Spirit/Isecolari/NS04/NS04.txt Profeti una missione a rischio Presentazione In un tempo in cui, per la caduta delle ideologie e lo smarrimento dei valori, sembra farsi sere più acuta la ricerca di significati e di certezze al di là dell'effimero e dell'immediato, spazi nuovi e imprevedibili si aprono alla testimonianza e all'impegno di coloro che hanno fatto del Vangelo la propria norma di vita. È questa considerazione che ci ha spinto a riflettere sulla nostra missione profetica che, germinata nel Battesimo e rafforzata nella consacrazione, appare oggi come una valida risposta alle attese di tanti fratelli. Ma poiché la nostra è una scelta di radicalità evangelica da vivere nel mondo, con tutti i rischi che comporta una piena secolarità nell'attuale situazione storica, ci domandiamo quali condizioni possono garantire al nostro impegno di presenza e di servizio nelle realtà temporali una autentica forza profetica. Il primo contributo dal titolo " Essere segni profetici " ( Canepa ) è un tentativo di attualizzare nell'oggi, con particolare riferimento al nostro carisma, il significato biblico-teologico della " profezia ", che è presente con accentuazioni diverse lungo tutto il percorso della storia della salvezza. Segue una breve " antologia " di brani tratti dal magistero pontificio rivolto agli Istituti Secolari, in diverse occasioni, dagli anni fervidi dell'immediato post-concilio fino ad oggi: una autorevole conferma del fine specifico della nostra vocazione di secolarità consacrata, che il Primo feliciter ( 1948 ) sintetizzava nella celebre affermazione " Tutta la vita dei mEmbri degli Istituti Secolari … deve tradursi in apostolato ". L'impegno missionario è dunque la nostra ragion d'essere, e lo viviamo con gioiosa consapevolezza cogliendone tutte le meravigliose opportunità nell'oggi della Chiesa e della società. Ma siamo anche consapevoli dei rischi che tale impegno comporta nella sua pratica realizzazione. Così De Palma ci mette in guardia circa il pericolo della dispersione e della frammentazione al quale siamo esposti nella vita frenetica del nostro tempo, cui non sfugge neppure il nostro operare per il Regno di Dio, e ci propone - come correttivo - l'acquisizione, o la crescita, di una salda coscienza dell'" essere ", partendo dalla propria realtà creaturale fino alla pienezza della propria identità cristiana. Continuando l'analisi dei rischi, Poma affronta il tema delle possibili degenerazioni del " fare ", indicando nel pragmatismo e nell'efficientismo due ricorrenti pericoli, sempre in agguato in una società utilitaristica, e conclude suggerendo alcuni preziosi orientamenti sapienziali che introducono alla successiva riflessione di Malaspina. Quest'ultima, richiamandosi ai valori perenni della spiritualità cristiana, indica alcuni fondamentali orientamenti spirituali e morali da coltivare, in vista di quella unità di vita da cui traspaiono, in armoniosa integrazione, incarnazione e trascendenza, presenza a Dio e presenza al mondo, tensione contemplativa e servizio dell'uomo. A conferma di tutto, nella seconda parte del volume vengono presentate alcune figure significative, che ci hanno lasciato una traccia luminosa di testimonianza profetica e, inoltre, una serie di esperienze attuali di impegno missionario sulle frontiere della nuova evangelizzazione, vissute in coerenza di vita tra l'Assoluto di Dio e la finitezza dell'umana vicenda. Maria Canepa Essere segni profetici di Maria Canepa Premessa Sembra che il tema della profezia torni a essere di particolare attualità nella Chiesa contemporanea. Sentiamo infatti parlare con frequenza di " dimensione profetica della Chiesa ", di " annuncio profetico ", di " segni profetici ": una terminologia che torna a far parte del linguaggio comune dei cristiani quasi per la riscoperta di un valore già tenuto in grande considerazione nella Chiesa primitiva, come traspare dal pensiero paolino ( 1 Cor 12-14; Rm 12,6; Ef 2,20; Ef 3,5; Ef 4,15 ). Qualche semplice nota esplicativa ci può aiutare a comprendere meglio il significato di questa espressione - profezia - e la sua portata soprannaturale. Che cos'è profezia Il termine " profezia " significa in generale " interpretazione " ( etimologicamente = parlare a nome di un altro ), o anche annunciare pubblicamente, ad alta voce ( e non tanto predire il futuro, come comunemente si crede ). In senso biblico: profezia è " visione ", " intelligenza " del disegno di Dio nella storia, è " annuncio della parola del Signore espressa con forza, senza mezzi termini " e, come tale, " manifestazione " della sua volontà. È dunque dono dello Spirito, carisma soprannaturale comunicato liberamente e gratuitamente da Dio, e non attitudine naturale proveniente da qualità umane. Come " intelligenza " e " manifestazione del disegno di Dio che si attua nella storia ", la profezia si definisce in rapporto alla storia della salvezza e alle sue tappe fondamentali: - nell'Antico Testamento è essenzialmente " promessa ", annuncio di una salvezza futura proclamata di generazione in generazione; - nel Nuovo Testamento è " presenza ", annuncio che la salvezza promessa si è compiuta in Gesù Cristo e che i tempi ultimi si sono già inaugurati; - nel tempo della Chiesa è " testimonianza ", annuncio di quanto si è già realizzato nel mistero di Cristo e di quanto si realizza, ormai, nella Chiesa e per mezzo della Chiesa in ogni credente in Cristo. La profezia del tempo della Chiesa riproduce i caratteri propri di questo tempo, che è contemporaneamente un " già " e un " non ancora ", conoscenza e non conoscenza, luce e oscurità, possesso e desiderio. In tal senso anche la storia umana acquista il suo vero significato, come " luogo " in cui Dio si rivela e compie il suo disegno di salvezza. Chi è il profeta È l'uomo dello Spirito, che, in forza del dono ricevuto, e sotto la guida dello stesso Spirito, è fatto capace di: - vedere ciò che altri non vedono, cioè intuire i progetti di Dio che si rivelano nel tempo e proclamarli al popolo; - farsi portavoce di Dio per manifestare la sua volontà con franchezza, contestando apertamente ciò che vi si oppone; - testimoniare con la vita, anche fino al martirio, la verità che Dio ha rivelato attraverso la sua Parola e il mistero di Cristo; - svolgere la sua missione nel presente, guardando al passato per " fare memoria " delle grandi opere compiute da Dio e aprendosi al futuro nell'attesa del compimento di ciò che Dio ha promesso per i tempi ultimi. 1. Profezia oggi Fatte queste semplici premesse di carattere culturale, vogliamo ora attualizzare questo tema applicandolo alla vita cristiana nel nostro tempo. Evidentemente, parlando di profezia dei cristiani, non intendiamo riferirci a quel dono particolare dato da Dio ad alcuni da Lui scelti secondo un suo disegno ( come ad esempio i profeti dell'Antico Testamento, o taluni membri della primitiva comunità cristiana, secondo quanto ci viene riferito dai testi sacri, o altre eminenti figure profetiche che segnano la storia della Chiesa lungo i secoli ). Intendiamo invece riferirci a quel dono che tutti i cristiani ricevono nel Battesimo con l'inserimento nel mistero pasquale, e cioè la partecipazione alla missione sacerdotale, profetica e regale di Cristo. Il secondo aspetto di tale partecipazione - l'aspetto profetico - è quello che ora interessa la nostra riflessione. I cristiani sono dunque chiamati ad essere profeti, oggi come ieri come domani, lungo tutto l'arco del " tempo della Chiesa " che va dalla Pentecoste alla Parusia. Una profezia che si caratterizza - già si è detto - come " testimonianza ": " … avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni … fino agli estremi confini della terra " ( At 1,8 ). Oggi nel linguaggio cristiano questo termine " testimonianza " sembra aver acquistato una valenza più forte che in passato ( un passato neppure molto lontano! ), forse anche per l'esigenza di autenticità e di concretezza che si riscontra nella sensibilità dei nostri contemporanei. Già Paolo VI affermava: " l'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni " ( EN 41 ). La nostra stessa esperienza ci conferma ampiamente questa autorevole affermazione. Ci accorgiamo infatti che la parola, i ragionamenti sono spesso incapaci di catturare l'attenzione e di colpire la sensibilità della gente, superficiale e distratta, mentre tutto ciò che le viene offerto come segno visibile, come gesto concreto e soprattutto come coerenza di vita, acquista un'immediata incisività e forza persuasiva, rendendo credibile anche ciò che viene annunciato con la parola. Questo, che per sé potrebbe ridursi a un semplice dato culturale tipico del nostro tempo, interessa chiaramente anche l'ambito della fede e della sua trasmissione. Il tempo in cui viviamo, soprattutto nel mondo occidentale, si caratterizza, per certi aspetti, come un tempo post-cristiano, segnato da " un crescente secolarismo e indifferentismo " che si manifestano prevalentemente nella forma di un " relativismo che abbraccia tanto la sfera della verità quanto quella dell'etica " ( Giovanni Paolo II, Assemblea generale dei Vescovi italiani, maggio '92 ). In questa realtà già cristiana ma oggi bisognosa di una nuova evangelizzazione, la Chiesa tutta è impegnata più di sempre a farsi profezia. In modo particolare i laici sono chiamati a essere profeti per la loro condizione esistenziale che li pone nel cuore del mondo, in mezzo alla gente, a condividere con tutti le vicende quotidiane, i rischi, le scelte, i drammi, le speranze. Non necessariamente l'essere profeti si manifesta attraverso gesti straordinari o comportamenti eccezionali ( anche se ciò non si esclude ), ma deve piuttosto trasparire, in modo permanente e significativo, da tutta la vita del cristiano, quando questa sia davvero posseduta dallo Spirito di Dio. Una vita che esprima amore e speranza, misericordia e perdono, purezza di cuore e capacità di soffrire per la giustizia, povertà e mitezza, che incarni - in una parola - il messaggio delle Beatitudini non può non inquietare e non provocare al cambiamento coloro che sono lontani da una tale esperienza! Sappiamo bene che non è facile, in un contesto culturale e sociale impregnato di materialismo, qual è quello odierno, tradurre lo spirito delle Beatitudini nei comportamenti pratici della vita personale, familiare, sociale, ma la scelta per il cristiano che voglia essere tale non ha alternativa: o essere " anima del mondo ", come si legge nella lettera a Diogneto ( celebre documento del II secolo ), in una coraggiosa fedeltà al Vangelo, o diventare occasione di scandalo attraverso l'ipocrisia e l'incoerenza. E poiché una tale testimonianza per essere profetica non può ridursi a momenti particolari, ma deve attraversare tutta la vita e non perdere di intensità lungo il cammino, essa non può che scaturire da una profonda comunione con Dio, in sintonia con l'esperienza di fede di tutta la comunità cristiana. 2. La nostra profezia Se tutti i cristiani in forza della loro vocazione battesimale sono chiamati a essere segni profetici nel mondo, tanto più questo si fa esigente per noi che abbiamo scelto - per grazia di Dio - di radicalizzare gli impegni del nostro Battesimo con la consacrazione secolare. Forse è venuto il momento, anche per le sollecitazioni che ci vengono dalla Chiesa e dalla storia, di riprendere coscienza di questa nostra responsabilità. Essere segni profetici, nel mondo … ma come? Gli ambiti, i tempi, i modi della nostra testimonianza e missione non sono certo classificabili, poiché vi è coinvolta tutta la nostra vita, dal piano dell'essere a quello del sentire e dell'operare. Tuttavia possiamo evidenziare alcune coordinate di fondo, sulle quali riflettere e anche verificarci, per misurare la nostra tensione a vivere in dimensione profetica la stupenda vocazione che abbiamo ricevuto: a) testimoniare la radicalità evangelica, cioè puntare su una chiara consapevolezza della forza profetica che i consigli evangelici, se vissuti in pienezza sulla linea del mistero pasquale partecipato nel Battesimo, hanno già in se stessi. Una castità assoluta vissuta come libertà del cuore e matura capacità di amare, che trova la sua piena e gioiosa realizzazione nell'amore sponsale per Cristo e nel dono di sé ai fratelli … Una povertà vissuta come scelta dell'essenziale sulle orme di Cristo povero, come rifiuto del potere e del privilegio, come solidarietà e condivisione con i poveri … Un'obbedienza vissuta come fedele adesione al progetto di Dio, come rispetto delle norme della convivenza civile, come esercizio di libertà responsabile, come umile e generoso servizio … tutto questo, se c'è, non può non porsi come segno e messaggio per gli uomini e le donne del nostro tempo. Si tratta dunque di incarnare i consigli evangelici, che pure sono un tesoro da custodire gelosamente nelle varie manifestazioni della vita, per offrire al mondo una testimonianza che sia contestazione della sua logica perversa e insieme proposta di uno stile di vita alternativo. b) Amare il nostro tempo, cioè vivere il presente come il tempo di Dio che è stato assegnato alla nostra generazione, ma insieme rifarci al passato - senza nostalgie o rifiuti - per trarne indicazioni feconde ma anche per romperne le incrostazioni; aprirci al futuro come promessa di un compimento progressivo del disegno di Dio, senza peraltro cedere alla tentazione del disimpegno o dell'evasione in sogni improbabili. Il presente da vivere nella concretezza e nella fedeltà si colloca così fra due poli: il passato da cui trarre ispirazione superandone i condizionamenti, il futuro da preparare con una creatività che porti a esplorare l'inedito e a inventare il nuovo. Questa dinamica del divenire che coinvolge tutti, ma che per il cristiano si fonda sulla fede, esige allora un costante atteggiamento di ricerca, una permanente disponibilità al cambiamento, una chiara consapevolezza del provvisorio e della necessità di dover reinterpretare a ogni svolta la trasformazione per approdare a sintesi sempre nuove. Ciò suppone una sorta di spiritualità da pellegrini o meglio ancora da nomade che impedisce di installarsi su posizioni acquisite, e consente di spostarsi là dove lo Spirito chiama, lasciando comodità e sicurezza e assumendo il rischio della precarietà e dell'imprevisto. Una spiritualità della tenda, che costringe a una essenzialità che è tipica di chi ha scelto la radicalità evangelica come condizione di libertà per il regno. E tutto questo è profezia. Amare il proprio tempo significa anche accettarlo con le luci e le ombre che lo caratterizzano, aperti alle nuove esigenze culturali e sociali, ma anche pronti alla denuncia profetica, alla presa di distanza dalle manifestazioni negative della modernità. Per questo occorre conoscerlo, questo nostro tempo, saperlo " ascoltare " e " leggere ", con mente aperta e cuore libero, per scorgervi, nella trama dei fenomeni e degli avvenimenti, quelle indicazioni che oggi chiamiamo " segni dei tempi ", i quali si manifestano come indicatori della storia di Dio in mezzo agli uomini. Non sempre essi sono immediatamente e chiaramente visibili, proprio per l'estrema complessità che caratterizza la società contemporanea, perciò vanno letti e interpretati alla luce del Vangelo e sotto la guida dello Spirito. A una tale lettura e interpretazione a detta di un autore contemporaneo, è idoneo tanto il " dottore " o teologo, quanto e soprattutto il " profeta ". c) Vivere la dimensione della laicità, cioè prendere sul serio il mondo, il che concretamente vuol dire rispettare la legittima autonomia e le leggi proprie di ogni realtà ( GS 36 e GS 43 ); accogliere e valorizzare la diversità apprezzando i semi di verità presenti in ogni uomo e in ogni situazione; promuovere mediazione e dialogo nel rispetto di tutte le posizioni culturali, politiche, religiose, senza tuttavia rinunciare alla propria identità cristiana, per favorire, al di là delle opposte tentazioni di integrismo e di conformismo, rincontro tra fede e cultura, fede e storia, fede e religione Laicità è anche saper collaborare con tutti, credenti e non, partendo dai valori comuni, per il bene dell'uomo e la costruzione di una società più giusta e più umana. Tutto ciò implica una serie di atteggiamenti maturi fondati su una robusta formazione umana e arricchiti dalla fede: ascolto, comprensione, fiducia, discernimento critico, ricerca umile e disinteressata della verità, onestà intellettuale. Laicità significa ancora amare il mondo e accoglierlo così com'è, senza voler ignorare di esso ciò che ci piace meno, ci disturba, ci fa paura …, per capire le sue logiche e tentare di capovolgerle dal di dentro con la forza evangelica del lievito, del sale, della luce, del grano che muore per dare frutto; significa infine cercare di capire il linguaggio, la sensibilità, i modi espressivi e comunicativi dell'uomo contemporaneo per essere a nostra volta comprensibili. Ma c'è anche un altro aspetto che ci interessa riflettendo sulla laicità; esso riguarda l'impegno a vivere responsabilmente questa dimensione anche nell'ambito ecclesiale poiché in esso siamo laici a pieno titolo, anche se consacrati. Ciò significa che siamo chiamati - per vocazione - a portare il nostro contributo alla crescita della comunità cristiana, facendoci animatori e forza trainante di un laicato maturo, consapevole della missione affidata ai laici nella Chiesa di oggi ( Documenti conciliari sui laici e ChL ), offrendo una qualificata collaborazione nei vari settori della vita ecclesiale ( evangelizzazione e catechesi - liturgia e sacramenti - servizio di carità ), e in particolare non facendo mancare la nostra presenza nei vari organismi di partecipazione per portarvi la nostra esperienza del mondo e dei suoi problemi. Anche questo nostro stile laicale nell'ambito della Chiesa può acquistare valore di segno profetico specialmente quando si verifichino nella nostra comunità cristiana segnali di chiusura e di stanchezza. d) Spendere la vita nel servizio, cioè aprirci agli altri, farci solidali, mettere a disposizione risorse, capacità, competenze, tempo, disponibili sempre ad assumerci responsabilità e a prendere iniziative per la soluzione dei problemi, specialmente a favore dei fratelli più poveri. Molti, anche non credenti, oggi fanno questo, malgrado il dilagare di una cultura individualistica che induce a chiudere il cuore nell'egoismo. Ma il cristiano ha qualcosa di più da dare, qualcosa che lo distingue per uno stile diverso e più alto nel suo servizio ai fratelli: è l'amore-carità, che nasce dall'amore di Dio e lo rivela al mondo. Un amore-carità che non cerca gratificazioni, che dà senza misurare, che sa intuire il bisogno del fratello e andargli incontro concretamente facendosi carico della sua situazione fino a pagare di persona, che è attento alle esigenze più profonde dell'uomo, al di là di quelle materiali, per offrire risposte ulteriori e prospettive liberanti. Questo è lo stile che caratterizza il servizio del cristiano qualunque ne sia la forma concreta, il livello, l'ampiezza: dalle espressioni individuali ( impegno professionale, opere di misericordia ) a quelle sociali ( volontariato civile o ecclesiale ) a quelle politiche ( là dove si decidono le sorti del bene comune ). In questi " territori " il servizio all'uomo assume una dimensione sociale di testimonianza che può essere profetica in prospettiva estremamente attuale: come promozione della persona e tutela dei suoi diritti, come denuncia delle ingiustizie e delle illegalità, come collaborazione alla costruzione della città terrena secondo le attese dell'uomo. Non per nulla la politica è stata definita " la forma più alta di carità ". Anche in questo campo si tratta per noi di vivere la radicalità evangelica che professiamo. Infatti, afferma il documento della CEI Evangelizzazione e testimonianza della carità: " Sempre e per natura sua la carità sta al centro del Vangelo " ( n. 9 ). E non c'è nulla di più evangelico dell'attitudine al servizio. Dobbiamo credere al valore profetico della testimonianza della carità, specialmente oggi quando la credibilità del messaggio cristiano sembra legarsi sempre di più alla concretezza e alla gratuità del gesto. Leggiamo ancora nel citato documento: " Solo dopo essere stato raggiunto dal segno tangibile della carità ( l'uomo di oggi ) si lascia guidare a scoprire la profondità e le esigenze dell'amore di Dio " ( n. 24 ) e ancora: " Ogni autentico gesto di carità rappresenta nella storia degli uomini una realizzazione anticipata del regno di Dio" ( n. 18 ). Il campo è aperto, oggi in particolare, di fronte a tanti drammi dell'uomo e della società; tocca a noi, dunque, offrire dei " segni ", nella docilità allo Spirito sempre creatore, per dare spazio alla speranza, attraverso gesti coraggiosi e significativi, anticipatori di un futuro migliore per l'uomo e per l'intera comunità. 3. Profezia nel quotidiano - rischio e libertà Ma chi sono i profeti moderni? Certamente essi, il più delle volte, non fanno notizia; anzi può persino accadere che neppure i cristiani si accorgano della loro presenza … Invece i profeti ci sono, per grazia di Dio, anche nel nostro tempo e si manifestano ordinariamente nelle scelte e nei comportamenti quotidiani. C'è anche una profezia laica, se così si può dire, che, non ispirandosi alla fede, offre tuttavia uno stimolo di grande forza nella proposta coraggiosa dei valori umani. Qualche esempio: è profeta la donna che accetta consapevolmente il rischio di una maternità difficile, la coppia che sa conservare saldamente la fedeltà coniugale, il funzionario che non si lascia corrompere in vista di vantaggi economici o di camera, il sanitario che fa obiezione di coscienza per non dover operare contro il diritto alla vita, il magistrato che non teme i rischi del suo lavoro per una giustizia difficile … o, più in generale, chi osa affermare con chiarezza verità scomode; chi non teme di denunciare un'ingiustizia; chi si schiera dalla parte dei più deboli a difenderne i diritti; chi sa gestire responsabilità sociali e politiche come servizio e non come privilegio; chi è capace di donare non solo qualcosa di suo, ma qualcosa di sé, pezzi della propria vita; chi sa farsi operatore di pace esprimendo anche pubblicamente gesti di riconciliazione e di perdono; chi sa accettare il dolore con serenità … Noi dovremmo appartenere a questa generazione di testimoni, con una profezia di chiaro segno cristiano e con la forza del carisma della nostra vocazione. II condizionale è d'obbligo perché questa strada non è facile, oggi come e più di sempre. Si tratta di un cammino tutto in salita, per di più controcorrente, povero di soddisfazioni quanto ricco di insidie e di rischi. Il profeta autentico, oggi come sempre, incontra facilmente sul suo cammino la critica, l'incomprensione, l'impopolarità, l'isolamento, talvolta anche l'ostilità aperta, non escluso il rischio della vita. Anche oggi si uccidono i profeti! La profezia, quando è vera, esige sempre che si paghi di persona. Ma più che a questi eventuali ostacoli provenienti dall'esterno, è importante fare attenzione a insidie più sottili che possono verificarsi dentro di noi: - la nostra fragilità, che deve fare i conti con la stanchezza, la delusione, il senso di impotenza e di sfiducia che a lungo andare possono spegnere lo slancio dell'anima e frenare il ritmo dell'impegno … - la tentazione sempre ricorrente di addomesticare il messaggio, rendendolo rassicurante magari per essere aperti e comprensivi, ma in effetti per la paura di perdere il consenso degli interlocutori, diminuendo così la forza della Parola che induce alla conversione della vita e alla coerenza della fede … - il rischio del conformismo che, insensibilmente, da contestatori della mentalità del mondo può trasformarci in suoi seguaci per una sorta di assuefazione che bene si configura nel " sale scipito " del Vangelo … - la possibilità di razionalizzare la Parola di Dio riducendola a parola umana, magari ritenendo di renderla in tal modo più accettabile o comprensibile per la gente, o facendo prevalere la nostra opinione personale sull'oggettività del messaggio. Scorciatoie possibili per divenire " falsi profeti ". Tutto questo potrebbe scoraggiarci o riempirci di timore. Ma il Signore è fedele e sappiamo che quando chiama qualcuno ad una particolare missione non gli lascia mancare la sua grazia. A Lui bastano le nostre vite donate, tese costantemente alla ricerca di una profonda comunione con Lui, nell'ascolto amoroso della sua Parola, nella frequentazione dell'Eucaristia e di ogni altra espressione della vita sacramentale, nell'incessante preghiera da contemplativi