La verginità

IV. Tutte le assurdità della vita si originano dal matrimonio; come deve essere colui che si è veramente staccato dalla vita secolare

Ma perché mai dovremmo sottoporre ad una critica meschina l’assurdità di questa vita, pur limitando l’enumerazione dei suoi mali agli adulteri, ai divorzi ed agli agguati?

Quando ragiono in modo più alto e più vero, ho l’impressione che tutti i mali visibili nei vari fatti e nelle varie occupazioni non comincino a danneggiare l’esistenza umana prima che ci si sottometta alle necessità di questo tipo di vita.

Chi con l’occhio puro della propria anima considera i suoi inganni, chi si eleva al di sopra di ciò che si cerca in essa, chi, come dice l’apostolo, disprezza tutte le cose come se fossero dei rifiuti maleodoranti e chi, rinunziando al matrimonio, si distacca in un certo senso da essa, non ha più nulla a che vedere con i mali propri dell’uomo quali l’avidità, l’invidia, l’ira, l’odio, il desiderio della vana reputazione e tutte le altre cose di questo genere.

Mancando di tutto ciò, essendo totalmente libero e conducendo una vita pacifica, non ha ragione di contendere per possedere di più, o di suscitare contro di sé l’invidia del prossimo: non tocca nessuna di quelle cose sulle quali si appunta l’invidia durante la vita.

Elevata la propria anima al di sopra di tutto il mondo, egli considera la virtù come l’unico bene prezioso, e conduce un’esistenza pacifica, priva di dolori e di lotte.

Il possesso della virtù, anche se tutti gli uomini ne fossero partecipi ciascuno secondo le proprie possibilità, rimane infatti sempre pieno per coloro che lo desiderano, e non è paragonabile al possesso dei beni terreni: nel caso di questi ultimi, coloro che li dividono in tante parti aggiungono ad una ciò che tolgono all’altra, e la ricchezza di uno implica l’impoverimento di chi vuole esserne anche lui partecipe.

Proprio perché non ci si vuole impoverire nascono tra gli uomini le lotte per il possesso di una quota maggiore di beni.

L’avidità dell’altro bene non è invece causa d’invidia, e chi se ne è presa una parte maggiore non reca alcun danno a chi desidera averne una parte uguale: al contrario, ciascuno può soddisfare questo suo buon desiderio in proporzione alle sue capacità.

La ricchezza della virtù non viene consumata da coloro che vi hanno attinto per primi.

Colui che prende come modello questo tipo di vita e che accumula in sé come un tesoro quella virtù che nessun limite umano potrà mai circoscrivere, farà mai piegare la sua anima verso le cose basse e degne di essere calpestate?

Proverà forse ammirazione per le ricchezze terrene, per la potenza umana o per qualcun’altra delle cose che la stoltezza spinge a cercare?

Chi nutre ancora dei bassi sentimenti verso queste cose se ne stia lontano dal coro delle persone virtuose e non abbia nulla a che vedere con il nostro discorso; chi invece nutre pensieri più alti e cammina assieme a Dio nelle regioni superiori, resta totalmente al di sopra di tali bassezze, non essendo sottoposto allo stimolo che spinge sempre verso tali errori: mi riferisco al matrimonio.

Il volere essere superiori agli altri - quella brutta malattia che è l’orgoglio e che sarebbe giusto chiamare seme o radice di tutte le spine dei peccati - ha infatti nel matrimonio il suo primo inizio ed il suo primo movente.

Non accade quasi mai che la persona avida non addossi sui figli la colpa della sua malattia, o che il vanaglorioso e l’ambizioso non attribuisca la causa del suo male alla stirpe, per non sembrare inferiore ai suoi antenati e per farsi ritenere grande dai suoi successori, lasciando delle storie che lo ricordino; analogamente, dipendono dalla stessa causa anche le rimanenti malattie dell’anima, quali l’invidia, il rancore, l’odio ed altre simili.

Esse si accompagnano tutte a chi si appassiona per questo genere di vita; chi invece ne resta fuori, osservando le malattie umane da lontano, come da un osservatorio elevato, compiange la cecità di chi è schiavo di tali vanità e di chi dà grande importanza al benessere corporeo.

