Vita di Mosé

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La manna

Il Verbo fatto carne per essere nostro cibo

Dopo che abbiamo considerato il passaggio del mare, la conversione dell'acqua amara in acqua buona per soddisfare la sete dei viandanti della virtù, la sosta confortevole presso le sorgenti all'ombra delle palme e l'assaggio dell'acqua scaturita dalla pietra, non dobbiamo lasciare inosservato il fatto che i cibi portati dall'Egitto vengono a finire.

Ma fu appunto in seguito alla totale scomparsa delle vettovaglie prese da una terra straniera quale l'Egitto, che discese dal cielo un cibo vario e uniforme a un tempo.

Uniforme all'aspetto, esso variava nel gusto che era adattato alla voglia di ciascuno.

Da questo fatto dobbiamo apprendere a liberare la nostra vita da abitudini profane, svuotando il sacco dell'anima da ogni cibo corrompitore con cui si sostenevano gli Egiziani, per accogliere in un'anima pura il cibo che scende dall'alto.

Esso non è frutto di un seme giunto a maturazione per il lavoro dell'agricoltore, ma è pane già pronto, che non ha avuto bisogno né di aratura né di semina e, disceso dal cielo, è apparso sul terreno.

In questo pane devi vedere simboleggiato il vero cibo, quel pane celeste che è disceso tra noi in una sostanza corporale.

In realtà come potrebbe diventare nostro cibo una sostanza mancante di corpo?

Ciò che non è senza corpo, evidentemente è un corpo.

Ma né aratura né seminagione hanno prodotto la materia di questo pane, eppure ne vediamo ripieno il terreno, senza che sia stato per nulla smosso, per nutrire chi ha fame di cibo divino.

Con il miracolo della manna gli Ebrei appresero anzitempo il mistero della nascita verginale.

Il Verbo si offre alle anime in misura diversa

Questo pane non derivato dal lavoro agricolo, è il Verbo la cui forza nutritiva dipende dalle capacità di chi se ne ciba.

Il Verbo infatti non sempre si presenta come pane ma anche in forma di latte e carni e legumi o altro che possa convenire e piacere a chi lo accoglie.48

Proprio in questo senso il divino Apostolo Paolo, fornendoci una tavola copiosissima, offre ai più perfetti un insegnamento in forma di cibo sostanzioso quale la carne, mentre dà ai più deboli un insegnamento paragonabile ai legumi e dà ai fanciulli un insegnamento paragonabile al latte ( Eb 5,12; Rm 14,2 ).

La temperanza

Anche gli altri fatti miracolosi che la Scrittura riferisce intorno a quel cibo, contengono un insegnamento relativo alla vita virtuosa.

La Scrittura infatti ci informa che tutti avevano un'identica porzione di cibo, non superiore né inferiore al necessario, indipendentemente dalla maggiore o minore robustezza fisica di chi lo raccoglieva.

A me pare di poter scorgere qui un consiglio utile a tutti.

I mezzi di sussistenza fornitici dalla natura non devono superare il limite del bisogno.

Dobbiamo anche tener presente che l'unica misura data dalla natura circa l'uso del cibo è la quantità necessaria al sostentamento di un giorno.

Se fossero preparati e messi in tavola cibi in quantità superiore al bisogno, il ventre non avrebbe la capacità di allargarsi e allungarsi oltre le proprie misure.

Anche quelli che vollero raccogliere la manna in quantità superiore, s'accorsero di non averne a disposizione più degli altri ( mancava del resto il posto dove conservarla ) e coloro che ne presero poca, non si sentirono menomati, perché la quantità da essi raccolta corrispondeva pienamente ai loro bisogni, che erano inferiori a quelli degli altri.

Avvertimenti agli avari

Quel superfluo, accumulato da alcuni per ingordigia e trasformatosi in un semenzaio di vermi, dice ad alta voce agli avari che i loro averi superflui, frutto di avarizia, si trasformeranno in vermi nella vita futura, a dispetto della loro brama di accumulare.

Quanto a noi invece, la vita futura è oggetto di speranza.

Il lettore saprà scorgere nei vermi ricordati dal racconto il verme sempre operante dell'avarizia.

Seminare per la vita futura

Si può ricavare un insegnamento anche dal fatto che il superfluo, raccolto per il giorno di sabato, non marciva.

Bisogna infatti accumulare i beni che, anche ammassati, non subiscono corruzione.

Essi ci serviranno quando, terminata questa vita di preparazione, ci troveremo nella forzata inazione che segue la morte.

Il giorno che precede il sabato è chiamato parasceve perché serve di preparazione al sabato.

Esso simboleggia la vita presente, durante la quale prepariamo quanto ci servirà nella futura.49

Là non eseguiremo più nessuna delle opere che possiamo esercitare qui, non l'agricoltura, non il commercio, non il mestiere delle armi; nessuna delle presenti attività ci sarà più consentita, perché resteremo a riposo, godendo i frutti dei semi gettati nel terreno di questa vita: frutti perfetti se i semi gettati quaggiù furono buoni; frutti guasti e letali, se tali sono cresciuti per negligenza di chi li ha piantati.

« Chi semina per lo spirito dice la Scrittura dallo spirito mieterà vita eterna; chi semina per la carne, dalla carne mieterà corruzione » ( Gal 6,8 ).

Merita propriamente il nome di parasceve solo quella preparazione che mira a una migliore riuscita nel bene.

Solo questa è sanzionata dalla legge che vuole farci mettere da parte beni non soggetti a corruzione.

Non è parasceve e non ne merita il nome ogni intento contrario al bene.

Nessuno potrebbe chiamare con il nome di parasceve la mancanza di beni; questa dovrebbe piuttosto denominarsi assenza di preparazione.

La Scrittura prescrive perciò i preparativi destinati a una migliore riuscita nel bene, lasciando intendere, con il fatto di non parlarne, che non esiste una preparazione contraria a questo scopo.

Come il capo di un esercito, arruolando i soldati, prima paga il soldo e poi consegna loro i vessilli di guerra, così i militi della virtù prima ricevono il mistico soldo e poi, comandati da Giosuè, successore di Mosè, scendono in guerra contro i nemici.

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48 È questa una nozione centrale dell'antropologia di Gregorio: la comunicazione di Dio viene proporzionata alle capacità interiori della creatura ragionevole.
49 Già anticamente il sabato era interpretato come simbolo della vita eterna.
Così Ireneo ( Adversus haereses, IV, 6,1 ) e Origene nelle Omelie sull'Esodo ( VII, 6 ).