Radicalità dei Consigli Evangelici nel quotidiano

Indice

Al vaglio delle esperienze

Povertà

La povertà evangelica è « un dono dello Spirito che coinvolge la persona in quanto di più radicale c'è in lei, in un cammino di libertà e di liberazione » sulle orme di Cristo.

A cominciare dall'accettazione di sé nella propria povertà creaturale e dall'accoglienza degli altri come persone da amare « nella fatica del quotidiano ».

Piuttosto che fare riferimenti a concetti generali e astratti ritengo opportuno cercar di riflettere sulla povertà secondo il Vangelo nella mia vita, guardando anche un po' indietro.

La nostra scelta di povertà non è solo un mezzo, da vivere perché sia retto il nostro rapporto con le cose, con gli altri, con Dio.

E tutto questo soprattutto agli inizi della strada, quando c'è bisogno di fare ordine, di chiarire, di discernere, perché tutto sembra ugualmente valido, entusiasmante, da raggiungere, da tenere, da conseguire, perché « tutto è nostro », ma non ha ancora messo radici in noi la consapevolezza che « noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio » ( 1 Cor 3,22-23 ).

Allora c'è bisogno della povertà, intesa anche come una sorta di aiuto nella vita pratica, per l'uso delle cose, nei rapporti con le persone ecc.: ci si esercita nel distacco; l'impegno di povertà è, per così dire, frantumato e si rispecchia nei piccoli gesti delle scelte quotidiane.

Ma penso che la povertà muova qui i primi passi e non raggiunga in queste esercitazioni l'ampiezza di respiro che le è propria, gli orizzonti del dono che si riceve.

Abbiamo piuttosto l'impressione di dare noi qualcosa.

Nella vita dello spirito, come del resto in quella fisica, ogni tappa ha però la sua importanza e il suo interesse: nulla quindi è da sottovalutare o disprezzare.

Per questo guardo con riconoscenza a quei primi passi, a quel sentiero un po' angusto, che però mi ha preparato a una visione più ampia della povertà da vivere non solo come imitazione di Cristo e come condivisione con i fratelli di ciò che sono e che ho, ma come dono da accogliere.

Devo riconoscere che il mio bilancio è sempre in rosso.

« La povertà evangelica ci fa partecipare al mistero di Dio … »: se è mistero mi trascende, è un dono.

Eppure è solo a questa esperienza del dono intravisto che posso rifarmi.

Man mano che cresce la consapevolezza, man mano che la povertà diventa non tanto una meta da raggiungere con le proprie forze, ma un dono dello Spirito, essa coinvolge la persona in quanto di più radicale c'è in lei, in un cammino di libertà e di liberazione di cui non si scorgono i confini.

Essa non è più una virtù a sé stante in questo procedere, ma un atteggiamento di fondo, una mentalità che orienta pensieri e comportamenti in senso sempre più ampio, universale, umano e quindi cristiano e soprannaturale.

La povertà secondo il Vangelo non è una scelta fatta una volta per sempre, ma una traccia che ci accompagna giorno per giorno e da senso e autenticità a tutto ciò che viviamo, perché ci rende consapevoli che la provvisorietà e la precarietà sono realtà che ci accompagnano sempre e quindi sono da accogliere nella pace.

La povertà accolta dentro genera la pazienza, cioè il saper patire e compatire senza perdere la pace, in modo attivo e generoso, dimenticando se stessi.

È questa virtù, evangelica per eccellenza, libertà di amare e di essere amati, senza condizioni o misura, perché allarga il cuore fino ai confini del mondo.

Per essa mette radici in noi la speranza, che è Cristo risorto da comunicare con la vita.

Non ci toglie il senso doloroso della povertà del nostro essere che non solo riconosciamo e accogliamo, ma manifestiamo anche agli altri: mostrarci per quello che siamo, nella nostra realtà può essere per noi motivo di crescita e certamente incoraggia l'altro, che ci sente compagni di viaggio e lo promuove, perché nel momento in cui ci riconosciamo poveri non cerchiamo la nostra affermazione ( sia pure nel bene ), non accampiamo pretese, non vogliamo sopraffare l'altro, dominarlo forse.