Quando infatti vede che un uomo è tenuto in considerazione per qualcosa che è proprio di questa vita e che si vanta della propria dignità, ricchezza o potenza, deride la stoltezza di chi s’inorgoglisce per queste cose e misura la durata massima della vita umana secondo il vaticinio pronunziato dal salmista.

Paragonando all’eternità infinita quest’intervallo brevissimo, commisera la vanità di chi si esalta per cose così meschine, basse e caduche.

Che cosa è mai degno delle lodi di questo mondo?

Forse l’onore, ricercato da molti?

Ma aggiunge esso qualcosa a coloro che ne godono?

L’uomo mortale resta mortale, venga onorato o no.

Oppure l’essere proprietari di molti iugeri di terra?

Ma, a parte il fatto che lo stolto ritiene suo ciò che non lo è, a quale sbocco buono questa proprietà conduce i proprietari?

A quanto sembra, per colpa della grande avidità s’ignora che la terra e ciò che la occupa appartengono in realtà al Signore.

Dio è infatti il re di tutta la terra, mentre quella passione che è la cupidigia dà agli uomini il falso nome di « signori » su cose che non sono di loro proprietà.

Come dice il saggio ecclesiaste, « la terra resta » a servire per l’eternità tutte le generazioni, nutrendo in periodi successivi coloro che vi si trovano.

Gli uomini invece, pur non essendo padroni neanche di se stessi, pur entrando nella vita quando neanche lo sanno, secondo il volere di chi ve li conduce, pur separandosene quando non lo vogliono, spinti dalla loro grande vanità pensano di essere i padroni della terra: eppure, mentre questa rimane sempre lì dove si trova, essi nascono e muoiono a seconda dei periodi.

Colui che considera tutto questo e che quindi disprezza ciò che gli uomini tengono in gran conto, che ama soltanto la vita divina e che sa che « ogni carne è erba ed ogni gloria umana è come il fiore dell’erba », quando mai riterrà degna di considerazione l’erba che oggi c’è e che domani non ci sarà più?

Chi osserva le cose divine sa bene che le cose umane non solo non sono stabili, ma non resisterebbero neanche se tutto il mondo se ne stesse quieto per sempre.

Egli disprezza quindi la vita presente come una cosa a lui estranea e caduca: come dice il Salvatore, il cielo e la terra passeranno e tutto è necessariamente soggetto alla trasformazione.

Finché si trova sotto la tenda, come dice l’apostolo mostrando la caducità delle cose terrene, si lamenta della lunghezza dell’esilio sotto il peso della vita presente: così fece anche il salmista, quando parlò nelle sue odi divine.

Vivono infatti veramente nelle tenebre coloro che soggiornano come stranieri in questa vita sotto le tende: per questo il profeta, lamentandosi della lunghezza dell’esilio, dice: « Ohimè, com’è lungo il mio esilio! ».

Egli fa risalire alla tenebra la colpa del suo abbattimento [ dai sapienti abbiamo appreso che in ebraico « tenebra » si dice « chedar » ].

Non è forse vero che gli uomini, come se fossero vittime di una cecità dovuta alla notte, non riescono a riconoscere bene l’inganno e non sanno che tutte le cose che sono ritenute pregevoli nella vita e tutte quelle a cui si attribuisce un valore contrario sono tali soltanto nell’opinione degli stolti?

In se stesse esse non significano proprio nulla: né l’oscurità dei natali, né la nobiltà della stirpe, né la fama, né la celebrità, né le narrazioni antiche, né l’orgoglio per i beni presenti, né il dominio su altri, né l’essere sottomessi riveste una qualche importanza.

Le ricchezze, il lusso, la povertà, l’indigenza, tutte le cose spiacevoli della vita sembrano avere un gran peso agl’incolti, che le valutano con il criterio del piacere.

