Radicalità dei Consigli Evangelici nel quotidiano

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L'orizzonte secolare di Maria in una vita consacrata per il Regno

di Cettina Militello

Mi sono chiesta tante volte se non proiettiamo in Maria sensibilità, scelte totalmente estranee all'orizzonte culturale di una fanciulla israelita del suo tempo.

Consacrazione, secolarità, castità, povertà, obbedienza, missione come potevano iscriversi nella sua sensibilità, se a codificarli sarebbe stata la comunità delle origini e ancor di più la comunità del tempo?

Ma come pensare la Madre di Gesù al di fuori del modello da Lui stesso predicato e messo in atto come adeguato alle dinamiche del « regno »?

D'altra parte, anch'Egli deve avere assunto dalla madre, come ogni altro soggetto umano, quella sensibilità e quei valori che del proprio orizzonte familiare fanno, in modo indelebile, referente « culturale » originario.

Confesso un certo disagio nel mettere insieme queste diverse istanze, tutte indubbiamente vere, pur se la loro « verità » necessita di contestualizzazioni e di ermeneutica.

C'è un indubbio meccanismo proiettivo.

La crescita di fede della comunità iscrive di tempo in tempo la Madre del Signore nei suoi peculiari valori.

Gesù stesso non sfugge a questa corrispondenza proiettiva.

I valori, poi, proprio perché espressivi di una fede sempre più matura hanno alla radice la parola di Dio, autorevolmente interpretata dalla primitiva comunità.

I termini risulteranno magari più ampi o diversi rispetto alla valenza iniziale, ma si faranno sempre carico di una cresciuta intelligenza della fede.

Sicché c'è stato un tempo in cui Maria è apparsa « modello » di riserbo, mansuetudine, silenzio.

Ancora è apparsa « modello » nella esemplarità escatologica della vita verginale, in quel superamento dei limiti del sesso che ha tanto impegnato la donna nell'età dei Padri.

Maria è apparsa « modello » attivo di penetrazione e intelligenza della parola a quelle donne che della scelta contemplativa hanno fatto l'orizzonte vitale.

Si pensi alla Madonna della « lectio » così prossima al modulo monastico di acquisizione della parola.

Maria è apparsa esemplare nell'orizzonte della « povertà » così come l'ha modulato la riflessione francescana e clariana.

E, infine, è apparsa « modello » di vita attiva, sia nell'« insuccesso » della « Visitazione » - la comunità pensata da Francesco di Sales per Giovanna di Chantal è rimasta iscritta nel modulo claustrale -, che nel successo delle successive molteplici fondazioni.

Nel nostro tempo la crescente attenzione alla « secolarità » ce la fa « modello » di una contestualità comune, quotidiana, prossima ai valori della presenza, prossima ai valori delle donne, nel loro fuoriuscire dal silenzio per accedere a piena e concreta partecipazione.

Ogni « modello », pur nelle sue enfatizzazioni, veicola valori; corrisponde ad aspettative reali della comunità ecclesiale, e delle stesse donne.

Ogni modello non esaurisce la forza propositiva di Maria, che resta sempre al di là di ogni nostra strumentale assunzione.

Ma sono queste le regole dell'esistente; le regole del nostro immaginario culturale.

Per questa via, forse, riusciamo a dirla e a dirci nel nostro tempo.

L'importante è esserne avvertiti allorché la diciamo « consacrata secolare fedele che ha vissuto la castità per il Regno, la povertà, l'obbedienza, come unità della sua missione ».

Quello che importa, poi, è ricondurre il modello, la sua contestualità, all'originaria radice della parola.

Certo rimane attiva la « tradizione » come memoria oggetti va della comunità.

Ma a monte, tutta intatta, sta la suggestione della Maria evangelica.

È con l'immagine biblica di Maria di Nazareth che dobbiamo confrontarci, sia pure nella ricchezza dell'oggi della fede.