sulla strada. Vite radicate nel mistero della Chiesa e immerse nelle vicende della storia, consapevoli della propria piccolezza, ma tutte spese nell'amore, " in cordata " con i fratelli di fede e di vocazione, aperte alla perenne novità dello Spirito, che è fonte di gioia, di luce e di forza. Conclusione La nostra vocazione essenziale è dunque quella di essere santi per essere testimoni e profeti, in una stagione della storia che attende nuovi annunciatori delle buona notizia, seminatori di speranza e di gioia, costruttori di pace e di fraternità, donatori di significato e di certezza. Simone Weil, nell'Attesa di Dio così invitava a reinventare la santità per un'epoca nuova: " Oggi non e ancora sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una nuova santità anch'essa senza precedenti … Un nuovo tipo di santità, cioè uno slancio, un'invenzione … quasi come una nuova rivelazione dell'universo e del destino umano ". Un messaggio da raccogliere come una proposta ardita, una scommessa tutta da giocare. Una vita per la missione " … la vostra secolarità vi spinge ad accentuare specialmente - a differenza dei religiosi - la relazione col mondo. Essa non rappresenta solo una condizione sociologica, un fatto esterno, sì bene un atteggiamento: essere presenti nel mondo, sapersi responsabili per servirlo, per configurarlo secondo Dio in un ordine più giusto e umano, per santificarlo dal di dentro. Il primo atteggiamento da tenere davanti al mondo è quello del rispetto verso la sua legittima autonomia, verso i suoi valori e le sue leggi ( Gaudium et spes, 36 ). Tale autonomia, come sappiamo, non significa indipendenza assoluta da Dio, Creatore e fine ultimo dell'universo. Prendere sul serio l'ordine naturale, lavorando per il suo perfezionamento e per la sua santificazione, affinché le sue esigenze siano integrate nella spiritualità, nella pedagogia, nell'ascetica, nella struttura, nelle forme esterne e nell'attività dei vostri Istituti, è una delle dimensioni importanti di questa speciale caratteristica della vostra secolarità ". ( Paolo VI, nel XXV anniversario della Provida Mater Ecclesia, 2-2-1972 ) " "Secolarità" indica la vostra inserzione nel mondo. Essa però non significa soltanto una posizione, una funzione, che coincide col vivere nel mondo esercitando un mestiere, una professione "secolare". Deve significare innanzitutto presa di coscienza di essere nel mondo come "luogo a voi proprio di responsabilità cristiana". Essere nel mondo, cioè essere impegnati nei valori secolari, è il vostro modo di essere Chiesa e di renderla presente, di salvarvi e di annunziare la salvezza. La vostra condizione esistenziale e sociologica diventa vostra realtà teologica, è la vostra via per realizzare e testimoniare la salvezza. Voi siete così un'ala avanzata della Chiesa "nel mondo"; esprimete la volontà della Chiesa di essere nel mondo per plasmarlo e santificarlo "quasi dall'interno a modo di fermento" ( Lumen gentìum, 31 ) compito, anch'esso, affidato precipuamente al laicato. Siete una manifestazione particolarmente concreta ed efficace di quello che la Chiesa vuoi fare per costruire il mondo descritto e auspicato dalla Gaudium et spes ". ( Paolo VI, Ai responsabili generali degli Istituti Secolari, 20-9-1972 ) " Per quanto ci spetta in questa occasione, il nostro desiderio è piuttosto di sottolineare il dovere fondamentale che deriva dalla fisionomia or ora evocata, e cioè il dovere di essere fedeli. Questa fedeltà, che non è immobilismo, significa anzitutto attenzione allo Spirito Santo che fa nuove tutte le cose ( Ap 21,5 ). Gli Istituti Secolari infatti sono vivi nella misura in cui partecipano alla storia dell'uomo, e agli uomini d'oggi testimoniano l'amore paterno di Dio rivelato da Gesù Cristo nello Spirito Santo ( Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 26 ) ". [ … ] " Se rimangono fedeli alla loro vocazione propria gli Istituti Secolari diverranno quasi "il laboratorio sperimentale" nel quale la Chiesa verifica le modalità concrete dei suoi rapporti con il mondo. E perciò essi devono ascoltare, come rivolto soprattutto a loro, l'appello della Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi: "II loro compito primario … è la messa in atto di tutte le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nelle realtà del mondo. Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell'economia; così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale" ( n. 70 )". " Ciò non significa evidentemente che gli Istituti Secolari in quanto tali debbano assumere questi compiti. Ciò spetta normalmente a ciascuno dei loro membri. Dovere degli Istituti stessi è quindi di formare la coscienza dei loro membri a una maturità e a una apertura che li spingano a prepararsi con molto zelo alla professione scelta, per affrontare poi con competenza e in spirito di distacco evangelico, il peso e la gioia delle responsabilità sociali verso cui la Provvidenza li orienterà ". ( Paolo VI, Una presenza viva al servizio del mondo e della Chiesa, 25-8-1976 ) " Voi dovete essere, innanzitutto, dei veri discepoli del Cristo. In quanto membri di un Istituto Secolare, voi volete essere tali per il radicalismo del vostro impegno a seguire i consigli evangelici in una maniera tale che, non solo essa non cambia la vostra condizione - voi siete e rimanete laici! - ma che la rafforza, nel senso che il vostro stato secolare sia consacrato, sia più esigente, e che l'impegno nel mondo e per il mondo, esigito da questo stato secolare, sia permanente e fedele ". [ … ] " La seconda condizione è che voi siate, a livello di conoscenza e di esperienza, veramente competenti nel vostro campo specifico per esercitare, grazie alla vostra presenza, questo apostolato di testimonianza e di impegno per gli altri che la vostra consacrazione e la vostra vita nella Chiesa vi impongono. Infatti è solamente grazie a questa competenza che voi potrete mettere in pratica la raccomandazione rivolta dal Concilio ai membri degli Istituti Secolari: "È necessario che essi tendano innanzitutto a donarsi intera mente a Dio nella carità perfetta e che i loro Istituti conservino il carattere secolare che è loro proprio e specifico al fine di poter esercitare ovunque ed efficacemente l'apostolato nel mondo e come dal di dentro del mondo, apostolato per cui essi sono stati creati" ( Decreto Perfectae carìtatis, 11 ). La terza condizione sulla quale voglio invitarvi a riflettere è costituita da questa risoluzione che vi è propria: vale a dire di cambiare il mondo dal di dentro. Voi siete, infatti, inseriti nel mondo a pieno titolo e non solo per la vostra condizione sociologica; voi siete tenuti a questa inserzione innanzitutto come per una attitudine interiore. Vi dovete dunque considerare come '"arte" del mondo, come impegnati a santificarlo, accettandone totalmente le esigenze che derivano dalla legittima autonomia delle realtà del mondo, dei suoi valori e delle sue leggi. Questo vuoi dire che voi dovete prendere sul serio l'ordine naturale e il suo "spessore ontologico", tentando di leggere in esso il disegno liberamente perseguito da Dio, e offrendogli la vostra collaborazione al fine che esso si realizzi progressivamente nella storia. La fede vi dona dei lumi sul destino superiore a cui questa storia è aperta grazie all'iniziativa salvatrice del Cristo; nella rivelazione divina, tuttavia, voi non trovate delle risposte già fatte alle numerose questioni che l'impegno concreto vi solleva. È vostro dovere di cercare, alla luce della fede, le soluzioni adeguate ai problemi pratici che emergono poco per volta, e che voi non potrete spesso raggiungere se non correndo il rischio di soluzioni solo probabili ". [ … ] " La sottolineatura dell'apporto specifico del vostro stile di vita non deve, tuttavia, condurre a sottovalutare le altre forme di dedizione alla causa del Regno a cui voi potete anche essere chiamati. Voglio fare accenno qui a ciò che è detto al numero 73 dell'esortazione Evangelii nuntiandi, che ricorda che: "i laici possono anche sentirsi chiamati o essere chiamati a collaborare con i Pastori al servizio della comunità ecclesiale, per la crescita e la vita di essa, esercitando ministeri diversissimi, secondo la grazia o i carismi che il Signore vorrà riservare loro "". ( Giovanni Paolo II. Cambiare il mondo dal di dentro, 8-8-1980 ) " … Si richiede che gli Istituti Secolari si impegnino straordinariamente nella testimonianza della novità del Vangelo ". […] " Ma la nuova evangelizzazione richiede anche un servizio al mondo. I modi di realizzazione, secondo le vocazioni particolari e le necessità concrete, sono molteplici: la testimonianza di vita, il dialogo e la militanza, il contatto personale, il servizio nascosto, la presenza individuale e comunitaria, l'annuncio e la denuncia profetica, la difesa della verità e la testimonianza dell'amore. È importante che in un mondo segnato dalla "cultura della morte", ma che pure anela ai valori dello Spirito, gli Istituti Secolari siano capaci di essere segni del Dio vivo e artefici della "cultura della solidarietà cristiana". Il Santo Padre, pertanto, esorta tutti a continuare in tale cammino, ad accrescere le molteplici iniziative di animazione cristiana e a non temere di rendersi presenti nei vari "areopaghi moderni" per proclamarvi con le parole e con i fatti la buona novella del Vangelo. L'impegno per la pace e lo sviluppo dei popoli, la difesa dei diritti umani, la promozione della donna e l'educazione dei giovani sono alcuni di questi "areopaghi" del mondo moderno, in cui gli Istituti Secolari debbono sentirsi impegnati ". ( dal messaggio di Giovanni Paolo il, trasmesso dal Card. A. Sodano, in occasione del V Congresso mondiale degli II.SS., 27-7-1992 ). L'indispensabile essere di Elena De Palma Nel veloce e quasi parossistico fluire di immagini e di voci, nell'incalzare travolgente dei fatti e delle vicende che neppure riescono a esaurirsi, una specie di istinto di salvezza ci spinge di tanto in tanto allo " stop ". Oggi non si può neppure concepire un video registratore senza il " ferma immagine ". Perché avvertiamo inconsciamente questo bisogno di " stop "? I rischi della dissoluzione sono avvertiti ormai come un pericolo abbastanza ravvicinato e percepibile anche se tutte le teorizzazioni possibili del frammentarismo ci hanno spinto nel costume quotidiano a vivere l'" attimo fuggente ". Ci sentiamo quasi travolti di azione in azione, di impegno in impegno, anche nel fare il bene e queste scelte di " bene " costituiscono, anche talvolta per il cristiano, l'alibi per non fermarsi, per non scegliere, per rotolare passivamente di attività in attività, e " attività " rischiano di essere certe preghiere comunitarie o anche personali e certe liturgie più o meno chiassose, e non importa che la musica sia prodotta da cori più o meno sgangherati e altrettanto sinceri, o da organi o chitarre suonati con maggiore o minore maestria o virtuosismo, ma sempre con grande passione e generosità. Dosi sempre più massicce di comunicazioni, che tendono a rendere quotidiano lo straordinario e l'emergente, ci coinvolgono emotivamente in situazioni o di pietà o di commiserazione o anche di entusiasmo o di ira subito dimenticate, che però restano registrate nelle profondità del nostro essere con intensità a noi ignota e non misurabile. Restano l'irritazione, la preoccupazione, l'ansietà, talora una sottile o profonda vena d'angoscia e una sete di notizie e di forti impressioni capaci di cancellare le precedenti. L'immagine antica dell'uomo che si guarda allo specchio e dimentica il suo volto è quella che forse descrive meglio la situazione quotidiana degli uomini e delle donne del nostro tempo. E peraltro conosciamo bene la paura e quasi la vertigine del fermarsi e chiedersi: " chi sono io "?, " dove vado "?, " che cosa sto facendo"?. È come affacciarsi sul vuoto. A questa domanda che una volta o l'altra arriva implacabile e per lo più improvvisa quando lo " stop " è imposto da una malattia, da una limitazione o da un brusco distacco o da un lutto, il cristiano ha una risposta. Tale risposta vale solo per lui oppure il cristiano può e sa essere un compagno di strada capace di sostenere il fratello che si interroga e capace di lasciarsi interrogare per rispondere della speranza che tale risposta; essa sarà però credibile solo se nata dall'esperienza, solo se autenticamente vissuta e comunicata. Il cristiano, oltre a sapere e a dichiarare a chi lo interroga chi è e da dove viene, deve realizzare in sé la dimensione dell'" essere ". È indispensabile cioè che il cristiano comunichi, manifesti ciò che è. È una creatura, ed è consapevole di esserlo, accetta i limiti derivanti dalla propria creaturalità. È creatura nel tempo: nasce, cresce, diventa adulto, declina e muore, non è onnipotente sulla materia, ma sa trasformarla per la sopravvivenza propria e altrui; non è onnipotente sugli animali, ma impara ad addomesticarli e a servirsene; la sua mente sa pensare, progettare e programmare, le sue mani sanno fare per costruire, eppure può sbagliare, eppure può fallire; il suo cuore sa amare, eppure può anche odiare e distruggere il rivale o il fratello; sente paura e angoscia di fronte a una prova che teme di non saper superare, eppure ha coraggio e audacia per conoscere o per raggiungere un obiettivo. È una creatura non mai pienamente appagata, sempre in attesa di una salvezza e di una felicità della quale sente in sé il richiamo, ma per la quale non trova in sé la forza. Ma il cristiano credente sa di essere creatura fatta a immagine di Dio creatore, sa di essere stato creato per amore, sa di essere figlio di Dio e sa da dove gli vengono tutte quelle potenzialità che avverte in sé, sa anche l'origine dei limiti che conosce bene insieme alla non mai spenta speranza di salvezza e di liberazione, conosce il peccato e crede in Cristo Salvatore. L'esistere nella precarietà di una vita ricevuta diventa partecipazione all'Essere attraverso la comunicazione della vita di Cristo, dell'incontro con Cristo morto e risorto, che dalla precarietà dell'esistere ci salva e ci comunica la vita nella pienezza e senza termine. Il cristiano è uno che conosce il peccato e il perdono e la salvezza portata da Cristo, ha sperimentato i distacchi causati dalla morte e gli scacchi del dolore, ma attende di vivere per sempre la vita del Risorto già ricevuta e continuamente comunicata attraverso i Sacramenti donati come " segni " per tutti gli uomini da Cristo alla sua Chiesa. Ma come testimoniare questo nuovo " essere ", questa vita dell'uomo nuovo in Cristo Gesù? Il primo segno coerente è quello della carità: la vita dell'uomo nuovo è dono gratuito di Dio; la gratuità dell'amore rende evidente che uno sa che gratuitamente ha ricevuto e gratuitamente dona. Il secondo segno coerente è quello del perdono e della misericordia, ognuno conosce i propri limiti e le proprie colpe, le profondità oscure del cuore, ma il cristiano amato e guarito da Cristo mandato dal Padre, rende manifesta la misericordia quando, perdonando, è partecipe della misericordia del Padre. Un terzo segno coerente è l'amore per la Verità; il Verace, l'Amen di Dio glie l'ha donata, e la scelta della verità amata difesa praticata rende visibile questa partecipazione alla vita di Colui che è Via, Verità, Vita. Un altro segno coerente indicato e proposto da Cristo come condizione per seguirlo è la croce. " Chi vuole essere mio discepolo prenda la sua croce e mi segua ". ( Lc 9,23 ) L'autenticità dell'essere " altro Cristo " si sperimenta e si fa visibile di fronte allo scacco del dolore, che solo per l'esperienza di Cristo si fa salvezza. E proprio questo segno fondamentale ci rinvia alla gioia delle beatitudini che passano tutte attraverso condizioni umanamente dolorose, ma diventano segno di una vita ricevuta: il regno dei cieli è dei poveri in spirito, i puri di cuore vedranno Dio, gli operatori di pace saranno chiamati i figli di Dio, e il regno dei cieli è dei perseguitati per la giustizia. San Paolo ha una frase che dice il nuovo essere del discepolo, dell'uomo nuovo in Cristo Gesù: " Per me vivere è Cristo ". ( Fil 1,21 ) Questa è l'aspirazione più profonda, il desiderio più intimo del battezzato, che spinge alcuni, e noi siamo tra questi, a una radicalità di sequela e imitazione di Gesù povero, casto e obbediente come via per arrivare quasi con più certezza e rapidità alla situazione definita così bene da Paolo. Lo Spirito che geme e prega in noi, perché non sappiamo neppure cosa chiedere, affretti questo tempo del nostro pieno essere in Cristo Gesù e ci renda capaci di testimoniare questo " essere ". Il rischio del pragmatismo e dell'efficentismo di Mina Poma Premessa L'uomo è ricco di potenzialità, relative alle sue facoltà e al suo dinamismo interiore, ma spesso alcune si accentuano rispetto alle altre e la persona può risultare in modo prevalente, non certo esclusivo: razionale o emotiva, portata allo studio o all'attività concreta, artista o scienziato, propensa alla solitudine o aperta alla società. Nello stesso modo ogni epoca storica è caratterizzata da alcune connotazioni, che scaturiscono da una molteplicità di fattori, di cui non sempre è possibile distinguere cause ed effetti: sono interessi predominanti, orientamenti di pensiero e di vita, modi diversi di studiare la realtà, di valorizzare l'uomo, di aprirsi verso Dio o di escluderlo dal proprio orizzonte. Sguardo storico Nell'antica Grecia, ad esempio, prevalente era l'interesse per la filosofia, considerata la scienza delle scienze, perché affrontava non solo settori specifici di ricerca, ma il problema dell'uomo o del cosmo nella loro globalità fino ad arrivare alle soglie della trascendenza; mentre nel mondo romano era predominante l'impegno politico nella sua impostazione giuridica e nel suo realizzarsi concreto. Il Medio Evo, a sua volta, sperimentò la forza del cristianesimo e concretizzò un rapporto diretto fra la Chiesa-istituzione e la società politica. Seguì l'epoca umanistico-rinascimentale con l'accentuazione dell'interesse artistico, che portò alle grandi opere d'arte, che ancora oggi ammiriamo. Nel settecento e noll'ottocento si arrivò poi al predominio della ricerca scientifica, considerata la più sicura via del sapere perché fondata sulla ragione e sull'esperienza. E alla scienza si ricollegò la tecnica, che ne rappresenta l'applicazione in campo concreto con risultati sempre più vistosi, che affascinano l'uomo e gli offrono vantaggi nei vari campi di utilizzazione. È in questa atmosfera che vede l'uomo padrone dell'universo nella sua autosufficienza, che si fa strada il secolarismo con il rifiuto di Dio e trovano alimento il pragmatismo e l'efficientismo. Il " pragmatismo " È un'esperienza di vita che pone in primo piano ciò che produce risultati concreti, ma ha alla base un'ideologia dalle varie sfaccettature. Così " pragmatica " è la dottrina di Marx, che considera l'economia come fondamento di tutte le altre manifestazioni della vita umana e del corso della storia; nello stesso tempo " pragmatismo " si definisce una teoria americana che giudica tutto non in ordine a una verità oggettiva, ma in base alle conseguenze pratiche, all'utile che ne può derivare. C'è del positivo in questi orientamenti, che valorizzano aspetti prima trascurati, come la grande incidenza del fattore economico nelle vicende storiche e l'importanza dei frutti per giudicare la fecondità dell'albero. Ma essi nascondono il grosso rischio delle realizzazioni concrete portate avanti sia nei paesi comunisti, sia nelle società capitalistiche. Secondo la Centesimus annus " se da una parte è vero che questo modello sociale mostra il fallimento del marxismo nel costruire una società nuova e migliore, dall'altra, se nega autonoma esistenza e valore alla morale, al diritto, alla cultura e alla religione, converge con esso nel ridurre totalmente l'uomo alla sfera dell'economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali " ( n. 19 ). La nostra stessa esperienza quotidiana ci fa toccare con mano quanto l'esigenza dell'utile immediato, il bisogno continuo di denaro, il calcolo dei risultati, attutiscano i valori profondi dello spirito e rendano sterili le esigenze più vere della persona umana. I contrasti tra individui, talvolta della stessa famiglia, le lotte tra le varie classi sociali, le guerre tra i popoli, solitamente hanno come radice un conflitto di interessi, il bisogno di cercare il proprio utile, piuttosto che la giustizia, l'incapacità a superare l'egoismo per aprirsi alla solidarietà. L'" efficientismo " È la conseguenza del pragmatismo. Se ciò che conta è l'utile, vale la pena impegnare tutte le energie per raggiungere la meta; ne viene di conseguenza che il tempo dedicato al lavoro produttivo occupa quasi totalmente la propria giornata e lascia pochi spazi alle altre attività che potrebbero alimentare la spiritualità, accrescere la cultura, essere strumenti di solidarietà. Tutti siamo testimoni della vita frenetica di oggi, soprattutto se si vive in città, dove le corse al muoversi e al fare si moltiplicano a dismisura, dato il maggior numero delle persone. E il bisogno dell'efficienza non si limita neppure alla sfera del lavoro, ma si estende al modo di valorizzare il tempo libero, che spinge ad altre fatiche per raggiungere località a loro volta " efficienti " nell'offrire servizi adeguati al benessere proprio e della famiglia. " Essere efficiente " è proprio un ideale per l'uomo del nostro tempo più preoccupato di elevare il tenore della vita dal punto di vista economico che di curarne la " qualità ", più proteso ad arricchire i figli, che a cercare spazi per stare vicino a essi, donando attenzione e amore. E poiché anche la donna cerca giustamente di realizzarsi nel lavoro extradomestico, quando si accentua la frenesia del guadagno o l'ambizione del successo, viene meno l'equilibrio tra le necessità della famiglia e il proprio impegno personale. Le conseguenze possono essere gravi, come dimostrano le crisi familiari, le difficoltà dei giovani, che non trovano modelli adeguati di comportamento, in quanto le esortazioni che ricevono spesso non sono accompagnate a esempi concreti. Non tutto è negativo in questo bisogno di fare, nell'assillo del lavoro, nella ricerca del guadagno. La vita richiede pure questo e ognuno è responsabile di ciò che riesce a produrre anche verso la società. Ma il rischio sta nel sovvertimento dei valori, nel mettere in primo piano, in modo esclusivo, ciò che dovrebbe conciliarsi con altre esigenze, che pure hanno il diritto di trovare spazio per la loro realizzazione. Il rischio sta nel puntare sulla quantità dell'utile, su un'efficienza che resta a livello effimero e non coinvolge tutta la persona. Il rischio del pragmatismo e dell'efficientismo nella nostra vita Forse noi ci consideriamo esenti da questo rischio perché i valori in cui crediamo, la fede che professiamo, gli ideali che ci siamo proposti superano di molto la sfera dell'utile. Ma come non possiamo sottrarci allo " smog " delle nostre città, così non possiamo considerarci immuni dalle tendenze prevalenti della società, in cui viviamo: è un'aria che respiriamo quotidianamente, è un inserimento quasi inavvertito, è un'atmosfera che ci coinvolge, anche a nostra insaputa. Il rischio forse non è per noi la priorità dell'utile su tutto il resto o dell'efficienza per un guadagno più sicuro, ma la ricerca affannosa di risultati concreti, un voler essere produttivi a ogni costo anche nel campo della missione. È vero che oggi l'urgenza della solidarietà ci chiama ad agire con prontezza per andare incontro alle necessità dei fratelli, è vero che il " Vangelo della carità " ci chiede la disponibilità totale, con senso di gratuità, nella scelta preferenziale per i poveri, esige concretezza nell'" assumere un'attiva responsabilità nei confronti del mondo in tutti i suoi aspetti " ( CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 23 ). Ma non possiamo dimenticare che la carità è Dio e il nostro amore per i fratelli è frutto del dono che riceviamo; che la grazia per noi e per gli altri è anzitutto da accogliere e da cercare con la preghiera; che la verità del Vangelo è da contemplare nel silenzio, prima di essere testimoniata davanti agli uomini. " La carità che è la vita di Dio viene riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo ( Rm 5,5 ). Essa diventa, nei credenti, la partecipazione al dialogo di amore fra il Padre e il Figlio nella gioia dello Spirito " ( ib., n. 15 ). E la carità di Maria, che ci viene offerta come modello, quando va dalla cugina Elisabetta o si accorge che a Cana non hanno più vino, è scaturita dalla