A chi nutre pensieri più elevati tutto sembra invece dello stesso valore e nulla più prezioso di altre cose: il corso della vita si compie similmente attraverso circostanze contrarie, ed in entrambe le situazioni c’è un’uguale possibilità di vivere bene o di vivere male; come dice l’apostolo, si può vivere bene o male « sia con le armi di offesa che con quelle di difesa, sia con la fama che con il disonore ».

Chi è puro di mente e considera la verità trascendente percorre il suo cammino in modo giusto, trascorrendo il periodo di tempo che gli è stato assegnato dalla nascita alla morte senza farsi indebolire dai piaceri e senza farsi abbattere dalle avversità: secondo l’abitudine dei viandanti, bada a ciò che gli sta dinanzi e tiene poco conto di ciò che gli si presenta via via.

I viandanti sono soliti infatti dirigersi verso la meta del loro viaggio sempre allo stesso modo, sia che attraversino prati e boschi, sia che debbano superare luoghi più deserti e più aspri: non si lasciano trattenere dai piaceri, né trovano un ostacolo nei dolori.

Analogamente, l’uomo virtuoso si dirige verso la meta prefissata senza voltarsi indietro: non si mette a guardare nessuna delle cose che gli si presentano durante il cammino, ma attraversa la vita contemplando soltanto il cielo ed indirizzando la sua nave verso la meta superiore come un bravo pilota.

Chi invece nutre dei pensieri più volgari, chi guarda in giù ed abbassa la sua anima verso i piaceri corporei così come fanno le bestie con il pascolo, chi vive solo per il ventre e per ciò che viene dopo di esso allontanandosi dalla vita di Dio ed estraniandosi dai patti del messaggio divino, chi non concepisce altro bene al di fuori del piacere corporeo, proprio costui, assieme a tutti coloro che gli somigliano, è colui che, come dice la Scrittura, cammina nella tenebra e scopre i mali di questa vita: questi sono rappresentati dall’avidità, dalla sfrenatezza delle passioni, dalla mancanza di misura nel godimento dei piaceri, dal desiderio di comando, dalla vanagloria e dalla schiera di tutte le altre passioni che albergano nell’uomo.

In un certo senso i vizi sono attaccati l’uno all’altro, e nell’uomo in cui se ne trova uno entrano anche i rimanenti come se vi fossero attirati da un’ineluttabile forza naturale.

Lo stesso accadde nelle catene: se si tira un’estremità, neanche i rimanenti anelli possono star fermi, e l’anello che si trova all’altro capo della catena si muove assieme al primo, giacché il movimento si propaga attraverso tutti gli anelli contigui.

Allo stesso modo le passioni umane sono intrecciate per natura l’una all’altra, e se una di esse prende il sopravvento, anche il resto della serie entra nell’anima.

Se è proprio necessario descriverti questa catena di mali, supponi che una persona, vittima di un determinato piacere, venga sopraffatta dalla passione per la vanagloria: alla vanagloria segue il desiderio di avere di più, giacché non si può diventare insaziabili, se la vanagloria non guida verso quest’altra passione.

Il desiderio di superare e di eccellere accende quindi o l’ira verso chi gode di uguali onori, o l’arroganza verso l’inferiore o l’invidia verso il superiore, e l’invidia è seguita dall’ipocrisia; all’ipocrisia segue l’asprezza, e a quest’ultima la misantropia.

La conclusione di tutto questo è la condanna che porta alla Geenna, alla tenebra e al fuoco.

Vedi la catena dei mali, e come tutti sono allacciati ad uno solo, la passione accesa dal piacere?

Una volta che tali vizi sono entrati l’uno dopo l’altro nella vita umana, vediamo che esiste un unico modo per liberarsene, suggerito dalle Scritture ispirate da Dio: la separazione da una simile vita, che tiene legata a sé la serie di questi vizi incurabili.

Chi ama trattenersi a Sodoma non può infatti sfuggire alla pioggia di fuoco, e chi prima esce da Sodoma e poi si rivolta a guardare la sua distruzione non può non tramutarsi in una colonna di sale; parimenti, non può liberarsi dalla schiavitù dell’Egitto chi non lascia l’Egitto - parlo di questa vita sommersa dai vizi - e chi non attraversa non il Mar Rosso, ma il mare nero e tenebroso della vita.

