente vero dal verosimile, che ha dimostrato con chiari ed invincibili argomenti la falsità di certe opinioni, stringendo con evidenti prove un’intelligenza traviata che si ergeva contro la scienza di Dio, non creda di aver faticato invano. Chi ha fatto tutte queste cose ha preso una volpe, anche se non con il risultato della sua salvezza; e l’ha presa per lo Sposo e per la sposa, sebbene in altro senso. Poiché, se l’eretico non si è risollevato dal suo errore, la Chiesa tuttavia ne è risultata confermata nella fede; e certamente lo Sposo si compiace dei vantaggi della Chiesa. È infatti gioia per il Signore la nostra fortezza ( Ne 8,10 ). E poi non considera estranei a sé i nostri profitti, lui che con tanta degnazione si associa a noi, mentre ordina di prendere le volpi non per sé, ma per noi e per lui insieme: Prendeteci, dice. Da notare quel « ci », per noi. Che parola più socievole di questa? Non ti sembra di sentire un padre di famiglia che non ha nulla esclusivamente per sé, ma tutto in comune con la moglie, i figli e i domestici? E chi parla è Dio; ma questo non lo dice come Dio, ma come Sposo. 10. Prendeteci le volpi. Vedi come parla socievolmente lui che non ha soci? Poteva dire: « Per me », ma preferì dire « per noi » facendogli piacere la nostra compagnia. O dolcezza! O grazia! O forza dell’amore! Così, dunque, il più grande di tutti si è fatto uno tra tutti? Chi ha fatto questo? L’Amore, dimentico della propria dignità, ricco di benevolenza, potente nell’affetto, efficace nel persuadere. Che cosa di più violento? L’amore trionfa di Dio. E tuttavia che cosa di meno violento? È l’Amore. Quale è questa forza così violenta per la vittoria e così vinta per la violenza? Ha annichilito se stesso perché tu sappia che fu effetto dell’amore se la sua pienezza si effuse, se la sua altezza si adeguò alla nostra piccolezza, se la sua singolarità si è associata. Con chi, o ammirabile Sposo, ha stabilito un così familiare consorzio? Prendete, dice, per noi. Per chi con te? Per la tua Chiesa radunata dai Gentili? Essa è stata raccolta da mortali, peccatori. Noi sappiamo chi essa è. Ma tu chi sei, così devoto, così ambizioso amante di questa Etiope? Certo non un altro Mosè, ma più che Mosè. Non sei tu colui che è bello tra i figli dell’uomo? ( Sal 45,3 ). Ho detto poco: tu sei il candore della vita eterna, splendore e figura della sostanza di Dio, infine sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXV I. I nuovi eretici, soprattutto i famosi Tolosani sono indicati dal nome delle volpi, che spergiurando tengono nascosto il nome della loro setta 1. Vi ho tenuto già due sermoni su uno stesso argomento; ve ne faccio un terzo se non vi sono troppo noioso. Penso che sia necessario, perché per quanto riguarda la nostra vigna domestica, che siete voi, mi sembra di aver detto abbastanza nei due precedenti sermoni per mettere in guardia contro le insidie di tre specie di volpi, che sono gli adulatori, i detrattori e certi spiriti seduttori specializzati nel far passare il male sotto pretesto di bene. Ma non così nella vigna del Signore. Parlo di quella che ha riempito la terra, della quale anche noi facciamo parte: vigna molto grande piantata dalla mano del Signore, comprata con il sangue, irrigata dalla parola, propagata dalla grazia, fecondata dallo Spirito. Prendendo, dunque, più cura del proprio, ho trascurato il comune. In suo favore sono ora mosso dalla moltitudine di coloro che la devastano, dal piccolo numero dei suoi difensori, dalla difficoltà di questa difesa. La difficoltà è costituita dal fatto che i nemici operano nell’ombra. La Chiesa, fin dall’inizo, ha sempre avuto delle volpi, ma presto furono scoperte e prese. L’eretico lottava apertamente infatti, di qui, si distingueva soprattutto l’eretico, che voleva pubblicamente vincere e soccombeva. Così, dunque, facilmente venivano prese quelle volpi. Che importava se, posta la verità in luce, l’eretico rimanendo nelle tenebre della sua ostinazione inaridiva relegato fuori solo? Tuttavia si reputava presa la volpe, mentre era condannata l’empietà e l’empio messo fuori. Non avrebbe vinto che in apparenza, ma senza frutto. Da allora, secondo il Profeta, le sue erano mammelle asciutte e sterile il suo ventre, perché l’errore pubblicamente confutato non ripullula, e la falsità messa in luce non germoglia. 2. Ma che cosa faremo per prendere queste malignissime volpi, le quali preferiscono nuocere più che vincere, né vogliono apparire, ma strisciare nascoste? Tutti gli eretici hanno sempre avuto una sola mira: procurarsi gloria mediante la singolarità della scienza. Solo questa volpe più maligna e scaltra di tutte le altre eresie si pasce dei danni altrui, trascurando la propria gloria. Edotta, credo, dagli esempi delle antiche, che smascherate non riuscivano a fuggire, ma subito venivano prese, è guardinga nell’operare il mistero di iniquità con un nuovo genere di maleficio, tanto più licenzioso quanto più nascosto. Questi nuovi eretici si sono prescritti di star nascosti, si ostinano nel fare il male, si accordano per nascondere tranelli ( Sal 64,6 ). « Giura, spergiura, non tradire il segreto ». In altre circostanze non tollerano affatto il semplice giuramento, perché, dicono, il Vangelo dice: Non giurare, né per il cielo, né per la terra … ( Mt 5,34-35 ). O stolti e tardi di cuore ( Lc 24,25 ), ripieni di spirito farisaico, che sputate via un moscerino, e deglutite un cammello! Non è lecito giurare, ed è lecito spergiurare? O solo nel caso vostro sono lecite le due cose? Da quale passo del Vangelo ritrovate voi questa eccezione, voi che non ne trascurate neppure un iota, come falsamente vi gloriate? È chiaro che voi osservate scrupolosamente quanto è prescritto del giuramento, e vergognosamente ammettete lo spergiuro. O perversità! Ciò che per cautela è stato deciso, cioè di non giurare, questo lo osservano scrupolosamente come un ordine, e ciò che è sancito da immutabile legge, cioè di non spergiurare, da questo come cosa indifferente dispensano a volontà: « Per non pubblicare il mistero », dicono. Quasi non sia a gloria di Dio rivelare le cose. Invidiano forse la gloria di Dio? Ma credo piuttosto che si vergognino di rivelare certe cose, perché disonorevoli per loro. Si dice, infatti, che in segreto compiano cose nefande e oscene: e in verità il posteriore delle volpi puzza. 3. Ma taccio quelle cose che essi negherebbero; rispondano a quanto è manifesto. Badano essi di non dare ai cani le cose sante, secondo il Vangelo, e le perle ai porci? Ma è un confessare apertamente di non appartenere alla Chiesa, quando si ritiene che tutti quelli che sono nella Chiesa sono cani e porci. Senza eccezione, infatti, a tutti coloro che non appartengono alla loro setta, pensano doversi sottrarre quello che è loro, qualunque cosa sia. Del resto, anche se così pensano, non risponderanno, per non tradirsi, casa che cercano in ogni modo di evitare, ma non vi riusciranno! II. Come queste volpi vengano prese convivendo con donne Rispondimi, o uomo che sai più di quanto occorra, e più di quanto si può dire dai segno di insipienza. È di Dio o no il mistero che nascondi? Se è di Dio, perché non lo sveli per la sua gloria? Poiché, torna a gloria di Dio rivelare la Parola ( Pr 25,2 ). Se no, perché hai fede in quello che non è di Dio, se non perché sei un eretico? Pertanto, o svelino il segreto di Dio a gloria di Dio; oppure neghino il mistero di Dio, e ammettano di essere eretici; o per lo meno si confessino apertamente nemici della gloria di Dio, perché non vogliono che sia manifesto quello che sanno tornare a gloria di Lui. Sta, infatti, la verità della Scrittura: Gloria dei re è celare la parola, gloria di Dio rivelare la Parola ( Pr 25,2 ). Non vuoi tu rivelare? Non vuoi, dunque, dar gloria a Dio. Ma, forse, non ricevi questa Scrittura. È così: si professano diffusori del solo Vangelo e i soli suoi difensori. Rispondano, dunque, al Vangelo. Quello che dico nelle tenebre, dice, ditelo alla luce, e ciò che vi vien detto all’orecchio, predicatelo sopra i tetti ( Mt 10,27 ). Ormai non è lecito tacere. Fino a quando si tiene nascosto quello che Dio ordina di manifestare? Fino a quando è nascosto il vostro Vangelo? Penso al vostro Vangelo, non quello di Paolo, perché egli sostiene che il suo non è coperto. È chiarissimo che siete sulla via della perdizione. O non accettate neanche Paolo? Da alcuni ho inteso questo. Perché tra di voi non siete tutti d’accordo, anche se tutti dissentite da noi. 4. Accettate però tutti senza eccezione, se non erro, le parole, gli scritti e le tradizioni di coloro che furono corporalmente con il Salvatore, con pari autorità del Vangelo. Forse quelli tennero coperto il loro Vangelo? Hanno forse taciuto riguardo alle infermità della carne, alla morte orrenda, alla ignominia della croce subite dal Figlio di Dio? In tutta la terra si diffuse la loro voce ( Sal 19,5 ). Dov’è l’apostolica forma e vita di cui vi vantate? Essi gridano, voi sussurrate; essi in pubblico, voi in un angolo; essi volano come nubi, voi vi nascondete nelle tenebre e in abitacoli sotterranei. Che cosa mostrate in voi che somigli a loro? Forse il fatto che non vi portate appresso, ma convivete con donnette? Non dà uguale sospetto l’essere compagno di viaggio, e il coabitare. Del resto, chi avrebbe sospettato qualche cosa di meno onesto in coloro che risuscitavano i morti? Fa’ anche tu lo stesso, e penserò che sia un uomo la donna che dorme con te. Diversamente è cosa temeraria pretendere di imitare la condotta di coloro dei quali non possiedi la santità. Stare sempre con una donna e non avere rapporti con essa, non è forse più che risuscitare i morti? Tu non puoi ciò che è meno, e vuoi che io ti creda capace di ciò che è più difficile? Ogni giorno stai a fianco a fianco con una giovane a tavola, il tuo letto è accanto al letto di lei nella camera, i tuoi occhi si fissano nei suoi parlando, le tue mani sono vicine a quelle di lei nel lavoro, e pretendi di essere stimato continente? Sia pure che tu lo sia, ma il mio sospetto rimane. Tu mi sei di scandalo: togli la causa dello scandalo, per provarti, come ti vanti, vero zelatore del Vangelo. Non condanna forse il Vangelo colui che avrà scandalizzato uno della Chiesa? Tu scandalizzi la Chiesa, tu sei una volpe che demolisce la vigna. Aiutatemi compagni, perché sia presa, o meglio, prendetela voi per noi, o Angeli santi. È molto astuta questa volpe, coperta della sua iniquità e empietà, così piccola e sottile da ingannare facilmente gli umani sguardi. Anche i vostri? Perciò si è rivolta a voi quella parola, come amici dello Sposo: Prendeteci le volpi piccoline. Fate, dunque, quanto vi è comandato: prendeteci questa volpe così scaltra, che già da tempo inseguiamo senza risultato. Insegnate e suggerite perché venga palesata la frode. Questo significherà aver preso la volpe, perché fa più danno un falso cattolico che un vero eretico. Non appartiene all’uomo sapere che cosa ci sia nell’uomo, a meno che egli sia per questo o illuminato dallo Spirito di Dio, o edotto dall’angelica industria. Che miracolo farete perché sia smascherata questa pessima eresia, edotta a mentire non solo con la lingua, ma con la vita? 5. La recente devastazione della vigna fa vedere che c’è stata la volpe; ma non capisco con quale arte nel fingere questo astutissimo animale riesce a confondere le impronte, di modo che un uomo non può facilmente scoprire di dove entri o di dove esca. Si vede l’effetto, non apparisce l’autore: talmente riesce a dissimulare tutto con apparenze contrarie. Se tu ne chiedi la fede, nulla di più conforme a quella cristiana; se ti informi circa la condotta, nulla di più irreprensibile: e quello che dice lo prova con i fatti. Puoi vedere quell’uomo, a testimonianza della sua fede, frequentare la Chiesa, onorare i presbiteri, fare le sue offerte, fare la confessione, comunicare ai sacramenti. Chi più fedele di lui? Per quello poi che riguarda la sua vita e i suoi costumi, non disturba nessuno, non imbroglia nessuno, non passa sopra nessuno. Le sue labbra, inoltre, impallidiscono per i digiuni, non mangia ozioso il suo pane, lavora con le sue mani per sostentare la vita. Dov’è la volpe? L’avevamo presa, come ci è sfuggita dalle mani? Come è così sparita in un batter d’occhio? Insistiamo, investighiamo: la conosceremo dai suoi frutti. Quel che è certo è che il danno alla vigna prova la presenza della volpe. Le donne, lasciati i mariti, e così i mariti, abbandonate le mogli, vengono da questi nuovi eretici Tolosani. Chierici e sacerdoti, lasciate le popolazioni e le chiese, capelloni e barbuti si sono trovati presso di loro, per lo più con tessitori e tessitrici. Non è questo un grave saccheggio? Non è forse opera delle volpi? Ma forse non presso tutti si trovano così manifeste queste cose, e se vi sono non è facile provarlo. In che modo li prendiamo? Torniamo alla comunanza e convivenza con le donne: tra di loro questo si trova in tutti. Ne interrogo uno a caso: « Ehi, tu brav’uomo, chi è questa donna, e come mai è qui con te? È tua moglie? ». « No – risponde – poiché questo non conviene al mio voto ». « Tua figlia, dunque? ». « No ». « Che? Non sorella, non nipote, non qualcuna della tua parentela? ». « Affatto ». « E come con questa è al sicuro la tua continenza? Questo davvero non ti è lecito. La Chiesa vieta, se non lo sai, la coabitazione degli uomini con le donne a coloro che hanno fatto voto di continenza. Se non vuoi scandalizzare la Chiesa, manda via la donna. Per di più diventano credibili, da questo, anche le altre dicerie che non sono così chiare ». III. Come queste volpi sono prese, se non tolgono lo scandalo quando possono 7. « Ma da quale passo del Vangelo mi dimostri che questo è proibito? ». « Hai fatto appello al Vangelo? Al Vangelo andrai. Se obbedisci al Vangelo non dai scandalo; poiché il Vangelo proibisce di dare scandalo. E tu dai questo scandalo non allontanando costei secondo quello che stabilisce la Chiesa. Eri sospetto, ma ora manifestamente ti dimostri e disprezzatore del Vangelo e contrario alla Chiesa ». Che ne pensate fratelli? Se sarà ostinato e non obbedirà al Vangelo, né si conformerà alle regole della Chiesa, che cosa avrà da tergiversare? Non vi sembra che è stata scoperta la frode, presa la volpe? Se non rimandala donna non toglierà lo scandalo; se non toglierà lo scandalo, mentre lo può fare, sarà considerato trasgressore del Vangelo. Che farà la Chiesa, se non rimuovere colui che non vuol togliere lo scandalo, per non essere essa stessa disobbediente come lui? Ha, infatti, questo mandato dal Vangelo, di non risparmiare neppure il proprio occhio che è motivo di scandalo, né la mano, né il piede, ma di cavarlo o tagliarli e buttarli via. Se, dice, non ascolterà la Chiesa ritienilo come un pagano e un pubblicano ( Mt 18,17 ). 8. Abbiamo fatto qualche cosa? Penso di sì. Abbiamo preso la volpe, perché abbiamo scoperto l’inganno. I falsi cattolici che erano nascosti si sono rivelati veri demolitori della Chiesa Cattolica. Mentre con me prendeva i dolci cibi voglio dire il corpo e il sangue del Signore mentre nella casa di Dio camminavamo insieme, vi fu occasione per persuadere, anzi opportunità per sedurre, secondo il detto della Sapienza: Con la bocca il simulatore inganna il suo amico ( Pr 11,5 ). Ora facilmente, secondo la sapienza di Paolo, dopo una prima e una seconda ammonizione eviterò l’uomo eretico, sapendo che un tale individuo è stato sovvertito, e pertanto devo cautamente provvedere perché non sia anche un sovvertitore. Pertanto non è poca cosa, secondo la parola del Saggio, che gli iniqui siano presi nei loro lacci, specialmente quegli iniqui che usano le insidie come loro armi. Con costoro è inutile una discussione o una difesa. Si tratta di gente rozza e vile, senza cultura e del tutto imbelle. E poi sono volpi, e volpi piccole, ma neppure in quelle cose in cui sono detti di non sentire rettamente si possono convincere, anche se si tratta di cose non tanto sottili e facilmente comprensibili, e questo specialmente quando sono donnette ignoranti e idiote, come sono tutti quelli appartenenti a questa setta con i quali ho avuto a che fare. E neppure nelle loro asserzioni ricordo di aver udito qualche cosa di nuovo o di inaudito, ma sempre cose trite e ritrite tra gli antichi eretici e dai nostri riesumate e rispolverate. C’è tuttavia da dire quali siano quelle inezie che, richiesti dai cattolici, questi eretici meno cauti nel rispondere hanno confessato, in parte perché divisi e litigando tra loro hanno manifestato gli uni degli altri, e in parte cose rivelàte da alcuni di loro ritornati alla Chiesa Cattolica. Non che io risponda a tutte non è infatti necessario ma tanto perché si sappiano. Ma questo sarà materia di un altro sermone, a lode e gloria del nome dello Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXVI I. Ancora su questi nuovi eretici; sono questi quelli dei quali specialmente dice l’Apostolo che nell’ipocrisia proferiscono menzogna 1. Prendeteci le volpi piccoline che guastano le vigne ( Ct 2,15 ). Eccomi nuovamente a queste volpi. Sono esse che camminano fuori strada e vendemmiano la vigna. Non si contentano di abbandonare la strada se non possono disertare anche la vigna, aggiungendo anche la prevaricazione. Non basta loro essere eretici, vogliono essere anche ipocriti, perché il loro peccato sia grande oltre misura. Sono questi quelli che vengono in veste di pecore, per denudare le pecore e spogliare gli arieti. Non ti sembra adempiuta l’una e l’altra cosa quando le popolazioni vengono private della fede e i sacerdoti depredati dalle popolazioni? Chi sono questi predoni? All’abito sono pecore, per l’astuzia volpi, per la crudeltà lupi. Sono questi coloro che vogliono sembrare buoni, non esserlo, essere cattivi, ma non apparire tali. Sono malvagi e vogliono sembrare buoni, per non essere malvagi essi soli; temono di apparire cattivi, per non esser cattivi in pochi. Infatti, la malizia conosciuta ha sempre recato minor danno, né uno buono è mai stato ingannato se non con la simulazione del bene. Così, dunque, costoro cercano di apparire buoni in danno dei buoni; non vogliono apparire cattivi per poter maggiormente malignare. Essi non si preoccupano di coltivare le virtù, ma di colorare i vizi con una patina di virtù. Infine, chiamano religione l’empia superstizione. Dicono solo al di fuori di non portare pregiudizio all’innocenza, attribuendo solo a se stessi il colore dell’innocenza. Per coprire la turpitudine si insigniscono con il voto di continenza. Ritengono che la turpitudine sta nell’aver moglie, mentre le relazioni con questa sono le sole esenti da turpitudine. Sono rozzi e idioti, e del tutto spregevoli; ma, vi dico, non per questo bisogna agire con loro con negligenza: Tendono infatti a far crescere sempre di più nell’empietà, e la loro parola si propaga come una cancrena ( 2 Tm 2,17 ). 2. E poi non li trascurò lo Spirito Santo che un tempo vaticinò chiaramente di costoro dicendo: Lo Spirito Santo dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia di impostori, e già bollati a fuoco nella loro coscienza. Costoro vieteranno il matrimonio, imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati con rendimento di grazie ( 1 Tm 4,1-3 ). Questi, proprio di questi parlava. Costoro proibiscono di sposarsi, costoro si astengono da cibi che Dio ha creato, come vedremo in seguito. Ed ora vedete se questo non è un inganno dei demoni, più che degli uomini, secondo che aveva predetto lo Spirito. Chiedi ad essi quale sia l’autore della loro setta. Non indicheranno alcun uomo. Quale eresia non ha avuto tra gli uomini un suo eresiarca? I Manichei ebbero come capo e maestro Mane, i Sabelliani Sabellio, gli Ariani Ario, gli Eumoniani Eumonio, i Nestonani Nestorio. Così tutte le altre pesti del genere ebbero ciascuna i loro maestri, uomini a cui fanno risalire la loro origine e dai quali presero il nome. Sotto qual nome o titolo si possono catalogare questi ultimi? Poiché la loro eresia non ha origine da un uomo, né da uomo l’hanno ricevuta; tanto meno, poi, l’hanno avuta per rivelazione di Gesù Cristo, ma piuttosto come predisse lo Spirito Santo, per suggestione e inganno dei demoni che ipocritamente hanno insinuato la menzogna, proibendo il matrimonio. 3. Davvero ipocritamente e con volpina scaltrezza dicono questo, fingendo di dire questo per amore della castità, mentre è un ritrovato per favorire la turpitudine e moltiplicarla. La cosa, tuttavia, è talmente risaputa che mi meraviglio come mai un cristiano possa cadere nei loro lacci: sennonché questi tali sono così bestiali da non accorgersi, come chi condanna le nozze apre le porte a ogni specie di immondizia; oppure sono così vieni di malizia, e presi da diabolica malignità che, pur avvertendo la cosa, la dissimulano, e si fanno un piacere della perdizione degli uomini. II. Condannano le nozze; taluni le ammettono solo per chi è vergine. Confutazione Togli dalla Chiesa l’onorato connubio, togli il talamo immacolato: non la riempirai forse di concubinari, di incestuosi, di libidinosi e di effeminati, di invertiti e di ogni specie di immondi? Scegliete dunque tra le due cose: o che si salvano tutti questi mostri di uomini, o il numero dei salvati si riduce ai pochi continenti. In un caso come siete stretti, e quanto larghi nell’altro! Ma nessuno di questi due casi conviene al Salvatore. E che? Sarà coronata la turpitudine? Nulla è meno decente per l’Autore dell’onestà. Saranno tutti dannati, eccetto il piccolo numero dei continenti? Non è questo esser Salvatore. Rara è sulla terra la continenza; né per un così piccolo guadagno quella pienezza si è annichilita sulla terra. E in che modo tutti abbiamo da essa ricevuto se ha concesso ai soli continenti la partecipazione di sé? A questo non rispondono, ma neppure a quest’altro, penso io: se in cielo c’è posto per l’onestà e non possono stare insieme l’onesto e il turpe, come non ci può essere società tra la luce e le tenebre, è chiaro che nel luogo della salvezza non vi può essere posto per nessuno degli immondi. Se uno pensa diversamente lo rimprovera la voce dell’Apostolo che dice, togliendo ogni ambiguità: Quelli che operano tali cose non possederanno il Regno di Dio ( Gal 5,21 ). Da quale caverna verrà ora fuori questa piccola volpe? Penso che sia stata presa nella fossa, nella quale si è fatta come due buchi, uno per entrare e uno per uscire. Così era abituata a fare. Vedi ora come da una parte e dall’altra le è preclusa l’uscita. Se nei cieli colloca i soli continenti, viene meno per la massima parte la salvezza; se vuol mettere insieme con i continenti ogni specie di sporcizie non c’è più onestà. Ma é più giusto che perisca essa, e non potendo uscire né di qui né di là resti per sempre rinchiusa e prigioniera nella fossa che ha scavato. 4. Alcuni dissenzienti tuttavia dagli altri dicono che il matrimonio si può contrarre solo da persone vergini. Ma non vedo quali ragioni possano addurre per giustificare questa distinzione. Solo questo risulta evidente, che fanno a gara tra di loro per lacerare con denti di vipera i sacramenti della Chiesa, come le viscere della madre, ognuno a suo capriccio. Quello, infatti, che pretendono circa i primi coniugi, che cioè erano vergini, non pregiudica affatto la libertà del matrimonio, per cui non sia lecito contrarlo dai non vergini. Ma non so che cosa sussurrino di aver trovato nel Vangelo che pensano dar ragione alla loro opinione. Forse quel passo dove il Signore, premessa la testimonianza della Genesi: E Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, li creò maschio e femmina, dopo aggiunse: Dunque quello che Dio ha unito l’uomo non separi ( Gen 1,27; Mc 10,10 ). « Questi, dicono, Dio li ha uniti perché erano vergini entrambi, e ormai non si possono più separare: Non sarà, invece, da Dio un’altra unione fatta in diverse condizioni ». « Chi ti ha detto che Dio li ha uniti perché erano forse vergini? », riprende. « Lo erano, ma non è lo stesso dire che furono uniti vergini e dire che furono uniti perché vergini. Quantunque neppure questo sia detto espressamente, che cioè erano vergini, sebbene in realtà lo fossero. È stata espressa la diversità dei sessi, non la verginità, essendo detto: Li creò maschio e femmina. E con ragione. L’unione matrimoniale non richiede l’integrità del corpo, ma l’attitudine dei sessi. Giustamente perciò nell’istituirla lo Spirito Santo espresse il sesso, e non parlò della verginità, né diede occasione alle insidiose volpi di andare a caccia di parole. Il che ben volentieri avrebbero fatto, sebbene inutilmente. Se avesse pur detto la Scrittura « li creò vergini », ne dedurresti per questo che si possono sposare solo i vergini? E tuttavia come esulteresti se solo avessi trovato questa frase? Come avresti disprezzato le seconde e le terze nozze? Come avresti insultato la Chiesa Cattolica che unisce tanto più volentieri in matrimonio le meretrici e i lenoni, in quanto non dubita che così essi passano da una vita turpe a una onesta? Forse faresti un rimprovero a Dio, che comanda al Profeta di prendere in moglie una sgualdrina: ma ora non hai questo pretesto, e ti piace essere eretico senza motivo. Poiché l’argomento che hai portato per giustificare il tuo errore è piuttosto contrario e di molto a te, che non in tuo favore. 5. Ora senti un argomento che, o ti confonde del tutto, o ti corregge, e distrugge e manda in frantumi la tua eresia. La donna è vincolata per tutto il tempo in cui vive il marito; ma se il marito muore è libera di sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore ( 1 Cor 7,39 ). È Paolo che concede alla vedova di sposare chi vuole e tu al contrario comandi che nessuna si sposi se non è vergine, e nel caso solo con un uomo vergine, e non con chi lei vuole? Perché mai vuoi accorciare la mano del Signore? Perché restringi la larga benedizione delle nozze? Per quali ragioni riservi alla verginità quello che é stato concesso al sesso? Non concederebbe Paolo questo se non fosse lecito. Ma dico poco « concede »: lo vuole anche: Voglio, dice, che le più giovani si sposino ( 1 Tm 5,14 ): né vi è dubbio che non parli alle vedove. Che vi è di più chiaro? Dunque, quello che concede perché è lecito lo vuole anche perché è conveniente. Ciò che è lecito e conveniente l’eretico lo vieta? Nulla in questa proibizione si spiega se non perché è eretico. III. I cibi che giudicano immondi; dicono di consumare il corpo di Cristo, e si dicono « apostolici » 6. Ci rimane da scuotere un poco costoro riguardo al rimanente della profezia dell’Apostolo. Come egli predisse, infatti, questi si astengono dai cibi che Dio ha creato perché fossero presi con rendimento di grazie, mostrandosi anche da questo eretici, non perché si astengono, ma perché lo fanno al modo degli eretici. Poiché anch’io talvolta mi astengo, ma la mia astinenza è soddisfazione per i peccati, non superstizione motivata da empietà. Rimproveriamo forse Paolo che castiga il suo corpo e lo riduce in servitù? Mi astengo dal vino, perché nel vino vi è lussuria, o, se sono infermo, lo berrò un poco, secondo il consiglio dell’Apostolo. Mi asterrò dalla carne, perché mentre nutre troppo, non nutra insieme anche i vizi della carne. Cercherò di prendere con misura lo stesso pane, perché non mi renda pesante lo stomaco e provi tedio nell’orazione, e mi rimproveri anche il Profeta perché mangio il mio pane fino alla sazietà. E neanche mi abituerò a riempirmi troppo di semplice acqua, perché la dilatazione del ventre diventi incentivo alla libidine. Diversamente l’eretico: egli ha in orrore il latte e tutti i suoi derivati, è in genere tutto quello che ha relazione con il rapporto carnale. È cosa retta e cristiana se uno se ne astiene non perché provengono dall’unione carnale, ma perché fomentano le passioni della carne. 7. Del resto che senso ha questa generale proibizione di mangiare tutto quello che viene prodotto in seguito alla relazione carnale? Mi genera sospetto questa osservanza rispetto ai cibi così espressamente indicata. Tuttavia, se adduci le norme dei medici che prescrivono di mangiare questo e non quello per riguardo alla salute, non condanniamo la cura della carne che nessuno mai ha in odio, purché si eviti ogni esagerazione; se ti rifai alla disciplina degli astinenti, ossia dei medici spirituali, approviamo anche la virtù, con la quale assoggetti la carne e poni un freno alla libidine. Ma se, imitando la stoltezza dei Manichei, pretendi porre dei limiti alla beneficenza di Dio, di modo che quello che egli ha creato e ci ha donato perché lo prendessimo con azioni di grazie, tu, non solo ingrato, ma temerario censore, lo reputi immondo e te ne astieni come da cosa cattiva, non solo non lodo la tua astinenza, ma ho in esecrazione la tua bestemmia, dirò che tu piuttosto sei immondo, tu che dici immonda qualche cosa. Tutto è mondo per i mondi ( Tt 1,15 ), dice quell’ottimo estimatore delle cose, e nulla è immondo se non per colui che stima immonda qualche cosa: Ma agli immondi e agli infedeli nulla è mondo, ma immonda è la loro mente e la loro coscienza ( Tt 1,15 ). Guai a voi che avete respinto i cibi che Dio ha creato e che voi reputate immondi e indegni di essere immessi nei vostri corpi, mentre per questo il corpo di Cristo che è la Chiesa rigetta voi come corrotti e immondi. 8. Non ignoro che si gloriano di essere essi soli il corpo di Cristo; lo credano essi, che pensano anche di avere il potere di consacrare ogni giorno alla loro mensa il corpo e il sangue di Cristo, per nutrire sé e le membra del corpo di Cristo. Si vantano, infatti, di essere i successori degli Apostoli, e si chiamano Apostoli, ma non riescono a mostrare alcun segno del loro apostolato. Fino a quando la lucerna è sotto il moggio? Voi siete la luce del mondo ( Mt 5,14 ), fu detto agli Apostoli, e perciò gli Apostoli sono sul candelabro per illuminare il mondo. È vergogna che i successori degli Apostoli non siano luce del mondo, ma luce del moggio e tenebre per il mondo. Diciamo loro: « Voi siete le tenebre del mondo » e passiamo ad altro. Dicono di essere la Chiesa, ma contraddicono colui che ha detto: Non può star nascosta una città posta sul monte ( Mt 5,14 ). E così voi credete che quella pietra staccata dal monte senza mano d’uomo, che è diventata una montagna e ha riempito il mondo, si sia rinchiusa nei vostri antri? E non fermiamoci neanche qui. La fama stessa rifiuta di fare pubblicità, contenta del sussurro. Ha e avrà sempre Cristo integra la sua eredità, e come suo possesso i confini della terra. A questa grande eredità sottraggono se stessi coloro che si sforzano di sottrarla a Cristo. 9. Vedete i detrattori, vedete i cani. IV. Confutazione del fatto che dicono che non si devono battezzare i bambini, non si deve pregare per i defunti, non si deve chiedere la intercessione dei santi Ci deridono perché battezziamo i bambini, perché preghiamo per i morti, perché ci raccomandiamo ai Santi. Da ogni genere di uomini e da ogni sesso si affrettano a proscrivere Cristo, dagli adulti, dai bambini, dai vivi e dai morti; dai bambini, dico, a causa dell’impossibilità della natura, dagli adulti per la difficoltà della continenza, defraudando i morti dell’aiuto dei viventi, e i viventi dell’intercessione dei Santi passati a miglior vita. Ma non è così: Dio non abbandona il suo popolo, che è numeroso come la sabbia del mare, né si accontenterà di pochi eretici colui che ha redento tutti. Non è, infatti, piccola, ma abbondante presso di lui la redenzione. Quanto invece è il numero di costoro, in paragone con l’enormità del prezzo? Ma piuttosto si privano del prezzo coloro che si sforzano di renderlo inutile. Che importa, infatti, se il bambino non può parlare per se stesso, se per lui la voce del sangue di suo fratello, e quale fratello, grida a Dio dalla terra? È presente e grida anche la madre Chiesa. E il bambino? Non ti sembra che anch’egli sospiri in certo qual modo verso le fonti del Salvatore, che gridi a Dio, e con i suoi vagiti esclami: Signore, soffro violenza, rispondi per me ( Is 38,14 )? Implora l’aiuto della grazia perché soffre violenza dalla natura. Grida l’innocenza del misero, grida l’innocenza del pargolo, grida la debolezza del servo. Gridano, dunque, tutte queste cose, il sangue del fratello, la fede della madre, la necessità del misero e la miseria del bisognoso. E si grida al Padre; ora il Padre non può rinnegare se stesso: è Padre. 10. Nessuno mi dica che quel bambino non ha la fede, dal momento che la madre gli dà la sua, avvolgendolo con essa nel Sacramento, fino a che egli sia capace di ricevere la sua evoluta e pura, non tanto con il senso, ma con il suo consenso. È, forse, questa fede una veste corta che non possa coprirli entrambi? Grande è la fede della Chiesa. È, forse, meno grande della fede della Cananea che si sa essere bastata per sé e per la figlia? E perciò si senti dire: O donna, grande è la tua fede! Ti sia fatto come hai domandato ( Mt 15,28 ). È, forse, inferiore alla fede di coloro che, lasciando calare il paralitico attraverso il tetto, ottennero per lui la salute dell’anima e insieme del corpo? Vedendo la loro fede, è detto, disse al paralitico: abbi fiducia, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati, e poco dopo: Prendi il tuo lettuccio e cammina ( Mc 2,5-9 ). Chi crede queste cose non solo si persuaderà come giustamente la Chiesa creda nella salvezza dei bambini battezzati nella sua fede, non solo, ma anche nella corona del martirio dei bambini uccisi a causa di Cristo. Stando così le cose nessun pregiudizio sarà a carico dei rigenerati per il fatto che è scritto: Senza fede è impossibile piacere a Dio ( Eb 11,6 ), non essendo senza fede coloro che in testimonianza della fede hanno ricevuto la grazia del Battesimo. E neppure per quanto è detto altrove: Chi poi non avrà creduto sarà condannato ( Mc 16,16 ). Che altro, infatti, è credere, se non aver la fede? Così anche la donna potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede ( 1 Tm 2,15 ), e nei bambini la salvezza sarà giustificata dal lavacro di rigenerazione, e gli adulti che non potranno essere continenti si redimeranno con il frutto del trenta per cento del matrimonio; anche le preghiere e i sacrifici dei viventi saranno di giovamento, mediante il ministero degli Angeli, ai defunti che ne hanno bisogno e ne sono degni, e non mancheranno i favori di coloro che già sono pervenuti al premio eterno a: pro di quelli che sono ancora in vita, per Dio che è dappertutto, e in Dio nel quale i trapassati continuano ad essere presenti ai vivi per la carità. Infatti anche Cristo per questo è morto ed è ritornato alla vita, per essere il Signore dei morti e dei vivi ( Rm 14,9 ). Per questo anche è nato bambino, e passando per i vari gradini dell’età divenne uomo, perché non fosse estraneo a ogni età. 11. Non credono, questi eretici, che il fuoco del purgatorio resta dopo la morte, ma dicono che appena l’anima è separata dal corpo, o passa al riposo o alla dannazione. Chiedano, pertanto, a colui che ha detto esservi un certo peccato che non sarà rimesso né nella vita presente, né nella futura, perché abbia detto questo, se nella vita futura non vi sarà remissione, né purgazione dei peccati. V. Disprezzano gli Ordini e gli statuti della Chiesa, e ciò è segno di maggiore ostinazione, quando sono presi, si danno la morte per le loro sette Infine, non fa meraviglia se, non riconoscendo la Chiesa, parlano male degli Ordini della Chiesa e non ne accettano gli statuti, se disprezzano i sacramenti, se non obbediscono ai precetti. « Peccatori dicono sono gli apostolici, gli arcivescovi, i vescovi, i sacerdoti, e per questo non sono idonei né ad amministrare, né a ricevere i sacramenti. Non convengono mai queste due cose: essere vescovo o peccatore ». È falso: vescovo era Caifa, e tuttavia quanto grande peccatore, lui che ha dettato la sentenza di morte contro il Signore! Se neghi che fosse vescovo è contro di te la testimonianza di Giovanni, che in testimonianza del suo pontificato riferisce pure che ha profetato Apostolo era Giuda, e benché avaro e scellerato era stato scelto dal Signore. Dubiti forse che fosse apostolo chi era stato eletto dal Signore? Non vi ho forse scelti io tutti e dodici, e uno di voi è un diavolo? ( Gv 6,70 ). Senti come il medesimo Apostolo è detto scelto e chiamato diavolo; puoi negare ancora che sia vescovo chi è peccatore? Sulla cattedra di Mosè sedettero Scribi e Farisei ( Mt 23,2 ) e chi non obbedisce loro come a vescovi è reo di disobbedienza, dicendo il Signore e ordinando: Fate quello che dicono ( Mt 23,3 ). È chiaro che per quanto Scribi, per quanto Farisei, per quanto grandi peccatori, per riguardo tuttavia alla cattedra di Mosè, appartiene anche ad essi quello che dice il Signore: Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me ( Lc 10,16 ). 2. A questo popolo stolto e insipiente gli spiriti dell’errore, che ipocritamente proferiscono menzogne, hanno insegnato molte altre cose; ma non è il caso di rispondere a tutte. E chi le conosce tutte? E poi sarebbe un lavoro infinito voler rispondere a tutte, e per nulla necessario. Poiché, quanto a costoro, né si convincono con ragioni, perché non capiscono, né si correggono con autorità, perché non la ricevono, né si piegano con argomenti, perché sono perversi. Si è provato: preferiscono morire piuttosto che convertirsi. La loro fine è la morte, e per ultimo li aspetta il fuoco. Essi sono stati antecedentemente prefigurati nel fatto di Sansone e nelle code delle volpi incendiate. Più volte dei fedeli, messe loro le mani addosso, ne trascinarono alcuni in tribunale. Richiesti della loro fede, negando, secondo il costume, tutti gli errori di cui erano sospettati, esaminati con il giudizio dell’acqua, furono trovati bugiardi. Non potendo ormai più negare perché scoperti, l’acqua infatti non li riceveva e afferrato, come si dice, il freno con i denti, tanto miseramente quanto liberamente non confessarono le loro empietà, ma professarono la pietà apertamente e con prove, pronti a subire per essa la morte che i circostanti erano parimenti pronti a infliggere loro. Così, assalitili, il popolo diede agli eretici nuovi martiri della loro perfidia. Approviamo lo zelo, non consigliamo il fatto, perché la fede deve entrare per persuasione, non venire imposta dalla forza. Quantunque sia senza dubbio meglio che siano costretti con la spada, di colui cioè che non porta inutilmente la spada, piuttosto che si permetta loro di attirare molti altri al loro errore. È, infatti, egli ministro di Dio, incaricato di punire chi agisce male. 13. Si stupiscono alcuni che non solo si mostrassero pazienti, ma lieti, mentre erano condotti alla morte; questo perché non pensano quanto potere abbia il diavolo, non solo sui corpi, ma anche sul cuore degli uomini, una volta che gli si è permesso di possederli. Non è forse cosa più grave che un uomo uccida se stesso, che sopportare volentieri di venire ucciso da un altro? Eppure abbiamo l’esperienza che il diavolo spesso ha potuto far questo, in molti che si annegarono volontariamente o si impiccarono. Anche Giuda si è impiccato, certamente per suggestione del diavolo. Io tuttavia mi meraviglio e stimo più grave che abbia potuto mettergli in cuore di tradire il Signore che non di andarsi a impiccare. Non ha nulla a che vedere la costanza dei martiri con la pertinacia di costoro, perché il disprezzo della morte era prodotto nei martiri dalla pietà, in questi dalla durezza di cuore. E perciò il Profeta diceva, forse con la voce del martire: Torpido come il grasso è il loro cuore, ma io mi diletto nella tua legge ( Sal 119,70 ). Per significare che, anche se la pena sembrava la medesima, molto diversa era l’intenzione, mentre l’eretico induriva il suo cuore davanti al Signore, il martire invece meditava nella legge del Signore. 14. Stando così le cose non è il caso di dire, come ho accennato, molte cose inutilmente contro uomini stoltissimi e ostinatissimi. Basta averli fatti conoscere, perché se ne stia in guardia. Per la qual cosa per scoprirli si devono costringere o a mandar via le donne, o a uscire dalla Chiesa, perché la scandalizzano con la convivenza con esse. Si deve molto lamentare che non solo principi laici, ma anche, come si dice, alcuni del clero, nonché dell’ordine dei vescovi, i quali più di tutti avrebbero dovuto combatterli, li lascino stare per interesse, ricevendo da essi dei regali. « E come dicono li condanneremo, senza che siano convinti e confessino? ». Frivola, non dico ragione, ma pretesto. Anche se non vi fosse altro, li puoi scoprire facilmente se, come ho detto, separi a vicenda uomini e donne che si dicono continenti, e costringi le donne a vivere con altre donne che hanno il medesimo voto, e gli uomini ugualmente con gli uomini di uguale proposito. Con questo si provvederà nello stesso tempo a mantenere il voto e la fama, avendo così testimoni e custodi della propria continenza. Se non si adattano a queste precauzioni giustissimamente saranno eliminati dalla Chiesa che scandalizzano con aperta e illecita coabitazione. Bastino, dunque, queste cose per scoprire gli inganni di queste volpi, e per darne cognizione e cautela alla diletta e gloriosa sposa del Signore nostro Gesù Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXVII I. Con chi parla la sposa quando dice: « Il mio diletto a me ecc. » e come la parola dello sposo sia paragonabile a un banchetto 1. Il mio diletto è a me e io a lui ( Ct 2,16 ). Fino a ora erano parole dello Sposo. Ci stia egli vicino, perché possiamo degnamente, a gloria di lui e a salvezza delle nostre anime, investigare le parole della sua sposa. Sono infatti tali che non possono da noi essere considerate e discusse come meritano, se egli non ci guida parlandoci interiormente. Sono infatti queste parole tanto soavi per la grazia quanto ricche di senso e di profondi misteri. A che cosa le assomiglierò? Per ora a una qualche vivanda che abbia eminentemente queste tre doti: deliziosa al palato, che costituisce un solido nutrimento e un’efficace medicina. Così, dico, così ogni singola parola della sposa eccita l’affetto per la sua dolcezza, impingua e nutre la mente per la molteplicità dei sensi e la profondità dei misteri, mentre tanto più esercita l’intelligenza, tanto più incute timore, sanando in modo mirabile il timore della scienza che gonfia. Infatti, se uno di quelli che si credono saputelli si applica con curiosità a scrutare queste cose, scorgendo come le forze del suo ingegno sono del tutto insufficienti, e sentendo ridursi in cattività tutta l’intelligenza, non sarà forse costretto a dire: Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta e io non la comprendo ( Sal 139,6 )? Pertanto, fin dalle prime parole quanta dolcezza dimostra! Ecco come comincia: Il mio diletto è a me e io a lui. Sembra una semplice voce, perché il suo suono è soave; di questo si vedrà in seguito. 