preghiera, dal silenzio, dall'adesione alla volontà di Dio, nell'accettazione del suo mistero di amore. Spesso noi, nella ricerca immediata del fare, non teniamo conto a sufficienza di questa preparazione spirituale che s'irradia nell'incontro con l'altro e si manifesta nell'attenzione, nella comprensione e nel dialogo, nel sorriso che suscita speranza prima ancora o contemporaneamente all'agire concreto, che è efficace, ma talvolta risulta impersonale. È difficile per noi impegnarci a gettare dei semi di bene, senza tendere a raccogliere frutti, che invece solo il Signore può far maturare; è difficile credere che l'efficacia del nostro operare è solo relativamente legata all'intensità dell'agire, all'affannoso correre da un impegno all'altro, senza le necessarie soste. Eppure l'episodio di Marta e Maria è sempre lì a ricordarci che l'impegno concreto è sì necessario, ma, quando è accompagnato dall'ansia del fare, può nascondere la ricerca di soddisfazioni nostre e di risultati gratificanti più che la gloria di Dio e il bene dei fratelli. Per questo vale l'espressione di Gesù, che, pur valorizzando i preparativi di Marta, ha dichiarato che Maria aveva scelto la parte migliore. La preparazione spirituale all'agire deve essere accompagnata da uno sforzo intellettuale, relativo alle nostre possibilità, per capire i problemi, per individuarne le soluzioni, per essere in grado di confrontarci con gli altri. Infatti siamo in un'epoca di specializzazione, che richiede competenze specifiche. E questo non solo nel campo professionale, ma anche in quello apostolico. Com'è possibile, ad esempio, dedicarsi agli handicappati senza conoscere la natura dei loro limiti e i modi migliori per aiutarli nelle loro particolari condizioni? Il fenomeno droga, a sua volta, esige conoscenze relative non solo ai prodotti del mercato e alla tecnica dello spaccio, ma ancora di più ai bisogni profondi e generalmente indistinti, alle esigenze psicologiche e al disagio manifesto o soffocato che spingono tanti giovani a un processo irriversibile di autodistruzione, di fuga a qualunque costo dall'anonimato, dalla monotonia quotidiana e, soprattutto, dalla solitudine. E così i problemi degli anziani, che sembrano facilmente constatabili, in realtà sono complessi. Per questo richiedono interventi adeguati, altrimenti si può recare danno invece che aiuto, come quando si favorisce in loro uno stato infantile, bisognoso di tutto o non ci si rende conto delle reali difficoltà che devono superare per rimanere attivi. La missione può portarci anche a contatto con le famiglie, che vivono un'esperienza difficile, da comprendere nei suoi molteplici aspetti, prima di affrontarla dall'esterno. E anche le singole persone, bambini, giovani e adulti, devono essere accostati non con la presunzione di poter dettare norme, ma cercando di capire le loro difficoltà esistenziali e l'incidenza che la società esercita su di essi. Come la promozione umana richiede una conoscenza psico-sociologica come premessa all'azione efficace, così la " nuova evangelizzazione " deve fare i conti con il fenomeno del secolarismo e deve essere " nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione " ( Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 25 ). Per testimoniare la fede, occorre anzitutto conoscerla nei suoi fondamenti dottrinali e nell'intensità del suo mistero, non decifrabile, ma da accostare con la sapienza, che viene da Dio. E per dialogare con gli uomini del nostro tempo, è necessario conoscerne le difficoltà, sostenere con motivazioni valide il pensiero cristiano sull'uomo, sulla storia e su Dio, rendere ragione della speranza che è in noi. I gradi di una preparazione dottrinale sono di vario livello, ma nessuno può esimersi dall'ascolto della Parola di Dio, interpretata dal magistero e approfondita dagli studi esegetici e teologici. Anche la scelta di campo richiede di non avventurarsi in imprese superiori alle proprie possibilità. E non per mancanza di generosità, ma per la consapevolezza che i nostri interventi devono essere mirati e non ridursi a un fare sconclusionato. Non si può ritenere valida l'accettazione di un impegno politico da parte di chi non è in grado di assolverlo, com'è rischioso l'inserimento in un campo professionale, senza la dovuta competenza. Lo stesso vale per i settori del volontariato, per i campi di missione, da scegliere sì in base alle urgenze, ma anche secondo le proprie possibilità. E mentre si cerca di conoscere se stessi in ordine alle scelte di campo, è importante prestare attenzione alle espressioni della volontà di Dio, che non sempre vengono incontro alle nostre esigenze. Ci sono lavori gratificanti che in alcuni periodi di vita possono richiedere una sospensione per altri impegni, come l'assistenza a una persona di famiglia ammalata, che può costare molto di più e gratificare molto di meno. Ritorna sempre il motivo di fondo: non è la quantità o la qualità delle cose da fare che conta, ma la disponibilità all'amore, che ci rende attenti alla volontà di Dio e alle necessità dei fratelli. Conclusione Il rischio dunque del pragmatismo e dell'efficientismo esiste anche per noi, ma è possibile ridurne gli aspetti negativi se non ci lasciamo travolgere dall'atmosfera in cui viviamo, ma teniamo presente: - la necessità di coltivare interessi, al di là del semplice fare, come l'amore al bello, il gusto del leggere, la scelta oculata degli spettacoli, non condizionata dall'eccesso di produzione dei mezzi di comunicazione sociale; - l'importanza della preghiera non solo in determinati spazi della giornata, ma anche intervallandola prima e dopo l'azione, in modo da introdurre una piccola sosta che ci porti a riflettere su quello che stiamo facendo; - l'utilità del discernimento, come premessa all'azione da valutare possibilmente nei suoi vari aspetti e nelle conseguenze che ne possono derivare: discernimento, che è manifestazione di sapienza, che viene dall'alto, di competenza umana, di confronto in una ricerca condivisa con gli altri. Poste queste premesse, l'agire diventa necessario e solitamente risulta efficace, perché non è più un correre frenetico, ma un muoversi conoscendo la meta e i mezzi più idonei per raggiungerla. Per una vita unificata di Mariella Malaspina " Noi siamo pieni di troppe cose che ci gettano fuori ": questa esclamazione di Pascal valeva per i suoi contemporanei, ma ancora più vera e globale risulta per noi che, sullo scorcio del secondo millennio di era cristiana, a furia di attendere a mille impegni, magari anche di pensare generosamente agli altri, finiamo spesso per dimenticare quali sono la nostra vocazione e il nostro fine. Troppo frequentemente le nostre azioni si susseguono l'una all'altra e noi, spinti da una tenacissima mistica dell'impegno e del lavoro, ci sentiamo soddisfatti di aver riempito tutti i vuoti del nostro tempo. Ci sfugge, purtroppo, che abbiamo sì riempito tutti i vuoti, ma con altrettanti buchi! Contemplazione Sappiamo bene che nulla nel piano di salvezza è inutile: dal sassolino alle stelle, dal servizio domestico dell'umile donna di casa alla ricerca della bellezza inseguita dall'artista. Però sappiamo anche che ogni atto esterno deve non essere fine a se stesso, ma scaturire da un profondo radicamento contemplativo. Non si tratta del pensiero costante ed esplicito della presenza di Dio né del gusto e fervore sensibile nel servizio del Signore, e neppure di un intimismo che stonerebbe, oggi, persino in una carmelitana, ma della sicura consapevolezza di essere sotto lo sguardo di Dio, in perfetta docilità ai Suoi voleri, nella più intensa familiarità con Lui. È lo Spirito che dal di dentro ci muove e ci assimila a sé, diventando nostro pensiero, nostro segreto affetto, nostra volontà. Ecco l'immagine dell'" uomo spirituale " contrapposto all'" uomo carnale " presentataci da Paolo ( Gal 5,16-22 ). Questo è " l'indispensabile essere " di chi vuole seguire Cristo, lasciandosi sempre più penetrare da Lui e di Lui. Per far ciò non è necessario essere un " tipo " ben definito con un carattere senza difetti, stare in un luogo piuttosto che in un altro, compiere determinate azioni in una precisa maniera. Occorre essere quelli che si è, stare dove si deve stare, fare quel che si deve e come lo si deve: " Le grazie sono differenti, ma lo Spirito è sempre il medesimo " ( 1 Cor 12,4 ). Basta rimanere uniti a Lui: ne abbiamo bisogno, lo vogliamo e lo desideriamo. Allora dobbiamo inventare tutti i modi per rimanere con Dio, per contemplarlo: in cima a una montagna o di fronte alla distesa sconfinata del mare, chiusi soli in una stanza o immersi nel traffico congestionato delle strade di una città. Si tratta non di fare sforzi per vederlo, ma di ricordare che Egli ci guarda con amore infinito, di lasciarci condurre nel " deserto " per ristabilire il silenzio attorno e dentro di noi e far tacere il frastuono delle cose, delle persone, di noi stessi. Contemplare significa accettare di perdere del tempo per sederci ai Suoi piedi riconoscendo la nostra povertà e permettergli di " sedurci dolcemente " ( Os 2,14 ) per essere alla Sua scuola e vivere con Lui: ciascuno di noi e Dio. Tutto il resto viene dopo. Senza l'ascolto attento della Sua voce, senza la ricerca trepidante della Sua volontà, senza la dimensione contemplativa della fede, ogni nostro agire diviene efficientismo cieco e vuoto. Talvolta, immersi in una vita turbinosa, siamo tentati di fuggire lontano dagli uomini e dal loro agitarsi. Ma la fuga non è mai una soluzione. È nel mondo che Dio ci ha chiamati all'essere; nel mondo Egli ci cerca, da sempre, per dialogare con noi. Noi siamo un dono di Dio e la nostra vocazione è quella di rispondere a questo Amore che ci ha dato l'esistenza. Alla domanda del giovane ricco che chiedeva al Maestro che cosa fare " di più ", Gesù risponde invitandolo a passare dalla vita secondo i Comandamenti alla vita nella consapevolezza e nella contemplazione del dono; Egli lo invita, cioè, a pensare come Lui, ad avere Lui come criterio, ad appartenere a Lui. " Prendi, o Signore, - invocava sant'Ignazio di Loyola nella sua nota preghiera, la " contemplazione per ottenere l'amore - e ricevi tutta la mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza e tutta la mia volontà. Tutto ciò che ho e possiedo, Tu me l'hai dato. A Te lo riconsegno. Tutto è tuo ". A noi non è chiesto di allontanarci da ciò che sembra profano: gli affari, l'economia, la politica, la stampa, la radio, la televisione. A noi è chiesto di vegliare stando in mezzo alla massa come il lievito e di dare espressione al mondo in quanto esso ha di meglio. Il nostro vivere non deve ridursi a un vivacchiare tiepido e fiacco o a una agitazione forsennata e insipiente. Paolo raccomandava ai Romani di " non conformarsi alla mentalità di questo mondo ", ma di imparare a " discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto " ( Rm 12,2 ). Tuttavia noi, immersi nella storia concreta di oggi, abbiamo una tremenda difficoltà a scorgere un'altra dimensione nel cuore di questa realtà terrestre, così opaca, apparentemente così pervasa dal male, dall'assurdo e dal negativo. Siamo parte di un'umanità che, oggi, sembra incapace di scoprire qualcosa che stia al di sopra o al di sotto della sua esperienza quotidiana e costituisca il senso di ciò che fa e subisce. Ecco il nostro dovere di laici cristiani: assoggettare, consacrare la realtà terrena affinché possa nuovamente proclamare la gloria di Dio e diventare trasparente: un mondo di segni e di voci di cui si possa cogliere non solo il rumore, ma anche il significato e " l'inquieta e abbagliante attualità, nelle sue virtù e nelle sue passioni, nella sua possibilità di bene e nella sua gravitazione verso il male, nelle sue magnifiche realizzazioni moderne e nelle sue segrete deficienze ed immancabili sofferenze ", come affermava Paolo VI. Dio vuole che la nostra fede fruttifichi traducendosi in opere, non importa se apparentemente banali e comuni. Anch'esse rispondono ai disegni di Dio: questo mondo che Egli ha creato aspetta la nostra opera, illuminata e alimentata dalla scienza, per diventare come Dio l'ha pensato e sognato, cioè capace di significare il Suo amore. Nella nostra vita consacrata la contemplazione è istanza primaria, fondamentale, ma poi quello che si è contemplato lo si deve donare agli altri: " contemplata aliis tradere ", mantenendo però lo stato di contemplazione. Innestati intimamente in Cristo, noi possiamo dare voce al canto muto delle creature e alla grandiosa bellezza del cosmo, e inoltre cogliere il grido del lavoro e della fatica dell'uomo, delle sue scoperte e del suo amore, delle sue sofferenze e di ogni suo anelito. Soprattutto, a noi spetta percepire la novità perenne di Dio dentro di noi: anche quando le giornate si susseguono monotone e la vita sembra uguale, essa è sempre nuova e può suscitare stupore. Allora il quotidiano assume il sapore della straordinarietà e le nostre scelte si attuano nella libertà: ciascuno di noi con il suo modo personale di essere, rischiando, giocando la vita contro corrente, anche da soli, col coraggio che proviene dalla fiducia certa che il rischio si basa su Dio, che è fedele, e che a ogni attimo della nostra vita corrisponde un atto del Suo infinito amore. Da questa certezza nasce l'azione. Discernimento Agire è diverso dal semplice fare; consiste nell'operare con una intenzione che illumina e avvalora quel fare, di per se stesso neutro. È molto facile, al giorno d'oggi apprendere qualcosa; meno lo è il com-prenderla e soprattutto il convincersene tanto da passare a decidere per poi agire coerentemente. È il dono della scienza che ci fa capaci di discernere il vero dal falso, il divino dall'umano, il bene dal male. San Diàdoco di Foticea in Epiro, uno dei più grandi asceti del V secolo, nella sua opera intitolata " Cento capitoli della perfezione cristiana " afferma che " è lume della vera saggezza discernere il bene e il male ". L'esercizio di questo discernimento è stato sempre importantissimo ( ricordiamo quale attenzione sant'Ignazio inviti ad assegnare ai criteri per " il discernimento degli spiriti " ). Tuttavia oggi, in una società complessa e frammentata, priva di punti di riferimento valoriali, esso è divenuto addirittura basilare. Talvolta, il turbamento penetra in noi e può addirittura trasformarsi in angoscia, paura, scoraggiamento, oscurità. In qualche circostanza, come nell'episodio notissimo della tempesta che coglie sul lago Gesù e gli apostoli, i cavalloni travolgono, quasi, la nostra barca. E Gesù dorme, non si cura di noi, non interviene. Ci sembra di essere soli, e il nostro terrore non ci fa neppure vedere che Gesù è lì. Ecco, allora, la necessità di " vigilare ", soprattutto " in tempi di crisi o di smarrimento, quando cioè la mancanza di prospettive storiche, unita a una certa abbondanza di beni materiali, rischia di addormentare la coscienza nel godimento egoistico di quanto si possiede, dimenticando la gravita dell'ora e il bisogno di scelte coraggiose e austere". È, questo, il momento della speranza. Solo se saremo profondamente radicati in essa, riusciremo a impedire che l'inquietudine diventi il filo nascostamente sotteso al nostro muoverci e operare e, rigenerati dalla confidenza con il Signore e fiduciosi della Sua tenera cura, sapremo vivere ogni attimo del tempo nell'orizzonte dell'amore con cui Dio ci ama in Gesù, valorizzando ed amando il presente e la terra. Ecco la vigilanza, il cui senso vero è molto bene spiegato dal card. Martini nella sua lettera pastorale Sto alla porta. Essa non è un semplice atteggiamento etico, bensì " la tensione caratteristica verso il futuro di Dio congiunta con l'attenzione e la cura per il momento presente ". Vigilare è " badare con amore a qualcuno, custodire con ogni cura qualcosa di molto prezioso … prendersi il tempo necessario per aver cura della qualità della vita ". Solo così è possibile riconciliare " gli affetti del con la sapienza delle cose ". Ne scaturisce per noi, allora, un impegno discreto, continuo, appassionato, a vivere tutta la nostra vita non badando a sacrifici né fermandoci dinanzi a ostacoli, senza sicurezze spavalde, ma con la fermezza di chi sa bene " a Chi si è affidato, di Chi si è fidato, in Chi ha confidato " ( 2 Tm 1,12 ). Mi riecheggia nell'animo l'invito del profeta Gioele ( Gl 2,12-13 ): " Convertitevi … tornate a me con tutto il vostro cuore … lacerate i vostri cuori … ", dove il " lacerare il cuore " non significa togliergli ciò che esso ha di umano, renderlo insensibile, ma possederlo, dominarlo e consegnarlo all'Amore. In questo senso va intesa la famosa indifferenza richiesta ai suoi figli da S. Ignazio, la quale null'altro è se non la disponibilità ad andare in qualunque parte, a fare e ad accettare qualunque cosa sia più gradita al Signore, continuando a credere, a sperare, ad amare: a operare cioè, nella certezza che tutto ciò che ci accade è un Suo atto d'amore, anche se spesso non riusciamo a vederlo e valutarlo e ci sentiamo come frantumati: dai problemi degli uomini, cosi numerosi, molteplici, complessi e urgenti, e dai diversi impegni della nostra vita quotidiana. Noi avvertiamo l'inadeguatezza delle nostre giornate. Ci sembrano corte le settimane, i mesi. Il tempo non basta mai e resta sempre tanto da fare. Così, corriamo il rischio di disperderci, di rompere l'armonia che deve unificare la nostra vita interiore con l'azione esterna. Di qui l'esigenza sempre più forte di " distinguere le cose essenziali dalle accessorie, le ultime dalle penultime, le cose che passano da quelle che restano ", scoprendo quello che il Padre vuole da noi e considerando ogni nostra iniziativa nell'ottica della missione che Egli ci ha affidato. Servizio L'amore di Dio per noi non ci sollecita soltanto a realizzare intimità e familiarità con Lui, ma ci spinge a impegnarci sempre di più e sempre meglio per aiutare gli uomini. Servire il Signore, infatti, è adorarlo, camminare alla Sua presenza, prodigarsi per l'estensione del suo Regno, dimostrargli umilmente ed efficacemente la nostra fedeltà, anche nelle piccole cose di ogni giorno. Quando si ama - e si ama veramente - non esistono realtà di scarso o nessun conto: tutto ha peso e valore. Eppure, quanta gente intorno a noi vive di cose da niente perché non ha la vera speranza e manca di un'attesa fiduciosa e operosa, che suscita il desiderio e muove a osare. C'è una grande differenza fra l'appiattirsi nella banalità e il " servire " Dio, compiendo anche le piccole azioni del quotidiano con animo " grande ", come Egli vuole e perché lo vuole. Se siamo strumenti nelle Sue mani, dobbiamo fare in modo che Egli possa servirsi di noi in molte maniere, sviluppando perciò al massimo le capacità e i doni che Egli ci ha elargito per l'utilità di tutti. Di qui l'impegno continuo per lo studio e l'approfondimento della nostra formazione, umana e professionale: che si tratti di un servizio sociale o politico, nel lavoro o nella cultura, nella famiglia o nella comunità ecclesiale, noi siamo chiamati, a motivo della nostra fede, a rispondere ai bisogni che assillano gli uomini con una " presa di coscienza più viva della propria responsabilità "7 e con un'azione effettiva. Questo è il servizio conforme a giustizia: essere, pensare, dire, fare né più né meno di quello e di come si deve; un servizio senza riduzionismi né mediocrità, senza lentezze né condizioni, senza calcoli né malinconie, senza velleitarismi né interruzioni, un servizio quindi generoso, pronto, fervoroso, effettivo e continuo. Servire è mettere a disposizione la vita, spenderla tutta senza trattenere nulla per noi, intuendo con sensibilità i desideri e le richieste, anche non espresse, di chi ci sta a fianco e operando con delicatezza, con serena pazienza, senza clamore né chiasso. " Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio " direbbe sant'Ignazio di Loyola coerentemente con il " Principio e Fondamento " posto alla base dei suoi Esercizi Spirituali ( n. 23 ): infatti, " siamo servi inutili " ( Lc 17,10 ). Bisogna, però, saper guardare molto avanti per avere questa pazienza consapevole, che non si lascia incrinare da alcuna agitazione o ansia, e per mirare al futuro conservando intatto il gusto del presente. In una società come la nostra, dove il criterio dei rapporti interpersonali è quello dell'utilità e del profitto, in cui il valere di una persona è il prevalere sull'altro, il servizio è l'unico modo di amare senza distruggere e, nel contempo, di essere se stessi. Un simile servizio, evidentemente, non è frutto di uno sforzo umano, ma è un'attitudine che è essenzialmente dono di Dio e che va sviluppata " con l'umiltà e la generosità ". Umiltà " Vis magnam fabricam construere celsitudinis? De fondamento prius cogita humilitatis " afferma sant'Agostino, e cioè " Vuoi fare grande e alto l'edifico della tua perfezione? Preoccupati allora, anzitutto, del fondamento che è l'umiltà ". Deve essere un'umiltà semplice, genuina, continua, che ci fa non pretendere nulla, chiedere il meno possibile e giudicare sempre troppo quello che ci viene dato. Una tale umiltà è povertà: la povertà di Gesù che visse trent'anni nell'anonimato, come uno qualsiasi della folla, apparentemente uomo come tanti senza storia, che non conta, che non lascia traccia, che vive senza alcun privilegio, senza alcun segno di distinzione. Per noi cristiani tutto ciò comporterebbe innanzi tutto l'accettazione serena della condizione in cui siamo stati messi, la rinuncia alla rincorsa affannosa verso il successo, la capacità di accontentarci di ciò che abbiamo e prima ancora di ciò che siamo. Invece, come è raro l'equilibrio nella stima di sé e degli altri! Taluni nutrono una stima esagerata di se stessi e un desiderio smodato della stima altrui; altri, che pure non rivelano grande autostima, desiderano prepotentemente essere stimati da chi sta loro attorno; altri, infine, non si preoccupano della stima altrui, ma hanno una enorme stima di se stessi. Sono tre forme diverse di mancanza di umiltà. Eppure, il nostro mondo moderno è molto sensibile - forse proprio perché non si trova spesso in presenza di tali virtù - alla piccolezza, alla semplicità, alla limpidezza, alla " facilità spontanea di contentarsi e di contentare ", come soleva ripetere padre Virginio Rotondi, un Gesuita assai noto come giornalista e direttore d'anime. Molte ansie eccessive e pretese sconsiderate, parecchi affanni, impazienze e inquietudini, una certa perdurante scontentezza derivano dal non prendere atto che siamo nulla e che non abbiamo diritto a nulla. D'altra parte, la sottomissione - quella di funzione, intendo - è un atteggiamento continuamente necessario nel corso della nostra giornata: all'usciere o al vigile urbano, al commesso o al medico noi dobbiamo sottostare. Se riuscissimo veramente a stimare e rispettare gli altri, se sapessimo rapportarci a loro rivestendoci " di misericordia, di bontà, di dolcezza e di pazienza " ( Col 3,12 ), il malcontento o la tristezza, che talora avvertiamo dentro di noi, si dissolverebbero all'istante. Potremmo allora " aspirare ai carismi più grandi ", cioè a spalancare, quasi a dilatare, i nostri cuori e, liberi dalle pastoie delle nostre meschinità, cogliere i segreti tenuti nascosti " ai sapienti e agli intelligenti " e rivelati " ai piccoli " ( Mc 11,26 ). Ma chi di noi può non arrossire rileggendo l'esortazione di Paolo ai fratelli di Colossi che egli definisce " eletti di Dio, santi e prediletti "? Come loro, noi pure siamo stati scelti da Dio, da Lui chiamati alla santità e amati di amore particolarissimo. Tuttavia le diversità esistenti non solo nella società, ma anche nella stessa comunità ecclesiale, e perfino in quella più piccola comunità di cui facciamo parte, ci creano molte angustie e problemi. Bisogna però saper accettare queste diversità perché se così non fosse, non accetteremmo Dio, che è sempre " diverso ". È, questa, una manifestazione di umiltà: la tolleranza cristiana, che non è una semplice virtù laica, benché anche di questa ci sia un estremo bisogno in un mondo facilmente percorso dal fanatismo. Non è neppure un espediente diplomatico che ci permetta di eludere difficoltà maggiori. Essa è una espressione di quella libertà inferiore donataci da Gesù, che è venuto per servire e dare la sua vita ( Mc 10,45 ). C'è un'altra manifestazione di umiltà indispensabile: la pazienza, da esercitare verso gli altri, ma forse ancora di più con se stessi, e tanto più quanto maggiori si fanno i bisogni che insorgono in noi col procedere dell'età, col deteriorarsi delle energie e della resistenza fisica e psicologica, con l'inevitabile