Povertà che ci fa maturare umanamente e cristiana mente, ma che non è in nessun caso fine a se stessa: il fine è la crescita della persona fino alla statura del Cristo.

L.F. - Roma

Mi riesce difficile parlare di povertà, nonostante i molti anni d'Istituto; mi sembra di essere, a questo riguardo, all'inizio del cammino, ancora in ricerca del mio modo di realizzare la povertà.

Come seguire Gesù su questa strada?

« Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ».

Tutte le cose create, tutte le potenze che sono state messe in me, sono dono di Dio.

Tutto è mio, ma tutto mi è stato donato.

Usare perciò di tutto ciò che mi è stato dato, gioiosamente, con spirito riconoscente, dando lode a Lui.

È questo povertà?

C'è però il pericolo che io mi appropri delle cose, mi fermi ad esse, mi lasci distrarre, assorbire, legare il cuore.

Ed è tanto facile che questo succeda: sono ancora troppo « ricca », troppo alla ricerca del comodo.

Tra le cose più belle che Lui mi ha donato c'è la vita, ci sono io con tutte le mie potenzialità, ci sono gli altri, i fratelli.

Accettare me stessa, amarmi, vivermi come un dono.

In questo senso sto esercitando la povertà.

Accettarmi con tutte le mie potenzialità, ma anche tutti i miei limiti; accettare un corpo acciaccato, debole, che sta invecchiando, non è facile, ma è un esercizio continuo.

Accettare i limiti dell'intelligenza, della volontà; accettare di non saper fare, di essere incapace.

Amarmi così; offrirmi gioiosamente così.

Questo credo sia un modo di essere povera.

Un altro aspetto su cui sto lavorando e su cui cerco di esercitarmi è vedere i fratelli come un dono, come il dono più grande, più bello che il Signore mi ha fatto.

Perciò accettarli, amarli, accoglierli come sono.

Lasciarmi interpellare da loro, dare la precedenza alle persone, sopra qualsiasi altro impegno, desiderio; cercare di non lasciarmi assorbire dalle cose, lasciare che i bisogni dei fratelli mi stimolino continuamente a dare una risposta.

Anche questo è un altro modo di essere povera.

Ma poi concretamente è così poco quello che so fare!

Ma non mi lascio scoraggiare, cerco di accettare di essere povera, piccola, debole, ma sempre in tensione, sempre in cammino.

C.B. - Verona

Per noi consacrati nel mondo la povertà evangelica non può prescindere dal contesto storico in cui siamo chiamati a vivere.

Sono proprio le provocazioni del nostro tempo a farci scoprire significati ulteriori e prospettive nuove per un impegno di povertà non disincarnato.

Quando, più di trent'anni fa, per la prima volta sentii parlare di I.S. e sommariamente capii che i membri emettevano i voti, rimasi molto dubbiosa sulla possibilità di vivere la povertà fuori di un convento: io lavoravo fuori casa, spendevo ciò che credevo, acquistavo per me e per i miei senza chiedere, portavo a casa ciò che mi rimaneva.

Non so che cosa sia riuscita a capire della povertà evangelica richiesta in un Istituto secolare: tentai, ma che fastidio solo alle espressioni: uso limitato, tener conto delle spese, non poter acquistare anche cose necessarie sopra la somma fissata.

Per non dipendere andai avanti parecchi mesi imponendomi di non aver bisogno di cose di un certo valore …

Richiedeva una povertà affettiva ed effettiva …

Cercai di far consistere la prima nel distacco dal mio modo di vedere, di pensare.

Per undici anni avevo insegnato in scuole uniche, arbitro incontrastato; ma a contatto con altri colleghi … quanta fatica ad accettare modi diversi di pensare e agire; mi pareva d'essere una eroina se riuscivo a non sbuffare …

E per quella effettiva?