Se, come dice il Signore, la verità non ci libera e persistiamo nella schiavitù del vizio, come potrà ritrovarsi nella verità colui che va in cerca della menzogna e che si rivolta negli errori della vita?

Come potrà sfuggire a questa schiavitù colui che sottomette la propria vita alle necessità naturali?

Il nostro discorso su quest’argomento potrà risultare più chiaro con un esempio.

Come un fiume reso più violento dalla piena invernale, quando trascina nella corrente conformemente alla propria natura i legni, le pietre e tutto ciò che gli si presenta, è insidioso e pericoloso solo per chi gli si trova vicino, mentre sembra scorrere tranquillo a chi sta attento a starsene lontano, così solo colui che si epone al turbine della vita la deve sopportare ed è vittima dei vizi che lo colpiscono: la natura, gonfia dei mali della vita, seguendo il suo corso non può non attaccarli a coloro che vi camminano.

Chi invece, come dice la Scrittura, abbandona questo torrente e l’acqua instabile, resta completamente al di fuori « della portata dei denti della vita » ( così si esprime il testo dell’ode ): come un passero, sfuggito alla trappola con le ali della virtù.

Poiché, sempre per restare nel paragone da noi fatto del torrente, la vita umana trabocca di ogni genere di travagli e di asprezze, e nel suo corso si riversa sempre lungo il pendio naturale; poiché quindi nulla di ciò che si cerca in essa rimane fermo ad aspettare l’appagamento di chi desidera, e tutto ciò in cui ci s’imbatte in un attimo si avvicina e corre via dopo averci toccato; poiché ciò che ci viene sempre dinanzi sfugge alla nostra percezione data la rapidità del suo passaggio, mentre lo sguardo resta frastornato dalla corrente che gli si presenta; per tutte queste ragioni sarebbe utile tenersi lontani da questa corrente, onde evitare di farci sommergere da ciò che è instabile e di trascurare ciò che resta fisso.

Com’è possibile che chi si è affezionato ad una delle cose di questa vita continui ad avere fino alla fine ciò che desidera?

Quale delle cose che vengono più ricercate rimane sempre la stessa?

Quale rigoglio di giovinezza? Quale felice possesso di forza e di bellezza?

Quale ricchezza? Quale gloria? Quale signoria?

Non è forse vero che tutte queste cose dopo una breve fioritura si dileguano e si risolvono nei loro contrari?

Chi è vissuto sempre nella giovinezza? A chi la forza è durata fino alla fine?

E per quanto riguarda il fiore della bellezza, la natura non l’ha fatto forse più effimero dei fiori che appaiono in primavera?

Questi ultimi germogliano quando giunge la loro stagione, e dopo essersi appassiti per un breve periodo sono di nuovo rigogliosi; quindi scompaiono, per poi rifiorire e mostrare anche l’anno successivo la bellezza di oggi.

Nel caso invece della fioritura umana, la natura la spegne dopo averla mostrata una sola volta nella primavera della giovinezza, distruggendola nell’inverno della vecchiaia.

Allo stesso modo tutte le altre cose, dopo avere ingannato per un breve tempo i sensi corporei, scorrono via e vengono avvolte dall’oblio.

Poiché tali vicissitudini prodotte da ineluttabili leggi naturali addolorano profondamente chi si è affezionato al mondo, una sola è la via per sfuggire a questi mali: non attaccare la propria anima a nessuna delle cose che sono soggette a cambiamenti, e staccarsi il più possibile da ogni commercio con la vita passionale e carnale; per meglio dire, ci si deve liberare da ogni affezione per il proprio corpo, per non andare soggetti alle vicissitudini della carne vivendo secondo la carne.

Questo significa vivere soltanto con l’anima ed imitare per quanto è possibile il tipo di vita delle potenze incorporee, che non prendono né moglie né marito: la loro unica attività, la loro unica preoccupazione, la loro unica perfezione consiste nel contemplare il padre dell’incorruttibilità e nell’abbellire il proprio aspetto prendendo come modello la bellezza dell’archetipo, che imitano nella misura a loro consentita.