2. Ora comincia dalla dilezione, prosegue circa il diletto, giudicando di non sapere altro se non il diletto. È chiaro di che cosa parla; non è ugualmente evidente con chi. Non è, infatti, permesso sentire come quando era con lui, dato che ora lui non è presente. Di questo non v’è dubbio, sembra infatti che ella lo richiami, e quasi gli gridi dietro: Ritorna, diletto mio ( Ct 2,17 ). Siamo perciò indotti a pensare che, finite le sue parole, nuovamente, secondo il suo modo di fare, si sia assentato, ed essa sia rimasta a parlare di lui che non è in effetti mai lontano da lei. Così è: ritenne nella bocca colui che non si assentava dal cuore, anche quando se ne andava. Quello che esce dalla bocca viene dal cuore, e la bocca parla dall’abbondanza del cuore ( Lc 6,45 ). Parla dunque del diletto, come vera diletta e veramente degna di essere amata, perché ama molto. Cerchiamo con chi parli, perché sappiamo di chi parla. E non si presentano altri interlocutori al di fuori delle giovinette, le quali non possono stare lontano dalla madre quando lo Sposo se n’è andato. II. La migliore interpretazione è che parli con se stessa e quale è il motivo di un’espressione cosi ellittica Ma è meglio che riteniamo, penso io, che ella abbia parlato a se stessa, e non con un altro, specialmente perché la stessa espressione è tronca e non sembra aver senso, insufficiente davvero a far comprendere a chi ascolta. E normalmente noi parliamo tra di noi soprattutto per farci comprendere. Il mio diletto è a me e io a lui. Niente più? La frase è sospesa, non solo, ma manca qualche cosa. L’uditore pure rimane sospeso, né viene informato ma reso attento. 3. Che cosa significa « lui a me e io a lui »? Non sappiamo che cosa voglia dire perché non sentiamo quello che lei sente. O anima santa, che cosa è per te quel tuo, e che cosa sei tu per lui? Quale, di grazia, è questa vostra vicendevole disponibilità che vi scambiate con tanta familiarità e devozione? Egli è a te, e tu a tua volta a lui. Ma che cosa? Sei tu per lui lo stesso che lui è per te, o diverso? Se parli a noi, alla nostra intelligenza, dicci chiaramente quello che senti. Fino a quando ci tieni sospesi? O, secondo il Profeta, il tuo segreto lo tieni per te? È così: ha parlato l’affetto, non l’intelletto, e perciò non all’intelligenza. A che cosa dunque? A nulla. Se non che piena di meraviglioso diletto e fortemente bramosa verso i desiderati colloqui, quando egli vi pose termine non poté tacere del tutto, né fu in grado di esprimere quello che sentiva. A questo non erano dirette le parole che disse, ma solo per non tacere. Dall’abbondanza del cuore la bocca ha parlato, ma non per esprimere quell’abbondanza. Gli affetti hanno le loro parole con le quali, anche quando non vogliono, si tradiscono. Quelle del timore per esempio sono meticolose, quelle del dolore gemebonde, e quelle dell’amore gioconde. Forse che i pianti dei sofferenti, i singulti degli afflitti o i gemiti di chi è sottoposto alle percosse, e così le grida improvvise e strazianti di chi è colto da spavento, o anche i rutti di chi è sazio sono creati dall’usanza o eccitati dalla ragione, o prodotti liberamente, o premeditati? Certo queste cose non escono per un cenno dell’animo, ma erompono per un movimento istintivo. Così l’amore ardente e veemente, specialmente quello divino, quando non riesce a contenersi in sé non bada a quale ordine, per quale legge, attraverso quali numerose o poche parole si sfoghi, purché non senta da ciò alcun danno per sé. Talvolta non cerca neppure delle parole, contentandosi di sospiri. Di qui deriva che la sposa, infuocata di santo amore e questo in modo incredibile, per quanto si può dedurre dal quel po’ di irradiazione del fuoco che la infiamma, non bada a quello che dice o come lo dica, ma erutta, più che esporre quanto le viene in bocca sotto la spinta dell’amore. Che cosa non dovrebbe eruttare lei cosi nutrita, così piena? 4. Ripassa il testo di questo epitalamio dall’inizio fin qui, e vedi se in tutte le visite e in tutti i colloqui dello Sposo sia stata data mai tanta abbondanza di grazia come questa volta, e se mai dalla bocca di lui abbia sentito, non dico così numerose, ma così dolci parole. Colei, dunque, che aveva saziato il suo desiderio di tali beni, che meraviglia c’è se ha messo fuori un rutto più che una parola? E se ti sembra una parola, pensala eruttata, non preparata o pre-ordinata. Né la sposa pensa di fare una rapina se si applica il detto del Profeta: Il mio cuore eruttò una buona parola ( Sal 45,1 ), in quanto ripiena del medesimo spirito. III. La parola della sposa è quasi un rutto; il gusto e l’odorato; ciò che il giusto gusta il peccatore lo odora Il mio diletto a me e io a lui. Non si può trarne una conseguenza, in quanto è una frase mancante. Allora? È un rutto. Come cercare in un rutto le connessioni delle frasi, le espressioni solenni? Quali regole o leggi puoi imporre a un rutto? Non riceve la tua moderazione, non aspetta che tu lo disponga a dovere, non cerca la comodità o l’opportunità. Da sé erompe dall’intimo, non solo quando non vuoi, ma quando non te ne accorgi, strappato più che emesso. E tuttavia il rutto porta un odore a volte buono, a volte cattivo, secondo le qualità contrarie dei vasi dai quali sale. L’uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre il cattivo cose cattive ( Mt 12,35 ). È un vaso buono la sposa del mio Signore, ed è buono per me l’odore che emana da lei. 5. Ti ringrazio, Signore Gesù, che ti sei degnato di ammettermi almeno a sentire il profumo. Così Signore: poiché anche i cagnolini si nutrono delle briciole che cadono dalla mensa dei loro padroni ( Mt 15,27 ). Per me ha buon odore il rutto della tua diletta, e ben volentieri ricevo, sia pure poco, dalla pienezza di lei. Mi erutta la memoria dell’abbondante tua soavità, ed ho sentito un certo ineffabile profumo della tua degnazione in queste parole: Il mio diletto a me e io a lui. Essa, come è giusto, banchetti ed esulti nel tuo cospetto, e sia piena di letizia; tuttavia sia esuberante con te e sobria per noi. Sia essa ripiena dei beni della tua casa, e si abbeveri al torrente della tua voluttà; ma, di grazia, giunga anche a me povero almeno un tenue odore mentre lei, una volta saziata, erutterà. Bene per me eruttò Mosè e nel suo rutto vi fu un buon odore, di potenza creatrice: In principio, dice, Dio creò il cielo e la terra ( Gen 1,1 ). Bene eruttò Isaia: Ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato tra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori ( Is 53,12 ) perché non perissero. Che cosa mai ha così profumo di misericordia? Buono anche il rutto di Geremia, buono quello di Davide che dice: Il mio cuore eruttò una buona parola ( Sal 45,2 ). Furono ripieni di Spirito Santo ed eruttando riempirono ogni cosa di bontà. Chiedete il rutto di Geremia? Non mi sono dimenticato, già lo stavo preparando: È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore ( Lam 3,26 ). È di lui, non mi sbaglio: accostate le narici; vince il balsamo il soave profumo che emana dalla giustizia che ricompensa. Vuole che io aspetti con pazienza la giusta mercede in futuro, non che la riceva al presente, perché la mercede della giustizia è la salvezza che viene non dal secolo, ma dal Signore. Se tarda, aspettalo ( Ab 2,3 ) e non mormorare, perché è bene aspettare in silenzio. Farò, dunque, quanto mi consiglia: Aspetterò il Signore mio Salvatore ( Mi 7,7 ). 6. Ma sono peccatore e mi resta da percorrere ancora una lunga strada perché lontana dai peccatori è la salvezza ( Sal 119,155 ). Non mormorerò tuttavia. Nel frattempo mi consolerò con l’odore. Il giusto si rallegrerà nel Signore, sperimentando con il gusto quello che io sento con l’odorato. Ciò che il giusto contempla il peccatore lo aspetta, e l’attesa è l’odorato: La creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio ( Rm 8,19 ). Ora, aspettare è gustare e vedere come è soave il Signore. IV. Che cosa queste parole sottintendano; il fine delle parole della sposa o del Profeta O non piuttosto è il giusto che aspetta, e chi già possiede è beato? L’attesa dei giusti è gioia ( Pr 10,28 ). Il peccatore, infatti, non aspetta nulla. È appunto peccatore perché non solo trattenuto dai beni presenti, ma contentandosi di essi, nulla aspetta nel futuro, sordo a quella voce: Aspettatemi, dice il Signore, nel giorno della mia resurrezione in futuro ( Sof 3,8 ). E perciò era giusto Simeone, perché aspettava e adorava già Cristo in spirito prima che potesse adorarlo nella carne; e beato nella sua attesa, e per l’odore dell’attesa pervenne al gusto della contemplazione. E infine disse: I miei occhi hanno visto la tua salvezza ( Lc 2,30 ). Giusto anche Abramo, che aspettò anche lui di vedere il giorno del Signore, e non fu confuso nella sua attesa perché lo vide e ne fu pieno di gioia. Giusti gli Apostoli quando udivano: E voi simili a uomini che aspettano il loro Signore ( Lc 12,36 ). 7. Giusto anche Davide quando diceva: Ho aspettato, ho aspettato il Signore ( Sal 40,2 ). Egli è il quarto dei miei ruttatori che ho sopra nominati e che quasi lasciavo in disparte. Ciò non conviene. Questi ha aperto la sua bocca e attirò lo spirito, e, sazio, non solo eruttò, ma cantò anche. O Gesù buono, quanta dolcezza ha questi infuso alle mie narici e ai miei orecchi nel suo rutto e canto circa l’olio di esultanza di cui ti ha unto Dio a preferenza dei tuoi eguali, e la mirra, l’aloe e la cassia delle tue vesti, e i palazzi d’avorio da cui ti allietano le cetre e le figlie di re tra le tue predilette! ( Sal 45,8-10 ). Oh! se mi concedessi di incontrare un così grande Profeta e amico tuo nel giorno della solennità e della letizia, quando esce dal tuo talamo cantando il suo epitalamio, con la cetra melodiosa e con l’arpa, traboccante di gioia, asperso e cospergendo ogni cosa di polvere aromatica! In quel giorno, o piuttosto, in quell’ora quando si tratta di un’ora, e forse una mezz’ora, secondo il detto della Scrittura: Si fece silenzio in cielo per quasi una mezz’ora ( Ap 8,1 ) dunque in quell’ora si riempirà di gaudio la mia bocca e la mia lingua di esultanza, poiché i singoli, non dico Salmi ma versetti li sentirò come altrettanti rutti, e profumati più di ogni aroma. Che cosa più fragrante del rutto di Giovanni, che mi sa di eternità del Verbo, della sua generazione, della sua divinità? Che dirò dei rutti di Paolo, di quanta soavità abbiano riempito il mondo? Egli era il buon odore di Cristo in ogni luogo. Anche se non proferisce le parole ineffabili che ha udito, di modo che io pure le possa udire, ne parla tuttavia per accendere il mio desiderio, e mi piaccia odorare quello che non è possibile udire. Non so infatti per quale ragione le cose che più sono nascoste piacciono maggiormente, e bramiamo con più avidità quelle che ci sono negate. V. L’altra accezione dell’attesa con cui il giusto attende, il peccatore no; il rutto di Davide o di Giovanni o di Paolo Ma nota ora una cosa simile nella sposa: come, alla maniera di Paolo, in questo capitolo non svela il segreto, né lo nasconde completamente, concedendo qualche cosa al nostro olfatto, che non giudica forse adatto per ora al nostro gusto, sia per la nostra indegnità, sia per la nostra incapacità. 8. Il mio diletto è a me e io a lui. Quello di cui non v’è dubbio è che il vicendevole amore dei due è ardente; ma in questo amore risalta la somma felicità dell’una, e la mirabile adeguazione dell’altro. Poiché questo mutuo amore e mutua unione non è tra due esseri pari. Del resto quell’amore che la sposa si gloria di ricevere per tanta degnazione dello Sposo, e che ricambia con tanto ardore, nessuno può a fondo presumere di conoscere se non chi, per una particolare purezza di mente e santità di corpo, avrà meritato di sperimentare una tale cosa in se stesso. La cosa consiste negli affetti, né vi si arriva con la ragione, ma con la conformità della volontà. Quanto pochi sono quelli che possono dire: E noi a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello spirito del Signore ( 2 Cor 3,18 ). 9. Ma per ridurre a una qualche forma intellegibile ciò che si legge, salvo sempre il singolare segreto della sposa, al quale per il momento non ci è concesso di accostarci, a noi specialmente, così come siamo, si deve presentare qualche cosa tanto più adattata al senso comune quanto più di uso comune, che esprima il legame delle parole e si renda comprensibile ai piccoli. E a me sembrerebbe sufficiente alla nostra grossolana e in un certo modo popolare intelligenza se dicendo il mio diletto a me, sottintendiamo « si rivolge », in modo che il senso sia: « Il mio diletto si rivolge a me, e io a lui ». Non sarei il solo a pensare così, perché il Profeta prima di me ha detto: Ho aspettato, ho aspettato il Signore; e si è rivolto a me ( Sal 40,2 ). Hai qui apertamente il voltarsi del Signore al Profeta e del Profeta al Signore, perché chi aspetta si volge, e aspettare è voltarsi là di dove si aspetta. Così sarebbero quasi le stesse le parole del Profeta e della sposa, salvo che il Profeta avrebbe messo prima quelle che la sposa ha messo dopo e viceversa. 10. Del resto la sposa ha parlato più rettamente e senza pretendere il merito, ma premettendo il beneficio, e confessando di essere prevenuta dalla grazia del diletto. Giusto veramente. Poiché chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio? ( Rm 11,35 ). E infine, senti come la pensa Giovanni nella sua epistola a questo riguardo: In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi per primo ( 1 Gv 4,10 ). Il Profeta, tuttavia, anche se non accennò alla prevenzione della grazia, non negò la conseguenza. Ma senti la sua confessione su questo argomentò, più chiara, in altro passo: La tua misericordia, dice, mi seguirà tutti i giorni della mia vita ( Sal 23,6 ). Senti anche il suo pensiero non meno certo circa la prevenzione di Dio: La tua misericordia, o Dio, mi preverrà ( Sal 59,11 ); e ancora: Presto ci venga incontro la tua misericordia, poiché siamo troppo infelici ( Sal 79,8 ). VI. Grazia preveniente e susseguente Bene la sposa più avanti mette queste stesse parole non nello stesso ordine, ma segue anche lei l’ordine del Profeta dicendo così: Io al mio diletto e il mio diletto a me ( Ct 6,2 ). Perché così? Per dimostrarsi allora maggiormente piena di grazia quando egli le ha dato tutte le grazie, attribuendo cioè a lui le prime e le ultime parti. Diversamente come sarebbe piena di grazia, se ha avuto qualche cosa non dalla grazia? Non c’è posto per la grazia dove il merito occupa tutto. Dunque, la piena confessione della grazia dimostra nell’anima che fa questa confessione la pienezza della medesima grazia. Poiché se c’è qualche cosa di proprio, in quanto c’è, la grazia gli deve cedere il posto. Manca alla grazia quanto attribuisci ai meriti. Non voglio il merito che escluda la grazia. Ho orrore di tutto quello che viene da me per essere mio, se non che forse è maggiormente mio quello che fa mio me. La grazia mi rende giustificato gratuitamente, e così liberato dalla schiavitù del peccato. E poi dove è lo spirito, ivi è la libertà ( 2 Cor 3,17 ). 11. Oh, sciocca sposa Sinagoga, che disprezzando la giustizia di Dio, cioè la grazia del suo Sposo, e volendo costituire la giustizia propria non è soggetta alla giustizia di Dio! Per questo la misera è stata ripudiata, e non è ormai più sposa, ma sposa è la Chiesa, alla quale viene detto: Ti ho sposata nella fede, ti ho sposata a me nel diritto e nella giustizia, ti ho sposata a me nella misericordia e nell’amore ( Os 2,19 ). Né tu hai scelto me, ma io ho scelto te, né per sceglierti ho guardato ai tuoi meriti, ma li ho prevenuti, così dunque ti ho sposata a me nella fede, e non nelle opere della legge. E ti ho sposato nella giustizia, ma nella giustizia che viene dalla fede, non dalla legge. Resta che tu giudichi rettamente tra me e il giudizio in cui ti ho sposata, dove è chiaro che non è intervenuto alcun tuo merito, ma il mio beneplacito. Questo è il giudizio, che tu non faccia gran caso dei tuoi meriti, non preferisca le opere della legge, non ti vanti di aver sopportato il peso del giorno e del calore, tu che conosci di essermi stata sposata piuttosto nella fede e nella giustizia che viene dalla fede, nonché nella misericordia e nella compassione. 12. Colei che è veramente sposa conosce queste cose, e confessa l’una e l’altra grazia: anzitutto quella che è la prima, che cioè è stata prevenuta, e poi anche quella seguente. Dice parlando adesso: il mio diletto a me e io a lui, attribuendo il principio al diletto; dirà in seguito: Io al mio diletto e il mio diletto a me, concedendo ancora a lui la consumazione. Ora vediamo che cosa dice: Il mio diletto a me. Se questo si prende in modo da sottintendere « si rivolge », come già abbiamo detto e come dice il Profeta: Ho aspettato, ho aspettato il Signore, ed egli si è rivolto a me, io in queste parole sento un non so che di non piccolo, né di mediocre prerogativa. Ma non è bene esporre una cosa degna di ogni attenzione a orecchie e menti stanche. Se non riesce gravoso differiamo questo discorso, e non di molto. Domani il sermone comincerà di qui. Solamente pregate perché ci difenda nel frattempo dalle assillanti occupazioni la grazia e la misericordia dello Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXVIII I. Quanto lo sposo si prenda cura della sposa e viceversa; soltanto della sposa egli si prende cura 1. Ascoltate ora quello che ieri abbiamo rimandato, udite il gaudio che io ho provato. È anche vostro: udite con gioia. Ho avuto questa sensazione a una sola parola della sposa, e, dopo averne sentito il profumo, l’ho nascosta per servirla oggi a voi, tanto più piacevolmente, quanto più tempestivamente. La sposa ha parlato, e ha detto che lo Sposo era rivolto a lei. Chi è la sposa, e chi è lo Sposo? Questi è il nostro Dio, e quella, se oso dirlo, siamo noi, con la rimanente moltitudine dei prigionieri che egli conosce. Godiamo, la nostra gloria è questa: siamo noi quelli verso i quali si rivolge Dio. Quanta disparità tuttavia! Che cosa sono gli abitanti della terra e i figli dell’uomo di fronte a lui? Secondo il Profeta: Sono come non fossero, e quasi un nulla e vanità sono considerati da lui ( Is 40,17 ). Che cosa significa, dunque, questa comparazione tra esseri così disparati? O la sposa immensamente si vanta, o lo Sposo immensamente ama. Com’è meraviglioso che questa si attribuisca come cosa propria il fatto che lo Sposo è rivolto a lei, dicendo: Il mio diletto a, me! Né tuttavia contenta di ciò continua a vantarsi maggiormente che essa risponde a lui, quasi imitandone l’atteggiamento e per dargliene ricambio. Segue infatti: E io a lui. Parola insolente: E io a lui, né meno insolente: Il mio diletto a me, ma più insolente dell’una e dell’altra, l’una e l’altra insieme. 2. Oh, che cosa può osare un cuore puro e una buona coscienza e una fede sincera! « È rivolto a me », dice. Così dunque è rivolta a costei quella maestà a cui appartiene il governo e insieme l’amministrazione dell’universo, e la cura dei secoli si traduce nei soli affari, anzi ozi dell’amore e del desiderio di costei? Proprio così. Essa è infatti la Chiesa degli eletti, dei quali dice l’Apostolo: Tutte le cose per gli eletti ( 2 Tm 2,10 ). E chi dubita che la grazia e la misericordia di Dio sia nei suoi santi, e il suo sguardo sui suoi eletti? Dunque, non neghiamo la provvidenza per tutte le altre creature, la cura la sposa la riserva a sé. Ha forse Dio cura dei buoi? ( 1 Cor 9,9 ). Certamente possiamo dire lo stesso dei cavalli, dei cammelli, degli elefanti, e di tutte le bestie della terra; così dei pesci del mare e degli uccelli del cielo, insomma di ogni cosa che vi è sulla terra, eccetto soltanto coloro ai quali è detto: Gettando in lui ogni vostra preoccupazione perché egli ha cura di voi ( 1 Pt 5,7 ). Non ti sembra che con queste parole voglia dire: « Rivolgetevi a lui, perché egli si è rivolto a voi »? E osserva l’Apostolo Pietro – sono infatti parole sue – come egli ha osservato l’ordine delle parole della sposa. Non dice infatti gettando in lui ogni vostra preoccupazione perché egli si prenda cura di voi, ma: perché egli ha cura di voi, dimostrando con ciò apertamente quanto gli sia cara la Chiesa dei santi, non solo, ma perché essa è stata amata per la prima. 3. Si sa che non la riguarda affatto quello che dei buoi ha detto l’Apostolo, ha infatti cura di lei colui che l’ha amata e ha dato se stesso per lei. Non è questa la pecora errante per cercare la quale ha lasciato i greggi celesti? Lasciati quelli, il Pastore è disceso a questa, l’ha diligentemente cercata, trovatala non l’ha ricondotta, ma riportata, e indisse con essa e per essa nuove feste nei cieli, invitando le moltitudini degli Angeli a questa solennità. Che dunque? L’ha portata sulle sue spalle, e non avrà cura di lei? Perciò essa non si vergogna di dire: Di me ha cura il Signore ( Sal 40,18 ). Né pensa di sbagliare quando dice ancora: Il Signore provvederà per me ( Sal 138,8 ), e altre espressioni che indicano come Dio si prenda cura di lei. Per questo chiama suo diletto il Signore degli eserciti, e si gloria che colui che con tranquillità giudica tutte le cose si rivolga a lei. Perché non dovrebbe gloriarsene? Ha sentito dire da lui: Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio del suo seno? E se ce ne fosse una che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai ( Is 49,15 ). E infine: Gli occhi del Signore sui giusti ( Sal 34,16 ). Che cosa è la sposa se non la congregazione dei giusti? Che cosa è se non la generazione di quelli che cercano Dio, che cercano il volto dello Sposo? Non è, infatti, che lo Sposo si rivolga alla sposa e questa non si rivolga a lui. Per questo mette le due cose « Egli a me e io a lui ». Egli a me perché è benigno e misericordioso ( Gl 2,13 ), io a lui perché non sono ingrata. Egli mi dà la grazia per grazia, io gli rendo grazie per la grazia; egli opera per la mia liberazione, io per il suo onore; egli per la mia salvezza, io per la sua volontà; egli a me e non a un’altra, perché sono l’unica sua colomba; io a lui e non a un altro, perché non ascolto la voce degli stranieri, né sto a sentire chi mi dice: Ecco qui il Cristo, o eccolo là ( Mc 13,21 ). Questo per quanto riguarda la Chiesa. II. Dallo stato e dalla consumazione della Chiesa dipende la fine di tutti 4. E per ciascuno di noi? Pensiamo che ci sia qualcuno di noi al quale possa adattarsi quello che è detto? Che cosa ho detto: tra di noi? Ma io non avrei nulla da dire in contrario se mi si chiedesse se ciò possa applicarsi a chiunque fa parte della Chiesa. Quello che vale per uno, infatti, vale molto più per molti. Dio, infatti, ha fatto e patito tante cose non per un’anima sola, ma per raccoglierne molte in una sola Chiesa, per formarsene un’unica sposa; per questo ha operato la salvezza nella nostra terra ( Sal 80,12 ). Questa è quella carissima, unica per l’unico, che non aderisce ad altro sposo, che non cede il posto ad altra sposa. Che cosa non è capace di osare costei presso un tale ambizioso amante? Che cosa non spererà da lui che l’ha cercata dal cielo, l’ha chiamata dai confini della terra? Non solo l’ha cercata, ma acquistata. Aggiungivi a che prezzo, il sangue dell’acquirente. Perciò altrove, come di solito, maggiormente presume, perché guardando al futuro non ignora che il Signore ha bisogno di lei. Chiedi per che cosa? Per vedere la felicità dei suoi eletti, godere della gloria del suo popolo, ed essere glorificato con la sua eredità. Non ritenere piccola questa impresa, non resterà alcuna opera perfetta se questa tentennerà. Togli questa e invano la creatura inferiore aspetta la rivelazione dei figli. Togli questa e né i Patriarchi, né i Profeti vedranno la consumazione, mentre Paolo asserisce che Dio ha provveduto per noi che senza di noi non ottenessero la perfezione. Togli questa e la stessa gloria dei santi Angeli, a causa dell’imperfezione del loro numero sarà monca, né la città di Dio godrà della sua integrità. 5. Come, dunque, si adempirà il progetto di Dio e il mistero della sua volontà e quel grande sacramento della pietà? Come, infine, mi darà infanti e lattanti dalla bocca dei quali Dio formi la sua lode? Il cielo non ha bambini, ne ha la Chiesa, e ad essi dice: Vi ho dato da bere latte e non cibo solido ( 1 Cor 3,2 ). E questi, quasi per completare la lode sono invitati dal Profeta che dice: Lodate, o fanciulli, il Signore ( Sal 113,1 ). Tu pensi che il nostro Dio avrà tutta la lode della sua gloria quando verranno coloro che al cospetto degli Angeli cantino a lui: Ci siamo rallegrati per i giorni in cui abbiamo visto la sventura ( Sal 90,15 ). Questo genere di letizia i cieli non lo conobbero se non per i figli della Chiesa; questo non lo provano coloro che sono sempre stati nella gioia. Opportunamente dopo la tristezza viene il gaudio, dopo la fatica il riposo, dopo il naufragio il porto. Piace a tutti la sicurezza, ma maggiormente a colui che è stato nel timore. Gioconda per tutti é la luce, ma più gioconda per chi evade dal potere delle tenebre. L’essere passati dalla morte alla vita raddoppia la grazia della vita. Questa è la mia parte nel celeste convito, e a parte dagli stessi spiriti beati. Oso dire che la stessa vita beata è priva della mia beatitudine, a meno che si degni di confessare che ne gode in me e per me per mezzo della carità. In verità sembra anche che si sia aggiunta qualche cosa a quella perfezione per mezzo mio. E questo non è poca cosa. Godono gli Angeli per un peccatore che fa penitenza. Che se le mie lacrime sono la delizia degli Angeli, che cosa sarà delle mie delizie? Tutta la loro occupazione è lodare Dio; ma manca qualche cosa alla lode se non ci sono quelli che dicono: Ci hai fatto passare per il fuoco e l’acqua, ma poi ci hai dato sollievo ( Sal 66,12 ). III. I meriti o la presunzione della Chiesa, e donde i suoi meriti 6. Felice dunque la Chiesa nella sua universalità, il suo vanto è inferiore alla ragione che ha di gloriarsi, non solo per le cose che per lei già sono state fatte, ma per quelle che a suo riguardo devono ancora farsi. Poiché, perché deve essere sollecita circa i meriti, mentre essa possiede un motivo di vanto più grande e più sicuro del proposito di Dio? Dio non può negare se stesso, né non fare quello che ha già fatto, come è scritto, lui che ha fatto le cose che saranno. Le farà, le farà, né mancherà Dio al suo proposito. Così non ti occorre cercare per quali meriti noi speriamo i beni, specialmente sentendo quello che dice il Profeta: Non per voi io agisco, ma per me, dice il Signore ( Ez 36,22 ). Basta per il merito sapere che non bastano i meriti. Ma come per meritare è sufficiente non presumere dei meriti, così essere privo di meriti è sufficiente per esser giudicato; ora, dei bambini battezzati nessuno è senza meriti, ma hanno i meriti di Cristo. Si rendono, però, indegni di questi se, potendolo, trascureranno di aggiungervi i loro propri: questo è il pericolo dell’età adulta. Cerca, dunque, di procurarti dei meriti. Una volta che li hai, sappi che li hai ricevuti; spera come frutto la misericordia di Dio; e così avrai evitato ogni pericolo della povertà, dell’ingratitudine, della presunzione. È dannosa la povertà, la penuria di meriti; le vane ricchezze sono presunzione di spirito. E perciò: Non darmi, o Signore, la ricchezza o la povertà, dice il Saggio ( Pr 30,8 ). Felice la Chiesa a cui non mancano i meriti senza presunzione, né la presunzione senza i meriti. Ha di che presumere, ma non per i meriti; ha meriti, ma non per presumere, ma per la ricompensa. Il fatto stesso di non presumere non è forse meritare? Dunque, tanto più sicuramente presume quanto meno presume, e non ha da confondersi nel vantarsi, avendone molte ragioni. Grandi sono le misericordie del Signore, e la sua fedeltà dura in eterno. 7. Come non gloriarsi sicura quando, per dare ad essa testimonianza, la misericordia e la verità si incontrano? Sia dunque che dica: Il mio diletto a me, sia che dica: Ho aspettato il Signore e si è rivolto a me, o tante altre simili espressioni che esprimono un certo affetto divino o un singolare favore, nulla di ciò riterrà estraneo a sé, perché ha in sé la ragione di presumere del Signore, specialmente perché non vede un’altra sposa o un’altra Chiesa alla quale si possono fare quelle cose che non possono non essere fatte. Dunque, riguardo alla Chiesa è chiaro che essa non avrà timore di applicare a sé tutte quelle cose. Circa un’anima singola si può chiedere se sia spirituale e santa, e se sia lecito a lei osare tali cose. Non potrebbe, infatti, una della moltitudine, per quanto sia eminente in santità, arrogarsi tutte le prerogative che spettano alla sola cattolica moltitudine, per la quale tutte sono fatte. Io penso che sia molto difficile che si trovi in che modo possa una tale presunzione essere lecita. Credo, pertanto, necessario tentare questo in un altro sermone, e non entrare adesso nella via di una scrupolosa discussione di cui ignoriamo l’esito, se prima non avremo pregato colui che apre e nessuno chiude, lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXIX I. A quale anima spetta dire: « Il mio diletto a me … » e perché 1. Il mio diletto a me e io a lui ( Ct 2,16 ). Nel sermone precedente abbiamo attribuito queste parole alla Chiesa universale a motivo delle promesse fatte ad essa circa la vita presente e quella futura. Ora la questione da risolvere è se l’anima, poiché non può essa sola arrogarsi ciò che può pretendere l’insieme di tutte, non possa neppure in qualche modo attribuirsi tale prerogativa. Se non le è lecito dobbiamo dire che queste parole e le altre simili che indicano grandi cose come: Ho aspettato il Signore e si è rivolto a me ( Sal 40,2 ), o altre che abbiamo sopra riferite, vanno riferite alla Chiesa e in nessun modo a una singola persona. Se qualcuno, al contrario, dice che questo è lecito, e io non dico di no, bisogna vedere di chi si tratta; non è infatti certamente lecito a chiunque. La Chiesa di Dio ha senz’altro i suoi uomini spirituali, i quali non solo fedelmente, ma con fiducia trattano con lui, parlano con Dio quasi con un amico, e la loro coscienza rende loro testimonianza di questo favore. Chi siano questi è un segreto di Dio; ma tu ascolta quale devi essere, se desideri essere uno di questi. Quello che dico non è tanto perché ne abbia fatto esperienza, quanto perché vorrei fare questa esperienza. Dammi un’anima che nulla ami all’infuori di Dio e di ciò che si deve amare per Dio, per la quale non solo vivere sia Cristo, ma lo sia già stato da molto tempo, che abbia a cura e spenda il suo tempo a tenere presente il Signore sempre, che sia sollecita nel camminare con il Signore suo Dio, non dico con grande, ma con una sola volontà con lui, e non le manchi la capacità di farlo, dammi dico, una tale anima e io non la nego degna della cura dello Sposo, dello sguardo della maestà, del favore del dominatore, della sollecitudine del governatore; e se vorrà gloriarsene non sarà insipiente: purché chi si gloria, si gloria nel Signore. Così in ciò di cui molti si vantano, si vanterà anche uno solo, ma per un’altra ragione. 2. Infatti, la santa moltitudine è resa fiduciosa dalle cause sopra dette, l’anima santa per una duplice ragione. Prima di tutto la divinità dello Sposo, per la sua natura semplicissima, può guardare molti come fossero uno solo, e uno solo come fossero molti. Né si fa molteplice rispetto alla moltitudine, né raro rispetto a pochi; né è diviso di fronte alla diversità, né ristretto rispetto a uno solo; né ansioso nelle cure, né turbato o agitato nelle sollecitudini. Egli è così intento a uno solo senza rendersene schiavo, e così intento ai più senza esserne diviso. E poi, cosa soavissima, ma che molto raramente si può provare, tanta è la degnazione del Verbo, tanta la benevolenza del Padre del Verbo verso l’anima ben disposta e ben regolata, il che è effetto del lavoro del Padre e del Verbo, che degnano anche della loro presenza quella che hanno prevenuto con tale loro benedizione e si sono così preparata, e così non solo vengono ad essa, ma pongono in essa la loro dimora. Non basta, infatti, a loro farsi vedere, ma vogliono darsi con abbondanza. II. Che cosa è la venuta del Figlio e del Padre nell’anima; il Padre abbassa con la sua ira ardente ogni altezza Che cosa si vuol dire dicendo che il Verbo viene all’anima? Che la istruisce nella sapienza. E che viene il Padre? Che le infonde l’amore della sapienza, sicché essa possa dire: Sono divenuta amante della sua bellezza ( Sap 8,2 ). È proprio del Padre amare, e perciò la venuta del Padre si dimostra dall’amore infuso. Che cosa gioverebbe l’erudizione senza la dilezione? Gonfierebbe. Che cosa farebbe l’amore senza l’erudizione? Cadrebbe nell’errore. Erravano infatti quelli dei quali si diceva: Rendo loro testimonianza che hanno lo zelo di Dio, ma non secondo la scienza ( Rm 10,2 ). Non è decente che la sposa del Verbo sia stolta; ma il Padre non la sopporterebbe gonfia di superbia. Il Padre, infatti, ama il Figlio, ed è sempre pronto a scacciare e distruggere ogni altezza che si erge contro la scienza del Verbo, sia dando mano allo zelo, sia volgendosi con affetto, due cose che sono effetto una della misericordia, l’altra della giustizia. Oh! Si degni di comprimere, anzi di scacciare e ridurre al nulla in me ogni forma di orgoglio, non con l’accendere il suo furore, ma con l’infusione del suo amore! Possa io imparare a non insuperbirmi piuttosto per effetto della sua bontà che non per il timore del castigo! Signore, non punirmi nel tuo sdegno ( Sal 6,2 ), come l’Angelo che si innalza nel cielo, non castigarmi nel tuo furore ( Sal 6,2 ) come l’uomo nel paradiso. Entrambi hanno tramato iniquità, bramando di salire più in alto, il primo con la potenza, il secondo con la scienza. La donna stolta ha creduto al demonio che prometteva per sedurla: sarete come dèi, conoscitori del bene e del male ( Gen 3,5 ). Già prima aveva sedotto se stesso, persuadendosi che sarebbe diventato simile all’Altissimo poiché chi si crede di essere qualche cosa, mentre non è niente, seduce se stesso ( Gal 6,3 ). 3. Ma l’una e l’altra altezza fu precipitata giù, ma nell’uomo con più mitezza, così giudicando colui che tutto fa in peso e misura. Poiché, mentre l’Angelo fu punito nel furore, anzi dannato, l’uomo sentì soltanto l’ira, non il furore. Nell’ira, infatti, si ricordò della misericordia ( Ab 3,2 ). Perciò i suoi discendenti sono figli dell’ira e non del furore, fino al giorno d’oggi. Se non nascessi figlio d’ira non avrei bisogno di rinascere; se fossi nato figlio del furore, non sarei rinato, o non avrebbe giovato rinascere. Vuoi vedere un figlio del furore? Se hai veduto Satana precipitare come un fulmine dal cielo, vale a dire precipitato in un impeto di furore; hai avuto un’idea del furore di Dio. E poi non si è ricordato della sua misericordia, mentre dopo che si è adirato si ricorderà della sua misericordia, non così quando è giunto fino al furore. Guai ai figli della diffidenza, anche quelli che sono figli di Adamo, i quali, nati figli d’ira, cambiano a se stessi con diabolica ostinazione l’ira in furore, la verga in bastone, anzi, in martello! Essi accumulano per sé la collera per il giorno dell’ira. L’ira accumulata che cosa è se non il furore? Peccarono con il peccato del diavolo, e sono abbattuti con la condanna del diavolo. Guai anche, seppure con più mitezza, a certi figli d’ira, che nati nell’ira non aspettarono di rinascere nella grazia! Essi sono morti per il fatto che sono nati e resteranno figli d’ira. Dico ira, non furore perché, come piissimamente si crede e assai umanamente si compiange, sono assai miti le pene di coloro che traggono tutto il loro capo d’accusa da altri. 4. Dunque, il diavolo è stato giudicato nel furore, perché la sua iniquità è stata degna di odio; quella dell’uomo, invece, è meritevole d’ira, e perciò nell’ira viene punito. Così ogni elevazione viene stroncata, sia quella che gonfia, sia quella che merita di venire precipitata. Il Padre, infatti, tela l’onore del Figlio, e l’una e l’altra specie di elevazione fa torto al Figlio, sia perché usurpa la potenza nei riguardi della forza di Dio, che è lui, sia perché presume di una scienza ottenuta per via diversa dalla sapienza di Dio che è pure lui. O Signore, chi è simile a te? Chi, se non la tua immagine? Chi, se non lo splendore e la figura della tua sostanza? Lui solo nella tua forma, lui solo non ritenne come una rapina l’essere uguale a te, Altissimo Figlio dell’Altissimo. Come non uguale? Siete anzi una cosa sola, tu e lui. Ha il suo seggio alla tua destra, non sotto i tuoi piedi. Chi può mai osare di occupare il posto del tuo Unigenito? Sia precipitato. Pone in alto il suo seggio? Sia rovesciata la cattedra della pestilenza. Così pure chi insegna all’uomo la scienza? ( Sal 94,10 ). Non eri forse tu, o chiave di Davide, che apri a chi vuoi e a chi vuoi chiudi? E come si tentava di non entrare, ma di irrompere nei tesori della sapienza e della scienza? Chi non entra per la porta è un ladro e un brigante ( Gv 10,1 ). Entrerà dunque Pietro che ha ricevuto le chiavi, ma non solo, poiché, se vorrà, introdurrà anche me, ed escluderà un altro che forse vorrebbe, per la scienza e la potestà conferitagli dall’alto. 5. E quali sono queste chiavi? La potestà di aprire e di chiudere, e il discernimento tra quelli che devono essere ammessi e quelli che vanno esclusi, e i tesori non sono nel serpente, ma in Cristo. E perciò il serpente non poté dare la scienza che non aveva; ma chi l’aveva la diede. Né il diavolo poté avere la potenza, che non aveva ricevuta, ma l’ebbe chi l’aveva ricevuta. La diede Cristo, la ricevette Pietro, né si gonfiò per la scienza, né fu precipitato per la presunzione della potenza. Perché? Perché né nell’una, né nell’altra si innalza contro la scienza di Dio, lui che non ha cercato nessuna delle due cose fuori della scienza di Dio, come ha fatto invece colui che ha agito con inganno al suo cospetto, sicché la sua iniquità è divenuta meritevole di odio. Come, infine, avrebbe ambito queste cose fuori della scienza di Dio lui che si definisce apostolo di Gesù Cristo secondo la prescienza di Dio Padre ( 1 Pt 1,1-2 )? Ciò sia detto per quel che riguarda lo zelo di Dio, che lo fece intervenire contro l’Angelo e l’uomo prevaricatori poiché trovò il male in entrambi distruggendo nella sua ira e nel suo furore la loro superbia che si innalzava contro la scienza di Dio. III. Lo zelo di carità nel quale il Padre e il Figlio vengono; la loro inabitazione e i segni per mezzo dei quali l’anima avverte 6. Ora è tempo che ricorriamo allo zelo della misericordia, cioè non quello che si rivolge contro, ma quello che viene immesso, perché quello che si rivolge contro, come già abbiamo detto, è zelo di giustizia, e ci ha atterriti abbastanza con gli esempi ricordati di coloro che furono così gravemente puniti. Perciò io me ne andrò al luogo di rifugio per nascondermi dal furore del Signore, a quello zelo cioè di pietà che arde soavemente ed espia efficacemente. Non espia forse la carità? Molto. Ho letto che essa copre una moltitudine di peccati. Ma dico: non è forse idonea, capace cioè di scacciare e umiliare ogni arroganza degli occhi e del cuore? Certamente, e in massimo grado: poiché la carità non si innalza, non si gonfia. Se, dunque, il Signore si degnerà di venire a me, o piuttosto in me, non nello zelo del suo furore, e neppure nella sua ira, ma nella carità e nello spirito di mansuetudine, geloso di me della gelosia di Dio che cosa è, infatti, talmente di Dio come la carità? Dio, infatti, è carità se, dico, verrà in questa, in questo conoscerò anche che non è solo, ma che è venuto con lui anche il Padre suo. Poiché che cosa è talmente paterno come la carità? Per questo è stato chiamato non solo Padre del Verbo, ma anche Padre delle misericordie ( 2 Cor 1,3 ), perché gli è innato avere sempre pietà e perdonare. Se mi accorgerò che mi viene aperta l’intelligenza per comprendere le Scritture, o che un discorso sapiente quasi mi ribolle dall’intimo, o che mi si rivelano i misteri alla luce celeste infusa dall’alto, o se mi sembrerà che mi si apra come un amplissimo grembo del cielo, e discendano nell’animo abbondanti piogge di meditazioni, non dubito che lo Sposo è presente. Sono, infatti, queste ricchezze del Verbo, e queste abbiamo ricevuto dalla sua pienezza. Che se verrà parimenti infusa una certa umile, ma pingue devozione a guisa di intima aspersione, di modo che l’amore della verità conosciuta generi necessariamente un certo odio e disprezzo per la vanità, affinché non capiti che la scienza mi gonfi, o la frequenza delle visite mi faccia insuperbire, allora non dubito della presenza del Padre, di cui riconosco in me l’azione paterna. Se poi avrò perseverato nel corrispondere sempre a questa degnazione con degni affetti ed opere, per quanto sta in me, e la grazia di Dio non sarà stata vana in me, allora anche faranno presso di me la loro dimora sia il Padre che dà il nutrimento, sia il Figlio che dà l’insegnamento. 7. Pensa quanta grazia di familiarità tra l’anima e il Verbo derivi da questa abitazione, e dalla familiarità quanta fiducia. Una tale anima non ha più da temere di dire: Il mio diletto a me, perché sentendo di amarlo e con ardore, non dubita di essere anch’essa da lui grandemente amata, ed essendo singolarmente applicata a lui con sollecitudine, cura operosa, diligenza e studio, con cui vigila incessantemente e con ardore per piacere a Dio, così riconosce senza esitare tutte queste cose in lui a suo riguardo, ricordando le sue promesse: Con la misura che avrete usato sarà rimisurato a voi ( Mt 7,2 ), se non che la restituzione del favore la sposa prudente ebbe cura di tirarla dalla sua parte, sapendo bene di essere piuttosto prevenuta dal diletto. Perciò pone in primo luogo l’opera del diletto: Il mio diletto a me, io a lui. Dunque, dalle proprie disposizioni, che sono note a Dio, riconosce, né dubita di essere amata colei che ama. È così: l’amore di Dio genera l’amore dell’anima, e rivolgendosi per primo verso di lei, fa sì che anch’essa sia tutta intenta a lui, e la sollecitudine di lui rende sollecita anche lei. Non so, infatti, per quale vicinanza di natura, una volta che l’anima può a faccia scoperta contemplare la gloria di Dio, subito necessariamente le diviene conforme e si trasforma nella medesima immagine. Pertanto, quale tu ti preparerai per Dio tale ti apparirà Dio: sarà santo con il santo, e con l’uomo integro sarà integro. Così, similmente, amante con chi lo ama, si tratterrà con chi si trattiene volentieri con lui, si rivolgerà a chi si rivolge a lui, sollecito con chi è sollecito per lui Infine dice: Amo quelli che mi amano, e quelli che mi cercano mi troveranno ( Pr 8,17 ). Vedi come non solo ti assicura del suo amore se tu lo ami, ma anche della sua sollecitudine per te, se sentirà che tu sei sollecito nei riguardi di lui. Vegli tu? Veglia anche lui. Alzati nella notte al principio delle tue vigilie, anticipa quanto vuoi queste vigilie, lo troverai, non lo preverrai. Sbagli se in questo pensi di fare tu qualche cosa prima o più di lui: egli ama di più e prima. Se l’anima sa queste cose, anzi, perché le sa, c’è da meravigliarsi se si gloria che quella maestà, quasi non curando le altre cose si rivolga a lei sola, e lasciando da parte tutte le altre faccende lei intanto si applica con tutta devozione a lui solo? Il sermone deve finire, ma dico ancora una cosa sola agli spirituali che sono tra di voi, meravigliosa, ma vera: l’anima che vede Dio, lo vede come se essa sola fosse vista da Dio. Dice dunque con fiducia che Dio è rivolto a lei, e lei a lui, null’altro vedendo tra sé e lui. Sei buono, o Signore, per l’anima che ti cerca! Le vieni incontro, l’abbracci, ti mostri Sposo tu che sei Signore, anzi, che sei sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXX I. Poi lo sposo è divenuto « diletto » perché si è pasciuto fra i gigli 1. Il mio diletto a me e io a lui che si pasce tra i gigli ( Ct 2,16 ). Chi taccerà ormai la sposa si presuntuosa e si insolente se dice di aver stabilito un rapporto di amicizia con colui che si pasce tra i gigli? Anche se si pascesse tra le stelle, per il solo fatto che si pascesse, non so che cosa di straordinario ci possa essere nell’avere amicizia o familiarità con lui. Pascersi significa qualche cosa di basso, di umile. Ma ora, quando si dice di lui che si pasce tra i gigli, ogni idea di bassezza viene esclusa, e si affaccia l’idea di temerità. Che cosa, infatti, sono i gigli? Secondo la parola del Signore: Erba che oggi c’é e domani si mette nel forno ( Mt 6,30 ). Quanto grande è costui che si pasce di fieno, come un agnello o un vitello? È veramente un agnello e un vitello grasso. Ma tu forse hai intelligentemente avvertito che in questo passo non è designato il pascolo, ma il luogo; non è detto, infatti, che si pasce « di gigli », ma tra i gigli. Sia. Non mangia fieno come un bue; stare tuttavia in mezzo al fieno e giacere sul fieno come uno della plebe, che cosa può avere di speciale? E che gloria è avere un diletto che fa questo? Secondo la lettera appare abbastanza chiara la verecondia e la prudenza nel parlare della sposa, che dispone le sue parole con giudizio e tempera la gloria delle cose con la modestia delle parole. 