Spirit/Isecolari/NS06/NS06.txt Il paradosso delle Beatitudini Presentazione Affermare ancora una volta che il " discorso della Montagna " ( nella doppia versione, quella riferita dall'evangelista Matteo e quella dell'evangelista Luca ) è la magna charta di ogni battezzato è pura e semplice ovvietà. E con quanto si è detto e scritto intorno alle " Beatitudini " si potrebbe riempire una biblioteca. Argomento, quindi, sul quale non c'è più nulla da dire? Tempo sprecato affrontarlo ancora una volta? Anche per dare soddisfazione a questi interrogativi non si può che ricorrere all'ovvietà di una risposta affermativa, se no, non saremmo qui, noi a scrivere, voi a leggere. Perché, come ogni grande " discorso " evangelico, come ogni Parola del Signore, siamo davanti a un pozzo senza fondo: per quanto si voglia ( e possa ) operare nel senso dell'approfondimento, non accadrà mai che venga scritta - finché uomo e donna avranno vita - la parola " fine ". La Parola di Dio è la Vita per ogni creatura: e si incrocia quindi con le vite degli uomini e delle donne, sia che essi facciano o non facciano professione di fede nel Dio di Gesù Cristo. Per chi crede, infatti, è comandamento onorato palesemente; per chi non crede, può essere percepita come inclinazione naturale, oppure vissuta come conseguenza di azioni altrui. Essa è la Via e la Verità, interamente rivelata, ma che ciascuna generazione, ad ogni tornante della storia umana, e ciascuno uomo e ciascuna donna, devono scoprire nell'intreccio, appunto, con le proprie vite: di comunità e singole. Il " discorso della Montagna " appare poi davvero paradossale, se messo a confronto con le logiche correnti. E in ogni epoca questa " paradossalità ", a confronto con gli stili di vita ed i costumi, si manifesta in maniera diversa. E di vario tono e genere sono le sottolineature che in ogni epoca ( ma anche in ogni diverso stato di vita - laico, sposato o no, religioso, sacerdotale - ed anche in ciascuno dei due generi - maschile e femminile ) si sono evidenziate e si evidenziano. Oggi, siamo in presenza di culture ( mi riferisco a quelle di cui abbiamo diretta esperienza, cioè quelle sviluppate dal così detto Occidente ) per le quali il raggiungimento della felicità, in questa esperienza di vita, si ha soltanto esorcizzando per quanto possibile l'idea di dolore e di morte; e cercando di massimizzare le occasioni per far denaro, per accumulare potere, per moltiplicare le opportunità di sfruttamento reciproco, per agire con arroganza adoperando tutti i mezzi anche violenti per sopraffare chi è debole. In presenza di queste tendenze, sembra ancora più paradossale un messaggio e un invito alla felicità ( anche nel qui ed ora, non soltanto quando il tempo sarà finito ) da ritrovarsi nella povertà, nella mitezza, nell'applicazione scrupolosa delle regole, nella accettazione della debolezza come stile di un'esistenza. Perché la felicità è Grazia, dono di Dio, " privilegio " accessibile a tutta l'umanità, non soltanto a pochi e che, per di più, si auto-eleggono meritevoli. Inoltre, per chi è stato chiamato alla vita di consacrazione secolare, trovare quali suggestioni, per il proprio presente storico, vengano dalle Beatitudini, è - se così si può dire - un dovere imprescindibile. Pena, non realizzare la vita alla quale Dio ha chiamato. Scopo di questo volume è, allora, proprio questo: aiutare i secolari consacrati, attraverso riflessioni di più autori, con diverse storie di vita, a trovare la strada da percorrere perché le Beatitudini, nella loro straordinaria paradossalità, siano davvero programma esistenziale. Così, Mario Rollando ci conduce a comprendere il discorso etico soggiacente alle " Beatitudini " nella versione di Matteo, che più di Luca forse aiuta in questa ricerca: un ragionamento ampio, che riguarda non soltanto i " secolari consacrati " che, in ogni caso, per la loro scelta di vita, sono chiamati a incarnare " radicalmente " la felicità evangelica. Poi, i " grandi paradossi ": della povertà ( nella indicazione lucana ) messa a confronto con la tentazione del denaro e del potere ( Luigi Accattali ); della necessità anche umana di fare giustizia, messa a cimento dall'altrettanto inderogabile necessità di essere misericordiosi ( Marisa Sfondrini ); della urgenza tutta evangelica di essere miti ( in un mondo nel quale sembrano avere diritto di sopravvivenza soltanto i forti e i violenti ) non venendo meno all'esigenza, altrettanto evangelica, della fermezza ( Teresa Ciccolini ); dell'obbligo morale di essere operatori di pace, in un mondo che non sembra conoscere altro che guerre e guerriglie ( Giulio Battistella ). Ancora, quale prospettiva per le " Beatitudini ", nel qui ed ora della nostra storia, ma in vista dei " cieli nuovi " e delle " nuove terre " che ci sono stati promessi ( Anna Maria Canopi ); una prospettiva che coinvolge il problema di vivere radicalmente il messaggio delle " Beatitudini ", la loro promessa di felicità, nella quotidianità della vita ( Teresa Legrottaglie ), quotidianità che comporta l'esperienza del dolore da vivere però nella speranza ( Lia Pilleri ). Un 'ultima annotazione, del tutto personale: ho parlato di " Beatitudini " come " strada " verso la Beatitudine massima, la vita con e nel Signore. Ebbene, dalla lettura dei vari saggi si ricava, anche in certo senso fisicamente, l'impressione di una strada in salita, come di grandi tornanti che circondino una montagna. Capita così di ripassare sullo stesso punto, ma la diversa distanza da cui lo si guarda, ne fa scorgere particolarità ancora sconosciute. Marisa Sfondrini Le Beatitudini nel Vangelo secondo Matteo E l'impegno etico del Cristiano di Mario Rollando Introdurci ad una riflessione, possibilmente non scontata, sulle beatitudini, significa entrare in un " universo " biblico, ove il beato è colui che è benedetto, visitato da Dio e reso partecipe della sua comunione di vita. Dall'Antico Testamento, ove, specie nei salmi, leggiamo che è " beato l'uomo la cui speranza è il nome del Signore " ( Sal 40,5 ) come beato " è chi abita nella sua casa " ( Sal 84,5 ) o " colui che Dio ha scelto e chiamato vicino " ( Sal 65,5 ) fino all'ultimo dei libri del Nuovo Testamento, ove si affermano " beati gli invitati alle nozze dell'Agnello " ( Ap 19,9 ), le beatitudini costituiscono lo stato di predilezione di quanti si sono lasciati circoncidere il cuore dal mistero santo e ineffabile della carità divina. Per questo se, da una parte, le beatitudini dell'evangelo secondo Matteo sono la " sorgente " da cui scaturisce rigoglioso tutto il discorso della montagna, esse, al tempo stesso, sono il " culmine " del discorso stesso pronunciato da Gesù. Sono il frutto dell'opera compiuta dallo Spirito Santo nei discepoli. Le beatitudini non sono condizioni etiche per entrare nel regno, ma l'epifania dell'esistenza etica di coloro che già appartengono al regno. Il Catechismo della Chiesa Cattolica recita: " Le beatitudini sono al centro della predicazione di Gesù. La loro proclamazione riprende le promesse fatte al popolo eletto a partire da Abramo " ( CCC 1716 ). Il Vangelo delle Beatitudini Le beatitudini sono la visione capovolta del mondo: descrivono l'esistenza dell'uomo secondo la gerarchia di valori del Vangelo. Come in ogni pagina evangelica è raccolto l'essenziale della buona notizia di Gesù, così nel testo delle beatitudini è contenuto tutto il Vangelo. Esse proclamano che a Dio è possibile ciò che gli uomini ritengono impossibile. Quando realtà " maledette " come la povertà, il pianto, la persecuzione, o " impraticabili " come la mitezza, la misericordia, la purezza di cuore, la pace, la giustizia costituiscono il tessuto quotidiano del vivere, allora davvero il Regno è in mezzo a noi e la Pasqua del Signore continua a celebrarsi nella tragedia del mondo. Autobiografia di Gesù Nel CCC leggiamo ancora: " Le beatitudini dipingono il volto di Cristo e ne descrivono la carità " ( CCC 1717 ). Proponendo le beatitudini ai discepoli, Gesù di Nazareth si autopropone. Egli propone un'esistenza secondo il Regno di Dio ed egli è il Regno presente tra gli uomini. Nelle beatitudini egli da il tracciato della propria storia, da Betlemme al Calvario. Egli è l'unico povero, l'unico afflitto, l'unico mite, l'unico che ha avuto radicalmente fame e sete di giustizia, l'unico misericordioso, l'unico autentico puro di cuore, l'unico genuino operatore di pace, l'unico che ha veramente conosciuto la persecuzione a causa della giustizia, l'unico insultato e percosso a motivo di Dio. L'esistenza etica dei discepoli del Signore consiste nel rivivere l'esperienza interiore vissuta dal loro stesso Maestro. Per questo la vita morale del cristiano, a partire dal racconto delle beatitudini nel Vangelo di Matteo, sembra delinearsi con queste cinque connotazioni: - una morale di relazione interpersonale, sul fondamento della relazione tra il Figlio e il Padre - una morale di partecipazione al dinamismo stesso che anima la vita del Cristo - una morale di assimilazione-conformazione interiore al Cristo - una morale di trasfigurazione secondo un processo rielaborativo dell'ostacolo in veicolo - una morale di orientamento valoriale delle facoltà su significati storicamente definibili. Una morale di relazione interpersonale La vita cristiana è comunione. Essa consiste nel rivivere l'intima relazione del Figlio col Padre nello Spirito Santo. Solo all'interno d'una comunicazione di bene nasce un determinato comportamento etico. La scelta valoriale non può essere indotta dall'esterno, ma germoglia dall'interiorità d'un rapporto. Il decalogo è, in questo senso, normativo. Infatti i dieci precetti, le dieci parole, consegnate da Dio a Mosé sono introdotte dall'assioma perentorio e irriducibile: " Io sono il Signore Dio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù " ( Es 20,2; Dt 5,6 ). Ciò significa che solo sul fondamento della relazione prioritaria con Dio i dieci precetti che seguono trovano il loro significato e la loro praticabilità. Morale di relazione è morale dell'ascolto poiché, nella tradizione giudaico - cristiana, un determinato costume del credente germoglia all'interno dell'ascolto che questi presta al suo Dio che gli parla. La preghiera dello " shemà", ascolto, è celebrata tre volte al giorno dal pio ebreo, per tenere desta la memoria che solo nell'ascolto di Dio il fedele ritrova l'identità del proprio essere credente e del proprio agire morale. Nell'esperienza religiosa giudeo - cristiana l'ascolto precede l'adorazione, il culto, l'osservanza. Come la fede nasce da una relazione di ascolto ( Rm 10,17 ), così l'etica manifesta nell'agire l'atteggiamento interiore dell'ascolto credente. Il nesso intimo tra ascolto credente ed azione morale è espresso incisivamente nella lingua ebraica, ove, il verbo " shemà " significa al tempo stesso ascoltare e obbedire. Per l'ebreo ascoltare è obbedire; l'ascolto che non diventa obbedienza non è vero ascolto. Per quanto concerne le beatitudini è indispensabile osservare che ne esiste una non compresa nella lista di Matteo, anche se presente, come vedremo, in modo implicito in altra pagina dello stesso Vangelo, e proclamata esplicitamente dall'evangelista Luca: " Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica " ( Lc 11,28 ). L'ascolto è la prima beatitudine. Essa, come tutte le altre beatitudini, è praticata anzitutto da Gesù: egli vive ascoltando il Padre. " Dico al mondo tutto quello che ho ascoltato dal Padre mio " ( Gv 8,26 ), " Tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi " ( Gv 15,15 ). Anche l'evangelista Matteo fa riferimento a tale beatitudine nei discepoli, quando, nell'episodio della professione di fede di Pietro, Gesù afferma: " Beato sei, tu, Simone figlio di Giona, perché non la carne o il sangue tè lo hanno rivelato ma il Padre mio che sta nei cieli " ( Mt 16,17 ). La morale cristiana, dunque, è frutto d'una relazione di ascolto. Dio, rivelandosi al discepolo che lo ascolta, lo abilita ad un costume nuovo corrispondente alle verità ascoltate. Per una genuina educazione alla vita morale è perciò secondario introdurre il discepolo a dare una risposta adeguata a Dio, mentre prioritario educarlo a prestare un vero ascolto. La risposta, che esigerà sempre impegno ascetico, è comunque conseguenza dell'ascolto di Dio che si rivela. San Paolo afferma: " Justus ex fide vivet " ( Rm 1,17 ), che può tradursi " l'uomo moralmente retto vive di fede ". Le beatitudini di Matteo rinviano alla fede, relazione d'ascolto, come fondamento della vita etica cristiana. Senza l'ascolto della Parola non esiste il discepolo povero, mite, puro di cuore, misericordioso, costruttore di pace. Una morale di partecipazione Abbiamo già scritto che le beatitudini sono i modi d'essere di quanti appartengono al Regno. Come tali esse non sono conquistate o meritate, ma sono unicamente partecipate. Ed è lo Spirito Santo il dinamismo interiore che, diventando principio attivo di vita nel discepolo, e sua legge personalizzata, partecipa a lui le energie del Regno. Vorremmo mostrare come tale dinamismo avvenga in una integrazione tra antropologia e grazia attraverso tre passaggi: anomia, eteronomia, autonomia. L'anemia, etimologicamente, assenza di leggi, è lo stato della persona condotta dai bisogni primari. Tutto è lasciato all'istintività e alla ricerca immediata d'ogni tipo di gratificazione sensibile. Oltre che di uno stadio della vita legato ad una certa età, infantile - adolescenziale, si tratta d'una dimensione dell'esistenza umana che è presente, almeno allo stato latente, a qualunque età. È la componente trasgressiva del soggetto. Mentre le beatitudini germogliano dal desiderio di compiutezza e di armonia tra le varie facoltà, interne ed esterne, che il soggetto avverte nel profondo del proprio io, l'anemia nasce invece da quella componente di indeterminatezza, confusione e non finalizzazione, che coinvolge istintivamente le stesse facoltà. Si tratta di quel fondo luminoso, l'apertura delle beatitudini, e di quel fondo oscuro, la predisposizione all'anomia, che coabitano in ogni soggetto umano. San Paolo parla di " uomo spirituale " e di " uomo carnale ". Lo stato di anomia può anche teorizzare il rifiuto di qualunque finalità, ordine, disciplina. L'anemia può essere subita, poiché divampa improvvisa per cause psicofisiche o circonstanziali; ricercata, poiché legata all'incancellabile attitudine del soggetto al fascino dell'indeterminato e dell'oscuro; provocata, poiché conseguente a precedenti scelte di approssimazione e trasgressività. L'eteronomia, etimologicamente, legge esterna, nasce dall'esigenza del soggetto di darsi delle norme come limiti ad un disordine non più vivibile. L'indeterminatezza dell'anemia giunge infatti a provocare insignificanza, isolamento, aprogettualità. Si avverte la necessità d'una regola, d'un metodo, d'una disciplina. La logica seguita è solitamente quella dell'interesse, non quella dei valori. Ci si determina a darsi, o ad accettare delle regole, non perché se ne riconosca il valore intrinseco ma perché se ne ammettono i vantaggi esterni. In questo senso anche l'autorità riveste soltanto una funzione motrice, garantista e pedagogica, ma non le si riconosce facilmente un valore in se stessa. Sovente la vita cristiana ha una impostazione soltanto eteronoma: essa si caratterizza per una serie di obblighi, di pedaggi da pagare; la precettistica ha il sopravvento: dai diversi impegni della vita etica personale e sociale, all'obbligo della virtù di religione, preghiera e sacramenti. In una visione siffatta si potranno anche costruire dei soggetti adempienti, e, alla lettera, moralmente ineccepibili, ma si è non solo lontani, ma totalmente al di fuori, dallo spirito delle beatitudini. Nello stato di eteronomia si obbedisce ad una legge esterna non per una raggiunta convinzione interiore, come avviene nelle beatitudini, ma per un obbligo o una convenienza. L'autonomia, etimologicamente, legge interiorizzata, costituisce quello stato in cui il soggetto è guidato nelle proprie scelte non da un movente esterno ma da una consapevolezza interiore, personalizzata. La legge è interiore a lui, anzi si identifica con le sue stesse convinzioni; per questo egli diventa legge a se stesso. L'io autonomo è tale non perché rifiuta la legge esterna ma perché la obbedisce non più come legge esterna, ma come legge personale, interiore. L'io autonomo è un soggetto libero non perché fa quello che vuole ma perché vuole quello che fa. E non può che volere quello che interiormente gli è comandato perché solo in esso egli riconosce il proprio bene, la propria beatitudine. Per questo l'io autonomo è al tempo stesso il più libero perché si autodetermina a scegliere ciò che responsabilmente ha deciso, ed anche il più dipendente perché non può scegliere se non ciò in cui riconosce il proprio bene. L'uomo non è libero di scegliere il male. E l'autonomia dell'uomo libero coincide con la sua dipendenza dal bene. Infatti l'uomo è libero solo quando è fedele. Il bene che rende libero l'uomo non può che essere il Sommo Bene, Dio. In lui l'uomo trova tutta la propria autonomia e la propria dipendenza. Innanzi a lui l'uomo manifesta la propria libertà nell'adorazione. L'uomo non è mai così libero come quando adora il suo Dio. L'uomo totalmente riferito all'Assoluto è l'uomo totalmente autonomo. L'uomo adorante non è l'uomo alienato, ma l'uomo pienamente restituito a se stesso. La prostrazione, la lode, la benedizione, l'offerta, il rendimento di grazie sono segni di libertà. Gli spazi della più totale fedeltà, siano essi il monastero o il matrimonio, diventano gli spazi della più gioiosa libertà. Le beatitudini evangeliche si radicano sulla capacità dell'uomo a diventare un soggetto autonomo e conducono queste capacità creaturali ad orizzonti totalmente nuovi, grazie alla Pasqua del Signore. Come Gesù, nella sua relazione con il Padre, è al tempo stesso autonomo e obbediente, così il discepolo del Vangelo partecipando, per la grazia delle beatitudini, al mistero della filiazione dal Padre, diventa anch'egli autonomo e obbediente. Per il cristiano, reso conforme al Maestro, la libertà coincide con la fedeltà. Scrive san Tommaso, nel suo commento all'espressione paolina " Dov'è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà " ( 2 Cor 3,17 ): " L'uomo libero appartiene a se stesso; lo schiavo, invece, appartiene al suo padrone. Così chiunque agisce da sé agisce liberamente, mentre colui che riceve da un altro il proprio movimento non agisce liberamente. Pertanto colui che evita il male non perché è male, ma a motivo di un precetto del Signore - vale a dire per la sola ragione che 'è proibito' - costui non è libero. Ora proprio questo è quanto opera lo Spirito Santo, il quale perfeziona interiormente il nostro spirito comunicandogli un dinamismo nuovo ( la grazia ), per modo che egli si astiene dal male per amore, come se glielo comandasse la legge divina. E così egli è libero, non in quanto è sottomesso alla legge divina, ma perché il suo dinamismo interiore lo porta a fare ciò che la legge divina prescrive " ( II Ad Cor. 112 ). Una morale di assimilazione - conformazione al Cristo Il contenuto morale delle beatitudini è il culmine di un lungo itinerario: esse suppongono dei fondamenti che le precedono e senza dei quali non sembrano poter reggere. Tali fondamenti sono costituiti dalle " dieci parole " consegnate da Dio a Mosé. Il percorso etico del discepolo di Cristo va dal decalogo alle beatitudini. Queste, sono il culmine e il compimento nuovo di quello che Gesù dice: " Non sono venuto ad abolire ma a portare a pienezza ". Tale compimento della vita morale, non più circoscritta in una precettistica minimalista, è segnalato da Gesù quando egli afferma che i suoi discepoli sono chiamati a partecipare della stessa santità di Dio: " Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli " ( Mt 5,48 ). L'indicazione del decalogo come fondamento dell'esistenza etica del cristiano è presente nel racconto evangelico del grande quesito posto a Gesù: " Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? ". "Se vuoi entrare nella vita, risponde il Signore, osserva i comandamenti ". L'interlocutore riprende: " Quali? ". E Gesù precisa: " Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso " ( Mt 19,16-19 ). Stupisce che un israelita osservante chieda " Quali? ". Denuncia una ignoranza non facilmente giustificabile. In realtà il nuovo interrogativo posto a Gesù rivela la difficoltà, anche per l'osservante, a distinguere i precetti veramente essenziali da quelli accessori, data la complessità e la minuzia delle regole imposte dai rabbini. Il Maestro comprende l'imbarazzo del suo interlocutore e pare voglia dirgli di abbandonare la particolareggiata precettistica rabbinica per attenersi solo a quanto è fondamentale, il decalogo. È questo l'unico episodio narrato nei Vangeli in cui Gesù fa esplicito riferimento ai dieci comandamenti e con estrema chiarezza li dichiara incancellabili e decisivi per l'esistenza etica dei suoi discepoli. Gesù è un giudeo, fedele all'autentica tradizione religiosa del suo popolo, e non può stupire che egli ribadisca l'importanza della genuina normativa di Israele. Soltanto, innanzi all'importanza che egli attribuisce all'osservanza del decalogo, nasce un duplice quesito: primo, i cosiddetti precetti negativi, cioè i divieti, quale valore hanno per il cristiano? secondo, in che cosa la morale del Nuovo Testamento si differenzia da quella dell'Antico? Il primo quesito trova risposta anzitutto nelle scienze umane. Esse affermano che il " divieto " è indispensabile nella formazione d'una personalità matura. Il processo d'identificazione del soggetto esige la limitazione del desiderio e l'introiezione del senso del confine, vale a dire del senso della proibizione. È questo l'itinerario essenziale per porre argine al criterio del piacere, e collocare il soggetto nel " reale " inteso come ambito contradditorio da armonizzare tramite un tessuto di " norme ". Queste gli consentiranno di entrare in vero contatto con sé e con gli altri. Tale processo di armonizzazione comporta un'opera di contenimento delle spinte primordiali dell'io ( istinti e pulsioni ). Solo così andrà determinandosi ed emergendo il profilo unificato dell'io. Questo è l'obiettivo di un vero progetto educativo. Regole precise e figure valoriali di riferimento sono i mezzi essenziali di cui si avvale questo percorso, sia per far emergere le potenzialità del soggetto, sia per costruire positivamente la sua personalità, liberandola dalla dipendenza dalle proprie passioni disordinate e dal conseguente rischio della frantumazione. Il precetto negativo, dunque, come lo impone anche il dettato dell'Antico Testamento, appare qui in tutto il suo valore formativo della persona. È chiaro che l'introiezione del divieto, come impegno responsabile che il soggetto si assume in vista della costruzione del proprio io, è il frutto d'un intelligente lavoro di interazione nelle comunicazioni educative, esenti da ogni forma di autoritarismo in colui che educa e, di conseguenza, immuni da stati di frustrazione, con depressione o rivolta, in colui che è educato. Si tratta d'un processo che mira all'autoformazione tramite una proposta significativa di valori nei quali il soggetto possa sempre verificare la garanzia della propria libertà. È chiaro che la maturazione della persona attraverso l'assunzione del precetto negativo poggia su un rapporto educativo che sia " promettente " e, pertanto, necessariamente " asimmetrico ". Il secondo quesito incontra la sua risposta nella constatazione che la pedagogia di Dio nella storia salvifica ha tenuto conto della suddetta esigenza antropologica, ma non si è fermata ad essa. Il decalogo ha l'obiettivo di strutturare secondo uno statuto obbedienziale la coscienza di Israele. Il popolo ebraico è fedele alla propria identità di popolo in quanto permane in uno stato obbedienziale di ascolto del Dio che gli parla. Lo " shemà " ( ascolto ) costituisce l'io individuale e collettivo degli ebrei. Gesù conferma la funzione strutturante delle " dieci parole ", ma introduce una loro nuova interpretazione che nasce dalla presenza del Regno di Dio in mezzo agli uomini. Non è più la sapienza maturata con l'osservanza della legge, che è il grande dono di Dio, a partecipare all'uomo la salvezza, ma è l'opera totalmente gratuita di un altro, il Cristo, che dona all'uomo una nuova giustizia. È la grazia, partecipata all'uomo col battesimo sgorgato dalla pasqua di Gesù, il dinamismo totalmente nuovo che consente una adesione interiore al bene, prima sconosciuta. Il dinamismo nuovo è il regno di Dio operante nell'uomo. Dal regno di Dio interiorizzato germogliano le beatitudini. L'inclinazione al disordine, alla non finalità, originata nell'uomo col peccato originale, non si estingue neppure con la partecipazione alla vita del regno. L'uomo rimane una creatura ferita, fatto per il bene, ma continuamente sviabile e catturabile dal male, anche dopo l'avvento in lui della grazia. Per questo la disponibilità alla logica del regno è strettamente connessa con l'opera di contenimento nei confronti della propria natura, che comporta un serio e continuo itinerario di ascesi. Il senso del confine e del divieto mantengono per il cristiano tutto il loro valore pedagogico. Presumere di poter prescindere dai precetti negativi significa non voler tenere conto della reale condizione umana. La vita morale cristiana ha nel tracciato delle beatitudini la sua pienezza. Esse manifestano la struttura interiore dell'uomo nuovo, rigenerato dalla pasqua di Gesù. Non sono però acquisibili senza l'impegno dell'uomo alla lotta contro il peccato, ne sono mantenibili senza il permanere in stato di continua conversione. Esiste quindi nel percorso etico della sequela evangelica una perenne tensione: dal precetto del decalogo, che ha un carattere negativo, preciso e definito, alla proposta delle beatitudini, che è positiva, aperta e dinamica, nell'orizzonte del " già e non ancora " tipico del regno di Dio. La morale delle beatitudini non può essere intesa, in reazione verso una morale tendenzialmente minimalista, come abrogazione del precetto negativo, tipico del decalogo, ma come integrazione del " divieto ", sempre necessario per l'uomo " viator ", entro la realtà escatologica delle beatitudini che anticipano, già lungo il pellegrinaggio, i beni futuri. Possiamo ulteriormente riflettere circa il rapporto che Gesù instaura tra la legge mosaica e la nuova legge dello Spirito che nasce dalla sua Pasqua, allo scopo di meglio evidenziare l'effettiva originalità etica del messaggio neotestamentario. Chiediamoci in merito se non è possibile che egli abbia ribadito la legge mosaica, con l'aggiunta di alcune beatitudini - per altro già conosciute dai suoi ascoltatori - o se invece abbia davvero proposto uno statuto morale radicalmente nuovo. Dato che l'Antico Testamento, e gli scritti rabbinici, contengono testi corrispondenti a quello del capitolo quinto di Matteo è legittimo domandarsi in che cosa consiste esattamente la novità etica del Nuovo Testamento. Dopo la proclamazione delle beatitudini, Matteo riferisce queste parole del Maestro: " Io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli " ( Mt 5,20 ). E a conferma che la nuova giustizia è diversa da quella antica, prosegue elencando le sei " antitesi ": " Avete inteso che fu detto agli antichi: non uccidere … ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio. Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio ma io vi dico: chiunque guarda una donna … Fu pure detto: chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto del ripudio, ma io vi dico … Avete inteso che fu detto agli antichi: non spergiurare, ma adempì con il Signore i tuoi giuramenti … ma io vi dico: non giurate affatto … Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente, ma io vi dico di non opporvi al malvagio, anzi se uno ti percuote sulla guancia destra … Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico, ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori perché siete figli del Padre vostro celeste " ( Mt 5,21-45 ). Da questo testo appare indubbia la novità della morale proclamata da Gesù ( esclusione d'ogni violenza, proibizione del divorzio, obbligo di amare i nemici … ), ma rimane aperta la domanda se tale novità etica si ponga in alternativa o in continuità con quella antica. Anche al riguardo il testo del Vangelo è perentorio. Gesù non ha mai inteso contrapporre il suo messaggio a quello dell'Antico Testamento: " Non pensate che io sia venuto a demolire ( abolire ) la legge o i Profeti; non sono venuto per demolire ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno della Legge, senza che tutto sia compiuto " ( Mt 5,17-18 ). La validità imperitura del decalogo è affermata da Gesù con assoluta chiarezza, e al tempo stesso è indicato un sostanziale mutamento di prospettiva, che è contenuto nel messaggio delle beatitudini, ritenuto per questo, a ragione, la " Magna Charta " del Cristianesimo. Esiste una premessa fondamentale fatta da Gesù al discorso della montagna, e quindi alle beatitudini, che di tale discorso sono considerate il " portale ". Tale premessa costituisce il presupposto indispensabile, senza del quale le otto beatitudini non sono comprensibili. Concludendo il capitolo IV del suo Vangelo, Matteo riferisce le parole con cui Gesù apre la sua predicazione: " Convertitevi, perché il regno dei cieli è giunto " ( Mt 4,17 ); poi narra la chiamata dei primi quattro discepoli, ai quali dice " Seguitemi, vi farò pescatori di uomini " ed infine racconta l'avvio dell'opera di Gesù: " … andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e infermità nel popolo " ( Mt 4,18-23 ). Da questi testi emerge chiaro che il Vangelo è lo svelamento dell'iniziativa di Dio verso l'uomo, molto più che l'esortazione all'uomo a dare risposta all'iniziativa di Dio. Il comportamento dell'uomo avviene sempre in seconda battuta, come conseguenza del movimento gratuito di Dio. La conversione si fa possibile e urgente per la grazia del regno ormai giunto; i primi discepoli seguono il Maestro solo dietro la sua chiamata lungo la quale sarà lui, non il loro merito, a " farli " pescatori di uomini; ed infine le " grandi folle cominciarono a seguirlo " ( Mt 4,25 ) soltanto dopo che lui ha annunciato la buona novella del regno e ha guarito " tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici " ( Mt 4,24 ). Il quadro che Matteo ci offre proclama con estrema chiarezza che il regno di Dio irrompe nel mondo nella persona di Gesù di Nazareth in assoluta gratuità. Esso non è concesso da Dio agli uomini come un premio alla loro buona condotta, né come un merito acquisito per una osservanza coerente. Il regno di Dio giunge, attraverso Gesù, suscitando stupore, meraviglia, rendimento di grazie, ed anche scandalo e resistenze, in ragione della sua novità non preventivata e, per molti aspetti, sconcertante. Su questo fondamento, e solo su di esso, le beatitudini trovano la loro collocazione. Esse non sono, come già si è accennato, delle condizioni morali per entrare nel regno, ma indicano i comportamenti morali di coloro che già appartengono al regno. Le beatitudini descrivono la vita etica di Gesù, l'unico che le ha integralmente praticate, come pure delineano la vita di coloro che, resi per grazia conformi al Cristo, conducono una esistenza morale simile alla sua. Le beatitudini non costituiscono un codice morale esterno che il discepolo si propone e si sforza di seguire, ma sono le qualità dell'uomo inferiore, della nuova creatura, che dimora nel discepolo. Esse chiedono acconsentimento e responsabilità, fedeltà ed obbedienza, da parte del cristiano, ma esse non sono in nessun modo i frutti della sua autodeterminazione, ma l'epifania del Cristo che nel discepolo, per mezzo dello Spirito, ha fissato la sua dimora. Anche l'osservanza del decalogo da parte del pio ebreo non è solo opera del soggetto, vale a dire che non è frutto del solo impegno della volontà; anche in lui la giustizia di Dio opera partecipandogli una sapienza religiosa che corrobora la sua volontà. In questo senso l'etica dell'Antico Testamento non è un puro razionalismo, ma è già frutto dell'intervento di Dio. Nella nuova economia della grazia, instaurata dal mistero pasquale di Gesù, questa linea di tendenza giunge alla sua pienezza. Nel mistero cristiano il contenuto della sequela, o delle beatitudini, è attuato non solo grazie ad un dono di sapienza divina partecipata al discepolo, ma grazie all'opera stessa di Dio che, tramite lo Spirito di Cristo, compie direttamente nel discepolo la pienezza della legge evangelica. San Paolo afferma " Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me " ( Gal 2,20 ). Le beatitudini sono perciò opera dello Spirito Santo , il quale, ordinariamente, agisce dietro acconsentimento del cristiano. Si tratta però di un acconsentire, certo responsabile e sovente faticoso, ma non tale da far ritenere al soggetto che la logica delle beatitudini sia in qualche modo di sua pertinenza. Il discepolo del Vangelo avverte innanzi alle beatitudini la propria inadeguatezza e la loro gratuità. La novità della vita morale cristiana, che si esprime nel farsi povero, puro di cuore, mite, pacifico, misericordioso, porta il discepolo al medesimo verace riconoscimento che fu espresso in modo incisivo da san Paolo: " Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me " ( Gal 2,20 ). È il Cristo risorto, l'unico vero depositario delle beatitudini, che di esse, tramite l'opera dello Spirito Santo rende partecipi coloro che si pongono alla sua sequela. Una morale di trasfigurazione: l'ostacolo diventa veicolo La tradizione della sapienza cristiana contiene, per quanto concerne il conseguimento della maturità morale, due grandi criteri di conformazione a Cristo. Essi riguardano la Parola di Dio e i sacramenti, e vengono solitamente espressi con queste formule: " Noi diventiamo colui che contempliamo ", " Noi ci mutiamo in colui che celebriamo " ( San Leone Magno, Sermone 63, 7 ). Soggiace a queste affermazioni una peculiare teologia dell'ethos cristiano. Il discepolo di Gesù non è semplicemente il soggetto umano che orienta le proprie facoltà inTeriori, intelligenza, volontà, affetti, al mistero di Cristo, ma è colui che è assimilato a quello stesso mistero. Il nuovo comportamento, la nuova morale, che egli assume, non è un insieme di osservanze che gli sono giustapposte dall'esterno, ma un modo di scegliere, di decidere, di comportarsi che germogliano in lui dall'interno. Un racconto presente in molti autori greci del v secolo narra di un fenomeno naturale letto in chiave teologica: nelle notti estive quando si accende un falò, le farfalle, attratte dalla luce, volano verso la fiamma, ma, non avvertendo il calore, si incendiano, diventando fuoco. Questo, commentano gli autori sacri, è il destino dell'anima cristiana. Essa è lentamente divinizzata, mutata in Dio. La teologia orientale chiama " theosis " questo processo di assimilazione. Dal punto di vista più specificatamente morale è opportuno riflettere su alcuni aspetti di tale dinamismo trasformante, i quali trovano un singolare riscontro nella teologia delle beatitudini. Facciamo ancora riferimento ad altro principio che l'antica sapienza cristiana ci ha consegnato circa le modalità del processo di conversione. Tale principio si esprime, in modo lapidario, così: " Gli ostacoli diventano i nostri veicoli ". Questo significa che il cambiamento di mentalità e di costumi, cioè quel processo di trasfigurazione sopra accennato, che è esigilo dalla morale cristiana, non avviene tanto contro, e malgrado, la struttura temperamentale del soggetto, ma piuttosto attraverso di essa. Anzi potremmo affermare che la matrice da cui si genera il difetto del soggetto è quella stessa che pone in essere il suo pregio. E nell'indole passionale di Pietro che risiede sia la sua impulsività, che lO rende vulnerabile e fragile, sia la sua generosità che lo rende ardimentoso e fedele. La tensione morale del cristiano non consiste perciò anzitutto nel combattere la propria indole, ma nell'orientare al bene le energie che essa contiene. Studi recenti hanno rilevato che dal medesimo impianto temperamentale possono emergere figure di statura morale molto diversa. Le riflessioni fatte precedentemente circa l'integrazione tra precetto negativo o divieto ( decalogo ), e proposta positiva ( beatitudini ) trovano qui la loro conferma. In questo processo di rielaborazione le beatitudini evangeliche costituiscono il punto culminante dell'opera trasfigurante raggiunta dalla grazia e dalla responsabile accondiscendenza del soggetto, all'interno di un determinato vissuto umano. Ciò significa che, restando le beatitudini nella loro totalità l'obiettivo globale di ogni esistenza cristiana, ciascuna di esse potrà diventare peculiare, o assumere particolari accentuazioni, entro la specifica struttura antropologica, o la storia singolare, di un determinato soggetto. Così la beatitudine della povertà caratterizza in modo unico il profilo morale di Francesco d'Assisi, il quale è, per inclinazione naturale e per educazione familiare, sensibilissimo alla presenza di persone e cose, verso tutte le quali è colmo di rispetto e amore, ma nei cui riguardi matura un distacco ed una libertà del tutto singolari. La beatitudine della povertà, vissuta da questo discepolo del Vangelo, non è, in nessun modo, indifferenza o disprezzo nei confronti delle creature, ma il modo trasparente, tipico di chi appartiene al Regno, per riconoscere che ciascuna di esse " di Dio porta significatione ". La grazia tipica della povertà consiste nel trasfigurare le creature da " idoli " a " icone ". Nel caso di Francesco il forte legame con tutto ciò che lo circonda, invece di costituire un ostacolo alla sua statura morale, diventa - per grazia e per impegno - un veicolo oltre che per raggiungerla, anche per manifestare in essa la luce peculiare di chi, pur provato " dalla fame e dal freddo ", e percosso " con uno bastone nocchieruto ", custodisce " perfetta letizia " ( FF 1836 ). Potremmo qui annotare che se in Gesù di Nazareth tutte le beatitudini sono vissute in modo sommo, nei suoi discepoli esse risplendono in modo differenziato, proprio tenendo conto della diversa vocazione di ognuno, radicata anche nella diversa struttura dei soggetti. Non a caso la Chiesa venera diverse categorie di santi, apostoli, martiri, vergini, pastori, confessori, nella cui personalità le otto beatitudini evangeliche trovano un diverso riflesso. È opportuno allora sottolineare che la vicenda morale di ogni cristiano, essendo frutto della " sinergia " convergente dello Spirito Santo e della consapevole determinazione di ognuno, comporta, per quanto concerne il tracciato delle beatitudini, non soltanto un responsabile accondiscendere alla Grazia, ma anche una avveduta attenzione ai contenuti di quelle particolari beatitudini che, ordinariamente, corrispondono alla vocazione del soggetto. Per esempio, nella formazione del giovane che si prepara ad essere pastore, se la beatitudine della mitezza è - come pare - costitutiva della carità pastorale, il candidato non può che essere attento, non certo a conseguire tale beatitudine ( il che negherebbe tutte le riflessioni fatte finora ), ma a studiare quegli aspetti della propria personalità che domandano di essere " convertiti " alle esigenze della beatitudine suddetta. Si instaura qui un processo di " rielaborazione " del proprio vissuto che appare fondamentale per il profilo morale del soggetto. Per " rielaborazione " si intende anzitutto il superamento d'una visione statica della maturità, secondo la quale persone moralmente significative sarebbero soltanto coloro che, all'interno del proprio vissuto, abbiano cancellato tutti gli stati conflittuali e che sappiano, in qualunque circostanza, presentarsi - sempre e comunque - all'altezza della situazione. Sul versante positivo " rielaborazione " significa l'acquisita capacità di intervenire sugli aspetti carenti del proprio assetto morale con la ferma fiducia che il materiale da costruzione di cui ognuno dispone è stato redento da Cristo, ed è pertanto, anche se ferito dal peccato, potenzialmente idoneo ad essere assunto entro il progetto della propria santificazione. È come se le pietre di un edificio cadente - quelle stesse pietre e non altre - venissero utilizzate per costruire un edificio nuovo. Anzi, le vecchie pietre, grazie al rielaborato progetto, portano al nuovo edificio una singolare, a volte imprevista, bellezza. Secondo san Tommaso esiste uno stretto rapporto tra virtù, teologali e morali, doni dello Spirito Santo, e beatitudini. A questo argomento egli dedica diversi articoli della Somma Teologica ( I-II, 69, 5, 4; II-II, 8,9, 19, 45, 52, 121, 159, 141 ). Le beatitudini rappresentano il culmine e il coronamento della vita cristiana, anche se, a differenza delle virtù e dei doni, non sono abiti, ma atti, come ad indicarne il carattere di straordinarietà. Il Vangelo ne segnala simbolicamente alcune, ma il loro numero non conosce limiti. La dottrina tomista indica pure la stretta corrispondenza tra ciascuna delle virtù infuse ( teologali o morali ) e ognuno dei sette doni con ciascuna delle beatitudini. All'interno di tale dottrina sembra doversi sottolineare una tensione teologica che concerne in modo peculiare il rapporto tra vita morale del cristiano e beatitudini. San Tommaso evidenzia che il passaggio dalle virtù alle beatitudini procede nel senso di un intensificarsi della gratuità di Dio nei confronti dell'uomo, come se il vissuto virtuoso comportasse una collaborazione del soggetto che va lentamente diminuendo nel percorso dalle virtù ai doni, e da questi alle beatitudini, grazie ad un intervento sempre più immediato e abbondante dello Spirito Santo. Un autore spirituale del 1600, Louis Lallemant ( 1587-1635 ), scrive: " Si è soliti paragonare coloro che sono guidati dai doni dello Spirito Santo a una nave che procede a gonfie vele, con il vento in poppa; e quelli che sono guidati dalle virtù, e non ancora dai doni, a una scialuppa che viene spinta avanti a forza di remi, con molta più fatica e fracasso, e assai più lentamente … Non essendo ancora così partecipi dei doni dello Spirito Santo, noi dobbiamo ancora lavorare e sudare nella pratica della virtù. Siamo simili ai naviganti che avanzano a colpi di remo, con il vento e il mare contrari " ( Dottrina Spirituale, IV Principio, art. 2, 2, 5 ). Le beatitudini costituiscono " il punto culminante e il coronamento definitivo, sulla terra, di tutta la vita cristiana " ( A. Royo Marin, Teologia della perfezione, p. 196 ). Una morale di riconoscimento del valore in vicende storicamente definibili L'etica delle beatitudini, nel tracciato descrittivo che essa ci offre - povertà, mansuetudine, lacrime, fame e sete di giustizia, misericordia, purezza di cuore, pace e persecuzione a causa della giustizia - presenta un quadro simbolicamente completo e per nulla astratto dell'esistenza umana. Abbiamo già detto che si tratta del percorso autobiografico dello stesso Gesù di Nazareth. La vita del cristiano dunque, per essere un'esistenza edificata secondo le categorie del regno, non è affatto, e non può essere, un'esistenza disincarnata e astorica. È dentro i fatti concreti del vissuto quotidiano, e non accanto ad essi, che il discepolo porta a compimento il profilo morale del proprio io, riconoscendo in ogni vicenda un appuntamento offerto da Dio per il conseguimento della propria statura adulta in Cristo. Sotto questo aspetto può ancora mettersi in evidenza l'assoluta novità del regno nei confronti delle vicende ordinarie entro le quali il cristiano vive. Infatti, nell'enunciato delle beatitudini, la forza della novità consiste tutta nell'inizio del proclama di Gesù e nella sua conclusione, così come sono espressi nel primo " macarismo ", con le parole " beati ", " Regno dei cieli ". Non è la povertà o la persecuzione che, in loro stesse, possono essere ritenute beate, ma è la visita di Dio in coloro che le vivono, che fanno di queste realtà una fonte di bene. La medesima esperienza umana può essere pertanto occasione di rivolta o sorgente di pace, a seconda dell'accondiscendenza alla logica del regno da parte del soggetto. È chiaro dunque che senza Gesù crocifisso e risorto non esistono beatitudini. Dal riconoscimento che in ogni vicenda storica esiste una possibilità di beatitudine, emerge un altro criterio per l'esistenza morale del cristiano. Le beatitudini non nascono soltanto all'interno di situazioni che si determinano in ragione della fede cristiana, come ad esempio la persecuzione per la testimonianza resa al Vangelo, ma trovano il loro spazio di attuazione nelle vicende più ordinarie del vivere. Non si pensi perciò che debbano " crearsi " peculiari circostanze di prova perché solo al loro interno si potrebbe verificare la beatitudine, ma si assumano tutti gli aspetti della comune vicenda umana come occasioni che consentono, in ragione della Pasqua di Gesù, di trasfigurare in " zolla " beata del regno quella che potrebbe essere soltanto una frustrante esperienza negativa. In questa luce esistono tante beatitudini quante sono le circostanze di vita dei discepoli: beati nell'incomprensione e nella malattia, beati nell'insuccesso coniugale e nell'incapacità a comunicare col figlio, beati nella delusione ecclesiale e nella non progettualità pastorale, beati nella difficoltà economica e nel distacco dalle persone amate, beati nell'ingratitudine e nella dimenticanza. Le beatitudini costituiscono dunque, anzitutto per Gesù di Nazareth, e, per partecipazione, anche per i suoi discepoli, lo stile d'una vita diversa. Ora, la vita di Gesù, che è sempre rivelativa della carità del Padre, adempie a questo suo compito, sostanzialmente, in due modi di amare. Un primo modo è, potremmo dire, omogeneo al modo umano di voler bene; un secondo modo è invece disomogeneo ai costumi ordinari. Nel primo modo rientrano tutti gli interventi di Gesù, in parole e gesti, di cui è umanamente verificabile il significato e l'efficacia perché corrispondono ad una attesa dell'uomo. Tali ad esempio le sue prese di posizione a favore dei poveri, degli ammalati, degli ultimi in genere. In questa categoria di interventi rientrano sia i miracoli, sia le sue parole di denuncia verso ogni abuso e di speranza nei confronti d'una promessa di giustizia e di libertà. Nel secondo modo rientrano invece tutte le parole e i gesti di Gesù che sono del tutto contradditori al comune modo di sentire dei suoi ascoltatori, quali il dono totale della vita, il perdono delle offese, l'amore per i nemici. Momento supremo, ed incomprensibile per chi non ha fede, è il sacrificio della croce. Su questo stile di Gesù, a volte omogeneo e, più volte, disomogeneo ai criteri comuni, si articola anche tutta la vita dei suoi discepoli. Essi sono chiamati a vivere come situazione di beatitudine sia le circostanze della vita in cui è facile riscontrare storicamente un vantaggio, ad esempio il volontariato e la promozione umana, o la denuncia di ingiustizie o l'ampio impegno per la pace, sia situazioni in cui non solo non è verificabile, almeno a prima vista, nessun vantaggio sociale, ma in cui facilmente il cristiano può essere non compreso o anche irriso. A questo secondo ordine di circostanze appartengono il servizio alla vita, dalla nascita al tramonto, la visione cristiana della sessualità in tutte le sue tappe, e in genere l'esercizio, a volte eroico, della virtù nella vita familiare, professionale, civica, politica, ed in genere tutte quelle scelte il cui significato non sia di immediata evidenza. Si pensi ad esempio al radicalismo di alcune vocazioni, ove, secondo la sapienza cristiana, si attua il cosiddetto " martirio bianco ", quali la vita monastica o, in genere, la verginità per il regno in tutte le forme di speciale consacrazione. In queste esperienze di frontiera è reso manifesto che solo la Pasqua del Signore può rendere attuabile ciò che alla mente e al cuore sembra ordinariamente impossibile. Anche se - vale la pena notarlo - il Vangelo delle beatitudini vissuto in alcune scelte cristiane, ad esempio la verginità per il regno, appare a volte non più una carta perdente, ma, per grazia, viene letto come una misteriosa promessa ed una benedizione anche da parte di chi non osa professarsi credente. Ciò accade allorquando chi vive quella scelta cristiana lascia trasparire, senza accorgersene, che la scelta " diversa ", da lui compiuta per il regno di Dio, è lo spazio autentico della propria libertà e della propria gioia. Appare così come il contenuto etico, comportamentale, delle beatitudini si traduca in testimonianza resa al Vangelo. Su questo una ulteriore, rapida, riflessione. L'esistenza morale, costruita nello spirito delle beatitudini, rinvia necessariamente al mistero di Gesù di Nazareth, e di lui, la cui vita è l'unica totalmente compiuta secondo le beatitudini, il cristiano richiama, sia pure confusamente, il profilo e i contorni, e ne diventa concreta presenza. La Parola e i Sacramenti sono i mezzi ordinari di cui lo Spirito Santo si serve per partecipare al cristiano le beatitudini di Gesù. Il discepolo vive allora, nel profondo della propria coscienza morale, una tensione di paradossale storicità. Da una parte egli diventa contemporaneo di un evento realmente a lui precedente, dalla cui divina energia riceve ispirazione e consistenza. D'altra parte egli è presente nella singolare situazione del proprio momento storico, in circostanze culturali, politiche, sociali, affettive, relazionali, ben determinate. Egli rivive misteriosamente l'esperienza di Gesù di Nazareth, e, al tempo stesso, vive la propria, ineludibile, esperienza i cui confini sono storicamente ben definiti. La vita morale, in quanto è vita secondo lo Spirito, fa di lui l'uomo della memoria creativa e non della ripetitività imitativa. Situazione di memoria creativa significa capacità dell'avvenimento unico, assoluto, irripetibile, che è Gesù Cristo, di partecipare il proprio profilo interiore di Uomo Nuovo, primogenito di una nuova umanità, ad altri uomini, temporalmente e culturalmente, lontani da lui, senza che essi perdano in lui la propria identità, ma la ravvivino in lui d'uno splendore unico, originale, imprevisto. In questo mistero, in cui il Cristo assimila a sé il discepolo, quest'ultimo giunge a dire con san Paolo: " Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me " ( Gal 2,20 ). In questa conformazione al Maestro, il discepolo, per la creatività dello Spirito di Gesù, non è semplice ripetizione, fotocopia del Maestro, ma una esperienza nuova di lui, una sua rielaborazione, una parola nuova da lui pronunciata. I santi che altro sono se non modi nuovi di ridire nella storia l'unico Cristo? Questa progettualità creativa, inerente alla vita morale, è tanto più significativa se si pensa che sovente la vita morale è recepita come statica, piatta, iterativa del già vissuto, mentre invece si intende qui affermare che una vita etica, costruita secondo il tracciato delle beatitudini, è frutto dell'opera dello Spirito Santo, e perciò stesso depositarla d'una continua, ininterrotta, novità. In questo senso il cristiano non ha modelli da imitare, né Gesù medesimo è un modello, ma il cristiano rivive entro di sé, in modo originale e partecipato, quello che Cristo ha vissuto e che altri discepoli, ciascuno secondo una propria fedeltà, hanno, per grazia e per responsabilità propria, sperimentato. Anche l'aureo, sapientissimo, libretto Imitatio Christi va interpretato come " partecipatio " al mistero di Cristo. Da ultimo, rileviamo che l'inserimento del discepolo nel mistero di Cristo, sorgente in lui della morale delle beatitudini, avviene sempre, necessariamente, entro un tessuto storico di relazioni che è consentito di poter vivere unicamente nella comunità concreta dei credenti, che è la Chiesa. Non si tratta di una sovrastruttura aleatoria, opzionale, ma di una dimensione costitutiva dell'identità cristiana. È risaputo che non si dà vera professione di fede cristiana se non nell'appartenenza ecclesiale; forse è meno noto che ugualmente non può darsi genuina esperienza morale se non nel discernimento che sul proprio vissuto il cristiano chiede e invera entro una concreta comunità di credenti. Si può ritenere, a prima vista, che in genere il riferimento alla Chiesa, e in particolare a chi in essa è sacramentalmente depositario dell'autorità, possa impoverire l'immediatezza del rapporto con Gesù di Nazareth. Tale impoverimento, avendo presente la fisionomia di numerose nostre comunità, può essere, emotivamente, evidente, ma proprio in tale evidenza sta la sua debolezza. È infatti il mistero della Chiesa, e non l'esperienza sensibile e gratificante che essa mi offre, il fondamento del mio riferimento a Cristo. È nella Chiesa, sempre e comunque, e non fuori di essa, che la Parola di Dio è ascoltata e annunciata, e che i sacramenti sono celebrati. E Parola e sacramenti sono la fonte sorgiva della vita morale cristiana. Inoltre, per quanto concerne l'ideale e l'itinerario etico delle beatitudini, il riferimento ecclesiale a Gesù di Nazareth è tanto più indispensabile per quanto concerne la progettualità, l'attuazione e la verifica - discernimento di tale ideale e di tale itinerario. Se è vero che il discepolo rivive le beatitudini evangeliche in quanto è uomo della memoria, è essenziale la sua appartenenza alla Chiesa perché ciò si attui, dato che la Chiesa è il luogo teologico della memoria di Gesù. Solo alla luce della tradizione vivente della Chiesa il cristiano può essere certo di progettare, attuare, e discernere - verificare, la propria vita morale secondo lo spirito delle beatitudini, le quali costituiscono il patrimonio più antico e più prezioso dell'esperienza etica cristiana. Come il nostro credere ci è giunto tramite la consegna ecclesiale del " depositum fidei " di generazione in generazione, così il nostro agire morale ci è giunto per mezzo della trasmissione ecclesiale del " deposito delle beatitudini " di generazione in generazione. Potremmo dire che, come il simbolo apostolico è il segno di riconoscimento dell'autentica fede cristiana, così la " Magna Charta " delle beatitudini rimane il segno di riconoscimento dell'autentica morale cristiana. La povertà secondo Luca E la tentazione del denaro e del potere nella società del benessere di Luigi Accattoli Nel Vangelo di Luca Gesù chiama beata la povertà e maledice la ricchezza: il paradosso è più netto che in Matteo, anche se è ragionevole ammettere - con gli esegeti più avveduti - che la " prima beatitudine " sia sostanzialmente la stessa nei due Vangeli. Matteo 5,3: " Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli ". Luca 6,20.24: " Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio ( … ). Ma guai a voi ricchi, poiché avete già la vostra consolazione ". È stata scritta una biblioteca sulla differenza tra " poveri " e " poveri di spirito ": ma non è la differenza che più mi interessa. Io sto con un caro vecchio volume di Francesco Vattioni ( il massimo responsabile della Bibbia della Cei ), intitolato: Beatitudini, povertà e ricchezza ( Ancora, Milano 1966 ): Gesù " probabilmente " ha detto " beati i poveri " e i due evangelisti hanno usato due frasi diverse, stante la diversità dei destinatari, ma " dal valore interamente uguale ". La differenza, a mio parere, principale tra la beatitudine di Luca e quella di Matteo ( e la mia tendenza a preferire, nella meditazione personale, il testo lucano ) sta nella presenza in Luca del rafforzamento per rovesciamento: " guai a voi ricchi ". Se ne tiene poco conto, nella riflessione corrente, non è vero? Proviamo dunque a tenerne conto, in questa nostra riflessione. E in questa dirEzione: che il Vangelo non ci indica soltanto l'ideale della povertà, ma ci proibisce l'arricchimento. Quella proibizione è fondamentale per comprendere - per individuare: perché tende a sfuggirci, tanto vi siamo abituati - la tentazione del denaro e del potere nella nostra società. Cioè di ogni forma di sicurezza e di supremazia, che mai come oggi possono essere efficacemente riassunte nell'idolo della ricchezza. Il denaro e il potere - come il sesso - tendono a sedurre e non bastano mai a se stessi. Quando conquistano totalmente un uomo, essi assumono figura di idoli e prendono - in quell'anima - il posto di Dio. Quell'esito è inevitabile, se la seduzione del denaro e del potere non viene combattuta. Ed è in risposta a tale radicalità della tentazione che Gesù afferma la radicale condanna implicita nella beatitudine ed esplicita nella maledizione. Diciamo subito che la radicalità di quella tentazione non è avvertita dal cristiano comune della nostra epoca: e questa non avvertenza rende scipita la sua testimonianza. Ovvero: la riduce a un terzo delle sue possibilità. Come gli fosse chiesto unicamente di testimoniare la purezza del cuore contro la tentazione della carne e non anche la purezza dell'anima e della vita contro la tentazione della ricchezza e del dominio. Il cristiano comune teme la seduzione sessuale, ma avverte appena quella del denaro e si ritiene al riparo da quella del potere. Mentre in materia sessuale conosce la radicalità del messaggio di cui è destinatario, in materia di denaro e di potere vive - con relativa buona coscienza - una specie di doppio alibi: - come se la beatitudine evangelica della povertà proibisse soltanto la disonestà nell'acquisto del denaro e non riguardasse anche ogni suo uso e soprattutto la condizione