Conformandoci al pensiero della Scrittura, possiamo quindi affermare che la verginità è stata data all’uomo come una collaboratrice ed un aiuto per mettere in pratica questo modo di vedere e soddisfare questo alto desiderio.

E come nelle altre occupazioni le varie arti sono state concepite perché ciascuno degli scopi perseguiti potesse essere raggiunto, così, a mio avviso, la pratica della verginità è un’arte ed una facoltà della vita più divina, che insegna a coloro che vivono ancora nel corpo a rendersi simili alla natura incorporea.

V. L’assenza di passioni nell’anima è più importante della purezza del corpo

In questo tipo di vita si deve fare di tutto perché la parte più alta dell’anima non venga avvilita dalla rivolta dei piaceri, e perché il nostro pensiero, invece di spaziare nelle regioni superiori e di guardare in alto, non venga trascinato in giù verso le passioni della carne e del sangue.

Come può infatti esso contemplare con occhi liberi la luce intelligibile che gli è affine se resta inchiodato in basso ai piaceri carnali e se indulge ai desideri propri delle passioni umane, mostrando una propensione per la materia che è il frutto di un preconcetto cattivo e privo di disciplina?

Come gli occhi dei porci che la natura fa volgere in basso ignorano le meraviglie celesti, così l’anima che è attirata dal corpo non è più in grado di contemplare il cielo e le bellezze superiori perché si volge verso la parte più bassa e bestiale della natura.

L’anima libera e sciolta, per poter contemplare nel migliore dei modi il piacere divino e beato, non deve volgersi verso nessuna delle cose terrene e non gustare nessuno di quelli che l’opinione propria della vita comune spaccia per piaceri; al contrario, essa trasferisce il suo impulso amoroso dalle cose materiali alla contemplazione intelligibile ed immateriale delle bellezze.

La verginità del corpo è stata concepita proprio perché potesse realizzarsi tale disposizione d’animo: la sua funzione precipua è quella di far dimenticare all’anima i movimenti passionali della natura e d’impedire ai bassi bisogni della carne di trovarsi in uno stato di necessità.

Una volta liberatasi da questi, l’anima non correrà più il rischio di abbandonare e d’ignorare - abituandosi a poco a poco alle cose che sembrano permesse da una legge naturale - quel piacere divino e genuino che solo la purezza dell’elemento razionale che ci guida può perseguire.

VI. Elia e Giovanni seguirono la severa regola di questo tipo di vita

Mi sembra quindi che il grande profeta Elia e colui che visse successivamente « nello spirito e nella potenza di Elia », « il più grande dei nati dalle donne », abbiano insegnato con l’esempio della loro vita soprattutto una cosa, se si vuol prescindere da tutte le altre alle quali la loro storia allude velatamente: chi si sofferma nella contemplazione dell’invisibile deve separarsi dalla concatenazione dei fatti che è propria della vita umana, per non lasciarsi confondere e non errare nel suo giudizio sul vero bene, abituandosi agl’inganni prodotti dalle sensazioni.

Entrambi infatti fin dalla loro giovinezza si estraniarono dalla vita umana e si collocarono per così dire al di fuori della natura, sia perché disprezzarono i cibi e le bevande più abituali e più in voga sia perché si misero a vivere nel deserto: poterono così conservare il loro udito al riparo dai rumori e la loro vista al riparo da ogni divagazione, mentre il loro gusto rimase semplice e non sofisticato, giacché entrambi soddisfacevano i propri bisogni con ciò che si presentava loro.

Riuscirono in tal modo a realizzare un’effettiva tranquillità e serenità che non conosceva disturbi esterni ed elevarsi a quell’alto livello di grazia divina che la Scrittura ricorda a proposito di entrambi.

Elia, divenuto una specie di amministratore dei beni divini, era padrone di chiudere ai peccatori e di aprire ai penitenti a sua discrezione i doni del cielo; per quanto riguarda Giovanni, il divino racconto non parla di nessuna di queste meraviglie, ma « chi guarda le cose in segreto » ha testimoniato che in lui la grazia era presente più che in qualsiasi altro profeta.