La consacrata secolare fedele

Di questi tre termini soltanto l'ultimo - « fedele » - ha una sua ragion d'essere « biblica ».

La « fedeltà » come traduzione esistenziale della fede è, di fronte all'impegno di Dio verso il suo popolo, impegno del popolo verso il suo Dio.

Il Dio d'Israele è un Dio misericordioso e fedele: mantiene la promessa, non ritrae la sua parola, non rompe il suo patto.

La fedeltà, l'aderenza alla sua parola, la confidenza nella sua azione liberatrice e salvifica, al passato come al futuro segnano, dunque, la fede d'Israele.

Maria è donna israelita nel senso forte e pieno del termine.

Luca la declina in tutta la forza esemplare del suo collocarsi nell'alveo dell'attesa del compiersi della promessa, del realizzarsi della parola di Dio in seno al suo popolo.

È difficile legare Maria alla « secolarità ».

Si tratta di un elemento estraneo alla sua sensibilità.

L'orizzonte culturale cui appartiene ignora la rottura tra « secolare » e « sacro ».

Non distingue la sfera propriamente religiosa da quella profana e « secolare ».

E dunque per contiguità al nostro orizzonte che la iscriviamo nella secolarità.

Certo è una donna, come tale esclusa dalla sacralità della « mediazione ».

Proiettare nell'orizzonte d'Israele la separazione « chierici - laici » è, in ogni caso, improprio.

Sono valenze successive, proprie dell'articolazione « sociologica » della comunità cristiana e del suo distinguere e separare il potere e la sua sfera « mondana » da quella « ultramondana ».

Se, comunque, dicendola « secolare », intendiamo disegnare la normalità quotidiana in cui si iscrive la sua esperienza di fede, passi pure l'espressione.

Certo, la sua vita è quella di una comune donna di casa, di una figlia e di una madre di famiglia.

La sacralità e il miracoloso di cui si fanno carico gli « apocrifi » nel narrarcene la vicenda dell'infanzia ( come pure della morte ) sono del tutto improbabili.

C'è, tuttavia, un'altra possibile lettura del termine « secolare » ed è quello dell'orizzonte salvifico della storia al cui interno si colloca la vicenda d'Israele.

Promessa, futuro, speranza sono categorie tutte che proiettano Israele verso un definitivo farsi prossimo di Dio.

Il che importa la lode di Dio nelle creature e nel creato come spazio del suo manifestarsi salvifico.

Nessun ritmo ciclico, nessun eterno ritorno, ma la linearità della storia, la tensione utopica, escatologica verso un compimento potente, transignificatore della stessa creazione.

In questo senso la secolarità di Maria ha come orizzonte l'annuncio imminente del regno di Dio.

La secolarità, dunque, il tempo, la storia come luogo della misericordia, dell'incontro, della salvezza.

Anche il termine « onsacrata » fa problema, se lo ascriviamo a sua personale autodeterminazione.

Se, viceversa, lo riconduciamo alla signoria dello Spirito e alla sua « unzione », nessuno più di lei ne sperimenta l'azione trasformante.

Chi più di lei conosce il « sigillo » dello Spirito? chi più di lei sperimenta la potenza dell'« unzione »?

È quest'orizzonte « singolare » a reggere la flessione dei « consigli evangelici ».

Davvero non potremmo proiettarli in Maria se non prendessimo atto della singolarità del rapporto che la lega allo Spirito.

Rapporto che la fa già anticipazione del mistero della Chiesa.

La castità per il Regno

Al di fuori dell'impatto, dell'azione dello Spirito in Maria, non potremmo certamente parlare di « castità per il Regno ».

Niente, biblicamente parlando, fonda un suo proposito verginale.

Il dialogo con l'angelo, l'obiezione mossagli di « non conoscere uomo » ( Lc 1,34 ) prova la modalità straordinaria del concepimento, non già l'autodeterminarsi a vita continente.