solitudine in cui si finisce per essere dimenticati. La pazienza non si lascia abbattere dalle avversità, dalle contraddizioni, dalle ostilità, ma persiste nel suo proposito di bene con sempre rinnovato ardore e slancio. C'è, infine, quella manifestazione di umiltà che è la modestia. Essa è il contrario dell'arroganza e della prepotenza che spingono a esigere a ogni costo tutto quanto rientra nei propri diritti e a far valere davanti agli altri i propri meriti. Lungi dal lasciarsi sopraffare, e men che meno sfruttare, chi è modesto non assume aria di importanza né un atteggiamento di ostentazione o protagonismo, ma è mite senza pretese, servizievole, contentabile. Perfino un noto proverbio popolare afferma che chi si contenta, gode e anche un grande saggio indiano, Rabindranah Tago re, ne ebbe l'intuizione: " Dormivo / e sognavo che la vita / non era che gioia. / Mi svegliai e vidi / che la vita non era / che servizio. / Servii e compresi / che nel servire / era la gioia ". Gioia Come appare acuta, oggi, la difficoltà di raggiungere questa gioia! " La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma difficilmente riesce a procurare la gioia ". La gioia ha ben altre radici: è spirituale. Oggi il denaro, le comodità, una certa agiatezza materiale sono alquanto diffusi, tuttavia la noia, il dubbio, la tristezza, il vuoto, e perfino l'angoscia e la disperazione, sono solo apparentemente camuffati sotto una fittizia allegrezza: questa è, in realtà, fuga ed evasione, non letizia profonda che fa fiorire il sorriso. Quanto è difficile, ma nel contempo prezioso, far penetrare il sorriso nell'intimo dell'anima, conservarlo sul volto sempre e verso tutti malgrado le inevitabili tensioni, anche quando il pianto rischia di ottenebrare il nostro spirito e il nostro sguardo. C'è grande bisogno di gioia in un mondo come il nostro, che anela alla serenità e che ricerca un senso al proprio essere e agire. La gioia è diffusiva e contagiosa, perché è una forma di amore di squisito e delicato amore. Essa può incrinare anche l'indifferenza di chi vive nell'ateismo pratico, suscitando interrogativi meravigliati e stupiti. Se, prima con la testimonianza e poi con le parole, sapremo dare le risposte che il mondo e gli uomini attendono, dai varchi che avremo aperti potrà anche entrare inquietante e rassicurante insieme - la fede in quel " Dio che allieta la nostra giovinezza ". La gioia scaturirà spontanea quando sapremo scoprirlo là dovunque ci sia qualcuno: chiunque. Nulla è ripetuto nella Bibbia quanto l'invito a essere gioiosi, a rallegrarci rallegrando, a cantare un " Cantico nuovo " perché assolutamente diverso dal vacuo e insulso cantare umano. E non è un invito alla semplice gioia, ma a " sovrabbondare di gaudio in ogni tribolazione " ( 2 Cor 7,4 ). La motivazione? Perché " forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura in eterno ", come dice il salmo 117. Su questa luminosa certezza si fonda la nostra gioia che, certo, è " frutto dello Spirito " ( Gal 5,22 ), ma che, se è vera e profonda, non può rimanere chiusa in noi: è troppo intima per poter essere ridotta a semplici espressioni esterne e superficiali, ma è anche troppo comunicativa per rimanere nascosta, per quanto sobria e discreta. Quando si fa sera, quando scoppiano le tempeste, quando scende il silenzio, quando insomma gli uomini si accorgono del vuoto che sta attorno a loro e si sentono insicuri, allora cercano affannosamente il segreto della felicità. Ma felicità e gioia sono fondate sull'essere, non sull'avere; si può " essere " felici, non " possedere " la felicità come fosse un oggetto, sia pur prezioso. La gioiate in relazione con la vita interiore e chi non "conosce la via dell'interiorità non è in grado di percepire la gioia. Essa ci viene data dallo Spirito e non è soltanto una caratteristica personale, ma ha anche una dimensione fraterna ed ecclesiale, è un servizio ai fratelli capace di infondere in essi fiducia e speranza. " Il cristiano - dichiara il documento Educare alla legalità dell'ottobre 1991 - non può accontentarsi di enunciare l'ideale e di affermare i principi generali. Deve entrare nella storia e affrontarla nella sua complessità, contribuendo a creare una cultura della vigilanza " capace di contrastare la cultura della protesta, del mugugno, dell'impotenza, della disillusione, della depressione … ". " Fermatevi nelle strade e guardate ": è l'invito del Signore nell'Antico Testamento ( Ger 6,16 ). Ma questo guardare ha un senso solo se non ci si sente arrivati, ma si comunica nell'umiltà e nella contemplazione e nella vigilanza, sostenuti dall'amore del Signore. Allora la sua gioia dimora in noi ed è " piena " ( Gv 15,11 ). Testimoni della storia, testimoni di Dio di Marisa Sfondrini " È dunque mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai potenti di questo mondo, in una parola, di santità "1: questa frase di Paolo VI segue di poche parole quella già citata nel capitolo precedente in cui il Papa faceva esplicito richiamo alla necessità, per l'uomo moderno, di essere a contatto con testimoni ( della fede ) più che con maestri. La storia degli Istituti Secolari, una storia vicina a noi, data la loro recente istituzione, già si dimostra ricca di figure esemplari nel senso indicato. Molti, fra i laici consacrati negli I. S. già transitati nell'Eternità, possono essere riconosciuti come indicatori di percorso per quell'ideale itinerario, offerto dal Signore a ogni uomo e a ogni donna, che chiamiamo santità. Alcuni di questi " santi " non canonizzati ( anche se per alcuni i processi canonici di beatificazione sono stati aperti e, in qualche caso, sono già arrivati a buon punto ) hanno avuto vicende che ci possono aiutare a scoprire come si possa incarnare una " Beatitudine " in modo particolare, in un preciso contesto storico, dentro vicende umane quotidiane, con uno stile di vita che rendono quell'uomo o quella donna un autentico e credibile testimone. Fra le molte, che ormai la vicenda degli Istituti Secolari ci può fornire, abbiamo scelto alcune vite. Ne riportiamo i dati biografici sommari, per poterle meglio inquadrare, insieme con testimonianze di amici, con brani da loro scritti, con aneddoti. Abbiamo anche pensato di presentarli sotto il " segno " di una Beatitudine, ( Mt 5,3-18 ) quella che, pur secondo una nostra opinabilissima scelta, hanno maggiormente incarnato durante la loro vita. Beati i poveri in spirito Il primo personaggio al quale attribuire questa che, rubando l'espressione a un lessico qui inusuale, possiamo definire " la madre di tutte le beatitudini ", è Giorgio La Pira, colui che già in vita - e non certo per rendergli gloria - è stato chiamato fra l'altro il " sindaco santo " … Dice, a proposito di questa definizione, un suo biografo, il giornalista Vittorio Citterich: " La povera gente che lo sentiva amico, diceva 'santo' in senso proprio, uomo di Dio, copia vivente del Vangelo, come aveva detto di lui il cardinale arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa. Altri dicevano 'santo' nel senso di brav'uomo che, per far del bene, pasticciava con la politica e l'economia, producendo qualche confusione. Certo è che La Pira, per gli uni e per gli altri, era un personaggio singolare di fronte al quale nessuno poteva passare indifferente ". Sicuramente, La Pira è un personaggio noto, non è stato cioè uno di quei testimoni che sono vissuti secondo lo stile della fiaccola messa sotto il moggio. Ma ugualmente vale la pena, a nostro parere, ripercorrerne la vicenda: succede, infatti, a volte che l'apparente ovvietà di alcuni fatti, l'apparente notorietà degli stessi, finisca per farli calare nel più profondo oblio. La Pira era nato a Pozzallo, in Sicilia, il 9 gennaio 1904. Per mantenersi agli studi, a Messina, faceva il piazzista per la bottega di uno zio. Appena laureato, era stato chiamato all'Università di Firenze presso la quale, nel 1933, vincerà un concorso per la cattedra di Istituzioni del diritto romano. Il giovanissimo docente aveva, come sottolinea sempre Citterich, " tutti i talenti e i titoli scientifici per una carriera accademica che prometteva traguardi rapidi e sicuri ". Il giovane cattedratico venuto dalla Sicilia partecipa al dibattito culturale, molto ricco in quegli anni ( siamo nel 1927 ), ma sceglie un ambiente di vita lontano da quello accademico ufficiale e dominante. Il suo stile di vita è profondamente diverso da quello dei colleghi. Per abitarvi, ha scelto una cella del convento di San Marco. Suo punto di riferimento non sono gli intellettuali del tempo, ma un povero prete, don Bensi, il parroco di San Michelino in via dei Servi, uno che, quando gli capitava fra mano un caso di difficile soluzione ( e solo il Signore sa quanti fossero ) apriva la finestra della sua stanza, che dava dritto dritto sulla cupola del Brunelleschi, per dirsi: " guarda, passerotto, guarda di che cosa siamo capaci noi pover'uomini, se ci riesce di aver fede ". All'inizio della sua carriera, La Pira sembra voler stare lontano dalla politica: siamo negli anni del fascismo, è opportuno ricordarlo. È la sua fede " totale " a metterlo in rotta di collisione con il regime. Un episodio risalente al 1935, anche questo riportato dalla biografia di Citterich, è chiarificatore. Siamo al tempo della guerra per la conquista dell'Etiopia, in un periodo in cui il consenso popolare intorno al fascismo raggiunge il suo massimo grado. Un giornale di regime schernisce il Negus perché ha offerto " la sua spada alla Madonna ". Così racconta La Pira: " Allora pensai: ma è vero, l'Etiopia è una nazione cristiana, la Chiesa copta ha origini apostoliche, anche Agostino era africano. Che diritto abbiamo noi di aggredire una nazione cristiana? Che diritto abbiamo noi di crederci civili facendo la guerra ai compaesani di sant'Agostino? Qui la storia non torna. Stai a vedere che il Negus, offrendo la sua spada alla Madonna, è almeno più cristiano del duce o del re imperatore. Ci pensavo ogni giorno, e andai alla Santissima Annunziata a pregare la Madonna per l'Etiopia ". Nel 1939 prenderà ufficialmente posizione contro il fascismo, fondando la rivista Principi; si da poi alla clandestinità per sfuggire all'arresto. Passata l'immane bufera della seconda guerra mondiale, La Pira si troverà davanti a una nazione disastrata nelle città e nei cittadini, una nazione da ricostruire, uomini e donne da ricostruire, soprattutto. E si troverà anche davanti alla splendida avventura della democrazia. La Pira viene eletto nell'Assemblea costituente per partecipare alla elaborazione della carta costituzionale, la legge fondamentale del nuovo stato repubblicano. L'opzione per la politica attiva era scattata in La Pira da un ragionamento, esposto nel 1944 all'Università Lateranense in un corso di orientamento sociale ( Roma era già stata liberata dagli Alleati ). A proposito delle " premesse della politica ". La Pira fa una dichiarazione scioccante: la crisi di cui la guerra è stata la più drammatica espressione " prima di essere crisi politica ed economica, è crisi di idee " sul destino dell'uomo e della società. Ci viene ancora in aiuto Citterich che riporta una frase di La Pira: " Chi è Dio? Cosa è l'universo? Chi è l'uomo? Cos'è la società e la storia? Così il capitalismo come il marxismo sono anzitutto una risposta data a questi fondamentali problemi, la loro tecnica politica ed economica è una funzione di essi … Questa crisi è una crisi essenzialmente metafisica, ecco la conclusione. Gli strumenti essenziali per la ricostruzione? Bisogna anzitutto restaurare il tessuto ideale cristiano sul quale soltanto può essere riedificato un sistema vitale di civiltà ". Frase profetica, di cui possiamo misurare la portata storica anche in altre successive situazioni critiche, come quella tragica del 1992-1993 con la scoperta di " Tangentopoli " e la difficoltà del partito della Democrazia cristiana. La Pira è con i " professorini ", Dossetti, Lazzari, Fanfani e l'ancor giovane Aldo Moro. Fa parte della mitica " commissione dei 75 " incaricata di redigere i principi fondamentali della Costituzione. Deputato di Firenze nella prima legislatura, quella che vede nel 1948 la strepitosa vittoria di De Gasperi e della Democrazia cristiana, diventa sottosegretario al Ministero del lavoro ( ministro è Amintore Fanfani ). Il 6 luglio 1951 diventa primo cittadino di Firenze, succedendo al comunista Mario Fabiano, uomo onesto e molto amato dai fiorentini. Ed è forse in questa carica che La Pira sperimenta su di sé il valore della " beatitudine ". " Beati i poveri in spirito ", dice l'evangelista Matteo. La Pira conosce questa povertà che è ben più alta e profonda di quella materiale ( che comunque pratica con un rigore perfino esagerato: non possiede nulla! ). A proposito della " nulla tenenza " di La Pira alcuni dei suoi compagni di strada d'allora hanno poi raccontato che, se capitava loro di avere riunioni con La Pira in inverno, era meglio che ci andassero senza cappotto, altrimenti c'era il caso che qualcuno dei loro mantelli sparisse perché il " distratto " La Pira se ne impossessava non per sé ma per donarlo a qualche povero più povero di lui ( e non era cosa facile! ) e di loro, naturalmente. La povertà " vera " di La Pira è in quegli anni quella di sentirsi preso per " pazzo " dai così detti ben pensanti. Così è nell'episodio del salvataggio della Pignone, la fabbrica che nel 1953 minacciava di licenziare 1750 lavoratori. La Pira si schiera a fianco degli operai che occupano la fabbrica e questo fa gridare allo scandalo anche a una buona fetta del mondo cattolico. Per fortuna, La Pira troverà accanto a sé un arcivescovo di Firenze che lo comprende fino in fondo e che dirà di lui: " La Pira è scomodo? Ma si capisce, è una copia del Vangelo vivente. L'affare Pignone è scomodo? Si capisce, però come non scegliere la parte di coloro che sono nell'angustia per l'incertezza del loro avvenire? ". La Pignone viene poi salvata dal capitale pubblico. La povertà " in spirito " di La Pira è anche nella sua utopia di pace universale. Francescano fino al midollo, pensa che i rapporti personali possano risolvere le contese politiche meglio delle conferenze al vertice dei grandi della terra. Fra lo scandalo generale, convoca a Firenze i sindaci di tutte le città capitali del mondo: arrivano anche i sindaci di Mosca e di Pechino, delle grandi capitali, cioè, del " mostro " comunista. Entro la cerchia delle mura della città del giglio la politica ritrova dimensioni umane: questa grande intuizione di La Pira è valida certamente, ma probabilmente solo a posteriori è possibile misurarne la portata profetica. La Pira non si limita, però, al convegno di Firenze: come Francesco raggiunse il Sultano, così La Pira va lui stesso a Mosca e poi a Pechino. Si reca Oltrecortina a sue spese, ma non certo da turista. E probabilmente non è una semplice coincidenza che Nikita Krusciov proprio in quegli anni, nel corso dello storico XX congresso del Partito comunista denunci i guasti irrimediabili dello stalinismo e ne ripudi l'ideologia. Forse dietro questa decisione, la prima che scalfisce il " sipario di ferro ", stanno le lettere che La Pira e il nuovo " zar del Cremlino " si sono scambiati. La permanenza di La Pira al Palazzo della Signoria durerà fino al 1965. Poi il suo impegno politico sarà quasi totalmente assorbito da quella particolare forma di " Ostpolitik " che qualcuno chiamerà " dello spirito ". Nel 1976, in puro spirito di obbedienza, si ricandiderà nelle liste della D.C. e sarà eletto deputato. La morte lo coglierà il 5 novembre 1977. A quella morte si può forse oggi applicare quanto La Pira stesso aveva detto nel giorno in cui aveva preso possesso della cattedra di diritto romano: " Se è vero che la storia della nostra vita è un tessuto di fatti orditi a svolgere la trama del nostro supremo destino - trama di misericordia e di bontà, tessuta insieme da Dio e dall'uomo ( … ) -, l'atto che compio oggi ha dietro di sé altri atti, che ne sono come il germe e il preannunzio ". Maria Sticco è l'altra possibile testimone della beatitudine della povertà. Nata il 23 novembre 1891, è così descritta da Armida Barelli: " Era laureanda di nobile famiglia, e nobile d'animo, giovane, fine artista, colta, timida e pur birichina, aveva subito il fascino soprannaturale di Giuseppina Taddei ( vecchia, brutta, sorda, quasi cieca, ma un'anima di profonda vita interiore ) che l'aveva portata a scoprire la sua vocazione di consacrazione a Dio, quale laica nel mondo, e perciò l'amava e la chiamava zia Beppina ". Perché la Sticco può essere chiamata valida testimone della beatitudine della povertà " in spirito "? Anche lei per un motivo analogo a quello attribuito a La Pira. La Sticco era ricca dentro, anzi ricchissima: di ingegno, di conoscenze " scientifiche " ( era docente universitaria ). Scriveva con facilità e profondità, pur mantenendo quello stile semplice e accattivante che la rendeva facilmente leggibile anche da chi proprio letterato non era. In un ambiente, come quello accademico, nel quale era facile assumere atteggiamenti arroganti, pur mascherati dietro una parvenza di umiltà, la Sticco non si lasciò mai tentare. Di lei, dopo la morte avvenuta a Milano, il 17 marzo 1981, si dirà: " Il travaglio interiore tra il suo ideale di perfezione - umiltà, povertà e obbedienza - e la propria natura fatta per buttare via ogni schema e ogni angolosità della legge, durerà tutta la vita e ne sono testimonianza gli scritti intimi della sua opera postuma 'Fogli al vento' pubblicati dalle Edizioni O. R. ". Un altro segno di " povertà ": il pensiero continuo della morte e del peccato. " Come morrò? Come sarà per me quel momento? ". Non c'è mai un piccolo segno di autocompiacimento, anche di coscienza del proprio " valore ". Maria Sticco è infatti profondamente conscia della propria condizione di creatura, come dice il salmista " concepita nel peccato ". Ed anche in questo si misura il senso della povertà nella Sticco. Si dice ancora di lei nelle noterelle apparse dopo la sua morte: " Anche il pensiero del peccato, dei suoi peccati, le stringe spesso l'animo e il suo giornale quotidiano è pieno di esami di coscienza e di propositi. 'Ricominciare', 'ricominciare da zero': questo lo schema dei suoi propositi che, anche nell'età avanzata, hanno il colore ingenuo di un'anima di adolescente. Passione e ragione si urtano in questa donna che è forte e fragile a un tempo, ella rimane 'donna' concreta e viva anche se ha fughe ideali e fantastiche e se il valore della sua sensibilità la porta spesso al di là del reale tangibile. Maria è un'artista e rimane un'artista anche nell'intimità del suo rapporto con Dio ". Maria Sticco ha avuto una vita relativamente semplice, non certamente ricca di episodi curiosi o clamorosi come quella di La Pira. Di La Pira ha condiviso l'ideale francescano, la posizione professionale, un atteggiamento verso l'ideale che la rendeva a volte ( come del resto La Pira ) incomprensibile e quasi ridicola presso i suoi contemporanei. Era tanto intelligente da capire che in ciò consisteva principalmente il suo essere povera davanti al Signore prima ancora che davanti agli uomini. Da un'anima tanto grande, da una scrittrice finissima qual era stata, ci si poteva attendere un " testamento spirituale " ricco di annotazioni di alto livello. Il " testamento " di Maria Sticco è invece scarno, povero si potrebbe dire, specchio della povertà di chi l'ha stilato. Eppure così caldamente umano, così originale. Un passo: " Ringrazio caldamente Iddio di avermi fatto cattolica, francescana, italiana, tre qualità che bastano a rendere santa, lieta, nella vita … Alle amiche di lavoro e d'ideale, agli allievi e ai lettori pazienti che mi hanno compresa, chiedo perdono di non aver dato quell'esempio di vita cristiana che le mie pagine propongono, e raccomando ( se non è presunzione ) di pregare e agire per il rinnovamento spirituale d'Italia, per la sovranità divina di Gesù Cristo sul mondo e in particolare sulla nostra patria. Pregare per la patria come si prega per la propria madre fu il testamento spirituale di mio padre, ed è anche il mio ". Beati gli afflitti Il primo testimone di questa difficile " beatitudine " è Ettore Oltrabella. Nasce a Sestri Ponente il 18 settembre 1921 e la sua vita fin dagli inizi è segnata dal dolore, perde infatti la mamma che ha soltanto quattro anni. A otto anni gli muore anche il padre e resta con la seconda moglie di lui. A undici anni va a vivere con la nonna " adottiva ", con la quale rimarrà fino alla morte. Entra ragazzina nell'Azione Cattolica e qui ha la sua prima e basilare formazione. Non ha potuto compiere studi regolari, la sua attività scolastica si ferma ai tre corsi di avviamento professionale. È però un " curioso " della cultura, un autodidatta. Comincia a lavorare appena compiuti i quattordici anni come garzone di farmacia. A sedici anni entra come fattorino in una grande industria farmaceutica dove percorrerà una brillante carriera diventando capo dell'ufficio vendite. Fin qui il curriculum professionale di Ettore. Ma non la sua esemplarità come testimone dell'" amara beatitudine ". Nel 1940, durante il servizio militare nel corso della seconda guerra mondiale, Ettore contrae una malattia per allora gravissima, la nefrite che lo porta per ben due volte al punto di dover ricevere l'estrema unzione. E questa malattia lo accompagnerà per tutta la sua instancabile vita. Nel 1943 comprende che la sua vocazione è di consacrazione laicale. E in questa direzione si muove. In consonanza con i voti emessi, intensifica il suo apostolato fra i giovani. Scrive un ignoto biografo: " Ettore considerò tale incarico ( di propagandista - n.d.r. ) come una personale amorosa chiamata a una particolarissima forma di apostolato che, staccandolo dal piccolo circolo degli amici, lo avrebbe maggiormente identificato al Cristo faticosamente itinerante di paese in paese e annunciante al cuore di ogni uomo la 'buona novella'. Egli annota nei suoi ricordi un sintetico programma: 'Il propagandista deve essere fondato su Cristo, deve imitare Cristo, deve immedesimarsi a Cristo'. E il trinomio della vita del suo perfezionamento è così indicato: vita interiore, apostolato, amore per Maria Santissima ". Ettore Oltrabella non diventa sicuramente un personaggio noto, vive nel nascondimento; ha tanto a cuore il riserbo, da chiedere agli amici, qualche giorno prima di morire, di distruggere tutti i suoi scritti ( e non erano pochi, a quanto è dato di intuire ). È un " santo non ufficiale " nascosto, uno dei tanti forse, ma uno di quelli di cui possiamo, per disegno provvidenziale, analizzare la vita. " Ma 'senza l'effusione di sangue non c'è salvezza', senza sofferenze l'apostolato non è fecondo. Ettore doveva recare la sua parte di dolore per fare completa la passione del Cristo a favore dei fratelli ": in queste scarne righe del citato e ignoto biografo è forse il segreto della sua vita, il segreto della sua " beatitudine ". Sappiamo, a questo punto, che Ettore ha nella sua carne le stimmate di un male che non si può del tutto curare; il riposo potrebbe giovargli. Ma non è da lui. Nel 1950, Anno Santo, sostiene grandi fatiche per organizzare i pellegrinaggi alla Sede Apostolica. Il male si fa più acuto. Dopo un periodo di degenza in ospedale, le sue condizioni sembrano essere migliorate quando improvvisa si annuncia l'ultima crisi. Il 18 dicembre 1950, alla mezzanotte, dopo aver salutato gli amici, " al termine del santo rosario recitato con profonda devozione, rende l'anima al Signore ". Ettore, " beato per l'afflizione " è ormai soltanto " beato ", accanto al Signore che aveva servito con amore indiviso. Beati i miti " Non è facile illuminare il segreto della forte personalità di Piera Luttazzi: capace di lottare per la difesa dei principi in cui credeva, generosa nell'assumere in pienezza le responsabilità derivanti dai molteplici impegni, chiara e convincente nel dare consigli a chi glieli richiedeva, umile accanto ai sofferenti e ai più deboli, dolcissima e materna coi bimbi, vivace e colta educatrice dei giovani ": così si esprimono due amiche di Piera dopo la sua morte avvenuta il 24 ottobre 1979 nella Casa di Riposo Perini di Rho ( Milano ). Basta qualche ricordo di quella operosa vita per fare capire come le amiche abbiano avuto ragione nel descriverla. Piera aveva insegnato pedagogia e filosofia, era stata membro del consiglio nell'Istituto Superiore di Educazione Fisica di Milano; aveva prestato servizio ( è il caso di esprimersi così ) nella Democrazia cristiana, fin dai tempi della clandestinità, divenendo amministratrice nel comune di Rho, dove le era