Radicalità dei Consigli Evangelici nel quotidiano

Indice

Il fondamento evangelico della consacrazione secolare

di Bruno Maggioni

Le « forme » di vita consacrata nascono sempre in un periodo storico determinato e ne conservano le tracce e ovviamente in qualche misura la relatività.

Tuttavia una forma di vita consacrata non è mai soltanto il prodotto di un periodo storico e delle sue urgenze.

D'altro canto non è neppure semplicemente una deduzione dal Vangelo: dal Vangelo, infatti, possono nascere nella medesima epoca molte forme di vita consacrata: perché proprio questa?

Ogni forma di vita consacrata è frutto della libertà dello Spirito, questo è il punto.

Non una deduzione - né dalla storia né dal Vangelo - ma un evento.

Già questo dice che ogni forma di vita consacrata non ha soltanto la nota dell'utilità, ma anche della libertà e della gratuità.

È qui - e non soltanto nella sua utilità storica - che va anzitutto cercato il senso di ogni forma di vita consacrata.

Su questo concetto - che in un certo senso sostiene tutto il discorso che segue - mi permetto di insistere.

Gratuità e libertà sono le note di ogni gesto di Dio: della creazione come della incarnazione.

Nessuna meraviglia se lo è anche della vita consacrata, che è sempre - se autentica - un libero e gratuito dono di Dio alla sua Chiesa e al mondo: libera e gratuita anche nelle forme particolari che essa via via assume.

A proposito della consacrazione secolare - che ha preso forma concreta nella prima metà del nostro secolo - si è soliti ricordare che il momento era propizio.

« Il novecento - si legge - è caratterizzato innanzitutto da una nuova sensibilità nei confronti delle realtà secolari e da un nuovo modo di presenza cristiana di esse.

Si avverte l'attrattiva per una vita cristiana che non sia avulsa dall'impegno nel sociale e nel politico, ma che anzi penetri in questi campi, nella città dell'uomo … » ( F. Ciarli ).

E così « nasce il desiderio di una consacrazione che, a differenza dei precedenti schemi di vita religiosa, non si apparti dal mondo, ma che piuttosto faccia delle realtà secolari il proprio ambito di vita e di azione ( F. Ciarli ).

Verissimo. Tuttavia se ci fermassimo qui rimarremmo alla superficie.

Anche perché proprio quelli che vengono considerati i capisaldi della consacrazione secolare ( la figura del laico, il rapporto Chiesa - mondo ) sono questioni complesse e tuttora oggetto di dibattiti teologici.

Ma le forme di vita consacrata - nella libertà dello Spirito - non aspettano per sorgere che la teologia chiarisca tutto.

A volte precedono la teologia, divenendo esse stesse fattore di chiarificazione.

Ne ci si lasci turbare dal fatto che la vita del consacrato nel mondo assomigli quasi del tutto alla vita del cristiano semplicemente.

Dove sta la differenza? Secondo il Vangelo il « proprium » della vita consacrata sta in una « trasparenza, più trasparente » dell'unico Vangelo e dell'unica sequela.

Certo appartiene al cristiano semplicemente vivere pienamente il Vangelo nel mondo e qui testimoniarlo.

Ma questo non impedisce che ci sia lo spazio per una forma di sequela che scelga proprio l'ambito del mondo per essere una trasparenza più trasparente della « lieta notizia » di Gesù.

Il « di più » di trasparenza non dipende dall'ambito in cui si decide di vivere e di testimoniare il Vangelo, né - almeno prioritariamente - dalla precisa missione cui si sceglie di dedicarsi, ma dalla qualità dell'appartenenza al Signore: un'appartenenza, appunto, più trasparente.

Per appartenenza intendo la proclamazione - nella vita - del primato di Dio nel modo più assoluto possibile e nelle sue diverse forme:

come desiderio di Dio, un desiderio che sta al di sopra di ogni altro;

come dipendenza, affidamento e fiducia;

come dedizione.