Che senso avrebbe mai il fidanzamento con Giuseppe?

L'orizzonte « secolare » di Maria è proprio quello di ogni fanciulla ebraica del tempo che affida alle nozze e alla maternità la modalità più ovvia di corrispondere al disegno di Dio.

Non si tratta di una scelta confidata all'innamoramento.

Decidono i genitori, i parenti.

Contano poco i figli nella contestualità della famiglia patriarcale.

Certo, nelle modalità di tradurre la vita matrimoniale la castità non è esclusa; non come continenza assoluta, ma come rispetto delle regole in cui va iscritta la santità delle nozze.

Dobbiamo supporre in Maria la totale corrispondenza tra la fede creduta e la fede vissuta.

La castità, per lei, è dunque innanzitutto modalità espressiva dei valori del matrimonio così come li interpreta e li elabora la fede d'Israele.

La castità assoluta, la verginità, come opzione di vita, come scelta coerente al mistero cui è chiamata, appartiene, dunque, allo Spirito; è conseguenza della maternità inaudita cui per grazia Ella è chiamata.

Lo spazio della castità si fa dunque immediatamente spazio di altra reciprocità, sorretta da nuovo consenso.

Al suo « essere per Giuseppe », al suo naturale orientarsi all'altro nel segno della reciprocità antropologica delle nozze, subentra altra e inedita reciprocità nuziale, quella teandrica dell'accogliere il Verbo nella mente e nel cuore prima che nella carne.

È reciprocità che esige « consenso ».

L'obbedienza

Ma il consenso che la creatura presta al Creatore ha il nome proprio di « obbedienza ».

È riconoscimento del proprio limite, della propria fìnitudine, della propria contestualità creaturale.

In quest'orizzonte « secolare », quotidiano e comune, che iscrive la creatura nel disegno del Creatore, dobbiamo dunque collocare l'« obbedienza » di Maria, espressione anch'essa della fede; traduzione della sua fedeltà al Dio dell'alleanza.

È impensabile nella trama relazionale, nella trama d'attesa fiduciosa verso il compiersi delle promesse che Ella maturi altra attitudine che non sia di consenso incondizionato al volere di Dio.

L'obbedienza così è tutt'uno con l'atteggiamento fiduciale, con l'abbandonarsi al volere di Dio.

Non si tratta di un atto formale, ne di un atto irriflesso.

L'obbedienza di Maria non è irragionevole o acritica.

Ella è persona che interloquisce, che chiede di capire, che obietta.

Ancora una volta è il dialogo con l'angelo nunziante a suggerirci questo entroterra adulto, maturo di fede e di consenso.

La povertà

Castità e obbedienza si iscrivono entrambe nell'orizzonte della fedeltà, ma soprattutto declinano quella che ci pare di poter suggerire come categoria cardine a cui si riconducono anche le altre: la « povertà ».

Maria è povera; fa confessione di « povertà » ( Lc 1,48 ).

Non si tratta di una connotazione sociologica. Anche, indubbiamente.

La moglie di un carpentiere non appartiene certo a una classe agiata.

Ma la povertà di cui parliamo non ha niente a che fare con la condizione sociale o con i beni posseduti.

Maria si dice povera, ma così facendo disegna l'orizzonte specifico della propria spiritualità e della propria fede.

La povertà di cui parla è attitudine interiore. È stile, spiritualità.

È abbastanza consueto mettere a confronto il « cantico di Anna » e il « magnificat ».

Al primo certamente si ispira il secondo.

Si tratta - ed è raro nella Scrittura - in entrambi i casi di una parola proferita da donne.

Secoli e secoli separano il linguaggio, l'aspettativa di Anna, moglie di Elcana, da quella di Maria.

L'una, pur teneramente amata, non ha figli.

L'altra ancora non sposa porta già in grembo un figlio.