Mi bastò riuscire a tener in ordine il libretto-conti, a chiedere per spese straordinarie, a dichiarare qualche rilevante offerta che facevo o qualche dono che offrivo, a dare mensilmente il mio contributo all'Istituto per mettere il cuore in pace e dichiarare che per la povertà non avevo problemi!

Non ricordo i rispettivi articoli delle costituzioni dei miei primi anni d'Istituto, certamente non ero riuscita a coglierne l'essenza.

Quelli attuali, con il ripetuto insistente richiamo alla solidarietà coi poveri, alla disponibilità al prossimo, all'attenzione agli altri e alla condivisione con loro hanno inciso assai più profondamente, mi tengono desta, mi spingono alla verifica; e interrogano la mia poca povertà, la mia disponibilità tanto ridotta, la mia condivisione ancora limitata.

Mi ricordano che solo se mi lascerò sollecitare dalla povertà di Cristo e dei poveri, solo allora riuscirò ad essere più povera e a rendere partecipi i fratelli di quanto ho e sono: denaro, beni e talenti, cultura, energie, tempo!

Più povera di un tempo?

Certamente più « presa » dalla povertà di Cristo e dei fratelli; ancora in cammino: fino a quando?

« Fino a quando si giungerà, nella povertà estrema della morte, a essere per sempre ricchi di Dio ».

P.F. - Trento

Il « povero », secondo Gesù, è « l'uomo del Regno ».

Decidersi per i poveri non basta.

Gesù chiede di più: farsi volontariamente « povero », vivere il suo programma di vita, il programma delle beatitudini.

Tra il racconto di Luca ( Lc 6,20-26 ) e quello di Matteo ( Mt 5,3-13 ) c'è una diversità, perché diverse sono le situazioni umane che devono essere illuminate e interpretate dalla parola di Dio.

Luca parla solo di « povertà » in contrapposizione ai « ricchi »: i poveri dal punto di vista economico e sociale.

Egli scrive il suo Vangelo per le comunità appartenenti ad una società con gravi squilibri sociali, dove il povero è l'uomo spogliato dal ricco.

I « poveri » del Vangelo secondo Matteo sono poveri « in spirito », quelli che hanno liberato il cuore e la vita da tutti i legami ingombranti: la loro è una povertà d'acquisto.

Soltanto se è tenuto presente l'uno e l'altro aspetto della povertà, quello di Luca e quello di Matteo, il messaggio di Gesù viene accolto nella sua pienezza.

Essere poveri evangelicamente non è essere privi o semplicemente privarsi di qualcosa, ma è « diventare » poveri perché si crede in altri valori, assunti come ragione di vita: la fedeltà a Dio e la disponibilità a Lui, al suo Regno, la condivisione, l'umiltà, la giustizia, il timor di Dio …

È imparare a ragionare secondo Dio.

È quindi uno sforzo permanente di conversione.

È fatica quotidiana e possibile solo nella comunione con Lui, in cui si fa anche la comunione con i fratelli, soprattutto con i più poveri e deboli.

Una consacrazione nel secolo, come la nostra, non può non porsi i problemi del momento storico in cui si vive, non può seguire la corrente senza alcun discernimento.

La Chiesa ci sollecita a interrogarci « sulla qualità della solidarietà umana » che viviamo: nel campo dell'occupazione, dell'investimento del denaro, del consumo …; a « demolire gli idoli che ci siamo costruiti: denaro, potere, consumo, spreco, tendenza a vivere al di sopra delle nostre possibilità ».

La pratica della povertà evangelica è strettamente legata alla nostra missione di trasformazione del mondo.

A.C. - Bari

Ma ciò che conta non è tanto il dare qualcosa ai fratelli, specialmente ai più poveri, quanto coltivare, con l'aiuto di Dio, un atteggiamento interiore che riveli un cuore di povero, capace di attenzione, di compassione, di condivisione.