fondamentale del distacco; - e come se la messa in guardia dal potere fosse destinata soltanto ai governanti e non riguardasse invece la natura pervasiva del dominio e la sua presenza dissimulata in ogni rapporto umano. L'inganno della ricchezza Oltre che dal comportamento sessuale, un cristiano si dovrebbe riconoscere anche da come guadagna il denaro e da come lo spende. La partita doppia del cristiano è importante per la sua profezia. Ma siamo onesti: oggi in Italia c'è una differenza evidente nell'uso della sessualità tra credenti e no, ma quella differenza non appare quasi mai nell'uso del denaro. I politici cristiani hanno una vita sessuale più castigata di quelli laici, ma in tangentopoli stanno alla pari, o peggio. Gli studenti cattolici si distinguono dagli altri per la loro attesa dell'amore, ma non si distinguono da come spendono o per come cercano il denaro. Evitare scorciatoie nel guadagno, evitare mondanità nella spesa. Ma soprattutto mantenere, nell'uno e nell'altro capitolo, una serenità che viene dal distacco: ed è qui che la tentazione oggi si fa più radicale. Se abbiamo di che mangiare e di che vestire e un tetto, ma ugualmente non siamo contenti, vuoi dire che qualcosa non va. L'inquietudine per il denaro toglie la pace che è necessaria per accogliere e far germinare in noi e portare a maturità il seme e la pianticella della Parola. Lo dice Gesù nella parabola del seminatore, regalandoci uno dei suoi detti più moderni e penetranti: " La preoccupazione del mondo e l'inganno della ricchezza soffocano la Parola ed essa non da frutto " ( Mt 13,22 ). Il cristiano dice sì al risparmio che garantisca una vita sobria, senza la necessità di moltiplicare gli impegni di lavoro; ma dice no all'accumulazione del denaro per l'arricchimento. L'avaro moderno è il carrierista che compie sacrifici terribili per avanzamenti motivati esclusivamente dall'aumento di stipendio. La forma più sofisticata e recente dell'avarizia, degna del duemila, è poi quella del risparmiatore creativo, che acquista i fondi di investimento e studia contratti personalizzati con le banche e compra e vende azioni secondo il mercato. Qui la tentazione del denaro diviene ragione di vita. Egli non vive il suo tempo nella gratitudine per i beni ricevuti, ma nell'ansia di moltiplicarli. Non conosce il tempo lento della preghiera e dell'amore. Specula sull'andamento della Borsa e non scruta i segni dei tempi. La sua condanna era già nell'Antico Testamento: " Chi ama il denaro, mai di denaro è sazio e chi ama la ricchezza non ne ha che basti: anche questa è un'illusione" ( Qo 5,9 ). C'è un testo di Paolo che sembra scritto oggi e di cui dovremmo fare una lettura preferita, se ci sta a cuore la resistenza alla tentazione del denaro: " Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo. Al contrario coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali: per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori " ( 1 Tm 6,8-10 ). Lo scatenamento della tentazione del denaro produce oggi una pazzia diffusa: il doppio lavoro, la doppia casa, la doppia pensione non fanno dormire, non fanno amare, non permettono d'avere figli, infelicitano la vita. Ma conviene individuare ogni fattispecie concreta dell'odierna tentazione della ricchezza. I giochi speculativi con il denaro. E il gioco d'azzardo: cioè il rischio di una somma con il solo scopo di vederla moltiplicata, senza che ciò implichi attività lavorativa di nessun genere. È cupidigia allo stato puro. E il lotto, il totocalcio, il casinò. Anche se sono giochi legali e tassati e se tutti li fanno: non si è cristiani per fare come tutti, ma per attendere la venuta dello Sposo. Per educare i figli a resistere alla tentazione del denaro ( come padre di cinque figli, so che è la prima che sentono e la più invasiva ) occorre che non prenda corpo - nella coppia e nella famiglia - nessuna complicità truffaldina, per innocente che possa sembrare, specie in materia fiscale e nella retribuzione di quanti lavorano per noi: i ragazzi capiscono tutto, in questa materia prima che in altra. E l'insegnamento lo prendono dai fatti, non dalle parole. Fa parte di questa educazione il chiedere e dare prestiti con libertà. Allo scrupolo nei tempi e modi della restituzione di ciò che ci è stato prestato, che è diffuso, dovrà accompagnarsi la disponibilità - che invece è rara - a prestare anche a coloro che hanno reale bisogno e forse non potranno restituire. Se può fare un prestito a rischio, il cristiano lo fa. I nostri figli respirano nell'aria e prendono dalla pubblicità televisiva un senso precoce del denaro e del denaro facile: è necessario un corpo a corpo quotidiano, lungo la loro crescita, per contrastare questa educazione ambientale alla " cupidigia ", che un giorno potrebbe loro impedire totalmente di avvertire la tentazione della ricchezza. Piccoli stratagemmi anticupidigia: non regalare ai bambini una somma in conto corrente bancario. Insegnare con l'esempio la necessità di compiere scelte di vita in contrasto con il criterio del massimo guadagno. Aiutarli a scegliersi e a scegliere per gli altri doni simbolici e non mondani: e mai doni in denaro, da accumulare e far fruttare. Se il cristiano ha, deve dare. A volte si è trattenuti dalla preoccupazione del domani e dall'avvenire dei figli: ma è anche questa - se impedisce ogni impegno gratuito oltre la cerchia familiare - una forma della tentazione della ricchezza. Riassumo quanto toccato, dicendo che il denaro, idolo totale e proteiforme ( come Proteo muta forma, ogni volta che credi d'averlo afferrato: diventa casa, seconda casa, azioni, bot, seconda pensione, barca, gioielli, viaggi e ogni comodità ), è insidia massima, oggi, per la fede. È il luogo della lotta più serrata per la conquista di ogni sobrietà. Ma è anche il luogo di massima visibilità di quella testimonianza di distacco dai beni presenti in vista del Regno, che è chiesta anche al cristiano che vive nel mondo: è il segno più atteso in quest'epoca dominata dalla cupidigia. Il cristiano comune oggi deve mandare a memoria questo passo del Nuovo Testamento, che definisce la cupidigia come idolatria: " Fate dunque morire le membra che sono sulla terra: fornicazione, impudicizia, passione, desideri malvagi, come pure la cupidigia, che è idolatria " ( Col 3,5 ). Quel potere che abbiamo tutti Come abbiamo abbozzato una tipologia della tentazione del denaro per il cristiano comune di questa epoca, così ora tenteremo di guardare alla tentazione del potere cui questo cristiano si trova esposto: il potere quale si manifesta nella vita privata e non quello del cristiano investito di autorità nella vita pubblica. Ci occupiamo cioè del potere del cristiano nei confronti di se stesso, nella coppia, verso i figli, con ogni prossimo. Perché un potere e un'autorità l'abbiamo tutti, non solo i governanti. Basta che due uomini si parlino per cinque minuti perché si avviino tra loro dinamiche di potere. Anche l'età e la cultura danno potere, nella forma dell'ascendenza. Al potere economico, sociale e politico accenneremo solo per ciò che attiene alla soggettività di chi ne assume il peso. Anche il potere su se stesso, che si manifesta nella forma dell'indipendenza assoluta, ha caratteristiche pericolose, analoghe a quelle degli altri poteri. La tendenza a una piena autonomia da ogni legame e responsabilità è la forma oggi più comune della tentazione del potere per l'uomo comune. L'indipendenza è come una droga e richiede sempre dosi maggiori. I giovani vogliono piena autonomia già nella casa dei genitori. Più tardi saranno tentati di rifiutare il matrimonio per non assumere responsabilità definitive. E preferiranno non avere figli per non avere doveri. Il " single " che vuoi godersi la vita e rifiuta ogni assunzione di responsabilità nelle relazioni affettive, ogni servizio associativo o politico, è un'immagine efficace della natura idolatrica di questa tentazione, oggi così diffusa, della piena indipendenza. Il cristiano che respinge la tentazione dell'autonomia assoluta e sposa la persona che ama, incontra immediatamente un'altra sfida del potere: quella di esercitare forme improprie di autorità nei confronti dell'altro. Nella coppia, qualsiasi forma di potere che non sia reciproco offende l'amore. Più precisamente, ogni rivendicazione di autorità che non sia raccomandata dalla legge della reciproca sottomissione, forza il dialogo d'amore dei coniugi. E la reciproca sottomissione si proietterà all'occasione nella reciproca obbedienza. L'obbedienza reciproca ( che è regola neotestamentaria: " Siate sottomessi gli uni agli altri " Ef 5,21 ) non è incomprensibile a chi ama: perché l'amore obbedisce all'amore. Previene o segue la richiesta del coniuge, attiva una gara al consenso reciproco. La sospensione della decisione non blocca la coppia vitale, anzi da il via a una ricerca dell'altrui punto di vista che non solo avvicina, ma spesso rovescia le posizioni: chi non voleva quell'acquisto l'accetta, mentre l'altro vi rinuncia. E generalmente ne viene un abbraccio. Più forte, o almeno più frequente, è la tentazione del potere nei confronti dei figli: che non sono sudditi, né sottoposti, né una proprietà nostra su cui ci sia stata data piena autorità. Non ci appartengono: ci sono stati affidati per accompagnaRli all'età adulta e mostrare loro - nelle modalità proprie dell'amore materno e paterno - la tenerezza con cui li guarda il Signore. Un esercizio dell'autorità con i figli minori - come con ogni più giovane membro della comunità umana - è necessario. Esso non dovrà mai avere la forma impositiva, del comando dall'alto in basso. I genitori che sanno resistere alla tentazione del potere sui figli si riconoscono da questo: se sanno - all'occasione - chiedere scusa ai loro ragazzi, quando capiti che abbiano sbagliato in una decisione che li riguardava. Con le persone che ci aiutano in casa, se abbiamo una segretaria o un autista, con i più giovani, con i sottoposti, con quanti svolgono per noi una prestazione occasionale, con ogni prossimo: il cristiano deve sorvegliare ogni rapporto in cui sia implicato qualcosa che somiglia all'autorità, al potere, al dominio, alla proprietà. Combattere la tentazione del potere - in tutte queste relazioni - significa fare in modo che sia sempre chiaro un rapporto essenziale di parità, che non sarà vero per l'anagrafe o l'azienda, ma vero davanti al Signore: sia sempre alla pari il " tu " o il " lei ", mai " dare ordini " rimarcando il rapporto di superiorità, mai accettare una soggezione anche solo formale o involontaria. Quando sia possibile, creeremo le condizioni per una reciprocità umana ( inviteremo una persona sottomessa a una festa, o faremo e accetteremo doni alla pari ) che sia suscettibile di una valenza cristiana. Dovremmo sempre avere lo scrupolo di trattare ogni persona in modo così schietto e pulito, da poterle proporre - se fosse il caso: ed è bene che il caso sia, qualche volta - di pregare con noi, come con noi lavora. Quanto più rapido è il contatto ( poniamo con un tassista ), tanto maggiore dev'essere lo scrupolo di non mancare di rispetto: con gli abituali si può rimediare, con gli occasionali lo sgarbo resta. Faremo attenzione anche alla responsabilità che viene dall'ascendente che si può esercitare con ogni prossimo e che è una forma di potere. Ha scritto Italo Calvino ne Il barone rampante: " Quando ho più idee degli altri, do agli altri queste idee, se le accettano; e questo è comandare ". Se ci vengono offerte promozioni, o nuovi incarichi, o candidature ( dal condominio al Parlamento ), occorre esaminare l'offerta anche dal punto di vista della tentazione del potere e non solo da quello economico, professionale e familiare. Occorre chiedersi se siamo preparati a svolgere un ruolo d'autorità: " Impara a ubbidire prima di comandare ", diceva una massima di Solone. Se quel potere è interpretabile nella dimensione del servizio: altrimenti esso è un'insidia per il credente, se la materia è lieve; un peccato, se grave. Se siamo avvicinati dai rischi di seduzione e corruzione. Se domani saremo capaci di lasciare quell'incarico, quando l'imponesse la morale cristiana. O semplicemente di lasciarlo con serenità quando scadrà il mandato, o arriverà il pensionamento. Perché la tentazione del potere produce attaccamento. Come conciliare giustizia e misericordia ( Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, / perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, / perché troveranno misericordia. Mt 5,6-7 ) di Marisa Sfondrini Per una volta, cominciamo dalla dichiarazione conclusiva: giustizia e misericordia sono due inscindibili gemelle, non due qualità antitetiche. Perché? Ma è semplice: basta leggere le Sacre Scritture, vero distillato, nel pensiero umano, del rapporto creatura - creatore, ma anche delle creature fra di loro. L'autore sacro, che si rivolge a Dio, lo chiama il Giusto e il Misericordioso. Con un gioco di parole, si potrebbe dire, giusto perché misericordioso e misericordioso perché giusto. La giustizia di Dio non corrisponde all'equa ripartizione fra gli esseri umani dei benefici; Dio - nella Bibbia - è giusto, perché difende il suo popolo quando questo è vittima di avversari malvagi; ed agisce così perché è fedele all'alleanza. Iddio è il " sole di giustizia " che, nel giorno di Jahwé opererà la distinzione fra giusti e ingiusti. ( Sal 19; Ml 3,20 ) Nel Nuovo Testamento, Gesù è il Giusto, l'innocente martire, il cui sangue sparso rende giustizia a tutti i martiri e riscatta la creazione dal dominio del peccato, libera l'uomo dalla morte. Ma lo stesso Gesù, segnatamente nella parabola degli operai, ( Mt 20,1-16 ) mostra che l'amore di Dio va ben al di là della semplice giustizia ( distributiva, nel caso ). Per san Paolo, poi, la vera giustizia non viene dalle opere, ma è una grazia che " discende dal cielo " ( Rm 1,17; Rm 3,21 ) per trasformare il creato. Dio è il Misericordioso ( per la tradizione islamica questo appellativo è riservato ad Allah ). La sua è una misericordia 'viscerale' ( Sal 50,1 ) ( e sono " visceri materni " quelli di Dio misericordioso ), ha la sua fonte nella " sostanza " stessa di Dio, abbraccia completamente l'essere umano e il cosmo, lo ricrea facendolo " nuova creatura ". Atto supremo della misericordia di Dio è perciò l'Incarnazione, l'assunzione, cioè, da parte di Gesù, in tutto, della natura umana " tranne che nel peccato ". Non può esservi, dunque, giustizia, anche umana, che prescinda dalla misericordia, dal dovere di considerare, cioè, ogni situazione che coinvolge in qualche modo la persona, con la mente e con il cuore, con la razionalità e con il sentimento. Il ripristino della giustizia non si ha, infatti, se non nella ri-creazione. Per il salmista il Signore è " lento all'ira e grande nell'amore " ( Sal 103,8 ) e "agisce con giustizia e con diritto / verso tutti gli oppressi ": ( Sal 103,6 ) è dunque questa la vera logica dei comportamenti. È infatti il malvagio, l'ingiusto, che si lascia prendere la mano dall'ira, trattando chi gli sta di fronte con durezza. Per lo scrittore sacro non si pone il problema della " colpa ": essa è scontata per il fatto stesso che l'essere umano è peccatore. Ma Dio " non ci tratta secondo i nostri peccati / non ci ripaga secondo le nostre colpe ". ( Sal 103,10 ) Le abbondanti citazioni sono dal salmo 103 per una scelta obbligata dallo spazio, non certo dalla mancanza di altre " prove documentali " che la Bibbia offre nell'Antico come nel Nuovo Testamento in abbondanza. Da ciò consegue, appunto, quello che si diceva all'inizio: non si può dare giustizia se non dentro un contesto di misericordia, addirittura in un contesto d'amore. Un amore che, proprio perché autentico, si preoccupa di raddrizzare i torti, dando soddisfazione a chi è colpito, ma al tempo stesso di mettere in condizioni chi ha offeso di non ripetersi, chiudendo la bocca all'odio, alla vendetta, alla rivalsa, con il gesto più paradossale, un bacio. La giustizia è, però, affidata agli esseri umani: sia che riguardi la distribuzione di beni, sia che riguardi la gestione dei poteri, sia che riguardi la promulgazione e il rispetto delle leggi, tutto dipende dai comportamenti, dalle relazioni che uomini e donne di ogni generazione riescono a stabilire l'uno con l'altro. Uomini e donne, esseri imperfetti, ma salvati dall'Incarnazione e chiamati ad essere perfetti " come il Padre ". È probabilmente questa necessità di perfezione a rendere tanto delicato l'atto di rendere giustizia, comunque. Perché ognuno deve avere il suo, ciò che gli spetta di diritto per rendersi conto di essere un " figlio amato dal Padre ". Fare giustizia dovrebbe essere, allora, sempre un atto d'amore umano, che serva da canale per percepire l'amore divino. Il " modello giustizia " è quello divino, cui anche la giustizia umana, sia quella compiuta attraverso la distribuzione di beni e benefici, sia quella che si attua nei tribunali, deve in qualche modo ispirarsi e uniformarsi. La giustizia degli uomini Spesso sono gli eventi storici a far emergere agli occhi dell'opinione pubblica un problema che, magari sotto la cenere, è comunque sempre esistito. Così gli italiani ( e con loro molti altri popoli europei, quasi contemporaneamente ) sono stati messi di fronte ai problemi di giustizia, e quasi costretti a prenderne atto, dallo scoperchiamento dell'immondo pentolone della corruzione, delle connivenze fra mondo finanziario e industriale e mondo politico. Oppure, dopo che magistrati coraggiosi, eredi di altri che hanno pagato con la vita - aiutati anche dal crollo ignominioso di una classe politica fortemente collusa con la criminalità organizzata - hanno incarcerato e processato boss mafiosi, già ritenuti 'intoccabili', anche perché protetti da altri magistrati infedeli e da politici corrotti. Ma perché possiamo definire, ad esempio, alcuni 'corrotti' ed altri 'corruttori'? Come si stabilisce un reato? Perché deve, in uno stato, esistere chi giudica e chi reprime? Dai dieci comandamenti al diritto romano Da che gli esseri umani si sono raggruppati in piccole comunità per meglio sopravvivere, hanno sentito il bisogno di darsi regole di convivenza almeno minime, a partire da valori comunemente riconosciuti come tali e quindi condivisi largamente. Non fosse altro che per imbrigliare il potere di chi, più dotato di mezzi ( intellettuali o economici o fisici ), correva il rischio attuale e costante di non lasciare spazio ai più deboli. Si è così stabilita una gerarchia di diritti cui generalmente corrispondono dei doveri. Gli stessi dieci comandamenti, di biblica memoria, possono essere guardati come la più alta individuazione di valori comuni necessari perché l'essere umano si riconosca tale nei rapporti: con Dio, con gli altri esseri umani. Sono così una sorta di raccolta di leggi, un codice di comportamento: verso Dio ( i primi tre comandamenti ) e degli uomini fra loro. Stabiliscono infatti i diritti principali: il rispetto per chi ti ha generato; la condanna del furto, dell'omicidio, dell'impurità ( un concetto non limitabile alla sfera sessuale ), della falsa testimonianza; la garanzia al legittimo possesso ( non proprietà ) e uso dei beni creati ( non sottilizziamo per il momento, perché fra i 'beni' utilizzabili è compresa anche la donna; ma tale era il costume semita ). Nel suo cammino di civiltà, l'essere umano ha promulgato leggi raccolte poi in codici che ne hanno razionalizzato anche l'applicazione. Si è poi sentito il bisogno di affidare a qualcuno il controllo sulla regolare applicazione delle leggi, qualcuno capace di comminare eventualmente pene ai trasgressori. All'inizio di una vita comunitaria, il potere di fare le leggi e di giudicarne l'applicazione era concentrato nelle mani di un unico personaggio, generalmente il re, il capo riconosciuto per carisma personale e per discendenza. A mano a mano che il processo di socializzazione si è fatto più raffinato, i due poteri ( legislativo e giudiziario ) sono stati differenziati ed affidati a persone diverse, indipendenti le une dalle altre. La giustizia umana è, quindi, una necessità, primordiale e fondamentale perché l'uomo non diventi lupo per l'altro uomo, generalmente più debole e indifeso. La grandezza di un principe o di un capo di stato è stata ( quasi ) sempre storicamente stabilita non tanto sulla base delle conquiste, quanto sulla capacità di garantire un accettabile stile di convivenza fra i sudditi o i concittadini. Ma la giustizia umana è ben lontana dalla perfezione, è soltanto una base, anche quando si è espressa in modalità alte e raffinate ( almeno per i tempi storici correnti ): come accadde, per esempio, nell'antica Roma, " patria " comunemente riconosciuta del diritto moderno. Umane insufficienze della giustizia umana La giustizia garantita dal corpus legislativo di uno stato non è però sufficiente se, ad esempio, sorge poggiando su criteri di disuguaglianza di principio e sostanziali, fra cittadino e cittadino. Per il pur raffinato diritto romano, possedere schiavi e lucrare sulla loro compra-vendita era legittimo. E ci sono voluti venti secoli di pacifica rivoluzione cristiana per arrivare a condannare e proibire la schiavitù. È ciò che avevano ben compreso gli iniziatori della rivoluzione francese che invocavano 'egalité', uguaglianza per tutti i cittadini, in uno stato in cui due categorie di persone ( gli aristocratici e gli ecclesiastici ) avevano più diritti degli altri. L'umana giustizia non è nemmeno sufficiente a livello internazionale, perché il corpo legislativo di uno stato può difendere i diritti fondamentali dei propri cittadini in maniera parziale, disuguale rispetto agli altri stati. Per questo si è sentito il bisogno di promulgare, a livello internazionale, le carte dei diritti fondamentali: dell'uomo, del bambino, del malato, dell'ambiente ecc. Per stabilire, cioè, una sorta di minimo comune denominatore affinché ad ogni uomo e ad ogni donna che vengono al mondo, indipendentemente dall'età, dal ceto, dallo stato di salute, dall'appartenenza sessuale, possa essere garantita una comune base minima, al di sotto della quale, cioè, la vita, la convivenza non possono definirsi umane. Il rapporto tra regola sociale e regola personale " La giustizia è per definizione la virtù che assume e adempie il dovere del rispetto verso il diritto altrui "; così la lapidaria definizione di Agostino Clerici. Nel suo saggio Clerici affronta un tema basilare anche nella ricerca del rapporto fra giustizia e misericordia; egli afferma, infatti, che non si realizza una vera giustizia soltanto applicando le regole alla lettera; occorre un coinvolgimento personale. La legge dello stato deve essere in certo modo filtrata da quella 'legge' non scritta che si forma nel cuore dell'essere umano, che è " il campo che la responsabilità deve arare e l'impegno seminare e rendere fecondo. Certo, serve una regola sociale che definisca i paletti di confine entro cui lavorare proficuamente. Ma la migliore regola sociale è lettera morta senza l'impegno personale ". Nella sua richiesta di giustizia, di regole, l'essere umano corre il pericolo di costruire scatole vuote. Da ciò metteva in guardia Paolo VI nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi quando affermava: " le migliori strutture, i sistemi meglio idealizzati diventano presto inumani se le inclinazioni inumane del cuore dell'uomo non sono risanate, se non c'è una conversione del cuore e della mente di coloro che vivono in quelle strutture o le dominano ". È facile invocare, infatti, giustizia verso gli 'altri' - siano essi gli amministratori della cosa pubblica o siano essi privati cittadini dai quali ci pensiamo separati e distanti - considerando, in pratica, se stessi, come cittadini al di fuori e al di sopra delle stesse regole, che anzi si cerca di eludere. Come dire: chiediamo multe feroci per i T.I.R. che in autostrada vanno a velocità folli, ma noi continuiamo tranquillamente a passare col rosso per le strade della città. A questo proposito Clerici parla del " progressivo svuotamento di un principio morale tradizionale, l'epicheia. Esso entra in azione in contesti operativi - non previsti e non prevedibili dal legislatore - in cui il singolo da una soluzione morale che diverge da quella strettamente giuridica. Si agisce secondo epicheia quando si adegua la legge nella sua anima, sapendo cioè cogliere il suo spirito e attuarlo pur nella novità della situazione e pur con forme che sembrano in conflitto con la norma stessa. È evidente che il ricorso a l'epicheia presuppone equilibrio e un cammino di formazione della coscienza, perché i motivi che spingono alla diversa soluzione morale devono essere sempre moralmente giustificabili ". Si tratta di attuare la legge eticamente e responsabilmente; non di aggirarla, come potrebbe avvenire da parte di una coscienza poco formata, in un contesto individualista in cui ciascuno è solo preoccupato di salvaguardare il proprio tornaconto. Il rispetto della legge " è chiamato ad essere non un semplice atto formale, ma un gesto personale che trova nell'ordine morale la sua anima e la sua giustificazione ", cosicché " la condizione primaria per uno sviluppo del senso della legalità è la presenza di un vivo senso dell'etica come dimensione fondamentale e irrinunciabile della persona ". La giustizia come regola sociale deve avere per base leggi che salvaguardano il bene comune al di là degli interessi particolari, associativi o di corporazione. Deve essere semplice, chiara, non equivocabile, in modo da garantire il più possibile contro scappatoie 'legali', ma anche dall'insorgere di una mentalità 'giustizialista', secondo la quale fare giustizia corrisponde a fare vendetta. La legge deve essere sempre percepibile come uno strumento ( quindi non come un fine ) che aiuta a vivere ciascuno in libertà " perché pone tutte le energie personali a servizio di un ideale … aiutando i singoli soggetti a farlo diventare il più possibile reale ". Per rendere reale l'ideale, occorre che l'esigenza di costruzione di un bene comune sia inscritta nelle coscienze personali. Onestà non è soltanto 'non rubare', ma è anche agire con competenza, occupando ad esempio soltanto i posti che si è in grado di occupare, per i quali si possiedono gli strumenti conoscitivi e operativi adatti; è rispettare l'altro nella sua dignità di persona. È anche essere capaci di un giudizio personale su ogni avvenimento, formulato autonomamente e non piegato dal richiamo del 'così la pensano tutti!' … E così via. Tutto questo non si improvvisa, ma è frutto di una formazione, di un costante processo educativo, che ci metta in grado di formulare, appunto, giudizi autonomi e correttamente informati. Le grandi ingiustizie umane Fa parte di un cammino educativo per le nostre coscienze, l'analisi delle grandi ingiustizie umane. La complessità sociale e lo stesso allargamento - attraverso la comunicazione mass mediale - degli orizzonti di conoscenza personale, non ci permettono di pensarci indenni e irresponsabili davanti alle ingiustizie che ogni giorno si perpetrano alle varie latitudini. Inoltre, se consideriamo giustizia e misericordia come inscindibili, sono proprio queste le forme di giustizia che esigono da ciascuno un giudizio corroborato dalla misericordia, che sola ci permette di superare il senso della vendetta insieme con quello di impotenza o di non responsabilità davanti a grandi avvenimenti lontani nello spazio e anche nel tempo. L'ombra di Caino Non possiamo fare a meno di mettere sotto la lente d'ingrandimento le ingiustizie commesse contro l'infanzia, certamente la parte più disarmata dell'umanità. È un obbligo citare i " ragazzi di strada " abbandonati a se stessi, che vagano nelle strade delle ricche metropoli sudamericane e che i vari " squadroni della morte " si sentono in diritto di massacrare impunemente perché " disturbano il commercio e i turisti "; è obbligo citare i bimbi del Ruanda, della Somalia, della Bosnia, della Cecenia e di tutte le parti del mondo devastate dal cancro delle guerre e delle guerriglie; è obbligo citare i bambini della Romania, fatti nascere per la volontà di un dittatore crudele che voleva sempre più braccia per il proprio esercito, e poi scacciati da quei genitori - macchina riproduttiva, che non li hanno mai desiderati, e abbandonati a se stessi, condannati a essere manovalanza per la malavita organizzata. L'ombra di Caino ci insegue: ma non possiamo dimenticare le donne del Bangladesh ridotte a vere e proprie 'riserve' di organi, fatte espatriare con il miraggio di un lavoro, trasferite in compiacenti cliniche, uccise per ricavarne organi da trafficare. Nessuno saprà mai quante sono state. Così come nessuno saprà mai quante vittime ha fatto e fa la droga, mentre pochi 'signori' si arricchiscono, fondano eserciti privati per difendere i loro 