Tutte e due queste donne sciolgono un inno di lode, tutte e due cantano il Dio d'Israele che s'è fatto carico della loro « povertà ».

Anna, che povera non è, si dichiara « povera » ( 1 Sam 1,15 ) perché priva dell'unica ricchezza, dell'unica risorsa possibile per una donna del suo tempo.

La povertà di Anna è quella di non aver figli.

Su questa sua indigenza si posa la misericordia di Dio rendendola madre di Samuele.

Anche Maria canta la misericordia del Dio dell'alleanza, il suo farsi carico della « povertà della sua serva ».

Ma la povertà di Maria è altra cosa: è attitudine interiore; è spiritualità, germinata all'interno dell'Israele devoto e fedele che, messo a prova, pone in Dio e nel valore irrevocabile della sua promessa ogni sua confidenza e ogni sua speranza.

È, dunque, un atteggiamento fiduciale, un atteggiamento filiale di abbandono; un rimettere a Dio il proprio presente e il proprio futuro; un vivere di sola fede.

Certo la povertà così intesa per sua necessità disprezza il possedere e fa della povertà come connotato sociale un emblema e una riprova della propria scelta spirituale.

La povertà così intesa può diventare sentimento solidale di condivisione e prossimità a chi è povero nel senso più immediato e materiale del termine.

Che l'orizzonte della povertà di Maria implichi tutte queste cose non può farci dimenticare tuttavia come la povertà autentica implichi innanzitutto un orizzonte di valori: abbandono, fiducia, farsi carico, prendersi cura …

Tra fede e missione

Ci pare, comunque la si declini, che sia la fede la categoria trainante e interpretativa della condizione esistenziale della Madre del Signore.

Ci si rapporti al mistero della sua « vocazione », ci si rapporti al concreto esercizio della sua « missione », emerge a monte del suo autodeterminarsi, del suo consentire all'azione di Dio e del suo Spirito, l'orizzonte vitale e originario della fede, da cui germina in tutta la sua complessità la ricchezza e singolarità della sua risposta.

È l'assenso di fede ad acquisirla alla verginità per il Regno; è l'assenso di fede ad acquisirla all'obbedienza e al volere di Dio; è l'assenso di fede ad acquisirla all'orizzonte della povertà, della confidenza e dell'abbandono come stile esistenziale.

Certo questa sua fede è inseparabile dalla speranza e dall'ardente carità.

Ma è la fede il motore della speranza.

È la fede il supporto della stessa carità.

Fuori dall'orizzonte di fede Maria non può aderire all'interpellanza divina, non può consentire alla sua vocazione salvifica.

E operata che abbia questa scelta di fondo, il resto è esuberanza della fede, sua ridondanza feconda.

La sua castità non è chiusura a Giuseppe; non è orgoglioso privilegio.

È molla incentivante, disponibilità e dono.

Si tratti di Giuseppe, si tratti del Figlio, si tratti di Elisabetta, si tratti degli sposi di Cana o del discepolo che Gesù amava …

La castità di Maria è generoso farsi carico, fecondo prendersi cura …

La sua obbedienza non è remissività, rinuncia ai suoi doveri di madre.

Ma è transignificazione della sua stessa condizione creaturale.

L'obbedienza la rende capace di rimettersi alla volontà di Dio, alla sua parola, di sostanziare diversamente, oltre le regole della natura, la sua stessa maternità secondo carne.

La sua povertà, infine, è la modalità propria, a lei peculiare di vivere la fede.

Ancora una volta non si tratta di un vittimistico vilipendersi come creatura.

Non si tratta di iscriversi in un orizzonte minimale che offende la dignità della creazione « ad immagine ».

Il confidare in Dio e l'abbandonarsi a lui come dinamismo attivo della fede implica il compiere le opere di Dio, l'additarlo al giudice al di là delle regole umane.

Implica il proferire a voce forte il suo disegno di liberazione e di salvezza, così lontano dalle nostre regole e dalle nostre stesse aspettative.