2. Altre volte non ignora che è lo stesso e che si pasce e che pasce, che dimora tra i gigli e regna sopra gli astri. Ma più volentieri ricorda le cose umili del diletto, per l’umiltà, come ho detto, ma ancora più perché ha cominciato ad essere diletto quando appunto ha cominciato a pascersi. Poiché, colui che nell’alto dei cieli è il Signore, nelle infime cose è il diletto: sui cieli regna, e tra i gigli ama. Amava anche sopra i cieli, perché mai e in nessun luogo poté non amare, lui che è amore, ma fino a che non discese tra i gigli e fu visto pascersi tra i gigli né fu amato, né divenne diletto. Come? Non fu amato dai Patriarchi e dai Profeti? Sì, ma non prima di essere stato visto da essi pascersi tra i gigli. Essi, infatti, videro colui che previdero, a meno che qualcuno senza spirito pensi che vedere in spirito sia vedere nulla. Per quale ragione, dunque, sono stati chiamati « veggenti » se non videro nulla? Perciò vollero veder colui che non videro. E non potevano volerlo vedere nel corpo se non l’avessero veduto in spirito. Ma dico: forse sono tutti o quasi Profeti quelli che hanno voluto vedere, o hanno tutti creduto? Quelli che videro, infatti, o furono Profeti, o credettero ai Profeti. E credere è come aver veduto. Non mi sembra che sbagli chi dice di vedere in spirito, sia chi vede per spirito di profezia, sia chi vede per la fede. 3. Così dunque il fatto di essersi degnato di scendere tra i gigli, e di pascersi tra i gigli, lui che tutti pasce, lo ha reso diletto, perché non poteva esser amato prima di essere conosciuto. E per questo quando è stata fatta menzione del diletto, è stato anche ricordato ciò che fu causa di dilezione e di conoscenza. II. I gigli spirituali fra i quali lo sposo si pasce Questo pascersi tra i gigli deve avere un significato spirituale; è ridicolo, infatti, pensare a un pasto corporeo. Dovremo, per quanto possibile, mostrare anche il significato spirituale dei gigli. Penso che dovremo anche chiarire di che cosa si pasca il diletto, se degli stessi gigli, o delle altre erbe o fiori nascosti tra i gigli. E a me pare più difficile il fatto che si dice che lo Sposo si pasce, non che pasce. Non c’è dubbio che egli pasce, e questa non è cosa indegna di lui; ma pascersi suona indigenza, e neppure in senso spirituale si può facilmente attribuirlo a lui senza recare ingiuria alla maestà. Né mi ricordo di aver mai fino a ora nel commento di questo Cantico trovato che lo Sposo si pasca, mentre ricordate anche voi come lo abbiamo trovato a pascere. La sposa ha chiesto una volta che le mostrasse dove pascesse e riposasse nel meriggio. E ora, cosa che non aveva ancora detto, lo presenta che si pasce, ma non chiede che le venga indicato il posto; lei stessa lo indica dicendo: tra i gigli. Questo lo sa, quell’altro non lo sa, perché non è ugualmente a portata di mano ciò che è sublime e dimora nell’alto dei cieli e ciò che è umile e sopra la terra. Sublime opera, sublime anche il luogo, né per il momento vi può accedere neppure la sposa. 4. E per questo egli si è annichilito fino a questo punto, per pascersi, egli sommo pastore; e fu trovato tra i gigli, e veduto dalla Chiesa fu amato dal povero egli stesso povero, divenuto diletto a causa della somiglianza. E non solo per questa, ma anche per la verità, la mansuetudine e la giustizia: perché cioè per lui si sono adempiute le promesse, rimesse le iniquità, perché i superbi demoni sono stati giudicati insieme con il loro principe. Apparve, dunque, tale da essere amato, verace per sé, mite per gli uomini, giusto per gli uomini. O Sposo veramente degno di essere amato e abbracciato con tutto l’affetto del cuore! Che cosa aspetta la Chiesa a darsi tutta con tutta devozione a un tale fidato restitutore, a un così pio perdonatore, a un così giusto propugnatore? Il Profeta aveva promesso dicendo: Per la tua avvenenza e la tua bellezza avanza prosperamente ( Sal 45,5 ). Da dove questa avvenenza e bellezza? Penso dai gigli. Che cosa c’è di più bello dei gigli? Così nulla è più bello dello Sposo. Quali sono dunque quei gigli per i quali rifulge lo splendore della sua bellezza? Avanza, dice, e regna per la verità e la mansuetudine e la giustizia ( Sal 50,2 ). Sono gigli; gigli, dico, nati dalla terra, che splendono sulla terra, eminenti tra i fiori della terra, fragranti più dell’odore degli aromi. Tra questi gigli, dunque, e per questi lo Sposo è leggiadro e bello. Altre volte, invece, per quanto riguarda l’infermità della carne, non vi era in lui né apparenza, né bellezza. 5. Un buon giglio è la verità, magnifico per il candore, eccellente per il profumo; è, infatti, candore della luce eterna, splendore e figura della sostanza di Dio. Giglio veramente che la nostra terra alla nuova benedizione ha prodotto e ha preparato davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti. Fino a che la terra fu sotto la maledizione germogliò triboli e spine. Ma ora la verità è uscita dalla terra, sotto la benedizione di Dio, fiore bellissimo dei campi e giglio delle valli. Riconosci il giglio dal candore che appena nato risplendette ai pastori nella notte, come dice il Vangelo: Un Angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce ( Lc 2,9 ). È detto bene: La gloria del Signore, perché non candore dell’Angelo, ma del giglio: l’Angelo era presente, ma il giglio splendeva di là fino a Betlemme. Riconosci il giglio dal profumo con il quale si fece conoscere ai Magi lontani. È vero che apparve loro la stella; ma quegli uomini prudenti non l’avrebbero affatto seguita se non fossero stati attirati da una certa intima soave fragranza del giglio nato. E veramente è giglio la verità, il cui odore anima la fede, e il cui splendore illumina l’intelletto. III. Molto appropriatamente la verità è paragonata al giglio; il motivo per cui la mansuetudine e la giustizia sono gigli Ora alza anche gli occhi alla persona stessa del Signore, che dice nel Vangelo: Io sono la verità ( Gv 14,6 ) e vedi come giustamente la verità sia paragonata al giglio. Se non hai fatto attenzione osserva al centro di questo fiore tante virgole d’oro che vengono fuori, circondate dal candidissimo fiore che è posto tutto intorno come corona, e riconosci in Cristo l’aurea divinità, coronata dalla purità dell’umana natura, cioè Cristo con il diadema con cui lo ha coronato sua madre. Poiché, in quanto coronato dal Padre suo abita la luce inaccessibile, né potresti per ora vederlo. Ma di questo si parlerà altre volte. 6. Ora, dunque, giglio è la verità; è anche la mansuetudine. E a proposito giglio è la verità; è anche la mansuetudine, avendo il candore dell’innocenza e il candore della speranza, perché l’uomo pacifico avrà una discendenza ( Sal 37,37 ). Di buona speranza l’uomo mansueto, né meno splendido esempio, anche nella vita presente, di vita sociale. Non è, forse, un giglio colui che splende per il dovere e dà il profumo per la speranza? Inoltre, come la verità è germogliata dalla terra, così anche la mansuetudine. A meno che qualcuno dubiti che è nato dalla terra l’Agnello dominatore della terra, quell’Agnello che fu condotto ad essere ucciso, e non aprì bocca. E non soltanto la mansuetudine e la verità sono germogliate dalla terra, ma anche la giustizia. Disse il Profeta: Stillate cieli dall’alto, e le nubi facciano piovere la giustizia, si apra la terra e produca la salvezza, e germogli insieme la giustizia ( Is 45,8 ). Che poi la giustizia sia un giglio, ricordati della Scrittura: Il giusto germoglierà come giglio, e fiorirà in eterno davanti al Signore ( Os 14,6 ). Questo giglio non è quello di cui è detto che oggi è e domani viene gettato nel forno, perché esso fiorirà in eterno. E fiorirà davanti al Signore nella eterna memoria del quale sarà il giusto, né temerà annunzio di sventura: quell’annunzio cioè con cui i peccatori vengono mandati nella fornace di fuoco. Pertanto, il candore di questo giglio a chi non splende, se non a chi non piace? Infine, è un sole, ma non quello che nasce sopra i buoni e sopra i cattivi. Infatti, quelli che diranno: Il sole di giustizia non è sorto per noi ( Sap 5,6 ), non hanno mai visto la sua luce. La videro, invece, quanti udirono: Per voi che temete Dio nascerà il sole di giustizia ( Mi 4,2 ). Dunque, il candore di questo giglio è conosciuto dai giusti, la sua fragranza si diffonde anche fino agli iniqui, anche se non a loro vantaggio. Infine, sentiamo che i giusti dicono: Siamo il buon odore di Cristo ( 2 Cor 2,16 ) in ogni luogo, che per gli uni, però, è odore di vita per la vita, per altri è odore di morte per la morte. Chi, anche se scelleratissimo non approva il buon nome di giusto, anche se non a male opere che lo procurano? E beato se non si giudica per il fatto che approva. Giudica, infatti, approvando il bene senza amarlo, e perciò non beato davvero, ma misero, condannato dal proprio giudizio. Chi più è miserabile di colui per il quale l’odore della vita è annunziatore, non della vita, ma della morte? Anzi, neanche annunziatone, ma apportatore. IV. Tutte le cose riguardanti lo sposo sono gigli; quali gigli hanno gli amici dello sposo; almeno due gigli sono necessari alla salvezza 7. Presso lo Sposo vi sono molti altri gigli oltre questo che abbiamo incontrati nel Profeta, cioè la verità, la mansuetudine e la giustizia; e non sarà difficile ormai a chiunque di voi trovarne di simili da se stesso nel giardino di uno Sposo così delizioso. Ve n’è in grande abbondanza, chi potrebbe contarli? Tante virtù, altrettanti gigli. C’è un limite alle virtù nel Signore delle virtù? Che se in Cristo vi è la pienezza delle virtù, vi è anche la pienezza dei gigli. E forse per questo egli si è chiamato giglio perché è tutto tra i gigli e tutte le cose sue sono gigli: la concezione, la natività, la vita, le parole, i miracoli, i sacramenti, la passione, la morte, la risurrezione, l’ascensione. Quale di queste cose non è candida e soavemente odorosa? Nella sua concezione rifulse tanto splendore di luce celeste per l’abbondanza dello Spirito sopravvenuto, che neppure la stessa Vergine Santa l’avrebbe sopportato se non fosse stata adombrata dalla virtù dell’Altissimo. La sua natività fu resa candida dalla verginità incorrotta della Madre, la sua vita dall’innocenza della condotta, le sue parole dalla verità, i miracoli dalla purità, i sacramenti dall’arcano della pietà, la passione dalla volontà di soffrire, la morte dalla facoltà che aveva di non morire, la risurrezione dalla fortezza dei martiri, l’ascensione dalla esposizione delle promesse. Che buon odore di fede in queste singole cose, che riempie i tempi e le viscere di noi che non abbiamo veduto il suo candore! Beati coloro che non videro e hanno creduto ( Gv 20,29 )! Tra queste cose c’è la parte mia, l’odore di vita che procede da esse. Inondato da questi profumi, mediante una specie di strumento della fede adattato alle mie narici, e abbondantemente per la moltitudine di gigli, sento in realtà più leggero l’esilio, mentre il desiderio assiduo della patria si rinnova nel mio cuore. 8. Hanno gigli anche alcuni compagni dello Sposo, ma non in abbondanza. Tutti, infatti, hanno ricevuto lo Spirito con misura, con misura le virtù e i doni; solo per lo Sposo non c’è misura, avendo egli tutto. Altro è avere dei gigli, altro non avere che gigli. Chi ci sarà tra i figli della cattività così innocente e santo, che abbia potuto occupare tutta la sua terra in questi fiori? Neppure un bambino di un sol giorno è senza macchia sopra la terra. È grande colui che avrà potuto far crescere nella sua terra tre o quattro gigli, in mezzo a tanto rigoglio di spine e di triboli che sono germi inveterati dell’antica maledizione. Per me poi che sono povero, va bene se sarò capace una volta, in mezzo a questa pessima vegetazione di iniquità e di vizi, di salvare un pezzetto della mia terra, estirpando e coltivando, perché possa produrre anche un solo giglio, e così anche presso di me si degni talvolta di venire a pascersi colui che si pasce tra i gigli. 9. Ma ho detto poco dicendo un giglio solo: la mia bocca ha parlato dalla penuria del mio cuore. Uno solo proprio non basta, ne occorrono almeno due. Dico la continenza e l’innocenza, di cui l’una non salverà senza l’altra. Invano, dunque, a una di queste inviterò lo Sposo che non si pasce presso un giglio, ma tra i gigli. Mi sforzerò, pertanto, di avere dei gigli, perché egli non sia urtato per la presenza di un solo giglio, non volendo egli pascersi se non tra i gigli, e nel caso passi oltre irritato. Pongo, dunque, prima di tutte l’innocenza; e se a questa riuscirò a unire la continenza, mi riterrò ricco possessore di due gigli. Sono addirittura re se ne potrò aggiungere una terza: la pazienza. E possono bastare queste; ma poiché nelle tentazioni possono venir meno è infatti una tentazione la vita dell’uomo sulla terra ( Gb 7,1 ) la pazienza è necessaria per essere quasi la nutrice e custode delle due precedenti. Penso che se verrà quell’amatore di gigli, e troverà così le cose, non disdegnerà di pascersi tra di noi, e fare presso di noi la pasqua, trovando molta soavità nelle due e molta sicurezza per la terza. Ma per qual ragione si dica che si pasce colui che pasce tutte le cose, lo vedremo dopo. Ora, intanto, è chiaro che lo Sposo non solo appare tra i gigli, ma per nessun modo si può trovare fuori dei gigli, essendo egli stesso tutto quello che si dice di lui, essendo cioè egli stesso giglio, Sposo della Chiesa Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXI I. In che cosa consista il candore o l’odore del giglio, cioè della virtù 1. Questo sermone comincia dove il precedente è terminato. È, dunque, lo Sposo un giglio, ma non un giglio tra le spine ( Ct 2,2 ), perché non ha spine colui che non ha fatto peccato. Ha detto che la sposa è come un giglio tra le spine, perché se essa almeno dicesse che non ha spine ingannerebbe se stessa e non vi sarebbe verità in lei. Se stesso, invece, ha chiamato fiore e giglio, non tuttavia tra le spine, ma piuttosto fiore del campo e giglio delle valli ( Ct 2,1 ). E non c’è menzione di spine perché egli è il solo degli uomini che non abbia necessità di dire: Mi rivolto solo nel mio dolore mentre mi trafigge la spina ( Sal 32,4 ). Dunque, non è mai senza gigli colui che è sempre senza vizi, perché tutto e sempre è candido e bello tra i figli degli uomini. Tu, dunque, che senti o leggi queste cose, abbi cura di avere dei gigli presso di te, se vuoi che questo abitatore tra i gigli abiti in te. Il tuo lavoro, la tua applicazione, il tuo desiderio siano gigli, e lo dimostrino il morale candore e il profumo di queste cose. Hanno i costumi i loro colori e i loro odori. Non è, infatti, nelle cose spirituali la stessa cosa il colore e l’odore, non più che in quelle corporali. Dunque, al colore provvede la coscienza, all’odore la fama: Hai fatto puzzare l’odore di noi davanti al faraone e ai suoi servi ( Es 5,21 ), dicevano gli Israeliti a Mosè, alludendo all’opinione. Il colore, poi, lo dà alla tua azione l’intenzione del cuore e il giudizio della coscienza. Sono neri i vizi, candida la virtù. Tra questa e quelli la coscienza consultata sceglie. Resta la sentenza del Signore circa l’occhio cattivo e l’occhio limpido, perché tra il candido e il nero fissò certi limiti, dividendo la luce dalle tenebre. Quello, dunque, che procede da un cuore puro e da una buona coscienza è candido, ed è virtù. Se poi è seguita una buona fama è anche giglio, in quanto non gli manca né il candore, né l’odore. 2. La virtù diventa se non più grande più bella tuttavia e più appariscente. Se nella coscienza c’è un neo anche ciò che procede da essa avrà un neo. Poiché, se la radice è viziata, lo sarà anche il ramo, e per questo qualunque cosa la radice viziata produce tramite un vizio, come ad esempio un discorso, un’azione, una preghiera, anche se ottenga il plauso della fama non può essere detto giglio, perché anche se sembra esserci l’odore, manca però il colore. Come, infatti, vi può essere un giglio con una macchia di impurità? Né potrà la fama rendere virtuoso quello che la coscienza riconosce come vizio. Si contenterà, infatti, la virtù del candore della coscienza dove non potrà seguirne l’odore della fama; ma l’odore della fama non potrà scusare il vizio della coscienza senza colore. L’uomo cercherà, tuttavia, di compiere le buone opere della virtù non solo davanti a Dio, ma anche davanti agli uomini, perché tale virtù sia veramente un giglio. II. In che cosa è il candore dell’anima e come lo Sposo si pasce e insieme pasce tra i gigli 3. Ma è anche candore dell’anima l’indulgenza di Dio, come egli stesso dice: Se i vostri peccati fossero come scarlatto diventeranno bianchi come neve; se fossero rossi come porpora diverranno bianchi come lana ( Is 1,18 ). Ed è il candore di cui si riveste colui che ha compassione di buon cuore. Se guardi, infatti, colui che il Profeta dipinge come un uomo allegro che ha compassione e dà in prestito, non ti sembra che costui dalla giocondità dell’animo abbia diffuso un certo candore di pietà, ugualmente sul suo volto e sulla sua opera? Come all’opposto, se uno dà con tristezza e come per necessità, non mostra un colore candido certamente, ma tetro, e sulla mano e sulla fronte. E perciò Dio ama chi dona con gioia ( 2 Cor 9,7 ). Ama anche il donatore triste? Ora, colui che ha guardato ad Abele per il candore della sua devozione, ha distolto lo sguardo da Caino perché la sua faccia era rabbuiata per la tristezza e il livore. Considera quale sia il colore della tristezza e il livore. Considera quale sia il colore della tristezza e dell’invidia che distoglie lo sguardo di Dio. Bene ed elegantemente nel dar colore al beneficio è stato lodato il candore della giocondità in quel verso del Poeta: « Soprattutto si presentarono volti sereni » ( Ovidio, Metamorfosi, 8, 677-678 ). Né solamente chi dà con gioia è amato da Dio, ma anche chi lo fa con semplicità. Anche la semplicità è candore. Lo proviamo dal contrario: il neo significa doppiezza, ho detto poco il neo è una macchia. Che cosa è la doppiezza, se non inganno? Ma chi agisce con inganno al cospetto di Dio , la sua iniquità diventa odiosa. E perciò beato l’uomo a cui Dio non imputa alcun male, e nel cui spirito non è inganno ( Sal 32,2 ). Bene il Signore ha notato entrambe le macchie in poche parole, l’inganno e la tristezza: Non siate, dice, tristi come gli ipocriti ( Mt 6,16 ). Lo Sposo, pertanto, essendo virtù, si compiace nelle virtù, ed essendo giglio, dimora volentieri tra i gigli, ed essendo candore, si diletta tra i candidi. 4. E forse pascersi tra i gigli vuol proprio dire compiacersi del candore e del profumo delle virtù. Un tempo si pasceva corporalmente presso Maria e Marta, e si metteva a tavola tra gigli anche col corpo esse, dico, poiché erano gigli ma rifocillava tuttavia lo spirito con la devozione e le virtù delle due donne. Che se in quel momento fosse entrato un Profeta o un Angelo, o qualsiasi altra persona spirituale, non ignorando quale fosse la maestà che era là seduta, non avrebbe dichiarato con stupore, per tanta degnazione e familiarità che vedeva dimostrare con anime pure e corpi illibati, ma tuttavia terreni e di sesso più debole, di averlo veduto non solo stare, ma pascersi tra i gigli? Così, dunque, secondo l’uno e l’altra, lo spirito cioè e la carne, lo Sposo fu trovato a pascersi tra i gigli. Penso che egli pascesse anche da parte sua, ma in spirito. Per ciò stesso che si pasceva, come pasceva! Come, dico, confortava la timidezza di quelle donne, ne rallegrava l’umiltà, ne accresceva la devozione! Ma se hai visto come il pascersi per lui sia anche pascere, vedi anche ora come viceversa per lui pascere equivalga a pascersi. Signore che mi pasci dalla mia gioventù ( Gen 48,15 ), dice il santo Patriarca Giacobbe. Buon padre di famiglia quello che prende cura dei suoi domestici, specialmente nei tempi difficili, per nutrirli in tempo di fame, cibandoli col pane di vita e di intelligenza, e nutrendoli per la vita eterna. Ma pascendoli, così io penso, si pasce egli stesso, e con i cibi che gli sono graditi, i nostri profitti. Poiché gaudio del Signore è la nostra fortezza ( Ne 8,10 ). III. Come Dio dall’uomo e l’uomo da Dio è mangiato, e la differenza di unità con cui Padre e Figlio sono uno e Dio e l’uomo sono un medesimo spirito. 5. Così dunque, quando si pasce pasce, e si pasce quando pasce, nutrendoci del suo gaudio spirituale, e godendo egli stesso ugualmente del nostro spirituale profitto. È suo cibo la mia penitenza, suo cibo la mia salvezza, suo cibo io stesso. Non mangia forse la cenere come pane? E io perché sono peccatore, sono cenere da essere mangiata da lui. Sono masticato quando sono rimproverato, sono deglutito quando vengo formato, sono cotto quando sono mutato, sono digerito quando sono trasformato, udito quando sono conformato. Non meravigliatevi di questo: egli ci mangia ed è mangiato da noi affinché ci uniamo più strettamente a lui. Diversamente non saremmo perfettamente uniti con lui. Poiché se io mangio e non sono mangiato egli sembrerà essere in me, ma non ancora io in lui. Che se sono mangiato e non mangio, sembrerà che egli mi abbia in sé, ma non sia in me; né vi sarà perfetta unione in una sola di queste cose. Ma egli mangi me, perché abbia me in sé, e da me a sua volta sia mangiato perché sia in me, e vi sarà così stretta connessione e integra complessione quando io sarò in lui e lui in me. 6. Vuoi che ti mostri con qualche cosa di simile quanto ho detto? Alza ora i tuoi occhi in una cosa molto più sublime, ma simile a questa. Se lo stesso Sposo fosse nel Padre senza che il Padre fosse in lui, o se il Padre fosse bensì in lui, ma non lui nel Padre, oserei dire che anche la loro unità non sarebbe perfetta, se pure fosse ancora unità. Ma egli é nel Padre, e il Padre è in lui, e quindi la loro unità non zoppica, ma veramente e perfettamente formano una cosa sola lui e il Padre. Così, dunque, l’anima che considera suo bene l’aderire a Dio non pensi di essere perfettamente unita a lui prima di sentire che egli abita in sé e lei in lui. Non che neppure allora formi con Dio una cosa sola, come sono una cosa sola il Padre e il Figlio, quantunque chi aderisce a Dio forma con lui un solo spirito ( 1 Cor 6,17 ). Ho letto questo, ma non ho letto che formi una cosa sola con Dio. Non dico di me, che sono nulla, ma assolutamente nessuno, sia della terra, sia del cielo, potrà usurpare per sé quella parola dell’Unigenito: Io e il Padre siamo una cosa sola ( Gv 10,30 ). Io tuttavia, benché polvere e cenere, sull’autorità della Scrittura non temo affatto di dire che sono un solo spirito con Dio, se mi permetteranno di affermarlo certe esperienze, che io aderisco a Dio come uno di coloro che rimangono nella carità, e per questo dimorano in Dio e Dio in loro, mangiando in qualche maniera Dio, e mangiati da Dio. Poiché penso che di tale adesione sia stato detto: Chi aderisce a Dio forma un solo spirito con lui. Che dunque? Dice il Figlio: Io nel Padre e il Padre è in me, e siamo una cosa sola ( Gv 10,38 ); dice l’uomo: io in Dio, e Dio è in me, e siamo un solo spirito. 7. Ma forse il Padre e il Figlio per esser l’uno nell’altro, e perciò formare una cosa sola, si mangiano a vicenda come Dio e l’uomo quasi per una vicendevole manducazione passano l’uno nell’altro, anche se con questo non diventano una cosa sola, ma un solo spirito? Per nulla affatto. Poiché è diverso il modo di essere l’uno nell’altro nei due casi, e non è la medesima unità che ne risulta. Il Padre e il Figlio sono l’uno nell’altro in modo non solo ineffabile, ma incomprensibile, così ampi e capaci di contenersi a vicenda, ma ampi senza possibilità di dividersi in parti, e capaci senza possibilità di parteciparsi. Così infatti canta la Chiesa nell’inno: Nel Padre tutto il Figlio e tutto nel Verbo il Padre. Il Padre è nel Figlio, nel quale sempre si è compiaciuto; il Figlio è nel Padre dal quale da sempre è nato e mai separato. Ora l’uomo è in Dio per la carità e Dio nell’uomo, al dire di San Giovanni, che chi rimane nella carità rimane in Dio e Dio in lui ( 1 Gv 4,16 ). Questo è un certo accordo delle volontà, per cui due sono in un solo spirito, anzi, formano un solo spirito. Vedi la diversità? Non è lo stesso avere la medesima sostanza e avere il medesimo sentire. Del resto se hai fatto attenzione ti è abbastanza indicata la differenza delle unità nelle parole: « una cosa sola » e « un solo spirito », poiché non si potrà dire che il Padre e il Figlio siano « uno », né che l’uomo e Dio siano « una cosa sola ». Non si possono dire « uno » il Padre e il Figlio, perché il primo è Padre e l’altro è Figlio; si dicono però e sono una cosa sola, perché unica è la loro sostanza, né ognuno di essi ha la sua. Invece, l’uomo e Dio, non essendo di un’unica sostanza o natura, non possono dirsi una cosa sola; si dicono tuttavia formare un solo spirito con certa e assoluta verità se aderiscono all’altro con il vincolo dell’amore. Questa unità, infatti, non è costituita dall’unità dell’essenza, ma dalla connivenza delle volontà. 9. Mi sembra che sia chiara non solo la diversità, ma anche la disparità delle unità costituite una da una sola essenza, l’altra da diverse sostanze. Che c’è di più distante che l’unità di parecchi, e l’unità di una cosa sola? Così tra le unità, come ho detto, si distinguono « uno » e « una cosa sola » perché per « una cosa sola » viene designata l’unità di essenza nel Padre e nel Figlio, e invece per « uno » non è indicata questa, ma una certa pietà comune di affetti tra Dio e l’uomo. Con un’aggiunta tuttavia anche il Padre e il Figlio si dicono rettamente « uno », per esempio: un solo Dio, un solo Signore, e tutto ciò che si dice di uno di essi e non di entrambi. Non vi è, infatti, in essi diversa divinità o maestà, non più che sostanza o essenza o natura: ma tutte queste cose, se bene consideri, non sono diverse in essi, o divise, ma sono una cosa sola. IV. L’unità sostanziale del Padre e del Figlio e di quella per consenso della volontà fra l’uomo e Dio, e come l’uomo ab aeterno sia in Dio ma non è vero il contrario Ho detto troppo poco: sono una cosa sola con essi. Che cosa dire di quella unità per cui molti cuori e molte anime si legge che formassero una cosa sola? Non è da considerare neppure unità rispetto a questa, dove non vengano unite molte cose, ma designa singolarmente una cosa sola. Dunque è singolare e somma quella unità che non risulta dal riunire insieme cose prima separate, ma esiste dall’eternità. Né questa unità è prodotta da quella manducazione spirituale di cui si è parlato. Non viene prodotta, ma è. Molto meno si deve pensare che la produca una qualsiasi congiunzione di essenze o consenso di volontà, perché non sono. Una sola, infatti, come si è detto, è in essi l’essenza e la volontà; ma dove c’è uno solo non vi è consenso, non composizione, non unione o qualcosa di simile. Vi devono essere per lo meno due volontà perché ci sia il consenso, due essenze perché vi sia congiunzione o unione per consenso. Nulla di questo nel Padre e nel Figlio, perché né ci sono in essi due essenze, né due volontà. In essi unica è l’essenza e unica la volontà, anzi in essi queste due sono una cosa sola, come mi ricordo di aver detto, e formano con essi una cosa sola, per questo essi, rimanendo vicendevolmente l’uno nell’altro in modo incomprensibile e incomparabile, veramente e singolarmente sono una cosa sola. Se tuttavia qualcuno dice che tra il Padre e il Figlio c’è un consenso, non dico di no, purché non si intenda l’unione di due volontà, ma l’unità di una sola volontà. 10. Dio, invece, e l’uomo, che possiedono e si differenziano per volontà e per l’essenza che è propria a ciascuno dei due, rimangono l’uno nell’altro in un modo molto diverso, cioè non per la confusione delle due sostanze, ma per l’uniformità delle due volontà. E questa unione è per essi comunione di volontà e consenso nella carità. Felice unione, se ne fai l’esperienza. Nulla se la metti a confronto con l’altra. Voce di un esperto: Buona cosa per me aderire a Dio ( Sal 73,28 ). Buona cosa veramente se aderirai da ogni parte. Chi è che aderisce perfettamente a Dio se non colui che, rimanendo in Dio in quanto amato da Dio, amandolo a sua volta ha attirato Dio in sé? Dunque, quando da ogni parte aderiscono a vicenda l’uomo e Dio, aderiscono da ogni parte per la mutua intima dilezione che li rende come inviscerati l’uno nell’altro per questo direi che non vi è dubbio essere Dio nell’uomo e l’uomo in Dio. Ma l’uomo è in Dio dall’eternità, in quanto dall’eternità amato, se tuttavia è di quelli che dicono che Dio ci ha amati e gratificati nel suo diletto Figlio prima della creazione del mondo; Dio, invece, é nell’uomo da quando è amato dall’uomo. E se è così l’uomo è si in Dio, anche quando Dio non è nell’uomo; Dio, invece, non è nell’uomo se questi non è in Dio. Rimanere infatti nell’amore non può, anche se ama per un certo tempo, chi non è amato. Può, però, non ancora amare ed essere già amato; diversamente come potrebbe stare: perché egli per primo ci ha amati ( 1 Gv 4,10 ). Ora, quando ama anche colui che già prima era amato allora l’uomo è in Dio e Dio è nell’uomo. Chi poi mai ha amato, consta che mai è stato amato, e perciò né egli è in Dio, né Dio in lui. Abbiamo detto queste cose per far rilevare la differenza tra quella connessione per cui il Padre e il Figlio sono una cosa sola, e quella per cui un’anima aderendo a Dio, forma con lui un solo spirito, perché non capiti che essendo scritto che l’uomo che rimane nella carità rimane in Dio e Dio in lui, e che il Figlio è nel Padre e il Padre è in lui, si attribuisse anche all’uomo adottato quello che è prerogativa del Figlio unico. V. Il terzo senso del pascolo dello Sposo, che è Verbo di Dio; ciò che non è opera buona e non è fra le virtù, cioè fra i gigli, non è oggetto del suo pascolo 11. Terminata questa questione dobbiamo ritornare a colui che si pasce tra i gigli, perché di là abbiamo fatto questa digressione fino qui; se non sia stata cosa inutile giudicatelo voi. E già di quel passo avevo proposto due sensi: sia che si pasce delle virtù di coloro che si sono resi candidi colui che è virtù e candore, sia che riceve i peccatori a penitenza nel suo corpo, che è la Chiesa, per incorporarsi i quali fece se stesso peccato, lui che non commise peccato, perché fosse distrutto il corpo del peccato al quale si erano conformati quelli che peccarono, e divenissero giustizia, gratuitamente giustificati in lui ( Rm 3,24; 2 Cor 5,21 ). 12. Ne aggiungo un terzo che mi viene in mente, e basterà sia per la spiegazione del passo, sia per chiudere il sermone. La parola di Dio è verità, e lo stesso sposo. Sapete questo. Ascoltate il resto. Questa parola, quando viene ascoltata e non le si obbedisce, resta in qualche modo per il momento vuota e digiuna, del tutto triste, e si lamenta di essere stata pronunziata invano. Se invece le si obbedisce non ti sembra che la parola cresca e in qualche modo metta corpo, perché alla parola si è aggiunta l’azione, nutrita da certi frutti di obbedienza, da messi di giustizia? Per questo si dice nell’Apocalisse: Ecco, io sto alla porta e busso, se qualcuno ascolterà la mia voce e aprirà la porta, entrerò da lui, e cenerò con lui e lui con me ( Ap 3,20 ). Questo senso sembra venire approvato, e anche la sentenza del Signore presso il Profeta, dove dice che la sua parola non tornerà a lui vuota, ma prospererà e farà quello per cui l’ha mandata. Non tornerà, dice, a me vuota ( Is 55,11 ), ma quasi prosperando in tutto si saturerà degli atti buoni di coloro che, animati dall’amore gli obbediscono. Infine, secondo il modo di parlare si dice che la parola si è adempiuta quando ha ottenuto l’effetto, come se fosse in qualche modo famelica e si sentisse vuota, fino a che sia riempita dall’esecuzione dell’opera. 13. Ma ascolta Cristo stesso che dice di quale cibo si nutra: Il mio cibo, dice, è di fare la volontà del Padre mio ( Gv 4,34 ). È parola del Verbo che indica chiaramente essere suo cibo un’azione buona, se la troverà tra i gigli, cioè tra le virtù. Diversamente, se la trova fuori, anche se il cibo in sé sembra buono, non lo toccherà colui che si pasce tra i gigli. Per esempio, non accetta l’elemosina dalla mano di un ladro o di uno strozzino, e neppure da quella di un ipocrita che facendo l’elemosina suona la tromba davanti a sé per essere glorificato dagli uomini. E neppure esaudirà in qualche modo l’orazione di colui che ama pregare negli angoli delle piazze per essere veduto dagli uomini. L’orazione del peccatore, infatti, sarà esecrabile. Invano pure offre la sua offerta all’altare colui che sa che il suo fratello ha qualche cosa contro di lui. Infine, Dio non guardò all’offerta di Caino perché non si comportava rettamente nei riguardi di suo fratello. Secondo la testimonianza del Profeta Dio aveva anche in abominio i sabati, le neomenie e i sacrifici dei Giudei, talmente da protestare che la sua anima odiava queste cose, e diceva: Quando venivate al mio cospetto, chi ha richiesto queste cose dalle vostre mani? ( Is 1,12 ). Credo che quelle mani non odoravano di gigli, e perciò respingeva l’offerta presentata da esse colui che è solito pascersi tra i gigli, e non tra le spine; non avevano forse mani spinose quelli ai quali diceva: Le vostre mani sono piene di sangue? ( Gen 27,23 ). Anche le mani di Esaù erano pelose, con peli simili a spine; perciò non furono ammesse per il servizio del Santo. 14. Temo che tra di noi vi siano alcuni dei quali lo Sposo non accetti le offerte, perché non sanno di gigli. Infatti, se nel mio digiuno si trova la mia volontà, tale digiuno non è adatto allo Sposo, né egli gusta il mio digiuno che sa non di obbedienza, ma del vizio della volontà propria. Io penso la stessa cosa non solo del digiuno, ma del silenzio, delle veglie, dell’orazione, della lettura, del lavoro manuale, insomma di ogni osservanza del monaco dove si trova la volontà propria e non l’obbedienza al maestro. Non penso affatto che tali osservanze, pure buone in sé, siano da annoverarsi tra gigli, vale a dire tra le virtù. Ma chi fa queste cose si sentirà dire dal Profeta: È forse questo l’ossequio che io cerco? dice il Signore. E aggiungerà: Nel giorno dei tuoi beni si trova la tua volontà. Grande male la volontà propria, la quale fa si che i tuoi beni non siano beni per te. Bisogna, pertanto, che queste cose diventino gigli, perché colui che si pasce tra i gigli non gusterà nulla che sia inquinato dalla propria volontà. La sapienza arriva dappertutto per la sua mondezza, e nulla di inquinato si trova in essa. Così, dunque, lo Sposo ama pascersi tra i gigli, cioè presso i cuori mondi e nitidi. Ma fino a quando? Fino a che aspiri il giorno e si inclinino le ombre ( Ct 2,17 ). È un luogo ombroso e fitto. Non entriamo in questa selva di profondo mistero se non alla chiara luce del giorno. Ormai, infatti, il mio discorso si è prolungato più del solito e il giorno è avanzato, e così contro voglia siamo costretti ad allontanarci da questi gigli. Non sono vinto dalla prolissità del discorso perché l’odore di questi fiori mi toglie ogni stanchezza. Pare che resti poco di questo capitolo, ma questo poco è pieno di mistero, come del resto tutto in questo cantico. Ma chi rivela i misteri sarà là, lo spero, quando cominceremo a bussare, perché non chiuda la bocca di quelli che parlano di lui, essendo a lui cosa familiare aprire le cose chiuse, lui che è Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXII I. Come si aggiunge a entrambi i capitoli delle parti: « Finché aspiri » e come allora lo Sposo non si pasce, ma beve 1. Il mio diletto a me e io a lui che si pasce tra i gigli fino a che aspiri il giorno e si inclinino le ombre ( Ct 2,16-17 ). Abbiamo da parlare soltanto dell’ultima parte di questo versetto, e, cominciando, non so a quale riallacciarla delle due parti precedenti: posso farlo con l’una o con l’altra indifferentemente. Sia infatti che si dica: Il mio diletto a me e io a lui fino a che aspiri il giorno, saltando solo che si pasce tra i gigli, sia che si dica, seguendo la lettera: che si pasce tra i gigli fino a che aspiri il giorno e si inclinino le ombre, non c’è inconveniente alcuno per l’una o l’altra versione. C’è una cosa, che quel fino a che unito alla prima parte include anche la seconda; se lo metti in mezzo escludi la prima parte per forza. Ammettiamo che lo Sposo cessi di pascersi tra i gigli quando spira la brezza del giorno, cesserà similmente anche di essere rivolto alla sposa e lei a lui? Certamente no. Per sempre persevereranno a tendere l’uno verso l’altra, e viceversa, e più felicemente nell’eternità, dove questa tendenza sarà anche più veemente, più veemente perché più libera. Abbia dunque questo fino a che quel senso che ha presso il Vangelo di Matteo, dove si racconta che Giuseppe non conobbe Maria fino a che partorì il suo figlio primogenito ( Mt 1,25 ), infatti non è che la conobbe dopo; ovvero come nel salmo: I nostri occhi al Signore nostro Dio finché abbia pietà di noi ( Sal 123,2 ) non vuol dire che cesseranno di essere rivolti a Dio quando comincerà ad avere pietà; oppure ancora come quando il Signore disse agli Apostoli: Ecco io sono con voi fino alla consumazione dei secoli ( Mt 26,20 ), il che non significa che dopo non sarà più con loro. Questo va bene se fino a che si riferisce alle parole il mio diletto a me e io a lui. Se invece preferisci che si riferisca a quelle altre che si pasce tra i gigli, sarà da prendere in altro senso. Resta più difficile da dimostrare come il diletto cessi di pascersi quando spunterà il nuovo giorno. Se questo, infatti, è il giorno della Risurrezione perché non dovrebbe più pascersi quando vi sarà molto più grande abbondanza di gigli? Ciò per quanto riguarda il senso da dare alla lettera. 2. Ora osserva con me che in tutto il regno dove lo Sposo sta e si delizia tra tanti fulgidi gigli, non si dice però che si pasce, secondo quello che era solito fare prima. Dove sono infatti ormai i peccatori che Cristo cerca di incorporarsi, masticati e morsicati in certo qual modo dai denti di un’austera disciplina, cioè con l’afflizione della carne e la contrizione del cuore? Ma ormai il Verbo Sposo non ha più bisogno di cibo che gli venga procurato da alcuni fatti o opere di obbedienza, là dove ogni attività è riposo, solo consistendo nella visione e nell’affetto. Certo è suo cibo fare la volontà del Padre suo, ma qui, non lassù. Perché, infatti, fare quella che è già fatta? Consta che allora sarà anche perfetta. Tutti i santi, infatti, proveranno allora quale sia la volontà di Dio, buona, gradita e perfetta ( Rm 12,2 ). E certamente, dopo ciò che è perfetto non resta da fare nulla, resta solo da godere, non da fare, da sperimentare, non da operare, da vivere in essa, non da esercitarsi in essa. Non è, forse, quella stessa volontà che con istantissima orazione, istruiti dal Signore, chiediamo che si faccia così in terra come in cielo, dove ne gusteremo il frutto senza che l’azione ci procuri fatica? Non vi sarà, dunque, per il Verbo Sposo il cibo delle opere, perché verrà meno necessariamente ogni opera, dove in ogni modo più pieno da tutti si percepisce la sapienza: poiché chi ha poca attività la percepisce ( Sir 38,25 ). 3. Ma vediamo adesso se quello che diciamo possa reggere anche secondo la sentenza di alcuni che intendono per pascersi tra i gigli il compiacersi del candore delle virtù; abbiamo, infatti, riferito anche questa. Diremo, forse, che allora non vi saranno virtù, o che non saranno gradite allo Sposo? È da stolto pensare l’una o l’altra di queste due cose. Ma osserva come forse se ne compiace in modo diverso perché è certo che ne prova gusto ma forse non come da cibo, quanto come da bevanda. Veramente in questo tempo e in questo corpo nessuna delle nostre virtù è talmente purificata, nessuna così soave e genuina da poter servire da bevanda allo Sposo. Ma colui che vuole che tutti gli uomini si salvino dissimula molte cose, e da quello che non può per il momento deglutire come facile bevanda, cerca di estrarre qualche cosa di saporito, quasi con una certa arte, e un certo lavoro di masticazione. Vi sarà un tempo in cui la virtù sarà facile a deglutirsi, senza lavoro di denti, né fatica da parte di chi mastica, o piuttosto non stancherà chi mastica, e recherà diletto a chi la beve senza fatica, appunto come bevanda, come cibo solido. C’è, infatti, la promessa del Vangelo: Non berrò più del frutto della vite, dice, fino a che beva quel vino nuovo con voi nel regno del Padre mio ( Mt 26,29 ). E del cibo non si fa menzione alcuna. Anche nel Profeta si legge: Come un prode assopito dal vino ( Sal 78,65 ); anche qui non si trova nulla del cibo. La sposa, dunque, conscia di questo mistero, avendo saputo e riferito che lo Sposo si pasce tra i gigli, ha posto un termine a questa sua degnazione, anzi conobbe che era stabilito questo termine e lo ha riferito dicendo: Fino a che aspiri il giorno e si inclinino le ombre. Sapeva, infatti, che gli si doveva dare più da bere che da mangiare. Anche l’usanza sembra appoggiare questo senso, in quanto dopo mangiato si è soliti bere. Dunque, colui che qui mangia di là berrà, e la sua bevanda sarà tanto più dolce quanto più sicura, e deglutirà anche quelle cose che adesso più con minuzia, e in qualche modo, con più fatica, rende liquide masticando. II. Il giorno e le ombre spirituali, e come, spirando il giorno, si inclinano o scompaiono 4. Ma ora veniamo a considerare quel giorno e quelle ombre: quale sia quello, e quali queste: perché si dica di quello che spira, e perché si dica che le ombre si inclinano. È detto letteralmente: fino a che aspiri il giorno, al singolare. Solo in questo passo, se non erro, si trova questa frase: il giorno spira. Si dice, infatti, che spirano i venti, le brezze, non i tempi. Respira l’uomo, respirano gli altri animali, ai quali questo ricambio di aria fa continuare la vita. E questo che è se non vento? Spira anche lo Spirito Santo, e per questo si chiama Spirito. Per qual ragione, dunque, si dice che il giorno spira, che non è né vento, né spirito, né animale? Sebbene non è detto neppure che spira, ma che « aspira ». Né meno fuori dell’uso comune è detto: e si inclinino le ombre. Infatti, al nascere di questa luce corporea e visibile le ombre non s’inclinano, ma spariscono. Bisogna, dunque, cercare un senso fuori del corporale. E se troveremo un giorno spirituale forse troveremo anche le ombre e la loro inclinazione, e si comprenderà più facilmente come « aspiri » questo giorno. Chi pensa che sia corporeo quel giorno di cui dice il profeta: è meglio un solo giorno nei tuoi atri che mille altrove ( Sal 84,11 ), non so proprio che cosa possa pensare che non sia corporeo. C’è anche un giorno con senso cattivo, quel giorno che hanno maledetto i Profeti. Ma non pensiamo che sia di questi visibili che Dio ha fatto. Dunque, è spirituale. 