Ma su questo non voglio soffermarmi.1

Intendo invece soffermarmi sullo specifico della consacrazione secolare - e cioè sulla secolarità - per verificarne il fondamento evangelico.

Ma con una precisazione: non si tratta di fare un confronto su questo o quest'altro aspetto del Vangelo, ma con l'evento cristiano nella sua radice, nella sua globalità.

Anche se ogni forma di vita consacrata sottolinea un particolare aspetto del Vangelo, in realtà la sua autenticità sta nella sua capacità di raggiungere il Vangelo intero.

È a questo livello che intendiamo verificare il fondamento evangelico della consacrazione secolare.

In altre parole: cercare il fondamento della consacrazione secolare significa non soltanto osservare se il vivere nel mondo è un aspetto conforme al Vangelo, ma se è un aspetto tale da permettere di vivere e lasciar trasparire l'essenza del Vangelo.

Sto infatti parlando di « consacrazione », non soltanto di missione.

Consacrazione e missione sono inseparabili, ma non si equivalgono.

Vivere la consacrazione nella secolarità significa non soltanto vivere la propria missine nel mondo, ma vivere la radicalità dell'appartenenza al Signore proprio stando nel mondo.

Dunque, stare nel mondo deve essere una condizione che permette di vivere il Vangelo interamente, nei suoi aspetti più tipici, nuovi, paradossali.

Qui sta la sfida della consacrazione secolare: la secolarità - scelta come forma specifica della propria esistenza consacrata - è davvero un aspetto tale da portare ( e rendere visibile ) al cuore del Vangelo?

La radicalità

Ogni forma di vita consacrata è connotata da una forte radicalità.

Ma deve trattarsi di un radicalismo evangelico, e questo non è scontato.

Quale è il « proprium » del radicalismo evangelico?

E quale figura assume questo proprium nella consacrazione secolare?

Il discorso è certamente complesso, e anche delicato.

Ma per lo scopo che mi sono prefisso possono bastare poche precisazioni che ritengo, però, essenziali.

Chi sceglie la vita consacrata nel mondo, lo fa perché convinto di poter vivere una consacrazione piena, non a metà.

E se resta nel mondo non è per vivere un radicalismo sminuito, ma un radicalismo dentro, accanto, gomito a gomito con gli altri uomini, nelle situazioni comuni e quotidiane.

Certo questa forma di radicalismo si muove dentro una tensione di non facile equilibrio.

Ma la tensione è l'anima dell'esistenza evangelica, non la sua smentita.

In ogni caso, l'inserimento nel quotidiano - dove per quotidiano si intende la situazione normale in cui l'uomo è costretto a vivere - esprime una profonda direzione del Vangelo, che vuole essere una proposta vera, reale, possibile per l'uomo nel mondo, nel mondo così com'è.

Non è questa una delle grandi sfide del Vangelo oggi?

Non una caduta di radicalità, dunque, ma una forma originale, pienamente evangelica di configurarla: oserei dire una figura di radicalità, particolarmente trasparente, proprio perché attira l'attenzione non sulla eccezionalità delle condizioni di vita, che restano quelle di tutti, ma sulla radicalità in se stessa, sulla « novità » che il Vangelo sa introdurre nelle condizioni comuni.

Questa scelta di incarnazione non è una forma - magari particolarmente attuale - che si allontana dalla memoria storica di Gesù, ma una forma che vi si avvicina in modo sorprendente.

A questo punto è però necessaria una seconda precisazione, e cioè che la radice, la qualità e la misura della radicalità evangelica non sono originate dal distacco dal mondo ma dalla appartenenza al Signore.

Si comprende, allora, che il distacco evangelico non significa necessariamente separazione.

Si può vivere la libertà per il Vangelo anche secondo la splendida forma di 1 Corinti: « Nessuno ponga la sua gloria negli uomini, perché tutto è vostro: Apollo, Paolo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio » ( 1 Cor 3,21-23 ).

Questa espressione di Paolo non rivendica soltanto la libertà di fronte a Paolo, Apollo e Cefa, ma di fronte a tutto.