Castità, obbedienza, povertà, germinano dunque nella fede, dalla singolare statura della fede di Maria che non ignora d'altra parte l'oscurità e il dubbio, ma in tutta normalità di donna e di madre vive l'angoscia del silenzio di Dio, vuoi nel separarsi da lei, nel rinnegarla, quasi, del Figlio ( Mc 3,31-35; Lc 12,27s ); vuoi nell'orrore del saperlo condannato alla morte di croce.

La dinamica fiduciale della fede vince il silenzio di Dio.

Anche lei come il Figlio si rimette alla sua volontà.

Anche lei accetta la modalità scandalosa a cui il Padre ha affidato liberazione e salvezza.

Maria accoglie lo scandalo della croce.

Lo fa suo in pienezza come creatura che sopra ogni cosa confida e si affida al suo Creatore.

La missione di Maria

Se l'orizzonte di Maria è l'orizzonte della fede, in essa si iscrive anche la dinamica della sua « vocazione » e della sua « missione ».

Come per ogni altra creatura la « vocazione » è tutt'uno con la chiamata alla fede.

L'essere figlia d'Israele importa per Maria, sia pure al femminile, l'essere circoscritta nella funzione mediatrice del suo popolo.

D'Israele Maria condivide il rapporto nativo, originante, alla parola.

Benché come donna sia esclusa dalla mediazione propriamente sacerdotale confidata ai maschi della tribù di Levi, Maria si colloca nell'alveo comune della consacrazione del suo popolo, tutto intero « separato » per il suo Dio.

Del suo popolo condivide l'iscriversi in una regalità che è innanzitutto e soprattutto quella di Dio stesso, re d'Israele.

La tradizione evangelica colloca lei e Giuseppe nella discendenza davidica, ma ciò che importa è la regalità comune, partecipata dall'intero popolo, riverbero dell'elezione e della chiamata così come la declina Es 19,6.

Del suo popolo condivide la dimensione profetica, cui accede in prima persona come altre donne in Israele.

Di Maria « profetessa » hanno non a caso parlato i Padri.

Alla locuzione profetica, d'altra parte, appartiene il « magnificat ».

La vocazione di Maria all'interno del referente regale profetico sacerdotale del suo popolo a maggior ragione consente di interpretarne la missione secondo le dinamiche funzionali del nuovo popolo di Dio, che ella anticipa e di cui è membro sovreminente ( LG 8 ).

La missione di Maria insomma è tutt'uno con il partecipare, in modo « singolare », alla mediazione salvifica che la comunità credente eredita da Cristo re sacerdote profeta.

Castità, povertà, obbedienza come stile esistenziale, come traduzione della fede, diventano così modalità proprie del tradurla nella funzionalità di regalità sacerdozio profezia.

La missione di Maria si fa carico con valenza « personale » e con valenza « comune » di tutti e tre i termini della terna.

E insieme mostra l'impossibilità di esercitarli fuori della contestualità « evangelica » della castità, povertà, obbedienza.

Se la valenza comune della regalità mostra Maria nel passaggio dalla regalità del popolo d'Israele alla nuova regalità che scaturisce dalla kenosis dell'abbassamento del Figlio di Dio servire il quale è regnare ( LG 36 ), la valenza « personale » della regalità riconduce Maria alla funzione sua singolare e specifica, l'essere madre del redentore.

Maria è regina perché biblicamente è madre del re davidico ( Lc 1,32s ).

Ma questa regalità di tipo « personale » non può prescindere dall'orizzonte di servizio che caratterizza la regalità del Figlio ( Lc 22,24-27 ).

Lo stile esistenziale vede dunque un convergere di regalità e servizio.

Sicché è la « povertà » in ultima analisi la chiave interpretativa della regalità e del regno.