stato affidato l'assessorato alla pubblica istruzione. Era stata presidente del Patronato scolastico, aveva sostenuto la Pia Fondazione Rhodense ( di cui la Casa Perini, nella quale Piera passa l'ultima parte della sua vita, era parte integrante ). Perché considerarla testimone della beatitudine che riguarda i miti? La risposta è fornita da un ex allievo di Piera che così scriveva: " … anche per dirle grazie di quello che mi ha insegnato e, soprattutto, del modo con cui lo ha fatto: è stata una testimonianza d'amore ", una testimonianza che va ben al di là della vita terrena. Piera non era " mite " nei confronti dei suoi compagni di strada: o meglio, lo era ma a causa della sua " mitezza " nei confronti del Signore. " Piera Luttazzi, veramente, ha lasciato la testimonianza di come si vive e di come si muore facendo, per amore, la volontà di Dio ". Ecco il vero segreto del mite: fare la volontà di Dio in ogni circostanza. È la virtù di Giobbe. " Vita di fede solida, fondata sulla roccia che è Cristo, radicata nella Scrittura e alimentata quotidianamente dalla vita eucaristica. Fede che attingeva nuove certezze dalla speculazione filosofica, dalla interpretazione della storia incentrata nel mistero della redenzione, dalle limpide genuine fonti del 'suo' francescanesimo vissuto ": sono sempre le amiche di prima a esprimersi. Piera attingeva enormi forze dalla preghiera, cui dedicava la mattinata dei giorni che la scuola le lasciava liberi. Diceva: " Mi chiarisco le idee che non ho ben chiare … Non mi sono mai permessa, in quarant'anni di scuola un giorno di assenza per dedicarlo ad altre attività … Voglio stringermi al cuore la volontà di Dio, che è amore ". " Ogni caso cui poneva mano, nel suo modo di valutare avvenimenti, cose, persone, acquistava un'impronta di chiarezza, di vitalità, di realizzazione integrale. Possedeva veramente lo spirito di servizio: alla sua famiglia, alla scuola, alla società. Ovunque e per tutti disponibile, attenta, coerente ai principi, orientata a ricercare - e a far ricercare - in ogni atteggiamento, decisione, opera, la maggior gloria di Dio ": la Luttazzi possedeva qualità che oggi mancano e che probabilmente, sull'esempio suo e di altri, devono ritrovare modo di incarnarsi per una qualità di vita più alta. In tutti i sensi. Per tornare alla speciale " virtù " per la quale citiamo la sua testimonianza, va aggiunto che Piera guardava al creato e ne godeva con la semplicità di un bambino, in vero stile francescano; aveva maturato la non facile capacità di staccarsi dalle cose care, dalle persone care, anche da sé. Si era fatta povera " per " i poveri, specialmente gli anziani soli. Per essere coerente a questo che sente suo impegno preciso, per amore di Dio - è bene ricordare - lascia senza un rimpianto la sua casa per andare a vivere a " Casa Perini ", come l'ultima delle ospiti " assistita poi, da malata, come un povero, bisognoso di tutto ". Piera Luttazzi ha testimoniato la " sua " beatitudine anche, e forse soprattutto, nella morte. Non è da tutti esprimersi come lei si esprimeva, prima per la malattia che la tormentava ( " Le mie … brigate rosse mi assalgono d'improvviso, con violenza … È come se avessi sopra la loro pesante corazza, che non mi posso levare mai, neppure di notte … Ma quando sarà arrivato il momento, alla chiamata risponderò mettendo le ali e lascerò giù la corazza … ". E ancora, arrivato quasi il momento supremo: " Procuriamo una chitarra, uno strumento che accompagni il nostro canto di festa per il mio 'giorno senza tramonto', per il 'mio Natale' ". Piera Luttazzi è andata così incontro al Signore della sua vita, sconfiggendo il dolore con una indefettibile speranza. È stata una grande presenza fra i suoi contemporanei, anche se una presenza nota a pochi. " Perché ognuno che avesse potuto incontrare, anche per pochi momenti, la professoressa Luttazzi, aveva ricevuto il dono grande della fiducia e della speranza ". Nel ricordo di Armando Oberti, suo " compagno di strada ", Erminio Colnaghi è definito " laico e mistico ". Dice ancora Oberti: " Anzitutto, mi ha sempre colpito la sua serenità interiore espressa da un abituale sorriso e da un'arguzia piacevole. Mi sembra di capire che tale serenità interiore era frutto di una particolare vita contemplativa che per lui significava … 'conoscenza sperimentale delle profondità di Dio'. Una contemplazione, peraltro, tutt'altro che 'spiritualista' poiché Erminio la vedeva connessa strettamente a un impegno secolare da vivere quotidianamente. Infatti, a lui appariva chiara 'la necessità per tutti, ma specialmente per noi, di aumentare la preghiera e la meditazione sino ad arrivare alla contemplazione. Aumentare non solo come qualità, ma anche come tempo, la meditazione, così da porre la premessa per l'eventuale divino dono della contemplazione 'infusa' ". In questo atteggiamento di continua " presenza " davanti al Signore è radicata la mitezza di Erminio. Un segreto che si spalanca davanti ai fratelli in alcuni dei suoi scritti, tra cui una preghiera scritta per la festa di Cristo Re nel 1976. Dice fra l'altro questa preghiera: " Signore Iddio, l'uomo ha bisogno di te, di te solo e di nessun altro, perché fuori di te non c'è che il nulla. Signore Iddio, vita della nostra vita, ti vogliamo donare al mondo, che senza di te è tanto infelice. Signore Iddio, infinitamente misericordioso, dacci di non ostacolare la tua opera di salvezza, ma di essere docili e attivi strumenti nelle tue mani. Signore Iddio, non guardare alle nostre mancanze, ma guarda al desiderio, che ci hai posto in cuore, di amare te solo e null'altro ". Erminio Colnaghi era nato a Mairago ( Milano ) il 25 gennaio 1902. Era uno specializzato in arti grafiche ( avendo frequentato le scuole serali ) ed era stato per molti anni un apprezzato tecnico in alcune aziende editrici milanesi. Per essere fedele alla sua vocazione, si era trasferito a Torino abbandonando le piccole sicurezze che si era costruito. Rientrato a Milano, dopo un certo periodo, aveva trovato ospitalità presso alcuni amici del suo Istituto che, nel frattempo, avevano dato vita a una forma di convivenza. Frequenta la scuola di teologia per laici presso l'Università Cattolica, diventa propagandista dell'Azione cattolica. Nel 1945 sorgevano intanto le Acli ed Erminio veniva chiamato a occuparsi del Giornale dei lavoratori. Alle Acli rimane fino alla morte avvenuta il 19 dicembre 1977. Una vita semplice, quella di Erminio, lineare, nascosta, come quella di quasi tutti i consacrati di cui ci stiamo occupando, una vita che termina a " Casa Perini ", un luogo che sembra destinato a ricevere gli ultimi " doni terreni " di tante anime benedette. Prima di approdare a " Casa Perini " Erminio vive nella singolare " comunità " messa in piedi con alcuni suoi compagni di vocazione. Ricorda Francesco B., uno degli appartenenti a questa " comunità "; " Il suo equilibrio nelle discussioni con Nembri ( un altro " fratello " che condivideva l'esperienza - n.d.r. ) era veramente ammirevole: si scontravano sovente, a motivo di vedute divergenti, sui problemi sociali … In pubblico egli cercava di scomparire perché amava il nascondimento: una delle cose su cui tornava era l'affermare che 'era ultimo di sedici figli, settimino e … gemello' ". Il ricordo di Francesco si chiude così: " In occasione di una visita del card. Schuster alle Acli si seppe della profonda conoscenza della Bibbia di Colnaghi: il cardinale allora si avvicinò e dopo avergli posto alcune domande volle sapere da lui quale frutto ne avesse ricavato. 'Sono venuto a conoscere la insondabile corruzione e miseria dell'uomo; la sua forte inclinazione al male e impotenza al bene' - rispose Colnaghi … Il cardinale ne fu colpito, e, soddisfatto, approvò il suo commento: forse Erminio aveva, inconsapevolmente, sintetizzato la sua grande maturità spirituale ". La vita di Carla Agnese è durata soltanto quarant'anni, anni tutti dedicati al Signore, prima nel suo intimo, poi in una consacrazione secolare. Era nata a Pavia di Udine il giorno di sant'Agnese, era cresciuta " in una nobile famiglia profondamente cattolica " ( così si esprimono alcune " sorelle " nel piccolo opuscolo stilato in sua memoria ). Si era laureata in farmacia a Bologna e si era poi perfezionata nelle lingue straniere: in Inghilterra per inglese e in Svizzera per francese e tedesco; mentre studiava, in Svizzera, aveva cominciato quello che considerava il suo tirocinio prima di partire per le missioni, l'assistenza agli immigrati e alle loro famiglie. Carla Agnese " fin dalla fanciullezza aveva sentito il richiamo entusiasmante dell'apostolato e dell'apostolato missionario in particolare. L'aveva chiuso nel cuore, domandando al Signore il modo e il momento per l'attuazione … Vi si andava preparando costantemente, con l'amore di Dio, con ogni forma di carità verso il prossimo, con l'esecuzione pratica dell'ascesa evangelica ": queste sono parole appuntate dal suo direttore spirituale. Sempre nelle parole del direttore spirituale troviamo l'aggancio alla mitezza: " Non usò mai della sua cultura, che riusciva a tenere aggiornata, per soddisfazione personale o per esibizione o per elucubrazione intellettuale. Rifuggiva la critica. Ignorava la mormorazione e la malevolenza. Pronta e franca però nel dire il suo pensiero, a difendere i suoi principi con chiunque, anche superiore, a difendere quanto le sembrava doveroso in sé o utile per la comunità. Così l'indole mite, aperta, anche se timida, tenace nel bene, favoriva la sua fattiva presenza in ogni iniziativa buona nella Parrocchia e fuori ". La sua ricerca vocazionale era stata accidentata: soltanto dopo alcuni tentativi falliti, esperienze dolorose ma sopportate con pazienza, dopo l'incontro con un Padre gesuita, era approdata alla scelta finale e " giusta ", la speciale consacrazione in un istituto secolare che aveva missioni anche all'estero. Carla aspettava, così, di poter realizzare il suo sogno, la vita per cui si era attrezzata anche professionalmente ( nel frattempo si era data all'insegnamento ). Ma le vicende familiari sembravano sempre spostare un poco più in là il traguardo. Quando l'ultimo dei fratelli si fu accasato, lasciandola libera da ogni impegno, a Carla sembrava aprirsi finalmente la strada per la quale si era preparata. Avrebbe finalmente potuto raggiungere la missione sulle montagne venezuelane per cui si era offerta come volontaria. " Ma la terra è l'esilio dove fioriscono le rose, ma sempre con le relative spine, forse perché mai dimentichiamo che la vita terrena è un passaggio, una preparazione alla Patria del Cielo ": così nel ricordo delle compagne. Poco dopo aver salutato il fratello e la giovane cognata in partenza per il viaggio di nozze, Carla Agnese è colpita da un collasso cardiocircolatorio. Non morirà subito, lo Sposo doveva ancora venirle incontro: ciò che accadde la notte seguente. Come una " vergine prudente " il suo Signore la trovò con la lampada della carità bene accesa. " Il suo modo di confortare, vorrei dire, non era diretto, cioè non diceva le belle frasi che avrebbero anche procurato consolazione interiore, nulla di tutto questo, pagava di persona con il suo sacrifico e anche con il suo portamento. Quando mi procurò un soggiorno in montagna presso una signora che conosceva, fece tutto lei! Capiva che quando una persona non lavora non ha a sua disposizione mezzi. Quale generosità delicata! ": è ancora un'amica a esprimersi. E " delicato " è l'aggettivo che maggiormente ricorre quando le amiche parlano di lei. Una piccola vita, si direbbe, facilmente sommersa dal frastuono che oggi ci colpisce e ci frastorna; una piccola vita che aveva saputo risvegliare una grande eco: ai suoi funerali aveva preso parte " una folla imponente, muta e commossa, accorsa da tutta la Provincia ". Il bene è delicato, non fa rumore, ma lascia profondi, incancellabili segni. Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia Questa è la piccola storia di un vero capo: Luigi Clerici. Era nato a Bulgorello ( Como ) l'8 novembre 1910, si era diplomato in ragioneria, era poi entrato - come impiegato - alle Acli di Milano, diventandone poi presidente provinciale. " Ha servito fedelmente la causa della promozione della classe lavoratrice ": non è un epitaffio, ma il ricordo dei suoi amici e compagni d'istituto. Racconta ancora un amico che si nasconde dietro lo pseudonimo di " ViCo ": " Clerici l'ho conosciuto molto bene; verso di lui ho immensa materia per altrettanta immensa gratitudine su tantissimi piani: da quello spirituale a quello sociale, umano ecc. fino a quello del 'successo' sul piano politico e parlamentare ( l'autore è infatti un noto uomo politico - n.d.r. ). Ci siamo anche scontrati molte volte ed erano scontri non con le mezze misure ma a fondo, sia su contenuti sia su metodi. Il suo era un carattere forte, che pretendeva molto, forse il tutto, da sé e nella propria azione; ed era con questo metro, con questa sua statura che ci si doveva misurare. Il che non era poco. Il suo pensiero e la sua azione dovrà formare oggetto di un vasto e approfondito esame … " ( si è parlato anche di una proposta per l'avvio del processo canonico di beatificazione, data l'esemplarità della vita di Luigi - n.d.r. ). Le linee di ricerca sulla vita di Clerici, secondo lo stesso amico, erano queste: " - impegno per cristianizzare il mondo del lavoro; - elaborazione di una 'spiritualità aderente al mondo del lavoro; - l'azione di pubblico servizio; - rapporti tra gerarchia e laici impegnati; - impegno nel campo sociale, sindacale, politico-partitico ". Un altro fra coloro che lo ricordano si esprime così: " Nelle cose scottanti e nei confronti degli uomini, soprattutto nemici, aveva sempre la parola equilibrata, il giudizio sereno, alieno da pregiudizi e dietrologie furbe o diffamatorie, anche se l'uomo forte che era in lui non mancava di essere tale. Si capiva che era un capo! ". Ma la forza, Luigi non l'usava soltanto con quelli che poteva considerare pari grado; era - quando sapeva di essere nel giusto - altrettanto inflessibile con quelli che poteva considerare superiori, maestri. " Mi raccontò con arguzia e umiltà dei suoi incontri, ardui e bellissimi con l'arcivescovo Montini e dalle sue parole … traspariva tutta la determinazione che aveva nel sostenere le tesi che riteneva giuste per il movimento dei lavoratori e nel medesimo tempo tutta la disponibilità all'obbedienza ( che era poi quella che forse lo faceva vincere, facendo crollare le perplessità del suo interlocutore ) fino alla possibile rinuncia della sua carica. Grande fu il suo sforzo e la sua fatica per consacrare il 1° maggio, festa dei lavoratori, con la partecipazione di massa dei lavoratori cristiani ( la festa era nata marxista e per questo " in sospetto " fra i credenti - n.d.r. ). Riuscì a spaccare diffidenze e ostacoli e grande fu la sua gioia quando nel giro di brevi anni anche la festa di san Giuseppe artigiano diventò la festa di san Giuseppe lavoratore … Clerici ottenne perché non aveva edificato sulla sabbia ma sulla roccia … Era disponibile fino all'inverosimile. Una volta alle Acli ebbi modo di fargli osservare, bonariamente, data la familiarità che c'era tra noi, che indossava un giubbino di lana tutto consunto: una manica era addirittura in disfacimento. Lui sorridendo e scotendo il capo divertito mi rispose in milanese: 'Eh, eh, le mie sorelle … Cosa vuoi farci!'. Mi voleva dire che delle sue cose materiali, della sua vita in casa, se ne occupavano le sorelle con un amore possessivo, quasi da asfissia. E lui ben conscio di ciò, le lasciava fare, tanto che erano loro a decidere come dovesse vestirsi e perfino quanto denaro dovesse avere in tasca … Lui non interveniva se non quando fosse necessario, per evitare guai peggiori o insopportabili ". Per la sua " fame e sete di giustizia " Clerici si fece tanti amici ma anche dei nemici. Così un amico descrive i suoi funerali: " Ricordo ancora i suoi funerali: non furono trionfali, come ci si poteva aspettare ( e si capisce! ): molti gli assenti anche 'ufficiali' di ogni settore. C'erano, però, tra gli altri, anche due che gli fecero del male e non tanto a lui, quanto al movimento delle Acli e la cosa mi parve significativa ( gli dovevano molto ), anche se sopra quei due piombò uno che senza tanti complimenti li invitò energicamente ad andarsene … Non ero io quell'uno … ma la tentazione l'ebbi e forse fui preceduto … Quelli erano i funerali di un capo tradito e di un profeta non ascoltato … certamente quelli di un laico santo! ". " Pubblico attestato di riconoscenza per la sua lunga, appassionata, intelligente opera di educatrice, e di animatrice e collaboratrice di ogni attività sociale e assistenziale ": così è definita l'attività - e dunque la persona - di Adele Maggiora che per noi testimonia un altro modo di vivere la beatitudine degli affamati e assetati di giustizia. Il modo di chi non può dimenticare che la vera giustizia risiede nella carità, quella profonda, " riverbero " del Signore, che non nasconde le manchevolezze, ma le recupera in bene. La definizione riportata appartiene a un così detto " documento ufficiale ", cioè la motivazione del conferimento nel 1969 della medaglia d'oro di " Benemerenza civica " da parte della sua città natale, Chiavenna. " Era intuitiva e comprensiva nell'ascoltare, nel parlare, nel consigliare, nel domandare. … Possedeva una cultura vasta e insieme profonda, sussidiata dalla conoscenza del francese e del tedesco, che parlava e scriveva come l'italiano … Insegnava … in modo da renderne piacevole lo studio agli allievi, fossero pure adulti, come le guardie di finanza del suo paese di frontiera. 'Stupenda insegnante di lingue' la definì un ex allievo … ". " I viaggi in Francia, nel Belgio, nella Svizzera, nel Canada, allargarono il suo orizzonte intellettuale, ma non diminuirono il suo amore di patria, che fu di un ardore risorgimentale, e si manifestò specialmente nella scuola, nell'Azione cattolica, nell'attività civica, nella partecipazione operosa a quasi tutte le iniziative benefiche della sua Chiavenna … Un'attività intellettuale e pratica così intensa non sarebbe stata, forse, tanto feconda senza una sorgiva religiosa particolare … Non a caso scelse, come terziaria francescana, il nome di Ginepro, il più originale dei primi compagni di san Francesco, quello che nascondeva grandi doni mistici non solo nell'umiltà del lavoro manuale, ma nell'arguzia pepata … Tutta la sua vita fu un ammonimento da ricordare: la testimonianza di un cristianesimo vissuto con una virtù spesso eroica ". Beati i misericordiosi " Viscere di misericordia ": è uno dei più dolci attributi del Signore, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù: lo stesso Signore che è benedetto come il " misericordioso" anche dall'Islam ( che lo chiama " Allah " ). La beatitudine di chi è misericordioso è in diretta comunicazione con il Signore. Ed è bello che a testimoniarla possiamo indicare tre figure femminili. La prima, e forse per noi più lontana nel tempo, è Virginia Romanelli. Come nei casi precedenti, anche per Virginia non si può parlare sicuramente di una vita eccezionale, tanto meno di una vita sotto i riflettori. Virginia nasceva proprio all'inizio del secolo, anno 1900; nel 1927 si laureava all'Università Cattolica di Milano, entrando quasi subito nell'insegnamento, che la doveva assorbire per oltre quarant'anni. " L'insegnamento della filosofia - a cui portava una preparazione solidissima, arricchita da un aggiornamento assiduo, esteso ai problemi psicologici, sociali e politici - era per lei vita, era missione svolta in pienezza, con spirito soprannaturale e con grande apertura verso i giovani ". Sono piccole, sommesse notazioni quelle consegnateci dalle sue compagne d'Istituto, che le devono molto. Virginia aveva curato a lungo la formazione delle aspiranti, aveva svolto un lavoro prezioso per la revisione postconciliare delle Costituzioni. Aveva lavorato fino all'ultimo a un insieme di appunti organici per la continuazione della " storia " dell'Istituto. Aveva composto anche la preghiera che tutte le componenti del suo Istituto ogni giorno recitano, una preghiera a Cristo Re che diventa segno del legame che le tiene misteriosamente ma tenacemente unite, pur nella 'diaspora' della vita. Padre Gemelli, che non era certo tenero e largo di lodi, l'aveva definita " una perla " quando aveva iniziato la sua professione di educatrice presso l'Istituto Santa Maria di Bellinzona, nel Cantone Ticino. E così è ricordata. Scrive Carmen P.: " Quanta riconoscenza le dobbiamo! Possedeva una ricchezza interiore, spirituale e culturale che contagiava: per il suo impulso di simpatia, semplicità e umiltà, per la natura aperta a ogni rapporto umano e sociale, nei confronti del mondo di oggi, dei bisogni della Chiesa e dei fratelli, degli avvenimenti e delle correnti diverse ". Come per gli altri " testimoni " fin qui " escussi " nel nostro ideale e beatificante " processo ", è la morte il momento della verità per Virginia. " Si rese conto chiaramente delle sue condizioni, ne parlava in termini espliciti, con distacco e serenità, come se non si trattasse di lei; e pregava, pregava sempre più intensamente preparandosi all'incontro col Signore … Ora ha raggiunto la meta: a noi lascia il ricordo di una personalità forte e matura, di una vocazione vissuta nel totale dono di sé, con una coerenza senza incrinature ". Stare accanto ai giovani con dedizione assoluta, aiutarli a crescere, a maturare, culturalmente e spiritualmente, aiutarli a far emergere dentro di sé l'adulto, il responsabile: questo l'impegno di una vita, quella di Virginia, che ha avuto in dono da Dio " viscere di misericordia ", viscere materne, anche se nella carne Virginia madre non fu mai. Vittoria Quarenghi era nata a Prezzate ( Bergamo ) il 1° luglio 1934. Figlia primogenita di una famiglia di operai, a 18 anni perdeva il padre e si trovava di fronte alla necessità di sostenere economicamente la famiglia. Appena diplomata maestra, invece di iniziare gli studi universitari com'era sua intenzione, incominciò a insegnare nelle elementari di vari paesi, fino ad approdare a Longuelo, quartiere nuovo della periferia di Bergamo, dove si stabilirà con la sua famiglia tutta di donne: la mamma, una zia, due sorelle. Più tardi si iscrive alla facoltà di Pedagogia e nel 1966 si laurea. Frequenta poi la Scuola superiore di scienze e comunicazioni sociali dell'Università Cattolica dove si specializza in giornalismo; in seguito, nel 1970, intraprende gli studi alla Facoltà teologica di Milano, dove consegue il baccellierato. Lasciato l'insegnamento nelle elementari, avrà cattedra di filosofia e storia in vari licei. Questo fino al 1976, quando intraprenderà la carriera politica. Parallelamente all'insegnamento, Vittoria si impegna " a corpo morto " anche nella Chiesa locale. È presidente diocesana dell'Azione cattolica e nel 1976, quando l'episcopato italiano organizza un convegno nazionale sul tema " Evangelizzazione e promozione umana ", Vittoria è chiamata dal suo vescovo, Mons. Gaddi, a presiedere il comitato promotore bergamasco in preparazione al convegno nazionale. Così, in una nota biografica, viene ricordato quel periodo: " Si mette al lavoro con l'intelligenza e la razionalità che la contraddistinguono, ma anche con tenacia e sano realismo. Coordina e anima la riflessione e l'attività pastorale tra laici, preti e religiosi, uomini e donne, teologi e studiosi di scienze varie. Cerca di essere attenta a tutti, lascia che le persone possano esprimersi liberamente, ma riesce sempre a portare il dibattito all'essenziale e a giungere a conclusioni non solo teoriche, ma operative ". In questa frase sta forse la " chiave " per vedere Vittoria Quarenghi come testimone autentico di misericordia: " Cerca di essere attenta a tutti, lascia che le persone possano esprimersi liberamente ". Com'è diverso questo atteggiamento da quello che vediamo adottare, in tempi più recenti ma non lontanissimi da quelli di Vittoria, da capi e capetti, da supposti " leader ", il cui unico merito è l'arroganza! Così scriveva Vittoria: " La riflessione di un intero anno su tutte o quasi tutte le esperienze di evangelizzazione e promozione umana presente nella Diocesi di Bergamo, il clima di ascolto e di dialogo che si era instaurato tra noi senza pregiudizi o precomprensioni di sorta, mi avevano fatto cogliere al vivo la necessità, o almeno l'opportunità, che il mio impegno di cristiano si traducesse anche nel ricostruire un terreno di incontro e di dialogo tra le persone anzitutto, ma anche tra le diverse espressioni culturali, sociali e politiche … ". All'impegno