5. Chi vi sarà mai che dubiti che fu spirituale quell’ombra con cui fu coperta Maria nell’atto di concepire, e quella di cui parla così il Profeta: Spirito è davanti alla nostra faccia Cristo Signore, all’ombra di Lui viviamo tra le genti? ( Lam 4,20 secondo i LXX ). Io, tuttavia, penso che in questo passo siano chiamate ombre le potestà avverse, che non solo come ombre e tenebre, ma come principi delle tenebre vengono designate dall’Apostolo, e quelli della nostra razza che aderiscono a quelli, figli veramente della notte e non della luce o del giorno. Queste tenebre non del tutto spariscono all’apparire del giorno, come fanno le tenebre corporali all’apparire della luce corporea, che non solo spariscono, ma le vediamo completamente dissolversi. Saranno dunque queste spirituali tenebre un po’ meno ridotte che il nulla, ma più miserevoli. Vi saranno ancora, ma inclinate e suddite. S’inclinerà è detto certamente del diavolo, principe delle tenebre, e cadrà quando avrà dominato sui poveri ( Sal 9,31 ). Non sarà, dunque, distrutta la sua natura, ma gli verrà sottratta la potenza; non sarà distrutta la sua sostanza, ma passerà l’ora e la potestà delle tenebre. Vengono tolti i demoni perché non vedono la gloria di Dio, non vengono annientati perché sempre siano tormentati dal fuoco. Come non saranno inclinate le ombre quando saranno deposti i potenti dai loro seggi e saranno posti a sgabello dei piedi? E questo deve avverarsi presto: È l’ultima ora ( 1 Gv 2,18 ); la notte è avanzata, il giorno è vicino ( Rm 13,12 ). Spunterà il giorno, sparirà la notte. La notte è il diavolo, è l’angelo di Satana, anche se si trasfigura in angelo di luce. Notte è l’Anticristo, che il Signore ucciderà con il soffio della sua bocca, e distruggerà con la luce della sua venuta. Non è, forse, il Signore il giorno? Giorno veramente illuminante e spirante: col soffio della sua bocca fuga le ombre e distrugge i fantasmi con la luce del suo avvento. Oppure, se piace maggiormente dare alla parola « inclinarsi » nient’altro che il significato di essere distrutto, tanto per non omettere anche questo senso, diciamo ombre le figure e gli enigmi delle Scritture, nonché le locuzioni sofistiche e i cavilli di parole e gli argomenti confusi, tutte cose che allo stato attuale danno ombra alla luce della verità. Imperfetta è infatti la nostra conoscenza, e imperfetta la nostra profezia ( 1 Cor 13,9 ). Ma con lo spuntare di questo giorno si inclineranno le ombre, perché tutto venendo occupato dalla pienezza della luce non potrà restarvi alcuna parte di tenebre. Come dice l’Apostolo: Quando verrà quello che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà ( 1 Cor 13,10 ). III. Il giorno spira o inspira, espira o cospira, respira, la notte sospira 6. Potrebbe bastare quanto è stato detto fin qui su questo argomento, se il testo portasse semplicemente « spiri » e non « aspiri » parlando del nuovo giorno. Per questa piccola differenza penso di dover aggiungere qualche cosa, per spiegare cioè la diversità di queste due parole. Io infatti per dire la verità, sono da un pezzo persuaso che nel testo del sacro e prezioso eloquio non vi sia neppure una particella inutile, senza una ragione. Siamo, dunque, soliti usare questa parola quando desideriamo ardentemente qualche cosa, come per esempio quando diciamo: « Quello aspira a quell’onore o a quella dignità ». Viene, perciò, designato con questa parola che si compiranno cose meravigliose e grandiose in quel giorno per opera dello Spirito, quando non solo i cuori, ma anche i corpi nel loro genere, saranno spirituali; e coloro che ne sono degni saranno inebriati dall’abbondanza della casa del Signore, e berranno al torrente della sua voluttà. 7. Oppure in altro senso: già per i santi Angeli è spuntato il giorno santificato, spirando ad essi con forza costante e con soffio sempiterno i melliflui arcani dell’eterna divinità. Un fiume impetuoso, dice il Salmo, rallegra la città di Dio ( Sal 46,5 ), ma una città a cui è detto: Coloro che abitano in te sono tutti festanti ( Sal 87,7 ). Quando poi avrà cominciato a spirare anche per noi che abitiamo la terra, non sarà allora soltanto spirante, ma aspirante, per ammettere anche noi nel suo seno dilatato. Oppure, parlando un po’ più difficile, e allargando il discorso, plasmato l’uomo con il fango della terra il Creatore, come narra la vera storia, soffiò nella sua faccia un alito di vita ( Gen 2,7 ), e per lui divenne quello giorno inspirante; ed ecco che la notte invidiosa fece irruzione in questo giorno, simulando astutamente la luce. Infatti, mentre veniva promesso quasi uno splendido lume di scienza, sparse contro la nuova luce le tenebre insospettate del malvagio consiglio, e portò sui primordi della nostra origine la tetra caligine dell’esiziale prevaricazione. Ahimè! Ahimè! Non capiscono, non vogliono intendere, avanzano nelle tenebre ( Sal 82,5 ), ignorando, ritenendo le tenebre luce e la luce tenebre ( Is 5,20 ). Insomma la donna mangiò il frutto dell’albero proibito che le aveva dato e cominciarono a conoscere qualche cosa di nuovo; infatti subito si aprirono i loro occhi, e divenne quello il giorno cospirante, mortificando l’ispirante, e sostituendo l’espirante. Cospirarono infatti e congiurarono insieme contro il Signore e contro il suo Messia ( Sal 2,7 ) l’astuzia del serpente, le lusinghe della donna e la mollezza dell’uomo. Per cui parlavano tra di loro, il Signore cioè e il suo Cristo: Ecco, Adamo è diventato come uno di noi ( Gen 3,22 ) perché si era lasciato sedurre dai peccatori, commettendo ingiuria contro l’uno e l’altro. 8. In questo giorno nasciamo tutti. E portiamo tutti impresso il marchio dell’antica cospirazione. Eva cioè vivente nella nostra carne, e, per mezzo della concupiscenza che da lei abbiamo ereditato, il serpente cerca con ogni sollecitudine di indurci a dare il nostro consenso alla sua fazione. Perciò, come ho detto, questo giorno hanno maledetto i santi, desiderandolo breve, e che presto si mutasse in tenebre, perché è giorno di contraddizione e di lotta, nel quale la carne non cessa di avere desideri contrari allo spirito, e la legge delle membra, contraria alla legge della mente, con infaticabile ribellione assiduamente la contraddice. Così il giorno si è fatto morente. Da allora in poi qual è l’uomo che vivrà e non vedrà la morte? Lo dica qualcuno a causa dell’ira; io penserei non meno per la misericordia, perché gli eletti, per i quali tutto viene fatto, non siano troppo affaticati dalla contraddizione per la quale sono anch’essi condotti schiavi della legge del peccato che esiste nelle loro membra. Hanno, infatti, in orrore e sopportano con grande pena questa turpe cattività e triste lotta. 9. Affrettiamoci a respirare dalla cospirazione antica e iniqua, perché brevi sono i giorni dell’uomo ( Gb 14,5 ). Ci riceva pure il giorno che respira prima che veniamo assorbiti dalla notte che sospira, per immergerci nelle tenebre esteriori dell’eterna caligine. Chiedi in che consista questa respirazione? In questo: quando comincia lo spirito a desiderare a sua volta cose contrarie alla carne. Se resisti a questa respiri, se con lo spirito mortifichi le opere della carne hai respirato. Castigo, dice l’Apostolo, il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che dopo aver predicato agli altri io stesso venga riprovato ( 1 Cor 9,27 ). È la voce di chi respira, anzi di chi aveva già respirato. Va’, e fa’ tu lo stesso per dar prova di aver respirato, perché tu sappia che il giorno inspirante è nuovamente sorto per te. IV. Come coloro che respirano di giorno crescano nell’abbondanza, coloro che sospirano nella notte maggiormente sono impoveriti Né la notte della morte prevarrà su questo giorno redivivo; anzi, maggiormente splenderà nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno compreso ( Gv 1,5 ). Io penso che neanche con la fine della vita questo lume si spegnerà, e a uno che muore così, credo che si possano applicare quelle parole: La notte mi illumina nelle mie delizie ( Sal 139,11 ). E come non vedrà più chiaro sciolto dalla nube, o piuttosto, dalla carcassa del corpo? Sarà senza dubbio, libero da vincoli corporei, libero tra i morti, e come uno che vede tra i ciechi. Poiché, come un tempo, mentre tutti erano immersi in fitte tenebre per tutto l’Egitto, solo in mezzo a quelle tenebre ci vedeva chiaramente il popolo che vedeva Dio, cioè il popolo d’Israele, perché dice la Scrittura, dovunque era Israele là c’era luce ( Es 10,23 ), così tra i figli delle tenebre, nella tetra oscurità della morte, rifulgeranno i giusti e vedranno tanto più chiaramente in quanto spogli dalle ombre dei corpi. E quelli che prima non hanno respirato e infatti non domandarono il lume del giorno inspirante, e il Sole di giustizia non è sorto per essi questi tali, dico, andranno dalle tenebre in tenebre più dense, perché quelli che sono nelle tenebre diventino ancora più tenebrosi, e coloro che vedono, vedano con maggiore chiarezza. 10. E qui, forse, a proposito si potrà anche addurre la parola del Signore: A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e a quello che non ha sarà tolto anche quello che sembra avere ( Lc 19,26 ). Tanto meno gli uni vedono, meno vedranno, fino a che questi ultimi vengano inghiottiti dalla sospirante notte, e gli altri li riceva il giorno aspirante, che sono i novissimi di entrambe le categorie, vale a dire l’estrema cecità e la suprema chiarezza. Da questo momento non è più possibile togliere ancora qualche cosa a chi è già vuoto del tutto, non è più possibile togliere alcunché a chi è pieno, se non quel non so che promesso loro dalle parole: Una misura buona, e colma, e scossa e sovrabbondante vi sarà versata in seno ( Lc 6,38 ). Non ti sembra più che pieno ciò che trabocca? Così senti senza stupirti parlare di pieno e di più pieno, se ricordi di aver letto: In eterno e oltre ( Es 15,18 ). Ecco, questa sarà l’abbondanza del giorno che aspira. Essa, direi, aggiungerà una misura di ispirata pienezza all’abbondanza del giorno inspirante, operando sopra misura in sublime peso di gloria, di modo che ridondi nei corpi la traboccante aggiunta di gloria. Per questa ragione questo giorno non fu detto spirare, ma aspirare, perché vi aggiunge l’ispirazione, come lo Spirito Santo ha voluto significare con l’aggiunta della preposizione « ad » perché quelli che esso interiormente illumina, questo li adorna al di fuori, rivestendoli della stola di gloria. 11. E questo basti per dare ragione della parola « aspira ». E se volete sapere, il giorno che aspira è lo stesso Salvatore che aspettiamo il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso ( Fil 3,20-21 ). Il giorno ispirante è ancora lui stesso, secondo l’operazione per cui prima ci fa respirare nella luce che ispira, perché siamo anche noi giorno che respira in lui, secondo che il nostro uomo interiore viene rinnovato nello spirito della sua mente, a immagine di colui che l’ha creato, fatto pertanto giorno da giorno e luce da luce. Dato, pertanto, che due giorni precedono in noi, uno inspirante per la vita del corpo, l’altro respirante nella grazia della santificazione, resti il giorno aspirante nella gloria della risurrezione, faccia vedere che un giorno si adempirà nel corpo quello che è preceduto nel capo, grande sacramento di pietà testimoniato dal Profeta che disse: Ci darà vita dopo due giorni, nel terzo ci risusciterà, e vivremo al suo cospetto; affrettiamoci a conoscere il Signore ( Os 6,3 ). Egli è colui nel quale gli Angeli bramano fissare lo sguardo, lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXIII I. In che senso si dice: « Ritorna … » e che cosa in questo si addice alla Chiesa, che cosa alla Sinagoga 1. Ritorna, sii simile, mio diletto, alla capriola e al cerbiatto ( Ct 2,17 ). Che? Ora se ne va, e ora lo richiami? Che cosa è successo improvvisamente in così breve spazio di tempo? Si è forse dimenticata di qualche cosa? Sì, ha dimenticato tutto quello che non è lui, anche se stessa. Sebbene, infatti, non sia priva di ragione, in questo momento, però, non sembra completamente in sé. E neppure sembra avere affatto nel sentimento quella verecondia che dimostra nella condotta. È un effetto dell’amore eccessivo, che diventa intemperante. È questo, infatti, che trionfando e vincendo in sé ogni senso di pudore, ogni misura di convenienza, e facendo passare sopra ogni considerazione di ragione, produce una certa negligenza e noncuranza di quanto può prescrivere la modestia e la convenienza. Vedi, infatti, ora come, appena ha cominciato ad andarsene, già gli fa pressione perché ritorni. Lo prega anzi di far presto e di correre come i veloci animali della foresta, quali il capriolo e il cerbiatto. Questo è il tenore della lettera, e questa la porzione dei Giudei. 2. Ma io, come ho ricevuto dal Signore, scruterò per me nel profondo grembo del sacro eloquio lo spirito e la vita, e questa è la porzione per me che credo in Cristo. Perché non dovrò cavare dalla sterile e insipida lettera un nutrimento dolce e salutare per lo spirito, come grano dalla paglia, dal nocciolo il gheriglio, dall’osso il midollo? Non voglio aver nulla a che fare con questa lettera che al gusto sa di carne, e mangiata dà la morte! Quello, invece, che in essa è nascosto è dallo Spirito Santo. Ora lo Spirito parla dicendo cose misteriose ( 1 Cor 14,2 ), secondo l’Apostolo; ma Israele riguardo al mistero svelato ritiene il velo del mistero. E questo perché un velo è ancora posto sopra il suo cuore. Così la lettera come suona, appartiene a lui; quello che significa è mio. E perciò ad esso appartiene il ministero della morte nella lettera, e a me la vita nello spirito. Infatti è lo Spirito che vivifica ( Gv 6,64 ): dà, infatti, l’intelligenza. Non è forse vita l’intelligenza? Dammi l’intelligenza e avrò vita ( Sal 119,144 ) dice il Profeta al Signore. L’intelletto non rimane al di fuori, non si ferma alla superficie, non palpa come un cieco le cose esterne, ma scruta le cose profonde per strapparne e cogliere in sé con somma avidità i tesori di verità, e poter dire poi con il Profeta: Io gioisco per la tua promessa come uno che trova grande tesoro ( Sal 119,162 ). Così infatti il regno della verità patisce violenza e i violenti lo rapiscono ( Mt 11,12 ). Invece, quel fratello maggiore che torna dal campo è figura del popolo vecchio e terreno, il quale edotto ad amare la fatica per l’eredità terrena con fronte stanca geme ansioso sotto il pesante giogo della legge e porta il peso del giorno e del calore, questi dico, perché non ha avuto l’intelligenza, se ne sta fuori anche adesso, e neanche invitato dal Padre vuole entrare nella casa del convito, privando se stesso della partecipazione alla sinfonia e alla danza e al vitello grasso. Misero, che non vuole sperimentare quanto buona cosa sia e quanto gioconda che i fratelli vivano insieme! Ciò sia detto per distinguere la parte della Chiesa dalla parte della Sinagoga, per cui sia più manifesta la cecità di questa dalla prudenza di quella, e la felicità dell’una risalti maggiormente dalla misera stoltezza dell’altra. II. Questa espressione si addice alla Chiesa primitiva; che cosa sia da vedere nella capriola e nel cerbiatto 3. E ora scrutiamo le parole della sposa, e sforziamoci di esprimere i casti affetti del santo amore in modo che nulla nel sacro testo appaia senza una ragione, nulla meno che decoroso e opportuno. E se verrà alla mente quell’ora quando il Signore Gesù questi è infatti lo Sposo passava da questo mondo al Padre, e nello stesso tempo che cosa provasse nel suo animo quella domestica Chiesa, novella sposa, mentre si vedeva lasciata quasi vedova desolata, con l’unica speranza degli Apostoli, i quali, avendo lasciato tutto avevano seguito Gesù, ed erano rimasti perseveranti con lui nelle sue prove; se penseremo a questo vedremo come a ragione e senza alcuna incongruenza si sia dimostrata tanto triste della sua dipartita, quanto sollecita per il suo ritorno, specialmente se si considerano i suoi sentimenti e lo stato in cui veniva lasciata. Pertanto, e l’affetto e il bisogno erano per lei due ragioni per supplicare il diletto, dato che non era possibile persuaderlo a non andarsene per salire dove era prima, che per lo meno affrettasse il suo promesso ritorno. E questo che qui desidera e chiede, che sia simile a quelle fiere che sono più agili nella corsa, è indizio di un animo impaziente per il desiderio, per il quale nessuna fretta è eccessiva. Non chiede, forse, anche questo ogni giorno quando dice nell’orazione: Venga il tuo regno? ( Mt 6,10 ). 4. Io però, oltre che penso che venga indicata in questi due animali anche la debolezza, nella capriola per il sesso, per l’età nel cerbiatto. Vuole, pertanto, la sposa che lo Sposo venga si con potestà, ma non appaia nella forma di Dio come giudice, bensì in quella forma in cui non solo è nato, ma è nato per noi bambino, e solo per opera di una donna, cioè del sesso più debole. Perché questo? Perché da questo sia portato ad essere mite con i deboli nel giorno dell’ira, e si ricordi nel giudizio di tener più conto della misericordia che della giustizia. Infatti, se guarderà le iniquità, anche degli eletti, chi potrà sussistere? Le stelle non sono monde al suo cospetto, e anche negli Angeli ha trovato malizia. Senti come un santo ed eletto parli a Dio: Tu hai rimesso la malizia del mio peccato, per questo ti prega ogni fedele ( Sal 32,5-6 ). Anche i santi, pertanto, devono pregare per i peccati, perché per la misericordia siano salvati, non fidandosi della loro giustizia. Tutti infatti hanno peccato ( Rm 3,23 ) e tutti hanno bisogno della misericordia. Affinché, dunque, quando sarà adirato si ricordi della misericordia, viene dalla sposa pregato di apparire in quell’abito di misericordia di cui dice l’Apostolo: apparso in forma umana ( Fil 2,7 ). 5. Ed è necessario questo. E infatti se, anche con questo addolcimento, tanta sarà nel giudizio l’equità, tanta nel giudice la fierezza, tanta la sublimità nella maestà e novità di fronte alle stesse cose che, secondo il Profeta, non è possibile immaginare il giorno della sua venuta, che cosa pensi che sarebbe se quel fuoco divoratore cioè Dio onnipotente venisse nella grandezza della sua divinità, fortezza, splendore, per mostrare la sua potenza contro una foglia che il vento porta via e per far vendetta contro la paglia secca? È anche uomo, dice. E chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? ( Ml 3,2 ). Quanto più se si presentasse come puro Dio, senza l’umanità, nessun uomo potrebbe sopportarne la vista, in quanto inaccessibile per lo splendore, irraggiungibile per l’altezza, incomprensibile per la maestà. Ora invece quando, d’improvviso, si accenderà la sua ira, come apparirà gradita per i figli della grazia quella dolce figura di uomo, fermezza della fede, forza della speranza, motivo di fiducia, che cioè sia per fare grazia e misericordia ai suoi santi e guardare con benevolenza i suoi eletti ( Sap 4,15 ). E poi lo stesso Padre, Dio, ha dato al Figlio la potestà di fare il giudizio, non perché è figlio suo, ma perché Figlio dell’uomo ( 2 Cor 1,3 ). O veramente Padre delle misericordie! Vuole che gli uomini siano giudicati da un uomo, perché questa somiglianza della natura dia fiducia agli eletti. Il santo Davide aveva un giorno predetto questo, pregando insieme e insieme profetando: Dio dà al re il tuo giudizio e al figlio del re la tua giustizia ( Sal 72,2 ). E neanche differisce da questo la promessa fatta dagli Angeli agli Apostoli dopo l’ascensione: Questo Gesù che é stato tra di voi assunto in cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo ( At 1,11 ), cioè nella stessa forma e sostanza corporea. 6. Si vede da questo che la sposa possiede il divino consiglio, e non ignora affatto il mistero della superna volontà, mentre sotto la figura di imbelli e deboli animali predice con l’affetto della preghiera e con spirito profetico che nel giudizio il Salvatore si presenterà nella natura più debole, o meglio, nella natura inferiore poiché non sarà più inferma in quanto colui che muoverà il cielo e la terra con la sua forza, cinto di potenza contro gli insensati, apparirà tuttavia soave e mite e quasi del tutto inerme per gli eletti. A questo si può aggiungere che, per discernere gli uni dagli altri avrà bisogno, in certo qual modo, con i salti del cerbiatto, dell’occhio della capriola, per poter vedere e distinguere in tanta moltitudine e in così grande turbamento in quali salire e in quali occorra scavalcare, perché non avvenga che il giusto sia conculcato invece dell’empio quando abbatterà i popoli nella sua ira. Poiché, quanto agli empi, è necessario che si adempia la profezia di Davide, anzi la parola del Signore che parlava per bocca di lui: Li ho dispersi come polvere al vento, calpestati come fango delle strade ( Sal 18,43 ); e così si vedrà adempiuta un’altra profezia fatta da un altro Profeta, quando facendo ritorno agli Angeli, il Redentore dirà: Li ho pigiati nel mio sdegno, li ho calpestati nella mia ira ( Is 63,3 ). III. Quali sono i monti di Bethel, sui quali allo Sposo secondo la similitudine della capriola e del cerbiatto si chiede di apparire 7. Se a qualcuno piace di più l’interpretazione secondo cui il nostro cerbiatto debba piuttosto scavalcare i cattivi e salire nei buoni, non contraddico: soltanto pensi che i salti sono disposti per la discriminazione dei buoni e dei cattivi. Così infatti abbiamo detto anche noi in un altro sermone, dove si trovano le stesse parole dell’autore da me commentate. Solamente là si trattava della dispensazione della grazia che nella vita presente ad alcuni viene data, ad altri no, per un giudizio di Dio giusto, ma occulto, e così si diceva che il cerbiatto saliva o scavalcava i vari generi di persone; qui invece questo viene fatto secondo l’ultima e varia retribuzione dei meriti. E forse a questo senso si accordano le ultime parole di questo capitolo che quasi dimenticavo. Dicendo infatti: Sii simile, o mio diletto, alla capriola o al cerbiatto, aggiunge: Sopra i monti di Bethel ( Ct 2,17 ). Bethel significa « Casa di Dio ». Ora nella casa di Dio non vi sono monti cattivi. Per la qual cosa salendo in essi il cerbiatto non conculca, ma rallegra, perché si adempia la Scrittura che dice: I monti e le colline canteranno lodi davanti a Dio ( Is 55,12 ). E vi sono monti che, secondo il Vangelo, vengono trasportati da una fede simile alla senapa, ma non sono i monti di Bethel; quelli, infatti, che sono monti di Bethel la fede non li toglie di mezzo, ma li coltiva. 8. Che se i Principati e le Potestà e le altre schiere dei beati Spiriti e le Virtù dei cieli sono monti di Bethel in modo che ad essi applichiamo il detto: Le sue fondamenta sono sui monti santi ( Sal 87,1 ), non è certamente vile e spregevole questo cerbiatto che fu visto apparire sopra monti così eccellenti, diventato tanto superiore agli Angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato ( Eb 1,4 ). Che importa se nel Salmo lo leggiamo fatto di poco inferiore agli Angeli? Non cessa di essere migliore perché un poco inferiore; né hanno detto cose contrarie l’Apostolo e il Profeta, in quanto animati dal medesimo Spirito. Poiché se l’essere fatto meno degli Angeli fu effetto di degnazione, non di necessità, nulla in questo viene imposto alla bontà, ma piuttosto attribuito ad essa. Infine, il Profeta lo dice non inferiore, ma fatto poco meno degli Angeli, esaltando la grazia ed evitando l’ingiuria. L’essere inferiore, infatti, è ricusato dalla sua natura divina, e la sua minorazione è giustificata dalla causa. Si abbassò, infatti, perché volle, per la sua volontà e la nostra necessità. Ma abbassarsi equivaleva ad avere misericordia. Quale spreco ci fu in questo? In realtà andò ad accrescere la pietà quanto poteva sembrare perduto per la maestà. Ma neppure l’apostolo tacque su questo grande mistero di pietà, ma disse: Quel Gesù che fu fatto di poco inferiore agli Angeli, lo vediamo ora coronato di gloria e di onore ( Eb 2,9 ). 9. Abbiamo detto quanto sopra riguardo al nome e alla similitudine del cerbiatto, per adattarla secondo le parole della sposa, allo Sposo, senza far torto alla sua maestà. Che cosa dico « senza far torto alla maestà », quando neppure la sua infermità restò senza onore? È un cerbiatto, è un piccolo; è presentato anche come una capriola, in quanto nato da donna, ma sopra i monti di Bethel, ma elevato sopra i cieli ( Eb 7,26 ). Non dice: « che è o esiste sopra i cieli », ma elevato sopra i cieli, perché non si creda che ciò è stato detto riguardo a quella natura in cui è colui che è. Ma anche dove è messo sopra gli Angeli, si dice che è stato « fatto migliore » di loro, non che era tale. Dal che appare chiaro che il Cristo vanta una superiorità su tutti i Principati e le Potestà e su ogni creatura non solo per quello che in lui è ab aeterno, ma anche per quello che nel tempo è stato fatto, in quanto primogenito di ogni creatura. Pertanto ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini ( 1 Cor 1,25 ). Questo secondo l’Apostolo. A me sembra anche giusto il dire che ciò che è debolezza di Dio e stoltezza di Dio è più forte e più saggio degli Angeli. Così il passo in questione si adatterà bene alla Chiesa universale. 10. Per quanto riguarda singolarmente un’anima poiché anche una sola di esse, se ama Dio con dolcezza, sapienza e forza, è sposa chiunque è spirituale può avvertire in se stesso quello che la propria esperienza gli indica. Quanto a me non avrò timore di dire apertamente quanto mi fu dato di sperimentare a riguardo, perché, anche se sarà giudicato forse vile e spregevole quando verrà udito, non m’importa, perché chi è spirituale non mi disprezzerà, a meno che non mi capisca. Tuttavia, se riserverò questo a un altro sermone non mancheranno, forse, di quelli che saranno edificati da quelle cose che, pregato nel frattempo, mi ispirerà il Signore, Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXIV I. In che senso questo passo si addice al Verbo, e che cosa significhi andare e ritornare riferito al Verbo riguardo alla sua salutare dispensazione 1. Ritorna, dice. È chiaro che non è presente colui che essa richiama, c’è stato però fino a poco prima: sembra infatti che venisse richiamato mentre ancora stava andandosene. Un richiamo intempestivo è indizio di un grande amore da una parte, e di una grande amabilità dall’altra. Chi sono questi cultori della carità e così indefessi nell’esercizio dell’amore, di cui l’uno è oggetto di tanto inquieto amore dal quale l’altra è spronata? A me, come ho promesso, spetta applicare questo passo al Verbo e all’anima, ma per far questo, almeno un poco degnamente, confesso di aver bisogno dell’aiuto del Verbo. Certamente per questo discorso era conveniente che ci fosse uno molto più esperto, molto più addentro all’arcano del santo amore; ma non posso venir meno al mio dovere, anche se non potrò soddisfare del tutto ai vostri desideri. Vedo il mio pericolo, e non mi tiro indietro, voi mi costringete. Voi davvero mi costringete a camminare in cose grandi, superiori alle mie forze. Ahimè! Come temo che non mi vengano rivolte quelle parole: Perché tu descrivi le mie delizie e pronunzi con la bocca il mio mistero? Ascoltatemi tuttavia, come si ascolta un uomo che ha paura di parlare, e non può tacere. Mi scuserà, forse, per avere osato, la stessa mia trepidazione, e ancor più, se ci sarà, la vostra edificazione. E forse anche queste lacrime verranno parimenti considerate. Ritorna, dice. Bene. Stava andandosene, viene richiamato. Chi mi darà la spiegazione del mistero di questa mutabilità? Chi mi spiegherà degnamente questo andare e ritornare del Verbo? Forse lo Sposo è solito cambiare cosi? Come può venire, e poi di nuovo tornare colui che riempie ogni cosa? Infine, quale movimento locale può avere colui che è Spirito? E quale genere di movimento possiamo attribuire a lui che è Dio? Come tale, infatti, è incommutabile. 2. Ma chi può capire queste cose le capisca. Quanto a noi, camminando con cautela e semplicità nell’esposizione del sacro e mistico eloquio, seguiamo l’usanza della Scrittura che espone con parole nostre la sapienza nascosta nel mistero; fa entrare nei nostri affetti Dio, mentre lo rappresenta con figure; e insinua nelle umane menti gli attributi sconosciuti e invisibili di Dio, che sono cose preziose, con similitudini note di cose sensibili, e di vile materia. Seguiamo, pertanto, anche noi la consuetudine del casto discorso, e diciamo che il Verbo di Dio, Dio egli stesso, Sposo dell’anima, viene ad essa a seconda che vuole, e nuovamente la lascia: sentiamo questo con il sentimento dell’anima, non con il movimento della parola. Per esempio, quando l’anima sente la grazia, avverte la presenza dello Sposo; quando non la sente si lamenta della sua assenza, e chiede che nuovamente si faccia presente, dicendo con il Profeta: Ha cercato te il mio volto, il tuo volto Signore, io cerco ( Sal 27,8 ). Come non cercarlo? Tolto da sé un così dolce Sposo, l’anima non trova più piacere, non dico a desiderare, ma neanche nel pensare a qualche cosa di altro. Non le resta, dunque, se non ricercare con studio l’assente, richiamarlo quando se ne va. Cosi, dunque, è richiamato il Verbo, ed è richiamato dal desiderio dell’anima, ma di una tale anima a cui abbia fatto una volta gustare quanto egli sia dolce. Non è forse il desiderio una voce? Sì, una voce, e forte. E poi: Il Signore ha esaudito il desiderio dei poveri ( Sal 9,38 ). Quando, dunque, il Verbo se ne va, il continuo desiderio dell’anima è come una voce continuata, come un continuo ritorna, finché venga di nuovo. 3. E ora dammi un’anima che il Verbo sia solito visitare frequentemente, alla quale la familiarità abbia dato l’ardire, l’aver gustato la fame, e l’aver disprezzato tutte le cose, abbia conferito il riposo santo: e io a questa do senza esitazione la voce e il nome della sposa, e sarei convinto che il passo che stiamo commentando faccia per lei. È, infatti, una tale anima che qui parla. E di colui che essa richiama dà prova di aver meritato la presenza, anche se non l’abbondanza. Altrimenti non lo richiamerebbe, ma semplicemente lo chiamerebbe. Ritorna è una parola con cui si richiama e forse egli si è sottratto appunto per farsi richiamare con maggiore desiderio, e per essere più fortemente trattenuto. Infatti, talvolta, anche simulava di andare più lontano, non perché intendeva realmente questo, ma voleva sentirsi dire: Resta con noi, perché si fa sera ( Lc 24,28-29 ). E così un’altra volta, camminando sopra il mare, mentre gli apostoli navigavano e si applicavano remando, egli fece finta di voler passare oltre, ma neanche allora egli voleva questo, ma provare la loro fede e spingerli a pregarlo. Allora, come dice l’Evangelista, restarono turbati e gridarono, credendolo un fantasma. Pertanto il medesimo Verbo Spirito, al suo modo spirituale, non cessa di comportarsi, ogni tanto, con l’anima a lui devota, in maniera simile, rinnovando quella pia simulazione, anzi salutare disposizione che mostrò un giorno corporalmente il Verbo incarnato. Fingendo di passar oltre vuol essere fermato, andando via vuol essere richiamato. Non è egli, infatti, una Parola irrevocabile: va e torna a suo piacere, quasi visitando di buon mattino e subito mettendo alla prova. L’andarsene, per lui, appartiene in certo modo all’economia, il ritornare, invece, è sempre volontario, l’uno e l’altro pieno di giustizia. Ma le ragioni delle due cose sono un segreto suo. 4. Ora, intanto, è certo che nell’anima vi sono queste vicissitudini, del Verbo cioè che se ne va e che ritorna, come egli dice: Vado e torno a voi ( Gv 14,28 ); e ancora: Un poco e non mi vedrete più, e ancora un poco e mi rivedrete ( Gv 16,17 ). O poco e poco! O poco lungo! Pio Signore, chiami poco il tempo in cui non ti vediamo? Sia salva la parola del mio Signore: è lungo, invece, e oltremodo lunghissimo. Tuttavia è vera una cosa e l’altra: è breve per i meriti, lungo per i desideri. Trovi le due cose nel Profeta: Se indugia, dice, aspettalo, perché verrà e non tarderà ( Ab 2,3 ) Come non tarderà se indugia? Ma ciò per riguardo al merito è più che sufficiente, non lo è per il desiderio. Ora, l’anima che ama è portata dai desideri, è trascinata dalla brama, e con fiducia ripete le sue delizie, chiamandolo con la solita libertà non Signore, ma diletto: Ritorna, diletto mio; e aggiunge: Sii simile alla capriola e al cerbiatto sopra i monti di Bethel. Ma di questo diremo in seguito. II. Come si comporta l’anima all’arrivo dello Sposo, e in che cosa ne avverte l’arrivo 5. Ora sopportate un po’ di insipienza da parte mia. Voglio dire, poiché mi sono impegnato a farlo, quello che succede a me in questa faccenda. Non sarebbe conveniente, ma mi metterò in vista pur di essere di giovamento, e se voi ne trarrete profitto mi consolerò della mia insipienza; diversamente confesserò la mia stoltezza. Confesso che il Verbo è venuto anche da me, e parecchie volte parlo da insipiente. E spesso, essendo entrato da me, non mi accorsi talvolta quando entrava. Sentii che era presente, ricordo che venne; talvolta ho potuto presentire il suo entrare, mai sentirlo, e neppure quando se ne andava, poiché di dove sia entrato nell’anima mia, o dove se ne sia andato lasciandola di nuovo, e per dove sia entrato o uscito, anche ora confesso di ignorarlo, secondo quanto è detto: Non sai di dove venga o dove vada ( Gv 3,8 ). E non fa meraviglia, perché di lui è stato detto: Le sue orme rimarranno invisibili ( Sal 77,20 ). È certo che non è entrato per gli occhi perché non ha colore; né per le orecchie perché non produce suono, né attraverso le narici, perché non si mescola con l’aria, ma con la mente, né penetra nell’aria, ma la crea; neanche per la bocca, perché non è né mangiato né bevuto, né l’ho sentito al tatto, perché non è palpabile. Per dove, dunque, è entrato? Ma forse non è neppure entrato, perché non è venuto dal di fuori. Non è, infatti, alcuna delle cose che sono di fuori. Ora non è neppure venuto dal di dentro di me, perché egli è buono, e so che in me non c’è nulla di buono. Sono salito anche nel mio essere superiore, ed ecco il Verbo era ancora più in alto sopra di questo. Sono disceso anche nella parte inferiore di me, esplorando curiosamente, e neppure di sotto l’ho trovato. Se guardavo fuori venni a sapere che egli era al di là di ogni cosa a me esterna, se guardavo dentro, egli era ancora più addentro. E conobbi quanto è vero quello che avevo letto, che in lui viviamo, ci muoviamo, e siamo ( At 17,28 ); ma è beato colui nel quale egli è, che vive per lui, e che da lui è mosso. 6. Chiedi, dunque, come io sappia che il Verbo è presente, non essendo per nulla investigabili le sue vie? Egli è vivo ed efficace, e appena entrato dentro ha svegliato la mia anima che sonnecchiava; l’ha smossa, l’ha intenerita e ha ferito il mio cuore, che era duro e come pietra e malsano. Ha pure cominciato a sradicare e distruggere, a edificare e piantare, a irrigare quello che era arido, a illuminare quello che era tenebroso, ad aprire ciò che era chiuso, a infiammare ciò che era freddo, nonché a raddrizzare ciò che era storto e spianare quello che era scosceso, di modo che l’anima mia benediceva il Signore e tutto il mio intimo dava lode al suo santo nome. Così, dunque, entrando da me alcune volte il Verbo Sposo non fece mai notare con alcuni indizi il suo ingresso; non con la voce, non con l’aspetto, non con il passo. Si è fatto conoscere da me senza nessuno dei suoi movimenti, non lo percepirono i miei sensi mentre entrava nel mio intimo: solo dal movimento del cuore, come ho detto sopra, ho compreso la sua presenza; e dalla fuga dei vizi, dalla compressione degli affetti carnali ho avvertito la potenza della sua virtù, e dalla messa in luce e dal rimprovero dei miei peccati occulti ho ammirato la profondità della sua sapienza, e da una certa emendazione dei miei costumi ho sperimentato la sua bontà e mansuetudine, e dalla riforma e rinnovamento spirituale della mia mente, cioè del mio uomo interiore, ho percepito in qualche maniera la sua bellezza e il suo decoro, e dall’intuito di tutte queste cose insieme mi ha preso lo spavento davanti alla sua immensa grandezza. 7. Ma tutte queste cose, una volta che il Verbo se n’è andato, sono come una pentola bollente alla quale viene sottratto il fuoco; quello che prima bolliva, immediatamente si ferma come preso da un certo languore e torpore, e presto ritorna immobile e freddo; questo è il segno che egli se n’è andato. Allora per forza l’anima mia diventa triste fino a che ritorni di nuovo, e di nuovo si riscaldi in me il mio cuore: e questo sarà indizio del suo ritorno. Avendo tale esperienza del Verbo, quale meraviglia se io uso le parole della sposa nel richiamarlo quando si assenta, dal momento che sono trasportato, se non da pari, almeno in parte da simile desiderio? Mi sarà familiare fino a che vivrò, per richiamare il Verbo, la parola del richiamo: Ritorna! E ogni volta che si allontanerà sempre ripeterò questa parola, né cesserò di gridare quasi alle parole di lui che se ne va con ardente desiderio del cuore, che ritorni, e mi restituisca la mia salutare letizia, mi restituisca se stesso. III. La grazia e la verità raffigurate dal cerbiatto e dalla capriola, e come la grazia si perda appropriandosene Lo dico a voi figli: in questo frattempo nessuna altra cosa piace, mentre non è presente colui che solo piace. E prego anche che non venga vuoto, ma pieno di grazia e verità, com’è suo costume di ieri e di sempre. Anche in questo sembra adattarglisi bene la similitudine della capriola e del cerbiatto, avendo la verità gli occhi della capriola, e la grazia l’ilarità del cerbiatto. 8. Entrambe le cose mi sono necessarie, la verità a cui non possa nascondermi, e la grazia alla quale non lo voglia. Senza una delle due la visita non sarebbe completa, poiché la sua severità sarebbe troppo gravosa senza l’ilarità, e questa senza di quella potrebbe sembrare leggera. Amara è la verità senza il condimento della grazia, come senza il freno della verità la stessa devozione non è ferma, non ha misura, spesso diventa insolente. A quanti non giovò l’aver ricevuto la grazia, perché non ne ricevettero dalla verità un temperamento! Per questa ragione si compiacquero in essa più che non occorresse, mentre non ebbero timore degli sguardi della verità e si diedero piuttosto tutti alla leggerezza e all’ilarità del cerbiatto. Onde avvenne che furono privati della grazia nella quale avevano voluto privatamente esultare, e ad essi si sarebbe potuto dire, anche se troppo tardi: Andate dunque, imparate che cosa voglia dire: servite il Signore con timore e con tremore esultate ( Mt 9,13; Sal 2,11 ). Aveva detto un’anima santa nella sua esultanza: Nulla mi farà vacillare ( Sal 30,7 ), quando improvvisamente sentì che il Verbo aveva distolto da lei il suo volto, e si senti non solo smossa, ma conturbata; e così nella tristezza imparò che le sarebbe occorso, con il dono della devozione, anche il peso della verità. Dunque, non solo nella grazia sta la pienezza della grazia, e neppure nella sola verità. Che cosa ti giova sapere quello che devi fare, se non ti è dato anche il voler fare? Quanti ho visto più tristi per aver conosciuto la verità, e tanto più in quanto non potevano più addurre la scusa dell’ignoranza? Sapevano bensì, ma non facevano quanto la Verità li esortava a fare. 9. Stando così le cose nessuna delle due è sufficiente senza l’altra; anzi, non conviene neppure. Da che cosa lo sappiamo? Colui che conosce il bene e non lo fa, commette peccato ( Gc 4,17 ), e ancora: Il servo che conosce la volontà del suo padrone e non avrà disposto e agito secondo la sua volontà riceverà molte percosse ( Lc 12,47 ). Questo per parte della verità. E riguardo alla grazia? Sta scritto: E dopo il boccone Satana entrò in lui ( Gv 13,27 ). Parla di Giuda, il quale, ricevuto il dono della grazia, poiché non camminava nella verità con il Maestro della verità, o piuttosto con maestra Verità, fece posto in se stesso al diavolo. Senti ancora: Li cibò con fiore di frumento, e saziò con miele di roccia ( Sal 81,17 ). Chi? I nemici del Signore gli hanno mentito ( Sal 81,16 ). Quelli che egli ha cibato di miele e di fior di frumento, gli hanno mentito, diventati nemici, perché non hanno unito la verità alla grazia. Di essi viene detto altrove: I figli adulteri hanno negato fede a me, i figli adulteri sono nella vecchiaia e zoppicando vanno fuori dalla loro strada ( Sal 18,46 ). Come non avrebbero dovuto zoppicare dal momento che si contentavano di un solo piede, non aggiungendo quello della verità? Verrà, pertanto, il loro tempo, che sarà tempo eterno, come fu del loro principe, il quale non stette neanche lui nella verità, ma fu bugiardo dall’inizio e perciò gli fu detto: La tua saggezza è corrotta a causa del tuo splendore ( Ez 28,17 ). Non voglio la bellezza che mi faccia perdere la sapienza. 