È come dire che la solidarietà verso i piccoli e i poveri, nello spirito del Vangelo, esige e provoca al tempo stesso la conversione del cuore in coloro che la vivono.

Gli altri, gli altri! Sono tanti, gli altri.

Ci sono quelli più vicini, quelli che amiamo di più, quelli che ci interessano di più, per cui saremmo disposte a tanti sacrifici …

E ci sono gli altri più lontani, quelli che amiamo … proprio perché ci sono lontani e non ci disturbano troppo: e quelli sulle cui miserie ci inteneriamo e a cui siamo disposte a dare qualcosa.

Qui, « gli altri » è in generale.

Ma subito le costituzioni specificano: « soprattutto ai più poveri, ai piccoli, ai deboli ».

Non dicono: « ai più simpatici ».

Non dicono: ai poveri che ti diranno grazie e che sapranno usare bene ciò che tu avrai loro dato.

Dicono « poveri ».

E « poveri » può significare tante cose: sono tante le forme di povertà e tanti i poveri.

Sono tutti coloro a cui forse nessuno fa attenzione: non fanno rumore, non protestano, non alzano la voce, non fanno comizi, non pretendono, non tendono forse neanche la mano.

Solo se sei attenta te ne accorgi.

Se no dici: Poveri, nel mio Paese, non ne esistono, o sono così pochi … e poi tocca allo Stato provvedere!

Attenzione: non è sempre una cosa facile.

Anzi, non è mai facile.

L'attenzione mette in moto e rimescola nel profondo la coscienza.

Va ben al di là dei « bisogni » altrui; scopre prima i loro « diritti ».

Perché si tratta di diritti.

Io non posso avere in sovrabbondanza e non accorgermi che a te manca ciò a cui hai anche tu diritto: il necessario.

Non posso moltiplicare le mie esigenze, e accorgermi che poi le mie mani restano vuote … è troppo poco ciò che io posso dare, e allora tanto vale non dar niente, lasciare che diano coloro che hanno molto più di me, e in confronto ai quali io non sono altro che quella certa vedova del Vangelo …

Già, ma la vedova ha dato quella sua briciola, e l'ha data di cuore.

Il suo era amore « a fatti e in verità ».

Non ha offerto il suo obolo per farsi vedere, neanche per sentirsi contenta di aver anche lei dato qualcosa, meno ancora per sentirsi a posto.

Aveva poco: ha condiviso quel poco.

Anzi, era pochissimo. Ha condiviso quel pochissimo.

Condividere ogni bene anche con nostro sacrificio, non significa tanto fare a metà dei beni materiali, e neanche stabilire una parte per gli altri, dato che ci sono anche loro, e neppure imparare a fare economia, a spendere poco per mettere da parte.

Quello che non ho consumato per me, perché non potrebbe essere donato?

Anche a costo di sacrificio? sì, anche a costo di sacrificio.

E condividere le molteplici ricchezze che la più povera di noi possiede: si chiamino soldi, si chiami tempo, energie, intelligenza, talenti …

Tutto ciò ch'è un bene va trasformato in Bene.

Anche un sorriso può essere condiviso con gli altri.

Anche una parola.

Anche un pensiero.

G.S.

Non so se la povertà che vivo come membro dell'Istituto sia quella giusta o meno; so soltanto di rispondere ad un'esigenza che sento dentro, quella della condivisione, della partecipazione.

Ciò non vuoi dire certo che so rispondere ad ogni esigenza altrui, anzi spesso mi sento un po' schiacciata dall'impotenza di fare o dare qualcosa di concreto; mi sento nella gioia e nella libertà quando per rispondere al problema dell'altro ho perso un po' dei miei soldi, del mio tempo, delle mie sicurezze e penso che quand'anche non possedessi più niente io sarei sempre molto più ricca di tanti altri: ricca di Amore, di amicizia, di stima, di simpatia.

Non dico che i grandi problemi del mondo si risolvano con dei gesti o atteggiamenti singoli ma questi sono importanti; è importante per me chiedermi che cosa posso fare io in questo frangente, fare e dare tutto il possibile.