Così a livello « personale », il rapporto di Maria alla « parola » chiama ancora una volta in causa il privilegio della maternità divina, la funzione sua di madre del Verbo, di creatura che al Creatore offre la sua carne di donna; a livello « comune » il generare il Verbo corrisponde alla necessità vitale d'ogni cristiano di annunciarlo, testimoniarlo, accoglierlo.

Ma il generare il Verbo importa il riconoscimento di Lui come Signore, importa la scansione di sé come « creatura », importa ancora una volta l'iscriversi in un orizzonte di kenosis, di abbassamento, condizione stessa della divinizzazione e del regno.

Nessun profeta parla a suo nome.

La profezia esige il riconoscimento di Colui nel cui nome io parlo.

Esige confessione della propria indigenza e del proprio limite.

Ancora una volta è la povertà lo stile fondamentale del regno.

Sembrerebbe anche per Maria, perché donna, assolutamente necessario circoscriverla nell'orizzonte « comune » del sacerdozio.

Ma ancora la singolarità della sua funzione, il suo essere la Madre del Signore mostra l'inadeguatezza delle nostre classificazioni.

La funzione di Maria in ordine alla salvezza è propriamente « sacerdotale ».

Il suo è « sacerdozio » che implica la transignificazione della sua stessa carne.

È quanto opera in lei la potenza dello Spirito.

Sicché la vocazione originariamente dossologica di Adamo ed Eva, dell'umanità creata per restituire a Dio il creato in lode della sua gloria, si complica nella modalità nuova e inedita di un rendimento di grazie che è offerta della propria stessa carne così che venga trasformata nella carne dello stesso Figlio di Dio.

Nessuna epiclesi è più potente.

Nessun offerente è più adeguato.

La mediazione è confidata non più ai segni, ma al soggetto stesso che si offre accettando di farsi offerta.

Il mistero della maternità divina ha molto da dirci in questa direzione.

Ma al di là degli aspetti non ancora approfonditi, comunque si legga la soggettualità offerente di Maria è indubbio l'orizzonte vitale della sua « povertà ».

Accettare di essere partner di Dio nell'alleanza esige ancora una volta kenosis, confessione d'indigenza, professione del proprio limite di creatura.

In questa prospettiva appare poi evidente il filo rosso che intercorre tra castità, obbedienza e povertà, il loro essere tutt'uno nella forza interpretativa del sapersi poveri e indigenti di fronte a Dio, in tutto necessitati all'ossequio e all'abbandono al suo volere.

Che la creaturalità resti l'orizzonte dell'esistenza di Maria e della sua missione, lo prova poi, al di là della sua partnership nell'incarnazione, la vocazione ultima ad iscrivere il privilegio stesso della maternità nella regola kenotica della dismissione della maternità secondo la carne per accedere a maternità secondo lo Spirito.

È il discepolato, la famiglia escatologica dei discepoli, l'orizzonte ultimo della vocazione e della missione di Maria.

Non a caso la ritroviamo in preghiera con i discepoli in attesa di quello Spirito che ha già transignificato la sua carne iscrivendola nella condizione più alta cui è mai stata chiamata una creatura.

Le esigenze e le regole del Regno ignorano ogni privilegio.

È nuovamente dallo Spirito che Maria come ogni altro discepolo mutuerà la sua missione.

In quest'evento, castità e obbedienza torneranno ancora a significare i valori impreteribili del Regno, ma soprattutto la povertà, la docilità e la condivisione ( At 2,42ss ) indicheranno lo stile di servizio a cui è chiamata la comunità nel tempo.

Nel paradosso della sua esistenza, nella polarità di ciò che ce la rende « sorella » e di ciò che ce la rende « modello », Maria continua ad additare a ciascuno di noi e alla comunità intera l'orizzonte del servizio come orizzonte della missione.

La provocazione di un modello

Fede - speranza - carità, povertà - obbedienza - castità, regalità - sacerdozio - profezia costituiscono i referenti dell'esistenza cristiana.