'campi', corrompono stati e autorità. Corrompono anche i contadini, costretti a coltivare le 'erbe mortali' per ricavarne quel poco da vivere. Non possiamo dimenticare i fabbricanti di armi, quelli che le commerciano, gli stati che costruiscono il loro bilancio sulla produzione di ordigni mortali, i vecchi e nuovi ricchi che invadono i 'divertimentifici' internazionali ( le grandi spiagge, le stazioni montane più raffinate, gli hotel più cari ecc. ) e vengono riveriti perché lasciano quattrini ( non importa se imbrattati di sangue: ma si sa 'pecunia non olet'! ). Non possiamo dimenticare i moderni mercanti di schiavi, che si arricchiscono alimentando le speranze dei poveri più poveri: quelli che organizzano, a suon di dollari, i viaggi disperati dei boat people ( siano asiatici in fuga dai regimi terroristici, siano albanesi che credono l'Italia il regno di Bengodi ); quelli che 'importano' giovani donne col miraggio di un lavoro onesto che si traduce in prostituzione; quelli che introducono clandestinamente mano d'opera dal Terzo Mondo, da impiegare nei lavori che nessuno vuole fare ( bracciantato agricolo, lavori pericolosi per l'incolumità fisica ) naturalmente senza regolari permessi o protezioni previdenziali. Non possiamo dimenticare quelli che attentano gravemente all'ambiente, provocando disastri ecologici: le petroliere che lavano i loro serbatoi in mare, o quelle troppo vecchie con attrezzature al di sotto dei limiti di sicurezza; le discariche abusive; il deflusso di liquami senza che siano fatti passare dagli opportuni filtraggi … e così via fino al contrabbando di materiale nucleare. L'ombra di Caino sta sulla spalla di ciascuno di noi, come maligno consigliere e segna una vittoria ogni volta che - anche nel piccolo - fingiamo di non vedere, di non sentire per non dover parlare, sporcarci … I poveri sempre con noi Ce lo garantisce il Vangelo, i poveri saranno sempre con noi. E mai verità è parsa viva e palpabile come oggi, in questo nostro mondo in cui grandi sprechi vengono consumati accanto a miserie inenarrabili. È la povertà il grande male della nostra società: lo ribadisce con forza anche il 'programma d'azione' stilato a conclusione della Conferenza Internazionale delle Nazioni Unite su 'Popolazione e sviluppo' tenutasi al Cairo dal 5 al 13 settembre 1994. Nonostante gli indubbi progressi, è un fatto constatato che le forbici tra ricchi e poveri si stanno ogni giorno aprendo un po' di più. Nei paesi in via di sviluppo, che pure sembrano aver intrapreso una strada di risanamento economico e di maggiore giustizia distributiva delle risorse, c'è sempre una quota di popolazione che resta fuori dalla stanza del banchetto. Anche nella nostra progredita Europa, il problema degli 'homeless', i senza fissa dimora, di cui nessuno sembra curarsi se non le organizzazioni del volontariato, colpisce un po' tutti gli stati, anche la ricchissima Germania unificata, incontrastato motore economico dell'Europa unita. Il citato 'Programma d'azione' dell'O.N.U. sottolinea un altro punto comune: fra i poveri, certamente in condizioni peggiori sono le donne. I feti femminili sono rifiutati più di quelli maschili ed abortiti in maggiore quantità. Le bambine sono fatte prostitute ( spesso per la 'gioia' dei turisti ) in età sempre più precoce. Le giovani donne alimentano il mercato della prostituzione, della pornografia, ma anche - come abbiamo già notato - del commercio degli organi per trapianto. Le donne si ritrovano ad essere sempre più spesso capofamiglia involontarie, perché abbandonate dai propri partners, senza risorse economiche. Le donne anziane indigenti sono in tutto il mondo in numero maggiore degli uomini ( e non soltanto perché le donne hanno vita più lunga! ). I grandi programmi economici sono quasi sempre elaborati a tavolino, sulla base di modelli teoretici ineccepibili, ma che sembrano dimenticare che le soluzioni sono destinate a uomini e donne concreti, ciascuno con il suo desiderio di giustizia e di libertà, ciascuno con i suoi bisogni da soddisfare. Caduto il marxismo, rovinati in macerie i socialismi reali, oggi tutti parlano di 'libero mercato' come della soluzione d'ogni problema di distribuzione equa delle ricchezze. Ma la 'aurea' legge della domanda e dell'offerta deve essere governata dalla solidarietà ( dall'impegno e dal giudizio etico personale, per riprendere un concetto esposto nel capitolo precedente ), perché il teorema di Adamo Smith secondo il quale " ciascuno è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non era parte delle sue intenzioni " ( cioè il benessere collettivo ) è franato in pezzi come il socialismo. Chi ha già tanto vuole sempre di più. Dalli al diverso Quando qualcosa non funziona, quando si verifica una situazione palese di ingiustizia, istintivamente cerchiamo un capro espiatorio. La situazione forse non cambia, ma tutti ci sentiamo meglio. E ci sono alcuni che al mondo sembrano essere venuti soltanto per interpretare questo scomodo ruolo. Come è difficile, allora, per alcuni vivere, semplicemente vivere; quante ingiustizie pubbliche e private si consumano perché i privati o le masse possano scaricare la propria frustrazione. È in questo modo che si bandiscono le partite di caccia al 'diverso'. A coloro che non rientrano nei così detti standard di normalità, senza generalmente che ci domandiamo chi possa adeguatamente ( e senza commettere ingiustizia ) fissare i parametri, i confini tra normalità e diversità. Così abbiamo dichiarato 'diversi' i barboni senza fissa dimora, quelli che non hanno lo stesso colore della nostra pelle, i portatori di 'handicap', i malati di mente, gli omosessuali, i transessuali, i travestiti, gli ebrei, gli zingari, i bambini troppo piccoli per potersi difendere, chi appartiene ad una minoranza etnica … 'Diverso' è un calderone sotto cui arde il fuoco dell'intolleranza, dell'ignoranza bieca, dei fondamentalismi anche religiosi, degli ideologismi senza ideale. 'Diverso' è anche chi non si adegua agli schemi correnti, chi non accetta la così detta 'morale comune', chi agisce 'senza buon senso'. Sì, 'diverso' è anche l'eroe puro, che non cerca la sua gloria, che non chiede quattrini in cambio di prestazioni da record, che mette ciascuno davanti alla propria pusillanimità. 'Diverso' è spesso l'artista, che illumina con un fascio di bellezza divina il tiepido liquame nel quale siamo immersi, e che ci disturba costringendoci ad ammetterne la bruttezza. 'Diverso' è anche il santo, il 'giusto', chi cerca cioè di agire secondo una legge ritenuta 'superiore', e il cui stile di vita condanna implicitamente, spesso senza tribunali e senza arringhe, il dissipato stile di vita comune. La piatta, grassa società del consumo e del benessere non può tollerare che la 'diversità' si insinui come un granello di sabbia nei suoi ben oliati meccanismi. E corre ai ripari, in qualche modo. Segregando, ridicolizzando, ghettizzando, proponendo addirittura, come nel caso degli ebrei, una 'soluzione finale' a mezzo gas. Chi è 'diverso' ci fa paura, perché non riusciamo a inquadrarlo nei nostri comodi schemi interpretativi della realtà. Meglio, quindi, toglierlo di mezzo perché non ci turbi, non ci sconcerti, non ci impaurisca, appunto. La 'più ' diversa Schiacciare una minoranza sembrerebbe compito abbastanza facile, più arduo conculcare una maggioranza. Eppure gli esseri umani sono riusciti ad ottenere anche questo risultato. Se la 'ingiustizia' per antonomasia è impedire ad un essere umano di vivere come tale, è sull'essere umano donna ( maggioranza numerica ) che è caduto il massimo delle ingiustizie. Non occorre annoverarsi tra i femministi arrabbiati, per affermare che, nel corso dei secoli, le donne sono state prede, mercé di scambio, grembi da cui far fabbricare braccia per la guerra o per la gleba. Regine o contadine non importa: il destino era lo stesso per tutte. La donna ha dovuto attendere secoli e secoli, fino alla nostra epoca, per vedere riconosciuta - e non senza lotte e lutti - la propria dignità come persona umana, alla pari dell'uomo. E nonostante nessuno metta più in dubbio tale eguale dignità, le donne sono ancora vittime di incesti, di stupri ( non importa se 'semplici' o 'per pulizia etnica' ), di violenze che coinvolgono la sfera più intima, misteriosa della persona umana, quella sessuale; il maschio della specie umana, anche padre, anche fratello, tende a considerare la donna come sua proprietà soprattutto nella gestione dell'attività riproduttiva. È la capacità della donna di portare e far crescere dentro di sé una nuova creatura, che da sempre intriga l'uomo, che lo intimorisce, affascina e intimidisce: egli è davanti alla 'misteriosa creatura'. Che è apparsa subito come la più debole nel momento del parto. Una debolezza vulnerabile che rallentava la marcia dei nomadi primitivi, che la faceva incapace di procacciarsi il cibo da sola, che esponeva il clan agli attacchi di clan avversari. La donna era comunque sempre necessaria: e ciò che non si può perdere, si tende almeno a limitare nel potere di autodeterminazione. Così le donne vennero difese, perfino idolatrate, ma relegate in quello che era indicato come il loro proprium, tutto ciò che con la maternità e la cura aveva una qualche attinenza. In questo modo ingiustizia è stata fatta: non alle donne, non soltanto a loro, perlomeno, ma all'intera umanità, che ha perso l'apporto del loro " genio " ( così Giovanni Paolo il ha definito, nella Mulierìs dignitatem, l'articolato complesso delle qualità femminili sconosciute o sottovalutate dalla parte maschile dell'umanità ). I senza peccato Una forma sottile d'ingiustizia è quella commessa da chi, sentendosi, per decreto divino, investito della parte di 'giusto', giudica il suo prossimo 'peccatore'. Può accadere a tutti di essere Caino travestito da Abele: gli esempi sono facili da trovare. Si può chiamare questo tipo di situazione in vari modi: educazione, sollecitudine, avere cura, darsi da fare, perfino innamoramento … Tutti nobili sentimenti, fino a quando non diventano maschere di una diversa realtà. Perché io educatore voglio plasmare l'educando a mia immagine e somiglianza; perché io ho cura dell'altro, voglio da lui non solo gratitudine, ma dipendenza; perché io dico di amare l'altro, ma voglio soggiogarlo, rendermelo schiavo. Tutti delitti contro la libertà e contro la giustizia, perché non permettono alla controparte di crescere in umanità. Simile all'ingiustizia dell'educatore che si crede sostituto di Dio, è quella dei capi spirituali, dei guru, delle " grandi anime ". Occorrono dosi massicce di autentica santità personale perché non ci si senta dèi. Molte ingiustizie sono state perpetrate " in nome di Dio ": guerre sante, epurazioni, pulizie etniche. Persino l'accusa di deicidio lanciata dai cristiani agli ebrei è stata una concausa ( e probabilmente non la più leggera ) perché avvenisse la 'Shoà', lo sterminio nazista. La pretesa superiorità spirituale fa nascere fenomeni come l'integrismo, il fondamentalismo, l'intolleranza religiosa. Fa crescere la colossale bestemmia derivante dal tentativo di mettere le mani su Dio e di piegarlo al nostro potere e al nostro servizio, con la pretesa di " difenderne l'onore ". È ingiusta anche la violenza morale dei non violenti per professione, per dichiarazione politica, di quelli che pretendono di conoscere il volere divino prima di ogni altro e di essere, sempre per diritto divino, incaricati di esercitarlo. Chi ha potere intellettuale, spirituale, ancora più chi ha poteri economici viene colto, spesso, da deliri di onnipotenza ed è ancora più pericoloso: le apparenze, infatti, sono a suo favore, poiché, per meglio attuare il suo gioco, spesso si presenta come povero e disarmato. Dei delitti e delle pene Quelle descritte in precedenza sono grandi ingiustizie che derivano da una concezione del potere ( sia privato sia pubblico ) come servo dell'egoismo personale o di clan. Ingiustizie autentiche, ma spesso difficili da decifrare e soprattutto da eliminare. Vi sono poi le ingiustizie, diciamo così, più semplici: sono quelle che derivano dalle infrazioni delle leggi, cioè della base minima di convivenza civile che ogni agglomerato umano si dà. Sono sempre attentati contro la vita Ogni delitto, e non necessariamente l'omicidio o la violenza fisica, è un attentato alla vita altrui. Perché parte da un sostanziale disprezzo per l'altro e per la sua dignità. Rubo, corrompo, truffo, evado il fisco ecc. perché considero me stesso il solo centro d'attenzione, l'unico meritevole di vivere con agio. Non sempre i delitti hanno la stessa gravità dal punto di vista della giustizia umana: parcheggiare in zona vietata è, per il codice, meno grave che guidare in stato di ubriachezza. Le conseguenze infatti possono essere diverse, ma il disprezzo delle regole che genera l'infrazione è il medesimo. Alcuni delitti sono considerati " meno gravi " per consuetudini culturali difficili a morire: quanto tempo è passato prima che dal codice penale italiano fosse cancellato il così detto " delitto d'onore " che mandava praticamente impunito un assassino, soltanto che si riuscisse a provare che l'omicidio era stato compiuto per " difendere l'onore infranto "? La violenza sessuale contro donne, minori o persone in stato di debolezza, è un delitto contro la persona umana e la sua dignità, una violenza paragonabile all'omicidio, perché colpisce la sfera più intima, personale, misteriosa dell'essere umano. Chi ha subito tale tipo di violenza, fatica a risollevarsi, a non sentirsi " sporco ". Eppure, nella civilissima Italia, erede dei legislatori romani, patria del diritto, non si è riusciti per anni a far passare una legge che colpisse adeguatamente i violentatori, specialmente se riuniti in gruppo; e che proteggesse le vittime denunzianti da riti processuali che le mettevano ( specialmente se donne ) nella situazione di sentirsi - loro, le vittime - in certo modo colpevoli. Pena punitiva o redentiva? Anche le pene, quelle previste dai codici, non possono essere stabilite partendo da un senso di disprezzo per chi ha commesso un reato. Dice, ad esempio, la Costituzione italiana: " Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato " ( art. 27 ). Chi è riconosciuto colpevole dai tribunali di stato, ha diritto a potersi riscattare dal male compiuto, a quella che - con termine teologico - chiamiamo conversione. Ciò non può avvenire se chi è dichiarato colpevole, non è messo in condizione di riconoscere la propria 'qualità' di colpevole e in qualche modo può continuare a considerarsi trattato ingiustamente. Per questo motivo è essenziale che il cittadino venga educato fin dai primissimi anni al rispetto della legalità. Anche quando, nel caso di piccole infrazioni ad esempio, la si fa franca, il nostro 'foro interno' dovrebbe metterci in guardia e richiamarci all'osservanza delle regole infrante. Dalla multa all'ergastolo, ogni pena dovrebbe accompagnare, per così dire, nel cammino di redenzione, in modo da restituire al civile consesso un cittadino nuovo. La pena ha un suo contenuto 'religioso', che è sottolineato anche dai verbi usati: si commina una pena, la si espia … Questo nelle dichiarazioni teoriche è assodato: ma nella pratica le pene, quando sono piccole, acuiscono la volontà di evitarle; quando sono gravi, inveleniscono, abbrutiscono, ottenendo il risultato esattamente contrario a quello voluto. Il grande crogiolo del carcere Nei casi di delitti gravi, la pena consiste generalmente nella privazione della libertà personale per un certo periodo che può arrivare fino all'ergastolo. Vi sono quelli che sulla propria fedina hanno scritto alla voce 'fine pena', 'mai'. La società si difende da chi viola le regole della convivenza, restringendone la libertà generalmente in un carcere. Questa separazione può essere richiesta dalla particolare gravita del fatto o anche dal pericolo che il colpevole possa ripetere il medesimo delitto. Il carcere è quindi una sorta di protezione, che dovrebbe viaggiare in due sensi: proteggere la società dal delinquente, ma anche il delinquente dall'impossibilità ad emendarsi. Ormai è sempre più diffusa l'opinione che il carcere, così com'è gestito ( parliamo di una media, non certo degli immondezzai che in taluni stati e sotto taluni regimi vengono fatti passare per carceri ), serve a poco. Costringere alla convivenza in uno spazio esiguo, personaggi con storie diverse alle spalle, può diventare invece che scuola di nuova vita, scuola di delinquenza. Per non parlare della tragedia di chi è tossicodipendente, sieropositivo, malato gravemente; o di chi è in attesa di giudizio e probabilmente innocente ( nelle carceri italiane ciò accade almeno nella metà dei casi ) e si trova a dover scontare lunghi periodi di carcere preventivo. Per essere autenticamente redentivo, il carcere dovrebbe avere porte più aperte, non isolare dal contesto sociale i detenuti ma rieducarli. Ciò è esigenza insostituibile per le carceri minorili, ma anche per gli altri istituti di pena che ospitano adulti. L'essere umano si costruisce come tale nella relazione positiva con altri esseri umani. Sono tanti i problemi che riguardano la vita carceraria, possiamo elencarne soltanto alcuni che più di altri mettono in rilievo la contraddittoria situazione di un luogo di pena che non aiuta a riacquistare la condizione di cittadino a pieno titolo e che solo una giustizia con lo sguardo misericordioso potrebbe convertire in strumento positivo. L'inattività è pessima consigliera: ebbene, nelle carceri italiane le possibilità di lavorare, per un detenuto, sono vicine allo zero; si passano i giorni a non far nulla: è questo forse il difetto più grave. La promiscuità è terreno favorevole al vizio: nelle nostre superaffollate case circondariali si mescolano in esegui spazi tossicodipendenti, omosessuali, persone con problemi psicologici anche seri ecc. Le possibilità di un minimo di privacy sono inesistenti. Così come sono inesistenti le possibilità di un minimo di vita affettiva - sessuale normale, con conseguenze che si possono facilmente immaginare. Si è cercato di trovare rimedi alle tante situazioni oggettivamente disumane: ma vi si oppongono la scarsezza dei mezzi a disposizione, la scarsezza del personale di sorveglianza ( strano destino: stessa vita dei carcerati ma senza colpe! ), la scarsezza degli educatori, di iniziative alternative. Il carcere rimane un crogiolo da cui spesso si esce non puro metallo, ma ancora più sporchi. Giudice e non giustiziere La magistratura ha un compito straordinario. Essere magistrato, un buon magistrato, dovrebbe essere nel libro dei sogni di ogni cittadino: è un compito alto e delicato, che esige intelligenza acuta, sensibilità, delicatezza e intransigenza prima di tutto con se stessi; e soprattutto un grande cuore. Dice mons. Dante Lafranconi che la giustizia deve essere perseguita " non con l'animo vendicativo e neppure col gusto di concludere: 'Finalmente giustizia è fatta' perché il colpevole è stato condannato; ma è perseguita con sofferenza, continuando ad amare e a stimare il colpevole e desiderando sinceramente la sua riabilitazione. E si sa che nulla giova tanto a riscattare una persona che ha sbagliato quanto l'amarla, e farle sentire che la si ama " . La toga sull'anima Il capo dello stato italiano, Oscar Luigi Scalfaro, ebbe ad usare - nell'invitare un celebre magistrato, il dottor Antonio Di Pietro, a revocare le dimissioni una felice espressione. Disse più o meno così: " Un vero magistrato la toga non l'ha sulle spalle, ma sull'anima ". Ciò significa che un magistrato, sia esso giudicante o inquirente, non si può mai svestire del suo ruolo; come il medico, come il prete, come l'insegnante. E un ruolo chiave nella società, ed ha bisogno di sostegno e protezione. Sostegno da parte delle altre autorità e della pubblica opinione, pur senza clamori, senza ribalte accese. Protezione attraverso le leggi per garantirne l'indipendenza totale da altri poteri. Quello giudiziario è il terzo potere, in uno stato moderno e democratico ( gli altri due essendo quello legislativo, del parlamento, e quello esecutivo, del governo ). Deve essere sganciato dagli altri poteri, sottoposto al controllo diretto di propri organi di autogoverno nei quali gli altri poteri abbiano comunque rappresentanti. Una democrazia prevede infatti, per il mantenimento della legalità, controlli incrociati fra i vari poteri, in modo che uno non possa prevaricare sull'altro. Il buon funzionamento della giustizia ( ripetiamo, non come vendetta dei 'buoni' sui 'cattivi', ma come ristabilimento della condizione di legalità nella riabilitazione del colpevole ) è il miglior segnale per comprendere se uno stato è realmente democratico. Negli stati totalitari, infatti, la toga è spesso sottoposta alla divisa militare o ad altri condizionamenti. L'imparzialità di un peccatore Il giudice, il magistrato, è pur sempre un essere umano, un peccatore: non è quindi troppo chiedergli l'imparzialità? Nessuno pretende dal giudice la giustizia assoluta, possibile soltanto a Dio. La toga non conferisce il potere di leggere nei cuori. La giustizia umana è sempre imperfetta: ma la scommessa è di renderla la meno imperfetta possibile attraverso vari correttivi, come possono essere i vari gradi di giudizio esperibili, fino alla corte suprema di cassazione, o il giudizio espresso da un collegio di giudici dopo che il processo è stato istruito da un magistrato inquirente e le accuse dibattute pubblicamente da un collegio difensivo. Ciò che si chiede al magistrato è di non essere un 'giustiziere' né un 'vendicatore'. Il magistrato non è un eroe, non è il cavaliere senza macchia e senza paura che si muove su un bianco destriere. È un essere umano con le sue gioie e i suoi dolori, le sue piccole miserie e i suoi spazi di grandezza; è un lavoratore che ha fatto del diritto la sua professione. La sua pur imperfetta imparzialità deve essere frutto di professionalità e di competenza. È anche uno che, per la sua professione, rischia a volte la vita. Come ben sanno i magistrati italiani esposti sul fronte del terrorismo, della malavita organizzata. E che per proteggere sé e la famiglia sono spesso costretti ad una vita blindata: in bunker, con la scorta armata, su auto a prova di proiettile, senza la possibilità di normali relazioni … Proprio perché è esposto più di altri al contatto nocivo con le cellule malate di una società, il magistrato va anche difeso dai pericoli di 'contagio', dalla sovraesposizione presso l'opinione pubblica, dalla sottile violenza delle minacce indirette. La legge dell'amore Dicevamo all'inizio che non si da giustizia senza misericordia, né misericordia senza giustizia. I due termini sono inestricabilmente intrecciati e necessari l'uno all'altro. Dice ancora mons. Lafranconi nell'opera citata: " Se è vero che la correzione, e anche la punizione come strumento correttivo, può essere provvidenziale ( e in tal senso la Bibbia spessissimo parla di Dio che corregge l'uomo ), lo è solo in quanto tale misura è suggerita dall'amore ". Giustizia e misericordia Se quella enunciata è l'esigenza, occorre anche riconoscere che non è facile " far valere un diritto o esigere giustizia con animo misericordioso ". L'istinto di Caino ci porta a rispondere alla violenza con violenza, ad essere aggressivi verso chi ha offeso noi o il contesto in cui viviamo, a vendicarci in qualche modo. Occorre educarsi ed educare alla misericordia come disposizione interiore del nostro animo. " Ma le disposizioni interiori, quando sono condivise ed espresse da più persone, non possono non manifestarsi anche sul piano sociale e tradursi incisivamente sul costume ". La misericordia deve ugualmente trovare un suo confine nel rispetto della giustizia " perché la misericordia che prescindesse dalla giustizia si risolverebbe in grave pregiudizio tanto per la società quanto per gli individui. Per quanto riguarda infatti la società, verrebbero a mancare dei riferimenti oggettivi che sono però indispensabili alla convivenza civile. E inoltre, dato che la storia dell'umanità è inquinata dal peccato, si correrebbe il rischio di favorire il gioco di quanti, noncuranti della misericordia, si preoccupano solo di fare i propri interessi, calpestando anche i diritti degli altri. In una condizione com'è quella dell'uomo sulla terra, in cui la conflittualità è inevitabile, il valore della giustizia e la forza del diritto sono necessari perché la conflittualità non degeneri in sopruso del più forte sul più debole, o, nella migliore delle ipotesi, non si trasformi in discriminazione arbitraria tra i cittadini ". Individualmente, giustizia e misericordia appaiate garantiscono contro il rischio di deresponsabilizzazione con il continuo richiamo ai diritti, ma anche ai doveri di ciascuno verso di sé e verso il prossimo. Diritti e doveri che trovano il loro fondamento nella giustizia e che vengono formulati pubblicamente nelle leggi. Per agire con giustizia e misericordia non si può guardare ad ogni fatto asetticamente: occorre collocarlo nel contesto storico in cui avviene, individuando il grado di responsabilità nell'operare le scelte che l'hanno prodotto. Non si può mettere tutti sullo stesso piano, colpevoli e incolpevoli, vittime e carnefici. Si deve sostenere la legittimità delle condanne dei rei, pur chiedendo la disposizione al perdono di chi è vittima del reato, un perdono che non sospende naturalmente l'iter giudiziario. Giustizia e carità " Certo una sintesi perfetta tra giustizia e misericordia non appartiene all'uomo, almeno finché si trova in questo mondo. Solo Dio ne è capace. L'uomo vi tende come meta desiderata e profeticamente realizzata nell'uomo Dio, Gesù Cristo ": in questa affermazione di mons. Lafranconi si situa l'ultimo passaggio, quello alla carità, all'amore. Atto supremo di giustizia, infatti, non è, forse, stabilire le regole, scrivere le leggi, sanzionare i reati, punire i colpevoli. È prevenire in radice che si diano le condizioni perché un reato possa essere perpretato. Questo non può avvenire se non in un 'regime d'amore'. Il primo e più importante dovere che ciascuno di noi ha verso il suo prossimo, è di renderlo 'padrone' della propria quota d'amore, di permettergli di sentirsi amato dall'Amore, per essere capace a sua volta di amare l'Amore e di donare il proprio umano amore a tutti. Solo nell'autostima ( 'ama te stesso' ) si può trovare la forza e la capacità per amare il prossimo ( e quindi non nuocergli ). E la condizione di santità diffusa che si erge a schermo contro ogni violenza, una santità possibile, anche se difficile da attuarsi. È la condizione del Crocifisso, che non fa di ogni erba un fascio, distingue, ma distingue nell'amore e da sempre una opportunità: come sul Golgota, nella vicenda del buon ladrone e dell'altro. È la condizione del Risorto che attira tutti a sé, che è 'via, verità e vita'. Non è una condizione innata, ma un pellegrinaggio: al quale siamo tutti invitati, per il quale tutti abbiamo un minimo di mezzi. Occorre però avvalersene: da questo punto di vista, noi siamo liberi di scegliere. Mitezza e fermezza due contrari che s'incontrano di Teresa Ciccolini Bisogna anzitutto sfatare i significati più correnti e superficiali che si attribuiscono al primo termine: i miti non sono i rassegnati, i rinunciatari, i remissivi, coloro che lasciano correre o si defilano per non esporsi, coloro che delegano e si rinchiudono nel proprio guscio, i mediocri, gli sdolcinati, quelli che di sé dicono di non fare male a nessuno e che non si immischiano nella vita degli altri. E nemmeno chi sfodera smaglianti sorrisi di circostanza o buone maniere o gentilezza convenzionale o parole di circostanza. O quelli che stanno sempre nel medesimo posto e non si muovono mai. Di cui non ci si può lamentare. Che si guardano quasi con compatimento. Qui, nella beatitudine di Matteo (Luca non li cita ), i miti hanno un senso forte, una pregnanza biblica: assieme ai poveri, ai misericordiosi, ai puri, agli operatori di pace declinano e sfaccettano l'essenza della felicità promessa e motivata da Gesù: l'incontro con Dio, come compimento di tutte le sue promesse, come completa, profonda sintonia e comunione con Lui, che vuoi dire raggiungere una pienezza inimmaginabile e sorprendente, l'immensità della gioia, dell'amore, di ogni aspirazione a un Tu, di ogni bellezza e gratuità, di ogni valorizzazione. È significativo che alla radice della mitezza evangelica vi sia da una parte, tutta la tradizione biblica degli 'aniim' ( i miti ) strettamente connessi con gli 'anawim' ( i poveri ) e, dall'altra, l'esortazione di Gesù: " Imparate da me che sono mite ed umile di cuore " ( Mt 11,29 ). Gli 'anawim' sono coloro che ripongono fiducia totalmente nel Signore, 'stanno davanti' al Signore e sperano in Lui ( Sal 37 e Is 66,2 ); sono i poveri di Dio, coloro che sentono di appartenere non a se stessi, ma a Dio, e vivono coerentemente questa appartenenza. Coloro che, da Mosè ( Nm 12,10: " Mosè era un uomo estremame nte mite, più di tutti gli uomini sulla faccia della terra " ) a Maria ( Lc 1,38.46-55 ) costituiranno il nucleo fedele del popolo ebraico: il resto di Israele. Quel 'resto' che, lungo le generazioni, non si lascerà scomporre dagli sconvolgimenti storici, dalle prevaricazioni, dall'ebbrezza del potere e dall'idolatria delle ricchezze, ma conserverà la sobrietà e l'incrollabilità del proprio appartenere a Dio. E in Gesù, che porta a pienezza la tradizione ( l'alleanza ) antica, si compie il totale abbandono in Dio, per cui lui solo può dire autenticamente, come richiamo al fondamentale atteggiamento che il discepolo deve avere: " imparate da me che sono mite e umile di cuore ". Con questo possiamo subito affermare che la mitezza non è una virtù, ma una prospettiva di vita, determinata da una conversione e da una relazione. Quanto più uno si converte al Signore, quanto più entra in rapporto con Lui, tanto più diventa mite. Quanto più la sua fede non si esaurisce in una dottrina o in una religione, ma diventa esperienza di vita, si traduce in testimonianza viva, tanto più naturale è il suo imparare costantemente, instancabilmente da Lui. Come definire i miti? L'essere miti è costitutivo dell'essere cristiani, perché appunto Gesù Cristo è mite ed umile. Mitezza ed umiltà sono due modi dello stesso essere. Implicano la coscienza della propria umanità, non tanto e non solo come limite e finitezza, quanto come creaturalità, come dignità di figli di Dio che per splendere pienamente hanno proprio bisogno di lasciarsi illuminare senza riserve da Lui, di acquisire la costante di sentirsi amati, di essere dentro la grande, gratuita, splendida iniziativa di Dio. Quindi escludono ogni arroganza, superbia, prepotenza, superiorità, autocentrismo. I miti sono coloro che si collocano in basso, che sanno mettersi sullo stesso piano degli umili della terra, che 'guardano l'erba dalla parte delle radici' e si accompagnano ai sofferenti e agli affaticati, condividendo e operando dal di dentro dei popoli. Non hanno pretese per sé e sono disponibili sempre ad ascoltare le ragioni degli altri. Scelgono e sono in grado di assumere le loro responsabilità di uomini e sull'umanità, senza ostentazioni, fattivamente. Sanno infatti sacrificarsi per il bene di tutti; anzi, accettano di essere sconfitti nei propri diritti, perché prevalgono quelli di chi conta meno, di chi non ha voce per farsi sentire, di chi è ai margini della strada. La mitezza non è qualcosa di astratto e nemmeno una predisposizione del carattere o un sentimento: è un atteggiamento concreto e forte, una scelta di vita, una logica cambiata, una volontà di com-passione su cui si radicano gesti ben precisi, capaci di spezzare ogni pane con ogni affamato. Il mite è la persona della fermezza perché si fida di Dio e vi si affida - indipendentemente dalle etichette -, che ha penetrato in modo talmente profondo le proprie ragioni di vivere, da non lasciarsi scalfire né sopraffare dalle mentalità correnti e calcolate. È un uomo che 'ben conosce il patire' ( Is 53,1-12 ), che non si stanca di fare il bene ( Gal 6,9 ), anzi è desideroso di vincere il male con il bene. Punta tutto su questo. Sintetizzando, si potrebbe dire che i miti sono i buoni ( parola oggi desueta ), che si pongono nella vita appunto con bontà, cioè valorizzando in sé e negli altri ( in tutti gli altri, anche quelli che non ci piacciono o vorremmo confinare ai margini del nostro interesse con infinite giustificazioni ) le qualità positive 'altruiste' ( quelle che non si concentrano sull'io e i suoi egoismi, ma su ciò che accomuna, affratella ), perché credono fermamente che la verità si realizza nell'incontro. Altrimenti è effimera, vaga, lontana, cristallizzata. I miti sono privi di odio, violenza, invidia, risentimento, vendetta, asprezza, maldicenza, ricatto. Rifiutano il potere, la cattiveria, l'utilitarismo, la logica di ogni profitto. Stanno dalla parte di chi soffre, di chi è oppresso, di chi patisce ingiustizia, e lavorano con loro con fiducia, bontà, condivisione, energia. Sono coloro che si ritengono donati alla vita e quindi vivono per essere dono, per dare gioia, non creare problemi, ma alleggerire dalle complicazioni per ricondursi e ricondurre alla semplicità dell'essenziale. Sono il lievito che fa fermentare la pasta, scomparendo, senza esibizioni e riconoscimenti. Coloro che sono presenti alla storia e nella storia con gratuità e profezia. Coloro che non si lamentano, ma sorridono e comprendono. Che resistono ed operano. Senza tante parole. Delineando i miti, vengono in mente le parole di Ernesto " Che " Guevara, che mi sembrano particolarmente esplicative della forza interiore e della sensibilità che connotano la persona mite: " Bisogna essere tenaci, resistenti, solidi. Bisogna indurirsi senza mai rinunciare alla propria tenerezza ". Oppure Bonhoeffer di Resistenza e resa. C'è posto per la mitezza oggi? Ovviamente è inevitabile la domanda se oggi, in questo nostro mondo così disumano, vi sia posto per la mitezza e a che cosa possono servire i miti se non ad essere sconfitti. Oggi, in cui sembrano e sono tramontati i punti di riferimento, i criteri di valore, il senso della storia e dell'appartenenza alla comune umanità. In cui sembrano prevalere e prevalgono le logiche di distruzione, di ferocia, di spietatezza, di disgregazione, di calcolo diabolico; in cui la distanza tra ricchi e poveri è un abisso, e i ricchi sono e vogliono essere più ricchi e i poveri sono sempre più poveri. Vige la legge della sopravvivenza del più forte, della selezione della giungla - mors tua vita mea -, dell'asservimento più bieco e spudorato al denaro, la grande bestia, il mostro inesausto; e sempre più numerose sono le affermazioni di una notte etica senza precedenti. Vengono polverizzati a livello minimale e banalizzati attraverso l'immaginario collettivo il pensiero, la cultura, la criticità, la responsabilità, la libertà, il rispetto dell'altro, in favore dell'apparenza, dell'ignoranza, della mentalità del quiz e del premio, proposti e conquistati con faciloneria e dispregio delle più elementari cognizioni, dell'ultima notizia che smentisce la precedente, degli scandalismi e della rissosità; comunque, dell'accumulo e del rumore. Si tende a sfregiare tutto, a sfruttare tutto, a degradare tutto. Si sradicano le fedi e si uccidono le speranze, nell'appiattimento generale. L'urlo sostituisce la parola. Che posto hanno i miti in questo tipo di società? Come si possono connotare oggi? Mi pare che in un mondo dissennato e crudele come il nostro, i miti debbano configurarsi con queste caratteristiche: - L'umanità: i miti sono 'umani', nel significato intenso e molteplice del termine; sentono cioè di essere parte di tutta l'umanità, non di un settore privilegiato, e quindi soffrono, faticano, gioiscono, si umiliano, sperano delle sofferenze, fatiche, gioie, umiliazioni, speranze degli uomini di tutto il mondo. Questa comune umanità, che costituisce la base di una effettiva uguaglianza nelle differenze, la ragione di un'equa spartizione delle risorse, il rispetto della propria dignità e della propria storia, del cui valore ci si arricchisce reciprocamente, va compartecipata e comunicata a tutti i livelli. I miti sono 'umani' anche nel senso di privilegiare e qualificare le facoltà positive di ogni persona: il conoscere, il pensare, il sentire, l'essere interdipendenti, l'amore, la creatività, il piacere come libera espansione della gioia, la libertà consapevole, la solidarietà, perché divengano possesso di ciascuno e quindi siano al centro di ogni attenzione educativa e formativa, a partire dai diseredati e dai frodati del mondo ( su ogni scala: geografica, sociale, cittadina, di quartiere, in famiglia, a scuola ). I miti hanno occhi universali. Si sentono parte del villaggio globale. Non favoriscono l'omologazione, ma il riconoscimento delle specificità nella comune umanità. Sono 'umani', anche come carica di umanità: quante volte siamo funzionari e burocrati della vita e della fede! I miti invece sono coloro che si emozionano, che si coinvolgono, che provano simpatia e commozione, e non si sentono ostili ed estranei o distanti a nessuno. Sono persone che vibrano e lasciano trapelare questa loro sensibilità partecipativa. Che sanno piangere e sorridere non per se stessi o su se stessi, ma per gli altri e con gli altri. Gente dal cuore ospitale ed allargato. Che si commuove. Come Gesù. - La non-violenza: quanto più ottusa e dilagante è la violenza, i miti vi si oppongono con tenacia e fermezza, non con armi di morte, ma con le risorse della vita. La non-violenza infatti è semplicemente rifiutare gesti e pensieri violenti ( dettati cioè dall'odio, dalla vendetta, dalla frustrazione, dall'imitazione ), ma operare in modo alternativo, inventare strategie flessibili ed adeguate, per sradicare le radici del vivere violento, cominciando dal quotidiano e dalle piccole cose, di cui ci si assume la responsabilità personalmente, a partire dal minimo che è nelle possibilità di ciascuno. Pensiamo alle innumerevoli possibilità a portata di tutti contro la violenza, ad esempio, dei bisogni indotti, dei consumi, dello spreco, delle comodità, dell'inquinamento, delle mode, dell'inciviltà, del linguaggio … E questo è solo un primo passo. I miti infatti non si accontentano di operare negli ambiti della propria vita abituale, ma vanno a cercare le ferite dell'uomo per ungerle con olio e vino ( Mc 6,13; Lc 10 ), in duplice senso, sia rimanendo a contatto con i colpiti dalla brutalità della violenza, sia riversando nei luoghi consueti del proprio vivere ( famiglia, lavoro, incontri ) questa presenza ferita dell'umanità, in modo da creare una nuova mentalità del guardare, com-patire, intervenire, decentrando il proprio io e facendo spazio in sé al soffrire causato dall'ingiustizia, dall'egoismo e dall'arroganza degli abitanti delle torri d'avorio. Che spesso siamo anche noi. Direi anche che l'essere non-violenti nel mondo occidentale è dovuto come un risarcimento, una restituzione e una sincera richiesta di perdono per tutta la prevaricazione crudele e massacrante con cui l'occidente si è imposto in tutti questi secoli anche sotto il nome cristiano. Quindi è una questione di particolare responsabilità - recuperata nell'umiltà e nell'esigenza di essere perdonati che noi come occidentali abbiamo nei confronti del mondo. - L'armonia: i miti sono le persone dell'armonia, nel senso che continuamente, instancabilmente, riannodano i fili spezzati, leggeri e spesso invisibili, delle relazioni, ricostruiscono trame slabbrate, seminano campi devastati, riconciliano, abbattono muri e macigni di divisione, recuperano a livelli diversi e più profondi situazioni compromesse, risvegliano e alimentano fiducia e speranza; non si danno per vinti nell'agire per spianare le asperità e intrecciare dialoghi di convivenza. Hanno il senso dell'armonizzarsi e dell'armonizzare. Che non vuole dire adattarsi, rassegnarsi alle apparenze, ma capacità di scavare per rintracciare nel pronfondo linfe vitali inimmaginabili, per scoprire la segreta armonia delle cose, l'accordo, la bellezza, la poesia, la danza e la gratuità, le infinite e reali possibilità d'intesa - se pure latenti e invisibili - tra persona e persona, tra popolo e popolo, tra umanità e universo, tra uomo e Dio. Percepire il proprio battito, il proprio tono, la nota da suonare insieme a tutte le altre nel concerto infinito della vita, nella sinfonia di una pienezza e di un amore capace di riflettere l'infinito splendore di Dio. I miti sono le persone dell'utopia, dello sperare ad oltranza, del credere che questa speranza è possibile, perché si fonda su gesti e segni poveri, semplici, essenziali; sono coloro che capiscono che gli uomini per uscire dalla palude dei propri insabbiamenti e della propria cattiveria, devono alzare lo sguardo sui vasti orizzonti e scommettere sui valori gratuiti, per riassaporare il gusto di vivere con un significato importante e di far parte di un'armonia universale, non di una disgregazione dissodante. Una presenza ferma e fedele Certo, se ci limitiamo ad osservare la vita e la società come fenomeni, dobbiamo dire che per i miti, gente disarmata e disarmante, non c'è posto oggi; né il mondo di oggi accetterebbe di essere messo in scacco da persone così. Il mondo attuale è complesso e complicato, anzi aggrovigliato sempre più in trame di morte, e, pur registrando un profilo debole, uno sbriciolamento del suo tessuto di civiltà e una svalutazione dell'uomo, è in fase di transizione, nebuloso, disorientato, dissacrante sì, ma smarrito fondamentalmente. I miti hanno il compito di non fuggire, di restare incarnati in questa storia e di continuare ad immettere e far circolare con la loro presenza e con la loro vita la fiducia che la gioia, la felicità è possibile, che la pace si può modellare con le mani di ciascuno, che la speranza non è un sogno, ma la molla che da scatto e slancio al nostro agire; che l'amore è realizzabile. Ora, subito, dal di dentro dei cuori e delle situazioni. Bisogna mettersi insieme a crederlo. E lo si può credere perché Gesù ha fatto così. E perché ci ha garantito che non ci lascerà soli, ma sarà con noi sino alla fine del mondo. I miti perciò, sono coloro che non crollano nonostante le tempeste e le sconfitte, nonostante la denuncia del silenzio e dell'assenza di Dio; come Giobbe, come i profeti, come Gesù. La fermezza è la loro forza interiore, che si appoggia su una fiducia incondizionata. Sono coloro che parlano non di Dio, ma a Dio, anche per discutere con Lui e ribellarsi del suo silenzio e della sua apparente indifferenza ai mali del mondo, alle ingiustizie e ai massacri, ma tenendolo sempre come interlocutore; e con gli uomini parlano il linguaggio dell'amore, gratuito ed intenso, senza calcolo e senza prudenze umane, ma tale da offrire tenerezza, comprensione, solidarietà, condivisione. Per questo occorre coraggio; un coraggio smisurato: il coraggio della conversione, il coraggio della testimonianza della resurrezione. Il coraggio di essere vivi, nonostante tutti gli attentati e sollecitazioni di morte. Coraggio che segue questi percorsi, che assume queste notazioni: Il coraggio di cambiare: che non significa genericamente fare dei gesti anticonformisti, ma agire diversamente per delle ragioni precise, secondo la prospettiva dell'uomo da ricostruire e la logica dell'amore, che risana, capisce, perdona, cammina. Che significa voler porre al centro delle nostre fragilità, contraddizioni, confusioni, perplessità, una fede forte, che si lascia investire dalla forza di Dio ( Paolo ), totalmente, radicalmente. Che continuamente chiede perdono, ma continuamente è in cammino, come sale sulla terra, come lievito, come luce, come vicinanza. La capacità di cambiare giudizio, schemi; la capacità di relativizzare; la tendenza e tensione a cercare di vedere sempre più con gli occhi di Dio, di amare il cuore di Dio. Di uscire dalla mentalità di possesso, di dominio, di accentramento, di calcolo, di grettezza, che si annida nelle nostre relazioni quotidiane e che ci trattiene dall'essere pienamente dati. Di cambiare le cose e le situazioni di cui ci occupiamo e siamo responsabili direttamente, orientandole ad una libertà vera e ad una essenzialità motivata. Di cambiare il cuore, perché sia largo, generoso, disponibile, antirazzista. Il mondo d'oggi e noi, abbiamo bisogno di riscoprire e vivere l'alternativa dei valori gratuiti, che non si percepiscono attraverso la luce artificiale e uniforme delle certezze dogmatiche e delle convenienze pilotate, ma attraverso un cambio di rotta, un approfondimento, un essere luminosi totalmente come scintille vive, che traducono in esperienza calda e ravvicinata il loro credere, il loro fidarsi. Cambiare il punto di osservazione della vita e del mondo, capovolgendo la propria posizione e ridefinendo tracciati per una giustizia a partire da chi veramente subisce l'ingiustizia antiumana, per una cultura a partire da chi è ignorante dell'essenziale, per una misericordia a partire da chi è emarginato, per una libertà a partire da chi è oppresso, per un diritto alla vita e ad una vita 'umana' a partire da chi subisce come popolo e come singolo l'attentato dell'eliminazione e della morte indiscriminata e anonima. Ciascuno - se non si lascia toccare dal Signore, che è " il " mite capace di commuoversi sulla gente e con la gente - può trasformarsi da essere opaco e fumoso a scintilla viva. Il mite del Vangelo, cioè il credente, il discepolo, il testimone del Risorto, non può venir meno a questa vocazione. - Il coraggio di guardare: cioè di non distogliere losguardo dalle realtà crude, da quelle che non ti piacciono e ti ripugnano, dalle realtà dolenti e raccapriccianti, disumane. Fissarle, perché facciano parte del tuo mondo, perché scuotano la coscienza, perché non si rimanga impassibili o indifferenti. Guardarle in faccia per impararne il nome, anche se brucia sulle labbra e disturba i cantucci delle tue raggiunte comodità. Ci vuole coraggio per stare dentro la storia e interpretarla, dando nome a oppressi e oppressori ( ricordiamo Brecht? ) e collocandosi dalla parte giusta, dei miti del Signore, per guardarla con gli occhi della compassione e della giustizia e maneggiarla con intelligenza e cuore. I miti sono convinti di essere alla vita non per lasciare il mondo così com'è, ma per agire dal di dentro, senza privilegi, tenacemente, inesauribilmente, seminando bontà. Coraggio di guardare, che vuoi dire coraggio e scelta di essere svegli, in piedi, per camminare e accompagnarsi a chi s'avvia o procede con fatica, rimane indietro, inciampa, cade, viene escluso, ferito, isolato, imprigionato, ucciso. Vuoi dire anche vigilare, nel senso di essere attenti e sensibili, capaci di prevedere e solleciti nel prevenire, nell'affrontare le cause. I miti sono coloro che, guardandoli e chiamandoli per nome, indicano i sassi, gli inciampi; che prendono per mano, se occorre; che rassicurano; che procedono senza diffidenze e invidie, perché la loro interiorità è poggiata in Dio 'come un bambino svezzato in braccio alla madre'. Il coraggio di guardare oltre i tumulti e le tempeste per scorgere e far affiorare una realtà pacificata, l'armonia segreta del mondo, il desiderio - spesso represso e camuffato - di una felicità vera del vivere e del con-vivere. Coraggio di guardare anche se stessi nella propria umiltà, resa grande nell'ottica dell'amore di Dio che agisce nella profondità di ciascuno. - Il coraggio di salvare: i miti, come i misericordiosi, gli operatori di pace, i poveri, i puri - in cui si rispecchia il modo di Dio di entrare nell'umanità e di coinvolgersi nella storia umana - si rendono conto di essere in un processo simultaneo di salvati e salvatori, liberati e liberanti, in cammino e in ricerca. Gli uomini sono chiamati a salvezza, che di solito - nell'accezione comune religiosa e laica - si interpreta individualisticamente. Mi sembra invece significativo, nella riflessione sui miti della terra, che la salvezza è per tutta l'umanità e che siamo interpellati a salvare e a salvarci insieme. Forse siamo abituati a considerare la salvezza in termini esclusivamente spiritualistici e moralistici o addirittura pensiamo che sia qualcosa di superato e di anacronistico o di astratto, metafisico, che non ci tocca da vicino. E intanto il mondo sprofonda e si relegano nell'oblio le memorie umane più importanti ( cf. P. Levi, I sommersi e i salvati ). Bisogna invece recuperare il senso del salvare, cioè di uno stare bene, di un liberare ed essere liberati da ingiustizia, bisogni e oppressioni, di una gioia possibile, lottando contro le angosce e lo sconfinato soffrire; così come faceva Gesù che andava e passava tra la gente guarendo dal male e dai malati, riabilitando le persone nella loro interezza, facendo il bene e restituendo a tutti il diritto e la possibilità di essere felici. Concretamente, qui, sulla terra. Insieme. I miti si collocano su questa scia, costantemente impegnati ad imparare da Lui a 'rifare' nuovo il mondo, portando e comunicando salvezza. Senza clamore, ma con limpidezza e determinazione. Essi erediteranno la terra Infine, i miti sono felici ( 'beati i miti' ) perché 'erediteranno la terra'. Se è vero che il contesto ebraico in cui si muove Gesù, che è ebreo, intende la terra promessa o, se vogliamo, nella visione evangelica, il regno dei cieli, e quindi la realizzazione delle promesse di Dio, questa espressione può essere letta anche in chiave di mondo, pianeta, terra nella sua materialità, come luogo, habitat degli uomini. I miti erediteranno la terra, perché se ne sono fatti carico ed operano in essa affinché si ricostituisca l'armonia iniziale, il progetto originario di Dio sull'universo, in cui ciascuna realtà creata e ciascun essere vivente conviva in una pace e in uno scambio reciproco, con la possibilità di crescere e svilupparsi senza danneggiare nessun altro, con autonomia e interdipendenza consapevole nella propria pienezza di identità e di relazione, nel rispetto l'uno dell'altro e nella condivisione. I miti sono eredi della terra, nel senso che ne sono le persone abilitate, in quanto hanno capito che lavorare in questa linea e per questa armonia anticipa la pienezza dei tempi, quando storia ed escatologia coincideranno, il lupo e l'agnello dimoreranno insieme ( Is 11,1-10 ), un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra, anzi forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci ( Is 2,1-5 ); quando non vi saranno più né pianto né lacrime. Sono coloro che accettano di far parte di questo cammino, collocando come indicazioni segni poveri e umili, ma saldamente conficcati nel cuore del mondo, senza preoccuparsi di arrivare a mete più o meno prestigiose, ma mescolandosi sempre ai profughi e agli esuli della vita per lenire e dissetare anche con un solo sorso, per ungere e accarezzare le smisurate piaghe dell'umanità. Facendo propria la preghiera di Davide Turoldo: " Salva la tua creatura, Signore l'uomo che porta l'immagine tua: uomini schiavi, oppressi, malati, uomini senza nessuna speranza, turbe di Lazzari intorno ai palazzi, morenti a turbe in mezzo ai deserti … Salva la tua creatura, Signore ". Operatori di pace in un mondo in conflitto di Giulio Battistella In questo capitolo riporto le esperienze degli aderenti all'appello " Beati i Costruttori di Pace " ( BCP ), relative a due tipi di conflitti presenti oggi nel mondo. Il primo conflitto è quello prodotto dalla contrapposizione più antica di questo mondo, quella considerata anche dal Vangelo: ricchi e poveri; forti e deboli; grandi e piccoli. Oggi questa contrapposizione ha proporzioni planetarie e prende nomi nuovi: Nord e Sud del mondo; generazione presente e generazioni future. Dentro questo conflitto i BCP hanno lanciato l'" Operazione Bilanci di Giustizia ". Il secondo conflitto è quello relativo alle contrapposizioni etniche, cioè all'incapacità di convivere tra diversi. Un conflitto che ha sorpreso l'umanità proprio quando, caduto il muro delle contrapposizioni ideologiche e politiche, sembrava raggiunta un'epoca di pace. Dentro questo conflitto cruento, i BCP hanno tentato una presenza di pace, con operazioni come " Sarajevo " ( 1992 ) e " Mir Sada " ( 1993 ), ecc. In questo capitolo riporto dunque i seguenti argomenti: 1) Una chiave di lettura delle Beatitudini in cui si conclude che nella misura in cui il regno di Dio si fa presente già qui nel tempo, anche i poveri e gli afflitti, qui, nel tempo, dovrebbero essere " beati ", cioè meno poveri ed afflitti, perché da emarginati e dimenticati diventano il centro dell'attenzione e dell'impegno di tutti. Questo in realtà non è avvenuto, e la contrapposizione tra ricchi e poveri oggi è più forte e violenta che mai. 2) A partire dalle considerazioni sopra esposte, è necessario interrogarci, come cristiani, sulle nostre responsabilità e mancanze. Nella lettera Tertio millennio adveniente ( novembre 1994 ), il Papa, al proposito dice: " Alle soglie del nuovo Millennio i cristiani devono porsi umilmente davanti al Signore per interrogarsi sulle responsabilità che anch'essi hanno nei confronti dei mali del nostro tempo ". E tra " le ombre del presente " il Papa segnala: " la corresponsabilità di tanti cristiani in gravi forme di ingiustizia e di emarginazione sociale " ( n. 36 ). In questa ottica, riporto una specie di revisione di vita secondo lo schema vedere - giudicare - agire. Si parte dalla constatazione che siamo un po' tutti figli della " mano invisibile ", cioè di una ideologia deresponsabilizzante; per concludere ( alla luce della Parola di Dio e del Magistero ) che è necessaria una pastorale dell'austerità in vista di nuovi stili di vita. In questa dirEzione va l'iniziativa di BCP, " Operazione Bilanci di Giustizia ". 