ecclesiale Vittoria in quello stesso 1976, aggiunge quello politico, incoraggiata proprio dal messaggio implicito in " Evangelizzazione e promozione umana ". È anno di elezioni e una valanga di preferenze accompagna Vittoria a Montecitorio, nelle file della D.C. È la stessa Quarenghi a dirci perché questa scelta in una vita già spesa al massimo: " La mia attività nella Chiesa di Bergamo e la riflessione teologica di questi anni del dopo concilio mi hanno persuaso dell'esigenza dell'impegno dei cattolici in politica. Nel pluralismo della ideologia contemporanea è urgente che i cattolici siano presenti là dove, ogni giorno, si gioca il futuro dell'uomo e della libertà ". Verrà rieletta anche nel 1979 e nel 1983. Quando, i fine settimana, torna a casa dopo estenuanti giornate romane, Vittoria non riposa; la sua gente le chiede di tutto: conferenze, dibattiti, tavole rotonde, riflessioni personali, disbrigo di pratiche eccetera eccetera. Vittoria svolge questo immane lavoro " sempre da laica credente, impegnata nel temporale, rispettosa dei valori intrinseci delle realtà terrestri ma con un continuo riferimento, fatto di fede e di speranza, alla costruzione del Regno ": sono ancora le note biografiche a fornirci questa spiegazione. Il cammino vocazionale di Vittoria l'aveva portata ad aderire a un istituto secolare: una scelta tenuta praticamente segreta per essere " testimone autentica dei valori umani e cristiani che si possono vivere ovunque e in ogni condizione, anche la più rischiosa ". Nel 1979 Vittoria è sottosegretario alla Sanità nel primo governo Cossiga e approfitta di questa circostanza per lavorare a favore della famiglia. " Ma è più tardi ( 1980-81 ) che la vediamo in prima fila con passione, lucidità e determinazione, nel fondare e animare il Movimento per la vita. Lo presenta nel 1980, anno in cui nasce una sezione a Bergamo, sulla stampa cittadina: 'È nato a Firenze nel '75. È una libera associazione di laici, uomini e donne che, in un contesto culturale sempre meno attento al valore della vita, si sono impegnati e si impegnano a creare le migliori condizioni perché il valore immenso della vita sia riconosciuto a rispettato in ogni sua espressione e momento, dal concepimento fino alla vecchiaia, anzi fino alla morte' ". In quegli stessi anni si rifa vivo il male che già l'aveva colpita. " Quando arrivò la malattia fu difficile per Vittoria capire il senso d'una sofferenza che la costringeva a limitare la sua attività. Ma poi affrontò con serenità e lucidità il venir meno delle sue forze fisiche accettando, offrendo e continuando a interessarsi dei vari problemi anche dal letto di un ospedale. La morte non la colse di sorpresa. In una lettera a una amica, molto tempo prima, così scriveva: 'Il tema dominante delle mie riflessioni è quello della morte. È il mio tema preferito, sono convinta che sarà il momento più vero della mia vita'. … Trascorse la 'giornata per la vita' del 5 febbraio 1984 in una cllnica di Bergamo, in lucida e serena agonia. Morì nelle prime ore del mattino del 6 febbraio. Aveva vissuto 49 anni e otto mesi: una vita intensa, senza soste, di una donna forte, energica, esigente, severa " ( dalle note biografiche ). Nelle ultime ore aveva pregato con il salmo 23 " Il Signore è il mio pastore … ": il Ricco di Misericordia l'aveva accolta accanto a Sé dopo molto dolore. " Restano nella memoria le parole di Vittoria, che compaiono sull'immagine ricordo: 'Chiediamo insieme ogni giorno al Signore, l'una per l'altra ( le sue amiche di ideale - n.d.r. ) e per tutti gli uomini, anche solo una piccola scintilla di vero Amore ". Luciano Radi, deputato al parlamento, così dirà di lei: " In Parlamento ho incontrato due santi: Vittoria Quarenghi e Giorgio La Pira ". Un'altra insegnante, un'altra testimone della misericordia: Maria Antonietta Sairani, che gli amici ricordano con l'affettuoso diminutivo Juccia. Vita breve e intensa anche quella di Juccia: soltanto 57 anni ( muore nel Giovedì Santo del 1991 ). " Una donna realizzata in una pienezza e armonia di vita in cui ha espresso la sua femminilità delicata e forte e la sua umanità, e ha fatto coincidere l'esplicazione delle sue capacità con la risposta alla vocazione cristiana, espressa nel dono di sé ": in questo modo la ricordano alcune amiche. Era laureata in economia e commercio, era insegnante. Per i suoi studenti era una professoressa esigente, ma capace di dialogo e partecipazione. Era una educatrice a tutto tempo: nella scuola, come impegno professionale, nell'associazionismo cattolico. Raccontano ancora le amiche: " Con Juccia era bello incontrarsi e stare. Aveva come poche persone, coltivato al di là della propensione iniziale, la capacità di offrire e di ricevere amicizia e amore da persone di ogni età e condizione sociale. Sapeva intrattenersi con tutti, dai bambini, anche i più piccoli ai quali raccontava storie e proponeva giochi allegri, agli adulti che ascoltava con attenzione e pazienza, dalle persone più semplici a quelle di profonda cultura e scienza. Queste persone erano presenti costantemente nel suo spirito e al suo affetto con semplicità. Per i suoi amici era naturale ricorrere a lei per un consiglio, un'indicazione e trovavano in lei, oltre a un'attenta ascoltatrice, spesso anche la soluzione dei loro problemi. Senza perdere tempo, metteva in contatto una persona con un'altra che la poteva aiutare, creando così le premesse di altre amicizie ". Qui fermiamo la citazione perché le ultime parole sembrano essere il punto focale della sua " misericordia ". La capacità di mettere la gente in relazione, in relazione di solidarietà il più spesso delle volte. Una qualità rara che Juccia mise a partito anche con l'ultima esperienza della sua vita, quella di rettrice del collegio universitario Santa Caterina da Siena a Pavia, la città dove viveva e operava. Nel collegio aveva saputo creare " un clima di accoglienza e di famiglia. Seguiva le studentesse a una a una, anche quando lasciavano il collegio, godeva dei loro successi professionali ( aveva voluto l'associazione delle ex allieve e una serie di quaderni che riportassero i loro studi ) e ne conosceva le vicende umane. Era presente ai loro matrimoni e mostrava con orgoglio le fotografie dei bambini che dilatavano la famiglia delle 'Caterinette'. Juccia desiderò aprire il 'Santa Caterina' anche a studenti provenienti dall'estero: Uganda, Polonia, Spagna, Stati Uniti. Cercava di introdurle nell'ambiente universitario della città e considerava la loro presenza un'occasione di apertura verso i problemi della mondialità, le situazioni di vita e le culture diverse per tutte le allieve " ( sono sempre spigolature dalle note biografiche redatte da amiche ). Donata totalmente al Signore, nella sequela di Gesù Juccia si è impegnata " per riconoscere praticamente il primato dell'iniziativa di Dio e ha coltivato un atteggiamento di obbedienza come dimensione costitutiva e stabile della vita di fede e non come semplice valore temporaneo di certi momenti e situazioni: obbedienza vissuta come pacificante soprattutto in esperienze di difficoltà e tribolazioni, obbedienza tutt'altro che passiva, piena di senso di responsabilità e spirito d'iniziativa ". Quali le linee portanti della sua testimonianza nel mondo? È Juccia stessa a rispondere a questo interrogativo. Tre gli atteggiamenti di fondo colti da Juccia e che dovrebbero caratterizzare i rapporti del cristiano con la realtà umana in cui vive. Rapporti di stima ( " la stima verso l'altro è disponibilità all'accoglienza, all'ascolto, al desiderio di scoprire la realtà positiva che è presente nell'altro … Per crescere nella stima per gli altri occorre coltivare il senso della tolleranza e della complementarietà … " ). Rapporti d'amore ( " la vita trinitaria è caratterizzata dalla originalità delle tre Persone, che si esprime nell'amore fino alla comunione … l'individualità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo non è contrapposizione ma dono, ricchezza reciproca " ). Membra vive del gruppo umano ( " Credere che dentro la realtà umana, sociale, politica, mondana è presente il Dio creatore, il Cristo Salvatore, lo Spirito che da Vita, dovrebbe portare il cristiano a trovarsi sempre e dovunque 'a casa propria', 'in famiglia' con un ruolo attivo, come un 'mandato', come una creatura che ha una vocazione a cui rispondere … c'è Qualcuno che manda e c'è qualcuno - io - che va, perché la vita è servizio e missione. Cristo ai suoi discepoli chiede di lasciare tutto non per il gusto della povertà fine a se stessa, ma perché essi siano pronti per la sequela e quindi la missione " ). Beati i puri di cuore Chi sono i " puri di cuore " cui si riferisce il testo di Matteo? Coloro che, a causa dell'" Unico Amore " della loro vita, riducono il loro cuore in minutissime briciole da regalare a chiunque incrocino. È il caso di Vittorina Minari, una donna come tante, che ha saputo capire, però, che l'amore è uguale sotto tutti i cieli, purché lo si sappia donare. Vittorina era nata ad Asola, provincia di Mantova, il 27 luglio 1921; la cattiva salute del padre costrinse la famiglia a lasciare il clima umido del mantovano per cercare luogo più salubre vicino a Varese. L'insediamento nel nuovo ambiente non fu facile: soprattutto a causa di quel ricordo, Vittorina divenne particolarmente aperta e sensibile ai problemi degli immigrati che, negli anni immediatamente seguenti il dopoguerra, tentavano in sempre maggior numero la fortuna nel Nord Italia. Per loro diventò un punto di riferimento soprattutto per aiuti immediati. Arrivata in età da poter lavorare, dopo aver completato soltanto le elementari, Vittorina trovava lavoro come operaia in una fabbrica di ceramica. Ma la giovane donna aveva in mente un altro destino per sé: avrebbe voluto entrare nella Congregazione missionaria fondata dalla Madre Cabrini. La numerosa famiglia, la volontà della madre che non riusciva ad accettare la separazione, costrinsero Vittorina ad accantonare il suo sogno. La conoscenza degli Istituti Secolari e della loro proposta di vita e di consacrazione, fece comprendere alla giovane donna che il suo destino era diverso: rimanere nel cuore della propria famiglia, aiutare questa a tirare avanti e nello stesso tempo donarsi totalmente al Signore. Per essere " missionari " realmente e pienamente, non era sempre necessario andare lontano; l'ideale poteva incarnarsi in qualunque situazione di vita. Le sorti della famiglia Minari andavano intanto cambiando rapidamente: uno dei fratelli minori di Vittorina aveva dimostrato attitudini artistiche, tanto da indurre i suoi a fargli compiere altri studi oltre la scuola dell'obbligo. I Minari sono in grado, così di aprire una propria piccola fabbrica di lampadari di cui Vittorina diventa subito l'anima. È lei che sostiene i fratelli nelle difficoltà iniziali. È lei che si occupa dell'amministrazione, quando il fratello ragioniere deve lasciare il lavoro per rispondere alla chiamata militare. La fabbrica intanto si ampia, tanto da poter costituire una concreta occasione di lavoro per tanti compaesani. Così Vittorina si trova a dover affrontare un'altra svolta nella sua vita: le viene offerto di entrare nelle liste della D.C. per le elezioni amministrative. Onestà, trasparenza, grande cuore e coraggio indomito transitarono anche nelle sale del consiglio comunale attraverso la figura di questa donna. La carriera politica di Vittorina non durò a lungo, perché il 19 agosto 1975 un infarto la stroncava. Vittorina Minari: un'altra vita apparentemente senza particolari eroismi. Definizione soltanto parzialmente vera, perché in realtà Vittorina nascondeva un segreto, che si può cercare di individuare in uno dei suoi rarissimi scritti, quello preparato per il periodico Il Seme che poco prima della sua morte usciva con un numero speciale sugli Istituti Secolari: " Io sono di Cristo perché ho scelto Lui come oggetto del mio amore. Ogni giorno attraverso lo studio, la meditazione della Parola di Dio sono portata ad avere una maggiore conoscenza di Dio e di conseguenza ad amarlo generosamente; la grazia dei sacramenti e il sacrifico eucaristico diventano per me vita-amore. A questo punto, non ci sono più confini: so che ogni uomo è mio fratello, anche quando è ripugnante, anche quando uccide; in ogni situazione posso, nel mio possibile portare il mio aiuto, la mia parola; far conoscere Cristo che tanto ci ama. In famiglia, sul lavoro, nella politica, in parrocchia, nelle riunioni, nei ritrovi amichevoli il mio cuore esplode: l'amore vince ogni cosa e io mi lascio portare dall'Amore ". Parole esagerate? Concetti ridondanti? Forse possiamo sentirli così, con la sensibilità attuale, di chi cioè è stato sottoposto al martellamento di una cultura " gridata ", di chi è reso scettico dalla consapevolezza dell'ambiguità sita in ogni essere umano. Ma chi ha conosciuto personalmente Vittorina può testimoniare che le sue parole non sono retorica vuota, facile demagogia, sono verità. Chi parlava con lei di qualche problema, o se lo vedeva immediatamente risolto o sapeva con certezza che Vittorina avrebbe fatto di tutto per venirgli in aiuto. Gioia, trasparenza della verità, amore alla bellezza, amicizia: con queste parole la prof. Orsolina Montevecchi sintetizza la figura di Mea ( Bartolomea ) Tabanelli. Orsolina Montevecchi conosceva bene Mea, anche nel suo risvolto professionale di direttrice del collegio universitario " Marianum ", una autentica tradizione legata all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Mea aveva iniziato il suo servizio presso il collegio ad appena ventotto anni, arrivando nel 1945 a Milano dal suo nativo paese romagnolo. Era allora una bella ragazza bionda, statuaria, dall'aria vispa e intelligente che, nonostante la giovane età, si ritrovava a raccogliere l'eredità ideale, al collegio, delle illustri direttrici che l'avevano preceduta; l'ultima, Alda Miceli, aveva giusto lasciato il collegio per Roma dove era stata nominata presidente nazionale della Gioventù Femminile di Azione Cattolica. Mea non cercò di imitare nessuna delle sue illustri " predecessore " e trovò un suo stile di rapporto con le " mariannine " ( così sono affettuosamente chiamate dai milanesi le ospiti del collegio ) tutto suo, originale. Del resto padre Gemelli, il " magnifico Rerrore ", ottimo conoscitore dell'animo umano, aveva percepito fin dal primo incontro di che pasta era fatta la giovane romagnola. Al Marianum Mea rimase ventinove anni, cioè fino alla morte arrivata, per un incidente d'auto, nel 1974. La Tabanelli aveva idee chiare su ciò che doveva essere un collegio universitario. Lo dice lei stessa in una relazione tenuta a un incontro di direttrici di pensionati universitari cattolici nell'anno accademico 1970-71: " Linee di educazione morale in un collegio universitario cattolico femminile ". Così si esprimeva a proposito del collegio: " Lungi dall'essere la casa albergo dello studente, o anche solo un pensionato, è qualcosa che completa l'Università stessa, luogo in cui si sperimenta la ricchezza della vita in comune, in un gruppo tanto più vitale quanto più è vario nelle sue componenti, e in cui l'età, l'ambiente, la lealtà dovuta anche a una formazione critica e autocritica permettono e favoriscono la genuinità e la vitalità del rapporto …, un ambiente umano vero, senza formalismi e senza costrizioni, in cui da parte di chi dirige i dati dell'esperienza per essere validi devono essere inseriti nella novità di espressione delle nuove generazioni. Condizione perché ciò si realizzi: vivere la giornata in mezzo alle giovani per una conoscenza reciproca che genera l'aiuto scambievole; non guardare o osservare, ma vivere insieme per usare lo stesso linguaggio e capirsi. Il terreno d'incontro sarà quello della verità, della carità, della lealtà ". Mea veniva da una famiglia numerosa, di solide tradizioni morali e religiose; dei romagnoli aveva virtù e difetti che la Montevecchi così enumera " esuberante, aperta, sincera, facile al riso, concreta, amante della buona tavola, cordiale e pronta all'accoglienza, ma anche capace di reazioni energiche e improvvise soprattutto di fronte alla menzogna e alla doppiezza. Aveva fiducia negli altri - anche troppa dicevano alcuni -, ma se si accorgeva che di quella sua fiducia si era abusato, reagiva fortemente, talora in modo imprevedibile. Apprezzava la lealtà sopra ogni cosa. Quel suo nome, Bartolomea, così lungo e antiquato, le piaceva perché Bartolomeo-Natanaele era l'aspostolo di cui Gesù aveva detto: 'Ecco un vero Israelita in cui non c'è inganno' ". L'amore per la verità aveva causato a Mea anche dolori, ma la sua intelligenza chiara ed equilibrata, soprattutto il suo amore per il Signore, cui si era consacrata, le facevano superare ogni periodo buio. Si era diplomata maestra, aveva insegnato per un po' in una scuola elementare vicino a Roma, dove si trovava insieme alla sorella Maria, per frequentare la facoltà di Magistero. A Roma aveva incontrato Armida Barelli che le aveva proposto, terminata l'università, di venire a Milano, con la sorella, per lavorare all'Università Cattolica. La laurea fu presto conseguita, con risultati tali ( 110 e lode e una tesi di storia moderna ) da far chiedere al prof. Pietro Silva, di rimanere come sua assistente. Mea, e la sorella, avevano però già deciso diversamente. Così ebbe inizio l'esperienza milanese. " Che tutti possano avere la mia gioia, credere all'amore e camminare ogni giorno per possederlo di più ": ogni avvenimento era per Mea fonte di gioia, quella profonda che ha la sua fonte diretta nel Signore. Una gioia che la sosteneva nei periodi bui. Come quello del Sessantotto, della grande contestazione giovanile, iniziata in Italia proprio nelle aule della " Cattolica ". Anche Mea subì attacchi duri e ingiusti, ma si tenne sempre fedele a una linea di prudente fermezza. Il Marianum non fu " occupato " o addirittura sfasciato, come invece toccò ad altri collegi universitari. Mea si rendeva conto che il momento era grave, che i giovani erano in preda a una crisi profonda, che si sarebbe segnata un'epoca; che al di là degli stili violenti, c'era del giusto nella rabbiosa rivolta. Passata la bufera, i fatti le diedero ragione. Amava la bellezza, anche la sua bellezza, dono del Signore e " restituita " al Signore. E cercava di coniugare armonia esteriore con armonia interiore: e la ricercava in sé e negli altri, con sensibilità profonda e anche con acuto senso critico. Aveva il culto dell'amicizia, dono del suo grande cuore che aveva posto per tutti. Per i suoi familiari, per le " mariannine ", generazioni e generazioni, che la inondavano di lettere; per tanti preti che riusciva ad aiutare magari nei momenti critici. Suoi amici erano anche i santi: san Giuseppe, san Bartolomeo, santa Teresa di Gesù Bambino. " Degli amici terreni affermava di amare ognuno di essi di amore totale ma diverso per ognuno di loro ". La sua non era una amicizia invadente, sovrabbondante: c'era quando " doveva " esserci. Ciascuno, diceva, doveva avere " spazio per espandersi e maturare liberamente ". E ancora: " Di certo il Signore ci ha ordinato di amare, subito dopo lui, il prossimo per la nostra felicità già su questa terra, e ogni volta che incontro o penso o prego per i miei amici ho un po' di paradiso in cuore ". Anche per Mea il momento della verità arriva con la morte. Che non temeva come momento finale, ma per i suoi contorni di sofferenza, di agonia. Pregava il Signore perché questa esperienza le fosse risparmiata: e il Signore la esaudì con una morte imprevedibile e tragica. Al suo funerale le " mariannine " cantavano e cantavano, in una basilica, quella storica di Sant'Ambrogio di Milano, colma di fiori bianchi: non un momento di dolore, ma un momento di festa, di nozze. Angela Sorgato è entrata nel Guinness dei primati: per ben cinquantotto anni è stata alla direzione del settimanale femminile Alba, un tempo lunghissimo in una vita molto lunga e ricca. Angela era nata a Schio il 14 ottobre 1894 in una bella famiglia della media borghesia. Si era diplomata ragioneria e aveva iniziato a lavorare entrando in banca. Ma non doveva rimanere a lungo bancaria. Decisivo per lei doveva essere l'incontro con la spiritualità paolina che le offriva un istituto secolare " pensato " dal beato cardinale Andrea Carlo Ferrari e realizzato dal segretario del medesimo arcivescovo di Milano, don Carlo Rossi. La vita di Angela, che si era formata nell'Azione cattolica, diventava così tutta del Signore. Una vita entusiasmante, vissuta " sugli spalti " in una società, quella del Ventesimo secolo, ricca di fermenti, di mutamenti rapidi e radicali. Per inclinazione e per obbedienza, Angela dapprima si occupa del quotidiano cattolico Avvenire d'Italia, a Bologna, di cui cura la diffusione. Poi nel 1922, il pirotecnico don Carlo Rossi, fonda a Milano, fra l'altro, un settimanale femminile cattolico, Alba appunto. A dirigerlo sono prima alcuni austeri signori, poi una donna, fino a che - nel 1927 - le redini sono messe in mano alla giovane signorina Sorgato. Da quel momento la vita del giornale e la vita di Angela sono un tutt'uno strettamente intrecciato. Il settimanale è davvero un punto di riferimento per tante donne, giovani o adulte credenti e anche non credenti. La felicissima " penna " di Angela sa spezzare in pane della Parola in modo che tutte, anche le meno colte, possano comprendere. La scrivania della direttrice è sempre ingombra di chili di posta: le chiedono consiglio, ma anche aiuti ( morali e materiali ) donne di tutt'Italia e di tutte le età, nubili, sposate, religiose, laiche. Anche uomini si affidano a lei; molti sacerdoti, spesso in crisi, che trovano nella signorina Sorgato una fonte d'aiuto sincero, veritiero, discretissimo. La Sorgato fra i primi sente l'importanza di impartire una educazione alla vita affettiva, alla sessualità: questo in un tempo in cui di " quelle cose " non si parlava nemmeno tra madre e figlia. I suoi semplici e sostanziosi libri sono acquistati a migliaia, regalati da educatrici sollecite a ragazze che si preparano a diventare moglie e madri. " Nessuno sa il bene che Angela ha fatto di nascosto da tutti, anche da me che ero la sua segretaria ": così ha avuto occasione di ricordare L.T., che oltre che segretaria è stata compagna della Sorgato nella sua avventura spirituale. Cuore aperto e grande discrezione: ecco le qualità della Sorgato. Che si è trovata a maneggiare anche " materiale esplosivo ", come quando da una giovane donna con una famiglia importante e sconquassata alle spalle, si vide consegnare i prodigiosi " quadernetti " sui quali un bimbo di pochi anni ( il fratellino morto della giovane donna ) aveva annotato i suoi incontri con Gesù, visioni straordinarie che il piccolo aveva annotato con innocenza. Quei diari erano diventati un libro, anzi due ( Il bimbo che parlava con Gesù e Un bimbo nella foschia ) per espresso desiderio della sorella, che però voleva il più assoluto anonimato. Due libri, due best setter, che ancora oggi " vendono ". L'amicizia con la sorella del " Bimbo " era poi continuata negli anni, un'amicizia intensa, un legame profondo e stretto. La Sorgato era stata gratificata anche da un grande privilegio, l'amicizia di un uomo interessantissimo, di un Papa difficile e santo, Pio XII. Papa Pacelli aveva una grandissima stima della Sorgato tanto che, per meglio conoscere lo stato d'animo della parte femminile del gregge italiano, chiedeva alla Sorgato una sorta di rapporto annuale: una collezione, rigorosamente anonima, della parte più interessante della corrispondenza che la direttrice di Alba riceveva. Questi appuntamenti annuali ( in Vaticano forse esiste ancora oggi qualche anziano monsignore che ricorda " l'udienza Sorgato " ) erano un momento culminante per la vita di Angela e ( inconsapevolmente ) delle " Azzurre ", le lettrici così chiamate per il titolo della rubrica di corrispondenza ( " Rete Azzurra " ); si era stabilita una sorta di " liturgia ": le lettere erano raccolte in un volume finemente rilegato in pelle bianca con sovrimpressioni in oro, che la signorina Sorgato avrebbe posto nelle auguste mani del Pontefice. E questo durò fino a che Papa Pio XII rimase in vita. Angela, piccola donna " di fil di ferro ", era una donna di grande coraggio: quando una crisi generale dell'editoria e alcune operazioni sbagliate portarono alla chiusura del " suo " settimanale, non si ritirò, come pure avrebbe potuto legittimamente fare, dato che ormai gli anni sulle spalle non erano pochi. Si imbarcò invece in una nuova avventura, la Cooperativa che avrebbe permesso ad Alba di uscire nuovamente. I suoi ultimi