Molto spesso, senza accorgermene, punto il dito sugli altri, mi lamento per ciò che non è giusto e non vedo che anch'io personalmente vivo le mie piccole ingiustizie, curo i miei piccoli interessi, cerco di non sbilanciarmi troppo, così vivo la mia povertà nella mediocrità e perciò nella scarsa libertà.

Non credo d'essere mai andata a cercare i problemi e le necessità da condividere; a me bastano le sollecitazioni che il Signore mi offre nella mia quotidianità, basta essere attenta e aperta e c'è di che restare sempre senza un soldo e senza un po' di tempo da perdere per me stessa.

A.T. - Bergamo

Il bilancio, o rendiconto annuale, che in una forma o nell'altra tutti gli Istituti richiedono ai loro membri, costituisce una preziosa occasione per una verifica senza veli del proprio vivere da poveri, almeno per quanto concerne l'amministrazione dei beni che ci sono dati in uso.

Esso va ben al di là di una mera relazione economico-finanziaria.

Infatti una attenta « lettura » delle cifre può rivelare non solo la portata e la qualità delle scelte effettuate, ma anche le motivazioni che le hanno guidate: uno specchio del proprio tenore di vita, che si fa stimolo ad una più piena fedeltà allo Spirito e ad una più delicata attenzione alle esigenze dei fratelli.

Il bilancio annuale che sono tenuta a presentare non è un « optional » ma rientra nella promessa di povertà ed obbedienza che ho pronunciato al momento della mia professione e che rinnovo ogni anno.

È una cosa seria.

È l'atto conclusivo di un cammino, di una esperienza di vita che sono chiamata a vivere nella sobrietà, nel confronto coi poveri, nella gratuità, nella condivisione, nella corretta amministrazione di doni che il Signore mi lascia: in questo caso denaro e cose.

È il risultato del mio sforzo nel superare, per amore, la tentazione del possesso, dell'accumulo di beni, di scelte non « essenziali ».

Da tempo, al di là dei miei limiti e dei miei egoismi, mi sforzo di vivere in questa dimensione l'impegno del bilancio, tanto da considerarlo la mia carta d'identità che parla concretamente di me, della mia vita, dei miei amori preferenziali, rivelati e tradotti in cifre.

Tante volte mi sono chiesta e mi chiedo con semplicità e verità: « che valore attribuisco a questo strumento? ».

La ricerca di questo « valore » è stata ed è faticosa, perché a volte ancora sono tentata di considerarlo inutile, superato, perdita di tempo, impegnata come mi sembra d'essere a valutare prima di spendere, di donare, di trattenere, di depositare …

Quante volte mi è capitato e mi capita di non « resistere » ad una spesa, di « pesare e misurare » troppo un gesto di solidarietà, di accontentare un mio desiderio, di « giustificare » una scelta, di « depositare » per una esagerata paura del futuro.

La fedeltà alle promesse non è poi così facile!

Sono sempre la lettura e la verifica periodica che mi aiutano a capire le mie preferenze e mi sollecitano a cambiare.

In tutto ciò riconosco l'utilità di questo strumento, di questo atto apparentemente formale.

Non si tratta più solo di fare « quadrare » un bilancio …

Si tratta di concretizzare la mia risposta d'amore e di libertà che non ha limiti.

Il bilancio è uno strumento per misurare questa risposta e come tale va « usato », non solo « compilato » perché sia davvero chiave di lettura della mia vita, della mia fedeltà.

La realtà del mondo di oggi, che molto più del passato chiede giustizia e solidarietà, non solo interpella la mia generosità nel « donare » ma mi « obbliga » a mutare stile di vita.

Se infatti dono di più in solidarietà perché possiedo, ma il mio stile di vita ( abbigliamento, viaggi, spese non necessarie, arredamento, mode consumistiche, primizie … ) continua ad essere quello degli anni « boom », quando la realtà socio-economia era diversa e gli extracomunitati, i profughi, i disoccupati, le realtà del Terzo mondo … non erano davanti ai miei occhi, vuoi dire che qualcosa non va e le cifre del bilancio me lo devono rivelare.