E dice con chiarezza quale sia l'unica appartenenza di cui il cristiano deve gloriarsi: « Voi siete di Cristo ».

L'affermazione è attraversata dalla tensione fra libertà e appartenenza.

Come in ogni tensione, le due polarità si sostengono reciprocamente.

Tuttavia non è la libertà la ragione dell'appartenenza, ma viceversa.

È dalla totalità dell'appartenenza al Signore che discende l'esigenza e la misura della libertà di fronte a tutte le cose.

Paolo non ha esitazioni: lo spazio della vera libertà è l'appartenenza al Signore.

Non si trascuri però - ed è quanto qui ci interessa - un particolare: Paolo qui non dice « siete liberi da tutto », bensì « tutto è vostro ».

Espressione quest'ultima ripetuta due volte.

Questo mostra che Paolo non intende qui la libertà come distacco dalle cose, quanto piuttosto come un modo diverso, corretto, di guardarle e usarle: da padroni, non da servi.

È una splendida forma di radicalismo evangelico.

Si può, dunque, affermare il primato di Dio indicando la vanità delle cose e proclamando che la pienezza è nel mondo futuro, ma c'è anche lo spazio per affermare lo stesso primato mostrando il seme di novità già ora presente nel mondo e nelle cose.

Così, mi sembra, la parabola del granello di senape ( Mc 4,30-32 ): si guarda al grande albero non per consolarsi della pochezza del presente, né soltanto per liberare l'uomo dall'idolatria del presente, ma per comprendere la vocazione e l'importanza del presente.

Il nostro discorso regge perché la consacrazione è sì appartenenza totale all'Assoluto ( questo dicono tutte le religioni! ), ma perché l'Assoluto cristiano non svuota le cose, bensì le riempie.

E si esprime non nella distanza, ma nel farsi vicino.

È un Assoluto che prende figura nell'amore e nella partecipazione.

Il Dio evangelico trova il suo punto di massima chiarezza nell'incarnazione e nella Croce, cioè nel condividere in tutto la condizione dell'uomo.

L'Incarnazione dice la pienezza dell'umanità.

E la Croce dice l'esperienza più umana, più scandalosa, ma anche più vera dell'uomo.

Con la sua Croce il Figlio di Dio si è posto nel centro della storia, là dove Dio e l'uomo sembrano contraddirsi: l'amore inefficace, la menzogna trionfante, Dio silenzioso.

Il Figlio di Dio non è passato a lato di questo centro scandaloso, ma lo ha condiviso, e in tal modo lo ha illuminato.

Lo splendore dell'Assoluto cristiano si manifesta nella condivisione.

Siamo di fronte a un capovolgimento di orizzonte.

Radice e misura del radicalismo evangelico è la Croce di Gesù: non però vista, anzitutto, come un'icona di un martire che muore per il suo Dio, ma come l'icona di un Dio che dona se stesso all'uomo.

Qui sta la novità e l'originalità del Vangelo, il proprium che qualifica ogni forma di radicalismo cristiano.

Radicale è per il Vangelo un'esistenza che si fa segno dell'amore di Dio per l'uomo, ogni uomo: non un'esistenza che anzitutto si fa segno del nostro amore per Dio.

La misura del radicalismo di un'esistenza cristiana - se proprio la si volesse misurare - è la sua capacità di significazione.

Radicali sono le « opere » che lasciano trasparire il volto del Padre: « Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli » ( Mt 5,16 ).

Così è stato il radicalismo dell'esistenza di Gesù: in ogni gesto e in ogni parola egli ha lasciato trasparire il Padre.

Il radicalismo evangelico è nell'ordine della rivelazione prima che del servizio.

Mi si permetta di insistere. Se l'evento di Gesù è la rivelazione di come Dio si pone davanti all'uomo ( e non anzitutto, e soltanto, di come l'uomo deve porsi davanti a Dio ), allora anche il radicalismo della vita cristiana - se vuole essere la memoria oggi dell'esistenza di Gesù - deve essere il segno non soltanto della risposta coraggiosa e totale dell'uomo a Dio, ma il segno di come Dio guarda e ama il mondo.