3) Nella già citata lettera apostolica, il Papa parla di " un altro capitolo doloroso " nella storia dei cristiani, cioè " dell'acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio alla verità " ( n. 35 ). Ebbene, anche oggi, intolleranza e violenza caratterizzano, in aree a noi vicine, i rapporti tra etnie, culture e religioni diverse. Dentro questi conflitti, BCP hanno tentato una presenza di pace; riporto l'esperienza di " Sarajevo " e alcune riflessioni su di essa. Le beatitudini: perché beati? Sul passo di Matteo 5,1-12 ( le così dette " Beatitudini " ) si è scritto molto e non sempre si è colto il significato profondo del messaggio, tanto che, per alcuni, esso assumeva un significato di fatalismo e disimpegno: se beati sono gli afflitti, gli affamati ecc., ebbene, lasciamoli come sono, che così saranno felici in Cielo. Per capire nel senso giusto questa Parola mi sembrano necessarie due distinzioni previe. Due distinzioni previe La prima è questa: coloro che sono dichiarati beati appartengono a due distinte categorie che non allo stesso titolo saranno beate. La prima categoria è quella degli " ultimi ", di coloro cioè che qui sulla terra, per una ragione o per l'altra sono carenti e perciò afflitti, infelici. Il loro stato infelice non è conseguenza di particolari virtù, ma di loro carenze fisiche, psichiche, morali o di carenze morali altrui ( ingiustizia, abbandono, emarginazione ). Sono le prime quattro suddivisioni di " beati ": i " poveri ", gli " afflitti ", i " miti " ( cioè i deboli che non possono reagire, ma devono subire le prepotenze altrui ), " quelli che hanno fame e sete della giustizia " ( cioè coloro che subendo l'ingiustizia, anelano un cambiamento, una situazione di giustizia ). La seconda categoria comprende invece le altre quattro suddivisioni: i " misericordiosi ", i " puri di cuore ", gli " operatori di pace " e i "perseguitati per causa della giustizia " o " per causa mia ", cioè a causa della loro fedeltà a Gesù, a quel Gesù che si identifica con i poveri, gli afflitti, ecc. delle prime beatitudini. Nella seconda categoria di beati ci possono essere anche i ricchi, i potenti, ma che hanno fatto la scelta preferenziale dei poveri, e proprio perché misericordiosi, e puri di cuore ( cioè sinceri; vicini ai poveri non per tornaconto, ma per farli felici ) e amanti e costruttori di pace, proprio per questo loro impegno attivo e non violento a favore della giustizia, per queste loro virtù; proprio per tutto questo sono perseguitati, insultati, emarginati come i poveri e gli afflitti che si sforzano di fare felici. Anche costoro sono beati. Ma a quale titolo? Allo stesso titolo della prima categoria di beati? Per rispondere è necessario fare la seconda distinzione, quella relativa ai " perché "; " beati … perché di essi è il regno dei cieli … perché grande è la vostra ricompensa nei cieli " ( Mt 5,5-12 ). Bisogna fare cioè una distinzione nel concetto di " regno dei cieli ". Certamente il " regno dei cieli " ( o il " regno di Dio ", che è la stessa cosa ) è una realtà escatologica, cioè dei tempi finali, di quando, finita la storia, ci saranno " nuovi cieli e nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia " ( 2 Pt 3,15 ). Una situazione dunque finale di vita piena, di felicità perfetta e definitiva, di Paradiso. Ma " il regno di Dio è ( anche ) vicino ", ha detto Gesù ( Mc 1,15 ); ed è questa la buona notizia, il Vangelo, dato soprattutto ai poveri ( Lc 4,18 ). È vicino, non nel senso che manca poco tempo all'avvento finale del regno, ma nel senso che il regno è alla portata dell'uomo. Se l'uomo si converte ai valori, alle logiche, alla vita di Dio manifestata in Cristo; cioè se fa, come Cristo, la volontà del Padre, il regno dei cieli, per dono dello stesso Dio, per Grazia, ha un suo inizio, una sua realtà anche qui su questa terra. È possibile, è alla portata dell'uomo che si converte, instaurare, già qui nel tempo, relazioni tra Padre Celeste e figli e tra fratelli, relazioni simili a quelle che ci saranno in cielo, cioè nella fase definitiva del regno. Relazioni di solidarietà, amore, pace, comunione nell'uguaglianza dei diversi, nel rispetto delle diversità, così come Cristo ci ha mostrato in se stesso. " Il regno di Dio - egli ha detto - è già in mezzo a voi " ( Lc 11,20 ); ma bisogna costantemente chiedere che, facendo la sua volontà, il regno venga, come diciamo nel Padre nostro: " venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra " ( Mt 6,10 ). Ebbene, con questa seconda previa distinzione, è possibile capire più in profondità il significato delle beatitudini. Per i deboli e per i forti due diversi motivi per essere " beati " La prima categoria, quella dei poveri in quanto carenti, in quanto vittime di ingiustizia, ecc., è beata perché, già nella sua fase terrena, il regno è loro, cioè, è per loro. Se viene il regno dei cieli, cioè se facendo la volontà del Padre anche in terra, si instaurano le logiche di vita del cielo ( di Dio ); se così succede, i poveri, gli afflitti, non saranno più tali, non saranno più gli ultimi, gli abbandonati, i dimenticati, i nascosti, ma diventeranno oggetto di attenzione, cura, amore, come in una famiglia dove l'attenzione di tutti si concentra sul più piccolo o il più sofferente. Se già in terra viene il Regno di Dio, è come si passasse dalle logiche delle gare olimpiche ( " viva i campioni " ), a quelle della scalata ( " attenti ai più deboli ", perché anche loro devono arrivare ). Per questo i poveri, i carenti sono beati. Nei confronti del regno definitivo, della vita eterna, invece, anche i poveri, gli afflitti, come tutti, devono amare per accedervi, e non soltanto essere amati; amare così come possono, come sono capaci, e per quel poco o tanto che possono; devono cioè tentare di passare nella seconda categoria di beati; quella dei misericordiosi; di coloro che per amore ai più miseri sono disposti ad accettare, come Cristo, fatiche e persecuzioni. Di costoro è pure il regno di Dio, ma nel senso che il loro faticare e soffrire non sarà vano. Anche se qui sulla terra non vedranno niente cambiare; anche se i loro sforzi sembrano inutili, e inoltre essi stessi sono derisi e calunniati, " Rallegratevi ed esultate - dice il Signore - perché grande è la vostra ricompensa nei cieli " ( Mt 5,12 ). Quei frutti di bene, cioè, di poveri meno poveri, di afflitti meno afflitti, di handicappati meno handicappati, che speravamo, e che forse non siamo riusciti a vedere e gustare qui nel tempo; quei frutti, li gusteremo certamente nell'eternità, nel banchetto celeste; prefigurato, qui in terra, dal banchetto eucaristico, dove sani e malati, belli e brutti, forti e deboli, intelligenti e ritardati mentali, tutti possono accedere; e guai a impedirglielo. " Non glielo impedite - gridò indignato Gesù agli apostoli - lasciate che i piccoli vengano a me, perché di essi è il regno di Dio " ( Mc 10,14 ). A 2000 anni dalla nascita di Cristo, e dopo tanti sforzi di evangelizzazione da parte della Chiesa, si dovrebbe vedere che i poveri sono " beati "; sono cioè al centro dell'attenzione, e di conseguenza, meno poveri, meno emarginati. E invece, ciò che si vede, è una crescente emarginazione di interi popoli ed aree geografiche come l'Africa o parte dell'America Latina. Perché? Dove abbiamo fallito come cristiani e che fare perché davvero " venga il suo regno "? Il Regno viene quando si fa la volontà del Padre " come in cielo e così in terra ". In cielo tutti stanno bene, sono felici, questa è la volontà del Padre; perché non è così anche in terra? Perché tanta emarginazione? Dove abbiamo tradito la sua volontà e cosa fare oggi per compierla? A queste domande cercheremo di rispondere nella parte che segue. Dentro il conflitto " ricchi e poveri ": una revisione di vita Vedere Volendo rispondere alle domande con cui sopra abbiamo concluso, mi sembra necessario partire da una constatazione: la nostra società, e noi tutti, siamo figli della " mano invisibile "; ci siamo, cioè, rapportati ed organizzati sull'ipotesi di Adam Smith, della " mano invisibile ". Come cristiani non siamo stati abbastanza profetici da contestare nei fatti tale ipotesi, ma piuttosto l'abbiamo avallata con una specie di miracolismo irresponsabile, che si può tradurre in questa formula: " Ognuno per sé e Dio per tutti ". Ma vediamo, prima, l'ipotesi della " mano invisibile " così come fu formulata nel XVIII secolo. - La falsa ipotesi della " mano invisibile " Adam Smith ( n. 1723, m. 1790, Scozia ), il filosofo, economista scozzese, considerato il padre del nostro liberalismo economico ( nel senso che ha sistematizzato il pensiero economico del suo tempo e dei secoli precedenti ), insegnava che l'egoismo è la fonte del bene comune e del progresso sociale, e che non c'è altro da fare che assecondarlo. Ecco un passo del suo libro più famoso, La ricchezza delle Nazioni: " Nessuno in genere si propone per principio di promuovere il bene pubblico, e nemmeno sa come incrementarlo se non ha tale proposito … mira soltanto alla propria sicurezza … pensa solo al suo guadagno, ma in realtà, in questo come in altri casi, è guidato da una mano invisibile a promuovere un fine che non faceva parte delle sue intenzioni. E non è detto che sia peggio per la società il fatto che non facesse parte delle sue intenzioni. Nel perseguire il suo interesse promuove spesso quello della società in modo più efficace di quando intenda promuoverlo espressamente … L'uomo di Stato che cercasse di dirìgere i privati indicando loro in quale modo devono impiegare i propri capitali, non solo si caricherebbe del peso di una funzione del tutto inutile, ma si assumerebbe un'autorità che non si può affidare … neppure ad un consiglio o ad un senato … " ( op. cit., Libro IV, Cap. n, Sez. I ). Dal libero gioco degli interessi privati, quindi, il bene di tutti. Da notare che quando A. Smith scriveva queste cose ( cioè prima del 1776, anno in cui il libro, La ricchezza delle nazioni, veniva pubblicato ), in America del Nord una grande massa di schiavi negri ( comprati sulle coste africane ) lavorava nelle miniere e nelle piantagioni della grande colonia inglese; le truppe inglesi conquistavano Cuba, e in Asia, mettevano le basi del grande impero britannico consolidandone la presenza nell'India. In concreto, appellandosi alla " mano invisibile ", si era così sancito il diritto di una parte di umanità ( quella forte ) a fare tranquillamente i propri interessi; e il dovere dell'altra a portarne le conseguenze, pena l'intervento della " mano visibile ": le forze armate europee " liberatrici " delle " leggi di mercato " da ogni intoppo che osasse ostacolarne la " sacra " vigenza. Con la crisi del Golfo Persico, il problema del petrolio e la relativa smania di fare guerra, risulta chiaro che siamo ancora completamente dentro a queste logiche smithiane. I nuovi modelli di difesa europei sono studiati infatti non più per difendere i sacri confini della patria, ma per " assicurare la tutela degli interessi vitali ", cioè " delle fonti energetiche, delle linee di rifornimento … ecc. ". Assicurarne la tutela logicamente, non in casa del Giappone o degli USA, ma in casa dei poveri e dei deboli ( le citazioni sono prese da un documento del Ministero della Difesa italiano, del 31 ottobre 1990, p. 22 ). In queste logiche ci siamo cascati anche noi, cristiani; non le abbiamo contestate con decisione; qualcosa si è fatto nei documenti, nella dottrina, ma non nei fatti, nelle scelte economiche e politiche dei cristiani. La storia ci ha mostrato che se ognuno persegue soltanto i propri interessi privati, a costo anche di danneggiare gli altri, e non pensa al bene comune, non ci sarà né pace, né vita per l'umanità; si vivrà sempre più in un clima di guerra, nonostante tutte le distensioni Est-Ovest. Un'economia vissuta come conflitto, non può portare che al conflitto. Su di una rivista, in una pubblicità a tutta pagina, c'era l'immagine di uno sbarco di marines armati fino ai denti e minacciosi nello sguardo. Sopra, in inglese, c'era scritto: " Rendi le tue vendite aggressive ". E sotto, in italiano: " Marketing è una guerra. Una guerra tra aziende concorrenti. E ogni azienda dispone di un proprio esercito per combatterla … Per vincere la guerra occorre possedere un esercito potente, preparato, aggressivo … incentivato … " ( L'Espresso, 28.01.90, p. 27 ). Da un'economia vissuta in questo spirito di guerra, alla guerra nel Golfo, il passo non è stato breve, ma obbligato. Come abbiamo potuto, noi cristiani, fare la " comunione " in chiesa, all'altare, e poi entrare nella vita, nel lavoro, nel commercio, nella politica con questo spirito di lotta, di conflitto, di guerra, di egoismo? Come possiamo sperare che Dio agisca in noi per costruire un mondo di pace, quando la pace ce la diamo soltanto in chiesa e fuori chiesa prepariamo la guerra? L'inefficacia storica del cristianesimo a cambiare il mondo, non nei primi secoli ( che allora l'ha cambiato ) ma negli ultimi secoli, è certamente legata a questa ideologia che abbiamo inconsciamente sposato, a queste incoerenze e fratture madornali tra fede e vita, tra culto ed economia, catechesi e politica; fratture ed incoerenze che abbiamo finito per tollerare anche dentro il partito che del cristianesimo portava simbolo e nome. Noi, accogliendo tranquillamente le tesi razziste di Adam Smith, e operando in coerenza ad esse, ci siamo, per così dire, autoscomunicati; ci siamo cioè messi fuori da una comunione operativa con Dio che poteva darci la capacità di trasformare il mondo in dirEzione del suo regno; che è " regno di giustizia, di amore e di pace " ( dal Prefazio di Cristo Re ). Dopo questa constatazione previa, vediamo più in generale il comportamento dei cristiani dentro l'antico conflitto ricchi-poveri. La carità verso i poveri Sempre, nella Chiesa, si è fatto attenzione ai poveri. A testimoniarlo stanno tutte le istituzioni, congregazioni, associazioni e opere che, fin dai primi secoli, ad oggi, sono sorte in seno alle Chiese per esercitare o promuovere un servizio ai poveri. Nominiamo soltanto le più note, dei nostri tempi: - Le opere missionarie, con asili, scuole, ospedali, laboratori ecc., per i più diseredati; opere sostenute dalla carità dei cristiani, canalizzata attraverso le PPOOMM, i vari istituti missionari, i CMD, o i singoli missionari; è difficile fare un calcolo, ma sono centinaia e forse migliaia di miliardi che confluiscono verso i più bisognosi del Terzo Mondo. - Le Caritas, le Conferenze di San Vincenzo, alcune opere parrocchiali o di istituti religiosi sul nostro territorio ( es. Camilliani, ecc. ), gli organismi di volontariato di ispirazione cristiana e tante altre iniziative che ognuno può ricordare. Nonostante questo mastodontico impegno caritativo, rimangono tre grossi problemi: due all'interno della Chiesa e uno nel mondo. Nella Chiesa a) I poveri sono poco presenti nella pastorale attiva, sono più oggetto di attenzioni che soggetti di pastorale; a volte non sono nemmeno oggetto di pastorale, cioè, certe categorie più emarginate ( baraccati, terzomondiali, immigrati, disoccupati, ecc. ), o vengono loro alle nostre chiese e istituzioni, o rimangono privi di attenzione, perché difficilmente si va tra loro ( v. lettere di p. Zanotelli da Nairobi ). b) Nella pastorale ordinaria, la carità appare spesso come cosa secondaria; catechesi, culto e sacramenti costituiscono la sostanza della pastorale, la carità si delega alle istituzioni specializzate di cui sopra, e ad esse ci si collega con giornate particolari annuali, mensili o saltuarie. Nel Mondo La carità dei " cristiani " ( che fino al 1500 coincidevano con gli " europei " ) non ha impedito, nel corso degli ultimi secoli, l'insorgere di gravissimi problemi, e di ingiustizie planetarie che ancora esistono e si aggravano, rischiando di condurre l'umanità alla catastrofe ( Sollicitudo reisocialis nn. 24, 26, 47 ). Accenniamone alcune: il colonialismo con l'annessa schiavitù necessaria per far arrivare i prodotti d'oltremare sui nostri mercati a prezzi concorrenziali con quelli europei ( finita legalmente nel 1888 ); le guerre mondiali; le corse agli armamenti ( fino all'attuale accumulo di potenziale esplosivo corrispondente a 3.000 kg. di tritolo per ogni abitante della terra ); l'indebitamento dei paesi poveri che convoglia capitali dai poveri ai ricchi; il degrado ambientale giunto a livelli tali che ( secondo il rapporto sullo " Stato del mondo " 1989, del " Worldwatch Institute " di Washington ), per salvare il pianeta in pericolo, l'umanità ha solo dieci anni di tempo, poi sarà troppo tardi ( L'Osservatore Romano, 12.02.1989 ); il degrado e l'inquinamento socio-culturale che, mediante l'invadenza e l'egemonia dei potentati economici, politici e militari, distrugge antiche culture e ancestrali equilibri interiori, togliendo senso alla vita e sospingendo verso l'evasione dell'alcolismo e le droghe. Un dato basta a definire l'assurdità dell'attuale situazione: ogni minuto primo muoiono nel mondo 25 bambini per denutrizione o mancanza di medicine di poco costo ( UNICEF ), mentre nello stesso minuto si spendono nel mondo 2 miliardi di lire per armamenti e apparati militari. Diverse valutazioni Di fronte a questa situazione ( che in parte ha avuto origine dentro l'area cristiana ) si danno, nella Chiesa, due tipi di valutazioni. Una propende a scaricare ogni responsabilità dei mali su chi sta fuori o si è allontanato dalla Chiesa ( il sottosviluppo è frutto di culture non cristiane; la schiavitù, le guerre, la corsa agli armamenti sono conseguenze del progressivo distacco di popoli e culture dalla Chiesa, ecc. ). Secondo questa ipotesi, per così dire, svuotandosi le Chiese si riempiono gli arsenali e si degrada la qualità della vita; per cui, basterebbe tornare a riempire le Chiese che " la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato " sarebbero assicurate. L'altra analizza, invece, le responsabilità dei cristiani e delle istituzioni ecclesiali e cerca, nella pastorale e nella teologia, le lacune e le deformazioni che hanno consentito il proliferare di tanti mali anche ( e a volte in particolar modo ) in area cristiana. In questa direzione andrebbe la Teologia della Liberazione ( TdL ) dell'America Latina, che insiste su un forte impegno del cristiano nel sociale e sulla scelta preferenziale dei poveri. Giudicare la Storia alla luce della Parola Alla luce della Parola di Dio, della Tradizione e del Magistero cerchiamo ora di formulare un giudizio su quanto esposto sopra, in vista di un agire più conforme alle istanze evangeliche. Già nella prima parte del presente capitolo, parlando di " Beatitudini ", abbiamo visto ciò che il Vangelo propone in rapporto al conflitto ricchi-poveri. Ora tentiamo di ampliare il discorso. - Sacra Scrittura e Tradizione Sia l'Antico che il Nuovo Testamento fanno, del rapporto con i poveri, la misura del nostro rapporto con Dio e il banco di prova della pietà e religiosità ( AT: Is 1,10-20; Is 58,5-12; NT: i passi sono innumerevoli, basti uno per tutti, Mt 25,31-46 ). Il rapporto con i poveri, proposto dalla Parola di Dio, non è di semplice assistenzialismo, ma di uguaglianza. Giungere, cioè, alla comunione profonda con i poveri, in modo che non siano più riconoscibili come tali e non siano più oggetto di particolari attenzioni, ma siano, possibilmente, come gli altri, capaci di ruoli attivi, sia apostolici che sociali. Come un grido di trionfo, Luca dice che nella comunità di Gerusalemme " nessuno era bisognoso ", perché i beni erano in comune ( At 4,32-35 ). Paolo dice che, a Corinto, erano proprio i poveri a costituire la comunità cristiana ( 1 Cor 1,26-30 ) e a testimoniare il Vangelo. Anche la non violenza è un ideale per i primi cristiani; si veda Mt 5,38-48; Rm 12,17-21; 1 Pt 2,19-25; 1 Pt 3,8-17. Ma gli ideali e i valori del Regno, per essere vissuti non solo individualmente, ma socialmente, hanno bisogno di mediazioni storielle, perché non tutti nella società sono santi e ugualmente motivati e si possono creare inconvenienti. Nelle prime comunità cristiane, ugualitarie e non violente, c'è subito chi se ne approfitta e vive sulle spalle degli altri. Paolo deve intervenire dando la norma: " chi non vuoi lavorare, non deve neanche mangiare … " ( 2 Ts 3,6-15 ). Rimane, comunque, la tensione verso il valore dell'uguaglianza e della non violenza. Sulla non violenza, si vedano i passi delle lettere di Paolo e Pietro citati sopra, e sull'uguaglianza, come valore verso cui tendere, si veda 2 Cor 8,1-15. Il NT ci avverte che in queste tensioni non solo i singoli cristiani possono mancare, ma anche le comunità, cioè le istituzioni ecclesiali. Si veda Gc 2,1-17 e Ap 3,14-22. - L'offuscarsi dei valori Storicamente, dobbiamo riconoscerlo, siamo arrivati non solo a diminuire le tensioni verso i valori del Regno, ma addirittura a consacrare le violenze come azioni che glorificano Dio, e la disuguaglianza prodotta dalla ricchezza come segno della benedizione di Dio; tollerando, in pratica, il ritorno di schiavitù di proporzioni faraoniche. San Bernardo, predicando le crociate, diceva: " Il soldato di Cristo … giova … a Cristo se uccide … In occasione della morte di un pagano, il cristiano si gloria in quanto Cristo viene glorificato … " ( Servitium n. 58, 1988,p.39 ). Il colonialismo è stato difeso anche dai cattolici fino a qualche decennio fa. Non si è contestata la nascita di nuovi imperi; san Giovanni ( Ap 18,1-24 ) cantava, invece, come un trionfo del Cielo, la caduta di Babilonia, cioè dell'imperialismo di Roma. La rivista cattolica francese L'Ami du Clergé, ad esempio, negli anni '30, difendeva il diritto della Francia a sottomettere con la forza le popolazioni marocchine e occuparne il territorio, con questi ragionamenti: " Il nostro suolo non produce più a sufficienza e il nostro commercio ha bisogno di sbocchi. Ora noi troviamo in Marocco la fertilità del suolo e gli sbocchi commerciali; noi ci andiamo, e se, dopo proposte amichevoli, i 'riffani' ci serrano in faccia le porte, noi le sfondiamo, come il povero affamato sfonda la vetrina del fornaio, per pigliare il pane quotidiano necessario al nutrimento " ( da La Civiltà Cattolica, vol. I, 1936, p. 394 ). Quando l'Italia invadeva l'Abissinia, La Civiltà Cattolica scriveva: " … la necessità vitale può legittimare l'occupazione di una parte del territorio coloniale per sovvenire ai bisogni della vita individuale … ". Forse, i cristiani, preoccupati dei buoni rapporti con il potere economico e politico per mantenere la possibilità di predicare il Vangelo ( si veda 1 Tm 2,1-4 ), hanno trascurato l'incarnazione dei valori evangelici ( in particolare, della scelta preferenziale dei poveri ) nella cultura, nell'economia e nella politica internazionale. Oppure hanno creduto talmente alla " mano invisibile " ( che fa il bene di tutti mentre ognuno persegue i propri interessi privati ) da dimenticare le istanze evangeliche. Quella infondata spiritualità miracolista della " mano invisibile " contrasta infatti con una autentica spiritualità pasquale ed eucaristica. Proviamo a pensarci. Laicità e globalità nella morte di Cristo L'Eucaristia ci costringe ad una spiritualità veramente laica ( non laicista ); ci costringe, cioè, a una comprensione della storia che esclude scappatoie miracolistiche. " Fate questo in mia memoria ". Fare memoria della morte di Cristo, il Figlio di Dio, vuol dire ricordare la radicale serietà e laicità della nostra storia umana e la conseguente responsabilità che ognuno deve assumere. Se noi, con il nostro egoismo, con il nostro pensare soltanto al nostro bene senza preoccuparci di quello degli altri, seminiamo morte nel mondo, non c'è nessuna " mano invisibile " e nessun intervento miracoloso di Dio che ci salvi dalle conseguenze. Nemmeno quando l'egoismo umano provoca la morte del Figlio di Dio, Dio interviene miracolosamente. " Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce e ti crederemo " ( Mt 27,40 ). Ma non scende; non scende per sfatare ogni ipotesi di " mano invisibile ". Dio non è disposto ad intervenire miracolosamente per riparare le conseguenze del nostro egoismo irresponsabile. " Non tentare il Signore Dio tuo! " ( Mt 4,7 ). È disposto invece a darci un " cuore nuovo "; e proprio per questo Cristo non retrocede di fronte alla morte; perché spera che anche il peccatore, il nemico, davanti a quella morte, si converta e viva. " Questo è il calice del mio sangue … versato per voi e per tutti in remissione dei peccati … " ( dalla Messa ). La morte e resurrezione di Cristo è, dunque, la conferma che si può risorgere dall'egoismo, si può essere uomini nuovi, che pensano al bene grande, al bene " di tutto l'uomo e di tutti gli uomini " ( PP 14 ) anche nelle piccole scelte del quotidiano. Si può " pensare globale e agire locale "; la " Comunione " è la conferma che in questo, sì, che Dio ci aiuta, ci da la sua vita, la sua forza, il suo Spirito; basta crederci e cominciare: " Chi mangia la mia carne … ha la vita eterna " ( Gv 6,54 ). I miracoli del Vangelo non sono quindi una prova dell'agire saltuario e miracolistico di Dio nella storia, ma il segno della direzione in cui Dio costantemente agisce attraverso il nostro impegno storico. Se io, se noi, come Cristo, cerchiamo la gioia della famiglia ( Gv 2,1ss ), la salute dei fratelli ( Gv 4,46ss ), la loro liberazione dalla fame, dal peccato, dall'egoismo ( Gv 6,1-70 ), dall'oscurità e dall'emarginazione ( Gv 9,1ss ), sfiducia ( Gv 21,1ss ); se noi cerchiamo tutto questo, sappiamo di non essere soli, siamo in " comunione " con Dio, lo Spirito di Dio agisce in noi e potenzia la nostra azione, il nostro faticare nella storia non sarà inutile; Cristo non è rimasto nel sepolcro, ma è risorto, e tornerà per dare completezza e perfezione al regno di Dio che già viene nella storia mediante l'impegno di uomini e donne di buona volontà, sostenuti dalla grazia di Dio. Le conferme del Magistero Il Concilio Vaticano II, soprattutto con la Gaudium et spes, riporta l'attenzione sulla politica e l'economia e pone le basi per un ritorno a posizioni più profetiche e meno compromesse con i poteri mondani; da segnalare le encicliche di Giovanni XXIII che precedono o accompagnano il Concilio: Mater et Magistra e Pacem in terris. Ma è la Populorum progressio ( 1967 ), di Paolo VI, che introduce una analisi strutturale delle situazioni di povertà, e anticipa l'idea di un nuovo ordine economico ( e politico ) internazionale ( NOEI ) ( nn. dal 56 al 61 ); idea ripresa da Octogesima adveniens ( 1971 ) al n. 43, e da SRS, pure al n. 43. Queste novità danno origine, in America Latina, ai documenti di Medellin ( 1968 ) e Puebla ( 1979 ), dove chiaramente ( usando le stesse parole di Giovanni Paolo II ) si parla di " Meccanismi che … a livello internazionale, producono ricchi sempre più ricchi a spese di poveri sempre più poveri " ( Puebla n. 30 e 1264 ). Meccanismi che, logicamente, vanno cambiati, con politiche ed economie diverse dalle attuali. Avendo, però, dei costi per i paesi più ricchi, i cambiamenti strutturali necessari devono trovare nella base popolare una disponibilità a cambiare nella propria vita quel che c'è da cambiare: consumi, stili di vita, uso dei beni, ecc. ( Populorum progressio nn. 47 e 84 ); convinti, però, che questo è il prezzo non solo del benessere altrui, ma anche della propria pace ( Populorum progressio nn. 49 e 87 ). La Sollicitudo rei socialis ripropone con forza queste tematiche e le interseca con il problema ambientale, sviluppando l'idea di " interdipendenza " ( SRS nn. 9 e 34 ). Per la prima volta appare l'espressione, " strutture di peccato ", propria della Teologia della Liberazione, cioè, meccanismi, organizzazioni economiche e politiche che minacciano di morte l'umanità; prima fra esse, la divisione in blocchi contrapposti ( SRS n. 36 ). Alla radice di tutto, la " brama esclusiva del profitto " e la " sete del potere " ( n. 37 ); di conseguenza, la necessità di profondi cambiamenti personali e comunitari con proiezione sul sociale e sul politico. Nella conclusione, al n. 47, la SRS propone, " a tutti ", un cammino di cambiamento personale, familiare e sociale, e " misure ispirate alla solidarietà e all'amore preferenziale per i poveri "; misure che, allo stesso tempo, rappresentano un intervento in favore della " salvaguardia del creato "; perché appare sempre più evidente che gli interessi degli " ultimi " coincidono, ormai, con quelli di tutta l'umanità, e che " giustizia, pace, salvaguardia del creato " sono tre valori profondamente collegati e mete raggiungibili per uno stesso cammino di cambiamento. E il cammino dei " nuovi stili di vita " e dei " nuovi modelli di sviluppo " che i paesi più industrializzati devono ormai intraprendere. In questo senso è molto chiaro l'appello dell'enciclica Centesimus annus ( 1991 ). Al n. 52 si legge: " … il povero - individuo o Nazione - ( per migliorare la propria condizione mediante il lavoro ) ha bisogno che gli siano offerte condizioni realisticamente accessibili. Creare tali occasioni è il compito di una concertazione mondiale per lo sviluppo, che implica anche il sacrificio delle posizioni di rendita e di potere, di cui le economie più sviluppate si avvantaggiano. Ciò può comportare importanti cambiamenti negli stili di vita consolidati, al fine di limitare lo spreco delle risorse ambientali ed umane, permettendo così a tutti i popoli ed uomini della terra di averne in misura sufficiente … " ( n. 52; si vedano anche i nn. 36-38 ). Questa " concertazione mondiale per lo sviluppo ", di cui parla la Centesimus annus, non è una pura ipotesi, o peggio, una lontana utopia, ma è qualcosa che, a livello di Nazioni Unite, si tenta già di fare. Nel 1992 c'è stato il " Vertice di Rio " su " sviluppo e ambiente "; nel marzo del 1995 ci sarà il " Vertice di Copenaghen " sullo " sviluppo sociale ". L'intento di questi vertici è proprio " una concertazione mondiale " per il bene di tutti, generazioni future incluse; ma i risultati sono assai deludenti perché, come dice la Centesimus annus, ciò " implica anche il sacrificio delle posizioni di rendita e di potere di cui le economie più sviluppate si avvantaggiano "; e nessun Governo se la sente di affrontare le reazioni negative di una base che, illusa dai mass-media, tende a stare economicamente sempre meglio, e non vede perché dovrebbe cambiare in direzione di austerità i propri " stili di vita consolidati " all'insegna del consumismo e dello spreco. Per avere consensi e governare, oggi, bisogna illudere la gente che potrà stare ancora meglio di quel che sta e consumare di più. Le ultime elezioni e i sondaggi di opinione, non solo in Italia, confermano proprio questo fenomeno e questa irresponsabile tendenza. Agire - Nuovi stili di vita Essere operatori di pace dentro l'antico, e sempre nuovo, conflitto ricchi-poveri, oggi significa andare decisamente contro corrente, cioè contro l'opinione corrente ( maggioritaria ) della possibilità di un consumismo senza freni; e in concreto, significa affrontare l'avventura della testimonianza di nuovi stili di vita. È questo il messaggio lanciato dal " Comitato Ecclesiale per la Campagna contro la fame nel mondo " ( formato da Caritas Italiana, Istituti missionari, Centri Missionari, ecc. ). Riporto qualche stralcio dell'" Appello di Pentecoste 1994: Per la vita di tutti cambiarne la nostra ". Dall'" Appello di Pentecoste " " Ciò che appare sempre più urgente e indispensabile è un grande salto di qualità nei comportamenti di base. Una rivoluzione culturale, una istanza etica nelle scelte economiche iniziali, nelle domande di base. Un approccio nuovo al lavoro, al mercato, al risparmio, al voto. In questi ambiti non è più possibile un approccio individualista, una ricerca del proprio interesse privato, e basta; sarebbe il contrario del Vangelo e delle logiche della vera Vita che è comunione. Così facendo, non si fa più l'interesse di nessuno, nemmeno dei propri figli, che saranno travolti da grandi squilibri mondiali. È necessaria una cultura della mondialità, una ricerca costante, in tutte le scelte di base, del bene comune, del bene di tutto e di tutti; e, per semplificare, del bene degli ultimi e dei più deboli. Ci conforta scoprire che ormai, tutto questo non è soltanto parola, discorsi, principi; ma anche timido inizio di un cammino concreto, vissuto, esperienze ed iniziative già in atto. Diamo, qui, soltanto i nomi di alcune di esse. Sono iniziative socio-economiche e politiche già avviate, di cui è indispensabile prendere atto ed interessarci: 'Imprese no-profit'; 'Commercio Equo e Solidale'; risparmio etico mediante 'Mutue per