anni furono operosi, anche se il passo si faceva sempre più incerto e gli occhi non vedevano bene. Si alzava prestissimo, pregava lungamente, Eucaristia quotidiana presso il monastero della Visitazione, il giornale, la corrispondenza con le lettrici, poi ancora preghiera e lettura: ecco la sua giornata-tipo, praticamente quasi fino all'ultimo. Angela è morta il 2 dicembre 1987. Sull'immaginetta che la ricorda una citazione da Baruc ( Bar 3,34.35 ): " Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono: Egli le chiama e rispondono: Eccoci! e brillano di gioia per Colui che le ha create ". Beati gli operatori di pace Anche le " vite sugli spalti " corrono il rischio di essere dimenticate. È il caso di Elsa Conci, una donna che, nel marasma in cui è precipitata la politica italiana negli anni Novanta, può con il suo esempio, aiutare a riconciliarci con quel mondo intricato. Elsa era nata a Trento il 23 marzo 1895, prima di cinque sorelle. Il padre, avvocato, era un illustre esponente del Partito Popolare, deputato del Trentino presso il Parlamento austriaco e poi al Senato italiano. La mamma era un'insegnante di pianoforte. La giovane Elsa riceve la sua istruzione nelle scuole austriache; frequenta poi l'università a Vienna quindi a Roma dove si laurea in lettere e lingue moderne. Si perfeziona in germanistica e si diploma pure in pianoforte. E " naturalmente " entra nella Fuci. Laureata, inizia a insegnare tedesco nelle scuole magistrali di Trento. Nel 1927 accoglie in casa i primi bambini di quella che sarà la sua numerosa " famiglia ", dove farà da mamma a tanti ragazzi che ne erano privi, investendo nella loro educazione tutti i suoi beni. Alla fine della seconda guerra mondiale dava inizio al movimento politico delle donne, prodigandosi per la loro responsabile partecipazione alla vita democratica di un Paese tutto da ricostruire. Nel 1946 era eletta deputata alla Costituente nelle liste della D.C. Nelle elezioni successive, fino al 1963, viene rieletta con una montagna di preferenze. Nel partito è a fianco di De Gasperi, di Zaccagnini, di Moro; fa parte della commissione dei " 18 " per gli statuti speciali, in forza della sua particolare sensibilità per i problemi delle minoranze. È delegata nazionale delle donne D.C. e fa parte della prima delegazione italiana al Parlamento di Strasburgo. Elsa Conci muore a Trento, dopo alcuni mesi di malattia, il 1° novembre 1965. Perché la possiamo considerare una operatrice di pace? " Era il Giorno dei Santi quando morì e il 4 novembre quando fu sepolta: due feste di popolo, di chiesa l'una, l'altra di patria. Non si può non vedervi un segno emblematico della singolare unità che nella sua vita Elsa Conci aveva realizzato tra la fede e la storia, tra l'amore di Dio e l'amore degli uomini; è un sigillo simbolico di un'esistenza che aveva saputo vivere la vocazione umana e cristiana nella dimensione della socialità. Con quante persone avesse intrecciato profonde relazioni di vita, lo si vide ai suoi funerali: una marea di folla la più eterogenea, dove si trovarono insieme umili e potenti, venuti da ogni dove a esprimere un consenso e un affetto che lasciavano immaginare la qualità umana del rapporto avuto con lei. Chi era questa donna che aveva saputo essere così significativa per tanta gente? Per la quale si erano mosse da Roma le autorità, un vescovo aveva tenuto l'elogio funebre e presieduto le esequie, i militari della guardia al Municipio avevano presentato le armi e tanti sindaci si erano sentiti in dovere di venire a nome delle loro popolazioni? Chi era per tanti che piangevano? ": così scrive Sitia Sassudelli, che l'aveva conosciuta in profondità. La risposta agli interrogativi, anche per la Sassudelli, è semplice, lineare: Elsa era stata una cristiana a tutto tondo, che aveva operato il bene nel nascondimento. Era una donna brillante, intelligente, colta, determinata, concreta, esuberante per temperamento. Possedeva una umanità ricca che non aveva tenuto per sé, trafficando i tanti talenti solamente per suo frutto, ma che aveva donato agli altri, specialmente ai più poveri, anche attraverso lo strumento politico, davvero strumento di " servizio ". " Della politica Elsa aveva probabilmente l'istinto nel sangue … Di politica si parlava in casa e in casa passavano i grandi protagonisti di allora, a cominciare da De Gasperi ". La sua attività politica si svolgeva in tre direzioni. La cura del collegio elettorale di Trento, della gente, dei problemi concreti, andando instancabilmente di paese in paese, di casa in casa. L'animazione del movimento femminile D. C. per far prendere coscienza alle donne della parità con l'uomo, del dovere di partecipare, dei propri diritti e doveri di cittadine responsabili. Questo soprattutto attraverso la preparazione culturale: ancora oggi si ricordano i suoi corsi della Camilluccia per far apprendere alle giovani come fare politica con idee chiare e senso di responsabilità e servizio. La direzione del partito, poiché sentiva in modo acuto la responsabilità della D.C. di " affermare nei fatti, nel confronto politico, nel lavoro legislativo la fedeltà e la coerenza con gli ideali cristiani ". L'educazione familiare, la conoscenza delle lingue sostenute da un profondo senso cristiano dell'universalità, la portarono ad allargare i suoi orizzonti all'Europa e ad operare per avviare concretamente un Movimento femminile europeo. " È possibile cogliere la spiritualità di questa donna, che per vent'anni ha fatto politica si può dire 24 ore su 24, sempre in mezzo alla gente, sempre 'in azio ne', spesso in azioni cariche di responsabilità? ". Questa dimensione non la si dovrà cercare " negli intervalli ", in spazi residuali: la vita di Elsa non avrebbe potuto essere così feconda se non fosse stata sostenuta da una spiritualità a tutto tondo, a tempo pieno. Elsa trovava l'alimento nelle Scritture, che " frequentava " assiduamente; negli aiuti che le dava l'Istituto Secolare al quale apparteneva. " Così mostrò che si può praticare il Vangelo fin nei suoi più esigenti consigli di perfezione anche nella politica ". La ricerca del bene comune, che è ricerca di pace universale, nell'esempio di Elsa Conci va " di pari passo con la ricerca dell'assoluto del Regno ". Pallanza, lago Maggiore: qui il 18 ottobre 1925 nasceva Mariuccia Spriano che gli amici chiameranno " la formichina " perché piccola e minuta, o " l'angelo dei dimenticati " perché i suoi prediletti erano quelli che nessuno di solito ama. Gli anni della giovinezza erano stati anni difficili, la guerra fra l'altro aveva complicato di molto la vita. Mariuccia meritava davvero il nomignolo " formichina " perché come uno dei piccoli insetti lavorava instancabilmente e silenziosamente, fra gli impegni di famiglia ( la mamma era malata ), gli impegni di studio e di formazione. Nel settembre 1944 si iscrive comunque alla facoltà di farmacia nell'Università di Torino e con una volontà ferrea riesce a condurre avanti gli studi a suon di borse di studio, cioè con medie altissime. " Non solo le tasse erano pagate, ma si assicurava una competenza e una professionalità a tutta prova, veramente invidiabile. Tutto, anche negli studi, doveva servire a due intenti: dare gloria a Dio e servire i fratelli ". Mariuccia ( Jucci per gli amici ) si laureava e iniziava, dapprima come insegnante, il suo itinerario di lavoro e di amore, un amore che derivava direttamente dall'Amore. Nel mondo ma non del mondo: ecco l'ideale che una consacrazione secolare l'aiutava a realizzare. A scuola la piccola professoressa irradiava amore; quando una legge escluse i laureati in farmacia, nel 1950, dall'insegnamento della chimica, Mariuccia trovò lavoro ad Asti, presso la " Farmacia Garello ": e anche lì diventò presto un polo di attrazione una dispensatrice discreta di tanto bene. Così corrono gli anni di una vita semplice, lineare. Nel 1975 incontra un altro personaggio singolare, il giovane seminarista Pietro Gonella, condannato da una grave malattia, che ottiene per specialissimo dono di Paolo VI di essere ordinato sacerdote qualche giorno prima di morire, pur non avendo potuto completare il corso di studi. L'opera di carità di Mariuccia " è di una vastità incredibile. Non si capiva come potesse compiere tutta quella attività che sosteneva senza fretta. Tutto il suo tempo lo spendeva per gli altri: gli anziani della Casa di riposo, i malati dell'ospedale o a domicilio, i nomadi della frazione Trincere ". A 57 anni il grande " salto " nel Camerun per essere " missionaria, sorella e mamma ": una vita difficile, con problemi sempre nuovi. Povertà, lebbra, abbandono: grandi mali contro i quali Mariuccia comincia a lottare sempre con forza e allegria. Fino a che, nel 1986, un male terribile non comincerà a invadere il suo corpo. Ma anche la malattia non la sconfigge. Il suo abbandono a Cristo è totale: " Fare esperienza, quasi cantare l'amore del Padre, quando il suo corpo si andava consumando … Soltanto la potenza dello Spirito Santo poteva operare queste meraviglie di grazia. A soffrire e a morire così, non ci si improvvisa ": così scriveva mons. Canale. Si spegne serenamente il 1° aprile 1987. E la pace che aveva cercato di costruire trova ancora in lei una testimone. Beati i perseguitati per causa di giustizia Per l'ultima beatitudine, per quella che forse oggi ci interpella più da vicino, nella temperie sociale e politica in cui viviamo, è giusto ricordare un uomo che di questa beatitudine è stato testimone coerente, Giancarlo Brasca. Era nato a Mezzago, in provincia di Milano, il 1° agosto 1920 in una famiglia ampia, di grandi tradizioni morali. Nel 1938 si era iscritto all'Università Cattolica del Sacro Cuore dove nel 1942 conseguirà la laurea in filosofia discutendo una tesi sui presupposti filosofici della pedagogia di Fichte, tesi preparata sotto la guida di mons. Olgiati. Il 2 novembre dello stesso anno prenderà servizio in Università, la " sua " università, un servizio che, attraverso varie responsabilità, fino alla direzione amministrativa, non sarà costretto ad abbandonare che dalla morte. Rappresentante italiano nell'Ocde ( Organisation de coopératìon et de développement économique ) partecipa nel 1976 al Programma sulla gestione degli Istituti di insegnamento superiore. Nel 1943-1944, mentre presta servizio militare presso il Distretto dislocato ad Abbiategrasso, collabora con l'" Ufficio Falsi " creato da padre Carlo da Milano e dal prof. Ezio Franceschini negli edifici di piazza Sant'Ambrogio, per aiutare il " clandestino ". Con grave rischio personale trafuga carte di identità, documenti bilingui e di lavoro, certificati militari di tutte le specie: fogli di lavoro e di licenze, fogli di congedo assai preziosi per i partigiani e i renitenti alla leva. È nell'elenco delle persone sospette e per il rotto della cuffia riesce a evitare la deportazione in Germania. Negli anni dell'episcopato milanese di Giovanni Battista Montini è presidente diocesano dell'Azione cattolica. Nel 1972 è nominato consultore della Sacra Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari ed è anche nominato presidente della Conferenza Mondiale degli Istituti Secolari. Muore a Roma, nel Policlinico Gemelli, il 24 gennaio 1979. Giancarlo Brasca era un uomo di intelligenza acutissima e di grande cultura. Meravigliava il fatto che in università non avesse una docenza, ma si occupasse di questioni amministrative. Forse questo lavoro non era frutto di una scelta sua ( ma è un'illazione! ), bensì frutto di un'accettazione della volontà del Signore, che gli indicava quella come la strada maestra. Bibbia e giornale: a suo dire gli elementi fondamentali della sua esistenza in cui coniugava fede e storia, fede e impegno nel mondo. Era attentissimo ai problemi sociali. Così scriveva: " Il lavoratore - a qualunque categoria egli appartenga - trova nel significato elementare umano della croce di Cristo il punto diretto e immediato di aggancio al mistero salvifico di Dio. In un certo senso, non ha bisogno di salire a Dio, perché Dio piuttosto è disceso a lui, alla sua condizione. Un punto che andrebbe molto approfondito nel meditare sulla passione di Cristo è il suo innegabile aspetto profano. Noi siamo troppo abituati a riflettere sui significati più profondi - spirituali, divini - di questo che è l'evento centrale della storia, e troppo poco sulla concretezza umana che pure è il loro supporto. Questi valori sono ovviamente il nucleo del mistero e non ci si fermerà mai abbastanza su di essi; ma troppe volte non si mette sufficientemente in luce che essi sono stati vissuti dal Verbo incarnato nella concretezza della sua umanità e che rappresentano sostanzialmente un modo sublime, divino, di vivere eventi non dissimili da quelli degli altri uomini. La passione di Cristo non ha concretezza storica se non è vista, come effettivamente fu inserita nella comune condizione umana e pertanto come uno dei momenti più efficaci della incarnazione del Verbo nella storia. Proprio perché uguale a noi, Cristo pratica per primo il Discorso della Montagna ". Basterebbe questa semplice notazione per misurare la profondità del pensiero di Giancarlo Brasca. Brasca aveva anche intuito la necessità di stabilire, in tempi ancora di " cortina di ferro " tutti i contatti possibili con i giovani d'Oltrecortina. Attraverso l'organizzazione che collega le università cattoliche, aveva conosciuto Karol Wojtyla, professore a Lublino e cardinale. Tra i due si era stabilita una amicizia quasi istintiva: e quando Brasca era morente, l'amico Wojtyla, divenuto nel frattempo Papa Giovanni Paolo II, gli fu accanto. La figura di Giancarlo Brasca è troppo complessa per poter essere " chiusa " nelle poche righe di questa rievocazione. La sua testimonianza di francescano nel mondo merita di essere approfondita e studiata. A noi basta qui il ricordo carico di gratitudine. Esperienze di frontiera di Marisa Sfondrini Mettersi totalmente a disposizione del Signore corrisponde, quasi sempre, a vivere in zone-limite, affrontare situazioni estreme, offrire la propria testimonianza in ambienti e condizioni più che difficili. Riportiamo qui alcune di queste esperienze come esempio di " prossimità possibili ". Ci sono dei nomi di battesimo, non ci sono i cognomi, non ci sono altri segni per identificare i vari protagonisti se non alcune citazioni dai racconti da loro stessi fatti. Sono infatti persone ancora viventi, che offrono la loro testimonianza non certo per diventare " personaggi pubblici ". Ciò che conta quindi non è tanto - e si comprende benissimo - individuare un volto probabilmente amico, ma dire che alla fantasia del Signore non si possono porre limiti: ogni campo deve essere arato con pazienza e vigore. Gli " esempi " - chiamiamoli così, con una bella e antica parola che forse fa storcere il naso a chi non la sente abbastanza moderna - sono raccolti in tre grandi " categorie " ( anche in questo caso il sostantivo è inadatto, ma non pare vi sia di meglio ): i piccoli " regni del male " che però non sorgono tanto lontano dai nostri occhi ( alcolismo, droga, AIDS, carcere ), i luoghi dell'ingiustizia ( come la fabbrica, il grande caseggiato popolare ), i luoghi delle nuove speranze ( chi accoglie i neonati, i bambini, chi lavora alla ricerca ). Nei piccoli " regni del male " Oggi all'alcolismo non si da troppa importanza: eppure ne muoiono più per gli effetti nefasti del " bicchiere " che per droga. Norma ( professione: caposala in un ospedale ) si è letteralmente buttata in questo mondo di persone che un po' per giorno discendono una china che sembrerebbe senza speranza. Il condizionale del verbo è d'obbligo perché invece una speranza c'è, in tanti sono risaliti a una vita dignitosa, autenticamente umana; ma generalmente non ci sono riusciti da soli. Norma ci racconta come e perché si è messa accanto ad alcuni di questi infelici. " Sulla mia strada ho incontrato gli alcolisti e ho deciso di camminare con loro. Non è stato facile, e per me c'è stato, in quella che considero origine della mia vocazione, il disagio, il rifiuto di portare una situazione familiare diversa da quella che era la normalità: mio padre spesso eccedeva nel bere ". Norma, da un disagio familiare, apprende una verità di solito ignorata: l'alcolista è un malato, non un vizioso. Norma abita poi in una zona dove l'alcolismo è purtroppo molto diffuso ancora oggi. Sono circostanze " esterne " che l'aiutano a comprendere dove vuole indirizzarla il Signore. " È provvidenziale la richiesta che il C.R.A. ( Centro recupero alcolisti ) mi fa di collaborare per avviare anche nella mia città questo servizio. Ciò risponde alle mie attese. Scelgo di coinvolgermi qui, perché si tratta di un volontariato aconfessionale, che sento a me più congeniale … Mi trovo così, attraverso la mia professione di caposala in ospedale e nello stesso tempo il mio ruolo di operatrice del C.R.A., a mediare tra ospedale, centro medico sociale e volontariato, libera da contrapposizioni dovute alla difesa delle rispettive competenze, sia pure ancora non ben definite, in un campo dove tutti abbiamo da imparare. Sperimento l'importanza di legare professione e volontariato, fatto che mi permette di non lasciarmi scappare occasione per sottolineare a tempo opportuno e inopportuno i passi di persone, verso le quali c'è diffidenza, particolarmente da parte del personale medico, per esperienze passate. " Eppure tra queste diverse difficoltà di avvio è possibile giungere a un gruppo di lavoro che diventi 'accostamento', 'informazione' e poi 'gruppo di motivazione'. Ci si apre così a un primo concreto dialogo con l'alcolista e con la sua famiglia. … Non è quello che riesco a dire, a fare, che aiuta chi vive questa terribile dipendenza, quanto il permettere loro di sentirsi ascoltati, accolti e non giudicati ". È facendo che si impara a fare: la preparazione professionale specifica non è affatto inutile, anzi, tanto più grave è il problema da affrontare, tanto più la preparazione previa è indispensabile. Nel caso dell'alcolismo si deve, fra l'altro, lottare con la consapevolezza che la malattia è praticamente irreversibile, non la si guarirà mai. Ma si potrà ampiamente tenere sotto controllo. Dice ancora Norma: " Per chi ha fatto l'esperienza dell'abbandono, della solitudine e dell'isolamento, della disistima ormai stabile e della vergogna, della derisione e del fallimento, del deserto intorno a sé e spesso dell'aver toccato il fondo, sentirsi soggetto d'amore fa rinascere la capacità di poter sperare ancora. Per loro è l'inizio di una liberazione … ". Vivere insieme a questi malati da loro la forza non soltanto di accettare l'ineluttabilità del male, ma soprattutto di superarlo con la fatica dell'astinenza. Anche le piccole e grandi ricorrenze della vita vissute insieme, le feste fatte insieme; anche il dolore, spartito insieme, per chi non ce la fa e lascia, il confronto nel gruppo: tutto questo è una " terapia " dell'anima che dona salute ai corpi. Norma si pone un'altra domanda: in questa sua vicenda, c'è chi soltanto dona ( lei stessa ) e chi soltanto prende ( i suoi amici alcolisti )? La risposta può sembrare paradossale. Dice Norma: " La fraternità di questi semplici mi fa da specchio: mi fa venire sete e coraggio per viverla e ricrearla continuamente. Non siamo anche noi chiamate a sperimentare sempre in modo nuovo e testimoniarci a vicenda l'Alzati e cammina? ". Maria lavora al Ce.I.S., il centro che si " occupa di prevenzione, recupero, reinserimento di tossicodipendenti e coinvolge la famiglia in un processo terapeutico parallelo a quello del giovane in difficoltà ". Un altro piccolo " regno del male ": la tossicodipendenza, una spirale dalla quale sembra impossibile liberarsi, uscire. Eppure anche questo mondo - lo sappiamo dalle cronache - non è senza speranze, c'è chi riesce a liberarsi dalla morsa mortale. Non da solo, anche in questo caso, come per l'alcolismo. Maria è una che aiuta a " venirne fuori ". Ma sentiamo dal suo racconto i sentimenti, le sensazioni, le reazioni: " Quando un giovane bussa alla porta dell'Accoglienza ( prima fase del programma ) in cerca d'aiuto, arriva con il carico drammatico dei suoi problemi: paura, frustrazione, solitudine, vergogna di sé, delusioni … Anche la famiglia porta il peso del dolore, della sofferenza, della vergogna, dei sensi di colpa e tanta, tanta paura … Il centro li accoglie, in luoghi e tempi diversi, così come sono, con calore, comprensione, solidarietà, e offre la possibilità di un cammino che permetta loro di recuperare o raggiungere la propria pienezza e ritornare nella realtà sociale a pieno titolo. " Accompagnare questo cammino è essere testimone che la vita è 'mai stanca di nascere'. Sboccia, fiorisce, si colora di novità, di autenticità, nel cuore di Antonella, Tiziano, Marco, mamma Lina, papa Angelo … ". Maria riporta il racconto in prima persona di uno dei suoi amici: " Ho 29 anni, 'mi sono fatto' per sette anni, da due anni sono in programma. Attualmente sono alla terza fase, quella del reinserimento. È stata dura arrivare fin qui! Credevo di non farcela … ". Oggi quel giovane non è più un drogato, uno di quelli che ci danno fastidio e ci fanno paura quando chiedono gli spiccioli perché " mi serve per la benzina " e sappiamo invece benissimo che è " roba " quella che cercano! Dice ancora Maria: " In questa realtà di vita condivisa, giorno per giorno, sento che sto realmente vivendo la storia della salvezza insieme alle tante persone presenti al Centro … Ristabilire l'uomo al centro della società, esaltare i valori della dignità, della libertà della persona, della tolleranza, della solidarietà, del rifiuto di ogni discriminazione è la proposta che il programma terapeutico fa, non solo a chi fa uso di 'sostanze' e ne vuole uscire, ma alle famiglie, ai volontari, agli operatori, a quanti a esso si avvicinano e quindi anche a me ". Anche per Maria lo stesso quesito finale di Norma: chi da, chi riceve? " Sento che è molto bello, da forza e speranza, sentirci insieme a vivere l'appassionata avventura dell'uomo, in costante ricerca di verità, di libertà, di senso, di vita piena ". Nell'ideale " libro mastro " che è la vita, non esiste un saldo diverso dal pareggio. Anche Irene è infermiera professionale, caposale in un grande ospedale. Il piccolo " regno del male " in cui opera è il quadro finale del dramma droga, una scena che si ripete troppo spesso: l'AIDS, la terribile " peste del Duemila " che nessun farmaco riesce ancora a debellare nell'ultimo scorcio del secolo Ventesimo. Irene si è affacciata su questo mondo quasi controvoglia. Ci racconta lei stessa: " Lavoravo come caposala presso un reparto di medicina di un grande ospedale, conoscevo bene la realtà legata alla tossicodipendenza, ma rifiutavo palesemente questi ragazzi. … Personalmente ritenevo ingiusto che ammalati, anche gravi, non riuscissero a ottenere il ricovero, mentre 'loro' occupavano un letto senza nessuna voglia di uscire dal tunnel in cui erano finiti. Penso di averli giudicati molto severamente, senza pietà e senza possibilità di legittima difesa e di conseguenza li ho trattati in modo duro, distaccato ". Poi l'impatto con il problema AIDS. L'Italia vanta un triste primato: è, infatti, dopo la Francia, il paese europeo con il maggior numero di malati AIDS; al 17 dicembre 1992 ( la cifra è dell'Organizzazione mondiale della sanità ) denunciava 14.783 casi ( su di un totale europeo di 80.810 casi ). Racconta ancora Irene: " La Caritas cercava di aprire le prime case famiglia per accogliere quei malati. Dentro di me si facevano strada conflitto e inquietudine, forse rimorso per come mi ponevo, spesso mi domandavo cosa avessi fatto per capire, ma la risposta era: poco o nulla. Fu così che decisi di condividere con loro un po' della mia vita facendo parte di una équipe in una casa famiglia per malati di AIDS. Ho conosciuto la vera povertà, quella che oggi è spesso compagna dei nostri giovani. Povertà di affetti, poiché le famiglie sono disgregate, spesso inesistenti o, se presenti, con genitori incapaci di affrontare i problemi connessi alla droga, perciò il figlio o i figli vengono abbandonati alla strada e al loro destino. Povertà di salute, perché minati nel corpo dalla malattia, bruciati dalla 'roba' e vuoti dentro, privi di qualsiasi desiderio o pensiero che non sia il 'bucarsi'. Povertà di mezzi di sussistenza, per cui le uniche alternative diventano accattonaggio o malavita intessuta di scippi, borseggio o spaccio spesso intercalati da periodi più o meno lunghi trascorsi in carcere. Povertà di relazioni umane, per il rifiuto della società che spesso non riesce a leggere al di là delle apparenze e che, come