Questo deve apparire in tutte le forme di radicalità evangelica, comprese le forme del distacco.

Celibato e povertà

Sulla base di quanto affermato, non sarebbe difficile rileggere nella forma della consacrazione secolare le figure classiche del radicalismo evangelico.

Per esempio il celibato.

La scelta celibataria del consacrato nel mondo mantiene interamente tutte le valenze di ogni altra forma di vita celibataria.

Di specifico c'è, però, il tentativo di mostrare - vivendo gomito a gomito con gli altri uomini e nelle loro stesse situazioni - che si può trovare una pienezza di senso nell'amore di Dio in qualsiasi condizione di vita ci si trovi: proclamando agli sposati che il loro amore deve essere vissuto come una figura, ma non l'unica, dell'amore di Dio; e alle persone sole - che sono molte! - che si può amare, essere amati e riempire la vita anche vivendo « da soli » nella condizione normale degli altri uomini.

E molto si potrebbe dire anche sul radicalismo della povertà, della, itineranza e della insicurezza.

« Il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo », si legge in Matteo 8,20 e Luca 9,58.

Questa solenne affermazione di Gesù sottolinea non tanto la povertà, quanto la insicurezza.

E la sua ragione non sta semplicemente nella universalità della missione di Gesù ( che gli impedisce di fermarsi in un posto solo e di costruire legami che lo renderebbero sedentario ), bensì nella dedizione senza riserve alla verità di Dio.

Così dicono, infatti, i due contesti in cui il detto di Gesù è stato inserito dagli evangelisti.2

Gesù non sa dove posare il capo perché condivide il destino della verità.

È itinerante perché scomodo.

La sua itineranza nasce da un'appartenenza, non anzitutto da un desiderio di separazione.

È itinerante e senza casa perché dice la verità di Dio dovunque e di fronte a chiunque: una verità che inquieta e che, perciò, viene rifiutata.

Non è questa una forma di « distacco » particolarmente congeniale a chi è chiamato a restare nel mondo ( nel lavoro, nella politica, nella società ), ma proclamando le meraviglie di Dio che disturbano il mondo ( Mc 5,20 ).

La missione

Ci resta da precisare un altro aspetto importante della consacrazione nel mondo, e cioè lo specifico della sua missione.

Diverse cose le abbiamo già dette, ma da un'altra angolatura.

Ritengo utile rivisitarle, anche a prezzo di alcune inevitabili ripetizioni.

L'essenziale è presto detto: il consacrato nel mondo è chiamato a farsi - con chiarezza tutta particolare, con tratti accentuati - la figura e la memoria di come Gesù ha guardato il mondo.

Questa è la specificità della missione del consacrato laico.

A partire da qui si può valutare la verità - ma anche il limite! - di affermazioni spesso ripetute.

Per esempio, che il consacrato laico è mandato nel mondo per animare evangelicamente la città terrestre.

Splendide in proposito le parole di Paolo vi: « Voi non siete testimoni di un Dio lontano, bensì di un Dio che vive e sta percorrendo la strada degli uomini …

Inseriti nel mondo per trasformarlo, santificarlo, affidarlo a Dio costruendo così la nuova civiltà dell'amore ».

Parole splendide, queste, che tuttavia devono essere inserite in un contesto più ampio.

L'evento cristiano lascia, o addirittura esige, uno spazio per una scelta di consacrazione che voglia in modo « più trasparente » mostrare che Vangelo e condizione degli uomini.

Vangelo e mondo, si possono mantenere uniti.

Soltanto il peccato introduce la spaccatura.

Questa nota di profondo umanesimo non è un tratto di contorno dell'evento cristiano, ma un tratto che fa parte della novità del Vangelo, oserei dire uno dei tratti più qualificanti della sua originalità.