In un cammino di consacrazione nella spiritualità francescana, la misura di ogni mia scelta mi viene solo dai bisogni dei fratelli più poveri e se io ancora fatico a discernere per scegliere concretamente, vale la pena di rivalutare il « bilancio annuale », affinché diventi uno strumento-stimolo che mi conduca a un di più di fedeltà alla mia vocazione nella obbedienza, nella povertà, nella condivisione, nella sobrietà, nella gratuità.

B.L.

Ma quali possono essere le esigenze dei fratelli?

A volte non riguardano solo beni materiali, ma anche valori che concorrono alla dignità e alla libertà della persona, all'appagamento delle aspirazioni più profonde: affettive, culturali, spirituali …

Forse una delle cose che meno ci costa, è di dare denaro o tante altre cose materiali; cioè si danno cose materiali senza farsi molte domande del bisogno reale per cui vengono chieste le cose.

Il problema peggiora ancora quando oltre a queste « cose » ci vengono chieste altre « cose »; per esempio: tempo.

Oggi chi più chi meno è occupato in mille compiti ed il tempo indubbiamente non avanza; « non sognare di condividerlo! quel poco che ho l'utilizzo io! » questa è la tipica frase tra noi.

Il male che sta flagellando la società, oggi, è la mancanza di dialogo perché non si ha tempo per ascoltare gli altri ( ecco perché dicevo che una delle maniere per tranquillizzare la coscienza è dare « cose » ).

Non posso essere disponibile senza condividere quello che ho, e quello che ho prima di tutto è la mia propria persona così com'è, santa e peccatrice.

Perciò con i beni, i talenti e la realtà concreta che vivo.

Essere e stare disponibile, così come Gesù fu con tutta la gente!

Per me è uno dei modi per vivere la povertà; senza tralasciare di considerare fondamentale la comunione di beni, credo che nella proporzione con cui si « capisce » di nuovo che niente ci appartiene e che tutto si deve mettere al servizio degli altri ( così come facevano i primi cristiani ), saremo costruttori di una Chiesa umile e povera.

A. - Argentina

In ordine alla povertà ho fatto mie queste due indicazioni:

- usare il denaro senza l'ansia di possedere, anzi mettendolo a servizio dei valori evangelici e a disposizione dei fratelli nel bisogno;

- essere segno di libertà e della capacità dell'uomo di vivere al di là della materia, mettendo al primo posto la fraternità e i valori dello spirito.

L'uomo ha bisogno delle cose materiali ( cibo, vesti, casa … ) perché egli vive in un corpo strettamente unito allo spirito; ma anche questi beni, di fondo, non sono « beni materiali », ma mezzi per la dignità e la crescita umana.

Pensiamo al significato di una casa …

Ma vive anche di « valori »; amicizia, gratuità, intelligenza, preghiera, espressione artistica, condivisione, gioia …

Da qui nasce l'importanza di usare il denaro anche per coltivare questi valori: la comunicazione fra le persone ( giornali, viaggi, posta, telefono … ); l'arricchimento intellettuale e spirituale, la cultura ( libri, cinema, teatro, viaggi, giornate di studio, corsi … ), amicizia e condivisione, crescita armonica della persona ( studio delle lingue, hobbys, armonia anche esteriore … ).

Questo si traduce facilmente nella nostra vita personale e comunitaria, nel superare la pigrizia o gli schemi di « non telefono perché costa », quando so che l'altro può aver bisogno o piacere di un contatto con me o io stesso ne sarei ristorato; di « non vado a quell'incontro perché costa » se so che ne ricaverei frutti spirituali, ecc.

Ci sono molte altre cose materiali a cui potrei rinunciare, per mettere al primo posto i valori dello spirito!