me, è tarda e dura nel capire la grande solitudine e la sofferenza che è dentro ciascuno di loro ". Con grande semplicità Irene ci fa presente come non sia necessario fare grandi cose per essere i " buoni samaritani " di questi infelici. La parola-chiave è compatire nella sua eccezione letterale di patire-con, soffrire insieme quindi. " Dopo i primi giorni di convivenza e di attento studio fatto di lunghi silenzi, di sguardi diffidenti, di atti provocatori, spesso studiati per sondare le nostre reazioni o paure, quasi sempre emergevano delle ricchezze insospettate. Sentimenti rari e delicati uscivano da quelle persone dall'apparenza rude, quasi animalesca ". Che fare, allora? " Nulla di eccezionale " risponde Irene " ho molto ascoltato … Ho condiviso la mensa, il gioco, la preghiera, cercato di riconciliare le famiglie, li ho curati nel corpo malato spesso accompagnandoli fino alla morte ma, in compenso, mi hanno insegnato ad accoglierli così come sono aiutandoli senza giudizi e pregiudizi ". Ecco il segreto incredibile, il cambiamento diventa totale e la generosità nei confronti degli altri incalcolabile. " Ciò che più li colpiva di noi era la nostra capacità di amarli gratuitamente, questo li sconcertava, chiedevano come potesse essere possibile, perché si facesse e tutto ciò, piano piano, conquistava la loro stima ". Per Anna Rita il piccolo " regno del male " contro cui lottare con le " armi della luce " è il carcere. Narra lei stessa: " Se è vero che ogni povertà ha una sua componente di solitudine e di isolamento, tuttavia, per chi ha la propria vita segnata dall'amara esperienza diretta o indiretta del carcere, questa componente è dominante. Le sbarre che separano dal mondo esterno una struttura, che è di per sé isolamento e privazione di libertà, sono segno di barriere ancor più profonde e diffuse. Potrei riassumere la mia esperienza come partecipazione al tentativo di abbattere qualche barriera. Partecipazione: perché fin dall'inizio ho operato insieme agli altri … Abbiamo potuto cogliere attraverso storie spesso ingarbugliate, amare e difficili, una lezione di vita; siamo stati stimolati da alcuni interrogativi a riflettere e a trovare risposte concrete. Come congiungere verità e amore? Come penetrare con la necessaria chiarezza nelle situazioni per capirne le cause senza esprimere giudizi? Come distinguere ciò che è positivo da ciò che è negativo per favorire il crescere dei germi di bene presenti, ma spesso nascosti? Come trovare, nella comprensione che nasce da un sincero incontro di amicizia, la via della correzione fraterna, via irrinunciabile per noi che ci ispiriamo a una pedagogia cristiana, ma anche via tanto esigente? ". A queste domande Anna Rita da una risposta semplice: " Evitando moralismi e giudizi, senza pretesa di insegnare, abbandonando schemi mentali inadeguati a realtà spesso così lontane e diverse dal nostro consueto … ". In questa maniera nascono rapporti veri e profondi, che aiutano a cambiare vita ( e non è solo la vita dei detenuti a cambiare ). " È una ricerca difficile, sofferta, sostenuta da una tensione viva a mete che in sé appaiono chiare, ma verso le quali il cammino è molto lento e faticoso, comporta compromessi, esige coraggio per non cedere a delusioni, diventa attesa paziente che cerca di non spegnersi anche nel buio e che raccoglie con gioia e fa tesoro di ogni progresso prezioso anche se piccolo ". Ma non è soltanto questo; continua Anna Rita: " È una provocazione, che ci porta a domandarci quale avrebbe potuto essere il nostro comportamento, quale lo sbocco di vita in situazioni analoghe di estrema precarietà e povertà. Non è detto che certe premesse portino come necessaria conseguenza il carcere ma, in vero, ad alcune delle persone con cui siamo in contatto, occorre un coraggio non comune per affrontare la lotta della vita. Qual è la dovuta attenzione da prestare e da chiedere che sia prestata nei riguardi di chi vive in mezzo a noi nel disagio, nell'emarginazione, in situazioni a rischio che occorre conoscere e prevenire? Come provvedere ai bisogni urgenti, non accontentandosi di un'assistenza superficiale che, quietando la coscienza, può rivelarsi antieducativa e conservare nel tempo e nell'indifferenza stati di emarginazione? Come spingersi e spingere la società e le istituzioni ad affrontarli con giustizia nelle loro radici per sradicarli? Quale giustizia? Noi talvolta siamo riusciti a risolvere concretamente qualche problema, anche con l'aiuto di altri. " Talvolta invece ci sentiamo impotenti di fronte a problemi gravi come ricerca di lavoro, di casa, di aiuto per l'educazione e l'istruzione dei figli spesso piccoli e costretti a restare soli o mal sorvegliati, nelle ore in cui la madre lavora. Ci troviamo in certi casi di fronte a problemi che implicano scelte drammatiche ( separazioni, aborti ); a persone sole e isolate dall'indifferenza e dal rifiuto, a partire dai loro vicini di casa o anche dagli stessi parenti … ". Esperienze diverse quelle delle nostre tre amiche, molti punti in comune: proviamo a trovarne almeno alcuni. Il primo e più evidente è quello più volte ripetuto: ciò che si da impegnandosi accanto a coloro che la nostra società butta ai margini, viene sempre restituito in qualche misura, qualche volta ad usura, anche in gratificazione personale. Forse potrebbe sembrare inopportuno questo accenno, ma se vogliamo fare verità in noi stessi, dobbiamo pure riconoscere che una gratificazione, non cercata né voluta, fa però piacere, da coraggio per andare avanti! Un secondo punto in comune è la relativa semplicità delle azioni da compiere: ascoltare, essere disponibili visibilmente senza tornaconto, attendere, non emettere giudizi, partire senza pregiudizi … Stati d'animo, atteggiamenti semplici e talvolta difficili. Ma necessari. Un terzo punto in comune è la necessità di non impegnarsi da soli: le situazioni che abbiamo definito " piccoli regni del male " sono come le scalate, esigono la cordata. Mettersi in mente di fare qualcosa singolarmente è spesso inutile, quando anche non addirittura pericoloso. È una lezione per il nostro orgoglio sempre in agguato. I luoghi quotidiani dell'ingiustizia Le " frontiere " possono essere anche più vicine a noi di quanto non pensiamo. E forse meno evidenti degli esempi che abbiamo fin qui portato. Sono rappresentate da quelli che abbiamo definito i " luoghi quotidiani dell'ingiustizia ", quelli cioè nei quali il confine tra " normalità " ed " emarginazione " è sottile come un foglio di carta velina, qualche volta impercettibile. Il primo di questi luoghi che vogliamo visitare in questo ideale viaggio è la fabbrica, cioè il luogo dove ci viene dato " il pane quotidiano ". E per questa visita ci avvaliamo dell'esperienza di Vittoria, che ha una rispettabile anzianità di lavoro in una grande fabbrica tessile ( quindi con presenza maggioritaria di donne ). Una fabbrica-chiave nel panorama economico di un territorio, una fabbrica che il processo evolutivo dell'industrializzazione ha messo in crisi. Dice Vittoria: " Da 10 anni si lavora alternando periodi di cassa integrazione e con orario ridotto e viene usato il prepensionamento obbligatorio: le donne vengono mandate in pensione a 50 anni, gli uomini a 55. Si continua a vivere nell'incertezza, perché rimane il problema dell'esubero dei dipendenti ( la diminuzione dei dipendenti cresce ogni anno ) ". Vittoria sta in questa fabbrica da trentun'anni come operaia e dichiara: " Sono contenta di aver fatto l'operaia in questa grossa fabbrica, perché mi è stata data la possibilità di essere in contatto con tante persone. Direi che nella fabbrica ci sono tutte le componenti della società: ricchi e poveri, non solo in senso economico, ma anche in senso morale e culturale. Una realtà poco religiosa, anche se negli ultimi anni mi sembra di avvertire un desiderio e un'attenzione maggiori al religioso ". Anche in questa esperienza si da e si riceve molto; dice ancora Vittoria: " Dalle compagne sposate ho capito tanti aspetti della vita familiare e matrimoniale, aspetti positivi e belli dell'amore e anche quelli dell'infedeltà; le preoccupazioni per i figli; i problemi economici per arrivare allo stipendio, la fatica del doppio lavoro: casa e fabbrica. Un aspetto che ho sempre avvertito, è stata la poca cultura presente in questa realtà e di conseguenza come è facile essere strumentalizzati dai padroni, dai partiti e anche qualche volta dai sindacati ". Vittoria conosce bene anche la realtà sindacale: fa parte infatti per molti anni del consiglio di fabbrica, impegno che lascia perché convinta della necessità del ricambio delle persone ma anche " perché mi sembrava giusto liberare un po' la mia vita per altre esperienze ". Ma questa lontananza dura poco: scoppia la crisi e i compagni di lavoro richiamano Vittoria nel consiglio di fabbrica. Come reagisce Vittoria? " Credendo nella volontà di Dio, che si manifestava in queste circostanze, ho potuto vedere questa richiesta come volontà del Signore e nella libertà e nella semplicità di spirito, considerando che era un'ultima possibilità ( dovrò andare senz'altro in pensione anticipata ) di impegno secolare nella realtà concreta del lavoro, ho accettato ". Una realtà, quella della fabbrica ( ma anche ogni altra esperienza di lavoro ) in cui la giustizia e l'ingiustizia vanno a braccetto, in cui è difficile discernere, talvolta, e schierarsi dalla parte " giusta ". Dice infatti Vittoria: " Mai come oggi la realtà del lavoro e del sindacato è complessa e difficile e richiede di stare dentro con lo spirito delle Beatitudini, cioè con la fame e sete di giustizia, nella libertà e povertà della nostra persona, che si fa forte della forza del Vangelo senza legarsi ai vari poteri ideologici o partitici, cercando di vedere in ogni persona l'uomo e la donna nella sua interezza ". " Abito in un grande caseggiato delle Case Popolari nella periferia di Milano, formato da 220 famiglie, circa mille persone "; così il racconto di Rosa che ci svela il suo mondo " di quotidiane ingiustizie ", proprio quello che dovrebbe invece proteggerci: la casa, il grande caseggiato popolare per lei, ma potrebbe anche essere uno dei tanti anonimi condomini di periferia. Continua così il suo racconto: " È un piccolo paese, con tutti i problemi e le difficoltà di convivenza a causa delle diversità di provenienza, di cultura, di fede. Un ambiente molto chiuso. Ogni famiglia pensa a se stessa, ed è quasi impossibile conoscersi anche tra persone che abitano la stessa scala ". Una realtà cittadina comune: isolamento difficile da rompere, perché nasce da sentimenti comuni e semplici, come la diffidenza, la paura. Come infrangere questa cortina? Rosa e i suoi vicini hanno risolto il quesito facendosi affidare dall'Istituto case popolari la gestione ordinaria del complesso abitativo. Questo ha costretto a riunioni, per discutere i problemi " che nascono dalla nostra convivenza e per la buona conduzione di tutto il caseggiato ". Questa esperienza è stata una sorta di " grimaldello " che ha permesso a Rosa di rendersi disponibile alle famiglie dei vicini per poter anche dire " una parola di conforto, di serenità al momento giusto, di sostenere qualche mamma in attesa di una nuova maternità. Così ho potuto conoscere situazioni più sofferte e più dolorose, non solo per la povertà materiale, ma soprattutto per la povertà morale in cui le persone si trovano. Situazioni familiari precarie, convivenze, droga, alcolismo, prostituzione. Tutto questo mi è motivo di sofferenza. Cerco di venire incontro alle loro richieste di aiuto, con una presenza piena di calore umano, e di attenzioni concrete, pur sapendo che le mie parole non possono bastare a dar loro la forza, il coraggio per superare alcune grosse difficoltà della vita, come la malattia, la sofferenza, la morte ". Così Rosa ha aperto la sua casa per incontri di fraternità, di preghiera e di catechesi. Ma si è lasciata anche coinvolgere in avventure inconsuete. Come quella che lei stessa racconta: " Sulla mia stessa scala abita un padre di famiglia con parecchi figli, spesso ubriaco, che quando si trova in questo stato diventa cattivo e prepotente … Una sera del mese di dicembre, tornavo a casa molto tardi … Aprendo il cancello della portineria, mi sono incontrata con questo uomo, ubriaco fradicio, completamente nudo come il Signore l'aveva creato. I suoi vestiti sono stati ritrovati al mattino sparsi per il cortile e persino sulle piante. Come lo vidi provai un senso di grande paura. Ero tentata di scappare … Che fare? Pur con tanta paura, il Signore mi spinse ad andare verso quest'uomo. Con coraggio e delicatezza lo presi per mano e, con forza, lo trascinai verso la sua casa. La cosa che mi stupì, è che man mano lo sentivo più remissivo, più disposto a seguirmi, e a un certo momento, con mia sorpresa, si mise a cantarmi l'Ave Maria di Schubert. Ho accolto questo canto come un incoraggiamento e forse come un grazie per quello che stavo facendo. Finalmente arrivati alla sua casa, con l'aiuto della moglie e dei suoi bambini, lo coricammo a letto e coperto bene. Uscii da quella casa con tanti interrogativi. Dopo alcuni giorni lo incontrai; mi chiese scusa e mi ringraziò per quanto avevo fatto. Ma la cosa più bella fu la richiesta di aiuto per uscire da quella situazione che lo umiliava, ma che non aveva né la forza, né il coraggio di affrontare da solo … ". Ci sono punti in comune fra queste esperienze? Uno, principalmente: non credersi inutili o inadatti alla necessità che nel momento presente si palesa. Il Signore sa dare la forza e anche l'astuzia necessarie; e fa trovare, alla fine, anche un " grazie ". I luoghi delle nuove speranze Luoghi di frontiera, esperienze estreme: ma non ci sono soltanto dolore, male da contrastare, lacrime da raccogliere e asciugare. Esistono anche esperienze di grande bellezza, quelle attinenti, ad esempio, al " mistero " della vita. Anna aiuta i bambini a venire al mondo, è un'ostetrica, professione antichissima, oggi grandemente rivalutata: dopo le esperienze di " medicalizzazione " quasi assoluta della maternità, in cui le ostetriche avevano un posto ai margini, questa figura professionale è rimessa al suo posto di responsabilità specialmente nelle nuove esperienze di parto " naturale ". Dice Anna: " L'assistere al travaglio e al parto è per me un'esperienza forte che mi coinvolge tutta: come donna, come cristiana … L'accompagnare queste persone, queste coppie nell'avventura sofferta e bella, piena di tensioni e paure, senso del mistero, fascino e stupore e meraviglia che è la nascita di un figlio, mi fa sperimentare la 'fraternità con tutti gli uomini'. Fraternità che è fatta di fiducia in ciò che io opero, dico e so e, da parte mia, disponibilità, accoglienza, comprensione, intuizione del bisogno insieme alla preoccupazione affinché tutto finisca nel migliore dei modi … Cerco di 'stare' con la mamma da donna come lei, condividendo la gioia e l'ansia di ciò che sta avvenendo; da sorella e amica sostenendola nella fatica e facendole dono dell'esperienza e della tranquillità di chi ha vissuto tante volte questo momento. Mi sento molto vicina al babbo, così 'perso' e spaurito di fronte a questo evento vissuto da sempre solo da donne; mi sento solidale con lui nel suo essere impotente di fronte alla sofferenza e fatica della sua donna, di colei che ama. La condivisione con lui mi coinvolge in modo diverso: c'è uno scambio di emozioni, di sentimenti e di affetto che ci completano e arricchiscono l'un l'altra; il maschile e il femminile si compenetrano e danno pienezza. Il momento culminante del nostro vivere insieme questo pezzetti di vita, è quando il mistero si compie: … inizia una nuova esistenza! L'esplosione della gioia e della commozione è inevitabile. E, per me, questo bambino che prende vita tra le mie mani è sempre oggetto di stupore e di contemplazione. … Ogni volta è ripensare all'incarnazione di Cristo in un uomo così piccolo, è un celebrare la vita che si rinnova, è lodare Colui che non è stanco dell'uomo, Colui che ci da fiducia, è un contemplare la speranza. C'è in me un senso profondo di meraviglia e di gratitudine di fronte a questo Dio che vuole aver bisogno di lei e di lui e di me, ognuno con la sua vocazione, per ridire al mondo il suo Amore. … Questo stare ogni giorno a contatto con la maternità mi fa continuamente crescere, mi aiuta a conoscermi e ad accogliermi nella mia femminilità e corporeità fatta perché creata per accogliere, donare, far crescere la vita; mi fa essere ogni giorno più grata per la bellezza e la ricchezza del mio 'essere donna' … ". Il mistero grande della vita al suo esordio colpisce e coinvolge ogni fibra, in modo diverso e reciproco uomini e donne. La vita si sviluppa a mano a mano che il tempo passa: e la piccola persona chiede di essere educata, accompagnata cioè a scoprire in sé tutte le potenzialità che il Signore ha piantato, come in un campo meraviglioso. Vera è un'insegnante elementare, si occupa cioè dei bambini nella fase più delicata della loro " carriera " di " apprendisti del vivere ". A Vera è anche toccato il compito di affrontare una scuola in cambiamento profondo: fino a poco tempo fa la " signora maestra " era il punto di riferimento unico per gli alunni delle elementari; ora non più, anche i più piccoli hanno un " team docente "; l'orario è prolungato. Racconta Vera: " Sperimento così la fatica di fronte a inevitabili difficoltà, ma, nello stesso tempo, sento sorgere in me nuovi atteggiamenti, nuove possibilità di rapporto con i colleghi che non avevo ancora provato e che ci aiutano reciprocamente a migliorare il nostro modo di essere e di operare. Anche il rapporto con gli alunni, in un contesto che cambia, subisce delle modifiche e spesso la preoccupazione delle tante cose da fare mette in ombra proprio lui, il bambino. A volte, quando la fatica e la stanchezza sembrano prendere il sopravvento su tutta l'esperienza, sento risuonare dentro di me le parole di Gesù: 'Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli'. … Passano davanti a me, uno ad uno, i miei alunni e vedo occhi limpidi, luccicanti, davanti a una scoperta appena fatta nel vasto mondo delle conoscenze e una spontanea esplosione di soddisfazione e di gioia: 'ho capito!'. Sento le domande incalzanti; i 'perché' dei bambini sono noti a tutti, ma ogni volta la richiesta si carica di accenti nuovi. Sento la voglia di giocare, spesso incontenibile. Sento la proposta di organizzare il lavoro in modo da dare spazio allo stare insieme, alla collaborazione di gruppo … Ascolto le osservazioni, a volte profonde e sconcertanti, sulla vita di oggi e sento esprimere paure e incertezze, bisogno di sicurezza e di amore. Vedo la capacità di ristabilire la pace dopo un litigio … Sento ritornare in me la pace ". Nei neonati, nei bambini la vita è visibile, le trasformazioni sono palpabili, la possibilità di accoglierli, di aiutarli a diventare uomini e donne è lì, a portata di mano. Diverso, ma non meno esaltante, è stare dove si ricercano le origini della vita, le risposte ai 'perché' che ci portiamo dentro nella nostra esistenza di adulti, quei 'perché' che hanno fatto progredire le conoscenze dell'uomo su di sé, sul mondo che lo circonda. È sicuramente esagerato parlare della ricerca scientifica come si è fatto fino a qualche tempo fa in termini di assoluto; la fede nelle " magnifiche sorti e progressive " del nostro mondo, cui l'Illuminismo e il positivismo d'inizio secolo ci avevano portato, è caduta da un pezzo, abbiamo finalmente imparato ( forse ) a relativizzare scienza e tecniche. Attribuire loro un valore " relativo " non vuoi dire, però, cancellarne il valore. Significa invece riportarle al loro posto di " mezzi ", di strumenti a disposizione dell'umanità. Omelia si occupa di ricerca scientifica in un laboratorio; ed è dentro le mura di un laboratorio che vive la sua " verità " di donna consacrata: " Scoprire tutta la perfezione che è in noi, anche solo sotto l'aspetto strutturale, mi riempie di meraviglia. Scoprire che basta una piccola alterazione per evidenziare la 'fragilità' del nostro essere mi pone tanti interrogativi. La scienza farà passi che oggi non possiamo neppure immaginare, fornirà all'uomo strumenti sempre più sofisticati per intervenire sulla vita ". Nel suo racconto Omelia fa toccare con mano come anche gli strumenti di una professione possono diventare strumenti di percezione della mano del Signore. Dice infatti ancora: " Il laboratorio fa parte del mio mondo, non è solo il luogo della mia professione "; il laboratorio, che la impegna per la gran parte del suo tempo, è diventato il luogo in cui fare unità fra i diversi momenti della vita: " lavoro, preghiera, impegni sociali e di volontariato. … Così è nata l'esigenza di cercare proprio qui le risorse, le motivazioni, le espressioni del mio essere cristiana. … Nel laboratorio avverto sempre più che non c'è contraddizione tra la ricerca di come siamo, della struttura della nostra composizione fino a livello molecolare e la ricerca di chi è Dio e di quale posto occupa nella nostra vita ". La ricerca scientifica potrebbe dare un senso di onnipotenza, quella stessa che forse ha spinto i Progenitori a mangiare il frutto di " quell'albero ". Ma non se si ha fede: " La scienza " ci dice ancora Omelia " apre orizzonti che svelano un mistero sempre più grande. 'L'avanzata sperimentale' continuerà, ma non potrà mai dire all'uomo il senso ultimo dell'esistenza, anche se purtroppo gli potrà insegnare come 'modellare' la vita già a livello genetico. Questo è un grosso problema che tuttavia non si risolve fermando la scienza. Credo che gli scienziati debbano essere aiutati a capire il senso della vita. 'Comprendere il senso della vita': è un grosso impegno non solo per chi è a più stretto contatto col mondo della ricerca, ma è un impegno sociale che coinvolge tutti ". Anche in queste tre esperienze è facile trovare un " filo rosso " comune: il senso del mistero che ci sorprende ogni volta che ci fermiamo a riflettere sul " senso " della vita; quella che lascia il protettivo utero materno per abbandonarsi alle mani provvide di una levatrice, quella affidata per essere educata a un " team docente ", quella che si ritrova in una provetta allo stato di molecola, di cellula, di nucleo, di DNA. Un miracolo quotidiano, invisibile perché ordinario, atteso, ma pur sempre un miracolo. Come ogni racconto anche questo ha una sua " morale " Abbiamo gettato lo sguardo su itinerari diversi: come diverse sono le persone che li compiono ogni giorno alla ricerca del proprio " senso della vita ", in risposta a quella chiamata che hanno sentito dentro di sé a un certo punto in modo più netto, tanto netto da farle decidere per una completa e assoluta dedizione al Signore. Sarà facile per il lettore accorgersi di una sorta di anomalia: sono tutte esperienze al femminile. Un caso, una scelta di discriminazione per il mondo maschile, una ghettizzazione di " genere "? Un caso, forse, ma un caso fortunato: perché questa declinazione tutta al femminile intorno alle " vite di frontiera " ci permette un'operazione rara, quella di scoprire come i " luoghi comuni " intorno alla femminilità, i " ruoli fissi " appiccicati alla donna come " naturali " ( mentre con buona probabilità sono soltanto " culturali " ) possano trasformarsi da luoghi di discriminazione, cioè di negatività, in positività. Oblatività, senso del sacrificio, capacità di accoglienza, genitorialità: caratteristiche non soltanto femminili beninteso, ma vissute sicuramente dalla metà femminile del cielo con maggiore intensità, sono diventate in queste donne il momento esemplare in cui vivere la propria vocazione, il luogo in cui la propria vita assume chiaramente il suo " senso ". Queste donne hanno preso in mano ciò che poteva essere condanna, per farlo diventare momento della più alta, personale, profonda " compagnia con Dio ". Ciò che poteva essere un ruolo " subito " è diventato una scelta. Potrebbe tutto questo essere appannaggio maschile? Probabilmente sì: però al punto in cui si modella la storia dell'umanità, al punto in cui siamo nella nostra cultura occidentale, è operazione più chiara per la donna, e ancora più per la donna consacrata. Gli Istituti Secolari cui appartengono le persone citate nel capitolo " Testimoni della storia, testimoni di Dio " Compagnia di San Paolo Figlie della Regina degli Apostoli Istituto secolare A.S.C. Istituto secolare Caritas Christi Istituto secolare Cristo Re Istituto secolare dei Missionari della Regalità di N.S.G.C. Istituto secolare delle Missionarie della Regalità di N.S.G.C. Missionarie Laiche Diocesane di Gesù Sacerdote.