Farsi trasparenza di questa originalità è la particolare missione del laico consacrato: non una trasparenza di distacco dal mondo ( che certo occorre ), ma di « signoria » sul mondo, una signoria che sia il riflesso di quella di Dio, come ci ha suggerito Paolo nella 1 Corinti.

Si sta nel mondo, accanto agli uomini e nelle loro condizioni, non per meglio convincerli a lasciare il mondo e a guardare altrove, ma per meglio aiutarli a guardare il mondo, questo mondo, con gli occhi di Dio.

Questa non è una missione di emergenza, attuale in certi tempi e non in altri: è una missione permanente, perché la sua radice è nella natura del Vangelo stesso - che sempre deve essere detta - non in una particolare emergenza storica o pastorale.

Se il laico consacrato sceglie il mondo come spazio della propria consacrazione, non è anzitutto per meglio convertire gli uomini che vivono nel mondo, né anzitutto per meglio trasformare il mondo, ma per rivelare agli uomini e al mondo la novità del Vangelo, cioè la sorprendente notizia di come Dio già ora ama il mondo, questo mondo.

La missione è anzitutto nell'ordine del segno: segno di come Dio si pone davanti al mondo, non soltanto - e in primo luogo - di come il mondo deve porsi davanti a Dio.

La missione si colloca sul versante della rivelazione, non soltanto della risposta alla rivelazione: deve cioè essere la memoria di ciò che Dio ha fatto, non soltanto l'esempio di come il mondo deve diventare.

Quanto vado ribadendo - e mi scuso per l'insistenza - non è privo di conseguenze.

Ordinare le realtà temporali al Regno, riempirle dello spirito delle beatitudini, difendere l'autonomia delle cose, scoprire le tracce di Dio dovunque sparse nella creazione, tutto questo è certamente una giusta, e irrinunciabile, direzione della missione del laico consacrato.

Ma non è l'unica direzione e neppure - se si osserva l'evento di Gesù nella sua sorprendente novità - la principale.

Se la consacrazione e la missione sono un di più nell'ordine del segno, allora occorre dare grande spazio alla « condivisione », che in Gesù è apparsa la via privilegiata di Dio.

In Gesù Dio si è manifestato attraverso le realtà dell'uomo, non ponendosi a lato di esse, o sopra.

E ha manifestato la profondità del suo amore non anzitutto nell'efficacia o nella forza di cambiamento di questo amore, ma nella sua ostinazione e nella sua fedeltà.

Così Cristo in Croce: un amore più ostinato del rifiuto.

Certo la condivisione non deve sminuire l'impegno per la trasformazione del mondo: anzi!

Tuttavia il segno più trasparente del Dio di Gesù resta sempre l'ostinazione e la fedeltà del suo amore apparso in Cristo.

È questa la novità del « compimento » di Gesù.

Tutti si aspettavano un Messia che si presentasse come un compimento, che facesse finire il tempo dell'attesa: un compimento che portasse un capovolgimento della situazione esistente: se ora c'è la morte, la morte cesserà; se ora i giusti sono sconfitti, i giusti trionferanno.

Invece Gesù Cristo ha scelto un altro tipo di compimento, mutando così l'idea stessa di compimento.

Anziché ribaltare la situazione, Gesù ha condiviso la situazione.

Non ha fatto cessare la morte: l'ha vissuta.

Non ha fatto cessare la sorte dei giusti condannati perché giusti: si è messo nel loro numero; al capovolgimento della situazione ha preferito la condivisione.

Indice

1 Ho già trattato questo aspetto in Aa.Vv., Vita Consacrata.
Un dono del Signore alla sua Chiesa, Elle Di Ci, Torino 1994, pp. 102 ss
2 Il contesto di Matteo racconta che Gesù fu rifiutato dai Geraseni dopo aver liberato un indemoniato ( la liberazione di Gesù inquieta ): e così « Salito su una barca, Gesù passò all'altra riva » ( Mt 9,1 ).
Il contesto di Luca racconta che Gesù fu rifiutato dai Samaritani perché era diretto a Gerusalemme ( Lc 9,51ss )