Ed ancor più importante, tale atteggiamento ci porta a saper essere « umili nel ricevere come nel dare », pur di mettere al primo posto questi valori; ad esempio:

« io ho tempo di andare a trovare un ammalato, ma non ho i soldi per prendere il taxi di cui avrei bisogno »: chiedo e condivido la gratuità del servizio;

« io proprio non ho la possibilità di fare viaggi ma ho il mio guadagno »: dono e condivido la gioia di altri che si incontrano;

« io possiedo libri ed altri hanno la voglia di leggerli » ( o viceversa ): li presto ( o li chiedo ) e condivido la scoperta di una crescita;

« sono stanca e avrei bisogno di … »: faccio ciò di cui ho bisogno e « vivo »;

« so che la tale persona è sola, ma non ho tempo »: telefono e lancio un ponte.

Gli esempi ognuno li può trovare nella sua vita, sono infiniti.

Questi non sono che esempi e forse un po' semplicistici, ma ho cercato di tradurre un concetto che è molto più profondo: non fermarsi mai al « costo », come se il denaro fosse il centro dell'universo.

A. B.

Cogliamo infine, dalla testimonianza che segue, i tratti di una esperienza maturata in una condizione di povertà esistenziale che va ben al di là dell'uso delle « cose »: una esperienza sofferta, ma ricca e feconda, in cui la povertà si traduce in una consumazione di amore casto e obbediente e in una instancabile tensione missionaria.

La mia esperienza di solitudine è ancora breve e limitata, ma per me è importante e significativa nel mio cammino di consacrazione per la missione.

Nel 1970 la mia andata in pensione, dopo 35 anni di insegnamento, è coincisa dolorosamente con la morte della mamma.

Mi sono ritrovata improvvisamente sola, con il vuoto dolorosissimo della sua assenza e insieme, compiuto l'impegno professionale, con la totale libertà di disporre del mio tempo.

Poteva essere un difficile momento di adattamento a un nuovo stile di vita, forse monotono e insignificante, ma per grazia di Dio e con l'aiuto della vocazione, è stato semplicemente un continuare e intensificare il servizio volontario missionario.

Sono stata e sono ancora impegnata in un movimento diocesano di pastorale degli anziani, anche se la malattia degli occhi che mi sta privando progressivamente della vista, mi porta a limitare almeno i miei impegni esterni.

Per questa ragione, e per qualche problema di salute, normale nell'età avanzata, mi capita ogni tanto di fare la casalinga, sola e magari un po' malandata, per giornate e anche per settimane intere.

Dunque penso di poter dire con gioia sincera, che vivo la solitudine, non come una difficoltà, ma come uno spazio importante e significativo della mia consacrazione.

È il tempo della fede, che intuisce e accoglie il mistero della presenza amorosa del Padre nella mia vita; è il tempo del raccoglimento, della preghiera silenziosa, della contemplazione e della lode; è il tempo in cui posso offrire il mio piccolo granello di dolore sull'altare del grande sacrificio di Cristo Gesù per il Regno.

La solitudine mi porta a vivere in pienezza i consigli evangelici: la castità, che è amore totale al Signore Gesù e, in Lui, a tutti i fratelli; la povertà, che è privazione ( per me temporanea ) di rapporti intensi e significativi e vivaci con il prossimo; l'ubbidienza alla volontà di Dio, che si manifesta attraverso le situazioni e gli avvenimenti, come ci ricorda il nostro regolamento.

Dunque non l'isolamento, ma la solitudine abitata, cioè la solitudine missionaria; nella mia casa entra il mondo intero, la Chiesa e l'umanità tutta, attraverso i mezzi di comunicazione sociale, che mi permettono di conoscere, di capire, di condividere, di gioire e di soffrire.

Il telefono è poi una grande risorsa, per portare avanti gli impegni del servizio pastorale, ma anche per approfondire e affinare i rapporti di famiglia e di amicizia, che in altri tempi siamo portati ad accantonare.

A. M. - Monza

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