Ciò avvenne forse perché essi dall’inizio alla fine consacrarono al Signore i loro desideri, che seppero mantenere puri e scevri da ogni affezione materiale, e non indulsero né all’amore per i figli, né alle preoccupazioni per la moglie né ad altri pensieri umani; giacché non ritenevano di doversi preoccupare del necessario nutrimento quotidiano e si mostravano superiori alla dignità data dalle vesti, soddisfacevano i propri bisogni con improvvisazioni, ricorrendo a ciò che trovavano: l’uno si riparava con pelli di capra, l’altro con pelo di cammello; a mio parere, non sarebbero giunti a tanta grandezza se si fossero fatti rammollire dal matrimonio, abituandosi ai piaceri corporei.

Tutto questo, come dice l’apostolo, non è stato scritto senza scopo, ma perché venissimo spronati a regolare la nostra vita secondo la loro.

Qual è dunque l’insegnamento che possiamo ricavarne?

Chi vuole unirsi a Dio imitando i santi non deve soffermare il proprio pensiero su nessuna occupazione materiale, giacché se lo lascia disperdere in varie direzioni non è più in grado di dirigere verso Dio la propria mente ed i propri desideri.

Penso di poter spiegare quest’insegnamento più chiaramente con un esempio.

Supponiamo che dell’acqua sgorgata da una sorgente si disperda a caso in vari rivoli.

Finché scorre così, essa non si rivela adatta a soddisfare nessun bisogno dell’agricoltura, giacché la sua dispersione in molti rigagnoli fa sì che ciascuno di questi sia povero, poco efficiente, lento e senza forza.

Se invece questi rivoli confusi fossero riuniti insieme e ciò che era disperso in molte direzioni venisse raccolto in modo da formare un unico corso, quest’acqua resa abbondante e vigorosa potrebbe essere usata per molti scopi utili.

Allo stesso modo mi sembra che si comporti l’intelligenza umana: se si diffonde dappertutto, disperdendosi nel suo corso in ciò che piace sempre agli organi sensoriali, non possiede una forza sufficiente per dirigersi verso il vero bene; se invece venisse richiamata indietro, e riunita e tenuta insieme senza potersi più disperdere, in modo da muoversi secondo l’energia che le è propria e che la natura le ha dato, nulla più le impedirebbe di elevarsi e di toccare le verità degli esseri.

Come l’acqua stretta in un condotto viene spinta spesso verso l’alto da una pressione proveniente dal basso senza potersi disperdere, benché il suo movimento naturale la porti ad andare piuttosto verso il basso, così anche la mente umana, quando è serrata da ogni parte dalla continenza come da uno stretto condotto, è portata dal suo movimento naturale verso il desiderio delle realtà più alte e non può più disperdersi.

Ciò che è in perenne movimento e che ha ricevuto dal creatore tale proprietà naturale non può mai stare fermo, e non avendo più la possibilità di muoversi verso le cose vane non può non dirigersi tutto verso la verità: le vie che portano alla futilità gli sono sbarrate da ogni parte.

Analogamente, vediamo anche che nei crocicchi i viandanti non si sbagliano sulla giusta via da percorrere quando evitano di andare vagando per altre strade che hanno in precedenza imparato.

Come colui che viaggia riesce a mantenersi sul giusto cammino se si tiene lontano dai sentieri che lo fanno smarrire, così il nostro pensiero può riconoscere le verità degli esseri se abbandona ogni vanità.

Il ricordo di questi grandi profeti sembra dunque insegnarci proprio a non farci prendere prigionieri dalle cose che vengono ricercate nel mondo.

Il matrimonio è proprio una di queste: piuttosto, esso è l’inizio e la radice della ricerca della vanità.

VII. Il matrimonio non va annoverato tra le cose condannabili

Nessuno pensi con questo che noi intendiamo disconoscere la funzione del matrimonio: non ignoriamo che esso non è privo della benedizione di Dio.