l'Autogestione' ( MAG ); 'Operazione Bilanci di Giustizia'; 'Controllo sul Mandato Elettorale' con operazioni tipo 'Democrazia è Partecipazione'; Obiezioni di coscienza; Volontariato e Boicottaggio ( non acquisto ) di prodotti iniqui. Certamente sono gocce in un oceano, piccoli semi che si sta gettando; ma dice il Vangelo: 'Se aveste tanta fede quanto un granello di senape, potreste dire a questa pianta: - Sradicati e trapiantati in mare - ed essa vi obbedirebbe' ( Lc 17,6 ). Fede, fiducia, che non siamo soli in questo impegno per il bene comune; lo Spirito Santo, Spirito di Vita e di Comunione, ci sostiene. Se rischiamo qualcosa, per il bene comune, disposti anche a perderci, faremo l'esperienza della Sua forza, del Suo sostegno, come già accadde nella prima Pentecoste, a Gerusalemme ( At 2,1-13 ). ( … ) In ambito ecclesiale, proponiamo una pastorale dell'austerità. Qualche parrocchia più sensibile e 2, 3 diocesi, in Italia, potrebbero studiare, inventare e dare inizio alla sperimentazione di una pastorale promotrice di stili di vita più austeri. Ciò che oggi manca è proprio l'esperienza, il vissuto proponibile ". " Operazione Bilanci di Giustizia " BCP, con l'" 0perazione Bilanci di Giustizia " ( segnalata sopra nell'Appello ) si propone proprio l'offerta di un " vissuto proponibile ", cioè la testimonianza di famiglie che nel concreto della loro vita quotidiana si sforzano di mettere il bilancio familiare ( compere, consumi, risparmi, ecc. ) in sintonia con il " bene grande " di tutta l'umanità. Quello del BCP non è soltanto un appello, una proposta, un libretto, ma è una organizzazione messa in piedi proprio per offrire esperienze e testimonianze che si può cambiare ed è bello. Ci sono ormai un centinaio di famiglie che si cimentano quotidianamente in questa " Operazione "; ci sono gruppi sparsi un po' in tutta Italia che studiano le possibilità concrete di cambiamento, e c'è una segreteria nazionale che raccoglie e rilancia le varie esperienze. Ad essa rimandiamo per ulteriori informazioni ed approfondimenti. Qui ci basta aver dato il significato e il senso dell'iniziativa. " Operazione Bilanci di Giustizia ", presso MAG Venezia, Via dell'Ongaro 2, 30175 Marghera ( Ve ), tel. 041/5381479. Dentro la guerra - Ripensando a Sarajevo: profezia e politica Quando il conflitto è già degenerato in guerra aperta, distruttrice di vite umane, di città e villaggi, per chi vuol vivere la beatitudine relativa agli " operatori di pace ", quali possibilità rimangono? Non c'è più niente da fare, o rimangono ancora strade aperte? BCP, nei confronti del conflitto bosniaco, hanno tentato qualche cammino. Riporto di seguito l'esperienza " Sarajevo I ", così come l'avevo descritta a distanza di pochi giorni dall'averla vissuta. La città Sarajevo: una città assediata, bersagliata, disastrata, ma dove si continua a vivere e resistere. Una città simbolo, che non si arrende al progetto serbo-croato di spartizione e separazione etnica; perché vuole continuare ad essere, come è sempre stata, una città multinazionale e multirazziale. Una città dove serbi, croati e musulmani convivono pacificamente; dove ortodossi, cattolici, islamici ed ebrei conservano le loro fedi e tradizioni, e vanno pacificamente ai loro templi dislocati nel centro storico, quasi uno di fronte all'altro. Una città simbolo che potrebbe prefigurare una futura convivenza europea pacifica e multiculturale. Ebbene, in questa città ci sono stato anch'io, l'11 e il 12 dicembre '92, come uno dei 500 pacifisti dell'operazione: " Solidarietà di pace a Sarajevo ". L'idea di andarci L'idea di andare a Sarajevo, nata nel corso di un digiuno a Longare di Vicenza ( ex base atomica della NATO ), nei giorni dell'anniversario di Hiroshima e Nagasaki ( 6-9 agosto 1992 ), è stata portata avanti con incrollabile tenacia da don Albino Bizzotto, di Padova ( l'ideatore dell'appello " Beati i costruttori di pace ", del 1985 ), con la straordinaria collaborazione di persone piovute, per così dire, dal cielo, e di entità di ogni tipo, colore ideologico e confessione: dal settimanale Avvenimenti a " Radio Maria ", da ADI-STA al giornale Avvenire e a " Mosaico di Pace " di Pax Christi, dal vecchio pacifista aconfessionale, al giovane scout credente e non violento. Quasi assenti, invece, i tradizionali partiti, movimenti e associazioni schierati per la pace. Perplessi perfino alcuni membri della segreteria dei " Beati i costruttori di pace del Triveneto ". Il motivo di fondo di questo " andare a Sarajevo " lo esprime lo stesso don Albino, su Avvenimenti ( 6.1.93, p. 28 ): " La guerra è conosciuta fin nelle pieghe più profonde da chi la subisce quotidianamente non da chi la fa; per questo abbiamo scelto di esprimere la nostra opposizione ad essa non andando a manifestare sotto le finestre dei signori della guerra, ma partendo dalla identificazione del nostro quotidiano con quello delle persone che la " stanno subendo ". Una manifestazione di pace, dunque, in zona di guerra. Ci avevano detto ( Corriere della Sera ): Per la guerra nel Golfo, tante manifestazioni; e ora cosa fate per una guerra alle porte di casa nostra? Dove sono i pacifisti? La risposta era semplice: nel Golfo c'eravamo anche noi, italiani, a far la guerra, accanto agli USA, per il petrolio. Aveva una logica manifestare sulle piazze d'Italia, ma ora che senso avrebbe? Se qualcosa ha senso fare, è là, dove la guerra si gestisce e si subisce, appunto, a Sarajevo. E a Sarajevo siamo arrivati; e ci aspettavano. Rappresentanti delle varie religioni, autorità civili, responsabili del Centro Internazionale della Pace di Sarajevo e semplici cittadini, ci aspettavano. Speravano che potessimo arrivare, e non lo credevano impossibile. Tutti gli altri, invece, sì che lo ritenevano impossibile, e ci scoraggiavano ad andare: governi italiano, croato, serbo, ONU, ecc. Ma proprio qui stava il significato dell'impresa: tentar di dimostrare che " l'impossibile " è un po' più in là di quel che politicamente si pensa. " Calate le vostre reti per la pesca! ". Gridò Gesù dalla riva. " Abbiamo faticato tutta la notte senza prendere niente ". Risposero i discepoli. " Ma sulla tua parola … "; e gettarono le reti; e le reti si riempirono di pesci ( Lc 5,1-8 ). L'esperienza fatta Riaccendere una speranza, ecco il significato di questa iniziativa di pace. Riaccendere, come fa un fiammifero, che rischiara un istante e poi si spegne, ma lascia, dietro il suo fumigare, fiammelle accese che possono rischiarare insospettabili cammini da percorrere. I miracoli nel Vangelo hanno questo significato, indicano una direzione verso cui marciare sperimentando la forza dello Spirito. E noi siamo tornati da Sarajevo con la percezione di aver vissuto qualcosa di straordinario, che aveva del miracoloso, frutto, più che del nostro impegno, delle tante preghiere di singoli, comunità, monasteri che ci avevano accompagnato. Tornando, mi venivano alle labbra le parole del salmo 126: " Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia. Veramente grandi cose ha fatto il Signore per noi … ". E pensandoci, anche a distanza di giorni, non posso che riaffermarlo: un mare in tempesta forza 8, una nave che faceva acqua, e poi 500 persone su 10 pullman in zona di guerra, senza protezione dell'ONU, passando dall'uno all'altro fronte dove si incrociano gli spari tra nemici …; e tornare tutti 500, senza il minimo incidente, nemmeno una caviglia slogata, un ritardatario che perda il pullman, come capita in normali gite parrocchiali o scolastiche. Tutto questo ha veramente del meraviglioso, e appare, all'occhio di fede, come un segno, una indicazione di marcia verso cammini non violenti da percorrere, con coraggio; con più coraggio di ciò che dimostra oggi la grande politica dei potenti. " L'ONU dei potenti - diceva mons. Tonino Bello, a Sarajevo - si ferma alle porte, quando scende il tramonto. Noi, ONU dei popoli, ONU dei poveri, siamo entrati di notte a Sarajevo ". Tra gli applausi della platea immersa nel buio di un teatro rischiarato appena da deboli candeline, mons. Tonino, vescovo di Molfetta, presidente di Pax Christi italiana, uscito da pochi giorni dall'ospedale ( chemioterapia ), esprimeva così tutta la carica profetica di quell'assemblea: un migliaio, circa, di persone, tra italiani ( più di 450 ), spagnoli, inglesi e bosniaci di Sarajevo; con di fronte, sul palcoscenico, tutti i capi religiosi e le autorità civili della città assediata, e i nostri due vescovi ( Bello e Bettazzi, vescovo di Ivrea ). Era il momento culminante di una operazione ritenuta da tutti i responsabili della politica non solo rischiosa, impossibile, ma anche controproducente, pericolosa per gli attuali " equilibri " bellici. E invece eravamo lì, come un segno che l'" impossibile " è un po' più in là di quel che si pensava. Un segno che anche per affermare e tentare la pace per vie non violente, vale la pena rischiare. In lontananza qualche scoppio di granata; ma non tale da spaventare. Ci eravamo fidati, in fondo, anche dei serbi; di coloro, cioè, che assediano e sparano su Sarajevo, ma che alla fine ( due giorni di attesa ) ci avevano consentito di attraversare il territorio da loro controllato ed entrare nella città assediata. Un rischio, ma non una follia, perché anche i serbi rimangono uomini. Per risolvere i problemi con la forza delle armi e con le guerre, quanto hanno rischiato e pagato i popoli, in tutti i tempi e tutti i luoghi! Quanti scoppi sulle teste e sulla pelle della gente! E per risolvere i problemi pacificamente, con il dialogo, per vie non violente, che non si possa rischiare un po' di più di quanto stiamo facendo? Che sia proprio impossibile? Dopo Sarajevo, noi diciamo di no, non è impossibile, è ancora possibile. Il frutto dell'esperienza Coniugare la profezia che lo Spirito alimenta nel segreto dei cuori, con la politica e l'economia che concretamente fanno la storia e il futuro dei popoli, ecco il frutto futuro di questa impresa. Frutto, all'inizio, più intuito che ragionato; più sperato nell'inconscio, che programmato nell'azione; ma che ora ci appare come il significato più prezioso della nostra avventura. Frutto ancora acerbo, da far maturare con altrettanta tenacia di quella dimostrata dal nostro leader, don Albino Bizzotto, e altrettanta fiducia di quella dimostrata dai due vescovi: Bettazzi, il Patriarca, e Bello, il Profeta, della pace, come qualcuno li aveva definiti. Se ce ne fossero tanti di questi vescovi, come sarebbe più facile la " nuova evangelizzazione "! Ma quando parlo di profezia e politica cosa intendo? Mi spiego subito. Profezia e politica Per profezia intendo l'affermazione, la testimonianza personale dei valori in cui si crede: credo nella pace, nella fecondità della non violenza, nella solidarietà tra i popoli, e sono disposto anche a rischiare la mia vita ( non quella degli altri ) per testimoniare a me stesso e agli altri che tutto questo è un valore, una meta da raggiungere, verso cui camminare; non mi importa se i costi, i rischi, non valgono la candela, mi basta testimoniare, indicare la meta. Nel momento profetico non si calcola, non si confrontano i costi con i risultati, ma soltanto i valori in cui si crede, con se stessi, con la propria vita. La politica, invece, è l'arte del bene comune, l'arte del possibile. Qui non si gioca più in proprio, si assume la responsabilità della famiglia, del gruppo della società, del mondo. E allora non posso far correre agli altri i rischi della profezia. Qui bisogna fare calcoli e vedere se i costi, i rischi valgono i risultati; qui bisogna valutare passo dopo passo, come si fa in una cordata sul ghiaccio; non basta andare in direzione della meta, bisogna evitare i passi falsi, il ponte di neve che copre il crepaccio, per non cadere dentro. Qui si fa quel che si può, a volte il male minore, a volte si torna indietro, per poi riprendere. Ma detto questo bisogna subito aggiungere che se la politica perde di vista la profezia, cioè quella testimonianza di valori e mete che lo Spirito suscita in ogni comunità, nel cuore spesso dei più semplici; se la politica non vi presta attenzione e ascolto, è come se perdesse l'orientamento, la meta, i valori; addio bene comune! Imperverserà violenza razziale e violenza mafiosa; tangentopoli e massoneria; squallore politico e ingiustizie sociali. Ed è ciò che purtroppo sta accadendo. Voi capite allora quanto sia necessaria oggi la profezia! E se è necessaria, certamente, lo Spirito sta soffiando con potenza nei cuori dei più semplici, perché non manchi questa testimonianza di cui la società e l'umanità intera necessitano come acqua pura di sorgente e aria fresca di montagna. La sorprendente risposta all'appello per un intervento pacifico a Sarajevo, lanciato da Longare nel corso di un digiuno ( 900 adesioni, 550 effettive ), è stata la conferma che lo Spirito soffia anche oggi, nonostante tutto, e la profezia non manca. E la realizzazione del progetto ( in 500 a Sarajevo ) è stata la conferma che la profezia si può coniugare con la politica. I singoli partecipanti, infatti, hanno fornito l'afflato profetico all'operazione Sarajevo; gli organizzatori, adottando il metodo del passo dopo passo e della costante consulta della base, hanno fatto politica a partire dalla profezia. Ai politici di professione e alle istituzioni, ora, il compito di tener conto di questa esperienza. A quando lo studio, la ricerca, la proposta di una " difesa popolare non violenta " in Italia? E a livello ONU, oltre a una doverosa formazione e crescita di una propria forza armata ( i Caschi Blu ), congiunta a una riduzione delle Forze Armate dei singoli Stati ( una forza armata ONU che ponga fine all'appalto degli interventi militari agli USA ); oltre a questo, a quando lo studio di un corpo popolare di pace, per interventi sul tipo dei 500 a Sarajevo? Interventi per una distensione degli animi e un ulteriore tentativo di soluzione pacifica dei conflitti, da popolo a popolo, e non solo da governo a governo, prima di eventuali interventi di " polizia internazionale "? Ecco alcune piste di ricerca politica aperte dall'esperienza di Sarajevo. Perché non ho fatto cronaca Vi sarete accorti che non ho fatto cronaca, ma piuttosto considerazioni sui fatti. A dir il vero, sentivo un certo imbarazzo a parlare dell'esperienza di Sarajevo. Ne hanno già parlato e scritto così bene, con tanta freschezza, molti dei partecipanti, che aggiungere dell'altro mi pareva inutile e indiscreto. Improvvisati giornalisti che hanno avuto la costanza di annotare, a caldo, le impressioni lungo il tragitto. Li guardavo con ammirazione. Io che avevo già parlato e scritto tanto di pace, di giustizia e non violenza, io, su quella nave, in quel pullman, tra quegli amici improvvisati, fra quei 500, mi sentivo allievo, tornato a scuola. Che meravigliosi! Quante lezioni ho ricevuto! Persone di ogni tipo. Tra i 500, c'erano 5 parlamentari, 2 vescovi, una trentina di sacerdoti, 8 suore, catechisti e catechiste, scout e tanti tanti non praticanti, anche aconfessionali, ma credenti negli stessi valori, come ci tenevano a precisare. Uomini e donne, molti giovani, ma anche anziani e genitori, papa e mamme, alcuni con il " mandato " del coniuge che non aveva potuto venire, o dell'intera famiglia ( come Natalina, da Preore, Trento, che portava con sé una lettera ammirata ed entusiasta della figlia maggiore, quindicenne ), altri usciti invece di casa con la convinzione di essere soltanto compatiti e tollerati. A loro, certamente, partecipare era costato molto di più di quanto era costato a me. E quando, nei piccoli gruppi di " affinità " in cui eravamo suddivisi ( 15-20 componenti ), era il momento di decidere il nuovo passo da fare ( se andare avanti o fermarci ), la componente profetica ( che non calcola ) aveva sempre la meglio. Io, a volte, mi trovavo solo a ricordare che c'era anche l'aspetto politico da tener presente, il calcolo dei rischi e dei risultati, perché eravamo in tanti, e c'era una responsabilità collettiva. Ecco perché non faccio cronaca: ho paura di rovinare qualcosa che altri hanno vissuto e raccontato con una carica profetica molto più grande della mia, e dai quali ho avuto soltanto da imparare. Imparare che cosa? Ripensare il mondo Imparare a ripensare il mondo; che non è poi così meschino o perverso come spesso siamo tentati di credere. Lo Spirito semina, semina quando e dove vuole, nel cuore di credenti e " non credenti ", vecchi e giovani, soprattutto giovani. " L'antico è già accaduto - diceva il Signore per bocca del profeta Isaia - qualcosa di nuovo io vi annuncio, prima che germogli, ve lo faccio udire " ( Is 42,9 ). E più avanti: " Non pensate più alle cose passate! Ecco io faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? " ( Is 43,18-19 ). Una politica che non tiene conto di ciò che " germoglia " è una politica miope, che dovrà per forza farsi da parte e lasciare spazio a chi sa vedere. Se queste ricchezze interiori ci sono nella società, perché non tenerne conto? Perché non pensare niente di nuovo? O meglio, soltanto nuove armi, e " nuovi modelli di difesa ", a favore sempre dei più forti, perché abbiano sempre ragione? È così che si costruisce il domani? Ecco la lezione che ho ripassato a Sarajevo! Già l'avevo studiata, ma è così facile dimenticarla, che Sarajevo mi ci voleva. Sul piano più strettamente di fede, sono stato riconfermato in un ragionamento che già facevo: è vero, gli Apostoli e i primi discepoli sono finiti tutti " male ": uccisi dalle persecuzioni. Ma prima di quella fine hanno fatto in tempo tutti a sperimentare la meravigliosa potenza dello Spirito di Dio; che ci sostiene e sospinge quando abbiamo preso la giusta direzione del servizio, del dono, del rischio, dell'amore anche ai nemici. Forse che noi, presa la stessa direzione, non sperimenteremo niente? Non vedremo le " meraviglie di Dio " ( At 14,26 )? Sarajevo conferma che vedremo. Come già ci diceva Isaia: " Allora brillerà fra le tenebre la tua luce … " ( Is 58,8-12 ). E allora, avanti, con coraggio, con più coraggio! Come potranno averne i politici se noi credenti, praticanti, anche comunitariamente, come istituzione visibile, non ne abbiamo? Come potranno crederci se noi poniamo le nostre sicurezze e mostriamo di credere soltanto nel " partito dei cattolici ", cioè nel potere, e nell'8 per mille? La prospettiva terrena ed escatologica delle beatitudini di Anna Maria Canopi Forse nessuna pagina del Vangelo ha raggiunto un'ampia divulgazione e notorietà pari a quella delle beatitudini. Il discorso della montagna richiama in certo modo quello di Mosè dopo la promulgazione della Legge, da parte di Dio, sul monte Sinai. Si tratta di una " magna charta ", di una consegna riguardante la condotta dei seguaci di Cristo, i quali vivono in una perpetua e irriducibile tensione tra la situazione presente, in un mondo empio e ostile, e quella futura, dell'eterna beatitudine, raggiungibile con la fedele osservanza della legge del Signore e la totale dedizione alle cause del suo Regno di giustizia e di pace, di verità e di amore. Tutte le beatitudini sono formulate in modo che risulti chiaramente evidenziata questa tensione escatologica in un contesto attuale di estrema precarietà. " Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti … Beati …". I beni della vita futura non sono però soltanto " visti da lontano ", ma in certo modo già anticipati e goduti nella speranza. E questo perché la speranza cristiana non è un'utopia, un sogno o un'illusione, ma una reale partecipazione, in Cristo risorto, all'eredità della vita eterna. Quella moltitudine … e l'umanità di oggi Vedendo le folle che lo seguivano, avide di ascoltarlo, Gesù salì sulla montagna e prese ad ammaestrarle. Il discorso gli sgorgò dal cuore proprio posando lo sguardo su tutta quella povera gente che portava i segni di molte tribolazioni e proprio per questo era avida di ascoltare da qualcuno un messaggio di consolazione. Una situazione ricorrente che, ai nostri giorni, è resa nota dai mass media nella sua enorme dimensione mondiale. E forse non meno che ai tempi di Gesù, oggi le moltitudini dei poveri e tribolati cercano - più o meno consapevolmente - una possibilità di sopravvivenza in qualsiasi messaggio religioso o ideologico, sociale o politico che venga loro offerto. Si tratta, purtroppo, di altre " beatitudini " svendute a buon mercato, ma che sono di fatto fuochi d'artificio, effimeri quanto vistosi e abbaglianti. Oppressa dalla stessa eccedenza prodotta dal progresso tecnico e scientifico, e soprattutto delusa nel presuntuoso tentativo di carpire le chiavi del mistero dell'essere e della vita, l'umanità del nostro tempo ha, sia pur confusamente, una struggente nostalgia di semplicità e di sobrietà, di ritorno a uno stile di vita che sia a misura d'uomo - non di superuomo - e che permetta di guardare al futuro, immediato e lontano, con la sicurezza di chi lo sa non in balia delle orgogliose progettazioni umane, ma guidato dalla provvida e sapiente regia di un Dio creatore e salvatore. Beati i poveri in spirito … ! Non il possedere molto qui, ora, ma l'essere insieme con tutti gli altri uomini impegnati nella collaborazione per fare dei beni di questo mondo un mezzo idoneo a raggiungere quelli del regno dei cieli. Quali sono, allora, i " poveri " di oggi che, anelando a quel possesso, si tengono liberi dalle nuove schiavitù e idolatrie che proliferano senza misura sotto l'influsso di una mentalità dominata dall'egoismo e dall'utilitarismo? È una domanda cui si vorrebbe trovare una risposta chiara e concreta specialmente nell'ambiente cristiano. Beatitudine e conflitto con la logica del mondo Le beatitudini urtano fortemente contro la logica dell'autoaffermazione e della prepotenza che sta alla radice di tutte le tensioni in atto nella società - di oggi come di ieri - quando rifiuta la relazione di dipendenza da Dio. Esse operano un profondo sconvolgimento in coloro che accolgono il Regno come un seme e si aprono nella speranza del fiore e del frutto che tale seme darà. Il fascino di questa " novità " promana dalla stessa persona di Gesù nel quale tutte le beatitudini hanno piena realizzazione. Nessuno più di lui è vissuto sulla terra in totale apertura al Cielo - cioè al Padre, nello Spirito - essendo il Verbo divino venuto nella carne per introdurre nel nuovo " eone " l'umanità e il cosmo riscattati dal disordine e dalla caducità causati dal peccato ( Rm 8,18-27 ). È proprio questo processo di rinnovamento e di trasformazione - che avviene sotto l'azione dello Spirito Santo - a rendere possibile la gioia nella sofferenza, la " speranza contro ogni speranza " nella drammaticità delle situazioni in cui il cristiano si trova a vivere e a testimoniare la propria fede. Quanto più la mentalità del mondo esalta, ad esempio, la ricchezza, la forza, la potenza e le persegue calpestando senza scrupoli la verità e la giustizia, la libertà e la pace, tanto più il cristiano, che voglia essere tale non solo di nome ma anche di fatto, deve affrontare il conflitto che si crea nel rifiuto dei falsi valori e nell'assunzione di quelli veri. La povertà in spirito - che è la beatitudine nella quale si possono vedere incluse tutte le altre - rende veramente liberi e quindi capaci di trascendere le cose provvisorie, ossia di scorgere in esse l'ambiguità ed evitare di subirne i più rischiosi condizionamenti. È allora che si realizza la parola di Gesù: " Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo " ( Gv 16,20-21 ). Il figlio di Dio, l'uomo nuovo, libero e felice è il risultato di una dolorosa gestazione. Beati i poveri in spirito …, quindi beati gli afflitti, i miti, i perseguitati per amore della giustizia, ossia per la ricerca sincera di Dio, del suo regno di santità, di amore e di pace. Beati, sì, ma a prezzo di una lotta incessante, di un travaglio quaggiù mai pienamente risolto. Beatitudine e angoscia Il presente e il futuro dei verbi delle beatitudini indicano appunto questo già e non ancora che tiene in forte tensione la vita del cristiano nel mondo. Sta qui la ragione dell'angoscia che non risparmia nemmeno quanti, secondo un certo modo di intendere la vita di fede, dovrebbero avere un'incrollabile sicurezza davanti alle alterne vicende della storia. Di fatto sono molti i cristiani che sembrano fare naufragio insieme a quelli che non credono. Segno di debolezza o mistero di solidarietà? L'uno e l'altro, forse, poiché nella Chiesa continua il mistero dell'incarnazione, il coinvolgimento di Cristo con la precarietà della condizione umana, il suo inabissarsi nell'estrema povertà e miseria dell'uomo, il suo 'grido dal profondo' della solitudine e dello smarrimento: " Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? ". È infatti nel suo corpo mistico che Egli prolunga sulla terra, fino alla consumazione dei secoli, la sua kenosi. Ma questa è ormai per sempre attraversata dal raggio della nuova luce esplosa dal sepolcro rimasto vuoto. Per quanto oscura, l'angoscia del cristiano non può più essere senza uno spiraglio di speranza; per quanto amara, non può più essere senza un qualche sapore di beatitudine. Lo si può constatare ogni giorno nel vedere come, in analoghe situazioni di prova, si comportano le persone che credono veramente o che non credono. Si tratti di una grave malattia o di drammi familiari o sofferenze morali, tutto può essere vissuto in una prospettiva diversa, secondo la concezione che si ha della vita. Per chi crede in Dio e nella vita eterna " le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi " ( Rm 8,18 ); esse sono anzi il mezzo provvidenziale scelto da Dio " allo scopo di renderci partecipi della sua santità " ( Eb 12,10 ), poiché lo stesso Verbo incarnato - rivestito della nostra debolezza ( Eb 5,3 ) - è stato reso perfetto mediante la sofferenza fino alla morte, a vantaggio di tutti, cioè per " portare molti figli alla gloria " ( Eb 2,9-10 ). In questo modo di situarsi tra il presente e il futuro, come sulla frontiera dell'angoscia che sfocia nell'impossibile speranza, il cristiano non evade dalla cruda realtà del quotidiano e quindi dall'impegno di costruire la storia, lo fa anzi con maggiore efficacia tenendosi costantemente orientato verso il fine che le da senso e valore. A proposito della beatitudine degli operatori di pace - che include quella dei poveri, degli afflitti, dei miti, dei puri di cuore, dei perseguitati per amore della giustizia … - Olivier Clément poté affermare: " La dolcezza dei forti trasforma l'uomo in un albero di pace [ … ]. Il nostro tempo ha bisogno di uomini che siano come alberi, carichi di una pace silenziosa che metta radici contemporaneamente in piena terra e in pieno cielo " ( Riflessioni sull'uomo, Jaca Book, Milano 1975, p. 28 ). Beatitudine e conversione Mettere radici contemporaneamente in piena terra e in pieno cielo non significa affatto tenere il piede in due staffe, scendere cioè al compromesso di non essere ne totalmente di Dio ne totalmente del mondo. È invece lo sforzo continuo di trasfigurare le realtà presenti impregnandole di spirito di fede, immergendole nella grazia, facendo loro compiere, insieme con noi, il passaggio liberatore ( Rm 8 ). E non è proprio questa la dimensione contemplativa che svela il vero volto della Chiesa pellegrinante nella storia verso l'escaton e la ricapitolazione di tutto in Dio? Quali conseguenze si avrebbero a tutti i livelli della vita sociale, politica, ecclesiale, familiare … se il Vangelo delle beatitudini forgiasse veramente le menti e i cuori dei credenti! Il capovolgimento della logica che traspare dal discorso della montagna è tale da richiedere a ciascuno una profonda conversione, una metanoia senza concessioni al vecchio uomo. Giustamente osserva J. Dupont che " le beatitudini, portatrici di un messaggio teologico e cristologico, di un insegnamento che richiede una trasformazione delle nostre maniere di pensare e di agire, sono anzitutto una proclamazione di felicità. Non dobbiamo dimenticarlo. Proclamazione di felicità e non solo promessa di felicità. Le beatitudini proclamano beati quelli di cui parlano. I poveri … sono beati e lo sono effettivamente nel momento in cui viene loro detto. Tutt'al più questi hanno bisogno di prenderne coscienza " ( 'Le beatitudini', EP, voi. n, pp. 1055-1056 ). È questo bisogno che molti hanno di prenderne coscienza a far sentire l'urgenza di una nuova evangelizzazione. Ogni indugio in questo impegno lascia sempre più spazio ad altre proposte ( sètte, religioni esoteriche, magia ecc. ) che offrono illusioni di felicità e hanno facile accoglimento in mezzo a tanta gente pressata dalle prove della vita e priva di autentica formazione cristiana. Tale è il bisogno che l'uomo del nostro tempo ha di trovare uno sbocco al non-senso e all'infelicità che lo invade, da non darsi il tempo di riflettere e di discernere: si