10. Chiedi quale sia quella bellezza così dannosa e perniciosa? La tua. Forse non capisci ancora? Te lo spiego meglio: la tua privata, propria. Non diamo la colpa al dono, ma al suo uso. Se hai fatto attenzione il demonio ha perso la saggezza a causa della « sua » bellezza, è stato detto. E se non sbaglio questa sapienza è l’unica bellezza dell’anima e dell’Angelo. Che cosa è, infatti, l’anima e l’Angelo senza sapienza se non rude e deforme materia? Per essa, infatti, questi non solo fu formato, ma reso formoso. Ma la perdette quando la fece sua, e così nella sua bellezza non restò altro che di aver perso la sapienza nella sua sapienza. È in causa la proprietà. Per il fatto che fu sapiente per sé, che non diede gloria a Dio, che non restituì grazia per grazia, che non camminò in essa secondo verità, ma la ritorse alla sua volontà, ecco perché egli la perse. Averla, infatti, in questa maniera equivale a perderla. E se Abramo, è scritto, fu giustificato per le opere ha gloria, ma non presso Dio ( Rm 4,2 ). E io dico: « Dunque non al sicuro ». « Se non l’ho presso Dio, ho perso tutto il mio avere ». Infatti, che cosa è così perduto quanto quello che è fuori di Dio? Che cosa è la morte se non la privazione della vita? Così nulla è perduto se non quello che è lontano da Dio. Guai a voi che siete sapienti ai vostri occhi e prudenti davanti a voi stessi! ( Is 5,21 ). Di voi è detto: Perderà la sapienza dei sapienti e riproverò la prudenza dei prudenti ( 1 Cor 1,19 ). Persero la sapienza perché la loro sapienza li perse. Che cosa non persero avendo perso se stessi? Non sono forse perduti quelli che Dio dice di non conoscere? 11. Ora le vergini stolte, che penso essere state chiamate stolte appunto perché dicendo di essere sapienti sono diventate stolte, si sentono dire dal Signore: Non vi conosco ( Mt 25,12 ). E così anche quelli che avevano usurpato la grazia dei miracoli per la loro personale gloria si sentiranno dire: Non vi conosco ( Mt 7,23 ), perché sia ben chiaro da questo che la grazia non giova dove la verità non è nell’intenzione, anzi è di danno. Nello Sposo vi sono tutte e due le cose: La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo ( Gv 1,17 ), dice Giovanni Battista. Se dunque il Signore Gesù busserà alla mia porta con una sola di queste due senza l’altra egli è infatti il Verbo di Dio, Sposo dell’anima entrerà certamente non come Sposo, ma come giudice. Non sia mai che avvenga questo! Non entri in giudizio con il servo. Entri pacifico, entri giocondo e festoso, entri tuttavia maturo e serio, e con un volto alquanto severo rivolto verso di me, reprima l’insolenza e purifichi la letizia. Entri come cerbiatto che sale, come capriolo circospetto, che scavalchi dissimulando la colpa e guardi con misericordia la pena. Entri quasi discendendo dai monti di Bethel, festoso e splendido, come procedente dal Padre, soave e mite, che non disdegni di essere chiamato e di essere Sposo dell’anima che lo cerca, pur essendo sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXV I. Con quali applicazioni si dice: « Sul mio giaciglio ecc. » e perché il ritrovamento è dissimulato 1. Sul mio giaciglio durante le notti ho cercato colui che l’anima mia ama ( Ct 3,1 ). Il diletto non è tornato alla voce e al desiderio della sposa che lo richiamava. Perché? Perché cresca il desiderio, perché sia provato l’affetto, perché sia esercitato l’impegno dell’amore. In realtà si tratta di dissimulazione, non di indignazione, ma resta la possibilità di cercarlo per vedere se, cercato, si lasci trovare colui che chiamato non è venuto, come dice il Signore: Chiunque cerca trova ( Mt 7,8 ). Ora la parola del richiamo è questa: Ritorna, sii simile o mio diletto alla capriola e al cerbiatto ( Ct 2,17 ). Non essendo ritornato a questo richiamo, certamente per quelle ragioni che abbiamo addotte, la sposa che ama ha sentito crescere in sé il desiderio, e si è data con tutta avidità a cercarlo, e prima di tutto lo cerca sul suo giaciglio, ma non lo trova. Allora si alza, gira per la città, passa e ripassa per le piazze e per le strade, ma non lo incontra, né lo scorge. Vengono interrogati quelli che possono averlo incontrato, ma non se ne ricava nulla di certo. Questa ricerca senza esito non si compie una sola volta in una sola notte, poiché dice la sposa: L’ho cercato durante le notti. Che cosa significa questo desiderio e questo ardore che la spinge ad alzarsi di notte, e senza vergognarsi del pubblico, a percorrere la città, a informarsi apertamente qua e là del diletto, senza lasciarsi distogliere per nessuna ragione dal perseguire le sue tracce, non badando a difficoltà, non trattenuta dall’amore del normale riposo, non dalla verecondia di sposa o dal timore della notte? E tuttavia in tutte queste ricerche il suo desiderio è rimasto frustrato. Perché mai? A che cosa fa pensare questa pertinace e diuturna frustrazione, nutrice di tedio, fornite di sospetti, istigatrice di impazienza, matrigna dell’amore, madre della disperazione? Se c’è ancora dissimulazione è troppo molesta. 2. Passi una pia e utile dissimulazione fino a che si trattava di chiamare e richiamare lo Sposo. Ma ora, quando cercato, e cercato in tale maniera, a che cosa può servire la dissimulazione? Se si tratta di sposi carnali e di amori vergognosi, come l’esterna apparenza della lettera potrebbe indurre a credere, a me non interessa affatto anche se a loro succedono tali cose: ci pensino loro, ma se devo rispondere e dare soddisfazione, per quel poco che posso, alle menti e agli affetti di anime che cercano Dio, io devo cavare dalla Sacra Scrittura, nella quale confidano di avere la vita, qualche cosa di tanto più vitale quanto più spirituale, perché ne mangino i poveri e ne siano saziati, e i loro cuori abbiano vita. E chi è così vita dei cuori come il Signore mio Gesù, del quale diceva uno che di lui viveva: Quando apparirà Cristo vita vostra, allora sarete glorificati con lui ( Col 3,4 )? Egli, dunque, venga in mezzo a noi, perché anche a noi si possa dire in verità: Sta in mezzo a voi uno che voi non conoscete ( Gv 1,26 ). Sebbene io non sappia come possa essere sconosciuto lo Sposo Spirito a uomini spirituali, i quali abbiano talmente progredito nello Spirito da poter dire con il Profeta: Spirito davanti alla nostra faccia è Cristo Signore ( Lam 4,20 secondo i LXX ). E con l’Apostolo: Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne ora non lo conosciamo più così ( 2 Cor 5,16 ). Non è forse lui che la sposa cercava? Questi è veramente Sposo, amante e amabile. Questi, dice, è veramente Sposo, come la sua carne è veramente cibo e il suo sangue è veramente bevanda, e tutto quello che è di lui veramente è, essendo egli non altro che la stessa verità. 3. Ma come mai questo Sposo ricercato non si trova, anche quando è cercato con zelo e alacrità, ora sul giaciglio, ora nelle città o anche nelle piazze e nelle strade, mentre egli dice: Cercate e troverete, e chi cerca trova? ( Mt 7,7-8 ). E il Profeta dice a lui: Sei buono, o Signore, per l’anima che ti cerca ( Lam 3,25 ), e così il santo Isaia: cercate il Signore mentre si può trovare ( Is 55,6 ). Come si adempiranno le Scritture? Colei, infatti, che qui lo cerca non è una di quelle alle quali egli dice: Mi cercherete e non mi troverete ( Gv 7,34 ). II. Sono tre le cause per le quali coloro che cercano sono delusi: il tempo, la tiepidezza, il luogo Ma badate come vi sono tre motivi per cui quelli che cercano di solito non trovano: quando cioè non cercano nel tempo, o nel modo, o nel luogo debito. Se, infatti, ogni tempo è adatto per cercare perché mai dice il citato Profeta: Cercate il Signore mentre si può trovare? Vuol dire certamente che c’è un tempo in cui non è possibile trovarlo; e perciò aggiunge di invocarlo mentre è vicino ( Is 55,6 ), perché capiterà che non sia più vicino. Da chi, dunque, allora non sarà cercato? Davanti a me, dice, si piegherà ogni ginocchio, ecc. ( Is 45,24 ). Né tuttavia sarà trovato dagli empi che dagli Angeli incaricati della vendetta saranno allontanati e tolti perché non vedano la gloria di Dio. Invano grideranno anche le vergini stolte: non uscirà affatto da loro e la porta resterà chiusa. Ritengano pertanto esse come detto a sé: Mi cercherete e non mi troverete ( Gv 7,34 ). 4. Del resto ora è il tempo favorevole, ora sono i giorni della salvezza: tempo veramente adatto per cercare e invocare, quando per lo più anche prima che sia invocato si sente che è presente. Senti quello che promette: Prima che mi invochiate dirò: eccomi ( Is 65,24, come è stato citato nel Prologo della Regola di S. Benedetto ). Conosceva questa benignità e l’opportunità del tempo, che è questo, colui che diceva nel Salmo: tu accogli Signore il desiderio dei poveri, rafforzi i loro cuori, porgi l’orecchio ( Sal 9,38 ). Che se con le buone opere si cerca il Signore, mentre abbiamo il tempo operiamo il bene verso tutti, specialmente perché il Signore annunzia apertamente che verrà nella notte, quando nessuno può più operare. Allora troverai tu un altro tempo nei futuri secoli per cercare Dio e per operare il bene, oltre questo tempo presente che Dio ti ha stabilito, e nel quale si ricordi di te? E sono perciò giorni della salvezza, perché in questi lo stesso Dio nostro re ha operato la salvezza sulla terra ( Sal 74,12 ). 5. Va’, dunque, tu, e in mezzo alla geenna aspetta la salvezza che è già stata operata sulla terra. Come ti sogni di poter meritare tra gli ardori sempiterni, quando sarà ormai passato il tempo della misericordia? Non resta più una vittima per i peccati a chi è morto per i peccati. Non viene nuovamente crocifisso il Figlio di Dio: è morto una volta sola, ormai non muore più. Non discende agli inferi il sangue che è stato versato sulla terra. Ne hanno bevuto tutti i peccatori della terra; non ne resta per i demoni, per spegnere il loro fuoco; e neppure per gli uomini compagni dei demoni. Una volta sola è scesa laggiù non il sangue, ma l’anima; e questa fu la porzione di coloro che erano in carcere. Una sola visita che fu fatta allora, quando il corpo pendeva esanime sulla terra. Il sangue ha irrigato la terra, il sangue ha bagnato la terra e l’ha inebriata; il sangue ha rappacificato le cose che sono sulla terra e quelle che sono nel cielo, ma non quelle che sono presso gli inferi, fatta eccezione di quella sola volta in cui, come ho detto, l’anima di Cristo vi discese e vi operò in parte la redenzione, per non restare neppure in quel momento senza opere di pietà, ma non lo farà più in avvenire. Dunque, adesso è il tempo favorevole e adatto a cercare, nel quale veramente chi cerca trova, a condizione che cerchi dove e come si deve. E questa è una delle cause per cui quelli che cercano lo Sposo non lo trovano, quando cioè non lo cercano nel tempo opportuno. Ma questa non riguarda la sposa, la quale invoca e cerca in tempo giusto. E neanche essa lo cerca con tiepidezza e negligenza o per pura formalità, ma lo cerca veramente con cuore ardente e infaticabilmente, veramente come conviene. III. In questo passo si dice che la causa del mancato ritrovamento è stato il luogo 6. Resta che vediamo la terza ragione, che cioè non si cerchi dove si deve. Nel mio giaciglio ho cercato colui che l’anima mia ama. Forse non era da cercarsi nel giaciglio, ma nel letto, colui per il quale tutta la terra è angusta? Ma non mi dispiace il giaciglio perché lo conosco piccolo: Ci è nato un bambino ( Is 9,6 ). Esulta tu e loda, casa di Sion, perché grande in mezzo a te è il santo di Israele ( Is 12,6 ). Ma lo stesso Signore che è grande in Sion presso di noi è un bambino, presso di noi si è visto debole, bisognoso di giacere come un bambino, di giacere in un piccolo letto come infermo. Non fu un piccolo letto l’utero della Vergine? Il seno, infatti, del grande Padre non è un piccolo letto, ma un letto e un letto grande, del quale dice al Figlio: Dal seno prima dell’aurora io ti ho generato ( Sal 110,3 ). Sebbene non sia da ritenere degnamente neppure un letto quel seno, che è luogo di reggitore più che di uno che giace. Restando, infatti, nel Padre regge con il Padre tutte le cose. E, infine, la fede certa ci presenta il Figlio non che giace, ma che siede alla destra del Padre; ed egli dice che il cielo è la sua sede, non il suo letto, perché tu sappia che in casa sua, cioè nei cieli, egli non ha dei sollievi per la sua infermità, ma delle insegne di potestà. 7. Giustamente, pertanto, la sposa parlando di letto dice « il suo » perché tutto ciò che in Dio c’è di debole, è chiaro che non proviene da lui, ma dalla nostra natura. Da noi ha assunto la natura umana per soffrire per noi: per noi è nato, fu allattato, morì, fu sepolto. È mia la mortalità del nato, mia la fragilità del pargolo, mio lo spirare del crocifisso, mio il sonno del sepolcro, tutte cose che sono passate, ed ecco ora tutto è nuovo. Nel mio giaciglio ho cercato colui che l’anima mia ama. E che? Cercavi nel tuo giaciglio colui che era tornato alla sua sede? Non avevi visto il Figlio dell’uomo salire dove era prima? Ormai ha cambiato la tomba e la stalla con il cielo, e tu ancora lo cerchi sul tuo giaciglio? È risorto, non è qui. Come cerchi nel letto colui che è il forte, nel piccolo letto il grande, il glorificato nella stalla? È entrato nella potenza del Signore, si è rivestito di splendore e di fortezza; ed eccolo che siede sui Cherubini, lui che giacque sotto la pietra della tomba. Da ora però non giace più ma siede; e tu gli prepari l’occorrente per giacere? E per dire tutta la verità, ora o siede per giudicare, o sta in piedi per recare aiuto. 8. Così voi, o buone donne, perché vi alzate di buon mattino? Per chi comprate aromi e preparate unguenti? Se sapeste quanto sia grande questo morto, che pure è libero tra i morti, che voi andate ad ungere, forse voi chiedereste piuttosto di essere unte da lui. Non forse lui il suo Dio ha unto con olio di letizia a preferenza dei suoi eguali? Beate sarete voi se, tornando, vi potrete gloriare dicendo: Dalla pienezza di lui anche noi abbiamo ricevuto ( Gv 1,16 ). E in realtà è avvenuto così: tornano realmente unte quelle che erano venute per ungere. Come non unte dalla notizia così lieta della nuova e odorosa resurrezione? Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di pace, un lieto annunzio di bene! ( Rm 10,15 ). Mandate dall’Angelo fanno opera di evangeliste, e divenute apostole degli Apostoli, mentre si affrettano ad annunziare nel mattino la misericordia del Signore dicono: Siamo corse all’odore dei tuoi unguenti ( Ct 1,4 ). Dunque, da allora in poi inutilmente lo Sposo è stato cercato nel giaciglio, perché anche se la Chiesa l’aveva conosciuto secondo la carne, cioè secondo l’infermità della carne, ora però non lo conosce più così. Infine, fu cercato dopo da Pietro e Giovanni ugualmente nel sepolcro, ma non fu trovato. Vedi ora se ciascuno di costoro abbia potuto dire, applicandosi a proposito la parola della sposa: Ho cercato nel mio giaciglio colui che l’anima mia ama; l’ho cercato e non l’ho trovato. Infatti, prima di andare al Padre la carne che non era dal Padre per la gloria della risurrezione depose ogni infermità, si cinse di potenza, si rivestì di luce come di un vestito, cioè si ornò di quella gloria con cui era conveniente che si presentasse agli occhi del Padre. IV. Perché è detto: « Colui che l’anima mia ama » e quali sono le notti nelle quali ha cercato lo Sposo 9. Molto a proposito la sposa non dice « colui che io amo », ma colui che l’anima mia ama, perché veramente e propriamente appartiene all’anima quella dilezione con cui ama spiritualmente qualche cosa, Dio, per esempio, o un Angelo, un’anima. Ma anche amare la giustizia, la verità, la pietà, la sapienza e le altre virtù è la stessa cosa. Poiché, quando l’anima ama qualche cosa secondo la carne, o piuttosto l’appetisce, come il cibo per esempio, il vestito, il dominio e altre simili cose corporali e terrene, è un amore piuttosto della carne che non dell’anima. E per questo la sposa, con espressione meno usuale ma molto propriamente dice che l’anima sua ama lo Sposo, mostrando in tal modo che lo Sposo è Spirito e che ella ama di un amore spirituale, non carnale. E dice bene di averlo cercato durante le notti. Poiché se, come dice Paolo, coloro che dormono dormono di notte, e quelli che sono ubriachi lo sono di notte ( 1 Ts 5,7 ), così si può dire, penso, quelli che ignorano Cristo, di notte lo ignorano, e perciò quelli che lo cercano lo cerchino di notte. Chi infatti cerca uno che ha già presente? Ora, il giorno rivela quello che la notte nasconde, e così di giorno tu trovi quello che cercavi di notte. Notte è, infatti, per tutto il tempo in cui si cerca lo Sposo, perché se fosse giorno uscirebbe fuori e non sarebbe affatto cercato. E di questo basta; sennonché, forse l’aver usato « notti » al plurale indica qualche cosa da cercare ancora. 10. E a me sembra, se non si ha un’altra interpretazione migliore, che questa ne sia la ragione. Questo mondo ha le sue notti, e non poche. Che dico che il mondo ha le notti? Esso è quasi tutto una notte, ed è sempre tutto immerso nelle tenebre. È notte la giudaica perfidia, notte l’ignoranza dei pagani, notte la malizia degli eretici, notte anche la condotta carnale e animale di certi cattolici. Non è forse notte dove non si percepiscono le cose dello Spirito di Dio? E anche presso gli eretici e gli scismatici quante sono le sette, altrettante le notti. Invano, durante queste notti, cercate il sole di giustizia e la luce della verità, vale a dire lo Sposo, perché non vi è alcuna società tra la luce e le tenebre. Ma qualcuno dirà che la sposa non è tanto stolta o cieca da cercare la luce nelle tenebre, da cercare il diletto presso gli ignoranti e quelli che non lo amano. Quasi che dica di cercarlo adesso nelle notti e non piuttosto di averlo cercato. Non dice « lo cerco » ma ho cercato nelle notti colui che l’anima mia ama, e questo è il senso: quando era bambina aveva gusti da bambina, pensieri da bambina, e cercava la verità dove non era, errando e non trovando, secondo il detto del Salmo: come pecora smarrita andai errando ( Sal 119,176 ). E infine ricorda che era ancora nel giaciglio, perché ancora fragile per l’età e bambina per i sentimenti. 11. Se invece intendi in questa maniera: nel mio giaciglio sottintendi « stando » o « giacendo » ho cercato colui che l’anima mia ama. Non l’ho cercato nel letto, ma stando nel mio letto l’ho cercato; ossia, quando ancora ero inferma e invalida e affatto capace di seguire lo Sposo ovunque va, di seguirlo nelle cose ardue e sublimi, incontrai molti i quali conoscendo il mio, desiderio mi dicevano: Ecco, Cristo è qui, ecco è là ( Mc 13,21 ); e non era né qui, né là. Ho incappato in costoro e non con mio danno. Poiché, quanto più mi avvicinai ed esplorai con maggiore diligenza, tanto più presto e sicuramente conobbi che presso di loro non era affatto la verità. Ho, infatti, cercato e non ho trovato, e compresi che erano notti quelli che si chiamavano giorni. 12. E dissi: Mi alzerò e farò il giro della città, per le strade e per le piazze cercherò colui che l’anima mia ama. Vedi adesso che giace colei che dice: Mi alzerò: Bene davvero. Come non alzarsi quando ho saputo della risurrezione del diletto? Del resto, o beata, se sei risorta con Cristo devi pensare alle cose di lassù, non alle cose terrene, ma è necessario cercare in su Cristo, dove siede alla destra del Padre. Ma farò il giro della città, dici. A che pro? In giro camminano gli empi ( Sal 12,9 ). Lascia questo ai Giudei, ai quali il loro Profeta ha vaticinato che patiranno la fame come cani e si aggireranno per la città ( Sal 59,7 ). E se entrerai nella città ecco gli orrori della fame ( Ger 14,18 ), come dice un altro Profeta, il che non sarebbe se vi fosse stato in essa il pane della vita. È risorto dal seno della terra, ma non restò sulla terra. Ascese dove era prima. Poiché colui che discese è lo stesso che è asceso, pane vivo che è disceso dal cielo e che è egli medesimo lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXVI I. La sposa per le strade e per le piazze ha cercato lo Sposo e perché invano, quando egli è ritornato in cielo 1. Per le strade e per le piazze cercherò colui che l’anima mia ama ( Ct 3,2 ). La sposa pensa ancora da bambina. Penso che abbia creduto che il Cristo, uscito dalla tomba si sarebbe subito presentato al pubblico, per insegnare come al solito al popolo, e sanare gli infermi, per manifestare la sua gloria a Israele, perché forse coloro che promettevano di riconoscerlo se fosse disceso dalla croce l’avrebbero ricevuto risorto dai morti. Ma egli aveva terminato l’opera che il Padre gli aveva dato da fare, e questo la sposa avrebbe dovuto capirlo almeno dalle parole di Cristo sulla croce, dette prima di spirare: Tutto è compiuto ( Gv 19,30 ). Non vi era più ragione per lui di ripresentarsi alle folle, le quali forse neppure ora gli avrebbero creduto. E si affrettava a tornare al Padre che doveva dirgli: Siedi alla mia destra fino a che io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi ( Sal 110,1 ). Con più forza e in modo più divino quando sarà esaltato da terra, tutto trarrà a sé. Questa credette di doverlo cercare per le strade e per le piazze, avida di godere della sua presenza, ma ignara del mistero. Nuovamente, dunque, frustrata, ripete: L’ho cercato e non l’ho trovato, perché si adempisse la parola di Gesù: perché vado al Padre e voi più non mi vedrete ( Gv 16,16 ). 2. Dirà, forse, la sposa: « Come dunque crederanno in colui che non videro? ». Quasi che la fede venga dalla vista e non dall’udito. Che cosa c’è di grande nel credere ciò che hai veduto, e non negare fede ai tuoi occhi quale lode merita? Ma se speriamo quello che non vediamo aspettiamo con pazienza, e la pazienza è meritoria. Beati coloro che non hanno veduto e hanno creduto ( Gv 20,29 ). Perciò, perché non si perda il merito della fede si sottragga alla vista, dando posto alla virtù. Ed è anche tempo che lui ritorni al suo posto. Quale posto? Alla destra del Padre. Non ha, infatti, considerato come una rapina il considerarsi uguale al Padre, essendo di natura divina. Dunque, questo sia il luogo dell’Unigenito, nel quale ogni torto a lui fatto viene meno. Sieda accanto, non al di sotto, perché tutti glorifichino il Figlio come onorano il Padre. In questo apparirà l’uguaglianza della maestà, se non sarà considerato né inferiore al Padre, né a lui posteriore. Ma la sposa per ora nulla avverte di queste cose; ma quasi ebbra per l’amore, correndo di qua e di là, cerca con gli occhi colui che non può più essere raggiunto dall’occhio ma dalla fede. Pensa, infatti, che Cristo non possa entrare nella sua gloria se prima la gloria della risurrezione non sarà manifesta davanti al mondo e allora l’empietà sarà confutata, esulteranno i fedeli, si glorieranno i discepoli, i popoli si convertiranno e infine sarà egli stesso da tutti glorificato, mentre dalla presenza del risorto a tutti sarà resa nota la verità della sua predicazione. T’inganni, sposa, devono avvenire queste cose, ma a suo tempo. 3. Per il momento, intanto, vedi se non sia cosa degna e maggiormente conforme alla superna giustizia che non si dia il santo ai cani e le perle ai porci, che piuttosto secondo la Scrittura venga tolto di mezzo l’empio perché non veda la gloria di Dio, che alla fede non venga tolto il merito, mentre ora essa è più provata, credendosi ciò che non si vede, e che in essa sia serbato ai degni quello che è occultato agli indegni, affinché quelli che sono nell’immondezza siano ancor più immondi, e i giusti siano maggiormente giustificati; che i cieli non sonnecchino per la noia, e i cieli dei cieli si struggano di confusione per la loro aspettativa, che lo stesso Padre onnipotente non sia più a lungo frustrato nel desiderio del suo cuore, che infine lo stesso Unigenito non debba ritardare alquanto, il che sarebbe cosa anche solo indegnissima, l’ingresso nella sua gloria. Quanto pensi che debba essere grande la gloria umana per la quale il Cristo debba rinunziare anche per poco a quella che dal Padre gli è preparata da tutta l’eternità? II. Il Padre glorifica il Figlio e il Figlio il Padre  Aggiungi che per nessuna ragione conviene che sia protratta più a lungo la domanda dello stesso Figlio. Chiedi quale sia questa domanda: è quella in cui dice: Padre, glorifica il tuo figlio ( Gv 17,1 ). Penso che questa domanda Cristo l’abbia fatta non tanto supplicando, quanto prevedendo. Viene chiesto liberamente quello che il richiedente ha potere di realizzare. Dunque, quella del Figlio è una domanda non necessaria, ma di formalità, in quanto tutto quello che riceve egli stesso lo dona con il Padre. 4. Qui si deve dire anche questo, che non solo il Padre glorifica il Figlio, ma anche il Figlio glorifica il Padre: perché qualcuno non dica il Figlio minore del Padre, in quanto glorificato dal Padre, mentre anche egli glorifica il Padre, come dice egli stesso: Padre, glorifica il tuo Figlio, affinché il tuo Figlio glorifichi te ( Gv 17,1 ). Ma forse continui a ritenere inferiore il Figlio, il quale quasi privo di gloria sembra ricevere gloria dal Padre per poi rifonderla al Padre. Senti che non è così: Glorificami, dice, Padre con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse ( Gv 17,5 ). Se dunque la gloria del Figlio non è posteriore, in quanto è dall’eternità, il Padre e il Figlio si danno gloria a vicenda da pari a pari. E se è così, dov’è il primato del Padre? C’è dunque uguaglianza dove è coeternità. E fino a tal punto c’è uguaglianza che una sola è la gloria di entrambi, come essi sono una cosa sola. Onde a me sembra che dicendo di nuovo: Padre glorifica il tuo nome ( Gv 12,28 ), non chieda in realtà altro che di glorificare se stesso, nel quale e per il quale il nome del Padre sarebbe senza dubbio glorificato, e ricevette la risposta dal Padre: L’ho glorificato e ancora lo glorificherò ( Gv 12,28 ), risposta che fu essa stessa una non piccola glorificazione del Figlio. Del resto egli è glorificato in modo più ampio e solenne al fiume Giordano, sia dalla testimonianza di Giovanni e dalla designazione della colomba, sia dalle parole del Padre che dice: Questi è il mio Figlio diletto ( Mt 3,17 ). Ma anche sul monte, davanti ai tre discepoli fu in modo meraviglioso glorificato, sia dalla voce venuta nuovamente su di lui dal cielo, sia dalla mirabile e splendida trasfigurazione del suo corpo, e sia anche dalla testimonianza dei due Profeti che qui apparirono parlando con lui. 5. Resta ancora che, secondo la promessa del Padre, sia ancora una volta glorificato, e quella sarà la pienezza della gloria, alla quale non si possa più nulla aggiungere. Ma dove sarà data questa benedizione? Certamente non nelle piazze o nelle strade, come la sposa ha sospettato, se non in quelle di cui è detto: Le tue piazze, Gerusalemme, saranno lastricate di oro puro, e per tutte le tue strade si canterà alleluia ( Tb 13,22 ). In queste realmente ha già ricevuto dal Padre quella gloria alla quale nessun’altra simile si potrà trovare, neppure in cielo. A quale degli Angeli infatti fu mai detto: Siedi alla mia destra? ( Eb 1,5.13 ). E non solo tra gli Angeli, ma non si è trovato alcuno neppure tra gli ordini superiori dei beati che fosse idoneo a ricevere questa sovraeccellente gloria. A nessuno affatto di essi è stata rivolta quella parola di una gloria singolare, nessuno ha sperimentato in sé l’efficacia di questa parola. Sia i Troni, sia le Dominazioni, sia i Principati, sia le Potestà desiderano sì di fissare in lui lo sguardo, ma non presumono di paragonarsi al Figlio di Dio. Dunque al mio Signore ( Sal 110,1 ), singolarmente è stato detto dal Signore, ed è stato dato di sedere alla destra della gloria di lui, in quanto coeguale nella gloria, consustanziale nell’essenza, consimile per la generazione, non dispari nella maestà, non posteriore per l’eternità. Qui, qui lo troverà chi lo cerca, e vedrà la sua gloria: non la gloria quasi di uno degli altri, ma veramente la gloria come di Unigenito dal Padre. III. Come la fede trova colui che l’intelletto non comprende; le guardie che custodiscono la città di Dio; l’anima è sposa e pecora 6. Che cosa farai o sposa? Pensi tu di seguirlo lassù? Oppure osi e puoi inoltrarti in questo così grande arcano e così misterioso santuario, per poter vedere il Figlio nel Padre e il Padre nel Figlio? No certamente. Dove egli è tu non puoi andare per ora; vi andrai dopo. Coraggio tuttavia, seguita a cercare; né ti distolga dal cercare quella gloria inaccessibile e quella sublimità, né ti faccia disperare di trovarlo. Se puoi credere, tutto è possibile a chi crede ( Mc 9,22 ). Vicina, dice, a te è la parola sulla tua bocca e nel tuo cuore ( Rm 10,8 ). Credi e l’hai trovato, poiché credere è aver trovato. Sanno i fedeli che Cristo abita per la fede nei loro cuori. Che c’è di più vicino? Cerca dunque sicura, cerca devota. Il Signore è buono per l’anima che lo cerca ( Lam 3,25 ). Cerca con le suppliche, seguilo con gli atti, trovalo con la fede. Che cosa non trova la fede? Arriva alle cose inaccessibili, scopre le cose ignote, abbraccia le immense, raggiunge le ultime, e comprende in qualche modo nel suo vastissimo seno la stessa eternità. Direi con fiducia: credo nell’eterna e beata Trinità che non comprendo, e tengo con la fede quella che non capisco con la mente. 7. Ma dirà qualcuno: « Come crederà senza predicatore, dato che la fede viene tramite l’udito, e l’udito per la parola della predicazione? ». Dio provvederà a questo, ed ecco sono già pronti coloro che istruiranno e informeranno la novella sposa che deve unirsi al celeste Sposo, di tutto quello che è necessario, le insegnino la fede e le diano la forma della pietà e della religione. Senti infatti quello che aggiunge: Mi hanno incontrato le sentinelle che custodiscono la città ( Ct 3,3 ). Chi sono queste sentinelle? Certamente coloro che il Signore nel Vangelo chiama beati se, quando verrà, troverà vigilanti. Che buone sentinelle, che mentre noi dormiamo vegliano, quasi debbano rendere conto delle nostre anime! Che buoni custodi, che vegliando e passando le notti in preghiera, esplorano le insidie dei nemici, prevengono le decisioni dei maligni, scoprono i lacci, eludono i trabocchetti, dissipano le reti, rendono vane le macchinazioni! Questi sono quelli che veramente amano i fratelli e il popolo cristiano, che pregano molto per il popolo e per tutta la santa città. Questi sono coloro che molto solleciti per le pecorelle, a loro affidate, dal Signore, di buon mattino vegliano per rivolgere il loro cuore al Signore che li ha creati, e pregano al cospetto dell’Altissimo. E vegliano e pregano conoscendo la loro insufficienza nel custodire la città, e che se il Signore non custodisce la città, invano veglia il suo custode ( Sal 127,1 ). 8. Pertanto, comandando il Signore: Vegliate e pregate per non entrare in tentazione ( Mt 26,41 ), chiaro che senza questo duplice esercizio dei fedeli e cura dei custodi, non può essere sicura la città, non la sposa, non il gregge. Chiedi la differenza di queste cose? Sono una cosa sola. È detta città per collezione, sposa per dilezione, pecore per la mansuetudine. Vuoi sapere che la sposa è città? Ho veduto, dice, la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo Sposo ( Ap 21,2 ). Lo stesso ti apparirà delle pecore, se ricorderai come Pietro, primo loro custode, quando gli furono affidate sia stato accuratamente interrogato circa il suo amore. E chi gliele affidava non avrebbe usato tanta cura se non si fosse sentito Sposo nell’intimo della coscienza. Ascoltate, amici dello Sposo, se pure siete amici. Ma ho detto poco « amici »: amicissimi devono essere quelli che hanno il privilegio di una così grande familiarità. Non senza una ragione è stato ripetuto parecchie volte: Pietro, mi ami tu? ( Gv 21,17 ), quando gli furono affidate le pecore. E io penso che questo sia come se gli avesse detto: « Se la coscienza non ti assicura che mi ami, e mi ami fortemente e perfettamente, cioè più delle cose tue, più che i tuoi, più anche di te stesso, perché vi sia corrispondenza con il numero delle domande, non assumerti questa cura né intrometterti nelle mie pecore, per le quali il mio sangue é stato sparso ». Discorso terribile, capace di scuotere anche i cuori impavidi dei tiranni. 9. Per la qual cosa badate a voi stessi quanti avete avuto l’incarico di quésto ministero, badate dico, al prezioso deposito che vi è stato affidato. È una città. Vegliate alla sua custodia e alla sua concordia. È la sposa: applicatevi a ornarla. È un gregge: provvedete ai pascoli. Queste tre cose si riferiscono forse, lo ripeto, alla triplice domanda del Signore. IV. Che cosa è detto della custodia della città, che cosa della bellezza della sposa o del pascolo delle pecore e chi deve essere scelto per queste funzioni Pertanto, la custodia della città sarà triplice: dalla violenza dei tiranni, dall’inganno degli eretici, dalle tentazioni dei demoni. L’ornamento della sposa consisterà nelle buone opere, nei costumi, negli ordini. Il cibo delle pecore consisterà nei pascoli delle Scritture, come eredità del Signore. Ma c’è distinzione in esse. Vi sono i comandamenti che vengono imposti agli animi duri e carnali dalla legge della vita e dalla disciplina, e vi sono i legumi delle dispense che vengono serviti agli infermi e ai piccoli di cuore per riguardo di misericordia, e vi sono i consigli solidi e forti che dagli intimi della sapienza vengono proposti ai sani e a quelli che hanno i sensi esercitati a discernere il bene dal male. Ai piccoli, invece, come ad agnellini, viene dato il latte dell’esortazione, piuttosto che il cibo solido. Inoltre i buoni e solleciti pastori non cessano di nutrire con buoni esempi tratti da letture, e più con i loro stessi esempi che con quelli degli altri. Perché se lo fanno solo con gli esempi altrui e non con i propri è vergogna per essi, e il gregge non ne trae profitto. Infatti, se io per esempio, che sembro tra di voi aver cura del gregge, vi portassi come esempio la mansuetudine di Mosè, la pazienza di Giobbe, la misericordia di Samuele, la santità di Davide, e altri simili esempi di persone buone, comportandomi nello stesso tempo io stesso come duro, impaziente, senza misericordia e per nulla santo, il mio discorso, come temo, avrebbe meno unzione, e voi lo ricevereste con minore avidità. Ma questo lo lascio alla suprema pietà, perché essa supplisca quello che a me manca per voi, e corregga ciò che vi è di sbagliato. Ora, il buon pastore avrà cura anche di questo, di avere cioè, secondo il Vangelo, sale in se stesso, sapendo che il discorso condito di sale tanto piacerà per la grazia, altrettanto gioverà per la salute spirituale. Questo abbiamo detto riguardo alla custodia della città, all’ornamento della sposa e al pascolo delle pecore. 10. Voglio, tuttavia, parlarne ancora un po’ più dettagliatamente per coloro che, mentre anelano troppo avidamente agli onori, meno avvedutamente si sottopongono a gravi oneri, si espongono a pericoli, perché sappiano a che scopo sono venuti, come sta scritto: Amico, a che fare sei venuto? ( Mt 26,50 ). Se non erro per la sola custodia della città, perché sia procurato quanto è necessario, c’è bisogno di un uomo forte, spirituale e fedele; forte per impedire i torti, spirituale per scoprire le insidie, fedele perché non cerchi il suo interesse. Per quel che riguarda, poi, l’onestà e la correzione dei costumi, cosa che appartiene al decoro della sposa, è facile comprendere che è necessaria la censura della disciplina, con molta diligenza. Per questo è necessario che chiunque cui appartiene questo compito sia acceso da quello zelo di cui ardeva quel grande geloso della sposa del Signore che diceva: Sono geloso di voi della gelosia del Signore, vi ho infatti sposati a un unico Sposo, per presentarvi come vergine casta a Cristo ( 2 Cor 11,2 ). E come potrà un pastore inesperto condurre i greggi del Signore nei pascoli della divina parola? Ma, se anche sarà dotto, ma non buono, c’è da temere che non tanto nutra con un’abbondante dottrina quanto nuoccia con una vita sterile. È, pertanto, temerario da questo lato colui che si sobbarca a questo onere senza la dovuta scienza e una lodevole condotta. Ma ecco, cosa che non lodiamo, ci si impone di terminare, mentre l’argomento non era finito. Siamo chiamati ad altra materia, alla quale è indegno che questa debba lasciare il posto. Sono alle strette da ogni parte, e non so quale delle due cose mi costi di più: essere strappato da questa o dovermi occupare di quella, e le due cose insieme aumentano la molestia. Oh, schiavitù! Oh, necessità! Non faccio quello che voglio, ma faccio quello che ho in avversione. Notate, tuttavia, dove abbiamo smesso perché, quando al più presto riprenderemo l’argomento, di lì ricominciamo in nome dello Sposo della Chiesa, Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXVII I. Biasimo rivolto alle guardie indegne 1. Ecco, grazie a Dio, ci siamo liberati. Abbiamo detto nel sermone di ieri quali capi vorremmo avere nella via per cui camminiamo, non quali abbiamo in realtà. Purtroppo, quelli che sperimentiamo sono molto diversi. Non sono tutti amici dello Sposo coloro che oggi vedi assistere la sposa da una parte e dall’altra, e che come si usa dire comunemente sembrano quasi addestrarla. Sono molto pochi quelli che non cercano il loro interesse, tra tutti i suoi intimi. Amano i regali e non possono in pari tempo amare Cristo, perché hanno dato le mani a mammona. Osserva come camminano nitidi ed eleganti, coperti di vesti lussuose, come una sposa che esce dalla stanza nuziale. Se vedrai d’improvviso uno di questi tali camminare pettoruto ti sembrerà di incontrare la sposa, più che un suo custode. Da dove pensi che venga a questi tali tanta abbondanza di beni, splendore d’abiti, lusso nelle mense, quantità e varietà di vasi d’argento e d’oro se non dai beni della sposa? Per questo essa è lasciata povera e bisognosa e nuda, con faccia macilenta, incolta, ispida, pallida. Per questo non si usa in questo tempo ornare la sposa, ma spogliarla, non custodirla, ma perderla, non difenderla, ma esporla ai pericoli, non istruirla, ma prostituirla, non si usa pascere il gregge, ma uccidere e divorare le pecore, secondo quanto dice il Signore: Divorano il mio popolo come divorano il pane ( Sal 14,4 ); e ancora: Hanno divorato Giacobbe e devastata la sua dimora ( Sal 79,7 ), e un altro Profeta: Si nutrono della sua iniquità ( Os 4,8 ), quasi dica: « Esigono denaro per i peccati e non sono solleciti per i peccatori ». Chi mi troverai tra i preposti che non sia più sollecito a vuotare le borse dei sudditi che non a emendarne i vizi? Dov’è quello che pregando pieghi l’ira di Dio, che predichi l’anno favorevole alla misericordia del Signore? Parliamo delle cose più leggere. Sulle più gravi incombe un giudizio più severo. 2. Inutilmente, tuttavia, ci fermeremo su queste e su quelle, perché non ci ascoltano. E anche se mandassimo loro per iscritto queste cose che diciamo, non si degnerebbero di leggerle; o se le leggessero si indignerebbero contro di me, sebbene dovrebbero farlo più giustamente contro se stessi. Perciò lasciamo costoro, che non hanno trovato la sposa, ma che l’hanno venduta, e cerchiamo piuttosto quelli dai quali la sposa dice di essere stata trovata. Anche questi hanno avuto lo zelo. Tutti desiderano essere successori degli Apostoli, imitatori pochi. Oh, se fossero così vigilanti nella cura quanto alacri nel correre alla cattedra! Certo, veglierebbero conservando con sollecitudine la sposa trovata da essi, ad essi affidata. Anzi, veglierebbero per se stessi, né lascerebbero che si dica di loro: Amici e compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza ( Sal 38,12 ). Giusto lamento in verità, e giusto soprattutto al nostro tempo. È poca cosa per le nostre sentinelle che non ci custodiscano; ci perdono anche, in quanto presi dal profondo sonno della trascuranza, non si svegliano a nessun tuono delle divine minacce, perché abbiano almeno paura del pericolo che corrono essi stessi. Di qui avviene che non risparmiano le loro pecore, essi che non risparmiano se stessi, uccidendo e nello stesso tempo perendo. II. Chi o quali sono le guardie dalle quali dice di essere stata trovata; l’amore della verità che per loro mezzo impara 3. Ma quali sono le sentinelle dalle quali la sposa dice di essere stata trovata? Sono gli Apostoli e gli uomini apostolici. Veramente questi si custodiscono la città, cioè quella stessa Chiesa che hanno trovato, e lo fanno con tanta maggior vigilanza quanto più la vedono in questo tempo posta in pericolo, insediata cioè da un male domestico e interno, come sta scritto: E i nemici dell’uomo sono i suoi familiari ( Mi 7,6 ). Non lasciano, infatti, priva del loro patrocinio quella per cui resistettero fino al sangue, ma la proteggono e la custodiscono giorno e notte, cioè nella vita e nella morte loro. E se è preziosa al cospetto del Signore la morte dei suoi santi ( Sal 116,15 ) non dubito che saranno tanto più potenti nella morte quanto più si è dimostrato valido in essa il loro principato. 4. « Tu asserisci queste cose dirà taluno come se le avessi viste con i tuoi occhi, ma sono cose che non si possono vedere da occhio umano ». E io rispondo: « Se tu credi fedele la testimonianza dei tuoi occhi, la testimonianza di Dio è maggiormente degna di fede. Ed egli dice: Sulle tue mura, o Gerusalemme, ho stabilito dei custodi, tutto il giorno e tutta la notte non taceranno ( Is 62,6 ). « Ma questo dici è detto degli Angeli ». « Non dico di no: sono tutti spiriti incaricati di un ministero ( Eb 1,14 ). Ma chi mi proibisce di applicare le stesse cose agli Apostoli, i quali non sono ormai inferiori in potenza agli Angeli stessi, e per l’affetto e la misericordia ci sono tanto più fratelli, in quanto partecipi della nostra natura? E poi essi hanno sofferto le medesime pene e miserie che noi sopportiamo ancora nel tempo. Nulla li rende più misericordiosi e solleciti per noi che il pensiero di essere passati per le medesime prove. Non è la loro voce quella del salmo: Siamo passati per il fuoco e per l’acqua e ci ha condotto al refrigerio? ( Sal 66,12 ). E che? Essi sono passati, e lasceranno noi in mezzo al fuoco e ai flutti, né si degneranno di porgere almeno la mano ai figli in pericolo? Non può essere così ». Sei bene trattata, o madre Chiesa, sei bene trattata nel luogo del tuo pellegrinaggio. Dal cielo e dalla terra ti viene l’aiuto. Quelli che ti custodiscono non sonnecchiano e non dormono. Gli Angeli sono tuoi custodi, tue sentinelle gli spiriti e le anime dei giusti. Non sbaglia colui che ti avrà sentita trovata dagli uni e dagli altri spiriti, e custodita da essi. E ognuno di essi ha una sua ragione speciale in questa sollecitudine: i giusti, i quali senza di te non arriveranno al numero e alla santità consumata, gli Angeli, i quali non saranno se non da te restaurati nella loro pienezza. Poiché tutti sanno che cadendo dal cielo Satana con i suoi complici, il numero della celeste moltitudine risultò di molto diminuito. Da te tutti attendono la consumazione, alcuni del numero, altri del loro desiderio. Riconosci, dunque, nel salmo la tua voce: Mi aspettano i giusti perché mi doni la retribuzione ( Sal 142,8 ). 