Poiché però ha un difensore sufficiente nella comune natura umana che infonde un’inclinazione naturale verso tale genere di cose in tutti coloro che sono venuti alla luce tramite l’atto coniugale, mentre la verginità va contro la natura, sarebbe superfluo scrivere una diligente esortazione al matrimonio mettendo in evidenza il piacere, il suo difensore contro cui difficilmente si combatte, a meno che non ci obbligassero a fare un discorso simile coloro che sfigurano gl’insegnamenti della Chiesa e che l’apostolo chiama « marchiati nella propria coscienza »: queste persone, lasciata la strada dello spirito per l’insegnamento dei demoni, imprimono nei loro cuori come delle piaghe e delle bruciature, provando ribrezzo per le creature di Dio come se fossero cose nefande e chiamandole incoraggiamento ai mali, causa dei mali e così via.

« Ma perché devo giudicare chi sta fuori? », dice colui che ha parlato sinora.

Essi si trovano veramente fuori del palazzo della dottrina misterica: « alloggiano » non « nel riparo di Dio » ma nella mandria del maligno, « prigionieri del suo volere » come dice l’apostolo; per questo non comprendono che, se ogni virtù si trova nel mezzo, la deviazione verso gli estremi opposti è un male: solo chi riesce a trovare sempre un punto intermedio tra il rilassamento e la tensione riesce a distinguere la verità dal vizio.

Il mio discorso diverrà forse più chiaro se lo spiegherò con degli esempi concreti.

La viltà e la temerarietà sono ritenuti due mali opposti, l’una per difetto di sicurezza, l’altra per eccesso, e comprendono al centro il coraggio.

Analogamente, l’uomo pio non è né ateo né superstizioso: in questi due casi è un’uguale empietà non credere in nessun dio o credere in molti dèi.

Vuoi capire meglio questa dottrina con altri esempi?

Chi evita la parsimonia e la prodigalità, proprio rifiutando i vizi contrari riesce a realizzare la libertà morale: la libertà consiste infatti proprio nel non restare indifferenti di fronte alle spese smodate ed inutili e nel non mostrarsi gretti nei confronti dei bisogni.

Così anche a proposito di tutte le altre cose - per non esaminarle una per una - la ragione riconosce la virtù nel punto di mezzo tra i contrari.

Anche la temperanza è un punto di mezzo, e mostra chiaramente le deviazioni verso i vizi opposti: chi non è più forte d’animo, divenendo facile preda della passione edonistica ed allontanandosi quindi dalla strada della vita pura e temperante, scivola verso « le passioni dell’ignominia »; chi invece va al di là della parte praticabile della temperanza e supera il punto intermedio rappresentato dalla virtù, viene trascinato in basso dall’« insegnamento dei demoni » come in un precipizio, « marchiando » la propria coscienza, come dice l’apostolo.

Nel momento in cui definisce il matrimonio una cosa abominevole, gl’insulti che lancia contro di esso lo marchiano: se, come dice un passo del Vangelo, l’albero è cattivo, anche il frutto sarà del tutto degno dell’albero.

Se l’uomo è il germoglio ed il frutto della pianta del matrimonio, le offese recate a quest’ultimo ricadono tutte su chi le fa.

Costoro, bollati nella coscienza e ricoperti di lividi dall’assurdità della loro dottrina, possono essere confutati con questi argomenti.

Noi invece diciamo questo a proposito del matrimonio: anche se la ricerca ed il desiderio delle cose divine devono stare al primo posto, colui che sa fare un uso temperante e misurato del matrimonio non deve disprezzare i servizi che esso può rendere.

Così si comportò il patriarca Isacco: non nel fiore della giovinezza, affinché il matrimonio non diventasse un veicolo di passione, ma quando essa si era già consumata, accettò di vivere con Rebecca perché il suo seme fosse benedetto da Dio; assolti i suoi obblighi nei confronti del matrimonio fino al primo parto, tornò a dedicarsi interamente alle cose invisibili chiudendo i sensi corporei; a questo mi sembra che voglia alludere la storia sacra, quando parla della pesantezza degli occhi del patriarca.

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