aggrappa a ciò che si trova davanti come a un'ancora di salvezza, e spesso vi trova la totale alienazione. Non rientra forse in questo anche il fenomeno dilagante della droga? Si cerca un 'paradiso' effimero quanto un respiro cui segue la morte! L'impazienza, l'incapacità di sopportare ogni genere di sofferenza spinge a buttarsi nell'opposta direzione della salvezza. Se, infatti, si perde la prospettiva del futuro e il contatto con il mistero di Cristo redentore, nessuna delle situazioni presentate dalle beatitudini appare accettabile. All'orizzonte delle beatitudini c'è il regno di Dio, c'è un futuro legato a una promessa che impegna chi la riceve a vivere in conformità al Vangelo, a Cristo stesso, nel quale ogni beatitudine ha raggiunto il massimo splendore attraverso il patire. Proprio per questo Egli è la nostra 'beata Speranza'. Tutte le beatitudini convergono in quella dell'amore La paziente attesa del pieno compimento della gioia promessa comporta un continuo superamento della logica puramente umana, soprattutto della logica dell'utilitarismo egoistico. Si potrebbe perciò affermare che tutte le beatitudini - già strettamente coordinate tra di loro e quasi intrinseche le une alle altre - si concentrano sostanzialmente nell'unica, sovrana beatitudine dell'amore. È questa che ci fa varcare la frontiera della morte e che ci fa vincere " in virtù di Colui che ci ha amati " ( Rm 8,35-59 ), poiché in forza dell'amore diventiamo capaci di passare attraverso "la tribolazione, l'angoscia, la fame, la nudità, il pericolo, la spada ", senza venir meno, senza rinnegare la nostra identità di cristiani. Nella gioia del regno eterno si entra quindi fin d'ora, istante per istante, a condizione di essere 'servi fedeli' che lavorano alacremente, vigilando giorno e notte per non cedere alla tentazione della stanchezza e del disamore durante l'assenza del Padrone. L'amore che persevera nella fedeltà a tutta prova è già beatitudine per chi ama, perché è la Realtà che rimane in eterno e ci fa quindi già fissare lo sguardo 'sulle cose invisibili', su Dio stesso ( 2 Cor 4,17-18; Eb 12,1-4.22-24 ). Infatti " non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura " ( Eb 13,14 ) e già ci andiamo configurando ad essa quali cittadini del cielo che sono sulla terra come 'coloni'. Mentre si va già delineando in noi l'immagine dell'uomo celeste ( 1 Cor 15,49; 2 Cor 5,1-5 ); pregustiamo la gioia della piena comunione con Dio e tutti i suoi santi. Vivere nello spirito delle beatitudini evangeliche significa, quindi, rendere visibile fin d'ora - almeno in trasparenza - il mondo nuovo, anticipare nel gemito il canto dei redenti, nel pianto il sorriso di coloro ai quali Dio stesso tergerà le lacrime, nella dura fatica del combattimento della fede la pace della vittoria riportata dall'amore su tutte le forze ostili del male. L'amore, l'agape divina, straripando dal seno della SS. Trinità si è riversata sulla terra. Il fiume limaccioso uscito dalla bocca del drago ha tentato e ancora tenta di ingoiarlo, ma non ha potuto e non potrà mai prevalere. Le acque vive dell'agape divina zampillano nel cuore della Chiesa, nel cuore dei credenti, e il loro canto è lo stesso che udirono gli ebrei al passaggio del Mar Rosso e del Giordano, lo stesso che risuona nella Gerusalemme celeste sulla bocca di coloro che hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell'Agnello ( Ap 7,14 ). Beatitudine dell'amore raggiunta in pienezza attraverso il combattimento della fede e la sfida dell'impossibile speranza, attraverso la trama della storia, ciascuno avanzando a piccoli passi, ma lasciando una chiara impronta indicante la giusta direzione a quelli che passeranno dopo, anch'essi feriti dalla nostalgia della vera felicità, che è solo in Dio, anzi: Dio solo. Il problema della radicalità nel quotidiano di Teresa Legrottaglie Per parlare del problema della radicalità nel quotidiano è opportuno innanzitutto analizzare i termini in questione, per cogliere il loro significato autentico, tenendo conto anche del contesto in cui ci muoviamo. Secondo il vocabolario italiano Zingarelli, il termine " radicalismo " indica l'atteggiamento intellettuale di chi affronta le questioni risolutamente ed è portato a riformare dalle fondamenta. Radicale risulta quindi ciò che è attinente alla radice, che apporta mutamenti e trasformazioni sostanziali, dalla radice. Quali valori assumono allora questi termini quando il loro contesto è quello evangelico? Che vuoi dire per il Vangelo trasformare dalla radice? E inoltre, è possibile assumere un tale atteggiamento totale, energico, efficace nelle situazioni di vita che ci toccano ogni giorno? Le radici della vita secondo il Vangelo Cominciamo col dire che manifesto del radicalismo cristiano può essere considerato proprio il Discorso della Montagna: ad esso dobbiamo perciò guardare per recuperare le radici del vivere secondo il Vangelo. " Il messaggio ivi proposto appare di una sublimità davvero sconcertante: la risposta alla violenza con la mitezza, la proibizione della vendetta, la proposta della povertà evangelica, l'amore universale che abbraccia anche nemici e persecutori, esigono autentico eroismo. Chi legge queste pagine si sente interpellato a un impegno serio per vivere secondo una logica che può cambiare l'esistenza degli individui e trasformare la nostra società, rendendola meno ingiusta e violenta, anzi può " far spuntare sulla terra il fiore dell'amore, della pace e dell'autentica libertà ". Se questo è vero, quanto è grande la responsabilità di noi cristiani: abbiamo in mano la chiave della convivenza pacifica tra i popoli, e forse della stessa felicità degli uomini, e ce la lasciamo sfuggire! Il fatto è che a livello intellettuale tutti siamo convinti e affascinati dalla portata esistenziale e universale di questo messaggio, probabilmente in molti siamo disposti ad annunciarlo, perché altri si lascino attrarre dall'itinerario di vita in esso proposto, ma quanto siamo disponibili a lasciarci mettere in discussione dall'incontro con Gesù e con la sua Parola? Quanto spazio gli lasciamo nella nostra giornata? Quanto le nostre scelte quotidiane sono motivate e sostenute dalla logica del Vangelo? Eppure l'invito è chiaro: " Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi " ( Gc 1,22 ). Infatti: " si può udire la parola di Dio senza ascoltarla, la si può ascoltare senza accoglierla, la si può accogliere senza incarnarla nella vita ". E invece: " mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica ". " Ascoltano … mettono in pratica … " tutti verbi usati al presente, forse perché è proprio nell'oggi che si gioca la nostra credibilità. Verrebbe da chiedersi: quale valore ha l'oggi per noi? È il tempo della rivelazione di Dio, dell'azione dello Spirito Santo, dell'invito a rispondere all'Amore con l'amore? La nostra giornata, ogni nostra giornata è solo una data indicata dal calendario, oppure ogni ora della nostra esistenza racchiude in sé il mistero dell'amore che si dona e che chiede di essere ascoltato e donato a sua volta? Imparate da me … Abbiamo mai provato a mettere in pratica parole come queste: " Venite a me … imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete il riposo per le vostre anime " ( Mt 11,28-30 ). E ancora: " Vi esorto a camminare in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà e mitezza, con pazienza … " ( Ef 4,1-2 ) Infine: " Rivestitevi di sentimenti di tenera compassione, di bontà, di umiltà, di mitezza … sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente … " ( Col 3,12-13 ). Se lo abbiamo fatto, certamente abbiamo avvertito dentro di noi un profondo senso di libertà, di serenità, di gioia, oltre alla chiara percezione che è possibile disinnescare quelle bombe che esplodono in famiglia, nell'ambiente di lavoro, nel mondo ecclesiale, nella vita sociale e politica, quando assolutizziamo idee e posizioni, vedendole come le uniche possibili, precludendo così la via al dialogo, un dialogo sincero, sereno, costruttivo. Infatti " la mitezza è il volto delicatamente umile, paziente, benevolo, della carità evangelica ". È l'atteggiamento di chi, profondamente toccato dall'amore del Signore, si pone con delicatezza e attenzione nei confronti degli altri, fino a comprenderne limiti e debolezze. " Siate misericordiosi … " Come rispondere concretamente a questo invito? Cominciando col leggere la propria vita sotto il profilo della misericordia con cui Dio ci ha amati, lasciandoci toccare dalla gratuità del suo amore infinito, vivendo nel profondo la gratitudine per il perdono tante volte ricevuto. Di qui il bisogno di accoglienza verso ogni persona, una accoglienza che nasce dentro, prima di esprimersi in gesti e parole. " Siamo stati cementati nella carità - scrive san Paolino da Nola - perché mediante la rivelazione dello Spirito, ci conoscessimo a vicenda ancor prima di vederci ". E al momento dell'incontro, l'accoglienza si fa ascolto rispettoso della " vita " per coglierne i bisogni più profondi e far venire fuori " la verità ", al di là di ogni apparenza. Un ascolto che si fa dialogo, aiuto reciproco, condivisione, impegno, amicizia. Ci vengono in mente a questo punto i nostri incontri anonimi e frettolosi, fatti di parole vuote che guardano all'esterno delle cose e delle persone e non creano relazioni vere e significative, capaci di sostenere nelle difficoltà, di far sentire la gioia di amare e di essere amati. In una pubblicazione riguardante Annida Barelli leggiamo che ella " amava le creature con tutti i doni che Dio le aveva dato: con la sua viva intelligenza, la sua forte volontà, il suo grande cuore pieno di comprensione e tenerezza. Le amava personalmente, non con il rigido amore della volontà che considera il prossimo come una folla senza volto (una massa verso cui tutti i doveri si esauriscono in una qualsiasi attività di apostolato collettivo o in una preghiera convenzionale ) ma amava ciascuno individualmente con i suoi pregi e i suoi difetti, con i suoi bisogni spirituali e temporali, le sue difficoltà, i suoi dolori, i suoi pericoli ". Così vive chi prende sul serio la Parola di Dio: " Ho avuto fame, ho avuto sete … ero ignudo … malato … carcerato … " ( Mt 25,35-44 ). E noi come ci poniamo di fronte a questi bisogni? Dimentichiamo la fame dei poveri quando organizziamo le nostre feste intorno ai molteplici piatti colmi di cibi prelibati che mandiamo indietro per metà, non potendoli consumare in così grande quantità? Perché non viviamo con sobrietà e diamo alle nostre feste il senso del vivere insieme per condividere ciò che siamo, oltre ciò che abbiamo, per volerci bene al punto da andare incontro a chi è povero e solo? " Due indù, due giorni dopo la loro festa di nozze consegnarono a Madre Teresa di Calcutta una grande quantità di denaro, dicendo: abbiamo rinunciato al pranzo di nozze e ai vestiti sfarzosi … ci amiamo tanto che abbiamo voluto condividere la gioia dell'amore con quelli che voi servite ". " Oggi, - dice Madre Teresa - non c'è solo fame di un pezzo di pane. C'è fame di amore. Non c'è solo nudità di vestiti. Nudità è anche la perdita della dignità umana, della stima degli altri. Lo sfratto non è solo essere cacciato da una casa di mattoni. Lo sfratto è sentirsi rifiutati, non amati, indesiderati. Sono molte le persone che chiamiamo emarginate, che non si sentono amate, che sono soffocate dalla paura, che si trovano totalmente isolate ". Se cominciassimo ad amarci veramente non ci sarebbero più feti abbandonati nel cassonetto della spazzatura, o ragazze violentate sotto gli sguardi indifferenti dei passanti, né bambini usati per i facili guadagni degli adulti, né giovani che decidono di togliersi la vita. Ma come diventeremo capaci di amare, senza una intensa vita di preghiera? Infatti: " La preghiera genera un cuore puro. E un cuore puro è in grado di vedere Dio. E se siamo capaci di vedere Dio gli uni negli altri, ci ameremo reciprocamente nello stesso modo in cui Dio ama ognuno di noi. Poiché frutto della preghiera è una profonda vita di fede, frutto della fede è l'amore, frutto dell'amore è il servizio, frutto del servizio è la pace, e i gesti d'amore sono gesti di pace ". " La pace non è utopia … " La pace è il bisognò più profondo dell'umanità e chi vuol vivere secondo il Vangelo non può fare a meno di impegnarsi, di pregare, di agire perché questo " sogno " si realizzi. Ma come fare per essere " operatori di pace " oggi, quando sembra che ad ogni tentativo di pace riuscito, corrispondano mille propositi di guerra attuati? Oggi quando ci si sente impotenti di fronte ai conflitti che affliggono e distruggono intere popolazioni? Stiamo parlando dell'impegno di " promuovere la pace ", e non solo di essere " pacifici ", che è pure un imperativo evangelico. " Infatti gli operatori di pace non sono semplicemente coloro che vivono in pace con tutti, non provocano liti e divisioni, ma persone che amano la pace a tal punto che non temono di compromettere la loro tranquillità personale, intervenendo attivamente nei conflitti, pagando di persona, in vista di fare la pace, laddove questo valore è assente o minacciato ". Non ha fatto così Giorgio La Pira, " il sindaco di Firenze ", il " venditore di speranza ", come amava definirsi, quando ha incontrato Maometto v, Hassan II, Hussein, Golda Meir, il Soviet supremo, Ho Chi-Minh per trovare con loro strategie che parlassero al " realismo della pace "? O quando ha invitato a Firenze capi di Stato e di Governo per approfondire studi e ricerche volte ad " abbattere i muri e costruire i ponti "? O infine quando ha scritto lettere ai Papi, ha inviato messaggi e telegrammi, ha chiesto ai monasteri di clausura di pregare " per stendere un ponte tra storia e preghiera "? E noi? Se per noi amare è perdonare, non giudicare, essere benevoli e pronti ad andare incontro a chi è in difficoltà, non è ugualmente importante aiutare a riconciliarsi coloro che sono divisi da conflitti e rancori ( magari per motivi di poco conto ), cercando tutti i modi possibili ( e talvolta anche quelli impossibili ) perché ritrovino la gioia di amarsi e sentirsi fratelli? L'abbiamo fatta questa esperienza? Sentiamo la portata universale di ogni gesto di riconciliazione? Naturalmente siamo consapevoli che non con le belle parole si può costruire la pace. Gesù Cristo che è venuto essenzialmente per operare la riconciliazione dell'uomo con Dio, con se stesso, con gli altri e col cosmo intero questa pace l'ha ottenuta per mezzo della croce, non ricambiando male per male, ma benedicendo, amando, fino al dono totale di sé. ( Ef 2,14-16 ) Per noi la strada è la stessa: è quella del perdono, dell'amore totale e disinteressato, anche se questo chiede di liberare il proprio io dal possesso, di non lasciarsi guidare dall'orgoglio, di mettere da parte le proprie ragioni affinché la verità e il bene trionfino. Francesco d'Assisi nella Lettera ad un ministro scrive: " In questo voglio conoscere se tu ami il Signore: … non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiedesse, e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuol essere perdonato ". Che grande liberazione a vivere un progetto di vita così! Caduti tutti i muri, dentro e fuori, si è liberi di abbracciare il mondo intero! Allora la nostra partecipazione alla " grande preghiera " della Chiesa per la pace, cui Giovanni Paolo il ha invitato tutti i cristiani, diventa sincera, profonda e incessante. Ci sembra di capire a questo punto, che il progetto di vita che ci pone alla sequela di Cristo in modo radicale, comprende tutti gli atteggiamenti indicati nel " Discorso della Montagna ", ma che forse, basterebbe viverne uno fino in fondo, per viverli tutti insieme. Infatti come potremmo essere operatori di pace senza perdonare, come essere giusti senza soccorrere chi è nel bisogno, come soccorrere se non accogliendo gratuitamente chiunque, e soprattutto coloro che " non ci hanno fatto del bene "? Siate sinceri! Nella stessa logica è l'invito ad essere " puri di cuore ", ad essere cioè coloro che cercano in sincerità e autenticità il volto di Dio. È evidente che l'autenticità si oppone all'ipocrisia, alla doppiezza, alla falsità. Dio non accetta il culto di chi pretende onorarlo con le labbra mentre il suo cuore è lontano da lui, né condivide le nostre ambiguità: " Sia il vostro linguaggio: sì, sì, no, no … ". A volte invece noi diciamo delle parole che manifestano il contrario di quello che pensiamo, a volte agiamo diversamente da quello che diciamo, e non ci rendiamo conto di quanto questo nostro modo di essere sia lontano dalla linea del Vangelo, e comprometta l'accoglienza stessa della fede in coloro che sono alla ricerca della " Verità ". E invece come sono disarmanti i gesti e le parole di coloro che si abbandonano fiduciosi nelle mani di Dio, che pongono nel suo cuore ogni loro preoccupazione! Chi ha avuto la possibilità di conoscere l'esperienza umana e spirituale di Benedetta Bianchi Porro, per esempio, ha avvertito la forza irresistibile del suo messaggio, e si è sentito attratto dall'Amore di Dio che in essa palpitava. Sorda, totalmente paralizzata, priva di ogni facoltà sensitiva, infine cieca, ha vissuto il dolore come mistero d'amore e di speranza. Scrive ad un'amica: " Non so abituarmi, come vorrei, a vivere felicemente nel buio, nell'attesa di una Luce più viva e più calda del sole! Ma Dio mi aiuterà, perché sa che io esisto! ". e ad un giovane che soffriva per una grave malformazione parla di sé e lo invita a non sentirsi solo e a fidarsi di Dio: " … anch'io come te sono inferma da tempo … però so che in fondo alla via Gesù mi aspetta. Prima nella poltrona, ora nel letto, che è la mia dimora, ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, felicità, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli ". Chi vive di fede, evangelizza con la vita prima ancora che con la parola. Quale itinerario formativo? Ci siamo resi conto cammin facendo che l'attuazione di un tale progetto di vita chiede un esigente itinerario formativo volto alla conversione del cuore, per una testimonianza d'amore ed un annuncio credibile da dare oggi, nei vari " areopaghi " moderni. Un itinerario che parte dall'" incontro " con la Parola, la " Parola fatta carne " in Gesù, e quella " detta " dalla vita degli uomini da Lui amati; passa attraverso l'esperienza del sacramento della riconciliazione e si fa perdono ricevuto e donato; diventa preghiera intensa con la Chiesa, col creato, con tutta l'umanità in cammino verso " cieli nuovi e terre nuove "; celebra l'Amore nel " pane spezzato e nel sangue versato " e si fa pane e tenerezza da donare a tutti e soprattutto ai più " poveri ". Allora diventa vero anche per noi quello che Giovanni ci dice nella prima lettera: " … ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita … noi lo annunziamo anche a voi perché anche voi siate in comunione con noi " ( 1 Gv 1-3 ). A queste condizioni, la radicalità da vivere negli avvenimenti e nelle situazioni di ogni giorno, non è un problema, ma una esigenza, un bisogno profondo, una testimonianza doverosa da rendere ai nostri fratelli che a volte fanno fatica a credere all'Amore. All'inizio di questo nostro cammino ci siamo posti una domanda: è possibile vivere in modo radicale il Vangelo nelle situazioni di vita di ogni giorno? Nel corso della riflessione le testimonianze di alcuni uomini e donne, come Armida Barelli, Giorgio La Pira, Madre Teresa di Calcutta, Benedetta Bianchi Porro ci hanno mostrato che è possibile lasciarsi afferrare totalmente dall'amore di Dio ed amare appassionatamente il mondo, gli uomini, ogni creatura, esprimendo con semplicità e gioia la propria fede. Anche in noi perciò appare chiaro che vivere il Vangelo è possibile, anzi è l'unico modo per vivere in " novità e pienezza " la nostra esistenza, e dare compimento all'invito del Signore: " Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli " ( Mt 5,16 ). La beatitudine della speranza nella sofferenza di Lia Pilleri La sofferenza è realtà presente nell'esperienza di ogni essere vivente, ma nell'essere umano raggiunge il massimo della consapevolezza e della possibilità di essere comunicata e condivisa. E tuttavia nella persona umana è preceduta e coesiste con una insopprimibile aspirazione, implicita od esplicita, alla felicità senza nubi e per sempre, espressione del connaturale bisogno di relazione - comunione con Dio, inscritto profondamente in ciascuno di noi. Sono innumerevoli le sofferenze che possono colpirci e che viviamo individualmente e come umanità, come popolo di Dio, in modi e tempi diversi, per cause e motivazioni differenti. Vi è nell'esistenza di ognuno il momento, il tempo della sofferenza sia essa biologica, fisica, corporea, somato - psicologica; e la sofferenza per condizioni psicologiche esistenziali, per cause morali, spirituali … Sofferenza dunque nella malattia fisica o nel disagio psichico; nella perdita o nell'oscuramento del senso della vita " per me "; nella lontananza o nel distacco da persone significative ed amate … Vi è la sofferenza sperimentata come partecipazione, risonanza, condivisione della sofferenza, del patire altrui: di fronte alla miseria, alle conseguenze della crudeltà umana. La sofferenza di chi dispera di sé e degli altri; nella fiducia delusa dall'amore e dall'amicizia; lo sconforto dell'impotenza, della dipendenza e dell'insicurezza … L'insignificanza come vissuto personale dell'esistenza, il timore e l'orrore della prospettiva della morte propria o di altri. Sofferenza associata al peccato, oppure al vissuto della lontananza, del silenzio, dell'abbandono di Dio …; nell'oscurità dell'ateismo e in quello della fede, nel dubbio, nel timore … Una promessa paradossale Ma Gesù Signore Nostro e Nostro Fratello nella sofferenza ci propone la sconvolgente novità: beati voi che ora piangete, che siete afflitti, nella tristezza perché Dio vi consolerà, vi darà gioia e voi riderete ( Mt 5,4; Lc 6,21 ). La beatitudine è una promessa paradossale di Gesù per noi che genera e sorregge la nostra speranza. E la speranza è l'attesa fiduciosa della benedizione di Dio e della visione che ne avremo. Con l'espressione della felicitazione Gesù ci assicura che le persone che, nella mentalità " mondana ", sono considerate come sventurate o peggio anche maledette, sono, invece, chiamate a vivere la beatitudine della speranza e a ricevere il regno di Dio. E Gesù si identifica con chi soffre, con chi è afflitto e nel pianto ( Mt 25,40; Mt 18,5 ), così che chi lo riceve accoglie Gesù stesso. Gesù medesimo incarna e realizza in se stesso e per noi la nostra gioia poiché è la nostra speranza ( Tt 2,13 ). Non è beatitudine la sofferenza in se stessa; anzi essa è un male che non apparteneva al primitivo disegno del Creatore. Solo dopo il peccato il dolore si accompagna a tutti i giorni della vita umana ( Gen 3,17 ), in cui i patimenti si moltiplicano ( Gen 3,16 ). È male in sé la sofferenza in quanto comporta il patire, l'angoscia, spesso come conseguenza il ripiegamento su di sé, insieme con il sentimento dell'impotenza, dei limiti, della finitezza umana. E Gesù ha comandato ai suoi discepoli di non lesinare gli sforzi e l'impegno per alleviare o guarire le pene dei sofferenti ( Mt 15,30-32; Mt 14,14 ). Guarire gli infermi, praticare il ministero della compassione ( Mt 10,8; Mc 6,13 ) è un suo mandato anche per noi, oggi. Ce ne ha dato l'esempio, durante la sua vita terrena e ne ha fatto segno distintivo della sua missione ( Lc 7,21-22; Mt 11,2-6 ). Peraltro la sofferenza può anche essere occasione di maturazione personale ed anziché motivo di ribellione a Dio essere, invece, opportunità di ricerca e di ritorno a Dio, in un cammino di conversione a Lui ( Lc 15,17-18 ). Il " senso nuovo " della sofferenza In Cristo Gesù, nostro Salvatore, la sofferenza può e deve assumere un senso nuovo, configurandoci a Lui, unendoci al Suo mistero pasquale di passione, morte e risurrezione, completando, nel corpo mistico, ciò che manca ai patimenti di Cristo, con la nostra partecipazione a quel mistero di sofferenza, di morte e di vita. Così tutte le sofferenze dell'umanità sono accolte dal Padre celeste al di là di ogni speranza ( Eb 5,7-9 ). " Come non sentirsi intimamente straziati davanti a certe situazioni di indicibile pena … Unico conforto … È la parola della fede, la quale assicura che la grazia di Dio trasforma queste sofferenze in occasioni di misteriosa unione con il sacrificio dell'Agnello innocente …" ( Giovanni Paolo II, 17.8.94 ). Così la speranza cristiana si snoda nel realizzare l'annuncio delle beatitudini che elevano il nostro cammino verso il cielo, verso la nuova terra promessa, la celeste Gerusalemme, pur attraverso le prove e le sofferenze. Sulla promessa di Dio, in Cristo nostra speranza, ancoriamo la nostra vita cristiana che ci conduce verso la gioia e la salvezza. Il dolore, tuttavia, nelle sue varie espressioni non si deve passivamente subire né infliggere inutilmente a se stessi né ad altri. " È contro la dignità umana financo far soffrire inutilmente gli animali " ( Catechismo Chiesa Cattolica ): la sofferenza non è venuta dal progetto di Dio, che, però, la permette e la redime in Cristo. Non viene da Dio una sterile acquiescenza alla sofferenza, contro cui, invece, occorre lottare, come lottò Giacobbe ( Gen 32,25-33 ), cambiando totalmente la propria vita. La sofferenza resta mistero che solo Dio sa decifrare, noi siamo incapaci di spiegarne l'enigma, ma possiamo abbandonarci, nella speranza, ad una fiducia, totale, senza condizioni in Dio Padre, nel suo Cristo ( Sal 76,26-28 ). Non è venuta da Dio la sofferenza, né la morte, ma con Cristo, incarnato, come vero uomo, in tutto simile a noi, eccetto il peccato ( Eb 2,17-18 ) la sofferenza può essere assunta; con Lui si può lottare per vincere il tedio, la debolezza, la paura, l'infermità, la vecchiaia, la morte; vincere, cioè, accettandone la misteriosa possibilità di redenzione ( 1 Pt 1,19 ). Gesù ci ha presentato il senso della sua vita e della sua morte alla luce del servo sofferente ( Mt 20,28 ). Nel patire, accettando il progetto di salvezza del Padre Egli è diventato causa di salvezza degli uomini ( Eb 2,10.17-18; Eb 4,15; Eb 5,7-9 ) ed è stato esaudito nella sua preghiera. A noi ora Egli offre la possibilità di vivere lo stesso mistero pasquale ( Lc 22,28 ). La speranza nella sofferenza La speranza nella sofferenza è beatitudine perché non è distorta acquiscenza alla sofferenza, come oscuro tentativo di compensazione di patologiche svalutazioni e disistima di sé. Non è passiva, inconsapevole ricerca di inautentica realizzazione della propria identità. Non egocentrico vittimismo di chi si fa carnefice di se stesso o si allea con un altro carnefice-complice sfigurando la nobilita e la dignità personale. Non è ricerca di una sostituzione per carenze affettive e di accettazione di sé; né inconsapevole deviante richiesta e desiderio di attenzione e di amore degli altri o di fuga dalla responsabilità. Ma in Cristo anche la sofferenza concorre al bene di coloro che sono amati da Dio ( Rm 8,28 ). Beatitudine la speranza perché ci richiama ai valori autentici dell'esistenza e della persona umana giacché non ciò che possediamo - come il dono pur grande della salute, il benessere fisico-psichico, l'energia, l'autonomia personale -, ma ciò che siamo diviene riferimento e motivo di consistenza dell'identità personale nella stabilità, maturità e responsabilità. Ciò che siamo può essere così riconosciuto, offerto e vissuto profondamente come valore fondante ed inalienabile della persona e delle relazioni interpersonali, pur nel condizionamento della sofferenza: " a cuore aperto qualcuno mi sussurra 'accompagnami con la tua sofferenza' ci penso e mi domando perché con la sofferenza? Io sono il mio corpo la mia vita il mio amore 'ti accompagno con il mio amore' ". ( Graziella O. 1988 ) La speranza nel Dio che ci consola in tutte le nostre sofferenze non può essere scossa perché Dio è fedele, sincero: tale speranza è ben fondata ( 2 Cor 1,3-11 ) al di là di ogni speranza umana ( Rm 4,18 ). L'orizzonte di tale speranza non è confinato a questa terra perché la beatitudine della speranza, mentre addolcisce fin d'ora la pena ed allevia la sofferenza, si illumina di fiducia nella misericordia-tenerezza di Dio per la vita eterna. La speranza in Gesù Salvatore, dona a noi la serena fiducia nell'attesa di essere risuscitati ( 2 Mac 7,14 ) da quel Dio Padre che ci ridarà la vita. Facendoci testimoni in questo secolo della resurrezione di Cristo ( At 1,22 ) attendiamo operosamente, vivendo, gioendo e soffrendo con Cristo l'adempimento della beata speranza ( Tt 2,13 ), laddove Dio asciugherà ogni lacrima ( Ap 21,4 ). Ed insieme con noi è in attesa la creazione stessa che nutre la speranza di essere anch'essa liberata ( Rm 8,18-27 ).