5. È da notare che non è riferito che la Chiesa abbia trovato i custodi, ma piuttosto che essi hanno trovato la sposa in quanto, penso io, erano a questo destinati. Perché come predicheranno se non sono mandati? ( Rm 10,15 ). Poi Gesù dice nel Vangelo: Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura ( Mc 16,15 ); andate, ecco io vi mando ( Lc 10,3 ). È così: essa cercava lo Sposo e lo Sposo non era nascosto, è lui stesso, infatti, che l’aveva incitata a cercarlo, e le aveva messo in cuore l’amore dei precetti e della legge della vita e della disciplina, purché vi fosse chi la istruisse e le insegnasse la via della prudenza. E le mandò incontro coloro che piantano e innaffiano perché la nutrissero e confermassero in ogni certezza della verità, cioè le indicassero e la informassero sul diletto, perché è la verità che la sua anima cerca a veramente ama. E in realtà quale amore è veramente fidato e vero se non quello nel quale è amata la verità? Sono fornito di ragione, sono capace di verità; ma non lo vorrei essere se mi mancasse l’amore della verità. Questo è il frutto dei rami e io sono la radice. Non sono al sicuro dalla scure se sarò trovato senza di quello. In quel dono, infatti, della natura, certamente splende una bella immagine di Dio, per cui io mi distinguo dagli altri animali. Per questo la mia anima ardisce assurgere ai dolci e casti amplessi della verità, e cosa riposare con tutta sicurezza e soavità nel suo amore, se tuttavia ho trovato grazia agli occhi di cosa grande Sposo, che la stimi degna di raggiungere questa gloria, anzi, che egli stesso se la presenti senza macchia, né ruga o altro di simile. Quanto pensi sia pericoloso e di quale pena degno tenere questo dono ozioso? Ma di questo parleremo altrove. III. Su coloro che senza guida presumono di trovare la via della vita, e come la sposa dica di averla trovata. 6. Intanto però la sposa non ha trovato colui che cercava. Ascoltino questo coloro che senza guida e precettore non temono di incamminarsi per le vie della vita, facendosi nell’arte spirituale nello stesso tempo discepoli e maestri di se stessi. E quasi non bastasse moltiplicano i loro discepoli, fattisi guide cieche di ciechi. Quanti per questo si sa che si sono scostati dalla retta via e sono andati errando con loro grande pericolo! Ignorando, infatti, le astuzie di Satana e i suoi pensieri, vanno a finire che avendo cominciato con lo spirito, terminano con la carne, trascinati turpemente e in modo condannabile caduti. Vedano, dunque, coloro che cosa si comportano di camminare con cautela, e prendano esempio dalla sposa la quale non volle in alcun modo pervenire a colui che desiderava prima di incontrare quelli che l’ammaestrassero sul diletto, e le insegnassero il timore del Signore. Dà una mano al seduttore colui che ricusa di darla al precettore. E chi lascia le pecore al pascolo senza un custode, non è pastore delle pecore, ma dei lupi. 7. Ora vediamo la sposa come racconti di essere stata trovata. A me sembra che abbia usato la parola « trovare » fuori del consueto. Dice, infatti, queste cose come se la Chiesa venisse da un certo luogo. Essa viene dall’Oriente e dall’Occidente secondo la parola del Signore, e da tutti i confini della terra. Ma né fu mai radunata in un solo luogo, dove sia stata trovata dagli Apostoli e dagli Angeli per essere fatta uscire e diretta a colui che l’anima sua ama. Fu forse trovata prima che radunata? No, perché prima non esisteva. Per la qual cosa se avesse detto di essere stata radunata, congregata, oppure con una parola che si confà maggiormente alla Chiesa, convocata dai predicatori, sarei passato semplicemente, senza alcuna esitazione. Sono, infatti, coadiutori di Dio, i quali lo hanno sentito dire: Chi non raccoglie con me disperde ( Lc 11,23 ). Ma non mi sembrerà neppure fuori luogo se qualcuno dirà che la Chiesa è stata da essi fondata ed edificata. Lo fecero insieme con colui che dice nel Vangelo: E su questa pietra edificherò la mia Chiesa ( Mt 16,18 ) e che è fondata sopra ferma roccia ( Mt 7,25 ). Ma essa, nulla dicendo di tutto ciò, ma sostenendo che è stata da essi trovata, ci lascia alquanto perplessi e ci fa sospettare che in questo passo ci sia qualche cosa di nascosto che debba con maggior diligenza essere ricercato. 8. Volevo, lo confesso, passare oltre, e dispensarmi da questa ricerca per la quale mi sento incapace. Ma ricordandomi che in tanti altri passi ugualmente dubbi e oscuri mi sono sentito aiutato più di quanto speravo per l’aiuto delle vostre preghiere, mi vergogno della mia diffidenza, e rimproverandomi il mio timore affronto senza temerità l’argomento che per timidezza avrei voluto scartare. Vi sarà, ne ho fiducia, il solito aiuto; che se non riuscirò bene nel mio intento, non sarà inutile quanto dirò per uditori benevoli. Si tratterà però di questo all’inizio di un altro sermone, perché il presente lo chiudiamo qui. Vi conceda, pertanto, non solo di tenere a mente quanto diciamo, ma di amarlo ardentemente e compierlo efficacemente lo stesso Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra ogni cosa benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXVIII I. Cooperano alla salvezza della sposa di Dio, l’angelo, l’uomo 1. Alla parola « trovata », se ben ricordo, ci siamo fermati sospesi, sembrandoci alquanto strano che la sposa si dicesse trovata dai suoi predicatori. Ora, le cause del nostro indugiare e del nostro dubbio sono state da noi espresse e ci è sembrato di dover cercare qualche cosa; non però al termine di un sermone si poteva dare la spiegazione del quesito; dobbiamo, dunque, farlo ora. Nella spiegazione del grande sacramento parlo di quello che il Dottore delle genti ha interpretato in Cristo e la Chiesa, il santo e casto connubio che è l’opera della nostra salvezza in esso, dico, concorrono insieme tre cose: Dio, l’Angelo, l’uomo. In quanto a Dio, come non opererà e prenderà cura delle nozze del diletto Figlio suo? Lo farà con tutta la volontà. E di per sé basterebbe lui solo e senza l’aiuto degli altri, i quali senza di lui non possono far nulla. Dunque, quello che da essi riceve come ministri in quest’opera non rappresenta un sollievo per sé, ma un vantaggio per essi. Per gli uomini, infatti, ha legato il merito alle opere, secondo il detto: L’operaio è degno della sua mercede ( Lc 10,7 ), e perché ognuno riceverà secondo il proprio lavoro, sia chi pianta nella fede, sia chi innaffia ciò che è piantato. Quando, poi, si serve del ministero degli Angeli per la salvezza del genere umano, non lo fa forse perché gli Angeli siano amati dagli uomini? Poiché, che gli Angeli amino gli uomini, si può particolarmente dedurre dal fatto che gli Angeli non ignorano che le antiche rovine della loro città saranno restaurate dagli uomini. E non conveniva che il regno della carità fosse retto da altre leggi che da quelle del mutuo amore e dalla pura affezione vicendevole e verso Dio di coloro che dovranno condividere il regno celeste. 2. Ma vi è molta differenza nel modo di operare, secondo la dignità di ciascun operaio. Dio fa quello che vuole per la stessa sola facilità di volere, senza sudare, senza muoversi, senza pregiudizio di luogo o di tempo, o di causa o di persona. È, infatti, il Signore degli eserciti che con tranquillità giudica tutte le cose. È la Sapienza che dispone tutte le cose con soavità. L’Angelo, invece, non opera senza movimento, sia locale che temporale, ma senza affanno. L’uomo, invece, non è libero, né dall’agitazione dell’animo, né dal movimento del corpo e dello spirito nell’operare. Gli si comanda, infatti, di lavorare alla propria salvezza con timore e tremore, e con il sudore del suo volto mangiare il suo pane. II. Le tre cose nelle quali Dio previene: la predestinazione, la creazione, l’ispirazione; per quale motivo la sposa non poté essere trovata se non dopo l’ispirazione 3. Spiegate così queste cose, osserva ora con me come in questa magnifica opera della nostra salvezza vi sono tre cose che Dio si attribuisce come loro autore, e in esse previene tutti i suoi ausiliari e cooperatori; queste cose sono la predestinazione, la creazione, l’ispirazione. Di queste la predestinazione non ha avuto principio, non dico dall’origine della Chiesa, ma neanche dall’inizio del mondo, cioè da questo o quel tempo: è prima del tempo. La creazione è con il tempo; l’ispirazione avviene nel tempo, dove e quando vuole. In realtà, secondo la predestinazione, la Chiesa degli eletti è sempre esistita nella mente di Dio. Se l’infedele si meraviglia di ciò, ascolti ciò che lo farà meravigliare di più: non fu mai che non fosse amata. Perché non parlerò arditamente dell’arcano che quel coraggioso delatore dei superni consigli ha carpito dal cuore di Dio e mi ha svelato? Parlo di Paolo il quale come molte altre cose così non ha avuto timore di divulgare anche questo segreto delle ricchezze della sua bontà, dicendo: Dio ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo, come ci ha scelti in lui prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità e aggiunge: predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia che ci ha dato nel suo figlio diletto ( Ef 1,3-6 ). Non c’è dubbio che con queste parole si esprimano tutti gli eletti: ed essi sono la Chiesa. Pertanto, in quel così profondò seno dell’eternità, prima che venissero alla luce e prendessero forma in questa creazione, chi, sia pure dei beati spiriti, avrebbe potuto trovarla in qualche modo, se non colui al quale la stessa eternità, Dio, l’abbia voluta rivelare? 4. Ma anche quando ormai al cenno del Creatore si vide emergere nelle apparenze e forme visibili, non subito è stata trovata da alcuno degli uomini o degli Angeli, perché non era conosciuta, adombrata com’era dall’immagine dell’uomo terrestre e coperta dalla caligine della morte, velo di generale confusione senza del quale nessuno dei figli dell’uomo entrò in questa vita, eccettuato uno solo che entra senza macchia. Costui è l’Emmanuele, il quale tuttavia è anche lui dei nostri, per noi si è rivestito della nostra maledizione e della similitudine del peccato, non della verità di esso. Così, infatti, sta scritto che apparve: in una carne simile a quella del peccato, e in vista del peccato egli ha condannato il peccato nella carne ( Rm 8,3 ). Del resto il medesimo è in tutto entrato per tutti, eletti e reprobi; non vi è, infatti, distinzione; tutti hanno peccato, e tutti portano il velo della loro vergogna. Per questo, dunque, anche se la Chiesa esisteva già creata nelle cose create, non poteva, tuttavia, essere trovata e conosciuta da alcuna creatura, essendo nel frattempo in modo meraviglioso nascosta, e nel grembo della beata predestinazione, e nella massa della misera dannazione. 5. Del resto quella che la sapienza predestinatrice aveva nascosto dall’eternità, e neppure la potenza creatrice aveva messo sufficientemente in luce, la rivelò poi a suo tempo la grazia, secondo un’operazione che sopra ho chiamato ispirazione, appunto perché qualcosa dello spirito dello Sposo venne infuso negli spiriti umani, in preparazione del Vangelo della pace, cioè per preparare la via al Signore e al Vangelo della sua gloria al cuore di tutti, quanti erano predestinati alla vita. Invano le sentinelle avrebbero faticato nel predicare se non le avesse precedute questa grazia. Ma ora, vedendo come la parola correva velocemente, e i popoli delle nazioni con tutta facilità si convertivano al Signore, le tribù e le lingue accorrevano nell’unità della fede, e i confini della terra si radunavano in un’unica madre cattolica, conobbero le ricchezze della grazia che da tempo erano tenute nascoste nel segreto dell’eterna predestinazione, e gioirono di avere trovato colei che prima dei secoli il Signore si era scelta per sé come sposa. 6. Da questo, penso io, risulta chiaro come non senza motivo la sposa rende testimonianza di essere stata trovata da costoro, ma per il fatto che si riconosce da essi radunata, non eletta; riconosciuta, non convertita. III. Giustamente è detto che la sposa fu preparata da Dio, non trovata; trovata dalle guardie a causa della preparazione La conversione, infatti, di chicchessia, si deve attribuire a colui al quale tutti devono rivolgere quella preghiera: convertici, o Dio, nostra salvezza ( Sal 85,5 ). Ma non troverei forse ugualmente adatta per lui la parola « trovata » come la parola « convertita ». Anzi è così: non spetta al Signore trovare, ma prevenire, e l’aver prevenuto esclude il trovare. E poi, che cosa può trovare colui che non ha mai ignorato nulla? Conosce il Signore quelli che sono suoi ( 2 Tm 2,19 ), dice l’Apostolo. E lui che cosa dice? Io conosco quelli che ho scelto da principio ( Gv 13,18 ). È chiaro che non era giusto dire trovata, colei che preconobbe dall’eternità, che elesse, che amò, che creò. Direi tuttavia con fiducia che Dio l’ha preparata perché fosse trovata. Poiché chi ha visto ne dà testimonianza e sappiamo che la sua testimonianza è vera ( Gv 19,35 ). Vidi, dice, la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo Sposo ( Ap 21,2 ). Chi parla così è una delle sentinelle che custodiscono la città. Ma ascolta lo stesso suo preparatore che la addita alle sentinelle, ma sotto un’altra immagine: Levate i vostri occhi, e guardate i campi che già biondeggiano ( Gv 4,35 ), pronti cioè per la mietitura. Con questo il Padre di famiglia invita gli operai al lavoro, quando già sente che tutto è già così pronto che, senza eccessivo lavoro, possono gloriarsi e dire: Siamo coadiutori di Dio ( 1 Cor 3,9 ). Infatti, che cosa faranno? Cercheranno la sposa, e trovatala, le daranno indicazioni sul diletto. Non cercheranno infatti il loro interesse, ma la grazia dello Sposo, perché sono i suoi amici. E per questo non avranno molto da fare presso di essa: è là presente, e già lo cerca con tutta devozione, in quanto già la sua volontà è preparata dal Signore. 7. E prima ancora che esse le dicano qualche cosa, le interroga a riguardo del diletto e previene i suoi predicatori, essendo essa stessa prevenuta informandosi col dire: Avete visto l’amato del mio cuore? ( Ct 3,3 ). Bene, pertanto, si dice trovata da coloro che custodiscono la città, essa che si riconosce già preconosciuta e prevenuta dal Signore della città, sicché le sentinelle tale la trovarono, non la resero tale. Così Cornelio da Pietro e Paolo da Anania sono stati trovati: entrambi, infatti, erano stati prevenuti dal Signore e da lui preparati. Chi più preparato di Saulo il quale aveva già con la mente e con la voce supplicato: Signore, che cosa vuoi che io faccia? ( At 9,6 ). Cornelio similmente con le sue elemosine e preghiere che il Signore gli aveva ispirato, meritò di pervenire alla fede. Anche Filippo trovò Natanaele: ma prima il Signore lo aveva già visto quando era sotto il fico. Non fu, forse, una preparazione quello sguardo del Signore? Anche di Andrea è riferito che trovò suo fratello Simone, previsto e preconosciuto anche lui dal Signore che lo chiamò Cefa, quasi forte nella fede. 8. Leggiamo di Maria che fu trovata incinta per opera dello Spirito Santo. Penso che la sposa del Signore abbia in questo qualche cosa di simile alla Madre di lui. Se, infatti, anch’essa non fosse stata trovata da quelli che la trovarono piena di Spirito Santo, non avrebbe con tanta familiarità richiesto di lui, del quale è quello Spirito. Non aspettò che essi le dicessero perché erano venuti; lei parlò, e dall’abbondanza del cuore: Avete visto l’amato dell’anima mia? Sapeva che sono beati gli occhi che lo hanno veduto; e ammirando quelli che l’avevano veduto diceva: Siete voi ai quali fu dato di vedere colui che tanti re e profeti vollero vedere e non videro? Siete voi che avete meritato di vedere la Sapienza nella carne, la verità nel corpo, Dio nell’uomo? Molti dicono: Ecco qui, eccolo là ( Lc 17,21 ), ma io penso di prestar fede con maggiore sicurezza a voi che avete mangiato e bevuto con lui dopo che è risorto dai morti. E questo sia detto per il fatto che la sposa sia stata trovata dalle sentinelle. Se manca qualche cosa si supplirà in un altro sermone. Ma ora da questo massimamente appare come essa sia stata prevenuta dallo Spirito Santo; da coloro che custodiscono la città trovata e conosciuta, come quella che Dio ha preconosciuto e predestinato prima del tempo, e preparata da lui per il suo Figlio diletto, perché formi le sue delizie sempiterne per l’eternità, essendo santa e immacolata al suo cospetto, germinante come giglio e fiorente in eterno davanti al Signore, Padre del Signore mio Gesù Cristo, Sposo della Chiesa che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXIX I. Per quale motivo la sposa dice: « Avete visto che l’anima mia ama? » e che cosa significa che oltrepassa le guardie 1. Avete visto l’amato dell’anima mia ( Ct 3,3 ). O amore precipitoso, veemente, ardente, impetuoso, che non lasci pensare ad altro che a te, che hai in fastidio tutto il resto, tutto disprezzi fuori di te, soddisfatto solo di te! Tu confondi gli ordini, dissimuli le usanze, non conosci misure; tutti quelli che sembrano essere dettami della convenienza, della ragione, del pudore, della prudenza e dell’equità devono cedere a te e tu li riduci in schiavitù. Ecco tutto quello che questa sposa pensa e quello che dice sa di amore, profuma di amore e null’altro. Perciò esso si è fatto padrone del cuore e della lingua. Dice: Avete visto l’amato dell’anima mia? Quasi che quelli sappiano ciò che pensa questa. Chiedi informazioni di colui che la tua anima ama? Ma non ha un nome? E chi sei tu, e chi è lui? Così avrei detto io per la stranezza del discorso e la notevole trascuratezza dei termini, per la quale questo libro della Sacra Scrittura si mostra abbastanza dissimile dagli altri. Perciò in questo epitalamio non devono considerarsi tanto le parole quanto gli affetti. Perché questo, se non perché il santo amore che, si sa, è l’unica materia di tutto questo volume, non ha valutato secondo le parole e le espressioni, ma secondo le opere e la verità? Dovunque parla l’amore, e se qualcuno vuole acquistare conoscenza di queste cose che vi leggiamo, ami. Diversamente, si accinge invano a udire o a leggere il carme dell’amore colui che non ama: non può, infatti, un cuore freddo comprendere un discorso infuocato. Come chi non conosce il greco non può capire uno che parla in greco, o chi non è latino non capisce chi parla latino, e così degli altri idiomi, così la lingua dell’amore, a colui che non ama sarà una lingua barbara, e come un bronzo che risuona e un cembalo tintinnante. Costoro, invece parlo dei custodi poiché anch’essi hanno ricevuto dallo Spirito per amore, sanno che cosa dice lo Spirito, e conoscendo bene le parole dell’amore sono pronti a rispondere nella medesima lingua, cioè con sentimenti di amore e doveri di pietà. 2. Così in breve tempo la rimandano informata su quanto richiedeva, ed essa dice: Da poco li avevo oltrepassati quando trovai l’amato dell’anima mia ( Ct 3,4 ). Dice bene: « da poco », perché le dissero una parola abbreviata, consegnandole il simbolo della fede. E ciò che segue è tale. Occorreva che la sposa passasse per essi, per conoscere da essi la verità, ma doveva però passare; se non avesse oltrepassato anche essi, non avrebbe trovato colui che cercava. E non dubitare che essi l’abbiano anche persuasa a questo. Non predicavano, infatti, se stessi, ma il loro Signore Gesù che è certamente sopra e oltre loro. Per questo egli dice: Passate a me voi tutti che mi desiderate ( Sir 24,19 ). Non bastava passare, le vien detto di oltrepassare. Perché era trapassato colui che andava cercando. Non era, infatti, passato solo dalla morte alla vita, ma era passato oltre entrando nella gloria. Era, dunque, necessario che anch’essa oltrepassasse. Se no non lo avrebbe potuto raggiungere non seguendone le vestigia ovunque egli era andato. 3. E perché sia maggiormente chiaro quello che sto dicendo, se il mio Signore Gesù fosse bensì risorto da morte, ma non fosse asceso al cielo, non si potrebbe dire di lui che sia oltrepassato, ma passato solamente: e per questo la sposa che lo cerca dovrebbe passare solamente, non oltrepassare. Ma siccome già risorgendo era passato, ed era ancora passato oltre ascendendo in cielo, giustamente anche questa dice non solamente di essere passata, ma di aver oltrepassato, avendolo seguito al cielo con la fede e la devozione. Dunque, credere nella risurrezione è passare, credere anche l’ascensione è oltrepassare. E forse come ho già detto un giorno su questo argomento la sposa conosceva la risurrezione e non l’ascensione. Fu, dunque, istruita dalle sentinelle su quanto le mancava, che cioè colui che era risuscitato era anche asceso; ascese parimenti anch’essa, cioè oltrepassò e trovò. Come non lo avrebbe trovato raggiungendolo con la fede dove egli è con il corpo? Da poco li avevo oltrepassati. Dice bene: li avevo, perché il nostro corpo di due punti ha preceduto e trasceso sia essi, sia le altre sue membra che sono sopra la terra, con la risurrezione, cioè come abbiamo detto, e con l’ascensione. Infatti Cristo è la primizia ( 1 Cor 15,23 ). Che se egli ci ha preceduti lo ha seguito anche la nostra fede. Dove, infatti, essa non lo seguirebbe? Se egli ascende in cielo essa vi è. Se discenderà nell’inferno essa è pure là. E se avrà preso le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare anche là, dice, mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra ( Sal 139,8-10 ). Infine, non è forse vero che secondo questa fede l’onnipotente e sommamente buono Padre dello Sposo ci ha conrisuscitati con lui e fatti sedere alla sua destra? Questo per spiegare quello che ha detto la Chiesa, cioè che ha oltrepassato le sentinelle poiché oltrepassò una volta sola, arrivando con la fede dove in realtà essa non è ancora pervenuta. Penso che sia chiaro anche perché ha detto di aver oltrepassato, più che semplicemente passato. E anche noi passiamo alle cose che seguono. II. Il vincolo dell’amore con cui la sposa tiene avvinto lo Sposo e non lo lascia, e per quale motivo si prepara a introdurlo nella stanza della sua genitrice 4. Lo strinsi fortemente e non lo lascerò, finché non l’abbia condotto in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice ( Ct 3,4 ). È così: d’allora in poi non venne meno il popolo cristiano, né la fede dalla terra, né la carità dalla Chiesa. Strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono contro di essa, e non cadde perché era fondata su salda roccia ( Mt 7,25 ) e la pietra era Cristo ( 1 Cor 10,4 ). Pertanto, né per le chiacchiere dei filosofi, né per i cavilli degli eretici, né per la spada dei persecutori la Chiesa poté o potrà mai essere separata dalla carità di Dio che è in Cristo Gesù: tanto fortemente tiene colui che l’anima sua ama, tanto è cosa buona per lei. La saldatura è buona, dice Isaia ( Is 41,7 ). Che cosa vi è di più tenace di questo glutine che né si scioglie con l’acqua, né si dissolve con i venti, né si divide con le spade? Infine: Le grandi acque non possono spegnere l’amore ( Ct 8,7 ). Lo strinsi, non lo lascerò. E il santo Patriarca: Non ti lascerò, dice, se prima non mi avrai benedetto ( Gen 32,26 ). Così questa non vuole lasciarlo; e forse non lo vuole più che il Patriarca, perché non lo vorrebbe neppure in cambio di una benedizione; Giacobbe, infatti, ricevuta la benedizione lasciò andare l’Angelo, ma questa no. « Non voglio dice la tua benedizione, ma te: infatti chi altri avrò per me in cielo, e fuori di teche cosa bramo sulla terra ( Sal 73,25 )? Non ti lascerò anche se mi avrai benedetto ». 5. Lo strinsi fortemente e non lo lascerò. Forse neanche lui è meno contento di lei di essere tenuto stretto, dicendo di sé: Le mie delizie sono nello stare con i figli degli uomini ( Pr 8,31 ), e questo lo promette dicendo: Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo ( Mt 28,20 ). Che cosa di più forte di questa unione per cui di due si è formata una sola volontà? Lo strinsi fortemente, dice. Ma anch’essa da parte sua è tenuta da colui che essa tiene, e al quale dice: Hai tenuto la mia mano destra ( Sal 73,24 ). Colei che é tenuta e tiene come potrà ormai cadere? Tiene con la fermezza della fede, tiene con l’affetto della devozione. Ma non terrebbe per molto tempo se non fosse essa stessa tenuta. È tenuta dalla potenza e dalla misericordia del Signore. Lo strinsi fortemente e non lo lascerò finché non l’abbia condotto in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice. Grande la carità della Chiesa che non invidia neppure alla sua emula, la Sinagoga, le sue delizie. Quale maggiore benignità che essere disposta a comunicare anche alla rivale colui che è l’amato dell’anima sua? Non fa meraviglia, del resto, perché la salvezza viene dai Giudei ( Gv 4,22 ). Al luogo da cui era uscito ritorni il Salvatore, perché si salvi il resto di Israele. Non siano i rami ingrati alla radice, non i figli alla madre: non invidino i rami la radice, perché da essa sono germinati, non invidino la madre i figli perché hanno succhiato al suo seno. Tenga, pertanto, la Chiesa ben stretta la salvezza che la Giudea ha perduto: essa l’ha presa fino a che entri la pienezza dei Gentili e allora tutto Israele sia salvo. Voglia in comune che venga la comune salvezza, la quale, anche se partecipata da tutti non diminuisce per i singoli. Questo fa la Chiesa e più ancora. Che cosa di più? Essa augura alla Sinagoga il nome e la grazia di sposa. Questo è veramente più che la salvezza. 6. Incredibile carità, se non ne facessero fede le parole che essa ha detto. Ha detto, infatti, se ben ricordate, di voler introdurre colui che teneva stretto non solo nella casa della madre, ma anche nella camera nuziale, il che è prerogativa della sposa. Per la salvezza bastava che entrasse nella casa; ma il segreto della camera nuziale indica la grazia. Oggi, dice, la salvezza ê entrata in questa casa ( Lc 19,9 ). Come non sarebbe venuta la salvezza per gli abitanti dal momento che il Salvatore era entrato in casa? Ma colei che merita di riceverlo nella stanza da letto ha a parte un suo segreto particolare. La casa abbia per sé la salvezza, per il talamo sono riservate delizie particolari. Lo introdurrò in casa di mia madre, dice. In quale casa se non in quella di cui preannunziava un giorno ai Giudei: Ecco la vostra casa sta per esservi lasciata deserta ( Lc 13,35 ). Fece come aveva detto, come ne testimonia anche il Profeta: Io ho abbandonato la mia casa, ho ripudiato la mia eredità ( Ger 12,7 ). E ora questa promette di ricondurlo e di restituire alla casa di sua madre la salvezza perduta. E se questo sembra poco, senti che cosa di buono aggiunge: e nella stanza della mia genitrice. Chi entra nel talamo è sposo. Grande potenza dell’amore! Il Salvatore indignato era uscito dalla sua casa e dalla sua eredità, ed ora per grazia di costei mitigato si piega tanto da ritornare non solo come Salvatore, ma come Sposo. Benedetta tu dal Signore, o figlia, che e freni l’indignazione e restituisci l’eredità. Benedetta tu per la tua madre, perché per la tua benedizione si allontana l’ira, ritorna la salvezza, ritorna colui che dice: Io sono la tua salvezza ( Sal 35,3 ). Né basta questo, continui e dica: Ti sposerò a me nella fede, ti farò mia sposa nel diritto e nella giustizia, nella benevolenza e nell’amore ( Os 2,18-19 ). Ma ricordati che colei che concilia questa amicizia è la sposa. Come, dunque, potrà cedere a un’altra lo Sposo, e un tale Sposo, o desiderarlo a un’altra? Certo di no. Lo desidera si, come buona figlia, alla madre, ma non’per cederlo, bensì comunicarlo. Basta uno per due, anzi non saranno più due, ma una sola in lui. Egli è la nostra pace, che fa dell’una e dell’altra una sola, perché sia un’unica sposa e un unico Sposo, Gesù Cristo nostro Signore che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXX I. Ritorno al senso morale; rapporto di parentela fra anima e Verbo 1. Ho saputo che alcuni di voi pur provando piacere nello stupore e nell’ammirazione dei misteri trattati si lamentano che il nostro discorso sia stato o per nulla, condito, o con pochissimo sale di applicazioni morali. E questo contro l’abitudine. Ma non si può rivedere quello che è stato detto. Non vado avanti se non riparo tutto. Su, dite se vi ricordate da quale passo della Sacra Scrittura ha avuto inizio questa deficienza, perché io ricominci di là. Tocca a me risarcire i danni, anzi al Signore, dal quale dipendiamo in tutto. Di dove, dunque, devo ricominciare? Forse dal passo: Nel mio letto per notti ho cercato l’amato dell’anima mia? Se non erro, è di qui. Solo di li in poi ho avuto a cuore di porre in luce le segrete delizie di Cristo e della Chiesa, districando la caligine spessa di queste allegorie. Dunque, torniamo indietro per indagare il senso morale: non deve, infatti, esservi gravoso ciò che è nel vostro interesse. Questo avverrà veramente se le cose che abbiamo detto riguardo a Cristo e alla Chiesa le applichiamo al Verbo e all’anima. 2. Ma mi dirà qualcuno: « Perché tu unisci queste due cose? Che relazione c’è tra l’anima e il Verbo? ». Molte sotto ogni aspetto. Dapprima perché vi è tanta parentela tra le nature, sicché come il Verbo è immagine di Dio essa è creata a immagine di lui. E poi perché la parentela è attestata dalla somiglianza. L’anima, infatti, è stata fatta non solo a immagine ma anche a somiglianza di Dio. Simile in che cosa? domandi. Senti prima riguardo all’immagine. Il Verbo è verità, è sapienza, è giustizia: e questa è immagine. Di chi? Della giustizia, della sapienza, della verità. È, infatti, questa Immagine giustizia della giustizia, sapienza della sapienza, verità della verità, quasi luce da luce, Dio da Dio. L’anima non è nessuna di queste cose perché non è immagine. È, tuttavia, capace di esse e le desidera; e di qui forse essa è fatta a immagine. Eccelsa creatura che presenta nella capacità un’impronta della maestà, e nel desiderio una tendenza alla rettitudine. Leggiamo che Dio ha fatto l’uomo retto, che equivale a grande: lo prova la capacità, come si è detto. È necessario, infatti, che ciò che fu fatto a immagine, convenga con l’immagine, e non partecipi invano il nome di immagine, come neanche la stessa immagine è cosi chiamata solo per un vano e vuoto nome. Sappiamo di colui che è immagine che pur essendo Figlio di Dio non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ( Fil 2,6 ). Qui è accennata la sua rettitudine anche nella forma di Dio, e la maestà nell’uguaglianza affinché mentre si paragona la grandezza alla grandezza e la rettitudine alla rettitudine, appaia che corrispondono tra di loro sia ciò che è secondo l’immagine, sia l’immagine, come anche l’immagine corrisponde nell’uno e nell’altro a colui di cui è immagine. Egli è colui del quale il santo re Davide canta nei Salmi: Grande è il Signore onnipotente ( Sal 147,5 ), e altrove: Retto è il Signore nostro Dio, in lui non c’è ingiustizia ( Sal 92,16 ). Da questo Dio retto e grande deriva che la sua immagine è anch’essa retta e grande; deriva anche che l’anima è anch’essa retta e grande perché fatta a sua immagine. II. Il Verbo ha molto più dell’anima e la rettitudine e la grandezza non sono affatto possesso proprio dell’anima, come del Verbo 3. Ma dico: Dunque l’immagine non ha nulla più dell’anima, che è fatta a immagine, poiché anche a questa assegniamo la grandezza e la rettitudine? L’immagine ha molto di più. Questa ha ricevuto a uguaglianza, mentre l’anima in certa misura. Nulla più di questo? Nota ancora: l’anima ha ricevuto la rettitudine e la grandezza per la creazione o per degnazione; l’Immagine l’ha per generazione. E questo è cosa molto più grande certamente. Ma non si neghi che è anche più eminente il fatto che avendo questo l’anima da Dio, il Verbo abbia l’una e l’altra cosa per partecipazione di Dio, cioè dalla sua sostanza. È, infatti, l’immagine di Dio a lui consustanziale, e tutto ciò che sembra impartire a questa sua immagine è a Dio e alla sua immagine sostanziale, non accidentale. Bada ancora a una cosa in cui l’immagine si differenzia non poco per la sua eminenza. La grandezza e la rettitudine sono due cose per natura differenti: ora nell’immagine sono una cosa sola, né questo solo, ma sono una cosa sola con l’Immagine. Per l’immagine, infatti, non solo è lo stesso l’essere retto e l’essere grande, ma anche essere semplicemente è lo stesso che essere retto e grande. Per l’anima non è così, la sua grandezza e la sua rettitudine sono diverse da essa e diverse tra di loro. Se, infatti, come ho detto sopra, l’anima è grande in quanto capace di cose eterne, e se è retta in quanto aspira a cose superne, quella che non cerca né gusta le cose di lassù ma quelle della terra non è davvero retta, ma curva, senza cessare però per questo di essere grande perché continua ad essere capace dell’eternità. Né sarà, infatti, non capace di essa, anche se non la conterrà mai, perché sia come è scritto: L’uomo passa come immagine ( Sal 39,7 ); in parte, tuttavia, perché appaia l’eminenza del Verbo per la stessa integrità. Come, infatti, può il Verbo cessare di essere grande e retto se queste due cose si confondono con la sua essenza? L’anima, invece, può cessare di essere tale almeno in parte, perché se non lo fosse più del tutto, non vi sarebbe più speranza di salvezza; se, infatti, cessa di essere grande, cessa anche la capacità: dalla capacità, infatti, si stima la grandezza dell’anima. Ma che cosa potrebbe sperare di cui non fosse capace? 4. Pertanto, per la grandezza che ritiene anche dopo aver perso la rettitudine l’uomo passa come immagine, quasi zoppicando da un piede, e divenuto figlio adulterino. Penso, infatti, che di tali sia stato detto: I figli adulteri negarono fede a me, i figli adulteri sono alla vecchiaia e zoppicando van fuori dalla loro strada ( Sal 18,46 ). Bene sono stati chiamati figli adulteri; figli, infatti, perché hanno conservato la grandezza; adulteri perché hanno perso la rettitudine. Né avrebbe detto zoppicando ma cadendo, o qualcosa di simile, se avessero perso completamente l’immagine. Ora, invece, secondo la grandezza l’uomo passa come immagine; in quanto poi alla rettitudine quasi zoppicando si conturba e deturpa l’immagine, come dice la Scrittura: L’uomo passa come immagine, e in più si conturba invano ( Sal 39,7 ). Invano, davvero, perché segue: Tesoreggia e non sa per chi egli metta da parte ( Sal 39,7 ). Perché non sa se non perché chinandosi a queste cose infime e terrene si tesoreggia della terra? Ignora del tutto circa quelle cose che affida alla terra, per chi egli mette da parte, per la tignola che distrugge o per il ladro che scassina o per il fuoco che divora. Di qui quel lamento del salmo messo in bocca all’uomo che si curva quasi a covare le cose che sono nella terra: Sono divenuto miserabile e incurvato fuori misura, e me ne andavo tutto il giorno carico di tristezza ( Sal 38,7 ). Così in se stesso sperimenta la verità di quella sentenza del Saggio: Dio ha fatto l’uomo retto ma egli si implica in molti dolori ( Sir 7,30 ). E subito la voce del ludibrio: Curvati che noi ti passiamo sopra ( Is 51,23 ). III. Dimostrazione che l’anima differisce dalla sua grandezza 5. Ma di dove siamo venuti qua? Di là dove volevamo dimostrare che la rettitudine e la grandezza con questi due beni avevamo definito l’immagine nell’anima non sono una cosa sola, né formano una cosa sola nell’anima, mentre abbiamo insegnato the nel Verbo e con il Verbo esse sono un’unica cosa. Così da quanto abbiamo detto risulta che la rettitudine è diversa cosa dall’anima e differisce pure dalla grandezza dell’anima, in quanto anche se non c’è l’anima resta con la sua grandezza. Ma come mostreremo la diversità tra l’anima e la grandezza? Non si può dimostrare allo stesso modo della rettitudine, perché l’anima non può essere priva come della rettitudine così della grandezza. L’anima, tuttavia, non è la sua grandezza. Poiché, se l’anima non si trova senza la sua grandezza, questa tuttavia si trova separata dall’anima. Chiedi dove si trova? Negli Angeli. Sia, infatti, la grandezza dell’Angelo, sia quella dell’anima si prova dal fatto che sia capace dell’eternità. Che se si prova la differenza dell’anima dalla sua rettitudine dal fatto che possa esistere senza di essa, perché non sarà diversa l’anima dalla sua grandezza se non può ritenere questa come esclusivamente sua? Poiché, dunque, la rettitudine non è in ogni anima, né la grandezza in essa sola, è chiaro che tutte e due differiscono da essa. Così pure: nessuna forma è ciò di cui è forma. Ora, la grandezza è la forma dell’anima. Né è a questo un ostacolo il fatto che è inseparabile da essa. Sono, difatti, così tutte le differenze sostanziali, così non solo le propriamente proprie, ma anche certe proprie, così altre innumerevoli forme. L’anima non è, dunque, la sua grandezza, non più che il colore nero sia il corvo, che il candore sia la neve, che la risibilità o la razionalità sia l’uomo, pur non esistendo corvo che non sia nero, né neve senza candore, né uomo che non sia risibile e razionale. Così l’anima e la grandezza dell’anima anche se inseparabili, sono diverse tra loro. Come non diverse mentre la grandezza è nel soggetto, e l’anima è il soggetto e la sostanza? Solo la somma e increata natura che è Dio-Trinità si attribuisce questa pura e singolare semplicità della sua essenza per cui in essa non si trova una cosa e un’altra cosa, non un posto e un altro posto, non un tempo e un altro tempo; rimanendo, infatti, in se stessa essa è ciò che ha, e ciò che è lo è sempre e nella stessa maniera. In essa molte cose si riducono a una sola, e cose diverse nella medesima cosa, sicché non acquista pluralità dal numero delle cose, né sente alterazione dalla loro varietà. Contiene tutti i luoghi e dispone ogni cosa al posto suo, senza essere mai contenuta da luogo alcuno. I tempi passano sotto di essa, non per essa. Non aspetta futuro, non ripensa al passato, non sperimenta le cose presenti. IV. Contro la perversità di coloro che dicono che la divinità non è Dio, e riprovazione del commento che fa Gilberto Porata sul De Trinitate di Boezio 6. Lungi da voi, o carissimi, lungi i nuovi non dialettici ma eretici, i quali empiamente sostengono che la grandezza per cui Dio è grande, e così la bontà per cui è buono, e la sapienza per cui è sapiente, la giustizia per cui è giusto, in ultimo la divinità per cui è Dio non sono Dio. « Per la divinità, dicono, Dio è Dio, ma la divinità non è Dio ». Forse non si degna di essere Dio, essa che è tanto grande da fare Dio? Ma se la divinità non è Dio, che cosa è? O infatti è Dio, o qualche cosa che non è Dio, o non è nulla. Ora tu dici che non è Dio, ma ammetti che non può essere nulla, perché senza di essa Dio non può essere Dio, e per essa lo è. E se è qualche cosa che non è Dio, o sarà minore di Dio, o maggiore o pari a lui. Come, pertanto, potrà essere minore di Dio, se per essa egli è Dio? Resta che sia maggiore o uguale. Ma se è maggiore di Dio è essa il sommo bene, non Dio; se è pari a Dio vi sono allora due sommi beni, non uno solo; e il sentimento cattolico non accetta né l’una né l’altra cosa. Quello che si è detto della divinità si dica pure della grandezza, della bontà, della giustizia e della sapienza. Esse sono una cosa sola in Dio e con Dio. Né egli è buono per altra ragione da quella per cui è grande, né è giusto o sapiente per motivo diverso da quello per cui è grande e buono; né è insieme tutte queste cose per la stessa ragione per cui è Dio; e non c’è altra ragione per cui è Dio che lui stesso. 7. Ma dice l’eretico: « Che? Neghi che per la divinità Dio è Dio ». « No; ma sostengo che la divinità per cui è Dio è parimenti Dio, per non dire che c’è qualcosa di più eccellente di Dio. Così per la grandezza lo dico grande, ma quella grandezza è lui stesso, per non porre qualcosa di più grande di Dio; e per la bontà lo confesso buono, ma non altra bontà diversa da quella che egli è, per non sembrare di aver trovato qualcosa migliore di lui, e così nella stessa maniera degli altri divini attributi. Sicuramente e volentieri cammino a piede sicuro, come si dice, in quella sentenza: « Dio non è grande se non per quella grandezza che è quello che è lui. Diversamente quella sarebbe una grandezza più grande di Dio ». 3 Agostino è qui il validissimo martello degli eretici. Per parlare più propriamente di Dio si dovrebbe dire più giustamente e più convenientemente: « Dio è la grandezza, la bontà, la giustizia, la sapienza » piuttosto che dire: « Dio è grande, buono, giusto e sapiente ». 8. Perciò non senza ragione nel Concilio che Papa Eugenio ha celebrato a Reims, sia a lui come agli altri vescovi è apparsa perversa e del tutto sospetta l’opinione espressa nel libro di Gilberto, vescovo di Poitiers, con cui, commentando le parole di Boezio sulla SS. Trinità, parole sante e conformi alla dottrina cattolica, si esprimeva in questo modo: « Il Padre è verità, cioè vero; il Figlio è verità, cioè vero; lo Spirito Santo è verità, cioè vero. E questi tre insieme non tre verità ma una sola verità, cioè un solo vero ». Spiegazione oscura e perversa! Come avrebbe detto più veramente e più correttamente per il contrario: « Il Padre è vero, cioè verità; il Figlio è vero, cioè verità; lo Spirito Santo è vero, cioè verità. E questi tre un solo vero, cioè una sola verità ». Avrebbe fatto questo se si fosse degnato di imitare san Fulgenzio il quale dice: « Una sola verità, infatti, in un solo Dio, anzi una sola verità, un solo Dio non permette che si congiunga il servizio e il culto del Creatore e della creatura ». Buon correttore che parlava veracissimamente della verità, che sentiva veramente e cattolicamente della vera e pura semplicità della divina sostanza, nella quale non vi può essere nulla che non sia essa stessa, come essa stessa è Dio. In altri passi quel libro del vescovo predetto sembra discostarsi ancora più chiaramente dalla retta fede. Infatti, alle parole dell’autore: « Quando si dice Dio, Dio, Dio, questo appartiene alla sostanza », il nostro commentatore spiega: « Non quella che è ma quella per cui è ». Questo non può accettare la Chiesa cattolica, che cioè vi sia una sostanza o qualsiasi altra cosa per cui Dio è che non sia Dio. 9. Ma ormai non parliamo più contro il vescovo Gilberto in quanto egli nello stesso Concilio, accettando umilmente il parere dei vescovi, condannò con la propria bocca sia queste sia le altre affermazioni degne di riprensione; ma diciamo queste cose per coloro che ancora si dice leggano o trascrivano quel libro, promulgato contro la proibizione della Santa Sede, persistendo nel seguire con ostinazione il vescovo nell’opinione ormai da lui rigettata, e preferendo averlo maestro nell’errore più che nella correzione. Non solo ma anche per voi, prendendo occasione dalla differenza tra l’immagine e l’anima che è stata fatta a immagine, ho creduto che valesse la pena fare questa digressione, perché se alcuni avessero bevuto dalle acque furtive che sembrano più dolci, presa la medicina siano provocati al vomito, purgato lo stomaco della mente possano disporsi ad attingere, con gioia ormai, cose più pure in quello che, secondo la nostra promessa, ci resta da dire sulla somiglianza, e questo non dalle nostre ma dalle sorgenti del Salvatore, Sposo della Chiesa, Gesù Cristo Signore nostro, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXXI I. Soprattutto in questo c’è la somiglianza dell’anima col Verbo: per lui essere è vivere come per il Verbo essere è vivere nella beatitudine 1. È stato chiesto quale affinità ci sia tra l’anima e il Verbo. Era una domanda necessaria. Quale relazione c’è, infatti, tra una così grande maestà e una povertà così estrema, così che vengono presentate vicendevolmente avvinte a guisa e con amore di sposi quella sublimità e questa umiltà quasi si trattasse di eguali? Se, infatti, è vero quello che diciamo c’è in questo motivo di molta letizia e fiducia: se non fosse vero la nostra sarebbe un’audacia degna di grande punizione. Perciò c’era bisogno di investigare su questa affinità: già se n’è detto molto, ma non tutto. Chi vi è mai che sia così sciocco da non vedere come stiano vicine l’immagine e ciò che è secondo l’immagine? Il discorso di ieri, se ricordate, ha assegnato una cosa a una di esse, e l’altra all’altra, cioè il Verbo essere l’immagine e l’anima essere fatta a immagine di Dio. Ma non solo si è dimostrata la vicinanza quanto all’immagine, ma anche quanto alla somiglianza, sennonché non è ancora stato detto chiaramente in che cosa o in quali cose consista la stessa somiglianza. Dunque, cerchiamo di dare questa spiegazione affinché quanto più pienamente l’anima conoscerà la sua origine, tanto più si vergogni di condurre una vita degenere, anzi si sforzi di riformare con la sua industria quello che scorgerà viziato dal peccato nella natura, perché comportandosi come conviene alla sua parentela, con la grazia di Dio si accosti con fiducia agli amplessi con il Verbo. 