Ma, lo annotavo all'inizio, ogni tempo li traduce e li adegua alla sua sensibilità.

Per noi oggi Maria acquisisce connotati propri; la provocazione del suo esserci modello necessita riferimenti concreti alla nostra congiuntura culturale.

Ella, dunque, interpella le donne e come donna ci si disvela nella forza concreta e propositiva dell'uscire dal silenzio ( funzione profetica ), del farsi carico ( funzione regale ), dell'essere nel segno della gratuità e della grazia ( funzione sacerdotale ).

Ciascuno di questi aspetti della sua soggettualità ecclesiale, ciascuno di questi aspetti della sua vocazione e missione chiama in causa lo stile del Regno e, ovviamente, interpella uomini e donne.

Non è da cristiani la connivenza implicita dell'omertà e del silenzio; non è da cristiani la complicità dell'indifferenza e del disimpegno; non è da cristiani l'idolatria di se stessi, dei propri meriti, dei propri beni.

Colei il cui nome è grazia, colei che è stata fatta oggetto del favore di Dio ( Lc 1,28 ) ci disvela, nella docilità dello Spirito, che la gratuità è la nota fondamentale del Regno.

Gratuita è la fede, gratuita è la salvezza, gratuita è la vocazione.

Nel segno della gratuità non può che essere la missione.

La totale gratuità di Maria tesse la trama della sua castità, della sua obbedienza, della sua povertà.

Tesse la trama del suo iscriversi come creatura nella transignificazione della creaturalità voluta dal Creatore.

Attestare, vivere, esperire la gratuità esige per il nostro tempo l'elaborazione di modelli solidali.

La secolarità di Maria, la quotidianità del suo vivere storico accoglie ogni provocazione, ogni domanda.

Fa proprio ogni « prendersi cura ».

È azione questa che non dismette neanche dalla condizione gloriosa che oggi la accomuna al Figlio.

Il prendersi cura di Maria non esclude nessuno.

Ella è veramente la serva del Signore.

Per lei veramente servire è regnare.

Ma il prendersi cura necessita anche il farsi voce di chi non ha voce.

Il farsi voce di Colui che ha voce definitiva e potente.

La profezia di Maria è nella contestualità « secolare » del parlare e del parlare con franchezza di fronte al mondo.

Non si può essere veramente discepoli senza parresia, senza franco parlare.

Non si tratti di fare proprio il modulo irresponsabile della denuncia ad ogni costo.

Si tratta del doversi schierare per i valori del Regno, senza incertezze o ambiguità, senza riserve mentali, senza strumentalizzazioni o forzature.

Si tratta di accogliere il gemito della creazione che anela ad essere trasformata, di accogliere la voce delle creature che chiedono d'essere finalmente rispettate, d'accogliere il grido di dolore di milioni di soggetti umani che chiedono d'essere riconosciuti nella dignità loro propria, nel loro essere ad immagine di Dio.

La missione è certamente per noi l'annuncio, la lode, il servizio.

Ma come per la Maria biblica nella contestualità della Galilea, anche a noi si chiede una contestualizzazione adeguata ai nodi di questo nostro mondo, ai suoi problemi, alle sue domande, alla sua sete di autenticità e di valori.

Lo stile di Maria, il suo bandire e tradurre i valori del Regno è dunque appello a conversione.

Se vogliamo è appello a ritornare a orizzonte e a stile propriamente evangelico.

Il nostro tempo ne ha bisogno; ha bisogno di modelli; ha bisogno di proposte seducenti e condivisibili.

Ha bisogno di una nuova profezia culturale, compito, insieme, degli uomini e delle donne.

Profezia di pace, di dialogo, di incontro, di rispetto e di riconoscimento dell'altro.

Sono tutti valori del « Regno » che Maria la consacrata secolare e fedele continua a proporci nel manifesto utopico del suo « magnificat ».

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