2. Rifletta, pertanto, che dalla sua somiglianza con la semplicissima natura divina deriva in essa quella naturale semplicità della sua sostanza per cui per lei essere equivale a vivere, anche se non equivale a vivere bene o beatamente, perché rimanga somiglianza, non uguaglianza. È un gradino vicino, ma un gradino. Non c’è, infatti, pari eccellenza o pari grandezza nel fatto che per l’anima essere corrisponde a vivere, mentre per Dio essere è uguale a essere beato. Quest’ultima cosa compete al Verbo per la sua sublimità, l’altra all’anima per la somiglianza. Salva dunque l’eminenza del Verbo risulta chiaramente l’affinità delle nature e la prerogativa dell’anima. E perché questo sia più chiaro: solo per Dio essere equivale a essere beato: e questo è il primo e purissimo semplice. Il secondo è simile a questo, cioè avere l’essere equivale a vivere: e questo è dell’anima. Da questo, anche se di grado inferiore, si può salire non solo al vivere bene, ma anche beatamente: non che allora essere sia uguale a essere beato, per colui che sia pervenuto a quel punto da potersi gloriare per la somiglianza, in modo tale però che tutte le sue ossa sempre debbano dire, a causa della disparità: Signore, chi è simile a te? ( Sal 35,10 ). Un buon gradino per l’anima, tuttavia, per il quale e solo per il quale si sale alla vita beata. II. I diversi generi di viventi, fra i quali solo per l’anima essere è vivere, e che cosa essa riceve nella sua condizione 3. Vi sono degli esseri viventi di due generi: quelli che sentono e quelli che non sentono. Quelli che sentono sono un poco più in su di quelli insensibili e agli uni e agli altri si antepone la vita per cui si vive e si sente. Non staranno parimenti sullo stesso gradino la vita e il vivente, e molto meno la vita e le cose che sono senza vita. Vita è l’anima vivente ma non da altrove che da se stessa; e per questo non tanto vivente quanto vita, per parlare propriamente di essa. Di qui è che infusa nel corpo lo vivifica perché sia corpo dalla presenza della vita, non vita ma vivente. Onde è chiaro che neanche per il corpo vivo vivere equivale ad essere potendo essere e non vivere affatto. Molto meno le cose prive di vita possono assurgere a questo grado. Ma neppure tutto quello che si dice o è vita potrà arrivare a questo punto. Vivono gli animali e vivono gli alberi, gli uni con i sensi, gli altri senza. Né agli uni né agli altri l’essere è lo stesso che vivere perché, come è opinione di molti, essi sono esistiti nei loro elementi prima che nelle loro membra o nei loro rami. Secondo questo quando cessano di vivificare cessano di vivere, ma non di essere. Si sciolgono e si dissolvono come un insieme di sostanze non soltanto legate, ma collegate. Ognuno di esse ( animali o piante ), infatti, non è un’unica cosa semplice, ma il risultato di più e perciò non viene ridotto al nulla, ma si scioglie in parti, di modo che ognuno torna al suo principio, per esempio l’aria nell’aria, il fuoco al fuoco, e così le altre cose. A una tale vita dunque non è la stessa cosa vivere ed essere, poiché continua ad essere quando più non vive. 4. Pertanto, nessuna di queste cose per le quali l’essere non equivalga al vivere potrà progredire e giungere un giorno alla vita buona e beata, non essendo arrivata neppure a quel primo grado. Solo l’anima dell’uomo che sta in esso è stata creata in tanta dignità, vita dalla vita, semplice dal semplice, immortale dall’immortale, da non essere lontana dal più alto gradino, che cioè essere equivale ad essere beato, nel quale sta il solo beato e il solo potente Re dei Re, e Signore dei dominatori. Ha ricevuto, pertanto, l’anima nella sua condizione, anche se non l’essere beata, il poter esserlo tuttavia; al sommo scalino si avvicina, perciò, quanto è lecito, senza però raggiungerlo. Poiché, neanche per essa l’essere equivarrà un giorno all’essere beata, anche quando sarà beata. Confessiamo che è simile, ma neghiamo l’uguaglianza. Per esempio, vita è Dio, vita è anche l’anima: simile sì, ma dispari. Simile in quanto vita, in quanto essa stessa vivente, in quanto non solo vivente, ma vivificante, come egli è tutte queste cose; dissimile, invece, in quanto creata dal creatore, dissimile perché come non sarebbe se non creata da lui, così non vivrebbe se non fosse da lui vivificata. Non vivrebbe dico, ma della vita spirituale, non naturale. Poiché della vita naturale necessariamente vive immortale anche quell’anima che spiritualmente non vive. Ma quale vita è mai quella nella quale sarebbe meglio non nascere che non da essa morire? È piuttosto una morte, e tanto più grave perché del peccato, non della natura. La morte dei peccatori è pessima ( Sal 34,22 ). Così, dunque, l’anima che vive secondo la carne è morta, pur essendo viva, come quella a cui sarebbe stato bene non vivere piuttosto che vivere così. E da questa per così dire morte vitale non risorgerà mai, se non per il Verbo della vita, anzi per il Verbo-vita vivente e vivificante. III. L’anima è immortale ma non come il Verbo; la sua triplice vicinanza al Verbo, cioè la semplicità, la perpetuità e la libertà e in che consista la sua libertà 5. Peraltro l’anima è immortale e in questo simile al Verbo, ma non uguale. L’immortalità di Dio, infatti, è talmente superiore che l’Apostolo dice di Dio: che solo ha l’immortalità ( 1 Tm 6,16 ). E questo io penso che sia detto perché è solo per natura incommutabile Dio colui che dice: Io sono il Signore, non cambio ( Mal 3,6 ). Infatti, la vera e piena immortalità né subisce mutazione né ha fine perché ogni mutazione è una certa imitazione della morte. Ogni cosa, infatti, che cambia, mentre passa da uno a un altro essere, è in qualche modo necessario che muoia ciò che è, per cominciare ad essere ciò che non è. E se vi sono tante morti quante mutazioni, dov’è l’immortalità? E a questa caducità la stessa creatura è stata sottomessa non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa nella speranza ( Rm 8,20 ). Tuttavia l’anima è immortale perché essendo essa vita a se stessa, come non può cessare di essere così non può cessare di vivere. Tuttavia, essendo provato che essa muta nei suoi affetti, riconosce che essa è simile a Dio nell’immortalità, ma che le manca una non piccola parte di questa immortalità, lasciando l’assoluta e perfetta immortalità a Dio solo, presso il quale non vi è alcuna mutazione né ombra di cambiamento. Tuttavia, da questa discussione è emersa la grande dignità dell’anima, che vediamo avvicinarsi per una certa doppia affinità di natura alla natura del Verbo, cioè per la semplicità dell’essenza e la perpetuità della vita. 6. Ma mi viene in mente una cosa che non voglio tralasciare: una cosa che non nobilita di meno l’anima e la rende non meno simile al Verbo, e forse anche di più. Questa è il libero arbitrio che è qualche cosa di divino che rifulge nell’anima, come una gemma nell’oro. Da questo deriva all’anima la conoscenza del giudizio, e la facoltà di scegliere tra il bene e il male, tra la vita e la morte e altre simili cose che similmente riguardo all’atteggiamento dell’animo sembrano opporsi tra loro. Tuttavia, in mezzo a loro quale arbitro censore questo occhio dell’anima giudica e discerne, libero nella scelta come libero nel discernere. Perciò è chiamato anche libero arbitrio perché si occupa di queste cose secondo l’arbitrio della volontà. Di qui l’uomo diventa capace di meritare: tutto ciò, infatti, che avrai fatto di bene o di male che sei stato libero di non fare ti viene giustamente ascritto a merito. E come giustamente viene lodato non soltanto colui che poteva fare il male e non lo fece, così non è privo di cattivo merito sia chi fece il male che poteva non fare, sia chi poteva fare il bene e non lo fece. Dove non c’è libertà non vi è neppure merito. Perciò gli animali privi di ragione non hanno nessun merito, perché mancano sia di deliberazione, sia di libertà: agiscono per istinto, sono portati dall’inclinazione, guidati dall’appetito. Né, infatti, hanno giudizio secondo il quale giudicarsi e regolarsi, ma neppure possiedono lo strumento del giudizio, cioè la ragione. Perciò non sono sottoposti a giudizio, perché non giudicano. Per quale ragione si esigerebbe da essi una ragione che non hanno ricevuto? IV. La libertà dell’anima è ridotta in schiavitù per il peccato 7. Solo l’uomo non subisce dalla natura questa costrizione, e perciò egli solo tra gli animali è libero. E tuttavia, dopo il peccato subisce anch’egli una violenza, ma dalla volontà non dalla natura, di modo che neanche così viene privato dell’innata libertà. Ciò, infatti, che è volontario è libero. Col peccato avviene che il corpo corruttibile appesantisca l’anima, con l’amore, non con il peso-materiale. Poiché, per il fatto che l’anima di per sé non può rialzarsi, mentre da sé è stata capace di cadere, entra in causa la volontà la quale, resa languida per il corpo viziato e il vizioso amore resta prostrata e non ha disposizione per amore della giustizia. Così non so in quale pessima e strana maniera la volontà stessa, deteriorata dal peccato, si crea una necessità, necessità che essendo volontaria non può scusare la volontà, né la volontà essendo adescata può escludere una certa necessità. È, infatti, questa necessità in certo modo volontaria. È una certa violenza favorevole che adesca premendo e preme lusingando; per cui la volontà colpevole, una volta consentito al peccato, non può di per sé scuoterla da sé né scusarla con ragione. Da qui quelle parole di lamento e come uno che geme sotto il peso di queste necessità: Signore, dice, io soffro violenza, proteggimi ( Is 38,14 ). Ma di nuovo, sapendo che non si lamentava giustamente con il Signore, essendo piuttosto in causa la sua propria volontà, guarda che cosa dice in seguito: Che cosa dirò e chi mi risponderà perché sono io che ho fatto questo ( Is 38,15 ) ( Volg.: poiché è lui che ha fatto questo ). Sentiva il peso di un giogo che altro non era se non quello di una volontaria servitù, ed era si miserabile a causa di questa servitù, ma inescusabile perché si trattava di servitù volontaria. È, infatti, la volontà Che essendo libera si è fatta schiava del peccato acconsentendo al peccato; è la volontà che servendo volontariamente si tiene sotto il peccato. 8. « Bada a quello che dici », mi dirà qualcuno. « Tu dici volontario quello che consta già essere necessario? ». « È vero che la volontà si è resa schiava, ma non è essa che si trattiene: è piuttosto trattenuta suo malgrado. Bene concedi almeno questo, che è trattenuta. Ma fa’ attenzione ché è la volontà quella che tu ammetti essere trattenuta. Tu dici che la volontà non vuole? Non può essere trattenuta la volontà se non vuole. La volontà, infatti, è di chi vuole, non di chi non vuole. Che se è trattenuta volendolo è essa che si trattiene. Che cosa potrà, dunque, dire e che cosa risponderà a Dio, dal momento che è essa che agisce? Che cosa ha fatto? Si è fatta schiava; perciò è detto: Chi fa il peccato è schiavo del peccato ( Gv 8,34 ). Perciò, quando ha peccato, e ha peccato quando ha deciso di obbedire al peccato si è resa schiava. Ma è libera di non farlo più ancora. Ma lo fa ancora se resta nella stessa schiavitù. Se non vuole, infatti, la volontà non è costretta; è, infatti, volontà. Dunque, non solo si è resa schiava perché ha voluto, ma ancora si fa tale. Giustamente perciò, e bisogna spesso ricordarlo, chi risponderà per lei, dal momento che essa lo ha fatto e lo fa tuttora? ». 9. « Ma non mi persuaderai, tu dici, che non esista questa necessità che io subisco, che sperimento in me stesso, e contro la quale continuamente io lotto ». « Dove, di grazia, senti questa necessità? Non forse nella volontà? Dunque, non vuoi con poca fermezza ciò che vuoi anche necessariamente. Vuoi molto perché non puoi non volere, né lotti molto contro. Ora, dove è la volontà, ivi è la libertà. Questo dico della libertà naturale, non di quella spirituale, quella libertà per cui Cristo ci ha liberati ( Gal 4,31 ). Di questa libertà l’Apostolo dice: Dove è lo Spirito ivi è la libertà ( 2 Cor 3,17 ). Così l’anima in malo e strano modo sotto questa in qualche modo volontaria e malamente libera necessità, è tenuta schiava e nello stesso tempo è libera: schiava per la necessità, libera per la volontà, e ciò che è più strano e misero è che essa è tanto più colpevole quanto più libera, tanto più schiava quanto più colpevole, e per questo tanto più schiava quanto più libera. Uomo infelice che io sono! Chi mi libererà dalla calunnia di questa vergognosa schiavitù? Infelice, ma libero, libero perché uomo, infelice perché schiavo, libero perché simile a Dio, infelice perché contrario a Dio. O custode degli uomini, perché hai posto me contro di te? ( Gb 7,20 ). Mi hai posto, infatti, quando non l’hai impedito. Però sono io che mi sono posto contro di te, e sono divenuto grave a me stesso ( Gb 7,20 ). Molto giustamente del resto, sicché il tuo sia anche il mio nemico, e colui che ripugna a te sia ripugnante anche a me. Io sono tale per te e per me; io che sono divenuto contrario a me stesso, e nelle mie membra trovo ciò che contraddice alla mia mente e alla tua legge. V. Legge di Dio e legge del peccato, che sono nella stessa anima e nella volontà Chi mi libererà dalle mie mani? Non faccio infatti quello che voglio ( Rm 7,24 ), senza che io, non un altro, lo impedisca; e quello che non voglio, quello faccio ( Rm 7,15-16 ), spinto da me stesso, non da un altro. E magari questo impedimento e questa spinta fosse così violenta da non essere volontaria. Forse così potrei trovare una scusa. Oppure fosse così volontaria da non essere violenta. In tal maniera potrei correggermi. Ora, invece, da nessuna parte c’è un’uscita per il misero che, come ho detto, la volontà fa inescusabile e la necessità incorreggibile. Chi mi libererà dalla mano del peccatore, dalla mano dell’iniquo che agisce contro la legge? 10. Qualcuno domanderà di chi mi lamento. Di me. Io sono quel peccatore, quel fuorilegge, quell’iniquo: peccatore perché ho peccato, fuorilegge perché con la volontà persisto nell’agire contro la legge. Poiché la mia stessa volontà è legge nelle mie membra che recalcitra contro la legge divina. E poiché la legge del Signore è legge della mia mente, come sta scritto: La legge di Dio è nel suo cuore ( Sal 37,31 ), per questo anche a me stesso la mia volontà è trovata contraria, il che è grandissima iniquità. Per chi, infatti, non sono iniquo, se lo sono per me? Chi è iniquo per sé per chi sarà buono? ( Sir 14,5 ). Lo confesso, non sono buono perché in me non c’è il bene. Mi consolerò, tuttavia, perché anche i santi dicono così: So che in me non c’è il bene ( Rm 7,18 ). Distingue, tuttavia, quell’« in sé » intendendo nella sua carne, per la legge contraria che esiste in essa. Poiché ha una legge anche nella mente, e questa è migliore dell’altra. Non è, forse, buona la legge di Dio? Che se è cattivo per la legge cattiva, come non sarà buono per la legge buona? O è sua la legge cattiva che è nella sua carne, e perciò cattivo per la legge cattiva, e non buono per la buona? Non è così: la legge di Dio è nella sua mente, e talmente nella mente che è anche della mente. Ne è testimone lo stesso che dice: Trovo un’altra legge nelle mie membra, contraria alla legge della mia mente ( Rm 7,23 ). Forse è suo quello che è della sua carne, e non suo quello che è della sua mente? Io dico: a più forte ragione. Come non potrò dire quello che lo stesso maestro dice? Poiché servendo con la mente alla legge di Dio e con la carne alla legge del peccato, mostra quale ritiene maggiormente suo quando reputa così alieno da sé il male che è nella carne da dire: Pertanto non sono io a farlo, ma il peccato che abita in me ( Rm 7,20 ). E forse appositamente chiama « un’altra legge » quella che sente nelle sue membra, quasi la ritenesse una legge avventizia ed estranea. Di qui io oso ancora dire qualche cosa di più, senza essere temerario: Paolo non è cattivo per il male che ha nella carne, ma è piuttosto buono per il bene che ha nella mente. Dato, infatti, che con la mente serve alla legge di Dio, e con la carne alla legge del peccato, quale di queste due cose pensi sia principalmente da imputare a Paolo, lo giudicherai tu. Quanto a me confesso di essere facilmente persuaso valere molto di più quello che è della mente che non quello della carne, e questo lo penso non solo io ma lo stesso Paolo, il quale dice: Se poi faccio il male che non voglio non sono più io che lo faccio, ma il peccato che abita in me ( Rm 7,20 ). 11. Ma riguardo alla libertà basti quanto abbiamo detto. Nell’opuscolo che ho scritto sulla grazia e il libero arbitrio si leggono forse spiegazioni diverse circa l’immagine e la somiglianza, ma penso non siano contrarie a quelle qui esposte. Quelle le avete lette, queste udite, lascio al vostro giudizio quali siano da preferire; o se conoscete al riguardo qualche cosa di meglio delle une e delle altre ne godo e ne gioirò. Ma comunque stiano le cose per il momento tenete presenti queste tre cose come importanti: la semplicità, l’immortalità, la libertà. Da questo penso vi risulti già chiaro come l’anima, per la sua innata e schietta somiglianza che così risplende in queste cose, abbia una non piccola affinità con il Verbo Sposo della Chiesa Gesù Cristo Signore nostro che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXXII I. Quale dubbio ancora rimane nelle cose già dette, che bisogna rivelare e delle parole dette a un tale: « Fino a che ti terrai questo, ecc. » 1. Che cosa vi sembra? Possiamo ormai tornare indietro per esporre l’ordine da dove siamo partiti, poiché è chiara l’affinità del Verbo e dell’anima, per dimostrare la quale abbiamo fatto questa digressione? Mi pare che potremmo, se non sentissi che resta qualche dubbio sulle cose che sono state dette. Non voglio defraudarvi di nulla. Non tralascio volentieri quello che credo a voi utile. Come oserei farlo, specialmente in quelle cose che io ricevo per voi? So di un uomo che, talvolta, parlando, si tratteneva qualche cosa di quello che gli suggeriva lo Spirito, riservandolo per avere qualche cosa da dire quando doveva nuovamente parlare, pur non facendolo con animo infedele, ma certo poco fiducioso. Ed ecco gli parve di udire una voce: « Fino a che ti terrai questo, non riceverai altro ». Che cosa sarebbe successo se si fosse trattenuto qualche cosa non per provvedere alla sua povertà, ma perché geloso del profitto dei fratelli? Non gli sarebbe forse stato giustamente tolto anche quello che sembrava avere? Tenga lontano sempre il Signore questo dal vostro servo, come ha sempre fatto. Faccia egli che sia sempre così abbondante per me quella perenne fonte di sapienza salutare che vi ho sempre senza invidia comunicato, rifondendo a voi tutto quello che egli fino a ora si è degnato di infondere in me. Se io vi defraudo, da chi non temerò di essere defraudato? Neppure da Dio. 2. C’è, pertanto, in quello che è stato detto qualche cosa che, come io temo, può costituire un inciampo se non viene spiegato. E se non sbaglio, tra i qui presenti vi sono di quelli ai quali già mette scrupolo quello che voglio dire. Quella triplice somiglianza che abbiamo detto esservi tra il Verbo e l’anima, anzi di cui abbiamo detta insignita l’anima, vi ricordate come ci è sembrata anche inseparabile da essa? Questo sembra andare contro alcune testimonianze della Scrittura, come per esempio quella del Salmo: L’uomo nella prosperità non comprende, viene paragonato agli animali irragionevoli e diviene simile ad essi ( Sal 49,21 ). E un altro passo: Scambiarono la loro gloria con l’immagine di un toro che mangia fieno ( Sal 106,20 ); e anche ciò che è detto apertamente in persona di Dio: Hai stimato, o iniquo, che io fossi simile a te ( Sal 50,21 ), e parecchi altri passi che sembrano concordemente asserire che la somiglianza con Dio dopo il peccato è stata distrutta. Che cosa dovremo dire a questo riguardo? Che quelle tre cose non ci siano in Dio, e così dobbiamo cercarne delle altre nelle quali porre questa somiglianza? Oppure che esse esistano in Dio, ma non nell’anima, e così neanche in esse si trovi la somiglianza? Oppure che esse siano nell’anima, ma possano anche non esserci, e per questo non siano inseparabili da essa? No affatto. Esse esistono in Dio e nell’anima, e vi sono sempre; né ci pentiamo di aver detto qualcosa del genere: così tutto è sostenuto da indubitata e assoluta verità. II. La somiglianza di Dio nell’uomo, che secondo alcuni passi della Scrittura appare distrutta per il peccato, deve intendersi oscurata e confusa, tanto nella semplicità quanto nell’immortalità e libertà, e in che senso Ma quello che la Scrittura dice della dissomiglianza avvenuta, non lo dice perché la somiglianza sia stata distrutta, ma perché è sopravvenuta la dissomiglianza. L’anima non si sveste della sua forma nativa, ma ne riveste una estranea, la quale viene aggiunta senza che la prima sia perduta? E quella che sopravviene ha potuto oscurare quella innata, ma non distruggerla. Si è oscurato il loro cuore insipiente, dice l’Apostolo ( Rm 1,21 ), e il Profeta: Ah, come si è annerito l’oro, cambiato l’ottimo colore! ( Lam 4,1 ). Piange l’oro divenuto scuro, oro tuttavia; mutato il suo ottimo colore ma non distrutto il fondamento del colore. Resta nel fondamento la costante semplicità, ma non apparisce, coperta come è dalla doppiezza dell’umano inganno, dalla simulazione, dalla ipocrisia. 3. Come si mescola malamente la doppiezza con la semplicità! Come indegnamente si sovrappone tale struttura su tale fondamento! Di questa doppiezza si era rivestito il serpente quando, allo scopo di ingannare, si era presentato come consigliere, simulandosi amico. Similmente gli abitanti del paradiso, da lui sedotti, si erano di essa rivestiti quando cercavano di coprire la loro vergognosa nudità e con l’ombra di un albero frondoso, e con cinture di foglie, e con parole di scusa. Con quale ampiezza da allora in poi il veleno dell’ipocrisia, divenuto ereditario, infettò tutta la loro posterità! Chi troverai tra i figli di Adamo che non dico voglia, ma sopporti di apparire quello che è? Ma continua ciò nonostante ad esistere in ogni anima, con l’originale doppiezza, una generale semplicità, per cui al confronto cresce la confusione; rimane ugualmente l’immortalità, ma fosca e tetra, con l’irrompere della tenebrosa caligine della morte, ormai non riesce più ad assicurare il beneficio della vita al suo corpo. Ciò non stupisce, dal momento che non conserva per sé neppure la sua vita spirituale. L’anima, infatti, che avrà peccato morirà ( Ez 18,4 ). Col sopraggiungere di questa duplice morte, quell’immortalità che l’anima conserva non viene forse resa abbastanza tenebrosa e miserella? Aggiungi che gli appetiti terreni che spingono tutti alla morte, rendono fitte le tenebre, sicché in un’anima così vivente nulla si vede apparire da qualche parte se non la pallida faccia e una certa immagine della morte. Perché, infatti, essa che è immortale non appetisce cose immortali ed eterne, perché apparisca quello che è e viva secondo il suo essere? Invece, ha gusti contrari e cerca cose opposte, e conformandosi alle cose mortali con una condotta degenere, tinge il candore dell’immortalità con una specie di colore di pece di una mortifera consuetudine. Perché l’appetito delle cose mortali non renderebbe essa che è immortale simile a un mortale, rendendola dissimile dall’immortale? Chi tocca la pece, dice il Saggio, ne rimarrà sporcato ( Sir 31,1 ). Godendo delle cose mortali si riveste di mortalità, e scolora, senza deporla, la veste dell’immortalità, per il sopravvenire della somiglianza della morte. 4. Pensa ad Eva come la sua anima immortale copri la gloria della sua immortalità con le vernice della mortalità, amando le cose mortali. Perché mai essendo immortale, non disprezzò le cose mortali e transitorie, contenta di quelle simili a lei immortali ed eterne? Vide, dice, che l’albero era bello a vedersi e buono da mangiare ( Gen 3,6 ). Non è tua, o donna, questa soavità, questo diletto, questa bellezza, e se è tua per parte del tuo corpo di fango, non è soltanto tua ma l’hai in comune con tutti gli animali della terra. Quella che è veramente tua è un’altra ed ha un’altra origine: è, infatti, eterna, ed è dall’eternità. Perché tu imprimi nell’anima tua un’altra forma, anzi una deformazione che non è tua? Infatti, ciò che piace avere si teme di perderlo, e il timore è un colore. Questo, mentre tinge la libertà la ricopre e la rende per questo dissimile a se stessa. Quanto sarebbe più degno della sua origine che nulla bramasse e quindi nulla temesse, e così difendesse la sua innata libertà da ogni servile timore, conservandole il suo vigore e la sua bellezza! Ahimè, non è così: Mutato è l’ottimo colore. Tu fuggi e ti nascondi, senti la voce del Signore Dio e ti nascondi. Perché questo se non perché temi colui che amavi, e la forma di schiava ha ricoperto la bellezza della libertà? 5. Ma anche quella volontaria necessità e la legge contraria inflitta alle membra, della quale ho parlato nel sermone precedente, incide sulla libertà e, mentre seduce, rende schiava per propria volontà la creatura libera per natura, coprendo la sua faccia di ignominia, sicché serva almeno con la carne alla legge del peccato, anche non volendo. Poiché, dunque, ha trascurato di difendere con la probità dei costumi la libertà della natura, per giusto giudizio del Creatore avvenne non che fosse spogliata dalla propria libertà, ma che fosse sovravestita di vergogna come di un mantello ( Sal 109,29 ). E ha detto bene: come di un mantello, doppia veste, il che prova che rimane la libertà per la volontà, e insieme vi è la necessità dimostrata dalla condotta servile. Questo è da notare riguardo alla semplicità e immortalità dell’anima; e se consideri bene nulla ti apparirà in essa che non sia coperto da questa duplice veste della somiglianza e della dissomiglianza. Non è forse una veste doppia dove non innata, ma appiccicata e quasi cucita con l’ago del peccato viene sovrapposta la frode alla semplicità, la morte all’immortalità, la necessità alla libertà? Né la duplicità del cuore porta pregiudizio alla semplicità dell’essenza, né all’immortalità della natura la morte o i volontari peccati, o le necessità del corpo; e neanche la necessità di una volontaria schiavitù pregiudica la libertà dell’arbitrio. III. Le cose avventizie dell’anima deturpano i beni naturali; quanto alla nascita e alla morte l’uomo è simile al giumento; per la restante parte della somiglianza può tuttavia avvicinarsi al Verbo Pertanto, quando queste cose avventizie non succedono, ma accadono ai beni della natura, li deturpano, ma non li distruggono. Quindi, l’anima non è più simile a Dio, non è più simile a se stessa. Quindi, viene paragonata alle bestie irragionevoli e diventa simile ad esse; di qui ancora quello che si legge, di avere essa scambiato la sua gloria con l’immagine di un toro che mangia fieno. Quindi gli uomini, come le volpi, hanno la fossa della duplicità e della frode; e siccome si sono fatti simili a volpi avranno parte con loro; quindi, secondo Salomone, è uguale la fine dell’uomo e delle bestie ( Sir 3,19 ). Perché non avere la medesima fine quando è stata medesima la vita? Come le bestie l’uomo si è buttato sulle cose terrene, come le bestie lascia la terra. Senti un’altra cosa: che c’è di strano se abbiamo una medesima fine avendo un simile principio? Da dove hanno gli uomini se non dalla somiglianza cori le bestie, e l’intemperante ardore sessuale e il dolore così vivo nel parto? Così l’uomo, nel concepimento e nella nascita, nella vita e nella morte, è paragonato agli animali irragionevoli ed è divenuto simile ad essi. 6. Perché mai una libera creatura non tiene soggetto a sé l’appetito e lo regge da padrone, ma lo segue e obbedisce come una schiava? Non si accomuna essa anche in questo agli altri animali che la natura non ha chiamati a libertà, ma ha creato schiavi per servire al loro ventre e obbedire all’istinto? Non si vergogna Dio di mostrarsi o farsi stimare simile a una tale anima? Per questo dice: Hai stimato iniquamente che io sia simile a te ( Sal 50,21 ), e continua: Ti rimprovero e ti pongo innanzi i tuoi peccati ( Sal 50,21 ). Non può un’anima che vede se stessa stimare Dio simile a sé, un’anima almeno come la mia, peccatrice e iniqua. A una tale anima Dio, infatti, rivolge il rimprovero: Hai pensato iniquamente, non semplicemente; hai pensato che io sia simile a te. Ma se si pone l’iniquo davanti alla sua faccia, e si fermi davanti al volto malato e fetido del suo uomo interiore, di modo che gli sia impossibile distogliere lo sguardo o dissimulare l’impurità della sua coscienza, ma veda anche suo malgrado l’immondezza dei suoi peccati, e scorga la deformità dei suoi vizi, certamente non potrà pensare che Dio sia simile a sé; ma quasi scoraggiato per tanta dissomiglianza penso che esclamerà: Signore, chi mai è simile a te? ( Sal 35,10 ). Il che va detto per quella volontaria e recente dissomiglianza. Resta, infatti, la primitiva somiglianza; e perciò il fatto che questa resta fa sì che l’altra dispiaccia maggiormente. Oh, che gran bene è questa e che gran male è quella! Mettendole a confronto ciascuna delle due risalta di più nel suo genere. 7. Quando, dunque, l’anima scorge in sé sola tanta distanza di cose non può fare a meno di gridare tra la speranza e la disperazione: Signore, chi è simile a te? È trascinata alla disperazione per un così gran male,ma è richiamata alla speranza da tanto bene. Ne viene che più prova dispiacere per il male che vede in sé, tanto più ardentemente è attratta verso il bene che parimenti scorge in sé e brama di diventare quello per cui è stata fatta, semplice e retta, timorata di Dio e aliena dal male. Certamente essa può distaccarsi da ciò a cui ha potuto aderire. Certamente può ritornare là da dove si era allontanata. Questo, però, dico che può farlo con l’aiuto della grazia, non con la sola natura e neppure con la sua industria. Infatti la sapienza vince la malizia ( Sap 7,30 ), non l’industria o la natura. Né manca l’occasione di sperarlo: essa si rivolge al Verbo. La generosa affinità dell’anima con il Verbo non rimane senza effetto. Di essa abbiamo già trattato, e ne rende testimonianza la perseverante somiglianza. Egli si degna di ammettere alla comunione dello Spirito quella che gli è simile per natura. E certamente, per ragione di natura il simile cerca il simile. Voce di uno che cerca: Ritorna, Shulammita, ritorna, perché ti vediamo ( Ct 7,1 ). Sarà veduta simile colei che non vedeva più colui che non le era simile; ma si farà vedere anche lui. Sappiamo che quando apparirà saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è ( 1 Gv 3,2 ). Pensa, dunque, che quella domanda: Signore chi è simile a te? più che da impossibilità, è motivata dalla difficoltà. 8. O se meglio ti piace, è una espressione di ammirazione. Ammirabile veramente e stupenda è quella somiglianza che accompagna la visione di Dio, anzi che è la visione di Dio, io lo dico nella carità. La carità è quella visione, è quella somiglianza. Chi non sarà stupito vedendo Dio disprezzato che richiama? Giustamente è tacciato come iniquo colui di cui sopra si è parlato, il quale pretende di essere simile a Dio, mentre, amando; l’iniquità non può amare né se stesso, né Dio. Così, infatti, sta scritto: Chi ama l’iniquità odia la sua anima ( Sal 11,6 ). Tolta, pertanto, di mezzo l’iniquità, che costituisce la parziale dissomiglianza, vi sarà l’unione dello spirito, vi sarà la mutua visione e la mutua dilezione. Venendo cioè quello che è perfetto, scomparirà quello che è imperfetto; e vi sarà una vicendevole casta e consumata dilezione, piena cognizione, visione manifesta, ferma unione, società inseparabile, somiglianza perfetta. Allora l’anima conoscerà come è conosciuta; allora amerà com’è amata, e godrà lo Sposo per la sposa, conoscitore e conosciuto, amante e amato, Gesù Cristo Signore nostro, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXXIII I. Come qualunque anima che voglia trasformarsi e uniformarsi a Lui, possa, in base a queste parole, ritornare ad aver fiducia nel Verbo 1. Per tre giorni, quanto l’ora regolare ha permesso, abbiamo impiegato il tempo assegnato per parlare a voi per dimostrare l’affinità tra il Verbo e l’anima. Quale utilità in tutto questo lavoro? Questa: abbiamo insegnato che ogni anima, anche se carica di peccati, irretita nei vizi, presa dalle lusinghe, prigioniera in esilio, nel carcere del corpo, aderente al fango, immersa nel pantano, legata alle membra, attanagliata dalle preoccupazioni, dissipata dagli affari, contratta dai timori, afflitta dai dolori, sbandata tra gli errori, ansiosa nelle sollecitudini, inquieta per i sospetti, in una parola pellegrina in terra di nemici, secondo la parola del Profeta, infetta in mezzo ai morti, destinata alla compagnia con quelli che sono nell’inferno; per quanto così dannata e disperata, abbiamo detto che essa può notare in sé un motivo non solo di respirare nella speranza del perdono, nella speranza della misericordia, ma anche una ragione per osare aspirare alle nozze con il Verbo, per non trepidare di concludere con Dio un patto di alleanza, e non temere di sottoporsi al soave giogo di amore con il Re degli Angeli. Che cosa non oserà, infatti, senza timore presso colui della cui immagine si vede decorata, e della cui somiglianza illustrata? Che cosa avrà da temere dalla maestà essa a cui è data fiducia a motivo della sua origine? Basta che abbia cura di conservare con l’onestà della vita la libertà della natura; anzi, cerchi di abbellire e ornare con i degni colori dei costumi e degli affetti il celeste decoro che possiede dall’origine. 2. Perché mai dovrebbe sonnecchiare l’industria? Essa è un grande dono fatto a noi dalla natura, che se non mette in opera le sue parti, il rimanente che la natura ha in noi sarà deturpato, e tutto verrà ricoperto da una specie di ruggine come roba vecchia. Questo reca ingiuria all’autore. Ed è per questo che l’autore, Dio stesso, ha voluto che nell’anima si conservasse in perpetuo il segno della divina generosità, perché questa abbia sempre in sé dal Verbo materia di ammonimento, per stare sempre con lui, o per tornarvi qualora se ne fosse allontanata. Non allontanata quasi passando a un altro luogo o camminando con i piedi, ma come si addice a una sostanza spirituale, la quale con gli affetti, anzi con i difetti peggiora da sé e si rende dissimile a se stessa con la cattiveria della condotta, rendendosi degenere, la quale dissomiglianza non è distruzione della natura ma vizio, che fa risaltare al paragone il bene stesso della natura, e nello stesso tempo lo contamina unendosi ad esso. Ora, poi, il ritorno dell’anima, la sua conversione al Verbo la porta a riformare se stessa per mezzo di lui e a conformarsi a lui. In che cosa? Nella carità. Dice, infatti: Siate imitatori di Dio come figli carissimi e camminate nell’amore come Cristo ha amato voi ( Ef 5,1 ). 3. Tale conformità rende l’anima sposa del Verbo. Mentre si mostra simile per la volontà a lui al quale è simile per natura, amandolo come ne é amata. Dunque, se ama perfettamente è diventata sposa. Che cosa più dolce di tale conformità? Che cosa più desiderabile che la carità per la quale, o anima, non contenta del magistero umano, da te stessa accedi con fiducia al Verbo, aderisci costantemente a lui, lo interroghi con familiarità e lo consulti su ogni cosa, quanto capace di intelligenza altrettanto audace nel desiderio? Questo è veramente un contratto di spirituale e santo connubio. Ho detto poco, contratto: è un amplesso. Amplesso veramente dove il volere e non volere le medesime cose ha fatto uno solo di due spiriti. Né vi è da temere che la diversità delle persone faccia zoppicare in qualche cosa la connivenza delle volontà, perché l’amore non conosce la riverenza. L’amore prende nome dall’amare, non dall’onorare. Onori pure colui che ha orrore, che si stupisce, che teme, che si meraviglia; tutte queste cose sono assenti in chi ama. L’amore é già di troppo di per sé. L’amore dove arriva, trasforma in sé e occupa tutti gli altri affetti. Perciò colui che ama ama e non conosce nient’altro. Egli stesso, il Verbo, che a buon diritto merita onore, che giustamente è oggetto di stupore e di meraviglia preferisce di più essere amato. Sono Sposo e sposa. Quale altro legame o relazione cerchi tra gli sposi fuori dell’essere amati e di amare? II. Come il sentimento dell’amore sia più potente degli altri Questo nesso vince anche quello cha la natura ha più strettamente unito, il vincolo tra i genitori e i figli. Per questo, dice la Scrittura, l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla sua sposa ( Mt 19,5 ). Vedi come questo affetto negli sposi sia più potente degli altri affetti non solo, ma anche di se stesso. 4. Aggiungi che questo Sposo non solo ama, ma è amore. È, forse, onore? Dica pure qualcuno che lo è; io non l’ho letto. Ho, invece, letto che Dio è amore ( 1 Gv 4,16 ), e non ho letto che Dio è onore. Non che Dio non voglia l’onore, lui che dice: Se io sono Padre, dov’è il mio onore? ( Ml 1,6 ). Questo è il Padre. Se, invece, si presentasse come Sposo, penso che cambierebbe parola e direbbe: « Se io sono Sposo, dov’è il mio amore? ». Poiché anche prima aveva detto: Se io sono il Signore, dov’è il mio timore? ( Ml 1,6 ). Esige, dunque, il Signore di essere temuto come Signore, di essere onorato come Padre, di essere amato come Sposo. Quale tra queste cose è la più grande, quella che sorpassa le altre? L’amore certamente. Senza di questo il timore ha la pena e l’onore manca della grazia. Il timore è servile quando non è accompagnato dall’amore. E l’onore che non viene dall’amore non è onore, ma adulazione. Eppure a Dio solo onore e gloria ( 1 Tm 1,17 ), ma Dio non accetterà nessuna delle due cose se non saranno condite con il miele dell’amore. Questo invece basta a se stesso, da sé piace e per sé. Esso è merito e premio a se stesso. Amo perché amo, amo per amare. Grande cosa è l’amore, se tuttavia ritorna al suo principio, se rinvenuto alla sua origine, se rifuso nella sua fonte, sempre da esso attingerà per sempre scorrere. L’amore è il solo dei movimenti dell’anima, sentimenti e affetti in cui la creatura può rispondere, anche se non alla pari, all’autore, di dargli un simile vicendevole contraccambio. Per esempio, se Dio sarà adirato con me, forse che io potrò essere adirato nello stesso modo con Lui? Certamente no, ma avrò paura, ma tremerò e chiederò perdono. E se mi rimprovera, non sarà sgridato da me, ma piuttosto sarà da me giustificato. Né se mi giudicherà, io giudicherò lui, ma lo adorerò: così, salvando me, non mi chiede di essere a sua volta salvato né viceversa ha bisogno di essere liberato da alcuno lui che libera tutti. Se domina, a me tocca servirlo; se comanda, io gli devo obbedire e non viceversa posso esigere dal Signore o servizio o ossequio. Ora vedi come la cosa è diversa per l’amore. Poiché quando Dio ama, altro non vuole se non essere amato, perché non ama per altro scopo se non per essere riamato, sapendo che per questo stesso amore saranno beati coloro che lo amano. 5. Grande cosa è l’amore; ma in esso vi sono dei gradi. La sposa sta sul più alto. Amano, infatti, anche i figli, ma pensano alla eredità, e quando temono in qualsiasi modo perderla, l’amore per colui dal quale l’aspettano diminuisce e si mescola al timore. Mi è sospetto quell’amore che sembra essere sostenuto dalla speranza di ottenere qualche cosa. È un amore debole, che se per caso quella speranza viene meno, o si spegne o per lo meno diminuisce. È impuro perché brama anche altre cose. L’amore puro non è mercenario. L’amore puro non prende forza dalla speranza, né d’altra parte sente i danni della diffidenza; è l’amore della sposa, perché questa è sposa, chiunque essa sia. Le cose della sposa e la sua speranza sono unicamente il suo amore. Di questo abbonda la sposa, di questo si accontenta lo Sposo. Né questi cerca altro, né essa altro ha. Per questo egli è Sposo ed essa è sposa. Questo è proprio agli sposi, non appartiene a nessun altro, neppure al figlio. III. Lo Sposo ama prima e di più, per la sposa basta tuttavia se ama con tutta se stessa E poi ai figli grida: Dov’è il mio onore ( Ml 1,6 ) e non: « Dov’è il mio amore », riservandone la prerogativa alla sposa. Ma anche si comanda all’uomo di onorare il proprio padre e la propria madre, e dell’amore non si fa parola: non perché i figli non debbano amare i genitori, ma perché molti figli sono più disposti a onorare i genitori che non ad amarli. Sia pure che l’onore del re è di amare la giustizia ( Sal 99,4 ); ma l’amore dello Sposo, anzi lo Sposo-amore richiede in cambio solo amore e fedeltà. È dunque consentito alla diletta di ricambiare l’amore. Come non amerà la sposa, e sposa dell’Amore? Come non sarebbe amato l’Amore? 6. Giustamente rinunciando a tutti gli altri sentimenti si applica tutta e al solo amore colei che deve rispondere allo stesso amore ricambiando l’amore. Poiché, quando si sarà tutta effusa nell’amore, che cosa è questo di fronte al perenne profluvio di quella fonte? Non scorrono certamente con uguale abbondanza l’amante e l’Amore, l’anima e il Verbo, la sposa e lo Sposo, il Creatore e la creatura, non diversamente che l’assetato e la fonte. Che dunque? Sarà per questo sprecato e del tutto vano il voto della futura sposa, il desiderio di lei che sospira, l’ardore dell’amante, la fiducia ardimentosa per il fatto che non può correre a pari con un gigante, contendere per dolcezza con il miele, per mansuetudine con l’agnello, per candore con il giglio, per splendore con il sole, per carità con colui che è carità? No. Poiché, anche se la creatura ama meno perché è inferiore, tuttavia, se ama con tutta se stessa nulla manca dove è tutto. Perciò, come ho detto, amare così equivale ad aver celebrato le nozze, perché non può amare così ed essere poco amata, e nel mutuo consenso dei due sta l’integro e perfetto connubio. A meno che qualcuno dubiti che l’anima sia dal Verbo amata prima e di più. Essa è del tutto prevenuta nell’amore e vinta. Felice colei che ha meritato di essere prevenuta con la benedizione di tanta dolcezza. Felice lei, a cui fu dato di sperimentare l’insieme di tanta soavità! Questo altro non è che l’amore santo e casto, l’amore soave e dolce, amore tanto sereno e sincero, amore vicendevole, intimo e forte, che unisce due non in una sola carne ma in un solo spirito e fa sì che due non siano più due ma una cosa sola, come dice Paolo: Chi aderisce a Dio forma con Lui un solo spirito ( 1 Cor 6,17 ). E ora piuttosto ascoltiamo lei su questo argomento, lei resa facilmente maestra su ogni cosa, sia dall’unzione maestra, sia dalla sua frequente esperienza. Ma forse è meglio che riserviamo questo al principio di un altro sermone, per non restringere una cosa buona negli stretti limiti di questo che sta per finire. E se siete contenti finisco appunto prima del tempo affinché domani ci ritroviamo affamati a gustare le delizie dell’anima santa di cui merita, beata, di godere con il Verbo e a proposito del Verbo suo Sposo Gesù Cristo Signore nostro, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXXIV I. Un gran bene sia cercare Dio, e a questo l’anima è prevenuta dallo Sposo quando la volontà viene ispirata 1. Nel mio lettuccio per notti cercai l’amato dell’anima mia ( Ct 3,1 ). È un gran bene cercare Dio, io non lo considero secondo a nessuno dei beni dell’anima. È il primo tra i doni, ultimo nei profitti. Non si aggiunge a nessuna virtù, non lascia il posto a nessuna di esse. A quale virtù si pub aggiungere se nessuna lo precede? A quale è inferiore, essendo piuttosto la perfezione di tutte? Quale virtù, infatti, vi può mai essere in colui che non cerca Dio, o quale è la misura della ricerca di Dio? Cercate, dice, sempre il suo volto ( Sal 105,4 ). Penso che neanche quando sarà stato trovato si cesserà di cercarlo. Non con passi materiali, ma Dio si cerca con il desiderio. E certamente non diminuisce l’acutezza del santo desiderio il fatto di averlo felicemente trovato, ma anzi io dilata. La consumazione della gioia è forse la distruzione del desiderio? È piuttosto un olio per esso: esso è, infatti, una fiamma. È così. Sarà colmata la letizia, ma non ci sarà fine per il desiderio, e per questo non si cesserà di cercare. Ma tu pensa, se puoi, a questa ricerca appassionata che non viene meno, e a questo desiderio che non rende ansioso: uno viene dalla presenza, l’altro è escluso dall’abbondanza. 2. Ora vedete perché ho promesso queste cose. Affinché ogni anima tra di voi che cerca Dio non cambi in un grande male un grande bene, e conosca di essere stata prevenuta in lui, e cercata prima che essa lo cercasse. Così, infatti, da grandi beni sono soliti nascere mali non meno grandi quando, resi illustri dai beni del Signore, usiamo di questi doni come se non li avessimo ricevuti e non diamo gloria a Dio. E così quelli che sembravano grandi per la grazia ricevuta, per non avere reso grazie a Dio vengono da lui reputati minimi. Ma io vi risparmio. Ho usato le parole più modeste con il massimo e con il minimo; ma quello che sento non l’ho espresso. Non ho chiarito bene la differenza, ma metterò a nudo le cose: avrei dovuto dire ottimo e pessimo, perché certamente uno diventa tanto più pessimo quanto più era ottimo, se ciò per cui è ottimo lo attribuisce a sé. Questa è pessima cosa. E se uno dice: Per carità! Io lo riconosco: Sono quello che sono per grazia di Dio ( 1 Cor 10,15 ), ma poi cerca di acquistarsi un po’ di gloria per la grazia che ha ricevuto, non è costui un ladro e un brigante? Uno che è cosa si sentirà dire: Dalla tua bocca ti giudico, servo malvagio ( Lc 19,22 ). Che c’è di più malvagio del servo che si usurpa la gloria del suo Signore? 3. Nel mio lettuccio per notti ho cercato l’amato dell’anima mia. L’anima cerca il Verbo, ma se prima è stata cercata dal Verbo. Diversamente una volta uscita o cacciata dalla faccia del Verbo, il suo occhio non tornerà a vedere cose buone se non è cercata dal Verbo. Quasi che la nostra anima sia un soffio che va e non ritorna se è lasciata a se stessa. Senti come si lamenti e che cosa chieda un’anima profuga e andata fuori strada: Come pecora smarrita vado errando, cerca il tuo servo ( Sal 119,176 ). O uomo, vuoi ritornare? Ma se è questione di volontà, perché chiedi aiuto? Perché vai mendicando altrove ciò di cui hai abbondanza. È chiaro che vuole e non può; ed è un soffio che va e non ritorna, anche se è più lontano chi non vuole neppure. Tuttavia non direi neanche che sia del tutto traviata o abbandonata quell’anima che desidera tornare e chiede di essere cercata. Da dove infatti le viene questa volontà? Se non sbaglio dal fatto che è già visitata e cercata dal Verbo, né questa è stata una vana ricerca in quanto ha influenzato la volontà, senza la quale il ritorno non era possibile. Ma non basta essere cercata una volta sola; è tanto grande la debolezza dell’anima e tanta la difficoltà del ritorno. Anche se vuole la volontà è a terra quando mancano le forze. Poiché ho sì la volontà ma nella pratica non riesco a fare il bene ( Rm 7,18 ). Che cosa chiede, dunque, colui che abbiamo citato dal salmo? Certamente non altro che di essere cercato, e non lo chiederebbe se non fosse stato cercato, e non lo chiederebbe di nuovo se fosse stato cercato a sufficienza. Perciò chiede: Cerca il tuo servo, affinché colui che ha dato il volere dia anche di portare a compimento, secondo la buona volontà. II. A quale anima spetta cercare il Verbo e che cosa significhi essere ricercata dal Verbo; all’anima incombe questa necessità non al Verbo 4. A me, tuttavia, sembra che non si adatti a un’anima del genere questo passo, a un’anima cioè che non ha ancora ricevuto la seconda grazia, che vuole si, ma non è in grado di raggiungere l’amato dell’anima sua. Come può, in fatti, adattarsi a una tale anima quello che segue: alzarsi, percorrere la città e cercare il diletto per le strade e le piazze, se ha bisogno essa stessa di essere cercata? Faccia questo quella che può farlo; solamente si ricordi che prima di cercare è stata cercata, come è stata prima amata, e che da questo dipende il fatto che cerca e che ama. Preghiamo anche noi, carissimi, perché presto ci vengano incontro queste misericordie, perché siamo troppo poveri; non lo dico di tutti noi. So, infatti, che molti di voi camminano nell’amore con cui Cristo ci ha amati, e lo cercano nella semplicità del cuore. Ma vi sono alcuni, lo dico con tristezza, che non ci hanno ancora mostrato in sé alcun indizio di questa così salutare anticipazione, e per questo neanche della loro salvezza; uomini che amano se stessi, non il Signore, e che cercano il proprio tornaconto, non l’interesse del Signore. 5. Ho cercato, dice la sposa, l’amato dell’anima mia. A questo ti spinge la benignità di lui che ti previene, che ti ha cercato per primo, e per primo ti ha amato. Tu non cercheresti affatto se prima non fossi stata cercata, né ameresti se non fossi stata amata prima. Sei stata prevenuta, non in una sola ma in due benedizioni, l’amore e la ricerca. L’amore è causa della ricerca, la ricerca è frutto dell’amore e ne dà anche la certezza. Sei amata, perché non ti venga il sospetto di essere cercata per il supplizio; sei stata cercata perché non pensi di essere stata amata invano. L’una e l’altra cosa che ti è dolce constatare ti hanno dato l’ardire e hanno cacciato il timore, convincendoti del suo ritorno e accendendo in te l’affetto. Di qui lo zelo, di qui questo ardore nel cercare colui che l’anima tua ama, perché né avresti potuto cercarlo non essendo cercata, né ora, cercata, puoi non cercare. 6. Ma non dimenticare da dove sei arrivata qui. E per riferire piuttosto a me quanto sto per dire è, infatti, casa più sicura sei tu, anima mia, che un bel giorno abbandonato il tuo primo Sposo con il quale ti eri trovata bene, sei venuta meno alla tua prima fede andandotene dietro ai tuoi amanti. E ora, dopo aver trescato con loro a tuo piacimento, forse perché da loro sei stata disprezzata, osi impudentemente e sfrontatamente voler far ritorno a lui che superbamente hai disprezzato? E che? Degna delle tenebre cerchi la luce e corri allo Sposo, degna di essere fustigata piuttosto che dei suoi baci? C’è da stupirsi che tu non trovi un giudice invece di uno Sposo. Felice colui che a questi rimproveri sentirà l’anima sua rispondere: « Non temo, perché amo, e non lo farei se non fossi amata. Pertanto sono anche amata ». Nulla da temere per la diletta. Temano quelle che non amano. Queste non possono fare a meno di sospettare inimicizie dappertutto. Ma io, amando, non posso dubitare di essere amata, più che non di amare. Né posso temere il volto di colui del quale ho sentito l’affetto. In che cosa? Nel fatto che egli ha cercato una come me, e mi ha amata, assicurandomi con questo di avermi cercata. Come non gli risponderò nel cercarlo anche da parte mia, mentre gli corrispondo nell’affetto? Si adirerà forse per essere cercato mentre anche disprezzato ha taciuto? Anzi non disprezzerà colei che lo ricerca, lui che la cerca quando lo disprezza. È benigno lo spirito del Verbo e preannuncia cose benigne per me, facendo presente e rendendomi persuasa circa lo zelo e il desiderio del Verbo che non può essere nascosto. Scruta le profondità di Dio, consapevole di quei pensieri di pace e non di afflizione che pensa. Come non sarei animata a cercarlo avendone sperimentata la clemenza, persuasa dei suoi pensieri di pace? 7. Fratelli, sentirsi suggerire questo equivale ad essere cercati dal Verbo, esserne persuasi equivale a trovarlo. Ma non tutti capiscono questo. Che cosa faremo per i nostri piccoli, parlo di quelli che sono principianti tra di noi, non insipienti però, poiché possiedono l’inizio della sapienza, vicendevolmente soggetti nel timore di Cristo? Da dove dimostreremo loro, dico, che le cose stanno veramente così nella sposa, non avendo essi ancora sperimentato in se stessi tali cose? Ma io li rimando a un tale a cui non potranno fare a meno di credere. Leggano nel Libro quello che non credono succedere in un altro cuore, per il fatto che non lo vedono. Sta scritto nei Profeti: Se un uomo ripudia la sua donna, che si allontana da lui e si unisce a un altro uomo, ritornerà egli mai da lei? Forse che una simile donna non é tutta contaminata? Ora tu hai fornicato con molti amanti; e tuttavia ritorna a me, dice il Signore, e io ti accoglierò ( Ger 3,1 ). Sono parole del Signore, non è lecito non credervi. Credano quelli che non ne hanno esperienza, perché per merito della fede conseguano un giorno il frutto dell’esperienza. Penso di aver chiarito a sufficienza in che cosa consiste l’essere cercato dal Verbo, e quale sia questa necessità, non per il Verbo, ma per l’anima, solo quella che ha sperimentato queste cose le conosce più a fondo e con maggiore felicità. Rimane da insegnare, nel seguente sermone, alle anime assetate, come cercare colui dal quale sono state cercate, o piuttosto impariamo da colei che in questo passo è descritta mentre cerca l’amato dell’anima sua, Sposo dell’anima Gesù Cristo nostro Signore, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXXV I. Per quali motivi l’anima cerca il Verbo; ne elenca sette e per prima la correzione e la cognizione 1. Nel mio lettuccio ho cercato l’amato dell’anima mia ( Ct 3,1 ). A quale scopo? L’abbiamo detto, ed è superfluo ripeterlo, tuttavia per alcuni che erano assenti quando si parlava di questo dico qualche cosa brevemente, che forse non riuscirà sgradito neanche a quelli che erano presenti. Del resto allora non si è potuto dire tutto. L’anima cerca il Verbo per accettarne la correzione, per essere illuminata nella sua conoscenza, per trovare un appoggio per la sua virtù, per riformarsi nella sapienza, per conformarsi a lui ed essere più bella, unirsi a lui ed essere feconda, godere di lui ed essere nella gioia. Per tutte queste ragioni l’anima cerca il Verbo. Non dubito che ve ne siano anche molte altre, ma queste mi sono venute qui alla mente. Se a qualcuno interessa ne potrà notare in se stesso facilmente diverse altre. Sono, infatti, molte le nostre deficienze, molte e infinite le necessità dell’anima e le ansietà non si contano. Ma il Verbo più doviziosamente e pienamente sovrabbonda nei beni, in quanto Sapienza che vince la malizia, vince i mali con i beni. E adesso sentite la ragione di quelle che ho accennate. E per primo vedete come acconsenta alla correzione. Sentiamo come il Verbo nel Vangelo dice: Mettiti d’accordo con il tuo avversario mentre sei con lui in via, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia ( Mt 5,25 ). Nulla di più prudente. È un consiglio del Verbo, se non erro, che si protesta Avversario, perché è contrario ai nostri desideri carnali mentre dice: Sono un popolo dal cuore traviato ( Sal 95,10 ). Ma tu che ascolti queste cose, se, spaventato, comincerai a voler sfuggire all’ira che sta per venire, credo che sarai sollecito a metterti d’accordo con questo avversario che minaccia di intentarti una così terribile causa. Ma questo non è possibile se tu non ti metti in disaccordo con te stesso, se non ti fai avversario di te stesso, se non conduci un’aspra , continua e infaticabile lotta contro te stesso, e se non abbandoni le inveterate abitudini e le innate inclinazioni. E questo è duro. Se affronterai questo con le tue forze, sarà come se volessi fermare con un dito un torrente impetuoso, o volessi nuovamente far scorrere il Giordano all’indietro. Che cosa farai? Cerca il Verbo con cui metterti d’accordo, con la grazia sua. Fuggi a lui che é tuo avversario, perché tu per mezzo suo divenga uno cui egli non sia più contrario, perché lui che prima ti minacciava ti incoraggi, e sia per la tua conversione più efficace con l’infusione della sua grazia che non con un’intensa ira. 2. Questa è la prima necessità per cui, penso io, l’anima comincia a cercare il Verbo. Ma se ignori quello che vuole colui al quale già acconsenti con la volontà non si dirà di te che hai lo zelo di Dio, ma non secondo scienza? E perché tu non sottovaluti questo ricorda quanto dice la Scrittura, che cioè se qualcuno non lo riconosce neppure lui è riconosciuto ( 1 Cor 14,38 ). Vuoi sapere quello che ti consiglio in questa necessità? La stessa cosa che nella prima. Se ascolti il mio consiglio, anche adesso andrai dal Verbo, ed egli ti insegnerà le sue vie, perché non ti capiti che volendo, ma ignorando il bene, mentre corri tu non vada fuori strada e cominci a errare nel deserto, fuori dalla via giusta. Il Verbo infatti è luce: La tua parola nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici ( Sal 119,130 ). Sarai beato se dirai anche tu: Lampada ai miei passi la tua parola, luce sul mio cammino ( Sal 119,105 ). Non è piccolo il profitto della tua anima la cui volontà si è cambiata, illuminata la ragione, perché possa volere e conoscere il bene. Nella prima cosa ha ricevuto la vita, nell’altra la vista: poiché volendo il male era morta, e ignorando il bene era cieca. 3. Ormai vive, ormai vede, ormai è fissata nel bene, con l’aiuto e l’opera del Verbo. Sta, innalzata dalla mano del Verbo, come su due piedi, la devozione e la cognizione. Sta in piedi, dico, ma consideri come detto a sé: Chi pensa di stare in piedi, badi di non cadere ( 1 Cor 10,12 ). Pensi tu che possa da sé stare in piedi lei che non ha potuto da sola alzarsi? Non penso. Perché? Dalla parola del Signore furono fatti i cieli ( Sal 33,6 ) e la terra potrà stare senza il Verbo? Perché, dunque, se poteva stare, pregava un uomo della terra dicendo: Confermami con le tue parole ( Sal 119,28 ), e lo dimostrava. È di lui quella frase. Mi avevano spinto per farmi cadere ma il Signore è stato il mio aiuto ( Sal 118,13 ). II. Colui che spinge l’anima è trino; l’uomo deve guardarsi soprattutto da se stesso, e che cosa sia la virtù e come sia onnipotente colui che spera nel Cristo, al quale soltanto bisogna appoggiarsi per conseguire la virtù Chiedi chi sia colui che aveva dato questa spinta? Non è uno solo. Spinge il diavolo, spinge il mondo, spinge l’uomo. Chiedi chi sia questo uomo? È quello che è in ognuno di noi. Non stupirtene: l’uomo sospinge a tal punto e precipita se stesso, che tu non hai da temere che un altro ti spinga se ti guardi dalle tue stesse mani. Chi infatti, dice, vi potrà fare del male se sarete ferventi nel bene? ( 1 Pt 3,13 ). La tua mano è il tuo consenso. Se secondo i suggerimenti del diavolo o le insinuazioni del mondo non acconsentirai a cose non lecite e non userai le tue membra come arma di iniquità, né permetterai che il peccato regni nel tuo corpo mortale ti dimostrerai buon operatore del bene, al quale la malizia non ha recato danno, e forse ti ha piuttosto giovato. Sta scritto, infatti: Fa’ il bene, e avrai lode da essa ( Rm 13,3 ). Sono rimasti confusi quelli che cercavano la tua anima; ma tu canterai: Se non prevarranno contro di me, allora sarò puro ( Sal 19,14 ). Hai dato prova di grande virtù se, secondo il consiglio del Saggio, hai pietà della tua anima, se con ogni diligenza custodisci il tuo cuore, se, come raccomanda l’Apostolo, conservi casto te stesso. Diversamente, anche se guadagnassi tutto il mondo, ma ne riportassi danno alla tua anima, non ti riterremmo più un buon operaio, e neppure il Salvatore. 4. Sono dunque tre che insidiano l’uomo che sta in piedi: il diavolo, con il livore della sua malizia; il mondo, con il soffio della vanità; l’uomo, che spinge se stesso con il peso della sua corruzione. Spinge il diavolo, ma non fa cadere se tu gli neghi la collaborazione e l’assenso. Dice la Scrittura: Resistete al diavolo e fuggirà da voi ( Gc 4,7 ). È questi colui che, invidioso, spinse e fece cadere quelli che stavano nel paradiso, ma perché non resistettero e gli acconsentirono. Questi è colui che, superbo, senza che alcuno lo tentasse, precipitò se stesso dal cielo, e anche perciò sappi che l’uomo è molto più incline a cadere in quanto gravato dal peso della propria sostanza. E c’è anche il mondo che spinge, il mondo tutto posto sotto il potere del maligno. Spinge tutti, ma fa cadere solo i suoi amici, cioè quelli che sono consenzienti a lui. Non voglio essere amico del mondo per non cadere: Poiché chi vuol essere amico di questo mondo si fa nemico di Dio ( Gc 4,4 ), e nessuna caduta è più grave di questa. Da questo appare chiaro che colui che dà all’uomo la maggior spinta per farlo cadere è lui stesso, in quanto egli stesso può cadere, senza la spinta di alcun altro, e non può cadere per la spinta di altri se non c’è anche la sua. A quale di questi è da opporre maggior resistenza? A quest’uomo che è lui stesso, tanto più pericoloso quanto più interno, e basta vincere questo, dato che senza di esso gli altri non possono far nulla. Non senza ragione il Saggio loda chi domina il suo animo più di colui che espugna le città. Questo va molto bene per te: hai bisogno di forza, e non una forza qualunque, ma di una forza che ti venga dall’alto. Questa, infatti, se è perfetta, rende facilmente l’animo vincitore di sé, e così lo rende invincibile in tutto. È, infatti, un vigore dell’animo che non sa cedere per difendere la ragione o, se meglio ti garba, il vigore di un animo che sta immobile con la ragione o per la ragione; oppure così: vigore dell’animo che costringe o dirige tutto alla ragione. 5. Chi salirà al monte del Signore? ( Sal 24,3 ). Chiunque si accingerà a raggiungere il vertice di questo monte, vale a dire la perfezione della virtù, saprà certamente come la salita sia ardua e lo sforzo inutile senza l’aiuto del Verbo. Felice quell’anima che, davanti agli sguardi degli Angeli ha dato di sé questo spettacolo e piena di gaudio li ha uditi esclamare a suo riguardo: Chi è costei che sale dal deserto, ricolma di delizie, appoggiata al suo diletto? ( Ct 8,5 ). Diversamente sono vani i suoi sforzi se non si appoggia. In verità, anche appoggiandosi contro di sé, prende forza, e fatta più forte di se stessa sottometterà tutto alla ragione: l’ira, la paura, la bramosia, e la gioia, tutte queste cose guiderà come un buon cocchiere guida il suo cocchio, e sottometterà ogni affetto carnale e i sensi della carne ai consigli della ragione, in ossequio alla virtù. Come mai non sarebbe tutto possibile a chi si appoggia su di Lui che tutto può? Quanta fiducia in questa parola: Tutto posso in colui che mi conforta! ( Fil 4,13 ). Nulla rende più splendente l’onnipotenza del Verbo che il fatto di rendere onnipotenti tutti quelli che sperano in Lui. E poi: Tutto è possibile a chi crede ( Mc 9,22 ). Non è dunque onnipotente colui al quale tutto è possibile? Così l’animo, non se presuma di sé, ma se è confortato dal Verbo, può dominare se stesso, e non sarà dominato da alcuna ingiustizia. Così nessuna forza, nessun inganno, nessuna lusinga potrà abbattere chi sta in piedi o assoggettare chi domina, se è appoggiato al Verbo o rivestito di forza dall’alto. 6. Vuoi non aver paura di chi ti spinge per farti cadere? Non ti raggiunga il piede della superbia, e la mano di chi spinge non ti smuoverà. Là sono caduti i malfattori ( Sal 36,13 ). Là il diavolo e i suoi angeli sono precipitati, i quali, sebbene non spinti dall’esterno, sono stati espulsi né poterono stare. Non stette nella verità lui che non era appoggiato al Verbo, che aveva confidato nella sua forza. E forse volle sedersi lui che non poté stare in piedi. Diceva, infatti: Siederò nel monte del testamento ( Is 14,13 ). Ma Dio pensava diversamente, e così né stette né sedette; ma cadde, come dice il Signore: Vedevo satana cadere dal cielo come folgore ( Lc 10,18 ). Dunque, chi sta se non vuol cadere non si fidi di se stesso, ma si appoggi al Verbo. Dice il Verbo: Senza di me non potete fare nulla ( Gv 15,5 ). È così: né sorgere per fare il bene, né stare nel bene possiamo senza il Verbo. Tu, dunque, che stai in piedi, da’ gloria al Verbo e di’: Stabilì i miei piedi sulla pietra e diresse i miei passi ( Sal 40,3 ). È la sua mano che ti rialza, della sua forza hai bisogno per tenerti in piedi. Questo riguardo al bisogno che noi abbiamo del Verbo, al quale dobbiamo appoggiarci per praticare la virtù. III. Attraverso il Verbo siamo ricreati per la Sapienza, e la differenza fra sapienza e virtù 7. Ora dobbiamo vedere, come ho prima accennato, come per mezzo del Verbo noi siamo riformati rispetto alla sapienza. Il Verbo è forza, il Verbo è sapienza. Riceva, dunque, l’anima forza dalla forza, e sapienza dalla sapienza, e attribuisca al Verbo l’uno e l’altro dono. Diversamente, se pretende di averli da altri, oppure se attribuisce a sé entrambe o una delle due cose, è come se negasse che il ruscello nasce dalla sorgente, che il vino viene dalla vite, o che la luce dalla luce. Questa parola è sicura: Se uno ha bisogno di sapienza, la chieda a Dio che dà a tutti in abbondanza e senza rinfacciare, e gli sarà concessa ( Gc 1,5 ). Questo dice san Giacomo. Io poi penso la medesima cosa riguardo alla forza. La forza è parente della sapienza. È dono di Dio la forza, da considerare tra quegli ottimi doni che discendono dall’alto, dal Padre del Verbo. E se qualcuno sostiene che essa è tutt’uno con la sapienza, non ho nulla da obiettare, ma nel Verbo non nell’anima. Quelle cose, infatti, che nel Verbo a causa della singolare semplicità della sua natura divina sono una cosa sola, non hanno un unico effetto nell’anima, ma si adattano alle sue varie e diverse necessità, venendo diversamente partecipate da essa. Così, pertanto, altro è per l’anima essere mossa dalla forza, altro essere governata dalla sapienza, altro è dominare con la virtù, altro deliziarsi nella soavità. Sebbene infatti anche la sapienza sia forte e la virtù soave, per dare tuttavia a ciascun vocabolo il suo proprio significato, il vigore denota la virtù, la’ tranquillità dell’animo con una certa soavità spirituale indica la sapienza. Penso che questa l’abbia designata l’Apostolo, dove, dopo molte esortazioni che riguardano la virtù, aggiunge quello che riguarda la sapienza nella soavità, nello Spirito Santo. Pertanto, stare in piedi, resistere, respingere la forza con la forza, che fanno parte della virtù, costituiscono un onore, ma sono cose faticose. Non è lo stesso, infatti, difendere laboriosamente il tuo onore e possederlo in pace. Non è lo stesso essere mosso dalla virtù e godere della virtù. Tutto quello che la virtù faticosamente guadagna la sapienza lo gode; e quello che la sapienza ordina, delibera, propone, la virtù lo esegue. 8. La sapienza dello scriba si deve alle sue ore di quiete, dice il Saggio ( Sir 38,25 ). Dunque, gli ozi della sapienza sono occupazioni, e più è in riposo la sapienza più è in esercizio nel suo genere. Di riscontro, la virtù esercitata è più splendida, e tanto più provata quanto più premurosa. E se uno definisse la sapienza amore della virtù non mi sembrerebbe scostarsi dalla verità. Ma dove vi è l’amore non vi è fatica ma gusto. E forse la sapienza si chiama così dal sapore che unendosi alla virtù come se fosse un condimento, rende saporita quella che di per sé era in un certo modo insipida e aspra. Né avrei da ridire se qualcuno definisse la sapienza sapore del bene. Abbiamo perduto questo gusto dal primo inizio del genere umano. Da quando il palato del cuore prevalendo il senso della carne fu infetto dal veleno dell’antico serpente, l’anima cominciò a non avere più il gusto del bene e a subentrare il sapore cattivo. Purtroppo l’istinto del cuore umano è incline al male fin dalla sua adolescenza ( Gen 8,21 ), cioè dall’insipienza della prima donna. Così l’insipienza della donna rinunciò al gusto del bene, perché la malizia del serpente ingannò l’insipiente donna. Ma dove sembrò che la malizia avesse vinto per un certo tempo, proprio là si duole di essere stata vinta per l’eternità. Poiché, ecco, di nuovo la Sapienza riempì il cuore e il corpo della donna, per cui noi che eravamo stati rovinati e resi insipienti dalla donna siamo stati restaurati nella sapienza da un’altra donna. E ora continuamente la sapienza vince la malizia nelle menti in cui entra soppiantando il gusto del male che la malizia aveva portato, con un gusto migliore. Entrando la sapienza, mentre fa svanire il senso della carne, purifica l’intelletto, risana e ripara il palato del cuore. Al palato sano diventa gustoso il bene, gustosa la sapienza che è il migliore dei beni. 9. Quante cose buone si fanno senza che vengano gustate da coloro che le fanno! Sono, infatti, indotti a compierle non per il gusto del bene, ma o dalla ragione e da qualche altra occasione o necessità; e viceversa molti non gustano il male che fanno, ma sono condotti a farlo o per timore o per desiderio di qualche cosa piuttosto che dal gusto del male; coloro invece che agiscono per affetto del cuore, o sono sapienti, e per questo stesso fatto si dilettano nel gusto del bene; o sono maligni e si compiacciono nella malizia stessa, anche senza la lusinga di qualche altro interesse. E la malizia che altro è se non il gusto del male? Beata la mente che è tutta presa dal gusto del bene e dall’odio del male. Questo significa essere restaurati secondo la sapienza, questo è sperimentare felicemente la vittoria della sapienza. Quando, infatti, è provato con più evidenza che la sapienza vince la malizia che quando, cacciato il gusto del male, che non è altro che la stessa malizia, si sente un intimo gusto del bene invadere con grande dolcezza l’intimo della mente? Pertanto spetta alla virtù sopportare con fortezza le tribolazioni, alla sapienza godere nelle tribolazioni. Confortare il tuo cuore e attendere il Signore è compito della virtù; gustare e vedere come è buono il Signore spetta alla sapienza. E perché sia maggiormente chiaro dal bene della propria natura il bene di entrambe, la modestia dell’animo dimostra il sapiente, e la costanza l’uomo virtuoso. E bene la sapienza viene dopo la virtù perché questa è come uno stabile fondamento, sul quale la sapienza si edifica la casa. È stato necessario che precedesse la nozione del bene, perché non possono andare d’accordo la luce della sapienza e le tenebre dell’ignoranza. È stata necessaria anche la buona volontà perché: la sapienza non entra in un’anima che vuole il male ( Sap 1,4 ). IV. Che cosa significhi conformarsi al Verbo per la bellezza, sposarlo per la fecondità, o goderne per la gioia, per quanto si può in questa vita 10. Ormai nel cambiamento della volontà è apparso il ritorno della vita dell’anima, nell’erudizione si è dimostrata la sua santità, nella virtù la stabilità, nella sapienza, infine, la sua maturità; resta da trovarle la bellezza, senza la quale l’anima non può piacere a colui che è bello tra figli dell’uomo. Senti, infine, come al Re piacerà la tua bellezza ( Sal 45,12 ). Quanti beni dell’anima, doni del Verbo, abbiamo enumerato: la buona volontà, la scienza, la virtù, la sapienza! E di nessuno di questi si legge che piaccia al Verbo ma solo si dice: Al Re piacerà la sua bellezza. Il Profeta dice: Il Signore regna, si riveste di bellezza ( Sal 93,1 ). Perché non desidererà anche per la sua sposa un simile indumento? Gli sarà, dunque, tanto più cara quanto più gli sarà simile. E in che cosa consiste la bellezza dell’anima? Forse in quello che si dice onesto? Intanto sentiamo se non troviamo qualcosa di meglio. Circa l’onestà si esamini la condotta esteriore. Non che da essa provenga l’onestà, ma si manifesta attraverso di essa. L’origine e la sede di essa è nella coscienza. Il suo splendore, infatti, è la testimonianza della coscienza. Nulla è più chiaro di questa luce, nulla più glorioso di questa testimonianza, quando la verità splende nella mente e la mente si vede nella verità. Ma quale? Si vede pudica, vereconda, pavida, circospetta, che non ammette affatto nulla che renda vana la gloria della coscienza che attesta di non essere cosciente di nulla per cui si vergogni della presenza della verità, per cui sia costretta a voltare la faccia, quasi confusa e abbagliata dalla luce di Dio. Questo davvero, questo è quella bellezza che sopra ogni altra cosa buona dell’anima piace agli occhi di Dio e noi chiamiamo onesto. 11. Quando poi lo splendore di questa bellezza avrà riempito con maggiore abbondanza l’intimo del cuore, è necessario che si manifesti al di fuori come una lampada che era nascosta sotto il moggio, anzi come luce che splende nelle tenebre, incapace di restare nascosta. Rifulgendo perciò, e quasi erompendo con certi suoi raggi dal simulacro della mente viene ricevuta dal corpo e si diffonde nelle sue membra e nei suoi sensi, in modo che ne riluce ogni atto, discorso, sguardo, movimento, il riso, se pure è riso, misto a gravità e decoro. Se il movimento, il gesto e l’uso di queste e altre membra e sensi, appare serio, puro, modesto, tutto privo di insolenza e di mollezza, alieno da leggerezza come da ignavia, ma informato da equità, sollecito alla pietà, allora la bellezza dell’anima sarà manifesta, a meno che non vi sia inganno nel suo spirito: può darsi, infatti, che vengano simulate tutte queste cose, e non provengano dall’abbondanza del cuore. E perché maggiormente risplenda questa bellezza dell’anima, la stessa onestà nella quale abbiamo detto che essa consiste, venga così definita: nobiltà della mente, sollecita di conservare con buona coscienza l’integrità della fama, o, secondo l’Apostolo, si preoccupa di comportarsi bene non soltanto davanti a Dio, ma anche davanti agli uomini. Beata la mente che si riveste di questo splendore di purità e di quel certo manto candido di innocenza che le conferisce la gloriosa conformità non con il mondo, ma con il Verbo del quale si legge che è candore della vita eterna, splendore e figura della sostanza di Dio. 12. Da questo gradino ormai una tale anima ardisce pensare alle nozze. Come non oserebbe farlo, scorgendosi nubile in quanto simile? Non l’atterrisce l’altezza che la somiglianza associa, che l’amore concilia, che la professione unisce. La formula della professione è questa: Ho giurato e lo confermo di custodire i tuoi precetti di giustizia ( Sal 119,106 ). Seguendo questa gli Apostoli dicevano: Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito ( Mt 19,27 ). Sono parole simili a quelle dette nel carnale connubio che ha prefigurato l’unione spirituale di Cristo con la Chiesa: Per questo l’uomo abbandonerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e saranno due in una sola carne ( Ef 3,35 ) e presso il Profeta: Il mio bene è aderire a Dio e porre la mia speranza nel Signore Dio ( Sal 73,28 ). Pertanto, l’anima che vedrai abbandonare tutto e aderire con tutto l’ardore al Verbo, vivere per il Verbo, secondo il Verbo comportarsi, concepire dal Verbo per poi partorire al Verbo, che possa dire: Per me vivere è Cristo e morire un guadagno ( Fil 1,21 ) considerala coniuge e sposata al Verbo. Confida in essa il cuore del suo Sposo, sapendola fedele, sapendo che ha disprezzato tutto ciò che è fuori di lui, tutto ha considerato come immondizia pur di guadagnare lui. Riconosceva essere tale colui del quale Cristo diceva: Questi è per me un vaso di elezione ( At 9,15 ). Davvero pia madre, l’anima di Paolo, e fedele al suo Sposo, quando diceva: Figlioli miei che io nuovamente partorisco finché sia formato Cristo in voi ( Gal 4,19 ). 13. Ma bada come nel matrimonio spirituale vi sono due maniere di partorire e di conseguenza c’è diversità nella prole, ma non contrarietà, poiché le sante madri partoriscono o anime predicando, o intelligenze spirituali meditando. In questo ultimo genere talvolta si viene anche rapiti e si esce anche dai sensi del corpo, di modo che non sente più se stessa l’anima che sente il Verbo, in qualche modo si ruba a se stessa, anzi viene rapita e sottratta a se stessa, per godere del Verbo. Diversa è la situazione della mente che porta frutto per il Verbo e di quella che gode del Verbo. Nel primo caso è sollecitata dalla salvezza del prossimo, nell’altro è attirata dalla soavità del Verbo. E, pertanto, è si lieta la madre per la prole, ma più felice nei suoi amplessi la sposa. Cari i pegni dei figli, ma i baci sono più dolci. È buona cosa salvare molti; andare in estasi ed essere con il Verbo è cosa molto più gioiosa. Ma quando questo e fino a quando? Dolce scambio, ma breve momento e rara esperienza! È questo quello che dopo altre cose ricordo di aver detto, che cioè l’anima cerca il Verbo per trovare in Lui la gioia e la dolcezza. 14. Qualcuno vorrà ancora chiedermi che cosa sia godere del Verbo. Rispondo: cerchi piuttosto uno che abbia sperimentato questo per domandarlo a lui. O se anche a me fosse dato di fare questa esperienza, pensi che potrei dire ciò che è indicibile? Senti uno che lo aveva sperimentato: Se siamo stati fuori dei sensi era per Dio; se siamo assennati è per voi ( 2 Cor 5,13 ). Vale adire: altro è quello che io provo con Dio, lui solo essendo testimonio, altra è la mia relazione con voi: quello si può sperimentare ma per nulla descrivere, in quest’altro io sono con voi tanto condiscendente che io posso parlarvi e voi siete in grado di comprendere. O tu che sei curioso di sapere che cosa sia godere del Verbo, prepara a lui non l’orecchio ma la mente! Non insegna questo con la lingua, lo insegna con la grazia. Questo viene nascosto ai sapienti e ai prudenti, e viene rivelato ai piccoli. Grande, fratelli, grande e sublime virtù l’umiltà, che merita quello che non insegna, che è degna di conseguire quello che non può imparare, degna di concepire dal Verbo e del Verbo quello che lei stessa con le sue parole non riesce a spiegare. Perché questo? Non perché’così ha meritato, ma perché cosî piace al Padre del Verbo, Sposo dell’anima, Gesù Cristo Signore nostro, che è sopra ogni cosa Dio benedetto nei secoli. Amen. Sermone LXXXVI I. L’ornamento della verecondia che appare nella sposa, e che si addice soprattutto agli adolescenti 1. Non è più il caso ormai di chiedermi perché l’anima cerchi il Verbo: ciò è già stato esposto a sufficienza sopra. Dunque, andiamo avanti in questo capitolo, parlando però solo delle lezioni pratiche che ne conseguono. Come prima cosa notiamo la verecondia della sposa: non so se si possa vedere nei costumi degli uomini qualcosa di più piacevole. È bene avere questa in mano prima di ogni altra cosa, e cogliere questo bel fiore da questo passo e ornare i nostri adolescenti: non che essa non si debba ritenere con ogni cura anche nell’età più adulta, essendo certamente essa l’ornamento di ogni età, ma perché la grazia della delicata verecondia splende maggiormente ed è più bella nella tenera età. Che cosa c’è di più amabile di un verecondo adolescente? Quanto è bella e splendida questa gemma di costumi nella vita e sul volto di un adolescente! Come è verace e sicuro indizio di speranza e indizio di indole buona! È una verga di disciplina per lui che alzata contro gli affetti disordinati, tiene all’ordine e comprime gli insolenti atti e movimenti di leggerezza di una lubrica età. Che cosa tiene così lontano il turpiloquio ed ogni conseguente turpitudine? È sorella della continenza. Nessuna altra cosa è indizio così manifesto della semplicità della colomba, e anche prova di innocenza. È lampada sempre splendente di una mente pudica, perché nulla di turpe o meno decoroso si stabilisca in essa, senza che essa subito lo scopra. In tal modo, nemica dei mali e propugnatrice di innata purezza è speciale gloria della coscienza, custode della buona reputazione, decoro della vita, sede delle virtù e loro primizia, vanto della natura e sigillo di ogni onestà. Lo stesso rossore delle guance che il pudore può far comparire, quanta grazia e decoro conferisce al volto che ne è soffuso! 2. La verecondia è un genuino bene dell’animo fino a tal punto che anche quelli che non temono di fare il male, hanno tuttavia il pudore di non farlo palesemente, come dice il Signore: Chi opera il male odia la luce ( Gv 3,20 ). Ma anche: Quelli che dormono dormono di notte e quelli che sono ubriachi lo sono di notte ( 1 Ts 5,7 ); cercano, cioè, di nascondere con le tenebre le opere delle tenebre e degne dell’oscurità. È interessante, tuttavia, che le bruttezze nascoste che la verecondia di questi tali arrossisce non di avere, ma di far vedere, la verecondia della sposa non solamente le ricopre, ma le rigetta, le allontana. E perciò dice il Saggio: C’è una vergogna che porta al peccato, e c’è una vergogna che è onore e grazia ( Sir 4,21 ). La sposa cerca il Verbo con verecondia, sì, perché nel letto, perché nelle notti; ma questa verecondia ha gloria, non peccato. Cerca il Verbo per purificare la coscienza, lo cerca per la testimonianza, per poter dire: Questa è la mia gloria, la testimonianza della mia coscienza ( 2 Cor 1,12 ). Nel mio lettuccio per notti ho cercato l’amato dell’anima mia. La verecondia, se fai attenzione, ti è indicata e dal luogo e dal tempo. Che cosa è così amico dell’animo verecondo quanto il segreto? Ora la notte e il letto possiedono il segreto. E a chi vuole pregare è comandato di entrare nella camera, certamente per tenere il segreto. Questa è una misura di cautela, perché a quelli che pregano pubblicamente l’umana lode non porti via il frutto dell’orazione e ne renda vano l’effetto. Ma ti viene insegnata la verecondia con questa sentenza. Che cosa è così proprio della verecondia quanto evitare le proprie lodi, evitare l’ostentazione? È chiaro che il figlio e il maestro del pudore ha prescritto il segreto a quelli che pregano, particolarmente a cauta della verecondia. Nulla è più brutto, specialmente in un adolescente quanto ostentare la santità, sebbene sia molto conveniente che la pratica della devozione cominci già da questa età, come dice il Profeta Geremia: È bene per l’uomo portare il giogo fin dalla giovinezza ( Lam 3,27 ). È una buona raccomandazione per l’orazione che si sta per fare se si, premette la verecondia dicendo: Io sono piccolo e disprezzato ma non trascuro i tuoi precetti ( Sal 119,141 ). II. Il luogo e il tempo propri dell’orazione, e che cosa si intenda secondo il senso morale per letto e notte 3. E non solo occorre tener conto del luogo, ma anche del tempo quando si vuole pregare. Il tempo del riposo è più comodo e più adatto, specialmente quando il sonno della notte produce un profondo silenzio. Allora l’orazione è più libera e più pura: Alzati nella notte, quando cominciano i turni delle sentinelle, effondi come acqua il tuo cuore davanti al Signore tuo Dio ( Lam 2,19 ). Come sale segreta nella notte l’orazione, alla presenza di Dio solo e del santo angelo che la riceve per presentarla all’altare del cielo! Come gradita e splendida, coronata di verecondo rossore! Come serena e placida, non disturbata da alcun grido o strepito! In ultimo come pura e sincera, non cosparsa da alcuna polvere di preoccupazioni terrene, non tentata da alcuna lode o adulazione di spettatori estranei! Per questo dunque la sposa, non con minor verecondia che cautela cercava il segreto del letto e della notte volendo pregare, cioè cercare il Verbo; è, infatti, la stessa cosa. Diversamente non preghi bene se, pregando, cerchi qualcosa di diverso dal Verbo o che non cerchi per il Verbo, perché in lui sono tutte le cose. In lui c’è il rimedio delle ferite, gli aiuti nelle necessità, in lui il risarcimento dei difetti, in lui l’abbondanza dei profitti, in lui insomma tutto quello che interessa agli uomini ricevere o avere, tutto quello che conviene o necessita loro. Senza ragione si chiede altro dal Verbo, essendo egli tutte le cose. Infatti, anche se sembriamo chiedere, quando è necessario, queste cose temporali, se il Verbo è in causa, come è degno che sia, è lui che cerchiamo più che quelle, che cerchiamo per lui. Sanno questo quelli che sono soliti indirizzare l’uso di tutte le cose temporali per meritare il Verbo. 4. Non ci rincresca, tuttavia, scrutare ancora i segreti di questo letto e di questo tempo, per vedere se possiamo cavarne fuori qualche cosa di spirituale che vi si nasconde. E ci piace vedere raffigurata nel letto l’umana infermità, e nelle tenebre notturne l’ignoranza ugualmente umana, ne consegue ed è davvero conveniente che si cerchi con insistenza il Verbo che è virtù di Dio e sapienza di Dio contro questi due mali originali. Che cosa, infatti, vi è di più conveniente che all’infermità si opponga la forza, e all’ignoranza la sapienza? E perché non resti alcun dubbio ai cuori semplici circa questa interpretazione, sentano quello che dice a questo riguardo il santo Profeta: Il Signore lo sosterrà sul letto del suo dolore, gli darai sollievo nella sua malattia ( Sal 41,4 ). Questo riguardo al letto. Riguardo poi alla notte dell’ignoranza nulla di più chiaro di quanto si dice in un altro Salmo: Non capiscono, non vogliono intendere, avanzano nelle tenebre ( Sal 82,5 ), dove si esprime certamente la stessa ignoranza in cui il beato Apostolo confessa di essere nato e dalla quale si gloria di essere stato strappato dicendo: È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre ( Col 1,13 ). E perciò diceva: Non siamo figli della notte, né delle tenebre ( 1 Ts 5,5 ); e ancora, rivolgendosi a tutti gli eletti: Comportatevi come figli della luce ( Ef 5,8 ).